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Sergio Pautasso
Gli anni Ottanta e la letteratura
Rizzoli
Proprietà letteraria riservata
© 1991 RCS Rizzoli Libri S.p.A., Milano ISBN 88-17-84078-5 Prima edizione: febbraio 1991
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Gli anni Ottanta e la letteratura si collega direttamente a Anni di letteratura che ho pubblicato nel 1980 e che al suo apparire conobbe un momento di fortuna critica, non senza qualche contrasto, per l'ampiezza di informazioni che forniva al lettore sull'andamento della letteratura durante il periodo che seguiva al discriminante 1968 e andava fino al 1979. Non direi però che ne sia la continuazione, anche se inizia proprio là dove terminava il precedente, poiché il taglio del discorso riguardante gli anni Ottanta mi pare che si sia venuto sviluppando diversamente per la forza stessa con cui le cose della letteratura sì sono imposte. Certo il carattere informativo e l’aspetto panoramico sono tuttora predominanti, e il sottotitolo di Ann: di letteratura: «Guida all’attività
letteraria dal 1968 al 1979», può benissimo essere trasferito anche qui con la sola variante temporale. E a questo proposito è opportuno precisare che le premesse da cui ero partito per Anni di letteratura, e cioè di offrire una guida e non di fare storia, ritengo siano tuttora valide perché altre dovrebbero essere le ambizioni di uno storico. Ma sono le vicende attraverso le quali è passata la letteratura in questo decennio Ottanta che sono cambiate rispetto alla dinamica degli anni Settanta, imponendo un approccio differente: più problematico e meno descrittivo, con un conseguente atteggiamento selettivo mentre prima aveva dato maggior credito alla ricchezza informativa. Altra caratteristica di Gl anni Ottanta e la letteratura è data dal criterio annalistico con cui è stata condotta la ricerca o, più precisamente, l’osservazione della «cosa letteraria» (usando la formula alla maniera con cui l’ha impiegata negli SERI (EA
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anni Venti l’editore francese Bernard Grasset, il quale, a sua
volta, l'aveva ripresa dal Sainte-Beuve delle Causeries du Lundi, quando parlava dell’«organisation de la chose littéraire»). Anno per anno, dal 1980 al 1989, registrando fatti e situazioni riguardanti libri e scrittori che nel loro insieme costituiscono una massa di materiali omogenei, eppure differenziati, a volte anche in maniera marcata, dalle diverse condizioni in cui si sono venuti manifestando. Il criterio, non
parlerei con presunzione di metodo, presenta senza dubbio spunti originali, tuttavia maggiori sono i rischi. In primo luogo quello di perdersi nella gora di una attualità che è già vecchia nel momento stesso in cui viene presa in considerazione, sorpassata dagli avvenimenti che genera nel suo incessante riprodursi, e che paga quindi un tasso altissimo all’inutilità. E ben vero che si potrebbe porre rimedio a questi pericoli rivedendo a posteriori i materiali acquisiti per apportarvi gli opportuni aggiustamenti e correzioni, orientando meglio il tiro; ma a me pare che sia operazione da bari, come giocare la partita con carte truccate. Ricordo che, paradossalmente, ma, come sempre, con una buona dose di provocazione intellettuale, Alberto Arbasino aveva teorizzato nel 1978
« Una Storiografia dell’Attualità spinta rigorosamente all Effimero ». È un pedaggio inevitabile che l’osservatore sa di dover pagare, mettendo in gioco se stesso e il proprio lavoro fatto sul campo e condotto sul momento. Ma, come ogni medaglia, anche questa ha il suo rovescio: il criterio annalistico consente al presunto lettore interessato di entrare nel laboratorio della letteratura e di seguire l’andamento degli esperimenti e delle ricerche nel loro stesso farsi, giorno per giorno; non solo, ma gli consente anche di capire come questi materiali disparati e spesso effimeri vadano prendendo forma, non importa se bella o brutta, se regolare o irregolare, se razionale o sgangherata, e poi si coagulino nel tempo in un discorso fino a configurare un panorama, non chiuso né definitivo, ma aperto e suscettibile di imprevedibili ulteriori sviluppi. Si può, volendo, discutere sulla scarsa significatività del campione offerto dal periodo o ritenere pretestuoso il criterio adottato: nulla da eccepire. Tuttavia, se è vero che la formu8
la: gli anni Ottanta, risponde a una convenzione ed è un modo per intenderci, è altrettanto vero che un decennio costituisce, anche in letteratura, un lasso di tempo sufficientemente esteso per meritare che ci si soffermi a vedere che cosa può esservi capitato. Per quanto riguarda la ricerca, Gl anni Ottanta e la letteratura rimane un documento che affida il proprio valore probatorio solo a se stesso e al filo rosso che lo tiene unito nel tempo, anno dopo anno, oltre agli apparati (indici e repertori bibliografici) che dovrebbero renderlo uno
strumento di informazione e di consultazione. Nonostante ciò, presumo che, pur nella frammentarietà di un discorso che non prescinde dall’effimero dell’attualità, quel lettore a cui mi rivolgevo prima sappia cogliere anche i temi di fondo che lo sostengono e la passione che lo anima: l’analisi, a volte comprensiva altre impietosa, della crisi che sembra aver colpito in questi anni creatività e invenzione, facendosi partico‘larmente sentire nella narrativa; una polemica, ora ironica ora sferzante, al limite del sarcasmo, rivolta contro le manife-
stazioni più vistose della disinformazione e del malcostume, sostenuti da una insopportabile saccenteria, con cui industria culturale e mass media intervengono e accompagnano l’attività letteraria. Questa critica non si fonda però su pregiudizi moralistici, ma su una lettura appassionata dei testi con preferenze dichiarate e, proprio perché siamo nell’attualità, con un costante richiamo ai classici, da cui non saprei prescindere, che mi hanno portato, ora come in passato, ad assumere
un ruolo di difensore, e non d’ufficio né donchisciottesco, del-
la letteratura, in cui credo di più che ai riti dei suoi ierofanti. agosto 1990
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1980 (con una breve retrospettiva 1979)
All’inizio del 1980, due critici diversi per formazione e temperamento come Carlo Bo e Claudio Magris, intervenivano sul «Corriere della Sera» per tentare — Bo — un bilancio del 1979, per gettare una sonda — Magris — nel futuro degli anni Ottanta. Mentre Bo constatava la condizione contingente della letteratura: « Si vive alla giornata, si va avanti nel buio, soggetti agli umori della cronaca. Ma di questa attività provvisoria alla fine resta ben poco, soprattutto è difficile distinguere delle opere dotate di vita autonoma », e ne lamentava la rapida deperibilità: «... un libro aveva una sua durata che poteva essere di molte stagioni, segnando delle tappe, dando un senso generale, suggerendo delle vere e proprie funzioni... », Magris, invece, partiva dalla constatazione che
«In Italia, negli anni Settanta, conta poco ciò che è stato scritto; conta assai di più ciò che è stato letto o riletto, i libri ritrovati e reinventati su: quali si è scritto e grazie ai quali è stato possibile scrivere ancora», per profetizzare un futuro incerto, indefinibile e non legato alla nostra esperienza diret-
ta: «È probabile che, negli anni Ottanta, le voci della letteratura più autentica — quella che si cimenterà col dissidio fra la ricerca di un’unità di valori e il rispetto delle singolarità che reclamano la loro autonomia — ci vengano ancora una volta da lontano... ». Quanto c’è di vero in queste pessimistiche constatazioni e previsioni? Indubbiamente molto, se si sceglie di affrontare il problema della letteratura, per dirla con Elio Vittorini, avendo lo sguardo rivolto all’indietro, anche se si tratta di guardare avanti. Ma non crediamo che si possa, e si debba, condivi-
dere in toto questo atteggiamento negativo, poiché la nostra 11
letteratura soffre, sì, di mali endemici, però manifesta anche
una dialettica e un movimento che non possono essere igno-
rati. Certo, si deve essere severi, segnalare gli errori, criticare la malafede; tuttavia non crediamo che si debba rimanere
vincolati a quest’ottica riduttiva. Volendo, si può anche sce-
gliere la strada del disinteresse, persino del silenzio; ma fino
a qual punto gioverebbe? È con questo interrogativo che ci accingiamo a descrivere l'andamento dell’annata letteraria 1980, che si presenta, come sempre, con un confronto di attività e di passività; ma con una rapida puntata ancora nel 1979 per motivi di organizzazione del discorso. Il raz de marée narrativo che aveva contraddistinto clamorosamente l’estate del 1979 con il boom dei romanzi di Oriana Fallaci, Un uomo, e di Italo Calvino, Se una notte d'inverno
un viaggiatore, si è riflesso in una certa misura anche sulla ripresa autunnale. Quei due romanzi continuavano a dominare la scena e a dettar legge sul mercato, e gli editori, con l’obiettivo di trarre il massimo vantaggio dal momento favorevole, si sono accinti a sfruttare il filone creando e alimentando tutti i possibili «casi» che avrebbero potuto garantire il prolungarsi
nel tempo del favore dei lettori. In questa logica, di caso in caso, Il complesso dell’imperatore di Carolus L. Cergoly è stato preceduto da un gran battage di stampa e pubblicitario al fine di farne il «caso» dell’autunno. Gli ingredienti c'erano tutti. Scrittore periferico: abita a Trieste, è anziano e fuori dai giri; autore di versi di prim'ordine in triestino e di racconti (riuniti successivamente in Latitudine Nord); il romanzo, poi, era im-
postato su un argomento alla moda come la nostalgia asburgica. Ebbene alla resa dei conti, Il complesso dell’imperatore ha finito per pagare lo scotto di questa situazione artificiosa: è stato giudicato un buon romanzo, anche se un po’ troppo patetico e nostalgico, che, forse, non ha risposto del tutto alle attese
previste perché le sue qualità intrinseche erano diverse, meno banali e poco commerciabili, rispetto ai messaggi preventivi. Di tipo opposto, invece, è il «caso» di Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli. Riprendendo il tema dell’inquietudine giovanile e delle sue stucchevoli manifestazioni verbali, si è proposto questo romanzo come un documento esemplare e innovatore della contestazione per via di alcuni pimenti letterari di 12
tipo neoavanguardistico. Tondelli è dotato, ha buone letture, ma all’atto pratico della scrittura è un nipotino di Alberto Arbasino e di Gianni Celati, e non c’è nessuna condizione « sel-
vaggia », sia pure mascherata e giocata con abilità, che tenga. Cioè, anche se lo pseudo «selvaggio» nel gioco delle parti si incivilisce, la letteratura resta sempre distante per i Corrias di Inverno oi Campobasso di Nero di Puglia. Alla letteratura si avvicinano di più — a nostro avviso — altri romanzi dell’ultima stagione neoavanguardistica come Abitare il vento di Sebastiano Vassalli, certo più brillante del precedente L’arrivo della lozione, e Primavera incendiata di Giuseppe Conte, benché
i risultati migliori egli li abbia raggiunti finora nelle poesie dell’Ultimo aprile bianco e in certi saggi. Si staccano invece con risultati di ben altro rilievo, Nico Orengo con La misura del ritratto e Giovanni Raboni che con La fossa di Cherubino scommette ora sulla prosa e vince, come già aveva vinto con la
poesia.
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Ma il momento e l’ondata favorevoli hanno mantenuto alla ribalta un insieme di buoni romanzi che, pur senza l’etichetta del «caso», si sono avvicendati nella curiosità e nell’interesse dei lettori. Fatte le debite distinzioni, dando cioè a
Cergoly, Conte, Orengo, Raboni quanto loro letterariamente spetta di diritto, pensiamo ora a Ann: beati di Carlo Castellaneta, a Una giovinezza inventata di Lalla Romano, a L’e-
lefante solitario di Sergio Antonielli, a Carolina dei miracoli di Ferruccio Parazzoli, a Una città per la vita di Neri Pozza,
a Le porte di ferro di Stefano Terra (premiato poi a Viareggio), a Fuori scena di Gina Lagorio, a Una spina nel cuore di Piero Chiara, a Dopo il pescecane di Malerba, a L'uovo alla
kok di Aldo Buzzi, per concludere con A che punto è la notte della coppia Fruttero e Lucentini. La varietà dei motivi e delle suggestioni è estremamente lata, perché si passa dal ricordo di una giovinezza appartenente agli anni Venti rivissuta oggi con distacco, ma anche con poesia, dalla Romano a un romanzo tipicamente d’avventura, e diremmo conradiano, con tutto il carico che il termine comporta, come quello di Terra; dal romanzo d’amore, ma tramato di vis comica, di Chiara alla ricostruzione degli anni in cui è nato il boom, ma
con all’interno complesse situazioni sentimentali, delineata 13
da Castellaneta
fino all’ammiccante
intrigo letterario
di
Fruttero e Lucentini che, forse, per una non perfetta messa a
punto del motore ai box, non ha ripetuto il successo clamoroso della Donna della domenica. Una segnalazione particolare merita Romanzo americano di Guido Piovene per l’importanza dell’autore e l’eccezionalità dell’avvenimento: siamo di fronte a un inedito che si stacca dalla classica linea pioveniana del romanzo saggistico per situarsi in una zona diversa, meno riflessiva e più liberamente inventiva, dell’intera sua opera. Di qui la sorpresa di un testo che rimette in discussione e arricchisce l’incidenza dell’opera di Piovene nell’ambito della nostra letteratura novecentesca. Diciamo, con il solito
beneficio delle inevitabili dimenticanze che vale per tutta la rassegna, che questi romanzi hanno dominato l’autunno letterario 1979. Ognuno, per la sua parte, ha offerto spunti che non possono essere criticamente trascurati poiché rivelano, al di là dei risultati non sempre qualitativamente uniformi, tendenze e orientamenti, anche se il criterio fondamentale che
ha guidato i singoli autori ci sembra essere ancora una volta quello di una struttura narrativa impostata sulla leggibilità, pur senza rinunciare alla ricerca e al tentativo di impostare un discorso vivo e teso verso una sua originalità. Ma questa specie di abbuffata romanzesca ha finito per lasciare il segno, almeno presso il pubblico. Le proposte della primavera 1980, la stagione deputata della narrativa per via dei premi, hanno fatto registrare una flessione d’interesse per la letteratura di pura invenzione e i lettori si sono rivolti piuttosto verso altri generi. Saggistica a parte, di cui parleremo più avanti, e dove ha tenuto banco per parecchio tempo Francesco Alberoni con il suo Innamoramento e amore, cen-
trando uno dei motivi di fondo dell’incontro fra donna e uomo dopo la cosiddetta «liberazione sessuale », la memorialistica, l’autobiografia, la rievocazione storica sembrano aver offerto l’illusione per ritrovare i segni da cui traggono origine i problemi in cui ci dibattiamo oggi e offrire una specie di identificazione ideale tra un passato perduto e un presente agognato nelle testimonianze esemplari di alcuni protagonisti della nostra storia contemporanea. Il documento più rilevante è Un'isola, in cui Giorgio Amendola, riprendendo il di14
scorso là dove lo aveva interrotto in Una scelta di vita, la scelta dell’adesione al PCI, ci racconta le difficoltà di ricerca-
to, esiliato, prigioniero, senza mai venire meno all’impegno politico, che tuttàvia non gli impedisce di vivere la sua vita straordinaria di uomo e di militante con una compagna come Germaine, una indimenticabile figura di donna e di protagonista letteraria che un tragico destino ha fatto entrare nella leggenda. Vittorio Gorresio, uno dei nostri giornalisti più accreditati, si è cimentato questa volta in un confronto diverso. Anziché la realtà esterna delle coulisses e dei personaggi del «Palazzo», ha scelto come tema di riflessione la propria vita inserendola nel quadro famigliare e storico: è nato La vita ingenua, un libro a metà fra il ricordo e la testimonianza, ma
al quale si può ricorrere per ritrovare qualcosa e per ritrovarsi (come del resto hanno riscontrato i votanti del Premio
Strega che lo hanno preferito agli altri romanzi concorrenti). Se i libri di Amendola e Gorresio sono affabili, pur nell’alternarsi di momenti lieti e tristi, Un amore insolito, il diario se-
greto di Sibilla Aleramo, è invece un libro tempestoso. In queste pagine l’Aleramo registra le vicissitudini del suo amore, lei, donna ormai matura, per un giovane ventenne, il poeta Franco Matacotta, di cui si vanno ripubblicando i versi: Fisarmonica rossa, che è il frutto di un legame intenso e struggente nonostante le alternanze della vita. E va aggiunto un altro importante documento per questa nostra storia letteraria contemporanea che tende a bruciarsi così presto i ponti alle spalle: l’Epistolario di Vincenzo Cardarelli, pubblicato da Bruno Blasi per conto del Rotary Club di Tarquinia, che è solo un primo, per quanto già cospicuo, assaggio della presenza del poeta di Tarquinia nella dinamica culturale del nostro secolo. Nel loro insieme sono testimonianze di un genere che non ha quasi tradizione in Italia, forse perché non esiste una società che lo consenta o forse solo per pigrizia; ma quanta documentazione troviamo altrove — in Francia o in Inghilterra o in Germania —, quanta letteratura si è nutrita di queste note e di questi scambi. Basterebbe, a ennesima riprova, prendere Ungarettiana in cui Leone Piccioni ha raccolto, oltre a letture critiche, aneddoti, lettere inedite del poe-
ta, e integrarlo con Vita di un poeta. Giuseppe Ungaretti per 15
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rendersi conto di quanta ricchezza si possa trovare anche nella routine quotidiana di uno scrittore. E con questa chiusa, come non segnalare che, vent'anni dopo, Mario Praz ha
ristampato La casa della vita? Dire che è uno dei libri più singolari della nostra letteratura è poco: nelle sue pagine c’è uno stile, un gusto, una sensibilità di cultura che si fa vita.
Una vita che ora è cambiata — Praz lo racconta nell’appendice — perché quella casa non esiste più; ne esiste un’altra che contribuisce a rendere mitica La casa della vita. L’interesse per il privato, sia pure letterario, non ha tuttavia attenuato la spinta romanzesca. Altre opere narrative meritevoli di attenzione, dovute ad autori ormai noti o che si
sono affermati in quest'annata o che hanno puntato per il loro esordio proprio su romanzi e racconti, non sono affatto mancate a ravvivare una stagione durante la quale è maggiormente affiorata la curiosità per il vero più che per l’inventato, per il reale più che per la fantasia, benché invenzione e fantasia restino sempre elementi indispensabili della narrazione. È non è casuale che anche certi romanzi abbiano originato reazioni «e polemiche proprio perché hanno insinuato il dubbio che dietro personaggi o situazioni ci fosse qualcosa di più di un fondo di verità immesso dall’autore. É il caso di Vita d’artista di Carlo Cassola — di cui vanno ricordati anche i racconti della Morale del branco — dove si è voluto vedere un ritratto di Renato Guttuso anziché un quadro della vita artistica romana dell’anteguerra. Oppure di Se mi innamorassi di te di Oreste Del Buono, un romanzo che è
stato letto per scoprirvi chissà quali segreti editoriali, invece di seguire l’evolversi di una vicenda e il travaglio narrativo di uno scrittore che da anni persegue l’obiettivo di rappresentare in maniera sempre più approfondita uno spaccato di vita. Alberto Bevilacqua, invece, non mette veli fra sé e i luoghi della sua Festa parmigiana: lo sconosciuto io narrante è proprio lui, alle prese con il problema di capire la vera natura del rapporto con la sua città: riaffiorano atmosfere e paesaggl, rivivono personaggi e amici, si riproducono situazioni in un crescendo, sì, da « festa», ma che è anche un esame di co-
scienza a un tornante della propria carriera e della vita. L’arco espressivo però non si è arrestato a questo stadio. 16
Non sono mancati esempi di altri indirizzi di ricerca come il romanzo storico, che subito riprendiamo per salutare i novant’anni di Riccardo Bacchelli e il suo ultimo libro In grotta e in valle. La storia è uno dei filoni di base del raccontare,
ma la sua evoluzione narrativa è quanto mai variata. Per esempio l’Annibale di Gianni Granzotto, alla lettura, non è biografia né divulgazione storica, ma romanzo. Mentre invece ha tutti i crismi della ricostruzione storica A/ sole di settembre di Giuseppe Tugnoli — il discusso autore di Adua — e Amore mio uccidi Garibaldi dell’esordiente Isabella Bossi Fedrigotti. E fin dove si può parlare di storia, se non in termini puramente cronologici di sviluppo della vicenda, per La linea dell’arciduca di Elio Bartolini? Infatti la storia è un puro pretesto per mettere in risalto l’uomo che subisce, quando non ne è vittima, gli eventi. Oppure chiamare storica la ricostruzione linguistica che Giuseppe Bonaviri fa in Novelle saracene delle fiabe, delle novelle, delle ballate che gli rac-
contava la madre estraendole dalla sua memoria che era custode, a sua volta, di una memoria popolare molto più antica? Certo non tutto è così diretto come nella Strada francesca di Nino Casiglio; c'è anche una mediazione che recupera la storia contemporanea come nell’affresco della Germania, da Weimar alla fine della guerra e della dittatura nazista, ricostruito sul refrain di Lilì Marleen da Renato Besana e Marcello Staglieno. E un altro approccio ancora, niente affatto modulato, teso, graffiante fino a incidere, è quello di Vittorio Sermonti del Tempo fra cane e lupo che provocatoriamente chiamiamo storico, benché non ne abbia affatto la struttura, per la capacità che il suo autore ha di farci rivivere a Praga nel 1968, fra la sua gente, nelle sue strade, nelle case, mentre
la città è occupata dalle truppe sovietiche. L’aggancio con il privato e la storia, pur risultando rilevante nel quadro generale, non ha tuttavia condizionato né limitato la libertà inventiva dello scrittore. Altri temi, altre
suggestioni si sono infatti alternate in romanzi di autori che hanno occupato un posto di rilievo nel corso dell’annata: da Madre e figlia di Francesca Sanvitale al Fratello italiano di Giovanni Arpino (premiato al Campiello), dall’ Amicizia di Fulvio Tomizza al Passo dell’ultima dea di Claudio Marabi7,
ni, dal Segno del toro di Renzo Rosso a Due senza di Libero Bigiaretti, dal Peccato di Pasquale Festa Campanile a Nostra Signora della Speranza di Manlio Cancogni, dal Giorno degli assassini di Carlo Bernari a Sua Eccellenza di Antonio Altomonte, dal Diavolaro di Saverio Strati a Sogni di gloria di Giorgio Soavi, dal Richiamo di Alma di Stelio Mattioni al . Sorriso di Giulia di Luca Canali, da Ri0 dei pensieri di Nan-
tas Salvalaggio a L’altissimo e le rose di Luigi Testaferrata, dalle Case del lago di Carlo Coccioli a Grida dal Palazzo d’Inverno di Carlo Della Corte. Esposto così, in termini di pura elencazione, questo insieme sembra un’ammucchiata informe, disorganica, eterogenea di nomi e di titoli: invece, a guardare attentamente e criticamente tra le righe proprio nomi e titoli, ci si accorge che siamo di fronte a un ricco carnet, anzi, a un brillante e vario ca-
talogo di romanzi in una stagione che si vuole critica per il romanzo. Infatti, quando si ha un quadro introspettivo dei rapporti umani e famigliari, ma riscattati da una sottile chiave psico-poetica nella Sanvitale, e di amicizia, su uno sfondo non esente da implicazioni ambientali e politiche, in Tomizza; 0, ancora, un senso della crudeltà dei tempi e, per contra-
sto, un profondo senso di giustizia umana nella disperazione del «fratello italiano» di Arpino; oppure si proietta il depauperamento dei costumi morali e civili in un paesaggio e un futuro utopici percorsi da una sorta di armata Brancaleone in Cancogni; si segue un’indagine tra lo svariare dei sentimenti nell’impietoso e satirico, anche nel titolo: « due senza », di Bigiaretti o si insegue un’impossibile felicità in modo patetico e quasi da beau geste come in Soavi; e di questo passo potremmo continuare nella descrizione dei motivi che tramano l’enigmatico thriller di Bernari, l’esame di coscienza per interposta persona — il narratore — di Marabini, la religiosità stravolta di Festa Campanile, il degrado del potere in Altomonte: allora, diciamo che ci pare azzardato parlare di crisi, perché riteniamo, pur senza essere lettori di bocca troppo buona, ma più semplicemente obiettivi, che la narrativa non è affatto mancata agli appuntamenti stando ai risultati che nel complesso essa offre. Tanto più se ricordiamo anche altri titoli di autori forse meno noti, ma non per questo tra18
scurabili, come Associazione indigenti di Matteo Collura, //
giuoco del Monopoly di Giovanni Orelli, Giù la piazza non c'è nessuno di Dolores Prato, Tre locali più servizi di Giovanni Pascutto, La metafora dietto a not di Sebastiano Addamo, La n
di Romana
Pucci. E concludiamo con due
sfiziosità: quella di Livio Garzanti che da editore si trasforma in narratore con L'amore freddo e la deliziosa trouvaille di un inedito di Beppe Fenoglio, Una crociera agli antipodi, apparentemente una favola per ragazzi e invece importante per seguire certi sviluppi del suo travagliato iter linguistico. A questo punto non ci pare motivato il disprezzo generalizzato per la mediocrità che si è creduto di ravvisare, relativa semmai alla massa di titoli e al fatto che nessuno ha bloccato l’interesse in maniera esclusiva. Diciamo piuttosto che è un’annata diversa, nella quale al romanzesco si è aggiunto il testimoniale; ma è proprio in questa diversità che lo scrittore sembra andare alla ricerca della sua originalità per individuare il rapporto con il reale, condizione che sì manifesta,
poi, nel confronto con la scrittura. Di qui la necessità di fare i conti con opere che impegnano il critico in un lavoro diversificato di interpretazione e di commento, più che di formulazione di giudizi o di inappellabile inquadramento storico, proprio a causa del variare del gusto e del mutare della sensibilità che non si tramuta in evasione, ma che è una condi-
zione intellettuale ben radicata nella sfuggente e inafferrabile realtà del nostro tempo. Il problema non riguarda solo la narrativa, sin qui considerata, anzi, è un problema di fondo della stessa attualità culturale. Dal punto di vista scientifico e filosofico esso è stato affrontato in maniera critica mettendo a confronto le certezze classiche del passato con la fermentante incertezza d’oggi nel numero che la rivista «Sigma» ha dedicato alla «questione del classicismo» e in Crisi della ragione, un volume collettivo a cura di Aldo Gargani — che ha pubblicato in proprio Stili di analisi nel quale è la razionalità classica, questo punto di riferimento essenziale, che viene messa in discussione e la sua validità, un tempo esclusiva, sottoposta a verifiche interdisciplinari — tra le quali fa spicco il saggio di Carlo Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma in19
diziario che tante polemiche ha sollevato negli ambienti storici e scientifici. Altri spunti, altre suggestioni, ormai, premono da più parti, perché il reale, come si è detto, è sfuggente: La società dei simulacri, così l’ha acutamente
definita
Mario Perniola, esige approcci meno schematici e più disponibili a un’analisi che ha di fronte più dubbi che certezze. E se la scienza ha preso atto e affrontato epistemologicamente questo stato di crisi, anche la letteratura doveva farlo interpretandolo nelle differenti forme e generi. Un viaggio, per esempio, può essere l’occasione per scoprire o far riscoprire una terra, ma anche la sua cultura e la sua civiltà. E se il
mentore è un «dilettante», come Grytzko Mascioni ama definirsi nel suo Specchio greco, cultura e scoperta si associano ‘in un rapporto in divenire. Nel ricco apparato documentario Mascioni cita classici e studiosi recenti, ma in certe parti si sente, forse inconscia, l’eco delle Heures de l’Acropole di Albert Thibaudet e Le charme d’Athènes di Henri, Jean e André Bremond. La critica che in questi anni non si è affidata solo all’estemporaneità, ma ha aguzzato intelligenza e vista, ha più volte colto l’occasionie per sottolineare questo stato di fatto in cui si dibatte lo scrittore, sia esso narratore, poeta, critico,
quando è di fronte alla realtà da rappresentare sulla pagina. Ma recentemente, e sia pure partendo da punti di vista differenti, hanno avuto modo di metterlo a fuoco Magris e Giuliano Gramigna, affrontando proprio la questione del romanzo che, per via del genere, più sì presta a tale osservazione e analisi. Nella voce Narrativa, redatta per 1’Enciclopedia del Novecento, Magris ha saputo, con invidiabile capacità di sintesi, spaziare per tempi e paesi, per temi e strutture, cogliendo nelle sue più nascoste sfaccettature questa difficoltà di fondo del narratore a trovare strumenti adatti per rappresentare il reale. Gramigna, invece, potendosi avvalere della forma più ampia, più libera e meno sistematica di un libro, ha travasato nelle sue pagine anni e anni di riflessione, esercitata anche in proprio come narratore, attorno al romanzo. Già sin dall’inizio della Menzogna del romanzo, egli precisa che non esiste più uniformità — ecco la famosa certezza razionale che ritorna a galla — e che le «for20
me romanzesche » non hanno più una loro « prescrittibilità »; per cui, anche il disagio ormai storico e storicizzato con la denuncia delle avanguardie, non ha solo una sua ragione; ma diventa esso stesso un modo d’essere del fare letteratura al di là dei generi. Si apre così un varco formale. Ed è appunto in tale varco che oggi si insinua non già la poesia, anch’essa ormai da lungo tempo in fase di «salutare disagio », direbbe sempre Gramigna, quanto, piuttosto, la critica e la saggistica in senso lato che oggi sono portate a occupare uno spazio sempre più ampio in estensione e in profondità perché toccano temi e problemi che vengono risolti, sì, sul piano interpretativo, filologico, tecnico, ma che nel loro stesso risolversi allargano l’orizzonte del critico grazie a una scrittura, quando c’è, che, senza nulla perdere sul piano del rigore scientifico, tocca sempre più da vicino l’invenzione di stile e ravviva la propria tematica sul piano creativo. Basti pensare a Sergio Solmi e a Giovanni Macchia. Solmi ha raccolto in un prezioso Quadernetto di letture e ricordi alcune annotazioni delle sue sterminate letture, registrate a mo’ di frammenti e di aforismi, e poi di ricordi, trascorrenti sempre tra la vita e la letteratura. Macchia, invece, ci ha dato con L'angelo della notte quel libro su Proust a cui praticamente attendeva da tutta la vita e, forse, il suo capolavoro critico. Tutto questo perché nella costruzione di Macchia l’autore della Recherche diventa egli stesso protagonista di un’altra affascinante ricerca, durante la quale il critico si avventura in zone inesplorate, tocca spunti finora trascurati dell’immensa opera proustiana rivelando aspetti nuovi e insospettati di uno scrittore al quale Macchia, rivolgendoglisi direttamente, quasi in un inconscio processo di identificazione, dice: «... hai cambiato il vecchio mondo senza distruggerlo». Macchia e Solmi appartengono a quel gruppo di studiosi che chiamiamo critici-scrittori per il fatto che è difficile delimitare dove il rapporto con l’opera esaminata si arresti come pura esegesi e diventi invece occasione di creazione letteraria essa stessa. Ma, sul piano della critica, i giochi sono oggi più che mai aperti a innumerevoli prospettive che mettono in discussione sia la posizione dello scrittore, sia il suo modo di 21
essere e di interpretare il ruolo dell’intellettuale in questa società in movimento. Di tale irrequietezza, e delle conseguenti reazioni, sono testimonianza alcuni volumi di saggi, di interventi, di riflessioni dovuti a certi scrittori di punta della nostra letteratura, nei quali essi mettono a nudo il loro disagio e a fuoco la loro posizione. Pensiamo a Alberto Moravia, Calvino, Alberto Arbasino, Leonardo
Sciascia, Bo, i
quali, oltre a una presenza letteraria, hanno voluto garantire, ognuno a modo loro, anche una presenza intellettuale che ribadisse il ruolo di coscienza morale che compete allo scrittore e che Franco Ferrarotti ha sottoposto a una verifica sociologica impietosa, laddove era necessario, in Ipnosi della violenza. Moravia sì è misurato più sul piano della politica, di come, cioè, uno scrittore può contribuire al dibattito politico e a renderlo meno arido e finalizzato: in questo senso Impegno controvoglia è la diretta continuazione dell'Uomo come fine. Calvino riepiloga invece in Una pietra sopra la sua attività di scrittore che ha concepito l’ambizione di poter contribuire a realizzare «un progetto di costruzione di una nuova letteratura che a sua volta servisse alla costruzione di una nuova società »: e anche se nel complesso il bilancio storico registra una caduta di illusioni, tuttavia la presenza del progettante appare ancora viva e soprattutto disponibile, dopo aver messo «una pietra sopra» ai progetti passati, a nuovi progetti. Arbasino è, fra tutti, il più libero, perché in Un paese senza non
si affida a nessun passato e a nessun schema formale, ma segue il suo estro ironico, critico, moralistico, irriverente, fusti-
gatorio della situazione in cui tutti viviamo, ma con la quale bisogna pure fare i conti giorno per giorno: e nasce da tale constatazione, apparentemente ovvia, la registrazione frammentata di avvenimenti e pensieri che Arbasino chiama «conversazione » e che non disdegna di misurarsi con i massimi sistemi e con le loro briciole. Che uno scrittore come Sciascia non annotasse in pubblico, o per sé, gli atti del suo lavoro intellettuale era pressoché impossibile. Ne facevano testo le reiterate prese di posizione culturali e politiche allo stesso tempo e la continua revisione a cui venivano sottoposte dopo averle enunciate: Nero su nero riafferma una volta di più co22
me la coerenza non possa essere che dialettica e non dogmatica; e il titolo del suo ultimo racconto, Dalla parte degli infedeli, diventa a questo punto quasi emblematico. Di natura completamente diversa è invece il libro dove Bo ha riunito ritratti, discussioni, appunti su « preti », Don Mazzolari e altri preti. Il suo cattolicesimo e la militanza culturale, sempre in chiave critica, sono noti; eppure è significativo che uno scrittore come Bo, il quale avrebbe potuto darci più di un volume di saggi letterari, abbia sentito invece la necessità di impegnarsi in un libro come questo che è una testimonianza del suo nutrimento interiore di intellettuale. Questo elenco di titoli rivela un’estrema varietà di motivi e di interessi politici, sociali e morali. Ma la letteratura, sia
pure come pretesto per interventi, riflessioni, esami di coscienza, è sempre la matrice che collega le idee alle reazioni, le prese di posizione con le aperture critiche. C’è, come dimostra Marcello Pagnini, anche una Pragmatica della letteratura (che non può essere trascurata sia in sede pratica sia in sede teorica). In sostanza, cacciata dalla porta, la letteratura rientra dalla finestra, perché, nonostante la crisi in cui
si dibatte e della quale questi libri sono lo specchio evidente, non può essere esclusa, messa ai margini. Come fenomeno sociale rientra in gioco, e lo dimostra Antonio Palermo con La tessera e il « puzzle ». La letteratura della sociologia. Non solo, ma la storia stessa la recupererebbe. E, infatti, proprio la storia letteraria può vantare quest'anno l’uscita di alcune opere di ampio respiro che consentono ulteriori messe a punto all’interno di una materia ancora incandescente come il Novecento. Giuliano Manacorda ha aggiunto alla sua Storia della letteratura contemporanea 1940-1975, un nuovo volume, Storia della letteratura italiana fra le due guerre 19191943, che amplia l’arco d’osservazione toccando un periodo in pieno riesame qual è quello fra le due guerre. Intanto, mentre si è completata la Letteratura italiana curata da Carlo Muscetta con un panorama del neorealismo e della neoavanguardia dovuto a Romano Luperini, a loro volta Gaetano Mariani e Mario Petrucciani hanno fatto uscire il primo dei tre volumi della loro Letteratura italiana contemporanea che si avvale di collaborazioni prestigiose e che si rivela già sin 23
d’ora uno strumento di estrema utilità per la comprensione del Novecento letterario. È vero che ormai ci stiamo avviando verso la fine del secolo e che farne il punto non è ingiustificato, ma i dieci volumi del 900 a cura di Gianni Grana costi-
tuiscono una summa di storia letteraria del nostro secolo. Il lavoro di Grana, infatti, non riguarda soltanto gli accosta-
menti in una materia così complessa come la letteratura novecentesca, analizzata e studiata secondo una prospettiva multiforme per via delle idee e delle opinioni dei numerosi contributori, quanto, piuttosto, la sistemazione dell’insieme
che egli ha ordinato e collegato al fine di dare unità a una massa così eterogenea di materiali e anche per rivelarci la presenza di Emilio Villa, un autore d’avanguardia che le avanguardie hanno spesso trascurato. Grana attua di Villa un recupero storico e critico perché lo considera un’alternativa che egli stesso persegue da anni: Diomorto, nella sua struttura poetica e prosastica, è un libro teso, inquietante, diverso, proprio come vuole Grana, per la durezza con cui aggredisce il lettore e lo costringe, più che a una lettura, a un dibattito, a un esame di coscienza. Ma tornando al Novecento, dobbiamo dire che la sua vi-
sione critica è in continuo movimento: è risultata una vera scossa, per esempio, la proposta avanzata da Gabriella Con-
tini nel Quarto romanzo di Svevo, secondo la quale i romanzi sveviani non sarebbero tre, bensì quattro. L’ipotesi si basa su una indagine condotta tra i testi sparsi di Svevo che porterebbe a un assemblaggio tale da costituire, attorno alla novella // vecchione, un «quarto romanzo ». Sempre alla Contini si deve anche un altro interessante studio sveviano, Le lettere malate di Svevo, che testimonia l’interesse, peraltro mai dimi-
nuito, per l’opera del grande triestino che è stata sottoposta ad altri esami e sondaggi nel volume collettivo Contributi sveviani curato da Riccardo Scrivano e nel discorso che Natale Tedesco continua sui temi del primo Novecento in La condizione letteraria del Novecento. Gozzano e Svevo. E tra i classici del Novecento si va inoltre ulteriormente arricchendo la bibliografia critica su Alberto Savinio che, dopo la riscoperta degli anni passati, è tuttora alla ribalta con i saggi di Walter Pedullà, Alberto Savinio scrittore ipocrita e privo di 24
scopo, e di Stefano Lanuzza, Savinio, mentre si riscontra un
ritorno di fiamma per Federigo Tozzi, giustificato più dalla ristampa di Con gli occhi chiusi. Ricordi di un impiegato a cura di Ottavio Cecchi e di Tre croci prefato da Cassola che non per il ritrovato abbozzo di romanzo, Adele, che, nono-
stante la cura del figlio Glauco, ha sollevato qualche perplessità. Tuttavia riteniamo che di un autore si debba conoscere quanto più è possibile, poiché anche opere incompiute o frammenti d’opera possono aprire spiragli nuovi. Così ci paiono utili criticamente, oltre che di lettura interessante, le let-
tere di Giovanni Boine raccolte nel IV volume del Carteggio curato da Margherita Marchione e S. Eugene Scalia con prefazione di Giovanni Vittorio Amoretti, e quelle di Elody Blath Stuparich, Confessioni e lettere a Scipio a cura di Giusy Criscioni, con prefazioni di Giorgio Petrocchi e Sergio Miniussi, perché arricchiscono la nostra convivenza letteraria con due scrittori non ancora del tutto acquisiti come Boine e Slataper. Ma in questa direzione l’opera che ci appare più importante, è la nuova edizione critica degli scritti di Antonio Gramsci che precedono le Lettere dal carcere e i Quaderni del carcere, che già avevano
avuto delle revisioni.
Il
primo volume, Cronache torinesi a cura di Sergio Caprioglio, raccoglie gli scritti che vanno dal 1913 al 1917: non a caso l’esordio gramsciano è un articolo polemico contro Giovanni Papini e una difesa di quegli studi che umilmente cominciano con la stesura di schede. Non per privilegiare la critica accademica, però, Machiavellerie di Carlo Dionisotti è proprio un libro che nasce da questo genere di studi, ma che, al di là della specializzazione tematica, induce, sin dal titolo ambiguamente accattivante, a
una lettura che è poi una via per riprendere in mano le opere del fondatore della prosa italiana — secondo De Sanctis — e di vederle in un contesto storico e sociale che il rigoroso discorso metodologico di Dionisotti mettein risalto, senza tuttavia indulgere all’esercizio erudito. Del resto è proprio il rigore della ricerca che rende sempre attuali gli studi sul Tasso di Giovanni Getto, Malinconia di Torquato Tasso, ristam-
pati dopo anni, e sostiene quelli più recenti di Poesia come retorica di Ezio Raimondi, del quale va ricordato anche /! si25
lenzio della Gorgone, dove ha raccolto i suoi saggi su D’Annunzio e Serra. Ma i classici offrono sempre occasioni di verifiche e di interrogazioni, specie quando lo studio diventa un vero dialogo come quello che da anni Giorgio Barberi Squarotti intrattiene con Manzoni: dopo Teorie e prove dello stile del Manzoni, è ora la volta di uno sviluppo e di un prolungamento di quegli studi in un nuovo volume, /{ romanzo contro la storia, che si situa in una posizione, magari discutibile, ma
innovativa nell’ambito della critica manzoniana. Un altro libro che va al di là dell’occasionale raccolta di saggi, per il filo interno della lettura che li lega, è quello di Adelia Noferi, // gioco delle tracce, dove sono riepilogati alcuni dei temi — da Petrarca all’informale — che erano già stati oggetto di ricerche in suoi volumi precedenti. E, ancora, sarà bene ricordare
un saggio che circolava ormai solo fra gli studiosi, ma che a ritrovarlo oggi disponibile, ci conferma come sia stato uno dei tornanti della moderna critica leopardiana: Leopardi progressivo di Cesare Luporini. Il fatto che sia un filosofo a parlare di Leopardi è una prova in più dell’interscambio di esperienze che arricchisce oggi il nostro patrimonio culturale. Proprio con questi testi ci sì accorge che ormai i generi canonici hanno fatto il loro tempo e che la saggistica, quando è applicata alla lettura sia di contemporanei sia di classici oppure alla storia letteraria, come abbiamo visto, è qualcosa di molto importante, specie quando non si abbia della cultura un'immagine troppo schematica o legata a motivi contingenti. In questo quadro vanno viste anche le iniziative, mai abbastanza lodate, di edizioni di classici, siano esse in collezioni
prestigiose o più semplicemente economiche. Sempre per restare nel dominio leopardiano, dobbiamo registrare quest’anno una serie di volumi che hanno riproposto sotto diversi aspetti l’opera e la figura del poeta dell’« Infinito». Innanzi tutto va segnalata l’edizione critica delle Operette morali a cura di Ottavio Besomi, che aggiorna l’ormai introvabile edizione Moroncini e rilancia il Leopardi moralista (che si ritrova anche nel Luporini); poi riprendere le Lettere inedite, della sorella Paolina curate da Giampiero Ferretti e prefate da Franco Fortini, e quel documento, sotto certi aspetti sgra26
devole per chi pensa al poeta come a un’anima bella di dentro e di fuori, che è Sette anni di sodalizio di Antonio Ranieri, introdotto da Giulio Cattaneo e su cui Arbasino ha acceso
qualche fuoco d’artificio. Ma, accanto, mettiamoci pure il primo volume degli Stud: leopardiani di Emilio Peruzzi dedicato alla lettura critica della Sera del dì di festa e Ungaretti e Leopardi di Franco Di Carlo, dove viene esaminato, anche storicamente, il contributo di quello straordinario lettore di Leopardi che fu Ungaretti. Sembrerebbe quasi un anno leopardiano, ma non lo è. Altri classici premono nel senso che, inseriti in una panoramica come la presente, fanno sentire una presenza che rende vitale l’intero discorso letterario, anche quando sollevano polemiche come l’inedito di De Amicis, Primo maggio curato da Bertone e Boero. Polemiche, per la verità pretestuose, data la consistenza del romanzo, più valido sul piano della curiosità che del valore: non poteva certo fare l’effetto di Amore e ginnastica. Oppure si prestano a letture criticamente interessate come La voce che è in lei di Giuliana Morandini, un’antologia che dissacra in una certa misura la geografia della letteratura femminile tra 1’800 e il ‘900 per proporre un gruppo di scrittrici poco conosciute e «femministe » ante litteram. E ritrovare in Autobiografia dalle lettere persino una speciale e particolare autobiografia del Foscolo ricostruita da Claudio
Varese sulla base dell’epistolario foscoliano che si rivela non soltanto una ricca fonte di documentazione biografica e letteraria, ma offre anche, come sottolinea appunto Varese, un vasto quadro di suggestioni culturali e storiche. A questo punto si raccomanda ai lettori d’oggi che vogliano avere un vasto quadro storico del nostro paese associato anche a una visione dell’evolversi della cultura e delle idee, Le rivoluzioni d’Italia del Denina, curato da Vitilio Masiello. E stata fino
alla fine del secolo scorso la storia d’Italia più letta in Europa, nonostante, osserva Masiello, vi sia una contraddizione
fra il radicato moderatismo dell’abate piemontese e la sua visione tutta proiettata verso un’interpretazione dei fatti, visti spesso in una chiave progressista, più che a una loro cronologica esposizione. Questo è il punto di forza dei classici. Anche quando cer27
te edizioni sono destinate più a specialisti che a lettori comuni, la loro lettura ci dà sempre la misura alla quale ricorrere per riconoscerci. Del resto, senza una ricostruzione filologica così accurata come quella approntata da Giuseppe Porta della Cronica dell’Anonimo Romano, sarebbe stato impossibile passare successivamente a edizioni che diano a un pubblico ‘ più vasto la possibilità di leggere un testo in una stesura accreditata. Vittore Branca, ad esempio, per arrivare all’attuale edizione del Decameron, è passato attraverso varie fasi di analisi e di storia del testo e poi di un commento che via via è diventato più approfondito e aggiornato, anche sulla base dei precedenti studi riuniti in Boccaccio medievale e del Profilo biografico: sono le tappe che gli hanno consentito di indicare una chiave di lettura che è attualmente la più avanzata sul piano della critica sul Decameron; e sempre a Branca si deve una nuova edizione delle due tragedie alfieriane, Saul e. Filibpo. Osservazioni analoghe possono essere fatte per la Vita nuova che Domenico De Robertis ha curato in maniera esemplare aprendoci non solo prospettive diverse sull’incomparabile ricchezza del testo dantesco, ma suggerendoci anche un modo nuovo di leggerlo. E qui che la filologia si associa alla storia, che lo studio testuale si apre a nuove interpretazioni. Anticipando di un anno l’anniversario francescano, è stata preparata una nuova edizione dei Fioretti di San Francesco, che si segnala per la curatela generale di Luigina Morinì e per il saggio introduttivo di Cesare Segre teso a individuare nel libro francescano «una rosa di direzioni stilistiche », e quindi di possibili letture. Le «direzioni stilistiche » della poesia contemporanea, invece, sono certamente meno diritte e lineari di quelle dei F20retti: più tortuose e complesse, ci riportano a quello stato di crisi con il reale che attraversa la letteratuta contemporanea, anche se prima di arrivare alla situazione attuale è opportuno soffermarsi su quanto è avvenuto ieri avvalendoci, per esempio, del nuovo volume che Piero Bigongiari dedica alla Poesia italiana del Novecento. I protagonisti del suo libro sono i grandi maestri sui quali tutta una generazione di critici si è esercitata, e a ripercorrere quelle tappe — da Ungaretti, al quale va il maggior spazio, a Montale e ai coetanei di Bi28
gongiari stesso — ci si rende conto di un diverso approccio alla poesia. La critica ermetica, dalla quale egli proviene, è sempre stata collaboratrice della poesia, anzi, uno specchio fedele dell’evolversi creativo e in questo senso dal libro di Bigongiari non si potrà prescindere, né sul piano critico né su quello testimoniale perché sono due filoni che vanno di pari passo. Lo conferma quanto dice Attilio Bertolucci nella lunga intervista che ha concesso a Sara Cherin e che alla fine è diventata un libro: Attilio Bertolucci. I giorni di un poeta. Che cosa sono queste pagine se non una singolare explication du texte, magari un po’ divagante e molto poco tecnica, condotta in collaborazione con il poeta stesso sui temi della sua opera, ma che sì estende poi anche al suo essere poeta in rapporto a un ambiente — in questo caso quello particolare di Parma, la petite capitale a cui ha consacrato con titolo omonimo un bel volume di saggi Giuseppe Marchetti — e, inoltre, a un'atmosfera che è quella che ancora conta nella poesia contemporanea? Ebbene, guardando a questo passato, come si configura oggi il poeta rispetto agli ambienti e alle atmosfere attuali? Il y a des poètes partout, era intitolata un’antologia della «Revue d’Esthétique » dedicata alla poesia e pubblicata anni fa in Francia. Sembra quasi un titolo profetico se sfogliamo rotocalchi e giornali di oggi: sono pieni di inchieste sulla poesia e sui poeti, si danno ampie notizie su dibattiti e letture pubbliche e si organizzano persino convegni sul leggere poesia in pubblico; per non parlare poi dell’acerrima rivalità, degna di antiche faide, fra la Roma produttrice di poesia e la Milano editoriale fagocitatrice di poesia. In realtà, osservando quanto è avvenuto durante l’annata, si ha piuttosto l’impressione di star assistendo a un momento di riflessione e di bilanci che a un fervore di iniziative nuove. Di nuovo — dal punto di vista editoriale, s'intende — c’è la collana « Poesia e realtà» curata da Luciano Majorino e Roberto Roversi: i
primi volumi, Trattatello incostante di Angelo Lumelli e Non per chi va di Gianni D’Elia — un esordiente — indicano che la collana non cerca vie facili, ma vuole una poesia di forte impegno, sicuramente non alla vecchia maniera, bensì morale, critico, d’intervento. Sul piano singolo riteniamo che 29
si stacchi il volume di Valerio Magrelli, Ora serrata retinae, una delle proposte più interessanti per l’impiego di un particolare linguaggio impoetico che egli sa tradurre in poesia: non mancano suggestioni surreali, si può pensare alla scrittura automatica, ma il senso che se ne ricava è che sembra di
essere di fronte a un recupero quasi naturale della poesia senza passare attraverso le forche caudine del poetico. Più tortuoso ci sembra invece il cammino che percorre Cosimo Ortesta nel Bagno degli occhi: il suo linguaggio ha, sì, una durezza giustificata dai frammenti di immagini e di realtà che trascrive, ma spesso ci pare che tutto sia forzato, lontano
da quella naturalezza di cui ha parlato una volta Mario Luzi. Una evidente matrice letteraria è all’origine della poesia di Paolo Valesio, il quale non ha mai nascosto la sua propensione all’artificio, alla retorica, alla maniera, impiegati stilisticamente nel discorso creativo sia esso di prosa o poetico come in queste Prose in poesia. Chi si ricorda del Flauto e la bricolla di Sandro Sinigaglia, un singolare libro di poesia apparso quasi trent'anni fa, corra ora a prendersi La camena gurgandina, e, senza lasciarsi intimidire da tanto titolo, vada
subito al cuore della sostanza dei versi, perché Sinigaglia è poeta fuori dalle convenzioni liriche e immerge la sua materia in aree comiche e realistiche che hanno in Rabelais il loro nume tutelare. L'occasione è buona per ricordare un libro che sarebbe fuori da questa rassegna, ma la traduzione del Gargantua e Pantagruele di Augusto Frassineti è un’opera d’autore, più di tante altre, e quindi vi rientra di diritto.
AI di là di questi accenni di novità, le opposte fazioni poetiche sono tuttavia più che mai attestate sulle loro posizioni strategiche. Basta prendere Il movimento della poesia italiana negli anni Settanta — che raccoglie gli atti della «tre giorni» poetica milanese organizzata e curata da Tomaso Kemeny e Cesare Viviani — e L’apprendista sciamano. Poesia italiana degli anni Settanta di Stefano Lanuzza per ren-
dersi conto della vivacità, ma, nello stesso tempo, anche dell’incertezza del dibattito in corso. Non solo, ma oltre ai testi
critici e alle varie riviste che si rincorrono alla ricerca di una novità ad ogni costo che forse non esiste (segnalerei però «Frammenti», n. 2, per il particolare taglio psicanalitico),
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bisogna far ricorso ai numerosi testi collettivi — antologie, riviste, raccolte, rassegne di festival che arrivano a getto con-
tinuo da ogni luogo dove si elaborano poesie e presunte poetiche. Non si è ancora spenta l’eco delle polemiche sollevate dall’antologia di Pier Vincenzo Mengaldo, che subito ne sono arrivate altre ad alimentare il fuoco. Più circoscritta nel tempo, Poesia degli anni Settanta ha la caratteristica di espandersi antologizzando annualmente — dal ’68, il fatidico ’68,
al ’78 — la produzione poetica. Anche questo è un metodo, e Antonio Porta, che in proprio ha pubblicato Passi passaggi, lo ha seguito badando più al movimento della poesia che al manovratore, confinando quest’ultimo nelle note biografiche. Ne è venuto fuori un panorama vasto, vario, ma discutibile,
come del resto in tutte le antologie, perché Porta sembra andato a pesca in poche e selezionate riserve, mentre, lo si sa benissimo, l’esercizio poetico non ha luoghi deputati. E se di fronte a questo panorama ha ragione Enzo Siciliano nella «Prefazione» di celebrare i fasti e condannare gli epigoni, Porta ha torto per essere rimasto nell’ambito dei fasti senza cercare di allargare la ricerca anche al di là delle riserve di gran nome, per non aver sfogliato abbastanza tra la gran massa di volumetti e di riviste che si accumulano, si accumu-
lano... Avrebbe avuto qualche epigono in meno e, chissà, qualche poeta in più: per esempio Tommaso Landolfi o Giorgio Bassani, tra i nomi di maggior rinomanza; ricordare tra quelli della generazione di mezzo Gian Piero Bona, Angelo Maria Ripellino e _J. Rodolfo Wilcock. Perciò ottantacinque poeti sono un bel numero, ma paradossalmente possono anche essere pochi quando l’area di ricerca del testimone non è sufficientemente ampia. Poi è arrivato I Novecento a cura di Gina Lagorio e Piero Gelli. Anche qui, preliminarmente, la scelta di un metodo per dare un carattere ed evitare polemiche: fermarsi ai poeti nati entro il 1925. Un criterio che, come tutti i criteri, ha i suoi meriti e i suoi limiti. Ma se
nel complesso l’antologia garzantiana pecca per eccesso o per difetto nell’ambito delle singole scelte e per qualche generosità di troppo, non si possono tuttavia fare accuse su inclusioni ed esclusioni poiché si sa quali limitazioni editoriali compordl
tino tali iniziative. Per questo è un documento che si raccomanda grazie ad altre caratteristiche: ad esempio, per le presentazioni, spesso dovute a poeti; per una scelta non pregiudiziale né di scuola; per l’attenzione particolare che è stata dedicata alla leggibilità. E quando critichiamo le antologie del nostro tempo, non dimentichiamoci che c'è un futuro e che non sappiamo quanta poesia d’oggi entrerà, e come entrerà, in un’antologia analoga a L'albero a cut tendevi la pargoletta mano, e chi si salverà dai distinguo del prefatore che, come fa oggi Giancarlo Vigorelli, metterà i puntini sulle i con l’avallo della storia. L’aver posto l’accento sulle due antologie più importanti per ampiezza e ambizioni non esclude le altre, perché quest’anno le opere collettive si sono moltiplicate. Ai tradizionali Quaderni della Fenice —
dall’ultimo, n. 54, segnaliamo i
versi di Sebastiano Addamo e Folco Portinari — e all’Almanacco dello Specchio 9/1980 curato da Marco Forti — dove si trovano una straordinaria lettera di Ungaretti a Prezzolini e i deliziosi poemetti in prosa di argomento semiologico di Donatella Bisutti — si sono aggiunti: l’autorevole Poesia uno con prestigiosi collaboratori; Nuov: poeti italiani 1 — la scelta personale cade sulle poesie di Gabriella Leto —; Discorso diretto, dedicato alla nuova poesia con nomi più scontati da Dario Bellezza a Conte a Amelia Rosselli, da Maurizio Cuc-
chi a Milo De Angelis a Paolo Ruffilli; Poesia della voce e del corpo a cura di D'Ambrosio e Filippo Piemontese che raccoglie i documenti del I Festival internazionale di poesia di Napoli; Care donne, un’antologia di poesia femminile a cura di Elia Malagò e Gianluca Prosperi — anche qui un'indicazione per Maria Grazia Lenisa, autrice inoltre di Erotica —; By logos, curato da Silvio Ramat, Cesare Ruffato e Luciano Troisio che raccoglie un gioco combinatorio di riscrittura di venticinque pezzi proposti anonimamente a cento poeti; Prato pagano, un’antologia di poesia e prosa di autori dell’ultima generazione; La ricerca della poesia. Poeti italiani degli ultimi anni («La battana », n. 55), una raccolta messa assieme da Adriano Spatola con parecchi nomi del tutto nuovi (di cui qualcuno non avrebbe certo sfigurato nell’antologia di Porta). Una bella lista, non c’è che dire. Ma il did2 1. Gli anni Ottanta e la letteratura
scorso non può ridursi soltanto a una discussione sulla sistemazione antologica o alla schematizzazione di temi o a una elencazione di scuole o di spettacoli che, per quanto aperti, sono sempre manifestazioni settoriali in barba alle intenzioni degli organizzatori: un insieme di proposte poetiche collettive come quello apparso quest'anno, per quanto variamente articolato, induce a chiedersi il perché di questo collettivismo,
che spesso non è giustificato da colleganze o da scuole, ma, pare più verosimile, da una volontà di testimoniare l’ampiezza del discorso poetico e un possibile DISSgRIO dall’individuale all’esperienza collettiva. Il fatto che si senta la necessità di fare il punto sulla poesia partendo da questa prospettiva, mette a fuoco un interesse per il discorso letterario che si differenzia dal passato. Degna di rilievo ci pare in questo senso la poesia di Fernanda Romagnoli, Il tredicesimo invitato, che è quanto di più distante si possa pensare dal collettivismo. Nata in solitudine, intrisa di una religiosità metafisica, eppure legata a una vita, più che a una realtà, quotidiana, la poesia della Romagnoli ci riporta all’assioma che la letteratura è sempre il frutto di un rapporto individuale. Dal grande repertorio, infatti, abbiamo già estratto i libri che avevano una rilevanza sociologica critica; ma passando direttamente al discorso poetico, allo-
ra ecco che recuperiamo alcuni testi che ci riportano al confronto con esperienze molto diverse. Pensiamo, ad esempio, che Interrogatorio a Maria segni un momento importante non solo nella magmatica carriera di Giovanni Testori, ma anche per la nostra poesia che qui recupera, dopo secoli e secoli, la preghiera come momento poetico. Una linea religiosa non è mai mancata nella nostra poesia, però, salvo i casi alla Testori, èsempre stata marginale. Una conferma? 7u m'hai sedotta di Angela Paola Caldelli per uscire dall’anonimato ha dovuto trovare un editore d’eccezione: Geno Pampaloni, che ha spinto il suo giudizio critico fino a farsi stampatore del volume. Di altra statura e complessità ci pare Da/ tempo all’eterno di Angelo Mundula. Qui la religiosità è meno esibita e più intersecata in un contesto di altra fattura: il dubbio, l’incertezza, il senso del peccato e del perdono ci portano alla grande tradizione eliotiana che anche Luzi ricorda nella sua VE)
presentazione. Poetessa appartata e discreta, ma ben presente a chi segue la poesia, è Margherita Guidacci: nell’ A/tare di Isenheim, ella ha trovato una misura nuova, di alta inten-
sità, che recupera, sulla base delle suggestioni derivatele dal quadro di Griinewald, un senso religioso antico, quasi da orazione. Tutto all’opposto di questo indirizzo abbiamo il ritorno di due «novissimi» — Edoardo Sanguineti e Nanni Balestrini — e altri libri che ci riportano al clima del ’68 0, comunque, a un discorso di tipo politico. Partiamo da Sanguineti. In Stracciafoglio raccoglie le sue ultime poesie che occupano la prima parte del volume: il procedimento è quello ormai noto dello sviluppo diaristico, con interlocutori prossimi, che rendono il discorso sanguinetiano una sorta di work in progress; nella seconda parte, invece, compaiono poesie, diciamo, d’oc-
casione — come diaristici e d’occasione sono gli articoli raccolti in Giornalino secondo. Il dettato poetico di Sanguineti è ormai preciso, così come occupa un posto altrettanto preciso
nel panorama della poesia italiana: è il più intelligente e originale interprete della poetica della neoavanguardia, alla quale ha impresso un tono intellettuale e colto che ha saputo amalgamare con le innovazioni stilistiche e sintattiche. Ma Balestrini, che ha interpretato anch’egli in modo molto personale ed estremistico il momento neoavanguardistico, in Blackout ci pare più poeta. Come jongleur e inventore di trucchi poetici, Balestrini è andato anche più avanti di Sanguineti, ma qui c’è più poesia e meno testa; tutto questo, forse, perché Blackout nasce da un'esperienza diretta, da una rabbia autentica, dalla caduta di molte delle illusioni del ’68
che invece permangono ancora molto «generose » in Francesco Leonetti; del resto, è attraverso il linguaggio che egli cerca di rendere aggressivo il proprio ruolo di intellettuale libero e scomodo che lo ha portato, come dice il titolo stesso del libro, /n uno scacco. E in questo filone si inserisce anche Ugo Ronfani con // dissenso della poesia, che ha un titolo che non è un programma velleitario, ma un’indicazione precisa di un modo di intendere l’impegno poetico senza per questo contaminare il tono stilistico. Perché la rabbia spesso non è sufficiente a rendere il linguaggio poesia. Restano sempre zone 34
d’ombra o durezze che nessuna acrobatica soluzione verbale riesce a mascherare: è questo il limite di una poesia per certi versi interessante come quella di Luciano Terminelli: Poesie ideologiche e Poesie antigruppo, che vorremmo meno ridondanti e più incisive. Certo dimostra una maggiore capacità di controllo Alfonso Zaccaria nell’Opera degli straccioni, un volume in cui una indignazione morale si alterna a una passione civile, ma dove si trova anche una cultura di tipo classico :(John Gay recuperato) che si presta a una rappresentazione parodica della pochezza dei tempi. Nella Deriva di Canali, invece, troviamo una sezione in cui l’invettiva politica è molto risentita, ma egli ha scelto la strada più diretta, quasi da poesia-racconto, e ha spogliato la « deriva », sia quella personale di una tremenda nevrosi sia quella della delusione politica, di ogni velleitario poeticismo. Non stupisca di veder ricordato a questo punto un libro come La violenza morgana di Andrea Rivier. Rivier è poeta schivo, non partecipa all’evolversi mondano della dinamica culturale, eppure alcuni di questi versi ci fanno rivivere i momenti della crisi morale e politica del nostro tempo senza mezzi termini, con ironia e con durezza, con calma e con aggressività. Parlando più sopra di questo momento che si caratterizza per la propensione a bilanci e riflessioni, pensavamo a libri che riassumono un’intera opera o un’esperienza di particolare rilievo. C’è già chi ritiene di dover fare i conti con la storia come Paolo Volponi, che ha costruito sulla base della sua opera passata e di alcuni inediti la sua antologia ideale — ideale anche nella sequenza che ha dato ora alle poesie — in Poesie e poemetti; oppure Guido Ceronetti che ha trasferito in Poesie per vivere e non vivere il suo moralismo, ma senza raggiungere a nostro avviso il lucido rigore della prosa; e c’è chi registra anche solo quell’esperienza a cui accennavamo prima. Nel caso di Elio Filippo Accrocca essa è data dalla tragica morte del figlio. È un evento che può cambiare, fermare la storia di un uomo, o, più umilmente, indurlo a non
rinunciare a essere poeta e a continuare a scrivere poesie come // superfluo che, chissà, possono ancora dare un senso alla vita. C’è poi chi è rimasto appartato per anni come Luciano Erba. Eppure egli ha contato molto nella poesia italiana di 35
questi ultimi trent'anni. Molti dei versi che compaiono nel Nastro di Moebius, premiato a Viareggio, il volume a cui praticamente egli affida tutta la sua opera, hanno contato come quelli di un insostituibile pet:t maître per la loro originalità e il loro timbro inconfondibile. Auguriamo a Maurizio Cucchi, uno dei giovani più dotati della nuova generazione, che ha un vero senso del fare poesia, di crescere di libro in libro come è cresciuto Erba. Gli manca, di Erba, una certa
svagata ironia, ma in compenso sa aggredire con più determinazione i propri oggetti come appare dalle Meraviglie dell’acqua. Si sente inoltre nei versi di questi giovani che non passa invano la lezione di Fortini, anche se la sua presenza è più viva come punto di riferimento che per influenze dirette. Infatti, nei suoi versi Fortini è irrepetibile perché tutto rientra in una misura; ma bisognerebbe che egli stesso ci confessasse il prezzo di questa raggiunta capacità di cui abbiamo un’altra prova in Una obbedienza. E in questa zona appartata, un po’ a latere, che la poesia sembra a poco a poco ritrovare il suo carattere più raccolto e apparentemente marginale dove di solito si fanno le scoperte più eccitanti. Pensiamo a due libretti semi-clandestini di Luzi: Semiserte, una raccolta
di poche poesie disperse o d’occasione, ma con la stupenda Scuse al parroco di Samprugnano, e Francamente, dove ha riunito le sue traduzioni o, meglio, riscritture di poeti francesi. E poi al prezioso poemetto dialettale veneto di Andrea Zanzotto, Misteridi che si riaggancia a Fi/ò, ma che conferma soprattutto come per Zanzotto il dialetto e il suo uso non sia un fatto estemporaneo o di strumentale occasione. È cosa che riesce solo ai poeti veri: un altro è Biagio Marin e basta leggere Nel silenzio più teso. A questo punto le conclusioni hanno quasi un senso obbligato: l’annata, tutto sommato è un po’ particolare, non ha andamento uniforme, ma frastagliato, e può vantare alcune opere che vanno al di là del momento contingente. I lettori sapranno individuarle da questo profilo.
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ria, diventano linee di tendenza suscettibili di contraddistin-
guere anche un intero periodo. Inoltre, questa costante osservazione dei fenomeni letterari, che non può prescindere da un minimo indispensabile di attenzione portata anche sul contesto sociale, mette in rilievo come nel cammino della let-
teratura non si verifichino brusche inversioni di rotta né improvvisi cambiamenti, ma si dia piuttosto una continuità; come ogni avvenimento, anche il più sconvolgente, alligni sempre in un terreno già fecondato dalla tradizione e non scoppi mai a caso, bensì presenti invece tutti i sintomi di una lenta e, a volte, anche lunga incubazione. Una conferma a queste osservazioni viene dall’esame del-
l’andamento dell’annata 1981 che si va chiudendo. Innanzi tutto non si può iniziare senza una annotazione di carattere 43
a
sociologico, che; però, ha riflessi anche sul piano più propriamente letterario: l’annata è stata caratterizzata da una grave crisi dell’editoria che ha toccato in particolare il prodotto trainante del mercato librario, ossia la narrativa. Tutto ciò
indipendentemente dal valore delle opere che, invece, è stato nel complesso buono, non privo di novità interessanti, vario nelle proposte di lettura. È entrata dunque in crisi «l’industria del romanzo», secondo il titolo omonimo del libro di Alberto Cadioli? In realtà la crisi della narrativa, che non è solo di mercato, come vedremo, era già nell’aria fin dall’anno
scorso. Ed è proprio facendo un passo indietro che si può riscontrare come nel 1981 siano venute a maturazione certe indicazioni e alcune preferenze del pubblico emerse nel 1980. Il grande successo che arrise ad alcuni romanzi nell’estate del 1979 — in particolare a Un uomo di Oriana Fallaci, ancora sulla cresta dell’onda oggi, e a Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino — toccava forse il culmine di una propensione al romanzesco che è poi andata declinando fino a sfociare nelle difficoltà attuali. Ma è giusto imputare le ragioni della crisi soltanto a fatti congiunturali e di mercato? O non è invece il caso di chiamare in causa anche altri motivi di natura letteraria? Il campanello d’allarme avevano cominciato a suonarlo sia la clamorosa accoglienza che l’anno scorso il pubblico aveva riservato a Un'isola di Giorgio Amendola sia l’affermazione della Vita ingenua di Vittorio Gòrresio a un premio squisitamente letterario e per romanzi come lo Strega. Questi due autori sono degli outsider nel campo della narrativa e i loro libri si collocano a metà strada fra il racconto autobiografico e la testimonianza, in cui l’autore è narratore, memo-
rialista, diarista nello stesso tempo: insomma nella pagina si riflette, come ha scritto una volta Jean Starobinski, «il modo d’essere dell’individuo ». L’adesione spontanea del pubblico, sia comune sia qualificato, a Un'isola e alla Vita ingenua era un'indicazione che il lettore non disdegnava il narrare, ma preferiva che il racconto fosse arricchito con elementi di verità e con fatti che potevano dare alla narrazione un tono diverso rispetto alla pura immaginazione romanzesca. Ossia, quella verità e quella diversità che si possono avere quando 44
l’autore è testimone o protagonista; oppure che si pensa possa garantire la storia con la sua incomparabile ricchezza fattuale. Forse perché sono mancati personaggi alla Amendola, o perché gli scrittori hanno seguito altri motivi d’ispirazione, ma la strada della memoria e della testimonianza non è stata molto battuta, anche se l’autobiografia è risultata la matrice di molti libri e la storia ha offerto temi, personaggi e sfondi a parecchi altri. Abbiamo così avuto opere di scavo interiore e romanzi storici di buona fattura che hanno incontrato successo di critica e, relativamente, pure di pubblico, ma che non
sono stati sufficienti ad arginare una crisi che non ci sembra solo congiunturale, bensì anche di contenuti.
Insomma,
la
letteratura è andata per la sua strada, nonostante le indicazioni fossero diverse. Il tempo dirà se ha avuto ragione. Storia, autobiografia
e memoria,
romanzo
di fantasia
hanno dominato lo sfondo delle discussioni, poiché queste sono sembrate le grandi direttrici sulle quali si sono mossi gli scrittori. Non sono novità: da sempre la letteratura ha tratto spunti storici, autobiografici, fantastici; ma quando le categorie prendono il sopravvento sui testi e diventano una formula caratterizzante, è un brutto segno e bisogna cercare di correg| gere il tiro. Parliamo pure, perché non se ne può fare a meno, di romanzi storici, autobiografici, di fantasia, ma mettiamo l’accento più sui testi che sulle categorie: infatti è sempre sul campo della letteratura, e non delle considerazioni moralistiche, che si gioca la partita critica. Il romanzo storico ha avuto quest'anno un grande exploit. Epoche, ambienti, personaggi del passato tra i più disparati sono entrati nel discorso romanzesco così impetuosamente e, diremmo anche, in massa, come di rado era accadu-
to. Se pensiamo a tutte le opere ambientate storicamente che sono apparse durante l’anno, si può affermare, pur senza volere con questo sminuire la portata e l’incidenza di altre tematiche, che è stato l’anno della storia e, in particolare, del
Medioevo. A cominciare è stato Z/ nome della rosa di Umberto Eco. Lo sfondo del suo romanzo è, per l'appunto, il Medioevo; i personaggi, il paesaggio, l’ambiente sono dell’epoca: il tutto così abilmente ricostruito da far scoppiare addirittura una specie di moda medievale. Ci voleva uno straordinario 45
i
«compositore » come Eco per rendere accessibile un’epoca così distante dalla nostra, eppure così affine, come il Medioevo,
e per portarla dai quartieri alti degli studi storici — dove si colloca l’affascinante, epperò rigoroso e scientifico, Alle rad:ci della cavalleria medievale di Franco Cardini — a quelli più bassi del successo romanzesco. Se ci si chiede come mai // nome della rosa ha potuto dominare il campo della narrativa — vincendo anche il Premio Strega —, non è semplice trovare una risposta plausibile. Il romanzo di Eco non è facile, anzi è un testo costruito con tutte le complicazioni possibili, retto da una scrittura ora piana, in certi punti volutamente anche sciatta, ora allusiva e metaforica. Nelle sue pagine troviamo filtrata tutta la cultura filosofica — e particolarmente della filosofia medievale di cui Eco è specialista —, la semiotica con la sua speciale tecnica a cui egli ci aveva iniziati e introdotti con agguerritissimi saggi. Teorico dell’uomo massa e dell’opera aperta, studioso della logica del racconto e delle poetiche di Joyce, ammiratore di Dumas e di Sherlock Holmes, Eco ha saputo costruire a freddo una macchina romanzesca perfettamente congegnata e ben lubrificata. Per questo Il nome della rosa può essere letto a piacimento come un romanzo giallo o una metafora politica, e, di conseguenza, divertire, annoiare, irritare, ma mai prestare il fianco a una
critica per qualche imperfezione tecnica. Senza accorgersene, il pubblico ha decretato il successo a uno dei romanzi più intellettualistici che siano stati scritti in questi ultimi tempi. L'operazione è stata garantita da un marchio di fabbrica sicuro che Eco aveva già sperimentato in un altro libro, non classificabile quanto a genere, ma che forse resterà nella sua opera come il vero romanzo: Come st fa una tesi di laurea. Ma il Medioevo non è stato terreno di conquista solo per Eco, pure altri si sono rifatti a un’epoca che sembra offrire appigli e pretesti di attualità. Laura Mancinelli con / dodici abati di Challant affronta un tema affine a quello trattato da Eco, ma le differenze sono molte e il suo romanzo, pur costruito con perizia, non ha la ricchezza di materiali narrativi di cui doviziosamente quello di Eco fa mostra: il suo testo pertanto risulta alla lettura meno accattivante e poco diver-
tente. Anche Giuseppe Pederiali si tuffa nei secoli bui per
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non perdere il senso di una ricerca narrativa che andava conducendo da anni in maniera un po’ dispersiva: con // tesoro del bigatto egli sembra aver finalmente trovato una misura e una resa più lineare e soddisfacente. E ad essi si aggiunge Luigi Santucci che, con la raccolta Z/ bambino della strega, è tornato al racconto, un genere a cui va ascritto uno dei suoi libri più felici, Lo 210 prete. Ma il suo Medioevo è colorato di tinte diverse rispetto alla rappresentazione che viene data negli altri libri di cui stiamo parlando. Innanzi tutto c’è in Santucci un fondo di religiosità che egli tende a verificare sempre con i problemi attuali, dandone un’immagine metaforica; e c'è poi il suo estro fantastico e fiabesco, che anche qui egli esercita, specie nel racconto che dà il titolo al volume, in ma-
niera inconfondibile. La rappresentazione narrativa non può tuttavia essere affidata soltanto a una ricostruzione ambientale o d’epoca, occorre che intervengano anche altri fattori a ravvivare la narrazione, per esempio figure emblematiche o personaggi effettivamente vissuti. Una figura emblematica è il personaggio del Ribelle di Carlo Cassola: Severiano appartiene alla fantasia ed è emblematico in quanto rappresenta l’alternativa alla realtà e ai personaggi storici del momento. Ed è proprio ad esso che Cassola affida il compito di contrastare la caduta degli ideali più autentici del cristianesimo quando Silvestro, vescovo di Roma, si accorda con Costantino. Solo un personaggio inventato poteva opporsi al corso della storia — a quello che lo stesso Cassola definisce il primo e più deleterio compromesso storico che sia mai stato stipulato — e farsi portavoce di un idealismo che è stato sacrificato sull’altare del potere. Giorgio Saviane in Getsemani si è addirittura cimentato con Gesù, reincarnandolo e trasferendolo nella no-
stra realtà attuale. Il Gesù moderno ed emblematico di Saviane è l’interprete di una parabola universale che riunisce non solo amore e odio, ma li mette a confronto con quell’ansia religiosa ed esistenziale che lo scrittore ha sempre perseguito nei suoi romanzi, insieme a una problematica antropologica e psicanalitica. In Getsemani Saviane ha tentato di realizzare questa difficile congiunzione religiosa e culturale proprio con Gesù, protagonista di un romanzo di grandi am47
bizioni che in certi passaggi, però, dimostra troppo scopertamente l’assunto della tesi. Vittorio Saltini, invece, fa un salto
di continenti per andare a trovare il suo personaggio vero nella storia cinese: Li Po, poeta vissuto all’epoca della dinastia T’ang, di cui ci dà, sotto specie romanzesca, una imma-
ginaria biografia. Ripercorriamo nel Primo libro di Li Po un mondo fantastico, riviviamo con lui un’epoca, ma soprattutto
prendiamo confidenza con la sua gioia di vivere e la sua vitalità, esibita fino al limite di apparire più come una inarrestabile attività erotica che poetica. Il Li Po di Saltini pare il protagonista di un B:i/dungsroman, ed è in questa chiave che va letto, al di là degli anacronismi e degli errori che gli specialisti vi hanno colto. Dalla felicità sfrenata di Li Po, passiamo a una felicità diversa, quella della santità di San Francesco. È Ferruccio Ulivi con Le mura del cielo a cimentarsi,
dopo aver affrontato altri grandi personaggi storici, con la figura complessa e ricca di sfaccettature psicologiche del santo di Assisi. Anche Ulivi traccia una vita romanzesca del suo personaggio, ma mette in risalto soprattutto le debolezze dell’uomo Francesco e il suo progressivo annullarsi nel fisico per arrivare all’ascesi, alla vetta della santità. La scrittura di Ulivi non ‘indulge all’agiografia: egli mira a rendere San Francesco un personaggio problematico, che soffre la sua vocazione alla santità e la conquista dopo una lotta dall’esito incerto, alla quale solo Dio può porre fine. La costante religiosa, come abbiamo visto, è una componente quasi essenziale del romanzo storico, sia che si stagli sullo sfondo sia che entri direttamente nella narrazione in maniera drammatica come nella Finzione di Maria di Fulvio Tomizza. Lo scrittore triestino ha trovato il tema e il materiale per questo suo nuovo romanzo negli archivi dell’Inquisizione a Venezia: attratto dalle vicende di Maria Janis e Pietro Morali, e dallo svolgersi della loro avventura nei terreni della santità con un ritmo da giallo, ricco di suspense e di colpi di scena, ha voluto riportare il caso alla luce per la sua esemplarità. La nuova opera di Tomizza si basa sulla realtà di un documento storico, di per sé già ricco di pathos; ma su di esso egli ha operato
da scrittore, dando alla trascrizione del documento cadenze e
sequenze da romanzo. Alla originalità inquietante della vi-
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cenda, fa riscontro quella del romanzo, che ci rivela un Tomizza insolito nella sua nuova veste di romanziere storico. Ma la sorpresa non dovrebbe stupire più di tanto, perché è proprio di ogni romanziere saper amalgamare realtà e fantasia, documento
e stile, storia e invenzione.
