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Italian Pages 164/173 [173] Year 2014
LA VITA DI SOPHIA n. 1
Tiziano Colombi
GAS Fritz Haber, inventore dello Zyklon B. Prefazione di Telmo Pievani
MIMESIS La vita di Sophia
© 2014 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine) Collana: La vita di Sophia, n. 1 Isbn: 9788857520575 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]
Telmo Pievani
PREFAZIONE
Nel 1951, alla British Interplanetary Society, il grande genetista inglese John Burdon-Sanderston Haldane dà una conferenza strabiliante su come vivere su altri pianeti: come cavarsela per mesi e anni in stazioni orbitanti; come impiantare basi su altri pianeti; quali forme di vita aspettarsi di trovare in altri sistemi; come proteggersi dalle radiazioni solari. Pochi anni dopo comincerà la corsa allo spazio tra russi e americani. E il bello è che Haldane fu uno dei pochi scienziati al mondo ad essere eletto sia nell’Accademia Nazionale delle Scienze statunitense sia in quella dell’Unione Sovietica. Miracoli di una mente libera. Non sempre però Haldane aveva guardato nella giusta direzione. La Prima Guerra mondiale segnò il triste inizio dell’utilizzo ufficiale di armi chimiche e biologiche durante i conflitti globali. Jack Haldane fu coinvolto in questa storia. Come impariamo da questo libro ben documentato, il gas cloro fu usato la prima volta dai tedeschi sul fronte francese, a Ypres, il 22 aprile del 1915. Haldane era arruolato nell’esercito britannico, nel glorioso Black Watch Regiment scozzese, e sembrava adorare il cameratismo della guerra. Combatteva in modo impavido, o forse temerario e spaccone, tanto da essere ferito gravemente in due occasioni. Dopo l’attacco tedesco con i gas, il British War Office incaricò il padre di Haldane - John Scott Haldane, un eminente fisiologo della respirazione - di verificare gli effetti di queste sostanze, di trovarne altre che fossero altrettanto efficaci almeno come deterrente e soprattutto di costruire maschere anti-gas di nuova tecnologia per le truppe britanniche. Haldane e il padre sperimentarono quindi su se stessi gli effetti di vari gas tossici, con e senza masche-
ra anti-gas (c’era la guerra, i soldati morivano sul fronte e non c’era tempo per protocolli di ricerca più sofisticati). Alla fine della guerra si calcolò che nelle trincee furono usate, da entrambe le parti, circa 100mila tonnellate di agenti chimici. La comunità internazionale firmò nel 1925 il Protocollo di Ginevra che mise al bando le armi chimiche e biologiche, anche se alcune adesioni importanti tardarono (gli Stati Uniti per esempio ratificarono il protocollo soltanto nel 1975). La pressione internazionale non servì per evitare l’utilizzo infame dell’insetticida Zyclon B. Nell’affare delle armi chimiche fra le due guerre mondiali, nessuno è innocente, ma qualcuno ha saputo interpretare meglio di altri la mostruosità umana. Haldane volle essere controcorrente a tutti i costi e scrisse uno dei suoi libri più controversi e iconoclasti, dedicato a Callinico, un profugo ebreo a Costantinopoli che nel VII secolo inventò il fuoco greco, un liquido incendiario di misteriosa formula che fece la fortuna dell’impero bizantino nelle battaglie navali contro gli islamici. Haldane sostenne che le armi chimiche a bassa mortalità come quelle a base di iprite erano più “umane” di quelle convenzionali, perché avevano effetti temporanei e dissuasivi, ed evitavano molte morti per pallottole e granate. Molti gli fecero notare polemicamente che gli sviluppi inediti di queste armi avrebbero potuto avere chissà quali conseguenze inimmaginabili in futuro (il piano inclinato della storia…), ma lui rispose con una certa arroganza che da scienziato poteva rassicurare sulla loro bontà. Come capita spesso anche alle grandi menti, non considerava l’importanza della prevenzione e di un ragionevole freno morale, dinanzi ai possibili abusi di una tecnologia distruttiva. Soprattutto, non valutava l’imprevedibilità intrinseca della ricerca scientifica: bisogna sempre diffidare di chi ci dice che cosa scopriremo o non scopriremo fra cinquant’anni, perché nessuno può saperlo. Nello stesso saggio Haldane si lancia in una sfortunatissima predizione, rassicurando sulla impossibilità di tecnologie di distruzione di massa ancor più potenti, come per esempio quelle ottenute sprigionando le forze dell’atomo (di cui già si parlava in quegli anni). Sostenne che erano tecnicamente irrealizzabili e che l’uomo sarebbe andato II
sulla Luna prima di riuscire a disintegrare o fondere nuclei atomici. La storia gli ha dato torto, visto che Armstrong mette piede sulla Luna nel 1969 mentre Hiroshima viene rasa al suolo nel 1945, venti anni esatti dopo il suo sfortunato libro in difesa della guerra chimica. La tragica figura del chimico Fritz Haber, l’ebreo luteranizzato che rese possibile il Zyclon B, qui interpretata in modo brillante e letterariamente pregevole da Tiziano Colombi, percorre gli stessi anni e gli stessi laceranti dilemmi, dal versante tedesco: grande fiducia nella scienza, cameratismo, e quel vizio di pensare che ci siano modi migliori e peggiori di crepare in una trincea. Qualcuno sostiene che in questi casi occorre considerare il contesto, i vincoli culturali, i condizionamenti sociali, le pressioni del momento, le umane debolezze, i patriottismi. Con un pizzico di cinismo si aggiunge di solito che senza finanziamenti militari non avremmo avuto grandi scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche del Novecento. Tutto vero, ma è una di quelle verità con margini di insoddisfazione, una verità che lascia l’amaro in bocca, giacché non sono mancati gli scienziati che hanno preferito di no, come Bartleby lo scrivano di Melville. Per un principio, per una questione di coscienza, per un moto etico, o forse solo per antieroica timidezza, hanno detto di no. Altri pensarono e pensano infatti che la scienza, se asservita alla guerra, al dominio e alla discriminazione, non sia più scienza, ma un’altra cosa. Oltre al qui presente Albert Einstein vi fu l’italiano Franco Rasetti, il ragazzo di Via Panisperna che preferì di no rispetto al Progetto Manhattan, subito dopo essersi accorto, grazie alle impertinenze serali di un generale statunitense, della strategia geopolitica degli americani (fermare il Giappone, ma recapitando un messaggio di potenza e di intimidazione all’alleato sovietico sotto forma di un fungo nel cielo). Da quel momento anche Joseph Rotblat dedicò la sua intera vita alle applicazioni esclusivamente pacifiche della fisica nucleare, fondando le Pugwash Conferences on Science and World Affairs che nel 1995 vinceranno il Premio Nobel per la Pace.
III
Altre scelte sono possibili, quindi. In tempo di guerra uno scienziato appartiene alla sua nazione, come imponeva lo zelo da convertito di Haber, o continua ad appartenere semplicemente al genere umano? Sul fronte francese, a Ypres, quel 22 aprile del 1915, c’era la mano solerte di Fritz Haber. Mentre la prima moglie, depressa e sconvolta, si toglieva la vita, lui assisteva all’applicazione dei suoi gas sul fronte orientale. Anche un figlio si suiciderà, nel 1946, dicono per la vergogna. Lui invece no. E dunque: condannato o assolto per crimini contro l’umanità? Lo scoprirete soltanto alla fine di questo delicato e sorprendente racconto di Colombi. Il mago prussiano dell’acido cianidrico e dell’ammoniaca - la quale è emblema in sé dell’ambiguità umana essendo base per fertilizzanti e per esplosivi - l’assiduo inventore e sperimentatore, il maestro dei chimici che al Kaiser Wilhelm di Berlino sintetizzarono l’efficiente pesticida per camere a gas, non preferì di no. Fu orgoglioso del suo fedele servizio come scienziato-soldato, fece giusto in tempo a rabbrividire dinanzi alla bestialità nazista nel 1933 e morì poco prima che il piano inclinato della storia mostrasse il suo ghigno peggiore.
IV
Tiziano Colombi
GAS Fritz Haber, inventore dello Zyklon B.
A Teresa
La scienza è dell’umanità in tempo di pace; della patria, in tempo di guerra. Fritz Haber, Premio Nobel per la Chimica, 1920
Forse dovrei descriverti meglio la situazione in Germania. Ma so che sei in contatto quotidiano con persone informate dei fatti. Il finanziamento di scienziati tedeschi colpiti da Berufsbeamtentum (leggi razziali), per esempio Max Von Laue e Fritz Schlenk, è stata interpretata dai colleghi ariani come un crimine. Non sono mai stato in vita mia Ebreo come ora. Lettera di Fritz Haber ad Albert Einstein, Parigi, Agosto, 1933
Ma Zarathustra guardava il popolo e si meravigliava. Poi disse: “L’uomo è una fune tesa tra il bruto e il superuomo. Una fune sopra l’abisso. Pericoloso l’andare alla parte opposta, pericoloso il restare a mezza via, pericoloso il guardare indietro, pericoloso il tremare e l’arrestarsi. Ciò che è grande nell’uomo è l’essere un ponte e non una meta: ciò che si può amare nell’uomo è l’essere una transizione e una distruzione. Amo quelli che sanno vivere soltanto per sparire, poiché son coloro appunto che vanno oltre. Io amo i grandi spregiatori perché sono i grandi adoratori, frecce del desiderio verso l’opposta riva. Amo coloro che non cercano, oltre le stelle, una ragione per offrirsi in sacrificio o perire; amo coloro che si sacrificano alla terra, perché la terra appartenga un giorno al superuomo. Amo colui che vive per conoscere, e che vuol conoscere affinché, un giorno, viva il superuomo. E in tal modo egli vuole la propria distruzione”. Così parlò Zarathustra, F. Nietzsche
GAS Fritz Haber, inventore dello Zyklon B.
I
L’ultima udienza era stata fissata a Cambridge per la tarda mattinata di mercoledì 30 Giugno 1954. Il primo teste, su invito del Giudice, si alzò e prese posto al centro dell’aula su quella che era la sedia adibita ai testimoni. L’uomo, malgrado il pallore, malgrado l’aria provata e stravolta, era affascinante; soltanto le mani, di forma regolare e minute, erano deturpate dalla malattia e la bocca aveva una piega amara, ma l’uomo sembrava sereno. Gli occhi erano protetti dalle lenti degli occhiali e il volto nascosto da un cappello nero a falde larghe. Con gesto automatico, portò la mano al taschino, cercando l’orologio che lo impreziosiva, invano; il taschino era vuoto. Le mani tremarono e l’uomo sembrò completamente smarrito nell’atto di chiedere aiuto ai colleghi delle prime file. Con movimento lento e desolato accostò i lembi della giacca e dal pubblico trepidante, che seguiva con lo sguardo ogni suo minimo gesto, si levò un mormorio di sottofondo. “Si tolga il cappello” disse il Procuratore distrettuale “i Giurati vogliono vederla in faccia!”. L’uomo lo tolse. Di nuovo tutti gli sguardi si fissarono sulla testa canuta, altera, dalla forma perfetta. Un collega più anziano, seduto in prima fila tra i testimoni, si protese istintivamente in avanti, come venendo in soccorso, poi, resosi conto della situazione, tornò a sedere. Era un pomeriggio umido e scialbo, come sempre l’estate a Cambridge; la pioggia scrosciante contro le vetrate. Sui rivestimenti di legno, sul soffitto decorato, sulle toghe rosse dei Giudici cadeva una luce argentata, da temporale. 15
Il teste volse lo sguardo ai Giurati, seduti di fronte, poi verso la sala, dove grappoli di spettatori stavano abbarbicati in ogni angolo. Il Procuratore distrettuale domandò nome, cognome, luogo di nascita. “Johannes Jaenicke” sussurrò lo scienziato, profondamente a disagio. Dalle labbra era uscito un flebile mormorio che non poté raggiungere il pubblico. Alcuni, contrariati, si interrogarono, ha risposto? Ma cosa ha detto? Dov’è nato? Non ho sentito, non si capisce niente… Lo scienziato vestiva in nero. Il colletto della camicia, appena inamidato, era di un bianco immacolato e dava quasi l’impressione di togliere il respiro. Una donna, facendosi aria con un ventaglio variopinto, disse sottovoce: “È affascinante…” e sospirò, quasi fosse a teatro. “Siano tutti maledetti!” replicò un reduce, rimasto zoppo a causa della perdita dell’alluce durante la battaglia della Marna. “Età?” domandò il Procuratore distrettuale, riprendendo l’interrogatorio. “Sessantasei anni” rispose lo scienziato, avvicinando, su suggerimento del Giudice, la bocca al microfono. “Lei è ebreo?” chiese conferma il Procuratore distrettuale. “Sì, ebreo” rispose il teste, stringendo il cappello tra le mani. “Professione?” domandò ancora il Procuratore. “Chimico. Sono stato l’assistente del Geheimrat Fritz Haber.” “Come vi siete conosciuti?” “Lo incontrai a Berlino, molti anni fa.” “In quali circostanze?” domandò il Procuratore, pressante. “A seguito dell’armistizio, nel 1919” disse Johannes Jaenicke, dopo un profondo respiro “Il Professore aveva reclutato una decina tra i migliori chimici, fisici e ingegneri tedeschi. C’imbarcammo clandestinamente a bordo dell’Hansa e solcammo l’Oceano Atlantico alla ricerca di un metodo per filtrare oro dall’acqua di mare.” “Può spiegare meglio alla Corte?” domandò il Procuratore. “Certamente” rispose Jaenicke “secondo i calcoli del Professor Fritz Haber, basati sulle osservazioni dello scienziato 16
svedese Svante August Arrhenius, nei mari sono disciolti all’incirca 0,6 milligrammi d’oro per tonnellata d’acqua. Il Professor Haber aveva immaginato di risarcire così ‘le riparazioni di Guerra’ cui la Germania era stata condannata. Oltre alla restituzione di Alsazia e Lorena alla Francia, dello Schleswig alla Danimarca, di Posnania e Slesia alla Polonia, oltre all’abolizione dell’aviazione e alla drastica riduzione dell’esercito, la Germania fu condannata a rifondere l’enorme cifra di 132 miliardi di marchi d’oro.” Nel pubblico aumentò lo sbalordimento. “E siete riusciti nell’impresa?” domandò il Procuratore distrettuale, provando lo stesso sentimento di stupore che aveva colto l’uditorio. “Dal punto di vista scientifico” rispose Johannes Jaenicke, impettito, “l’esperimento è stato un successo. Tuttavia, la quantità di oro disciolta nei mari risultò molto inferiore alle attese e i costi del filtraggio insostenibili. In seguito con l’ascesa al potere del Führer Adolf Hitler, la carriera di Fritz Haber poté definirsi finita.” “Certamente, capisco” disse il Procuratore e, dopo un attimo di pausa, aggiunse “Intende dire che, pur essendosi convertito al Luteranesimo, il Professor Haber fu considerato ebreo a tutti gli effetti?” “Sì, esatto.” rispose Johannes Jaenicke “Come molti altri ebrei appartenenti a famiglie importanti: Schlesinger, Domh, Pringsheim, Meitner.” “Fräulein Lise Meitner” mormorò il Procuratore distrettuale; lo sguardo volto ai primi banchi dell’aula dove la scienziata sedeva, nascosta dietro la veletta del cappello di velluto nero “Posso chiedere qual’è la sua opinione, in merito all’operato dell’imputato?” domandò il Procuratore. “Avendo conosciuto il Professor Haber e avendo lavorato al suo fianco, propendo per la sua innocenza. L’equazione Fritz Haber uguale assassino colpisce l’opinione pubblica ed evidentemente aumenta le vendite dei giornali” rispose seccamente Johannes Jaenicke con un ghigno. Dal pubblico si levarono urla di biasimo. Il Giudice invitò il pubblico a moderare i toni. “Nella sua qualità di assistente del Professor Haber” proseguì il Procuratore distrettuale “ha preso parte alla costru17
zione di fabbriche chimiche segrete, in violazione al Trattato di Versailles?” “No.” rispose lo scienziato “Ritengo siano calunnie tese a screditare il lavoro di ricerca dell’Istituto Kaiser Wilhelm di Berlino. Sappiamo bene quanta ostilità permanga all’interno della comunità scientifica internazionale nei confronti degli scienziati tedeschi (nelle prime file, i colleghi Lise Meitner, Otto Hahn e Richard Willstätter annuirono vigorosamente). Il Professor Fritz Haber lasciò la Germania su invito del Professor Azriel Weizmann per insegnare a Rehovot.” “Dunque sarebbe lecito annoverare, Dottor Johannes Jaenicke, le vostre ricerche scientifiche nell’ambito della Guerra chimica?” domandò il Procuratore distrettuale. Johannes Jaenicke si raccolse in silenzio e meditò, prima di rispondere. “Gli Orinoco” spiegò Johannes Jaenicke “estraevano il curaro da una pianta, Strychnos toxifera, per rendere le proprie frecce velenose. Sesto Iulio Africano raccomandava di avvelenare pozzi, acqua, cibo e aria respirata dal nemico. E il fuoco greco dei Bizantini, una miscela esplosiva di pece, salnitro, zolfo, nafta e calce viva, non era forse il risultato di un processo chimico? Durante la Guerra civile americana” continuò il chimico tedesco, tracciando una sorta di fenomenologia della così detta Guerra chimica, “John Doughty suggerì l’impiego di proiettili caricati con gas cloridrico contro le truppe sudiste. Nel 1844, durante la guerra coloniale, il Generale francese Louis Eugène Cavaignac utilizzò un gas velenoso per sterminare i ribelli marocchini. L’esercito francese, pochi anni più tardi, affumicò un centinaio di Cabali, dopo averli costretti a trovare rifugio all’interno di una miniera. E ancora, in Crimea, non è forse vero che l’ammiraglio Thomas Cochrane propose di estrarre solfuro di carbonio da vapori di zolfo e carbon coke, per attaccare la guarnigione russa di Malakow, presso Sebastopoli?” Nel pubblico, ammaliato dalla dialettica dell’insigne scienziato, calò un silenzio attonito. Allora, il Procuratore distrettuale, con aria di chi mette a segno un fendente, consegnò all’inconsapevole assistente di 18
Fritz Haber la prima e più importante delle prove ammesse dalla Corte. “Questa fotografia” esordì il Procuratore “ritrae il Professor Fritz Haber in Spagna nei pressi dell’impianto chimico de La Marañosa, dove sono stati prodotti i gas utilizzati per reprimere la rivolta marocchina di Abd El Krim. Sarebbe dunque da ritenere un fotomontaggio?” Johannes Jaenicke deglutì, riconoscendo il Professor Fritz Haber in compagnia di Hugo Stolzenberg, consulente per le armi chimiche del Ministro della Guerra. “Non ho dichiarazioni in merito” affermò lo scienziato, nell’atto di allontanare la fotografia. “Se la Giuria non ha domande, per me, il teste può andare” disse il Procuratore distrettuale. Karl Popper, Presidente della Giuria, consultò i colleghi, Paul Feyerabend, Thomas Kuhn, Gaston Bachelard e Hans Georg Gadamer, i quali fecero cenno di non averne. Johannes Jaenicke, tra sordi mugugni di disapprovazione del pubblico, tornò a sedere in prima fila; al suo fianco sedeva il figlio di Fritz Haber, Hermann Haber, il quale, indignato e amareggiato, non poté dissimulare la delusione. Fuori, la pioggia aumentava; di tanto in tanto, si sentiva il fragore di un tuono. Uno stormo di corvi imperiali si alzò in volo dai rami di un pioppo centenario la cui chioma ondeggiava agitata dal vento, riversa e quasi in procinto di cadere dall’argine nel fiume. Lo stormo, alla ricerca di un riparo dalla pioggia, andò a posarsi proprio sul cornicione del Tribunale. Uno dei giornalisti, strizzando l’occhio ad un collega, disse che per lui tanto bastava e si alzò per comunicare al giornale la notizia con cui aprire l’edizione delle dodici. La parola passò al Giudice, il quale convocò Richard Willstätter. Johannes Jaenicke offrì il braccio al vecchio collega e lo aiutò ad alzarsi. Il chimico, premio Nobel nel 1920 per gli studi sulla clorofilla, facendosi forza, si avvicinò alla postazione dei testimoni. “Professor Richard Willstätter, la ringrazio” disse il Procuratore distrettuale, con tono accondiscendente, in considera19
zione dello stato di salute e dell’età del teste, “posso chiedere le sue generalità?” “Richard Martin Willstätter, Karlsruhe, 13 Agosto 1872” scandì, giurando sulla Torah, come aveva preventivamente richiesto. “Dunque Professore, lei, oltre che collega del Professor Haber,” continuò il Procuratore distrettuale, “è stato uno dei migliori amici e di più antica data.” “È esatto.” rispose Richard Willstätter con sorriso nostalgico “Amico nobile di carattere, generoso, ricco di idee e istintivamente portato all’applicazione pratica della ricerca teorica.” “Esattamente. Spesso, quando si parla del Professor Fritz Haber, si evidenziano le sue qualità di organizzatore, promotore, scopritore. Professor Willstätter può fornire alcuni esempi alla Corte?” domandò cortesemente il Procuratore distrettuale. “Volentieri. L’8 Agosto del 1912, la Germania era stata scossa dal crollo di una miniera di carbone in cui avevano perso la vita alcune centinaia di minatori. Il Kaiser Guglielmo II, facendo visita all’Istituto Kaiser Wilhelm, aveva invitato Fritz Haber e i collaboratori a trovare una soluzione definitiva. Fritz Haber, nell’arco di poche settimane, inventò l’interferometro acustico. Il dispositivo avvertiva i minatori della presenza di grisù. In seguito, grazie a quella significativa esperienza, Fritz Haber diede un contributo determinante alla costruzione di maschere anti gas per le truppe tedesche impegnate ad Ypres.” “A proposito di Ypres” disse il Procuratore distrettuale “mi scusi se vado direttamente alla questione. Lei ha preso parte, con altri scienziati dell’Istituto Kaiser Wilhelm, Epstein, Franck, Hahn, Nerst, Stolzenberg, all’attacco con i gas dell’Aprile 1915?” Richard Willstätter, intuendo la strategia del Procuratore distrettuale, sorrise con parsimonia. “Può raccontare alla Corte come si svolse la battaglia?” aggiunse sollecitamente il Procuratore. “È difficile oggi” rispose il Professore “spiegare quale atmosfera di patriottismo e nazionalismo muoveva noi scienziati…Fritz Haber, com’è noto, era stato insignito del premio 20
Nobel per la sintesi dell’ammoniaca nell’estate del 1920. In realtà, era già stato candidato nel 1918, ma le pressioni degli americani convinsero il comitato scientifico a posticipare le celebrazioni, che infatti si svolsero a Stoccolma il 4 giugno del 1920. In seguito fu manifesta a tutti la portata della scoperta messa a punto nei laboratori della Basf. Negli stessi anni l’Istituto Kaiser Wilhelm di Berlino, su pressione del Ministero della Guerra, sviluppò le prime applicazioni di nitrati in campo bellico. Il Governo finanziava la ricerca e nel giro di alcuni mesi il dipartimento di chimica, di cui Fritz Haber era responsabile, produsse i primi gas tossici: Klop, abbreviazione militare di cloropicrina, segnalata con una croce gialla; fosgene, identificabile con una croce verde, e il così detto gas mostarda.” “Professor Richard Willstätter, a questo punto, vorrei porle una domanda decisiva” dichiarò il Procuratore. Richard Willstätter corrugò la fronte e, annuendo, si protese istintivamente verso il Procuratore. “Il Professor Fritz Haber era cosciente della pericolosità di quel tipo di ricerche?” domandò il Procuratore distrettuale. “Il nostro gruppo di lavoro credeva, come la maggior parte dei tedeschi, in una guerra di breve durata. Quando fu chiaro a tutti che la guerra sarebbe proseguita a lungo, Fritz Haber propose allo Stato Maggiore dell’Esercito l’impiego di gas tossici, una sorta di shock che avrebbe provocato lo sbandamento fra le truppe nemiche e una conclusione repentina del conflitto. Del resto, come sosteneva Fritz Haber, i Francesi avevano già provato ad impiegarli all’inizio delle ostilità. Tuttavia, tra gli ufficiali tedeschi, c’era un certo scetticismo: la maggior parte dei Generali aveva una formazione bellica del tutto ottocentesca. Soltanto grazie all’influente e decisivo appoggio del Generale Alexander Von Falkenhayn, il progetto di Haber fu preso in considerazione. D’altro canto, chiedo scusa per la brutalità ma, in fatto di guerra, non è opportuno essere retorici, è chiaro che morire per un bossolo di fucile, o per la scheggia di una granata, non è molto dissimile dal morire per asfissia!”
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“Professore, mi pare di cogliere nelle sue parole uno profondo cinismo!” affermò il Procuratore distrettuale, lasciando trapelare la sua personale irritazione. Richard Willstätter sentì la bocca asciutta e insipida, come se avesse mangiato della polvere, poi salata e amara, come avesse bevuto acqua di mare. Passò una mano sulla fronte sudata, inumidì con la lingua le labbra aride e sentì un lungo brivido corrergli giù per la schiena. Il Giudice aveva abbassato le palpebre e continuava a tamburellare con i polpastrelli su un blocco di carta copiativa. Gli occhi del Procuratore distrettuale, al di sopra delle mani congiunte e chiazzate di vitiligine, parevano luccicare sinistramente. Il Giudice si chinò in avanti: il pallido volto quasi toccava il microfono posto di fronte. Poi con un moto improvviso si ritrasse piegandosi un poco verso il bracciolo della poltrona e appoggiò la tempia al palmo della mano. Gli occhi di Richard Willstätter, affaticati ma ancora perfettamente penetranti, vagando nell’aula, negli intervalli fra una risposta e l’altra, si erano posati su di un uomo anziano, vestito elegantemente, che sedeva, poggiando le mani guantate sul pomo di un bastone, stanco, ma con uno sguardo tranquillo che fissava dritto, limpido e pieno di interesse. Richard Willstätter fu sul punto di gridare: ma a che serve tutto ciò, a che serve? ma batté semplicemente il piede con un moto di impazienza, si morse il labbro e lasciò ancora una volta vagare gli occhi sopra le teste del pubblico e incrociò quelli dell’anziano. Lo sguardo di quell’uomo non aveva nulla della affascinata fissità degli altri. Era l’atto di una volontà intelligente. Richard Willstätter era riuscito ad astrarsi tanto da trovare il tempo di formulare un pensiero. Quell’uomo, pensò, mi guarda come se scorgesse qualcuno o qualcosa alle mie spalle. Lo aveva già incontrato prima di allora, forse a Berlino, o a Basilea? Oppure avevano scambiato qualche parola ad un convegno? Da giorni, da quando aveva ricevuto l’avviso di comparizione, Richard Willstätter non parlava più con nessuno, continuando invece una lunga silenziosa conversazione con se 22
stesso, come un prigioniero rinchiuso in una cella solitaria, o come uno stilita sulla sommità di un obelisco. Ora stava rispondendo a tante domande che non avevano alcuna importanza, sebbene fossero dirette ad uno scopo preciso e si chiedeva se, dopo d’allora, sarebbe mai più stato capace di parlare in tutta la sua vita. Il suono stesso delle sue sincere dichiarazioni non faceva che confermarlo nell’opinione che le parole non fossero mai servite a nulla. Avrebbero capito? Qualcuno avrebbe mai potuto comprendere? Invece, quel vecchio nell’aula sembrava rendersi conto della sua disperata difficoltà. Lo fissò ancora una volta poi distolse risolutamente gli occhi, come un addio definitivo. “Perfettamente consapevole!” gridò Richard Willstätter, corrugando il mento, con fierezza. La folla andò in subbuglio e obbligò il Giudice a minacciare di fare sgomberare l’aula, affinché tornasse la calma. “E fu a seguito di quegli esperimenti sugli animali” il Procuratore distrettuale riprese ad incalzare il teste per non lasciarsi sfuggire l’occasione dell’affondo “a seguito della morte dell’amico ricercatore, Otto Sackur, a seguito delle 15.000 vittime franco algerine che la moglie di Haber, Clara Immerwahr, la sera del primo maggio del 1915, si tolse la vita con la pistola d’ordinanza del marito?” “No, no! La morte di Clara fu un tragico incidente!” gridò Willstätter, dando veementi colpi con il dorso della mano alle falde del cappello. Il professor Willstätter sprofondò nella sedia. La luce, che lo aveva investito per alcuni minuti, sembrò attenuarsi. Gli sguardi del pubblico infatti erano diretti verso la tribuna della Giuria. Thomas Khun, stizzito, discuteva animatamente con Paul Feyerabend. I due scienziati si tacitarono soltanto dopo aver ricevuto un severo richiamo da parte di Karl Popper. La parola passò nuovamente al Giudice che, impietosito dallo stato di salute del teste, invitò il professore tedesco a tornare a sedere e convocò il teste successivo iscritto a deporre, Lise Meitner. La donna si avvicinò lentamente e timorosamente alla sedia dei testimoni, senza mai voltarsi verso il pubblico. 23
“Professoressa Lise Meitner” domandò il Procuratore distrettuale quando la donna fece cenno di essere pronta “Lei ha conosciuto il Professor Fritz Haber?” “Certamente. Dal 1912 al 1914, ho lavorato, con il Professor Otto Hahn, all’interno dell’Istituto Kaiser Wilhelm di Berlino. E poi, dopo l’armistizio, dal 1919 fino al 1933.” “Lei era l’unica scienziata dell’Istituto, sbaglio?” domandò il Procuratore distrettuale. “È corretto. All’epoca non erano ammesse donne. Fritz Haber, influenzato sicuramente da Clara Immerwahr, voglio precisare, prima laureata in Chimica dell’Università di Breslavia, trovava insensato escludere le donne dal consesso dei ricercatori. Ricordo che il Professor Haber fece di tutto per farmi assegnare una borsa di studio e consentirmi di restare a Berlino.” “Lei, dopo la guerra ha proseguito le ricerche presso l’Istituto. Quindi perché è fuggita in Svezia?” domandò il Procuratore distrettuale. “Nell’estate del 1933 fui colpita, come altri scienziati tedeschi di origini ebraiche, dal Berufsbeamtentum, l’ingiunzione a lasciare ogni incarico pubblico presso Università, Scuole, Istituti. Fu lo stesso Fritz Haber, adoperandosi per i colleghi ebrei, ad attivare un contatto con l’Accademia delle Scienze di Stoccolma. In Svezia, ho trovato asilo e ho potuto proseguire, pur in un triste isolamento, la mia attività di ricerca. Del resto, avevamo sottovalutato la gravità degli avvenimenti, una sequenza orribile a giudicare con il senno di poi: dapprima, le famigerate Sturm Abteilung formarono punti di raccolta per la deportazione di ebrei proscritti nelle liste, destinati a campi di lavoro in Polonia, a Lodz, a Theresinstadt; molti ebrei, all’inizio, manifestarono una fiera accettazione di questo destino e soltanto più tardi, quando cominciarono ad arrivare notizie certe del massacro di deportati nei campi di lavoro, ai superstiti non restò altra possibilità che l’emigrazione illegale, oppure la pericolosissima clandestinità” rispose Lise Meitner. Il Procuratore distrettuale, soddisfatto, lanciò un’occhiata all’orologio e invitò la teste a tornare a sedere. Il Giudice scorse la lista e lesse il nome del successivo testimone iscritto a deporre, Otto Hahn. 24
“Le sue generalità Professore?” domandò il Procuratore distrettuale. “Francoforte, 8 Marzo 1879” rispose il fisico. Nonostante gli anni di prigionia, dal 1945 al 1950, a Farm Hall, nei pressi di Cambridge, pronunciava ancora l’inglese con cadenza tipicamente germanica. “Professore” domandò puntualmente il Procuratore distrettuale “lei è stato testimone oculare dell’attacco di Ypres. Può descrivere l’esperienza di un attacco con gas tossici?” “È un’esperienza difficile da dimenticare” rispose Otto Hahn, accostando i lembi della giacca “All’epoca ero sergente e comandavo un contingente di soldati addetti alle mitragliatrici. La sera del 14 Gennaio 1915, il tenente Professor Fritz Haber diede appuntamento a mezzanotte all’Hotel Gresham Belson di Bruxelles. Quando arrivai, fui accompagnato all’ultimo piano, nell’unica suite dell’albergo dove Fritz Haber risiedeva e aveva costituito una sorta di ufficio di comando per dirigere le operazioni al fronte. Stava sdraiato nel letto, sfigurato dalla stanchezza. Appena entrai, mi affidò un dispaccio. Si trattava di avviare la produzione di fosgene. Feci presente che l’impiego di cilindri con gas tossico era vietata dagli accordi internazionali. Fritz Haber, esacerbato, rispose che i Francesi avevano già fatto largo uso di proiettili muniti di gas irritanti e che, a suo avviso, l’impiego di armi chimiche sarebbe stato l’unico modo per consentire una rapida conclusione del conflitto.” Il Procuratore annuì e fece cenno al teste di proseguire. “Lasciai l’albergo, sconfortato, e mi diressi al fronte per consegnare il dispaccio a Hugo Stolzenberg che era responsabile dell’impianto chimico. Per anni ho ripensato a quella notte. Se soltanto avessi potuto cambiare il corso degli eventi. Il teatro di un attacco con i gas ha qualcosa di allucinante; si può provare una certa indifferenza per la guerra, non pronunciarsi né per il sì né per il no, finché non si è veduto con i propri occhi un attacco con armi di distruzione di massa; ma se vi capitasse, come è capitato a noi, di trovarvi in mezzo ad un attacco con gas tossici, la scossa è violenta; bisogna risolversi a prendere posizione pro o contro le armi chimiche. 25
Alcuni le difendono, come Walter Nerst e Fritz Haber; altri le esecrano come Albert Einstein; il gas tossico non è una sostanza neutrale, e non permette di rimanere tali. Chi ha visto le fotografie delle trincee rabbrividisce del più misterioso dei brividi: tutti i quesiti morali si sollevano. Il gas è visione; non è un’azione di guerra, un espediente tattico, un meccanismo inerte di cilindri, compressori, valvole. Ma uno strano essere con non so quale oscura brama; si direbbe che questa nube vede, questa sostanza capisce; quest’arma vuole. Nella visione orrenda che invade l’anima al suo cospetto, il gas appare terribilmente partecipe di ciò che compie. È complice del soldato; divora, mangia la carne, beve il sangue, brucia i polmoni, ustiona la pelle; è una specie di mostro, opera del chimico e del militare, uno spettro che sembra vivere d’una vita spaventevole fatta di tutta la morte che ha dato.” Udite queste parole, il Procuratore, la cui schiena era percorsa da brividi, congedò il professore tedesco e lo invitò a sedere. Otto Hahn lentamente tornò al suo posto. Allora il Giudice chiamò a deporre Sir Harold Hartley, Military Cross nel 1919. Lo scienziato, consulente della Corona Britannica per le armi chimiche, si avvicinò alla balaustra, salutò i Giurati e prese posto al centro dell’aula. “Naturalmente, anche voi conoscevate bene Fritz Haber” affermò il Procuratore distrettuale. “Certamente, dal…” Sir Harold Hartley si tolse il cappello e ravviò i folti capelli “…dal Dicembre 1914. Il nome di Fritz Haber si ripeteva nelle relazioni dei servizi segreti. Seguivamo gli sviluppi delle applicazioni dei nitrati ed eravamo al corrente dei gas tossici.” “In qualità di luogotenente della Terza armata ed esperto di armi chimiche,” riprese il Procuratore distrettuale “potete chiarire alla Corte come si svolsero i fatti?” “Noi e i francesi” rispose l’autorevole testimone “eravamo informati di un attacco con i gas. Gli aerei avevano fotografato aree adibite ai lanci e avevano avvistato alcune nubi color ocra, ma nessuno si aspettava l’impiego di migliaia di cilindri contenenti acido prussico. In pochi minuti, quando alle sei del 26
pomeriggio del 22 Aprile 1915, i tedeschi liberarono i gas, si levò lungo buona parte del fronte una cortina di fumo. In una manciata di secondi i soldati in prima linea e quelli nelle linee di rinforzo furono travolti e soffocarono. Quelli che non stavano morendo asfissiati presero a scappare ma il gas, iprite, come è stata ribattezzata in seguito in riferimento proprio alla battaglia di Ypres, sospinta da un vento leggerissimo, li inseguiva. Il fronte crollò. I Pionier kommandos avanzarono con molta prudenza, poiché il vento cambiava capricciosamente direzione e colpiva anche i Tedeschi. Alla fine della battaglia, all’alba del 23 Aprile, contammo 7.000 vittime e 350 morti.” “Il vostro giudizio sull’imputato, Sir Harold Hartley?” domandò il Procuratore distrettuale, colpito da un improvviso calo di voce che tradiva la profonda emozione del momento. “Colpevole!” esclamò Sir Harold Hartley “Del resto, sono note le sue parole: La scienza è dell’umanità in tempo di pace; della patria, in tempo di guerra. Il professor Fritz Haber è stato uno scienziato brillante, un organizzatore energico, deciso, forse anche senza scrupoli.” Sull’aula calò il silenzio. Gli sguardi del pubblico tornarono ad indagare i volti di Richard Willstätter, Lise Meitner, Johannes Jaenicke, Otto Hahn, Hermann Haber, i quali, turbati, s’erano chiusi nel più profondo riserbo. Il Giudice ringraziò Sir Harold Hartley e chiamò a testimoniare il Professor Alvin Mittasch. I due scienziati, rappresentanti simbolici dei due schieramenti opposti, si fermarono a metà strada, quasi sfiorandosi, e scambiarono un cenno di saluto. Alvin Mittasch prese posto. “Le sue generalità, Professore” domandò il Procuratore distrettuale. “Professor Pawoł Alvin Mittasch, nato a Lobau il 27 Dicembre1869” Alvin Mittasch rispose laconicamente, sfregandosi gli occhi; aveva palpebre stanche come avvizzite da un eccesso di alte temperature, sperimentate con nessuna prudenza. “Come definirebbe il suo rapporto con il Professor Fritz Haber?” domandò il Procuratore distrettuale che stava cercando un appunto prezioso. 27
“Eravamo colleghi. Io ero l’uomo di fiducia di Carl Bosch, direttore della Basf di Leuna.” rispose Alvin Mittasch “Fritz Haber, lo so per certo, aveva sottoscritto un contratto milionario con Basf. L’azienda, dal 1909 al 1923, ha regolarmente riconosciuto royalties al professore dell’ordine di 1,5 pfennig per chilogrammo di Ammoniaca prodotta. Provvedevo io stesso a trasmettere all’amministrazione i volumi prodotti, sui quali calcolare le provvigioni.” “Ricorda le quantità?” domandò il Procuratore distrettuale, avendo chiara l’importanza dell’aspetto economico che fino ad allora non era emerso in tutta la sua portata. “Certo” disse Alvin Mittasch, pignolo al punto tale da consultare una sorta di mastrino, “33.000 tonnellate nel 1913; 350.000 nel 1917; 650.000 nel 1918. Ricordo, nel 1917, un finanziamento del Ministero della Guerra, di 12 milioni di Marchi, in favore di Basf.” “Lei sa che fine hanno fatto queste somme?” domandò il Procuratore “Non dimentichiamo che il Professor Fritz Haber aveva preteso e ottenuto da Emil Fischer un indennizzo accademico di 15.000 marchi, considerato allora uno degli stipendi più alti dell’Istituto; questo solo per dare un termine di paragone alla Giuria.” “Herr Fritz Haber” rispose Alvin Mittasch, asciugandosi la fronte con un fazzoletto “era terrorizzato all’idea che gli Alleati confiscassero tutti i suoi beni. In seguito all’Armistizio, credo abbia trafugato enormi somme di denaro!” Il procuratore distrettuale, radioso, si voltò verso i Giurati. Se non fosse stato per la ferrea disciplina, a cui era stato sottoposto al Trinity College, avrebbe abbandonato l’usuale contegno e avrebbe incitato il pubblico ad applaudire. “Professor Alvin Mittasch, lei ritiene Fritz Haber responsabile di Crimini di Guerra?” domandò il Procuratore, perentorio. “Potranno stupire le mie affermazioni. Malgrado il livore che provo per quell’uomo, a causa della nota vicenda della mia esclusione dal Nobel per la sintesi dell’ammoniaca, ritengo che l’operato del Professor Fritz Haber vada messo in relazione ai benefici che l’umanità intera ha ricevuto dalla scoperta.”
