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Italian Pages 125 Year 2020
ADRIATICA MODERNA
Collana di Testi e Studi diretta da Giovanni Brancaccio, Antonio Lerra e Luigi Mascilli Migliorini
STUDI
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ADRIATICA MODERNA Collana di Testi e Studi diretta da Giovanni Brancaccio, Antonio Lerra e Luigi Mascilli Migliorini Comitato direttivo Marco Trotta (Università di Chieti-Pescara) coordinatore Salvatore Barbagallo (Università del Salento) Egidio Ivetic (Università di Padova) Comitato scientifico Luigi Alonzi (Università di Palermo) Ante Bralić (University of Zadar) Maria Ciotti (Università di Macerata) Marco Cuzzi (Università degli Studi di Milano) Rosa Maria Delli Quadri (Università di Firenze) Silvia Mantini (Università dell’Aquila) Nicoletta Marini d’Armenia (Università della Campania) Dušan Mlacović (University of Ljubljana) Drago Roksandić (University of Zagreb) Francesco Somaini (Università del Salento) Alfonso Tortora (Università di Salerno) Antonio Trampus (Università di Venezia Ca’ Foscari)
Francesco De Sanctis tra storia e memoria Sulla Giovinezza edizione critica di Giovanni Brancaccio
A cura di Marco Trotta
Il volume è stato pubblicato con il contributo del Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne dell’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara.
I edizione marzo 2020 ISSN 2420-9694 ISBN 978-88-3383-034-6 Edizione digitale giugno 2020 ISBN 978-88-3383-083-4 I diritti di riproduzione e di adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il consenso dell’Editore. © 2020 Biblion Edizioni srl Milano www.biblionedizioni.it [email protected] In copertina: S. Angelo dei Lombardi, piazza De Sanctis con fontana (particolare di cartolina d’epoca risalente agli inizi del Novecento)
Indice
Premessa di Marco Trotta
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Una nuova edizione de La Giovinezza di De Sanctis di Giuseppe Cacciatore
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Cultura, letteratura e politica in Francesco De Sanctis di Aurelio Musi
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La giovinezza e il contributo di Francesco De Sanctis al Risorgimento italiano negli studi di Giovanni Brancaccio di Guido Pescosolido
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Viaggio nella memoria. Il De Sanctis di Brancaccio tra nostalgia e storia nazionale di Maria Anna Noto
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Memoria storica e memoria poetica: sull’edizione de La Giovinezza di Francesco De Sanctis curata da Giovanni Brancaccio di Beatrice Stasi
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La Giovinezza di De Sanctis riletta da Giovanni Brancaccio di Salvatore Barbagallo
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Francesco De Sanctis e la sua giovinezza di Luigi Alonzi
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Il giovane De Sanctis dal Risorgimento anti-borbonico all’Italia unita di Marco D’Urbano La letteratura del patriottismo. Su una riproposta editoriale: La Giovinezza di Francesco De Sanctis a cura di Giovanni Brancaccio di Alfonso Tortora Le “ricordanze” tra pubblico e privato di Marco Trotta
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Rileggere le fonti e la misura della scrittura storica di Vittoria Fiorelli
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Il mondo dei padri di Luigi Mascilli Migliorini
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Indice dei nomi
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Premessa
In occasione delle celebrazioni per il bicentenario della nascita di Francesco De Sanctis (1817-2017), le Edizioni Biblion di Milano hanno pubblicato, a cura di Giovanni Brancaccio, una ricca ed aggiornata edizione critica della Giovinezza, opera memorialistica dallo scrittore irpino vergata nel 1881 e rimasta incompiuta fino al 1887, allorquando Pasquale Villari volle dare alle stampe il manoscritto intitolandolo “frammento autobiografico”. L’edizione di Brancaccio ha ricevuto varie presentazioni ed è stata oggetto di numerose recensioni. I contributi, scaturiti da convegni che hanno avuto luogo in diverse città italiane come Napoli, Salerno, Caserta, Lecce e Milano, vengono ora raccolti nella presente pubblicazione consentita dalla disponibilità del dott. Aulo Chiesa, animatore della Casa editrice meneghina, che per l’occasione si ringrazia. Allo stesso modo si intendono in questa sede ringraziare tutti coloro che, con entusiasmo e spirito collaborativo, hanno voluto aderire ad una simile iniziativa, inviando i propri elaborati, e hanno inteso prendere parte ad un’occasione certamente utile per una riflessione a più voci sulla Giovinezza, libro della formazione umana e culturale di De Sanctis, prodotto della sua spiccata “vocazione autobiografica” e frutto maturo del filone naturalista della letteratura europea dell’Ottocento. 7
Rispetto alle precedenti uscite della Giovinezza la curatela di Brancaccio, storico di vaglia, è senza dubbio in grado di offrire una varietà ed una ricchezza di spunti interpretativi senz’altro nuovi ed originali. Più di due anni fa, nel corso della presentazione della Giovinezza a Milano, nella prestigiosa sede del Museo del Risorgimento, nacque l’idea di riunire in apposito volume, in aggiunta a talune recensioni, gli interventi tenuti nei vari incontri ad essa dedicati. Brancaccio la accolse con favore e ne incoraggiò la buona riuscita. Ha poi seguito con affettuosa premura il suo svolgimento. E questa raccolta vuole appunto rappresentare un omaggio al suo cospicuo e solerte impegno scientifico; a lui, pertanto, viene dedicata. Marco Trotta
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Giuseppe Cacciatore Una nuova edizione de La Giovinezza di De Sanctis1 Già il titolo – ma anche la dimensione: 146 pagine – dell’introduzione di Brancaccio segnala al lettore che si tratta di una vera e propria monografia che ripercorre con chiarezza e linearità la biografia di De Sanctis, connettendo sapientemente la storia di una vita con la storia di un’epoca, di un lungo processo di unificazione del paese, di una difficile genesi di una autonoma cultura nazionale. Vi è, tuttavia, un aspetto del testo che l’analisi di Brancaccio ben coglie: la capacità del racconto di disporsi lungo un modello di biografia e autobiografia che De Sanctis ci restituisce nei vari momenti della sua produzione. Si tratta di un modello di biografia che ha molte analogie con una sua interpretazione che, già molti anni or sono, ho analizzato privilegiando il punto di vista filosofico, nei miei studi su Dilthey e lo storicismo tedesco e sul nesso vita-storia che ci viene offerto nelle pagine autobiografiche di grandi filosofi italiani come Vico e Croce.2 Credo che 1 F. De Sanctis, La Giovinezza, Introduzione (La giovinezza. Impegno intellettuale e lotta politica) e cura di Giovanni Brancaccio, Biblion Edizioni, Milano, 2017. D’ora innanzi si citerà con la sigla G. 2 Cfr. G. Cacciatore, Vita e storia. Biografia e autobiografia in W. Dilthey e G. Misch, in I. Gallo e L. Nicastri (a cura di), Biografia e autobiografia degli antichi e dei moderni, ESI, Napoli, 1995, pp. 243-
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certamente si attaglierebbe al racconto di De Sanctis questo lucido passo che Dilthey dedica alla biografia, ma che certamente si attaglia anche al testo autobiografico. «Così la biografia presenta in purezza e per intero nella sua realtà effettiva il fatto storico fondamentale. E solo lo storico che per così dire costruisce la storia movendo da queste unità di vita, solo lo storico che cerca di penetrare condizioni, formazioni sociali, epoche storiche mediante il concetto di tipo e di presentificazione, che concatena le vite l’una alle altre nel concetto di generazioni, coglierà la realtà di un tutto storico a differenza delle morte astrazioni che si cavano di solito dagli archivi».3 Fa bene perciò Brancaccio a dare centralità all’esperienza fondante della vita professionale e culturale di De Sanctis, a partire dall’elogio del libero insegnamento sul quale a più riprese egli torna. Basta pensare alle tante pagine desanctisiane in cui si manifesta il commosso ricordo del marchese Puoti e al quale egli dedica un saggio, L’ultimo dei puristi, apparso nella “Nuova Antologia” nel fascicolo del novembre 1868. Lo “Studio” del Puoti poteva ben considerarsi come la «fucina» di un’intera generazione di giovani intellettuali, quelli che sarebbero stati i protagonisti dei moti del 1848 e dell’impresa garibaldina del 1860. Gli insegnamenti che vennero dalla libera scuola del Puoti, come scrive De Sanctis nel saggio del 1868, erano basati sulla «libertà della scienza, del progresso, dell’emancipazione, della lotta contro il seminario (…) aspirazioni a nuove idee, a nuova civiltà».4 296; Id., Croce e l’autobiografia, in A. Marini (a cura di), Temi crociani della “nuova Italia”, numero monografico di “Magazzino di filosofia”, 2004, pp. 49-61; Id., In dialogo con Vico, a cura di Manuela Sanna, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2015. 3 Cfr. W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, La Nuova Italia, Firenze, 1974, pp. 52-53. 4 De Sanctis ricorda giustamente anche la scuola dell’abate Lorenzo Fazzini, anch’egli protagonista «dell’età dell’oro del libero insegna-
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L’apprendistato filosofico di De Sanctis iniziato già nella scuola dell’abate Fazzini, doveva ben presto maturare grazie allo studio di filosofi come Colecchi e Galluppi, capaci entrambi con i propri saggi di svecchiare un ambiente fortemente pervaso di residui di metafisica scolasticistica5 e di aprire la cultura filosofica napoletana al confronto con la filosofia europea. Come racconta De Sanctis, i suoi autori erano diventati «Locke, Condillac, Tracy, Elvezio, Bonnet, La Mettrie. Prima leggevo a perdita di fiato; poi, visto che ne cavavo poco, mi misi a copiare, a compendiare, a postillare (…) Il professore [l’abate Fazzini] diceva che il sensismo era una cosa buona sino a Condillac ma non bisognava andare sino a La Mettrie e ad Elvezio: ragion per cui ci andavo io con l’amara voluttà della cosa proibita».6 Ma sono anche gli anni in cui rinasce – dopo Genovesi e la sua scuola – l’interesse per Vico, rimesso in circolazione grazie a Luigi Blanch e Luigi Dragonetti.7 mento», a differenza di ciò che s’insegnava nei seminari e nelle scuole del governo «affidate a frati e la forma dell’insegnamento era ancora scolastica (…) Nondimeno un po’ di secolo decimottavo era pur penetrato in quelle tenebre teologiche, e con curioso innesto, vedevi andare a braccetto il sensismo e lo scolasticismo» (De Sanctis, G, pp. 172173). Quella di Brancaccio è una opportuna e puntuale ricostruzione dell’atmosfera politica e culturale delle scuole private a Napoli e in particolare quella di De Sanctis. Ma un ruolo importante svolgevano anche i salotti letterari negli anni ’30 (Troya, Di Cesare) e gli studi professionali (Poerio e Mancini). Cfr. Brancaccio, cit., pp. 23 e ss. 5 Cfr. Brancaccio, cit., pp. 26 e ss. 6 Cfr. De Sanctis, G, pp. 173 e ss. 7 «Ma il vero simbolo di quella rivoluzione culturale, che superò l’orizzonte puramente linguistico della scuola del Puoti, fu però, per De Sanctis, rappresentato dal ricupero della filosofia di Giambattista Vico (…) La centralità del pensiero vichiano e della filosofia hegeliana ebbe, a sua volta una funzione determinante nella fondazione della critica storica» (cfr. Brancaccio, p. 33). De Sanctis mostra di aver colto in pie-
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Come si è visto, dunque, le vicende della vita familiare e del percorso intellettuale e professionale di De Sanctis si incrociano con le vicende politiche della nazione napoletana. Gli anni della formazione e dell’impegno didattico desanctisiano sono anche quelli che lasciano intravedere, dopo il ritorno dei Borbone e l’inasprirsi del regime autoritario, un lento tentativo, tra il 1830 e il 1848, di ridimensionare il carattere reazionario e repressivo del regime borbonico. L’ascesa al trono di Ferdinando II aveva alimentato speranze suscitate da alcuni iniziali segnali di modernizzazione e di riforme socio-economiche, ben presto smentite dall’incapacità di affrontare e risolvere problemi antichi di natura strutturale. La frattura fra potere e cultura consumatasi subito dopo il 1843,8 spinge De Sanctis a dar senso e sostanza alla sua analisi politica, aderendo al progetto federalista neoguelfo di Gioberti che ebbe un forte consenso in tutto il Mezzogiorno. Ma all’indomani della fucilazione dei fratelli Bandiera nel 1844, si accentuò la simpatia di De Sanctis «per un liberalismo più radicale».9 Il documento più noto di questa svolta fu senza dubbio il no il nucleo più significativo del pensiero vichiano: la ricerca del nesso tra verità e fattualità, tra universalismo e particolarismo. È alla luce di esso che diventa possibile cogliere le ragioni della logica a partire dalla storicità del mondo umano. 8 L’intervallo di tolleranza – come lo stesso De Sanctis definisce le aperture del governo borbonico – «aveva dato risultati positivi sulla base della collaborazione tra intellettuali e governo borbonico, risultati positivi sia nel campo culturale sia nella trasformazione, benché lenta, della società meridionale». Ma nel periodo che va dal 1843 al 1845, «il governo borbonico diede vita ad una forte stretta politica, culminata nella sospensione o nella chiusura di alcune riviste e nel divieto di pubblicazione e circolazione di alcune opere giudicate pericolose per il regime perché favorivano il motivo unitario italiano» (cfr. Brancaccio, cit., p. 38). 9 Brancaccio, cit., p. 39.
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Discorso ai giovani tenuto ai suoi allievi il 18 febbraio del 1848 subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione promulgata da Ferdinando II. Un testo, come giustamente sostiene Brancaccio, al quale De Sanctis affida «le sue posizioni ideologiche molto avanzate, che lo posero al centro dell’intellettualità napoletana».10 L’impegno di De Sanctis nel processo rivoluzionario si concretizzò quando gli fu conferito, alla fine del marzo 1848, l’incarico di membro della commissione per la pubblica istruzione. Nel frattempo cresceva la spinta delle agitazioni contadine scoppiate nel Cilento e in quasi tutte le altre province del regno, motivate ancora una volta a rivendicare le incolte terre demaniali, occupate in molti casi con lo slogan “Viva la Rivoluzione”. A ciò si aggiunsero anche le richieste di aumento salariale di operai e artigiani della capitale11 e il generale clima di incertezza crescente alla vigilia delle elezioni della Camera insieme alla spaccatura tra moderati e rivoluzionari, fu sfruttato dal re per reprimere le manifestazioni e stroncare col sangue delle baionette le barricate che si erano spontaneamente erette in vari punti della città. Era il 15 maggio 1848 e fu il giorno in cui perse la vita uno degli allievi più cari di De Sanctis il giovanissimo Luigi La Vista. Espulso dalla Nunziatella, De Sanctis riottenne il permesso di riprendere l’insegnamento privato salvo a lasciarlo quando si rifiutò di sottoporsi all’esame di catechismo. Costretto ad abbandonare Napoli si recò a Cosenza accettando il posto di istitutore dei figli del barone Guzolini. Fu, come giustamente ricorda Brancaccio, un esilio che consentì a De Sanctis di scrivere il saggio sui drammi di Schiller e di iniziare quello su Tasso. Arrestato 10 Ivi, p. 45. Il discorso è consultabile in F. De Sanctis, Il Mezzogiorno e lo Stato unitario, a cura di F. Ferri, in Opere, a cura di C. Muscetta, vol. XV, Einaudi, Torino, 1960, pp. 3-14. 11 Le vicende sono ricostruite – anche sulla base di una bibliografia ben nota e consolidata sulla rivoluzione napoletana del 1848 – da Brancaccio, cit., pp. 45 e ss.
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nel dicembre del 1850 fu tradotto a Napoli e incarcerato a Castel dell’Ovo con l’accusa di cospirazione contro lo Stato e di adesione al movimento mazziniano. La reclusione durò oltre due anni, ma ciò non impedì a De Sanctis di dedicarsi allo studio intenso del Faust e innanzitutto alla traduzione di uno dei testi più ardui della filosofia occidentale la Wissenschaft der Logik di Hegel. Scarcerato nell’agosto del 1853 venne condannato all’esilio in America, ma giunto a Malta, riuscì a raggiungere Torino per aggregarsi alla folta schiera di esuli napoletani. Sono vicende che Brancaccio ricostruisce con puntualità e ricchezza di particolari, specialmente nella ripresa e nella ricostruzione di un’amicizia e di un comune sentire politico e ideale con De Meis, Bertrando Spaventa, Marvasi. Dal punto di vista dell’evoluzione politica di De Sanctis centrale diventa la polemica contro il murattismo e l’aperta adesione al progetto cavouriano. Come giustamente ricorda Brancaccio, «nel rigettare l’ipotesi di una sostituzione dei Borbone di Napoli con un Murat che avrebbe, secondo taluni ambienti della diplomazia internazionale, risolto il problema italiano, il De Sanctis manifestò la sua piena adesione alla soluzione monarchica unitaria, avallando di fatto la politica liberale del Cavour, che aveva nel Piemonte l’asse di gravitazione del moto risorgimentale italiano».12 Così nel luglio del 1860, insieme ad altri patrioti in esilio a Torino (tra cui Bonghi, Silvio Spaventa, De Meis, Marvasi, Settembrini, Poerio, Bertrando Spaventa) De Sanctis torna a Napoli al fine di preparare, in previsione dell’arrivo di Garibaldi, un favorevole terreno ispirato a un movimento insurrezionale autonomo di carattere moderato. La personalità e la riconosciuta competenza politico-culturale valsero a De Sanctis la direzione della Pubblica Istruzione, ma anche la nomina a governatore della provincia di Avellino. Ma ciò che caratterizzò maggiormente 12
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Brancaccio, cit., pp. 61-62.
l’azione politico-culturale di De Sanctis fu la rifondazione radicale dell’Università napoletana con l’esonero di ben 22 professori legati all’oscurantismo borbonico e la chiamata dei docenti capeggiati dal maggiore rappresentante dell’hegelismo meridionale, Bertrando Spaventa, fiancheggiato da figure di punta della cultura liberale, come Settembrini, Imbriani, Mancini.13 La ricostruzione puntuale di Brancaccio non poteva non riferirsi ai momenti essenziali della riflessione filosofica di De Sanctis. Precisa e condivisibile mi pare l’osservazione sull’hegelismo di De Sanctis: un «hegelismo come storicismo» e non l’hegelismo «come sistema». Naturalmente il terreno sul quale De Sanctis riusciva meglio a delineare il suo percorso teorico era quello dell’Estetica. «Sviluppando la sua critica nei confronti del concetto hegeliano dell’arte come rappresentazione dell’idea, De Sanctis giungeva al concetto di forma come unità organica, come organismo. Accentuando i termini del metodo storicistico, De Sanctis perveniva al rapporto unitario tra metodo storico e critica estetica».14 Questo naturalmente non deve far dimenticare l’influsso esercitato su De Sanctis dalla lettura e dall’approfondimento dell’opera di Giambattista Vico. Era infatti la lezione vichiana – fondata sulla ricerca del nesso tra verità e fattualità, tra universalismo e particolarismo – che consentiva a De Sanctis di ricercare la ragione della logica nella storicità del mondo umano. «Quando le idee – scrive De Sanctis – che hanno prodotto la vita di un popolo, muoiono, la vita può continuare per poco, ma già si prepara la morte. Ciò accade costantemente degli individui, ma non è men vero dei popoli. Essi quando perdono le idee da cui ripetono la propria civiltà, conservano le apparenze della vita».15 Proprio alla luce dell’influenza convergente del pensiero Ivi, pp.73 e ss. Brancaccio, cit., pp. 66-67. 15 Cfr. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Sansoni, Firenze, 13 14
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vichiano e della filosofia hegeliana doveva assumere consistenza la «fondazione della critica storica».16 Nei primi anni ’60 fu intenso l’impegno politico di De Sanctis, sia a livello parlamentare che a quello ben più impegnativo di Ministro dell’Istruzione. Ma la prematura morte di Cavour doveva ridisegnare i rapporti di forza dentro lo schieramento liberale e De Sanctis collaborò attivamente, aderendo all’Associazione unitaria costituzionale, al tentativo di formare un raggruppamento liberale di centro sinistra. Era visibile il definitivo distacco dalla destra e l’avvio del percorso verso una sinistra costituzionale. Il banco di prova doveva diventare la “questione romana”. Vi era, per De Sanctis, la necessità di combattere la politica conservatrice di La Marmora e Ricasoli e rinforzare quelle posizioni interne al partito liberale decisamente ostili alle idee conservatrici e clericali. Si trattava di riprendere il cammino che aveva ispirato le generazioni del 1848 e del 1860 e di affidare loro un coraggioso progetto politico: la «formazione di un grande Centro-Sinistra, di un partito progressista, di una terza forza che fosse in grado di riprendere, anche in materia di politica ecclesiastica, la strategia seguita dal Centro-Sinistra piemontese (…). Un partito che, composto da proprietari, e da notabili locali conservatori, dotati di un’educazione morale che li spingeva politicamente a sinistra, avrebbe potuto abbattere le consorterie e contrastare la cattiva amministrazione, portando definitivamente a compimento l’unità nazionale».17 Il documento più indicativo che aiuta a capire la genesi e lo svolgimento della ricerca di De Sanctis indirizzata verso la fondazione di un partito costituzionale democratico è certamente il Viaggio elettorale.18 La battaglia elettorale è tutta s.d., p. 354. 16 Brancaccio, cit., p. 33. 17 Ivi, pp. 96-97. 18 Cfr. F. De Sanctis, Un viaggio elettorale. Seguito da discorsi biografici, dal taccuino parlamentare e da scritti politici vari, a cura
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volta a far emergere una linea politica in grado di opporsi tanto alla sinistra radicale e al suo dinamismo, quanto all’immobilismo reazionario e trasformistico delle classi dirigenti liberal-conservatrici. Si delineava e precisava così il convincimento desanctisiano della distinzione – che avrebbe avuto una sua conferma nella storia politica italiana dei primi decenni dell’Italia unita – tra corrente liberale e corrente democratica. La prima si era arrestata alla definizione di un contenuto solo formale della libertà, lasciando alla società di adattarsi al corso delle cose, mentre la libertà dei democratici «era sinonimo di lotta, che mirava a mutare lo Stato».19 Era questo il complicato risvolto politico di una difficile composizione tra l’ideale e il reale. Era il nucleo teorico forse più impegnativo della riflessione desanctisiana affidata a quel testo esemplare di analisi e di tentata composizione del nesso tra la scienza e la vita, non a caso letto nel 1872 per l’inaugurazione dell’anno accademico. Uno dei mali maggiori della storia e della cultura italiana era stato per De Sanctis la separazione/opposizione tra la scienza e la vita. Si rendeva perciò necessaria «la concordia fra le due, di umanizzare cioè la scienza, intesa come libertà, che reagiva contro il limite e cercava contemporaneamente di rivalutare il ruolo della coscienza morale, delle forze etiche, del coraggio morale nell’unità tra pensiero e vita».20 Sono le posizioni che segnano il definitivo passaggio dall’idealismo a un idealrealismo che molti critici hanno considerato come l’inizio di una tradizione storicistica che avrebbe caratterizzato la cultura italiana tra ’800 e ’900 e oltre. Uno storicismo realistico quello di De Sanctis, scevro da presupposti metafisici e ontologici, ma anche da premesse naturalistiche e che al posto delle astrazioni concettuali poneva la straordinaria ricchezza delle esperienze deldi N. Cortese, Einaudi, Torino, 1968. 19 Cfr. Brancaccio, cit., p. 107. 20 Ivi, pp. 107-108.
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la vita, sempre commisurabili e verificabili alla luce di una idea fondante come quella di limite. Scrive De Sanctis nelle pagine de La scienza e la vita: «Il motto della scienza era un giorno la libertà contro il limite; oggi è la restaurazione del limite nella libertà. Noi abbiamo distrutti o indeboliti tutt’i limiti al di fuori, e non li abbiamo ricreati dentro di noi (…). La scienza altro non è se non ricostituzione de’ limiti nella coscienza, la riabilitazione di tutte le sfere della vita. L’uomo della scienza è il più alto e virile tipo d’uomo, che non ha bisogno di culto, perché ne ha dentro di sé il sentimento, e non ha bisogno di stimoli esterni, non di medaglie e di titoli, di pene e di premii, di Stato e di leggi, perché quegli stimoli li sente più vivamente dentro di sé, e non ci è bandiera e non ci è gonfalone, che abbia la forza della sua coscienza».21 Era il percorso che già era stato tracciato nelle pagine della Storia della Letteratura, ove la scienza dell’uomo è ravvisata non in una astratta immagine del dover essere, ma in quella dell’uomo quale è «dell’uomo non solo come individuo, ma come essere collettivo, classe, popolo, società, umanità». Era il nucleo del pensiero di De Sanctis che ben coglieva nei suoi Quaderni Antonio Gramsci, quando definiva la critica del De Sanctis «militante (…) non frigidamente estetica (…) propria di un periodo di lotta culturale». Sta qui secondo l’analisi gramsciana «la profonda umanità e l’umanesimo del De Sanctis (…), piace sentire in lui il fervore appassionato dell’uomo di parte, che ha saldi convincimenti morali e politici e non li nasconde e non tenta neanche di nasconderli».22
21 Cfr. De Sanctis, La scienza e la vita, in Opere, vol. XIV, a cura di M.T. Lanza, Einaudi, Torino, 1972, pp. 337-338. 22 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, vol. I, p. 426.
