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Italian Pages 157 Year 2014
Raffaello Cortina Editore
Nella stessa collana
Isabella Merzagora Betsos Uomini violenti Adolfo Ceretti, Lorenzo Natali Cosmologie violente Scotia J. Hicks, Bruce D. Sales Criminal Profiling Isabella Merzagora Betsos Colpevoli si nasce?
Ugo Fornari
Follia transitoria Il problema dell'irresistibile impulso e del raptus omicida
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Rqffàello C0rtina Editore
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INDICE
Presentazione Ovvero: anche un gatto può guardare un re
VII
Introduzione
3
1. Un breve excursus storico
9
2. Il contributo casistico
23
3. Le singole storie cliniche possono aiutare la comprensione
41
4. Proviamo a mettere un po' di ordine
97
5. Gli stati emotivi "semplici"
105
6. Gli stati emotivi "complessi"
109
7. A proposito delle vittime
111
8. Le implicazioni forensi
115
9. Qualche riflessione conclusiva
123
-
PRESENTAZIONE OWERO: ANCHE UN GATTO PUO GUARDARE UN RE
- Con chi parli? - domandò il Re che s'era avvicinato ad Alice, e osservava la testa del Gatto con grande curiosità. - Con un mio amico ... il Ghignagatto, -disse Alice;-vorrei presentarlo a Vostra Maestà. - Quel suo sguardo non mi piace, - rispose il Re; - però se vuole, può baciarmi la mano. - Non ho questo desiderio, - osservò il Gatto. - Non essere insolente, - disse il Re, - e non mi guardare in quel modo. [ ... ] - Un gatto può guardare in faccia a un re, - osservò Alice, - l'ho letto in qualche libro, ma non ricordo dove. LEWIS CARROLL, Alice nel paese delle meraviglie
La tradizione vorrebbe che fossero i Maestri a presentare i libri degli allievi; il fatto che in questo caso avvenga il contrario è la dimostrazione del magnanimo -letteralmente - anticonformismo del professor Fornari. Siccome però, stando a quanto assicura Alice nella citazione in esergo, anche un gatto può guardare un re, ci proverò. Con apprensione. Il libro Follia transitoria si presta a un duplice livello di lettura: è un libro per gli esperti di psicopatologia forense e di criminologia, ed è anche un libro per i non esperti, purché intelligenti, nel senso di disponibili a riflettere e, nel caso, a cambiare idea, per esempio rispetto a certi discorsi un po' forcaioli e un po' da talk show che spesso si ascoltano all'indomani dei delitti più suggestivi (si veda l'introduzione del volume, dove si affronta il tema di una certa reazione sociale massimalista). Veramente anche gli esperti sarebbe bene che fossero intelligenti ma, come abbiamo avuto spesso modo di constatare, ciò non è indispensabile. D'altro canto: "L'esperto è una persona che non ha bisogno di pensare. L'esperto sa". 1 Titolo e sottotitolo -Follia transitoria. Il problema dell'irresistibile impulso e del raptus omicida - subito fanno capire perché conviene leggere I. Come ebbe a dire Frank Lloyd Wright in un'occasione.
VII
PRESENTAZIONE
questo libro: si parla di quei gravi delitti che colpiscono di solito persone ben note all'autore del reato e magari da lui amate, crimini subitanei, che si verificano apparentemente "a ciel sereno", senza che prima del fatto si fosse avuto modo di presagire l'esistenza di una malattia di mente ( o perché non c'era o perché non la si era voluta vedere), effettuati da persone il cui stile di vita non faceva immaginare la tragedia, e talora commessi con modalità efferate. Insomma, quei fatti che fanno dire al telespettatore che "solo un matto può fare una cosa del genere". Scrive Pomari: Da una persona "normale" azioni violente di questo o altro tipo non possono venire commesse. Già, perché la gente, i mass media, gli intervistatori, i commentatori radiotelevisivi e via dicendo anche questo sanno: quando una persona è "normale" oppure no. Beati loro! [ ... ] Infatti questo è il vero problema: come si può spiegare (giustificare) un agito auto e/o eterodistruttivo in un soggetto conosciuto come "normale"?
Questi delitti hanno da sempre sfidato anche gli psicopatologi forensi ("Il reato d'impeto ha costituito e costituisce uno dei capitoli più complessi, controversi e inquietanti della psichiatria clinica e forense, passata e attuale"), non fosse altro per la necessità di distinguere quelli alla cui base vi è effettivamente stato il ricorso di una determinante patologica e quelli invece ascrivibili al "semplice" stato emotivo e passionale. Già nella breve rivisitazione storica che Pomari fa si apprezza l'importanza che, nei secoli, il tema ha avuto per gli esperti delle scienze della psiche, per i giuristi, per le persone tutte. Pomari ricorda che questi episodi venivano evocativamente definiti "eclissi della ragione"; in passato grande fortuna arrise al concetto di "monomania", coniato da Esquirol e abbracciato soprattutto dalla psichiatria francese, che, ai nostri fini, diviene "monomania omicida", cioè "un delirio parziale caratterizzato da un impulso più o meno violento a uccidere': La monomania omicida è intesa appunto a spiegare quell"'istinto cieco", quel "qualcosa di indefinito che spinge a uccidere" individui che "prima che si manifestino i sintomi che caratterizzano l'accesso impulsivo" sono "miti, buoni, onesti e anche religiosi''.2 Più tardi, in Krafft-Ebing la monomania non sopravvive ("Le monomanie [ ... ] che sono esistite solo nell'immaginazione dei loro inventori"); 3 e infatti i tempi sono maturi per mutamenti terminologici e concettuali. Ormai, a partire da Kraepelin, è storia dell'oggi, an2. Esquirol, 1838, in U. Fornari, Monomania omicida. Origini ed evoluzione storica del reato d'impeto, Centro Scientifico Editore, Torino 1997, p. 36. 3. Krafft-Ebing, 1886, in Ibidem, p. 143.
VIII
PRESENTAZIONE
che se non è sempre una storia lineare e da tutti condivisa, e, per il problema che qui ci occupa, è una storia che vede un fiorire di descrizioni e denominazioni. La psichiatria forense prospera nel tentativo di trovare sempre nuove categorie passe-partout, che di volta in volta si rivelano euristicamente insufficienti, proprio perché in tali categorie si finisce per stivare tutto ciò che non si comprende, senza andare troppo per il sottile nell'individuare differenze e particolarità, e, in sostanza, procedendo non tanto alla valutazione accorta dell'esistenza o meno di una qualche nota e codificata patologia mentale, ma affermando che poiché il comportamento è incomprensibile, o troppo crudele, o magari "contro natura", allora deve esservi malattia mentale. Questa sorta di pietra filosofale della psichiatria forense è toccata, a turno, al concetto di monomania omicida, di atavismo, di moral insanity, di discontrollo episodico, di reazione a corto circuito, di reazione esplosiva, di reazione primitiva,4 e non ne sono immuni taluni concetti dei vari DSM. Il non esperto, di fronte a tali fatti "inspiegabili", non di rado cerca rifugio nell'interpretazione in chiave di follia, perché non riesce a darsi altrimenti ragione di quanto accaduto, e perché pensa "io non lo farei mai", il che però non è sempre vero: non possiamo sapere se noi, in quelle precise circostanze, con quella storia di vita alle spalle davvero non lo faremmo. Non sempre è vero ma è rassicurante perché sostenuto dal claudicante sillogismo: quelle cose le fanno i matti- io non sono matto - ergo quelle cose non mi può accadere di farle. Eppure, avverte Fornari: "Si può essere 'cattivi' senza essere 'malati' ( di mente) e si può essere 'malati' senza essere 'cattivi' [ ... ] è possibile intendere come semplicemente 'umano' e non 'folle' un comportamento o una reazione violenta?". Insomma, esistono comportamenti che non trovano immediata e facile spiegazione; li denominiamo e ci illudiamo così di averli svelati: il papavero addormenta perché ha la vis dormitiva "spiegavano" gli antichi, ma, nello stesso modo della spiegazione "follia", questa è tautologia, non decifrazione. Qualche volta, però, ci cascano anche gli esperti, o magari confondono i ruoli e si arrogano il diritto di distribuire attenuanti gabellandole per seminfermità di mente. Il pericolo, però, oggi non è forse quello del perito che vuol fare il giudice, bensì quello del perito che si pretende "scienziato" in senso forte, dimenticando che mente e cervello potrebbero non essere proprio la stessa cosa. E sul punto tornerò. 4. G. Ponti, I. Merzagora, "La pericolosità sociale nelle sindromi marginali e nelle situazioni psichiatriche ad alto rischio", in Psychopathologia, Edizioni del Moretto, Brescia 1987, pp. 33 e sgg.
IX
PRESENTAZIONE
Restando sul problema del come decifrare, rendere intelligibili, magari comprendere le follie transitorie, e anche differenziarle dai "semplici" stati emotivi e passionali - compito, quest'ultimo che non pertiene alla clinica ma che il diritto impone ai "forensi" - Fornari ricorre a un espediente narrativo degno di un mystery: descrive prima diciassette vicende in breve, così come si potrebbero narrare le storie criminali, attraverso racconti che paiono esaurienti ma ancora ci lasciano qualcosa di inspiegato, di insoddisfacente, che non vanno del tutto a fondo, così come non approfondiscono né le storie narrate dalla pubblicistica né - purtroppo - taluni elaborati peritali. Poi, però, più avanti, i casi sono ripresi, dispiegati, penetrati, esposti nei loro perché e non solo nei come. E allora si capisce; non sempre occorre rifugiarsi nel facile alibi della malattia di mente, e anche quando la malattia c'è davvero se ne possono capire le dinamiche, dal momento che non è che la follia non abbia anch'essa dei perché, dei motivi se non proprio delle ragioni, e neppure è detto che solo perché uno ha una malattia di mente sia per ciò stesso incapace di capire e di conformare il proprio agire alla volontà. Così avvertì, pioniere, un altro Maestro, più di trent'anni or sono, Ponti, con il suo fondamentale "Compatibilità tra psicosi e piena imputabilità". 5 Oggi il monito è di Fornari: Ben sappiamo che un disturbo patologico psichico o un quadro di immaturità, comunque aggettivato e codificato, non necessariamente conferisce "significato di infermità" a un atto: e questo lo ricaviamo da un codice di lettura che prenda in considerazione, al di là della formulazione diagnostica, le caratteristiche strutturali e funzionali di quella personalità affetta da quel disturbo. Ne consegue che uno psicotico in cui sia stato ripristinato un funzionamento mentale accettabile e condiviso della sua personalità, con un buon contenimento della produzione patologica psichica, come viene ritenuto "stabilizzato e ben compensato" da un punto di vista clinico [ ... ] così deve essere considerato "capace e responsabile" sotto il profilo giuridico. 6 5. G. Ponti, P. Gallina Fiorentini, "Compatibilità tra psicosi e piena imputabilità'; in Rivista italiana di medicina legale, 1v, I, 1982, pp. 19-34. 6. E per converso: "Per contro esiste una serie di persone che non sono etichettabili con un codice alfanumerico ma che, pur tuttavia, manifestano nel loro agito un 'cattivo' funzionamento della loro personalità, che non fa parte però semplicemente di una dinamica mentale comune a tante altre persone, ma rientra in una configurazione psicopatologica che si adegua a condivisi canoni di lettura e di codificazione del disturbo mentale. Sotto questo profilo, per convenzione e per prassi consolidata, l'approccio categoriale consente di giungere a una diagnosi di 'disturbo mentale', premessa indispensabile, anche se non esaustiva, per ogni valutazione in tema di imputabilità, dal momento che un modello diagnostico integrato richiede un'analisi funzionale, che completa il discorso dal 'che cosa ha' al 'chi è' la persona che stiamo esaminando".
X
PRESENTAZIONE
Diviene chiaro come mai - riportando alcune delle storie proposte nel libro - Vincenzo cerca di uccidere la moglie, Antonio ammazza l'amante, Mauro per poco non uccide il figlio. Si capisce che quasi mai si tratta di fulmini a ciel sereno, che dietro a questi drammi ce ne sono altri, storie di vita, vicende della famiglia di origine non metabolizzate, delusioni cocenti, ferite all'autostima, attentati alla propria identità, relazioni all'insegna dell'incapacità di capirsi e rispettarsi, storie di rabbia, dolore, paura, persino amore. Cose che accadono anche a noi, per intendersi. Si raggiungono persino accenti lirici (che sia un lavoro un po' da poe. questo.7) : ti, In tutti i casi esaminati, o per ragioni di natura psicologica o per motivazioni appartenenti alla dimensione della franca patologia mentale, le relazioni interpersonali hanno perduto di significato: di volta in volta il desiderio, la pazienza, la coerenza, la posposizione, la conquista, la tenerezza, la comprensione, la compassione, la solidarietà (per non dire l'amore, parola tanto enorme quanto abusata) vengono sostituiti dal tutto e subito, dall'insofferenza, dall'intransigenza, dalla vanificazione del dissenso, dal qualunquismo, dall'isolamento, dalla solitudine e da tutta una serie di comportamenti contraddittori e alternanti, quando non francamente patologici.
Dopo la spiegazione delle diverse vicende fornita dall'autore tutto sembra più chiaro, quasi facile, persino "ovvio"; tanto facile in realtà non è, perché bisogna farsi e fare al soggetto molte domande: che ci sia o meno un'infermità, perché il soggetto ha scelto quella vittima e non un'altra? Perché ha agito in quel momento? Perché con quelle modalità? E poi c'è da indagare l'interazione fra il colpevole e la vittima, il senso che quest'ultima e una sua azione hanno avuto per il soggetto agente, l'eventuale provocazione, il vissuto catastrofico che può avere significato per esempio l'abbandono o il rifiuto della vittima, la ferita all'autostima causata dalle sue parole, il senso di minaccia scaturito dal suo agire, cosa ha rievocato quella situazione di un passato non risolto. "C'era per aria un vecchio dispiacere", scrive il gran lombardo. 7 Però è proprio il far sembrare le cose facili e ovvie (dopo) la cifra dei Maestri. Le spiegazioni a suon di termini astrusi e ricostruzioni barocche vanno lasciate a chi è incerto del proprio sapere. Dicevo che mente e cervello potrebbero non essere la medesima cosa, e avevo promesso che sul punto sarei tornata. Il punto è quello del ruolo, dell'importanza, ma anche dei limiti di quelle neurotecniche che sono 7. C.E. Gadda, La Madonna dei filosofi, Garzanti, Milano 2002.
XI
PRESENTAZIONE
oggigiorno le dernier cri in materia di accertamento peritale. Non se ne vuole assolutamente disconoscere l'importanza, Fornari lo dice esplicitamente e lo ha affermato anche in un suo libro uscito da non molto, Al di là di ogni ragionevole dubbio; 8 semplicemente non bastano o si rischia di ridursi a una "encefaloiatria di stampo lombrosiano". Proprio le diciassette storie qui narrate e dispiegate lo dimostrano, e lo conferma quell'intero capitolo dedicato alle vittime - ed è una novità nella produzione psicopatologica forense. Scrive Fornari: In molti casi non si può prescindere dalla conoscenza psicologica della vittima (indispensabile nei reati contro la persona e contro la libertà personale), perché in ambito di valutazione di una relazione conclusasi in maniera tragica il ruolo più o meno consapevolmente svolto dalla vittima è tutt'altro che indifferente. [ ... ] Assume pertanto massima importanza riuscire a esplorare le caratteristiche relazionali (reali o presunte che siano) per comprendere appieno i ruoli rispettivamente assunti. [... ] Né si può omettere un esame accurato del contesto in cui avviene il comportamento violento, potendosi individuare in esso elementi di per se stessi patogenetici o patoplastici (importanza delle caratteristiche culturali, sociali, ambientali, economiche, storiche e situazionali). [... ] Il ruolo della vittima, specie nei reati intrafamiliari e in quelli passionali, rappresenta dunque un aspetto che non può essere collocato sullo sfondo della storia in cui uno o più personaggi interagiscono tra di loro fino al tragico esito della stessa. [ ... ] Auto ed eterodistruttività possono però essere ricondotte anche a fattori esterni al sistema individuai-psicologico, che appartengono l'uno a quello sociale l'altro a quello culturale. È buona regola in altre parole, non isolare il problema decontestualizzandolo.
Il delitto non accade dentro il cervello, nessun crimine avviene in un
vacuum relazionale e sociale; le parole di Fornari e le storie che ci narra dimostrano che non basterà una risonanza magnetica a farci capire. Vi sembra che per cogliere il significato di delitti come quelli descritti, per comprendere qual è il senso di quel crimine per l'autore sia sufficiente una fMR o anche "solo" una diagnosi? O piuttosto è doverosa una disamina della criminogenesi e della criminodinamica? "Sono le dimensioni della criminogenesi e della criminodinamica quelle che ci possono aiutare a risolvere il problema valutativo: non quelle di una più o meno dotta e articolata (e confusiva) nomenclatura psichiatrica". La risonanza magnetica può dirci se una persona è più o meno vulnerabile allo stress, mal' entità soggettiva dello stressar e il contesto in cui esso assume rilevanza per la criminogenesi devono essere narrati. 8. U. Fornari, Al di là di ogni ragionevole dubbio, Espress, Torino 20 I 2.
XII
PRESENTAZIONE
Un'indagine approfondita la dobbiamo all'autore del reato anche per rispetto a lui come persona; per esempio: "La dinamica sopra descritta e ricavata da una versione del fatto-reato, intesa a far recuperare all'autore una soggettività che in quei momenti egli era convinto di aver perduto, si trova con molta frequenza alla base dell'omicidio d'impeto, ed è una dinamica squisitamente ed esclusivamente psicologica". In ogni caso, trovare un'anomalia nel cervello di una persona non basta a spiegare il delitto, e questo lo si ricava fra l'altro dalla fondamentale sentenza numero 9163 del 2005 delle Sezioni unite della Corte di cassazione. Afferma infatti la Corte: "È inoltre necessario che tra il disturbo mentale e il fatto reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo". Occorre rapportare l'esistenza dell'incapacità di intendere e di volere anche a un criterio di relazione col fatto specifico, non basta la presenza di una qualsivoglia, ancorché grave, infermità al momento del fatto, ma l'infermità deve presentare caratteristiche tali da aver partecipato alla genesi e alla dinamica di quel particolare reato. Una perizia che concludesse con la mera enunciazione dell'anomalia e tutt'al più la spiegazione di come una certa anomalia si riverbera genericamente sulle funzioni dell'intendere e del volere immiserirebbe l' attività peritale che è anche racconto, narrazione, che è anche comprensione e descrizione della dinamica e della genesi, del logos sul e del crimine. Penso ai serial killer, penso alle donne non folli eppure figlicide, penso agli "angeli della morte" (le infermiere pluriomicide dei loro pazienti), e naturalmente gli esempi potrebbero continuare proprio citando casi di famose perizie effettuate da Fornari. Qui il discorso si fa ampio: vi sono persino coloro che affermano che le moderne scoperte neuroscientifiche avrebbero fatto piazza pulita del principio della libertà dell'uomo, e proprio quando è in discussione il delitto, c'è chi arriva a sostenere che siano i nostri cervelli a commettere reati: noi saremmo innocenti. 9 Quella qui esposta è in pratica l'opzione riduzionista, ovvero la vecchia idea positivistica secondo cui il pensiero è una "secrezione del cervello". 10 Davanti all'argomentazione secondo cui sono i nostri cervelli a commettere i reati mentre noi siamo innocenti, credo ci si debba però allora chiedere in cosa consista questo noi. Forse noi non siamo (solo) il nostro cervello, siamo tutto l'insieme, o, per dirla con il neurobiologo che si firma Lucretius: "L'agente morale in senso 9. ). Greene, J. Cohen, "Far the law, neuroscience changes nothing and everything'; in Philosophical Transactions of the Royal Society Lond B: Biologica/ Sciences, 359, 2004, pp. 1775-1785. 1O. C. Vogt, in M. Mori, Libertà, necessità, determinismo, il Mulino, Bologna 2001, p. 98.
XIII
PRESENTAZIONE
giuridico è l'intero pacchetto - è composto dal cervello e il resto", 11 anche quando si commette un delitto. Alva Noe sostiene, e argomenta, che l'idea che l'unica indagine dawero scientifica della coscienza sia quella che si occupa del sistema nervoso sia frutto di un riduzionismo "ormai datato": "Il luogo della coscienza è la vita dinamica dell'intera persona o dell'intero animale immersi nel loro ambiente. [ ... ] Noi non siamo il nostro cervello. 12 [ ••• ] Il fenomeno della coscienza, così come quello della vita, è un processo dinamico che coinvolge il mondo. Siamo di casa in ciò che ci circonda. Siamo fuori dalle nostre teste"; 13 "Noi non siamo il nostro cervello. Il cervello, piuttosto, è una parte di ciò che noi siamo". 14 La mente trascende i confini della scatola cranica, e così dunque li trascendono le causali 15 del delitto. Con le parole di Fornari: [ ... ] ma il problema è un altro: comprendere come mai, in presenza di alterazioni enzimatiche, neurochimiche e neurotrasmettitoriali identiche o ampiamente sovrapponibili ci troviamo di fronte a risposte psicopatologiche e/o comportamentali diverse. Evidentemente, nella genesi e nella dinamica di ogni comportamento umano, "normale" o "patologico" che sia, bisogna ammettere l'intervento di fattori extrabiologici, che vanno da quelli psicologici a quelli situazionali, socioculturali e transculturali. In altre parole, l'organizzazione del pensiero e del linguaggio, delle emozioni e del comportamento richiedono l'intervento di ben altre variabili oltre quelle biologiche: variabili che investono alla radice il senso della vita e i significati ultimi di ogni esperienza psico(pato)logica e di ogni comportamento, delinquenziale o meno. [ ... ] Non è possibile prescindere da
una visione unitaria, globale e dinamica della persona malata o criminale e dai significati che ella conferisce alla sofferenza provocata o sperimentata, nell'ambito di una relazione, di un contesto, di un'organizzazione sociale e culturale per lei significative. [... ] A qualcuno piacerebbe ancora scoprire il cromosoma della violenza, il locus cerebrale in cui si annida !'"istinto ferino", l'enzima responsabile dell'irresistibile impulso o l'alterazione molecolare o anatomica specifica per quel comportamento o per quella sin11. Lucretius, Does Neuroscience Refute Free will?, Ludwig von Mises Institute, mises.org/daily, 20 ottobre 2005. 12. Il corsivo è mio. 13. A. Noe, Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2010, p. xv.
14.Ibidem,p.8. 15. Visto che abbiamo già citato Gadda: "Sosteneva, fra l'altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l'effetto che dir si voglia d'un unico motivo, d'una causa singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico 'le causali, la causale' gli sfuggiva preferibilmente di bocca: quasi contro sua voglia" (in C.E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, Milano 2007).
XIV
PRESENTAZIONE
tomatologia. Questa disperata e talvolta accanita e cocciuta ricerca della causalità unilineare, però, non fa altro che perpetuare l'illusione di poter trovare una soluzione semplice a problemi complessi e la fallace speranza che un qualche tipo di eugenetica consenta di costruire un sistema sociale in cui "tutti sono buoni e si comportano bene".
A questo punto sarei persino tentata di riflettere, e intrattenervi, sul possibile parallelismo fra "spirito politico del tempo" e scelte di paradigmi, non solo relativi alla punizione- questo è abbastanza ovvio - ma persino in materia di mode scientifiche e di imputabilità. Oggi, divenuti fin importuni gli esperti di troppo ampio respiro che strologano di funzioni dell'Io e di dimensioni, rimane la malattia del cervello, accertata con tecniche di brain imaging, la quale peraltro, difficilmente guaribile o magari guaribile con operazioni alla "nido del cuculo': finisce per rendere inevitabili una pronuncia di pericolosità e un internamento a tempo indeterminato. D'altra parte la commistione delle scienze della psiche (anzi della medicina in generale) con istanze di controllo è storia nota: "La medicina non ha solo per oggetto di studiare e guarire i malati, essa ha dei rapporti con l'organizzazione sociale; talvolta aiuta il legislatore nella preparazione delle leggi, spesso illumina il magistrato nella loro applicazione, e sempre veglia, con l'amministrazione, al mantenimento della salute pubblica". 16 Si tratterebbe di una lotta in cui la posta in gioco è quella del potere di esercitare il controllo, spostandolo dalla sentenza alla diagnosi. La vicenda di Pierre Rivière, il giovane contadino normanno che nel 1835 sgozzò la sorella, il fratello e la madre, fornì ai tempi l'occasione per un confronto fra il sapere giuridico e quello medico-legale, e nel libro di Foucault che narra la storia sono raccolti - a testimonianza di tale confronto - le perizie medico-legali, le dichiarazioni dei testimoni, gli articoli dei giornali, una "memoria" dell'imputato: Che giustizia e medicina mentale si disputino il gesto di Rivière pone in primo luogo un problema di classificazione in rapporto a due nuclei di sapere: colpevole o pazzo. Dietro questa posta teorica, si disegna parimenti una concorrenza tra agenti che difendono il loro posto all'interno della divisione sociale del lavoro: a che tipo di specialista affidare quest'uomo e quale sarà la sua "carriera" in funzione della sentenza o della diagnosi? [ ... ] Sette luminari della medicina non si muovono nel 1835 per un omicida qualsiasi che non hanno mai visto. Essi fanno una dimostrazione di potere. Sono stati interpellati dalla difesa, ma anche avvertiti dalla stampa dell'importanza della posta in gioco. 17 16. In M. Foucault (a cura di), Io, Pierre Rivière ... , Einaudi, Torino 1977. 17. R. Castel, in Ibidem.
xv
PRESENTAZIONE
Un discorso di potere interviene anche in un altro senso - per le scienze, infatti, l'ambito giudiziario è talora il banco di prova per il loro accreditamento: la psichiatria ottocentesca vuole darsi una patente scientifica attraverso il "caso Rivière", le neuroscienze cercano, nel processo, di traghettare la psicologia da soft science, da "scienza della comprensione", a hard science, più simile alle scienze fisiche che a quelle sociali o umane. Però, siccome queste cose le ha già dette Foucault, e meglio di quanto potrei fare io, passo ad altro. L'intento dell'opera di Pomari non è solo quello di spiegare, bensì anche di fare ordine. La distinzione fra stati emotivi e passionali da un lato, e situazioni con "valore di malattia" dall'altro è anch'essa "croce e delizia" della psicopatologia forense. Più croce che delizia, per il vero. Anche il non esperto sa, per averlo sperimentato chissà quante volte, che l'emotività interferisce sulle capacità di comprensione e su quelle di scelta: ciò nondimeno il legislatore, all'articolo 90 del codice penale, ha ritenuto che i fattori emotivi o passionali non siano idonei a incidere sull'imputabilità. "Nessuna passione priva la mente così completamente delle sue capacità di agire e ragionare quanto la paura", affermava - saggiamente - già un paio di secoli fa Edmund Burke; invece per la nostra Corte di cassazione: "La paura non è incompatibile con la libera scelta e con l'integrità mentale del reo". 18 Questo naturalmente non significa che i giudici di Cassazione non sappiano come va il mondo, vuol dire un'altra cosa. In una prospettiva naturalistica, emozioni e passioni ben possono influenzare e non di rado travolgere sia le facoltà di discernimento sia quelle volitive, ma l'aver limitato le condizioni di esclusione dell'imputabilità alle sole infermità deriva dal timore di mandare impuniti tutti i delitti d'impeto; il legislatore ha reputato che le emozioni facciano parte del patrimonio esperienziale di chiunque, che si tratti cioè di condizioni psicologiche e non già psicopatologiche dell'essere umano, e che dunque chiunque possa e debba controllarle: "L'art. 90 fu introdotto con una precisa e non trascurabile funzione pedagogica: per stimolare cioè il dominio della volontà sulle proprie emozioni e passioni': 19 Possono però porsi contrasti o incertezze fra l'inibizione dell'articolo 90 del codice penale e le situazioni in cui l'elemento emotivo interviene 18. Specificando poi: "Essa, se non dilata in una dimensione morbosa di infermità o seminfermità psichica, costituisce niente altro che un semplice stato emotivo, che non menoma l'imputabilità dell'agente" (Cassazione, 22 marzo 1967). 19. F. Mantovani, "L'imputabilità sotto il profilo giuridico", in F. Ferracuti (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, voi. 13: Psichiatria forense generale e penale, Giuffrè, Milano 1990.
XVI
PRESENTAZIONE
sulla capacità di lucidamente comprendere e di operare scelte. Ciò avviene in particolare per i casi in cui lo stato emotivo o passionale presenta rimarchevoli differenze quantitative e qualitative con le normali reazioni affettive, eppure la matrice dell'incontrollabilità di emozioni e passioni non si ritrova in una soggiacente condizione morbosa. 20 Come e dove si devono collocare allora quelle reazioni abnormi che variamente sono state denominate appunto raptus - come nel sottotitolo del volume, ma, chiosa Pomari, "il raptus di cui corrivamente si parla"-, o "reazioni a corto circuito", "reazioni esplosive", "discontrolli episodici", "disturbi esplosivi isolati", in ogni caso intendendo quelle situazioni di elevatissimo e abnorme coinvolgimento emotivo, transitorie, che si verificano in soggetti altrimenti sani e si esauriscono in un tempo circoscritto con completa restitutio ad integrum? Si pone qui il problema se si sia o meno nel novero degli stati emotivi e passionali. Per esempio, il termine "discontrollo episodico", proposto da Menninger e Mayman 21 e ripreso in seguito in Italia da Gulotta, 22 denota una modalità reattiva in cui l'individuo si trova di fronte a situazioni di stress psicotraumatizzanti, inattese, molto intense; la risposta a queste situazioni è di tipo aggressivo; la reazione deve essere episodica e avere carattere di esplosività; al termine di tale reazione vi è un ripristino dell'equilibrio del soggetto; spesso la persona non conserva memoria dell'azione messa in atto, a dimostrazione senz'altro del coinvolgimento emotivo e - forse - dello slivellamento della coscienza in cui è stato compiuto l'atto. 23 Ma tutto questo è infermità o è uno stato emotivo e passionale? In questi casi, non solo la valutazione è spesso disagevole e incerta, ma talora il giudizio di piena imputabilità è formulato dal perito obtorto collo. Ovvero, può accadere che il perito non si fermi a ritenere che si sia in presenza di un mero stato emotivo e passionale, soprattutto quando l'atto appare veramente troppo sproporzionato, o incomprensibile, o non rispecchia affatto lo stile di vita del soggetto: quando, insomma, il perito percepisce esserci stato, al momento dell'azione delinquenziale, un difetto di responsabilità nel soggetto. In questo caso, talora sul momento della diagnosi si fa prevalente quello del giudizio sulla responsabilità; così se il perito si forma il convincimento che la responsabilità sia 20. I. Merzagora Betsos, "Imputabilità, pericolosità sociale, capacità di partecipare coscientemente al procedimento", in G. Giusti (a cura di), Trattato di medicina legale e scienze affini, seconda edizione, voi. 4, Cedam, Padova 2009, pp. 157-215. 21. K. Menninger, M. Mayman, "Episodic discontrol: A third order of stress adaptation", in Bulletin of the Menninger Clinic, n. 4, giugno 1956. 22. G. Gulotta, Psicoanalisi e responsabilità penale, Giuffrè, Milano 1973. 23. K. Menninger, M. Mayman, "Episodic discontrol ... ", cit.
XVII
PRESENTAZIONE
attenuata può accadere che conferisca valore di malattia anche allo stato emotivo o passionale. 24 Insomma, non sempre i periti si appiattiscono sulle esigenze pedagogiche o di difesa sociale del codice, e sostituiscono alla convenzione giuridica la propria convinzione, secondo cui in alcuni casi, pur in assenza di psicosi o di grave ritardo mentale o di altra e qualsivoglia infermità, anche lo stato emotivo viene contrabbandato per condizione atta a incidere sulla capacità di intendere o di volere. In pratica, si bypassa l'ostacolo del termine infermità, e si ha riguardo solo al secondo momento, quello della compromissione- totale o parziale - della capacità, di solito di quella volitiva. Ancora una volta il perito soccombe alla tentazione di sostituirsi al giudice; come quando un uomo uccide gli usurai che, per convincerlo al pagamento, dopo innumerevoli e atroci angherie gli dicono la fatale frase: "E ricordati che sappiamo dove vanno a scuola le tue figlie". O come, ed è un altro esempio tratto dal vero, nel caso della moglie per anni maltrattata nei modi più umilianti, percossa e ferita, violentata, fatta oggetto di sevizie, che all'ennesima minaccia di morte del marito reagisce e uccide. O come, o come, o come ... le storie di disperazione sono tante (la pratica della criminologia non è un esercizio euforizzante); certe volte sono storie in cui il perito ha un po' forzato la mano, diciamo così, nel valutare che si fosse in presenza di infermità. Il perito decide di farsi arbitro della decisione in merito al quantum di rimproverabilità, che invece è decisione che non gli spetta, che compete al giudice, che saprà trovare nel suo repertorio codicistico l'attenuante o la scriminante del caso. Questo modo di procedere, però, non giova alla credibilità della psicopatologia forense presso i giudici, anche perché questa truffa delle etichette è uno dei motivi per i quali troppe volte abbiamo visto uno stesso reo valutato come capace di intendere e di volere, seminfermo, totalmente incapace a seconda del perito o consulente, o a seconda del grado di giudizio. Parafrasando una vecchia storiella ebraica secondo cui a fronte di due ebrei che discutono si danno almeno tre opinioni differenti, è stato detto che quando in un caso ci sono tre consulenti ci saranno quattro opinioni circa la capacità di intendere e di volere del periziando. Fornari ci pone in condizione di mettere ordine - "Proviamo a mettere un po' d'ordine" è il titolo di un capitolo-indicando tipologie, criteri e convenzioni grazie ai quali operare per discriminare fra situazioni 24. G. Ponti, I. Merzagora, Psichiatria e Giustizia, Raffaello Cortina, Milano 1993.
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PRESENTAZIONE
di fisiologico discontrollo emotivo e altre che hanno "valore di malattia". Convenzioni certo, perché anche così si procede in ambito forense: non è sempre "vero" che il minore di quattordici anni è incapace di intendere e di volere, non è sempre "vero" che costui non è in grado di prestare il consenso all'atto sessuale, e non è sempre "vero" - appunto - che la paura non incide sulle nostre capacità volitive e financo su quelle dell'intendere. Semplicemente il diritto ha bisogno di fissare termini "certi" più che "veri", anche e proprio in materia di imputabilità, 25 per evitare discrepanze giuridicamente inaccettabili. Una delle differenze epistemologiche fra il diritto e la psicopatologiae tutte le scienze, per il vero - risiede nel fatto che il diritto ha come scopo la certezza, più ancora della verità. Auctoritas non veritas facit legem, sosteneva già Hobbes; lo riafferma, in nome della grande divisione fra fatti e valori, Kelsen più di due secoli dopo: "Non si può parlare di una 'verità' del diritto. Infatti il diritto (anche il diritto giusto) è norma e cometale non può essere né vero né falso" 26 e, per il nostro Paese, lo sostengono Scarpelli27 e non pochi filosofi del diritto; così mi sento tranquilla dando per assiomatica l'affermazione, senza ripercorrerne le argomentazioni, dato che non sarebbe questo il luogo. 28 Naturalmente anche il diritto anela all'accertamento di una verità 29 - colpevole/innocente, titolare o meno di un diritto-, ma quantomeno la verità del diritto ha esigenze di accertamento che sono diverse e diversamente vincolate rispetto a quelle della verità scientifica o naturalistica. Per inciso, non è detto che la "prova giuridica" sia più o meno stringente di quella, per esempio, psicologica: talora lo è, talaltra non lo è. Alla prima udienza del processo di secondo grado contro Annamaria - il caso 17 del libro di Pomari- vi era una folla strabocchevole di cittadini, neppure riuscivano a entrare nell'aula tanti erano e taluni attendevano fuori l'imputata dichiarando ai giornalisti che volevano vederla negli occhi per 25. "Dall'incertezza dei presupposti di fatto necessari per l'applicabilità degli arti. 88-89 c.p. è derivata una situazione grave: soggetti che hanno agito in uno stato mentale analogo vengono ritenuti ora imputabili, ora inimputabili" (G. Balbi, "Infermità di mente e imputabilità", in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 3, 1991, p. 844). 26. H. Kelsen, Teoria generale delle norme, Einaudi, Torino 1985, p. 281. 27. U. Scarpelli, "Auctoritas non veritas facit legem", in Rivista di filosofia, 1984, p. 29. 28. Rimando, semmai, a A. Pintore, Il diritto senza verità, Giappichelli, Torino 1996, la quale scrive fra l'altro: "Gli analistici sono concordi nel ritenere che il diritto e le sue norme siano sprovvisti della qualità obbiettiva della verità" (p. 3 ); "Perfino i filosofi del diritto più rigorosamente oggettivisti in etica e giusnaturalisti solo di rado osano servirsi della parola 'verità' con riferimento al diritto" (p. 136); "Dunque, non possiamo parlare di verità del diritto" (p. 255). 29. "Il diritto, pur includendo al suo interno istituzioni orientate in maniera più o meno preponderante anche alla verità, come il giudizio, è un'istituzione orientata essenzialmente alla decisione" (Ibidem, p. 218).
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PRESENTAZIONE
capire se era veramente colpevole (metodo che, a mio avviso, somiglia un po' a quello medievale che consisteva nel porre l'accusato al cospetto del cadavere dell'ucciso: se il cadavere avesse sanguinato, questa sarebbe stata la prova della colpevolezza). Comunque, costoro - i cittadini desiderosi di scoprire negli occhi dell'accusato la verità - evidentemente non si accontentavano della "verità processuale" del primo grado di giudizio, né dimostravano una gran fiducia nel metodo giuridico dell'accertamento mediante prova, e probabilmente cercavano una "verità metafisica", o, forse, sarebbero stati più convinti se l'accusata avesse confessato, il che invece per il diritto non è prova né necessaria né sufficiente per la sua verità, posto che una persona può confessare anche per ragioni che poco hanno a che spartire con il vero: perché vuole proteggere qualcuno, per paura, per mitomania o delirio, per esempio. Tanti, insomma, i parametri di accertamento e i significati stessi del termine "verità". È già un lusso se arriviamo alla certezza. Secondo taluni filosofi della scienza certe differenze epistemologiche fra scienze empiriche e diritto derivano dalla (relativa) autoreferenzialità del diritto: il diritto è costruzione del tutto umana, che - in un certo senso - non deve fare i conti con la realtà esterna da sé. Ebbene, lo psicopatologo forense deve uniformarsi alle convenzioni, alle esigenze, ai desiderata del diritto. Fornari lo dice ("in psichiatria forense non si può dimenticare che il nostro sapere è messo al servizio del Foro, non viceversa") e ci insegna come fare, concludendo: "Questo discorso ha come unico scopo quello di ribadire l'assoluta necessità di collocare l'autore di reato in una di queste dimensioni, premessa per una corretta valutazione forense in tema di vizio di mente''. Infine: s'è fatto cenno all'inizio di questa presentazione al fatto che il volume affronta anche i temi della reazione sociale e mediatica, e dei pregiudizi che talora accompagnano la percezione in tema di malattia di mente e reato. Ma c'è un altro tema culturale importante che Pomari prende in esame e per il quale occorre darsi qualche spiegazione, ed è il tema della donna come vittima del crimine. In questo libro ci sono soprattutto delitti in famiglia o comunque di prossimità, e troppi vedono le donne in veste di vittima uccisa da un uomo, talora dal partner. È un tema di attualità, e anche se certamente non è cosa nuova necessita una spiegazione centrata sull'oggi, una spiegazione sociale, culturale, psicologica. Stiamo parlando di un libro di psicopatologia forense, ed è ovvio che la chiave di lettura sia soprattutto individuale e soggettiva, ma, come s'è detto prima, non si può prescindere dal contestualizzare le dinamiche psicologiche in un ambito sociale. Per esempio, ci spiega Pomari:
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PRESENTAZIONE
I tratti via via individuati nei soggetti mossi da un turbamento emotivo semplice, non dovuto a cause psicopatologiche, cioè, hanno reso difficili una buona identificazione nel proprio ruolo maschile e un buon rapporto con la donna [... ]. Di essa, in maniera sia pur diversificata, tutti hanno paura e nei suoi confronti nutrono sentimenti molto ambivalenti di desiderio e di repulsione, mascherati da un'apparenza di ipersocievolezza e di disponibilità affettiva. Con graduazioni diverse la loro personalità è connotata, in maniera più o meno esplicita, da bisogno tirannico di gratificazioni, esigenza di dominio, di controllo e di risarcimenti variamente orientati, intolleranza alle frustrazioni, assenza di reciprocità. Nelle singole situazioni conflittuali, hanno vissuto la paura di essere umiliati, abbandonati, maltrattati. Il sentirsi offesi, umiliati, nullificati, degradati da persona a cosa, impossibilitati a fare delle scelte, esige un risarcimento che l'Altro/a deve esprimere attraverso atteggiamenti di accettazione, comprensione e ascolto. Se ciò non avviene [ ... ] ecco il passaggio all'atto perché crolla il sentimento dell'autostima artificiosamente costruito sull'illusione e nell'immaginario. Il sogno si è dissolto, il grande progetto è miseramente fallito e la ferita narcisistica esige ristoro. L'oggetto che da buono è diventato cattivo, che dileggia, insulta, respinge, usa e non dà più nulla in cambio deve essere in qualche modo allontanato e distrutto.
Poveri uomini, verrebbe quasi da commentare se non fosse politicamente scorretto. La "cultura del machismo" non è un buon affare neppure per loro: i ruoli non sono più così cristallizzati, i rapporti vanno reinventati e rinegoziati di volta in volta, le relazioni esigono una continua manutenzione. Gli uomini pretendono figure sempre disponibili all' oblatività e si ritrovano persone che rivendicano indipendenza; le bamboline sono divenute d'acciaio. Ci si aspetta che loro - gli uomini siano così forti e indipendenti da non dover chiedere aiuto, poi però non sanno stare senza una donna; il ruolo tradizionale impone che un uomo non pianga. Deve essere una faticaccia. Il guaio è che allora, al posto delle lacrime, il modo di mostrare la sofferenza è quello eteroaggressivo: non si piange, si uccide. A questo punto un po' si capisce- non si condivide- come mai la violenza contro le donne continua a esserci nonostante il processo di civilizzazione veda complessivamente sempre meno violenza omicida nei Paesi simili al nostro, e come mai la violenza domestica estrema sia più diffusa proprio laddove il processo di emancipazione femminile è più avanzato.
Isabella Merzagora Professore straordinario di Criminologia, dipartimento di Scienze biomediche per la salute, Università degli studi di Milano
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L'emozione è un predominio delle sensazioni tale che ne viene soppressa la padronanza dell'animo ... La passione, invece, prende tempo ed è riflessiva, sebbene possa essere violenta, per raggiungere il suo scopo. L'emozione agisce come un fiotto che rompe la diga; la passione come una corrente che si scava sempre più profondo il suo letto ... L'emozione è come un'ebbrezza ... la passione invece è come una malattia ... IMMANUEL KANT, Antropologia pragmatica
L'amore c'è o non c'è ... Ed è sempre attraverso la ragione che i nostri sentimenti e le nostre passioni diventano sopportabili, oppure ci paiono intollerabili. Amare non è sufficiente ... ho già pagato un prezzo abbastanza alto per questo ... ho pagato con tutta la mia vita ... sANDOR MARA!,
La donna giusta
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INTRODUZIONE
Qualche tempo fa, in un incidente stradale per poco evitato, un guidatore che si era visto tagliare la strada improvvisamente, scende dalla sua autovettura e, avvicinandosi con fare aggressivo e minaccioso all'altro conducente, lo apostrofa in malo modo, dicendogli: "Ma è matto a guidare così?': Al mercato ortofrutticolo rionale due ambulanti stanno discutendo animatamente su di un caso recente di omicidio passionale ed entrambi, scuotendo il capo, concludono con un dire sconsolato e carico di comune sapere: "Doveva proprio essere matto quello lì! Pensare che si amavano tanto ... ". Per converso, la notizia che una persona affetta da disturbi mentali, da lunghi anni in cura, si è tolta la vita o ha ucciso un familiare o una persona a lui sconosciuta, suscita un commento tra il misericordioso e il rassegnato del tipo: "Si capisce, era matto!", salvo immediatamente dopo stigmatizzare, senza possibilità di appello, i servizi psichiatrici o chi per loro che "non fanno niente per tenere i matti dentro". Dentro dove, se gli ospedali psichiatrici non esistono più? Ma alla gente non importano raffinatezze del genere: i "matti" devono stare dentro (in un luogo indeterminato, purché sia un "dentro"), affinché i "sani" possano rimanere "fuori", perché fuori ci sono tranquillità, sicurezza, benessere e altre amenità del genere. Ma lo stupore e lo sconcerto aumentano quando la notizia del delitto efferato viene collegata a una persona che non ha mai dato segni di follia precedentemente e che commenta il suo atto con uno sconcertante: "Non so cosa mi sia successo! Devo aver perso la testa!". In questi casi le iniziative si moltiplicano a dismisura. I soliti intervistatori della TV o dei giornali, come insaziabili avvoltoi, si avventano sulla notizia, pongono imbarazzanti o inconcludenti domande ai vicini di casa, a parenti, ad 3
INTRODUZIONE
amici e tanto più grande è il loro sconcerto, tanto più carica di pathos è la notizia, spesso accompagnata da lenti ritmi musicali di fondo che dovrebbero accentuare il senso della tragedia e invece finiscono solo per essere stucchevoli e irrispettose sottolineature di un dolore dai più non partecipato, ma che il mezzo di comunicazione decide che deve essere collettivo e "socializzato': a partire dal grottesco ricorso agli applausi che accompagnano il rito funebre, come se ci fosse veramente qualcosa o qualcuno da applaudire. Ma tant'è: è la notizia che interessa, non tanto in se stessa, quanto nella sua capacità di suscitare una reazione e una risonanza emotive nella gente. Sono il tipo e le modalità di comunicazione che generano più o meno paura e insicurezza, non tanto la gravità del fatto che viene annunciato. Se poi l'autore dell'aggressione si uccide, ecco la prova della sua follia: come se per uccidersi si debba sempre e solo essere folli! Autori e vittime vengono immediatamente identificati e impietosamente sezionati, anche se l'esperienza ci dice che quasi sempre nulla è come appare: il media istruisce il processo, prima ancora che i giudici e i loro ausiliari si siano fatti un minimo di idee e abbiano raccolto dati significativi. Un padre di famiglia così ammodo! Una madre così attenta e premurosa verso la prole! Una persona che non aveva mai dato adito a impressioni o commenti sfavorevoli circa il suo comportamento e la sua vita. Quando però si passa all'atto, impressioni, commenti e giudizi possono cambiare radicalmente: tutto il "positivo" sulla vittima, tutto il "negativo" sull'autore, a parte le inevitabili eccezioni da parte dei soliti ben informati. Per i figli un po' meno di comprensione: si sa, dalla gioventù di oggi ci si può aspettare di tutto ... In ogni caso, la "furia omicida", nel suscitare sconcerto e stupore, non può essere (ma soprattutto si spera o si sostiene essere) niente altro che espressione di "follia"; le dichiarazioni e i commenti rilasciati dall'autore del reato sono "deliranti messaggi", la sua precedente "tranquillità" il segno inquietante di chissà quali ruminazioni, e via dicendo. Per non parlare, poi, degli uomini che uccidono le donne: qui il raptus (di cui corrivamente si parla, senza neppure sapere in che cosa consista) è riassorbito nel malvagio, sadico, perverso atteggiamento prevaricatorio che il sesso maschile avrebbe assunto e manterrebbe pervicacemente nei confronti di quello femminile. Gelosia, invidia, possesso, dominio: tutti sentimenti che di volta in volta vengono citati senza diritto di spiegazione alcuna, ma che - nel loro semplicistico uso stigmatizzante - suscitano una immediata sentenza di condanna senza appello, specie se non si scopre qualche germe di patologia nell'autore o nella sua famiglia. 4
INTRODUZIONE
Da una persona "normale" azioni violente di questo o altro tipo non possono venire commesse. Già, perché la gente, i mass media, gli intervistatori, i commentatori radiotelevisivi e via dicendo anche questo sanno: quando una persona è "normale" oppure no. Beati loro! Non altrettanto certi e ricchi di sapere sono però gli addetti ai lavori (polizia giudiziaria, magistratura, studiosi della psiche umana), che spesso cercano di andare al di là dei pregiudizi e oltre il fatto delittuoso per comprendere come mai sia accaduto quello che è successo, specie quando il delitto scoppia come fulmine a ciel sereno. Infatti questo è il vero problema: come si può spiegare (giustificare) un agito auto e/o eterodistruttivo in un soggetto conosciuto come "normale"? Forse che i segni della follia non sono stati notati o sono stati sottovalutati e minimizzati nella loro importanza? Forse che la follia debba sempre dare dei segnali premonitori in modo che si possa cogliere il repentino o lento svilupparsi di cambiamenti di cui i gestori della salute mentale dovrebbero accorgersi in tempo? Si può "perdere la testa" per uno stato emotivo intenso oppure è necessario essere folli e agire la propria distruttività nel corso di uno scompenso psicotico acuto? Chi fa del male non può essere solo e semplicemente "cattivo" e "malvagio"? Ma, soprattutto, si può diventare cattivi o rimanere buoni a seconda delle circostanze di vita? 1 Queste domande sono legittime, perché è comune esperienza, condivisa anche dagli addetti ai lavori, che il delinquente puro o il sadico egosintonico nel loro agire non si lasciano prendere la mano dalle loro emozioni, che peraltro sono sottomesse e subordinate ai loro "stili" criminali lucidamente programmati e freddamente portati a compimento, e che si deve dimostrare che un agito d'impeto è espressione di follia, non l'inevitabile e ineludibile corollario. Poco sopra ho scritto che ogni persona, in contesti specifici e particolari, può agire la propria distruttività: o, almeno, non è escluso che possa farlo. Farò subito seguire una spiegazione a chiarimento del mio pensiero. Innanzitutto, una precisazione terminologica: l'aggressività è un'energia che ogni essere vivente possiede e che è al servizio della difesa e della tutela della vita; se orientata a fini socialmente utili e condivisi, in genere si traduce in creatività, cooperazione, convivenza. La violenza è l'utilizzazione strumentale dell'aggressività a scopo distruttivo, conseguente all'impossibilità/incapacità di orientarla in senso socialmente utile e incanalarla in relazioni interpersonali positive. Quindi le persone non sono intrinsecamente né buone, né cattive: sono i contesti di vita, le situazioni, gli in1. P. Zimbardo, L'effetto Lucifero, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2008.