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“Intende riferirsi ai fertilizzanti?” – specificò il Procuratore distrettuale, trovato finalmente l’appunto prezioso. “Sì, esatto. Secondo le stime attuali, oltre due miliardi di vite umane sono possibili, grazie all’impiego di fertilizzanti!” “Professor Alvin Mittasch, lei ritiene dunque che i vantaggi possano essere contrapposti al sacrificio umano, in una sorta di analisi costi e benefici?” domandò il Procuratore, digrignando i denti. “Non sono così cinico. Intendo dire che l’aumento delle rese agricole, fino a mille volte rispetto al passato, l’accessibilità degli alimenti ad un numero crescente di abitanti del pianeta, la loro conservazione e distribuzione capillare, sono stati raggiunti grazie alla sintesi dell’ammoniaca. D’altronde, la carriera di Fritz Haber ha coinciso con alcuni eventi storici che hanno trasformato l’industria chimica. È difficile dire fino a che punto Fritz Haber sia stato promotore o vittima di questa trasformazione! Il Professor Haber era uomo ambizioso, cinico, privo di remore; in fondo, era stato scelto dal Ministero della Guerra, dal banchiere Leopold Koppel e dalla Basf, per questa sua debolezza.” disse Alvin Mittasch. Il Procuratore distrettuale annuì e si dichiarò soddisfatto. Alvin Mittasch si alzò e tornò a sedersi. Gaston Bachelard si protese verso Karl Popper per accertarsi che fosse stata messa a verbale la preziosa deposizione. Nel pubblico circolava un’attesa febbrile per le dichiarazioni dell’ultimo teste. Il Procuratore distrettuale ripassò freneticamente alcuni appunti e si mise in piedi, raccogliendo le falde della toga, in maniera metodica e quasi rituale. Il Giudice soffermò lo sguardo sull’elenco dei testimoni e chiamò a deporre Albert Einstein. Il Fisico, visibilmente affaticato, si alzò dalla seconda fila, superò la balaustra e andò a sedersi in mezzo all’aula. In un istante, ci fu un tale susseguirsi di flash che Einstein si trovò costretto a fare schermo agli occhi con la mano. Il Giudice richiamò i fotografi e ricordò il divieto di scattare immagini durante il dibattimento e pregò gli uscieri di sorvegliare più attentamente i movimenti dei reporter.
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“Professor Albert Einstein, la ringrazio per aver accolto l’invito della Corte a comparire. Iniziamo in media res” esordì il Procuratore distrettuale, intimidito dall’uomo che aveva di fronte, forse il più geniale ed eminente Premio Nobel per la Fisica “Lei ha più volte dichiarato il suo legame profondo con l’ambiente scientifico berlinese. Cosa può dirci in merito?” “Corrisponde a verità!” rispose Albert Einstein “Ho espresso pubblicamente la mia gratitudine al Professor Fritz Haber e ai colleghi Max Von Laue, Max Planck, Richard Willstätter, Otto Hahn e Lise Meitner, senza i quali la teoria della relatività non sarebbe quella che è. Naturalmente, fin dalle prime avvisaglie di ciò che si sarebbe poi rivelato fatale, rifiutai di firmare l’infamante Manifesto dei Novantatre e anzi, presi le distanze, con pochissimi altri, per la verità. In maniera particolare, ero contrario all’idea di piegare la ricerca scientifica agli interessi del Ministero della Guerra. Conoscendo bene la tendenza dei tedeschi a portare alle estreme conseguenze ogni decisione, anche la più nefasta, avevo temuto immediatamente per gli studi sull’acido cianidrico e per le applicazioni dei gas in campo bellico. Non mi stupisce dunque che le scoperte del Professor Haber siano state in seguito utilizzate contro l’umanità.” “Intende riferirsi allo Zyclon?” domandò il Procuratore distrettuale, non lasciandosi sfuggire un passaggio così delicato. “Esattamente. La costruzione di camere a gas per debellare parassiti, costruiti nel 1921 da Ferdinand Flury, sotto la direzione di Fritz Haber, non potevano che preludere, dopo gli esperimenti di laboratorio su animali, all’impiego delle stesse camere a gas su esseri umani. Oggi sappiamo con quali esiti per il popolo ebraico. Negli anni venti, Fritz Haber era certamente in possesso degli strumenti per comprendere la pericolosità di quel tipo di esperimenti” concluse Albert Einstein. Indistintamente, dai rappresentanti pacifisti, dalle vittime dell’Olocausto e dalle persone comuni, si levò un applauso sentito, spontaneo, dilagante, contagioso. “Gli uomini veramente superiori delle generazioni passate” continuò l’insigne premio Nobel, quando nell’aula tornò la calma “hanno riconosciuto l’importanza degli sforzi per assicurare 30
la Pace internazionale. Ai nostri tempi lo sviluppo della tecnica ha fatto di questo postulato etico una questione di esistenza per l’umanità civilizzata e la partecipazione attiva alla soluzione del problema della guerra è considerata una questione di coscienza che nessun uomo saggio può ignorare. Bisogna rendersi conto che i potenti gruppi industriali interessati alla fabbricazione di armi sono, in tutti i Paesi, contrari al regolamento pacifico delle controversie internazionali e che i governanti non potranno realizzare questo scopo importante senza l’appoggio energico della maggioranza della popolazione. In quest’epoca di regimi democratici, la sorte dei popoli dipende dai popoli stessi; questo fatto deve essere presente allo spirito di ciascuno in ogni momento.” Tra il Procuratore distrettuale e Karl Popper ci fu uno scambio di sguardi. Albert Einstein tornò a sedere nel pubblico. Alcuni giornalisti attendevano di carpirne una dichiarazione, ma lo scienziato si chiuse in raccoglimento. In quel momento, il chiarore improvviso d’un lampo illuminò l’aula. Lo stormo di corvi imperiali, terrorizzati dal tuono, si levarono dal cornicione e volarono via in un assordante gracchiare. La temperatura era precipitata di colpo e il cielo si era oscurato. Pesanti cumuli nembi scuri rovesciarono una scarica di grandine di dimensioni eccezionali. I chicchi tempestarono il tetto del tribunale e, ad ondate, minacciarono le ampie vetrate dell’aula. Un sussulto percorse il pubblico, suggestionato dalle parole del Premio Nobel, e accompagnò l’uscita dei Giurati. Attesi da un compito particolarmente arduo, Karl Popper, Hans Georg Gadamer, Thomas Khun, Gaston Bachelard e Paul Feyerabend si ritirarono in camera di Consiglio per deliberare. Il Procuratore distrettuale, incerto sull’esito del processo, confabulava con i colleghi seduti oltre la balaustra. Johannes Jaenicke, inseguito dai reporter, che incalzavano con domande provocatorie, si alzò e corse fuori. L’uomo anziano ripose gli occhiali pince-nez nel taschino della giacca e attese. Il Giudice aveva aggiornato l’udienza alle due del pomeriggio. La sentenza finalmente sarebbe stata emessa entro sera. Si trattava solo di pazientare. 31
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Fritz Haber. Berlino. 1912. Cerchiamo il luogo. Ormai non esiste più. Non c’è più nulla…Cerchiamo ancora. Nel mondo…nel tempo. Qualcosa che ci guidi verso la verità…Cerchiamo! Laggiù nel frenetico e lontano mescolarsi degli eventi storici. 1954 1945 1939 1935 1933. Risaliamo il corso del Tempo…Lo spazio adesso…Breslavia…Karlsruhe…Berlino... 1919 1917 1915. Il 14 Aprile 1915, alle 4 del mattino, l’azione ebbe inizio in una nebbia che non tardò molto a dissiparsi…Ypres…Ma non è neppure questo che cercavamo…. noi cerchiamo un uomo in mezzo ai nostri, del nostro sangue: Fritz Haber…! Fritz! Sabato 23 Ottobre, 1912. Dahlem. Tra spinte di vento e di neve il sobborgo di Dahlem, cintura sud di Berlino, era rimasto isolato. Fritz Haber uscì di casa (i direttori dell’Istituto Kaiser Wilhelm abitavano a Dalhem, tutti tranne Max Planck che risiedeva nel più raffinato ed esclusivo sobborgo di Grunewald). Fin dal mattino lo scienziato si era sentito poco bene e verso il tramonto il suo stato era peggiorato: cominciava ad avvertire una sorta di febbre. Verso sera, prima del crepuscolo, il chimico si trovò a percorrere il lungo Thielallee che, tagliando in due il quartiere, collega Dahlem a Stigliz. Fritz Haber appoggiò la schiena ad una parete rossa e lasciò che i tram gli passassero dinanzi uno dopo l’altro. Un vecchio rabbino lo superò. Indossava un berretto nero di reps di seta e l’usuale caffettano ebraico di media lunghezza, le cui falde svolazzavano e battevano con un colpo d’ala secco e regolare sui gambali degli stivaloni di cuoio. Il sacerdote sembrava aver poco tempo e tutte mete urgenti. Dopo alcuni istanti, Fritz Haber si riscosse, deglutì, prese quasi la rincorsa e saltò su un tram, fra altra gente; voltò la te32
sta verso le mura rosse, ma il tram portava lontano cigolando sulle rotaie. Imboccata una curva, apparvero alberi e alte case popolari. Strade movimentate, gente che scendeva e saliva. La punta del naso si era gelata, sopra la testa sibilava: Mittagszeintung!, B.Z., Die neust Illustrierte. L’ultimo numero del Radiocorriere. Biglietto, qualcuno deve acquistare il biglietto? Inosservato, Fritz Haber scese dalla vettura e si trovò in mezzo ad altra gente. Avevano facce allegre, ridevano, aspettavano, a due, a tre sul salvagente, fumavano sigarette, sfogliavano giornali. Il sole di ottobre a Berlino è magnifico, pensò lo scienziato, specialmente al tramonto, in una chiara sera di gelo. Si può vedere ad un tratto accendersi tutto un viale su cui si riversa una vivida luce. Tutte le case sembrano scintillanti. I colori grigio, giallo, verde sporco, perdono per un attimo la loro tetraggine e pare che l’animo divenga più leggero, che un brivido percorra tutti i corpi e che questi siano sospinti in avanti. Tutte le cose appaiono sotto un nuovo aspetto, nuovi pensieri nascono nelle menti. È meraviglioso quello che può fare un raggio di sole nell’anima umana! Ma il raggio si spense; il gelo diventò sempre più forte e cominciò a pizzicare il volto; il crepuscolo si addensava; la luce del gas brillava nelle vetrine. Fritz Haber, giunto all’incrocio tra Thielallee e Faradayweg, lanciò un’occhiata all’orologio del campanile della chiesa evangelica di Dahlem, si accorse di essere in ritardo e affrettò il passo. Appena imboccata Faradayweg, lo scienziato si trovò di fronte l’Istituto Kaiser Wilhelm. La facciata si stagliava all’orizzonte, grazie all’imponente struttura neoclassica. Il terreno su cui era sorto l’edificio, dono del Ministero dell’Agricoltura, era un’ampia radura priva di costruzioni. L’edificio era stato portato a termine in soli otto mesi; sbancamento del terreno, posa di solide fondamenta, allestimento di aule e modernissimi laboratori. Durante quegli otto mesi Fritz Haber, facendo la spola tra Karlsruhe e Berlino, aveva affiancato l’architetto Ernst Von 33
Ihne; contribuendo alla scelta dei materiali; legno delle foreste della Turingia per tetto, solette e pavimenti; combinazione di tinte sobrie per le facciate; sfumature di grigi e colori perlati per decorare lesene e cornici. Fritz Haber aveva curato l’allestimento dei laboratori, dopo aver studiato altri Istituti di ricerca tedeschi e consultato i Direttori della Basf. I laboratori erano concepiti in maniera modulare e scalabile per adattarsi al repentino sviluppo dell’industria chimica tedesca. L’Istituto, finanziato con un milione di marchi d’oro dal banchiere ebreo Leopold Koppel, si trovava nel tratto inferiore di Faradayweg, in un punto dove il terreno si apriva verso Thielallee con una ampiezza tale che l’edificio era spesso scosso da turbini ventosi provenienti da Sud; motivo per cui l’architetto Ernst Von Ihne aveva deciso di orientare l’Istituto lungo l’asse Est-Ovest, con la facciata rivolta a Nord. Il complesso aveva un volume di 18.000 metri cubi e una superficie di 2.500 metri quadrati. L’imponenza dell’edificio era tale da modificare le condizioni dell’atmosfera, spandendo toni gialli e oscurando tutto intorno con le tinte severe proiettate dalle torri ai lati della facciata. Il selciato era secco, nei canali non c’era acqua né fango, lungo il muro di cinta cresceva una timida erba, simile ad un lichene. Un berlinese che si fosse smarrito nei dintorni, avrebbe trovato soltanto boschi, fattorie, vegetazione rigogliosa e un paesaggio agreste. Thielallee in particolare era una cornice bucolica. La facciata dell’Istituto poggiava su un terreno argilloso. Del resto, il Mare del Nord è vicino e nei giorni di tramontana si può perfino sentire l’odore della steppa russa. La costruzione cadeva ad angolo retto su Faradayweg, dove la si può vedere ancora oggi delineata in profondità. Lungo la facciata, fra l’edificio e il giardino, correva un acciottolato convesso largo una ventina di metri, davanti a cui si slanciava un viale sabbioso, fiancheggiato di gerani, oleandri e melograni in grandi vasi di maiolica bianca e blu.
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Si entrava nell’Istituto da una porta principale sormontata da un cartello nel quale si leggeva: Kaiser Wilhelm Institut e sotto: Gesellschaft zur Foderung der Wissenschaften. Il giardino, ampio come tutta la facciata, si estendeva dall’atrio dell’Istituto al muro divisorio della torre luminosa, una sorta di osservatorio astronomico. Da quest’ultimo pendeva un manto d’edera che la nascondeva completamente, attirando gli sguardi dei passanti per un effetto sorprendente per i cittadini di Berlino. Tutti quei muri erano tappezzati di rampicanti e viti, i cui frutti gracili e polverosi erano l’oggetto dei timori annuali dei giardinieri dell’Istituto Kaiser Wilhelm. Lungo ogni muro correva un vialetto che portava ad un folto di tigli, vocabolo questo che Fritz Haber, benché nato a Breslavia, pronunciava ostinatamente tiglie, suscitando le osservazioni grammaticali dei colleghi prussiani. Fra i due vialetti laterali si trovava un quadrato di carciofi, fiancheggiato da alberi da frutta, potati a fuso e disseminato tutt’intorno di acetosa, lattuga e prezzemolo. Sotto i tigli, infisso nel terreno, c’era un tavolo rotondo dipinto di verde e circondato di sedie. Qui, nei giorni di canicola, quando il caldo era tale da far schiudere le uova, i ricercatori venivano a sorseggiare il tè. Fritz Haber salutò il portinaio nella hall, ritirò la corrispondenza nella casella in alto sulla rastrelliera e salì lo scalone al centro dell’edificio. Il suo ufficio si trovava al secondo piano. I laboratori s’affacciavano sul corridoio centrale. Il chimico soffiò sulle mani infreddolite (aveva dimenticato i guanti a casa o li aveva persi nel tragitto?), aprì la porta dello studio, appoggiò la corrispondenza sulla scrivania e accese la lampada da tavolo. La luce investì di riflessi piccoli oggetti di cristallo, appartenenti alla collezione di Clara, sparpagliati qua e là, alla rinfusa, sopra la mensola del camino. Lo scienziato, intirizzito, si avvicinò svogliatamente allo specchio. Sembrava accorgersi, per la prima volta, che alla sommità del cranio i capelli erano pochissimi, dei peluzzi, una sorta di piume tra l’uccellino morto, ma ancora palpitante, e 35
i capelli del neonato. Si rinforzavano alla nuca con qualche ricciolo color rame. In compenso il collo scuro entrava nella camicia di gabardine bianca con una sua certa forza. Questo lo rinvigorì abbastanza da affrontare la visita imminente. Dalla tempia scendeva una ruga verso la guancia e il mento. Anzi, all’inizio dell’attaccatura, tra orecchio e tempia, erano tre le rughe, ma due scomparivano subito, mentre la terza, quella vera, compiva tutto il percorso fino in fondo. Il mento era segnato da una vecchia cicatrice che tornava a bruciare quando calava il tramonto e la pelle del volto era affaticata. Se l’era procurata a seguito di un duello con un compagno di università del corso di Chimica di Heidelberg. L’avversario, dopo averlo oltraggiato, rinfacciando la nascita ebraica, lo aveva sfidato. Fritz Haber, pure abile tiratore, era caduto a terra, ferito e umiliato. Apparvero i denti che erano grandi e regolari, ma già un po’ deboli all’attaccatura e scuri di fumo. L’unica cosa veramente bella e forte erano gli occhi grigi pichiettati di nero, del colore di certo mare del Baltico o del porto di Amburgo, quando tira vento a novembre, dicembre, con la grande pupilla nera e profonda che non aveva paura di nulla. Di lì a poche settimane, Fritz Haber avrebbe compiuto quarantaquattro anni (era nato il 9 dicembre del 1864). Certo, era invecchiato; questo era disposto ad ammetterlo lui stesso; anzi, non si stancava di ripeterlo. Del resto, prima di ricevere un incarico all’altezza delle sue ambizioni, il giovane Fritz Haber aveva trascorso dieci lunghissimi anni in provincia, a Karlsruhe. Aveva sempre considerato quel periodo una sorta di confino obbligato; era solito definirli anni del divenire. Pensieroso, il chimico sistemò le punte del colletto della camicia e ritornò con la memoria alle relazioni con i colleghi, sempre afflitte dalla sua ansia di cambiamento; cosa che ne aveva minato irrimediabilmente sincerità e profondità. Erano rapporti segnati da un tratto provvisorio, transitorio; come di cambiamento di stato, attraverso il quale raggiungere nuovi livelli di stabilità. 36
Fritz Haber allontanò lo specchio e concepì un’irresistibile desiderio di fumare, si avvicinò alla scrivania, rimandò la lettura della corrispondenza ed emettendo un altro prolungato sospiro, aprì un cassetto alla ricerca di fiammiferi. Sotto la scatola di sigari, spuntava una busta ingiallita. Fritz Haber aprì la busta meccanicamente, non ricordandone il contenuto, e sorpreso, vi trovò vecchi spartiti di canto. Come accade talvolta, quando si attribuisce ad un piccolo dettaglio non solo il potere di rievocare il passato, ma di assurgere a pietra di paragone di un’intera esistenza, Fritz fece un rapido calcolo dei cambiamenti e delle conquiste della vita attuale, in proporzione alle incertezze della giovinezza. Lo scienziato fu travolto da sentimenti opposti che mescolavano, come sempre in queste circostanze, malinconia e nostalgia; rabbia e rimpianti. Tornarono alla mente i continui litigi con il padre, che lo avrebbe voluto a capo della piccola fabbrica di coloranti di famiglia, frutto di enormi sacrifici, dal momento che Siegfried Haber era rimasto vedovo alla nascita di Fritz (la moglie era morta di febbre puerperale). Tornò alla mente la sensazione di inadeguatezza che aveva condotto Fritz Haber a prendere le distanze dall’ambiente bigotto della piccola comunità ebraica di Breslavia, fino a maturare la decisione, a ventiquattro anni, di convertirsi al Luteranesimo. Decisione radicale, non semplice calcolo opportunistico per fare carriera, come avrebbero malignamente sostenuto i detrattori di Haber. Si trattava di cambiare identità (Jacob Haber cambiò nome e assunse quello prussiano di Fritz) per sfuggire alla sensazione di morte che lo aveva sempre attanagliato. Bisognava superare l’idea, profondamente radicata nella tradizione, che il popolo ebraico rappresentasse l’epigono della civiltà. Si doveva, infine, incontrare altri ebrei, perfettamente integrati con la società prussiana, rispettati, potenti, ricchi. Ebrei moderni, al passo con i tempi, liberali, perfino laici, talvolta, i quali, quasi vergognandosi della ristrettezza di vedute della tradizione, avevano aderito alla cultura prussiana con devozione e perfino abnegazione.
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In quel momento il Professor Emil Fischer bussò alla porta, interrompendo i vaneggiamenti di Fritz Haber. Il Direttore dell’Istituto Kaiser Wilhelm era stato il più convinto sostenitore di Haber. Il suo voto era stato determinante, pochi mesi prima, per l’elezione al seggio dell’Accademia delle Scienze di Prussia. Lo scienziato, come riprendendosi da un sogno, stropicciò gli occhi e lo invitò ad entrare. “È arrivato!” esclamò Emil Fischer, concitatamente. “Speriamo vada tutto bene!” mormorò Fritz Haber, a disagio, essendosi reso conto di aver dimenticato di lucidare gli stivali. Emil Fischer sospirò ed ebbe la paterna premura di aiutare il collega ad indossare la giacca nera del frac. “La volevo ringraziare, Direttore” disse Fritz Haber. “E di cosa?” chiese Emil Fischer, sorridendo bonariamente. “Senza il suo aiuto, in questi mesi io non avrei saputo, potuto…” disse Fritz Haber, la voce interrotta dall’emozione. “Professor Haber, lei merita tutto quello che ha; non tema!” rispose Emil Fischer, affettuosamente, rinfrancando il giovane collega. I due attraversarono il corridoio, salutando i ricercatori che stavano riordinando i laboratori. Emil Fischer controllò l’orologio a cipolla. Era un uomo dai modi e dall’aspetto ancien régime; indossava un frac confezionato da Telesfor Pannewitz, uno dei sarti più rinomati della città, e una camicia bianca di étamine, sul cui plastron, incorniciato da un panciotto damascato, brillava una spilla d’oro dell’Accademia prussiana. Il medaglione, più splendente di quanto potesse esserlo un’onorificenza conquistata in battaglia, riportava date e motivazioni del Premio Nobel: “10 Dicembre 1902, per l’enorme contributo alla conoscenza del Glucosio”. In testa, Emil Fisher era solito indossare la tuba, pronto a levarla nell’inchino deferente; nelle mani guantate stringeva, di volta in volta, una pipa d’ebano, regalo di John William Strutt, collega inglese ritiratosi a Whitam, nell’Essex; oppure, il manico d’avorio di un vecchio bastone d’ordinanza, simbolo dell’antica cavalleria prussiana; o l’orologio apparte38
nuto al padre Laurenz Fischer e, ancora prima, ai tempi di Federico III, al nonno, Otto Fischer. “Andrà tutto bene!” esclamò Emil Fischer. “Come pensi di organizzare la visita dell’Imperatore?” domandò Fritz Haber, chinatosi per raccogliere un mozzicone di sigaro e gettarlo in un cestino. “Direi di lasciare fare all’entourage del Kaiser. Noi teniamoci pronti” rispose Emil Fischer. Svoltato l’angolo, i due raggiunsero la hall e si unirono ai colleghi del Dipartimento Scienze atomiche. “Eccolo!” esclamò Fräulein Lise Meitner, indicando l’auto imperiale che valicava l’ingresso. Fräulein Lise Meitner era una giovane donna ebrea di origini viennesi, dai capelli neri, con un profondo sentimento della famiglia. Indossava due minuscoli orecchini in forma di anello con perline che mandavano piccolissimi lampi e ne illuminavano il sorriso. I cancelli erano aperti e il corteo imperiale sfilò lungo il viale. La macchina rallentò in prossimità del piazzale, sbandando lievemente a causa del brecciolino. I ricercatori, disposti su due file ai bordi del vialetto, applaudivano e accompagnavano il Kaiser verso l’ingresso. I Direttori, Emil Fischer, Adolf Von Harnack e Walter Nerst andarono incontro all’auto. Un assistente di Guglielmo II scese dal lato del passeggero e salutò i Professori, poi, aprendo lo sportello posteriore, aiutò il Kaiser a scendere. L’Imperatore sembrava più vecchio della sua età. Era vestito in maniera artificiosa e dava l’impressione di essere a disagio. Emil Fischer accennò una sorta di inchino e, porgendo il braccio, aiutò l’Imperatore. Il Kaiser, infatti, pure camuffando bene sotto la regale mantella cerata la lesione al braccio sinistro che aveva atrofizzato l’arto dalla nascita, aveva un’andatura instabile e per certi versi goffa. Dall’altra parte dell’auto, sbucarono due uomini di statura superiore alla media, vestiti di bianco. “Herr Leopold Koppel” disse Fritz Haber, defilatosi, mentre i colleghi vezzeggiavano l’Imperatore “Ho saputo, siamo tutti profondamente scossi.” 39
Lo stabilimento di Leuna era esploso, provocando la morte di un centinaio di operai e la distruzione di buona parte delle case popolari sorte a ridosso dell’impianto chimico. “Caro Professor Fritz Haber, il progresso scientifico, talvolta, esige sacrifici” rispose Leopold Koppel, cinicamente, “Oggi è un giorno importante.” Il volto di Haber, malgrado il suo contegno, si velò di amarezza. “Conoscete Herr Hugo Stolzenberg?” domandò il banchiere ebreo, presentando il compagno di viaggio. “No.” rispose Fritz Haber, seccamente. “Mi sono appena trasferito da Breslavia” accennò il misterioso accompagnatore che indossava una benda sull’occhio sinistro. “La mia famiglia è originaria di Breslavia” disse Fritz Haber con voce malinconica, “ma, forse, ne eravate al corrente.” “Certo! Professore, lei è una celebrità” disse Hugo Stolzenberg con voce melliflua. “Gradirei che vi scambiaste le credenziali” disse il ricchissimo finanziere ebreo “Stolzenberg sarà consulente della Banca per quanto concerne la chimica.” L’accompagnatore, lusingato, estrasse dalla tasca interna della giacca un biglietto da visita e lo porse vanitosamente ad Haber. Deutsche gasglühlicht aktien gesellschaft, Hugo Stolzenberg, Consigliere privato, Seestrasse, 70 Wedding, Berlino, riportava il biglietto. “Come sta Clara?” domandò Leopold Koppel, approfittando dell’intimità che si era creata per un istante, dal momento che il codazzo di ricercatori e giornalisti era sciamato all’interno della hall. Fritz Haber raccontò le crisi depressive della moglie, a seguito della nascita del primogenito. Clara, benché prima laureata in Chimica all’Università di Breslavia, aveva abbandonato la carriera accademica ed era in cura presso il reparto psichiatrico dell’Ospedale ebraico. “E il piccolo Hermann?” domandò Leopold Koppel.
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“È affidato ai nonni materni, per ora” rispose Fritz Haber, amareggiato. “Ci vuole la pelle dura!” disse Leopold Koppel, scuotendo la testa. Hugo Stolzenberg, lanciata un’occhiata all’orologio, interruppe la conversazione. Uno dei ricercatori, incaricato di scattare la fotografia di gruppo, a futura memoria della visita, aveva richiamato la sua attenzione e aveva invitato gli ospiti ad unirsi agli altri, già in posa. Nella fotografia, sono riconoscibili Leopold Koppel, in basso a sinistra, l’assistente del Kaiser, Adolf Valentini, in alto a sinistra, alle spalle del banchiere ebreo; Friedrich Wilhelm Viktor Albrecht von Hohenzollern Kaiser Guglielmo II; al suo fianco, da sinistra, Otto Hahn, Otto Sackur, Lise Meitner, Emil Fischer, Max Planck, Walter Nerst, Max Von Laue, Fritz Epstein, Adolf von Harnack, nell’attimo in cui stava porgendo o ricevendo qualcosa, e più in là, defilati, Fritz Haber, sorridente, accanto a Hugo Stolzenberg. Dalla nomina a direttore della Gesellshaft für Chemie, Fritz Haber era profondamente invecchiato e mostrava i tratti caratteristici del malato; il lungo giro di conferenze negli Stati Uniti, che lo aveva allontanato da Berlino per alcuni mesi e, durante il quale aveva incontrato l’erede dell’impero industriale AEG, Walter Rathenau; la causa legale con i vecchi finanziatori austriaci che vantavano diritti sul brevetto della sintesi dell’Ammoniaca; la fragilità polmonare, causata in principio da una bronchite trascurata e aggravata dall’esposizione ai gas; la sfrenata ambizione che lo aveva sostenuto, là dove altri avevano fallito per più di duecento anni. Fatti questi che, nell’insieme, avevano esasperato aggressività e nevrosi, già presenti in Fritz, fin dalla prima giovinezza, e soffocato altre corde del cuore, quali il canto e la poesia, per le quali era pure versato. Guglielmo II percorse i corridoi dell’Istituto e si compiacque delle sentenze che decoravano le pareti, moniti, inni, in onore del sapere scientifico. Uno, nell’atrio, in particolare lo colpì per la sua assonanza con il senso di disciplina e rigore prussiani: Se ad ogni giorno 41
vuoi dare senso, che tu abbia il gusto della fatica e che la fatica sia un piacere. Il Kaiser ringraziò i giornalisti e si felicitò con Emil Fischer per la nascita del nuovo Istituto. “La collaborazione tra Governo, Scienziati e Banchieri” dichiarò Guglielmo II, invitando Leopold Koppel ad avvicinarsi, “consentirà alla Germania di primeggiare sulle altre nazioni rivali, così come è stato nella ricerca di coloranti sintetici e nella scoperta dei Raggi X da parte di Wilhelm Conrad Röntgen.” Leopold Koppel si produsse in un inchino riverente. Il Kaiser, sollecitato dai giornalisti, rilasciò alcune dichiarazioni sull’invio della cannoniera Panther, in risposta all’occupazione francese di Fez. L’assistente, Adolf Valentini, lasciò che l’Imperatore rispondesse e propose di iniziare la visita, in quanto il Kaiser era atteso al Reichstag. “Potremmo cominciare con i raggi alfa del Radio” propose Otto Hahn, guardando l’assistente dell’Imperatore. Adolf Valentini restò inebetito e farfugliò qualcosa. “Si tratta di vedere le scintillazioni su uno schermo fluorescente” precisò Lise Meitner, cogliendo l’imbarazzo dell’assistente. “Interessante. Lei è?” domandò Adolf Valentini, stupito dalla presenza di una donna. “Lise Meitner. Lavoro nel laboratorio di fisica nucleare” rispose seccamente la giovane scienziata. “Austriaca, dalla cadenza…” replicò pungente l’assistente. “Sì, viennese. Mi sono appena trasferita per seguire i corsi di Max Planck.” “Ma alle donne non è vietata la carriera universitaria?” insistette l’assistente, in maniera lievemente allusiva, maliziosa perfino. “Sì, infatti” intervenne prontamente Emil Fischer “Lise Meitner è volontaria.” In quell’istante, il Kaiser, rispondendo alla provocazione di un giornalista, aveva alzato la voce. “Scandaloso! Un oltraggio!” dichiarò, lasciandosi trascinare dall’ira. “Nessuno mi ha mai minacciato così direttamente. L’ambasciatore deve immediatamente inviare un intermediario 42
ai francesi e ottenere entro ventiquattr’ore la loro assicurazione che: uno, ritireranno la minaccia; due, presenteranno le scuse; tre, prometteranno di farci senza indugio una concreta offerta. Se ciò non avviene entro ventiquattr’ore, abbandonerò i negoziati, dal momento che il tono in cui essi vengono condotti è incompatibile con la dignità dell’Impero e del grande popolo tedesco.” Dopo alcuni istanti d’imbarazzo, grazie all’intervento di Adolf Von Harnack, i cronisti lasciarono che il Kaiser raggiungesse gli scienziati e continuasse la visita. Tuttavia, quando Lise Meitner aprì le porte della camera oscura, Valentini le si avvicinò e, diventato improvvisamente pallido, sussurrò qualcosa all’orecchio. “L’Imperatore ha paura del buio?” ripeté candidamente Lise Meitner, fulminata dagli sguardi dei colleghi. Fritz Haber, temendo il disastro, lanciò un’occhiata ad Emil Fischer e invitò prontamente il gruppo a deviare il percorso. “Al primo piano” esclamò Fritz Haber “possiamo visitare l’impianto per la sintesi dell’Ammoniaca.” Emil Fischer lo accostò. “È pericoloso. Se il laboratorio dovesse esplodere?” Il giovane chimico sorrise e appoggiò, con tono bonario e filiale, una mano sulla spalla di Emil Fischer, il quale, data la determinazione di Fritz, lasciò che le porte del laboratorio venissero aperte. “Ecco l’impianto dove viene distillata l’ammoniaca.” declamò Fritz Haber, rivolto, in primis, all’Imperatore “Come sapete, questa sostanza, già nota in età classica, sotto forma di sale d’ammonio, Plinio l’aveva definita Hammoniacus sal, deve il suo nome al luogo dove fu identificata per la prima volta: il tempio di Giove Ammone, nell’oasi di Siwa in Egitto. Osservata casualmente nelle ceneri dello sterco di cammello bruciato dai cammellieri, venne studiata dagli alchimisti del XV secolo. L’ermetista Basilio Valentino scoprì che si poteva ottenere ammoniaca dal sale d’ammonio facendolo reagire con alcali e si poteva ottenere anche distillando le corna e gli zoccoli
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dei buoi, neutralizzando i vapori risultanti con acido cloridrico. Ecco perché i colleghi inglesi la chiamano Spirit of hartshorn.” I giornalisti annuirono visibilmente compiaciuti. “Molti scienziati lavorarono alla sintesi dell’ammoniaca” continuò Fritz Haber, infervorato, “Nel 1774, Joseph Priestley isolò ammoniaca gassosa pura, “aria alcalina”; tre anni dopo, Carl Scheele dimostrò che conteneva azoto; Claude Berthollet ne definì la formulazione nel 1785. Ma fu solo più tardi, nel 1873, grazie ai contributi determinanti di Morren e Donkin che si ottenne una reazione chiara, sicura, tra azoto e idrogeno, facendo agire l’arco voltaico in una miscela gassosa formata dai due componenti dell’ammoniaca, eliminando man mano il prodotto della reazione.” Il Kaiser e Adolf Valentini, sorpresi e affascinati, accennarono un applauso. “Qui avviene la reazione tra azoto e idrogeno. Quello che vedete è il catalizzatore!” disse Fritz Haber, indicato un punto specifico. Dal gruppo di giornalisti si levò un mormorio. Il processo era in corso. Il catalizzatore era collegato al reattore attraverso camere di compressione. La formazione di ammoniaca era affidata ad un condensatore, collegato al reattore. “Azoto e idrogeno” spiegò Fritz Haber, con chiarezza divulgativa “reagiscono in rapporto 1 a 3. La temperatura ottimale oscilla tra 350° – 550° C; la pressione tra le 140 e le 320 atmosfere, utilizzando osmio e ferro, o magnetite, quale promotore della catalisi. La reazione consiste in un equilibrio in fase gassosa” precisò Haber indicando su una lavagna l’equazione stechiometrica N2(g) + 3 H2(g) = 2 NH3(g) Il Kaiser, interdetto, cercò disperatamente lo sguardo di Leopold Koppel, il quale ricambiò, in maniera rassicurante. “I miei collaboratori, il Professor James Franck, il Professor Gerhardt Just” disse Fritz Haber, facendo strada, “il Professor Otto Sackur, scopritore della lega grazie alla quale siamo riu-
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sciti a produrre quasi 70 gocce di ammoniaca, in poco meno di un’ora.” Otto Sackur si era profuso in un inchino, poi, col permesso del Kaiser, era corso a mostrare l’ampolla contenente l’osmio. “A cosa serve?” mormorò ingenuamente l’Imperatore, compiendo un istintivo passo indietro, a causa dall’acre odore d’osmio. “Pane dall’aria, Imperatore. Pane dall’aria” rispose Leopold Koppel. Guglielmo II si guardò attorno, annuendo col capo e, rivolto ai giornalisti, scandì la formula, ripresa il giorno successivo da tutti i giornali: “Pane dall’aria! Pane dall’aria!” Haber sorrise e lasciò a Emil Fischer l’onere di concludere la visita, illustrando i risultati delle ricerche sulla struttura degli zuccheri. Il Kaiser, dopo aver visitato l’intero Istituto, terminò la cerimonia con le usuali formule d’augurio. Emil Fischer, soddisfatto, ringraziò l’Imperatore e pregò Walter Nerst, Fritz Haber e Adolf Von Harnack di avvicinarsi per un’ultima fotografia. “Gradirei avervi ospiti a cena. Professor Emil Fischer, aspetto Lei e il suoi collaboratori al Kempinski per le 20. Siamo intesi?” disse Guglielmo II, scortato da Adolf Valentini. Il Kaiser chiuse lo sportello, abbassò il finestrino e salutò la folla dei curiosi che, nel frattempo informati dalla visita dell’Imperatore, si erano assiepati ai cancelli. Emil Fischer si profuse in un inchino e invitò i colleghi, con un rapido cenno, a fare altrettanto. Otto Hahn, Max Planck, Lisa Meitner e Otto Sackur, stando sulla limitare dell’Istituto, salutarono la partenza del Kaiser; poi, appena l’auto svoltò, si guardarono a vicenda. “Paura del buio?” ripeté Lise Meitner, beffarda. “Non stupisce!” disse Otto Sackur “Del resto, è da uomo che ha paura del buio la scelta di nominare Primo Ministro il vecchio Bethmann.” “Torniamo al lavoro signori, ci aspettano giorni bui” rispose Otto Hahn, sarcastico. 45
“Fritz, hai sentito?” gridò Emil Fischer “Alle 18 al BristolKempinski. Chiaro?” Fritz Haber, diretto nel suo studio, s’era già allontanato. Dal fondo del cortile aveva fatto segno con la mano. I colleghi risero, avendo capito che la risposta era un sì con molte riserve. Emil Fischer, deluso, emise un sospiro e tornò nel suo ufficio, accompagnato da Max Planck, Walter Nerst e Adolf Von Harnack. Del resto, i compiti che Fritz Haber si era prefissati erano diventati un’ossessione. La ripetizione maniacale degli esperimenti di laboratorio; la perfezione metodica nella raccolta dati; la ricerca di nuove applicazioni, avevano contribuito a fare circolare tra i colleghi l’idea che il Professor Fritz Haber fosse una sorta di Doktor Faustus.
