Fucilati per l'esempio. La giustizia militare nella Grande Guerra e il caso di Cercivento 9788832830040

Il primo luglio 1916 sopra il valico di Monte Croce Carnico, punto chiave del fronte italo-austriaco, due plotoni del Ba

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Italian Pages 112/113 [113] Year 2017

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Fucilati per l'esempio. La giustizia militare nella Grande Guerra e il caso di Cercivento
 9788832830040

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TRACCE ITINERARI DI RICERCA La collana ‘Tracce. Itinerari di ricerca’ si propone di valorizzare i risultati delle attività scientifiche svolte nei diversi campi della ricerca universitaria (area umanistica e della formazione, area economico-giuridica, area scientifica, area medica). Rivolta prevalentemente alla diffusione di studi condotti nell’ambito dell’Università di Udine, guarda con attenzione anche ad altri centri di ricerca, italiani e internazionali. Il comitato scientifico è quello della casa editrice.

Università degli studi di Udine Area umanistica e della formazione

Questo volume raccoglie gli Atti del convegno (Udine, 25 giugno 2016) organizzato dal Comune di Cercivento e dal Dipartimento di Studi umanistici e del patrimonio culturale dell’Università degli Studi di Udine con il sostegno della Provincia di Udine. DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI E DEL PATRIMONIO CULTURALE

La presente pubblicazione è stata realizzata con il contributo della Regione Friuli Venezia Giulia e del Consorzio dei Comuni del Bacino Imbrifero Montano del Tagliamento nelle provincie di Udine e Pordenone. Foto di copertina La fucilazione dei quattro alpini a Cercivento il primo luglio 1916, dipinto a olio di Giovanni Carnier. Progetto grafico di copertina cdm associati, Udine Stampa Press Up, Ladispoli (Rm) © FORUM 2017 Editrice Universitaria Udinese FARE srl con unico socio Società soggetta a direzione e coordinamento dell’Università degli Studi di Udine Via Palladio, 8 – 33100 Udine Tel. 0432 26001 / Fax 0432 296756 www.forumeditrice.it ISBN 978-88-3283-004-0

COMUNE DI CERCIVENTO

FUCILATI PER L'ESEMPIO LA GIUSTIZIA MILITARE NELLA GRANDE GUERRA E IL CASO DI CERCIVENTO A CURA DI LUCIANO SANTIN E ANDREA ZANNINI

Il disegno nell’annullo postale riportato nel frontespizio, emesso in occasione del centenario della fucilazione dei quattro alpini a Cercivento, è stato realizzato dagli alunni della scuola primaria di Cercivento-Treppo Carnico. Il logo a pagina 81 è invece di Giorgio Godina.

Fucilati per l’esempio : la giustizia militare nella Grande Guerra e il caso di Cercivento / a cura di Luciano Santin e Andrea Zannini. – Udine : Forum, 2017. (Tracce : itinerari di ricerca) Atti del convegno tenuto a Udine, 25 giugno 2016. Sul frontespizio: Comune di Cercivento ISBN 978-88-3283-004-0 1. Giustizia militare – Guerra mondiale 1914-1918 – Italia – Atti di congressi 2. Guerra mondiale 1914-1918 – Cercivento – 1916 – Atti di congressi I. Santin, Luciano II. Zannini, Andrea 343.450143 (WebDewey 2017) – TRIBUNALI MILITARI E PROCEDURA. Italia Scheda catalografica a cura del Sistema bibliotecario dell’Università degli studi di Udine

INDICE

Saluti Luca Boschetti Sergio Bolzonello Pietro Fontanini Franco Marini

p. 7 » 13 » 15 » 17

Prefazione Luciano Santin, Andrea Zannini

» 19

Guido Crainz Orazione civile

» 23

Giorgio Zanin La legge di riabilitazione dei fucilati per mano amica, un fiore della primavera di Barbiana, un giubileo civile

» 29

Marco Pluviano L’applicazione della pena di morte in Italia e negli eserciti alleati

»

45

Irene Guerrini Tribunali straordinari ed esecuzioni sommarie

»

59

Andrea Zhok Etica, morale e moralismo nella giustizia sommaria 71 delle trincee »

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Indice

Pierluigi Di Piazza Testimoni della dignità umana

» 91

Sergio Dini Le fucilazioni nella Grande Guerra tra giustizia formale e giustizia sostanziale

» 97

Gli autori

» 111

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Luca Boschetti

Sindaco del Comune di Cercivento

Il 2016 è stato per la memoria dei quattro alpini fucilati e per Cercivento l’anno del centenario, un termine simbolico sul quale era stata riversata la speranza di veder finalmente concessa la riabilitazione mediante l’approvazione della legge Scanu-Zanin, riabilitazione non solo per questi quattro figli della nostra terra, ma per tutti i soldati condannati o che hanno perso la vita per trasgressioni militari. Come è noto la legge, dopo il passaggio in aula alla Camera che aveva fatto ben sperare avendo trovato ampia approvazione, già dal maggio 2015 era al Senato in attesa di approvazione; solo nel mese di ottobre 2016 Nicola Latorre, il relatore del provvedimento al Senato, presenta in Commissione una totale riscrittura della proposta di legge approvata finora solo in Commissione Difesa. Questo fatto emblematico lascia una sensazione di sconforto e porta a interrogarsi sui poteri forti che ancora vogliono arroccarsi dietro giochi di parole e retorica. Ciò si avverte negli interventi di alcuni senatori (Gasparri parla di rimedio messo dal Senato a quanto fatto dalla Camera) e si legge nel testo dell’iscrizione che si propone di inserire al Vittoriano: «Nella ricorrenza del centenario della Grande guerra e nel ricordo perenne del sacrificio di un intero popolo, l’Italia onora la memoria dei propri figli in armi fucilati senza le garanzie di un giusto processo. A chi pagò con la vita il cruento rigore della giustizia militare del tempo offre il proprio commosso perdono». Dopo la fucilazione agli alpini si offre il ‘perdono’, essi comunque restano colpevoli. Se da un lato confortano le numerose prese di posizione contro questo ennesimo arenarsi della legge (da parte del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, di numerosi comuni italiani, parlamentari, organi di stampa

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Luca Boschetti

locali e nazionali, esponenti della cultura e del mondo universitario e della popolazione), dall’altro sarebbe auspicabile una ancora maggiore adesione alla causa di riabilitazione. Nel luglio 2016 il Comune di Cercivento ha inteso commemorare con i massimi onori gli alpini Coradazzi, Massaro, Matiz, Ortis, coinvolgendo tutta la società civile, la popolazione, le scuole, e invitando anche le autorità militari; sono stati organizzati diversi eventi e occasioni di incontro che desidero qui ricordare per far comprendere l’impegno profuso finalizzato a tenere viva la memoria in occasione di una data simbolica. Cercivento fu il primo comune coraggioso che già il 30 giugno 1996 aveva inaugurato un cippo monumentale dedicato ai Fusilâts; con lo stesso spirito nel 2016 l’Amministrazione ha promosso la realizzazione di un annullo postale disegnato dai bambini della scuola primaria di Cercivento-Treppo Carnico, un simbolo concreto e indelebile che resta, come è rimasto nella nostre genti il segno di questo tristissimo fatto. Questa operazione è, come il monumento, un piccolo gesto, tuttavia di per sé rivoluzionario, da parte di un paese di montagna per sostenere una causa ritenuta giusta. Nei primi mesi del 2016 l’Amministrazione ha costituito un gruppo di lavoro del quale ho fatto parte insieme agli assessori Annarita De Conti, Annarita Piazza e al giornalista-storico Luciano Santin. Quest’ultimo da anni si occupa della vicenda e in un articolo del 17 febbraio 2016 apparso sul «Messaggero Veneto» – quotidiano dimostratosi sempre sensibile alla questione – aveva dato ampio risalto ai Fusilâts e all’impegno del senatore Franco Marini di essere presente a Cercivento il primo luglio in occasione del centenario. Come importante documento si è proceduto alla ristampa di Sameavin animes dal Purgatori, interessante pubblicazione, ormai introvabile, edita dal Coordinamento dei circoli culturali della Carnia. Il libro è stato presentato dal Comune alla rassegna ‘èStoria’, tenutasi a Gorizia il 20 maggio 2016, consentendo di dare risalto al fatto storico all’interno di un evento di portata internazionale. In quella occasione ho tenuto una relazione in qualità di sindaco del Comune teatro dei fatti insieme a eminenti relatori coordinati dal professor Andrea Zannini dell’Università di Udine: Diego Carpenedo,

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Saluti

Erminio Polo e Luciano Santin; è stata proposta inoltre una toccante lettura scenica con la Ballata dei Fusilâts di Gualtiero Giorgini e Marzia Postogna. Sempre nei primi mesi dell’anno si è cercato il coinvolgimento nel programma commemorativo previsto della Provincia di Udine e della Regione Friuli Venezia Giulia, che hanno concesso fondi consentendo di organizzare sia un convegno presso la sede di Palazzo Belgrado a Udine sia una serie di eventi correlati e previsti a Cercivento dal 30 giugno al 6 agosto 2016, dimostrando così la loro solidarietà nel ricordo dei Fusilâts. Il convegno si è tenuto il 25 giugno nella prestigiosa sala del Consiglio di Palazzo Antonini-Belgrado di Udine, alla presenza del presidente della Provincia di Udine Pietro Fontanini e dell’assessore del Comune di Udine Federico Angelo Pirone; il professor Andrea Zannini dell’Università di Udine ha coordinato l’incontro al quale sono intervenuti Giorgio Zanin (parlamentare del gruppo del Partito Democratico), Marco Pluviano (Collettivo di ricerca internazionale e di dibattito sulla guerra 14-18); Irene Guerrini (Società italiana per lo studio della storia contemporanea); Andrea Zhok (Università Statale di Milano); don Pierluigi Di Piazza (Centro Balducci - Zugliano); Sergio Dini (ex presidente dei Magistrati militari); Luciano Santin (giornalista). Colgo l’occasione qui per ringraziare Tommaso Cerno, all’epoca direttore del «Messaggero Veneto», e oggi dell’«Espresso», che per un imprevisto non poté partecipare al Convegno ma che diede poi ampio spazio all’evento sul suo quotidiano. Particolarmente importante, in occasione del centenario, è stato il coinvolgimento della scuola: bambini della scuola primaria di Cercivento-Treppo Carnico hanno svolto un lavoro di ricerca con le insegnanti e hanno realizzato i disegni per l’annullo e le cartoline filateliche. Gli eventi commemorativi hanno preso avvio il 30 giugno proprio con la serata dedicata alla scuola e ai giovani. È stato presentato un video, curato dai ragazzi della 3B della scuola secondaria di primo grado di Artegna e realizzato dall’Associazione 47/04, che raccoglie testimonianze e mette a confronto due storie vere: Due soldati, due storie, un’unica Grande guerra. Durante la serata sono

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Luca Boschetti

state proposte letture tratte dall’opera La notte dei palpiti di Cosetta Morassi ed eseguite musiche di brani scelti sulla Grande guerra dei Giovani musicisti di Cercivento e del gruppo ‘Incanti Erranti’. Alla commemorazione ufficiale del primo luglio 2016 la partecipazione è stata numerosa. Don Pierluigi di Piazza ha celebrato la santa Messa in suffragio degli alpini pronunciando una toccante riflessione; per la prima volta dopo duecento anni è stata eseguita la Missa brevis in Sol maggiore di Antonin Rossler-Rosetti per coro e orchestra diretta dal maestro Prochazka; dedicato ai Fusilâts il mottetto Adoro te devote del maestro Giovanni Canciani. Alla cerimonia civile presso il cippo commemorativo accanto a me hanno pronunciato i loro interventi Lino Not, presidente della Comunità montana; Francesco Brollo, presidente dell’UTI della Carnia; Pietro Fontanini, presidente della Provincia Udine; Sergio Bolzonello, vicepresidente della Regione Friuli Venezia Giulia e Franco Marini, presidente del Comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale. A queste riflessioni è seguito un emozionante intervento musicale del cantautore Luigi Maieron il quale ha dedicato ai quattro alpini il brano inedito Quattro ragazzi. L’orazione civile è stata tenuta dal professor Guido Crainz, docente universitario ed editorialista di «Repubblica», legato a questi luoghi e alla vicenda. Sabato 2 luglio nella pieve di San Martino è stato dedicato alla memoria dei Fusilâts il concerto Requiem K626 di Mozart, eseguito dal coro e dall’orchestra di Piazzolla sul Brenta diretti dal maestro Paolo Piana. È stato suonato anche l’Inno alla Carnia da Carnorum Regium del maestro Canciani con direzione di Prochazka: esecuzione grandiosa e indimenticabile. Domenica 3 luglio il Circolo culturale ‘La Dalbide’ di Cercivento ha messo in scena la toccante lettura Chê âte guere… la guere da int alla quale hanno preso parte diversi giovani per «cercare di dar voce a quanti finora non ne hanno avuta… con testimonianze, ricordi, canti…», traendo dalla memoria collettiva, trascritta e raccolta negli anni dal Circolo culturale, una viva testimonianza su quei tragici giorni e unendola a riflessioni contemporanee scritte da giovani autori che rimandano alle sofferenze di tutte le guerre.

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Saluti

Il 15 luglio è stato presentato, presso il cinema Daniel di Paluzza e in collaborazione con il locale Circolo culturale ‘Enfretors’, lo spettacolo teatrale Fûc amî: fucilati per l’esempio: una ‘via crucis laica’ che attraverso dodici stazioni prende in esame l’asprezza della Prima guerra mondiale: dalla situazione europea per passare poi alla realtà della Val del But, ai Fusilâts, alle ‘Portatrici’ e concludendo con la Ballata dei fucilati di Cercivento. Il 6 agosto, infine, all’Agricomunità ‘Bosco di Museis’ è stato messo in scena lo spettacolo teatrale Eros & Thanatos, l’amore al tempo della guerra, che ragiona sulle forme del sentimento emerse durante le guerre. I due spettacoli, entrambi scritti da Luciano Santin, sono stati messi in scena dalla Casa della Musica di Trieste. I contributi culturali e storici ai vari eventi sono stati talmente tanti e importanti che in questa sede è impossibile darne compiutamente conto. Così è stato anche per gli interventi e le ricerche emerse in questa occasione: basti citare, ad esempio, il lavoro svolto per l’esame di maturità dalla studentessa Sofia Dassi di Cercivento, a dimostrazione che anche i più giovani ormai conoscono questi fatti e attendono risposte. L’interesse dimostrato dalle tante persone che si sono messe in contatto presentando scritti, poesie e musiche, il saluto inviato dal Presidente della Repubblica, la possibilità offerta al Comune dall’Istituto Stringher di Udine di entrare a far parte del progetto didattico nazionale ‘Umanità dentro la Guerra’, la possibilità di instaurare una collaborazione con l’associazione ‘Historia Gruppo Studi Storici e Sociali Pordenone’ emersa durante un interessante convegno svoltosi al Bosco di Museis il 23 luglio 2016, costituiscono uno sprone a continuare a tenere viva l’attenzione e a sostenere le ragioni della riabilitazione affinché i fatti di Cercivento diventino l’emblema della crudeltà e dell’iniquità della guerra. Mi sta particolarmente a cuore, forse perché anch’io appartengo al corpo degli Alpini, ricordare la presenza costante e la partecipazione sentita e convinta degli alpini di Cercivento e del territorio che edificarono il cippo commemorativo e ogni anno partecipano rendendo gli onori dell’arma alla memoria dei quattro giovani fucilati. È proprio allo scopo di mantenere desta l’attenzione e nella speranza che per i discendenti degli alpini – e specialmente per Mario

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Luca Boschetti

Flora, pronipote dell’alpino Silvio Ortis qui fucilato, che ventisette anni fa ha iniziato la sua battaglia per la riabilitazione – possa essere resa giustizia. Al fine di offrire un ulteriore contributo alla conoscenza dei fatti, il Comune di Cercivento si fa promotore nel 2017, grazie al finanziamento della Regione Friuli Venezia Giulia e in collaborazione con la Provincia e l’Università di Udine, della stampa degli atti del convegno ‘Fucilati per l’esempio’ e dei contributi emersi in occasione del centenario. Nel maggio 2017 inoltre la Provincia di Udine, in collaborazione con il Comune, ha promosso la ristampa del volume Sameavin animes dal purgatori che verrà distribuito alle scuole della provincia. Il primo luglio 2016 lanciai un appello alle massime autorità presenti affinché continuino a interessarsi e tenere viva la causa che ci vede coinvolti, chiedendo che tutte le amministrazioni comunali si facciano partecipi e firmino congiuntamente una lettera da inviare al Capo dello Stato. Ottenni allora diverse rassicurazioni e promesse di coinvolgimento; dunque la fiducia nella riabilitazione, malgrado tutto, resta presente. Nel nostro comune i Fusilâts vengono ricordati ogni anno in occasione della ricorrenza dei caduti e dell’anniversario della fucilazione. Per noi abitanti e alpini di Cercivento, questi quattro ragazzi ormai fanno parte della nostra memoria collettiva: rimangono i ‘nostri quattro Alpini’ con l’onore militare che gli spetta, anche senza una carta che li riabiliti.

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Sergio Bolzonello

Vicepresidente della Regione Friuli Venezia Giulia

Poter trascrivere il mio intervento del primo luglio 2016 a Cercivento è qualcosa di estremamente significativo, sia a livello personale sia in riferimento alla nostra terra e alla nostra storia. Non si è trattato di mera commemorazione, ma di un’occasione per riflettere e per continuare a tramandare alle giovani generazioni la memoria di ciò che è accaduto. Le celebrazioni per il centenario della Grande Guerra che si svolgono nella nostra regione vogliono essere in primis un momento di riflessione sulla guerra e soprattutto sulle terribili conseguenze sociali, civile, morali ed economiche che interessarono le nostre comunità e i nostri territori. La nostra partecipazione è la necessaria azione per coltivare memoria e per pretendere che il nostro ricordo sia indirizzato a tutte le vittime di quella terribile tragedia. Ognuna di loro esige medesimo rispetto. Cento anni fa, nel verde di questi boschi e di questi prati, si consumò uno degli episodi più cruenti: quattro alpini del Battaglione Monte Arvenis, colpevoli di essersi rifiutati di compiere un’azione militare suicida, vennero condannati da una frettolosa giustizia militare. C’era bisogno di dare un esempio estremo a tutti i giovani alpini che popolavano queste trincee, una punizione esemplare per bloccare sul nascere ogni forma di contestazione in merito agli ordini impartiti. In quelle circostanze tornarono buoni quattro ragazzi della nostra regione che faticavano a capire il dovere di combattere e di uccidere i loro dirimpettai carinziani, con cui, tante volte, avevano diviso

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Sergio Bolzonello

lavoro e amicizia. Quattro giovani che, figli di queste montagne, comprendevano come molti ordini impartiti erano azioni irrealizzabili che portavano a vere e proprie carneficine. A Cercivento, Giovanni Battista Coradazzi da Forni di Sopra, Angelo Massaro da Maniago, Basilio Matiz da Timau e Silvio Gaetano Ortis da Paluzza furono condannati al termine di quello che, formalmente, risultò un processo per una protesta scoppiata in una baracca. È arrivato il momento di accogliere nella memoria collettiva il loro nome e quello di tutti i soldati giustiziati nella Prima guerra mondiale. Riabilitare la loro presenza è un atto dovuto perché, permettendomi di utilizzare le parole del professore Guido Crainz, «non si chiederebbe questa revisione se non si avesse un vero amore per la patria: una patria che deve identificarsi con la giustizia e l’umanità». Siamo qui per ricordare quei ragazzi, lo dobbiamo alla memoria della comunità di questi luoghi che non ha mai abbandonato il ricordo di quei loro figli. L’episodio di Cercivento ci ricorda antiche sofferenze e ingiustizie protrattesi sino a oggi, ingiustizie che vogliamo credere possano venir finalmente riparate. La loro vicenda non va dimenticata anche per la lezione che possono impartire a noi, loro nipoti e pronipoti, abitanti di un Paese migliore e senza guerre, ma spesso disinteressati e disincantati rispetto all’impegno, alla testimonianza, alla partecipazione attiva alla vita sociale e politica.

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Pietro Fontanini

Presidente della Provincia di Udine

A distanza di oltre cento anni dall’esecuzione, i fucilati di Cercivento attendono ancora giustizia. La decimazione dei quattro alpini all’alba del primo luglio 1916, davanti al muro di cinta del piccolo cimitero del paese carnico, rappresenta una ferita aperta il cui ricordo è ancora vivo e forte tra le popolazioni della Carnia che, ogni anno, partecipano numerose alle commemorazioni e alle iniziative in loro omaggio. Occasioni importanti, come il convegno ‘Fucilati per l’esempio’ organizzato in occasione del centenario della tragica morte e al quale si riferiscono gli atti raccolti in questa pubblicazione, per ricordare una vicenda vissuta come un affronto, un dolore non sopito nell’immensa atrocità provocata dal primo conflitto mondiale. Tra i caduti della Grande Guerra ci sono anche Silvio Gaetano Ortis, Giobatta Coradazzi, Angelo Massaro e Basilio Matiz, gli alpini del 109mo Battaglione Monte Arvenis passati per le armi per reati disciplinari: per essersi rifiutati, com’è noto, di eseguire un ordine suicida – prendere il monte Cellon in pieno giorno sotto il fuoco delle mitragliatrici – e aver proposto di conquistare la stessa cima di notte o con la nebbia, in virtù della conoscenza di quei luoghi e della pericolosità dell’azione stabilita dal Comando. Per il tribunale speciale che celebrò il processo farsa si trattò di «rivolta in faccia al nemico», reato punito con la massima pena, la condanna a morte e la perdita dell’onore: il principio non era quello di esercitare una forma di giustizia, ma far capire ai soldati che il piombo italiano doveva far più paura del piombo nemico. Bisognava colpire per seminare il terrore. La storia della Prima guerra mondiale non fa menzione di questo episodio, la morte di questi quattro alpini è rimasta nell’ombra. 15

Pietro Fontanini

Tramandata nella memoria orale del comune montano, la decimazione di Cercivento è divenuta patrimonio collettivo: sulla storia dei Fusilâts di Cercivento sono state scritte tre pubblicazioni, raccolte testimonianze, si è creato un comitato e un movimento di opinione, si è mobilitato il mondo della cultura, la politica e le istituzioni al fine di restituire l’onore militare e la dignità di vittime della guerra a questi soldati. A Cercivento, nel 1996, è stato eretto un cippo in memoria dei quattro alpini, unico esempio in Italia (i militari italiani condannati a morte nel corso della Prima guerra mondiale per reati di diserzione e per i reati in servizio sono circa un migliaio). Oltre all’approvazione di un ordine del giorno a favore della restituzione dell’onore, la Provincia di Udine, in collaborazione con l’amministrazione comunale di Cercivento, ha promosso la diffusione nelle scuole superiori del volume Sameavin animes dal Purgatori affinché i ragazzi, accompagnati dai docenti, conoscano e approfondiscano questa tragica vicenda. Il Parlamento deve riprendere l’iter legislativo per la riabilitazione, partito alla Camera nel 2015, ma poi stravolto e bloccato al Senato. Anche il presidente della Repubblica Sergio Matterella ha manifestato il suo pensiero sulle esecuzioni sommarie di militari eseguite nel corso della Grande Guerra. È tempo di rendere giustizia a questi alpini: la parte politica e la giustizia militare si devono mettere d’accordo per riconoscere alle famiglie l’onore di questi soldati.

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Franco Marini

Presidente del Comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale

Il centenario della Grande Guerra ha riproposto all’attenzione del Paese il tema dei militari e civili italiani caduti per fucilazione dopo processo o per esecuzione sommaria e decimazione. Esiste una sensibilità forte e motivata, non solo qui, a Cercivento, dove quattro alpini furono passati per le armi per aver contestato l’ordine di attaccare la vetta del Cellon senza copertura di artiglieria e in pieno giorno. Non è mia intenzione rubare il mestiere agli storici né, tantomeno, al legislatore che sta lavorando a un disegno di legge di iniziativa parlamentare (ora all’esame del Senato dopo l’approvazione della Camera dei deputati) per la riabilitazione dei soldati condannati alla pena capitale. Mi limito a ribadire che credo sia stato giusto riaprire una questione che in altre nazioni è già stata affrontata e in qualche caso risolta. L’esercito italiano ha registrato in assoluto il più alto numero di fucilati e giustiziati tra quelli coinvolti nel prima conflitto mondiale, cioè di eserciti che hanno mandato a combattere molti più uomini e che sono stati impegnati dieci mesi in più del nostro (la Francia, ad esempio, aveva al fronte il doppio quasi dei nostri soldati e porta davanti al plotone circa settecento soldati): già solo questa fatto fa comprendere l’asprezza senza pari utilizzata dai comandi italiani. Come pure è noto – ne parla ad esempio Piero Melograni nella sua storia politica della Grande Guerra – che gli stati maggiori, a cominciare dal generale Cadorna (viene citata una sua lettera del 1916 in proposito) incoraggiavano il ricorso alle decimazioni per scoraggiare atti di insubordinazione delle truppe.