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Aurelio Musi Cultura, letteratura e politica in Francesco De Sanctis Il rapporto della storiografia italiana dal secondo dopoguerra ad oggi con Francesco De Sanctis ha attraversato varie fasi. La prima fase può essere identificata nel doppio volto dello storicismo, quello liberale e quello marxista. Negli anni Cinquanta sia dal primo che dal secondo fronte è stata ribadita la continuità tra Vico, De Sanctis e Croce secondo un percorso che, nonostante le ovvie differenze di natura sia intellettuale sia politica, tendeva a riscoprire nella tradizione culturale della penisola i fondamenti della nazione italiana. La Storia della letteratura del De Sanctis diventava pertanto un passaggio decisivo fra il prima, rappresentato dai germi dello storicismo vichiano, e il dopo rappresentato dallo storicismo crociano, ripreso, rivisitato e, per certi versi, contrastato nella linea dell’Anticroce gramsciano, dal marxismo. La seconda fase, tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, non ha assunto direttamente De Sanctis come bersaglio polemico. Ma la ventata strutturalista ha investito direttamente lo storicismo crociano, quindi indirettamente l’autore della Letteratura italiana e la linea continuista Vico - De Sanctis - Croce. Oggi, venuti meno le battaglie di natura ideologica e i conflitti di orientamento teorico e metodologico, siamo in una terza fase in cui ci si avvicina a De Sanctis con atteggiamento più laico, pri-
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vilegiando letture più originali, riletture e riscoperte di scritti di uno dei più grandi intellettuali dell’Ottocento italiano e non solo. Questo volume (F. De Sanctis, La Giovinezza, introduzione e cura di Giovanni Brancaccio, Biblion Edizioni, Milano 2017), testimonia sia della ripresa di interesse sia del nuovo approccio a De Sanctis liberato da incrostazioni di natura ideologica, frutto di ricerche su fonti inedite o poco note: che non abbandona, tuttavia, quella passione etico-politica comune sia a De Sanctis che a Croce. Il volume si compone di due parti fra loro collegate, ma anche relativamente autonome. La prima parte è formata dall’ampia, ricca e scrupolosa introduzione di Giovanni Brancaccio, che potrebbe anche costituire un saggio a se stante sul percorso biografico, intellettuale e politico di Francesco De Sanctis. La seconda è l’accurata riedizione, con commento e note integrative che aiutano il lettore a orientarsi tra fatti e personaggi, de I ricordi, dettati da Francesco De Sanctis alla nipote Agnese due anni prima della morte. Nel 1889 Pasquale Villari ne curò poi la pubblicazione col titolo La giovinezza, frammento autobiografico. Nella bella e approfondita introduzione di Brancaccio La giovinezza costituisce dunque solo il punto di arrivo di un lungo e complesso percorso costruito con perizia e intelligenza dall’autore. Grazie a Brancaccio disponiamo ora non solo di un contributo all’esatta contestualizzazione de La giovinezza, ma anche e soprattutto di un quadro di insieme della biografia di De Sanctis, una vera “vita politica” per parafrasare il titolo del volume dedicato da Antonino De Francesco a uno dei maestri ispiratori dell’intellettuale irpino, Vincenzo Cuoco. Il filo rosso del saggio introduttivo di Brancaccio è il nesso inscindibile fra cultura, letteratura e politica: e i tre piani, fin dagli anni di formazione, sono sempre strettamente intrecciati e formano una biografia originale, che ricorda, per molti versi, proprio quella di Cuoco. Pagine importanti Brancaccio dedica alla for-
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mazione politica del De Sanctis, ribadendo giustamente l’importanza del periodo 1841-1848: una fase che, a differenza di quanto da altri scritto sulla periodizzazione dell’itinerario desanctisiano, presenta una sua autonomia che va attentamente considerata. Forse nella lettura di Brancaccio l’ideale unitario di De Sanctis è eccessivamente retrodatato. A mio parere e come risulta anche da studi recenti, il periodo 1841-48 per De Sanctis si svolge ancora nel segno della fedeltà borbonica o, per dir meglio, del sentimento di appartenenza alla doppia patria, quella napoletana e quella italiana. È solo la complessa congiuntura del 1848, quel “vivaio di storia” per riprendere la bella metafora di Lewis Namier, e la repressione successiva alla giornata del 15 maggio che creano un vero spartiacque e segnano l’inconciliabilità fra gli ideali unitari dei patrioti liberali napoletani e la dinastia borbonica. Quindi si può dire che la formazione politica di De Sanctis negli anni Quaranta sia decifrabile proprio attraverso il percorso dalla nazione napoletana alla nazione italiana. E che il 15 maggio 1848 costituisca un vero diaframma tra un prima e un dopo del percorso. Gli studi e la produzione letteraria sono sempre strettamente collegati da Brancaccio con le vicende biografiche e le esperienze politiche di De Sanctis: dalle peregrinazioni fra Zurigo e l’Italia alle battaglie per la costruzione nazionale unitaria all’attività parlamentare e ministeriale. La Sinistra costituzionale, secondo la convincente interpretazione di Brancaccio, non è solo il tentativo da parte di De Sanctis, di creare una “terza forza”, per così dire, fra liberali e democratici, che non poté avere spazio di realizzazione nell’Italia del tempo, ma anche e soprattutto il progetto della formazione di una nuova classe politica: un elemento, questo, che getta luce su un aspetto poco considerato dagli studi su De Sanctis, la sua attenzione cioè alla forma-partito e alla sua evoluzione verso gli
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ultimi decenni dell’Ottocento. E quanto moderna e preveggente sia questa sua sensibilità è dimostrato da quel che egli scrive nel 1877 a proposito del partito personale dei “capitani di ventura”: effetto della mancata formazione in Italia di partiti ben strutturati e dotati di forza morale. Evoluzione culturale e impegno politico formano dunque un’endiadi costitutiva in De Sanctis. Letta in questa luce, La giovinezza offre ulteriori spunti per meglio conoscere la personalità di uno dei maggiori artefici della nuova Italia. Scorrono nei ricordi di De Sanctis la vecchia Napoli e i luoghi della sua Irpinia. Sono ricostruiti i luoghi e i giochi della sua infanzia (arrivava sempre primo nella corsa ed era fortissimo nella lotta); la sua passione per Walter Scott e il romanzo storico, che attraeva il giovane soprattutto perché protagonisti della narrazione erano fantasia, sentimento e attenzione ai vinti più che ai vincitori; il caffè del Gigante dove l’intellettuale irpino poteva leggere e divorare i giornali francesi e documentarsi sugli avvenimenti internazionali; i giorni drammatici del colera del 1836; l’ambiente familiare; il clima delle scuole private come quelle dello zio Carlo Maria e, soprattutto, dello straordinario maestro Basilio Puoti, dove De Sanctis conobbe Giacomo Leopardi. È “l’età d’oro del libero insegnamento”, come scrive lo stesso De Sanctis. E ai metodi pedagogici e alle tecniche didattiche l’autore de I ricordi dedica pagine memorabili quando parla della sua scuola in vico Bisi. Le prime lezioni erano dedicate ad una storia della grammatica. “La mia attenzione – egli scrive – andava dalle forme al contenuto, dalle parole alle idee (…). Io sostenevo che la grammatica non era solo un’arte, ma ch’era principalmente una scienza (…) non bastava dare le regole, ma di ciascuna regola bisognava dare i motivi o le ragioni (…) Così trovavo nella logica il fondamento scientifico della grammatica (…) La mia grammatica era un andare su su dalle parti più semplici verso il discorso, il grande risultato della scienza, il principio e il fine
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(…) Io credevo che una gran parte della grammatica si dovesse studiare in modo pratico, leggendo, scrivendo, parlando. Ridotta la grammatica a generalità scientifica, ciò che propriamente si diceva arte io lo andavo mostrando nelle letture, nelle composizioni e nelle conversazioni, con esercizi svariati e ingegnosi”. Lo chiamavano i suoi allievi “il dizionario vivente”. L’attenzione di De Sanctis era rivolta più al contenuto che alla forma. La nota fondamentale dello stile doveva essere la chiarezza, “cioè a dire la visione immediata della cosa, come in uno specchio”. E poi doveva essere costruito un rapporto diretto fra lo stile e la vita: “Quello che volevo nello scrivere, volevo anche nella vita. Dicevo che lo scrittore deve concordare con l’uomo, e perciò anche nell’uomo volevo il disprezzo del comune e del plebeo. Ciò che io chiamavo dignità personale. In questa parola compendiavo tutta la moralità e dicevo che la dignità era la chiave della vita”. Contro il secentismo e l’Arcadia decadente, De Sanctis nella sua scuola esaltava la sintesi che “è la cosa guardata non nelle sue particolarità, ma nel suo tutto e nelle relazioni con le altre cose: relazioni di somiglianza, di differenza e di contrasto”. “Studiare le cose: questa è la vostra retorica. Le cose tireranno con sé anche le forme, le quali sono in esse e con esse sono intelligibili”. Era “la ginnastica dell’anima”, l’esercizio delle potenzialità naturali attraverso l’educazione. Così il trinomio grammatica-stile-retorica si presentava con una sua intima coerenza logica e morale, che andava ben oltre le lezioni del maestro del purismo, Basilio Puoti. La giovinezza è una sorta di romanzo di formazione in cui sono riconoscibili la vocazione autobiografica, l’abitudine all’autoanalisi dell’autore e l’elogio dell’amicizia. La trasfigurazione letteraria della memoria, “regina delle muse”, mi ricorda, in un contesto mutato, la “tessitrice capricciosa” del romanzo di Virginia Woolf, Orlando. Lo stile è fresco e, al tempo stesso, magnifico nella sua straordinaria semplicità. La giovinezza è anche la ricostruzione
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dell’itinerario culturale del grande storico della letteratura, che prende le mosse dal purismo per approdare poi all’illuminismo, allo storicismo vichiano, al romanticismo, al neoguelfismo giobertiano, all’idealismo hegeliano fino alle ultime suggestioni nei confronti del positivismo: una specie di “summa” della cultura italiana dell’Ottocento, che difficilmente si riscontra in altri intellettuali del tempo. E soprattutto colpisce il fatto che nella formazione dell’autore della Storia della letteratura italiana cultura umanistica e cultura scientifica si fondino in un’unica sintesi. La giovinezza documenta egregiamente il clima della transizione italiana dal Classicismo al Romanticismo. Quest’opera di De Sanctis è anche una sintetica approssimazione alla Storia della letteratura italiana. È la rappresentazione contratta della weltanschauung, per così dire, del suo autore: il contenuto come determinazione della forma, la fuga dalla mitologia della parola. E un sano bagno nel realismo desanctisiano è quel che ci vuole in un’epoca come quella attuale che spesso perde di vista il principio di realtà e si rifugia nel costruttivismo assoluto.
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Guido Pescosolido La giovinezza e il contributo di Francesco De Sanctis al Risorgimento italiano negli studi di Giovanni Brancaccio Il 28 marzo 2017 è ricorso il secondo centenario della nascita di Francesco De Sanctis, una delle figure più eminenti dell’intellettualità e del mondo patriottico meridionale che diedero un contributo di prim’ordine alla storia e alla cultura letteraria dell’Italia liberale e, cosa meno sottolineata negli scritti sinora usciti per la ricorrenza, ma non meno importante della prima, alla causa e al successo del Risorgimento e alla nascita dello Stato unitario. La sua personale vicenda di patriota costituisce una delle smentite più clamorose della parola d’ordine neoborbonica secondo la quale il Risorgimento fu semplicemente una macchinazione sabaudo-cavouriana orchestrata dalla massoneria e dall’Inghilterra per impadronirsi del Regno delle Due Sicilie e delle sue enormi ricchezze: una tesi che ha largo e pervicace successo in ampi settori dell’opinione pubblica e della pubblicistica meridionale, e non solo meridionale. Il Mezzogiorno, cioè, sarebbe stato conquistato da Garibaldi e dall’esercito sabaudo contro la volontà della popolazione meridionale, la quale non avrebbe dato alcun significativo apporto al movimento nazionale italiano, alla lotta per le fondamentali libertà politiche e civili che pervase l’Europa dalla seconda metà del Settecento, alla realizzazione dell’Unità d’Italia e alla nascita dello stato liberal-costituzionale unitario.
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Eppure vi sono eventi inoppugnabili, ampiamente studiati e ristudiati, a testimoniare che la parte della società meridionale più colta, più evoluta e più sensibile ai moderni ideali di libertà e nazionalità fu in prima linea sin dal periodo giacobino di fine Settecento nelle battaglie ideali e materiali per la libertà politica e l’Unità d’Italia. Dopo la Restaurazione il primo moto carbonaro di successo si ebbe nel 1820 nel Regno delle Due Sicilie e solo un anno dopo seguì quello del Piemonte. Nei decenni successivi i patrioti meridionali patirono carcere, persecuzione ed esilio ad opera di una dinastia chiusa a qualunque prospettiva di riforma politico-istituzionale. Gli intellettuali napoletani parteciparono con nomi di fama nazionale e internazionale al moto di rinnovamento culturale e scientifico che percorse la penisola negli anni Trenta-Quaranta. Nella prima guerra di indipendenza volontari meridionali di grande statura intellettuale e morale e grande coraggio furono in prima linea contro gli austriaci e dopo il 1848 il fior fiore dell’intellettualità napoletana e siciliana perseguitata dal regime borbonico prese la via dell’esilio e preparò la liberazione del Mezzogiorno e non la sua conquista da parte dei piemontesi. Nella costruzione dello stato unitario e nello svolgimento della vita politica dell’Italia liberale ebbero un ruolo di primo piano non solo presidenti del Consiglio meridionali come Crispi, Di Rudinì, Salandra, Orlando, Nitti, ma anche personaggi che occuparono posizioni di livello comunque di vertice, come appunto Francesco De Sanctis, Pasquale Stanislao Mancini, Silvio Spaventa, Giuseppe De Vincenzi, solo per fare qualche nome. Francesco De Sanctis, non solo fu in assoluto il maggiore storico della letteratura italiana, ma fu, prima ancora che questo, uno dei maggiori protagonisti politici del Risorgimento e dell’Italia liberale. A lui è stato di recente dedicato un penetrante ed aggiornato profilo biografico posto a prefazione della ristampa di un suo classico testo di memorie di gioventù (Francesco De Sanctis, La giovinezza, a cura e con prefazione di Giovanni Brancac-
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cio, Biblion edizioni, Milano 2017, pp. 415). In esso Brancaccio richiama opportunamente l’attenzione sullo stretto rapporto tra studi letterari e attività politica del De Sanctis, sottolineando che non per caso la sua fondamentale Storia della letteratura italiana è considerata dai più come la prima vera storia della nazione italiana. Come tanta parte del ceto civile meridionale De Sanctis sperò che le iniziali aperture di Ferdinando II alla modernizzazione sociale e politica potessero sfociare in un regime costituzional-liberale, in armonia con quel movimento di opinione pubblica per la libera circolazione di merci, uomini e idee che percorse tutta Italia nei primi anni Quaranta dell’Ottocento e che culminò ideologicamente e politicamente nel confederalismo giobertiano. Ma nel maggio del 1848 il sovrano sospese la costituzione appena concessa in febbraio e diede il via alla repressione di ogni forma di opposizione all’assolutismo col sangue, col carcere e con l’esilio; e De Sanctis marcì per quasi tre anni nelle prigioni borboniche. Nel settembre 1853 andò in esilio a Torino dove trovò una schiera di meridionali, fra cui Camillo De Meis, i fratelli Agostino e Antonino Plutino, Mariano D’Ayala, Bertrando Spaventa, Giuseppe Massari, Antonio Scialoja, Paolo Emilio Imbriani, Pasquale Stanislao Mancini, Raffaele Conforti, Giuseppe Pisanelli, Pier Silvestro Leopardi, Antonio Ciccone, Giacomo Tofano: quasi tutti ex deputati nel Parlamento napoletano del 1848 perseguitati dalla repressione borbonica. A Torino e a Zurigo, nel cui politecnico ricoprì fino al 1860 la cattedra di Letteratura italiana, De Sanctis maturò la più ferma convinzione che una moderna nazione liberal-costituzionale nel Mezzogiorno non sarebbe mai nata, neppure con un eventuale ritorno di Murat: un ritorno che tanto sarebbe piaciuto allo stesso Napoleone III e che trovava pericolosi consensi in larga parte del liberalismo moderato meridionale. Su quest’ultimo passaggio del pensiero e dell’azione politica di Francesco De Sanctis forse, come ho già detto, non si è ri-
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flettuto abbastanza. Giustamente di De Sanctis si è sottolineata l’attività politico-istituzionale di primo piano svolta nel periodo postunitario, quando, eletto deputato nel 1861, fu Ministro dell’Istruzione prima con Cavour e Ricasoli, poi con i governi di sinistra nel 1878 e dal 1879 al 1881. Si è altrettanto giustamente ricordata la sua condanna inflessibile della “corruttela politica”, la critica radicale alle chiuse consorterie di Destra e Sinistra che di fatto ostacolavano lo sviluppo di una piena e sana vita democratica del nuovo Stato, il suo rifiuto della progressiva chiusura dell’orizzonte della rappresentanza politica del Nord e del Sud a vantaggio di ristretti interessi settoriali e territoriali e il suo richiamo alla necessità di un respiro politico nazionale dell’attività del governo e del parlamento. E si è ripetutamente richiamato, infine, il suo conseguente, concreto tentativo di dar vita a un nuovo partito di centro-sinistra che sbloccasse il sistema politico italiano dalle gore in cui versava a fine anni Settanta. Tutto ciò conserva di certo una grande importanza nella storia dell’Italia liberale. Ma non minore fu il rilievo della scelta che negli anni Cinquanta egli fece a favore di uno stato nazionale italiano, senza cedimenti a ipotesi di sopravvivenze autonomistiche di uno stato meridionale foss’anche a regime murattiano. Questo in realtà avrebbe solo favorito la perpetuazione della preponderanza straniera nella penisola, anche se affidata alla dinastia francese invece che a quella austriaca, mantenendo nel contempo la divisione e la debolezza politica dell’intera penisola, condizione prima per la negazione di ogni vera libertà politica. Brancaccio mette bene in evidenza come l’opera pubblicistica di De Sanctis fu decisiva nell’orientare gli esuli meridionali a rifiutare le suggestioni murattiane e aderire alla strategia cavouriana e alla Società nazionale. E senza la spinta materiale e morale degli esuli meridionali e della tradizione storica che essi impersonavano Garibaldi non sarebbe mai partito da Quarto e Vittorio Emanuele II non avrebbe mai varcato il Tronto.
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Il Mezzogiorno non fu dunque conquistato, ma, al contrario, diede il là decisivo alla nascita del Regno d’Italia con l’apporto dei suoi esuli, del suo ceto civile e dei contadini che combatterono nelle file dei volontari garibaldini in Sicilia e sul Volturno, per poter avere quella vita politica e civile che i Borbone avevano loro sempre negato.