Anche
Manlio
Cancogni ‘è approdato al romanzo storico. Narratore versatile, ma stimolato anche da una vena moralistica e problematica che si è venuta precisando in questi ultimi anni, ha impresso alla sua ricerca narrativa un indirizzo più marcato in senso ideologico e storico e ha affrontato una figura e un ambiente ricchi di fascino e di alone mitico: Piero Gobetti e il gruppo di amici che gravitava intorno a lui (da Carlo Levi a Natalino Sapegno, da Adriano Olivetti a Leone Ginzburg), la Torino antifascista degli anni Venti pervasa da un grande fervore politico e intellettuale. È nato così La gioventù, un romanzo diverso dai suoi precedenti e che ci riporta a un’epoca in cui sì sono giocate le sorti dell’Italia moderna. Quei giovani che con entusiasmo, ingenuità e fanatismo si gettarono nella lotta antifascista, sono visti da Cancogni con una punta di malinconica invidia per quel senso di nobiltà che allora pervadeva i rapporti amicali, intellettuali, politici, e che
oggi sembra perduto, ma che resta come monito morale. E un fondo di moralità è anche alla base dei Giorni del mondo di Guido Artom, un romanzo
che affonda le sue radici nella
storia — l’Ottocento, il Piemonte risorgimentale, l’unità d’Italia — e nella tradizione famigliare dell’autore — i suoi avi, nonostante ebrei, ebbero un ruolo di rilievo nelle vicende sto-
riche piemontesi e italiane. Ma il vero tema del romanzo di Artom non si esaurisce nell’affresco, tocca più in profondità un altro motivo: quello dell’affermarsi di una famiglia ebrea in un contesto sociale non certo aperto nei loro confronti. Ed è in questa rappresentazione della vicenda famigliare che la sua prosa trova gli accenti più riusciti, benché non esenti da qualche eccesso patetico. Proprio grazie a questa matrice ideale e, insieme, di attualità, il romanzo storico può diventare allegoria del presente: cioè, quando lo scrittore si rivela in grado di operare su più piani e di intervenire nel fondo della materia narrativa, sia inventando situazioni e stile, come ha
fatto Eco, sia facendo ricorso a documenti già esistenti, ed è il 49
caso di Tomizza. Le situazioni storiche sono quindi molto diverse, ma ognuna ha una sua carica di coinvolgimento e di rifrazione sul presente che non può essere ignorata. Il Medioevo rappresenta culturalmente per Eco l’epoca ideale; il Seicento, con le sue inquietudini religiose e morali, è un momento consono a uno scrittore pieno di fermenti moralistici come Tomizza; il Settecento, secolo di trapasso e di grandi
scoperte scientifiche, è, a sua volta, un tempo che si addice a Enzo Siciliano per ambientare La principessa e l’antiquario (premiato a Viareggio). Anche questa volta c’è all’origine un manoscritto ritrovato, ma nel caso specifico si tratta di un artificio deliberatamente messo in atto dallo scrittore per dare alla finzione narrativa la plausibilità del reale storico: una Roma settecentesca ricostruita e rivissuta in una prospettiva attuale. Siciliano ha ambientato sulla pagina una Roma ideale, ricca di vitalità e di suggestioni, dove il protagonista Hugo, calato dal Nord alla ricerca di una giovane principessa, che troverà solo alla fine, morta per eccesso di laudano, si
muove in due direzioni: alla ricerca della principessa, appunto, e del contatto con le « occasioni » che la città offre. Tutti i libri che abbiamo sin qui segnalato sono caratterizzati da un intreccio a suspense tipicamente romanzesco. Senza dubbio è per esigenze di trama, ma potrebbe anche essere il sintomo, se non la conferma, di un’applicazione sul
piano della tecnica compositiva che è abbastanza inconsueto per la nostra letteratura. E, forse, un segno a favore del romanzo-romanzo in un anno di crisi per la narrativa? Può darsi, e che anche da noi si vada facendo strada quel senso del romanzesco che, per ataviche ragioni storiche e sociali, è
sempre stato carente. Il problema è stato affrontato con idee e prospettive metodologiche differenti da uno scrittore, Cassola, e da due studiosi, Marco Forti e Aldo Vallone. Le idee di Cassola sul romanzo sono note, ma esposte in un volume, // romanzo moderno, che raccoglie saggi, interventi, prefazioni,
acquistano un peso critico diverso. Egli pone Manzoni e Verga alla fonte del nostro romanzo moderno e da essi ne fa discendere le linee maestre: a quella manzoniana assegna Nievo, Fogazzaro, Pirandello e Svevo; a quella verghiana
Tozzi. Più che arbitrarie, queste linee sembrano peccare di 50
eccessiva semplificazione; ma appare importante lo spazio dato a Tozzi, uno dei pochi romanzieri in un periodo che vedeva trionfare il frammentismo e si stavano ponendo le premesse per la prosa d’arte. Anche Forti, in /dea del romanzo ttaliano fra Ottocento e Novecento, risale all'Ottocento per reperire le radici del romanzo contemporaneo, ma non si spinge come Cassola fino a Manzoni. Il suo panorama comincia dalla Scapigliatura per arrivare ai « solariani » e conta su alcuni punti fermi: Pirandello, Tozzi e, soprattutto,
Svevo, all’opera del qualé dedica un’attenta e puntigliosa lettura, sono i capisaldi su cui poggia quell’idea di romanzo novecentesco che tanto ha stentato, e ancora stenta, a enuclearsi. Perché, se il discorso critico ha una sua linearità, e il libro
di Forti la esemplifica persuasivamente, in effetti l’evoluzione della ricerca romanzesca novecentesca si rivela poi più contorta e con mille diramazioni, come appare dallo studio di Vallone: Condizioni e condizionamenti nel romanzo italiano del Novecento. Libro più strumentale che saggistico, il saggio di Vallone registra problematiche, tendenze, ismi, motivi, al
fine di valutare la loro incidenza nella formazione narrativa novecentesca. Appare chiaro da questa digressione quanto sia stato travagliato il costituirsi di una linea di romanzo in questo secolo. Mentre altrove la tradizione narrativa realistica e ottocentesca entrava in crisì a seguito dell’affermarsi delle avanguardie, da noi tale crisi colpiva una tendenza ancora in embrione. Infatti, i sommovimenti di cui parla Forti in realtà hanno smosso un terreno che ancora non era quasi stato arato. Ma più che di contenuti, il vero problema era di linguaggio. La naturale tendenza lirica della nostra prosa, innestata in un tessuto romanzesco gracile, estenuava un linguaggio non ancora costituzionalmente formato; e quando tale pericolo era evitato, si correva il rischio di uno stile precario. Su questo piano, almeno, gli equivoci si sono andati via via diradando, e oggi capita sempre più spesso di trovarsi di fronte a romanzi con una caratura stilistica elevata. Se ciò è particolarmente rilevabile, per esempio, nella Principessa e l’antiquario, a conferma dei risultati di una ricerca di stile che Siciliano ha sempre perseguito, tuttavia l’osservazione va spostata su un piano più esteso: in realtà, sono pochi i ro51
manzi contemporanei in cui a una trama appassionante, svolta sapientemente, faccia riscontro anche una scrittura equivalente, e nei quali lo stile non venga sacrificato all’effetto, oppure non scada, come invece spesso capita, nella prosa, magari d’arte, per manifesta incapacità a mantenere il passo lungo della costruzione romanzesca. È un’impresa difficile, alla quale certi scrittori hanno dedicato una vita, scrivendo e riscrivendo sempre la stessa opera al fine di renderla perfetta dal punto di vista stilistico e compositivo. /{ romanzo di Ferrara è una di queste opere, e Giorgio Bassani uno di quegli autori che ha lavorato sui propri libri con una prospettiva globale, riscrivendoli non per gusto di varianti ma per necessità. Il romanzo di Ferrara è composto da tutte le « storie ferraresi » — ivi compresi i romanzi: // giardino dei Finzi-Contini e L’arrone — e ognuna è come la tessera di un mosaico di vaste dimensioni. Ad esso Bassani ha lavorato per anni con alcuni obiettivi: renderlo sempre più fuso; fare in modo che tutte le tessere combacino perfettamente; eliminare ogni sfasatura di costruzione a scapito dell’intensità poetica. Anche al Romanzo di Ferrara si attaglia la definizione di « storico», nel senso che abbiamo cercato di applicare a questo insieme di opere, e che è ben diverso da quello tradizionale, ottocentesco e di stampo realistico. Il Medioevo di Eco, il Seicento di Tomizza, il Settecento di Siciliano, il Novecento di Bassani e Cancogni, non sono epoche felici scelte come rifugio per sfuggire al presente, ma luoghi ideali di spazio e di tempo in cui proiettare con maggiore libertà inventiva e di movimento la coscienza dei problemi attuali. Anche i personaggi che abbiamo incontrato, dal Gesù di Saviane al Li Po di Saltini al San Francesco di Ulivi, sono personaggi assunti come pretesto allo scopo di ritrovare una figura emblematica che rappresenti e si faccia interprete delle nostre ansie e delle nostre aspirazioni. Ma al di là delle occasioni, resta la convergenza di interesse sulla storia, vista come matrice ideale per una ricerca narrativa che, anziché nel presente, ha inteso gettare le sue sonde nel gran fondo storico. La spinta a farlo avrebbe potuto essere strumentale; pensiamo invece che le ragioni siano morali e letterarie allo stesso tempo. Nella storia gli scrittori hanno ritenuto di poter trovare quelle condizioni DZ
più favorevoli al narrare che l’attualità, con la sua evidenza palmare, sembra precludere anche quando si tratta di un tema bruciante come quello del terrorismo. Ad affrontarlo è stata Luce D’Eramo con Nucleo zero, un romanzo in cui il
terrorismo è sullo sfondo come problematica e assurge a protagonista attraverso le azioni dei personaggi. Con il precedente Deviazione, la D’Eramo ci aveva dato un’opera testimoniale e autobiografica di indubbia efficacia, ma carente sul piano narrativo; Nucleo zero introduce il fenomeno del terrorismo in letteratura e potrebbe essere letto avendo a mente situazioni e personaggi reali. Per questo è stato accreditato come un caso politico-letterario; ma il romanzo ha le caratteristiche del giallo, le quali prevalgono sul messaggio ideologico. La storia, per riprendere il motivo della riflessione, ha
rappresentato ancora una volta il mezzo per parlare più liberamente di noi e del nostro tempo, poiché tutte le cose che ci attorniano e ci sembrano familiari e possedute, in realtà sono estranee al punto che, forse mai come oggi, c’è tanta dissociazione fra l’uomo e la realtà in cui vive. La distanza che ci separa dalle cose è la conseguenza di un disagio che, con il tempo, si è fatto sempre più profondo ed è ormai avvertibile anche nella vita di tutti i giorni tanto si è insinuato nel ritmo dei rapporti quotidiani. Se la storia ha rappresentato un’alternativa per affrontare il problema su un piano oggettivo e su dimensioni, non solo temporali, più vaste, lo scandaglio nell’autobiografia è stato una scelta più soggettiva, volta a cercare in se stessi quelle risorse che consentano di far fronte alla difficile condizione attuale. L’autobiografia, come la storia del resto, con quel fondo di verità insopprimibile e quei grumi di realtà individuale e collettiva che vanno sciolti, sembrerebbe chiudere la strada alla fantasia. Ma è vero solo in apparenza, perché l’autobiografia non sempre è destinata a risolversi in autobiografismo o in diario intimo; e infatti,
proprio attraverso l'autobiografia, anche la più dichiarata, abbiamo avuto opere inconsuete e coraggiose nelle quali la vicenda personale non è stata altro che lo scheletro attorno a cui gli scrittori hanno costruito una realtà narrativa. Pensiamo, in particolare, a Un grido lacerante di Anna Banti e a da
Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino. Ciascuno per le sue differenti caratteristiche, costituiscono le sorprese dell’anno: quello della Banti per le novità strutturali e tematiche che l’hanno spinta lontano dai suoi libri precedenti; quello di Bufalino, invece, ha stupito per la sua coinvolgente intensità, veramente straordinaria per un’opera prima. Il romanzo della Banti è certamente autobiografico, dal momento che non è difficile riconoscere nei due protagonisti la Banti stessa e Roberto Longhi; ma sbaglierebbe quel lettore che considerasse Un grido lacerante soltanto come sfogo privato, poiché il libro va ben oltre, anzi, prende consistenza man ma-
no che la vicenda si evolve dal privato in una direzione sempre più romanzesca. Ed è proprio qui che s'incontrano le pagine più alte, quando il coraggio della Banti nel mettere in discussione se stessa come donna e scrittrice sì allarga sempre più in proiezione romanzesca. Sotto questo aspetto Un grido lacerante è un esempio di come l’autobiografia possa essere trasformata dalla scrittura in autentica invenzione narrativa e ì personaggi risultare veri in quanto romanzeschi. Anche Bufalino parte da uno spunto autobiografico per costruire il suo intenso romanzo: la malattia, la vita in sanatorio, l’osses-
sione della morte. Iniziato nel 1950, quindi in un’epoca in cui imperava ancora il neorealismo, Diceria dell’untore è però tutt'altro che neorealista; abbandonato per vent’anni, e ripreso solo nel 1970, non risente affatto degli sperimentalismi che si sono succeduti in quegli anni. Di qui la sua originalità che ha convinto critica e pubblico, confermata poi dall’inaspettato Premio Campiello. Ma Diceria dell’untore, in realtà, nasce da una precisa disposizione letteraria: Bufalino ha un concetto molto alto della letteratura e crede nella forza della parola. Lavorando sulla pagina con queste convinzioni, egli ha saputo costruire un romanzo persuasivo e non databile, con un linguaggio dai toni alti eppure senza compiacimenti estetizzanti, che si articola in sequenze musicali senza tuttavia perdere di tensione. Impostato su una scenografia più ampia, con ascendenze mitteleuropee e i maestri della
memoria a tutela, è // silenzio delle cicale di Gian Piero Bo-
na. Un romanzo dove l’elemento autobiografico fa da passepartout alla memoria: la voce narrante è quella di Tristano
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che, tornando sui luoghi della propria giovinezza, ed eleggendo a protagonista la gran casa famigliare, Villa Tramonto, rievoca il lento disfacimento della ricchezza e delle tradi-
zioni della propria famiglia. Echi classici, sia per l’impianto sia per lo stile, se ne sentono, certi indugi insistiti non mancano, ma nel Silenzio delle cicale Bona sembra aver raggiunto quella misura narrativa che finora aveva sempre soltanto sfiorato: qui egli riesce ad amalgamare la sua naturale tendenza poetica con le necessarie esigenze romanzesche e a evitare le secche liriche e intellettualistiche che spesso lo avevano frenato in passato. E su un piano memoriale, indiretto 0 diretto, si collocano alcune scrittrici: Virginia Galante Garrone con Se mai torni, Anna Borgogno con La città perduta, Maria Brandon Albini con La gibigianna. Nel romanzo della Galante Garrone la vicenda è filtrata proustianamente, mentre nei casi della Borgogno — il ricordo della Torino dell’inizio del secolo fino all’avvento del fascismo — e della Brandon Albini — la rievocazione della sua vita di donna e di intellettuale trascorsa nella Milano del primo dopoguerra, poi nella Parigi del Fronte popolare e successivamente nel Midi durante la Resistenza — sono rivissuti direttamente. In questi libri colpisce il clima, nonostante gli esiti a cui pervengono risultino un po’ estenuati quelli della Galante Garrone e al limite del bozzetto quelli della Borgogno e della Brandon Albini. Ben altro rilievo hanno invece L'età della tempesta di Paolo Vittorelli e Ventiquattro anni di Davide Lajolo, libri di rievocazione autobiografica anch'essi, ma di-
versamente strutturati e risolti. L’età della tempesta, con il suo continuo oscillare fra romanzo storico e memoria personale, ci offre un quadro affascinante e inedito del fuoruscitismo italiano che ruotava attorno a «Giustizia e Libertà » e,
nello stesso tempo, la testimonianza di come questo clima era vissuto da un giovane. Sotto questo aspetto l’esperienza di Vittorelli, romantica e spregiudicata, assume i caratteri dell’esemplarità. Ventiquattro anni è, invece, il diario che Lajolo ha tenuto dal giorno della Liberazione fino a quello di Piazza Fontana. Sono gli anni della ripresa del paese, non privi tuttavia di pericoli, e Lajolo vi ha partecipato da una posizione politica di rilievo, ma anche come scrittore poiché dI
alla cultura egli non ha mai voluto rinunciare. Per questo nelle sue note riviviamo tanti avvenimenti che ormai fanno parte della storia, e ci troviamo in compagnia di tanti protagonisti della vita letteraria e artistica. Politica e cultura sono i due poli attorno ai quali ha sempre ruotato l’esperienza di Lajolo e in questo senso Ventiquattro anni è la proiezione all’esterno di Veder l’erba dalla parte delle radici. Di tutt'altro impianto, anche se di sfondo sempre autobiografico, è La piena dell’Adda di Alberico Sala. Di Sala si ricordano più facilmente le poesie, e si sente che esiste un legame profondo fra i suoi versi e questo romanzo dalla struttura complessa e che si snoda in diverse direzioni. Nella Piena dell’Adda confluiscono più storie — una con uno sviluppo da romanzo nel romanzo, come quella del cane Smile — e più piani stilistici che vanno dall’andatura larga del racconto agli squarci lirici, dalla graffiante annotazione moralistica all’apertura sul pastiche, anche se la struttura generale è quella di un ininterrotto poema in prosa. La piena dell’Adda è un monologo in cui il coinvolgimentò autobiografico dell’autore protagonista, ora in prima persona, ora come spettatore, porta la narrazione da un piano descrittivo dell’assurda vita della metropoli rispetto alla naturalezza di quella in campagna a una tensione da cui traspare non solo emozione, ma anche un giudizio morale. All’ossessionante vita delle metropoli contemporanee, ai vantaggi e agli svantaggi della tecnologia avanzata nella vita moderna, c’è stato chi ha preferito rinunciarvi, rifuggirli andandosene o stando in campagna per esaltare l’autenticità di una vita più libera nei confronti dei feticci della modernità. Lo abbiamo già visto in certi punti del romanzo di Sala, ma lo troviamo come tema principale per esempio in Essere di paese di Gina Marpillero, in La vita in campagna di Bino Sanminiatelli,
in Brianza
e altri amori di Santucci.
Il
concetto di campagna che emerge da queste pagine induce allo scetticismo, poiché la scelta sembra avere il sapore dell’evasione, della fuga in una specie di paradiso artificiale che non trova una rispondenza effettiva nella realtà e nelle cose. A spingere lo scrittore su questa strada sembra essere l’idea che l'argomento è nell’aria, e non una necessità. E 56
per necessità s’intende'una scelta motivata e sostenuta da una effettiva novità letteraria: che, invece, non si è data nel libro di Sanminiatelli, caratterizzato da una non comune af-
fabilità di scrittura, e neppure in quello di Santucci, che risolve!il proprio itinerario brianzolo, compiuto su un pallone aerostatico in compagnia del nostalgico Picch, in una galleria di ritratti. Ma i personaggi, anche quelli veri come l’io di Sanminiatelli, sembrano figurine; le situazioni sono percorse da un brivido crepuscolare, dove l’incanto nasce da quel tanto di indefinito dei contorni e delle figure che sfumano nel nulla. Non basta affidarsi a una narrazione gradevole, con il passato a far quasi naturalmente da supporto poetico e la campagna, vista in superficie, come paesaggio e luogo felice, a garantire una buona carica di lirismo — ci vuole qualcosa di più. Non a caso un libro che rimane nella mente è l’ultima raccolta di prose di uno scrittore appartato come Roberto Ridolfi: L'acqua del Chianti. Studioso di classici, storico e biografo di grande fama (le sue biografie di Machiavelli, Guicciardini, Savonarola sono ristampate continuamente), come scrittore Ridolfi affida le sue impressioni
e riflessioni all’antica misura dell’elzeviro. nel suo
libro, sembra
rimanere
confinato
Eppure nulla, nei limiti della
semplice annotazione. Nell’arco delle tre cartelle Ridolfi ci offre un esempio di scrittura che può anche far pensare a un classico; e se la letteratura deve arrivare dalla campagna — molte pagine di Ridolfi sono sulla natura campestre, altre dedicate a incontri, a episodi, a libri, ma sempre visti da
quel punto di osservazione che è la sua casa di campagna —, allora è bene che arrivi con il timbro del classico.
Anche il Novecento ha ormai i suoi classici, più o meno accettati come tali, eppure sempre discussi specie nel caso di proposte inedite o sconosciute. E il caso di Carlo Emilio Gadda, di cui sono stati riuniti nelle Bizze del capitano in congedo alcuni racconti dispersi che confermano, da un lato, la sua grandezza e, dall’altro, arricchiscono la sua bibliografia di documenti importanti, come il capitolo IV del Pasticciaccio, apparso solo in rivista e poi non inserito nel volume definitivo. Di questo volume, solo apparentemente minore, va ricordata anche la parte finale: il Saggio di una bibliogradI
fia gaddiana dovuto a Dante Isella, perché costituisce un capitolo importante per la sistemazione degli scritti gaddiani, in parte ancora dispersi su riviste. Continua poi la riscoperta
di Alberto Savinio: è ora la volta della Nostra anima, due
racconti che risalgono al periodo bellico e che risultano indispensabili nella composizione della complessa costruzione saviniana. Tuttavia, quello che dà il titolo al volume, è certamente uno dei « pezzi » più pregiati e autentici della sua vena surreale e ironica. Il campione dello humour e del surreale, però, resta sempre Achille Campanile. Dopo aver pubblicato in vita tutti i suoi romanzi più celebri, ma contestati letterariamente, egli aveva lasciato in una stesura tormentata Ben:gno, il suo romanzo serio, non umoristico, di cui La casa der
vecchi (anticipato nel 1945 con il titolo Avventura di un'anima) è il primo episodio. Alcuni lettori sono rimasti sorpresi da questo Campanile diverso e lo hanno subito contrapposto a quello tradizionale,
senza
rendersi
conto, come
osserva
Carlo Bo nella presentazione, che il Campanile serio, lirico, intimista, filosofico di Benigno conferma la sostanza non occasionale né superficiale del suo umorismo e che il suo giocare con l’assurdo non era il frutto di una facilità corriva. Benigno è, semmai, il romanzo in.cui humour e assurdo trovano la loro ragione e confermano la fondatezza di un giudizio che situa Campanile fra gli scrittori che contano del Novecento. Del resto, la vena ironica non ha mai trovato consensi unani-
mi nella nostra letteratura; eppure essa vanta scrittori di valore assoluto per i quali il surreale e il fantastico sono lo specchio in cui sì rifrange un rapporto interiore con la realtà della vita e l’idea della morte. È un altro aspetto che viene a confermare come la nostra letteratura novecentesca non sia così evasiva e distaccata come per tanto tempo si è voluto farla passare. Il rapporto con il reale esiste ed è forte, anche se spesso è nascosto dietro al surreale oppure a un esercizio di stile.
Dopo aver riferito sulle linee di tendenza che più hanno caratterizzato l’attuale stagione narrativa, quella storica e quella autobiografica, con un doveroso accenno ad alcuni classici contemporanei, resta da esaminare tutta quella produzione che, per pura comodità a distinguerla da quella che 58
abbiamo sin qui esaminato, possiamo considerare sotto la definizione di romanzo di fantasia e d’invenzione. Troviamo in questa zona i libri di alcuni fra i nostri scrittori più in vista, da Mario Soldati a Paolo Volponi, da Piero Chiara a Lalla Romano, da Salvatore Satta a Michele Prisco; l’inedito di Ignazio Silone; i racconti di Giovanni Arpino; gli estri onirici
e fantastici di Luigi Malerba e Giorgio Manganelli; le convincenti prove di alcuni giovani scrittori come Antonio Debenedetti e Carlo Cristiano Delforno; alcune interessanti opere prime di Corrado Augias, Ernesto Ferrero, Andrea De Carlo, Fabrizia Ramondino. Il panorama, a questo punto, si arricchisce, e non solo quantitativamente. Infatti alcuni di questi libri finiscono per essere tra i più importanti che i loro autori abbiano scritto. Prendiamo L'incendio di Soldati. In questi ultimi anni Soldati ha alternato libri di intrattenimento a romanzi d’impegno quali L’attore e Lo smeraldo; ma L'incendio è sicuramente il più convincente. Come nel migliore Soldati, L'incendio ha un intreccio lineare eppure ricco di colpi di scena; è pervaso da una tensione continua, ma procede con semplicità e levità di tono sorprendenti: siamo di fronte, insomma, a un romanzo denso, eppure ricco di suggestione. Solo che la capacità narrativa di Soldati è arrivata a tal punto di perfezione da rendere semplice persino la storia intricata del pittore Mucci, il protagonista del romanzo. Anche Chiara con Vedrò Singapore? ha forse scritto il suo romanzo più riuscito. Il giovane protagonista che racconta in prima persona le sue peripezie impiegatizie nei ruoli più bassi dell’amministrazione giudiziaria in paesini del Friuli e dell'Istria negli anni Trenta, appartiene alla galleria dei personaggi indimenticabili di Chiara; e il romanzo è un altro squarcio su quella vita provinciale che egli sa cogliere nelle sue sfumature più intime, venato di malinconia e di gioia di vivere, e rendere con un°efficacia ironica che, a volte, sfiora il grottesco. Un’altra prova notevole la offre Prisco con Le parole del silenzio: il romanzo è complesso per l’intrico di sentimenti contrastanti che egli ha messo in atto, senza nulla con-
cedere agli effetti esteriori e al patetico. Giostrando fra chiaroscuri e atmosfere, Prisco va a fondo nell’indagine psicologi59
ca dei suoi personaggi, e risolve in un ambito famigliare un romanzo che ci riporta, con misura e discrezione, ma anche con una decisa volontà, a quella narrazione psicologica e interiorizzata che oggi sembra trovare poco spazio in un discorso narrativo tutto spostato verso l’esterno e la descrizione. Sempre in un ambito famigliare, e condotto anch’esso con misura e sobrietà, è Inseparabile della Romano. Narra la storia del fallimento di un matrimonio e dei riflessi che la separazione dei genitori ha sul figlio. Il bambino non può ancora comprendere quali problemi ci siano alla base della decisione di padre e madre; tuttavia, in un disegno, a cui appone come titolo «inseparabile », egli indica, forse inconsciamente, come avrebbe voluto fosse il legame dei genitori e come, purtroppo, non è. Anche Inseparabile è un romanzo doloroso, eppure nessuna sbavatura patetica sì avverte nella sequenza dei brevi capitoli su cui la narrazione è orchestrata, anzi è tenuto volutamente su un piano quasi di distacco che rende ancor più toccante il racconto. Pare che nell’affrontare temi così scabrosi, gli scrittori abbiano scelto alternativamente due strade: quella che sembra imprimere alla narrazione un tono quasi da referto impersonale, e quindi con uno stile oggettivo e scarno, 0 quella di una narrazione più complessa linguisticamente e strutturalmente. In entrambi i casi, però, c'è sem-
pre il ritmo dello stile a scandire il passo della narrazione. Se Prisco e la Romano sono su un piano che tende alla semplificazione — addirittura a una prosa apparentemente spoglia e secca come quella della Romano
—, Dante Troisi, invece,
opta nella Sopravvivenza per un linguaggio che alterna livelli realistici a livelli metafisici. Riemerge in queste pagine quel moralismo di fondo che ha sempre caratterizzato la sua narrativa, ma nella Sopravvivenza troviamo anche un’ansia nuova che sì riflette in uno stile intriso di lirismo, epperò affannoso. Si eleva in questa complessa costruzione articolata su quattro tempi, la prima, quella in cui è raccontato l’avvicinarsi della morte per la donna: le voci dei due personaggi, Anna e Daniele, si incrociano e rendono questo rapporto, ormai straziato dalla morte imminente, intenso e struggente. Nel Lanctatore di giavellotto, Volponi sembra aver messo da 60
parte tutte le velleità irrisolte del precedente Pianeta irritabile per tornare a quei temi, personaggi, paesaggi che gli sono più congeniali. Per l’ambiente e il paesaggio, il pensiero va a certi passaggi della Macchina mondiale e di Corporale; ma il personaggio è uno dei più tipici di Volponi. Il nucleo del racconto sta nella rappresentazione dell’impossibile maturazione di Damin, fino alla tragedia finale: il personaggio è dunque tornato a essere, come nei primi romanzi volponiani, l’elemento trainante del racconto; tuttavia va anche detto che
Damin diventa quasi esemplare perché il suo strazio psicologico si innesta in un dolore più vasto, quel dolore che condizionava la società italiana sotto il fascismo. Preceduto dalla notizia di un ritrovamento avventuroso, è apparso un altro ‘ romanzo di Satta, La veranda. Chi ricordava l’intensità del Giorno del giudizio, si è trovato di fronte a un romanzo diverso: rispetto alla coralità del precedente, abbiamo un perso-
naggio che accentra su di sé tutta la storia; allo sfondo ampio di Nuoro e della Sardegna, si contrappone l’universo chiuso di un sanatorio. Eppure, nonostante queste apparenti limitazioni, La veranda ha un’intensità particolare che nasce dalla fusione di un innato lirismo con un fondo morale molto risentito. Il romanzo non ha il taglio né la potenza evocativa del Giorno del giudizio, ma, per contro, scava più a fondo in psicologia; dei personaggi offre tratti ben rilevati; il clima del sanatorio non è superficiale né impressionistico, € ci mette a contatto con l’ansiosa gaiezza e la cupa tristezza dei malati; in più, nel romanzo circola una forte tensione spirituale che pone La veranda tra i pochi romanzi religiosi del Novecento. Un altro romanzo pervaso di spiritualità, ma anche di rigore «laico », è Severina di Silone. Egli ha lasciato questo romanzo incompiuto e la moglie Darina, con l’aiuto di Pampaloni che ha scritto la prefazione, lo ha sottratto alla provvisorietà a cui sarebbe stato condannato per poterlo pubblicare. Il testo di Silone è così integrato e completato dalla storia della stesura del romanzo che coincide anche con la storia dell’ultimo periodo della sua vita. Ma al di là di questo apparato storico e filologico, resta la storia di Severina, una suora che per rimanere fedele alla purezza della propria vocazione giunge persino a rinunciare ai voti, senza tuttavia riuscire a placare 61
l’ansia che la pervade. Solo la speranza che le deriva dalla fede la sostiene nella drammatica scelta e anche dopo, quando dovrà affrontare la vita da laica. Il tema era molto impegnativo, ma sappiamo che per Silone la letteratura non è mai stata divertimento o evasione, né poteva diventarlo in un romanzo che, lo stesso Silone lo presentiva e lo dichiarava, sarebbe stato il suo ultimo. Dopo anni di politica attiva e culturale, Francesco Leonetti è tornato alla letteratura con un ro-
manzo che non poteva non riflettere questo duplice impegno. In Campo di battaglia coesistono le due anime di Leonetti: quella letteraria di Conoscenza per errore e L’incompleto, e quella politica di intervento attivo su giornali e riviste, che vicendevolmente cercano di sostenersi. Ma l’assunto impegnato — è la storia di una degenza in ospedale, dove l’ospedale diventa un luogo simbolico di lotta — spesso travalica l’intenzione; e nonostante egli ravvivi, grazie allo stile, la parte più propriamente narrativa, e impedisca a quella saggistica di trasformare la natura creativa del testo, sì sente che fra i due momenti manca qualche volta la necessaria saldatura. Quando un poeta pubblica un libro di prosa, si è sempre portati a vedervi trasposta la poesia e a considerarlo come un’evasione dal terreno suo proprio. Nel caso di Vittorio Sereni però il discorso è diverso. // sabato tedesco, benché risulti un testo a parte rispetto all’opera in versi, tuttavia non vi appare estraneo in quanto è proprio l’esperienza della prosa che ha avuto riflessi sulla poesia. Piuttosto stupisce la densità del racconto così come è strutturato oggi: la prima parte era già nota con il titolo L'opzione, e aveva suscitato a suo tempo parecchia curiosità perché ci immetteva nell’atmosfera, e non fra gli stand, della Fiera del Libro di Francoforte; un intermezzo poetico, La pietà ingiusta, fa da raccordo alla terza parte, quella nuova, // sabato tedesco, da cui il titolo del volume. Con l’industria editoriale e le sue manifestazioni, il rac-
conto di Sereni ha poco a che fare perché il vero tema del libro è tutt’altro: ancora una volta, è la rappresentazione di un disagio esistenziale e di una solitudine profonda che Sereni esterna non in maniera clamorosa e fittizia ma accorata e risentita. 62
Tra tutte queste opere di impianto romanzesco, e le altre di cui ancora parleremo, si inseriscono alcuni volumi di racconti. Alfredo Giuliani, recensendo l’ultimo libro di Antonio Porta, Se fosse tutto un tradimento, osserva che più nessuno
usa il termine «novella », a torto considerato «un genere minore, commerciale, intrattenimento per lettori facili facili » e
gli viene preferito il termine «racconto» ritenuto più prestigioso. Novella o racconto, è un genere che in Italia gode di dubbia fama e di una accoglienza inadeguata presso il pubblico. Si tratta di un fatto inspiegabile, poiché la nostra migliore tradizione è proprio nella narrazione breve, nel racconto e nella prosa, più che nel romanzo. È qui che si situano i risultati più significativi del Novecento, anche perché alcuni celebri romanzi, a volte, non sono altro che racconti artifi-
ciosamente allungati o una sequenza di racconti tenuti assieme da un filo ideale più che da una logica romanzesca. Nonostante ciò, si pubblicano sempre meno volumi di racconti e la tendenza è di considerarli sotto l’etichetta di opera minore o, comunque, marginale rispetto al complesso dell’opera maggiore rappresentata, ovviamente, dai romanzi. Ma la raccolta di Arpino, Un gran mare di gente, sembra fatta apposta per smentire queste considerazioni pessimistiche in quanto non risulta affatto minore né marginale. Il corpus dei racconti costituisce una conferma in più dell’autentica disposizione a narrare di Arpino e si integra con i romanzi. Anzi, poiché Un gran mare di gente copre un arco di molti anni e segue tutta la sua carriera, diciamo che completa l’immagine del narratore. Un’altra raccolta di racconti la propone Mario Rigoni Stern: Uomini, boschi e api. A differenza di Arpino, narratore dotato di maggior fondo, Rigoni è scrittore di taglio breve; da lui non ci sì deve aspettare il romanzo: anche /l sergente nella neve e Storia di Tonle non avevano cadenza romanzesca, ma da racconto lungo. E infatti è proprio nel racconto che Rigoni sa cogliere il valore naturale e poetico del suo mondo. Fiori, piante, animali, erbe, pietre sono racconta-
ti con il rigore del naturalista che si associa al poeta: nascono così dei racconti inconsueti nella nostra letteratura, che traggono da tale eccentricità, unitamente alla vena lirica, la loro caratteristica più originale. Ancora un bacio è il libro finora 63
RE
più maturo e riuscito di Antonio Debenedetti. Qui egli dimostra tutta la sua capacità di scavare in un tessuto famigliare e di far emergere figure che si stagliano impeccabili su uno sfondo pervaso da fremiti autobiografici. Una memoria ironica e persino irridente sostiene la sua prosa, che trova nel narrare breve la misura ideale. Ancora un bacio è una raccolta di racconti che fa blocco, grazie ai nessi e ai legami, allusi più che dichiarati, e affidati alla sensibilità del lettore.
Il discorso sulla stagione narrativa continua con la segnalazione di altri autori e altre opere che stanno a dimostrare come la crisi editoriale non abbia avuto conseguenze sulla produzione letteraria. Le impronte, un romanzo, come sempre quelli di Gino Montesanto, impegnato in una ricerca sulla realtà — quegli scorci sulle borgate romane — e in uno scandaglio nella propria storia che obbliga il protagonista a un impietoso esame di coscienza; / guardatori della luna di Tonino Guerra, libro indefinibile quanto a genere, poiché la narrazione, più che attenere a uno svolgimento logico, salta dalla vicenda di Marco e di sua moglie Natascia, costretta a stare in Russia, alla rappresentazione di una Mosca scoperta nella sua intimità più gelosa da un narratore che è anche poeta; Zu che le vanità di Rodolfo Celletti, un romanzo cen-
trato sulla rivalità di due prime donne della lirica, ma che va al di là della sua connotazione ambientale per toccare altri temi: dal mondo del bel canto si passa infatti a uno squarcio di vita italiana e i personaggi non sono stereotipi, ma prendono consistenza man mano che la narrazione si snoda libera da ogni vincolo alla tesi iniziale; /{ medico di famiglia di Mimi Zorzi, una galleria di ritratti della borghesia milanese attorno alla quale sì intrecciano storie umane che coprono un arco di tempo che va dagli anni della guerra a quelli della contestazione, ed è proprio nel °68 che matura la tragica fine del protagonista; Amore a quattro voci di Luigi Baccolo (di cui va ricordato anche il bel volume di prose e di saggi: // mormorio delle passioni nascenti), è incentrato su una vicenda che si svolge in provincia, giocata con allegria e con gusto ironico nel tratteggiare personaggi e situazioni che si riallacciano a Casanova, uno dei suoi autori preferiti; La contrada di Carlo Sgorlon, che viene ad arricchire l’affresco friulano 64 2. Gli anni Ottanta e la letteratura
che egli va componendo libro dopo libro: anche questo si collega ai precedenti perché viaggia sul doppio binario della realtà e del fantastico — la realtà della contrada in una Udine fin de siècle e il fantastico a cui i personaggi si abbandonano, chissà, forse per allegria naturale o per tristezza — ed è imperniato su un personaggio che fa ricorso alla sua vivacità nel vano tentativo di sconfiggere l’inevitabile decadenza. E ancora vanno ricordati altri titoli di scrittori che si muovono alla ricerca di una più compiuta definizione del loro lavoro, oppure che hanno giocato con decisione carte molto ambiziose come, per esempio, Giovanni Pascutto, L'amico Friz; Ugo Leonzio, // cielo e la terra; Giulio Del Tredici, Uno in meno; Ginevra Bompiani, Mondanità; Mario Biondi, La sera del giorno; Angelo Fiore, L’erede del beato; Barbara Alberti,
Donna dipiacere. Alberto Ongaro, Carlo Cristiano Delforno, Emilio Tadini, Piero Sanavio, Ottavio Cecchi, sono narratori molto di-
versi fra loro, ma che vengono accomunati in questo punto della rassegna per la resa dei loro libri. Ongaro è giunto con La taverna del doge Loredan al suo terzo romanzo, e ogni volta il suo lavoro si presenta con caratteristiche originali e singolari. Lo era Romanzo d’avventura di alcuni anni fa, lo è ancora di più La taverna, non tanto per ciò che Ongaro vi ha messo dentro a fermentare, quanto per la straordinaria vivacità della narrazione, sempre tesa come in un romanzo d’avventure e con tutti gli artifici del romanzesco, a partire da quello iniziale del manoscritto ritrovato, messi in atto con scaltrezza. Via Palamanlio di Delforno si muove sull’onda della memoria indiretta: il protagonista cerca in una immaginaria via torinese la casa dove sua madre ha abitato da giovane, e la memoria si rivela subito un pretesto per andare alla ricerca delle proprie radici e non per recuperare elegiacamente un passato. La via Palamanlio di Delforno diventa uno scenario su cui lo scrittore proietta la propria vena di narratore eccentrico, dotato allo stesso tempo di una squisita vena sentimentale e di una cattiveria che sfocia nel caricaturale e nel grottesco. Di Tadini i lettori che hanno pratica con la letteratura d’avanguardia ricorderanno L’armi l’amore, un libro degli anni Sessanta che si cita ancora con piacere. 65
Dello sperimentalismo di allora, soprattutto linguistico, in Opera è rimasto poco. Romanzo intellettuale, ma non romanzo di uno scrittore intellettualistico, Opera si distingue su due piani: quello della scrittura ruotante fra Céline e Gadda, per ammissione dello stesso Tadini, e quello dell’impianto che può far pensare a un giallo, mentre è un plot ben congegnato per dare risalto alla metafora che sottende tutto il libro. Il pittore ucciso e la conseguente ricerca dell’assassino condotta da un giornalista attraverso luoghi e personaggi del mondo artistico milanese, è solo la crosta del racconto, che è,
invece, tutto all’interno e nella raffigurazione metaforica della morte dell’arte. Romanzo ricco di suggestioni psicologiche e storiche è Caterina Cornaro in abito di cortigiana di Sanavio. La narrazione si articola nello scontro di due famiglie che ha per sfondo la campagna veneta e si protrae lungo un arco di tempo dal fascismo alla Resistenza e arriva fino ai nostri giorni. A questa attualità, fa riscontro un precedente che risale all'Ottocento e che sembra segnare sul piano del destino la storia della famiglia Bregadin. Ridotta così all’osso, la vicenda dice poco. In realtà, grazie alla capace articolazione con cui Sanavio ha saputo dosare i vari ingredienti — storia, feuilleton, lingua essenziale eppure in grado di creare suadenti suggestioni liriche — il romanzo emana un fascino singolare. Tutto spostato invece sul piano della rappresentazione metaforica, è Sopra i viaggio di un principe di Ottavio Cecchi. Il tema è scarno: dopo una terribile inondazione, un principe lascia le sue terre alluvionate e desolate; ma il racconto è arricchito di motivi ideali e filosofici: l’incertezza del futuro, la distruzione irrimediabile, l'impotenza dell’uomo che, solo, si illude di poter contrastare forze più grandi di lui. Nasce così una specie di conte philosophique, ricco di rimandi culturali e di problematiche ideologiche; al di là dei significati allusivi, però, resta la scrittura, fascinosa e poetica, che
media la pregnanza simbolica del racconto. Come situare scrittori dall’inventiva raffinata come Manganelli o estrosa come Malerba? Manganelli non finisce mai di stupirci. Con Centuria sembrava che avesse toccato un punto di non ritorno: la trovata di cento romanzi-fiume risolta nella misura di una pagina e mezza ciascuno, aveva in sé 66
qualcosa di straordinario e di irrepetibile. Eppure, con Amore, non ci esibisce solo un altro esempio della sua multiforme capacità di scrittura, ma tocca anche uno dei temi più controversi di oggi: l’amore. Naturalmente per Manganelli l’amore, come tema letterario, è speciale: nella sua pagina l’amore diventa una negazione continua di tutto ciò che la letteratura ci ammannisce come sentimento amoroso. Da questa negazione, l’amore si sviluppa e si trasforma in ampie volute per poi ritornare su se stesso, con una serie di invenzioni continue che poggiano su una eccezionale, forse unica, capacità di trattare la parola. All’amore di Manganelli fa riscontro il sogno di Malerba. Ma con una differenza sostanziale: laddove Manganelli risolve in scrittura il suo rapporto con la pagina, Malerba questa volta sembra voler negare proprio l’esercizio della scrittura. Diario di un sognatore sarebbe, secondo lui, la
pura trascrizione dei sogni fatti durante un anno. I sogni sono riportati nella loro essenzialità, senza interpretazioni, e l'operazione di .trascriverli non ha altro obiettivo che la resa fedele del ricordo di quanto è avvenuto nella notte. Almeno sin qui le intenzioni di Malerba. In realtà, Diario di un sognatore, che dovrebbe essere un campionario di oggettività descrittiva, si rivela, grazie alla scrittura, un concentrato con-
tinuo di invenzioni. E così, l'ennesima negazione del linguaggio letterario non fa altro che confermare le sue infinite possibilità. In una stagione quantitativamente ricca come la presente, non poteva mancare qualche novità proposta da scrittori nuovi o alla prima prova sul terreno della narrativa. Non dimentichiamo che il romanzo di Eco, secondo il rigore del genere, dovrebbe essere considerato come un’opera prima. Ma non sarebbe certo questo un modo corretto per introdurre il discorso sui romanzi di Augias, Ernesto Ferrero, De Carlo,
Fabrizia Ramondino e di altri che hanno conosciuto quest’anno il battesimo narrativo. Augias, più conosciuto come giornalista, approda al romanzo passando per la via del giallo, che conosce a menadito. Quel treno da Vienna sì presenta con tutte le credenziali che il genere esige: morto ammazzato, poliziotto severo e triste che indaga, caso più grosso di quanto si potesse pensare con complicazioni di spionaggio interna67
zionale; ma questi elementi rivelano ben presto la loro natura strumentale. Il fine vero che si propone Augias è altrove: nell’ambiente romano del primo decennio del secolo, nel protagonista, ex poliziotto sui generis, fratello del più celebre Sperelli dannunziano,
che risolve
il caso
decrittandolo
come
avrebbe fatto un «narratologo»; e, soprattutto, nello stile abilmente condotto sul piano della citazione nascosta, della mimesi, dell’allusione. Quel treno da Vienna è un romanzo a double face, dove il giallo è l’inappuntabile maggiordomo che annunzia l’ingresso della letteratura. Ferrero non è nome nuovo nel nostro panorama letterario: critico militante, autore di alcuni saggi, studioso di Gadda e traduttore di Céline, con Cervo bianco affronta ora anche il romanzo. Impiantato sulla figura di un simpatico indiano millantatore e impostore, il romanzo ha un ritmo che non conosce soste perché cambia continuamente di marcia grazie alle invenzioni che Ferrero introduce e che svariano dal grottesco alla satira, pur toccando punte di malinconica ironia. De Carlo si presenta invece con tutta l’aggressività di chi è all’esordio, ma ciò non significa che 7reno di panrnia sia un romanzo aggressivo. Semmai, è, all’opposto, trattenuto e calcolato. Racconta il soggiorno a Los Angeles di un giovane alla scoperta degli altri e di se stesso: l'America non è un pretesto descrittivo, anzi, più che un’esperienza è un modo di confrontarsi. Il romanzo è tutto in questo rapporto oggettivo che non lascia spazio alle divagazioni. La realtà è lì, ed è di questo che bisogna parlare. Altrettanto sorprendente per la sua realizzazione è Althénopis della Ramondino. La memoria di un’infanzia e di una adolescenza ricostruite con puntigliosa precisione, senza abbandoni all’evocazione, sostiene la prima parte.
A questa stagione favolosa di fatti e di personaggi fa seguito, nella seconda, un’età meno felice, dominata dal rapporto ‘della protagonista ormai adulta con la vecchia madre che è rappresentato senza sentimentalismi. Ciò che più colpisce in A/thénopis è l'impasto stilistico, ricco di allusioni metaforiche e di sapide descrizioni ambientali che allargano naturalmente l’orizzonte della vicenda e le prospettive dell’autrice. Leggendo questi romanzi viene quasi spontaneo di sottolineare la varietà tematica e stilistica. Per esempio, Dalle 68
memorie di un piccolo ipertrofico di Tommaso Ottonieri è un testo che rappresenta un estremo narrativo prossimo più alla poesia che al racconto. Il suo obiettivo non sembra essere quello di narrare, ma l’accumulo di parole; più che a una logica linguistica risponde a una rabbia distruttiva delle regole del linguaggio. Forse voler classificare il suo lavoro è deviante, perché al di là di tutte le classificazioni si intuisce una vena poetica che sarà forse il suo vero sbocco. Sempre in questa zona franca dei generi troviamo anche Gaia de Beaumont, che in Collezione privata ha raccolto alcuni racconti che si raccomandano per la vena aforistica e ironica che li contraddistingue. Il narrare qui si è fatto fluido, e ciò che sembrano cercare i giovani scrittori è forse più l’espressività allo stato puro che una costruzione. Un aforisma, appunto, può valere un racconto. Ma c’è anche chi cerca di affidare a un discorso più costruito le proprie ambizioni. E il caso di Futuro anteriore di Massimo Griffo, che ha stupito critici e lettori con il suo libro giocato sul piano del fantastico per rappresentare con maggior rigore una condizione umana e psicologica attuale. E continuiamo con Alain Elkann che ha ritratto nel Tuffo un personaggio con tutte le caratteristiche dell’uomo di successo, ma che è attanagliato da una crisi d’identità che si risolverà in un pesarte fallimento. Sofia Scandurra ci propone invece con Complesso di famiglia un romanzo che sì potrebbe dire femminista per via della volontà della protagonista di trovare una propria indipendenza interiore, ma ciò che conta di più è il disegno romanzesco che la Scandurra ha delineato, compatto e senza cadute. Così come è una sorpresa Zeta e le zie di Laura Lilli che possiamo leggere dopo che ha subito alcune disavventure editoriali. Romanzo degli anni Sessanta, non ha perso col tempo le sue caratteristiche, anche se si affida troppo al desiderio di documentare e di spiegare il senso di insoddisfazione di una giovane donna circondata dal conformismo. È proprio questa volontà di partecipare che finisce per prendere la mano e provocare complicazioni. Figuriamoci poi che cosa può capitare quando il racconto poggia su personaggi reali, facilmente riconoscibili: Estate di Elio Pecora si basa appunto sull’incrociarsi di molti celebri personaggi — da Moravia ad Arbasino, da Garboli a Siciliano, ri69
tratti nelle loro abitudini e con i loro tic durante un’estate romana. Per fortuna che accanto a questa descrizione c'è una storia — quella di Carlo e di un suo amico legati sentimentalmente — che annulla, almeno in parte, il senso di fatuità, anche stilistica, che circola nel libro. Che equivale a dire, a
conclusione della lunga rassegna, che dopo tanto sperimentare con contenuti e linguaggio si finisce per tornare sempre al problema di fondo. In fatto di romanzi, la «cattedrale » è ancora il rifugio più sicuro. Passando a esaminare l’area della poesia, vorrei cominciare segnalando due titoli — uno di un volume, l’altro di un articolo — che dovrebbero rendere bene l’attuale situazione poetica. Il volume è quello di Silvia Batisti e di Mariella Bettarini, Chi è i poeta?, che raccoglie le risposte a un questionario diffuso fra i poeti più significativi, senza distinzioni di scuola né limiti d’età. Ne viene fuori una specie di autoidentikit in cui ciascun poeta riferisce o si confessa, a seconda del grado di coinvolgimento, sullo stato della propria condizione intellettuale e umana. L'impressione, alla fine, è che la
situazione sia abbastanza sconfortante. E questo non per posa 0 per un atteggiamento decadente, ma perché l’esercizio della poesia in Italia è oggettivamente difficile. Anche se le letture pubbliche possono passare dall’happening di Castelporziano (la rivista « Autobus» ha riunito nel n. 3-4 una scelta di testi e dibattiti) alle sale dell’università, la condizio-
ne del poeta rimane sempre quella di chi opera e vive in un profondo distacco con la realtà che lo circonda. Di qui l’esigenza di un confronto dialettico. Ma il messaggio o il giudizio che il poeta esprime ha la possibilità di raggiungere i destinatari a cui è indirizzato e di diventare così attivo e operante? Ecco che di fronte alle carenze editoriali — per gli editori che pubblicano poesia il mercato è sempre in crisi —, il poeta sì spinge a cercare soluzioni alternative e suscettibili di intrigare: per esempio, celandosi dietro l’anonimato come avviene in Folia sine nomine, dovei curatori, Césare Ruffato e Luciano Troisio, hanno voluto puntare esclusivamente sul testo, cancellando l’autore; oppure non bada alla confezione pur di diffondere il proprio lavoro. Accanto ai volumi delle più celebrate collane, si accavallano volumetti di poche prete70
se, spesso ciclostilati, che fanno della loro veste dimessa un simbolo, se non un segno, di distinzione, esibito quasi con rabbia. Ed è per questa immensa produzione parcellizzata, difficile da seguire, che un giovane poeta e attento osservatore del fenomeno, Paolo Ruffilli, poteva intitolare un suo colonnino di giornale La poesia è un diluvio. Infatti, alla difficoltà di far accettare le sue credenziali, il poeta reagisce scatenando un «diluvio » di poesia per affermare il suo «stato civile», secondo la formula di Franco Fortini. Ma di tutto questo attivismo che cosa resta? A osservare oggettivamente quanto avviene — almeno stando alle iniziative reperibili, poiché la poesia soffre di un’endemica clandestinità —, non diremmo che il panorama sia molto incoraggiante. Tanta buona volontà, un gran desiderio di fare, un attivismo esasperato, caratterizzano il fluire continuo di libri, libretti, plaquettes, ciclostilati, che inonda la
privacy di chi si occupa di poesia. Ma non è che queste inondazioni siano feconde come quelle antiche del Nilo. Di poesia ne circola poca, ed è difficile prevedere se un terreno così concimato potrà dare in futuro floridi raccolti. I risultati che contano bisogna ancora andarli a cercare dove c’è silenzio e non clamore, ricerca e non polemica, operosa pazienza e non velleitarismo. E infatti, le ricerche che vengono condotte nei vari laboratori di poesia — tra i molti ricordiamo |’A/manacco dello Specchio, Prato pagano, Discorso diretto, il nuovo «giornale di poesia» di Roberto Roversi e Gianni Scalia: Le porte, la collana del Bagatto, le pubblicazioni della Società di Poesia e della rivista «Quinta generazione », il Bollettino del Laboratorio di poesia creato da Elio Pagliarani — confermano, con le inevitabili eccezioni, proprio questa tendenza. Per rendersene conto basta prendere l’antologia di Mario Lunetta, Poesia italiana oggi. Arriva dopo altre antologie — La parola innamorata, Il pubblico della poesia, Poesia e realtà, Nuovi poeti italiani, tutte variamente caratterizzate e tendenziose —, ma si presenta subito con il duplice obiettivo di tentare sia una prima sistemazione storica sia un inquadramento critico e problematico di quella che potremmo chiamare la poesia del dopo ’68. Questi obiettivi appaiono chiari non tanto dalla scelta — ampia perché deve rispondere al 71
criterio del panorama — o dalla suddivisione in quattro gruppi di tendenza — anch'essa indicativa e strumentale — quanto dal lavoro interno di sistemazione che Lunetta ha compiuto nella presentazione di ogni singolo poeta. È in questo senso che Poesia italiana oggi diventa qualcosa di più di una testimonianza o di un documento, ossia un contributo
che inquadra criticamente e in estensione l’attuale produzione poetica. La quale non è poi così confusa come risulterebbe dalle esagitate manifestazioni pubbliche ed editoriali, ma ha invece i suoi ragionamenti di poetica, che non si limitano a registrare intenzioni e tendenze, e di riflessione teorica, che si
spinge al confronto con altre esperienze. Si veda / percorsi della nuova poesia italiana, una raccolta di saggi curata da Cesare Viviani e Tomaso Kemeny, per prendere atto della fondatezza teorica e dell’ampiezza dell’orizzonte in cui spazia oggi la ricerca poetica. Dopo queste osservazioni di carattere generale, passiamo ai testi, e a segnalare, proprio in apertura, 1 libri di Kemeny e Viviani, ai quali aggiungiamo quello di Mario Baudino, giacché sono frai teorici dei Percorsi della nuova poesia italiana. In Qualità del tempo, Kemeny rivela la ricca dote culturale su cui può contare e che trasferisce nei versi con ironia e anche con un certa tendenza ludica. I numi tutelari sono molti, da Mallarmé a Foscolo, per. sua stessa ammissione, a Dylan Thomas; ma sarebbe fargli torto se restassimo invischiati in questa attribuzione di paternità e parentele, e non gli riconoscessimo invece la sua originalità. Viviani con L’amore delle parti si lascia alle spalle L’ostrabismo cara e Piumana che lo avevano indicato come uno dei più interessanti poeti nuovi. Dove la novità non era solo nell’aggettivo qualificativo, ma soprattutto nel linguaggio e nel gioco stilistico che si richiamava, sì, alla tradizione avanguardistica euro-
pea, però con connotati autonomi. Qui il discorso si è fatto meno eversivo e più disteso, pur senza perdere le sue caratteristiche. L'amore delle parti può essere letto come un canzoniere d’amore, è già stato detto, e quindi secondo una certa unità di costruzione; ma la ricchezza del libro non sta in questa presunta logica, bensì nel continuo frangersi delle immagini che, a sua volta, crea bagliori, luminescenze, scatti che ue:
conferiscono all’Amore delle parti un tono inconfondibile. Baudino, invece, è al suo primo libro e si indirizza con decisione verso altre direzioni. Egli non punta a un’operazione dissacratoria delle strutture e del linguaggio poetici, ma al recupero del tono, diciamo, narrativo, e della lirica, condizio-
ni entrambe neglette nella poesia d’oggi. Ebbene, Una regina tenera e stupenda si muove proprio in queste aree riproponendone, non in senso retrospettivo, la validità poetica. Continuando a esplorare il terreno dove alligna e prospera la nuova poesia italiana, troviamo molte altre esperienze in atto che meritano di essere segnalate, anche se non tutte appaiono convincenti allo stesso modo. Per esempio, a me pare che nella Battaglia di Marostica Sandro Gros-Pietro avrebbe dovuto controllare di più la sua vena espressionistica: il libro sarebbe stato forse meno dirompente ma certamente più rigoroso; che Franco Cavallo abbia attenuato nell’ Alfabeto dei numeri il peso immaginativo dei suoi versi con tutte quelle continue interruzioni operate da gratuiti e inutili grafismi; che la sicura vena di Mirella Benassi avrebbe avuto
esiti di maggior rilievo se in Meditar situazioni avvolgenti non si fosse persa in un eccesso di intellettualismo. Sono, queste, considerazioni determinate da ricognizioni effettuate tra una produzione vastissima, dove la scelta è oggettivamente difficile. Tuttavia i valori e le caratteristiche risaltano. La plaquette di Vassalli, La distanza, è degna di nota per il cambiamento di rotta che segnala. Sembra quasi che la poesia di Vassalli, dopo tanto sperimentalismo, abbia trovato un’andatura più pacata, senza troppi giochi pirotecnici, eppure sempre fantasiosa e ironica. Nel più totale «lasciatemi divertire» con le lingue si pone invece Giulia Niccolai. Non credo che nel panorama attuale si possa trovare un altro esempio di così lussureggiante pastiche alternato al nonsense come nell’Harry's bar e altre poesie; ma con l’avvertenza di non dimenticare che spesso il divertimento è soltanto una maschera. Tutto ciò appare evidente in 7eresino di Viviane Lamarque, un libro inconsueto per la grazia apparente, la musicalità scandita dei versi, ma anche per la graffiante determinazione di rendere stati d’animo, incertezze, alienazione, se possiamo ancora usare questo termine. Documento di 73
una sperimentazione in cui la ricerca linguistica è sostenuta da una continua mediazione culturale che dà vita a una poesia, e agli equivalenti in prosa, tesa, frammentata, che nega ogni approccio lirico è B:fido trilingue di Brandolino Brandolini d'Adda. I risultati più recenti della poesia di Gilberto Finzi riuniti in 7re formule di desiderio, presentano alcuni esempi di singolare efficacia: pensiamo al gruppo di poesie originate da letture di altri testi e che non sollecitano una poesia sulla letteratura, bensì un confronto-scontro sul modo d’essere intellettuale e scrittore oggi, rispetto a una realtà sempre più coattiva. La presenza dell’attualità, rappresentata in chiave critica, e con l’intellettuale a far da accompagnatore, che s'incontra sempre più di frequente nei libri di poesia, sta forse diventando una tematica degli anni Ottanta. Anche il libro di Giorgio Manacorda, L’esecutore, è per molti versi legato al clima e all’attualità culturale; solo che qui il dettato è meno metafisico e più diretto. Inoltre, diciamo che nella poesia di Manacorda circola una vena di distaccata e, allo stesso tempo, risentita ironia che imprime al discorso un timbro aggressivo, al limite dell’invettiva. Agli esempi già citati, altri se ne possono aggiungere. Troisio con Precario conferma la tendenza e l’importanza dell’indirizzo, anche se non trova conferma nell’altro suo li-
bro Venticinque vettori, più arrischiato linguisticamente ma meno persuasivo. E poi, Intorno a quelle macerie di Felice Piemontese, un testo che vive di frammenti tra poesia e prosa, ma non sono poèmes en prose, tra riflessioni e sogni che mettono in discussione il ruolo dell’intellettuale e lo sottopongono a una revisione ironica e impietosa; il corrispettivo critico, che completa il lavoro di Piemontese, lo si trova nel volume di saggi Dopo l'avanguardia. Sempre su questo tema troviamo anche Giovanni Occhipinti e Bortolo Pento. Entrambi usano il linguaggio con finalità realistiche — e nel libro di Pento, Sinossi, abbiamo anche soluzioni grafiche che tendono a mettere in evidenza il carattere di un discorso che ha nell’impegno uno dei suoi elementi basilari. Pure Occhipinti si muove con Agl’inferi. All’averno sulla stessa linea, ma egli affida a un linguaggio più estroverso, al limite anche più retorico, il proprio difficile rapporto di poeta con la realtà. 74
Ma l’impegno del poeta non si estrinseca soltanto in questa manifestazione critica in cui coinvolge, e ne è a sua volta coinvolto in prima persona, il proprio «stato civile». Vi sono spinte, solo apparentemente esogene a questo tema, che portano il poeta a scrutare il reale con altri occhi e a rappresentarlo in maniera diversa. È il caso di Giorgio Barberi Squarotti che ha sempre infuso nella sua poesia una forte tensione che si esplica sul piano dei contenuti e si realizza su quello formale, come conferma anche la sua ultima raccolta 7! mari-
naio del Mar Nero e altre poesie. Poeta appartato e schivo, Federico Hindermann non rientra negli schemi abituali della nostra casistica poetica, eppure Docile contro — che segue Quanto silenzio — è notevole proprio per il modo come la sua materia: la vita della natura e il paesaggio, si trasfonde nella poesia in maniera simbolica e non impressionistica. Altro poeta al di fuori della nostra norma poetica è Roberto Sanesi, e Recitazione obbligata lo rivela senza infingimenti. Colta, ricca di suggestioni culturali, che procede quasi analiticamente nella costruzione di un mondo, la poesia di Sanesi ha pochi riscontri da noi, anche se sarebbe ingiusto considerarla soltanto per questo suo carattere straniero. In Aueto paradiso di Lucia Bertinato la memoria ha un ruolo ben definito, ma qui la poesia sembra pervasa quasi da rabbia, che nasca e sia stimolata a esprimersi per colpire; così le poesie non hanno cadenze lunghe, ma versi che martellano e incidono la loro acre presenza. Spostata su un piano spirituale, ma con implicazioni che toccano il quotidiano farsi e disfarsi della vita, è la poesia di Maria Letizia Cravetto. // libro di Sara riprende motivi biblici, ma li svolge sul piano dell’attualità e con uno schema che spesso esorbita nel recitativo e nell’azione drammatica. Dichiaratamente teatrale, e non soltanto per la destinazione radiofonica, E autunno, Signora, e ti scrivo
da Mosca di Grytzko Mascioni ripropone, con Cleopatra e una notte, uno scrittore che non rimane chiuso in formule e
generi, ma che trova nella forma poetica più estesa, sfociante anche nel teatro, la misura ideale per la sua vena rappresentativa. Aperta sul racconto, con passaggi dalla memoria di un privato doloroso alla testimonianza generazionale nella lotta antifascista, Sopra è la terra di Corrado De Vita stupisce, da 715)
un lato, per la sua complessità e varietà formale e, dall’altro, per l’insistita alternanza di motivi, diciamo pubblici e privati, che sembrano rispondere più a un’urgenza di dire che a un disegno razionalmente concepito. Più calcolato, persino freddo, è Il tempo e l’ora di Cesare Milanese, dove si sente il peso di tutt'altra formazione e disposizione. Innanzi tutto Milanese è anche autore di teatro, e ciò favorisce un discorso
tecnicamente più lineare, dove le immagini si alternano senza pausa, quasi in maniera vorticosa, come fossero personaggi che entrano ed escono dalla scena, e il ritmo è scandito da un accumulo di materiali linguistici. L’insieme di questi libri che emerge dal diluvio — ma anche altri avrebbero potuto essere presi in considerazione e rientrare tra quelli che per un verso o per l’altro ci sono parsi significativi dell’attuale momento — può dare un’idea di come la poesia stia vivendo, certo più della narrativa, un processo evolutivo. Poiché non deve far fronte a esigenze quantitative di mercato, la sua ricerca può muoversi con maggiore libertà. Inoltre, per la poesia vale la regola che la comunicazione avviene fra elementi omogenei, secondo una tesi avanzata da Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli nel Pubblico della poesia. Infatti la poesia può contare su un pubblico non indifferenziato, ma che ha alla base i potenziali poeti e gli addetti ai lavori. In una condizione così particolare, il problema rimane sempre quello di non confinare la poesia in un ghetto, fosse pure un'isola felice, altrimenti la condizione di libertà in cui essa agisce si esaurirà, o potrà risultare fittizia e provocare un’asfissia che vanificherebbe qualunque ricerca. Passiamo allora a chi ha già superato questo limite e ai risultati ormai acquisiti che, durante l’anno, sono stati di rilievo. Pensiamo ad alcuni libri che portano contributi nuovi al lavoro di Giovanni Giudici, Maria Luisa Spaziani, Giuliano Gramigna, Amelia Rosselli, Luigi Compagnone; che segnano quasi un ritorno di Cesare Vivaldi alle sue origini in quell’area dialettale dove troviamo anche la voce ormai inconfondibile di Franco Loi e quella classica di Biagio Marin; e poi le raccolte ultime di Carlo Betocchi, le poesie disperse di Sandro Penna, per concludere con l’edizione critica del Canzoniere 1921 di Umberto Saba e dell’Opera in versi di Eugenio Montale. 76
Il ristorante dei morti è, forse, il libro più compiuto e nuovo che Giudici ha pubblicato sinora. Sappiamo qual è il suo posto nella poesia d’oggi, ma questa volta riteniamo che ci sia qualcosa in più: oltre a passaggi che appartengono al poeta che già conosciamo e che ci offrono una gamma delle sue possibilità espressive, abbiamo uno sviluppo nuovo in una direzione che Giudici ha sempre perseguito, ma non in una forma così determinata. Alludiamo alla componente diaristica, nella quale il poeta diventa testimone e protagonista allo stesso tempo di un discorso che affonda nella contrastata realtà e rifiuta ogni poetica consolazione evasiva. In una posizione analoga troviamo anche Compagnone: nel suo libro La giovinezza reale e l’irreale maturità sembra esserci una sorta di strana facilità: tutto sembra semplice lungo queste composizioni, eppure il lavoro di Compagnone sul verso è tutt'altro che riduttivo, il suo stile è libero, non soggiace a schemi. Da questa condizione nasce la carica coinvolgente di questo libro inconsueto nel nostro panorama poetico. Geometria del disordine di Maria Luisa Spaziani è un altro di quei testi che risultano essere qualcosa di più di un punto fermo nell’insieme di un’opera: ci segnala che è andata rinnovandosi nel tempo, pur rimanendo fedele alla propria immagine. Per questo ogni libre della Spaziani è l’arricchimento ulteriore di un discorso in divenire. Esperimenti più arrischiati sono quelli di Gramigna e di Amelia Rosselli. Gramigna continua con Es-0-Es a percorrere la strada che da tempo ha imboccato e senza conoscere battute d’arresto; il suo è un lun-
go e ininterrotto viaggio attraverso le occasioni che gli offre una cultura vissuta in prima persona e dalla quale trae la materia per i suoi referti immaginosi, ironici, sempre ricchi
di riferimenti e di continue invenzioni. La poesia della Rosselli ha un ricchissimo fondale linguistico come dimostrano I primi scritti. Questo fondale è stato il serbatoio a cui la Rosselli ha attinto per i suoi libri, anche per il recente Impromptu, un lungo poemetto continuamente variato di tono, con i versi che sembrano aggredire, mentre in realtà sono lo schermo su cui si rifrangono una sofferenza cosmica e un male indefinibile che solo la poesia riesce a esprimere. Documento di una vita dedicata alla poesia è Esercizi di Giovanna DI,
Bemporad. Esercizi di poesia, ma soprattutto esercizi di traduzione per cui la Bemporad è nota. Ma qui il discorso è unico, nel senso che il costante impegno del confronto a cui la traduzione obbliga si è poi travasato nella poesia in proprio e viceversa, fondendosi in un intenso diario poetico che si distingue anche per il controllato esercizio di stile. Una proposta interessante è quella di Vincenzo Cerami che in Addio Lenin tenta una poesia di tipo narrativo, quasi un romanzo in versi che, se è difficile da definire proprio per la sua strutturazione, tuttavia riflette una posizione che si distingue nel panorama complessivo. La poesia di Cerami risente della narrativa e viceversa: un impasto poetico regge la prosa del suo nuovo
romanzo
Tutti cattivi, mentre
in Addio
Lenin
l’ambizione al racconto interviene a determinare l'andamento delle sette parti su cui si articola il volume con esiti interessanti, ma a volte anche contraddittori.
Dopo lo spazio e la dignità a cui è stata elevata da Pier Vincenzo Mengaldo nella sua controversa antologia, la poesia dialettale ha occupato sempre più spazio nell’area della poesia contemporanea. Quest'anno è la volta di Vivaldi che è tornato, dopo un lungo silenzio, con un volume di versi in dialetto ligure: Poesie liguri. Vecchie e nuove. Per Vivaldi si tratta quasi di un ritorno alle origini, poiché i suoi esordì risalgono a un’epoca in cui si pensava che il dialetto dovesse rispondere più realisticamente all’urgenza di dire in versi; 0ggi, il dialetto non ha più questa funzione di resa del reale e ha fugato definitivamente ogni suggestione impressionistica: è assurto a lingua, e della lingua ha gli stessi problemi, dato che i risultati sì situano nello stesso ambito stilistico, quando naturalmente possono situarvisi come nel caso delle raccolte di Guerra, /{ miele, di Loi, L’aria e L’angel. La presenza di Guerra nell’ambito dialettale è ormai acquisita dopo / du prefati da Gianfranco Contini e // miele ne è una ulteriore conferma. Il caso di Loi è diverso: l’impatto con la sua poesia, infatti è duro proprio per il dialetto, ma poi quel «riconoscimento » di cui parlava Fortini a proposito di Stròlegh, prende il sopravvento poiché è l'andamento della poesia a imporre questa adesione. Come sarebbe possibile sottrarsi al ritmo di questi versi, alla loro immediatezza e alla musicalità 78
naturale? E come con Marin, di cui si pubblica ora una scelta di tutti i suoi versi, Poesie, curata da Elda Serra e Claudio
Magris, che da tempo ha elevato a lingua il dialetto di Grado. Ma l’incontro con la poesia non sarebbe stato così automatico se egli non avesse avuto il «dono» di agire sul materiale linguistico che si era scelto. L’antologia, che ripercorre tutto l’arco della sua poesia, conferma questo stato felice del poeta e mette in risalto il progressivo aumento dell’ intensità poetica con il passare degli anni. Un poeta come Marin fa da ponte al discorso che riguarda altri poeti novecenteschi. Pensiamo soprattutto a Betocchi, anch'egli in un’operosa vecchiaia come Marin. Le poesie del sabato e Il sale del canto sono due volumi che toccano momenti distanti nel tempo, ma che sono contrassegnati da una identica disposizione poetica. Se la continuità di Betocchi è certa, tuttavia bisogna mettere in risalto come quest’ultima stagione, quella della vecchiaia, non sia ripetitiva, neppure in maniera dignitosa, ma ricca di autentica novità inventiva. E poi a Giorgio Caproni, di cui abbiamo L'ultimo borgo, una scelta curata da Giovanni Raboni che ci permette di ripercorrere tutto il cammino percorso da questo poeta all’insegna di una coerenza stilistica che lo ha portato ai risultati di oggi; a Penna, la cui opera si completa con la raccolta Confuso sogno curata da Pecora, dove compaiono 1 testi ancora dispersi che arricchiscono il suo canzoniere; a Alessandro Parronchi,
poeta che affida con discrezione la sua poesia a pubblicazioni con scadenze decennali. Infatti a dieci anni dalla Pietà dell’atmosfera, ecco Replay, una raccolta che ci pone di fronte a una riflessione e a un colloquio con la morte. L’idea della morte percorre tutto il libro, ma l’atteggiamento del poeta è all’insegna di un virile confronto: la morte è l’occasione per celebrare la vita, per fare esami di coscienza che determinano un dettato poetico teso e risentito che si accentua ancor di più nella sezione « Un'estate a pezzi ». Ma il panorama attuale della poesia ha avuto quest'anno alcuni contributi testuali e critici di grande importanza: facciamo riferimento all'Opera in versi di Montale curata da Rosanna Bettarini e da Contini, che ripercorre tutte le tappe, con le varianti relative, dell’intero corpus montaliano, illu79
strandoci il lavorio interno e segreto di un’opera che pareva invece fissa e immobile. L'Opera in versi ci rivela quanto fosse travagliato il lavoro di laboratorio di Montale. Va ricordato anche il volume Altri versi per le cinque poesie disperse che arricchiscono l’insieme montaliano e i Mottettt commentati da Isella; per la bibliografia critica vanno segnalati i due volumi di Ettore Bonora: Lettura di Montale. 1. Ossi di seppia e Le metafore del vero. Saggi sulle « occasioni »di Eugenio Montale, testimonianze derivate dalla lunga e appassionata frequentazione della poesia montaliana che Bonora ha coltivato in tanti anni di studio. Un’altra meritoria edizione critica è quella del Canzoniere 1921 di Umberto Saba curata da Giordano Castellani. Si sapeva quanto fosse raro // canzoniere del 1921 e che compare nell’edizione complessiva del Canzoniere in una redazione ridotta e con molte varianti. Castellani ha ricostruito la storia di questo testo che ci restituisce nella sua integrità il lavoro del poeta triestino in uno dei periodi di maggiore intensità. Anche per Saba vanno ricordate altre iniziative che contribuiscono a rendere più accessibile l’intera sua opera: Con 1 miei occhi — il precedente da cui è nato il suo libro più celebre, 7rieste e una donna — è commentato dà Claudio Milanini, mentre Mario Lavagetto, che già aveva pubblicato una interpretazione in chiave psicanalitica della poesia sabiana, ha curato un Per conoscere Saba. Ancora un passo indietro nel tempo e siamo alle origini del Novecento, dove allignano alcune radici inestricabili della poesia contemporanea come Pascoli e Gozzano. Giustamente ricordava Manganelli, parlando dei vari testi pascoliani apparsi quest'anno con commenti e note critiche, che «su Pascoli è un perenne zirlare e sufolare e chioccolar di critica ». In attesa che appaia l’edizione che Cesare Garboli sta preparando, la critica ci ha dato una edizione delle Myricae introdotta da Mengaldo, il quale si addentra nei luoghi oscuri della creazione pascoliana e li decifra con filologia e interpretazione, e annotata doviziosamente da Franco Melotti; una
larga, eppure selettiva, antologia commentata della poesia pascoliana è stata curata da Maurizio Perugi. Il lavoro di Perugi ha avuto consensi e sollevato critiche sia per la scelta, che ha escluso alcune delle più celebri poesie pascoliane co80
me, per esempio, L’aquilone, sia per il commento impostato
sulla base degli studi danteschi di Pascoli: ne viene fuori una figura di poeta che nega quella corrente che lo vuole semplice, se non semplicistico, con problemi di stile ancora irrisolti,
ma che si vanno arricchendo di interpretazioni nuove. Perugi, utilizzando, a volte in maniera anche capziosa, il Dante
pascoliano, ha messo insieme un’antologia che è una sorta di Pascoli par lui-méme con alcune zone d’ombra. Un’antologia diversa, più tradizionale, se vogliamo, ma non priva di suggestioni, come quella di Pascoli poeta «disadattato» che sa cogliere del suo tempo il dramma e tradurlo in poesia, è invece quella curata da Piero Treves. L'altro poeta che finalmente ha un’edizione critica è Gozzano. L'ha preparata Andrea Rocca con ineccepibile cura testuale e filologica che rende giustizia a un poeta spesso travisato o, comunque, utilizzato pro domo di chi se ne serviva. Anche per Gozzano è valsa la connotazione, attraverso l’etichetta crepuscolare, del semplicistico e della formula. Rocca da un lato, Marziano Guglielminetti nella « Introduzione» dall’altro, smentiscono questa chiave di lettura che, più che riduttiva, è inesatta, e proprio
questa edizione offre l'occasione per verificarlo. Va ricordata poi la pubblicazione di Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India curata da Nico Orengo, che aggiunge uno stimolo in più ad accostarsi a Gozzano senza preconcetti. Le introduzioni,
i commenti, le note filologiche che ac-
compagnano le edizioni critiche di cui abbiamo appena parlato, ci introducono nell’ambito della critica e della saggistica che è, come sempre, molto ricco e dove troviamo in abbondanza contributi particolari, raccolte di articoli, mentre si sono diradati i libri memorabili. E, questo, un momento in cui
la critica non offre un quadro vivo e ricco di fermenti: i grandi dibattiti, le riflessioni di metodo, gli esercizi di lettura sembrano aver ceduto il campo a testi di carattere più testimoniale e che rientrano nella saggistica vera e propria come, per esempio, Voce dietro la scena di Mario Praz, La ricerca delle radici di Primo Levi, Lo specchio doppio che raccoglie l’epistolario fra Bernard Berenson e Clotilde Marghieri, Pagine ticinesi di Gianfranco Contini riunite da Renata Broggini, Trans-Pacific Express di Arbasino, Trent'anni con Ce817
sare Pavese di Pampaloni; oppure che associano all’esercizio critico un taglio stilistico di prosa o di racconto come nel caso del Pirandello o la stanza della tortura di Giovanni Macchia e della Vita breve di Katherine Mansfield di Pietro Citati. E, nell’insieme, un blocco cospicuo di testi che, al di là di ogni
altra considerazione, ripropone la validità e l’attualità sempre maggiore della presenza del critico-scrittore. Se poi vi aggiungiamo, sconfinando nella critica d’arte e nella storia dell’arte, la Breve ma veridica storia della pittura italiana di Roberto Longhi, il Disegno della pittura italiana di Cesare Brandi, Dal barocco all’informale di Piero Bigongiari, il quadro di questa tendenza critica non si arricchisce solo quantitativamente, ma anche in senso interdisciplinare e problematico. Seguendo una sua precisa idea di libro, Praz ha scelto dalla sua vastissima opera quei pezzi che più rispondevano a una esigenza autobiografica e li ha ordinati non in senso storico, bensì seguendo le linee del gusto che ha sempre contraddistinto i suoi interessi e la sua attività. Libro nato dai tanti altri libri che ha scritto, Voce dietro la scena è una « antologia personale » su? generis, nel senso che non consegna al lettore il «meglio» di un'intera opera, ma rivela in un solo libro l’immagine poliedrica e sfaccettata di uno studioso, e di uno scrittore, qual è Praz. Primo Levi invece la sua antologia personale l’ha costruita scegliendo tra le letture che più hanno contato nella sua vita. E si scoprirà che tra le «radici» più forti della lettura, ossia alcuni brani scelti, e 1’« albero » della scrittura vi sono delle dissonanze, insomma, che il Levi letto-
re non coincide con il Levi scrittore. Ma è lo stesso Levi a chiarire il senso di questa differenza quando afferma: « questa antologia rispecchia quanto ho assorbito dal mondo della carta stampata e non dal mondo tout court». Più che valutare questa o quella influenza di lettura, questa o quell’assenza fra gli scrittori, cè da tener presente l’importanza che ha avuto il «mondo tout court» nella sua esperienza letteraria, un'esperienza che di libri si è nutrita ma che non è mai diventata libresca perché la vita ha sempre avuto il sopravvento. Di tutt'altro stampo e natura, l’epistolario di Berenson e della Marghieri si rivela anche una spia per capire l’atteg82
giamento della borghesia italiana rispetto al fascismo. Mettere l’accento sull’aspetto testimoniale e documentario di queste lettere non significa svilire il rapporto amoroso e amicale che ha legato il già anziano critico d’arte alla giovane scrittrice: il loro legame traspare in tutta la sua intensità e nelle varie sfumature, però è l’atmosfera pubblica e privata a cui queste pagine rimandano, e di cui sono specchio fedele, che assume importanza e che, almeno, per noi, conta di più. Anche le Pagine ticinesi di Contini hanno un valore testimoniale che va al di là del puro contributo critico. Vi troviamo raccolti alcuni scritti celebri — come la famosa recensione a Poesie a Casarsa di Pier Paolo Pasolini —, ma è il loro taglio impegnato sia sul fronte letterario, per dare conto di ciò che, nonostante tutto, si faceva in Italia negli anni di guerra, sia sul piano etico e civile, per ribadire-la ferma opposizione al fascismo, che risalta con maggiore evidenza. Con ciò non si vuol dire che il critico e lo scrittore rinunci alla letteratura per darsi alla politica; anzi, è proprio la letteratura che offre all’esule Contini il tramite per partecipare, sia pure da lontano e da scrittore, alla tormentata vita italiana di quegli anni. Della maniera d’essere oggi intellettuale e scrittore Arbasino ha un'idea sua e ne dà ‘una interpretazione particolare: da anni ormai non pubblica più romanzi, né racconti e poesie (il che non vuol dire che non ne scriva), ma molti interventi
di attualità, di costume, critiche, di preferenza più a spettacoli che a libri, resoconti di viaggi in Italia e all’estero da cui poi nascono libri come Un paese senza e ora Trans-Pacific Express. La maniera di viaggiare di Arbasino è tutta all’opposto della canonica geografia sentimental-intellettuale del viaggiatore letterario. Non che egli trascuri paesaggi e ambienti, tutt'altro; ma i monumenti appartengono alla storia e non all’Immaginario come invece possono appartenervi un momento di vita colto in una strada, o un fatto improvviso che colpisce, recuperati nella loro immediatezza e nel loro significato. Perciò nella pagina del viaggiatore Arbasino sì sentirà circolare piuttosto il formicolio della vita che incontrare impressionistiche descrizioni di paesaggi. Finora Pampaloni era forse il solo critico militante che non avesse mai raccolto in volume una scelta dei suoi innumerevoli articoli. La ragio83
ne? Parlandone una volta con un amico, sostenne che i libri
vanno scritti dall’inizio alla fine e non mettendo assieme cose già pubblicate. Presentando ora Trent'anni con Cesare Pavese. Diario contro diario in cui ha raccolto i suoi scritti pavesiani, egli non è venuto meno a quell’antico principio poiché il volume ha una sua unità tematica e di scrittura che si è venuta formando nel tempo, ed è, nello stesso tempo, un esem-_ pio di come egli intenda l’esercizio della critica: più che da giudice — di cui i critici spesso e burbanzosamente indossano la toga —, Pampaloni preferisce assumere la posizione del testimone, suggerendo un modo di leggere i libri e di scriverne che entra nell’ambito di un rapporto amicale che coinvolge lo scrittore studiato e il critico. A questo punto, possiamo associare nel discorso i libri di Macchia e di Citati in quanto rientrano fra i testi di quella categoria di critici-scrittori di cui si è a lungo parlato. Più tecnico e criticamente approfondito il Pirandello di Macchia, più raccontata la Mansfield di Citati, sono molto diversi l’uno dall’altro, ma accostabili per l’analoga disposizione che i loro autori dimostrano verso la scrittura. Macchia dimostra di conoscere l’opera di Pirandello con la precisione puntigliosa di un analista, ma è da critico che ne discute ricordando varianti importanti, reperendo episodi significativi, attuando accostamenti interdisciplinari, costruendo infine la grande metafora della stanza della tortura. Con Macchia, però, le conquiste del critico non restano enunciazioni di metodo o di lettura, perché al critico sì associa sempre lo scrittore che sa modellare la pagina con cadenze e ritmi stilistici da prosa narrativa. Citati, avvalendosi della capacità mimetica della sua scrittura, ha ricostruito un ritratto della Mansfield che ci ripropone la vita «breve» di questa scrittrice dotatissima e dall’esistenza così sfortunata. Della Mansfield sappiamo molte cose per via diretta attraverso le lettere, i diari, gli appunti; ma Citati insiste soprattutto sul suo carattere, che lo spinge a lavorare di scavo psicologico; e così il libro prende caratteristiche diverse e dalla biografia, sia pure critica, e dal saggio. Vita breve di Katherine Mansfield è infatti un vero racconto, con un personaggio eccezionale a far da protagonista e un clima nervoso, e, nel contempo, suadente sullo sfondo, dove l’intenzione critica 84
non viene annullata, ma si amalgama al ritmo inconfondibile della prosa di Citati. Da questa esposizione sembra venir confermata l’ipotesi avanzata con un punto di domanda da Pedullà: che il piacere della lettura oggi lo danno i saggisti. Indubbiamente la critica ci ha fatto vivere negli anni scorsi alcuni dei momenti letterari più vivaci; e anche attualmente offre ancora, come ab-
biamo visto, qualche saggio dell’antico splendore. Ma se conosce più di rado gli onori che toccano al protagonista, tuttavia essa dà nel suo insieme un contributo rilevante al discorso letterario attuale per la varietà dei temi che affronta e delle prospettive di giudizio che apre. Un libro di critica oggi non viene letto soltanto per necessità o imposizione accademica, ma anche perché offre al lettore elementi conoscitivi più ampi, e dal tema circoscritto dell’analisi spesso il discorso si allarga a questioni di fondo. L'ampliamento della visione conoscitiva della critica è evidente proprio in quei libri dal carattere cosiddetto accademico. Tra i molti usciti, pensiamo soprattutto a Dante a un nuovo crocevia di Maria Corti; agli studi sull’Alfieri di Vittore Branca, Alfieri e la ricerca dello stile, e di Walter Binni, Saggi alfieriani — e ancora di Binni alla riproposta di Monti poeta del consenso —; e per concludere, senza naturalmente avere la pretesa di aver esaurito un argomento così vasto, // linguaggio del moto. Storia esemplare di una generazione di Maria Carla Papini che studia la problematica esistenziale nell'opera di Vittorini, Landolfi,
Gianna Manzini, Gatto, Bigongiari e Luzi. E accanto a questi esercizi di lettura che ci provengono dall’università, abbiamo altri contributi non accademici, di carattere, diciamo, mi-
litante, che toccano e dibattono problemi di storia e di attualità culturale. Anche in questo caso indichiamo, tra i molti, quei libri che ci è sembrato possano risultare significativi: Pari siamo! Io la lingua, egli ha il pugnale. Storia del melodramma ottocentesco attraverso 1 suoi libretti di Folco Portinari, Intellettuali Mass media Società di Enzo Golino, Par-
tenze eroiche di Franco Cordelli, Viaggio al termine della parola di Renato Barilli, Letteratura e ideologia dell’ermetismo di Franco Di Carlo; e, in chiusura, ricordiamo L'’arcan-
gelo del terrore di Giuseppe Raimondi, raccolta di articoli di 85
un saggista della generazione della « Ronda » che, grazie allo stile, è ancora di attualità.