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contri, le occasioni positive o negative che ognuno incontra sul suo cammino esistenziale che mettono alla prova l'esercizio di un'aggressività di vita o di morte. Si può essere "cattivi" senza essere "malati" (di mente) e si può essere "malati" senza essere "cattivi". In particolare, il comportamento violento consiste in una condotta talvolta codificata e ritualizzata, talaltra estemporanea e non programmata, attraverso la quale si manifesta - per ragioni patologiche psichiche e non -la distruttività umana, l'incapacità di comunicare, l'assenza o la perdita o l'impossibilità di un rapporto significativo con l'Altro/a. È una forma di reazione o di comportamento a contenuto distruttivo, talvolta crudele e sadico, talaltra improvviso, che determinate persone mettono in atto con modalità e motivazioni molto diversificate per rispondere a determinati problemi contingenti, relazionali, situazionali che l'esistenza umana pone a tutte le persone. L'emissione di questi comportamenti trova una sua adeguata comprensione solo se collocata da un lato nel contesto relazionale e socioculturale in cui si verifica e dall'altro nel peculiare funzionamento mentale del soggetto che agisce (o, meglio, reagisce). Le vie che conducono ad agiti auto o eterodistruttivi sono complesse e non sempre facilmente individuabili, dal momento che nella natura ambivalente, conflittuale e contraddittoria delle persone è insita la coesistenza di sentimenti, emozioni, idee di opposto significato (odio e amore, vita e morte, creatività e distruttività, tenerezza e violenza, compassione e rivalità ecc.). A seconda della struttura mentale, del tipo di funzionamento individuale, dei modelli di cultura e di società di cui facciamo parte e dei singoli contesti di vita, questi aspetti trovano dunque espressioni diversificate che - agli estremi - vanno dal sublime positivo al devastante negativo. L'esperienza clinica ci ha insegnato che i nostri vissuti interiori devono fare i conti con registri di decodificazione cognitiva ed emotiva che spesso poco o nulla hanno a che fare con i dati della realtà, per cui è possibile "mettere insieme" in una sorta di contaminazione inconscia, spesso chiaramente patologica, dati tra di loro oggettivamente contrapposti, quali vita-morte, bene-male, violenza auto ed eterodiretta, sanità e follia. In particolare, l'antinomia vita-morte che tratta queste due entità "come se" fossero autonome e irriducibili l'una all'altra, nel mondo psichico è una falsa antinomia, una finzione rinforzata che vuole ostinatamente tenere separate nel nostro "setting" interno la vita, identificata con il positivo, il bene, il pieno, il tutto, e la morte, depositaria del male, del negativo, del vuoto, del nulla. Eppure ognuno di noi nel suo mondo privato ha fatto l'esperienza emotiva che non è vero che la morte annulla l'altro 6
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se questi è stato per noi una presenza significante; che una persona viva esiste nel nostro cuore oltre che nella nostra mente. Quanti di noi hanno avuto, per lo meno una volta nella vita, la fantasia che liberarsi di quella persona avrebbe significato poter finalmente (re)iniziare a vivere, o si è accompagnato per un periodo più o meno lungo con la sensazione penosa di un esistere vissuto come un morire ogni giorno! Chi uccide può essere convinto di compiere un atto di amore liberando l'altro da una non vita o di trascinarlo con sé in una vita migliore; chi si uccide lo può fare per sollevare altri della sua presenza, che egli vive ormai come inutile e insignificante. Ecco allora che queste due realtà trovano il loro punto d'incontro nel modo in cui ognuno di noi vive il sentirsi vivo o il lasciarsi morire, il potere e il sapere attingere a fonti di vita o a fonti di morte, in funzione delle sue esperienze di vita e dei suoi collaudi esistenziali. Auto ed eterodistruttività, pertanto, non sarebbero altro che soluzioni inadeguate a un'impossibilità/incapacità di stabilire o ristabilire relazioni di vita e di amore con gli "oggetti" significativi. Dare e ricevere la morte è dunque la testimonianza di questo problema non risolto e non superato di un legame di morte piuttosto che di vita, sul quale non riflettiamo a sufficienza.
Stabilire o ricostruire legami di vita significa incanalare l'aggressività umana secondo fini socialmente utili e condivisi e ridurre la possibilità che si traduca in vissuti, atteggiamenti e comportamenti distruttivi. Tutto ciò non ha nulla a che fare con i concetti di "sanità" e di "follia': ma riguarda piuttosto i grandi temi dell'esistenza, che tendiamo a mettere da parte, come aspetti di una riflessione faticosa, impegnativa e "poco allegra": la solitudine, i distacchi, i lutti, le perdite. Per non parlare di quelli che ci fanno ancora più paura: la morte, l'intimità, l'innamoramento. Riprenderemo più avanti questi argomenti affascinanti e terribili intimamente intersecati con il nostro essere creature viventi. Torniamo ora al tema dal quale siamo partiti: è possibile intendere come semplicemente "umano" e non "folle" un comportamento o una reazione violenta? Quale contenuto si può dare a questi due termini e quali sono i "limiti" del comprensibile, soprattutto tenendo conto che in ambito forense gli stati emotivi o passionali, come tali, non rilevano nello scemare grandemente o escludere l'imputabilità dell'autore di reato? Sotto questo profilo, è il legislatore stesso che ci invita a meditare e a riflettere su un certo modo di decodificare frettolosamente agiti che fanno tanto rumore e suscitano tanto scalpore, ma che sostanzialmente non ci inducono più di tanto a pensare, passato il primo momento di legittimo turbamento. 7
D UN BREVE EXCURSUS STORICO
Il reato d'impeto 1 ha costituito e costituisce uno dei capitoli più complessi, controversi e inquietanti della psichiatria clinica e forense, passata e attuale, nella misura in cui gli psichiatri si sono sentiti e si sentono in diritto di tutto etichettare e classificare secondo codici alfanumerici che variano nel tempo ma che sono costantemente e caparbiamente applicati, come se solo l'etichettatura diagnostica potesse soddisfare e dare risposte esaurienti agli infiniti "perché" che affliggono i tecnici della psiche. Sotto la dizione di reato d'impeto è possibile raggruppare una congerie di quadri clinici e di comportamenti che, a livello di inquadramento diagnostico, vanno dalle ormai dismesse categorie della monomania impulsiva, della follia o pazzia transitoria, della follia morale, del raptus, delle reazioni a corto circuito, a quelle più recenti del discontrollo episodico, delle sindromi marginali scompensate, delle bouffées deliranti acute, della psicosi reattiva breve, della sindrome psicotica acuta. Insomma, un comportamento che a livello psicopatologico è stato variamente etichettato, ma non chiaramente definito, sfumando e confluendo nelle reazioni abnormi e psicogene. La sua esistenza però ha portato e porta nel Foro più problemi che soluzioni, per cui fin dall'inizio dell'Ottocento i periti venivano invitati a uscire dalle aule di giustizia: loro e le loro "monomanie" e "follie temporarie"! Quest'ultimo era il termine invalso nella seconda metà dell'Ottocento per indicare con altra dizione quelle monomanie impulsive o istintive il cui tramonto era già iniziato per essere sostituito da ulteriori evoluzioni terminologiche. I. Questo argomento è stato da me ampiamente e diversamente trattato in Monomania omicida, Centro Scientifico Editore, Torino 1997 e parzialmente in Trattato di psichiatria forense, Utet Giuridica, Torino 2013 e precedenti edizioni.
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FOLLIA TRANSITORIA
Pertanto debole e controverso è risultato, e tuttora appare, il tentativo di utilizzare nel Foro una nomenclatura psichiatrica a spiegazione del reato d'impeto e a giustificazione della sussistenza di un vizio di mente. Privo di ogni fondamento clinico è poi il tentativo di circoscrivere il disturbo mentale transitorio rilevante a fini forensi a un quadro patologico psichico che inizia con il reato e termina con lo stesso (episodio psicotico puntiforme). Nulla prima e nulla dopo. In altre parole, la situazione delittuosa verrebbe a coincidere con un disturbo mentale transitorio e viceversa. Non che non sia possibile uno scompenso psicotico acuto anche di brevissima durata, ma la clinica insegna che esso, anche quando è preceduto da un decorso pauci o oligosintomatico spesso mascherato dall'intervento di meccanismi dissimulatori o di terapie psicofarmacologiche non adeguate o scorrettamente praticate, ha un corredo sintomatologico che segue lo spengimento dello stesso, talvolta dopo un periodo di deplezione psicotica che può trarre in inganno l'esaminatore, se questi si limita a una osservazione "trasversale", che coglie il passaggio all'atto, senza poi collocarlo in una storia di vita, o in un contesto, o in una situazione o in una relazione di cui rappresenta l'epifenomeno. È certo che un'osservazione clinica accurata e protratta per un periodo di tempo adeguato (approccio longitudinale e non solo trasversale) consente di ricostruire un "prima" e un "dopo": un decorso, cioè, in cui si inserisce l'episodio di scompenso che pertanto solo un perito frettoloso e superficiale o prevenuto può erroneamente e pregiudizialmente intendere come isolato e sganciato da una storia di malattia mentale. Per un verso o per l'altro, sono sempre stati messi in discussione i criteri diagnostici differenziali tra un'esplosione di violenza conseguente a un turbamento transeunte della sfera emotivo-affettiva (lo stato emotivo o passionale) e quella espressiva di uno scompenso psichico (il disturbo mentale transitorio) alla quale, di conseguenza, poter conferire "significato di infermità". Non si è però raggiunto un accordo su quali delitti d'impeto escludere da questo "valore di malattia". È infatti pacifico il fatto che in essi (nei reati d'impeto, cioè) esiste sempre un rilevante coinvolgimento emotivo. È questo che fa passare all'atto, non solo una dinamica psicologica o psicopatologica che spesso ha un suo svolgimento che si articola nel tempo. In altre parole, chi passa all'atto spinto da un "irresistibile impulso" traduce in azione d'impeto (per quanto concerne il suo comportamento delittuoso) o condizioni estemporanee e transeunti di 10
UN BREVE EXCURSUS STORICO
"turbamento emotivo" o tematiche sulle quali sta ruminando (in maniera non patologica) o delirando (in maniera chiaramente patologica) già prima di passare all'atto. In tutti i casi si può genericamente e sbrigativamente sostenere che esiste un "comportamento transitorio impulsivo", nella misura in cui il soggetto non è più in grado di controllare pulsioni che lo travolgono. Ma, essendo gli stati emotivi e passionali esplicitamente esclusi dal legislatore come condizioni che possono incidere negativamente sull'imputabilità, il problema è quello di accertare l'origine del comportamento, collocandolo in uno specifico funzionamento mentale: non già affermare sic et simpliciter la sua caratteristica tautologica di "turbamento transeunte della capacità di intendere e di volere". Già gli psichiatri dell'Ottocento si occuparono a lungo della discutibilissima e rarissima follia transitoria (anche chiamata mania effimera o brevissima, furore transitorio, frenesia transitoria, escandescenza furibonda, follia degli atti, follia istantanea, follia temporanea, follia passeggera), che per molti aspetti parve loro simile alle vecchie monomanie impulsive o istintive, dalle quali si distingueva per il fatto che in queste la coscienza era conservata, mentre altrettanto non si poteva dire per la nuova categoria clinica. La prima ampia trattazione la troviamo in Marc,2 che, facendo molti riferimenti a Hoffbauer, 3 comprese sotto la dizione di follia transitoria o passeggera "non solo ogni disordine psichico che, manifestandosi improvvisamente, sparisce in poco tempo, ma anche gli accessi di follia caratterizzati da intervalli lucidi, intermittenze regolari o irregolari". Informò che casi di follia transitoria erano stati (e potevano essere) osservati nelle monomanie, nella mania, nelle epilessie (sotto forma di furore epilettico), nell'ubriachezza, nell'intossicazione e nell'avvelenamento. Corredò poi le sue considerazioni teoriche esponendo casi di "mania acuta con furore ( una scena di carneficina)", di "monomania omicida, istintiva, transitoria, di brevissima durata, dovuta a una soppressione del flusso mestruale", di "mania temporanea", di "alienazione mentale transitoria da epilessia", di "follia transitoria prodotta dall'ubriachezza", di "dipsomania periodica", di "ebbrezza da risveglio", di "follia transitoria prodotta da intossicazione", di "sonnambulismo" e infine di "turbamento momentaneo" (con specifico riferimento alla definizione datane da Hoffbauer). 2. C.H. Mare, De la folie, considérée dans ses rapports avec /es questions médico-judiciaires, Baillière, Paris 1840. 3. J.C. Hoffbauer, Médecine légale relative aux aliénés et aux sourds-muets, Baillière, Paris 1827.
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FOLLIA TRANSITORIA
Mare ricordò la difficoltà insita nel porre questa diagnosi, ancor più quando il disturbo mentale "si è prodotto per poco tempo o addirittura nello stesso momento in cui avviene il fatto e cessa immediatamente dopo, soprattutto se le cause che l'hanno determinato non sono facili da identificare': I pochi esempi da lui riportati, comunque, si caratterizzavano per il fatto che la "crisi", anche quella durata solo due ore,fu sempre osservata e
descritta dal personale di assistenza o comunque da terzi testimoni. Per quanto si riferiva al problema della responsabilità dell'autore di reato, pacifica era l'esclusione della stessa in tutti i casi; così pure la nullità degli atti compiuti in tali condizioni di mente. Occorreva, però, fare molta attenzione alle simulazioni nei quadri di follia transitoria prodotta da una condizione intermedia tra sonno e veglia. Etichettata anche come delirio transitorio, fu così intesa da Berti: Comprendiamo in questa categoria tutte quelle alterazioni perturbatrici passeggere, le quali privano momentaneamente dell'intelletto e della libertà l'individuo che è a quelle soggetto. Tali sono il sonnambulismo; tali quelle che succedono nello stato intermedio tra la veglia e il sonno; tali quelle che succedono nello stato di ebbrezza, oppure in quello stato chiamato col nome di delirium tremens; di quel delirio che spesso si manifesta nelle malattie acute febbrili, nell' epilessia, nell'isterismo e in altre che torna superfluo l'enumerare. 4
Altri contributi importanti si trovano in Verga (1876), Lombroso (1876), Lazzaretti (1878), Krafft-Ebing (1883). L'esistenza di questa forma particolare di malattia mentale - da coloro che la descrissero chiamata anche psicosi transitoria e secondo loro non preceduta e non seguita da alcun altro disturbo, accompagnata da amnesia, di durata brevissima e caratterizzata da comportamenti auto o eterodistruttivi violenti e automatici - fu ammessa da altri psichiatri, tra i quali ricordiamo Tamassia, Lombroso, Ziino, Venturi, La Loggia e Verga. Da più parti furono esplicitamente formulati agganci con l'isteria. Tamassia5 ricordò che- comunque denominata- questa forma era caratterizzata dalla brevità della sua durata e dalla violenza dei suoi sintomi. Essa è dunque un accesso furibondo, che irrompe improvviso e che appena manifestatosi raggiunge il suo apogeo, e ha caratteri distruttivi, 4. G. Berti, Della imputabilità legale considerata in ordine alle principali malattie mentali, Botta, Torino I 865. 5. A. Tamassia, "Sulla mania transitoria", in Archivio italiano per le malattie nervose, xv 111, 1881, pp.165-174.
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violenti e automatici. Si dilegua dopo un'ora o due, al massimo dopo uno o due giorni, e con l'amnesia completa di quanto l'individuo ha compiuto durante esso, non lasciandogli neppure quella rimembranza vaga e indeterminata, che si è osservata in qualche caso di mania epilettica e nella gran maggioranza degli accessi comuni di pazzia. Al sintomo dell'amnesia si unisce quello del sonno, che è profondo, e può rappresentare, perdonatemi la parola, la così detta crisi del male. Svegliato, l'individuo offre e mantiene tutti i caratteri dell'integrità mentale [corsivi personali]. Nella traduzione italiana della seconda edizione del suo Trattato (1885-1886), Krafft-Ebing6 diede atto dell'esistenza di "stati psicopatici che durano soltanto delle ore o un giorno''. Anche qui l'esordio brusco, il rapido giungere ali' acme con evoluzioni d'intensità soltanto lievi, la rapida, critica risoluzione dell'accesso, con pronto ritorno alle condizioni psichiche di prima, figurano come segni differenziali che distinguono questa forma dalla comune (cronica) pazzia, nella quale si osservano delle varietà di decorso analoghe alla pazzia transitoria soltanto in alcune delle sue forme periodiche. Nella pazzia transitoria abbiamo fra le caratteristiche il profondo disturbo della coscienza per l'intera durata dell'accesso, con difetto non mai mancante della memoria e l'impronta delirante dell'intero quadro fenomenico. Queste singolarità nel decorso e nel modo di essere della pazzia transitoria si spiegano in parte eziologicamente, sapendosi che essa è un fenomeno di reazione a una forte influenza nociva sul cervello (disturbi circolatori, veleni, affetti, febbre), quantunque transitorio. Oltre a ciò possono i disturbi di sviluppo congeniti, o le anomalie funzionali acquisite agevolare e aumentare l'importanza di quell'influenza nociva. [ ... ] A ogni modo deve clinicamente ritenersi che la pazzia transitoria è un quadro morboso sintomatico. [ ... ] Le forme dei disturbi della coscienza, nella pazzia transitoria, si presentano come stati di sonnolenza, sopore, stupore, stati crepuscolari. Sopra questo fondo di una coscienza profondamente turbata possono risvegliarsi molti fenomeni irritativi in forma di allucinazioni, deliri, ansia, eccitamento psicomotorio, e inoltre delle anomalie reattive del carattere. Esiste in tal modo una grande serie di quadri clinici differenti, che saltano all'occhio per uno speciale aggruppamento di sintomi. Rileggendo queste pagine, emerge evidente la commistione e la fusione tra stati transitori patologici e stati che tali non sono. I quadri psicopatologici appartenenti alla pazzia transitoria, sempre secondo gli psichiatri dell'Ottocento, erano quelli che si registravano: 6. R. Krafft-Ebing, Trattato clinico-pratico delle malattie mentali, tr. it. Bocca, Torino 1885-1886.
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1) nella pazzia isterica ed epilettica transitorie (rispettivamente: stati di pazzia isterica transitoria e disturbi psichici transitori accessuali); 2) nei deliri tossici, febbrili e da inanizione; 3) nella così detta mania transitoria; 4) nell'ansia transitoria; 5) negli affetti patologici; 6) negli stati di reazione alcolica.
Nella terza edizione del suo Trattato di psicopatologia forense (tradotto in italiano e pubblicato nel 1897), Krafft-Ebing accorpò tutti questi quadri nel capitolo dedicato all'analisi degli "stati di incoscienza morbosa" che "assumono il valore di motivi d'abolizione della imputabilità". Al quarto congresso della Società freniatrica italiana, tenutosi nel settembre del 1883 a Voghera, ampio spazio venne dedicato all'esposizione della mania transitoria. Il relatore Venturi,7 dopo aver ricordato che circa la metà dei sessanta casi di mania transitoria segnalati in Germania e in Italia erano da considerarsi appartenenti a quadri morbosi comuni ("epilessia larvata, deliri isterici, stati nevrastenici, deliri febbrili, intossicazioni alcoliche, deliri puerperali, manie di breve durata, rapimenti melanconici ecc:'), si soffermò sugli altri "che non potendosi in nessun modo riferire a qualcuno dei tipi noti di malattia, classificò in una forma comune: psicosi transitoria indipendente': Propose di intendere per tale: una particolare alienazione dello spirito, che sopraggiunga improvvisa o quasi, in un soggetto pienamente sano e senza predisposizioni morbose, che duri poche ore, e si termini improvvisamente, o rapidamente, non lasciando nell'individuo residui morbosi o disposizione al ripetersi in vita della malattia sofferta ... Dei molti casi riferiti nella letteratura medica, la massima parte si deve ritenere come altrettanti stati di ubriachezza più o meno patologica; non pochi sono manifestazioni larvate di epilessia o d'isterismo; alcuni sono delirj febrili, o equivalenti maniaci di ipertermie per infezione malarica; non rari sono quelli che sono quasi espressioni di reazione esterna, a dolori fisici eccessivi, e prolungati: altri ancora sono rapimenti melancolici in soggetti che nascondevano il turbamento anteriore della loro emozionalità.
Anche in questo rapporto conclusivo, Venturi insistette nel sottolineare l'estrema rarità di tale forma, "che sarebbe meglio designare col nome di furore morboso transitorio". 7. S. Venturi, "Sulla mania transitoria", in Archivio italiano per le malattie nervose, xx, 1883, pp. 401-415; S. Venturi, "Sulla mania transitoria'; in Rivista sperimentale di freniatria, x, 1884, pp. 90103; S. Venturi, "Dei criteri più sicuri per la diagnosi della mania transitoria", in Archivio di psichiatria, scienze penali e antropologia criminale, vn, 1886, pp. 500-510.
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La sintomatologia comune sarebbe costituita da: l'arrossamento della faccia; l'aumentata energia delle forze muscolari; li atti di cieca violenza contro altrui o contro le cose circostanti, e non mai contro se stessi; il cardiopalmo; l'acceleramento del polso; il crescere d'intensità del parossismo violento, fino al completo esaurimento delle forze; la durata del periodo del furore non oltre le 14 ore; un sonno profondo critico; l'amnesia completa successiva su tutti i fatti accaduti durante l'accesso; e in ultimo la non mai avvenuta ripetizione in vita dell'accesso medesimo. Sintomi non comuni a tutti i casi sarebbero, invece: lo scoppiare improvviso dell'accesso; essere questo preceduto da segni prodromici di varia natura, quali un violento dolore di capo, o un sentimento d'inquietudine, o taciturnità, o agitazione, o flussioni al capo, o stordimento, o caduta improvvisa in terra allo iniziarsi dell'accesso; leggiera confusione di mente dopo il risveglio, o riacquisto completo e subito della lucidità mentale. Per quanto si riferiva ai riflessi in ambito psichiatrico-forense, "nella mania transitoria si verificano in sommo grado le due condizioni fondamentali della irresponsabilità delle azioni criminose che possono essere commesse durante l'accesso: la nessuna coscienza di delinquere, e la forza irresistibile". Nel 1886 Venturi riordinò i criteri da utilizzare per fare diagnosi di mania transitoria: l'insorgere più o meno improvviso dell'accesso; la durata che non va oltre le 24 ore; l'incoscienza; il delirio; gli atti violenti contro sé, contro gli altri o contro le cose; la frequenza del sonno critico; l'amnesia terminale; il ritorno alla salute completa, appena finito l'accesso; la mancanza o rarità della recidiva; la indipendenza da stati morbosi antecedenti e da predisposizioni ereditarie. Il dibattito, però, non si esaurì in questo modo. Ancora sul finire dell'Ottocento, c'era chi sosteneva la grande somiglianza della mania o follia transitoria con l'epilessia psichica: istantaneità dell'accesso, atti automatici, incoscienza, talvolta sonno, amnesia consecutiva. Altri ne 15
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ribadirono l'assoluta autonomia, e, in particolare, l'indipendenza dalle manifestazioni dell'epilessia e dell'isteria con le quali spesso era stata confusa nei decenni precedenti. Con linguaggio psichiatrico moderno, il tema è stato riproposto sotto la dizione di disturbo mentale transitorio (DMT), meglio collocato nel DSM - 1v nelle categorie del disturbo psicotico breve (la psicosi reattiva breve del DSM-m-R) e del disturbo schizofreniforme; e iscritto, nell'1co- l0, nella sindrome psicotica acuta e transitoria (che include le reazioni paranoidi acute, la schizofrenia acuta, le bouffées deliranti acute con o senza sintomi schizofrenici, le psicosi reattive brevi e le psicosi cicloidi con o senza sintomi schizofrenici). In questi casi si è di fronte, nella sostanza, a un disturbo delirante acuto. Occorre comunque escludere che si tratti di un episodio maniacale o depressivo maggiore (occorre, cioè, escludere la presenza di un disturbo psicotico dell'umore); occorre pure escludere la presenza di una causa organica (in questi casi, ci troviamo di fronte a un disturbo confusionale acuto). Il disturbo mentale transitorio (DMT) è anche noto come disturbo delirante e/o allucinatorio acuto 8 ( esordio acuto, decorso clamoroso, esito favorevole), che deve essere tenuto distinto dallo scompenso borderline e da eventuali modalità dissociative isteriche. L'episodio può recidivare, dopo un periodo di completa remissione spontanea. È possibile anche una sua evoluzione in schizofrenia o in disturbo delirante cronico o può rappresentare un momento critico nell' evoluzione della malattia o un esordio della stessa o costituirsi in quelle microfratture psicotiche tanto frequenti nei funzionamenti al limite (organizzazioni borderline di personalità). A mio modo di vedere, è dunque possibile distinguere cinque situazioni sostanzialmente diverse tra loro: 1. Disturbi deliranti acuti. Ricomprendono tutti i casi in cui le manifesta-
zioni psicotiche esordiscono acutamente dopo un evento psicotraumatizzante particolare o, apparentemente, anche senza uno stress scatenante specifico. Hanno un decorso limitato nel tempo, anche solo di qualche ora, ma sono suscettibili di obiettivazione e richiedono attenzione clinica. Esplodono o in soggetti che presentano disturbi di personalità e sono stati sottoposti a situazioni stressanti (documentate in anamnesi) o nei quali i meccanismi di difesa mascherano sottostanti nuclei psicotici schizofrenici, rimasti latenti, sommersi, frenati e incapsulati, fino a quando 8. G.B. Cassano, P. Pancheri, R. Rossi, Trattato italiano di psichiatria, Masson, Milano 1992-1993, cap. 48, clinica/4, pp. 1539-1560.
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un evento traumatizzante particolare, reale o vissuto come tale, non li fa affiorare nel comportamento attraverso atti regressivi dissociati. A parte i quadri tossici e infettivi acuti (distinti da quelli deliranti acuti) è escluso, per mia personale esperienza, che scompensi di tale gravità ed entità si possano attuare in soggetti cosiddetti "normali'; nei quali, cioè, le funzioni dell'Io sono integre e dinamicamente modulate, e non ricorrono situazioni psicotraumatizzanti; oppure che inizino e terminino con il fatto delittuoso, in esso esaurendo ogni espressione patologica psichica (il cosiddetto "fulmine a ciel sereno"). Se si sostiene ciò, è perché l'osservazione è stata condotta in maniera affrettata e superficiale o i dati anamnestici e clinici sono stati raccolti sommariamente o sono stati interpretati in maniera arbitraria e soggettiva. L'episodio acuto consiste nella comparsa di deliri polimorfi sconnessi e frammentari, disturbi non gravi dello stato di coscienza del tipo stato onirico, illusioni e/o allucinazioni, verbalizzazione incoerente, comportamento catatonico o disorganizzato, intensa partecipazione emotiva con stato di panansietà. L' acting-out avviene in situazioni di improvvisa, drammatica destrutturazione e regressione, in una condizione di derealizzazione e/o di onirismo accompagnate o da fatuo distacco dalla realtà o da intensa angoscia e panico. Si tratta, in altre parole, di quadri psicotici acuti descritti in letteratura con le denominazioni che abbiamo riportato nelle pagine precedenti ( disturbi deliranti acuti, psicosi cicloidi, psicosi atipiche, stati crepuscolari episodici, psicosi reattive brevi, reazioni paranoidi, reazioni schizofreniche, schizofrenie acute e transitorie, disturbi schizofreniformi ecc.). Alcuni di questi quadri hanno prognosi favorevole, nel senso che evolvono con soddisfacente e duratura restitutio ad integrum; e allora siamo di fronte a un vero e proprio disturbo delirante acuto autonomo. Altre volte, talvolta preceduti da Wahnstimmung (stato d'animo delirante), costituiscono l'esordio di un processo schizofrenico a evoluzione cronica (in questi casi, come già detto, la compromissione dello stato di coscienza non è molto accentuata). Altre volte, infine, non sono nient'altro che un episodio di scompenso acuto in un decorso dissociativo che procede a poussées o a bouffées e si accompagna a un quadro di destrutturazione e disgregazione progressiva della personalità. Solo il decorso e l'esito, dunque, consentono in questi casi di appurare se il disturbo mentale transitorio è un disturbo psicotico acuto che va incontro a una buona remissione o che si manifesta nel corso di una processualità schizofrenica o si tratta di un esordio di schizofrenia o è parte integrante di un disturbo schizoaffettivo. 17
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Siamo al di fuori delle psicosi organiche e di quelle ciclotimiche, in cui si possono osservare quadri di scompenso acuto; nei primi predomina la componente confusionale (per cui lo stato di coscienza è molto più compromesso), nei secondi quella timica. Occorre di ciò tenere conto per quanto riguarda il problema della diagnosi differenziale rispetto a una manifestazione iniziale di un disturbo affettivo (in particolare un episodio maniacale acuto) o secondaria a un disturbo organico cerebrale. Analoghi quadri si osservano nel corso di stati febbrili o di malattie tossi-infettive, o di intossicazioni esogene. A questo proposito, l'intossicazione acuta da alcol o da stupefacenti (specie cocaina e amfetamine) può manifestarsi sotto forma di disturbo mentale transitorio nel senso di psicosi reattiva breve o disturbo delirante acuto. Però, di fronte all'incontrovertibile significato patologico clinico di tale condizione, si colloca la norma voluta dal legislatore che, per ragioni di politica criminale, ha escluso la rilevanza degli stati di intossicazione acuta da alcol e stupefacenti sull'imputabilità dell'autore di reato, se indipendenti da altro disturbo mentale (doppia diagnosi). 2. Reazioni da stress. Accanto ai quadri di cui sopra, in cui il passaggio all'atto è indicativo di un disturbo schizofrenico o schizoaffettivo o delirante acuto, se ne collocano altri, che appartengono al gruppo delle sindromi nevrotiche (1co- l0 = F40-F48). Tali sono i passaggi all'atto che si registrano nelle reazioni da stress (rispettivamente denominati nell'ico-10 e nel DSM-1v: reazione acuta da stress o disturbo acuto da stress; sindrome post-traumatica da stress o disturbo post-traumatico da stress), nelle sindromi da disadattamento, nelle sindromi ansiose e nelle sindromi dissociative (DsM-IV = F43.0; F43.l e, in genere, i disturbi d'ansia; nonché i disturbi dissociativi= F44.l; F44.81; F48.l; F44.9). 3. Disturbi di personalità. Esistono, poi, passaggi all'atto in cui disforia e impulsività (i due tratti più tipici) fanno parte di disturbi di personalità di tipo paranoide, antisociale e narcisistico maligno. Al di là e al di fuori di essi si coglie solo una persistenza di "stile di vita" abnorme, senza segni di scissione o di dissociazione dell'Io o di perdita di unitarietà dello stesso. Il comportamento è per lo più organizzato, finalizzato, cosciente, strutturato, coerente con le direttive di fondo della personalità.
4. Patologia borderline di personalità. Essa si sovrappone agli acting-out dei disturbi gravi di personalità, in cui è in azione il funzionamento proprio dell'organizzazione borderline di personalità. Il passaggio all'atto è caratterizzato da indicatori comportamentali di disorganizzazione; sono
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descritti in anamnesi e sono obiettivabili episodi di perdita di unitarietà dell'Io, panansietà e panangoscia, perdita dei confini, alterazioni del senso di realtà. Di particolare complessità clinica e forense sono quei casi in cui predomina una chiara ideazione paranoide, con spunti di persecuzione nei confronti dell'ambiente (ai confini di uno sviluppo delirante, ma non tale da configurarsi come tale, allo stato, in assenza dell'assoluta certezza soggettiva e in presenza di una funzionalità psichica secondaria "vantaggiosa") e un disturbo narcisistico di personalità che si unisce al precedente in un funzionamento narcisistico paranoideo di scompenso, che si mantiene tale grazie al massiccio ricorso a meccanismi primari di difesa (negazione, scissione, identificazione proiettiva, costruzione di un falso Sé). 5. Stati emotivi o passionali. Infine, esistono passaggi all'atto che si iscrivono in un semplice stato emotivo o passionale, senza che si possano individuare nell'autore di reato altro che "tratti" di personalità, che si manifestano anche nelle emozioni e nelle passioni che caratterizzano il suo "stile di vita" e accompagnano il suo "essere nel mondo".
In altre parole, e lo ripetiamo ancora una volta, una cosa è lo sconfinamento psicotico (punti 1 e 4), altro è il contenimento nell'abnormità genericamente intesa (punti 2 e 3), altra cosa, infine, è il passaggio all'atto che si inserisce in un'esistenza in cui agire emozioni e passioni (punto 5) nulla ha a che fare con un'esperienza psicotica. In linea di massima, la presenza nell'autore di reato di tratti o disturbi nevrotici o psicopatici (tutti ricompresi nell'ampio capitolo dei disturbi o tipologie di personalità) che non hanno intaccato l'integrità dell'Io e i meccanismi di difesa e che si sono tradotti in passaggi all'atto pietrificati e congelati, in manifestazioni finalizzate, egosintoniche e strutturate secondo una lucida, ancorché perversa progettualità criminale (organizzazioni caratteriali o perverse), è incompatibile con un vizio di mente. Analogamente nel nostro campione in studio, quando funzionamento mentale e passaggio all'atto rimangono compresi nei confini di uno stato emotivo o passionale. Tanto più grave è invece la compromissione patologica psichica, meno strutturate le difese, più fragile è l'Io, più diffusa l'identità e compromesso l'esame di realtà (in particolare nei casi di slittamento e di scompenso psicotico), tanto più incoordinato e non pianificato o bizzarro sarà il passaggio all'atto, sia nelle premesse, sia nel suo estrinsecarsi, sia nella condotta immediatamente successiva. Il funzionamento patologico psichico da cui discende la gravità sintomatologica del reato può in questi casi essere messo a confronto con il comportamento 19
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tenuto dal soggetto prima, durante e dopo il reato (delitto organizzato o disorganizzato, psicopatico o psicotico), anche se l'organizzazione o la disorganizzazione del comportamento criminale - di per sé soli considerati- poco o nulla ci dicono circa il funzionamento mentale, normale o patologico, dell'autore. È in ogni caso fondamentale la conoscenza del soggetto agente, nella misura in cui nell'atto delinquenziale egli generalmente ha lasciato firma o tracce personali significative (il modus operandi). Nella sostanza, se si rileggono a questo punto le pagine dedicate alla "follia transitoria" trattata magistralmente da Mare, si vedrà che i problemi furono e restano sempre gli stessi. Il principale di questi è rappresentato dal fatto che è indispensabile osservare direttamente o in qualche modo documentare clinicamente (se l'osservazione è indiretta) l'episodio stesso. Esigenza, questa, particolarmente importante per la psichiatria forense, dove si deve valutare lo stato di mente di un autore di reato al momento del fatto, con un riferimento cronologico, cioè, sempre lontano dal momento dell'accertamento peritale. Pertanto è fondamentale che colui che, durante lo svolgersi dell'episodio delittuoso o nell'immediatezza dello stesso, osserva eventuali segni e comportamenti che in qualche modo lo colpiscono, li annoti e li trascriva in qualche modo (con la massima cura e precisione, ovviamente, se si tratta di un osservatore "esperto"), onde evitare l'errore di basarsi sulla sola descrizione dell'accaduto fatta dall'indagato o dall'imputato o da persone in qualche modo "interessate" a conferire al delitto "significato di infermità': Proverò allora a farlo nelle pagine che seguono, concentrando in un primo momento la nostra attenzione sull'episodio che illustra il passaggio all'atto, con tutto ciò che precede e segue la condotta di scompenso di per se stessa non necessariamente patologica, ma certamente degna di attenzione. Solo in un secondo momento fornirò le indicazioni diagnostiche che consentono una migliore comprensione della differenza esistente tra i vari episodi descritti.L'obiettivo che mi propongo di raggiungere è quello di chiarire discorsi complessi che si rischia di complicare ulteriormente, confondendo approcci psicodinamici con approcci psicopatologici e mescolando i due approcci: come se ricostruire una possibile ipotesi di come si sarebbero svolti i fatti equivalesse, per questa sola ragione, a conferire loro un significato di infermità rilevante a fini forensi. In diverse sedi (accademiche, congressuali, peritali), negli anni, mi sono sentito dire e rimproverare di semplificare un po' troppo discorsi clinici e valutazioni forensi che, come già detto, non hanno ancora tro-
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vato una loro soluzione, anche perché, a mio avviso, le discipline psichiatriche si sono andate complicando con le nuove scoperte neuroscientifiche da un lato e i sempre più minuziosi criteri classificatori dall'altro, che sottolineano sfumature nosografiche foriere di grande disomogeneità descrittiva. Lo ammetto, ho semplificato: ma in psichiatria forense non si può dimenticare che il nostro sapere è messo al servizio del Foro, non viceversa, e che il codice penale è di per se stesso dicotomico, nel senso di un'impostazione "o" "o" (sia pure con sfumature diverse e importanti) e non "e" "e". O si è colpevoli o si è innocenti (almeno così vuole la legge, nonostante le frequenti aberrazioni della "prova scientifica" e gli errori nelle indagini giudiziarie), o si è competenti o no (anche se relativamente a determinati atti e non ad altri), o si è socialmente pericolosi o no (anche se in maniera differenziata), e via dicendo, salvo poi il gioco delle attenuanti e delle aggravanti, della valutazione della gravità della compromissione, del tipo e della natura del provvedimento che il giudice dovrebbe assumere "al di là di ogni ragionevole dubbio". Siccome la realtà umana (funzionamento mentale e comportamenti correlati) è molto complessa e tutte le indagini svolte in ambito penale o civile sono viziate da questo dato ineludibile (si pensi al tempo trascorso tra il fatto compiuto o subito e l'accertamento disposto, o al tipo di collaborazione più o meno consapevolmente interessato - e quindi distorto - offerto dal periziando) a mio modo di vedere occorre cercare di semplificare al massimo problemi complessi, senza banalizzarli o ridurli all'insignificanza, ma chiarendosi alcune idee di fondo: prima fra tutte la distinzione tra ciò che è frutto di una patologia mentale rilevante a fini forensi (si badi bene: forensi, non solo clinici) e ciò che tale non è. Perché qui sta il vero e unico problema di fondo: non stiamo dissertando su inquadramenti diagnostici a fini terapeutici, bensì su descrizioni di funzionamenti mentali a fini valutativi, che per assumere valore di prova devono essere, a mio modo di vedere, restrittivamente intesi. E allora iniziamo la nostra carrellata, che vuole narrare storie giudiziarie, con tutto ciò che comporta il commettere o il subire un reato. Il passaggio all'atto, agito o subito, specie se grave, modifica sostanzialmente i vissuti di un soggetto, sia egli "normale" sia egli "patologico" e introduce elementi clinici e di decorso che separano nettamente una storia individuale "comune" da una storia individuale "giudiziaria". Questo dato non può essere sottaciuto o sottovalutato, anche se la persona che offende o che subisce l'offesa è sempre la stessa da un punto di vista storico. Non lo è infatti dal punto di vista dei vissuti e della sofferenza, che irrompe co21
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me un quid novi o che si aggiunge ad altre come un quid pluris. Ma non basta: il reato, specie se d'impeto, modifica tutto un sistema relazionale per cui la sofferenza non è solo quella agita o subita dai due "protagonisti", ma anche quella dei familiari dell'una e dell'altra parte, con effetti più meno devastanti e duraturi su un intero sistema sociofamiliare. Ma di questo importante aspetto non ci interesseremo se non marginalmente in questa sede, perché l'obiettivo che mi prefiggo è quello di narrare storie che impegnano sul versante del loro inquadramento diagnostico e della conseguente valutazione forense.
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D IL CONTRIBUTO CASISTICO
Inizierò a esporre la mia casistica narrando le vicende di due soggetti che, secondo gli accertamenti eseguiti dalla polizia giudiziaria e quelli peritali, hanno compiuto il reato in una condizione di "stato d'animo turbato", che poi non risulterà in sede peritale patologicamente alterato, e che hanno cercato di coprire la gravità del loro agito adducendo a spiegazione e giustificazione del loro comportamento una tematica simil-onirica rivelatasi poi non autentica, ma frutto di una maldestra strategia defensionale. Caso 1. Vincenzo, anni 35, tentato uxoricidio
"Ieri sera ... dopo aver mangiato la pizza, sono uscito in giardino a scuotere la tovaglia ... ho fatto il giro delle porte ... non mi ricordo se sono giunto a verificare se era chiusa la porta della caldaia ... mi pare, ma ho dei ricordi confusi, che mentre facevo il giro delle porte e in ogni caso a un certo punto mentre ero presso la scala ho intravisto una persona. Non so dire se fosse uomo o donna, ricordo solo che era più alto/a di me e che era tutto nero ... non l'ho visto in faccia, ricordo che aveva abiti neri. Credo che avesse un passamontagna ... mi pare avesse qualcosa in mano, ma non lo so dire ... [in un successivo momento] è scattato qualcosa che non ho saputo controllare ... In un momento di rabbia, d'istinto vedendo un pezzo di legno vicino al focolare lo prendevo e colpivo mia moglie Sara alla testa ... ricordo di avere colpito mia moglie in cucina e di averla poi portata in sala da pranzo, a questo punto ho un vuoto di memoria ... penso di averla colpita ancora ... Non so cosa mi ha spinto, ma a un certo punto ho preso una catena che sapevo essere in un deposito attrezzi ... ho un ricordo confuso di essermi legato ... Non so come sono arrivato a inca-
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tenarmi ... Non mi ricordo come mi sono tolte le scarpe ... Mi sono reso conto che c'era sangue dappertutto, anche le mie mani erano insanguinate. Sara era vicina a me e mi teneva il braccio destro. Non riuscivo a muovere l'altro braccio, poi mi hanno detto che l'altro braccio era legato con una catena. Al momento di questo ricordo ero disteso sul fianco sinistro girato verso Sara che mi tirava il braccio destro ... poco prima di aprire gli occhi e sentire che Sara mi tirava il braccio, ho sentito un urlo di Sara. Le ho chiesto: 'Sara che c'è?' ma lei ha farfugliato qualcosa di incomprensibile ... poco dopo ho sentito che si apriva la porta della cucina ... erano i miei suoceri ... mi pare di aver provato a chiamare aiuto ma non so se mi hanno sentito ... non sono sicuro del luogo dove sono stato aggredito ... l'unico momento in cui ricordi di avere toccato Sara è stato quando l'ho sentita urlare e lei mi toccava il braccio destro ... col braccio sinistro sono riuscito a toccarle la testa, ad accarezzarla e a chiamarla, ma mi rispondeva cose senza senso o non mi rispondeva ... ero stralunato e non riuscivo a parlare, ricordo che a un certo punto qualcuno mi ha messo dell'acqua in bocca ... non riesco a capire il senso di questa cosa e sono sconvolto ... "
Caso 2. Maria, anni 29, figlicida "Fatemi capire cosa è successo e per quale motivo non c'è più il mio bambino ... Io non posso vivere senza il mio bambino, voglio morire, non ricordo che cosa esattamente sia successo quel giorno ... la mattina mi sono alzata e sono scesa per controllare il tempo; non ricordo se avevo o meno richiuso la porta di casa ... essendosi nel frattempo svegliato Mario, ho preparato il bagno e ho iniziato a lavarlo, quando ho sentito dei passi sulle scale ... ho creduto che fosse mio marito ... lui non mi ha risposto ... di colpo mi sono sentita afferrare per un braccio e tirare fuori dal bagno e in quel momento ho lasciato la presa di mio figlio. Io urlavo: 'Il mio bambino, il mio bambino', ma poi mi hanno legato e imbavagliato con del nastro isolante alle mani, alla bocca e ai piedi. Poi mi hanno sbattuto in fondo al bagno e ho sbattuto la spalla contro uno spigolo e sono caduta a terra. È passato un po' di tempo, non mi ricordo quanto, e mi sono addormentata ... da quel momento non ricordo più nulla ... ricordo che quando ho visto mio figlio che non si muoveva nella vaschetta ho perso la testa e mi sono disperata. Ho gridato correndo per la casa, sono sclerata, ho avuto paura e ho messo in disordine la casa ... In quel momento non capivo niente e sentivo solo il vuoto che c'era in me ... quando infine sono ritornata in bagno ho visto che Mario non respirava. Non saprei dire se l'ho afferrato o l'ho tirato fuori dall'acqua. Ho avuto 24
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solo la certezza che purtroppo fosse morto. Ho incominciato a mettere in disordine la casa spostando gli oggetti, poi mi sono applicata un cerotto marrone, mi sono legata le mani ... ho agito di impulso, senza un piano preordinato ... a un certo punto ricordo che è sopraggiunto mio marito; non credo di aver detto a lui in quel momento di essere stata aggredita ... ai carabinieri ho detto di essere stata aggredita ... non so spiegarmi perché avrei assassinato mio figlio ... non mi sento di negare che possa effettivamente avere soppresso mio figlio ... non ricordo di averlo fatto e anzi, ancora oggi, non mi rendo conto di quanto accaduto. Tutto ciò mi appare irreale ... aiutatemi tutti a capire quanto è successo ... [in un successivo momento] nella mia mente mi sono rivista fare ciò che voi [gli inquirenti] mi avete detto ... mi sono vista mettere sotto l'acqua del bagnetto il mio bambino ... il piccolo era capovolto, a pancia in giù ... l'ho tenuto io con le mani sotto l'acqua ... Mi sono legata e ho messo in disordine la casa in quanto volevo creare una giustificazione nei confronti di mio marito e dei miei familiari." Riprenderò oltre la disamina di questi due casi. Per ora, mi pare importante che il lettore circoscriva la sua attenzione ai rispettivi resoconti: sia nel primo sia nel secondo caso i due soggetti hanno più volte dichiarato di aver agito d'impeto e di non ricordare bene o di ricordare confusamente quanto successo. Entrambi parlano di presenze estranee nella loro abitazione prima del passaggio all'atto ("Non so dire se fosse uomo o donna, ricordo solo che era più alto/a di me e che era tutto nero ... " dice Vincenzo; "Di colpo mi sono sentita afferrare per un braccio e tirare fuori dal bagno e in quel momento ho lasciato la presa di mio figlio" afferma Maria), che entrambi a più riprese e insistentemente ritengono incomprensibile e non motivabile. Entrambi descrivono una serie di atti volti a far pensare a un reato di sequestro di persona o di violenza privata, in cui loro stessi sono le vittime; risulterà poi invece che entrambi hanno messo in atto una scena del crimine in cui terzi estranei erano del tutto assenti e che solo loro, in prima persona, hanno simulato il sequestro. Seguendo il criterio espositivo che mi sono prefisso di rispettare, passerò ora a narrare altri agiti, la cui drammaticità si evince dalla diretta lettura dei rispettivi resoconti. Caso 3. Antonio, anni 42, omicida
"Il tono di Marta [l'amante di Antonio, da lui uccisa], quel giorno che mi ha convocato al parco, era particolarmente aggressivo. Il giorno prima
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avevo scoperto che mi aveva cambiato l'orario per avere libere due ore per potermi seguire; lei me lo ha negato ciò, però ha preteso che ci vedessimo ugualmente, perché doveva parlarmi e dirmi tutto quello che le veniva. Ero proprio dilacerato, non ne potevo più, era da una settimana che le cose si erano particolarmente esasperate. Speravo di non incontrarla quella mattina di giovedì. Poi è arrivata e mi ha aggredito. Io mi sono sentito uno che non respira; non ce la facevo più. Io non la volevo vedere intorno a me: invece sono stato obbligato a vederla. Ho pensato: cosa posso fare? Mi è venuto in mente solo che potevo minacciarla con la pistola e il coltello. Ho preso con me anche un coltello per farle paura. Le parole non bastavano più, le mie parole erano inefficaci, come potevo spaventarla e farla stare zitta? Sono uscito di casa alle 2:30 del pomeriggio e sono andato all'appuntamento verso le 3. Dopo cinque minuti è arrivata anche lei; non era la prima volta che ci trovavamo in quel luogo, perché lei mi convocava per dirmi le solite menate. Ha parcheggiato di fianco a me e io sono salito sulla sua macchina di fianco a lei. Subito ha iniziato a dire che sono uno stronzo, che la prendo per il culo. Io non ho potuto dire niente, né ragionare. Ho preso la pistola e gliel'ho puntata contro dicendole che bisognava smetterla, altrimenti sarebbe finita male. 'Vedi come va a finire qua? Siamo due persone adulte?' Lei ha risposto: 'Adesso l'hai fatta grossa'. È scesa e si è allontanata dalla macchina. Io l'ho seguita e ho cercato di farla ragionare. Le ho detto che non volevo niente da lei e che lei non poteva obbligarmi a stare con lei per tutta la vita. Lei ha risposto: 'Stasera vengo a casa tua e dico tutto e domani vado sul lavoro e dico tutto'. Poi è tornata in macchina e io sulla mia. A questo punto ho sparato un colpo di pistola per spaventarla. Ho sparato verso il basso, ricordo che ha fatto un botto tremendo. Lei si è girata verso di me e mi ha insultato: 'Stronzo, stasera vengo a casa tua e poi domani si continua in ufficio'. Sorrideva con scherno, non aveva paura, allora io le ho tagliato la strada, sono sceso, sono andato vicino al suo posto di guida e ho sparato due colpi contro la sagoma della donna; la pistola non aveva più la sicura. Lei è scesa, ha fatto alcuni passi e poi è stramazzata a terra. Poi sono arrivate subito le macchine della polizia. Io ero lì vicino a lei, in piedi; la pistola era in terra. La prima sensazione che ho avuto è stata quella di essere uscito da una camera a gas. Fino alla sera è stato così. Dalla mattina dopo tutto è cambiato, nel senso che piano piano mi è passata la voglia di parlare, perché avevo capito che avevo fatto io quella cosa lì."