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Quando Fritz Haber entrò nella hall del Bristol-Kempinski lanciò uno sguardo ansioso agli orologi sopra la portineria. Tra quadranti dorati rappresentanti i fusi orari delle principali capitali del mondo, intagliati in un planisfero che alternava larice, mogano e tek, frutto di un lavoro di altissima ebanisteria, Fritz Haber finalmente individuò quello di Berlino. Resosi conto del ritardo, l’orologio segnava le 20,15, attraversò la hall gremita di ospiti e si affrettò verso la sala ristorante. Il Kempinski era l’albergo più lussuoso della città. Inaugurato nel 1860, proprio di fronte alla porta di Brandeburgo, era frequentato da diplomatici stranieri, dive d’operetta, attori satirici di kabarett politico che replicavano i propri spettacoli per dieci o venti settimane di fila. Era luogo di ritrovo dell’alta società, ma anche di famosi biscazzieri greci o arabi che proponevano sterminate partite illegali a chemin de fer o whist, dove di solito a cadere vittime erano facoltosi commercianti turchi o italiani. Fritz Haber si guardò attorno. La hall brulicava: fattorini, inservienti, ospiti stranieri, fotografi, orchestrali e giornalisti. Gruppi di visitatori erano riversati dalle porte metalliche degli ascensori, continuamente in azione, diretti al bar, o ad uno dei ristoranti. Al primo piano, infatti, era possibile mangiare in una bodega spagnola, oppure bere un drink in uno dei tre bar: messicano, americano, francese. Al secondo piano, affacciati sulla hall, erano disponibili una sala da tè giapponese e un ristorante viennese con orchestra femminile. All’ultimo piano, ciò che costituiva una delle attrattive più originali del Kempinski, una Vater-Rhein, una terrazza dove, ogni ora, veniva scatenato un temporale artificiale con lampi e tuoni. Fritz Haber facendosi largo fra la gente riuscì a raggiungere la porta del ristorante ma il maître fece segno di attendere, 47
era alle prese con una comitiva di banchieri americani, appena giunta in città. Lo scienziato, alzandosi sulle punte, oltre le teste bionde dei ricchi funzionari, riconobbe, nel riflesso di uno specchio lievemente appannato le movenze di Fräulein Lise Meitner e richiamò l’attenzione di un cameriere. “Sono atteso al tavolo del Kaiser e sono in ritardo!” disse Fritz Haber, quando il cameriere fu più vicino. Il cameriere francese, un vecchio dipendente del Kempinski, conosceva bene l’Imperatore, frequentatore assiduo del ristorante, e informò Haber che gli ospiti non avevano ancora ordinato. Haber tirò un sospiro di sollievo e si fermò un istante davanti ad uno specchio per stringere il nodo del plastron, prima di entrare nella saletta. All’improvviso si udì un frastuono. Fritz Haber si voltò di scatto e guardò fuori da una finestra. Il cameriere sorrise e disse di non preoccuparsi della pioggia. Il temporale era in corso all’ultimo piano. Poi, lanciandogli un’ultima occhiata accondiscendente, sussurrò Après vous, Monsieur. “La stavamo aspettando Professore” disse l’Imperatore, distendendo il tovagliolo e invitando a prendere posto. Era rimasta vuota la sedia al suo fianco, temendo ognuno dei presenti di dovere sostenere l’intero onere della conversazione per tutta la durata del pranzo. Walter Nerst lanciò un’occhiata sprezzante al collega verso il quale non s’era mai sopita una profonda rivalità, maturata nel cono d’ombra del professor Wilhelm Ostwald. La competizione si era accesa, anzi divampata, proprio in occasione della nomina di Fritz Haber a direttore del dipartimento di chimica organica. Walter Nerst non lo riteneva competente, almeno in chimica organica, ambito nel quale Fritz Haber s’era formato da autodidatta (!) e aveva sostenuto in più occasioni che gli studi di Fritz Haber sull’ammoniaca fossero semplici riproposizioni dell’opera di Wilhelm Ostwald che, mancante dello spirito pratico di Haber, aveva interrotto gli studi, proprio ad un passo dalla grande scoperta. Ne era48
no nate, nei dieci anni precedenti, pungenti polemiche che contrapponevano il teorema di Walter Nerst (la possibilità di definire un equilibrio chimico dalle costanti fisiche e chimiche dei componenti) ai risultati di laboratorio dell’équipe di Fritz Haber. Nerst era seduto, raccolto in sé, con ottocentesco atteggiamento autorevole. Anche quello che diceva era autoritario, ma le caviglie sottili toglievano ogni autorità al modo di dire le cose (e anche alle cose) e queste parevano uscire dal largo taglio della bocca con soffi lievi e regolari che si perdevano nella stanza. Evidentemente, toccato nel vivo, a giudicare dall’animosità dei gesti, Walter Nerst si ricompose a fatica e si arrese al cameriere, il quale mostrò la carta dei vini, già rifiutata più di una volta, in attesa che Fritz Haber arrivasse. “Scusate” si giustificò timidamente il chimico “Un imprevisto mi ha trattenuto in laboratorio.” Walter Nerst e Max Planck si voltarono verso il Kaiser, il quale, preso il menù, lanciò un’occhiata ammiccante a Fräulein Lise Meitner. “Gradisce un assaggio di Molossol?” domandò il Kaiser con tono galante. “Non l’ho mai assaggiato” rispose timidamente la giovane donna. Il Kaiser, stupito e compiaciuto, rivolto al cameriere, lo pregò di porgere la spatola di madreperla con la quale era solito servire caviale ai suoi ospiti. Tre piccoli barili erano appoggiati su un tavolino alle spalle di Fritz Haber. Il cameriere tese il braccio verso l’Imperatore e accennando un inchino si mise in disparte. Guglielmo II versò le uova di storione di un bel colore grigio nocciola dorato in una coppa e ne fece dono alla scienziata. Poi, rivolto al cameriere, domandò un po’ di musica. “Dunque è viennese” disse il Kaiser, soavemente. “Sì, Maestà” rispose prontamente Lise Meitner, disturbata dall’odore del caviale. “Non le piace?” domandò il Kaiser, notata l’incertezza dei gesti e una lieve piega del sopracciglio.
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Il cameriere tornò indietro intuendo la difficoltà dell’ospite e si avvicinò a Lise Meitner, suggerendo di assaggiare il caviale come lo mangiano i francesi, su una fetta di pane bianco tostato e imburrato, per ammorbidire il pungente odore di mare. “Arriva ogni giorno dal Baltico; è freschissimo! Non è vero, Louis?” il Kaiser si era rivolto al cameriere che era solito servire ostriche, dopo il caviale. Louis annuì, aggiustandosi il vecchio panciotto verde, ricordo di fasti napoleonici. Louis era infatti di origini alsaziane. Dinoccolato, elegante, portava i favoriti folti; era un uomo dell’ancienne garde. All’improvviso, si sentì una musica provenire dalla sala contigua. “Le orchestrali viennesi!” disse il Kaiser “Sono appena giunte in città!” Emil Fischer, perplesso, scrutò l’espressione compiaciuta dell’Imperatore e poi, rivolto al cameriere, ordinò zampa di maiale con piselli e crauti. “Gentili Signore e Signori” disse Guglielmo II affabilmente “vi chiederete la ragione di questo invito.” Gli ospiti si guardarono a vicenda moderatamente stupiti. Louis nell’atto di socchiudere la tenda alle spalle del Kaiser, per attenuare la luce che aveva invaso la tavola, si era curiosamente messo sull’attenti. “Come avrete appreso dai giornali” esclamò l’Imperatore “la Nazione intera è scossa dalla notizia del crollo di una delle più grandi miniere di carbone di Dormund. Ennesima tragedia occorsa ai nostri valorosi minatori.” Emil Fischer, nervoso, aggiustò le code del frac e si allungò sulla tavola, mentre gli altri fissavano le labbra dell’Imperatore. “Una catastrofe!” proseguì il Kaiser “Come saprete, naturalmente, vi sono stati centinaia di feriti e decine di morti. Non è possibile che nel 1912, la Scienza prussiana, da voi qui così ben rappresentata, non abbia ancora trovato un modo per individuare il grisù.” Max Von Laue, pensieroso, annuiva vivacemente, mentre Lise Meitner, visibilmente scossa, accarezzava il profilo della tovaglia lungo il bordo del tavolo.
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“Siete a conoscenza del prototipo di Fritz Lowe?” esordì Fritz Haber “Si tratta di un nuovo tipo di interferometro, messo a punto presso i laboratori Karl Zeiss.” “Le notevoli dimensioni dello strumento non consentono l’impiego in miniera” rispose Walter Nerst, puntiglioso. “Per non parlare della pericolosità della fiamma segnalatrice!” dichiarò Max Planck. Il Kaiser scrutò i volti degli scienziati e attese un cenno da parte di Emil Fischer, il quale annuì, compiaciuto. “Si tratterebbe di inventare un interferometro basato su un altro principio” ribatté prontamente Haber. “E quale?” domandò Walter Nerst, ironico. Fritz Haber, meditabondo, cominciò a giocare nervosamente con una posata. “Herr Fritz Haber” disse il Kaiser, solenne “affido a lei l’incarico di trovare una soluzione. Va data notizia alla stampa nel più breve tempo possibile.” Max Von Laue e Max Planck si guardarono perplessi. Emil Fischer dichiarò che il Professor Haber sarebbe sicuramente riuscito nell’impresa e, raggiante, richiamò l’attenzione del cameriere e ordinò. “Vorrei anguilla al prezzemolo” disse Emil Fischer, colpito dalla prontezza di spirito del suo protetto. “Prendo… arrosto d’oca, con salsa di formaggio, grazie” disse Max Planck. “Gefillte fish con patate” disse Fräulein Lise Meitner. Walter Nerst, furioso, disse di non aver appetito e ordinò tè nero. “È possibile” mormorò Max Von Laue, abbassando la voce “separare la carne dal formaggio?” Louis, abituato alle prescrizioni kasherut dei clienti, annuì e segnò un appunto sul taccuino. Il Kaiser ordinò ostriche e, deliziato dalla compagnia degli ospiti, pose qua e là piccole timide domande, simili a sbuffi, sulle attività di ricerca dei vari dipartimenti dell’Istituto. Otto Hahn ordinò ossobuco e, dopo un attimo di esitazione, prese la parola, e con la massima semplicità spiegò di cosa si occupasse il dipartimento.
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“Si tratta di una disciplina nuova” disse lo scienziato di Francoforte “inerente lo studio della materia: composizione atomica e sub atomica. Ma meglio di me, potrebbe dire la collega.” Fräulein Lise Meitner arrossì, non aggiunse altro. Il Kaiser, entusiasta, lanciava occhiate di gioia ai commensali seduti nelle salette vicine. “E Lei Professor Haber, cosa mangia?” domandò Guglielmo II. “Io prendo…” accennò Fritz Haber, dopo lunga riflessione (era abituato a mangiare in maniera frugale, soprattutto a cena) “È possibile ordinare aringhe e cetrioli marinati?” Il Kaiser e Louis si guardarono e scoppiarono in una risata. “È nel ristorante più raffinato della capitale” disse Guglielmo II “e ordina Stulle. È più Berlinese dei Berlinesi!” Emil Fischer, divertito dalle bizzarrie di Haber, propose un brindisi e, infilato il tovagliolo nel panciotto, augurò buon pranzo a tutti e riprese la questione rimasta in sospeso. “Quando il Ministero ci fornirà i finanziamenti promessi, allora potremo inaugurare il laboratorio di fisica atomica. Lavorare in uno scantinato è impossibile. Avete già fatto troppo” disse Emil Fischer, a voce più alta del necessario, rivolto a Lise Meitner e Otto Hahn. Il direttore aveva alzato la voce di proposito, nella speranza che il Kaiser, prendesse a cuore la questione, dato che l’Istituto fino a quel momento aveva raccolto solo i finanziamenti privati di Leopold Koppel. “Alla vostra!” disse Max Planck, alzando il calice, in direzione del Kaiser. Walter Nerst, intuite le intenzioni di Emil Fischer, cominciò in quel modo e dal quel momento a gonfiare dentro di sé invidia e vendetta. “Prost!” rispose l’Imperatore, alzato un prezioso calice largo colmo di champagne. “Io, recentemente, sono diventato astemio” disse Fritz Haber, suscitando l’ilarità dei colleghi. Otto Hahn ricordava la sbronza che avevano preso lui, Fritz, Lise Meitner e Richard Willstätter, a bordo del Moby Dick, l’estate precedente, quando avevano fatto visita all’isola 52
dei Pavoni; sbronza a base di Weder, vino di frutta, apparentemente innocuo ma micidiale. “È mai stata a colazione da Horcher?” domandò il Kaiser alla giovane scienziata viennese. “No, mai, Maestà. Come avete intuito, la vita dello scienziato è una vita ritirata, piuttosto monotona.” “E in uno scantinato, pare di capire” disse l’Imperatore. Malgrado poco prima sembrasse non aver colto, mostrava invece di avere sensibilità per le questioni economiche. “Appunto” sottolineò immediatamente Fischer, seduto all’altro capo della tavola. “Può passarmi il pane?” domandò affabilmente Max Von Laue a Max Planck. L’illustre collega si allungò verso la cesta del pane e quasi rovesciò il calice di Emil Fischer. “Ci sarebbe anche un’altra questione…” disse Lise Meitner, prendendo la parola per la prima volta. Sulla tavola calò il silenzio e i colleghi si guardarono a vicenda. Emil Fischer incoraggiò la collega a spiegare all’Imperatore la situazione. “Maestà” disse Lise Meitner con voce ferma e persuasiva “le donne sono escluse dall’insegnamento. Io stessa, pur lavorando con il Professor Otto Hahn da più di due anni, entro ed esco dall’Istituto da una porta di servizio, non essendo consentito dal regolamento dell’Università la presenza di personale docente femminile.” Il Kaiser aveva corrugato la fronte e, aiutandosi con la destra, aveva appoggiato il braccio sinistro sulla tavola. “È un’ingiustizia. Fritz Haber cosa ne pensa?” domandò il Kaiser, inaspettatamente. Fritz Haber sorseggiò l’acqua, nettò la bocca con il tovagliolo, schiarì la voce e iniziò un lungo discorso che mirava ad ufficializzare la posizione della collega all’interno dell’Istituto. “Propongo di nominare Fräulein Lise Meitner assistente del Professor Otto Hahn” dichiarò Fritz Haber in maniera altisonante. Lise Meitner lo guardò, lusingata. Walter Nerst invece cominciò a tossire al punto tale che Max Planck riempì il bicchiere del collega e lo invitò a bere.
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“Con rispetto Maestà, per Voi, per i colleghi” affermò Walter Nerst, ripreso colore in volto e alzatosi in piedi “ritengo che il Professor Fritz Haber non abbia titolo per nominare alcuno. Starà al Collegio e ai Soci decidere se...” “Seduto, seduto, Nerst. I soci sono d’accordo” disse Leopold Koppel. Attratto dalle voci degli scienziati, aveva lasciato i suoi ospiti e si era affacciato sulla sala riservata al Kaiser. Walter Nerst, scocciato, era tornato a sedere ma aveva lanciato il tovagliolo sulla tavola, in segno di protesta. Dopo qualche istante di esitazione, il Kaiser sorrise, prevedendo un finale al calor bianco. “Si accomodi” disse Guglielmo II, con tono di padrone di casa, rivolto al banchiere e al suo segretario. “Con permesso” disse a quel punto Walter Nerst, esasperato. Lo scienziato, senza salutare, abbandonò la sala, precipitosamente. Otto Hahn e Fritz Haber si guardarono divertiti, mentre Emil Fischer, sinceramente dispiaciuto, si scusò con l’Imperatore. “Pare si sia liberata una sedia…” disse l’Imperatore senza scomporsi e rivolto ai nuovi ospiti. Leopold Koppel domandò permesso a Max Planck e prese il posto di Walter Nerst, invitando Hugo Stolzenberg a procurarsi una sedia. Il banchiere ebreo spiegò di approvare la proposta di Fritz Haber. Del resto, Hugo Stolzenberg gli aveva fornito una relazione dettagliata sulle ultime scoperte del dipartimento, da cui emergeva l’importanza degli sviluppi di quella ricerca totalmente innovativa. “Signori, se siete d’accordo, proporrei di proseguire la serata al Neue Welt, cosa dite?” l’Imperatore si era alzato di scatto e aveva offerto il braccio alla giovane scienziata. Emil Fischer e Leopold Koppel si defilarono ma Emil Fischer pregò i più giovani, in rappresentanza dell’Istituto, di accompagnare il Kaiser. Hugo Stolzenberg, in disparte, attese un cenno di Koppel, il quale gli fece segno di unirsi agli altri. Il Kaiser, dopo aver salutato i banchieri americani, ospiti di Koppel, attraversò la hall, dove era in corso una interminabile partita di bacarà. L’auto imperiale si avvicinò all’ingresso del Bristol-Kempinski. L’autista scese e aiutò Fräulein Lise Meitner a salire a 54
bordo. Fritz Haber, titubante, attese che il Kaiser e Otto Hahn e Hugo Stolzenberg, prendessero posto, poi, salì a bordo e prese posto sul sedile del passeggero. Hahn e Stolzenberg s’erano sistemati sul sedile di fronte al Kaiser, il quale conversava amabilmente con Lise Meitner. Il Neue Welt si trovava alla fine del Kurfurdamm. Era uno dei locali più antichi della città. Il titolare del Nuovo mondo, un ebreo sefardita di origini yemenite, riconoscendo l’auto dell’Imperatore, andò incontro agli ospiti. “Che onore, Imperatore!” disse l’uomo, inchinatosi, con il dorso della mano sinistra appoggiata sulle code del frac. Guglielmo II presentò gli ospiti al direttore e lasciò che fosse lui a guidare la comitiva. Il locale era enorme. La sala era decorata con abeti e pini. Le pareti erano state affrescate in modo da creare l’impressione di trovarsi in Baviera; sensazione accentuata dalla presenza di piccole montagne di cartapesta e autentiche cascate e da camerieri e cameriere in costume tradizionale. Naturalmente, la birra era bavarese. Le bionde e grassottelle kellerine la portavano in boccali di creta, senza lasciarsi sgomentare dagli innumerevoli e odiosi pizzicotti, collezionati lungo il tragitto. Suonatori di tre orchestre si esibivano in abiti pittoreschi e intonavano motivi e ritornelli che esaltavano la Bockbier. In fondo alla sala, si elevavano alcune terrazze, simili a palchi di teatro. Il Kaiser si accomodò nella terrazza più alta. Da lì si poteva assistere ad uno spettacolo singolare. Da una balconata collegata al pian terreno da passerelle sdrucciolevoli, una sorta di scivolo per bambini, si lanciavano matrone di oltre un quintale che scendevano, mettendo in mostra le sottane. Guglielmo II, da un lato, era appoggiato alla balaustra e partecipava ai festeggiamenti; dall’altro, conversava con gli ospiti per cenni; dato che il frastuono della musica non consentiva di udire distintamente le voci. Alla comparsa di un corteo di valletti in livrea, sbucato dalle cucine, si levò dal palcoscenico un canto intonato da una 55
comitiva di giovanissime reclute. Su una lettiga trionfavano un bue intero e una dozzina di maialini. I ragazzi cantavano, nach Hause, nach Hause gehen wir nicht. So lange, so lange der tag nicht ausbricht. Fritz Haber crollò il capo, colto da disperazione. Quando il Kaiser si voltò di scatto, lo scienziato sorrise forzatamente, poi, rivolto ai colleghi, implorò il loro aiuto per andarsene. Fräulein Lise Meitner, emozionata e lievemente confusa dal susseguirsi di eventi inaspettati e imprevedibili durante l’arco della giornata, sospirò e alzò le spalle. Hugo Stolzenberg, in realtà, abituato agli spettacoli del Neue Welt, sorrideva, divertito e anzi propose di andare a sparare al bersaglio in uno dei locali al pian terreno. Fritz Haber, nella speranza di avvicinarsi così all’uscita, accettò l’invito di Hugo Stolzenberg. Un venditore di sigari avvicinò i due uomini e offrì un havana stagionato. “Volevo parlarle Herr Fritz Haber, in privato” disse Hugo Stolzenberg, accendendo immediatamente il sigaro appena acquistato. “Dica pure” rispose Fritz Haber, un po’ sbrigativamente, rifiutando il sigaro. “Domani farò visita all’impianto della Basf. Le andrebbe di accompagnarmi?” domandò Stolzenberg. “A Leuna?” domandò Fritz Haber, avvicinatosi al guardaroba per prendere il pastrano e lasciare la sala. “No, a Breloh. Un piccolo centro nei pressi di Munster.” precisò Hugo Stolzenberg, abbassata cautamente la voce. Fritz Haber, scettico, restò in silenzio. “Alle 9. Andrebbe bene all’Istituto?” propose Stolzenberg, insistente, aiutando Fritz Haber ad indossare il cappotto. “Lo scopo della visita, Herr Stolzenberg?” domandò Fritz Haber, con tono seccato. “Il consigliere Leopold Koppel e il Presidente della Basf, August Bernthsen, mi hanno incaricato di condurla a Breloh” rispose Hugo Stolzenberg. “Non capisco…” disse Haber, evasivo.
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“Il Ministero della Guerra intende finanziare la costruzione di un nuovo impianto per la produzione di gas” precisò Stolzenberg. “Ancora! Pensavo di essere stato chiaro!” disse Fritz Haber, intento a raggiungere l’uscita. “Professor Haber, rifletta, non sia impulsivo” dichiarò Hugo Stolzenberg, trattenendo il braccio di Haber. “Mi lasci. Ho già detto di no” rispose Fritz Haber, liberandosi dalla forte presa dell’assistente di Leopold Koppel. Hugo Stolzenberg, rendendosi conto di aver esagerato, lasciò la presa ma accennò una smorfia di disappunto. “Addio Stolzenberg” gridò Fritz Haber, sbattendo violentemente la porta a vetri. Stolzenberg seguì con lo sguardo Fritz Haber e sorrise. Alla ricerca di un taxi, Fritz Haber si era lanciato in mezzo alla strada e si era trovato circondato da un chiassoso gruppo di travestiti. Hugo Stolzenberg, spento il sigaro sotto il tacco dello stivale, salì le scale e raggiunse il palco dell’Imperatore. Lise Meitner e Otto Hahn discutevano in corridoio. Un militare aveva consegnato un dispaccio urgente da parte del Cancelliere al Kaiser, il quale, una volta letto il contenuto, era sbiancato e, scusandosi con gli ospiti, si era precipitato al Reichstag. In quell’istante, una campana sul palco cominciò a suonare i rintocchi e le luci si spensero. Fontane danzanti, centinaia di zampilli manovrati abilmente sul palcoscenico, si misero in moto, imitando la danza dei sette veli. “Ottomila litri di acqua al minuto” annunciò al microfono il direttore del locale, festeggiando la mezzanotte con gli ospiti seduti in platea “35.000 watt per l’illuminazione: Kolossal, Kolossal.” Gli scienziati, dopo alcuni minuti, annoiati, si alzarono e lentamente scesero le scale per raggiungere l’uscita. Otto Hahn mormorò qualcosa a Lise Meitner, uscì e chiamò un taxi. L’autista si avvicinò subito e, quando gli scienziati furono tutti a bordo, partì in direzione di Dahlem. Hugo Stolzenberg preferì avviarsi a piedi verso Wedding. 57
Il vento spazzava il Kurfurdamm; una folata, in particolare, fece cadere le foglie degli aceri secolari che costeggiavano il viale. Un vetturino si fermò poco più avanti e accese un vecchio lampione a gas. L’assistente di Leopold Koppel seguì con lo sguardo i movimenti felini dell’uomo che, appoggiata la bicicletta al palo, si arrampicava agilmente su una piccola scala a pioli. L’uomo azionò un meccanismo e il lampione s’illuminò, diffondendo un chiarore lattiginoso. Hugo Stolzenberg, affamato e infreddolito, avvolse il volto dentro una lunga sciarpa di cachemire e sollevò lo sguardo per un istante. Le facciate dei palazzi erano buie, se non per un balcone sporgente, colorato dal riverbero della lampada di un lettore curioso. Proteggendosi in una rientranza del caseggiato, Hugo Stolzenberg tirò dritto verso Alexander Platz. Da lì, con l’ultima corsa della U-Bahn, avrebbe raggiunto Wedding nel giro di alcuni minuti. L’orologio di un campanile suonò la una. Anche l’orologio a muro del laboratorio di Fritz Haber indicava la una. Fritz Haber, dopo aver lasciato il Neue Welt, si era precipitato all’Istituto. Durante la corsa in taxi verso casa aveva avuto un’intuizione e aveva chiesto all’autista di fare inversione di marcia e di condurlo immediatamente a Dahlem. Nelle settimane precedenti, lo scienziato aveva studiato approfonditamente il funzionamento delle tradizionali lampade di sicurezza, in dotazione ai minatori. Le vecchie lampade a luminescenza Davy, dall’inventore inglese Sir Humphry Davy, erano vere e proprie lanterne dotate di una camera di combustione, alimentata dalla normale presenza di ossigeno nell’aria. In presenza di metano, come noto inodore, riducevano notevolmente la combustione fino allo spegnimento completo, grazie ad una rete di rame che agiva da filtro. Lo spegnimento della fiamma avvertiva il minatore dell’eventuale presenza di grisù. Lo scienziato aveva studiato anche le più moderne lampade di sicurezza a benzina, ideate da Karl Wolf. Queste ultime si basavano sullo stesso principio delle Davy, ma la fiamma 58
azzurra, dalla caratteristica forma a cono, cambiava intensità di colore in presenza di grisù. Fritz Haber quella notte decise di percorrere una strada alternativa. Lo scienziato aveva effettuato una lunga serie di esperimenti per studiare il comportamento dei gas sottoposti alle sollecitazioni dell’arco di Volta ed era giunto alla conclusione che era possibile realizzare un segnale acustico che avvertisse i minatori della presenza di metano. Haber prese un cilindro di metallo dal laboratorio di Otto Sackur, lo riempì di una miscela di gas e lo sottopose ad una pressione di 10 atmosfere. Una volta allentata la valvola di sicurezza, la miscela di gas, fuoriuscendo dal cilindro, emetteva una nota caratteristica. Lo scienziato allora riempì lo stesso cilindro con un’altra miscela di gas. Il gas, sottoposto alla stessa pressione di 10 atmosfere, emise un suono di un’ottava più alta. Fritz Haber, soddisfatto e rinfrancato dalla riuscita dell’esperimento, stese una particolareggiata relazione per Richard Leiser, l’assistente che lo aveva seguito da Karlsruhe e che aveva approfondito gli studi sull’arco di Volta. Lo scienziato, lanciata un’occhiata alle lancette dell’orologio, ripose i cilindri nel laboratorio di Otto Sackur, spense le luci e si affrettò verso casa.
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Il vento spazzava le nubi color cipria che avevano delicatamente accompagnato la nascita dell’aurora. Su Dahlem era tornata la calma, dopo una notte burrascosa. I primi studenti animavano i cortili con i loro commenti alla notizia del mattino. In particolare, un gruppetto di fisici, si distingueva per la vivacità e i canti patriottici. “Fritz, hai letto i giornali?” domandò Otto Sackur, commentando la notizia dello schieramento inglese di navi da guerra nel Mare del Nord. Il chimico, appena arrivato, guardò con aria interrogativa e stralunata, poi accese la radio e si mise ad ascoltare le notizie: Guglielmo II, nella notte, aveva firmato la quinta legge navale. Secondo le fonti più autorevoli, la Germania si stava preparando ad entrare in guerra. “Fritz, stai male?” domandò Otto Sackur. Haber scosse la testa e si avvicinò alle vetrate del giardino. Clara aveva avuto nella notte un’altra crisi profondissima e il Dottor Erich Moller era giunto alla drammatica ma ineluttabile decisione, vista la gravità delle crisi della giovane donna, di internare la paziente in una clinica psichiatrica specializzata in isteria femminile. Fritz Haber si era trovato costretto a sottoscrivere la penosa decisione, benché temesse per le conseguenze sulla psiche del giovane Hermann. Lo scienziato si avvicinò alle vetrate del giardino. In quell’istante, si udì il rumore di una brusca frenata nella ghiaia. Un’auto aveva arrestato la sua corsa davanti all’entrata del laboratorio. “Stolzenberg! Me n’ero completamente dimenticato!” esclamò il Professore. “Cos’è venuto a fare qui?” domandò Gerhardt Just.
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“Leopold Koppel insiste affinché l’Istituto collabori con il Ministero della Guerra” rispose Fritz Haber, stancamente, come se le parole gli fossero estorte. “Non mi fido di quell’uomo!” disse Otto Sackur, stringendo le labbra sottili, sotto i baffi ben curati, e attendendo un cenno di approvazione che non arrivò. Stolzemberg salì le scale e bussò alla porta dell’ufficio di Fritz Haber. “Si accomodi” disse lo scienziato, svestendo il camice. Haber salutò Otto Sakur e Gerhardt Just, che, fermi sulla soglia del laboratorio, sembravano volerne impedire la partenza. “Otto, potete informare Emil Fischer della mia partenza?” domandò Haber, facendo segno a Stolzenberg di pazientare. In realtà, Emil Fischer ne era già a conoscenza. Il Direttore aveva udito la frenata e si era affacciato alla finestra, infastidito dall’arroganza di Stolzenberg, che aveva parcheggiato di fronte all’ingresso, incurante dei divieti e stupito dal tipo di veicolo con cui Stolzenberg s’era presentato. L’uomo infatti era sceso da un’auto dell’esercito. Quando Stolzenberg e Haber raggiunsero l’uscita, Fritz Haber, sollevando lo sguardo verso le finestre dell’ufficio di Fischer, fece un cenno di saluto. Il direttore, contrariato, scosse la testa e chiuse bruscamente le tende. Stolzenberg invitò Haber a salire a bordo, senza perdere altro tempo, e lasciandosi rapidamente alle spalle l’Istituto imboccò la strada per Munster. Dopo alcuni chilometri, durante i quali Haber era ammutolito e aveva appoggiato il capo al vetro del finestrino, il consulente aveva tentato di animare la conversazione. “Ho trascorso gli ultimi tre anni a Breslavia” disse Stolzenberg “in qualità di assistente di Heinrich Biltz, con il quale ho discusso una tesi di dottorato sull’impiego di gas in campo industriale; tesi che, per altro, ha suscitato l’interesse di Leopold Koppel.” Haber annuì distrattamente, senza ribattere. “Voi non mi state ascoltando” disse Stolzenberg, accortosi che il chimico era completamente assente. “Avete ragione, scusate” disse Fritz Haber, ricomponendosi. Lo scienziato era tornato per un istante con la mente alla vecchia casa di famiglia, al cimitero ebraico in cui era sepol61
ta la madre, alla cui tomba Fritz mancava da oltre vent’anni. “Dopo la conversione...” disse Fritz Haber, con tono mesto “Dopo la conversione al Luteranesimo, mio padre non ha più voluto vedermi.” “Ne ero al corrente” rispose Hugo Stolzenberg. Haber lo fissò in volto, con l’intensità di chi cerca un punto per colpire con precisione. “Cosa significa?” domandò Fritz Haber, circospetto. Hugo Stolzemberg si era allungato verso il sedile posteriore alla ricerca di un faldone. Il volto del pilota, per un istante, fu vicino alla spalla di Haber, il quale, investito dal forte odore di colonia, si allontanò infastidito. Finalmente, Stolzenberg riuscì ad afferrare l’involto, lo porse ad Haber e riprese saldamente il volante. “Questo dossier vi riguarda” affermò Stolzenberg, con una voce dolcina. “Dossier?” domandò Haber, stralunato. “Comunicazioni riservate del Ministero della Guerra.” rispose Hugo Stolzenberg, con rinnovato tono di voce, impettito e professionale. Haber tacque, intento a sfogliare il fascicolo. Erano raccolte informazioni, in ordine alfabetico, dettagliatissime e puntuali su numerosi scienziati: Albert Einstein, Emil Fischer, Otto Hahn, Adolf Von Harnack, Max Von Laue, Lise Meitner, Walter Nerst, Max Planck, Richard Willstätter. “Albert Einstein” disse Frtiz Haber, leggendo il primo profilo “nato a Ulma, il 14 marzo 1879, autore nel 1906 di Validità della teoria dei quanti di Max Planck, nell’ambito della spiegazione dell’effetto fotoelettrico dei metalli; Valutazione quantitativa del moto browniano e ipotesi di aleatorietà dello stesso.” “Siamo arrivati Herr Haber!” disse Stolzenberg, indicando il profilo seghettato dei tetti dello stabilimento, “Amo e odio questo luogo.” Stolzenberg sterzò bruscamente e imboccò un viale defilato e nascosto da alti cipressi. Il chimico, meditabondo, chiuse il dossier e attese una spiegazione. Haber aveva cominciato a collegare fra loro alcuni fatti, per lo più spezzoni di frasi, che man mano emergevano dalla conversazione con Stolzenberg: 62
la specializzazione in chimica dei gas per uso bellico, a Breslavia; l’incarico di Leopold Koppel, come responsabile della Banca per la chimica; le strette relazioni con il Ministero della Guerra; e ora perfino un dossier sugli scienziati prussiani. “Oggi incontreremo il direttore della fabbrica, il Professor Carl Bosch, che lei conosce bene, e Alvin Mittasch, suo fiduciario” disse Stolzenberg, arrestando l’auto. “Herr Haber lasciate pure a me il dossier, concentriamoci sulla ragione della nostra visita: Basf, Ministero della Guerra e Kaiser Wilhelm devono iniziare una proficua collaborazione” sentenziò Stolzenberg, con piglio professionale. Fritz Haber, irritato, restituì il dossier, scese dall’auto e seguì Hugo Stolzenberg che, al solito, sembrava molto sicuro di sé. L’impianto sorgeva sotto il livello del terreno e, pur occupando centinaia di metri quadrati, non era facilmente visibile dall’esterno. Il direttore Carl Bosch accolse i visitatori e salutò, con particolare formalità, Fritz Haber. S’erano già incontrati nel 1908, in occasione della prima formulazione del brevetto per la sintesi dell’ammoniaca, registrato da Fritz Haber e August Bernthsen, in qualità di Presidente di Basf. Carl Bosch fece strada e accompagnò gli ospiti a visitare l’impianto per la produzione di azoto. Dal soffitto gocciolava vapore acqueo intorno alle enormi cisterne, adibite al raffreddamento dei gas. I vapori di cloro invadevano le narici e rendevano quasi irrespirabile l’aria. Alvin Mittasch, sporgendosi da una torre, scese i pioli di una scaletta di sicurezza con agilità animalesca. “Buongiorno Professor Fritz Haber” la voce di Alvin Mittasch riecheggiò per lo stretto corridoio semi buio. Il chimico si avvicinò e strinse la mano di Haber. Mittasch aveva occhi gialli con piccole e grandi macchie nere, come il sole, e si muoveva in modo volante e avvolto dal silenzio. “Professore, vorrei mostrarle il nuovo impianto per la produzione di azoto fissato. Cento tonnellate al giorno di acido solforico con impianti a contatto” Alvin Mittasch mostrò il nuovo catalizzatore di vanadio “circa la metà del fabbisogno del Paese!” 63
Il chimico del Kaiser Wilhelm ascoltava, ammirato dalla potenza dei reattori di cui era dotato l’impianto. Un sibilo attraversò l’aria, cui fece seguito una luce lampeggiante che colorò i volti dei presenti. Alcune rondini, sbucate da chissà dove, tagliarono l’aria e inseguendosi e volteggiando sulle cisterne, raggiunsero un’apertura sul tetto e volarono via. “Dove posso trovare un telefono?” domandò improvvisamente Fritz Haber “Ho urgenza di parlare con mia moglie.” Bosch e Mittasch si guardarono e, perplessi, si congedarono. “Mi segua professore” disse Hugo Stolzenberg. Il collega attraversò un basso edificio di mattoni rossi al fianco del quale c’era il deposito di carbone da cui veniva estratto l’idrogeno. La fuliggine stazionava, a causa della pioggia e della bassa pressione atmosferica. Stolzenberg si fermò un istante, rovistò nelle tasche della giacca alla ricerca di una chiave, aprì la serratura di un laboratorio, accese la luce e invitò il Professore a seguirlo. L’assistente di Koppel fece scattare un interruttore. Sui ripiani di alcune scaffalature alte fino al soffitto erano accatastate casse di materiale esplosivo, detonatori, maschere antigas e tute mimetiche. Lungo la parete, alle spalle della scrivania, erano visibili alcune fotografie aeree di crateri formati da esplosioni. Haber, incuriosito, si avvicinò ad una foto più piccola che ritraeva Stolzenberg, a fianco di Bosch e di Mittasch, nel corso di un’esercitazione. “Marañosa, periferia di Madrid” rispose Stolzenberg, a labbra strette. Haber osservò i dati risultanti dagli esperimenti, segnati su una lavagna sopra la scrivania di Stolzenberg. Poi, chiedendo permesso a Stolzenberg, domandò al centralino di comunicare con il numero di casa. Il telefono squillò a vuoto, cinque, sei volte, finché la linea cadde. La centralinista domandò se dovesse riferire messaggi, o comporre altri numeri, ma Fritz Haber restò in silenzio. “Herr Fritz Haber” disse Hugo Stolzenberg, cogliendo una piccola crepa nell’animo dell’interlocutore, “È un’occasione unica. Vi consentirà di raggiungere il ruolo a cui giustamente ambite e per il quale avete lavorato in tutti questi anni!” Haber tacque; lo sguardo rivolto ancora una volta attirato dai sorprendenti risultati delle esercitazioni. Stolzenberg fece strada 64
e raggiunse l’ufficio di Bosch, una piccola e angusta stanza offuscata da pesanti tendaggi. Fritz Haber, turbato, prese posto e appoggiò sul tavolo il taccuino. “Come avrà certamente anticipato il Dottor Hugo Stolzenberg” esordì Carl Bosch, rivolto al collega, “la collaborazione tra Istituto Kaiser Wilhelm e Basf è di importanza strategica per il Paese. Secondo il rapporto di Walter Rathenau” continuò Carl Bosch “di recente consegnato al Kaiser e al Primo Ministro, la Germania possiede riserve di materie prime, fertilizzanti, polvere da sparo, per un arco temporale non superiore a sei mesi.” “Abbiamo la possibilità” precisò Alvin Mittasch, sedendosi al fianco di Fritz Haber, “di realizzare l’impianto più grande d’Europa per la produzione di nitrati ad uso bellico.” Gli occhi di Mittasch brillavano di eccitazione e impazienza, rivelando una passione che travalicava il normale coinvolgimento di un funzionario. Stolzenberg si avvicinò a Carl Bosch e sussurrò qualcosa all’orecchio. “Allora, Professor Fritz Haber?” domandò il direttore dello stabilimento “Il Ministero ha stanziato un finanziamento di 12 milioni di marchi per il progetto: dobbiamo collaborare.” Carl Bosch aveva enfatizzando il tono di voce per sottolineare l’enormità della cifra, in modo da colpire lo scienziato. Quali le implicazioni? Quali i confini di questa collaborazione? Si domandò tra sé Fritz Haber. “Professore, abbiamo tutti ben presenti le conclusioni cui lei è giunto al convegno di Karlsruhe di Marzo”: Straordinari sviluppi, “queste le sue parole testuali, di azoto legato, in campo agricolo e soprattutto nel campo dell’industria di esplosivi” disse Carl Bosch, appoggiando sulla scrivania il lungo studio che andava sotto il titolo di Zeitschrift Elektrochemie. “Sono lusingato Professor Carl Bosch” esordì Fritz Haber, lanciando uno sguardo severo a Stolzenberg, “ma non posso dare una risposta. Si aprono questioni d’ordine morale…” Bosch e Mittasch, perplessi, scambiarono uno sguardo d’intesa, denso di significati. “Attendiamo la Sua risposta Professor Fritz Haber” disse Carl Bosch, sgranando la catena dell’orologio a cipolla, 65
come un rosario, “Ora ci deve scusare, io e il Professor Alvin Mittasch siamo attesi in laboratorio.” Stolzenberg e Haber ringraziarono e si avviarono verso il corridoio. Con andatura spedita, anche se con stati d’animo opposti; Haber esausto, Stolzenberg soddisfatto. Anche il viaggio di ritorno fu silenzioso. Fritz Haber era carico di sentimenti contrastanti: da un lato, era determinato a completare il lavoro con Otto Sackur e con Richard Leiser; dall’altro, sentiva il dovere di assistere la moglie e prendersi cura di Hermann. Il chimico ebbe la sensazione di essere scivolato in qualcosa che non avrebbe saputo nominare. Si sentì solo. Anzi, comprese, in quell’istante, di essere da molto tempo solo, forse da sempre. Impossibile tornare indietro. Il prezzo pagato era stato altissimo: abbandonare il luogo natio, i legami affettivi; aderire ad un modello, sempre sfuggente e incoerente; vivere, applicando stereotipi di uno status, mai pienamente raggiunto; vivendo in una sorta di acrobazia instabile. Equilibrista della buona società berlinese. Abile giocoliere delle relazioni, degli affari, delle trattative commerciali; cosa che, del resto, lo tormentava ancora una volta, in quanto eredità indiscutibile della progenie semitica. Gli avi infatti, provenendo dalla Galizia, se i racconti del padre erano veritieri, avevano commerciato in lane e granaglie tra il Mar Caspio e la Russia; uno di essi, David Haber, il capostipite aveva addirittura spinto i suoi commerci fino in Giappone, dove era stato assassinato da un samurai, proprio in ragione delle ricchezze accumulate. Forse Stolzenberg, si domandò malinconicamente Fritz Haber, avrebbe potuto essere suo amico; eppure, sapeva che questo era impossibile; Stolzenberg era arrivista e ambizioso. Forse quella Zusammenarbeit avrebbe segnato un progresso per le scienze europee, oppure un drammatico punto di non ritorno, tra interessi industriali privati e ricerca scientifica scellerata e senza coscienza di limiti etici? Stolzenberg imboccò Hamburger Strasse e attraversò il centro della città. Durante lo Shabbat, o Shabbos, come avrebbe detto Sigmung Haber, essendo Ashkenazita, gli
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ebrei andavano in massa a passeggiare tra Alexander Platz, Hackesher Markt e Oranienburger Strasse. Fritz Haber reclinò la fronte contro il finestrino e osservò le case. Erano già un po’ decadute, un miscuglio di abitazioni e negozi, che montavano i loro banconi fuori, sul marciapiede; macellerie, panetterie, frutta e verdura, carbone e patate, alternati da piccole officine, calzolai, sarti. Nei cortili interni invece piccole ditte e fabbriche. Molti cognomi noti sulle insegne, ebrei polacchi, russi, cassidici e ortodossi. Un’atmosfera simile si trovava in alcune strade di Kreutzberg, tra Gorlitzer Bahnhof e Shlesisches Tor, solo che là non c’erano accoglienti caffè con tavolini esterni, ma semplici osterie d’angolo. E dappertutto bambini che correvano. Berlino era tutto un brulicare, urbano, vitale e per niente raffinato. Quando l’auto giunse a Dahlem, il sole era già tramontato e il buio aveva invaso le strade del quartiere. Haber pregò Stolzenberg di rallentare e di lasciarlo all’inizio del viale. Prima di tornare in laboratorio, il chimico sentiva il bisogno di passeggiare e di restare solo per un po’. L’uomo al volante arrestò l’auto al cancello e ringraziò il professore. “Abbiamo passato tutto il giorno insieme” esclamò Fritz Haber “e non vi ho chiesto come vi siete procurato quella lesione all’occhio.” “Ora non c’è tempo, ma avremo occasione di parlarne. Conoscete Carl Duinsberg?” “Il fondatore della Bayer?” rispose Haber, incuriosito. “Sì, anche Bayer è interessata alla produzione di armi chimiche. A presto, Herr Haber”, Stolzenberg sorrise affabilmente. Haber attese alcuni istanti prima di imboccare il viale dell’Istituto. Richard Leiser, riconosciutolo in lontananza, gli fece cenno di attendere. “Fritz” disse Leiser, quando fu vicino, “ho trovato i tuoi appunti. Avevi ragione, il sistema acustico funziona! Oggi ho effettuato un esperimento con una miscela di metano e acido solforico. Possiamo comunicare la notizia.” Haber annuiva, assente e quasi annoiato. Leiser si interruppe. “Tu non stai ascoltando. Cosa succede?” chiese Richard Leiser, allontanandosi lievemente. 67
“Caro Richard, come posso spiegare... Ho paura, ecco” mormorò Fritz Haber, timorosamente. “Paura, tu? Uno degli scienziati più promettenti dell’intera nazione. E di cosa?” domandò Richard Leiser, fattosi improvvisamente serio. “Delle conseguenze; delle implicazioni; delle vittime. Non so, scusami Richard, sono molto confuso” bisbigliò enigmaticamente Fritz Haber e si congedò, lasciando Richard Leiser, basito e frastornato.