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Maria Anna Noto Viaggio nella memoria. Il De Sanctis di Brancaccio tra nostalgia e storia nazionale La memoria, per De Sanctis “regina delle muse”, ispira e guida Giovanni Brancaccio nell’Introduzione a La Giovinezza: un’introduzione densa e minuziosamente documentata, un vero e proprio “libro nel libro”, una ricostruzione accurata del percorso scientifico ed umano del grande intellettuale irpino, che travalica il 1844 – anno al quale si fermano le memorie – per analizzarne l’intero itinerario di vita. Nello scorrere il lavoro di Brancaccio si percepisce quanto la giovinezza di De Sanctis finisca per evocare la giovinezza del curatore: i luoghi richiamati dallo scrittore coincidono con i luoghi dell’infanzia di Brancaccio, legati ai suoi primi anni, agli affetti familiari, al periodo della spensieratezza. La volontà di celebrare il bicentenario dell’intellettuale irpino si coniuga con la propensione autobiografica dello stesso Brancaccio (significativamente affidata alla brevi ma toccanti parole della dedica), che alimenta e vivifica il lavoro interpretativo da lui compiuto sull’opera desanctisiana. Un’opera di cui si coglie il valore didattico e civile, quale strumento ermeneutico dell’Ottocento risorgimentale, ma anche del tempo presente, grazie alla carica etico-politica che la anima e che offre molteplici elementi per riflessioni di problematica attualità. L’abnegazione civile di De Sanctis, il suo appas-
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sionato impegno per lo sviluppo culturale e politico della patria, il suo coraggio conferiscono alla rilettura de La Giovinezza una indubbia valenza didattica e possono fungere da stimolo per le nuove generazioni di oggi, così come lo furono per quelle dei suoi tempi. Tempi nei quali l’Introduzione di Brancaccio ci fa calare compiutamente grazie alla profonda conoscenza che egli possiede della storia del periodo, della produzione letteraria e dei protagonisti dell’epoca. In questa attenta ricostruzione, l’opera desanctisiana si presenta come la narrazione del burrascoso ed indomito passaggio dall’assolutismo al regime costituzionale, dalla repressione alla libertà, dall’arretratezza all’allargamento degli orizzonti culturali: un itinerario individuale e collettivo, sul doppio binario del vissuto personale e dell’esperienza di una generazione. Infatti, la cornice entro cui si iscrivono i fatti narrati è proprio la fase di formazione della generazione degli uomini del ’48 e del ’60, che precede la periodizzazione classica dell’evoluzione biografica e ideologica di De Sanctis proposta da Sergio Landucci: l’intellettuale irpino ci fornisce una rappresentazione – che evidentemente è anche una consapevole interpretazione – delle esperienze, degli episodi, degli incontri che preludono al primo periodo di lotta costituzionale degli anni 1848-1860, al secondo momento caratterizzato dall’attività istituzionale post-unitaria e dall’impegno per la fondazione di una Sinistra “Giovane”, e all’ultima fase consacrata alla difesa del moderatismo e del democratismo ispirata dal timore di pericolose spinte rivoluzionarie. La Giovinezza ci mostra un De Sanctis che, fin dalla fanciullezza, riflette sull’importanza dell’istruzione, sul ruolo fondamentale ricoperto dalla cultura ai fini della crescita della nazione, sulla necessità di rinnovare i canali, i metodi e gli strumenti per la formazione dei giovani. Il disprezzo per il soffocante clima culturale imperante sotto i Borbone, dominato dall’istruzione meccanica e ripetitiva impartita nelle scuole pubbliche dai re-
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ligiosi, si accompagna all’apprezzamento per alcune esperienze di insegnamento privato e, soprattutto, per alcuni docenti che segnano lo svecchiamento nel campo dell’istruzione e, contestualmente, lasciano un segno profondo nel percorso di vita del giovane irpino, il quale rileva con gioia come «un po’ di secolo decimottavo era pur penetrato fra quelle tenebre teologiche» (p. 172), nell’«età dell’oro del libero insegnamento» (p. 171). L’avidità conoscitiva di De Sanctis lo porta ad entusiasmarsi per l’affermazione di una cultura aperta e laica, foriera di crescita intellettuale e rinnovamento ideologico, di cui egli resta per sempre grato al grande maestro Basilio Puoti. L’«ultimo dei puristi» («Nuova Antologia», novembre 1868) è capace, con la sua ferma sobrietà, di inculcare nei suoi ammirati allievi l’aspirazione al progresso culturale, nella convinzione che la cultura possa rappresentare un’arma politica contro il dispotismo e l’arretratezza. Brancaccio ricostruisce efficacemente il clima reazionario che si sviluppa a partire dal fallimento dei moti del 1821, l’intensificazione della frattura tra monarchia e paese, la delusione crescente nei confronti della dinastia borbonica incapace di soddisfare le aspettative di popolo e ceti dirigenti: un clima intollerabile per il giovane idealista di Morra, analitico osservatore di fenomeni, eventi e tendenze della capitale napoletana dove si è trasferito per compiere i suoi studi. Napoli è il cuore della riflessione etico-politica di De Sanctis, il nucleo materiale ed ideale in cui viene elaborata l’ideologia nazionale di quei giovani nei quali il sentimento della patria napoletana si fonde con il nascente sentimento della patria italiana, nell’anelito al liberalismo e all’assetto costituzionale. Una Napoli che manifesta agli occhi del giovane studioso tutta la sua superiorità rispetto alle realtà urbane del Regno e non sfigura nel confronto con le principali capitali europee per le sue potenzialità culturali, ma è fortemente ostacolata da una gretta politica statale che la penalizza nel campo dell’economia, del commercio e
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dell’istruzione, non favorendo il proficuo binomio tra liberalismo politico e liberismo economico. È la Napoli in cui si sviluppano i sogni della generazione desanctisiana, alimentati dalle fitte discussioni politico-letterarie condotte nei salotti o negli studi professionali, dove si coltivano gli ideali cari al morrese, dove si realizza la coincidenza tra “cultura”, “morale” e “politica”. A tale triade è sotteso un altro trinomio ispiratore del pensiero e dell’azione di De Sanctis e dei suoi compagni: quello di “patria”, “nazione” e “libertà”, che li guiderà fino alle barricate del 1848. Il momento delle barricate appare come una svolta periodizzante nel percorso desanctisiano, la traduzione concreta del percorso ideale, l’attuazione di una politica militante animata da tensione culturale ed etica, che segue alla cocente delusione per il ripiegamento dei Borbone, dopo un “intervallo di tolleranza” palesatosi con l’apertura di Ferdinando II alle riforme. Nella riflessione del morrese – e della generazione risorgimentale napoletana – l’antispagnolismo maturato nel periodo del viceregno spagnolo si trasforma e si trasfonde nell’avversione al clima reazionario prodotto dal governo borbonico. L’attualizzazione della lotta all’oppressore si alimenta con la repressione patita dagli intellettuali, con l’esilio inflitto a molti di loro, che diventa sofferta autobiografia nei ricordi di De Sanctis. La linea storiografica – che da Vico, attraverso Cuoco, arriva a Colletta – accompagna la maturazione intellettuale del giovane studioso e rappresenta il preludio della successiva adesione all’hegelismo considerato quale valido strumento di avanzamento culturale, di progresso ideologico, di rigenerazione civile. Brancaccio penetra in profondità nella narrazione partecipe, emotivamente connotata, a tratti convulsa e stilisticamente altalenante, spesso nostalgica ma sempre lucida dell’autobiografia di De Sanctis: in tal modo, riesce a cogliere a pieno il suo «itinerario culturale che prende le mosse dal purismo, per poi approdare all’illuminismo, allo storicismo vichiano, al romanticismo, all’e-
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clettismo, al neoguelfismo giobertiano, all’idealismo hegeliano fino alle ultime suggestioni nei confronti del positivismo» (p. 141). Dall’analisi de La Giovinezza emergono prepotentemente sia la vocazione autobiografica dell’Autore, sia la sua vocazione da “maestro”, da “educatore”, nel costante anelito alla fusione tra arte e vita che diventa un’esigenza imprescindibile praticata quotidianamente e trasmessa agli allievi attraverso l’elaborazione di un metodo. Il metodo concepito da De Sanctis, proprio nella perseguita coincidenza tra pensiero e azione, si presenta come un metodo di studio ma è anche uno strumento di comprensione della realtà, di categorizzazione e valutazione, un metodo di approccio alla vita nella sua interezza. Nella formulazione del metodo, De Sanctis rielabora in maniera autonoma le suggestioni provenienti dalla sua formazione culturale, rifiutando l’astrazione hegeliana dell’arte come rappresentazione dell’idea e abbracciando, invece, l’indirizzo storicistico dell’hegelismo, che gli consente di recuperare la tradizione vichiana e di intrecciarla con la necessità dell’esame fattuale. Brancaccio evidenzia come, in tal modo, l’intellettuale irpino pervenga «al rapporto unitario di contenuto-forma, […] alla conciliazione tra metodo storico e critica estetica» intesa quale «completamento degli imprescindibili dati derivanti dall’indagine positiva», ammettendo «un possibile accordo tra esame dei fatti e sentimento estetico» (p. 67). La ricerca di strumenti ermeneutici attraversa l’itinerario esistenziale di De Sanctis, caratterizzandone costantemente l’attività di studioso, di educatore, di maestro di scienza e di vita, a partire dalle prime esperienze che lo stesso intellettuale ritiene per lui periodizzanti, e cioè l’accesso alle lezioni del Puoti (1833), l’avvio della propria scuola a Vico Bisi (1838), l’insegnamento al collegio militare della Nunziatella (1841-48). Fasi della vita che, nella posteriore ricostruzione de La Giovinezza, assumono una valenza teleologica rispetto alla concretizzazione del binomio “scuola-vita/scienza-vita” realizzatasi nella lotta po-
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litica degli anni 1848-1860, nell’aspirazione libertaria che, dopo le delusioni dei moti costituzionali, lo condurrà ad abbracciare la causa sabauda e a sostenere il progetto liberal-unitario di Cavour. La convergenza tra pensiero e azione si riassume nel grido che accompagna lo slancio insurrezionale di De Sanctis e dei suoi allievi sulle barricate: «Siamo noi un’Arcadia? La scuola è vita» (p. 48). In quegli anni convulsi per la nazione si consuma il travaglio interiore di De Sanctis, cagionato dalle traversie della prigionia e dell’esilio. Sofferenza della patria e sofferenza dell’autore si intrecciano e si mescolano nell’operazione memoriale, restituendo il pathos di anni determinanti per la maturazione individuale e collettiva. Mentre Napoli è afflitta dagli ultimi anni di repressione e dispotismo borbonico, il critico irpino affronta il dolore e la solitudine della condizione dell’esule. Brancaccio si cala nel tumulto interiore del De Sanctis di quegli anni, fatti di dolore ma mai di disperazione, segnati dalla crisi psicologica e materiale ma proprio per questo raffigurati dall’autore come una dimostrazione della sua forza morale, del suo indomito spirito di combattente, della sua vittoria sulle traversie esistenziali. L’esilio è un periodo duro, ma sicuramente edificante, perché – al di là delle prove cui lo sottopone – permette a De Sanctis di approfondire il confronto tra la dimensione europea del panorama culturale napoletano, da una parte, e l’asfittica realtà torinese o l’isolamento svizzero, dall’altra. Nella “provinciale” capitale sabauda, pur vivacizzata da moderni dibattiti politici, il triste soggiorno del professore è allietato dalla presenza di altri esuli, di cui molti meridionali, grazie ai quali il riservato morrese ha l’opportunità non solo di restare al centro degli sviluppi ideologici, politici e diplomatici della scena internazionale, ma soprattutto di sperimentare con autentico coinvolgimento emotivo il valore dell’amicizia. Il sentirsi «impaludato» nel modesto ambiente culturale torinese (p. 59) – etichettato addirittura come «Medioevo scientifico» dal
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compagno di esilio Bertrando Spaventa (p. 63) – non sminuisce per De Sanctis la vivificante esperienza di un duraturo legame amicale, che, consolidato dalle comuni avversità, si trasformerà in un ininterrotto sodalizio fatto di affetto, stima e condivisione, nel quale si annulleranno le distanze tra maestro e allievi. Un sentimento particolare nascerà tra il professore e i suoi giovani discepoli Angelo Camillo De Meis e Diomede Marvasi, un sentimento già intenso che si cementa durante l’esilio torinese dei tre meridionali, talmente uniti da meritare il soprannome di “triumvirato” (p. 58). Un legame indissolubile che costituirà un’ancora di salvezza per De Sanctis dopo il suo trasferimento a Zurigo, dove la nostalgia e lo sconforto rischieranno di sopraffare lo studioso, il quale – nella fitta corrispondenza che lo tiene in contatto con i suoi amati allievi – si duole fortemente: «Qui […] sono fuori del movimento, fuori della vita. Non posso entrare nelle cose germaniche, e sono fuori d’Italia: rimango in una situazione astratta» (p. 66). Nonostante lo stato di prostrazione che spesso lo assale, l’isolamento forzato viene tesaurizzato dal morrese e consacrato ad una profonda immersione negli studi, che nella posteriore interpretazione autobiografica dell’Autore assume lo scopo di corroborare il valore dell’intreccio tra arte e vita, intreccio che consente di sublimare lo sconforto e superare le avversità. Gli accadimenti del 1860 permettono finalmente a De Sanctis di rientrare in patria e di contribuire alla concretizzazione dell’idea di patria che egli aveva condiviso: un’Italia unita, sotto l’egida della monarchia liberale e costituzionale garantita dai Savoia. L’inveramento delle sue speranze è sostenuto da un’attiva partecipazione alle fasi dell’unificazione, attraverso incarichi ed atti che, ancora una volta, sono il segno della sua vocazione di educatore. Brancaccio evidenzia la passione del professore nell’esortare la popolazione ad esprimersi favorevolmente col Plebiscito, in un Proclama al Popolo Irpino, emanato nelle sue
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funzioni di governatore della provincia di Avellino, in cui emerge l’attitudine del maestro, l’impegno di formatore che aveva sempre caratterizzato la sua esistenza e che già lo aveva spinto, nell’entusiasmo per i fatti del ’48, ad incitare i giovani ad amare la patria e la libertà, nel rispetto dell’ordine e della moderazione. Il Discorso ai giovani, prodotto nel 1848, già contiene l’ideologia progressista ma moderata di De Sanctis, scettico nei confronti sia dell’immobilismo che dell’anarchia, entrambi considerati forieri di tirannia. Al dispotismo e all’arretratezza, egli oppone la cultura e l’istruzione, per le quali ritiene indispensabile un valido programma di riforme. Il tentativo di attuare questo progetto, in qualità di membro della Commissione della Pubblica Istruzione durante l’esperimento costituzionale del ’48 – tentativo fallito a causa del precipitare degli eventi –, riemerge con slancio nel 1860, quando lo studioso viene nominato Direttore della Pubblica Istruzione a Napoli, e successivamente nel 1861 con l’incarico di Ministro, potendo così dare realizzazione al suo disegno di rigenerazione morale della società mediante la formazione dei giovani e la diffusione della cultura. La sua tensione etica lo convince che questi due elementi possano concorrere efficacemente ad abbattere la povertà, la corruzione, i personalismi, da lui tanto vituperati, e ad affermare la libertà. «Noi abbiamo decretato la libertà in carta - Sapete, o Signori, quando questa libertà cesserà di essere una menzogna? Quando noi avremo effettivamente uomini liberi, quando della plebe avremo fatto un popolo libero» (Discorso di F. De Sanctis alla Camera, 13 aprile 1861). L’esigenza di «rinnovare gli uomini per rinnovare i sistemi» guida De Sanctis nella riforma dell’Università partenopea, ma soprattutto nei provvedimenti rivolti all’istruzione scolastica: le scuole elementari per tutti, l’istituzione di scuole per la formazione degli insegnanti, l’implementazione dell’istruzione tecnica e liceale. I capisaldi della riforma desanctisiana sono costituiti dal binomio di laicizzazione e nazionalizzazione dell’istruzione.
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Convinto assertore della secolarizzazione dell’insegnamento, fin dai tempi dell’apprezzamento riservato alle scuole private napoletane che avevano favorito il rinnovamento dello sclerotizzato ambiente formativo dominato dagli ecclesiastici, il De Sanctis post-unitario mira al superamento di questa fase pionieristica e punta all’omogeneizzazione della nazione mediante la creazione di una scuola pubblica moderna ed efficiente, che garantisca un’uguale formazione a tutti gli italiani. Ecco, è proprio il desiderio di consolidare l’unità nazionale a spingere il De Sanctis a perorare la causa della nazionalizzazione del settore scolastico e a decretare l’eliminazione degli organismi regionali o territoriali che gestivano l’istruzione: ottenere, quindi, un’unica scuola per tutti gli italiani. Un’operazione, questa, che incontrerà l’ostilità non solo dei reazionari, ma anche di alcuni liberali a lui vicini, intenzionati a difendere la libertà d’insegnamento rappresentata dalle scuole private. Le biblioteche rappresentano un nodo centrale del progetto di diffusione di canali e strumenti culturali ed anche in quest’ambito De Sanctis persegue l’obiettivo della nazionalizzazione e della standardizzazione: è suo il merito della fondazione delle Biblioteche Nazionali e dell’avvio della riorganizzazione di questo settore nevralgico per la promozione e la divulgazione culturale. Ancora una volta, l’impegno del critico irpino dimostra il valore etico da lui attribuito alla cultura, il potere rigeneratore e propulsivo delle idee, quali elementi distintivi dell’essere umano, che generano gli ideali e sostengono quindi le istanze collettive, a differenza del reale, che esprime invece l’interesse individuale. Idea e realtà si fondono nell’ideologia di De Sanctis, teso a realizzare sul piano pratico il livello ideale, e lo indirizzano all’attività politica, che occupa larga parte della sua maturità, tra entusiasmi, speranze ed amarezze, cagionate soprattutto dalla scarsa presa del suo programma politico sull’opinione pubblica. L’indefessa battaglia contro la corruzione, i favoritismi, il preva-
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lere degli interessi privati sul benessere collettivo, l’affarismo e le consorterie resta sempre ammantata di astrattezza e velleitarismo. La sua promozione di una Sinistra “giovane”, che superasse il conservatorismo della Destra, evitasse gli estremismi della Sinistra storica e proponesse uomini nuovi, di specchiata moralità, non legati agli interessi di partito e intenzionati a coniugare gli obiettivi liberal-moderati con le istanze democratiche e progressiste, si rivela un progetto meritorio ma scarsamente efficace. De Sanctis deve amaramente riscontrare il dilagare del trasformismo e del particolarismo, da lui tanto aborriti, che certo registrano un incremento anche a causa della spaccatura creatasi all’interno della Sinistra e della sua rappresentanza meridionale in Parlamento, nonostante le nobili finalità perseguite dall’opposizione desanctisiana. La lucida – e sofferta – analisi dello studioso irpino rintraccia le cause storiche dell’anomalia della politica italiana, che non aveva mai prodotto vere formazioni partitiche, ma solo gruppi di potere «che avevano preso nome non dalle idee, ma dalle persone, ed (erano) guidati principalmente dall’intento di vantaggiare sé, spingendo innanzi il loro capo» (De Sanctis, I partiti personali e regionali, «Il Diritto», 9 novembre 1877). Brancaccio ripercorre le convulse vicende politiche di quegli anni, inserendo la rievocazione memoriale dell’intellettuale morrese nel quadro storico di riferimento e restituendo la vivacità della dialettica ideologica attraverso l’analisi di giornali e organi di stampa (pp. 82 ss.). D’altronde, il curatore riesce sempre a cogliere il filo conduttore delle Memorie desanctisiane, ossia la stretta connessione tra cultura e politica, tra arte e vita, che si manifesta fin dalla piena interiorizzazione dell’insegnamento puotiano, capace di dare risalto alla carica politica e al valore nazionale insiti nello studio della lingua e della letteratura italiana. E sempre l’endiadi “cultura-vita” è ravvisabile nell’opera di riorganizzazione dell’università e dei saperi in essa coltivati, dove «la rivoluzione intellettuale, che nell’Università di Napoli
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si espresse nel duro confronto tra galluppiani, giobertiani e clericali da una parte e neo-hegeliani dall’altra […] accompagnò la rivoluzione politica» (p. 76). Sulla scia dell’integrazione tra arte e vita è concepita anche la straordinaria impresa della Storia della letteratura italiana, affidata all’editore Morano con l’intento di rilanciare l’editoria meridionale penalizzata da decenni di censura e dispotismo borbonico. La Storia letteraria di De Sanctis rispecchia il percorso intellettuale e l’ideologia dell’Autore, presentando teleologicamente l’evoluzione della letteratura italiana come coincidente con lo sviluppo della nazione. Attraverso i secoli, le opere espresse dai poeti e dagli scrittori italiani concorrono alla formazione degli ideali e dell’identità nazionale, dando qualità e sostanza al concetto di patria e al sentimento di appartenenza ad una comune entità culturale e territoriale. Brancaccio, aderendo all’interpretazione di Ruggiero Romano – che individua nel De Sanctis «il vero, grandissimo storico italiano del secolo XIX» –, sottolinea come la Storia della letteratura italiana sia un’opera di alta storiografia, che condensa in modo esemplare la storia della nazione, la storia della coscienza civile e la storia dell’evoluzione culturale e letteraria del paese, il cui punto di arrivo è rappresentato da Alessandro Manzoni (pp. 101 ss.). Manzoni, quale campione della coscienza nazionale e simbolo del pensiero liberale, è un punto di riferimento ricorrente nell’attività intellettuale e politica di De Sanctis: già presente nel Discorso ai giovani del ’48, additato alle nuove generazioni per l’insegnamento di libertà e pace trasmesso con I promessi sposi (p. 45), diventa il punto d’arrivo della Storia della letteratura italiana e ritorna ancora come “centro ideale” dell’evoluzione letteraria nazionale nelle lezioni universitarie a lui dedicate dal critico irpino dal gennaio al giugno del 1872 (pp. 105-106). Sempre nel 1872, la prolusione tenuta da De Sanctis per l’apertura dell’anno accademico, significativamente intitolata La scienza e la vita, appare il
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manifesto del suo impegno intellettuale e civile, costantemente improntato al connubio tra pensiero e azione, alla ricerca della libertà che solo la cultura – veicolata da una scuola efficiente e da un’università elaboratrice di saperi – è in grado di garantire. L’edizione delle memorie, che Giovanni Brancaccio ci offre, è curata con attenzione certosina e con autentica passione. L’ampio saggio introduttivo estende opportunamente l’indagine all’intero arco cronologico della vita dell’Autore, cioè fino al momento in cui i ricordi vengono dettati dal Maestro, quale frutto della rielaborazione di tutto il vissuto desanctisiano. Le puntuali note che corredano il testo de La Giovinezza costituiscono un documentato inquadramento storico e consentono un’immersione completa nei contesti e nelle vicende individuali e collettive richiamate dall’Autore. Se per De Sanctis, le memorie appaiono «un mezzo comodissimo di esprimere le proprie opinioni, di accusare o difendere», in cui «l’autore vi si rivela tutto, con le sue buone qualità, co’ suoi difetti», Brancaccio rintraccia, analizzando complessivamente la produzione del morrese, molteplici tracce autobiografiche che costellano le sue opere, rivelando fin dal principio una spiccata “vocazione autobiografica” (pp. 132 ss.). In particolare, emerge l’intento di fornire un’interpretazione della propria storia e della storia della nazione e, soprattutto, di sottolineare il senso etico-civile della propria partecipazione alle vicende collettive, restituite attraverso il filtro della memoria, «regina delle muse, […] grande maga trasformatrice che scorpora e idealizza la vita» (F. De Sanctis, La Nerina di G. Leopardi, «Nuova Antologia», gennaio 1877). Brancaccio individua il filone autobiografico di De Sanctis, affiorante di frequente negli scritti del critico irpino ma sommamente rappresentato – oltre che nel manoscritto pubblicato postumo – ne Il viaggio elettorale, ne L’ultimo dei puristi, nelle opere sul Settembrini e in alcuni interventi commemorativi. Pur nell’indubbio indulgere alla nostalgia per gli affetti e le esperienze dei suoi anni giovanili, l’anelito che riempie que-
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sti scritti è quello di offrire la biografia di un’intera generazione animata dal sentimento della patria e dal sogno della nazione. La rivalutazione de La Giovinezza, compiuta da Benedetto Croce e Antonio Gramsci, sulla quale Brancaccio si sofferma alla fine del suo saggio, si fonda soprattutto sul valore etico e didattico insito in quest’opera. Il taglio autobiografico consente al lettore di penetrare nella vita di De Sanctis, per coglierne la coerenza e la costante ispirazione al binomio pensiero-azione, icasticamente restituito dalla metafora delle «due pagine, una letteraria, l’altra politica», che il grande intellettuale propone come sintesi della sua esistenza (Lettera a Carlo Lozzi, 1869).
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Beatrice Stasi Memoria storica e memoria poetica: sull’edizione de La Giovinezza di Francesco De Sanctis curata da Giovanni Brancaccio Che i fili delle due memorie, qui illuminate fin dal titolo, siano destinati a intrecciarsi, sia pure in un delicato ricamo sottotraccia, è suggerito alle soglie del libro, nella discreta posizione paratestuale della dedica, da sempre spazio riservato all’affioramento di istanze private, persino in una scrittura programmaticamente impersonale come quella accademica: Alla cara memoria di mia madre Jone Manzi, che nacque novant’anni fa a Sant’Angelo de’ Lombardi, la “città” di Francesco de Sanctis, per me luogo felice della mia infanzia e della mia giovinezza.1
Come in una sorta di mise en abyme, l’ultima parola della dedica, nel sovrapporre la giovinezza del curatore del volume a quella che dà il titolo all’esercizio memoriale desanctisiano, sembra pensata per introdurre quasi furtivamente dentro l’inquadratura del libro, attraverso una sorta di gioco di specchi insieme raffinato e schivo, un autoritratto del curatore stesso, il cui 1 F. De Sanctis, La giovinezza, Introduzione e cura di Giovanni Brancaccio, Milano, Biblion edizioni, 2017, p. 7 (per tutte le citazioni successive, si indicherà solo il numero della pagina tra parentesi quadre).
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personale filo della memoria ha con ogni probabilità recitato un ruolo non del tutto secondario nel ricondurlo a una ricerca programmata per ripercorrere e illuminare i luoghi dell’esperienza infantile e giovanile di entrambi. Non solo i luoghi, ma anche i nomi sembrano accomunare, a distanza di più di un secolo, i due intellettuali, se la madre dedicataria del lavoro storico ed editoriale di Giovanni Brancaccio, Jone Manzi, condivide anche il cognome con la madre di Francesco De Sanctis, nato, nel 1817, da Maria Agnese Manzi, come ricorda, a poche pagine di distanza dalla dedica, la corposa Introduzione [p. 12]. La giovinezza sembra del resto essere destinata, fin dai suoi esordi, a catalizzare nei suoi editori un investimento non solo scientifico ma anche emotivo, se Gennaro Savarese ha potuto efficacemente definire le pagine introduttive del suo primo editore, Pasquale Villari, «un affettuoso pellegrinaggio nei luoghi della sua formazione umana e intellettuale» [p. 11]. A definire «poetica» la memoria alla base della scrittura autobiografica desanctisiana è, fin dalle prime righe del documentatissimo saggio introduttivo, lo stesso Giovanni Brancaccio, la cui sensibilità di storico è attenta a connotarla in questo modo, antitetico rispetto a quello che caratterizza programmaticamente la sua ricerca e scrittura professionale. La stessa oralità del racconto di De Sanctis, impossibilitato da una grave malattia agli occhi a fissare su carta i propri ricordi e perciò costretto ad affidarli alla strutturale volatilità del flatus vocis con cui li dettava alla nipote Agnese, contribuisce ad ambientare l’esercizio memoriale del grande storico della letteratura in un contesto privato e vagamente precario. Tanto più netto appare perciò il contrasto con la solidissima base documentaria della ricostruzione che Brancaccio propone dei contesti (interni ed esterni) della Giovinezza desanctisiana, grazie alle precise citazioni testuali di materiali editi e inediti che rendono le 146 pagine dell’Introduzione una inesauribile miniera di informazioni, mai disseminate, ma sem-
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pre organizzate in maniera funzionale al sicuro e accurato ritratto a tutto tondo del grande critico letterario e uomo politico. Politica e letteratura: come anticipa il titolo che Brancaccio ha dato alla sua Introduzione (Francesco De Sanctis: «La Giovinezza». Impegno intellettuale e lotta politica), il riconoscimento di una intima coerenza in tale vocazione, solo apparentemente sdoppiata, rappresenta il filo conduttore tenuto saldamente in mano dallo storico nel farci attraversare la complessa esperienza di questo grande protagonista della nostra storia nazionale. Anche questa scelta è peraltro motivata e giustificata da precisi rimandi testuali, come quello a una lettera del 1869 indirizzata a Carlo Lozzi, in cui De Sanctis individua nella propria vita «due pagine, una letteraria, l’altra politica», inseparabili in quanto rappresentano entrambe «due doveri che (doveva) continuare (ad osservare) sino all’ultimo» [pp. 78-79]. Spazio naturale per l’incontro di letteratura e politica è, quasi inevitabilmente, l’educazione: tanto il professore universitario alle cui lezioni assistevano «gli studenti di tutte le facoltà» insieme a «professori e comuni cittadini interessati ad ascoltare le parole del grande Maestro» [p. 106], quanto il Ministro della Pubblica Istruzione che «dedicò tutto il suo impegno all’istruzione popolare, alle scuole elementari, alle scuole preparatorie per il personale docente, alle scuole tecniche e a quelle speciali» [p. 79] identificano in un progetto formativo (praticato da docente, o ideato e programmato da ministro) la posta in gioco sulla quale scommettere tutto il proprio impegno intellettuale e politico, finendo quasi insensibilmente coll’offrire un modello comportamentale che torna a suggerire, in maniera non sempre subliminale, una possibile sovrapposizione di lucidi con l’autore da parte del prefatore, ma forse anche da parte di qualsiasi lettore impegnato, a qualsivoglia livello, in ruoli didattici. Basti pensare allo spazio che Brancaccio dedica al discorso inaugurale per l’anno accademico 1872-73, La scienza e la vita, e in particolare al passo, citato testualmente, che condan-
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na una concezione riduttiva delle università «divenute fabbriche di avvocati, di medici e d’architetti», in nome dell’imperativo categorico a «riassumere il ruolo trainante della “restaurazione nazionale”» e a tornare a essere «“il gran vivaio delle nuove generazioni” i centri di irradiazione insomma dello spirito nuovo» [p. 108], con parole e toni che non possono non indurre nella tentazione di una lettura attualizzante. Oltre ai luoghi e ai nomi, sarebbe dunque forse possibile identificare anche questo più profondo trait-d’union tra i due intellettuali, nell’ideale continuità di un impegno civile e scientifico che pure può aver alimentato il diverso esercizio memoriale di entrambi, tra pubblico e privato, rievocazione narrativa e ricostruzione documentaria. Non a caso la riflessione desanctisiana sulla memoria occupa più di una pagina dell’Introduzione firmata da Brancaccio, che oltre a citare meritoriamente saggi metodologicamente fondamentali sulla scrittura autobiografica, da Lejeune a Battistini a Starobinski, per fare solo alcuni nomi, accosta citazioni da De Sanctis provenienti da testi e contesti diversi, e perciò in grado di precisare e problematizzare la concezione maturata dal critico ottocentesco. Esemplare in questo senso la definizione che De Sanctis propone per la memoria leopardiana come «regina delle muse […] grande maga trasformatrice che scorpora e idealizza la vita» [p. 134], dove l’accento batte non tanto sull’affidabile veridicità di una fedele riproduzione del passato, quanto sulla seducente affabulazione di una parola che quel passato trasfigura e mitizza (e, dunque, implicitamente, tradisce e falsifica). Che poi la scrittura memoriale, nel saggio su Giuseppe Montanelli, venga definita «una forma letteraria, un mezzo comodissimo di esprimere le proprie opinioni, di accusare o difendere» [p. 132] da un lato ne ribadisce il carattere artistico e l’appartenenza al campo della letteratura e non della storia o del-
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la filosofia,2 dall’altro sottolinea come proprio questa sua peculiarità permetta a tale genere di scrittura di esprimere nel migliore dei modi la personalità del suo autore, che così «vi si rivela tutto, con le sue buone qualità, co’ suoi difetti» [p. 132] e, dunque, di servirsi paradossalmente della propria stessa parzialità per offrire una immagine affidabile del suo autore. L’insistenza, in quelle pagine, del critico De Sanctis sulla prevalenza dell’istanza peculiarmente letteraria della fascinazione narrativa, rispetto a quelle politiche o filosofiche che pure possono avere motivato e orientato la scelta di scrivere del memorialista Giuseppe Montanelli («Forse il Montanelli le ha scritte con questa intenzione; ma entrato in materia si è sentito artista, e 1’amore del racconto è prevalso su tutti gli altri fini secondari»3) può del resto offrire una prospettiva utile per inquadrare anche la scrittura memorialistica dello stesso critico, tornando per un altro percorso a mettere a fuoco il ruolo della memoria poetica nella sua stessa esperienza. La prospettiva gerarchica che dichiara la secondarietà di «tutti gli altri fini» rispetto allo spontaneo (per non dire inevitabile) prevalere di un «amore del racconto» ricorda il primato di una vocazione narrativa alimentata da una memoria connotata in maniera vieppiù sentimentale col passare 2 Esplicito in questo senso il passo desanctisiano che precede la frase citata da Brancaccio nella sua Introduzione: «La parte storica vi è magra e incompiuta; le discussioni politiche o filosofiche non hanno niente di terminativo; vi manca quella originalità e quella profondità, che può solo far durabile impressione sulle generazioni. Tutto questo è vero; ma tutto questo non costituisce la sostanza del libro. Che cosa è dunque? È 1’Italia del ’48, le nostre illusioni, le nostre discordie, le nostre passioni, come si riflettono a mano a mano nel Montanelli. Hai innanzi non una storia, non un libro filosofico o politico: hai innanzi delle Memorie» (F. De Sanctis, Memorie di Giuseppe Montanelli, in Id., Saggi critici, Napoli, Morano, 1869, p. 150). 3 Ibidem.
