Fare la guerra con altri mezzi. Sociologia storica del governo democratico 8815383484, 9788815383488

Le definizioni normative e descrittive della democrazia si sprecano. Sono anche in concorrenza tra loro e alla luce di t

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Fare la guerra con altri mezzi. Sociologia storica del governo democratico
 8815383484, 9788815383488

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SAGGI 938.

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

ALFIO MASTROPAOLO

FARE LA GUERRA CON ALTRI MEZZI Sociologia storica del governo democratico

IL MULINO

ISBN 978-88-15-38348-8 Copyright © 2023 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/fotocopie Redazione e produzione: Edimill srl - www.edimill.it Finito di stampare nel marzo 2023 presso LegoDigit s.r.l - Lavis (TN)

Stampato su carta Munken Print White di Arctic Paper, prodotta nel pieno rispetto del patrimonio boschivo

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indice

Premessa I. Stato

p.   7  13

1. Dominio e monopolio. - 2. Monopolio, opposizioni, concorrenze. - 3. Lasciti, bricolage, ibridazioni. - 4. La grande ibridazione con il mercato. - 5. Dal governo tramite gli individui al governo tramite il sociale. - 6. La contesa legittima per il monopolio. - 7. Il mercato contro lo Stato.

II. Rappresentanza

105

1. Due teorie sulla rappresentanza. - 2. Costituire un seguito. - 3. La rivincita del mandato e l’ordinaria demagogia. - 4. Regolare la rappresentanza. - 5. Tecniche di dosaggio e di esclusione. - 6.  Dalla rappresentanza fidelizzata alla rappresentanza occasionale.

III. Partiti

167

1. Dall’America all’Europa. - 2. Il radicamento dei partiti.  - 3. I partiti e la democrazia. - 4. Quando gli outsiders divennero established. - 5. Gli outsiders non finiscono mai. - 6.  Divergenze e convergenze. - 7. In cerca del popolo.

IV. Mercato

227

1. Un nuovo contratto sociale. - 2. Sessantotto. - 3. Ripristinare l’autorità. - 4. Neoconservatorismo e neoliberismo. - 5. Market turn. - 6. Dalla sinistra al centro. - 7. La

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Grande dispersione. - 8. Altre dispersioni. - 9. Alla ricerca del populismo.

Post scriptum. Verso una democrazia esclusiva? Indice dei nomi

6

p. 307 327

Premessa

Oggi non è lecito sostenere che la soluzione ultima è che gli uomini siano governati con il loro consenso. Fra i mezzi del potere che oggi predominano vi è quello di guidare e manipolare il consenso degli uomini. C.W. Mills, L’immaginazione sociologica (1959), 1962.

La parola è seducente. O lo è diventata, tanto che se ne sono impadroniti pure i suoi avversari. A prima vista, la democrazia evoca nientemeno che la possibilità di dissolvere il potere, di sottrarlo ai governanti e consegnarlo ai governati: a tutti nella stessa misura. Dietro però a questa suggestione si celano definizioni diverse, normative e descrittive. Di volta in volta può essere una tecnica di governo, una forma di convivenza, una forma di cooperazione e socialità. La crescita smisurata dell’impiego della parola complica le cose. Nel XIX secolo le idee erano più chiare, perché più semplici. La democrazia indicava, tra parecchie diffidenze, il regime politico che, una volta esteso il suffragio, avrebbe rimpiazzato quello liberale. Con qualche diffidenza in meno e molte aspettative in più, all’indomani del secondo conflitto mondiale la democrazia è stata identificata col regime vigente nei paesi vincitori. La parola però è così accattivante che anche i regimi instaurati nell’Europa di mezzo e in quella orientale, benché diversissimi, si definirono democrazie, addirittura popolari. Cioè non elitarie, come quelle dell’ovest. A rileggere le costituzioni del secondo dopoguerra, il regime democratico conciliava il suffragio universale e le libertà ereditate dal liberalismo, con la divisione dei poteri e lo Stato di diritto. La novità è che prestava qualche attenzione aggiuntiva alla vita reale dei governati. Del termine si faceva uso, comunque, con una certa discrezione. I costituenti italiani hanno adoperato il sostantivo e l’attributo solo cinque volte. La Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca usa una volta 7

il sostantivo e dieci l’aggettivo. La Costituzione francese del 1946 ne fa una volta un avverbio e un’altra un attributo, quella del 1958 usa l’attributo due volte in più. L’attributo ricorre sei volte nella Costituzione spagnola del 1978. Fa eccezione la prolissa Costituzione portoghese del 1976. Scritta nell’entusiasmo della Rivoluzione dei garofani, la parola democrazia e i suoi derivati risuonano oltre quaranta volte: parlando di democrazia economica e partecipativa e di un insieme di complementi grosso modo egualitari che le altre costituzioni si erano per lo più limitate a prefigurare e abbozzare. Una cosa è prefigurare, un’altra è adottare e applicare. A onor del vero, però, a metà anni ’70 molti complementi egualitari erano stati messi in opera, in misura variabile, da tutte le democrazie occidentali, instaurando quello che si è chiamato lo Stato sociale. È in quella temperie che la parola democrazia ha fatto fortuna, come conferma la gran copia d’indagini dedicate a come funzionano o dovrebbero funzionare i regimi cosiddetti democratici. La fortuna non ha avuto limiti una volta crollato il Muro di Berlino, trascinandosi appresso, oltre ai regimi autoritari dell’Europa orientale, qualche altro autoritarismo in giro per il pianeta. Fra l’altro, un po’ di calcinacci del Muro hanno impolverato i partiti socialisti e socialdemocratici, i quali, benché incolpevoli, hanno ritenuto la parola socialismo troppo ingombrante e hanno cercato una nuova bandiera da inalberare. Che neanche a essi ha da allora impedito di consentire alla revoca di molti dei complementi dello Stato sociale. Quant’è democratica questa revoca? È un altro problema. Il paradosso è che alla parola non hanno rinunciato nemmeno quei paesi in cui la democrazia sembrava essersi allargata e che invece da ultimo l’hanno sottoposta a una regressione severa, quando non drammatica. Sa un po’ di beffa, ma l’Ungheria si compiace di definirsi una democrazia illiberale e la Russia una democrazia sovrana. C’è chi ha sempre avuto da ridire sul conto dei regimi democratici e li ha sempre contrastati. Al momento, però, nessuno più si azzarda a dichiararsi non democratico. Se non che, mentre la fortuna della parola non demorde, ed è adoperata con molta larghezza, sono moltissimi coloro che considerano molto incerto lo stato di tali regimi. Forse lo è intrinsecamente. Sta di fatto che da quasi mezzo secolo l’incertezza pare essersi 8

aggravata, favorendo l’accumularsi su di essi di una letteratura imponente, che ne ha per lo più dichiarato lo stato di crisi: i medici si affannano al capezzale per stabilire cosa non funzioni e come e dove si dovrebbe intervenire. Questo libro vuole accantonare il tema della crisi – dandola per difficile da diagnosticare: quel che è crisi per alcuni non lo è per tutti – e rinuncia anche, per quant’è possibile, a definizioni normative, giacché pure su quello non c’è grande accordo, per trattare invece nel suo farsi storico quello che per lo più s’intende per governo democratico. L’obiettivo è esplorarne le premesse e l’origine, il suo laborioso rapprendersi, il suo incessante rinnovamento, alla luce delle circostanze storiche, dei fatti sociali, dei movimenti d’idee, delle contese di potere, che l’hanno plasmato e tuttora lo plasmano. La ricognizione si articola in quattro capitoli e, anzi, in quattro racconti, alquanto intricati e perciò con qualche sovrapposizione tra loro. Fatta la scelta di adottare titoli telegrafici, è doveroso enunciarne in premessa l’argomento. Il primo racconto è dedicato allo Stato: come si è costituito il monopolio della coercizione, come il monopolio si è esteso e come si è intrecciato con altre tecniche di esercizio del potere, come è sceso a patti con la società intorno a sé, come ha incorporato una parte del pluralismo da essa espresso tramite il regime rappresentativo e come al momento faccia fronte a una grandiosa offensiva condotta dal mercato capitalistico contro di esso. Il tema del secondo capitolo è la rappresentanza politica. Inventata per riconoscere e regolare il pluralismo della vita collettiva e per mettere in comunicazione governanti e governati, la rappresentanza è il titolo fondamentale per accedere ai vertici dello Stato. Introdotta ufficialmente dalle tre grandi rivoluzioni, a metà del XIX secolo è stata strutturata dai partiti politici, dei quali si occupa il terzo capitolo. Sono stati anch’essi un’invenzione fondamentale, che progressivamente si è distaccata dalla società e si è intrecciata vieppiù con lo Stato e, infine, anche col mercato. Il quarto capitolo è intitolato proprio al mercato: l’argomento parrà singolare, per un libro che non è d’economia. Dando seguito al primo capitolo, l’intento è raccontare l’offensiva condotta ormai da quasi mezzo secolo dal mercato contro lo Stato per spossessarlo degli spazi che aveva occupato dal secondo dopoguerra, con 9

l’effetto, fra l’altro, di disperdere una buona quota dell’autorità che per secoli aveva concentrato. Ne è seguita un’inattesa, e preoccupante, reazione politica. Volutamente, la ricognizione è ristretta all’Europa occidentale. Ogni confine è arbitrario e lo è anche questo. Si può tuttavia argomentare che i paesi dell’Europa occidentale, pur nella loro ragguardevole varietà, abbiano vissuto esperienze storiche contigue, diverse, ma non separate, né autosufficienti. L’Europa «moderna», capitalistica e democratica, che conosciamo non è peraltro frutto unicamente di dinamiche endogene. Questo libro si occupa di queste ultime, ma con la consapevolezza che l’Europa è quel che è anche grazie al mondo che le sta intorno e alle relazioni, spesso violente, che ha stabilito con esso. Concentrarsi sull’Europa consente di mettere in evidenza come le più vantate invenzioni occidentali, tra cui il governo democratico e il mercato capitalistico, siano la risultanza, oltre che di circostanze storiche specifiche, di un lunghissimo e tormentato travaglio, non di un processo evolutivo lineare. La grande invenzione democratica nulla ha di scontato e d’irreversibile e l’idea che faccia parte del destino della specie non ha alcun fondamento. In Occidente si è per lo più convinti che i modi di convivere, di produrre e di governarsi in vigore da queste parti vantino qualche titolo di superiorità. Sarebbero la modernità e il progresso. Non è detto. Non è soprattutto detto che siano il solo progresso e la sola modernità possibili. In ogni caso: il processo attraverso cui sono state elaborate tali tecniche di governo dovrebbe far intendere tanto di non darle per scontate, quanto la difficoltà di esportarle e anche d’importarle, sollevando qualche dubbio sui tentativi, a volte non pacifici, d’esportazione, compiuti dagli occidentali. Sempre in premessa. Osservare la società e raccontarla è un’operazione laboriosa. Le scienze sociali hanno sempre sotto gli occhi pedine che si muovono nel corso di una partita che non inizia e nemmeno finisce. Ogni mossa compiuta sulla scacchiera cambia la condizione di tutte le pedine, anche di quelle che stanno ferme. Non solo, ma l’osservatore anche lui si adegua di continuo, vede la partita diversamente da come la vedeva al momento della mossa precedente, rilegge le mosse passate, rivede gli schemi che aveva in mente e le sue attese sugli spostamenti futuri. Neanche guardare i fatti passati ri10

duce il gravame di «pre-giudizi» che lo condiziona e anche l’osservazione manipola il suo oggetto. Perfino la dura obiettività dei numeri propria delle statistiche è solo una pretesa. Tanto più che i fatti del passato si osservano con gli occhi del presente. Che li deformano, sollecitati da nuove domande, ma pure perché, inevitabilmente, parte dei fatti stessi sfugge alla vista, o assume un significato diverso da quello loro attribuito da chi li viveva. Le scienze sociali sono un genere letterario molto particolare e lo spazio per la soggettività di chi lo pratica è inevitabilmente larghissimo. I pre-giudizi hanno anche natura politica. Ai tempi suoi Max Weber prescriveva avalutatività a chi parla dalla cattedra. Ma sapeva benissimo che gli studiosi hanno passioni, interessi, visioni del mondo e sono anche parte in causa. Lo sforzo che agli studiosi si chiede, specie a quelli che osservano la società, è quello di prendere qualche distanza da se stessi, di osservare e raccontare con un po’ di distacco e argomentare ragionevolmente. Sarebbe opportuno che considerassero con sospetto anche i loro racconti. Per stabilire un equilibrio, le regole professionali vigenti nel mondo della ricerca prescrivono il confronto reciproco. Eppure, a molti capita, di spacciarsi per osservatori oggettivi e sono anche persuasi di esserlo. Le scienze «esatte» ci hanno ormai rinunciato. Ma fa parte del gioco ed è uno stile adottato per rendere più credibile il proprio punto di vista. L’autore di queste pagine avverte invece il lettore: ha fatto del suo meglio per sottrarsi a se stesso, ma sa di non esserci riuscito. Chiede venia in partenza. Il libro risente palesemente delle circostanze in cui è stato scritto, alle quali è difficile restare insensibili: sono quelle dell’Italia d’inizio millennio. Giunto alla fine, nelle pagine che ha intitolato non conclusioni, bensì post scriptum, ammette di essersi lasciato andare, e di aver dato voce anche al cittadino. A chi fosse troppo attaccato ai sacri principi dell’avalutatività, conviene non leggerle. Sempre che valga la pena leggere il resto. Quando si è finito di scrivere un libro, e ci si è messo anche molto tempo, l’autore si accorge di non averlo scritto da solo. L’autore porta lui la responsabilità di ciò che ha scritto, ma sono tanti gli amici e colleghi con cui gli è capitato di discuterne, che gli 11

hanno dato qualche idea, che ne hanno messa in dubbio qualche altra, che l’hanno incoraggiato, che hanno letto e commentato qualche parte o tutto l’insieme, che a vario titolo gli sono stati d’aiuto. Sono sicuro di averne dimenticato qualcuno e me ne rammarico. Un sentito ringraziamento va a Daniela Adorni, Paola Arrigoni, Cecilia Biancalana, Irene Bono, Marco Bontempi, Loris Caruso, Rita Di Leo, Giuseppe Di Palma, Furio Ferraresi, Guido Formigoni, Jean-Pierre Gaudin, Vittorio Martone, Oscar Mazzoleni, Vittorio Mete, Daniela R. Piccio, Gianfranco Poggi, Franca Roncarolo, Rocco Sciarrone, Luca Scuccimarra, Carlo Trigilia, Antonio Vesco.

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capitolo primo

STATO

1. Dominio e monopolio La deferenza di un tempo è svanita. La sua autorevolezza è decaduta. Ma lo Stato domina ancora il paesaggio collettivo. Nessuno l’ha mai visto, ma seguita a essere rappresentato, e vissuto, come soggetto capace di pensiero e d’azione. C’è chi suggerisce che sia una finzione1, che unifica un’infinità di segni: frontiere, pubblici edifici, bandiere, divise, cerimonie, carte intestate, moduli, passaporti. Sono segni pure i sovrani, i presidenti, i ministri, i parlamentari, i funzionari, i magistrati, i militari, gli insegnanti, i gendarmi, gli elettori. Oltre i segni, però, cos’è lo Stato? Per le scienze sociali il punto di partenza più titolato è quello di Weber. La cui prima definizione, riposta in uno dei suoi scritti metodologici, rinvia agli inizi di tutta la storia: Il nucleo tipico di quell’associazione che oggi diciamo «stato» consiste da un lato in libere associazioni occasionali di predatori, costituite per una campagna militare, sotto capi da esse medesime scelte, dall’altro nell’associazione occasionale dei minacciati a scopo di difesa. Mancano del tutto poteri di scopo, e manca qualsiasi permanenza. Un lungo cammino, con ininterrotti trapassi, conduce di qui fino all’associazione permanente dell’armata, con imposizione sistematica esercitata sulle donne, sugli inermi, sui sudditi, e fino all’usurpazione dell’agire giudiziario e amministrativo2. 1  Lo ricordano, ad esempio, due autori culturalmente lontanissimi: G. Miglio, Genesi e trasformazioni del termine-concetto «Stato» (1981), ora in Id., Le regolarità della politica, t. II, Milano, Giuffrè, 1988, pp. 799-832; D. Runciman, The Concept of the State: The Sovereignty of a Fiction, in Q. Skinner e B. Strath (a cura di), States and Citizens: History, Theory, Prospects, Cambridge, Cambridge University Press, 2003. 2   Cfr. M. Weber, Alcune categorie della sociologia comprendente (1913), in Id., Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 1958, p. 273. Il

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Sono origini violente, insanguinate e nient’affatto auliche. Qualche anno più tardi, Max Weber di definizioni ne proporrà altre due, in apparenza meno drammatiche. Per la prima lo Stato è «un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale – e nella misura in cui – l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti»3. Coeva, e di poco differente, nel testo di una celebre conferenza tenuta nel 1919, si trova la seconda definizione: lo Stato è «quella comunità umana che all’interno di un determinato territorio – questa componente del “territorio” è caratteristica – pretende per sé (con successo) il monopolio del legittimo uso della forza fisica». Ne consegue che lo Stato «consiste in una relazione di dominio dell’uomo sull’uomo». Ovvero, com’è detto più oltre, è un’«associazione di dominio»4. Anziché evocare i compiti svolti dallo Stato a servizio della collettività, o i suoi fini superiori, Weber scarnifica e secolarizza il venerando concetto di sovranità e la riduce a esercizio del potere, che da un canto è dotato di un nucleo violento, dall’altro – è la legittimità – ricerca l’assenso dei suoi sottoposti. Tra dominanti e dominati s’intreccia un rapporto di dipendenza reciproca, segnata da una condizione congenita di provvisorietà. La esplicita il concetto di «pretesa»: storicamente riuscita, ma, in quanto tale, sempre da confermare. Weber ha quindi avanzato riflessioni fondamentali su burocrazia, diritto, legittimità, ma non ha elaborato una compiuta sociologia dello Stato5. Ha tuttavia additato un indirizzo d’indagine. A dispetto del suo testo prosegue additando una parentela tra Stato e mercato quali dispositivi di dominio: «[...] E viceversa – questo è uno dei diversi processi che partecipano al sorgere dell’“economia politica” – dalla rovina delle associazioni permanenti che sussistono in virtù della soddisfazione dei bisogni può anche scaturire la formazione amorfa del “mercato”, che rappresenta un “agire in comunità”». 3   M. Weber, Economia e società, I, Milano, Comunità, 1961, p. 53. Weber usa in tedesco l’espressione politischer Anstaltsbetrieb: le traduzioni possibili sono tante. In italiano è stata tradotta come impresa o come comunità, in inglese come association, in francese come entreprise e come communauté. 4  M. Weber, La politica come professione, in Id., Scritti politici, Roma, Donzelli, 1998, pp. 178 e 182. Qui invece usa dapprima menschliche Gemeinschaft e più avanti anstaltsmäßiger Herrschaftsverband. 5   Il contributo weberiano è stato ricostruito da ultimo da A. Anter, Max Weber’s Theory of the Modern State: Origins, Structure and Significance, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2013. Sul tema dell’origine dello Stato cfr. pp. 152-158.

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nome, lo Stato è più processo che stato, è un work in progress. È un intrico quotidianamente negoziato di rapporti di dominio, subordinazione, associazione, cooperazione, ma anche d’idee, ideali, categorie e modi di pensare: degli «uomini storici», ma pure di chi, da qualche osservatorio storicamente situato, li scruta, li racconta, li studia6. L’intreccio è stato approfondito da altri. Fra i tanti autori, spesso molto illustri, che hanno preso avvio dall’idea weberiana, sono tre quelli che abbiamo scelto di segnalare. Di altri diremo più avanti. Sono figure di grande spicco nelle scienze sociali del Novecento: Norbert Elias, Pierre Bourdieu e Charles Tilly. In uno scritto di quest’ultimo subito si ritrova il massimo di assonanza con la prima definizione weberiana. Queste le parole con cui infatti esordisce: «se il racket costituisce la forma più raffinata di crimine organizzato, allora la minaccia della guerra e la costruzione degli Stati – classiche forme di racket con il vantaggio della legittimità – costituiscono il più grande esempio immaginabile di crimine organizzato»7. Sarebbe, quest’ultima, per Tilly, una rappresentazione più realistica di quelle consuete: quella contrattualista; quella secondo cui eserciti e burocrazie sarebbero agenzie che, in un mercato aperto, offrono servizi ai consumatori interessati; quella di una collettività che, accomunata da norme e aspettative, adotta una data forma di governo. Benché scandalosa, la definizione non è originale: calca le orme di Agostino d’Ippona8 per descrivere drammaticamente 6  Weber invita sempre a distinguere. Nel saggio su L’«oggettività» conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale (1904) precisava che, quantunque le due dimensioni comunichino di continuo, una cosa sono le idee dello Stato, «per esempio la metafisica “organica” dello Stato, sorta in Germania, in antitesi alla concezione “commerciale” americana e un’altra il tipo ideale dello Stato, che serve a fini conoscitivi». Più avanti, ne Il significato della «avalutatività» nelle scienze sociologiche e economiche (1917), Weber dirà che lo Stato può esser sì considerato, storicamente, un valore ultimo, ma che ciò non cancella il fatto che sia «un mero strumento tecnico per la realizzazione di valori del tutto diversi». Ambedue gli scritti sono inclusi ne Il metodo delle scienze storico-sociali, cit., pp. 120-121 e 371. 7  C. Tilly, War-Making and State-Making as Organized Crime, in P.B. Evans, D. Rueschemeyer e T. Skocpol (a cura di), Bringing the State Back in, Cambridge, Cambridge University Press, 1985. Le idee contenute in quel saggio sono sviluppate in C. Tilly, Coercion, Capital, and European States, 990-1990, Oxford, Blackwell, 1990. 8   Tilly non cita curiosamente la formula di Agostino: Remota itaque iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia?: cfr. De civitate dei, L IV, 4 (trad. it. Aurelio Agostino, La città di Dio, Milano, Bompiani, 2001, p. 221).

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gli State-builders originari come imprenditori violenti, il cui successo è dipeso dalla capacità di fornire servizi di protezione da minacce da essi stessi suscitate. Non volevano inventare lo Stato. Intendevano accumulare ricchezze, territori, popolazione, prestigio e non immaginavano nulla di diverso dalle forme preesistenti di dominio. Le circostanze fecero la differenza rispetto ad analoghe esperienze del passato. All’alba dell’età moderna il racket rastrellava risorse: da altri signori feudali, dalla popolazione contadina, da quella urbana. Le tecnologie alimentarono le sue ambizioni. Alla feudalità fu sottratto il controllo esclusivo della terra. Altre risorse furono ricavate dalla classe mercantile urbana in sviluppo. Ma non tutto si ottiene con la violenza, o la violenza, per quanto temibile, non è sempre risolutiva. Tra il racket e le sue vittime s’istituì uno scambio reciprocamente vantaggioso. I sovrani iniziarono a erogare alla classe mercantile una gamma di servizi più ampia della protezione originaria, a iniziare dalla difesa della proprietà: fu un avvio d’inclusione. La classe mercantile era in grado di concedere ai sovrani capitali in prestito, nonché di fornire beni e servizi necessari alle loro intraprese guerresche. Ne trasse in cambio un vantaggio differenziale rispetto ai concorrenti che erano sprovvisti di una simile difesa. Interdipendenze, negoziati, collaborazioni, complicità, inclusioni si estesero man mano. Al racket non bastavano né un braccio militare, né i mezzi economici. Serviva un apparato amministrativo, che ne organizzasse e reggesse le attività. Presto i sovrani scoprirono di aver bisogno anche del grosso della popolazione, per combattere, per produrre, per servirli, cosicché decisero di fornire anche a essa qualche servizio aggiuntivo. La metafora del racket è preziosa per cogliere l’ambivalenza costitutiva dello Stato: che è soggetto di dominio, ma che ha appreso via via a operare con qualche beneficio per i suoi – a vario titolo – sottoposti. Gli imprenditori violenti sanno bene che un impiego esagerato e protratto della coercizione ha costi troppo elevati. Ben lo sapevano quelli che inventarono lo Stato: sottoposta la popolazione alla pressione fiscale, e alla tassa del sangue della coscrizione, occorreva ottenere da essa almeno un po’ d’acquiescenza. Il racket è perciò sceso a patti e ha assunto tutt’altre sembianze. Si è fatto Stato, nientemeno 16

che promotore ufficiale dell’ordine. Ha assoggettato la sua azione di dominio al diritto. Ha introdotto organi giudiziari e istituzioni rappresentative. Ha circoscritto, tramite i diritti, spazi di potere riservati ai governati, negoziando con essi un’idea di giustizia. È stato obbligato a un’ambivalenza di cui neanche nelle condizioni più estreme si è del tutto liberato. Meticolose attenzioni ha dedicato alla sua reputazione, che è anch’essa strumento di potere. Ovvero, ha legittimato e reso socialmente accettabili le sue pretese, rivestendosi di simboli, segni, parole: la mafia, che è il racket per eccellenza, amava definirsi «onorata società» e i suoi adepti si definivano «uomini d’onore», che reciprocamente si aiutavano, raddrizzavano torti, proteggevano i deboli9. Non diversamente lo Stato ha curato la sua immagine, si è rappresentato quale rimedio all’incertezza, quale garante della sicurezza, del bene comune, dell’interesse generale e ha, a lungo andare, promosso i sudditi a cittadini, rendendoli parte costitutiva di sé10. Questo è il punto di vista di Tilly. Più in continuità con il linguaggio weberiano è l’ambiziosa ricerca avviata a metà anni ’30 del Novecento da quella unica e straordinaria figura di scienziato sociale che è stato Norbert Elias. Dedicata al graduale e tortuoso formarsi in Europa di un ristretto numero di monopoli della coercizione, la ricerca muove da un assunto fondamentale: elemento essenziale della vita associata sono le pretese di monopolio in concorrenza tra loro. Lo Stato, la politica, dinastica o elettiva che sia, il mercato, la religione, la scienza, lo sport e ancora, si costituiscono reciprocamente quali fasci di attori che competono per il potere. La concorrenza non è necessariamente violenta e periodicamente si acquieta, prevede forme di cooperazione, anche paritarie. Ma quel che conta è la concezione apertamente relazionale di Elias. Gli attori esistono in ragione l’un dell’altro e si plasmano vicendevolmente. La lotta per il monopolio non è affatto un valore, giacché conviene imparare a controllarla, a sottoporla a regole e a condurla con mezzi pacifici. Questo è il progresso. 9   Sono da ricordare le parole di Tommaso Buscetta, in P. Arlacchi, Addio Cosa Nostra: la vita di Tommaso Buscetta, Milano, Rizzoli, 1994, p. 11. 10   È uno sviluppo sottolineato da G. Poggi, Varieties of Political Experience, Colchester, EcprPress, 2014, pp. 63-74.

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La «sociogenesi»11 dell’assolutismo è la grande contesa su cui Elias ha concentrato l’attenzione nei suoi primi scritti. Lo Stato assoluto sarebbe un effetto collaterale, e non voluto, della lotta per il monopolio insorta nel mondo tardomedievale, quando due precondizioni, la crescita demografica, che promuoveva le lotte per la terra, e lo sviluppo dell’economia monetaria, avrebbero consentito un rivolgimento strutturale assai più ampio e profondo, tale da scompaginare e ridisegnare la vita collettiva fin nelle sue più intime fibre: le menti stesse degli esseri umani. È grazie alla diffusione della moneta che sarà possibile uno smisurato incremento degli scambi, che servirà ai signori territoriali per soddisfare le loro ambizioni espansive. La competizione armata, propria della «società di guerrieri»12, che aveva agitato il frammentato scenario della feudalità, non era una novità. Né lo era la costruzione di grandi formazioni politiche. Ma l’economia monetaria impresse inedito slancio all’accumulo dei mezzi di coercizione condotto dai potentati dinastici, tra intraprese militari, alleanze matrimoniali e coalizioni d’ogni sorta, consentendo loro di operare in forme nuove e producendo conseguenze anch’esse inedite. In prima istanza, il potenziale militare si era concentrato a detrimento della feudalità. In successione, sarebbero entrate in competizione tra loro le più vaste «unità di dominio»13 costituite in tal modo. Le più forti avrebbero sottomesso le più deboli, assumendo il controllo di territori vieppiù estesi e di popolazioni vieppiù numerose. Istituendo il monopolio della coercizione fisica, entro i confini che aveva tracciato, l’autorità monarchica vi stabiliva un nuovo ordine, riducendo progressivamente e con grandi sforzi l’impiego della violenza nell’azione di governo, nelle contese per il potere e nelle relazioni sociali. Strettamente intrecciato, secondo Elias, vi sarebbe però un secondo, non meno importante, processo di monopolizzazione. Le unità di dominio in espansione necessitavano di risorse economiche, con cui sostenere le loro aspirazioni, e si sarebbero perciò 11   N. Elias, Potere e civiltà. Il processo di civilizzazione, II (1969), Bologna, Il Mulino, 1983. 12   Ivi, p. 94. 13   Ivi, p. 127.

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adoperate per estrarre risorse fiscali, e anzi monopolizzarle. Donde una trama d’interdipendenze entro cui gli inventori del monopolio si trovarono impigliati, insieme a gruppi sociali e istituzioni sempre più differenziati. Le interdipendenze implicano sempre condizionamenti reciproci. Due tipi d’interdipendenze, in cui chi domina è condizionato dai dominati, risulteranno più cruciali di altre. Anzitutto quelle con la classe mercantile. È, più o meno, il medesimo racconto di Tilly. Poiché i confini da difendere si ampliavano, andavano reclutate, equipaggiate, vettovagliate forze armate all’altezza. Al contempo, occorrevano addetti per riscuotere le imposte, amministrare i proventi del prelievo fiscale, acquistare beni e servizi per far la guerra, per governare i territori conquistati. Non era possibile avvalersi della nobiltà feudale, appena espropriata degli strumenti di governo che autonomamente deteneva. Né bastava più il seguito di familiari, clienti, collaboratori, legati ai sovrani da vincoli di fedeltà personale. Non era sufficiente nemmeno il patrimonio del sovrano, né le imposte estratte dalla popolazione, né quelle istituite in occasione delle campagne militari. Servivano mezzi che solo la classe mercantile era in grado di fornire: ma non a titolo gratuito. La comparsa di nuovi collaboratori, revocabili a piacimento, dotati di competenze specifiche e retribuiti in moneta, suscitò un altro effetto e un’altra interdipendenza: l’allargamento e la diversificazione del gruppo detentore del monopolio. La disponibilità di mezzi tanto militari, quanto fiscali iniziò dunque a defluire dalle mani dei monarchi verso quelle di «un consorzio di individui interdipendenti»14, che costituiranno un «apparato di dominio differenziato»15: più semplicemente lo Stato. Il transito dall’una all’altra fase appare in tutta evidenza nel caso francese16. Perseverando nell’opera di accentramento condotta dai suoi predecessori lungo più di due secoli, Luigi XIV sottomise la nobiltà feudale, che si era ribellata agli inizi del suo regno. Lo fece attirandola a corte e rendendola econo  Ivi, p. 158.   Ivi, p. 145. 16   In particolare, N. Elias, La società di corte (1939), Bologna, Il Mulino, 1980 e Id., La civiltà delle buone maniere (1939), Bologna, Il Mulino, 1982. 14 15

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micamente dipendente, nonché ingabbiandola in un minuzioso e macchinoso sistema di regole e rituali. Se non che, la burocrazia reclutata tra i ranghi della classe borghese lo esproprierà a sua volta, facendone un «funzionario della società»17 e del monopolio, quantunque di rango più elevato. Entrati in collisione, politicamente e simbolicamente, con l’autorità regia, i funzionari promuoveranno la sua spersonalizzazione e pubblicizzazione, depositandola in quell’entità astratta e impersonale che chiamiamo lo Stato, detentrice di un monopolio che non era più privato, ma pubblico, anche per questo più renitente ai tentativi di smembrarlo e privatizzarlo nuovamente. Un terzo punto di vista è quello elaborato da Pierre Bourdieu, in una nutrita serie di saggi e articoli, oltre che nelle lezioni tenute al Collège de France tra il 1989 e il 199218. Bourdieu concentra l’attenzione sugli aspetti culturali e simbolici della costituzione e riproduzione dei rapporti di dominio e rielabora quel fondamentale ingrediente dell’azione ordinatrice e di pacificazione svolta dallo Stato che è la legittimazione. Al pari d’ogni altra istituzione, lo Stato è per Bourdieu «fiducia organizzata, [...] una credenza organizzata, una finzione [sic] collettiva riconosciuta come reale dalla credenza e pertanto reale»19. E poiché la legittimità, e la reputazione, sono ingredienti irrinunciabili di qualsiasi relazione di dominio intesa a durare, la sfida per lo Stato sta nell’azione persuasiva volta a indurre spontaneamente i suoi sottoposti all’obbedienza. Perfino ignorando di obbedire. Non tutti saranno convinti dalle pretese d’obbedienza dello Stato, né lo saranno in permanenza e in maniera incondizionata. Ma, come per qualunque forma di dominio, per i dominanti è più conveniente persuadere i dominati anziché reprimerli: meno lo Stato impiega la sua capacità coercitiva, meno minaccia, meno impartisce ordini e commina sanzioni, tanto più ha successo. Non sono molto meno costosi i compromessi, i servizi erogati ai dominati. Lo Stato è allora lo Stato perché ha reso la sua presenza e la sua azione necessarie, e anzi naturali, elementi costitutivi   N. Elias, Potere e civiltà, cit., p. 152.   P. Bourdieu, Sur l’État. Cours au Collège de France (1989-1992), Paris, Seuil/Raisons d’agir, 2012. 19   Ivi, p. 67. 17 18

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dell’esperienza umana. Il suo monopolio è tale perché pochi s’interrogano intorno alla sua legittimità e necessità. Per più di mezzo millennio in Occidente, quanti hanno pensato un mondo e se stessi, senza lo Stato?20 Gli State-builders originari non immaginavano di provvedere gli esseri umani di mappe con cui guardare il mondo attorno a sé. Non tutti leggono allo stesso modo queste mappe, ma tutti se ne servono, consentendo allo Stato di farsi valere e durare. Sono mappe né trasparenti, né innocenti. Finalizzate a governare, sono impregnate dagli interessi e dai valori – che sono all’incirca la stessa cosa – di coloro che al momento presidiano lo Stato, nonché dei suoi sottoposti e concorrenti. Bourdieu prosegue la riflessione di Weber, Elias e Tilly indicando un terzo, e fondamentale, processo di monopolizzazione, quello del capitale simbolico21. Risalta l’imposizione di significati legittimi, condotta dai dominanti senza che i dominati la riconoscano, che inizia già con l’unificazione della lingua, a sua volta il principale codice con cui gli esseri umani comunicano: Bourdieu chiama quest’azione «violenza simbolica»22. Le mappe disegnate dallo Stato sono in perpetuo cambiamento. Entro e intorno ai confini statali le lotte non hanno tregua. Anche perché, insieme ai confini geografici, lo Stato ne ha tracciati molti altri: ha prescritto unità di misura, dello spazio, del tempo e ancora. Lo Stato registra, certifica, classifica, consacra, nomina, autorizza, notifica, brevetta, promuove, insignisce, giudica, conia. A lungo si è accanito a perseguire l’unità religiosa, strumentalizzando o ostacolando il reimpiego entro la sua sfera del capitale di potere, simbolico e non, della Chiesa. Lo Stato distingue il lecito dall’illecito, il giusto 20  Per la verità, ci sono gli anarchici, che hanno riflettuto seriamente sulla questione e che si sono anche battuti per una società senza Stato. Cfr. G. Ragona, Anarchismo. Le idee e il movimento, Roma-Bari, Laterza, 2013. 21   L’impiego del concetto di capitale in Bourdieu ha carattere esclusivamente metaforico: cfr. R. Boyer, L’anthropologie économique de Pierre Bourdieu, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 5, 2003, pp. 65-78. Il ricorso alla terminologia economica ha sicuramente un costo, anzitutto in termini di critiche. Ma ha carattere unicamente metaforico. Anche la sfera economica per Bourdieu è effetto di un processo di costruzione sociale e simbolica. Cfr. ancora L’anthropologie économique de Pierre Bourdieu, cit. 22   Sul concetto di violenza simbolica, cfr. P. Bourdieu, Ragioni pratiche, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 169.

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dall’ingiusto, il morale dall’immorale ed è preso in mille altre faccende. È fondamentale come classifica gli esseri umani, come sono fondamentali le cariche che attribuisce, i titoli che riconosce, anzitutto quelli scolastici, le categorie statistiche che adopera, perfino l’anagrafe. Tutto questo ne fa un «metapotere», precondizione di tutti gli altri23. Anche Bourdieu sottolinea la portata eversiva della sostituzione del governo dinastico e patrimoniale, fondato sulla Maison du roi, con il governo affidato a addetti professionali. Il suo racconto riecheggia l’esperienza e la mitologia dello statalismo francese. Profittando di una dimestichezza non comune con la letteratura storiografica, Bourdieu attraversa però la Manica e riutilizza il dilemma, formulato da Ernst Kantorowicz sulla scorta del caso inglese, dei «due corpi del re»24. La dissociazione tra corpo mortale e corpo mistico, politico e immortale, del sovrano, aveva colà le sue radici. Con didascalica puntualità illustra in qual modo gli alti funzionari della Corona inglese, il segretario di Stato, il custode del sigillo privato, il cancelliere, abbiano concorso, mediante pratiche come la controfirma degli atti reali e l’uso del gran sigillo, a spersonalizzare e pubblicizzare l’autorità regia25. Attraverso una sequenza di movimenti pressoché impercettibili, fu inventato un nuovo modo di stabilire l’ordine e di governare gli esseri umani. È ancora un tema comune con Weber ed Elias. Reclutata escludendo l’aristocrazia, e opponendo ai principi dell’onore e dell’eredità quello della competenza, sarà la burocrazia regia a tracciare un confine a sua difesa e a pensarsi in altro modo. Alla lealtà personale verso il sovrano i funzionari sostituirono quella rivolta a quell’entità astratta e impersonale che assumerà il nome di Stato, di fatto a se stessi, pensandosi come istituzione, sovraordinata a ogni interesse particolare, devota all’universale e al corpo collettivo. Facendo della «Ragion di Stato» regola d’azione, alternativa alla ragione dinastica, attribuendo allo Stato un disegno di potenza, pensando lo Stato e pensandosi come suoi servitori, non più come consiglieri o segretari del   P. Bourdieu, Sur l’État, cit., p. 489.   E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale (1957), Torino, Einaudi, 1989. 25   P. Bourdieu, Sur l’État, cit., pp. 471-479. 23 24

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principe, le burocrazie costituirono la nuova istituzione e ne rivendicarono la cura. Era un’invenzione inevitabile? Di sicuro fu un’invenzione, che, per citare un illustre storico spagnolo molto attento alla dimensione istituzionale come José Antonio Maravall, fece di ciascun funzionario la «ruota dell’ingranaggio dello Stato, [che] per elevarsi socialmente, deve esaltare lo Stato, che serve con un senso di responsabilità pubblica»26. Stando a uno dei giochi di parole tanto congeniali a Bourdieu, è successo che «un certo numero di agenti, che hanno fatto lo Stato, e si sono fatti essi stessi in quanto agenti dello Stato facendo lo Stato, hanno dovuto fare lo Stato per farsi detentori di un potere di Stato»27. Che è come dire che a fare lo Stato, se ne può divenire i padroni, ma se ne resta imprigionati. Contaminazioni e tensioni tra l’interesse pubblico, di cui gli addetti allo Stato si sono rivendicati i tutori, e i loro interessi personali, sono state sempre all’ordine del giorno. Né gli addetti allo Stato si sono sempre mostrati refrattari a calcoli politici e a sollecitazioni d’altri interessi, definiti come privati. Ma se è impossibile fugare l’ombra del sospetto, le circostanze, le condizioni stesse del loro lavoro, i rapporti di potere, spiega Bourdieu, hanno indotto i funzionari a indossare un habitus «disinteressato» e a fare del disinteresse – sine ira ac studio è la formula weberiana – il loro specifico interesse. Prezioso per legittimarsi quale potere, si può ben dire, «terzo», rispetto sia al potere dinastico, sia ai suoi antagonisti, che sono stati inizialmente la nobiltà, il clero e gli emergenti ceti commerciali28. Per trasformare il dominio, per smilitarizzare e civilizzare il racket originario, istituzionalizzarlo, legittimarlo, è stato decisivo il ruolo del diritto29. Sottoponendo l’esercizio del potere 26   J.A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, II, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 593. 27   P. Bourdieu, Sur l’État, cit., pp. 68-69. 28  Sull’«interesse al disinteresse», o sul disinteresse come interesse, si veda soprattutto L’intérêt au désintéressement. Cours au Collège de France, 1987-1989, Paris, Seuil/Raisons d’agir, 2022. 29   Ad esempio P. Bourdieu, La force du droit. Éléments pour une sociologie du champ juridique, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 64, 1986, pp. 3-19.

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a regole ufficialmente stabilite, il diritto lo normalizzava, lo rendeva prevedibile e più sopportabile, perché lo sottraeva all’arbitrio. Ciò non toglie che, per quanto riduca l’incertezza, il diritto è sempre piegato a qualche idea storica d’ordine, di convivenza, di giustizia, d’interesse generale, di cui ha assoluto bisogno per legittimarsi. Il diritto può legittimare perfino, opportunamente addobbate, oppressione e repressione. Ma può legittimare anche altre pratiche, più generose verso i governati e intese a tutelarli. L’esperienza l’aveva già fatta la Chiesa, istituendo attraverso il diritto canonico, ispirato dal diritto romano, un sistema di norme dettate da un’autorità centralizzata30. Seguendone l’esempio, le monarchie tardomedievali usarono il diritto per imporre la loro superiorità alla preesistente galassia di giurisdizioni feudali, ecclesiastiche, cittadine, corporative. Il diritto dettato dal sovrano attribuiva coerenza al monopolio statale, cementandolo grazie alla sua azione performativa e all’idea di giustizia che gli era sottesa. Profittiamo ancora di Maravall: ai sovrani medievali toccava unicamente proclamare e custodire la legge e semmai precisarla e interpretarla. La legge precedeva la loro volontà. Il mutamento sociale, lo sviluppo degli scambi, l’infittirsi delle relazioni sociali condussero non solo a adattare le norme, ma a produrne di nuove e a fissarle per iscritto, agevolandone la circolazione. Pretendendo di porsi al di sopra del diritto per produrlo, e applicarlo, in contrasto con altre norme e con i costumi locali, l’autorità regia cambiò la sua condizione, dato che la formalizzazione del dominio tramite il diritto s’imponeva anche a essa. Grazie al diritto «razionalizzato», non più «personale e soggettivo», bensì «generale, come legalità capace di far fronte al ripetersi di situazioni anche nuove della vita economica e sociale in dinamico sviluppo»31, ogni manifestazione di dominio a esso sottratta ricadeva nell’arbitrio e lo Stato era vincolato all’universalità. Era ancora un modo per prevenire le opposizioni, le resistenze, le ribellioni che avrebbe suscitato un potere senza limiti. La pratica sarà molto imperfetta, ma un limite era tracciato. 30   H.J. Berman, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 232-274. 31   J.A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, cit., p. 499.

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Nella formulazione e applicazione del diritto, da parte di un ceto di giuristi, i governati trovavano una difesa, seppure non risolutiva, dall’impiego arbitrario della coercizione32. L’arma fu adoperata anzitutto dalle oligarchie mercantili, subito attrezzatesi di competenze giuridiche, ma ne avrebbe profittato man mano una più larga platea di dominati33. Ai quali il diritto prometteva un’ampia, ancorché elementare e irta d’eccezioni, condizione d’uguaglianza. Azionare il diritto non è alla portata di chicchessia: l’uguaglianza tramite il diritto resterà una chimera e Bourdieu non manca di rimarcarlo e ne fa anzi uno dei suoi temi fondamentali. Ma pur sempre un principio fu introdotto. Vi saranno pure dei giudici a Berlino, ebbe a dire un favoloso mugnaio al Grande Federico. Sarà stato un caso eccezionale, ma secondo la favola pare sia riuscito a spuntarla. Il dominio è fatto anche di contraddizioni tra i dominanti. Per usare un’altra espressione propria del lessico di Bourdieu, il diritto è altresì divenuto un «campo» differenziato, presidiato dai suoi specialisti. Non è un campo pacifico, fervono le lotte per conquistare il monopolio di «dire» il diritto: di dettare, interpretare, armonizzare – in maniera mai innocente – le norme. In quanto potere formalizzato, intorno al diritto disputano i suoi teorici e i suoi pratici, le articolazioni funzionali della professione giuridica, chi fa legislazione, chi fa giurisdizione e chi amministrazione, e le loro dispute non sono affatto estranee alle lotte che si svolgono in altre sfere della vita collettiva. Altre idee del diritto, d’ordine e di giustizia sono sempre in discussione. Ma intanto viene fatto lo Stato. Nella pretesa di universalità dello Stato l’inganno non è intenzionalmente escogitato: l’universalità è un principio di legittimazione e un’arma contro i poteri privati. La distorsione è più sottile e sta di fatto che, una volta assunti pubblicamente taluni impegni, non li si contraddice impunemente. Per quanto dubbio sia l’ancoraggio all’universale nella pratica, lo Stato ha compiuto un percorso che non sarà facile compiere a ritroso. A dispetto dei profondi cambiamenti occorsi negli ultimi decenni, in cui i suoi ambiti d’azione sono parsi restringersi, e degli enormi investimenti, simbolici e non, effettuati 32 33

  Ivi, pp. 539-541.   Ivi, p. 499.