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Caso 4. Bruno anni 35, omicida "Ho passato la notte tra l'l e il 2 dicembre nella mia abitazione fumando e bevendo alcolici in quantità considerevole ... Avevo bevuto un litro di vodka alla pesca e dello spumantino; non sono dedito alla consumazione in questa quantità di sostanze alcoliche ... [il mattino del fatto) quando Donatella mi è sfilata dinnanzi l'ho seguita ho sferrato un primo colpo alla schiena all'altezza della scapola destra ... ricordo di aver ancora colpito Donatella all'altezza del cuore e poi con un ulteriore colpo all'altezza del collo ... non ricordo altro se non che per un istante ci siamo fissati intensamente negli occhi ... Donatella non ha urlato ... durante l'aggressione indossavo il passamontagna e i guanti ... ho guardato all'interno della borsa per vedere se c'era il cellulare che mi interessava più di tutto ... volevo controllare le ultime chiamate ricevute da Donatella e i messaggi pervenuti perché ero geloso ... sono
arrivato a commettere quello che ho detto perché mi sono sentito usato e gettato via ... penso che i nostri rapporti abbiano iniziato a incrinarsi perché io quando mi affeziono a una persona tendo a diventare ossessivo e a ingerirmi in buona fede negli affari delle altre persone ... Donatella non era stata sincera con me in riferimento a frequentazioni con altri amici e di lì ho cominciato a essere geloso e a sentirmi usato ... ho visto Donatella per l'ultima volta venerdì scorso, abbiamo passato la serata insieme in birreria; la serata stava andando bene, ma quando ho chiesto a Donatella se voleva venire a casa da me la stessa mi rispose: 'La troia la faccio io con chi voglio io' e se ne è andata ... nell'ultimo periodo ho avuto l'impressione che Donatella frequentasse altri uomini, anche perché così la stessa mi disse che faceva ciò solo ed esclusivamente per ragioni di sesso ... alle risposte di Donatella io ci stavo male e stando da solo ed essendo un tipo competitivo nel senso che io gioco per giocare e gioco anche per vincere, anche se al tempo stesso sono insicuro, mi do-
mandavo cosa questi uomini potessero avere in più o in meno rispetto a me e tali comunque da farli preferire rispetto a me da Donatella ... quando lei mi parlava delle sue avventure sessuali io mi dicevo che era una zoccola e provavo un sentimento doppio di amore e disprezzo ... negli ultimi giorni il doppio sentimento che provavo nei confronti di Donatella e che ho accennato prima era enormemente cresciuto ... ho anche pensato quanto fossi imbecille per avere sempre e solo offerto agli altri tutto ciò che potevo senza ricevere nulla."
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Caso 5. Pino, anni 50, omicida "Eravamo a casa sua ... il battibecco è trasceso e io ho reagito violentemente; l'ho colpita al capo per tre o quattro volte con una mazzuola di ferro che avevo portato con me; ho cercato poi di strangolarla con del fil di ferro. Sono andato via lasciando Isabella ancora in vita. Sono andato a casa mia a cambiarmi la camicia, in quanto era sporca di sangue. Da casa ho telefonato al 113 spiegando sommariamente i fatti e richiedendo l'intervento di personale medico con la speranza che Isabella si salvasse. Quindi mi sono presentato in questura ... A casa, mentre mi cambiavo gli indumenti, era sopraggiunta la mia convivente, alla quale ho riferito l'accaduto ... Isabella si prendeva gioco di me, mi derideva e io non sono riuscito in alcun modo a riportarla alla ragione ... questa mattina ero abbastanza calmo ... Io non riuscivo più a trovare in Isabella tutto quello che avevo trovato agli inizi; agli ultimi c'è stato il sospetto che fosse arrivato un altro uomo al posto mio. Io le chiesi se voleva tornare con suo marito e Isabella rimase molto evasiva: 'Quando sarà, lo saprai!', 'Hai mica qualche altro?', 'Può darsi'. Erano anche iniziate telefonate anonime. Le cose non erano chiare. La sera prima del fatto abbiamo litigato per queste telefonate. Era da quindici giorni che mi trascurava in tutto e per tutto. Quel sabato mattina sono tornato con i miei strumenti per mettere a posto ancora alcune cose e poi portarla al lavoro; lei ha ripreso i soliti discorsi: che non voleva più lavorare, che le avevo rotto le palle, che si era stufata, che ero un miserabile, che avevo una carretta di macchina che le faceva schifo. Mi ha portato all'esasperazione: 'Te la puoi andare a fare in culo, visto che il locale e la macchina sono intestate a me, puoi andare a cagare' ... non ci ho capito più niente. Neanche adesso lo so. Me ne sono reso conto quando sono sceso ed entrando in macchina ho visto una grossa macchia di sangue sulla camicia e mi sono accorto che avevo un martello in mano. Mi sono preoccupato per la mia bambina, mi sentivo come intontito, come un robot, sono molto più angosciato adesso."
Caso 6. Mauro, anni 53, tentato figlicidio "Io ho due figli che mi maltrattano ... il primo e l'ultimo, cioè Alessandro. Più volte mi hanno picchiato mandandomi anche all'ospedale ... Loro non volevano che io avvicinassi più mia moglie, dalla quale mi sono separato dopo una conoscenza di trentacinque anni ... anche mio genero
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mi ha picchiato più volte. Un mese fa Alessandro è venuto a casa mia con un carabiniere e davanti a lui mi ha dato un calcio nello stomaco e mi ha mandato all'ospedale ... La sera di martedì, tornando a casa, trovai Alessandro con degli amici: mio figlio si mise a sfottermi ... Ieri sera sono salito in casa mia: mi sono tolto la camicia, le scarpe e ho acceso il televisore ... ho sentito il citofono: era mio figlio che mi ha detto: 'Portami dei soldi che ne ho bisogno'; io non gli ho risposto; dopo un po' suona nuovamente e mi dice: 'Guarda che ti sto ancora aspettando, pezzo di merda'. Era ormai tardi: forse quasi mezzanotte. Pensai che con Alessandro ci fosse anche mio genero e l'altro figlio. Presi l'arma e me la misi in tasca. Era un'arma che detenevo illegalmente: la tenevo per difesa. Presi dunque la pistola e scesi per strada. Vidi Alessandro vicino al cancello. Gli andai incontro e gli dissi: 'Senti un po' bene ... '. A quel punto anche Alessandro si avvicinò verso di me. A me prese paura e sparai un colpo 'così', un colpo solo. Alessandro corse, saltò un cancello automatico arrivando all'interno dove abito io. Ridendo profferì la frase: 'Ah ah ah, ti ho fatto fesso!'. Io il ragazzo non l'ho visto più. Mentre tornavo a casa, vidi Alessandro avvicinarsi nuovamente con un'altra persona e venire verso di me. Allora io non ci vidi di nuovo più e ricominciai a sparare. Lui corse via saltando un altro cancello e andò via. Io andai in macchina dai carabinieri, consegnai l'arma e spiegai quello che avevo fatto. A mio figlio non so dire se sparai quando l'avevo di fronte o di spalle. Io ero fuori di me. La mia intenzione non era certo di ammazzare mio figlio. La mia intenzione era di intimorirlo. Non volevo colpirlo ... pensi solo se un padre vuole uccidere un figlio! E che quando lui mi ha citofonato dicendomi: 'Vieni giù pezzo di stronzo e di merda: ho pensato che non fosse solo e allora ho preso la pistola per paura. Quando sono sceso giù lui farfugliava e io non mi ricordo bene quello che diceva, perché tremavo tutto, perché sono un tipo molto emotivo. Se avessi pensato ancora due minuti non sarei certo sceso."
Caso 7. Giovanni, anni 29, omicidio a sfondo omosessuale "Il giorno del fatto io entrai in casa sua solo per definire i termini del mio contratto di lavoro; lui improvvisamente ha cambiato atteggiamento; mi ha preso per il collo e mi ha detto che se volevo lavorare con lui e per lui dovevo essere il suo ragazzo. Io me lo scrollai di dosso e poi è successo quello che è successo. Quel giorno stavo male fisicamente, perché avevo mal di testa e un po' di influenza. Io ho pensato perché ho fatto quella cosa e l'unica spiegazione che mi posso dare è che io volevo evitare ogni contatto fisico con lui; per questo
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motivo usai la bomboletta, per intimorirlo e tenerlo lontano. Invece la bomboletta fece male a me, perché si girò contro la mia faccia. Poi lui mi diede un pugno sul collo e di lì si è andati avanti, anche perché lui in un primo tempo voleva spostarsi verso la scrivania e in un secondo tempo nella stanza in cui teneva la pistola. Ricordo che lui mi diceva una frase del tipo: 'Bastardo terrone, mi vuoi derubare'. Lui mi aveva già umiliato all'inizio della mattinata; mi aveva sminuito in un modo incredibile, perché avevo preso un caffè corretto con la sambuca e avevo fumato una sigaretta e lui aveva sentito addosso a me un odore di alcol e di fumo. Lui diceva che non sarei mai riuscito in nulla; io mi ero confidato sinceramente con lui, dicendogli che ero senza lavoro e mi ero lasciato con la ragazza. Quando entrai in casa sua, mi sentivo umiliato e offeso. Poi lui mi ha ricattato con quella frase, una cosa proprio schifosa; già quando lo fa una donna con un uomo, figuriamoci un uomo con un uomo! Poi lui aveva sempre quell'aria vanitosa e di superiorità. Quel giorno mi ha fatto sentire un nulla. Come se dicesse: 'O così o niente'. Mi ha fatto sentire degradato. Non avrei fatto quello che mi ha chiesto per nulla al mondo; immorale era lui, non il mio modo di vivere. Io l'ho visto come una cosa schifosa che mi veniva addosso; forse è stato perché la porta era blindata e chiusa, senza via di scampo, non so ... ho avuto l'impressione di essere senza fiato. Io ricordo che a un certo punto ero estenuato, mentre lui aveva ancora delle forze, lo sentivo più agile di me." Caso 8. Paolo, anni 27, tentato omicidio di una prostituta
" ... quella sera mi ero recato da Stefania, la mia ragazza, per stare con lei. C'era anche suo zio che mi ha detto: 'Se volete, potete vedervi fuori casa, ma qui dentro non devi più venire'. Allora me ne sono andato via ed ero arrabbiato: mi sentivo come un cane quando viene cacciato via malamente. Sono andato a cercare Mirella che conosco da cinque o sei anni e che era l'unica prostituta che frequentavo: speravo che mi tranquillizzasse e mi aiutasse, parlandomi. Per me Mirella era come una sorella grande, una madre. Quando ero in difficoltà andavo sempre da lei a farmi consolare e lei mi dava dei consigli. Mirella aveva circa trentacinque anni, l'avevo notata perché era carina; le volevo bene e gliene voglio ancora. Ci vedevamo due/tre volte al mese, quando avevo dei soldi. Non c'erano mai stati problemi prima di quella sera lì, anche se qualche volta lei aveva alzato la voce con me e io me ne ero andato. Però lei non ha mai reagito con me come quella sera lì. Mi sono sfogato e poi le ho chiesto di avere un rap30
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porto, dicendole che non avevo soldi e che avrei pagato in seguito, come avevo fatto altre volte. In realtà avevo in tasca cento/centocinquantamila lire che mi erano state prestate. Alla mia richiesta lei mi ha risposto male e mi ha mandato via; io ero già giù di morale e lei mi rispondeva male, mi ha dato degli spintoni, mi ha colpito con una gomitata al petto e ha messo una mano sotto il sedile. A me è presa paura, ho tirato fuori il coltello e l'ho colpita allo stomaco, non ricordo peraltro quante volte, né dove l'ho colpita, a causa del forte stress e dell'agitazione del momento ... ho inseguito la donna anche fuori dall'auto e l'ho colpita mentre fuggiva ... poi sono tornato alla macchina, ho preso la borsa e mi sono allontanato con la bicicletta ... Mi sono accorto di avere la borsetta di Mirella solo a ... forse l'avevo presa quando ho afferrato il mio giubbotto che avevo posato nella macchina di lei. Ho buttato via tutto e ho strappato i suoi documenti: forse anche i soldi. Ricordo bene, perché ho fatto trovare io queste cose ai carabinieri, indicando i luoghi con precisione ... Conosco da tanto tempo Mirella, in quanto ho da tempo con lei rapporti in ragione del fatto che esercita la prostituzione. In passato, in diverse occasioni, avevo avuto con lei rapporti sessuali 'a credito', nel senso che costei mi consentiva di pagare anche dopo qualche giorno ... anche quel giorno le ho detto di non avere i soldi per pagare, chiedendole se, come in passato era già successo, potevo pagarla successivamente. Lei mi ha risposto negativamente ... io ho insistito nella mia richiesta ... lei mi ha colpito con una gomitata al petto ... E poi è successo quello che è successo ... " Caso 9. Domenico, anni 27, omicidio di una prostituta "Quel giorno lì è stato terribile. Mi sentivo nervoso, ho girato con la macchina senza una meta precisa, pensavo a cosa mi stesse succeden do, ho preso pillole contro il mal di testa, ho provato la sera a cenare e a guardare la TV. Non riuscendo, mi sono detto: 'Vado a Torino a trovare Milena'. Sono arrivato a Torino verso le 23-23:30; l'ho vista, è salita in macchina e io le ho detto: 'Andiamo in un posto diverso', perché nel posto solito c'erano troppe coppiette. Siamo andati per una strada che non conoscevo neppure io, fino a quando ci siamo trovati in una piazzuola che non conoscevo. Ci siamo fermati. Abbiamo fumato qualche sigaretta e abbiamo parlato del più e del meno. Lei si è lamentata del suo lavoro, si è messa a piangere, io ho cercato di consolarla. Lei mi ha proposto un rapporto sessuale, ma io non volevo. Non stavo bene, avevo bevuto e mescolato con delle pillole. Sapevo benissimo che non avrei combinato niente. Lei ha alzato la voce e ha insistito. Si è arrabbiata tantissimo, per31
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ché io non ho avuto l'erezione. Mi ha offeso in tutti i modi. Io allora le ho detto che era proprio una puttana e lei si è ribellata e mi ha picchiato, sempre urlando. Mi offendeva sempre di più, fino a quando io ho preso il coltello e gliel'ho fatto vedere dicendole: 'Se non la smetti, ti faccio del male'. Io speravo che si calmasse, invece lei si è messa a urlare ancora di più. Lei urlava e io sentivo la testa che mi scoppiava dal dolore. Poi è successo quello che è successo; ricordo lei che gridava a non finire, fino a quando ha smesso. È stato come in un sogno per me. Quando lei ha smesso di gridare, è come se io avessi aperto gli occhi e ricordo la mia mano con il coltello piantato nel cuore di Milena. L'ho chiamata, Milena non ha risposto: ero terrorizzato. Ho tentato di aprire lo sportello della macchina per farla cadere fuori; non ci sono riuscito. Allora sono sceso dalla macchina, l'ho tirata fuori a fatica, ho tolto il coltello e l'ho buttato lì vicino; sono risalito in macchina, sono ripartito e sono tornato a ... Non ho pensato alla galera, ho pensato che avevo fatto del male a una ragazza che mi voleva bene e alla quale io volevo bene. Quella sera ho pensato al suicidio; volevo gettarmi con la mia macchina dalla strada giù in un burrone, ma non ci sono riuscito." Radicalmente diversi, anche nelle modalità espositive, sono i racconti relativi ai singoli episodi di scompenso che narrerò nelle pagine che seguono (casi I 0-15).
Caso 10. Carmen, anni 31, figlicida "Quel mattino vedevo dalla finestra della mia camera da letto delle persone e io vedevo in loro dei movimenti, soprattutto sui gesti mi ero soffermata e vedevo queste persone che ... il mio pensiero assurdo era che i politici in un certo senso cercassero di attuare il loro piano di fare dei replicanti avvalendosi della cooperazione di altre persone ... passavano sotto casa con la macchina e facevano una sterzata e allora io in questa sterzata ci vedevo che loro contrastavano quello che dicevo io ... rompevano il mio piano e io rompevo il loro ... loro cooperavano con questi politici per realizzare questo piano di replicanti e io impedivo la realizzazione di questo piano [ride] e loro invece, combattendo me, favorivano gli altri ... come se i politici promettessero a questa loro collaborazione una specie di premio che però io sapevo che loro non mantenevano ... non so come facevo a contrastare ... io non facevo pratiche strane ... difficile spiegarlo ... non eravamo nella situazione di robot. .. che ne so ... loro mi impedivano di ... cioè praticamente ... troppo difficile da ... [ri32
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de] loro erano normali per mantenere la società senza replicanti, io lo impedivo, ma cosa vuol dire? ... era una specie di ... come se fosse un puzzle ... io ho un puzzle già fatto, quindi non c'era bisogno di niente per non essere replicati ... poi questi qui arrivavano e mi rompevano un pezzetto ... questi giù che erano in strada impedivano il mantenimento della ... non lo so ... interrompevano per una frattura su quello che era lo stato di tranquillità, di vissuto normale come era sempre stato ... loro contrastavano e io dovevo mantenere le cose pacifiche e loro intervenivano, così ho appunto interpretato in questo modo il movimento del volante, come se loro mi creassero un ostacolo ... ci vedevo qualche cosa come significato, il fine era di creare questo cavolo di società di persone inesistenti ... quella mattina ero angosciata, totale angoscia ... pensavo che anche mio marito fosse dalla parte di questi politici ... volevano fare di me e della mia bambina una replicante, un robot, una persona senza .. . come radiocomandata ... il problema era la distruzione dell'umanità .. . volevano una specie di oligarchia portata all'esasperazione, io vedevo quello che non andava, io vedevo questa modificazione esteriore ... ero molto spaventata; adesso quando penso a come mi sentivo allora lo sono ugualmente, perché mi rendo conto di come l'ho vissuto allora ... a questa serie di deliri, chiamiamoli così, si accompagnava un altro processo che si era messo in atto; cioè mio marito, da cui ero molto intimorita e che mi aveva dato il giorno prima un pugno fortissimo, mi minacciava di morte, mi minacciava, ha capito? Quando mi ha colpito, mi ha fatto pensare; questo farmi pensare mi ha portato a ricollegare ad altre frasi, ad altri episodi, come se mi rivenissero in mente delle cose precedenti, a cui io prima non avevo dato grosso peso ... mi sono venute in mente anche delle frasi dette da mia suocera ... tutto quella mattina ha assunto un significato drammatico ... così ho ucciso la mia bambina perché non volevo che avesse dei problemi, non volevo che soffrisse ... " Caso 11. Daiana, anni 37, tentato figlicidio
"Quella sera ero nel bagno che mi stavo rovinando il viso con coltelli e tronchesine. So che ero molto calma, anche se mi ero fatta del male. Andai nella camera della bimba e cercai di ammazzarla. Non ricordo se dormiva, lei si è messa a piangere e il mio compagno è subito venuto e mi ha trovato con le mani sul collo della bambina. Ha cercato di togliermela e la sera stessa ha chiamato un medico che mi ha fatto una puntura. Mi hanno chiusa nella mia camera e la bambina ha dormito al piano di sopra. Il giorno dopo sono andata a prenderla e lei aveva paura di me, 33
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ma avevo sempre in mente di ammazzarla, poi ammazzare l'altra e poi uccidermi. Il mio pensiero costante era quello di ammazzarle tutte e due le mie figlie. Finché il giorno 8 so che la più grande era con me a casa: verso le 11 ho preso il coltello e ricordo di averle detto che non le avrei fatto male; non ricordo bene ... lei mi spinse fuori e si chiuse dentro a chiave. Io ho cercato di fare diverse cose durante la giornata, mentre c' era sempre dentro di me il tormento di uccidere l'altra quando tornava a casa da scuola; infatti, quando Giovanna è tornata, le ho detto le stesse parole che ho detto a Maria e ho cercato di metterle le mani al collo: solo che lei si è messa a piangere ed è venuta della gente che me l'ha portata via. Io volevo uccidermi, perché ero stufa della mia depressione e mi ero convinta che non sarei mai guarita e che la colpa era solo mia. Ero anche invidiosa che gli altri facevano una vita sana e normale. Maria faceva la sua vita e mio marito era molto assente. Inoltre loro due non sono mai andati d'accordo e penso che non si possano neanche rivedere. Io volevo uccidere le mie figlie, perché ero convinta che diventassero come me, se non addirittura peggio di me. Pensavo che loro senza di me sarebbero certamente peggiorate, specie la più grande. Pensavo che morire fosse un bene sia per loro che per me." Caso 12. Giovanna, anni 44, matricida "Quella sera sono rimasta tranquillamente fuori di casa, perché a me piace molto la campagna. Lì ho iniziato a sentire qualche cosa che parlava dentro di me. Saranno state le 7 di sera. La voce era indistinta e diceva come se ci fossero delle predizioni che potevano anche non essere brutte, ma che rivolte a me erano orrende e catastrofiche; riguardavano il mio lato fisico, che sarei rimasta senza braccia e senza gambe, che avrei perduto un occhio, che più nessuno mi avrebbe guardata in faccia, che avrei sofferto sempre, sotto ogni lato. Io non provavo niente. Mi sono stupita, perché è stato difficile identificare che cosa ero: era chiaro che non ero io che parlavo, un estraneo neanche. L'ho presa come è venuta. Poi sono andata a farmi un giro, completamente assente come era già successo tante altre volte. Il dire queste cose non mi suscita emozione alcuna. Poi sono entrata in casa, mi sono cambiata la maglietta e sono scesa in cucina ... Ho guardato un po' la TV ma non ricordo; saranno state le 8 e avrò visto un po' di telegiornale. Poi sono andata a tavola, perché avevamo degli ospiti. Mi vedevo come un'extraterrestre, come se non ci fossi, come se ci fosse un vetro, io da una parte e tutti gli altri dall'altra parte; io li vedevo e tutti gli altri non mi vedevano. Quando erano a ta34
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vola mi sembrava di essere come in un sogno, tant'è che me lo sono anche detto. Ci sono rimasta dentro. A tavola io ero qui e gli altri c'erano, ma era come se fossero in un altro mondo, in un'altra dimensione. Le persone, la situazione, l'ambiente, io stessa, tutto mi sembrava strano. Li vedevo come in uno specchio che ingrandisce, come se fossero più grandi e poi come se loro non mi vedessero. Parlavano fra di loro, io non sentivo niente, li vedevo parlare, ma non li sentivo; ero io che non riuscivo a parlare, perché io avevo questa sensazione e poi questa voce si è nuovamente incanalata. Il mio silenzio non era vuoto; ero in compagnia della voce, che mi ha parlato di cose ancor più catastrofiche ... La voce diceva che io non avrei capito subito quello che diceva, ma che lo avrebbe ripetuto tante volte, fino a che lo avrei saputo perfettamente bene; mi diceva cose brutte e catastrofiche, che io sarei stata mutilata, che però sarei sempre tornata come prima, che avrei perduto le gambe e le braccia e che sarei diventata orripilante. I discorsi erano da un certo punto di vista un po' confusi, ma erano anche molto ripetitivi; poi diceva che questa voce sarebbe stata per l'eternità, nel mondo, non ricordo se anche dentro di me. Diceva che aveva vari nomi: Sodoma, Gomorra; la voce aveva tre case: una era Sodoma-Gomorra, l'altra il macellaio e la terza non ricordo. Dove passava questa persona le cose si distruggevano e poi passavano altre persone che le rimettevano a posto. Sodoma e Gomorra me le ha dette quindici volte per farmi capire bene. La cosa che adesso mi sembra molto strana è che era una voce che non si fermava mai, era martellante, sempre con la stessa intonazione, non mollava mai. Io sono rimasta zitta. A un certo momento ho cercato di infiltrarmi in questo parlare, ma la voce mi ha fatto capire che tanto non capivo e dovevo solo ascoltare. Poi, a un certo punto, questa voce si identifica in Satana e mi dice: 'Io sono il bene e tu sei il male'. A un certo punto mi ha detto ... [la donna scoppia in un pianto dirotto e improvviso; si alza, in preda all'ansia più viva, fa qualche passo per la stanza e si risiede] mi ha detto: 'Tu sei troppo buona' e si rivolgeva a mio figlio, nel senso che io pur facendo quello che ho fatto, ho salvato mia madre e la sua figura è rimasta intatta; invece mio figlio era arrivato all'inferno e io non l'avevo salvato. Diceva che io ero troppo buona e non avrei mai potuto raggiungerli. Mi ha detto che mio figlio era già morto e che per colpa mia era rimasto sfigurato e che io avevo sbagliato, anche se avevo salvato mia madre, ma che non ero riuscita a salvare mio figlio, perché non mi ero ammazzata [tutta questa parte di discorso è sottolineata e interrotta dal pianto]. Satana continuava ad apparire e sparire e io mi vedevo sfigurata; io volevo morire per poterli raggiunge35
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re e non ci sono riuscita. Questa voce continuava a dirmi che io apparivo tutta normale, oppure tutta a pezzi, o mutilata, o in polvere. È stata una cosa che mi ha fatto soffrire tantissimo [pianto dirotto e autentico]. Alla fine io non sono riuscita a uccidermi per raggiungere loro e allora sono stata beatificata e mi ha tolto anche la possibilità di vederli dopo. La voce diceva che loro erano arrivati in un posto dove non potevo raggiungerli. Io dovevo morire per poterli raggiungere. La voce mi ha detto: 'La mamma è qua contenta, anche il papà c'è; anche tuo figlio sfigurato e abbiamo ammazzato suo padre'. La voce diceva che dovevano arrivare delle persone che avrebbero bruciato la mamma e che avrebbero fatto a pezzettini tutta la mia famiglia e che io per salvare la mamma dovevo uccidermi per prima. Allora io mi sono accoltellata su ordine della voce e ho cercato di sfigurarmi la faccia, però non sono riuscita a fare tutto quello che la voce ordinava; poi sono corsa in camera di mia mamma con l'intenzione di ammazzarla perché la volevo salvare da coloro che stavano per arrivare e che avrebbero bruciato tutto ... non ricordo di aver colpito mia mamma ... "
Caso 13. Alessandra, anni 36, tentato omicidio "Ho aggredito Viviana per una specie di invidia professionale, in quanto la ritenevo più brava di me sul lavoro ... Da tanti mesi sentivo una voce interna che mi diceva di farla fuori, sempre perché era lei che mi perseguitava. Non è stata un'idea balzana, è stato il susseguirsi di tanti episodi di scorrettezza nei miei confronti ... Ritengo che la mia presenza fosse causa di insofferenza per Viviana; penso che le davo fastidio se venivo a lavorare. Sono circa sei/sette mesi che vivo questa situazione di disagio con Viviana. Nella mattinata del 19 agosto avevo lavorato con Viviana e le cose non erano andate bene. Tnfatti, c'erano state tutta una serie di discussioni, ripicche e cattiverie in genere. Preciso che ero io a dover ingoiare, a mandare giù. [Nel pomeriggio] ho realizzato che non ne potevo più, che non potevo più sopportare. Mi sono detta: 'Adesso la faccio finita'. Volevo darle una lezione, farle capire di smetterla. Sentivo una voce che dentro di me mi diceva: 'Vai e falla finita, così non ci pensi più'. Da tanti mesi sentivo una voce interna che mi diceva di farla fuori, sempre perché era lei che mi perseguitava. Non è stata un'idea balzana, è stato il susseguirsi di tanti episodi di scorrettezza nei miei confronti. Ho quindi preso il coltello e mi sono detta: 'Lo prendo, vado, faccio' ... mi ha accolta con una battutaccia. A quel punto mi sono detta: 'Adesso basta' e l'ho aggredita. Era mia intenzione quella di darle una lezione, ma non di uc36
IL CONTRIBUTO CASISTICO
ciderla. Se avessi voluto, avrei potuto infliggerle una seconda o una terza coltellata, senza che mi potessero fermare. Non ho pensato dove colpirla, ho preso il coltello e l'ho colpita dove ho potuto ... Di questi problemi con Viviana avevo parlato anche con mio marito che però non mi ha mai ascoltato ... in buona parte la causa del mio primo ricovero [in psichiatria] fu proprio dovuta ai comportamenti tenuti da Viviana nei miei confronti. L'aggressione nei confronti di Viviana mi ha liberata. Ora mi sento bene e non voglio più fare del male." Caso 14. Olga, anni 47, tentato uxoricidio
"La sera del fatto io sono arrivata a casa e sono andata a dormire ... Poi sono arrivati mio marito e mio figlio e abbiamo cenato ... Mio marito tutto subito sembrava tranquillo ... Poi abbiamo accompagnato mio figlio e al ritorno ci siamo fermati in farmacia per comprare il Tavor ... Poi sono salita in camera e mi sono chiusa a chiave ... lui insisteva e mi ha convinto a scendere giù e io invece volevo andare a dormire ... prima di scendere mi ha detto: 'Questa porta deve rimanere aperta' e io ero come sotto ipnosi, non ho avuto la forza di reagire ... poi è passato. Dopo avermi chiesto di scendere, lui è diventato aggressivo, perché gli ho chiesto spiegazioni, in quanto non c'erano i miei gioielli nella borsa e mancavano anche dei documenti importanti ... Abbiamo litigato, lui mi ha provocata ... È da quattro anni che va male: ha cominciato a picchiarmi, mi ha lasciato senza una lira, non vuole saperne di me e dei bambini. Mi ha fatto passare per malata, non so perché ... mi ha ingannata anche quando ha cercato di farmele buone ... Lui ha un'amante e ne ho le prove ... mi ha detto che ero e sono una malata di mente ... quando sono tornata dalla Francia dove ero andata per lavoro, lui mi ha guardata con odio perché sperava non tornassi più ... Quella sera ha preso un coltello e me lo ha messo qua e ha detto: 'Se voglio, ti faccio sparire e nessuno ti cerca' e allora io nella colluttazione ho preso il coltello e gliel'ho piantato nella schiena ... non volevo fargli male ... è stata la disperazione e la paura. Lui ha gridato aiuto, ma non era sanguinan te e neppure il coltello era sporco di sangue. Poi lui è uscito e ha parlato con qualcuno nel cortile e poi è andato all'ospedale. Io sono rimasta lì e ho pensato: 'È la volta che mi ha incastrata ... io volevo andare via e adesso non posso più'. Poi ho detto: 'Vediamo cosa succede'. Quando sono arrivati i carabinieri ero tranquilla, pensavo che mi interrogassero e poi di tornare a casa mia. E invece non mi hanno ascoltato e mi hanno messa in quella cella ... [piange]" 37
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Caso 15. Enrico, anni 66, uxoricidio " ... era un po' che non stavo bene; non dormivo, avevo pensieri su tutto ... pensieri brutti, di rovina ... il futuro era nero ... ci ero ricascato, non avevo più voglia di vedere gente, di parlare, ero convinto che andasse tutto male. Non riuscivo più a fare niente; parlavo poco anche con mia moglie: qualche parola tirata fuori a fatica ... La notte i pensieri erano tormentosi e non mi facevano dormire ... Quella mattina mi sono alzato intorno alle 7 ... sono andato in cucina per fare il caffè ... non so dire se poi ho in effetti fatto quanto intendevo ... ricordo solo che ho sentito una cosa dentro che so descrivere in questi termini: ho pensato che mia moglie aveva già sofferto troppo per me e che non doveva più soffrire per me. Non ho sentito il dispiacere per le sofferenze che lei aveva avuto per la sua malattia, ma quelle che aveva avuto e avrebbe avuto in futuro per la mia; non ci sono stati alterchi ... noi andavamo d'accordo ... Da diversi mesi, infatti, stavo di nuovo male, cioè sentivo di nuovo la depressione ... non so dire quanto tempo sia passato tra il momento in cui mi sono alzato dal letto e quello in cui ho sentito le sensazioni che ho descritto ... il primo momento che ho impresso nella mente dopo quello in cui ho sentito le cose che prima ho descritto è quello successivo al fatto. In sostanza ricordo mia moglie con molto sangue. Ricordo solo di aver colpito mia moglie con un oggetto, ovvero con un soprammobile in cristallo ... non so dire se questa affermazione sia legata a un mio ricordo ovvero sia una notizia che ho appreso dopo il fatto ... Non riesco a ricordare se mia moglie abbia avuto una qualche reazione allorché ho iniziato a colpirla; ricordo solo di averla colpita ... non ricordo neppure dove abbia preso, né dove poi abbia messo l'oggetto usato per colpirla. Non può essere che io le abbia stretto il collo con le mani, ovvero con qualche altro strumento o oggetto. Non ricordo di essermi lavato le mani dopo il fatto. Ricordo invece di aver chiamato i carabinieri ... poiché in quel momento mi sono reso conto di aver ucciso mia moglie ... non ricordo se ho chiamato i carabinieri subito dopo il fatto ... non mi so dare nessuna spiegazione di quanto ho fatto ... non c'era nessuna ragione di fare ciò che ho fatto ... la sera precedente siamo andati a dormire piuttosto presto ... è stata una sera come tutte le altre ... senza che sia successo nulla di particolare ... " Il caso che segue è relativo a un minorenne omicida, affetto da una gravissima patologia mentale della cui complessità il lettore si potrà ben rendere conto leggendo le pagine che seguono, tenendo presente che, al momento delle indagini peritali, si trattava di un giovane la cui persona-
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IL CONTRIBUTO CASISTICO
lità era ancora in via di evoluzione: che pertanto poteva presentare tratti immaturi e aspetti adolescenziali che potevano essere confusi con una più seria compromissione del suo funzionamento mentale (come in effetti riscontrato nel corso della perizia).
Caso 16. Roberto, anni 17, omicida "Non so bene l'ordine dei fatti ... non so se io mi sono sporcato di sangue ... ricordo le grida degli altri ... quando è arrivata la polizia mi sono reso conto che ci eravamo spostati in un altro luogo ... io non ho sentito il morso che ho ricevuto al dito indice che mi ha procurato Maddalena, perché in quel momento non avevo la percezione del tatto. Sentivo gridare e poi quando ho tirato i calci non sentivo neanche le urla ... vedevo solo la sua faccia ai miei piedi; a quel punto non sentivo niente, non ricordo se lei fosse immobile o facesse degli scatti ... i calci non li sentivo nel senso che non sentivo nessun impatto ... quando l'ho presa per la coda [i capelli raccolti a coda di cavallo] e le ho messo il coltello al collo, non ho più avuto la percezione della forza ... era la stessa sensazione dei calci ... il temperino era della mia compagna di classe Claudia ... volevo solo spaventarla, perché c'erano delle cose che mi davano fastidio, tipo sentirla parlare a voce alta di altri ragazzi che la corteggiavano e le mandavano messaggi per telefono. Diceva anche che il tempo passato insieme non era niente e le cose dette non erano vere ... Io non volevo ammazzare Maddalena, volevo minacciarla per impedirle di fare quello che faceva ... Quel giorno fino a un certo punto è stato tutto normale. Il suo comportamento in classe prima dell'intervallo mi stava infastidendo. Le ho detto: 'Piantala di fare la scema, se no finisce male'. Lei però ha continuato. [Nell'intervallo] mi sono fatto un taglio: era uno sfogo. Poi ho fumato una sigaretta. Sono uscito con il coltello in tasca e mi sono fatto un altro taglio al braccio sinistro. Ho fatto un giro. Avevo paura. Mi sono avviato verso Maddalena, volevo solo spaventarla. Ero tranquillo più del solito, ero come in trance, come tra le nuvole. Non pensavo a niente. Poi quando mi sono avvicinato ho perso la cognizione. Quando mi è caduta addosso e ho visto il sangue non ho capito più niente. Non sentivo niente, vedevo quello che succedeva, ma non sentivo gli altri intorno a me. Sono tornato verso la scuola e piano piano sono tornato in me e ho cominciato a vedere quello che avevo fatto. Ero molto nervoso e ho dato un pugno al vetro per rabbia: cominciavo a percepire che fosse accaduto qualcosa. Stavo riprendendo i sensi. Poi dei compagni mi hanno fatto lavare le mani e le braccia: erano tutti preoccupati di me; poi mi hanno portato nella sala professori finché è arrivata la polizia."
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Caso 17. Annamaria, anni 31, figlicida
Come emerge dalla lettura degli atti processuali, verso le ore 05:30 della mattina del 30 gennaio 2002,Annamaria, che dorme col marito nella camera matrimoniale di casa, si sveglia; si sente poco bene, va in bagno e torna a letto, ma avverte un formicolio alle braccia e alle gambe, si sente mancare e ha il fiato corto. Chiede al marito di chiamare la guardia medica. L'uomo cerca di capire se ce n'è effettivo bisogno poi, a nuova richiesta, alle ore 05:39:01 (orario del servizio di emergenza-soccorso 118 presso l'ospedale regionale di Aosta) dall'utenza telefonica di casa contatta il 118 e richiede l'intervento di un medico riferendo del malore della moglie. Intorno alle 6 di quella mattina, solo pochi minuti dopo la richiesta urgente fatta alla guardia medica, il sanitario intervenuto trova la signora F. seduta in mezzo al letto della sua abitazione, serena, sorridente. Il medico rimane sorpreso nel constatare l'irrilevanza obiettiva dei disturbi all'esame medico e neurologico che A.F. affronta tranquillamente quasi con ironia; il medico intervenuto, peraltro, nel suo referto diagnostico rimanda alla presenza di "parestesie transitorie": null'altro. Poco dopo le 8 di quella mattina, Samuele viene trovato dalla madre nel letto matrimoniale agonizzante, coperto e nascosto dal piumone e con gravissime ferite tutte circoscritte e rigorosamente limitate al cranio (regione fronto-parietale bilaterale), a parte una ferita da difesa alla mano destra. Annamaria, quando "scopre" Samuele nelle condizioni in cui si trova, ha dapprima l'impressione che Samuele vomiti sangue e immediatamente dopo il convincimento che gli sia scoppiata la testa. In un primo tempo, non vuole credere che si tratti di morte violenta, in quanto non riesce a spiegarsi come e quando possa essere entrato l'eventuale aggressore, dati i tempi ristretti. Non riesce a capire chi possa avere un odio tale per lei e la sua famiglia. "Io non ho capito subito che qualcuno lo avesse colpito ... mi sembrava tutto irreale, strano ... anche A. [un altro medico intervenuto nel frattempo] diceva che poteva darsi che gli fosse scoppiata la testa ... " Quando ricorda di averlo toccato dice: "Ho avuto paura di avergli tolto qualcosa di suo perché il suo cervello era sulla mia mano ... ho detto: 'Questo è il suo cervello, se glielo tolgo lui dopo non ce n'ha più ... "'.