Abbiamo già detto della scarsità di dibattiti culturali. In fondo, uno solo ha animato per breve tempo le discussioni ed è stato originato dal volume /ntellettuali e potere curato da Corrado Vivanti nell’ambito della Storia d’Italia edita dall’Einaudi. In particolare ha sollevato reazioni tra gli interessati e gli addetti ai lavori il contributo di Alberto Asor Rosa: Il giornalista: appunti sulla fisiologia di un mestiere. Ma al di là di una discussione che, in certi casi, ha dato l’impressione di essere un po’ corporativa — con l’eccezione del provocatorio intervento di Magris e Perlini sul « Corriere della Sera» —, il volume ha avuto il merito di porre il problema del rapporto fra intellettuali e potere in una prospettiva più ampia dal punto di vista storico e critico come appunto il tema richiede. Soprattutto perché in Italia è stato sempre affrontato marginalmente, e con ‘un occhio troppo letterario e poco intellettuale, come già Gramsci
lamentava, che non è mai
riuscito ad affondare l’analisi nel vivo delle strutture del potere culturale. In questo senso, tra i contributi più rilevanti di Intellettuali e potere segnaliamo quello di Perini su Edtore e potere in Italia dalla fine del secolo XV all’Unità; e vi aggiungiamo // fascismo e il consenso degli intellettuali di Gabriele Turi, analisi di tre iniziative editoriali sviluppatesi durante il fascismo: l’Enciclopedia Italiana, e le case editrici Formiggini, legata alla personalità del suo fondatore, ed Einaudi, specchio invece di un lavoro di gruppo; Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione di Marino Berengo che ci offre un quadro del formarsi dell’industria editoriale nella Milano del primo Ottocento, alla quale ha dato un apporto decisivo proprio la presenza e l’attività di intellettuali e scrittori. All’incontro fra un intellettuale, Benedetto Croce, e un
tipografo, Giuseppe Laterza, si deve anche in questo secolo la nascita e lo sviluppo della casa editrice Laterza. Croce vi ha portato un contributo decisivo, ma non è da tenere a parte quello di Giovanni Gentile che agli inizi della « Critica» e delle varie collane laterziane di classici della letteratura e della filosofia è il suo sodale. Le lettere che Croce gli ha indi86
rizzato dal 1896 al 1924, cioè fino alla fine della loro amici-
zia, sono state ora pubblicate e, aggiunte a quelle che Gentile a sua volta ha scritto a Croce (in corso di pubblicazione presso Sansoni), formano uno degli epistolari fondamentali della
cultura italiana contemporanea. L’amicizia Croce-Gentile si ruppe e le loro strade presero direzioni opposte, ma l’importanza di quel sodalizio culturale resta a segnare i primi anni del Novecento. Anni che, pur in mezzo a molta confusione,
appaiono ancora ricchi di fermenti, specie oggi che molte testimonianze vengono alla luce: ricordiamo le Lettere a Soffici di Ungaretti, curate da Leone Piccioni e Silvia Montefoschi; il centenario della nascita di Giovanni Papini che ha offerto l’occasione per riparlare del ruolo che egli ha avuto in quel periodo; e così pure i cent'anni compiuti da Giuseppe Prezzolini che, imperterrito, continua con lucidità e rigore a essere fedele al suo personaggio con una febbrile attività giornalistica e con il Diario che viene pubblicando. Diversa è stata l’esperienza, e anche la fortuna, di Italo Svevo. In vita egli non conobbe certo la considerazione di cui godettero Papini e Prezzolini, anzi; ma in seguito, mentre la critica impietosamente cominciò a discutere, e anche a stroncare, l’attività e
l’opera di Papini e Prezzolini, la fortuna di Svevo è andata invece vieppiù aumentando. Quasi ogni anno abbiamo contributi nuovi che vanno ad arricchire la già copiosa bibliografia sveviana: quest'anno, oltre al già citato libro di Forti, dobbiamo registrare le biografie di Enrico Ghidetti, il contributo biografico-critico più importante apparso sinora in Italia, e di Giuseppe Antonio Camerino, che apre uno squarcio inedito sulla vita culturale triestina di quel tempo. Sul piano propriamente critico dobbiamo ricordare la pubblicazione di Italo Svevo oggi, atti del convegno sveviano di Firenze che fu caratterizzato dagli interventi di Magris, Pampaloni e Lava-
getto. Questi studi e documenti confermano come il Novecento, specie nei primi anni, sia entrato nel vivo di un’opera di revisione, iniziata a suo tempo da Eugenio Garin, che corregge sia le stroncature sia le agiografie. In questo quadro si inseriscono, per esempio, Emilio Cecchi oggi — anche questo volume è la raccolta degli atti di un convegno cecchiano —, e la biografia di Malaparte di Giordano Bruno Guerri, L’arci87
taliano. Contestato per la spregiudicatezza con cui è entrato nella ricca ma contraddittoria vita malapartiana, in realtà Guerri ha soltanto scritto un libro che ripropone più il personaggio, indubbiamente fascinoso per un biografo, che lo scrittore. Quest’ottica non è forse sufficiente, e non è nemmeno la più giusta, per arrivare a una corretta comprensione del fenomeno Malaparte e, più in generale, di tutti gli scrittori. In un’epoca così propensa a privilegiare il discorso biografico, questo appunto di metodo non cade inopportuno: serve, a conclusione di questa rassegna, per ricordare che la letteratura va al di là dei fenomeni anche i più clamorosi. L’andamento dell’annata che abbiamo appena terminato di esaminare lo conferma: la letteratura ha seguito la sua strada, non ha concesso nulla al compromesso e ha ribadito ancor di più la sua indipendenza rifiutando, nello stesso tempo, di aderire
alla cosiddetta richiesta del pubblico. Il distacco con il pubblico si è così accentuato e resta da vedere se la strada che la letteratura sembra aver imboccato sia quella giusta oppure se non sì tratti di una pericolosa involuzione.
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no molti, e tutti diversi l’uno dall’altro a seconda dell’angolo visuale che sceglie l’osservatore critico. Ma per questo 1982 la situazione è invece anche fin troppo chiara e, almeno dal nostro punto di vista, non dovrebbero sussistere dubbi. Da un lato, abbiamo avuto la produzione di libri: romanzi, poesie,
saggi, edizioni di classici, che puntualmente sono entrati in libreria e sono andati ad allinearsi sui banchi, che sono stati
recensiti più o meno bene dalla critica, discussi e laureati o rifiutati ai premi letterari: tutto, dunque, ha seguito il rituale di sempre; ma dall’altro lato, c’è da registrare l’atteggiamento dei lettori, i quali, sia di fronte alle indicazioni critiche e
alle segnalazioni della stampa specializzata, sia sollecitati dalle pressanti e ammiccanti lusinghe esercitate dai persuasori, a volte nemmeno
troppo occulti, dell’editoria, sono ri-
masti indifferenti, non hanno risposto, provocando così uno stato di crisi che, per il suo protrarsi nel tempo, dura ormai da quasi un paio d’anni, sta rischiando di compromettere e di far saltare tutto il sistema del mercato delle lettere. Oggi, stando alle indicazioni che si possono desumere dalle scelte dei lettori, che non sono sempre le più giuste, ma che non si possono neppure ignorare, la narrativa non offrirebbe più stimoli tali da appagare la lettura e, di conseguenza, il lettore si indirizza verso altri generi, come la biografia e la storia, succedanei di quel racconto a cui pure sempre ambisce e in cui crede di trovare personaggi reali e trame veritiere che il romanzo non ha. Eccone un ésempio significativo: 95
Ricordati Gualeguaychi di Susanna Agnelli, singolare biografia di Garibaldi ricostruita attraverso un collage delle lettere che le innumerevoli persone incrociate durante la sua vita avventurosa — amici, compagni, famigliari lontani, donne, soprattutto, amanti e innamorate — gli avrebbero indirizzato. L'effetto verità, in questo caso, sembra garantito dal-
l’artificio delle lettere ritrovate, il risultato non è privo di originalità, ma entrambi sono ottenuti seguendo altre strade dalla letteratura. Poi ci sono le biografie più canoniche, di cui quest'anno ne sono uscite di piuttosto rilevanti: per limitarci a quelle riguardanti la letteratura, ricordiamo il Gu:icciardini di Roberto Ridolfi, il Bernardino da Stena di Iris Origo, il Machiavelli di Giuseppe Prezzolini, e poi ancora Restif de la Bretonne di Luigi Baccolo, Il Magnifico di Antonio Altomonte, Saffo di Grytzko Mascioni, Vita di Marco Polo di Alvise Zorzi, che ci fa rivivere il grande viaggiatore nel quadro dell’ambiente e del carattere veneziani ai quali rimase sempre fedele, anche quando era più lontano da Venezia; Il mio Morandi di Luigi Magnani, Alberto Moravia di Enzo Siciliano; oppure si butta sulla cosiddetta saggistica d’intervento, di testimonianza, di attualità, dove cerca rispo-
ste ai molti problemi del momento (ed ecco balzare in testa alle classifiche, più o meno attendibili, dei libri più venduti: Chi vincerà in Italia? di Alberto Ronchey, L'albero della vita di Francesco Alberoni, Mio figlio non sa leggere di Ugo Pirro, Via Solferino di Enzo Bettiza). Ma, ancora una volta, si
va riproducendo un equivoco di fondo sulla funzione della letteratura: che non è quella di offrire al lettore risposte consolatorie e rassicuranti, né di creare paradisi artificiali, bensì
di porre all'uomo domande, suscitare dubbi, anche i più inquietanti. In ogni caso, il distacco del lettore dalla letteratura
di fantasia potrebbe essere inteso, da un lato, come il segno
del formarsi di una più marcata coscienza critica, il sintomo di un maggiore impegno verso una lettura più problematica
con la scelta di un libro utile, e, dall’altro, far registrare la
sconfitta del libro consumistico. Fino a che punto questa specie di radiografia del lettore d’oggi rispecchia veramente la realtà della situazione attuale, di questo 1982? Che qualcosa sia cambiato nella geografia della lettura è indiscutibile; che il lettore cerchi nel libro una 96 O
3. Gli anni Ottanta e la letteratura
maggior rispondenza ai problemi attuali e richieda una letteratura in cui sì senta la presenza di una verità è incontrovertibile; ma è altrettanto vero che il lettore reagisce a delle proposte che gli vengono fatte, e che le sue scelte sono conseguenti alla scelta primaria dello scrittore. In altre parole, una diagnosi corretta della situazione non deve limitarsi ad addossare le cause della crisi a interpretazioni generiche quali il pubblico che non va in libreria, anche se è vero, o al rincaro dei prezzi, anch’esso indiscutibile; e, meno che mai, imputare il lettore, che, per contro, si sta dimostrando più intelligente e critico di quanto lo si voglia far passare; ma tra i
responsabili va coinvolto, e in prima persona, anche il produttore di letteratura che, fatte salve alcune debite eccezioni,
in questi ultimi anni non è più stato in grado di proporre un discorso letterario valido e alternativo. Che cosa avrebbe dovuto fare? Non crediamo che la via da seguire sia quella paradossalmente indicata da Fruttero e Lucentini del non libro per il non lettore, benché l’immagine non sia poi del tutto fuori luogo se pensiamo all’inutilità di certi libri e alla pretenziosa superficialità di talune letture pubbliche. Infatti, nonostante alcuni domini esclusivi dell’esercizio letterario, che un tempo parevano inavvicinabili, siano caduti, e con essi il potere terroristico dei loro agguerriti difensori, e certe tendenze pseudo-avanguardistiche diano risultati sempre più trascurabili, la letteratura non esce affatto sconfitta dalla crisi in atto, né viene ribadita la sua inutilità;
anzi, è proprio in questi momenti che la buona letteratura, dai classici antichi e moderni a quelli contemporanei, risale la china e garantisce quella continuità che oppone all’effimero delle mode la durata della verità della parola. Ma che cosa hanno a che fare con un panorama di critica letteraria considerazioni come queste che esulano dal proprio campo specifico di competenza per entrare nel dominio della commercializzazione del libro? Apparentemente nulla, dal momento che la rispondenza favorevole o negativa del pubblico non è certo un metro di giudizio per valutare il cammino della letteratura; in realtà, un legame esiste, e non è nep-
pure molto sotterraneo: alla crisi generale del mercato librario, che è diffusa in tutto il mondo occidentale, dagli Stati Uniti alla Francia alla Germania, ed è conseguente alla re97
cessione economica che tocca tutte le attività produttive, si deve aggiungere, almeno a nostro avviso, e per quel che riguarda l’Italia, anche una crisi che attiene più specificamente al dominio
letterario e, in particolare, del romanzo,
la
quale si è ulteriormente aggravata in questi ultimi tempi. Bisognerebbe riuscire a stabilire se i fattori determinanti di tale complessa situazione siano congiunturali, oppure se non investano in profondità il ruolo stesso della letteratura in questo momento. Guardando le cose in retrospettiva, tutto porterebbe a concludere che letteratura e società hanno due passi diversi, che il loro divorzio è più che mai in atto e, forse, proprio per colpa della prima, la quale non ha saputo opporre la propria forza immaginativa alla deprimente scansione della realtà e, in sostanza, incontra molte difficoltà a essere se stessa.
Questo, almeno, stando alle prove documentali, ossia i te-
sti che abbiamo a disposizione. Non siamo ancora al requiem per il libro, al rifiuto totale della letteratura, ma l’annata che sta finendo è risultata, nel complesso, magra, fatte salve alcu-
ne debite eccezioni che non solo si staccano dal gruppo per la loro eccezionalità, ma proprio per questo ne mettono ancor più in risalto la deludente pochezza. La quale non va riferita alla quantità dei volumi in ogni genere letterario proposta ai lettori, che, anzi, è stata molto, troppo, ricca; infatti, in un
momento come questo, l'esuberanza non è un segno di prosperità, bensì di inflazione, dato che la crisi riguarda tuttii passaggi dell’intero ciclo che porta il libro dal creatore, attraverso il produttore, al consumatore, ossia lo scrittore, l’editore,.il.lettoré.
La stampa specializzata ha pubblicato con grande evidenza i dati statistici relativi sia all’alta produzione editoriale sia alla contrazione delle vendite librarie, ed è impossibile,
almeno a nostro avviso, prescindervi nel momento di esprimere un qualunque parere critico, poiché ciò che viene più duramente toccato, nell’attuale periodo di crisi; è proprio la produzione corrente, costituita dalle cosiddette novità che ogni mese arrivano in libreria e che, salvo pochi casi, ristagnano sui banchi senza destare interesse né attirare l’attenzione dei lettori; e, ancora, di tutta questa massa di libri, la 98
parte più colpita è quella narrativa che, tradizionalmente, è sempre stata il volano che avviava la meccanica dei successi di grandi proporzioni. Dunque, dobbiamo registrare anche nel piccolo orticello letterario di casa nostra le conseguenze del « congedo del romanzo», secondo il titolo del bel libro di Elena Croce, la qua-
le individua il centro della crisi nella perdita della storia che caratterizza il romanzo, o l’anti-romanzo, novecentesco. Ma
qui il discorso dovrebbe allargarsi, prendere in considerazione spunti diversi, come quelli che offre Enzo Siciliano in alcuni capitoli della Voce di Otello, dedicati a Conrad, a Proust, a Verga, dove enuclea, con il piglio stilistico dello scrittore, i passaggi tormentati e complessi dell’esperienza . romanzesca moderna che si è lasciata alle spalle la sicurezza della rappresentazione storica e realistica per addentrarsi nei meandri oscuri della sensiblerie decadente. Eppure, l’universo romanzesco è così variegato, sinuoso, incomparabilmente ricco, che è in grado di superare i momenti difficili e di sopportare la concorrenza che altri generi, come la biografia e la storia, di volta in volta gli fanno. Infatti, neppure la più ricca collana biografica che si possa immaginare sarebbe in grado di reggere al confronto con gli innumerevoli personaggi che popolano la storia del romanzo. Basta prendere il Dizionario dei personaggi di romanzo che Gesualdo Bufalino ha messo insieme per soddisfare la sua onnivora capacità di lettore di romanzi, per rendersene conto: da Don Chisciotte all’Innominabile di Beckett, abbiamo una galleria di tipi e di caratteri, di eroi e di frustrati, che è il massimo com-
pendio umano che si possa immaginare. Luigi Russo affermava di detestare i personaggi quando diventavano troppo ingombranti e oscuravano la «fantasia» dello scrittore che li aveva creati. Ma al di là di ogni atteggiamento di metodo critico, resta il fatto che un romanzo è costituito da un insieme di
personaggi che parlano in prima o in terza persona, oltre che di situazioni raccontate dal narratore. Ora, una ragione della nostra crisi attuale mi pare che sia da ricercare proprio nella scarsità di personaggi memorabili (sia positivi che negativi) e nella carenza di situazioni narrative plausibili (che non devono necessariamente essere realistiche). 99
Passiamo pure in rassegna i numerosi libri di narrativa che si sono avvicendati durante l’anno. Troviamo romanzi,
racconti, libri di prosa di rilievo e intriganti, tra i quali, con una scelta sicuramente arbitraria, indichiamo: // palazzo di Tauride di Elio Bartolini, Ombre di Carlo Castellaneta, A/-
bergo Minerva di Stefano Terra, La derrota di Italo Alighiero Chiusano, Sconfitti sul campo di Marcello Venturi, La ragazza di Trieste di Pasquale Festa Campanile, L'ultimo sole sul prato di Camilla Salvago Raggi, Uccelli del paradiso di Ferruccio Parazzoli, La fuga delle api di Antonio Terzi, L'estate di Letuquè di Rosetta Loy, La Virgilia di Giorgio Vigolo, Natalia di Fausta Terni Cialente, // tesoro dei Pellizzari di Giorgio Saviane, Zeftro di Aldo Rosselli, Z/ cielo della mezzaluna
di Mario Biondi, Voglia di more dell’esordiente Rosa Giannetta Trevico tra i romanzi; poi: Viva Migliavacca di Piero Chiara, Gli sguardi di Beatrice Solinas Donghi, Mare dei deliri e altri racconti di Raffaello Brignetti, Raccontami una storia di Giovanni Arpino, Sillabario n. 2 di Goffredo Parise,
Colloquio con le ombre di Carlo Cassola, Le luci della peste di Neri Pozza, La casa del perché di Mario Soldati, fra le raccolte di racconti; infine: Gl ultimi giorni di Magliano di Mario Tobino, Kermesse di Leonardo Sciascia, In viaggio di Marco Forti, Museo d’ombre di Gesualdo Bufalino, Discorso del-
l’ombra e dello stemma di Giorgio Manganelli, Fuori del Paradiso di Raffaele Crovi, tra i libri di prosa. Più che un elenco, è una scelta dei testi che ci sentiamo di
segnalare, tra tutti quelli apparsi nel corso dell’annata. È una scelta che può sembrare ampia, e invece è restrittiva rispetto all'enorme produzione che si è venuta accumulando lungo tutto l’anno e di fronte alla quale dobbiamo constatare come siano pochi quelli che sono rimasti alla mente, proprio perché è difficile ritenere una figura, una situazione: tutto e tutti passano senza lasciare tracce della loro presenza, senza evocare un sentimento duraturo. A temperare questo pessimismo ci sono, però, alcune eccezioni. Oltre alla scelta precedente, campeggia nitido nella memoria, il ragazzo del Gelo di Romano Bilenchi, quello stesso personaggio che era un bambino nella Siccità e nella Miseria e che ora, adolescente, si affaccia alle soglie della vi100
ta e sì trova di fronte al «gelo del sospetto e dell’incomprensione » degli uomini. La straordinaria intensità della storia bilenchiana, messa in luce da Geno Pampaloni in una limpida « Prefazione », è tale da porre // gelo tra le prove più alte della letteratura di questi ultimi anni. E non è casuale che, in un momento di crisi come l’attuale, la risposta più alta arrivi proprio da uno scrittore schivo e appartato, che addirittura riprende un filone che risale a quarant’anni fa, a dimostrazione che il tempo della letteratura è altro rispetto alle cadenze annuali che seguiamo in queste rassegne. E assieme a Bilenchi possiamo mettere Alberto Moravia e Primo Levi. Con 7934, ma è da ricordare anche Storie della preistoria,
Moravia è tornato a proporci un romanzo dei suoi più tipici, anche se non sempre le soluzioni narrative sono convincenti e lo stile qua e là svela qualche smagliatura. Ma come giustamente nel suo Alberto Moravia sostiene Siciliano, 7934 è il
romanzo della «memoria storica » dello scrittore, quello dove egli sembra ritornare su se stesso, riprendere temi giovanili, ma con la coscienza dell’oggi (a questo proposito è da leggere anche lo scambio epistolare con Prezzolini in Moravia-Prez-
zolini, Lettere). Il romanzo di Levi risulta il più premiato dell’anno: laureato a Viareggio e al Campiello, ripete così l’exploit de Il male oscuro di Giuseppe Berto. Ma a dare la misura del vero valore di Se non ora, quando? non sono i premi, anzi l'abbondanza semmai finisce per diventare fastidiosa, bensì il tono epico del racconto, non privo di squarci lirici e poetici, e l’alternarsi delle situazioni nel corso del viaggio avventuroso che compiono i protagonisti dal lontano centro della Russia a Milano. È infine, a chiusura d’anno, ecco
Aracoeli di Elsa Morante. Come già è avvenuto otto anni fa per La Storia, critica e pubblico si dividono perché i romanzi della Morante sono destinati a tagliare netto nel gusto fra consenso e rifiuto. Aracoeli non è La Storia: anche se nel suo arco ingloba fascismo, guerra di Spagna, guerra mondiale e un po’ di dopoguerra, il nucleo narrativo è nel profondo senza tempo dell’animo e della sofferenza umani e consiste nella ricerca della madre che il protagonista, Manuele, compie per ritrovare l’unione felice d’un tempo, ora perduta in una deso101
rato, nonostante alcune pagine caduche, Aracoeli è terribilmente bello poiché fermenta sotto la scorza del narrato una tensione drammatica‘e poetica che restituisce alla letteratura il suo naturale tono globale assoluto. Un cenno va fatto per alcuni volumi di racconti. Spesso vengono trascurati per far spazio ai più pretenziosi romanzi, ma Stillabario n. 2 di Parise, Raccontami una storia di Arpino, Colloquio con le ombre di Cassola, sia pure a diverso titolo, esigono una giustificazione. Sillabario n. 2, premiato allo Strega, riprende una formula fortunata, ma rispetto a S2//a-
bario n. 1 appare più diseguale, meno omogeneo: racconti dalla misura classica si alternano ad altri dove si avverte con troppa evidenza il peso dell’intenzionalità. I racconti di Arpino sono invece più variati, anche più felici per l’inesauribile ricchezza di temi, situazioni, personaggi: il «raccontatore » Arpino, come una volta lo ha definito Guido Piovene, ha dato qui la misura della sua capacità di saper raccontare una storia che, forse, non ha eguali in Italia. Ricordiamo Collo-
quio con le ombre di Cassola soprattutto per il racconto dal titolo emblematico, « Una vita», che risale al 1965 e ci ripor-
ta a quella letteratura esistenziale che egli oggi non rifiuta ma che ha abbandonato. La nuova tematica dell’impegno, rispetto a quella passata, determina una scrittura più didascalica e volontaristica che manca di quella trasparenza stilistica, tipicamente cassoliana, che troviamo appunto in «Una Vita ».
i
Ci sono poi quei libri che fanno eccezione perché non appartengono a categorie e non rientrano in nessun schema catalogico come, per esempio, Zrame di Mario Luzi, Sogno di un valzer di Vitaliano Brancati, Diari di Antonio Delfini. In
Trame Luzi ha raccolto tutte le sue prose, sparse sinora in plaquettes irrintracciabili o giornali finiti, e in più quella Biografia a Ebe che è uno dei testi chiave dell’ermetismo e che a rileggerlo oggi ci appare come un romanzo sperimentale (si veda l’importante studio di Gaetano Mariani, // lungo viaggio verso la luce. Itinerario poetico di Mario Luzi). Sogno di un valzer è invece un vero romanzo breve, del 1938,
rimasto finora inedito e che viene ora presentato da Siciliano assieme ad altri racconti rimasti fuori dalle Opere brancatia102
ne. Abbiamo qui il Brancati tipico: ironico, pronto a cogliere gli aspetti grotteschi della vita e dell’uomo, non alieno da certi indugi malinconici che confermano il suo carattere. Nei Diari, che iniziano la pubblicazione delle Opere di Delfini, a cul sì aggiunge la ristampa de // ricordo della Basca, troviamo esemplati, dall’interno, tutti i veleni che hanno sempre caratterizzato questo personaggio e la sua opera. In realtà, erano il sostegno di una maschera che egli ha portato fino alla fine per giustificare il suo essere maudit, un vero personaggio letterario. Invece, come sostiene Cesare Garboli in chiusura della « Prefazione » ai Diari, Delfini « Era un uomo
pieno di gioia». Da Delfini a Tommaso Landolfi il passo è breve. Entrambi appartengono alla stessa famiglia di scrittori alla quale oggi si guarda come a dei classici, e del classico Landolfi ha tutta la complessione: dalla sua opera, forse troppo folta, un lettore d’eccezione, Italo Calvino, ha scelto
Le più belle pagine. Operazione azzardosa, ma Calvino ha saputo rendere proficuo il suo incontro con Landolfi: da questo volume, e dalla « Nota» calviniana, esce fuori nella sua
interezza sia l’interprete della letteratura sia lo scrittore d’eccezione sotto ogni punto di vista: tematico, stilistico, della traduzione, che lo pongono in un ambito decisamente europeo. E poi aggiungerei Poesie in versi e in prosa di Piero Jahier, La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter, Carte segrete di Scipione, // sorcio nel violino di Bruno Barilli, testi ormai classici del Novecento, ma che vengono riproposti in edizioni accurate, filologicamente sistemati in modo da poter osservare come si sono formati fino alla stesura definitiva. Così come è da segnalare la proposta di testi gaddiani: Z/ tempo e le opere riunisce, a cura di Dante Isella, articoli e saggi famosi, come le stupende pagine manzoniane, non entrati ne / viaggi e la morte, mentre Un radiodramma per modo di dire e scritti sullo spettacolo presenta tutti gli scritti gaddiani inerenti lo spettacolo, con le famose « Norme per la redazione di un testo radiofonico » che i gaddisti conoscevano e citavano ma che sinora era rimasto una « comunicazione interna » della Rai. Cè poi da ricordare il centenario della nascita di Lorenzo Viani, celebrato con discussioni e
convegni ma non con i testi, se si fa eccezione per la ristampa 103
di Angiò, uomo d’acqua. Infine, l'inedito giovanile di Pier Paolo Pasolini, Amado mio, che getta luce sui suoi esordi (da
tener presente l’ampio saggio di Rinaldo Rinaldi, Pier Paolo Pasolini). Sono, questi, libri di importanza assoluta per la letteratura contemporanea, anche se non rientrano nel giro alto editoriale, delle tirature che contano; ma proprio per questo la loro vita, che sarebbe stata grama nei momenti di euforia, trova oggi uno spazio vitale e una giustificazione che va al di là dei rendiconti annuali. Per chiudere il discorso sulla narrativa 1982, possiamo dire che non sono mancati i testi, alcuni anche importanti;
tuttavia è l’insieme che lascia sconcertati e che fa venire in mente ciò che nel 1943 scriveva Maurice Blanchot in FauxPas a proposito del romanzo francese: « E certo che il romanzo francese sta vivendo una specie di crisi. Malgrado alcune opere di vivo interesse, malgrado autori più che felicemente dotati, non abbiamo assistito in questi ultimi anni a uno sforzo di rinnovamento comparabile ai tentativi che sì verificano in certe letterature straniere: da noi c’è poca inventiva, nessuna audacia, pressoché nulla di originale, neppure sul piano convenzionale ». Infatti, a fianco dei libri di Bilenchi, Moravia, Primo Levi, la Morante, i migliori in senso assoluto
tra quelli che abbiamo indicato, quanti altri invece di ordinaria amministrazione, puramente ripetitivi di temi e situazioni ormai scontati, che danno l'impressione di essere stati messi assieme in maniera provvisoria, al solo scopo di garantire una presenza pur che sia e non mancare al puntamento annuale. Ma questa volta, come constatato, all’appuntamento non si è presentato fiutando così di adeguarsi a una prassi che sa non risponde a una necessità interiore.
consueto apabbiamo già il lettore, ridi routine e
Bilenchi, Moravia, Levi, la Morante, appartengono, tra
l’altro, a una generazione ormai anziana e i loro libri testimoniano la continuità di un’opera affermata nel tempo e dai valori criticamente acquisiti; ma è preoccupante dover constatare che dietro di loro c’è il vuoto, mancano i ricambi, una
nuova famiglia di scrittori non sembra ancora pronta per rilevarne la cospicua eredità. Anche in questo caso abbiamo avuto nell’anno alcune indicazioni molto significative: la con104
ferma ormai sicura, con La felicità coniugale, che Giorgio Montefoschi è romanziere autentico, forse il solo della sua generazione che abbia il coraggio di affrontare l’impegno di un impianto romanzesco di ampio respiro e il fiato per arrivare in fondo; la scoperta che le doti di Andrea De Carlo, rivelate in 7reno di panna, non erano estemporanee: Uccelli da gabbia e da voliera, anche se non ripete la felicità del precedente, è il racconto di uno scrittore vero, estroso, intelligen-
‘te, che dovrà sapersi difendere solo dalle sue straordinarie capacità. E significativo comunque che il nuovo si manifesti nel campo del romanzo, lasciando da parte sterili sperimentalismi: il che non significa affatto sottrarsi alla ricerca o rifiutare il nuovo: Franco Cordelli, per esempio, con / puri spiriti dimostra che lo spazio per lo sperimentare esiste, ma va occupato con intelligenza, come, appunto, egli dimostra. Abbiamo indicato tre titoli che nella loro diversità rispecchiano gli umori e le tendenze della letteratura più giovane. Però, non sì è avuta quella affermazione di rilievo, indiscutibile,
da parte di uno scrittore nuovo che avrebbe potuto contrassegnare positivamente questo momento di crisi. Se non si è imposta alcuna novità, una parte di responsabilità va addossata anche alla critica, e alle sue istituzioni
collaterali, la quale è stata reticente, non ha avuto il coraggio di spingersi sulla strada del nuovo e di indicare alternative che pure esistono. Ancora una volta ci troviamo a recriminare sulle occasioni perdute, a rimpiangere quanto non è stato fatto, per di più con la consapevolezza che qualcosa si poteva fare. Non basta il caudato moralismo che giustifica l’immancabile alibi sulla scelta di valori sicuri: questa è cattiva coscienza. Quando si assiste allo sconcertante spettacolo dei grandi premi letterari, le cui giurie, quest'anno, sono andate a gara ad accaparrarsi gli stessi libri, con il risultato di vedere un autore premiato a più premi contemporaneamente e trascurata così ogni indicazione di novità, vien da domandarsi se i premi hanno ancora una funzione critica oppure se vi hanno abdicato. Perché l’affannosa corsa all’incetta del libro di richiamo o del nome famoso, non è altro che una conferma
del preoccupante stato di indigenza in cui versa la nostra esangue letteratura, ma, nello stesso tempo, è anche il segno 105
inequivocabile della mancanza di coraggio da parte della critica. Se il romanzo, come abbiamo visto, è in crisi, la critica non lo è da meno. Solo che le sue difficoltà risaltano in maniera meno clamorosa, non fanno notizia come i molti ro-
manzi che rimangono invenduti. Dopo aver conosciuto per anni una notevole tensione conoscitiva e intellettuale, ed es-
sersi affermata sul piano dell’invenzione, uscendo così dal ghetto della sudditanza per assurgere, da comprimaria qual era, a protagonista, la critica sembra ora rientrare nei ranghi, ripiegare su se stessa, adagiarsi nella routine recensoria o accademica. Alcuni volumi di saggi (di Elena Croce, Siciliano, Bufalino), alcune biografie (di Mascioni, Zorzi, Ridolfi, Iris Origo, Prezzolini, Baccolo, Siciliano, Magnani), li ab-
biamo già segnalati nel corso di queste pagine; il fatto che siano entrati nel vivo del discorso dimostra che avevano qualcosa in più: ma quanti altri possono andare ad aggiungersi a quell’elenco? Una operazione critica che ha fatto discutere è quella di Angelo Guglielmi, curatore dell’antologia // piacere della letteratura, che sì riallaccia a un’altra sua antologia, Vent’anni d’impazienza, apparsa poco meno di vent'anni fa. Con questi due volumi, benché molto diversi l’uno dall’altro per impostazione e scelte, Guglielmi ci dà un panorama della scrittura narrativa dal dopoguerra a oggi. Con quali risultati? Un’antologia, per la sua stessa natura, è sempre più o meno tendenziosa e l’antologista, con le sue inclusioni ed esclusioni, con i raggruppamenti e le sistemazioni, compie un atto critico che non è mai neutrale: nel caso di Guglielmi, poi, l’organizzazione dell’antologia non rispecchia solo un giudizio critico di scelta, ma riflette in maniera emblematica ed
esemplificativa la sua idea di letteratura. Per esempio, si può condividere la scelta di sottolineare la presenza di un impegno letterario in senso nuovo e più moderno, che ha portato gli scrittori in questi ultimi anni sulla prima pagina dei giornali; però, diventa difficile consentire con alcuni esempi che egli propone: Eugenio Scalfari e Luigi Pintor non hanno niente a che fare con la letteratura e la loro presenza non arricchisce il panorama, lo confonde. 106
Ciò che lascia ancora una volta perplessi è l’avanguardismo di ritorno. Questa volta Guglielmi lo rispolvera in nome della necessità di avvicinare la letteratura al lettore. Dopo aver fatto di tutto, e l’obiettivo è stato in parte centrato, per allontanare il lettore dai libri con la scusa del consumismo, della mercificazione, del museo, ecco che ora si scopre che
una letteratura senza lettori è meno che niente. E allora si monta un’operazione a favore di una «letteratura difficile » a cui il lettore dovrebbe avvicinarsi. Afferma Guglielmi che gli esempi antologizzati appartengono a « una letteratura difficile che fa risiedere la sua qualità negli ostacoli che oppone alla comprensione del lettore » e che lo «scopo di questa antologia è di avvicinarla al lettore, facendolo uscire dalla frustrazione che patisce ». Il lettore, in realtà, non è affatto frustrato e, come abbia-
mo già visto, si è fatto semmai più attento e consapevole: se non abbocca più all’amo della letteratura routinière, non si lascia neppure suggestionare da una critica, tipo quella di Guglielmi, che condanna al confino dello « scrivere è bello »,
secondo una distorta e tendenziosa interpretazione del codice Savinio, scrittori veri come Citati e la Ginzburg, Siciliano e
Testori. In questo modo non solo non si recupera il lettore, ma si rischia di ribadire l’inutilità della letteratura. E con es-
sa, ovviamente, anche quella della critica, che ne è la grande
maestra di cerimonia. Non è casuale che ormai di critica, specie militante, ce ne sia poca in giro: infatti non ha quasi più spazio sui giornali e non ci sono più riviste letterarie, i luoghi deputati per esercitarla; vengono a mancare di conseguenza le premesse per quei libri alla maniera di Cecchi e Pancrazi, che tanto hanno contato nel Novecento.
Non che sia un male irrimediabile,
anzi, ben venga se apre al nuovo e procura stimoli critici diversi, se porta ad arricchire di esperienze differenti il bagaglio culturale. Ma per il momento la constatazione implica invece la presa di coscienza di un depauperamento effettivo: la critica militante va scomparendo. Ormai la critica è altrove: nell’esercizio della ricerca accademica o nel saggismo critico, dove troviamo i risultati di maggior spicco, anche se diversi. 107
La produzione critica accademica è vasta, ma molto settoriale e, spesso, troppo specialistica, come rivelano alcuni libri scelti per la loro significanza: Cinque analisi di Stefano Agosti (dove si continuano le esplorazioni sul linguaggio della poesia che egli aveva avviato con // testo poetico: questa volta i testi analizzati sono di Baudelaire, Valéry, Montale,
Michaux, Pasolini, ai quali fanno da contrappunto alcuni scrittori teorici e di metodo); // linguaggio e la morte di Giorgio Agamben (un complesso volume in cui si affronta, dal punto di vista filosofico, il problema del rapporto fra il linguaggio e la morte, che poi viene ripreso in Pascoli e i pensiero della voce, saggio che introduce una riedizione del Fanciullino pascoliano); Parini e altro Settecento di Ettore Bono-
ra (una raccolta di saggi settecenteschi che hanno come punto di riferimento l’esperienza pariniana); /{ vero solo è bello di Angelo Raffaele Pupino (dove la Storia della colonna infame viene vivisezionata, con un occhio anche alle innumerevo-
li implicazioni culturali a cui il testo manzoniano rimanda, sulla scorta della lezione che deriva dalla lettura dei Promesst Sposi di Ezio Raimondi); La parola dipinta di Giovanni Pozzi (ampia trattazione, densa di dottrina e di riferimenti
culturali e storici, della poesia figurata, dalle prime manifestazioni dell’antichità per finire ai Calligrammes di Apollinaire, che hanno dato l’avvio alla poesia visiva di oggi su cui ci relaziona, con esempi, Lamberto Pignotti sul n. 62 della rivista « La battana »). Il saggismo critico è invece meno finalizzato, ma anche
più ricco e seducente. Prendiamo come esempi Fiori freschi e Il mondo che ho visto, gli ultimi libri del compianto Mario Praz (si tratta degli scritti già apparsi in due celebri volumi, ma riordinati diversamente, arricchiti di annotazioni nuove,
in modo che il lettore si trova di fronte a un libro aperto, vario, tenuto assieme dallo straordinario gusto dell’autore); Ri-
leggere Proust di Giacomo Debenedetti (contiene, come pezzo forte, il saggio inedito del 1946 sulla Recherche che dà il titolo al volume, e tutti gli altri studi proustiani di Debenedetti); l migliore dei mondi impossibili di Pietro Citati (rivisitazione di momenti e protagonisti della cultura e della storia dell’uomo visti sempre attraverso l’immagine che gli 108
scrittori ne hanno dato e che Citati fa rivivere con quella incomparabile capacità mimetica e ricreativa della sua scrittura); Itaca e oltre di Claudio Magris (ha più aspetto e tono diaristici e d’intervento: i brevi scritti però si coagulano, fanno discorso globale a testimonianza della vastità degli interessi di Magris, fermentati dalla linfa mitteleuropea della sua formazione, maturata in quella Trieste a cui dedica, in
collaborazione con Angelo Ara, un ritratto culturale: Trieste. Un’identità di frontiera); Angosce di stile di Giorgio Manganelli (potremmo definirlo il libro delle « prefazioni » di Manganelli, dove la prefazione, però, non è mero esercizio presentatorio o da imbonitore, bensì l’occasione per proporre la novità di una, tante, letture e riletture); La vita apparente di
Guido Ceronetti (un altro tassello di quella ricognizione che il caustico moralista Ceronetti viene compiendo tra le occasioni che gli offre l’agitata vita contemporanea). Si tratta di libri che hanno tratto origine anche'dalla matrice di un giornale, ma senza asservimento giornalistico, come dall’occasione di una ristampa, rifiutando però lo schematismo della pura informazione: in sostanza, sembrerebbero esempi dell’esatto contrario della critica; in realtà la vera critica è questa, quando è esercitata, sì, da un critico, ma che fondamental-
mente è anche uno scrittore. Questo discorso in negativo si attenua, anzi si rovescia quando si passa a esaminare lo stato della poesia. Non che la situazione generale sia diversa: il rapporto fra produzione e resa qualitativa è quello di sempre, con molti libri e plaquettes, riviste con dibattiti e discussioni, che costituiscono l’uni-
verso di una attività estesa e frammentata, pressoché impossibile da censire integralmente, ma dalla quale escono sempre libri di valore e interessanti. La poesia, a differenza della narrativa, non è vincolata ai problemi di mercato; la sua con-
dizione di francescana povertà le garantisce una libertà asso. luta di ricerca. Ecco perché può sviluppare un suo discorso teso esclusivamente alla letterarietà e i suoi processi, evolutivi o involutivi, sono configurabili in un diagramma letterario. Il che non equivale a un esercizio astratto o di evasione, privo di tematiche reali, ma più semplicemente che il discorso poetico è meno inquinato da germi extraletterari. 109
È così che la poesia può continuare il suo cammino svincolato dall’industria e dai centri di potere, ravvivato da molti fermenti. Per esempio, questo è un buon momento per la poesia dialettale che va definendosi sempre più come esperienza autonoma, non sottoprodotto della poesia in lingua. L’edizione definitiva di un testo ormai classico della poesia dialettale novecentesca come Metaponto di Albino Pierro, ne è la conferma più sicura. Ma non si tratta solo di continuare la tradizione recuperando classici, come E anche el vento se tase di Biagio Marin, ci sono anche novità: dalla Sicilia giunge Friscalittati di Mario Grasso, autore altresì di un meno convincente testo in lingua, / guerrieri di Riace; da Santarcangelo di Romagna arrivano La nàiva di Raffaello Baldini, La chésa de témp di Nino Pedretti, La vdita d’una dòna di Giuliana Rocchi, La morta e e’ cazaddur di Gianni Fucci che
vanno ad aggiungersi alla ricca couche di poesia romagnola. Ma su tutto il fronte-della poesia si riscontrano note positive. Un segno eloquente lo offre 1’Almanacco dello Specchio, con una rassegna che vede riuniti Folco Portinari, Giorgio Manacorda, Giuseppe Conte, Valerio Magrelli, Patrizia Valduga, quasi una antologia (fino a che punto involontaria?) delle voci più significative d’oggi. Alle quali non è fuori luogo accostarvi altre esperienze venute a maturazione: quella di Gregorio Scalise, che con La resistenza dell’aria ci offre gli esempi della sua originalità espressiva; di Andrea Rivier, che ne La bottega ha riunito una scelta ideale del suo ormai lungo lavoro poetico; di Ennio Cavalli, un giovane che con Carta intestata dimostra che di libro in libro va sviluppando una sua immagine di poesia martellata e ironica, ricca di
quotidianità e di cultura. Altre invece si sono manifestate e imposte con forza ed evidenza: pensiamo alla sorpresa di un testo nuovo come Simulacri di Roberto Carifi, di cui merita
esser ricordato anche // gesto di Callicle. Saggio sulla nuova poesia, alla ricchezza di ironia linguistica che incontriamo in Grotteschi di Paolo Prestigiacomo, alla poesia tutta trattenuta e ansiosa, eppure allo stesso tempo sferzante di Gianfran-
co Palmery in Mttologie, alla vocazione autentica di un raffinato editore di poesia come Giorgio Devoto che si rivela poeta in proprio con /n quel labirinto per niente, all’esercizio 110
ammiccante d’ironia e di cultura degli epigrammi di Michele Luciano Straniero in Good-bye del Minotauro. A questa annata in crescendo hanno dato poi un contributo importante le poesie di alcuni scrittori non esclusivamente poeti come Bufalino, Giuseppe Bonaviri, Raffaele Crovi, Alberico Sala, Giorgio Bassani. Alcuni sono più noti come narratori, ma il loro esercizio poetico non è certo secondario, anzi si integra perfettamente per temi e linguaggio: L’amaro miele di Bufalino ci riporta a certi momenti di Diceria dell’untore; O corpo sospiroso di Bonaviri ripropone in verso il linguaggio fantastico e immaginoso, assolutamente personale dello scrittore siciliano; ne L’utopia del Natale di Crovi ritroviamo quel tono epigrammatico, secco, incisivo, eppure venato di una sottile elegia che è tipico della sua scrittura, come conferma anche Fuori del Paradiso; Il panta-
no di Waterloo di Sala è la continuazione di quel diario ininterrotto che caratterizza ormai per forza e intensità espressiva la sua opera; In rima e senza di Bassani è raccolta tutta l’opera poetica bassaniana, con alcuni esempi di traduzione da Toulet, Char, R. L. Stevenson, che va a collocarsi accanto
al Romanzo di Ferrara. AI culmine di questa rappresentazione troviamo poi Ne/ grave sogno di Giovanni Raboni, un libro costruito via via non per accumulazione di immagini e situazioni, ma con una continua interrogazione sul nostro essere e sulla vita quotidiana che si trasformano nel verso raboniano in una dolente metafora. Ma soprattutto incontriamo qui i libri più belli in assoluto, con // gelo di Bilenchi, che ci sia stato dato di leggere quest'anno: // franco cacciatore di Giorgio Caproni e Stella variabile di Vittorio Sereni. Sl tratta di testi importanti nell’insieme dell’opera dei due poeti, ma lo sono ancor di più se si rapporta il loro peso nel panorama italiano. Sappiamo quanto essi siano schivi da ogni suggestione esterna, e come la loro poesia sia sempre il frutto di un lungo lavoro di scavo e di indagine sulle cose che porta poi al libro. Infatti i libri di Caproni e Sereni sono tutto meno che raccolte di versi, perché riflettono il risultato di un discorso unitario, ben bloccato
attorno a temi e immagini. Con un atto arbitrario dal punto di vista critico, abbiamo 111
già dichiarato le nostre preferenze di lettura. Passando ora ai classici, il nostro lettore si fermerebbe innanzi tutto sui Canti
di Leopardi nell’edizione critica di Emilio Peruzzi. Si tratta di un’impresa che dal punto di vista filologico merita la massima considerazione. Le edizioni critiche sono spesso impraticabili per il lettore comune, in questo caso, invece, la chia-
rezza dell’impostazione consente di osservare in tutte le sue fasi, dal manoscritto originario all’edizione definitiva a stampa, tutti i passaggi attraverso i quali si è venuta formando la poesia leopardiana: ed è avventura tra le più affascinanti che sia dato seguire a chi ama la letteratura, tanto più che il volume è arricchito dalla riproduzione di tutti gli autografi dei Canti. Il momento leopardiano è contrassegnato anche da altri testi che arricchiscono ulteriormente la bibliografia del poeta di Recanati: una nuova edizione dei Pensieri curata e annotata da Cesare Galimberti, Storia di un'anima, scelta
dall’epistolario leopardiano curata e annotata da Ugo Dotti (di cui si ricorda anche l’esordio narrativo con Le chiavi d’oro, un romanzo della memoria scritto sotto il segno di Musil e Proust), le Operette morali curate da Paolo Ruffilli per le
scuole. Dopo un esame della situazione attuale della letteratura, questo tuffo fra i classici ci allontana dalle considerazioni di tipo sociologico alle quali purtroppo è impossibile sfuggire, ma che scompaiono quando leggiamo Della mia vita di Girolamo Cardano curata da Adolfo Ingegno e il Breviario dei politici attribuito al Cardinal Mazzarino, recuperato e presentato in tutta la sua inquietante attualità da Macchia; le Lettere di Nievo curate da Marcella Gorra, dalle quali, come scrive la stessa Gorra, traspare già «una tendenziosità letteraria, nel preciso anche se dissimulato intento di usare la lettera come esercizio di scrittura compositiva »; Le serpi in seno di Jacopo da Varagine riproposto da Giusi Baldissone e Folco Portinari e La cronaca di Novalesa ristabilita da Gian
Carlo Alessio, che ci riporta nel pieno della vita monastica del Medioevo che è diventata sfondo per tanti romanzi d’oggi; l’Orlando Furioso curato in maniera ineccepibile e presentato con originalità da Emilio Bigi, che nel tracciare la storia dell’Ariosto ne mette in risalto la modernità; infine, La e
teogonia di Esiodo e tre inni omerici nella traduzione di Cesare Pavese. L’incerta prospettiva che ha condizionato la rassegna di questo 1982 ha messo in evidenza le difficoltà di riuscire a stendere un referto obiettivo. Mai come in questa occasione ci sono parse vere le parole di Marthe Robert ne La vérité lttéraire: « Leggere, a volte, è come aprirsi a fatica un varco tra la polvere dei paragrafi e attraverso carcasse di parole. È quanti libri morti o moribondi ci siamo lasciati alle spalle lungo il cammino... ».
BIBLIOGRAFIA
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1983
Tutti i discorsi riguardanti l’attuale situazione della «cosa letteraria» (l’ha definita così, più di cinquant’anni fa, un grande editore francese, Bernard Grasset, riprendendo la formula da Sainte-Beuve), sembrano ruotare, da un po’ di
tempo a questa parte, attorno ad un unico argomento: la crisi profonda in cui versa la letteratura e le conseguenze che la suddetta crisi provoca sulla lettura. Infatti, non era ancora capitato, come nel corso del 1983, di sentir pronunciare tante accorate parole su questo tema in convegni, discussioni pubbliche e private, né di leggerle su giornali e riviste; e non era ancora avvenuto che se ne parlasse così di frequente, con tanta insistenza, nei luoghi più disparati, persino in quelli dove la letteratura entra, quando le riesce di entrarvi, solo di stra-
foro. E difficile in questo momento dire se abbiamo già toccato il fondo, se il 1983 sarà ricordato come l’anno della grande depressione o se il peggio deve ancora venire, ma si può invece affermare con una certa approssimazione che proprio in questo periodo è giunto a maturazione un processo, in atto ormai da tempo, di depauperamento, se non di esautoramento, dei valori della « cosa letteraria ».
Dopo aver conosciuto l’onore della prima pagina, magari in compagnia del mostro o del riflusso, e i fasti del piccolo schermo come una vezzosa soubrette, la letteratura comincia
ad accorgersi che la frequentazione di certe cattive compagnie le sta facendo cambiare faccia e che la loro influenza non si limita soltanto a corromperla, a spingerla sulla strada della perdizione, ma fa ben di peggio: la snatura. Sta infatti accadendo, se non è già accaduto, che due aspetti complementari dell’attività letteraria, eppure così diversi tra loro come la 119
scrittura e la lettura, si trovino, per la concomitanza congiun-
turale di circostanze socio-economiche negative, a convivere in una perfetta simbiosi di progressivo annullamento. Un problema di natura squisitamente intellettuale e individuale come la scrittura è ormai subordinato a una questione sociologica e collettiva qual è l’acquisto dell’opera scritta, e la sua consumazione, ossia la lettura, non conta più niente;
non solo, ma un’operazione come quella del critico che pronuncia dei giudizi, dopo aver letto secondo la sua prospettiva culturale (e Ottavio Cecchi e Enrico Ghidetti nel volume su tale argomento da loro curato registrano ben Sette mod di fare critica), oggi rischia di non essere più pertinente perché smentita o condizionata dal risultato di dubbie indagini statistiche per le quali il rapporto scrittura-lettura non si pone neppure. Cioè, conta ormai soltanto l’acquisto che, ovviamente, non ha nulla a che vedere con la lettura: non con
quella disinteressata del lettore comune, non parliamo poi di quella interessata condotta da certi lettori onnivori ed eccezionali, veri maestri del leggere, quali, ad esempio, sono stati e sono Croce e Serra, Pancrazi e Praz, Giacomo Debenedetti
e Solmi, Macchia e Bo, Manganelli e Ezio Raimondi. Oggi, «la lettura non è più una religione» constata Bo «ma un mercato e i valori del gusto e del piacere sono cancellati » da un nuovo e strano concetto di lettura che è stato elaborato in uffici demoscopici anziché in biblioteca, sulla base di fatture e scontrini invece che su una pagina scritta. Chissà come sarà formata, viene da chiedersi, la bibliote-
ca ideale che sortirà dall’estetica del registratore di cassa e quali sorprese riserverà al futuro lettore e allo studioso. Lo spunto per il gioco viene dalla lettura di un libro gradevole e impietosamente utile: Biblioteca domestica, in cui Giulio Cattaneo, con quella vena memorialistica che lo distingue e l’arguzia di una scrittura mossa e graffiante, rivisita la biblioteca di famiglia degli anni Trenta. Tra i molti libri recuperati da Cattaneo, un lettore d’oggi ha di che scartare e di che trattenere. Ma la scelta non serve al nostro gioco. Sono troppo diverse le matrici culturali che hanno presieduto alla formazione della biblioteca domestica di Cattaneo e quella futuribile che ipotizziamo. Là abbondava molta letteratura 120
popolare, qui, invece, si corre il rischio che a dominare la scena sia il non libro per il non lettore, di cui qualche tempo fa discorsero burlescamente, ma poi non troppo, Fruttero e Lucentini. Di certo in quegli scaffali, che prevediamo ordinatissimi, non saranno allineati volumi suscettibili di interes-
sare e stimolare la curiosità di un lettore come Roberto Calasso. Con una simile, ma per ora ipotetica, biblioteca a disposizione non gli sarebbe stato sicuramente possibile scrivere un libro allegorico, storico, profetico, come La rovina di Kasch, che nasce proprio dalla lettura e dalla frequentazione di biblioteche fornite di libri veri, nei quali si rispecchiano crisi ed esaltazione, dubbi e certezze, ma soprattutto ricerca, studio, dibattito.
Un altro segno negativo della tendenza che veniamo descrivendo, è dato dal modo di presentazione del fenomeno critico. L'intensità della crisi non viene affrontata ed esaminata in discussioni alle quali partecipano intellettuali e scrittori, ma è più concretamente segnalata in base alle rilevazioni settimanali delle vendite eseguite da supposti tecnici in al-
cune librerie, scelte con il metodo del campione significativo, le quali, si dice, dovrebbero rappresentare l’universo librario. La stampa, specializzata e non, si affanna poi a divulgarne con regolare periodicità i risultati, facendo largo sfoggio di dati statistici, raffronti percentuali, indici e curve di tenden-
za. Proprio come in Borsa. E da tutto ciò emerge inequivocabilmente l’irreversibile diminuzione delle vendite dei libri nei vari generi letterari. A ciò si aggiunga che il linguaggio usato dagli implacabili commentatori nel presentare questi dati è secco, conciso, specialistico, esatto, proprio come deve esserlo un linguaggio tecnico, e ha una sua sinistra efficacia. Vediamone qualche esempio. I libri vengono finalmente chiamati, in omaggio alla precisione statistica e commerciale, con il loro vero nome: « prodotti», e valutati come « pezzi ». Eseguita questa fondamentale sistemazione terminologica, ne consegue un più adeguato tono nel commento: la narrativa italiana, denunciano drammaticamente, ma, sotto sotto, con una sadica e invidiosa enfasi, è sce-
sa in percentuale da x a y in numero, per l'appunto, di pezzi; bisogna poi considerare a quanto ammonta effettivamente il 121
rapporto fra se/l-out e sell-in, ammiccano nel loro linguaggio cifrato che è in via di sostituire quello critico nello stabilire la scala dei valori; la saggistica impegnata, invece, celebra i suoi trionfi statistici con il fatidico 100, raggiunto e mantenuto per x settimane dalla Storia della filosofia greca del nouveau philosophe nostrano, Luciano De Crescenzo (erede incontrastato della più alta tradizione culturale napoletana dei De Sanctis, Villari, Spaventa, Croce e tuttora in attesa del suo Luigi Russo), «prodotto » attorno al quale si è intrecciato un serioso e dotto dibattito per valutare se il suo disegno storico di scuole e filosofi greci sia divulgazione o il manifesto di un nuovo metodo storiografico applicato alla filosofia antica — senza accorgersi che tutto ciò non è una cosa seria. Addetti ai lavori di ogni specializzazione editoriale, critici, scrittori, ed ora, buoni ultimi, anche i presentatori di varietà televisivi, ammessi alla stanza dei bottoni della critica in
quanto detentori del filtro d’amore che riesce a forzare il borsellino dell’agognato acquirente, sono spesso chiamati al capezzale dell’illustre malata. Ma durante il consulto le idee si confondono definitivamente perché tutti quei soloni, una volta riuniti, non sanno bene di che cosa stiano parlando e dai loro discorsi non si capisce più se l’ammalata sia la letteratura 0 l’editoria, oppure tutte e due. E vero che l’una è in funzione dell’altra e viceversa, ma, quanto meno, i problemi e la malattia sono di differente natura. Infatti, non è detto che la
crisi dell’editoria debba necessariamente rispecchiare una crisi della letteratura, così come una crisi di quest’ultima può anche non provocare una crisi della sua trasformatrice industriale. Anzi, 11 più delle volte avviene proprio il contrario, dal momento che la letteratura è un fatto qualitativo e l’editorla quantitativo.
Nell’equivoco sembra cadere anche uno studioso serio come Gian Carlo Ferretti. Nel saggio // best seller all'italiana, che prosegue il discorso avviato con // mercato delle lettere, dopo aver svolto una critica serrata alla pratica editoriale, passa all’analisi di alcuni romanzi «di qualità », secondo la sua definizione. Si tratta dei romanzi di Calvino, di Eco e di
altri meno celebrati, i quali vengono passati al vaglio di una critica subordinata all’assunto socio-ideologico di base e all’i122
dea preconcetta secondo la quale un libro che vende rischia di essere frutto di un compromesso, della rinuncia dello scrittore alla ricerca e di un suo adeguamento alle esigenze commerciali del mercato. Ferretti tenta in effetti di avviare un discorso critico che tenga conto sia dell’« ingegneria» della ricerca letteraria, sia dei condizionamenti socio-culturali a cui
uno scrittore è inevitabilmente soggetto. È intento lodevole, il suo, ma viziato da un pregiudizio moralistico e a senso unico. Schematizzando, fino al limite del paradosso, per Ferretti gli scrittori, in genere, si comportano bene all’inizio (quando
non vendono), poi cominciano a comportarsi male (quando cominciano a vendere), fino a perdersi (quando vendono e hanno successo). Secondo questo schema, applicato tra l’altro a posteriori, non si salva nessuno, e si salvano tutti. Occorre invece rischiare criticamente, non trincerarsi dietro formule
moralistiche che finiscono, da un lato, per ghettizzare letteratura e lettori e, dall’altro, per alimentare equivoci sulla funzione positiva della pseudo letteratura. Dal numeroso gruppo di prefiche che fa da contorno al mesto panorama di una editoria sofferente, ecco staccarsene qualcuna che tra lacrime e urla sventola il libro privilegiato dalle statistiche e dai diagrammi: il romanzo rosa confezionato Harmony, il solo in grado di far salire tutti gli indici in maniera vertiginosa. Se la vera letteratura va male, l’editore ha dunque di che consolarsi: con la pseudo letteratura 1 lettori aumentano o, per meglio dire, aumentano gli acquirenti di romanzi rosa, precisano implacabili gli analisti del mercato, gli studiosi dei mass-media. I quali teorizzano poi, come se fosse l’ultima novità, che questo è solo il primo passo verso la formazione di un lettore vero, sicuro, affidabile. E questo il
lettore che merita fiducia, non quello che sceglie di testa sua: il lettore di Harmony ha dinanzi a sé la grande possibilità di affrancarsi un giorno dalla schiavitù di tali libretti e di emanciparsi passando, grazie a questa fondamentale maturazione letteraria, a un gradino superiore nella scala dei libri da leggere. Per intanto si abbeveri alla solita fontana. A parte la malafede con cui viene artatamente confuso il positivo della letteratura popolare con il negativo del prodotto Harmony in genere, e in attesa che la predetta educazione 29
letteraria del lettore si compia, che cosa dovrebbe fare il critico, anche quello «senza mestiere», e perciò più aperto e disponibile, secondo il profilo tracciato da Alfonso Berardinelli nel Critico senza mestiere, 0 il più modesto, perché non traviato da esasperate ideologie e metodologie, osservatore della «cosa letteraria»? Potrebbero tranquillamente abdicare entrambi a favore di Pippo Baudo, interprete più sicuro di loro dei gusti del pubblico perché in grado di determinare dalla sua cattedra di presentatore televisivo di varietà, con annessa rubrica libraria, quali libri il pubblico debba comprare (quanto a leggerli è un altro discorso): lo ha confermato, compiaciuto della scoperta, anche il filosofo De Crescenzo. Siamo ormai giunti a un tale grado di confusione che persino un fatto di così secondaria importanza è diventato oggetto di discussione accanto a dibattiti diben altra portata e a scapito di libri che meriterebbero una attenzione ancora maggiore di quanta già non ricevano. Perché anche in un’annata così controversa e depressa come l’attuale, il lettore di buona volontà o, meglio, «di qua-
lità » (prendendo a prestito la formula di Ferretti e trasferendola, con un atto un po’ arbitrario, dall'oggetto della lettura al soggetto leggente), ha avuto modo di imbattersi in libri interessanti e di essere attratto da proposte, magari discutibili, ma importanti dal punto di vista culturale. Solo che il nostro lettore avrà anche la sorpresa di constatare come le novità più stimolanti per la discussione gli siano arrivate solo in parte dalla tradizionale fonte della narrativa 0, comunque, dell’invenzione creativa: pochi i romanzi, scarsi i racconti,
qualche isolato bagliore dalla poesia: tutta qui la biblioteca dell’anno da tenere in evidenza. Mentre molto più ricco si è invece rivelato il genere critico, ossia quell’area della riflessione (a volte anche polemica, come nel caso del dibattito su come leggere un testo che ha visto rimettere duramente in discussione la leadership della semiologia), dove i problemi del fare e ripensare la letteratura si sono rivelati, al di là delle metodologie, così fecondi di stimoli anche sul piano della scrittura al punto di ribaltare, di fatto, quel rapporto normativo che abitualmente regola la gerarchia dei generi letterari. Stiamo forse per entrare in una nuova fase di un’età che, 124
con una certa larghezza, è stata definita della critica. Una fase che sembra preludere a un cambiamento determinato dalla crisi che la narrativa, intesa in senso lato, sta attraversando e
alla quale fa riscontro una più incisiva presenza del saggismo. Non siamo di fronte a una novità assoluta, già in passato abbiamo assistito ad altre crisi analoghe: la storia, che per secoli aveva sempre fatto parte della letteratura, è stata a poco a poco soppiantata dal romanzo che ha saputo dimostrare una maggior disponibilità e libertà sul piano del fantastico. Adesso invece sembrerebbe essere imminente l’ora di un nuovo sorpasso, in cui tocca al romanzo essere rilevato dalla saggistica, dove sembra che attualmente lo scrittore riesca a muoversi con più agio. Pur senza spingerci, come Guido Ceronetti, ad affermare che è diventato intollerabile che ancora
sì scrivano romanzi e a decretare, quindi, la loro velleitaria inutilità, anche qui, in questa rassegna che, per consuetudine, si è sempre aperta con l’esame della narrativa dell’anno, registriamo l’inversione di tendenza discutendo subito, in primo luogo, di saggi, di critica, di storia letteraria.