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per sminuirlo, incrementando la possibilità che gli interessi privati e gli addetti al mercato avanzino pretese addirittura di monopolio sul governo della vita associata, il ritorno verso un modello scopertamente e ufficialmente privatistico d’esercizio dell’autorità non è alle viste. Tra gli strumenti di cui lo Stato si avvale si segnala l’istruzione, cui Bourdieu ha dedicato alcune tra le sue più importanti ricerche34. Se la scuola consiste nel trasmettere conoscenze, dunque nel suggerire modi di pensare e anche di fare, i sistemi d’istruzione sono decisivi. Perciò, per impossessarsi di essi, o per controllarli, gli addetti allo Stato hanno lungamente lottato, disputandoli alla Chiesa. Lottano tutt’ora, almeno le parti politiche, perché i diplomi scolastici sono uno strumento fondamentale di classificazione degli esseri umani e decidono del loro destino, per cominciare dalle opportunità di accesso al mercato del lavoro. Ultimamente, il mercato capitalistico è intenzionato ad appropriarsene. A fianco dello Stato è stato pure fabbricato il grande perimetro identitario della nazione, che dell’esperienza storica dello Stato è elemento irrinunciabile. Bourdieu cita Benedict Anderson: la nazione è una grandiosa costruzione simbolica, volta a persuadere i sottoposti allo Stato di avere interessi comuni, superiori al vasto assortimento di particolarismi territoriali e linguistici, appartenenze sociali, affiliazioni religiose, condizioni economiche, divisioni politiche ricompresi entro i confini statali35. E una costruzione che si è perfezionata allorché la società ha preso ad articolarsi smisuratamente, al tempo dell’industrializzazione, ma che era stata avviata molto presto, in sinergia con quella della macchina statale. Nell’intento di suscitare ragioni aggiuntive per sottomettersi all’autorità dello Stato, di esaudirne le pretese fiscali, di sopportare i sacrifici di sangue da essa richiesti, tramite la nazione lo Stato si rivestiva di altri panni inclusivi e ugualitari. La nazione evoca l’immagine del corpo collettivo, promuovendo le vittime del racket a consociati, a iniziare dai ceti 34   In particolare, P. Bourdieu e J.-C. Passeron, Les héritiers. Les étudiants et la culture, Paris, Éditions de Minuit, 1964.  35   B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Roma-Bari, Laterza, 2018.

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istruiti36. A coadiuvare gli addetti allo Stato in quest’opera d’invenzione, ammaestramento, sono intervenuti ogni sorta d’operatori: letterati, artisti, pensatori, studiosi, educatori, che forse per primi si sono sentiti parte della nazione. Che di qui discenderà verso il basso, per persuadere, almeno un poco, quanti abitavano entro i confini dello Stato, anche i ceti inferiori e più svantaggiati, che comune era la loro origine, la loro biografia, il loro destino37. Si tracceranno confini e saranno elaborati racconti di atti fondativi e di vissuti condivisi. S’inventeranno simboli, celebrazioni, rituali, la letteratura, la musica, la pittura nazionali. Nel XX secolo è stato mobilitato lo sport. I confini saranno disegnati più volte e anche la storia condivisa verrà più volte riscritta, alla luce delle contese per il potere e secondo le convenienze di chi entro lo Stato ha preso il sopravvento. Nella prospettiva romantica, organicista ed esclusiva, la nazione è una comunità naturale, precedente lo Stato, unita dalla lingua e dalla cultura e guarda al passato. Nella prospettiva illuministica la nazione guarda al futuro: è fondata sulla libera condivisione di norme e valori da parte dei cittadini38. La seconda prospettiva è in apparenza più mite: ma non è detto. Traccia pur sempre un artificioso confine simbolico, che può insanguinarsi: la distinzione tra i due modelli è analitica e carica anche di significato politico. La pretesa di universalità, naturalità e terzietà dello Stato è fatta pure di questi mattoni. Le scienze sociali amano parlare di Stato-nazione: per descrivere l’ambizione di unificare la popolazione e il territorio. È un’invenzione occidentale, contrassegnata da un’ambivalenza insuperabile: perché lo Statonazione tanto domina, quanto associa. Eppure, se è possibile tacciarlo d’ipocrisia e smascherarne la finzione, tocca altresì riconoscere la sua ambivalenza. Se è la tonaca a fare il monaco, 36   Anche quello della nazione, va ricordato, è un importante tema weberiano, strettamente intrecciato al mutamento sociale: cfr. F. Ferraresi, La comunità politica in Max Weber. La legittimità democratica come assenza, in «Filosofia politica», 2, XI, 1997, pp. 181-210. 37   P. Bourdieu, Sur l’État, cit., pp. 547-548. 38   La contrapposizione tra un’idea francese e una tedesca di nazione in E.W. Böckenförde, La storiografia costituzionale tedesca nel secolo decimonono, Milano, Giuffrè, 1970, pp. 112-113.

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non la s’indossa mai inutilmente. Dai panni di cui lo Stato si riveste i dominati traggono pure qualche vantaggio: benché non per tutti nella stessa misura e tanto meno per sempre39. Ne trarrebbero però di più se lo Stato non ci fosse? 2. Monopolio, opposizioni, concorrenze Le istituzioni sono fasci di relazioni sociali più stabili di altri. Le regole, ufficiali e ufficiose, che le stabilizzano sono però riviste, reinterpretate, aggiornate di continuo da coloro che le abitano. Lo Stato, in quanto istituzione, non fa eccezione. È un accumulo grandioso di mezzi di coercizione, di risorse finanziarie, simboliche e organizzative, che impone la sua preminenza pacificando lo spazio intorno a sé: uno spazio inteso come territorio, ma pure come popolazione e come insieme di relazioni sociali. La sua azione pacificatrice – e ordinatrice – non è originaria. L’idea di Weber è l’opposto di quella di Hobbes, anche perché diverse erano le loro intenzioni: analitica l’una, normativa l’altra. Nella sostanza lo Stato di Weber è una «fazione» – o una costellazione di fazioni – che, guidata dalle proprie ambizioni, ha investito un capitale iniziale, a carattere militare, e successivamente l’ha incrementato, diversificato, consolidato, sperperato. O ne è stata spossessata. Prima o dopo, qualche altra fazione l’ha avvicendata. Per Tilly, è stata la resistenza delle vittime a sollecitare la mutazione dal racket originario. Secondo Elias è stata invece l’economia monetaria a farne una potenza economica e ad offrirgli opportunità organizzative senza precedenti. Per Bourdieu il successo dello Stato sta nei paramenti di cui si sono rivestiti i suoi addetti: quelli dell’ordine, della sicurezza, della giustizia, dell’interesse generale. La parola «fazione» non ha intenti polemici. È generica, come molte altre utilizzate in queste pagine: governanti, élite, «addetti» allo Stato, alla politica, al mercato, e altre ancora. Non 39   È su tale ambivalenza che insiste, entro un appassionato dibattito tra antropologi, F. Dei, Di Stato si muore? Per una critica dell’antropologia critica, in F. Dei e C. Di Pasquale (a cura di), Stato, violenza, libertà. La «critica del potere» e l’antropologia contemporanea, Roma, Donzelli, 2018.

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implica ferrea coesione, né necessarie comunanze ideologiche. Non esclude conflitti e prevede anzi gerarchie mutevoli e contestate. È solo un modo per ridurre l’astrattezza del concetto di Stato. Indica la parzialità dei raggruppamenti d’individui che lo costituiscono, contendendolo ad altri. Ereditata la preminenza simbolica della regalità pre-statale, i paramenti dello Stato hanno permesso a una fazione di accreditarsi quale autorità sovraordinata a ogni altro potere e come misura d’ogni cosa. Cambiano le fazioni e cambiano i paramenti, nel tempo e nello spazio: le esperienze statali in Occidente hanno molti tratti in comune, ma conoscono una quantità di variazioni. I sarti statali amano viaggiare e guardano agli altri Stati, ma ciascuno Stato taglia e cuce i paramenti a sua misura. Nei casi di rottura, anche i più drammatici, e di avvicendamento delle fazioni che fanno lo Stato, i paramenti, ancorché ridisegnati, ne assicurano la continuità. Semmai li si aggiorna. Tant’è che sono a tutt’oggi la posta più elevata delle contese che dividono la vita associata. Dal suo istituzionalizzarsi, lo Stato ha tratto una vocazione alla sintesi e alla coerenza tanto cogente, quanto di continuo trasgredita. Entro un mondo man mano fattosi più plurale, differenziato, diviso in parti eterogenee e confliggenti, lo Stato è divenuto – la formula è di Alessandro Pizzorno – la più ampia ed efficace «cerchia di riconoscimento» che la modernità occidentale abbia architettato40. Perennemente proteso a trascendere e contenere la pluralità sociale, culturale, religiosa, linguistica, economica, della vita collettiva. Storicamente si è quasi senza volerlo trovato ad assumere il compito di contrastare e ricomporre il disordine e l’incertezza imperanti entro propri confini41. Chiunque s’impossessi dello Stato, e pretenda farsi Stato, è vincolato a tradurre nel linguaggio dell’ordine, dell’interesse generale, della sicurezza collettiva e della giustizia le proprie istanze particolari. Epperò, anche ad ammettere che si possa da qualche parte stabilire un ordine perfetto, universale, l’ordine che lo Stato storicamente stabilisce non è mai tale. Né lo è ciò che 40   È un concetto usato da A. Pizzorno molte volte: cfr., ad esempio, Il velo della diversità: studi su razionalità e riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 2007. 41   Con eccesso di understatement lo sottolinea in nota G. Di Palma, The Modern State Subverted. Risk and the Deconstruction of Solidarity, Colchester, ECPRPress, p. 12, n. 2.

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di volta in volta esso definisce come interesse generale, bene comune, giustizia42. A guardarsi indietro, ogni definizione appare contingente e controversa, corrisponde alle convenienze e alle possibilità delle fazioni che provvisoriamente indossano i paramenti statali. Vi sono fazioni che profittano di tali paramenti piegando l’idea d’ordine e di giustizia al perseguimento miope e restrittivo del proprio vantaggio. Ve ne sono altre che curano interessi più ampi dei propri. Dipende da come sono fatte, da come la pensano, dalle condizioni in cui operano. Dipende anche dalla disponibilità a cooperare che incontrano dai loro sottoposti, o delle opposizioni, resistenze, renitenze che le ostacolano. Anche quando sono minime, le opposizioni che lo Stato incontra sul suo cammino ne condizionano le condotte e lo plasmano. Dopotutto, se non ci fossero, vi sarebbe mai bisogno di un simile enorme macchinario? «Ogni relazione umana», scriveva Max Weber all’allievo e amico Robert Michels, «anche del tutto individuale, contiene elementi di dominio, forse reciproco (questa è addirittura la regola, ad esempio, nel matrimonio)»43. Detto altrimenti, non c’è dominio incontrastato. Ovvero, per dirla con Michel Foucault, «dove c’è potere, c’è resistenza», la quale pertanto «non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere»44. Sollevata la questione, Foucault non ha tuttavia elaborato una teoria sistematica dell’anti-Stato, cioè degli ostacoli e delle opposizioni con cui lo Stato vive in intima simbiosi45. Per quanto numerose 42  Legittimazione e giustificazione del potere, e dell’autorità pubblica, sono storicamente situate. Concetti come interesse generale, legalità, volontà popolare, ecc. assumono nel tempo e nello spazio significati diversi. Un ambizioso tentativo di riordinamento è quello compiuto, riconoscendo nell’esperienza occidentale alcuni modelli principali di «città» e di convivenza, da L. Boltanski e L. Thévenot, De la justification: les économies de la grandeur, Paris, Gallimard, 1991. 43   M. Weber, Lettera a Robert Michels del 21 dicembre 1910, cit. in E. Hanke, Introduzione a Economia e società. Dominio, Roma, Donzelli, 2018, p. XXII. 44  M. Foucault, Storia della sessualità, I, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 125-126. 45  Un contributo fondamentale, che nega la possibilità di una teoria generale, è la ricerca di B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta (1978), Milano, Comunità, 1983. Un altro contributo, che sottolinea l’ubiquità delle resistenze, è quello di J.C. Scott, Domination and the Arts of Resistance: Hidden Transcripts, New Haven, Yale University Press, 1990. Una ricognizione sull’argomento in P. Saitta, Resistenze. Pratiche e margini

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e pregevoli siano le teorie del conflitto, ancora difetta una soddisfacente teoria delle resistenze. Se tante e spesso sottili e inattese sono le tecniche di cui si servono i dominanti per dominare, lo stesso vale per le tecniche di cui si servono i dominati per difendersi. Gli annali registrano le ribellioni visibili, rumorose e collettive. Tralasciano le resistenze individuali e le pratiche di autodifesa silenziose. Quel che è certo è che se ai dominati costa difendersi e ancor più ribellarsi, anche dominare è un arduo rompicapo. Non vi sono unicamente le rivolte, gli scioperi, le sfilate, il terrorismo. C’è chi pure si sottomette: o aderisce al potere o vi si riconosce, e vi trova qualche convenienza; oppure non concepisce nemmeno la possibilità di sottrarsi alla propria soggezione, per quanto oppressiva; o ancora la sopporta per abitudine, o per paura. In realtà, c’è sempre una zona grigia che attornia i dominanti. Le apparenze della sottomissione mascherano molte forme di autodifesa, possibilmente a basso rischio. Si fa opposizione criticando, narrando, beffando, irridendo, cantando, imbrattando i muri di scritte. Simulazione, sabotaggio, diserzione, illegalità, evasione fiscale, corruzione, assenteismo, economia informale, obiezione di coscienza sono tutte tecniche di autodifesa. I subordinati sono lesti a profittare di difetti, incoerenze, incertezze, errori dei dominanti, nonché delle contese che tra questi ultimi si accendono. Un’altra tecnica di autodifesa, rammenta Hirschman46, è l’exit. Che può avvenire persino in direzione del soprannaturale. Dal canto loro, ricordiamo lo Stato-racket, gli addetti allo Stato non solo opprimono ed estorcono, ma premiano, negoziano, corrompono, persuadono, blandiscono, includono, tollerano il dissenso, gli consentono a volte di manifestarsi apertamente e magari l’incoraggiano. È tipico d’ogni dominio, che, per stabilizzare, rafforzare, riprodurre le sue asimmetrie, per renderle sopportabili ai suoi sottoposti, paga un prezzo e nega perfino di dominare. Enormi sono i capitali simbolici, organizzativi, economici, che lo Stato investe per ottenere rispetto, ubbidienza, consenso, del conflitto nel quotidiano, Verona, Ombre corte, 2015. Ricchissimo d’idee ed esemplificazioni è B. Hibou, Anatomie politique de la domination, Paris, La Découverte, 2011. 46   A.O. Hirschman, Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese dei partiti e dello stato (1970), Milano, Bompiani, 1982.

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lealtà, attaccamento, collaborazione, complicità, conformismo, ma anche solo disinteresse, timore, apatia. Non è così un paradosso che a una quota cospicua dei suoi sottoposti l’azione di dominio svolta dallo Stato, benché parziale, selettiva, imperfetta, appaia dopotutto conveniente e perfino, benevola e rassicurante. Anche quando non è affatto amichevole. Fondamentale è l’incontro – provvisorio – tra l’offerta di Stato, e dunque d’ordine, sicurezza, giustizia avanzata da chi indossa pro tempore i paramenti statali, e la domanda di Stato avanzata da gran parte dei suoi sottoposti e utenti. Una delle risorse dello Stato consiste nell’evocare il disordine che conseguirebbe dalla sua dissoluzione. Cosicché, se da un lato lo Stato promette sicurezza, dall’altro inscrive l’insicurezza, cioè la propria crisi – l’eterna crisi dello Stato – addirittura nella sua costituzione. A dire dello Stato, senza e fuori da esso, la vita umana diverrebbe insicura. Il ritrovamento di nemici e ribelli, se del caso irriducibili e intrattabili, è un mezzo essenziale per coltivare la credenza nella propria legittimità, autorità, preminenza. Molto c’è da riflettere persino sul cosiddetto terrorismo e sulle strategie per contrastarlo. Anzi: non solo lo Stato evoca il disordine, ma ne semina a iosa. Ha elaborato una retorica per la quale governare è risolvere problemi collettivi. Ma non c’è azione di governo, misura di policy, chiunque la progetti e la conduca, che non sia parziale, scomoda per qualcuno e vantaggiosa per qualcun altro. Tra governo e conflitto non c’è discontinuità sostanziale, ma solo apparente. Per venire a capo delle opposizioni, i dominanti stabiliscono con i dominati ciò che Barrington Moore chiama un «contratto sociale implicito»: negoziano obblighi reciproci e definiscono i criteri con cui si risolvono «i problemi dell’autorità, della divisione del lavoro e della distribuzione dei beni e servizi», nonché si stabiliscono principi di disuguaglianza sociale47. Il contratto è però temporaneo e sottoposto a continua verifica, da parte dei dominanti non meno che dei dominati, per sperimentarne i limiti, per scoprire ciò che ciascuna parte può fare e non può fare, per aggiornarlo. I contraenti non sono nemmeno tenuti allo stesso modo a rispettarlo48. 47 48

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  B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta, cit., pp. 38-41.   Ivi, p. 43.

La fortuna dei dominanti è che l’opposizione aperta e simultanea di tutti i sottoposti è da escludere. A volte non basta. Ma avallare o suscitare divisioni tra di essi è una tecnica di dominio ben riuscita. Gli addetti allo Stato hanno subito appreso a usare tali divisioni, a dosarle, prevenirle, attenuarle, incoraggiarle, eccitarle, reprimerle, secondo le loro convenienze: a mettere gli uni contro gli altri. Il consenso di alcuni è sfruttato per contrastare la dissidenza di altri, concedendo selettivamente riconoscimenti simbolici, benefici materiali, spazi di autonomia, immunità e privilegi e, in maniera sempre selettiva sanzionando e reprimendo. Gli esseri umani sono pure incoerenti con loro stessi. Neanche coloro che apprezzano il dominio statale e ne traggono beneficio rinunciano a disobbedire e trasgredire tacitamente, a piegare le regole, a escogitare scappatoie. Quanti sono pronti a invocare severe misure law & order, e al contempo trasgrediscono le leggi, evadono le imposte, inquinano, parcheggiano in doppia fila? Lo Stato, talora, ne profitta. Un confine arduo da tracciare è quello tra opposizione e concorrenza. Ovvero, vi sono coloro che si difendono dallo Stato, ma anche quelli che aspirano a farsi Stato al suo posto, o che vorrebbero disfarlo, tanto dall’interno, quanto dall’esterno. Gli uni e gli altri spesso si confondono e si strumentalizzano reciprocamente. La Chiesa e il clero, gli imprenditori, i partiti, gli interessi organizzati, i movimenti collettivi, le famiglie, le associazioni possono rivelarsi per le fazioni in carica dello Stato tanto alleati, quanto oppositori, quanto ancora concorrenti, portatori di altre pretese, altri interessi, altre idee d’ordine, di giustizia, di sicurezza, d’interesse generale. Anche i conflitti e le alleanze con gli altri Stati fanno parte dello Stato. Sono un fattore possente, oltre che nella sua costituzione, anche della sua conformazione. «Gli Stati fanno la guerra», ricorda Tilly, e «la guerra fa gli Stati»49. Più ravvicinata è la pressione militare, maggiore è la propensione a consolidare le forze armate, gli apparati di sicurezza, le istituzioni amministrative e quelle preposte all’ordine pubblico, ma pure a incoraggiare determinate attività economiche a spese di altre. Non mancano nemmeno gli effetti sul comune sentire. Ma non c’è solo la guerra, né la pressione militare, a tracciare 49

  C. Tilly, War-Making..., cit., p. 170.

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dall’esterno il confine e il profilo degli Stati. Tra loro si danno anche relazioni non violente, ma non meno condizionanti. Il costituirsi del mercato capitalistico come sfera a sé ha suscitato una trama d’interdipendenze e concorrenze: commerciali, finanziarie, tecnologiche, che a volte si sono fermate ai confini degli Stati, ma altre volte li hanno sorpassati. La globalizzazione ne è una manifestazione straordinaria. Anche i grandi spostamenti di popolazione, di recente tornati d’attualità, concorrono a plasmare gli Stati. Conta molto, inutile dirlo, il mutevole coacervo d’istituzioni in cui gli Stati si sono storicamente articolati o intrecciati: monarchie, burocrazie, magistrature, forze armate, autorità elettive, partiti, movimenti, interessi organizzati. E ancora: scuole, università, mezzi di comunicazione. La divisione del lavoro tra tali istituzioni è variabile, spesso conflittuale, e le modalità d’esercizio del monopolio statale ne risentono. Nemmeno la religione, il mercato, la scienza sono immuni da lotte di fazione, che si riversano sullo Stato. A osservarlo senza intenti celebrativi e senza lasciarsi intimidire dai paramenti di cui si veste, specie dall’immagine della sovranità, lo Stato – la formula è di Joseph R. Strayer – è un «mosaico»50, composto d’infinite tessere, piuttosto mobili, e gravato da non meno infinite ipoteche. Se però il dominio dello Stato è contestabile e deperibile, è pure adattabile. È così che è sopravvissuto per secoli. Anche se da ultimo c’è il sospetto che lo Stato, al volgere tra secondo e terzo millennio, abbia gettato la spugna, si sia arreso al più disordinato dei suoi concorrenti, che è il mercato. Il quale chiede allo Stato unicamente di mantenere il suo ordine «spontaneo». È anche questa, dopotutto, un’idea di Stato e di società. Lo Stato domina in mille modi. Oltre però a perseguire disegni di ordine sociale, mutevoli nel tempo, lo Stato è mosso e consumato da un’ambizione ordinatrice in un altro senso. L’ha illustrata con dovizia di argomenti ed esempi James C. Scott, un altro studioso di fama. Conciliando ispirazione weberiana e foucaultiana, Scott ha dedicato un libro a come lo Stato «vede» e ragiona, e a come, proprio al fine di ordinare e governare in funzione di esigenze fondamentali quali la tassazione e la 50   J.R. Strayer, On the Medieval Origins of the Modern State, Princeton, Princeton University Press, 1970, p. 57.

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coscrizione, si sia attrezzato, investendo smisurate energie tanto nel rendere leggibile la società, quanto nello standardizzarla, uniformarla, allinearla51. Mirabile esempio di questo sforzo di conoscenza, azione, ridisegno, ma pure dei suoi ripetuti fallimenti, o di non corrispondenza alle sue ambizioni, secondo Scott, è la politica forestale adottata dalla Prussia al tempo del cameralismo settecentesco. Per massimizzare la produttività delle foreste, e trarne un prodotto più idoneo alla commercializzazione, gli specialisti di scienze forestali studiarono, classificarono, selezionarono le diverse essenze, impiantarono foreste monocolturali, coltivarono alberi delle medesime dimensioni in file perfettamente allineate, con cura liberate dal sottobosco. Scopriranno più tardi gli inconvenienti della monocoltura. L’esperimento si risolse in disastro. Ripulito il sottobosco, inariditosi il suolo, cacciata la fauna, gli alberi presero a deperire in maniera per nulla rispondente alle attese di chi li aveva piantati. I pareri degli «esperti» già allora avevano qualche controindicazione. Il modello di coltura forestale introdotto nei domini del re di Prussia non è un unicum. È inscritto nella vicenda dello Stato. Sono coerenti con esso le geometrie amministrative costruite dagli Stati e, per l’appunto, la standardizzazione delle unità di misura, la predisposizione delle mappe catastali, la perimetrazione delle proprietà e delle colture, la cancellazione dei dialetti a favore delle lingue nazionali, l’unificazione monetaria e normativa, il calendario, l’anagrafe, l’imposizione dei cognomi, il riordinamento del tessuto urbanistico delle città e via di seguito. Da ultimo, l’informatica ha dischiuso immense – e forse soffocanti – possibilità52. In compenso, non sono affatto eccezionali gli inconvenienti. Scott attribuisce allo Stato un impegno formidabile d’ingegneria politica, amministrativa, sociale, che, in forme variabili, sarà perseguito lungo un arco di tempo plurisecolare. I rivoluzionari francesi e quelli russi, una volta che si furono impadroniti dello Stato, ne hanno offerto alcune tra le mani51   J.C. Scott, Seeing Like a State: How Certain Schemes to Improve the Human Condition Have Failed, New Haven, Yale University Press, 1998. 52   B. Hibou, La bureaucratisation du monde à l’ère néolibérale, Paris, La Découverte, 2012.

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festazioni più estreme. Non si tratta di aderire alle retoriche conservatrici considerate da A.O. Hirschman53: perché anche l’immobilismo produce cambiamenti e pure indesiderati. Ma è bene conoscere in anticipo le complicazioni che incontra chiunque intenda manipolare la società. Le circostanze, il caso, le diversità, le opposizioni, le insubordinazioni amano contraddire le pretese, i disegni, le utopie. Tanto più sono ambiziosi i disegni – quelli che Scott definisce high modernist – tanto più elevato è il rischio. D’altro canto, le semplificazioni servono a dare coerenza al mondo, aiutano a renderlo più comprensibile e soprattutto più maneggevole per chi aspira a governarlo. E forsanche per i governati. Ma non lo rendono tale. Tra i paramenti dello Stato, insieme al suo nome, che evoca la stabilità, rientra la tiara della sovranità, che ha incoronato la pretesa riuscita – sempre però provvisoria – del monopolio. Machiavelli, Bodin, Hobbes e altri ancora hanno reso pensabile quell’idea. È l’occasione per ricordare che anche chi pensa, parla, scrive, a favore o contro, concorre a fare lo Stato. È un altro conglomerato di fazioni in lotta, a modo loro, per la loro porzione di dominio. Idee, concetti, parole non sono semplice decoro. Sono armi efficacissime, che hanno plasmato e affinato il monopolio statale e hanno ispirato e condizionato l’operato sia di coloro che lo detenevano, sia di quanti aspiravano a esso, o aspiravano a disfarlo. Si prenda il caso di Hobbes. Il suo turbamento al cospetto della guerra civile ne fece uno strenuo assertore della supremazia dello Stato. Era l’arma con cui prese parte alla contesa per il potere, e in maniera per nulla secondaria. Nel suo pensiero disegnò lo Stato come artificio, atto a ricomporre una pluralità per sua natura disordinata e condannata altrimenti alla guerra civile. Fu una mossa che promosse una rivoluzione concettuale e un modo nuovo di pensare l’autorità e la convivenza, che, una volta radicati nella teoria e nel vocabolario politico, sono stati essenziali per fare e istituzionalizzare lo Stato54. Oggi è la teoria economica cosiddetta neoliberale che avanza questa pretesa. 53   A.O. Hirschman, Retoriche dell’intransigenza. Perversità, futilità, messa a repentaglio (1996), Bologna, Il Mulino, 1991. 54   Q. Skinner, Visions of Politics, II, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 394-413.

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Forse nessuna tra le rappresentazioni dell’ordine statale vale però le trionfali architetture dell’età barocca, i cui spettatori erano infinitamente più numerosi di quelli di qualsiasi altra celebrazione coeva dello Stato. Vi recitarono una parte gli stessi monarchi non contentandosi di commissionare quelle architetture. Essi, si sa, negoziavano anche la propria iconografia. Una volta stabilita la propria immagine ufficiale, sarebbe stata ripetuta a ogni occasione. Non diversamente negoziavano con i loro architetti, affinché mettessero in scena la loro preminenza e le loro ambizioni. Era un’operazione di comunicazione, finalizzata a suscitare stupore e deferenza intorno alla maestà regia e ad iscrivere in permanenza quest’ultima, e l’ordine dello Stato, nei pensieri e nei cuori dei loro sudditi. Il mondo attorno allo Stato, si è detto, ha sempre resistito agli sforzi di semplificarlo, sottometterlo, uniformarlo, standardizzarlo. L’autorità monarchica in Francia si rapprese a fatica, con fatica nelle campagne e ancor più nelle città. Imprigionata a corte l’aristocrazia, occorreva tenercela e mantenerla. Per nulla leale era il clero, che guardava verso Roma. I poteri locali andavano ammansiti. Lo spazio intorno al trono rimaneva accidentato, irto di fazioni riottose e agguerrite, con cui spesso conveniva negoziare. Le burocrazie erano eterogenee e in lite fra loro. Il regno era eternamente in guerra, con i nemici esterni, non meno pericolosi di quelli che gli resistevano all’interno. Le casse dello Stato non erano mai colme a sufficienza. Luigi XIV volle riprodurre in mille forme la sua immagine che fu messa al centro di una grandiosa e intenzionale attività di propaganda55. Molto da riflettere dà soprattutto il contrasto tra la reggia che egli volle edificare a Versailles, al centro ideale del regno, e la sua tormentata pratica di governo. Quella reggia appare pensata quale immagine fisica della sua autorità, istituendo un luogo supremo per il suo esercizio, a conveniente distanza dai sudditi e dalle loro opposizioni. Ebbene, l’immensa architettura da lui elevata a se stesso e al monopolio che si era personalmente intestato era senz’altro una mossa di una durissima partita di potere – una partita in quanto le mosse degli 55   L’ha investigata in dettaglio P. Burke, La fabbrica del Re Sole, Milano, Il Saggiatore, 1994.

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attori erano decisive – ma non sarà stata magari un tentativo d’esorcizzare la pervicace ambivalenza della sua condizione? L’État c’est moi, si narra che abbia detto il Re Sole. La coreo­ grafia di quell’edificio metteva in scena l’unità, la coerenza e la cogenza dell’autorità regia agli occhi dei suoi sottoposti e dei suoi rivali. Eppure, in quella temperie, sovraccarica di tensioni sociali e politiche, potrebbe essere stato pure un modo per fugare, o dissimulare, incertezze e frustrazioni. Esibendo la sontuosa materialità delle sue fabbriche, dei suoi giardini, delle sue feste, il Re Sole forse cercava conferma di un’autorità incoerente, discontinua e insicura. Quanto l’insicurezza fosse fondata lui l’aveva sperimentato di persona agli inizi del suo regno. L’avrebbero confermato i parigini marciando su Versailles il 5 ottobre 1789. 3. Lasciti, bricolage, ibridazioni Una delle metafore più fortunate con cui lo Stato è rappresentato è quella della macchina. Risale al XVII secolo56. Ma se la metafora corrisponde all’ambizione di regolarizzare, spersonalizzare e rendere irresistibile l’autorità dello Stato, la pratica non si adegua. La macchina dello Stato non è facile da azionare. Nel suo quotidiano operare lo Stato è un assemblaggio d’istituzioni, regole, esseri umani, che si destreggiano tra infinite difficoltà. Ogni Stato fa lo Stato come può: in misura e con modalità variabili. Non tutti gli Stati occupano nella vita associata il medesimo spazio: a volte si espandono, altre volte si ritraggono. Lo Stato può accentrare e decentrare. Può coltivare la dimensione nazionale e simbolica, ma può tralasciarla. Non tutti gli Stati intendono il diritto allo stesso modo: la differenza tra rule of law e Stato di diritto è considerevole. Vi sono Stati laici e Stati confessionali e niente è più mutevole degli equilibri tra Stato e mercato. Le fazioni che si sono avvicendate nella conduzione del monopolio statale hanno sempre esercitato il loro dominio anche tramite un affannato bricolage di materiali 56  Con riferimento alle origini della metafora, ai suoi molteplici usi e in particolare a quello weberiano cfr. A. Anter, Max Weber’s Theory of the Modern State, cit., pp. 196-202.

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di risulta. Questa, storicamente, è la cifra dello Stato, che la storiografia attuale considera perciò molto meno «moderno» di quanto non si usasse pensare tempo fa57. Proviamo a offrire qualche esempio, senza metodo, dalle infinite esperienze disponibili. Tra i tanti bricolages primeggiano quelli occorsi con il passato. Non c’è appropriazione, si badi, senza rielaborazione. Quanto è stato rielaborato non è mai ripetizione dell’originale. Lo Stato ha fatto bricolage anzitutto con la feudalità, che ha resistito lungamente, malgrado fosse la prima vittima dello sforzo di accentramento. Ancor più a lungo ha resistito la classe che le era legata, ossia la nobiltà. È un intreccio, quello tra feudalità e Stato, su cui Perry Anderson ha avanzato un’interpretazione originale. L’assolutismo sarebbe stato nientemeno che «la nuova armatura politica della nobiltà minacciata» dalle borghesie urbane e dalle rivolte contadine58. Monarchia e feudalità avrebbero fatto causa comune contro tali sfide. Le generalizzazioni sono rischiose. Ma Anderson è avvertito e non semplifica, anzi contrasta le generalizzazioni precedenti. In gran parte delle regioni d’Europa relazioni in qualche modo assimilabili a quelle feudali, sia sul piano economico, sia su quello politico, hanno resistito, tramite istituti quali la venalità delle cariche e un sistema fiscale gravante soprattutto sui contadini. Una volta espropriata della sua autorità politica, l’aristocrazia mostrò anche considerevoli capacità di ricollocarsi e tener testa ai ceti borghesi. Da Stato a Stato le cose cambiano. Ma gli eredi dell’aristocrazia feudale, la gentry e i suoi equivalenti continentali, le nobiltà cittadine, trovarono sovente spazio nella rete dei consigli, privati o di Stato, dei collegi specializzati, istituiti dai sovrani, nelle magistrature e nell’amministrazione regia59. Spesse volte questi ceti si posizionarono lungo il confine tra politica e affari – l’esazione fiscale o i servizi di posta – quando non si riconvertirono all’imprenditoria capitalistica. La tesi di Arno Mayer è che un cospicuo grumo d’interessi, e finanche di valori, identificabili con la nobiltà, conservatori, se non rea­ 57   Si veda in special modo F. Benigno, Stato moderno, in Id., Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Roma, Viella, 2013. 58   P. Anderson, Lo Stato assoluto, Milano, Mondadori, 1980, p. 20. 59   A. Maczak, The Nobility-State Relationship, in W. Reinhard (a cura di), Power Elites and State Building, Oxford, Clarendon Press, 1996, pp. 189-206.

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zionari, avrebbe resistito fino al primo conflitto mondiale60. I ceti nobiliari ottocenteschi avevano però quasi nulla in comune con l’antica nobiltà feudale e con quella prerivoluzionaria61. Si erano via via incrociati con i ceti borghesi. L’impatto con la modernità li aveva indotti a adeguarsi. Anche se tra le élites legate allo Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nell’ordine giudiziario e nelle forze armate, fino al Novecento inoltrato, sono sopravvissute nicchie riservate alla nobiltà. Intrecciando storia e scienze sociali, Barrington Moore ha raccontato la precoce riconversione imprenditoriale dell’aristocrazia e della gentry in Inghilterra62. Già l’assolutismo Tudor aveva ceduto loro il governo locale, la riscossione dell’imposta fondiaria e l’amministrazione della giustizia. Il paese era vasto e la corona faceva risparmio di un costoso apparato burocratico. Dopo la rivoluzione e la dittatura militare di Cromwell, restaurata la monarchia e stabilizzato il regime rappresentativo, l’aristocrazia e la gentry, in ragione del loro prestigio sociale e delle loro risorse patrimoniali, istituiranno una solida supremazia nella vita politica locale e anche in quella nazionale, di cui resteranno tracce anche oltre il XIX secolo. Pure grazie alla loro disponibilità a intrecciare vincoli di parentela, oltre che di affari, con i ceti borghesi. In Francia, viceversa, il Re Sole sgretolò l’opposizione della nobiltà feudale sottomettendola ai riti di corte e facendone ornamento della propria maestà. Lui, e ancor più i suoi successori, le consentirono comunque di amministrare ancora ricchi patrimoni e le offrirono cariche amministrative e gradi militari, mentre in provincia la nobiltà piccola e media si disputava il potere con le borghesie cittadine, quando non si alleava con esse contro la burocrazia regia. Si verificò pure una retroazione singolare. La monarchia attinse dalla borghesia i suoi funzionari per escludere l’aristocrazia. Ma dovette rassegnarsi a quel succedaneo che era 60   A.J. Mayer, Il potere dell’Ancien Régime fino alla Prima guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 1982. 61   Una lettura comparativa, critica nei confronti di Mayer, in C. Charle, Elite Formation in Late Nineteenth Century: France Compared to Britain and Germany, in «Historical Social Research/Historische Sozialforschung», 2, XXXII, 2008, pp. 249-261. 62   B. Moore Jr., Le origini sociali della dittatura e della democrazia. Proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno, Torino, Einaudi, 1969.

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la nobiltà degli uffici, prontissima ad assumere costumi, stili di vita, modalità di esercizio del potere della noblesse d’épée63. Un secolo dopo, qualche residuo aristocratico sopravviverà, ma sarà la borghesia proprietaria e delle professioni legali a occupare i vertici dello Stato, con qualche circoscritto temperamento meritocratico che coinvolgeva altri ceti64. In Prussia, il difetto d’ingenti entrate fiscali provenienti dalle attività commerciali e industriali suggerirà invece aggressive politiche d’espansione, che confermarono il ruolo militare della nobiltà. La scelta dell’autorità regia fu d’accordarsi con essa, ripristinando i rapporti feudali nelle campagne e assorbendola, specie le sue componenti economicamente più deboli, una volta fuoruscita dai ranghi dell’esercito, in quelli dell’amministrazione territoriale e della burocrazia, dove però fu costretta a misurarsi con un’élite, in parte borghese, dotata di competenze anzitutto giuridiche. A pagarne il prezzo, grazie all’esosa pressione fiscale e alla coscrizione, fu la popolazione contadina. Ma vittima fu pure, benché diversamente, la borghesia, che rimase separata dallo Stato. Dedicatasi con successo agli affari e alla cultura, le sarà unicamente concesso di accedere ai governi cittadini65. In ogni caso, i titoli nobiliari persisteranno a lungo quali segni di prestigio e di distinzione: i sovrani di tutta Europa seguiteranno a riconoscerli e a distribuirli con larghezza e nessuno si è mai rifiutato di riceverli. Placata la tempesta rivoluzionaria, Napoleone si compiacque d’inventare la nobiltà dell’impero. I suoi successori evitarono di congedarla. Un secolo dopo il fascismo distribuirà titoli nobiliari a profusione. In pieno XX secolo il franchismo ha restaurato la monarchia e ridato corso ai titoli nobiliari. Istituire gerarchie e promuovere disuguaglianze si può pure farlo con modalità un po’ vetuste. La colonna vertebrale dello Stato sono state le burocrazie pubbliche. Ma nell’organizzazione della macchina statale ele63   K. Isaacs e M. Prak, Cities, Bourgeoisies, and States, in W. Reinhard (a cura di), Power Elites and State Building, cit., pp. 228-229. 64   C. Charle, Elite Formation in Late Nineteenth Century: France Compared to Britain and Germany, cit., nonché J. Kocka, Borghesia e società borghese nel XIX secolo. Sviluppi europei e peculiarità tedesche, in Id. (a cura di), Borghesie europee dell’Ottocento, Venezia, Marsilio, 1989. 65  H. Rosenberg, Bureaucracy, Aristocracy, and Autocracy. The Prussian Experience. 1660-1815, Boston, Beacon Press, 1966.

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menti patrimoniali e moderni hanno a lungo convissuto. Solo ben oltre la metà del XIX secolo le burocrazie si struttureranno definitivamente, secondo, più o meno, l’idealtipo weberiano66. Selezionati per concorso, ai pubblici funzionari sarà garantita la stabilità nell’impiego, regolandone la progressione in carriera e prescrivendo loro neutralità e indipendenza in opposizione alla parzialità della politica elettiva67. Fino a quel momento le burocrazie pubbliche erano state costrette a destreggiarsi entro un’intricata stratificazione e contrapposizione di poteri ed erano state ipotecate da vincoli familiari, clientelari, locali, che tuttavia facevano comodo ai sovrani, conseguendo anch’essi l’effetto, solo in apparenza paradossale, di favorire il rapprendersi dell’organizzazione statale del potere68. Fondamentali furono le circostanze. Nella Francia e nella Spagna del XVI secolo esse consentirono di regolamentare meglio cariche e competenze, e di dissociare i funzionari dal territorio, spostandoli da un luogo all’altro69. Non fu l’unica soluzione, fu anzi spesso in contrasto con un’altra: la vendita degli uffici era un altro bricolage singolare. I re di Francia ne fecero sostituito e antidoto all’aristocrazia. Ma presto concessero agli officiers la carica in proprietà, ne autorizzarono la trasmissione ereditaria e l’impreziosirono a volte con un titolo nobiliare: con una mano monopolizzavano, con l’altra privatizzavano le attività dello Stato. Pure la raccolta fiscale era di regola affidata a imprenditori privati. Niente è mai troppo originale, tantomeno le privatizzazioni. Gli inconvenienti erano noti e furono avanzati progetti di riforma, di ridimensionamento o abolizione della venalità. I re di Francia erano però troppo gravati dai debiti, e gli introiti della venalità troppo vantaggiosi, per rinunciarvi. La venalità implicava l’esenzione dalla taille, compensata ampiamente da nuove entrate: nel momento in cui le cariche erano attribuite e quando erano trasmesse, per successione o in altro modo, nonché nel corso del loro esercizio. In più, i sovrani legavano a sé una parte della classe mercantile e rinnovavano le   J.A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, cit., vol. II, pp. 532-537.  F. Dreyfus, L’invention de la bureaucratie: servir l’État en France, en Grande-Bretagne et aux États-Unis (XVIIIe-XXe siècle), Paris, La Découverte, 2000, pp. 169-197 e 204-225. 68   Su Francia, Inghilterra e Stati Uniti: ivi, pp. 119-121. 69   J.A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, cit., vol. II, pp. 548-553. 66

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classi dirigenti. Il meccanismo era così redditizio che gli uffici messi in vendita furono moltiplicati. Erano un discreto motore per l’economia. Chi acquistava una carica, effettuava un cospicuo investimento per ricavarne, insieme ad autorità e prestigio, una rendita, pagata non dal sovrano, bensì dagli utenti70. In Inghilterra i due rami del Parlamento si assicurarono presto competenze normative e riuscirono a imporre alla monarchia considerevoli vincoli, controllandone le spese e contrastando il ricorso alla venalità per finanziarle. Solo per poco, al tempo degli Stuart, la monarchia fece qualche commercio di cariche. Se le storie narrate a cose fatte promuovono l’Inghilterra ad esempio virtuoso, dato che colà avrebbe visto la luce la prima burocrazia professionale moderna, insieme al primo moderno sistema fiscale, ciò avvenne però in ragione di circostanze fortuite. Il caso aveva voluto che alla classe mercantile si offrisse l’opportunità d’impiegare altrimenti i suoi capitali, mentre le fiorenti attività economiche e finanziarie della city di Londra consentivano alla pressione fiscale di essere meno gravosa71. In tanti casi ha contato la collocazione geografica. Secondo un illustre studioso delle istituzioni come Otto Hintze, l’esigenza di allestire forze armate numerose e dotate di costosi armamenti per varcare la Manica scoraggerà i potenziali invasori e indurrà al contempo gli inglesi a frenare le loro ambizioni continentali e ad investire piuttosto in lucrose imprese oltremare. Sarebbe perfino una ragione della lunga durata del regime rappresentativo, giacché venivano limitate le capacità repressive dello Stato. Le urgenze militari della Francia, al centro di molteplici pressioni sui confini, concorrono invece a spiegare l’ipertrofia dello Stato. Così come, più tardi, l’emergenza militare al tempo della rivoluzione e del Primo impero non solo imporrà allo Stato di estrarre dai suoi sottoposti più risorse fiscali dell’ordinario, ma favorirà il sostanziale rinnovamento del suo apparato amministrativo. Non meno intrigante è il caso della Prussia. Pressato da ogni parte, lo Stato costituito dal Grande Elettore e dai suoi eredi divenne 70   R. Descimon, Power Elites and the Prince: The State as Enterprise, in W. Reinhard (a cura di), Power Elites and State Building, cit., pp. 111-121. 71   Su questi temi J. Brewer, The Sinews of Power. War, Money, and the English State, 1688-1783, London, Unwin Hyman, 1989, segnatamente pp. 57-72. Inoltre, J.-P. Genet, La genèse de l’État moderne. Culture et société politique en Angleterre, Paris, Puf, 2003, pp. 89-110.

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uno «Stato guarnigione», sorretto da una possente macchina burocratica72. Le esigenze militari imposero a loro volta uno sforzo enorme di amministrazione. A beneficio del quale cure specifiche furono dedicate alle istituzioni universitarie, affinché impartissero agli aspiranti funzionari istruzione adeguata. Si sarebbero sviluppate le discipline camerali73. Grandi riforme amministrative saranno adottate a seguito della sconfitta di Jena. Frutto dello stretto legame tra esercito e burocrazia fu pure lo statuto precocemente disposto per quest’ultima: già a fine XVIII secolo se ne precisarono obblighi e diritti, oltre alle competenze richieste per accedere ai suoi ranghi74. Pescando tra i lasciti del passato: sono innumerevoli e si ritrovano dappertutto. Perfino nel tortuoso processo che condusse all’intestazione del potere al popolo. Non è il popolo modernamente inteso, costituito da individui liberi e uguali. Ma la formula del governo del popolo arriva da lontano e l’investitura divina evocata dall’impero carolingio non riuscì a cancellarne la memoria. Nella ricostruzione di Walter Ullmann la legittimazione popolare avrebbe qualche rapporto finanche con la funzione feudale del potere regio. Comportando un vincolo di fedeltà reciproco tra re e vassalli, tale funzione era giocoforza in contrasto con il principio teocratico75. Un’altra ipotesi suggestiva l’ha avanzata José Antonio Maravall. Una volta scompaginata la vecchia stratificazione cetuale, fu lo 72   Cfr. O. Hintze, Politica di potenza e forme di governo, in S. Pistone (a cura di), Politica di potenza e imperialismo, Milano, Angeli, 1973; Formazione degli Stati e sviluppo costituzionale, Studio storico-politico, in «Annali dell’Istituto Storico Italo-Germanico», IV, 1978; nonché Essenza e trasformazione dello Stato moderno, in O. Hintze, Stato e Società, Bologna, Zanichelli, 1980. Il tema sarà ripreso da molti autori: da C. Tilly, in Coercion, Capital..., cit.; da B. Downing, The Military Revolution and Political Change. Origins of Democracy and Autocracy in Early Modern Europe, Princeton, Princeton University Press, 1992 e da T. Ertman, Birth of the Leviathan: Building States and Regimes, Cambridge, Cambridge University Press, 1997. 73   P. Schiera, Dall’arte di governo alle scienze dello Stato. Il cameralismo e l’assolutismo tedesco, Milano, Giuffrè, 1968. 74   H. Rosenberg, Bureaucracy, Aristocracy, and Autocracy, cit. e J.R. Gillis, Aristocracy and Bureaucracy in Nineteenth-Century Prussia, in «Past & Present», 1, XLI, 1968, pp. 105-129. 75  Sulla contrapposizione tra concezione «discendente» e concezione «ascendente» del potere cfr. W. Ullmann, Principi di governo e di politica nel Medioevo, Bologna, Il Mulino, 1972.