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A questo punto, il lettore si sarà già fatto un'idea della differenza sostanziale che esiste tra i casi che vanno dal 3 al 5 (tre uomini, di cui due sposati, che uccidono la loro amante per un'incapacità di elaborare la perdita) rispetto a quelli che vanno dal 10 al 16 (uomini e donne che uccidono nel corso di uno scompenso psicotico acuto); tra i casi 1 e 2, in cui un'atmosfera vagamente minacciosa e pretestuosamente inventata precede il passaggio all'atto, e i casi 6, 7, 8 e 9, il cui agito omicidiario è preceduto da narrazioni in cui predominano condizioni di umiliazione, offesa, paura, esasperazione. Una sensazione generica o specifica di "paura" e di minaccia proveniente da improvvisi e imprevedibili gesti o parole dell'altro (insieme ovviamente ad altre componenti) si trova anche alla base dei delitti compiuti dai soggetti descritti nei casi 6 (tentato figlicidio), 7 (uccisione di un omosessuale), 8 (tentato omicidio di una prostituta) e 9 (omicidio di una prostituta). Per ora mi limito a segnalare questi dati, perché adesso è importante fornire altri elementi di conoscenza delle singole vicende esistenziali, in modo da poter inserire gli episodi delittuosi nelle rispettive storie di vita. Caso 1. Vincenzo, anni 35, tentato uxoricidio
Vincenzo è un giovane di trentacinque anni compiuti che ha cercato di uccidere la propria moglie in circostanze per lo meno "strane". Egli presenta tratti propri di una personalità ossessiva, ipercontrollata, meticolosa, riflessiva, perfezionista, poco flessibile e molto intransigente da un punto di vista del suo ruolo personale, etico, lavorativo e sociale. Anche a livello psicodiagnostico emerge chiaramente questa sua modalità di funzionamento rigido, dove prevalgono l'ipercontrollo e un'affettività 41
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totalmente repressa e la presenza di meccanismi difensivi volti a reprimere la componente affettiva e rappresentati da rimozione, negazione della dimensione emotiva e tendenza a prendere le distanze dagli stimoli esterni che potrebbero risultare disturbanti. Oltre a non esservi una rispondenza emotiva alle sollecitazioni esterne, con un blocco della dimensione emotivo-affettiva, si coglie anche l'assenza di elaborazione interiore delle proprie emozioni, con il conseguente impoverimento di tutto il mondo interno e relazionale. Relativamente all'assetto dei meccanismi difensivi utilizzati, si osserva una linea non organizzata che oscilla dalla scissione alla rimozione passando attraverso la negazione o, meglio, il diniego. Questi aspetti di personalità fanno pensare a un funzionamento al limite di tipo inibito, associato a una grande psicorigidità che blocca, nella sostanza, ogni espressione di conflittualità intrapsichica (la scissione e il diniego, piuttosto che la negazione, rappresentano i meccanismi difensivi principali). La storia clinica di Vincenzo è priva di evidenti scompensi sul piano psicopatologico, se si fa eccezione per l'episodio accaduto quando egli frequentava l'ultimo anno del corso di ragioneria (1988), durante un periodo di particolare stress legato a problemi scolastici e di salute: "Ero deluso e scoraggiato, le cose mi si ritorcevano un po' contro, non erano più chiare come dovevano essere; aspettative e speranze avevano ricevuto una bella mazzata, ero angosciato, come se si fossero perduti i confini dei miei progetti, come se fossi andato a pezzi. Le certezze erano venute meno. Me ne sono andato non sapendo neppure io dove andare, né perché me ne andavo. Avevo preso dei soldi e quattro cose con me. L'estorsione è venuta fuori perché avevo bisogno di soldi. A casa non volevo tornare, perché pensavo di averli delusi". Dopo quell'episodio, la vita ha continuato a scorrere senza apparenti scompensi sul piano comportamentale e psicopatologico, fino all'episodio testé narrato. Esiste tutta una narrazione di Vincenzo relativa all'evoluzione della sua vita coniugale che spiega ampiamente la situazione di scacco progressivamente creatasi e in lui consolidatasi e che dà conto della sua "rottura": un soggetto psicorigido, intransigente, perfezionista come lui, non è riuscito a adattarsi a un ruolo coniugale in cui egli ha visto lentamente ma progressivamente sgretolarsi tutto il senso che egli pensava fosse contenuto in una vita matrimoniale. Con difficoltà ammette la carica frustrante di una situazione che si è protratta per tanti anni e che egli ha vissuto, senza prenderne consapevolezza, come passivizzante e degradante: "Era una situazione non chiara per me, nel senso che non ero né un marito,
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LE SINGOLE STORIE CLINICHE POSSONO AIUTARE LA COMPRENSIONE
né un figlio. Di fatto, mia moglie ha ostacolato il mio progetto. Non mi ha consentito di chiarirmi le idee e di chiarirle con gli altri ... da quando ci siamo sposati e anche da prima del nostro matrimonio sono stato con dizionato da diversi fattori esterni e in particolare riguardo alle decisioni relative alla casa in cui vivevamo, che non era di nostra proprietà ... Per me era come un albergo: potevo mangiare e dormire ... accadeva spesso che ci fossero delle discussioni con mia moglie. Ho sempre sofferto in silenzio dell'indifferenza con cui venivo trattato, non ci sono mai state liti o discussioni su questo. Accettavo passivamente le decisioni dei miei suoceri e di mia moglie ... ". Le premesse al suo scompenso comportamentale vanno poste sia nei frustranti vissuti di rassegnazione, passivizzazione e quiescenza di fronte all'ineludibilità di quella vita familiare non modificabile e generatrice di ambiguità e di mancanza di chiarezza del suo ruolo di uomo e di marito ("Mi sono sentito l'ospite in casa di mia moglie; l'ho patito senza rendermene conto, non avevo voce in capitolo ... la casa dove abitavo era come un albergo dove altri prendevano le decisioni sulla gestione familiare"), sia nella passività e nel conformismo della sua compagna che rinuncia a essere donna, moglie e madre, ma rimane figlia e adolescente ("il suo atteggiamento era quello di una persona che cercava accudimento e protezione, non amore e sesso"). Il suo Io, messo a dura prova, ha retto fino a quando, come nel lontano 1988, non si è spezzato di fronte all'ennesima prova del fatto che la moglie
non era sua alleata, ma rimaneva dipendente dai genitori: non era la sua donna, bensì la loro figlia. La situazione, ancora una volta, non è chiara per un soggetto che ha tanto bisogno di chiarezza per mantenere l'unitarietà del suo Io. Più volte ha ripetuto: "Quello che più mi turba è non capire perché tutto ciò sia successo, come io abbia potuto fare una cosa del genere". Non riesce ad appropriarsi del suo agito, che scinde e colloca fuori del proprio Sé: "La cosa più difficile è sentirla una cosa mia: come è possibile? Per di più contro la persona che amavo e che amo più di tutti. Mai veramente mi sarebbe passata per la testa una cosa come quella che è successa. Io non ho mai litigato con nessuno, né ho mai alzato le mani su qualcuno': Vincenzo si sente profondamente in colpa per questa sua "ignavia" e si muove continui rimproveri: "Avrei dovuto fare qualcosa di più in qualche maniera; ho il dubbio di non avere fatto abbastanza in questo caso"; netta è la contrapposizione tra questa situazione (Vincenzo dentro la famiglia della moglie) e quella lavorativa (Vincenzo nelle sue attività e nei suoi impegni extrafamiliari): "La vita è impegno, dedizione e forza di volontà. Io 43
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sono abituato a fronteggiare le situazioni, a perseguire la soluzione ottimale e a fare di tutto per ottenere il massimo risultato; se l'oste mette il bastone tra le ruote, cerco di fronteggiare l'ostacolo e di superarlo: se riesco, mi sento a posto, mi sento bene; se non le supero, mi sento deluso per non essere riuscito percorrendo la mia strada; non do la colpa agli altri, ma metto me stesso sotto processo; se mi rassegno, non mi concilio con me stesso e mi rodo. La vita è una cosa seria. I principi che mi hanno tramandato i miei genitori io li ho sempre applicati: lavoro, dovere, efficienza': Tutti i testimoni hanno descritto Vincenzo come persona mite, che mai aveva dato segni di aggressività e hanno parlato in termini positivi del matrimonio tra i due giovani. La moglie ha descritto i rapporti con lui come "ottimi, non litigavamo praticamente mai ... non avevamo motivi di scontro ... si è fatto male anche da solo ... non c'è ragione ... ". Al momento del ritrovamento dei due da parte dei genitori e di uno zio, Vincenzo era steso ai piedi delle scale da cui si accede al piano superiore della casa di abitazione; sul pavimento si trovava una catena in metallo con lucchetto, tagliata a metà. Vincenzo era stato trovato dal suocero con il polso incatenato al corrimano della scala; il cognato aveva tagliato la catena con una tronchesina. Sul lato destro della scala, lontana da Vincenzo, si trovava la moglie ferita "con il volto e le mani completamente insanguinati': Al piano terra, all'interno della cucina, veniva trovato un pezzo di legno con alcune macchie di sangue. Tutti i testimoni hanno dichiarato che Vincenzo, al momento del suo ritrovamento, "aveva gli occhi chiusi, era alquanto pallido, non rispondeva alle nostre richieste di spiegazioni circa cosa fosse successo, era legato con una catena posta al polso sinistro e attaccata al corrimano della ringhiera delle scale, era privo delle scarpe ed era sporco di sangue su entrambe le braccia ... ': In particolare, un medico prontamente accorso, riferiva che "l'uomo si presentava semicosciente e frequentemente scosso da tremori convulsivi ... "; il medico del pronto soccorso intervenuto sul posto ha dichiarato: "Reagiva battendo le palpebre esternando uno stato di agitazione per cui avevo la sensazione di trovarmi davanti a una persona che presentava uno stato di forte tensione emotiva. Le uniche parole che diceva erano il nome della moglie ... ". La sera stessa del fatto, Vincenzo veniva visitato dai medici del pronto soccorso dell'ospedale di ... e venivano riscontrati "lesioni con ecchimosi agli arti inferiori e superiore sinistro, edema traumatico frontale sinistro, imbrattamento ematico periungueale alle mani". Veniva diagnosticato "trauma cranico con perdita di coscienza e amnesia retrograda': All'ingresso nella casa circondariale
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LE SINGOLE STORIE CLINICHE POSSONO AIUTARE LA COMPRENSIONE
di ... il medico scrive il suo referto: "Buone condizioni generali; nessuna lesione; negato uso di stupefacenti; nessun segno di intossicazione in atto; non sindrome di astinenza in atto". Vengono segnalate non precisate "significative note di rilievo psicopatologico relative agli eventi accaduti" e "stato confusionale. Ancora piuttosto confuso ed emotivamente scosso". Tenuto conto di tutto quanto premesso, l'episodio addebitato al soggetto deve essere ricompreso nell'ambito di uno stato emotivo intenso, che si accompagna a disturbi della memoria di tipo psicogeno. L'alterazione della memoria di rievocazione perdura per il perdurare del meccanismo della scissione, cioè dell'atteggiamento di rifiuto di impadronirsi di parti meno appaganti del proprio Sé. Il disturbo di depersonalizzazione che ha accompagnato tutta l'evoluzione del fatto consiste in un'alterata percezione di Sé, per cui Vincenzo non si è vissuto, non si vive, come l'autore del gesto di aggressione violenta contro la moglie. Il "non ricordo" e il ricordo "contraddittorio", "confuso" e quant'altro si voglia addebitare al soggetto relativamente alla sua versione dei fatti è lungi dall'essere espressione di callida strategia defensionale. Nell' episodio dissociativo i ricordi non sono accessibili alla coscienza (che si tratti di rimozione o di scissione), anche perché c'è stata una cattiva, parziale, incompleta registrazione dell'evento con stato alterato di coscienza durante lo svolgimento dell'episodio di aggressione e perché il soggetto non riesce a conciliarsi con la parte "cattiva" del proprio Sé. Certamente si è trattato di reato d'impeto, compiuto in maniera piuttosto maldestra e non pianificata. Durante l'episodio vengono dichiarati disturbi dello stato di coscienza e sospetti fenomeni illusionali ("Non so dire se fosse uomo o donna, ricordo solo che era più alto/a di me e che era tutto nero ... "). Intensa è stata la tempesta emotiva per rottura dei meccanismi difensivi egoici e irruzione di una impulsività distruttiva che fortunatamente non ha raggiunto il suo esito finale; posto che ci sia stato, assurdo e disorganizzato è stato il suo maldestro tentativo di simulazione di reato. Quest'ultimo, piuttosto che a livello di realtà (la verità processuale), dovrebbe essere letto a livello simbolico (la verità clinica), come espressione di tenere fuori (l'ombra nera) e controllare disperatamente (il legarsi con una catena) la sua parte cattiva. Caso 2. Maria, anni 29, figlicida
Maria è una giovane madre che ha ucciso il proprio figlioletto di un anno, annegandolo, e poi ha simulato un'aggressione con intrusione nella sua abitazione da parte di estranei. Dirà più tardi: "Mi sono legata e ho 45
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messo in disordine la casa in quanto volevo creare una giustificazione nei confronti di mio marito e dei miei familiari" adducendo un tentativo di sequestro di persona dimostratosi poi assolutamente infondato (" ... di colpo mi sono sentita afferrare per un braccio e tirare fuori dal bagno e in quel momento ho lasciato la presa di mio figlio"). La donna viene così trovata dai primi soccorritori: il marito precisa che "mia moglie aveva del nastro da pacchi intorno alla testa che le ostruiva completamente la bocca, le mani legate davanti con del nastro da pacchi di colore marrone e anche le caviglie legate con lo stesso tipo di nastro ... Maria mi sembrava priva di sensi perché nonostante la scuotessi non mi dava risposta alcuna ... ': Il suocero, già intervenuto, aveva trovato la casa "letteralmente a soqquadro, sia al piano superiore sia a quello inferiore". Dopo che il figlio era entrato nella stanza da bagno, l'uomo era riuscito a vedere la nuora "sdraiata a terra tra il water e il lavandino ... aveva del nastro da pacchi girato tutto intorno alla testa che le copriva interamente la bocca non permettendole di urlare. In quel momento ho anche avuto l'impressione che Maria fosse svenuta ... una volta dentro ho aiutato mio figlio a rianimare Maria ... non ricordo se Maria avesse le mani e i piedi legati ... i rapporti tra mio figlio e mia nuora sono ottimi': Il medico del 118 dichiara: "Nella stanza da letto trovavo una signora che piangeva, si disperava, e che poi ho saputo essere la madre del bambino ... rifiutava qualsiasi assistenza ... chiedeva solamente notizie di suo figlio ... in particolare, mi chiedeva se il bambino respirava. A quel punto la informavo che suo figlio non ce l'aveva fatta ed era deceduto. La donna appariva in uno stato di shock emotivo e riprendeva a piangere e a disperarsi. Considerato quanto sopra, le somministravo dei farmaci per calmarla [Valium] ". Un'infermiera del pronto soccorso presso l'ospedale di ... afferma: "Potevo constatare che sul letto vi era una donna visibilmente sotto shock. A quel punto il medico chiese alla donna se voleva farsi visitare e la stessa rispondeva che ormai non serviva più a nulla ... preparavo un farmaco [Valium] ... non ricordo che la signora lo abbia assunto ... ". Maria è una donna di ventinove anni, figlia unica, cresciuta in un ambiente descritto dalla stessa come molto difficile e affatto gratificante sotto il profilo affettivo-relazionale da parte della madre. Ha recisamente negato ogni sentimento negativo contro costei, pur descrivendone le gravi carenze sul piano affettivo-sentimentale, non su quello materiale. In più occasioni ha lamentato di non aver mai ricevuto gratificazioni, riconoscimenti, incoraggiamenti dalla madre. Pensa di essere stata una bambina "normale, non perfetta, ma neppure monella". La mamma si è sempre offerta come modello perfetto e non ulteriormente perfettibi-
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le, da copiare in tutto e per tutto: ordine, efficienza, precisione erano le consegne materne (o, almeno, lei le viveva come tali). Maria non ha consapevolezza delle ricadute psicologiche che questo tipo di relazione ha avuto sul suo processo di crescita e di identificazione. Ha espresso più volte chiari vissuti di impotenza nei confronti delle non risposte della mamma. La sua unica difesa era il pianto e il rifugio nelle braccia del padre, che l'ha sempre accolta e confortata nei pochi momenti che aveva liberi dal lavoro. Con il padre il rapporto viene descritto come positivo, anche se non sono emersi ricordi molto significativi, se non quello della sua funzione vicariante consolatoria. Nonostante gli influssi "nefasti" della figura materna (che Maria si è ostinata a ricordarci più volte non essere stata "una cattiva mamma"), la donna ha frequentato regolarmente il ciclo scolastico, scegliendo l'indirizzo di studi desiderato; ha avuto una normale socializzazione frequentando i suoi coetanei, ha svolto il tipo di lavoro che ha voluto fare, ha sposato l'uomo che ha desiderato, ha avuto i suoi rapporti sessuali prima del matrimonio, per sua libera scelta, nonostante i divieti della madre, così come ha rifiutato le avance di altri giovani: "Quando io desidero una cosa, la faccio': Ricorda il matrimonio come una giornata bellissima e festosa; anche del viaggio di nozze parla in termini del tutto positivi: "Eravamo felicissimi". Non è mai emerso un confronto negativo o conflittuale con altre persone che non fossero la madre. Il racconto di tutto il periodo della gravidanza, dettagliato e ricco di ricordi, trasuda gioia, fierezza, positività, serenità: "Ero troppo contenta ... ho ricamato tante cose per il mio bambino ... ". In particolare, per tutto quanto riguarda la gravidanza, il parto e i mesi successivi, la donna si è intenerita raccontando di come apprese della gravidanza, di come la comunicò al marito in un primo momento incredulo dalla gioia, e poi di come lo fece sapere anche a genitori e suoceri. Pure in questo caso si coglie un atteggiamento improntato piuttosto alla festosità giocosa che all'impegno, ma è comunicata una gioia autentica, e non di sola compiacenza nei confronti del marito. Non si hanno notizie di "scompensi" sul piano psicologico, né tanto meno psicopatologico, che abbiano richiesto l'intervento di specialisti o anche solo del medico di base, prima della nascita di Mirko. Il parto segna lo spartiacque, non solo come è per tutte le mamme tanto più se primipare, ma più nettamente, fra un "prima" festoso, quasi ludico, forse un po' infantile, certamente gioioso, e un "dopo" all'insegna della fatica e della responsabilità, contrassegnato da senso di incapacità, sofferenza sempre più accentuata, dolore, dramma. In realtà, ammette
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Maria, i familiari continuavano a incoraggiarla; la suocera era quella che capiva un po' di più; il marito meno di tutti e voleva tornare a casa sua. "Lui credeva che tornando a casa mi passava tutto all'istante. Io avevo la voglia di tornare a casa e di stare bene, però stavo male ... avevo paura di tornare a casa ... non mi sentivo capita ... " La realtà è che la donna si aspettava da parte dei familiari e non solo una "presa in carico" fatta di quell'accudimento da sempre cercato e mai avuto. Ogniqualvolta parla del figlio ripiomba nella disperazione e nel pianto. Il suo è stato il pianto del bambino che si sente solo, abbandonato e sperso per qualcosa che soprattutto non ha mai avuto, non quello dell'adulto che rimpiange e prova nostalgia per qualche cosa che ha perduto: "Era tutta la mia vita ... come faccio senza di lui? ... perché? ... mi manca da morire ... non ce la faccio più ... era il frutto del nostro amore ... ho perso la mia vita ... era sangue del mio sangue ... avevo tutto e adesso non ho più niente ... avevo il mio bambino ... adesso sento la sua mancanza ... sento il suo profumo, sento tutto ... non so se riesco a superarla questa situazione ... quando mi rendo conto di quello che è successo il mondo mi cade addosso; stando qua ci sono i medici che mi stanno dietro e mi aiutano; se li avessi incontrati prima, forse non sarei in questa situazione e questa cosa mi fa stare male ... perché è andata così? Come è possibile una cosa del genere? ... è una cosa invivibile ... nella mia vita non ho mai pensato di trovarmi in una situazione del genere ... io sono una che ha sempre aiutato gli altri, che sono sensibile ... sono qua a cercare di spiegare una cosa che è tanto brutta e che non volevo ... voglio capire anch'io quello che è successo ... io lo amavo tanto ... era la mia vita, era sangue del mio sangue ... Sto male, penso al mio bambino, lo vedo dappertutto ... era una cosa creata dal nostro amore". Nella sostanza, sotto il profilo clinico, emerge una personalità immatu-
ra, dipendente, insicura, impreparata ad affrontare il compito di essere madre. La gravidanza prima, il parto poi, come in ogni storia di donna che diventa madre, rappresentano un momento drammatico di ridefinizione del proprio ruolo sociale e della propria identità personale. Maria ha trasformato il periodo della gravidanza in una bella favola di cui ha visto solo gli aspetti positivi e narcisistici, per poi piombare nella dura realtà dell' essere madre in seguito a un parto descritto e rivissuto come "drammatico". Di conseguenza, sono comparsi disturbi della serie depressiva (senza che la sindrome depressiva sia completa), legati ai vissuti di inferiorità e di inadeguatezza illustrati nelle pagine precedenti e reattivi a un evento emozionalmente significativo (il parto e quanto successivamente accaduto), e alla conseguente, inevitabile assunzione di nuove responsabilità. 48
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I processi psichici e il funzionamento mentale di Maria, a parte un legittimo, comprensibile e motivato turbamento emotivo presente in coincidenza con il parto e in riferimento al fatto per cui si procede, non sono stati e non sono tali da incidere sostanzialmente sulla registrazione, ritenzione e rievocazione mnestica. Con particolare riferimento alla successione degli accadimenti della mattina del fatto, la sua memoria dichiarativa si è manifestata fin dal primo momento e continua a manifestarsi in ricostruzioni la cui contraddittorietà è cosa diversa dalla patologia mentale. Il suo fu!1zionamento mentale risponde semplicemente a particolari strategie psicologiche più o meno inconsce, in cui intervengono meccanismi difensivi che hanno cercato e tuttora cercano di preservare e mantenere con difficoltà variabile equilibri interni e percorsi dinamici immaturi e infantili. Perché questo è alla fine del discorso il principale dato clinico, che si correla con tutta la storia di vita della perizianda e che si riassume in un preesistente, importante deficit della funzione materna, che a sua volta si è tradotto in un sentimento inadeguato della maternità: sentimento che ha costituito un terreno di vulnerabilità che varie evenienze stressanti o condizioni problematiche (personali, ambientali, coniugali ecc.) hanno precipitato. Che questa sia la situazione della donna lo testimoniano molte sue frequenti affermazioni: "Lui [il padre] nelle discussioni con mia madre mi difendeva e mia madre si arrabbiava ancora di più. Io andavo da lui a piangere per quello che mi diceva mia madre, non dalla mamma che non mi ha mai consolato. Con mia madre non ho mai avuto un buon rapporto. Era molto rigida con me e sempre arrabbiata. Non era mai contenta di quello che facevo. Mi rimproverava in continuazione, anche se non mi ha mai picchiata ... Non mi ha mai detto brava, anche quando glielo chiedevo. Non ho mai pensato che sia stata o sia una mamma cattiva; nel suo modo mi ha voluto e mi vuole bene, però io non ho sentito la mamma come abbraccio, affetto, consolazione. Io cercavo carezze e coccole e lei mai nulla"; "Io piangevo tanto e lei mi sgridava e diceva che erano lacrime di coccodrillo, di non fare la stupida ... Io pensavo: perché non mi viene vicino? Perché non mi abbraccia, perché non mi bacia come fanno tutte le mamme? ... Mia madre faceva sempre confronti negativi con le mamme degli altri bambini che venivano a trovarla a casa: mi svalutava ... quando avevo un po' di mal di pancia, non mi ha mai fatto un po' di tè e non mi ha mai detto: 'Amore mio non ti preoccupare, vieni qui, che poi ti passa', queste cose che vedevo che facevano le altre mamme".
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Addirittura, dalle parole della donna si rileva che non solo non vi fu spazio per un'identificazione di ruoli adeguata, ma che, a motivo della malattia depressiva della madre, vi furono talora un'inversione e una confusione di ruoli, e la necessità di un precoce assunzione di un ruolo adulto e genitoriale da parte della figlia. Per di più, alla svalutazione e all'algida severità materna Maria non ha saputo opporre alcuna articolata strategia difensiva, né sembra aver appreso difese di una certa efficacia più tardi nella vita: piange, e questo è tutto. Come sappiamo dal racconto fatto da lei e confermato dai suoceri, Maria cercò di far sì che la suocera sostituisse la carente figura materna, ma le identificazioni di questo genere si devono instaurare in età precoce per essere efficienti, la madre bisogna portarla dentro con sé. E poi, non a caso, il delitto maturò proprio quando la giovane donna si ritrovò senza neppure questa figura "sostitutiva" di riferimento, quando cioè temette che anche costei le fosse venuta meno sia perché si era allontanata dalla casa dei suoceri, sia perché la suocera si era resa oggettivamente meno disponibile. Fra i guasti della mancata identificazione con una figura materna che fosse affettuosa, ma anche accudente e responsabile, vi è l'immaturità di cui la donna dà costantemente prova. Delle tappe di una vita di sposa adulta - il matrimonio, la gravidanza - vede solo gli esordi festosi, le celebrazioni ludiche, le occasioni di stupire e di stupirsi; non regge, viceversa, l'assunzione di responsabilità, l'impegno quotidiano, la fatica e il tedio. Oggettivamente Maria non era una madre incurante o inetta (e men che meno maltrattante): le testimonianze sono concordi. Ma il sentirsi madre incapace rinfocola la sua confusione, i suoi timori, la bassa autostima, nutre l'ambivalenza, e, di nuovo, quel che è creduto reale finisce per produrre conseguenze, e Maria anche se non è peggio di tante altre primipare, si sente inadeguata, incapace, inetta: "Mi sentivo inadatta a essere mamma, inadeguata, incapace, non in grado di crescere questo bambino"; "quando mi svegliavo al mattino sentivo che questo era un compito troppo grande per me ... mi sentivo inadeguata a essere mamma, e nello stesso tempo volevo essere col bambino ... ma la testa mi diceva: 'Non sarai mai una brava mamma'". Per la donna non c'è stata questa possibilità/capacità, non ha potuto/ saputo fondere con realistica saggezza i due sentimenti, appianare, vedere nella giusta prospettiva, soprattutto integrare. Ha solo oscillato alternativamente, scompostamente, e in un rapporto quasi confusivo, fra una visione del bambino amato perché "sangue del mio sangue", e amato pacificamente soprattutto quando attaccato al se,no, e un bambino fonte
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dei suoi guai, "compito troppo grande per me": richiamo concreto alle sue responsabilità di madre che si prende cura e accudisce. Altra tematica più volte sottolineata è stata quella della solitudine, o, meglio, del sentirsi sola, non capita, non sufficientemente aiutata dagli "adulti" che la circondavano in quel periodo, in quanto non assistita e non accudita. Proprio per i motivi sopra esposti relativamente al rapporto con la madre, infatti, Maria non ha mai potuto sperimentare e apprendere quell'accudimento che fisiologicamente caratterizza, nei primi anni di vita, il rapporto madre/figlio, sicché a tutt'oggi il suo aspetto relazionale non è tanto quello maturo dell'aiuto reciproco, quanto quello del farsi prendere in carico, consegnandosi ai "grandi". Tutte queste considerazioni riescono dunque a spiegare il figlicidio, collocandolo in un'ottica di "psicologia del comprensibile", non in una dimensione strettamente psicopatologica. Il passaggio all'atto non è avvenuto in una condizione di compromissione dello stato di coscienza, tant'è che la donna ricorda bene la successione dei suoi comportamenti, il fatto in sé e per sé considerato, l'immediata, successiva necessità di crearsi un alibi per giustificarsi di fronte al marito: pensa quindi alla sua "salvezza", non alla sua morte, come di consueto fa il depresso maggiore. Caso 3. Antonio, anni 42, omicida
Un pomeriggio di un maggio di qualche anno fa, alcuni agenti del commissariato di polizia di ... accorrevano nel parcheggio di un luogo pubblico di quella città, dove era stata segnalata la presenza di una donna ferita da un'arma da fuoco. Giunti sul posto, gli agenti notavano un uomo fermo, in piedi, accanto alla donna, con in mano una pistola. L'uomo si costituiva gettando a terra l'arma. Bloccato, continuava a ripetere: "Sono stato io, capirete i miei motivi quando saprete tutta la storia". Nel frattempo, la donna si rialzava e muoveva alcuni passi versi i soccorritori; era stata colpita al viso ed era incosciente. Soccorsa, veniva trasportata in ospedale dove poco dopo decedeva. L'uomo appariva molto tranquillo; la sua unica preoccupazione era di non essere riuscito a uccidere la donna. Diceva: "Si è rialzata perché le ho sparato da qualche metro, poi mi si inceppata la pistola, lo so che ha un difetto nella molla del caricatore, comunque adesso sono tranquillo; mi sono liberato perché quella è un diavolo ... era psicopatica con i suoi occhioni da matta ... sorrideva con scherno, non aveva paura ... mi tormentava, per me non era più vita, spero che muoia perché se tra venti anni esco e lei è ancora viva, mi tormenterà ancora ... Adesso mi sento liberato, mi è passato tre ore fa ... ". 51
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Antonio è un uomo sposato, padre di due figli, separato, che ha intrecciato una relazione erotico-sentimentale con una donna che lavorava nel suo stesso posto di lavoro: "Da parte mia vi era solo un interesse sessuale", senza alcun'altra affinità di carattere o di cultura; "era un'amante eccezionale, molto disponibile ... io l'ho solo scopata; forse lei si è legata così tanto a me perché io l'ho scopata bene, perché le donne dicevano che scopavo bene. Io sono continuamente tormentato da quello che è successo. Io sto cercando attraverso la lettura dei giornali di capire come è potuto succedere tutto ciò: lei mi ha violentato un sacco di volte, lei era più forte di me. Io volevo solo allontanarla. Non sapevo più come e cosa fare. Io non l'ho mai odiata, volevo solo spaventarla quel giorno. Lei mi ha costretto a incontrarmi con lei alle 3 di quel pomeriggio. Non potevo dire nulla: lei parlava sempre e io non riuscivo mai a farla stare zitta. Aveva delle grandi fantasie sessuali e me le imponeva. Finché le ho concesso tutto, è andato tutto bene, anche se non c'era nulla in comune. Non si riusciva né a parlare, né a ragionare con questa donna. Io ho sempre avuto la fama di un uomo severo, sereno ed equilibrato, fino a due anni fa. Poi ho iniziato ad avere paura di lei: sentivo che mi dominava, la mia paura era di non poterla contenere e controllare. Lei passava su tutto; stavo precipitando in un imbuto, dal quale non sarei più uscito ... a un certo punto ero diventato un oggetto, una cosa sua, non avevo più la mia vita". Antonio non presenta segni psicopatologici propri di malattie mentali in atto o pregresse: non disturbi formali o deliranti del pensiero, non alterazioni a carico delle senso-percezioni, non alterazioni nel rapporto con la realtà e con gli Altri, non alterazioni a carico degli istinti fondamentali, non caduta o perdita di efficienza o di abilità sociali, non alterazioni gravi della sfera emotivo-affettivo-relazionale, se si fa eccezione per il quadro depressivo reattivo alla carcerazione e alla consapevolezza di un atto che ha sconvolto la sua vita: "Adesso che mi sono un po' raffreddato, vedo l'enormità di quello che ho fatto". Per quanto riguarda la struttura psicologica di Antonio, c'è da segnalare che la sua è quella propria di un maschio "matrizzato", che si vive a livello profondo su di un piano di inferiorità, di inadeguatezza e di ipovirilità: tratti, questi, che gli hanno reso difficili una buona identificazione nel proprio ruolo maschile e un buon rapporto con la donna. Le origini di questa condizione - come sempre in ogni discorso che voglia affrontare la psicogenesi di una personalità -vanno ricercate nelle relazioni significative con il nucleo familiare di provenienza: "Mia madre era una donna ansiosa che mi ha sempre trattato come un bambino [donde 52
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la sfiducia di base e la difficoltà a crescere e a divenire 'uomo']; le redini le ha sempre tenute mia madre e mio padre ha sempre fatto quello che ha voluto la mamma [donde la svalutazione del ruolo maschile, vissuto come funzione 'debole' rispetto a quella 'forte' propria della donna]". Questi vissuti, che sono profondamente strutturati nella personalità di Antonio come tratti che connotano il suo modo di essere, si sono tradotti nelle sue successive relazioni esterne con una sostanziale difficoltà a stabilire e mantenere rapporti paritari con gli oggetti "Altri da Sé". Antonio per anni è stato in grado di compensare queste sue carenze strutturali, avendo amicizie molto superficiali sia con il mondo maschile (in cui non si sente a suo agio), sia con quello femminile (in cui ha ipercompensato il suo complesso d'inferiorità e la sua angoscia di castrazione con atteggiamenti e comportamenti fittizi improntati a un'ipervirilità convenzionale). Specialmente la donna, come persona, rappresenta per lui "un pianeta esplorato" (sono sue parole): di questo pianeta egli ha paura e da questo pianeta si tiene lontano, anche se - al contempo - ne è attratto. Egli cerca di risolvere la sua conflittualità e ambivalenza e di controbattere i suoi vissuti di impotenza e di castrazione attraverso un'iperattività sessuale che lo rassicuri e lo faccia sentire - senza che lo sia - "un vero maschio". Ma in realtà, sotto un'apparenza di ipersocievolezza e di disponibilità affettiva, egli è un uomo inibito affettivamente e sessualmente, arido e povero. La problematica psicologica di questo "maschio femminilizzato" che neutralizza i suoi vissuti evitando confronti inferiorizzanti con gli altri e si ipercompensa e rassicura rifugiandosi nel suo ruolo lavorativo, è andata incontro a un progressivo, inarrestabile scompenso nella relazione con la futura vittima. Con lei l'uomo ha trascorso un periodo di relativo benessere legato fondamentalmente a un'attività sessuale, di cui peraltro egli è diventato, poco alla volta, oggetto e strumento, piuttosto che libero e paritario gestore. Poi la relazione (come tutte le relazioni perverse) ha iniziato a deteriorarsi; le prestazioni sessuali, imposte e dovute, andavano man mano perdendo la loro componente gratificante, appunto perché la donna, con i suoi atteggiamenti manipolatori e tirannici, ne vanificava la componente ipercompensatoria e metteva vieppiù a nudo l'impotenza reale e profonda dell'uomo. Egli si è sperimentato impotente dal momento in cui ha cercato di troncare la relazione. "Ho cercato di uscirne senza coinvolgere altri. Io ho sempre cercato di allontanare un coinvolgimento di altri in queste situazioni, senza far esplodere tutto intorno a noi." In effetti, in Antonio, se la vita emozionale emerge, emerge solo in maniera esplosiva, distruttiva, immediata, mossa da un dinamismo profondo non integrato che rompe, distrugge, svuota, ucci53
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de. Finché può, egli cerca di opporsi, reprimere e soffocare; ma ciò non rappresenta certo un'operazione di successo. Di fronte ai propri vissuti, Antonio non ha potuto che soccombere: l'equipaggiamento profondo della sua personalità è troppo debole, ipovirile, insicuro, immaturo, magmatico per poter arginare le sue irrazionali paure di essere distrutto: tant'è che, oltre a prendere con sé una pistola prende anche un coltello, come se quest'ultimo rappresentasse per lui un'arma più efficace della prima o l'ultima speranza di difesa. Purtroppo tutta questa problematica psicologica si è condensata nella relazione con la vittima: "Era come essere violentato continuamente, lei non aveva nessuna paura di me, non ho potuto agire altrimenti, a mali estremi, estremi rimedi". Il momento scatenante del suo passaggio all'atto, oltre che nella sua contrastata e conflittuale storia erotico-sentimentale, potrebbe essere individuato in queste sue parole: "Poi è arrivata e mi ha aggredito ... Sorrideva con scherno, non aveva paura ... Io mi sono sentito uno che non respirava più; non ce la facevo più ... ". Caso 4. Bruno, anni 35, omicida
Bruno è un giovane uomo che, in un impeto di rabbia distruttiva, ha ucciso con numerose coltellate la sua convivente. Bruno, che conosceva Donatella da soli sei mesi, aveva preteso che tale frequentazione si evolvesse in un legame sentimentale diventando sempre più pressante, ossessionante, opprimente e geloso, tanto da suscitare la preoccupazione della donna. Bruno, per canto suo, ha ammesso: "Ero geloso ... sono arrivato a commettere quello che ho detto perché mi sono sentito usato e gettato via ... ". Il passaggio all'atto sarebbe stato determinato dalla seguente frase di Donatella: "La troia la faccio io con chi voglio io", che ha suscitato in lui l'imperioso bisogno di medicare la ferita narcisistica: "Volevo sfogare la mia rabbia". Nella storia di Bruno non emergono elementi anamnestici degni di attenzione clinica sotto il profilo psichiatrico. Viene segnalato un trauma commotivo all'età di quindici anni, per caduta accidentale dalla motocicletta; non vengono segnalati reliquati degni di rilievo. Bruno è il secondogenito di due figli ed è cresciuto in un ambiente familiare intriso di violenza fisica e verbale, determinata dal padre. Sposato, dopo sette anni si è separato per incompatibilità di carattere e di interessi. Dopo due altre relazioni condotte e terminate in maniera fallimentare, Bruno ha iniziato il suo ultimo rapporto erotico-sentimentale: quello con la donna che poi ucciderà. L'errore di tutte queste donne è stato che 54
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"volevano la libertà; dopo tutto quello che avevo fatto per loro, mi sono sentito usato e buttato: e questo mi ha fatto arrabbiare molto". A livello clinico, è emersa tutta una serie di tratti che sono propri di un funzionamento nevrotico di personalità (esame e senso di realtà conservati, utilizzo di meccanismi difensivi secondari, autocritica conservata, presenza di sensi di colpa, identità dell'io indenne), senza che mai sia stato possibile individuare un episodio di vita o un momento che ha preceduto, accompagnato o seguito il fatto-reato in cui fosse obiettivabile un'alterazione grave o una perdita del sentimento di realtà (perdita dei confini e della capacità di differenziare il mondo interno da quello esterno; irruzione di uno stato di panansietà e di angoscia panica; ricorso all'utilizzazione di meccanismi difensivi primari) o dell'esame di realtà (assenza di deliri e di allucinazioni; capacità di differenziare il Sé dal non Sé; assenza di idee e atteggiamenti inappropriati e bizzarri). Tutte queste caratteristiche funzionali sono mascherate da un narcisismo ipercompensatorio di profondi vissuti di inferiorità e di solitudine. Il bisogno di "farsi valere" è molto evidente in questo soggetto che in realtà nutre dentro di sé un bisogno disperato di sentirsi accettato, senza riserve e senza confini, come sperimentato con la madre nel senso della "pienezza", quand'ella era viva, e del "vuoto" disperante sopraggiunto dopo la sua tragica morte. Questo evento ha rappresentato una svolta cruciale nella vita e nei vissuti di Bruno che è passato dall'accudimento totale all'abbandono, dal "pieno" al "vuoto", dall'onnipotenza infantile all'impotenza più assoluta ("Ho pensato che non ho potuto fare niente per la mamma") e dall'incondizionata e piena sua accettazione al bisogno di cercare questa gratificante sensazione e alla frustrazione conseguente alla delusione e disconferma di questo bisogno. L'atteggiamento eccessivamente accudente che la mamma ha tenuto nei suoi confronti fino a quando è stata in vita, quale descritto dal Bruno che l'ha idealizzata, ha rappresentato certamente una fonte di massiccia e massiva fornitura di gratificazioni regredite e non stimolanti una crescita psicologica adeguata; pertanto Bruno ha mantenuto dentro di sé un funzionamento di tipo regredito e infantile che ha riproposto alle donne che per lui sono state significative nella sua vita: la suocera, la madre, la moglie e infine Donatella. La suocera e la moglie, come la madre, hanno risposto positivamente a queste sue richieste di accudimento ed egli ha vissuto in maniera conciliata le relative storie che però non hanno assunto un significato particolare per lui al di fuori di quello che egli ci ha detto, nel senso che esse hanno rappresentato la semplice prosecuzione della figura materna che si identifica con la figura femminile idealizzata.
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Il distacco dalla moglie non ha avuto particolari conseguenze per Bruno "perché lei non aveva bisogno di me". Inoltre la donna, per ammissione stessa di Bruno, non esercitava più alcuna attrazione eroticosentimentale su di lui e non lo aveva sostituito con altri uomini: di conseguenza, non l'aveva messo in discussione sotto il profilo sessuale. Quello che invece lo ha tenuto legato alla sua prima convivente e a Donatella (la sua ultima donna) è stata la sensazione-convincimento di essere loro utile: "Poter aiutare una persona per me è importantissimo". Invece "con Santa [la prima convivente], ad alloggio finito, mi sono sentito allontanato; l'ho trovata a letto con un altro, perché io avevo le sue chiavi di casa: mi sono fatto trattenere da lei, nel senso che lei mi è venuta incontro e mi ha detto che ne avremmo parlato. Avrei preso lui per il collo. Non ho fatto nulla e me ne sono andato. È stata una grossa batosta, ero molto arrabbiato, mi sono sentito usato e preso in giro, io mi sono girato e me ne sono andato. Mi sono sentito un pirla: dovevo arrivarci io, furba lei. Poi lei è venuta da me; mi ha chiesto perché non le avevo preparato il pranzo ed è andata a dormire. Nel pomeriggio abbiamo parlato sul vago e mi ha detto che sperava che io trovassi una ragazza per me: mi ha ammesso tranquillamente che stava con un altro e che tra noi era finita". La ferita narcisistica ("dopo tutto quello che hai fatto per loro ti senti preso, usato e gettato via") suscita la rabbia narcisistica per cui l'oggetto che da buono è diventato cattivo deve essere in qualche modo allontanato, se non distrutto. Con Santa la situazione si è limitata a molestie e minacce assillanti e non si è risolta in tragedia, perché, secondo Bruno, non era venuta meno la funzione materno-protettiva della moglie; pertanto la richiesta affettiva, se pur regredita di Bruno, continuava a essere soddisfatta da lei, riuscendo in questo modo a colmare il vuoto e la solitudine che in lui sono ben presenti e che solo la figura materna e i suoi sostituti idealizzati possono colmare. Con Donatella, purtroppo, il contesto situazionale è radicalmente cambiato. Bruno è solo, già separato, immerso nuovamente nella sua profonda solitudine; Donatella, che ha dodici anni più di lui, appare sul suo orizzonte emotivo come la persona che può nuovamente colmare questi suoi vissuti negativi e angoscianti, riproponendosi come figura femminile sulla quale fare i suoi investimenti idealizzati. Ciò si verifica nel primo periodo della loro storia, quando Bruno può colmare la donna di attenzioni soprattutto materiali, si sente gratificato e ha dei ritorni che rinforzano grandemente il suo narcisismo. A un certo punto però anche Donatella, come già Santa, lo respinge, lo offende con una frase molto pesante, non si fa più trovare: "Con Donatella mi è venuto il vuoto 56
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e per me la solitudine è orrore ... mi sono sentito usato e gettato via ... ". A questo punto la ferita narcisistica diventa insanabile e affiora nel mondo interno di Bruno la figura del padre, al quale egli ha paura di assomigliare ma del quale è l'esatta, tragica riedizione: come lui è un debole, come lui non sopporta la separazione dalla figura idealizzata, come lui non è in grado di medicare le proprie ferite e si rifugia nell'alcol, come lui non è in grado di gestire e controllare la componente aggressiva che a un certo punto si traduce in distruttività. Donde il passaggio all'atto che rimane contenuto in uno stato emotivo intenso ma non va al di là dello stesso, mancandone tutti i presupposti psicopatologici. Il meccanismo che ha sollecitato in Bruno la premeditazione e il successivo passaggio all'atto è stato attivato dall'atteggiamento svalutativo e sprezzante di Donatella, che ha prodotto la ferita narcisistica e ha riattivato i suoi vissuti di inferiorità e inadeguatezza portandolo ad agire la sua rabbia narcisistica, applicando il modello paterno e le stesse modalità comportamentali (anche il padre si è sentito rifiutato e abbandonato dalla moglie che ha preso l'iniziativa della separazione). Bruno però non comprende il significato profondo del suo passaggio all'atto, pur sforzandosi di farlo - espressione, questa, dei meccanismi di rimozione posti in atto: "Stavo bene, non mi mancava niente, avevo una moglie che mi voleva bene e una figlia. Non so che cazzo mi è preso". Formula un giudizio del tutto negativo sul suo comportamento delinquenziale: "Sono convinto della pena di morte; non c'è situazione che tenga. Ho già rovinato la vita a un bel po' di gente. Bisogna meritarsela la solidarietà". Evidente è la conseguente componente depressiva reattiva, che riattiva il suo sentimento di inferiorità sia come uomo, sia come persona, collocandosi egli in una dimensione di persona degradata e ipovirile: "Ci sono dei momenti che mi manca quel pizzico di coraggio in più. Ho fatto troppi casini, ho rotto troppo le palle, non so cosa mi trattiene. Almeno papà ha avuto il coraggio di uccidersi. Io no. A ine rode dentro. Faccio fatica a esser qui. Dove vado? Cosa faccio? Non ho più nulla! Con che faccia vado per strada? Sono rari i momenti in cui riesco a staccare. Mi chiedo perché l'ho fatto, che cosa ho perso, che cosa ne sarà della mia vita". Caso 5. Pino, anni 50, omicida
Pino è un uomo che ha ucciso per "esasperazione", in un momento d'ira, la sua convivente, che "si prendeva gioco di me, mi derideva e io non sono riuscito in alcun modo a riportarla alla ragione". È un uomo che ha 57
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avuto una vita sentimentale piuttosto tormentata e travagliata.All'età di diciannove anni ha sposato una ragazza allora quindicenne "per scappare di casa, perché non ne potevo più". Questa unione si rivelò ben presto infelice. "In un periodo in cui ero in Germania a cercare lavoro ebbi un sogno premonitore che mia moglie mi faceva le corna; tornai a ... e scoprii che era proprio vero. Mia moglie ammise di aver avuto una relazione con un uomo che voleva seguire a ... Io parlai con i suoi genitori che cercarono di aggiustare la faccenda. Per questo motivo venimmo a ... anche per cercare lavoro. In un primo tempo fummo ospitati da mia cognata ... Prima venimmo su con un figlio e poi andai a prendermi anche gli altri due. Dopo neanche un mese vennero su anche i miei, senza chiedermi niente e si stabilirono in casa nostra. Iniziarono i litigi tra mia moglie e mia madre. Quando tornavo la sera sentivo solo discussioni. Era un inferno. Io che da quell'inferno ci ero voluto uscire sposandomi, ci ero ricascato dentro. Non potevo dare ragione a nessuno, perché altrimenti mia madre o mia moglie mi davano contro. Era ogni giorno un macello, tant'è che, alla fine, una sera che non ne potevo proprio più, decisi di mandare via i miei. Dopo qualche mese, una notte, lei mi svegliò dicendomi che se ne andava via da me, soprattutto perché i miei parenti l'avevano trattata male. Dopo pochi giorni mia moglie tornò da me chiedendomi perdono. Poi se ne andò nuovamente. Io riuscii a rintracciarla, a riportarla a casa, a parlarle, ma poi se ne andò definitivamente, per sempre." Qualche tempo dopo Pino conobbe la sua attuale convivente. "Ci incontrammo alla fermata del pullman. Io non ne potevo più di stare con i miei genitori ed ero alla ricerca di una donna. Ero timido, ma lei mi sorrise, così mi incoraggiai ad andare avanti. Mi disse che era una ragazza madre, che era convissuta con un uomo per circa un anno e che era sola. Io le spiegai la mia situazione e ci siamo messi insieme, lei con il suo bambino e io con i miei tre. I primi tempi era molto premurosa con me, ma maltrattava i miei figli, li picchiava, li comandava con astio. Io non vedevo bene queste cose. Tra noi due non è che andava tanto bene; io continuavo a lavorare alla ... e contemporaneamente facevo il decoratore. Dopo un po' si calmò con me, ma continuò a maltrattare i miei figli. Era una situazione che avevo voluto io; per dare una famiglia ai miei figli ero disposto a subire anch'io. Però, anche subendo io, le cose non andavano bene. Diverse volte le dissi che poteva andare via, ma questo lei non l'ha mai fatto:' Recentemente, Pino conosce Isabella. "Un bel giorno questa donna si è presentata nel mio locale di ... , vestita un po' malandata, con un fiocco in testa e il rossetto sbavato. Era un po' addormentata, sembrava più
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una drogata che una persona a posto. Aveva trent'anni. Quando la vidi mi chiesi tra me e me da dove arrivava. Io subito le dissi che le avrei fatto sapere qualche cosa, lei scoppiò in un pianto dirotto e si mise in un angolo come un cucciolo bisognoso. Mi toccò il cuore; cercai di consolarla. Lei diceva che sentiva delle voci e che si sarebbe buttata sotto il tram se non le davo il lavoro. Le chiesi quali erano i suoi problemi e lei mi disse che ogni autunno entrava in crisi ed era seguita dal dottor ... ed era stata ricoverata anche a ... Isabella aveva dei comportamenti sessuali strani, nel senso che guardava gli uomini in un certo modo. Dopo quattro/cinque mesi che non vidi alcun miglioramento, cercai di metterla un po' a posto. Avvenne una trasformazione globale di questa persona, cambiò dal giorno alla notte. Iniziò a fare qualche cosa, le feci prendere solo più del Valium. In quel periodo lei mi parlò dei suoi problemi con suo marito e mi disse che aveva una forte repressione sessuale. Mi diceva che era un po' trasgressiva, che le piaceva che durante il rapporto l'uomo dicesse cose eccitanti, che le piacevano certe posizioni. lo ci rimasi un po' di stucco, perché con mia moglie avevo avuto sempre dei rapporti normali. Lei diceva che voleva separarsi dal marito, per vedere se altri uomini potevano essere attratti da lei ... Le dedicai delle poesie e delle canzoni romantiche e un po' per volta me ne innamorai. Io ero ciecamente convinto che l'avrei guarita del tutto. Iniziammo ad avere rapporti sessuali: era una belva e a me la cosa piaceva. Il suo modo di fare era eccezionale. Aveva arti amatorie incredibili e poi era un pezzo di pane, mi stava dietro in tutto. L'ho nutrita, vestita, coccolata. Poi le cose sono cambiate. Isabella era diventata esigente e sprecona e ha iniziato a pretendere, a esigere. Io ero diventato il garzone e lei la padrona. Io ero succube di lei. Io dicevo che era meglio finirla tra noi due e lei faceva dei finti svenimenti. Io cercavo di accontentarla in tutto e per tutto, ma trovavo in questa persona una realtà diversa. Era una persona ambiziosa, non così modesta come mia moglie che si accontentava di tutto; mi faceva sentire più vivo in tutti i sensi e al contempo succube. Ormai mi aveva in pugno, faceva di me tutto quello che voleva; mi faceva spendere un sacco di denaro, non sacrificava nulla. Non voleva rinunciare a nulla. Non so se mi voleva ancora bene. Lei aveva capito che io dal lato affettivo ero nessuno senza di lei. Ha incominciato a maltrattarmi e a insultarmi, iniziava a raffreddarsi. Cercava il suo piacere più che il mio, faceva tutto il contrario di quello che dicevo. Nonostante tutto, lei per me era importante. Tutti mi dicevano di lasciarla, che mi avrebbe rovinato, che mi avrebbe mangiato tutto; io non ho dato retta a nessuno, perché lei sapeva il mio debole che era il suo corpo e il suo modo di fare. Lei era diventata svogliata, indiffe59
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rente, non parlava più. Voleva trovare casa, perché non voleva più stare dove abitava. Io non riuscivo più a trovare in Isabella tutto quello che avevo trovato agli inizi; agli ultimi c'è stato il sospetto che fosse arrivato un altro uomo al posto mio. Io le chiesi se voleva tornare con suo marito e Isabella rimase molto evasiva. Erano anche iniziate telefonate anonime. Le cose non erano chiare. La sera prima del fatto abbiamo litigato per queste telefonate. Quel sabato mattina sono tornato con i miei strumenti per mettere a posto ancora alcune cose e poi portarla al lavoro; lei ha ripreso i soliti discorsi: che non voleva più lavorare, che le avevo rotto le palle, che si era stufata, che ero un miserabile, che avevo una carretta di macchina che le faceva schifo. Mi ha portato ali'esasperazione: 'Te ne puoi andare a fare in culo, visto che il locale e la macchina sono intestate a me, puoi andare a cagare' ... non ci ho capito più niente. Neanche adesso lo so. Me ne sono reso conto quando sono sceso ed entrando in macchina ho visto una grossa macchia di sangue sulla camicia e mi sono accorto che avevo un martello in mano." Chiaro il rapporto che si è lentamente costruito e stabilito tra i due: un rapporto basato sulla figura del "salvatore" che ha da svolgere una missione in cui ha in un primo tempo pieno successo e nella quale egli investe tutto se stesso, quasi a cercare un compenso alla sua mitezza, timidezza, riservatezza. Fin dalle prime battute, tra Pino e Isabella si instaura un rapporto di reciproca dipendenza, dalla quale entrambi ricevono e attraverso la quale entrambi si danno rinforzi: "Io andavo a prenderla quando mi chiamava; io me la sentivo come fosse una cosa mia, mi sentivo in dovere verso di lei. Isabella stava bene da me, non voleva più andare a casa, era serena, si svagava". Finalmente qualche cosa di suo, che gli "appartiene", su cui fare degli investimenti per lui significativi e importanti. A un certo punto la donna-bambina, sicura di avere l'uomo in pugno, inizia a fare i capricci: "Poi le cose sono cambiate. Isabella era diventata esigente e sprecona; ha iniziato a pretendere, a esigere. Io ero diventato il garzone e lei la padrona. Io ero succube di lei". Pino, tra l'altro, si trova di fronte a un'immagine del proprio Sé opposta a quella del padre, come da lui conosciuto. Giunge alla spiacevole constatazione: "Io trovavo in questa persona una realtà diversa; ero un po' stressato e non stavo bene, perché mi ero esaurito per guarire lei': Troppo tardi, però. La situazione sfugge dalle mani dell'uomo, che a livello profondo si vive su di un piano di assoluta inadeguatezza e insufficienza esistenziali. Su tutto domina l'angoscia dell'abbandono, il terrore del distacco: "Io avevo paura di perderla. Lei faceva tutto quello che voleva
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e mi faceva fare tutto quello che voleva e io, pur di non perderla, le concedevo tutto. Io volevo vivere con questa donna ed ero disposto ad accontentarla in tutto; la mia preoccupazione era che lei non tornasse più come prima, volevo anche che lei avesse una determinata riconoscenza nei miei confronti': Un brutto giorno, però, l'uomo si convince che la donna non prova più niente per lui: lui non è più il suo uomo-padre-amante e quindi non è più all'altezza del suo ruolo. Probabilmente Isabella ha un altro affetto, non è più quell'oggetto buono che lui aveva conosciuto e che gli doveva affetto e riconoscenza. Sul piano affettivo-relazionale, Isabella- nei suoi confronti- era diventata una persona cattiva, che lo dileggiava, lo insultava, lo respingeva, lo usava e basta. Crolla il sentimento dell'autostima artificiosamente costruito sull'illusione e nell'immaginario; il sogno si sta dissolvendo, il grande progetto è miseramente fallito. "Isabella si prendeva gioco di me, mi derideva e io non sono riuscito in alcun modo a riportarla alla ragione e far sì che il nostro rapporto ritornasse come prima." Con il voltafaccia di Isabella, Pino perde tutto, anche quel poco di benessere materiale che tanto faticosamente si era costruito. "Per lei io non ero più nulla." La delusione è cocente: Isabella è legata a lui ormai solo per interesse, mentre lui continua ad amarla. Quello che non si può più costruire si può però distruggere. Ed ecco che la volontà di morte esplode all'improvviso, dopo un ennesimo battibecco. Pino ricorda bene tutta la successione di quei terribili momenti, il suo comportamento è organizzato e coordinato. Egli sa perfettamente che ha commesso qualcosa di molto grave e forse di irreparabile. Telefona al 113 e si presenta in questura, anche se a più riprese dice: "Io non so cosa è successo, vivo in un sogno. Ho perso il controllo; non ho capito niente. Solo qui ho saputo che l'ho uccisa". Egli vuole a tutti i costi salvare l'immagine e il ricordo della donna che - a suo modo - ha tanto amato e che porta ancora dentro il suo cuore. "Io sono convinto che lei non mi ha fatto del male e se me lo ha fatto che Dio la perdoni. Ha avuto pregi e difetti, però era una cara persona che aveva bisogno di un aiuto morale, perché era una persona molto influenzabile. Era il mio faro, era il mio orgoglio, volevo fare di lei una regina, era la mia occasione; resto ancora legato morbosamente a lei e alla sua bambina, non ai miei figli!' La morte della donna ha sancito il suo fallimento, la sua incapacità di operare il miracolo dell'amore. Ma egli, a livello inconscio, non lo vuole ammettere: e così la sente vicina, parla con lei, riferisce accadimenti come se lei non fosse morta.