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Fritz Haber varcò la soglia dell’Istituto e raggiunse lo studio. Una volta entrato in laboratorio, Johannes Jaenicke si alzò e consegnò un telegramma di Max Planck. “Sta arrivando” esclamò Fritz Haber “Albert Einstein sta arrivando! Max Planck lo ha convinto.” La notizia circolò immediatamente e scatenò un’attesa febbrile. Gli studenti si radunarono nella hall, in attesa dell’insigne fisico. Dopo alcuni minuti, una lenta campanella suonò brevi rintocchi. “Geheimrat, è arrivato” urlò Johannes Jaenicke, affacciatosi alla finestra. “È qui, è qui. Ti richiamo” disse Fritz Haber a Richard Willstätter, troncando immediatamente la telefonata con Basilea e precipitandosi nell’atrio. Albert Einstein, sceso dall’auto, si guardava intorno riconoscendo l’Istituto, di cui tante descrizioni aveva fornito Fritz Haber nella fitta corrispondenza degli ultimi mesi. Il fisico portava un enorme cappello nero, pantaloni chiari, svolazzanti, solidi stivali gialli e, come una bandiera, sulla sua camicia verde scura sventolava una sgargiante cravatta rossa. Senza muoversi, Einstein disse qualcosa, evidentemente un saluto, in una lingua incomprensibile. Si aveva l’impressione che parlasse con una ciliegia in bocca. “Albert, che gioia rivederti. Grazie per aver accettato!” disse Fritz Haber che faticava a contenere la gioia e avrebbe voluto abbracciare tutti i presenti “Signori, è con grande piacere che vi presento il Professor Albert Einstein.” Haber proferiva queste parole con sincerità, solito a lasciarsi andare fino alla commozione, in questo tipo di occasioni. Fritz Epstein e Johannes Jaenicke si misero a ridacchiare. Johannes Jaenicke si avvicinò affabilmente ai due professori per immortalare l’arrivo di Einstein. Fritz Haber si mise in posa; Einstein lasciò fare, visibilmente intimidito. Nel frattempo, Max Planck, sceso 69
dall’auto, con l’aiuto di Karl Bonhoeffer, si era avviato verso l’ingresso e aveva lasciato in portineria i numerosi bagagli di Albert Einstein. “Albert, hai fatto buon viaggio?” domandò Fritz Haber, dando uno sguardo all’orologio e facendo segno a Max Planck di attendere. “Il treno è stato bloccato dalla neve, ma, grazie all’organizzazione dei ferrovieri bavaresi, tutto si è risolto nel giro di poche ore” rispose Albert Einstein, lievemente frastornato dal viaggio e dal clima festoso dell’Istituto; clima al quale non era abituato, perché il corpo docente e la vita del politecnico di Zurigo differivano notevolmente dall’incantevole impressione di vivacità e euforia che si respirava fin dal primo contatto con Berlino. “Luft, luft, luft” disse ridendo Albert Einstein. Il professore s‘era messo a frugare nella valigia alla ricerca di qualcosa. “Il detto ha un suo fondamento” rispose Fritz Haber, indicando idealmente con un dito i confini di Dahlem; i giardini, la pineta che si estendeva fino a Grunewald. Albert Einstein andava rovistando nel suo zaino alla ricerca di qualcosa, finché finalmente spuntò un pacchetto, avvolto in carta di Firenze e ornato da un nastro rosso. “Una kippah ricamata per il Bar mitzva del giovane Hermann!” disse Albert Einstein. Haber lo ricevette e, imbarazzato e commosso, ringraziò. Fritz Haber e Albert Einstein s’erano incontrati la prima volta, in occasione di uno dei ritiri termali di Haber, nella località di Wiesbaden. Hermann e Clara lo avevano accompagnato. “Ho saputo. Mi spiace molto. Comprendo bene. Anch’io, del resto” disse Albert Einstein, approfittando della confidenza offerta da Fritz Haber “ho riflettuto a lungo, prima di prendere la decisione di trasferirmi a Berlino. A Zurigo, la vita famigliare aveva preso una piega amara.” “Capisco” disse Fritz Haber, al corrente della separazione dei coniugi Einstein. “Sono molto stanco. Se possibile, vorrei rinfrescarmi e riposare un po’, prima di cena” disse Albert Einstein.
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“Certo” rispose Fritz Haber, affabilmente, “Se sei d’accordo, facciamo una rapida visita ad Emil Fischer che ci attende nel suo studio; poi, ti accompagno nel tuo appartamento.” Albert Einstein, soddisfatto, annuì e si aggiustò il panciotto, prima di varcare la soglia dello studio di Emil Fischer. “Professore, ben arrivato!” esclamò il direttore. Una telefonata avvertì dell’arrivo del Barone Von Bayer. “Convoco gli altri?” domandò Fritz Haber, al telefono con Epstein. Emil Fischer, assorto, annuì e cominciò a versare meccanicamente tè nelle tazzine. “Ne vuole, professore?” disse Emil Fischer porgendo ad Einstein una tazza di porcellana. “Sì, grazie. Senza zucchero” rispose Albert Einstein, scelta con naturalezza la sedia più defilata, quasi protetta da una rientranza del muro. Il fisico ascoltava, tenendo il piattino in una mano e soffiando sulla superficie della bevanda bollente. “Barone, ben arrivato” disse Fritz Haber, non appena il vecchio Adolf Von Bayer varcò la soglia. Il barone s’aiutava con un bastone, in seguito ad una caduta rovinosa da cavallo. Albert Einstein si alzò di scatto e, andando incontro al Professore, appoggiò il tè sul parapetto del camino e si schiarì la voce ripetutamente, accennando un lieve inchino. “Stia comodo, professore. Come vede la vecchiaia obbliga ad andare piano” disse Adolf Von Bayer. Il barone era vestito come un uomo del secolo precedente. Indossava una giacca che aveva l’aspetto di una divisa militare, con decorazioni pendenti dal petto e mostrine dorate. Un cinturone di cuoio non bastava a tenere il ventre entro i confini del panciotto. Adolf Von Bayer andò a sedersi sulla poltrona davanti alla scrivania di Fischer, appoggiò la tuba e si lisciò i favoriti arruffati. Fischer invitò gli ospiti a prendere posto e domandò a Johannes Jaenicke di procurare una sedia per Max Planck che era rimasto in piedi. “Allora siete dei nostri!” disse Adolf Von Bayer, battendo il bastone sul parquet. “Sì, eccellenza. Sono lusingato di fare parte di un consesso di scienziati di fama internazionale. Sono sicuro di trovare collaborazione. O almeno così mi pare di aver intuito leggen71
do gli atti dei convegni e le pubblicazioni dell’Istituto. Soprattutto per quanto concerne il mio campo di ricerca” rispose Albert Einstein, rivolto verso Max Planck. “Esatto. A questo proposito, Professor Einstein, a che punto stanno i suoi studi?” domandò Emil Fischer, eccitato dalle parole del collega. “Come sapete illustri colleghi, già gli antichi greci” rispose Albert Einstein, schiarendosi la voce “s’interrogavano sul cosmo e sulla possibilità dell’esistenza di principi e leggi di natura. Quasi tutti i filosofi dell’antichità, Eraclito, Parmenide, Zenone, Leucippo, Democrito, Platone ed Aristotele, si occuparono di questioni che, almeno in parte, sono inerenti a quella che oggi viene chiamata Fisica. Nella fisica di Aristotele si trovano quelle che si potrebbero considerare come le prime teorie, benché inesatte, sul moto dei corpi; egli, comunque, non fu precursore del principio di inerzia, scoperto venti secoli dopo da Renato Cartesio e la cui enunciazione formale è ascrivibile a Isaac Newton. La scienza moderna cominciò con l’assunto fondamentale, dovuto a Galileo Galilei, che le leggi della fisica abbiano la stessa forma matematica rispetto a qualunque sistema di riferimento nel quale valga il principio di inerzia. Questo assunto definito nel 1609, oggi chiamato principio di relatività galileiano, è tuttora valido. Esso si basa sulla grande intuizione di Galileo della composizione dei moti e quindi della legge di somma vettoriale delle velocità. Se due osservatori sono in moto relativo tra loro e ognuno di loro si sposta senza accelerazioni, in modo che la velocità relativa sia costante, misureranno spazi differenti rispetto allo stesso evento, ma la “forma” delle loro osservazioni ha la stessa veste algebrica. Nulla tuttavia si dice sui tempi. Adolf Von Bayer, incuriosito, annuiva, mentre Fischer serviva altro tè. “Sebbene concordi con i risultati di Schrödinger e Werner Karl Heisenberg” proseguì Albert Einstein” non mi sono mai accontentato del metodo indiretto statistico e continuo a credere nella possibilità di una teoria non probabilistica. Il concetto che il tempo sia legato al sistema di riferimento è il fondamento della relatività ristretta. Leggendo e studiando con accuratezza sia il Dialogo sopra i Massimi Sistemi, sia i 72
Discorsi sopra una Nuova Scienza, ho interpretato le intuizioni originali presenti a livello geometrico negli scritti di Galileo, le ho assimilate e le ho fatte mie, dando così vita alla forma matematica e fisica della meccanica. Quando mi trovai di fronte al principio di relatività, mi fu chiaro che la sua adozione implicasse in modo necessario un riferimento in cui il primo principio della dinamica, ossia il principio di inerzia di Galileo, dovesse avere piena validità.” Max Planck compiaciuto sorrise, mentre Walter Nerst che, fino ad allora era rimasto defilato, si avvicinò al tavolo. “Tuttavia, il vero problema è dove si colloca tale sistema di riferimento.” continuò il fisico, con tono didattico “Ho proposto l’asserto, grazie al quale tutti gli spazi misurati si riferiscono ad uno spazio assoluto, il solo esistente invariato e immutabile, e che l’immutabilità dello spazio assoluto sia associato all’esistenza di un tempo assoluto che scorre uniformemente, pervadendo tutto lo spazio assoluto.” Fritz Haber fece cenno a Otto Hahn e Lise Meitner, affacciati sulla porta, di entrare e prendere posto. Il Professor Einstein accennò un inchino e salutò i colleghi. “La soluzione di Newton fu brillante e diventò un paradigma destinato a durare per secoli. Già Galileo, tuttavia, con i suoi tentativi di misurare la velocità della luce, esprimeva dubbi non risolti per l’epoca su come si dovesse intendere il principio di relatività e quindi il principio di inerzia ad esso strettamente correlato. Questi dubbi rimasero sopiti, offuscati dal fulgore del grande successo della meccanica newtoniana, fino al 1905. Con l’avvento delle equazioni di Maxwell, delle trasformazioni di Lorentz e infine della teoria della relatività viene meno il concetto, fino ad allora dato per scontato, di tempo assoluto. Il tempo e lo spazio sono legati insieme a formare quello che viene chiamato spaziotempo. La relatività postula l’uguaglianza della massa gravitazionale e della massa inerziale, indotta dall’accelerazione, e ricava la metrica generale dello spaziotempo. Nel 1905 ho pubblicato la prima versione della mia teoria, demolendo tutti i concetti principali su cui si basava la concezione Newtoniana dell’Universo. Secondo tale teoria, lo 73
Spazio non è tridimensionale ed il tempo non è un’entità a sé. Entrambi sono profondamente connessi e formano un continuum a quattro dimensioni: il cosiddetto “Spazio/Tempo”. In questo senso non è possibile parlare di Spazio separatamente dal Tempo, e viceversa. Inoltre, si evidenzia la non fluidità Universale del Tempo, vale a dire che il Tempo non è lineare né assoluto, ma è relativo. Prendiamo due osservatori che si muovono a velocità diverse: ognuno di loro collocherà l’avvenimento osservato in maniera diversa dall’altro per via della diversa velocità. Quindi tutte le misurazioni che coinvolgono lo Spazio ed il Tempo, perdono il loro valore assoluto. Pertanto, sia il Tempo sia lo Spazio non sono che elementi che servono a spiegare i fenomeni. Secondo la mia teoria, in condizioni particolari, due osservatori possono cogliere due avvenimenti in ordine inverso: cioè, per l’osservatore 1 l’avvenimento A accade prima dell’avvenimento B, mentre per l’osservatore 2 l’avvenimento B accade prima dell’avvenimento A. La concezione umana odierna dello Spazio e del Tempo, è totalmente ramificata nei fondamentali Newtoniani (Spazio tridimensionale e Tempo lineare), e la loro modifica altera completamente i criteri di base su cui poggia la nostra visione della realtà.” “Sbalorditivo! Sbalorditivo!” urlò Emil FIscher, festante, mentre stringeva le mani dei colleghi. Max Planck, Lise Meitner, Otto Hahn e perfino il giovane Johannes Jaenicke avvicinarono Albert Einstein e si complimentarono con il fisico per la chiarezza espositiva. Einstein ringraziò i colleghi e lanciò un’occhiata a Fritz Haber. “Sarai stanco Albert!” esclamò Fritz Haber, cogliendo la richiesta dell’amico scienziato. “Sì, se permettete, vorrei prendere possesso del mio alloggio” dichiarò Albert Einstein. Albert Einstein e Fritz Haber si congedarono; poi, una volta raggiunta la chiesa evangelica, percorsero Von Humboldt strasse e dopo pochi minuti raggiunsero Haber strasse. “Ti piace?” domandò il chimico, indicando le vetrate di un appartamento posto al primo piano di una graziosa palazzina liberty. 74
“C’è anche un giardino?” domandò Albert Einstein, con tono ilare, sentendo quella strana sensazione che si prova talvolta in città straniere e sconosciute che pure danno l’impressione di essere accoglienti, famigliari, sicure, come se il visitatore vi avesse sempre vissuto. “Un roseto, orgoglio della padrona di casa” esclamò Haber, rivolto alla signora Shultze. La padrona di casa, infatti, riconosciuta la voce di Fritz Haber, s’era immediatamente precipitata all’ingresso. “Il Professor Einstein sarà con noi per i prossimi mesi” disse Fritz Haber, facendo strada al collega. La padrona di casa era vedova, di mezza età. Indossava uno scialle sulle spalle che le dava l’aria di donna più anziana della sua età. Con gesto rapido e secco, sciolse lo chignon; alcune ciocche ingarbugliate di capelli rossi e grigi si sparsero sulle spalle. La signora Shultze accompagnò Einstein e mostrò l’appartamento: una grande sala studio, arredata con gusto e illuminata a sud da un grande balcone, protetto da vetrate colorate; una stanza da letto spaziosa e ben riscaldata da un ampio camino. La stanza da bagno si trovava al piano, raggiungibile attraverso una porticina, in fondo al corridoio. Albert Einstein avrebbe potuto mangiare alla mensa dell’Istituto, oppure nella sala comune dove la padrona di casa serviva colazione e cena ai pigionanti della casa. Le stanze infatti erano tutte occupate, tranne una. Rappresentanti di commercio, un’insegnante di pianoforte, un vecchio poeta, amico della signora Shultze e un uomo misterioso, che si allontanava per lunghi periodi, per fare ritorno, di solito di notte. “Spero che il posto sia di tuo gradimento” disse Fritz Haber, affettuosamente, uscito sul terrazzo per accendere il sigaro. La signora Shultze non amava i fumatori e in particolar modo l’odore di sigaro. Non era una donna severa, ma dal momento che era rimasta vedova, con una casa grande e senza figli, aveva deciso di affittare le camere. Prima per gioco, per avere compagnia. E infatti il primo inquilino era stato un amico poeta. Poi, incoraggiata da altri conoscenti che la invitavano a considerare i vantaggi che ne avrebbe ricavato, s’era decisa ad investire alcuni denari per predisporre la casa ad accoglie75
re più ospiti. Ne era nata così, quasi involontariamente, una professione che le aveva dato da vivere negli ultimi dieci anni. Albert Einstein si sciacquò le mani e, tornato al centro della sala, cominciò a disfare le valigie. Fritz Haber si raccomandò con la signora Shultze di prendersi cura del nuovo inquilino. “E tu chi sei?” domandò Albert Einstein, vedendo un cucciolo di spaniel sbucare dalle scale. La signora Shultze si precipitò per fermare Bobbi che stava per imbrattare i pantaloni del professore. “Lo lasci, Signora Shultze, adoro i cani” disse Albert Einstein, con tono particolarmente affettuoso, quasi cantando. “Mi chiami pure Margareta. È un cucciolo, si capisce che vuole giocare” disse la donna che a sua volta adorava gli animali. Bobbi era capace di mettere insieme, nelle combinazioni più diverse, la maggior quantità possibile di odori; una fortissima dose di terrier a pelo liscio e solo una minuscola dose di impurità varie e solo di rado galoppava come chi teme le infinite conseguenze della nascita incerta. Del terrier a pelo liscio aveva ereditato uno dei tratti più importanti, il tremito da eccitamento e la capacità di levazione immediata, verticale, per sola spinta nervosa. Bobbi era molto intelligente, insomma capiva la vita. Non era snob, come i cani di razza, ma neppure lacrimoso o rabbioso o troppo ansiosamente felice, come tutti i cani bastardi; era un indipendente. Fritz Haber, rise e scese le scale, ringraziando la signora Shultze. Nel frattempo Bobbi era saltato sul letto e attendeva che il nuovo inquilino si sdraiasse sul letto a giocare.
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Adolf Von Harnack e un ragazzo, in divisa militare, si affacciarono sulla porta dell’ufficio di Fritz Haber che, curvo sugli appunti, sollevò lo sguardo e invitò il collega ad accomodarsi. “Posso presentare mio figlio?” disse Adolf Von Harnack. Fritz Haber si alzò in piedi e andò incontro alla giovane recluta. “Allora sei tu, il giovane Ernst Von Harnack di cui tuo padre non fa che parlare. Granatiere!” esclamò Haber, compiaciuto, riconoscendo le mostrine del contingente, “Anch’io ho prestato servizio militare tra i Granatieri. Sono riservista!” Il ragazzo arrossì e abbassò rispettosamente lo sguardo. Era un adolescente di sedici anni, con molte fragilità vaganti negli arti e nel volto, ma con una testa rotonda piena di bisogno di affetto che riscattava tutto. Fritz Haber provò immediatamente simpatia per quell’adolescente privo di qualunque formalità e un po’ a disagio, in un ambiente completamente nuovo. In quell’istante, Otto Sackur e Gerhardt Just si affacciarono nella stanza. “Abbiamo raggiunto la temperatura massima” dichiarò Otto Sackur. “Aumentate. Aumentate ancora la temperatura” ordinò Fritz Haber. Von Harnack emise un sospiro, poi invitò il figlio a seguirlo e chiuse la porta. Fritz Haber allora andò incontro a Otto Sackur e cogliendo nel suo sguardo un fondo di incertezza, ordinò di aumentare la pressione oltre il livello mai raggiunto fino ad allora in laboratorio. In quei lunghi mesi, infatti, Fritz Haber e Otto Sackur erano giunti a provare quasi 4.000 catalizzatori diversi, per ottenere il massimo quantitativo di ammoniaca, con elementi via via meno rari e costosi: una miscela di ferro, piccole quantità di ossidi di alluminio, calcio e potassio. “Nessuno è mai riuscito a realizzare in laboratorio un esperimento con tali variabili di temperatura e pressione! Fritz, ti 77
rendi conto che il rischio è elevatissimo” dichiarò Otto Sackur. Bruscamente, Haber assunse un tono formale, scostante, distaccato. “Carissimo Professor Otto Sackur, se teme per la sua incolumità, questo lavoro non fa per lei!” disse lo scienziato. Haber era diventato improvvisamente estraneo, un postino che consegna una lettera, prosegue e sparisce. “Allora, andrete avanti senza di me!” rispose il giovane assistente, offeso e quasi incredulo per la freddezza e l’ingratitudine del direttore. “Certamente, io non ho paura di mettere in gioco la vita” esclamò Fritz Haber. Otto Sackur spogliò il camice e lo restituì a Fritz Haber. Il chimico scosse la testa e appoggiò distrattamente il camicie sullo schienale di una sedia e, voltando immediatamente le spalle all’assistente, si avvicinò alle valvole del reattore. Il giovane assistente aveva già abbandonato il laboratorio e percorso buona parte del corridoio, quando, attratto da un bagliore improvviso, si era voltato, impaurito. Dalla porta a vetri si potevano seguire i gesti dello scienziato. Il chimico era intento a sottoporre azoto e idrogeno ad una pressione di oltre 400 atmosfere. Le vibrazioni fecero tremare il laboratorio. Una luce improvvisa obbligò Sackur a farsi schermo agli occhi con la mano. Lo scienziato spalancò la porta e corse verso il quadro generale. Fritz Haber urlò e minacciò di non avvicinarsi al generatore, ma Sackur, ignorando le parole del Professore, era riuscito a spegnere l’impianto e a fare precipitare drasticamente la temperatura. In quell’istante, Willstätter si avvicinò al vetro del laboratorio e mimò l’arrivo di un fonogramma. Fritz Haber lanciò un’occhiata al collega e fece segno di attendere. Richard Willstätter allora prese la matita dal taschino e scrisse. Poi, sul suo taccuino, strappò la pagina e la schiacciò contro il vetro: Siamo in guerra! Fritz Haber e Otto Sackur si guardarono, sconcertati. Otto Hahn e Lise Meitner, avvertiti da Willstätter, erano corsi immediatamente in laboratorio. Emil Fischer scese le scale precipitosamente, convocò tutti i colleghi nella hall e pregò Richard Willstätter di leggere a voce alta il testo del messaggio. Richard Willstät78
ter iniziò a leggere, incespicando a causa dell’emozione. Su richiesta degli ultimi arrivati, Max Von Laue, Franck, Epstein, dovette sedersi e ricominciare dall’inizio. “Guglielmo II” scandì Richard Willstätter “ricevuta notizia della mobilitazione della Russia nel pomeriggio del 30 Luglio 1914, a seguito della dichiarazione di guerra da parte dell’Austria alla Serbia, ha ordinato la mobilitazione generale e l’invio di truppe sul fronte russo e francese.” “E l’Inghilterra? Che posizione ha assunto l’Inghilterra?” domandò Max Von Laue, con inquietudine. “Ha dichiarato guerra alla Germania” rispose Richard Willstätter, amareggiato. Nella stanza calò un silenzio angoscioso. Adolf Von Harnack guardò il figlio e lo strinse a sé. Nonostante i continui annunci e le ripetute minacce di un conflitto mondiale, nessuno aveva realmente creduto allo scoppio della Guerra. Gli scienziati, sgomenti e colti di sorpresa, sfilarono silenziosamente; i loro commenti giunsero finché le voci non si spensero in fondo al corridoio. “E ora cosa faremo? La maggior parte di noi è abile alla leva” domandò Otto Sackur, rivolto a Fritz Haber e seguendolo fin sulla soglia del suo studio. Lo scienziato, turbato, scosse la testa e pregò Otto Sackur di lasciarlo solo. Il chimico si barricò nel suo ufficio; abbassò le griglie, lasciò accesa solo la piccola lampada sulla scrivania e sedette, afferrando la fotografia di Clara e iniziando una lunga lettera che aveva il sapore della confessione. Come accade ad alcuni uomini che, in punto di morte, rinnegano i principi secondo i quali hanno vissuto, dimostrando con ciò stesso di avere vissuto male, Fritz Haber iniziò a scrivere impulsivamente. Tuttavia, rileggendo le prime righe, ebbe immediata impressione di non essere in grado di cogliere il punto; di sbagliare tono; di aver omesso qualche particolare decisivo. Il chimico, sconsolato, prese un altro foglio, ma il risultato non pareva cambiare. Il matrimonio con Clara era finito. Ora Fritz Haber se ne rendeva perfettamente conto. Nello sforzo di trovare una motivazione, o addirittura uno specifico episodio scatenante, cui attribuire l’origine della crisi, il chimico ripercorse con la memoria, offuscato dal dolore e con il cuore traboccante di disperazione, 79
i primi anni della relazione. Avrebbe potuto elencare una cospicua serie di eventi determinanti: talvolta, dettati dall’inesperienza, altre volte, condizionati dai caratteri di Fritz e Clara. Del resto marito e moglie erano così diversi e, per certi versi agli antipodi, in termini di visione del mondo. In fondo, anche la scelta di accettare l’incarico a Berlino era stata causa di tensioni e litigi. Clara avrebbe voluto restare a Karlsruhe, piccola cittadina provinciale, ma capitale di una delle regioni più progressiste del paese. Fritz invece aveva sempre agognato di appartenere all’élite berlinese. La crisi risaliva a molti anni prima; addirittura agli anni del primo viaggio di Fritz negli Stati Uniti. Giovane ricercatore, senza cattedra né stipendio, Haber era stato invitato a rappresentare la Germania all’annuale convegno internazionale di Chimica. Lo scienziato s’era imbarcato, nonostante il disappunto di Clara (Hermann aveva pochi mesi e Clara s’aspettava che il marito non anteponesse la carriera alla vita famigliare), considerando quell’offerta il primo vero significativo riconoscimento del suo talento. Declinare quell’offerta apparve agli occhi di Haber un affronto che difficilmente Wilhelm Ostwald e Walter Nerst avrebbero perdonato. Tuttavia, dal ritorno dagli Stati Uniti, la vittoria della cattedra di assistente di Chimica organica a Karlsrhue aveva segnato l’inizio del declino dei rapporti tra i due coniugi. Paradossalmente, sarebbero risultati gli anni più felici. Clara e Fritz avevano trovato un fragile equilibrio. Hermann cresceva, lasciatosi alle spalle un lieve ritardo manifestatosi fin dai primi anni di apprendimento; cosa che per altro aveva reso il rapporto con la madre ancora più protettivo e morboso. Fritz e Clara erano considerati da colleghi e amici una coppia felice. Tuttavia, con il passare del tempo, Clara s’era trovata di fronte al bivio: proseguire la carriera accademica, affidando l’educazione di Hermann ad un’altra donna, un’estranea, pagata per sopperire alla sua assenza; oppure, restare a fianco del figlio e rinunciare per sempre alla carriera di ricercatrice. Clara non se la sentì di abbandonare il piccolo Hermann. Le vite di Clara e Fritz si separarono; la quotidianità mutò e con essa le frequentazioni, i discorsi, le abitudini. Pian piano Clara, pur conservando un profondo interesse per la chimi80
ca, fu risucchiata dal ruolo di madre e di moglie e perse progressivamente contatto con i vecchi colleghi e con l’ambiente scientifico. Come se ciò non bastasse, Clara non aveva condiviso (anzi aveva sempre manifestamente espresso la sua opinione contraria), la nascita di un Istituto per la ricerca chimica finanziato da privati e aveva messo in guardia il marito dall’asservirsi agli interessi del Ministero della Guerra, ma Fritz, ambizioso e sempre afflitto dal desiderio di compiacere i potenti e di essere riconosciuto finalmente appartenente a quella ristretta élite di privilegiati, aveva ignorato i consigli della moglie. Fritz Haber sospirò e gettò il foglio nel camino, utilizzando ancora una volta quello che amava definire metodo del fuoco. Haber tese l’orecchio alle lontane campane del duomo di Berlino che battevano cento rintocchi. Era l’ora in cui le porte della città venivano chiuse e calava il buio sulla capitale prussiana. Lo scienziato notò solo allora che era scesa la sera. Probabilmente la maggior parte dei colleghi aveva già lasciato l’Istituto; chi per raggiungere i famigliari; chi per trovare un poco di pace, al termine di una giornata storica. Richard Willstätter probabilmente aveva già raggiunto la sinagoga per salutare la sposa, o regina, come veniva chiamata la festa sabbatica. Il chimico aprì la porta e si affacciò sul corridoio. Il silenzio era diffuso e, in una certa misura, se ne poteva respirare la consistenza. Sceso nella hall, una lucina, che illuminava la guardiola, attirò il suo sguardo. Silenziosamente, si avvicinò e, con lieve spinta della mano, aprì la porta socchiusa. Un uomo di mezza età, dai capelli radi e bianchi dormiva profondamente. Il chimico si fermò sulla soglia e osservò la stanza; alle spalle del custode c’era un vecchio ritratto dell’Imperatore Fritz; vicino al telefono, alcuni ritagli di giornale ingialliti e una piccola cornice con una decorazione di guerra del 1899. L’uomo aveva combattuto al seguito del Generale Alfred Graf von Waldersee per reprimere la rivolta cinese dei Boxer. Sul tavolo avanzi di cibo e una bottiglia di vetro azzurro. Quando Fritz Haber varcò la soglia, fu investito dall’odore di acquavite che impregnava la stanza. 81
Il custode, svegliato dai passi di Haber, alzò di scatto la testa. Le guance erano arrossate e coperte da spuntoni di barba bianca incolta. Haber ebbe un sussulto. L’uomo, ferito da una scheggia di granata, aveva perso l’occhio destro. Il chimico, sconvolto, corse fuori dall’edificio e respirò profondamente, prima di gettarsi in strada alla ricerca di un taxi. Il selciato, sconnesso e bagnato da un improvviso scroscio di pioggia, rifletteva luci colorate di una locanda. Un drappello di soldati, richiamati dagli schiamazzi di due ubriachi, cercavano di sedare una rissa. Lo scienziato, infastidito dalle urla, scese le scale e cercò rifugio nella bettola. Esausto e trattenendo un fortissimo conato di vomito, Haber si lasciò andare su un divano e si rannicchiò in un angolo semi buio a ridosso di una grande specchiera inclinata e appannata dai vapori che provenivano dalla cucina. L’odore di acquavite era nauseante. Le candele da pochi soldi nei candelieri di alpacca non resistevano, cominciavano a piegarsi. Sulla tovaglia rosso mattone a quadri azzurri gocciolava stearina e in un attimo si rapprendeva. L’oste, un uomo gigantesco, occhiali a molla cerchiati d’oro intorno al naso arrossato, si avvicinò ad una finestra e la spalancò. Le candele si rinfrancarono e arsero tranquille incontro alla loro fine. Alcuni contadini ubriachi stavano distesi su divani vicino alla stufa; altri fumavano lunghe pipe e tabacco nero e fissavano con preoccupata solennità le ultime fiammelle azzurre che guizzavano dalla cavità dei candelieri e ricadevano mollemente ondulate; gioco d’acqua fatto col fuoco. La stearina bruciava lentamente, esili fili di fumo azzurro salivano dai residui carbonizzati degli stoppini verso il soffitto. Un soldato, con scricchiolanti gambali di cuoio giallo e una giacca pigramente appesa sopra la rubashka azzurra, in modo che le maniche sembravano un paio di braccia supplementari, si avvicinò al tavolo di Haber, ordinò da bere e si sedette al suo fianco. “Alla Prussia!” disse il soldato alticcio, come un eco maligno. “Alla Prussia!” ripeterono i contadini vicini che erano giunti in città per arruolarsi. “Alla Prussia!” ripeté Fritz Haber con la testa tra le ginocchia. 82
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La pioggia velava i confini di Dahlem, disperdeva il fumo sulle costruzioni isolate, macinava con infinita sottile pazienza tutto ciò che incontrava di solido, il calcare che qua e là spuntava dalla terra nera come un dente bianco, i tronchi segati ai margini della strada, le tavole odorose di resina, ammucchiate le une sulle altre davanti ad una segheria. All’alba del 31 Luglio 1914, Fritz Haber, riemergendo dalla bettola, dopo aver smaltito la sbronza insieme ai contadini, si presentò al reclutamento di Stigliz. La città era attraversata da mezzi militari. Una lunga coda di civili si snodava lungo tutto il perimetro di un vecchio granaio. In ogni quartiere, per favorire l’arruolamento di volontari, era stato improvvisato un centro reclute, requisendo negozi, magazzini in disuso, scantinati. In fila, diligentemente in attesa del proprio turno, c’erano operai, studenti dell’Università libera, insegnanti, contadini, commercianti tedeschi ed ebrei; perfino donne che accompagnavano figli e mariti. Alcuni portavano le insegne dei gruppi giovanili, Judischer Kulturbund; altri quelli delle facoltà universitarie. I giornali e la radio invitavano tutti gli uomini abili alla leva ad imbracciare le armi. Un rumpler sorvolava la città e lanciava volantini colorati inneggianti alla vittoria. Il Ministero della Guerra aveva predisposto equipaggiamenti e programmi di addestramento tali da inviare al fronte un contingente di alcune centinaia di migliaia tra volontari, riservisti e regolari. Gli uomini sarebbero stati addestrati in caserme poste al confine con Belgio e Francia, nella località di Langermarck; caserma facilmente raggiungibile, grazie all’efficiente rete ferroviaria del Paese. Il programma di addestramento prevedeva di formare un civile in meno di un mese e contemplava attività logistiche e di combattimento, a seconda del reparto cui era destinata la recluta. Fritz Haber attese pazientemente il suo turno. La fila avanzava lentamente e in maniera gioiosa, tra 83
schiamazzi e urla di festa. Alcuni davano per scontata la vittoria; altri dicevano che la guerra sarebbe durata al massimo fino all’inverno. Comunque in tutti, il sentimento prevalente, come spesso accade a coloro che non hanno sperimentato la guerra, era l’esaltazione. Fritz Haber si limitò a scambiare poche battute con i vicini, attratto dai discorsi dei volontari più giovani. Uno in particolare, più estroso, spiegava come preparare la divisa. Si trattava di procurarsi panno di feltro per i pantaloni, alcuni indumenti di biancheria intima e una camicia di scorta. Per quanto riguardava giacca, zaino e stivali, oltre a fucile ed elmetto, avrebbe provveduto il Kaiserreich. In quel momento, un’auto militare frenò di colpo e s’affiancò al marciapiede; da un finestrino si udì una voce. “Haber. Professor Fritz Haber” gridò l’uomo al volante, sporgendosi dal lato del passeggero. Haber si avvicinò e riconobbe Stolzenberg che indossava un cappello da ufficiale su cui brillava la croce di ferro. “Sono venuto a prendervi!” dichiarò Hugo Stolzenberg che, trasfigurato dalla concitazione, sembrava aver cambiato perfino voce. Lo scienziato, meravigliato, esitò un istante, poi salì a bordo dell’auto e prese posto a fianco del pilota. “Gli inglesi hanno imposto l’embargo sulle merci provenienti dal Sud America.” disse Stolzenberg “Hanno requisito i depositi cileni di salnitro. Le riserve sequestrate oggi dalle nostre truppe nel porto di Anversa non basteranno che per poche settimane.” Fritz Haber, colto da un fremito, distese le gambe e strinse forte la maniglia dello sportello. “Si è appena concluso un incontro ufficiale” continuò Hugo Stolzenberg. Haber annuì e guardò Hugo Stolzenberg, con sgomento. “Geheimrat Fritz Haber, siete stato nominato direttore del Dipartimento per le Armi chimiche e promosso a Tenente di Divisione del Genio” esclamò Hugo Stolzenberg, mettendo in moto. Il volto di Fritz Haber tradì l’emozione. “Finalmente avrete l’occasione di mettere il Vostro talento a disposizione del Paese” esclamò Hugo Stolzenberg, imboccando Thielallee.