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stesso assolutismo a ridisegnare il vincolo tra sovrano e sudditi alimentando, involontariamente, tra questi ultimi sentimenti di libertà e «aspirazioni democratiche»76. Al fondo vi sono pure molte ed eterogenee esperienze di autogoverno. In pieno Medioevo le comunità di villaggio, di cui l’Europa contadina era disseminata, eleggevano i loro capi e si autogovernavano, per difendersi, per coltivare la terra, per soccorrere i propri membri. Si autogestivano le comunità funzionali: gilde, confraternite, compagnie commerciali, corporazioni77. L’esistenza politica del popolo, e il conferimento di un qualche mandato popolare ai governanti, saranno simbolicamente riconosciuti nei comuni e nelle repubbliche cittadine, che, lungo la cintura urbana che congiungeva l’Italia alle Fiandre, passando dalla Svizzera e dalla valle del Reno, per un tempo non breve tennero testa all’accentramento monarchico78. In qualche caso – dalle Province Unite a Venezia – con successo. Potevano costituire un’alternativa allo Stato quale forma d’organizzazione politica della modernità? C’è chi l’ha immaginato. Il contrattualismo repubblicano di Althusius e Spinoza è simmetrico a quello statalista di Hobbes79. E il governo cittadino fu anche un modello temuto. Quando nel 1640 il Parlamento si sollevò contro di lui, Carlo I manifestò con sdegno la preoccupazione d’esser ridotto al rango del doge di Venezia, ingabbiato dalla severa collegialità del Maggior Consiglio80. 76   Argomenta questa tesi, cui dedica un capitolo così intitolato, J.A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, cit., vol. I, pp. 465-529. 77   Si rinvia ai saggi contenuti in P. Blickle (a cura di), Resistance, Representation and Community, Oxford, Clarendon, 1997. W. Ullmann tratta diffusamente la maturazione di una dottrina del governo popolare: cfr. Principi di governo e di politica nel Medioevo, cit., pp. 283-411. 78  Oltre a C. Tilly, Coercion, Capital..., cit., affronta la questione della concorrenza tra monarchie assolute e repubbliche cittadine, e delle differenze tra queste ultime H. Spruyt, The Sovereign State and Its Competitors: An Analysis of Systems Change, Princeton, Princeton University Press, 1994. Ma si veda anche W. Blockmans, Voracious States and Obstructing Cities: An Aspect of State Formation in Preindustrial Europe, in «Theory and Society», 5, XVIII, 1989, pp. 733-755. 79   M. Van Gelderen, The State and Its Rivals in Early Modern Europe, in Q. Skinner e B. Strath (a cura di), States and Citizens, cit. 80   J. Adamson, The Noble Revolt. The Overthrow of Charles I, London, Phoenix, 2007, pp. 212 e 226.

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Come modello democratico le città non valevano granché. Erano rette da oligarchie aristocratiche e mercantili, esclusive del popolo «minuto»81. Mancava un medesimo stato giuridico che accomunasse tutti gli abitanti. Ma le tecniche di governo lì sperimentate depositarono molte tracce in memoria, per essere valorizzate più a lungo termine82. Per gli addetti allo Stato fu un’importante lezione: vi fece le sue prove l’impiego della scrittura, che è tratto fondamentale delle moderne amministrazioni pubbliche. Mentre anche entro lo Stato assoluto, persino in Francia, le città per tutto l’Ancien Régime rimasero dotate di propri organi di governo e di procedure elettive83, entrando spesso in collisione con il potere regio. Ai sovrani, d’altro canto, la cooperazione delle borghesie cittadine tornava preziosa ed era loro convenienza riconoscerle e rispettare alcune forme di autonomia. L’imperialismo britannico ha adoperato nei suoi possedimenti oltremare la tecnica dell’indirect rule. Onde limitare le opposizioni locali, una quota delle responsabilità di governo andava mantenuta nelle mani delle élites autoctone84. Il governo indiretto è una caratteristica di tutti gli imperi, che hanno assemblato formazioni politiche e sociali disparate, puntando più a consentirne la convivenza che a uniformarle. Tutt’altra, è la logica dello Stato-nazione. Travolgendo ogni resistenza, il suo dominio dal centro si vuol estendere verso le frontiere, per omologare i suoi territori e uniformare le sue popolazioni. Non fosse che la pratica è stata di gran lunga più conciliante e l’inclusione non sarà stata una strategia, ma di sicuro è stata una tattica. Per uno storico dell’assolutismo francese, la tecnica preferita da Luigi XIV era la «collaborazione sociale»85. Non c’è Stato 81  P. Blickle, Conclusions, in Id. (a cura di), Resistance, Representation and Community, cit., p. 328. 82   A. Höfert, States, Cities, and Citizens in the Later Middle Ages, in Q. Skinner e B. Strath (a cura di), States and Citizens, cit. 83   O. Christin, Vox populi. Une histoire du vote avant le suffrage universel, Paris, Seuil, 2014, pp. 13-80. 84  Non era una tecnica propria solo dell’impero britannico. Cfr. M.W. Doyle, Empires, Ithaca, Cornell University Press, 1986; J. Burbank e F. Cooper, Empires in World History. Power and the Politics of Difference, Princeton, Princeton University Press, 2011, pp. 390-391. 85   W. Beik, The Absolutism of Louis XIV as Social Collaboration, in «Past & Present», 1, 188, 2005, pp. 195-224.

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che distendendosi verso le periferie non sia sceso a patti con le élites e con i costumi, gli stili di vita, i dialetti, le unità di misura, le norme consuetudinarie locali. Ha provato a forzarli, ma li ha anche tollerati. Ha patteggiato con gli interessi insediati sul territorio, in genere restii a lasciarsi riassorbire entro un quadro unitario che li avrebbe privati di tutto il loro vigore86. Per le fazioni insediate al centro il controllo della periferia era spesso troppo oneroso. Mentre le fazioni periferiche erano rese collaborative dalla prospettiva di ottenere tanto risorse dal centro, quanto spazio per le loro controversie locali. Lo Stato, le burocrazie pubbliche, le magistrature, le università, le assemblee legislative hanno reclutato a lungo i loro addetti tra i ceti dotati localmente di autorità sociale, i quali svolgevano una profittevole azione di cerniera tra la sfera locale da cui provenivano e quella nazionale. La persistenza del notabilato, fatto di disponibilità economiche, prestigio, reti di relazioni, si spiega anche in questo modo. L’ambizione accentratrice si è stemperata nei fatti in una quantità di ibridi, seppure ufficiosi, tra pretese di monopolio e più realistiche forme di negoziazione, coordinamento, inclusione. Anche quando a fine XIX secolo il processo pareva giunto all’apice, e il monopolio statale si era stabilizzato, residui più o meno consistenti dell’articolazione originaria sono sopravvissuti. A dispetto della simbologia della sovranità, ciascun territorio ricompreso entro i confini statali – con le fazioni in esso radicate – proverà a farsi valere nelle contese nazionali per il potere, rivendicando spazi di autonomia e opportunità di accesso ai vertici dello Stato. Saranno condizionati dalle loro articolazioni territoriali anche i grandi partiti nazionali del Novecento, che hanno in molti casi alimentato un ricco notabilato di ritorno. Un esempio di assimilazione tortuosa si trae dall’Italia. Costretti dalle armate francesi, gli Stati preunitari furono indotti a adottare il centralismo napoleonico, con l’eccezione di quelli che già applicavano il modello austriaco. La pagina più intrigante fu scritta nel Mezzogiorno. In quello continentale l’insediamento dei Borboni sul trono di Napoli a metà XVIII secolo dette avvio a importanti riforme amministrative, acce86   Ricchissima d’informazioni è ancora la raccolta curata da P. Blickle (a cura di), Resistance, Representation and Community, cit.

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leratesi sotto l’intermezzo francese, che i Borboni, tornati sul trono dopo il congresso di Vienna, mantennero e avrebbero voluto estendere alla Sicilia87. Ma lì incontrarono la caparbia resistenza dei gruppi di potere isolani, spesso attrezzati con una cospicua capacità di violenza, impiegata in attività tanto politiche quanto economiche. E alla fine si rassegnarono. Fu questa la situazione in cui le autorità piemontesi e i loro successori hanno seguitato a fare lo Stato. Interventi, talora parecchio brutali, volti a mantenere l’ordine pubblico, si sono conciliati con l’installazione di burocrazie compiacenti verso i potentati locali, gratificati dalle opportunità di ascesa nelle gerarchie del potere nazionale. Rientra in questo adattamento la tolleranza mostrata verso le sacche di violenza sopravvissute, o ricostituitesi, localmente, comunque condizionate dall’impatto con la nuova azione di governo nazionale, che ha pertanto avuto parecchie responsabilità nel persistere di quel temibile potere privato che è la mafia. Senza generalizzare impropriamente: tra la mafia e alcune fazioni coinvolte nell’esercizio del monopolio statale si sono sovente instaurate interdipendenze e intrecci reciprocamente vantaggiosi88. Un cumulo di bricolages, lasciti, indirect rule, ibridazioni sono i rapporti con la sfera religiosa. Il governo indiretto è stato sperimentato per secoli dalla Chiesa, che ha sì combattuto, anche ferocemente, i dissenzienti, ma mille volte ha patteggiato con i poteri e le consuetudini locali e con la religiosità popolare89. A parte il fatto che non c’è pratica religiosa che non si adatti alle circostanze e ai luoghi, a qualche dose di diversità la Chiesa si è rassegnata anche a dispetto delle severe intenzioni accentratrici rafforzatesi dopo il concilio tridentino. Le possibilità di comunicazione erano quelle che erano e pertanto è stato privilegiato il clero autoctono, gli sono stati lasciati margini di autonomia e con pragmatismo sono stati riconosciuti devozioni, liturgie, santi e santuari locali. Di altri margini di autonomia hanno fruito gli ordini religiosi. Neanche la Chiesa è mai stata un monolite. 87  A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, Bologna, Il Mulino, 1997. 88   S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai nostri giorni, Roma, Donzelli, 2004. 89  Un caso emblematico in P. Burke, Historical Anthropology of Early Modern Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, pp. 40-59.

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Oltre che innumerevoli motivi di conflitto, lo Stato ha trovato quantità di opportunità d’ibridazione e di bricolage. È un appassionante tema di ricerca. La sfera religiosa è un’altra istituzione che, con i suoi addetti, raggruppa e governa gli esseri umani. Lo Stato è divenuto lo Stato sconfessando la legittimazione teocratica ed emancipandosi dalla Chiesa, la quale ha resistito con grande ostinazione. Ma tra i tanti bricolages c’è quello simbolico segnalato da Kantorowicz: per il potere regio fu scontato adattare il modello del potere religioso e i suoi rituali, sacralizzando la figura del re, in quanto espressione della collettività, e spersonalizzandone l’autorità90. La tesi, molto citata, di Carl Schmitt è che la teologia abbia rifornito lo Stato dei suoi concetti fondamentali91. Il retaggio religioso è imponente nel culto della nazione, che è stato coltivato alacremente dal XIX secolo92. Non c’è Stato che, avvalendosi di specifici addetti, non si sia adoperato per unificare la varietà dei suoi sottoposti celebrando liturgie e investendo i suoi santi e i suoi martiri. Anche di sacrifici umani ne sono stati consumati in abbondanza93. Stando a Foucault, la moderna autorità secolare avrebbe anche appreso moltissimo dal modello pastorale, cioè dalla tecnica di governo elaborata dalla Chiesa per prendersi cura del proprio gregge94. Secondo un’altra ipotesi, entro la sfera religiosa potrebbero ritrovarsi perfino i germi della secolarizzazione dell’autorità, al momento della Riforma protestante. Tralasciando i presupposti, che sono forse risalenti95, allorché fu sancito il libero esame delle Scritture e proclamato il sacerdozio universale dei credenti, la Riforma riscrisse il rapporto tra l’autorità e i suoi sottoposti. Riconnettendosi alla teoria weberiana sull’affinità tra la dottrina della predestinazione e l’autodisciplina, che ha favorito l’impianto della moderna imprenditoria   E. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit.   C. Schmitt, Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità (1922), in Id., Le categorie del «politico», Bologna, Il Mulino, 1972. 92   Sulla secolarizzazione del concetto di Corpus mysticum, cfr. E. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pp. 177-233. 93   P. Manow, In the King’s Shadow, London, Polity, 2010. 94  M. Foucault, Sécurité, territoire, population, Paris, Gallimard/Seuil, 2014, pp. 119-134. 95   Per Otto Brunner il germe è ancora più antico. La secolarizzazione e l’individualismo sono intrinseci al cristianesimo: cfr. Vita nobiliare e cultura europea, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 58 ss. 90 91

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capitalistica96, Philip S. Gorski ha avanzato un’ipotesi circa le conseguenze politiche della grande «rivoluzione disciplinare» promossa dal calvinismo. Diffusa dal basso dalle autorità religiose e in orizzontale tra i fedeli, ne avrebbero profittato, in forme diversissime, sia il regime repubblicano in Olanda, sia l’assolutismo burocratico prussiano, che avrebbero rafforzato grazie a essa le loro istituzioni di governo, successivamente contagiando gli altri Stati europei97. Ancora una volta risalta il caso inglese, dove il puritanesimo conciliò rivoluzione politica e rivoluzione religiosa98. Tra i lasciti offerti allo Stato dalla Chiesa, ispirata a sua volta dall’esperienza del diritto romano, sono ancora da citare la tradizione giuridica e la struttura gerarchica e accentrata introdotta con le riforme gregoriane e qualche secolo dopo perfezionata dal concilio di Trento. Fu un modello per le burocrazie pubbliche. Non è nemmeno secondario, come rammenta Max Weber, che i sovrani promotori del monopolio statale, volendo costituire una cerchia di collaboratori più ampia di quella loro legata da vincoli di dipendenza personale, si siano inizialmente rivolti ai chierici: professionisti, non solo del sacro, ma pure della scrittura99. Oltre a ereditare e imparare dalla Chiesa, lo Stato si è ibridato ampiamente con essa nell’azione di governo. Pure gli Stati più laici hanno permesso alle confessioni religiose di concorrere alla definizione e manutenzione della morale collettiva. In America l’onnipotente è invocato per ogni dove; in Inghilterra i sovrani sono tuttora incoronati a Westminster; in Italia non c’è cerimonia laica senza vescovi e monsignori e le aule scolastiche e giudiziarie sono sormontate dai crocifissi. Quanti Stati in Occidente disdegnano i cappellani militari e quanti rinunciano a santificare le loro imprese militari? Tra 96  M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1965. 97   P.S. Gorski, The Disciplinary Revolution. Calvinism and the Rise of the State in Early Modern Europe, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2003. 98   Una proposta interpretativa originale in M. Walzer, La rivoluzione dei santi: il puritanesimo alle origini del radicalismo politico, Torino, Claudiana, 1996. 99   M. Weber, La politica come professione, cit., p. 193.

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il XIX e il XX secolo gli Stati occidentali hanno chiesto alla religione di confermare l’identità nazionale in contrasto con la non identità dei popoli colonizzati. Ultimamente le autorità politiche secolarizzate tendono spesso a invocare il soccorso della religione per marcare il confine con il mondo islamico e con chi giunge da quelle parti. Il paradosso è che le chiese sono cambiate e non gradiscono troppo la richiesta. In molti paesi d’Europa lo Stato e le istituzioni religiose si sono sovente spartiti perfino i servizi pubblici. L’amministrazione statale si è a lungo avvalsa delle parrocchie, trattandole quali ripartizioni amministrative, e i registri parrocchiali furono il primo strumento per registrare nascite, morti, matrimoni e censire la popolazione. Alle chiese si è lasciato il compito di soccorrere i poveri e i bisognosi, pur con sostanziali differenze tra Chiesa cattolica e chiese riformate. Nell’Italia del terzo millennio alla Charitas, inclusa sotto la capiente rubrica della società civile, è delegata parte non secondaria dell’accoglienza ai migranti, mentre dal Concordato del 1929 il celebrante del matrimonio religioso funge da ufficiale di stato civile. Un buon esempio di indirect rule è il monopolio riconosciuto in Italia fino al 1976 alla Chiesa cattolica dello scioglimento dei vincoli matrimoniali. In Irlanda alla Chiesa è stata fino a ieri delegata un’abbondante porzione del sistema educativo. I casi d’ibridazione si sprecano. Lo Stato, o quell’insieme di fazioni, rapporti e tecniche di dominio e di governo che si chiama con questo nome, hanno nutrito grandi ambizioni di potenza, hanno dettato regole e tracciato confini spaziali, temporali, simbolici, che pragmaticamente e tacitamente sono stati contraddetti, favorendo pratiche più flessibili. Eppure, le tante ibridazioni cui lo Stato è rassegnato non gli hanno impedito di mantenere una preminenza, anzitutto simbolica. Per quanto si ibridi, lo Stato mai addiviene, perché contraddirebbe se stesso, alla resa incondizionata a un mondo refrattario al suo ordine: tuttora, quantunque si mostri conciliante come non mai con il mercato, lo Stato prova a resistere. Indirect rule e ibridazioni possono essere formali, sanzionate nelle istituzioni di governo, o possono essere informali, possono essere circoscritte funzionalmente o territorialmente e variare di geometria e d’intensità. Sono forme – convenienti o obbligate, a seconda dei casi – di delega, appalto, condivi51

sione, complicità, variamente dosate, in cui sfere di governo rivali divengono partners e provano a trarne qualche, provvisorio, tornaconto. Le ibridazioni possono essere intenzionali e inconsapevoli, abusive, ufficiose, forzate, inventive e banali. È storicamente prevalso un assetto centralistico, ma sono sorti pure Stati federali. Proprio quando il processo di costruzione dello Stato sembrava coronato dall’unificazione simbolica della nazione, cioè nel XIX secolo, e si erano stabilizzate le moderne burocrazie professionali, si manifesteranno correnti di pensiero in controtendenza, risvegliandone quelle più antiche dianzi citate. Il contributo più noto è quello di Otto von Gierke, che riscopriva la consociatio di Althusius, elaborata a ridosso delle repubbliche cittadine. È una rappresentazione che precorre il grande travaglio novecentesco, ma che già riconosce il carattere differenziato e plurale della vita collettiva e considera riduttiva la pretesa statale al monopolio. La filiera delle dottrine che si usa chiamare pluraliste è ricchissima. Dal contributo di Maitland, traduttore di Gierke in Inghilterra, a quello di G.D.H. Cole, J.N. Figgis e H.J. Laski100. Tra Otto e Novecento, simili idee hanno messo in discussione tanto lo statalismo, quanto l’individualismo liberale. Qualche eco, opportunamente adattata, si avverte pure in Francia e in Italia: dalla scuola del droit social di Léon Duguit alla teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici di Santi Romano. Con gradazioni diverse saranno immaginate tecniche di governo più in sintonia con la pluralità della vita collettiva: qualcosa si ritrova da ultimo nelle teorie e nella pratica della governance101 e della «sussidiarietà»102. 100   P.Q. Hirst, The Pluralist Theory of the State: Selected Writings of G.D.H. Cole, J.N. Figgis and H.J. Laski, London, Routledge, 1989; D. Runciman, Pluralism and the Personality of the State, Cambridge, Cambridge University Press, 1997. 101   La bibliografia in materia è sterminata per un termine e un concetto diventati una sorta di passe-partout. È motivo per preferire le letture critiche. Cfr. G. Hermet, A. Kazancigil e J.-F. Prud’homme (a cura di), La gouvernance. Un concept et ses applications, Paris, Karthala, 2005; M.R. Ferrarese, La governance tra politica e diritto, Bologna, Il Mulino, 2010; M. Bevir, Democratic Governance, Princeton, Princeton University Press, 2010; J.-P. Gaudin,  Critique de la gouvernance, une nouvelle morale politique, La Tour d’Aigues, Éditions de l’aube, 2014. 102   Il principio di sussidiarietà è stato riconosciuto ufficialmente dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007. Una definizione in A. Mégie, Subsidiarity, in M. Bevir (a cura di), Encyclopedia of Governance, London, Sage, 2007.

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Si danno casi d’ibridazioni e di governo indiretto nei luoghi più inattesi e nelle forme più sorprendenti. Ancora a metà del secolo decimonono, negli stati schiavisti d’America, ai padroni era riconosciuto il governo esclusivo della popolazione afroamericana. Nelle fabbriche fino a tempi non lontani gli operai sono stati governati anche in modi violenti, con il consenso dello Stato. Per secoli agli uomini è stata concessa una delega per governare legittimamente la sfera privata e dunque la popolazione femminile e giovanile103. Un lascito degli spazi di autogoverno riconosciuti, sotto la supervisione statale, alle corporazioni sono gli ordini professionali. Associazioni, comunità locali, confessioni religiose, famiglie, hanno sempre concorso all’azione di governo. Anche se in forme continuamente aggiornate. Capita anche che lo Stato – si è già citata la mafia – sopporti, con la complicità di alcuni suoi segmenti, una riserva illegale di poteri violenti, che sono di quando in quando reimpiegati tanto nella sua sfera, quanto in quella del mercato. L’insubordinazione criminale può essere strumentalizzata contro altre forme d’insubordinazione, magari politica. È forse la distanza temporale dai fatti storici che ha consentito la ricerca di Francesco Benigno sulle politiche di mantenimento dell’ordine pubblico e sulle forme di lotta politica nell’Italia meridionale dopo l’Unità, che avrebbero strumentalizzato la criminalità. Sono pratiche eterodosse nella prospettiva del principio di legalità, ma meno inconsuete di quanto sembri104. Le contaminazioni possibili non si contano. La scelta compiuta dai governanti italiani nel 2015 di far rientrare l’economia criminale nel calcolo del Pil è in continuità con la tolleranza che i governi delle società avanzate dimostrano verso l’economia informale, l’evasione fiscale, l’abusivismo edilizio, le esportazioni illegali di capitali. Per non parlare dei trattamenti di favore concessi alle trasgressioni dei colletti bianchi e delle classi superiori105.   G. Poggi, Varieties of Political Experience, cit., p. 35.   F. Benigno, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra, 1859-1878, Torino, Einaudi, 2015. 105   A. Cottino, Disonesto ma non criminale. La giustizia e i privilegi dei potenti, Roma, Carocci, 2005. Cfr. anche N. Fischer e A. Spire, L’État face aux illégalismes, in «Politix», 3, XXII, 2009, pp. 7-20 e il numero dedicato a Quand les classes supérieures s’arrangent avec le droit di «Sociétés contemporaines», 4, XXVIII, 2017. 103 104

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Non è un capitolo secondario nella vicenda della statualità. Tutt’altro. È una conferma della sua intrinseca ambivalenza. Negli anni ’40 del Novecento il tema fu esplorato da un giurista weimariano emigrato oltreoceano, Ernst Fraenkel, elaborando la categoria del «doppio Stato»106. Nello Stato nazionalsocialista coabitavano uno Stato «normativo», corrispondente alla tradizione dello Stato di diritto, e uno Stato «discrezionale», nel quale i detentori dell’autorità pubblica erano liberi d’esercitare la propria azione, anche violenta, al di fuori d’ogni norma, in ragione di valutazioni contingenti. Un altro modo per considerare la doppiezza è quello indicato da Alan Wolfe, che stigmatizzava i comportamenti adottati dagli Stati Uniti al tempo della Guerra fredda, accampando esigenze di sicurezza nazionale. Per Wolfe al governo «visibile», conforme alla costituzione, si contrapponeva un governo «invisibile», che l’ignorava. Giustificazione del secondo, cioè di un impiego illegale delle risorse dello Stato, era l’emergenza107. Norberto Bobbio ne ha concluso che il potere invisibile, che del tutto invisibile non è, è una delle – numerose – «promesse non mantenute» della democrazia108. Per quanto simbolicamente rinnegato, il governo invisibile ha portata così vasta e duratura da poter essere ritenuto un tratto fisiologico della statualità. 4. La grande ibridazione con il mercato Nessuno può dire con certezza che l’ibridazione dello Stato con il mercato sia necessaria, ma è genetica: storicamente il moderno monopolio della coercizione si è sviluppato grazie alle sue relazioni con il mercato. Il quale si è altresì configurato tanto quale sfera della produzione e dello scambio, quanto come legittima istituzione di governo della vita associata, 106  E. Fraenkel, Il doppio Stato. Contributo alla teoria della dittatura, Torino, Einaudi, 1984. 107   A. Wolfe, I confini della legittimazione. Le contraddizioni politiche del capitalismo contemporaneo, Bari, De Donato, 1981. È un uso che non si è affatto perso, anzi, è tuttora assai fiorente. Il precedente è stato replicato dal cosiddetto Patriot Act del 2001. 108   Oltre all’Introduzione a E. Fraenkel, Il doppio Stato, cit., cfr. N. Bobbio, Democrazia e segreto, Torino, Einaudi, 2011.

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fondata sul principio del coordinamento tramite l’accordo tra le parti anziché su quello di autorità. Non c’è simmetria con lo Stato in quanto garante di ordine, sicurezza e giustizia. Ma il governo delle moderne società occidentali è stato frutto in gran parte del mutevole dosaggio di queste due istituzioni109. I potentati dinastici che costituirono il monopolio non avevano in mente lo Stato. Figurarsi se pensavano il mercato quale sfera indipendente. Il monopolio fiscale, le spese che effettuavano e i debiti che contraevano li avevano a loro insaputa messi a capo della maggiore impresa economica e finanziaria dell’epoca. Soffocare l’iniziativa privata non era perciò loro convenienza, ma non erano nemmeno disposti a rinunciare a regolare le attività economiche. La dottrina economica dell’assolutismo, rammenta tra gli altri Foucault, era il mercantilismo, ovvero l’estensione allo Stato dei principi del «governo della casa»110. Ne dà conferma l’impiego che l’autorità regia faceva delle risorse drenate mediante la fiscalità, alienando la terra, vendendo cariche, indebitandosi, facendo la guerra. Una quota era adoperata per mantenere la casa del re e curare l’immagine della regalità. Gran parte era investita nella sua potenza: in ulteriori attività militari, in incombenze amministrative, nel mantenimento dell’ordine pubblico. A questi fini cresceranno gli investimenti infrastrutturali, in porti e vie di comunicazione, in bonifiche e innovazioni culturali, in esplorazioni geografiche, in manifatture e scavi minerari. C’erano infine i servizi che conveniva fornire alla popolazione, come approvvigionamento e distribuzione delle derrate alimentari. Quella dello Stato era un’azione invadente e onerosa, conseguente alle sue ambizioni, ma non sempre gradita alla classe mercantile. Che non mancò di farsi sentire. In Francia la Fronda parlamentare precedette la Fronda dei principi, ribellandosi all’esosità fiscale dello Stato. In Inghilterra le classi mercantili, l’aristocrazia e la gentry ingaggiarono un conflitto aperto con il re, che ne uscì soccombente. Anche se la ricerca storica è andata molto oltre, torna prezioso un celebre 109   Sul mercato, oltre che come fatto politico, anche come spazio politico, cfr. P. Bourdieu, Anthropologie économique, cit. 110   M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France (1978-1979), Paris, Gallimard-Seuil, 2004, p. 54.

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contributo di sociologia storica di Barrington Moore111. La sua originalità, nel raccontare la complessità e i diversi andamenti di quella grande partita di potere che è stata l’ingresso nel mondo moderno consiste nell’allargare il cast degli attori, mettendo in primo piano le classi rurali, i proprietari e i contadini. Sarebbe stato l’imporsi del capitalismo nelle campagne a consentire al mercato di fare concorrenza allo Stato. Moore indica tre vie alla modernità: la prima è condotta dalla borghesia, la seconda è guidata dall’alto, dai ceti legati allo Stato, la terza sono le rivoluzioni contadine. Per illustrarle considera l’Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti, il Giappone, la Cina e l’India. Nonché, più rapidamente Russia e Germania. Sono tutte e tre vie politiche: perseguite tramite lotte politiche. Dal nostro punto di vista, i casi più interessanti sono quelli dell’Inghilterra e della Francia, insieme a quello della Germania. L’Inghilterra è un esempio di rivoluzione di cui sono state protagoniste la classe mercantile urbana e quella parte delle classi agrarie, che, lungi dal resistere, promossero la commercializzazione dell’agricoltura. L’aristocrazia terriera, la gentry e gli yeomen introdussero nuove tecniche di coltivazione, promossero l’allevamento, la produzione di lana, le colture cerealicole e sovvertirono le relazioni di potere, adottando i rapporti capitalistici di produzione. Le recinzioni delle terre comuni estromisero i contadini, che in parte furono tutelati, ma in gran parte sospinti verso i centri urbani. Mettere a reddito i propri possedimenti era un modo per preservare la propria preminenza e condizione sociale. Ma fu anche la premessa di un incontro con la borghesia mercantile e finanziaria, a spese della monarchia, oltre che dei contadini, che essa aveva provato a difendere. Alimentato anche da fattori religiosi, il conflitto che esplose dagli anni ’30 del Seicento tra monarchia e Parlamento, entro il quale le componenti borghesi e urbane avevano acquistato peso politico, confermerà il ruolo assunto dal mercato. La tenaglia si chiuse sulla monarchia. Di fronte ai capitali economici, ma anche politici e simbolici, che le borghesie cittadine e i nuovi imprenditori rurali avevano accumulati, le ambizioni di preminenza di Carlo I si rivelarono anacronistiche e deflagrarono in 111

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  B. Moore jr., Le origini sociali della dittatura e della democrazia, cit.

un conflitto armato, al termine del quale titolarità ed esercizio del monopolio statale furono trasferiti a un’istituzione collegiale come il Parlamento, seppure appaiato con il re. Armi alla mano, l’asse del governo della vita collettiva si era spostato verso il mercato. Di come fosse quest’ultima la posta della sollevazione contro il re se n’erano accorti i Levellers, che nell’Agreement of the people rivendicarono il riconoscimento di alcuni diritti individuali, dai diritti civili al diritto di voto, e il ridisegno dei collegi elettori in ragione del numero degli abitanti. Ma si guardarono dal difendere quel residuo del mondo feudale che erano i contadini. Un articolo era invece dedicato alla libertà di commercio e alla rimozione dei privilegi aristocratici. Furono sconfitti anch’essi. Terminata la guerra civile, l’aristocrazia seguiterà a prevalere in Parlamento. Mentre, benché non esclusa dai banchi parlamentari, la classe mercantile e imprenditoriale presidierà il mercato, di lì esercitando la sua azione di governo. Fu decisivo, secondo Moore, il diffondersi tra le classi superiori agrarie di una mentalità imprenditoriale, assente invece nell’aristocrazia e carente nella borghesia francese. In Francia la monarchia sottomise la prima, interdicendole l’esercizio delle attività mercantili, e la seconda, cooptandola al suo servizio. Per qualche tempo l’aristocrazia resistette, finché non alienò in varie forme il possesso della terra, per mantenere il proprio tenore di vita. Per quanto le assicurasse una condizione di privilegio, il potere regio la ridusse a nobiltà di corte e quindi a sua dipendente e suo decoro. Ancora per contrastare l’aristocrazia, i sovrani attrassero nella loro orbita i ceti borghesi, affidando loro l’amministrazione civile. In compenso li distolsero dalle attività imprenditoriali. Solo la sollevazione delle classi popolari urbane e rurali permise alle élites borghesi di accedere al potere e di condurre un rinnovamento, per l’appunto rivoluzionario, che ha comunque confermato allo Stato il ruolo preponderante che aveva assunto nella vita associata e in quella economica. L’esistenza del nuovo regime sarà comunque travagliata. Mentre il mercato rimarrà sottomesso allo Stato e ne avrà a lungo bisogno per svilupparsi. È pure accaduto che siano state le fazioni in carica dello Stato ad assumere l’iniziativa di costituire, tramite una ri57

voluzione dall’alto, l’economia e la società moderne. Il caso approfondito da Moore è quello del Giappone, mentre più succintamente è considerato quello tedesco. Lontanissimo dall’Occidente, il forzato innesto d’istituzioni occidentali sulla società giapponese è istruttivo. Scavalcata la metà del XIX secolo, protagonista della Restaurazione Meiji fu una parte dell’aristocrazia, che, in guerra con un’altra, e d’intesa con le gerarchie militari, instaurò il monopolio statale. Chiamando in soccorso esperti occidentali furono pertanto introdotte istituzioni di governo modellate sull’esempio europeo, che promossero il cambiamento economico. È stata infatti l’autorità pubblica, cioè le fazioni che se n’erano impadronite, a pilotare la privatizzazione e commercializzazione dell’agricoltura, conducendo al contempo una ruvida azione repressiva a danno dei contadini. Non solo, furono ancora esse a dotare il paese di un moderno apparato industriale, in testa al quale si riproducevano le vecchie famiglie d’élite, il cui successo fu segnato dagli investimenti pubblici e dalle commesse militari. Una volta costituita una macchina statale di stampo occidentale, essa sarà infine proiettata, guarda caso, verso sanguinarie avventure militari e imperialiste. Moore ravvisa alcune analogie con il Reich bismarckiano. Pure in quel caso sono state le élites tradizionali, detentrici del monopolio statale, a promuovere il mercato e a dare impulso a un capitalismo industriale moderno, iniziando dalle commesse militari, con importanti conseguenze politiche. Ben insediata nell’esercito e nella pubblica amministrazione, l’aristocrazia condurrà una modernizzazione avversa alle classi inferiori, ma anche alle ambizioni dei ceti borghesi112, che troveranno sfogo, come si è già ricordato, nel dinamismo imprenditoriale di molti loro esponenti, oltre che nelle sfere della cultura, della scienza, delle professioni, nella burocrazia e nella costellazione dei governi cittadini. Adottato verso la fine del XIX secolo, il regime rappresentativo sarà infine sottoposto a restrizioni severe, ostacolando la democratizzazione del paese. Solo dopo 112   Merita di essere citata la Prolusione di Friburgo del 1895. Cfr. M. Weber, Lo Stato nazionale e la politica economica tedesca, in Id., Scritti politici, cit. Non troppo diversa, anche se molto più argomentata, è l’opinione di N. Elias, I tedeschi. Lotte di potere ed evoluzione dei costumi nei secoli XIX e XX (1989), Bologna, Il Mulino, 1991.

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una fosca parentesi autoritaria e una drammatica sconfitta, saranno superate le remore all’istituzione di un moderno regime rappresentativo. Per quanto ampio sia lo spazio che il mercato ha occupato, e che si è esteso con il tempo, nel racconto di Moore, non è mai uno spazio autonomo e autosufficiente dallo Stato. Era già così per Marx e anche per Weber. Lo era anche per un altro grande scienziato sociale del Novecento: in un altro libro notissimo, apparso a metà anni ’40, Karl Polanyi ha sottolineato il carattere storicamente contingente della divisione del lavoro tra Stato e mercato capitalistico113. Il quale non ha nulla di naturale e di spontaneo. È stato infatti lo Stato che ha rimosso «il consunto particolarismo del commercio locale, [...] aprendo quindi la strada ad un mercato nazionale»114, senza di sicuro immaginarlo come un’istituzione concorrente. Anche Polanyi cita il caso inglese. Al tempo del mercantilismo e dell’economia amministrata, ancora nel XVIII secolo, il mercato era ritenuto accessorio rispetto allo Stato, che seguitò a regolamentarlo e a limitarne in qualche modo gli inconvenienti. In ragione dell’impoverimento dei contadini provocato dalle recinzioni, i Tudor e gli Stuart avevano rallentato il processo e gli stessi proprietari avevano accettato misure volte a soccorrere le classi popolari. Approvata nel 1832 la riforma elettorale, i nuovi ceti imprenditoriali celebreranno però il loro ingresso sulla scena parlamentare approvando la New Poor Law e le Corn Laws. Influenzate dalle teorie di Malthus e Ricardo, le nuove e severissime leggi sui poveri furono legittimate con la promessa di riscattarli moralmente ed economicamente. Fu criminalizzata la disoccupazione e fu esasperata l’indigenza delle classi inferiori. Sarà del pari repressa l’autodifesa operaia precipitata nel movimento cartista. La posta sarà adesso rimuovere le barriere protezionistiche che tutelavano l’aristocrazia fondiaria a beneficio dei ceti industriali. L’autorità dello Stato intervenne in ogni caso. La «società di mercato», conclude Polanyi, è stata il frutto «di un consapevole e spesso violento intervento da parte del governo 113   K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca (1944), Torino, Einaudi, 1974. 114   Ivi, p. 85.

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che imponeva l’organizzazione di mercato alla società per fini non economici»115. Allorché ha preso piede quella che Polanyi chiama l’«utopia del mercato autoregolato», formulata dagli economisti liberali, il mercato capitalistico si è battuto per emanciparsi e legittimarsi quale spazio di governo a sé, per sua natura proteso a sottomettere alle proprie esigenze ogni aspetto della vita collettiva. L’aspirazione, ovviamente, è politica e corrisponde a un nuovo disegno di ordine sociale: che si autodefinisce spontaneo e naturale, in opposizione all’artificialità attribuita all’ordine sociale proprio dello Stato. A dispetto delle rappresentazioni che ne fanno uno spazio pacifico, il mercato è tuttavia anch’esso uno spazio differenziato e plurale, popolato di attori in competizione tra loro per il potere, che inoltre suscita drammatiche condizioni di miseria. Liberato da ogni freno, il mercato per Polanyi discioglie addirittura i legami di cui è intessuta la vita collettiva e desertifica l’ambiente umano, sociale e culturale. Non facendo mistero della sua fede socialista, Polanyi riteneva l’autoregolazione del mercato non la tecnica più avanzata di soddisfazione dei bisogni materiali, ma un’utopia dissennata. Rivisitando di recente il suo pensiero, Fred Block e Margaret R. Somers, hanno riconosciuto nel neoliberalismo contemporaneo, che chiamano «fondamentalismo di mercato»116, la riproposizione di quell’utopia. Ma ciò che qui interessa maggiormente è la storicità del mercato quale sfera autonoma: l’ha confermata anche Norbert Elias, il quale cita anche lui tra i moventi gli sviluppi della scienza economica117. I confini tracciati dalla vita associata, come tutti i confini, stabiliscono relazioni di potere: di conseguenza, anziché separare Stato e mercato, conviene una considerazione unitaria della «distribuzione del potere su larga scala, in tutte le sfere, a tutti i livelli d’integrazione delle pluristratificate società statali di tipo industriale»118. La lotta per il monopolio si svolge a tutto campo, non è confinata allo   Ivi, p. 312.   F. Block e M. Somers, The Power of Market Fundamentalism. Karl Polanyi’s Critique, Cambridge-London, Harvard University Press, 2014. 117   N. Elias, Che cos’è la sociologia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990, p. 165. 118   Ivi, p. 167. 115 116

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Stato e conflitti, intrecci, alleanze tra i suoi addetti e gli addetti al capitalismo sono la regola. Nella lunga storia delle relazioni di Stato e mercato capitalistico i casi in cui gli addetti al secondo, cioè le imprese private, hanno invaso gli spazi del primo non si contano. Tra i casi estremi: con il beneplacito dello Stato, la Compagnia delle Indie e le altre grandi compagnie coloniali hanno condotto, ambiziose imprese militari119. Fino a metà del XX secolo la manodopera è stata governata con consistenti dosi di coercizione e non solo tramite i salari, le condizioni lavorative, gli orari di lavoro. Ma le imprese hanno governato anche più benignamente: alla vigilia del welfare, non erano poche quelle che alloggiavano i loro dipendenti, li curavano, provvedevano all’istruzione dei figli. Decaduta l’ibridazione tra Stato e mercato promossa dopo la crisi del ’29, è un costume che si è ultimamente rinnovato: lo chiamano «welfare aziendale». L’azione protettiva svolta dal welfare pubblico è delegata alle imprese, che, incoraggiate dalle agevolazioni fiscali offerte dallo Stato, corrispondono beni e servizi a integrazione della retribuzione120. Tra mercato e Stato vi sono pure attribuzioni ambivalenti, o terre di nessuno. Così è per lo sciopero, che è arma sia politica, sia economica121. È ambivalente l’economia informale, che tanto viola il principio di concorrenza su cui si fonda il mercato capitalistico, quanto è tecnica di resistenza praticata dai soggetti deboli, spesse volte strumentalizzata da attori privati e pubblici forti122. Una formidabile questione confinaria è quel complesso di fenomeni che chiamiamo corruzione. Ovvero i reati commessi ogni qualvolta un addetto allo Stato – d’estrazione burocratica o elettiva – violi i propri obblighi d’ufficio a beneficio di un interesse personale, o privato. Da un sistema giuridico all’altro, la definizione e perimetrazione dei reati è 119   A. Phillips e J.C. Sharman, Outsourcing Empire: How Company-States Made the Modern World, Princeton, Princeton University Press, 2020. 120   Ad esempio: M. Jessoula e E. Pavolini (a cura di), La mano invisibile dello stato sociale. Il welfare fiscale in Italia, Bologna, Il Mulino, 2022. Ovviamente, gravando sulla fiscalità generale. 121   Sul diritto di sciopero A. Supiot, La sovranità del limite. Giustizia, lavoro e ambiente nell’orizzonte della mondializzazione, a cura di A. Allamprese e L. d’Ambrosio, Milano, Mimesis, 2021. 122   P. Saitta, Resistenze. Pratiche margini del conflitto nel quotidiano, cit., pp. 48-72.

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mutevole, com’è mutevole la loro percezione. Norme sociali e norme giuridiche non sempre coincidono. Se non che, nella corruzione possiamo trovare ben più che un reato. È, in primo luogo, un fatto politico, in quanto manifestazione di slealtà e forma di contrasto all’autorità dello Stato, tanto dei corrotti, quanto dei corruttori. Può essere un’arma politica: i proventi della corruzione sono impiegati in favore di qualche parte politica contro altre parti politiche. È un’arma antica, terribile e onnipresente anche l’accusa di corruzione, che alcune parti politiche, in genere quelle marginali, rivolgono spesso contro le burocrazie pubbliche, o contro i loro concorrenti diretti123. L’adoperano ad ampio spettro gli addetti al mercato, i media, la cosiddetta società civile. La corruzione può essere perfino una tecnica di governo. Le autorità pubbliche, che ritengono troppo elevati i costi della sua repressione, la tollerano. Eventualmente per ingraziarsi pubblici funzionari, addetti alla politica elettiva e anche interessi privati, oppure contro i loro avversari. La corruzione è pure un importante fatto economico. Si presta solitamente più attenzione ai corrotti che non ai corruttori. Imprenditori e imprese amano raffigurarsi come vittime: o di deliberati taglieggiamenti da parte degli addetti allo Stato, o delle inefficienze e lentezze delle amministrazioni pubbliche. Non fosse che la corruzione consente profitti aggiuntivi, sostitutivi o differenziali. Può perfino succedere che, così come all’evasione fiscale e all’abusivismo edilizio, il senso comune attribuisca alla corruzione ricadute economiche positive. Secondo le recenti teorie del crony capitalism, o del «capitalismo politico»124, affari e politica sono inestricabilmente intrecciati: gli addetti al mercato sarebbero più affezionati al profitto che non alla libera concorrenza. E quindi con qualche disinvoltura ricorrono alla corruzione e si fanno anzi concorrenza su questo terreno: non è che un costo tra gli altri ed è conferma di come Stato e mercato capitalistico procedano in coppia. Pertanto: mentre nel primo seguita ad aggirarsi 123   C. Mattina, F. Monier, O. Dard e J.I. Engels (a cura di), Dénoncer la corruption: chevaliers blancs, pamphlétaires et promoteurs de la transparence à l’époque contemporaine, Paris, Demopolis, 2018. 124   R.G. Holcombe, Political Capitalism: How Economic and Political Power Is Made and Maintained, Cambridge, Cambridge University Press, 2018.