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degli anni, come nella premessa agli scritti pubblicati postumi di Diomede Marvasi, del 1876: «Oramai sono in un tempo della vita, che le cose mi errano intorno come fantasmi, e i più belli e i più cari sono i fantasmi della mia giovinezza così vivi e tenaci, e non so staccarmi da loro».4 Come non sembra volersi staccare da quello materno, evocato con icastica precisione di forme e colori, quasi a negare il trauma di una irrimediabile separazione: «Io guardavo, guardavo, come volessi mettermela bene in mente. Ah! povera mamma, come le volevo bene! E ora m’intenerisco che l’ho innanzi a me, quella persona alta, asciutta e spigliata, con quella faccia bruna e le folte sopracciglia e gli occhi neri e dolci» [p. 239]. Tanto più patetica risulta l’infestante invadenza di questi fantasmi quanto più sottile si insinua il dubbio sull’utilità stessa delle memorie, una volta ammessa la loro incapacità di restituire a quei fantasmi la vita, come accade proprio nelle pagine di questa Giovinezza: «A che giovano le memorie? Di noi muore la miglior parte, e non ci è memoria che possa risuscitarla» [p. 308]. Tra i tanti altri spunti offerti dalle pagine di questo libro a chi voglia provare a definire la concezione desanctisiana della rievocazione memoriale, particolarmente interessante nella prospettiva adottata può apparire il modo in cui viene raccontata la nascita, per così dire in presa diretta, del racconto alla famiglia di una sua sventata e sventurata avventura giovanile: … corsi difilato allo zio Carlo e piangevo. Me ne disse delle belle. Non cercai difendermi, e stanco morto me ne andai a letto. La mattina mi levai fresco come una pasqua, e raccontai il fatto ai cugini e a zio Pietro, con certi miei ricami e abbellimenti. La poca pratica della vita, e la lettura dei romanzi mi avvezzavano a queste bugie dell’immaginazione. [p. 217]
4 F. De Sanctis, Diomede Marvasi, in Id., Nuovi saggi critici, Napoli, Morano, 1879, p. 449.
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Il riconoscimento della naturale e dunque tendenzialmente ineliminabile interferenza dell’immaginazione con le sue «bugie» nell’esposizione anche orale del resoconto memoriale, insieme all’accento posto sull’azione modellante di una «lettura di romanzi» chiamata quasi a supplire alla «poca pratica della vita», torna in qualche modo ad ambientare questa giovanile esperienza narrativa in un orizzonte eminentemente letterario, che da un lato sembra escludere una riproduzione fedelmente referenziale dei fatti, a causa dell’applicazione di «ricami e abbellimenti», ma dall’altro offre una viva messa a fuoco del personaggio che, proprio grazie a quel racconto infedele, ha saputo e potuto metabolizzare quell’avventura. Che poi quel personaggio rappresenti un punto di riferimento fondamentale per la nostra storia e coscienza nazionale rende tanto più interessante la lettura (o eventuale rilettura) di questa Giovinezza. È questo infatti il testo che ha delineato e consegnato a generazioni di lettori il profilo di Francesco De Sanctis, destinato a essere riconosciuto come maestro da generazioni di lettori, anche successive a quella del primo editore, il già ricordato Pasquale Villari, ancora a lui legato da un rapporto personale storico. Proprio questo ruolo assunto dalle memorie desanctisiane nella nostra storia letteraria nazionale può forse spiegare la scelta di Giovanni Brancaccio di esemplare l’edizione da lui curata su quella curata negli anni Trenta da Nino Cortese per la casa editrice Morano, rinunciando così all’oggettivo progresso filologico rappresentato dall’edizione critica curata da Gennaro Savarese già nel 1961, fondata per i primi dieci capitoli su un frammento del manoscritto di Agnese da lui ritrovato. Poiché l’edizione Cortese si rifaceva alla prima edizione curata da Villari nel 1889, il lettore può così leggere il testo nella versione storicamente più diffusa, caratterizzata da pur moderati interventi normalizzatori, suggeriti da un giudizio complessivamente riduttivo sul testo desanctisiano, al quale venivano
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rimproverati caratteristiche linguistiche o strutturali come «parole e frasi, che ricordano i dialetti del mezzogiorno» e «la trascuratezza di una forma spesso negletta o abbandonata»,5 ma anche lo scarso rispetto dell’ordine cronologico e l’indugio su fatti personali. Se non è questa la sede per un’analisi dettagliata delle varianti tra le diverse edizioni, un minimo sondaggio consente però di osservare come la prima di carattere lessicale che si presenta già nel secondo paragrafo del primo capitolo ha l’effetto di rendere più impreciso e meno pertinente il dettato desanctisiano, cassando il meridionalismo «sottano» e così permettendo ai «molti fanciulli» che si univano ai giochi dei bambini di casa De Sanctis di occupare con la loro rumorosa allegria la casa tout court: Si stava allegri e si faceva il chiasso, correndo per 1’orto, e 1’inverno riempiendo di allegria la casa [p. 150]6. Si stava allegri, e si faceva il chiasso, correndo per l’orto, e l’inverno riempiendo di allegria i sottani di casa.7
Ben più evidente la lacuna che esclude dalle edizioni di Villari e Cortese (e dunque anche da quella curata da Brancaccio) l’episodio della nonna che chiede al re la grazia per i figli esuli a Roma: episodio talmente interessante da essere comunque citato 5 P. Villari, Prefazione, in F. De Sanctis, La giovinezza. Frammento autobiografico pubblicato da P. Villari, Napoli, Morano, 1889, pp. X-XII. 6 Identico il testo a p. 1 della prima edizione curata da Villari, mentre nell’edizione curata da Cortese (indicata come testo di riferimento da Brancaccio) non compare la virgola dopo «chiasso». 7 F. De Sanctis, La giovinezza. Memorie postume seguite da testimonianze biografiche di amici e discepoli, a cura di G. Savarese, in Id., Opere, a cura di C. Muscetta, Torino, Einaudi, 1961, p. 4.
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nell’introduzione dello stesso Brancaccio [p. 136], nonostante la sua assenza nel testo pubblicato.8 Se dunque anche in questo caso il denso saggio introduttivo offre al lettore uno sfondo indispensabile per il racconto memoriale desanctisiano, anche le puntuali e molto spesso corpose note di commento al testo inseguono fatti, luoghi, persone e documenti citati con una messa a fuoco esemplare per nitidezza e precisione informativa, tanto da correre il rischio di peccare, semmai, per qualche ridondanza.9 La memoria storica del curatore conferma così la sua efficacia nel riprendere e tenere stretto il filo della memoria poetica dell’autore, conferendo corpo e solidità a nomi, ricordi e cenni fino a riempire e colorare il popolato e vivace affresco di una intera epoca.
8 Meno comprensibile da un punto di vista filologico la scomparsa nell’edizione Brancaccio dell’ultimo paragrafo del capitolo XIX, che racconta la storia di una breve infatuazione rusticana durante il soggiorno sorrentino del giovane De Sanctis: se la nota che segnala correttamente la lacuna attribuisce all’edizione Savarese la sua pubblicazione, in realtà il passo in questione è presente tanto nell’edizione curata da Villari (pp. 184-185), quanto in quella curata da Cortese (pp. 128-129). Anche in questo caso alla lacuna del testo rimedia l’introduzione, che cita l’episodio [p. 137]. 9 Sia concesso segnalare, in maniera un po’ pignola, la presenza di ben due note biografiche dedicate ad Antonio Ranieri (rispettivamente a p. 226 e a p. 380).
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Salvatore Barbagallo La Giovinezza di De Sanctis riletta da Giovanni Brancaccio La vita di Francesco De Sanctis è una chiara dimostrazione dello stretto intreccio che lega la dimensione artistica alla realtà e, quindi, alla storia. È l’impegno letterario che diventa storia. Le stesse pagine introduttive di Pasquale Villari alla prima edizione de La giovinezza arricchiscono quel profilo della capitale del Regno che, verso gli “anni Trenta e Quaranta” del XIX secolo, esprimeva un contesto sociale e culturale oppressivo, conformista e avaro di innovazioni. L’impegno di De Sanctis valse a imprimere un cambiamento e una discontinuità rispetto a quell’ambiente privo di stimoli e tensioni; infatti, dopo aver maturato il proprio insegnamento presso lo “Studio” del Marchese Basilio Puoti, riuscì “a generare un profondo rinnovamento morale e intellettuale, i cui notevoli effetti duraturi si erano propagati non solo nel Regno meridionale ma in tutta la Penisola, prolungandosi anche nella vita unitaria” [p. 11]. De Sanctis nasce a Morra Irpina il 28 marzo 1817. Nel 1826, a soli 9 anni giunge a Napoli per attendere agli studi presso la scuola privata dello zio sacerdote, don Carlo Maria De Sanctis. In questo periodo la capitale del Regno napoletano è avvolta da una cappa oppressiva perpetrata da un regime che nell’anno precedente aveva assistito alla scomparsa di Ferdinando I. L’ascesa al trono di Francesco I non aveva prodotto sostanziali modifi-
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che, né atti di indulgenza, acuendo quel sostanziale distacco che si era prodotto in seguito alla rivoluzione del 1820-21. Vennero adottate misure restrittive verso le attività degli aderenti al partito liberale e furono avviati atti di limitata tolleranza nei confronti degli esiliati moderati. Una politica con una forte impronta conservatrice e paternalista tesa a garantire lo status quo dovette fronteggiare l’insofferenza che serpeggiava nella popolazione per una tassazione insopportabile. Per mantenere le guarnigioni austriache nel Regno, infatti, vennero elevate delle trattenute pari al 10% sulle retribuzioni dei dipendenti pubblici e privati, fissati dei tributi sui prodotti coloniali e sul pesce, e finanche imposta una tassa sul macinato. Tali provvedimenti aggravarono le condizioni di miseria in cui versavano i ceti contadini e produssero un peggioramento degli Stati discussi dei comuni. Sul piano internazionale, l’insurrezione decabrista in Russia, i movimenti indipendentisti greci e la pressione dei movimenti liberali francesi indussero la monarchia borbonica ad avviare una politica repressiva tesa a favorire la “pratica dell’arresto senza mandato del magistrato e senza indicazione del reato” e, inoltre, a favorire la prassi di continuare a tenere in prigione coloro che avevano “già scontato la pena” per il solo fatto di essere ritenuti soggetti pericolosi, e finanche ad osservare attentamente gli accusati che venivano assolti. Intanto l’azione tirannica del governo borbonico aveva provveduto a istituire nelle province le “Commissioni militari” a Napoli e i “Tribunali speciali” a Palermo. Mentre gli ecclesiastici liberali vennero tempestivamente rimossi, anche l’esercito, attraverso un’attenta selezione, venne sottoposto a un rigido controllo [p. 13]. Tale politica repressiva ebbe dei riflessi anche nel paese di nascita di De Sanctis dove in seguito ai moti cilentani del 28 luglio 1828 vennero condannati a morte il canonico De Luca e la banda di briganti dei fratelli Capozzoli. Le azioni del governo apparivano sconcertanti: da un lato approfondivano quel solco tra la corte e il popolo generando
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un diffuso malcontento tra i cittadini; dall’altro, la morte di Luigi de’ Medici poteva compromettere la politica di assestamento del bilancio dello Stato da poco risanato. Nell’ambito culturale, anche se l’insegnamento praticato dagli ordini religiosi in generale rafforzava un blocco sociale conservatore che segnava un progressivo distacco dai movimenti patriottici ispirati da un programma di emancipazione civile, le cui radici provenivano dagli insegnamenti della cultura illuminista, al tempo stesso cominciavano a serpeggiare proprio a Napoli sentimenti e tendenze di ispirazione romantica. Fu la successione al trono del giovane re Ferdinando II ad alimentare la speranza che nel Regno si potesse avviare un progetto di rigenerazione morale, culturale ed economica. Il sovrano avviò alcuni interessanti provvedimenti volti ad arginare il malcostume, a promuovere una diversa organizzazione del sistema giudiziario, il cui funzionamento doveva essere improntato all’equità, alla morigeratezza e all’onestà, a sostenere una riforma del sistema tributario che non gravasse esclusivamente sui ceti meno protetti. La stessa Corte mitigò le pretese per il suo sostentamento mentre i siti reali predisposti per le cacce dei sovrani vennero riconvertiti in favore di un impiego più vantaggioso sotto il profilo economico. Al tempo stesso si procedette all’abolizione di tutti i privilegi in denaro concessi dagli antenati del re ai vari cortigiani. Anche le spese ministeriali, militari e relative agli stipendi degli impiegati comunali vennero contenute. Tutti questi provvedimenti improntati al rigore economico certamente determinarono la moderazione del prelievo relativo alla tassa sul macinato e a conseguire il raggiungimento dell’obiettivo del pareggio di bilancio, ma fecero anche ricadere tutta la pressione fiscale sulla borghesia provinciale, sul basso clero e su quel vasto e composito ceto degli impiegati che faceva funzionare la macchina amministrativa periferica. Proprio la riduzione degli stipendi di questi ultimi favorì il radicamento di alcune inclinazioni clientelari nelle file della burocrazia impie-
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gatizia. E se all’inizio del Regno il dinamismo di Ferdinando II fece registrare “un breve risveglio economico” [p. 18] in ambiti territoriali ristretti, ben presto fu subito chiaro che i principali problemi legati alla questione sociale e all’infrastrutturazione per modernizzare l’intero territorio rimanevano irrisolti. Fu così che all’inizio del 1830 l’ottimismo che aveva animato l’intero paese andò affievolendosi e fu subito evidente che il sovrano non avrebbe mai promosso una riforma ancora più incisiva. Proprio “nel corso dei primi anni del regno di Ferdinando II, nel clima di relativa maggiore libertà culturale, al quale avrebbe fatto riferimento lo stesso De Sanctis qualche tempo dopo, la nascente letteratura romantica napoletana si avvicinò a quella piemontese-lombarda” [p. 20]. Intanto maturava tra gli intellettuali napoletani una particolare sensibilità verso la lettura delle vicende storiche per dare un senso ai concetti di patria e di nazione napoletana; e attraverso quella riflessione veniva elaborata anche una coscienza sulla collocazione del Regno nel futuro. Attraverso la rivista Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti fondata da Giuseppe Ricciardi, che rappresentava le esigenze progressiste della borghesia liberal-moderata meridionale con gli importanti contributi dei fratelli Michele e Saverio Baldacchini, Luigi Blanch, Matteo De Augustinis, Luca de Samuele Cagnazzi, prendeva forma una lettura appassionata del passato. In quegli stessi anni si affermava in quelle riflessioni la categoria dell’antispagnolismo, ovvero l’oppressione praticata tra il XVI e il XVII secolo dagli Spagnoli sulle popolazioni napoletane, quasi a prefigurare nel presente un’eventualità legata all’affermazione dei principi di libertà e nazione, una sorta di redenzione rispetto ai mali del passato ma anche una feroce critica verso l’assolutismo monarchico perpetrato nel XVIII secolo dai sovrani delle due Sicilie. In tale atmosfera fiorivano anche i luoghi d’incontro e di discussione tra gli intellettuali. I salotti a Napoli contribuivano a vivacizzare il
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dibattito e gli interessi culturali che animavano la vita cittadina. Tra questi si distinguevano quello di Carlo Troya dove convergevano i moderati del neoguelfismo attenti ai temi della storia e all’uso di una narrazione fondata sui documenti, mentre nell’abitazione di Giuseppe Di Cesare si riunivano intellettuali con una connotazione più ghibellina, come i fratelli Alessandro e Carlo Poerio e Luigi Blanch. A questi incontri si aggiungevano le riunioni “sabatine” della poetessa Giuseppina Guacci e del marito, l’astronomo Antonio Nobile. Un ulteriore elemento che rendeva più effervescente l’humus intellettuale cittadino fu offerto dagli studi professionali, in particolare quelli di Giuseppe Poerio e di Pasquale Stanislao Mancini, ispirati ai principi del liberalismo e che a Napoli forgiarono gran parte dell’intellettualità di ispirazione liberale. A rafforzare e a rendere più sistematiche queste impostazioni storiografiche concorse nel 1834 la pubblicazione della Storia del Reame di Napoli scritta da Pietro Colletta. In quest’opera l’autore riprendeva quelle linee interpretative relative alla corruzione del governo spagnolo e, soprattutto, all’oppressione fiscale perseguita dagli Spagnoli finendo con lo stabilire una linea di continuità tra la politica degli Asburgo e quella del governo borbonico. I nuovi equilibri politici maturati con la concessione della Costituzione vennero turbati dai movimenti contadini che interessavano le province del Mezzogiorno continentale. La questione sociale e le rivendicazioni contadine intimorirono proprio i settori più avanzati della piccola e media borghesia. Tuttavia questo non servì a sopire le tensioni che si addensavano tra il re e quei settori del liberalismo democratico. Così, il 15 maggio del 1848, nel corso delle negoziazioni parlamentari il sovrano fece imprigionare i deputati Capitelli e Imbriani, la popolazione insorse. Il Risorgimento italiano letto attraverso l’esperienza di Francesco De Sanctis assume, nella rigorosa ricostruzione di Brancaccio, il carattere di un insieme di forze che rifuggono da forme
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retoriche, enfatiche e ampollose. Brancaccio, anzi, propone una narrazione che riflette una rappresentazione dal carattere “statuario” dotato di forza virile e di grande plasticità nel delineare la componente passionale che mosse quella generazione di patrioti. È evidente che l’obiettivo del prefatore è quello di stabilire un nesso inscindibile tra l’analisi storica e il romanzo storico e, per questo motivo, nel volume la prefazione per l’incisività e la compiutezza di intenti pare avere una sua autonomia tanto da far insorgere il dubbio nel lettore che in realtà l’autore del libro sia in effetti Giovanni Brancaccio e che il romanzo di Francesco De Sanctis serva a rimarcare questo rapporto profondo che lega la storia, appunto, alla letteratura. Ma potrebbe sorgere un interrogativo: perché l’autore (Brancaccio), per dare un’immagine di quei tempi e quindi affrescare il Risorgimento, utilizza questo cenno biografico del De Sanctis e non altre opere? L’obiettivo dell’autore è quello di far comprendere la natura e le ragioni che hanno animato e forgiato la componente del democraticismo risorgimentale, per cui sarebbe stato inutile ricorrere ad altre, sia pur pregevoli, opere della letteratura risorgimentale e ancor più alla memorialistica. Difatti, la risposta al quesito qui posto emerge nella pagina in cui Brancaccio scrive che: È stato detto che La giovinezza è il frutto di un’autobiografia mentale, diversa dalla memorialistica di un D’Azeglio, di un Montanelli e di un Settembrini, perché è dettata da quella “curiosità retrospettiva, che ci può condurre alla ricostruzione storica della nostra mente artistica o poetica o scientifica”, estranea ai memorialisti succitati. Ma La giovinezza è diversa anche da Les Confessions, perché mentre il De Sanctis si racconta, il Rousseau si analizza. Il De Sanctis si legge nell’anima quasi ad alta voce; il Rousseau, invece, vuole capire e far capire ai suoi lettori l’evolversi della sua vita interiore [p. 138].
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Da questo inciso possiamo comprendere l’ingegnosità e la costruzione dell’operazione che regge lo studio: esso vuol rappresentare quel tormento interiore che ha attraversato una generazione che anelava a veder riunita la propria patria e, al tempo stesso, desiderava che fosse governata da istituzioni preposte al bene pubblico. E mentre questi patrioti vedranno realizzata la prima aspirazione, essi comprenderanno, con qualche velata disillusione, che altre sofferenze e altri tormenti avrebbero dovuto intraprendere per vedere affermato il loro secondo desiderio. Ed è per questo motivo che, attraverso gli echi della prefazione, il lettore è indotto a credere di immergersi nei mille lacci e laccioli che legano e ingessano l’Italia ancora nei giorni nostri. Secondo Brancaccio le esperienze relative alla cospirazione giacobina del 1794, alla Repubblica napoletana del 1799 e ai moti carbonari del 1820, nel Discorso ai giovani di De Sanctis “dovevano essere di lezione per il presente”. Proponendo questo approccio che riattualizza il passato mi rendo conto di correre il rischio di decontestualizzare la valenza di quelle considerazioni e problematiche, ma è pur vero che il ripetersi di quelle questioni irrisolte evidenzia dei vizi o dei peccati originali che pesano ancora nel presente, anche se non possiamo sottacere le opportune peculiarità del mutato contesto storico in cui esse di volta in volta si manifestano. Seguendo questo indirizzo suscitano un prorompente interesse quelle pagine legate ai problemi relativi alla conservazione del fragile quadro politico democratico, alla condizione di sofferenza delle finanze, all’esorbitanza del peso fiscale, alla libertà di stampa, all’aumento delle disparità tra le componenti sociali. Tante sono le sollecitazioni e le suggestioni che questo libro ci procura, ma su un punto vorrei soffermarmi, ovvero sulla funzione civica della cultura e sul ruolo dell’intellettuale attraverso il suo impegno politico: un tema che non è affrontato attraverso un’analisi teorica ma viene ripreso più volte e si scorge in trasparenza come tema centrale del
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lavoro di Brancaccio. E d’altronde la vita stessa di Francesco De Sanctis è una testimonianza di come fosse intimamente connesso l’aspetto culturale con quello politico e sociale. Lo stesso critico irpino scrive che da Professore del Collegio militare, discutendo col cappellano su “cosa ci era da fare per raddrizzare gli studi”, il sacerdote dopo averlo ascoltato gli si rivolse dicendogli: “senti, senti: poi tutt’a un tratto [gli] prese [la] mano e disse: senti un consiglio d’amico, non te ne incaricare: il Re dice: più asini sono loro e più dotto sono io. Due anni dopo lo spiritoso cappellano fu nominato vescovo”.1 Lo stretto rapporto tra la conoscenza e la vita rappresentò un principio a cui De Sanctis rimase fedele anche durante i tragici eventi del 1848 nel corso dei quali dovette assistere alla morte di Luigi La Vista, suo allievo prediletto, e che lo indusse a scrivere in un discorso tenuto a Trani, prima di morire, un vibrante ricordo: Io dicevo che la scuola dev’essere la vita; e quando venne il giorno della prova, e la patria mi chiamò, maestro e discepoli dicemmo: Ma che? La nostra scuola è per avventura un’accademia? Siamo noi un’Arcadia? No; la scuola è la vita. E maestro e discepoli entrammo nella vita politica, che conduceva all’esilio, alla prigione, al patibolo; e i miei discepoli affermarono questa grande verità che la scuola è la vita, chi con la morte, chi con la prigione, chi col confino, chi con l’esilio; ed io seguii le sorti dei miei discepoli, gioioso di patire con loro!2
L’intellettuale, dunque, non può astrarsi dalla realtà, la sua ricerca non può essere svolta nell’ambito di un asettico mondo 1 F. De Sanctis, L’ultimo de’ Puristi, in Saggi critici, seconda edizione riveduta dall’autore ed aumentata di nuovi lavori, Napoli, Antonio Morano Libraio Editore, 1869, pp. 511-512. 2 In Scritti varii inediti o rari di Francesco De Sanctis, Volume 2, Napoli, A. Morano, 1898, pp. 202-203.