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Dopo pochi minuti l’auto raggiunse l’Istituto Kaiser Wilhelm e lasciò alle spalle il lungo viale alberato e si avvicinò al cortile su cui si affacciavano i laboratori. In quell’istante Haber e Stolzenberg udirono una violenta deflagrazione. L’onda d’urto aveva mandato in frantumi le vetrate dell’Istituto e squarciato il tetto. Stolzenberg arrestò di colpo l’auto. Fritz Haber, terrorizzato, s’era rannicchiato nel sedile. Le fiamme divamparono dal laboratorio di Fritz Haber e si propagarono nei corridoi e nella hall. Stolzenberg scese immediatamente dall’auto e gridò ad Haber di chiamare qualcuno in soccorso. Si potevano udire le urla dei ricercatori che cercavano di domare il fuoco. Ci fu un altro scoppio e di nuovo i vetri del laboratorio di Fischer andarono in frantumi. Stolzenberg si chinò e fece segno ad Haber di abbassarsi. Quando i due chimici si sollevarono, notarono il corpo di un uomo in mezzo al cortile, riverso sulla ghiaia. Fritz Haber si avvicinò al cadavere, seguito cautamente da Hugo Stolzenberg che riparava il volto con un fazzoletto. “Otto Sackur!” dichiarò Fritz Haber, chino sul corpo dell’uomo. Dalla bocca e dalle narici di Otto Sackur colava una schiuma rosea. Il volto era nero, le labbra violacee e la cute era verde, livida e tumefatta di chiazze nere. “Fosgene!” confermò Fritz Haber, tremando e respirando affannosamente. Lo scienziato provava un intenso bruciore alla gola e tossiva violentemente. Una tosse penosa, straziante, dolorosa. Stolzenberg aiutò lo scienziato a camminare e lo portò in salvo. Fritz Haber non riusciva a reggersi in piedi e non era in grado di parlare; sembrava sul punto di avere un collasso. Stolzenberg trascinò il collega al riparo, dietro l’automobile, e attese l’arrivo di Max Planck e di Emil Fischer.
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Sopra brandelli di nuvole frettolose biancheggiò un sole stemperato, per un’ora appena; il sole, in seguito, sprofondò definitivamente in un nuovo più fitto crepuscolo. La salma di Otto Sackur era stata ricomposta nell’appartamento di Dahlem. Il corpo prelevato dal letto e disteso sul pavimento della stanza, era disteso con i piedi rivolti verso la porta, coperto con un telo nero; ai lati della testa ardevano due candele bianche. La scena offriva un’immagine raccapricciante. Quando piombò il buio, Sarah Sackur, sorella di Otto, giunta a Berlino per vegliare il fratello e provvedere alla sepoltura, trattenne in casa i due giovanissimi figli, Jonas e Schemarjah e fece attenzione affinché non andassero fuori. Secondo la tradizione ebraica, infatti, l’anima del morto erra fino al momento della sepoltura intorno alla casa e può fare del male, specialmente ai bambini. Fritz Haber, Richard Willstätter e Max Von Laue visitarono i familiari in lutto e cercarono di confortarli. Sarah Sackur accolse gli ospiti con particolare freddezza. “Gerahrdt Just si salverà.” disse Fischer, di ritorno dall’ospedale ebraico, “Tuttavia, è stato necessario amputare la mano destra, dilaniata dalla violenza dell’esplosione.” Poco prima della sepoltura, la Mishnah, sacra congregazione, preparò il cadavere. Gli uomini andarono nella stanza nella quale giaceva il morto. La sorella aveva messo a disposizione secchi d’acqua bollente e teli di lino. Nel frattempo, per strada, si era raccolta una gran folla che voleva seguire il corteo funebre. Fra la gente, alcuni uomini, sconosciuti, con bussolotti di latta, s’aggiravano, gridando: “l’elemosina salva dalla morte”. “Lutto e matrimonio, destino di ognuno”. Otto Sackur era stato posto su un feretro richiuso da un coperchio nero e bombato. Per onorare il morto, anziché portarlo subito dalla casa al cimitero, si decise che la processione passasse davanti alla sinagoga. Fin dalla piazza polverosa, bianca 86
di luce, arrivava il fulgore d’oro di mille candele, di immagini variopinte incoronate di luce, di tre sacerdoti in cappa magna che stavano in fondo, lontani, all’altare, con barbe nere e mani bianche sollevate. Sarah Sackur, i due figli e Clara, eccezionalmente aveva ottenuto il permesso di uscire dalla clinica per l’occasione, assiepati intorno alla bara, donarono un fiore, prima che la bara venisse alzata. Sarah indossava uno scialle giallo oro annodato sotto il mento in due cocche sventolanti e teneva gli occhi antichi in mezzo al giovane viso bruno, rivolti verso la salma. Un inserviente si avvicinò al feretro e, ricevuto il segnale da parte del rabbino officiante, assicurò il coperchio. I colleghi di Otto Sackur, accordatisi con un cenno, si avvicinarono alla bara e la issarono. Il convoglio funebre vacillò per un istante, poi, dopo pochi metri, gli uomini, di altezze e corporature differenti, trovarono una sorta di equilibrio ma la bara, oltre ad ondeggiare, pendeva lievemente a destra. A dettare l’andatura era Max Von Laue, in testa; al suo fianco, Adolf Von Harnack che purtroppo arrancò subito e fece una tale smorfia di dolore nel sollevare la bara sulla spalla, da fare intendere agli altri che non avrebbe sostenuto a lungo quel peso; in fondo, Richard Abbeg, di cui Otto Sackur era stato allievo e assistente, e il più giovane e robusto Fritz Epstein. Clara Immerwahr chiudeva il corteo funebre, avvolta in uno scialle nero di seta. Camminava lentamente, sostenendosi di tanto in tanto al figlio Hermann, a sua volta vestito di scuro, con un cappello nero e un impermeabile per ripararsi dal vento. Il volto di Clara era protetto da una veletta di trine, cosa che rendeva lo sguardo della donna impenetrabile. Clara avanzava mestamente, tra gruppetti di curiosi, assiepati contro i cancelli della sinagoga, intenti non solo ad osservare la donna, distrutta dalla morte dell’amico e compagno di studi, ma anche malignamente attratti dalle reazioni di Fritz Haber. Clara, infatti, nell’istante in cui il marito s’era avvicinato per consolarla, dopo la lettura del salmo, lo aveva respinto con gesto muto e perentorio, tale da non lasciare spazio ad interpretazioni. Era evidente che lei, come la maggior parte dei presenti, attribuiva a Fritz Haber la responsabilità dell’incidente. Otto Sackur stava sperimentando nuovi recipienti adibiti al trasporto di gas tossici. Il sistema, progettato da Haber, prevedeva la costruzione 87
di un impianto di sintesi dei gas nelle retrovie e il trasferimento del gas in cilindri che consentivano, alle truppe specializzate, i Pioneer kommandos, di posizionare i recipienti sul limitare delle trincee, in quella porzione di terra, detta di nessuno. Fritz Haber precipitò in quello stato di irrealtà che precede e accompagna sempre i grandi avvenimenti della vita. Lasciò che gli amici e i parenti di Sackur, riuniti davanti alla sinagoga, sfilassero via, salutando con un cenno del capo e abbassando lo sguardo. Ammutolito, esitò. Poi, soccorso dall’arrivo dell’amico Richard Willstätter, intraprese la strada del cimitero. Clara teneva stretto nel pugno un monile, simile a un sacre coeur, ma, al posto del cuore, c’era un teschio. Otto Sackur e Clara Immerwahr s’erano conosciuti nei primi anni d’Università, a Breslavia; si erano laureati entrambi con il Professor Robert Abbeg, mentore ed esempio morale per gli studenti di Chimica di Breslavia. Nonostante l’ampiezza delle chiome degli alberi, che costeggiavano la strada, in qualche misura in grado di riparare dal sole e dalla pioggia, la strada era invasa da turbini di vento, in grado di spostare enormi cumuli di foglie e rami, di qua e di là, in maniera sinuosa e danzante. Haber lanciò un’occhiata verso i colleghi, nella speranza di incontrare uno sguardo meno duro, se non proprio complice ma si mescolavano in quegli sguardi sia l’invidia dei colleghi, cui lo scienziato era abituato, essendo stata già tante volte causa d’incidenti nella sua vita; sia l’insofferenza per i suoi modi imprevedibili: talvolta garbati, formali, educatissimi, altre improvvisamente collerici e intolleranti, soprattutto quando Haber era coinvolto in discussioni che avevano a che fare con la scienza o la politica, e talvolta perfino la religione. Di volta in volta, i colleghi nelle ultime file non sostenevano il suo sguardo fiero e distoglievano gli occhi, per opportunità, volgendoli altrove, come attratti da una voce amica, o distratti da un rumore improvviso. Solo Albert Einstein si trattenne con Haber e Willstätter. Lo scienziato allora allargò le braccia e ringraziò il collega per le parole dedicate durante la cerimonia alla memoria di Otto Sackur. “Fritz, fatti forza!” disse Albert Einstein “È una lezione durissima per tutti noi!” Il chimico, travolto dai sensi di colpa e fru88
strato dall’impossibilità di esprimersi, cosa che sarebbe stata inopportuna in quella circostanza e sicuramente censurata dai colleghi, guardò Richard Willstätter negli occhi. L’amico scosse la testa e, con un gesto sorprendente per Fritz Haber, non abituato a quel genere di manifestazioni d’affetto, aggiustò il bavero del cappotto di Haber per proteggerlo dal vento. Albert Einstein invitò ad accelerare il passo, in modo da raggiungere la testa del corteo che li aveva distanziati. I colleghi s’erano arrestati improvvisamente, in prossimità del cimitero. Nei pressi del recinto sacro c’era un pozzo. La fonte era a disposizione dei visitatori, in modo che, appena usciti, potessero lavarsi le mani. Entrare in un luogo di sepoltura, secondo il Talmud, era considerato impuro e per eliminare quest’impurezza erano necessarie abluzioni. I rappresentanti della Mishnah battevano la testa sulle pietre arenarie coperte di muschio che s’alzavano dalle ossa dei padri e delle madri. Mentre un canto si diffondeva dalla testa del corteo, il sommo sacerdote pronunciò formule di rito, invitando i parenti ad invocare la protezione degli antenati e la loro intercessione presso l’Onnipotente. Fritz Haber reclinò il capo, raccogliendosi in preghiera, e fu colpito da un’ondata di odori di resina, cipresso ed incenso. Haber e Willstätter si avvicinarono al feretro; gli inservienti lasciarono scorrere le funi lentamente e calarono la bara. Un sottile strato di terriccio si era già depositato sul fondo. Il feretro fu posto davanti alla lapide, il coperchio fu sollevato, i presenti si avvicinarono al morto e gli sussurrarono all’orecchio di intercedere per loro nell’aldilà. La tomba era rivestita di assi di legno fra le quali fu posto il morto, con la testa appoggiata su un sacchetto di terra della Palestina affinché riposasse in Terra Santa. Del resto, era credenza che i corpi dei defunti sarebbero rotolati sotto il manto terrestre per raggiungere Ersatz Israel. Poi sulla bocca e sugli occhi, furono messi pezzi di vetro per impedire che gli spiriti maligni entrassero nel cadavere attraverso le aperture, la vista dei quali procurò ad Haber un fremito improvviso. Il chimico alzò lo sguardo e osservò le nuvole, sospinte dalla brezza. All’improvviso, da un angolo del cimitero, si udirono delle grida di ragazzini che giocavano. Un gruppetto ne inseguiva un 89
altro; due in bicicletta, altri a piedi. Walter Nerst lanciò un’imprecazione e fece per agguantare uno dei più piccoli, che era scivolato. Il ragazzino, spaventato, si alzò di scatto e incurante della bici, corse al riparo di uno dei fratelli più grandi. I ragazzini sparirono in fondo al campo santo, disperdendosi nei viali delle cappelle votive. Lentamente tornò il silenzio. L’unico rumore era quello della pala di ferro del becchino. La terra, grassa, nera e umida, cadeva fragorosamente sulla bara. L’uomo, un vecchio sarto del ghetto, gettata l’ultima palata di terra, si scostò frettolosamente; la tradizione asserisce infatti che in quell’esatto momento inizi l’interrogatorio dell’angelo. Non è concesso udire questo interrogatorio: chi lo ascoltasse dovrebbe morire. Il gruppo, finita la cerimonia, si sciolse e si formarono piccoli gruppi, secondo amicizia e confidenza, che guadagnarono gradualmente l’uscita. Clara salutò la sorella di Otto Sackur, circondata da un gruppetto di giovani studenti. Sfilò il velo e i lunghi capelli caddero sulle spalle; la voce interrotta improvvisamente dal pianto. “L’ho pregato, scongiurato. Non prestarti! Non piegare l’Istituto alle loro volontà, ai loro interessi” urlò Clara, non potendo controllare la rabbia, “Ma lui non ha voluto ascoltarmi; questo è il risultato.” Fritz Haber crollò il capo e si avviò in direzione dell’Istituto. “Quella donna è pazza. Povero Haber” disse Leopold Koppel, facendo un cenno a Stolzenberg. I due si allontanarono rapidamente lungo il viale di cipressi. Richard Willstätter, attratto dalla tenerezza di un virgulto di viola del pensiero, in qualche modo protetto dalle fronde di un cespuglio, si era chinato e aveva rimosso il terriccio intorno al bulbo. Fritz Haber avvicinò l’amico. “Hai saputo?” Richard Willstätter, perplesso, alzò lo sguardo. “La partenza per Ypres, è fissata; finalmente, il nostro contingente raggiungerà il fronte. Scienziati soldati!” esclamò Fritz Haber, con ardore patriottico. Richard Willstätter sorrise malinconicamente. “Settimana prossima è la festa dell’Espiazione. Ricordi, Fritz?” “No, non ricordo nulla!” disse Fritz Haber, sprezzante. 90
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La prima tiepida alba trapelava dai pori e dalle fessure delle imposte di legno e, sebbene i contorni dei mobili si stemperassero ancora nell’ombra della notte, l’occhio di Fritz Haber era già chiaro. Era il 10 di Tishri, giornata di metà Ottobre, dedicata all’Espiazione, il così detto Yom Kippur. Haber si affacciò sulla corte di un vecchio caseggiato e vide una donna ritta in piedi in mezzo al cortile che teneva stretta nella mano una gallina e agitava l’animale sopra il capo (Kappore - Schlagen). Ripeteva una sorta di cantilena: Sia questa la mia rappresentanza, la mia sostituzione, la mia espiazione. Vada questa gallina incontro alla morte, ma sia concessa a me lunga vita e la salvezza dell’anima. Il signor Mendel Singer, un ebreo ashkenazita, tarchiato e dall’aspetto trasandato, si affacciò dalla porta sul retro della libreria e, riconoscendo Haber che era rimasto immobile nel fissare sua moglie, lo invitò ad entrare. Mendel Singer attraversò l’angusto corridoio della libreria e appoggiò la scala alla vecchia rastrelliera tarlata, in alto, dove conservava collezioni di opuscoli religiosi e copie di Talmud, rilegate in folio. “Non lo trovo; eppure dev’esserci” disse il libraio, piegando leggermente il capo verso Haber che, tenendo salda la scala di legno, tentava di adocchiare il titolo su uno dei dorsi dei pesanti libroni colorati, sospesi sotto le travi del tetto. “Eccolo!” disse il vecchio libraio, afferrando il volume. Aveva spinto il peso del corpo tanto da perdere l’equilibrio e, se non fosse stato per Haber, sarebbe caduto. “Non so come ringraziarla, Signor Singer!” esclamò lo scienziato, intento ad aiutare il libraio a scendere i gradini. In quell’istante, la campanella della porta d’ingresso trillò. Il libraio, dopo aver consegnato il volume, si sporse per vedere chi fosse. 91
“Sto cercando il Professor Fritz Haber” urlò un ragazzo. “Sono qui, Franck. Venga avanti” rispose il chimico, riconosciuta la voce dell’assistente. Il professore uscì dalla penombra e fece segno di avvicinarsi. Fritz Haber teneva tra le mani il vecchio volume rilegato in marocchino, ricordo delle prime letture d’infanzia e arricchito, in quella preziosa edizione, da incisioni di Dürer, raffiguranti le tappe salienti della leggenda di Alessandro il grande, narrate in appendice alla classica versione del Tempio di Gerusalemme di Flavio Giuseppe. Il ragazzo, trafelato, levò sciarpa e cappello e si accostò alla stufa. “Che c’è? Riprenda fiato” disse Fritz Haber. “Geheimrat, è appena arrivata questa per Lei” disse il ragazzo, porgendo una busta dell’Accademia delle Scienze di Prussia. Il chimico sospirò e appoggiò il libro su una delle mensole impolverate. Il librario nel frattempo s’era allontanato per annotare sul suo mastrino la vendita del prezioso testo rinascimentale. Fritz Haber si avvicinò ad un lume e aprì la busta. Una lunga serie di intellettuali prussiani – Fritz Haber aveva percorso rapidamente l’elenco, contandovi una trentina di firmatari – avevano sottoscritto un articolato manifesto di giustificazione e protesta contro le accuse di violenza e soprusi, perpetrate ai danni degli abitanti di Lovanio, durante l’invasione del Belgio. Accuse da parte delle rappresentanze diplomatiche inglesi e francesi che, a giudicare dalle notizie comparse sulla stampa internazionale, facevano parte, o almeno questo era il giudizio dei firmatari, di un’ingiusta propaganda denigratoria contro l’esercito del Kaiser. Haber scosse la testa e richiamò l’attenzione di James Franck. “Di cosa si tratta?” domandò allora il ragazzo, incuriosito dalla smorfia del Professore. “Un appello in difesa delle nostre truppe” disse Fritz Haber “accusate di stupri, assassini e distruzione di monumenti.” Il libraio, avvicinatosi cautamente, osservò il Professore, poi, udite le lamentazioni della moglie che provenivano dal cortile, tossì e fece tintinnare il pesante anello di metallo dal quale pendevano le chiavi di ferro, opera di una piccola officina di fabbri ashkenaziti, affacciata sul cortile. 92
“Sta per chiudere?” domandò Fritz Haber, porgendo una banconota da dieci marchi. “Sì. Grazie Professore. Se avesse bisogno di altri libri, sa dove trovarmi” disse Mendel Singer, facendo rapidamente sparire i soldi nella tasca del cappotto “Domani è Versöhnungstag.” Haber annuì e pregò James Franck di seguirlo. La libreria, una delle più vecchie del ghetto, si trovava a pochi passi dalla fermata della U-Bahn. Haber, dopo pochi passi, si voltò e osservò il vecchio libraio che, chiusa la porta, era intento ad oscurare le vetrine con pesanti assi di legno, assicurate ai cardini, tramite lucchetti. “Non so che fare” mormorò Haber, dopo aver infilato a mo’ di segnalibro, la busta tra le pagine. “Albert Einstein cosa ne penserà?” domandò James Franck. “Naturalmente non sarà d’accordo. Sembra di vederlo: contrariato con i colleghi che hanno firmato e inviperito con il comitato promotore.” Fritz Haber sfilò il foglio dalla busta e, in attesa del treno, lo consegnò al giovane ricercatore. “Come rappresentanti delle Scienze e delle Arti in Germania, ci accingiamo a manifestare al mondo civile la nostra protesta contro le accuse e le calunnie attraverso le quali i nostri nemici stanno tentando di trasformare l’eroico sforzo della Germania per la sua esistenza in uno conflitto provocato dalla Germania stessa. Alla prova dei fatti, le disfatte tedesche si sono rivelate infondate; di conseguenza la mistificazione e le calunnie sono ancora più attivamente al lavoro. Come difensori della verità, vogliamo fare sentire la nostra voce. Non è vero dunque che la Germania sia colpevole di aver causato la guerra. Non l’hanno voluta né il popolo, né il Governo, né tanto meno il Kaiser. Non è vero che abbiamo valicato il confine neutrale del Belgio. È invece comprovato il fatto che Francia e Inghilterra, con il permesso del Belgio, oltrepassarono quel confine. Sarebbe stato suicida da parte nostra non reagire. Non è vero che la vita e i beni dei cittadini belgi siano state violate dai soldati senza che essi ricorressero a misure estreme dettate dal diritto di difendersi. Ancora una volta, sot93
toposti a minaccia, i cittadini lasciati in pericolo hanno sparato alle truppe dalle case, mutilando i feriti, uccidendo a sangue freddo i dottori che stavano svolgendo la propria missione. Non c’è abuso più evidente che non menzionare questi crimini per fare apparire i Tedeschi gli unici criminali di guerra. Non è vero che le nostra truppe hanno maltrattato i cittadini di Lovanio. Sono stati altri concittadini che si sono lanciati sui quartieri e le nostre truppe si sono trovate costrette ad appiccare il fuoco per punizione. La maggior parte della città è stata risparmiata. Il famoso municipio è intatto; con grande sacrificio sono stati i nostri soldati a salvarlo dalle fiamme. Ogni cittadino tedesco ha a cuore, pur in situazioni di combattimenti feroci, come quelli del Belgio, il fatto di non distruggere deliberatamente opere d’arte. D’altra parte, non possiamo rinunciare alla vittoria, per salvaguardare il patrimonio artistico di un Paese. Non è vero che i nostri attacchi chimici hanno infranto le regole internazionali. Si sa che la materia è crudele e indisciplinata. Ma ad Est la terra è coperta dal sangue delle donne e dei bambini trucidati dalle truppe russe; ad ovest, i proiettili esplosivi tranciano le braccia dei nostri soldati. Gli stessi alleati dei Russi e dei Serbi, che presentano al mondo uno scenario vergognoso, incitano Mongoli e popoli di colore a ribellarsi alla razza bianca, benché non sia loro concesso di accedere alla civiltà. Non è vero che la guerra contro il nostro così detto militarismo non sia anche una guerra contro la nostra civiltà come pretenderebbero di distinguere i nostri ipocriti avversari. Se non fosse stato per il nostro militarismo, la civiltà tedesca sarebbe già stata estirpata. Il militarismo si è sviluppato nelle nostre terre piagate da bande di predoni, come nessun’altra terra, proprio per sua protezione. L’armata tedesca e il popolo tedesco coincidono; cosa che consente a 70 milioni di Tedeschi, di ogni estrazione sociale, posizione, o parte politica, di convivere fraternamente e identificarsi in una Nazione. Non possiamo lottare contro le armi velenose del nemico “sarebbe ipocrita affermarlo” strappandogliele semplicemente dalle mani. Ciò che possiamo fare è protestare facendo presente 94
al mondo la mala fede del nemico. Ci rivolgiamo a te, che ci conosci, che con noi hai preservato il bene più sacro di un uomo, noi facciamo appello a te: abbi fede in noi! Considera che noi porteremo a termine questa guerra, come paese civile, che il rispetto di Goethe, Beethoven e Kant è sacro quanto i nostri cuori, le nostre case, la nostra Nazione. “Adolf von Baeyer, Peter Behrens, Emil Adolf von Behring, Wilhelm von Bode, Aloïs Brandl, Lujo Brentano, Justus Brinkmann, Johannes Conrad, Franz von Defregger, Richard Dehmel, Adolf Deissmann, Wilhelm Dörpfeld, Friedrich von Duhn, Paul Ehrlich, Albert Ehrard, Karl Engler, Gerhart Esser, Rudolf Christoph Eucken, Herbert Eulenberg, Henrich Finke, Hermann Emil Fischer, Wilhelm Foerster, Ludwig Fulda, Eduard Gebhardt, Jan Jakob Maria de Groot” disse Fritz Haber, leggendo nome per nome l’elenco dei firmatari, “Non posso esimermi. Immagina l’isolamento a cui sarei sottoposto.” “Possibile che siano tutti in errore?” James Franck leggeva, a voce alta, i nomi dei più anziani in testa alla lista. Haber restò in silenzio. “Ha firmato anche Richard Willstätter” aggiunse James Franck. “Richard ha firmato? Non è possibile!” esclamò Haber, basito. In quel momento, un treno diretto a Nord, si fermò sul binario opposto. Il suo arrivo aveva provocato uno spostamento d’aria improvviso che aveva quasi strappato il foglio dalle mani di Franck. Lo scienziato, rivolto al giovane assistente, sorrise amaramente. I vagoni erano gremiti di soldati. Dal ventre della stazione, salì una musica. Erano profughi armeni che suonavano con poveri strumenti musicali frutto di costruzioni ingegnose: al posto delle percussioni, latte e barattoli, raccattati qua e là negli enormi cumuli di rifiuti che si ammassavano in fondo ai vicoli. “Dove vanno?” mormorò tra sé Fritz Haber. “Al fronte!” rispose una donna, la quale teneva in braccio un bambino e stentava a tenerne a bada un altro, pallido e malaticcio, di poco più grande. Haber guardò la contadina, imbarazzato. Quando finalmente il treno arrivò, le porte si aprirono 95
qualche metro più in là del limitare della pensilina. I passeggeri furono obbligati a scendere dalla banchina e camminare lungo i binari. James Franck, dando indicazioni ad Fritz Haber, si fece largo tra le spinte della gente. Qualcuno trasportava pacchi pesanti e aveva la pretesa di passare per primo. Un soldato, il primo vagone ne era affollato, si affacciò da un finestrino e gli indirizzò un’occhiata severa. Questo bastò per un istante a riportare una sorta di ordine. James Franck si voltò per sollecitare Haber ad avvicinarsi e salire, prima che il segnale luminoso si spegnesse. “Attenzione al gradino!” disse Haber alla donna con i due bambini, e l’aiutò a salire a bordo. La donna si arrampicò lentamente, mantenendo i solchi ai lati della bocca; parlava con sfida e non sorrideva mai, se non in modo sprezzante e certo senza distendere il volto, ovunque sconvolto e tumefatto da gonfiori. “Mariti, fratelli, figli al fronte!” ripeté la donna, con tono di rimprovero verso Fritz Haber, e sparì in fondo alla carrozza. Il chimico non aveva potuto rispondere, travolto dal movimento vorticoso di due operai curvi sotto il peso di giganteschi zaini, fu trascinato a qualche metro lontano da James Franck. Il ricercatore attese che il treno si muovesse, poi fece un cenno a Fritz Haber e strinse saldamente la maniglia che pendeva dalla cappelliera. Il vagone era gremito di giovanissimi uomini dagli occhi assonnati e arrossati. Festanti schiere di contadini ignari, stappati dalla campagna, per infoltire i reggimenti regolari. Dopo qualche minuto, il treno uscì dal centro della città e si arrestò presso la stazione di Stiegliz. Fritz Haber, irrequieto, scese immediatamente e cercò riparo in una sala d’aspetto. James Franck, inseguendo il professore, riuscì a trovarlo a notarlo, a vederlo al di là di un vetro scuro. Il professore, seduto su una panchina di legno, rileggeva il Manifesto, guardando con sospetto l’elenco dei firmatari. Seppure con sgomento, consapevole dell’ambiguità del Manifesto, Fritz Haber aveva apposto la sua firma, sotto quella degli altri insigni colleghi intellettuali. James Franck, intuendo lo stato d’animo del chimico, si avvicinò timorosamente e, ricevuto un cenno da parte di Fritz Haber, afferrò la petizione, la ripiegò nella busta e corse verso il Kaiser Wilhelm. 96
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All’alba del 15 Ottobre 1914, Fritz Haber, prima della partenza, si recò all’Istituto Kaiser Wilhelm. Un ultimo saluto ad Emil Fischer e ai soli due colleghi dichiaratamente pacifisti: Albert Einstein e Max Von Laue. Otto Hahn aveva già chiuso il laboratorio; Richard Willstätter aveva preparato la divisa, il filatterio, le provviste per il viaggio, un coltello da pane e aveva dato appuntamento all’Hotel Furstenhof. Gli studenti avevano lasciato gli alloggi e avevano sfilato dalle prime luci del mattino, in una sorta di competizione a chi avesse raggiunto per primo il fronte. Uno sgargiante sfavillare di bottoni d’oro, di galloni d’argento e di cinghie rosse sangue di cuoio bulgaro sfilava per le strade di Berlino. Fritz Haber chiuse l’ufficio e andò incontro a Albert Einstein. I due non riuscirono ad andare oltre un breve scambio di saluti. Adolf Von Harnack abbracciò Haber e fece dono del suo vecchio tascapani, raccomandando il giovane Ernst Von Harnack, anch’egli in partenza con il treno per Ypres. Il chimico lo rassicurò e controllò di avere preso i documenti, chiuse la valigetta e attraversò la città, sbucando sul lato meridionale della Anhalter Bahnhof. James Franck lo attendeva all’edicola, agitava un giornale per farsi notare e aveva una sigaretta sottile, fatta a mano. Il frastuono dei camion e le urla e la confusione erano tali da coprire le voci dei due. “Avete preso un impermeabile?” ripeté il giovane assistente quando fu vicino ad Haber “pare stia diluviando a Ypres.” L’altro annuì e mostrò una mantellina, allacciata allo zaino. I due superarono un primo assembramento chiassoso. Erano le cuoche di Weissensee, che distribuivano vettovaglie e salutavano i fidanzanti in partenza. “Otto Hahn?” domandò James Franck, impaziente di prendere posto sul treno. 97
“Che ore sono?” rispose Haber, attento a non inciampare nel via vai furioso dei partenti. “Sei e quaranta” rispose James Franck. Un treno sbuffò e invase di fuliggine e vapore il primo binario. James Franck arretrò e accennò una sorta di corsa in avanti, a causa della sovra eccitazione. Questo piccolo tic suscitava sempre una certa ilarità tra i colleghi. Una lunga colonna di militari stava salendo ordinatamente a bordo del treno per Lille. Qua e là si udivano canti, accompagnati da una fisarmonica a bocca. Il tenente Fritz Haber controllò le destinazioni in testa ai locomotori, di binario in binario, poi, non trovando il treno assegnato agli Ufficiali del Genio, domandò informazioni. “Il treno per Ypres?” domandò il tenente Fritz Haber. “Ultimo binario!” rispose il capo stazione, consultando un taccuino sgualcito. Fritz Haber si alzò sulle punte e seguì la progressione dei numeri fino in fondo alla stazione. “Al 21” indicò Fritz Haber, quando James Franck si avvicinò, con aria interrogativa. “Eccovi! Finalmente vi ho trovato!” disse Otto Petersen, appena giunto di corsa, col fiato corto, nonostante il bagaglio leggero, e aggiunse “Non vedo Hugo Stolzenberg?” “È già sul posto” rispose Fritz Haber che nel frattempo aveva intravisto Otto Hahn e un drappello di addetti alle mitragliatrici sotto il suo comando. Ragazzi tra i quattordici e i sedici anni, ma quelli provenienti dalle campagne sembravano già adulti. Alcuni s’erano cuciti la divisa per conto proprio, aggiungendo accessori secondo necessità e possibilità. In particolare, un mitragliere, alto due metri, aveva adattato lo zaino per contenere i caricatori doppi e un grappolo di sharpnel. I più giovani spintonavano, ridevano e bevevano acquavite. “Sarebbero questi i tuoi uomini?” domandò Fritz Haber, quando si trovò davanti il collega. Otto Hahn, con le mani nella cintura e uno zaino sulle spalle che ne sormontava il capo di almeno mezzo metro, si voltò a dare un’occhiata, sospirò, non rispose e domandò dove fosse il treno.
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“Scienziati, contadini, Cristiani, Ebrei. Sarai contento ora?” intervenne Walter Nerst, beffardo. Fritz Haber, stizzito, non lo degnò di risposta e presentò i documenti ad un militare, il quale indicò i vagoni di testa. Il tenente fece segno a Karl Bonhoeffer e a Willstätter di affrettarsi e salì a bordo. Lo scompartimento era stato adattato per ospitare il maggior numero di uomini. Le pareti, che separavano originariamente gli scompartimenti, erano state divelte e i sedili erano uno attaccato all’altro, di modo che una volta seduti i soldati quasi si sostenessero a vicenda, schiena contro schiena, zaino contro zaino. Fritz Haber lasciò il posto ai colleghi e, depositato lo zaino nella capelliera, restò in piedi. “Karl, a che punto stanno le maschere?” domandò il tenente quando il collega prese posto. “Sono in partenza. Il Genio le spedirà entro domani, con un treno speciale. Ho apportato alcune modifiche agli occhiali e ai lacci” rispose Karl Bonhoeffer, mostrando un campione. James Franck indossò la maschera e provò le nuove lenti a protezione degli occhi, quasi divertito. “Dobbiamo controllare la capacità produttiva dell’impianto, mi raccomando” disse Otto Hahn che, liberatosi dello zaino, sgranchiva le gambe. Fritz Haber afferrò lo zaino e ne estrasse alcuni disegni. “Hugo Stolzenberg dovrebbe avere tenuto conto dei nuovi fabbisogni” disse sfogliando l’incarto. “E i cilindri?” domandò James Franck, che ancora indossava gli occhialetti protettivi. “Sono stati già consegnati. Circa seimila pezzi, in acciaio” rispose Fritz Haber. James Franck si alzò in piedi, altissimo, stralunato e con eccesso prussiano, slavo, o austriaco, disse un Sublime, sublime! con cui conquistò per sempre la simpatia di tutti. Un fischio annunciò la partenza del convoglio. Fritz Haber lanciò un’occhiata al vagone e segnò sul taccuino orario di partenza e numero di soldati regolari, reclute e volontari. Il treno barcollava, a causa dello spostamento im99
provviso e disordinato degli uomini che affollavano gli scompartimenti. Era un treno lento. I soldati sedevano su panche di legno tra i contadini che cantavano ubriachi. Tutti fumavano tabacco nero, dentro al quale c’era ancora un lontano ricordo di sudore. Tutti raccontavano storie. Le reclute spesso cambiavano di posto. Ognuno voleva sedere per un po’ al finestrino e guardar fuori. Una recluta, stranamente isolata dagli altri, stava seduta in un angolo appartato. Fritz Haber avvicinò il giovane, di statura leggermente superiore alla media, con capelli biondissimi molto folti, le guance infossate e una leggera barbetta a punta quasi completamente bianca. Il ragazzo aveva occhi grandi, celesti, che guardavano fissamente, con uno sguardo dove c’era qualcosa di dolce, ma penoso, pieno di quella strana espressione da cui taluni ravvisano al primo colpo in un individuo il malato di epilessia. Del resto, il viso del giovane era gradevole, fine e magro, ma senza colorito e in quel momento perfino bluastro per il freddo. Nelle mani ballonzolava uno smilzo fagottino di vecchia stoffa scolorata che racchiudeva, pareva, tutto il suo bagaglio. Ai piedi aveva scarpe a doppia suola con le ghette, il tutto non all’uso tedesco. “Patite il freddo?” domandò Fritz Haber e mosse le spalle. “Molto” rispose il ragazzo biondo con straordinaria premura. “Come vi chiamate?” domandò lo scienziato. “Ernst” rispose il ragazzo “Ernst Von Harnack.” “Non vi avrei ricosciuto! Alzatevi e unitevi a noi” disse Fritz Haber, esortando il giovane a sedere insieme ai colleghi. “Il figlio di Adolf Von Harnack!” disse il Tenente Haber, presentando il ragazzo ai colleghi. Il ragazzo ringraziò timidamente e prese posto a fianco di Karl Bonhoeffer, il quale aveva aperto una mappa dettagliata dove aveva segnato scrupolosamente depositi munizioni e trincee nemiche. Otto Hahn si accostò alla mappa e mugugnò. “Pare che gli Inglesi siano giunti nella Marna” disse Otto Petersen “stanno predisponendo l’artiglieria pesante.” Nessuno osò rispondere. 100
“Clara?” domandò a voce bassa Richard Willstätter, che se n’era stato in disparte fino a quel momento, senza proferire parola. Fritz sospirò e disse che Clara era stata dimessa; di avere affittato una villa a Bad Salzelmen, almeno per i mesi in cui sarebbero rimasti al fronte. Hermann e i genitori di Clara, che erano giunti da Breslavia, l’avrebbero assistita. “Lise ha scritto” disse Otto Hahn “È arrivata a Rovno; infermiera in un ospedale da campo; dice di voler proseguire le ricerche, quando tornerà a Berlino. Auguriamoci che questo conflitto si concluda tempestivamente, come vanno dicendo tutti.” “Certo. E i gas saranno determinanti. Vedrete, sarà uno shock!” esclamò il tenente Fritz Haber che, preso da furore, s’era alzato in piedi e gesticolava “Si tratta di condizionare il corpo e la mente del nemico; di condizionare l’ambiente in cui vive, respira, si muove” aggiunse Fritz Haber, rivolto alle reclute, sui cui volti era dipinta una smorfia di terrore. Ernst Von Harnack guardò malinconico fuori dal finestrino. S’era arruolato, come molti suoi compagni di studio, alla prima chiamata, sull’onda di un entusiasmo che, appena lasciata Berlino, già sembrava sparire. “Linea interrotta” gridò James Franck, sporgendo la testa fuori dal finestrino. Il treno s’era arrestato bruscamente. Fritz Haber e Otto Hahn s’erano tenuti ai sedili per non travolgere i colleghi. I soldati cominciarono a urlare. Del resto la maggior parte di loro era già alticcia. Otto Hahn, dopo essersi consultato con il tenente Fritz Haber, superiore in grado, fece segno ai soldati di scendere. Gli uomini si passarono di mano in mano i pezzi d’artiglieria dai finestrini e nel giro di pochi minuti si avviarono a piedi. Haber e i suoi uomini camminavano. Le lunghe finanziere svolazzavano. Le falde battevano con un colpo secco e regolare sui gambali degli stivaloni di cuoio. Era quasi mattino. La luna la indovinavano dietro nuvolaglie lattiginose. Sui campi apparivano qua e là, come bocche di cratere, macchie nere di terra dai contorni irregolari. Cominciò a cadere una pioggerellina leggera, calda. Dei corvi si alzarono in volo e gracchiarono. Un saliceto si agitava nel sonno, rami secchi scricchiolavano, le nuvole attraversavano chiare il cielo. 101
“E così ora siamo soldati!” sussurrò Richard Willstätter. Haber non rispose; né i colleghi vicini. L’orizzonte stellato tracciava un cerchio perfetto, azzurro cupo, che solo a nord era interrotto da una striscia chiara, come un pezzetto d’argento inserito in un anello azzurro. Si sentiva l’odore dell’umidità lontana nelle paludi che si estendevano a occidente e del pigro vento che lo portava fin là. “Davvero una bella notte” disse Fritz Haber che si sentiva sicuro come mai prima d’ora. Sapeva che stava vivendo uno dei rari momenti in cui l’uomo deve plasmare il proprio destino non meno di quanto fa la grande potenza che glielo ha assegnato. In quel momento il cielo si rischiarò ad oriente. Gli uomini si voltarono indietro, verso la patria, sulla quale sembrava ancora pesare la notte, e poi si girarono di nuovo incontro al giorno e al paese straniero. La campagna era piatta e gialla di paglia per il frumento appena tagliato, non c’erano alberi ma il canto delle cicale era fortissimo. L’acqua dei canali era poco profonda e scorreva tra le alghe e un fondo giallo di fanghiglia con qualche rana. Il clima, a dispetto delle previsioni di pioggia, era torrido e insopportabile. La temperatura aveva raggiunto punte di 30 gradi. Ernst Von Harnack cominciò a cantare, tutti lo seguirono, fischiando, proseguirono la marcia. Solo il tenente Fritz Haber non cantava con gli altri. Pensava al suo prossimo futuro; alla mattina a casa sua. Fra due ore Clara si sarebbe alzata, avrebbe recitato una preghiera, si sarebbe schiarita la gola, avrebbe versato l’acqua profumata che soffiava nel samovar. Hermann avrebbe balbettato qualche cosa nell’aria mattutina e si sarebbe ravviato col pettine i lucenti capelli neri, ereditati dalla madre. Tutto questo Haber lo vedeva così distintamente come non l’aveva mai visto quando ancora a casa e lui stesso si sentì parte del mattino domestico. Sentiva a stento il canto degli altri, solo i suoi piedi seguivano il ritmo e marciavano a tempo con loro. Un’ora più tardi scorsero la prima città straniera, il fumo azzurro dai primi solerti camini. Un soldato con una fascia gialla 102
al braccio prese in consegna i nuovi arrivati. Gli ufficiali furono indirizzati verso il Comando Supremo. Il tenente Fritz Haber e il sergente James Franck, appena raggiunto il Comando, gettarono gli impermeabili e invitarono i soldati ad alleggerire gli zaini da ciò che non era indispensabile. Willstätter e Bonhoeffer, in qualità di tecnici, furono inviati a supporto di Stolzenberg. Il caporale Otto Petersen, il sergente Otto Lummitzsch, invece, vennero indirizzati nelle trincea di rincalzo, luogo da cui avrebbero comunicato con Hugo Stolzenberg, impegnato nelle retrovie, e con il Comando Generale. Il Duca di Wurtenberg, già vincitore a Lovanio, accolse gli uomini del tenente Haber. “Gli Inglesi” disse il comandante prussiano “ieri hanno sferrato un attacco alla baionetta, dopo aver sottoposto le nostre posizioni a bombardamento con obici a lunga gittata. Quando all’alba fu dato il segnale d’attacco, i comandanti dei battaglioni inglesi, tutti tranne quello dell’Ulster irlandese, non udendo fuoco di risposta da parte nostra, hanno camminato verso le nostre trincee, dando per scontato che il bombardamento ci avesse annientato. Fu grande la sorpresa, quando, dopo alcuni minuti, il silenzio fu interrotto dalle nostre mitragliatrici, poste proprio a ridosso dei crateri formati dalle granate inglesi. Errore tragico, costato agli Inglesi la perdita di 15.000 soldati nella sola prima ora di combattimenti. Hanno concesso ai nostri valorosi soldati l’agio di uscire dalle trincee, di posizionarsi in cima ai crateri e di piazzare le mitragliatrici con cui falciare il nemico.” Ernst Von Harnack, stravolto dal viaggio, impressionato dalla vista delle trincee, cominciò ad ansimare e scaricò a terra lo zaino. Un ufficiale lo guardò storto e lo obbligò a rimetterselo in spalla immediatamente. “Inglesi e Francesi” continuò il Duca di Wurtenberg “hanno trascurato la costruzione di difese di profondità, fiduciosi del fatto che l’artiglieria terrestre pesante, cannoni e obici calibro 420 mm, avrebbe giocato un ruolo determinante per scacciare i soldati tedeschi dalle trincee. Solo gli irlandesi contravvenendo gli ordini, hanno raggiunto di corsa le posizione e hanno in parte impedito l’uscita dei nostri soldati, conqui103
stando e difendendo eroicamente l’unica posizione dell’intero teatro di battaglia; posizione, in seguito, persa a causa della ritirata generale delle truppe inglesi e francesi. Vi confesso che sono molte le aspettative riposte sulla vostra missione. Auguro molta fortuna, a Lei, Tenente Haber, e ai suoi uomini!” Sui soldati calò il silenzio. Dopo il lungo resoconto, pieno di retorica bellica, il Duca sparì, seguito da un drappello di luogotenenti, attraverso un lungo budello fortificato che univa la seconda linea alla prima. Un graduato si avvicinò ad Haber, si presentò e indicò un cunicolo, dove fare sistemare il contingente, in attesa di nuovi ordini. Fritz Haber prese possesso di un loculo sotto il livello del terreno. Le trincee infatti erano state scavate cinque, sei, perfino dieci metri, in alcuni tratti. Vi erano gallerie puntellate e protette con massicce travi di legno, provviste di letti, acqua, stufe, latrine e perfino di luce elettrica. I comandi tedeschi, non credendo ad un conflitto di breve durata e anzi, prevedendo una lunga ed estenuante guerra di posizione, avevano conquistato le dune più alte, da cui dominare il nemico, e sfruttato l’enorme esperienza dei minatori per scavare profonde gallerie, cunicoli, ambienti di scambio, servizi igienici e cambuse con provviste tali da sopravvivere alcuni mesi sotto terra.