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Franco Marini

Nella straordinaria opera di Alberto Monticone ed Enzo Forcella del 1968, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, possiamo leggere di sentenze capitali giustificate con l’obiettivo di fornire «salutare esempio» contro la propaganda neutralista. Già da questi scarni riferimenti si ricava l’impressione che sia oltremodo giustificato dedicare alla questione tutta l’attenzione scientifica, giuridica e legislativa necessaria per restituire l’onore a quanti ingiustamente sono stati considerati traditori della patria. «Un Paese dalle solide radici come l’Italia non deve avere il timore di guardare anche alle pagine più buie e controverse della propria storia recente», ci ha ricordato a maggio dello scorso anno il presidente Mattarella nel messaggio indirizzato al convegno promosso dal Museo storico della guerra a Rovereto dedicato a ‘L’Italia nella guerra mondiale ed i suoi fucilati: quello che (non) sappiamo’. È questo lo spirito con cui procedere nel nome della verità e della giustizia.

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PREFAZIONE

Luciano Santin, Andrea Zannini

La rivisitazione, a un secolo di distanza, delle fucilazioni di Cercivento, non è un mero ed accademico esercizio di ricerca su un fatto episodico. Nata dal costante e indefettibile impegno di parenti degli alpini condannati a morte nel corso della Grande Guerra e dalla diffusa sensibilità degli abitanti di un territorio, la Valle del But, all’epoca prima linea, ha assunto una valenza etica, per restituire l’onore a giovani uccisi e infamati con una decimazione sub specie juris. Attraverso i libri editi, e ripetute azioni volte a richiamare sul caso l’attenzione dell’opinione pubblica e della politica nazionale, ha poi acquisito un ruolo di simbolo, e di precedente utile a considerare in un’ottica diversa le vicende di un conflitto la cui narrazione storica – complice anche la retorica e il filobellicismo del susseguente regime fascista – è stata oggetto di omissioni e lumeggiamenti che ne hanno restituito un’immagine variamente distorta. Ma, ancorché sia giusto circostanziarla, la vicenda rappresenta un’occasione per riflettere anche sul presente. Perché nel tempo presente si sono manifestate, in merito al riesame del caso, forti resistenze che illuminano sul comportamento del Potere. Hanno infatti chiesto di restituire l’onore ai quattro Fusilâts migliaia di friulani, e, con unanimità di voto, il consiglio provinciale di Udine e quello regionale del Friuli Venezia Giulia. Si è spesa la presidente della Regione, che ha trovato una sponda, in merito al tema dei ‘fucilati per l’esempio’, anche in monsignor Santo Marcianò, capo dei cappellani militari italiani («Giustiziarli fu un atto di violenza ingiustificato, gratuito, da condannare» ha detto) e nello 19

Luciano Santin, Andrea Zannini

stesso Capo dello Stato Sergio Mattarella, il quale, in un messaggio, ha detto che «La memoria dei mille e più italiani uccisi dai plotoni di esecuzione interpella la nostra coscienza di uomini liberi e il nostro senso di umanità». Poi la questione è approdata in Parlamento. Il 24 maggio 2015 – data all’evidenza simbolica – la Camera dei deputati ha licenziato una legge ad hoc, che ha avuto come presentatore e relatore gli onorevoli Gian Piero Scanu e Giorgio Zanin. Procedura velocissima, per poter promulgare il provvedimento per il primo luglio 2016, centenario esatto delle esecuzioni di Cercivento, e celebrare un ‘giubileo della misericordia’. Il testo è passato al Senato, dove è rimasto lungamente in lista d’attesa, ed è stato poi totalmente stravolto in sede commissione Difesa (il massimo che si ammette, ferme restando le colpe, è una concessione di perdono). Per insabbiare la legge, rimandandola alla Camera, sarebbe bastato un aggiustamento minimo. Invece si è scelto un respingimento totale, ed è il caso di esaminare nel dettaglio alcune delle motivazioni addotte. Al di là di alcune speciose considerazioni sulle «possibili disparità di trattamento con i fucilati di altre guerre (quali la terza guerra d’indipendenza, la campagna di Libia o la seconda guerra mondiale)», sul rischio di «escludere ingiustamente chi non ha eredi o qualcuno che ne custodisca la memoria» e sul «motivo tecnico difficilmente superabile», costituito da un intervento da parte «della Repubblica italiana per sentenze comminate dal Regno d’Italia in nome del Re», ci sono tre elementi degni di particolare attenzione. «I soggetti uditi», in merito alla riabilitazione, recita il verbale della seduta «hanno altresì rilevato che questo presupporrebbe l’esistenza in vita del soggetto». Si tratta dell’obiezione opposta sin dagli anni Ottanta alla richiesta della restituzione dell’onore ai Fusilâts: l’istanza può essere presentata esclusivamente dall’interessato. Un cortocircuito logico degno di Comma 22 di Joseph Heller. Viene poi sollevato il problema economico: il riesame previsto comporterebbe il «rafforzamento degli uffici giudiziari coinvolti, trovando adeguata copertura finanziaria», ma potrebbe anche «far sorgere delle aspettative di natura economica in capo alle famiglie

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Prefazione

dei caduti (sia in termini di risarcimento, sia in termini di recupero di emolumenti mai corrisposti a motivo della condanna)». Dunque non se ne deve fare niente perché, se si scoprisse un errore giudiziario, i discendenti potrebbero chiedere un indennizzo per la colpevole uccisione del loro caro. Se da un lato questa considerazione è offensiva per quanti chiedono giustizia (c’è chi è stato toccato sino alle lacrime dal sospetto che dietro la richiesta di verità potesse esserci dell’interesse), dall’altro lede con somma disinvoltura un elementare fondamento di tutte le giustizie. Cioè il principio risarcitorio, per cui i condannati per delitti mai commessi hanno diritto a essere ripagati della pena immeritatamente scontata. Qui non c’è un retropensiero nascosto: c’è l’esplicita affermazione, sbalorditiva stante la collocazione in sede legislativa, che di fronte al sospetto che abbia commesso un errore, lo Stato non deve fare luce a riguardo, per tema di averlo commesso, l’errore. Visto che i codici, e prima ancora la sapienza popolare, prescrivono che chi sbaglia debba pagare, è meglio non correre il rischio di fare verità su cittadini morti per errori da parte dei comandi militari. Questo aspetto va sottolineato non perché ci siano realmente in gioco elementi economici (peraltro facilmente ovviabili con un lieve ritocco della legge), ma perché mette in luce un modo di ragionare e di procedere. Infine c’è un punto che è forse il più importante di tutti: l’esclusione degli studenti dalla trattazione di questi temi. La Legge ScanuZanin prevedeva infatti che se ne parlasse nelle scuole superiori italiane, e che venisse bandito anche un concorso nazionale di elaborati, allo scopo di ricordare i ‘fucilati per l’esempio’ con una lapide da collocare a Roma, nell’Altare della Patria. L’epigrafe sarebbe stata scelta proprio tra le considerazioni espresse nei temi. Anche questo punto viene censurato, poiché «Si riporrebbe troppo affidamento nelle basi culturali di un adolescente, chiedendogli di tradurre un giudizio o un sentimento intestato alla Repubblica». Dunque un Paese che ha mandato ragazzi di diciott’anni ad ammazzare e a farsi ammazzare, afferma, per bocca dei suoi rappresentanti, che gli stessi diciottenni non sono maturi per ragionare su questi argomenti.

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Luciano Santin, Andrea Zannini

Per questo parlare di Cercivento, dei fatti di allora e del loro intrecciarsi con le scelte di oggi, come è nell’intenzione di questo volume e degli interventi qui raccolti, può essere prezioso per aiutare la crescita morale e civile dei cittadini di domani. La ricerca di verità e di giustizia, e le riflessioni su una sensibilità mutata, insegneranno loro che da qualunque parte potranno volgersi nel loro futuro percorso umano e politico, avranno il dovere, più ancora che il diritto, di rifuggire dai pregiudizi, di ricusare gli affidamenti a priori, di abdicare all’uso delle loro facoltà critiche, per quanto faticoso o scomodo ciò possa risultare. Magari riflettendo sulla storia di alcuni militari di cent’anni fa che, senza abdicare al loro compito, nella dimensione irragionevole della guerra, hanno chiesto di usare il raziocinio e la pietà umana.

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ORAZIONE CIVILE* Guido Crainz

È accaduto qui, un secolo fa: nella prima guerra moderna, che travolgeva imperi e culture, modi di pensare e modi di vivere dell’intera Europa. All’indomani di essa «nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole», scriveva Walter Benjamin. Di quella guerra stiamo parlando e qui si è svolto il dramma di un secolo fa: dentro una tragedia mondiale e al tempo stesso dentro il vissuto di una comunità. Sono molte le ragioni che ci portano qui: in primo luogo il dovere di onorare Silvio Gaetano Ortis, Giovanni Battista Coradazzi, Basilio Matiz e Angelo Primo Massaro, fucilati ingiustamente. Il dovere di onorare loro e i loro compagni – lo ha fatto bene Diego Carpenedo ne La compagnia fucilati; loro, le loro famiglie e i loro discendenti, nel dolore di allora e nella sofferenza per lcesclusione dei loro cari dalla memoria nazionale. Questo però non è solo un luogo del dolore: è il luogo da cui ha preso forza la richiesta che questa esclusione cessi, all’interno di una riflessione nazionale. È stato un segnale al Paese il cippo messo vent’anni fa dal Comune di Cercivento: «un atto di riparazione deciso dal basso, un corale gesto di pietà storica», come ha scritto Maria Rosa Calderoni, che a questa storia si è appassionata. E l’impegno del Comune di Cercivento fa parte di una più generale ‘battaglia di memoria’ che coinvolge l’intera Europa: un importante storico inglese, John Foot, ha inserito giustamente questo episodio in un bel volume dedicato alle «memorie divise» (Fratture d’Italia, Rizzoli 2009). Ci muovono inoltre ragioni Discorso tenuto in occasione del centesimo anniversario della fucilazione, Cercivento, primo luglio 2016. *

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ancor più di fondo, perchè questo luogo invita a interrogarsi su grandi nodi: il dolore e la morte, il modo di intendere la patria e l’onore, la vita e il rispetto dell’umanità. C’è tutto, in questa vicenda, e sono noti i fatti e il clima in cui si svolse, ricostruiti per la prima volta molti anni fa da Gian Paolo Leschiutta. Eravamo nel pieno di una guerra che immetteva a forza milioni di uomini nella ‘grande storia’, nei suoi aspetti più terribili e feroci. Strappandoli alla loro vita quotidiana, trascinandoli violentemente in una ‘modernità’ che non ha più come cardine il progresso, come era stato sino ad allora, ma la distruzione e l’annientamento. Un trauma radicale per l’intero Occidente. E quella guerra ferocemente moderna fu combattuta – non solo in Italia – con una cultura militare arcaica, con codici autoritari e disumani. Un aspetto a lungo rimosso: lo portava alla luce quasi mezzo secolo un libro scritto da uno storico intensamente cattolico, Alberto Monticone, e da un intellettuale rigorosamente laico, Enzo Forcella. In quel libro, Plotone d’esecuzione, Forcella si interrogava sulle centinaia di migliaia di denunce e sui processi per «discorsi disfattisti, diserzioni, ammutinamenti, ribellioni in faccia o in presenza del nemico» (su questa elegante questione di diritto – annotava – si decide spesso la vita di un uomo). Alberto Monticone ci aiutava invece a ricordare le leggi militari di allora: entriamo nella «grande guerra», osservava, con gli stessi codici con cui Carlo Alberto aveva combattuto la prima guerra di indipendenza. Ancora Monticone ci ricordava il clima di quel 1916, con l’offensiva austriaca che a maggio travolge lo schieramento italiano in Trentino (la Strafexpedition). Già allora, come farà dopo Caporetto, il generale Cadorna nega responsabilità ed errori dei vertici militari e rovescia ogni colpa sulla presunta codardia dei soldati: e parlava di uomini che si stavano battendo con enorme senso del sacrificio in una guerra devastante. L’offensiva austriaca provoca l’inasprirsi di misure già durissime: Cadorna ordina con sempre più forza di ricorrere a processi ed esecuzioni sommarie, e il primo novembre introduce ufficialmente il sorteggio per procedere alla fucilazione. Fra quelle due date, fra il maggio e il novembre del 1916, vi è il dramma che si è svolto qui. I fatti sono duri come le rocce, a partire dall’ordine di attacco dato

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Orazione civile

a un plotone del Battaglione Monte Arvenis: conquistare la cima orientale del monte Cellon, una cresta liscia e priva di elementi che possano facilitare l’avanzata; conquistarla in pieno giorno, senza il sostegno dell’artiglieria e senza azioni di appoggio. Un’azione decisa irresponsabilmente dai vertici militari, e agli alpini del plotone apparve subito per quel che era: una insensata azione suicida. Conoscono i luoghi, quegli alpini: è di Timau Matiz ed è di Paluzza Ortis; è ancora della Carnia, di Forni di Sopra, Coradazzi, ed è di Maniago invece Massaro. Si vedano però tutti i luoghi di nascita degli alpini di quel plotone: oltre a questi comuni troviamo quelli di Comeglians, Verzegnis, Illegio, Ravascletto, Socchieve, Enemonzo, Cimolais, Claut, Ovaro, Cavazzo, Caneva di Tolmezzo; ma anche Caneva di Sacile, e poi Sacile, Fanna, Aviano, Pordenone, Castions e altri paesi ancora. Una vera e propria ‘geografia del Friuli’ completata da una presenza, sia pur esigua, dell’Italia centrale e meridionale. Sono questi alpini che considerano suicida e insensata quell’azione: propongono di conquistare la cima in altro modo (con un’azione notturna, e con i necessari appoggi e coperture), e di fronte all’irresponsabile diniego del comandante si rifiutano di uscire dai baraccamenti. Di qui l’arresto del plotone e l’accusa di rivolta di fronte al nemico, molto più grave di altre possibili, come l’ammutinamento (eccole, le «eleganti questioni di diritto su cui si decide spesso la vita di un uomo», per dirla con l’amara ironia di Forcella). Di qui i processi e l’esecuzione dei quattro alpini, senza preoccuparsi troppo se siano realmente responsabili di quei fatti (Matiz non vi partecipa direttamente e non è neppure accusato di averlo fatto). Quattro alpini, con il loro valore e le loro storie. E con il loro amore per la patria: Ortis è stato decorato al valor militare per la guerra di Libia, e Massaro è tornato da Düsseldorf, dove lavorava, per combattere per l’Italia. Uomini in carne e ossa, con le loro vite e i loro affetti, condannati con un processo sommario: un processo-farsa. Non documentano tutto le carte d’archivio, ma documentano abbastanza per farci comprendere la disumanità e l’enormità di quel processo e di quella sentenza. È c’è qualcosa che le carte d’archivio non riusciranno mai a dire: lo stravolgimento dei vissuti; le sofferenze delle vittime, dei loro fami-

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liari, dei loro commilitoni e amici. Uno stravolgimento che inizia prima della condanna e prima ancora dell’episodio che porta a essa. Uno stravolgimento dei principi di umanità, e al tempo stesso uno stravolgimento che coinvolge un intero mondo, e anche i luoghi: e in questo caso i luoghi erano spesso conosciuti e amati. Non avviene solo qui, non avviene solo in Carnia. Molte testimonianze europee hanno al centro proprio lo stravolgimento della natura prodotto dalla guerra. «Alberi falciati come campi di grano», scriveva Henri Barbusse, antimilitarista convinto ma volontario per difendere la Francia invasa. E un soldato tedesco annotava: «Il bosco che circonda il campo di battaglia sarà assassinato con la stessa certezza con cui il soldato sarà ucciso mentre guida l’attacco. Il bosco assassinato è il mio compagno». È lo stesso stravolgimento evocato quarant’anni fa da Leonardo Zanier, poeta della Carnia e del mondo, parlando proprio di queste montagne: Las monts «iù das Gjermanias/ e sù das Sicilias/ a emplâlas di canonadas/ las barelas van sù vueitas/ e tornin iù cjamadas» (Le montagne giù dalle Germanie/ e su dalle Sicilie/ a riempirle di cannonate/ le barelle salgono vuote/ e scendono cariche). In quella stessa raccolta (che richiama la Prima guerra mondiale fin dal titolo, Che Diaz… us al meriti), Zanier proponeva il suo Projekt für einen Grabstein al pass di Mont di Cros (Progetto per una lapide al passo di Monte Croce), giustamente in due lingue. Proponeva di dedicarla a «Joseph Schneider von Mauthen/ ch’a ven a stâi sartôr/ e Bepo di Lanudesc muradôr/ ex emigrant in Austria» (Giuseppe Schneider da Mauthen/ di sua condizione sarto/ e Giuseppe di Lanudesc muratore/ ex emigrante in Austria) che si erano uccisi a vicenda sul Freikofel. Qui si è svolta dunque la tragedia del giugno e del luglio del 1916 e qui la dobbiamo ricordare, grati a quanti ce l’hanno fatta conoscere, ma in realtà l’avevamo già vista, questa storia: con altri protagonisti e su altri fronti ma la stessa, identica storia. L’aveva raccontata a tutto il mondo nel 1957 un maestro del cinema come Stanley Kubrick in un film-capolavoro, Orizzonti di gloria. Difficile dimenticare quel film dopo averlo visto: con gli alti comandi che vogliono imporre a tutti i costi una missione suicida; con un plotone che la rifiuta ed è accusato di tradimento e con l’esecuzione di

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tre soldati, inutilmente difesi dal loro sensibile comandante, uno straordinario Kirk Douglas. Il film fu vietato in Francia per quasi vent’anni, sino al 1975: una grande amarezza per Kubrick, che si attenuò solo pochi mesi prima della sua morte. È infatti del novembre del 1998 il discorso del presidente francese Lionel Jospin che chiedeva di accogliere nella memoria collettiva i soldati fucilati nella Prima guerra mondiale pour l’exemple: «soldati che avevano già duramente e gloriosamente combattuto», disse Jospin. Dieci anni dopo, nel 2008, le parole di Jospin sono state fatte proprie dal presidente Nicolas Sarkozy e alcuni atti simbolici sono stati compiuti: nel Museo dell’esercito, all’Hotel National des Invalides, oggi vi è uno spazio dedicato ai Fusillés par l’exemple (fucilati per l’esempio, un’espressione terribile). In Inghilterra è stata introdotta dieci anni fa, nel 2006, una misura di legge che considera ‘caduti per la patria’ i fucilati in seguito a sentenze delle corti marziali – e già in precedenza a essi era stato dedicato un memoriale. La stessa via era stata già battuta dalla Nuova Zelanda e dal Canada. In questo più ampio scenario si colloca il ripensamento ancora incompiuto dell’Italia, avviato vent’anni fa proprio da qui, sostenuto in modo crescente dalle amministrazioni e dalla popolazione di Cercivento, della Carnia e della Regione; con i primi risultati, a partire dalla risoluzione del 2000 della Commissione parlamentare della Difesa che auspicava un processo di revisione (risoluzione fatta propria dal Governo: poteva annunciarlo con soddisfazione il sottosegretario alla Giustizia di allora, Franco Corleone, che si era impegnato per questa causa). In tempi più recenti sono cresciuti appelli e iniziative – si sono espressi anche il Consiglio regionale e quello della Provincia di Udine – sino alla proposta di legge per la riabilitazione dei soldati fucilati per atti di indisciplina e diserzione: approvata all’unanimità dalla Camera nel maggio dell’anno scorso (2015) e oggi all’esame del Senato (un esame che purtroppo si sta prolungando). Non c’è dubbio: «la memoria dei mille e più italiani uccisi dai plotoni di esecuzione interpella la nostra coscienza di uomini liberi e il nostro senso di umanità», come è stato autorevolmente detto. Li ‘interpella’, perché chiedere questa riflessione, e chiedere atti ufficiali che la rendano pubblica e condivisa, non

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significa certo voler riscrivere la storia con spirito orwelliano, come qualcuno ha detto per opporsi alla legge. Non significa cioè volerla modificare a proprio arbitrio, annullando ogni altro pensiero: non citerei neppure questa sciocchezza se non fosse stata detta da un senatore della Repubblica nella commissione che sta discutendo la legge. Riflettere su questi eventi non significa neppure mettere in discussione la disciplina in sé o l’esercito in sé – come forse qualcuno ha paventato o paventa. Lo dico avendo negli occhi la parata del 2 giugno di un mese fa: questo è l’esercito di un paese democratico, e proprio per questo è giusto chiedere che le ingiustizie e le disumanità del passato siano condannate in modo fermo e chiaro. E che le vittime incolpevoli siano almeno riabilitate agli occhi del Paese: l’unica consolazione, purtroppo, che possiamo offrire ai loro discendenti. Non si chiederebbe questa revisione se non si avesse un vero amore per la patria: una patria che deve identificarsi con la giustizia e l’umanità. Anche per questo dobbiamo essere molto grati a chi ha avviato questa riflessione con il coraggioso cippo posto qui vent’anni fa. Anche per questo chiediamo con forza che il Senato concluda al più presto i suoi lavori, approvando in via definitiva la legge. Anche per questo, un secolo dopo, siamo qui a dire: «Onore a voi, Silvio Gaetano Ortis, Giovanni Battista Coradazzi, Basilio Matiz, Angelo Primo Massaro».

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LA LEGGE DI RIABILITAZIONE DEI FUCILATI PER MANO AMICA, UN FIORE DELLA PRIMAVERA DI BARBIANA, UN GIUBILEO CIVILE Giorgio Zanin*

Premessa Sappiamo che è arduo guardare agli eventi del passato con le lenti del presente. Un Paese dalle solide radici come l’Italia non deve avere il timore di guardare anche alle pagine più buie e controverse della propria storia recente. Ricordare e capire non vuol dire necessariamente assolvere o giustificare. La memoria di quei mille e più italiani uccisi dai plotoni di esecuzione dello stesso esercito interpella oggi la nostra coscienza di uomini liberi e il nostro senso di umanità. 1. Da dove nasce La proposta di legge nasce senz’altro dall’ascolto delle istanze e poi da un esplicito appello alle autorità da parte di un consistente gruppo di storici e studiosi, nell’ambito del centenario della Grande Guerra. La vicenda è di spessore etico e morale: nel corso della Prima guerra mondiale in Italia infatti furono oltre 4.000 i soldati condannati alla pena capitale, con oltre 1.100 giustiziati effettivi. Le fonti sottolineano che le esecuzioni sommarie furono autorizzate e incoraggiate dal generale Cadorna, che le considerava utili esempi per le truppe ed efficaci come punizioni per reati di particolare gravità. La sua gestazione ha origine a partire dal lavoro del * Deputato, componente della IV Commissione Difesa alla Camera dei deputati, è stato proponente e relatore della legge Disposizioni concernenti i militari italiani ai quali è stata irrogata la pena capitale durante la Prima guerra mondiale.

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collega Gianpiero Scanu, capogruppo PD in Commissione Difesa e primo firmatario del provvedimento. Con lui abbiamo cominciato a lavorare al testo dall’inverno del 2014. Nelle fasi preliminari abbiamo avuto insieme anche un incontro con il presidente del Comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale, senatore Franco Marini. 2. La presentazione Il testo della legge, sottoscritto da oltre settanta deputati, è stato presentato ufficialmente in sala stampa alla Camera dei deputati giovedì 2 aprile 2015, poco prima di Pasqua, dai deputati Scanu, Zanin e Garofani in una conferenza stampa a cui hanno preso parte anche un rappresentante degli storici firmatari dell’appello e monsignor Angelo Frigerio, vicario generale dell’Ordinariato militare. In conferenza stampa Gianpiero Scanu, primo firmatario della proposta di legge, ha affermato: Dobbiamo fare i conti con la storia. Lo Stato italiano si deve scusare per i militari uccisi durante la Grande Guerra senza nessun motivo. Con la nostra proposta vogliamo che la magistratura riprenda in mano le sentenze con cui sono stati mandati a morte 750 militari italiani. La convinzione è che la quasi totalità di quei procedimenti si concluderà con la piena riabilitazione. Lo impone la civiltà giuridica. Uno Stato deve chiedere scusa quando sbaglia. L’iter legislativo, di cui dovrebbero occuparsi le commissioni Difesa e Giustizia, chiederà la sede legislativa, un percorso abbreviato che evita il passaggio del provvedimento dall’Aula. Una volta che la proposta diventerà legge dovrà essere la corte d’appello militare ad applicarla.