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della cultura, ma essa stessa deve essere generatrice di un impegno civile. E in questo senso mi sembra di individuare nella ricerca di Brancaccio un assunto che si legge in controluce: ovvero che l’impegno di De Sanctits era essenzialmente una lotta contro il conformismo di una paludata cultura accademica e che i suoi studi erano proiettati a stabilire una nuova egemonia culturale. La rigenerazione politica doveva procedere attraverso un lungo cammino e doveva riappropriarsi di una nuova coscienza culturale prima di raggiungere la meta dell’indipendenza e dei valori democratici. In questa direzione vanno interpretati i richiami alla mancanza di “una forza morale” da parte degli italiani, ma anche la maestosa invocazione che il critico irpino indirizzò perché si compisse una ribellione: La ribellione – egli scrive – non era altro che il naturale progresso della coltura e del sapere che sopravvanza il maestro e gli arma contro i discepoli. Grandi e libere scuole sono quelle nel cui seno germoglia la ribellione, cioè a dire il progresso, come grandi e libere società sono quelle in cui niente stagni e tutto si mova naturalmente.3
È, dunque, evidente che attraverso il dipanarsi della vita di De Sanctis, l’autore ha in realtà ricostruito una sorta di “microfisica” del potere così come si andò configurando a cavallo dei due secoli, nella seconda metà del XIX e l’inizio del XX secolo. Attraverso gli accenni relativi alla risoluzione dei problemi finanziari, alla corruzione, al difficile impegno di far emergere una classe politica di uomini, alla sofferenza dei ceti contadini, a una pressione fiscale fondata sull’iniquità, ai problemi legati alla legge elettorale, l’autore traccia una ricostruzione suggestiva e avvincente di quelle questioni per lasciarci intendere che i valori di una società fondata sui principi democratici risentono delle 3
F. De Sanctis, L’ultimo de’ Puristi, in Saggi critici cit., p. 530.
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contingenze di una società, che assume sempre più le sembianze di un corpo che respira, espandendo quei principi e quei valori nella fase di inspirazione e respingendoli nella fase di espirazione. Certamente la sensibilità politica del De Sanctis, per quanto fosse rivolta alla comprensione del malessere che coinvolgeva gli strati meno abbienti e alle conseguenti divaricazioni che si determinavano, come sottolinea Brancaccio, muoveva pur sempre da un orizzonte culturale risorgimentale e moderato per cui non riuscì a comprendere le dinamiche che nelle nascenti società industriali portavano al conflitto tra le diverse classi sociali. Quando l’illustre letterato dovette far riferimento “alla nazione egli preferì sempre definirla con il termine generico di “popolo”, attribuendo a esso un forte significato romantico-risorgimentale” [p. 99]. All’interno di questa magistrale ricostruzione di Brancaccio emergono le peculiarità della borghesia italiana dedita al conformismo e incapace di dar corso a un modello sociale confacente ai propri ideali e perennemente al servizio dei poteri che si sono succeduti.
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Luigi Alonzi Francesco De Sanctis e la sua giovinezza Negli ultimi anni della sua operosa vita, Francesco De Sanctis, ormai stanco della vita politica e parlamentare, impedito anche da problemi di vista, spostò sempre più l’asse del nesso (per lui inscindibile) politica-cultura, verso il polo della cultura, dettando alla nipote Agnese le memorie della sua giovinezza, ovvero degli anni vissuti principalmente a Napoli fra il 1826 ed il 1844. Il testo manoscritto fu consegnato dalla moglie Marietta Testa nelle mani di Pasquale Villari, mostratosi restìo alla sua pubblicazione, la quale in effetti non ebbe inizialmente un significativo successo, fino a quando Benedetto Croce la impose all’attenzione dei lettori, per il suo interesse come spaccato della vita culturale napoletana ottocentesca e come testimonianza degli anni della formazione del celebre critico irpino. Il testo in questione ebbe poi numerose e diverse edizioni, fino all’ultima di Giovanni Brancaccio, che la offre di nuovo al pubblico dei lettori con un’ampia ed esauriente introduzione (praticamente una monografia), accompagnata da un’accurata edizione critica. Francesco De Sanctis era nato a Morra Irpina il 28 marzo del 1817, ed in questo paese campano collocato nel triangolo Avellino-Salerno-Potenza, trascorse i primi anni della sua infanzia, circondato dall’affetto dei parenti, della nonna e della sorella Genoviefa (morta prematuramente), le cui figure sono caldamente
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rievocate nelle prime pagine del libro; a nove anni Francesco, insieme al cugino Giovannino, venne condotto a Napoli dalla nonna, Gaetana Gargani, presso lo zio Carlo, un abate che abitava nel quartiere popolare della Pignasecca, in via Formale 29, ove aveva aperto una delle tante scuole private di quegli anni, dando luogo ad un insegnamento più aperto rispetto allo scolasticismo imperante nei seminari e nelle scuole pubbliche. Uno dei motivi di maggiore interesse del libro è dato proprio dalla vivace ricostruzione della vita culturale meridionale e napoletana della prima metà dell’Ottocento, attraverso una serie di riferimenti che permettono da un lato di cogliere la tipicità di un percorso di formazione che legava inestricabilmente le province alla Capitale e, dall’altra, di misurare, con la precisione di un termometro molto sensibile, la qualità spesso difficile e rarefatta dei rapporti fra Napoli ed il resto d’Europa. Dopo aver completato gli studi presso lo zio Carlo, il giovane Francesco venne introdotto nella scuola privata dell’abate Lorenzo Fazzini, ove per un biennio seguì, insieme alla letteratura, gli studi di filosofia, fisica e matematica, e quindi nello ‘Studio’ del marchese Basilio Puoti, ovvero in uno dei cenacoli culturali allora più attivi a Napoli, frequentato dai fratelli Poerio e Baldacchini, dalla poetessa Giuseppina Guacci, moglie dell’astronomo Antonio Nobile, e da Paolo Emilio Imbriani, ove De Sanctis ebbe modo di conoscere Giacomo Leopardi. Suggestive ed indicative sono le letture condotte in questi anni da Francesco De Sanctis, che si nutriva sistematicamente delle opere di Locke, Condillac, Cartesio, Spinoza, Helvétius, La Mettrie, Bonnet, Leibniz, nonché di David Hume, Adam Smith e Immanuel Kant attraverso i volgarizzamenti di Pasquale Galluppi e dell’abate Ottavio Colecchi; su questo substrato culturale s’innestò poi la lettura di Vico e la nuova ventata dell’idealismo tedesco. Quali fossero i valori che circolavano nella Scuola di lingua italiana del marchese Puoti è detto con efficacia di giudi-
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zio in un articolo dello stesso De Sanctis dedicato all’“ultimo dei puristi”, ovvero la “libertà, della scienza, del progresso, dell’emancipazione, della lotta contro il seminario, (e come maturassero al suo interno) aspirazioni indistinte a nuove idee, a nuova civiltà”. Scienza, progresso, civiltà, libertà, sono le direttrici lungo le quali si svolse la giovane vita del critico irpino. Negli anni fra il 1839 ed il 1848, corrispondenti a quelli della cosiddetta “prima scuola napoletana”, Francesco De Sanctis iniziò a svolgere il suo magistero culturale, rafforzando sempre di più il nesso fra cultura e politica, fra scienza e vita, cementati dalle discussioni con i suoi amici e scolari Pasquale Villari, Silvio e Bertrando Spaventa, Luigi Settembrini, i Poerio, e soprattutto Luigi La Vista, Angelo Camillo De Meis e Diomede Marvasi. In quegli anni poi erano rientrate a Napoli dall’esilio figure come Carlo Troya, Giuseppe Poerio e Francesco Paolo Bozzelli, che recavano il contributo delle esperienze dirette vissute all’estero; d’altra parte, il De Sanctis proveniva da una famiglia con uno spiccato orientamento politico, una famiglia di esuli che aveva già conosciuto le conseguenze delle rigide restrizioni politiche e culturali del governo borbonico. Sono note le vicende della successiva biografia politica ed intellettuale di Francesco De Sanctis, dall’esilio a Torino e a Zurigo dopo il 1848, al suo ruolo come ministro dell’Istruzione, chiamato dal conte Camillo Benso di Cavour nel 1861 e poi da Benedetto Cairoli nel 1878; così come noto è il grande valore storico e storiografico della sua Storia della letteratura italiana, destinata a formare e rafforzare la coscienza politica e culturale degli italiani, al di là dei campanilismi e dei regionalismi che ancora ne tormentavano lo sviluppo civile. In questo quadro, gli anni della formazione di Francesco De Sanctis, restituiti con chiara narrazione e con dovizia di particolari, possono essere considerati esemplari del percorso di sacrifici e di adamantina onestà intellettuale che molti italiani del XIX secolo condussero dalle
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province alla Capitale, all’Italia, all’Europa, senza i quali difficilmente l’Italia si sarebbe potuta fare e, soprattutto, senza i quali difficilmente l’Italia sarebbe potuta essere quella che è stata.
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Marco D’Urbano Il giovane De Sanctis dal Risorgimento anti-borbonico all’Italia unita Nel 1881 Francesco De Sanctis, dopo che era stato colpito da una grave malattia agli occhi, iniziò a dettare alla nipote Agnese le Memorie riguardanti la sua età giovanile. L’opera, rimasta incompleta a causa della morte sopraggiunta nel 1883, venne pubblicata postuma nel 1889 con il titolo La Giovinezza di F. De Sanctis: frammento autobiografico. Decisivo era stato l’intervento di un allievo del De Sanctis, Pasquale Villari, curatore del volume dato alle stampe dalla casa editrice Morano. Si trattava del risultato di un progetto su cui lo storico napoletano aveva iniziato a lavorare insieme con Antonio Morano, sin dai primi mesi dopo la morte di De Sanctis, cercando di recuperare il manoscritto delle Memorie, le lezioni di grammatica già raccolte dai suoi allievi e gli scritti su Leopardi. Villari nelle sue pagine introduttive intendeva ricordare e rendere omaggio alla scuola di vico Bisi dove egli, insieme con altri allievi, aveva studiato ed assorbito gli insegnamenti del maestro. Questa nuova edizione de La giovinezza, a cura di Giovanni Brancaccio, riproposta sulla base dell’edizione curata da Nino Cortese (Napoli, Morano, 1930), viene pubblicata nella collana di testi e studi storici Adriatica Moderna, diretta dallo stesso Brancaccio insieme con Antonio Lerra e Luigi Mascilli Migliorini.
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Nel suo vasto ed approfondito saggio introduttivo, il curatore ricostruisce in maniera articolata e puntuale la formazione culturale, letteraria e politica di De Sanctis. Napoli, luogo della formazione giovanile del critico irpino, negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo, si caratterizzava per il fatto che molte famiglie preferivano affidare ai privati l’insegnamento dei loro giovani, piuttosto che far loro frequentare le scuole governative, ritenute troppo conservatrici sul piano culturale. Dopo l’apprendistato nello “Studio del marchese Puoti”, De Sanctis subentrò alla zio Carlo, che all’epoca dirigeva una “scuola”; in essa riuscì a promuovere “uno svecchiamento negli studi, a generare un profondo rinnovamento morale ed intellettuale” (p. 11), di cui si vedranno gli effetti per molti decenni non solo a Napoli ma nell’intera penisola. Nato nel 1817 a Morra Irpina, centro del Principato Ultra, da Alessandro, dottore in utroque iure, e da Maria Agnese Manzi, si trasferisce a Napoli nel 1826 insieme al cugino Giovanni per seguire gli studi nella scuola privata gestita dal fratello del padre, il sacerdote Carlo Maria De Sanctis. Per il giovane Francesco lo stabilirsi a Napoli, avvenuto per decisione della nonna Gaetana Gargani, significò abbandonare la “vita allegra” del paese natale. Il clima politico e sociale della capitale borbonica “dominato dalla piena reazione” era caratterizzata dalla spietata repressione poliziesca nel periodo post Restaurazione. Nemmeno la salita al trono di Francesco I, a seguito della morte nel gennaio 1825 del re Ferdinando I, aveva portato novità nel clima politico, né erano stati promossi atti di clemenza come generalmente avveniva dopo l’ascesa di ogni nuovo sovrano, per rinsaldare i legami tra la casa regnante e la popolazione. Le misure repressive attuate a seguito dei moti del 1821 furono mantenute anche sotto il nuovo sovrano; tutto questo provocò forti contrasti alimentati anche dall’imposizione di nuovi tributi. La repressione attuata dal governo di Francesco I colpì esponenti del clero, dell’esercito e dell’apparato burocratico, a seguito di una politica fortemen-
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te reazionaria che contribuì ad accentuare il distacco tra la casa regnante e il paese. Anche la famiglia del De Sanctis era stata colpita dalla repressione tanto è vero che due zii paterni, Giuseppe, anch’egli sacerdote, e Pietro vivevano a Roma esiliati a causa della reazione seguita alla rivoluzione napoletana del 1820-21. Il giovane trascorse quindi i primi anni di studio a Napoli (1826-1831), in un clima politico-sociale opprimente basato sulla repressione. Nella scuola dello zio si insegnavano grammatica, retorica, storia, antichità greche e romane, mitologia, aritmetica, arte sacra. Il De Sanctis ricordava che nello studio prevalevano i metodi mnemonici, “che allora mi parevano una meraviglia, e oggi mi paiono meccanici” (p. 154). Egli leggeva di tutto: tragedie, commedie, romanzi e grazie alla sua memoria prodigiosa era in grado di ripetere parola per parola ciò che aveva letto, in particolare era attratto dall’aspetto sentimentale e fantastico delle letture che andava compiendo. Nei cinque anni trascorsi in quella scuola aveva letto un numero di libri superiore a quello dei suoi coetanei, anche se per sua ammissione a questo non corrispondeva uno spirito critico raffinato. Dopo aver terminato lo studio nella scuola dello zio, venne deciso che Francesco e il cugino Giovannino dovessero approfondire gli studi letterari ed iniziare quelli di filosofia. Lo zio Carlo li mandò presso i Gesuiti, che all’esame di ammissione bocciarono severamente entrambi i giovani. “Dovemmo fare parecchi errori grossi […] e ci fecero capire che […] potevamo appena entrare nelle elementari” (p. 171). Lo zio Carlo decise allora di iscriverlo alla scuola dell’abate Lorenzo Fazzini, dove seguì per un biennio i corsi di filosofia, fisica e matematica senza trascurare gli studi letterari. Francesco riconosceva la sua inettitudine per gli studi matematici, mentre era un vorace lettore di libri di letteratura e filosofia, a cui si appassionava con entusiasmo. Nel biennio lesse le opere di Locke, Condillac, Elvezio, Cartesio, Spinoza, Bonnet e soprattutto di
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Leibniz, approfondendo la conoscenza del pensiero filosofico che “assai gli piaceva”. Successivamente la famiglia lo iscrisse alla scuola di diritto dell’abate Garzia, ma il Digesto rimase una “bella collezione di massime e sentenze”, mentre maggiore interesse mostrava per il Codice Civile di Napoleone. Nel dedicarsi alla lettura di alcuni commentatori, conobbe il pensiero di Pasquale Galluppi, incaricato nel 1831 di insegnare presso la cattedra di Logica e Metafisica dell’Università, e dell’abate Ottavio Colecchi, «dei quali l’uno volgarizzava David Hume e Adamo Smith, e l’altro, ch’era per giunta un gran matematico, volgarizzava Emanuele Kant» (p. 190). Attraverso le riflessioni di Galluppi si andava svecchiando il «sonnolento e conservatore ambiente filosofico universitario» (p. 27) ed in questo ambito De Sanctis ebbe modo di leggere le opere di Victor Cousin, sostenitore delle idee liberali costituzionali, e di conoscere il dibattito filosofico che si andava diffondendo in Europa. Nel medesimo arco di tempo si ristamparono le opere di Vico, che ebbe una nuova rinascita tra letterati, giuristi e storici. In pochi anni si preparò il terreno alla penetrazione della filosofia idealistica a Napoli. L’evento più importante per la formazione di De Sanctis avvenne nel 1833 con la frequentazione dello “Studio” del marchese Basilio Puoti, sito nel palazzo Ruffo di Bagnara, divenuto un punto di riferimento per la nuova generazione di letterati napoletani, composta da giovani, tra i quindici ed i vent’anni provenienti da ogni parte del Regno, i quali arrivavano a Napoli per progredire negli studi. In quel tempo, ricordava De Sanctis, la novità culturale poteva essere rappresentata proprio dalla scuola di lingua italiana del marchese Puoti, che «non voleva esser detto maestro, né che il suo studio si chiamasse scuola, né che le sue conversazioni si chiamassero lezioni» (p. 196). Il curatore del volume Giovanni Brancaccio non manca di sottolineare in modo acuto ed approfondito come lo “studio” «aveva messo in moto una nuova ventata culturale, un movimento di pensiero, che, sfuggendo alle
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strette maglie della polizia e della censura borbonica, aveva posto le premesse per una rivoluzione […] in parte ignorata dai suoi stessi attori e promotori» (p. 29) e che vedrà tra i suoi protagonisti proprio gli intellettuali formatisi alla scuola del marchese. Il Puoti non poteva essere considerato un cospiratore, ma il suo “studio” che accordava massima importanza all’approfondimento del Trecento “aureo” e del Cinquecento “dotto”, aveva impresso un forte impulso agli studi classici e stava contribuendo validamente «alla trasformazione della cultura nazionale». Questa nuova generazione di intellettuali intendeva rinnovare il pensiero critico dell’epoca accogliendo i fermenti che provenivano dall’Europa, senza tralasciare tuttavia di recuperare, attraverso gli studi di Enrico Amante, la filosofia di Giambattista Vico, che insieme a quella hegeliana «ebbe una funzione determinante nella fondazione della critica storica» (p. 33). Nel suo saggio introduttivo Brancaccio evidenzia come un “contributo originale” a quel rinnovamento venne dallo stesso Francesco De Sanctis, che aprì nel 1838 la sua scuola in vico Bisi, dove insegnava lingua e grammatica. Gli anni tra il 1833 ed il 1838 erano stati anni di formazione culturale, ma anche di maturazione personale, dal momento che dopo la malattia dello zio Carlo, Francesco rimase «con tutto il peso della scuola [dello zio Carlo] sulle spalle curve» (p. 210) senza tralasciare la scuola del Puoti che frequentava di sera. In quest’ultima ebbe l’occasione di conoscere Giacomo Leopardi, giunto a Napoli nell’ottobre del 1833 insieme con Antonio Ranieri. L’incontro così venne descritto: «ecco entrare il conte Giacomo Leopardi […] tutti gli occhi erano sopra di lui. Quel colosso della nostra immaginazione ci sembrò, a primo sguardo, una meschinità. […] Parecchi cercarono di rivederlo presso Antonio Ranieri, ma la mia natura casalinga e solitaria mi teneva lontano da ogni conoscenza, e non vidi più quell’uomo che avea lasciato un così profondo solco nell’anima mia» (pp. 228-29).
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Nei suoi ricordi pagine cariche di emozioni sono quelle legate alla diffusione del colera a Napoli (ottobre 1836-settembre 1837), in cui solamente nell’estate del 1837 perirono circa 900 persone. Nel giugno di quell’anno moriva anche Leopardi, sebbene non a causa del colera. Nell’estate del 1837 De Sanctis si allontanava dalla capitale per sfuggire al contagio e ritornava a Morra, dove rivide per l’ultima volta l’amata madre, che sarebbe deceduta un decennio più tardi. Nel 1839, grazie all’interessamento del Puoti, ottenne la cattedra di materie letterarie nella Scuola militare preparatoria di San Giovanni a Carbonara e poi dall’aprile del 1841 nel Real Collegio militare della Nunziatella, prestigiosa accademia militare borbonica, dove insegnò fino al 1848. Giovanni Brancaccio presta particolare attenzione all’arco temporale compreso tra il 1841 e il 1848, anni della formazione politica del De Sanctis, quando divenne «ancor più forte il legame cultura/politica» (p. 35). Le discussioni con i suoi amici e scolari Villari, i fratelli Spaventa, i Poerio, Settembrini e De Meis gli consentirono di individuare i gravi problemi del Regno e di approfondire l’interesse verso la politica grazie anche all’appassionata lettura dei giornali francesi nel Caffè del Gigante. L’esponente politico che lo coinvolgeva maggiormente era Adolphe Thiers, la cui Storia della Rivoluzione francese lo «aveva ubriacato»: per lui il dibattito politico europeo era da considerarsi un allargamento dei suoi interessi non circoscritti unicamente al campo letterario e filosofico. In quegli anni diversi intellettuali andavano esaltando le libertà politiche delle monarchie costituzionali e De Sanctis sperava in una trasformazione della società meridionale che intorno al 1845 vide però l’inasprirsi delle sanzioni del governo borbonico che decise di ricorrere alla censura per arginare la diffusione delle riviste legate alla cultura liberale. De Sanctis divenne così un punto di riferimento per gli intellettuali progressisti napoletani, ed alcuni giovani della sua scuo-
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la combatterono sulle barricate nel maggio del 1848. In questi scontri venne ucciso Luigi La Vista, il migliore dei suoi scolari. Nel novembre dello stesso anno De Sanctis venne espulso dal Collegio della Nunziatella, perché accusato di aver preso parte alla rivoluzione e di professare pericolose idee liberali. Giovanni Brancaccio non si limita a riflettere sulle vicende narrate da De Sanctis ne La giovinezza, ma ripercorre in modo puntuale le vicende che l’intellettuale irpino si trovò ad affrontare dopo il periodo rivoluzionario del 1848 e nel prosieguo della sua esistenza. Nel maggio del 1849, sebbene in contrasto con la monarchia dei Borbone, De Sanctis ottenne di poter riprendere l’insegnamento privato, ma non sottostando alle richieste del governo si allontanò da Napoli. Nel dicembre del 1850 venne arrestato a Cervicati in Calabria e condotto a Napoli, dove venne rinchiuso nel carcere del Castello dell’Ovo, in cui rimase fino all’agosto del 1853, senza tuttavia che si interrompesse la sua attività di letterato e studioso. Condannato all’esilio perpetuo in America, riuscì a riparare a Malta, dove si trovava l’allievo Diomede Marvasi. Insieme con quest’ultimo nel settembre del 1853 raggiunse Torino dove ritrovò l’amico ed allievo Camillo De Meis ed altri esuli meridionali. Nella capitale sabauda divenne ancora più stretto il legame con Marvasi e De Meis e, rifiutando il sussidio governativo concesso ai rifugiati politici, si mantenne con l’insegnamento privato. Pur lamentandosi con Pasquale Villari della limitata vita intellettuale torinese, non disdegnò di collaborare con alcune riviste letterarie oltre a manifestare in campo politico adesione alla soluzione monarchico-unitaria promossa da Cavour. Nel 1856 accettò la proposta dell’Istituto universitario di Zurigo che gli offrì la cattedra di Letteratura italiana, che mantenne fino al 1860. Si trattò di un periodo particolarmente intenso negli studi che gli consentirono di entrare in contatto con intellettuali di primo piano, tuttavia all’intensità culturale si contrappose la
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solitudine della sua vita privata. Quest’ultima venne superata con fatica grazie allo stretto rapporto epistolare che ebbe con gli amici Marvasi e De Meis, i quali lo aiutarono a non lasciarsi vincere dallo sconforto ed a seguire con interesse l’evoluzione politica in Italia caratterizzata sempre più dalla leadership di Cavour. Proprio le notizie ricevute da Marvasi su un’imminente spedizione nel Mezzogiorno, guidata da Garibaldi allo scopo di porre fine al dominio borbonico lo spinsero nel luglio del 1860 a tornare in Italia, dopo essersi dimesso dal Politecnico di Zurigo; «alla decisione del De Sanctis, che fu simile a quella adottata da altri esuli napoletani annessionisti, non fu estraneo l’invito rivolto loro dal conte Cavour» (p. 70). Nell’ampia ricostruzione biografica del De Sanctis il curatore osserva che dal punto di vista letterario questo intenso decennio, comprendente il periodo di prigionia a Napoli, gli anni trascorsi a Torino e il soggiorno a Zurigo, contribuì alla formazione di quel percorso metodologico di De Sanctis, che dopo l’interesse per i saggi monografici «sarebbe arrivato alla stesura della Storia della letteratura italiana» (p. 68). Il rientro a Napoli diede l’avvio alla partecipazione diretta alla vita politica: in quella prima fase divenne governatore della provincia di Avellino (settembre 1860), poi direttore della Pubblica Istruzione a Napoli (ottobre 1860), dove si impegnò a rifondare l’Università e a dare un nuovo assetto giuridico alla più grande biblioteca pubblica, chiamata nazionale di cui cancellò il termine borbonico. Brancaccio sottolinea che nell’insieme dei provvedimenti adottati da De Sanctis era individuabile «un obiettivo fondamentale: l’assorbimento della scuola privata in quella di Stato» (p. 75). In occasione delle elezioni svoltesi nel gennaio del 1861 De Sanctis venne eletto nel collegio di Sessa Aurunca e nello stesso periodo nominato professore di estetica presso l’Università di Napoli. Tra le due opportunità egli scelse il mandato parlamentare, e come afferma Brancaccio l’azione politica svolta in quegli anni
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finì per «deviarlo, ma solo apparentemente, dall’impegno culturale, che lo aveva visto intento alla formulazione di un nuovo metodo critico»; in realtà De Sanctis riteneva «inseparabile il momento politico da quello culturale» (p. 78). Nel marzo del 1861 fu nominato ministro della Pubblica Istruzione, carica che mantenne, anche dopo la morte di Cavour, fino al marzo del 1862; la sua azione politica fu rivolta all’istruzione popolare, alle scuole elementari e alle scuole tecniche, in quanto desiderava garantire l’istruzione ai ceti popolari al fine di consentire una partecipazione democratica alla vita civile della nazione. Terminata l’esperienza ministeriale non venne meno l’impegno politico, soprattutto la sua attenzione si incentrò in particolare alla formazione del nuovo partito della Sinistra costituzionale, forza politica composta da «uomini nuovi» ai quali si doveva affidare il compito di isolare gli esponenti dediti solo agli affari privati e personali. La proposta del critico irpino relativa alla nascita di una Sinistra giovane, capace di affermarsi come punto di aggregazione dei democratici, dei moderati e di una parte dei mazziniani, avrebbe dovuto «accelerare la svolta verso il bipartitismo inglese e svolgere, grazie all’innesto di uomini nuovi, una funzione antitrasformistica» (p. 91). Aveva ben compreso che se non si fosse provveduto a rinnovare la prassi politica, il persistere di «interessi regionalisti» sarebbe stata la «causa principale del cattivo funzionamento della vita politica in Italia» (p. 90). La mancata elezione alla Camera nelle elezioni del 1865 rappresentò una sconfitta del disegno politico del critico irpino, il quale alcuni decenni dopo, ripensando a quel momento, riteneva tuttavia di aver contribuito al rafforzamento dell’unità nazionale, in quanto il tentativo di dar vita ad una Sinistra costituzionale esprimeva l’auspicio di porsi tra due «abissi, a destra la reazione, a sinistra la rivoluzione» (p. 93), concetti ripresi con ancor più forza dopo la sua elezione nel maggio del 1866 nel collegio di San Severo.