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Quando all’alba finalmente smise di piovere, apparve il sole; rivoli di fango scorrevano svelti ai margini delle trincee. Fritz Haber si svegliò di soprassalto. Improvvisamente i topi, avvertito il pericolo, erano fuoriusciti dalle gallerie e avevano cercato rifugio in superficie, arrampicandosi, impazziti, sulle fangose e scivolose pareti della trincea. Un fascio di granate sharpnel attraversò l’aria ed esplose davanti alla postazione di Fritz Haber. La trincea fu investita da sfere di piombo e dalle schegge di una granata, esplosa al contatto con il suolo. Alcuni soldati erano morti sul colpo; altri, feriti gravemente, si lamentavano e chiedevano aiuto. Otto Lummitzsch e James Franck alzarono lo sguardo verso il cielo e aiutarono i feriti ad alzarsi e a raggiungere le retrovie, dove sorgeva un ospedale da campo. Un obice aveva colpito i cavalli di frigia, i quali, disintegrandosi, avevano investito di detriti le sentinelle, malgrado i sacchi di sabbia, posti a difesa. Fritz Haber, chino sulla feritoia della sentinella, puntò il binocolo sulla trincea nemica e, colto un lieve movimento, ordinò ai soldati di far fuoco. “Ora!” disse Fritz Haber, con rapido cenno della mano. Walter Nerst azionò il lanciarazzi e un fumogeno color ocra sorvolò la terra di nessuno. La squadra di mitragliatori comandata da Otto Hahn, protetta da dune di calcare bianco, che spuntavano dalla terra nera, come zanne di animali preistorici, aprì il fuoco e falciò i francesi che tentavano l’attacco alla baionetta. I soldati tedeschi attesero alcuni istanti, affinché le mitragliatrici finissero un centinaio di soldati francesi; poi, armati di mazze ferrate, uscirono allo scoperto, con il preciso obiettivo di uccidere i feriti. “Ora!” ripeté Fritz Haber. Fritz Epstein aveva radunato i soldati muniti di lanciafiamme e li scagliò contro la trincea nemica. Si potevano scorgere le fiammate sui soldati francesi che, colti di sorpresa e terrorizzati, sgusciavano dalle trincee, come 105
formiche. Fritz Haber sentì un sibilo e si abbassò di colpo; la testa della giovane recluta posta a difesa della feritoia davanti a lui, era stata centrata da un cecchino. Il tenente si chinò per spostare il cadavere e otturò la feritoia con l’elmetto. Richard Willstätter si era rifugiato in un angolo e, parsogli di vedere al di là del filo spinato due scoiattoli raspanti, si era raccolto in preghiera. Ascolta il nostro appello, Dio nostro Signore, abbi pietà e compassione per noi e accetta la nostra preghiera con misericordia e benevolenza poiché Tu sei un Dio che ascolta le preghiere e le nostre suppliche. Non lasciare che ci allontaniamo da Te a mani vuote, nostro Re. Concedici di vivere, poiché Tu ascolti con misericordia la preghiera del tuo popolo d’Israele. Che Tu sia lodato, Signore che ascolti la mia supplica. Dopo pochi istanti, un colpo di mortaio centrò in pieno la trincea. I fucilieri furono sbalzati a decine di metri; altri restarono sotto le macerie. C’era tra loro chi, essendosi fatto strada scavando, cercava un modo per proteggere il capo, avendo smarrito l’elmetto. Altri correvano senza direzione, con le mani sulle orecchie, come avendo perso l’udito. Un altro proiettile raggiunse la postazione dov’erano installati i cannoni. La trincea si trovò di colpo privata d’artiglieria terrestre a lunga gittata. Il panico colse i soldati, i quali fuggivano nelle retrovie. Il tenente Haber ordinò ad Otto Hahn di rincalzare l’artiglieria con le mitragliatrici, in maniera tale da prendere i Francesi d’infilata. Il chimico era convinto di poter approfittare del buio che avvolgeva il teatro della battaglia a causa delle molteplici colonne di fumo che si levavano dai crateri. L’ufficiale tentennò e cercò di prendere tempo ma, data la determinazione del collega, non osò ribattere. Otto Hahn convocò la squadra e uscì dalla trincea, al grido di Gott mit uns. I francesi, avvertiti dal movimento dei soldati, lanciarono una scarica di granate. Le esplosioni si susseguirono e metà degli uomini di Otto Hahn rimasero sul terreno. “Quello è il figlio di Von Harnack!!” urlò James Franck, riconosciuto il ragazzo che si dimenava nel tentativo di liberarsi dal filo spinato in cui era rimasto impigliato nella prima ondata d’attacco. Fritz Haber consegnò il binocolo a Richard Willstätter e prese con sé Otto Petersen e Otto Lummitzsch. 106
Una volta ricevuto il via libera dalle vedette, Fritz Haber si arrampicò sulla scaletta di corda e strisciò fuori dalla trincea, mentre i fucilieri sparavano per aprire un corridoio. Fritz Haber riuscì, strisciando, a raggiungere Ernst Von Harnack e tentò di tagliare il filo spinato per liberarlo. Il Tenente, dopo alcuni tentativi fallimentari, richiamato da James Franck che, nel frattempo, era venuto in soccorso, si trovò costretto ad abbandonare il ragazzo. Un colpo di fucile, sparato da una sentinella, attraversò l’aria e finì la giovane recluta. Fritz Haber, con un solo grido stridulo, dietro cui piombò l’orrenda quiete di tutto un mondo morto, si trascinò fino al limitare della trincea. Lo scienziato, aiutato da una vedetta, scavalcò i sacchi e scivolò lungo la parete di fango. Poi, una volta al sicuro, prese le pinze e le scagliò a terra. Il geniere, intimorito, si avvicinò all’ufficiale, raccolse le pinze e ne saggiò immediatamente la bontà. “Tagliano!” mormorò il soldato, mostrando un pezzo di filo di ferro reciso. “Il loro filo spinato resiste alle nostre pinze!” esclamò Walter Nerst. Si udirono nuove detonazioni, poi una serie ravvicinata di esplosioni che durò non meno di venti minuti. Il fuoco nemico, spostatosi su un altro settore, si attenuò solo dopo alcuni minuti. Un messaggero, sbucato da chissà dove, attraversò la trincea, scavalcando i feriti e chiedendo dell’ufficiale in comando. James Franck indicò Haber, in piedi di fronte ai soldati con le maschere anti gas. Il soldato si fece largo e consegnò un dispaccio al tenente. Fritz Haber lo lesse avidamente e, deluso, biascicò che l’attacco era stato nuovamente posticipato. I Pionieer kommandos tornarono a sedersi nel fango e, in attesa di nuovo ordine, si liberarono delle maschere anti gas. Fritz Haber domandò al marconista di contattare il Duca di Wurttemberg, impegnato con il suo battaglione nell’istallazione dei seimila cilindri, lungo i 700 metri del fronte, a venti chilometri dalla costa belga, ma la linea era interrotta e risultò impossibile mettersi in contatto con l’ufficiale. Haber allora in preda ad un eccesso di ira, prese l’apparecchio e lo scagliò a terra. Era il secondo ordine di allerta ai gas che veniva dato e 107
annullato nel giro di poche ore. La trincea era prossima all’ammutinamento. Haber si voltò verso il messaggero e consegnò un messaggio per Hugo Stolzenberg. Tra i soldati cominciò a circolare la voce che il Duca di Wurttemberg fosse disperso, o addirittura catturato dagli Inglesi; che l’attacco con i gas fosse fallito, ancor prima di avere luogo. Walter Nerst andava ripetendo di non rimandare; il vento da est soffiava con regolarità e senza i bruschi e repentini cambi di direzione delle ultime ore. Fritz Epstein invitò i soldati a conservare la calma e mantenere alto il morale. “Hashivenu Adonai elecha vena-shuvah!” mormorò Richard Willstätter, seduto sul primo piolo di una scaletta di corda. “Geheimrat Fritz Haber, hanno ripristinato la linea!” urlò il marconista. Il chimico avvicinò l’orecchio all’altoparlante: l’attacco era fissato per mezzogiorno. Il Duca di Wurttemberg, sebbene ferito, era riuscito a mettersi in contatto con il Comando supremo e aveva trasmesso l’ordine di liberare i gas. Fritz Haber lanciò un’occhiata all’orologio (erano le 17.30) e impartì gli ultimi ordini agli specialisti. James lanciò il segnale convenuto e i Pionieer kommandos uscirono dalla trincea. Raggiunte le buche, dov’erano stati nascosti i cilindri, i soldati liberarono simultaneamente tutti i gas. Una gigantesca nube di 150 tonnellate di cloro si alzò lungo il fronte e, sospinta da una leggera brezza marina, avvolse le trincee nemiche. I soldati francesi fuggirono travolti dal gas, dai colpi di obice e dal fuoco dei Pionieer kommandos. Fritz Haber si spinse per primo tra le linee nemiche ma, imprevedibilmente, quando la battaglia sembrava finalmente pendere in favore dei tedeschi, il vento (e la Storia) cambiò bruscamente direzione e sospinse la nube contro gli stessi soldati tedeschi. Fritz Haber si voltò e, vedendo i suoi soldati già in fuga, diede ordine di piegare in ritirata. Il battaglione raggiunse le retrovie e trovò rifugio a bordo di un treno munito di cannoni Berta. Il macchinista azionò la motrice e il treno cominciò lentamente a muoversi. Man mano che il convoglio si allontanava, 108
il fragore delle esplosioni andava aumentando. Si potevano scorgere nuovi lanci di mortai da più di una tonnellata, carichi di decine di chili d’esplosivo. Dopo alcuni minuti, quando il convoglio superò il fiume Meno, si udì una deflagrazione violentissima che oscurò il cielo: Hugo Stolzenberg aveva fatto brillare l’impianto chimico, affinché non cadesse in mani nemiche. Fritz Haber avvicinò il marconista e lo pregò di inviare un fonogramma al Duca di Wurttemberg. Ypres, 24 Aprile ore 5.00. Attacco fallito. Impianto distrutto. Tenente Fritz Haber.
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Il sole parve tramontare rapidamente sul muro della casa di fronte. Haber lo fissava attraverso la finestra aperta. L’ombra nera si alzava a vista d’occhio, come il mare all’arrivo della marea risale le pareti della sponda. Dal fronte Fritz Haber era giunto a Berlino con mezzi di fortuna. Una volta raggiunto il comando militare, il Ministro della Guerra lo aveva obbligato ad espletare una lunga serie di incombenze burocratiche. Karl von Einem, nominato Generaloberst, lo aveva infatti accolto con gratitudine e deferenza. Del resto, le notizie dal fronte si susseguivano contraddittorie e imprecise. Il Generale Ludendorff, irrompendo a sorpresa nel salotto privato del Generale, aveva addirittura proposto di premiare Fritz Haber con la nomina a Capitano. Il chimico, sebbene disgustato, non aveva avuto la forza né la prontezza di spirito di rifiutare. Nella tarda mattinata del 1 maggio 1915, quando finalmente gli fu accordato il permesso di congedarsi, venne scortato da un’auto militare e accompagnato fin sotto casa, al numero 6 di Faradayweg. Fritz Haber, esausto e febbricitante, aveva varcato la soglia di casa, non trovando ad attenderlo altri che il maggiordomo. La servitù aveva apparecchiato la grande tavola della sala da pranzo con piatti e bicchieri d’oro. Fritz Haber si avvicinò alla mensola del camino e domandò della moglie ma il maggiordomo non seppe rispondere. Un paio di volte si sentirono resti di legna carbonizzata crepitare nel camino e un leggero scricchiolio agli stipiti della porta quando il vento aumentava. Fritz si accostò alla finestra, giocherellando con un delfino di cristallo di Clara. La moglie era di una bellezza tale che ogni persona che la guardava sorridere si sentiva caduca e mortale, ma tra loro, dopo i primi anni di matrimonio, s’era formato un vuoto, non grandissimo ma che avrebbe potuto diventare tale se altri pic110
coli vuoti si fossero formati nell’imprevedibile armonia dell’insieme. Qualcosa di impercettibile e fatale era accaduto per cui era impossibile dormire nello stesso letto. Il chimico avrebbe voluto far comprendere alla moglie che non l’amava più, pure amandola moltissimo. Il loro matrimonio era una cosa superiore, eccezionale. Eppure, provava una grande vergogna verso la moglie perché gli pareva rivelatrice di un lato volgare della propria natura. Fritz Haber provava pudore e anche stizza se lei lo sorprendeva in vestaglia, o appena sveglio, o intento a leggere un libro. Con lei ormai si sentiva a suo agio soltanto in abito da sera, quando il collo inamidato e il plastron imponeva fra loro una inaccessibilità dolorosa ed elegante che era il segreto del loro fascino. Eppure, con piacere toccava i riccioli di lei, o un suo vestito crêpe georgette. Ma era un piacere molto esangue ed egli ricordava con molto dispiacere i loro amori giovanili. Lo scienziato ripose delicatamente il delfino di cristallo e attraversò il corridoio, aprì piano la porta della camera da letto e accese un abat-jour, liberandosi della divisa. Dopo essersi rinfrescato e cambiato d’abito, tornò in sala da pranzo e si sdraiò sul divano. Forse era passata un’ora, o molto di più, Fritz Haber non avrebbe potuto dire, essendosi addormentato, quando Clara rincasò. La moglie aveva riconosciuto immediatamente le impronte degli stivali e aveva acceso una sigaretta, andando a sedersi su una vecchia poltrona di cuoio, in un angolo buio del salotto. Dopo alcuni istanti, Fritz Haber, percependo la presenza di Clara, si svegliò di soprassalto. “Sei ferito?” domandò Clara, teneramente, scrutando il volto del marito. “No, è la vecchia ferita del duello. Quando cala la notte, torna a farsi sentire.” rispose Fritz Haber “Domani ripartirò per il fronte orientale!” continuò Haber “I russi hanno respinto gli austroungarici a Rovno.” Clara accennò un sorriso malinconico. Il maggiordomo, tossendo ripetutamente, si affacciò timidamente sulla soglia della sala e annunciò l’arrivo del Generale Ludendorff.
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“Fritz, accogli tu gli ospiti. Intanto, io vado a cambiarmi d’abito” disse Clara. “Resta, ti prego” disse remissivamente Fritz Haber, facendo un passo verso la moglie. “No” rispose Clara, respingendolo e precipitandosi in camera. Fritz Haber ringraziò il maggiordomo e, pregandolo di accendere tutte le luci, andò incontro agli ospiti. “Generale, si accomodi” esclamò Fritz Haber con voce tremante. Una cameriera prese il mantello del Generale e lo ripose nel guardaroba all’ingresso. “La cena sarà servita tra poco, accomodatevi. Desiderate un bicchiere di Kirsh?” domandò Haber. “Grazie” disse il Generale prendendo posto davanti al camino. Fritz Haber versò il liquore in un piccolo calice e lo porse all’ospite. “Frau Clara” disse il Generale Ludendorff, accennando un inchino, non appena la donna si affacciò sulla soglia della sala da pranzo. “Generale!” disse Clara che aveva respinto il Kirsh, offerto dal marito “Berlino è in lutto per la perdita dei suoi figli. L’attacco a Ypres è fallito.” Haber tossì violentemente e, furioso, lanciò un’occhiata di disappunto. “Siete male informata” precisò il Generale, colto di sorpresa, “Le nostre truppe hanno conquistato la Marna e ora marciano su Parigi.” “Il Ministro della Guerra” annunciò il maggiordomo, avvicinandosi alla padrona di casa. “Jacob, puoi accogliere tu il Ministro?” disse Clara, rivolta al marito e di proposito facendo cadere la cenere della sigaretta sul tappeto. “Jacob?” domandò il Generale Ludendorff, stupito. “Non ne era a conoscenza, Generale? Prima di chiamarsi Fritz, mio marito si chiamava Jacob. Una delle tante cose che, negli anni, ha tentato di cancellare” disse Clara, sarcastica. “Clara, ti ordino di smettere immediatamente!” esclamò Fritz Haber, imbarazzatissimo. Il Generale, profondamente a disagio, andò incontro al Ministro. Dopo essersi consultati, i due giudicarono opportuno congedarsi. Fritz Haber, morti112
ficato, si scusò con gli ospiti e ritornò in sala. Clara aveva abbassato le luci e stava distesa sul divano. “Adesso dai ordini?” replicò Clara, stizzita, quando il marito varcò la porta. “Sarai soddisfatta ora? Se ne sono andati” urlò il chimico, spazientito. “Mi pare che i tuoi ordini abbiano portato l’esercito allo sbando” ribadì Clara, provocatoriamente. “È anche colpa tua, se l’attacco è fallito” rispose Fritz Haber. “Colpa mia?” domandò Clara stupita (si vedeva la brace della sigaretta che ardeva e sfrigolava nel buio). “Tua, dei tuoi pettegolezzi!” disse Haber e, dopo aver proferito queste parole, si mise a tossire furiosamente. “Fritz, stai delirando!” disse Clara, spegnendo la sigaretta e sbattendo la porta della sala da pranzo “Non capisci che ti hanno usato. Tu credi di essere un genio, che il mondo penda dalle tue labbra, perché sei più intelligente di altri; che tutto ti riesca, perché sei forte, ma l’ambizione ti ha accecato. Tu sei il più debole. Altri sono coraggiosi, si sono opposti! Pensa ad Albert Einstein!” Fritz, furioso, si avventò su Clara. “Sei diventato pazzo! Non oserai...” Clara urlò, correndo verso la camera da letto. Il maggiordomo e la cameriera, richiamati dalle urla della donna, si affacciarono in corridoio. Fritz Haber fece cenno di non avvicinarsi e, attraversato il corridoio, bussò alla porta della moglie. Dalla stanza non si udì alcuna risposta. Quando Haber, dopo alcuni istanti, tentò di forzare la porta, si rese conto che Clara era barricata in camera. Fritz Haber allora, impaurito, chiese aiuto al maggiordomo e tentò di scardinare la serratura. Haber e il maggiordomo udirono uno sparo. La cameriera, terrorizzata, lanciò un urlo e corse ad avvertire il Dottor Muller. Fritz prese la rincorsa e con una spallata riuscì finalmente a sfondare la porta e ad introdursi nella stanza da letto. Clara era riversa sul pavimento; al suo fianco la pistola d’ordinanza del marito. Haber pregò il maggiordomo di telefonare alla Gendarmeria e, disperato, si sdraiò vicino al corpo della moglie, in attese che il dottor Muller arrivasse. Alzato lo sguardo, Haber notò sul comodino una 113
lettera. Si alzò e l’afferrò. La lettera era indirizzata al figlio. Fritz Haber aprì la busta ed ebbe un sussulto, Clara accusava Fritz Haber di aver perso la ragione e invitava Hermann a prendere le distanze dal padre. Lo scienziato richiuse la lettera. Si guardò attorno ed esitò un istante, poi, avvicinatosi al camino, gettò la lettera nel fuoco.
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Seconda parte
Erano passati tre anni dalla morte di Clara Immerwahr. Tre anni durante i quali il fronte della guerra s’era esteso alle colonie africane, ai mari del Sud, alle isole del Pacifico, all’Oceano Atlantico e Indiano. Oltre a combattere sul fronte franco belga e russo, il conflitto si era allargato ad Austria, Romania, Grecia, Italia, Turchia, Serbia, Montenegro, Portogallo, Belgio, Lussenburgo e Giappone. Gli Stati Uniti e l’Australia erano intervenuti inviando un considerevole contingente in soccorso degli alleati inglesi e francesi. Gli americani rinfoltirono le truppe francesi sul confine renano; gli Australiani assediarono le fortezze turche nei Dardanelli. Gli Austriaci, dopo la battaglia di Caporetto, dove gli Italiani subirono una sconfitta umiliante, arretrarono e capitolarono grazie al contrattacco delle truppe anglo americane. La Prussia, perso anche l’alleato austriaco, si trovò definitivamente isolata. La guerra si combatteva per mare, terra e aria e in tre anni era costata la vita di oltre 5 milioni di soldati e almeno 18 milioni fra i civili. L’11 Novembre del 1918, il segretario di Stato tedesco Matthias Erzberger firmò l’Armistizio che condannava la Germania ad un risarcimento di guerra pari all’enorme somma di 132 miliardi di marchi d’oro. Dopo alcune giornate drammatiche, il 28 Novembre Guglielmo II firmò il decreto con il quale abdicava al trono. La nobile casata dei Principi elettori Hoenzollern, dopo 500 anni di regno, cessava d’essere. L’inflazione si abbatté sul popolo tedesco. La Germania precipitò nel caos. Il 25 Ottobre 1917 Fritz Haber si era risposato con Charlotte Nathan, presso la cattedrale di Dahlem. Hermann, suo malgrado, aveva accettato di essere testimone di nozze. Il 10 dicembre 1920 Fritz Haber fu insignito del Premio Nobel per la chimica. Nei primi anni Venti, Fritz Haber e Hugo Stolzenberg, contravvenendo agli accordi del Trattato di Versailles del 28 Giugno 1919 che proibiva la produzione di armi chimiche e di gas tossici, erano impegnati in prima persona nella costruzione di impianti segreti per la produzione di fosgene e iprite: Stoccarda, Breloh, Berlino. Il dipartimento di chimica dell’Istituto Kaiser Wilhelm, diretto da Fritz Haber e 117
Ferdinand Flury, sebbene sottoposto alla severa sorveglianza degli ispettori alleati, Sir Harold Hartley e William Pope, aveva dato impulso a nuove applicazioni dell’acido cianidrico. Haber e Flury erano giunti nel 1925 a brevettare una soluzione di acido cloridrico, denominata Zyclon a causa della fulminea capacità di paralizzare le vie respiratorie e di mietere vittime in pochi istanti, proprio come un ciclone.
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Breloh, Munster. 28 Novembre 1918. La luna bianca come la neve divenne nera nel cielo come pece. Un pallido sole apparve dietro una cortina di nubi. Hugo Stolzenberg e Fritz Haber, esausti, riemersero dallo stabilimento di Breloh. Su richiesta del maresciallo di campo Paul Van Hindenberg, venticinque treni carichi di Klop, erano stati allestiti e ora, sostavano pronti al binario, in attesa che venisse loro assegnato un destino. Hugo Stolzenberg chiese aiuto ad una sentinella di guardia e riuscì a liberare l’auto che la tormenta, abbattutasi su Breloh durante la notte, aveva completamente sommerso di neve. Quando i due uomini riuscirono a spingere l’auto sulla strada, Hugo Stolzenberg congedò il soldato e invitò a salire a bordo Fritz Haber. Nel giro di poche ore sarebbero giunti a Berlino. Lungo la strada per Dahlem, la nevicata si intensificò e a tratti assunse la violenza di una bufera. Fritz Haber, preoccupato, propose di tornare indietro ma Stolzenberg insistette per proseguire. La strada, il cui manto era coperto da un sottile strato di neve compressa e ghiacciata, tagliava in due una boscaglia di larici. La presenza umana modesta; il passaggio di altri mezzi impercettibile. Del resto, la neve ne avrebbe inesorabilmente cancellato le tracce. I margini della strada non erano visibili e si confondevano con le propaggini del bosco, con gli ampi fossati, celati solo in parte della neve, e con i rami più bassi, a loro volta, gravati da coltri fin quasi a toccare terra. Al passare dell’auto, con lo spostamento d’aria, i rami lasciavano cadere cascate farinose. Fritz Haber distese le gambe ed emise alcuni piccoli sbuffi in corrispondenza di ogni manovra di Stolzenberg. Il pilota, baldanzoso, continuava ad accelerare, vantando potenza del motore e affidabilità dell’impianto frenante. Fritz 119
Haber si rassegnò, controllò l’orologio e abbassò lievemente il finestrino per respirare l’aria sottile del bosco. Gli ippocastani avevano perso le foglie; i rami, così nudi e spogli, sembravano tante dita di mani di giganti rivolte al cielo che per altro appariva più ampio ed azzurro in quel pomeriggio di novembre. “A che punto stanno gli esperimenti di Ferdinand Flury con lo Zyclon?” domandò Hugo Stolzenberg. “Abbiamo costruito una piccola camera a gas per la disinfestazione delle divise militari!” rispose Fritz Haber, inquieto. “Hai letto i giornali? I Francesi hanno depositi di armi chimiche pari a 2,8 milioni di cilindri di gas mostarda!” “Maledetti! Maledetti Francesi” esclamò Fritz Haber, furibondo. All’improvviso, dietro un tourniche, comparve una centrale elettrica avvolta dalla galaverna. L’edificio sembrava sospeso nel vuoto. “Soprafusione!” esclamò Fritz Haber, indicando il rivestimento cristallino. “La nebbia in sospensione nell’atmosfera rimane liquida anche sotto zero” rispose Hugo Stolzenberg, il quale accostò l’auto e spense il motore per consentire ad Haber di udire. “Senti il ronzio?” domandò Stolzenberg, abbassato il suo finestrino. La galaverna, nonostante la vibrazione elettrica dalla quale era percorso l’intero edificio, s’era depositata sulla rete metallica, formando perfetti disegni geometrici intorno ai rombi di metallo. “Non l’avevo mai vista!” disse lo scienziato, incantato. Hugo Stolzenberg avviò il motore e riprese la strada. “La tua guida dà la nausea!” disse Fritz Haber, pregando Stolzenberg di rallentare. Il pilota accelerò, indispettito, provocando un ulteriore sobbalzo. Lo scienziato, spazientito, abbassò il finestrino e respirò profondamente. “Attento!” urlò Fritz Haber, udendo un tonfo. Stolzenberg frenò bruscamente e distese il braccio per proteggere il collega. L’auto doveva avere urtato un ostacolo ed era stata sbalzata nella corsia opposta.
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lo.
“Sei ferito?” domandò Stolzenberg, riprendendo il control-
“Cos’è stato?” domandò Fritz Haber, vedendo del fumo salire dal cofano. “Non so” rispose Hugo Stolzenberg, scocciato. Dopo un istante di esitazione, Hugo Stolzenberg arrestò l’auto e scese a controllare. Aprì il cofano, poi si affacciò dal lato del passeggero e fece segno ad Haber che il motore era fuori uso. Il collega scese dall’auto e si guardò attorno. Il punto dell’impatto era qualche metro indietro, tra la strada e il bosco. Hugo Stolzenberg, sospettoso, fece il giro dell’auto e aprì il bagagliaio. “Che intenzioni hai?” domandò Haber, avendo visto il fucile nelle mani di Stolzenberg. “È ancora vivo!” dichiarò Hugo Stolzenberg, chino sulle grosse impronte di un animale. Stolzenberg aveva tolto la sicura e caricato l’arma. “Non lasciare l’auto. Per nessun motivo!” mormorò Hugo Stolzenberg, pregando Haber di non fare rumore. Stolzenberg aveva notate alcune chiazze di sangue che formavano una sorta di sentiero tra la strada, il fossato e i primi bassi larici. Fritz Haber, benché contrariato, ubbidì; si sedette al posto del guidatore e attese il ritorno del collega. Il chimico, infreddolito e affamato, si era coperto il volto con la sciarpa ma la neve, sospinta dal vento, iniziò a cadere più fitta e in pochi minuti oscurò il parabrezza. Lo scienziato, allarmato dal gelo, abbassò il finestrino e cercò di cogliere un movimento tra gli alberi ma l’oscurità, scesa repentinamente, non consentiva di vedere oltre il limitare del bosco. Malgrado il silenzio, quasi assoluto, non aveva potuto udire gli spari. Fritz Haber, contravvenendo gli accordi, decise allora di abbandonare l’auto e di raggiungere il compagno di viaggio. Il silenzio ovattato del manto nevoso assorbiva il rumore dei passi goffi e incerti di Haber. Lo scienziato si inoltrò nel bosco ma dopo poche decine di metri, tratto in inganno da un avvallo del terreno, mise il piede in fallo e sprofondò nella neve fino alla cintola. Nel tentativo di liberarsi, lo scienziato s’era proteso verso la punta di un ramo e lo aveva afferrato con forza. Tuttavia il ramo, benché apparentemente robusto, s’era spezzato 121
e aveva scaricato una coltre di neve. Al contatto con il calore del corpo, il nevischio si sciolse nel bavero del cappotto e lungo la schiena. Sopra la sua testa aleggiò una nuvola di vapore acqueo. Il chimico, aggrappandosi alle radici di un cespuglio, riuscì a divincolare le gambe e rimettersi in piedi. Scrollò il colbacco di pelliccia, spazzolò con le mani le maniche del cappotto, svuotò gli stivali e si ricompose. In quell’istante un lieve fruscio tra le fronde, in una zona del bosco dove gli alberi erano meno fitti, attirò la sua attenzione. Haber si avvicinò cautamente, senza far rumore e stando molto attento a schivare i bassi rami di pino, finché, compiuti altri piccoli passi, scostando la fronda di un cespuglio, si trovò la canna di fucile spianata davanti al volto. “Che ci fai tu qui?” bisbigliò Hugo Stolzenberg, ansimando, con gli occhi sgranati e pieni di rabbia. Haber allontanò l’arma da fuoco con la punta delle dita e iniziò a tossire. “Zitto” disse Stolzenberg indicando un esemplare bellissimo di cervo maschio. L’animale si sosteneva dolorosamente contro un tronco di pino. Stolzenberg caricò l’arma e lasciò andare un colpo. Il cervo crollò a terra. Fritz Haber si avvicinò pietosamente e si accertò che fosse morto. Dalla sommità della collina, i potenti fanali di un furgone illuminarono come un lampo la fitta boscaglia e proiettarono lunghe ombre sui due uomini. Confuso al ritmico cigolio metallico di catene, giungeva tra gli alberi quello più grave del motore diesel di un mezzo pesante. I due colleghi si affrettarono, sbracciando e fischiando. Quando raggiunsero il ciglio della strada, richiamarono l’attenzione del guidatore, il quale rallentò. L’uomo, inizialmente diffidente, avendo notato il fucile, si protese verso il finestrino del passeggero con cautela. Il chimico indicò l’auto, nella speranza che l’uomo intuisse la dinamica dell’incidente. L’uomo osservò la vettura, scrutò i due estranei e poi aprì lo sportello con una spinta decisa. “Un cervo maschio, immagino, a giudicare dal danno alla carrozzeria” disse l’uomo. Fritz Haber annuì stupito e salì per 122
primo. Stolzenberg seguì, sedendosi a fianco di Haber e farfugliò, a causa del freddo, ma, esausto, aveva riposto il fucile tra le gambe e il cruscotto. “L’avete abbattuto?” domandò l’uomo. “Sì” biascicò malvolentieri Stolzenberg, appoggiata la testa contro il vetro del finestrino per prender sonno. “Dove siete diretti?” domandò l’uomo, porgendo educatamente un thermos bollente. “Dalhem, Istituto Kaiser Wilhelm” rispose Fritz Haber che, tolti i guanti, aveva afferrato il recipiente per scaldare le mani. L’uomo sospirò e fece una smorfia di dolore. “Sergente Otto Petersen, 35° Reggimento. Ero di stanza ad Ypres” mormorò l’uomo. Haber si voltò verso Stolzenberg. Il collega aveva alzato il bavero del pastrano e sembrava già dormire. “Anche noi siamo stati ad Ypres” rispose Fritz Haber, laconico. “Riconosco la voce Geheimrat Fritz Haber” esclamò il soldato. Haber tacque; non aveva più rivisto il sergente Otto Petersen, dopo l’attacco. “Mi avevano detto che avevate perso la vista” mormorò Fritz Haber. “Tenente, i miei occhi non hanno potuto vedere la luce del giorno per due anni, dopo Ypres. Ma ora sono tornato a condurre una vita normale” rispose Otto Petersen, accennando un sorriso malinconico. Haber starnutì, urtando involontariamente con uno zigomo lo specchietto retrovisore. Otto Petersen sistemò lo specchietto e cambiò marcia. “Herr Haber, fra pochi minuti supereremo il ponte sulla Sprea” disse il soldato. Haber sospirò e provò conforto alla vista delle prime luci della periferia orientale di Berlino. Dopo un’ora, durante la quale non era stato possibile iniziare alcun discorso, il furgone raggiunse il ponte sulla Sprea. “Siamo arrivati” esclamò Fritz Haber, intravedendo la chiesa evangelica di Dahlem “Desidero ringraziarla, Sergente Petersen.” Stolzenberg si svegliò di soprassalto. Appena aperti gli occhi, il chimico controllò la sicura del fucile. Otto Petersen seguì puntualmente le indicazione di Haber, percorse Thielal123
lee e svoltò in Faradayweg. Lo scienziato, meditabondo, si preparò a scendere. Il sergente scalò le marcia e rallentò. “Strano… Le luci dell’Istituto sono tutte accese!” esclamò Stolzenberg, enigmaticamente. “Non capisco” disse Haber, notando le auto inglesi nel cortile dell’Istituto. “Erzberger ha firmato l’armistizio!” sentenziò Hugo Stolzenberg. “Conviene nascondere quel fucile” disse Otto Petersen. “Ha ragione il sergente Petersen. Metti via quell’arma” disse Fritz Haber, seccamente. Hugo Stolzenberg avvolse il fucile nella sciarpa e si protese verso il parabrezza. “È finita! La guerra è finita!” disse Fritz Haber, emettendo un lungo sospiro.