La narrativa, pur continuando a mantenere la sua posizione quantitativamente cospicua sul piano della produzione, sta cedendo il passo su quello qualitativo. Infatti le vere occasioni di dibattito le troviamo nell’ambito della ricerca critica di quegli scrittori che hanno saputo trasferire e fare proprie le suggestioni della scrittura creativa anche nell’esercizio interpretativo e speculativo dei testi. Segnalava questo mutamento di rotta nella nostra navigazione letteraria, quell’attento e fine osservatore che è Geno Pampaloni in occasione dell’uscita dei Saggi italiani di Giovanni Macchia, uno di quei libri incriminabili di trasformare la critica da discorso sulla letteratura a vero discorso letterario.In esso, quel grande critico e scrittore che è Macchia rivela ancora una volta ai suoi lettori quanto sia sterminata l'ampiezza del suo orizzonte culturale e dimostra, proprio grazie alla scrittura, come l’erudizione, quando è fondata su una autentica conoscenza,
sia l’esatto contrario dello specialismo. (Un riferimento a ciò si può avere con i due volumi di Scritti in onore di Giovanni Macchia, improntati a dare un quadro dei suoi «interessi più vivi»: «ad un concetto di ’’cultura’’ che allarga il suo campo 125
dalla letteratura ‘alle arti figurative, alla musica, allo spettacolo; ad una inquieta e stimolante curiosità di scrittore mo-
derno, partecipe del suo tempo; ad una multiforme esperienza di studioso ».) Del resto la letteratura, sia essa francese o italiana, narrativa o poetica o teatrale, è sempre stata per Macchia un’occasione per sviluppare un discorso personale in cui entrano in gioco altri fattori che portano ad altre definizioni. La letteratura non è fine a se stessa, ma lo specchio in cui si riflette il drammatico conflitto dell’uomo con la realtà sociale, psicologica, storica che lo ha oppresso nel corso dei secoli. Macchia segue, studia, indaga i vari movimenti dell’uomo per opporsi a questa condizione: il saggio « Tasso e la prigione romantica », che si riallaccia alla tematica del prece-. dente Pirandello o la stanza della tortura, è in tal senso esem-
plare della sua visione culturale. In quest’area creativa della critica e del saggismo incontriamo anche altri personaggi: Pietro Citati ed Enzo Siciliano, Leonardo Sciascia e Guido Ceronetti, tra quelli a noi familiari. Citati aveva già tracciato in libri e saggi precedenti un disegno biografico dei suoi personaggi in cui vita e opere si fondevano in un unico ritratto. Con. 7o/stoj, questo procedimento si è approfondito e affinato, e il fluire della sua prosa, a gara con il suo soggetto, diventa anch'esso narrativo. Citati scruta Tolsto] nella giovinezza e nella vecchiaia, lo segue nella scrittura dei grandi-romanzi Guerra e pace e Anna Karenina, spiega la sua tecnica narrativa, ma, al fondo, tenta anch'egli di arrivare, per via indiretta e nuova, al romanzo. Siciliano, invece, si pre-
senta più scopertamente con il biglietto da visita del critico: La Bohème del mare è una raccolta di articoli e di saggi, quasi un bilancio di dieci anni, questi ultimi, di letteratura. Eppure anch’egli ha una ragione creativa: la sua scrittura critica non è mai puro riferimento di fatti, situazioni, personaggi, ma cela un continuo interrogarsi sul senso della letteratura attraverso la ricerca di uno stile: per questo la sua pagina dà sempre l’impressione di rispondere a un calcolo inventivo anche quando è più impegnata su un testo. Il caso di Sciascia è invece più complesso. Accanto al narratore di storie, La sentenza memorabile ne è una ulteriore conferma, convive ormai stabil-
mente un saggista e polemista: entrambi, uniti nella scrittura, 126
contribuiscono a rafforzare quell’immagine di scrittore come uomo pubblico a cui Sciascia ambisce da sempre. Il suo saggismo non è mai stato a senso unico, ma in Cruciverba spazia. ancora di più. Qui ha riunito saggi letterari, riflessioni storiche, note a metà strada fra la politica e la cultura, dai quali
viene fuori quell’accanito indagatore di storie intellettuali che, sin dall’inizio, ha sempre dimostrato di essere. Dall’illuminismo di Sciascia al neo-gnosticismo di Ceronetti la distanza ideologica e culturale è enorme. Eppure non è sacrilego accostarli in questa visione del saggismo che ha come comune denominatore lo stile: ossia una saggistica che si può leggere come si legge un buon libro di narrativa, dal momento che presenta gli stessi elementi di curiosità e di suspense capaci di tenere desta l’attenzione del lettore. In questo senso Un viaggio in Italia, come, del resto, gli altri volumi sin qui ricordati, co-
stituisce una lettura «appassionante» (l’aggettivo è logoro e deteriorato dal troppo cattivo uso fattone nei soffietti editoriali, ma in questo caso viene restituito alla sua semanticità originaria): Ceronetti è scrittore scomodo, il suo moralismo non è ‘ patetico ma sferzante, il suo universo è quello dei libri e dei luoghi più appartati e segreti della società moderna. Nel suo Viaggio non c’è spazio per salotti e itinerari obbligati, perché egli rifiuta la geografia sentimentale per seguire un suo tracciato molto più impervio, per niente battuto, eppure ricco di sorprese per chi voglia abbandonarsi al racconto della scoperta di un'Italia che non è tanto sconosciuta quanto sopravvivente suo malgrado. La scelta di questi esempi a favore della critica e del saggismo degli scrittori, ai quali potremmo aggiungere Sette anni di desiderto, la raccolta degli articoli che Umberto Eco, questa volta fenomenologo e non semiologo, ha scritto osservando gli avvenimenti di questi ultimi anni, è una scelta in contrasto non solo con la narrativa, ma anche con l’ancora
imperversante esasperazione specialistica. Tuttavia non vuole affatto escludere altri lavori nei quali il problema della let-
teratura è affrontato e risolto con una chiave più tecnica ma, non per questo, meno seducente. Pensiamo, anche qui scegliendo, al libro di Gianfranco Folena sulla lingua nel Settecento giustamente premiato a Viareggio (L'italiano in Europa) e quello di Giovanni Nencioni che spazia nei problemi 01
linguistici da Dante a Pirandello (Tra grammatica e retorica); agli studi su Poliziano di Vittore Branca (Poliziano e l’umanesimo della parola) e alla ricognizione nella dimensione creativa di Cavalcanti e Dante compiuta da Maria Corti (La felicità mentale); e, passando dal tempo dei classici al nostro,
l’attenzione si sofferma su Miti, finzioni e buone maniere difine millennio di Walter Pedullà, in cui i protagonisti rispondono ai nomi di Debenedetti, D’Arrigo, Pizzuto, Zavattini, testi-
moni di esemplari avventure intellettuali e creative; alle ricerche che hanno per oggetto questioni storiche e di cultura popolare, quindi solo apparentemente a latere della letteratura, di Piero Redondi su Galileo (Galileo eretico) e di Piero Camporesi su come veniva considerato e giudicato il corpo umano nel Medioevo (La carne impassibile); infine, all’indagine condotta in chiave sociologica, secondo la sua specializzazione, da Graziella Pagliano sul tema servo e padrone nella letteratura
moderna e contemporanea (Servo e padrone. L’orizzonte det testi) e a quella del rapporto fra letteratura e musica, studiato con particolare riferimento all’opera di Thomas Mann, da Paolo Isotta (I! ventriloquo di Dio). Sì tratta di studi severi, a volte anche di ardua lettura per via dei problemi specialistici affrontati con rigore scientifico e strumenti critici acuminati, ma vi sono almeno due ragioni per consigliare ugualmente il lettore ad accostarvisi, vincendo il giustificato timore reverenziale. La prima è di metodo, e riguarda la lezione di serietà che egli ne può ricavare rispetto ai tanti fumismi scientistici che vengono esibiti e gabellati per vera scienza. Basta prendere il Poliziano di Branca: il libro . racchiude addirittura una intera vita di studi dedicati a uno scrittore, con problemi filologici, confronti di edizioni, ricer-
che di archivio, eppure il lettore sentirà, al di là delle fondamentali acquisizioni critiche e testuali, che questi anni di studio non riguardano solo Branca, ma contribuiscono alla formazione di una coscienza culturale. La seconda ragione è offerta invece dalla scoperta che il lettore fa quando si rende conto che può entrare a contatto con realtà e mondi sconosciuti e che dinanzi a lui si aprono, di conseguenza, orizzonti conoscitivi nuovi e ricchi di sorprese impreviste. Come non lasciarsi prendere dalla ricostruzio128 4. Gli anni Ottanta e la letteratura
ne della società settecentesca eseguita da Folena sull’onda dell’esame dei problemi linguistici del tempo. Il suo volumeè denso di dottrina, ma anche affascinante nelle formulazioni critiche che ci portano tra gli illuministi di Milano e di Napoli, nel laboratorio di Goldoni, a farci conoscere il rapporto fra letteratura e musica, per finire con una ghiotta e sorprendente analisi dell’ epistolario mozartiano, classico esempio di pastiche linguistico settecentesco. Una visione non settoriale della letteratura, ma aperta sulla storia e sulla cultura può sempre offrire sollecitazioni a chi non ha timore di affrontarne le colonne d'Ercole e di spingersi verso territori inesplorati. Ecco, allora, che anche una vicenda antica come quella di Galileo può offrire delle novità allo studioso: un documento d’archivio, mai considerato prima, è in grado di ribaltare prospettive storiche accreditate da secoli, ma, nelle mani di uno scrittore come Redondi dimostra d’essere, un documento
d’archivio può anche essere l’occasione per trasformare un libro dotto e specialistico in una lettura coinvolgente; così come | è sorprendentemente ricca la ricerca di Camporesi su ciò che ha rappresentato per secoli il corpo umano: letteratura, tradizioni popolari e religiose, costume, sono gli elementi da cui estrarre il quadro di un'epoca in cui il corpo non era oggetto di cure come oggi, ma visto come un luogo di peccato e andava perciò mortificato. In sostanza, si può indirettamente, ma con assoluta tran-
quillità, riaffermare che sono ancora i classici a offrire le maggiori e migliori occasioni di riscontro culturale e metodologico, come del puro piacere della lettura. In attesa di poter celebrare l’edizione delle Grazie foscoliane approntata da Mario Scotti, che costituirà un avvenimento in quanto proporrà, sulla base di documenti inediti e di studi approfonditi, una nuova, diversa e più plausibile composizione del classico carme foscoliano, segnaliamo, tra le molte citabili, alcune ini-
ziative dedicate a edizioni di classici: l’edizione a cura di Giorgio De Rienzo (autore anche di una brillante biografia di Gozzano) dei romanzi di De Roberto, scrittore molto co-
nosciuto per Z Viceré e troppo poco per gli altri suoi libri (ai Viceré dedica uno studio problematico e ricco di implicazioni critico-metodologiche Gianni Grana con «/ Viceré » e la patologia del reale); il primo volume dei Versi d’amore e di glo129
ria dannunziani prefato da Luciano Anceschi, l’edizione commentata da Federico Roncoroni dell’Alcyone e di una scelta di Prose, la biografia del «vate» di Paolo Alatri (Gabriele D'Annunzio) che esplora i significati degli atteggiamenti e dei miti dannunziani al di là delle convenzioni acquisite; la riproposta di Giovanni Faldella con la ristampa della classica edizione di Giansiro Ferrata delle Figurine e il recupero del «viaggiatore » con A Vienna. Gita con il lapis e A Parigi. Viaggio di Geronimo e Comp.; una scelta di Commedie dei comici dell’arte a cura di Laura Falavolti che propone di recuperare letterariamente l’esperienza della commedia dell’arte ritenuta, a torto, solo frutto di improvvisazio-
ne; poi, sull’onda della riscoperta dei moralisti avviata da Macchia, abbiamo il trattato di Torquato Accetto, Della dis-
simulazione onesta curato da Salvatore S. Nigro. In questo quadro non vanno trascurati 1 classici contemporanei, di cui si vengono pubblicando opere minori o inedite, ma che offrono prospettive nuove o aggiungono ulteriori elementi di giudizio a una loro più approfondita conoscenza. E il caso del Quaderno genovese, diario del 1917 di Montale, curato da Laura Barile, e di Conversando con Montale, in
cui Ettore Bonora ci introduce nell’ambito di un Montale domestico, ma non meno caustico; di A S:0://a, la raccolta delle
lettere che Quasimodo scrisse alla Aleramo durante il loro breve e tormentato amore presentata con arguzia aneddotica ‘e impegno critico da Giancarlo Vigorelli; dell’insieme di testi che stanno uscendo dall’officina gaddiana: le Lettere agli amici milanesi, l’importante inedito curato da Dante Isella,
Racconto italiano di un ignoto del Novecento che apre uno squarcio sul Gadda giovanile e, relativamente al Pasticciaccio, il «trattamento» cinematografico preparato .dallo stesso Gadda con il titolo // palazzo degli ori; l Epistolario di Carlo Michelstaedter, uno degli autori chiave ancora da scoprire del primo Novecento, curato e annotato da Sergio Campailla; inoltre, sempre per rimanere nell’ambito della letteratura degli inizi del secolo, segnaliamo la raccolta delle prose e degli articoli di Piero Jahier curata da Ottavio Cecchi e Enrico Ghidetti, Con me, e un assaggio dell’epistolario di Saba approntato da Aldo Marcovecchio, La spada d’amore, che coincide con il centenario della nascita del poeta triestino. 130
Tutte queste opere, di critica o creative, appartengono in qualche modo alla storia e pongono problemi da inquadrare dal punto di vista storico, anche quelli più strettamente filologici affrontati da Maria Corti in La felicità mentale o da Scotti nel proporre una nuova disposizione delle Grazie. Ma quale storia del fenomeno letterario è possibile, oggi? Siamo alle soglie del 2000 e le cifre tonde hanno sempre avuto il potere psicologico di indurre a far bilanci, a riassumere il passato, a proiettare nel futuro discussioni e problematiche. Per quanto dibattuto all’incirca da due secoli, si può dire da Tiraboschi in poi, il problema della storia letteraria è tuttora da considerare aperto se una iniziativa come quella avviata da Alberto Asor Rosa con Letteratura italiana ha sollevato tante discussioni e polemiche proprio per la sua impostazione programmatica e metodologica. Questo, attorno alla storia della letteratura, è stato l’unico vero dibattito culturale dell’anno. Dopo tante futilità (l’ultima è quella di riempire pagine e pagine di giornale per celebrare il ventennale del Gruppo 63, quando sarebbe bastato ricordare la fine ultra-borghese che hanno fatto quegli pseudo rivoluzionari: romanzieri di successo, professori universitari, dirigenti industriali, deputati, ui è stato finalmente
riproposto un tema di fondo in cui entrano in discussione motivazioni culturali, ideologiche, di metodo: consenzienti o dissenzienti, ma questi ultimi sono i più, tutti coloro che hanno partecipato al dibattito sollevato dalle proposte contenute nel saggio programmatico di Asor Rosa, « Letteratura, testo, società », che apre il primo volume dedicato al tema: // letterato e le istituzioni, si sono posti la questione di quali siano attualmente le prospettive per una storia letteraria. Asor Rosa propone una analisi storica della letteratura diversa da quella canonica, diciamo di stampo desanctisiano, una storia non centralizzata ma variata negli apporti, aperta al pluralismo, che tenga conto in primo luogo dei testi rispetto all'insieme dei rapporti con le istituzioni letterarie: insomma sembra che la letteratura sì stia prendendo una rivincita sulla storia in un disegno che ingloba l’ambizioso progetto di realizzare un nuovo modo di fare la storia. In realtà, a uscire sconfitta da questo progetto non è tan131
to la storia quanto lo storicismo che ha dominato in questo dopoguerra la cultura italiana e, in particolare, quella di sinistra. Il coro di rimproveri, ora ironici, ora pungenti, ora irritati, è stato pressoché unanime: poca o punta storia, parzialità di visione e di giudizio (specie da parte di Asor Rosa nel suo saggio «Lo stato democratico e i partiti politici»), più teoria che prassi storica; e poi: dove starebbe la tanto conclamata «centralità del testo» se a mancare, nell’insieme di approcci socio-politici e analisi fenomenologiche, sono proprio il testo e gli scrittori? Se il primo dei nove volumi ha sollevato tali riserve, non pensiamo che il secondo, dal titolo Produzione e consumo, sia
in grado di fugarle; anzi, ci pare semmai che rischi di accentuarle ancor più, dal momento che nella maggior parte dei contributi, ispirati a una concezione sociologica della produzione e del consumo letterari (dove, però, produzione non corrisponde a scrittura e consumo a lettura), troviamo una quantità di informazioni e notizie che possono far pensare a una imponente raccolta di dati anagrafici e catastali per far da supporto propedeutico a una storia ancora tutta da scrivere oppure a un suo utilizzo documentario in appendice. Non solo, ma in questo insieme, per la verità abbastanza nebuloso, di cifre ed elenchi, nonostante la limpida schematicità tabellare, i protagonisti della storia letteraria, ossia testo e scrittori, si vanno sempre più allontanando all’orizzonte, rimpiazzati in questo caso dalle nozioni e dalle riflessioni dei nuovi teorici della storiografia e della sociologia letterarie. Altro che rivincita della letteratura sulla storia! In altre parole, proprio quest’ultima considerazione potrebbe costituire, sia pure per via indiretta, una ulteriore conferma di quella crisi della creatività di cui stiamo parlando e che si manifesta in tutta la sua evidenza quando passiamo a esaminare l’andamento della narrativa. Non è infatti casuale che in un momento di confusione come quello che stiamo attraversando, i libri di narrativa più riusciti e che più hanno attratto l’attenzione di critici e lettori, siano proprio due opere che molto difficilmente potremmo ascrivere al genere romanzesco tradizionale: alludiamo a // Natale del 1833 di Mario Pomilio, premiato allo Strega, e NE%,
La famiglia Manzoni di Natalia Ginzburg. Tanto per cominciare, tutti e due gli autori si rifanno, come i titoli dei loro libri annunciano, a un personaggio del tutto particolare qual è Manzoni: in primo luogo hanno a che fare con uno scrittore, con tutto quello che ne consegue sul piano di una letteratura che si fa sulla letteratura; inoltre è personaggio vero e non d’invenzione, dalla vita tutt'altro che avventurosa e romanzesca, con un ménage famigliare sin troppo sospettosamente lineare per non sollevare curiosità su eventuali misteri e risvolti morbosi e psicologici rimasti insondati. Entrambi riprendono inoppugnabili dati storici, ma più che ai fatti e agli avvenimenti realmente accaduti, si richiamano a temi suggeriti da occasioni meno definite storicamente, quali possono essere una poesia incompiuta e le lettere che si sono incrociate nell’entourage manzoniano. Quindi, se già sin dal ruolo dei personaggi, come dall’uso dei materiali, siamo distanti da testi che potrebbero essere in un qualche modo chiamati romanzi storici, non parliamo poi della tecnica narrativa che lo esclude totalmente e li situa, anzi, in una specie di
zona franca. Sia la Ginzburg che Pomilio, impiegando tecniche differenti, se non opposte, hanno indicato una strada che diverge dal tracciato romanzesco tradizionale. E vero che in entrambi i casi la loro sensibilità di scrittori si è espressa con tematiche particolarmente congeniali: Pomilio su un’opera appena abbozzata, pressoché inesistente, qual è l’incompiuto «inno sacro» manzoniano del Natale, ha inventato, come già aveva
fatto con Il quinto Evangelio, un racconto di straordinaria intensità poetica e grande finezza psicologica riproponendo nelle sue pagine motivi e problemi della creazione artistica assieme a una grave crisi interiore, quella che ha colpito Manzoni dopo la morte di Enrichetta. La Ginzburg, invece,
seguendo il tracciato degli epistolari che s’incrociano e le cronache che ne sono state tramandate, sì è inoltrata nei mean-
dri della famiglia Manzoni e ne ha ricostruito ambiente e atmosfera, oltre a uno stupendo ritratto di Alessandro, attra-
verso un collage delle lettere che si sono scambiate congiunti e amici con le testimonianze reperite. Anche in questo caso i precedenti di storie famigliari che si possono trovare nell’opera della Ginzburg contano parecchio. 133
Sarà una coincidenza fortuita, ma, al di là dei risultati conseguiti, va ben valutata questa indicazione che arriva da esempi di letteratura sulla letteratura, i quali si avvicinano di più a quel terreno riflessivo che abbiamo già toccato che non a quello più strettamente narrativo di cui dovremmo pur cominciare a parlare. Ma ecco, ancora, un altro caso emble-
matico di questo malessere del narrare, a cui sembra sempre più difficile sfuggire, giungerci da una lodevole iniziativa dell’editore Einaudi di far tradurre gli scrittori da scrittori. Esempi di ricreazione letteraria del genere, di testi ripescati dal gran fondo dei classici e ripresentati con l’avallo di scrittori contemporanei, non sono mancati in passato né, tanto meno, di recente (basta ricordare l’ammirevole lavoro di Maria Bellonci sul Milione da cui è poi nato il Marco Polo televisivo), ma questo di Einaudi è diverso: si tratta di una vera collana, programmaticamente impostata, dove la traduzione non è esercizio ma vero lavoro di creazione, come quello che ha tenuto impegnato Giorgio Manganelli per un anno a rifare i racconti di Poe in italiano. Leggere romanzi e racconti classici come // processo, Madame Bovary, Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Sign. Hyde, Candide, tradotti da Primo Levi, Natalia
Ginzburg,
Fruttero e Lucentini,
Bacchelli, fa
sempre bene alla formazione culturale della collettività, ma se gli si dà un così ampio risalto, quasi da alternativa ad altre letture, allora significa anche che è un segno dei tempi, un sintomo che ci sono poche novità e che non mancano solo i ricambi ma persino i rincalzi. Una scorciatoia per eludere le difficoltà del raccontare romanzesco la nostra letteratura l’ha sempre praticata con il narrare breve, la novella in passato e il racconto oggi, dove abbiamo esiti tra 1 migliori, specie nel Novecento. Siciliano si è provato ad antologizzarlo, ma va detto subito che il panorama che ne esce desta qualche perplessità. Tutte le antologie sono discutibili nel bene e nel male per le esclusioni e le inclusioni, per il taglio, le prospettive e gli apparati. Racconti italiani del Novecento lo è sotto tutti i punti di vista. Tra le inclusioni, bene quelle di Bruno Cicognani e Giani Stuparich, Luigi Bartolini e Lorenzo Viani, ma azzardate quelle di Marinetti e Papini, per non scendere a disquisire in mez134
zo agli ultimi e ai giovanissimi; tra le esclusioni, per me risulta incomprensibile quella di Arpino nonostante le giustificazioni; taglio e prospettive vengono di conseguenza: per certi aspetti, il panorama del racconto del Novecento è forse più provocatorio che rappresentativo con la presenza di Marinetti e Papini, due intellettuali che hanno fatto di tutto per negare con l’avanguardia, il frammentismo, il lirismo, proprio quella narratività di cui Siciliano si impegna nella « Premessa» a tracciare teoricamente, storicamente (ma come si può ignorare Verga?) e praticamente le coordinate, insistendo con giusto rilievo sulla presenza e sulle caratteristiche positive della ricerca narrativa dei « periferici » rispetto ai « manifesti» delle centrali letterarie. Mentre le singole note introduttive sono spesso sinteticamente centrate (esemplare, per esempio, quella a Soldati), gli apparati lasciano invece a desiderare, sono carenti e inadeguati per una antologia come questa che si annuncia con il criterio della rappresentatività, per quanto selettiva. Il racconto vive, dunque, grazie a una sua linfa sotterranea, ma un po’ marginale rispetto al più imponente, quanto a mole, romanzo. Anche perché da noi, altra curiosa e inspiegabile contraddizione, alla solida tradizione del narrare breve non corrisponde una altrettanto radicata abitudine alla lettura del racconto. Forse perché i volumi di racconti si presentano spesso raccogliticci, messi assieme per presenzialismo annuale in libreria anziché per necessità, fatto si è che il lettore lo avverte, e spesso tralascia diffidando del genere. Peccato perché // merlo di campagna e il merlo di città del sanguigno Davide Lajolo è un bel libro, La cosa di Alberto Moravia raccoglie un gruppo di racconti sul tema del sesso, «favole erotiche » le ha definite Siciliano, che sono difficili da eludere nel corso moraviano. Tutte queste esitazioni di giudizio e riserve ci portano a concludere che la narrativa tradizionalmente intesa non ci pare in grado di offrire, quest'anno, un panorama nel complesso convincente. Anzi, rispetto al passato sembra essersi ulteriormente impoverita in una uniforme piattezza, in un elenco di libri onesti ma modesti. Sarà una nostra debolezza,
o, anche, incapacità a cogliere un senso latente di vitalità, sarà una fissazione quella di voler cercare ad ogni costo, come 139
andiamo facendo da anni, spingendoci spesso anche controcorrente, quella linea di romanzo che, magari, proprio non c'è, ma l’impressione è di star attraversando uno di quei periodi in cui si realizza con una sincronia di movimenti quasi perfetta un tipo di letteratura di consumo di media qualità (da non confondere infatti con la «qualità » di Ferretti, quel-
la è un’altra cosa). Questo tipo di letteratura giustifica le bandelle critiche e, nello stesso tempo, le coscienze degli edi-
tori, ottiene il consenso (magari con un po’ di degnazione) della critica, ma non quello incondizionato del pubblico che ci sta sempre meno a seguire i giri di valzer di editori e critici e vuole andare sul sicuro: ecco perché circolano sempre i soliti nomi. Non si tratta di una letteratura scadente, anzi: ha le
sue architetture a posto, i personaggi si muovono con il piglio di chi recita dignitosamente la parte, le situazioni si presentano con la necessaria problematicità; tuttavia questo perbenismo ha il difetto di non sfuggire al convenzionale e di essere ripetitivo. Il pubblico, lo ripetiamo, intuisce, e recalcitra. Probabilmente allo scontento del critico e all’indifferenza del lettore fa riscontro l’interesse del sociologo e dello storico (eccoli di nuovo in prima fila, gli emergenti della nuova società letteraria), perché tale situazione rispecchia il gusto medio di un momento particolare, caratterizzato, da un lato,
dalla trascuratezza per la narrativa libraria e, dall’altro, dal successo inarrestabile dei colossa! televisivi, tratti spesso da quei buoni romanzi medi di consumo che non hanno nessuna pretesa intellettuale di passare per quello che non sono. A questo punto resterebbe solo l’imbarazzo di elencare la rosa dei bravi ragazzi, con titolari, panchinari e riserve, ma tanto vale, dopo simili ammissioni, confessare che non ce la sentiamo di andare oltre un collettivo attestato di stima per una serie di libri pazientemente seguiti e censiti lungo l’intero arco di un anno. Ma esistono alcune preferenze. Qui, però, bisogna tagliare corto con l’obiettività critica e dichiarare che siamo nel pieno dell’opinabile e nel più personale dei gusti. Allora, esse preferenze, vanno alla Conchiglia di Anataj di Carlo Sgorlon, premiato al Campiello, a Dorsoduro di P. M. Pasinetti, alla Sposa segreta di Giovanni Arpino, a Casa di guerra di Isabella Bossi Fedrigotti, guarda caso, tutte ope136
re di narratori che hanno saputo raccontare le loro storie senza lasciarsi intrappolare dalle complicazioni tecniche, intellettualistiche, psicologiche che hanno invece attratto alcuni dei più celebrati successi demoscopici; ad alcuni romanzi «a tesi» quali il sorprendente, anche se imperfetto e datato, La città e la selva di Guido Ghersi, raro esempio di romanzo cattolico; ai romanzi fatti bene, secondo la definizione datane da Sciascia, di Giorgio Soavi, in cui memoria, ritrattistica e
gusto sono fusi con finezza come ne // conte; e di Corrado Augias, Il fazzoletto azzurro, che è ben più di una spy-story; a due opere prime di diverso impianto ma di sicuro valore: Casa in vendita di Tommaso Alibrandi e, soprattutto, Lo stadio di Wimbledon di Daniele Del Giudice che chiude bene la rassegna narrativa perché ci riporta, con la sua storia sull’onda dell’invenzione letteraria che si rifà alla letteratura,
all’ipotesi iniziale: non a caso tra i protagonisti troviamo il mitico Bobi Bazlen e le memorabili figure montaliane di Dora Markus e Gerti, ancora altri personaggi letterari... Tutte queste riflessioni sulla decadenza della «cosa letteraria», resa particolarmente evidente dalla crisi della narrativa, che spaziano da problemi di costume e di moralità culturale a questioni di politica e di sociologia della letteratura, non toccano invece, o sfiorano appena, il discorso poetico. Anche la poesia, naturalmente, ha i suoi problemi, perché la crisi editoriale non guarda in faccia nessun genere e colpisce con durezza i più deboli, come appunto è la poesia, limitandone drasticamente lo spazio produttivo; inoltre la figura del poeta ha conosciuto in questi ultimi anni cambiamenti di immagine non indifferenti in seguito alla nuova realtà e ai nuovi rapporti con i lettori determinatisi dopo il fenomeno dei festival e delle letture pubbliche e, quindi, bisogna fare 1 conti con l’esplosione di curiosità, forse più che di vero interesse,
per quell’alone misterioso, suggestivo, intimidatorio, vagamente plagiante, che poesia e poeta hanno sempre emanato e continuano ancora ad emanare, senza però riuscire a desacralizzare del tutto il mito che la parola poetica sia incomprensibile e oracolare. Tuttavia, i problemi inerenti all’attuale situazione poetica non escono dall’ambito del sistema e non soffrono, come la narrativa, per la presenza delle indebite inETA
st’anno a Viareggio per la breve, ma intensa, raccolta di prosa poetica € poesia, Glenn. Se i testi appena citati di Zagarrio e Cucchi rappresentano gli estremi di due concezioni di ricerca, tuttavia entrambi hanno una loro validità, rispon-
dendo l’uno a una esigenza di sintesi, l’altro a una registrazione estesa e onnicomprensiva, e perché offrono, da punti di vista diversi, uno spaccato di come si fa e come si giudica la poesia. Ma è abbastanza curioso, anche se giustificato, che, per esempio, nessuno dei due registri Alberto Arbasino come poeta. Le occasioni di poesia per l’autore di Fratelli d’Italia sono state forse casuali, però a vederle ora riunite in Matinée ci si rende invece conto di come egli abbia praticato con continuità, estro e allegria la scrittura poetica quasi come se si fosse applicato a una specie di diario o di rappresentazione animata. All’accusa di essere uno showman, Arbasino ha ri-
battuto, con ragione, che gli spunti dei suoi versi vanno trovati, sì, nell’evolversi culturale e delle mode, ma anche nei problemi civili che contemporaneamente esplodevano. Sta dunque per riaffiorare un’idea di poesia impegnata? Sia pure su versanti opposti, quella di Nelo Risi e di Giovanni Testori possiamo considerarla poesia impegnata. Con / fabbricanti del bello, Risi celebra i creatori artistici e intellettuali nel momento del loro fare, anzi « fabbricare ». Ne nasce
una poesia colta per via dei materiali impiegati, ma di una limpidezza esemplare quanto a dettato. La tendenza di Risi verso una scrittura poetica lineare non è, del resto, scoperta
di oggi; semmai, oggi va segnalato l’indirizzo dichiaratamente intellettuale che ha preso con questo ultimo libro. Se Risi eleva i suoi personaggi alla misura estetica del «bello» e quindi verso il divino, Testori invece si rivolge direttamente a Dio, senza bisogno di mediazioni. La sua poesia ha ormai un senso esclusivamente religioso: in Ossa mea egli continua il solo discorso che vuole portare avanti perché ritiene che l’unica ragione per scrivere versi sia quella di identificare la poesia con la preghiera, la più umile come la più tormentata. Di qui anche la forma nuova della poesia testoriana. Il suo linguaggio, un tempo turgido e barocco, è ormai scarnificato, ridotto all’essenza del massimo dialogo; eppure da questa cadenza, da questa ripetitività quasi ossessiva nasce un ritmo, 140
sì generano immagini che sostengono e impongono l’isolato e inquietante impegno religioso dello scrittore Testori. , Continuando a cercare corrispondenze tra i libri di versi messi da parte durante l’anno, ci pare intravedere il delinearsi di alcune ipotetiche coincidenze, come questa dell’impegno, o, per esempio, il profilarsi di una linea di poesia che trae le proprie occasioni dalla letteratura. Niente di nuovo, certo, ma sono fermenti che esistono. Abbiamo già visto i casi di Arbasino e di Risi, ma quello più dichiarato, anche per la resa poetica, è offerto da Giuseppe Conte con L'oceano e 1/ ragazzo. Chi già conosceva Conte per L'ultimo aprile bianco, qui ripreso, non stupirà dinanzi alla sua sontuosa costruzione poetica; tuttavia bisogna pur dire che essa si sostiene perché Conte ha alimentato la sua nativa natura di poeta con una pratica culturale in cui confluiscono gli echi del barocco (Conte è studioso del barocco e di retorica) e le suggestioni più intriganti del moderno e che il suo sperimentalismo non è fine a se stesso: Conte non gioca con le parole e le immagini, ma riesce a dar loro un senso metrico e sostanziale. Su
una analoga linea di ricerca, ma con esiti diversi, si muovono anche altri poeti tra i quali segnaliamo, in particolare, Angelo Mundula e Dante Maffia perché i loro ultimi libri testimoniano che stanno attraversando una fase di crescita e di maturazione. Tutti e due sono autori di poesia colta, intessuta di immagini e suggestioni intellettuali e letterarie come gli stessi titoli denunciano: Ma dicendo Fiorenza di Mundula e Caro Baudelaire di Maffia. Ma, questo è il punto, non si crogiolano nella loro trovata e, anzi, cercano, partendo da
questa base, di trovare una loro dimensione: più contratta, allusiva, gnomica quella di Mundula, distesa, quasi cantata e narrativa quella .di Maffia. Il fatto, però,è un altro, e rimanda a una considerazione più generale, magari a una futura ipotesi di lavoro. Forse è ingiusto e non obiettivo piegare e strumentalizzare i testi per provare una tesi, come in maniera un po’ capziosa stiamo facendo, ma il ritrovare anche in poesia alcuni segni di quella tendenza all’utilizzo della letteratura come tema, conferisce,
| quanto meno, unità a tutto il discorso e autorizza a ipotizzare che potrebbe essere la caratteristica di fondo di questo particolare momento di crisi della creazione letteraria.
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1984
«Gli editori traballano anche sulla rive gauche, svalutano il capitale, si fondono, si amalgamano,
vanno
in malora, ma
moriranno stampando; il pubblico fa un piacere ai librai quando si degna di comprare quasi con lo sconto di cui essi godono; i letterati e i giornalisti sembrano tante Cassandre... Di chi la colpa? Il sentimento più chiaro di chi da vent'anni si arrabatta tra la carta e l’inchiostro; testimone sgradito, è la noia, che vince persino l’irritazione. Fiumane di libri, opuscoli, periodici, invadono, di settimana in settimana, un mer-
cato ultra saturo, e scompaiono misteriosamente: chilometri di magazzini riboccano di roba che non si venderà mai, né a una lira né a un soldo, e su di essa s'imperniano bilanci romanzeschi, e percentuali di sogno... Davanti a questa superproduzione tumultuosa, il pubblico sì stanca. E il lavoratore serio, sente che la sua opera non ha più spicco, annega prima che qualcuno se ne sia accorto. Chi ha ormai tempo di distinguere? Chi lo consiglia, lo guida?... » E difficile, giunti alla fine di questo 1984, non consentire con l’impietosa analisi della situazione letteraria che abbiamo appena trascritto. Solo che la suddetta citazione non è stata presa da un bilancio critico apparso di recente, e nemmeno dallo sfogo di uno scrittore o di un moralista, deluso e indignato da come stanno andando le cose nelle patrie lettere. Appartiene invece a un articolo di Arrigo Cajumi, Nuova letteratura?, pubblicato sulla rivista
«La Cultura», n. 10, di-
cembre 1934, ossia esattamente cinquant’anni fa dal momento in cui queste note vengono stese. Poiché risulta evidente una stretta coincidenza fra la situazione denunciata da Cajumi e quella attuale, viene da do145
mandarsi se le cose non siano cambiate da cinquant’anni a questa parte oppure se siamo ritornati indietro di mezzo secolo senza fare tesoro dell’esperienza. Stando, almeno per ora, ai dati socio-culturali, prima di passare alla descrizione
di quelli più strettamente letterari, si potrebbe osservare che dal punto di vista editoriale è cambiato ben poco: le leggi del mercato sono quelle che sono e vanno rispettate, o se ne subiscono le conseguenze; le case editrici possono darsi strutture organizzative nuove e diverse, ma dal punto di vista congiunturale l’evolversi delle situazioni pone sempre l’editore di fronte alla necessità di contemperare le esigenze che il pubblico manifesta, cercando magari di orientarle nel senso migliore con un disegno culturale. Si potrebbe così realizzare quella che Vittorio Spinazzola definisce La democrazta letteraria, chiamando in causa anche i creatori di letteratura, gli scrittori, e avviando una «riflessione articolata sugli aspetti relazionali dell’attività letteraria» al fine di «indagare con qualche presupposto di coerenza una serie di aspetti dell’attività letteraria inquadrati in una concezione di tipo funzionalista». Naturalmente per Spinazzola il concetto di « democrazia letteraria» non ha nulla di demagogico, ma si realizza nell’«atteggiamento di chi chiede ai fruitori del bene estetico da lui prodotto non una accettazione passivamente subalterna ma un consenso partecipativo ».
Continuando nella sua analisi, Cajumi allora si poneva la questione «se ormai il fatto letterario non sia superato da qualcosa di diverso, se la sensibilità del lettore non sia diretta verso altre forme di trattenimento ». È continuava: « Il consumo di materiale romanzesco, ossia la quantità di visioni, emozioni, che ci giungevano attraverso il libro, trova da soddisfarsi più facilmente e comodamente mediante il cinematografo, o la radio. Per tutti coloro che altro non cercano se non di passare il tempo, e di distrarsi, o di riposarsi evadendo dalla realtà quotidiana, il cinematografo offre con rara abbondanza un materiale di prim'ordine... ». Se mutiamo i termini: cinematografo e radio con televisione e settimanali, possiamo constatare che a distanza di cinquant’anni la realtà non è affatto cambiata per la letteratura, semmai è peggiorata, dal momento che oggi chi vuole 146
distrarsi non deve neppure fare il sacrificio di muoversi per andare al cinema. Il divertimento, la televisione glielo garantisce a casa, e con doviziose possibilità di scelta. « Come oppio, il cinema batte di gran lunga la lettura » constatava CaJumi. Figurarsi ora con la televisione che porta in casa tutte le immagini possibili da tutto il mondo. Il «destino del libro» è dunque segnato? Su questo argomento è apparso un volume che porta lo stesso titolo e raccoglie gli interventi del convegno « Editoria e cultura. Per il trentennale degli Editori Riuniti, 1953-1983 », tenuto a Mo-
dena alla fine del 1983. Tra gli altri, gli interventi di Roberto Bonchio, Ernesto Ferrero e Gian Carlo Ferretti, specifici sull’argomento, esprimono motivatamente fiducia, pur partendo da posizioni diverse e affrontando il problema con ottiche differenti. Ma tutti e tre finiscono per riporre la loro fiducia nella risoluzione politica o nel confronto tecnico con i mass-media, mentre il nocciolo della questione è anche creativo e molto più radicato nella letteratura di quanto si voglia ammettere. Se dobbiamo credere a Borges quando afferma che «il libro è un’estensione della memoria e dell’immaginazione», allora è chiaro che il libro, per essere all’altezza di tale ideale, deve potersi affermare con una indiscutibile forza espressiva e inventiva. Solo così può diventare memorabile e sconfiggere i vari racket dell’industria culturale che attualmente monopolizzano e indirizzano il gusto del lettore sulla strada della perdizione. Per questo pensiamo che i mali della letteratura debbano essere curati con rimedi della letteratura. Ma tutto ciò presuppone un modo di considerare i libri, e quindi di leggerli proiettandoli nel futuro della memoria. Qui entra in gioco la critica. Molto si è discusso in questi anni su come leggere, sulla necessità di comprendere, sul principio dell’obiettività; ma una critica consapevole dovrebbe anche saper distinguere, indicare valori, non azzerare tutto, co-
me oggi va di moda, in nome di una logica basata sul presunto funzionamento tecnico dell’opera d’arte, per cui un libro può essere smontato e rimontato all’infinito come fosse un oggetto meccanico. Perché a differenza di un oggetto meccanico, per il quale l’operazione deve seguire schemi obbligati, un libro si presta a una infinita varietà di operazioni, ossia di 147
letture, dal momento che possiede, o almeno dovrebbe possedere, una sostanza interiore che garantisce la ricchezza effettiva del testo e che va interpretata. Come dimostra, per esempio, di saper fare Cesare Segre, che è in grado di fondere nella tecnica dell’analisi semiologica dei testi la sua innata sensibilità di lettore: il recente 7eatro e romanzo ne è una ulteriore riprova. La riduzione a schema dell’opera è stata la punta estrema ed esasperata di una concezione livellatrice della letteratura. Nutriti da una sfrenata presunzione scientistica, i seguaci di tale metodo si sono illusi, in primo luogo, di riuscire a imbrigliare la fantasia e a imprigionare l’invenzione, e poi di ricondurle a un comun denominatore per cui tutto sì uniforma, lasciando intatta solo la scrittura. Ma una scrittura
considerata come puro segno, materia senza vita stesa inerte sulla superficie neutra della pagina. A questo punto la letteratura non conta più niente, conta invece il prodotto letterario buono a tutti gli usi e che viene sfruttato per le operazioni più azzardate, le quali, alla fine, finiscono spesso per rivoltarsi come un boomerang proprio contro chi le ha avviate. L’indecoroso e grottesco spettacolo livornese di una critica beffata, irrisa, additata al ludibrio generale per i falsi Modi-
gliani è un tipico esempio di che cosa può succedere all’arte nella civiltà della tecnica quando il protagonismo mette in secondo piano i problemi dell’«aura» e dell’« unicità», di cui parla Walter Benjamin nel suo libro L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Tutto ciò dovrebbe pure insegnare qualcosa a coloro che fanno professione di cultura, artisti, critici, filosofi, operatori culturali. Il diritto all’errore
è condizione integrante di questo mestiere che si basa su una visione culturale, ma che è essenzialmente una scommessa di
gusto. Per questo la misura, l’umiltà, il rifiuto del protagonismo, il sapersi sottrarre allo spettacolo costituiscono le premesse per il formarsi di una disposizione morale e per una scelta di metodo che devono ricondurre tutti a osservare con maggior senso di responsabilità artistica e critica le condizioni dei fenomeni culturali. In letteratura non corrono i grossi interessi economici che dominano l’arte e il mercato artistico. Le biblioteche non sono
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musei, gli editori non sono mercanti (non come quelli d’arte, per lo meno), i convegni e i festival non sono aste, altrimenti il
clamore per alcune scandalose affermazioni e prese di posizione sbandierate in passato dalla neoavanguardia e ancora oggi da una critica affetta da inguaribile esibizionismo non sarebbe stato certo inferiore. Ma i guasti provocati da tale comportamento, che parte da lontano, dalla scuola per esempio, non sono da meno, se pensiamo alla grave crisi di valori e di credibilità che sta attraversando la cultura letteraria. E c’è il rischio che diventino irreparabili quando si comincia appunto dalla scuola a inculcare immagini parziali e tendenziose della letteratura, nella fattispecie quella contemporanea. Pensiamo a quale immagine del Novecento avrà lo scolaro che durante gli anni del liceo studierà su una antologia come quella scelta e organizzata da Mauro Bersani e Maria Braschi e che Maria Corti avalla e introduce con tutto il peso della sua autorevolezza di studiosa: Viaggio nel ’900. Arrivati quasi alle soglie del 2000, cominciamo pure a sfrondare l’albero novecentesco dei frutti secchi e non maturati, a tagliar corto con certe cautele e a prendere in considerazione solo ciò che conta veramente. Ma facciamolo con una prospettiva storica obiettiva, non privilegiando per esempio le tendenze sperimentali dei nipotini e scartando, nel contempo, gli sperimentalismi dei nonni e dei padri che, in certi casi, vedi l’ignorato Soffici, erano più originali e anche più coraggiosi perché operavano in situazioni ambientali e storiche più difficili. (E per rendersene conto basta leggere la ricostruzione storica delle attività culturali nei primi anni del secolo condotta con rigoroso impegno critico e documentario da Giorgio Luti in Firenze corpo 8.) Oppure compiendo l’arbitrio storico di cancellare in un sol colpo scrittori come Betocchi, Piovene (di cui ricorre il decennale della morte e nell’occasione è apparso Spettacolo di mezzanotte), Brancati, Bassani (è appena uscita la raccolta completa dei suoi scritti saggistici, Di là dal cuore), Soldati (presente con Nuovi racconti del Maresciallo), Flaiano (sono stati recuperati i suoi soggetti cinematografici in Storie inedite per film mai fatti), in ordine a quale concetto di meritocrazia letteraria, non si capisce. C’è indubbiamente, come scrive Maria Corti, una
«memoria collettiva » che fa da carti149
na di torhasole e impietosamente segnala l’intensità o meno di certe presenze. Tuttavia, proprio un testo a indirizzo pedagogico non dovrebbe sottostare a questo criterio, bensì proporre il susseguirsi delle esperienze, indicandone eventualmente i limiti, e, se occorre, cercare di sottrarre all’oblio quei valori che
la deprecabile tendenza di oggi a un ricambio forsennato finisce per bruciare anzi tempo. Senza finalità didattiche, ma con ambizioni
storiche, è
L’avventura del Novecento, in cui Ruggero Jacobbi aveva cercato di enucleare organicamente e storicamente i risultati dei suoi studi, delle sue letture sterminate, delle sue felici in-
tuizioni a proposito di una materia così scottante come il Novecento. La morte prematura gli ha impedito di portare a termine e completare l’ambizioso e vasto disegno di una storia della letteratura novecentesca, ma anche dal volume che
abbiamo a disposizione possiamo renderci conto che il suo viaggio attraverso il Novecento sarebbe stato ben diverso da quello tracciato da Bersani e Braschi. Come guida, Jacobbi ci avrebbe fatto vedere molto di più e, forse, anche qualcosa di meglio. Sempre sul piano storico è poi da registrare l’uscita del terzo volume, tomo primo, Zeorza e poesia, della Letteratura italiana diretta da Alberto Asor Rosa. L'indirizzo metodologico qui si differenzia ancora, e sostanzialmente, dai due casi sopra citati. Passando dall’inquadramento preliminare dei due volumi precedenti al problema dei testi, abbiamo una immagine della letteratura che è vista, sì, secondo un’ottica storica, ma da quella particolare angolazione che è la « storia
formale ». Fa spicco in questo tomo lo studio di Andrea Battistini e Ezio Raimondi, Retoriche e poetiche dominanti, definito non a torto da Asor Rosa «gigantesco» sia per l’ampiezza del panorama tracciato e per la ricchezza dei materiali prodotti, sia, soprattutto, per la novità dell’indirizzo meto-
dologico della ricerca. Finalmente, dopo tante riserve e scarsi consensi, abbiamo con il saggio di Battistini e Raimondi un modello di indagine di storia della cultura che, sulla base di una analisi avente per oggetto il variare delle idee e delle forme letterarie attraverso i secoli, ci consente di seguire dall’interno l’evolversi e l’involversi della letteratura in connessione con 1 movimenti storici e sociali. Gli altri contributi del volu150
me, dovuti a Aldo Menichetti, Giovanni Pozzi, Guglielmo Gorni, Mario Martelli, danno una visione più tecnica del
problema formale, più calata all’interno degli aspetti compositivi e dispositivi del testo poetico. Il testo sembra dunque farla da padrone, in realtà rimane ancora una entità esteriore. Asor Rosa continua a ribadire che il testo è l’obiettivo centrale della Letteratura italiana, ma anche qui, dove pure il testo comincia a recuperare i suoi diritti e a prendere forma, sia pure come involucro tecnico, abbiamo lo straordinario excursus sulle idee e sulle poetiche compiuto da Battistini e Raimondi, una serie di contributi tecnici di rilievo sulle strutture formali della poesia che, nel loro insieme, offrono,
certo, un esempio di «storia formale» della letteratura, con tutta la carica innovativa che introduce nella prospettiva della storiografia letteraria, ma che lascia impregiudicato il problema della storia della letteratura. Asor Rosa sembra dare per scontato, almeno fino ad ora, che una storia della letteratura, con quel tanto di organizzazione e di sistemazione che presuppone, ormai esista, sia strumentalmente acquisita e che il lettore sappia già tutto. Probabilmente quando l’opera sarà completata molte delle obiezioni attuali cadranno, ma per il momento rimangono sul tappeto. La disparità ai questi esempi sta a indicare quanto oggi sia difficile trovare un comun denominatore e che, al di là di
ogni motivato, per quanto radicale, dissenso di gusto e di opinione, la crisi ha radici profonde che allignano nel concetto stesso di letteratura e delle sue istituzioni. Per questo motivo il problema è più complesso e di fondo allo stesso tempo, perché investe un processo di trasformazione in atto che sta modificando l’ordine delle forme tradizionali delle manifestazioni letterarie. Bisogna affrontare questo rivolgimento formale, di cui la malattia romanzesca, per quanto grave, è appena l’aspetto più appariscente, seguendo magari le indicazioni di metodo che suggeriscono Battistini e Raimondi. E allora ci si renderà conto che occorre mettere a nudo la piaga e dichiarare, anche a costo di ripetere concetti già espressi, che non si può sempre e soltanto far risalire a fattori esterni le cause della crisi che da anni colpisce il mercato delle lettere; e che è disonesto trincerarsi dietro l’alibi della ineluttabilità della 151
potenza dilagante dei mass-media rispetto alla letteratura perché riescono a catturare con sempre maggiore facilità l’attenzione del pubblico e a dominare il mercato. A questo proposito, Geno Pampaloni ha denunciato l’equivoco del pericoloso affermarsi dell’effimera «cultura del mercato», avallata
e sostenuta dai persuasori occulti dell’industria culturale, sulla più duratura «cultura dei valori». Ma, in effetti, una gran parte di responsabilità per questo stato di cose ricade proprio sulla letteratura, e in particolare quella di genere romanzesco, per la sua incapacità di riuscire a realizzare un discorso culturale di «valori » che si ponga in alternativa alle perniciose suggestioni della « cultura del mercato». Passando ora dalla descrizione del fenomeno sul piano sociologico e di costume a quello più specificamente letterario, osserviamo come sì presenta il panorama dell’annata che si va chiudendo: l’insieme ci offre un colpo d’occhio abbastanza limitato e contraddittorio, specie per quanto mostra di discutibile la narrativa, mentre più ricco e stimolante si delinea il quadro della poesia e, dove troviamo i libri che veramente contano in questo 1984, della saggistica. La gravità della situazione è data proprio dallo stato precario in cui versa il romanzo, perché, per tradizione, è il genere portante, quello che riesce ad assicurare il legame più stretto fra letteratura e pubblico. Quest'anno il romanzo italiano non è riuscito a realizzare che qualche raro spunto isolato di novità, sia pure di rilievo come quello di Francesca Duranti con La casa sul lago della luna, mentre la produzione media è risultata nel complesso di una ovvietà sconcertante, la quale non fa che ribadire un evidente stato di crisi della creatività. La misura della situazione l’ha offerta, quasi emblematicamente, l'andamento del premio letterario più prestigioso, lo Strega. Nella sua ormai lunga storia, il Premio Strega ha sempre laureato un romanzo o, al limite, un volume di narrativa. In questa edizione invece, contravvenendo alla consuetudine e sollevando anche qualche vibrata protesta, dei cinque libri in finale, ben due erano volumi saggistici e proprio uno di questi, il 7/stoy di Pietro Citati, ha poi finito per prevalere largamente. Per chi, come il sottoscritto, da tempo afferma che saggistica e critica svolgono un discorso creativo h92
a tutti gli effetti, il responso dell’urna vrebbe costituire motivo di rammarico, una conferma pubblica a una ipotesi da ta. Tuttavia, se ciò significa un positivo
dello Strega non dosemmai il piacere di lungo tempo sostenuallargamento in sen-
so lato dell’area letteraria, la vittoria di Citati, d’altro canto,
mette a nudo una volta di più la carenza narrativa della letteratura italiana e la sua incapacità di esprimere un romanzo in grado di imporre la propria presenza. Nelle classifiche, per quel che valgono e significano, continua a stazionare // nome della rosa di Umberto
Eco, vecchio ormai di anni. Il
suo successo in tutto il mondo ha raggiunto dimensioni tali che sfuggono a ogni giustificazione logica, e perciò non fa più testo: è una specie di fenomeno inspiegabile, se non sapessimo, perché lo stesso Eco ce lo ha rivelato, con quanta cura ha
dosato i vari ingredienti e con quanta acribia calcolato gli effetti, con quale abilità ha amalgamato il tutto per confezionare il prodotto giusto. Poi il tam-tam internazionale, anche questo molto ben orchestrato, ha fatto il resto. D’altronde, Eco è essenzialmente uno studioso, come dimostra il suo ultimo libro Semiotica e filosofia del linguaggio. Nella sua opera, Il nome della rosa è un’eccezione fortunata soprattutto per i diritti d'autore. Che cosa significa tutto ciò se non che nessun altro romanzo, dal 1980 a oggi, è stato capace di andare oltre un effimero traguardo stagionale? Ma, come ricorda saggiamente un romanziere, Giovanni Arpino, il romanzo « non è un fungo» e il suo autore «non lo sì può paragonare ad un castagno o a una quercia, ai piedi dei quali il fungo ’’deve’’ nascere e crescere ». Se ritorniamo per un attimo indietro, a Cajumi e al suo articolo, vediamo che anche allora, come adesso, a sopportare il peso maggiore della. crisi era proprio il romanzo. Quando Cajumi passava dal discorso teorico alla dimostrazione pratica della sua tesi, affermava che « mai come adesso c’è gente che scrive, pulitamente, con garbo, con ingegno, con astuzia » e portava, a mo’ di esempio, quattro romanzi apparsi in quel 1934: uno italiano, An:ma e corpo di Dino Terra, e tre stranieri: Mort, où est ta victoire? di Daniel-Rops, Tutti gli uomini sono nemici di Richard Aldington, Opera d’arte di Sinclair Lewis. Nonostante la fama mondiale di qualcuno (Lewis aveva avuto da poco il 199,
Premio Nobel), la scelta di Cajumi risulta oggi molto riduttiva. Forse l’aveva fatta intenzionalmente, per accentuare le responsabilità della letteratura se allora il pubblico leggeva poco e preferiva distrarsi con il cinema. Infatti, è strano come Cajumi non si fosse accorto che proprio in quello stesso 1934 era apparso Le sorelle Materassi, capolavoro di Aldo Palazzeschi e uno dei grandi romanzi del nostro Novecento; è vero che non era di orecchio fine, come un Contini per esempio, perché altrimenti avrebbe potuto segnalare anche /! castello di Udine di C. E. Gadda, / capricci dell’Adriana di Alessandro Bonsanti, La vecchia del Bal Bullier di Antonio Baldini. E potremmo aggiungere Paese dell’anima di Nicola Lisi e Chiarastella di Achille Campanile, a conferma che cinquant’anni fa, nonostante l’annata di magra, un lettore che avesse saputo scegliere qualche buon libro l’avrebbe portato a casa. (A proposito del romanzo novecentesco si può leggere il bel saggio di Carlo De Matteis, Il romanzo italiano del Novecento. Per la verità, non
tutto persuade, ma è l’insieme che conta, ed esso offre una storia del «genere » selettiva e rigorosa.) Cosa che non si può dire invece per il lettore 1984. Per quanto provvisto di buona volontà, non ci pare che anche cercando possa trovare qualche equivalente di un Palazzeschi o di un Gadda. Anche perché le opere migliori 0, più esattamente, quelle più stimolanti di questo 1984, si trovano, a nostro avviso, ai margini del genere romanzesco propriamente detto oppure arrivano da scrittori che non sono narratori a tempo pieno. Nel primo caso indichiamo soltanto alcuni titoli che sono, almeno dal nostro punto di vista, emblematici di questa situazione: // nome delle parole di Guglielmo Petroni, racconto a sfondo autobiografico con alcune pagine indimenticabili sull’infanzia del protagonista a Lucca; // male viene dal Nord di Fulvio Tomizza, opera a sfondo biografico e storico su Vergerio, vescovo riformatore del XVI secolo, dove la
cadenza ritmica del racconto riscatta le necessità storiche che sostengono la figura del personaggio; La vita indivisibile. Diario 1941-1947 di Franco Calamandrei, testimonianza di
un intellettuale che, lasciatasi alle spalle la giovanile infatuazione fascista, partecipa alla Resistenza, con una predilezione per la parte romana in cui vediamo l’autore nelle vesti di 154
partigiano compiere ogni giorno missioni rischiose, è tra gli esecutori dell’attentato di Via Rasella, e poi, tornato a casa, immergersi tra i suoi classici francesi e tradurre Diderot; Fedele alle amicizie di Geno Pampaloni, anche questo incentrato sulla memoria dell’avventura intellettuale e di vita tipica di un giovane passato attraverso il fascismo e la guerra, le illusioni e le delusioni di questi anni che il noto critico letterario racconta con la misura del moralista ma anche con un piglio da narratore (già rivelato in Buono come il pane e altre memorie di giovinezza e di morte): Pampaloni ci fa rivivere momenti dell’Italia anteguerra, ma è anche ben presente nel vivo di quelli attuali, analizzati e giudicati con fermezza,
non esente, tuttavia, da una tendenza a comprendere tipicamente religiosa. Per quanto riguarda invece la seconda constatazione, citiamo il caso di Claudio Magris che si cimenta nel racconto con Illazioni su una sciabola, ma valga come esempio // labirinto di Giorgio Caproni, trittico narrativo di uno dei nostri massimi poeti che, nel suo insieme, raggiunge la compattezza di un romanzo. In queste pagine è rappresentato il passaggio dalla spensieratezza giovanile alla tragedia della morte: la scrittura narrativa di Caproni ha la secchezza e il nitore del verso, ma una intensità di racconto vivissima che non trovia-
mo, per esempio, in molte pagine di romanzo dovute a scrittori che in un passato appena recente hanno dato prova di una resa stilistica ben diversa e superiore. Passando in rassegna la cospicua produzione romanzesca dell’anno, diventa difficile mascherare la perplessità di fronte ad alcuni volumi dovuti a scrittori che pure vantano un curriculum ragguardevole: L'uomo del parco di Francesca Sanvitale, soprattutto ricordando Madre e figlia; ambizioso progetto di Ferdinando Camon che in Storia di Sirio tenta, senza riuscirvi, di rappresentare l’educazione sentimentale, politica, morale dei giovani d’oggi; Il divertimento di Ottiero Ottieri, ennesima galleria di personaggi stanchi, malati, preda e vittime della loro labilità psicologica; Diamante di Enzo Siciliano, scrittore che
sa manovrare ben altrimenti la tecnica del romanzo epistolare come ha dimostrato in La principessa e l’antiquario; Macno di Andrea De Carlo, partito benissimo con 7reno di pan199)
na e che sembra andar smarrendo lungo la strada molte delle sue caratteristiche di originalità; La donna delle meraviglie di Alberto Bevilacqua, romanzo costruito con abilità e sostenuto da una suspense calcolata, ma con il difetto di far risentire troppo l’eco di situazioni e temi già affrontati. Per contro abbiamo alcune opere che sembrano contraddire le perplessità appena denunciate, quanto meno attenuarne la loro portata negativa. Anche qui le indicazioni sono esemplificative e non esauriscono certo il problema. Tuttavia ci pare di poter individuare in La fine di un addio di Antonio Debenedetti, Butroto di Giovanni Mariotti, Lo spec-
chio cieco di Michele Prisco, La terza donna di Giorgio Montefoschi, Notturno indiano di Antonio Tabucchi, La ca-
sa sul lago della luna di Francesca Duranti, Insonnia di Giulio Cattaneo, La città e la casa di Natalia Ginzburg, individuare, dicevamo, delle conferme e delle novità che, pur diffe-
renziandosi per indirizzo e impianto narrativo (il divertimento di Mariotti è diverso dalla esile vena rievocativa di Debenedetti; la corposa costruzione di Montefoschi sì oppone alla brevità di Tabucchi e al racconto di Cattaneo), colloca-
zione nell’ambito di un’opera ormai definita (Ginzburg e Prisco) oppure poco più in là dell’esordio (Duranti), lasciano intendere come la partita del romanzo sia ancora aperta a tutti i risultati. Non si tratta qui di instaurare una specie di tribunale che distingue il bene dal male e divide i buoni dai cattivi, ma di registrare un andamento contraddittorio che non è il segno di un movimento dialettico, bensì la denuncia delle incertezze
di una ricerca che procede a tentoni e in cui si riflette lo stato attuale del romanzo italiano privo di una fisionomia e di una dimensione in grado di imporlo a un pubblico diffidente soprattutto, e poi a tacitare una critica allo sbando. In realtà non è neppure il caso di recriminare su quei critici che si perdono dietro alle solite diatribe: questi sono discorsi buoni
per quando tutto va bene e il romanzo è fiorente: allora vengono fuori dei bravi ragazzi con velleità letterarie, i quali si mettono a giocare all’avanguardia e, come prima cosa, proclamano che il romanzo è morto. Ma ora non c’è proprio nessun epicedio da recitare per un romanzo di cui si sono 156
perse le tracce in mezzo a una produzione modesta, priva di scatto e di tensione, che potrebbe anche arrestarsi o durare all’infinito, tanto non cambierebbe nulla.
Si sente spesso dire che non c’è spirito inventivo e che la colpa di questa carenza è dovuta alla mancanza di coraggio a puntare sul nuovo, ad arrischiare su scrittori e temi diversi. Ma se dobbiamo stare alla novità manifestatasi durante l’anno, in realtà troviamo ben poco: a parte il già citato caso della Duranti e del suo La casa sul lago della luna, romanzo nuovo impostosi all’attenzione per pura forza letteraria, un po’ di chiasso è stato fatto per due scrittori esordienti: Aldo Busi, autore di Seminario sulla gioventù, e Alfredo Antonaros di Tornare a Caròbel. Per uno è entrato in gioco lo snobismo estetico, per l’altro uno snobismo esotico. Busi può vantare un curriculum di consuetudine amicale con scrittori ed è poi diventato scrittore egli stesso, Antonaros fonde rabbia e memoria con un tocco di esotismo. Insomma, si è cercato di con-
trabbandare dei casi di vita per casi letterari. Mentre, in realtà; 1 veri casi letterari sono altri, rappresentati dai testi di quegli scrittori che possiamo ormai considerare come classici contemporanei: e quale caso più significativo, allora, de Gli anni impossibili di Romano Bilenchi? L’autore di Conservatorio di Santa Teresa ha riunito in questo volume tre momenti capitali del suo iter di scrittore: La siccità, La miseria, Il gelo, che finiscono per fare blocco e,
quasi naturalmente, romanzo. Inoltre Bilenchi è ancora intervenuto sulla propria prosa per renderla più precisa, ancor più essenziale di quanto già non fosse. Nel desolato panorama che stiamo osservando, Gli anni impossibili si stacca e va a collocarsi tra quelle opere che rimarranno a caratterizzare il Novecento. Dai classici contemporanei possiamo passare ai classici tout court, che si raccomandano sempre perché la loro misura rimane un punto di riferimento imprescindibile per l’oggi. Per restare ancora nell’ambito della discussione sul romanzo,
sono venuti a disposizione alcuni esempi che dovrebbero far riflettere sulla mancanza, o quasi, di tradizione narrativa nella nostra letteratura. Stando alle proposte romanzesche che vengono fatte andando a pescare negli archivi o in aree 157
marginali,
se non
sconosciute,
sembrerebbe
affiorare
l’esi-
stenza di una linea meno inconsistente di quanto comunemente si creda. Si tratta di scrittori minori con opere minori, eppure significative di fermenti e tendenze insospettate. Pochi, per esempio, sono disposti a sottoscrivere che all’origine del romanzo moderno in Italia ci sia anche Giacomo Casanova, e non per sfiducia preconcetta ma per l’indisponibilità dei testi. Il Casanova scrittore rimane per i più quello dell’/72stoire de ma vie, di cui sta uscendo una nuova edizione con
traduzione italiana a cura di Piero Chiara e Federico Roncoroni, Storia della mia vita, mentre mancava del tutto una edi-
zione attendibile dei romanzi scritti in italiano prima dell’Histoire: Romanzi italiani a cura di Paolo Archi e Luca Toschi colma la lacuna e ripropone, accanto alla più nota figura del grande amatore e dell’avventuriero, quella dello scrittore che in pieno Settecento scrive i primi romanzi moderni italiani. Ma la via si chiude presto. Nell’Ottocento, secolo di grandi realizzazioni romanzesche in tutto il mondo, in Italia la narrativa langue. Nonostante / promessi sposi e Le confessioni di un italiano (Mastro don Gesualdo esce tardi), la media è bassa, pullulano gli epigoni, imperano le convenienze: e così Ippolito Nievo si guarda bene dal pubblicare il suo primo romanzo, Anttafrodisiaco per l’amor platonico, riproposto oggi da Sergio Romagnoli. E un esercizio giovanile, ingenuo e limitato, ma è la scrittura libera e irriverente a stupire, così fuori dai convenzionalismi dell’epoca. Altro caso da considerare è quello di Merope IV di Vittorio Imbriani. Giovanni Pacchiano (curatore attento dell’opera di Sergio Solmi in corso di pubblicazione), che già aveva proposto L’imptetratrice, recupera ora quest'altro sorprendente romanzo di Imbriani, storia di una seduzione, di un amore, di adulteri, temi d’attualità allora come adesso, mentre era fuori registro per l’epoca la struttura aperta e sperimentale e la lingua sferzante e irridente. Tra i recuperi merita poi particolare attenzione quello di Cesare Cantù, su cui pesa ancora oggi la nomea di bigotto e conformista. Eppure è proprio a lui che dobbiamo il curioso Portafoglio di un operaio, recuperato da Carlo Ossola, romanzo per certi aspetti edificante, troppo fiducioso del progresso e nel benessere del lavoratore, ma per 158
altri, invece, curiosamente sociologico, da inserire negli an-
nali di «letteratura e industria» se il tema fosse ancora di moda. Tutto ciò per dire che una esile vena romanzesca forse corre anche nella letteratura italiana: è di tono minore, limi-
tata e provinciale, contraddittoria ma non priva di fermenti, dalla quale ogni tanto esce il capolavoro isolato di Manzoni, di Nievo, di Verga. Per pigrizia critica, la terna di rado diventa quaterna, però / Viceré di Federico De Roberto è l’altro capolavoro solitario del nostro Ottocento, sia pure di fine secolo. De Roberto è scrittore diseguale, come dimostra la raccolta Romanzi, novelle e saggi a cura di Carlo A. Madrignani, però / Viceré è romanzo, sì, di straordinaria portata contenutistica, ma soprattutto di solidissima struttura, proprio ciò che di solito manca alla narrativa italiana che in questa debolezza riflette la società che l’esprime. Ma il discorso sui classici è anche più tecnico e va allargato per sottolineare il lavoro critico sui testi al fine di restituirli alla loro verità originaria con edizioni sempre più accurate e testualmente ineccepibili. La cura testuale del critico o del filologo finisce spesso per fare corpo con il testo stesso o per dargli comunque un’impronta. Molto significativa a questo proposito l’edizione de Z/ Fiore e Il Detto d'Amore che Gianfranco Contin: ha ritenuto «attribuibili » a Dante, met-
tendo così fine a una secolare querelle testuale. Più che l’importanza dell’opera nel quadro della poesia italiana dell’epoca, l’attribuzione acquista rilievo alla luce della documentazione continiana: il suo studio non è solo ricco di dottrina filologica, ma anche di suggestioni storico-critiche sui rapporti letterari fra Italia e Francia a cavallo tra il Due e il Trecento delineati con mano di scrittore. Dante s'impone, anche per l’expertise di Contini, ma scorrendo lo scaffale dei classici non sfuggono alcune altre pubblicazioni che, a diverso titolo, risultano importanti: il terzo volume delle Opere dell’Ariosto, le Lettere di Machiavelli, /{ Giorno del Parini. Nei primi
due casi ci troviamo di fronte al risultato di un notevole lavoro filologico. Nel volume ariostesco troviamo le Satire date per la prima volta in edizione critica da Cesare Segre, 1°Erbolato curato da Graziella Ronchi e duecentoquattordici lettere da Angelo Stella. Non c’è dubbio che le lettere siano il 159
boccone più ghiotto, anche se il lavoro di Segre è di notevole importanza: nonostante si tratti spesso di comunicazioni d’affari o politiche, come quelle scritte durante l’«esilio garfagnino», tuttavia hanno un loro peso perché gettano luce sull’uomo Ariosto alle prese con la quotidianità. L'edizione delle Lettere di Machiavelli curata da Franco Gaeta è meno nuo-
va, ma nel contempo è la più sicura tra quelle oggi disponibili. Anche in questo caso vale la pena di sottolineare, con Gaeta, che le Lettere «sono dunque, per un certo verso, gli scritti machiavelliani che danno del loro autore un’immagine più completa che ogni altra opera e ne delineano a tutto tondo la personalità di uomo e di scrittore ». (A proposito di epistolari sia consentita una breve parentesi. Da un po’ di tempo a questa parte si assiste a una fioritura di pubblicazioni di lettere di scrittori contemporanei. Non siamo ancora al punto di parlare di moda, ma è un fenomeno che merita di essere segnalato, data anche la sua consistenza. L’ingegner fantasia. Lettere a Ugo Betti a cura di Giulio Ungarelli e A un fraterno amico. Lettere a Bonaventura Tecchi a cura di Marcello Carlino di C. E. Gadda; le Lettere fra Giovanni Papini e Attilio Vallecchi a cura di Mario Gozzini e una « Premessa » di Giorgio Luti; il Carteggio fra Antonio Baldini e Giovanni Papini a cura di Marta Bruscia; il Carteggio fra Domenico Giuliotti e Giovanni Papini a cura di Nello Vian e con « Prefazione» di Carlo Bo; il Carteggio 1931-1962 fra Giuseppe Ungaretti e Giuseppe De Robertis curato da Domenico De Robertis; la ristampa di Novale di Federigo Tozzi che raccoglie le lettere a Emma, futura moglie; Lettere a una adolescente di Vincenzo Cardarelli a cura di Gian Mario Marini e con «Prefazione» di Aldo Camerino, costituiscono infatti
un bel patrimonio di notizie e conoscenze che sicuramente arricchiscono il quadro novecentesco.) Infine, Il Giorno pariniano curato da Ettore Bonora. Qui non abbiamo tanto filologia quanto inquadramento e commento, in ordine al carattere della collana che lo ospita, diretta da Vittore Branca, e che intende proporre i classici nella loro attualità, « per l’uomo del nostro tempo ». In questo senso Bonora ha scritto un saggio esemplare, recuperando storicamente e criticamente l’opera pariniana fino a rintracciarne la presenza contemporanea in Gadda e Montale. 160 5. Gli anni Ottanta e la letteratura
L’esemplarità della prefazione pariniana di Bonora sul rapporto fra classici e contemporanei sembra trovare un ideale riscontro ne // giardino delle Esperidi di Giuseppe Pontiggia, raccolta di saggi e riflessioni su motivi e libri della cultura contemporanea visti attraverso la lente correttiva dei classici. Il riferimento ai classici non è strumentale, la loro attualità non è quella « degli anniversari », come osserva ironicamente Pontiggia, ma il frutto di una frequentazione continua ed essenziale, senza limitazioni di frontiere e di tempo, che conferisce al suo discorso un carattere distintivo anche dal punto di vista stilistico, intessuto com'è di citazioni esplicite e sottintese, frammentato e aforistico. Sembrerebbe ricor-
dare i Fragments d’un discours amoureux di Barthes, ma Pontiggia ha altri luvres de chevet: quelli dei moralisti, certi Journaux, soprattutto quei saggi di Sergio Solmi pieni di appunti e di annotazioni, svaganti fra il memorialistico e il diaristico (che ora ritroviamo riuniti in Poesie, meditazioni e ricordi, tomo secondo del I volume delle Opere), ma che rivelano un lettore eccezionale, anch’egli in contatto continuo con i
classici. Queste osservazioni ci portano a riflettere sull’esercizio della critica che troppo spesso ha finito per perdere di vista la realtà dei testi e la loro consistenza per vanificarsi in un discorso astratto. Non parliamo poi dei problemi. Un saggio come Amica ironia di Guido Almansi è una specie di mosca bianca. Non tutte le sue considerazioni sull’ironia sono condivisibili (vedi Manzoni), tuttavia pone problemi a ogni pagina, non lesina provocazioni, costringendo a una lettura in continua tensione. Dopo aver conosciuto momenti di intensa attività, oggi la critica offre meno occasioni a un dibattito di indirizzo e di metodo. Libri di saggi escono a bizzeffe un po’ da tutte le parti, ma per lo più sono occasionali, spesso messi insieme per un concorso o per esigenze consimili e svelano subito che non c’è nessuna ragione interiore ad averli originati. Stanno forse scomparendo quei «lettori» che Bo non si stanca mai di ricordare richiamandosi a Serra (di cui ricorre
il centenario della nascita)? La pubblicazione di alcuni volu-
mi tipo / lombardi in rivolta di Dante Isella, Prosatori e narratori del Novecento italiano di Marco Forti, Letteratura del 161
disagio del compianto Sergio Antonielli, sfuggono a tali considerazioni negative perché la loro articolata struttura e le motivazioni che li sostengono rivelano la rispondenza a un preciso disegno culturale: la definizione di una «linea lombarda» da parte di Isella che va da «Carlo Maria Maggi a Carlo
Emilio
Gadda»
(a cui fa eco Pietro Gibellini
con
L’Adda ha buona voce); un quadro della narrativa italiana novecentesca non sperimentale tracciato da Forti; una lettura condotta con originalità interpretativa lungo un arco che va dal decadentismo a oggi nella raccolta postuma di Antonielli. Sono tra i pochi libri di saggi su cui il lettore sa di poter contare e per questo li colloca in uno scaffale a portata di mano. Accanto a questi volumi metteremo alcuni libri più tecnici o specifici, ma non meno attuali. C’è per esempio un ritorno d’interesse per i problemi della lingua che fa venire in mente quell’osservazione di Gramsci in Letteratura e vita nazionale: «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi». E in effetti ciò che dicono studiosi come Tullio De Mauro in A: margini del linguaggio e Tristano Bolelli in Parole in piazza, giornalisti come Alfredo Todisco in Ma che lingua parliamo e Cesare Marchi in Impariamo l'italiano conferma che in Italia è cambiato qualcosa sul piano sociale che la lingua puntualmente registra. Ma l’opera più rilevante e significativa sul problema è quella di Francesco Bruni, L'italiano. Elementi di storia della lingua e della cultura. Si tratta di una storia della lingua che dalle origini arriva fino ai giorni nostri con dovizia di riferimenti e di esempi, ma che ha il suo fulcro di novità nella rilevazione di un fondamentale ricambio linguistico rispetto alle tendenze di alcuni anni fa che indicavano il formarsi, per quanto discutibile, di un italiano medio. Invece adesso, scrive Bruni,
non « è azzardato sostenere che ai giorni nostri le spinte verso la standardizzazione linguistica e l’espansione della lingua comune sono bilanciate da forze di segno diverso che agiscono, se non verso l’impossibile rivitalizzazione dei dialetti, almeno verso un rafforzamento delle varietà regionali dell italiano». Il problema della lingua è dunque riaperto ed è probabile 162
che se ne continui a parlare anche in futuro, dato che l’anno prossimo avremo il bicentenario della nascita di Alessandro Manzoni, primo grande ricercatore di un italiano. per tutti con I promessi sposi. Non è difficile prevedere il diluvio di pubblicazioni che si abbatterà per l’occasione, ma gli studi di Vittorio Spinazzola, // libro per tutti. Saggio su « I promessi sposi», Sergio Romagnoli, Manzoni e i suoi colleghi, la biografia di Ferruccio Ulivi, Manzoni, e la bella edizione della Storia della colonna infame curata da Carla Riccardi, che anticipano l’alluvione, sono in ogni caso un assaggio di rilievo per prendere un più diretto contatto con l’opera e la vita di Manzoni. Se la critica è così avara di sé, la colpa è anche della letteratura che dà così poco; ma per un critico che sia anche scrittore, c'è la vita a rimpiazzarla. Abbiamo già ricordato Pampaloni, fattosi per l’occasione narratore, aggiungendovi ora Carlo Bo, che invece di mettere insieme i suoi innumerevoli
scritti letterari, riunisce in Sulle tracce del Dio nascosto i suoi interventi di tipo morale e religioso; Italo Calvino, anche lui,
preferisce costruire con Collezione di sabbia un libro che raccoglie le sue osservazioni di osservatore curioso e interessato alle manifestazioni dell’insolito e ai fatti e alle occasioni del fantastico nella vita d’oggi (e nel contempo ristampa anche Cosmicomiche vecchie e nuove); Enzo Bettiza, tuttora a part time fra la letteratura d’invenzione e il saggismo, ha tracciato in Saggi viaggi personaggi una specie di autobiografia intellettuale. La letteratura d’invenzione, che sembra cedere il campo anche sul piano saggistico, si prende però la sua gran rivincita con la poesia che sta attraversando una congiuntura particolarmente favorevole, confermata anche dai libri usciti nel
1984. Ma prima di entrare nel vivo del discorso, vorremmo segnalare ancora due testi saggistici che sembrano fare esemplarmente da introduzione e collegare il discorso sui classici a quello sui versi, e indicare la divergenza di indirizzo che la nostra poesia ha preso nel passaggio generazionale da Ungaretti a Luzi. Si tratta delle lezioni brasiliane di Giuseppe Ungaretti, Invenzione della poesia moderna a cura di Paola Montefoschi e Discorso naturale di Mario Luzi. La poesia di 163
Petrarca costituisce il nucleo centrale delle lezioni ungarettiane e si sa che cosa ha significato Petrarca, e la riflessione sul suo fare poesia, per Ungaretti; mentre il volume di Luzi si apre con un intervento sul tema «Moderni? Contemporanei?», in cui il poeta del Libro di Ipazia ribadisce la continuità della poesia nel tempo, poiché «il tempo della poesia, il tempo della lingua della poesia, è un tempo in cui si incidono senza tempo le cose che sono sempre accadute e che sono sempre eventuali ed, accadibili ». Successivamente Luzi conti-
nua a interrogarsi sul senso della poesia nel mondo attuale, e lo fa non in maniera teorica, bensì facendo sempre riferimento alla concretezza della poesia e al lavoro dei poeti, proprio per ricondurre il discorso del fare poetico al di là di ogni astrazione ideologica o manifestazione esteriore (e il pensiero va subito a quei pasticci di poesia e altro che sono stati i festival tipo Castelporziano, di cui ci dà una cronaca e una critica, entrambe disincantate, Franco Cordelli in Proprietà per-
duta). Luzi contribuisce però alla floridezza della poesia non soltanto con il suo lucido ragionare, ma anche con // silenzio,
la voce, una sorta di «antologia personale» che ci fa vedere uno spaccato della sua poesia da cui emerge inequivocabilmente quell’indirizzo anti-lirico e anti-petrarchesco che segna appunto un deciso cambiamento di rotta e caratterizza il suo situarsi nel quadro contemporaneo nel segno di «una più multiforme e magmatica invenzione di tipo dantesco». Il caso luziano non è tuttavia isolato nella spinta verso una poesia di rinnovato impianto strutturale e che sì stacchi dal lirismo tradizionale. Se Luzi ha assunto il dialogo come elemento tecnico innovativo che lo ha portato a ùna poesia come azione drammatica e al teatro, Attilio Bertolucci punta con La camera da letto su una sequenza lunga, omogenea dal punto di vista tematico, ossia al romanzo in versi. Il libro di Bertolucci era atteso, se ne parlava da tempo, anche sulla base delle anticipazioni che di quando in quando comparivano su riviste, ma solo nel momento in cui si è manifestato con-
cretamente abbiamo potuto renderci conto dell’effettiva importanza che riveste per Bertolucci stesso e del significato che acquista nel quadro della poesia contemporanea. La camera da letto è uno di quei libri chiave, che lasciano il segno, e da 164
cui non si può più prescindere quando si parla dell’evoluzione della poesia contemporanea. Se si poteva dare per scontato un elevato tasso poetico (la ristampa del suo primo libro, Sirio, ci rivela uno scrittore meno scaltro, ma già poeta), l’im-
pianto strutturale narrativo, con le sue scansioni storiche, l’andare e venire di figure minori che ruotano attorno ai personaggi maggiori, il quotidiano e l’epico, è invece sorprendente per la tenuta della tensione stilistica. Un altro caposaldo di questa felice stagione poetica è dato da Tutte le poesie di Carlo Betocchi. Anche in questo caso c’è molto di già conosciuto, ma trovarli riuniti in un unico blocco, i versi betoc-
chiani sembra che acquistino una consistenza diversa. Certo, c'è il Betocchi compagno di strada degli ermetici, ma sin d’allora egli infondeva nelle sue poesie nozioni di realtà e di vita; e dopo aver pagato il debito al poetico, lasciava andarei suoi versi in una maniera tutta sua che si distaccava dagli artifici e dalle alchimie verbali del tempo. La realtà vince il sogno, il titolo del suo primo libro, risulta profetico, se oggi come allora la poesia di Betocchi è ancorata al concreto della realtà e per questo si dispiega con il linguaggio semplice e preciso delle cose che va al di là delle mode e del tempo. 7utte le poesie conferma la straordinaria coerenza di Betocchi, ma anche la sua nativa e spontanea disposizione al verso: egli fa poesia naturalmente, la sua scrittura non ha bisogno di mediazioni intellettuali per trovare giustificazioni all’espressione (e anche
la raccolta Memorie,
racconti, poemetti
in
prosa, sebbene di portata minore, lo conferma). A questa linea novecentesca non metafisica possiamo annettere anche Primo Levi, narratore che si spinge sul terreno della poesia con Ad ora incerta, mentre vi appartiene di diritto Sandro Penna che partecipa alle fortune attuali della poesia in maniera indiretta e attraverso i due libri che gli hanno dedicato Cesare Garboli, Penna papers, ed Elio Pecora, Sandro Pen-
na: una cheta follia. Entrambi hanno un risvolto biografico, ma in quello di Pecora l’aspetto è più marcato, mentre Garboli associa ai ricordi pagine critiche e un blocco di poesie inedite. È un duplice «omaggio » a Penna, con intenti e risultati diversi, che conferma sostanzialmente come la poesia penniana viva di una sua indiscutibile originalità tematica e 165
di dettato, ma, nello stesso tempo, fruisca anche di un consenso e di una adesione incondizionati, al limite a-critici.
La felice stagione poetica non è però contrassegnata soltanto dall’apparizione concomitante di tanti testi così importanti dei cosiddetti classici contemporanei: accanto c'è una presenza estesa e viva di poesia, sostenuta dal lavoro costante e in evoluzione di poeti appartenenti a tutte le generazioni, che garantisce al discorso poetico una consistenza sicura e non occasionale. Inoltre, i volumi di versi, proprio perché svincolati dalla ferrea logica commerciale, vivono una vita diversa, spesso sono a spese dell’autore o frutto dell’iniziativa di editori-amatori, a volte essi stessi poeti come Giorgio Devoto, al quale si deve una bella e fortunata collana dove è apparso ultimamente un raro ma gustoso frutto di poesia dialettale di un estroso, irregolare, un po’ maledetto scrittore friulano, Amedeo Giacomini, Fuejs di un an. Ma i dialettali
sono una realtà della nostra poesia contemporanea perché il dialetto ha non di rado un suo statuto di lingua, come ricorda Maria Corti parlando della poesia di Giacomini. Il riferimento si attaglia giusto ad Albino Pierro. È difficile, leggendo $? pò’ nu jurne, l’ultima sua raccolta curata da Tullio De Mauro, pensare a lui come a un poeta minore e situarlo ai margini, fuori del gioco perché scrive nel dialetto lucano di Tursi. Addentrandoci dunque nel vasto dominio della poesia, gli incontri felici possono anche essere frequenti in periodi come questo, benché la scelta s'imponga sempre per distinguere, in un fenomeno tipicamente quantitativo, la qualità. Per esempio, il recupero di un gruppo di poesie di Lucio Piccolo, La seta e altre poesie inedite e sparse a cura di Giovanna Musolino e Giovanni Gaglio, rimaste per assurde ragioni burocratiche fino a oggi inedite, ripropone la presenza nel Novecento di un grande e pressoché sconosciuto poeta; i versi giovanili di Giacinto Spagnoletti, Versi d’occasione, critico attento di poesia e in gioventù poeta, ci riportano a quella fede assoluta nella poesia che caratterizzava il clima poetico degli anni fra guerra e dopoguerra. Tra i poeti di quella che fu chiamata la «quarta generazione» abbiamo avuto quest'anno il libro di Giovanni Giudici, Lume dei tuoi misteri, che aggiunge al 166
complesso della sua opera un nuovo tassello a ribadire un concetto di poesia che vuole comunicare espresso da, un poeta che si rifiuta di stare sul presunto piedestallo del poetico, e quello di Franco Fortini, Paesaggio con serpente, che raccoglie le poesie scritte dal 1973 al 1983, poesie, come sempre quelle di Fortini, di tono alto, colte e sostenute da una tensio-
ne morale e ideologica, spesso originata da un confronto con amici e avversari politici. E poi, vanno registrati i volumi di poeti più giovani: Invasioni di Antonio Porta, dove l’antico «novissimo » continua a portare avanti quel processo di illimpidimento del suo dettato, dopo i giovanili exploit neoavanguardistici, e Cartoline di mare di Nico Orengo, uno dei libri letti con maggior piacere perché ho trovato nei suoi versi una consentaneità spontanea, derivante, forse, dallo scatto del ta-
glio che vita mai
breve della composizione, dalla precisione terminologica tuttavia non attenua lo stupore e l’incanto di scoprire la del mondo naturale, dal fascino del luogo che non scade nel patetico di una dubbia geografia sentimentale. Sia perdonata questa dichiarazione di preferenza personale poco in sintonia con l’oggettività e l’impersonalità che il discorso richiede. Ma una volta gustato il frutto del peccato, è difficile resistere alla tentazione di peccare ancora. Chiudiamo perciò questa rassegna 1984 con una ulteriore trasgressione alla norma indicando alcune altre preferenze che, tra l’altro, sanno di scommessa poiché si tratta di nomi nuovi o quasi per il pubblico: Nella musica delle fontane di Franca Bacchiega, Vaticinio di Nanni Cagnone, Suite di Ciro Vitiello, La rappresentazione di Fabio Doplicher, Il finito di Sebastiano Vassalli (meglio del romanzo sulla vita di Dino Campana, La notte della cometa). A determinarle è stato esclusi-
vamente il piacere di leggere di tutto e in tutte le direzioni, vizio che, nonostante tutto, mi auguro di non perdere mai.
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1985
Preceduto da altisonanti squilli di fanfare, annunciato da cadenzati rulli di tamburi, ormai da tempo si sapeva che il 1985 sarebbe stato un anno denso di impegnative occasioni e di irrinunciabili appuntamenti: primo fra tutti l’ingombrante bicentenario manzoniano. Per l’importanza del soggetto e le relative implicazioni, non era difficile prevedere che avrebbe assunto dimensioni tali da condizionare a lungo e in maniera determinante l’apparato culturale nostrano. E avendo poi a disposizione i genetliaci e gli anniversari di Carducci, Dino Campana, Aldo Palazzeschi, Pasolini, la casa editrice Later-
za e altri, si sapeva anche che non tutto sarebbe finito lì, data la nostra innata tendenza a sfruttare ogni occasione celebrativa e, persino, a inventarne qualcuna alla bisogna. Proprio paventando l’ammasso di convegni, mostre, numeri e pagine speciali, trasmissioni ad hoc che si andava pericolosamente
addensando
all’orizzonte, Giovanni
Mariotti
se ne usciva sull’autorevole «terza » del « Corriere della Sera» con una proposta dall’apparenza salottiera, e invece da sottoscrivere in toto, al di là, cioè, della portata paradossale
della battuta e della sottintesa provocazione: trascurare, anzi ancora meglio, ignorare gli anniversari e celebrare invece i non-anniversari. « Perché subire dei centenari temibili come quello di Alessandro Manzoni, su cui ben pochi hanno qualcosa di nuovo da dire? Perché invece, non trar pretesto dalla consuetudine per parlare di coloro di cui non si parla mai, per esempio di certi miei bisnonni? Perché, infine, non rivitalizzare e rilanciare l’intero sistema, celebrando invece dei
centenari, i non-centenari che sono più numerosi ? » La divertente e maliziosa proposta di Mariotti era in 173
realtà seria e, in fondo, conteneva molto più buon senso di
quanto a prima vista possa sembrare. Giustamente intimorito che l’orda minacciosa degli anniversari riuscisse a distogliere l’attenzione da altre proposte o iniziative, magari anche più interessanti, ma che non avendo il crisma dell’occasione sarebbero state rinviate sine die 0, quanto meno, al momento in cui fossero diventate a loro volta anniversari, ebbene
Mariotti ha lanciato il suo ironico e preoccupato grido d’allarme. Con questo intervento — affidato alla penna di Uc de la Bacalaria, il suo alter ego letterario, protagonista non dimenticato di Butroto — egli dimostrava, tra l’altro, di avere
una notevole dose di fiducia nell’attività letteraria contemporanea e le faceva una apertura di credito di non trascurabile portata. Ma la fiducia era ben riposta, e come sarebbe stata investita? Mariotti, e con lui coloro che ancora credono nella lette-
ratura, sono stati clamorosamente smentiti e hanno perso la scommessa. Giunti ormai alla fine di questo anno di anniversari, ci troviamo nella scomoda posizione di dover ringraziare proprio l’esistenza dei genetliaci di ogni genere e delle altre occasioni — rappresentate purtroppo dai numerosi e dolorosi
decessi avvenuti durante l’anno: Riccardo Bacchelli, Giuseppe Raimondi, Italo Calvino, Elsa Morante, Leonida Repaci,
Anna Banti, Biagio Marin — perché altrimenti non avremmo saputo di che cosa parlare, né dove il dibattito letterario avrebbe potuto trovare stimolo e alimento, dato che una tremenda siccità pare essersi abbattuta sulla nostra letteratura provocando una preoccupante penuria di testi, anche se non di autori. Vediamo dunque che cosa ci hanno riservato gli appuntamenti obbligati. Fra tutti ha tenuto banco, confermando le previsioni, il bicentenario manzoniano per l’imponente organizzazione di convegni, manifestazioni, mostre, ma che ha
prodotto anche alcune novità librarie degne di nota. Dei molti volumi di e su Manzoni provocati dall’occasione, ne indichiamo tre, quelli che ci paiono di maggior interesse per originalità di ricerca e intelligenza critica. Fa spicco la pubblicazione di Vita e processo di Suor Virginia Maria di Leyva Monaca di Monza, dove sono riprodotti per la prima volta 174
gli Atti del famoso processo alla Monaca di Monza, tenuti segreti per quattro secoli: sono introdotti e accompagnati da una nutrita serie di apparati filologici e storici coordinata da Umberto Colombo e presentata da Giancarlo Vigorelli. Il volume è importante sotto il profilo critico per l’apporto diretto alla conoscenza della Gertrude manzoniana e dal punto di vista storico poiché ci offre uno squarcio impressionante della vita seicentesca. Un contributo nuovo e originale ci pare quello offerto da Fernando Mazzocca, Quale Manzoni? Vicende figurative der Promessi sposi. Mazzocca ha scelto una particolare angolazione per studiare il romanzo manzoniano: quella della fortuna iconografica, che è stata molto vasta e che nessun’altra opera può vantare. L’altissimo numero delle edizioni illustrate sta a dimostrare come / promessi sposi abbiano conosciuto, specie nell'Ottocento, un autentico successo popolare, mentre la reticenza era diffusa nell’ambito di quella stessa cultura che avrebbe dovuto immediatamente percepire e riconoscere la grandezza di Manzoni e, invece, ne ha sempre diffidato, finendo così per subirlo e tollerarlo. Su questo difficile rapporto ha scritto, e non solo da oggi, pagine severe Vigorelli, stigmatizzando la nostra cecità critica. Ma questa volta egli si è spinto più avanti offrendoci una vera sorpresa: a seguito della sua intelligente e continua ricognizione tra le carte manzoniane, note e meno note, ha ricostrui-
to uno di quei tanti libri che Manzoni avrebbe potuto pubblicare in vita, e non lo ha fatto, apponendogli il provocatorio e suggestivo titolo, I/ « mestiere guastato » delle lettere. Non si tratta della solita antologia d’occasione: siamo di fronte a un testo sorprendentemente unitario che ci rivela il difficile rapporto di Manzoni con la letteratura italiana e ci conferma come il contrasto derivasse dalla visione diversa, non provinciale che egli aveva del «mestiere» letterario. Anticipando il Proust del Contre Sainte-Beuve anche Manzoni aveva lasciato i materiali per un suo « Contro la letteratura italiana ». Il pellegrinaggio attraverso gli anniversari ci porta a segnalare alcune altre iniziative di rilievo che riguardano due poeti implicati — loro malgrado — in questa specie di gioco di società, Dino Campana e Pier Paolo Pasolini, ma accomunati da un tragico destino. Per quanto riguarda il primo è 175
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stata approntata da Fiorenza Ceragioli una edizione filologicamente attendibile dei suoi Canti orfici che restituisce il testo alla lezione originaria, alla famosa e rarissima edizione Marradi 1914 che tutti i cultori di poesia moderna ambirebbero di possedere. Siamo passati, per fortuna, dalla vita romanzata ricostruita da Sebastiano Vassalli nella Notte della cometa, già apparsa lo scorso anno, alla verità dei testi. E la Ceragioli non si è fermata alla filologia, ma ha completato il suo lavoro con un «commento letterale » che consente al lettore di entrare nel vivo di un’opera ormai mitica del nostro Novecento. Attorno a Pasolini, invece, si è creata una rete di
manifestazioni che è seconda, se non gareggia, con l’apparato manzoniano. Forse perché è ancora troppo vivo lo choc della sua tragica fine, il discorso Pasolini riaffiora sempre come punto di riferimento emblematico di una determinata condizione dell’intellettuale, ed è appunto attorno a questo nodo che è ruotato lo scambio di opinioni che l’occasione ha provocato. Ma se la figura pasoliniana, anzi, il fantasma, come
qualcuno l’ha chiamato, domina per la vasta problematicità dei suoi interessi ultimi, sì sta anche avviando un recupero non estemporaneo dei suoi testi e delle loro ragioni. In questa ottica va visto, per esempio, il volume di Enzo Golino, Pasolini: il sogno di una cosa, che affronta l’opera pasoliniana nei suoi rapporti con la dinamica sociale e mette in risalto la sua contraddittorietà fra la. volontà precettistica e la naturale tendenza letteraria. E poi il primo assaggio per una «vita di Pier Paolo Pasolini» ancora da scrivere che Nico Naldini ci ha dato con Nei campi del Friuli. (In ogni caso, il modello, Naldini se lo è già costruito con la Vita di Giovanni Comisso, un precedente felice che, auguriamocelo, preluda a una biografia pasoliniana.) Sul fronte testi, la ristampa di Passione e ideologia, con una «Prefazione» di Cesare Segre che mette in evidenza il ruolo avuto dall’esperienza esemplata nei saggi che compongono il volume nell’arco dell’opera pasoliniana. Questa ristampa ha il merito di riproporre un Pasolini già «corsaro», ma che indirizzava le sue scorrerie nel dominio della poesia reclamando dai lettori l’attenzione per fenomeni non ufficiali come la poesia dialettale e la poesia popolare del Novecento.