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Nel 1870 veniva dato alle stampe presso la casa editrice Morano di Napoli il primo volume della Storia della letteratura italiana, opera scritta con l’intento di ricostruire la storia della letteratura italiana come storia della coscienza nazionale. Il curatore rimarca che il testo di De Sanctis non fu «solo un’opera di critica letteraria, ma anche e soprattutto un’opera di storia fondata su principi ancora oggi validi» (p. 103). Anche la scelta di pubblicare a Napoli aveva il preciso scopo di contrastare non solamente il processo di accentramento politico, ma anche quello culturale e per questo elogiava ed evidenziava «l’originale contributo offerto dalle varie identità culturali del paese» (p. 101). La nomina a professore di Letteratura comparata presso l’Università di Napoli nell’ottobre del 1871 venne seguita da un periodo di intensa produzione letteraria e proprio sul finire dello stesso anno diede alle stampe il secondo volume di Storia della letteratura italiana. L’impegno per la politica attiva non venne meno e dopo l’elezione nel 1873 nel Consiglio provinciale di Avellino, partecipò alle votazioni elettorali del novembre 1874. Di quella dura competizione, «della sua lotta contro le persistenti incrostazioni reazionarie presenti non solo nella società e nella vita civile, ma anche nelle istituzioni» (p. 113) il critico irpino raccontò nell’opera Un viaggio elettorale. Dopo il passaggio del potere nel 1876 dalla Destra alla Sinistra, De Sanctis avversò la politica trasformista di Agostino Depretis e Giovanni Nicotera, sottolineando con vigore la necessità di attuare una profonda riforma morale che «ponesse fine all’inquinamento della vita politica e sociale del Mezzogiorno» (p. 114), caratterizzata da gruppi locali interessati prevalentemente a tutelare i propri affari e consolidare il sistema clientelare. De Sanctis, a cui si affiancava nelle critiche Michele Torraca, evidenziava che non mancavano «le idee della Sinistra, ma gli uomini della Sinistra» (p. 115). Negli articoli apparsi sulla rivista “Il Diritto” esprimeva il suo dissenso riguardo ad una politica fondata sul compromesso affaristico e poneva in
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evidenza come la mancata affermazione di partiti strutturati dotati di «una propria forza morale» avesse consentito la formazione di gruppi che avevano «preso nome non dalle idee, ma dalle persone ed erano guidate principalmente dall’idea di avvantaggiare se stessi» (p. 121). Il critico irpino auspicava un profondo rinnovamento di questo quadro politico e così si avvicinò a Benedetto Cairoli, che lo nominò ministro della Pubblica Istruzione in due suoi governi: dal marzo al dicembre 1878 e dal novembre 1879 al gennaio 1881. Anche nel corso di questi incarichi prestò particolare attenzione alla scuola dell’infanzia, all’istruzione primaria, popolare e tecnico-scientifica, alla formazione dei maestri e alla fondazione di biblioteche scolastiche per i contadini e gli operai. Il suo lavoro venne interrotto nel dicembre del 1880 dall’aggravarsi della malattia degli occhi che lo costrinse a presentare una lettera di dimissioni da ministro. Nello stesso periodo cominciò a dettare alla nipote Agnese i Ricordi della sua giovinezza. Sebbene di malferma salute partecipò alle elezioni del 1882, in seguito a cui divenne deputato nel collegio di Trani. Il curatore fa rilevare lo stretto legame esistente tra l’inizio dei suoi studi e l’apertura verso le idee liberali, il progressivo ampliarsi della sua formazione e l’intreccio tra le sue attività di studio e quelle più propriamente politiche. Sottolinea altresì come nell’intellettuale irpino la passione politica non fu mai disgiunta dall’impegno letterario: «la sua azione di riformatore, il suo messaggio di educatore e di uomo politico non di partito, tutto il suo impegno etico-politico […] non fu mai separato dalla sua figura di professore e di intellettuale» (p. 129). Va infine osservato come il volume curato da Giovanni Brancaccio possieda un ricco apparato di note bibliografiche, in cui sono riportate dettagliate notizie biografiche relative ai numerosi scrittori, poeti ed intellettuali, di cui De Sanctis ebbe modo di occuparsi o che erano entrati in contatto con lui.
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Alfonso Tortora La letteratura del patriottismo. Su una riproposta editoriale: La Giovinezza di Francesco De Sanctis a cura di Giovanni Brancaccio Come è noto, nella letteratura romantica patriottica del primo Ottocento italiano aspetto di grande interesse assume l’abbondante produzione di scritti a carattere patriottico. Animata da una diretta e sofferta partecipazione agli eventi politici, morali e sociali del tempo, essa esprime l’immediata presenza dello scrittore e della comune passione nazionale condivisa dal popolo in fiamme nell’epoca della più triste e avvilente reazione successiva ai primi moti rivoluzionari del 1820-21, dei secondi moti del 1830-31 e del moto del 1848.1 La fisionomia più autentica di questa letteratura giunge dalla estrema semplicità con la quale si vive la tragedia storica delle rivoluzioni, ma anche dalla specifica capacità di legare – romanticamente parlando – sfondi storici e di costume alla variegata situazione politica italiana del tempo, per cui si sottrae a ogni conformismo dottrinale o estetico, acquistando una particolare autonomia di atteggiamenti tutti convergenti – per parafrasare 1 Cfr. Luigi Mascilli Migliorini, Premessa. Una rivoluzione in Europa, in Viviana Mellone, Napoli 1848. Il movimento radicale e la rivoluzione, Milano, Franco Angeli, 2017, pp. 7-10.
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Francesco De Sanctis – nell’“arte dello scrittore”.2 In questa dimensione etica risorgimentale s’inscrive La Giovinezza di Francesco De Sanctis. Questo primo periodo della vita dello scrittore irpino è da intendersi essenzialmente come resoconto autobiografico di un’età precedente, del suo valore rievocativo di voci non più solo individuali, ma rappresentative di un sentimento collettivo ed universale, su cui si sofferma ampiamente nell’introduzione alla nuova edizione di questo scritto del letterato irpino Giovanni Brancaccio.3 1. Ciò che distingue le scritture autobiografiche ottocentesche da quelle delle precedenti epoche è il loro essere non più espressioni puramente egocentriche di racconti rievocanti personaggi, caratteri e ambienti di un’epoca data, ma come testimonianza di una tragedia storica di partecipazione collettiva fondata nei fatti e nelle testimonianze dello scrittore che le prende su di sé e le riflette in sé.4 Si tratta di biografie che hanno il senso di imprese culturali, all’interno delle quali si condensano il valore storico e quello più propriamente affettivo e che, perciò, fondano nel loro insieme una recondita ed umanissima epoca della fede e del martirio veracemente politico. Esprimono poi anche l’ideale del 2 Cfr. Pasquale Guaragnella, Nuova scienza e «arte dello scrittore» nella «Storia» di Francesco De Sanctis, in Rosa Giulio (a cura di), Francesco De Sanctis e la critica letteraria moderna. Tra adesione e distacco, in «Sinestesie», a. XV - 2017 (Agosto 2018), pp. 187-208. 3 Cfr. Francesco De Sanctis, La Giovinezza, Introduzione e cura di Giovanni Brancaccio, Milano, Biblion edizioni, 2017. 4 Oggi ciò è sempre più chiaro proprio rileggendo alcune pagine estratte dai Saggi critici del De Sanctis «critico e patriota», su cui cfr. Pasquale Sabbatino, La nuova Italia alla scuola di Dante nella Storia di De Sanctis, in Rosa Giulio (a cura di), Non di tesori eredità. Studi di letteratura italiana offerti ad Alberto Granese, vol. II, Napoli, Guida editori, 2015, pp. 621-641; per la citazione cfr. p. 621.
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riscatto, che sotto il riguardo politico si traduce in riscatto per la Patria.5 Tale tipo di scrittura è importante poiché esprime caratteri e aspetti (e non solo letterari o politici) di quasi ogni esponente del nostro Risorgimento, tra i quali figurano politici, patrioti, scrittori, ognuno dei quali ha lasciato una tipica ed indelebile singola testimonianza della propria vicenda umana e, perciò, autobiografica. Come non pensare a Vittorio Alfieri e alla sua famosa Autobiografia?6 Iniziata a Parigi nel 1790 (ricordiamo che Alfieri aveva quarantun anni, quindi non vecchio, mentre le autobiografie appartengono, generalmente, alla vecchiaia). In essa – è stato opportunamente notato – si coglie una appassionata ed individuale vocazione letteraria, ma anche una missione politica: l’ostilità all’assolutismo monarchico e, per converso, un certo favore verso quella borghesia generatrice della Rivoluzione francese.7 La stesura completa della Vita, pubblicata postuma nel 1804 in Firenze presso Piatti, com’è noto appartiene al soggiorno fiorentino del nobile letterato astigiano e appare decisamente incrementata dal famoso ideale tragico alfieriano. Divisa in quattro epoche (“puerizia”, “adolescenza”, “giovinezza”, “virilità”) comprese nel periodo che va dal 1749 al 1803,8 in essa si scorge una certa razionale insofferenza verso l’uomo individualmente oppresso nella sua più profonda libertà 5 Più in generale sul punto cfr. Francesco Bruni, Italia. Vita e avventura di un’idea, Bologna il Mulino, 2010. 6 Cfr. Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso, Edizione critica a cura di Luigi Fassò, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, voll. I-II. 7 Per ciò e per quanto seguirà cfr. Francesco Mascialino, Storia della letteratura italiana dalle origini ai giorni nostri, Brescia, Società Editrice Vannini, 1977, pp. 364-365. 8 Sull’articolazione dell’Autobiografia dell’Alfieri cfr. Cesare Segre, L’eroe letterario e i cronòtopi sovrapposti nella Vita dell’Alfieri, in «Strumenti critici», XXI, 1987, 2, pp. 43-60.
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(cioè la volontà d’agire) e ciò soprattutto nella sezione dedicata alla “giovinezza” e alla “virilità” (periodo compreso dal 1766-75 al 1775-1803). Accanto a tutto ciò in Alfieri si ritrovano introspettivi stati d’animo sovente impenetrabili e molto generali uniti ad aspetti della più recondita psiche infantile, a cui si associano rimandi ad una certa attrazione verso la solitudine o all’immaginazione meditativa. Come ha opportunamente notato più di recente Serena Insero nell’Autobiografia di Alfieri “La scelta di optare per un titolo classicheggiante è dettata dalla volontà di inserirsi in un filone epico-plutarcheo ed eroico”,9 in cui c’è da notare la vistosa esibizione con cui il letterato piemontese, nella Vita scritta da esso, lascia emergere la particolare inimicizia verso ogni forestierismo di etichetta francese (che pure potrebbe tradursi in odio verso lo straniero) e la sua incondizionata ammirazione per il mondo classico.10 Ma questo è anche uno dei motivi che ha consentito all’Alfieri di essere inserito in quella “generazione del Risorgimento”, che in lui “vide ed esaltò […] la fiamma profetica dei propri ideali” e che lo ha collocato quasi a precursore di quel moto nazionale.11 Certo, pur sappiamo che con Alfieri si lascia il secolo dell’Illuminismo per entrare in quell’Ottocento, in cui ritroviamo quasi 9 Cfr. Serena Insero, Vittorio Alfieri e il progetto autobiografico: il testo e il paratesto, in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo, Atti del XVII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Roma Sapienza, 18-21 settembre 2013), a cura di B. Alfonzetti, G. Baldassarri e F. Tomasi, Roma, Adi editore, 2014, pp. 1-8, qui p. 3 (Url = http://www.italianisti.it/Atti-di-Congresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=581. 10 Francesco Mascialino, Storia della letteratura italiana, cit., pp. 375, 547. 11 Ivi, p. 373.
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un’alleanza tra il ritorno alla tradizione e l’esaltazione del sentimento umano in opposizione al razionalismo illuministico. Ma all’inizio di questo nuovo secolo si ritrova anche il richiamo alla coscienza popolare, all’amor di patria, alla libera manifestazione del cuore e della fantasia e tutto ciò in contrasto alle regole del classicismo, da un lato, e a favore della battaglia per la libertà contro lo spirito autoritario della Restaurazione, dall’altro. Come non ricordare in questo clima culturale e politico Silvio Pellico (altro piemontese, nato a Saluzzo nel 1789) e Le mie Prigioni del 1832? Siamo nell’età della letteratura romantica patriottica; età in cui la cultura del Romanticismo vive caldamente immersa nella battaglia politica che le ruota intorno. In diversi paesi europei le Università con i loro studenti ed i loro professori si propongono come sorgenti di complotti e di inquietudine liberale e Pellico (tra altri), mosso da motivazioni religiose, politiche e nazionaliste (sicuramente non letterarie) si sente investito da una specie di missione morale, da cui nasceranno Le mie Prigioni. In questo scritto si coglie l’animazione di fondo del patriottismo nazionale, intriso di cultura romantica, in cui l’anelito umanitario e religioso del Pellico esprime una fraternità, che va ben oltre i confini nazionali. Nel suo scritto, Pellico afferma l’epos della sofferenza patita per l’amor di Patria: l’idea liberale e l’idea nazionale diventano i temi del cuore e del sentimento nazionale nello scritto a sfondo autobiografico del Pellico, convergendo nella enfatica ed efficace requisitoria contro l’oppressione asburgica, ponendo così in risalto la fiducia in una sofferenza purificatrice giustificata dall’amor di Patria. Si tratta di temi, che pure ritroviamo ben diluiti ed amalgamati in altri scritti del Pellico (si pensi a I doveri degli uomini del 1834, senza dimenticare la produzione teatrale dello scrittore di Saluzzo12), in cui pratica religiosa, morale 12
Su cui cfr. Ignazio Castiglia, Sull’orme degli eroi. Silvio Pellico e
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cattolica e amor patrio si esprimono, amalgamandosi, in forma decisamente vigorosa.13 Al napoletano Luigi Settembrini (1813-1877), invece, dobbiamo le Ricordanze della mia vita. Egli vive in quell’unico stato italiano che, per la sua vastità e la sua storia politica, si mostrava capace di effettiva indipendenza dall’Austria: il regno delle Due Sicilie. Ma proprio in quella realtà si mostrava evidente la guerra fra i due volti della Restaurazione, quello reazionario e quello conservatore. Basti ricordare ciò che accadde nel 1816, allorché i regni di Napoli e di Sicilia venivano uniti nell’unico Regno delle due Sicilie e la bandiera, l’esercito e la Costituzione siciliana venivano conseguentemente aboliti. Lo stesso Ferdinando IV, come re di Napoli o come Ferdinando III re di Sicilia abbandonava questi titoli per divenire Ferdinando I re delle Due Sicilie. Ciò avrebbe portato – come ben sappiamo – a gravi e irreparabili conflitti. A questo sfondo storico si collega quel regime poliziesco che aveva cercato di stroncare nel Regno il moto liberale, di cui parlano le Ricordanze della mia vita del Settembrini. Il racconto, incompleto, vide la luce dopo la morte del suo autore, avvenuta nel 1879, e attraverso la memoria dei lunghi anni di carcere subiti a causa del suo patriottismo e delle brutalità poste in essere dal governo borbonico, illustra lo sfondo politico della primavera del Risorgimento italiano.14 Come non evocare I miei ricordi del torinese Massimo Taparelli marchese d’Azeglio? Essi muovono dal corso degli eventi il teatro romantico, Palermo, Edizioni d’arte Kalós, 2015. 13 Cfr. Francesco Mascialino, Storia della letteratura italiana, cit., pp. 542-545. 14 Cfr. Luigi Settembrini, Ricordanze della mia vita e Scritti autobiografici, a cura di Mario Themelly, Milano, Feltrinelli, 1961. Per gli sfondi politici, su cui si innesta lo scritto del Settembrini cfr., ora, Viviana Mellone, Napoli 1848, cit., pp. 60 ss.
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caratterizzati dal compromesso fra l’ala moderata del liberalismo italiano e le forze dinastiche tradizionali, al centro del quale si pone la formula politica della monarchia costituzionale (di matrice anglosassone). Anch’essi interrotti nel racconto al 1845 e pubblicati postumi nel 1867 (il marchese d’Azeglio muore nel 1866) i ricordi dello statista piemontese sono una vera e propria confessione autobiografica, in cui lo scrittore-pittore si fonde, senza mai confondersi con l’educatore e l’uomo politico. Nelle memorie dazegliane si pongono in luce i sentimenti dello spirito di un italiano guidato dalla volontà del suo carattere, del suo ingegno, unici elementi – a dire di d’Azeglio – in grado di fare “gli Italiani” dopo l’unità d’Italia. 2. Sulla scia degli autori ora richiamati giungiamo a Francesco De Sanctis, i cui ricordi autobiografici sono racchiusi nella Giovinezza. Dettati alla nipote Agnese De Sanctis sul finire della vita, tra il 1881 e i primi mesi del 1883,15 le memorie desanctisiane giungono fino al 1844, ciò a causa della morte dell’illustre irpino proprio nel dicembre del 1883. Pubblicate per la prima volta da Pasquale Villari nel 1889 per i tipi dell’editore Morano di Napoli e successivamente più volte ristampate fino al rinvenimento del manoscritto dei primi dieci capitoli (utilizzato dall’editore Einaudi nelle Opere di De Sanctis16), in cui si rilevano alcune varianti, che rendono alla prosa desanctisiana la sua autentica patina,17 i Ricordi del De Sanctis 15 Cfr. Ricerche e documenti desanctisiani, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», Napoli 1915, fasc. VIII, pp. 17-18. 16 Cfr. Gennaro Savarese, Opere di Francesco De Sanctis, a cura di Carlo Muscetta, Torino, Einaudi, 1961. 17 Cfr. Gennaro Savarese, Il manoscritto della Giovinezza, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXVI, 1958, pp. 392-403, su cui vedi Francesco De Sanctis, Opere, a cura di Niccolò Gallo, Introduzione di Natalino Sapegno, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Edi-
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si svolgono sul filo della memoria poetica, politica e letteraria e – come ha scritto Niccolò Gallo – “più che una puntuale ricostruzione degli anni della prima infanzia al 1844, è la storia di un’educazione sentimentale e intellettuale”.18 Questi ricordi vengono oggi riproposti in una nuova e completa edizione critica da Giovanni Brancaccio con il duplice intento di far rivivere al lettore del De Sanctis sia lo spirito dei luoghi della cultura letteraria napoletana della prima metà dell’Ottocento (particolarmente gli anni Trenta e Quaranta), sia il clima politico del tempo, in cui s’inserisce quel culto del sacrificio (vissuto con percettibile coerenza dallo stesso De Sanctis) per la causa del patriottismo contro il dominio dei Borboni e caratterizzante l’aureo periodo del Risorgimento italiano. Come opportunamente pone in evidenza Brancaccio nella lunga introduzione alla Giovinezza del De Sanctis, questi ricordi attengono anche al romanzo storico di matrice romantica, la cui prima grande stagione affonda le sue legittime radici proprio nel primo trentennio dell’Ottocento, ma che allo stesso tempo (e qui ci sembra emergere un diverso punto di vista rispetto alle precedenti edizioni critiche offerte da altri studiosi dei “Ricordi” desanctisiani) riflettono il tempo storico, in cui De Sanctis dettava le sue memorie: un tempo nel quale il racconto di maniera pur legato al Medioevo romantico veniva a rielaborare argomenti più prossimi alla realtà e alla sensibilità contemporanea al letterato irpino. Nella lunga introduzione alle memorie del De Sanctis Brancaccio mostra come il passaggio dalla storia a mero sfondo evocativo di un’epoca passata (la Giovinezza, appunto) si intreccia al più maturo sentimento del patriottismo nazionale avvertito dal tore, 1961, p. 1267. 18 Francesco De Sanctis, Opere, a cura di Niccolò Gallo, cit., p. 1267.
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letterato irpino, poiché egli assume a soggetto centrale dei suoi “Ricordi” la stessa idea di nazione. Ciò che appare il dettato della senilità del De Sanctis, sotto un profilo più propriamente storico, per Brancaccio diviene espressione del più intenso fervore della spiritualità romantica: quella spiritualità che in De Sanctis diviene espressione del rinnovamento della cultura nazionale. Questo si nota nelle pagine in cui Brancaccio richiama, ad esempio, i luoghi del liberalismo napoletano ricordati dal De Sanctis negli anni Trenta dell’Ottocento. Si tratta di quei luoghi, dove si poneva in netta evidenza “il ruolo ricoperto dagli studi professionali”, a cui si associavano i nomi “di Giuseppe Poerio e di Pasquale Stanislao Mancini, luoghi nei quali – scrive Brancaccio – furono fissate le aspirazioni liberali e nazionali degli intellettuali napoletani”.19 Si trattava di quella rinascita culturale tra letterati, giuristi e storici rintracciabile nell’ambiente universitario napoletano con l’arrivo nella capitale del Regno del filosofo Pasquale Galluppi, a cui pure si associa uno dei più interessanti momenti critici del giovane De Sanctis. “Il filosofo calabrese – nota Brancaccio –, circondandosi di valenti studiosi, come Vincenzo Lanza e Niccola Nicolini, diede, infatti, una forte scossa al sonnolento e conservatore ambiente filosofico universitario, che pose fine al “curioso innesto” per cui – come rilevò lo stesso De Sanctis – “vedevi andare a braccetto il sensismo e lo scolasticismo, svecchiando il movimento culturale, mettendo in circolazione le opere dei principali pensatori europei, fra i quali Victor Cousin, sostenitore delle idee liberali costituzionali, ponendo, insomma, le premesse per l’apertura alla ‘filosofia della storia’”.20
19 Francesco De Sanctis, La Giovinezza, Introduzione e cura di Giovanni Brancaccio, cit., p. 23. 20 Ivi, p. 27.
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Quando De Sanctis dettava le sue memorie alla nipote Agnese tra il 1881 ed il 1883 in Italia si mostrava ancora visibile l’eredità risorgimentale. I due partiti fondamentali, la Destra e la Sinistra, ricalcavano la sostanziale differenza tra quanti sostenevano la monarchia come epicentro dell’unificazione nazionale e gli antichi sostenitori del partito d’Azione. Ben sappiamo quanto e come il letterato irpino con i suoi scritti e con la sua attività parlamentare fosse sostenitore di una nuova sinistra moderata e progressista in luogo di quella rivoluzionaria. Nel muoversi tra l’attività politica (fu più volte ministro) e quella dello studioso e del maestro (fu professore universitario) De Sanctis visse la stagione politica del “trasformismo” legata alle elezioni del 1876. Il programma con cui la Sinistra andava al potere era stato presentato in un discorso ai suoi elettori di Stradella dal Depretis nell’ottobre del 1874, a cui aveva collaborato il lombardo Cesare Correnti. Il Depretis (il quale costituì il primo governo di sinistra il 25 marzo 1876) ed il Correnti pensavano che intorno al progetto progressista nazionale si potessero coagulare uomini provenienti allo stesso modo dalla Destra e dalla Sinistra. In questo modo il Depretis inaugurò la stagione politica del “trasformismo”, con cui si potevano ottenere larghissime maggioranze a sostegno della politica nazionale attraverso una serie di compromessi e concessioni a gruppi ed individui, che sul piano politico si portavano da una posizione all’altra senza alcuna attenzione alla originaria ubicazione parlamentare di provenienza. “La politica del trasformismo – nota ancora Brancaccio – seguita da Agostino Depretis […] fu avversata dal De Sanctis, che assunse una posizione fortemente critica […]” e ciò perché per il critico irpino il trasformismo rischiava di svuotare di significato la funzione ed il ruolo del parlamento e, soprattutto, abbassava il clima morale della vita politica nazionale.21 21
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Ivi, p. 114.