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Walter Nerst, seduto in una brutta poltrona molto comoda, posta di tre quarti vicino ad un vecchio camino, leggeva la lettera di convocazione. Al suo fianco, in piedi, Max Von Laue, appena giunto dall’Università, si scaldava le mani; intorno al lungo tavolo, al centro della sala. Adolf Von Bayer, Fritz Haber e Emil Fischer discutevano animatamente. Richard Leiser camminava avanti e indietro, masticando nervosamente tabacco nero, in attesa di un ospite importante. Emil Fischer, incupito, tossì e cercò rifugio nello sguardo di Haber, il quale annuì, fiducioso. “Hai notizie di tuo figlio?” domandò Richard Leiser, placandosi finalmente e prendendo posto a fianco di Emil Fischer. “No, il reggimento è bloccato nei pressi di Soissons” rispose Emil Fischer, pallidissimo e turbato. “Caro Emil, anche mio figlio sta rientrando. Ha scritto da Marfaux” disse Adolf Von Bayer. “Io sono sempre stato contrario a questa guerra!” intervenne Albert Einstein, suscitando l’imbarazzo dei colleghi. “Professor Einstein, lei che soldato sarebbe stato?” domandò Walter Nerst. “Vuole dire, cosa sarei stato disposto a fare per la Patria?” rispose Albert Einstein, sarcastico. Fritz Haber scosse la testa e lanciò un’occhiata di rimprovero ai colleghi e abbandonò la stanza. Il chimico camminava lentamente, zoppicando vistosamente, a causa di un piede piagato. Nonostante il lungo soggiorno termale a Karlsbad, divenuto abituale con l’aggravarsi delle condizioni dei bronchi, Fritz Haber aveva un aspetto orribile. La tensione nervosa lo affliggeva e procurava ulceranti malesseri di stomaco. Esplosioni d’ira improvvise preannunciavano un crollo nervoso che Fritz Haber era riuscito a dominare dopo la morte di Clara, con fortissima forza di volontà e disciplina e sprofondandosi nel lavoro. Fritz Haber, 125
dopo alcuni istanti, rientrò nella stanza. Il battibecco doveva essere appena cessato, almeno a giudicare dalla indignazione dipinta sul volto Walter Nerst e dal cruccio di Adolf Von Bayer. Del resto, Walter Nerst era stato ferito al fronte e aveva rischiato di perdere la vista a causa di una scheggia di granata; e il barone Von Bayer era stato decorato in battaglia e apparteneva ad una famiglia di militari. “Geheimrat, è arrivato” disse James Franck, sulla porta d’ingresso. “Carissimo Professore, ben arrivato!” esclamò Fritz Haber. Lo scienziato era andato incontro all’insigne chimico nato a Riga. “Sono contento di rivederla Professore Emil Fischer” disse Wilhelm Ostwald, considerato dalla comunità scientifica uno dei chimici più autorevoli della nazione. “Allora, signori” esclamò Fritz Haber, invitando i colleghi a prender posto “dal momento che siamo tutti presenti, direi di cominciare. Passo la parola al Professor Albert Einstein che, come sapete dalla convocazione di oggi, ha una comunicazione importante.” “Sì, grazie Fritz.” rispose timidamente Albert Einstein che era solito intercalare lunghe pause tra una frase e l’altra. Il geniale fisico, impenetrabile, se ne stava lì in piedi, davanti alla finestra sul parco, con l’aria di chi volesse lasciare la stanza da un momento all’altro. Era uno degli scienziati più affermati della sua epoca, ma della sua vita privata trapelava pochissimo. Era un uomo riservato, egocentrico e sempre sul punto di compiere il balzo. Se non fosse stato per la portata rivoluzionaria del suo contributo, avrebbe faticato non poco ad integrarsi con lo spirito che dominava l’ambiente scientifico berlinese, dove dialogo, collaborazione, accoglienza perfino erano così diffuse da diventare il tratto distintivo e, in una certa misura, il fattore decisivo del successo del Kaiser Wilhelm. “Sono in contatto con Arthur Eddington, l’astrofisico inglese” esordì Albert Einstein, scatenando lo stupore generale “Suggerisce una dimostrazione empirica che confermerebbe la teoria della relatività.” Planck e Haber si guardarono stravolti. Emil Fischer si spinse sulla punta della sedia. 126
“Di cosa si tratta?” domandò Fräulein Lise Meitner, abbozzato un rapido appunto su un foglio. “È un’idea da verificare, naturalmente.” disse Albert Einstein, lisciandosi i baffi “Si tratta di calcolare la deviazione subita dalla luce al passaggio dei raggi stessi nell’orbita solare.” Ostwald ebbe un sussulto e si lasciò cadere nella poltrona. “Se i calcoli confermassero un’influenza della forza gravitazionale del sole, allora...!” esclamò Max Planck. “Non è possibile!” esclamò Walter Nerst, contrariato. “Dove sta andando Fritz Haber?” domandò Emil Fischer, vedendo il chimico precipitarsi al telefono. “Chiedo a Fritz Epstein di controllare quando sarà la prossima eclissi solare” rispose il chimico. Emil Fischer scoppiò a ridere e si avvicinò a Albert Einstein, invitandolo a scrivere immediatamente un telegramma ad Arthur Eddington, per informarlo che l’Istituto metteva a disposizione i mezzi necessari per compiere l’esperimento. Einstein informò i colleghi che l’Università di Princeton lo aveva invitato a tenere una serie di conferenze presso alcuni atenei degli Stati Uniti e che si riservava di valutare l’opportunità di lasciare il paese. Haber, al telefono, seduto di tre quarti sulla scrivania, rivolse la cornetta verso i colleghi, in modo che udissero la voce di Fritz Epstein. “29 Maggio del 1919” comunicò Fritz Epstein. Wilhelm Ostwald si felicitò con Albert Einstein. “Ha visto che spirito di collaborazione! Come ai tempi di Rotgen.” disse Emil Fischer e aggiunse “La scienza al servizio della Nazione! Ancora una volta, gli scienziati prussiani dimostreranno alle altre Potenze la supremazia della Germania!” “Direttore, non è mia intenzione contraddirla né sollevare polemiche. Tuttavia, dissento profondamente” affermò Einstein, gelando l’entusiasmo dei colleghi. “Cosa intendete dire Professor Einstein?” domandò Emil Fischer, visibilmente irritato. “La scienza non è e non sarà mai al servizio della Germania né di una nazione sulle altre. La scienza è bene comune dell’umanità intera” rispose Albert Einstein, seccamente. Walter Nerst lanciò un’occhiata al direttore, invitandolo a interve-
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nire e a controbattere immediatamente. Tuttavia, Emil Fischer esitò. “Signori, dovete scusarci” intervenne Fritz Haber, in soccorso del collega “Io e il Professor Einstein siamo attesi al Reichstag.” Albert Einstein, compiaciuto, accennò un sorriso pacificatore. Wilhelm Ostwald, invece, si alzò di scatto e si avvicinò all’uscita senza salutare, imitato da Walter Nerst. Fritz Haber e Albert Einstein salirono a bordo di un taxi, il quale, lasciato alle spalle l’Istituto, svoltò all’altezza di Peter Kirch Platze e sbucò in Alexander Platz. La piazza era attraversata da due linee di tram che marciavano paralleli, direzione nord sud. D’altro canto, lungo l’asse est ovest, si sviluppava il traffico dei carri diretti al mercato coperto. Trainati da una o più coppie di cavalli, i carri potevano essere adibiti al trasporto di merci di varia natura: ortaggi, carbone, patate, legname, oro, talvolta. Un’auto della polizia frenò bruscamente, al centro della piazza. Un carro, adibito al trasporto di birra, era rimasto bloccato in mezzo all’incrocio. In realtà, il vetturino era in grave difficoltà. I cavalli, imbizzarriti dallo scoppio di un petardo lanciato da un gruppo di ragazzini, si erano impennati ed era mancato poco che il bilico si ribaltasse. Un militare fece segno al tassista di attendere. Allora Fritz Haber, lanciando uno sguardo ansioso all’orologio, propose di raggiungere la sala a piedi. Einstein acconsentì con gioia. Dopo alcune centinaia di metri, Fritz Haber si voltò. Einstein che, fino a pochi istanti prima, camminava a pochi passi da lui, era sparito, inghiottito da una folla di manifestanti che stavano distribuendo volantini, sotto le insegne di un organizzazione studentesca ebraica che promuoveva l’alIyà, l’emigrazione in Palestina. Einstein domandò maggiori informazioni su quella che i ragazzi definivano Hachsharà: si trattava di iscriversi presso uno dei centri attivi nella periferia di Berlino, dove erano sorte fattorie o piccole officine, simili ai kibbutzim, per la formazione e la preparazione al viaggio. Le luci della piazza si spandevano sul selciato disconnesso. Uno scroscio di pioggia improvviso aveva reso l’atmosfera umida e fosca. Le torri fumarie, nume128
rose e dalle forme più svariate, alcune barocche, altre tipicamente liberty, troneggiavano sui tetti dei palazzi nobiliari. Alcune di esse si innalzavano di tre, quattro piani, larghe quanto ciminiere e addossate ai muri di mattoni rossi, come tubature di grondaia. Il vento, sospinto dalla bassa pressione, piegava il corso dei fumi dei comignoli che, nell’aria fosca, liberavano fuliggine. “Che inquinamento!” esclamò Einstein, che, così come era sparito, era riemerso all’improvviso. Fritz Haber sorrise e disse: “Evidentemente, non sei mai stato a New York. Lì sì che l’aria è irrespirabile.” “Ho letto il reportage del tuo viaggio negli Stati Uniti” disse Einstein, allungando il passo “Dev’essere stata un’esperienza elettrizzante.” “Il viaggio negli Stati Uniti” sospirò Fritz Haber “ha rappresentato per me ciò che, per gli uomini del secolo scorso, poteva essere la scoperta del Partenone. E pensare che la stampa americana mi ha aspramente criticato! Hanno frainteso la mia ansia di capire, le mie incalzanti richieste di informazioni.” disse il chimico, concitato “Un grande paese; vedessi che libertà d’azione, di iniziativa. Incredibile!” In quell’istante una ragazzina bloccò Albert Einstein e domandò un’offerta in cambio di un mazzo di violette. La ragazzina aveva un aspetto malsano; era sporca e indossava abiti laceri e rammendati con altri miserabili pezzi di stoffa. Una delle numerose profughe che mendicavano per le strade di Berlino. La piccola agitò una lattina dove tintinnarono alcuni miseri spiccioli. Albert Einstein frugò nelle tasche e si accorse di non avere denaro con sé; allora, si chinò verso la bambina e offrì l’unico bene di cui disponeva. Si trattava di una vecchia e preziosa stilografica. La bambina, scettica, la afferrò, poi, la madre, sbucata da chissà dove, intervenne, restituì la penna e trascinò via la figlia tirandola e strattonandola per un braccio. Albert Einstein si guardò attorno e lanciò una voce a Fritz Haber. In realtà, il collega era già lontano e aveva già percorso l’ampio corridoio del Reichstag. Fritz Haber si voltò e fece segno a Einstein di accelerare il passo. Una volta varcato l’ingresso, Albert Ein-
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stein domandò a Fritz Haber se sapesse di che nazionalità potevano essere le mendicanti. “Purtroppo” rispose Fritz Haber “Berlino attira profughi dalle aree più povere del paese. Turchi, Armeni, forse Curdi.” Un cameriere in livrea si avvicinò e aiutò i due scienziati a svestire i cappotti. All’ingresso del Reichstag si accalcavano alcuni postulanti che reclamavano un appuntamento con il Consigliere per le case popolari. Un gruppo di giornalisti, attesi dal Capo Gabinetto, fu obbligato a trasferirsi in un salotto al pian terreno. Fritz Haber controllò l’orario e cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro, in attesa che la segreteria del Kaiser concedesse loro il permesso di accedere al Gabinetto di Guglielmo II. Due soldati perquisivano uno dei postulanti che si distingueva dagli altri per aver protestato. In quell’istante, Johannes Jaenicke, trafelato, comparve all’ingresso. “Professor Fritz Haber” urlò Johannes Jaenicke, gesticolando per richiamarne l’attenzione. Fritz Haber, sorpreso, disse ad Albert Einstein di non muoversi e andò incontro all’assistente. “Geheimrat Haber, è appena giunta una notizia terribile!” esclamò Johannes Jaenicke. Haber si oscurò in volto; l’occhio sinistro fu colto da un fremito. “Il figlio di Fischer è morto!” disse Johannes Jaenicke. Haber emise un lungo sospiro e si voltò verso Albert Einstein. “Albert, dove vai?” domandò Fritz Haber, rivolto al collega che, furibondo, era corso verso l’uscita e aveva abbandonato il cappotto al guardaroba. James Franck fece per raggiungere Einstein, ma Haber disse di lasciarlo andare. “Chiami un taxi!” disse Fritz Haber, pregando l’assistente, con voce interrotta dal pianto “Intanto io lascerò un messaggio al Kaiser. Fritz Haber e Johannes Jaenicke uscirono dal Reichstag e salirono a bordo di un taxi. L’autista percorse il viale e accostò Albert Einstein, il quale, vedendo sopraggiungere i colleghi, s’era scostato dal bordo della strada. Fritz Haber abbassò il finestrino e pregò Albert Einstein di seguirli ma il fisico rifiutò. Haber aprì lo sportello, restituì il cappotto e lanciò un’occhiata di biasimo, accentuando così il malumore
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del professore svizzero. Fritz Haber allora pregò l’autista di portarli il più velocemente possibile a Dahlem. L’auto attraversò la città. Il viale principale risultava interrotto da un incidente. Il tassista fu obbligato a cambiare percorso e ad attraversare il quartiere di Stiglitz. Durante la corsa, Haber e Johannes Jaenicke restarono in silenzio. Haber era tentato di chiedere a Johannes Jaenicke ulteriori dettagli, desiderava sapere come Ernst Fischer fosse morto; in quali circostanze; quando, esattamente; se il corpo era stato ricomposto, se lo avrebbero sepolto al fronte. Haber sapeva che di lì a pochi minuti avrebbe dovuto affrontare Emil Fischer e provò imbarazzo. Il sentimento esatto era vergogna. “Non è giusto che i padri sopravvivano ai figli!” mormorò Johannes Jaenicke. Haber annuì; il pensiero rivolto a tutti i ragazzi del reggimento caduti al fronte di Ypres; ai figli dei colleghi, al figlio di Adolf Von Harnack, ai due figli di Gerhardt Just, al figlio maggiore di Fritz Epstein. Haber pensò al proprio figlio Hermann che era riuscito ad evitare il servizio militare, grazie ad un’insufficienza cardiaca che lo aveva reso inabile alla leva e allontanato dal maligno. Il chimico ripensò alle parole di Albert Einstein: la scienza non è e non sarà mai al servizio della Germania né di una nazione sulle altre. La scienza è bene comune dell’umanità intera. Man mano che l’auto correva lungo i viali alberati di Stigliz e si lasciava alle spalle la stazione, i caseggiati popolari, abitati dai reduci, il mercato dei fiori, affollato di gente che portava i segni sul volto, sul corpo, nel modo di camminare di tutte le sofferenze della guerra, Fritz Haber sentì crescere dentro di sé una rabbia profonda, un senso di ribellione mai provato prima e tentò invano di reprimerlo. Johannes Jaenicke guardò lo scienziato con diffidenza. Non vi è nulla di peggio dello spettacolo di un uomo che si sente colto non in un delitto, ma in una debolezza. In fondo, ciò che aveva impedito e impediva a Fritz Haber di diventare criminale in senso legale, era la sua forza interiore, una forza interiore del resto comune alla 131
maggior parte degli uomini; ma nessuno di noi è abbastanza protetto contro la propria debolezza, quasi sempre ignota, ma spesso sospettata, così come, in certe parti del mondo, si sospetta la presenza di un serpente mortale in ogni cespuglio. Nessuno è risparmiato, se cade, preso da quella debolezza, controllata o incontrollata, combattuta a fatica, contro la stessa natura, o virilmente disprezzata, talvolta ignorata o repressa per tutta la vita. La debolezza ci insidia continuamente, ci può costringere a commettere azioni per le quali ci meritiamo il disprezzo unanime. E ci son cose, talvolta relativamente piccole e senza importanza, che bastano a rovinarci per sempre. L’auto superò il ponte di Dahlem e Johannes Jaenicke sollevò la testa e domandò il permesso di scendere. Il chimico acconsentì e salutò l’assistente, il quale ricambiò con un cenno di gratitudine. Quando il taxi raggiunse l’Istituto, lasciò Haber davanti all’ingresso. Haber scese, attraversò la hall e percorse il lungo corridoio che conduceva all’ufficio di Emil Fischer. Le luci erano soffuse. L’unico rumore udibile proveniva dal laboratorio dove un inserviente stava pulendo i pavimenti. Il facchino, udita la porta vetri sbattere, s’affacciò in mezzo al corridoio e salutò il professore. Il chimico ricambiò e lanciò un’occhiata interrogativa all’inserviente. L’uomo sospirando indicò la porta dell’ufficio di Emil Fischer e fece cenno con la mano che il direttore era chiuso lì dentro da alcune ore. Fritz Haber si avvicinò titubante alla porta. Da una piccola fenditura, la porta era socchiusa, proveniva una fioca luce gialla. Fritz Haber bussò rispettosamente e attese, poi, non udendo risposta, sospinse la porta. Emil Fischer era riverso sulla scrivania. Fritz Haber esitò un istante, poi si avvicinò al collega. Sul tavolo una piccola cornice d’argento; una vecchia fotografia del figlio, ritratto durante un gioco di bambini. Ricompostosi, Fritz Haber afferrò la cornetta del telefono. Il telefono squillò a vuoto, poi una voce rispose. “Emil Fischer s’è tolto la vita!” disse Haber e riagganciò. Dopo alcuni istanti, Albert Einstein si affacciò sulla porta. Fritz
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Haber aveva riconosciuto la voce del collega dal corridoio che pregava l’inserviente di avvertire subito la gendarmeria. “S’è sparato alla tempia” disse Fritz Haber. Albert Einstein si avvicinò e lanciò una rapida occhiata al volto di Fischer, poi, fattosi coraggio, pregò Fritz Haber di accompagnarlo fuori. L’inserviente dal fondo del corridoio fece cenno ai due scienziati che era arrivata la polizia. Einstein si avvicinò ad Haber e disse: “Ho deciso di accettare l’invito dell’Università di Princeton.”
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Fritz Haber, chino sulla scrivania, era intento a leggere i risultati degli esperimenti di laboratorio su cimici, pidocchi e altri parassiti. Del resto, a causa della costante sorveglianza degli ispettori inglesi Sir Harold Hartley e William Pope, Fritz Haber e Ferdinand Flury avevano indirizzato i loro esperimenti esclusivamente sulla famiglia dei pesticidi denominati Zyclon A, B, C, D, E. La denominazione indica diversa e crescente concentrazione di acido cianidrico dal massimo Zyclon A., al minimo Zyclon E. Il fumigante (l’acido cianidrico evapora a una temperatura di 26 gradi Celsius) trovò immediata applicazione nella disinfestazione dei parassiti, del tifo e degli edifici in legno. Lo Zyklon B. in particolare si presentava in forma di granuli composti di polpa di legno o terra diatomacea. I granuli di colore bluastro venivano impregnati di acido cianidrico e di gas lacrimogeno o irritante che aveva lo scopo di segnalare la presenza del gas, prima della sua effettiva evaporazione. (I Nazisti, per un effetto di maggiore crudeltà, ordinarono al Tesch di togliere dallo Zyklon l’agente irritante, rendendolo inodore e incolore). “132 miliardi di marchi!” esclamò Ferdinand Flury, disgustato dalle manovre politiche dei Francesi. “In monete d’oro” precisò Fritz Epstein che continuava a consultare nervosamente l’orologio a cipolla che pendeva dal taschino. “Bisognerebbe poter ricavare oro dal mare!” disse semiserio Richard Leiser. I colleghi si guardarono a vicenda, perplessi. Il rumore di una porta attirò la loro attenzione. Il vento l’aveva fatta sbattere, all’ingresso di James Franck. “Maledetti francesi!” esclamò Ferdinand Flury, agitando la prima pagina dello Vossische Zeitung. Haber, che non aveva 134
distolto lo sguardo dalle pagine della relazione fino ad allora, alzò il capo e cominciò a fantasticare della possibilità di ricavare oro dal mare. Sulle prime, il chimico si rese conto della sproporzione tra le forze disponibili in quel particolare momento, e l’enorme ambizione del progetto. Tuttavia, Fritz Haber era sostenuto da un’incrollabile fiducia nei propri mezzi che, nonostante le avversità, anzi, forse, grazie ad esse, si era addirittura intensificata e consolidata col passare degli anni. A dispetto dei colleghi, provati dall’esperienza della guerra, non aveva rinunciato all’idea di dimostrare al mondo il superiore valore della ricerca scientifica tedesca, a costo di assumersi sulle proprie spalle il destino dell’intera nazione. “Geheimrat Fritz Haber. Una notizia meravigliosa!” esclamò Richard Leiser, spalancando la porta dello studio di Fritz Haber. L’assistente consegnò una busta proveniente da Stoccolma. “Professore Fritz Haber l’Accademia delle Scienze Svedesi l’ha insignita del Nobel per la Chimica!” Fritz si avvicinò al camino, osservò i brandelli di carta incandescenti, risucchiati dal tiraggio del camino, appoggiò la sua tazza sullo scrittoio e guardò attraverso i vetri della finestra. Il vento agitava le chiome degli ippocastani lungo il fiume. Alcuni avevano rami così lunghi e folti che sembravano capelli di donna rovesciati all’indietro. Le luci dei lampioni s’illuminavano a scatti, riflettendo sul selciato bagnato i colori delle vetrine. Qualche coraggioso pedone attraversava Faradayweg, al riparo di un ombrello che il vento si divertiva a rovesciare in continuazione. Fritz emise un lungo sospiro e rovistò nella tasca della giacca, dove trovò un appunto del mattino. L’indomani avrebbe chiamato Weizmann per chiedere il suo appoggio e quello della comunità ebraica di New York. Lo scienziato tornò alla scrivania, si sedette e, privo di forze, si lasciò andare con in mano un vecchio libro, amato, letto e riletto. Ma Zarathustra guardava il popolo e si meravigliava. Poi disse: “L’uomo è una fune tesa tra il bruto e il superuomo, 135
una fune sopra l’abisso. Pericoloso l’andare alla parte opposta, pericoloso il restare a mezza via, pericoloso il guardare indietro, pericoloso il tremare e l’arrestarsi. Ciò ch’è grande nell’uomo è l’essere un ponte e non una meta: ciò che si può amare nell’uomo è l’essere una transizione e una distruzione. Amo quelli che sanno vivere soltanto per sparire, poiché son coloro appunto che vanno oltre. Io amo i grandi spregiatori perché sono i grandi adoratori, frecce del desiderio verso l’opposta riva. Amo coloro che non cercano, oltre le stelle, una ragione per offrirsi in sacrificio o perire; amo coloro che si sacrificano alla terra, affinché la terra appartenga un giorno al superuomo. Amo colui che vive per conoscere, e che vuol conoscere affinché, un giorno, viva il superuomo. E in tal modo egli vuol la propria distruzione.”
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Fritz Haber si voltò di scatto, riconoscendo immediatamente la voce rauca di Hugo Stolzenberg. L’amico scese dall’auto, si allacciò l’impermeabile e corse incontro allo scienziato. “Fritz, devi aiutarmi” disse l’uomo mostrando l’istanza di fallimento. “È finito, è finito tutto!” rispose Fritz Haber. “Canaglia, farabutto, non puoi andartene” urlò Hugo Stolzenberg, trattenendo per un braccio Haber e facendo segno all’autista di avvicinarsi. Fritz Haber cercò di divincolarsi; nel farlo aveva urtato Hugo Stolzenberg e gli aveva fatto cadere il cappello. “Tu credi di essere un grande scienziato Fritz, ma non sei stato altro che uno strumento nelle loro mani! In te hanno trovato la persona di cui avevano bisogno.” urlò Stolzenberg, fuori di sé. Haber lo guardò, scioccato. Le urla di Stolzenberg avevano attratto l’attenzione di un militare. Il chimico si ricompose e, quando il soldato si avvicinò, disse di non avere bisogno d’aiuto. Hugo Stolzenberg allora invitò il Professore a salire a bordo. “Ho bisogno del tuo aiuto; poi non ti tormenterò più” disse Hugo Stolzenberg, sinistramente. “Il Governo tedesco e quello francese hanno decretato la sospensione di produzioni di gas tossici. Vuoi che ci arrestino?” rispose Fritz Haber, ricomponendosi e aggiustando il nodo della cravatta. “Solamente tu puoi convincere Gustav Stresemann. Potrebbe affidare a noi l’incarico di distruggere i depositi. Capisci?” disse Hugo Stolzenberg, invitando l’autista a mettere in moto. Haber si ricompose e salì a bordo. L’auto attraversò Dahlem, diretta a Weddig. Hugo Stolzenberg mostrava foto137
grafie di soldati spagnoli che esibivano teste mozzate di ribelli marocchini al seguito di Abd El“ Krim. “È così che è andata a finire...” disse Fritz Haber, inorridito. Hugo Stolzenberg, dopo la costruzione di un impianto per la produzione dei gas per conto del Governo spagnolo, in un piccolo impianto segreto di Madrid, presso la località Maragnosa, aveva ottenuto, con il benestare di Inglesi e Francesi, di realizzare il più grande impianto chimico segreto per conto dell’Armata rossa. Leon Trotsky e Mikhail Kalinin avevano individuata una località segreta, lungo il Volga, Samara (Kuybyshev), dove avrebbero fabbricato i gas per l’esercito sovietico. “Siamo arrivati” disse Hugo Stolzenberg. L’auto rallentò e imboccò una strada secondaria. Una sentinella intimò l’alt e si avvicinò al finestrino. L’autista salutò e ordinò di alzare la sbarra. “Andiamo nel mio ufficio” disse Stolzenberg. Fritz Haber si guardò attorno e seguì il faccendiere lungo le scalinate di ferro che conducevano all’ufficio. L’impianto era in funzione e alcuni operai caricavano fusti su un camion militare. “Dove sono diretti?” domandò lo scienziato. “Ogni cosa a suo tempo” rispose Hugo Stolzenberg. Il titolare dello stabilimento diede le spalle ad Haber e prese un registro da un ripiano dello scaffale. Haber si accostò al vetro e, mettendo a fuoco la targa del camion, intuì le intenzioni di Stolzenberg. “Un ultimo favore, Fritz” disse Hugo Stolzenberg, sottoponendo ad Haber il registro. Haber scosse la testa e aprì il libro contabile. “Sono diretti a Mosca?” domandò Fritz Haber. Stolzenberg fu colto di sorpresa, per un istante, poi sorrise, compiaciuto. “Russi contro Turchi” esclamò Hugo Stolzenberg, facendo ampi gesti con le mani “Italiani contro Etiopi. Francesi contro Algerini. Spagnoli contro Marocchini. Capisci?” “Riportami a casa” disse Haber, restituendo il registro. “Allora, intesi?” disse Hugo Stolzenberg, con una piega amara disegnata sul volto “Ho la tua parola d’onore.” Haber alzò le braccia, in segno di resa e si avvicinò alla porta dell’ufficio. 138
“Un’ultima cosa” domandò Fritz Haber “Cosa intendevi, quando dicevi che loro avevano bisogno di una persona come me?” “Niente. Lascia perdere” mormorò Hugo Stolzenberg. “No, voglio sapere a cosa ti riferivi” esclamò Haber, tornato a sedere. “Se proprio ci tieni” rispose Stolzenberg, tossendo e avvicinando, quasi lanciandolo bruscamente, un dossier impolverato. “Risale al 1905!” disse Fritz Haber, sconcertato, sfogliando le prime pagine ingiallite riguardanti gli anni di Karlsrhue. Il dossier era costituito da una cinquantina di pagine, battute a macchina. Talvolta, i nomi erano cancellati e non era possibile decifrarli. Vi erano rapporti di pedinamenti, copie di estratti conti bancari, ricevute pinzate e allegati di versamenti su conti esteri, fotografie di Haber, in località turistiche, a convegni, in laboratorio, con Clara, con Hermann e con Charlotte. Fritz Haber trovò una lettera di Leopold Koppel indirizzata al Ministero della Guerra. Il banchiere ebreo suggeriva di convincere Emil Fischer e Walter Nerst ad accettare la candidatura di Fritz Haber. Haber era definito un soggetto intelligente, capace, collaborativo, caratterizzato da una forte ambizione, da un incolmabile bisogno di riconoscimento sociale e da un carattere senza scrupoli. Fritz Haber appoggiò il faldone e guardò Stolzenberg. “Tu pensavi di avere ottenuto tutto grazie alle tue capacità” disse Stolzenberg “ma Leopold Koppel e il Kaiser erano alla ricerca di uno scienziato che accettasse di piegare la ricerca scientifica alle esigenze dell’industria bellica. Avevano provato con Wilhelm Ostwald, con Otto Sackur, con Robert Le Rossignol, ma tutti rifiutarono. In te hanno trovato un servitore ubbidiente.” “Posso tenerlo?” domandò Fritz Haber, richiuso il faldone, annodato lo spago e assicuratosi di avere bene stretto il nodo. Hugo Stolzenberg corrugò la fronte e poi annuì, accondiscendente. L’auto riportò il professore a Dahlem. “Si fermi. Abito qui vicino” disse Fritz Haber, indicando un incrocio. Fritz Haber scese dalla macchina, raggiunse il por139
tone di casa, superò la portineria, a quell’ora deserta, salì le scale e chiuse la porta di casa a chiave. Alcune mosche, tranquille, nere e sazie, stavano incollate alle pareti su cui batteva il sole ardente. Haber si affacciò ad una finestra. La stretta via si oscurò completamente e nello stesso tempo si animò. La grassa moglie del maestro vetraio e la nonna novantenne del fabbro, defunto da un pezzo, portarono le loro sedie fuori di casa per mettersi davanti alla porta e godere il fresco della sera. Come il chimico vide la stretta striscia del sole restringersi sempre di più e dal cornicione della casa scivolare sul tetto e da qui sul fumaiolo bianco, per la prima volta in vita sua credette di sentire con chiarezza il silenzioso e maligno scorrere dei giorni, l’astuzia proditoria dell’eterno avvicendarsi di giorno e notte, estate e inverno, e il fluire della vita, uniforme nonostante tutti i terrori attesi e inaspettati. Haber si ritrasse dalla finestra e camminò lentamente verso il centro del corridoio. “Centralino, posso parlare con il Ministro degli Esteri” disse Haber, attendendo pazientemente risposta. Stressmann, dopo alcuni istanti d’attesa, si presentò al telefono. Haber, consultando i suoi appunti, enumerò le quantità e le tipologie di armi chimiche presenti nei depositi di Breloh, Berlino e Stoccarda. “Cento tonnellate di acido cianurico” elencò minuziosamente Fritz Haber “cento tonnellate di fosgene, 10.000 tonnellate di nitrati, 5.000 maschere anti gas.” Il Ministro, dopo aver ascoltato attentamente, pregò lo scienziato di incaricarsi della distruzione dei depositi di armi chimiche. Fritz Haber rassicurò il Stressmann, il quale, prima di riagganciare, esitò un istante, accennò ad un supplemento d’indagine, e poi, lasciando cadere l’argomento, augurò la buona notte. Lo scienziato, soddisfatto, riagganciò il telefono. Haber attraversò il corridoio, entrò nella sala da pranzo, afferrò il faldone e lo lanciò nel camino.
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L’aereo, dopo aver sorvolato la pista d’atterraggio dell’aeroporto di Stoccolma per alcuni minuti, a causa di un improvvisa tormenta di neve, aveva ottenuto il permesso ad atterrare. “Stiamo scendendo” avvertì Charlotte, con sollievo. Haber annuì, distratto. Stava correggendo, per l’ennesima volta e maniacalmente, il discorso che avrebbe tenuto davanti all’Accademia delle Scienze di Stoccolma. Haber e Charlotte si guardarono per pochi istanti, quasi abbassando lo sguardo. Nessuno dei due diceva tutto. Del resto, talvolta, bisognava tacere per vivere. Quando la torre di controllo accordò il permesso di atterrare, il velivolo iniziò a scendere. Le condizioni di visibilità erano rese proibitive dal gelo, dal buio e da abbondanti nevicate, pochi giorni prima su Stoccolma s’era abbattuta una bufera di neve, che aveva perfino messo in discussione il regolare svolgimento della consueta cerimonia di consegna dei Nobel. L’aereo, dopo aver sorvolato a lungo la pista, atterrò. Fritz Haber guardò fuori dal finestrino e invitò Charlotte ad ammirare il paesaggio. Charlotte sospirò. La bellezza di Charlotte era limpida e intoccata come non avesse avuto marito, pensò Haber. La pista era stata ricavata dal taglio di una radura, una sorta di sottile sbatter di palpebra tra le ciglia. Il chimico e la moglie si vestirono, presero i bagagli dalla cappelliera e nell’attesa che il portello fosse aperto, salutarono l’equipaggio. Una volta spenti i motori, i passeggeri furono invitati a scendere. Haber ringraziò il comandante e scese i gradini, offrendo la mano a Charlotte che, stando molto attenta a non scivolare, lo seguiva, tenendo stretto il corrimano. L’uomo respirò profondamente. L’aria era sottile, asciutta e mescolava all’odore della neve il profumo pungente di resina e licheni. Eppure, qualcosa di sabbioso si mescolava alla saliva e circolava tra 141
lingua e palato, scricchiolando tra i denti. Un’auto attendeva al centro della pista. Charlotte si guardò attorno. Haber, emozionato, aprì la portiera, in attesa che le valigie venissero caricate a bordo. Il volto della moglie nella perfetta testa rotonda era bellissimo, impaurito e infelice, ma c’era anche in quel volto purtroppo un’ottusa superbia che lo ferì e soprattutto ferì i battiti del cuore che rallentarono e diventarono normali. Un autista in livrea aprì lo sportello e poi si mise alla guida. L’auto uscì dall’aeroporto e imboccò una strada asfaltata a quattro corsie. Fritz Haber abbassò lievemente il finestrino e aspirò lungamente. Incantato dal paesaggio e sovraeccitato, suo malgrado, il professore cominciò ad immaginare la vita degli animali. Dopo alcuni minuti, Charlotte che si era quasi addormentata sulla spalla del marito, cullata dalle vibrazioni dell’auto e dal silenzio del bosco, si risvegliò; non sapeva se colpita dalle prime luci della capitale, che si intravedeva in lontananza, o dalla brusca frenata dell’auto in prossimità di un ponte. L’autista abbassò il vetro che lo separava dalla coppia e domandò l’indirizzo dell’Hotel. Fritz Haber mostrò l’invito dell’Accademia delle Scienze svedesi. “Lei è Fritz Haber?” domandò l’autista. Haber, stupito, guardò Charlotte e rispose di sì. L’autista ringraziò, alzò il vetro e pigiò il pedale dell’acceleratore. Appreso il nome del passeggero, s’era formata una smorfia di disgusto sul volto dell’autista. Una volta arrivati al Grand Hotel de Stokholm, l’auto accostò, in modo da permettere ai coniugi di scendere, al riparo di una tettoia. Una leggera pioggerellina aveva iniziato a cadere, lievemente sospinta dal vento che proveniva dal mare. Quando l’autista scese, il fattorino, che di solito si incaricava di accogliere gli ospiti e di scaricare i bagagli, borbottò qualcosa e se ne andò frettolosamente, lasciando Fritz Haber e Charlotte Haber sul marciapiede. L’autista mise in moto e si dileguò, senza un cenno di saluto. Il direttore dell’albero, avendo riconosciuto gli ospiti, andò incontro alla coppia tedesca. “Signora Charlotte Haber, Professore Fritz Haber, vogliate seguirmi. Il Professor Willstätter vi attende nella hall” disse il 142
direttore che, cerimonioso, si era incaricato personalmente di provvedere ai bagagli. Haber restò basito e attribuì l’episodio ad un equivoco o ad un battibecco tra colleghi. Tuttavia, all’ingresso del Professore Fritz Haber, nell’hall calò un silenzio imbarazzato. Alcuni ospiti, seduti al bancone del bar e sulle poltrone all’ingresso, si tacitarono e scrutarono il chimico tedesco. Una coppia di americani si alzò in piedi e sdegnata chiamò il direttore. La coppia fu imitata da altri ospiti dell’Hotel. Lo scienziato guardò la moglie con aria interrogativa. “Carissimi Fritz e Charlotte, ben arrivati!” esclamò Richard Willstätter, andando loro incontro. Haber si avvicinò all’amico e domandò cosa stesse succedendo. “L’Ambasciata americana” rispose Richard Willstätter, abbassando la voce “ha ritirato i delegati, per protesta! Tutti i giornali hanno preso posizione contro la tua candidatura! Mi spiace.” Fritz Haber restò ammutolito e, chiedendo permesso al collega, si ritirò nella sua stanza. La camera si trovava all’ultimo piano. L’Accademia era solita riservare una serie di camere molto lussuose all’ultimo piano di quell’albergo per ospitare tutti i Premi Nobel, in modo che avessero la possibilità di incontrarsi, conoscersi, nel caso non si fossero già conosciuti per motivi professionali e potessero socializzare qualche ora prima della cerimonia. A questo scopo era anche prevista una cena la sera stessa presso Den Gyldene Freden, uno dei più lussuosi ristoranti storici della capitale. Frtiz Haber aprì la porta della camera, lanciò il cappotto sul letto e si avvicinò ad una grande finestra. Si poteva godere di una stupefacente vista sui canali e sull’Isola dei gabbiani. Charlotte si avvicinò al marito e carezzò una guancia con il dorso della mano; lui allora gliela prese e strofinò le nocche sulla sua guancia. “Non ci vogliono qui?” domandò Charlotte, allontanandosi con passi dolorosi e danzanti. La donna andò a posare la fronte contro i vetri della finestra. “Già.” rispose lo scienziato, appoggiando il discorso sul letto e guardandosi attorno, confuso “La città è bella, non 143
trovi?” domandò Fritz Haber, con enfasi per nascondere la disperazione. “È per i gas, vero?” domandò Charlotte. La moglie si era spogliata e indossava un asciugamano bianco di spugna di lino con grandi cifre bianche simili al disegno di una torre; i lunghissimi capelli neri, sciolti e rovesciati dalla nuca. “Sì” rispose Fritz Haber, mandando un urlo acido, raspante. “Finirà mai?” domandò Charlotte e si chiuse in bagno. La donna si guardò allo specchio da tutti i lati (stirando le labbra e la pelle della fronte). Così pensando, due lacrime molto grosse segnarono il volto e saltarono sul seno, senza pensiero. Mai, disse fra sé e la gola si chiuse e non poté più parlare.