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A questo punto la pratica degli anniversari possiamo considerarla evasa e accingerci a tornare ai problemi di una annata magra che suggerisce considerazioni che svariano tra la critica e il moralismo. È condizione abbastanza tipica e comune di quei periodi in cui la creatività dichiara uno stato di crisi e denuncia la sua incapacità di uscirne, che si insinuino nel discorso letterario alcuni falsi problemi, e che vengano presi sul serio,i quali danno origine a discussioni di tipo bizantino che trovano poi accoglienza e spazio spropositati alla loro effettiva consistenza; non solo, ma alla fine, il dibattito che ne conse-
gue finisce per offrire della realtà letteraria una immagine distorta dove i valori veri appaiono alterati in classificazioni artificiose e confusi in schematismi di maniera. Il vuoto lasciato dai testi non viene occupato da altri testi in alternativa, magari classici, che sono sempre d’attualità, ma da una congerie di trovate pretestuose. Basta scorrere rapidamente la rassegna dei dibattiti e delle polemiche che hanno tenuto in piedi le pagine dei supplementi letterari e delle sezioni culturali di quotidiani e periodici — che è sempre un termometro significativo, anche se non del tutto veritiero —, per renderci conto della futilità che li ha originati. Non solo, ma per rilevare come molto spesso le occasioni vengano strumentalizzate in maniera speciosa, stravolgendone intenzioni e finalità. Ancor più deprimente, però, è la sicumera con cui i casi vengono montati e tenuti in vita, come se fosse questione di vita e di morte della letteratura e dal loro andamento dipendesse il suo futuro. Classici sbattuti al macero, best-seller sotto accusa, il ro-
manzo più importante e quello più amato del secolo, i giovani narratori italiani tradotti all’estero o in gara per diventare i Calvino di domani, hanno tenuto desta e tesa la nostra at-
tenzione; ma nello stesso tempo siamo tormentati dal dubbio di chissà quanti altri temi di così capitale importanza sono sfuggiti alla nostra attenzione e non sono stati registrati in questa catalogazione condotta per dovere di cronaca e di informazione. L’impassibile cronista ha diligentemente raccolto i ritagli incriminati dell’« Espresso », di « Panorama », dell’« Europeo », di « Tuttolibri », del « Corriere», di « Repubbli177
ca », dell’« Unità », ecc., e nel farli ripassare non trova certo
motivo di orgoglio per la propria acribia archivistica, né spunti stimolanti, al di là del notare che il materiale è agli atti. Ma sono proprio gli atti stessi, con la loro impietosa oggettività, che emanano un severo giudizio: nel momento stesso in cui mettono in bella evidenza la riuscita dello scoop, denunciano anche l’irreparabilità dei guasti prodotti dal cinico gioco del giornalismo letterario. Se tutto si limitasse al divertimento di alcune battute o a qualche arrabbiatura moralistica, poco male — la letteratura è anche fatta di queste cose, e non è detto che da tali sfoghi non possa uscire a volte qualche cosa di positivo. Ma ci vorrebbe un nuovo Flaiano. Il guaio, invece, è un altro: è che questa attività diventa essa stessa letteratura, si identifica con il lavoro letterario, poiché 1 testi,
come abbiamo già osservato, sono sostituiti da questi surrogati giornalistici. i La letteratura a questo punto sta diventando un’altra cosa, la sua dinamica non è più creativa e conoscitiva ma agonistica, il confronto non è più critico ma da campionato di calcio, con la suspense di vedere a quale romanzo toccherà lo scudetto dell’importanza nel nostro secolo: infatti il risultato che conta è di arrivare per primi al vertice della classifica, con il trionfo dei fans di Svevo su quelli di Tomasi di Lampedusa. Mitteleuropa batte Sicilia nel torneo del Novecento organizzato da « Tuttolibri». Ma poi c’è il premio di consolazione per il romanzo più amato: e qui // gattopardo si rifà, riuscendo così in prima posizione nella classifica della combinata fra importanza e amore. Per inciso, il meno amato (0
quale candido eufemismo) è risultato Gli indifferenti di Moravia, con buona pace di tutti noi che pensavamo al romanzo moraviano come a un punto fermo della nostra letteratura contemporanea. i Il risultato finale dell’inchiesta è condivisibile (Gl indifferenti a parte), mentre è preoccupante il concetto di opera letteraria e di giudizio critico che nella circostanza esprime, e nello stesso tempo assimila, questa specie di lettore-tifoso. Abbiamo assistito a una partita che nella sostanza ha finito per rendere più difficile il cammino, già di per sé abbastanza 178
faticoso, compiuto dalla critica in questi ultimi decenni nel tentativo di sottrarre la letteratura alla legge esclusiva del gusto e che ha ricacciato indietro il giudizio al tempo delle categorie del bello e del brutto, del mi piace o non mi piace, quando la letteratura non era concepita secondo un criterio di valori conoscitivi, come invece dovrebbe essere, e dove tro-
vano spazio sia Svevo sia Tomasi di Lampedusa, impegnati entrambi per la loro parte allo sviluppo del discorso letterario e culturale. Queste iniziative fanno purtroppo parte della dinamica del giornalismo letterario che si nutre abbondantemente di cibi simili. E infatti, in questo scorcio d’anno, ecco un’altra classifica che si annuncia, sempre dalle pagine di « Tuttolibri»: questa volta è in corso la gara che deve laureare il romanzo più bello di questi ultimi dieci anni. La suspense è alimentata e sostenuta settimana dopo settimana proprio come durante il campionato di calcio — non quello giocato, bensì quello parlato —, lasciando filtrare indiscrezioni sul numero delle risposte pervenute e sulle preferenze espresse, scelte queste ultime, naturalmente, a caso. Tutti i mezzi per interessare il pubblico alla letteratura sono buoni, ma questo è insidioso poiché in realtà snatura il discorso letterario nella sua essenza. Non si dovrebbe infatti far scegliere il romanzo più bello, ma favorire la lettura di un testo e creare un rapporto fra lettore e libro che non abbia come scopo una classifica da stilare, poiché percorrendo questa strada sì arriva più facilmente all’avanspettacolo che a imparare a leggere. Stiamo in effetti assistendo anche in letteratura al trionfo di quella società- spettacolo che si è già insinuata nella vita quotidiana e dove non c'è più spazio per quei liseurs, come li chiamava Albert Thibaudet in Réflexions sur le roman. Il grande critico francese, prendendo a pretesto il romanzo per via della sua diffusione popolare, faceva una distinzione fra coloro che richiedono alla lettura di un romanzo «soltanto una distrazione, una rinfrescata, di essere un momento di ri-
poso », e perciò il loro modo di leggere «influisce poco sulla materia e la sostanza della loro vita », e coloro, invece, che la
lettura situa in «un ordine dove la letteratura esiste non come divertimento ma come fine essenziale, e che può segnare 179
l’uomo quanto gli altri fini della vita». Di fronte a ciò che sta accadendo, bisogna garantire la sopravvivenza di questi /-
seurs, che non sono'affatto dei lettori di professione, se vo-
gliamo che la letteratura possa ancora essere considerata come un fine. A questo compito sono preposti gli scrittori, 1 quali, però, non paiono affatto avvertire la gravità della situazione e continuano a perseguire obiettivi immediati e spettacolari anziché puntare sulla durata. Ed è per questo che poi siamo costretti a tener conto, nostro malgrado, degli anniversari. Ma la portata deviante di queste iniziative è incalcolabile perché hanno anche altri effetti secondari. Indicare il romanzo più importante, quello più amato o meno amato del Novecento, presuppone una valutazione critica e storica prima di esprimere la scelta preferenziale. Così impostata, si tratta di una operazione attinente alla storia letteraria, a prescindere dagli strumenti a disposizione, che ha una conseguenza obbligata: contribuisce ad alimentare nei già pochi lettori una falsa idea della lettura e li spinge a considerarla come una gara a eliminazione e non uno sforzo a comprendere. Ancora una volta è la scelta della via più facile, e ambigua allo stesso tempo, per catturare l’attenzione, trascurando di indirizzarla
invece su questioni meno estemporanee. Per esempio, la Letteratura italiana del nostro secolo di Giacinto Spagnoletti costituiva una buona occasione per discutere della sostanza letteraria del Novecento e non di ciò che si crede bello o brutto. Invece la superficialità è stata tale che tutto si è ridotto a una aprioristica verifica dell’indice dei nomi, e poi a scandalizzarsi su chi c’era e chi non c'era. Il disegno storico e critico di Spagnoletti, giusto o sbagliato che sia, non è nemmeno entrato in discussione. Purtroppo, e non da oggi, antologie e storie della letteratura contemporanea sembrano condannate a subire preventivamente questo spoglio da elenco telefonico, vittime come sono di un malcostume che vuole trasformare tutto in scandalo. E così la «storia» di Spagnoletti ha finito per sollevare a priori molto scalpore per le assenze, mentre a posteriori ci sarebbe semmai da stupire per certe presenze generosamente introdotte che, tuttavia, non inquinano il panora-
ma nella sua complessità, e dal quale Spagnoletti ha inteso 180
far emergere l’autonomia della letteratura e porre in primo piano le opere piuttosto che le idee, gli scrittori invece del quadro sociale. Ormai il vizio è radicato: i panorami e le storie della letteratura contemporanea devono sopportare queste preventive verifiche fiscali di schedatura che fanno parte di quella tendenza schematizzante che snatura il concetto stesso di letteratura e della sua ricerca. Per fortuna essa si sfoga sulla contemporaneità, dove l’interesse personale è toccato sul vivo, spesso è determinato dalla vanità, mentre se ne staccano le considerazioni sulla storia letteraria in generale. Qui la discussione, anche quando è accesa, si solleva di tono, passa dal vile «particulare» alle questioni di metodo. La Letteratura italiana diretta da Alberto Asor Rosa (dello stesso Asor Rosa
dobbiamo ricordare l’uscita di una raccolta di appunti, note, riflessioni sull’essenza e l’esistenza, L'ultimo paradosso), ha
offerto più di uno spunto in proposito, e man mano che i vo. lumi escono va definendo sempre più chiaramente la propria impostazione di storia letteraria che vuole essere veramente globale, e perciò interdisciplinare, con tutte le riserve che possono essere espresse proprio per 1 riflessi che tale impostazione metodologica ha sulla lettura dei testi. Il quarto volume, dedicato alla controversa questione dell’« interpretazione» del fenomeno letterario costituito dall’insieme dei testi prodotti, offre un esempio di questa contaminazione fra approcci tipicamente e tecnicamente letterari — citiamo quello di Segre, Testo letterario, interpretazione, storia: linee concettuali e categorie critiche (che è andato poi a confluire nel volume Avviamento
all’analisi del testo letterario, che tutti
dobbiamo tenere ben presente unitamente alla Guida allo studio della letteratura italiana curata da Emilio Pasquini), con aperture sulla psicanalisi (di Francesco Orlando) e sulla sociologia (di Alberto Abruzzese). Le considerazioni sullo stato della letteratura, con i suoi aspetti spesso polemici, hanno sinora dominato questa rassegna in cui si dovrebbe invece parlare soprattutto di libri. È la conferma della predominanza della discussione sui testi, della parlerie sulla scrittura. E infatti, quando passiamo in rassegna la produzione dell’annata letteraria e le varie proposte 181
che ci ha riservato, ci rendiamo conto di quanto sia povero il panorama, da qualunque parte lo si abbordi. Non è il caso di essere sempre nostalgici per les neiges d’antan, che a loro tempo sono state anch'esse frutto di circostanze che non sem-. pre si danno e soprattutto non si possono ripetere. Il parametro a cui attenersi è dunque quello di indicare nel breve arco di un anno quali siano state, almeno per noi, le vere occasioni meritevoli di attenzione e che si possono trascegliere a esemplificazione di un lavoro riuscito, senza andare alla ricerca del capolavoro ignorato che spesso non esiste o, magari, verrà fuori imprevisto e inatteso come La coscienza di Zeno, burlandosi in seguito dei soloni della critica. Questa indagine è perciò caratterizzata da una oggettività informativa, la quale, tuttavia, mette impietosamente a nudo la precarietà della situazione, essendovi ben poco che si solleva dalla media. Iniziamo la ricognizione partendo dal campo della narrativa, dove le trasformazioni sono più lente, lo spazio per lo sperimentalismo più specificamente circoscritto, data la costituzione stessa del genere che si presta meno della poesia alle manifestazioni avanguardistiche. Forse, proprio per questo, l'avanguardia — quella storica e quella neo — ha sempre tentato di impadronirsene e, non riuscendovi, lancia a sca-
denze fisse proclami che annunciano la morte del romanzo o ne dichiarano l’inutilità. Per questa sua natura, diciamo pure più popolare e meno intellettualistica, la narrativa è il genere che più riflette l’effettivo andamento della « cosa letteraria». Quest'anno la visione d’assieme è discutibile e povera, ma con alcune caratteristiche. Si segnala la presenza di una agguerrita schiera di giovani leoni o baronetti rampanti — non sì ricordano più quali altri luoghi comuni siano stati riesumati per definirli: Alberto Abruzzese, Aldo Busi, Gianni Celati, Daniele Del Giudice, Alain Elkann, Gianfranco Manfredi, Roberto Pazzi, Antonio Tabucchi, Pier Vittorio Tondelli —, i quali, mettendo
sul piatto della bilancia i loro romanzi, possono far pensare all'esistenza, almeno presenzialistica e sul piano numerico, di una giovane e nuova narrativa italiana. Non si può certo parlare di affinità o analogie di poetica, né tanto meno di 182
scuola. Si tratta, semmai, di registrare una presenza più o
meno casuale che non autorizza ancora a parlare di ricambio generazionale, ma più semplicemente del fatto che nel deserto generale alcuni di essi — Busi, Pazzi, Tondelli; tanto per
non fare nomi —, hanno finito per catturare, con motivazioni diverse, l’attenzione al di là dei loro valori effettivi e i loro te-
sti per apparire quasi come un fenomeno di novità. Per contro, abbiamo avuto il ritorno di alcuni «grandi vecchi »: Maria Bellonci, Manlio Cancogni, Alberto Mora-
via, Mario Soldati; per non parlare dei recuperi di Conservatorio di Santa Teresa di Romano
Bilenchi, /{ mondo è una
prigione di Guglielmo Petroni e del ritorno alla ribalta di Elio Vittorini con il romanzo giovanile ritrovato, I! brigantino del papa e il nuovo volume dell’epistolario, / libri, le città, il mondo. Lettere (1933-1943). (In questo contesto vittoriniano va anche segnalato il bel libro di Raffaella Rodondi, 7/ presente vince sempre. Tre studi su Vittorini.) Con il peso della loro classe e del loro mestiere, essi hanno riproposto l’immagine di una letteratura narrativa più consolidata e sicura, anche se i risultati non sempre corrispondono alla fama di chi li ha ottenuti, come nel caso del romanzo di Moravia.
Da questo confronto, che non ha — per carità! — nulla di antagonistico, emergono due considerazioni di fondo: che la letteratura è anche esperienza e mestiere; che se non si scopre un nuovo Radiguet, un Bilenchi, un Moravia, un Soldati sono sempre meglio dell’ultima, anche più strabiliante, scoperta. Inoltre, che tra questa squadra di giovani e la rappresentativa degli anziani si stabilisce un terrain vague che la cosiddetta generazione di mezzo tende, sì, a occupare con proposte interessanti, ma che, almeno per il momento,
non
ha ancora l’indiscutibile peso dell’autorevolezza. Pensiamo ai romanzi di Mario Biondi, Gl: occhi di una donna, che è stato
premiato al Campiello; Carlo Castellaneta, Vita di Raffaele Gallo, ritratto di un camorrista in crisì che risente di suggestioni tra Chandler e Fitzgerald; Gino Montesanto, Preti d’inferno, storia impietosa di un prete arrampicatore e carrierista; Alcide Paolini, La donna del nemico, un tuffo all’in-
dietro nel tempo e nella realtà delle proprie origini che per Paolini sono rappresentate dal Friuli; Ferruccio Parazzoli, // 183
giardino delle rose, risentita favola, o parabola, 0 solo parodia della condizione dell’intellettuale; Carlo Sgorlon, L'armata
dei fiumi perduti, altro esempio dello Sgorlon epico, premiato allo Strega; Mario Rigoni Stern, L’anno della vittoria, che sì ricollega all’ambiente e al mondo della Storia di Tonle; e, per
chiudere, a quello di Giorgio Manganelli, Dallinferno, l’ultima invenzione di questo straordinario trafficante di parole. Questi dati statistici e anagrafici sono significativi non tanto perché riflettono una situazione di stallo nell’evoluzione dinamica delle generazioni — che conta e non conta, in quanto i valori espressivi non sono soggetti all’età —, ma soprattutto perché la ricerca del nuovo diventa più esasperata, e allora gli abbagli sono più facili e più frequenti, specie quando il critico è un giocatore che cede volentieri al rischio della scommessa azzardata. In una situazione come questa, gli equivoci sorgono con facilità, coinvolgono maggiormente, non giovano alla chiarezza, ma sono fonti di confusione, per di più destinata ad allignare pericolosamente in un terreno siffatto. Non c’è quindi da scandalizzarsi, ma semmai da recitare un contrito mea culpa, se il pubblico cade poi ingenuamente vittima dei soliti avventurieri che bazzicano ai confini della letteratura, utilizzandone con spregiudicatezza gli strumenti e trasformando in libro tutto ciò che capita loro a tiro, per poi approfittare di posizioni di privilegio nei mass-media e imporlo al pubblico come prodotto culturale. Il caso più lampante è quello di Luciano De Crescenzo e del suo saccheggio della filosofia greca: i suoi libri, per quanto dichiaratamente umoristici, hanno trovato udienza persino nella scuola. Non è una doutade, nella bibliografia della storia della filosofia greca bisogna inserire anche lui e il suo assistente Bellavista con O: dialogoi. Ma altri, per altre ragioni, potremmo aggiungere all’elenco degli equivoci su cui si fonda ormai l’immagine per il popolo-lettore della nostra letteratura a tutto detrimento della sua vera sostanza popolare. Se queste possono sembrare lamentazioni moralistiche o di costume sociologico, in realtà quando passiamo a considerazioni più legate ai testi constatiamo che il discorso non cambia di molto, proprio a causa di quella mancanza di punti di riferimento a cui ricorrere per cambiare l’indirizzo del 184
discorso. Partiamo dal dato di maggiore evidenza: l’affermazione dei giovani narratori, che dovrebbe essere il segno più consolante e stimolante. Annunciati come è ormai consuetudine con ben orchestrati strombazzamenti dai grandi imbonitori dell’industria editoriale, si presentano con clamore e fracasso intimidatorio. Si potrebbe costruire un florilegio, un fior da fiore, delle defi-
nizioni e delle affermazioni apodittiche nelle quali vengono spropositatamente evocati nomi e situazioni che sarebbe bene non nominare invano — per Busi siè addirittura scomodato Leopardi ed evocata La ginestra. Di fronte a tanta iattanza, i volumi al loro apparire intimidiscono, ma poi ci si accorge che il libro decisivo non c’è. Certo vi è anche differenza fra loro: Leopardi ha poco a che fare con la Vita standard di un venditore provvisorio di collant di Busi, il quale potrebbe utilizzare meglio le sue innegabili doti invece di riproporre lo
stantio modello dell’artista che vuole a tutti i costi 6pater les bourgeois — e c'è ancora qualcuno che ci casca. A bilanciare il rapporto c'è magari Del Giudice, che, invece, porta un contributo originale e, nonostante il suo Atlante occidentale pecchi di una certa calcolata freddezza, si sente che siamo nell’ambito della letteratura. E la stessa aria fina la respiriamo quando ci inoltriamo tra i Piccoli equivoci senza importanza di Tabucchi o prendiamo contatto con i Narratori delle pianure di Celati. Poi ancora si scopre che, tutto sommato, Tondelli non è privo di qualità, specie ora che sì è scoperto giornalista e ci rendiamo conto che quello è un mestiere in cui riesce meglio che a scrivere romanzi arruffati come Rimini. Si è parlato parecchio anche di Pazzi, ma Cercando l’Imperatore ha tutta l’aria di essere una montatura dei giudici letterati del Campiello che ogni anno si illudono di scoprire lo scrittore nuovo pubblicato dal piccolo editore. Parlando di alcuni di questi rampanti «giovani dell’85», Edoardo Sanguineti li ha tacciati di «un’elegante inutilità ». Non è solo così: essi sono vittime, o più spesso complici, dell’equivoco in cui ci troviamo e pertanto vanno attesi a prove successive per confermarsi o riscattarsi. Ma non devono dimenticare la ferrea e impietosa verità di quella legge che ammonisce quanto sia difficile scrivere, ma ancor più continuare a scrivere, cre185
scere e maturare se si vuole dimostrare che ciò che si è fatto non è soltanto fuoco di paglia. In questo senso i «grandi vecchi » sono dei veri maestri. Si potrà anche storcere il naso al nuovo romanzo di Moravia, L’uomo che guarda, per via di una certa assuefazione al tema sessuale che ritorna in maniera quasi ossessiva negli ultimi suoi libri, ma la costruzione della storia, la tenuta della pagina, la cadenza martellata delle sequenze ci confermano la presenza dello scrittore al di là della routine e della maniera. Cancogni, dopo alcune sbandate, sa rinnovarsi ritornando a se stesso, alla propria autentica materia narrativa ritrovando in Quella strana felicità (premiato a Viareggio) l’equilibrio e la misura attorno a un personaggio autobiografico da seguire e da indagare fino a scoprirne l’identità simbolica e universale. Tutti i libri di Maria Bellonci sono da leggere come romanzi — è il «suo evidente destino » sosteneva Giacomo Debenedetti —, anche se hanno il taglio della biografia o puntano su ambientazioni storiche, perché l’intervento dello scrittore è tale da trasformare la realtà storica in realtà letteraria. Ma con Rinascimento privato i termini della questione sono mutati: c'è sempre Isabella d’Este, personaggio più che congeniale alla nostra scrittrice, ma il taglio narrativo è diverso. Maria Bellonci questa volta ha innestato sull’innato tono alto del suo linguaggio un sapiente gioco inventivo, facendo ricorso a un intreccio di personaggi e di situazioni che sostengono l’impalcatura di una costruzione romanzesca dove scorre la linfa della vita e non le elucubrazioni di quei narratori che si perdono nella storia come in una savana. Scrivere un romanzo equivale anche a farlo funzionare, a fare in modo che l’idea che ne è all’origine sia realizzata sul piano del raccontare in modo perfetto. In un romanzo tutti i conti devono tornare, anche i più insignificanti. Questa non è mania da alchimista, bensì coscienza di scrittore che poi non può sfuggire al lettore, sia esso di professione o non, come avviene nel caso dell’Architetto di Mario Soldati. Si sa che Soldati non ha mai concepito un romanzo o un racconto alla maniera realistica né facendo ricorso alla memoria — le due linee maestre della nostra narrativa contemporanea —, ma sempre come intreccio psicologico, attribuendo grande importanza 186
all'elemento sorpresa e alla trovata, all’imprevedibilità che modifica il decorso delle cose perché è imprevedibile la vita. Per questo Soldati è scrittore di particolare singolarità nel nostro panorama, molto poco italiano, punto novecentesco e molto più vicino, invece, alla narrativa anglosassone, da Ste-
venson e James al suo amico Graham Greene. Un'altra caratteristica di questa stramba annata letteraria riguarda la poesia, che prendiamo in considerazione dopo aver concluso il resoconto sulla narrativa. Abbiamo avuto in passato momenti più ricchi e stagioni più esaltanti, con gran dovizia di poeti e di testi, tuttavia non capita spesso di trovarsi di fronte a un complesso di situazioni che per la loro affinità finiscono per determinare un fenomeno, se non una tendenza. Sembra infatti che in questo 1985 i poeti si siano posti il problema di fare i conti con il loro lavoro passato e presente, di confrontarsi con esso ricapitolandone i punti salienti, 0 che ai loro occhi appaiono tali, e abbiamo così avuto alcune antologie personali che non nascondono la pretesa di risultare anche delle autobiografie poetiche. Questo senso autocritico, questa esigenza di fare il punto sono abbastanza significativi perché non riguardano solo casi isolati, che sono sempre esistiti, ma il fenomeno si è allargato sino a far sorgere il dubbio che la nostra situazione poetica sia a una svolta. E difficile affermarlo, certo, ma dopo alcune stagioni di grande tensione e di risultati eccezionali, oggi la produzione in versi sembra attraversare un periodo di stasi, come se si fosse rinserrata in sé, concedendosi una pausa per fare la conta delle
proprie forze. L'ipotesi è suggerita dai volumi riepilogativi e di riflessione poetica che concernono poeti di tutte le generazioni da Camillo Sbarbaro a Piero Bigongiari ad Antonio Porta a Giovanni Giudici. Di Sbarbaro viene ripresentata l’opera completa, e il poeta ligure sembra essere tornato per esigere quanto la poesia contemporanea gli deve. E un peccato che questo volume complessivo manchi di quel minimo di apparati introduttivi e critici al fine di illustrare al lettore d’oggi il ruolo e la posizione che il poeta di Pianissimo ha avuto nel panorama della poesia novecentesca, perché avrebbe costituito non solo un ausilio informativo, ma anche suggerito una 187
chiave di lettura storica dell’opera di uno dei poeti fondamentali nel nostro secolo. Bigongiari con Autoritratto poetico e Porta con Nel fare poesia invece offrono delle loro rispettive esperienze una mappa pressoché identica come impostazione: scelta di versi e riflessione sugli stessi. Ne è venuta fuori in entrambi i casi una sorta di autoanalisi che non poteva non mettere in evidenza la diversità di visione della poesia e di distanza culturale che separa le loro generazioni, ma, curiosa-
mente, anche sottolineare un punto d’incontro che è costituito dal concetto di valore che entrambi annettono allo scrivere versi, al loro impegno nel «fare poesia » al di là delle rispettive convinzioni ideologiche. Infatti «fare poesia» significa pensare poesia. Bigongiari ricorda che i poeti della sua generazione hanno abbondato in dichiarazioni di poetica, spinti forse dalla particolare situazione storica in cui nasceva e operava la loro ricerca; tuttavia il ragionamento sulla poesia non nasce soltanto da sollecitazioni esterne di esplicitazione ma anche da una esigenza interiore di riflessione, quella, per esempio, che ha guidato Giudici nel costruire La dama non cercata. I libri saggistici dei poeti fatalmente soggiaciono a questo duplice riscontro, e quello di Giudici non poteva fare eccezione specie in un momento in cui la biblioteca poetica è affollata dalle riflessioni. Ma sarebbe errato ridurre la poesia a questa particolare condizione che abbiamo sottolineato per il suo carattere di fenomeno e trascurare altri testi, per esempio, quelli di Mario Luzi e Vasco Pratolini. L’ardua poesia luziana si arricchisce con Per il battesimo dei nostri frammenti di un nuovo contributo che alimenta un discorso în progress in cui il poeta mette continuamente in gioco i grandi problemi. Anche qui ritornano i temi che da sempre Luzi affronta: il destino e la sua metamorfosi; il cogliere nei fatti quotidiani, anche i più insignificanti, il senso dell’esistere; l’interrogarsi, spinti dal dub-
bio, sul significato del mistero che comanda e regola le nostre azioni. Non a caso la poesia di Luzi — con quella di Caproni — è tra le più inquietanti del nostro tempo per la disarmante semplicità degli oggetti e dei sentimenti che la popolano e la loro alta rappresentazione simbolica. E poi Pratolini. Il suo Mannello di Natascia (Premio Viareggio) è, sì, un li188
bro di poesia, ma in un modo un po’ speciale: infatti le composizioni sembrano costituirsi come i capitoli di un romanzo autobiografico e il verso appare una scelta tecnica operata, forse, per rispondere a quella difficoltà di romanzo che sembra attanagliare da tempo quel narratore che pure ci ha dato Metello. Anche in poesia, come già per la narrativa, il campo pare dominato dalla presenza dei «grandi vecchi », ma la giovane poesia s’affaccia con baldanza e reclama il proprio posto al grido di W la poesia! Questa maniera un po’ spregiudicata di presentarsi, con vaga eco futuristica, l’ha scelta Marco Marchi per una antologia della poesia d’oggi che riunisce i nomi più significativi — da Dario Bellezza a Giuseppe Conte a Maurizio Cucchi a Milo De Angelis (di cui segnaliamo 7erra del viso)‘a Cesare Viviani (anche di lui ricordiamo La sce-
na. Prove di poetica) — con alcune scommesse cui vorrei associarmi anch'io: Sauro Albisani, Edoardo Bianchini, Rober-
to Carifi, Roberto Mussapi. Proprio perché questa antologia sì presenta criticamente selettiva, e perciò arbitraria e parziale, essa rappresenta un punto fermo nella vasta congerie dell’attività poetica sempre difficoltosamente censibile nella sua complessità. Eppure alla scelta quasi in toto condivisibile di Marchi — attento osservatore della dinamica poetica attuale come sappiamo da un suo volume di qualche anno fa, Alcuni poeti — vorremmo ancora aggiungere, all’elenco delle scommesse più o meno azzardate, i nomi già conosciuti agli addetti ai lavori di Patrizia Valduga per La tentazione e di Remo Pagnanelli per Atelier d'inverno e quelli meno noti di Donatella Bisutti per /nganno ottico, di Franco Buffoni per / tre desideri, di Paolo Codazzi per L’inventore del semaforo, di Angela Scarparo per Virtù. Ma le risorse poetiche dell’annata non si esauriscono qui. In queste rassegne non abbiamo mai trascurato di segnalare la poesia dialettale. Per quanto riguarda il 1985 pensiamo che essa meriti un’attenzione particolare dato l’accumularsi di alcuni materiali significativi. Iniziamo con Le parole di legno. Poesia in dialetto del ‘900 italiano a cura di Mario Chiesa e Giovanni Tesio e la ristampa anastatica delle « riviste friulane » dirette da Pasolini curata dal benemerito « Cir189
colo filologico linguistico padovano» diretto da Gianfranco Folena, attento osservatore — con Ettore Bonora — dell’an-
damento della nostra letteratura dialettale. Associare le due iniziative non è casuale poiché delimitano un arco in cui il dialetto ha conosciuto esperienze fondamentali: l’avvio di Pasolini negli anni ‘40 con Poesie a Casarsa che sì concretizzerà poi in quelli ’50 nell’antologia della poesia dialettale, in cui veniva dato un primo panorama della situazione poetica novecentesca, in dialetto, e l’ulteriore passo in avanti con quella di Chiesa e Tesio. L’antologia pasoliniana documentava geograficamente, ossia per regioni, la consistenza dialettale, quella di Chiesa e Tesio ha ambizioni critiche e sistematiche nel delineare lo sviluppo storico della poesia, partendo dall’immancabile Di Giacomo per giungere agli ultimi Loi, Giacomini, Bertolani. Se il lavoro di Pasolini era frutto di
una disposizione molto personale — e infatti la sua antologia è un libro di Pasolini nell’insieme della sua opera — quello di Chiesa e Tesio è più oggettivo e tecnicamente più realizzato con le bibliografie, gli apparati critici, l'impostazione cronologica del manifestarsi dei poeti nel tempo che consente di seguirne lo sviluppo. Ma senza l’apertura pasoliniana forse oggi non saremmo al punto in cui siamo nella valutazione dell’apporto dialettale alla nostra letteratura novecentesca, e Chiesa e Tesio, come tutti, del resto, pur prendendone le dovute distanze, lo ammettono e pagano il loro debito. Non a caso alcuni nomi inclusi da Chiesa e Tesio nella loro scelta hanno pubblicato proprio quest'anno: Paolo Bertolani con Seinà, Amedeo Giacomini e Andrea Zanzotto con Mistieròt. Mistiràs. Ma, soprattutto, Delio Tessa. Il grande
poeta di L'è el dì di Mort, alegher! è rimasto pressoché sconosciuto ai lettori a causa della mancanza di testi a disposizione. Il suo nome è sempre circolato soltanto fra gli addetti ai lavori circondato da un’aura mitica, spesso sfociata nell’agiografia, ma più per sentito dire o per segnalazioni antologiche. Oggi Dante Isella, «gran fabbro» della letteratura lombarda, ha realizzato finalmente una edizione completa, criticamente e filologicamente accurata della sua opera, che non colma soltanto una lacuna, ma restituisce alla nostra poesia contemporanea un libro fondamentale. Un nome, invece, 190
manca nel panorama di Chiesa e Tesio, pur essendo di grande risalto come Eduardo, di cui è apparso ’0 penziero. Forse la maggior fama del teatro ha distratto l’attenzione da questi foglietti di versi che ci portano ugualmente e confidenzialmente la voce inconfondibile dell’Eduardo di teatro. E vi aggiungerei anche Alberto Bevilacqua che in Vita mia alterna spesso e volentieri lingua e dialetto, anche se non si può parlare di lui come di un dialettale: nei suoi versi si realizza piuttosto una lingua in cui entrano in gioco dialetto e gergo, quello della «leggera», che spingono semmai verso il pastiche, ma con un fondo più popolare che letterario. Ji osservazioni sin qui fatte sulle resultanze dell’ annata, mettono indirettamente l’accento su un dato che è implicito nel discorso —
in tutti i discorsi di critica letteraria —, ma
che giova far emergere con evidenza: la letterarietà, a cui le opere delle quali abbiamo appena parlato rimandano in bene e in male e che in un momento particolare come questo occorre tenere presente, anzi, avere come unico elemento di ri-
scontro per non cadere nell’abbaglio di confondere il grano con il loglio. Seguendo questo indirizzo, è evidente che i libri da salvare in questo 1985 siano pochi e che spesso si trovino al di fuori delle linee tradizionali, proprio perché è in crisi la letteratura tradizionale nelle sue strutture più aperte verso il pubblico quali, appunto, la narrativa. In questa situazione la letterarietà la garantiscono opere come Le rovine di Parigi di Giovanni Macchia, dove sono recuperati alcuni saggi del suo tradizionale dominio francese, ma che nella parte finale riserva al lettore la sorpresa e il piacere di un ampio capitolo dedicato al cambiamento del volto di Parigi. In queste pagine ritroviamo non solo il saggista, ma uno scrittore che, grazie a una conoscenza interdisciplinare di motivi culturali, antropologici, storici, di costume,
architettonici,
riesce a costruire
uno spaccato della nostra civiltà. Con /l mito di Parigi egli ci° aveva già dato un primo assaggio di questa ampiezza del suo orizzonte culturale che trova nell’evoluzione della capitale francese il suo centro di massima espressione. Ma nelle Rovine di Parigi la novità risalta maggiormente poiché il fondo critico di base che si esercita su scrittori e testi, qui si associa al confronto con una realtà culturale e sociale in movimento 191
di cui Macchia si fa interprete e, soprattutto, inventore sul piano della scrittura, restituendoci non solo gli elementi di quella trasformazione che ha mutato esteriormente Parigi, ma anche il senso interiore dell’evoluzione della nostra civiltà. Un libro simile esorbita dal normale dominio del saggismo culturale, per quanto di alto livello e tradizione, ed entra nel più vasto terreno della scrittura creativa, grazie al fascino, ma anche alla funzionalità della scrittura. E su questo piano che Macchia conferma la sua singolarità di scrittore che riesce a stabilire con il lettore un rapporto di coinvolgimento interiore e a stimolare una lettura diversa. E un po’ quello che avviene anche con un volume di difficile catalogazione: Giovanni Pascoli, Poesie famigliari,
a cura di Cesare
Garboli. Tutto lascerebbe supporre che si tratti di una antologia pascoliana — l’ennesima —, sia pure circoscritta al tema famigliare. Poi si scopre che le apparenze, ancora una volta, ingannano: Pascoli c’entra, sì, per le trenta poesie raccolte e commentate, ma soprattutto perché è protagonista di un’avventura biografica, un vero romanzo,
che Garboli ha
scritto ricostruendo cronologicamente la sua vita. Per quale ragione ricordare con tanta evidenza questo libro? Per la ragione che risponde anch’esso a quel concetto di letterarietà che abbiamo esposto più sopra, proprio per la sua originalità di impianto e compositiva. L’accompagnamento di questo estratto di versi pascoliani è molto esteso, con dovizia di apparati filologici e informativi, ma il pezzo forte, dove Garboli dispiega le sue capacità di scrittore, è nell’estesa « Cronologia ». Qui sulla scorta di dati anagrafici, ma allargando il discorso agli avvenimenti e dando la parola anche ad altri testimoni e studiosi, egli riesce a costruire una biografia pascoliana da leggersi come un romanzo e a trasformare un volume di ordinaria antologia in una sorta di testo originale, aperto a una lettura non convenzionale. Un altro esempio di libro da salvare a futura memoria per la sopravvivenza della letterarietà contemporanea è il Carteggio Cecchi-Praz, prefato da Macchia, dove è documentato l’inizio del loro rapporto intellettuale e poi dell’amicizia che li ha legati per tutta la vita. Un’amicizia nata nel 192 6. Gli anni Ottanta e la letteratura
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segno del comune interesse per la letteratura inglese, ma trasformatasi presto in uno straordinario sodalizio fra due scrittori. Le lettere hanno quasi sempre uno spunto letterario, ma spesso travalicano l’occasione poiché entrambi — specie Cecchi, dopo aver vinto un po’ di diffidenza nei confronti del giovane « postulante» — si consegnano l’uno all’altro nella loro dimensione di studiosi e umana. È un vero peccato che questa civiltà della corrispondenza vada scomparendo a causa delle più facili comunicazioni procurate dagli incontri e, soprattutto, dal telefono: ci guadagneranno in rapidità gli scambi di opinioni, ma per la letteratura è una perdita secca, se pensiamo che non ci saranno più libri come / doni della vita. Lettere 1913-1976 di Cesare Angelini e mancheranno ai futuri lettori queste fonti di informazione non solo sugli scrittori, ma sulla civiltà in genere, di cui i rapporti letterari sono, nel bene e nel male, una testimonianza.
Per concludere, un ultimo esempio di letteratura anti-crisi. E uscito proprio in chiusura d’anno il volume Poesie e carmi di Ugo Foscolo, a cura del compianto Francesco Pagliai e di Gianfranco Folena e Mario Scotti, che completa la grande iniziativa dell’edizione nazionale delle opere foscoliane. Non paia banale o snobistico richiamarsi ai classici in un momento in cui i contemporanei hanno poco o nulla da dirci. Il legame con i classici va al di là delle occasioni, è una consuetudine che rende più familiare la letterarietà e dà maggior gusto alla scommessa sui contemporanei. Ma guardare ai classici a volte significa anche considerare un discorso allargato a una visione critica, seguire un lavoro minuzioso per restituire i testi alla loro veridicità originaria che non sempre è evidente o certa. La sorpresa questa volta viene dalle Grazie. Si sapeva che la stesura del carme rappresentava un vero ginepraio testuale e che la classica versione in cui l’abbiamo appreso: « Cantando, o Grazie, degli eterei pregi / Di che il cielo v’adorna...», lasciava insoluto il problema filologico di materiali e varianti di cui non era ancora stato stabilito l’ordine, nonostante le fatiche di alcuni studiosi, e il Pagliai in
particolare. Con un lavoro di anni, imponente per mole e per dottrina, Scotti ha finalmente documentato e rischiarato l’im-
mensa officina delle Grazie. Entrare qui nel merito dell’edi193
zione è impossibile, sarebbe fuori luogo e un atto di presunzione. Tuttavia ci sentiamo ugualmente di segnalare ai lettori questo eccezionale documento di lavoro sui classici che, al di là della obiettiva difficoltà ad addentrarsi nell’intricata foresta di varianti e di apparati tecnici, ci rivela a quali risultati si possa arrivare con lo studio della letteratura. Il saggio di Scotti che introduce il testo può essere visto dal lettore non soltanto come il frutto di una maniacale acribia filologica, ma come un appassionante romanzo d’avventura che, sfruttando più punti di vista, ricostruisce la storia di come sì è venuto formando nel tempo e nello spazio un testo come Le Grazie. Pensando a ciò che i letterati d’oggi ci propongono e alla loro inutilità, ci culliamo ingenuamente, sia pure per un solo atti? mo, nell’illusione che qualche lettore non specialista, ma di buona volontà, possa appassionarsi al racconto di uno studioso alle prese con uno strano, inconsueto e sfuggente personaggio: una poesia, Le Grazie di Ugo Foscolo.
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1986
Negli ultimi giorni dello scorso 1985, quando tutti avevano ormai testa altrove, è apparso nelle vetrine delle librerie semideserte un volume di Guido Ceronetti: Albergo Italia. Il titolo, ammiccante e allusivo, voleva essere una ironica pro-
vocazione per tutti coloro che si apprestavano a celebrare i riti festivi nelle più impensate località dell’orbe terracqueo? Oppure un invito a frequentare una realtà scostante, ma con la quale dobbiamo giocoforza fare i conti? Con Ceronetti non si può mai sapere a priori dove i suoi acuminati strali critici vadano a colpire. Con il passare del tempo, si è affermato come uno degli scrittori più corrosivi del nostro costume e i suoi libri sono diventati via via punti di riferimento essenziali della nostra riflessione intellettuale e morale. Certo, sono libri scomodi perché richiamano l’attenzione su molte cose che non vorremmo sapere né sentire né vedere, e che invece questo ostinato flaneur continua a scoprire e a squadernarci davanti agli occhi con aria divertita ma implacabile (che, in altre parole, è poi il suo modo di scri-
vere, il suo stile). E così sulla vita di questa nostra sgangherata penisola, percorsa e scrutata da Ceronetti in tutti gli anfratti, veniamo a conoscere molte cose che nessun rapporto Censis sarebbe mai in grado di dirci. Se fra le attrattive di richiamo che contraddistinguono il décor dell’« Albergo Italia » proviamo ad aggiungervi anche la letteratura 1986, ci accorgiamo che il «malessere », il «fastidio », l’«insonnia », che Ce-
ronetti confessa di provare bergo «declassato», ebbene scono anche di noi. Infatti, ta ai nostri occhi, sentiamo ma diffuso.
alloggiando in questo grande alci accorgiamo che si impadronidi fronte al quadro che si presenaumentare un disagio indefinibile 199
Innanzi tutto, non è che i segni distintivi della letteratura
(scrittori, testi) risaltino subito all’occhio dell’ospite dell’albergo. Stazionano confusi fra arazzi e stucchi, consoles e guéridons, che arredano le sale un po’ délabrées dell’ingresso. La loro sbiadita presenza ricorda quelle vecchie oleografie o troppo smorte 0 troppo chiassose che possono colpire l’attenzione di qualche sprovveduto ospite di passaggio o straniero, il quale, memore di conoscenze fatte in passato, si illude di
muoversi tra un esercito di Umberto Eco. Purtroppo non si accorge che le scialbe figure aggirantesi per le sale non sono neppure brutte copie dell’inconfondibile Umberto, e che per il loro fare, il loro gestire, il loro parlare, insomma, per il loro stile, sono, al massimo, suoi aspiranti nipotini di terzo o
quarto grado quando va bene. Nei loro confronti, la curiosità è simile a quella degli esploratori di fronte al buon selvaggio, di cui accettavano tutto in nome della scoperta esotica, anche gli aspetti e i comportamenti più repellenti. La similitudine vuole alludere alla buona disposizione che gli editori stranieri dimostrano in questo momento per i nostri cosiddetti scrittori giovani. Ben venga, dopo anni di totale e ingiustificato disinteresse, che in certi momenti è coinciso persino con una sorta di disprezzo. Tuttavia l’interesse attuale, indiscriminato, acritico, e perciò sospetto, rischia di
ingenerare perniciose illusioni: tutti opzionati, parecchi tradotti, pochi pubblicati, questi baronetti rampanti della parola scritta rischiano di perdere il titolo prima ancora di averlo ottenuto. Inoltre, la tendenza potrebbe innescare pericolosi equivoci sull’effettivo stato dei lavori della nostra letteratura d’oggi, giovane e non, poiché le resultanze anagrafiche non sono ancora entrate a far parte delle categorie estetiche. Il giovane scrittore non esiste: esiste lo scrittore, che può essere precocissimo o dare il meglio di sé in età adulta. Con il giovane scrittore si può essere indulgenti quando è ingenuo, non quando sbaglia o non è all’altezza del compito che si è volontariamente imposto. Il caso di Enrico Palandri dovrebbe pure insegnare qualcosa. Per il suo precedente primo romanzo, Boccalone, gli elogi si erano sprecati, scambiando per letteratura lo sfogo di un giovane arrabbiato che frequentava il bolognese Dams e faceva parte del Movimento del ’77: Le 200
pietre e il sale è oggi la puntuale conferma che con la parola non si riesce a barare più di tanto, e che a scadenze fisse (per esempio al secondo libro) sa prendersi le sue rivincite. E so| prattutto l’età non deve risultare una invenzione critica o un alibi per giustificare dei conati letterari. L’antologia di «under 25», Giovani blues, che l’intraprendenté Pier Vittorio Tondelli ha messo insieme trafficando fra centinaia di testi e poi scegliendone undici, è un significativo specchio sociologico delle tendenze e delle aspirazioni letterarie dei ventenni degli anni Ottanta, ma la letteratura, con la sola eccezione di Andrea Canobbio, uno degli undici, è un’altra cosa.
Altrettanto si può dire di Scritture giovani anni pubblicato dal Comune di Monza in collaborazione vista «Il bagordo »: ventun poeti e tredici narratori, centinaia, testimoniano l’esistenza di una diffusa e
Ottanta, con la riscelti fra insoppri-
mibile vocazione alla letteratura che, tuttavia, deve essere
sottoposta alle rituali prove prima di essere considerata autentica e non velleitaria. E dato che non c’è due senza tre, ec-
co il concorso de «L’Espresso» per un racconto inedito ribadire puntualmente il tipico carattere sociologico e psicologico di questa realtà scrittoria sotterranea. Poi è venuto il risultato a sorpresa del Premio Calvino per un romanzo o un saggio inedito. Giunti alla fine, i giurati hanno gettato la spugna e non lo hanno assegnato, destando sorpresa e sollevando clamore. C'è da stupirsi? Direi proprio di no. Bastava che invece di cedere alla demagogia, alcuni notabili della giuria, da Natalia Ginzburg a Cesare Garboli a Goffredo Fofi, si fossero ricordati della loro militanza editoriale passata e presente: avrebbero avuto in anticipo la risposta e tante buone intenzioni (che conducono sempre all’inferno) non sarebbero state
frustrate. In letteratura il cosiddetto « sommerso » quasi sempre è bene che rimanga tale. E storia vecchia. L'esercizio estemporaneo della scrittura è sempre esistito in maniera diffusa, specie fra i giovani (e anche fra gli anziani: chi conosce un po’ dall’interno le case editrici lo sa bene), e il suo limite risulta ogni volta evidente; ma ora, di fronte alla crisi della
letteratura maggiore (si fa per dire), queste manifestazioni dilettantesche, solipsistiche, di sfogo, incuriosiscono di più e assumono un peso diverso perché si pensa che, se valorizzate,
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possano essere, grazie alla loro spontaneità e freschezza, una alternativa alla decadenza. Inoltre il gusto della scoperta attrae, stuzzica. Tuttavia, coloro che si lanciano facilmente a
esercitare il loro presunto talentismo, farebbero bene a tener presente che Charles Louis Philippe, morto a trentacinque anni dopo aver scritto il famoso Bubu de Montparnasse, affermava paradossalmente che uno scrittore i buoni libri li scrive solo dopo aver compiuto cinquant’anni. Per queste ragioni è sempre meglio andare cauti con gli esordienti. La fiducia è d’obbligo, mitizzare la scoperta no. Tanto più che spesso è interessata e pilotata. Non a caso degli esordienti di cui si parla in anticipo sui giornali per attizzare la curiosità nei loro confronti, sono sempre romanzieri, mai poeti o critici. Infatti, la narrativa risulta più redditizia sotto il profilo commerciale e perciò gli uomini del marketing editoriale vi puntano spudoratamente. Quanto basta per giustificare la prudenza. Il discorso va poi esteso a coloro che si accostano en amateur alla letteratura. La smania del nuovo ad ogni costo, per quanto giustificata dall’insopportabile perdurare del vecchio, non è buona consigliera negli investimenti letterari, specie quando porta al debutto scrittori che, in realtà, scrittori non sono e vengono solo grossolanamente sfruttati per l’occasione da qualche cinico bracconiere. Simili trucchi sono possibili a causa della confusione in cui ci dibattiamo e che non sempre consente di smascherare la malafede di chi non crede ai valori della letteratura e li confonde con gli spiccioli editoriali. Andando perciò controcorrente rispetto alle numerose e compiaciute dichiarazioni di coloro che ambiscono a farsi padrini di romanzieri debuttanti, indichiamo invece, assieme al nome di Marco Lodoli, narratore esordiente che fa eccezione
perché ha rivelato con Diario di un millennio che fugge una vera personalità di scrittore e di essere già maturo, due poeti: Guido Oldani, presentato da Giovanni Raboni, che esordisce
con St/nostro, un libro di spiccata originalità che non si può trascurare, e Roberto Carifi, già conosciuto fra gli addetti ai lavori, che con L’obbedienza conferma la sua presenza, sicura e indiscutibile; tra i nuovi poeti che contano: e vi aggiungiamo poi il nome di un saggista: Claudio Sensi, allievo di 202
Gian Luigi Beccaria e Claudio Magris, che dimostra di possedere intelligenza critica e soprattutto. doti di autentico scrittore (chi vuole verificarlo legga su « Lingua e Letteratura » n. 6, maggio 1986, il suo saggio /l mondo in un libro). A questo punto, giunto alla fine del 1986, l’osservatore della cosa letteraria si trova di fronte al solito panorama ingombrato fino all’inverosimile di romanzi, di volumi di racconti, di raccolte di versi, di saggi, di articoli e di polemiche. Alla vista di tutto questo materiale, è esitante e incerto. Figurarsi il lettore comune, che non è aduso a trafficare quotidianamente con l'andamento delle patrie lettere. Poiché dalla quantità non sono emersi durante l’anno un libro o alcuni libri che abbiano monopolizzato la loro attenzione in misura decisiva, lettore e osservatore (il termine è preferibile a quel-
lo più professorale di critico) si trovano accomunati nello stesso sconcerto che provoca poi il « malessere » e il «fastidio » denunciati dall’ospite ceronettiano nell’« Albergo Italia ». Se l’osservatore dovrebbe avere una certa consuetudine con i testi, almeno così sì suppone, e muoversi con maggiore dimestichezza tra le fonti per saperne di più, il lettore, invece, per liberarsi dal fastidioso stato di disagio e trovare un libro che valga la pena di leggere, ricorre ad analgesici che sono sempre gli stessi: le indicazioni dei premi (per quel poco che valgono sono pur sempre una parata di ciò che si pubblica), i suggerimenti che dai giornali o da altre fonti lanciano critici, scrittori, maîtres à penser improvvisati, il consiglio dell’amico provveduto. Tutti costoro, richiesti e non, si sentono in dovere di dire la loro su che cosa si deve o non si deve leggere. Ma nell’esercizio della loro funzione (o finzione) si comportano da consiglieri o da « consigliori»? Il dubbio è legittimo. Stando alle interviste e alle inchieste che compaiono sui giornali, è difficile capire se viene consigliato o sconsigliato di leggere libri, tanti sono i dubbi e le reticenze che affiorano da certi discorsi involuti, inficiati di moralismo, e certo non tali
da indurre il volenteroso e frastornato aspirante lettore ad accostarsi a qualche volume appena uscito. A_ prendere le sue difese, si è levata la voce di un diretto interessato, lo scrittore Alberto Bevilacqua, che sulle colonne del « Corriere della Se203
ra» ha affermato che «il lettore italiano si è rotto le scatole » di essere preso per il naso e trattato come un utile idiota. L’espressione di Bevilacqua è becera ma efficace; tuttavia il suo intervento è troppo interessato per essere accolto senza riserve. Romanziere fra i più noti e di successo, Bevilacqua ha aggiunto alla sua ormai nutrita opera un nuovo romanzo, La grande Giò, che, rispetto ai precedenti, ha il vantaggio di un più sciolto fluire di personaggi e situazioni e quindi fruisce di una maggiore limpidezza laddove in passato a volte il linguaggio si aggrumava. In ogni caso, le risentite parole di Bevilacqua riflettevano il «fastidio» e il «malessere » che serpeggiano nelle patrie lettere. I critici formulano discorsi cifrati, gli scrittori mirano al successo ma vogliono salvare l’anima: preso fra l’incudine dello scrittore e il martello del critico, il povero lettore non capisce più nulla e, senza averne colpa, si sente sempre più complessato e finisce per comportarsi come quel cretino di cui Fruttero e Lucentini hanno denunciato l’irrimediabile prevalenza (nel contempo va segnalata l’uscita del loro nuovo romanzo: L'amante senza fissa dimora).
«Il pubblico è un esaminatore, ma un esaminatore distratto» scriveva Walter Benjamin. In realtà, il lettore ha dimostrato ormai da qualche anno di non essere poi tanto «distratto»; soprattutto molto meno cretino di quanto lo si voglia far passare e «le scatole» se le è già rotte da un bel pezzo comprando meno libri e mettendo così in crisi il mercato delle lettere. Ricorrendo a un alibi ipocrita, si cerca sempre di addossare la responsabilità della crisi alla congiuntura o ai prezzi dei libri, senza mai chiamare in causa anche scrittori e critici e i loro discutibili comportamenti, la loro invete-
rata mania a trasformare la letteratura in qualcosa di eccentrico. Prendiamo il caso di Anna Maria Ortese. Scrittrice straordinaria ma discontinua, di temperamento irrequieto, isolata dal mondo
letterario, è diventata protagonista, suo
malgrado, di un caso umano. Con perfetta scelta di tempo, la critica si è lanciata su // mormorio di Parigi, una raccolta di prose risalenti agli anni Sessanta, e alla riscoperta di certi suoi vecchi libri come L'iguana e Silenzio a Milano. Apparsi 204
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anni fa presso editori di grande tradizione ma non di primaria presenza in libreria (Vallecchi e Laterza), è comprensibi-
le che L’iguana e Silenzio a Milano possano essere sfuggiti al grande pubblico, nonostante la Ortese abbia avuto, proprio negli anni Sessanta, un buon momento di notorietà con l’assegnazione del Premio Strega a Poveri e semplici. Meno spiegabile, invece, come mai siano sfuggiti alla critica, che pure avrebbe già avuto altre occasioni per rifarsi (la ristampa, ad esempio, dell’/guana nella Bur), quella critica che 0ggi se ne impadronisce, guardandosi bene dal fare ammenda della propria cecità o sordità del passato. Una scrittrice come la Ortese, di cui non va dimenticato soprattutto // porto di Toledo (ristampato nella Bur e ingiustamente trascurato in questo revival), avrebbe meritato subito che il consenso di al-
cuni happy few (senza risalire a Massimo Bontempelli che le fece pubblicare nel 1937 il suo primo libro, Angelici dolori, ricordiamo per tutti Alfonso Gatto e Dario Bellezza) fosse più largo ed espresso già sin d’allora anche da coloro che oggi se ne sono appropriati come di una scoperta. Di simili contraddizioni la vita letteraria è piena, e non fanno neppure scandalo. Però disorientano il lettore. Chiunque oggi voglia concedersi il piacere di una lettura disinteressata, si trova di fronte a una scelta difficile non per carenza di materiale, ma per eccesso di materiali inutili. Rivolgendosi in prima istanza, un po’ per pigrizia un po’ per consuetudine, alla solita narrativa, il nostro lettore si aggira tra le esibizioni di una produzione che lo lascia più disorientato che stimolato. E quando fa ricorso ai famosi consigli sopra ricordati, finisce per trovarsi fra le mani libri che per lo più hanno poco da raccontare e celebrano invece il trionfo di un manierismo di riporto. Musicisti, pittori, avventurieri, reali del passato, registi, sono diventati i protagonisti di alcuni dei più celebrati e premiati esercizi dell’anno (La ragazza con il turbante di Marta Morazzoni; La partita di Alberto Ongaro,
premiato al Campiello; Il maestro della betulla di Marisa Volpi, premiato a Viareggio; La principessa e il drago di Roberto Pazzi; Si sa dov'è il cuore di Massimo D’Avack; Yucatan di Andrea De Carlo; scrittori che una volta avevano il
gusto di inventare storie come Fulvio Tomizza, ora vanno a 205
prenderle già belle fatte nella cronaca e ce le offrono ne Gli sposi di via Rossetti; c'è chi si è cimentato addirittura con il padreterno e chi, più modestamente, con Giuda: ne sono sortiti /lmondo creato di Franco Ferrucci e Trenta denari di Ferruccio Ulivi, romanzi ammirevoli per i virtuosismi stilistici, ma dal tema non proprio originale. Ecco, forse il punto debole della narrativa di questo momento, per lo meno di quella che si presenta con la pretesa di associare novità e leggibilità per realizzare una presunta distinzione letteraria, è proprio il suo aspetto manierato, come diretta conseguenza di una povertà inventiva che non sempre lo stile riesce a riscattare. Per esempio, anche Leonardo Sciascia ricostruisce, non da oggi, cronache. Anzi, la « cronachetta» è diventata maliziosamente la misura della sua poetica. Ma nella pagina di Sciascia c'è appunto la scrittura che regola l'andamento del racconto, e non viceversa: 7972+7 è in tal senso un prezioso, anche se solitario, modello. Eppure, alcuni esempi di invenzione pura fanno capolino nel panorama della nostra un po’ troppo paludata narrativa: penso al surreale (o meglio ancora al realismo magico di buona memoria) della storia d’amore per una trota che Nico Orengo racconta in Dogana d’amore; allo sfondo fantastico di una Cappadocia e una India inventate da Giuseppe Cassieri in Diario di un convertito e da Giuseppe Bonaviri in E un rosseggiar di peschi e d’albicocchi per ambientare due patetiche storie d’amore, nelle quali, però, scorre nel profondo una vena irriverente e dissacratoria di credenze e convenzioni
moralistiche; ma
penso anche a una invenzione che dalle cose da raccontare si sposta e coinvolge anche l’impianto del racconto e le strutture narrative, come quella esperita da Franco Cordelli in Pinkerton e in tutt'altra dimensione da Roberto De Monticelli in L'educazione teatrale. Il romanzo di Cordelli è immerso nella tensione di questi anni, ma l’impostazione tecnica della costruzione (il personaggio è un gruppo di personaggi, l’ambientazione teatrale, non c’è un finale tradizionale: il mistero su cui si fonda il racconto rimane insoluto) lo allontana da
una realtà identificabile e lo fa sfociare in una metafora dolorosa e inquietante del reale e dei sentimenti. Quello di De Monticelli è anch’esso, dichiaratamente, un romanzo teatra206
le, ma nel senso che il teatro assume la dimensione di meta-
fora dalla vita. Il teatro che il protagonista percorre nel corso di una giornata è luogo ma anche tempo, dove memoria e sogno sì mescolano con il quotidiano, le aspirazioni si scontrano con le esigenze. De Monticelli non si è però fermato al livello costruttivo, alla struttura, ha fatto procedere il suo personaggio sull’onda di uno stile: il suo linguaggio narrativo è lavorato e calibrato al fine di non lasciare il movimento sfasato e le immagini con un senso di provvisorietà. Non sempre tutto fila liscio in questi esempi appena addotti di invenzione narrativa a vari livelli; imperfezioni. e storture, per quanto riguarda composizione e stile, risaltano a volte anche con evidenza: non siamo cioè in presenza di capolavori che, del resto, nessuno cerca né ha la pretesa di tro-
vare. Si tratta, più semplicemente, di segnalare una indicazione di tendenza che riscatta il raccontare sul piano dell’originalità rispetto alla copia, e che induce ancora a scommettere sulle possibilità che l’inventare non affoghi irrimediabilmente nelle sabbie mobili della maniera che vanno estendendosi sempre più nel territorio della nostra letteratura d’oggi. Il pericolo non è rappresentato tanto dalla maniera in sé, quanto dal gioco manieristico che è molto difficile da condurre, non è pane per denti da epigono: in altre parole, per coltivare la maniera bisogna essere capaci di inventarsi una propria maniera, che però, a quel punto, non è più maniera ma stile, segno a sua volta di originalità inventiva. Caso tipico e significativo, quello di Giorgio Manganelli. I racconti riuniti in 7utti gli errori sono un esempio di uso del linguaggio in chiave moderna di barocco che dà vita a una continua invenzione fantastica e stilistica. Non a torto Manganelli predilige la misura breve, dove la tensione della scrittura non subisce allentamenti. È che il suo non sia un esercizio di ricalco, lo confermano anche i suoi articoli giornalistici che, una volta raccolti in volume, Labortose inezie,
non denunciano l’occasionalità ma fanno discorso. È ancora un altro esempio, quello di Pietro Citati e del suo // sogno della camera rossa. Come per Manganelli la letteratura è lo specchio di una menzogna, così per Citati la letteratura ha senso quando è riscrittura della grande letteratura del passa207
to. Nasce da qui il carattere dei suoi libri di saggi, dove ritroviamo non solo le testimonianze dei suoi interessi di lettore che vanno di preferenza, è ovvio, ai classici, e quando si aprono ai contemporanei sono parcamente misurati, ma anche e soprattutto le caratteristiche peculiari del suo modo di concepire la letteratura e, di conseguenza, della sua «maniera» di essere scrittore. Qui, però, i generi si confondono nella pratica della scrittura, le tendenze si complicano, creando una specie di zona franca dove si possono trovare quei libri che dopo essere stati apprezzati dal lettore indipendentemente dal genere, adesso non sa come sistemare, è incerto in quale scaffale di questa specie di biblioteca annuale debbano essere disposti. Prendiamo /! piacere della gola di Folco Portinari. Fin dove è un saggio sul rapporto letteratura e cucina? . Il libro stupisce per la straordinaria esibizione di letteratura culinaria che Portinari ha organizzato saccheggiando l’intera biblioteca del gusto, ma nello stesso tempo si avverte che il sapore deriva essenzialmente dalla scrittura che sa inventare a ogni pagina luculliani banchetti di stile. Un’altra lettura memorabile è stata quella di Nom: di Nadia Fusini. A prima vista si direbbe una serie di saggi su scrittrici alla moda, dalla Blixen alla Yourcenar, e quindi l’ennesimo ritardatario libro femminista. E invece alla lettura tutto il preconcetto viene smentito: abbiamo una sequenza di ritratti di scrittrici, veri personaggi di un’avventura esistenziale e intellettuale che è esemplata nella loro opera. Nom: appartiene alla critica let-. teraria perché la Fusini non sgarra dal rigore analitico, ma in effetti ne è anche parecchio distante perché, più che lo specialismo, qui conta la ricerca di un accordo fra la parola studiata e quella creata. La lista, a questo punto, non è affatto esaurita, anzi si ac-
cresce di altri volumi. / dispersi e 1 salvati di Primo Levi: sarà saggio o pamphlet, memoria o già storia? La risposta va oltre la retorica, perché al fondo del libro di Levi c’è il problema dell’uomo carnefice e vittima da cui parte la necessità interiore di raccontare, la quale si associa all’esigenza di analizzare casi e fatti di una lacerazione profonda. Oppure La nostra classe dirigente di Oreste Del Buono: fin dove è romanzo? Del Buono ha troppa pratica della tecnica romanze208
sca per non sapere che quando si entra nel vivo di un tema così ampio come quello che lui ha affrontato: che cosa ti dice la patria, con complicazioni storiche e sociali, i confini si dilatano e che il raccontare ha tutto da guadagnare quando meno è rispettoso delle convenzioni. O, ancora, L'armonia perduta di Raffaele La Capria: l’autore esige che sia letto come un romanzo, benché si tratti evidentemente di una raccol-
ta di interventi, rievocazioni, saggi sulla condizione napoletana. Ma qui entra in gioco il ruolo di Napoli nel complesso dell’opera di La Capria e la sua non celata ambizione verso la costruzione di un romanzo totale, anzi, per essere più precisi, «infinito ».
Le trasgressioni al genere si fanno sempre più numerose, e spesso le proposte sono interessanti anche perché nascono da una insofferenza autentica verso costrizioni che sopravvivono, nonostante mostrino i segni di una usura evidente. Ma il romanzo è come un folletto imprendibile, sì diverte a sfuggire a tutti i precettori che di tanto in tanto cercano di imbrigliarlo con le più sottili armi della retorica e, non riuscendovi, si lambiccano a stilare programmi, a porre divieti, a comminare ammende. La rivista « Alfabeta » riporta gli atti di un colloquio italo-francese sulla ricerca letteraria, nei quali eccelle soprattutto un virtuosismo retorico che non ha nulla a
che fare con la realtà del romanzo, dello scrivere romanzi. (Che sia davvero qualcosa d’altro, il romanzo, lo si desume
molto bene leggendo il bel libro di Franco Moretti, /{ romanzo di formazione.) Se avessero preso alla lettera tali prescrizioni, Giovanni Arpino non avrebbe certamente scritto Passo d’addio e Marco Lodoli il già ricordato Diario di un millennio che fugge. Volutamente abbiamo citato gli esempi di uno scrittore che non è mai venuto meno alla sua necessità di raccontare storie, adattandole di volta in volta alla realtà, e co-
struendo a poco a poco una specie di commedia umana, e di un esordiente che, per fortuna, ha avuto il coraggio di guardarsi intorno, di pensare a dei veri personaggi da creare e di scrivere perciò un romanzo che ci riguarda da vicino. Questa definizione del guardarsi «intorno» potrebbe far pensare, per via dell’eco vittoriniana, a una sorta di nostalgia dell'impegno, di un ritorno a un neorealismo magari aggior209
nato. Nulla di più errato. Lo ha ribadito con forza Luigi . Malerba a chi, dopo aver letto /l pianeta azzurro, gli faceva una domanda del genere, indottovi forse dalla tematica di attualità affrontata nel romanzo: il protagonista sogna di uccidere un noto uomo politico che, alla fine, sarà davvero ucciso
in un attentato. Malerba è uno scrittore che non è mai rimasto fermo e può vantare un’opera estremamente variegata di temi e di situazioni. Ogni libro è per lui un’occasione diversa di guardarsi «intorno», e sempre da un punto di vista diverso, anche quando l’«intorno» è, ironicamente, molto lontano
nello spazio e nel tempo. Ora Malerba ha toccato con una certa sovrabbondanza il tasto del risentimento contro la degradazione morale della nostra società e della nostra vita quotidiana: il politico che muore nell’attentato, l’ambiente in cui si muove il protagonista, sono chiaramente dei simboli per far deflagare, cadendo però in un didattico volontarismo, quell’odio «allo stato puro» che è generato dal senso di impotenza, dall’essere costretti a subire, senza poter reagire, al-
le prevaricazioni del potere. La letteratura in questi casi diventa, nonostante una fastidiosa esasperazione, una metafora
della realtà: lo abbiamo già notato a proposito del romanzo di Cordelli, e lo ritroviamo anche in Viaggio all'alba di Claudio Marabini. E un tentativo di ricondurre il lavoro letterario nella sfera di una moralità che riscatta il rischio della sua inutilità e circoscrive il pericolo della maniera. Ma per ricostruire questo fondale su cui la letteratura può ritrovare una ragione, dopo aver subito saccheggiamenti, devastazioni e distruzioni, occorre che la creazione sia nutrita
anche da qualche idea. Italo Calvino, per esempio, che pure aveva conosciuto l'ossessione del silenzio, sperimentato i limiti di una scrittura oggettiva e puramente descrittiva, cercato impossibili incastri combinatori, non aveva mai rinunciato al primigenio apporto della fantasia né sprangato le porte del suo laboratorio da cui sono sempre uscite idee narrative, magari poi dubbiamente sfruttate. Anche nel volume postumo, Sotto il sole giaguaro, c'è alla base un’idea: raccontare i cinque sensi. Che la morte non gli abbia consentito di portare a termine l’operazione, e che sul volume aleggi lo spettro della provvisorietà, non intaccano tuttavia l’origine fantastica, non 210
,
diminuiscono il peso dell’idea da cui scatta l’esecuzione della limpida scrittura calviniana. Ma l’esempio appena addotto di Calvino, per quanto esemplare, non rientra nella regola. Se ci guardiamo intorno possiamo constatare come abbiamo a disposizione parecchia scrittura, manierata e non, inventata e descrittiva, che però non riesce a sopperire alla sconfortante scarsezza di idee. L’eccesso di maniera e la carenza di invenzione non sono dunque i soli e più preoccupanti segni di un processo involutivo generalizzato che coinvolge la narrativa in genere: ad essi fa riscontro anche la mancanza di idee. Che non è un malessere limitato soltanto all’ambito romanzesco, è molto più diffuso. Nelle patrie lettere non si discute, non c’è più dibattito. Al massimo si fa buon uso dell’invettiva (Citati contra Asor Rosa e Fortini e viceversa); si celebra e si rifiuta il ritorno della stroncatura (a far da artificiere Guido Almansi, di cui ricordiamo La ragion comica, altro contributo al discorso sull’ironia che in Italia sono pochi a condurre); si gioca a monopoli con scrittori e testi (Giovanni Raboni che dal suo punto di vista riaggiusta l’indice della borsa letteraria, corregge le
supervalutazioni e valorizza i sottoquotati: è un jeu de massacre divertente, spesso giusto, a volte no, da cui viene fuori un listino opinabile); si lanciano lamenti e indirizzi sul futu-
ro incerto di case editrici periclitanti (Einaudi). Ma tutto ciò è piccolo cabotaggio, routine, sociologismo editoriale, non
battaglia di idee che possa far avanzare il discorso sulla letteratura. Una gran massa di articoli polemici e insinuanti, secondo i canoni sempre più cinici di un giornalismo culturale d’assalto, non conta alla stessa maniera di un contributo di
idee e di metodo all’approfondimento dei problemi creativi, di struttura e storici che travagliano la letteratura nel suo insieme. Non c’è stata discussione neppure per il quinto volume della Letteratura italiana a cura di Alberto Asor Rosa. È sì che il tema: « Le questioni », e la valentìa dei collaboratori — da Giorgio Petrocchi ad Alberto Tenenti, da Salvatore S. Nigro a Nino Borsellino, da Michele Feo a Marziano Guglielminetti —, avrebbero dovuto provocare reazioni. L’inserimento in un panorama storico dell’analisi di quelli che Asor 20)
Rosa definisce « I fondamenti antropologici della letteratura » non è una novità: ogni storia o panorama che sia ne tiene sempre conto. Ma qui è l’approccio svincolato dall’insieme, e settoriale, che modifica il concetto storico unitario di vecchia
estrazione romantica che avrebbe meritato di essere posto in discussione e dibattuto con ampiezza (prendendo in considerazione anche Miti emblemi spie di Carlo Ginzburg, che con la letteratura non sembra averci a che fare, ma con la metodologia della ricerca storica sì). Anche perché il disegno di Asor Rosa si va effettivamente delineando e la sua proposta di un progetto di analisi interdisciplinare della letteratura nella storia è ormai completato dal punto di vista teorico. Nei prossimi volumi verranno alla ribalta i rapporti fra la letteratura e le arti e la «storia», che sarà integrata, secondo il modello di Dionisotti, dalla «geografia »; ma a quel punto saremo sul terreno della prassi, e vedremo che fine faranno i testi, rimasti finora a far da sostegno all’impalcatura teorica e ideologica. L'appuntamento con la storia letteraria è dunque rimandato. Perché non è con La letteratura italiana di Enzo Sici«liano che il discorso può continuare o addirittura chiudersi. Il contributo di Siciliano è troppo personalistico per diventare storia; nemmeno è divulgazione, ma si inserisce in un ambito
«romanzesco », come lo stesso autore ammette. Vista in
questa ottica, La letteratura italiana di Siciliano non può che incontrare lo sprezzante rifiuto degli storicisti (se ne è fatto autorevole portavoce Edoardo Sanguineti su « L'Espresso»),
perché si tratta di una brillante esercitazione su autori e testi, dalle Origini a Ludovico Ariosto (dove si arresta il primo volume), alla quale mancano i nessi storici. Il pericolo della volgarizzazione però non sì pone, in quanto Siciliano è egli stesso troppo scrittore per caderne vittima, anche se da qui deriva l’altra inevitabile considerazione: e cioè che il lettore non ha dinanzi a sé il complesso evolversi della storia della letteratura italiana, ma segue le immagini che di essa Siciliai no evoca. Al manierismo che si è insinuato nell’ambito romanzesco,
fa eco nel discorso e nei giudizi critici sull’attività letteraria una acquiescenza metodologica e una mancanza di tensione 212
che si riflettono in un esercizio ripetitivo e soprattutto descrittivo, che trova la sua più compiuta realizzazione nell’articolo puntualmente informativo o di buon taglio rotocalchistico. Più in là non sì va. Ma non siamo in presenza di un corrispettivo di quel grande giornalismo letterario alla Edmund Wilson che tanto piace ad Alberto Arbasino. Anzi. L'intervento propriamente critico è ormai assorbito dall’informazione, sia pure di buon livello, scomparso nelle pieghe del descrittivismo e nella proliferazione di nuovi modi di fare critica letteraria, fra i quali va prendendo sempre più spazio e consistenza l’intervista, questa grande comoda acquisizione professionale del giornalismo culturale, dove si parla sempre più di tutto e sempre meno di libri. Ma il lavoro della critica militante non può esaurirsi in questo tocchettare uggioso a metà campo, anche se poi produce qualche lavoro d’insieme interessante come quello di Giuliano Gramigna, Le forme del desiderio (una serie di letture poetiche, da Montale a Zanzotto, condotte con l’ausilio di strumenti psicanalitici a
integrare l’analisi testuale), oppure rimane, come quello di Geno Pampaloni, affidato alla costante attenzione dei lettori di giornale. Non può quindi stupire se i libri più stimolanti di critica letteraria li abbiamo già indicati parlando d’altro. Oggi 1 saggi sulla letteratura hanno sempre più un taglio narrativo, si avvicinano a quella tradizione di prosa novecentesca che pareva messa definitivamente in soffitta (e allora quanto fareb| be bene una lettura, o rilettura, degli scritti di Emilio Cecchi, morto giusto vent'anni fa). Danubio di Claudio Magris, un
libro di viaggio culturale nella Mitteleuropa, e Storie di casa Leopardi di Mario Picchi, una ricostruzione biografica di Leopardi, ma soprattutto dell'ambiente leopardiano interno ed esterno e del mito che si è determinato (ricorda, per il taglio, il famoso Le mythe de Rimbaud di Etiemble), sono due esempi significativi di questa tendenza che testimonia la varietà di approccio ormai invalsa negli studi sulla letteratura. E anche quando ci spostiamo in un ambito più strettamente connesso all’esercizio specifico della critica, troviamo comunque espresso il tentativo di far rientrare la ricerca entro prospettive e angolazioni particolari: Guido Guglielmi in La 213
prosa italiana del Novecento prende in considerazione l’area dell'umorismo, partendo da Pirandello, che sfocia nella metafisica, nel grottesco e nella parodia realizzata dal più grande prosatore attuale, Manganelli; Luciana Martinelli ne / segni e il vuoto ha riunito saggi e letture che conducono a rintracciare nell’opera di scrittori che vanno ancora da Pirandello a Svevo, da Savinio a Gadda, «lo sfondamento del concetto tradizionale di letteratura, sia sul versante tematico
sia sul versante formale ». Non tutti perciò accettano il tacito accordo di starsene quieti nella bonaccia, c’è chi cerca, inve-
ce, di approfittare di improvvisi refoli per portarsi al largo. Oltre agli esempi già segnalati, qualche timido segno di discussione ci giunge da alcuni giovani che hanno sentito la necessità di rivedere le posizioni e di rimescolare le carte per riavviare una riflessione sull’approccio alla letteratura. Il segnale arriva da un libro di Alfonso Berardinelli, L’esteta e il politico, dove egli riparte proprio dalla figura del critico e dal suo ruolo nella società come «tipo intellettuale» (e ironicamente ne mette a fuoco le attitudini piccolo borghesi), per affrontare poi, polemicamente, il modo stesso di fare critica. Berardinelli partecipa poi con Costanzo Di Girolamo e Franco Brioschi ad un altro volume, La ragione critica, in
cui tutta la problematica del discorso critico è messa a fuoco e vengono sottoposte a revisione sia le posizioni del passato sia quelle attuali e prese in esame eventuali alternative. Dire che esca fuori qualcosa di nuovo sarebbe forse troppo, tuttavia il tentativo è esemplare di una necessità di ripensamento che sta crescendo. E, infatti, giunge puntuale anche un altro intervento sull’argomento, // testo e la sua performance di Agostino Lombardo. Mentre le riflessioni di Berardinelli, Di Girolamo e Brioschi, per quanto puntigliosamente condotte, tradiscono una certa insofferenza rigoristica che rasenta quasi l’astrattezza, il discorso di Lombardo, frutto di un lavo-
ro diretto sui testi, da Shakespeare ai classici americani (anche come traduttore), entra invece più nel vivo della prati-
ca critica e di conseguenza diventa meno precettistico, risultando, proprio per questo, molto efficace ed esemplare. Anzi, proprio il costante riferimento al testo come entità, gli conferisce un peso e un tono di più tangibile concretezza. 214
La critica e il saggismo, in mancanza di occasioni sulle quali esercitare la propria attività, e a corto di idee, hanno spostato il proprio tiro sulla tecnica e sulla presentazione di testi, oppure adeguandosi alle esigenze di spettacolo che ormai regolano anche l’attività critica. Quanti non sono stati gli articoli per celebrare la grande mostra veneziana del futurismo, diventata un incontro di mondanità culturale proprio come avrebbe voluto F. T. Marinetti, il quale aveva intuito il potere di richiamo snobistico dell’arte e come potesse quindi risultare un passepartout per introdurre i suoi germi disgregatori nel tessuto della tradizione. Ma come spesso avviene con l’avanguardia, il museo si è impadronito anche della dissacrazione futurista, trasformandola rapidamente, a sua vol-
ta, in tradizione, sfruttando le sue capacità spettacolari e cambiando solo il regista. Ma la letteratura futurista non ha tratto da ciò alcun elemento di recupero critico, anzi: la predominanza figurativa e plastica ha messo definitivamente in chiaroi limiti della parola futurista e la sua scarsa incidenza rispetto ad altre manifestazioni letterarie. Resta la primogenitura avanguardistica, questa sì, e va dato atto a Luciano De Maria di averla ben sottolineata in La nascita dell’avanguardia. Per contro, l’anno pirandelliano, senza troppi clamori e con effettiva efficacia, ci ha riproposto le opere del grande scrittore siciliano: dopo Tutti i romanzi, abbiamo avuto le Novelle per un anno (2 voll.), sempre curate con grande acribia da Mario Costanzo e presentate da Giovanni Macchia, che ha*dato un altro contributo al suo disegno interpretativo pirandelliano. Di notevole valore filologico e storico è poi la nuova edizione di Maschere nude, di cui è apparso il primo volume: ancora prefata da Macchia, è stata curata da Alessandro d’Amico con criteri che ci consentono di seguire l’evolversi del lavoro teatrale pirandelliano e il suo USquno. come corpus unitario.