3. La proposta di legge (A.C.2741-A) e abbinata (A.C.3035) La proposta di legge reca disposizioni volte ad attivare il procedimento per la riabilitazione del personale militare italiano condannato nel corso della Prima guerra mondiale alla pena capitale per la violazione di disposizioni previste dall’allora codice penale militare, nonché per restituire l’onore militare e riconoscere la dignità di

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vittime di guerra a quanti furono passati per le armi senza processo con la brutale pratica della decimazione o per esecuzione immediata e diretta da parte dei superiori. Si tratta di un’iniziativa di cui è chiaro l’alto valore morale e l’importanza, volta non solo a mantenere vivo il ricordo di quei fatti, ma anche a riabilitare e a onorare i militari italiani vittime dei metodi repressivi con i quali si voleva mantenere la disciplina nei ranghi dell’esercito durante il primo conflitto mondiale. Un percorso quello della riabilitazione che al momento attuale la legislazione non permette, dato che a farne istanza dovrebbe essere l’interessato, dietro controprova peraltro di buona condotta, cosa che evidentemente è impraticabile per i fucilati. In sintesi, la proposta di legge è composta da due articoli. All’articolo 1 dispone la riabilitazione dei militari delle Forze armate italiane che nel corso della Prima guerra mondiale abbiano riportato condanna alla pena capitale per i reati previsti nei capi III, IV e V del titolo II del libro primo del codice penale per l’Esercito, approvato con il regio decreto 28 novembre 1869. In pratica essa prevede l’attivazione d’ufficio della procedura per la riabilitazione dei militari condannati a morte nel corso della Prima guerra mondiale escludendo i responsabili di reati che sarebbero stati tali anche in tempo di pace, quali omicidio, saccheggio e violenza sessuale. Le richieste di riabilitazione andranno indirizzate al Procuratore generale militare presso la Corte militare d’appello, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge. Si capisca dunque la chiave fondamentale della proposta di legge, che gioca le sue carte su un terreno rispettoso del ruolo della magistratura, al punto da prescrivere una procedura qualificata in questa direzione, cioè nel senso di un mantenimento assoluto della sua autonomia. Infatti, il compito previsto dalla legge è quello innanzitutto, con un avvio d’ufficio da parte del procuratore generale militare, di riaprire i casi che sono assegnati con questo stesso procedimento di legge e inviarli per una loro rivisitazione al Tribunale militare di sorveglianza per una richiesta di riabilitazione che dunque farà capo non a questa legge ma alla capacità della magistratura di rivisitare questi stessi atti di imputazione sulla linea di quanto previsto dall’articolo 1. Con ciò si intende perciò salvaguardare l’autonomia del giudizio della magi-

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stratura e, tuttavia, imprimere un orientamento molto chiaro e molto delimitato, per quanto ci riguarda, come Parlamento. All’articolo 2 prevede misure per restituire l’onore militare a quanti furono passati per le armi, nonché una serie di iniziative volte a mantenere vivo il ricordo dei fatti oggetto della proposta di legge. Prescrive dunque atti molto significativi in ordine alla trasparenza, perché questa riabilitazione, con tutta evidenza, è orientata a sancire non soltanto delle restituzioni di onore, ma anche a restituire al nostro Paese un profilo diverso da quanto il Paese stesso ha consegnato alla memoria viva delle famiglie e dei caduti nell’ambito del primo conflitto mondiale. Si prevede perciò: l’inserimento dei fucilati, una volta riabilitati, nell’albo d’oro per l’onoranza dei caduti; la comunicazione esplicita nei rispettivi comuni di residenza dei deceduti, perché questo atto di riabilitazione venga evidentemente pubblicato all’albo comunale; il coinvolgimento delle scuole superiori di tutto il Paese, affinché concorrano alla stesura della scritta cerimoniale che verrà affissa con una targa presso il Vittoriano e presso i sacrari di tutta Italia con cui la Repubblica dovrà rendere evidente la sua volontà di chiedere il perdono dei caduti che saranno stati riabilitati; infine la legge prescrive un’apertura degli archivi della difesa e dell’Arma dei carabinieri per le questioni in oggetto, così da offrire la garanzia della massima trasparenza agli studiosi. 4. L’iter in commissione Ho svolto il mio ruolo di relatore in Commissione secondo tre fondamentali indirizzi: ricerca della sintesi unitaria; tempi rapidi, con scadenza entro il 24 maggio; passaggio in aula e non in sede legislativa di Commissione, come inizialmente si era prospettato per assicurare la velocità del processo. Per quanto riguarda il primo punto, ho anzitutto proposto la sottoscrizione della proposta di legge a tutti i gruppi politici, ottenendo l’adesione a volte anche entusiastica di alcuni. Due sole le resistenze, di segno diverso. Da un lato la diffidenza iniziale da parte dell’onorevole Marcolin, allora nella Lega Nord, che temeva la legge parificasse i reati contro la

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persona a quelli contro la disciplina, riabilitando anche ladri e spie. Questa iniziale distanza è stata risolta con l’accoglimento in sede finale di un emendamento al testo che specifica appunto la differenza tra i reati oggetto della riabilitazione. Dall’altra la volontà del Movimento Cinque Stelle di procedere al deposito di atti autonomi – prima una mozione e poi una proposta di legge a prima firma Basilio – per segnare la propria specifica autonomia anche in questa materia. La disponibilità a recepire nella legge Scanu-Zanin alcune delle istanze proposte dalla proposta Basilio, con riferimento particolare a raggiungere l’obiettivo della trasparenza e dell’assicurare il pieno accesso agli atti per i casi previsti dalla legge, ha permesso anche in questo caso di raggiungere una intesa sostanziale in vista del voto finale. Un elemento importante in questa fase per ottenere un sostegno unitario alla proposta è derivato anche dalla forte volontà, nel rispetto dei tempi, di conservare uno spazio per le audizioni in sede di Commissione. Valutata la possibilità di una finestra di tempi assai ridotta, ho proposto una sola audizione qualificata, invitando perciò per la stessa un testimone vivo della vicenda della riabilitazione in quanto parente di una vittima, e un rappresentante istituzionale in rappresentanza delle comunità segnate dalla vicenda delle fucilazioni, qual è stato in effetti il sindaco di Catanzaro. Lui infatti, come altri amministratori, avuta notizia dalla stampa del provvedimento legislativo avviato, ha voluto manifestare il proprio esplicito consenso con una lettera apposita, che ha indirizzato alla Commissione Difesa, aiutando tutti dunque a riconoscere l’interesse nazionale per la materia della legge. Le due audizioni sono state quindi molto significative e qualificate. In particolare l’audizione di Mario Flora, pronipote di Silvio Gaetano Ortis, è stata accompagnata da visibile commozione allorquando è stata mostrata la medaglia dell’alpino, vittima di fucilazione a Cercivento (provincia di Udine). L’iscrizione di tale testimonianza agli atti della Camera è da ritenersi un primo importante risarcimento per lui e per tutte le vittime di quella vicenda. Per quanto riguarda la celerità del percorso, devo dire che ho subito incontrato il favore di alcuni gruppi parlamentari rispetto alla mia proposta di concludere l’approvazione della legge entro la data simbolica del 24 maggio.

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Mentre in un primo tempo si era ventilata l’ipotesi di un’approvazione in sede legislativa in Commissione Difesa, ho ritenuto più autorevole il fatto che il provvedimento fosse approvato dall’Aula nel corso di una seduta generale. Con il concorso dei diversi capigruppo delle forze politiche e in particolare delle pressioni esercitate dai gruppi parlamentari PD e SEL presso la presidente della Camera Laura Boldrini, abbiamo dunque ottenuto l’inserimento della legge nell’ultima seduta d’aula prima della breve pausa in vista delle elezioni amministrative. Dopo la discussione e l’approvazione degli emendamenti in Commissione Difesa, con l’accordo generale tra le forze politiche di una approvazione senza inciampi, la legge è stata dunque discussa in aula il 20 maggio e approvata il 21 maggio all’unanimità, con 331 i voti a favore e una sola astensione. Un risultato che, nonostante sia stata ottenuto in una seduta con tempi contingentati e dove quindi in sede finale sono mancati interventi importanti, ha dato soddisfazione a tutti. 5. Alcune considerazioni La prima sottolineatura che sento di dover fare dopo questa descrizione, è relativa al clima politico entro il quale questa proposta si è sin qui sviluppata. Non deve sfuggire infatti che l’approvazione è arrivata alla Camera sostanzialmente all’unanimità. Un segnale generale di un mutato clima di lettura storica e culturale della Prima guerra mondiale e, più in generale, di una qualche smobilitazione delle letture predefinite della vicenda come potrebbe essere stata ad esempio, senza i livelli dei profili strettamente partitici, la divisione del campo anche in Italia tra nazionalisti-militaristi e internazionalisti-pacifisti. Si può pensare infatti che la votazione di questo ramo del Parlamento nazionale, costituito – lo ricordo – in questa diciassettesima legislatura al 65% da deputati di prima nomina, segni il fatto che parole quali l’amor di patria e l’onore dovuto alle forze armate non devono trovare un segno di contraddizione nella rilettura della pagina delle fucilazioni per mano amica. Ciò implica più in generale la volontà di una lettura degli avvenimenti provvista in primo luogo dell’amore per la verità e un’inter-

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pretazione degli stessi aggiornata secondo la categoria dei diritti umani con i doveri morali a essi connessi. A questo sentire infatti va ricondotta la volontà di scomporre il quadro degli accadimenti, distinguendo perciò le morti causate da reati contro le persone dai reati commessi contro la disciplina, accettando che per alcuni dei primi, dati anche i tempi, fosse quantomeno legittima la pena capitale, mentre per i secondi si possano e si debbano oggi ammettere gli errori e gli eccessi che hanno reso vittime degli innocenti. 6. L’‘obbedienza obbedientissima’ Nei giorni immediatamente successivi all’approvazione, sul «Corriere della Sera» si è svolto un rapido botta e risposta tra Angelo Panebianco e Aldo Cazzullo sul tema della legge. La lettura critica offerta da Panebianco è stata quella di un provvedimento che minerebbe il sistema militare, fondato sull’obbedienza. Lascio agli storici l’analisi di questo potenziale assioma. Personalmente sia durante la presentazione della legge in conferenza stampa il 2 di aprile e poi durante i lavori in aula, ho parlato della legge come di un fiore tardivo della ‘primavera di Barbiana’. Il riferimento è a don Milani, che con le lettere ai cappellani militari e ai giudici del 1967, riferite agli atti del processo per apologia di reato, ha affermato esplicitamente che «l’obbedienza non è più una virtù». Ebbene, la legge in questione a mio parere non è da intendersi come un elogio della disobbedienza, ma come una critica all’obbedienza obbedientissima a cui in fondo mirano le lettere del prete fiorentino. Infatti i reati per i quali si intende prescrivere la riabilitazione dei fucilati, sono in radice originati da una condotta dove a dover essere ripensata è proprio l’interpretazione dell’obbedienza. Da un lato la qualità degli ordini, dall’altro la volontà di eseguirli in modo spesso cieco e zelante, di questo si vuole parlare, riconoscendo i danni che un’obbedienza cieca può produrre anche verso innocenti. Innocenti che hanno poi sofferto ingiustamente pure del disonore, cioè di quel carico morale necessario a sovvertire per cento anni l’interpretazione degli avvenimenti, tramutando le vittime in colpevoli. La domanda posta da Panebianco è dunque legittima? Se rovesciamo

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la lettura, possiamo affermare che i colpevoli sono coloro che gli ordini li hanno impartiti? Possiamo in estrema sintesi affermare che Cadorna è il colpevole e con ciò seppellire l’architrave dell’obbedienza che sorregge il tempio militare? Certo le rivisitazioni storiche non sono una novità e gli eroi di un tempo sono spesso stati ripensati nella veste di tiranni. Non ritengo tuttavia che la legge giunga a questo atto d’accusa implicito. La legge mira a far giustizia e a riconoscere che agli occhi di oggi alcune di quelle morti sono da giudicare innocenti. Nel farlo, del resto, si tratta di recepire un avanzamento del concetto di disciplina militare che il codice della disciplina militare, varato ai tempi del ministro Spadolini nel 1986, ha già da tempo aggiornato secondo la definizione di obbedienza, con la previsione della consapevole partecipazione, che si trova all’articolo 2: La disciplina militare. 1. La disciplina del militare è l’osservanza consapevole delle norme attinenti allo stato di militare in relazione ai compiti istituzionali delle Forze Armate ed alle esigenze che ne derivano. Essa è regola fondamentale per i cittadini alle armi in quanto costituisce il principale fattore di coesione e di efficienza. 2. Per il conseguimento e il mantenimento della disciplina sono determinate le posizioni reciproche del superiore e dell’inferiore, le loro funzioni, i loro compiti e le loro responsabilità. Da ciò discendono il principio di gerarchia e quindi il rapporto di subordinazione e il dovere dell’obbedienza. 3. Il militare osserva con senso di responsabilità e consapevole partecipazione tutte le norme attinenti alla disciplina e ai rapporti gerarchici. Nella disciplina tutti sono uguali di fronte al dovere ed al pericolo.

In questo senso perciò ritengo che l’ordinamento militare e in generale l’esercito non abbiano nulla da temere da questa legge, e piuttosto da far propria la volontà di contribuire al ripensamento della memoria come un contributo di monito a evitare errori sempre possibili.

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7. Il giubileo civile Un terzo passaggio che intendo sottolineare è l’importanza di considerare questa legge come una nota nuova nel corpo legislativo nazionale. La riabilitazione dei fucilati contiene in sé anche la forza dello spirito tracciato dalle ammissioni di colpa e dalle richieste pubbliche di perdono che hanno contrassegnato ormai quindici anni fa, con vasta eco e rilevanza nel profilo identitario, il magistero di papa Giovanni Paolo II e porta dunque con sé i segni di un piccolo ma significativo giubileo civile nazionale. Come per il percorso giubilare infatti – molti ricorderanno ad esempio la rivisitazione del processo a Galileo che Giovanni Paolo II volle iscrivere per il Giubileo del 2000 – si tratta di rileggere gli avvenimenti e di chiedere perdono per gli errori commessi. Si tratta in questo caso di porre al centro dell’azione legislativa il tema del perdono come comportamento pubblico. Un tema che la memoria nel nostro Paese collega ad esempio alle immagini dei funerali di mafia. Ma soprattutto un tema praticato con grande vigore e forza strutturante ad esempio per la pacificazione sudafricana. Un tema che, per la scelta qualificante di coinvolgimento educativo delle scuole, mira ad inserire il ‘riconoscimento della colpa’ e il ‘perdono’ nel pantheon dei comportamenti nobili e di valore per la cittadinanza italiana. La legge realizza perciò un passo avanti nella memoria nazionale attraverso un atto di grande rilevanza morale, che iscrive la capacità di chiedere il perdono tra i valori repubblicani. A questo scopo infatti mira il dispositivo della legge che realizza sia la previsione dell’inserimento dei fucilati nell’Albo d’oro per le onoranze dei caduti, sia l’affissione di una richiesta pubblica di perdono e il coinvolgimento educativo delle scuole per la scelta della predisposizione del testo di una targa da affiggere al Vittoriano e nei sacrari militari a ricordo e riparazione verso le vittime di fucilazione per mano amica. 8. Conclusione In conclusione, ritengo che il Parlamento italiano con questa legge, una volta approvata definitivamente, avrà offerto un alto contribu-

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to alla memoria della Prima guerra mondiale nell’ambito delle celebrazioni del centenario. Un contributo di umanità, che rileggendo la storia, afferma valori e comportamenti per il futuro. Infatti ritengo, tra l’altro, che questa legge offra anche una sorta di vero valore aggiunto al nostro Paese nell’anno del centenario, come Parlamento, in ordine, in primo luogo, a un ripensamento del valore della pena di morte, in una stagione in cui la pena capitale è utilizzata da forze eversive su scala planetaria – penso all’uso che la morte ha su scala mediatica da parte dei terroristi – e ad additare, invece, il fatto che la pena di morte è una consegna di civiltà che noi vogliamo rigorosamente lasciare alle spalle. Penso che la civiltà giuridica possa, con questo atto, compiere un vero passo in avanti, soprattutto pensando, appunto, alla virtù che qui vogliamo additare. 9. Lo stravolgimento Dopo l’iter alla Camera, la legge nel maggio 2015 è passata per l’approvazione al Senato, e qui è rimasta nelle disponibilità della Commissione Difesa per oltre un anno. Mentre tutti attendevano una pronta approvazione, figlia anche del consenso unanime trovato alla Camera, ecco che nell’ottobre 2016, dopo un iter in Commissione segnato da audizioni informali non precisate nel sito del Senato e da un memoriale del professor Arturo Parisi, già presidente del Comitato tecnico-scientifico per la promozione di iniziative di studio e ricerca sul tema del cosiddetto ‘fattore umano’ nella Prima guerra mondiale, emergono alcune problematicità per la legge. Tra queste, anche quella di allontanare ogni ombra di incostituzionalità lasciando impregiudicato il principio di difesa della patria sancito dall’articolo 52 sia rispetto al passato sia rispetto al futuro, ed evitando che i caduti nell’adempimento del dovere o addirittura i decorati si ritrovino, nei fatti, considerati alla stessa stregua di coloro che – pur con tutta l’umana comprensione – si sono sottratti a quel dovere. Infine, non possono essere trascurate le possibili disparità di trattamento con i fucilati di altre guerre (quali

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la terza guerra d’indipendenza, la campagna di Libia o la seconda guerra mondiale), nonché di ragionevolezza nell’esclusione della riabilitazione per coloro che sono stati condannati a pene più lievi e che, pur avendo tenuto condotte ritenute dalla legge meno gravi e magari aver passato alcuni anni in un carcere militare, non avrebbero alcun riconoscimento postumo (peraltro il testo licenziato dalla Camera prevede la riabilitazione per tutti i ‘condannati’ e non solo per coloro a cui è stata effettivamente inflitta la pena capitale).

Il relatore del provvedimento al Senato, nonché presidente della medesima commissione, Nicola Latorre, presenta dunque in Commissione la proposta di una totale riscrittura della proposta di legge. Un fatto praticamente senza precedenti, che fa andare in cortocircuito il sistema, che segna nei fatti una linea di disconoscimento e dunque di discredito sia tra gli organi delle due Camere sia tra i rappresentanti delle forze politiche. In particolare da parte dei senatori della maggioranza, i quali non hanno cercato di trovare preliminarmente un punto d’accordo su questa revisione che stravolge non solo il testo, ma soprattutto il significato della proposta di legge. In pratica il nuovo testo avanzato da Latorre e approvato da una maggioranza per ora solo in Commissione Difesa, nel riconoscere il sacrificio dei fucilati non solo elimina la riabilitazione con tutte le conseguenze pratiche evidenziate in precedenza, ma soprattutto capovolge la prospettiva delineata dal provvedimento originario. Infatti al comma quarto dell’unico articolo che compone la nuova proposta, viene previsto che: Nel Complesso del Vittoriano in Roma è affissa la seguente iscrizione: «Nella ricorrenza del centenario della Grande guerra e nel ricordo perenne del sacrificio di un intero popolo, l’Italia onora la memoria dei propri figli in armi fucilati senza le garanzie di un giusto processo. A chi pagò con la vita il cruento rigore della giustizia militare del tempo offre il proprio commosso perdono».

Dopo la fucilazione, alle vittime si elargisce il perdono invece di chiederlo! Un capovolgimento incredibile che lascia esterrefatti e

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soprattutto interroga sulle motivazioni di tale azione, fortemente sostenuta ad esempio dal senatore Gasparri il quale esulta, e afferma che ‘saggiamente’ il Senato ha posto rimedio a quanto fatto dalla Camera. Insomma dà del fesso a tutti, anche ai suoi compagni di partito. Uno sgarbo istituzionale e politico. Con il rischio reale di condannare il provvedimento all’insabbiamento. 10. Oltre la storia Gli echi sulla stampa sono stati immediati e probabilmente anche rivelatori. Su «Repubblica», in reazione a un forte articolo del 6 novembre 2016 a firma Paolo Rumiz, invece di trovare la risposta dei senatori, ecco spuntare una replica a firma del generale Marco Bertolini. Un indizio che permette di formulare un’ipotesi: la legge in realtà è andata a toccare un nervo scoperto a cui pare aver reagito proprio l’establishment militare. Il punto critico è che gli ordini non possono essere discussi o trasgrediti, mai. Dati i contenuti, probabilmente non c’è neppure da sorprendersi. Le legge di riabilitazione viene vista come un colpo di spugna, come una riscrittura della storia. Ma è chiaramente una prospettiva viziata dai timori, non dalla realtà che prevede solo la riapertura d’ufficio dei processi per appurare se la pena di morte risulta giustificata dal reato ascritto al militare o applicata, semplicemente per dare l’esempio come pretendeva la circolare Cadorna. Per quanti tra loro – oltre un migliaio si ritiene – verranno ritenuti vittime ingiuste della pena capitale, la riabilitazione sarebbe un atto conseguente di civiltà giuridica, coerente con i valori e i dettami del nostro ordinamento ed emesso dalla stessa magistratura militare. Dunque nessun colpo di spugna e nessuna parificazione. Piuttosto il riconoscimento, finalmente, che le regole dell’obbedienza, su cui si fonda certamente il buon funzionamento storico di una organizzazione non solo militare, possono creare situazioni di ingiustizia. La gran parte dei fucilati non erano disertori. Sono stati sopraffatti da un ‘nemico’ con la stessa divisa, armato da ‘circolari’ ingiuste che prevedevano la fucilazione anche per atti ordinariamente non previsti dal codice militare. Quale colpa può mai aver avuto un sorteggiato per la

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decimazione? Dunque la legge non opera un revisionismo ma una correzione vera e propria degli errori, che proprio pensando al futuro, è bene affrontare. Un orientamento questo che una struttura gerarchica per natura come la Chiesa cattolica ha pienamente accolto, ad esempio con la revisione del processo a Galileo. Una disciplina di revisione coerente con i nostri valori, che mira a chiarire chi ha subito un’ingiustizia pagando con la vita. La storia è scritta dai vincitori, s’usa dire. Il recupero della memoria di chi ha subito ingiustizia a causa di un’obbedienza cieca è un segno di una civiltà più matura della vittoria. Negare che ci furono ordini legittimi ma ingiusti, di cui qualcuno è stato vittima e va dunque riabilitato da colpe che non ha è un passo avanti. Negarlo, come fa il nuovo testo promosso dal Senato, è in fondo un altro modo per affermare che abbiamo sbagliato a condannare chi a Norimberga si è difeso dicendo che aveva solo obbedito. Si abbandoni dunque il pensiero autaut richiamato da Bertolini – i buoni sono quelli che hanno obbedito, i cattivi da perdonare, dopo la fucilazione, sono quelli che hanno disobbedito – e si abbia a cuore il futuro, riconoscendo anche i limiti storici della giustizia di stato pagata dagli innocenti. Un modo questo anche per introiettare nell’ordinamento giuridico parole di rara importanza quale il perdono, che in questo caso andrà richiesto dallo Stato a saldo di un debito contratto non solo con le vittime e i parenti, ma soprattutto con i giovani di oggi che si aspettano dal Paese una capacità di usare la memoria per migliorare il futuro. 11. Cosa succederà Le posizioni in campo a questo punto al Senato paiono molto diverse. Rispetto all’accordo unitario raggiunto alla Camera, il nuovo testo in discussione in Commissione al Senato trova alcune proposte di emendamenti tra loro inconciliabili: Gasparri-Quagliariello propongono in sostanza l’abolizione della legge, Cotti (M5S) propone di tornare al testo approvato alla Camera, Amati e altri senatori PD propongono di sopprimere le seguenti parole: «A chi pagò con la vita il cruento rigore della giustizia militare del tempo

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offre il proprio commosso perdono». Una situazione difficilmente conciliabile, che unita al completo disinteresse per il confronto politico con i deputati, costituisce un pasticcio le cui responsabilità ricadono in primo luogo sulle spalle del relatore presidente Latorre. È giusto ricordare che questo conflitto non ha una chiave di lettura solo politica e che l’opinione pubblica si è viceversa attivata a diversi livelli. Segnalo ad esempio che il quotidiano «Il Messaggero Veneto» di Udine che ha espressamente sostenuto la campagna di riabilitazione dei Fusilâts di Cercivento, si è già apertamente schierato contro l’azione del Senato, provocando la reazione condivisa della politica a livello locale. Tra le iniziative più significative di protesta a questa situazione paradossale è giusto ricordare anche l’ordine del giorno approvato a Trento lo scorso 5 novembre, in occasione degli Stati Generali della difesa civile non armata e nonviolenta, con cui l’assemblea nazionale chiede alla Commissione Difesa del Senato di ritornare al testo votato alla Camera, e poi anche l’ordine del giorno approvato all’unanimità dal consiglio comunale del Comune di Vittorio Veneto lo scorso 29 dicembre 2016, il cui dispositivo recita: Il Consiglio comunale di Vittorio Veneto, nell’apprezzare il percorso sviluppato presso la Camera dei Deputati con l’approvazione unanime della proposta di Legge dedicata alla riabilitazione dei fucilati per mano amica della Prima guerra mondiale (i cosiddetti ‘fucilati per l’esempio’) e nell’apprendere dell’iniziativa di complessivo azzeramento dell’Iter della Legge realizzata in Commissione Difesa del Senato con lo stralcio della proposta e la perversione tramite nuovo testo degli obiettivi prefigurati dal testo di Legge approvato alla Camera: STIGMATIZZA la condotta dei Senatori che con la loro iniziativa negano sia la volontà politica unitaria espressa dai Deputati sia la campagna di civiltà etica e giuridica promossa in primis dalla comunità degli storici della società civile; CHIEDE al Presidente del Senato e al Presidente della Commissione Difesa del Senato l’immediato ripristino del testo approvato alla Camera e una pronta approvazione dello stesso; INCARICA il Sindaco di trasmettere il presente atto al Presidente del Senato, Sen. Pietro Grasso, al Presidente della Commissione Difesa del

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Senato, Sen. Nicola Latorre e, per conoscenza, alla Presidente della Camera dei Deputati, On. Laura Boldrini, al Presidente della Commissione Difesa della Camera dei Deputati, On. Francesco Saverio Garofani, ed al Ministro della Difesa, Sen. Roberta Pinotti.