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l’antico spirito del racket, sul secondo aleggia sempre quello dei merchant adventurers. 5. Dal governo tramite gli individui al governo tramite il sociale Una gran parte dell’azione di dominio e di governo si esercita tramite gli stessi dominati. È una considerazione banale. Non c’è istituzione di dominio che non si adoperi per rendere spontanea l’obbedienza. È uno dei temi di Bourdieu. Ma c’è uno specifico aspetto su cui Elias richiama l’attenzione: come il monopolio statale della coercizione abbia rinnovato in profondità le relazioni tra gli esseri umani e addirittura il loro «habitus psichico»125 e le loro soggettività, costituendo l’individuo moderno, che poi si è evoluto in molte direzioni. Niente di naturale, come sempre. Rispetto alle celebrazioni della naturale propensione all’autonomia e all’autosufficienza individuali, «concetti come “individuo” e “società”, per Elias, si riferiscono [...] non a oggetti che esistono separatamente, bensì ad aspetti dell’uomo diversi, ma inseparabili»126. E qui è intervenuto il monopolio statale, la cui istituzione avrebbe propiziato forme più pacifiche di convivenza, di tutela degli interessi e di risoluzione dei conflitti e consentito interdipendenze più strette, alla luce di regole e norme non solo giuridiche, che si convertiranno in automatismi: una larga quota di coercizione si sarebbe risolta – ed è questo il punto – in autoregolazione, autodisciplina, autogoverno individuali. E per lo Stato in un’altra forma d’ibridazione e di governo indiretto. Con ritmi diversi il processo ha investito tutti gli strati sociali. Un primo e decisivo episodio sarebbe stato l’insorgere in Francia della «società di corte»127. La soppressione della società dei guerrieri, con i suoi costumi violenti, oltre a rendere l’aristocrazia orfana del suo ruolo politico, l’avrebbe incitata a cercare una rivincita nella pacifica gara indetta dal sovrano per ottenere prestigio, privilegi, prebende, cariche amministrative e   N. Elias, La civiltà delle buone maniere, cit., p. 222.   Ivi, p. 17. Il tema è ripreso e sviluppato in N. Elias, La società degli individui (1939), Bologna, Il Mulino, 1987. 127   N. Elias, Potere e civiltà, cit., p. 336. 125 126

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-gradi nell’esercito. Lungi dall’esaurirsi, le relazioni e le contese di potere interpersonali furono così sublimate e condotte in forme non violente. A colpi d’etichetta il sovrano esercitava il suo potere sugli «uomini di corte» e, contestualmente, a colpi d’etichetta, e di questioni di rango, uomini e donne di corte impararono a contendersi il favore reale. Represse le pulsioni aggressive, e tenute a bada emozioni e passioni, ciascuno rispettava una «peculiare razionalità curiale»128, la quale rese conveniente agire con prudenza, con prudenza manifestare le proprie opinioni, nascondere le proprie avversioni e simulare le opportune simpatie. Con il trascorrere del tempo, i comportamenti adottati a corte tracimarono e concorsero a plasmare l’habitus di tutti gli altri strati sociali. Colpiti dal contagio per primi furono gli strati della borghesia più prossimi alla nobiltà: per condizioni economiche, o per funzioni svolte al servizio dello Stato. Di qui il nuovo habitus si estese, non senza modificarsi, grazie alle catene d’interdipendenze tessute dall’economia all’ombra del monopolio statale. Porzioni sempre più ampie di società appresero a «eliminare ogni oscillazione nel proprio comportamento e ad esercitare una costante autocostrizione»129, condividendo la «civiltà delle buone maniere», segnata da rigorose prescrizioni in materia di gesti – dal saluto al linguaggio, dai comportamenti a tavola all’abbigliamento – oltre che da un severo autocontrollo delle funzioni corporali e della sessualità130. Da ultimo, le interdipendenze più intense con gli strati inferiori – la «dipendenza di tutti da tutti» – costringeranno da un lato tali strati a controllare le loro pulsioni e la loro aggressività e, dal lato opposto, gli strati superiori a «tenere conto delle masse»131. Il cammino dell’uguaglianza ha qui un remoto e importante passaggio. Autocontrollo non significa che gli individui siano divenuti più liberi e autonomi. Non tutti lo sono diventati nella stessa misura e tutti sono stati sottoposti a nuove costrizioni, a nuovi legami, a una percezione delle reciproche differenze,  Id., Il processo di civilizzazione, cit., p. 389.   Ivi, p. 322. 130   N. Elias, La civiltà delle buone maniere, cit. 131   Ivi, p. 326. 128 129

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che saranno motivo di tensione, anzitutto per la personalità di ciascuno. La maggior sicurezza rispetto ai comportamenti altrui è stata compensata da sentimenti d’insicurezza verso se stessi e verso il mondo attorno a sé. Nelle pagine di Elias si riconosce la lezione di Freud, che per trattare insicurezze e sentimenti di costrizione inventò una nuova scienza e una nuova professione132. Il cambiamento ha in ogni caso condotto i rapporti di dominio e i conflitti tra gli individui a trasformarsi in vertenze giudiziarie e, più a lungo andare, in dibattiti pubblici, in contese elettorali, in dispute accademiche e perfino in gare sportive. Proprio allo sport Elias ha dedicato una tra le sue più avvincenti riflessioni, sottolineando come esso abbia anche fatto spettacolo, non violento, della conflittualità, com’è spettacolare la concorrenza pacifica che si è riproposta tramite le elezioni, le manifestazioni di piazza e le esibizioni mediatiche133. Niente è accaduto in maniera preordinata e pianificata, né irreversibile. La responsabilizzazione dell’individuo ha assunto forme diverse in Francia, in Germania, in Inghilterra e altrove. Probabilmente pure da una regione all’altra. Se in Francia le pratiche di autocontrollo irradiarono dalla corte, mettendo in comunicazione aristocrazia e borghesia, in Inghilterra irradiarono dal mercato. In Germania l’aristocrazia sarebbe invece rimasta un gruppo chiuso, instaurando con la borghesia rapporti distanti e rarefatti. Ogni società fabbrica i propri individui. Non è nemmeno troppo importante che le cose siano andate o meno secondo il racconto di Elias. La catena di fattori che ha riplasmato i modi di pensare e i comportamenti umani è difficile da districare e non si esaurisce con l’azione dello Stato. Fanno la loro parte, eccome, pure il mercato e la religione – cui Weber dedicò uno dei suoi scritti più noti – e altre istituzioni. Sempre all’azione dello Stato è dedicato invece un altro contributo di spicco, che schiude un’altra porta sulle sue ibridazioni con gli individui. Stando alla ricerca di Michel Foucault, lo Stato avrebbe costituito gli individui, con le loro soggettività e i loro comportamenti tramite le sue strategie e le 132   In particolare, S. Freud, Il disagio della civiltà (1930), Torino, Bollati Boringhieri, 1971. 133   N. Elias e E. Dunning, Sport e aggressività (1986), Bologna, Il Mulino, 1989, segnatamente pp. 32-40.

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sue tattiche di governo, le quali hanno tracciato un percorso culminato nella concessione a essi nientemeno che della facoltà di agire liberamente134. Quella condotta da Foucault è, com’è noto, una ricognizione ricchissima del pensiero filosofico, giuridico, economico, amministrativo, politico. È anche un’investigazione sui rapporti di dominio condotta nei dettagli, nelle pieghe, oltre le apparenze, che vorrebbe liberarsi dello Stato quale categoria interpretativa. Più che di Stato, Foucault parla di governo, che considera un’azione non esclusiva dello Stato: è un’idea di cui ci siamo appropriati in queste pagine. C’è governo per ogni dove: nei luoghi, nelle forme e con i mezzi più disparati. Senza confini stabiliti tra politica, economia e altre sfere, non solo in verticale, ma pure in orizzontale, in maniera diretta e indiretta, visibile e invisibile, in profondità e in superficie. Vi sono così il governo «di sé», il governo «degli altri», il governo del pater familias sui figli e sulla casa, degli insegnanti sugli allievi, della Chiesa sulle anime, delle imprese sui dipendenti e, infine, dello Stato sui suoi sottoposti135. Inteso come un assemblaggio instabile di relazioni e di pratiche, quest’ultimo svolge, Foucault deve ammetterlo, un’azione di governo più ingombrante di qualsia­si altra istituzione136, fondamentale per «soggettivare» e assoggettare i suoi sottoposti. Oltre che alle tecniche d’imposizione, orientamento, condizionamento, controllo utilizzate dallo Stato, Foucault presta massima attenzione all’elaborazione e circolazione di saperi che tanto lo riforniscono di conoscenze circa l’oggetto della sua azione, quanto concorrono a conferirgli la sua immagine di unità e coerenza: saperi in conflitto con altri saperi, che inspirano le «contro-condotte»137. Dunque, anche le opposizioni, le disobbedienze, le resistenze allo Stato. È un altro modo per raccontare la smilitarizzazione del monopolio statale, che si sarebbe anche avvalso largamente di 134   Manca in Foucault pure una compiuta teoria dello Stato. Prova a ricavarla, destreggiandosi tra contraddizioni, incoerenze, vaghezze, A. Skornicki, La grande soif de l’État. Michel Foucault avec les sciences sociales, Paris, Les Prairies ordinaires, 2015. 135   Anche noi profittiamo in questo libro di una definizione così estensiva. 136   M. Foucault, Sécurité, territoire, population, cit., p. 96. 137   Ivi, pp. 196 ss.

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strategie, tattiche, tecniche, «arti del governo» apprese da altri. Foucault propone una cronologia scandita in tre fasi. La prima è quella «machiavelliana». Per essa il Principe intratteneva con il territorio e chi lo abitava un rapporto di «esteriorità» e «trascendenza»138. Acquisito, per eredità o per conquista, andava preservato e difeso, sottomettendolo, insieme ai suoi abitanti, all’autorità «sovrana», di cui il diritto – leggi, regolamenti, ordinanze – era il principale strumento. Salvo che la fase machiavelliana, anziché inaugurare la modernità politica, concludeva un’epoca139. Già dal XVII secolo si delineava un’altra prospettiva, ove si affacciava l’economia. La circolazione di uomini e merci sostituiva l’immagine statica del territorio con quella dinamica della popolazione, di cui sfruttare e valorizzare le potenzialità in quanto forza produttiva. Inizialmente, lo Stato ha applicato le logiche del governo della famiglia. Era l’economia mercantilista: non ancora economia «politica», benché già prevedesse un’azione di governo sugli uomini e sulle cose, da condurre con «saggezza» e «diligenza», usando «tattiche diverse»140, finalizzate alla potenza e alla prosperità dello Stato e al mantenimento dell’ordine entro i suoi confini. Condizionato ancora dallo schema della sovranità e della potenza, il mercantilismo era uno sviluppo che, mentre riconosceva nei commerci uno dei moventi della potenza statale, consentiva al mercato e alle sue logiche d’irrompere nella sua conduzione, di dettargli principi di buon governo e di apporgli qualche limite141. La popolazione andava trattata in funzione della sua «natura», curandone benessere, salute, istruzione, moralità. Di nuovo intervenivano appositi saperi, premessa di nuovi sviluppi. Si riconoscevano i diritti naturali degli individui, si calcolava cosa più convenisse alla prosperità dello Stato e della sua popolazione. La statistica consentiva di censirla, di tracciarne circostanziato profilo, funzionale alle necessità fiscali e militari dell’autorità statale, di stabilire confronti con gli altri Stati, di prendere conoscenza delle risorse disponibili: produzioni agricole, tecniche colturali, foreste, miniere, scambi   Ivi,   Ivi, 140   Ivi, 141   Ivi, 138 139

p. 95. p. 67. p. 103. pp. 36-39.

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commerciali, beni importati ed esportati, naviglio mercantile. Un ulteriore contributo conoscitivo l’offriranno le scienze camerali e della polizia e sarà alfine decisiva l’economia «politica», per «razionalizzare l’esercizio del potere» e orientare i comportamenti della popolazione e degli individui142. Era il potere disciplinare, cui Foucault attribuisce matrice religiosa, e che in forma pura si manifesta nella disciplina militare. Che ordinava, omologava, plasmava gli individui, nelle scuole, nelle fabbriche, nell’esercito. Che confinava gli «anormali» in ospedali, manicomi, carceri, fabbriche. Che manipolava tempi e spazi di vita. Intesa la popolazione quale «forza produttiva»143, su di essa il potere si esercitava, in attesa di un’altra tecnica di governo, la sécurité. Per la quale le energie degli individui andavano assecondate, incoraggiate, premiate, dosando l’azione di governo con il soccorso di saperi sempre più raffinati e plurali, che, lungi dal semplificare i fenomeni, ne prenderanno accurata misura, ricavando vantaggio, tanto dalle loro regolarità, quanto dalle loro complessità, varietà, instabilità. Illustrando gli sviluppi della sécurité, Foucault avanza il concetto forse più celebre da lui coniato, quello di «governamentalità»144. Con cui denomina una forma d’ibridazione dello Stato con i suoi sottoposti particolarmente sottile: il loro riconoscimento quali individui autonomi. Rimossi privilegi e barriere d’antico regime, ordine e benessere saranno perseguiti lasciandoli liberi, assecondandone le potenzialità, benché entro regole accortamente predisposte e applicate. Il liberalismo non era ostile allo Stato, intendeva solo potarne gli eccessi e servirsene, secondo una strategia che ha bisogno delle libertà – non solo di quelle di mercato – per funzionare. Quindi le «fabbrica» e le «organizza» per poterle «consumare»145. Non vi è netta successione storica, bensì dosaggio, tra sovranità, disciplina e sicurezza. I dispositivi della sécurité anticipano i rischi, calcolano le probabilità che si concretizzino, stabiliscono una media di ciò che è tollerabile e si adoperano perché sia rispettata. La «contropartita e il contrappeso delle   Ivi, p. 104. In francese si distingue tra sécurité e sureté.   Ivi, p. 71. 144   Ivi, pp. 61 e 111-112. 145   M. Foucault, Naissance de la biopolitique: Cours au Collège de France (1978-1979), Paris, Gallimard-Seuil, 2004, pp. 67-68. 142 143

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libertà»146 era una perdurante azione di sorveglianza, sanzione, reclusione, contro chiunque, specie tra le classi inferiori, mettesse a repentaglio l’ordine, la proprietà privata e la libertà altrui. Già però l’azione di governo si era messa in cammino oltre gli spazi illustrati da Foucault. Ne ha fatto oggetto di acuminata riflessione Giuseppe Di Palma, parlando di «governo del sociale tramite il sociale»147, che richiede altre tecniche, altri strumenti, altre istituzioni di governo, affiancati da nuove competenze e più ampie e circostanziate conoscenze intorno alla vita collettiva. Il ribellismo contadino e quello urbano, la criminalità, il banditismo erano da sempre forme endemiche di contrasto all’ordine sociale e ai criteri di giustizia dettati dallo Stato. Né reprimerle, né misurarle era sufficiente per liberarsene. Incendiata dal malcontento delle classi popolari, la Grande Rivoluzione le promosse a fatti politici di prima grandezza, mostrando come la lotta per il dominio si manifestasse anche in questo modo e come potesse fin dalle fondamenta sconvolgere gerarchie sociali e politiche consolidate. Il movimento cartista, i sollevamenti del 1830 e quelli del 1848 lo confermeranno. La rivoluzione industriale concentrava nelle città le sofferenze di larghi segmenti di popolazione, spesso fuggita o cacciata dalle campagne, e nel giro di pochi decenni smentirà l’illusione di un ordine spontaneo affidato agli individui. Divenne pertanto urgente escogitare altre tecniche: era anzitutto un problema «morale», scrive Rose, e dunque di valori, e per il bene della collettività nel suo insieme servivano «tecnologie morali» per plasmare il carattere e le condotte di coloro che erano considerati soggetti morali148. L’estensione degli spazi del mercato non precludeva una partita di potere rivolta a delimitare una nuova sfera di rapporti sociali e pratiche di governo: a metà del XIX secolo fu così istituito il «sociale». Per l’antico Stato-racket era un’altra sfida: quella di «abilitare»149 gli individui per governarli più agevolmente. Classificati la malattia, la povertà, il vagabondaggio,   Ivi, p. 68.   G. Di Palma, The Modern State Subverted, cit, p. 20. 148   N. Rose, Powers of Freedom. Reframing Political Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, p. 103. 149   Ivi, p. 68. 146 147

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la disoccupazione, unitamente al disordine cui davano luogo, come patologie morali, ma anche come fatti imputabili a cause sociali, altri saperi si svilupparono all’occasione ed entrarono in circolo: a iniziare dall’osservazione svolta dal grande romanzo ottocentesco. Una parte preminente l’ha recitata il marxismo, suscitando pure una massiccia mobilitazione intellettuale in concorrenza. A narrare la vita collettiva, a diagnosticarne i problemi, a imporli alla pubblica attenzione e a farne tema di dibattito e poi d’intervento statale hanno contribuito letterati, filantropi, economisti, statistici, criminologi, medici, igienisti, pedagogisti, urbanisti, architetti, agronomi, giornalisti. Quali interessi, quali valori li muovevano? Oltre alle ragioni morali, alle preferenze politiche, ai sentimenti di solidarietà, contava anche la loro professionalità specifica. Per molti valevano anche calcoli di convenienza – reprimere era una tecnica di governo troppo costosa – e la sincera convinzione dei benefici dell’inclusione. Fu predisposto via via un disegno del sociale come spazio e come tecnica di governo fondati su meccanismi alternativi a quelli dello Stato e del mercato150. Era un modo per riordinare altrimenti il disordine, trattando «gli esseri umani come membri di una collettività più ampia, non riducibili ad acquirenti e venditori su un mercato competitivo»151. Lo Stato, le burocrazie pubbliche e le dirigenze politiche saranno pertanto coinvolti in un’opera ambiziosa di society building, complementare a quella di market building e provvista di «una paradossale componente anti-individualistica»152. Compenetrandosi con la società, lo Stato la governava dall’interno. A sciogliere l’intreccio, in tutt’altro clima, Margaret Thatcher riuscirà con solo sette parole: there’s no such thing as society. Ma la costruzione del sociale aveva preso all’incirca un secolo: grazie alle riforme sociali, condotte dallo Stato e non solo. Le aveva dato una mano lo sviluppo di una nuova disciplina, la sociologia153, il cui contributo si può osservare attraverso la 150  Anche R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Torino, Einaudi, 2004, p. 13. 151   N. Rose, Powers of Freedom, cit., p. 1120. 152   Ivi, p. 118. 153  Una ricostruzione dei nessi tra sociologia e questione sociale in G. Procacci e A. Szakolczai, La scoperta della società. Alle origini della sociologia, Roma, Carocci, 2003.

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figura di Émile Durkheim: uno dei primi a riconoscere nel sociale un’istituzione trascendente gli individui e dotata di esistenza sua propria. Da un lato c’è la solidarietà «meccanica», propria delle società definite tradizionali, in cui gli individui si assomigliano, hanno scarse chances di differenziarsi, mentre la vita collettiva si avvale di poche istituzioni fondamentali, tra cui la religione e i suoi miti. Dal canto opposto c’è la moderna solidarietà «organica», fondata sulla divisione del lavoro, sull’interdipendenza tra individui diversi e autonomi e su una varietà d’istituzioni eterogenee. Se non che, le interdipendenze della solidarietà organica non sono argine bastevole ai rischi d’impoverimento morale e d’egoismo suscitati dall’accresciuta divisione del lavoro e dal mercato. Da prevenire perciò mediante misure appropriate, tali da rinsaldare, anzitutto a livello simbolico, le norme sociali. Per salvaguardare le libertà individuali, e per scongiurare l’eccesso di supremazia dello Stato minacciato dal socialismo, per Durkheim conveniva preservare una dose di solidarietà meccanica e valorizzare le rappresentazioni collettive, i rituali, i principi morali, unitamente alle istituzioni che vi provvedono: famiglia, scuola, corpi intermedi, corporazioni, rappresentanze professionali. Era il punto di vista di un severo radicale della Terza Repubblica, di un uomo fortemente identificato con le sue istituzioni, preoccupato dell’ordine e della stabilità. Scontato era per lui diffondere il dovere civico e il patriottismo154. Sui benefici materiali si concentrava invece il programma riformatore bismarckiano, tanto ambizioso, quanto anticipatore. Onde prevenire il movimento socialista furono introdotte le prime forme assicurative contro la malattia, la vecchiaia, gli infortuni155. A fornire sostegno teorico, confermando il nesso tra sapere e potere, fu il Verein für Socialpolitik, con le sue proposte di azioni di governo intese a prevenire il conflitto sociale e dunque il rischio che pregiudicasse il benessere del paese. Secondo la teoria del «doppio movimento» di Polanyi, i processi di mercificazione e demercificazione si avvicendano. 154   Su Durkheim, cfr. G. Poggi, Immagini della società. Saggi sulle teorie sociologiche di Tocqueville, Marx e Durkheim, Bologna, Il Mulino, 1972. 155   F. Girotti, Welfare. Storia, modelli e critica, Roma, Carocci, 2005.

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Gli uni aggrediscono la società, gli altri la difendono156. Lo Stato ha contribuito alla difesa, ibridandosi con altre istituzioni, anche con le imprese. Moltissimo fecero, con tutt’altre finalità, i partiti socialisti e i sindacati. Sorti fuori dallo Stato, si adoperarono per ricucire le pratiche spontanee e disperse di autodifesa degli strati inferiori, ma anche per tutelare chi non disponeva di alcuna protezione. Ciò che Marx aveva definito come classe sfidava lo Stato e, insieme a esso, il mercato. In quanto dispositivo di autodifesa del sociale, il movimento socialista istituì le classi lavoratrici quale attore collettivo e il lavoro come valore fondamentale, in concorrenza con la proprietà157. In attesa che le misure di protezione fossero assunte dallo Stato, il movimento socialista si farà promotore di una rete di corpi intermedi e di meccanismi ravvicinati di protezione reciproca: circoli, coope­rative, leghe, società di mutuo soccorso, case del popolo. Hanno svolto un’azione di tutela, oltre che di governo, delle classi lavoratrici. Anche in questo modo il sociale ha acquisito visibilità e consistenza. Convincendo lo Stato a farne oggetto d’intervento pubblico, inizialmente condotto, in larga prevalenza, dalle amministrazioni municipali, all’uopo valorizzate. Approssimandosi la fine del secolo, all’istruzione pubblica lo Stato aveva conferito il compito di formare buoni cittadini, in grado di convivere ordinatamente. Così come iniziava a adottare le prime misure di protezione sociale. Nel secondo dopoguerra il processo culminerà in un’azione intesa ufficialmente a promuovere l’occupazione e a demercificare il lavoro, almeno in parte. Il documento che più compiutamente testimonia l’assunzione di consapevolezza da parte dello Stato è il Rapporto Beveridge. Redatto da uno studioso d’estrazione liberale, su commissione di un governo d’unità nazionale, il rapporto apparve in Gran Bretagna in un momento in cui la popolazione era sottoposta a sacrifici terribili e i cittadini in armi erano dispersi sui teatri di guerra di tutto il pianeta. Nelle sue pagine la sicurezza sociale diveniva tanto tutela collettiva dai rischi dell’esistenza, quanto occasione per salvaguardare i sentimenti reciproci di responsabilità e solidarietà che la guer156 157

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  K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., p. 98.   R. Castel, L’insicurezza sociale, cit., pp. 27-31.

ra stava sollecitando all’estremo158. Governare pacificamente pretendeva un siffatto investimento. I riformatori del XIX secolo intendevano prevenire un intervento dello Stato intrusivo ed eversivo, come si paventava fosse quello voluto dai partiti socialisti. Erano persuasi che disuguaglianze, povertà, disoccupazione, devianza avessero cause sociali ed economiche e che adeguate misure inclusive potessero contrastarle. Si spingeranno più avanti i riformatori del nuovo secolo, immaginando di suscitare, a favore delle vittime dell’industrializzazione, «altruismo degli estranei per gli estranei»159, secondo la formula di uno dei primi studiosi di welfare, Richard Titmuss. Era un modo per prevenire e temperare il disordine. Il potere disciplinare trovava seguito nella sanità pubblica, negli uffici del lavoro, nelle politiche abitative. Ma al contempo le misure solidali e inclusive si volevano premessa di più ampi margini di libertà e dignità per ciascuno. Dopo il secondo conflitto mondiale, nel momento di massimo seguito del movimento operaio organizzato, sopravvissuto al fascismo, la demercificazione del lavoro, tramite i diritti riconosciuti ai lavoratori, farà altri passi avanti, accompagnata da una retorica, che genericamente, e fuori d’ogni allusione ai partiti, è stata definita «social-democratica». Grazie alle misure universalistiche del welfare, lo Stato stendeva un altro velo sulla memoria del racket originario. Si faceva esso stesso «sociale», estendendo la sua protezione a tutta la popolazione e concedendo ai ceti non proprietari altri margini nelle relazioni di potere con i ceti abbienti ed entro il mercato. Alla luce dell’esperienza di governo laburista in Gran Bretagna tra il 1945 e il 1950, Thomas H. Marshall consacrerà questa tecnica di governo e d’inclusione nel linguaggio liberale dei diritti: affiancando i diritti «sociali» ai diritti civili e politici160. Il riconoscimento del sociale, non diversamente da quello del mercato, è avvenuto a seguito di lotte tempestose. I partiti di massa e i sindacati ne furono i protagonisti. La demercifica  N. Rose, Powers of Freedom, cit., p. 34.   R. Titmuss, The Limits of the Welfare State, in «New Left Review», 1, 27, 1964, pp. 28-37, spec. p. 35. Cfr. anche Saggi sul Welfare State (1959), Roma, Edizioni Lavoro, 1986. 160   T.H. Marshall, Citizenship and Social Class, and Other Essays, Cambridge, Cambridge University Press, 1950. 158 159

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zione tramite il welfare consentirà allo Stato di bilanciare la sua ibridazione con il mercato e agli addetti alle amministrazioni e ai servizi publici di allargarsi, rafforzarsi, guadagnare potere. Niente, come sempre, è mai perfetto: accusato di eccessi burocratici, il welfare sarà riconosciuto come uno strumento di controllo e disciplinamento, specie verso gli strati inferiori della popolazione. Era un altro esempio dell’ambivalenza dello Stato: era questo, ma non solo questo. È un argomento di cui hanno profittato anche gli addetti al mercato quando si sono sollevati, perché troppo elevati erano i costi dell’azione inclusiva svolta dall’intervento pubblico, suscitando nuove lotte per il monopolio che provocheranno altri cambiamenti. Allorché verso la fine del XX secolo il capitalismo industriale inizierà a decadere, l’inclusione condotta ibridando Stato e società sarà squalificata a dipendenza, marginalità, assistenzialismo. Proponendo un altro disegno d’ordine sociale fondato su un individualismo tanto radicale, quanto spietato: non solo gli individui sarebbero stati «liberi di scegliere», ma sarebbero stati «costretti ad essere liberi»161, per divenire imprenditori di se stessi. Nella sua versione più benigna, il fondamentalismo di mercato consentirà allo Stato di abilitarli e poi toccherà a loro difendersi: a dispetto delle proprie capacità e intenzioni. È la stagione tuttora in corso. 6. La contesa legittima per il monopolio Col tempo l’andamento della lotta per il monopolio statale culminata nell’assolutismo monarchico avrebbe preso un’altra piega. I pretendenti al monopolio ne avrebbero inteso i vantaggi e sarebbero addivenuti all’idea che battersi sanguinosamente per smantellarlo non convenisse. È la tesi di Elias: alle fazioni in lotta apparve di comune interesse risolvere i conflitti con mezzi pacifici, escogitarono a questo fine «periodiche lotte per l’eliminazione, che non ricorr[evano] però all’impiego delle armi e che [erano] regolate dall’apparato monopolistico, lotte “controllate” dal monopolio». Sono esse che hanno 161   N. Rose, Powers of Freedom, cit., p. 87. Anche F. Dubet, La préférence pour l’inégalité: comprendre la crise des solidarités, Paris, Seuil, 2014, pp. 70-80.

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dato luogo a «quello che siamo soliti chiamare un “regime democratico”»162. Controllare la violenza – e i conflitti – è un’esigenza fondamentale, lo rammenta ancora Elias, per qualsiasi gruppo umano163. Era stata la grande ambizione di quanti avevano istituito il monopolio statale, confinando la violenza nelle caserme e affidandola agli specialisti dell’ordine pubblico e della guerra. L’assolutismo aveva anche tollerato e ammesso qualche forma di pluralismo. Ma non era bastato a porre fine alle contese violente per il monopolio. Spogliati d’ogni retorica, i regimi rappresentativi, e le loro prosecuzioni democratiche costituiscono una tecnica di governo più complessa, che riconosce il pluralismo della vita collettiva, e segna un’altra tappa nell’addomesticamento del racket delle origini. Profittando di una formula di Foucault, che ne rovescia una di Clausewitz, diremo che i contendenti s’intesero per condurre la guerra per il monopolio e per dirimere le loro controversie «con altri mezzi»: le elezioni e la pubblica discussione164. La guerra proseguiva. Ciascuna parte politica avrebbe ancora perseguito i suoi progetti di ordine sociale. Vi saranno vittorie e sconfitte, conteranno le armi e i terreni su cui si combatte, le tattiche, le strategie dei contendenti, e le idee e lo spirito da cui saranno animati, nonché le alleanze, i tradimenti, le rappacificazioni durevoli e gli armistizi di breve durata. Ma i contendenti si erano accordati su un punto: non spargere sangue. Chiunque avesse preso il sopravvento, avrebbe rispettato i soccombenti e non avrebbe profittato del capitale di coercizione accumulato entro lo Stato per restaurare l’autorità monocratica. Era un compromesso che, a pensarci, ne conteneva un altro: le parti in conflitto avrebbero agito in modo tale da non esasperare i loro rapporti e da rendere conveniente la riscoperta della violenza. Il salto evolutivo avvenne in Inghilterra. Qui più che altrove si erano già istituzionalizzate forme di pluralismo, il Parlamento era un’assemblea di ceto più vitale di altre, anche per la frequenza delle sue convocazioni, e si era più sviluppato   N. Elias, Potere e civiltà, cit., p. 158.  Id., Tappe di una ricerca, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 246. 164   M. Foucault, Dits et écrits, t. II, Paris, Gallimard, 2001, pp. 702-704. Per la verità Foucault si riferisce alla politica internazionale. 162 163

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il mercato. Ci volle però una guerra civile in piena regola, non una congiura di palazzo, una ribellione nobiliare, una rivolta di strada. Fu una guerra condotta da due possenti forze armate, culminata nella messa a morte del re. Fu anche una guerra di religione165. Il diniego di Carlo I di addivenire a un’intesa in materia fiscale rese la collisione inevitabile. Interrotto il negoziato, i contendenti fecero ricorso alle maniere forti. Sconfitto il re, le divergenze tra i vincitori consentirono a Cromwell e all’esercito d’imporre il proprio ordine e d’instaurare la prima autocrazia moderna – precedente, dunque, l’instaurazione del regime rappresentativo! – tale perché condotta in nome del popolo. Finché l’uscita di scena del Lord Protettore non mise in chiaro come l’alternativa più ragionevole alla guerra civile e all’autocrazia fosse un’intesa tra le fazioni aspiranti al monopolio e tra esse e la monarchia, che fu restaurata, ponendo fine a una lunghissima e violenta partita di potere e inaugurando una sequenza di partite più pacifiche. Le fazioni in lizza oltre Manica potevano alfine dedicarsi ai propri affari, che si stavano rivelando parecchio convenienti. Per deporre le armi, la loro relativa prosperità fu con buone probabilità determinante. Concorsero anche vigorose energie intellettuali, quelle dei giusnaturalisti in primo luogo166. Il sommo teorico dell’assolutismo monarchico, che era Hobbes, aveva immaginato l’autorità sovrana come frutto di un accordo consapevole tra gli esseri umani, consegnandola per intero a un monarca, ma non escludendo la possibilità di depositarla in un’assemblea. Tra i contributi di rilievo è da segnalare quello straordinario documento democratico che è l’Agreement of the people, insieme ai dibattiti di Putney. I Levellers saranno sconfitti. Ma le loro discussioni gettarono gran copia di semi. All’indomani della Gloriosa rivoluzione l’accordo tra re e Parlamento sarà messo in forma e nobilitato da Locke, promuovendolo a virtuosa «separazione dei poteri». La quale, più avanti, nelle pagine di Montesquieu, diverrà la tecnica di governo ideale e anche un’arma disponibile per tutte le fazioni 165   A. Pizzorno, Mutamenti nelle istituzioni rappresentative e sviluppo dei partiti, in P. Bairoch e E. Hobsbawm (a cura di), Storia dell’Europa contemporanea, Torino, Einaudi, 1996, pp. 960-1031. 166   Q. Skinner, Significato e comprensione nella storia delle idee (1969), in Id., Dell’interpretazione, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 11-57.

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interessate a delegittimare e disciogliere l’accumulo di potere costituito attorno ai sovrani assoluti. A pensarci, il nuovo regime era un omaggio alla finitezza umana. Il diritto aveva stabilito un limite all’uso arbitrario del potere. Per il nuovo regime, una volta estromessa la volontà divina, nulla più era assoluto. La pretesa volontà del popolo era molto incerta. Si proverà di quando in quando ad assolutizzarla, ne abbiamo esempi recenti, ma il riconoscimento del pluralismo implicava che nessuna volontà avesse titoli sufficienti per sopraffarne un’altra: era una scelta tra la ragione e la forza, tra la vita e la morte. Era un modo di pensare lo Stato altrimenti: la dose di coercizione era compressa a beneficio della persuasione e della tolleranza. In linea di principio agli individui era riconosciuto il diritto di pensare, parlare, associarsi, criticare liberamente chi li governava e a vivere in sicurezza. Le contese per il potere hanno continuamente disatteso le promesse, ma i diritti saranno pur sempre armi piuttosto efficaci, a disposizione di chi voglia imbracciarle. È il nucleo dell’esperienza politica occidentale, coronato dal rovesciamento simbolico del rapporto tra lo Stato e i suoi sottoposti implicito nell’attribuzione a questi ultimi della facoltà di designare i governanti e della possibilità di divenirlo essi stessi. L’esperimento l’avevano fatto le repubbliche cittadine, ma applicarlo a un grande monopolio statale era un’altra cosa. Forme ufficiali di discussione, negoziazione e governo collegiale, hanno di gran lunga preceduto l’avvento della società borghese. Avevano preso piede già dalla fine del mondo feudale, mettendo in dubbio il modello teocratico167. Stavolta però ebbero la meglio. Concentrato prevalentemente sull’esperienza inglese, dà un’idea di come la nuova tecnica di governo sia stata perfezionata il resoconto di Jurgen Habermas168: nei salotti, nei circoli, nelle accademie, nei caffè, nelle logge massoniche la borghesia si radunava incontrandosi con i ceti aristocratici. Si era formata così una possente fazione, o una galassia di fazioni, che avevano perimetrato una «sfera pubblica» entro cui si disputava su idee 167   C.H. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno (1940), Venezia, Neri Pozza, 1956. 168   J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1962), Roma-Bari, Laterza, 1973.

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di ordine alternative rispetto a quella proposta dall’autorità monarchica. Koselleck la chiama «alta corte di giustizia della ragione»169 e Keith M. Baker «tribunale dell’opinione»170. Era uno spazio variamente abitato e per niente egualitario. Ma che d’ora in poi resterà al centro della vita collettiva e della lotta politica, estendendosi, complicandosi vieppiù e fors’anche, secondo Habermas, snaturandosi. Elevate le due camere del Parlamento a luogo fondamentale di mediazione dei conflitti e di governo, in Inghilterra fu piuttosto ovvio ripetere quanto accadeva da secoli. Ai Comuni si accedeva in quanto rappresentanti di qualcuno. Pure le elezioni furono una scelta inerziale, che veniva da lontano, di cui si sarebbe rinnovato il significato171. Secondo Bernard Manin sono per metà egualitarie, tutti coloro che sono intesi come cittadini hanno diritto di voto, e per metà aristocratiche172, o elitarie. Non tutti hanno le medesime possibilità di successo. Gli elettori, come confermerà più avanti la sociologia elettorale, selezionano entro un’élite ben dotata di capitali relazionali, culturali, economici, politici e oggidì mediatici. Chi detiene tali capitali parte in vantaggio. Sarà possibile talora rimontarlo, ma con difficoltà. Sarà per questo che le elezioni sono state preferite al sorteggio, che è cieco e pericolosamente ugualitario. Le elezioni hanno mostrato anche altre virtù. Diverranno una liturgia collettiva in cui, almeno in via provvisoria, il popolo sovrano fa la sua comparsa. È una liturgia che rende ancora il suo servizio, anche se con crescente fatica. Le elezioni hanno regolarizzato, inoltre, i ritmi della competizione per il potere, in precedenza scandita dai capricci della successione dinastica: almeno finché i media non hanno inventato la «campagna elettorale permanente». Mettono anche ciclicamente in scena la possibilità di un premio e di una sanzione ai governanti: 169   R. Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 12. 170   K.M. Baker, Politique et opinion publique sous l’Ancien Régime, in «Annales. Économies, Sociétés, Civilisations», 1, XLII, 1987, pp. 41-71. 171  O. Christin, Le lent triomphe du nombre. Les progrès de la décision majoritaire à l’époque moderne, in «La Vie des idées», 11 mai 2012 (https:// laviedesidees.fr/Le-lent-triomphe-du-nombre.html). 172   B. Manin, Principes du gouvernement représentatif, Paris, Flammarion, 1996, pp. 160-188.

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quantunque l’esperienza insegni che premio e sanzione di rado giungono a proposito. Come non c’è da illudersi troppo sulla qualità delle scelte compiute dagli elettori. Se non altro, però, le elezioni, oltre a pacificare la contesa per il monopolio, concorrono a civilizzare il contrasto congenito tra governanti e governati. Da subito entro il nuovo regime la contesa politica si rivelò accanita e servì a stimolare nuove ambizioni di potere. Una vivace descrizione di cosa capitasse ai Comuni a metà del XVIII secolo la offre Lewis Namier: la contesa elettorale aveva inaugurato «una feroce, anche se non sanguinosa, lotta per le cariche pubbliche»173. La lotta coinvolgeva i primogeniti delle grandi famiglie aristocratiche, in attesa di ascendere alla camera alta, per i quali nel frattempo il seggio ai Comuni era un obbligo. Per i country gentlemen era un’opportunità per confermare il proprio rango. Si aggiungevano pubblici funzionari, ufficiali, ammiragli, imprenditori e banchieri e un buon numero di avvocati, apprezzati per le loro competenze giuridiche e interessati a guadagnare visibilità e relazioni. Erano inevitabili gli arrampicatori sociali e i faccendieri. Una quota di seggi parlamentari era proprietà privata dell’aristocrazia. Altri erano riservati ai protetti della corona e del suo governo, i quali  –  come accadrà più tardi in Francia e in Italia – non lesinavano favori per orientare la composizione e l’operato della camera bassa. La contesa tra i componenti di una siffatta oligarchia era animatissima. I suoi esponenti investivano i capitali di cui disponevano – patrimonio, prestigio, relazioni familiari, deferenze clientelari – per ottenere vantaggi per sé, i loro amici e i loro mandanti174. Coerente con la riconversione di una parte preminente delle élites al profitto imprenditoriale, l’accesso alla rappresentanza era un mezzo per assicurarsi cariche, sinecure, pensioni, promozioni, appalti, commesse, finanziamenti e per imbastire ogni sorta d’affari profittevoli. Lo spirito del racket non si rassegna a morire. Il regime parlamentare inglese è stato un archetipo. A distanza s’inquieterà del suo stato Charles Louis de Secondat, 173   L.B. Namier, The Structure of Politics at the Accession of George III, London, MacMillan, 1957, p. 16. 174   Ivi, pp. 1-61.

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barone di la Brède e di Montesquieu, che pure ne è stato il più illustre apologeta: da un lato cantò le lodi della separazione dei poteri, dall’altro disdegnò la litigiosità della contesa politica d’oltre Manica175. Grande timore per la sopraffazione dell’interesse collettivo da parte degli interessi privati sarà manifestato da Edmund Burke e sarà condiviso in Francia da Emmanuel Sieyès. Avevano ottime ragioni. Già alla fine del XVIII secolo in Inghilterra una parte delle élites, quella che si sentiva danneggiata176, inizierà ad agitare la bandiera della moralità pubblica contro la cosiddetta Old corruption. Ma fu solo dopo le guerre napoleoniche, quando la corruzione era giunta all’apice, che le denunce dei radicali ottennero qualche risultato, come il ridisegno dei collegi elettorali previsto dal Reform Act del 1832177, che aprirà le porte dei Comuni a nuovi strati sociali. Una parte del problema risiedeva proprio nelle elezioni. Gli inventori del nuovo regime erano persuasi che sarebbero state unicamente un rito di conferma: si sentivano élites «naturali» e il consenso era ovvio. In effetti, fino al secondo Reform Act, del 1867, metà dei collegi elettorali era uncontested. A lungo le elezioni furono vissute come un festoso e disordinato rito di riconsacrazione delle élites precostituite, che coinvolgeva finanche gli esclusi dal diritto di voto178. Ma, come apprese a sue spese Burke, c’erano le eccezioni. E, grazie a esse, la contesa per il potere, la pratica parlamentare, la misurazione del consenso con il numero dei voti, cominciarono a plasmare in maniera imprevista il regime rappresentativo e le stesse élites. Per i concorrenti l’esigenza di massimizzare il proprio seguito elettorale sarà un fortissimo incentivo a conformare le proprie azioni a criteri di razionalità strategica: i calcoli di convenienza elettorale prenderanno il sopravvento. Per contro, la collegialità parlamentare incoraggiava – non sempre – i   K.M. Baker, Politique et opinion publique sous l’Ancien Régime, cit.   L.B. Namier, The Structure of Politics at the Accession of George III, cit., pp. 158-172. 177   P. Harling, Rethinking «Old Corruption», in «Past & Present», 147, 1995, pp. 127-158. Sulla riforma elettorale J. Cannon, Parliamentary Reform 1640-1832, Cambridge, Cambridge University Press, 1973. 178  F. O’Gorman, Voters, Patrons and Parties: The Unreformed Electorate of Hanoverian England, 1734-1832, Oxford, Oxford University Press, 1989. 175 176

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compromessi. È l’astuzia del regime rappresentativo179: un antidoto spontaneo a ogni forma di radicalismo, purtroppo molto imperfetto. Quel che non era stato previsto per niente è l’insorgere della nuova e temibile fazione degli addetti professionali alla politica. Non era alla portata di chicchessia radunare un seguito elettorale. Non tutti, osserva Elias, possedevano «l’arte di dirimere una contesa con le parole, ossia con la persuasione»180. Per com’era condotta, la lotta politica divenne un’occupazione impegnativa, che richiedeva un savoir faire spacifico: bisognava saper parlare in pubblico, discutere, negoziare e conciliare interessi eterogenei, legiferare, valutare – un politico ragiona pure in questo modo – gli effetti più a lungo termine del proprio operato. C’era di che farne un mestiere. Già i notabili locali, che sedevano nei parlamenti grazie alle loro risorse personali di autorità sociale, acquisivano on the job competenze specifiche e tendevano a dedicarsi alla politica quasi a tempo pieno: nelle assemblee elettive e nel proprio collegio181. Lo facevano senza ricavarne ufficialmente alcun compenso. Man mano però che il mercato elettorale si allargava, gli imprenditori politici, che vi fiutavano un’opportunità promettente d’investimento, si moltiplicarono e professionalizzarono. Alla fine, predisporranno istituzioni apposite, ovvero i partiti, in grado di suscitare e coltivare un più vasto seguito. Per Weber è entro i partiti che la politica è divenuta un mestiere in senso pieno, di cui vivere, ovvero farne una fonte stabile di sostentamento182. In questo modo, s’inaugurava pure un nuovo percorso di mobilità sociale ascendente, fruibile da nuovi strati sociali. Estendendo il suffragio, il percorso si sarebbe allargato: è probabilmente uno dei motivi principali per cui il suffragio è stato esteso. Il rafforzamento del regime rappresentativo ebbe un corrispettivo nella professionalizzazione anche delle burocrazie 179  Poche definizioni di tale astuzia sono più convincenti di quella di Kelsen: cfr. Essenza e valore della democrazia (1929), in Id., I fondamenti della democrazia e altri saggi, Bologna, Il Mulino, 1970. 180   N. Elias, I tedeschi, cit. p. 74. 181  É. Phélippeau, L’invention de l’homme politique moderne. Mackau, l’Orne et la République, Paris, Belin, 2002. 182   M. Weber, La politica come professione, cit., p. 191.

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pubbliche. Il contrasto con le dirigenze elettive è dunque originario. Più crescerà la centralità di queste ultime, più le burocrazie saranno professionalizzate. Reclutate per concorso, accertandone le competenze, vincolate al rispetto delle norme e della gerarchia, dovevano costituire un potere «terzo», opposto alle oscillazioni e alle parzialità del regime rappresentativo. Ossessionato dalla razionalità formale, Weber ebbe molto da ridire. Viceversa, Schumpeter le ha ritenute, con qualche ragione, un contrappeso alla demagogia elettorale183. Per concludere: in funzione di una nuova idea di ordine, il regime rappresentativo aveva assunto dosi controllate di disordine. Era un vaccino utile a regolare concorrenze, resistenze, ribellioni. Quanto disordine era però sopportabile? Molte volte si solleverà l’esigenza di dosarlo e filtrarlo. Sarà un altro tema di disputa persistente. Inizialmente fu ristretto il diritto di voto, si seguiterà con molti altri accorgimenti. Ne diremo nel capitolo dedicato alla rappresentanza. Un’altra tecnica di bilanciamento del pluralismo introiettato dal regime rappresentativo, insieme alla professionalità dei pubblici funzionari, sarà già in partenza l’alienazione al mercato di larghi spazi di governo. Ma i nostalgici dell’autorità monocratica e dell’unità organica della vita collettiva non troveranno mai pace. In nome dell’interesse generale e del bene comune, la loro azione sarà un’insidia persistente, anche quando silenziosa, che ha talora condotto a regressioni drammatiche. Non si sono acquietati neanche adesso. 7. Il mercato contro lo Stato Il regime rappresentativo è una tecnica di governo escogitata per mettere a regime – ci si consenta il bisticcio – il pluralismo della vita collettiva e il conflitto riducendo l’impiego della coer­ cizione. È una tecnica raffinata ed efficace, malgrado i molti infortuni che le sono capitati184. Dando voce, ufficialmente e 183   Una burocrazia competente per J.A. Schumpeter è condizione necessaria di successo per il metodo democratico: cfr. Capitalismo, socialismo, democrazia (1942), Milano, Comunità, 1962, pp. 276-282. 184   Una circostanziata rassegna in R. Romanelli, Nelle mani del popolo. Le fragili fondamenta della politica moderna, Roma, Donzelli, 2021.

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regolarmente, ai dominati, con molti limiti e per interposta persona, il regime rappresentativo ha cambiato il modo di pensare e di fare lo Stato e i modi di pensare, pensarsi e agire dei governanti e dei governati. La sua traiettoria è proseguita con l’universalizzazione del suffragio. Non sempre è stata accolta pacificamente. Era una tecnica di governo, utile a neutralizzare il potenziale di opposizione delle classi inferiori, ma implicava la possibilità di una ripartizione meno disuguale del potere e della ricchezza sociale: tanto che ha suscitato forme anche violente di rigetto. Né la pacificazione del conflitto, né quella dell’azione di governo da parte dello Stato hanno mai cancellato del tutto la ribellione violenta da una parte e la coercizione dall’altra. Forme violente di conflittualità si sono riproposte più volte, mentre la difesa dell’ordine pubblico e dei confini statali richiederanno di mantenere una quota di coercizione, sulla cui portata si accenderanno animate dispute politiche. Il dibattito sull’impiego delle forze dell’ordine e sulla repressione penale e carceraria non si è mai esaurito185. Ed è tuttora discusso pure il confine tra lotte sociali pacifiche, e perciò ritenute legittime, e lotte che sono invece considerate violente. Infine, lo Stato, o gli Stati, hanno riversato un’enorme mole di violenza fuori dai propri confini. Sarà quella risparmiata all’interno? Non si può in effetti non constatare come le relazioni tra gli Stati siano rimaste allo stadio primitivo, renitenti a qualsiasi tentativo di civilizzarle: dai trattati di Westfalia fino ad oggi. Violente «lotte per l’egemonia»186 hanno ripetutamente riscritto i confini statali, entro e fuori d’Europa. Lotte per il monopolio sono state le tardive unificazioni italiana e tedesca, il primo conflitto mondiale e il crollo degli imperi che ne è seguito. Lotta per il monopolio è stata la Seconda guerra mondiale e così pure la Guerra fredda. Nemmeno la fine dell’Unione Sovietica e dell’ordine bipolare ha consentito d’instaurare un altro ordine più pacifico. Il tentativo di istituire un’autorità sovranazionale ha dato risultati modestissimi e, soprattutto, quella che c’è non 185   L. Wacquant, Punishing the Poor. The Neoliberal Government of Social Insecurity, Durham, Duke University Press, 2009. Inoltre, S. Palidda, Polizie, sicurezza e insicurezze, Milano, Meltemi, 2021. 186   N. Elias, Potere e civiltà, cit.