Un'altra iniziativa di estremo interesse è duo dal primo volume dell’epistolario di Pasolini curato da Nico Naldini. Le lettere raccolte vanno dal 1940 al 1954. Alcune erano già note, ma il blocco offre uno spaccato intimo della vita di Pasolini che si configura come una autobiografia dello 240.
scrittore e da cui si ha la conferma della sua straordinaria precocità. Ecco, forse è proprio in questo lavoro di raccordo che troviamo alcuni dei migliori risultati critici di un’annata che riflette inequivocabilmente lo stato precario della letteratura creativa. Mentre il discorso mondano si è bruciato ben presto nelle occasioni da cui traeva origine e nelle quali si esauriva, il discorso tecnico fondava invece sulla distanza il proprio rigore e la propria forza. Per tecnico intendiamo quel fare critico che trova nello specialismo il suo carattere distintivo, ma non il suo limite. Proprio quest'anno è apparso un testo esemplare in questo senso, il Breviario di ecdotica di Gianfranco Contini. Il nome di Contini richiama subito un esercizio di lettura condotto essenzialmente in un ambito specialistico, anche se il suo è stile da scrittore, sempre. Nel Breviario di ecdotica, egli ha raccolto quegli interventi di tipo teorico che erano rimasti finora. confinati ai margini del suo discorso complessivo, ma che, in realtà, ne sono alla base. Fondamen-
tale risulta la «voce» sulla filologia, che ben si accompagna alle esemplificazioni sul metodo testuale degli scritti di Sant Alessio, perché in essi troviamo il modello teorico su come impostare e realizzare una edizione. Se, poi, vi aggiungiamo le pagine relative alla fondamentale antologia Poeti del Duecento, allora ci rendiamo conto di come il Breviario di ecdoti-
ca sì inserisca a pieno titolo nell’opera di Contini critico e scrittore, nonostante il suo specialismo dichiarato. E proprio partendo da Contini, passiamo a dare uno sguardo nel mondo dei classici, dove il lavoro letterario di ricerca, lontano da interessi contingenti e commerciali, trova
un terreno fertile su cui esercitare con la massima libertà il proprio spirito di indagine e di applicazione. Segnalare tutte le edizioni di classici è pressoché impossibile. Vale però la pena di indicare un piccolo fenomeno che acquista in questo panorama un rilievo non secondario: la presenza in veste economica di edizioni approntate con grande rigore critico, le quali ampliano le possibilità di leggere correttamente i classici anche a un pubblico di non specialisti. Accanto alla edizione delle Rime di Guido Cavalcanti, approntata con intelligenza filologica e con un commento impareggiabile da Do216
menico De Robertis per la « Nuova raccolta di classici annotati» diretta con selettivo rigore da Contini per Einaudi, possiamo infatti trovare nella economica « Biblioteca » mondadoriana una altrettanto stimolante edizione delle Poesie di Guido Guinizelli dovuta a Edoardo Sanguineti. In questo caso il nome di Sanguineti, associato a quello del « padre » dello stil novo, aggiunge un pizzico di curiosità: famoso come gran eversore della nostra pacata letteratura negli anni Cinquanta e Sessanta, Sanguineti è anche noto per la sua acribia filologica e critica già esercitata a proposito di Dante in un libro famoso, Interpretazione di Malebolge. Due esempi soli, tra i numerosi che si sarebbero potuti fare, della esemplarità del lavoro sui classici in differenti settori editoriali che riportano il discorso sulla letteratura nel suo ambito non inquinato, dove i valori sono restituiti alla loro originaria e autentica dimensione. Altrettanto significativo è il discorso a proposito della poesia che rappresenta in questo momento la punta più alta della ricerca letteraria in corso. Il 1986, si può ben dirlo, è stato l’anno della poesia, nel senso che è da ricordare per la sua eccezionalità. Da qualche tempo l’attività poetica stava dando segni di vitalità e offriva un ventaglio quanto mai variato di proposte interessanti, sia pure da estrarre attraverso una congerie di materiali eterogenei tra i quali abbondava anche la paccottiglia. Questa persiste tuttora, perché le centinaia di libretti, plaquettes, ciclostili, fotocopie, fogli d’ordine che circolano in continuazione, appartengono prima ancora che alla poesia a una condizione socio-culturale che è intrinseca alla poesia stessa rispetto ad altri generi espressivi e costituiscono un momento integrante di un sistema che, tuttavia, li isola e da essi non si lascia inquinare. Il rapporto poesia e pubblico è molto diverso da quello che si è venuto istituendo fra il romanzo e i suoi lettori, per non parlare della complicata intermediazione fra creatore e consumatore esercitata dal critico. Quello poetico è un rapporto più limpido, poiché qui i valori non sono messi in discussione dall’idea deviante del successo commerciale a ogni costo, il loro riconoscimento è invece specifico del sistema, così come gli equivoci e, persino, gli errori. Allora, che cosa è la poesia? 217
La domanda l’ha apposta come titolo al suo ultimo libro Luciano Anceschi, il più autorevole studioso di poetiche che abbia espresso la cultura italiana novecentesca e «gran fabbro» della neoavanguardia nostrana, ma senza curarsi molto di darvi una risposta purchessia. La risposta non può essere definitoria né schematica e neppure precettistica, perché se così fosse, la poesia non esisterebbe più, sarebbe un affare di burocrati, e a volte lo è; ma in questo caso interessa poco. L’interrogazione invece, con la sua carica metaforica di movimento e di indagine, è implicita nell’esistenza stessa della poesia che riflette sul piano creativo la ricerca allo stato puro. E il discorso che ne consegue è anche quello che garantisce un senso alla letteratura. Grande annata di poesia, dunque, per la sua vitalità che si manifesta, per una fortunata e forse irrepetibile coincidenza, sia come qualità sia come quantità. Quando ci ricapiterà ancora di avere a disposizione, l’uno dopo l’altro, a un ritmo incessante, // conte di Kevenhiiller di Giorgio Caproni, Tutte le poesie di Vittorio Sereni, Idioma di Andrea Zanzotto, Ver-
st e poesie di Giacomo Noventa, Con testo a fronte di Paolo Volponi, Col dito in terra di Piero Bigongiari, Poesie di Lorenzo Calogero, (a cura di Luigi Tassoni), Poesie (719141963) di Luigi Fallacara, (a cura di Oreste Macrì), Diadèmata di Giovanni Testori, Tutte le poesie di Ottiero Ottieri, Canzonette mortali di Giovanni Raboni, Versi e nonversi di
Alfredo Giuliani, Prose e versi di Luca Ghiselli, (a cura di Massimo Fanfani), Novissimum Testamentum di Edoardo Sanguineti, Sal/utz di Giovanni Giudici, Merisi di Cesare Viviani, La stella del libero arbitrio di Maria Luisa Spaziani. Tutti nomi più o meno celebrati compongono il già lungo elenco, al quale, tuttavia, vorrei fare qualche aggiunta di tipo
più personale: per esempio, Come un talismano, le traduzioni poetiche di Ceronetti, La lettrice di Isasca di Tino Richelmy, L’asprura di Bonaviri, Posto di blocco di Libero Bigiaretti, {{ ritorno della cometa di Fernando Bandini; poi i dialettali Albino Pierro (Poesie tursitane), Franco Loi (Bach), Tonino Guerra (La capanna), Franca Grisoni (La béòba, sul-
la quale parecchi lettori dal palato fine sono pronti a scommettere); infine, qualche nome circolante fra gli addetti ai la218
vori ma che meriterebbe di uscire dal club: oltre a Roberto Carifi, segnalato all’inizio, Francesco Paolo Memmo (La sezione aurea), Enzo Mandruzzato (Solo il segno del due), Elia
Malagò (Maree), e quello di un altro esordiente che va ad aggiungersi al già citato Oldani: Stefano Fanfoni (L’epigono nomade). L’omaggio alla poesia con cui si chiude questa rassegna 1986 non poteva che essere collettivo, data l’eccezionale circostanza, e accomunare in un unico voto positivo poeti fra loro diversi, a volte opposti, di generazioni differenti, viventi e defunti, che avrebbero meritato, tutti, un’ampia analisi. For-
se, non valeva la pena di dannarsi più di tanto a recriminare sulla maniera narrativa e sulla rilassatezza critica, e avrem-
mo dovuto tessere invece l’elogio di una poesia, e dei poeti, che continuano a «trainare ancora le sorti della letteratura », come afferma Pier Vincenzo Mengaldo. Ma, in fondo, io la
penso come Almansi a proposito delle stroncature: «una salva di giudizi negativi» può risultare, alla fine, pedagogica, utile e salutare nel nostro convenzionale circolo delle lettere.
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1987
Nell’accingermi a stendere queste note sull’andamento della nostra letteratura nel 1987, sono tormentato da molti dubbi
sulla legittimità dell’intervento perché non mi sono ancora ripreso dallo choc provocatomi dai perentori inviti a lasciar perdere con la critica e le recensioni lanciati da illustri notabili della nomenklatura letteraria editoriale nel corso delle numerose discussioni che hanno riempito pagine di giornali e giornate di dibattiti. Che fare con questo scritto che, per tradizione, è praticamente una lunga recensione collettiva che dura un anno? In particolare mi riecheggiano con insistenza nella mente le parole, ironiche ma ferme, di Edoardo Sanguineti sulla necessità, in un momento come questo, di fare silenzio sulla letteratura attuale, oppure, se uno proprio non ce la fa a stare zitto, di parlare piuttosto di Boccaccio. L'affermazione è provocatoria, ma poi non tanto, e Sanguineti l’ha fatta in occasione dell’uscita del suo La missione del critico, dove, oltre
al saggio eponimo e altre ricognizioni tra la letteratura del primo Novecento, abbiamo anche alcuni « Appunti di didattica letteraria». Ma in queste pagine non troviamo nulla di precettistico, bensì suggerimenti di metodo. La posizione di Sanguineti è in tal senso radicale e tende a spostare il discorso dal contingente della letteratura alla storia: in questa ottica è evidente che l’esercizio della critica militante tout court,
della recensione all’ultima novità, ha poco senso, mentre può essere interessante occuparsi da critici militanti di classici, e non a caso proprio di Boccaccio, narratore ben più attuale di tanti giovani narratori d’oggi. Il punto di vista di Sanguineti sui classici è condivisibile (e coincide per molti aspetti con 223
quanto, e non solo da ora, viene sostenuto in questi stessi panorami). E, infatti, anche se non abbiamo sottomano alcun
volume che riguardi direttamente Boccaccio, vi sono comunque altre occasioni di classici che meritano di essere segnalate ai lettori per riequilibrare, se non altro, la misura delle proporzioni e ricordare che persino la più pericolosa novità ha una matrice e spesso trova pure esempi nella tradizione. Ma anche per metterli in guardia dagli equivoci: non basta una edizione tipo Bibliothèque de la Pléiade per fare di uno scrittore un classico. Tra le varie proposte che ci giungono dall’officina dei classici, vorrei segnalare alcuni testi antichi e moderni che rientrano significativamente in questa ottica: basti ricordare l’attualità sul piano dello spettacolo dei canti carnascialeschi di cui Riccardo Bruscagli ha curato una notevole scelta in Trionfi e canti carnascialeschi toscani del Rinascimento; al piacere della riscoperta, cinquecento anni dopo, di Matteo Maria Boiardo e del suo Orlando innamorato, troppo e a torto offuscato dalla grandezza del Furioso: oggi abbiamo l’anastatica dell’edizione 1497, la prima giunta sino a noi, a cura di Neil Harris, il catalogo dell’esposizione boiardesca di Ferrara dedicata ai Libri di Orlando innamorato e coordinata ancora da Bruscagli, le Opere curate da Ferruccio Ulivi; alla modernità di uno scrittore come Teofilo Folengo che troviamo ribadita nelle Macaronee minori. Zanitonella Moscheide Epigrammi, curate da Massimo Zaggia su sollecitazione di Gianfranco Contini, il quale, facendo tesoro dell’indicazione
desanctisiana, considera l’autore del Ba/dus un «nodo capitale» della linea espressionistica della nostra letteratura; al gusto di avere tra le mani e davanti agli occhi una edizione moderna e accessibile dell’/conologia di Cesare Ripa, approntata da Pietro Buscaroli e prefata, alla sua maniera, dal compianto Mario Praz. È per giungere a tempi più vicini a noi, anzi ai nostri, ecco i Zaccuini 1915-1921 di F. T. Marinetti,
a cura di Alberto Bertoni e introdotti da Renzo De Felice e Ezio Raimondi, che ripropongono la figura del fondatore del Futurismo in una versione meno esteriorizzata e ufficializzata; semmai la lettura di queste pagine intime e diaristiche accentua la complessità dell'esperienza marinettiana che va ben 224 7. Gli anni Ottanta e la letteratura
oltre quei luoghi comuni che troppo spesso le vengono applicati con superficialità. E poi uno scrittore come’ Federigo Tozzi, che ormai va considerato un classico: la raccolta delle
di Opere a cura di Marco Marchi e con «Introduzione» Giorgio Luti, lo ripropone alla stregua di quell’altro classico del primo Novecento che è Italo Svevo, a cui lo avevano già accostato i solariani. Ma il caso Tozzi è diverso dal caso Svevo (da segnalare l’uscita del volume Zeno, in cui Mario La-
vagetto ha riunito accanto al romanzo tutti i materiali sveviani che direttamente o indirettamente conducono a Zeno): per Tozzi non c'è stato l’avallo culturale internazionale che ha segnato l’affermazione sveviana sul piano europeo, per molti anni tutto sembrò rimanere circoscritto all'ambito domestico,
dove lo confinava l’etichetta toscana, anzi senese. In realtà Tozzi è tutt'altro che provinciale: la sua cupa visione della vita non è una posa né maniera, ma sofferenza autentica, e
l’indicazione romanzesca che ha dato in quegli anni, forse troppo ricchi di prosa, segnava una svolta, purtroppo, rimasta senza seguito o quasi. Sono tutti esempi di fronte ai quali la disposizione contemporanea allo spettacolo, al romanzo, alla lingua, al design e alla grafica, farebbe bene a guardarsi attorno e a riconsiderare con occhi diversi la propria conclamata ed esibita originalità. Ma, ritornando a Sanguineti, dobbiamo però rilevare come con la sua condanna della recensione sia andato ad allinearsi con la posizione assunta da un grande editore, Leonardo Mondadori, il quale, con tutt’altre intenzioni però, ha dichiarato, a sua volta, l’ostracismo all’esercizio della critica
militante. Per Mondadori, essa è ormai inutile perché sa di rancido e di stantio; peggio, è corrotta e snob perché si rifiuta di essere all’altezza dei tempi e di seguire la produzione editoriale che, invece, sa interpretarli con spregiudicatezza e aggressività (facendo, per esempio, anche i libri di plastica pur di essere originale, aggiungo io). Argomenta dunque Mondadori che, di conseguenza, i lettori oggi non seguono più le indicazioni dei critici, e perciò i loro interventi non servono all’unico scopo per cui di questi tempi si producono libri: farli entrare nelle classifiche di vendita. A questo proposito, una indagine sul tema «I giovani e la 235:
critica letteraria » è stata presentata dal sociologo Dario Rei al convegno su Letteratura e critica: vizi 0 virtù? organizzato in occasione del Premio Grinzane Cavour, e i suoi risultati sembrerebbero dimostrare il contrario, se è vero che il 30%
degli intervistati ha indicato nella recensione un fattore influente alla lettura, mentre solo il 13% ha risposto di badare alle classifiche di vendita. Ma, in realtà, le considerazioni di
Mondadori sull’inutilità dei critici, tanto i capolavori pubblicati a ritmo incessante dall’editoria di massa vendono lo stesso anche se loro non ne parlano o ne parlano male, presuppongono che la critica militante sia da rifondare, allo scopo di metterla al passo e di renderla finalmente utile. Ma utile a chi, e per che cosa? Se la sua funzione precipua deve essere quella di celebrare oggi i successi dei vari guitti di turno, domani di chissà chi, allora è meglio che continui a essere inutile come è adesso, oppure che i critici si preparino ad attuare il più rigoroso silenzio stampa. Tra le molte polemiche che hanno caratterizzato l’attività letteraria in questo misero 1987, questa sulle recensioni, condotta con argomentazioni troppo interessate e accuse di dubbio gusto, mi pare quanto mai significativa del grado di abbassamento, ben sotto ogni livello di guardia, a cui può giungere il dibattito letterario durante un periodo di magra creativa come l’attuale. Magra, va precisato, che riguarda essenzialmente la narrativa: è un fenomeno che si trascina ormai da alcuni anni e che la produzione editoriale 1987 nel suo complesso la conferma ulteriormente, al di là di alcune singole riuscite, specie nell’ambito del racconto (di cui diremo
più avanti), o di qualche novità che merita di essere segnalata in particolare, come gli esordi di Sandra Petrignani con Navigazioni di Circe e di Ermanno Cavazzoni con // poema dei lunatici. Data, però, l’importanza e il peso che la narrativa ha all’interno del sistema, essa finisce per condizionare l'andamento di tutta l’attività letteraria militante, dalla presenza sui giornali ai premi e, in definitiva, al rapporto con il pubblico. Una analisi acuta e serrata del fenomeno così come si è venuto configurando in questi anni Ottanta l’ha condotta Alberto Cadioli in La narrativa consumata. Ed è a questa particolarità della situazione che dobbiamo rifarci se voglia226
mo capire la natura contraddittoria di certe manifestazioni culturali altrimenti incomprensibili. In mancanza di altre sollecitazioni, la letteratura sembra
aver trasferito il proprio luogo dalle pagine dei libri a quelle dei giornali, incentivando la presenza di un giornalismo culturale d’assalto, aggressivo e spregiudicato, che va soppiantando ogni tentativo di svolgere un discorso che abbia un senso critico. La parola d’ordineè che tutto deve essere e fare spettacolo. La logica spettacolare, propria del mezzo televisivo, detta legge anche nelle sezioni culturali dei quotidiani e dei periodici, dove l’attivitàè all’insegna dello scoop o dello scandalo, certo per scelta metodologica, ma anche per l’obbligo impellente di adeguare le pagine culturali alle altre della pubblicazione, tutte piene di fatti, di notizie, di informazioni. Ora, poiché si dà il caso che la letteratura, almeno la migliore, non dovrebbe avere proprio niente di spettacolare da esibire (come non ricordare a questo punto l’esempio di Tom-
maso Landolfi?), anzi, dovrebbe semmai rifuggirne, ecco un intervento di make up, un giro fra le boutiques per rivestirla di panni acconci alla bisogna, clamorosi, esibizionistici, scandalosi, ecc., quanto basta per fare rumore e finire magari in prima pagina a catturare tutta l’attenzione dei lettori. Ecco allora insorgere la necessità di scartare una merce vecchia come la recensione al fine di stabilire con il lettore un rapporto diverso, più insinuante e provocatorio, che è soddisfatto dall’intervista allo scrittore, la quale non deve necessariamente vertere sul libro o sui libri, ma soprattutto mettere in piazza argomenti pubblici, privati, intimi, questi, sì, suscettibili di
fare notizia, non quel mero e irrilevante accidenti che è un testo. Naturalmente lo scrittore deve dimostrare di possedere gli attributi per diventare personaggio e protagonista, non della propria storia intellettuale, bensì dell’intervista o dell’inchiesta che viene confezionata con gli ingredienti necessari e atti a far risaltare gli aspetti divistici, altrimenti non interessa, anche se si tratta di uno scrittore che pure potrebbe aver scritto un libro importante. E così veniamo a sapere tante cose sulle abitudini e i gusti personali di certi scrittori, ma molto poco del libro in questione, perché non è importante una sua valutazione critica, quanto renderlo interessante agli 227
occhi del pubblico, in sostanza, pubblicizzarlo. Data la leva-
tura di certe opere è meglio per il critico non immischiarsene e lasciar fare. Ma il fenomeno resta: la maggior parte degli interventi sulla stampa a proposito dei libri è ormai affidata a questo tipo di informazione acritica 0 polemica o spettacolaristica. Leggere per credere ciò che scrive Milan Kundera a proposito della pratica dell’intervista in L'arte del romanzo: «Sia maledetto lo scrittore che per primo ha permesso a un giornalista di riprodurre liberamente le sue parole! ». Se tale è il destino degli scrittori, i libri subiscono di conseguenza la stessa sorte. Innanzi tutto devono anch'essi potersi prestare al gioco, altrimenti è molto difficile che abbiano qualche possibilità di entrare in un simile giro spettacolare. Un libro che dica qualcosa sul piano culturale è, in genere, visto con diffidenza, posposto ad altri perché non presenta quelle caratteristiche di provocazione volgare che lo rendono appetibile per montarne un caso. Parlare di un libro per quello che è, oggi è veramente difficile, e anche chi vorrebbe farlo è imbarazzato, se non ostacolato. Di qui la decadenza del critico, ridotto a rango di puro informatore, passacarte di messaggi editoriali già bellamente confezionati, a malapena tollerato in un organismo a cui è ormai disomogeneo, quasi corpo estraneo. I risultati di questo ricambio nel metabolismo letterario sono sotto gli occhi di tutti, basta guardare i libri che ci circondano e considerare il modo con cui ci vengono proposti. Un significativo esempio di questo stato di cose lo ha offerto l’accoglienza al volume Segni e stili del moderno di Franco Moretti. È accaduto che di un suo precedente libro, // romanzo di formazione, uscito l’anno scorso, nessuno, o qua-
si, abbia parlato. Eppure è un saggio importante, ben più solido metodologicamente, anche se meno brillante, dell’attua-
le. Se fosse giunto dall’estero, chissà quanti avrebbero gridato alla scoperta e confessato di averlo eletto a livre de chevet. In ogni caso circola ugualmente tra addetti ai lavori, universitari, studenti. Segni e stili del moderno sembrava avviato a conoscere lo stesso destino. Ma non aveva ancora fatto i conti con il giornalismo culturale e le sue infinite capacità e risorse trasformistiche: di questo libro i giornali tacciono? ebbene, se 228
ne parli perché nessuno ne ha parlato, non perché sia un libro significativo nel dibattito culturale d’oggi. Moretti dice allora parecchie cose interessanti, alcune anche pungenti, ma dall’insieme si ricava che è un tipo estroso, che il suo libro affascinante è già affidato ai lettori giusti, i quali non alimentano di certo le classifiche di vendita. Il libro è così segnalato ed esorcizzato allo stesso tempo: ma l’intervista è stata fatta, i lettori del settimanale ora sanno chi è Moretti, che è fratello
di Nanni, il regista, che fa il professore e se la prende con Giorgio Agamben e Claudio Magris. La notizia è stata data, poco importa come, se in maniera orribile e riduttiva: l’informazione e l’etica del giornale, oltre che l’anima del giornalista, sono salve.
A questo punto risulta quasi ridicolo che qualcuno possa ancora attardarsi a elogiare o a recriminare la mancanza di stroncature, quando è in discussione la ragione stessa del fare letteratura e l’esercizio della critica letteraria militante: stroncare un libro è una questione di gusto o di coscienza, e anche di capacità scrittoria; ma oggi il problema consiste nello stabilire fin dove arrivi la libertà di movimento di chi si occupa di letteratura a tutti 1 livelli, se esistano le condizioni pratiche per esercitarla, i luoghi dove esprimersi. Questo è stato uno dei temi affrontati al già ricordato convegno del Premio Grinzane Cavour, nel corso del quale sono stati drammaticamente evocati i fantasmi moralistici dei condizionamenti ideologici e negligentemente trascurati gli aspetti pratici del lavoro quotidiano del critico. Persi dietro l’immagine del grande corruttore che attenta alla virtù della critica innocente, non è stato avvertito fino in fondo che il corruttore
non ha affatto bisogno di corrompere, dal momento che è in grado di impedire un corretto svolgimento del mestiere. Questo è uno degli aspetti dell’attuale momento di confusione, ma altri si profilano all’orizzonte. Sono in gestazione all’interno della cosa letteraria alcune manifestazioni che rivelano il diffondersi di una tendenza ambigua e pericolosa a considerare la letteratura esclusivamente sotto il profilo del business e senza alcuna considerazione per l’aspetto creativo, per la ricerca. La letteratura sta diventando terreno di conquista per capitani di ventura del marketing e della pubblici229
tà, i quali stanno dando vita a delle « riviste » letterarie con lo stesso criterio con cui sono state realizzate pubblicazioni specializzate e settoriali riguardanti altre attività. Il modello ispiratore è il mensile francese « Lire » diretto da Bernard Pivot, che lo ha inventato come la mitica trasmissione televisiva
Apostrophes, quella che fa e disfa i best-sellers di Francia. Con «Lire» e Apostrophes, Pivot esercita un ruolo non trascurabile nell’indirizzare le letture dei francesi, ma, per la
verità, gestisce il suo potere con molta discrezione e con una professionalità ancora maggiore. Quando in Italia ci sì richiama ad Apostrophes per lamentare la mancanza di una a, ci si trasmissione che tratti adeguatamente la letteraturnon rende conto che essa non è esportabile per la semplice ragione che da noi mancano sia le premesse sia le condizioni per realizzarla. Quando si è cercato di fare qualcosa del genere a Mixer, si è caduti nel solito spettacolarismo con gli invitati: intellettuali, scrittori, maîtres à penser, che si beccavano fra di loro come i capponi di Renzo. Apostrophes è decisamente un’altra cosa. Chiusa la parentesi televisiva, torniamo alle nuove riviste letterarie. Mai un termine è stato impiegato in maniera più impropria. Le riviste di cui si parla non sono nate per fare letteratura, ma
per rispondere, si dice, a una richiesta di
mercato nell’ambito dei magazines specializzati. Come c’è il periodico per il manager e il cacciatore, così dovrebbe esserci il periodico per il letterato. Un tempo, a dire il vero, le riviste nascevano ed esistevano come espressione dell’esigenza di realizzare un progetto culturale (si legga a questo proposito la testimonianza di Vittore Branca sulla nascita di una delle nostre riviste più prestigiose, « Il Ponte », in Ponte Santa Trinita). E morivano anche, non solo per manifesta indigenza, ma perché, a un certo momento, ritenevano di aver esaurito
la loro funzione. Oggi, invece, nascono se c’è un budget pubblicitario da amministrare o per riempire qualche vuoto di produzione; contano la formula e il contenitore, non se hanno qualcosa da dire. Chissà, forse sarà su queste pagine che probabilmente rinascerà la nuova critica letteraria, quella utile, secondo la visione di Leonardo Mondadori, che farà leggere i libri giusti, da citare per apparire informati ai me230
etings e à la page nei salotti. E può anche darsi che tante nuove biblioteche si creeranno grazie alle indicazioni di lettura dei nuovi magazines. Ma le vere riviste letterarie oggi sono fatte altrove, negli istituti universitari, per esempio, dove, sia pure tra grande confusione, si riesce ancora a fare un po’ di ricerca e le pubblicazioni che ne accolgono i risultati sono lo specchio di una espressione libera da ogni condizionamento. E lì che la letteratura, e in particolare la critica non guastata dalla tabe del protagonismo (in cui è caduto persino uno scrittore intelligente come Giovanni Raboni), sopravvive e si rigenera, non certo sui giornali o sulle riviste cosiddette specializzate create per qualche occasione di marketing (e neppure su quelle mantenute in vita stancamente, come accade ad « Alfabeta», dove alcuni redattori si illudono di svolgere ancora una funzione utile perché c’è stata una foto di gruppo su « Panorama »). La crisi di espressività e di identità che veniamo denunciando riguarda la cosa letteraria nel suo complesso, benché tocchi in modo particolare la narrativa, e fa pesare le sue conseguenze non soltanto su romanzi e racconti, ma produce anche, come abbiamo visto, disastrosi effetti collaterali: una
narrativa in crisi, dato il suo peso determinante nella produzione editoriale, significa uno stato di debolezza generale della letteratura nei confronti del pubblico, nonostante la letteratura stessa non sia affatto in crisi e manifesti la sua vitalità in altri generi: la poesia, la saggistica; e con forme diverse, per certi aspetti persino nuove, come l’attuale tendenza del saggismo critico. Prendiamo la poesia, per cominciare, richiamandoci al nuovo libro di Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento, che sottolinea l’apporto della poesia al quadro novecentesco. Mengaldo è un agguerrito studioso della poesia contemporanea (ma senza dimenticare il lettore di classici: è appena uscito anche un altro suo libro sull’epistolario di Ippolito Nievo): a lui si deve l’antologia Poeti italiani del Novecento nei « Meridiani » e questo nuovo contributo è significativo per le proposte di lettura che avanza per Sereni e Fortini, per esempio, anche se la sua «tradizione» è forse un po’ troppo condizionata dall’adesione a questa specie di «linea» serenian-fortiniana. Ma la nostra 231
poesia d’oggi ha una tale ricchezza complessiva che va al di ; là delle linee. Senza rifarsi alle considerazioni sulla sua libertà di movimento rispetto alla narrativa, possiamo dire che anche in questo 1987 la poesia ha offerto di sé una immagine quanto mai vitale e ha continuato, attraverso autori e testi, a proporre un discorso a livelli assoluti. Pur senza ripresentare una eccezionale concentrazione di opere memorabili come si è avuta nel 1986, che resterà probabilmente irrepetibile negli annali della nostra poesia contemporanea, tuttavia anche quest’anno possiamo allineare nello scaffale a essa riservato alcuni testi di importanza indiscutibile non solo per la nostra storia poetica, ma anche per quella dei singoli poeti. Incomincio doverosamente con Hystrio di Mario Luzi, nuovo esempio, dopo /! libro di Ipazia e di Rosales, di come la sua disposizione all’azione drammatica non sia occasionale, ma rappresenti una costante, e non certo minore, del suo
discorso in direzione di una poesia ricca di suggestioni metaforiche ma anche fortemente rappresentativa. E gli accosterei i libri di alcuni poeti che hanno ormai un’immagine consolidata nel nostro ricco panorama, grazie alla loro marcata e originale fisionomia. Penso in primo luogo a Terra segreta, la raccolta di «tutte le poesie » di Guglielmo Petroni, e poi a Le risonanze di Nelo Risi, a Agli dei di Gian Piero Bona, a Il tranviere metafisico di Luciano Erba, a Bisbidis di Sanguineti: queste raccolte sono, fra altre, esemplare frutto del lavoro di poeti che hanno dimostrato di possedere tempra e coerenza stilistica, sia pure partendo da concezioni e posizioni opposte; poi Serpenta di Dario Bellezza; Orto e nido e In piena prosa di Silvio Ramat: entrambi si sono affermati negli anni Sessanta e hanno poi continuato a portare avanti la loro
visione poetica, drammatizzando (Bellezza) o approfondendo (Ramat) i propri temi di fondo, liberandosi però, via via, dei condizionamenti di un esibito maledettismo (Bellezza) e di
un elegante ma ripetitivo manierismo (Ramat). Ma il segno della vitalità è dato dalla continuità di un discorso che sembra non conoscere soste, e rinnovarsi e arric-
chirsi continuamente senza far registrare battute a vuoto generazionali. Le ultime proposte di Maurizio Cucchi, Donna 244
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del gioco, e di Roberto Mussapi, Luce frontale, di Valerio Magrelli, Nature e venature, e di Paolo Ruffilli, Piccola co-
lazione, di Franco Buffoni, Quaranta a quindici, e di Valentino Zeichen, Museo interiore, formano un campionario va-
riato, ma estremamente sicuro dell’apporto alla nostra poesia delle ultime generazioni. La varietà è evidente e rivela anche le origini, la formazione di ognuno, ma non è mai sintomo di estemporaneità, di occasione casuale, bensì garanzia di ‘una
ricerca personale che può già aver avuto anche importanti riconoscimenti, come nei casi di Cucchi e di Magrelli, ma che è tuttora in corso e ricca di suggestioni future. Altri nomi potrebbero essere aggiunti a questo elenco, da Gilberto Finzi, L’assurda verità, a Ermanno Krumm, Le cahier de Monique Charmay (con una « Lettera a E. K.» di Luciano Anceschi), a Giampiero Neri, Liceo, ad Angelo Mundula, Picasso fortemente mi ama, ad Antonio Cossu, / morti dicono di restare, a
Maura Del Serra, Meridiana, e ognuno con la propria personalità contribuisce a confermare lo stato di floridezza della nostra poesia attuale. La ricerca tra la poesia richiederebbe ben altre e numerose ricognizioni in questo universo pressoché sterminato per garantire una rassegna che si avvicinasse, non dico alla completezza, ma a un’attendibilità documentaria. Un discorso critico, però, è anche scelta, indicazione, e perciò pen-
so di poter dare una conclusione alla sezione poetica di questo panorama segnalando qualche altro aspetto del fenomeno. Per primo, riferendomi a un testo del tutto inclassificabile tra gli schemi e le tendenze del panorama italiano contemporaneo: Compassioni e disperazioni. Tutte le poesie 1946-1986 di Guido Ceronetti. La poesia di Ceronetti va infatti inquadrata nel discorso globale che egli fa; più che in questo contesto poetico, bisognerebbe parlare di Compasstoni e disperazioni assieme all’altro suo libro, / pensieri del tè. Ma il fatto stesso che egli abbia scelto per una parte non indifferente del proprio essere scrittore la misura del verso, non mi pare affatto trascurabile, né riconducibile a una pura scelta tecnica: la sua visione disperata, ma anche critica, trova nei versi una essenzialità espressiva ancor più tagliente; è il suo discorso che continua, ma per sprazzi, privo dei 239
nessi argomentanti della prosa, eppure non per questo meno inquietante. Dopo vengono un paio di poeti dialettali: Tonino Guerra con Il viaggio e Amedeo Giacomini con Prsumùt unuar; e una antologia, La poesia friuliana del Novecento, a cura di Walter Belardi e Giorgio Faggin. Sull’importanza del contributo friulano alla poesia contemporanea basterebbe rinviare a Pier Paolo Pasolini, ma precisando che la poesia friulana non si esaurisce affatto con Pasolini, come l’antologia di Belardi e Faggin ampiamente dimostra. Sul valore poetico di Guerra e Giacomini non credo che esistano dubbi, e non da ora; il fatto, poi, che entrambi i libretti abbiano una nota di
Dante Isella (di lui ricordiamo Le carte mescolate. Esperienze di filologia d’autore) la dice lunga anche sugli aspetti più tipicamente filologici della loro scelta linguistica. Ma il dialetto, nonostante tutto, sembra sempre sollevare questioni pregiudiziali che ormai.non dovrebbero esistere più: sul piano poetico lingua e dialetto non si contrappongono, il problema è se c'è o non C'è poesia. Per questo l’antologia curata da Franco Brevini, Poeti dialettali del Novecento, va vista nel-
l’ambito della proposta critica e di lettura che avanza, e non in base alla legittimità dell’operazione. Secondo me il lavoro di Brevini è lodevole per la selettività. Come in tutte le antologie, ognuno può trovarci il troppo e lamentare il manchevole, ma nell’insieme dialettale, dopo le grandi antologie-repertorio di Pasolini-Dell’ Arco e di Chiesa-Tesio, era necessario
un taglio critico che separasse veramente la poesia dal documento sociologico. Brevini questo taglio lo ha operato sul piano delle scelte, sgombrando il terreno con decisione dagli equivoci, lasciando però insoluto il problema dell’inquadramento storico e critico che l’occasione avrebbe consentito, an-
zi, lo esigeva. Il suo libro risulta così costituito da una serie di monografie sui poeti, alcune eccellenti (Noventa, Tessa), con
i testi a far da supporto e non viceversa, mentre manca la visione d’assieme, l’elemento coesivo e unificante, l’intervento
storico che avrebbe dovuto contrassegnare una antologia con queste ambizioni. Lasciandoci dietro chissà quante altre occasioni di discorso (e a farmi nutrire fortemente il sospetto è il monumentale 234
numero nové della rivista «Zeta» dedicato al Il «nuovo » în poesia, curato da Carlo Marcello Conti e Lamberto Pignotti), passiamo dalla poesia alla saggistica, dove troviamo alcuni significativi esempi del travaso stilistico fra i generi che porta all’interessante fenomeno di vedere la saggistica introdursi, installarsi, sostituirsi alla narrativa. Basta citare, per
restare a questo 1987, i casi di Guido Ceronetti, di Pietro Ci-
tati, di Giovanni Macchia, i quali, partiti dall’esclusivo porticciolo del saggismo e della critica, attualmente spaziano senza limitazioni nel gran mare della letteratura, rispettivamente
con / pensieri del tè, Kafka,
Gli anni dell’attesa.
Ognuno, e per la sua parte, ha dato con il proprio libro una risposta eloquente al senso che può avere oggi la letteratura. Il folgorante ragionamento aforistico di Ceronetti, il disteso raccontare libri e scrittori di Citati, le sapienti, articolate,
perfette, composizioni saggistiche di Macchia, non esprimono soltanto un personale disegno creativo, il frutto di una esperienza intellettuale, il risultato di una visione delle cose e del reale, ma interpretano un modo diverso di fare letteratura. E anche quando ci spostiamo da questa descrizione formulistica dell’aspetto formale più all’interno del testo, vediamo come il moralismo di Ceronetti, la rivisitazione dei classici di Citati, l’erudizione fatta arte di Macchia, abbiano ri-
scattato sul piano della scrittura il carattere a volte particolare della ricerca. Ad essi accosterei anche Elsa Morante, che nei suoi saggi, riuniti da Cesare Garboli in Pro e contro la bomba atomica, ha realizzato un saggismo completamente svincolato da ogni schema. Per lei occorrono altre considerazioni, con quella scrittura così tesa, addirittura da pamphlet, quella sua maniera aggressiva e violenta di accostarsi alle cose; ma il suo libro resta anche singolare e unico in questo insieme proprio per le sue caratteristiche di stile. E poi Cristina Campo: i suoi saggi, oggi recuperati nel volume Gl imperdonabili, la pongono, ideologicamente, all’opposto della Morante nonostante fossero vicine in alcuni interessi, le filosofie orientali, per esempio. Ma poiché qui si parla di stile e non di ideologie, Gli imperdonabili costituisce un esempio di scrittura liberamente giocata sia sul piano della finezza interpretativa D05
dei temi affrontati, sia di una eleganza concreta, sostanziosa,
tutta al contrario della «bella » pagina di antica memoria. Si tratta di acquisizioni stilistiche di stretta pertinenza della critica, la quale risulta così più ricca e indipendente, e può giovarsene di conseguenza anche sul piano della lettura. Infatti, il suo intrinseco specialismo si fonde nella scrittura, e
ciò le consente di allargare il proprio campo d’azione, invadendo terreni tradizionalmente occupati dalla prosa e dalla narrativa. Per esempio, il nuovo volume di Piero Camporesi,
La casa dell’eternità, in cui lo studioso bolognese ricostruisce la presenza dell’Inferno nella cultura europea dal Medioevo al ’700, è appassionante come un romanzo d’avventura in cui il protagonista spazia in un mondo popolato di libri e di immagini in compagnia di un tema culturale. Anche perché, proprio come il romanzo, pure la critica oggi si avvale di un plurilinguismo un tempo sconosciuto; e quando qualcuno si avventurava su questa strada (penso alle prime cose di Emilio Cecchi o di Roberto Longhi), veniva guardato con sospetto. Era un esercizio considerato indice di pericoloso dilettantismo, mentre invece le conferisce un aspetto più libero e vario: insomma, è una critica diversa e, sotto questo profilo, nuova. E, questo, un movimento all’interno dei cosiddetti generi letterari che è in atto ormai da tempo, ma che è venuto prendendo sempre più consistenza e che ha dato alla posizione della critica un peso decisamente superiore negli equilibri della geopolitica letteraria. Anche la ricerca portata su terreni più strettamente specialistici e tecnici sembra risentire dell’influsso di quest’aria di novità e se ne è avvantaggiata anch’essa, senza tuttavia perdere di rigore. Potrei portare a conferma di questa condizione alcuni casì significativi, cercandoli in campi e indirizzi applicativi molto diversi fra loro. Prendiamo, per esempio, le nuove edizioni, ulteriormente arricchite di contributi e interventi, di Patrie lettere di Cesare Cases e di Saggi italiani di Franco Fortini: in queste pagine il temperamento dello scrittore, unito alla radicale posizione ideologica, diventano una costante di stile. È vero che sia Cases sia Fortini non avevano bisogno dell’affermazione di questa tendenza saggistico-creativa perché certe caratteristiche della loro scrittura risaltasse236
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ro, tuttavia il peso ideologico del loro intervento era sempre prevalente, mentre in questo quadro si rialza anche la considerazione stilistica e aggiunge qualcosa in più. Altri esempi sono quelli offerti dalla Vita di Petrarca di Ugo Dotti e da Dal « Cortegiano » all’« Uomo di mondo » di Carlo Ossola (di Ossola vorrei però ricordare anche la cura della tragedia di Emanuele Tesauro, Edipo): entrambi condotti su temi rigorosamente letterari (pure Petrarca e il Castiglione possono essere considerati temi), affrontati con rigore scientifico, sto-
rico e filologico, si avvalgono, tuttavia, di una affabilità di approccio e di scrittura che li sottrae al confino degli scaffali eruditi e specialistici, ossia alla morte della sola consultazio-
ne per l’occasione e della non lettura. E vi aggiungerei // ritorno dell’uomo di fumo, dove, lasciandosi portare dall’onda palazzeschiana, Walter Pedullà impianta un discorso di moralità critica che è, nello stesso tempo, un esempio di impegno di scrittura. Ma c’è anche chi si spinge, come Giampaolo Dossena, fino a dare alla storia della letteratura un carattere « confidenziale». Per la verità, un taglio molto personale di racconto, anzi, di romanzo, lo aveva impresso anche Enzo Siciliano alla sua Letteratura italiana, di cui è uscito il secondo volume: Da Niccolò Machiavelli a Giambattista Vico, ma rimanendo
pur sempre nell’ambito di uno schema storiografico, sia pure realizzato per medaglioni. Con Dossena, però, le cose vanno diversamente. Il contenuto provocatorio dell’attributo « confidenziale » è evidente e lanciato verso un concetto di storia letteraria affidata alla pura e scostante erudizione, ma, nel caso
specifico, Dossena non si sottrae affatto all’erudizione, solo che la dissemina lungo una serie di puntate e di ricognizioni nel tempo e nei luoghi che hanno visto nascere i primi documenti della nostra letteratura. Con Storia confidenziale della letteratura italiana si è fermato, per ora, a Dante, e perciò il
suo girovagare si è consumato per la maggior parte fra quei testi minori e minimi che costellano i primi secoli; tuttavia il taglio del discorso appare subito con chiarezza: ammiccante e colloquiale per mettere a proprio agio il lettore, ma nello stesso tempo, esigente e severo per costringerlo a fare le opportune verifiche sui testi; frantumare la densa materia in 237
una serie di annotazioni ben inquadrate con riferimenti geografici e temporali; svestire gli scrittori dei loro panni corporativi e inserirli nella vita quotidiana che è poi realtà storica. Non solo, ma in questa dissacrazione della paludata storia letteraria tradizionale non mancano i giudizi, per quanto troppo di gusto e troppo personalizzati, le informazioni sugli aspetti tecnici delle canzoni provenzali e, neppure, osservazioni sulle cadenze e le cesure metriche, anche se il grande panorama, la grande sintesi, i canoni storiografici vanno a farsi benedire. Ma quello della storia letteraria è ormai un problema a più dimensioni (oltre che un affare, dal momento
che gli editori si buttano sull’argomento con tanta baldanza e solo la diversità di impostazione metodologica fa argine all’inflazione): Dossena vi entra ora munito di freccette e con fare estroso e scanzonato, mentre la Letteratura italiana di Alberto Asor Rosa si è arricchita di un nuovo volume, il se-
sto, dedicato ancora a questioni interdisciplinari: rapporti con il teatro (li affrontano Silvia Carandini e Franco Angelini), con la musica (qui l’équipe di studiosi è più nutrita: Pier Luigi Petrobelli, F. Alberto Gallo, Giulio Cattin, Lorenzo Bianconi, Renato Di Benedetto, Sergio Sablich), mentre il
raccordo figurativo, Le parole nel disegno e i disegni nelle parole, è curato da Giovanni Pozzi. Ma il contributo fondamentale è dovuto a Corrado Bologna che ha affrontato e condotto, dalle Origini a Gadda, il tema Tradizione testuale e
fortuna dei classici italiani che è già, sotto questo profilo, un altro spaccato di storia della letteratura. Ma il problema storiografico sì fa scottante quando si affronta il Novecento. Materia contemporanea eppure già storicizzabile, dal momento che il tempo della storia si va man mano riducendo, il Novecento è il periodo su cui gli interventi rischiano necessariamente di più, dove il giudizio ha spesso l’aria provocatoria della scommessa e, purtroppo, a scapitarne sono 1 testi. Nel presentare la nuova edizione della Storia della letteratura italiana diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, è stato il volume dedicato al Novecento a sdoppiarsi e a subire i restauri e gli aggiornamenti più massicci: per necessità di adeguamento, certo, ma anche con intenzioni di ri-
proposta critica, e perciò tutti gli occhi si sono appuntati sul-
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le rassegne di Geno Pampaloni e di Giovanni Raboni per la prosa e la poesia del dopoguerra. Avvalendosi della loro pratica militante e operando su un terreno che la critica ha già, almeno in parte, dissodato, entrambi offrono un panorama e,
allo stesso tempo, una sintesi di quanto è avvenuto in questi ultimi decenni. Persuasivo Pampaloni in «Modelli ed esperienze della prosa contemporanea » con la sua cautela verso i nuovissimi narratori, con il reclutamento dei critici (ma questa non è affatto una novità né una scoperta, ma solo una messa a punto, che ribadisce un fenomeno positivo ormai acquisito), col distinguere lo scrittore dall’intellettuale, un po’ meno quando delinea quelli che contano veramente (anche se con piacere ci trovo Flaiano) perché c'è qualche assenza e qualche inclusione di troppo o indebita; persuasivo anche Raboni per la sua parte in «Poeti del secondo Novecento » nel mettere in evidenza l’apporto decisivo dell’ultima poesia, sicuramente più agguerrita e fondata della coeva narrativa, desta invece qualche perplessità quando attribuisce a Fortini il ruolo di battistrada nel discorso poetico del dopoguerra poiché le cose mi paiono un po’ più complesse e meno schematizzabili. A questo proposito bisogna fare un passo indietro e tenere conto di quanto Carlo Bo abbia allargato il suo panorama della poesia che precede: la chiave per aprire la porta giusta del discorso poetico attuale è ancora appesa a quella parete, a cui bisogna ritornare, magari non passando per le strade più facili e scontate, ma per altre meno battute che portano i nomi di Clemente Rebora e di Umberto Saba, di Carlo Betocchi e di qualche dialettale, senza che ciò significhi anatemi a Quasimodo o a Montale, come lancia invece Raboni da quando sembra essersi scoperta la vocazione a un ruolo provocatorio. Ma /{ Novecento garzantiano ha anche altre novità che gli spunti polemici non devono far trascurare o dimenticare: « Le poetiche della modernità e la vita letteraria» di Ezio Raimondi e « Dallo storicismo al post-strutturalismo. Un trentennio di critica letteraria »di Nino Borsellino che, data la loro peculiarità, garantiscono completezza culturale al panorama. E per concludere, la segnalazione della Letteratura francese di Giovanni Macchia (I vol.): dato il carattere e i limiti nazionali di questa rassegna, la storia di 239
Macchia non vi rientra, ma si tratta di una puntata fuori porta quanto mai salutare ai fini di una lezione metodologica e di gusto che non so-rinunciarvi. Indipendentemente dai risultati, che possono essere valutati in maniera diversa a seconda della posizione di chi li osserva, C'è nella letteratura italiana di oggi un innegabile movimento. E che si tratti di una tendenza, e non di un fenome-
no estemporaneo, ne abbiamo la conferma quando non ci limitiamo a registrare dall’interno l’andamento della cosa letteraria, ma ci poniamo da un altro angolo visuale, un po’ frivolo se vogliamo, quello dei premi letterari. L’assegnazione del Premio Campiello al romanzo di Raffaele Nigro, / fuochi del Basento, ha praticamente concluso la stagione dei grandi premi letterari 1987, per lo meno quelli che contano, ossia che, oltre al prestigio, fanno anche vendere. Ma al di là di queste considerazioni pratiche, qual è il loro peso critico? Si può dire che per via della natura contingente, non sempre i premi riescono a indicare i veri valori della letteratura, ma rispecchiano piuttosto, nel bene e nel male, l'andamento della produzione editoriale di una annata. Per questa ragione non bisognerebbe limitarsi a vederli esclusivamente nei loro risultati, e prenderli invece come un particolare termometro da applicare alla letteratura, stando attenti ai fenomeni significativi a cui rinvia una loro lettura critica. Infatti, ha ragione Sapegno quando osserva che non è solo colpa dei premi se il loro funzionamento è pessimo, ma anche della letteratura, e in particolare della narrativa, che oggi è quella che è. Partendo da questa lapalissiana constatazione, possiamo osservare in primo luogo come i premi che contano siano consacrati proprio al genere più in crisi, la narrativa, come lo Strega e il Campiello, e allargati anche alla poesia e alla saggistica nel caso del Viareggio. Tale predominanza della narrativa non ha alcuna motivazione critica, né letteraria. Il problema, perciò, è estraneo alla dinamica culturale. Diciamo semmai che il romanzo, benché contestato, è espressione
moderna quanto a struttura e a linguaggio: in tal senso si potrebbe giustificare il richiamo che esercita sul pubblico e spiegare così il forte impegno editoriale in suo favore, con inevitabili implicazioni, non tutte di ordine letterario, che si riflet240
tono anche sulla politica dei premi. In sostanza, la posizione dominante della narrativa risponde alla logica dei rapporti di forza nel complesso della letteratura. Però qualcosa sta cambiando, come abbiamo visto, se non è già cambiato.
Prendiamo il Premio Strega. Per tradizione, non per regolamento, laurea opere di narrativa pura. Quest'anno, però, hanno concorso anche dei saggisti come Claudio Magris con Danubio e Renato Minore con Leopardi, ed entrambi sono entrati nella cinquina dei finalisti. Precedenti in tal senso non mancano nella pluridecennale storia del premio: basti ricordare le partecipazioni di Concetto Marchesi, di Mario Praz, di Cesare Garboli, le vittorie di Corrado Alvaro con Quasi una vita, di Vittorio Gorresio con La vita ingenua, di
Pietro Citati con Tolstoj). Ma, nel complesso, rimanevano episodi, legati a un libro particolarmente felice, favoriti dalle circostanze, mentre la situazione determinatasi quest'anno ha, da un lato, confermato anche in questo ambito particolare lo stato precario della nostra narrativa e, dall’altro, che i confini tra i generi sono ormai meno rigidi, che la saggistica si va innervando di prosa creativa e che il saggismo chiaramente si candida all’attenzione dei lettori in alternativa al romanzo e al racconto. Che tale fenomeno sia caratterizzante nell’evoluzione letteraria è indubbio, e molti degli esempi sin qui addotti lo confermano, ma che abbia raggiunto anche un santuario della narrativa come lo Strega è molto più significativo delle polemiche moralistiche che spesso lo travagliano e della vittoria andata quest'anno a un romanzo mediocre come Le isole del paradiso di uno scrittore modesto qual è Stanislao Nievo. Per restare sempre nell’ambito dei significati indiretti dei premi, possiamo dire che la mediocrità narrativa emersa allo Strega non è casuale: in essa si riflette una crisi a più largo raggio, di idee e di identità, che troviamo confermata, sia pure con caratteristiche diverse, anche al Premio Campiello. Se allo Strega la contesa vedeva contrapposto idealmente il saggista al narratore, al Campiello abbiamo avuto invece uno. scontro fra romanzi di carattere sperimentale, sia nel linguaggio, sia nella composizione, e romanzi di impianto più tradizionale. Ma a dare il senso di come stessero 241
effettivamente le cose è stata una fulminante battuta di Bo, quando ha preso a pretesto il titolo di uno dei libri finalisti, La valigia vuota di Sergio Ferrero, per sintetizzare in maniera allusiva, ma quanto mai eloquente, la situazione attuale: una valigia vuota, da cui non si tira fuori niente e che è difficile da riempire. La nota positiva del premio è venuta dalla vittoria di Nigro, scrittore esordiente, giovane. In tal senso l’indicazione della giuria dei lettori del Campiello è stata limpida: ha premiato il romanzo più lineare, più compatto, scevro da complicazioni strutturali e linguistiche, 6 perciò più leggibile. E stata una scelta del tradizionale, in perfetta coerenza con lo spirito dei lettori del premio, i quali non hanno mai nascosto una dichiarata diffidenza verso gli esperimenti, anche quando venivano proposti da grandi scrittori come Gadda e Landolfi, e che anche quest'anno sono rimasti indifferenti, per esempio, alle pur eleganti e suggestive arditezze compositive con cui Emilio Tadini ha realizzato La lunga notte. Resta ancora da considerare, per chiudere il panorama dei premi, il Viareggio, limitandoci alla sola narrativa. Anche qui il carattere sperimentale sembra far da anello di congiunzione al discorso riguardante il Campiello. Il romanzo vincitore, Lettera da Kupiansk di Mario Spinella, si richiama all’inizio agli schemi della narratologia, ma per evolversi poi in un raccontare più disteso e persino corale, anche se tutto va sempre ricondotto all’io autobiografico, vero conduttore della storia. Sul piano del narrare, però, il vero vincitore a Viareggio è stato Mario Soldati. Il premio è andato all’opera complessiva, tuttavia a dare lo spunto e a giustificare il riconoscimento, c’è stato un preciso riferimento a E/ Paseo de Gracia, il suo ultimo romanzo che, pur senza raggiungere i suoi livelli maggiori, tuttavia assicura una resa letteraria di assoluta garanzia, a conferma che lo scrittore, quando esiste,
finisce sempre per uscire allo scoperto. Il punto sui risultati dei premi maggiori non avrebbe esaurito la descrizione della narrativa 1987, data la quantità dei volumi pubblicati, la quale è del tutto ingiustificata e non trova certo riscontro nella qualità. Infatti l'andamento dei premi ha messo in evidenza la debolezza del narratore sul 242
piano creativo che si rifugia, a volte, nella tecnica per superare l’ostacolo, ma cadendone poi vittima. La tecnica è un mezzo, che può essere utilizzato con maggiore o minore abilità, fino al punto di diventare stile; ma in genere è difficile che
possa diventare plausibilmente il fine della letteratura, poiché dietro dovrebbe sempre operare un’idea, un senso delle cose come ne Gli invisibili di Nanni Balestrini, dove il tema del terrorismoè risolto in una sequenza stilistica di grande abilità formale, ma di non minore efficacia rappresentativa (di Balestrini ricordiamo anche il volume di versi /pocalisse. 49 sonetti). La pura tecnica o è opera di straordinari rabdomanti della lingua e dello stile, e penso a Rumor: o voci di Giorgio Manganelli, oppure è vuoto esercizio. Se la poesia può reggere liberamente lo sperimentalismo linguistico quando è condotto con gusto e intelligenza, la narrativa esige anche un impianto costruttivo. Lo conferma in modo inequivocabile il nuovo libro di quell’autentico scrittore (autentico anche in contrapposizione alla numerosa falsità corrente) che èVincenzo Consolo: Retablo. È per questo che il romanzo scopre più facilmente le carenze che nessuna acrobazia verbale riesce a mascherare. Esso ha bisogno di una sostanza interna, non importa di quale natura essa sia: possiamo avere il romanzo a sfondo storico e famigliare come Le strade di polvere di Rosetta Loy o quello della decadenza dei sentimenti sofferti fino alla morte in Lo sguardo del cacciatore di Giorgio Montefoschi; il dramma di una religione rifiutata e la sofferenza interiore che ne deriva in Vigilia di Natale di Ferruccio Parazzoli o il tema del potere affrontato . e vissuto in quella indeterminatezza metaforica che lo rende ancora più inquietante in Gioco di carte di Ottavio Cecchi; la fiaba, interpretata in chiave ironica e attuale da Fabrizio Dentice iin Egnocus e gli Efferati oppure con più scarto metafisico da Giuseppe Conte in Equinozio d’autunno, dove domina il grande tema della natura e del suo mistero. E potrei portare altri esempi di narratori più collaudati presso il pubblico come il compianto Piero Chiara (Saluti notturni dal passo della Cisa), Gina Lagorio (Golfo del paradiso), Lalla Romano (Nei mari estremi), Nantas Salvalaggio (La doppia vita), Giorgio Saviane (// terzo aspetto), Carlo Sgorlon (L’ul243
tima valle), Leonardo Sciascia (Porte aperte), senza che l’indirizzo del discorso possa mutare. Ma il procedere con cautela, rimanendo sulle costanti generali del narrare, è il sintomo più evidente dell’incertezza,
derivante da una sostanziale mancanza di convinzione. Un segnale più sollecitante viene invece da una diversa misura narrativa: il racconto. Si è detto spesso che, a dispetto della diffusione editoriale, il racconto stava conoscendo un suo mo-
mento di fortuna. In effetti il racconto italiano è sempre stato una realtà indiscutibile che veniva però schiacciato dalla prepotenza del romanzo. Ora che il romanzo deve darsi meno arie, ecco che il racconto emerge per semplice spinta qualitativa. A offrirci un quadro significativo della sua consistenza è l’antologia Racconti italiani del Novecento, curata da Mario Petrucciani, che si collega alla classica raccolta Novelle italiane di Goffredo Bellonci. La tradizione novecentesca del racconto era già stata codificata antologicamente in alcune occasioni. Limitandoci al dopoguerra e alle sole scelte di racconti, e non di narrativa e prosa in genere, abbiamo: nel 1958, Racconti italiani a cura di Giovanni Carocci, con una memorabile « Prefazione» di Alberto Moravia; nel 1964, /
maestri italiani del racconto a cura di Walter Pedullà ed Elio Pagliarani; nel 1968, Racconti e novelle del Novecento a cura di Giacomo Antonini; nel 1983, Racconti italiani del No-.
vecento a cura di Enzo Siciliano. Rispetto a tali precedenti, tutti più o meno condizionati da una tesi sul racconto da dimostrare (salvo Antonini), la scelta di Petrucciani si presenta
più agile e libera, dal momento che non vi è alcuna teorizzazione, ma soltanto dei testi a sostegno della validità del genere. Che non tutto sia innocente nel lavoro di Petrucciani, lo
rivelano alcune spie: è vero che Svevo, Pirandello e Gadda erano già stati censiti da Bellonci, però la presenza di Saba, Cardarelli, Montale, che addirittura aprono l’antologia, e poi Luzi e Caproni, non può essere neutrale, ma sintomatica di un indirizzo che non si limita a registrare documentariamente testimonianze narrative di poeti. Anche l’apertura ad autori di fresca nomina è molto ampia, a conferma di una ricerca narrativa continua che propone sempre nuovi scrittori, tra i quali, però, avrei visto volentieri incluso pure Gianni 244
Celati che ultimamente aveva dato con Narratori delle pianure e ora con Quattro novelle sulle apparenze notevoli esempi di narrare breve. Il nome di Celati mi induce a fare una confessione. Tra le numerose occasioni di lettura che nel corso dell’anno spesso sì sono rivelate deludenti, quelle più stimolanti e, perché no?, anche divertenti, le devo proprio ad alcuni volumi di racconti. Eccoli, partendo dai classici: // gioco della torre di Tommaso Landolfi e Senza l’onore delle armi di Vittorio Sereni, per passare a Gli americani a Vicenza di Goffredo Parise e a La debolezza di scrivere di Oreste Del Buono, poi a Spavaldi e strambi di Antonio Debenedetti, Tenera come colomba di Luigi Testaferrata, L’incantato di Ginevra Bompiani, La realtà è un dono di Francesca Sanvitale, Singoli e coppie di Armando Balduino e La locandina gialla di Claudio Nembrini. Il panorama potrebbe chiudersi qui, con questo recupero del racconto. Ma prima mi pare doveroso ancora segnalare un fenomeno che con la letteratura ha un legame fondamentale, però difficile da definire: la questione della lingua. Uno scrittore come Luigi Meneghello, il problema se lo è posto non solo per scrivere a suo tempo Libera nos a malo e I piccoli maestri (quest’ultimo ristampato negli Oscar con una « Introduzione » di Maria Corti), ma come ragionamento di
fondo in Jura, e senza aspettare che le nuove edizioni di grandi dizionari, dal Dizionario Enciclopedico italiano della Treccani al Devoto-Oli, lo riportassero all’attenzione generale. Lo scrittore ha come materia prima la lingua, perciò ogni operazione sul linguaggio non è mai neutrale: o la parola dello scrittore si diffonde, e allora ottiene un tipo di risultato che si riflette sulla collettività, perché un’opera letteraria conta ben al di là del successo che può o non può incontrare e soprattutto per le reazioni a catena che produce a tutti i livelli; oppure la sua parola non trova ascolto, e allora la scrittura rimane esercizio fine a se stesso e ad essere sconfitta è la fun-
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1988
Ogni volta che mi accingo a stendere questa rassegna sull’andamento letterario dell’anno, sono sempre di fronte al solito problema: da dove e con che cosa cominciare. L’inizio è tutto. Quante volte ho sentito Mario Soldati ripetere: una volta trovato l’avvio, il resto viene da sé. Anche Roland Barthes si domandava: « Par où commencer? », ben cosciente che l’inizio
di un testo può essere fondamentale a indirizzare la scrittura. Ma al di là di questa constatazione tecnica, ne esiste pure una diversa e più di fondo: infatti, quando si comincia un discorso non sì apre soltanto una porta su un futuro ancora incerto da scrivere, e poi da conoscere leggendo, ma l’apertura di questa porta introduce inequivocabilmente in un altro universo: quello della letteratura. E vero che queste riflessioni sul mestiere dello scrivere sembrano riguardare da vicino soprattutto la tecnica del raccontare, ma il problema, in realtà, si pone a tutti coloro che intraprendono a scrivere, persino a chi, molto modestamente,
deve solo riferire come sono andate le cose della letteratura italiana nell’arco di un anno. Dato questo limite oggettivo, il presente scritto non può essere un racconto, benché nulla gli impedirebbe di esserlo, semmai va inquadrato come un rapporto o una relazione, ma in cuì intervengono inevitabilmente alcune tipiche categorie narrative: 1) il tempo, seppure definito in partenza: un anno; 2) dei personaggi: i libri di quell’anno, gli scrittori; 3) l’azione, ossia il movimento dei fatti
letterari che hanno caratterizzato quel periodo determinato. Una componente narrativa, dunque, interviene, sia pure di scorcio e soltanto come delimitazione di campo, anche in un testo dalla tipica struttura informativa come questo che ha 251
l’obiettivo di fornire alcune coordinate a quei lettori desiderosi di riepilogare un anno di letteratura almeno nei suoi fatti più salienti o che si presumono tali. È per cominciare, scegliamo questa volta la strada più ovvia e il più tradizionale dei modi, quello diacronico, o più semplicemente cronologico, partendo proprio dall’inizio dell’anno per verificare a posteriori come si è svolto letterariamente questo 1988. A suggerire questa scelta non è stato tanto un avvenimento culturalmente importante quanto una considerazione che si ricollega a osservazioni già fatte negli anni passati sul costume letterario e sulle sue degenerazioni. Sotto questo profilo, il 1988 non è nato bene e non è stato salutato da buoni auspici. Il battesimo alla nuova annata-letteraria è stato impartito sacrilegamente da una infedele con acqua non benedetta: alludo, pour cause con metafora fondamentalista, al chiasso che è stato fatto attorno al romanzo di Carmen Moravia, Georgette, per ragioni che niente hanno a che fare con la letteratura, ma che con la letteratura sono state artata-
mente confuse. Il romanzo non vale gran che: storia di un amore e di altri amori, un po’ qua e un po’ là, raccontata con disinvoltura e una certa scioltezza, ma anche con superficialità stilistica. Però il fatto letterario è passato in secondo ordine per la nostra stampa specializzata che, invece di fornire il lettore delle necessarie coordinate critiche sulla inconsistenza dell’operina, ha fiutato il caso e ha montato una vicenda dagli aspetti boccacceschi, puntando sulla rinomanza pubblica dei protagonisti coinvolti nella vita e nel romanzo: il triangolo costituito da Moravia, dalla moglie Carmen e dal terzo uomo, il principe druso Walid Jumblatt. Che cosa tutto ciò abbia a che fare con il romanzo e con la letteratura è ancora da stabilire; ma dal punto di vista spettacolare, i fuochi di artificio per ravvivare una stagione morta in libreria qual è il gennaio sono stati assicurati, sia pure a scapito di una più corretta valutazione del prodotto letterario.
Deprecare l’andazzo è diventato ormai un esercizio ripetitivo che lascia il tempo che trova e fa solo tacciare di insensibilità giornalistica alla notizia chi sì ostina nella denuncia; al quale viene poi assegnata la patente di noioso moralista, se non di incapace, elargita con compassionevole sufficienza dai 252
tenutari del quarto e quinto potere. Non solo, ma che l’obiettivo di eccitare la curiosità dei venticinque lettori (la battuta manzoniana è sempre valida, se non altro sul piano dell’ironia) ricorrendo a tutti gli argomenti leciti e illeciti, attraverso messaggi più o meno in codice, lasciando filtrare anticipatamente eccitanti indiscrezioni, faccia parte di una qualunque strategia di lancio di un prodotto che si rispetti e sia prassi ormai consolidata nell’attività della coppia editorial-giornalistica, è stato confermato ad abundantiam alcuni mesi dopo dalle dimensioni e dalla portata della campagna promozionale organizzata per il lancio internazionale del nuovo romanzo di Umberto Eco, // pendolo di Foucault. In questa realtà dai contorni esasperati, il libro ha visto aumentare il peso dei suoi aspetti merceologici e diminuire quello intellettuale. E una diretta conseguenza della dinamica commerciale che domina nelle aziende editoriali: nell’insieme del banchetto, il libro è come una specie di aperitivo sfizioso € stimolante per preparare a un pranzo, la lettura, che spesso risulta poi deludente, se non addirittura da rifiutare. La tecnica dell’aperitivo è ormai acquisita e, passando da una metafora culinaria a una sportiva, diciamo che tutta la partita è impostata sulla pretattica della vigilia, ossia prima ancora che il libro sia uscito; ed è condotta sulle anticipazioni del libro stesso, oggi addirittura sulle pre-recensioni, come è avvenuto appunto con // pendolo di Foucault, nelle quali si decide prima quanto conti o non conti il testo che uscirà poi. Il risultato, naturalmente, è ipotecato benché non
ancora acquisito. Gli officianti di questo rito sfruttano il potere terroristico della loro parola anticipata: non si avvalgono del sapere come fatto conoscitivo, bensì del sapere prima, condizione ormai indispensabile e riservata per poter continuare a esercitare questo tipo di persuasione nemmeno troppo occulta. Si tratta di una strategia dai risvolti perversi che è stata esperita con uno spiegamento di forze quale mai era stato messo in atto prima proprio in occasione del Pendolo di Foucault. Poiché siamo partiti dal romanzo di Carmen Moravia, non vorrei che sì pensasse a una sua possibile equivalenza con quello di Eco. Le differenze sono abissali sia come qualità del prodotto sia per gli elementi utilizzati pubblicita253
riamente; non per nulla Eco è, prima che romanziere, stu-
dioso dei fenomeni di comunicazione di massa: è lui che ha parlato del romanzo come «macchina che produce informazione». Purtroppo entrambi i casi, come tanti altri del resto, rivelano analoghe finalità e portano alla stessa identica conclusione sulla deprecata consuetudine di creare attorno alla letteratura un clima di curiosità morboso e scandalistico o un interesse artificioso dandone per scontati i valori. Prendiamo come esempio il romanzo di Eco. Il pendolo di Foucault ruota attorno a un perno centrale che è dato dal « Piano dei Templari» per dominare il mondo (la stessa spinta che anima, guarda caso, i cattivi della Spektre combattuti da James Bond nei romanzi di Ian Fleming). Vero o falso che sia, è attorno al « Piano » che si svolge l’azione narrativa e che si muovono i personaggi. Si ha dunque la sensazione di un meccanismo funzionante in seguito a calcolo, al punto che mi ha fatto venire in mente una definizione del romanziere come ingegnere, che sa bene ciò che vuole perché conosce il fine dei problemi, data una volta da Louis Aragon (il quale, però, ne ha preso subito le distanze e a cui si è rifiutato di paragonarsi). Ora, se rapportiamo il risultato del calcolo narrativo a quello della strategia promozionale, è difficile dire quale sia più ingegnoso: se il « Piano » della narrazione inventato dal romanziere o il piano del semiologo (perché uno come Eco non può chiamarsi fuori dall’esorbitante apparato pubblicitario editoriale che lo riguarda). Vediamolo dunque questo secondo piano con la p minuscola e perciò meno nobile. Come ogni piano che sì rispetti, si deve articolare su alcuni elementi di base concatenati da un rapporto di causa e di effetto. In primo luogo sì è data la condizione di mantenere il segreto assoluto attorno all’opera, richiesto ai suoi depositari, ossia agli eletti che sanno perché hanno potuto leggere anticipatamente e confidenzialmente lo scottante romanzo. Del resto, il segreto come potere è teorizzato da uno dei personaggi del romanzo stesso, quell’Agliè dalla fisionomia e dai comportamenti ambigui. Ma quando più persone sono a conoscenza di un segreto, maggiore è il rischio che si verifichino defezioni. E infatti, ecco l’imprevista (ma fino a che pun254
to?) fuga di notizie imputabile a un non calcolato (?) tradimento da parte di qualcuno che non ha saputo resistere alla
tentazione di rivelare prima di qualche altro amico il proprio ruolo di eletto, la sua appartenenza all’onorata società e il segreto di cui era depositario. A questo punto, come prima veniva amministrato il segreto, occorre ora gestire la rivelazione che deve avere, per contrasto, la massima diffusione: ecco allora l’equanime distribuzione di notizie, concesse all’attenzione come preziose indiscrezioni e non anticipazioni su di un libro. Il tutto proiettato sulla scala internazionale perché la dimensione del fenomeno Eco è ormai planetaria. Che in una società come la nostra dominata dalla chiacchiera, non
solo letteraria, qualcuno sappia ancora essere riservato e rispettoso di un minimo di discrezione, è ingenuo crederlo, oppure è scaltrezza. Nel caso di Eco, è presumibile la seconda ipotesi che, d’altronde, rientra alla perfezione nel gioco delle parti e nel clima ben calcolato con cui viene attualmente pilotata la cosa letteraria: è soltanto questione di dimensioni, ma la spregiudicatezza di fondo e la tecnica sono sempre uguali. E ritorniamo così al solito punto di partenza: che cosa ha a che fare tutto ciò con la letteratura? Se stiamo agli interventi che hanno accompagnate i primi passi pubblici del Pendolo di Foucault, dovremmo dire che sono stati coerenti con il movimento pendolare tra il dubbio e il rifiuto. Esauritosi il coro dei banditori amici, dei compagni di strada e degli improvvisati arrampicatori in soccorso del vincitore, che aveva assunto le dimensioni di un bombardamento a tappeto per creare l’atmosfera giusta con cui accogliere degnamente il romanzo in libreria e portarlo subito ai vertici delle classifiche di vendita (le quali hanno confermato come la voglia di Pendolo fosse infinita), esauritasi dunque la grancassa, è subentrato finalmente il tempo della lettura libera, disinteressata e non confidenziale: e le reazioni dei primi lettori eccellenti, non appartenenti alla vasta società degli amici, non sono state proprio consenzienti. Alla protervia, per quanto elegante, del piano editoriale, alcuni hanno reagito con altrettanta pesantezza: a partire da Pietro Citati, che lo ha stroncato senza appello, alle più articolate osservazioni di Carlo Bo e di Geno Pampaloni sull’essenza del romanzo e, d00.