Si tratta di segnali che permettono di capire con chiarezza quali siano i sentimenti e le volontà dei cittadini italiani. Sono sollecitazioni a cui le istituzioni parlamentari non possono non offrire risposta, pena il discredito. Mi auguro dunque che si sappia far tesoro di queste sollecitazioni e cercare presto una forma di ripresa del dialogo politico per affrontare i veri nodi posti dalla legge ed elevare così la civiltà morale e giuridica dell’Italia.

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L'APPLICAZIONE DELLA PENA DI MORTE IN ITALIA E NEGLI ESERCITI ALLEATI Marco Pluviano

Prima di avviare un esame comparato dell’operato della giustizia militare nei diversi eserciti impegnati nella Grande Guerra, occorre prendere in esame i codici penali generali, ai quali di norma i codici castrensi dovevano fare riferimento. L’Italia era, nel 1914, l’unico Paese ad aver abolito la pena di morte con il Codice penale emanato nel 18891; tuttavia la condanna capitale permaneva nel Codice penale militare del 1869, in tempo di pace per un numero ridotto di reati, e in tempo di guerra per una casistica molto più ampia. Fu richiesta da più parti la riforma della legge castrense, principalmente per due ordini di motivi. Da un lato violava il principio giuridico che voleva le giurisdizioni speciali, come quella militare, in sintonia con i criteri guida della codificazione generale. Dall’altro fu rilevato come questa discrasia ledesse il principio costituzionale dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 24 dello Statuto albertino). I civili non potevano, nemmeno i regicidi, essere condannati a morte, mentre i militari potevano incorrere nella pena capitale anche per reati che non avevano comportato né l’effusione di sangue, né il tradimento. Il primo dicembre 1889 fu così nominata una commissione per   La pena di morte fu reintrodotta per alcuni reati da Benito Mussolini nel 1926 ed entrò a pieno titolo nel nuovo Codice penale del 1931. Fu definitivamente abolita nel 1948 nel Codice penale generale, e in quello militare per i reati comuni e militari commessi in tempo di pace, mentre si dovette attendere il 1994 per la sua eliminazione dal Codice penale militare di guerra. Rimaneva però, nel testo costituzionale, la previsione della sua applicabilità in tempo di guerra, e questa fu infine cancellata con la legge costituzionale del 2 ottobre 2007. 1

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rivedere la legislazione penale militare, destinata a naufragare (come quelle che seguirono) per l’opposizione delle gerarchie militari, della Casa reale e dei settori politici conservatori. Questi affermavano che gli astratti principi giuridici non tenevano conto della necessità concreta di disciplinare giovani impetuosi e di scarsa cultura, i quali avrebbero potuto mettere in pericolo la sicurezza della Nazione e la tranquillità della società civile. Era pertanto indispensabile mantenere una disciplina ferrea che garantisse il più stretto controllo dei coscritti, sottraendoli alle influenze sovversive e garantendone l’obbedienza in guerra e negli interventi in servizio di ordine pubblico. Ancor prima di ragionare di numeri e casistiche, è quindi questo il primo argomento che dobbiamo tenere presente quando tentiamo un esame comparativo dell’applicazione della pena capitale durante il conflitto: nessuno dei reati per cui furono fucilati i soldati italiani avrebbe condotto a morte un loro concittadino che non fosse soggetto al codice militare, come sarebbe invece avvenuto – per alcune fattispecie – ai militari dei paesi in cui vigeva la pena di morte. In Italia, quindi, tutte le vittime sono da addebitarsi all’istituzione militare. L’operato della giustizia militare italiana durante la Grande Guerra non fu regolato solamente da un Codice estremamente severo e antiquato. Durante tutto il conflitto, infatti, lo Stato maggiore e il Reparto disciplina, avanzamento e giustizia militare da esso dipendente emisero circolari e bandi che avevano valore di legge per i militari e per i civili militarizzati stanziati nella Zona di guerra (estesa via via a quasi tutta l’Italia settentrionale), contribuendo a rendere ancor più severa e arbitraria la giustizia castrense2. Questi   Cfr. V. Manzini, La legislazione penale di guerra, Torino, Utet 1918. Sulla giustizia militare e il quadro normativo cfr. E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza 1968; I. Guerrini, Obbligare e punire: la giustizia militare, in M. Isnenghi, D. Ceschin (a cura di), La Grande Guerra: dall’Intervento alla «vittoria mutilata», Torino, Utet 2008, pp. 229235; M. Pluviano, I. Guerrini, La giustizia militare durante la Grande Guerra, in «Annali della Fondazione Ugo La Malfa. Storia e politica», 28 (2013), pp. 131-147. Un significativo numero di circolari è riportato da F. Cappellano, Cadorna e le 2

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strumenti normativi, che sfuggivano a qualunque controllo del Parlamento, definirono sia fattispecie di reato sia pene, intervenendo in maniera del tutto anomala nel processo di elaborazione e produzione legislativa. Anzi, fu la legislazione che dovette ingegnarsi per regolarizzare a posteriori la situazione, recependo numerose circolari e bandi in appositi decreti luogotenenziali. La giustizia militare italiana si muoveva quindi in un contesto ambiguo, nel quale non era ben chiaro il confine tra norme di legge e amministrative, così come tra sanzioni giuridiche e disciplinari. Per questi motivi un cittadino in uniforme poteva essere condannato a morte secondo disposizioni non comprese nel Codice penale per l’Esercito. L’unica statistica disponibile sull’operato dei tribunali militari è stata compilata da Giorgio Mortara nel 19213 e riporta 750 fucilati a seguito di processo fino al 4 novembre 19184, più altri 50 per il periodo intercorso tra l’armistizio e il 2 settembre 1919 (per questi ultimi non dettaglia le imputazioni). Durante il conflitto i militari italiani finirono davanti al plotone di esecuzione quasi esclusivamente per reati di tipo militare (714 su 750), così suddivisi: 391 per diserzione, 5 per mutilazione volontaria, 164 per resa o sbandamento, 154 per indisciplina, 2 per cupidigia, 12 per violenza, 1 per reati sessuali e 21 per spionaggio e tradimento. Il bilancio definitivo ammonta quindi a 800 fucilati, anche se Mortara non cita esplicitamente, nei riquadri riepilogativi, i Tribunali

fucilazioni nell’esercito italiano, in «Annali del Museo storico della guerra di Rovereto», 23 (2015), pp. 79-118. 3   Pubblicata in Ministero della guerra - Ufficio statistico, Dati sulla giustizia e disciplina militare, Roma, Provveditorato generale dello Stato - Libreria 1927, documento qualificato «Riservato» e stampato in poche copie. 4   Le condanne a morte furono, fino al 4 novembre 1918, 4.028, delle quali 2.967 in contumacia e 1.061 con l’imputato presente; di queste ultime, 311 furono commutate all’ergastolo o a vent’anni di reclusione. Furono inoltre erogate oltre 16.000 condanne all’ergastolo (parte in contumacia). Circa 20.000 soldati rimasero in carcere anche dopo l’amnistia del settembre 1919, a fronte di oltre 170.000 condannati durante tutto il conflitto. Per questi ultimi dati, cfr. G. Rochat, L’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, Roma-Bari, Laterza 2006 (1967), pp. 73-74.

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straordinari, e sicuramente sottostima l’azione repressiva dei Tribunali territoriali attribuendo loro solamente ventisei esecuzioni. Invece, già nei mesi precedenti Caporetto, e ancor più nel periodo seguente, queste corti agirono con estrema durezza nei confronti dei disertori catturati all’interno del Paese, e dei civili militarizzati rei di proteste e rivolte. Non è quindi impossibile che una campagna d’indagini a tappeto nell’Archivio centrale dello Stato e in quello dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, porti alla luce altri casi. Comunque, anche tenendo conto di un numero non quantificabile di esecuzioni delle quali si è persa la documentazione a seguito della rotta di Caporetto, si può ipotizzare che la cifra finale potrebbe variare di alcune centinaia di casi, ma la dimensione non muterebbe in maniera fondamentale: non pare credibile che si possa giungere alle migliaia di fucilati di cui alcuni hanno parlato5. Ai morti a seguito di sentenza occorre aggiungere le vittime delle esecuzioni senza processo, almeno 295 più quelli causati da almeno sette casi di bombardamento o mitragliamento di truppe che, a giudizio dei comandi, stavano sbandandosi o tentando la resa al nemico. Si possono pertanto stimare, per quanto in via prudenziale poiché nessuna fonte indica il numero delle vittime degli episodi di fuoco sulle truppe che in alcuni casi fu consistente, almeno 350 fucilati senza processo6. Si può quindi concludere che le vittime della giustizia militare italiana furono almeno 1.150 e questa cifra è la più alta tra gli eserciti combattenti per i quali disponiamo di cifre affidabili (ricordo che l’Italia combatté dieci mesi in meno e che il suo esercito era circa pari a quello britannico e inferiore a quello delle altre grandi poten-

  Sullo stato attuale delle conoscenze cfr. gli atti del convegno ‘L’Italia nella guerra mondiale e i suoi fucilati: quello che (non) sappiamo’, svoltosi a Rovereto il 4-5 maggio 2015 e pubblicati in «Annali del Museo storico della guerra di Rovereto», 24 (2016), pp. 11-105. 6   Cfr. M. Pluviano, I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, Udine, Gaspari 2004. Sui tribunali straordinari e sulle esecuzioni sommarie, rimando al saggio di Irene Guerrini su questo volume. 5

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ze europee in campo). Mentre per l’Impero tedesco si calcolano meno di cinquanta esecuzioni, non sono a tutt’oggi disponibili, perlomeno tradotti, studi complessivi su Russia, Austria-Ungheria e Impero ottomano. Bisogna poi considerare che per essi le cifre sarebbero comunque condizionate dalla repressione degli imponenti fenomeni di dissidenza politica per il primo, e dai riflessi che ebbero anche tra i coscritti i massacri dei sudditi cristiani nel terzo. Quali furono invece le caratteristiche e le dimensioni della giustizia capitale negli altri eserciti che combattevano a fianco dell’Italia? Il caso meglio documentato è quello francese. Oltralpe la giustizia militare è stata non solo argomento di studio, ma di dibattito e di scontro politico. Sin dall’inizio degli anni Venti, infatti, gli ex combattenti schierati su posizioni politiche progressiste, e con loro la sinistra politica e sindacale, condussero una dura campagna di critica ai criteri con i quali erano state gestite le truppe, con particolare attenzione al tema delle condanne capitali. Si parlò di migliaia di fucilati, mentre la destra nazionalista e i militari minimizzarono il fenomeno. A differenza del nostro Paese, nel quale la dittatura fascista aveva imposto il silenzio sull’argomento, il dibattito crebbe e coinvolse rapidamente anche le organizzazioni combattentistiche che, a prescindere dalla posizione politica, furono largamente favorevoli a riesaminare i processi, per ottenere il maggior numero possibile di riabilitazioni. Negli anni Trenta fu così istituito un tribunale per il riesame delle condanne a morte, la Cour Spéciale de Justice Militaire, che si pronunciava su richiesta di parenti o commilitoni, nel quale sedevano anche rappresentanti delle associazioni combattentistiche7. Nel 1967 Guy Pedroncini pubblicò Les mutineries de 1917, il primo studio approfondito sulla disobbedienza e sulla repressione8, condotto grazie all’atteggiamento favorevole delle gerarchie militari le quali permisero all’autore di accedere alla documentazione custodita al Service Historique de l’Armée de Terre (SHAT). La motivazio  Cfr. N. Offenstadt, Les fusillés de la grande guerre et la mémoire collective (19141999), Paris, Jacob 1999, pp. 97-99. 8   G. Pédroncini, Les Mutineries de 1917, Paris, PUF 1967. 7

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ne principale di tale apertura fu la volontà di controbattere le tesi di chi denunciava migliaia di fucilazioni, soprattutto nel corso degli ammutinamenti della primavera-estate 19179, ma è indicativa di un atteggiamento intelligente per quanto strumentale, che preferiva ricorrere alla ricerca piuttosto che alle denunce per diffamazione e all’ostracismo. Negli anni le dimensioni della giustizia capitale francese si andarono progressivamente definendo e la stima si attestò, all’inizio di questo secolo, intorno alle 650 vittime. In questi ultimi quindici anni, lo sforzo di numerosi studiosi10 e la digitalizzazione delle sentenze dei tribunali militari hanno permesso di scoprire molti nuovi casi, portando il totale dei fucilati a 1.009 (927 da processo e 82 per esecuzioni sommarie). Nel sito ‘Mémoire des hommes’ del Service historique de la Defense, aggiornato al 28 novembre 2014, sono individuati i loro nomi e le vicende che li portarono davanti al plotone di esecuzione11. L’opera dei ricercatori è stata facilitata dall’attenzione riservata all’argomento dai vertici istituzionali del Paese, a partire dal primo ministro Lionel Jospin che pronunciò queste parole a Craonne l’11 novembre 1998: I soldati fucilati per dare l’esempio […] sfiniti dagli attacchi condannati in anticipo all’insuccesso, scivolando in un fango inzuppato di sangue, immersi in una disperazione senza fondo […] vittime di una disciplina il cui rigore non aveva eguale che nella durezza dei combat  Sugli ammutinamenti cfr.: D. Rolland, La gréve des tranchées. Les mutineries de 1917, Paris, Imago 2005; A. Loez, N. Mariot (dir.), Obéir/désobéir, les mutineries de 1917 en perspective, Paris, La Découverte 2008. 10   Cfr. gli studi del generale André Bach, ex direttore dello SHAT: Fusillés pour l’exemple 1914-1915, Paris, Tallandier 2003 e Justice militaire 1915-1916, Paris, Vendémiaire 2013. Cfr. inoltre A. Loez, 14-18. Les refus de la guerre. Une histoire des mutins, Paris, Gallimard 2010; Y.-Y. Le Naour, Fusillés, Paris, Larousse, 2010; F. Mathieu, 14-18, les fusillés, Malakoff, Sébirot 2013. 11   http://www.memoiredeshommes.sga.defense.gouv.fr/fr/article.php?laref=601 &titre=le-corpus-des-fusilles-documentes. Questa iniziativa di studio ha portato la Francia all’avanguardia ed è stata promossa dal Presidente della Repubblica che, il 7 novembre 2013, ha richiesto la digitalizzazione degli archivi dei Conseils de guerre. 9

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timenti […] completano oggi pienamente la nostra memoria collettiva nazionale12.

Negli anni che seguirono due presidenti della Repubblica di diversa provenienza politica quali Nicolas Sarkozy e François Hollande hanno stimolato la riflessione e la ricerca, riconoscendo il ruolo fondamentale degli storici in tali processi. Pur non portando a riabilitazioni postume di sorta, gli studi e le risultanze della Commissione presidenziale presieduta dallo storico André Prost hanno consentito una migliore e più precisa definizione delle dimensioni del fenomeno e delle ‘aree grigie’ che ancora restano da approfondire (trattamento dei prigionieri di guerra, dei civili, condizione dei territori coloniali), nonché l’individuazione del materiale perduto a seguito dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale13. Ma cosa si può dire della giustizia capitale francese? Fu utilizzata con grande disinvoltura durante la crisi militare dei primi mesi di guerra; tra settembre e dicembre 1914 vi furono 200 fucilazioni, e anche alcuni episodi di giustizia sommaria, peraltro non ammessa dal Codice penale militare. Nel 1915 furono fucilati almeno 260 francesi, 28 africani, 9 legionari e 9 tra civili e soldati tedeschi per saccheggio e spionaggio. Fino a febbraio-marzo 1915 i comandi militari ebbero mano libera nella gestione della disciplina e della giustizia e il Governo sospese l’applicazione di alcune norme del Codice che tutelavano gli imputati. Tra esse l’esame da parte del Presidente della Repubblica di tutte le condanne a morte le quali non potevano essere eseguite senza la sua approvazione, nel suo ruolo di rappresentante della Nazione. Tale esame introduceva nel giudizio sull’ammissibilità delle condanne sia una valutazione giuridica sia un giudizio di opportunità politica che contribuiva a frenare le gerarchie militari, impedendo loro di mettere immediatamente in pratica decisioni che potevano essere influenzate dall’e  Offenstadt, Les fusillés… cit, p. 177. Traduzione a cura dell’autore.   Per il rapporto vedi: http://centenaire.org/fr/espace-scientifique/societe/le-rapport -quelle-memoire-pour-les-fusilles-de-1914-1918. Nel sito sono ospitati numerosi contributi sulla giustizia militare. 12 13

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motività o dalla volontà di addossare ai soldati la responsabilità degli insuccessi causati dagli errori dei comandi. Conclusa però la fase di emergenza, messa in sicurezza Parigi ed eliminata la possibilità di un’immediata vittoria strategica tedesca, le autorità politiche transalpine ripresero il proprio ruolo istituzionale, relegando i comandi a una funzione tecnico-militare. Il primo provvedimento fu, appunto, quello di restaurare l’esame delle sentenze capitali da parte dell’inquilino dell’Eliseo, dapprima per le sentenze emesse da corti militari nel Paese (15 gennaio 1915), e poche settimane dopo per tutti gli altri tribunali. Questa funzione di verifica della correttezza e opportunità delle condanne, assieme al restaurato controllo esercitato dal Parlamento sulla condotta della guerra, produssero una notevole mitigazione nel comportamento dei giudici militari. Anche il periodo degli ammutinamenti del 1917 comportò una nuova sospensione di un mese e mezzo della sanzione presidenziale alle condanne capitali, tuttavia durante i mesi delle mutineries furono eseguite ‘solamente’ una cinquantina di condanne a morte14. Anche in Francia furono istituite corti con funzioni simili ai Tribunali straordinari italiani, i Consigli di guerra speciali, caratterizzati da uno scarso rispetto delle formalità giuridiche e da una drastica riduzione delle tutele riconosciute ai soldati. Alcuni elementi invece non trovano riscontro nell’esercito italiano: i ‘reparti di punizione’ e la detenzione nei campi per lavori forzati di pubblica utilità nelle colonie africane. Si trattava di punizioni alternative alla fucilazione, oppure riservate a militari che erano ritenuti ‘non redimibili’ e che spesso si rivelarono una condanna a morte camuffata. I reparti di punizione potevano essere usati per missioni suicide e i campi nelle colonie prevedevano condizioni disciplinari e di vita durissime, nonché pessime condizioni igienico-sanitarie tali da condurre a un alto tasso di mortalità. Possiamo quindi concludere che l’esercito   Per una comparazione con la situazione italiana cfr.: I. Guerrini, M. Pluviano, Italie 1917, l’été de feu de la désobeissance, in Loez, Mariot (dir.), Obéir/désobéir… cit., pp. 78-92.

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francese fucilò molto, comunque meno di quello italiano. Va inoltre rilevato che nel totale delle vittime sono compresi numerosi prigionieri tedeschi condannati per reati comuni, e civili fucilati per sospetto spionaggio. Per quanto riguarda il piccolo esercito belga, furono eseguite venti sentenze capitali15. L’altro grande esercito alleato del quale abbiamo una documentazione esauriente è quello britannico. Le ricerche furono iniziate dal magistrato Antony Babington nei primi anni Ottanta16 e, con il tempo, all’indagine scientifica si è andato affiancando uno spirito ‘militante’ che ha supportato la campagna Shot at dawn, la quale si riprometteva di ottenere la riabilitazione di tutti i condannati e denunciare un buon numero di errori giudiziari. La mobilitazione portò al riconoscimento nel 2006 del Conditional pardon ai soldati dell’Impero britannico fucilati, compresi i combattenti dell’Indian Army. La misura riconosce ai fucilati la condizione di Victims of the First World War e si applica alle fucilazioni eseguite per reati di tipo disciplinare, escludendo i crimini comuni, lo spionaggio e il tradimento; pur non riabilitando le vittime della giustizia militare, la misura le reintegra nella memoria nazionale. A oggi il Regno Unito, assieme alla Nuova Zelanda, è l’unico Paese ad aver adottato una misura legislativa che si ponga quest’obiettivo. In totale l’esercito britannico fucilò, tra il 4 agosto 1914 e il 31 marzo 1920, quasi 350 militari, dei quali 209 inglesi, 15 gallesi, 24 irlandesi e 43 scozzesi. A essi occorre aggiungere una decina di afri-

15   Cfr. B. Benvindo (dir.), Des hommes en guerre. Les soldats belges entre ténacité et désillusion 1914-1918, Bruxelles, Archives Générales du Royaume 2005. 16   A. Babington, For the sake of example, Barnsley, Leo Cooper 1983. Cfr. inoltre: G. Dallas, D. Gill, The unknow army. Mutinies in the British Army in World War I, London, Verso 1985; C. Corns, J. Hughes-Wilson, Blindfold and alone. British military executions in the Great War, London, Cassell 2001; G. Oram, Military executions during World War I, Basingtoke, Palgrave McMillan 2003; J. Putkowsky, J. Sykes, Shot at dawn. Execution in World War One by authority of the British Army Act, Barnsley, Leo Cooper, 2007 (prima ed. 1989); P. Gubinelli, Sparate dritto al cuore. La decimazione di Santa Maria la Longa e quella inglese a Étaples, Udine, Gaspari 2014.

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Stralci dal verbale del processo ai quattro alpini, privo della trascrizione degli interrogatori. Al punto 2 emerge che tre dei condannati a morte erano assenti dal luogo della protesta (la riproduzione fotografica non consente di vedere il «non» che precede «essendo presenti nella baracca»).

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cani e caraibici (uno fucilato a Taranto nel 1919 per rivolta), cinque neozelandesi, e almeno una decina di russi arruolati nelle forze antisovietiche fucilati per ammutinamento nel luglio 1919. Vi furono poi almeno dieci coolie cinesi e alcuni egiziani, arruolati nei Labour corps, e accusati di omicidio o ammutinamento, e cinque mulattieri accusati anch’essi di omicidio17. A queste vittime occorre poi aggiungere un numero imprecisato di militari processati da corti civili, e di civili fucilati dall’esercito per reati comuni (omicidio, spionaggio, sabotaggio), sia sul fronte francese, sia nel corso delle spedizioni che furono effettuate nel diciotto mesi seguenti l’armistizio (Russia, Anatolia, Afghanistan). Furono 266 i fucilati accusati di diserzione; si trattava quasi sempre di recidivi il cui periodo di assenza era superiore ai venti giorni (molti disertori furono arrestati a Parigi o nei pressi dei porti della Manica, e diversi in patria). Insomma, nulla di paragonabile ai nostri soldati fucilati a seguito di un’assenza, o un mancato rientro, di due o tre giorni, oppure perché arrestati appena si allontanavano dal reparto. L’esercito britannico aveva quattro tipologie di corti marziali: reggimentale, distrettuale, generale e generale di campo (quest’ultima assimilabile ai nostri tribunali straordinari per la rapidità delle procedure e per le minori garanzie accordate all’imputato). Solo queste ultime due potevano emettere condanne capitali, ma nei fatti furono eseguite quasi solo quelle emesse dai tribunali da campo, le Field general martial courts. Le sentenze di morte erano poi trasmesse risalendo la catena gerarchica, fino al Comandante in capo che aveva il potere di confermare definitivamente o di annullare la condanna; a ogni passaggio l’ufficiale responsabile poteva aggiungere al fascicolo le sue raccomandazioni sulla conferma o meno della pena. La Grande Guerra vide combattere anche gli eserciti dei vari Dominions (Canada, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica). L’India, pur essendo una colonia, aveva un proprio esercito e un proprio Army Act che stabiliva regole specifiche anche per la giustizia capitale.   Per l’individuazione dei nomi e dei reparti di appartenenza di tutti i fucilati dell’esercito imperiale e delle milizie locali, e delle località in cui ebbe luogo l’esecuzione e la sepoltura, cfr. Putkowsky, Sykes, Shot at dawn… cit. 17

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Anche queste armate emisero condanne a morte, seppure in misura molto minore: il Canada giustiziò 25 militari18 e la Nuova Zelanda 5. Un caso a parte è rappresentato dall’Australia, il cui esercito non prevedeva l’esecuzione delle sentenze capitali eventualmente emesse. Le autorità australiane mantennero la loro posizione nonostante subissero, anche a causa della turbolenza delle truppe, forti pressioni da parte britannica per applicare la fucilazione. Resta da accennare all’esercito statunitense. Sebbene la guerra sia durata, per la repubblica stellata, meno della metà rispetto agli altri Stati (diciannove mesi), e l’impegno operativo sia stato ancora più breve (meno di un anno) furono emesse ben 145 condanne a morte, delle quali 35 eseguite, con un tasso di commutazione del 76%. Solo 10 riguardarono fatti avvenuti in Europa, mentre le restanti 25 ebbero luogo in patria. Le sentenze eseguite furono relative a omicidio, stupro, rivolta, mentre le 24 condanne per diserzione furono tutte commutate19. L’esercito statunitense sperimentò rivolte ed episodi di indisciplina, sia durante l’istruzione delle reclute in patria sia in Europa. La diserzione, soprattutto le assenze arbitrarie (AWOL – Assenza senza permesso ufficiale) furono numerose, ma percentualmente inferiori al periodo prebellico. Il comandante della American Expeditionary Force, John Pershing, ordinò agli ufficiali di sparare ai disertori, ma questo non avvenne. L’esercito statunitense sviluppò anzi una buona capacità di dialogo e un sistema di punizioni piuttosto mite, che gli permise di mantenere alto il morale delle truppe nonostante la lontananza e la conseguente difficoltà di contatti con il Paese, e la mancanza di esperienza di mobilitazione di massa20. 18   Cfr. P. Bouvier, Déserteurs et insoumis. Les Canadiens français et la justice militaire (1914-1918), Outremont, Athéna 2003; C.L. Mantle (ed.), The apathetic and the defiant. Case study of Canadian mutiny and disobedience, 1812-1919, Kingston, Canadian Defence Academy Press 2007. 19   Cfr. S.R. Welch, Military Justice, in http://encyclopedia.1914-1918-online.net/ article/military_justice. 20   Cfr. E.A. Gutiérrez, Between Acceptance and Refusal. Soldiers’ Attitudes Towards War (USA), in http://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/between_acceptance_ and_refusal_-_soldiers_attitudes_towards_war_usa.