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ha guadagnato via via in credibilità. L’unico reale avanzamento è la rappacificazione tra una parte degli Stati d’Europa. C’è da augurarsi che duri e che possa estendersi. Curiosamente, Norbert Elias sfiora appena il tema del dominio coloniale187. Eppure, è stato anch’esso lotta per il monopolio e l’Occidente quale lo conosciamo non esisterebbe se non avesse profittato del dominio che ha esercitato su larghe parti del pianeta. Gli imperi coloniali sono stati un complemento decisivo della statualità occidentale188. Considerati i territori d’oltremare res nullius, sprovvisti di Stato, di confini, di storia e di cultura, era legittimo sottometterli per «civilizzarli». Non fosse che le violenze perpetrate oltremare hanno di rimando intossicato costumi e istituzioni dei paesi colonizzatori. Secondo Enzo Traverso lì vanno cercate le origini della violenza nazista189. Le potenze coloniali hanno anche esportato e imposto i propri costumi, la propria cultura, le proprie tecniche di dominio190: è il «progresso». Che è tuttavia stato accolto molto selettivamente e si è ibridato con le condizioni locali. Ai valori occidentali si sono pertanto ispirate, tranne poi abbandonarli, le lotte di liberazione dei popoli colonizzati, che hanno posto fine al dominio occidentale191. Che ha allora assunto altre forme: tra di esse la globalizzazione, pubblicizzata  – con credibilità decrescente – come competizione pacifica e fruttuosa tra Stati, mercati, imprese. Ma neanche l’incremento degli scambi e degli intrecci produttivi e finanziari sono bastati a ridurre l’impiego della violenza, che ciascun contendente giustifica con ragioni 187   L’esternalizzazione della lotta violenta per il monopolio fuori dall’Occidente contraddice la «civilizzazione dei costumi». In compenso Elias è ben consapevole di come la civilizzazione sia un processo tutt’altro che irreversibile. Si veda, N. Elias, I tedeschi, cit. e Humana conditio (1985), Bologna, Il Mulino, 1987. 188   G.K. Bhambra e J. Holmwood argomentano anzi che l’Europa moderna fosse fatta non da Stati, bensì da imperi, che in Europa avevano il centro, ma che si estendevano oltremare. Sarebbero queste le unità da considerare, anziché gli Stati, ripensando le categorie della teoria sociale che poco o nulla si è misurata con il tema del colonialismo: cfr. Colonialism and Modern Social Theory, London, Polity, 2021. 189   E. Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, Bologna, Il Mulino, 2010. 190   N. Elias, Potere e civiltà, cit., pp. 402-403. 191   Sul punto R. Romanelli, Nelle mani del popolo, cit. pp. 195-218.

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che andrebbero prese sul serio, anche quando non le si condividano. È scomodo, ma è la premessa necessaria per capire. Da ultimo, un importantissimo avvicendamento nelle grandi lotte per il monopolio ha avuto luogo. Si sono fatti largo con prepotenza le corporations e i potentati finanziari transnazionali. Alcuni Stati hanno resistito, ma una quota della sovranità statale è andata dispersa: quella fiscale, anzitutto, ma anche in altre sfere. Più che un esproprio è stata una rinuncia o un ridisegno, legittimato dalla promessa dei luminosi orizzonti della globalizzazione e compensata dal costituirsi di un sistema di autorità sovranazionali: Fmi, Wb, Wto e via seguitando192. Primeggia per incisività l’Unione europea. Sono tutte istituzioni che si sono messe in concorrenza con gli Stati e hanno man mano accumulato ingenti capitali di competenze, di reputazione, di relazioni e, ovviamente, di potere193. A quanto pare, sono però insufficienti a governare la complessità dell’economia globale. Tant’è che si è insediata una costellazione d’autorità private, le quali concorrono anch’esse a espropriare gli Stati di un monopolio fondamentale: quello del diritto194. Alle corti giudiziarie internazionali si sono affiancati i grandi studi legali, in origine americani, che hanno riesumato la lex mercatoria a beneficio del mondo degli affari e che dirimono le vertenze insorte nei commerci internazionali. Tra pubblico e privato sono all’incirca settantamila le istituzioni d’ogni genere che governano lo spazio internazionale195. Nella terra di nessuno tra gli Stati si sono insediate autorità arbitrali, di garanzia, agenzie che dettano codici, norme, standard, istituzioni bancarie, società di consulenza e studi legali internazionali, circuiti di 192   Non esiste un’unica forma di sovranità statale. La sovranità è sempre stata condizionata. Sulle sue variazioni cfr. J. Agnew, Globalization and Sovereignty. Beyond the Territorial Trap, New York, Rowman Littlefield, 2018. 193   B. Mazlish e E.R. Morss, A Global Elite?, in A.O. Chandler Jr. e B. Mazlish (a cura di), Leviathans: Multinational Corporations and the New Global History, Cambridge, Cambridge University Press, 2005. Sulle istituzioni sovranazionali le conoscenze cominciano ad accumularsi. Un’indagine centrata sull’emancipazione delle burocrazie internazionali dagli Stati è quella di M. Barnett e M. Finnemore, Rules for the World: International Organizations in Global Politics, Ithaca, Cornell University Press, 2004. 194   Una guida in M.R. Ferrarese, Poteri nuovi. Privati, penetranti, opachi, Bologna, Il Mulino, 2022. 195   Ivi, p. 58.

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expertise, Ong. Alla verticalità del government si oppone l’orizzontalità reticolare della governance, fatta di negoziazioni e concertazioni depoliticizzate, ove istituzioni private e pubbliche intervengono come partner alla pari. È pure questo un modo di lottare per il monopolio e di governare, dove si segnalano anche istituzioni che dall’Occidente esportano costumi, stili di vita e tecniche di governo, magari sotto forma di aiuti allo sviluppo, corredati da vincoli alquanto severi: è la good governance196. La formula degli aiuti allo sviluppo non è in realtà un’esclusiva occidentale: anche quello è diventato uno spazio conteso. A suo tempo, qualche tentativo, meno riuscito, l’aveva fatto l’Unione Sovietica, più di recente, è la Cina che ha deciso di fare la sua parte. Non deve ovviamente sorprendere che gli addetti alle istituzioni sovranazionali si aggreghino in fazioni e nutrano autonome ambizioni di potere197. È pure possibile che si sia formata una superfazione – o superclasse – capitalistica transnazionale198. Come c’è ragione di ritenere che, non solo nelle pieghe, l’indebolimento dello Stato offra opportunità inedite alle organizzazioni criminali: il confine tra attività legali e illegali non è per nulla netto e invalicabile199.   M. Bevir, Democratic Governance, cit., pp. 95-110.  Sul policy making sovranazionale, cfr. J. Joachim, B. Reinalda e B. Verbeek (a cura di), International Organizations and Implementation: Enforcers, Managers, Authorities?, London-New York, Routledge, 2008. Cfr. anche N. Kauppi e M.R. Madsen (a cura di), Transnational Power Elites. The New Professionals of Governance, Law and Security, Abingdon, Routledge, 2013. Sui giuristi operanti nelle corti internazionali, che producono sentenze ad alto impatto in moltissimi ambiti, dalla tutela dei diritti umani alla regolazione delle attività commerciali, cfr. L. Swigart e D. Terris, Who Are International Judges?, in C.P.R. Romano, K.J. Alter e Y. Shany (a cura di), The Oxford Handbook of International Adjudication, Oxford, Oxford University Press, 2014. 198   Secondo Luciano Gallino, uno studioso sempre molto misurato e alieno da suggestioni complottiste, vi sono ottime ragioni per pensarlo. Cfr. La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista a cura di P. Borgna, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 17-18. Tra i tanti: S. Strange, Chi governa l’economia mondiale? Crisi dello Stato e dispersione del potere, Bologna, Il Mulino, 1998. Inoltre, L. Sklair, The Transnational Capitalist Class and Global Politics: Deconstructing the Corporate: State Connection, in «International Political Science Review», 2, XXIII, 2002, pp. 159-174. Solleva invece dei dubbi M. Hartmann, Internationalisation et spécificités nationales des élites économiques, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 5, 190, 2011, pp. 10-23. 199   Il confine tra arricchimento legale e illegale, pacifico e violento, è molto sottile e la sua permeabilità, visto l’indebolimento dell’autorità statale, è 196 197

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Il deperimento della sovranità degli Stati non ha comunque concluso le lotte per il monopolio entro i confini statali. Con grande fervore proseguono: sia le lotte per la rappresentanza tra le forze politiche e tra gli interessi, sia soprattutto quelle tra Stato e mercato. Non sono nemmeno mancate le new entries: gli addetti ai media da un canto, gli esperti dall’altro. Sono fazioni che rivendicano la loro estraneità alla contesa per il monopolio, ma che in profondità sono penetrate entro la sfera della politica e del governo. Spesso conducendo manovre congiunte. Molti e diversi sono i punti di vista da cui considerare i mass media200. Risaliamo alle origini. Fin dall’inizio la stampa, fatta per mettere in circolo informazioni e opinioni, si è rivelata un’arma a disposizione dei titolari del monopolio statale, degli addetti al mercato e dei loro oppositori e concorrenti. I quali ne hanno fatto per qualche tempo un impiego molto intenso. Finché l’elettoralizzazione di partiti non ha coinciso con una grande innovazione tecnologica: la televisione. Con assai più efficacia della stampa quotidiana e della radio, la televisione non solo mette in circolo informazioni e opinioni, ma «crea» la realtà, è una fucina attivissima d’interpretazioni, classificazioni, divisioni, oscuramenti, enfatizzazioni201. Si può perfino ritenerla una forma sostitutiva d’esperienza. Trainando gli altri media, la televisione ha invaso la sfera pubblica, condizionando costumi e stili di vita, modi di pensare e comportarsi, addirittura i criteri con cui si osservano e giudicano gli eventi202. Fino a che punto? Le conoscenze sugli effetti della mediatizzazione sono insoddisfacenti. Ma sappiamo per certo che i media permeano la vita quotidiana e sono una connessione fondamentale tra gli individui e la società intorno a loro, di cui hanno enormemente dilatato i confini203. diventata la norma. Cfr. F. Armao, L’età dell’oikocrazia. Il nuovo totalitarismo globale dei clan, Milano, Meltemi, 2019. 200   G. Mazzoleni, La comunicazione politica, Bologna, Il Mulino, 2012. Una ricognizione a largo raggio in F. Esser e J. Strömbäck (a cura di), Mediatization of Politics. Understanding the Transformation of Western Democracies, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2014. 201   P. Bourdieu, Sur la télévision, Paris, Raisons d’agir,1996, pp. 18-20. 202   Preveggente e di grande respiro critico è la riflessione, non solo sugli effetti dei media, di Danilo Zolo. Cfr. Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Milano, Feltrinelli, 1992, pp. 33-34 e pp. 171-203. 203  Per un’introduzione problematica all’uso politico della tecnologia, anche nel campo della comunicazione, cfr. S. Jasanoff, Technology As a Site

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Dal canto loro, gli addetti ai media non ci hanno messo molto a costituire fazioni autonome, con le loro ambizioni e il loro capitale di potere, che la televisione ha incrementato. La vocazione dei giornalisti a farsi portavoce dei cittadini, in concorrenza con gli eletti e i partiti non è recente. La gittata e l’invasività della televisione hanno promosso nientemeno che la mediatizzazione della contesa politica. Oltre ai giornalisti, alcuni specializzati nell’interpellare i politici, vi sono gli entertainers, gli autori, i programmisti, i pubblicitari e, a maggior ragione, gli editori e gli investitori pubblicitari: eterogenei per orientamenti culturali, affiliazioni politiche, condizioni professionali e interessi. Si fanno sentire pure gli accademici mediatizzati. Ma a mutare definitivamente lo stato della sfera pubblica è stata la comparsa delle reti commerciali, che non solo hanno potenziato la dimensione spettacolare della televisione, ma hanno incrementato l’importanza degli interessi privati, ridisegnando pure il servizio pubblico. Si sono moltiplicate le imprese multinazionali operanti nel settore, con effetti di concentrazione problematici dal punto di vista democratico. Particolarmente delicata è la condizione degli addetti alla politica elettiva. Non sono indifesi, in primo luogo perché hanno qualche responsabilità nello stabilire principi e limiti dei cosiddetti regimi mediatici: è lo Stato che concede le frequenze, regola l’affollamento pubblicitario, pone o meno vincoli alla proprietà dei media. E, infatti, da un paese all’altro i rapporti tra le varie categorie di addetti ai media, gli imprenditori del settore, gli interessi organizzati, la politica elettiva, variano tra complicità, strumentalizzazione reciproca, diffidenza, interpenetrazione204. Ma l’aspetto forse più importante è che gli addetti alla politica hanno preso assai sul serio l’influenza dei media. and Object of Politics, in R.E. Goodin e C. Tilly (a cura di), The Oxford Handbook of Contextual Political Analysis, Oxford, Oxford University Press, 2006. 204   Un tentativo riuscito di comparazione, tenendo conto di più fattori quali il tipo di mercato mediatico, le forme della professionalizzazione giornalistica, le parentele con la politica, in D.C. Hallin e P. Mancini, Comparing Media Systems. Three Models of Media and Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 2004. Cfr. anche la messa a punto più recente: Idd., Ten Years After Comparing Media Systems: What Have We Learned?, in «Political Communication», 2, XXXIV, 2017, pp. 155-171.

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Quantunque i media – i loro addetti e i loro studiosi – coltivino sovente l’immagine della loro irresistibilità, non sono né l’arma politica finale, né una fazione invincibile205. Non abbiamo nemmeno certezze su come e quanto influenzino le scelte degli elettori. Il «clima d’opinione» dipende molto da essi, ma le lealtà elettorali non sono per niente effimere. Ciò non ha impedito a quella che viene chiamata la media logic, dettata dalla preoccupazione per l’audience, per le vendite e i profitti delle televisioni commerciali, di ricadere pesantemente sulla politica: sui linguaggi, stili e ritmi della competizione, sull’agenda di policy, persino sulle regole del gioco206. I politici hanno imparato a adeguarsi alle attese della televisione e dei media in genere, anche se non passivamente. Hanno anche appreso a usarli: spesso anche li anticipano e suscitano loro gli eventi mediatici. Sanno anche bene che valgono i personaggi, i gesti trasgressivi, i racconti paurosi, le zuffe, la brevità e perentorietà delle asserzioni, il botta e risposta, il negative campaigning e la horse race 207. A considerare, tuttavia, quanto i profitti dell’industria televisiva provengano dalla raccolta pubblicitaria, l’innovazione appare profonda. Le tecnologie sono sempre strumenti adoperati da qualcuno, che sceglie se e come adoperarli. Anche il loro sviluppo è oggetto di dispute e di decisioni. Nel caso della Tv, essa aveva offerto inizialmente l’opportunità di comunicare la politica a un pubblico più vasto. Non è detto che gli addetti ai media, in assenza dei media commerciali, e gli addetti alla politica si aspettassero gli sviluppi successivi. Ovvero: non sappiamo quanto sia stata consapevole la scelta sia di autorizzare un’offerta televisiva privata, sia di trasformare la politica in intrattenimento, di valorizzarne la dimensione emotiva e agonistica. Nel caso dello sport, la spettacolarizzazione, promossa 205   Tra i contributi che suggeriscono cautela J. Strömbäck e F. Esser (a cura di), Mediatization of Politics. Understanding the Transformation of Western Democracies, New York, Palgrave MacMillan, 2014. 206   F. Esser e J. Strömbäck, Introduction, in Idd., Mediatization of Politics, cit., pp. 14-16. 207  L’argomento è stato originariamente sviluppato da D.L. Altheide e R.P. Snow, Media logic. La logica dei media (1979), Roma, Armando, 2018. Si veda anche l’Introduzione di R. Marini. È altresì da ricordare che oggi il bilancio delle imprese mediatiche dipende in larghissima misura, più che dalla vendita del servizio agli utenti, dalla raccolta pubblicitaria.

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dai media commerciali, che l’ha radicalmente cambiato, non è avvenuta casualmente. Nel caso della politica forse solo qualche imprenditore privato preveggente ne aveva intuito la possibilità, magari senza anticiparne gli effetti d’inasprimento della contesa politica che ha provocato. Fatto sta che tra gli addetti alla politica e per il mercato dei media commerciali si è configurata una nuova ibridazione: per i primi la posta era la visibilità, per le imprese commerciali, che hanno effettuato ingenti investimenti, il profitto, con gravose implicazioni sulla contesa politica e sull’azione di governo, dettandone finanche le regole. È stata una partita di potere, tuttora in corso. Che ha le sue vittime: come succede dal tempo delle recinzioni delle terre comuni. Una vittima sono stati i giornali e il giornalismo tradizionale. La stampa quotidiana è in decadenza, subisce la concorrenza della televisione, attrae meno investimenti pubblicitari, trova, pur con importanti eccezioni, meno lettori. La precarizzazione della professione giornalistica è elevatissima, a scapito dell’indipendenza dei suoi addetti. L’altra vittima è il pubblico insieme alla sfera pubblica: la dialettica entro tale sfera è fortemente condizionata dalle distorsioni spettacolari dei media. Sono alfine scesi in lizza i social media, avanzando la promessa di promuovere la comunicazione orizzontale tra i cittadini e di rianimare magari la sfera pubblica. Non fosse che anche i social sono in mano a imprenditori privati e agli investitori pubblicitari. Sono perciò da temere manipolazioni ulteriori e ulteriori effetti di avvelenamento del linguaggio e della contesa politica e di soffocamento della sfera pubblica?208 I social non rischiano a loro volta di prosciugare il mercato della pubblicità televisiva? C’è chi li tratta come un demone tecnologico inafferrabile e invincibile e chi invita a non sopravalutarli e a considerare piuttosto le sinergie con i media

208   P. Staab e T. Thiel, Social Media and the Digital Structural Transformation of the Public Sphere, in «Theory, Culture & Society», 4, XXXIX, 2022, pp. 129-143. Secondo i due autori i social servono a esaudire le esigenze del capitalismo post-fordista, che ha individualizzato tanto la produzione quanto i consumi. Sono uno strumento utile a personalizzare il messaggio e raggiungere individualmente i consumatori, sfruttato anche dalle forze politiche.

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convenzionali209. C’è chi ne intravede l’ambivalenza e conta sulla possibilità d’intrecciare connessioni orizzontali per rianimare la sfera pubblica. Forse i social devono ancora scoprire la loro vocazione e ci vorrà qualche tempo per intenderne le implicazioni. La seconda importante new entry nelle contese per il monopolio è la scienza. Ne ha sempre fatto parte, ma, una volta divenuta expertise, ha rinnovato il proprio ruolo: l’esperto è colui che detiene competenze non alla portata dell’uomo della strada ed è chiamato in soccorso dalla politica210, ma già nel XVIII secolo sono servite altre competenze. Per primi sono arrivati i giuristi. È tuttavia col crescere dell’intervento pubblico, iniziato dopo la Prima guerra mondiale e la crisi del ’29, che lo Stato ha dato grande spazio ad altri specialisti, muniti di competenze economiche e tecniche. L’idea del governo dei tecnici, avanzata agli inizi della società industriale da Saint-Simon e Comte, riproposta negli anni ’30 dai regimi autoritari, risvegliata negli anni ’60, si è fatta strada ancora una volta211. È stato il market turn degli anni ’80, smanioso di contenere lo Stato, che ha di nuovo allargato gli spazi della scienza e dell’expertise, seppur curandosi di privatizzarli. L’azione di governo è stata ridefinita come problem solving, depoliticizzando le issues e sottraendole alla dialettica tra le forze politiche: sono diventate questioni tecniche, da trattare alla luce di evidenze scientificamente accertate e inoppugna209   Si rinvia alla ricerca molto approfondita, condotta da Y. Benkler, R. Faris e H. Roberts, Network Propaganda: Manipulation, Disinformation, and Radicalization in American Politics, New York, Oxford University Press, 2018. 210  Per una messa a punto generale C. Delmas, Sociologie politique de l’expertise, Paris, La Découverte, 2011. 211   In un momento in cui si cominciava a osservare la trasformazione dei partiti provocata dal loro stabile insediamento al governo, e non molto dopo l’instaurazione della V Repubblica, s’interrogava criticamente J. Meynaud, La tecnocrazia. Mito o realtà (1964), Bari, Laterza, 1964. Meynaud denunciava la tendenza dei tecnici, cioè di figure non elettive, che per lui coincidevano allora in gran parte con gli alti funzionari, a usurpare le responsabilità dei politici. Una ricostruzione dell’avanzata – depoliticizzante – degli «esperti», che in Francia risaliva agli anni ’30 e aveva attraversato il regime di Vichy per riapparire nel dopoguerra, in P. Bourdieu e L. Boltanski, La production de l’ideologie dominante, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 2-3, II, 1976, pp. 4-73.

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bili, se possibile con urgenza. Contro i capricci della politica, gravata da residui ideologici, ma pure contro le macchinosità burocratiche e perfino contro le imprevedibilità del mercato, l’autorevolezza oracolare degli esperti mette a tacere i conflitti, a profitto dell’azione di governo. Non fosse che le evidenze scientifiche, pur confermate da procedure di validazione condivise, rimangono controverse, oltre che afflitte da pregiudizi politici. Sono la regola le contese tra discipline, scuole e studiosi. A maggior ragione sono controversi i pareri offerti alla politica da scienziati ed esperti212. Capita pure che gli esperti s’imbattano in qualche problema inedito, cui la scienza non ha avuto tempo per applicare le sue procedure di validazione: il caso Covid-19 è istruttivo. Il market turn ha conferito particolare valore a una specifica leva di esperti: quelli di formazione economica e manageriale, che accumulano il loro capitale di credibilità circolando tra Stato e mercato, tra amministrazioni e agenzie pubbliche e imprese private, tra authorities indipendenti, istituzioni sovranazionali e corporations multinazionali, Ong, cattedre universitarie, centri di ricerca, boards di riviste accademiche, prime pagine dei giornali e schermi televisivi213. Con quali criteri però in questa sfera è conferito il crisma della competenza e dell’expertise? Balzate in primo piano, le controversie scientifiche non potevano non diventare intrattenimento mediatico anch’esse, con qualche inconveniente. La contesa politica oppone tra loro i pareri tecnici. E c’è già chi mobilita contro l’expertise il disorientamento dei cittadini. Le manifestazioni di antintellettualismo, la celebrazione della saggezza dell’uomo della strada, il rifiuto della medicina tradizionale, i negazionisti della catastrofe ambientale o della pandemia da Covid, i movimenti no vax, manovrati anche dai media, mostrano come l’impiego invasivo della scienza e dell’expertise possa suscitare temibili   G. Eyal, The Crisis of Expertise, Cambridge, Polity, 2019.  Sugli economisti e la loro alleanza con la politica, F. Lebaron, La croyance économique: les économistes entre science et politique, Paris, Seuil, 2000 e Id., Le savant, le politique et la mondialisation, Broissieux, Éditions du Croquant, 2003. Interessante la ricerca di D. Dulong, Quand l’économie devient politique. La conversion de la compétence économique en compétence politique sous la Ve République, in «Politix», 3, IX, 1996, pp. 109-130. 212 213

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contraccolpi214. Anche l’expertise ha qualche limite e servirebbe qualche cautela nel suo impiego nella contesa politico-mediatica. Sempre che sia fattibile. Ulrich Beck aveva avvertito il pericolo, ma non ha trovato molto ascolto215. Da ultimo: all’incrocio tra imprese private, decisori pubblici, ambienti intellettuali, si sono installati i think tanks: sono le istituzioni prescelte per confermare e sfruttare l’autorevolezza della scienza. Finalizzati al policy making, anch’essi prendono a prima vista le distanze dalla contesa politica. Usano la scienza e il contributo degli esperti per identificare e approfondire le issues, per influenzare l’agenda di policy, per suggerire le misure da adottare, per suscitare interesse nella pubblica opinione. Dedicati alla ricerca applicativa, l’accompagnano con un’intensa e ben orchestrata attività di comunicazione. Tra reports, libri bianchi, convegni, prosperano i think tanks nazionali e internazionali216, quelli indipendenti, e quelli legati, anche finanziariamente, a forze politiche, a gruppi d’interesse, imprese, fondazioni, alla società civile, e sono divenuti una formidabile «force de frappe intellettuale»217, che è penetrata nella vita pubblica e perfino nella ricerca accademica, cui detta temi e ricerche meritevoli di essere coltivati. I media e l’expertise fanno la loro parte nella partita di potere che ha segnato l’ultimo mezzo secolo: quella tra Stato e mercato, che ne ha radicalmente rinnovato l’ibridazione. Non esauriremo l’argomento, sempre che sia possibile, in questo capitolo, vi torneremo nel quarto capitolo. Proveremo qui a tratteggiarne alcune linee. È in corso anzitutto una grande partita simbolica, che ha decostruito l’immagine ordinatrice e pacificatrice dello 214   Da ultimo, fa il punto L. Pellizzoni, Autorità in declino? L’expertise scientifica nell’epoca della post-verità, in «Quaderni di Sociologia», 86, LXV, 2021, pp. 133-152. 215  Solleva la questione dei limiti dell’expertise, con molto anticipo, U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci, 2000, pp. 219-253. 216   M. Diletti, Think tank. Le fabbriche delle idee in America e in Europa, Bologna, Il Mulino, 2009. Inoltre, A. Rich, Think Tanks, Public Policy, and the Politics of Expertise, Cambridge, Cambridge University Press, 2004; A. Salas-Porras e G. Murray (a cura di), Think Tanks and Global Politics. Key Spaces in the Structure of Power, New York, Palgrave Macmillan, 2016. 217   La formula è di E. Neveu, Sociologie politique des problèmes publics, Paris, Colin, 2015, p. 56.

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Stato e che è rivolta a privarlo della sua arma più potente: vuole indurre gli esseri umani a pensare il mondo senza di esso. Il mercato è sempre stato un’istituzione di governo della vita collettiva. Lo è stato in concorrenza, ma anche ibridandosi con lo Stato. Una grande partita di potere è in corso per sincronizzare i rispettivi meccanismi di funzionamento e, anzi, per omologarli. Ne è parte di rilievo l’invasione delle scienze sociali da parte della scienza economica218, unitamente alla contaminazione dei linguaggi: l’invasione della politica e dell’azione di governo da parte del linguaggio dell’economia, la nuova scienza sociale totale. Termini come governance, empowerment, capitale sociale, accountability, sostenibilità, disintermediazione, crediti, transitati dal linguaggio dell’economia a quello della politica, ne danno testimonianza219. Quella contro lo Stato è sopra ogni cosa un’offensiva simbolica. Un altro indicatore è la pratica di revolving doors tra pubblico e privato, tra politica, imprese, istituzioni finanziarie, lobbies, attività di consulenza, mass media e quant’altro220, dove liberamente si convertono capitali d’ogni sorta. Lo si chiama talvolta crony capitalism. È il capitalismo politico di Randall G. Holcombe, che lo identifica con il «favoritismo, corporativismo, clientelismo»221. Utilizzando il concetto di élite, Holcombe denuncia le pervasive complicità tra le élites del capitalismo e quelle della politica: le une a caccia di regole ed espedienti utili a volgere a proprio vantaggio la libera concorrenza, le altre interessate a salvaguardare la propria condizione di privilegio. Per Wolfgang Streeck, che ha il raro merito di non sterilizzare 218   Di questa invasione R. Marchionatti e M. Cedrini, Economics as Social Science. Economics Imperialism and the Challenge of Interdisciplinarity, Abingdon, Routledge, 2017. 219   Anche se già superato, molti termini della neolingua sono illustrati in M. Bevir (a cura di), Encyclopaedia of Governance, cit. Meno accademico è E. Hazan, La propagande du quotidien, Paris, Raisons d’agir, 2006. Una riflessione sulla neolingua e sulla sua «magica» capacità di dettare le agende di ricerca delle scienze sociali in C. Pollitt e P. Hupe, Talking About Government, in «Public Management Review», 5, XIII, 2011, pp. 641-658. 220  J. Kane, Life After Political Death: The Fate of Leaders After Leaving High Office, in J. Keane, H. Patapan e P. ‘t Hart (a cura di), Dispersed Democratic Leadership. Origins, Dynamics, and Implications, Oxford, Oxford University Press, 2009. 221   R.G. Holcombe, Political Capitalism, cit., pp. X e 44-60.

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il suo linguaggio, si tratta semplicemente di oligarchia e di corruzione sistemica222. Avendo fatto parecchia ricerca sul tema, Pierre Lascoumes ha attribuito alle élites politiche ed economiche una peculiare «economia morale», ovvero un insieme di credenze collettive che le autorizza a ritenersi diverse dai comuni mortali223. Esisterebbero, due sistemi morali: uno per i piani alti e l’altro per i piani bassi della società. Secondo Holcombe, sarebbe un capitalismo inedito, che lui vorrebbe curare con meno Stato. In realtà, fin dalle origini dello Stato-racket i ceti abbienti e gli interessi privati hanno condizionato le autorità pubbliche, che li hanno sempre trattati con più riguardo di chiunque altro. Ma potrebbe essere avvenuto un salto evolutivo. Quanti esercitavano il monopolio statale – le burocrazie pubbliche e le dirigenze elettive – avevano a lungo salvaguardato dei margini di autonomia. Gli stessi marxisti hanno alfine riconosciuto come lo Stato non potesse permettersi di essere il comitato d’affari della borghesia. Secondo Poulantzas, non poteva perché il suo compito era tenere assieme la società capitalistica224. Da ultimo, però, l’ibridazione tra gli addetti allo Stato e gli addetti al mercato è divenuta più intima e stringente225. Finito il tempo dell’intervento pubblico e dell’economia «mista», non solo le élites circolano liberamente, ma le regole sono scritte spesso congiuntamente, il diritto pubblico s’inchina al diritto privato, ovvero agli accordi tra le parti, i criteri premiali in vigore nella sfera privata hanno nidificato entro l’autorità pubblica. Eppure, a dispetto di tanti impedimenti, restrizioni, opposizioni e della sua decostruzione simbolica e organizzativa, lo Stato persevera a fare lo Stato. La sua ibridazione con il mercato si è rinnovata: lo vincola più che in passato. Ma, pur con qualche fatica, lo Stato rimane tuttora, simbolicamente e materialmente, 222   W. Streeck, Come finirà il capitalismo? Anatomia di un sistema in crisi (2016), Milano, Meltemi, 2020, pp. 42-52. 223   P. Lascoumes, L’économie morale des élites dirigeantes, Paris, Presses de SciencesPo, 2022, p. 8. Il concetto di economia morale è stato elaborato da E.P. Thompson, L’economia morale delle classi popolari inglesi del secolo XVIII (1963), Milano, Et al., 2009. 224   Per esempio, N. Poulantzas, Potere politico e classi sociali (1968), Roma, Editori Riuniti, 1971. 225   Uno studio di caso in A. Vauchez e P. France, The Neoliberal Republic. Corporate Lawyers, Statecraft, and the Making of Public-Private France, Ithaca-London, Cornell University Press, 2020.

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il locus fondamentale dell’ordine e dell’interesse generale. Per quanto logore, le sue immagini maestose, i suoi riti solenni, le grandi narrazioni ufficiali, suscitano ancora attenzione. Ad espropriarlo – con sua piena consapevolezza – oltre al mercato e alle istituzioni sovranazionali, sono state le istituzioni locali di governo e la società civile. Ma lo Stato ha lunga esperienza di reinvenzioni, che dipendono dalle fazioni che l’amministrano e che se lo contendono. Per chi ne dubitasse, l’ha confermato la vicenda del Covid-19. Dopo qualche decennio di riforme orientate al laissez-faire, si è dimostrato la più efficace agenzia di protezione e assicurazione collettiva. Sono i parlamenti e i governi che hanno rivoluzionato le relazioni industriali, che hanno consentito le rilocalizzazioni produttive, revocato le politiche di piena occupazione, rimosso le protezioni accordate al mondo del lavoro e hanno promosso la crescita tramite le esportazioni. In conformità alle attese del mercato, è grazie allo Stato che popolazione e territorio sono divenuti beni da mettere a reddito. Né la finanziarizzazione, né l’internazionalizzazione dell’economia sarebbero state possibili in sua assenza226. Le stesse autorità non statali hanno bisogno di qualche riconoscimento da parte dello Stato per operare227. Tuttora le istituzioni pubbliche costituiscono un attore economico di prima grandezza. È lo Stato che presta la sua garanzia per il debito beffardamente definito «sovrano» e che si adopera per onorarlo. La spesa pubblica resta un motore troppo potente perché il mercato vi rinunci. Dopo la grande ondata di deregulation, marketization, commodification, oscilla ancora tra il 40 e il 50 per cento del Pil228. È sempre lo Stato che modula la fiscalità, in concorrenza con gli altri Stati. 226  Sulla finanziarizzazione L. Gallino, Finanzcapitalismo: la civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2011. Inoltre, M.R. Ferrarese, Promesse mancate. Dove ci ha portato il capitalismo finanziario, Bologna, Il Mulino, 2017. 227   P. Genschel e B. Zangl, The Rise of Non-State Authority and the Reconfiguration of the State, in D.S. King e P. Le Galés (a cura di), Reconfiguring European States in Crisis, Oxford, Oxford University Press, 2017. Secondo i due autori le organizzazioni internazionali dettano regole, ma difettano di capacità operative, per contro gli attori privati transnazionali hanno capacità operative, ma la legittimità delle regole secondo cui operano deve essere in ultima istanza confermata dagli Stati. 228   D.S. King e P. Le Galés, A Reconfigured State: European Policy States in a Globalizing World, in Idd., Reconfiguring European States in Crisis, cit., pp. 7-8.

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Basta una rapida ricognizione comparativa per scoprire come gli Stati dispongano di margini, stretti, ma non strettissimi, per inasprire o alleviare l’imposizione, per concentrarla o distribuirla su redditi da lavoro, patrimoni, profitti, consumi, per privilegiare o penalizzare alcune categorie sociali, per offrire condizioni di favore alle imprese affinché trasferiscano le loro attività produttive o finanziarie sul loro territorio. Anche quando lascia gli addetti al capitalismo più liberi di agire, lo Stato ha non poche possibilità di condurre una politica: per il territorio, per l’ambiente, per l’istruzione, per la salute pubblica. Ne conduce una anche per l’industria: gli aiuti che direttamente e indirettamente lo Stato e i governi locali forniscono alle imprese sono enormi, diretti, ma pure sotto forma di benefici fiscali, di condizioni creditizie, d’interventi infrastrutturali, di attività di ricerca, di ammortizzatori sociali e ancora. Varrebbe la pena farne il conto e confrontarli con i profitti. Sono le fazioni in carica dello Stato che hanno deciso la privatizzazione di larghe porzioni dei pubblici servizi: credito, sanità, assistenza, trasporti, energia, telecomunicazioni, istruzione, ricerca, patrimonio artistico e culturale, ordine pubblico. Da esse il capitalismo occidentale, in decadenza nella sua dimensione industriale, ha ricavato nuove opportunità d’investimento, solitamente a basso rischio e di sicura redditività. In occasione della Grande crisi finanziaria del 2008 provocata dai crediti subprime, è ancora lo Stato che ha soccorso le grandi istituzioni bancarie: too big to fail. C’è ancora bisogno dello Stato per governare l’istruzione. La scuola liberale ottocentesca intendeva formare i cittadini, per ricomporre l’eterogeneità della popolazione e renderla deferente verso l’autorità. Lo Stato sociale voleva elevare il livello culturale della popolazione per ridurre le disuguaglianze e stimolare la mobilità sociale. Da ultimo, è lo Stato che ha accettato di rimercificare l’istruzione, come pure la ricerca229, in parte privatizzandole e comunque per metterle a disposizione del mercato e omologarle a esso. È un destino comune agli 229  M. Florio, La privatizzazione della conoscenza: tre proposte contro i nuovi oligopoli, Roma-Bari, Laterza, 2021. Più in generale, cfr. A. Palumbo, Knowledge as a Fictitious Commodity: A Polanyian Reading of the «Digital Economy», in «International Journal of Political Theory», 1, IV, 2020, pp. 1-23.

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addetti alle istituzioni pubbliche230: la responsabilità educativa degli insegnanti si è convertita in disponibilità verso gli utenti e in progressioni di carriera da monetizzare. Compito della scuola è incrementare il capitale umano e, a questo scopo, gli istituti scolastici sono tra loro in concorrenza e le attività formative si misurano e certificano in «crediti». Sono stati rivisti i programmi d’insegnamento in funzione del mercato del lavoro, esaltando principi come merito, competitività, spirito imprenditoriale231. Si cancellano la storia e la geografia e s’ingiunge di parlare su scala planetaria la medesima lingua, l’inglese, a discapito dell’assortimento e della ricchezza di significati – e opportunità d’espressione e di pensiero – che ogni lingua porta seco. E infine lo Stato seguita ad apporre il suo suggello definitivo: il rilascio e il riconoscimento dei diplomi. Lo Stato interventista redistribuiva. Le dottrine neoliberali prescrivono uno Stato «regolatore»232. Non per questo meno occupato: non eroga servizi, ma incentiva, indirizza, mobilita risorse, controlla il rispetto delle regole e, senza dirlo, redistribuisce anch’esso, ma dal basso verso l’alto. Lo Stato, che dal secondo dopoguerra aveva integrato il principio di libertà con quello di uguaglianza, si è riconvertito alla cura degli individui: a tutti vanno offerte uguali possibilità di competere. Ha anche aggiornato in omaggio al mercato, che coordina anziché comandare, i suoi «strumenti di governo»233. I più recenti sono fondati sull’accordo, l’informazione, la comunicazione. La norma che sovrasta è un’anticaglia, trasformata in opportunità, che ciascuno coglie come meglio gli conviene e meglio gli riesce. Sono preferite le dichiarazioni di principio, i codici di condotta, la light touch regulation. Ma lo Stato rende disponibile anche una mole consistente di risorse, offerte a titolo di incentivi,   F. Dubet, La préférence pour l’inégalité, cit., pp. 65-67.   Sugli effetti della commodification of education, cfr. G. Standing, The Precariat. The New Dangerous Class, London, Bloomsbury, 2011, pp. 67-73. 232   A. La Spina e G. Majone, Lo Stato regolatore, Bologna, Il Mulino, 2000. 233  P. Lascoumes, Gouverner par les instruments, in J. Lagroye (a cura di), La politisation, Paris, Belin, 2003, pp. 387-401 e ancora: P. Lascoumes e P. Le Galès (a cura di), Gouverner par les instruments, Paris, Presses de SciencesPo, 2005; C. Halpern, P. Lascoumes e P. Le Galès (a cura di), L’instrumentation de l’action publique: controverses, résistances, effets, Paris, Presses de SciencesPo, 2014. 230 231

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o messe a bando – si governa anche «per concorso»234 – in funzione dei progetti predisposti, e co-finanziati, da attori privati e pubblici. Trattative, scambi, compromessi, bricolages, hanno sempre fatto parte dell’azione di governo, ma sono divenuti la regola ufficiale: è un continuo patteggiare con i privati per adottare e implementare specifiche scelte di policy, per condurre i servizi, per amministrare il territorio. Scavalcati l’esecutivo, le istituzioni rappresentative e l’azione amministrativa, si chiama governance una tecnica di governo condotta da luoghi intermedi e fondata sul principio del coordinamento negoziato tra attori pubblici e privati235. La retorica del dialogo e del partenariato è opposta a quella dell’autorità, del conflitto e della politica partisan. Specie le policies dedicate al territorio, sono ufficialmente negoziate tra autorità pubbliche, organizzazioni imprenditoriali, sindacati, società civile e stakeholders d’ogni genere236. Lo Stato incoraggia, autorizza e alla bisogna provvede a rammendare. Le ambizioni omologatrici del mercato non hanno fatto grazia nemmeno alle pubbliche amministrazioni. I principi weberiani – gerarchia, rispetto delle procedure, competenza accertata per concorso, ethos del servizio pubblico, neutralità politica – erano le armi con cui le fazioni dei funzionari pubblici avevano progressivamente costituito il loro potere e l’avevano più tardi salvaguardato dalle dirigenze elettive. Le accuse di lentezza, inefficienza, opacità, attaccamento strumentale alle procedure, autodifesa corporativa, sono antiche. Lo smisurato accrescimento delle burocrazie pubbliche al tempo dello Stato sociale ha aggravato gli inconvenienti. Ma non è vero che le burocrazie fossero assolutamente autoreferenziali. Hanno accumulato grandi competenze e capacità tecniche per affrontare i problemi della vita collettiva. Se usavano le procedure per difendersi, spesse volte si mostravano sensibili alle pressioni 234   Ad esempio, G. Pinson, Voracious Cities and Obstructing States?, in S. Oosterlynck, L. Beeckmans, D. Bassens, B. Derudder e B. Segaert (a cura di), The City as a Global Political Actor, London, Routledge, 2018, pp. 75-76. 235  Vedi supra nt. 101. 236   Per un’interpretazione generale, cfr. J.P. Gaudin, Gouverner par contrat. L’action publique en question, Paris, Presses de SciencesPo, 1999; nonché L. Bobbio, Produzione di politiche a mezzo di contratti nella pubblica amministrazione italiana, in «Stato e mercato», 1, XX, 2000, pp. 111-141.

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della politica elettiva, che sfruttava il potenziale elettorale dei pubblici dipendenti e utilizzava l’impiego pubblico per sostenere l’occupazione. Il market turn ha creato condizioni per disfare ogni vincolo. È stata inventata ad hoc una nuova dottrina, o un insieme di dottrine, e addirittura un movimento, non privo di tensioni interne e in continuo aggiornamento: il New Public Management. Andrebbe studiato nei corsi di teoria politica. Perché, pur articolato in diversi filoni, è anche una compiuta e ambiziosa teoria dello Stato e de optima re publica, che ha ispirato un imponente flusso di riforme. Con la promessa dell’efficienza e dell’economicità il principio dell’interesse privato è stato reintrodotto entro la sfera del servizio pubblico da cui era stato estromesso dacché era stata abolita la venalità degli uffici237. Alle autorità di governo compete la selezione del management, l’indicazione degli obiettivi, l’attribuzione del budget e, tramite procedure apposite, la valutazione dei risultati. Nei fatti intervengono criteri fiduciari – cioè politici – nel reclutamento del management, che spesso proviene dal settore privato, eludendo la regola aurea del concorso: il New Public Management ha importato dall’America lo spoils system. Al contempo, una volta contrattualizzati i rapporti d’impiego, le retribuzioni sono divenute competitive con quelle del settore privato, commisurate ai risultati conseguiti, tra cui rientra la riduzione dei costi, oltre che accompagnate da sostanziosi premi di rendimento. Va da sé che ai managers conviene trovare le condizioni lavorative e retributive più vantaggiose, eventualmente nel settore privato. A chi saranno più leali? Al settore pubblico entro cui operano, alle dirigenze politiche che li nominano, confermano, premiano, 237   Sulle origini del Npm, G. Gruening, Origin and Theoretical Basis of New Public Management, in «International Public Management Journal», 1, IV, 2001, pp. 1-25. Una presentazione generale del movimento e dell’applicazione delle sue idee in P. Bezes, Exploring the Legacies of New Public Management in Europe, in E. Ongaro e S. van Thiel (a cura di), The Palgrave Handbook of Public Administration and Management in Europe, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2018. Dello stesso autore The Neo-Managerial Turn of Bureaucratic States: More Steering, More Devolution, in D. King e P. Le Galès (a cura di), Reconfiguring European States in Crisis, Oxford, Oxford University Press, 2017. Cfr. anche C. Pollitt e G. Bouckaert, Public Management Reform. A Comparative Analysis. New Public Management, Governance, and the NeoWeberian State, New York, Oxford University Press, 2011.

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o avranno più attenzione al privato, donde magari provengono e dove potrebbero tornare, o ancora terranno d’occhio amministrazioni pubbliche interessate ad accoglierli a condizioni più favorevoli? Con quali conseguenze per la qualità dei servizi e per la «terzietà» dello Stato?238 Nel New Public Management si possono identificare alcuni principi fondamentali239. Oltre all’autonomizzazione e responsabilizzazione del management, strategia, gestione e controllo sono separati dalle funzioni d’implementazione ed esecuzione. Le pubbliche amministrazioni vanno disarticolate in una costellazione di strutture – la si chiama agencification – che, affrancate dai vincoli del diritto amministrativo tradizionale, sono rette da principi privatistici e concorrono a rimercificare i servizi che lo Stato non ha potuto alienare. Attori pubblici e privati sono infine messi in concorrenza per erogare i servizi. Mutuata dalle imprese private, la cosiddetta «pianificazione strategica» è correntemente esternalizzata a imprese private multinazionali di consulenza, con cui i governi stipulano redditizi contratti. Il New Public Management si è anche segnalato per la promessa di alleggerire le procedure. Salvo offrire un’occasione paradossale di rivincita alla gabbia d’acciaio weberiana. Laddove non sia possibile istituire un regime di concorrenza, si prova a simularla, adottando specifiche tecniche di quantificazione, misurazione e valutazione. L’informatica ha consentito l’implacabile uniformazione high-modernist dei codici a barre, che accomunano esseri viventi e cose inanimate. Tutto è misurabile e misurato e la quantità si fa qualità: per l’attività di funzionari, magistrati, forze dell’ordine, insegnanti, ricercatori, studenti, medici, imprese, artigiani, coltivatori, allevatori, commercianti240. Tutti assediati dalla post-burocrazia di moduli, certificazioni, rendicontazioni, valutazioni d’impatto, risultati attesi, indicatori di performance, statistiche, standard, benchmark, audit, in buona parte affidata a imprese private. Non 238  Sugli inconvenienti provocati dal decadimento della professionalità weberiana cfr. E.N. Suleiman, Dismantling Democratic States, Princeton, Princeton University Press, 2003. 239   P. Bezes, Exploring the Legacies..., cit. 240   Sull’applicazione del Npm all’istruzione cfr. A. Palumbo e A. Scott, Remaking Market Society: A Critique of Social Theory and Political Economy in Neoliberal Times, New York, Routledge, 2018, pp. 108-139.