“De Sanctis – rileva Brancaccio – sottolineava infatti il bisogno di una profonda riforma morale, che ponesse fine all’inquinamento della vita politica e sociale del Mezzogiorno, allo spagnolismo parlamentare” che caratterizzava la condotta politica dei gruppi locali, tesi a tutelare i propri affari, e perciò lontani dai reali interessi del Mezzogiorno, volti insomma a consolidare il loro sistema clientelare”.22
Per concludere queste poche riflessioni su questa nuova edizione dei “Ricordi” del De Sanctis mi sembra di poter dire che in essa si pone introduttivamente sotto osservazione una rinnovata lettura dell’opera letteraria e politica del letterato irpino. Si tratta di una lettura, in cui il più intenso ardore della spiritualità romantica del De Sanctis, largamente convergente in quella che giustamente è considerato il capolavoro della storiografia letteraria del critico irpino dall’alto valore nazionale, La Storia della letteratura italiana, viene messo in luce quando già in Italia si affermavano il Positivismo ed il metodo critico storico, di cui ora Brancaccio coglie l’essenziale soluzione moralistica o intellettualistica nel più maturo De Sanctis allorché ripensa alla sua Giovinezza.
22
Ibidem.
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Marco Trotta Le“ricordanze” tra pubblico e privato Francesco De Sanctis compose La giovinezza tra il 1881 e l’83, all’indomani delle dimissioni da Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Cairoli. Lo studioso irpino trasmise le sue “ricordanze” alla nipote Agnese, quasi del tutto cieco per via di una malattia agli occhi che lo aveva gravemente colpito qualche tempo prima. Libro di memorie che svela la sua intima natura memorialistica e che rimane incompiuto a causa della morte dell’autore sopraggiunta nel 1883,1 La giovinezza rappresenta 1 La giovinezza era stata da Francesco De Sanctis interrotta per completare lo Studio su Leopardi comunque uscito postumo, e non venne più ripresa. La sua incompiutezza riguardò anche lo sviluppo cronologico del lavoro che si arrestò alla narrazione delle vicende del 1844. Quando nell’87 ricevette il manoscritto da Marietta Testa, vedova di De Sanctis, Pasquale Villari, sebbene fosse piuttosto scettico, volle darlo comunque alle stampe per i tipi dell’editore Morano di Napoli due anni dopo, nell’89, attribuendo alle “ricordanze” del grande letterato irpino il titolo di Giovinezza. Frammento autobiografico, proprio a rimarcarne il dato dell’incompletezza. Per queste ed altre notizie biografiche concernenti l’imponente figura di De Sanctis, intellettuale e politico, cfr. G. Brancaccio, Francesco De Sanctis: La giovinezza. Impegno intellettuale e lotta politica, Introduzione a F. De Sanctis, La giovinezza, Milano, Biblion edizioni, 2017, p. 11 ss.
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l’analisi interiore che De Sanctis svolge sia isolandosi dal contesto reale di un presente mesto e melanconico, sia proiettando i registri della propria coscienza verso i terreni allegorici della fantasia, quale prodotto di un temperamento ardente di ideali giovanili. Sono del resto la nostalgia per la vita di provincia e la riscoperta dei luoghi natali a rivelarsi motivo dominante e pregnante della ricostruzione familiare dettata dal De Sanctis. Introducendo l’opera senile dello scrittore irpino, il critico letterario Luigi Russo accostava ad esempio i ricordi desanctisiani al “realismo provinciale che stava trionfando in tutta la letteratura dei così detti veristi”,2 collocando così il realismo dell’autore nell’alveo umanistico di un Verga o di un Capuana. Nel suo ponderoso saggio introduttivo (un libro nel libro) Brancaccio osserva che De Sanctis nella Giovinezza “ritrovava il piccolo mondo provinciale, gli usi, i costumi, le tradizioni, il dialetto, la lingua del popolo, i suoi affetti familiari descritti in maniera commovente, la sua Morra, la sua casa, i contrasti paesani”.3 Insomma, il piccolo mondo antico dell’autore, immutabile, ermetico, litigioso, ma felice e spensierato; quella dimensione grama e dolente della campagna, dal tratto genuino e primitivo, vissuta tra il reale e l’ideale nell’accogliente Morra, piccolo centro agricolo dell’Alta Irpinia situato nel Principato Ultra (corrispondente grosso modo all’attuale provincia di Avellino), dove egli era nato il 28 marzo 1817. È interessante notare come questo territorio, incardinato lungo la dorsale appenninica meridionale, diventi un secolo e mezzo dopo anche il mondo eletto del curatore del volume, impresso nella viva memoria autobiografica delle proprie radici materne, 2 Cfr. L. Russo, Introduzione a F. De Sanctis, La giovinezza: frammento autobiografico, Firenze, Le Monnier, 1941, p. VIII. 3 Cfr. G. Brancaccio, Francesco De Sanctis: La giovinezza. Impegno intellettuale e lotta politica cit., p. 135.
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della propria infanzia e giovinezza, di una vita semplice e lieta trascorsa in gran parte degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta del Novecento a Sant’Angelo dei Lombardi, il paese più importante della zona a poca distanza da Morra, frequentato e prediletto nell’Ottocento dallo stesso De Sanctis. Brancaccio ha vissuto in campagna una fetta significativa dei suoi anni giovanili in compagnia dei nonni, che si rivelarono figure centrali della sua formazione spirituale, abitando in un elegante ed antico palazzo di famiglia nel cuore storico del paese, dolorosamente distrutto dal terremoto del 1980. D’altra parte, l’attaccamento alle proprie radici vede idealmente accostate sia l’esperienza di De Sanctis sia quella di Brancaccio, che a testimonianza del suo legame profondo con gli affetti familiari significativamente dedica il suo libro sulla Giovinezza alla memoria della madre, Jone Manzi, irpina originaria di Sant’Angelo. È importante sottolineare come la stessa “giovinezza” di Brancaccio, il quale si sarebbe successivamente trasferito a Napoli per proseguire gli studi superiori, sia servita anche a comprendere storicamente la natura sociale di una terra, che proprio a metà del Novecento vedeva svanire nel nulla i caratteri tipici di un ambiente rurale spazzato via dai miti travolgenti dell’incipiente società dei consumi, responsabili della rottura di tradizioni millenarie appartenute ad una certa Italia contadina, sopraffatta dal prorompere impetuoso della civiltà urbana e metropolitana.4 Volgendosi dunque ad attendere con certosina accuratezza e rigore filologico alla cura della Giovinezza di De Sanctis, Brancaccio ha giustamente inteso non solo celebrare l’autenticità di 4 Una chiara eco di tale fenomeno la si può ben riconoscere nel romanzo di Luciano Bianciardi, La vita agra (Milano, Rizzoli “La Scala”, 1962) ambientato in Lombardia, tra Milano e il suo circondario rurale, negli anni frenetici e confusi del “boom economico”, di cui costituisce una provocatoria denuncia.
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un mondo incontaminato, ma registrare anche, da storico avvertito qual è, lo stridente contrasto tra l’ordinaria quiete della vita di campagna e le dirompenti contraddizioni della esistenza borghese in città, teatro di formidabili trasformazioni sociali e di costume indotte dal consumismo dilagante della seconda parte del secolo scorso. Brancaccio ritrova, inoltre, evidenti assonanze letterarie, stilistiche ed evocative con il Viaggio elettorale, documento unico e straordinario scritto da De Sanctis in occasione delle elezioni suppletive del 1875 (si era già votato nel ’74), alle quali il parlamentare irpino aveva nuovamente partecipato come candidato nel collegio di Lacedonia. Il Viaggio, anticipatore della Giovinezza, costituisce insieme un diario intimo e la cronaca sociale e politica di uno spaccato di vita del Mezzogiorno liberale, dove contadini, proprietari latifondisti, borghesi “galantuomini” diventarono attori di una scena dove la trama di relazioni e di alleanze, nonché il gioco duro ed ambiguo di interessi politici ed amministrativi contrapposti, risultarono funzionali all’affermazione nazionale del trasformismo. Nel Viaggio, come nella Giovinezza, agisce la spinta desanctisiana alla “vocazione autobiografica”. Mentre nel primo affiora la vibrante personalità dell’uomo politico, calato nel fuoco di una difficile campagna elettorale, nella seconda riecheggia anzitutto il profilo dell’uomo privato, del giovane letterato in formazione, dell’impavido patriota antiborbonico e risorgimentale pronto a combattere per la prova unitaria. In particolare qui, nella Giovinezza, il discorso della “patria” diventa centrale, ma non è ancora in discussione la “madrepatria” italiana, bensì resta ancora in gioco la piccola “patria” dei luoghi d’origine con la visione di una “nazione napoletana” incentrata sull’immagine tangibile della sua capitale, Napoli, epicentro dell’universo personale e culturale dello scrittore, faro europeo di progresso ma pure specchio distorto di un Mezzogiorno in perenne ansia di riscatto.
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Insomma, la Giovinezza di De Sanctis, letta da Brancaccio, si presenta da un lato come una preziosissima testimonianza dell’esemplare vicenda morale, umana e intellettuale dell’autore della famosa Storia della Letteratura italiana, e assume dall’altro le sembianze di un incalzante viaggio nel tempo, il suo tempo, ed un profondo itinerario dello spirito, il suo spirito curioso, ardente, inesauribile di ingegno affidato alla rievocazione familiare, fonte di ricordi, nostalgie, rimpianti, ma anche di solide certezze. Non è affatto secondario qui osservare, infatti, come nella narrazione si avverta la traccia feconda di una elaborazione e di un impegno sostenuti dall’ancoraggio a fermi principi etici, che avrebbero accompagnato l’attività di De Sanctis per tutta la vita, sia pubblica che privata. Al centro del suggestivo racconto autobiografico si collocano figure emblematiche della cultura napoletana, che illuminarono la crescita professionale e civile di De Sanctis. Tra quei protagonisti un ruolo decisivo rivestì, proprio per la sua forte impronta educativa, il marchese Basilio Puoti, il maestro reputato l’ultimo dei “puristi”, il cui celebre “Studio” rappresentò il momento forse più elevato della maturazione di un’intera generazione di promettenti studiosi ed umanisti nell’Ottocento meridionale. Sulla scia dell’insegnamento di Puoti, De Sanctis, facendo tesoro di quell’alto magistero, aprì con successo al vico Bisi, nel cuore antico di Napoli, una propria scuola di studi pullulante di giovani e bravi allievi. La Napoli borbonica si presentava al tempo del giovane De Sanctis in bilico tra restaurazione e rivoluzione, tra conservazione retriva e richieste di riforma ed aneliti di riscossa libertaria. Oppressa da un regime dispotico e repressivo, la capitale del Regno esibiva al tempo di Ferdinando II un malessere che poneva il suo contraltare nell’opposizione di fermenti antagonisti, che soprattutto all’indomani dei moti del 1848 risultarono sotto traccia vivificati da élite borghesi, benché consapevoli delle dif-
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ficoltà di un angusto presente, comunque tenacemente convinte di dover conferire al Mezzogiorno preunitario una prospettiva costituzionale rinnovata, collegata al filo rosso di esperienze coeve del liberalismo continentale, fondate su sistemi di consolidata rappresentanza politico-parlamentare. Napoli, quella degli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo, era una metropoli dalla caratura europea, che riusciva a mantenere in vita, nonostante la pesante cappa dell’autoritarismo borbonico, un profondo legame con i consessi più aperti e vivaci della cultura internazionale. Nel maggio del ’48 l’onda lunga rinnovatrice sfociò nelle turbolenze che portarono, pur nella drammaticità della reazione statale e al cospetto di gravi difficoltà organizzative, al fiorire di nuovi corpi di combattenti per la libertà, che si proposero di agire immediatamente verso la prospettiva unitaria. Espulso dall’insegnamento nei collegi militari della città, in particolare da quello svolto per circa otto anni nella Scuola dei cadetti della “Nunziatella”, De Sanctis aderì alla battaglia del movimento nazionale per l’Unità d’Italia, divenendo ben presto un “patriota” liberale di primo piano. Come sostiene Brancaccio, fu proprio la data del moto napoletano del 15 maggio ’48, represso nel sangue dai Borbone, a segnare emblematicamente lo spartiacque dell’azione politica di De Sanctis, che dopo la drammatica resistenza napoletana di primavera in cui vide perire tra le sue braccia il discepolo prediletto, Luigi La Vista, ferito a morte dai militari borbonici, spostò il baricentro della propria condotta dall’obiettivo della limitata rinascita della nazione napoletana a quello dell’inedita e grandiosa costruzione della nazione italiana, e venne sospinto nel vortice della militanza risorgimentale, praticata per lo più in clandestinità, e dell’esilio piemontese sotto la protezione del conte di Cavour.5 5
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Cfr. G. Brancaccio, Introduzione cit., p. 48 ss.
Nel disegno sanguinario di Ferdinando, alla pari di Settembrini, autore delle Ricordanze della mia vita, di Poerio, Spaventa ed Imbriani, De Sanctis aveva potuto sperimentare l’incarnazione di un regime assolutista in grado di annientare qualunque opposizione. Egli si era reso ormai conto dell’inadeguatezza dell’operato del sovrano, che sembrava aver impresso, nel precedente mese di febbraio, una svolta di tipo costituzionale favorevole a moderate aperture verso la classe degli intellettuali, che premeva per il cambiamento e le riforme. La sua nuova coscienza di liberale unitario condusse De Sanctis all’amara conclusione di non poter più contare sul sostegno illuminato e sulla lungimiranza di una monarchia dimostratasi strumentalmente incapace di assecondare una stagione di mutamenti politico-istituzionali e di favorire un processo di pacificazione interna con i gruppi più avvertiti della borghesia napoletana, che maggiormente risentirono, tra molteplici ed irrisolte contraddizioni, della vitalità offerta dalle grandi idee del Romanticismo europeo. L’atteggiamento duramente avverso del Borbone si tradusse allora nel momento della maturità politica di De Sanctis e rappresentò l’avvio di quella dura prova che preparò le basi per la rivoluzione nazionale, il cui compimento si consumò con il plebiscito dell’ottobre 1861, che portò all’annessione del Mezzogiorno peninsulare ed insulare nello Stato italiano nato sotto l’egida del trono sabaudo. Con il che La giovinezza finisce per assumere un significato che va ben al di là della mera celebrazione degli affetti familiari ed amicali. Essa difatti racchiude in nuce, per dirla con Benedetto Croce, elementi interessanti e gravidi di conseguenze relativi alla passione politica di De Sanctis, alla sua visione moderata e centrista, nemica degli opposti estremismi e sostenuta da una tensione morale che lo avrebbe condotto in particolare negli ultimi anni della sua esistenza, dopo una lunga ed intensa militanza dapprima nelle file della Destra Storica, quale esponente di primissimo
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rilievo, poi a metà degli anni Sessanta nella Sinistra Giovane, da lui stesso fondata allo scopo di promuovere un rinnovamento generazionale e di linea strategica della politica nazionale, a lanciare una vibrante denuncia dei mali morali e materiali della cosiddetta “nuova Italia”, nella quale le questioni aperte del Sud, quale tragico rovescio della modernizzazione liberale, continuarono a trascinarsi rovinosamente senza possibilità di incontrare soluzioni positive per la ripresa di quell’area del Paese provata da endemiche condizioni di inferiorità. Corruzione e particolarismo degli interessi furono a ben vedere i bersagli prescelti dal grande letterato, amaramente cosciente che a pagarne le maggiori e più pericolose conseguenze sarebbe stato proprio il “suo” Mezzogiorno, la vecchia “patria” decantata nello sfondo geo-letterario della Giovinezza tradottasi, sul piano politico-parlamentare unitario, non solo in un blocco ridotto a mero sostegno dei regionalismi più forti, ben rappresentati nei palazzi del potere centrale e duratura espressione di quella tradizione mai definitivamente spenta degli antichi Stati italiani, ma anche in un organismo atomizzato e sacrificato, a metà degli anni Settanta del secolo, sull’altare depretisiano del trasformismo storico, che culminò nella realizzazione risolutiva di un organico programma di difesa dello Stato contro ogni condotta potenzialmente sovversiva di minoranze antagoniste, proprio nel momento nel quale l’apparato pubblico, volano dello sviluppo, avviava la trasformazione economica in senso industriale dell’Italia, allo scopo riuscito di colmarne il ritardo di paese europeo latecomer. Così, ad un livello istituzionale, si sarebbe risolto il problema di fondo dello Stato unitario: quello di mantenere nettamente separate opposizione politica ed opposizione meridionale. Dal 1876 gruppo minoritario e subalterno risultò dunque il blocco delle deputazioni meridionali capeggiato da Giovanni Nicotera, il calabrese (era nato a Sambiase nel 1828) notissimo parlamentare della Sinistra storica, luogotenente di Carlo Pisacane ed eroe
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superstite della tragica impresa di Sapri nell’estate del 1857, sempre eletto in Campania nei collegi uninominali di Napoli e Salerno, che De Sanctis considerò acerrimo nemico ed accusò, in definitiva, di aver largamente contribuito con i suoi metodi indebiti, spregiudicati ed arbitrari nel segno dello “spagnolismo parlamentare”6 al generale deterioramento della vita pubblica nazionale.
6 Con questa espressione De Sanctis e i suoi più fidati collaboratori, tra cui il giornalista Michele Torraca, condannarono la contraddittoria condotta politica di Nicotera, comparandola ai periodi più bui della plurisecolare dominazione spagnola in Italia e nel Mezzogiorno in particolare. Figurò Torraca tra gli esponenti di punta di un movimento combattivo filo nazionalista che, dopo la morte di De Sanctis a cavaliere tra i due secoli, assunse un atteggiamento marcatamente antiparlamentare e contrario alle politiche di coloro che venivano accusati di aver tradito la rivoluzione risorgimentale, di aver arrestato il cammino della Nazione creata nel ’61 e di averla condotta sull’orlo del precipizio, irrimediabilmente compromessa da corruzione e sopraffazione, da scandali finanziari e dal complessivo degrado morale e civile. Si trattò in realtà di un segno negativo di tempi agitati che venne ben percepito e narrato da scrittori coevi della letteratura italiana sensibili al tema. Al riguardo risulta senz’altro utile esaminare le opere di taluni autori siciliani, come quella di Federico De Roberto, L’imperio (cfr. in particolare l’edizione commentata a cura di Gabriele Pedullà per Garzanti, 2019) o anche I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello.
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Vittoria Fiorelli Rileggere le fonti e la misura della scrittura storica Non è solo una prova della instancabile attività scientifica di Giovanni Brancaccio la pubblicazione, nel 2017, de La giovinezza di Francesco De Sanctis. Non è la semplice, generosa attenzione, dedicata da uno specialista formato alla solida scuola di un maestro come Giuseppe Galasso, alla riedizione di un testo troppo spesso marginalizzato e derubricato al rango dei ricordi biografici e familiari dalla bibliografia prodotta dagli studiosi che si sono occupati del grande storico irpino della letteratura italiana. Si tratta invero di un lavoro che, oltre a recuperare al mondo degli studi la consapevolezza dello spessore di uno scritto nel quale si ritrovano tracce importanti per la comprensione di un periodo storico fondamentale non solo per la storia d’Italia, dà prova della duttilità e della lungimiranza con cui la storiografia più moderna e aggiornata sa guardare all’impianto tradizionale della disciplina innovandone metodi, sguardi e periodizzazioni. L’apertura della modernistica italiana alla storia dell’Ottocento stenta infatti a trovare spazio negli orientamenti specialistici della disciplina, eppure essa, oltre a costituire una frontiera necessaria degli studi, realizza una feconda contaminazione di sguardi e di metodi molto utile alla produzione scientifica contemporanea.
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In questa lenta e inevitabile svolta degli studi, la scelta di Giovanni Brancaccio ha da tempo segnato la storiografia meridionale, non solo per i numerosi contributi che ha pubblicato negli ultimi anni abbinando l’aperura temporale a una attenzione densa e lucida alla storia di un Mediterraneo inatteso, rivolto a Oriente, oltre la più tradizionale traiettoria orientata verso le coste iberiche. Ma soprattutto perché ha saputo immaginare spazi e luoghi nei quali il suo personale contributo si è trasformato in strumento di animazione e di trasmissione intellettuale. La collana Adriatica Moderna delle edizioni Biblion deve molto all’impegno di Brancaccio, soprattutto nella sua sezione Testi dedicata appunto alla riproposizione delle fonti che lui stesso aveva inaugurato ripubblicando le Lettere slave di Giuseppe Mazzini insieme ad alcuni importanti scritti che il patriota italiano aveva dedicato alla questione orientale. La giovinezza di De Sanctis si inserisce a pieno titolo in questo impegno e non si limita a proporre una nuova edizione, ma grazie all’Introduzione di Giovanni Brancaccio, un vero e proprio saggio che apre il volume con lo spessore di un contributo indipendente (Francesco De Sanctis: La giovinezza. Impegno intellettuale e lotta politica), essa offre una rilettura nel senso più completo che si possa dare a questa espressione. Non si tratta, ovviamente, di un tentativo di innovazione nel segno degli studi filologici e letterari, ma di un solido e denso percorso di reinserimento di quel testo nel complesso panorama della storia che vi si racconta dialogando costantemente con il momento in cui De Sanctis aveva deciso di consegnare alla scrittura quelle vicende lontane dei suoi anni acerbi. Un attraversamento del secolo XIX al quale si affianca il recupero sapiente dei percorsi storiografici che quel contesto hanno tratteggiato offrendo dunque un triplice piano problematico e interpretativo al lettore avveduto che lo sappia cogliere, senza mai per questo intessere di verbose disquisizioni quel discorso agile e immedia-
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to prodotto dal racconto di stampo biografico. Insomma, una capacità di consentire tanto per le memorie di De Sanctis che per la premessa del curatore, una lettura a profondità variabile che non rinuncia, nel fascino storico-letterario della narrazione, alla densità dell’approccio specialistico. Già nei primi passaggi del saggio di apertura l’autore intreccia l’impegno per l’edizione del testo, lo spessore delle relazioni tra grandi protagonisti della storia italiana dell’Ottocento e la loro memoria che da personale reminiscenza si fa storia anche grazie alla mediazione di quel testo di accompagnamento. La prima figura che ci viene incontro è quella di Pasquale Villari, l’allievo di De Sanctis impegnato a trasmettere la traccia non solo intima dei ricordi che il suo maestro aveva voluto raccogliere negli ultimi due anni di vita consegnandoli alla scrittura della nipote Agnese dopo aver perso l’uso degli occhi a causa di una grave malattia. Per questo egli aveva progettato un volume di Memorie nel quale a quelle pagine si sarebbero affiancate, dopo averle sottoposte a un’accurata revisione filologica, le lezioni di grammatica che gli allievi della scuola di vico Bisi avevano raccolto. Non solo testimonianza nostalgica della propria formazione e di quella fucina di patriottismo e affetti, di quei “giorni felici, pieni di speranze nei quali vivemmo e studiammo insieme”, ma anche ricordo intrecciato al tratto vitale di un ambiente politico che cresceva nel magistero e nell’impegno di studio. Accanto a questa narrazione che tratteggia i sentimenti, oltre che le persone, insieme alle relazioni e agli ambienti nei quali era cresciuta l’appartenenza alla nuova Italia, nel saggio di Brancaccio si ritrova poi la storia intellettuale e, direi, dell’impresa culturale che ha avuto una funzione strategica in quella fase della vita della Penisola. Lo spazio che lo studioso ha dedicato alla casa editrice napoletana Morano con la quale Villari aveva programmato di dare alle stampe le Memorie del suo maestro apre infatti uno spaccato originale e inconsueto nella descrizione dei
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primi decenni postunitari, consegnando al lettore la storia di uno snodo fondamentale delle relazioni politiche contemporanee che trascendeva di gran lunga le questioni editoriali. Ma per tornare a quella struttura su piani diversi e connessi offerta dall’Introduzione, tralasciando per ora le primissime pagine dedicate al racconto della partenza di De Sanctis da Morra Irpina, dove era nato nel 1817, e all’arrivo a Napoli, accompagnato dalla nonna, nella popolare zona della Pignasecca dove il giovane era destinato a frequentare la scuola privata di un altro parente, lo zio sacerdote Carlo Maria De Sanctis, non bisogna sottovalutare l’interesse che può suscitare la ricostruzione della situazione nella capitale alla quale giunsero il giovane irpino e la sua accompagnatrice. La descrizione della città, infatti, dà conto del clima generale così come delle vicende politiche, strettamente e continuamente intrecciate agli episodi biografici che il protagonista, testimone del tempo, ha consegnato alla trascrizione dei ricordi. Un resoconto che, mentre rimane saldamente ancorato alla storia civile delle turbolenze del 1820-1821 e alla partecipazione viva e vitale dei napoletani a quella fase della storia nazionale, non rinuncia a dare conto del dibattito storiografico e della problematizzazione di quei passaggi cruciali. La stessa ampia e informata digressione attraverso il contesto, dentro e fuori dal Regno, che Brancaccio ha affiancato, più avanti, alla descrizione del periodo di governo di Ferdinando II, forse la parte più densa della contestualizzazione storiografica offerta da questa edizione de La giovinezza. Di quel periodo di ristagno sociale ed economico seguito alla repressione e al dispiegamento di occhiuti controlli sugli ambienti più vivaci della capitale coinvolti nelle turbolenze degli anni Venti, quando era partita per l’esilio volontario la parte migliore delle intelligenze napoletane, lo studioso ha tracciato un quadro che, partendo dalla lettura che di quella temperie avevano fatto Galasso e Scirocco, si apre ad ampie considerazioni che tengono
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insieme la riforma della giustizia e il pareggio di bilancio, i provvedimenti per il commercio e la marina mercantile e l’impianto delle nuove manifatture, tutti spunti che egli aveva già affrontato con ben altra attenzione nei suoi lavori, ma che vengono qui velocemente attraversati per dare spessore compiuto alla trattazione generale. Questa considerazione dell’impianto politico nel senso più vasto del termine non si sottrae al gusto di un’ampia digressione nella storia culturale e letteraria di quegli anni. Alle suggestive riflessioni relative al ritardo nell’apertura a Napoli della stagione romantica e nella produzione dei romanzi storici, infatti, Brancaccio affianca una interessante parentesi sulle riviste pubblicate, “Il Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti” fondata da Giuseppe Campagna per esempio, alle quali egli collega la sopravvivenza sotterranea delle correnti progressiste. Senza dimenticare i salotti, cenacoli aperti di cultura e di progresso, nei quali gli ambienti intellettuali e borghesi costruivano la cultura del paese che stava cambiando, riuniti attorno a personalità di grande spessore. Nelle pagine dell’Introduzione si animano dunque la casa di Carlo Troya, nella quale prendeva forma una moderna storiografia radicata nello studio delle fonti, mentre attorno a Giuseppe Di Cesare si riunivano i letterati e i poeti, si raccontano le riunioni organizzate dall’astronomo Antonio Nobile affiancato dalla moglie Giuseppina Guacci dedita alla poesia e alla moderna scienza dell’insegnamento che stava aggregando le più vivaci presenze femminili di quegli anni impazienti di misurarsi con un impegno civico e culturalmente politico. In chiusura non si può tralasciare un altro aspetto della storia del secolo XIX che emerge costante nel saggio scritto da Giovanni Brancaccio, cioè l’attenzione alla trasformazione progressiva del sistema della formazione che lo studioso lucidamente pone tra i capisaldi della maturazione politica dell’identità italiana ed egli rintraccia nel consapevole ricordo di De Sanctis e nella priorità che Villari assegnava a questo aspetto nel suo legame con il maestro
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e nei rapporti che hanno tenuti stretti tra loro gli allievi cresciuti nel rigore del metodo e nell’aspirazione all’impegno per la crescita della nazione. Come abbiamo ricordato, in apertura, Brancaccio si è soffermato sul racconto delle scuole private e sulla frammentazione del sistema formativo affidato alla trasmissione di una cultura tradizionalistica e rigidamente conservatrice nella quale il clero secolare manteneva un ruolo preminente. Da quella dello zio don Carlo a quella dell’abate Lorenzo Fazzini questi passaggi costituiscono l’occasione per aprire una riflessione sulla “privata docenza” e sulla convinzione che accompagnò sempre lo studioso irpino che quelli dell’insegnamento, per quanto sorpassato, rimanessero comunque luoghi utili per la formazione affidati a personalità in grado di attirare allievi da tutte le province del Regno garantendo dunque la possibilità di aprire confronti vietati in molti altri settori della vita sociale contemporanea e in netta discontinuità con i seminari, luoghi formali di educazione oramai consegnati alla vita scolastica. E infatti un passaggio importante delle memorie raccolte ne La giovinezza è quello dedicato alla frequentazione dello Studio di Basilio Puoti. La descrizione del metodo usato dal purista napoletano nella sua scuola che De Sanctis ha consegnato alle sue memorie è in realtà una riflessione appassionata sul ruolo civico della cultura umanistica e del suo insegnamento. Un tema che mai come ora ci interroga tutti e costituisce una delle principali criticità della tenuta del sistema formativo e della filosofia dell’educazione. Questa sollecitazione è colta in pieno da Brancaccio che la segue con convinzione lungo le pagine della sua Introduzione interpretando nel modo più completo il tratto osmotico tra testo e premessa storica con un impegno speculare a quello dimostrato da Pasquale Villari nei confronti dello scritto lasciato da De Sanctis. Una edizione preziosa, dunque, questa Giovinezza, un viaggio affascinante nell’Ottocento in compagnia di tre guide di eccezione.