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Per quanto questa disamina di tipo comparato sia stata sommaria21, è comunque possibile trarre alcune prime conclusioni sulle peculiarità dell’operato della giustizia militare italiana in tema di condanne capitali. L’italiano fu, tra gli eserciti per i quali disponiamo di dati ragionevolmente sicuri, quello che fucilò il maggior numero di propri militari, seguito a distanza da quello francese e dal piccolo esercito bulgaro, che mandò a morte ben 800 propri soldati22. La giustizia militare italiana non prevedeva procedure di riesame confermativo per le esecuzioni capitali da parte dell’autorità militare o di quella civile, come invece avveniva negli altri eserciti; i condannati a morte potevano richiedere la grazia sovrana ma spettava all’ufficiale che aveva convocato il tribunale (in genere il comandante del corpo d’armata), valutare se dare attuazione o meno. Inoltre, non era prevista tale possibilità per i giudizi dei tribunali straordinari. In Italia furono emesse poco più di 4.000 condanne capitali, ma solo 1.061 con imputato presente; negli altri eserciti il numero delle condanne fu uguale o superiore a quello totale italiano, ma con molte meno condanne in contumacia. L’elemento caratteristico dell’esercito italiano fu quindi quello di aver concesso in proporzione assai ridotta grazie, commutazioni o sospensioni della pena: meno del 30%, a confronto del 90% di quello inglese, del 68% del tedesco, di una percentuale di poco superiore al 70% del francese e del 75% dello statunitense. L’Italia ebbe il numero più basso di civili e di prigionieri di guerra fucilati. Ritengo che anche la vicenda della giustizia militare, e dell’erogazione della pena di morte, dimostri come gli elementi che distinsero la condotta della guerra da parte italiana siano stati: 21   Per un esame più accurate della normativa, cfr. Pluviano, Guerrini, Le fucilazioni sommarie… cit., pp. 246-266. Cfr. anche le voci Military justice e Violence relative ai vari Paesi, pubblicate nell’enciclopedia online sulla Grande Guerra promossa dalla Freie Universitat di Berlino: http://encyclopedia.1914-1918-online.net. 22   Cfr. S. Dimitrova, Exécutions pour l’exemple dans l’armée bulgare (1915-1918), in R. Cazals et al. (dir.), La Grande Guerre. Pratiques et expériences, Toulouse, Privat 2005, pp. 227-236.

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• la gestione estremamente repressiva delle risorse umane; • la sistematica preferenza accordata alla coercizione e alla repressione rispetto alla ricerca del consenso; • la programmatica eversione delle già ridotte tutele riconosciute ai militari e ai civili militarizzati; • l’estromissione cosciente e sistematica delle autorità politiche elettive dalla gestione dell’esercito e, più in generale, dalla condotta della guerra. Tutto ciò comportò più di un migliaio di vittime della giustizia militare ma questo fu, sotto un certo aspetto, un danno collaterale rispetto a un disastro più vasto, che causò molti più morti del dovuto tra i combattenti e anche nel Paese (malnutrizione, malattie, incidenti sul lavoro, lavoro infantile), e che snaturò lo Stato liberale preparando la strada alla nascita del fascismo.

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Come cercherò di dimostrare in queste pagine, le forme di repressione ‘eccezionali’ cioè al di fuori da quanto stabilito dal Codice penale per l’esercito – esecuzioni sommarie e ricorso ai tribunali straordinari al di fuori dei casi previsti – costituirono una componente ‘normale’ dell’arsenale repressivo, particolarmente fino al novembre 1917. Infatti, la sfiducia del comandante supremo Luigi Cadorna nei suoi soldati e la sua predilezione per un approccio repressivo si manifestò dal primo giorno di guerra. Non era peraltro sua esclusiva, essendo largamente diffusa nella classe dirigente del Paese e nelle massime gerarchie militari1. La prima circolare indirizzata dal Comandante supremo all’esercito il 24 maggio 1915, portava non a caso il titolo Disciplina di guerra e si apriva con queste parole: «Il Comando Supremo vuole che, in ogni contingenza di luogo e di tempo, regni sovrana in tutto l’esercito una ferrea disciplina», per così proseguire, al punto V: «Si prevenga con oculatezza e si reprima con inflessibile rigore» e al punto VIII: «Il Comando Supremo riterrà responsabili i Comandanti delle grandi Unità che […] si mostrassero titubanti nell’assumere, senza indugio l’iniziativa di applicare, quando il caso lo richieda, le estreme misure di coercizione e di repressione»2.   Cfr. M. Isnenghi, G. Rochat, La Grande Guerra, Bologna, Il Mulino 2014 (ristampa con bibliografia aggiornata). Sulla giustizia militare e il quadro normativo cfr. E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza 1968. Per un approfondimento sulla pena di morte rimando al saggio di Marco Pluviano in questo volume. 2   Aussme (Roma, Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito)-L3, b. 141, f. 3. La circolare porta stampigliato: «Da distribuire a tutti gli ufficiali». 1

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Cadorna ritornò sul tema il 28 settembre 1915 con la circolare n. 3525: La disciplina è la fiamma spirituale della vittoria; vincono le truppe più disciplinate non le meglio istruite […] Deve ogni soldato […] essere convinto che il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi […]. Ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto – prima che si infami – dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti o da quello dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato prima da quello dell’ufficiale3.

Vedremo come quest’appello alla giustizia sommaria, apparentemente non privo di qualche fondamento considerando lo stato di guerra, nella realtà abbia incoraggiato e avallato pratiche che andarono ben oltre le necessità di reprimere comportamenti inaccettabili in prima linea o in combattimento, quali lo sbandamento o il rifiuto di andare all’assalto. Mentre nel Paese continuavano a operare i tribunali militari territoriali, al fronte e nelle immediate retrovie agivano i tribunali di guerra (di norma presso i comandi di corpo d’armata) e i tribunali militari straordinari. A differenza dei tribunali territoriali e di quelli di guerra che erano entità permanenti, composte di ufficiali distaccati a tempo pieno dai reparti (in genere per due anni), le corti straordinarie erano convocate solo qualora se ne presentasse la necessità4. I tribunali straordinari, infatti, erano riuniti (art. 559 del Codice) quando un comandante ravvisava la necessità urgente di dare un esempio di grande severità. Il reato doveva comportare la pena di morte e l’imputato doveva essere colto in flagranza o arrestato per un fatto noto o a clamore di popolo. Il condannato non   Aussme L3, b. 141, f. 3.   Sui tribunali straordinari cfr. M. Pluviano, I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, Udine, Gaspari 2004, pp. 25-30. C. De Simone in L’Isonzo mormorava, Roma, Editori Riuniti 1970, riporta numerosi esempi di funzionamento di queste corti.

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poteva né far ricorso al Tribunale supremo di guerra e di marina né chiedere la grazia sovrana poiché la condanna a morte doveva essere eseguita immediatamente, o al più entro le ventiquattro ore. I componenti, compreso l’ufficiale difensore, appartenevano al reparto del giudicato e non era richiesta loro una preparazione giuridica. In molti casi il difensore era nominato dallo stesso ufficiale superiore che ordinava il processo, in genere il comandante della Divisione; spesso digiuno di diritto, riceveva l’incarico poco prima dell’inizio del processo5 che doveva svolgersi a brevissima distanza dal reato per cui anche la fase istruttoria del giudizio era sovente superficiale e sbrigativa. L’operato delle corti straordinarie fu caratterizzato da grande informalità ed estrema rapidità del giudizio. Le stesse fonti della giustizia militare fanno rilevare che le sentenze dei tribunali straordinari erano talvolta compilate in maniera errata o incompleta, tanto da renderle sostanzialmente uguali ai semplici verbali stilati in occasione delle esecuzioni sommarie, e che non sempre i loro pronunciamenti erano trasmessi agli organi competenti. In diversi casi sia gli atti dei processi sia le testimonianze degli avvocati dimostrano che i tribunali straordinari operavano al di fuori delle regole poiché il processo era spesso una formalità e la condanna a morte già decisa. Soldati innocenti, esausti o colpiti da shell shock furono così processati in seguito a istruttorie incomplete o senza che fossero eseguite le opportune perizie mediche o psichiatriche. Per fare solo un esempio, ricordiamo il processo del 22 novembre 1915 ordinato dal comandante dell’Undicesima divisione per giudicare un caporalmaggiore e un soldato accusati di abbandono di posto in combattimento, conclusosi con l’ergastolo per il primo e l’assoluzione per il secondo. Dopo la sentenza risultò che il maggiore Questa, comandante del 9° Battaglione ciclisti, aveva ordinato ai due imputati di   Cfr. P. Calamandrei, Castrensis jurisdictio obtusior, in «Il ponte», 1952, f. 3, pp. 394-400, in cui il giurista rievoca la sua esperienza come difensore di otto soldati accusati di sbandamento (nomina ricevuta poco prima dell’inizio del processo, illegittimità della convocazione di un tribunale straordinario per giudicare un evento risalente a diverse settimane prima, atteggiamento dei giudici, ecc.).

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recarsi dal generale Arena per ottenere rinforzi, ordine che il maggiore aveva negato in fase d’istruttoria. Per fortuna la corte aveva applicato al caporalmaggiore Salvatore D’Aiello le attenuanti generiche che gli evitarono la fucilazione seduta stante6. I soldati percepirono spesso l’azione dei tribunali straordinari più come un procedimento sommario che come una forma regolare di giustizia militare. Lettere di combattenti, interviste, diari e anche la memorialistica colta, così come numerose denunce di esecuzioni senza processo comparse sull’«Avanti!» nel corso del 1919, individuavano come episodi di giustizia sommaria condanne pronunciate in realtà da tribunali straordinari. I tribunali straordinari erano ritenuti i più adatti per infliggere pene capitali e gli alti comandi esercitarono forti pressioni perché si convocassero questi piuttosto che tribunali di guerra, sanzionando alcuni ufficiali più propensi a seguire invece il dettato del codice. Nell’Archivio centrale dello Stato sono conservati tre registri di sentenze che, pur non comprendendo tutti i corpi d’armata e quindi incompleti, riportano circa duecento condanne a morte7. Nonostante la severità propria di queste corti, nella circolare n. 10261 del 22 marzo 1916, il Reparto disciplina, avanzamento e giustizia militare del Comando supremo guidato dal tenente generale Giuseppe Della Noce (valido supporto alle teorie cadorniane in tema di giustizia e disciplina), esprimeva diverse critiche alla loro azione: S.E. il Capo di stato maggiore dell’esercito ha rilevato replicatamente che le sentenze dei tribunali straordinari sono nella maggior parte dei casi improntate di una mitezza che è assolutamente in contrasto col criterio disciplinare e giuridico che ha inspirato l’art. 559 del Codice militare. Ciò è conseguenza della facilità colla quale i giudici, approfittando della facoltà concessa dall’art. 570 di non motivare le sentenze, eludono la responsabilità d’infliggere la pena di morte, accordando   Nota n. 3376 del 17 dicembre 1915 dell’Avvocato fiscale del IV Corpo d’Armata al Reparto giustizia militare del Comando Supremo (Acs-TS-AD, b. 17, f. 32). 7   Archivio centrale dello Stato (Acs) - Tribunali militari. I registri contengono centinaia di sentenze rilegate emesse dai tribunali straordinari, suddivise per corpo d’armata. 6

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agli imputati le attenuanti generiche. Rimane così diminuita quella esemplarità che, con la convocazione di tali tribunali, si vorrebbe ottenere, si rende necessario che i Comandi che ordinano la riunione dei tribunali straordinari facciano ben comprendere ai giudici (pur non coartando le loro coscienze e senza alcuna influenza sul loro giudizio) le gravi conseguenze che possono derivare da una soverchia mitezza, osservando che la repressione adeguata è il mezzo migliore di prevenzione dei reati8.

Come ricordato, Cadorna prescrisse sin dall’autunno del 1915, di «passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi», ponendo così le basi per le esecuzioni sommarie. Tuttavia, il Codice penale militare, pur presentando alcune aperture in questo senso (artt. 40 e 1179), non autorizzava esplicitamente le fucilazioni senza processo10. Il problema fu risolto ricorrendo alla revisione delle Norme pel combattimento, strumento regolamentare di natura organizzativa e disciplinare. Nell’edizione delle Norme del 1913 si precisò che chiunque:   Acs-TS-AD, b. 18, f. 3.   L’articolo 40 obbligava chi deteneva una funzione di comando ad «adoperare ogni mezzo possibile» per impedire una serie di reati (es. sbandamento, abbandono di posto davanti al nemico, ammutinamento, rivolta, ecc.), mentre l’articolo 117 prevedeva la punibilità per chi non facesse uso di tutti i mezzi disponibili per impedire una rivolta o un ammutinamento. Tuttavia la dizione «ogni mezzo possibile», dichiarando legittimo quanto non espressamente vietato, violava il fondamentale istituto giuridico per cui nessuna pena può esistere se non è prevista dalla legge (Anselm von Feuerbach: Nullum crimen, nulla poena, sine lege). 10   Il quadro normativo e le disposizioni sulla giustizia sommaria sono delineati nel 1919 dal generale Donato Antonio Tommasi nella Relazione sulle esecuzioni sommarie presentata nel settembre al ministro della guerra Albricci. Copia del dattiloscritto è conservata nell’Archivio del Museo del Risorgimento di Milano - ASC, b. 21, f. 17595. Sulle esecuzioni senza processo cfr. B. Bianchi, Exécutions sommaires et condemnations à mort au sein de l’Armée italienne durant la Grand Guerre, in R. Cazals [et al.] (dir.) La Grande Guerre. Pratiques et expériences, Toulouse, Privat 2005, pp. 237-246; Pluviano, Guerrini, Le fucilazioni sommarie… cit. e, degli stessi autori, Extrajudicial executions in the Italian army during World War I, in J.-M. Berlière et al. (dir.), Justices militaries et guerres mondiales = Military justices and world wars (Europe 1914-1950), Louvain, Presses universitaires de Louvain 2014, pp. 179-192. 8 9

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«nel combattimento con parole o con grida o con atti pusillanimi o con rifiuto di obbedienza influisca dannosamente sull’animo dei compagni o degli inferiori, deve essere immediatamente passato per le armi da qualunque ufficiale si trovi presente»11. Oltre alla citata anomalia di disporre una sanzione penale attraverso uno strumento amministrativo, la definizione del reato era inesistente. La norma non si riferiva a fatti concreti ma a sensazioni e valutazioni soggettive dell’ufficiale in comando. Questa valutazione discrezionale poteva quindi privare il soldato del bene supremo: la vita. Con successive disposizioni si stabilì che le esecuzioni senza processo erano legittime purché si riferissero a reati: • compiuti in faccia al nemico; • che ponevano in grave pericolo la tenuta del reparto; • reiterati nonostante l’ordine di porvi termine da parte del superiore; • i cui responsabili fossero stati arrestati in flagrante. I fatti dovevano essere quindi così gravi, pericolosi, e incontrovertibili da giustificare l’esecuzione immediata dopo una rapida indagine e la compilazione di un semplice verbale. Questo estremo strumento repressivo fu invece applicato in maniera assai più ampia del consentito tanto che, alla fine della guerra, divenne uno dei principali argomenti utilizzati da chi criticava la gestione dell’esercito. Le esecuzioni sommarie furono la manifestazione più grave della trasformazione delle procedure giudiziarie in atti amministrativi: al posto di un processo, poche righe erano sufficienti a giustificare la soppressione di una vita. Ciononostante un numero non quantificabile ma non esiguo degli ufficiali che agirono in tal senso non seguì nemmeno le poche formalità richieste richiamate sopra. In realtà la maggior parte delle esecuzioni sommarie fu realizzata a giorni dall’evento incriminato, il quale non di rado avveniva fuori dalle trincee di prima linea. Nella maggioranza degli episodi di giustizia sommaria di cui siamo a conoscenza non si verificarono quindi le condizioni atte a conferire loro una parvenza di ‘legittimità’.   Tommasi, Relazione sulle esecuzioni… cit., p. 6.

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Luigi Cadorna andò però ben oltre la pratica delle esecuzioni senza processo poiché prescrisse, con la circolare telegrafica n. 2910 del primo novembre 191612, il ricorso alla decimazione, pratica sconosciuta negli altri eserciti in campo e non prevista in alcun modo dal Codice. Nella circolare ordinò: «Allorché accertamento identità personale dei responsabili non è possibile rimane ai comandanti il diritto et il dovere di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte». E sette mesi dopo ribadì la bontà del provvedimento al nuovo premier, Paolo Boselli13. In caso di gravi reati collettivi (resa, rivolta, sbandamento), qualora non fosse possibile individuare rapidamente i colpevoli, si doveva pertanto mandare a morte un uomo sul quale gravassero semplici indizi e non la certezza della colpa. Ma non solo, in alcuni episodi il sorteggio fu svolto tra tutti i componenti del reparto colpevole, comprendendo quindi anche chi non si trovava fisicamente sul luogo del reato, come vedremo più avanti. La circolare prendeva lo spunto – approvandole – dalle fucilazioni per decimazione compiute presso il 75° Reggimento fanteria (Brigata Napoli) e il 6° Reggimento bersaglieri per punire due episodi d’indisciplina qualificati come rivolte, avvenuti il 30 e il 31 ottobre 1916, a testimonianza di una pratica già in vigore. Cadorna poté applicare questo metodo criminale poiché fu appoggiato da uomini potenti, come ad esempio il duca d’Aosta, Emanuele Filiberto di Savoia, comandante della Terza Armata. Il duca, nel proclama alle truppe del primo novembre 1916, approvò che nei due reparti appena citati in cui si erano verificati disordini: «alcuni, colpevoli o non, fossero immediatamente passati per le armi. Così farò, inesorabilmente, quante volte sarà necessario»14. Il comandante supremo era da tempo un sostenitore della decimazione tanto che, già il 14 gennaio 1916, aveva scritto al presidente del Consiglio Antonio Salandra, rimpiangendo che il codice non

  Aussme-L3, b. 141, f. 9.   L. Cadorna, Pagine polemiche, Milano, Garzanti 1950, p. 10. 14   Aussme-L3, b. 141, f. 9. 12 13

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prevedesse la facoltà di applicare questo provvedimento15. Aveva poi approvato in un ordine del giorno all’Esercito la decimazione sofferta dal 141° Reggimento (Brigata Catanzaro) il 28 maggio 1916, sulle pendici del monte Sprunck, sul fronte di Asiago durante l’offensiva austriaca sugli altipiani16. Dopo una giornata di duri combattimenti sul monte Mosciagh, intorno alle 19 del 26 maggio, scoppiò un violento temporale e gli austriaci ne approfittarono per scatenare un nutrito fuoco di fucileria e mitragliatrici sulla linea avanzata. Alcuni soldati e graduati si precipitarono nell’accampamento retrostante gridando ai compagni di fuggire e di mettere in salvo le armi. Nel frattempo i cavalli di un traino di artiglieria imbizzarriti per la tempesta, piombarono tra gli uomini gettandoli definitivamente nel panico e provocando la fuga di alcune centinaia di soldati verso il bosco che furono immediatamente bersagliati dal fuoco ordinato dai loro ufficiali. Parte di loro fu recuperata dai superiori che li riportarono in linea, conducendoli al contrattacco. Altri rientrarono al mattino, parte spontaneamente e parte ricondotti dai carabinieri, e furono decimati. Il colonnello comandante il reggimento, Attilio Thermes, ordinò che fossero fucilati senza processo il sottotenente e i tre sergenti della Compagnia che si trovavano tra gli sbandati (i più alti in grado) e altri 8 militari estratti a sorte tra 82 soldati. Questa repressione, anche per i criteri in uso allora, è da considerarsi ‘illegittima’ poiché avvenne a quasi 48 ore dai fatti, il giorno 28 sulle pendici del monte Sprunck dove la brigata aveva ripiegato. Il primo luglio il Tribunale militare del XIV Corpo d’armata processò i 74 superstiti alla decimazione. Per 8 di loro la corte stabilì il non luogo a procedere per mancanza d’indizi. Altri sette furono assolti (per esempio un soldato era di guardia ai sacchi della posta nelle retrovie e un altro aveva accompagnato un ferito al posto di medicazione). Ad altri cinque fu riconosciuto il merito di aver organizzato un ordinato ripiegamento, che permise di mettere in salvo   P. Melograni, Storia politica della grande guerra, Bari, Laterza 1977, pp. 127-128.   Cfr. I. Guerrini, M. Pluviano, Fucilate i fanti della Catanzaro. Le decimazioni del Mosciagh e di Santa Maria La Longa, Udine, Gaspari 2007.

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le mitragliatrici. Le 54 condanne pronunciate furono miti (due o tre anni). Eppure, ognuno di loro, compresi gli assolti e chi non fu nemmeno processato, avrebbe potuto essere sorteggiato per la fucilazione. La decimazione più imponente fu subita il 17 luglio 1917 dalla 6a Compagnia del 142° Reggimento, sempre della Catanzaro17. I soldati della Brigata, provati dalla X offensiva e dai combattimenti che seguirono, furono mandati a riposo a Santa Maria la Longa, con la promessa ufficiosa di essere inviati su di un fronte più tranquillo (Trentino o Carnia). Quando tra i reparti iniziò a circolare la voce che sarebbero stati rimandati sul Carso, il malumore si tramutò in disperazione. Nonostante la mancanza d’idee chiare e di una seppur minima direzione politica, la rivolta scoppiò con violenza nella tarda serata del 16 luglio e nel corso degli scontri a fuoco alcuni soldati e ufficiali lealisti trovarono la morte, assieme a un certo numero di ribelli. L’ordine fu riportato intorno alle 3 del mattino e subito dopo furono fucilati sedici soldati, anche se contro la maggior parte di essi vi erano poco più che indizi. Poi toccò alla 6a Compagnia che si era asserragliata in una baracca rifiutando di rientrare nei ranghi e sparando per diverse ore colpi di avvertimento sulle truppe lealiste con fucili e mitragliatrici; quando all’alba si arrese, dodici uomini, (un decimo della forza), furono sorteggiati e fucilati. Sembrerebbe tutto a posto, in fondo ci fu chi disse, e il duca d’Aosta fu tra essi, che fucilarne solo il 10% era stata una misura umanitaria. Poi cominciarono i processi. Il primo di agosto toccò a sette supposti ‘agenti principali’ della rivolta, individuati grazie a lettere inter-

17   Guerrini, Pluviano, Fucilate i fanti… cit. Sulla rivolta cfr. P. Gubinelli, Sparate dritto al cuore. La decimazione di Santa Maria la Longa e quella inglese a Étaples, Udine, Gaspari 2014; G. Costantini, E. Stamboulis, Officina del macello. 1917 la decimazione della Brigata Catanzaro, Torino, Eris 2014, che contiene, oltre alla graphic novel degli autori, alcuni saggi tra cui ricordiamo quello dei giuristi S. Dini, L. Pasculli, S. Riondato, Fucilazione e decimazione nel diritto italiano 1915-1918, pp. 103-114.