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Il vento aveva ingaggiato una personale battaglia con le strade di Berlino; rovesciato insegne di antiche taverne, scavato e rivoltato mucchi di foglie secche alla base degli ippocastani, decoro degli argini della Sprea; s’era infilato nei vicoli del centro storico, sede di palazzi nobiliari dell’aristocrazia prussiana. I Berlinesi, colpiti dalle conseguenze dell’inflazione, si proteggevano dalle folate con cappelli di feltro, sciarponi di lana intrecciata a mano e baveri alzati fino alla punta del naso. Col passare delle ore, i turbini s’erano abbattuti sulla zona orientale della città, nei quartieri di Treptow, Tierpark e Biesdorf. Il vento s’era placato nelle ampiezze di campi coltivati a luppolo e nelle aie delle fattorie. Anche il cortile dell’Istituto venne invaso da una improvvisa tormenta che obbligò il crocchio di insigni professori, Albert Einstein, Max Von Laue, Richard Willstaetter a sciogliersi e a rifugiarsi all’interno del laboratorio di Fritz Haber. Il chimico, seduto al fianco di Leopold Koppel, stava aggiornando la relazione commissionata dal Ministero della Guerra inerente la giacenza di armi chimiche negli impianti di Berlino, Breloh e Stoccarda. I colleghi, infreddoliti, si avvicinarono al camino e attesero rispettosamente che Fritz Haber ultimasse il lavoro. “Egregio Fritz Haber, con permesso?” domandò un uomo, affacciato sulla porta a vetri, con voce squillante di tenore. Il messaggero si avvicinò e consegnò un telegramma. “Da parte di vostro padre!” disse e con un inchino si congedò immediatamente. Fritz Haber impallidì. Domandò scusa ai colleghi e si appartò in uno dei laboratori a quell’ora deserto. Fritz Haber si barricò nella stanza e appoggiò la busta su un banco. Non aveva notizie del padre da più di quindici anni. Del resto, Sigmund Haber, dopo la conversione del figlio, non gli aveva più rivolto la parola. Lo scienziato rigirò la busta tra le dita, poi, l’aprì con violenza, lacerando la carta oleata che 145
avvolgeva il telegramma e lesse le brevi e drammatiche parole del messaggio. Fritz Haber corse verso la Stazione e giunse appena in tempo per salire a bordo del primo treno per Breslavia. Il convoglio era formato da una decina di vagoni; l’ultimo dei quali era adibito a carrozza ristorante. Fritz Haber mostrò il biglietto ad un inserviente e si sedette ad un piccolo tavolino di servizio isolato e in prossimità della cucina. Il chimico richiamò l’attenzione del maitre e, chiedendo di non essere disturbato, ordinò tè nero. Dopo pochi minuti, un cameriere in livrea si avvicinò al tavolino e invitò il professore a servirsi dal carrello. Haber fece spazio ad un vassoio d’argento, spostando il giornale. In quell’istante, il treno rallentò ed entrò nella stazione di Dresda. Attratto dagli schiamazzi che provenivano dal binario, il chimico interruppe per un istante la colazione e si affacciò al finestrino. Un gruppo di militari salutavano una sorta di delegazione, formata da due corazzieri e un ufficiale. Fritz Haber alzò rapidamente il finestrino e occupò, con cappello e impermeabile, tutti i posti vicini al suo e si rifugiò dietro il giornale. L’ufficiale, salito a bordo, si guardò attorno, percorse tutto il vagone ristorante e, avvicinatosi al tavolo di Haber, prese il cappello e lo fece cadere volontariamente a terra. Il chimico scostò lievemente il giornale e alzò lo sguardo per mettere a fuoco il volto di colui che aveva compiuto un gesto tanto provocatorio, quanto sciocco. L’ufficiale, un uomo basso di statura e insolente, continuava a nascondere i polsini lisi della camicia che spuntavano dalle maniche sudicie. Il soldato appoggiò le mani sulla tovaglia bianca che ornava il tavolino. Le unghie erano nere, il dorso coperto di graffi. “È occupato” disse Fritz Haber, portando il fazzoletto al naso. L’uomo era sudato e puzzava di acquavite, masticava tabacco; si lisciò i baffi, neri e ispidi, come setole di maiale, e sputò per terra, facendo cenno ai soldati di sedere. Il professore chiamò il maitre, il quale si precipitò immediatamente, supplicando con lo sguardo di desistere. “Herr Adolf Hitler” intervenne il maitre, indicando un grande tavolo rotondo “dev’esservi un equivoco. Quello è il vostro 146
tavolo!” Il responsabile della carrozza ristorante, fatto maestro da precedenti episodi, avvenuti lungo la linea Monaco Francoforte, fece strada ai tre militari e li pregò di non molestare i passeggeri. L’ufficiale acconsentì ma prima di sedersi e di placarsi, si voltò ripetutamente verso Fritz Haber, bisbigliando qualcosa ai due commilitoni. “Heil Hitler!!!” gridarono dal binario i tre commilitoni, facendo risuonare i tacchi. Adolf Hitler si affacciò al vetro e disse: “La Germania è nostra.” Il treno sostava al binario in attesa che gli ultimi pendolari, impiegati nelle miniere di carbone e nelle nuove e fiorenti industrie di macchinari per la raffinazione dello zucchero, salissero a bordo. I lavori di ampliamento della stazione erano ancora in corso; erano state inaugurate molte nuove linee che collegavano Dresda a Gleiwitz, Konigshutte, Poznan, Breslavia. Quando tutti i passeggeri furono a bordo, il convoglio si mosse e lasciò lentamente la stazione. Il susseguirsi di nuovi argini del canale da Dresda consentiva la navigazione dell’Oder fino al Grosschiffkanal, dove Oder e Ohle confluiscono. Anche il Grosschiffkanal era opera di recente costruzione e confermava l’impressione in Haber che Breslavia fosse attraversata da notevoli mutamenti. I tre soldati ordinarono birra, poi, incuranti dei vicini, si misero a cantare Die Wacht am Rhein, costringendo la maggior parte degli ospiti a rinunciare alla colazione e a ritirarsi nelle cabine. Anche Fritz Haber, infastidito dagli schiamazzi, si allontanò e tornò nel suo scompartimento. Del resto, mancavano pochi minuti all’arrivo nella stazione di Breslavia. Il viaggio era stato pieno di angosce. Avrebbe dovuto rivedere suo padre che aveva espresso il desiderio di riconciliarsi, prima della fine. Fritz Haber immaginò di trovare un uomo malato, bisognoso di cure. L’idea di farsene carico, di prendersene cura lo attanagliava ancora più del senso di colpa di abbandonarlo. Quando il treno entrò nella nuova stazione di Breslavia, Fritz Haber fu il primo a prepararsi davanti all’uscita. Abbottonò il cappotto e, appena le porte furono sbloccate, scese a terra. Un folto gruppo di soldati attendeva l’arrivo del comandante Adolf Hitler, in previsione di una sorta di parata militare davanti al Municipio. Haber si allontanò a passi affret147
tati, inorridito dagli slogan anti semiti dei sostenitori di Adolf Hitler. L’indirizzo riportato nel telegramma conduceva ad una zona vecchia della città. Lo scienziato cercò di casa in casa ma non vi era alcun Haber. Allora, vedendo una ragazza affacciata alla finestra, domandò se conoscesse Sigfried Haber. “In fondo al cortile” disse la ragazza, chiudendo immediatamente le imposte. Il caseggiato era buio e si affacciava su un orto malandato. Il chimico, facendosi coraggio, respirò profondamente. Odore di panni stesi che pendevano da ballatoi di legno. A fianco dell’orto, sorgeva una specie di casupola in muratura. Sulla porta una targhetta d’ottone quasi illeggibile riportava le iniziali S.H. Ecco che fine ha fatto mio padre. Vive in una baracca, pensò Fritz Haber. Con aria circospetta, avvicinò l’orecchio all’esile portoncino, per sentire se, al di là del legno, vi era qualcuno. Fritz Haber avrebbe voluto suonare ma il pensiero che il padre potesse essere morto lo paralizzò. Morto da solo, lì dentro. Ed egli avrebbe rinvenuto il cadavere! Fritz Haber lanciò un’occhiata al portone, pensò di andarsene, di fuggire via. Smarrito, respirò profondamente e diede una lieve spinta all’uscio con la punta del piede. La porta era aperta. Fritz Haber, sorpreso, valicò la soglia e si addentrò nell’oscurità, seguendo la misera luce che proveniva da un piccolo camino dove bruciava ancora la brace. Cercò di farsi luce, accendendo una lampada a petrolio. C’erano cocci di pentole sul pavimento; alcune casseruole erano accatastate in un angolo, arrugginite. Un bicchiere dai riflessi verdognoli era in frantumi sul tavolo della cucina. Il cilindro stesso della lampada a petrolio era annerito di fuliggine; il lucignolo era un misero stoppaccio carbonizzato e il sudicio di molte suole e di molte settimane si accumulava sulle assi del pavimento. Fritz Haber, turbato dalla vista delle condizioni in cui viveva il padre, tornò sui suoi passi, uscì dalla casa e cominciò a vagare per i vicoli. Il chimico sembrava fuori di sé. Aveva superato la vecchia scuola elementare intitolata a Santa Elisabetta, ora chiusa; la sinagoga e il campanile della cattedrale, il cui orologio pareva essersi fermato al suo passaggio. I piedi accelerarono e arrivarono al caffè Borowka, quasi sapessero dove cercare il padre. Fritz Haber aprì la porta e non fece 148
quasi in tempo ad entrare che se lo trovò davanti. Sigmund Haber portò le mani al petto. Domandò scusa agli altri uomini e li pregò di continuare senza di lui. Le persone ammutolirono e finsero la partita a carte. Frtiz Haber sentiva addosso gli sguardi di tutti. “Sei proprio Tu” disse Sigmund Haber. Nell’attimo in cui Haber appoggiò le mani sul tavolo, si rese conto di essere davanti al padre: le unghie erano identiche, la forma delle falangi, le vene che solcavano i dorsi del polso. Mani belle, nonostante l’età, quadrate e romane, nonostante la malattia. Aveva sempre dubitato di essere suo figlio e tante volte avrebbe chiesto alla zia, se la vergogna non gli avesse fatto inghiottire le parole. Fritz Haber ebbe la certezza di essere davanti all’uomo che gli aveva dato la vita. Non sentiva più odio. Ciò che lo aveva tenuto lontano da lui era mutato, come del resto le loro voci. “È un miracolo figliolo, un miracolo. Ti sei conservato puro come un giglio” disse l’uomo accarezzando la guancia del figlio. Haber abbassò la testa, lievemente imbarazzato. “Bevi?” Sigmund Haber aveva lanciato un’occhiata alla signora al bancone. Lo scienziato, vedendo che la signora non aveva udito, si alzò per ordinare. Quando Haber fu vicino, la signora al bancone disse: “Parla solo di te.” Il chimico tornò al tavolo, il padre non c’era più. Haber si guardò attorno. L’uomo era andato in fondo alla sala e trafficava con certe carte dentro una cartella e fece cenno con la mano di avvicinarsi. Fritz Haber si accostò al padre e lo prese sotto braccio. Il padre allora mostrò un ritaglio di giornale: “10 Dicembre 1920, Stoccolma. Fritz Haber, vincitore del Premio Nobel per la Chimica”. La signora appoggiò il vassoio, Sigmund e Fritz Haber tornarono al tavolo. Il padre camminava lento, trascinando i piedi, come scivolasse. Sigmund Haber bevve avidamente. Le labbra erano viola e tremavano come nella luce di una candela. “Ti andrebbe di accompagnarmi a casa, ho un libro di cui vorrei farti dono” disse, tirando fuori dalla giacca una vecchia fotografia dove Haber sorrideva, sdentato, indosso una vecchio caffettano, lungo fino alle caviglie. 149
“No ora devo proprio andare” disse Fritz Haber, alzandosi, andando a pagare. L’idea di rivedere la baracca dove viveva il padre lo terrorizzava. Haber ringraziò la signora e salutò le persone vicine all’uscita. Quando si voltò, lo vide, al di là del vetro, che salutava, sorridente, agitando una mano come fanno i bambini. Fritz Haber attraversò la strada e raggiunse rapidamente la stazione. Il primo treno per Berlino sarebbe partito all’alba. Lo scienziato telefonò a casa e avvertì Charlotte che sarebbe rientrato il giorno successivo. La moglie domandò come fosse andato l’incontro con il padre. Haber esitò, poi scoppiò a piangere e chiuse la telefonata.
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“Cosa è accaduto?” domandò Lise Meitner, ritta presso il tavolo, nel gesto di sedersi: in quel gesto, Lise aveva scostato i capelli da un lato, con un lieve scatto della mano, ma poi, stupita e colta di sorpresa, lasciò che ricadessero sulle spalle. Un colpo di vento aveva rovesciato a terra alcune ampolle e aveva fatto sbattere la porta a vetri dell’ufficio di Haber. Il Direttore dell’Istituto si alzò per chiuderla, quando Max Von Laue, presentatosi sulla porta, mostrò la prima pagina del giornale. Sconcertato dal titolo, Fritz Haber si protese per leggere il contenuto dell’articolo ed emise un lungo sospiro. “Devo parlare immediatamente con Max Planck!” disse Fritz Haber e si precipitò nel suo ufficio. Il chimico si abbottonò la giacca e attraversò i cortili dove danzava un nugolo di foglie secche ed entrò nel laboratorio di fisica. Svoltato l’angolo, Fritz Haber si bloccò; l’ingresso era piantonato da un militare. Il professore si ricompose e avvicinò cautamente la porta. Il soldato si scostò e lo lasciò passare. Max Planck, le cui labbra erano strette in una sorta di smorfia di dolore represso, era al telefono e fece segno al collega di accomodarsi. Dall’altro capo dell’apparecchio, si udiva una voce squillante che impartiva ordini. Il fisico annuiva e camminava nervosamente avanti e indietro davanti alla grande finestra sul cortile, facendo strisciare il cavo dell’apparecchio lungo il pavimento di legno. Un ufficiale si dondolava su una poltrona di fronte alla scrivania. Erano riconoscibili le mostrine della polizia politica. Fritz Haber, nascosto il giornale nella tasca della giacca, si avvicinò lentamente al centro della stanza e declinò l’invito a sedere. L’ufficiale si voltò verso di lui e sorrise. “Herr Jeinrich Muller, le passo Herr Joseph Goebbles.” disse ad alta voce Max Planck. Il militare si accostò all’apparec151
chio, ascoltò attentamente, poi ringraziò e chiuse la comunicazione. “Allora, siamo intesi Professor Planck: espulsione!” disse l’ufficiale e, dopo aver lanciato un’occhiata minacciosa a Fritz Haber, lasciò l’ufficio. Per alcuni istanti, i due colleghi restarono in silenzio e attesero che l’ufficiale e il soldato si allontanassero. Solo allora Haber, dopo essersi accertato di potere parlare liberamente, mostrò il giornale a Planck, il quale era sprofondato nella poltrona lasciata vuota. Albert Einstein, in visita negli Stati Uniti, aveva chiesto asilo politico alle autorità americane e i giornali tedeschi avevano attaccato lo scienziato ebreo, chiedendone la radiazione dall’Accademia prussiana delle Scienze. “Non hai alternative, Fritz” disse Max Planck, impettito. Haber, appoggiato un braccio sulla mensola del camino, cominciò a giocare nervosamente con una brutta statuina neoclassica in bronzo, rappresentante Prometeo incatenato. “Non hai alternative” ripeté Max Planck. Fritz Haber smise di tormentare la piccola scultura e si avvicinò alla scrivania. In quell’istante, Max Von Laue comparve sulla porta dell’ufficio e invitò i colleghi a raggiungere l’assemblea. Max Planck, imbarazzato, si congedò e scese rapidamente i gradini. “Devo firmare. Non ho alternative.” disse Fritz Haber, avvicinando il collega ebreo e allargando le braccia, pietosamente. “Sei un vile! Lo sei sempre stato in fondo!” dichiarò Max Von Laue, allontanandosi dalla stanza “Un giorno capirai la gravità di quest’atto; ma sarà troppo tardi!” Fritz Haber, rimasto solo, portò le mani allo stomaco; una fitta gli impediva di camminare e lo aveva obbligato a sostenersi al corrimano delle scale, in attesa che lo spasmo cessasse. Respirando profondamente, lo scienziato riuscì a muovere qualche passo, faticosamente. Quando si affacciò nella hall, Johannes Jaenicke gli andò incontro e lo sostenne, accompagnandolo al suo posto. L’ufficiale, seduto in prima fila, si voltò verso Haber, con sguardo interrogativo e immediatamente ordinò ai soldati di sorvegliare le uscite. Max Planck, in piedi sul
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palco, attese alcuni istanti, poi, quando tutti i membri dell’Istituto furono insediati, si scusò della convocazione improvvisa. “Cari colleghi” disse Max Planck “il Professor Einstein, in visita negli Stati Uniti, come sapete, rifiuta di rientrare in Germania e ha dichiarato di aver chiesto asilo politico negli Stati Uniti. È nostro dovere prendere le distanze dall’illustre scienziato.” Mentre Planck parlava, l’ufficiale controllava le reazioni degli scienziati, e in particolare quella di Fritz Haber. “Perciò” continuò Max Planck “propongo di votare immediatamente l’espulsione del Professor Albert Einstein.” Dagli ultimi banchi, si udì una voce isolata. Max Von Laue alzò la mano e domandò la parola. Planck guardò l’ufficiale e, una volta ricevuto un cenno di assenso, concesse la parola al collega. “Egregie Colleghe ed Egregi Colleghi” esordì Max Von Laue “il documento che è circolato questa mattina è infamante. Molti di noi sono ebrei, chi convertito, chi devoto alle tradizioni, ma tutti abbiamo contribuito alla grandezza di questo Paese. L’espulsione di Albert Einstein, oltre ad essere un atto vile, creerebbe un precedente pericolosissimo per tutti gli scienziati!” Dagli ultimi banchi dell’aula scoppiò un applauso e Max Planck, pur con qualche difficoltà, riuscì a convincere i colleghi a tornare a sedere. Alcuni scienziati infatti erano andati a complimentarsi di persona con Max Von Laue. Fritz Haber chiese il permesso di parlare. Max Planck invitò il collega ad alzarsi in piedi. “Impossibile calcolare il danno per la perdita di una mente come quella del Professor Einstein.” dichiarò Fritz Haber “Ricordo ai presenti che io stesso ho convinto il Professor Albert Einstein a lasciare il Politecnico di Zurigo per fare parte del Kaiser Wilhelm Institute. Eppure, è inevitabile la decisione di espellerlo dall’Accademia; perciò, egregi colleghi, ho risposto alle richieste del Presidente dell’Accademia prussiana delle Scienze e ho sottoscritto la petizione.” Il silenzio calò sull’aula. L’ufficiale, in tripudio, calcolato l’enorme valore della vittoria appena conquistata, lanciò un’occhiata di approvazione ad Haber, si alzò e lasciò l’aula, ordinando alle sentinelle di liberare le uscite. Fritz Haber, percorso da brividi febbrili, tornò a sedersi. Johannes Jaenicke corse a 153
chiamare il dottor Moller. Il chimico infatti era pallidissimo e tremante. Le labbra erano viola, tumefatte e la pelle del volto sottile e trasparente come alabastro ma percorso da piccole venature blu. In quell’istante le fitte si acuirono e obbligarono Fritz Haber a piegarsi in avanti, a rannicchiarsi nella poltrona nel vano tentativo di proteggere lo stomaco, in attesa che lo spasmo si attenuasse. “Ho bisogno di parlare con Hermann” disse Fritz Haber, rivolto a Johannes Jaenicke “Subito.”
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“Sarai costretto a lasciare la Direzione, papà?” domandò Hermann, seduto su un divano, in un angolo buio dello studio, mentre il padre, sdraiato su un divano, stava misurando la pressione, in attesa della diagnosi del Dottor Muller. Haber non rispose. “Tu sei reduce di guerra; hai diritto al beneficio di legge; hai combattuto per questo Paese!” disse il figlio con voce profondamente turbata e insistente. “Dottore può lasciarci soli un istante. Avrei bisogno di parlare con mio figlio” domandò lo scienziato. Il dottor Moller acconsenti e pregò Hermann di non fare affaticare il padre che aveva il polso ancora molto debole. Fritz Haber si sollevò e guardò il figlio con occhio clemente e commosso. L’uomo sapeva molto bene che ciò che è umano passa e scompare e forse questa era la ragione della sua inquietudine. Hermann aveva appena compiuto vent’anni, ma ne dimostrava molti meno, nelle fattezze del corpo e nell’intonazione della voce. Lo scienziato si rendeva conto che, senza padre, quel gracile figlio, un po’ ingenuo, non sarebbe sopravvissuto. Senza sapere perché, temeva da sempre per lui, forse perché non aveva fratelli né sorelle, né madre, o forse perché era un ragazzo effeminato: la pelle, le mani e i piedi così piccoli. Fin da bambino era vestito con molta eleganza e ricercatezza dalla madre, che gli metteva spesso una forcina nei capelli. “Vedi Hermann” disse Haber, con voce flebile “io potrei appellarmi a quello che tu chiami beneficio. Potrei rimanere in carica, ma con quale coraggio potrei guardare in faccia i colleghi ebrei che, invece, sono obbligati a lasciare il proprio posto in Università?” Nel pronunciare queste parole, fu colto da un improvviso desiderio di piangere. Hermann si avvicinò al padre, lasciandosi avvolgere nell’abbraccio e sentendo l’odore di quell’uomo che da anni non lo stringeva, così, vicino 155
a sé. Erano sopravvissuti entrambi a profondi cambiamenti, dopo la morte di Clara. Haber s’era risposato con Charlotte, con la quale Hermann, come spesso accade in queste circostanze, non era mai andato oltre le buone maniere. Ora Charlotte aveva chiesto il divorzio e si era trasferita in Svizzera portando via con sé i piccoli Ludwig e Eva. “Hermann, mi raccomando, questo posto, tienilo stretto” disse Haber al figlio, consegnandogli una lettera di presentazione, vergata da Degussa. “Basilea, dunque. Questo è quello che vuoi per me” sussurrò Hermann, ripiegando delicatamente la lettera lungo le venature della carta. “Questo Paese sta diventando pericoloso...” affermò lo scienziato “Io stesso, lasciando Berlino, ho intenzione di valutare la proposta di Weizmann di insegnare a Rehovot.” “Ma tu non sei in condizioni di affrontare un viaggio così faticoso.” balbettò Hermann, le cui mani avevano ripreso a tremare. “Ce la farò, non preoccuparti. Ora vai a chiamare il dottor Moller. Io devo ancora fare un’ultima cosa qui. Abbi cura di te, figliolo” disse Fritz Haber, accarezzando la nuca del figlio. Hermann, accennando ad ultimo saluto, sorrise al padre, prima di abbandonare la sua stanza. Haber, tornato sul divano, emise un lungo doloroso sospiro. “Professor Haber posso entrare?” domandò il dottor Hermann Moller. “Venga avanti Hermann” rispose Haber. Il dottore, fermo sulla soglia, aveva notato malinconicamente alcuni scatoloni negli angoli, nei quali lo scienziato aveva radunato gli effetti personali. Fritz Haber si sollevò con l’aiuto del medico e diede un ultimo sguardo allo studio. Aveva preventivamente deciso di andarsene senza preavviso, in modo da evitare ai ricercatori la penosa celebrazione degli addii. “Mi accompagna da Max Planck?” domandò il chimico. “Eravamo d’accordo che avrebbe riposato” rispose il dottore, porgendo il braccio. Moller aiutò Haber a raggiungere l’ufficio di Max Planck e attese, seduto su una delle sedie 156
dell’anticamera. Fritz Haber bussò alla porta del direttore; la porta era socchiusa e Haber si arrestò riconoscendo la voce di Planck che, evidentemente, era impegnato in una telefonata fatta di lunghi silenzi e piccoli malinconici cenni affermativi. Planck si voltò e fece segno al collega di accomodarsi, concedendosi ancora un istante. La telefonata infatti si concluse in un breve scambio di saluti. “Formalità, da espletare...” disse Max Planck. Il sorriso sparì e subito ricomparve come capita a certe piccole nubi sulla luna. La parola erledigen con la seconda vocale e, allungata come se fosse una a, da una voce profonda. Haber annuì, restando in piedi con enorme sforzo. “Come stai?” domandò Max Planck. Haber alzò le spalle e, senza rispondere, fece scivolare una busta sulla lastra di vetro, lievemente scalfita dall’usura, che rivestiva la scrivania. Max Planck era solito conservare cartoline, fotografie, documenti personali sotto quella lastra di vetro, in modo tale che, essendo passati molti anni ormai dall’inizio della sua direzione, la vista di quel collage di ricordi suscitava un certo effetto nell’interlocutore. Il fisico aprì la busta e lesse con calma la lettera di dimissioni. Fritz Haber leggeva in controluce le poche righe che aveva scritto di suo pugno in maniera impulsiva, negando a se stesso la possibilità di rileggerle per evitare la tentazione di smorzare tono e gravità delle accuse. Planck annuì, condividendo intenzioni, argomenti addotti a giustificare, in qualche misura, il gesto e condividendo sopratutto l’appello implicito che con quel gesto Haber sperava di fare giungere alle orecchie del Reich. “Gli parlerai?” domandò Fritz Haber, in procinto di congedarsi. “Siedi ancora un istante, ti prego” disse Max Planck “Gli ho parlato, ieri pomeriggio. Ha risposto che se la scienza non può fare a meno degli ebrei, in pochi anni faremo a meno della scienza! Quando ho provato a fargli capire quale enorme perdita sia per il nostro Paese, allora ha dato in escandescenza, conosci il suo carattere. Ho dovuto abbandonare l’udienza, per evitare conseguenze peggiori. È pazzo.” Haber abbottonò la giacca e salutò con un cenno della mano. 157
“Farò venire qualcuno a prendere le mie cose” disse Fritz Haber, prima di chiudere la porta. Lo scienziato, aiutato dal dottor Moller, scese le scale molto lentamente e attraversò l’atrio dell’Istituto, di cui era stato direttore per vent’un anni (Haber fece un rapido calcolo e ne restò impressionato). Salutò Moller, lo ringraziò e, attratto dalle voci famigliari dei giardinieri che provenivano dal parco, si soffermò un istante, indeciso se salutare, oppure andarsene uscendo silenziosamente dal retro. Meditò alcuni istanti, poi imboccò il vialetto e uscì dal cancello di servizio che dava alle spalle dell’Istituto. In quell’istante Fritz Haber si voltò e sentì dentro di sé il freddo di quell’ombra e di quei cipressi (i suoi bronchi erano anche un po’ emotivi). Vedendo il profilo dell’Istituto, in lontananza, i cancelli in ferro battuto delle ville, i giardini ben curati, le case eleganti, i filari ordinati di alberi, provò un sentimento che non poteva definirsi che patriottico. Era certamente un sentimento prussiano, perché non l’aveva mai provato durante i suoi viaggi in altri Paesi. Forse, in Indonesia, al tramonto, quando bambini a cavalcioni di bufali si immergono negli stagno e i fiori di loto cominciano ad aprirsi; o il frastuono delle cicale all’alba, sugli eucalipti, che dura dieci minuti esatti poi torna il silenzio e i primi campanelli delle biciclette dei cinesi. Questi erano sentimenti bellissimi, ma diversi e non così fieri. No. Quel sentimento senza nome era prussiano e basta.
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Era la prima settimana del mese di Ab. Gli ebrei si riunivano dopo la preghiera della sera per salutare il novilunio, e siccome la notte era piacevole e, dopo la giornata calda, un vero ristoro, essi seguivano più volentieri del solito i loro cuori devoti e il comandamento divino di salutare la rinascita della luna in uno spiazzo libero, sul quale il cielo si inarchi più vasto e imponente che sopra le strette viuzze di Basilea. Alcuni correvano, muti e neri, a gruppetti irregolari, dietro le case e videro in lontananza il bosco che era nero e silenzioso come loro, ma eterno nella sua radicata consistenza, videro i veli della notte sulla distesa dei campi, e finalmente si fermarono. Alzarono gli occhi al cielo e cercarono l’arco d’argento del nuovo astro, che oggi nasceva un’altra volta, come il giorno della sua creazione. Si strinsero in un gruppo compatto, aprirono i libri di preghiera, bianche scintillavano le pagine, nere e rigide stavano le lettere davanti ai loro occhi nel notturno chiarore azzurrino, e cominciarono a mormorare il saluto della luna e a dondolarsi col busto, sicché sembravano scossi da un’invisibile tempesta. Sempre più veloce si fece il loro dondolio, sempre più alta la preghiera, con animo bellicoso lanciavano le parole dei loro antichi padri al cielo lontano. Con un sonoro amen chiusero la benedizione, si dettero la mano l’un l’altro e si augurarono un mese felice, buon successo negli affari e salute ai malati. Si sparpagliarono, corsero uno a uno verso casa, sparirono nei vicoletti dietro le minuscole porte delle loro casupole sbilenche. Solo uno di loro restò indietro, Fritz Haber. La giovane falce lunare diffondeva ormai una vivida luce argentea e scivolava nella notte fedelmente accompagnata dalla stella più lucente del cielo. Lo scienziato, meditabondo, rientrò in albergo, salutò il portiere di notte e lo pregò di svegliarlo all’alba. Aveva appuntamento con Hermann che lo 159
avrebbe accompagnato all’aeroporto per salire a bordo di un aereo diretto a Tel Aviv. Fritz Haber entrò in camera, si guardò attorno e cominciò a preparare la valigia. Esausto, si avvicinò al letto e afferrò il samovar che ronzava. Il bicchiere colmo di tè bollente cadde dalle mani di Haber. Poi il silenzio. Milioni di allodole gorgheggiarono, sotto il cielo. Un lampo di luce colpì la finestra, incontrò il lucido samovar di latta e lo accese a farne uno specchio curvo. Hermann Haber, il mattino dopo, si presentò all’albergo. Il portiere comunicò che il padre s’era spento nella notte. Infarto, probabilmente.
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Quando dal campanile del Trinity College risuonarono distintamente due rintocchi secchi, gli uscieri spalancarono le porte del Tribunale. Uno di essi, più anziano, si affacciò sulla rampa di scale nell’ingresso e odorò l’aria; l’altro gettò un’occhiata alla finestra. Nonostante la violenta tempesta, abbattutasi al mattino sulla città, il cielo ora pareva concedere un po’ di tregua. Il Procuratore distrettuale fu tra i primi a rientrare in aula. Camminava con l’andatura boriosa e priva di incertezza che lo aveva caratterizzato fin da giovane avvocato esordiente in quello stesso Tribunale, ormai trent’anni addietro. I colleghi, già assiepati dietro la balaustra che divideva il pubblico dagli imputati, lo salutarono, ma egli, ignorandoli, protese la mano destra, piccola e quasi sproporzionata nell’ampiezza della toga, in direzione del giudice anziano. Le due personalità, legate da antico vincolo di amicizia, camminando fianco a fianco, attraversarono l’aula e raggiunsero, a passi misurati, i rispettivi tavoli. Il giudice anziano salì i gradini e prese posto sulla pedana della Corte. Il Procuratore distrettuale invece spostò la sedia, in modo da seguire meglio la pronuncia della sentenza, e sedette di tre quarti, non prima di aver raccolto le falde della toga, in modo da accompagnare delicatamente le pieghe della stoffa oltre lo schienale della sedia. Un cronista del giornale della sera tentò di richiamarne l’attenzione, ma il Procuratore distrettuale era assente. Lo sguardo era rivolto al banco dei Giurati, la tribuna dove di lì a poco avrebbero preso posto Karl Popper, Paul Feyerabend, Gaston Bachelard, Thomas Khun e Hans Georg Gadamer. Un raggio di sole, prima velato dalle nuvole, invase improvvisamente l’aula; il pavimento di marmo candido rifletté la luce. Johannes Jaenicke si era deciso a tornare in aula per la pronuncia della sentenza, vista l’insistenza di Otto Hahn e malgrado i fischi che avevano accompagnato la sua deposizione. 161
Il suo ingresso fu accompagnato, anzi sarebbe più giusto dire sottolineato, dal brusio delle persone sedute nelle prime file. Lise Meitner, Hermann Haber e Richard Willstätter, richiamati da un lieve movimento delle porte, si voltarono verso la camera di consiglio, ma si trattava solo di un secondino. Il giudice anziano controllò l’orario e annotò un rapido appunto su un taccuino sgualcito. Un fotoreporter prese un flash dalla tracolla e lo montò sulla macchina fotografica, immediatamente redarguito da uno degli uscieri. L’operatore della BBC colse un movimento del pubblico e accese il riflettore. Nell’aula, le luci aumentarono e con esse anche la temperatura. Una telecamera, adibita esclusivamente a seguire i movimenti di Albert Einstein, stringeva l’inquadratura, di tanto in tanto, alla ricerca di una smorfia o di un’espressione che tradisse l’emozione. Il secondino si avvicinò ad una delle vetrate e ne aprì una sezione per fare circolare l’aria. Otto Hahn, alla ricerca di Lise Meitner, non sapendo bene dove sedersi, rimase in mezzo al corridoio e scambiò qualche breve battuta con Sir Harold Hartley e William Pope, i quali annuirono con contegno sdegnoso; poi, trovando rifugio nello sguardo ancora seducente di Fräulein Lise Meitner, Otto Hahn fece un passo in direzione della donna e trovò posto tra lei e l’uomo anziano intento a pulire con un elegante fazzoletto di seta gli occhiali pince-nez. In quell’istante entrarono dalle porte, in una sorta di sfilata, i gonfaloni delle associazioni reduci, delle vedove di guerra e una folta schiera di attivisti sionisti. L’uomo anziano infilò gli occhiali e tossì violentemente, proteso verso il corridoio. Quando finalmente mise a fuoco i rappresentanti delle associazioni, costituitesi parte civile nel processo, si lasciò sfuggire un vivace commento. Hermann Haber scosse il capo e sorrise, rivolto verso l’anziano. Il Giudice fece il suo ingresso da una porticina, quasi invisibile, incastonata nella grande parete nord dell’aula, coperta di legno d’acero. Un breve scambio d’intesa con il Procuratore distrettuale accompagnò la salita allo scranno, come tra direttore e primo violino, durante l’ouverture di un concerto sinfonico. 162
Il rintocco di una campanella comunicò alla Corte che la Giuria era giunta al verdetto finale. Gli ultimi posti vennero immediatamente occupati da cronisti rumorosi, appena giunti per l’edizione del giornale radio della sera. L’operatore della BBC pregò le persone ancora in piedi, di prendere posto e poi, su indicazione della regia, fece una panoramica dell’aula che strinse sui volti di Karl Popper, Thomas Khun, Hans Georg Gadamer, Gaston Bachelard e Paul Feyerabend. La trasmissione era in diretta. Il fonico, srotolando una bobina di cavo dietro di sé, si avvicinò alla balaustra, tendendo un microfono, coperto di piume di struzzo. Il Giudice si alzò in piedi, imitato dai colleghi e dal pubblico. Una volta riepilogati i capi d’accusa, il Giudice passò la parola alla Giuria e tornò a sedere. La sua voce profonda aveva lacerato il silenzio ed era sembrata ad alcuni perfino eccessivamente severa. Karl Popper, nella veste di Presidente, si alzò in piedi, avvicinò la bocca al microfono, dopo essersi schiarito la voce, prima di iniziare a leggere il testo. Il professore della London School of Economics, vestito in maniera impeccabile in un abito di tweed che ne nascondeva a malapena la magrezza, lanciò uno sguardo ai colleghi ed esordì incespicando, a causa dell’emozione. Sull’aula era sceso un silenzio palpabile, assoluto e straripante d’attesa. Si potevano udire i corvi tornati a dominare i cornicioni. Incuranti del processo, che stava andando in scena in quell’istante, gli uccelli continuavano la loro battaglia quotidiana per la conquista di un angolo più riparato dal vento. Il suono di una sirena, percepito in lontananza, aumentò e destò nel pubblico pensieri e fantasie morbose: alcuni riconobbero nel segnale perfino il ricordo dei giorni di coprifuoco su Londra; altri, più giovani, l’arrivo di una squadra di militari pronti a sedare eventuali sommosse popolari; altri pensarono ad un’autoambulanza, chiamata a prelevare eventuali malati di mente. La sirena, dopo qualche istante di incertezza, sfumò lungo il viale di querce del tribunale e svanì in fondo al giardino botanico. Karl Popper, incoraggiato dai colleghi, riprese fiato, appoggiò il foglio sul bancone e, dopo aver sistemato gli occhiali da presbite, iniziò a leggere a voce alta. 163
“Abbiamo ascoltato attentamente le testimonianza dei colleghi scienziati che hanno conosciuto il Professor Fritz Haber nell’arco di tempo che va dalla fondazione dell’Istituto Kaiser Wilhelm, uno dei primi istituti di ricerca scientifica interamente finanziati da privati, intorno agli anni dieci del ventesimo secolo, alla promulgazione di leggi razziali in Germania nel 1933. Abbiamo discusso tra noi e valutato attentamente il ruolo svolto dal Professor Fritz Haber nell’impiego di gas tossici, durante la battaglia di Ypres, e nella sintesi dello Zyclon presso i laboratori dell’Istituto Kaiser Wilhelm. Johannes Jaenicke, Otto Hahn, Richard Willstätter, Lise Meitner ci hanno indicato con quale mentalità lo scienziato prussiano operava. È difficile per noi oggi, alla luce dei fatti emersi, la seconda guerra mondiale, la bomba atomica su Hiroshima, la ritrattazione da parte del gruppo di fisici che hanno aderito al così detto Progetto Manhattan, comprendere fino in fondo un’epoca pervasa di nazionalismo, di fiducia cieca e illimitata nel progresso scientifico e tecnologico. Ma abbiamo anche sentito testimonianze diverse: Sir Harold Hartley, Alvin Mittasch, Albert Einstein che pure hanno conosciuto bene il Professor Fritz Haber e ne hanno denunciato drammaticamente la determinazione, perfino la crudeltà. Alvin Mittasch si è chiesto giustamente se Fritz Haber sia stato artefice o addirittura vittima di un sistema di potere che mirava alla conversione bellica dell’industria chimica tedesca. È nostro dovere porci l’interrogativo. Il Professor Fritz Haber, benché non direttamente responsabile dell’impiego dello Zyclon nelle camere a gas dei campi di concentramento nazisti, possedeva nel 1924 gli strumenti necessari per intuire la pericolosità degli esperimenti che il Professor Ferdinand Flury conduceva sotto la sua direzione? Thomas Khun insiste su questo punto e ritiene che il Professor Haber dovesse fermare e impedire il brevetto dello Zyclon. Possiamo dichiarare che il Ventesimo secolo, simbolicamente, abbia avuto inizio il 22 Aprile del 1915 con l’attacco con i gas tossici di Ypres? La lucidità del Professor Fritz Haber nell’applicare metodo di ricerca e applicazione pratica ci consentono di affermare che non fu solo intuizione, ma vera e propria consapevolezza quella che fece dichiarare a Fritz Haber, in più 164
occasioni, come abbiamo avuto modo di udire dai testimoni, di credere nella possibilità di vincere la guerra attraverso un’azione fulminante, traumatizzante il nemico. Uno shock, è stato detto. L’inizio del Novecento coinciderebbe dunque con uno shock! D’altra parte, appare evidente che fino alla fine della seconda guerra mondiale, gli scienziati non si sono posti limiti di natura etica; questione che appare di terribile attualità. I finanziatori privati sostengono progetti che, senza un’adeguata vigilanza, possono condurre a esperimenti disastrosi per l’umanità e per il pianeta. E a chi spetta sorvegliare? La nostra risposta è evidente: agli scienziati stessi, i quali devono avere la tenuta morale di rifiutare il Zuzammenarbeit, come è stato chiamato da alcuni. Tuttavia, Fritz Haber era perfettamente e modernamente consapevole che attaccare il nemico con il gas significava intaccarne l’habitat, privandolo delle condizioni necessarie all’esistenza. Aveva immaginato di alterare l’aria respirata dal nemico, sottintendendo così un concetto di design dello spazio, in una modalità così lampante che gli attacchi terroristici di oggi appaiono direttamente figli di quel primo attacco. Fritz Haber non poteva non immaginare che il passo dalla disinfestazione in piccole camere a gas, costruite da Flury, allo sterminio di esseri umani fosse molto breve, brevissimo. Fritz Haber, Nobel per la chimica, inventore dell’Ammoniaca, dello Zyklon, dell’Ecstasy, suo malgrado, potremmo dire? No. Fritz Haber, seguace di un modello, di principi, protocolli di laboratorio, nati in seno al superomismo della Kultur prussiana. Certo, si rimane sbalorditi dalla forza di volontà dell’uomo, talvolta titanica, se si pensa a quanti morti ha lasciato lungo la storia. Se si pensa al coraggio e all’ardire della ricerca dell’oro dall’acqua marina, solo per fare un esempio. Si è tentati di immaginare che la generazione di scienziati soldati appartenesse ad un’altra antropologia. Si rimane strabiliati nel momento in cui si scopre che un uomo ha avuto la forza di credere nella rinascita della scienza del proprio Paese. Colpisce, e concludo,” disse Karl Popper, sfilando gli occhiali e riponendoli nel taschino della giacca “un episodio che abbiamo trovato commuovente e significativo. Fritz Haber, quando 165
Guglielmo II fu costretto a rinunciare alla corona, andò a fare visita all’Imperatore, all’ex Imperatore per la verità, presso la residenza olandese di Doorn, nella quale il Kaiser era andato a seppellirsi, da esule, ultimo discendente della gloriosa discendenza Hoenzollern. Rimane l’immagine di un fedele servitore del sogno prussiano, fino all’ultimo figlio di un’epoca. In conclusione, abbiamo ritenuto il Professor Fritz Haber colpevole di crimini contro l’umanità”. Karl Popper, quasi spaventato dalle sue stesse parole, pronunciate con voce roca e strozzata dall’emozione, si sedette e cercò conforto negli sguardi dei colleghi. Nell’aula scoppiò un boato. Le urla accompagnarono l’uscita di tutti i giurati che si defilarono immediatamente, tranne Paul Feyerabend che, inseguito dai giornalisti, s’era assunto l’onere di rilasciare una dichiarazione: “Non il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, fa l’uomo di scienza, ma la ricerca critica, persistente e inquieta, della verità.” Otto Hahn e Johannes Jaenicke, indignati, erano stati tra i primi ad abbandonare l’aula. Albert Einstein, assediato dai cronisti, si era alzato e si era avvicinato all’uscita, senza rilasciare dichiarazioni. Il Giudice invitò alla calma e pregò di sgomberare la sala. Il Procuratore distrettuale, circondato dai colleghi e dai cronisti, si chiuse nel massimo riserbo, benché l’espressione del volto dichiarasse la massima soddisfazione per l’esito del processo. Lise Meitner e Hermann Haber si guardarono a vicenda. Il signore anziano, seduto al loro fianco, poggiando pesantemente sul bastone, compì il tentativo di alzarsi ma un malore improvviso che impediva di respirare, lo obbligò a chiedere aiuto a Hermann Haber. L’uomo anziano ringraziò e si voltò un’ultima volta. “Addio figliolo!” disse l’uomo anziano, tossendo violentemente. Il giovanotto aiutò l’uomo a scendere i gradini e si congedò con un timido sorriso di incomprensione e compassione. L’uomo imboccò il viale costeggiato di querce e camminò lentamente finché svanì all’altezza del giardino botanico.
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Indice
Prefazione I
di Telmo Pievani
15 I
32 2 47 3 60 4 69 5 77 6 83 7 86 8 91 9
97 10
105 11 110 12
Seconda parte 119 13 125 14 134 15 137 16 141 17 145 18 151 19 155 20 159 21 161 22