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sono esentati i cittadini: sottoposti a un’estesissima azione di sorveglianza, a loro è addossata una quota dei costi dei servizi: assillandoli con una mole crescente di adempimenti, dichiarazioni, certificazioni, autorizzazioni, quando non s’imbattono nei labirinti di un risponditore automatico interattivo. Anche questi sono modi per risparmiare e tecniche di governo241. Ciò malgrado, la domanda di Stato non decade. Ed è a ben vedere elevata anche l’offerta. C’è finanche lo «Stato moralizzatore», che vieta il fumo, contrasta l’obesità, proibisce o prescrive simboli religiosi, persegue il negazionismo e le nostalgie fasciste, presidia la frontiera che separa la vita dalla morte: chissà che in questo modo non gli riesca di rinverdire la sua legittimità242. Con qualche altro paradosso, come la convivenza tra lo Stato che riconosce pubblicamente il gioco d’azzardo e che grazie a esso finanzia il restauro di monumenti e opere d’arte. Si è anche rafforzata l’azione coercitiva. La proprietà privata va tutelata e l’ordine pubblico va mantenuto: alcuni servizi di sicurezza, a volte anche le carceri, sono stati privatizzati. Ma occorrono ancora norme dettate dallo Stato per identificare i reati, perseguirli e sanzionarli. Lo Stato è l’unica istituzione che possa legittimamente restringere le libertà personali. L’estrema rivalsa dello Stato è la reviviscenza dell’armamentario simbolico della nazione. Le cui immagini si erano appannate nel secondo dopoguerra. La nazione però è «endemica»: è stata oggetto di continua manutenzione, anche non visibile, e gli individui naturaliter vi si pensano e situano243. Da qualche tempo, si è tornati a eccitare il sentimento nazionale. La maggior novità nelle contese politico-elettorali di fine millennio sono i partiti di estrema destra, denominati populisti, che hanno buttato benzina sulla fiamma che languiva dell’identità nazionale ed etnica e hanno contagiato le altre parti politiche: curiosamente al loro nazionalismo si è dato il nome di sovranismo244.   B. Hibou, La bureaucratisation du monde à l’ère néolibérale, cit.   C. Groulier (a cura di), L’État moralisateur: regards interdisciplinaires sur les liens contemporains entre la morale et l’action publique, Paris, Mare & Martin, 2014. 243   M. Billig, Nazionalismo banale (1995), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015. 244   Fuori d’Italia ha più fortuna l’espressione nativismo: cfr. H.-G. Betz, Facets of Nativism: A Heuristic Exploration, in «Patterns of Prejudice», 2, LIII, 2019, pp. 111-135. 241 242

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I tempi si prestano. Politica ed economia sono interdipendenti. In tempi di crisi economica, il nazionalismo è un buon diversivo. La Russia ci prova da un ventennio. L’aggressione perpetrata contro l’Ucraina, la guerra sulla porta di casa, hanno alimentato anche in Occidente un nazionalismo di ritorno. Anche entro le democrazie d’Occidente il nazionalismo potrebbe divenire un diversivo per destreggiarsi tra le sfide del pluralismo e della decadenza economica. E un modo per riscoprire lo Stato militare. Non mancano altri buoni motivi: la catastrofe climatica, le epidemie, il ritorno del protezionismo, i flussi migratori245. Tutto è parte del gioco. Se lo Stato è cambiato parecchio a cavallo dei due millenni, l’ultimo cambiamento è coerente con quanto succede da secoli. È cambiato il mix di fazioni che lo conducono, insieme ai suoi rapporti con il mercato e i suoi addetti. Si sono aggiornati anche i suoi critici e i suoi oppositori. Molte opposizioni si sono frammentate, clandestinizzate e indebolite. I caotici flussi migratori verso l’Occidente sono anch’essi una forma molto insidiosa di ribellione. Innumerevoli vittime mietono la guerra, il terrorismo, l’insicurezza, la desertificazione, la carestia, il land grabbing. Le vittime, quando possono, si ribellano ed esportano le loro sofferenze. E il disordine rimbalza verso l’emisfero settentrionale, ove assume le minacciose fattezze del nazionalismo reazionario. Il disordine potrebbe essere pure scappato di mano a chi al momento impone la propria idea di ordine, che si è forse convinto di poter governare il disordine tramite il disordine. Non si sa. Le esperienze del passato inducono comunque a pensare che lo Stato è sempre in costruzione e che nuovi cambiamenti sono promessi. Non sappiamo quali, come e quando, e non è nemmeno escluso che s’instauri un altro ordine, sempre parziale e precario, ma più generoso di quello attuale verso la gran parte dei sottoposti allo Stato. Non è neanche scritto che lo Stato duri all’infinito246. Uno dei suoi motivi di successo è la difficoltà di pensare un mondo senza Stato. Ma giunge sempre il momento in cui si pensa l’impensabile. 245   P. Gerbaudo, Controllare e proteggere. Il ritorno dello Stato, Milano, Nottetempo, 2022. 246   Secondo M. Savage, l’imponente incremento delle disuguaglianze sta conducendo a una regressione dagli Stati agli imperi: cfr. The Return of Inequality. Social Change and the Weight of the Past, Cambridge, Harvard University Press, 2021.

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capitolo secondo

RAPPRESENTANZA

1. Due teorie sulla rappresentanza Il 5 maggio 1789 a Versailles, al cospetto di Luigi XVI e Maria Antonietta, nella sala dei Tre ordini, ebbe luogo la prima solenne riunione degli Stati generali. Come non avveniva dal lontano 1614, la Francia si rappresentava al suo sovrano e a se stessa. Schierati in tre spazi diversi c’erano il clero, l’aristocrazia e il Terzo stato. Erano tre corpi intermedi, riconosciuti come costitutivi del regno, che l’autorità regia, giunte allo stremo le pubbliche finanze, aveva convocato per decidere dei destini del paese. La prima convocazione degli Stati generali risaliva al 1302. Messi a tacere, senza abolirli, avevano seguitato a riunirsi gli Stati provinciali. È la conferma di come il monopolio statale fosse stato istituito dalla monarchia al prezzo di una complicata sequenza di conflitti e transazioni, volti a governare la resistenza delle altre autorità insistenti sul territorio. Molte furono soppresse. A quelle che non fu possibile sopprimere fu data voce. Tramite la rappresentanza «per ceti»1, il sovrano raggruppava, semplificava, riordinava, regolava il disordine dei poteri feudali, ecclesiastici, cittadini. Era una tecnica di dominio fondata sull’inclusione2: in virtù della quale ascoltava le esigenze dei propri sudditi, mediava i conflitti con loro e tra loro e otteneva «consiglio e aiuto». L’aiuto aveva carattere eminentemente fiscale: per estrarre risorse dai propri sottoposti, 1   Sui ceti è classico O. Hintze, Tipologia delle costituzioni cetuali in occidente (1929), trad. it. nella raccolta curata da G. D’Agostino, Le istituzioni parlamentari nell’Ancien Régime, Napoli, Guida, 1980. 2   Sulla vocazione inclusiva della rappresentanza S. Hayat, La représentation inclusive, in «Raisons politiques», 50, 2013, pp. 115-135.

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il sovrano doveva negoziare, riconoscendoli tacitamente come titolari di una quota di potere. Forti abbastanza da poterne fare a meno, i sovrani francesi avevano cessato di convocare gli Stati generali. Li convocarono nuovamente quando la crisi della monarchia divenne gravissima e già in Inghilterra e in America era stata inventata la rappresentanza politica moderna. In Inghilterra qualche parvenza d’incrostazioni feudali ha resistito. Alcune durano ancora. In Francia l’aggiornamento fu netto. Cancellati i ceti, la rappresentanza politica avrebbe d’ora in poi rappresentato un corpo collettivo unitario: il popolo o la nazione. È ovvio che chi aveva in mente l’autogoverno rimase deluso. La critica più nota e corrosiva della rappresentanza politica è quella formulata da Rousseau guardando proprio all’Inghilterra: «il popolo inglese, sentenziava, ritiene di esser libero: si sbaglia di molto; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento. Appena questi sono eletti, esso è schiavo, non è nulla»3. La pratica della rappresentanza politica non ha sofferto più di tanto per una simile critica. Solo episodicamente gli alfieri di altre tecniche di governo hanno trovato qualche seguito. Non è rimasta mai disarmata nemmeno la sua teoria, che possiamo definire classica. Forte per prima cosa degli ostacoli pratici che si oppongono alla piena attuazione della sovranità popolare: in una società minimamente complessa, è inevitabile che una minoranza governi e i più siano governati. La teoria classica non fa neanche fatica ad ammettere che le elezioni sono una manifestazione di volontà e di potere assai modesta e che gli elettori esprimono unicamente un mandato molto vago: tracciano un segno – o scrivono un nome – sulla scheda elettorale. D’altra parte, dal punto di vista del governo della vita collettiva, non mancano gli argomenti: quali sono le conoscenze e le opinioni dell’elettore medio sull’andamento della cosa pubblica? Anche il più informato e istruito potrà mai abbracciare la totalità dei temi trattati dall’azione di rappresentanza e di governo? Chi è in grado di conoscere i vantaggi, i costi e le implicazioni, anche di lungo periodo, di una scelta di policy o di un’altra? Sono in imbarazzo i governanti, figurarsi gli elettori. 3   J.-J. Rousseau, Il contratto sociale (1762), III, Milano, Rizzoli, 1974, 15. Ma pure Tocqueville giungeva a conclusioni analoghe: cfr. La democrazia in America, t. II, Torino, Utet, 1968, p. 813.

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E com’è invece possibile attribuire a una sommatoria di gesti individuali, sorretti da preferenze eterogenee e di varia intensità, la portata di una volontà collettiva?4 La rappresentanza, conclude un autorevole esponente della teoria classica come Hans Kelsen5, è una «finzione». La quale, tuttavia, non manca di pregi. Per Hannah F. Pitkin, cui dobbiamo il contributo analitico forse più pregevole apparso nella seconda metà del Novecento, la rappresentanza è congegnata in modo tale da sollecitare i rappresentanti ad «agire nell’interesse dei rappresentati in un modo che sia reattivo (sensibile) nei loro confronti»6. Per rappresentanti e rappresentati le consultazioni elettorali sono un’occasione di ascolto reciproco e concedono perfino ai secondi una dose, minima, ma non disprezzabile, di autogoverno7. Non solo: la contesa per la rappresentanza aiuta a risolvere pure i conflitti tra le molteplici componenti del pluralismo e concorre a depotenziare eventuali collisioni. Tradurre le diversità politiche, territoriali, sociali, religiose, linguistiche nel linguaggio della rappresentanza è un contributo alla pacificazione delle contese di potere tra loro. Se le attese degli elettori e i diversi valori e interessi irrompessero per come sono nella sfera politica, ogni sintesi sarebbe preclusa8. Infine: le elezioni sono pure un grande rito entro cui i cittadini si ritrovano insieme: sebbene da qualche tempo il rito appaia alquanto stanco, anche la stanchezza significa qualcosa. 4   Si sono dedicati a smentire puntualmente e sulla base di dati di ricerca ogni illusione sulla competenza degli elettori C.H. Achen e L.M. Bartels, in Democracy for Realists. Why Elections Do Not Produce Responsible Government, Princeton N.J., Princeton University Press, 2017. Utilizza altro genere di dati D. Gaxie, Cognitions, auto-habilitation et pouvoirs des «citoyens», in «Revue française de science politique», 6, LVII, 2007, pp. 737-757. 5   Così H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, in Id., I fondamenti della democrazia e altri saggi, Bologna, Il Mulino, 1970, pp. 22-23. 6   H.F. Pitkin, Il concetto di rappresentanza (1967), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017, p. 309. Con la parola «reattivo» si traduce l’inglese responsive. Da ultimo sul libro di Pitkin cfr. A. Campati, Democrazia e rappresentanza politica. Un’alleanza sempre più incerta?, in «Teoria politica», Annali VIII, 2018, pp. 385-400. 7   N. Urbinati. Representative Democracy Principles and Genealogy, Chicago, The University of Chicago Press, 2006, p. 45: sarebbe una delle due funzioni fondamentali della rappresentanza, l’altra è resistere all’esclusione. 8  G. Sartori, Democrazia e definizioni, Bologna, Il Mulino, 1958, pp. 159-160.

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Di persuadere i critici radicali, ovviamente, non c’è verso. Ma la teoria classica ha il limite di non chiarire appieno in che modo la rappresentanza si costituisca e come in concreto funzioni il rapporto tra rappresentato e rappresentante. È un interrogativo cui prova a dare risposta la teoria costruttivista della rappresentanza9, cui ha offerto di recente un importante contributo Michael Saward10. Assumendo il punto di vista dei critici, Saward nega l’idea di un mandato che procede dal basso verso l’alto e mette al suo posto un representative claim: ovvero una rivendicazione avanzata pubblicamente da parte di qualcuno di parlare per conto di qualcun altro. È il pretendente alla rappresentanza che costituisce il rappresentato. A maggior ragione quando il rappresentato è un corpo collettivo. L’argomento si ritrova già in Hobbes, quando attribuisce al sovrano un ruolo di rappresentanza11. Saward ripropone, approfondisce e osserva un più realistico moto discendente. È un moto che si svolge pubblicamente: è entro la contesa pacifica per la rappresentanza, avviata dai moderni regimi rappresentativi, che i claims assumono consistenza. L’aspetto democraticamente scomodo sta nella selettività dell’offerta di claims. Contro cittadini, strati, gruppi, temi, che trovano un portavoce, ve ne sono che non ne trovano. La sfida dal punto di vista normativo è mettere tutti i rappresentati potenziali in condizione di farsi valere. L’idea della rappresentanza come offerta, anziché come domanda, e come relazione che si stabilisce dall’alto verso il basso, è palesemente elitista. E infatti l’avevano anticipata anche due elitisti – e conservatori senza tentennamenti – come Gaetano Mosca e Joseph A. Schumpeter. A fine Ottocento, l’idea di Mosca era racchiusa in questa frase: «Chiunque abbia assistito ad una elezione sa benissimo che non sono gli elettori che eleggono il Deputato, ma ordinariamente è il Deputato che si fa eleggere dagli elettori»12. Mezzo secolo dopo, Schumpeter 9   Sull’approccio costruttivista cfr. V. Dutoya e S. Hayat, Prétendre représenter. La construction sociale de la représentation politique, in «Revue française de science politique», 1, LXVI, 2016, pp. 7-25. 10  M. Saward, The Representative Claim, Oxford, Oxford University Press, 2010. 11   T. Hobbes, Il Leviatano, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 144-145. 12   G. Mosca, Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare. Studii storici e sociali, Palermo, Loescher, 1884, p. 295.

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riterrà insensato pensare che gli elettori possano avere qualche volontà ed esprimerla. Tanto meno esistono «autentiche» volizioni di gruppo: «anche forti e definite, rimangono latenti, spesso per decenni, finché qualche leader le rende attuali, trasformandole in strumenti di azione politica»13. Tra i contributi recenti alla sociologia costruttivista della rappresentanza è altresì da annoverare quello di Pierre Bourdieu, che pertanto si schiera tra i critici radicali della rappresentanza14. La rivendicazione di rappresentanza fa per lui tutt’uno con un’attività d’imposizione e di dominio. Non c’è rappresentato che preceda il rappresentante, né esiste volontà collettiva che non sia messa in forma e costituita dalla rappresentanza. Sono i pretendenti alla rappresentanza che a un tempo si costituiscono quali rappresentanti e che attribuiscono – o impongono – ai rappresentati, da essi denominati e costituiti in corpo collettivo, una qualche volontà, a iniziare dal proprio riconoscimento come rappresentanti. È un’operazione che non si restringe all’azione performativa svolta dalla rivendicazione pubblica, ma che richiede altri atti, non linguistici, ma anche organizzativi e non solo. La revisione costruttivista – e sociologica – estende l’applicabilità del termine e del concetto oltre i confini della sfera politica. È una prospettiva per la quale la vita collettiva è affollata di portavoce, che parlano in nome di qualcun altro. Bourdieu cita tra gli altri la Chiesa15. Avviata da uno dei tanti movimenti religiosi apparsi nel primo secolo, è una straordinaria intrapresa entro cui una macchina organizzativa e un corpo di addetti radunano il popolo dei fedeli tramite idee, simboli, disegni di salvezza e ne assumono la rappresentanza per farsi spazio entro la vita collettiva. Tutto fuorché una finzione. Non troppo diversamente hanno 13   J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, Milano, Comunità, 1954, p. 258. Non troppo diversamente un altro studioso proveniente dall’America E.E. Schattschneider parlava di «mobilitazione del pregiudizio»: cfr. The Semi-Sovereign People, New York, Holt, Rinehart & Winston, 1960, p. 71. 14   P. Bourdieu, La représentation politique e Délégation et fétichisme politique, in Id., Langage et pouvoir symbolique, Paris, Fayard, 2001. 15   P. Bourdieu, Délégation et fétichisme politique, cit. Bourdieu cita anche le classi sociali: cfr. Espace social et genèse des classes, in Id., Langage et pouvoir symbolique, cit. Una ricostruzione minuziosa della costruzione di un gruppo sociale attraverso una sedimentazione di attività di rappresentazione e di rappresentanza in L. Boltanski, Les cadres. La formation d’un groupe social, Paris, Minuit, 1982.

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operato gli addetti allo Stato. I quali, tracciandone i confini, si sono costituiti come portavoce della popolazione racchiusa entro di essi, adoperandosi del pari tramite la lingua, la scuola, la coscrizione e, ovviamente, le istituzioni della rappresentanza, a farne un corpo collettivo, la nazione, dotato di una sua soggettività. La rappresentanza politica elettiva è così una species di un genus più ampio. Di cui i moderni regimi rappresentativi si sono appropriati, dando la stura a una lunga sequenza di azioni rivendicative e costitutive: condotte entro le istituzioni definite rappresentative e al di fuori di esse. In questo modo la rappresentanza è diventata la posta fondamentale della contesa per il monopolio statale: quella che consente di accedere alle cariche in cui si deposita simbolicamente la volontà popolare. Le fazioni che si contendono pacificamente il monopolio, vuoi che condividano l’ordine sociale esistente, vuoi che intendano rinnovarlo, sono sospinte a lottare per la rappresentanza avanzando rivendicazioni in concorrenza. Il compito dei pretendenti alla rappresentanza non è mai stato agevole. Non lo era per i notabili, che pure, grazie alla ristrettezza del suffragio, intrattenevano col loro seguito una relazione ravvicinata: forti della dotazione di autorità sociale e di relazioni personali di cui disponevano, bastava loro un bricolage artigianale, ma pur sempre laborioso. La contesa si è animata via via, in corrispondenza con le estensioni del suffragio, che allungavano la distanza tra pretendenti ed elettori. Sorgeranno allora vere e proprie «imprese» di rappresentanza: vale a dire i partiti. I quali, per raggruppare su scala ben più vasta il proprio seguito, si sono avvalsi delle tecniche di comunicazione disponibili sul momento: la stampa da una parte, le ferrovie dall’altra16. Quella svolta dai partiti è stata così per lungo tempo un’azione di raggruppamento duratura: hanno «fidelizzato» il loro seguito denominandolo, classificandolo, circoscrivendolo, organizzandolo, rendendolo riconoscibile anche a se stesso. Cioè trasformando stabilmente una moltitudine d’individui in un corpo collettivo unificato nel tempo da valori, interessi, modi di pensare, aspirazioni, in contrasto con altri corpi collettivi, e con le gerarchie del potere. Oltre che da esibire in occasione delle elezioni. 16   Sui partiti come imprese, M. Offerlé, Les partis politiques, Paris, Puf, 2002 e D. Gaxie, La démocratie représentative, Paris, Montchréstien, 2004.

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La lotta per la rappresentanza e quanto siamo soliti intendere come politica sono la stessa cosa: entro di essa il consenso manifestato e certificato ciclicamente mediante le elezioni è il metro per misurarne il valore di pretendenti e concorrenti. Presto però alle elezioni si affiancheranno altre occasioni per esibire e misurare un seguito, produttive di effetti politici. La lotta per la rappresentanza allargherà gli spazi della contesa politica e susciterà nuove opportunità di misurazione. Al conteggio dei voti si affiancherà, e spesso si opporrà, il conteggio degli iscritti ai partiti, ai sindacati, alle associazioni, quello dei convenuti alle manifestazioni di piazza e dei firmatari delle petizioni, la diffusione di alcuni organi di stampa. I tempi cambiano: da ultimo i media si sono messi di mezzo e hanno cambiato alquanto le regole. Se una manifestazione o uno sciopero non ottengono la loro attenzione, i numeri rischiano di non valere. Si fa politica anche esibendo i dati di sondaggio e perfino i like sui social. È una lotta pacifica, quella per la rappresentanza, ma sempre di lotta si tratta e anche senza quartiere. Ne fa parte la contesa sulla sua natura. Alla teoria della rappresentanza sono assegnate parecchie parti in commedia: è un’arma, in quanto le si chiede di stabilire il «vero» significato della rappresentanza. È una posta, perché le parti politiche se la contendono. È un attore, in quanto i teorici, benché a tutela della propria autorevolezza lo neghino, non vivono in un empireo politicamente sterilizzato, ma svolgono un ruolo politico. Un’altra posta fondamentale della contesa è il suo svolgimento. Le elezioni prevedono un’esibizione certificata del seguito dei rappresentanti, ma non è raro il caso che si sollevino obiezioni sulla correttezza e moralità dell’azione promozionale svolta dai concorrenti, sulla regolarità delle operazioni di voto, finanche sull’attendibilità dei numeri. Quante volte si è detto che gli elettori sono stati costretti con la violenza, sono stati manipolati dai parroci, dagli imprenditori, dal crimine organizzato, da pratiche clientelari e assistenziali? Ultimamente, i grandi manipolatori sarebbero i social. Le accuse di brogli in vario modo perpetrati sono tutt’altro che l’eccezione, e alla disputa non sfuggono nemmeno le regole, spesso ritenute inappropriate. Infine, la contesa politica, giornalistica e accademica  – gli studi elettorali sono molto fiorenti – sul significato dei risultati è accanitissima: quale volontà ha espresso realmente il popolo 111

sovrano? Come si sono pronunciati gli elettori? Chi è stato premiato e chi punito? L’aritmetica dei dati non è affatto scontata. 2. Costituire un seguito A seconda delle circostanze e delle armi di cui i pretendenti dispongono, le relazioni stabilite con gli elettori hanno consistenza e dimensioni variabili. L’azione di raggruppamento può produrre effetti durevoli e temporanei: può suscitare constituencies ampie e circoscritte, può ravvicinare socialmente e culturalmente gli elettori e intrecciare tra loro rapporti solidali e può non farlo. Vi sono raggruppamenti già predisposti in sede prepolitica e altri istituiti ex novo. Alcune constituencies col tempo si emancipano da chi le ha inventate, vivono di vita propria, si autorganizzano e magari si offrono a nuovi pretendenti. La borghesia ha fatto il suo ingresso nella contesa per il potere grazie a un’azione di rappresentanza prepolitica precedente perfino l’avvio dei regimi rappresentativi. Svolta da chi l’ha pensata, le ha dato un nome, una voce, una fisionomia collettiva. La rappresentanza politica si è successivamente appropriata del lavoro compiuto da imprenditori, professionisti, letterati, uomini di scienza, economisti e quant’altri. Hanno contribuito pure i suoi avversari: quanto è in debito la sua autorappresentazione e la sua rappresentanza con la teoria della lotta di classe? Pensandosi come gruppo sociale, la borghesia ha man mano maturato altri strumenti per riprodursi, indipendentemente dalla rappresentanza politica: simboli, consuetudini, linguaggi, costumi, cultura, scuole, università, circoli, associazioni, luoghi in cui abitare e altro ancora. È un buon esempio di un raggruppamento che si è emancipato dai suoi portavoce iniziali e dai cui ranghi sono fuorusciti nuovi pretendenti a rappresentarlo. Non ha limiti la gamma dei claims che i rappresentanti attribuiscono ai rappresentati. Al tempo stesso, l’offerta che costituisce la domanda – è l’idea di Bourdieu – è sia una forma di dominio, sia un’azione di governo: anche quando suscita opposizioni e resistenze. Il rappresentante impone e governa nel momento in cui persuade i suoi potenziali rappresentati della loro comune e peculiare condizione e chiede 112

di essere riconosciuto quale loro portavoce. È nondimeno da escludere che la rappresentanza sia mero arbitrio, disancorato dal mondo reale e da ciò che vi accade. Detto altrimenti: se consideriamo l’offerta di rappresentanza un «testo», esso presuppone dei «pre-testi». La vita associata ne offre in abbondanza: è disseminata di asimmetrie, diversità, contrasti, nonché d’interessi e valori eterogenei, che sono all’incirca la stessa cosa. Non sempre gli esseri umani sono consapevoli di come la propria condizione sia comune con quella di altri e in contrasto con quella di altri ancora. Non necessariamente la percepiscono come ingiusta17. Anche la condizione dei ceti abbienti, adeguatamente elaborata, può essere pre-testo della rappresentanza: la si può anche percepire come ingiusta e non adeguatamente riconosciuta18. La qualità, morale e politica, dei pre-testi è tema di giudizio politico e non è qui in discussione. Può essere oggetto di analisi la loro consistenza e la loro disponibilità a essere utilizzati. Il successo di un’impresa di rappresentanza dipende dalla sua capacità di reperire i pre-testi, d’intenderne le potenzialità, di elaborarli adeguatamente, di renderli evidenti alla constituency che vuole raggruppare. Ancora, non c’è rappresentanza che si sottragga alla regola del rispecchiamento e della differenziazione: nessuno si pensa, è pensabile ed è pensato se non in relazione all’altro. La rappresentanza raggruppa tracciando confini, dividendo e perciò opponendo. I pretendenti alla rappresentanza predispongono i loro testi entro un «con-testo» storicamente costituito, di cui fanno parte le imprese di rappresentanza concorrenti, le constituencies da esse assemblate, il monopolio statale e chi lo regge, le confessioni religiose, i media, le imprese, le burocrazie pubbliche, la magistratura, gli intellettuali, le scienze sociali, la letteratura, il cinema, perfino le statistiche. Lungi dal restringersi ai rapporti tra rappresentanti e rappresentati, l’azione di rappresentanza si svolge entro un mondo molto più vasto e complicato. 17   È l’interrogativo fondamentale posto da B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta (1978), Milano, Comunità, 1983. 18   Interessanti riflessioni, fondate su dati di ricerca, in É. Agrikoliansky e A. Collovald, Mobilisations conservatrices: comment les dominants contestent?, in «Politix», 2, XXVII, 2014, pp. 7-29.

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La rappresentanza, insiste Dario Castiglione, non è riducibile al dualismo tra elettori ed eletti e alle scadenze elettorali. La contesa per la rappresentanza ha suscitato un con-testo, che è sociale e politico, intessuto di sollecitazioni continue, maturate entro la sfera pubblica, attraverso la concorrenza tra le forze politiche, l’azione dei media, quella di chi professionalmente osserva la vita associata, entro la società civile e le forme prepolitiche di rappresentanza, i sindacati, i gruppi d’interesse, i movimenti collettivi, la stessa partecipazione dei cittadini. Non tutti dispongono di uguali capacità di sollecitazione, ma la coralità del con-testo, a pensarci, concorre ad attribuire alla rappresentanza un valore democratico che il dualismo tra eletti ed elettori tende a contenere19. Nella prima stagione della rappresentanza politica i notabili si servivano dei pre-testi reperibili nei luoghi in cui esercitavano la loro autorità sociale. In concorrenza con altri notabili, dispute locali e identità municipali erano ricomposte in rivendicazioni da sfruttare in occasione delle elezioni. Ben più ampio respiro avrà l’azione di rappresentanza allorché ha preso a utilizzare come pre-testi le lacerazioni, gli effetti di sradicamento, le opposizioni suscitate dall’urbanesimo e dall’industrializzazione. Sono stati questi i pre-testi che hanno consentito ai partiti socialisti d’Europa, e più tardi a quelli comunisti, di scrivere, in un contesto nient’affatto amichevole, spesso apertamente ostile, il testo della «classe» operaia, situandola sulle mappe della politica, costituendosi al contempo come suoi portavoce. Ne è derivato un ulteriore effetto di con-testo importantissimo: la vita collettiva è stata da allora e per lungo tratto pensata e rappresentata come suddivisa in classi. I partiti moderati e confessionali si dicevano interclassisti: le classi c’erano anche per loro, ma la loro offerta di rappresentanza le trattava come interdipendenti e compatibili. Il nesso tra pre-testi, testi e con-testi non è lineare. Anche i pre-testi più semplici sono materia viva, sono fatti di esseri umani, con esperienze, bisogni materiali e non, con le loro immagini del mondo, che nutrono sentimenti morali e idee di giustizia, magari elementari, che fanno valere come possono, in condizioni avverse 19   D. Castiglione, The System of Democratic Representation and Its Normative Principles, in M. Cotta e F. Russo (a cura di), Research Handbook on Political Representation, Cheltenham, Edward Elgar, 2020.

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e che la rappresentanza, condotta in loro nome, solitamente rielabora. Può farlo superficialmente, può farlo intensamente, può essere creativa in molti modi. Se nel costituire corpi collettivi la loro enunciazione fa da innesco, l’attività organizzativa non solo è condizione di persistenza, ma è pure una forma di society building. Gli elettori a loro volta recepiscono e rielaborano anche loro. La sociologia elettorale ha più volte mostrato come non siano ricettori passivi: si può dubitare della loro competenza, ma si parlano e si ascoltano tra loro, le scelte di voto sono un fatto sociale, dove contano la posizione sociale di ciascuno, ma pure le relazioni familiari, amicali, di vicinato, l’occupazione e le relazioni stabilite sui luoghi di lavoro, l’appartenenza e la frequenza religiosa e ancora altro20. Senza tralasciare la pluralità dei claims e le sollecitazioni diffuse di rappresentanza, che non si esauriscono nelle contese elettorali. Solo di recente i media sono utilizzati per individualizzare gli elettori, ma è da vedere quanto la ricezione e l’accoglimento dell’offerta siano davvero individualizzati. Una mappa dei pre-testi e delle imprese di rappresentanza è stata predisposta da Seymour M. Lipset e Stein Rokkan, i quali, pur riconoscendo la preminenza del conflitto di classe, hanno ricostruito una trama più complessa di cleavages culturali, confessionali, territoriali, scavati entro la storia europea degli ultimi due secoli da due grandi giunture critiche: la rivoluzione nazionale e la rivoluzione industriale21. Per Lipset e Rokkan i cleavages hanno preceduto la rappresentanza condotta dai partiti. Nella prospettiva dell’offerta, viceversa, è per l’appunto la rappresentanza, che non è solo politica e partitica, che li ha costituiti. Ovvero ha usato i pre-testi suscitati dalle giunture critiche per predisporre i testi, i claims, che ha accompagnato con un’attività organizzativa, preoccupata anche delle offerte di rappresentanza concorrenti22. 20   Una messa a punto che adotta anche una prospettiva storica in P. Lehingue, Le vote. Approches sociologiques de l’institution et des comportements électoraux, Paris, La Découverte, 2011. 21   S.M. Lipset e S. Rokkan, Cleavage Structures, Party Systems and Voter Alignments. An Introduction, in Idd. (a cura di), Party Systems and Voter Alignments, New York, Free Press, 1967. Nel loro catalogo quattro sono i cleavages fondamentali: Stato/Chiesa, città/campagna, centro/periferia, datori di lavoro/prestatori d’opera. 22  Sulla decisività della politicizzazione dei cleavages, G. Sartori, The Sociology of Parties: A Critical Review, in P. Mair (a cura di), The West Eu-

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Sarebbe appassionante indagare le imprese di rappresentanza avviate e non riuscite, o riuscite solo a metà, che non si sono trasformate in rappresentanza certificata dalla contesa elettorale, ma hanno tuttavia influenzato le imprese di successo. Nell’ultimo tratto del XX secolo è anche accaduto che alcune new entries siano tornate a elaborare claims e testi per qualche tempo occultati o repressi: sono le imprese di rappresentanza subnazionali o le formazioni d’estrema destra accomunate sotto l’etichetta di populismo, che hanno riproposto il tema del nazionalismo. Toccherà riparlarne. Ad avviare lo sfruttamento dei pre-testi sono state talvolta aggregazioni e forme di autodifesa, e di autorappresentanza, i cui promotori si sono subito confusi nel seguito che avevano suscitato e di cui s’è persa, o quasi, memoria. Le esperienze di solidarietà e di resistenza collettiva a corto raggio, entro i ceti inferiori, vantano una storia lunghissima. Il movimento socialista ha sfruttato in molti casi come pre-testi le mobilitazioni locali, autonomamente condotte dai lavoratori, ribellandosi alla loro condizione. Sono quelle cui si è dedicata la ricerca di E.P. Thompson, scavando indietro, fino al tardo XVIII secolo, e prestando specifica attenzione al modo autonomo di pensare l’economia e la società degli strati popolari e ai criteri morali che ispiravano le loro pratiche di autodifesa, anche illegali23. Dopo le guerre napoleoniche, la grande mobilitazione cartista esercitò una formidabile e prolungata pressione policentrica, rappresasi in un movimento di dimensioni grandiose. Memore delle tradizioni di autodifesa del corporativismo artigiano e operaio, per oltre un decennio il movimento rappresentò e coagulò migliaia e migliaia di lavoratori, promosse proteste, scioperi, manifestazioni e petizioni imponenti. Non ottenne i risultati sperati in fatto di diritto di voto, ma la sua lotta per la rappresentanza servì a tracciare il perimetro della workropean Party System, Oxford, Oxford University Press, 1990, pp. 150-182, spec. p. 169. Ma pure la rivisitazione della teoria dei cleavages di Lipset e Rokkan di S. Bartolini, The Political Mobilisation of the European Left. 1880-1980. The Class Cleavage, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, pp. 13-25. 23   E.P. Thompson, L’economia morale delle classi popolari inglesi del secolo XVIII (1963), Milano, Et al., 2009. E pure, Id., Rivoluzione e classe operaia in Inghilterra (1963), Milano, Il Saggiatore, 1969.

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ing class e ad inscriverne la condizione nell’agenda politica, rendendola fruibile per imprese di rappresentanza ulteriori24. Non è la sola vicenda di questo genere che abbia accompagnato lo sviluppo industriale e che si sia intrecciata con la storia dei sindacati e dei partiti socialisti25. I quali hanno predisposto un testo oltremodo elaborato, che descriveva come comune la condizione dei lavoratori, che li incoraggiava a estendere i sentimenti di solidarietà oltre il luogo di lavoro e il vicinato e a sommare le loro potenzialità di opposizione e resistenza individuali. Erogando veri e propri «servizi di rappresentanza», simbolici e materiali, forme di protezione e di soccorso, i partiti socialisti denominarono, riconobbero e organizzarono il mondo del lavoro. Persuasero i lavoratori circa i loro «reali» interessi, li attrezzarono di schemi cognitivi, di un’interpretazione della propria condizione, di un’identità comune su scala addirittura sovranazionale e di un progetto di ordine sociale, di una comune concezione morale e di un’idea di giustizia, rimodellando del pari le soggettività di ciascun individuo. Non necessariamente tutti divennero adepti ferventi di un disegno di cambiamento radicale: molti si contentavano di migliorare la loro condizione. I partiti possono essere fruiti in maniera molto diseguale e anche passiva. Ma già la presenza organizzata di ampi corpi collettivi alterava l’andamento della contesa politica. Un altro tema su cui indagare è quanto testi e pre-testi corrispondano. Quanto il seguito dei partiti socialisti corrispondeva sociologicamente al testo da essi elaborato? Una cosa è fare del disagio e delle ingiustizie di cui sono vittime i ceti inferiori un tema politico, un’altra è radunare un seguito costituito da essi. Non tutti gli operai preferivano i partiti della classe operaia. Per molte ragioni – lealtà locali, legami familiari, affiliazione religiosa, comportamenti degli imprenditori, altre offerte di rappresentanza – un’ampia quota delle classi lavoratrici ha sempre votato per i partiti liberali, conservatori, confessionali26. 24  C. Tilly, Popular Contention in Great Britain: 1758-1834, BoulderLondon, Paradigm Publisher, 2005, pp. 284-339. 25  Sulla dialettica tra autodifesa e rappresentanza in Germania si veda la dettagliata ricostruzione di B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta, cit., pp. 153-322. 26   Ad esempio: M. Dogan, Le vote ouvrier en Europe occidentale, in «Revue française de sociologie», 1, 1960, 1, I, pp. 25-44. Inoltre, F. Parkin, Working-

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Simmetricamente, un segmento dei ceti medi aderiva ai partiti socialisti. Alle imprese di rappresentanza non è nemmeno mai convenuto investire su un unico pre-testo. È più conveniente utilizzarne e combinarne un fascio, al prezzo di ardui sforzi di conciliazione. I partiti confessionali, ad esempio, si servivano dei contrasti religiosi, erano a proprio agio con la popolazione delle campagne, ma non trascuravano la condizione operaia. Un’impresa di rappresentanza nazionale deve adattarsi ai pre-testi differenti offerti da luoghi differenti. I pre-testi sono per loro conto in perpetua agitazione. Reagiscono anch’essi al con-testo, alle circostanze economiche, al cambiamento sociale, a quello culturale, nonché alla lotta per la rappresentanza. Capita che, rispecchiandosi tra loro, le constituencies si rigenerino, entro un groviglio di rappresentazioni e condizionamenti che non hanno natura esclusivamente politica. Pure il con-testo è in perenne aggiornamento. Infine, una delle poste più ambite nella lotta per la rappresentanza sono i pre-testi, i testi, le constituencies altrui. Chi se ne appropria li rielabora. Ma di rimando ne è condizionato. Il con-testo originario dei partiti socialisti erano lo Stato e i partiti di notabili. Sopraggiungeranno i partiti moderati e quelli confessionali e, infine, i partiti comunisti. Ma hanno fatto da con-testo i racconti, le denunce, le riflessioni dedicate alle classi lavoratrici da attori che in gran parte non avevano in mente la rappresentanza politica. Contribuivano ovviamente i sindacati, che erano istituzioni rappresentative prepolitiche, più o meno coerenti coi partiti socialisti. E contribuiva in tanti modi l’azione repressiva dello Stato: la criminalizzazione di alcune forme d’azione politica è stata un elemento fondamentale. Anche il mondo imprenditoriale ha regolarmente fabbricato contro-rappresentazioni e rappresentanze di comodo del mondo Class Conservatives: A Theory of Political Deviance, in «The British Journal of Sociology», XVIII, 1967, pp. 278-290. Pochi anni dopo Parkin pubblicherà un libro in cui darà ampio conto delle ragioni per cui una parte della working class aderisse a valori tradizionali: cfr. Disuguaglianza di classe e ordinamento politico, Torino, Einaudi, 1976, pp. 85-94. Confrontando una pluralità di fonti su quindici casi europei, per S. Bartolini, The Political Mobilisation of the European Left, cit., pp. 590-593, durante le Trente glorieuses, votava per un partito socialista o comunista tra un terzo e due terzi della working class. S’interroga ancora sull’eterogeneità degli orientamenti politici della working class in Germania B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta, cit., pp. 224-228.

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del lavoro27. La cui eclissi, nell’ultimo scorcio del XX secolo, è coincisa con le trasformazioni della sfera produttiva, ma pure con la sua progressiva sottorappresentazione nella sfera pubblica e nella contesa politica. Come un pre-testo si trasformi in testo è un’alchimia misteriosa, renitente a generalizzazioni troppo facili. Per esempio, tra la rappresentanza dei ceti popolari e quella dei ceti intermedi e superiori c’è una discreta differenza. Vi sono gruppi sociali già in qualche modo strutturati: è motivo di differenza tra i partiti socialisti e quelli confessionali, liberali, conservatori. La storia delle grandi imprese di rappresentanza politica è storia anche d’incomprensioni, divisioni, secessioni, radiazioni. C’è pure qualche rappacificazione. In principio, la rappresentanza politica preferisce le opposizioni radicali, con cui ottiene riconoscimento28. Col tempo, i contrasti si attenuano. Non bastasse: i pretendenti alla rappresentanza non solo predispongono i testi, ma fanno anch’essi parte dell’allestimento. Oltre ad avanzare claims, e a inventare i loro mandanti, hanno l’onere di costituire se stessi in quanto rappresentanti, d’inventarsi e accreditarsi come tali. Le due operazioni, osserva Bourdieu29, sono contestuali. I pretendenti alla rappresentanza devono mettersi in scena, agli occhi tanto della propria constituency, quanto dei loro concorrenti e della collettività nel suo insieme. Devono sopra ogni cosa persuadere la prima a prenderli sul serio, ottenerne in qualche modo il rispetto, o qualcosa che gli somiglia30. È un’operazione delicata e laboriosa, specie perché le imprese di rappresentanza si aggiornano in permanenza e i loro addetti si avvicendano. Cambiano le biografie, i modi di pensare, gli stili, il temperamento di tali addetti, le loro 27  Ad esempio: D. Germanese, L’ardua democrazia: la stampa aziendale Pirelli (1945-1948), in «Passato e presente: rivista di storia contemporanea», 2, XXXIX, 2021, pp. 83-102. 28   A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 87-104. 29   P. Bourdieu, La représentation politique, cit. 30   Sulla sfida cui sono sottoposti gli «esseri in carne ed ossa» che rappresentano qualsiasi istituzione, cfr. L. Boltanski, Della critica. Compendio di sociologia dell’emancipazione, Torino, Rosenberg & Sellier, 2014, pp. 130-134. Insiste sul tema con riferimento specifico alla rappresentanza M. Dogliani, La rappresentanza politica come rappresentanza del «valore» di uno stato concreto, in «Democrazia e diritto», 2, LV, 2014, pp. 7-15.

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autorappresentazioni e anche le preferenze della potenziale constituency. Il problema è antichissimo. Anzitutto, perché la persona privata del rappresentante va dissociata dalla sua figura pubblica. Onde rendere evidente la dissociazione, il supremo rappresentante della Chiesa romana usa cambiar nome. Lo stesso avviene nelle chiese ortodosse e, talora, nelle monarchie. Uno dei temi fondamentali nella vicenda dello Stato è stata la sua spersonalizzazione rispetto al potere regio e la sua rappresentazione quale entità diversa dai suoi addetti, i quali, nello svolgimento delle loro funzioni, si sono a lungo rivestiti di appositi paramenti. Il problema si è riproposto con la moderna rappresentanza politica e anzi il tema dell’autorappresentazione dei rappresentanti – e della costruzione della loro immagine pubblica – si è fatto ancora più acuto: anche i parlamenti e i partiti hanno elaborato tecniche rivolte a questo scopo. Basta a volte lo stile. Lo stile dei notabili era a volte severo, altre brutale, altre ancora paterno e all’occorrenza generoso. I partiti hanno a lungo adottato simboli e coltivato, ad uso del loro seguito, grandi prospettive di riscatto o comunque di miglioramento dello stato della vita collettiva. Suscitavano fiducia anche disegnando immagini edificanti, eroiche, o comunque virtuose, dei loro esponenti. Un’altra tecnica dei partiti di massa era la rappresentanza «descrittiva»31: i rappresentanti dovevano somigliare in qualche modo ai rappresentati. Quando non si riusciva a farli corrispondere sociologicamente, si potevano ravvicinare i comportamenti e gli stili di vita. Nei partiti socialisti era d’uso l’appellativo di compagno. Sui palcoscenici della rappresentanza politica si sono avvicendate ogni sorta d’immagini: sobrie e auliche, eroiche, vistose, perfino irridenti. Conta finanche l’abbigliamento: si sono viste giacche a doppio petto, uniformi, tute da lavoro, camicie e maniche rimboccate, persino canottiere. I tempi cambiano. C’è chi si spoglia di fronte all’obiettivo e l’ultimo ritrovato è farsi prescrivere da uno specialista d’immagine il taglio della barba e il formato degli occhiali. Se la rappresentanza in altri tempi si segnalava per il suo formalismo, attualmente predilige l’informalità. 31

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  H.F. Pitkin, Il concetto di rappresentanza, cit., pp. 91-138.

Conta anche la rappresentazione reciproca dei rappresentanti: possono interloquire tra loro e criticarsi civilmente, possono ironizzare, sbeffeggiarsi, demonizzarsi vicendevolmente e possono sempre mettere in dubbio l’altrui moralità. Sono tutti aspetti cui l’ibridazione tra la politica e i media e le esigenze spettacolari di questi ultimi hanno alfine dato impulso. Ne è derivata anche l’invenzione, o l’esasperazione, del fenomeno della leadership personale. Alle cariche pubbliche, ai ruoli di comando, è stata sempre riconosciuta una qualche «grazia di stato». I regimi democratici l’avevano appannata. Per Weber era però un tratto tipico dei partiti32. Ma i media, a loro uso, l’hanno riproposta, e le élites politiche hanno aderito. Mentre l’attrattività mediatica dei candidati è diventata premiale, i media a loro volta concentrano l’attenzione sulla biografia dei leaders, s’infiltrano nella loro vita privata e ne fanno spettacolo. A discapito, ovviamente, di altri aspetti33. Infine: i media di ultima generazione – la Tv soprattutto – hanno sovvertito le modalità dell’offerta di rappresentanza e hanno anche smisuratamente ampliato la possibilità che un claim produca di per sé effetti politici di rilievo senza bisogno di radunare un seguito. La novità non è assoluta e non c’è nulla di patologico o di scandaloso. Sono le circostanze che favoriscono la rappresentanza virtuale e anche quella che chiameremo «occasionale». Vi sono claims virtuali molto nobili: le generazioni a venire, il pianeta, le specie in via di estinzione, svincolate dalle contese elettorali. Anche se, per il bene e per il male, un qualche peso politico ce l’hanno. C’è pure una rappresentanza speculativa, finalizzata a modificare sul momento l’agenda di policy, ma è la rappresentanza «occasionale» che ha maggiori implicazioni elettorali. È un salto non da poco per la lotta per la rappresentanza. Ragioniamo per differenza con la 32   M. Weber, La politica come professione, in Id., Scritti politici, Roma, Donzelli, 1998. 33   Tra i primi a osservare il fenomeno della personalizzazione, A. Mabileau, La personnalisation du pouvoir dans les gouvernements démocratiques, in «Revue française de science politique», 1, X, 1960, pp. 39-65. Sugli sviluppi ulteriori B. Manin, Principes du gouvernement représentatif, Paris, Flammarion, 1996, pp. 279-302. Si rinvia anche ai lavori di M. Calise, Il partito personale, Roma-Bari, Laterza, 2000 e La democrazia del leader, Roma-Bari, Laterza, 2016.