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cettate dalla censura e alla testimonianza di alcuni ufficiali e confidenti. Quattro furono condannati a morte, due a quindici anni e sei mesi e uno fu assolto. I superstiti della compagnia decimata furono processati il 29 agosto; solo tre furono condannati a lunghe pene detentive, mentre tutti gli altri ebbero pene comprese tra i cinque anni e pochi mesi. Ventitré militari – che avevano partecipato come gli altri al sorteggio – furono assolti. Nel corso del 1919 ebbero larga eco in tutto il Paese le conclusioni della Commissione d’inchiesta su Caporetto18. Nata per dimostrare che la rotta era responsabilità della ‘quinta colonna’ socialista, divenne invece il luogo dove più efficacemente fu messa in discussione la gestione cadorniana della guerra, bollata dagli stessi commissari di nomina regia con il termine: «Infecondi sacrifizi di sangue»19 e in cui furono esecrate le esecuzioni sommarie. Anche grazie alla campagna stampa del quotidiano socialista «Avanti!» che denunciò diversi episodi di fucilazioni senza processo, lo scandalo crebbe rapidamente. Lo stesso ministro della Guerra, generale Alberico Albricci, ordinò all’avvocato generale militare dell’Esercito, generale Donato Antonio Tommasi, di condurre un’indagine sul fenomeno. Nonostante lo scarso tempo disponibile, appena quaranta giorni, Tommasi realizzò un buon lavoro individuando 43 episodi per un totale di 152 vittime20. Tommasi dovette riconoscere che molti episodi di giustizia sommaria non erano da considerarsi legittimi perché non rispettavano neppure i 18   Relazione della Commissione d’inchiesta R.D. 12 gennaio 1918, n. 35, Dall’Isonzo al Piave, vol. 2, Le cause e le responsabilità degli avvenimenti, Roma, Stabilimento poligrafico per l’amministrazione della guerra 1919. Sulla Commissione e il dibattito nel Paese cfr. G. Rochat, L’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, RomaBari, Laterza 2006 (1967), pp. 38-77; N. Labanca, Caporetto – storia di una disfatta, Firenze, Giunti 1997, pp. 89-95; Pluviano, Guerrini, Le fucilazioni sommarie… cit., pp. 41-46; A. Gionfrida, Inventario del Fondo H-4 Commissione d’Inchiesta Caporetto, http://www.esercito.difesa.it/storia/Ufficio-Storico-SME/ Documents/150312/H-4-Commissione-d-inchiesta-Caporetto.pdf. 19   Relazione della Commissione d’inchiesta… cit., p. 433. 20   Oltre alla copia della Relazione (vedi nota 10), abbiamo potuto consultare gli Allegati contenenti la documentazione dei singoli casi conservati nell’Aussme, che ci sono stati generosamente consegnati dal professor Giorgio Rochat.

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Tribunali straordinari ed esecuzioni sommarie

pochi requisiti enunciati sopra, essendo avvenuti lontano dalla prima linea o in assenza della flagranza del reato; per alcuni di essi la responsabilità dei comandanti che li avevano ordinati era nulla poiché le esecuzioni erano state approvate direttamente da Cadorna. Infine, per ben 19 episodi, la documentazione disponibile era talmente insufficiente – a suo giudizio – da non consentirne la valutazione e per essi era perciò opportuno un supplemento di indagini. La Relazione di Tommasi ha costituito il punto di partenza del nostro studio, proseguito nei fondi dell’Archivio centrale dello Stato e dell’Archivio dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Abbiamo così rintracciato 93 episodi di giustizia sommaria, 8 di questi per decimazione, fortunatamente non sempre con il rapporto di uno a dieci. Le vittime accertate a oggi sono 295, di cui 26 sono civili residenti nelle aree slovene occupate nelle prime settimane di guerra e fucilati per atti di spionaggio e sabotaggio inesistenti. Va poi aggiunto un numero imprecisato – ma consistente – di soldati che persero la vita in sette casi, documentati negli archivi, di mitragliamento e bombardamento di reparti che si stavano sbandando o che tentavano di arrendersi, alcuni dei quali non possono non lasciare perplessi. Ad esempio, l’invito a raggiungere le linee nemiche partito dalla trincea italiana verso un consistente gruppo di soldati gravemente feriti della Brigata Salerno, intrappolati senza scampo e senza soccorsi da due giorni nella terra di nessuno ai primi di luglio 1916 sulle pendici del monte Interrotto durante la Strafexpedition, spinse i comandi a ordinare da un lato il bombardamento dei feriti21 e dall’altro a fucilare senza processo per decimazione otto uomini per incitamento alla diserzione22. Una stima prudente delle vittime delle fucilazioni senza processo si attesta almeno a 350, con una crescita costante nei primi anni di guerra e un drastico calo dopo l’avvento al Comando supremo di   G. Procacci, in Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, Roma, Editori riuniti 1993, alla p. 47 segnala un centinaio di vittime. 22   Pluviano, Guerrini, Le fucilazioni sommarie… cit., pp. 99-105. 21

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Armando Diaz. Non si tratta di cifre definitive poiché, proseguendo con le ricerche, continuano a emergere nuovi casi. Possiamo individuare la tipologia della vittima delle fucilazioni sommarie? Non esiste un’idealtipo del fucilato o di chi cercava di ‘scampare la guerra’, anche se è presente un tratto in comune: furono nella grande maggioranza dei casi, come disse quasi vent’anni fa il premier francese Lionel Jospin nel discorso di Craonne (5 novembre 1998), soldati estenuati e traumatizzati, che non sopportavano più le terribili condizioni di vita della trincea e la spietata durezza della disciplina23. Per l’Italia possiamo poi aggiungere l’arbitrio degli ufficiali che, spesso, si lasciavano andare ad atti di prevaricazione e di violenza nei confronti dei sottoposti. Questi uomini, spesso condannati per la debolezza o il crollo di un momento dopo una vita militare regolare quando non esemplare, rappresentano uno spaccato trasversale dell’esercito. Tra loro si trovano i coraggiosi e i codardi, i patrioti e i pacifisti, i giovani e gli anziani, i meridionali e i settentrionali, i colti e gli analfabeti, i veterani e i ‘novellini’. Solo un dato sembra emergere chiaramente: non vi furono complotti sovversivi. La stessa rivolta della Brigata Catanzaro del luglio 1917, l’unica su larga scala nell’esercito italiano, non fu il frutto della sovversione che a giudizio del Comando supremo avrebbe serpeggiato nei reparti. E anche negli altri casi, furono ben pochi i rivoluzionari che caddero vittime dei plotoni di esecuzione. I fucilati furono quasi sempre ‘soldati comuni’, e furono uccisi per gli stessi reati che, in altri casi, erano stati puniti con una condanna al carcere, lunga o breve, con una punizione disciplinare o con un paio di ceffoni dati dall’ufficiale.

23   Cfr. N. Offenstadt, Les fusillés de la grande guerre et la mémoire collective (19141999), Paris, Jacob 1999, p. 177.

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ETICA, MORALE E MORALISMO NELLA GIUSTIZIA SOMMARIA DELLE TRINCEE Andrea Zhok

La Prima guerra mondiale è probabilmente il singolo evento storico di maggior peso nella definizione degli orientamenti politici e culturali del Novecento europeo. Le nazioni, o gli imperi, che entrarono in guerra ne uscirono trasformati, spesso istituzionalmente, sempre moralmente. Il caso italiano ha sue peculiarità, molto studiate soprattutto perché diedero vita a quel prodotto politico originale, ma ampiamente imitato, che fu il fascismo. Tuttavia, una prospettiva interessante da cui guardare all’evoluzione, o involuzione, morale della nazione italiana può essere ottenuta guardando a una particolare dinamica che caratterizzò le vicissitudini del primo conflitto mondiale, ovvero al significato avuto dalle esecuzioni sommarie, di civili e di militari, avvenute nel corso della guerra. Per inquadrare il senso di quegli eventi è però utile fornire in prima battuta qualche considerazione preliminare di indole filosofico-morale. La distinzione tra ‘etica’ o ‘eticità’ (Sittlichkeit) e ‘morale’ (Moralität) in filosofia è una distinzione consolidata, risalente ai Lineamenti di filosofia del diritto di Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Moralità ed eticità sono rispettivamente il secondo e il terzo momento di sviluppo di ciò che Hegel chiama ‘spirito oggettivo’ e che concerne lo sviluppo dei rapporti reali nelle società storiche. La sfera della moralità sarebbe quella delle decisioni soggettive, dove si esprimono le istanze di giustizia del singolo: è il luogo dell’assunzione di responsabilità individuale e dell’intenzione in buona coscienza. Tali istanze possono presentarsi come il rispetto di regole universali, imperativi, comandamenti, dove il soggetto dà espressione alle sue buone intenzioni e al suo senso di responsabilità. Il limite che Hegel ascrive alla moralità consiste nella sua astrattezza, cioè nel 71

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tendere a una preservazione astratta del senso di giustizia senza che esso sia calato in, e conciliato con la realtà storica concreta. Con un esempio classico, possiamo ritenere che sia moralmente sbagliato mentire, e che dunque seguire la regola ‘non mentire’ sia seguire una massima sempre moralmente buona. E tuttavia, ciò non significa che in ogni contesto dire la verità debba rappresentare la decisione migliore. Ad esempio, pochi credono che rispondere sinceramente, senza menzogna, a un ufficiale delle SS che stia chiedendo informazioni sugli ebrei nascosti nel proprio fienile possa rappresentare una scelta moralmente impeccabile. Qui sembra evidente che anche imperativi morali che a prima vista sembrano soggettivamente senz’altro giusti debbano richiedere un aggiustamento contestuale per potersi preservare davvero giusti. La nozione di ‘etica’ o ‘eticità’ viene così introdotta da Hegel per nominare la dimensione decisionale dove le istanze soggettive di giustizia trovano una conciliazione con la realtà storica corrente, sia della vita famigliare che della propria società e della propria epoca. La sfera dell’eticità trova compimento per Hegel nella dimensione dello Stato, dove le ragioni della morale individuale dovrebbero trovare piena conciliazione con le ragioni della vita storica collettiva. Lo Stato, nella rappresentazione hegeliana, mira a essere il luogo ideale dove le istanze di libertà e moralità individuale, lungi dall’essere schiacciate, trovano una nuova forma di realizzazione di più ampio e complesso respiro. Non è difficile scorgere in questo modello hegeliano gli estremi di ciò che da Giovanni Botero (1589) e Niccolò Machiavelli1 (1532) in avanti è passato sotto il nome di ‘ragion di Stato’. Mentre però nelle visioni tradizionali della ragion di Stato l’idea di fondo consisteva nella sua natura esplicitamente amorale, Hegel osserva come le ragioni che animano lo Stato possono consolidarsi in acquisizioni durature solo quando riconciliano le istanze di libertà e moralità soggettiva. In altri termini, le ragioni della società o dello stato non devono venir percepite come qualcosa che semplicemente si impo  Machiavelli, Il Principe, par. 8.

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ne e sovrappone dall’esterno rispetto alle volontà individuali; in assenza di una buona motivazione che consenta di metabolizzare l’apparente immoralità (soggettivamente percepita) di un atto del ‘potere statale’, le ‘ragioni di Stato’ vengono vissute come irragionevoli, il loro senso ne emerge come una violenza inintelligibile, e ciò tende a generare una repulsione dialettica verso il polo opposto (il non-Stato, l’anti-Stato). In quest’ultimo caso gli appelli a giustificare un’azione percepita come ingiusta, alla luce dei superiori interessi del tutto (comunità, società, stato) finiscono fatalmente per trasformarsi in qualcosa di diverso e di altamente controproducente. Invece di ottenere una visione etica in cui il sacrificio di ciò che appare come un’immoralità particolare sarebbe giustificato da uno sguardo più lungimirante e comprensivo, si ottiene una visione ‘moralistica’, dove prediche astratte degli ‘interessi superiori del sistema’ lungi dall’avvicinare l’individuo all’idealità, lo allontanano da essa. Ora, è facile vedere come una pratica così drammatica come l’esecuzione per ragioni disciplinari di militari del proprio stesso esercito, o addirittura di civili, a maggior ragione se con esecuzioni sommarie, ovvero senza alcun processo, sembri ricadere appieno in quel terreno dove ci si può attendere l’appello a una superiore ragione etica, a una ‘ragion di Stato’. L’idea che le finalità della condotta di guerra, e dunque quelle associate alla conservazione della disciplina e dello spirito bellico, siano finalità dominanti può condurre all’idea che anche pratiche sbrigative, sommarie, e talora arbitrarie possano essere giustificate. Naturalmente a un contesto estremo come quello di un conflitto bellico, dove ne va continuamente della vita e della morte, non possono essere applicati gli stessi canoni di rispetto formale della legge e la stessa articolazione delle garanzie della difesa che sarebbe naturale attendersi in tempo di pace. E in effetti, la pratica delle fucilazioni ‘per l’esempio’ era in varia misura diffusa e intrattenuta da tutti gli eserciti. Celebri film come Per il re e per la patria di Joseph Losey o Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick hanno esplorato nel tempo il senso di colpa collettivo generato da quegli eventi, cercando di problematizzare e sanare qualcosa che venne comunque sempre percepito come drammatico e difficilmente giustificabile.

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Il caso italiano tuttavia si contraddistingue tanto per il mancato riconoscimento pubblico di una colpa, quanto per la scarsità di una pubblica rielaborazione di questo lutto o ‘peccato’. A ben vedere, se guardiamo alla forma in cui questo fenomeno si presentò per l’Italia nel corso della Prima guerra mondiale, alcune peculiarità vanno sottolineate. L’ingresso dell’Italia in guerra, diversamente da quanto accadde agli altri maggiori paesi coinvolti, non avvenne per l’innesco a catena, quasi meccanico, dei trattati segreti di alleanza. Come noto, l’Italia intervenne con quasi un anno di ritardo rispetto allo scoppio ufficiale della guerra e lo fece sulla scorta di un intenso dibattito interno tra interventisti e neutralisti, dibattito cui si sovraimpose a un certo punto un atto dell’esecutivo, prodotto all’insaputa del Parlamento, e sancito dal cosiddetto Patto di Londra (26 aprile 1915). L’ingresso in guerra si presentò dunque da subito come una decisione controversa, con limitato radicamento popolare, e fortemente verticistica. Per coloro i quali ne furono i principali promotori, a partire dal re, il senso dell’intervento era chiaro: si trattava innanzitutto di portare a compimento l’unificazione del paese secondo gli indirizzi risorgimentali. In seconda battuta, nelle sfere interventiste si presentava come una motivazione di rilievo l’idea di consolidare, sul piano non solo territoriale ma anche sociale, una nazione di recente formazione, e notoriamente affetta da grandi discrasie interne, sociali, culturali, linguistiche. Era dunque diffusa anche l’idea che una guerra potesse alimentare, promuovere e consolidare un rinnovato sentimento di patria e della sua unità. In questa cornice, la condotta di guerra italiana presentò caratteristiche particolari che vanno sottolineate. È innanzitutto importante osservare come l’ingresso ritardato in guerra dell’Italia vieta di pensare che lo Stato maggiore dell’Esercito potesse essere sorpreso dalle nuove caratteristiche della guerra di trincea. Per gli altri paesi, ad esempio per la Francia2, l’impiego più massiccio di ‘fucilazioni per

2   M. Pluviano, I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella Prima Guerra Mondiale, Udine, Gaspari Editore 2004, p. 262.

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l’esempio’ si concentrò nei primi mesi del conflitto, cioè nel periodo di maggiore disorientamento tattico: ci si aspettava una guerra condotta secondo i canoni tradizionali dell’assalto e della conquista territoriale delle posizioni, mentre ci si ritrovò in una guerra relativamente statica, di logoramento e rifornimento. In questo contesto può essere comprensibile un’iniziale reazione di fronte alla relativa staticità delle posizioni che la ascrivesse alla scarsa animosità delle truppe, inducendo a ‘incentivi’ disciplinari draconiani. Dopo breve tempo, tuttavia, il fatto che ci si trovasse di fronte proprio a un nuovo modello di guerra, dipendente dalle nuove caratteristiche dei sistemi di difesa e offesa, si fece spazio. Tuttavia, nonostante tutto ciò dovesse essere ben chiaro all’ingresso in guerra dell’Italia, nel maggio 1915, i vertici dell’esercito italiano insistettero a lungo su una strategia ostinatamente offensivista, portando al reiterato e manifestamente inutile sacrificio di decine di migliaia di soldati. Esemplare in questo senso fu l’atteggiamento del generale Cadorna, che pretendeva di compensare scelte strategiche e logistiche spesso sciatte con l’appello moralistico alle ‘virtù morali’ della truppa: in concreto la disponibilità a perdere la vita senza scopo e discussione. Si chiedeva ai soldati di mostrare entusiasmo patrio e coraggio esemplare esponendo il petto al fuoco delle mitragliatrici dalle trincee, ad maiorem gloriam dei propri comandanti. Nella discussione parlamentare chiamata a valutare l’operato dell’allora capo di Stato maggiore troviamo riportato come a Cadorna non interessasse «conoscere l’animo dei soldati, né di dargli quelle soddisfazioni morali che gli fanno dimenticare i patimenti sofferti, i pericoli corsi e i sacrifici fatti»3. Nelle parole del deputato De Felice-Giuffrida: «[Cadorna] agiva insomma come se fosse il comandante di un esercito di mercenari, non di un esercito di cittadini»4. Sarebbe però sbagliato pensare che un tale comportamento fosse una semplice peculiarità caratteriale di Cadorna, giacché questa era

  Ivi, p. 46.   Ibidem.

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palesemente un’ispirazione complessiva dei vertici militari, come visibile nelle circolari del Comando supremo, a partire da quella molto esplicita emanata dal duca d’Aosta il primo novembre 19165. Gli inviti a largheggiare con la somministrazione della pena capitale nelle proprie fila con ‘finalità motivazionali’, e le lodi agli ufficiali che se ne facevano carico, erano parte di un indirizzo politico molto ben delineato. Il comportamento del generale Andrea Graziani, cui venne affidata la repressione durante la ritirata di Caporetto, rappresenta un esempio emblematico di questa politica. Graziani, cui sono ascritte direttamente almeno trentaquattro esecuzioni sommarie, mostra comportamenti che in qualunque contesto ordinario verrebbero riconosciuti come semplici espressioni di una conclamata psicopatia (ad esempio, chiedere la decimazione di un gruppo di alpini perché stavano cantando, o mandare al muro un soldato perché stava marciando con un sigaro)6. Ma non c’è bisogno di ricorrere alla psicopatologia per spiegare l’atteggiamento di Graziani, nel momento in cui il medesimo era in grado di giustificare pubblicamente i propri atti con le semplici parole «Dei soldati io faccio quello che mi piace»7. La pratica ‘motivazionale’ di porre la truppa di fronte alla semplice alternativa tra l’attaccare il nemico, anche in condizioni strategicamente del tutto sterili e logisticamente impossibili, o di venire fucilati nelle retrovie dai carabinieri, difficilmente poteva contare come buon viatico per un crescente senso di partecipazione alle sorti della patria in guerra. È in questo quadro che acquisisce particolare rilievo il dato statistico che assegna all’Italia il record di ‘esecuzioni per l’esempio’ nel contesto delle nazioni coinvolte nel conflitto. Nonostante il tempo di partecipazione ridotto, e un coinvolgimento di organici inferiori, l’Italia presenta con distacco il maggior numero di tali esecuzioni. Tra quelle ufficiali se ne riconoscono circa 750 all’Italia, 600 alla

  Ivi, p. 270.   Ivi, pp. 186-188. 7   Ivi, p. 188. 5 6

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Francia, 350 al Regno Unito e una quarantina alla Germania8. Va peraltro osservato come la severità nei confronti di inadempienze militari seguisse univocamente il crinale delle opposizioni di classe tra ufficiali, appartenenti ai ceti superiori, e truppa: la giustizia sommaria, inflessibile con i fanti, fu invece estremamente comprensiva verso gli ufficiali, anche nei casi di abuso di autorità9. L’insieme di tali considerazioni può essere letto a questo punto alla luce delle premesse teoriche iniziali. Quale ci si può aspettare sia stato l’impatto presso la popolazione di questo atteggiamento e di queste pratiche da parte dei vertici militari? La profonda impressione che tali eventi hanno lasciato nelle comunità locali è attestata ripetutamente, come si può riscontrare nella stessa vicenda degli alpini fucilati a Cercivento, vicenda riaperta pubblicamente in questi ultimi anni10. Qual è il tipo di messaggio implicito che l’uso e abuso massiccio di pratiche di fucilazione arbitraria portò seco? Se l’intento di chi volle l’intervento in guerra era stato il consolidamento non solo territoriale della patria, ma anche morale del senso di patria, difficilmente si potrebbe pensare a un fallimento più spettacolare. Lungi dal creare le premesse per un vivo spirito partecipativo da parte del popolo alle sorti del giovane Stato, tali punizioni ‘esemplari’ costituirono, quando non crearono ex novo, le condizioni per una sfiducia generalizzata tanto nella competenza, quanto soprattutto nella giustizia delle classi dirigenti (e dunque dello Stato). Il superamento delle istanze morali soggettive in vista della dimensione etica di un ‘bene superiore’ qui risulta fallimentare e sfocia in un vicolo cieco, perché non vi fu alcun serio tentativo di conciliazione tra moralità personale e ‘ragion di Stato’. Il modello motivazionale delle gerarchie militari italiane, legato alla tradizione autoritaria piemontese, rimase dominato dalle spinte della coazione e della paura, rispetto a quelle della partecipazione e   Ivi, p. 246.   Ivi, p. 161. 10   L. Santin, La lezione di Cercivento, in «La Panarie», XLVIII, 186 (2015), pp. 65-70. 8 9

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dell’iniziativa. Premesso che naturalmente in qualunque contesto militare disciplina e rispetto delle gerarchie non possono non giocare un ruolo fondamentale, e che dunque lo spazio per coazione e minaccia non può mai essere escluso, l’esercito italiano, erede del modello aristocratico piemontese, si distinse per un’aperta manifestazione del disprezzo della truppa, identificata (correttamente) con i ceti popolari o piccolo-borghesi. Questo tipo di atteggiamento era però particolarmente inappropriato in un paese con un esercito di leva, un paese dove peraltro era stato raggiunto dal 1912 il suffragio universale maschile. La percezione della frattura tra l’autorità dello stato, identificabile con la catena di comando, e il ‘popolo sovrano’ non poteva essere privo di conseguenze. In effetti, l’Italia uscì dall’esperienza della Prima guerra mondiale sì come potenza vincitrice, territorialmente ampliata, ma anche come un paese in profonda crisi di identità nazionale. Come per tutti i paesi, il conto lasciato dalle spese belliche fu molto salato, sia in termini strettamente debitori, sia in termini di organizzazione industriale, che necessitava di riconvertirsi a una produzione civile. Per affrontare questi problemi, che richiedevano sacrifici e riforme coraggiose, era necessario che alle classi dirigenti fosse riconosciuta competenza e autorevolezza. Paradossalmente, invece, l’Italia vincitrice presentò un quadro di sfiducia generalizzata nelle classi dirigenti, non dissimile da quello cui andò incontro una potenza sconfitta come la Germania, dove neppure l’abdicazione di Guglielmo II permise di superare quella crisi di autorità che si propagò alla successiva Repubblica di Weimar. Il discredito dell’autorità emerso dalla guerra si poté osservare in diversi fenomeni cruciali. Da un lato, gli ufficiali rientrati dal fronte divennero frequentemente oggetto di insulto e di riprovazione popolare, fornendo incidentalmente parte di quel risentimento degli ex combattenti che nutrirà di lì a poco le fila dello squadrismo fascista11. Al tempo stesso, soprattutto dal giugno 1919, ondate di

  P. Milza, S. Berstein, Storia del fascismo. Da Piazza San Sepolcro a Piazzale Loreto, Milano, Bur 1982, pp. 78-79.

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scioperi spontanei, cioè non orchestrati né governati dal Partito socialista o dai sindacati, diedero la percezione di un paese fuori controllo. Per capire la profondità della crisi basti ricordare la petizione dei secondini delle carceri che minacciavano, nel caso le loro rivendicazioni fossero disattese, di liberare tutti i detenuti12. Le occupazioni spontanee delle terre vennero trattate dal governo in modo passivo e privo di alcuno specifico indirizzo politico (il decreto Visocchi del settembre 1919 consentiva di legittimare ex post l’occupazione di terre, purché ne venisse garantita la coltivazione). Nonostante l’impatto quantitativamente modesto di tali occupazioni, esse confermavano e alimentavano l’immagine di uno stato senza guida, e crearono le condizioni per quello spavento degli agrari che fu tra i primi motori dello squadrismo fascista. Molti altri eventi del genere, che caratterizzarono gli anni dalla fine del confitto alla Marcia su Roma, segnalavano questa medesima temperie morale di profonda sfiducia, presso tutti gli orientamenti politici maggiori, nei confronti del potere esecutivo e delle classi dirigenti tradizionali. Pur senza pensare che questi elementi siano sufficienti a delineare un’eziologia esaustiva, è tuttavia indubbio che tutte queste varie forme in cui si manifestò il crollo di autorità contribuirono al processo che diede origine al fascismo. È possibile sostenere che il modo reazionario e ottuso con cui l’esecutivo e le gerarchie militari trattarono il nuovo ‘esercito di cittadini’ nel corso della Prima guerra mondiale contribuì alla dissoluzione della vecchia autorità statale e alla sua sostituzione con una nuova forma di autorità ‘eversiva’, che si incarnerà prima nella pratica squadrista e poi nel governo fascista. In questo senso, la mancata soluzione ‘etica’ del conflitto tra senso soggettivo di giustizia e ragioni di Stato finì per creare un’impasse storica, un’involuzione incapace di giungere a una nuova sintesi: il vecchio autoritarismo aristocratico piemontese venne semplicemente sostituito con un nuovo autoritarismo, popolare ed eversivo.