in sostanza, sul senso della letteratura stessa chiamata diret-
tamente in causa dal testo di Eco. Perché il disagio di cui parla Bo, è provocato proprio da questa difficoltà a entrare in un puro meccanismo ed è alimentato dalla conseguente impossibilità di adeguarsi all’immaginario lettore nuovo a cui Il pendolo di Foucault, secondo alcuni aruspici della critica, si indirizzerebbe. Resta da capire se questi fatti imponderabili dello scrivere e poi del leggere rispondano a una insopprimibile necessità interiore oppure se tutto ciò non sia invece una solenne, per quanto inquietante e tragica, «impostura » come l’ha definita Alberto Asor Rosa parlando del romanzo. Ossia se l’impostura non sia globale e non coinvolga tutto e tutti in una presa in giro perpetrata attraverso un cattivo uso dell’intelligenza. Eco, però, è troppo intelligente per cadere in una simile trappola rozza e meschina; e quando anche l’intelligenza, in un eccesso ludico, gli avesse giocato un brutto scherzo, lo avrebbe poi salvato l’ironia di cui è abbondantemente dotato. Inoltre, Eco ha una notevole pratica di procedimenti e di strumenti sia creativi sia stilistici che gli consente dosaggi, concessioni, manovre, ritiri per padroneggiare totalmente gli elementi e i materiali della sua complessa costruzione. E come tale il «pendolo di Foucault» funziona al Conservatoire des Arts et Métiers parigino e nell’alluvionale romanzo di Eco. Nel Nome della rosa Eco aveva affrontato il romanzo come forma lineare e chiusa, e alla linearità e alla finitezza co-
struttiva aveva adeguato, da buon semiologo, il linguaggio dell’informazione, dando vita a uno stile magari monocorde, ma non grigio, e comunque efficace: in questa trovata linguistica applicata al romanzesco sta probabilmente una delle ragioni del suo strepitoso successo internazionale. L’operazione fabulatrice di Ecoè passata attraverso due fasi. La prima è maturata in seguito all’intuizione che la sua scrittura era polivalente e funzionale: cioè, poteva rendere sia saggisticamente che narrativamente purché avesse materiali da esprimere. La seconda, e conseguente, è consistita nell’avere saputo interpretare con divertimento (e anche un po’ di cinismo) la condizione ambigua della lingua letteraria attuale, senza fare alcuna concessione alle convenzioni del poetico e del lirismo. 256 8. Gli anni Ottanta e la letteratura
La pratica semiologica lo ha portato a non credere affatto nella presunta e ormai scaduta superiorità della letteratura: questa libertà gli ha consentito, da un lato, di raccontare una vicenda medioevale come se fosse accaduta appena ieri e, dall’altro, di mascherare tutto il lavoro di laboratorio grazie all’uso del linguaggio neutro, affrancato da qualsiasi ipoteca
del «grande stile » (nonostante che l’attacco di sapore evangelico facesse presumere tutt'altro). Infatti il successo del Nome della rosa è prima nel suo funzionale linguaggio narrativo che nella storia raccontata, che pure si prestava a interpretazioni simboliche. Il caso del Pendolo di Foucault è diverso. Qui Eco continua a perseguire il suo schema romanzesco affidato a un plot ben congegnato e collaudato sui modelli del feuilleton ottocentesco e contemporaneo, dai prediletti Eugène Sue e Dumas père al Fleming di 007, però varia costantemente i piani e il tono; si lascia coinvolgere emotivamente: rispetto ad Adso, personaggio funzionale e secondo nel Nome della rosa, qui diventa protagonista calandosi nei panni di Belbo (tuttavia neppure Casaubon gli è estraneo: è l’omologo di Adso, a cui lo avvicina non solo il ruolo narrativo ma una sorta di analoga innocenza intellettuale narrante); il gioco delle citazioni dirette in esergo a ogni capitolo e indirette nel testo è allargato agli inserti narrativi contenuti nei dischetti del computer di Belbo, Abulafia; i piani e i tempi delracconto si
alternano e sì rinviano l’un l’altro creando costantemente spazi e dimensioni narrative diverse: insomma, Eco gioca così la carta di un romanzo globale che proprio lui, teorico dell’opera aperta, avrebbe dovuto disdegnare. Infatti il nucleo interno della narrazione poteva benissimo sfociare soltanto in un racconto, magari philosophique, se il demone del romanzo non avesse preso il sopravvento. La spinta a raccontare e a raccontarsi (perché nel Pendolo di Foucault c’è proprio tanto Eco), immettendo in quel particolare crogiuolo di scrittura che è il computer i risultati di esperienze, suggestioni, scoperte, contraddizioni, accumulati in anni di incessante visitazione di tutti i luoghi, deputati e non, della comunicazione, alla fine è stata più forte di una di quelle operazioni di camaleontismo che ha portato Eco a cavalcare numerose tigri 257
del nostro circo intellettuale, salvo a saltarne abilmente giù,
con semiotiche piroette, prima che rientrassero nel serraglio. Per questa ragione I! pendolo di Foucault è un’operazione romanzesca molto ambiziosa e molto arrischiata in cui egli ha messo in gioco tutto se stesso. Solo che la tigre del romanzo sembra essere un po” meno domabile dei teoremi estetici e semiologici, di avanguardia e non, al pur sagace domatore. La storia dei tre redattori di casa editrice, Belbo, Casau-
bon, Diotallevi, che per divertimento intellettuale inventano il «Piano» che risale addirittura ai Templari, ma che il colonnello Ardenti e poi via via tutti gli altri, da Agliè a Bramanti a Garamond, caricano invece di inquiétanti risvolti cospirativi contemporanei, ha i suoi bravi momenti di sviluppo e i suoi canonici movimenti nello spazio e nel tempo che il flashback garantisce: regressioni memoriali molto suggestive nelle Langhe durante la Resistenza (persino con una eco pavesiana da La luna e i falò); puntate in Brasile, dove sì tra-
sferisce per un certo periodo Casaubon in compagnia della bellissima Amparo e dove conosce l’enigmatico Agliè; una «ventrale » Parigi in cui il gioco sì compie tragicamente. Il finale ci riserva una specie di trionfo della morte. All’interno del Conservatoire, in un crescendo sabbatico, muoiono Lorenza, vittima sacrificale innocente e inutile, e, impiccato al
pendolo, Belbo che si prende la sua rivincita lanciando agli assatanati aguzzini, guidati dal non più enigmatico Agliè, l’irridente e goliardica battuta: «Ma gavte la nata» (che i piemontesi di una volta ben conoscono e che tradotta nei termini attuali dell’informazione suonerebbe: ma datti una calmata, perdendo però tutta l’espressività ironica); muore, ma di malattia, Diotallevij; e Casaubon che, nascosto al Conservatoire, ha assistito alla tragica farsa della morte di Lorenza
e di Belbo, anche lui difficilmente sfuggirà all’assurda logica del « Piano », inesistente eppure crudele esattore di vittime. Su questa ampia impalcatura Eco ha gettato la sua costruzione usufruendo della enorme raccolta di materiali accumulati durante le ricognizioni nei vari campi del sapere e della tradizione che la sfrenata curiosità gli ha via via suggerito. E trattandosi di curiosità intellettuale, Z/ pendolo di Foucault abbonda di cultura, di citazioni di prima e di 258
«seconda mano» (secondo la definizione che ne ha dato uno
studioso belga, Antoine Compagnon, in un bel libro sulla citazione, non di citazioni: La seconde main), di rinvii, come se
fosse una immensa enciclopedia tematica spaziante fra l’esoterismo, le scienze occulte e le società segrete sullo sfondo di talune aberranti manifestazioni del nostro tempo. La straordinaria capacità di sfruttare l’erudizione senza passare per un erudito, ha dato al romanziere Eco un carattere singolare: pur padroneggiando una immensa dottrina, non ha le stimmate dell’intellettuale; pratica discipline difficili come la semiologia e la filosofia medioevale, ma non intimidisce: in questo senso è il classico intellettuale organico che, di meta-. morfosi in metamorfosi, si è trasformato in un intellettuale
funzionale che parla con dignità di stile e ironia il linguaggio corrente dell’informazione. A fare la differenza è, dunque, solo una questione di ade-
guamento linguistico che egli ha saputo compiere e gli altri no, 0 poco e in malo modo? Eco può anche realizzare prodotti letterari che non convincano appieno come // nome della rosa prima e Il pendolo di Foucault adesso, perché interiormente carenti l’uno e l’altro, nonostante l’enorme apparato dottrinario sfoggiato con dovizia, anzi, scialato magnanimamente, ma bisogna riconoscergli che è uno dei rari scrittori italiani che abbia saputo addentrarsi attraverso i meandri del romanzesco, rivelando il coraggio di sfidare e di misurarsi con quel complicato meccanismo che passa dal sublime al banale quando la realtà è inventata. Citati, nella sua reprimenda, rilevava che le idee di Eco non sono originali e ricordava The Recognitions dell’americano William Gaddis (in italiano è Le perizie, pubblicato anni fa in una collana diretta da Vittorini, e ha stazionato a
lungo sui banchi dei Remainders) e A che punto è la notte di Fruttero e Lucentini. Su questo piano a me pare che un esempio più pertinente e che presenta analogie strutturali avrebbe potuto semmai essere La donna della domenica del duo F&L (che a Citati era tanto piaciuto, a differenza del Pendolo di Foucault), a cui difettava, però, e sempre secondo
il mio «debol» parere (ancora un richiamo manzoniano sempre in chiave ironica), la spregiudicatezza e il coraggio della 259
contaminazione linguistica che Eco aveva e ha dimostrato di possedere in somma misura. Del resto la sua cultura ha un fondamento ironico e non è neppure esente da aspetti goliardici che, specie in questo romanzo, egli non occulta affatto,
anzi, esibisce in quel luogo deputato che è il bar di Pilade, frequentato, sì, con la curiosità di scoprire impreviste relazioni fra i segni della comunicazione, ma anche con un non dissimulato piacere. In una «bustina di Minerva» sull’« Espresso », una volta Eco ha gustosamente rievocato i suoi anni universitari torinesi e le serate passate tra avanspettacolo e Teatro Carignano. Quello spirito gli è rimasto, e nel Pendolo di Foucault circola a far da controcanto alle esigenze strutturali. Spirito che, naturalmente, si è innervato e maturato nel tempo percorrendo sterminate biblioteche dove ha fatto incontri capitali. In una lettera del 1977 dall’America al suo editore e un tempo datore di lavoro, Valentino Bompiani, confessava: «Qui sto vivendo la mia Montagna incantata: in un campus tutto gotico, con una biblioteca di otto milioni di volumi...» (si trova in Caro Bompiani. Lettere con l’editore). Bo a questo proposito ha ricordato i flaubertiani Bouvard e Pécuchet, dando così patente di dignità alla goliardia di Eco. Io ci aggiungerei anche, sia pure alla lontana, una reminiscenza del 7ristram Shandy di Sterne che, curiosamente per un teorico dell’opera aperta, non sembra rientrare fra le sue frequentazioni abituali (troviamo però un passaggio significativo e rivelatore su Sterne in Sugli specchi). Infatti un 7ristram Shandy di oggi potrebbe uscire solo dai dischetti di un Abulafia. Il fatto che parlando del Pendolo di Foucault si sovrappongano l’una all’altra tutte queste considerazioni non significa automaticamente che tutto fili liscio, ossia che Eco sia
riuscito a trasferire nel suo romanzo il perfetto movimento del pendolo. Che la macchina narrativa funzioni a me pare fuori discussione, ma altrettanto francamente mi sembra che
resti un po’ scoperto il meccanismo del gioco. Forse manca quell’ultima mano di scrittura che leviga la superficie romanzesca, che la rende letteratura anche a costo di estraniar-
la. Ma, ancora forse, Eco ha volontariamente negato al suo romanzo questo ultimo passaggio, pur sapendo che il prezzo 260
che avrebbe pagato era di rimanere un romanziere impuro. Nella costruzione si sente, nonostante tutto, prevalere l’intel-
lettuale sullo scrittore, l’abilità sulla leggerezza, il progetto sulla realizzazione. Eppure, dopo // nome della rosa e le precedenti teorizzazioni sul romanzo popolare contenute nel Superuomo di massa, era inevitabile che Eco misurasse i suoi strumenti espressivi con la mostruosità romanzesca. In tal senso // pendolo di Foucaùlt è come una tesi di laurea in romanzesco che egli ha scritto allo stesso modo del giovane laureando di Alessandria che segue i consigli di Come si fa una tes di laurea, testo propedeutico indispensabile per capire la sublimazione della teoria del romanzo nell’impuro romanzesco di Umberto Eco. A parlare del Pendolo di Foucault non la si smetterebbe più. Sembra quasi che, come nella finzione romanzesca, an-
che noi ci troviamo da Pilade. L'immagine non è originale né attuale: basterebbe infatti pensare all’illuministica bottega di Demetrio avviata da Pietro Verri con « Il Caffè ». Comunque immaginiamoci sistemati a un tavolo o al banco del locale a discorrere di letteratura tra confusione, rumore e fumo; la conversazione, a seconda dei temi, svaria, sì allarga o sì re-
stringe, favorita o impedita dall’andirivieni dei numerosi frequentatori del locale, i quali, da interlocutori, diventano a lo-
ro volta protagonisti del discorso. Perché, in definitiva, non tutta la letteratura italiana, sia pure solo quella pubblicata in questo «anno del pendolo» 1988, si esaurisce con Eco e in Eco, né nelle recriminazioni sull’immoralità del costume edi-
torial-giornalistico. Anzi, diciamo pure che continua al di là delle considerazioni moralistiche e polemiche ed esprime una sua dinamicità attraverso opere che non sono solo oggetti di pura consumazione commerciale, ma libri che provocano sollecitazioni e che si inseriscono in una prospettiva culturale. Poco importa che questi fermenti siano isolati, non facciano coagulo e debbano essere rintracciati individualmente. Troppe volte abbiamo visto poetiche dalle problematiche agguerrite svuotarsi rapidamente e gruppi dissolversi nel nulla per mancanza di una vera coesione intellettuale non dettata soltanto da interessi contingenti. Sotto questo aspetto la letteratura è imprevedibile, riserva sorprese, non accetta regole pre261
costituite di comportamento e lascia campo aperto all’individualismo creativo che poi rifluisce in un alveo comune attraverso passaggi impensati. Una caratteristica comune tra gli svariati ed eterogenei materiali che compongono il complesso del panorama letterario attuale, per esempio c’è, ed emerge proprio quando il discorso critico arriva, inevitabilmente, a confrontarsi con le ra-
gioni della letteratura. Infatti i libri di cui si è parlato di più durante l’anno, che più hanno fatto discutere, e pensiamo soprattutto a quelli di Eco, di Calvino, di Bufalino, di Mora-
via, ma non solo a questi, sono tutti libri che, sia pure in maniera e con motivazioni diverse, hanno posto in primo piano il senso del fare letteratura oggi e in quale direzione orientarla. Anche nel caso di Eco, che pure ha dovuto rispondere ad altre sollecitazioni esterne, il problema di fondo, alla fine,
ha ruotato attorno all’irrisolta domanda di dove vada la letteratura. Perché scrivere potrà sembrare un atto decadente, se non decaduto; e noi possiamo, se ci piace, negare che la scrittura abbia ancora effettivamente il potere di incidere sensibilmente su un tessuto sociale condizionato dall’influenza di altre suggestioni e da interessi diversi: eppure, come ha ricordato Italo Calvino nelle sue Lezioni americane, «ci sono cose
che solo la letteratura può dare con i suoi mezzi specifici ». Certo le « cose » della letteratura non sono quantificabili con i parametri dei mass-media, e i «suoi mezzi specifici » operano in altri campi e con altri strumenti. Proprio Calvino nel suo libro postumo ne elencava alcuni. Le Lezioni americane è un libro che si presenta a più facce, e che può essere letto in molti modi. Come raccolta di lezioni-conferenze che l’autore avrebbe dovuto tenere all’uditorio ristretto e selezionato delle Charles Eliot Norton Poetry Lectures dell’Università di Harvard, ha densità culturale ma
anche un tono confidenziale da autobiografia intellettuale. Il tema fondamentale è quello della letteratura e del ruolo che ha e che potrà avere nell’ormai prossimo nuovo millennio, tuttavia è intriso di continuo da considerazioni filosofiche più portate, però, sul versante della scienza che dell’estetica. In questo senso riflette adamantinamente le caratteristiche essenziali del suo autore e il tratto inconfondibile del suo stile. 262
Ma il senso vero di questo libro postumo e incompiuto (Calvino non aveva ancora scritto l’ultima lezione; non 'solo, ma
sappiamo che aveva accumulato altri materiali per, chissà, ampliarlo al di là dell’occasione accademica), neppure stilisticamente finito (se pensiamo alla cura che poneva nel tendere all’essenzialità e alla precisione nell’uso della parola, da cui derivano il tratto e la funzionalità della sua scrittura), il suo senso è nel progetto di indicare quale potrà essere doma-
ni la letteratura e su quali valori puntare. Nulla di precettistico, poiché Calvino ne era costituzionalmente esente, ma fiducia in un rapporto con il linguaggio che risiede in una constatazione di fatto: la letteratura si salverà se andrà in direzione opposta a quella imboccata dalla nostra società attuale con i suoi feticci moralistici e tecnologici. In altre parole, una letteratura libera e critica che si muova senza limiti nello spazio infinito dell’intelligenza e con la sconfinata ambizione che nessun obiettivo le è precluso; anzi, maggiore è la portata della propria coscienza e più alto sarà il risultato, poiché solo questa sfida assoluta al mondo potrà dare domani un senso all’esercizio dello scrivere. Ma, se questi sono i presupposti su cui poggia il progetto, come realizzarlo? Come farla questa letteratura? Calvino da un certo momento, diciamo da La giornata di uno scrutatore in poi, è passato attraverso questo processo della prassi creativa e lo ha testimoniato proprio in alcuni passaggi delle Lezioni americane. (Ma varrà la pena di tenere presente in questo appunto sul Calvino ideologo letterario anche gli scritti sul genere favolistico riuniti da Mario Lavagetto nel volume Sulla fiaba.) Però il problema non era e non è limitato al suo caso personale, anche se lui lo ha vissuto con particolare intensità. Il fatto è che oggi si rischia di scrivere in uno stato di libertà condizionata e lo scrittore sente il peso di questo dilemma che non è soltanto ideologico. Per numerosi scrittori è come affrontare l’essenza stessa dello scrivere. Prendiamo, per primo, il caso di Gesualdo Bufalino. Il suo romanzo Le menzogne della notte è stato uno dei libri di richiamo dell’annata: premiato allo Strega, ammirato per la seduzione che esercita la sua scrittura armoniosa, osannato per la sapiente struttura dell’impianto narrativo, 263
Le menzogne della notte è senza dubbio l’esempio scrittorio di quell’alta concezione della letteratura che Bufalino ha sempre dimostrato di coltivare in ogni genere che abbia affrontato, dalla narrativa alla poesia, dalla riflessione critica e aforistica alla traduzione, non nascondendo mai le fonti clas-
siche a cui si ispira. Anche in questo caso, sia la simmetria
strutturale del racconto, con il coup de théatre finale, sia il
linguaggio, ora inventato ora riciclato per dare credibilità alla narrazione, conferiscono al romanzo il crisma della lette-
rarietà assoluta. Eppure il risultato finale è più vicino all’esercizio di stile, e per di più anche compiaciuto (come il risvolto di presentazione di chiara marca bufaliniana induce a sospettare), che a una resa romanzesca quale la storia dell’ultima notte di quattro condannati a morte avrebbe potuto sortire. La drammaticità della situazione è resa con leggerezza, trattata con partecipazione e' distacco ironici, non vi è
nulla di lutulento, ma non vi è neppure quel senso tragico della morte che invece pervadeva l’irrepetibile Diceria dell’untore. Bufalino è scrittore di grandi risorse e di estreme eleganze. In Diceria dell’untore la risorsa del dolore e della malattia annullava nella pagina ogni residuo di intenzionalità, nelle Menzogne della notte trionfa invece l’eleganza che non riesce a sublimare il disegno intellettuale. Il rischio è sempre in agguato, se vi cade persino uno scrittore come Bufalino; e miete continuamente vittime illu-
stri: basti pensare al secondo libro di Marta
Morazzoni,
L'invenzione della verità, e di Marisa Volpi, Nonamore, su
cui pesa in modo stico che nessun quanto finezza e è però letteratura
irrimediabile il peccato originale manieritrucco strutturale potrà mai rimettere. Per cultura siano innegabili in entrambi i libri, che gira su se stessa, e che in essa sì esaurisce: e così non abbiamo né romanzo con la Morazzoni né racconto con la Volpi, ma la datata prosa d’arte. Il meccanismo dell’idea, invece, non sovrasta mai il narrare moraviano, né vi affiora. Come Moravia stesso non si stanca di ripetere, i suoi romanzi nascono da situazioni e, di
conseguenza, la loro efficacia rappresentativa deriva dal susseguirsi dei fatti stessi, dal comportamento dei personaggi. La scrittura di Moravia, essendo diretta e non allusiva, fini264
sce per focalizzare l’essenza degli aspetti narrativi che mette in moto, i quali non sempre, come è capitato ultimamente, risultano convincenti. Ma questi risultati alterni derivano anche dalla ripetitività esasperata del tema sessuale che ha caratterizzato un po’ tutta la narrativa moraviana di questi ultimi anni. In Viaggio a Roma, invece, pur facendo emergere l'ossessione incestuosa del protagonista (il giovane Mario che da Parigi viene a Roma per rivedere il padre e si ritrova a desiderare le donne più diverse ma nelle quali identifica sempre la madre), il racconto si introduce anche negli interni famigliari e tra le pieghe dei caratteri dando vita a un mondo o, per lo meno, a uno spaccato di umanità come da tempo non trovavamo nei romanzi moraviani. Il giovane Mario di oggi e l’adolescente Agostino degli anni Quaranta sembrano avere un filo diretto che li lega, anche se la resa e il fascino poetici sono diversi e a vantaggio del secondo. Tuttavia, se questo legame interno innegabile può dare conferma all’idea globale di opera, in realtà è perché Moravia ha sempre battagliato con quello che Giacomo Debenedetti ha definito il personaggio-uomo e ha cercato di coglierne le manifestazioni vissute, anche se non sempre espresse. I romanzi di Moravia sono specchi comportamentali dove si riflettono tabù e trasgressioni: in questa sequenza, sesso e incesto di Viaggio a Roma riflettono lo stadio attuale dell’incertezza umana. In questo quadro vediamo ora le considerazioni che si possono fare per i due volumi di racconti di Raffaele La Capria e Luigi Malerba. Nel caso di La Capria, La neve del Vesuvio, abbiamo una serie di racconti concatenati e incen-
trati sull’apprendistato alla vita del protagonista, il bambino Tonino, in una Napoli pre-bellica ma su cui aleggia ormai lo spettro della guerra, che alla fine fanno blocco, romanzo. Ìl libro si caratterizza, al di là delle situazioni narrate, perché trova una sua precisa collocazione nel disegno complessivo dell’opera di La Capria: si situa infatti nel periodo dell’infanzia, la zona che ancora risultava scoperta nella vita di quell’unico personaggio che ritorna in tutti i suoi libri. A questo punto, il B:/dungsroman che egli viene componendo libro dopo libro, a partire da Un giorno d’impazienza del 1952, potrebbe anche essere diacronicamente concluso. Ma 265
sarebbe incompleta l’informazione se non venisse sottolineata anche la congruità del linguaggio e la sua specificità riferita appunto alla diversità dei momenti della vita narrati. (Poiché . siamo nell’ambito della « napoletanità » e non della « napoletaneria», categoria distintiva fondamentale, vorrei aprire una parentesi per ricordare il romanzo di Fabrizia Ramondino, Un giorno e mezzo, che sembrerebbe richiamarsi, almeno
nel titolo, a Un giorno d’impazienza di La Capria. Ma più che all’analogia titolistica sì può pensare a un accostamento di atmosfere sul comune sfondo della città: la Napoli del dopoguerra in La Capria e quella del °68 nella Ramondino.) Meno lineare e più magmatico risulta invece il disegno globale di Malerba. Tuttavia i racconti di Testa d’argento, che vengono dopo il denso romanzo // pianeta azzurro, ci consentono di vedere nel loro insieme sfaccettato il carattere originale della sua presenza letteraria. I racconti non riflettono solo la varietà dei suoi interessi narrativi, qui esemplati attraverso il rinnovarsi continuo delle situazioni da cui prendono l’avvio e dell’alternarsi dei personaggi, ma anche le variazioni di un linguaggio che, muovendosi tra fantastico e grottesco, tra paradosso e puntiglio critico, gli ha consentito di spostarsi fra latitudini molto estese, anche se il marchio malerbiano inconfondibile rimane il tratto ironico di una scrittura graffiante e incisiva. Il rapporto fra singolo testo e visione globale dell’opera è solo uno dei punti di osservazione per saggiare la consistenza della letterarietà, ma può risultare significativo quando il progetto mette poi in evidenza gli aspetti volontaristici irrisolti. Abbiamo già visto i risultati contraddittori di alcuni scrittori pur dotati di notevole intelligenza e impegno. Mantenendoci sempre su questo discrimine, potremmo continuare ricordando Bau-sète! di Luigi Meneghello, un romanzo in cui la necessità interiore non pregiudica l’atto della scrittura, anzi, lo provoca, facendone derivare un’opera di grande freschezza stilistica e libertà inventiva. Perché il tema da cui parte Meneghello è dei più vieti e scontati: la rievocazione del nostro dopoguerra attraverso i ricordi di un giovane sembrerebbe rientrare o in una situazione neorealistica o di prosa della memoria (come un po’ era avvenuto con / piccoli mae266
stri, di cui il presente romanzo sembra il seguito). Invece, ne
siamo lontani, perché nella scrittura di Bau-sète/ non c'è mai nulla di descrittivo ma un continuo movimento di invenzione;
così come la memoria è esente da indugi patetici e da concessioni rievocative ed è, invece, puro racconto. Nella narrazio-
ne di Meneghello la finitezza stilistica elimina ogni sospetto meccanicistico, e pure sappiamo quanta ricerca linguistica la preceda. Ma, oltre a questa constatazione di stile, si può anche osservare come di libro in libro l’opera di Meneghello si vada costituendo come un sistema compiuto attorno a un nucleo originario che è dato, sì, geograficamente, da un luogo, Malo, ma che è allo stesso tempo storia, realtà, lingua; e
questo luogo è vissuto e raccontato dall’interno da un « cronista» (in senso alto) d’eccezione, il quale per riuscire nel suo intento sì è dato, prima di tutto, un corrispettivo linguistico altrettanto variegato. Per analogia, potremmo dire che è un po’ quanto ha fatto un altro scrittore, veneto anche lui come Meneghello, il poeta Andrea Zanzotto. Zanzotto ha sempre caratterizzato la sua ricerca poetica verso una definizione di quel senso originario e nascosto delle cose che l’evolversi della civiltà è andato costantemente annullando, depauperandole della loro naturalezza. Questo processo irreversibile di impoverimento della nostra essenza si ripercuote in modo particolare sulla lingua, che è delle attività umane il momento privilegiato della trasmissione della conoscenza. Calvino ha parlato di « peste del linguaggio» e, per quanto riguarda la scrittura, indicato nella «genericità » la sua «piaga peggiore ». Zanzotto, con il proprio procedere ostinato e solitario, sì è spinto proprio a preservare nella sua poesia in lingua e in dialetto, ma strettamente connaturati, come testimonia la nuova edizione di Ft/ò, il linguaggio dal contagio pestilenziale e, nell’atto successivo della scrittura, a salvaguardare inalterato nelle parole quello specifico espressivo che sconfigge appunto la genericità. Si tratta di un atto che garantisce alla letteratura quella presenza insostituibile di cui parlava Calvino, ma, aggiungerei anche che la sua portata è più ampia per il processo di reazione che provoca e non destinato ad arrestarsi alla sola espressività a livello della letteratura. 267
Occupare oggi lo spazio letterario è difficile perché è sempre più limitato. Quel «punto in cui nulla più si rivela», di cui parlava Maurice Blanchot nel Livre à venir, si è ancor più allontanato sul nostro orizzonte. Se ci affidiamo al solo materiale contenutistico abbiamo a disposizione capacità rappresentative assai ridotte perché tutto è già stato detto; rimane ancora il linguaggio, con le sue infinite possibilità di sopravvivenza a piaghe e peste, a presidiare il fortino della letteratura, inespugnabile ancorché costantemente attaccato. È questo estremo dominio che consente per esempio a Roberto Calasso di rivisitare in Le nozze di Cadmo e Armonia episodi che appartengono alla mitologia come se si trattasse, non di leggende, ma dei più scottanti problemi del nostro tempo. Per quale ragione e in che modo? Inutile pensare di riproporne l’epicità mitologica, né, tanto meno, di risolvere il problema con l’ennesimo saggio descrittivo: restava la strada di una narrazione oggettiva, ma articolata ed estesa, che riproponesse nella sua complessità i caratteri universali e atemporali della vita degli dei, a cui la fantasia umana ha sempre prestato il massimo del rispetto e, nello stesso tempo, dell’invidia quando ha cercato illusoriamente di identificarvisi. Con l’uso di un linguaggio digressivo, Calasso ha rovesciato il problema: l’interrogativo non è posto tanto sulla veridicità di ciò che egli narra dal suo punto di vista, che, trattandosi di mitologia, sarebbe di per sé già importante, quanto sull’essenza del rapporto umano-divino. Ne è venuto fuori un libro che non è la testimonianza di un'ulteriore fuga della mente umana nell’immaginario divino, ma gli atti di un processo fantastico che ha come imputato il perdurante mistero del senso della divinità che nessuna tecnologia umana è in grado di spiegare. Come già aveva fatto con La rovina di Kasch, che conserva nella memoria del lettore un posto privilegiato e inattaccabile, Calasso ha impostato la propria scrittura sul piano di un racconto che attinge a dati oggettivi, non importa se reali o meno, ma che poi proietta nello spazio infinito e fantastico della mente. Il problema della letteratura lo troviamo ancora riproposto in alcune raccolte di versi che sembrerebbero aver risolto nell’ambito dell’essenzialità poetica ogni loro problema 268
espressivo. In realtà, il modo in cui Giovanni Raboni ha ripercorso in A tanto caro sangue il proprio cammino di poeta senza esibirlo in una antologia personale, ma dando vita a un vero e proprio libro nuovo, sta a dimostrare come ogni scrittore viva il rapporto con il proprio linguaggio in maniera esclusiva e assoluta. I conti non si chiudono giorno per giorno, ma restano aperti sul piano dell’opera che non esiste come successione di eventi staccati, bensì è un complesso di relazioni in cui l’aspetto creativo ingloba il disegno del libro come massima realizzazione di sé. A tanto caro sangue ripropone perciò la poesia raboniana nel suo insieme esemplare e come esperienza individuale del poeta, ma propone anche il documento di un modo di concepire problematicamente la letteratura. Questa doppia valenza di un testo che abbiamo visto articolarsi tra struttura e stile, tra libro e opera, la troviamo anche nella Camera da letto. Libro secondo di Attilio Bertolucci. In che senso, questa volta? Qui il problema è riversato sul ruolo della parola poetica e del suo manifestarsi come elemento compositivo del tutto. Bertolucci ha avviato con questo libro în progress un romanzo in versi. Per le sue dimensioni e per la sua ambizione rappresentativa della gens bertolucciana, La camera da leito, non ha riscontro nella nostra poesia contemporanea, pur percorsa da vene narrative perseguite allo scopo di liberarsi dall’opprimente cappio lirico. Ma nel caso del poema di Bertolucci, il discorso non è tecnico alla maniera della poesia-racconto di Pavese, né venato di polemica anti-lirica, poiché l’impegno poetico va commisurato alla visione della vita che esprime e deve perciò essere rapportato a quella specie di cosmogonia domestica quale potrebbe risultare alla fine La camera da letto. Per giungere a questo punto, il poeta fantazsiste dei giovanili Sirio e Fuochi di novembre ha operato sulla propria pelle un rivolgimento radicale che è passato attraverso le tappe capitali della definizione del suo stesso essere poeta e poi di come potesse ancora scrivere poesia che lo ha portato alla scelta del «romanzo in versi», già anticipato in Viaggio d’inverno. Al di là dei pur certi esiti poetici che questa autobiografia per immagini ha conseguito, La camera da letto si impone anche per i suoi 269
aspetti innovativi indicabili in un sempre più distillato e quintessenziato dettato poetico da un lato e, dall’altro, nella sequenza narrativa imposta ai versi che si susseguono l’un l’altro con una vitalità sorprendente, senza cadute né attimi di inerzia. Questa scorribanda tra libri che nell’offrirsi alla lettura ponevano anche il problema del loro costituirsi all’interno di un progetto, conscio o inconscio non importa, in rapporto alla visione di un’opera in fieri, ci ha portato a vedere in primo piano la letteratura come fatto espressivo in sé, piuttosto che a seguirne le manifestazioni canoniche attraverso i generi a cui pure si deve prima o poi riferire una rassegna che non si sottragga alle proprie responsabilità informative. Tuttavia questi aspetti problematici sono rivelatori dell’esistenza di un filo sotterraneo che tiene assieme la letteratura al di là del suo svolgersi un po’ di routine a cui la condanna la ferrea logica editoriale e meritavano perciò di essere segnalati, testi alla mano. Ovviamente le scelte e le indicazioni sin qui fatte, che,
per quanto cerchino di rispondere a un criterio di obiettività, sono pur sempre personali, non riflettono tutto ciò che di buono e di cattivo la letteratura italiana ha espresso in questo 1988, tuttavia ne presentano uno spaccato problematico assai significativo di temi e indirizzi che hanno offerto spunti non trascurabili alla riflessione critica. Se vi aggiungiamo ancora il contributo specifico del dibattito attorno alle questioni della nostra lingua che ha animato le pagine culturali di quotidiani ed ebdomadari (sull’« Espresso» Tullio De Mauro ha assunto una rubrica settimanale, «Il paroliere»), segnalando
almeno i volumi di alcuni studiosi che seguono costantemente l'evolversi dei fenomeni linguistici, e pensiamo a Italiano di Gian Luigi Beccaria, Italiano e no di Tristano Bolelli, Scrivendo & parlando di Luciano Satta, il panorama si allarga e si arricchisce ulteriormente, ma non risulta ancora esaurien-
te sotto il profilo informativo. Altri libri, altri scrittori vanno allora segnalati, sia pure schematicamente. Per quanto riguarda la sempre superaffollata narrativa mettiamo in primo piano il romanzo postumo di Giovanni Arpino, La trappola amorosa (e la ristampa dell’introvabile e 270
rifiutata sua prima prova narrativa, Sei stato felice, Giovan-
ni); e poi Ribes di Nico Orengo, Effetti personali di Francesca Duranti, Dormiveglia di Giuseppe Bonaviri, In exitu di Giovanni Testori, // caldèras di Carlo Sgorlon. Ricordo anche Il cavaliere e la morte di Leonardo Sciascia, ma per dire come, al di là di uno standard di scrittura ormai collaudato,
lo abbia trovato ripetitivo proprio in quello schema di racconto che, a mio avviso, ben altrimenti risultava intrigante in
Todo modo e Il contesto. Faccio poi seguire alcuni volumi di racconti che mi paiono particolarmente significativi anche nel quadro della storia dei loro autori: apriamo con la raccolta postuma di Maria Bellonci, Segni sul muro, ma in particolare vorrei segnalare l’ammirevole Amici di Romano Bi-
lenchi; e in seguito Le pietre di Pantalica di Vincenzo Consolo, L’Acropoli di Claudio Marabini, la nuova edizione ar-
| ricchita di testi inediti del Gioco al rovescio di Antonio Tabucchi, Nel museo di Reims di Daniele Del Giudice e Una
misteriosa felicità di Alberto Bevilacqua. Va registrato l’annuale esordio di alcuni giovani scrittori abbastanza promettenti, ma da attendere al vaglio della seconda prova: si tratta di Paola Capriolo, Edoardo Albinati, Mario Fortunato, Sandro Veronesi, Marco Ferrari, Maurizio Cohen. Mentre ri-
sulta meno scontato quello di due critici e studiosi già affermati quali Lorenzo Mondo con / padri delle colline e Stefano Jacomuzzi con Un vento sottile. Dopo tanta attualità mi sia consentito di ricordare anche alcuni scrittori che il tempo ha fatto ingiustamente dimenticare e che ogni tanto tornano a suggerirci di stare in guardia dagli eccessi di entusiasmo e a ricordarci quanto sia effimera la fortuna letteraria: pensiamo all’interesse sollevato da // soldato postumo di Marcello Gallian, dal primo, e rimasto fino a oggi inedito, romanzo
di
Raffaello Brignetti, Acrimonia, dai racconti riuniti e presentati da Carlo Bo di Enrico Emanuelli, Ancora la vita.
La discrezione dei poeti è nota e la loro presenza rispetto ai narratori è più discreta anche se numericamente fanno sentire il peso della categoria. Ma non di quantità qui sì tratta, bensì di qualità e perciò la selezione diventa falcidia per far risaltare meglio coloro che hanno veramente qualcosa da dire: Antonio
Porta, Il giardiniere contro
il becchino, 271
Giuseppe Conte, Le stagioni, Nico Naldini, La curva di San Floreano, Luciana Frezza, 24 pezzi facili, Elio Filippo Accrocca, Poesie. La distanza degli anni (1942-1987), Amelia Rosselli, Anfologia poetica, Piero Bigongiari, Diario americano 1987, e infine l’esordio come poeta di uno studioso riservato e schivo che pochi fortunati conoscevano come scrittore in versi: Michele Ranchetti con La mente musicale. Ma non posso chiudere questo breve spazio dedicato alla poesia senza ricordare i nuovi libri di due poeti dialettali fra i maggiori di oggi: L’oter di Franca Grisoni e Liber di Franco Loi. Il panorama critico-saggistico sembra più smorto rispetto a certi esaltanti momenti di anni passati, se sì eccettuano le nuove raccolte di saggi di Ezio Raimondi, Il volto nelle parole, di Carlo Dionisotti, Appunti sui moderni, gli Ultimi esercizi ed elzeviri di Gianfranco Contini, la ristampa, ma che è
una novità se pensiamo che la prima edizione risale al 1939, del Baudelaire critico di Giovanni Macchia; le riproposte dei fortunati Scrittori e popolo, a cui Alberto Asor Rosa ha premesso uno scritto retrospettivo, e Il mito absburgico, il primo libro di Claudio Magris che ha aperto l’orizzonte mitteleuropeo. Avrebbe potuto essere una ghiotta lettura, il libro di Giulio Einaudi, Frammenti di memoria, se la sua memoria
non risultasse nelle pagine del libro troppo frammentaria e a volte anche cattiva: peccato, perché avrebbe potuto essere una buona occasione per rivisitare mezzo secolo di cultura italiana, almeno quella che è transitata attraverso la casa editrice Einaudi e che non è poca né trascurabile. Meglio ha fatto Valentino Bompiani affidandosi a una scelta del vasto epistolario che ha tenuto con i propri autori: Caro Bompiani. Lettere con l’editore, è un libro utile per le informazioni e le notizie che sì possono ricavare, non uno stucchevole omaggio all’attività editoriale. E dato che siamo in tema di epistolari, godiamoci le lettere di Carlo Emilio Gadda a Contini, postillate da par suo dal destinatario stesso (Lettere a Gianfranco Contini) e quelle di Cesare Zavattini, Una, cento, mille lette-
re. Ci sono poi due testimonianze che vorrei citare anche se, premetto, non ne condivido totalmente l’acre tono polemico: sì tratta di Viaggi in Italia di Saverio Vertone e di Pasqua di maggio. Un diario pessimista di Goffredo Fofi. Eppure, no2a
nostante la premessa, il fondo del loro moralismo e della loro protesta fa parte di uno spirito che non vorremmo mai venisse a mancare. Concludo con i classici e con due esempi sul modo di leggerli. Il primo riguarda l’Edizione Nazionale delle Opere di Giovanni Verga che Le Monnier viene pubblicando con la direzione di Francesco Branciforti e che finalmente ci darà
dello scrittore siciliano quella visione di completezza che per troppe ragioni era finora mancata (quest'anno è apparso il volume con ì romanzi giovanili / carbonari della montagna e Sulle lagune, a cura di Rita Verdirame). Ma una Edizione Nazionale deve per forza rispondere a dei criteri critici e testuali che a volte rischiano di imbalsamare i testi. Non è il caso dell’edizione verghiana, e proprio per questa ragione vorremmo accostarvi la singolare lettura della Divina Commedia condotta da Vittorio Sermonti con la supervisione di Contini (L’Inferno di Dante). Da più parti si è gridato al miracolo per questo volume anomalo che ha il grande merito di metterci a contatto con il poema dantesco senza essere annichiliti dagli apparati. Sermonti è fine scrittore in proprio e quindi la sua lettura (ché di vera lettura si tratta, avendola
egli stesso eseguita alla radio), è condotta con libertà espressiva, ma che può derivare solo da una conoscenza e da una pratica rigorosa del testo associata a una capacità di trasformare il discorso tecnico in un discorso affabilmente critico. Senza nulla togliere alla filologia né sopravvalutando il lavoro di Sermonti (come taluni tendono a fare), questo può essere un modo per farci riaccostare ai testi classici, leggerli, e scoprire che sono sempre meglio dei contemporanei. (Senza alcun intento polemico verso quei male avventurati soloni didattici che vorrebbero eliminare i classici dalla scuola per fare spazio a contenuti di maggiore attualità.)
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1989
«Alla fine della lettura dei romanzi d’oggi, uno si chiede: perché li hanno scritti?» Le discussioni sulla scelta dei cinque libri che avrebbero dovuto vincere il Premio Campiello 1989, per disputarsi il Super Campiello finale a settembre (ottenuto poi meritatamente da Francesca Duranti con Effetti personali), stavano procedendo stancamente in un sabato già afoso di primo giugno con le rituali dichiarazioni pubbliche di voto a favore di questa o quell’opera, subito dopo smentite dai risultati delle votazioni segrete, quando dal ta‘ volo della giuria si percepì l’imbarazzante domanda: « Perché li hanno scritti? ». Venendo dal più silenzioso, ma anche più autorevole dei giurati, Carlo Bo, quelle parole pronunciate con un tono molto basso, quasi appena mormorate, risuonarono però scandite e chiarissime sotto le alte volte della sala dove si teneva la riunione, e si abbatterono come una mazzata su giurati e pubblico, sprigionando una eco destinata a non sopirsi tanto facilmente data la perentorietà dell’interrogazione che andava a toccare lo zoccolo duro delle ragioni della letteratura. Infatti la domanda, che Bo sembrava aver rivolto più a se stesso che a colleghi e pubblico, andava ben oltre la sede dove è stata formulata e. coinvolgeva un po’ tutto lo stato della narrativa di oggi, italiana e non, come ha ribadito poi con maggiore precisione, ma non minore durezza, in un successivo intervento sul «Corriere della Sera» dell’8 giugno: « Manca in quasi tutti il dato capitale del narratore, lo stato di necessità, dico necessità interiore e profonda. Il cervello viene usato soltanto come puro strumento di applicazione. Ma non lo si fa funzionare là e quando dovrebbe, vaZII
le a dire sul campo delle idee e dei sentimenti. Tutto viene giuocato di rimessa, nell’angolo dell’abilità. E di abilità sono dotati quasi tutti... ». Non è la prima volta che Bo, in momenti di confusione e di incertezza come quelli attuali, interviene per richiamare tutti al senso profondo di una attività interiore quale è quella dello scrivere e che va al di là dei dibattiti ideologici o delle polemiche editoriali. Ricordo che sul finire degli anni Cinquanta pubblicò sulla «Stampa» un articolo che fece scalpore per la provocazione esplicita del titolo: « Chiudiamo bottega?», e per talune affermazioni che oggi appaiono divinatorie: era il 9 giugno 1959, quasi esattamente trent'anni prima della presa di posizione di oggi, e dopo aver letto cinque romanzi di quel momento (la coincidenza del numero con la cinquina del Campiello è puramente casuale), Bo, accomunandoli nell’osservanza «a una stessa legge », constatava: «Mancano di una vera ragione, sono libri che non lasciano mai trasparire, neppure per un momento alla
coscienza del lettore la loro ’’necessarietà’’. Ciò che disturba e finisce per accusarli senza pietà è la loro natura gratuita, casuale» e concludeva attestandosi su «una linea di confine implacabile» sulla quale si scrive «quando abbiamo qualcosa da dire e ne siamo convinti o sennò chiudiamo bottega ». Allora come adesso, quelle parole ultimative non passarono inosservate, anche se furono prese per uno scatto di umore, come uno sfogo provocato da un momento di delusione, e furono catalogate più nell’ambito del moralismo culturale che della critica letteraria. Un po’ come si è cercato di fare anche ora, nel tentativo di esorcizzare il fondo della doman-
da con considerazioni moralistiche sui riti della società letteraria nostrana o contrapponendovi alcuni titoli opinabilmente più passabili di altri ed evitando così di andare al cuore del problema. Alla concezione di letteratura sono evidentemente molto sensibili alcuni grandi vecchi, se, poco tempo dopo, il 23 luglio, rispondendo a una intervista su «Panorama», anche Natalino Sapegno ha fatto eco a Bo esprimendo, quasi con le stesse parole, un disagio analogo a proposito di una attività «per molti aspetti, gratuita, non comandata da uno stato di 278
.
necessità, cioè dall’esigenza profonda di esprimersi e di comunicare, che dovrebbe essere sempre l’unica motivazione di uno scrittore ». Le parole del laico Sapegno e del cattolico Bo convergono dunque a dare un senso morale e spirituale definitivo ad altri dibattiti che hanno agitato in questo 1989 le acque della litigiosa società culturale italiana sempre pronta a disquisire sui massimi sistemi ma restia a impegnarsi sui
testi.
Esempi non mancano. Per cominciare, lasciamo perdere l’ormai annosa e stucchevole diatriba sulle recensioni, ravvi-
vata dall’ingresso nell’arengo di un novello giamburrasca che si è attribuito il terribile titolo di « vicario criminale», di seicentesca e manzoniana memoria, e si è nascosto dietro il
pittoresco pseudonimo di Mamurio Lancillotto: assunti titoli e maschera rassicuranti per la bisogna, ha dispensato per circa un anno e mezzo dalle colonne del confindustriale «Sole-24 ore» giudizi e consigli su come fare e pubblicare libri. Non che tutto ciò che scrivesse fosse inutile: si possono condividere sia talune stroncature sia i più rari consensi (per esempio, la sua difesa del Groco delle passioni di Alberto Bevilacqua è per due terzi motivata: ha ragione a sottolineare l'infondatezza critica dell’ostracismo che accompagna lo scrittore e a comparare la sua capacità romanzesca con la pochezza narrativa di taluni degli esempi di cosiddetti giovani scrittori che gli contrappone; ha torto invece quando si avventura in distinzioni stilistiche. Bevilacqua è sicuramente un romanziere dotato, possiede un indiscutibile istinto narrativo, ha innato il gusto di raccontare
storie, e
anche l’ultimo romanzo lo conferma, però non sempre riesce a trovare la giusta coordinazione per non strafare). Ma se non si fosse nascosto dietro l'anonimato nessuno avrebbe preso sul serio Mamurio Lancillotto (che si è poi saputo essere il giornalista dell’« Espresso» Roberto Cotroneo), perché i suoi anatemi, giusti o sbagliati, contavano in quanto
solleticavano la ludica curiosità di sapere chi si celasse dietro quel buffo terribilismo da teatro dei burattini. La curiosità, specie quando è alimentata dal pettegolezzo giornalistico, è molto più forte di qualunque razionale indagine critica che abbia per oggetto la letteratura. 279
Anche questa non è una novità. Sempre una trentina di anni fa, su un famigerato foglio scandalistico, un certo A. G. Solari si dedicava settimanalmente alla sistematica denigrazione di scrittori e opere in uscita. Poiché nessuno lo conosceva, sorse legittima la curiosità di sapere chi fosse. Quando, dopo indagini quasi poliziesche, si scoprì che a servirsi del rispettabile cognome Solari come copertura per portare i suoi affondi stroncatori era il romanziere Giose Rimanelli, indignazione e scandalo si sgonfiarono rapidamente, e quegli articoli, perso ogni alone di mistero, non fecero più alcun effetto. L’Italia non è l’Inghilterra, dove le recensioni sul « Times Literary Supplement» compaiono anonime e ciò che conta è il senso del discorso. Da noi il punto è un altro: se il problema delle recensioni ai libri è mantenuto vivo dall’esibizionismo dei sor Mamurio di turno, noti o ignoti che siano, allora aveva proprio ragione Bo già trent'anni fa, ed è meglio chiudere bottega. Ma questa volta chiudiamola davvero. Non tutti, però, concordano nella valutazione pessimisti-
ca dell’attuale momento letterario, sia pure considerando la situazione da punti di vista differenti e con motivazioni di diversa natura. Per esempio, Pietro Citati è tra questi, ed è anche recidivo. Poco più di un anno fa esaltò lo stato della lingua italiana letteraria (Franco Fortini, per la verità, pur
concordando precisò: « scritta»), corroborando la sua fiducia con esempi tratti dai nostri maggiori poeti d’oggi, ma trascurando del tutto la narrativa, dove invece la lingua entra in un circuito comunicativo più vasto e i problemi si fanno più complessi. Una idea di tale complessità ce l’ha data Luciano Satta riunendo i suoi interventi sul nostro modo di scrivere in Matita rossa e blu. Le sue segnalazioni di errori non sono mai pedantesche ma puntuali, e non prive di ironia; però il garbo non attenua la gravità del problema dello scrivere che passa anche attraverso un corretto uso dei termini senza che ciò significhi attentati all'invenzione. La lezione di Satta riguarda la precisione linguistica senza porre limiti a un movimento in atto di cui Sebastiano Vassalli ha voluto registrare l'andamento, più da scrittore che da lessicografo, in // neotta280
liano dove ha raccontato «le parole degli anni Ottanta» che sono entrate nell’uso comune. Leggendo entrambi i volumi, non mì pare di dover gioire per la nostra lingua sia scritta che parlata: sta sicuramente peggio quella scritta, perché quella parlata qualche barlume di inventività riesce ancora a esprimerlo, sia pure facendo ricorso ad apporti eterogenei da lingue straniere o dai cosiddetti linguaggi settoriali, a meno che l’impressione non sia dovuta alla briosità del racconto linguistico di Vassalli. Chiudiamo la parentesi e torniamo a Citati. i Dopo aver elogiato la lingua, Citati ha ora manifestato tutto il suo compiacimento per la libertà in cui si può muovere oggi chi si occupa di letteratura perché sono finiti i condizionamenti ideologici che ci hanno gravato pesantemente a partire dal 1945. Secondo lui, l’Italia ha ritrovato «la buona cultura» attraverso il gusto recuperato di buone letture: «Oggi leggiamo tutto ciò che è bello e intelligente: Eraclito e Nonno, il Cantico dei Cantici e il Corano, le cronache azte-
che e il capolavoro della storiografia mongola, i mistici sufi e quelli spagnoli, i manichei e Sant'Agostino, Cervantes, Sterne, Dickens, Tolstoj, Cechov, Pessoa, Bernhard...».
Prima
d’ora invece queste letture non erano possibili, perché eravamo impediti da una dittatura culturale sostenuta da una «arcigna, plumbea mescolanza di stalinismo e di filologia classica » e custodita da «i pedagoghi, i profeti, gli interpreti dell'anima popolare... ». Con più eleganza culturale, ma con una fermezza ideologica, benché alla rovescia, analoga a quella dei « pedagoghi» antichi, Citati ha chiuso i conti e liquidato tutta una linea di tendenza della cultura letteraria nostrana che non coincide con il suo gusto e che, a partire dal 1945, è stata al centro del dibattito intellettuale all’insegna dell’« impegno » e comprende Gramsci e « Rinascita », il « Politecnico» vittoriniano e il neorealismo, la dittatura del « Contemporaneo » e di Casa Einaudi, «Officina» e lo strutturalismo, il tutto sfociante, secondo Citati, nel ‘68. La sua sentenza di con-
danna inappellabile poggia sulla constatazione che tutto ciò che è stato fatto in questo ambito manca «dell’estro, della 281
curiosità e dellò spirito d’avventura, che sono propri di qualsiasi cultura vitale». Curiosamente ha omesso solo l’esempio più lampante di terrorismo letterario che sì sia avuto in quegli anni, il Gruppo 63. Forse ha ritenuto che non meritasse di essere incluso nel suo elenco dei cattivi perché non all’altezza. Ma è una mancanza che sorprende o, quanto meno, che stupisce, poiché il polverone sollevato dal Gruppo 63 per qualche tempo ha contribuito a ottenebrare la vista di molti e non ha favorito un organico sviluppo costruttivo del discorso letterario italiano di questi anni. L’apparente spirito goliardico iniziale si tradusse ben presto in una presenza di potere editoriale, pubblicistico, universitario, che andava ad aggiungersi ai potentati già esistenti e contro i quali si è scagliato il risentimento citatiano, per la verità non infondato, specie se ricordiamo l’atteggiamento inquisitorio e arrogante con cui il potere culturale veniva gestito nelle cellule e nelle sezioni editoriali e giornalistiche. Deve comunque circolare una certa nostalgia per quei tempi e quei metodi se, in occasione di un incontro di poeti a Milano, che ha visto riuniti alcuni appartenenti al Gruppo 63 in compagnia di nuovi adepti, c'è stato chi ha proposto di riesumare le antiche gesta e di rifondare un’altra attività culturale organizzata all'insegna del ’93. Come se per ridare vitalità a una letteratura esangue bastasse ricostituire gruppi composti da reduci e nuovi volontari. Fin qui Citati ha ragione. Ne ha meno invece quando esalta la presunta luce di libertà che illuminerebbe questo momento in cui tutti possono leggere i buoni libri che vogliono e spaziare nell’infinito siderale della letteratura senza incontrare alcun padre guardiano con mutria che indichi la strada da seguire, perché anche in quegli anni bui dal punto di vista ambientale non sono mancati i buoni libri da leggere, bastava saperli scegliere proprio come adesso. Secondo la visione di Citati, il momento attuale non è affatto deprecabile e porta a sostegno della propria fiducia, da un lato, le vendite di taluni testi classici e, dall’altro, cinque libri (sempre cin-
que: quasi quasi siamo in presenza di un teorema del cinque), apparsi nel 1988, che basterebbero da soli a smentire i 282
portavoce di sventura. Ma c’è di più: queste opere non sarebbero state concepite nei laboratori della cosiddetta « industria culturale », ma scritte « soltanto per amore della lettératura, o
di quel lettore ideale che ogni scrittore porta con sé, e che vuole ad ogni costo sedurre ». Anche per Citati, dunque, la letteratura si realizza grazie alla spinta di un movente interiore che identifica nell’«amore ». E così nel nome di Gesualdo Bufalino (Le menzogne della notte), Italo Calvino (Lezioni americane), Roberto Calasso (Le nozze di Cadmo e Armonia), Attilio
Bertolucci (La camera da letto. Libro secondo) e Giuseppe Conte (Le stagioni), si realizzerebbe la saldatura ideale fra l’«amore della letteratura » di Citati e «lo stato di necessità » di Bo. Però c’è una bella differenza fra l’edonismo citatiano e l’inquieta domanda, di Bo. Se consideriamo le cinque preferenze di Citati, vediamo che esse vanno a esempi in cui la letteratura è altamente realizzata sul piano formale, ma con un ampio margine concesso all’esercizio retorico e alla maniera, mentre Bo esige uno «stato di necessità » che trova nel risultato non una compiacenza di sé, ma la realizzazione di un disegno spirituale. In questo senso il discorso di Bo va più in là, chiama in causa anche altri valori di cui la letteratura è
l’espressione più alta, e da qui nasce la sua sfiducia verso un esercizio letterario giocato sul tavolo dell’abilità e considerato un mezzo di esibizione retorica e tecnica e non come il fine di una vocazione. L’esempio più evidente di questa diversità nell’esercizio della letteratura ci viene proprio dal romanzo che lo stesso Citati ha scritto con la sua consueta capacità di scrittura, Storia prima felice, poi dolentissima e funesta. Questa volta non si è messo a confronto con qualche grande personaggio della letteratura o della storia, ma ha scavato all’interno di
un vecchio epistolario famigliare ritrovato, traendone gli spunti per la ricostruzione di una singolare storia d’amore che aveva tutti gli elementi per dare alla narrazione una andatura romanzesca, ma romanzesca su? generis, un po’ come lo sono tutti i suoi libri, ossia descrizioni commentate di fatti
già accaduti, siano essi vite o libri o carteggi, come in questo caso. Citati non ha capacità inventiva che non sia quella del283
lo stilej non ha idee originali da sviluppare in proiezione narrativa, ma è sempre in grado di dare al proprio racconto una misura suasiva superiore grazie alla quale gli autori e i libri di cui parla diventano personaggi con i quali il lettore, guidato dallo scrittore, può entrare in confidenza. Più che dall’«amore della letteratura », il suo «stato di necessità » è
costituito dalla spinta a «sedurre » il lettore e per riuscirvi ricorre a tutte le blandizie della scrittura. Citati non offrirà mai al suo lettore un surrogato di Tolstoj} o di Kafka, ma il suo Tolstoj] e il suo Kafka risultano alla fine meno estranei e meno stereotipi di come li configurano a volte le storie letterarie o i libri degli specialisti. Con il suo romanzo, Citati non ha avuto alcuno scrupolo di far ricorso a uno dei più antichi artifici del genere, il manoscritto ritrovato; e poiché la storia è «bella», anzi, manzo-
nianamente, «molto bella», si è applicato a riscriverla per raccontarla di nuovo, articolando i tempi e dando agli elementi essenziali non soltanto il necessario raccordo narrativo,
ma anche il senso storico e psicologico che la proietta su un piano di esemplarità dovuto non tanto ai fatti, per quanto singolarmente romanzeschi, e ai protagonisti, ma a come egli l’ha inquadrata per il lettore. La storia d'amore di Gaetano e Clementina ha crismi avventurosi, risvolti psicologici, spinte sociali, insomma tutto quello che rientra nelle regole di una tipica storia ottocentesca. Ma è la riesumazione che ne fa 0ggi Citati a non dare ai fatti che riguardano i suoi antichi parenti un carattere di documento, come magari sarebbe accaduto con altri che non fosse lui, bensì una patente narrativa con una prerogativa di leggibilità e di interesse decisamente superiore alla maggior parte dei romanzi usciti nell’anno. E questo avviene perché egli non fa alcuna distinzione fra discorso critico e discorso narrativo sul piano della scrittura: è, in primo luogo, il frutto di uno scrittore. Citati fa letteratura coltivando sempre lo stesso campo della letteratura, senza fare alcun innesto o incrocio. Lettura e scrittura sono gli ingredienti e gli strumenti che usa con l’arbitrio e la decisione di chi sa di possederli, e in maniera pressoché esclusiva. A seguire Citati, uno si perderebbe perché, paradossalmente, sembra quasi che la letteratura si esaurisca in lui che 284
ne è sommo custode e accorto dispensiere. Non occorre più cercare di pensare poiché tutto il pensabile è già stato esperito, basta ripensarlo e approfondirlo; e non occorre nemmeno cercare nuove idee di scrittura né tentare esperimenti, perché anche in questo caso tutto è ormai stato scritto. Con lui la letteratura pare quasi fermarsi, non si sa se per fare il punto su se stessa e rimettere ordine oppure perché è arrivata a un limite invalicabile, quello che a suo dire dà le vertigini: fatto sta che invece di guardare in avanti, con Citati la letteratura si volta indietro, a riscoprire i propri tesori nascosti o sottovalutati. Solo che, nel rivalutare la letteratura, egli ne circoscri-
ve allo stesso tempo le possibilità espressive; mentre Bo si richiama alla necessità interiore dello scrivere che tocca l’individualità di ognuno, Citati modifica la sua vertiginosa libertà incondizionata a causa di una visione che è, in fondo, precet-
tistica e trasforma il suo campo d’azione in una specie di giardino d’Armida. Questa lunga disamina delle concezioni della letteratura espresse da due personaggi come Bo e Citati (ma a cui hanno partecipato anche altri, da Alberto Asor Rosa a Fortini, da Geno Pampaloni a Leone Piccioni a Guido Almansi), ha
messo a fuoco una situazione di cui abbiamo più volte parlato e che è il riflesso di un processo nell’ambito della creazione letteraria che rimette in movimento i generi e in discussione il modo di formare; in particolare tocca la narrativa, dove le
necessità tecniche della costruzione pongono, sì, in risalto l’abilità e la capacità dello scrittore, ma, altrettanto impietosamente, mettono anche a nudo il vuoto interiore, l’apporto della testa, il calcolo e la povertà delle ragioni che dovrebbero presiedere e sostenere la letteratura. La ragione per la quale l’attenzione dei lettori sì rivolge oggi più a prosatori e a saggisti, con il culmine di Citati che si fa romanziere, realizzan-
do una simbiosi di scrittura, è determinata proprio dalla mancanza di sincerità mascherata dall’abilità. Poiché la letteratura non è un mezzo per realizzare qualcosa che non sia la letteratura stessa, la tecnica costruttiva non può essere un fine; di conseguenza, la letteratura non può risolversi in un mero fatto tecnico di abilità, come finiscono per essere la maggior parte dei romanzi d’oggi, troppo spesso frutto di un 285
gioco intellettuale piuttosto che di una necessità. La debolezza non è nel romanzo, genere quanto mai aperto e suscettibile di continue innovazioni e con molteplici possibilità di diramazioni, ma in chi lo pratica: perciò il vuoto di necessità su cui poggia rischia di diventare una voragine nella quale vanno a perdersi anche le individualità migliori; mentre nella prosa dei saggisti e nel loro tono alto si identificano una nuova dimensione creativa e una vera alternativa di riscatto per la letteratura. Non è affatto casuale che in questo quadro si assista alla riproposta dell’opera di Benedetto Croce, e che si cominci proprio con recuperare lo scrittore del Contributo alla critica di me stesso che è, sì, un progetto di autobiografia, ma anche un libro di raccomandabile lettura, e delle Vite di avventure
di fede e di passione che Croce stesso era stato tentato di definire «vite romanzesche» per polemica contro le «biografie romanzate ». La differenza fra «romanzesche » e «romanzate» è esplicita e indica un indirizzo di metodo nel perseguire il progetto della letteratura. (E, curiosamente, Citati nel suo
romanzo sembra proprio aver congiunto le vite dei suoi avi nel segno del «romanzesco » crociano. Così come nell’ammirato, ma temperato, giudizio sulle Vite, sia Bo che Citati concordano nell’accentuare il rilievo su Croce scrittore.) Dunque, se questa deve essere, come dovrebbe, una rassegna dell’annata letteraria 1989, nessuno si stupirà se, giunto al momento di cominciare a fare nomi e cognomi, invece di iniziare la lista parlando di qualcuno dei numerosi romanzi che hanno tenuto banco o di qualche manufatto editoriale che ha avuto successo ricorderò in primo luogo proprio la riproposta di Croce. Di lui critico letterario, e della sua visione della let-
teratura, si potrà anche dirne male, come qualcuno ha fatto, mettendo impietosamente a nudo certe sue cantonate di gusto, ma quando Croce fa letteratura e non critica la letteratura manda in crisì tutti: infatti il Contributo e le Vite sono testi di lettura assolutamente sicura. La riproposta di Croce non è passata senza polemiche: sia editoriali, per il passaggio dal tradizionale editore crociano, il Laterza, ad Adelphi, sia sull’attualità del suo pensiero estetico, con prese di posizione spesso anche aspre, come 286
quella di Giorgio Barberi Squarotti che ha praticamente giustiziato il critico letterario, o di chi gli ha contrapposto, come Massimo Cacciari, il suo antico sodale Giovanni Gentile, ri-
mettendo così in circolo un dibattito sulle radici contrapposte delle nostre massime tendenze culturali: quella idealistica sfociata nel gramscismo del dopoguerra e imperniata sulla triade De Sanctis-Croce-Gramsci che congiunge, attraverso l’idealismo, il romanticismo risorgimentale al marxismo dell'impegno, e quella dell’attualismo gentiliano in cui oggi si identificano prospettive più aperte per una cultura sensibile ad altre suggestioni e ad una lettura globale del testo, svincolata dai distinguo di poesia e non poesia. Che così esposta, la contraddizione sia frutto dello schematismo un po’ rozzo a cui abbiamo ridotto il dualismo, è fuori dubbio; ma è altrettanto vero che risponde a un contrasto latente in cui sono
contrapposti atteggiamenti che, pur richiamandosi ai maestri, in realtà ne sono molto distanti. Il tracciato di un rapporto che è passato dalla fraterna amicizia giovanile a un contrasto intellettuale insanabile e poi, per-quanto riguarda Gentile, al dramma, è ricostruito da Jader Jacobelli in Croce-Gentile. Dal sodalizio al dramma, che si avvale anche di
una «Prefazione » di Norberto Bobbio, nella quale il filosofo piemontese ribadisce che il suo stare dalla parte di Croce è una scelta di campo intellettuale e morale, oltre che politica. Ma proprio perché il discorso dall’estetica passa all’etica, è meglio ritornare nel nostro più modesto ambito della letteratura e stare ai testi, senza lasciarsi invischiare nelle spire di polemiche ideologiche difficili da dirimere per un povero cronista letterario: e su questo piano rimbalza subito la nitidezza della prosa crociana, dello scrittore rimasto sempre all’ombra del filosofo, e più spesso dello storico, ma che brilla di luce propria nel Contributo e nelle Vite e che tale presumibilmente si riconfermerà quando potremo leggere 1 diari di cui ci ha dato un saggio anticipatorio Gennaro Sasso con Per invigilare me stesso, lettura anticipata di uno dei monumenti della nostra cultura novecentesca. D°altronde, anche il me-
morabile profilo di Gianfranco Contini, oggi ripubblicato con il titolo La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, è incentrato, sì, sulla lettura dell’antologia personale crociana 287
Filosofia Poesia Storia, ma avendo a supporto indispensabile proprio il Contributo. Se Croce ha esercitato una pesante dittatura sulla cultura letteraria contemporanea, condizionandone quegli sviluppi creativi e di ricerca che egli considerava irrazionali e velleitari, per paradosso sta risalendo la china proprio quel Croce letterato che veniva posposto al filosofo. Gentile, al confronto, è certamente meno scrittore, ha una scrittura meno limpida,
e perciò sul piano letterario la sua opera è destinata ad avere un’eco minore (anche se bisognerebbe andare a riprendere 1 suoi saggi su Dante, Leopardi, Manzoni, sul Rinascimento, e verificare la loro attualità utilizzativa o meno); tuttavia è
probabile che nel rimescolamento delle carte in atto, sia proprio Gentile a diventare un punto di riferimento intellettuale più costante che non Croce, se stiamo a quanto dice non solo Cacciari, ma anche Salvatore Natoli in Giovanni Gentile fi-
losofo europeo, in attesa della monografia gentiliana di Augusto Del Noce (annunciata in uscita l’anno prossimo). Per
contro abbiamo un Croce da gustare come scrittore a margine, se non al di là, del suo immenso impero sistematico; ed è
scrittore di memoria, classificabile proprio entro quel dominio saggistico che oggi ci offre gli spunti più apprezzabili. Se per gioco o per scelta dovessimo costituire una sezione privilegiata nella biblioteca dell’anno, l’attenzione sì indirizzerebbe quasi spontaneamente verso quell’area del saggismo critico tramato di memoria e di autocoinvolgimento in cui l’autore, attraverso la lettura dei testi o la ricostruzione di
una esperienza o di un ambiente, diventa protagonista di una suggestiva avventura intellettuale. Il carattere originale del nostro saggismo è proprio in questa peculiarità che gli conferisce una dimensione creativa senza sottrarlo ai suoi doveri esegetici, in cui emerge, assieme alle proposte interpretative e al giudizio critico, l’individualità dello scrittore attraverso lo stile. In Proust e dintorni, Giovanni Macchia continua le
sue ricognizioni proustiane apportando Nuovi contributi alla conoscenza dell’autore della Recherche, ma anche di sé come
scrittore in grado di muoversi tra « Proust e dintorni» come in una riserva a lui privilegiata e congeniale, ma non esclusiva: i confini di spazio e di tempo entro cui si espande la ricer288 9 Channi )ttanta e ln letteratura
ca di Macchia sono più estesi, e lo dimostrano i temi seicenteschi affrontati in Tra Don Giovanni e Don Rodrigo, in cui fa spicco una originale lettura del romanzo manzoniano; in Carte d'identità, Giancarlo Vigorelli ci dà una sua personale visione del Novecento da cui traspaiono sia il suo temperamento sia una invidiabile indipendenza di giudizio attraverso i vari ritratti compostisi nel tempo di Montale e Sereni, Gadda e Moravia, Fenoglio e Morselli, e che, soprattutto lo por-
tano, per esempio, a prendere le distanze da Croce e a rivalutare G. A. Borgese e l’ultra dimenticato Arrigo Cajumi, a esprimere tutto il dissenso possibile verso il Contini storico dell’Otto- Novecento, senza per questo intaccare l’adesione incondizionata al critico e al filologo che risale agli anni giovanili e trova in Manzoni un cemento indistruttibile; e, sem-
pre stando a Contini, nella lunga intervista che ha rilasciato a Ludovica Ripa di Meana (Diligenza e voluttà) sono ripercorse con molta discrezione una vita e una carriera (i continisti e i continofili avrebbero voluto di più, però, forse, ci voleva
un’altra tempra di intervistatore), nella quale ha occupato uno spazio non indifferente C. E. Gadda, seguito passo a passo dai tempi del Castello di Udine fino a oggi, come testimonia Quarant'anni di amicizia; in L'ultimo testimone, Silvio Guarnieri traccia un quadro (più che una «storia » come vorrebbe il sottotitolo) della «società letteraria » fiorentina a
cavallo degli anni Trenta in cui ha vissuto e che costituisce, forse, l’ultimo esempio di un nucleo e di una solidarietà fra intellettuali: la sua rievocazione non indulge al patetico, ma contiene anche passaggi di critica e di stimolante tensione per un senso di civiltà della letteratura che ormai si è perso (e i risultati si vedono e si sentono, specie in tv). Vorrei conclude-
re questo rapido e molto personale panorama con Antologia privata di Giorgio Manganelli che esempla la sua «scelta » dai propri libri, giustificandola con un «risvolto » provocatorio per intelligenza e bizzarria di cui il libro non potrebbe fare a meno (con un rammarico per la totale assenza di accenni a Amore: però le scelte sono scelte, e quelle manganelliane sono sempre inappellabili). Ma, in fondo, la critica è un’avventura intellettuale, anche quando, paradossalmente, è giustificata da Cesare Garboli come «servile» (Scritti servili) 289
per via del servizio che rende: resta da stabilire se a fruirne siano il committente e il lettore,
o non lo stesso critico che
proprio in questo libro sembra sfogare i suoi umori lasciandosi andare a quel gusto del teatro che gli è congeniale e che si sente anche nella scrittura scoppiettante, ma puntigliosamente interpretata. Garboli si definisce « scrittore-lettore »: 10 farei una modesta proposta per una variante in scrittore-lettore-attore. Per non parlare poi della presenza di saggisti meno legati all’indirizzo letterario come Pier Giorgio Bellocchio (Dalla parte del torto) o Ruggero Guarini (Compagni, ancora uno sforzo: dimenticare Togliatti) o Saverio Vertone (Penultima Europa), i quali rivolgono il loro acre moralismo non solo sui fatti della vita culturale, ma anche sugli aspetti del costume e della politica in pagine graffianti, spesso aspre, ma sempre sostenute da una indubbia caratura stilistica che le rendono indispensabili al di là del dissenso. Non paia fuori luogo ricordare qui un testo di sociologia come Genesi di Francesco Alberoni, poiché l’analisi della condizione di «stato nascente», come momento essenziale della dinamica sociale e stori-
ca, potrebbe essere estesa anche alla letteratura. E vorrei ricordare anche due opere storiche molto diverse, ma entrambe molto interessanti: Storia notturna. Una decifrazione del Sabba di Carlo Ginzburg e In partibus infidelium di Luisa Mangoni. Il libro di Ginzburg è il frutto di una ricerca che ci aveva già procurato altre letture stimolanti sia sul piano storico (7 benandanti, Il formaggio e © vermi) sia teorico (Miti emblemi spie), ma questo è certo il più significativo per l’apertura tematica e l’ampiezza dei materiali. Il sabba, con tutto ciò che si porta dietro nella storia, è un tema che ingloba cultura dotta e cultura popolare, religione e superstizione, crudeltà e follia: Ginzburg lo ha analizzato da storico, con i documenti in regola, ma la sua pagina possiede, quasi naturalmente, un taglio di racconto per cui la sua «decifrazione » è anche un «romanzo» del sabba. /n partibus infidelium è invece un testo di storia della cultura novecentesca in cui Luisa Mangoni, ritraendo i tratti salienti della biografia di Don Giuseppe De Luca, si addentra in un ambiente sinora poco esplorato, quello della cultura cattolica; ma il suo contributo 290
di analisi dei fermenti religiosi che hanno movimentato l’attività degli intellettuali nel Novecento acquista un particolare rilievo poiché non è disgiunta da una attenta ricostruzione delle strutture operative editoriali e pubblicistiche di cui De Luca fu iniziatore e partecipe. Si tratta di un tema ricco di implicazioni e di sviluppi destinati ad arricchire il panorama novecentesco: una conferma l’abbiamo con Il tempo de « Il Frontespizio » di Lorenzo Bedeschi in cui il discorso storico è arricchito dal documento culturale offerto dal Carteggio Bargellini-Bo 1930-1943. Assistiamo dunque al trionfo della riflessione critica e storica sull’invenzione? Non direi che il problema stia in questi termini, anche perché gli esempi che ci giungono di storia letteraria sono su un versante abbastanza eretico rispetto alla storiografia tradizionale: il volume conclusivo della Letteratura italiana di Asor Rosa (dedicato a Storia e geografia III. L’età contemporanea, sono poi annunciati ben tre volumi di indici) chiude una impresa rilevante dal punto di vista metodologico e condotta seguendo un’ottica che, per usare un termine di moda, potremmo chiamare trasversale,
la quale ha consentito di osservare l’evolversi della letteratura italiana nei secoli in una prospettiva più ampia, portando alla luce problemi e aspetti di solito considerati settorialmente e non inglobati in una visione d’assieme storica e critica. Sotto questo profilo ha ragione Asor Rosa di sottolineare nello scritto di chiusura i risultati conseguiti. Ma l’interrogativo che è stato posto fin dall’inizio sul ruolo dei testi non è mai stato del tutto fugato, e anche in questa panoramica storica e geografica finale, dedicata all’età contemporanea e perciò la più delicata e controversa, prevale ancora il taglio sociologico nell’attenzione portata sulle istituzioni e sulle strutture culturali. Se il problema è affrontato con grande dovizia di mezzi e perizia descrittiva da Giovanni Ragone in « Editoria, letteratura e comunicazione», nonostante la preconcetta tendenziosità verso l’attività della grande editoria che continua a pagare una sostanziale mancanza di obiettività critica, più forzato risulta il discorso relativo alle varie aree (da torinese,
per esempio, avrei qualcosa da ridire sull’excursus che Marziano Guglielminetti e Giuseppe Zaccaria dedicano a Tori291
no), dove la letteratura e i testi forniscono dei pretesti per discorsi catastali. Rimangono, in ogni caso, l’impianto e il complesso di un’opera monumentale che ha introdotto e realizza-. to concetti nuovi da cui sarà difficile prescindere criticamente, anche se ho qualche dubbio sulla sua effettiva utilizzazione pratica, per esempio, a livello didattico. Ma che dire, al confronto, dell’impresa individuale di Giampaolo Dossena che continua a esplorare « confidenzialmente » la nostra letteratura munito di freccette e di schemi? Il primo volume dedicato alle Origini e a Dante ebbe buona stampa, specie fra i critici ebdomadari, e fece breccia nel pubblico, attratto forse dalla novità di vedere i classici serviti su una guantiera diversa. In questo secondo volume percorre L’età del Petrarca: con un discorso antiaccademico e volutamente tenuto su toni colloquiali, ma sostenuti e provocatori, ci racconta vite e opere secondo un criterio che si vorrebbe pratico e destinato a far apprezzare i classici. Qui i testi ci sono, magari proposti con una certa disinvoltura che consiglia di prendere Petrarca solo
per Il canzoniere, di diffidare del Decameron perché noiosissimo e di affidarsi invece all’Anonimo Romano e alla sua Cronica-dove racconta la vita di Cola di Rienzo. La giustificazione « confidenziale » ha permesso a Dossena di avviare e mantenere con il lettore un dialogo disinvolto e spregiudicato, ma a volte sembra che sia la letteratura a dover accettare i
tratti della sua «confidenza ». Anche sul fronte della storia letteraria ci si assesta dunque su posizioni avanzate garantite da una più aperta attitudine metodologica e da una certa sbrigliatezza di stile che rende il taglio storico meno bloccato attorno a una tradizionale rigidità di schemi e di linguaggio. Il che conferma quel movimento nella scrittura che demarca meno nettamente i generi, ma mette ancor più a nudo le difficoltà inventive ed espressive del narrare di oggi. Che nello scorrere i volumi dello scaffale romanzesco dell’anno si avvertano carenze inventive, a me pare evidente, ed è disagio non nuovo, che provo ormai da tempo. Il momento che stiamo attraversando è, da questo punto di vista, contraddittorio e incerto poiché non è tanto in discussione il genere narrativo quanto l’assenza del narratore che, non avendo più certezze a cui ancorarsi, si di292
A
/
batte tra i modi del formare. La crisi attuale del romanzo ha una storia lunga che sta venendo a compimento e'in cui si trovano condensati tutti i dibattiti che hanno accompagnato la nostra letteratura dal neorealismo in poi, con un succedersi di proposte e di alternative, ma senza che alcuna abbia avuto una consistenza durevole. Sono stati libri singoli ad attenuare temporaneamente la crisi: pensiamo al Gattopardo, a La Storia, ai due romanzi di Eco, ma è evidente che, pur
avendo avuto un effetto di trascinamento, per la loro stessa singolarità non avrebbero mai potuto risolvere i problemi di fondo di una tradizione anti-romanzesca qual è quella italiana. Ma è inutile recriminare sulla debolezza della nostra letteratura sul terreno del romanzo; piuttosto occorre cercare di individuare quelle caratteristiche e quei motivi che pure danno all’operare narrativo una sua ragione al di là dei discorsi generali di tendenza, e non abbandonarsi alla costruzione immaginaria di una letteratura come uno vorrebbe che fosse e invece non è. La critica congetturale è un esercizio molto stimolante, ma poi la letteratura è fatta di testi e ad essi bisogna rifarsi se si vuole fondare un discorso su dati certi. Perciò,
una volta accertata la nostra congenita carenza strutturale che non ci consente cattedrali romanzesche, passiamo appunto a osservare il paesaggio diverso che trascorre davanti agli occhi. L’attenzione è inevitabile che si soffermi sui luoghi più gradevoli e sugli spazi più congeniali che in letteratura corrispondono al gusto del lettore e al piacere della lettura, che non sempre coincidono con l’intrattenimento, ma possono rispondere all’impegno. Non si può infatti dire che procurino letture distensive i pochi libri che ritengo significativi. Scelgo: Le mosche del capitale di Paolo Volponi, La grande sera di Giuseppe Pontiggia (vincitore del Premio Strega), / giorni della conchiglia di Michele Prisco, Il canto delle sirene di Maria Corti, Verso la foce di Gianni Celati, La festa del centenario di Giuliano Gramigna, L'editore di Nanni Balestrini, il già ricordato romanzo di Bevilacqua. Appartengono tutti
a una consuetudine ormai avviata, a un rapporto con
scrittori che si è rafforzato libro dopo libro, anche con forti dissensi e opposizioni, fino a consolidarsi su una base comu293
ne. Vi aggiungerei, in omaggio a questa dialettica, Camere separate di Pier Vittorio Tondelli che a me sembra costituire un decisivo passo in avanti di questo scrittore, senza dubbio dotato, ma che fino a ora aveva marciato a corrente alternata
e più con voglia di stupire che di esprimersi in profondo; mentre avrei voluto recuperare Andrea De Carlo per Due di due, ma è sola stima per lo scrittore perduto di Treno di panna. Quando invece mi accosto ai libri di taluni scrittori emergenti, più o meno giovani che siano, da Edoardo Albinati (7 polacco lavatore di vetri) a Luciano Allamprese (Strane conversazioni con le donne), da Giampaolo Rugarli (Nido di ghiaccio) a Giorgio Pressburger (La legge degli spazi bianchi), da Paola Capriolo (I! nocchiero) a Gianfranco Bettin (Qualcosa che brucia), per citare solo i più raccomandati dal-
le varie scuderie pubblicistiche, il consenso non è mai incondizionato e le riserve prevalgono, i dubbi non fugati permangono e si esce dalla lettura tutt'altro che convinti: del resto, qua c'è la caduta finale, là si estendono sacche di lentezza,
altrove il linguaggio è maltrattato più per evidente pochezza che per volontà trasgressiva. E si ha un bel raccomandare che non devono essere fatti insostenibili paragoni e che occorre accantonare il dubbio se non era meglio prima, quando il prima è tuttora presente e fa da contraltare con le riproposte dei Bilenchi
(Anna e Bruno; di Romano
Bilenchi
si deve
purtroppo registrare la morte), dei Landolfi (LA BIERE DU PECHEUR, con una «Prefazione»
di Edoardo Sanguineti), dei
Flaiano (7empo di uccidere), con la perenne attualità di Libera nos a malo di Luigi Meneghello, per non parlare dell’edizione delle opere di Gadda a cura di Dante Isella e del nuovo volume con il Pasticciaccio, integrato dalla stesura comparsa su «Letteratura» nel 1946-47 (Romanzi e racconti IT) e del primo volume delle Opere di Achille Campanile; se vi accostiamo poi la splendida continuità di Mario Soldati che con Rami: secchi ci ha dato uno dei suoi libri più belli (bello al di là delle rivelazioni su Montale contenute nel
ritratto di Henry Furst; lo scandalo di Montale che ha firmato recensioni non fatte da lui ha innescato inevitabili reazioni moralistiche e ridicole esibizioni ideologiche, quali la trovata di Pietro Ingrao che vi ha visto un gesto polemico 294
dell’artista contro l’industria culturale: in fondo è stata una vicenda penosa); e poi l’ultima «storia siciliana » di Leonardo Sciascia, Una storia semplice, ultima in senso definitivo poiché è un’altra dolorosa e prematura scomparsa che ci ha colpito (contemporaneamente sono apparsi anche: Alfabeto pirandelliano; Fatti diversi di storia letteraria e civile; A futura
memoria). A questo punto viene proprio da chiedersi dove vada a parare la letteratura attuale. Eppure, non tutto rientra in questo improponibile confronto tra padri e figli, solo che bisogna uscire da questi schemi obbligati e condizionati da un radicalismo critico specializzato in consigli per gli acquisti dei prodotti della tribù, e cercare altrove per scoprire che libri degni di nota ce ne sono ancora: per esempio, Dodici lune di Adriana Zarri, La pena e l’oblio di Luigi Monteleone, Epidemia di Felice Piemontese, Nell’ombra di Sergio Ferrero (è questo il suo romanzo migliore), L’apparizione di Elsie di Aldo Rosselli, / beati anni del castigo di Fleur Jaeggy (anche lei ha al suo attivo altri libri, però questo conta di più); e vorrei anche segnalare due esordienti che spero facciano strada: Stefania Bertola, autrice . disincantata e ironica di Luna di Luxor e Andrea Canobbio, i
cui Vasi cinesi spero che nel tempo non risultino vuoti come le tradizionali scatole. Come sempre, il dibattito culturale e la critica situazione della narrativa hanno monopolizzato il discorso a scapito di altri motivi derivanti dalla poesia e dai classici. Ma sia l’una che gli altri hanno armi che consentono loro sostanziose rivincite. Se pensiamo che persino Giuseppe Ungaretti in gioventù ha ceduto al demone di un possibile romanzo dal palazzeschiano titolo Le avventure di Turlurù, bisogna pur dire che la tentazione è sempre stata molto forte; ma tra gli inediti che sono stati raccolti in Poesie e prose liriche, gli esempi del progettato romanzo non sono tra i testi più raccomandabili, al di là della curiosità, mentre di ben maggior peso sono i versi che si collegano all’ Aliegria e ne costituiscono in alcuni casì, come «Il porto sepolto» e «I fiumi», un primo già consistente assaggio. È una sorpresa, che tuttavia ripropone il problema critico del primo Ungaretti e della forza innovativa della sua espressione poetica nel quadro della lirica italiana nel primo 295
Novecento: non a caso c’è chi ritiene con fondate motivazioni critiche che l’Ungaretti maggiore sia proprio il primo, lo spericolato sperimentatore di parole dell’ Allegria. È certo che la poesia italiana ne ha tratto come una spinta irrefrenabile a rinnovarsi e alla ricerca che l’ha caratterizzata letterariamente. (A proposito di Ungaretti vorrei ancora segnalare il ricco Album curato da Piccioni per «I Meridiani » mondadoriani.) Il discorso poetico novecentesco, spesso fortemente intrecciato a quello critico e della riflessione, ha proceduto sempre nell’ambito della condizione che Gian Luigi Beccaria definisce «grande stile » (in Le forme della lontananza), e nel suo vasto
movimento ha originato la ricerca di Luciano Anceschi per stabilire l’esistenza nel rapporto fra poesia e lettura poetica di una « convivenza », come la chiama in Gl: specchi della poesia. Questo continuo interscambio,,che Anceschi ha studiato a lungo, ha dato alla nostra poesia un distacco qualitativo che l’ha portata a esprimere valori di assoluto rilievo e a consentire, pur nelle evidenti diversità, una continua linea di sviluppo: Certo, il linguaggio è mutato attraverso il passaggio nei filtri delle varie esperienze che si sono succedute, ma non è quasi mai stato in discussione il livello qualitativo; il discorso sl è sempre svolto all’interno del sistema, senza le forzature esterne provocate dalle pressioni dell’industria culturale; hanno avuto largo spazio le riviste, e lo hanno tuttora, sia quelle con carattere di rassegna come « Poesia », sia quelle di ricerca come « Anterem » e « Testuale », « Altri termini » e « Arsenale »,
per citarne qualcuna fra le più agguerrite e impegnate. E non mancano neppure le polemiche, frutto di discussione e di confronto fra coloro che tendono verso un discorso più arrischiato che riesca a esprimere quel tanto di poetico represso negli schemi di un lirismo ritenuto ormai insufficiente (tensione
esemplata nell’antologia Poesia italiana della contraddizione dedicata all’avanguardia dei nostri giorni da Franco Cavallo e Mario Lunetta) e coloro che spingono verso un approfondimento interiore che non passa necessariamente attraverso un
rivolgimento formale delle strutture espressive. È, in sostanza, il contendere attorno a cui si è battuta tutta la storia della poesia dal dopoguerra in poi e che è, tutto sommato, l’anima stessa della ricerca poetica. 296
L'andamento dell’annata riflette questa condizione attraverso ì testi di poeti appartenenti a generazioni’ diverse, ognuno con una propria poetica da svolgere in una continua evoluzione. Più che addentrarci nei meandri di questo universo in fermento, trascegliamo quelli che possono risultare, sia pure opinabilmente, gli esempi significativi di una condizione. È in questo senso il caso più singolare mi pare sia quello di Piero Bigongiari, che sta conoscendo da alcuni anni una straordinaria stagione creativa per intensità di produzione e di risultati: il suo discorso di Ne/ delta del poema si viene sviluppando come nel precedente Co/ dito in terra, a cui si riallaccia per linee interne ed esterne, attorno a occasioni e riflessioni di luoghi e di persone, ma è il dettato che colpisce per il suo continuo variare alla ricerca di una sempre nuova tensione espressiva che lo porta a volte anche a esasperare il — mistero, «l’enigma » del verso, secondo la definizione datane
da Oreste Macrì in una sua densa lettura della poesia di Bigongiari (Studi sull’ermetismo. L'enigma della poesia di Bigongiari). Ma accanto all’evidenza bigongiariana, vorrei porre un fantasma: quello dell’opera dispersa di Emilio Villa che ora viene proposta in forma organica e con una documentata introduzione di Aldo Tagliaferri (I vol.). L’accostamento non è casuale perché vi sono analogie, specie nell’interesse per certi aspetti informali della pittura da cui entrambi sono attratti e che si riverberano poi, sia pure in forme molto differenti, nella loro poesia. Ma di Villa, che è del 1914 come
Bigongiari e Luzi e ha collaborato anche lui al « Frontespizio », si è sempre parlato poco a causa della sua voluta estraniazione dalla società letteraria che pure ha frequentato, e del suo libro più organico, Oramai del 1947, si sono perse le tracce; la sua insofferenza di fronte ai riti poetici lo ha portato verso una concezione plastica della parola a stretto contatto con le esperienze figurative di avanguardia; per di più è stato a lungo in Brasile, dove ha seguito il formarsi di quella che viene chiamata « poesia concreta». Di qui la sua presunta irregolarità rispetto alla norma che lo ha reso per taluni un mito (Giacinto Spagnoletti, Cesare Vivaldi, Gianni Graper i più un eccentrico misconosciuto. L’atna, per esempio), tuale proposta dovrebbe fare giustizia e mettere a posto le co297
se. Villa è certamente stato ed è un interprete della più avanzata concezione avanguardistica dell’espressione e in questo senso avrebbe dovuto trovare spazio nell’attività della neoavanguardia, se non avesse sempre mostrato una superiore indifferenza verso un esercizio che presumibilmente deve aver giudicato più di scuola (o di maniera) che di invenzione. Più che una presenza rimossa perché scomoda, come qualcuno vorrebbe, Villa arricchirà ulteriormente la carica contestativa
che non è mai mancata, nella nostra poesia, ma che troppo spesso ha finito per istituzionalizzarsi in una retorica della trasgressione. Passando ora a una generazione successiva, troviamo i versi di Giorgio Orelli (Spiracol:), di Luciano Erba (L’ippopotamo), di Giovanni Giudici (Prove del teatro), di Cesare
Vivaldi (Pietra d’Assisi). Si tratta di poeti con storie diverse alle spalle che si riflettono anche nell’impianto dei testi: per esempio, a carattere documentario e a testimonianza di una evoluzione in quello di Giudici (che si completa con le prose di Frau Doktor); riepilogativo di una stagione, gli anni Ottanta, in quello di Erba; più compattamente e sapientemente articolato sotto il profilo tecnico e stilistico attorno a motivi di paesaggio e di condizione quello di Orelli (è ticinese, poeta di frontiera, quindi: eppure i suoi versi sono tramati di una solida e centralizzata cultura, da Dante a Manzoni); frutto di una esperienza e di un contatto con la realtà concreta e incantata, ricca di suggestione paesistica e ambientale di Assisi e dintorni in quello di Vivaldi. Sono poeti che segnano, assieme ad altri, ovviamente, una generazione, la cosiddetta «quarta », che si è trovata a dover fare i conti con il poster-
metismo da un lato e la neoavanguardia dall’altro che la premevano e rischiavano di farle perdere ogni identità in un discorso di tendenza e di scuola da cui, invece, è riuscita a sfuggire grazie proprio alla mantenuta e voluta individualità dei singoli poeti. Configurare organicamente tutto ciò che si muove nell'ambito della poesia d’oggi, credo sia impresa con un che di prometeico, ma lo è ancor di più se si coltiva l’illusione di riuscire in una sintesi. Meglio non fare programmi e lasciarsi andare alla lettura, non aspirare alla parola definitiva ma 298
segnalare gli incontri che hanno lasciato qualcosa: per esempio il n. 39 della rivista « Anterem» con la raccolta di testi e riflessioni sul fare poesia: L'esistenza amorosa di Basilio Reale che mi ha rimesso a contatto con la sua poesia dopo tanto tempo, grazie anche alla esauriente «Prefazione» di Natale Tedesco (e di Tedesco vorrei anche segnalare un testo esemplare della sua militanza critica che è L'occhio e la memoria); Malusanza di Luigi Manzi (per il quale si poteva anche fare a meno dell’esibizione critica portata a sostegno: se Manzi è poeta, e credo che lo sia, bastano i suoi testi, le
lettere degli amici sono superflue); Kursaal di Angelo Maugeri, libro di notevole tensione stilistica provocata dalla capacità davvero poco comune di attuare continuamente cambi di marcia linguistici e tecnici con gli oggetti, gli interni, le figure che popolano i versi; Osservazione sul volo degli uccelli di Balestrini: questi versi che risalgono al 1954-1956 appartengono alla preistoria del poeta e ce lo fanno conoscere mentre era ancora sul trampolino in attesa di tuffarsi nel vuoto dello sperimentalismo più arrischiato della neoavanguardia; £1renze vuol dire... di Silvio Ramat è un nuovo passaggio di un dialogo mai interrotto con la propria città che egli ha aperto sin dalle poesie di esordio e che il distacco e la distanza hanno reso nel tempo più acuto e struggente. Nel sistemare così la partita con la poesia, so di lasciare molti conti in sospeso, specie con tutti quei nomi nuovi che vorticosamente si avvicendano sui sommari delle riviste e negli indici delle antologie, ma in casi come questi è sempre meglio avere debiti che crediti, poiché così si è più impegnati a sentirsi coinvolti e a seguire un flusso di fermenti che pare destinato a non arrestarsi mal. Ho lasciato per ultimi i classici, sapendo di potere chiudere in bellezza. Non per polemica verso l’attualità o perché creda che il loro sia un mondo migliore e felice; il fatto è che con i classici il discorso si libera di tante infra e sovrastrutture e rientra nell’alveo naturale dei testi. Le occasioni non mancano, alcune sono veramente stimolanti, e si vorrebbe po-
terle segnalare tutte. Per forza di cose, ma anche per discrezione, occorre invece limitarsi a esempi significativi per la novità della proposta, per l’intelligenza dell’edizione, per il 299
rigore filologico, o, meglio ancora, per tutti questi motivi messi assieme. E allora pensando, più che agli specialisti, a questi numerosi lettori resi diffidenti e disamorati alla lettura da tanta letteratura d’oggi, raccomandiamo loro di riservare un angolo privilegiato della biblioteca a Esopo toscano dei frati e dei mercanti fiorentini curato da Vittore Branca, Prediche volgari sul Campo di Siena 1427 di San Bernardino a cura di Carlo Del Corno, Baldus di Teofilo Folengo curato da Emilio Faccioli, I fuggilozio di Tomaso Costo recuperato da Corrado Calenda, Storia della mia vita di Giacomo Casanova tradotta da Piero Chiara e Federico Roncoroni (3 voll.), Romanzi del Settecento riuniti da Folco Portinari, Discorso
sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani di Giacomo Leopardi ripresentato in edizione economica da Augusto Placanica, /{ Politecnico di Carlo Cattaneo a cura di Luigi Ambrosoli, I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni com-
mentati da Geno Pampaloni, Prose di romanzi di Gabriele D'Annunzio introdotte da Ezio Raimondi (2 voll.). L’elenco è redatto in ordine storico e praticamente tutte le epoche della nostra letteratura vi sono rappresentate. Ma l’intenzione che lo ha originato non aveva alcunché di programmatico a priori: si è sistematizzato da solo. La scelta, semmai, ha tenuto conto di un’altra ipotesi, e cioè che lo stu-
dio e la lettura dei classici non sono mai fini a se stessi perché generano a loro volta cultura: non a caso queste edizioni si raccomandano anche per la cura con cui sono presentate. In tutti i casi il lavoro dei curatori è stato condotto con un tale impegno che è sfociato in un libro nel libro, ed è questo il miglior riconoscimento che si possa loro fare.