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Luigi Mascilli Migliorini Il mondo dei padri Una “nota triste” colora l’aria di una piovigginosa giornata di fine dicembre del 1883, quando, a Napoli, si celebrano i funerali di Francesco De Sanctis. La avverte Nicola Marselli, patriota fervente, militare un tempo, poi storico e filosofo, quando ne scrive, più tardi, pensando che quel giorno, nell’atmosfera melanconica che contagiava tutti i presenti, si fosse celebrata non solo la fine di uno degli uomini più illustri del Risorgimento italiano, ma anche la fine di quel Risorgimento. Sì, era davvero finita. Per qualche anno, persino per qualche decennio, ci si era provati a conservare l’aura febbrile, eroica a tratti, della costruzione dell’Italia, ma poi, un po’ alla volta, uno per volta ci si era dovuti arrendere. Non c’era più l’Italia da fare e quella che si era fatta si rivelava ogni giorno di più lontana dall’ideale per cui molti avevano combattuto, tanti erano morti. La generazione più giovane, scapigliata o bizantina che volesse chiamarsi, lo diceva. Parlava del mondo dei padri – come sempre accade di fare ai figli – come di un mondo svanito non appena aveva preso forma storica. Una Bisanzio della corruzione, tuonavano alcuni, una retorica illusione lontana dai ritmi e dalle aspirazioni del presente, replicavano altri, già innamorati di un’epoca che ai loro occhi appariva più robusta, più positiva. 109
E questo, quando si trattava del Mezzogiorno, delle sue speranze deluse, del suo presente mortificato, diventava ancor più amaramente vero. Lo sapeva Nicola Marselli, lo sapeva Giuseppe Ferrarelli, che in pagine nascoste del suo Diario, raccolte poi da Benedetto Croce, parlava del silenzio come dell’unica scelta di chi, patriota convinto ora assisteva al decomporsi del proprio mondo. Lo sapeva Pasquale Villari, il grande storico che di lì a poco avrebbe raccolto i ricordi di Francesco De Sanctis e li avrebbe offerti ad un tempo che non sapeva più esattamente cosa farsene. Perché, tra tutti, era stato proprio De Sanctis a capire, con l’intelligenza acuta delle cose che lo aveva sempre accompagnato nella sua vita, che i tempi erano cambiati. Non in Italia soltanto, ma in Germania, in Francia, in Europa. Ovunque, la scienza – come egli scrive nelle sue ultime, magistrali riflessioni – stava prendendo il posto della vita e sostituiva, con la sua fredda sicurezza, le generose idealità che gli uomini della sua generazione avevano nutrito mettendo per esse, senza esitazione, a repentaglio le loro stesse esistenze. Il secolo che era nato sullo slancio impreciso e fervido di una Rivoluzione, si andava chiudendo coltivando l’orto domestico di un “progresso” che rendeva orgogliosi solo coloro che non avevano mai veramente conosciuto le titaniche ambizioni a cui si era educata la generazione nata intorno al 1789 e cresciuta nella leggenda napoleonica. Non era, però, almeno non per Francesco De Sanctis, tempo di recriminazioni, ma tempo di bilanci, quello sì. Ed egli aveva cominciato a farlo già da qualche anno, raccogliendosi intorno ai ricordi più lontani della sua vita, chiamando in soccorso quella che egli stesso aveva chiamato “la regina delle muse” la “grande maga trasformatrice” della memoria. Aveva, insomma, cominciato a scrivere le pagine che poi diventeranno, per la cura postuma, appunto di Pasquale Villari, La Giovinezza, uno dei più bei testi della letteratura italiana, che ritorna ora in una edizione che non potrebbe essere più esauriente e accogliente, grazie al lavoro condotto da
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Giovanni Brancaccio (Biblion edizioni, pagg. 414). Giovanni Brancaccio – uno storico stavolta, non un letterato – regala a un testo che si potrebbe definire noto, più volte pubblicato con autorevoli curatele (per tutte Carlo Muscetta e Gennaro Savarese), non solo l’impegno di una riconosciuta competenza, ma la forza di una diretta partecipazione etica ed emotiva. Egli ha, si può dire, conosciuto – per diretta esperienza di vita, per racconto del suo mondo familiare – il Mezzogiorno, o più esattamente l’Irpinia, che fa, almeno nella parte iniziale di queste Memorie, da sfondo all’infanzia di Francesco De Sanctis. Nella sua ampia, documentatissima Introduzione, Giovanni Brancaccio riversa in primo luogo il frutto maturo di anni di ricerca e di riflessione critica intorno all’Ottocento meridionale, a quella stagione che per quel mondo significò attraversare il processo risorgimentale interrogandosi a lungo sul ruolo che il Mezzogiorno avrebbe dovuto assumere alla luce della propria tradizione storica e, al tempo stesso, delle proprie condizioni presenti, quelle condizioni che, con accorata asciuttezza, nelle pagine della sua celebre Protesta del popolo delle due Sicilie Luigi Settembrini non aveva mancato di ricordare alla sua generazione, alla quale, appena più giovane di lui, apparteneva anche Francesco De Sanctis. Travaglio difficile, vissuto con particolare intensità nelle province del Regno, diverse – è vero – tra loro ma per le quali – e specialmente per le tante distribuite sui faticosi crinali interni dell’Appennino – più aspra era l’esperienza del vivere quotidiano e più impazienti le attese di un cambiamento. Le borghesie provinciali maturano allora un progetto di modernizzazione che nella sua prima fase non intacca ancora il quadro istituzionale, politico e culturale della monarchia borbonica, ma che gradualmente se ne rende estraneo a misura del progressivo crescere della urgenza del cambiamento, del precisarsi nella coscienza dei suoi attori degli obiettivi finali del cambiamento e, al lato opposto, dallo sclerotizzarsi dell’azione di governo della dinastia.
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All’origine, dunque, vi è un Mezzogiorno lento, quasi fermo, negli anni Trenta dell’Ottocento come accadrà tante volte nella sua storia, ma che non impedisce ad esso di essere origine di esistenze ricche, quasi avventurose, come quella che porta Francesco De Sanctis dal tiepido universo di Morra Irpina alle battaglie nella Napoli del 1848, all’esilio a Torino prima, a Zurigo poi e infine la difficile costruzione di un’Italia unita che non consideri il Mezzogiorno come il mondo dei vinti. La Giovinezza racconta, in questo senso, una vicenda umana e intellettuale insieme che trova il suo appuntamento decisivo in quell’opera non meno autobiografica che la precede. Ciò che attende “Ciccillo”, l’adolescente Francesco che “tomo tomo fa il suo cammino”, non è solo e tanto l’epica della lotta risorgimentale, ma sono le pagine di quel capolavoro che sarà poi, alla fine del decennio Sessanta, la sua Storia della letteratura italiana. Prima e, per molti versi, unica e vera storia della nazione italiana che egli intesse della sua biografia assai più di quanto talvolta si comprende. A cominciare dalla scelta di pubblicarla a Napoli, presso l’“editore galantuomo” Antonio Morano, rifiutando allettanti offerte degli editori settentrionali perché in nessun altro luogo se non a Napoli, la città della sua giovinezza, si poteva raccontare per lui l’esistenza di quella sua grande passione chiamata Italia. È Benedetto Croce che lo racconta nelle belle pagine su Come fu scritta la “Storia della letteratura italiana” che rimangono testimonianza preziosa della genesi di un’opera capitale della nostra tradizione nazionale anche per il contesto editoriale che essa venne ad avere, per volontà decisa del suo autore. “Scelgo Morano e Napoli!” è la frase imperiosa che nel 1869 certifica una decisione imposta a De Sanctis da profonde motivazioni etico-politiche. Ad esse non era certamente estranea la circostanza che Luigi Settembrini, maestro e compagno di una vita, le sue Lezioni di letteratura italiana aveva voluto pubblicarle proprio da Morano e che in esse era già contenuta una dichiarata rivalutazione critica della lettera-
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tura meridionale del Tre e Quattrocento, la cui definitiva consacrazione avverrà qualche anno più tardi e sempre presso Morano con l’edizione settembriniana del Novellino di Masuccio Salernitano. Per entrambi, insomma, l’Italia poteva nascere su solidi presupposti di comunità condivisa unicamente se si fosse fondata su una convinta accettazione, e dunque su una preliminare autentica conoscenza delle diverse tradizioni regionali, delle quali il Mezzogiorno rappresentava una delle esperienze più complesse e al tempo stesso più articolate. Più che un archetipo proustiano, La Giovinezza è, dunque, una sorta di romanzo di formazione che poco alla volta si trasforma nella formazione collettiva di una nazione che si misura con la propria maturità. Lo spiega bene Giovanni Brancaccio, sovrapponendo nelle sue pagine introduttive a quella trasformazione che De Sanctis aveva visto e voluto quella che egli stesso ha visto nel Mezzogiorno tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento dove ha vissuto. Processo storico e autobiografico insieme quello a cui il lettore partecipa nelle emozionanti pagine della Introduzione, poste quasi a specchio di quella operazione storica e autobiografica che De Sanctis aveva voluto riservare alle proprie pagine. È stata lenta la trasformazione di quelle terre, dell’interno, accidentato e montuoso, dell’Appennino. È straordinario osservare quanto le viuzze, gli angoli urbani, le case, i volti del Mezzogiorno italiano possano essersi conservati pressoché intatti da quando li ricorda Francesco De Sanctis a quando li scopre Carlo Levi, a quando, ancora nel pieno degli anni Cinquanta, li può aver visti un bambino nato all’indomani della seconda guerra mondiale. Poi tutto è corso velocemente, troppo velocemente, e la modernizzazione tardo-novecentesca di cui Giovanni Brancaccio è stato egualmente uno storico di grande profondità ed equilibrio lascia dietro di sé (così mi sembra di intravedere oggi nelle sue belle pagine) un dubbio da cui Francesco De Sanctis non è stato – credo – toccato: se tutto questo che oggi vediamo lo abbiamo veramente voluto.
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Gli Autori Luigi Alonzi è professore associato di Storia Moderna (Università degli Studi di Palermo) Salvatore Barbagallo è professore associato di Storia Moderna (Università degli Studi del Salento) Giuseppe Cacciatore, accademico dei Lincei, è professore emerito di Storia della Filosofia (Università di Napoli “Federico II”) Marco D’Urbano è dottore di ricerca in Storia Moderna (Università degli Studi di Chieti-Pescara) Vittoria Fiorelli è professore ordinario di Storia Moderna (Università di Napoli “Suor Orsola Benincasa”) Luigi Mascilli Migliorini, accademico dei Lincei, è professore ordinario di Storia Moderna (Università di Napoli “L’Orientale”) Aurelio Musi è professore ordinario di Storia Moderna (Università degli Studi di Salerno) Maria Anna Noto è professore associato di Storia Moderna (Università degli Studi di Salerno)
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Guido Pescosolido è professore ordinario di Storia Moderna (Università di Roma “La Sapienza”) Beatrice Stasi è professore associato di Letteratura Italiana (Università degli Studi del Salento) Alfonso Tortora è professore associato di Storia Moderna (Università degli Studi di Salerno) Marco Trotta è professore associato di Storia Moderna (Università degli Studi di Chieti-Pescara)
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INDICE DEI NOMI
A Alfieri, V., 83, 83n, 84, 84n Alfonzetti, B., 84n Alonzi, L., 65 Amante, E., 73 B Baldacchini, fratelli, 66 Baldacchini, M., 58 Baldacchini, S., 58 Baldassarri, G., 84n Bandiera, fratelli, 12 Barbagallo, S., 55 Battistini, A., 48 Bianciardi, L., 95n Blanch, L., 11, 58, 59 Bonghi, R., 14 Bonnet, C., 11, 66, 71 Bozzelli, F., P., 67 Brancaccio, G., 7-9, 9n, 10, 11n, 12n, 13, 13n, 14, 14n, 15, 15n, 16n, 17n, 20, 21, 25, 27, 28, 31-37, 40-43, 45, 45n, 46-48, 49n, 51, 52, 52n, 53, 53n, 55, 59, 60-65, 69, 72-76, 79, 81, 82, 82n, 88, 89, 89n, 90, 91, 93n, 94, 94n, 95-98, 98n, 103, 104, 106108, 111, 113 Bruni, F., 83n
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C Cacciatore, G., 9, 9n Cagnazzi de Samuele, L., 58 Cairoli, B., 67, 79, 93 Campagna, G., 107 Capitelli, D., 59 Capozzoli, fratelli, 56 Capuana, L., 94 Cartesio, R., 66, 71 Castiglia, I., 85n Cavour (conte di), C. B., 14, 16, 28, 36, 67, 75-77, 98 Chiesa, A., 7 Ciccone, A., 27 Colecchi, O., 11, 66, 72 Colletta, P., 34, 59 Condillac (de), E., 11, 66, 71 Conforti, R., 27 Correnti, C., 90 Cortese, N., 17n, 51, 52, 52n, 53n, 69 Cousin, V., 72, 89 Crispi, F., 26 Croce, B., 9, 10n, 19, 20, 43, 65, 99, 110, 112 Cuoco, V., 20, 34 D D’Ayala, M., 27 D’Azeglio (marchese, Taparello Massimo), 60, 86, 87 D’Urbano, M., 69
Dante (Alighieri), 82n De Augustinis, M., 58 De Luca, A. M., 56 De Francesco, A., 20 De Meis, A. C., 14, 27, 37, 67, 74-76 De Roberto, F., 101 De Sanctis, Agnese, 20, 46, 51, 65, 69, 79, 87, 90, 93, 105 De Sanctis, Alessandro, 70 De Sanctis, Carlo Maria, 22, 50, 55, 66, 70, 71, 73, 106, 108 De Sanctis, F., 7, 9, 9n, 10, 10n, 11, 11n, 12, 12n, 13, 13n, 14, 15, 15n, 16, 16n, 17, 18, 18n, 19-28, 31-43, 45, 45n, 46-49, 49n, 50n, 51, 52n, 53n, 55, 56, 58-62, 62n, 63, 63n, 64-67, 69-79, 81, 82, 82n, 87, 87n, 88, 88n, 89, 89n, 90, 91, 93, 93n, 94, 94n, 95-99, 101, 101n, 103-113 De Santis Genoviefa, 65 De Sanctis, Giovanni, 66, 70, 71 De Sanctis, Giuseppe, 71 De Sanctis, Pietro, 50, 71 De Vincenzi, G., 26 Depretis, A., 78, 90 Di Cesare, G., 11n, 59, 107 Di Rudinì (marchese, Starab-
ba Antonio), 26 Dilthey, W., 9, 10, 10n Dragonetti, L., 11 E Einaudi, G., 87 Elvezio (Helvetius), C.-A., 11, 66, 71 F Fassò, L., 83n Fazzini, L., 11, 11n, 66, 71, 108 Ferdinando I Borbone, re delle Due Sicilie (già IV re di Napoli e III di Sicilia), 55, 70, 86 Ferdinando II Borbone re delle Due Sicilie, 12, 13, 27, 34, 57, 58, 97, 106 Ferdinando III Borbone, re di Sicilia, 86 Ferdinando IV Borbone, re di Napoli, 86 Ferrarelli, G., 110 Ferri, F., 13n Fiorelli, V., 103 Francesco I Borbone, re delle Due Sicilie, 55, 70
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G Galasso, G., 103, 106 Gallo, I., 10n Gallo, N., 87n, 88, 88n Galluppi, P., 11, 66, 72, 89 Gargani, Gaetana, 66, 70 Garibaldi, G., 14, 25, 28, 76 Garzia, A., 72 Genovesi, A., 11 Gerratana, V., 18n Gioberti, V., 12 Giulio, R., 82n Gramsci, A., 18, 18n, 43 Granese, A., 82n Guacci, G., 59, 66, 107 Guaragnella, P., 82n Guzolini, F., 13 H Hegel, G. W. F., 14 Helvetius (Elvezio), C.-A., 11, 66, 71 Hume, D., 66, 72 I Imbriani, P. E., 15, 27, 59, 66, 99 Insero, S., 84, 84n K Kant. I., 66, 72
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L La Marmora, A., 16 La Mettrie (Offray de), J., 11, 66 Landucci, S., 32 Lanza, M. T., 18n Lanza, V., 89 La Vista, L., 13, 62, 67, 75, 98 Leibniz, G., 66, 72 Lejeune, Ph., 48 Leopardi, G., 22, 42, 66, 69, 73, 74, 93n Leopardi, P., S., 27 Lerra, A., 69 Levi, C., 113 Locke, J., 11, 66, 71 Lozzi, C., 43, 47 M Mancini, P. S., 11n, 15, 26, 27, 59, 89 Manzi, Jone, 45, 46, 95 Manzi, Maria Agnese, 46, 70 Manzoni, A., 41 Marini, A., 10n Marselli, N., 109, 110 Marvasi, D., 14, 37, 50, 50n, 67, 75, 76 Mascialino, F., 83n, 84n, 86n Mascilli Migliorini, L., 69, 81n, 109
Massari, G., 27 Masuccio Salernitano, 113 Mazzini, G., 104 Medici (de’), L., 57 Mellone, V., 81n, 86n Misch, G., 10n Montanelli, G., 48, 49, 49n, 60 Morano, A., 41, 51, 69, 78, 87, 93n, 105, 112, 113 Murat, G., 14, 27 Muscetta, C., 13n, 52n, 87n, 111 Musi, A., 19 N Namier, L. B., 21 Napoleone III, 27 Nicastri, L., 10n Nicolini, N., 89 Nicotera, G., 78, 100, 101n Nitti, F. S., 26 Nobile, A., 59, 66, 107 Noto, M. A., 31 O Orlando, V. E., 26 P Pedullà, G., 101n
Pellico, S., 85, 85n Pescosolido, G., 25 Pirandello, L., 101n Pisanelli, G., 27 Plutino, Agostino, 27 Plutino, Antonino, 27 Poerio, fratelli, 66, 67, 74 Poerio, A., 59 Poerio, C., 14, 59, 99 Poerio, G., 11n, 59, 67, 89 Puoti, B., 10, 11n, 22, 23, 33, 35, 55, 66, 70, 72-74, 97, 108 R Ranieri, A., 53n, 73 Ricasoli, B., 16, 28 Ricciardi, G., 58 Romano, R., 41 Rousseau, J.-J., 60 Russo, L., 94, 94n S Sabbatino, P., 82n Salandra, A., 26 Sanna, M., 10n Sapegno, N., 87n Savarese, G., 46, 51, 52n, 53n, 87n, 111 Schiller, F., 13 Scialoja, A., 27 Scirocco, A., 106
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Scott, W., 22 Segre, C., 83n Settembrini, L., 14, 15, 42, 60, 67, 74, 86, 86n, 99, 111, 112 Smith, A., 66, 72 Spaventa, fratelli, 74 Spaventa, B., 14, 15, 27, 37, 67, 99 Spaventa, S., 14, 26, 67 Spinoza, B., 66, 71 Starobinski, J., 48 Stasi, B., 45 T Tasso, T., 13 Testa, Marietta, 65, 93n Themelly, M., 86n Thiers, A., 74 Tofano, G., 27 Tomasi, F., 84n Torraca, M., 78, 101n Tortora, A., 81 Tracy (Destutt de), A.-L.-C., 11 Trotta, M., 8, 93 Troya, C., 11n, 59, 67, 107 V Verga, G., 94 Vico, G., 9, 10n, 11, 11n, 15,
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19, 34, 66, 72, 73 Villari, P., 7, 20, 46, 51, 52, 52n, 53n, 55, 65, 67, 69, 74, 75, 87, 93n, 105, 107, 108, 110 Vittorio Emanuele II, 28 W Woolf, V., 23
Adriatica Moderna 1. Giuseppe Mazzini, Lettere slave e altri scritti, a cura di Giovanni Brancaccio (Testi 1) 2. Giuseppe Prezzolini, La Dalmazia, saggio introduttivo e cura di Giovanni Brancaccio (Testi 2) 3. Il feudalesimo nel Mezzogiorno moderno. Gli Abruzzi e il Molise (secoli XV-XVIII), a cura di Giovanni Brancaccio (Studi 1) 4. Marco Trotta, Il Mezzogiorno nell'Italia liberale. Ceti dirigenti alla prova dell'Unità (1860-1899), prefazione di Giovanni Brancaccio (Studi 2) 5. Paolo Borioni, Un paradiso per i notabili. La provincia di Macerata da Giolitti al Fascismo (1920-1929) (Studi 3) 6. Augusto von Platen, Storia del Reame di Napoli dal 1414 al 1443, a cura di Giovanni Brancaccio (Testi 3) 7. Luca G. Manenti, Da Constantinopoli a Trieste. Vita di Gregorio Ananian, medico e benefattore armeno, prefazione di Giovanni Damiani (Studi 4) 8. Francesco De Sanctis, La giovinezza, prefazione e cura di Giovanni Brancaccio (Testi 4) 9. Marco Trotta, Nel Mezzogiorno moderno. Il contado di Molise: politica, economia e società (secoli XVI-XVIII) (Studi 5) 10. Luca G. Manenti, «Dove gli ammalati hanno tutti i benefici». Storia del Sanatorio Triestino dal 1897 a oggi, con un saggio di Roberto Spazzali (Stdui 6) 11. Giovanni Brancaccio, Gli Abruzzi nella storia del Mezzogiorno moderno (Studi 7) 12. Francesco De Sanctis tra storia e memoria. Sulla Giovinezza, edizione critica di Giovanni Brancaccio, a cura di Marco Trotta (Studi 8) 13. Carla Pedicino, Il Sacro Regio Consiglio del Regno di Napoli (1442-1648), introduzione di Giuseppe Cirillo (Studi 9)
Pubblicato nel mese di giugno 2020