  Ivi, p. 89.

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Bibliografia G.W.F. Hegel, Lineamenti di Filosofia del Diritto, Milano, Bompiani 2006. N. Machiavelli, Il Principe, in Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Firenze, Sansoni 1992, pp. 255-298. P. Milza, S. Berstein, Storia del fascismo. Da Piazza San Sepolcro a Piazzale Loreto, Milano, Bur 1982. M. Pluviano, I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella Prima Guerra Mondiale, Udine, Gaspari Editore 2004. L. Santin, La lezione di Cercivento, in «La Panarie», XLVIII, 186 (2015), pp. 65-70.

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PRIMO LUGLIO 2016 CENTENARIO DEI FUSILÂTS

Primo luglio 2016, centenario dei Fusilâts

Celebrazioni del centenario della fucilazione degli alpini a Cercivento, primo luglio 2016. In alto, l’esecuzione del silenzio presso il cippo commemorativo. In basso, il presidente della Provincia di Udine Pietro Fontanini riceve il senatore Franco Marini (con il cappello da alpino).

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Primo luglio 2016, centenario dei Fusilâts

In alto, l’intervento del vicepresidente della Regione Friuli Venezia Giulia Sergio Bolzonello. In basso, il discorso del senatore Franco Marini.

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Alpini e sindaci della Valle del But rendono gli onori alla memoria dei quattro alpini fucilati per l’esempio nella Grande Guerra il primo luglio 1916.

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In alto, la vetta del monte Cellon dal ricovero Cadorna sul Pal Piccolo. Il territorio di confine nei pressi del Passo di Monte Croce Carnico, nell’alta Valle del But, fu uno dei punti più combattuti della ‘Zona Carnia’ durante la Grande Guerra.

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Primo luglio 2016, centenario dei Fusilâts

La Santa Messa celebrata da don Pierluigi Di Piazza in suffragio degli apini durante la commemorazione ufficiale del primo luglio 2016. È stato eseguito in onore ai Fusilâts il mottetto Adoro te devote del maestro Giovanni Canciani.

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Primo luglio 2016, centenario dei Fusilâts

Fra le molteplici iniziative realizzate dal Comune di Cercivento per ricordare e sostenere la causa dei Fusilâts vi è anche la stampa di cartoline filateliche.

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Primo luglio 2016, centenario dei Fusilâts

Locandine realizzate dall’amministrazione comunale di Cercivento per i diversi eventi previsti in occasione del centenario dei Fusilâts. In particolare è stata eseguita per la prima volta dopo duecento anni la Missa brevis in Sol Maggiore di Antonin Rossler-Rossetti.

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Primo luglio 2016, centenario dei Fusilâts

Cartolina con i loghi per un annullo postale disegnati dagli alunni della scuola primaria di Cercivento-Treppo Carnico, testimonianza del coinvolgimento delle giovani generazioni nel ricordo del tragico evento.

La ballata dei Fusilâts di Luciano Santin Rombi lontani sul Pal, rimbombo antico delle granate. Schiocchi di sassi, fischi di gracchi, lontani echi di fucilate.

Questo è il nostro giuramento ricordiamoci di Cercivento. Sentite il tragico memento dei fusilâts di Cercivento.

Ci parlavano di coraggio di fedeltà, di onore e gloria. Ci dicevano che in quel maggio s’imprimeva un sigillo alla storia.

Ritornati dall’emigrazione, per servire la causa d’Italia gli ordinarono «Su, pel ghiaione!», sotto il tiro della mitraglia.

Fummo invece in completa balia di menzogne e sfrenate ambizioni. Soggiacemmo a un’insana ordalia di massacri e feroci sanzioni.

Con rispetto, signor capitano, ci conviene aspettare lo scuro. Se la nebbia si alza dal piano il Cellon lo prendiam di sicuro.

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Primo luglio 2016, centenario dei Fusilâts

Furono presi dallo sgomento i ragazzi di Cercivento. Fu questo l’ammutinamento degli alpini di Cercivento.

Il pievano piange e grida: «Fate fucilare me!». «Meglio l’Austria», un vecchio sfida. «Taci, ce n’é anche per te».

«Chisti qua sono solo dei trucchi di chi vuol consegnarsi a ’o nemico. In Val But sono tutti un po’ crucchi, generale, io so quel che dico».

Si prepara l’ammazzamento per i fruts di Cercivento. L’alba incendia il firmamento sopra i tetti a Cercivento.

«Mi permetta signor generale: senza esempi finisce a schifìo, da oggi stesso la corte marziale deve far più paura di Dio».

Matiz cade, ma ancora respira. Lo sollevano da terra. Il tenente tre colpi gli tira. Vuol così il tribunale di guerra.

«E Cadorna lo ha detto lui pure “Se i soldati si mostrano fiacchi, adottare misure più dure e passar per le armi i vigliacchi”».

Oggi il cieco rigor non deflette: non li hanno riabilitati. Per i giudici con le stellette i comandi non son mai sbagliati

Silvio Gaetano Ortis da Paluzza, Basilio Matiz da Timau, Giovan Battista Coradazzi da Forni di Sopra, Angelo Massaro da Maniago

Ma una stele ricorda l’evento a chi passa per Cercivento. No alla guerra, sia il comandamento per i martiri di Cercivento

Giudicate di chi è il tradimento consumatosi a Cercivento. Fu già condanna, in un momento per gli imputati a Cercivento.

All’esercito dei disertori è già tempo che Francia e Inghilterra riverenti hanno reso gli onori. In Italia è più sacra la guerra.

Lampi notturni sul Cellon, come bagliori di traccianti. Fuochi fatui che ricordano: lassù ne sono morti tanti

Più di cento son gli anni passati e rimane immutato il dolore. A quei giovani uccisi e infangati non si vuol restituire l’onore.

Per i quattro c’è il plotone il reato è di rivolta. Va ad Asiago il battaglione, e poi la seduta è tolta.

Se l’infamia dolente di allora si eclissò nella gloria che abbaglia, questa storia che ci disonora non scordate, fratelli d’Italia.

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TESTIMONI DELLA DIGNITÀ UMANA* Pierluigi Di Piazza

La Parola di Dio, di questo Vangelo delle Beatitudini è chiara e luminosa; propone una prospettiva straordinaria, provoca esigenze radicali che coinvolgono le nostre coscienze, che provocano a maturazioni e decisioni. In questa chiesa, dove ora abbiamo appena ascoltato queste parole, cent’anni fa furono processati ottanta alpini, accusati di insubordinazione e ribellione a ordini irrazionali e assurdi perché contrari alla dignità delle persone e alle loro vite, ventinove condannati a complessivi 145 anni di carcere, quattro condannati alla fucilazione in base al codice penale militare per rivolta in faccia al nemico. Scandiamo i loro nomi con rispetto, ammirazione, amicizia e gratitudine: Silvio Gaetano Ortis da Paluzza, Basilio Matiz da Timau, Giovan Battista Coradazzi da Forni di Sopra, Angelo Massaro da Maniago. Cento anni fa furono pronunciati con la prepotenza e la durezza della condanna; dire i nomi significa guardare il volto, considerare in profondità le loro storie, i loro affetti, le loro relazioni, le loro ricchezze umane. È fondamentale non fare sbrigativamente memoria relegandola nelle date cronologiche pure importanti, ma partendo da esse vivere la memoria perché entri nel nostro patrimonio spirituale ed etico, personale e comunitario e anche su un piano distinto ma non separato in quello delle istituzioni e della politica. Un patrimonio, che riferendosi a situazioni collocate storicamente, esige una continua alimentazione degli ideali di giustizia, di pace, di libertà, di democrazia. C’è stato tramandato un fatto solo appa* Testo dell’omelia pronunciata il primo luglio 2016 nella chiesa parrocchiale di Cercivento che fu sede del tribunale straordinario.

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rentemente meno importante se letto dentro alla cronaca, ma di profondo significato se interpretato oltre alla cronaca. Il parroco di Cercivento don Luigi Zuliani sentì pienamente in contrasto con la fede, con il messaggio del Vangelo, che quel processo si svolgesse qui in chiesa e allora per dissociarsi pose una separazione, una copertura all’Eucaristia per dire che quel processo assurdo e disumano non aveva proprio nulla a che fare con il Dio di Gesù di Nazaret che, come abbiamo appena ascoltato, ha proclamato beati i non violenti, suoi figli e sue figlie gli operatori e le operatrici di pace. La pace che Gesù ci insegna non è militare, neanche politica e diplomatica, è l’amore come dimensione costitutiva della vita, che certo può, anzi dovrebbe ispirare le istituzioni e la politica, sempre con l’attenzione a non confondere i piani e compiti e affermando la laicità delle loro decisioni. Un amore incondizionato quello di Gesù di Nazaret perché abbatte i muri di divisione, discriminazione, e inimicizia, anima continuamente la compassione verso le persone nell’ascolto, nell’accoglienza, nella condivisione, nella guarigione, nel perdono, nella comunicazione continua di fiducia, incoraggiamento, sostegno. Un amore rivoluzionario che mette tutti in discussione, come persone, come comunità, come organizzazione della società, come Chiesa. Per questo Gesù diventa inaccettabile dal sistema e viene avversato e poi ucciso dai poteri prima quello della casta sacerdotale del tempio di Gerusalemme, intrecciato con quello dell’ortodossia religiosa, con quello giuridico e militare. Gesù viene processato, condannato in modo farsesco e poi ucciso come un comune delinquente con il tremendo supplizio della croce. Così si è consumato un contrasto insanabile tra il Dio della religione del tempio e il Dio umanissimo presente in Gesù di Nazaret. Gesù risorto, vivente oltre la morte comunica che la forza dell’amore prevale sui poteri di morte e saluta ripetutamente le donne e gli uomini suoi amici dicendo loro «la pace sia con voi», pace dono di Dio e immediata e completa nostra responsabilità. Anche i quattro alpini processati e uccisi per la loro sensibilità di coscienza sono da considerare discepoli autentici di Gesù di Nazaret. Sappiamo oggi con conoscenza e

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consapevolezza maggiori che la memoria di quel processo, di quella condanna è stata vissuta anche con vergogna, con la fatica a liberarsi dal considerarli disertori, disobbedienti, traditori, una memoria che a poco a poco si è chiarita nella verità, specie per l’impegno coraggioso di alcune persone e che oggi è diventata consapevolezza diffusa e richiesta anche alle istituzioni di riabilitarli in modo chiaro e definitivo, cioè di riconoscerli come testimoni della dignità umana, di ubbidienza alla propria coscienza e non a ordini assurdi da parte di gerarchie incompetenti, accecate nel cuore e nella mente dalla logica del nemico e della sua distruzione, della esaltazione della vittoria basata sui morti, senza alcuna riflessione, considerando gli esseri umani come numeri, strumenti, carne da macello. Papa Francesco a Redipuglia nel settembre 2014 ha affermato che la guerra è sempre una follia, che gli pareva di scorgere su quell’immenso cimitero di centomila uomini voluto da Mussolini in persona, questa scritta: «A me, a noi cosa importa?». Infatti cos’è importato a chi ha deciso quella guerra e così la seconda e così tante altre e così quelle attuali? Stanno forse a cuore le vite delle persone e delle loro famiglie, i morti, i feriti per sempre nel cuore e nella psiche, le distruzioni, l’impoverimento delle popolazioni, le ‘profuganze’ di allora e di oggi? Mussolini volle quel monumento non per pietà ai morti ma per esaltare l’eroismo della guerra; si vede da come è costruito e da quella scritta ricorrente, «Presente!», che fa rabbrividire perché è a dire la continua disponibilità a combattere; tra l’altro è inquietante che Mussolini abbia inaugurato il monumento il 18 settembre 1938, lo stesso giorno in cui a Trieste, in piazza Unità, proclamò le leggi razziali. Seguendo l’insegnamento del Vangelo, papa Benedetto XV, inascoltato, aveva definito quella guerra non solo «inutile strage» ma anche «spaventoso conflitto» e «orrenda carneficina». Durante il conflitto si sono contrapposti uomini che professavano la stessa fede. Preti cattolici benedivano le armi italiane invocando la protezione delle pallottole affinché colpissero l’avversario; preti cattolici benedivano i cannoni austroungarici con le stesse parole; vescovi di entram-

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Quattro ragazzi E lui decise farò il prete era giovane quando arrivò si spogliò di ogni bene era un uomo fatto così si cresce in fretta qualche volta la povertà sa fare presto il ’900 era arrivato e Cercivento disse di sì Fu con passo da gigante che di là passò la guerra per condannare quattro giovani che non volevano morire quattro ragazzi che chiedevano copertura per l’attacco per conquistare quella vetta senza sprecare amori e affetti ma la guerra non capiva li chiamava traditori ma la guerra preparava altre lacrime al paese Quel giugno era davvero caldo e tra le mura della chiesa si alzò una condanna a morte appena faceva mattino il prete anticipando i tempi chiese la grazia alla regina aspettava sicuro che tutto si sarebbe fermato prima non riuscirono a parlare o nessuno li ascoltò un processo fatto in chiesa in tre giorni li condannò Nessuno disse una parola per quel ordine spietato nessuno disse che la patria l’avevano difesa con onore per la grazia e la giustizia prete quanto tempo ci vorrà ma iniziò l’ultimo giro e la sua testa si fermò il plotone era già pronto loro quattro erano lì il paese chiese al giorno di tardare il suo ritorno erano quattro erano forti erano giovani e sono morti lui benediva fiori e piante senza più lacrime né idee così negli anni che seguirono un po’ di lui rimase lì i suoi sermoni raccontavano di quattro alpini di quattro amici ora che dormiva in chiesa e parlava a Dio e ai santi cosa si saranno detti si saranno rivelati tra preghiere e lamenti misericordia e tormento prima di pacificare il loro lungo viaggio insieme Luigi Maieron, primo luglio 2016 Il brano inedito Quattro ragazzi dedicato ai quattro alpini fucilati dal cantautore carnico Luigi Maieron ed eseguito durante la cerimonia civile presso il cippo commemorativo il primo luglio 2016.

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be le parti invitavano i fedeli al Te Deum di ringraziamento per le stragi perpetrate dai propri eserciti nei confronti degli avversari. Generali d’armata, per primo Cadorna, si accostavano all’Eucarestia ogni giorno e poi mandavano al massacro il fior fiore della gioventù ordinando fucilazioni per chi si rifiutava di uscire dalle trincee, fra queste quella dei quattro alpini che ricordiamo in questa giornata. Dunque una religione legata al potere che non ascolta la profezia, tradisce la fede, legittima l’assurdità della guerra e le sue disumanità. Alla luce della fede gli alpini processati in questa chiesa, quelli condannati, i quattro fucilati sono riconoscibili chiaramente come costruttori di pace, come figli di Dio. Sono in buona e numerosa compagnia nella storia. Con i primi cristiani che si rifiutavano di entrare nell’esercito dell’Impero romano, di impugnare le armi e per questo venivano uccisi; con Bonhoeffer, il grande teologo e pastore luterano impiccato il 9 aprile 1945 a Flossenburg perché fermo oppositore al demone del nazismo; con padre Ernesto Balducci, condannato dal Tribunale di Firenze del 1963 a otto mesi con la condizionale, lo stesso anno dell’enciclica Pacem in terris di papa Giovanni XXIII, per aver difeso il primo obiettore di coscienza cattolico Giuseppe Gozzini; con don Lorenzo Milani condannato quando era già morto, che a sua difesa non potendo partecipare al processo a Roma scrisse la Lettera ai giudici, capolavoro che appartiene alla pedagogia universale. Don Lorenzo riflette sulla ubbidienza e disubbidienza, a chi obbediamo e a chi disobbediamo: perché, con quali motivazioni, con quali fini. Rileggendo la storia del nostro paese alla luce dell’articolo 11 della Costituzione «L’Italia ripudia la guerra», don Lorenzo e i suoi ragazzi non trovano giustificabile nessuna, se non la lotta di liberazione. Egli si riferisce poi alla responsabilità delle decine di migliaia di morti di Hiroshima e dei milioni dell’Olocausto, allo scaricare la responsabilità, come i gerarchi nazisti che affermavano di aver eseguito ordini superiori e afferma, con profondità e prospettiva straordinaria, che «bisogna avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano

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di potersene far scudo né davanti agli uomini, né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto. A questo patto l’umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale a quello tecnico». Don Milani si riferisce all’obbedienza che toglie responsabilità, all’obbedienza militare assoluta, all’obbedienza agli ordini, alle leggi che toglie la responsabilità delle proprie scelte. E al positivo, all’obbedienza agli ideali di giustizia, di pace, di uguaglianza, dei diritti umani uguali per tutti, dei diritti della terra, dell’acqua, di tutti i viventi. Gli alpini fucilati a Cercivento ci insegnano oggi il coraggio della coscienza, l’ubbidienza alle sue istanze profonde, a essere obiettori di coscienza al sistema dell’ingiustizia, della violenza, della guerra, del razzismo, della distruzione dell’ambiente. Ci insegnano a dire si e no nella vita di ogni giorno. Noi riconosciamo questi uomini testimoni di verità e di pace; alla luce del Vangelo li riabilitiamo pienamente in questa chiesa dove cent’anni fa furono condannati!

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LE FUCILAZIONI NELLA GRANDE GUERRA TRA GIUSTIZIA FORMALE E GIUSTIZIA SOSTANZIALE Sergio Dini

I soldati italiani vittime della repressione italiana attuata tramite la sanzione capitale della morte furono centinaia nel corso della guerra 1915-1918. Il fenomeno delle fucilazioni è però complesso, perché varie erano le ragioni e le procedure della sanzione capitale. Per una breve analisi, sono individuabili anzitutto tre distinte categorie: fucilazioni per sentenze emanate da tribunali militari, in base a processi regolari secondo le norme del tempo; fucilazioni costituenti esecuzioni sommarie da parte direttamente di ufficiali o per ordine degli stessi nella flagranza di particolari reati; fucilazioni eseguite con il metodo della ‘decimazione’. Ciascuna delle tre categorie aveva peculiari aspetti e particolari connotazioni di legittimità o illegittimità. La morte per fucilazione previo processo. Questa prima categoria, per quanto oggi appaia orribile, è quella che dal punto di vista giuridico desta le minori perplessità, se considerata alla luce del diritto vigente all’epoca e in relazione alla previsione di tale pena negli ordinamenti degli altri Stati. Secondo i dati statistici elaborati dall’Ufficio disciplina del Ministero della Guerra furono circa 3000 le condanne a morte per fucilazione emanate dai tribunali militari nel corso della Prima guerra mondiale, di cui all’incirca 750 ebbero esecuzione. Queste fucilazioni costituivano la pena legale per certi reati commessi al fronte; e i tribunali militari erano previsti dalla legge. Nonostante la ripugnanza odierna, tali pene costituivano all’epoca una sanzione legittima. Per numerosi reati militari il codice penale per l’esercito prevedeva la pena di morte: diserzione in presenza del nemico, rivolta, 97

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procurata infermità, insubordinazione con omicidio di superiore gerarchico, spionaggio. La pena di morte mediante fucilazione conosceva due distinte forme di esecuzione: la fucilazione al petto, per reati gravi ma non infamanti; la fucilazione alla schiena, per delitti considerati disonorevoli e vergognosi quali tradimento, spionaggio, sbandamento. La procedura penale seguita nei tribunali militari era certamente sommaria rispetto alla procedura in vigore avanti ai tribunali ordinari, ma prevedeva comunque una serie di garanzie per l’imputato, tra cui la presenza di un difensore e la composizione collegiale del giudice. I giudizi e le condanne a morte irrogate dai tribunali militari avvenivano di regola nelle retrovie (ancorché immediate) e a qualche distanza temporale dai fatti, il che permette­va ai giudici un minimo di distacco in funzione della serenità e ponderatezza della decisione. All’inizio del Ventesimo secolo la pena di morte era prevista dalla totalità delle legislazioni penali militari e da quasi tutti i codici penali comuni europei; faceva lodevole eccezione, ma solo per l’ambito non militare, proprio il codice penale italiano, che aveva abolito la pena di morte (Codice c.d. Zanardelli, del 1889). L’attribuzione al legislatore della facoltà di prevedere la pena di morte nelle leggi militari di guerra è rimasta molto a lungo perfino nella nostra Costituzione repubblicana, all’articolo 271 quarto comma, che è stato abrogato soltanto con la legge 2 ottobre 2007, n. 1; e risale solo al 1994 la legge che ha eliminato la pena di morte dai codici militari (legge 13 ottobre 1994, n. 589). Le esecuzioni sommarie. La pena di morte inflitta con esecuzione sommaria, se pur inammissibile per innumerevoli ragioni secondo la nostra idea di dignità umana, tuttavia trovava all’epoca una solida legittimazione. L’articolo 40 del codice penale dell’esercito prevedeva che nel caso di reati quali lo sbandamento, la rivolta e l’ammutinamento, o la diserzione con complotto, il superiore gerarchico che non utilizzasse qualsiasi mezzo a sua disposizione, ivi comprese le armi, per impedirne la consumazione, fosse da ritenersi correo e dunque passibile delle stesse gravissime pene stabilite per detti reati.

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In virtù di tale norma, gli ufficiali, in particolare i comandanti di reparti o formazioni organiche, avevano non solo la facoltà, ma financo il dovere di uccidere o far uccidere immediatamente, sul posto, i soldati che si fossero resi responsabili di quei particolari reati, secondo l’inappellabile valutazione degli ufficiali stessi. Vi era quindi una totale assenza di garanzie. Inutile rifarsi a canoni che solo oggi troviamo nella nostra Costituzione, come il diritto inviolabile di difesa, la presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, la garanzia che un giudice indipendente precostituito e imparziale decida sulle responsabilità penali, il principio del giusto processo in contraddittorio con l’accusa e ad anni pari, il principio per cui le sentenze devono essere motivate, il principio per cui la sentenza si può impugnare davanti alla Corte di Cassazione per violazione di legge (principio che tuttavia è derogabile per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra). Il militare poteva essere ucciso sulla base del giudizio di un singolo superiore, senza che venisse seguita alcuna regola, senza sentire le discolpe, senza intervento di un difensore, senza assunzione di prove, senza redazione di atti e/o verbali che potessero essere oggetto di controllo (ed eventualmente di sanzione) successivo sull’operato del superiore/ giudice. Nell’esecuzione sommaria sia il giudizio che l’esecuzione non solo erano sostanzialmente contestuali, ma anche si realizzavano per solito in circostanze di tempo e di luogo tali da inficiare grandemente la serenità e ponderatezza delle decisioni, sicché la morte dipendeva, nella sua tragica definitività, dall’onda emotiva corrente nei combattimenti di prima linea o in altre situazioni di forte tensione e pericolo. Contrariamente rispetto ai casi in cui un tribunale militare decideva della vita o della morte di una persona, con la partecipazione, l’apporto e la valutazione condivisa di tre persone, secondo regole prestabilite e giovandosi dell’apporto di un difensore, nell’ipotesi di esecuzione sommaria la morte discendeva dalla decisione insindacabile di un solo uomo, quasi come se un singolo fosse eretto a Dio, da solo assumendo la responsabilità di stabilire che un altro individuo meritava la morte. Non esiste ancora un panorama completo degli episodi di esecuzione sommaria, proprio perché assai spesso le esecuzioni sommarie

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avvenivano nel corso di combattimenti o sbandamenti, senza testimoni e verosimilmente con scarso o nullo interesse da parte dell’ufficiale di rendere noto a terzi l’accadimento. Un quadro sommario è stato abbozzato da due studiosi, Marco Pluviano e Irene Guerrini, nel volume Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale1, quadro basato in gran parte sull’analisi e lo studio della Relazione sulle fucilazioni sommarie durante la guerra 1915-18, testo redatto nel 1919 dall’avvocato generale militare Donato Tommasi su incarico del capo di Stato maggiore Armando Diaz, probabilmente in vista di un dibattito politico sul tema, che invece non ebbe luogo. La Relazione Tommasi stima in circa 300 i casi di esecuzioni senza processo. Quasi tutte le legislazioni penali militari dell’epoca prevedevano in sostanza poteri analoghi per i superiori che si trovassero ad assistere a particolari gravi reati. Non si può affermare che l’Italia fosse deviante rispetto alle usanze dell’epoca. Ciò che quindi sorprende è non già l’esistenza di una pena di morte irrogabile per le vie brevi nelle normative militari di fine Ottocento - primi del Novecento, bensì che una norma sostanzialmente identica sia rimasta in vigore nell’ordinamento italiano fino al 1994: l’articolo 241 del codice penale militare di guerra prevedeva, sotto la rubrica «Casi di coercizione diretta», che nella flagranza di reati di disobbedienza, ammutinamento, insubordinazione, rivolta, allorché vi fosse imminente pericolo di compromettere la sicurezza o l’efficienza bellica del reparto, della nave o dell’aeromobile il comandante potesse immediatamente passare o far passare per le armi coloro che risultassero manifestamente colpevoli. Questa norma ricalcava in sostanza l’articolo 40 del previgente codice penale dell’esercito, sotto la cui disciplina ricaddero le vicende della Prima guerra mondiale. Nella Seconda guerra mondiale si ebbero taluni casi di esecuzioni sommarie fondate sul menzionato articolo 241 del codice penale militare di guerra.   M. Pluviano, I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, Udine, Gaspari 2004. Cfr. inoltre S. Pelagalli, La giustizia sommaria nella Grande Guerra, in «Storia militare», 222, marzo 2012. 1

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Questo articolo è stato abrogato con la citata legge n. 589 del 1994. Il legislatore del ’94 si è finalmente dimostrato sensibile. Ha tuttavia lasciato in vigore un’altra norma del codice penale militare di pace, l’articolo 44, il quale prevede che non sia punibile, qualunque fatto di reato commetta, il «militare che usa o ordina di fare uso delle armi quando vi è costretto dalla necessità di impedire l’ammutinamento, la rivolta […] o comunque fatti tali da compromettere la sicurezza del posto, della nave, o dell’aeromobile». L’omicidio è quindi compreso. Si può però auspicare un ulteriore intervento di riforma, nonché intanto un’interpretazione che tenda a mantenere l’operatività di questa norma eccezionale entro i limiti segnati dal principio di ragionevolezza e dagli altri principi costituzionali. Le decimazioni. L’orrenda pratica della decimazione risulta purtroppo adottata solo dall’esercito italiano nella Grande Guerra. In forza dell’articolo 251 del codice penale per l’esercito, al comandante supremo era conferita la facoltà di emanare circolari e bandi aventi forza di legge nella zona di guerra, facoltà di cui si fece uso per legittimare la decimazione. Trattasi in particolare di due distinte circolari a firma del capo di Stato maggiore dell’esercito, generale Cadorna, l’una del 26 maggio 1916, l’altra n. 2910 del primo novembre dello stesso anno2. La circolare del novembre 1916 così disponeva: […] Ricordo che non vi è altro mezzo idoneo per reprimere reati collettivi che quello di fucilare immediatamente maggiori colpevoli et allorché accertamento identità personale dei responsabili non est possibile rimane ai comandanti il diritto et il dovere di estrarre a sorte tra tutti gli indiziati alcuni militari et punirli con la pena di morte. A cotesto dovere nessuno che sia conscio della necessità di una ferrea   Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, Rep. 13, busta 141, fasc. 9, cit. in M. Pluviano, I. Guerrini, Fucilate i fanti della Catanzaro. La fine della leggenda sulle decimazioni della Grande Guerra, Udine, Gaspari 2007, pp. 19 ss., e pubblicata dallo stesso Cadorna nelle sue Pagine polemiche, Milano, Garzanti 1950, p. 94. 2

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disciplina si può sottrarre ed io ne faccio obbligo assoluto ed indeclinabile a tutti i comandanti.