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Caso 6. Mauro, anni 53, tentato figlicidio
Mauro è un uomo che in un momento di paura, esasperazione, solitudine, incomprensioni varie ha sparato al figlio Alessandro, in seguito a un'ennesima, violenta discussione. La sua storia di vita è priva di dati significativi. Mauro, terminata la scuola dell'obbligo, ha iniziato a lavorare prima come aggiustatore meccanico, poi come addetto ai forni, quindi come operaio, come mobiliere e infine come elettricista. Dal suo matrimonio sono nati quattro figli, tutti viventi e sani. Qualche anno fa la moglie ha abbandonato il tetto coniugale. I due sono separati legalmente. Circa la sua infelice vicenda coniugale e familiare, così Mauro si esprime: "Da un anno e mezzo la mia vita è completamente cambiata. Dopo trentacinque anni di vita trascorsa insieme, mia moglie ha voluto la separazione per incompatibilità. Cinque anni fa ha avuto un infarto e tutto è cambiato; qualunque cosa io facevo o dicevo non andava bene. I figli mi dicevano di avere pazienza e di compatirla, perché non stava bene. Secondo me, sono stati portati dalla madre contro di me: io tuttora amo mia moglie e non riesco a dimenticarla': Mauro ammette che tra lui e la moglie ci sono stati litigi e contrasti "per colpa di entrambi, perché ognuno dei due ha le sue, come in tutte le famiglie". Aggiunge: "Io voglio prendermi le mie responsabilità, ma non riesco a capire in che cosa ho sbagliato. Se mia moglie se ne fosse andata via di casa per mettersi con un altro, io non mi sentirei così disperato come mi sento adesso. Io vorrei che andassero in giro a chiedere che persona ero: vorrei che qualcuno mi facesse capire in che cosa ho sbagliato. Io vorrei sapere che cosa ho commesso per trovarmi in questa situazione. Come mai questi figli mi hanno mandato tre volte in ospedale? Secondo me, era perché io cercavo di tornare con mia moglie; lei mi insultava e i figli si coalizzavano con lei. Io di ciò non ho prove, sono solo supposizioni che tento di fare. Forse perché è diventata più irascibile, dopo la separazione mi ha montato contro i figli: una mia supposizione. Io servivo solo più come zimbello: dovevo lavorare e basta. Inoltre i figli, specialmente Alessandro, venivano a prendere la loro roba a casa all'una, proprio mentre io mangiavo. Io dicevo loro di venire in altre ore, invece loro continuavano a venire all'ora in cui mangiavo. Una volta sono venuti a casa mia i miei figli, mio cognato e mio genero. Me li sono trovati sotto casa che mi dicevano: 'Siamo venuti a prendere la roba'. Io ho detto che non potevo dargliela perché dovevo andare a lavorare. Loro mi hanno incastrato dentro la portiera della macchina, dicendomi un sacco di parolacce. Poi hanno chiesto quando potevano venire e io ho detto di
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tornare a sera. Loro sono venuti e si sono presi quello che hanno voluto di vestiario. Poi se ne sono andati. Verso le 10-10:30 di sera sono andato a farmi un giro perché ero nervoso per conto mio. Sono andato al bar e la signora del bar mi ha detto che mio cognato e mio genero erano andati al bar e avevano una faccia ... Sono tornato a casa e loro mi hanno citofonato fino alle 3 del mattino, insultandomi e dicendomene di tutte. Io ho fatto il 113 e il 112, ma non è venuto nessuno. Io avevo una paura in corpo ... Venivano tutti i giorni a cercarmi al bar. Sono andati anche più volte sul posto di lavoro. Sono cose che sanno tutti, che possono testimoniare per me: non sono cose che mi invento io. Facevano di tutto per venire tra l'una e le due e mezzo, quando io dovevo farmi da mangiare, mangiare e tornare a lavorare. Fossero venuti almeno la sera, che uno può fare altri orari ... Un giorno, verso le 2:15 di pomeriggio, Alessandro è venuto con un carabiniere che mi ha chiesto perché io non volevo dare la roba a mio figlio. Io gli ho spiegato che non era che non volevo dare la roba a mio figlio, ma che semplicemente non volevo che venisse a quell'ora. Per tutta risposta Alessandro mi ha dato un calcio nello stomaco che mi ha mandato in ospedale. Tutte le sere i miei figli venivano sotto casa, citofonavano e giù parolacce. Di notte mi facevano telefonate e mettevano giù. Da Pasqua girava per casa mia una ragazza negra, non nel senso che vivesse con me; poi i ragazzi l'hanno saputo e l'hanno detto a mia moglie che un giorno mi ha telefonato, dicendomi: 'Devi mandare via di casa mia quella puttana che non deve dormire nelle mie lenzuola!'. Io facevo tutto alla luce del sole, perché ormai eravamo separati. Io non so se mia moglie era gelosa di me: so solo che già prima mi aveva fatto delle scenate perché io qualche volta accompagnavo a casa una mia collega che lavorava con me: era solo un rapporto di lavoro e di amicizia; io non ci vedevo nulla di male, ma quando mia moglie mi ha detto certe cose, ho smesso subito di darle passaggi. Tutte queste telefonate di minacce mi hanno fatto venire paura, perché i miei figli non venivano mai da soli". Il fatto-reato viene così commentato: "Mentre tornavo a casa, vidi Alessandro avvicinarsi nuovamente con un'altra persona e venire verso di me. Allora io non ci vidi di nuovo più e cominciai a sparare. Non so neppure io come sia successo; vorrei svegliarmi che fosse solamente un incubo. Il mio torto più grosso è stato quello di non aver parlato e di non essermi fatto le mie ragioni. Mia moglie non ha mai portato una sporta, perché portavo io le borse; non è mai andata in banca, non ha mai pagato una bolletta. Io le ho sempre fatto tutto quello che ho potuto, anche perché sono stato abituato in un certo modo e con una certa educazione". 63
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Anche in questo caso emerge la storia di un uomo succube, che ha sempre cercato di evitare situazioni di contrasto e di scontro con moglie e figli, per un malinteso senso della "pace" familiare. Alla fine, la situazione si è rovesciata contro di lui, creando una condizione vieppiù ingravescente di tensione e di paura, esplosa nel passaggio all'atto contro il figlio meno rispettoso e più minaccioso (o vissuto come tale) ed esasperante. Caso 7. Giovanni, anni 29, omicidio a sfondo omosessuale
In un pomeriggio del lontano 1992, Giovanni uccideva Roberto, a lui noto come omosessuale. Compiuto il reato, il giovane si recava presso l'abitazione dei genitori e ne parlava con un fratello; questi contattava un amico agente di pubblica sicurezza, il quale raccoglieva la prima testimonianza dell'omicida che fece questo racconto: "Quando incontrai nuovamente Roberto ero senza lavoro; fu lui a propormi di fargli da autista e tuttofare, io accettai. Io lo conoscevo come architetto, mi aveva detto che faceva il professionista e che aveva una donna. Io capii subito che era un omosessuale, dagli atteggiamenti e dai comportamenti che aveva. Una volta, due anni prima, con un pretesto, mi aveva portato a casa sua, e poi mi aveva fatto capire, sia pur indirettamente, certe cose, anche se la proposta ufficiale era quella di avere un rapporto sessuale con una sua amica, che peraltro non venne ... ma io me ne andai. Due altre volte mi telefonò e io gli feci capire che non mi interessava niente fare quello che lui mi aveva proposto la prima volta. Qualche altra volta aveva fatto delle avance nei miei confronti, ma io l'avevo sempre respinto". Il giorno in cui avvenne l'omicidio, Giovanni si era recato presso l'abitazione di Roberto per riscuotere una somma dovutagli per lavori effettuati per conto dello stesso. Roberto, diversamente da quanto pattuito, aveva rifiutato di dargli la somma che gli spettava, subordinandola a prestazioni sessuali. Nel corso del diverbio, la vittima gli avrebbe detto che doveva essere il suo ragazzo, altrimenti non gli avrebbe dato né soldi, né lavoro. Alla risposta negativa di Giovanni, Roberto lo insultava ripetutamente definendolo alcolizzato e terrone. "L'accesa discussione sfociava in una colluttazione, che si concludeva allorquando Giovanni colpiva con una brocca di porcellana Roberto alla testa ... Poi Giovanni in preda al panico aveva simulato le tracce di una rapina ... " Al momento della confessione, Giovanni "versava in stato di agitazione ... ed era sconvolto da quanto accaduto". La personalità di Giovanni è caratterizzata da introversione, sensibilità, emotività, tendenza all'isolamento con introiezione dei conflitti, ma 64
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non presenta alterazioni di struttura che possano individuare una qualche sindrome nevrotica o psicotica. In nessun momento del suo dire il soggetto ha voluto simulare o ampliare disturbi inesistenti o di scarsa entità o ha tentato di allegare motivazioni solo a lui favorevoli, anche se a tratti ha cercato di accattivarsi l'esaminatore; nel più che comprensibile tentativo di alleggerire la gravità del gesto commesso. Costante e dominante è stata in lui la preoccupazione di "capire" il perché del suo atto. Tutte le interpretazioni via via abbozzate sono state finalizzate a questo scopo. Per quanto riguarda la psicogenesi e la psicodinamica del fatto-reato addebitato a Giovanni, in assenza di disturbi psicopatologici rilevanti a fini forensi, unicamente sulla scorta di quanto dichiaratomi dal periziando, è possibile formulare la seguente ipotesi interpretativa: la semplicità, l'introversione, la minuziosità che connotano il suo stile di vita hanno cozzato contro il carattere della vittima, personaggio vissuto da Giovanni come uomo "che confondeva le idee, sconcertante, sfuggente, prepotente". Giovanni si è pertanto vissuto su di un piano di sofferta inferiorità rispetto a Roberto, inferiorità aggravata dall'essere rimasto solo e senza lavoro: in una situazione, quindi, di bisogno materiale e di sofferenza affettiva. Tale situazione di inferiorità si sarebbe acuita nel corso della mattinata del fatto-reato innescando in Giovanni tutta una serie di tematiche di scacco e di confronto negativo. È lui stesso che offre gli elementi criminogenetici e criminodinamici che sono alla base del suo agire: "Mi sentivo umiliato, offeso e sminuito in un modo incredibile, mi aveva offeso; mi ha fatto sentire un nulla, lui voleva annullare la mia persona". La proposta di "essere il suo ragazzo" lo ha fatto sentire "degradato" in maniera "schifosa", ridotto a "cosa", impossibilitato a fare delle scelte, stante il contesto venutosi a creare nell'abitazione della vittima. Sotto il profilo criminodinamico, la spinta che lo ha fatto passare all'atto è stata la sensazione che non ci fosse via di scampo: "O così o niente. Quel mattino, lui improvvisamente ha cambiato atteggiamento; mi ha preso per il collo e mi ha detto che se volevo lavorare con lui e per lui dovevo essere il suo ragazzo". Il setting relazionale, vissuto drammaticamente e subitaneamente in chiave "di vita o di morte" di "o lui o io", nel convincimento che "lui voleva annullare la mia persona", ha scatenato l'improvviso passaggio all'atto: non potendo fuggire, di fronte alla situazione di paura, il soggetto ha reagito con un violento meccanismo di attacco, che non poteva avere altra finalità se non quella dell'annientamento della fonte di pericolo: Roberto, appunto. La dinamica sopra descritta e ricavata da una versione del fatto-reato,
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intesa a far recuperare all'autore una soggettività che in quei momenti egli era convinto di aver perduto, si trova con molta frequenza alla base dell'omicidio d'impeto, ed è una dinamica squisitamente ed esclusivamente psicologica: che quindi non ha nulla a che spartire con le motivazioni patologiche che altre volte sono poste alla base di tale reato e che possono assumere quel "valore di malattia" o, meglio, "significato di infermità" rilevante nel riconoscere un vizio di mente. In assenza di una patologia che si possa costituire in infermità di mente, possiamo solo affermare che Giovanni ha agito secondo la dinamica più sopra illustrata. Caso 8. Paolo, anni 27, tentato omicidio di una prostituta
Paolo è un giovane uomo, indagato per aver tentato di uccidere, colpendola con numerose coltellate, una prostituta, tale Mirella, durante un congresso carnale non riuscito. La donna da tempo conosceva l'uomo e con lui aveva già avuto numerosi rapporti sessuali. Mirella viene descritta come donna facile al litigio e dal carattere focoso. La storia di vita di Paolo è poco significativa, se si fa eccezione per un grave incidente stradale con trauma cranico commotivo, cui sono residuate crisi epilettiche di grande male: "Le prime le ho avute a Genova. Mi hanno detto che mentre ero sul molo che stavo pescando sono crollato a terra: dopo mezz'ora mi sono ripreso. Le crisi venivano anche due o tre volte al giorno; cadevo per terra, ero pallido, svenuto: duravano circa trenta minuti". Dietro specifica domanda informa che "qualche volta mi sono morsicato la lingua, mi è venuta la saliva alla bocca e ho avuto le scosse. Fin da subito le crisi sono state precedute da giramenti di testa". Le crisi epilettiche sono poi continuate in maniera piuttosto saltuaria, sempre precedute da vertigini. Paolo non ha amici, fatta eccezione per una persona anziana con la quale abita e dalla quale riceve consigli e aiuto economico. Si descrive come una persona tranquilla e non aggressiva. Ricorda però due episodi che sono accaduti dopo l'incidente stradale in cui è passato a vie di fatto, per motivi del tutto comuni e comprensibili. Da tre anni ha una relazione sentimentale con una ragazza, tale Stefania: "Lei è invalida per malattia mentale; con lei sono sempre andato d'accordo e ho convissuto per qualche tempo. Lo zio di lei si è messo in mezzo e non voleva che io dormissi da lei, anche se io le ho ristrutturato la casa con le mie mani e le ho insegnato a cucinare, perché Stefania aveva bisogno di me. Così sono tornato ad abitare in ... con il mio amico':
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Il giorno del fatto "mi ero recato da lei per stare con lei. C'era anche suo zio e mi ha detto: 'Se volete, potete vedervi fuori casa, ma qui dentro non devi più venire'. Allora me ne sono andato via ed ero arrabbiato: mi sentivo un cane. Sono andato a cercare Mirella che conosco da cinque o sei anni e che era l'unica prostituta che frequentavo: speravo che mi tranquillizzasse e mi aiutasse, parlandomi. Per me Mirella era come una sorella grande, una madre. Quando ero in difficoltà andavo sempre da lei a farmi consolare e lei mi dava dei consigli. Mirella aveva circa trentacinque anni, l'avevo notata perché era carina; le volevo bene e gliene voglio ancora. Ci vedevamo due/tre volte al mese, quando avevo dei soldi. Non c'erano mai stati problemi prima di quella sera lì, anche se qualche volta aveva alzato la voce con me e io me ne ero andato. Però lei non ha mai reagito con me come quella sera lì. Mi sono sfogato e poi le ho chiesto di avere un rapporto, dicendole che non avevo soldi e che avrei pagato in seguito, come avevo fatto altre volte. In realtà avevo in tasca cento/centocinquantamila lire che mi erano state prestate. Alla mia richiesta lei mi ha risposto male e mi ha mandato via; io ero già giù di morale e lei mi rispondeva male, mi ha dato degli spintoni, mi ha colpito con una gomitata al petto e ha messo una mano sotto il sedile. A me è presa paura, ho tirato fuori il coltello e l'ho colpita. Mi sono accorto di avere la borsetta di Mirella solo a ... ; forse l'avevo presa quando ho afferrato il mio giubbotto che avevo posato nella macchina di lei. Ho buttato via tutto e ho strappato i suoi documenti: forse anche i soldi. Ricordo bene, perché ho fatto trovare io queste cose ai carabinieri, indicando i luoghi con precisione". Sotto il profilo clinico, Paolo presenta una gracilità globale della sua personalità, sia a livello intellettivo, sia culturale, sia affettivo-relazionale. I tratti di immaturità che connotano la sua personalità sono alla base di quella continua ricerca negli altri di protezione e di aiuto. Non è un caso che egli elenchi tra i suoi "fiduciari" un uomo anziano con il quale abitava prima dell'arresto e una donna più vecchia di lui (Mirella, la vittima). La documentazione agli atti ci informa che Paolo soffre di un' epilessia post-traumatica secondariamente generalizzata (diagnosi formulata nel corso del ricovero nel reparto neurologico), esordita due anni dopo un grave trauma cranio-facciale patito; attualmente sia il focolaio sia le crisi risultano ben controllate e compensate. È stato inoltre possibile mettere in evidenza un insieme di disturbi psicopatologici riferibili a un'encefalopatia post-traumatica che si traduce sostanzialmente in quel torpore e rallentamento ideativi, in quella labilità, disforia e difficoltà di controllo delle proprie emozioni, direttamente correlabile alla sofferen67
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za cerebrale evidenziata dalla TAC e a tutta quella serie di disturbi osservati e da altri descritti. La dinamica del reato e la descrizione resane da Paolo fanno escludere che il suo passaggio all'atto possa essere ritenuto sintomatico di una crisi epilettica, mancandone tutti i presupposti. È possibile, invece, ipotizzare un certo legame tra l'encefalopatia da cui il paziente è affetto e l'atto criminale di cui è imputato. A livello criminogenetico, però, l'impulso che lo ha fatto agire, o, meglio, reagire contro Mirella è stato determinato dalla paura di essere, a sua volta, oggetto di aggressione da parte di una donna che - a detta di Paolo - invece di consolarlo, confortarlo e gratificarlo sessualmente (come suo dovere e mestiere), lo ha respinto, assumendo addirittura un atteggiamento minaccioso nei suoi confronti. Caso 9. Domenico, anni 27, omicidio di una prostituta
Domenico è un giovane che ha ucciso con ventinove coltellate una prostituta, tale Milena, nel corso di un congresso carnale fallito. Il giorno seguente, Domenico denunciava lui stesso il fatto ai carabinieri, rendendo subito ampia confessione. La storia di vita di Domenico, piuttosto banale e comune a tante altre persone, era radicalmente cambiata con il suo trasferimento dal Meridione al Nord Italia, per ragioni di lavoro. "Ci sono stato trascinato dal fidanzato di mia sorella; avevo un monolocale e sono sempre vissuto da solo, facendomi tutto e lavorando moltissimo. Era una vita troppo stressata, ma andavo a lavorare ugualmente, fino a quando, nel maggio 1995, sono diventato artigiano edile. Nell'agosto 1992 ho avuto il mio primo rapporto sessuale a Torino con una prostituta. Questo rapporto mi ha fatto malissimo. Mi sono accorto che non riuscivo ad avere un orgasmo nella vagina di questa ragazza che mi ha dovuto masturbare. La cosa è così continuata fino all'ottobre 1996. Io con la testa non ci stavo lì; pensavo al lavoro e ai miei problemi e così non sentivo niente. Poi è successa una cosa che ha cambiato completamente la mia vita: è successo nell'ottobre 1996. Ho conosciuto una prostituta che mi ha colpito, era più o meno il mio ideale, mi aveva detto che si chiamava Cristina. La prima volta è successo che siamo rimasti a parlare, era tranquilla e serena, si è svestita tutta e mi ha baciato, cosa che non ho mai osato fare con una prostituta. Da allora l'ho frequentata sempre di più. Aveva un cuore d'oro, era allegra e si scherzava. Con Cristina ho scoperto i miei problemi sessuali, nel senso che mentre prima riuscivo a penetrare in vagina, anche se poi non eiaculavo, con Cristina
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non avevo neppure più l'erezione. Era un periodo in cui ero particolarmente stanco e stressato dal lavoro. Dopo tre mesi, sono andato al paese dai miei; quando l'ho salutata lei ci è rimasta malissimo. Quando sono tornato non l'ho più trovata. Mi è mancata tantissimo. Nel frattempo, avevo conosciuto Milena che lavorava qui a Torino. A me subito non è piaciuta, ma non trovando più Cristina ho incominciato a frequentare lei. Quando ho conosciuto Milena stavo male per la perdita di Cristina. Con Milena, un po' per volta, è nata un'amicizia; poi, dopo cinque/sei volte, è iniziata una storia sessuale. A volte però Milena mi trattava benissimo, a volte malissimo. Abbiamo avuto rapporti che io non riuscivo mai a portare a termine. Anche se avevo l'erezione, non provavo niente. Il mio pene si ammosciava, allora parlavamo un po'; è stato un periodo tremendo. Nell'aprile 1997, però, dopo un violento litigio con Milena, sono andato con Beata, una sua amica; ho tentato di avere un rapporto, ma non ci sono riuscito. Beata si è arrabbiata tantissimo, mi ha insultato, mi ha detto che ero un malato e mi ha offeso in tutti i modi. Mi sono sentito un verme, mi è sembrato che tutto il mondo mi crollasse addosso, mi sono messo a piangere e l'ho riaccompagnata sul posto di lavoro. Da quel giorno non l'ho più frequentata, anche se lei mi ha chiesto scusa e ho ripreso a frequentare Milena. Nel giugno 1997 Milena è venuta a trovarmi a casa mia. Dopo tre giorni mi ha chiesto dei soldi per poter smettere di fare il suo lavoro e andare via con un ragazzo al quale voleva bene; io mi sono sentito preso in giro, mi sono sentito un verme e le ho dato uno schiaffo e non ci siamo più visti per un bel po', fino a quando una sera sono andato a trovarla per chiederle scusa dello schiaffo che le avevo dato. Lei è stata molto gentile e anche lei mi ha chiesto scusa. Ci siamo visti per due sere e poi io le ho detto che volevo smettere di frequentarla. Lei si è messa a piangere, perché voleva vedermi ancora. Io però stavo male, prendevo le medicine e avevo consultato una psicosessuologa che mi aveva dato una medicina da prendere la sera, dicendomi che con quel farmaco potevo avere problemi di impotenza. Ed è proprio quello che è successo. Rapporti sessuali, zero. Quando ho smesso le pillole della psicosessuologa mi sono sentito un po' meglio, nel senso che sono riuscito ad avere delle erezioni mattutine e sono riuscito ad avere due bei rapporti sessuali con Milena. Ho riacquistato un po' di fiducia in me stesso. Arriviamo al giorno del fatto: la sera prima vado a letto bene e al mattino mi sveglio come un moribondo. Quel giorno lì è stato terribile. Mi sentivo nervoso, ho girato con la macchina senza una meta precisa, pensavo a cosa mi stesse succedendo, ho preso pillole contro il mal di testa,
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ho provato la sera a cenare e a guardare la Tv; non riuscendo, mi sono detto: 'Vado a Torino a trovare Milena'." Si arriva così al delitto: "Milena è salita in macchina e siamo andati per una strada che non conoscevo neppure io, fino a quando ci siamo trovati in una piazzuola che non conoscevo. Ci siamo fermati. Abbiamo fumato qualche sigaretta e abbiamo parlato del più e del meno. Lei si è lamentata del suo lavoro, si è messa a piangere, io ho cercato di consolarla. Lei mi ha proposto un rapporto sessuale, ma io non volevo. Non stavo bene, avevo bevuto e mescolato con delle pillole. Sapevo benissimo che non avrei combinato niente. Lei ha alzato la voce e ha insistito. Si è arrabbiata tantissimo perché io non ho avuto l'erezione. Mi ha offeso in tutti i modi. Io allora le ho detto che era proprio una puttana e lei si è ribellata e mi ha picchiato, sempre urlando. Mi offendeva sempre di più, fino a quando io ho preso il coltello e gliel'ho fatto vedere dicendole: 'Se non la smetti ti faccio del male'. Io speravo che si calmasse, invece lei si è messa a urlare ancora di più. Lei urlava e io sentivo la testa che mi scoppiava dal dolore. Poi è successo quello che è successo; ricordo lei che gridava a non finire, fino a quando ha smesso. È stato come in un sogno per me. Quando lei ha smesso di gridare, è come se io avessi aperto gli occhi e ricordo la mia mano con il coltello piantato nel cuore di Milena. L'ho chiamata, Milena non ha risposto: ero terrorizzato. Ho tentato di aprire lo sportello della macchina per farla cadere fuori; non ci sono riuscito. Allora sono sceso dalla macchina, l'ho tirata fuori a fatica, ho tolto il coltello e l'ho buttato lì vicino; sono risalito in macchina, sono ripartito e sono tornato a casa': In quel periodo Domenico presentava seri disturbi depressivi in via di progressiva cronicizzazione, negativamente mantenuti e rinforzati da contingenze avversive di natura emotivo-affettiva, poco o nulla sensibili alle cure cui il soggetto, a suo dire, si era volontariamente e diligentemente sottoposto. Il quadro depressivo si è inserito su di una personalità che ha un livello di funzionamento borderline, nel senso del ricorso a meccanismi difensivi primari, del tipo idealizzazione e svalutazione, scissione e identificazione proiettiva. Ne è conseguito, a livello psicodinamico, che quanto verificatosi con Milena, che avrebbe reagito violentemente senza che venisse messa in discussione un'implicazione emotiva peraltro inesistente con l'altra prostituta, Beata, ha prodotto un effetto devastante, appunto perché sono entrate in gioco complicate implicazioni affettive che, improvvisamente messe in crisi, hanno trasformato nell'immaginario di Domenico la donna da oggetto buono a oggetto cattivo, scindendola in due parti non integrabili l'una con l'altra. Domenico non può ammettere né tanto meno elaborare questo cambiamento improvviso, anche perché,
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attraverso il meccanismo dell'identificazione proiettiva, ritiene Milena responsabile dei suoi stati d'animo positivi e negativi. Contro di lei Domenico ha sperimentato un sentimento terribile di rabbia impotente che poteva essere messo a tacere solo attraverso la distruzione dell'oggetto cattivo: il che è puntualmente avvenuto attraverso l'uccisione della donna. La stessa donna che lo aveva consolato quando egli era tornato umiliato e disperato da lei dopo un incontro fallito con l'altra prostituta ("A pochi metri di distanza c'era Milena, mi ha chiesto cosa era successo. È salita in macchina, mi ha fatto raccontare tutto. Io volevo uccidermi per farla finita; lei mi ha ascoltato e ha avuto molta pazienza con me. Mi ha detto che mi avrebbe aiutato, mi ha coccolato e mi ha calmato in tutti i modi; mi ha fatto promettere che sarei andato da un medico") la sera del fatto "si è arrabbiata tantissimo, perché io non ho avuto l'erezione. Mi ha offeso in tutti i modi ... invece di aiutarmi si è messa a gridare, ad alzare la voce, se l'è presa con me. Io non sono riuscito a calmarla in nessun modo, mi ha offeso in tutti i modi; non mi aspettavo che mi parlasse così': Nei casi che seguono (casi 10-16) criminogenesi e criminodinamica trovano il loro terreno di origine, di sviluppo e di espressione in una franca patologia mentale maggiore che non lascia dubbi sull'inquadramento diagnostico e sulla valutazione forense. Caso 10. Carmen, anni 31, figlicida
Carmen è una giovane donna, nubile, laureata e brillante professionista, più volte ricoverata in reparti psichiatrici per scompensi psicotici acuti, che ha ucciso la sua figlioletta di diciassette mesi soffocandola nel corso di un episodio psicotico acuto. Dal racconto reso da Carmen e dalla documentazione consultata risulta che la donna aveva già presentato due episodi psicotici acuti in anni precedenti, per cui era stata ricoverata per brevi periodi in reparti psichiatrici, dai quali era stata dimessa in buone condizioni di compenso psichico. Il giorno del fatto e in quelli immediatamente precedenti e successivi, le condizioni di mente della donna erano certamente compromesse da disturbi confuso-onirici, da stato di panansietà e angoscia diffusa, stato di coscienza alterato, penoso sentimento di modificazione interiore e di trasformazione del mondo (la Wahnstimmung degli autori tedeschi) e da un complesso sistema delirante di nocumento, di persecuzione e di influenzamento, su base interpretativa, non ben strutturato. "Quel mattino vedevo dalla finestra della mia camera da letto delle persone e io vedevo 71
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in loro dei movimenti, soprattutto sui gesti mi ero soffermata e vedevo queste persone che ... il mio pensiero assurdo era che i politici in un certo senso cercassero di attuare il loro piano di fare dei replicanti avvalendosi della cooperazione di altre persone ... Così ho ucciso la mia bambina perché non volevo che avesse dei problemi, non volevo che soffrisse ... L'ho uccisa soffocandola con le mani, le ho messo le mani intorno al collo. Ho usato solo le mani. Ci ho pensato un po' e poi l'ho fatto. Prima ho provato, ma non è successo niente. Poi ho riprovato e la bambina è soffocata. Ci avevo pensato già prima, sia ieri sia oggi. Poi ho deciso e l'ho fatto. Ho stabilito che era necessario intervenire in questo modo e così è stato. Ho ritenuto più ponderato far sì che la bambina cessasse di vivere ... " In effetti una vicina di casa ebbe a dichiarare che il giorno precedente il fatto Carmen le aveva detto che "la sua situazione familiare era disastrata, il suo rapporto con il marito burrascoso ... Notavo che mentre mi parlava perdeva lucidità a tratti e poi parlando normalmente senza sfumature emotive mi confessava che il giorno precedente aveva pensato di uccidere la bambina perché non voleva che facesse la sua fine e soffrisse ... In quel momento mi sembrava lucida e tranquilla ... A fatti già accaduti, con la presenza degli agenti di polizia e dei genitori, Carmen mi riferiva che aveva anche dovuto faticare a soffocare la figlia, rispondendo alle mie domande di amaro stupore nel constatare l'accaduto ... ". Carmen ha anche affermato: "La frase di mio marito che minacciava me e la bambina di morte mi ha portato a tutta una serie di pensieri, collegamenti con frasi già dette, episodi occorsi ... da quel momento il mio stato di angoscia è aumentato ... è subentrato anche l'aspetto personale ... Si tratta di due aspetti, quello della strada e quello del marito, che vanno a sommarsi e a sovrapporsi ... Io credevo che anche mio marito fosse da questa parte aliena, a livello di oligarchia ... di persone che avevano scelto di fare quello che volevano fare ... Ero convinta che anche mio marito partecipasse a questo intento politico ... mi sentivo impotente ... In quel momento ho sentito che si scatenava qualcosa in me che non so come definire ... ". I genitori, quando rientrarono nel tardo pomeriggio nella loro abitazione presso la quale Carmen, nel frattempo, si era trasferita, trovarono la seguente situazione: "Era tutto spento, la porta aperta. Prima sono entrata io [la madre], ho acceso la luce e lei era seduta sul letto, con la bambina stretta al seno avvolta nella sua camicia da notte. Mio marito dietro di me ha detto: 'Ciao Carmen, meno male che sei qui. Dorme la bambina?"'. "E lei: 'Dorme o forse è morta, l'ho ammazzata' ... Io [il padre] sono corso, ho preso la bimba in braccio perché Carmen, parlando, 72
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l'aveva buttata sul letto e l'aveva subito nascosta sotto tutte le coperte. Io l'ho tirata fuori prendendola per le braccia e ho visto il collo ciondolare ... mia figlia in tutto questo tempo non ha più parlato e non ha risposto alle nostre domande su cosa aveva fatto. Non ha detto più niente ... " Il marito di Carmen precisò che la sera precedente il fatto "non c'è stato dialogo con mia moglie ... la vedevo fuori di sé. Mia moglie, quando mi sono allontanato, non voleva che toccassi mia figlia ... Oggi, nel primo pomeriggio, la signora C. mi ha riferito che mia moglie le aveva manifestato l'idea di sopprimersi unitamente alla figlia perché non voleva che soffrisse come lei". A livello criminodinamico, Carmen ha ucciso la bambina per sottrarla alla "trasformazione': alla "replicazione" non solo da parte di un gruppo (peraltro non ben identificato) di persone di cui faceva parte anche il marito, ma soprattutto da parte di quest'ultimo, nei confronti del quale, a differenza di quanto viveva in quel giorno nei confronti degli "altri", era convinta di essere in condizioni di assoluta impotenza. In altre parole, il drammatico vissuto delirante che ha sconvolto la mente della donna è stato il convincimento psicotico di essere impotente, in quanto non sapeva come proteggere la figlia dalle minacce del marito, e in colpa, perché incapace di proteggerla. Caso 11. Daiana, anni 37, tentato figlicidio
Daiana è una giovane donna, sposata e separata, imputata di tentato omicidio e altro in danno delle due figlie: ha tentato in due occasioni di strangolarne una; e ha minacciato di morte l'altra mediante un coltello, prima a lama liscia e poi a lama seghettata. La donna, nell'adolescenza, è stata vittima di violenza sessuale, ripetutasi quando era incinta della prima figlia. Ha avuto una vita sentimentale e familiare molto travagliata e ricca di episodi negativi. In seguito al sopraggiungere di eventi avversivi di varia natura, su di una struttura di base connotata da disturbi nevrotici ossessivo-compulsivi si sono innestati disturbi depressivi ingravescenti, tipo episodio depressivo maggiore o endogeno. Ha tentato tre volte di suicidarsi e ha messo in atto altri numerosi comportamenti di tipo autodistruttivo. Ha subito plurimi ricoveri in reparti di psichiatria per psiconevrosi ossessiva persistente e recidivante con disturbi depressivi. Subito dopo i fatti per cui si procede, Daiana è stata nuovamente ricoverata in reparto psichiatrico, perché da alcuni giorni si erano aggravati i disturbi ossessivi "con idee continue di morte e impulsi a far del male anche alle figlie. Riferisce in modo anaf73
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fettivo di aver tentato di uccidere la figlia più piccola strangolandola, come pure l'altra con un coltello e di essere stata fermata dall'accorrere dei vicini. Presenza di numerose lesioni escoriate al volto e al collo, dovute a grattamento e/o a ferite di coltello, forbici, lamette (come affermato dalla paziente) ... Riferite ideazioni ossessive, in particolare di morte, che coinvolgono anche i familiari, con alcuni passaggi all'atto nei giorni scorsi ... Scarsamente critica e con affettività orientata al polo depressivo, richiede più volte un'iniezione che possa por fine alle sue sofferenze. È presente da alcuni giorni anoressia marcata". Alcuni giorni dopo, nel corso del ricovero, "ha tentato di darsi fuoco utilizzando un accendino, senza conseguenze gravi: lieve ustione gamba destra". L'aggressione contro le figlie è da iscrivere nell'ambito di un suicidio allargato. "Il mio pensiero costante era quello di ammazzarle tutte e due le mie figlie. Io volevo uccidermi, perché ero stufa della mia depressione e mi ero convinta che non sarei mai guarita e che la colpa era solo mia. Io volevo uccidere le mie figlie perché ero convinta che diventassero come me, se non addirittura peggio di me." L'episodio o meglio gli episodi auto ed eterodistruttivi messi in atto dalla donna appaiono chiaramente avvenuti in un contesto patologico psichico assai grave di tipo depressivo maggiore o endogeno, sostanzialmente connotato da perdita dello slancio vitale, apatia, abulia, insonnia, rifiuto dei cibi e significativa perdita di peso, isolamento, caduta di tutti gli interessi, perdita di piacere nelle consuete attività, pensieri ricorrenti di morte, desiderio della morte con ripetuti tentativi di suicidio, presenza di interpretazioni deliranti di colpa, di rovina e di indegnità e comportante evidente distacco dalla realtà, assenza di partecipazione emotivo-affettiva, assenza di critica, compulsioni auto ed eterodistruttive finalizzate a liberare se stessa e le figlie da una situazione psichica da Daiana ritenuta insostenibile, come epifenomeno di una vita costellata di disillusioni (vita affettiva ed erotico-sentimentale fallimentare) e di eventi stressanti (separazione dal marito, perdita del lavoro, decesso drammatico e improvviso di una carissima amica, perdita di molte frequentazioni) non di poco conto. Caso 12. Giovanna, anni 44, matricida
Giovanna è persona indagata per aver ucciso a coltellate la propria madre nel corso di un episodio psicotico acuto. Durante lo stesso, Giovanna si è procurata profonde ferite in tutto il corpo. Il fatto è avvenuto mentre Giovanna era ospite della propria madre. Ai carabinieri intervenuti, co-
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me si evince dal rapporto della polizia giudiziaria, la donna profferiva le seguenti parole: "Io sono con voi; tutti dovete venire con me negli inferi", nonché frasi sconnesse di cui non si capiva nulla. Durante il tragitto in ambulanza, la donna, rivolgendosi al medico, diceva: "Vieni con me nel mondo di Satana". Nei giorni immediatamente precedenti il fatto, Giovanna era depressa e confusa e le era stato consigliato un ricovero in psichiatria, ricovero non effettuato per il sopraggiungere dello scompenso di cui sopra. Giovanna stessa ebbe a dichiarare: "Sono andata dalla mia mamma due o tre giorni prima del fatto in quanto non stavo bene, mi sentivo mancare, avevo la testa ossessionata per qualcosa che sarebbe potuto succedere ... ". La sera del fatto "durante la cena sentivo delle voci, non so spiegarmi, anzi preciso una voce che mi ripeteva sempre le stesse cose e a ritmi differenti. Mi parlava di Satana, di Sodoma e Gomorra, mi diceva anche di uccidere ... Dopo che è successo, la voce interna continuava a guidarmi e mi diceva che dovevo sbattere la testa contro il muro per rompermi il collo ... mentre guardavo la televisione la voce dentro di me mi parlava di massoneria e diceva che era Satana ... è la stessa voce che mi ha guidato a prendere l'arma ... l'ultima cosa che ricordo è di essere entrata nella stanza della mia mamma e poi i ricordi si fanno confusi ... ". La donna ha avuto un'infanzia e un'adolescenza "difficili", definite come "il regime del terrore": i litigi fra i suoi genitori, spesso violenti e pantoclastici, erano all'ordine del giorno e non era infrequente che anche lei e le sorelle ne facessero le spese, ricevendo rimproveri e percosse per le ragioni più banali. Evidenti sono emersi i vissuti di inadeguatezza profonda nei confronti di un padre autoritario e anaffettivo e un rapporto molto conflittuale con la madre, descritta come una donna fredda e autoritaria, preoccupata più dalla vita mondana e dalle convenzioni sociali che dalle sue responsabilità familiari. Le sue relazioni sentimentali sono sempre esitate in fallimenti, compresa una storia matrimoniale realizzata con un uomo che ben presto si è rivelato freddo, insofferente nei suoi confronti e poco sensibile alle sue richieste affettive. Dopo la separazione, ha iniziato una nuova convivenza, anch'essa esitata rapidamente in un nuovo fallimento. Ha fatto dei lavori saltuari, poco o per niente gratificanti sotto tutti i profili. Da un secondo matrimonio è nato un figlio maschio, vivente e sano, a cui Giovanna è molto legata, ma che si è rivelato ben presto di cagionevole salute. Anche il secondo matrimonio è finito con una separazione. Tutti questi eventi hanno peggiorato uno stato depressivo di fondo. Da lungo tempo è in cura psichiatrica, ma le terapie si sono dimostrate sempre inadeguate, se non sbagliate. Dal momento in 75
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cui ha deciso di interrompere la terapia psichiatrica, che lei sentiva abbastanza inutile ed eccessiva, le sue angosce di fondo, le sue insicurezze, la sensazione di essere sempre in errore o colpevole e di non essere mai stata amata hanno continuato progressivamente ad aggravarsi. Nei momenti di maggiore angoscia, ha sperimentato transitorie amnesie e stati di vuoto mentale, sentendosi addirittura incapace di riconoscere il luogo dove si trovava e di dirigersi a casa. Nei giorni precedenti il fatto (circa dieci/quindici giorni prima) "stavo male e avevo molta angoscia addosso; avevo la testa vuota e avevo molta irrequietezza addosso. Non dormivo tutta la notte, non riuscivo a mettere insieme i pensieri. Da molti anni stavo in questo modo a fasi alterne. I pensieri sono sempre stati negativi, avevo paura di rimanere sola, mi sentivo in colpa, ho sempre avuto più pensieri pessimistici. Non ci sono mai stati periodi in cui stavo bene: mi facevo forza e tiravo avanti". Nella sostanza, Giovanna soffre da anni di un disturbo dell'umore ad andamento ciclico, pregresso nel tempo e gravemente trascurato sotto il profilo farmacologico. Tutta la sua storia di vita documenta come il disturbo sia iniziato sostanzialmente sotto forma di sindrome depressiva ricorrente, sia evoluto come alterazione di tipo monopolare del tono dell'umore e sia culminato in un episodio di tipo schizoaffettivo. Per quanto si riferisce al recente scompenso, insorto poco prima del fatto-reato e culminato nello stesso, la donna, infatti, è andata incontro a un episodio psicotico acuto o bouffée delirante acuta in cui alla componente depressiva si è intimamente intrecciata una componente schizofrenica (psicosi cicloide). Nell'immediato che precede l'uccisione della madre "il mio silenzio non era vuoto; ero in compagnia della voce, che mi ha parlato di cose ancor più catastrofiche: che sarebbe caduto il lampadario, in qualsiasi momento, avendomi prima detto di no, cose che sarebbero successe dopo anni e che per salvare la mamma mi sarei dovuta tagliare la mano ... ". Caso 13. Alessandra, anni 36, tentato omicidio
Alessandra è una donna che, per motivi di gelosia patologica, ha tentato di uccidere con una coltellata una sua dipendente sul posto di lavoro (tale Viviana). Per parte sua, Alessandra, subito dopo l'aggressione, ha dichiarato: "Ho aggredito Viviana per una specie di invidia professionale, in quanto la ritenevo più brava di me sul lavoro. Ritengo che la mia presenza fosse causa di insofferenza per Viviana; penso che le davo fastidio se venivo a lavorare': Alessandra, nel tempo precedente il reato che
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le è stato addebitato, è stata più volte ricoverata per disturbi deliranti. Si è descritta come da sempre diffidente e portata a sentirsi facilmente vittima delle situazioni. Il disturbo psicotico di cui Alessandra è portatrice fece il suo esordio "ufficiale" nel 1997, quando attraversò un periodo di forte stress, durante il quale fece ricorso alle cure di uno psichiatra a causa di sintomi depressivi, paranoidei e allucinatori sopraggiunti: "Improvvisamente non potevo più dormire la notte, ho perso peso, avevo paura di tutto e di tutti. Sentivo voci che mi dicevano delle cose cattive. Le sentivo ovunque, per strada, in casa, ma non erano mai voci dei miei cari. Stavo sempre a letto, non volevo incontrare nessuno, avevo paura che potessero dire qualcosa di cattivo. Non avevo più la forza di fare niente, nemmeno di lavarmi i capelli. Mi aiutava mia madre". Nella sostanza, la sintomatologia presentata consisteva in insonnia, irrequietezza, angoscia, allucinazioni, depressione, inappetenza, calo ponderale, idee di riferimento, tematiche paranoidee: "Leggevo delle notizie sui giornali e le rapportavo a me, erano riferite a me. Non avevo la sensazione di essere malata; piuttosto ero preoccupata che accusassero me o i miei di qualcosa e allora volevo scappare all'estero, affinché non ci prendessero': Da allora in poi viene segnalata la presenza, anche se non costante nel tempo, di idee deliranti persecutorie e di influenzamento, allucinazioni uditive, intuizioni deliranti, disturbi formali del pensiero, perdita dei confini con periodi di grave insonnia e angoscia panica, appiattimento progressivo dell'affettività, convincimento di una progressiva invasione persecutoria dei propri spazi interni, non tutelati neppure dal marito, assenza di consapevolezza di malattia (quest'ultimo elemento emerge sia dalle dichiarazioni della perizianda, sia dalla lettura delle cartelle cliniche). Qualche tempo dopo, Alessandra accusò nuovamente sbalzi di umore, alternando momenti di serenità a momenti in cui comparivano tematiche di riferimento: "Vedevo le persone per strada che parlavano e pensavo parlassero male di me". Iniziarono le difficoltà di rapporto con Viviana: "In quel periodo lì Viviana parlava male di me davanti alla gente. Io non l'ho mai sentita, però ero convinta di quello perché era una persona che sparlava di tutti. Lo dicevo a mio marito, ma lui mi diceva: 'Figurati!'. Ne avevo anche parlato con lei, ma lei negava e questo per me era una conferma del fatto che avevo ragione io". Nel marzo di quell'anno Alessandra tentò di darsi fuoco con della benzina, da lei stessa acquistata, con cui cosparse l'abitazione e se stessa. Alla base di questo episodio Alessandra individuò un vissuto di ab77
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bandono e solitudine: "In quel periodo mio marito si interessava poco a me e quando gli parlavo dei contrasti con Viviana non mi credeva. Io volevo che lui mi credesse e che mi stesse vicino". A suo dire, dunque, si sarebbe trattato di un gesto dimostrativo. Questa sua spiegazione in parte contrasta con quanto risulta dalla lettura della documentazione clinica relativa al primo ricovero nel servizio psichiatrico di ... , presso il quale appunto subì il TSO, e della cartella clinica ivi compilata in cui il tentativo di suicidio viene riferito a tematiche deliranti persecutorie e ad allucinazioni uditive. In effetti, dal momento in cui prese a lavorare nell'ufficio in cui è avvenuto il reato, "si sentiva depressa, non compresa dal marito, perseguitata dai vicini di casa e nell'ambiente di lavoro da tutto e da tutti senza nessun motivo reale". Era reattiva, insofferente e aggressiva verso colleghi e clienti, arrivando a insultarli senza ragioni apparenti; nel tempo si andò progressivamente sviluppando e organizzando una tematica persecutoria delirante contro Viviana, non motivata da alcun atteggiamento o comportamento che giustificasse l'ideazione di Alessandra. Una settimana prima del fatto, ricomparvero le tematiche di riferimento e il vissuto di essere perseguitata da Viviana: "Anche tra gli altri colleghi e tra i clienti avevo individuato una serie di nemici e Viviana l'ha pagata per tutti". Dalle testimonianze raccolte risulta che, prima del fatto, la donna era "nervosa e assorta nei suoi pensieri ... aveva un'aria minacciosa ... ". "Quel giorno mi sono detta: 'Adesso la faccio finita'. Volevo darle una lezione, farle capire di smetterla. Sentivo una voce che dentro di me mi diceva: 'Vai e falla finita, così non ci pensi più' ... Viviana mi ha accolta con una battutaccia e io mi sono detta: 'Adesso basta, la faccio finita'." Al momento del fatto, tutte le descrizioni rese dai testimoni danno atto di un comportamento determinato, finalizzato e non motivato da atteggiamenti o comportamenti reali oggettivi della vittima che giustificassero l'improvviso, repentino e imprevedibile passaggio all'atto; dopo il fatto, nel rapporto dei carabinieri si dà atto di un comportamento inadeguato, preceduto da frasi del tipo: "Adesso è finita, così sono a posto, mi sono sentita liberata". La donna viene ricoverata in regime di custodia cautelare in luogo di cura presso un servizio psichiatrico di diagnosi e cura con diagnosi di episodio psicotico acuto. In particolare nel diario clinico ricorrono annotazioni di distacco emotivo, assenza di rimorso, freddezza, apparente disponibilità, vissuti persecutori nei confronti della collega aggredita e del marito. L'acting-out è da intendersi come atto scompensato nel caso di una psicosi paranoide a evoluzione cronica.