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10. Gli anni Ottanta e la letterature
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE ‘
Abruzzese, Alberto 181 182
Accetto, Torquato 130 Della dissimulazione onesta 130 Accrocca, Elio Filippo 35 272 Il superfluo 35 Poesie. La distanza degli anni (1942-1987) 272 Addamo, Sebastiano 19 32 La metafora dietro a noi 19
Agamben, Giorgio 108 229 Il linguaggio e la morte 108 Pascoli e il pensiero della voce 108 Agnelli, Susanna 96 Ricordati Gualeguaychi 96 Agosti, Stefano 108 Cinque analisi. Il testo della poesia 108 È Il testo poetico 108 Agostino Aurelio, santo 281 Alatri, Paolo 130
Gabriele D’Annunzio 130 Alberoni, Francesco 14 96 290
Genesi 290 Innamoramento e amore 14 L'albero della vita 96 Alberti, Barbara 65
Donna di piacere 65 Albinati, Edoardo 271 294 Il polacco lavatore di vetri 294 Albisani, Sauro 189
Aldington, Richard 153 Tutti gli uomini sono nemici 153 Aleramo, Sibilla 15 130
Un amore insolito 15 Alessio, Gian Carlo 112
« Alfabeta » 209 231 Alfieri, Vittorio 28 85
Saul 28 Filippo 28
Alibrandi, Tommaso 137 Casa in vendita 137 Alighieri, Dante 128 159 217 237 288 292 298 Divina Commedia 273 Vita nuova 28 Allamprese, Luciano 294 Strane conversazioni con le donne 294
Almanacco dello Specchio, a cura di Marco Forti, 32 71 110 Almansi, Guido 161 211 219 285 Amica ironia 161
La ragion comica 211 Altomonte, Antonio 18 96
Il Magnifico. Medici 96
Vita di Lorenzo de’
Sua Eccellenza 18 «Altri termini » 296 Alvaro, Corrado 241
Quasi una vita 241 Ambrosoli, Luigi 300 Amendola, Giorgio 14 44 45 Una scelta di vita 15 Un'isola 14 44 Amoretti, Giovanni Vittorio 25 Anceschi, Luciano 130 218 233 296
Gli specchi della poesia 296 Angelini, Cesare 193 I doni della vita. Lettere 1913-1976 193 Angelini, Franco 238 Anonimo Romano 28 292 Cronica 28 292 «Anterem » 296 299 Antonaros, Alfredo 157 Tornare a Caròbel 157
Antonielli, Sergio 13 162 L'elefante solitario 13
307.
Letteratura del disagio 161 Antonini, Giacomo 244
Apollinaire, Guillaume 108 Calligrammes 108 Apostrophes 230 Ara, Angelo 109 Trieste. Un'’identità culturale (con Claudio Magris) 109 Aragon, Louis 254 Arbasino, Alberto 8 13 22 27 69 81 83 140 141 213 Fratelli d’Italia 140 Matinée 140 Trans-Pacific Express 81 83 Un paese senza 22 83 Archi, Paolo 158 Ariosto, Ludovico 112 159 212 224 Opere, vol. III: Satire, Erbolato, let-
tere 159
Orlando furioso 112 224 Arpino, Giovanni 17 59 63 100 102 135 136 153 209 270 ) Il fratello italiano 17 La sposa segreta 136 La trappola amorosa 270 Passo d'addio 209 Raccontami una storia 100 102 Sei stato felice, Giovanni 271 Un gran mare di gente 63 «Arsenale » 296 Artom, Guido 49
I giorni del mondo 49 Asor Rosa, Alberto
86 131
132 150
151 181 211 212 238 272 285 291 Il giornalista: appunti sulla fisiologia di un mestiere 86 Letteratura, testo e società 131
Lo stato democratico e i partiti politici 132 L'ultimo paradosso 181 Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea 272 (vedi anche Letteratura italiana) Augias, Corrado 59 67 68 137 Il fazzoletto azzurro137 Quel treno da Vienna 67 68 «Autobus» 70 Bacchelli, Riccardo 17 134 174
In grotta e in valle 17 Bacchiega, Franca 167
308
Nella musica delle fontane Baccolo, Luigi 64 96 106 Amore a quattro voci 64 Il mormorio delle passioni altre cose 64 Restif de la Bretonne 96 «Il bagatto » 71 « Il bagordo » 201 Baldini, Antonio 154 160 Lettere 1911-1954 (con Papini) 160 La vecchia del Bal Bullier Baldini, Raffaello 110 La nàiva 110 Baldissone, Giusi 112 Balduino, Armando 245 Singoli e coppie 245
167 nascenti e
Giovanni
154
Balestrini, Nanni 34 243 293 299
Blackout 34 Gli invisibili 243 Ipocalisse-49 sonetti. Provenza 1980-1983 243. L'editore 293 Osservazioni sul volo degli uccelli. Poesie 1954-1956 299 Bandini, Fernando 218
Il ritorno della cometa 218 Banti, Anna 53 54 174
Un grido lacerante 53 54 Barberi Squarotti, Giorgio 26 75 139 287 Il marinaio del Mar Nero e altre poesie 75 Il romanzo contro la storia. Studi sui « Promessi Sposi » 26 Ombre e destini 139 Teorie e prove dello stile del Manzoni 26 Bargellini, Piero 291 Carteggio Bargellini-Bo 1930-1943, in Lorenzo Bedeschi, Il tempo de « Il Frontespizio » 291 Barile, Laura 130 Barilli, Bruno 103 Il sorcio nel violino 103 Barilli, Renato 85 Viaggio al termine della parola 85. Barthes, Roland 161 251 Fragments d’un discours amoreux
161 Bartolini, Elio 17 100
La linea dell’arciduca 17
Il palazzo di Tauride 100 Bartolini, Luigi 134 Bassani, Giorgio 31 52 111 149 Di là dal cuore 149 Il giardino dei Finzi-Contini 52 Il romanzo di Ferrara 52 111 In rima e senza 111 L’airone 52 Batisti, Silvia 70 Chi è il poeta? (con Mariella Bettarini) 70 «La battana » 32 108 Battistini, Andrea 150 151
Retoriche e poetiche dominanti (con Ezio Raimondi) 150 Baudelaire, Charles 108 Baudino, Mario 72 73 Una regina tenera e stupenda 73
Baudo, Pippo 124 Beaumont, Gaia de 69
Collezione privata 69 Beccaria, Gian Luigi 203 270 Italiano 270 296 Le forme della lontananza. La variazione e l’identico nella letteratura colta e popolare. Poesia del Novecento, fiaba, canto, romanzo
296 Beckett, Samuel 99 Bedeschi, Lorenzo 290
Il tempo de « Il Frontespizio » 290 Belardi, Walter 234
Bellezza, Dario 32 189 205 232 Serpenta 232 Bellocchio, Pier Giorgio 290 Dalla parte del torto 290 Bellonci, Goffredo 244 Bellonci, Maria 134 183 186 271 Marco Polo 134
Rinascimento privato 186 Segni sul muro 271 Bemporad, Giovanna 77 78 Esercizi. Poesie e traduzioni 77 Benassi, Mirella 73
Meditar situazioni avvolgenti 73 Benjamin, Walter 148 204 L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica 148 Berardinelli, Alfonso 76 124 214 Il critico senza mestiere. Scritti sulla letteratura oggi 124
Il pubblico della pi (con Franco Cordelli) 76 L’esteta e il politico. Sulla nuova
piccola borghesia 214 La ragione critica (con Costanzo Di Girolamo, Franco Brioschi) 214 Berengo, Marino 86 Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione 86 Berenson, Bernard 81 82 Lo specchio doppio. Carteggio 1927-1955 (con Clotilde Marghieri) 82 Bernardino da Siena, santo 300
Prediche volgari sul Campo di Siena 1427 300 Bernari, Carlo 18 Il giorno degli assassini 18 Bernhard, Thomas 281 Bersani, Mauro 149 150. Bertinato, Lucia 75
Aueto paradiso 75 Berto, Giuseppe 101 Il male oscuro 101 Bertola, Stefania 295 Luna di Luxor 295 Bertolani, Paolo 190 Seinà 190 Bertolucci, Attilio 29 164 269 283 Fuochi di novembre 269 La camera da letto 164 269 La camera da letto. Libro secondo 269 283 Sirio 164 269
Viaggio d’inverno 269 Bertone, Giorgio 27 Besana, Renato 17
Lilì Marleen (con Marcello Staglieno) 17 Besomi, Ottavio 26 Betocchi, Carlo 76 79 149 165 239 Il sale del canto 79 Memorie, racconti, poemetti in prosa 165 Poesie del sabato. 1930-1980 79
La realtà vince il sogno 165 Tutte le poesie 165 Bettarini, Mariella 70 139
Chi è il poeta? (con Silvia Batisti) 70 Da Gerico 139 Vegetali figure 139
309
Bettarini, Rosanna 79
Blasi, Bruno 15
Bettin, Gianfranco 294
Blath Stuparich, Elody 25 Confessioni e lettere a Scipio 25
Qualcosa che brucia 294 Bettiza, Enzo 96 163
Saggi viaggi personaggi 163 Via Solferino 96 Bevilacqua, Alberto 16 156 191 204 271 279 293 La festa parmigiana 16 Il gioco delle passioni 279 La donna delle meraviglie 156 La grande Giò 204 Una misteriosa felicità 271 Vita mia 191 Bianchini, Edoardo 189 Bianconi, Lorenzo 238 « Biblioteca » 217
Bigi, Emilio 112 Bigiaretti, Libero 18 218 Due senza 18 Posto di blocco 218
Bigongiari, Piero 28 29 82 85 187-188 218 272 297 Autoritratto poetico 188 Col dito in terra 218 297 Il caso e il caos. Dal barocco all’informale 82 Diario americano 1987 272 Nel delta del poema 297 Poesia italiana del Novecento 28 Bilenchi, Romano 100 101 104 111 157 183 271 294 Amici 271 Anna e Bruno 294 Conservatorio di Santa Teresa 157 183
Gli anni impossibili 157 Il gelo 100 101 111 157 La miseria 100 157 La siccità 100 157 Binni, Walter 85 Monti poeta del consenso 85 Saggi alfieriani 85 Biondi, Mario 65 100 183 Gli occhi di una donna 183 Il cielo della mezzaluna 100 La sera del giorno 65 Bisutti, Donatella 32 189
Inganno ottico 189 Blanchot, Maurice 104 268
Faux-Pas 104 Le livre à venir 268
370
Blixen, Karen 208 Blondel, Enrichetta 133
Bo, Carlo 11 22 23 58 120 160 161 163 239 242 251 255 256 260 271 277 278 279 280 283 285 286 Carteggio Bargellini-Bo, 19301943, in Lorenzo Bedeschi, // tempo de « Il Frontespizio » 291 Don Mazzolari e altri preti 23 Sulle tracce del Dio nascosto 163 Bobbio, Norberto 287 Boccaccio, Giovanni 223 224 Decameron 28 288 Boero, Pino 27 Boiardo, Matteo Maria 224
Opere 224 Orlando innamorato 224 Boine, Giovanni 25
Carteggio, vol. IV 25 Bolelli, Tristano 162 270
Italiano e no 270 Parole in piazza 162 Bollettino del Laboratorio di poesia 71 Bologna, Corrado 238 Tradizione testuale e fortuna dei classici italiani 238 Bompiani, Ginevra 65 245 L’incantato 245 Mondanità 65 Bompiani, Valentino 260 272 Caro Bompiani. Lettere con l’editore 260 272 Bona; Gian Piero 31 54 55 232 Agli dei 232 Il silenzio delle cicale 54 55 Bonaviri, Giuseppe 17 111 206 218 271 O corpo sospiroso 111 Dormiveglia 271 E un rosseggiar di peschi e d’albicocchi 206 L’asprura 218 Novelle saracene 17 Bonchio, Roberto 147 Bonora, Ettore 80 108 130 160 161 190 Conversando con Montale 130 Le metafore del vero. Saggi sulle «occasioni » di Eugenio Montale 80
Lettura di Montale, vol. I: Ossi di seppia 80 Parini e altro Settecento. Fra Classicismo e Illuminismo 108 Bonsanti, Alessandro 154
Bruni, Francesco 162
Dallo storicismo al post-strutturalismo. Un trentennio di critica letteraria 239 : Bossi Fedrigotti, Isabella 17 136 Amore mio uccidi Garibaldi 17 Casa di guerra 136
L'italiano. Elementi di storia della lingua e della cultura 162 Bruscagli, Riccardo 224 Bruscia, Marta 160 Bufalino, Gesualdo 53 54 99 100 106 111 262 263 264 283 Diceria dell’untore 53 54 111 264 Dizionario dei personaggi di romanzo. Da Don Chisciotte all’Innominabile 99 L’amaro miele 111 Le menzogne della notte 263 264 283 Museo d’ombre 100 Buffoni, Franco 189 233 I tre desideri 189 Quaranta a quindici 233
Branca, Vittore
Buscaroli, Pietro 224
I capricci dell’Adriana 154 Bontempelli, Massimo 205 Borges, Jorge Luis 147 Borgese, Giuseppe Antonio 289 Borgogno, Anna 55 La città perduta 55 Borsellino, Nino 211 239
28 85 128
149
160
230 300 Alfieri e la ricerca dello stile 85 Boccaccio medievale e nuovi studi sul Decameron 28 Giovanni Boccaccio. Profilo biografico 28 Poliziano e l’umanesimo della parola 128 x Ponte Santa Trinita 230 Brancati, Vitaliano 102 103 149
Opere. 1932-1946 102 Sogno di un valzer e altri racconti 102 Branciforti, Francesco 273 Brandi, Cesare 82 Disegno della pittura italiana 82 Brandolini d'Adda, Brandolino 74 Bifido trilingue 74 Brandon Albini, Maria 55
La gibigianna 55 Braschi, Maria 149 150 Bremond, Henri, Jean, André 20
Le charme d’Athènes 20 Brevini, Franco 234 Brignetti, Raffaello 100 271 Acrimonia 271 Mare dei deliri e altri racconti inediti 100 Brioschi, Franco 214
La ragione
critica
(con Costanzo
Di Girolamo, Alfonso Berardinelli) 214
Broggini, Renata 81
Busi, Aldo 157 182 183 185 Seminario sulla gioventù 157 Vita standard di un venditore provvisorio di collant 185 Buttitta, Ignazio 139 Pietre nere. Poesie (1980-1982) 139 Buzzi, Aldo 13 L'uovo alla kok 13 By Logos, a cura di Silvio Ramat, Cesare Ruffato e Luciano Troisio 32 Cacciari, Massimo 287 288 Cadioli, Alberto 44 226 L'industria del romanzo 44 La narrativa consumata 226
«Il Caffè » 261
Cagnone, Nanni 167 Vaticinio 167
Cajumi, Arrigo 145 146 147 153 154 289 Nuova letteratura? 145
Calamandrei, Franco 154 La vita indivisibile. Diario 1947) 154 Calasso, Roberto 121 268 283
(1941-
La rovina di Kasch 121 268 Le nozze di Cadmo e Armonia 268 283
Caldelli, Angela Paola 33 Tu m'hai sedotta 33 Calenda, Corrado 300 Calogero, Lorenzo 218 Poesie 218
Sh
Calvino, Italo 12 22.44 103 122 163 174 210 211 262 263 267 283 Collezione di sabbia 163 Cosmicomiche vecchie e nuove 163 La giornata di uno scrutatore 263 Lezioni americane 262 263 283 Se una notte d’inverno un viaggiatore 12 44 Sotto il sole giaguaro 210 Una pietra sopra 22 Sulla fiaba 263 Camerino, Aldo 160
Camerino, Giuseppe Antonio 87 Italo Svevo 87 Camon, Ferdinando 155 Storia di Sirio 155 Campailla, Sergio 130 Campana, Dino 167 173 175 Canti orfici 176 Campanile, Achille 58 154 294 Avventura di un'anima 58 Benigno. La casa dei vecchi 58 -
Chiarastella 154 ; Opere 294 Campo, Cristina 235 Gli imperdonabili 235 Campobasso, Antonio 13 Nero di Puglia 13 Camporesi, Piero 128 129 236 La carne impassibile 128 La casa dell’eternità 236 Canali, Luca 18 35 La deriva 35
Il sorriso di Giulia 18 Cancogni, Manlio 18 49 52 183 186 La gioventù 49 Nostra Signora della Speranza 18 Quella strana felicità 186 Canobbio, Andrea 201 295
Vasi cinesi 295 Cantù, Cesare 158
Portafoglio d’un operaio 158 Caprioglio, Sergio 25 Capriolo, Paola 271 294 Il nocchiero 294 Caproni, Giorgio 79 111 155 188 218 244
Il conte di Kevenhiiller 218 Il franco cacciatore 111 Il'labirinto 155 L'ultimo borgo 79 Carandini, Silvia 238
318
Cardano, Girolamo 112 Della mia vita 112 Cardarelli, Vincenzo 15 160 244
Epistolario 15 Lettere a una adolescente 160
Cardini, Franco 46 Alle radici della cavalleria medievale 46 Carducci, Giosuè 173
Care donne. Antologia della poesia femminile, a cura di Elia Malagò e Gianluca Prosperi 32 Carifi, Roberto 110 189 202 219
Il gesto di Callicle. Saggio sulla nuova poesia 110 L’obbedienza 202
Simulacri 110 Carlino, Marcello 160 Carocci, Giovanni 244
Carteggio Cecchi - Praz 192 Casanova, Giacomo 64 158 300 Storia della mia vita (Histoire de ma vie) 158 300 Romanzi italiani 158 Cases, Cesare 236 Patrie lettere 236
Casiglio, Nino 17 La strada francesca 17 Cassieri, Giuseppe 206 Diario di un convertito 206 Cassola, Carlo 16 25 47 50 51 100 102
Colloquio con le ombre 100 102 Il ribelle 47 Il romanzo moderno 50 La morale del branco 16 Una vita 102 Vita d’artista 16 Castellaneta, Carlo 13 14 100 183 Anni beati 13 Ombre 100
Vita di Raffaele Gallo 183 Castiglione, Baldassarre 237 Cattaneo, Carlo 300 Il Politecnico 300 Cattaneo, Giulio 27 120 156 Biblioteca domestica 120 Insonnia 156 Cattin, Giulio 238 Cavalcanti, Guido 128 216 Rime 216 Cavalli, Ennio 110 Carta intestata 110
Cavallo, Franco 73 296 L'alfabeto dei numeri 73 Cavazzoni, Ermanno 226 Il poema dei lunatici 224
Cecchi, Emilio 87 211 236 238 Cecchi, Ottavio 25 65 66 107 120 130
193 243 Gioco di carie 243 . Sopra il viaggio di un principe 66 Cechov, Anton 281
Celati, Gianni 13 182 185 244 245 293 Narratori delle pianure 185 245 Quattro novelle sulle apparenze 245 Verso la foce 293 Céline, Louis-Ferdinand 66 68 Celletti, Rodolfo 64
Tu che le vanità 64 Ceragioli, Fiorenza 176 Cerami, Vincenzo 78
Addio Lenin (1977-1980) 78 Tutti 1 cattivi 78 Cergoly, Carolus L. 12 13 Il complesso dell’imperatore 12 Latitudine Nord 12 Ceronetti, Guido 35 109 125-127 199
218 233-234 Albergo Italia 199 Come un talismano 218 Compassioni e disperazioni. Tutte le poesie 1946-1948 233 I pensieri del tè 233 234 La vita apparente 109 Poesie per vivere e non vivere 35 Un viaggio in Italia 127 Cervantes, Miguel de 271 Chandler, Raymond 183 Char, René 111 Cherin, Sara 29
Attilio Bertolucci. I giorni di un poeta 29 Chiara, Piero 13 59 100 158 243 300 Saluti notturni dal passo della Cisa 243 i Una spina nel cuore 13 Vedrò Singapore? 59 Viva Migliavacca e altri dodici rac. conti 100 Chiesa, Mario 189-191 234
Chiusano, Italo Alighiero 100 La derrota 100 Cialente Terni, Fausta 100
Natalia 100 Cicognani, Bruno 134 Citati, Pietro 82 84 85 107-109 126 152.207 211 235 241 255 259 281286 Il migliore dei mondi impossibili 108 Il sogno della camera rossa 207 Kafka 235 Storia prima felice, poi dolentissima e funesta 283 Tolstoj 126 152 241 Vita breve di Katherine Mansfield 82 84 Coccioli, Carlo 18 Le case del lago 18 Codazzi, Paolo 189 L’inventore del semaforo 189 Cohen, Maurizio 271 Cola di Rienzo 292 Collura, Matteo 19 Associazione indigenti 19 Colombo, Umberto 175 Commedie dei comici dell’arte, a cura di Laura Falavolti 130 | Compagnon, Antoine 259 La seconde main 259
Compagnone, Luigi 76 77 La giovinezza reale e l’irreale maturità 77 Conrad, Joseph 99 Consolo, Vincenzo 243 271
Le pietre di Pantalica 271 Retablo 243 Conte, Giuseppe 13 32 110 141 189 243 272 283 Equinozio d'autunno 243 Le stagioni 272 283 L’oceano e il ragazzo 141 L’ultimo aprile bianco 13 141 Primavera incendiata 13 « Il contemporaneo » 281 Conti, Carlo Marcello 235 Contini, Gabriella 24
Il quarto romanzo di Svevo 24 Le lettere malate di Svevo 24 Contini, Gianfranco 78 79 81 83 139 154 159 216 217 224 272 273 287 289 ‘ Breviario di ecdotica 216 Diligenza e voluttà (intervista con Ludovica Ripa di Meana) 285
313
La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana 287 Pagine ticinesi 81 83 Quarant'anni di amicizia. Scritti su Carlo Emilio Gadda (1934-1988) 289 Ultimi esercizi ed elzeviri (19681987) 272 Contributi sveviani, a cura di Riccardo Scrivano 24 Cordelli, Franco 76 85 105 164 206 210
Il pubblico della poesia (con Alfonso Berardinelli) 76 I puri spiriti 105 Partenze eroiche 85 Pinkerton 206
Proprietà perduta 164 Corrias, Pino 13
Inverno. Un amore inventato e perduto in una città stretta fra una primavera e l’altra 13 «Corriere della Sera» 11 86 173 177 203 204 277 Corti, Maria 85 128 131 149 166 245 293 Dante a un nuovo crocevia 85 Il canto delle sirene 293
La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante 128 131 Cossu, Antonio 233
I morti dicono di restare 233 Costanzo, Mario 215 Costo, Tomaso 300
Il fuggilozio 300 Cotroneo, Roberto (Mamurio Lancillotto) 279 i Cravetto, Maria Letizia 75 Il libro di Sara 75 Criscioni, Giusy 25 Croce, Benedetto 86 87 120 122 286288 289 Contributo alla critica di me stesso 282-286 288
Filosofia Poesia Storia 288 | Vita di avventure di fede e di passione 286 287 Croce, Elena 99 106
Il congedo del romanzo 99 Cronaca di Novalesa, a cura di Gian Carlo Alessio 112
314
Crovi, Raffaele 100 111 Fuori del Paradiso 100 111
L’utopia del Natale Td
(1974-1979)
Cucchi, Maurizio 32 36 139 140 189
2321255 Dizionario della poesia italiana 139 Donna del gioco 232 Le meraviglie dell’acqua 36 «La cultura » 145 D’Ambrosio, Matteo 32 d'Amico, Alessandro 215
Daniel-Rops,
Henry
(Jean-Charles-
Henri Petiot) 153 Mort, où est ta victoire? 153 D’Annunzio, Gabriele 26 130 300
Alcyone 130 Prose 130 Prose di romanzi 300
Versi d’amore e di gloria 129 130 D'Arrigo, Stefano 128 D’Avack, Massimo 205 Sì sa dov'è il cuore 205 De Amicis, Edmondo 27 Amore e ginnastica 27
Primo maggio 27 De Angelis, Milo 32 139 189 Millimetri 139 Terra del viso 189 Debenedetti,
Antonio
59 63 64 156
245 Ancora un bacio 63 64 Lafine di un addio 156 Spavaldi e strambi 245 Debenedetti,
Giacomo
108
120
128
186 265 Rileggere Proust 108 De Carlo, Andrea 59 67 68 105 155
205 294 Due di due 294 Macno 155 Treno di panna 68 105 155 294 Uccelli da gabbia e da voliera 105 Yucatan 205 De Crescenzo, Luciano 122 124 184 Or dialogoi. I dialoghi di Bellavista 184 Storia della filosofia greca, vol. I: I presocratici 122 De Felice, Renzo 224
De Filippo, Eduardo 191
°O penziero e altre poesie di Eduardo 191 Del Buono, Oreste 16 208 245 La debolezza di scrivere 245 La nostra classe dirigente 208 Se mi innamorassi di te 16 Del Corno, Carlo 300 Delfini, Antonio 102 103 Diari (1927-1961) 102103
I Viceré 129 159 Romanzi 129 Romanzi, novelle e saggi 159 De Sanctis, Francesco 25 122 287 De Vita, Corrado 75
Sopra è la terra 75 Devoto, Giorgio 110 166 In quel labirinto per niente 110
Opere 103 Il ricordo della Basca. Dieci racconti e una storia 103 Delforno, Carlo Cristiano 59 65 Via Palamanlio 65 Del Giudice, Daniele 137 182 185 271 Atlante occidentale 185 Lo stadio di Wimbledon 137 Nel museo di Reims 271 D'Elia, Gianni 29
Non per chi va 29
Di Benedetto, Renato 238 Di Carlo, Franco 27 85
Letteratura e ideologia dell’ermetismo 85 Ungaretti e Leopardi. Il sistema della « Memoria », dall’« Assenza»
al-
Va Innocenza » 27 Dickens, Charles 281 Diderot, Denis 155 Di Giacomo, Salvatore 190
Di Girolamo, Costanzo 214 La ragione critica (con Alfonso Berardinelli, Franco Brioschi) 214
Della Corte, Carlo 18 Grida dal Palazzo d’Inverno 18
Del Noce, Augusto 288
Di Mauro, Enzo 71 Dionisotti, Carlo 25 212 272
Del Serra, Maura 233 Meridiana 233 Del Tredici, Giulio 65 Uno in meno 65 De Luca, Giuseppe 290 291 De Maria, Luciano 215
La nascita dell’avanguardia. Saggi sulfuturismo italiano 215 De Matteis, Carlo 154 Il! romanzo italiano del Novecento 154 De Mauro, Tullio 162 164 270
Ai margini del linguaggio 162 «Il paroliere » 270 De Monticelli, Roberto 206 207 L’educazione teatrale 206 Denina, Carlo 27
Le rivoluzioni d’Italia 27
Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni e altri 272 Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli 25 Discorso diretto 32 71 Doplicher, Fabio 167 La rappresentazione 167 Dossena, Giampaolo 237 238 292 Storia confidenziale della letteratura italiana: vol. I: Dalle origini a Dante 237 vol. II: L’età del Petrarca 292 Dotti, Ugo 112 237 Le chiavi d’oro 112 Storia di un’anima 112 Vita di Petrarca 237 Dumas, Alexandre padre 46 257 Duranti, Francesca 152 156 271 277
Dentice, Fabrizio 243
Effetti personali 271 277 La casa sul lago della luna 152 156 157
Egnocus e gli Efferati 243 D’Eramo, Luce 53 Deviazione 53 Nucleo zero 53 De Rienzo, Giorgio 129 Guido Gozzano 129
De Roberto, Federico 129 159
Eco, Umberto 45 46 49 50 52 67 122
1
De Robertis, Domenico 28 160 216-217
De Robertis, Giuseppe 160 Carteggio (1931-1962) (con Giuseppe i Ungaretti) 160
127 153 198 253-262 293 Come si fa una tesi di laurea 46 261 Il nome della rosa 45 46 153 256 257 261 Il pendolo di Foucault 253-262
315
mM
Il superuomo di massa 261 Semiotica e filosofia del linguaggio 153
Sette anni di desiderio 127 Sugli specchi 261 «Editoria e cultura. Per il trentennale degli Editori Riuniti, 1953-1983»: il «destino del libro » 147 Einaudi, Giulio 272 Frammenti di memoria 272 Elkann, Alain 69 182 Il tuffo 69 Emanuelli, Enrico 271 Ancora la vita 271 Emilio Cecchi oggi, a cura di Roberto Fedi 87 i Enciclopedia del Novecento 20 Eraclito 281 Erba, Luciano 35 36 232 298
Ferrari, Marco 271 Ferrarotti, Franco 22
Ipnosi della violenza 22 Ferrata, Giansiro 130 Ferrero, Ernesto 59 67 68 147 Cervo bianco 68
Ferrero, Sergio 242 295 La valigia vuota 242 Nell’ombra 295 Ferretti, Giampiero 26 Ferretti, Gian Carlo 122-124 136 147 Best seller all’italiana. Fortune e
formule del romanzo di «qualità » 122 Il mercato delle lettere. Industria culturale e lavoro critico in Italia dagli anni Cinquanta a oggi 122 Ferrucci, Franco 206 Il mondo creato 206
Il nastro di Moebius 36 Il tranviere metafisico 232 L’ippopotamo 298 Esiodo 113 La teogonia di Esiodo e tre inni omerici 113 Esopo toscano dei frati e dei mercanti fiorentini, a cura di Vittore Branca 300 «l'Espresso» 177 201 212 260 270 279
Festa Campanile, Pasquale 18 100 Il peccato 18 La ragazza di Trieste 100
Etiemble, René 213
Tempo di uccidere 294 Madame Bovary 134 Fleming, Ian 254 257
Le mythe de Rimbaud 213 « Europeo » 177
Finzi, Gilberto 74 233 L’assurda verità 233 Tre formule di desiderio 74
Fiore, Angelo 65 L'’erede del beato 65 Fitzgerald, Francis Scott 183 Flaiano, Ennio 149 178 239 294 Storie inedite per film mai fatti 149
Fofi, Goffredo 201 272
Pasqua di maggio. Un diario pessi-
Faccioli, Emilio 300
Faggin, Giorgio 234
mista 272
Fogazzaro, Antonio 50
Falavolti, Laura 130 Faldella, Giovanni 130
A Parigi. Viaggio di Geronimo Comp. 130 A Vienna. Gita con il lapis 130 Le figurine 130 Fallacara, Luigi 218 Poesie. (1914-1963) 218 Fallaci, Oriana 12 44
Un uomo 12 44 Fanfani, Massimo 218 Fanfoni, Stefano 219
L’epigono nomade 219 Fenoglio, Beppe 19 289 Una crociera agli antipodi 19 Feo, Michele 211
316
Folena, Gianfranco 127 190 193
e
L'italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento 127 Folengo, Teofilo 224 300 Baldus 224 300 Macaronee minori. Zanitonella Moscheide Epigrammi 224 i Folia sine nomine, a cura di Cesare Ruffato e Luciano Troisio 70 Forti, Marco 32 50 51 87 100 161 " Idea del romanzo italiano fra Ottocento e Novecento 51 In viaggio 100 Prosatori e narratori del Novecento italiano 161
Fortini, Franco 26 36 71 78 167 211 236 239 280 285
Paesaggio con serpente. Poesie 1973-1983 167 Saggi italiani - Nuovi saggi italiani 236 Una obbedienza 36 Fortunato, Mario 271
Foscolo, Ugo 27 72 193 194 Autobiografia dalle lettere 27 Le Grazie 129 131.193 194 Poesie e carmi 193 Francesco d'Assisi, santo 28 48 Fioretti di san Francesco 28 Francisci, Bruno 139 Dentro il labirinto 139 Frassineti, Augusto 30 Frezza, Luciana 272
24 pezzi facili 272 «Il frontespizio » 297 Fruttero, Carlo 13 14 97 121 134 204
259 Fruttero, Carlo - Lucentini, Franco 13 14 97 121 134 204 259
A che punto è la notte 13 259 La donna della domenica 14 259
L’amante senza fissa dimora 204 Fucci, Gianni 110 La mòrta e e’ cazaddur 110
Furst, Henry 294 Fusini, Nadia 208 Nomi. Il suono della vita 208
Gadda, Carlo Emilio 57 66 68 103 130 154 160 162 214 242 244 272 289 294 A un fraterno amico. Lettere a Bonaventura Tecchi 160 Il castello di Udine 154 289 Il palazzo degli ori 130 Il tempo e le opere 103 I viaggi e la morte 103 Le bizze del capitano in congedo e altri racconti 57 Lettere a Gianfranco Contini 272 Lettere agli amici milanesi 130 L’ingegner fantasia. Lettere a Ugo Betti 160 Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana 57 130 294 Racconto italiano di un ignoto del Novecento 130
Romanzi e racconti II 294
Un radiodramma per modo di dire e scritti sullo spettacolo 103 Gaddis, William 259
Le perizie 259
(The Recognitions)
Gaeta, Franco 160
Gaglio, Giovanni 166 Galante Garrone, Virginia 55 Se mai torni 55 Galilei, Galileo 128 129 Galimberti, Cesare 112 Gallian, Marcello 271
Il soldato postumo 271 Gallo, F. Alberto 238 Garboli, Cesare 69 80 103 165 201 235 241 289 290
192
Penna papers 165 Scritti servili 289
Gargani, Aldo 19 Stili di analisi 19
Garibaldi, Giuseppe 96 Garin, Eugenio 87 Garzanti, Livio 19
L'amore freddo 19 Gatto, Alfonso 85 205 Gay, John 35 Gelli, Piero 31 Gentile, Giovanni 86 87 287 288 Getto, Giovanni 25
Malinconia di Torquato Tasso 25 Ghersi, Guido 137 La città e la selva 137 Ghidetti, Enrico 87 120 130 Italo Svevo. La coscienza di un borghese triestino 87 Ghiselli, Luca 218 Prose e versi 218 Giacomini, Amedeo 166 190 234
Fuejs di un an 166 Presunto inverno. Prsumît
unviar.
Poesie friulane 234 Mistieròi. Mistiris (con Andrea Zanzotto) 190 Giannetta Trevico, Rosa 100 Voglia di more 100 Gibellini, Pietro 162 L’Adda ha buona voce. Studi di letteratura lombarda dal Sette al Novecento 162
Ginzburg, Carlo 19 212 290 I benandanti. Ricerche sulla strego-
21N/
neria e sui culti agrari tra Cinquecento e Seicento 290
Il formaggio e i vermi 290 Miti emblemi spie. Morfologia e storia 212 290 Spie. Radici di un paradigma indiziario 19 20
Storia notturna.
Una
decifrazione
del Sabba 290 Ginzburg, Leone 49 Ginzburg, Natalia 107 133 134 156 201 La città e la casa 156
La famiglia Manzoni 133 «Giornale di poesia » 71 Giovani blues, a cura di Pier Vittorio Tondelli 201 Giudici, Giovanni 76 77 166 187 188 218 298 Frau Doktor 298 Il ristorante dei morti 77 La dama non cercata. Poetica e letteratura 1968-1984 188 Lume det tuoi misteri 166 Prove del teatro 298 Salutz 1984-1986 218 Giuliani, Alfredo 63 218 Versi e nonversi 218 Giuliotti, Domenico 160
Carteggio (con Giovanni Papini) 160 «Giustizia e Libertà » 55 Gobetti, Piero 49 Goldoni, Carlo 129 Golino, Enzo 85 176 Intellettuali Mass media Società 85 Pasolini: il sogno di una cosa 176 Gorni, Guglielmo 151 Gorra, Marcella 112 Gorresio, Vittorio 15 44 241 La vita ingenua 15 44 241 Gozzano, Guido 80 81 129 211 Tutte le poesie 81 Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India 81 Gozzini, Mario 160 Gramigna, Giuliano 20 21 76 77 213 293 Es-0-Es 77 La festa del centenario 293
La menzogna del romanzo 20 Le forme del desiderio 213 Gramsci, Antonio 25 86 162 281 287
378
Cronache torinesi 25 Lettere dal carcere 25 Letteratura e vita nazionale 162
Quaderni del carcere 25 Grana, Gianni 24 129 297
I « Viceré» e la patologia del reale 129 Diomorto 24 Granzotto, Gianni 17 Annibale 17 Grasset, Bernard 8 119 Grasso, Mario 110 Friscalittati. Poesie siciliane 110
I guerrieri di Riace 110 Greene, Graham 187 Griffo, Massimo 69 Futuro anteriore 69 Grisoni, Franca 218 272 La bòba 218 L’oter 272 Gros-Pietro, Sandro 73
Battaglia di Marostica 73 Grinewald, Matthias 34 «Gruppo 63 » 131
Guarini, Ruggero 290 Compagni ancora uno menticare Togliatti 290 Guarnieri, Silvio 289 L'ultimo testimone 289
sforzo: di-
Guerra, Tonino 64 78 218 234 Ibu 78
I guardatori della luna 64 Il miele 78
Il viaggio 234 La capanna 218 Guerri, Giordano Bruno 87 88
L’arcitaliano 87 88 Guglielmi, Angelo 106 107 Guglielmi, Guido 213 La prosa italiana del Novecento 214 Guglielminetti, Marziano 81 211 291 Guida allo studio della letteratura italiana, a cura di Emilio Pasquini 181 Guidacci, Margherita 34 L'altare di Isenheim 34 Guinizelli, Guido 217 Poesie 217 Guttuso, Renato 16
«Harmony » 123 Harris, Neil 224 Hindermann, Federico 75
Docile contro 75 Quanto silenzio 75 Il movimento della poesia italiana negli anni Settanta, a cura di Tomaso Kemeny e Cesare Viviani 30 Il Novecento, a cura di Gina Lagorio e Piero Gelli 31 Il «nuovo » in poesia, a cura di Carlo Marcello Conti e Lamberto Pignotti 234 Il piacere della letteratura, a cura di Angelo Guglielmi 106 Il ya des poètes partout 29 I maestri italiani del racconto, a cura
di Elio Pagliarani e Walter Pedullà 244 Imbriani, Vittorio 158
L’impretratrice 158 Merope IV 158 Ingegno, Adolfo 112 Ingrao, Pietro 294 I percorsi della nuova poesia italiana, a cura di Cesare Viviani e Tomaso Kemeny 72 Isella, Dante 58 80 103 130 161 162 190 234 294 I lombardi in rivolta. Da Carlo Maria Maggi a Carlo Emilio Gadda 161 Le carte mescolate. Esperienze di filologia d'autore 234 Saggio di una bibliografia gaddiana 57 58 Isotta, Paolo 128
Il ventriloquo di Dio 128 Italo Svevo oggi, a cura di Marco Marchi 87 Jacobbi, Ruggero 150 L'avventura del Novecento 150 Jacobelli, Jader 287 Croce-Gentile. Dal sodalizio al dramma 287 Jacomuzzi, Stefano 271 Un vento sottile 271 Jacopo da Varagine 112 Le serpi in seno. Santi e birbanti della legenda aurea dal Medioevo alla Controriforma 112 Jacopone da Todi 139 Jaeggy, Fleur 295
I beati anni del castigo 295
Jahier, Piero 103130 Con me 130 Poesie in versi e in prosa 103 James, Henry 187 Joyce, James 46 Jumblatt, Walid 252 Kafka, Franz 284
Il processo 134 Kemeny, Tomaso 30 72 Qualità del tempo 72 Krumm, Ermanno 233 Le cahier de Monique Charmay 233 Kundera, Milan 228 L’arte del romanzo 228
«La battana » 108 La Capria, Raffaele 208 265 266 L’armonia perduta 208 La neve del Vesuvio 266 Un giorno d’impazienza 265 266 La crisi della ragione, a cura di Aldo Gargani 19 Lagorio, Gina 13 31 243 Fuori scena 13 Golfo del paradiso 243 Lajolo, Davide 55 56 135 Il merlo di campagna e il merlo di città 135 Veder l’erba dalla parte delle radici 56 Ventiquattro anni 55 56 L'albero a cui tendevi la pargoletta mano 32 Lamarque, Viviane 73 Teresino 73 Landolfi,
Tommaso
31 85
103
227
242 244 294 Il gioco della torre 245 LA BIERE DU PECHEUR 294 Le più belle pagine di Landolfi 103 Lanuzza, Stefano 25 30 L’apprendista sciamano. Poesia italiana degli anni Settanta 30 Savinio 25 La parola innamorata. I poeti nuovi 1976-1978, a cura di Giancarlo Pontiggia e Enzo Di Mauro 71
La poesia friulana del Novecento, a cura di Walter Belardi e Giorgio Faggin 234
319
«La Ronda » 86 Laterza, Giuseppe 86 Lavagetto, Mario 80 87 223 263 Per conoscere Saba 80 Lenisa, Maria Grazia 32
Erotica 32 Leonetti, Francesco 34 62
Campo di battaglia 62 Conoscenza per errore. Studente di Bologna del ’48-°49 62 L’incompleto (Nel mondo pieno di merci) 62 In uno scacco (nel settantotto) 34 Leonzio, Ugo 65 Il cielo e la terra 65 Leopardi, Giacomo 26 27 112 185 241 288 300 Canti 112 Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani 300 Operette morali 26 112 Pensieri 112 Leopardi, Paolina 26 Lettere inedite, a cura di Giampiero Ferretti 26 Le parole di legno. Poesia in dialetto del ’900 italiano a cura di Mario Chiesa e Giovanni Tesio 189 Leto, Gabriella 32
« Letteratura » 294 Letteratura e critica: vizi 0 virtù? 226 Letteratura italiana, diretta da Alberto Asor Rosa vol. I: Il letterato e le istituzioni 131 vol. II: Produzione e consumo 132
vol. III: Teoria e poesia della letteratura italiana 150 vol. IV: L’interpretazione 181 vol. V: Le questioni 211 vol. VI: Teatro, musica, tradizione dei classici 238 vol. VII: Storia e geografia III. L'età contemporanea 291 Letteratura italiana a cura di Carlo Muscetta 23 Letteratura italiana contemporanea, a cura di Gaetano Mariani e Mario Petrucciani 23 Levi, Carlo 49
Levi, Primo 81 82 101 104 134 165 208
320
Ad ora incerta 165 I dispersi e i salvati 208 La ricerca delle radici 81 Se non ora, quando? 101 Lewis, Sinclair 153
Opera d’arte 153 Lilli, Laura 69 Zeta e le zie 69 « Lingua e letteratura » 203 « Lire » 230 Lisi, Nicola 154 Paese dell’anima 154 Lodoli, Marco 202 209
Diario di un millennio che fugge 202 209 Loi, Franco 76 78 190 218 272 Bach 218
L’angel 78 L'aria 78 Liber 272 Stròlegh 78 Lombardo, Agostino 214 Il testo e la sua performance (per una critica imperfetta) 214 Longhi, Roberto 54 82 236 Breve ma veridica storia della pittura italiana 82 Loy, Rosetta 100 243 L'estate di Letuquè 100 Le strade di polvere 243 Lucentini, Franco 13 14 97 121
134
204 259 Lumelli, Angelo 29 Trattatello incostante 29 « Lunarionuovo » 139 Lunetta, Mario 71 72 139 296
Luperini, Romano 23 Luporini, Cesare 26 Leopardi progressivo 26 Luti, Giorgio 149 160 225 Firenze corpo 8. Scrittori, riviste, editori del 900 149 Luzi, Mario 30 33 36 85 102 138 139 163 164 188 232 244 297 Biografia a Ebe 102 Discorso naturale 163 Francamente 36 Hpystrio 232 Per il battesimo dei nostri frammenti 188 Il silenzio, la voce 164
Libro di Ipazia 138 164 232
Rosales 138 232 . Semiserie 36 Trame 102
Macchia, Giovanni 21 82 84 112 120
125° 126°130:191192:215:235-239 272 288 289 Baudelaire critico 272 Gli anni dell’attesa 235 Il mito di Parigi. Saggi e motivi francesi 191 La letteratura francese, vol. I: Dal Medioevo al Settecento 239 L'angelo della notte 21 Le rovine di Parigi 191 Pirandello o la stanza della tortura 82 126 Proust e dintorni 288 Saggi italiani 125 Tasso e la prigione romantica 126 Tra Don Giovanni e Don Rodrigo. Scenari secenteschi 289 Machiavelli, Niccolò 57 159 160
Lettere 159 160 Macrì, Oreste 218 297
Studi sull’ermetismo. L’enigma della poesia di Bigongiari 297 Madrignani, Carlo A. 159 Maffia, Dante 141
Caro Baudelaire 141 Maggi, Carlo Maria 162 Magnani, Luigi 96 106 Il mio Morandi. Un saggio e cinquanta lettere 96 Magrelli, Valerio 30 110 239 Nature e venature 233 Ora serrata retinae 30 Magris, Claudio 11 20 79 86 87 109 155-203 212/229 241272 Danubio 213 241 Illazioni su una sciabola 155 Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna 272 Itaca e oltre 109 Narrativa 20 Trieste. Un’identità di frontiera (con Angelo Ara) 109 Majorino, Luciano 29 Malagò, Elia 32 139 219 Maree 219 Pita pitela 139 Malaparte, Curzio 87 88
Malerba, Luigi 13-59 66 67 210 265 266 Diario di un sognatore 67 Dopo il pescecane 13 Il pianeta azzurro 210 266 Testa d’argento 266 Mallarmé, Stéphane 72 Manacorda, Giorgio 74 L’esecutore 74 Manacorda, Giuliano 23 110 Storia della letteratura italiana con-
temporanea 1940-1975 23 Storia della letteratura italiana fra le due guerre 1919-1943 23 Mancinelli, Laura 46 I dodici abati di Challant 46 Mandruzzato, Enzo 219
Solo il segno del due 219 Manfredi, Gianfranco 182
>
Manganelli, Giorgio 59 66 67 80 100 109 120 134 184 207 214 243 289 Amore 67 289 Angosce di stile 109 Antologia privata 289 Centuria 66 Dall’inferno 184 Discorso dell’ombra e dello stemma. O del lettore e dello scrittore considerati come dementi 100 Laboriose inezie 207 Rumori 0 voci 243 Tutti gli errori 207 Mangoni, Luisa 290 In partibus infidelium 290 Mann, Thomas 128 Mansfield, Katherine
(Kathleen
Beauchamp Murry) 84 Manzi, Luigi 299 Malusanza 299 Manzini, Gianna 85 Manzoni, Alessandro
26 50 51 133
158 159 161 163 173 174 175 288 290 298 300 I promessi sposi 108 158 163 175 300 Il «mestiere guastato» delle lettere 175 Storia della colonna infame 108 163 Manzoni, famiglia 133 Marabini, Claudio 17 18 210 271
L’Acropoli 271 Il passo dell’ultima dea 17 ,
321
Viaggio all’alba 210 Marchesi, Concetto 241
Marchetti, Giuseppe 29 La petite capitale e altri studi padaMazo Marchi, Cesare 162
Impariamo l’italiano 162 Marchi, Marco 87 189 225
Alcuni poeti 189 Marchione, Margherita 25 Marcovecchio, Aldo 130
Marghieri, Clotilde 82 Lo specchio doppio. Carteggio 1927-1958 (con Bernard Berenson) 8182 Mariani, Gaetano 23 102
Il lungo viaggio verso la luce. Itine«ario poetico di Mario Luzi 102 Marin, Biagio 36 76 79 110174 E anche el vento se tase 110 Nel silenzio più teso 36 Poesie 79 ; Marinetti, Filippo Tommaso 134 135 215 224 Taccuini 1915-1921 224
Quale Manzoni? Vicende figurative dei Promessi sposi 175 Melotti, Franco 80 Memmo, Francesco Paolo 219
La sezione aurea 219 Meneghello, Luigi 245 266 267 294 Bau-sète! 266 267 I piccoli maestri 245 266 267 Jura 245 Libera nos a malo 245 294 Mengaldo, Pier Vincenzo 31 78 80 214251 Epistolario di Nievo: un’analisi linguistica 231 La tradizione del Novecento 231 Menichetti, Aldo 151
«Meridiani » 231.296 Michaux, Henri 108 Michelstaedter, Carlo 103 130
Epistolario 130 La persuasione e la rettorica 103 Milanese, Cesare 76 Il tempo e l’ora 76 Milanini, Claudio 80 Miniussi, Sergio 25
Marini, Gian Mario 160 Mariotti, Giovanni 156 173 174 Butroto. Un’avventura di Uc de la Bacalaria 156 174
Giacomo Leopardi 241 Mixer 230
Marpillero, Gina 56 Essere di paese 56
Mondadori, Leonardo 225 226 230 Mondo, Lorenzo 271
Martelli, Mario 151 Martinelli, Luciana 214
I padri delle colline 271 Montale, Eugenio 28 76 79 80 108 130 160 213 239 243 289 294 Altri versi 80 Mottetti 80 Opera in versi 7679 80 Quaderno genovese 130 Montefoschi, Giorgio 105 156 243 La felicità coniugale 105 La terza donna 156 Lo sguardo del cacciatore 243 Montefoschi, Paola 163 Montefoschi, Silvia 87 Monteleone, Luigi 295 La pena e l'oblio 295
I segni e il vuoto 214 Mascioni, Grytzko 20 75 96 106
Cleopatra e una notte 75 E autunno, Signora, e ti scrivo da Mosca 75 Lo specchio greco 20 Saffo 96 Masiello, Vitilio 27 Matacotta, Franco 15 Fisarmonica rossa 15 Mattioni, Stelio 18 Il richiamo di Alma 18
Maugeri, Angelo 139 299 Kursaal 299 Passaggio dei giardini di ponente 139 Mazzarino, Giulio Raimondo cardina-
lega Breviario dei politici secondo il cardinale Mazzarino 112 Mazzocca, Fernando 175
322
Minore, Renato 241
Montesanto, Gino 64 183
Le impronte 64 Preti d’inferno 183 Morandini, Giuliana 27 La voce che è in lei 27 Morante, Elsa 101 104 174 235 293 Aracoeli 101 102
La Storia 101 293 Pro e contro la bomba atomica 235 Moravia, Alberto 22,69 101 104 135
178 183 186 244 252 262 264 265 289 Gli indifferenti 178 Impegno controvoglia. Saggi, articoli, interviste: trentacinque anni di scritti politici 22 La cosa 135 Lettere (con Giuseppe Prezzolini) 101 L’uomo che guarda 186 L’uomo come fine 22 1934 101 Storie della preistoria 101 Viaggio a Roma 265 Moravia (Llera), Carmen 252 253
Georgette 252 Morazzoni, Marta 205 264 L'invenzione della verità 264
La ragazza col turbante 205 Moretti, Franco 209 228 229
Il romanzo diformazione 209 228 Segni e stili del moderno 228
Liceo 233 Niccolai, Giulia 73
Harry's bar e altre poesie 73 Nievo, Ippolito 50 112 158 159 Antiafrodisiaco per l’amor platonico 158 Le confessioni di un italiano 158 Lettere 112 Nievo, Stanislao 241
Le isole del paradiso 241 Nigro, Raffaele 240 242 Ifuochi del Basento 240 Nigro, Salvatore S. 130 211 Nonno 281 Novecento.
Gli scrittori e la cultura letteraria nella società italiana a cuìa di Gianni Grana 24 Novelle italiane, vol. III: Racconti italiani del Novecento, a cura di Mario Petrucciani 244 Noventa, Giacomo 218 234 Versi e poesie 218 «Nuova raccolta di classici annotati » AVI Nuovi poeti italiani 71
Moretti, Nanni 229
Morini, Luigina 28 Morselli, Guido 289 Mundula, Angelo 33 141 233
Occhipinti, Giovanni 74 Agl’inferi. All’averno 74 «Officina » 281
Dal tempo all’eterno 33 Ma dicendo Fiorenza 141 Picasso fortemente mi ama 233 Muscetta, Carlo 23
Oldani, Guido 202 219
Musil, Robert 112 Musolino, Giovanna 166
Mussapi, Roberto 189 233 Luce frontale 233
Naldini, Nico 176 215 272 La curva di San Floreano 272 Nei campi del Friuli. La giovinezza di Pasolini 176 Vita di Giovanni Comisso 176 Natoli, Salvatore 288
Giovanni Gentile filosofo europeo 288 Nembrini, Claudio 245 La locandina gialla e altri racconti
245 Nencioni, Giovanni 127
Tra grammatica e retorica. Da Dante a Pirandello 128 Neri, Giampiero 233
Stilnostro 202 Olivetti, Adriano 49
Ongaro, Alberto 65 205 La partita 205 La taverna del doge Loredan 65 Romanzo d'avventura 65 Orelli, Giorgio 298 Spiracoli 298 Orelli, Giovanni 19
Il giuoco del Monopoly 19 Orengo, Nico 13 81 167 206 271 Cartoline di mare 167 Dogana d’amore 206 La misura del ritratto 13 Ribes 271 Origo, Iris 96 106 Bernardino da Siena e il suo tempo 96 Orlando, Francesco 181 Ortese, Anna Maria 204 205
Angelici dolori 205 Il mormorio di Parigi 204
1958
Il porto di Toledo 205 L’iguana 204 205 Poveri e semplici 205 Silenzio a Milano 204 205 Ortesta, Cosimo 30
Bagno degli occhi 30 Ossola, Carlo 158 237
Dal Cortegiano all’Uomo di mondo. Storia di un libro e di un modello sociale 237 Ottieri, Ottiero 155 218 Ù Il divertimento 155 Tutte le poesie 218 Ottonieri, Tommaso 69
Dalle memorie di un piccolo ipertrofico 68-69
Lettere
1911-1954
(con Antonio
Baldini) 160 Carteggio (con Domenico Giuliotti) 160 Carteggio 1914-1941 (con Attilio Vallecchi) 160 Papini, Maria Carla 85 Il linguaggio del moto. Storia esemplare di una generazione 85 Parazzoli, Ferruccio 13 100 183 243
Carolina dei miracoli 13 Il giardino delle rose 183 184 Uccelli del paradiso 100 Vigilia di Natale 243 Parini, Giuseppe 159 Il Giorno 159 Parise, Goffredo 100 101 245
Pacchiano, Giovanni 158 Pagliai, Francesco 193
Pagliano, Gabriella 128 Servo e padrone. L'orizzonte dei testi 128 Pagliarani, Elio 71 244 Pagnanelli, Remo 189 Atelier d’inverno 189 Pagnini, Marcello 23 Pragmatica della letteratura 23 Palandri, Enrico 200
Boccalone 200 Le pietre e il sale 200 201 Palazzeschi, Aldo 154 173
Le sorelle Materassi 154 Palermo, Antonio 23
La tessera e il «puzzle ». La letteratura della sociologia 23 Palmery, Gianfranco 110 Mitologie 110 Pampaloni, Geno 33 61 82 83 84 87 104 125153155" 163:213 239255 285 300 Buono come il pane e altre memorie di giovinezza e di morte 155 Fedele alle amicizie 155 Modelli ed esperienze della prosa contemporanea 239 Trent'anni con Cesare Pavese. Diario contro diario 81 82 84 Pancrazi, Pietro 107 120
« Panorama » 177 231 278 Paolini, Alcide 183 La donna del nemico 183 Papini, Giovanni 25 87 134 135 160
324
Gli americani a Vicenza e altri racconti 1952-1965 245 Sillabario n. 1102 Sillabario n. 2100 102 Parronchi, Alessandro 79
Pietà dell’atmosfera 79 Replay (1970-1977) - Un'estate a pezzi (1979) 79 Pascoli, Giovanni 80 81 192
L’opera poetica 81 Myricae 80 Opere 80 Poesie famigliari 192 Pascutto, Giovanni 19 65
L’amico Fritz 65 Tre locali più servizi 19 Pasinetti, Pier Maria 136
Dorsoduro 136 Pasolini, Pier Paolo 83 104 108 173
175176 189 190 215 234 Amado mio 104 Lettere (1940-1954) 215 Passione e ideologia 176 Poesie a Casarsa 83 190 Pasquini, Emilio 181 Pavese, Cesare 113 269 La luna e ifalò 258 Pazzi, Roberto 182 183 185 205 Cercando l’Imperatore 185 La principessa e il drago 205 Pecora, Elio 69 79 165 Estate 69 Sandro Penna: una cheta follia 165 Pederiali, Giuseppe 46
Il tesoro del bigatto 47 Pedretti, Nino 110
La chésa de témp. Poesie scritte nel dialetto di Santarcangelo di Romagna 110 Pedullà, Walter 24 85 128 237 244 Alberto Savinio scrittore ipocrita e privo di scopo 24 Il ritorno dell’uomo difumo 237 Miti, finzioni e buone maniere difine millennio 128 Penna, Sandro 76 79 165
Confuso sogno 79 Pento, Bortolo 74
Sinossi 74 Perini, Leandro 86
Editore e potere in Italia dalla fine del secolo XV all’Unità 86 Perlini, Tito 86 Perniola, Mario 20
La società dei simulacri 20 Perugi, Maurizio 80 Peruzzi, Emilio 27 112
Studi leopardiani: La sera del dì di festa 27 Pessoa, Fernando 281 Petrarca, Francesco 163 237 292 Canzoniere 292 Petrignani, Sandra 226 Navigazioni di Circe 226 Petrobelli, Pierluigi 238 Petrocchi, Giorgio 25 211 Petroni, Guglielmo 154 183 232 Il mondo è una prigione 183 Il nome delle parole 154 Terra segreta 232 Petrucciani, Mario 23 244 Philippe, Charles-Louis 202 Bubu de Montparnasse 202 Picchi, Mario 213
Storie di casa Leopardi 213 Piccioni, Leone 15 87 285 296 Ungarettiana. Lettura delle poesie, aneddoti, epistolari inediti 15 Piccolo, Lucio 166
La seta e altre poesie inedite e sparse 166 Piemontese, Felice 74 295
Dopo l'avanguardia 74 Epidemia 295 Intorno a quelle macerie 74 Piemontese, Filippo 32
Pierro, Albino 110 166 218 Metaponto 110 Poesie tursitane 218 St pò’ nu jurne 166 Pignotti, Lamberto 108 235 Pintor, Luigi 106 Piovene, Guido 14 102 149 Romanzo americano 14 Spettacolo di mezzanotte 149 Pirandello, Luigi 50 51 84 128 214 215 244 Maschere nude 215 Novelle per un anno 215 Tutti i romanzi 215 Pirro, Ugo 96 Mato figlio non sa leggere 96 Pivot, Bernard 230 Pizzuto, Antonio 128 Placanica, Augusto 300
Poe, Edgar Allan 134 « Poesia » 296 « Poesia contemporanea » 139 Poesia degli anni Settanta, a cura di Antonio Porta 31
Poesia della voce e del corpo, a cura di Filippo Piemontese 32 « Poesia e realtà » 29 Poesia italiana della contraddizione, a
cura di Franco Cavallo e Mario Lunetta 296 Poesia italiana oggi, a cura di Mario Lunetta 71 72 Poesia uno 32 Poeti del Duecento, a cura di Gianfranco Contini 216 Poeti dialettali del Novecento, a cura di Franco Brevini 234 Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo 231 «Il Politecnico » 281
Poliziano, Angelo 128 Polo, Marco 134 Il milione 134 Pomilio, Mario 132 133 Il Natale del 1833 132
Il quinto Evangelio 133 Pontiggia, Giuseppe 161 293 Il giardino delle Esperidi 161 La grande sera 289 Porta, Antonio 31 32 63 139 167 187
188 271 Il giardiniere contro il becchino 271
920,
Invasioni (1980-1983) 167 L’aria della fine 139 Nel fare poesia 188 Passi passaggi 31 Se fosse tutto un tradimento 63 Porta, Giuseppe 28 Portinari, Folco 32 85 110 112 208 300 Il piacere della gola 208 Pari siamo! Io la lingua, egli ha il pugnale. Storia del melodramma ottocentesco attraverso 1 suoi libretti 85 Pozza, Neri 13 100
Le luci della peste 100 Una città per la vita 13 Pozzi, Giovanni 108 151 238 La parola dipinta 108 Le parole nel disegno e 1 disegni nelle parole 238 Prato, Dolores 19
Giù la piazza non c’è nessuno 19 Prato pagano 32 71 Pratolini, Vasco 188
Il mannello di Natascia e altre cronache (1930-1980) 188 Metello 189 Praz, Mario
16 81 82 108
120 224
Pucci, Romana 19 La volanda 19
Pupino, Angelo Raffaele 108 Il vero solo è bello. Manzoni tra retorica e logica 108
Quasimodo, Salvatore 130 239 A Sibilla 130 «Quinta generazione » 71 Quaderni della Fenice 32 Rabelais, Francois 30
Gargantua e Pantagruele 30 Raboni, Giovanni 13 79 111 207 211 218 231 239 269
A tanto caro sangue 269 Canzonette mortali 218
Lafossa di Cherubino 13 Nel grave sogno 111 Poeti del secondo Novecento 239 Racconti e novelle del Novecento, a cura di Giacomo Antonini 244 Racconti italiani, a cura di Giovanni Carocci 244 Racconti italiani del Novecento, a cura di Enzo Siciliano 134 244 Racconti italiani del Novecento, a cura di Mario Petrucciani 244
241 Fiori freschi 108 Il mondo che ho visto 108 La casa della vita 16 Voce dietro la scena 81 82 Pressburger, Giorgio 294 La legge degli spazi bianchi 294 Prestigiacomo, Paolo 110 Grotteschi 110 Prezzolini, Giuseppe 32 87 96 101 106 Diario (1942-1968) 87 Lettere (con Alberto Moravia) 101 Vita di Niccolò Machiavelli fiorentino 96
Radiguet, Raymond 183 Ragone, Giovanni 291 Editoria letteratura e comunicazione 291 Raimondi, Ezio 25 108 120 150 151 239 272 Il silenzio della Gorgone 25 26 Il volto nelle parole 272 Le poetiche della modernità e la vita
Prisco, Michele 59 60 156 293
Ramat, Silvio 32 232 299
I giorni della conchiglia 293 Le parole del silenzio 59 Lo specchto cieco 156 Prosperi, Gianluca 32
Firenze vuol dire... 299 In piena prosa 232 Orto e nido 232 Ramondino, Fabrizia 59 67 68 266
Proust, Marcel 21 99 108 112 175
Contre Sainte-Beuve 175 A la recherche du temps perdu 21 108 288
326
letteraria 239 Poesia come retorica 25
Retoriche e poetiche dominanti (con Andrea Battistini) 150
Raimondi, Giuseppe 85 174 L’arcangelo del terrore 85
Althénopis 68 Un giorno e mezzo 266 Ranchetti, Michele 272 La mente musicale 272
Ranieri, Antonio 27 Sette anni di sodalizio con Giacomo
Leopardi 27 Reale, Basilio 299 L'esistenza amorosa 299 Rebora, Clemente 239 Redondi, Piero 128
Galileo eretico 128 Rei, Dario 226
I giovani e la critica letteraria 225 226 Repaci, Leonida 174 « Revue d’esthétique » 29 Riccardi, Carla 163
Richelmy, Tino 218 La lettrice di Isasca 218 Ridolfi, Roberto 57 96 106
L’acqua del Chianti 57 Vita di Francesco Guicciardini 96 Vita di Girolamo Savonarola 57 Vita di Niccolò Machiavelli 57 Rigoni Stern, Mario 63 184 L’anno della vittoria 184 Il sergente nella neve 63 Storia di Tonle 63 184 Uomini, boschi e api 63 Rimanelli, Giose (A. G. Solari) 280 Rinaldi, Rinaldo 104 Pier Paolo Pasolini 104 «Rinascita » 281
Ripa, Cesare 224 Iconologia 224 Ripa di Meana, Ludovica 289 Diligenza e voluttà (intervista con Gianfranco Contini) 289 Ripellino, Angelo Maria 31 Risi, Nelo 140 141 232
Ifabbricanti del bello 140 Le risonanze 232 Rivier, Andrea 35 110 La bottega 110 La violenza morgana 35 « Riviste friulane » 189 Robert, Marthe 113 La vérité littéraire 113 Rocca, Andrea 81 Rocchi, Giuliana 110 La vòita d’una dòna 110 Rodondi, Raffaella 183 Il presente vince sempre. Tre studi su Vittorini 183 Romagnoli, Fernanda 33
Il tredicesimo invitato 33 Romagnoli, Sergio 158 163 Manzoni e 1 suoi colleghi 163 Romano, Lalla 13 59 60 243 Inseparabile 60 Nei mari estremi 243 Una giovinezza inventata 13 Romanzi del Settecento, a cura di Folco Portinari 300 Ronchey, Alberto 96 Chi vincerà in Italia? 96 Ronchi, Graziella 159 Roncoroni, Federico 130 158 300
Ronfani, Ugo 34 Il dissenso della poesia 34 Rosselli, Aldo 100 295
L’apparizione di Elsie 295 Zefiro 100 Rosselli, Amelia 32 76 77 272 Antologia poetica 272
Impromptu 77 I primi scritti 77 Rosso, Renzo 18
Il segno del toro 18 Roversi, Roberto 29 71 Ruffato, Cesare 32 70 139 Parola bambola 139
Ruffilli, Paolo 32 71 112 233 Piccola colazione 233 Rugarli, Giampaolo 294 Nido di ghiaccio 294 Russo, Luigi 99 122
Saba, Umberto 76 80 130 239 244 Canzoniere 1921 76 80 La spada d'amore. Lettere scelte (1902-1957) 130 Trieste e una donna 80 Sablich, Sergio 238 , Sainte-Beuve, Charles-Augustin de 8
119 Sala, Alberico 56 111
Il pantano di Waterloo 111 La piena dell’Adda 56 Saltini, Vittorio 48 52
Il primo libro di Li Po 48 Salvago Raggi, Camilla 100 L’ultimo sole sul prato 100 Salvalaggio, Nantas 18 243 La doppia vita 243 Rio dei pensieri 18 Sanavio, Piero 65 66
327
Caterina Cornaro in abito di cortigiana 66 Sanesi, Roberto 75 Recitazione obbligata 75 Sanguineti, Edoardo 34 185 212 217 218 223 233 294 Bisbidis 232 Giornalino secondo 1976-1977 34 Interpretazioni di Malebolge 217 La missione del critico 223 Novissimum Testamentum 218 Stracciafoglio. Poesie 1977-1979 34 Sanminiatelli, Bino 56 57 La vita in campagna 56 Santucci, Luigi 47 56 57 Brianza e altri amori 56 Il bambino della strega 47 Lo zio prete 47 Sanvitale, Francesca 17 18 155 245. La realtà è un dono 245 L’uomo del parco 155 Madre efiglia 17 155 Sapegno, Natalino 49 238 278 279 Sasso, Gennaro 287
Per invigilare me stesso. I taccuini di lavoro di Benedetto Croce 287 Satta, Luciano 270 280
Matita rossa e blu 280 Scrivendo & parlando. Usi e abusi della lingua italiana 270
Sciascia, Leonardo 22 100 137 206 244 271 295
Fatti diversi di storia letteraria e civile 295 Il cavaliere e la morte 271 Il contesto 271 Kermesse 100 La sentenza memorabile 126 1912+ 1206 Nero su nero 22
Porte aperte 244 Todo modo 271 Una storia semplice 295 Scipione 103
Carte segrete 103 Scotti, Mario 129 131 193 194
Scritti in onore di Giovanni Macchia 125 Scritture giovani anni Ottanta 201, Scrivano, Riccardo 24 Segre, Cesare 28 148 159 160 176 181 Avviamento all’analisi del testo letterario 181 Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria 148 Sensi, Claudio 202 Il mondo in un libro 203 Sereni, Vittorio 62 111
Il giorno del giudizio 61 La veranda 61 Saviane, Giorgio 47 52 100 243 Getsemani 47 Il terzo aspetto 243 Il tesoro dei Pellizzari 100
245 289 Gli immediati dintorni 138 Il sabato tedesco 62 La pietà ingiusta 62 L'opzione 62 Senza l’onore delle armi 245 Stella variabile 111 138 Tutte le poesie 218 Sermonti, Vittorio 17 273
La nostra anima 58 Savonarola, Girolamo 57 Sbarbaro, Camillo 187 Pianissimo 187
127
A futura memoria 295 Alfabeto pirandelliano 295 Cruciverba 127 Dalla parte degli infedeli 23
Satta, Salvatore 59 61
Savinio, Alberto 24 58 214
126
138 218 231
Il tempo fra cane e lupo 17 L’Inferno di Dante 273
Scalfari, Eugenio 106 Scalia, Eugene 25
Serra, Elda 79 Serra, Renato 26 120 161
Scalia, Gianni 71 Scalise, Gregorio 110 La resistenza dell’aria 110 Scandurra, Sofia 69
Sette modi di fare critica, a cura di
Complesso di famiglia 69 Scarparo, Angela 189 Virtù 189
328
Ottavio Cecchi e Enrico Ghidetti 120, Sgorlon, Carlo 64 136 184 243 271 Il caldèras 271
L'armata dei fiumi perduti 184 La conchiglia di Anataj 136
La contrada 64 L'ultima valle 243 244 Shakespeare, William 214 Siciliano, Enzo 31 50-52 69 96 99 101 102 106 107 126 134 135 155 212 237 244
Alberto Moravia. Vita, parole e idee di un romanziere 96 101 Diamante 155 La bohème del mare. Dieci anni di
letteratura (1972-1982) 126 La letteratura italiana, vol. I: Da Francesco d’Assisi a Ludovico Ariosto 212 La letteratura italiana, vol. II: Da Niccolò Machiavelli a Giambattista Vico 237
La principessa e l’antiquario 50 51 155 La voce di Otello 99 «Sigma » 19
Silone, Ignazio 59 61 62 Severina 61 Sinigaglia, Sandro 30 Il flauto e la bricolla 30 La camena gurgandina 30 Slataper, Scipio 25 Soavi, Giorgio 18 137 Il conte 137 Sogni di gloria 18 Soffici, Ardengo 87 149 Soldati, Mario 59 100 135 149 183 186 187 242 294 El Paseo de Gracia 242 Nuovi racconti del Maresciallo 149 La casa del perché 100 L'architetto 186 L'attore 59 L’incendio 59 Lo smeraldo 59 Rami secchi 294 «il Sole-24 ore » 279 Solinas Donghi, Beatrice 100 Gli sguardi 100 Solmi, Sergio 21 120 158 161 Opere: Poesie, meditazioni e ricordi 161
Quadernetto di letture e ricordi 21 Spagnoletti, Giacinto 166 180 297 Letteratura italiana del nostro secolo 180 Versi d’occasione 166
Spatola, Adriano 32 Spaventa, Bertrando 122 Spaziani, Maria Luisa 76 77 218 Geometria del disordine 77 La stella del libero arbitrio 218 Spinazzola, Vittorio 146 163 Il libro per tutti. Saggio su «I promessi sposi » 163 La democrazia letteraria 146
Spinella, Mario 242 Lettera da Kupiansk 242 Staglieno, Marcello 17 Lilì Marleen (con Renato Besana) 17 «La Stampa » 278 Starobinski, Jean 44 Stella, Angelo 159 Sterne, Laurence 260 281
La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo 260 Stevenson, Robert Louis 111 187
Lo strano caso del dottor Jekyll e del Sign. Hyde 134 Storia della letteratura italiana, diretta
da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno 238 Storia d’Italia Intellettuali e potere, a cura di Corrado Vivanti 86 Straniero, Michele Luciano 111
Good-bye del Minotauro 111 Strati, Saverio 18 Il diavolaro 18
Stuparich, Giani 134 Sue, Eugène 257 Svevo, Italo (Ettore Schmitz) 24 50 51
87 178 214 225 244 La coscienza di Zeno 182 Zeno. La coscienza di Zeno, La rigenerazione, Racconti e altri testi 225 Tabucchi, Antonio 156 182 185 271 Il gioco al rovescio e altri racconti
271 Notturno indiano 156 Piccoli equivoci senza 185 Tadini, Emilio 65 66 242 La lunga notte 242 L’armi l’amore 65 Opera 66 Tagliaferri, Aldo 297
importanza
329
Tassoni, Luigi 216 Tedesco, Natale 24 299 La condizione letteraria del Nove-
cento. Gozzano e Svevo 24 L’occhio e la memoria 299 Tenenti, Alberto 211 Terminelli, Luciano 35
Poesie antigruppo 35 Poesie ideologiche 35 Terra, Dino 153
Anima e corpo 153 Terra, Stefano 13 100
Albergo Minerva 100 Le porte di ferro 13 Terzi, Antonio 100 Lafuga delle api 100 Tesauro, Emanuele 237
Edipo 237 Tesio, Giovanni 189-191 234 Tessa, Delio 190 234
L'è el dì di Mort, alegher!190 Testaferrata, Luigi 18 245 L’altissimo e le rose 18 Tenera come colomba 245 Testori, Giovanni 33 107 140 141 218
di Diadèmata 218 In exitu 271 Interrogatorio a Maria 33 Ossa mea 140 « Testuale » 296 Thibaudet, Albert 20 179 Les heures de l’Acropole 20 Réflexions sur le roman 179 Thomas, Dylan 72 « Times Literary Supplement » 280 Tiraboschi, Antonio 131 Tobino, Mario 100
Gli ultimi giorni di Magliano 100 Todisco, Alfredo 162
Ma che lingua parliamo. Indagine sull’italiano di oggi 162 Tolstoj, Lev Nikolaevié 126 281 284 Anna Karenina 126 Guerra e pace 126 Tomasi di Lampedusa, Giuseppe 178 Il gattopardo 178 293 Tomizza,
Fulvio 17 18 48 49 50 52
154 205 Gli sposi di via Rossetti 206 Il male viene dal Nord. Il romanzo del vescovo Vergerio 154
330
Lafinzione di Maria 48 L'amicizia 17 Tondelli, Pier Vittorio 12 13 182 183
185 201 294 Altri libertini 12 Camere separate 294 Rimini 185 Toschi, Luca 158
Toulet, Jean Paul 111 Tozzi, Federigo 25 50 51 160 225 Adele. Frammenti di un 25 Con gli occhi chiusi 25 Novale 160
Opere. Romanzi, saggi 225 Tre croci 25
romanzo
prose, novelle e
Tozzi, Glauco 25 Treves, Piero 81
Trionfi e canti carnascialeschi toscani del Rinascimento, a cura di Riccardo Bruscagli 224 Troisi, Dante 60 La sopravvivenza 60 Troisio, Luciano 32 70 74 Precario 74 Venticinque vettori 74 Tugnoli, Giuseppe 17 Adua 17 Al sole di settembre 17 Turi, Gabriele 86 Il fascismo e il consenso degli intellettuali 86 «Tuttolibri » 177-179 Ulivi, Ferruccio 48 52 163 206 224
Le mura del cielo 48 Manzoni 163 Trenta denari 206 Ungarelli, Giulio 160 Ungaretti, Giuseppe 27 28 32 87 160 163 295 Album Ungaretti 296 Carteggio 1931-1962 (con Giuseppe De Robertis) 160
Invenzione della poesia moderna. Lezioni brasiliane di letteratura (1937-1942) 163 L’allegria 295 296 Lettere a Soffici 87 Poesie e prose liriche 1915-1920 295
Valduga, Patrizia 110 189 La tentazione 189
Valéry, Paul 108 Valesio, Paolo 30 Prose in poesia 30 Vallecchi, Attilio 160
Carteggio 1914-1941 (con Giovanni Papini) 160 Vallone, Aldo 50 51 Condizioni e condizionamenti nel romanzo italiano del Novecento 51 Varese, Claudio 27 Vassalli, Sebastiano 13 73 139 167 176 280 281 Abitare il vento 13 Flea market 139
Il finito 167 Il neoitaliano. Le parole degli anni
Vita e processo di Suor Virginia Maria di Leyva Monaca di Monza, a cura di Umberto Colombo e Giancarlo Vigorelli 174 Vitiello, Ciro 139 167 Didimo 139 Suite 167 Vittorelli, Paolo 55 L’età della tempesta 55
Vittorini, Elio 11 85 183 259 Il brigantino del papa 183 I libri, le città, il mondo.
Lettere
(1933-1943) 183 Vivaldi, Cesare 76 78 297 298
Poesie liguri. Vecchie e nuove 78 Pietra d’Assisi 298 Vivanti, Corrado 86 Viviani, Cesare 30 72 139 189 218
L’amore delle parti 7273 La scena. Prove di poetica 189 L’ostrabismo cara 72 Merisi 218 Vent'anni di impazienza. Antologia. Piumana 72 della narrativa italiana dal ’46 ad Summulae (1966-1972) 139 oggi, a cura di Angelo Guglielmi Volpi, Marisa 205 264 106 Il maestro della betulla 205 Venturi, Marcello 100 Nonamore 264 Sconfitti sul campo 100 Volponi, Paolo 35 59 60 61 218 293 Verdirame, Rita 273 Con testo a fronte 218 Verga, Giovanni 50 99 135 159 273 Corporale 61 I Carbonari della montagna - Sulle Il lanciatore di giavellotto 60 lagune 273 Il pianeta irritabile 61 Mastro don Gesualdo 158 La macchina mondiale 61 Le mosche del capitale 293 Vergerio, Pietro Paolo il Giovane Poesie e poemetti (1946-1966) 35 154 Ottanta 280 L'arrivo della lozione 13 La distanza 73 La notte della cometa 167 176
Veronesi, Sandro 271 Verri, Pietro 261 Vertone, Saverio 272 290
Penultima Europa 290 Viaggi in Italia 272 Viaggio nel ’900, a cura di Mauro Bersani e Maria Braschi 149 Vian, Nello 160 Viani, Lorenzo 103 134 Angiò uomo d’acqua 104
Vigolo, Giorgio 100 La Virgilia 100 Vigorelli, Giancarlo 32 130 175 289 Carte d’identità 289 Villa, Emilio 24 297 298 Oramai 297 Villari, Rosario 122
Voltaire, Frangois-Marie Arouet detto 114 Candido ovvero l'ottimismo 134
Wilcock, J. Rodolfo 31 Wilson, Edmund 213
W la poesia, a cura di Marco Marchi 189
Yourcenar, Marguerite 208 Zaccaria, Alfonso 35 291
L’opera degli straccioni 35 Zagarrio, Giuseppe 139 140 Febbre, furore e fiele. Repertorio della poesia italiana contemporanea
(1970-1980) 139
331
Zaggia, Massimo 224 Zanzotto, Andrea 36 138 139 190 213 218 267 Filò 36 267 Fosfeni 138 Idioma 218 Misteridi 36 Mistierdi. Mistiris (con Amedeo Giacomini) 190 Zarri, Adriana 295
Dodici lune 295 Zavattini, Cesare 128 272 Una, cento, mille lettere 272 Zeichen, Valentino 233 Museo interiore 233 « Zeta » 235 Zorzi, Alvise 96 106 Vita di Marco Polo veneziano 96 Zorzi, Mimi 64
Il medico di famiglia 64
Indice
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Finito di stampare nel mese di gennaio 1991 dalla RCS Rizzoli Libri S.p.A. - Via Scarsellini, 17 - 20161 Milano Printed in Italy
0061065 SERGIO PAUTASSO GLI ANNI OTTANTA E LA LETTERATURA. 1A EDIZ, RCS RIZZOLI LIBRI.MI,