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rappresentanza notabiliare e con quella «fidelizzata» dai partiti. I notabili erano tenuti a onorare la loro autorità sociale e la usavano per stabilizzare il loro seguito. La strategia dei partiti popolari trattava il seguito come i fedeli di una confessione religiosa, da convertire e da estendere. Entro la lotta per la rappresentanza, erano i partiti a politicizzare, sotto forma di cleavage, i motivi di divisione insorti nella vita collettiva. A questo scopo, effettuavano investimenti simbolici e organizzativi considerevoli e di lungo periodo, istituivano presidi territoriali, stabilivano gerarchie, promuovevano relazioni orizzontali entro la propria constituency. La rappresentanza «fidelizzata» era caratterizzata da obiettivi di lungo termine e dal raggruppamento e dall’esibizione di corpi collettivi identificabili. La rappresentanza occasionale corrisponde a tutt’altra strategia. Se la rappresentanza fidelizzata svolgeva un’azione educativa, onde costituire il suo seguito, quella occasionale lo costituisce adattandosi. L’offerta è pronta a essere riscritta a ogni campagna elettorale. Delineati alcuni claims di fondo, contano le scelte tattiche e i claims di contorno. L’idea di una società traversata da cleavages profondi è stata archiviata. Si preferiscono i claims occasionali, che sfruttano interessi, categorie, identità, che già ci sono. Al momento delle elezioni i partiti si curano solitamente di risvegliare le lealtà di lungo periodo che ancora resistono: dopotutto, il grosso degli elettori le mantiene e spesso si trasmettono da una generazione all’altra34. Ma l’investimento principale è effettuato sui pre-testi suggeriti dalla contingenza, coltivando le emozioni, le inquietudini, le insofferenze, le paure del momento, nonché sfruttando i fallimenti dei concorrenti. Conta, ovviamente, la capacità di taluni portatori d’interessi particolari o locali di mettere in agenda qualche tema, o di valorizzare il malcontento verso una data misura di policy. Sono state condotte campagne elettorali focalizzando l’attenzione su un atto di violenza brutale, su una catastrofe naturale, sull’inadeguatezza dei soccorsi, sui destini di una compagnia aerea, su un’ondata di sbarchi di migranti, 34   Il caso americano è il più semplice. Gli elettori si dividono in democratici, repubblicani e indipendenti e i trasferimenti da un fronte all’altro sono eccezionali C.H. Achen e L.M. Bartels, Democracy for Realists, cit., pp. 311-316. A decidere le elezioni sono gli indipendenti, che sono gli elettori meno radicati e meno motivati politicamente.

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su uno scandalo che ha coinvolto questo o quel concorrente. È una strategia generale, con cui sono molto a loro agio i partiti cosiddetti populisti, molto lesti ad aggiornare le loro paure e le loro ricette salvifiche. In cambio sono divenuti a loro volta pre-testo di rappresentanza occasionale per i loro avversari, che ripetutamente ne denunciano la dubbia affidabilità democratica. Nella versione occasionale della rappresentanza, propiziata dai media – dalla televisione e ultimamente dai social – il voto ha cambiato significato. Il voto fidelizzato era segno di appartenenza a una constituency durevole, circoscritta da un partito, la cui attività non si limitava alla propaganda elettorale. Il voto era un’opportunità per situarsi e ritrovarsi con altri, socialmente e politicamente35. La rappresentanza occasionale, in quanto rappresentanza usa e getta, semmai destabilizza. Per quanto profittevole possa essere in sede di contesa elettorale, neanche la rappresentanza occasionale sfugge comunque alla critica della concorrenza e, prima o poi, la sua credibilità è sottoposta a verifica: ammesso che superi il vaglio delle elezioni, tocca anche a essa difendersi dalle delusioni successive degli elettori. Anzi, vi è sovraesposta: la novità del terzo millennio è l’accentuata instabilità elettorale. Sempre affamata di nuovi temi, la rappresentanza occasionale è travolta in un circuito frenetico, dove il vizio più grave è l’orientamento a breve termine. Il suo orizzonte sono le prossime elezioni. Con quali conseguenze per il governo della vita collettiva? 3. La rivincita del mandato e l’ordinaria demagogia Capitanati da Rousseau, i critici della rappresentanza la considerano un’impostura. Oppure esproprio, imposizione, spossessamento. Costituisce una condizione di disuguaglianza a favore dei rappresentanti e a danno dei rappresentati, specie per i ceti svantaggiati. In realtà, la rappresentanza non è solo questo: dà voce, non in maniera egualitaria, ma dopotutto la dà anche a chi di suo non ne avrebbe. Per complicare le 35   È quella che A. Pizzorno chiama azione «identificante», opposta a quella «efficiente»: cfr. Le radici della politica assoluta, cit., pp. 145-184. Ma cfr. anche la Prefazione di Pizzorno a H.F. Pitkin, Il concetto di rappresentanza, cit.

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cose, tocca tuttavia riconoscere che la rappresentanza svolge comunque un’azione distorsiva. Non c’è rappresentanza che non sia interpretazione, selezione, limitazione, distrazione, trasfigurazione, understatement o esagerazione. Già le rappresentazioni cartografiche, artistiche, letterarie, fotografiche non sono e non possono, spesso nemmeno vogliono, essere duplicazioni perfette dell’originale. Selezionano e interpretano. Lo fa pure la rappresentanza privatistica, quantunque preveda uno specifico mandato al rappresentante, il quale però impiega parole sue per esercitarlo. Finanche chi prova a dare una rappresentazione di se stesso seleziona e distorce. Figurarsi se può esser fedele la rappresentanza in politica, che ha a che fare con mandanti eterogenei e anche di dubbia esistenza: il popolo, i corpi collettivi, gli interessi. Ciò detto, due precisazioni sono d’obbligo. La prima è che i rappresentanti sono sì portatori d’interessi propri, ma non selezionano, interpretano, alterano necessariamente per malvagità, disonestà, opportunismo. Lo fanno perché tanto pretendono i meccanismi della rappresentanza: come sarebbe mai possibile raggruppare, anche solo provvisoriamente, una moltitudine se non si attribuissero agli individui che la compongono tratti comuni, di cui spesso non sono consapevoli, e se non si oscurassero i tratti che li rendono diversi? Come si potrebbero raggruppare e convincere gli elettori senza pronunciare parole che gratifichino, esaltino, eccitino, dissimulino, oscurino, scompongano e ricompongano? O senza additare un avversario, o, quantomeno, un concorrente? La storia della rappresentanza è storia, d’imposizioni, ma pure d’invenzioni, affabulazioni, artifici36. La seconda precisazione è che fa parte del gioco pure la critica della rappresentanza, la denuncia delle sue distorsioni, dei suoi travisamenti, occultamenti, allarmismi. È un gioco in cui compaiono più che i critici della rappresentanza, gli stessi pretendenti, che definiscono le loro offerte di rappresentanza più autentiche, più adeguate, più meritevoli di ascolto di quelle altrui. Distorcono anch’essi, ovviamente. La rappresentanza è pure un’invenzione ambivalente. Lo è in quanto la contesa elettorale suscita nei suoi pretendenti e in 36   B. Latour, What If We Talked Politics a Little?, in «Contemporary Political Theory», 2, 2003, pp. 143-164.

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chi la esercita l’esigenza non solo d’imporre, togliere e manipolare, ma pure di restituire. Non è detto che accada sempre, ma è il grande punto di resistenza, o la rivincita, della teoria classica. Le parole non si pronunciano invano, specie quando sono pronunciate pubblicamente: costituiscono dei vincoli. La rappresentanza politica in quanto istituzione, per di più sanzionata dai testi costituzionali e dalla pratica elettiva, promette agli elettori un qualche potere sugli eletti. L’impegno di questi ultimi ad agire nell’interesse dei rappresentati può essere disatteso, ma, una volta assunto pubblicamente, non è senza conseguenze. Sarà un racconto improbabile, ma tanto i rappresentanti quanto i rappresentati sono indotti a prenderlo sul serio. Molto presto la concorrenza elettorale ha reso le elezioni un rito d’investitura meno scontato di quanto prevedessero gli inventori del regime rappresentativo. I pretendenti si sono man mano attrezzati e la concorrenza li ha indotti ad assumere verso gli elettori un atteggiamento ricettivo: hanno dovuto promettere e anche concedere qualcosa. Pur non operando in regime di concorrenza, Hobbes raccomandava al sovrano, da lui inteso quale rappresentante, di prendersi buona cura dei propri sudditi37. L’idea stessa di rappresentanza rendeva vulnerabile la sua condizione. La ripetizione del racconto e del rito del mandato ha familiarizzato con la rappresentanza anche gli elettori: colti magari alla sprovvista dal riconoscimento del diritto di voto, che spesso non avevano nemmeno rivendicato, questi ultimi – non tutti allo stesso tempo e nella stessa misura – hanno alfine preso conoscenza della promessa fatta dai loro portavoce. I più istruiti erano in condizioni più favorevoli. Ma alla fine tutti gli elettori si ritengono i mandanti di chi dichiara di rappresentarli e occupa, grazie a loro, una posizione di pubblico rilievo e di preminenza sociale. A loro volta, i pretendenti alla rappresentanza sono stati costretti ad affinare le loro tecniche di persuasione: un po’ manipolano, un po’ mantengono. Il rapporto tra rappresentanti e rappresentati si è perciò riequilibrato e la rappresentanza, pur in minima parte, ha prodotto effetti più coerenti col suo nome. Qualora gli elettori – per difetto di competenza e informazione – non avessero interiorizzato il loro diritto alla rappresentanza, non manca chi glielo insegni o rammenti: è sempre 37

  T. Hobbes, Il Leviatano, cit., pp. 298-317.

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parte della lotta per la rappresentanza. Glielo ricordano nel farsi concorrenza i pretendenti alla rappresentanza. Glielo rammentano i suoi critici, quando ribadiscono l’idea del mandato illusorio e tradito. Lo confermano, con le precisazioni del caso, i testi costituzionali e i manuali d’educazione civica. Sono motivo di conferma i mass media, i quali da mezzo secolo, sono divenuti elementi attivissimi del con-testo e amano mettere in scena il cittadino che personalmente rivendica, osserva, critica, giudica, condanna coloro che ha designato a rappresentarlo. Tecnicamente, o per la teoria più accreditata della rappresentanza, la disponibilità per il rappresentante a mostrarsi ricettivo verso i suoi elettori viene chiamata responsiveness38. La teoria classica della rappresentanza vorrebbe subordinarla all’interesse generale: gli eletti rappresentano l’intera collettività. È quest’ultima, si sostiene, il loro vero mandante, di cui sono tenuti a prendersi cura, e non chi li ha votati. Pochi principi sono stati però più trasgrediti. Sollecitazioni e vincoli cui sono sottoposti i pretendenti e i titolari della rappresentanza sono innumerevoli: dagli elettori, dal partito, da chiunque abbia concorso a farli eleggere. Da subito i claims dei pretendenti alla rappresentanza sono stati perciò accompagnati dall’erogazione di servizi di rappresentanza. Un po’ li producono loro stessi. Un po’ li ricavano una volta eletti, specie quando hanno accesso alle cariche di governo. Hanno iniziato i notabili, al tempo del suffragio ristretto, utilizzando sia risorse personali, sia opportunità offerte dalla loro prossimità al potere. I grandi partiti popolari allargheranno la gamma dei servizi. I partiti socialisti e comunisti, quand’erano ancora outsiders, hanno erogato servizi mediante le società di mutuo soccorso, le cooperative, le forme di sostegno agli scioperanti. Una volta occupate posizioni di governo nazionali e locali, la responsiveness ha cambiato natura. Pizzorno distingue tra «micropolitica» e «macropolitica». La prima consiste di servizi di respiro più o meno ampio resi a individui, gruppi, organizzazioni d’interesse, comunità locali, e altro ancora. La macropolitica consiste invece di ambiziose politiche riformatrici e redistributive39.   H.F. Pitkin, Il concetto di rappresentanza, cit., p. 341.   A. Pizzorno, Il velo della diversità: studi su razionalità e riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 330-340. 38 39

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Esistono – e sono importantissimi – anche i servizi di rappresentanza d’ordine simbolico. Una prima variante Pizzorno la chiama politica «della speranza». Rita Di Leo, che la dà ormai per persa, la chiama invece «politica-progetto»40. Per i grandi partiti popolari in essa s’intrecciavano grandi costruzioni ideologiche, analisi della società, denuncia delle disuguaglianze, claims di riconoscimento di grandi identità collettive, promesse di giustizia e programmi di trasformazioni sociali di portata epocale. Una seconda eventualità più effimera e più attuale sarebbe invece la «politica dell’eticità»41. Propria delle situazioni d’incertezza e instabilità, è una tecnica che consente di suscitare consenso in modi anche contrapposti. Pizzorno cita le inquietudini ambientaliste o le difese delle minoranze. Ne è una variante sollevare scandali e promettere cure miracolose dell’immoralità pubblica. Come si possono risvegliare le identità nazionali, suscitando paure e fomentando odio, intolleranza, antisemitismo, islamofobia. Va da sé che a essere responsive e a erogare servizi di rappresentanza gli addetti alla rappresentanza si rendono vulnerabili a una critica opposta a quella rousseauiana. È facile accusare i rappresentanti di essere troppo generosi e accondiscendenti verso le pretese dei rappresentati. Nella lotta per la rappresentanza c’è sempre qualche attore pronto a denunciare le deprecabili finalità elettorali della micro e della macropolitica. Da sempre c’è chi accusa i regimi rappresentativi-democratici in quanto tali, perché promuovono il pluralismo degli interessi parziali, a scapito dell’interesse generale e dell’azione di governo: di quella che è stata denominata la «governabilità»42. Non ricevono miglior trattamento, per una ragione o per l’altra, i servizi di rappresentanza d’ordine simbolico. La parola che si pronuncia con frequenza, carica di significato infamante, è «demagogia». Non è il suo significato originario. Ha provato a renderle giustizia Luciano Canfora43. 40   R. Di Leo, L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo, Bologna, Il Mulino, 2018. 41   A. Pizzorno, Il velo della diversità, cit. 42   Il dibattito sulla governabilità prende avvio col famoso rapporto della Commissione Trilaterale: cfr. M. Crozier, S.P. Huntington e J. Watanuki, La crisi della democrazia (1975), Milano, Angeli, 1977. 43   L. Canfora, Demagogia, Palermo, Sellerio, 1993.

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Per i greci, che coniarono il termine, demagogia era l’arte di guidare il demos curandosi di esso. Per i critici della democrazia era la sua inevitabile degenerazione. Il termine era dunque ambivalente. La contesa politica odierna ha fatto anch’essa della demagogia un rischio per la democrazia, quando invece è nell’ordine delle cose. Viceversa, secondo Weber, che era un realista, «il “demagogo”, a partire dallo Stato costituzionale e soprattutto dalla democrazia, è il tipo del politico eminente in Occidente. Il sapore sgradevole del termine non può far dimenticare che non Cleone, bensì Pericle fu il primo che portò questo nome»44. Dunque, mentre la demagogia è inevitabile, il rischio sta nella cattiva demagogia. Il problema è che distinguere buona e cattiva demagogia è questione di giudizio politico, purtroppo soggettivo. Nella pratica chiunque aspiri alla rappresentanza mescola svariate forme di demagogia, a seconda dei potenziali fruitori. La promessa del socialismo si è coniugata con la tutela dei livelli salariali. Il nazionalismo è un condimento per molte politiche diverse. Si possono mescolare promesse di welfare e ostilità ai migranti. È, infine, demagogia pure la guerra alla demagogia, attualmente in gran rigoglio. Il discredito gettato sull’altrui demagogia è un espediente antico. Più recente è la controdemagogia, da cui conseguono severe prescrizioni terapeutiche: intese a premiare il merito e a contrastare l’assistenzialismo. In Italia i partiti tendono ad affidare le misure di austerità più severe ai cosiddetti «governi tecnici»: aggirando la rappresentanza, pare sia più agevole risolvere i problemi collettivi. A dispetto di ciò che comunemente si ritiene, il mestiere degli addetti alla rappresentanza sarà pure ben remunerato, simbolicamente e materialmente, ma è scomodo e rischioso. Responsiveness e demagogia saranno inevitabili, ma vi sono sempre promesse non soddisfatte, che suscitano malcontento, anche perché i concorrenti le strumentalizzano. Il problema è allora limitare gli inconvenienti dell’ordinaria demagogia, che è per l’appunto il rimedio escogitato dai grandi partiti popolari: 44  M. Weber, La politica come professione, cit., p. 217. Per Weber la demagogia andava però dosata e i regimi parlamentari e lo Stato di diritto erano dispositivi utili allo scopo: la demagogia va cioè sottomessa «alle rigide forme giuridiche della vita statale».

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fidelizzare gli elettori era una strategia intesa a costituirsi quali accumulatori di legittimazione e di fiducia, preziosi per prevenire e attenuare le delusioni inevitabilmente provocate dall’azione quotidiana dei loro addetti alla rappresentanza o al governo. Assicurando del pari quella che Weber chiamava l’«elasticità dell’apparato parlamentare»45. La rappresentanza occasionale è invece ripiegata sulla micropolitica, sui traffici elettorali piccoli e grandi, sugli intrecci provvisori con gli interessi, oppure è generosa di offerte non mantenibili e suscita un sovrappiù di delusioni. Se però la grande costruzione mediatica che la incoraggia è efficace per così dire in ascesa, è invece spietata in discesa. Governare logora e la posizione di chi governa è divenuta scomodissima. Molti fattori condizionano i servizi di rappresentanza: i tempi, le circostanze, le risorse disponibili, i pre-testi, le mosse degli avversari. Vi sono situazioni routinarie e situazioni eccezionali. Nelle prime la micropolitica e i vantaggi materiali hanno buon successo. Nelle seconde si pensa e si fa la politica in tutt’altro modo: cambia lo spirito dei contendenti. Quando i benefici materiali scarseggiano, si punta sui servizi simbolici. Max Weber scrisse il suo saggio sul professionismo politico all’indomani della guerra mondiale. Era una stagione parecchio concitata, segnata da disagio sociale diffuso, instabilità esistenziale, frustrazioni e tensioni terribili, ampio uso della violenza. La demagogia divenne o rivoluzionaria, o reazionaria e autoritaria. Donde il suo invito a bilanciare con cura l’etica della convinzione e dei fini ultimi con l’etica della responsabilità e delle conseguenze. In tempi più pacifici avrebbe magari rovesciato la priorità e rivolto l’invito a bilanciare l’etica della responsabilità con quella della convinzione: se la politica è troppo prosaica, si condanna all’insuccesso46. È la storia del regime rappresentativo. I suoi inventori avevano immaginato un’inclusione meramente simbolica dei dominati. Contavano sulla loro autorità «naturale» per restare tra loro. Non prevedevano né la concorrenza, né che il riconoscimento della possibilità di votare a una minoranza avrebbe suscitato l’attesa – e la pretesa – della sua estensione. Il muro 45 46

  M. Weber, Economia e società, vol. I, Milano, Comunità, 1961, p. 349.  Id., La politica come professione, cit., p. 222.

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dell’esclusione era stato comunque incrinato e l’inclusione degli esclusi è diventata un claim di successo. La rappresentanza ha messo così politicamente al mondo strati e categorie sociali finora esistenti solo nei testi letterari, nella generosità dei filantropi, nelle indagini sociali. Dal suffragio universale alle politiche di welfare non c’è riforma egualitaria e inclusiva che non sia stata promossa per prevenire o contenere il dissenso di qualcuno, o per ottenerne il consenso47. In questo modo i regimi rappresentativi liberali si sono evoluti in regimi democratici. Da un canto c’erano i partiti socialisti, che rivendicavano il suffragio universale, con fini ugualitari, ma anche per guadagnare consenso e aumentare la propria forza d’urto. Dall’altro, c’erano le élites in carica del monopolio, che invece si sono divise: alcune si sono opposte, vaticinando gli effetti destabilizzanti dell’estensione del diritto di voto alle folle nullatenenti, incolte e manovrate dai demagoghi, altre l’hanno propiziato. Giolitti, nelle sue memorie, si vanta di aver contribuito, grazie al suffragio universale, al rafforzamento dello Stato e alla crescita civile del paese48. Nell’impero tedesco, per contrastare i socialdemocratici, fu Bismarck, che non era un fior di democratico, a introdurre precocemente il suffragio universale e lo Stato sociale. Se la rappresentanza può includere, può però anche escludere. L’inclusione di alcuni implica, se non l’esclusione, l’arretramento di altri. Che pagano qualche costo, magari modesto, ma lo pagano. L’universalizzazione del suffragio diluì provvisoriamente il potere dei ceti cui prima era finora riservato il diritto di voto. Un altro caso di esclusione riguarda i partiti di massa, che hanno incluso le classi inferiori, ma che, con grande, e fondato, disappunto di Robert Michels49, erano guidati da un’élite che prendeva le distanze da esse e disattendeva le sue promesse democratiche. Resta da rammentare che la rappresentanza, oltre a essere ambivalente, produce effetti reversibili: il suo grado d’inclusività non è definitivo. È modulato dalle vicende politiche e nulla ne   A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta, cit., pp. 88-90.   G. Giolitti, Memorie della mia vita, II, Milano, Treves, 1922, pp. 279-325. 49   R. Michels, La sociologia del partito politico (1911), Bologna, Il Mulino, 1966. 47 48

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esclude la revoca. È quel che sta accadendo ultimamente. Anche senza ricorrere all’impiego della violenza. Molte cose sono in realtà reversibili entro l’orizzonte della rappresentanza, finanche la conduzione pacifica dei conflitti. Una volta canalizzato entro le procedure e i costumi del regime rappresentativo, il pluralismo perde progressivamente il suo potenziale dirompente. Regole e costumi configurano la «civiltà parlamentare», che prevede una sorta di pacificazione progressiva: il conflitto sociale si attenua traducendosi in contesa elettorale e la contesa elettorale si attenua, a sua volta, varcando la soglia del parlamento, dove i contrasti politici possono essere strenui, ma sono compensati dai rapporti personali50. Non sempre però la civiltà parlamentare è rispettata. Le tribune parlamentari possono anche servire a gettare benzina sul fuoco dei conflitti51. È un’eventualità per nulla remota: non contano solo le regole, ma anche chi le applica. 4. Regolare la rappresentanza Per fare il punto. La lotta per la rappresentanza politica è parte essenziale delle lotte per il monopolio statale. In tale lotta rientra la disputa sui suoi significati e sulle regole che vi presiedono. La discussione è iniziata nello stesso momento in cui si è riconvertita la lotta violenta in competizione elettorale e in discussione parlamentare. Provvide per prima la coalizione di fazioni che in Inghilterra aveva preso il sopravvento. Apparve allora più conveniente sostenere che le regole – una costituzione – già ci fossero. In altre circostanze, la coalizione dei vincitori ha sancito la propria vittoria scrivendo nuove costituzioni, le quali non sono mai opera di un arbitro estraneo al 50   Secondo Bertrand de Jouvenel c’erano «meno differenze tra due deputati di cui uno è rivoluzionario e l’altro non lo è, che tra due rivoluzionari di cui uno è deputato e l’altro no». E aggiungeva, «all’Assemblea Nazionale vi è una regola ineludibile che domina: rispettare lo spirito della ditta e non nuocersi. Tra colleghi si litiga, ma non ci si detesta... non si ama farsi del male». Cfr. La République des camarades, Paris, Grasset, 1914, p. 17 e p. 57. 51   Una riflessione preliminare in P.-Y. Baudot e O. Rozenberg, Introduction. Lasses d’Elias: des assemblées dé-pacifiées?, in «Parlement[s], Revue d’histoire politique», 2, XIV, 2010, pp. 6-17. Il numero della rivista è dedicato alla Violence des échanges en milieu parlementaire.

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gioco, ma di attori coinvolti nella lotta politica: sono frutto di circostanze storiche e di rapporti di potere contingenti. Detto altrimenti, le scrivono i vincitori del momento, che intendono perpetuare la propria idea d’ordine sociale e di giustizia. Quando non ne hanno una condivisa, si contentano di offrirsi garanzie reciproche52. Ma il conflitto non s’interrompe, giacché prosegue mediante un lavorio d’interpretazione, aggiustamento, adattamento, delle regole e anche dei significati delle parole. Al tempo della rivoluzione inglese il Parlamento consacrò la sua pretesa di supremazia con due gesti d’altissimo valore simbolico. Pur dichiarando rispetto per la monarchia di diritto divino, decise di muovere guerra al re. Una volta che il re fu sconfitto, decise di comminargli la pena capitale. Guerra e regicidio sono espressioni estreme dell’azione di governo. In quelle circostanze il popolo fu arruolato da entrambe le parti. Il Parlamento evocava i risalenti e consolidati diritti dei freeborn Englishmen. Il sovrano rivendicava i suoi diritti come un obbligo verso i propri sudditi. Effetti altrettanto drammatici, perché mancò il regicidio, ma diede luogo a una guerra dopotutto civile, ebbe la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. Poco dopo in Francia le moderne istituzioni rappresentative furono inaugurate dal giuramento prestato il 20 giugno del 1789 dai deputati del Terzo stato nella sala della Pallacorda, insieme ai dissenzienti degli altri due ordini. Denominatisi Assemblea nazionale, i deputati si attribuirono l’autorità, per conto del popolo, di fixer la Constitution du Royaume: di stabilire principi e regole di una rinnovata forma di governo e di convivenza. Di nuovo un sovrano sarà messo a morte al culmine di quella che è stata anch’essa una guerra civile. Per quanto vi fossero dei precedenti, l’invenzione del popolo in senso moderno ha avuto luogo in Inghilterra. Con52   Per questi casi Giuseppe Di Palma ha proposto il concetto di costituzione «garantista»: To Craft Democracies. An Essay on Democratic Transitions, Berkeley, University of California Press, 1990, alle cui considerazioni circa le condizioni di scrittura delle costituzioni si rinvia: cfr. pp. 50-76. È pure successo che le regole fossero dettate, o quasi, dall’esterno: nel dopoguerra in Germania e Giappone. Nemmeno chi le dettava era però un arbitro imparziale. Era un estraneo, che voleva assicurarsi che il gioco in futuro si svolgesse secondo le sue aspettative.

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clusa la guerra civile, il Parlamento prese posto a fianco del re, per conto del popolo53. Il problema che si pose da subito fu quello del significato del mandato, cioè del rapporto che legava ai Comuni eletti ed elettori. Occorreva stabilire cosa questi ultimi fossero. Tra i tanti argomenti messi in campo si segnalano quelli sollevati da Edmund Burke. Esponente di punta di un’importante fazione parlamentare, gli Whigs capeggiati dal marchese di Rockingham, Burke era un intellettuale e al contempo un parvenu, che con qualche approssimazione può essere ritenuto un politico di professione ante litteram. Non possedeva in proprio alcun capitale d’autorità sociale, anche se col tempo avrebbe guadagnato reputazione e rispetto, e beneficiava di quello del suo protettore. Sostenitore convinto delle potenzialità della rappresentanza e del Parlamento quale rappresentante della nazione, al centro di una delle sue tante battaglie politiche Burke mise un doppio sforzo di contenimento. Il primo contro le pressioni, divisive, degli interessi. Il secondo inteso a contrastare l’azione, divisiva e corruttrice, del sovrano e della «Cabala di corte». Favorevole a una più proficua dialettica tra l’azione di governo dell’esecutivo e quella di discussione e controllo svolta dal Parlamento, Burke era in aperto contrasto con la nostalgia dei Tories per l’autorità monocratica: per essi l’unico rappresentante della nazione era il re e il Parlamento era null’altro che un luogo in cui trattare rivendicazioni locali e interessi ristretti. Il punto fondamentale sollevato da Burke è la natura del mandato. Sono le celebri parole del Discorso agli elettori di Bristol del 1774. Lì il Parlamento era definito l’«assemblea deliberativa di un’unica Nazione, con un solo interesse, quello dell’intero: dove dovrebbero essere di guida non già obiettivi locali, ma il bene generale». Di conseguenza, «istruzioni imperative e mandati che, una volta inoltrati, il membro del Parlamento è tenuto a seguire ciecamente ed incondizionatamente [...], quantunque contrari alla più chiara convinzione del suo discernimento e della sua coscienza», erano «cose letteralmente sconosciute alle

53   E.S. Morgan, Inventing the People: The Rise of Popular Sovereignty in England and America, New York-London, Norton & Co, 1988.

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leggi di questa terra»54. Non che gli interessi dei rappresentati fossero illegittimi. Anzi: i «desideri» degli elettori avrebbero dovuto «avere gran peso [...], la loro opinione grande rispetto, i loro affari incondizionata attenzione»55. Gli elettori saranno addirittura invitati a radunarsi in partiti56. Ma non spettava al Parlamento promuovere interessi privati. Radunando la parte migliore del paese, selezionata dalle elezioni, compito di quest’ultima era farsi interprete dell’interesse anche di coloro che non votavano: era la teoria della rappresentanza «virtuale»57. Sulla natura del mandato, già un secolo prima Edward Coke si era espresso in termini non troppo diversi, così come Algernon Sidney e il quasi contemporaneo Blackstone. Ma Burke sollevava un argomento specifico: è il rappresentante che costituisce il rappresentato. Sul piano normativo, ma pure su quello empirico. L’interesse generale non era definibile in astratto. Forti della conoscenza delle questioni in gioco consentita dalla loro posizione, a seguito di una discussione ben condotta e improntata a criteri di prudenza e moderazione, il compito dei membri del Parlamento era esprimere insieme, e in piena autonomia, la volontà della nazione. Era il modo per tenere a bada il pluralismo. I commercianti di Bristol non sentirono però ragioni: avevano capito il meccanismo. Alle elezioni del 1780 giunse loro un’altra offerta di rappresentanza, più confacente alle loro attese, e decisero di accoglierla58. Chissà se i rivoluzionari francesi erano al corrente delle pretese dei mercanti di Bristol e dei moniti di Burke, che fu fra le altre cose loro fierissimo avversario. Le circostanze li ren54   E. Burke, Mr. Edmund Burke’s Speeches at His Arrival at Bristol and at the Conclusion of the Poll, 1774, trad. it. in L. Ornaghi (a cura di), Il concetto di interesse, Milano, Giuffrè, 1984, p. 320. 55   Ivi. 56   «Un partito, scrive Burke, è un corpo di uomini che si riuniscono per promuovere insieme l’interesse della nazione, in base a qualche principio particolare sul quale tutti concordano»: cfr. Thoughts on the Cause of the Present Discontents, 1770, in Burke’s Thoughts on the Cause of the Present Discontents, London, Macmillan, 1905, p. 81. 57   J. Conniff, Burke, Bristol, and the Concept of Representation, in «Western Political Quarterly», XXX, 1977, pp. 329-341. 58   Non era nemmeno così vero che Burke fosse tanto restio a preoccuparsi degli elettori. Cfr. P.T. Underdown, Edmund Burke, the Commissary of His Bristol Constituents, 1774-1780, in «The English Historical Review», 287, LXXIII, 1958, pp. 252-269.

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devano comunque assai più inquieti e intransigenti. Il capofila nella contesa per la rappresentanza fu allora Emmanuel Sieyès, il quale soprattutto temeva che la Francia d’Ancien Régime si rigenerasse con i suoi particolarismi, insidiando l’unità dello Stato e il monopolio dell’autorità. Le lacerazioni del momento l’indussero a elaborare una concezione decisamente restrittiva della rappresentanza e del mandato elettorale. Era anche il tempo della legge Le Chapelier, che vietava ai lavoratori di associarsi. Pertanto, se le elezioni erano lo strumento con cui selezionare i rappresentanti, l’assemblea legislativa e la sua azione di governo andavano messi al riparo da qualsiasi istruzione che la dividesse e pregiudicasse la sua capacità di perseguire il bene comune59. Con rivoluzionaria risolutezza, e astrattezza, Sieyès attribuiva a quel consesso il compito esclusivo di costituire l’unità della nazione. Il ragionamento si articolava in due mosse. La prima consisteva nel fondamento rigorosamente individualistico prescritto alla rappresentanza politica: la società era popolata esclusivamente da individui, liberi e uguali, e andava tenuta sgombra da corpi intermedi. La seconda mossa unificava gli individui – e la varietà della vita collettiva – entro un unico mandante virtuale: la nazione. Una e indivisibile, quest’ultima si costituiva politicamente tramite il corpo legislativo, che era a un tempo il detentore monopolistico della rappresentanza e dell’autorità pubblica. Di nuovo era una prospettiva top/down: «Il popolo, scriveva Sieyès, non può parlare, non può agire se non attraverso i suoi rappresentanti e il popolo e la nazione non possono avere che una voce, quella del sistema legislativo nazionale»60. A loro volta, «gli interessi particolari devono restare isolati, e la volontà della maggioranza deve essere sempre conforme all’interesse generale»61. Precisava ancora Sieyès: «una società non può avere che un interesse generale. Sarebbe impossibile instaurare l’ordine se si pretendesse di perseguire vari interessi 59   Per un resoconto del dibattito costituente francese e sull’azione di Sieyès si rinvia a P. Violante, Lo spazio della rappresentanza, Palermo, Ila Palma, 1981. 60   E. Sieyès, Discorso dell’Abate Sieyès sulla questione del veto regio alla seduta del 7 settembre 1789, trad. it. in Opere e testimonianze politiche, 1789, t. I, Milano, Giuffrè, 1993, p. 444. 61  Id., Che cos’è il Terzo Stato?, 1789, trad. it in Opere, cit., t. I, p. 278.

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opposti. L’ordine sociale suppone necessariamente unità di scopi e comunione di mezzi»62. Era una visione hobbesiana. Una volta che gli elettori si fossero pronunciati, la parola spettava al corpo collettivo in cui si ritrovavano gli eletti, liberi da qualsiasi mandato. Spettava a essi «proporre, ascoltare, accordarsi, modificare il proprio personale parere» e potevano pure dividersi in maggioranze e minoranze. Alla fine, tuttavia, erano tenuti a formare «una volontà comune»63, che aveva come presupposto l’«unanimità indiretta»64 della nazione. Molto di più che per Burke, il pluralismo degli interessi costituiva per Sieyès una minaccia insopportabile. Tanto da convincersi alfine a consegnare al generale Bonaparte la Francia rivoluzionaria. Divenuto conte dell’Impero, gli verranno tutt’altre idee, mentre il regime rappresentativo era soppresso e la Francia si prendeva una lunga pausa monocratica65. Per reperire un’interpretazione della rappresentanza meno estrema, e più realistica, occorre varcare l’oceano. Tra la Rivoluzione gloriosa e la Grande rivoluzione, i Padri fondatori si mostrarono più disposti a riconoscere tanto il carattere plurale della collettività e del corpo rappresentativo, quanto l’esistenza d’interessi privati, o di quelle che Madison denominava «fazioni». Per gli americani il pluralismo culturale e religioso era addirittura genetico. La consuetudine delle assemblee cittadine e di villaggio, che disputavano dei pubblici affari, era assodata ben prima dell’indipendenza. Nel famoso articolo 10 del Federalist, Madison dava per scontato che i rappresentanti fossero dei delegati e si preoccupassero di affari privati e interessi locali. Ma soprattutto che le fazioni, fondate sulla natura acquisitiva degli esseri umani e sull’ineguale distribuzione della proprietà, fossero incoercibili. Rimuoverle, avrebbe messo a rischio la 62  Id., Preliminari della Costituzione. Riconoscimento ed esposizione ragionata dei diritti dell’uomo e del cittadino. Letto il 20 e 21 luglio 1789 al comitato di costituzione dall’Abate Sieyès, trad. it. in Opere, cit., t. I, p. 391. 63  Id., Discorso dell’Abate Sieyès sulla questione del veto regio alla seduta del 7 settembre 1789, trad. it. in Opere, t. I, cit., p. 443. 64   Id., Preliminari..., cit., p. 392. 65   Sulle origini del regime bonapartista e sulla sua natura plebiscitaria, L. Scuccimarra, La sciabola di Sieyès. Le giornate di brumaio e la genesi del regime bonapartista, Bologna, Il Mulino, 2002.

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libertà, meglio regolarle e orientarle. Ovvero sopportarle e semmai lasciare che si moltiplicassero entro una repubblica di vaste dimensioni, ospitante una popolazione numerosa e differenziata. Fazioni e partiti si sarebbero moltiplicati, interessi e fedi religiose si sarebbero dispersi, rendendo più remoto il rischio di coalizioni maggioritarie troppo solide e durature, refrattarie alla revoca elettorale e, dunque, oppressive nei confronti delle minoranze. Madison confidava altresì in un tipico correttivo del mondo dei notabili. Qualora si fossero rispettate le gerarchie sociali costituite, le elezioni avrebbero convogliato nel Congresso un «corpo scelto di cittadini, la cui saggezza [avrebbe potuto] meglio discernere l’interesse generale del proprio paese ed il cui patriottismo e la cui sete di giustizia [avrebbe reso] meno probabile che si [sacrificasse] il bene del paese a considerazioni particolarissime e transitorie»66. Che gli eletti si affrancassero dagli interessi privati, era comunque un’eventualità improbabile. Per contro, l’esperienza condotta lontano dalla madre patria inglese induceva gli autori della Costituzione a non riporre troppe attese nell’autorità pubblica. Ciò rendeva più accettabile che la rappresentanza introiettasse una dose di pluralismo maggiore di quella che erano disposte ad accettare le élites europee. Che la rappresentanza potesse divenire veicolo di più ampia e pluralistica inclusione sociale e politica è un’idea che si farà strada con lentezza esasperante. Nella Francia della Restaurazione e della Monarchia di luglio e nell’Inghilterra vittoriana il potere resterà riservato ai ceti possidenti, pur con uno slittamento verso quelli industriali e commerciali. E varrà ancora la diffidenza verso il pluralismo. Non ne era esente nemmeno Stuart Mill, quantunque auspicasse una partecipazione più ampia dei cittadini, estesa anche alle donne. L’allargamento del suffragio avrebbe sì educato gli elettori, ma andava filtrato: «È importante, auspicava Mill, che gli elettori scelgano un deputato più preparato di loro e accettino poi la sua direzione»67. Ancor più severo, e legato a una concezione aristocratica dell’autorità 66   Il federalista, n. 10 (Madison), in A. Hamilton, J. Jay e J. Madison, Il Federalista, Pisa, Nistri Lischi, 1955, p. 62. 67   J.S. Mill, Considerazioni sul governo rappresentativo (1861), Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 174.

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pubblica, si mostrerà Walter Bagehot, che confidava invece nella supremazia riconosciuta al cabinet sul Parlamento, in ragione del potere di scioglimento che gli era conferito68. L’alternativa continentale sarà decisamente più drastica. A formularla in Germania furono alcuni autorevoli giuristi, esponenti di quel ceto di funzionari, magistrati, accademici, d’origine borghese che si era rappreso attorno allo Stato, facendo del diritto la sua specifica arma nelle dispute per il potere. Il regime rappresentativo era stato accolto anche fuori dai paesi d’origine, ma costoro tenevano a chiarire come la sua azione non dovesse mettere in dubbio il monopolio statale – e la loro idea di ordine sociale – sottomettendosi agli interessi privati e agli esiti elettorali. Per un pensatore rivoluzionario come Sieyès, la rappresentanza doveva inchinarsi alla Nazione. In questa variante si sarebbe inchinata allo Stato, organicisticamente ricongiunto con essa, col popolo e con la vita associata. Era radicale l’argomento con cui uno dei massimi giuspubblicisti della Germania bismarckiana e guglielmina, Paul Laband, troncava ogni controversia sulla portata del mandato e sulla rappresentanza: «in senso giuridico i membri del Reichstag non rappresentano nessuno; le loro attribuzioni non sono derivate da un altro soggetto giuridico»69. È dunque «da considerare come antigiuridica la contraria concezione che il popolo eserciti, mediante il Reichstag, come sua rappresentanza, una partecipazione continua agli affari pubblici dell’Impero. Appena compiuta l’elezione, cessa ogni partecipazione, ogni cooperazione, ogni influenza giuridicamente rilevante del “popolo intero”, cioè dei cittadini sulle determinazioni di volontà dell’Impero»70. Un quarto di secolo dopo a esiti analoghi giungerà anche un giurista liberale e innovativo come Georg Jellinek, il quale riconosceva sì al popolo uno spazio che Laband gli rifiutava, ma solo in quanto organizzato dallo Stato per il tramite del corpo legislativo71. 68   W. Bagehot, La costituzione inglese (1872), Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 153-156. 69   P. Laband, Il diritto pubblico del l’Impero germanico (1876), trad. it. in Biblioteca di scienze politiche ed amministrative, serie 3a, vol. VI, parte I, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1914, pp. 400-401. 70   Ivi. 71   G. Jellinek, Allgemeine Staatslehre (1914), Berlin, Springer, 1929, pp. 580-582.

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Altrettanto riduttiva ed esclusiva è l’idea formulata a cavallo tra i due secoli in Italia e in Francia da due altri giuristi di elevata caratura come Vittorio Emanuele Orlando e Raymond Carré de Malberg, che derubricavano la rappresentanza a strumento per reclutare il personale elettivo. Accademico di cultura in gran parte d’importazione germanica, Orlando sarebbe divenuto un grande notabile e un protagonista della vita pubblica per oltre mezzo secolo. Ma proveniva soprattutto da un paese giunto in ritardo all’unificazione e all’adozione del regime parlamentare. Forse per questo era tanto perentorio nel definire la rappresentanza una «finzione»72. Diversamente da come la userà Hans Kelsen, la parola serviva a sbarrare la strada a ogni velleità di rendere più rappresentativa e inclusiva la rappresentanza: finzione era e tale doveva restare. Qualsiasi «dichiarazione di volontà corrispondente alla delegazione di poteri, che si suppone essere sopravvenuta»73 era vietata. Gli elettori «nulla trasmettono e nulla hanno da trasmettere»74. L’elettore non vota come «uomo», che precede lo Stato ed è titolare di diritti, ma in quanto «autorizzato dalle leggi», e lì si esaurisce il suo compito75. Pertanto, poiché popolo e Stato s’identificano – l’uno è l’«elemento materiale», l’altro ne è la «personalità giuridica» – i deputati «rappresentano lo Stato», rispetto al quale la rappresentanza, oltre che finzione, è «funzione»76. È finzione perché non c’è mandato. Ed è funzione dello Stato, che mediante la costituzione la istituisce. Non troppo diverso era il punto di vista di Carré de Malberg. Successore, per un capriccio della storia, di Laband nella cattedra di diritto pubblico all’università di Strasburgo, restituita alla Francia all’indomani del primo conflitto mondiale, restava nella scia di Sieyès nel sostenere che «l’assemblea dei deputati ha la funzione di esprimere non la volontà degli elettori, ma la volontà statale della nazione». Agli elettori 72  V.E. Orlando, Sul fondamento giuridico della rappresentanza politica (1895), in Id., Diritto pubblico generale. Scritti varii coordinati in sistema, 1881-1940, Milano, Giuffrè, 1954, p. 424. È un testo originariamente apparso in francese. 73   Ivi, p. 440. 74   Ivi, p. 439. 75   Ivi, p. 418. 76   Ivi, p. 440.

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competeva nient’altro che un «potere di nomina», esclusivo di qualsiasi mandato77. Le distanze che separavano i tre maggiori regimi rappresentativi continentali erano ragguardevoli. In Germania nel 1871 era stato introdotto il suffragio universale, ma la preminenza del potere monarchico e dell’esecutivo non era in dubbio. Nell’Italia liberale di fine secolo e nella Francia della Terza Repubblica gli equilibri istituzionali e politici erano tutt’altri: il parlamento era un’istituzione di peso, era luogo di contese politiche, ma pure oggetto di aspre critiche. All’ordine del giorno del dibattito pubblico c’era il dilemma tra paese reale e paese legale, sollecitato tanto dai democratici, quanto dai conservatori. Il pluralismo faceva sentire la sua pressione. Il suffragio universale maschile era stato introdotto in Francia nel 1848, ma era stata la parentesi plebiscitaria del Secondo Impero a renderlo pienamente operativo. In Italia la riforma del 1882 incrementò il numero degli elettori fino a due milioni, ma tutto lasciava prevedere che nuove inclusioni sarebbero tosto sopravvenute. Compiuta o incombente, l’universalizzazione del suffragio minacciava una sostanziale redistribuzione del potere. Il timore si mostrerà eccessivo, anche se il suffragio imporrà qualche adeguamento al modo di operare delle élites politiche in carica. Malgrado il quale, tuttavia, l’Italia liberale non reggerà alla sfida e sopravverrà un regime autoritario, mentre pure per la Francia si aprirà una stagione di rimilitarizzazione dei conflitti. Orlando e Carré de Malberg intendevano piantare solidi steccati a difesa del regime rappresentativo liberale, insufficienti tuttavia a sostenere l’impatto con la politica di massa. I punti di vista restrittivi, antipluralistici, esclusivi, erano insomma venuti in scadenza. Riaffioreranno molto presto, ma intanto nuove forze erano all’opera. Era entrato in scena il movimento socialista e l’andamento della contesa travolgeva i vecchi modi di pensare la rappresentanza. I conservatori sono spesso i più lucidi. Come Gaetano Mosca, coetaneo, conterraneo e amico di Orlando, grande teorico delle élites, il quale avviava un impietoso ripensamento. Mosca, che non era un giurista,

77   R. Carré de Malberg, Contribution à la théorie générale de l’État, vol. II, Paris, Sirey, 1920, p. 230.

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chiamava la rappresentanza una «menzogna»78, concordando con Rousseau, verso il quale, inutile dirlo, nutriva ben scarsa simpatia. Anche lui era un esponente del mondo dei notabili, destinato a divenire membro autorevole della Camera dei deputati, prossimo agli ultimi eredi della Destra storica, e infine senatore del Regno. Resterà un critico ostinato del regime rappresentativo fino al 1925. Quando il suo collasso lo indurrà a aderire al manifesto antifascista di Croce. Il piglio era arcigno e dichiaratamente conservatore. Ben conoscendo l’andamento delle contese elettorali, Mosca anticipava l’interpretazione costruttivista della rappresentanza. I regimi rappresentativi, assediati dal pluralismo, contribuivano a suscitarlo. Cosa sarebbe accaduto una volta istituito il suffragio universale? Per Mosca, la dimensione inclusiva e demagogica del regime rappresentativo era incontrollabile: i pretendenti alla rappresentanza, in cerca di consenso elettorale la sfruttavano e ne profittavano anche gli elettori. Il suo verdetto era quindi senza appello: condannate a essere fonte inesauribile di frammentazione, le istituzioni rappresentative alimentavano anche l’immoralità pubblica. «Gli elettori, ebbe a scrivere Mosca nel suo primo scritto di polso, anziché votare il più preparato e il più onesto scelgono quello che saprà meglio considerare i loro interessi locali, ovvero di classe, ovvero anche individuali»79. Includono il peggio ed escludono il meglio. Resterà fedele a quest’idea80 e curiosamente propugnerà un anacronistico ritorno all’autorità dei notabili. Solo l’avvento del fascismo l’avrebbe persuaso a riconoscere al regime rappresentativo qualche merito, ma non scorgeva vie d’uscita. Rimase in preda delle sue inquietudini.