Questa circolare era accompagnata da ulteriori note, per noi molto importanti, a firma del duca d’Aosta Emanuele Filiberto di Savoia, comandante della Terza armata, note che diventavano parte integrante della normativa giuridica: Ho appreso che tra le mie truppe si sono verificate recentemente alcune gravi manifestazioni di indisciplina […] perciò ho approvato che nei reparti che sciaguratamente si macchiarono di così grave onta alcuni, colpevoli o non, fossero immediatamente passati per le armi.

Occorre distinguere tra due tipi di decimazione3. Il primo riguarda l’ipotesi in cui siano ritenuti responsabili del fatto tutti i militari interessati. La decimazione non solo evita una punizione generalizzata di tutti i soldati del reparto, ma anche esclude la punizione di certi militari che pur sono responsabili del fatto illecito, cosicché non comporta una drastica menomazione delle forze della milizia, ma si limita per esempio ai «maggiori colpevoli» come indicato da Cadorna. Questo tipo di decimazione, da alcuni coraggiosamente denominato «umanitario», meriterebbe piuttosto di esser detto utilitaristico o economico, poiché è ispirato soprattutto dall’interesse delle forze armate a non perdere uomini più del necessario. Comunque sia, comporta meno punizione di quanto altrimenti e legittimamente potrebbe essere. Di questo tipo pare sia stata la decimazione avvenuta a seguito della rivolta della Brigata Catanzaro a Santa Maria la Longa4 nel 1917. Il secondo tipo di decimazione era del tutto diverso, tanto che è

3   Su questa distinzione S. Malizia, Codici penali militari di pace e di guerra, Milano, Giuffrè, 1971 e P. Melograni, Storia politica della Grande Guerra, Bari, Laterza 1969, p. 128. 4   Cfr. comunque P. Gubinelli, Sparate dritto al cuore. La decimazione di Santa Maria la Longa e quella inglese a Étapes, Udine, Gaspari 2014; Pluviano, Guerrini, Fucilate i fanti della Catanzaro… cit., Udine, Gaspari 2007.

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stato definito «aberrante»5. Esso concerneva l’ipotesi in cui non si riuscisse a individuare i colpevoli. Pur di non rinunziare al «salutare esempio», si accettava il rischio di colpire degli innocenti sorteggiati casualmente fra gli appartenenti al reparto in cui si erano verificati i fatti. La pretesa funzione di questa decimazione era appunto quella di ricondurre all’obbedienza i soldati scampati all’estrazione, nonché tutti gli altri militari, mediante l’esempio intimidatorio della sorte toccata ai propri compagni. Con queste norme si finiva per ritenere non più imprescindibile, al fine della fucilazione, acquisire la certezza sia della commissione materiale del fatto illecito da parte del militare sia della colpevolezza per quel fatto. Cadorna si accontenta ma almeno richiede che gli sventurati siano «indiziati», sospinto a ciò dal ministro Bissolati, il Duca d’Aosta invece annovera senz’altro e inequivocabilmente i «non colpevoli». A cadere vittime del fuoco dei commilitoni erano comunque dei veri e propri ‘presunti innocenti’ stante l’impossibilità di individuare i responsabili di determinati reati. La decimazione di questo tipo era perciò quanto di più lontano si potesse immaginare da un principio della civiltà giuridica, il principio oggi sancito dall’articolo 27, primo comma, della Costituzione italiana: «La responsabilità penale è personale». La pena cessava di costituire una reazione fondata sulla responsabilità propria e personale dell’autore del reato, mentre assumeva la ben diversa e aberrante veste della ‘sanzione esemplare’ per cui il malcapitato veniva punito per un fatto commesso da altri. Nelle modalità applicativo-esecutive, cioè nell’alea del sorteggio, si dissolve ogni razionalità e ragionevolezza e si appalesa la cieca ingiustizia. Di decimazione aberrante parrebbe trattarsi nel caso dello sbandamento della Brigata Catanzaro sul monte Mosciagh, 29 maggio 1916. Tale decimazione è stata però attuata prima che la sanzione fosse prevista in via generale nella circolare di Cadorna del novembre successivo, e più precisamente nella menzionata nota del Duca d’Aosta. L’episodio è perciò ancor più grave in quanto non risulta   Melograni, Storia politica della Grande Guerra cit.

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consentito dalla legge, nonostante la legittimazione a posteriori cui sembrerebbe tendere l’approvazione di decimazioni pregresse contenuta nella stessa nota del Duca d’Aosta. Le fucilazioni per decimazione costituirono la più abominevole particolarità repressiva dell’esercito italiano rispetto a tutte le altre nazioni coinvolte nel conflitto. Fucilazioni ed esecuzioni sommarie vi furono sì anche nell’esercito francese e inglese, come pure nei reparti austriaci e tedeschi, ma si trattò comunque sempre di interventi nei confronti di soggetti ritenuti responsabili personalmente di gravi e pericolosi atti di ribellione o di indisciplina. Il Regno d’Italia era uno stato moderno6 improntato ai principi dello stato di diritto7 consacrati, a ridosso della Rivoluzione francese, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 17898 poi ripresi dallo Statuto albertino del 1848. Sotto l’egida del primato della legge – inteso quale «dominio di una razionalità obiettiva contrapposta agli arbitri soggettivistici»9 – lo stato di diritto si poneva a servizio dell’affermazione dei diritti e delle libertà dell’uomo10, in una prospettiva imperniata sul valore della personalità umana. 6   Uno dei teorici dello stato moderno fu V.E. Orlando, Introduzione al Trattato di diritto amministrativo, vol. I, cap. II, Milano, Società Editrice Libraria 1897. Orlando ingaggiò contro Luigi Cadorna il ‘duello’ di cui riferisce P. Melograni, Orlando contro Cadorna: duello di Stato, in «30 Giorni», XXI, agosto-settembre 2003, pp. 86 ss. 7   Cfr. E. Tosato, voce Stato (dir. cost.), in Enciclopedia del diritto, XLIII, Milano, Giuffrè 1990, p. 758; F. Lanchester, voce Stato (forme di), ivi, pp. 796 ss.; P. Biscaretti di Ruffia, voce Stato (storia del diritto), in Novissimo digesto italiano, XVIII, Torino, Utet 1971, pp. 261 ss. 8   Georg Jellinek, Die Erklärung der Menschen- und Bürgerrechte (1895), in R. Schnur (hrsg. von), Zur Geschichte der Erklärung der Menschenrechte, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1964, rinviene i presupposti di un potere politico limitato già nel primo costituzionalismo inglese. Altri li trovano addirittura nel Medioevo (F. Kern, Recht und Verfassung im Mittelalter, in «Historische Zeitschrift», 1919, CXX, rist. Darmstadt 1952 e Id., Gottesgnadentum und Widerstandsrecht im frühen Mittelalter (1914), rist. Darmstadt, 1953. Cfr. M. Fioravanti, voce Stato (storia), in Enciclopedia del diritto, XLIII, Milano, Giuffrè 1990, pp. 693 ss.). 9   Fioravanti, voce Stato… cit., p. 712. 10   L. Carlassare, Conversazioni sulla Costituzione, Padova, Cedam 2000, p. 19.

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Il diritto penale, plasmato sui principi di derivazione illuministica, che ne determinavano l’intonazione in chiave liberale, a sua volta si configurava quale «espressione di razionalità utile al progresso dello spirito umano»11. Erano ormai acquisizioni pacifiche della coscienza giuspenalistica dell’epoca i principi di legalità e certezza della pena, il principio di umanizzazione e di proporzionalità della pena, il reciso rifiuto di ogni strumentalizzazione dell’individuo12 e di ogni concezione vendicativa del diritto penale, la negazione di finalità esemplari alle fasi di applicazione e di esecuzione della pena13. Il principio di personalità della responsabilità penale aveva trovato la propria affermazione legislativa nell’articolo 45 del codice penale Zanardelli del 1889, che stabiliva che «nessuno può essere punito per un delitto, se non abbia voluto il fatto che lo costituisce, tranne che la legge lo ponga altrimenti a suo carico come conseguenza della sua azione od omissione». Rispetto al suo primigenio significato di divieto della responsabilità penale per fatto altrui, tale principio si arricchiva, dunque, di un ulteriore contenuto: giungeva a esigere un nesso morale, oltre che materiale, fra il soggetto e il fatto: responsabilità penale per fatto non soltanto ‘proprio’, bensì, di regola, anche ‘colpevole’. Così come il diritto sostanziale, anche il diritto processuale penale si orientava verso orizzonti garantistici. Fra gli strumenti di tutela del singolo contro gli arbitri dei poteri dello Stato si annoveravano il principio di presunzione di non colpevolezza14, la garanzia della giurisdizione e il principio del giudice naturale15, la pubblicità del

11   S. Vinciguerra, Le fonti culturali del diritto penale italiano, Padova, Cedam 2008, p. 5. 12   C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, ed. a cura di P. Calamandrei, Firenze, Le Monnier 1950, XXVII; I. Kant, Metafisica dei costumi. Principi metafisici della dottrina del diritto (1797), in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, Utet 1956, p. 520. 13   Cfr., in particolare, le posizioni di Feuerbach e Romagnosi riassunte in S. Vinciguerra, Diritto penale italiano, I, Cedam, Padova 1999, pp. 230 ss. Ivi ulteriori indicazioni bibliografiche. 14   Già sancito nell’articolo 9 della Dichiarazione del 26 agosto 1789. 15   Articoli 68 ss. Statuto albertino.

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processo16, il diritto di difesa, l’obbligo di motivazione delle decisioni quale limite alla discrezionalità del giudice17. Bastano queste essenziali notazioni18 a mettere in risalto l’assoluta incompatibilità della decimazione rispetto ai raffinati principi del diritto penale comune del tempo. Essa non conosceva il compito naturale dell’autorità giudiziaria, ma si affidava ai compiti – spogliati di ogni componente garantistica – dell’autorità militare. L’autorità giustiziava non secondo motivata discrezionalità, ma secondo l’arbitrio del fato, facendo della vita umana uno strumento funzionale all’esempio. Resta però da stabilire se la straordinarietà dello stato di guerra non implicasse deroghe ai principi, che permettessero il ricorso alla decimazione. Orbene, la concezione dell’ordinamento militare all’inizio del Ventesimo secolo era quella di un ordine giuridico separato e autonomo rispetto a quello comune, proteso al conseguimento di fini esclusivamente militari. Di conseguenza, il relativo apparato sanzionatorio si collocava in una posizione di alterità rispetto al diritto penale comune. Diritto penale militare e Diritto penale comune non potevano tuttavia che poggiare sugli stessi principi fondamentali, in quanto inerenti a ogni sanzione penale19 In ogni caso, le eventuali discrasie non   Art. 72 Statuto albertino.   Su un piano comparatistico, cfr. il discorso di Winston Churchill alla House of Commons del 20 luglio 1910. 18   Per un quadro più esauriente si rinvia a S. Vinciguerra, Le fonti culturali del diritto penale italiano cit. e C.F. Grosso, Le grandi correnti del pensiero penalistico italiano tra Ottocento e Novecento, in L. Violante, Storia d’Italia. Annali, 12: La criminalità, Torino, Einaudi 1997, p. 9. 19   P. Vico, Diritto penale militare, II ed. riv. e agg., Milano, Società Editrice Libraria 1917 (estratto dalla Enciclopedia del diritto penale italiano), p. 4. Per una sintetica panoramica sulla normativa penale militare negli anni della Prima guerra mondiale cfr. A. Monticone, Introduzione. Il regime penale nell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale, in E. Forcella, A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza 1968 (II ed. 2008), nonché Pluviano, Guerrini, Le fucilazioni sommarie… cit.; cfr. inoltre A. Monticone, Gli italiani in uniforme (1915-1918): intellettuali, borghesi e disertori, Roma, Laterza 1972. 16 17

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avrebbero potuto trascendere i principi dello stato di diritto, cui s’informava anche la normativa penale militare, benché arretrata rispetto alle evoluzioni del pensiero giuridico dell’epoca20. Il fatto che nessuna norma penale militare prevedesse l’applicabilità della decimazione dimostra come il legislatore avesse ritenuto un deterrente più che sufficiente la minaccia della pena di morte, già scomparsa dal codice penale comune, peraltro circoscritta a limitate ipotesi21. L’alterità, tuttavia, non va confusa con la straordinarietà dello stato di guerra. Se la prima comporta una certa esigenza di presidiare la conservazione della compagine militare, la seconda mira a garantire la sopravvivenza dello Stato stesso alla forza distruttiva della guerra. Ammettiamo pure almeno in ipotesi che la necessità di adottare misure eccezionali in difesa del bene supremo della continuità dell’ordine giuridico costituito giustifichi una temporanea sospensione dei principi dello stato di diritto22. In nessun caso, comunque, tale sospensione può tradire la razionalità oggettiva del diritto, che è preesistente allo Stato stesso23 e in cui si sostanzia il primato del diritto e della legge che ne costituisce la manifestazione: lo strumento per salvare lo stato di diritto non può consistere nella sua soppressione24. Non a caso, alcuni paesi, durante il tempo di guerra, 20   Il codice penale per l’esercito del 1869 allora in vigore ricalcava sostanzialmente quello del 1859 che, a sua volta, era frutto di una riforma volta ad adeguare il diritto penale militare ai principi dello Statuto albertino. Dopo l’approvazione del Codice Zanardelli, da cui il codice per l’esercito era rimasto scoordinato, si era dato il via a nuovi lavori di riforma, che furono interrotti dall’avvento della guerra. Cfr. Vico, Diritto penale militare cit., pp. 56 ss.; V. Manzini, Diritto penale militare, II ed. agg. con i codici del 1930, Padova, Cedam 1932, pp. 4 ss. 21   Cfr. Vico, Diritto penale militare cit., p. 152. Sul tema cfr. anche G. Sucato, Istituzioni di diritto penale militare, I, Parte generale, Roma, Stamperia Reale 1941, pp. 247 ss. 22   Tale sospensione è ammessa anche dal nostro sistema costituzionale. Cfr. le pagine di G. Ferrari, voce Guerra (stato di), in Enciclopedia del diritto, XIX, Milano, Giuffrè 1970, pp. 816 ss. Per la diversa problematica dello stato d’assedio cfr. F. Modugno, D. Nocilla, voce Stato d’assedio, in Nuovo digesto italiano, XVIII, Torino, Utet 1971, pp. 243 ss. 23   Cfr. Tosato, voce Stato (dir. cost.) cit. 24   Proprio attraverso l’analisi dello stato di guerra pensatori quali Thomas More, Jean Bodin, Ugo Groot e Alberico Gentili intendevano individuare i presupposti del

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proteggevano i propri soldati dagli abusi dell’autorità militare mediante la previsione di apposite tutele, come la Rechtsstaatlichkeit (‘condizione dello stato di diritto’) riconosciuta ai militari dal diritto tedesco, o quelle garanzie di stampo liberale introdotte durante la Grande Guerra nell’ambito della giustizia militare francese25. Su un piano sovranazionale si avvertiva sin dalla seconda metà dell’Ottocento la necessità di stabilire principi comuni di natura umanitaria che vincolassero, in tempo di guerra, tutte le nazioni ed escludessero gli arbitri dei capi militari26. L’alterazione dell’ordine giuridico costituito determinata dallo stato di guerra soggiace, pertanto, a limiti di natura formale e sostanziale. Tuttavia, in un ordimento costituzionale flessibile quale quello albertino, in cui la legge ordinaria può revocare i principi dello Statuto, i limiti formali ricavabili dalla carta fondamentale sono esposti a una particolare precarietà. Ben più incisivi, invece, restano i limiti di carattere sostanziale, che si compendiano nel divieto di sospendere quei principi che nulla hanno a che vedere con la guerra, nonché quei diritti di libertà che costituiscono le «strutture elementarmente articolate dello Stato-comunità»27. Pare che tra questi principi e diritti inderogabili debba figurare il principio di personalità della responsabilità penale e, con esso, la maggior parte dei principi liberali in materia di pena e processo penale. Nondimeno, in Italia le cose andarono diversamente: il 25 maggio 1915 il paese non entrava in uno stato di guerra come quello sin giusnaturalismo moderno, sulla base della considerazione che la guerra non può sospendere «quelle norme che sono fondate sulla stessa natura umana e sono quindi inerenti alla comunità umana in qualsiasi momento ed anche nei rapporti moderni», N. Abbagnano, Storia della filosofia, II, III ed., Torino, Utet 1982, p. 384. Cfr. anche Vinciguerra, Le fonti culturali del diritto penale italiano cit., p. 9. 25   V. rispettivamente G. Oram, Military Executions during World War I, London, Palgrave MacMillan, p. 28 e G. Pedroncini, Les mutineries de 1917, Paris, Presses Universitaires de France 1967 (III ed. 1996). 26   Cfr. il preambolo della Convenzione internazionale dell’Aja del 29 luglio 1899 concernente le leggi e gli usi della guerra terrestre. Per altri riferimenti normativi e bibliografici cfr. M. Capasso, voce Guerra, in Nuovo digesto italiano, VII, Torino, Utet 1962, pp. 48 ss. 27   Ferrari, voce Guerra (stato di) cit., p. 828.

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qui delineato, ma tendeva a precipitare in un vero e proprio stato di eccezione28. Il potere legislativo era nelle mani del Governo e del Comando supremo, che approfittava delle sacche illiberali del codice penale per l’esercito29, residuato di concezioni antiquate della guerra, per dar sfogo alle proprie interpretazioni repressive. Mediante capziose forzature ermeneutiche si legittimavano esecuzioni sommarie in casi che, per legge, avrebbero dovuto essere affidati ai tribunali militari straordinari; con petulanti direttive e con la minaccia di tempestive rimozioni si influenzavano le decisioni dei giudici militari ordinari; dietro efferate sanzioni disciplinari si occultavano le mancanze degli ufficiali. Sotto gli occhi di un Parlamento inerme e di un Governo irresoluto, l’autorità militare conduceva la sua guerra con cieco autoritarismo. E nei meandri oscuri dello stato di eccezione, a cavallo fra il 1916 e il 1917, si insinuò la prassi della decimazione: espressamente ordinata in via generale da Cadorna a tutti i comandanti, e accettata – sebbene non approvata – dal Governo30, nonché in definitiva sopportata se non giustificata dalla stessa Giustizia militare (che non risulta abbia mai incriminato gli autori di quelle fucilazioni arbitrarie). Qualcuno può pensare che si punisse ormai fuori da ogni legalità. Di certo, nessun limite, formale o sostanziale, aveva saputo arginare la radicale trasfigurazione dell’ordine giuridico costituito: «la struttura dello stato restava liberale, ma erano tramontati i presupposti dello stato di diritto»31. Questo è l’effetto legale ma parados28   C. Schmitt, Teologia politica, in Id., Le categorie del politico, Bologna, Il Mulino 1972; G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri 2003. 29   Cfr. A. Bruno, Prefazione, in Id. (a cura di), Codice penale per l’esercito illustrato con le decisioni della Cassazione del Tribunale supremo, Barbera, Firenze 12916, p. v ss. 30   Il ministro Bissolati si compiaceva di esser riuscito a convincere Cadorna a circoscrivere il sorteggio solo agli indiziati (L. Bissolati, Diario di guerra, Torino, Einaudi 1935, p. 86). 31   G. Procacci, La società come una caserma, in B. Bianchi (a cura di), La violenza contro la popolazione civile nella Grande guerra. Deportati, profughi, internati, Milano, Unicopli 2006, p. 286, p. 73, n. 17. Sull’argomento cfr. C. Latini, Una giustizia ‘d’eccezione’, in «Deportate, esuli, profughe», 5-6, 2006, pp. 67 ss. e Id., Governare

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sale dell’articolo 251 del codice penale per l’esercito, secondo cui al Comandante supremo era conferita la facoltà di emanare circolari e bandi aventi forza di legge nella zona di guerra, facoltà di cui come si è detto si fece uso per legittimare la decimazione. Si consideri che qualora manchi, come allora mancava, (l’effettività di) un diritto superiore, chi in guerra decide sulla necessità si vale al contempo del canone necessitas non habet legem e del canone necessitas facit legem, tanto più quando proprio i detentori della forza sono coloro cui spetta di dettare quel diritto che la stessa forza dovrebbe difendere affinché sia effettivo. Di conseguenza il paradosso finisce per sostanziarsi nell’annullamento della distinzione tra il diritto della forza e la forza del diritto: la forza è padrona. Nel trascinare l’Italia nello stato di eccezione, Governo e Comando supremo avevano creduto di poter esercitare il loro potere dominando legalità e diritto. Ma senza diritto, il potere perde la sua legittimazione e ogni tentativo di imporlo con la forza è destinato a causare la reazione di chi la subisce32. Gli episodi di indisciplina dei reparti italiani nel corso della Prima guerra mondiale non possono esser riduttivamente interpretati – come pretendeva di fare il Comando Supremo – quali fatti criminosi tout court. Essi erano, in realtà, epifania della grave crisi che aveva travolto le fondamenta dell’autorità dei comandi militari, le cui vessazioni le truppe non erano più disposte ad accettare. E il ricorso alla giustizia sommaria altro non era che il disperato tentativo di riaffermare un potere ormai delegittimato tramite l’esercizio arbitrario della violenza. Far luce sulle decimazioni restituisce l’onore rubato a certi giustiziati e rivede le dovute responsabilità – senza l’aiuto dei dadi, s’intende.

l’emergenza. Delega legislativa e pieni poteri in Italia tra Otto e Novecento, Milano, Giuffrè 2005. 32   Cfr. Tosato, voce Stato (dir. cost.) cit., pp. 770 ss. Avevano ragione i tribuni e i legati ad ammonire Appio a non voler mettere alla prova il suo «imperium, cuius vis omnis in consensu oboedientium esset» (Tito Livio, Ab urbe condita libri, II, 57-58).

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Gli autori Guido Crainz Università di Teramo Pierluigi Di Piazza Centro di accoglienza e di promozione culturale ‘Ernesto Balducci’, Udine Sergio Dini Sostituto procuratore del Tribunale di Padova, già presidente nazionale dei magistrati militari Irene Guerrini Università di Genova Marco Pluviano Università di Genova Luciano Santin Storico e giornalista, Trieste Giorgio Zanin Onorevole, relatore alla Camera dei deputati della legge ‘Disposizioni concernenti i militari italiani ai quali è stata irrogata la pena capitale durante la Prima guerra mondiale’ Andrea Zannini Università di Udine Andrea Zhok Università di Milano

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