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Caso 14. Olga, anni 47, tentato uxoricidio
Olga, più volte ricoverata in reparti psichiatrici per un disturbo schizoaffettivo, ha tentato di uccidere per gelosia con una coltellata il proprio marito, avendolo improvvisamente e senza motivo apparente colpito alla schiena con un coltello da cucina. Il fatto è avvenuto all'interno dell'abitazione dei coniugi. Al momento dell'arresto, la donna "si presentava in evidente stato confusionale': La sera del fatto, racconterà il marito, "mia moglie è scesa in cucina e ho notato che parlava con molta difficoltà, articolava male le parole e sembrava mezza addormentata ... Poi mia moglie iniziò a rinfacciarmi le solite accuse di essere mafioso, aggiungendo che io non le avrei mai lasciato la casa di ... , ma che aspettavo la sua morte per godermi la vita con la mia 'bella bionda' (alludendo sempre alla donna sposata con la quale mi attribuisce una relazione in realtà inesistente), aggiungendo che in realtà la vicenda della separazione era tutta un bluff organizzato da me, perché la procedura non si sarebbe mai conclusa, perché io, attraverso i miei amici, avrei bloccato tutto[ ... ]. Ho cercato più volte di tranquillizzarla [ ... ] ma lei sempre pacatamente continuava a dirmi che non si sbagliava e che io volevo portarla al suicidio [... ]. Durante la serata mia moglie per tre volte (aiutata da me, perché barcollava sulle scale) è salita in camera da letto per andare a dormire. L'ultima volta mi apprestai ad andare a sedermi nuovamente sul divano [ ... ]. Mia moglie, che nel frattempo era scesa nuovamente dalla camera da letto, fece pochi passi e io udii che apriva un cassetto della credenza [ ... ]. Mi sentii colpire alla schiena in modo violentissimo. Mi voltai e vidi mia moglie che aveva ancora il braccio sollevato e impugnava per il manico, con la mano destra, un coltello da cucina molto robusto e affilato". Nel corso degli accertamenti peritali, Olga ha immediatamente esternato nei confronti del marito spunti interpretativi: "Lui metteva pochi soldi in casa e se li teneva per lui, perché si sentiva messo in secondo piano dal nostro bambino, di cui era geloso"; "Lui non è andato in pensione perché aveva paura che io volessi farlo fuori dal lavoro e lasciarlo solo a casa in pensione"; "Lui ha recitato una parte, fino a quando gli ha fatto comodo, poi è cambiato. Ha mancato alla promessa di trasferire l'agenzia in un negozio che aveva ereditato e che, per la sua posizione commercialmente favorevole, ne avrebbe favorito un ulteriore sviluppo. Ha mancato soprattutto nei confronti di suo figlio ... Quando non servivo più me ne ha fatte di tutti i colori ... Già dopo il primo ricovero ha cercato di farmele buone, perché gli faceva comodo; dal secondo ricovero
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in poi mi ha continuamente istigata, stressata, maltrattata, mi toglieva la roba, mi picchiava, mi nascondeva i documenti e poi mi diceva: 'Vedi che sei malata, non ricordi dove metti le cose!' ... Ho avuto incidenti con due auto diverse e non voglio dire che lui le abbia manomesse, perché sarei paranoica, però ... Lui voleva farmi togliere la patente e mi ha preso la carta di credito ... Lui vuole rinchiudermi in manicomio per tutta la vita ... Mi sono accorta che aveva un'amante quando ho visto nel mio cassetto dei collant di una marca diversa dalla mia. Evidentemente li ha messi una donna: sono sicura! Spesso mio marito prelevava dei soldi e non mi dava le ricevute di quello che pagava ... prendeva dei soldi dinascosto ... C'è qualcuno che lo monta dietro, perché lui non è cattivo ... Mio marito è un artista: si presenta benissimo, ne ha inventate di stranissime per farmi ricoverare ... ha sempre cercato di farmi apparire malata di mente ... è lui che mi ha fatto stare male e mi fa passare per matta; ha incominciato a ricoverarmi dicendo cose non vere". Gli spunti interpretativi si estendono anche ai familiari ("Mio cognato era geloso del buon rapporto che io avevo con i miei suoceri, perché aveva paura che io arraffassi"), al personale di assistenza e ai sanitari che in tutti questi anni l'hanno curata e l'hanno assiduamente seguita. La componente delirante emerge chiaramente dal fatto che nell'esporre i diversi episodi di cui, con assoluta convinzione, si è descritta vittima innocente, Olga si è dispersa in particolari che per lei assumono precisi significati nel senso del riferimento, della persecuzione e del nocumento. Non ha mai ammesso il significato patologico della sua tematica persecutoria, ha costantemente addebitato al marito la sua "malattia" che ella ha aggettivato come "depressione, esaurimento, disturbo causato dall' ambiente': Ha reagito in maniera aggressiva alla parola "paranoia" e ha esplicitamente rifiutato ogni possibilità di lettura in chiave patologica psichica di molti suoi comportamenti e disturbi del passato: "Io ero certamente un po' esaurita, ma non malata''. Ha costantemente dissimulato e minimizzato i temi deliranti, ogni qual volta si è resa conto che l'attenzione dei periti aumentava. Ha mantenuto, anche se mascherata da un'ipersocievolezza di maniera, un atteggiamento di sostanziale diffidenza verso i periti e nei confronti dell'ambiente, convinta come è del fatto che una diagnosi di malattia mentale coronerebbe definitivamente il progetto perverso del marito che "mi vuole rinchiudere in manicomio per sempre". Oltre alla componente delirante paranoide ormai cronicizzata e non suscettibile di sostanziali miglioramenti, come attestato dal decorso della malattia e dai contenuti dell'ultimo incontro avuto con la perizianda, è presente anche una componente depressiva che colorisce il quadro senza
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determinarlo, nel senso che si tratta soprattutto di una componente depressiva reattiva. In altre parole, la depressione presente nella perizianda è strettamente correlata al suo delirio di persecuzione, di gelosia e di veneficio nei confronti del marito ed è la conseguenza del fatto che la donna, non avendo consapevolezza di malattia e credendosi nel giusto, proietta le colpe e le responsabilità sugli altri ("Non sono io che sono malata, ma sono gli altri che mi fanno stare male, in primis mio marito") e allarga l'alone interpretativo su tutti coloro che, a suo dire, non solo non la comprendono, ma addirittura la considerano e la trattano come una malata. La labilità e la ricca partecipazione emotiva con la correlata componente depressiva che accompagna le tematiche deliranti non è controllabile dalla paziente che, anche se minimamente sollecitata, immediatamente si scompensa sul versante emotivo e comportamentale. Questo stile si è riproposto anche nella narrazione del fatto per cui si procede, in riferimento al quale, fin nel primo incontro, la donna ha attribuito ogni responsabilità al marito: "Mi ha provocata ... ha preso un coltello e me lo ha messo qua ... se voglio ti faccio sparire e nessuno ti cerca ... Nella colluttazione ho preso il coltello e gliel'ho piantato nella schiena ... È stata la disperazione e la paura ... Già altre volte mi aveva minacciata di morte; quella volta lì mi è presa più paura del solito e allora gli ho dato una coltellata, lui mi ha sbattuto fuori, ha chiuso casa e poi se ne è andato via a piedi, dopo aver parlato con uno che non so chi sia ... ". Il suo passaggio all'atto è strettamente legato alla tematica delirante persecutoria, in forza della quale Olga è convinta di essere destinataria della distruttività del marito, e si colloca all'apice di un'escalation delirante di accuse contro il coniuge. È esploso all'improvviso, senza alcuna sollecitazione apparente da parte dell'uomo; si è accompagnato a una compromissione dello stato di coscienza di tipo onirico ("Mi sentivo come in ipnosi", dichiara Olga; "Mia moglie parlava con difficoltà, articolava male le parole e sembrava mezza addormentata': riferisce il marito). Caso 15. Enrico, anni 66, uxoricida
Enrico, in un momento di acuzie psicopatologica, ha ucciso la moglie, dopodiché ha chiamato lui stesso i carabinieri e ha aperto loro la porta della sua abitazione. Gli intervenuti si sono trovati di fronte a un individuo dall'apparente età di circa sessant'anni, che vestiva un T-shirt dicolore bianco e un paio di pantaloni del pigiama di colore blu avio, quasi completamente macchiati e intrisi di liquido ematico. Sul volto e sugli arti presentava altresì vistosi graffi e tracce di liquido ematico. Alle prime 81
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domande rivoltegli, Enrico non forniva risposte, ma si presentava (come emerge dal rapporto della polizia giudiziaria) "in un totale stato di agitazione psicomotoria in quanto non profferiva alcunché, limitandosi a tremare e a barcollare vistosamente". Nella camera da letto dell'abitazione veniva rinvenuto il corpo ormai privo di vita della moglie di Enrico. Risulta che da molti anni Enrico soffre di disturbi depressivi maggiori aventi negativa incidenza sulle sue preesistenti abilità sociali, comportanti una chiusura ingravescente nei confronti dell'ambiente e dei familiari, sia pure mascherata e dissimulata da un apparente, conservato contatto con la realtà e con il mondo, e per i quali è in cura ed è stato più volte ricoverato in strutture sanitarie per malattie mentali. "Era da un po' di tempo che non stavo bene. Non dormivo, avevo pensieri su tutto ... pensieri brutti, di rovina ... il futuro era nero ... Ci ero ricascato, non avevo più voglia di vedere gente, di parlare; ero convinto che andasse tutto male. Non riuscivo più a fare niente, parlavo poco anche con mia moglie, qualche parola tirata fuori a fatica ... La notte i pensieri erano tormentosi e non mi facevano dormire ... I soldi erano diventati un problema, mi facevo problemi per tutto ... " La principale tematica delirante riguarda la moglie: "Ero convinto che andasse tutto male ... non ero più in grado di aiutarla ... non volevo più che lei soffrisse per colpa mia ... Non ho sentito il dispiacere per le sofferenze che lei aveva avuto per la sua malattia, ma quelle che aveva avuto e avrebbe in futuro avuto per la mia depressione ... Lei soffriva per colpa mia, perché io non ero più io, non mangiavo più, non parlavo più, non facevo più niente ... Lei mi è sempre stata vicino, non mi ha mai rimproverato per questo, ma io ero convinto che lei stesse male per colpa mia ... era un po' che lo pensavo e non vedevo vie di uscita ... ''. In questo percorso psicopatologico si fa progressivamente strada nella mente dell'uomo l'idea della morte, unica via di uscita da una situazione per lui divenuta insostenibile e tradottasi in un repentino, drammatico passaggio all'atto, di cui egli continua a chiedersi le motivazioni profonde: "Mai avevo pensato di uccidere lei ... perché, perché l'ho fatto? Ho perso tutto, lei non c'è più". Tutti i testimoni sono concordi nel descrivere un profondo, eccessivo legame tra il periziando e la consorte. Tutti concordemente negano l'esistenza di conflitti o di contrasti tra i due, a qualsiasi titolo intesi. Del passaggio all'atto l'uomo inizialmente serba pochi e sommari ricordi; poi cerca di ricostruirlo, mantenendo però lacune e sconnessioni spazio-temporali che ben documentano il disturbo dello stato di coscienza presente al momento dell'atto e, anche se in misura minore, durante tutto il periodo della nostra osservazione.
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La rivisitazione che il periziando fa nei primi tempi del suo passaggio all'atto è intrisa di vissuti di colpa, indegnità e dannazione ("Se i miei figli non venissero più a trovarmi, sarebbe la giusta punizione che merito"; "Se davo ascolto ai miei figli, sarei venuto qui prima e non sarebbe successo nulla"; "Sono stato un bugiardo e ho minimizzato anche con lo psichiatra"). Perduti sono lo slancio vitale e gli interessi. Il soggetto è nettamente ripiegato su se stesso e sulla propria sofferenza, con tendenza a chiudersi in un mondo autistico, vuoto e desolato. Enrico appare fortemente immerso nei propri pensieri di rovina e di morte, bloccato in un presente senza speranza e senza vie di uscita. Egli dunque nell'uccidere la propria compagna compie un estremo atto d'amore, avendo soppresso la persona da lui più amata, non odiata o temuta (come nel caso dello psicotico paranoide che passa all'atto quando è "convinto" di avere finalmente individuato i suoi persecutori). Evidente emerge il suo scopo di risparmiare alla moglie una vita di patimenti e di proteggerla - con la morte - da un futuro di angustie, di sofferenze e di infelicità, di cui il malato si sente responsabile o che è convinto incomba su di lui senza possibilità di soluzioni "altre" (delirio di colpa e di rovina). Caso 16. Roberto, anni 17, omicida
La particolare complessità clinica di questo caso è legata al fatto che si tratta di un ragazzo in età evolutiva. Pertanto è difficile, se non addirittura scorretto, addivenire a un inquadramento clinico che non sia altro che provvisorio, perché uno definitivo potrebbe cristallizzarlo in una nicchia alfanumerica, quando si sa che nell'adolescenza i giochi non sono ancora compiuti e numerosi cambiamenti funzionali possono ancora verificarsi. In Roberto, però, alcuni tratti patologici di personalità erano ben evidenti e ben documentati sia in anamnesi sia nel corso della protratta osservazione multicentrica e pluriprofessionale condotta in occasione dell'accertamento peritale disposto dalla magistratura minorile. D'altro canto, al di fuori del loro significato patologico psichico, in Roberto sono presenti alcune tematiche molto comuni a tanti adolescenti, per cui mi pare opportuno presentare la sua storia clinica e forense in maniera estesa e particolareggiata, omettendo sintesi che la priverebbero del suo drammatico significato. Roberto è un minorenne indagato per il reato di omicidio "perché, utilizzando un coltello, recideva il collo della minore Maddalena, attingendola quindi con piena consapevolezza e premeditata violenza in una zona vitale e cagionandone quindi la morte". Ha poi colpito la ragazza a
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terra con calci al volto e al corpo, dopodiché si è allontanato "tranquillo" dal posto, per colpire poco dopo con un pugno una vetrina contenente un estintore, ferendosi alla mano sinistra. L'indagine anamnestica volta a valutare la presenza del tipo di struttura di personalità, se patologica o meno, ha messo in rilievo alcuni dati significativi: la presenza di una madre gelosa, possessiva e fusionale con cui egli si identifica anche per alcuni tratti del carattere (romantico e sognatore); un'infanzia apparentemente tranquilla in cui però compaiono desideri e tratti bizzarri; la preferenza per i colori scuri, per il nero che "dà più pace, è più reale e più vero"; la lettura quasi esclusiva di libri horror o di serial killer e la visione di film dell'orrore, la preferenza per eroi come Rambo o Schwarzenegger oltre a Cirano; ma anche accesi desideri e curiosità per le magie e i clown, come se vi fosse già il desiderio di mascherarsi o di affrontare la realtà con il supporto dell'intervento magico. Anche la scelta della scuola superiore è stata fatta perché gli interessa la psicologia e il funzionamento della mente come mezzo per ottenere controllo e potere sui pensieri. La vita sociale è solo in parte vita col gruppo, con amici coi quali "sappiamo tutto di tutti ... facciamo insieme qualche cazzata, ma con attenzione a non farci prendere, almeno me non mi hanno mai preso". Sembra e si presenta come un ragazzo già con una chiara identità, ma di fatto è alla ricerca di sé. Dice che prima del 2000, anno "fantastico" perché ha capito tante cose, era "confuso su tutto, religione, sessualità, edentro si sentiva una parte cattiva". Per cattiva intende "diversa", e poi confusamente afferma che è cambiato, che adesso" è cattivo per gli altri" ... lui si sente comunque diverso: "È venuto fuori quel che sono veramente io. Mi sono ritrovato che quel che ero era più affine alla parte cattiva, che vuol dire vero, sincero, disponibile, pieno di amore e sentimenti, che va contro la società e l'ipocrisia. Gli altri sono tutti robotini ubbidienti ... Falsità, mancanza di sentimenti ... La religione è un'assurdità, non siamo bigotti a casa; se sbaglio pago io, non chiedo perdono a Dio, non è da uomo ... Non mi perdonerà mai nessuno, solo io". In questo passaggio confuso e a tratti delirante c'è il tentativo di porsi al di sopra di tutto, in una specie di visione da superuomo (gli piace anche Nietzsche) dove la cattiveria, mal definita, strana entità per lui, diviene forza positiva che lo regge nel progetto di vita da quel 2000 in avanti. Si accorge della presenza di Maddalena, compagna di classe che prima gli era passata inosservata. Ma la cosa che lo colpisce di lei è "il sedere", tratto sessuale, fisico, avulso da ogni riferimento affettivo al carattere e ai tratti emotivi di lei, e lui le si presenta come fosse uomo già vissuto: 84
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"Maddalena non aveva alcuna esperienza, nemmeno un bacio. Lei sapeva che io ero un maiale ... Non mi interessava, ma ero sicuro di farmela ... Non ha mai avuto un rapporto completo, lei aveva paura di restare incinta". Con un'altra ragazza non gli sarebbe interessato niente, "ma se sbagliavo con Maddalena, sì". L'atteggiamento da uomo sicuro viene meno, almeno in parte, e Roberto oscilla tra il manifestarsi come l'uomo duro, che disprezza le donne che sono solo oggetto di desiderio, e il ragazzo che può provare sentimenti. Nega comunque che l'innamoramento possa creargli dipendenza, ansia del rifiuto, insicurezza: "Non mi sento mai insicuro ... sono sicuro di me, orgoglioso". Di fatto ogni emozione di dipendenza affettiva presente normalmente nell'innamoramento viene negata. Deve essere velocemente recuperata un'immagine di sé onnipotente, indistruttibile, narcisisticamente inattaccabile. Quando c'erano crisi era sempre lui che "la lasciava". Del resto era certo che lei sarebbe ritornata da lui con la coda tra le gambe, perché "qualcun altro con me non poteva certo competere". "Per Maddalena io ero perfetto" dice con ostentazione e orgoglio. "E quando la lasciava cosa provava?" Nega di aver provato dei sentimenti di vuoto. Non sa riconoscere se provava rabbia, comunque "non me la prendevo mai con me stesso, sapevo che avevo fatto la cosa giusta". Mal' organizzazione narcisistica si incrina sotto la spinta di un desiderio negato o riconosciuto a fatica. "Poi non resistevo per più di qualche giorno ... e la chiamavo anche dalle vacanze e lei non mi cagava." E lui si trova distrutto, ma poi tutto torna a posto dentro di lui stando con gli amici. Ma, tornando insieme dopo le continue liti, lui si premunisce dal sentirsi quello sconfitto e dipendente da lei. A letto comunque non sembra che fossero in due.C'era lui allo specchio, lui che si piace tantissimo, in tutto, fisicamente, "il viso, il sorriso, l'uccello soprattutto". Anche il farsi del male, "tagliarsi sulle braccia o sullo stomaco era bello, a parte l'aspetto estetico, è un dolore piacevole", e aveva cominciato a quindici anni, in prima superiore, con un amico. Si presenta quindi come se avesse la convinzione di essere il migliore in assoluto, padrone della situazione e sicuro di sé e di quel che faceva. È vero che vi è qualche tentennamento e che a domande dirette sembra che venga recuperato in parte un esame di realtà, ma immediatamente ritorna nella sua sfera narcisistica incrollabile. Alla domanda specifica: "Non pensi che questa sicurezza sia eccessiva?", la risposta è: "Non ho mai pensato di essere il migliore [recupero di un senso di realtà], ma non ho mai pensato al concetto di uguaglianza [ritorno al regime narcisistico]". 85
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E oggi cosa pensa di sé? "Oggi non sono cambiato ... Dentro non mi piaccio perché ho sbagliato, mi sono fatto prendere da orgoglio e gelosia. Non sono stato un uomo." Ciò che è in discussione non è dunque l'etica del fatto, ma semplicemente la colpa di non essersi comportato da uomo, non la colpa di avere infierito contro un'altra persona. Non vi sono Altri nelle sue relazioni: esiste solo lui e il suo ideale narcisistico e onnipotente da realizzare. La colpa sta nel non averlo realizzato e in nient'altro. Alla domanda su come vede il proprio futuro, dopo averci parlato soprattutto del suo passato, riprende il tema del desiderio infantile di diventare scrittore, soprattutto di horror e fantasy, di occuparsi di psicologia, filosofia, lettere. Racconta di un libro che gli piaceva molto in cui alcuni "eletti" (come in fondo si sente lui) dovevano proteggere un albero dalle forze del male. Il suo modo di narrare comunque è piatto emotivamente, descrive una serie di fatti e di azioni senza introdurre aspetti motivazionali o emotivi nella vicenda, che diventa pura azione di realizzazione di un progetto tanto fantasioso quanto grandioso. Nel racconto dell'omicidio commesso ciò che ancora una volta appare è che il protagonista è lui, lui che vede il sangue, ma senza la persona che perde sangue, e che dopo il fatto diviene l'oggetto delle attenzioni altrui. Non c'è preoccupazione per cosa sia successo a Maddalena, che scompare dalla scena nelle sue descrizioni. Alla domanda su cosa provasse, risponde che non provava niente (quindi non appaiono emozioni): "Non pensavo, non avevo emozioni ... ero confuso': Cosa significava per lui perdere Maddalena? Non riesce a descrivere la paura di perderla. Maddalena nel suo racconto diventa un misto di sogno e realtà; è la ragazza che lui si sognava dovesse esistere, ma che poi non ha corrisposto ai suoi ideali. Comunque ritiene "che così Maddalena è dentro di me, sarà sempre mia". Quando le cose non andavano bene Maddalena "mi infastidiva" (non dice "mi feriva" perché di fatto lui si sentiva inattaccabile). Alla domanda sul perché si tagliava volontariamente sulle braccia, prima accetta la spiegazione che gli diamo che forse non è un dolore ma uno sfogo, poi però, alla domanda diretta se lo faceva per sentirsi più forte, dice chiaramente e senza esitazione di sì. Anche la preoccupazione di avere il controllo sulla parola è eccessiva, e lui riconosce di avere perso il controllo "perché le paure hanno parole che sono più forti di te". La parola per lui non è il mezzo per trasformare vissuti, emozioni, in rappresentazioni condivisibili e trasmissibili, non è la parola al servizio dell'Io in un processo di secondarizzazione, non è utilizzabile per scoprire i punti di vista dell'altro, è solo un mezzo
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magico che dà potere e che deve essere posseduto dal vero uomo-magoonnipotente. L'insieme dei dati clinici orienta, senza riserva alcuna, verso la presenza nel giovane periziando di seri disturbi psicopatologici. Appare chiara la presenza di un grave disturbo della personalità insorto nell'infanzia e progredito nell'adolescenza, nel senso proprio di modalità di comportamenti di significato clinico, che tendono a essere persistenti e sono l' espressione di uno stile di vita e di un modo di porsi in relazione con sé e con gli altri caratteristici dell'individuo. Il disturbo in questione può identificarsi, da un punto di vista squisitamente nosografico clinico, in un disturbo di personalità con funzionamento narcisistico schizoide, a causa della freddezza emozionale e dell'affettività appiattita, della limitata capacità di esprimere calore, sentimenti teneri nei confronti degli altri, dell'apparente indifferenza agli apprezzamenti e alle critiche, della mancanza di amicizie personali strette e di relazioni confidenziali, della presenza di una certa indifferenza nei confronti delle norme sociali e di un costante interesse per la propria immagine e la propria persona trascurando l'esistenza e il punto di vista degli altri, per una tendenza alla proiezione all'esterno dei sensi di colpa e delle responsabilità, per una scarsa tollerabilità a frustrazioni che mettono in discussione la sua persona. A livello psicodinamico, appare chiara la patogenesi: il disturbo narcisistico si è venuto strutturando in un Io debole, che ha preferito costruire un falso Sé onnipotente e megalomanico, soprattutto a causa della relazione con una madre vissuta come inglobante e fusionale. A livello
strutturale, l'organizzazione di personalità presenta evidenti nuclei psicotici, coperti da difese narcisistiche e ossessive tanto rigide quanto fragili. Sono aspetti caratteristici di questa organizzazione patologica di personalità: la diffusività dell'Io che è privo di una chiara identità (si veda la confusione tra la parte buona e la parte cattiva); il ricorso a meccanismi di difesa di tipo prevalentemente arcaico (negazione, scissione, idealizzazione, svalorizzazione, onnipotenza); l'assenza di capacità empatiche e relazionali, con uso strumentale dell'Altro, per lui "oggetto" indifferenziato, che egli utilizza solo per ricevere gli indispensabili rinforzi narcisistici di cui ha estremo bisogno per non precipitare nella psicosi; la distorsione della realtà che viene costantemente vista in un'ottica di persecutorietà e di onnipotenza megalomanica difensive; una corazza difensiva caratterizzata da ipercontrollo e freddezza, sotto la quale si cela una notevole labilità e impulsività. Con riferimento al fatto per cui si procede è fondamentale tenere presente che la relazione con Maddalena in un primo tempo è stata gratifi87
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cante a livello narcisistico e pertanto ha rinforzato le difese di Roberto. Ben presto però sono subentrate fantasie angoscianti di perdita che Roberto ha vissuto come presagi di abbandono ("Fin dall'inizio mi sono detto che con Maddalena sarebbe finita male, che prima o poi mi avrebbe lasciato"): paure che lo hanno portato a vivere un'estate tormentata e che hanno preso sempre più corpo da metà gennaio in poi, quando "non ci siamo più sentiti". Ciò ha causato in lui una ferita narcisistica insanabile che ha messo in crisi il Sé di fatto già debole, l'idea di essere un dio oggetto di attenzioni da parte di una dea, Maddalena, e ha destabilizzato le difese onnipotenti e megalomaniche. La rottura di queste difese ha consentito l'emergere del funzionamento psicotico, legato a vissuti chiaramente persecutori nei confronti di un "oggetto" che da "buono" si è trasformato in "cattivo", in quanto non più gratificante (''Era diventata ipocrita, falsa, burattina e sciocca negli ultimi tempi; avevo molta rabbia, la odiavo perché mi aveva ferito, non mi aveva considerato. Ero convinto che con lei fosse finita e mentivo anche a me stesso, mi dicevo che stavo meglio da solo. Ero arrabbiato con lei perché io le avevo dato tanto e lei mi aveva tradito"). Il vissuto di impotenza è particolarmente evidente il mattino del fatto, quando Roberto, attraverso le parole che dice a Maddalena prima di aggredirla, rivela chiaramente la sensazione di trovarsi in una situazione di scacco esistenziale ("Volevo finirla con le paure. Ma cosa potevo fare? Non c'era niente che potevo fare. Avevo un forte senso di impotenza, ero senza controllo. Il suo comportamento in classe prima dell'intervallo mi stava infastidendo. Le ho detto: 'Piantala di fare la scema, se no finisce male"'). L'episodio cruciale è caratterizzato dalla presenza di uno stato di coscienza alterato di tipo onirico, che prosegue anche dopo il fatto. A livello psicodinamico uccidere Maddalena non era veramente ucciderla, ma portarla con sé definitivamente sottraendola alla possibilità di autonomia decisionale, allo statuto di "persona", e sottraendosi lui stesso alla possibilità, presente e futura, di rifiuto e, quindi, di ferita narcisistica. Non esiste alcun ripensamento critico nei confronti del fatto per cui si procede, se non a livello di semplice presa d'atto cognitiva. Non esiste un autentico senso di colpa, quanto piuttosto il vissuto di scacco narcisistico: "Se mi fossi liberato prima delle paure che mi hanno dominato, avrei salvato Maddalena". Questo, in sintesi, è quanto egli non si perdona. Tuttora è presente in lui la paura che Maddalena lo possa tradire, la vive ancora presente e fusa in lui: si tratta pertanto di un'elaborazione del lutto in chiave psicotica. Egli è chiuso in questa tematica delirante, anche se esprime il timore che Maddalena non lo abbia ancora perdonato e dà chiaramente a inten-
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dere che solo il suo perdono lo interessa: in questo modo egli potrebbe recuperare la sua onnipotenza narcisistica. Se giungerà alla conclusione che Maddalena non lo ha perdonato egli ha pronta la soluzione finale: vale a dire la propria morte, espressione ultima di autoaffermazione narcisistica ("Non mi importa del perdono degli altri; quello che conta è la mia giustizia interna"). Questa tendenza autistica comporta inoltre il fatto che egli non provi sentimenti di dispiacere e di dolore, che non provi nessuna empatia per la famiglia, che si limiti a prendere atto delle preoccupazioni che gli altri nutrono nei suoi confronti, che non abbia consapevolezza della sua condizione penale di omicida, che sia convinto di una rapida soluzione giudiziaria.
Caso 17. Annamaria, anni 31, figlicida Questo caso di "discontrollo omicida" (così definito dai giudici) ha avuto grande risonanza nelle cronache nazionali e internazionali di qualche anno fa, sia per come è stato gestito dai mass media sia per il controverso interesse clinico e psichiatrico forense che ha appassionato non solo consulenti e periti nominati dai tribunali, ma anche colleghi che indirettamente se ne sono occupati o sono stati interessati a vario titolo. L'insolita attenzione mediatica a esso riservato (vedi sentenza della Corte di cassazione numero 900 del 2008) è stata "in larga parte ricercata, propiziata e utilizzata dalla stessa interessata" e "non si è mai risolta in decremento della facoltà difensiva della F., ma, piuttosto, nel senso contrario". Annamaria è una donna di trentuno anni, giudicata in tre gradi di giudizio come la responsabile dell'uccisione del proprio figlio Samuele "perché, colpendolo alla testa con numerosi e ripetuti colpi, ne cagionava la morte. Con l'aggravante di aver commesso il fatto in danno del figlio di anni tre" (sentenza emessa in data 19 luglio 2004 dal GUP presso il tribunale di Aosta; ripresa dalla prima sezione della Corte di assise di appello del tribunale di Torino in data 27 aprile 2007; confermata dalla prima sezione penale della Corte di cassazione, con sentenza numero 900 del 21 maggio 2008 con condanne che variano da trenta a sedici anni, ridotti infine a sedici anni di detenzione, ulteriormente ridotti a tredici con l'indulto). Di questo complesso iter giudiziario mi limito semplicemente a riassumere i fatti, per summa capita, facendo fondamentale riferimento all'articolatissima sentenza della Corte di assise di appello di Torino. 89
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Le complessive risultanze, unitariamente considerate, portano a ritenere che il fatto sia stato commesso dall'imputata nell'arco temporale fra l'uscita di D. - al massimo le ore 8:10 - e l'uscita della medesima alle ore 8: 17-8: 18. Tale arco temporale - a differenza di un aggressore esterno era sufficiente per commettere il delitto e, poi, per prepararsi e uscire per raggiungere D. (il figlio primogenito), in quanto la F. era già in casa, in pigiama e zoccoli, e, quindi, detratto il tempo per l'esecuzione materiale (meno di un minuto, come si dirà in prosieguo), il tempo residuo era congruo per lavarsi sommariamente (forse, anche i piedi), e vestirsi, tenuto conto della rapida capacità di ricomposizione dell'imputata rispetto a momenti di perturbamento, con ripresa del funzionamento di base e della capacità riorganizzativa, quale riconosciuta concordemente dagli psichiatri. È probabile che l'imputata, sentito S. piangere, avesse rimesso in tutta fretta la casacca per non fargli capire che stava per uscire (fretta attestata dal fatto che aveva rindossato la casacca al rovescio e con la parte anteriore sul dietro, come capita, appunto, se, nel mentre si toglie tale indumento, rovesciandolo - come era solita fare l'imputata - lo si rimette senza perder tempo a riportarlo al diritto) e che, con moto di verosimile rabbia, fosse scesa di corsa a mettere il figlio nel letto matrimoniale, coprendolo con il piumone e intimandogli di stare a letto. S., verosimilmente spaventato dall'atteggiamento inconsueto della madre, non si era affatto tranquillizzato, anzi, aveva persistito nel piangere o nel volersi alzare anche lui per andare all'asilo, di talché la madre - persa la propria capacità di autocontrollo - aveva iniziato a colpirlo al capo con un oggetto a immediata disposizione o portato sotto. Nella fretta S. non si era mosso, aveva soltanto cercato di difendersi, coprendosi con la mano sinistra e lei lo aveva colpito, prima, stando in piedi a lato del letto, poi, salendo sul letto e mettendosi in ginocchio sul piumone. Scesa dal letto, aveva indossato gli zoccoli sino all'uscita della camera, perché le suole avevano anche tracce espanse da calpestio, poi verosimilmente li aveva tolti, in quanto il pavimento fra la stanza da letto e il bagno non presentava tracce ematiche, nemmeno latenti. Si era verosimilmente lavata le mani e, poi, si era tolta pantaloni e casacca del pigiama, quest'ultima, non già rovesciandola, come era solita fare, in quanto in tal caso l'indumento sarebbe tornato al diritto, ma sfilandola dal collo in modo che restasse al rovescio (operazione facilitata dalle maniche e dal collo larghi: tale modalità denotava, quindi, che era stato un atto non automatico, ma compiuto in perfetta lucidità, al fine di non far risultare un ulteriore indossamento dell'indumento. Si era forse lavata anche i piedi, data la preoccupazione dimostrata nel mettersi un paio di calze pulite, poi si era vestita con la biancheria e i vestiti del giorno prima, lasciando i calzini, già usati, a terra vicino al comò; era salita scalza per le scale, come si poteva desumere dall'assenza di tracce di calpestio: complesso di comportamenti che denotava piena ripresa di lucidità. Al ritorno a casa, nei tre minuti o più, intercorsi fra il rientro e l'inizio delle telefonate di richiesta dei soccorsi (8:23, 8:24-8:27:30), aveva tenuto una serie di comportamenti che, per
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verosimili ragioni di tempo, non aveva potuto compiere in precedenza. Questa Corte ha escluso la sussistenza di un vizio di mente della F., esistendo indizi gravi, univoci e concordanti del compimento da parte dell'imputata - dopo il suo rientro e prima delle telefonate in questione, trovandosi sola in casa con S., come aveva ammesso lei stessa e come l'aveva trovata la dottoressa S. e il di lei suocero - di una serie di atti consapevoli di strategia difensiva, incompatibili- a detta di tutti gli psichiatri - con un pregresso stato di restringimento della coscienza, quali l'occultamento della casacca del pigiama sotto il piumone e dell'arma del delitto. In tale ottica, devono, pertanto, essere valutate anche le telefonate in questione, fatte nei minuti immediatamente successivi, posto che, anche dato per ammesso un persistente sconvolgimento emotivo, lo stato di consapevolezza della F. non poteva certamente essere peggiorato. Quindi, anche tali atti devono essere considerati comportamenti consapevoli, pur in presenza di una condizione patologica dell'imputata (priva, tuttavia, di elementi rilevanti ai fini della imputabilità), definibile in termini di sindrome ansiosa in soggetto con assetto di personalità connotato da prevalenti componenti di tipo isterico. In definitiva il fatto certo che si fosse trattato di un omicidio d'impeto, che fosse stata usata un'arma impropria, da identificarsi verosimilmente in un oggetto che si trovava nella casa del delitto, dovendosi escludere plausibilmente ogni alternativa spiegazione della difesa - come ha ritenuto anche il PG -, che nessun oggetto fosse risultato mancante in detta casa per dichiarazione concorde di tutti gli occupanti, che l'arma del delitto non fosse più stata ritrovata, rappresentava un ulteriore indizio grave e preciso nei confronti dell'imputata, in quanto costituiva condotta tipica di chi aveva agito in virtù di un'azione aggressiva d'impeto, che aveva portato a una individuazione casuale e repentina di un oggetto idoneo a uccidere, fra quelli a portata di mano, e che poi aveva avuto la possibilità di nascondere, mentre un aggressore esterno non poteva essersi armato di un oggetto prelevato all'interno dell'abitazione, dal momento che nessuna sottrazione era stata mai evidenziata, né poteva averlo ivi abbandonato, in quanto mai era stato ritrovato.
La Corte di appello, tra le tante incombenze affidate a periti e consulenti, ebbe a disporre una nuova perizia psichiatrica collegiale affidata a quattro docenti universitari di materie psichiatriche e psicologiche. Annamaria, però, non accettò di sottoporsi ai necessari accertamenti peritali, per cui i periti condussero la loro articolata e complessa indagine solo sui documenti processuali acquisiti e conclusero formulando ipotesi diagnostiche e valutative prive di quelle certezze cliniche che avrebbero potuto direttamente acquisire dall'esame della donna. Secondo i periti, l'ipotesi di uno stato crepuscolare orientato "è coerente con l'assetto di personalità (fragilità, prevalenti componenti iste91
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riche, meccanismi di difesa improntati alla rimozione con ampio ricorso alla scissione), nonché con lo stato di scompenso ansioso in cui la F. versava in quel momento (dalla sera precedente)". Anche in altri momenti critici, che si riferiscono alla fase immediatamente successiva al constatato (daA.F.) intervenuto ferimento del bambino, è stata indicata come plausibile un'alternanza tra due livelli diversi di coscienza (che, si osserva, vale anche nell'ipotesi della presenza della capacità di intendere e di volere al momento del fatto). La F., infatti, ha riferito che, quando trovò S. con il capo coperto di sangue, si accorse che su un dito le era rimasto attaccato un pezzettino di sostanza cerebrale, che lei ripose sulla testa di S., spiegando il gesto con il dire che "mi sembrava di avergli tolto qualcosa di suo". Commentano i giudici dell'Assise: "Le parole e il gesto di A.F. sono incongrui se rapportati a una riflessione cosciente, che porterebbe la persona a ripulirsi la mano o a ripulire la fronte del bambino; ma essi potrebbero interpretarsi anche come 'un derivato simbolico di un altro contenuto mentale, scisso o rimosso'" (e che, tuttavia, riaffiora). Circa la capacità di intendere e di volere della F. al momento del fatto addebitatole, (riferimento cronologico), i periti affermano: In assenza di ammissione di responsabilità da parte dell'imputata e preso atto del rigido rifiuto di prestarsi a qualsiasi indagine di consueta competenza peritale, i periti hanno, a questo punto, formulato ipotesi criminogenetiche e criminodinamiche che possano scaturire da valenze psicopatologiche lasciando ovviamente impregiudicata la possibilità di un delitto a valenza non patologica. Secondo i periti, lo stato crepuscolare orientato (escluso poi in sede di loro escussione orale), mentre, da un lato, è ipotesi patologica supportata dall'assetto di personalità di base dell'imputata, dall'altro, corrisponde alla nozione di "grave disturbo di personalità", così come specificata dalla nota sentenza numero 9163 del 2005 della Corte di cassazione (Sezioni Unite). La "ribellione" di S. diede avvio alla reazione violenta dell'imputata, ansiosa, sofferente, stanca e arrabbiata, in presenza di un discontrollo, favorito dallo stato ansioso e dall'indicato fattore scatenante, di natura emotigena. Al riguardo, si deve ricordare, altresì, che, subito dopo aver appreso la notizia della morte di Samuele, la F. aveva detto alla S. - circostanza da questa riferita per ben due volte - che se lo sentiva che questo figlio lo avrebbe perso: "S. era bello, era bello il mio bambino. Ma io me lo
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sentivo che sarebbe morto". Tale affermazione, sempre secondo i periti psichiatri, potrebbe avere avuto un significato di presentimento e di preoccupazione sul possibile sviluppo normale del bambino. Infatti le preoccupazioni della donna per il figlio più piccolo erano documentate dal fatto che S. - pur non avendo malformazione alcuna - aveva un accrescimento ponderale scarso, "la testa grande, le gambe secche e a era chiamato, certamente con affetto, "nanetto", parlava ancora male, anche se la madre lo capiva (sintomo - secondo gli esperti - di un rapporto di appartenenza esclusiva), aveva poca autonomia: elementi che avevano verosimilmente fatto insorgere nella mente della F. l'idea che il bambino fosse destinato ad avere uno sviluppo non normale o, addirittura, a non farcela. Per i periti psichiatri:
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Il polo nascosto del conflitto poteva essere rappresentato da una profonda preoccupazione primaria per il figlio, fonte di ansia non ben integrata a livello cognitivo ed emotivo, cui la donna reagiva sul piano di coscienza raddoppiando le cure amorose ed era possibile che le preoccupazioni manifestate sulla salute di S., sulla "testa che emana calore", fossero la punta dell'iceberg di uno stato di angoscia latente, non integrato a livello cosciente della personalità, oppure che fossero rappresentative di un polo nascosto del conflitto riguardante inespressi timori di malattia della stessa F., secondariamente proiettati sul bambino, che diveniva la fonte dell'ansia e delle preoccupazioni coscienti; non era dato conoscere il polo nascosto del conflitto, ma la sua esistenza, così come la minaccia di rendersi cosciente e/o la sua idoneità a creare parossismi emotivi, erano chiaramente denunciati dalla sintomatologia ansiosa in atto al momento del fatto. Continua la sentenza della Corte di appello: Pare sintomatico anche il fatto che la F., fra le tante versioni che avrebbe potuto fornire, al fine di indicare un evento naturale o accidentale accaduto al figlio, aveva detto, in un primo momento: "Ha vomitato sangue ... non respira", con singolare attinenza ai suoi disturbi abituali di vomito e di senso di mancanza di respiro, e in un secondo momento: "Gli è scoppiata la testa" con altrettanto singolare attinenza a una possibile patologia alla testa medesima: infatti, anche il consulente del PG ha ravvisato una continuità di pensiero fra "La testa che emana calore", "Gli è scoppiata la testa" e "Mi sentivo che questo figlio sarebbe morto" (udienza del 4 dicembre 2006, p. 138) e ha ritenuto assai significativo - come reputa anche questa Corte - il fatto che S., oltre a essere stato composto e coperto, fosse stato colpito solo alla testa.
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FOLLIA TRANSITORIA
Proseguono i periti: "L'assetto patologico di personalità così descritto contiene in sé elementi di tipo narcisistico, borderline (nel senso di funzionamento al limite) e isterico. Ci sembra che quest'ultima definizione sia quella atta a descrivere meglio di tutte le altre la struttura della personalità dell'imputata e il suo funzionamento psichico". Secondo i periti psichiatri, A.F., all'epoca del fatto ascrittole, "versava in una condizione altrimenti patologica, definibile in termini di sindrome ansiosa con aspetti di conversione somatica (senso di malessere, senso di mancanza del respiro, senso di svenimento, parestesie agli arti)". In effetti, A.F. aveva subito, la sera e la mattina prima del delitto, due crisi d'ansia, "che potremmo anche definire alla stregua di una sola crisi ansiosa acuta, parzialmente risoltasi in serata, ma ripropostasi verso le ore 5-5:30 del mattino, in modo talmente imperioso da indurre l'imputata a chiedere e ottenere, attraverso il marito, l'intervento della guardia medica". I periti hanno altresì sottolineato la capacità organizzativa successiva al ritrovamento del piccolo S., con le richieste di aiuto e l'assenza di rimandi di qualunque tipo di tematiche di colpa secondarie a uno stato depressivo. La Corte di cassazione ha ribadito, in accordo con le sentenze precedenti, la piena responsabilità di A.F., dal momento che "la possibilità dell'azione di un estraneo è stata esclusa, al di là di ogni ragionevole dubbio, attraverso la prova logica". Nella sentenza, tra l'altro, si afferma: L'assenza di sicuri elementi di prova circa le ragioni che innescarono la condotta dell'agente non ha consentito che di formulare ipotesi, supponendosi che la donna abbia reagito a qualche capriccio del bambino (a detta dell'imputata svegliatosi e alzatosi dal letto proprio nell'immediatezza della sua uscita con il figlio D.) e abbia agito in preda a uno stato passionale momentaneo. Agli atti del processo è rimasto comunque acquisito, attraverso plurime e concordanti testimonianze, che l'imputata nutriva preoccupazioni (in gran parte ingiustificate) per la normalità e il regolare sviluppo di S. con particolare e sintomatico riguardo alla conformazione e alle peculiarità del capo, tanto da aver manifestato il presagio di una sua possibile morte prematura; le ragioni del delitto, verosimilmente propiziato da una circostanza occasionale, possono, dunque, anche inquadrarsi e trovare una chiave di lettura in tale contesto ...
Fin qui, in sintesi, la ricostruzione dei fatti e le conclusioni sanzionatorie. 94
LE SINGOLE STORIE CLINICHE POSSONO AIUTARE LA COMPRENSIONE
In nessuno dei tre gradi di giudizio alla signora F. è stato riconosciuto il vizio di mente. Per quanto riguarda i discorsi tra marito e moglie riferiti all'uccisione di S. ed esaminati nella relazione peritale, emerge chiaramente una lenta ma inarrestabile e progressiva metamorfosi nella narrazione della perizianda. Scrivono i periti: Anche a causa e in conseguenza dei continui rinforzi provenienti dal marito, le convinzioni si fanno certe, solide, assolute; la F. diventa "il contenitore proiettivo particolarmente idoneo a raccogliere anche paure e angosce provenienti dal proprio mondo interno" (p. 160); la F. [l'imputata] parla della F. [la vicina di casa] come di una persona con una "doppia personalità", afferma di "sentire" la scena dell'uccisione di S. da parte della F. (pp. 162 e sgg.).
Scrivono i periti dell'Appello: Il racconto iniziale ha una particolare intensità e vividezza, tale da stupire per la sua icasticità, la ricchezza di particolari, l'intensità emotiva, le metafore "di corsa come una iena", "è corsa di sotto con una rabbia allucinante", "S. stava sul letto, lei ha cominciato a dirle qualcosa ... lui intanto si è spaventato e ha cominciato a colpirlo", "finché non gli ha visto tutto il sangue''. Qui addirittura emerge l'intensa percezione del sangue di S. che compare quasi come un flashback onirico. Va sottolineato anche che questo è cronologicamente il primo momento in cui la F. mostra una immedesimazione empatica col figlio, con quello che può aver provato al momento del fatto: la paura. Non parla mai di dolore, non si chiede mai se il figlio possa aver sofferto, quanto possa aver sofferto. Tutto ciò appare quantomeno singolare, sul piano dei fenomeni psichici.
Da notare che già il r febbraio 2002 la signora F., man mano che siandava consolidando l'ipotesi dell'omicidio, aveva individuato, sotto forma di succedersi di "sensazioni" e di "lapsus", nella signora D.F. l'assassina (informativa del 10 gennaio 2003 del reparto operativo dei carabinieri di Aosta, pp. 147 e sgg.): "Lei mi prendeva e lei mi prendeva ... mi urtava ... me la sentivo ... ehm ... spiritata, quello sì. .. l'ho sentita ... è una . . mia sensaz10ne .... Dalla sentenza della Corte di assise di appello di Torino: "In data 5.2.02, ore 17:57 veniva registrata sull'auto PAJERO un ulteriore rilevante conversazione fra i coniugi, la numero 160, della quale è stata disposta nuova trascrizione da parte di questa Corte, alla luce delle diversità fra la trascrizione della Meeting e quella dei cc". ))
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FOLLIA TRANSITORIA
L.: "Senti, ascolta Bimba, io dico una cosa però: questa cosa qua bisogna che ti fai coraggio e ... e ... io ti accompagno giù e gliela devi raccontare te, perché io sinceramente, cioè son cose che hai vissuto te, hai capito, Bimba''. F.: "Sai che cosa mi immagino ... che mi spiava ... e perché son cose che mi sentivo, ma son sensazioni, perciò non serve a niente. Forse mi sono messa io in testa ... che è stata lei ... non so perché mi son creata in testa questa scena, ma da quando tu me l'hai detto, che eravamo là, io non riesco ... anche perché ha una doppia personalità, perché io l'ho vista quando è arrabbiata, con quegli occhi proprio da ... da cattiva ... da strega e un attimo dopo è una persona quasi normale ... ".
"La tematica persecutoria nei confronti della F. e di autoriferimento attraverso l'identificazione proiettiva (espressione soprattutto di un funzionamento, non tanto di una struttura psicotica) emerge chiaramente nelle pagine 38 e seguenti del verbale di interrogatorio della F. del 18 marzo 2002!' Per quanto si riferisce alle "crisi d'ansia", preliminarmente i periti osservano la costante tendenza da parte della F. a minimizzarle, banalizzarle, negarne la severità e la gravità, per un difetto fondamentale di capacità riflessive e di mentalizzazione dei propri problemi psichici. Dall'analisi peritale risulta che al momento dell'emergere della crisi a forte componente somatica, la F. chiede aiuto in modo intenso, disorganizzato, drammatizzante e confuso che però non desta altrettanto allarme nel marito cui vengono rivolte pressanti richieste di aiuto, di assistenza, di chiamata di pronto soccorso, di ospedalizzazione. Passata la "crisi" la donna banalizza dando, come sempre, la sua "interpretazione" ai disturbi accusati: l'interpretazione che, ovviamente, le va bene e le è funzionale in quel momento. Rapido insorgere e rapido estinguersi, dunque, in presenza di un'assoluta incapacità/impossibilità di autocontenimento e di successiva riflessione critica. I periti interpretano il modello di drammatizzazione dell'ansia quale analizzato nella perizianda come quello tipico delle personalità isteriche; ma il ritrovamento di Samuele colpito a morte "può rivelare qualcosa di più: la coesistenza, al momento della richiesta dei soccorsi, di due diversi livelli e/o stati dissociati di coscienza':
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lii PROVIAMO A METTERE UN PO' DI ORDINE
Prima di procedere oltre, riprendiamo la casistica esposta per ricordare che si tratta di diciassette soggetti (dieci uomini e sette donne), di età variabile (il più giovane, al momento dell'omicidio, è un minore di diciassette anni; il più anziano è un uomo di sessantasei anni), autori di omicidio attuato (undici) e tentato (sei). A parte quattro soggetti celibi (casi 5, 7, 9 e 16), di cui un minorenne (caso 16, Roberto), tutti gli altri sono o sono stati sposati. Hanno cercato di uccidere il proprio compagno o la propria compagna le persone di cui ai casi 1 (Vincenzo) e 14 (Olga). Hanno ucciso o tentato di uccidere un loro familiare: Maria (caso 2, figlicidio), Mauro (caso 6, tentato figlicidio), Carmen (caso 10, figlicidio), Daiana (caso 11, tentato figlicidio), Giovanna (caso 12, matricidio), Olga (caso 14, tentato uxoricidio), Enrico (caso 15, uxoricidio), e Annamaria (caso 17, figlicidio ). Antonio (caso 3), Bruno (caso 4), Pino (caso 5) hanno ucciso la propria amante nel corso di una vicenda erotico-sentimentale burrascosa e altamente conflittuale. Giovanni (caso 7), Paolo (caso 8) e Domenico (caso 9) sono autori di omicidio attuato o tentato a sfondo sessuale. La maggior parte dei casi ritenuti francamente patologici è costituita da donne (cinque su sette). Nel gruppo dei reati intrafamiliari prevale nettamente la grande patologia mentale (tabella 4.1). Ora è importante affrontare il tema lasciato senza risposta alla fine dell'introduzione di questa monografia: che cosa si intende per "sanità" e che cosa significa "malattia mentale" e che rilevanza hanno questi due concetti in ambito forense, perché esiste una differenza fondamentale tra la diagnosi clinica di "malattia mentale" e quella forense di "valore di malattia", come spiegherò più avanti. Iniziamo con i concetti "clinici". 97
FOLLIA TRANSITORIA
Tabella 4.1 Schema riepilogativo dei diciassette casi. Autore
Sesso Età
Stato civile
Reato
Valutazione clinica
Valutazione forense
1. Vincenzo
M
35
Coniugato
Uxoricidio tentato
Borderline inibito
Capace
2. Maria
F
29
Coniugato
Figlicidio
Personalità immatura
Capace
3. Antonio
M
42
Coniugato
Omicidio
Personalità dipendente
Capace
4. Bruno
M
35
Coniugato
Omicidio
Personalità narcisista
Capace
5. Pino
M
50
Celibe
Omicidio
Personalità dipendente
Capace
6. Mauro
M
53
Coniugato
Figlicidio tentato
Personalità narcisista
Capace
7. Giovanni
M
29
Celibe
Omicidio
Personalità dipendente
Capace
8. Paolo
M
27
Coniugato
Omicidio tentato
Personalità dipendente
Capace
9. Domenico
M
27
Celibe
Omicidio
Borderline inibito
Capace
10. Carmen
F
31
Coniugato
Figlicidio
Bouffée delirante
Vizio di mente
11. Daiana
F
37
Coniugato
Figlicidio tentato
Depressione endogena
Vizio di mente
12. Giovanna
F
44
Coniugato
Matricidio
Bouffée delirante
Vizio di mente
13. Alessandra
F
36
Coniugato
Omicidio tentato
Sviluppo paranoide
Vizio di mente
14. Olga
F
47
Coniugato
Uxoricidio tentato
Psicosi paranoide
Vizio di mente
15. Enrico
M
66
Coniugato
Uxoricidio
Bouffée delirante
Vizio di mente
16. Roberto
M
17
Celibe
Omicidio
Bouffée delirante
Vizio mente
F
31
Coniugato
Figlicidio
Reazione ansiosa
Capace
-----
-··---
----··-
---~--
----
17. Annamaria
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PROVIAMO A METTERE UN PO' DI ORDINE
La cosiddetta dimensione della normalità (non la "normalità" come categoria nosografica) in termini strutturali, psicopatologici, neurobiologici e funzionali può essere così descritta: - identità dell'Io (coerenza interna, autostima, autonomia, gioia di vivere, sentimento di continuità nel tempo); forza dell'Io (disponibilità affettiva, controllo delle emozioni e degli impulsi, coerenza, creatività e perseveranza nel lavoro e nelle relazioni interpersonali); Super-io integrato e maturo (interiorizzazione di un sistema di valori e di riferimenti stabile, individuale, responsabile, realistico, autocritico, rispettoso delle norme sociali e dei valori condivisi dal gruppo sociale); gestione appropriata dell'aggressività e della sessualità (empatia e investimenti emotivi nel rispetto della relazione oggettuale, capacità di tenerezza, di comprensione, di alterità e di coinvolgimento emotivo); costanza nell'ambivalenza della relazione con l'oggetto interiorizzato (gli oggetti sono contemporaneamente buoni e cattivi, gratificanti e frustranti; bassa attivazione emotiva); ricorso all'utilizzazione di meccanismi difensivi secondari (rimozione, proiezione, sublimazione, intellettualizzazione, razionalizzazione). A livello neurofisiologico, si sottolineano la mancanza di alterazioni delle attività cerebrali: in particolare, delle regioni prefrontali (essenziali per la mentalizzazione), dell'amigdala e dell'ippocampo. Un soggetto che funziona in questa dimensione è capace di un inserimento gratificante e gratificato nella realtà e in mezzo agli altri, sa svolgere i compiti dell'esistenza, riesce a elaborare lutti, angosce, frustrazioni e distacchi, sa modulare le proprie richieste e le proprie attese nel rispetto della relazione Io-Tu, Io-Altri. Sul versante opposto, nella dimensione psicotica si assiste invece a: - disturbi dell'identità (i confini dell'Io sono gravemente alterati, fino alla loro frammentazione e perdita; il Sé è investito e temporaneamente disorganizzato dalla tempesta psicotica. Se l'episodio acuto non si risolve, l'Io si riorganizza da un punto di vista cognitivo e affettivo relazionale sui nuclei psicotici); ricorso all'utilizzazione di meccanismi primari di difesa (scissione, identificazione proiettiva, negazione, idealizzazione, svalutazione, diniego); autismo con alterazioni gravi dell'affettività-contatto, impulsività incontrollata, comportamento disorganizzato e/o bizzarro;
99
FOLLIA TRANSITORIA
compromissione transitoria o persistente dell'esame di realtà (deliri e allucinazioni, disturbi gravi dell'umore, deterioramento cognitivo); minore densità (ipo- e atrofie) della materia grigia e bianca del cervello con alterazioni strutturali e funzionali della corteccia prefrontale e tempora-occipitale di entrambi gli emisferi e del corpo calloso (analisi con tecnica voxel-based morphometry dell'esame di risonanza magnetica, VBM). Tra queste due dimensioni se ne collocano altre due (nevrotico/psicopatico e borderline) che ricomprendono tutti i comportamenti difformi causativi di sofferenza per sé e per gli altri, difficile inserimento nella realtà, conflittualità più o meno spiccata con gli altri, cattiva gestione dell'aggressività e delle relazioni interpersonali, assenza di modulazione affettiva e di regolazione dell'emotività, tratti narcisistici, parano idei, isterici e istrionici ipercompensatori di un lo che ha trovato una sua sia pur distorta identità o che è alla ricerca continua di una sua identità.
In particolare, l'organizzazione borderline riguarda un funzionamento di personalità e non costituisce una categoria diagnostica, ma la ricomprende, essendo un costrutto più ampio del disturbo borderline di personalità. Questo tipo di personalità: mantiene l'esame di realtà (nel senso di assenza di deliri e di allucinazioni e di capacità di differenziare il Sé dal non-Sé); presenta una sindrome di diffusione dell'identità (senso di vuoto cronico, incapacità di buone relazioni oggettuali, incapacità a tollerare l'angoscia, mancanza di controllo degli impulsi, carenza delle funzioni sublimatorie); utilizza prevalentemente, se non esclusivamente, meccanismi difensivi primitivi (scissione, identificazione proiettiva, onnipotenza, idealizzazione, svalutazione, diniego); presenta una minore attività delle regioni prefrontali (essenziali per la mentalizzazione) e maggiore attività dell'amigdala (ipervigilanza, iperreattività, stati affettivi negativi, impulsività) e una minore densità della materia grigia e bianca del cervello (analisi con tecnica voxelbased morphometry dell'esame di risonanza magnetica, VBM); è inoltre presente una scissione di base costituita da dominanza di seri vissuti di inadeguatezza e di persecutorietà, disforia rabbiosa, senso di vuoto e di freddo interiore, impulsività autodistruttiva, improvvisi e violenti attacchi di angoscia incoercibile autodiretta, carenze di funzione riflessiva della coscienza, assenza di una continuità significativa 100
PROVIAMO A METTERE UN PO' DI ORDINE
tra il proprio passato e il proprio presente. Questo tipo di organizzazione può andare incontro a scompensi psicotici o borderline che individuano l' acuzie scissionale di una personalità in cui le funzioni dell'Io sono più o meno compromesse; si possono osservare fenomeni di scissione transitoria (microfratture borderline o propriamente psicotiche) che consiste o di episodi acuti di alterazione del sentimento di realtà (perdita dei confini tra mondo interno e mondo esterno; incapacità di differenziare il Sé dal non Sé, distorsioni percettive), e allora si parla di episodio borderline, oppure di alterazione dell'esame di realtà (deliri, allucinazioni, disturbi affettivi maggiori), e allora si tratta di un episodio psicotico propriamente detto. La risposta violenta e distruttiva di un soggetto che presenta un'Or-
ganizzazione e un Funzionamento borderline di personalità può essere caratterizzata da una tematica depressiva che, nei casi di scompenso acuto, si può accompagnare alla frammentazione dell'unitarietà dell'Io, alla radicalizzazione della scissione e al precipitare improvviso e irreversibile nell'atmosfera indifferenziata e nullificante dell'angoscia borderline: fenomeno, questo, che non si è registrato nei casi presi in esame. Infine, la dimensione della psicopatia/nevrosi è caratterizzata da: un'immagine del proprio Sé interiorizzato stabile; - mantenimento dell'unitarietà dell'Io; utilizzazione prevalente di meccanismi difensivi di tipo secondario (in particolare rimozione e proiezione); comportamento organizzato e finalisticamente orientato; confini dell'Io mantenuti; - conservata capacità di distinguere il Sé dal Non-Sé, il mondo interno da quello esterno, la realtà dalla Non-Realtà; - mancano/sono presenti sentimenti di colpa, di resipiscenza e di rimorso; il soggetto è persona che presenta difficoltà nello stabilire una relazione significativa e stabile con l'Altro (deficit di sentimento sociale, di giudizio morale, di mentalizzazione, di ragionamento controfattuale e di empatia); correlazione tra morfometria cerebrale e psicopatia, nel senso di una riduzione variabile della materia grigia orbito frontale e temporale sinistre, del cingolo e dell'amigdala (discontrollo delle emozioni, del comportamento aggressivo e sessuale nella psicopatia congenita). Normale densità della materia grigia e bianca del cervello (vBM). 101
FOLLIA TRANSITORIA
Veniamo ora agli episodi psicotici acuti, distinguibili in confusionali e deliranti. Gli episodi confusionali acuti che si registrano nel corso di disturbi mentali organici, nelle sindromi demenziali, nelle encefaliti, sono caratterizzati da: decorso acuto; confusione, disorientamento e mancanza di coerenza e unitarietà nel comportamento; disturbo della memoria di fissazione e conseguente amnesia; attività psicomotoria aumentata (fino alla pantoclastia) o diminuita (fino alla catatonia); illusioni, allucinazioni (specie visive a carattere scenico e terrifico), falsi riconoscimenti; 1 spunti deliranti frammentari e polimorfi con temi di riferimento, di nocumento e di persecuzione (talvolta temi erotici o mistici o fantastici); angoscia, paura e penosi stati affettivi; compromissione dello stato somatico con febbre, sitofobia, stipsi o diarrea, dimagramento ecc. (negli episodi psicotici acuti di natura tossi-infettiva). Gli episodi deliranti acuti sono invece caratterizzati dalla presenza di tipici sintomi schizofrenici, e cioè: stato di coscienza alterato (ma non così gravemente compromesso come nel disturbo confusionale acuto); incoerenza o allentamento marcato dei nessi logici; deliri polimorfi e sconnessi; allucinazioni visive e uditive; linguaggio incoerente (aggiunto nel DSM-1v); 1. Sensazioni: percezioni elementari di uno stimolo, quando vengono eccitati gli organi sensoriali, senza che mai venga provocato uno stato di coscienza molto elaborato e complesso, bensì uno di semplice cognizione. Percezioni: interpretazioni coscienti obiettive e critiche di uno stimolo. Illusioni: distorsioni delle percezioni, che vengono tosto corrette dalla critica e dal!' esperienza. Allucinazioni: percezioni senza oggetto, del cui significato patologico il soggetto malato non ha consapevolezza alcuna. Esse vengono classicamente distinte in: oggettive o vere (uditive, visive, olfattive, gustative, tattili e cenestesiche ), aventi caratteristiche di oggettività e di corporeità; e false o pseudoallucinazioni (allucinazioni psichiche a carattere imperativo, prive di soggettività, nel senso che vengono dal malato attribuite all'Altro, all'Estraneo, penetrato dentro di lui). Questa non è altro che una delle possibili classificazioni dei disturbi della percezione, posto che sia lecito intendere le allucinazioni come tali, e non piuttosto come disturbi del pensiero, essendo implicito nella percezione (di cui illusioni e allucinazioni costituiscono le manifestazioni patologiche) un conferimento di significato: il che è appunto proprio del pensiero.
102
PROVIAMO A METTERE UN PO' DI ORDINE
comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico; agitazione emotiva e intensa partecipazione ai temi deliranti e allucinatori; presenza (non obbligatoria e non costante) di uno o più fattori psicosociali stressanti associati; insorgenza acuta, improvvisa del quadro psicotico (dopo un periodo variabile di incubazione -vedi oltre Wahnstimmung); durata breve, da qualche ora a un mese; ritorno alla condizione psichica precedente l'episodio, con risoluzione o brusca o progressiva; rievocazione frammentaria, onirica o oniroide. In tutti questi casi possono assumere un ruolo scatenante uno o più
stressar che per loro intensità o potenziamento reciproco provocano una rottura in equilibri mentali già precari. Come si vede, i disturbi dello stato di coscienza nei quadri confusionali acuti sono riconducibili, direttamente o indirettamente, a un fattore organico certo, specifico ed eziologicamente correlato alla sindrome (psicosi organiche o esogene); in quelli deliranti acuti a una presunta componente biologico-costituzionale, la cui natura esatta non è, allo stato, nota (psicosi funzionali o endogene). Qui sono trattate insieme, perché esse hanno in comune aspetti criminologici e problemi psichiatrico-forensi che ne giustificano l'accorpamento in un unico contesto. Lo abbiamo già detto e lo ripetiamo: i dati anamnestici; la presenza o assenza di segni di compromissione somatica; l'alterazione o meno dei dati di laboratorio; i differenti livelli di destrutturazione dello stato di coscienza (molto più accentuati e gravi nelle sindromi confusionali acute); le caratteristiche cliniche dei rispettivi decorsi; sono tutti indicatori che consentono una diagnosi differenziale. Tali quadri debbono essere nettamente distinti per genesi, modalità espressive, decorso, gravità e rilevanza dagli stati crepuscolari psicogeni e dalle confusioni psicogene. Questo discorso ha come unico scopo quello di ribadire l'assoluta necessità di collocare l'autore di reato in una di queste dimensioni, premessa per una corretta valutazione forense in tema di vizio di mente. L'approccio psicopatologico infatti ci informa sui disturbi che "abita103
FOLLIA TRANSITORIA
no" la categoria diagnostica individuata, animandola di contenuti e di tematiche che l'analisi funzionale ci fa vedere "in movimento" nella loro reciproca interazione armonica o disarmonica. Si giunge così a una completa visione integrata e a una sintesi diagnostica tridimensionale che fanno da premessa per ogni ulteriore discorso in ambito clinico e valutativo.
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D GLI STATI EMOTIVI "SEMPLICI"
Su questo versante si collocano tutti quegli agiti auto o eterodistruttivi che sono sottesi da uno stato emotivo o passionale (paura, ira, passione, emozione, provocazione, ferite narcisistiche ecc.) e che si sono manifestati repentinamente o dopo un periodo più o meno lungo di non verbalizzati patimenti relazionali (casi dall' 1 al 9). In particolare: nei soggetti la cui storia è stata presentata nei casi 1 (Vincenzo), 3 (Antonio), 4 (Bruno), 5 (Pino), 7 (Giovanni), 8 (Paolo) e 9 (Domenico), dominano vissuti assolutamente negativi nei confronti della figura femminile. Secondo Vincenzo la relazione stabilita è di tipo passivizzante e degradante, carica di vissuti di rassegnazione, passivizzazione e quiescenza di fronte all'ineludibilità di una vita coniugale e familiare: di conseguenza, continua e progressiva fonte di scacchi a tutti i livelli. Antonio si vive a livello profondo su di un piano di inferiorità, di inadeguatezza e di ipovirilità, ipercompensato con atteggiamenti e comportamenti fittizi improntati a un'ipervirilità convenzionale che lo rassicuri e lo faccia sentire "un vero uomo". Nella realtà, egli è un uomo inibito affettivamente e sessualmente, arido e povero. Bruno è un uomo fortemente dipendente dalle figure femminili per lui significative e questo suo vissuto svolge la funzione di potente rinforzo narcisistico che gli conferisce una dignità di persona, un'identità e un'importanza messe fortemente in crisi di fronte al rifiuto di riconoscersi dipendenti da lui da parte delle figure femminili. Pino è un uomo che, nei confronti della "sua" donna, è convinto di svolgere un ruolo di uomo-padre-amante, fino a quando non si accorge che la donna non lo vede più in quel suo illusorio ruolo onnipotente e salvifico; la sua compagna non è più quella persona "buona" che lui aveva conosciuto e che gli doveva gratitudine, affetto e riconoscenza. 105
FOLLIA TRANSITORIA
Giovanni è un giovane che, a un certo punto della sua vita, malauguratamente, si è prima incontrato e poi scontrato con un omosessuale che ha innescato in lui una serie di tematiche di scacco e di confronto negativo, generatrici di sentimenti di sofferta inferiorità, umiliazione e crisi identitaria della sua persona. Paolo è uomo che, contingentemente impedito di incontrarsi con la sua fidanzata, cerca consolazione e conforto in una prostituta che egli dice di vivere come una sorella grande, una madre. La speranza di essere accolto, tranquillizzato e consolato secondo le sue esigenze, viene però disillusa dall'atteggiamento negativo della donna. Domenico, infine, è un uomo che si è trovato di fronte a complicate implicazioni affettive che, improvvisamente messe in crisi, hanno trasformato, nel suo immaginario, la donna da oggetto buono a oggetto cattivo, responsabile del suo stato d'animo contingentemente negativo: pertanto da distruggere. I tratti via via individuati nei soggetti mossi da un turbamento emotivo semplice, non dovuto a cause psicopatologiche, cioè, hanno reso difficili una buona identificazione nel proprio ruolo maschile e un buon rapporto con la donna (con l'uomo per Giovanni). Di essa, in maniera sia pur diversificata, tutti hanno paura e nei suoi confronti nutrono sentimenti molto ambivalenti di desiderio e di repulsione, mascherati da un'apparenza di ipersocievolezza e di disponibilità affettiva. Con graduazioni diverse la loro personalità è connotata, in maniera più o meno esplicita, da bisogno tirannico di gratificazioni, esigenza di dominio, di controllo e di risarcimenti variamente orientati, intolleranza alle frustrazioni, assenza di reciprocità. Nelle singole situazioni conflittuali, hanno vissuto la paura di essere umiliati, abbandonati, maltrattati. Il sentirsi offesi, umiliati, nullificati, degradati da persona a cosa, impossibilitati a fare delle scelte, esige un risarcimento che l'Altro/a deve esprimere attraverso atteggiamenti di accettazione, comprensione e ascolto. Se ciò non avviene, come non è avvenuto, ecco il passaggio all'atto che distrugge in un impeto di rabbia narcisistica l'oggetto "altro"; la ferita narcisistica esige ristoro.L'oggetto che da buono è diventato cattivo, che dileggia, insulta, respinge, usa e non dà (più) nulla in cambio deve essere in qualche modo allontanato e distrutto. Spesso non emergono prima del reato espliciti indicatori di disagio; gli attori recitano ciascuno la propria parte e spesso è difficile, nel resoconto retrospettivo reso dall'autore di reato, distinguere la vittima dal carnefice, l'incube dal succube, l'induttore dall'esecutore, il forte dal debole, complessi e intricati come risultano i rapporti che emergono dalla lettura delle singole storie. 106
GLI STATI EMOTIVI "SEMPLICI"
In tutti i soggetti di cui stiamo discutendo emerge un funzionamento di personalità caratterizzato da tratti narcisistici e paranoidei (gelosia, possessività, diffidenza, intransigenza, ricerca esasperata di rinforzi, insicurezza, angosce variamente orientate), con imperative richieste psicologiche di rassicurazione e di risarcimento. Tutti i delitti esaminati sono sottesi da un'incapacità/impossibilità di elaborare la perdita, vissuta come devastante ferita narcisistica, o di tollerare un cambiamento, magari scindendo il legame o accettando la rottura dello stesso: rottura che attiva la grande paura dell'abbandono. Il problema è sostanzialmente quello della perdita dell'oggetto da cui si esigono rassicurazioni perverse o patologiche (come quelle proprie della relazione scissionale o simbiotica). La persona perde (o teme o è convinto di perdere) la sua capacità di piacere, la sua ragione di vivere, il suo valore personale, la sua identità sociale. Si sente non tanto offeso quanto piuttosto devalorizzato e nullificato; soffre di un convincimento di indegnità, svuotato com'è dal suo oggetto interno di cui non è più il proprietario e da cui non è più risarcito nei propri bisogni di rassicurazione e di riconoscimento di status che gli danno il senso del suo esistere. Oppure, ed è quanto è accaduto a Giovanni, si sente intrappolato in un'identità che rifiuta perché mette in crisi la sua personale identità, ma di cui non sa come liberarsi, se non distruggendo l'oggetto "altro".
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GLI STATI EMOTIVI "COMPLESSI"
Le condotte che possono venire messe in atto in una di queste situazioni psicopatologiche ricomprendono numerosi agiti distruttivi, auto ed eterodiretti. Abbiamo conosciuto episodi onirici o oniroidi acuti nel corso di una psicosi schizofrenica (il caso 1Odi Carmen, che ha ucciso la propria bambina di pochi mesi nel corso di una bouffée delirante acuta; il caso 12 di Giovanna, che ha ucciso la propria madre durante uno scompenso psicotico acuto di natura schizofrenica; il caso 16 di Roberto, che in uno stato di coscienza alterato di natura schizofrenica ha ucciso la propria compagna di scuola); scompensi psicotici negli sviluppi di personalità (caso 13, Alessandra che cerca di uccidere una sua collega di lavoro, convinta, secondo modalità deliranti, che questa sia l'amante del marito, e caso 14, Olga, che nel corso di una sviluppo paranoideo in via di progressivo scompenso, tenta di uccidere il marito, convinta che questi la tradisca). Lo stato d'animo del malato durante l'episodio acuto è spesso estremamente penoso: angosciati da visioni terrifiche e ripugnanti, specie di animali in atteggiamento aggressivo, di diavoli, di mostriciattoli, di fiamme che li vogliono divorare, da "voci" che minacciano, o che denigrano o che scherniscono, avvolti da un'atmosfera che sta tra il sogno, la magia e la realtà (stati onirici), per difendersi e proteggersi fuggono, attaccano, distruggono, violano, uccidono in un'esplosione di violenza auto o eterodistruttiva che è preceduta, accompagnata e seguita da uno stato di coscienza compromesso (si vedano le quanto mai significative storie di Carmen, caso 10, di Giovanna, caso 12, e di Roberto, caso 16). Come accaduto per Carmen e per Giovanna, la risoluzione dell'episodio confusionale o delirante può essere più o meno rapida, a seconda della genesi, e più o meno completa, a seconda del decorso e delle com109
FOLLIA TRANSITORIA
plicanze che in essa possono subentrare. Con la sua remissione, il malato non ricorda nulla di quanto accaduto, o serba dei ricordi "a macchia", con amnesia assoluta e completa per l'episodio o gli episodi "centrali" o "nucleari", oppure rievoca con angoscia i vissuti e l'esperienza psicotica o la racconta "come se" si fosse trattato di un sogno, come se egli fosse stato un osservatore esterno del proprio agire, confondendo spazi, tempi e identità del proprio Sé. In due casi ci troviamo di fronte a una depressione maggiore, con dinamica tipica del suicidio allargato (casi 11, quello di Daiana che più volte aveva tentato il suicidio e che poi cerca di uccidere le proprie figlie con tentativi fortunatamente non andati a compimento, e 15, Enrico, che uccide la moglie seguendo una tipica dinamica delirante depressiva).
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A PROPOSITO DELLE VITTIME
In molti casi non si può prescindere dalla conoscenza psicologica della vittima (indispensabile nei reati contro la persona e contro la libertà personale), perché in ambito di valutazione di una relazione conclusasi in maniera tragica il ruolo più o meno consapevolmente svolto dalla vittima è tutt'altro che indifferente. Infatti, analizzare il rapporto che si è venuto a creare tra vittima e carnefice, ricercare (dalla parte dell'autore e della vittima) i motivi che hanno spinto l'autore a scegliere quel dato soggetto piuttosto che un altro, sapere se sia stato sollecitato, provocato o meno dalla sua vittima, magari senza che questa se ne sia resa conto, può offrire un contributo importante non solo alla comprensione del reato commesso, ma anche per aiutare chi lo ha subito a capirne il perché e a superare i traumi che ne sono derivati e che ne possono derivare. Assume pertanto massima importanza riuscire a esplorare le caratteristiche relazionali (reali o presunte che siano) per comprendere appieno i ruoli rispettivamente assunti. Dalla neutralità alla provocazione esiste tutta una serie di variabili e di sfumature che animano e caratterizzano gli scenari di violenza. Il rapporto sadomasochistico che spesso lega la vittima al suo carnefice può produrre addirittura una vera e propria inversione di funzioni, con assunzione da parte della vittima del ruolo di elemento scatenante e determinante l'evento. Caratteristiche biofisiologiche (età e sesso), psicologiche (tratti di personalità) e/o sociali (professione, status, condizioni di vita, situazione economica) possono predisporre certi individui piuttosto che altri a divenire vittime di determinati reati, ma anche incidere sul fatto che essi possano svolgere - nella dinamica degli stessi - il ruolo inconsapevole di autori. In certe persone, poi, esisterebbe una "predisposizione" a diventare vittima di reati e, in un certo senso, ad "attrarre" 111
FOLLIA TRANSITORIA
il proprio aggressore. 1 Il ruolo della vittima, specie nei reati intrafamiliari e in quelli passionali, rappresenta dunque un aspetto che non può essere collocato sullo sfondo della storia in cui uno o più personaggi interagiscono tra di loro fino al tragico esito della stessa. Molte vittime svolgono la funzione di vittime attive. In questi casi l'oggetto della persecuzione, spesso una donna, è portatore di problemi psicologici e di conflittualità non risolte, per cui - a livello più o meno consapevole - mantiene con il molestatore un legame ambivalente, ricco di sottintesi, di fraintendimenti, di non detto e di non chiaramente espresso, di rifiuto verbale ma non emotivo del legame che si intende recidere ( vittima provocatrice, induttrice, favorente, consenziente). Ancorché turbata, spaventata o terrorizzata dalle "attenzioni" e dai comportamenti del corteggiatore/molestatore, spesso è persona incapace di rispettare e far rispettare le regole, i tempi e i limiti propri di ogni relazione umana. Almeno agli inizi, più o meno consapevolmente, la futura vittima, attraverso manifestazioni verbali e non verbali, può colludere con il futuro aggressore, agevolando la sua intrusione nella propria privacy e rinforzarne fraintendimenti, illusioni di potere, fantasie rivendicative o ipercompensatorie o restaurative, illusioni di accoglienza e di accudimento, per poi allontanarsi in preda alla caduta di interesse, alla paura, al fastidio dell'altro. In questi casi è fondamentale poter distinguere il dato oggettivo, legato a caratteristiche e comportamenti propri della futura vittima, da quello soggettivamente percepito dall'aggressore come ruolo attivo svolto dalla vittima attraverso attribuzioni progressivamente negative che la faranno diventare destinataria di processi di vittimizzazione ripetuta, fino alla "soluzione finale" (come nei casi 3, l'amante di Antonio, 4, l'amante di Bruno, e 16, la ragazzina che, corteggiata da Roberto, inopinatamente lo respinge, nonché i casi 6, Mauro che per un caso non uccide suo figlio, e 7, Giovanni che uccide il suo datore di lavoro, omosessuale, che lo ricatta sessualmente). È pur vero che esistono vittime passive: persone con le quali il soggetto non ha mai stabilito contatto diretto alcuno (vittima accidentale, preferenziale, simbolica e trasversale), ma che, per esempio, vengono seguite per strada, tormentate telefonicamente, magari svegliate nella notte, disturbate con scritti osceni o provocatori. Bambini o persone anziane o persone sconosciute rientrano in questo gruppo, anche se l'autore di 1. C.P. Malmquist, Omicidio, tr. it. Centro Scientifico Editore, Torino 1999; E.A. Skodol, Psicopatologia e crimini violenti, tr. it. Centro Scientifico Editore, Torino 2000; A.M. Giannini, B. Nardi, Le vittime del crimine, Centro Scientifico Editore, Torino 2009.
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A PROPOSITO DELLE VITTIME
reato invoca a sua giustificazione la presenza di atteggiamenti provocatori o seduttivi da parte della vittima. Ma come può essere provocatore colpevole un vecchio che esce dalla banca smazzettando il denaro appena prelevato, o la signora anziana che si orna con i suoi monili, o la bambina che gioca inconsapevole nei giardini scoprendo le mutandine, perché vestita con una gonnellina o che sorride al perverso di turno, assiduo frequentatore dei giardini in cui i bambini giocano innocenti e inconsapevoli, o la donna che veste "alla moda" indossando abiti più o meno succinti? Su, siamo seri! Né si può omettere un esame accurato del contesto in cui avviene il comportamento violento, potendosi individuare in esso elementi di per se stessi patogenetici o patoplastici (importanza delle caratteristiche culturali, sociali, ambientali, economiche, storiche e situazionali). Minoranze, istituzioni e collettività possono costituire un altro fertile serbatoio che fornisce vittime e carnefici. Esistono poi dei casi in cui la vittimizzazione di un componente è l'espressione di un tipo particolare di cultura che vede la violenza come modello condiviso e accettato di comunicazione interpersonale. Ne consegue che la vittima e il carnefice possono non avere o avere insufficiente contezza del significato perverso, trasgressivo e delinquenziale del loro comportamento. Solo con una stretta collaborazione tra inquirenti e consulenti questi importanti "distinguo" potranno essere stabiliti, addivenendo a soluzioni più eque che tengano conto dell'eventuale ruolo svolto dalla vittima nel corso della sua vittimizzazione primaria (il silenzio, l'isolamento, il timore di non essere creduti, il senso di solitudine, la tolleranza, la minimizzazione, il rinvio e il rifiuto di parlare, la vergogna, la paura, il senso di impotenza e di inutilità di qualsiasi iniziativa difensiva ecc.) senza mai sottovalutare l'indispensabile necessità della retribuzione penale. Se infatti non è possibile giustificare e perdonare l'esercizio della violenza, può essere utile inquadrarla nei suoi aspetti psicodinamici e relazionali, per tutto quanto concerne l'implementazione della giustizia riparativa e il contenimento dei processi di vittimizzazione secondaria.
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DI LE IMPLICAZIONI FORENSI
Nei soggetti ricompresi dall'l al 9, l'agito criminale si presenta come reazione improvvisa a un bisogno frustrato e tirannico di gratificazioni, esigenza di dominio, di controllo e di risarcimenti variamente orientati, intolleranza alle frustrazioni, assenza di reciprocità. L'aggressività è fortemente correlata con distruttività, odio, dominio, tentativi di prevaricazione e di manipolazione. In tutti questi casi, però, in ambito di valutazione della capacità di intendere e di volere del soggetto agente, nonostante la complessità dei percorsi criminogenetici e criminodinamici descritti, scatta il dispositivo dell'articolo 90 del codice penale che testualmente recita: "Gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l'imputabilità". L'articolo 90 dell'attuale codice penale italiano, pertanto, esclude la rilevanza dei cosiddetti reati d'impeto, raptus, reazioni a corto circuito e via dicendo sulla capacità di intendere o di volere. Con la normativa dell'articolo 90 il legislatore del tempo aveva inteso mettere la parola fine al cattivo uso e all'abuso che - vigente il codice Zanardelli - si era fatto degli articoli 51 e 377 del codice penale, in riferimento ai reati emotivi e passionali. Articolo 51 - "Colui che ha commesso il fatto nell'impeto d'ira o d'intenso dolore, determinato da ingiusta provocazione, 1 è punito con la reclusione non inferiore ai venti anni, se la pena stabilita per il reato commesso sia l'ergastolo, e negli altri casi con la pena stabilita per il reato commesso diminuita di un terzo.' I. "Quando il colpevole fu egli stesso causa del diverbio e della colluttazione, nella quale colpì, è vano parlare di provocazione, ed è superfluo indagare lo stato d'animo dell'autore del reato" ( Co-
dice penale del Regno d'Italia, duodecima tiratura, Gaspero Barbèra Editore, Firenze 1927, p. 199). 2. "L'apprezzamento della gravità o meno della causa dell'impeto d'ira o d'intenso dolore, agli effetti della provocazione, è incensurabile in Cassazione. La gravità invero della provocazione è que-
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FOLLIA TRANSITORIA
Se la provocazione sia grave, all'ergastolo è sostituita la detenzione da dieci a venti anni, e le altre pene sono diminuite dalla metà ai due terzi, sostituita alla reclusione la detenzione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici l'interdizione temporanea." 3 Articolo 377 - "Per i delitti preveduti nei capi precedenti (omicidio e lesioni personali), se il fatto è commesso dal coniuge, ovvero da un ascendente, o dal fratello, o dalla sorella, sopra la persona del coniuge, della discendente, della sorella, o del correo o di entrambi, nell'atto in cui li sorprenda in flagrante adulterio o illegittimo concubito, la pena è ridotta a meno di un sesto, sostituita alla reclusione la detenzione, e all'ergastolo è sostituita la detenzione da uno a cinque anni." 4
Falliva, in tal modo e nella sostanza, il tentativo portato avanti dagli psichiatri per tutto l'Ottocento e per i primi decenni del Novecento di far rientrare nella patologia mentale costituente vizio di mente il "reato d'impeto e di passione". In altre parole, in un reato sotteso da un'improvvisa emozione o da una passione più o meno lungamente elaborata e sofferta,5 senza l'instione di fatto, da risolversi con l'indagine non solamente obbiettiva, ma anche subbiettiva, psichica, dell'agente. È infondata la causa della provocazione quando tra il preteso fatto provocatore e quello del reato imputato sia interceduto del tempo che escluda l'impeto d'ira e del dolore. La circostanza della provocazione può esistere anche in relazione al reato di diffamazione. La scusante dell'ingiusta provocazione è ammissibile anche in tema di diffamazione commessa per mezzo della stampa. Essa può anche sussistere nel reato di minacce." 3. "La premeditazione è incompatibile con la provocazione. Essa è quindi incompatibile e inconciliabile con la scusante della sorpresa in flagrante adulterio. Non può coesistere la scusante della provocazione con quella della sorpresa in flagranza d'adulterio, che rappresenta una provocazione di
maggiore ed eccezionale gravità:' 4. Dalla relazione del guardasigilli Zanardelli a S.M. Umberto 1 (udienza del 30 giugno 1889): "L'art. 51 dispone intorno all'impeto d'ira o d'intenso dolore in genere, qualunque sia la causa costituente l'ingiusta provocazione che lo determini. Parve però alla Giunta senatoria e alla Commissione di revisione che si dovesse prevedere in modo distinto e particolare, a somiglianza di quanto dispone l'art. 561 del codice sardo, quella provocazione che venne specificata nell'art. 377, concernente il caso di flagrante adulterio o illegittimo concubinato in cui venga sorpreso il coniuge o uno strettissimo congiunto. E io aderii alla proposta della Commissione medesima, essendo indubbiamente la provocazione anzidetta d'una eccezionale gravità". Nota Bene: Articolo 13 del codice penale: "La pena della reclusione si estende da tre giorni a ventiquattro anni (omissis)". Articolo 15: "La pena della detenzione si estende da tre giorni a ventiquattro anni, con l'obbligo del lavoro e con segregazione notturna (omissis)". Dalla relazione del guardasigilli a S.M. Umberto 1: "Al vertice della scala penale per i delitti sta la pena perpetua dell'ergastolo. Indi vengono le due pene parallele; la reclusione, pena normale per i delitti dolosi, derivanti da impulso, intrinsecamente malvagio, col regime penitenziario graduale; e la detenzione, per i delitti colposi, per quelli commessi in uno stato del!' animo che richiama il benigno riguardo del legislatore, e per pochi altri delitti, cui non è inerente perversità d'animo; entrambi, a titolo di pena unica, dal minimo di tre giorni al massimo ordinario di ventiquattro anni; con la regola generale e ineccepibile, perché salutare tra tutte, del lavoro, e col benefizio della liberazione condizionale". 5. Si riportano, qui di seguito, alcune definizioni terminologiche inerenti al tema in oggetto: emozione: espressione somatica di un sentimento avente caratteristiche di transitorietà, di immediatezza e di variabile intensità. Essa ha caratteristiche di risposta fisiologica o reazione a situazioni esistenziali emotigene;
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LE IMPLICAZIONI FORENSI
tervento di un quid navi o di un quid pluris che introduca la nozione di "scompenso psicopatologico" avente "significato di infermità" questi stati propri dell'animo umano sono ininfluenti ai fini dell'applicazione degli articoli 88 (vizio totale) e 89 (vizio parziale di mente) del codice penale. Di per sé soli considerati, essi rappresentano, per volontà del legislatore, condizioni psicologiche e non già psicopatologiche dell'essere umano. Questo principio è ribadito in tutta la dottrina e nell'assoluta prevalenza delle sentenze della Suprema corte. In assenza di disturbi patologici psichici, la "forza della ragione" dovrebbe essere tale da consentire a ogni persona di esercitare le funzioni del suo Io e di recuperare attraverso strategie alternative il suo scacco esistenziale (sostanziale rispetto della libertà e della responsabilità individuali), sia di fronte all'irrompere di un improvviso turbamento emotivo, sia quando ci si sente "oggettivati" per un tempo più o meno lungo e in determinati contesti emotigeni. Almeno questo è il postulato del diritto attualmente vigente, che afferma essere tutte le persone capaci e responsabili, salvo prova contraria. L'impossibilità di fare delle "scelte" allegata dall'autore di reato ("Non potevo fare altrimenti") non costituisce altro che una modalità tautologica di autogiustificazione a posteriori del passaggio all'atto; così come ampiamente giustificativa e deresponsabilizzante risulta essere - al di fuori di un percorso psicopatologico ben identificato -l'attribuzione di ogni colpa e responsabilità al ruolo assunto dalla futura vittima. A monte di questi percorsi psicodinamici esiste quasi sempre una serie di operazioni mentali che si sono già svolte e che hanno già preso in considerazione, a livello più o meno consapevole, più o meno rapido, più o meno filtrato da meccanismi di controllo, soluzioni estreme a contenuto auto o eterodistruttivo. Tutto ciò fa parte del pensare e del fantasticare di ogni individuo che si trovi in situazione di emergenza e che si senta impotente di fronte al suo vissuto di scacco esistenziale che, con la famosa "goccia che fa traboccare il vaso", si traduce nell'agito improvviso e apparentemente imprevisto, almeno a livello consapevole - donde il frequente, sconcertato commento: "Cosa mi è successo?". Queste condizioni dell'animo umano, invece, assumono rilevanza psichiatrico-forense quando si integrano in un quadro di patologia di mente affetto: esperienza soggettiva di un sentimento più o meno duraturo nel tempo, correlata a un oggetto, a un'idea o a un pensiero. passione: sentimento protratto e intenso, per cui la partecipazione affettiva ed emotiva all'avvenimento è preponderante e domina su ogni capacità di ragionamento; sentimento: condizione stabile, duratura e meno intensa della passione, che ci informa sullo stato generale di benessere o di malessere corporeo o su atteggiamenti interpersonali variamente orientati.
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FOLLIA TRANSITORIA
di cui sono sintomatici e quando incidono significativamente sul funzionamento mentale del singolo (per esempio delirio di gelosia nei cronici intossicati da alcol, condotta emotiva di insufficiente mentale o di demente, acting-out di uno schizofrenico allucinato e/o delirante, un disturbo mentale transitorio ecc.). Oppure quando sono riassorbiti in un quadro di immaturità tale da escludere sotto il profilo funzionale la capacità di intendere o di volere del minore in età compresa tra i quattordici e i diciotto anni (articolo 98 del codice penale). 6 A questo punto è indispensabile chiarire alcuni aspetti che qualificano la valutazione di uno stato di mente in ambito forense, che ci si stia occupando di aspetti che riguardano il penale o il civile, un autore o una vittima, nel senso che:
• ben sappiamo che un disturbo patologico psichico o un quadro di immaturità, comunque aggettivato e codificato, non necessariamente conferisce "significato di infermità" a un atto: e questo lo ricaviamo da un codice di lettura che prenda in considerazione, al di là della formulazione diagnostica, le caratteristiche strutturali e funzionali di quella personalità affetta da quel disturbo. Ne consegue che uno psicotico in cui sia stato ripristinato un funzionamento mentale accettabile e condiviso della sua personalità, con un buon contenimento della produzione patologica psichica, come viene ritenuto "stabilizzato e ben compensato" da un punto di vista clinico e "funzionante" sotto l'aspetto relazionale e sociale, così deve essere considerato "capace e responsabile" sotto il profilo giuridico; • per contro esiste una serie di persone che non sono etichettabili con un codice alfanumerico ma che, pur tuttavia, manifestano nel loro agito un "cattivo" funzionamento della loro personalità, che non fa parte però semplicemente di una dinamica mentale comune a tante altre persone, ma rientra in una configurazione psicopatologica che si adegua a condivisi canoni di lettura e di codificazione del disturbo mentale. Sotto questo profilo, per convenzione e per prassi consolidata, l'approccio categoriale consente di giungere a una diagnosi generica di "disturbo mentale", premessa indispensabile, ma non esaustiva, dal momento che un modello diagnostico integrato richiede un'analisi funzionale, che completa il discorso dal "che cosa ha" al "chi è" la persona che stiamo esaminando; 6. Questi concetti sono ampiamente esposti e dibattuti in U. Fornari, Trattato di psichiatria forense, Utet Giuridica, Torino 2013.
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LE IMPLICAZIONI FORENSI
• nella pratica forense, ancora, si incontrano soggetti che hanno "funzionato" male, nel senso che hanno commesso un reato, ma che non presentano un assetto mentale tale da far concludere che il loro agito fosse alterato al punto tale da assumere significato di infermità rilevante a fini forensi. D'altra parte tutti i soggetti da me esaminati e narrati in questa monografia, al di là dell'inquadramento diagnostico che ha portato a conclusioni psichiatrico-forensi assai divergenti, sono accomunati da caratteristiche di funzionamento mentale identiche, nel senso che questo è risultato, al momento del fatto, profondamente alterato dall'irruzione massiccia e massiva di meccanismi primari che hanno sotteso il loro repentino scompenso comportamentale. Il funzionamento dei soggetti che vanno dal caso 1 al 9 non rientra però in una categoria alfanumerica codificata (fatta eccezione per i casi 1, Vincenzo, e 9, Domenico, in cui emergono tratti borderline abbastanza evidenti e i casi 3, Antonio, 4, Bruno, e 5, Pino, in cui la componente narcisistica fa da sfondo a tutta la loro storia di vita), mentre il funzionamento dei soggetti che vanno dal caso 10 al 16 (quelli in cui è più evidente il disturbo mentale) ben si concilia con una precisa categoria diagnostica riferita a una psicosi maggiore. Più complesso e delicato appare il caso 17 (Annamaria), per la difficoltà di inquadrare il suo impulso e la sua rabbia distruttiva in una dimensione clinica e forense che non sia stata quella esplicitata nelle sentenze della Corte di appello e della Corte di cassazione. Nella ricostruzione del loro stato di mente in riferimento al fatto delittuoso commesso e al momento in cui hanno agito il loro impeto, nei casi 1, 3, 4, 9 hanno svolto un ruolo criminodinamico determinante meccanismi primari di scissione, di identificazione proiettiva e di negazione che, nei casi suddetti sono stati iscritti in una dimensione psicopatologica "alterata", pur non tradottasi in un vizio di mente. È evidente che nelle rispettive valutazioni psichiatrico-forensi i periti sono stati costretti, per convenzione e per giurisprudenza conforme, ad ancorarsi al modello nosografico clinico e non hanno potuto riferirsi ad altri, ma hanno dovuto tenere bene presente che "malattia mentale e valore di malattia non sono due categorie intercambiabili, se non nei casi in cui le evidenze psicopatologiche sono chiare e si collocano oltre ogni ragionevole dubbio (clinico)': La valutazione dei soggetti che sono stati "mossi" da uno stato emotivo o passionale "semplice", in altre parole, è stata in linea con l' applicazio119
FOLIJA TRANSITORIA
ne di schemi convenzionali di lettura del comportamento omicidiario in genere e con particolare riferimento al tema che stiamo trattando, anche se questi schemi non sono adeguati per mettere in evidenza il funzionamento mentale dei suddescritti autori di reato - funzionamento che dovrebbe comunque essere tenuto presente nella valutazione complessiva dell'imputabilità. Sotto questo profilo, condividiamo solo in parte quelle esigenze di politica criminale che vogliono ancorare semplicemente a una categoria diagnostica la valutazione psichiatrico-forense, dal momento che queste esigenze, coerenti con le conoscenze del tempo in cui fu promulgato il codice penale, rivestono attualmente un limitato valore scientifico, come
dimostrato dai casi illustrati e dalle moderne acquisizioni cliniche in tema di valutazione dell'infermità di mente. Pensiamo pertanto che un discorso che implichi, oltre il doveroso inquadramento diagnostico, un'analisi psicopatologica e/o funzionale integrata dell'autore di reato (o della vittima, nei settori in cui viene disposto un tale accertamento), specie quando si tratti di reati contro la persona, debba essere affrontato e svolto nell'elaborato peritale, non per trasformare la perizia da psichiatrica in psicologica, ma per offrire a colui che dovrà giudicare il maggior numero di elementi clinici di conoscenza e di valutazione, sia sotto il profilo dell'imputabilità, sia sotto quello della pericolosità sociale psichiatrica. Lo spostare il tema della psicopatologia forense dall'approccio categoriale a quello esclusivamente psicopatologico e/o funzionale produrrebbe però una rivoluzione copernicana, per molti non condivisibile, nel modo di leggere la capacità di intendere e di volere e di somministrare la sanzione penale o di prendere provvedimenti in ambito civilistico, per cui insistiamo sulla necessità di integrare questi tre modelli. La qual cosa non sposterebbe la valutazione sulla capacità/incapacità, ma l'arricchirebbe di nuove conoscenze che in fondo sono quelle che nel Foro ci vengono chieste di fronte a un reato d'impeto: perché lo ha fatto? come ha funzionato quel soggetto o quella vittima di fronte a un determinato contesto o a una specifica relazione che è esitata in un atto avente rilevanza giuridica? A questo livello di domande legittime occorre però non complicare discorsi di per sé già complessi, perché in tutti i casi la realtà storica nessuno la conosce, alla realtà processuale ci si approssima per difetto e la realtà clinica è fortemente condizionata dalle cosiddette "evidenze" scientifiche che mutano di tempo in tempo, per cui "non è dato all'uomo di scendere negli abissi dell'umana coscienza e dire con sicurezza 120
LE IMPLICAZIONI FORENSI
in quali condizioni di mente e d'animo versasse un individuo quando commise un misfatto". 7 In altre parole, occorre precisare che il nostro contributo al sistema della giustizia si limita a una conoscenza parziale e incompleta della realtà che ha circondato e in cui sono vissuti immersi autori e vittime di reato (il relativismo scientifico). Premesso che la scienza della psiche è quel corpus di assunti teorici e di applicazioni pratiche ricavate attraverso il metodo induttivo da osservazioni cliniche, sperimentali, strumentali e di laboratorio accettate e condivise dalla comunità scientifica in un dato momento e contesto storico-culturale, il relativismo scientifico costituisce un aspetto fondamentale cui si deve fare costante e preliminare riferimento per articolare la successiva discussione. Tanto più nel sistema giuridico attualmente in vigore in Italia, il riferimento teorico non è certo quello proprio della scuola positiva o delle moderne evidenze neuroscientifiche, bensì quello della scuola classica, i cui principi fondamentali sono la libertà individuale, la capacità di autodeterminazione, la responsabilità soggettiva, la capacità di decidere ecc.
Capacità e responsabilità sono date come postulati irrinunciabili, di cui eventualmente si deve dimostrare la mancanza o la rilevante compromissione per cause patologiche psichiche: non viceversa. Dal momento che giudici e avvocati chiedono a noi periti maggiore rigore "scientifico" anche se poi molti di loro subordinano il nostro sapere alle loro specifiche esigenze processuali, spesso ignorandolo, occorre precisare il significato che è possibile attribuire al termine "scientifico", dove per "prova scientifica" si intende non tanto il ricorso all'uso di stru-
menti diagnostici (in senso lato intesi) più o meno raffinati e in grado di "misurare" le funzioni mentali di un soggetto, bensì il rigore con cui periti e consulenti, nell'assoluto rispetto della deontologia professionale, applicano la criteriologia e la metodologia peritali e osservano regole minime nella compilazione dei loro elaborati.
7. A. Verga, "Una srnrserella nei campi dell'animismo", in Archivio italiano per le malattie nervose, ix, 1872, pp. 3-18.
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Ho cercato di offrire in queste pagine alcuni spunti di riflessione che,
indipendentemente dalla possibilità o meno di invocare la presenza e l'incidenza di disturbi patologici psichici, vogliono richiamare l'attenzione sul fatto che tutti i casi di auto ed eterodistruttività non sono altro che soluzioni inadeguate a un'impossibilità/incapacità di stabilire o ristabilire relazioni di comprensione e di amore con il proprio Sé e con gli "oggetti-altri': molti dei quali hanno perduto significatività esistenziale nel nostro mondo privato interno e non hanno alternative di senso in quello esterno. Volutamente non ho trattato le situazioni in cui il passaggio all'atto repentino, non meditato, agito in un impeto di rabbia contro una persona "non significante", estranea, anonima, casualmente incrociata nel proprio quotidiano rientra in percorsi delinquenziali o non significativi sotto il profilo clinico e mi sono esclusivamente occupato dei casi in cui si può ravvisare un qualche tipo di rapporto psicodinamico e/o psicopatologico tra vita e morte. Così non ho trattato estesamente del suicidio e di tutti gli infiniti agiti autodistruttivi di cui è tanto ricco il repertorio comportamentale delle persone, se non nella misura in cui ha interessato la casistica presentata (casi 9, 11, 13 e 15). Non tutti pensano e agiscono come Socrate: il percorso che egli segue per giungere all'atto estremo è da lui ampiamente motivato e giustificato; non è però appannaggio esclusivo della sua storia. Per converso, anche l'individuo più pacificato e sereno che sostiene di vivere in armonia con se stesso e con gli altri e a tutti appare come "normale" e "realizzato" può suicidarsi senza motivo apparente e all'improvviso. Pertanto tra ciò che appare agli occhi dell'osservatore e ciò che vera123
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mente ognuno di noi è nel suo spazio interiore possono emergere problematiche che rendono comprensibile anche ciò che di primo acchito sembra assurdo e incomprensibile e illustrano percorsi tortuosi e complessi, a lungo meditati e preparati, ma non necessariamente patologici. Nelle nostre scelte attive o astensioniste, nella nostra rappresentazione sulla scena della vita, nel recitare la parte che ci è stata riservata, alle volte "siamo più stolti di quanto pensiamo; altre volte siamo più saggi di quanto noi stessi riteniamo". 1 Un altro tema fornisce a questo punto motivo di riflessione e cioè che il farsi del male può avere le stesse spiegazioni che sottendono un agito eterodistruttivo. Gli studi psicoanalitici sul suicidio hanno infatti sottolineato la relazione che unisce l'impulso autoagressivo e la tendenza eteroaggressiva, non cessando di parafrasare il detto di Stekel: "Nessuno si suicida che non abbia desiderato la morte di qualcuno". 2 Analoghe considerazioni sono state svolte da molti altri studiosi eriferite in nostri lavori non più recenti. 3 In effetti, chi uccide, anche se il suo atto non è seguito da analogo agito autodistruttivo, uccide dentro di sé ogni speranza di recupero, di riscatto, di cambiamento, di dialogo, di elaborazione, di soluzione, bloccato com'è in un presente pietrificato, dal quale è convinto e teme di non poter trovare via d'uscita. In più racconti ricorre la parola "amore", a volte con significato di giustificazione di un abbandono, a volte di rimpianto per qualcosa che non è stato, a volte di perdita di un rapporto importante o che si credeva tale, a volte di legittima e giustificata esigenza di risarcimento: sempre comunque in una sovrabbondanza di significato, tale per cui il più delle volte suona come usata a sproposito, tanto stridente e anacronistico è il contesto in cui compare una parola che invece è così ricca di senso - una relazione amorosa consiste infatti nel riconoscimento delle rispettive individualità, nella capacità di reciproca donazione e gratificazione, di attendere e di non pretendere, di condividere e tollerare le frustrazioni e di elaborare i distacchi. Dare e ricevere la morte (nei casi estremi) è dunque la testimonianza di questo problema non risolto e non superato che impedisce la (ri)costruzione, nel proprio mondo interno o nel rapporto con l'Altro, di un I. A. Schopenhauer, Aforismi sulla saggezza del vivere, tr. it. Mondadori, Milano 1994, p. 215. 2. W. Stekel, Stiirungen des Trieb- und Ajfektlebens, voli. 1x, x, Urban u. Schwarzenberg, Berlin 1927. 3. Si vedano, per tutti, quelli riassunti in G. Gamna, U. Pomari, "Contributo allo studio clinico e criminologico del 'suicidio allargato"', in Annali di freniatria e scienze affini, 78/2, 1965, pp. 171200; U. Pomari, G. Gasca, "Criminogenesi e criminodinamica della psicosi maniaco-depressiva", in Minerva medico-legale, 88/5, 1968, pp. 201-235.
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legame di vita in un contesto vissuto o ridefinito come significativo e significante per il proprio Sé e per la relazione con l'Altro. Secondo la psicologia delle relazioni oggettuali,1 ciò che anastomizza queste e altre forme di comportamento auto ed eterodistruttivo è la perversione (intesa non come riferita a un eros distorto, bensì a un malfunzionamento interpersonale, in cui la relazione è pregenitale, preoggettuale ). In essa siamo in presenza di un cattivo funzionamento delle "relazioni oggettuali", con conseguenti problemi nell'identificazione e nella formazione di rappresentazioni del Sé o dell'oggetto da parte dell'Io e del Super-io. Le interpretazioni più recenti pongono in primo piano l'importanza dei processi di separazione/individuazione. Questi possono essere stati precocemente sperimentati o come inadeguati (insufficienti risposte empatiche) o come umilianti e inferiorizzanti o minacciosi per l'integrità del Sé o ostacolanti il processo di separazione/individuazione (fusione prolungata). Donde il formarsi di forme patologiche di attaccamento e di impossibilità di elaborarle, se non attraverso agiti estremi distruttivi. Sul versante opposto, è la presenza di disturbi mentali seri che, sul piano psicopatologico, ci aiuta a comprendere come nella criminogenesi e criminodinamica del singolo passaggio all'atto si possano individuare componenti deliranti, depressive o deterioramenti cognitivi che si inseriscono su queste grandi tematiche di fondo, comuni in tutte le patologie che ostacolano o impediscono l'elaborazione dei lutti, degli abbandoni e dei distacchi. Auto ed eterodistruttività possono però essere ricondotte anche a fattori esterni al sistema individual-psicologico, che appartengono l'uno a quello sociale l'altro a quello culturale. È buona regola in altre parole, non isolare il problema decontestualizzandolo e ponendolo sul lettino del clinico senza tenere conto: • da un lato di un'organizzazione sociale in cui va sempre più consolidandosi una cultura pregenitale, scissionale, violenta, sadica, le cui fondamentali fonti di piacere sono far trionfare nei più diversi contesti relazionali e sociali la legge del più forte o del più prepotente o del più "furbo", che elide ogni forma di solidarietà e di tolleranza, vanifica il discorso dei limiti, alimenta riferimenti e comportamenti imitativi confusivi e anonimizzanti; 4. A seconda di se e come sono state superate le tappe attraverso cui si costruiscono le relazioni oggettuali - fusione (simbiosi tra soggetto e oggetto); separazione (individuazione: scissione e idealizzazione); integrazione (introiezione)-, la persona presenterà un funzionamento che convenzionalmente definiamo "normale" o "patologico".
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• dall'altro di una trasformazione sostanziale del ruolo socioculturale della famiglia, della scuola e dei gruppi sociali, divenuti incapaci di aiutare a mettere in atto meccanismi di adattamento realmente coesivi e riparatori, ristabilendo e tutelando gli inevitabili riferimenti normativi e ridefinendo le regole che garantiscono il funzionamento dei gruppi sociali. In ambito di psicologia dell'età evolutiva, poi (vedi il caso 16, Roberto che uccide la sua compagna di scuola), una protratta adolescenza narcisistica, così come una sottrazione o privazione di riferimenti e accudimento rendono estremamente vulnerabili gli adolescenti, che di fronte alle inevitabili prove della vita reagiscono con la rabbia eterodistruttiva propria di colui che si è sentito "tradito", "abbandonato" e "privato" dei suoi diritti. Al contempo, il senso di colpa derivato dal non riuscire a provare riconoscenza verso genitori così "buoni" impedisce loro di liberarsi, di individuarsi, di dirigere l'aggressività verso oggetti esterni: donde molte espressioni della loro autodistruttività. In altri casi, infine, l'identificazione con l'aggressore o l'apprendimento diretto di condotte violente può esitare in condotte eterodistruttive egosintoniche proprie di coloro che vivono con la morte e per la morte e che, distruggendo la vita nelle sue diverse manifestazioni, uccidono dentro se stessi parti più o meno scisse del loro Io. Tutti questi soggetti, incapaci di rispettarsi e di rispettare, mantengono una relazione sbagliata con l'oggetto, nel senso che nel loro mondo interno ed esterno il proprio Io e l'altro da Sé non sono riconosciuti come tali e quindi come esseri indipendenti, autonomi, ma come preoggetti che si manipolano, si possiedono, si usano per poi gettarli quando e se non servono più; e così si mettono in atto atteggiamenti e/o condotte genericamente perverse e violente, che vanno dai maltrattamenti, alle diverse forme di abuso e di abbandono, alle disressie alimentari, alle politossicomanie, al suicidio, al mobbing, allo stalking, alle aggressioni sessuali, alla violenza seriale ecc. In tutti i casi esaminati, o per ragioni di natura psicologica o per motivazioni appartenenti alla dimensione della franca patologia mentale, le relazioni interpersonali hanno perduto di significato: di volta in volta il desiderio, la pazienza, la coerenza, la posposizione, la conquista, la tenerezza, la comprensione, la compassione, la solidarietà (per non dire l'amore, parola tanto enorme quanto abusata) vengono sostituiti dal tutto e subito, dall'insofferenza, dall'intransigenza, dalla vanificazione del dissenso, dal qualunquismo, dall'isolamento, dalla solitudine e da tutta una serie di comportamenti contraddittori e alternanti, quando non francamente patologici. 126
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Talvolta tutti questi sono indicatori significativi di una più ampia difficoltà a raggiungere la relazione "oggettuale adulta e matura", a configurarsi l'Altro per quello che è, piuttosto che per quello che serve, a stabilire e mantenere rapporti di mutua collaborazione e comprensione, piuttosto che di reciproca prevaricazione e uso. Talaltra sono indicativi di metamorfosi psicopatologiche del funzionamento mentale del singolo soggetto. In questi ultimi casi, quello che colpisce è il dato secondo il quale i contenuti del discorso sono sempre gli stessi o sono ampiamente sovrapponibili: quello che varia è il loro modo di esprimersi, a seconda che vengano declinati nell'ambito della perversione relazionale o nell'ambito della psicopatologia. Vediamo di esaminare il primo filone tematico: quello della perversione relazionale. Molte sono le vie che le persone possono percorrere per stabilire e mantenere relazioni perverse al punto tale di dare la morte (e metaforicamente, quando non realmente, fino al punto di darla a se stesse), attraverso la distruzione rabbiosa dell'oggetto, che si è trasformato in "cattivo" ma che non si può perdere, o che è stato sovrainvestito di significati al punto da perdere i contorni e limiti reali. 1. In un rapporto affettivo che viene messo in crisi per un qualsiasi fattore stressante (casi 1, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 12, 13, 15, 16; vedi la tabella 4.1), per esempio, il soggetto, per difendersi dall'angoscia di perdita e di impotenza legata alla sua incapacità di scindere il legame o accettare la scissione dello stesso, mette distanza, disumanizza, spezza, parcellizza l'oggetto del proprio desiderio che, al contempo, attiva la sua grande paura dell'abbandono. Incapace di superare una grave ferita narcisistica e di istituire legami oggettuali di natura benigna, colui o colei il cui funzionamento psicologico è orientato verso la perversione usa rabbia e ostilità contro l'altro da Sé, ricorrendo a meccanismi di funzionamento psichico primitivi al servizio della pulsione di morte, della distruttività, auto ed eteroindotta: e ciò accade indipendentemente dal fatto che il soggetto sia o meno portatore di disturbi psicotici rilevanti. 2. Un altro meccanismo di distruttività (casi 1, 4, 5, 9, 11, 13, 16) può essere riconosciuto alla perdita della speranza di poter conferire nuovi significati alla relazione con l'Altro vissuto come molto potente, di cui non si può fare a meno, ma di cui bisogna vendicarsi, non essendo in grado di emanciparsi e nella convinzione di aver subito prevaricazioni e oggettivazioni di ogni genere. 3. In tutte le situazioni conflittuali descritte, poi, si vive costantemente nella paura di essere umiliati, abbandonati, maltrattati, per cui si esige 127
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un rapporto che non si deve interrompere e in cui si deve essere risarciti attraverso atteggiamenti di accettazione, comprensione e ascolto. Se ciò non avviene, elevata è la possibilità di passaggio all'atto. In tutti questi casi la "fusione" o la mancata separazione con l'oggetto altro da Sé non rappresenta un atto di amore (che invece è tale quando riconosce nell' Altro un oggetto esterno, autonomo e differenziato e ci si rapporta a lui/ lei con sentimenti di empatia, di comprensione, di tenerezza, di rispetto per le sue decisioni, di capacità di distacco e di elaborazione dei lutti), bensì è espressione di un funzionamento perverso che il soggetto, attraverso la finzione del "come se': si convince essere la normalità. Ogni legame fusionale, invece, è un legame di morte, intimamente intriso com'è di oralità distruttiva; come pure lo è ogni legame scissionale, perché in esso è impossibile la costanza della relazione nell'ambivalenza dell'oggetto interiorizzato, con il quale ci si fonde in un magma indifferenziato o che si scinde in "o" "o". Entrambi questi assetti, di tipo preoggettuale o pregenitale, non consentono il costruirsi e il mantenersi di una relazione, se non attraverso finzioni rinforzate rigide e fragili, che quando cedono si spezzano e trascinano con sé i loro illusi e delusi alfieri. 4. Quando poi, nell'ambito di una coppia, cade il silenzio (casi 1, 2, 5, 9, 10, 11, 12, 13, 15), può crearsi un vuoto in cui non si è più in grado di ridefinire il proprio ruolo e operare nuovi investimenti affettivo-relazionali; per cui la coppia o anche uno solo dei componenti - se non trova soluzioni esterne - si ripiega su se stesso, fino al punto di diventare astioso e insofferente verso ogni interessamento dell'Altro, le cui azioni sono vissute come intrusione in un'esistenza privata di ogni progetto e aspettativa fiduciosa nel futuro e in cui l'Altro non rappresenta più il compagno, l'amico, il confidente, il complice, ma diventa l'estraneo fastidioso, ingombrante, con il quale non si ha più nulla da dire, ma che ci si sente in dovere di proteggere, anche se non se ne sopporta più la presenza. 5. In altri casi (2, 5, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 17), infine, sono la solitudine e il silenzio, l'impossibilità di ristabilire legami di coesione, l'incapacità di comunicare la sensazione di un freddo vuoto che nulla e nessuno può più colmare, il convincimento che non si possa più porre riparo a questo terribile stato di cose, i motori che spingono all'azione che vuole rappresentare una "via di uscita" da una situazione contingentemente vissuta come intollerabile, non gestibile, non più elaborabile. Le stesse tematiche si possono individuare quando interviene la patologia mentale maggiore (casi 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16) che - come ho già scritto - nel sovrapporsi a questi grandi temi di fondo, fornisce una 128
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veste patologica a vissuti che appartengono a una comune e universale "psicologia del comprensibile". Una forma particolare di agito auto ed eterodistruttivo è il suicidio allargato,5 nel quale possono essere iscritti i casi 11 e 15, la cui genesi e dinamica sono riconducibili alla depressione delirante. Gli autori che si sono interessati di tale forma di comportamento lo hanno interpretato come un atto estremo e disperato d'amore e di difesa verso le persone più care e lo hanno inteso come caratteristico delle forme "melanconiche". Il problema generale suscitato dai protagonisti di un "suicidio allargato" viene quindi a coincidere, per lo meno a grandi linee, con quello delle sindromi depressive. Esulano da questa tematica i casi di semplice depressione reattiva commista a situazioni frustrazionali di varia natura (caso 2, Maria, che, disperata ed esasperata, uccide il suo piccolo bambino, affogandolo in una tinozza), e i quadri in cui la patologia depressiva è molto grave e talora frammista a disturbi psicotici di tipo schizofrenico o paranoideo (caso 14, Olga, che nei suoi vissuti depressivi unisce tematiche persecutorie e di gelosia patologica nei confronti del marito). Accanto alla tematica dell'altruismo e dell'amore come nel suicidio allargato "puro", possono coesistere spunti di riferimento e di persecuzione, svolgenti un ruolo patoplastico nel precipitare l'evento delittuoso. Non si dimentichi che il depresso è uno spietato accusatore di sé ma anche degli altri; pertanto non solo si punisce, ma anche punisce gli altri attraverso il suo "stare male" e il suo "passare all'atto". A buona ragione, ne è stata sostenuta l'analogia con il pubblico ministero nel processo. Sotto l'amore il malato cova l'odio: accanto all'autocolpevolizzazione vive il rancore, con la punizione di sé coesiste il bisogno di vendicarsi di quelle stesse persone che ambivalenza e sensi di colpa gli fanno descrivere come "amate", ma che in realtà egli vive come un peso e un ostacolo ulteriore al suo già tedioso e odiato "mestiere di vivere". L'aggressività da persecuzione depressiva (caso 14, quello di Olga) si rivolge propriamente contro chi rappresenta il bene supremo per il soggetto, il quale tuttavia, trascinato al peggio da questo ardore distruttivo, agisce nei confronti dell' oggetto ormai privo di capacità protettive e riparative. Siamo nell'ambito di una patologia depressiva che, come ricordano in particolare gli autori francesi, non si circoscrive esclusivamente alla tri5. Tale termine è stato introdotto dallo Strassmann (F. Strassmann, Medizin und Strafrecht, Langenscheidt, Berlin 191 I), il quale ha precisato: "Io ho sotto questo nome indicato e raccolto quei casi in cui il suicidio fu il motivo primitivo e l'uccisione dei familiari a opera del padre o della madre avvenne per non lasciare questi sopravvivere soli senza aiuto".
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stezza, al rimorso o alla paura, ma rappresenta uno sconvolgimento molto più profondo, una catastrofe psichica che si produce nella profondità dell'essere, uno sconvolgimento della struttura formale della vita psichica e non semplicemente una reazione alle condizioni infelici dell'esistenza. Nei casi 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 ci si trova di fronte a episodi psicotici acuti di scompenso, iscrivibili alcuni nelle psicosi schizofreniche (caso 1O, Carmen), altri in una depressione endogena (caso 11, Daiana, e 15, Enrico), certi nelle psicosi cicloidi (casi 12, Giovanna, e 14, Olga), altri nelle psicosi paranoidi (caso 13, Alessandra) e altri ancora in una processualità schizofrenica (caso 16, Roberto). Nel caso delle psicosi cicloidi, si tratta di disturbi psicotici acuti da molto tempo noti, ma ritenuti non autonomi e fatti rientrare (fino a poco tempo fa) o nella schizofrenia acuta, o nel disturbo maniacale, o nella depressione con manifestazioni psicotiche incongrue dell'umore. In realtà, si tratta di un disturbo autonomo a insorgenza acuta e a prognosi favorevole, ma con elevato numero di recidive. In alcuni casi è possibile la cronicizzazione. Come appena detto, a queste entità psicopatologiche è attualmente (come un tempo) riconosciuta dignità di disturbi o sindromi autonomi, accanto alla psicosi schizofrenica, a quelle affettive e a quelle deliranti (paranoidi). Nei casi 10 e 12, in particolare, il periodo di scompenso acuto è preceduto da una condizione che, in psicopatologia, prende nome di "stato d'animo delirante" o Wahnstimmung: quadro tipico di scompenso schizofrenico (come nel caso 1Odi Carmen) o schizoaffettivo (come nel caso 12 di Giovanna). Esso consiste in una sensazione angosciosa e terribile di una progressiva e indefinibile trasformazione del mondo, in un cambiamento degli atteggiamenti degli Altri che assumono sinistri, misteriosi e, al contempo, inafferrabili significati. Un oscuro e insopportabile cambiamento è nell'aria: il malato sente che sta per accadere qualcosa di minaccioso e di terribile, ma non sa cosa. In questo stato d'animo carico di angoscia panica, compaiono, talvolta repentinamente, voci che incalzano in maniera caotica e disordinata, guidano il pensiero e le azioni. Talaltra le voci si insinuano lentamente e crescono in modo inarrestabile insieme con il distacco autistico. In entrambi i casi, il malato non riesce a sottrarsi all'influenzamento delle stesse. Durante l'episodio psicotico acuto predominano dunque allucinazioni, spunti deliranti non sistematizzati, onirismo o stato crepuscolare, agitazione psicomotoria intensa. Il passaggio all'atto spesso è caratterizzato dalla reiterazione delle aggressioni distruttive e dal ricorso a strategie omicidiarie differenziate (strozzamento, accoltellamento, mutilazioni, 130
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depezzamenti ecc. perché o "non moriva mai", o "continuava parlare e a guardarmi negli occhi", o "il coltello si piegava e non entrava nel corpo" o "le pallottole rimbalzavano e tornavano indietro"). Si possono poi osservare comportamenti inadeguati e disorganizzati dopo il fatto. Infatti, sempre in preda al panico e in una condizione di tipo confuso-onirico, il malato emette una serie di comportamenti non pianificati e non finalizzati, anch'essi segno eloquente della grave compromissione psicotica in atto, disorganizzante il funzionamento dell'Io. A parte questi casi in cui è evidente la componente di scompenso psicopatologico nel corso di una psicosi variamente etichettata, è importante prendere ora in esame i casi in cui si può individuare solo uno
stato emotivo, sia pur intenso, e un vissuto di rabbia narcisistica che porta all'agito (casi 1, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9). Il funzionamento mentale sottostante è diverso da caso a caso; per esempio, il caso 3 (Antonio che uccide l'amante dalla quale si sente perseguitato, dominato e manipolato) è quello di un soggetto che rientra in una dimensione nevrotica; mentre il caso 4 (Bruno che uccide l'amante dalla quale si è sentito ed è stato realmente disprezzato e svalutato) fa parte di una dimensione psicopatica. L'agito di Antonio è sotteso dalla paura di non potersi liberare dall'amante che ha assunto connotati vieppiù persecutori, vessatori e oggettivanti nei suoi confronti; quello di Bruno dalla ferita narcisistica che gli ha procurato la donna che con il suo tradimento gli ha rimandato un vissuto di umiliazione e di grave scacco del proprio sentimento di autostima. Ma anche in tutti gli altri casi si può identificare un aspetto di fondo: quello della perversione relazionale incentrata sulla tematica dell'onore offeso, strettamente connessa con quelle del dominio, del possesso e del controllo, come nel caso 1 (Vincenzo: "Mi sono sentito l'ospite in casa di mia moglie, l'ho patito senza rendermene conto, non avevo voce in capitolo ... la casa dove abitavo era come un albergo dove altri prendevano le decisioni sulla gestione familiare"); nel caso 3 (Antonio: "Sentivo che mi dominava, la mia paura era di non poterla contenere e controllare; lei passava su tutto, stavo precipitando in un imbuto, dal quale non sarei più uscito ... a un certo punto ero diventato un oggetto, una cosa sua, non avevo più la mia vita"); nel caso 4 (Bruno: "Mi sono sentito usato e gettato via, preso in giro; mi ha ammesso tranquillamente che stava con un altro e che tra noi era finita"); nel caso 5 (Pino: "I. era diventata esigente e sprecona e ha iniziato a pretendere, a esigere. Io ero diventato il garzone e lei la padrona. Io ero succube di lei. Ormai mi aveva in pugno, faceva di me tutto quello che voleva"); nel caso 6 (Mauro: "Qualunque cosa io facevo o dicevo non andava bene; io servivo solo più come zimbello: 131
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dovevo lavorare e basta"); nel caso 7 (Giovanni: "Mi sentivo umiliato e sminuito in un modo incredibile. Mi aveva offeso, mi ha fatto sentire un nulla. Lui voleva annullare la mia persona"); nel caso 8 (Paolo: "Lei non ha mai reagito con me come quella sera lì. Mi sono sfogato e poi le ho chiesto di avere un rapporto, dicendole che non avevo soldi e che avrei pagato in seguito, come avevo fatto altre volte. Alla mia richiesta lei mi ha risposto male e mi ha mandato via; io ero già giù di morale e lei mi rispondeva male"); e infine nel caso 9 (Domenico: "Si è arrabbiata tantissimo ... invece di aiutarmi, si è messa a gridare, ad alzare la voce, se l'è presa con me. Io non sono riuscito a calmarla in nessun modo; mi ha offeso in tutti i modi, non mi aspettavo che mi parlasse così"). Nel caso 1 (Vincenzo, che tenta di uccidere la moglie) e 9 (Domenico, che uccide la prostituta amica e confidente), poi, siamo in presenza di un funzionamento al limite che aggrava il vissuto di abbandono e di tradimento psicologico, nel senso che la perdita dell'oggetto dal quale si dipende secondo modalità scissionali di vita e di morte, è il momento che fa precipitare nel vuoto desertificante e disperato il paziente borderline. L'aggressione all'oggetto divenuto "cattivo" e pertanto "persecutorio" e la sua distruzione esprime la rabbia narcisistica del borderline che cerca ristoro e compensazione all'insignificanza causata dalle azioni dell'oggetto "cattivo", che deve essere distrutto, per non sentirsi a sua volta irrimediabilmente "cattivo". In linea di massima, non c'è bisogno di scomodare le classificazioni psichiatriche per spiegare e motivare i contenuti del nostro immaginario e le infinite espressioni della distruttività umana: cosa tutt'altro che pacifica per i detentori della comunicazione di massa. Per dirla in altre parole: è pacifico che quando un individuo agisce o reagisce seguendo uno stato d'animo turbato ed esasperato (ma non certo delirante), da un certo punto in avanti non può più fare altrimenti (il punto di non ritorno); il bisogno di ristabilire in qualche modo un "equilibrio", di recuperare la sua "soggettività" messa in scacco, di non sentirsi più "oggetto" in balia di questi moti prepotenti e inquietanti dell'animo umano, di uscire da una situazione di depressione esistenziale ecc. guida le sue condotte e scatena il suo passaggio all'atto. È altrettanto chiaro che qualsiasi persona commetta un reato (eccezione fatta per i delinquenti seriali) non ha potuto fare diversamente, altrimenti non si troverebbe nelle condizioni di indagato o di imputato. Ragionando in altri termini, ogni considerazione sulla libertà e sulla responsabilità umana, quale si fa nelle aule di giustizia, verrebbe vanificata e resa non fruibile in questo campo. 132
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Dall'esperienza clinica, però, emerge chiaramente che il funzionamento di tutti coloro che commettono un reato d'impeto, indipendentemente dal rientrare o meno in una categoria alfanumerica, è di tipo primario. In altre parole, come esemplificato nel caso 17, si tratta di funzionamenti psichici in cui hanno svolto un ruolo criminodinamico importante anche meccanismi primari di scissione, di identificazione proiettiva e di negazione, siano o meno iscrivibili in una dimensione psicopatologica "alterata" e attribuibili a un disturbo mentale codificato. In ogni persona è in agguato quell'istinto di vita in cui sono presenti anche componenti perverse e distruttive, funzionali alla semplice volontà di sopravvivere, da Bergeret identificata con la violenza fondamentale, 6 di tipo preoggettuale, pregenitale. Scrive il suddetto: La violenza fondamentale (forma primitiva di aggressività) precede l'aggressività, intesa nel significato psicoanalitico abituale, perché essa non comporta valenze distruttive. Essa esiste prima che si stabilisca una vera e propria relazione oggettuale e costituisce una manifestazione dell'istinto di conservazione. È soltanto in una più tardiva fusione con la libido che sopravvengono le funzioni distruttive di aggressività, di odio, manifestate clinicamente nel sadismo e nel masochismo.
Seguendo questo tipo di lettura clinica, qualsiasi funzionamento primario, in tanto in quanto clinicamente ritenuto patologico, indipendentemente dalla categoria alfanumerica nella quale è ricompreso, potrebbe conferire "significato di infermità" all'atto ed escludere o scemare grandemente l'imputabilità dell'autore di reato. Nella pratica forense, però, le cose non stanno così, dal momento che le valutazioni psichiatriche devono essere, per convenzione e per giurisprudenza conforme, ancorate al modello nosografico clinico e non possono fare riferimento ad altri. La valutazione degli stati emotivi o passionali, in altre parole, deve essere in linea con l'applicazione di modelli convenzionali di lettura del comportamento criminale, anche se i più o meno contorti schemi nosografici, di per sé soli, non sono adeguati per mettere in evidenza il funzionamento psichico degli autori di siffatti reati: funzionamento che deve comunque essere sempre tenuto presente nella valutazione complessiva dell'imputabilità e che non può prescindere da quella ricostruzione della criminogenesi e della criminodinamica del reato che, fatta dall'autore stesso, consente di rispondere al quesito relativo alle sue condizioni di mente al momento del fatto delittuoso. 6. J. Bergeret, Clinica, teoria e tecnica, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1990.
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Nulla più: a nessuno di noi è data la capacità di sondare l'animo umano e di coglierne fino in fondo - al di là di ogni ragionevole dubbio - gli infiniti, complessi, terribili e misteriosi intrecci; di ricostruire con sufficiente obiettività lo stato d'animo di una persona (ma nei reati emotivi e passionali è meglio parlare di due persone, essendo la vittima inscindibilmente unita all'autore) a distanza dall'episodio delittuoso; di determinare le ragioni profonde del suo comportamento distruttivo, quando non esplicitamente ammesso, se non attraverso approssimazioni che restano aperte al contraddittorio o a negazioni di responsabilità (vedi il caso 17). Possiamo solo fare delle opzioni, dichiarando la nostra teoria di riferimento e il nostro metodo di lettura dei dati clinici (cognitivismo, fenomenologia, psicodinamica, neuroscienze, diagnostica categoriale ecc.) e proponendo le nostre "soluzioni" come sistema aperto e dialetticamente contestabile. È in questi casi soprattutto che la verità clinica, anche quella dinamicamente o fenomenologicamente più ricca e articolata, può lasciare aperti molti problemi e irrisolti diversi quesiti, pur in presenza di una verità processuale ricostruita in maniera incontestabile. Secondo me, la storia del caso 17 (Annamaria, figli ci da) è paradigmatica in questo senso e in questo senso dovrebbe essere letta ed essere oggetto di meditata riflessione da parte di noi studiosi della psiche umana, chiamati a formulare valutazioni forensi, anche se, nella fattispecie, il problema penale è ormai definitivamente risolto. Ma non basta: infatti il delitto contro la persona deve sempre essere collocato anche in un'ottica relazionale e transazionale e letto nella sua dimensione socioculturale, perché non è detto che la vittima sempre e solo subisca passivamente e che la distruttività umana sia appannaggio esclusivo del sesso maschile. 7 In sintesi: il legislatore, per ragioni "di ordine e di politica sociale", ha posto un perentorio limite alla rilevanza delle emozioni e delle passioni, di questi stati propri dell'animo umano, in omaggio a un postulato che afferma il principio della libertà e della responsabilità individuali. Ne consegue che come ogni persona è libera di emettere condotte emotive o lasciarsi travolgere dalle sue passioni,8 altrettanto libero è lo Stato di chiedere doverosamente conto a tale persona dei suoi comportamenti quando essi si costituiscono in fatti-reato e non esistono questioni di 7. I. Merzagora Betsos, Demoni del focolare, Centro Scientifico Editore, Torino 2003; I. Merzagora Betsos, Uomini violenti, Raffaello Cortina, Milano 2009; A.C. Baldry, E. Ferraro, Uomini che uccidono, Edi-Ermes, Milano 2010. 8. Sull'importanza delle passioni sui comportamenti umani con casistica allegata si veda un ponderoso contributo in due volumi che porta il seguente titolo: J.L. Alibert, Physiologie des passions, Béchet Jeune, Paris 1825.
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infermità di mente o di minore età che incidano sulla sua imputabilità e, quindi, punibilità. 9 Comprendiamo allora le esigenze di politica criminale che vollero e tuttora vogliono ancorare a una categoria diagnostica la valutazione psichiatrico-forense, anche se queste esigenze, coerenti con le conoscenze del tempo in cui fu promulgato il codice del 1930, hanno perduto gran parte della loro attualità. D'altro canto, con una nomenclatura psichiatrica che consente di classificare tutto e tutti e di trovare per ogni persona una nicchia alfanumerica, il rischio potrebbe essere quello di vedere diventare non punibile ogni delitto impulsivo, specie quando ci si aggira nei meandri di una nosografia che non ha alcuna difficoltà a etichettare uno "stato psichico morboso": come se gli psichiatri conoscessero la categoria della "normalità"! Per quanto intenso, uno stato emotivo o passionale di per sé solo è un prezioso indicatore di qualcosa che deve essere valutato in una dimensione clinica integrata, senza che peraltro si possa già equiparare questo stato emotivo di "sconcerto psichico" a uno stato patologico psichico avente significato di infermità e, come tale, incidente sulla capacità di intendere o di volere e senza che si debba per forza ritenere che l'infermità debba sostanziarsi sempre in una malattia su base organica. Una condotta emotiva o passionale che, quando scompensata, esiti in un reato rientra senza ombra di dubbio in una reazione abnorme ("sconcerto psichico", "forte eccitazione emotiva': "condizione di passionalità", "grave coinvolgimento emotivo" ecc.), ma ciò non significa ancora nulla in punto vizio di mente, dal momento che - lo ripetiamo - è fondamentale analizzare in che tipo di funzionamento di personalità detta condotta/reazione si epifenomenizza, in quale contesto di vita e in che tipo di relazione con la vittima. La complessità del singolo accadimento, inoltre, dimostra che né una qualsiasi alterazione, né un generico disordine transitorio della psiche possono identificarsi con il concetto di infermità, che per volontà del legislatore deve rimanere ancorato a criteri diagnostici chiari e riferiti a una nosografia psichiatrica in cui solo i disturbi gravi di personalità e quelli psicotici conducono a rotture rilevanti e gravi dei confini dell'Io e del suo funzionamento. Mi ripeto: è quel quid navi o quel quid pluris che deve essere ricercato e individuato nell'ambito di un percorso psichico in cui l'emozione o la 9. Si vedano, tra gli altri, R.l. Simon, I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2013; F. Santoni De Sio, Per colpa di chi, Raffaello Cortina, Milano 2013.
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passione si trovano in rapporto con il delitto commesso, costituendone manifestazione, sintomo ed epifenomeno. In questo senso, solo la storia clinica completa del soggetto in esame consente di conferire o meno "significato di infermità" all'agito. In altre parole, un approccio trasversale, privo di quello longitudinale, non consente di addivenire, se non in casi estremi, a una soluzione clinica corretta e a una conseguente valutazione psichiatrico-forense condivisibile. Sono le dimensioni della criminogenesi e della criminodinamica quelle che ci possono aiutare a risolvere il problema valutativo: non quelle di una più o meno dotta e articolata (e confusiva) nomenclatura psichiatrica. È cosa ben diversa leggere i racconti dei casi 2 (Maria, che uccide il proprio figlioletto annegandolo), 3 (Antonio, che uccide la propria amante in maniera efferata), 4 (Bruno, che uccide in maniera crudele la propria convivente), 5 (Pino, che in un momento di esasperazione uccide la propria convivente), 6 (Mauro, che cerca di uccidere il figlio che teme), 7 (Giovanni, che nell'ambito di una non chiara vicenda a sfondo omosessuale uccide la persona dalla quale sarebbe stato desiderato, minacciato e ricattato), 8 (Paolo, che cerca di uccidere una prostituta come reazione a un congresso carnale fallito) e 9 (Domenico, che uccide la prostituta con la quale fallisce nel rapporto sessuale) rispetto ai racconti dei casi 1O (Carmen, che soffoca la propria figlioletta nel corso di uno scompenso psicotico acuto), 11 (Daiana, che tenta di strangolare una delle sue due figlie e minaccia di morte l'altra, nell'ambito di una depressione delirante), 12 (Giovanna, che uccide a coltellate la propria madre nel corso di uno scompenso delirante schizofrenico), 13 (Alessandra, che tenta di uccidere a coltellate una sua dipendente di cui è patologicamente gelosa), 14 (Olga, che colpisce con un coltello il proprio marito, convita che questi la tradisca), 15 (Enrico, che uccide la moglie nel corso di una depressione delirante scompensata), 16 (Roberto, che nel corso di una bouffée delirante, uccide la propria compagna di scuola) e 17 (Annamaria, che uccide uno dei suoi figli nell'ambito di una reazione ansiosa non meglio precisata). La tipologia delittuosa in molti casi si sovrappone, ma sono criminogenesi e criminodinamica che si discostano sostanzialmente, nel senso che: • nel primo gruppo: l'immagine del proprio Sé interiorizzato è stabile; è mantenuta l'unitarietà dell'Io; vengono utilizzati prevalentemente meccanismi difensivi di tipo secondario (in particolare: rimozione e 136
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proiezione); il comportamento è prevalentemente organizzato e finalisticamente orientato; i confini dell'Io sono nella sostanza mantenuti; è conservata la capacità di distinguere il Sé dal Non-Sé, il mondo interno da quello esterno, la realtà dalla Non-Realtà; le motivazioni all'azione sono di comune riscontro in molti altri tipi di agiti eterodistruttivi; • nel secondo gruppo sono presenti a vario titolo e con diversa intensità: compromissione transitoria o persistente dell'esame di realtà (deliri e allucinazioni, disturbi gravi dell'umore, deterioramento cognitivo); ricorso all'utilizzazione di meccanismi primari di difesa (scissione, identificazione proiettiva, negazione, idealizzazione, svalutazione, diniego); autismo con alterazioni gravi del contatto affettivo, impulsività incontrollata, comportamento disorganizzato e/o bizzarro; disturbi dell'identità, nel senso che i confini dell'Io sono gravemente alterati, fino alla loro frammentazione e perdita. Il Sé è investito e temporaneamente disorganizzato dalla tempesta psicotica. Le motivazioni all'atto sono chiaramente patologiche. Nei casi 1 (Vincenzo) e 9 (Domenico) si possono ravvisare: alterazioni del funzionamento cognitivo (stile cognitivo capriccioso e oscillante; difetto di funzione riflessiva; distorsioni cognitive frequenti che variano dalla sospettosità all'ideazione paranoide); alterazioni del funzionamento affettivo-relazionale (esplosioni di rabbia eccessiva, intensa disforia, grave instabilità affettiva e relazionale; intolleranza allo stress; impulsività e distruttività auto o eterodiretta); disturbi dell'identità (diffusione e assenza di una chiara identificazione con incapacità di reggere, organizzare ed elaborare la solitudine e di stare con se stessi, perdita del senso di continuità); ricorso prevalente all'utilizzazione di meccanismi primari di difesa (scissione, identificazione proiettiva, negazione, idealizzazione, svalutazione, diniego). Come ho già scritto recentemente in altra scde 10 è sull'integrità e sulla forza dell'identità personale e dell'Io in relazione con gli oggetti che occorre svolgere i ragionamenti in ambito psicopatologico clinico e forense, perché i difetti progressivi fino al fallimento del sentimento di identità personale e del funzionamento interpersonale (empatia, intimità, cooperazione, introiezione e integrazione dell'Altro da Sé come oggetto totale) caratterizzano le disarmonie e gli alterati funzionamenti individuali e relazionali, fino a quelli più gravi (gli stati al limite e quelli psicotici) e ai correlati agiti. 10. U. Fornari, Paranoia: dal disturbo di personalità alla psicosi delirante, Espress, Torino 2011, pp. 23 5 e sgg.
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Solo in questo modo si potranno superare i problemi e i limiti che sono insiti nelle classificazioni e nel ricorso alla diagnostica nosografica o a un' encefaloiatria di stampo lombrosiano (leggi: certe estremizzazioni delle moderne neuroscienze), aprendo il tema degli stati emotivi e passionali alla dimensione del comprendere che inserisce il passaggio all'atto (e non solo) in un funzionamento globale della personalità dell'autore con graduazioni che consentiranno al giudice di variare il suo giudizio fondando su elementi clinici il tema delle aggravanti, delle attenuanti e del riconoscimento di un vizio di mente, totale o parziale. È vero che le semplici conoscenze di certa psicologia "tradizionale" non sono sufficienti per comprendere tutti i complessi e molteplici risvolti dei comportamenti umani e che le funzioni psichiche hanno basi biologiche su cui si fondano, ma il problema è un altro: comprendere come mai, in presenza di alterazioni enzimatiche, neurochimiche e neurotrasmettitoriali identiche o ampiamente sovrapponibili ci troviamo di fronte a risposte psicopatologiche e/o comportamentali diverse. Evidentemente, nella genesi e nella dinamica di ogni comportamento umano, "normale" o "patologico" che sia, bisogna ammettere l'intervento di fattori extrabiologici, che vanno da quelli psicologici a quelli situazionali, socioculturali e transculturali. In altre parole, l'organizzazione del pensiero e del linguaggio, delle emozioni e del comportamento richiedono l'intervento di ben altre variabili oltre quelle biologiche: 11 variabili che investono alla radice il senso della vita e i significati ultimi di ogni esperienza psico(pato )logica e di ogni comportamento, delinquenziale o meno. Pertanto, l'antica dicotomia tra anima e corpo, mente e cervello, psicologismo e biologismo è destinata a essere integrata in una visione moderna della psicopatologia, che non ignora il "biologico", ma manifesta crescenti perplessità nel ricondurre e nel ridurre a questa sola categoria le complesse e misteriose tematiche del comportamento delinquenziale in genere, violento in particolare. Qualsiasi orientamento vogliano dare il ricercatore, il clinico e il perito giudiziario al loro sapere, al loro fare ed essere operatori della salute mentale e del sistema della giustizia, non è possibile prescindere da una visione unitaria, globale e dinamica della persona malata o criminale e dai significati che ella conferisce alla sofferenza provocata o sperimentata, I I. Si vedano, per tutti, l'ottimo contributo di M. Biondi, La mente selvaggia, Il Pensiero Scientifico, Roma 1996; la densissima lettura inaugurale di C.L. Cazzullo, "L'evoluzione dei concetti e della realtà in psichiatria", in Psichiatria oggi, I/2, 1999, pp. 2-6; e il magistrale volume di E. Borgna, Noi siamo un colloquio, Feltrinelli, Milano 1999.
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nell'ambito di una relazione, di un contesto, di un'organizzazione sociale e culturale per lei significative. Allo stesso modo non ha senso alcuno inseguire l'impossibile progetto di un'obiettività asettica e imparziale. Psichiatria, psicologia e criminologia clinica, nei loro aspetti pragmatici, sono discipline che partono dalla persona e a lei ritornano attraverso un osservatore che elabora con la mente le informazioni che riceve e ascolta la sofferenza umana. Ecco che allora il clinico deve inevitabilmente spostare il suo interesse dal piano della ricerca pura, che rimane indispensabile, a quello delle sue applicazioni concrete per comprendere il significato di quel funzionamento psicopatologico o delinquenziale inserito in quel determinato contesto storico e culturale. 12 Nessuno pertanto agisce semplicisticamente secondo quell'imprinting (programmazione predeterminata e immodificabile) che guida l'animale nelle sue attività di caccia, nutrizione, difesa, procreazione, aggressione, ma segue finalismi più o meno evidenti ed espliciti. A qualcuno piacerebbe ancora scoprire il cromosoma della violenza, il locus cerebrale in cui si annida !'"istinto ferino", l'enzima responsabile dell'irresistibile impulso 13 o l'alterazione molecolare o anatomica specifica per quel comportamento o per quella sintomatologia. Questa disperata e talvolta accanita e cocciuta ricerca della causalità unilineare, però, non fa altro che perpetuare l'illusione di poter trovare una soluzione semplice a problemi complessi e la fallace speranza che un qualche tipo di eugenetica consenta dicostruire un sistema sociale in cui "tutti sono buoni e si comportano bene". Ciò non significa che non si debbano utilizzare gli strumenti di indagine che la moderna tecnologia mette a disposizione del clinico: sarebbe del tutto antiscientifico ostentare un tale scetticismo e ostracismo verso il progredire delle ricerche sul funzionamento del cervello. È fondamentale però fare uso oculato e mirato dei moderni mezzi d'indagine, inserendone i risultati in una cornice clinica che conferisca significati e sensi alla ricostruzione di trame di vita spezzate. 14 12. C. Cherki-Niklès, M. Dubec, Crimini e sentimenti, tr. it. il Saggiatore, Milano 1994. 13. È stata ipotizzata nel secolo passato l'esistenza di un "organo cerebrale ferino" collocato nella regione temporo-parietale destra, responsabile della "sventurata e irresistibile inclinazione a uccidere" (Gal!, 1823; Miraglia, 1853); in termini più moderni si parla di "sindrome del serial killer" identificata con il "discontrollo periodico" o la "psicosi limbica" (disturbo organico a carico della zona limbica del cervello, J. Norris, Serial Killers, Arrow, London 1990) per ricondurre al terreno dell"'organico" le attività motorie violente e automatiche. 14. Questo modo di concepire il lavoro clinico si discosta nettamente da ogni riduzionismo biologico, quale presente in antichi e recenti contributi in argomento. Tra i meno recenti, voglio ricordare la seguente monografia, in cui si afferma in più parti che la psicopatologia è scientifica nella misura in cui si identifica con l'embriologia e la patologia del cervello: V. Mellusi, Dall'amore al delitto, Utet, Torino 1913.
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Dobbiamo avere chiara consapevolezza e dobbiamo sempre tenere conto dei limiti del nostro sapere, anche quando crediamo di aver potuto stabilire relazioni significative tra temperamento, cervello, bios e funzionamento individuale, conforme o difforme. Collocando in una dimensione integrata le caratteristiche biologiche, culturali, psicologiche, psicopatologiche, sociologiche ecc. che stanno alla base dei comportamenti umani si potranno percorrere strade più utili per affrontare i complessi problemi di conoscenza, di valutazione e di intervento.
In questo senso, noi concepiamo la dimensione clinica come un'unità, un insieme quali-quantitativo che riunisce più modelli funzionali armonicamente o disarmonicamente interagenti tra loro, ognuno con le sue caratteristiche strutturali e funzionali e con la sua diversa "intensità" e ''peso differenziale'; individuata e valutata in un'ottica clinica. Sotto questo profilo, il funzionamento mentale inteso in senso ampio modella sia la tematica psicopatologica sia il comportamento agito o subito. La diagnosi nosografica (approccio categoriale) è un momento importante del lavoro clinico e forense, ma non sufficiente e tanto meno esauriente rispetto al compito diagnostico valutativo. Infatti quello che importa stabilire sono i contenuti psicopatologici della categoria diagnostica individuata (approccio psicopatologico) e la loro incidenza sulle singole funzioni dell'Io (identità e forza dell'Io; meccanismi di difesa; livello di organizzazione dell'Io; funzionamento del Super-io; confini; relazioni oggettuali). Utili, ma non indispensabili, sono: i dati neuroscientifici concernenti la morfometria e il funzionamento cerebrale (regioni prefrontali, fronto-temporali, amigdala e ippocampo); - le indagini genetiche. Un approccio di questo tipo pone in primo piano lo studio del funzionamento globale della personalità del periziando, di volta in volta collocato nelle quattro possibili dimensioni del funzionamento mentale sopra descritte. Sarebbe però oltremodo scorretto sottovalutare da un lato l'incidenza di eventuali componenti patofisiologiche specifiche su altre funzionalmente correlate (aspetti biologici), dall'altro sottacere l'importanza delle caratteristiche culturali, sociali, ambientali, economiche, storiche e situazionali che sempre fanno da sfondo ai nostri comportamenti (cultura e società). Ogni persona non è la somma delle sue parti, ma è un'identità nuova, 140
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organizzata secondo leggi biologiche, psicologiche e socioculturali sue intrinseche. Il tipo di risposta individuale e sociale dipende dal particolare combinarsi in quella persona delle suddette caratteristiche personali in quel contesto culturale, normativo, sociale e relazionale. Pertanto, ogni compromissione comportamentale deve essere valutata nell'ambito di un discorso clinico integrato che prenda in considerazione l'intera persona, nella sua storia di vita singolare e non riproducibile in laboratorio. La psicopatologia forense cerca di stabilire eventuali rapporti tra il o i disturbi psicopatologici e l'atto commesso o subito avente rilevanza giuridica in ambito sia penale sia civile (imputabilità, inferiorità e deficienza psichica, pericolosità sociale, capacità decisionale ecc.). Si tratta di affrontare, in altre parole, il problema del "nesso eziologico" da un punto di vista psicopatologico giuridico, che supera quello medico psichiatrico, appartenente a una storia e a una prassi psicoforensi ormai superate. In linea di massima, vizio di mente esiste solo in quei casi in cui il reato può, a buona ragione, essere iscritto in determinati disturbi mentali di cui il soggetto è portatore e può essere ritenuto sintomatico del suo correlato, alterato funzionamento: in difetto o in assenza di detto rapporto,
anche il malato di mente può essere ritenuto imputabile, giacché, pur essendo egli affetto da disturbi psichici, questi non si correlano funzionalmente con il suo comportamento criminale che si colloca in spazi convenzionali di "libertà'; "autonomia" e "capacità''. A proposito delle neuroscienze, della neuropsicologia e della genetica molecolare, nessuno di noi vuole negare l'importante influenza che svolgono sulle condotte umane un organo come il cervello e un particolare assetto cromosomico: sarebbe come negare scioccamente una realtà dalla quale invece non si può prescindere. Quello che si vuole mettere in discussione non è il possesso, bensì l'uso che si può fare e già si fa nella clinica delle fondamentali scoperte di cui tutti noi siamo debitori a questi nuovi settori di ricerca. Non si può tornare ai vecchi modelli di cui sono testimonianza le perizie del passato, ma non si può neppure sostituire un elaborato psichiatrico con una relazione neuropsicologica, neurologica o genetica. Nel nostro lavoro non si valutano dei cervelli o degli assetti cromosomici, bensì delle persone e delle condotte complesse, che hanno una loro storia e che solo alla luce di essa assumono quel senso e quel significato cui ci si approssima sempre per difetto e alle quali certo gli apporti delle nuove metodologie di indagine non sono in grado di fornire una risposta esaustiva. In particolare, i dati delle neuroscienze sono importanti, ma non sono di per sé soli sufficienti per valutare, indipendentemente dalla clinica e 141
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dalle emergenze processuali, l'incidenza dell'infermità di mente sull'imputabilità, sulla pericolosità sociale, sulla testimonianza, sulla capacità decisionale ecc., pena un pericoloso sbilanciamento a favore di "evidenze" neuroscientifiche morfologiche non sufficientemente corroborate da "evidenze" funzionali presenti tra reti cerebrali diffuse in tutto il cervello. Lo stereotipo di una "spiegazione" su base neurobiologica è tanto pericoloso e fallace quanto il riduzionismo lombrosiano di buona memoria. Ovviamente, una visione integrata del lavoro clinico non può prescindere, come già detto, dalla contestualizzazione del comportamento in esame, che deve essere collocato in quello spazio e in quel tempo propri di quella particolare vicenda esistenziale, che ha seguito sue regole e suoi percorsi non solo espliciti (il comportamento palese), ma anche impliciti (le motivazioni psicologiche e psicopatologiche). Di fronte a fenomeni tanto complessi e drammatici, rimane fuori discussione il fatto che il sistema della giustizia e quello delle scienze - se, quando e per quanto possibile - devono collaborare in armonia nella costruzione di una verità (il processo prima, la sentenza poi) che non solo comporti l'applicazione dei codici attualmente in vigore e di principi dottrinali e giurisprudenziali condivisi, ma che rispetti criteri scientifici, riducendo così al minimo la percentuale di errore dovuta all'umano operare in questo campo, avendo sempre presente che se da un lato è fondamentale che coloro che operano in ambito giuridico, principalmente in ambito penale, acquisiscano familiarità con le neuroscienze, affinché possano meglio comprendere e correttamente valutare gli esiti degli studi giuridicamente rilevanti. A loro volta, gli scienziati che conducono ricerche in campo neuroscientifico non dovrebbero ignorare gli strumenti concettuali che permettono di riflettere sulle implicazioni etiche e sociali dei loro risultati 15
dall'altro forse non c'è bisogno di inseguire statuti ineccepibili che ci diano sicurezza, e non c'è bisogno di cercarli e di adattarsi: l'attrezzatura dello psichiatra è un'attrezzatura mentale, di per sé specifica e non comune, che fa sua la sofferenza, la tollera perché la elabora e la racconta, ricostruisce la trama di una vita interiore fratturata, fornendo idee, narrative, teorie, conoscenze biologiche, sociologiche, letterarie. Basta e avanza. 16 15. A.E. Cavanna, A. Nani, "Neuroscienze, coscienza e responsabilità penale", in Torino medica, XXIII/5, 2012, pp. 16-20. 16. R. Rossi, "Psichiatria o psichiatra che cambia? Vicende evolutive della psichiatria'; in Giornale italiano di psicopatologia, 11/4, 2005, pp. 407-416.
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In questo mio lavoro, ho cercato, tra l'altro, di portare il mio contributo clinico e forense per affrontare lo scoglio rappresentato dalla comunicazione e dalla comprensione reciproca tra il sistema della giustizia e quello delle discipline psicoforensi, prescindendo dalla costruzione di fittizie gerarchie di superiorità, giacché in tutti i casi ci troviamo di fronte a dati convenzionali e approssimativi. Ho proposto così un'altra convenzione: quella di utilizzare l'analisi funzionale come metodo più pratico di soluzione del problema dei "perché': ricorrendo alle evidenze di un approccio clinico integrato che fornisce strumenti valutativi più convincenti, sia per il perito sia per il giudice.
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