  G. Mosca, Sulla teorica dei governi..., cit., p. 286.   Ivi, p. 306. Mosca ribadirà caparbiamente il suo punto di vista in occasione dell’introduzione del suffragio universale nel 1912, quando fu uno dei due soli deputati che votarono contro. All’occasione pronunciò un durissimo discorso: cfr. Sulla riforma elettorale politica. Discorso pronunciato alla Camera dei deputati nella tornata del 7 maggio 1912, ora in Id., Ciò che la storia potrebbe insegnare, Milano, Giuffrè, 1958, pp. 353-367. 80   Cfr. G. Mosca, Cause e rimedi della crisi del regime parlamentare, in Id., Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Bari, Laterza, 1949. 78

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5. Tecniche di dosaggio e di esclusione Dove c’è concorrenza, sostiene Elias, c’è tendenza al monopolio. Anche nella lotta per la rappresentanza. È un paradosso. Da un lato la rappresentanza moderna è stata inventata per consentire al pluralismo d’esprimersi. Dall’altro non sfugge alla propensione al monopolio e a comprimere la concorrenza. Il pluralismo, specie quello degli avversari politici, può essere scomodo per chi governa, o per qualche concorrente: i partiti maggiori possono volersi liberare di quelli minori. Il ripristino dell’autorità monocratica è la soluzione estrema. Un po’ per convenienza, un po’ per necessità, la tendenza a comprimere il pluralismo si manifesta però anche tra coloro che apprezzano il regime rappresentativo. La cui storia è anche storia di uno straordinario assortimento di argomenti, manovre, espedienti, regole, riforme, intesi a disegnare il perimetro della rappresentanza, ad ammettere più o meno pluralismo, a escludere o includere. Non mancano nemmeno le promesse di allargare gli spazi democratici, ma solo per restringerli meglio. E quanto suggerisce Giovanni Sartori, quando ha polemicamente coniato per alcune innovazioni recenti – volte a valorizzare il ruolo dei cittadini e gli elettori: primarie, referendum, investiture dirette – il concetto di «direttismo»81. La regola è che ogni misura, inclusiva o esclusiva che sia, venga avanzata in nome dell’interesse generale, della stabilità, della rappresentatività, della democrazia, della governabilità. Se il regime rappresentativo è una tecnica che prevede l’assunzione di dosi controllate di pluralismo, e dunque di disordine, quanto pluralismo e quanto disordine conviene accogliere? Quali pretendenti conviene ammettere e quali escludere? Quali offerte di rappresentanza sono legittime e quali illegittime? Cos’è decidibile dalla rappresentanza e cosa non lo è? A disciplinare la contesa politica non sono coinvolte unicamente le parti politiche, ma pure i portatori d’interessi, gli osservatori, gli intellettuali, gli specialisti accademici della rappresentanza, la pubblica opinione. 81   G. Sartori, Democrazia. Ha un futuro?, in A. D’Orsi (a cura di), Lezioni Bobbio. Sette interventi su etica e politica, Roma-Bari, Laterza, 2006. Sul ritorno della democrazia diretta un’indagine molto circostanziata è quella di Y. Papadopoulos, Démocratie directe, Paris, Economica, 1999.

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Ne è buon esempio il tema del mandato. A parte la contesa teorica su cosa significhi, il costituzionalismo liberale ha dettato tre regole principali: l’irrevocabilità dello stesso mandato, il suo carattere nazionale e il divieto d’istruzioni. Poche regole sono state più trasgredite delle ultime due. Ben più incisive sono invece le regole di dosaggio che circoscrivono i potenziali fruitori dell’offerta di rappresentanza, che perimetrano il popolo, o, meglio, l’elettorato82. I criteri possibili sono numerosi. A lungo non v’è stato dubbio su restringere il diritto di voto83. I rivoluzionari francesi furono più generosi, offrirono l’opportunità di votare a quasi 5 milioni di elettori, ma distinsero tra cittadini «attivi» e «passivi», con qualche dubbio sulla distinzione: attivi erano i ceti abbienti, ma pure i ceti istruiti, che s’iscrivessero alle liste elettorali. Dopo la Rivoluzione, i criteri saranno più restrittivi. Secondo un fautore convinto del regime rappresentativo come Benjamin Constant, il diritto di voto spettava unicamente a chi avesse interessi – proprietari  – da salvaguardare: quello era il reale perimetro della società84. Più avanti, la barriera del censo diverrà insostenibile e sarà abbassata introducendo il criterio dell’istruzione, che Stuart Mill, però, declinava attribuendo ai ceti colti il diritto di plural voting85. I cui estremi residui, riservati agli universitari, saranno cancellati in Gran Bretagna solo nel 1948. Estendere o meno il diritto di voto è una scelta tanto complessa, quanto delicata. L’estensione altera gli equilibri di potere: tra le élites e i nuovi ammessi e tra le stesse élites, che intrattengono rapporti diversi con i nuovi ammessi86. È sempre 82   Una dimostrazione di quanto definire il popolo sia complicato si trova in P. Rosanvallon, Il popolo introvabile. Storia della rappresentanza democratica in Francia, Bologna, Il Mulino, 2005. 83   B. Manin, Principes du gouvernement représentatif, cit. 84  B. Constant, Principes de politique (1815), in De la liberté chez les modernes. Écrits politiques, Paris, Librairie Générale Française, 1980, pp. 316-317. Ma non troppo diversamente si sarebbe espresso mezzo secolo dopo W. Bagehot in La costituzione inglese, cit. 85   J.J. Miller, J.S. Mill on plural voting, competence and participation, in «History of Political Thought», 4, XXIV, 2003, pp. 647-667.  86   A. Bateman, Disenfranchising Democracy. Construction of the Electorate in the United States, the United Kingdom, and France, Cambridge, Cambridge University Press, 2018.

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un motivo di conflitto. Il suffragio è divenuto universale in Francia nel 1848, a seguito di un sollevamento rivoluzionario, mentre in America lo è diventato più pacificamente. In ambedue i casi era esclusa la popolazione femminile, mentre negli Stati Uniti anche quella afroamericana. La soglia avversa al voto femminile sarà mantenuta molto a lungo. Si dubitava della capacità di giudizio autonomo delle donne e anche qualche democratico si mostrava perplesso, ritenendole troppo sottomesse all’autorità familiare. La soglia cadrà a Novecento inoltrato: in Italia nel 1946, nell’ultrademocratica Svizzera nel 1971. In America il diritto di voto è stato riconosciuto alla popolazione afroamericana dopo la guerra civile, ma ha dovuto attendere il Civil Rights Act e il Voting Rights Act nel 1965 per essere attuato pienamente. In realtà, molte assemblee statali hanno seguitato a adottare a suo danno misure di scoraggiamento, complicando le procedure d’identificazione degli elettori 87, oppure di disenfranchisement: per esempio escludendo coloro che abbiano subito una condanna penale, in percentuale molto più numerosi entro questa popolazione. Si possono tuttavia usare anche altri criteri di dosaggio, perfino religiosi. All’alba del regime rappresentativo, John Locke, il grande teorico della tolleranza, invitava a escludere dalla vita pubblica i cattolici perché leali a un sovrano straniero88. L’esclusione durerà fino al 1793. All’inizio del terzo millennio in Europa si dibatte sul voto agli immigrati: che ci si guarda di escludere dalla fiscalità. Alla luce delle scelte che gli elettori vanno effettuando con crescente frequenza, è comparsa all’orizzonte addirittura qualche proposta di revocare il diritto di voto ai ceti meno istruiti: quasi che un diploma scolastico sia 87   È il tema appassionatamente sollevato da L. Guinier in The Tyranny of the Majority: Fundamental Fairness in Representative Democracy, New York, Free Press, 1995. Guinier è una giurista americana, designata da Clinton nel 1993 quale assistant attorney general per i diritti civili. L’opposizione alla nomina, avviata dal Wall Street Journal, accusandola di essere una quota queen, indusse Clinton a ritirare la nomina in ragione delle sue proposte definite estremiste e «anti-democratiche». Il suo libro denuncia come, nel pieno rispetto del principio di maggioranza, le regole elettorali sistematicamente penalizzassero l’elettorato afroamericano. Il tema è più che mai di attualità. 88   J. Locke, Saggio sulla tolleranza, in Id., Scritti sulla tolleranza, a cura di D. Marconi, Torino, Utet, 1977, p. 104.

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di per sé garanzia di superiore affidabilità. Oppure di avvalersi di uno strumento ultrademocratico come il sorteggio89. È possibile selezionare anche i pretendenti alla rappresentanza: in Inghilterra nel XVIII secolo la proprietà fondiaria era un requisito necessario. Alla lunga, è rimasto unicamente il criterio dell’età. Ma la selezione può avvenire sulla base di criteri politici. Nel dopoguerra la ricostituzione del partito fascista è stata vietata in Italia, mentre nella Repubblica federale tedesca, oltre al partito nazista, è stato messo fuori legge nel 1953 quello comunista. Nel nuovo millennio nell’Europa exsocialista i partiti comunisti sono stati colpiti da anatema. Si danno anche esclusioni parziali e ufficiose, come la conventio ad excludendum, che impediva agli eletti del Partito comunista italiano di accedere al governo. Un espediente più sottile è dettare norme riguardanti la vita interna dei partiti, ovviamente per garantirne il carattere democratico90. La tecnica più banale di dosaggio del pluralismo e della rappresentanza sono le regole che presiedono allo svolgimento della competizione: quelle elettorali, che dettano i criteri sia per avanzare l’offerta, sia per condurre le operazioni di voto. Richiedere un certo numero di firme, o un deposito cauzionale, per candidarsi è una forma di selezione. Lo è pure stabilire quando e come si vota, chi predispone le schede elettorali, come devono compilare la scheda gli elettori, come si conteggiano i suffragi e si traducono in seggi, come sono ritagliate le circoscrizioni. Confidando su quest’ultima possibilità, Sieyès volle corredare le sue perorazioni di principio a favore della rappresentanza nazionale con una singolare proposta d’ingegneria elettorale finalizzata a sterilizzare sia le istruzioni degli elettori, sia gli 89   Punta sul sorteggio D. Van Reybrouck, Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico, Milano, Feltrinelli, 2015, mentre preferisce gli esperti J. Brennan, Contro la democrazia, Roma, Luiss University Press, 2018. 90  I. van Biezen, Constitutionalizing Party Democracy: The Constitutive Codification of Political Parties in Post-War Europe, in «British Journal of Political Science», 42, 2011, pp. 1187-1212. Cfr. anche F. Casal Bértoa, D.R. Piccio e E. Rashkova, Party Laws in Comparative Perspective: Evidence and Implications, in I. van Biezen e H.M. ten Napel (a cura di),  Regulating Political Parties: European Democracies in Comparative Perspective, Leiden, Leiden University Press, pp. 119-148. Tutto il volume contiene dati di ricerca interessanti.

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esiti della contesa. Per neutralizzare l’estrazione territoriale e le affiliazioni politiche immaginò di disegnare geometricamente le circoscrizioni, ritagliando la Francia in quadrati, delle medesime dimensioni: il territorio nazionale diveniva uno spazio unitario e omogeneo, suddiviso unicamente per ragioni funzionali91. Non contavano dipartimenti, città, villaggi, monti, vallate, fiumi, né la consistenza demografica delle circoscrizioni. Un contemporaneo di Sieyès, quasi a coronarne la proposta, avrebbe suggerito di mettere i deputati in uniforme, onde spogliarli ufficialmente d’ogni legame privato92: com’era d’uso per i funzionari dell’assolutismo monarchico. Disegno e ridisegno delle circoscrizioni condizionano la competizione elettorale e i suoi esiti. Il Reform Act del 1832 si preoccupò di bonificare i rotten boroughs, in cui il deputato non aveva quasi bisogno di elettori: fu l’effetto di una dura contesa politica. Sono contese, che su scala diversa, si riproducono tuttora. In Francia di quando in quando l’esecutivo pilota il redécoupage, in maniera per nulla innocente, dei collegi93. Negli Stati Uniti il gerrymandering è una pratica molto frequente. Sono molto attivi da alcuni anni gli stati a guida repubblicana, nei quali si diluiscono le circoscrizioni a prevalenza democratica incrociandole con altre a prevalenza repubblicana. Oppure vengono ridisegnate in ragione dell’appartenenza etnica degli elettori94. Contano anche le norme che disciplinano lo svolgimento delle operazioni di voto: le tecniche con cui il voto è espresso, la segretezza, la cabina elettorale, la scheda unica nazionale, la dislocazione territoriale dei seggi. Ufficialmente servono a moralizzare la competizione e a promuovere autonomia e responsabilità personale dell’elettore al momento della scelta. Ma neanch’esse mancano di orientare i comportamenti di voto 91  Id., Osservazioni sul rapporto del comitato di costituzione concernente la nuova organizzazione della Francia di un deputato all’Assemblea nazionale, 1789, trad. it. in Opere, t. I, cit., pp. 457-460. 92   P. Rosanvallon, Il popolo introvabile, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 207. 93   C. Benelbaz, Le redécoupage électoral sous la Ve République, in «Revue du droit public», 6, 2010, pp. 1066-1089. 94   Sulle pratiche attuali di gerrymandering in America T. Ginsburg e A.Z. Huq,  How to Save a Constitutional Democracy, Chicago, The University of Chicago Press, 2018.

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e d’influire sui risultati95. Perfino il timing delle elezioni non è senza conseguenze: solo dal 2011 nel Regno Unito è stata sottratta all’esecutivo la possibilità di convocare i comizi elettorali a suo piacere. Ha effetti selettivi pure l’apertura dei seggi nei giorni festivi o in quelli feriali e quante ore restano aperti. Molte delle norme in questione incoraggiano, o scoraggiano, selettivamente, la partecipazione elettorale, con conseguenze diverse per le forze politiche e per gli interessi che rappresentano. Fa anche differenza che gli elettori siano tenuti a iscriversi alle liste elettorali, o siano iscritti d’ufficio: l’iscrizione a richiesta è un incentivo negativo per i meno istruiti e i più restii agli adempimenti burocratici96. In America le elezioni del 2020 sono state segnate dalla polemica sul voto per corrispondenza, a quanto pare più redditizio per un partito anziché per l’altro. Non senza controversie si sperimenta il voto elettronico. Può favorire, o contrastare l’astensione. Si può pure imporre l’obbligo di votare e sanzionare chi si astiene. Un modo per prevenire l’astensione è investire nell’educazione dei cittadini, cui un tempo provvedevano anche i partiti, poiché è risaputo che gli astenuti provengono in prevalenza dai ceti meno abbienti e meno istruiti. C’è altresì da supporre che l’astensione sia una soglia occulta di censo che a qualcuno torna comoda97. Un altro meccanismo selettivo dell’offerta consiste nel regolare le disponibilità finanziarie dei concorrenti98. Anche questa operazione non è mai innocente. Si possono prevedere finanziamenti privati e pubblici. Vietare o autorizzare i finanziamenti privati, istituire o meno tetti a questi ultimi, imporre vincoli alle spese elettorali e obblighi di rendicontazione ai concorrenti sono altri modi per dosare l’offerta di rappresentanza. È ovvio che, quando si autorizzano i finanziamenti privati, i partiti che 95   Sulle tecniche di voto e su come esse condizionino gli elettori, cfr. A. Garrigou, Le vote et la vertu. Comment les Français sont devenus électeurs, Paris, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, 1992. 96  L’indagine condotta in Francia da C. Braconnier e J.-Y. Dormagen, La démocratie de l’abstention. Aux origines de la démobilisation en milieu populaire, Paris, Gallimard, 2007, mostra tra le altre cose quanto i vincoli amministrativi possano restringere l’esercizio del diritto di voto. 97   D. Gaxie, Le cens caché. Inégalités culturelles et ségrégation politique, Paris, Seuil, 1978. 98   J. Mendilow e É. Phélippeau (a cura di), Handbook of Political Party Funding, Cheltenham, Edward Elgar, 2018.

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dispongono di un bacino elettorale tra i ceti abbienti siano avvantaggiati rispetto a quelli che si rivolgono ai ceti inferiori, anche se si sono finanziate campagne elettorali vincenti con una miriade di contributi modesti. A dispetto dell’equivalenza tra un uomo e un voto, l’offerta si può notoriamente selezionare anche tramite le modalità di conteggio dei voti e di traduzione dei voti in seggi99: sono i sistemi elettorali in senso stretto. Ne discendono di nuovo forme di competizione e risultati molto diversi. Nei sistemi proporzionali i voti hanno tutti lo stesso valore. Tali sistemi sono apprezzati, o criticati, innanzitutto perché favoriscono l’espressione del pluralismo: gli elettori hanno più opportunità di scelta. C’è pure chi ritiene che i sistemi proporzionali incoraggino la partecipazione elettorale. Si può tuttavia corredarli di soglie di sbarramento: che cancellano una quota di voti ridotta, ma sempre di cancellazione si tratta. O di premi di maggioranza, che sopravalutano una parte dei voti rispetto al resto. Sono altamente selettivi, invece, i regimi uninominali, che corrispondevano in origine a una concezione del popolo in quanto sommatoria di collettività territoriali, come quella americana o britannica. I quali inevitabilmente condannano all’irrilevanza formazioni politiche con ampio seguito: si veda la sorte del Partito liberale in Gran Bretagna, dove peraltro in qualche caso il partito che alle elezioni ha ottenuto più voti è arrivato secondo nell’attribuzione dei seggi. Sempre con intenti selettivi nel 1959 de Gaulle impose in Francia l’uninominale con doppio turno, convinto che avrebbe favorito il ralliement degli elettori moderati, mentre a sinistra gli elettori socialisti e comunisti sarebbero rimasti divisi. Furono disboscati i partiti minori, ma socialisti e comunisti non sono rimasti divisi per sempre e alla lunga i partiti minori sono ricomparsi e cresciuti in consistenza fino a superare i partiti established. Se l’avvicendamento al potere di partiti diversi è una regola ampiamente accettata, la reductio ad duo dell’offerta politica ha da tempo trovato molti estimatori. È il grande mito della superiorità british: semplificando al massimo la contesa, 99   Tra i primi, M. Duverger (a cura di), L’influence des systèmes électoraux sur la vie politique, Paris, Colin, 1950. Cfr. anche G. Sartori, Ingegneria costituzionale comparata: strutture, incentivi ed esiti, Bologna, Il Mulino, 1995.

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i partiti che vogliano massimizzare il loro seguito elettorale sono sospinti a moderare la loro offerta. Si tendono così a emarginare le formazioni politiche estreme, a tutto vantaggio, si dice, della stabilità politica e dell’efficacia decisionale. Se non che, innanzitutto l’idea di due partiti che oltre Manica si avvicenderebbero ordinatamente al governo è un mito esagerato. Una cosa erano le opposizioni parlamentari, ma quella che si usa chiamare alternanza entrerà nel costume politico in Inghilterra solo dopo il Reform Act del 1832 e in maniera più limitata di quanto dicano i suoi estimatori100. In secondo luogo, alla prova dell’esperienza, non sempre i sistemi dualistici moderano la competizione. Nel secondo dopoguerra ci sono riusciti per tre decenni. Finché dagli anni ’80, in Gran Bretagna e in America, la contesa politica non si è gravemente polarizzata. Ha assunto le forme di un’accentuata radicalizzazione sulla destra, non bilanciata però sulla sinistra. Il Partito laburista e quello democratico si segnalano piuttosto per la loro moderazione. È stata definita polarizzazione «asimmetrica»101, non per questo meno problematica, divenuta infine una tendenza generale. Distinguendo tra regimi «maggioritari» e «consensuali», Arendt Lijphart ha invece argomentato come in questi ultimi, dove il pluralismo politico, religioso, linguistico, culturale è riconosciuto e rispettato102, le performances dell’azione di gover100   In Inghilterra l’alternanza al governo si afferma dopo le guerre napoleo­ niche: J.D.C. Clark, A General Theory of Party, Opposition and Government, 1688-1832, in «The Historical Journal», 2, XXIII, 1980, pp. 295-332. Ma si affermerà relativamente: cfr. G.N. Sanderson, The «Swing of the Pendulum» in British General Elections, 1832-1966, in  «Political Studies», 3, XIV, 1966, pp. 349-360. Cfr. anche P. Rosanvallon, La legittimità democratica. Imparzialità, riflessività, prossimità, Torino, Rosenberg & Sellier, 2015, pp. 46-56. Sull’alternanza divenuta tratto irrinunciabile dei regimi democratici, cfr. P. Aldrin, L. Bargel, N. Bué e C. Pina (a cura di), Politiques de l’alternance. Sociologie des changements (de) politiques, Vulaines-sur-Seine, Éditions du Croquant, 2016, in particolare il capitolo introduttivo dei curatori che racconta come il mito dell’alternanza sia stato esportato dalla political science statunitense in tempi piuttosto recenti, tra gli anni ’70 e ’80 del Novecento. 101   M. Grossmann e D.A. Hopkins, Ideological Republicans and Group Interest Democrats: The Asymmetry of American Party Politics, in «Perspectives on Politics», 1, XIII, 2015, pp. 119-139. Il concetto di polarizzazione asimmetrica è applicato alla politica americana, ma si adatta anche alla politica europea. 102   A. Lijphart, Patterns of Democracy: Government Forms and Performance in Thirty-six Countries, New Haven, Yale University Press, 2012.

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no siano spesso più efficaci. Quando contenuto, il pluralismo dei partiti ha offerto apprezzabili vantaggi. La tesi è ripresa da Carlo Trigilia, per il quale i vantaggi sarebbero evidenti sul terreno di quella che si usa chiamare la «coesione» sociale103. È ancora lotta per la rappresentanza, perché pure la coesione sociale e i suoi benefici sono controversi. Ultimamente, tuttavia, anche le democrazie consensuali si sono per lo più arrese alla semplificazione dualistica. Le regole scritte, come sempre, non sono tutto. L’andamento del gioco dipende anche da regole non scritte, o da come i giocatori interpretano le regole scritte e non: tanto i giocatori interni al gioco, cioè pretendenti alla rappresentanza ed elettori, quanto i giocatori esterni, studiosi inclusi. Ne abbiamo un esempio recente. Un grande tema di discussione tra giuristi e scienziati sociali negli anni ’70 è stata la già citata governabilità. È una discussione che tramite i media ha coinvolto la pubblica opinione e, necessariamente, le forze politiche. Era un invito rivolto a queste ultime perché rivedessero le tecniche di rappresentanza e di governo. A suscitare la pressione dei media sono state le loro esigenze spettacolari, che l’avvento dei networks commerciali, dipendenti dal mercato pubblicitario, ha esasperato all’estremo. Simili sviluppi sono approssimativamente descritti con l’etichetta di «presidenzializzazione»104, evocando una qualche convergenza col modello americano, sia nella conduzione dell’esecutivo, sia in sede di competizione elettorale105. 103   Argomenta in dettaglio C. Trigilia, La sfida delle disuguaglianze. Contro il declino della sinistra, Bologna, Il Mulino, 2022. 104   Come tutte le formule, anche questa è sbrigativa. Ne sono pienamente consapevoli gli studiosi che l’hanno introdotta: cfr. T. Poguntke e P. Webb (a cura di), The Presidentialization of Politics. A Comparative Study of Modern Democracies, Oxford, Oxford University Press, 2005. Inquadra storicamente il fenomeno, sottolineando il ruolo delle nuove tecnologie della comunicazione, A. Mughan, Media and the Presidentialization of Parliamentary Elections, New York, Palgrave, 2000. Un’analisi della presidenzializzazione e delle sue ragioni in P. Rosanvallon, Le bon gouvernement, Paris, Seuil, 2010. 105  L’accostamento è approssimativo: sul carattere labirintico del regime rappresentativo-democratico in America, cfr. S. Mettler, From Pioneer Egalitarianism to the Reign of the Super-Rich: How the U.S. Political System Has Promoted Equality and Inequality over Time, in «Tax Law Review», 68, 2015, pp. 563-611.

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Traumatizzati dal sovrappiù di leadership che aveva segnato i regimi autoritari, le nuove costituzioni democratiche avevano predisposto accorgimenti intesi a stabilizzare l’esecutivo106, senza tuttavia prevedere alcuna forma di leadership personale, eccezion fatta forse per il gollismo, che aveva comunque suscitato qualche riserva. La riabilitazione della leadership non è però stata opera solo dei media e dell’ingegneria elettorale. Insieme alla reinterpretazione dello stile e dell’azione di governo, è stata inaugurata nel 1979 da Margaret Thatcher. Il «governo di gabinetto» britannico era già predisposto. Ma lei l’ha rinnovato, adottando una forma di conduzione dell’esecutivo fortemente personalizzata e aspramente polemica nei confronti dei suoi avversari: il Partito laburista e i sindacati. In contrasto con lo stile «corporativo» fino a quel momento in vigore, era una tecnica rivolta a contingentare il pluralismo e la rappresentanza, fondata sull’esclusione, che rivisitava radicalmente lo spirito con cui anche nel Regno Unito era stato finora applicato il principio di maggioranza. Non importa dopotutto sapere perché il principio di maggioranza sia preferibile: se è solo un espediente faute de mieux, o se il pronunciamento a maggioranza è prova di maggiore affidabilità della scelta107. Sta di fatto che l’abuso di tale principio è temutissimo da sempre e che per prevenirlo, il costituzionalismo ha introdotto qualche dispositivo – non insormontabile – di salvaguardia: ha separato i poteri e ha apposto limiti al loro esercizio. Al ripristino dei regimi democratici all’indomani del secondo conflitto mondiale, nella pratica era comunque invalsa una precauzione: se non proprio il kelseniano «compromesso tra interessi opposti»108, per cui conviene 106   Con accenti dubbiosi ne coglieva i primi sviluppi B. Mirkine-Guétzévich, Le régime parlementaire dans les récentes constitutions européennes, in «Revue internationale de droit comparé», 4, II, 1950, pp. 205-238. Confermava G. Vedel, Rapport général sur le problème des rapports du législatif et de l’exécutif présenté au Congrès de l’Association internationale de science politique, in «Revue française de science politique», 2, VIII, 1958, pp. 755-781. E finalmente A. Grosser, The Evolution of European Parliaments, in «Daedalus», 1, XCIII, 1964, pp. 153-178. 107   Il dibattito è sterminato. Cfr. N. Bobbio, La regola di maggioranza: limiti e aporie, in N. Bobbio, C. Offe e S. Lombardini, Democrazia, maggioranza e minoranze, Bologna, Il Mulino, 1981. 108   H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, cit., p. 30.

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che maggioranza e minoranza in qualche modo s’incontrino, quanto meno l’idea di tenere sotto controllo la conflittualità sociale, mostrando qualche cura anche per l’elettorato delle opposizioni. Dagli anni ’80, in nome della governabilità una siffatta cautela sembra sia divenuta eccessiva: le società democratiche sono state ritenute pacificate a sufficienza da permettersi modalità di governo meno laboriose, più sbrigative, più efficienti e anche meno inclusive, foriere di misure di policy anch’esse meno inclusive: ovvero più gradite al mercato e ai suoi addetti. Se si considerano autocrazia e democrazia non come un dilemma, bensì come i poli estremi di un continuum lungo cui si situano i regimi politici, l’esasperazione dello stile adversary che caratterizza la contesa politica da qualche tempo, sommato alla leadership personale, segnala uno slittamento dei regimi rappresentativi in direzione dell’autocrazia: non assoluto, ma nemmeno trascurabile109. Per concludere: le partite elettorali non sono mai del tutto leali. O che le carte sono sempre un po’ truccate da chi le distribuisce, o detta le regole del gioco. I regimi rappresentativi hanno escogitato una tecnica per condurre pacificamente i conflitti, ma, occorre rassegnarsi, seppure condotta con altri mezzi, è sempre guerra. Eppure, per quanto chi detta le regole e dà le carte si affanni a limitarne a suo vantaggio l’imprevedibilità, le elezioni hanno il pregio, che è anche rischio, di riservare di quando in quando qualche sorpresa. Un verdetto inatteso e scomodo può sempre capitare. 6. Dalla rappresentanza fidelizzata alla rappresentanza occasionale Da metà XIX secolo la rappresentanza politica è stata ridisegnata dai partiti. Finora i suoi pretendenti avevano operato su scala locale. I partiti socialisti hanno avanzato viceversa un’offerta di rappresentanza nazionale, sfruttando la vasta constituency potenziale che si stava formando nelle fabbriche e nei quartieri operai. 109   M. Camau e G. Massardier (a cura di), Démocraties et autoritarismes. Fragmentation et hybridation des régimes, Paris, Karthala, 2009.

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Fu l’occasione per reindirizzare contro i partiti l’avversione contro la rappresentanza110. La requisitoria pronunciata nell’inquieta Germania del primo dopoguerra da Carl Schmitt ne è un esempio. Levandosi a difesa dell’unità dello Stato, Schmitt all’intrusione dei partiti opponeva un ritratto nostalgico, idilliaco e anche ingannevole del parlamentarismo liberale. Portavoce di «interessi di gruppi di individui» e aventi «per base l’egoismo»111, i partiti avrebbero trasferito il conflitto sociale lì dove si erano svolti finora civili e fecondi confronti tra opinioni diverse. Gli eletti dei partiti erano descritti come delegati, vincolati a ratificare decisioni assunte e contrattazioni svolte impropriamente in altre sedi. Non sono mancati però tutt’altri punti di vista112. Tra di essi quelli espressi negli stessi anni da Weber e Kelsen, entrambi fiduciosi delle possibilità di rinnovare grazie ai partiti la vocazione inclusiva e mediatoria del regime rappresentativo. L’uno e l’altro convinti che i tentativi di sopprimere il pluralismo e i conflitti servissero unicamente a rendere questi ultimi più drammatici e difficili da governare. In alternativa alle soffocanti routines burocratiche, ma anche alla «massa non organizzata»113, per Weber i partiti svolgevano tutt’altro servizio. «Il proletariato industriale, sta scritto in un articolo apparso alla fine del 1917, se si muove compatto, è certo una potenza enorme, anche nel dominio della “strada”». Canalizzata entro i partiti, tale potenza perdeva però il suo impeto distruttivo: diveniva «per lo meno [...] capace di un ordine e di una conduzione ordinata [...] tramite politici che pensano razionalmente»114. 110   Sulla polemica contro i partiti, cfr. D. Palano, Partito, Bologna, Il Mulino, 2013. La problematica e instabile legittimazione dei partiti occupa una posizione preminente anche nel racconto di P. Ignazi, Party and Democracy. The Uneven Road to Party Legitimacy, Oxford, Oxford University Press, 2017. 111  C. Schmitt, Parlamentarismo e democrazia (1923), in Id., Parlamentarismo e democrazia e altri scritti di dottrina e storia dello Stato, Cosenza, Marco Editori, 1998. Qui Schmitt cita Mosca e Michels, il quale ricambierà poco dopo: cfr. Prefazione alla seconda edizione, in La sociologia del partito politico, cit., pp. 17-18. 112   D. Mineur, Archéologie de la représentation politique. Structure et fondement d’une crise, Paris, Presses de SciencesPo, 2010, pp. 186-198. 113   M. Weber, Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania, Bari, Laterza, 1919, p. 140. 114  Id., Sistema elettorale e democrazia, in Scritti politici, cit., p. 83.

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Ossessionato dalla pervasività della razionalità burocratica, Weber suggeriva comunque di bilanciarla, e di bilanciare il pluralismo, prevedendo l’elezione a suffragio universale del Presidente del Reich115. Non fu una grande idea. Un’apertura di credito meno condizionata sarà quella di Kelsen, il quale proverà a conciliare ciò che a Schmitt appariva inconciliabile, muovendo dal riconoscimento del pluralismo116: l’azione di raggruppamento svolta di partiti era un mezzo per ridurlo. Schmitt aveva letto Michels e si faceva forte della legge di ferro delle oligarchie. L’aveva letto pure Kelsen, ma non si lasciava intimidire. Non sperava in una democrazia perfetta117. Ma i partiti imprimevano una piega egualitaria alla rappresentanza e ne potenziavano l’azione inclusiva. Magari solo per calcolo elettorale, valorizzavano l’infinitesima quota di potere riconosciuta a ciascun elettore e contribuivano a «democratizzare [...] la formazione della volontà generale»118. Sarà stata una finzione, perfino «grossolana» o «crassa»119, ma la rappresentanza era per Kelsen – diversamente da Orlando – una forma di divisione del lavoro utile a regolare il pluralismo degli interessi e anche a dare voce agli strati inferiori della società. «L’ostilità alla formazione dei partiti, concludeva, e quindi, in ultima analisi, alla democrazia, serve – consciamente o inconsciamente – a forze politiche che mirano al dominio assoluto degli interessi di un solo gruppo»120. La storia ci avrebbe messo qualche tempo, e qualche tragedia, per dare ascolto ai suggerimenti di Kelsen, ma si rivelerà meno grama quando, un quarto di secolo dopo, i partiti saranno accolti a pieno titolo dai regimi democratici. Merita di essere citata la conversione di un altro giurista di provenienza weimariana, che a suo tempo aveva condiviso le critiche di Schmitt. Più tardi giudice costituzionale della Re Id., Il Presidente del Reich, in Scritti politici, cit.   H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, cit., p. 29. 117   Ivi, p. 32. 118   Ivi. 119  A seconda delle traduzioni in italiano. Kelsen ripeterà più volte la formula krasse fiktion: in Essenza e valore della democrazia, cit., p. 70. E poi in Il problema del parlamentarismo (1924), in Id., Il primato del parlamento, Milano, Giuffrè, 1982, p. 178. 120   Ivi, pp. 30-31. 115 116

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pubblica Federale, Gerhard Leibholz nel dopoguerra sosterrà che non v’era altro modo per «organizza[re] e rend[ere] attivi i milioni di cittadini che si sono emancipati politicamente. Essi soli riuniscono gli elettori in gruppi capaci di agire politicamente [...] Senza il loro tramite il popolo non sarebbe oggi assolutamente in grado di esercitare un’influenza politica sulle vicende statali»121. I partiti andavano a suo parere addirittura costituzionalizzati. L’astrattezza del popolo dei partiti non era la stessa del popolo astratto della nazione, né di quello individualizzato dei notabili. Era un popolo articolato e riordinato in constituencies di grandi dimensioni, fondate su grandi divisioni sociali e durature nel tempo, che non s’incontrava soltanto al momento delle elezioni. Ma i partiti socialisti rimodulavano del pari la rappresentanza, suddividendola in due stadi. Nel primo il claim di rappresentanza istituiva e includeva i propri mandanti: la constituency di cui i partiti si facevano portavoce. Il secondo stadio risiedeva nella delega conferita dal partito, simbolicamente costituito in corpo collettivo unitamente al proprio seguito, ai candidati e agli eletti: come delega, poneva qualche vincolo. La rappresentanza fidelizzata e inclusiva, inventata dai partiti socialisti, è stata replicata dai partiti confessionali e conservatori. Le speranze di rinnovamento suscitate erano più modeste, erano speranze di mantenimento dello status quo, di protezione dai partiti di sinistra, ma anche tali partiti erogavano servizi di rappresentanza inclusivi e protettivi, eventualmente in forme clientelari. La stabilità – relativa – la si otterrà tuttavia unicamente una volta superato il secondo conflitto mondiale. La rappresentanza fidelizzata dai partiti produrrà un ultimo aggiustamento. Era un po’ un segno del suo esaurimento: gli accordi e le pratiche di concertazione adottati a lungo andare in alcuni regimi democratici tra l’esecutivo, espresso dai partiti, e le organizzazioni di rappresentanza «funzionali», quelle imprenditoriali e i sindacati. Il «neocorporativismo», a volte 121   G. Leibholz, Il mutamento strutturale della democrazia nel XX secolo (1968), in Id., La rappresentazione nella democrazia, Milano, Giuffrè, 1989, p. 320.

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ufficiale, altre volte ufficioso, è stato una variante della rappresentanza e del governo, che ha rivisto la divisione del lavoro tra le istituzioni, almeno su alcuni temi, quali l’occupazione, i salari, i servizi di sicurezza sociale122. I partiti erano però entrati ormai nella cerchia dello Stato e il loro rapporto con gli elettori era cambiato. A loro volta, gli interessi avevano guadagnato autonomia. Sarà la premessa di un nuovo grande rinnovamento delle tecniche e delle strategie della rappresentanza politica, che è divenuto visibile più o meno dopo la metà degli anni ’60. Un sommovimento ulteriore, e un altro sintomo di esaurimento, è stato la comparsa dei grandi movimenti collettivi, che hanno adottato modalità di rappresentanza inedite, aggirando le istituzioni elettive e istituendo con il loro seguito un rapporto volutamente fluido. Vi farà seguito la radicale trasformazione sia dei partiti, sia della rappresentanza. Sono tre i moventi principali, tra tanti, di tale trasformazione. Il primo è stato il cambiamento dei pre-testi con cui i partiti avevano finora costruito e articolato i loro claims: l’innalzamento del livello medio d’istruzione, l’incremento della differenziazione sociale, il transito alla società post-industriale, mettevano in dubbio le grandi constituencies aggregate dai partiti. Il secondo movente è l’evoluzione del con-testo e l’attenuarsi delle contrapposizioni politiche: la dialettica democratica era entrata a far parte del costume politico. Il terzo movente, lo si è già menzionato, è stata l’irruzione nella contesa politica della televisione: è quello che più ha indotto i partiti a rinunciare all’azione di raggruppamento, mobilitazione e manutenzione di constituencies durevoli e di grandi dimensioni e a preferire nuove forme, provvisorie, di aggregazione. Se non che, la televisione ha anche concorso a rivedere i pre-testi e il con-testo, oltre a intervenire nella conduzione della lotta politica e dell’azione di governo. Aveva cominciato la radio, ma la televisione si è rivelata infinitamente più 122   P.C. Schmitter avvia la discussione in Still the Century of Corporatism?, in «The Review of Politics», 1, XXXVI, 1974, pp. 85-131 e parla di corporativismo. Ripropone il tema in G. Lehmbruch e P.C. Schmitter (a cura di), Trends toward Corporatist Intermediation, London, Sage, 1979. Anche questo è un argomento ampiamente sviscerato. Tra i contributi che si possono utilmente rileggere, cfr. S. Berger (a cura di), L’organizzazione degli interessi in Europa occidentale (1981), Bologna, Il Mulino, 1981.

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penetrante. Grazie a essa, i pretendenti alla rappresentanza hanno potuto raggiungere un’audience più larga e variegata e adattare ben più celermente la loro offerta al corso degli eventi e agli umori degli elettori, quali sono raccontati dai sondaggi e dagli stessi mass media. Fidelizzare e includere larghi seguiti elettorali attorno a speranze di cambiamento dello stato del mondo era un’operazione dispendiosa e impegnativa. Anche l’impiego dei media commerciali è costoso. Ma riduce in compenso gli impegni organizzativi ed è anche più agevole offrire agli elettori servizi simbolici. È stata una nuova svolta: che ha pure cambiato le regole del gioco. Se la rappresentanza politica era stata inventata quale opportunità di mediazione dei conflitti e d’inclusione dei governati, è decaduta come tale. Resta fondamentale quale rito di consacrazione per i pretendenti al monopolio statale. La rappresentanza fidelizzata agiva sui tempi lunghi: una constituency stabile e leale non si raduna in poco tempo. La rappresentanza occasionale si fonda su manovre di breve termine, intese a provocare spostamenti limitati nei comportamenti di voto, magari solo in alcuni collegi e in qualche ambiente sociale. È più flessibile, ma anche più effimera e decisamente meno inclusiva. Non è avara di promesse, ma proprio il suo carattere occasionale rende selettiva la responsiveness. Sono sviluppi anticipati da Joseph A. Schumpeter. Economista di vaglia, sostenitore convinto della libera concorrenza, preoccupato dal declino del capitalismo imprenditoriale, politologo per caso, o per genio, Schumpeter, condivideva la diffidenza degli elitisti classici verso la democrazia. Così come era anche lui dell’idea che nella rappresentanza è l’offerta a trainare la domanda123. In Austria e in Germania aveva fatto esperienza dei partiti socialdemocratici. Le pagine da lui dedicate alla democrazia traevano però più immediata ispirazione dal suo trasferimento oltreoceano, dove da tempo era visibile l’impiego di cospicui capitali finanziari nella contesa politica. A suo parere, era inutile illudersi: la democrazia non prevede alcuna volontà popolare ed è piuttosto una gara tra le capacità persuasive e manipolative dei candidati a servizio delle loro ambizioni di potere, con implicazioni estreme. «Il metodo 123

  J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, cit., p. 258.

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democratico, precisava, crea legislazione e amministrazione come sottoprodotti della concorrenza per il potere» 124. È la concorrenza a guidare l’azione politica, la cui «funzione sociale» è «assolta, per così dire, incidentalmente, nello stesso senso in cui [sul mercato economico] la produzione è incidentale rispetto alla realizzazione di un profitto»125. L’amara conclusione era che la sottomissione alle convenienze elettorali impone ai governanti «una visione angusta e limitata dei problemi e rende loro difficile servire interessi nazionali lontani, che possono richiedere un’attività impegnativa in scopi non immediati»126. Schumpeter non si scandalizzava più di tanto. Il pluralismo, che la rappresentanza portava seco, garantiva se non altro qualche libertà agli individui. La sua teoria democratica metteva però in luce uno dei rischi più gravi della rappresentanza elettiva, cioè la sua difficoltà di proiettarsi nel lungo periodo. Così, senza troppa enfasi, lui indicava qualche correttivo: oligarchico, burocratico, aristocratico o tecnocratico127. Puntualmente non democratico. In effetti, la rappresentanza occasionale, che ha rinunciato a tessere vincoli fiduciari permanenti tra eletti ed elettori, accorcia parecchio gli orizzonti temporali e quelli dell’azione di governo. I suoi pretendenti sono pronti a riformulare la loro offerta alla prossima tornata. Ma sono anche vincolati a esaudire le pretese di quei settori di elettorato e degli interessi che considerano decisivi per il loro futuro. L’handicap è piuttosto gravoso e alimenta la richiesta di ulteriori aggiustamenti atti a contingentare il pluralismo e ad assicurare margini più ampi di discrezionalità all’azione di governo. A loro volta, i partiti d’opposizione concentrano la loro offerta, anziché sulla proposta, sulle delusioni suscitate da chi governa e sui suoi fallimenti. È lo scenario che si è aperto alla fine del XX secolo. Per loro fortuna, quantunque sia decaduta l’azione inclusiva – politica e materiale – svolta dai partiti, discrete tracce della passata fidelizzazione tuttora resistono. Gli elettori non sono   Ivi,   Ivi, 126   Ivi, 127   Ivi, 124 125

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p. 273. p. 269. p. 274. pp. 271-281.

poi così mobili e si muovono semmai tra partiti contigui, o verso l’astensione. L’evoluzione dei partiti ha pure indotto l’azione di rappresentanza a esondare dal parlamento e dai partiti. I claims sono in gran parte predisposti da imprese di rappresentanza prepolitica, più prossime al modello privatistico e non interessate a insediarsi ai vertici del regime democratico128, ma solo a farsi sentire entro la sfera pubblica e a influenzare le scelte politiche. Gli interessi meglio attrezzati interloquiscono direttamente con l’esecutivo, i parlamentari, le burocrazie pubbliche, le amministrazioni locali. Ne risulta una condizione di «iper-rappresentanza», simbolicamente e materialmente bilanciata dalla «meta-rappresentanza» attribuita all’esecutivo e al suo leader. Più del concetto di direttismo, coniato da Sartori, ha avuto fortuna un termine privo di valenze critiche e ironiche: la «disintermediazione»129. Importato – anch’esso – dal lessico imprenditoriale e manageriale, è l’ennesimo travestimento della rappresentanza politica. Replicando le strategie pubblicitarie che celebrano il rapporto diretto tra produttore e consumatore, la disintermediazione si accredita come anti-rappresentanza. Al pubblico, oppresso dalle emergenze, si offre quale testo il racconto del leader pronto a guidarlo, non intralciato da vincoli di partito e da programmi stringenti, e a rispondere alle necessità del momento. L’investitura più o meno diretta da parte degli elettori, magari propiziata dalle primarie, si vorrebbe inclusiva. Manin la chiama «democrazia del pubblico» o dell’audience, stando alla traduzione in inglese del suo libro130. Se ne sono avvantaggiati gli interessi economicamente più dotati e più agguerriti sul piano mediatico e sono stati penalizzati i gruppi sociali che componevano i grandi elettorati fidelizzati.   D. Castiglione, The System of Democratic Representation..., cit.   Sulla disintermediazione A. Chadwick, Disintermediation, in M. Bevir (a cura di), Encyclopedia of Governance, Thousand Oaks, Sage, 2007, pp. 232-233; M. Cuono, In principio era il mercato, poi venne la rete. Disintermediazione, spontaneità, legittimità, in «Iride», 2, XXVIII, pp. 305-317. E ancora C. Biancalana (a cura di), Disintermediazione e nuove forme di mediazione. Verso una democrazia post-rappresentativa?, Milano, Fondazione Feltrinelli, 2018; A. Campati, La «democrazia immediata»: prospettive a confronto, in «Teoria politica», Annali X, 2020, pp. 297-315. 130   B. Manin, Principes du gouvernement représentatif, cit., pp. 283-290. 128

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Tolta la maschera falsamente inclusiva del direttismo, è stata una reinvenzione esclusiva della rappresentanza, non troppo benefica per la legittimità dei regimi democratici. La teoria della rappresentanza ha provato a contenere i danni riscoprendo e valorizzando il concetto di accountability, anch’esso importato dal linguaggio del management131. L’accento è spostato dal mandato espresso dagli elettori al rendiconto che gli eletti sono tenuti a dare del loro operato, giustificandolo pubblicamente. Il concetto era già noto alla teoria politica. Hannah F. Pitkin, già a metà anni ’60, vi ravvisava un aspetto della rappresentanza politica, senza tuttavia attribuirle troppa enfasi: era all’incirca la stessa cosa della responsiveness132. L’attenzione odierna per l’accountability ridisegna invece il profilo della rappresentanza e del regime democratico. Il cui nuovo profilo è tratteggiato da Fritz Scharpf opponendo il government for the people al government of the people. Il popolo, manco a dirlo, c’è sempre. Ma se la democrazia, diciamo, tradizionale, si legittimava in quanto input oriented, perché prometteva di prestare ascolto agli elettori, la democrazia attuale – Scharpf si riferisce alle istituzioni europee – si legittima in quanto output oriented133. Agli elettori spetta il compito di giudicare a cose fatte. A considerare la bassa popolarità delle istituzioni dell’Unione europea, i giudizi dei cittadini non sono così lusinghieri. È tuttavia l’accountability più affidabile del mandato? La teoria è molto prudente. Se è finzione il mandato, il giudizio retrospettivo non è da meno e per le medesime ragioni134. Se i pretendenti alla rappresentanza è giocoforza si avvalgano di distorsioni, dissimulazioni, distrazioni, perché mai dovrebbe131   D. Castiglione, Accountability, in M. Bevir (a cura di), Encyclopaedia of Governance, cit., pp. 1-7. Nonché A. Przeworski, S.C. Stokes e B. Manin (a cura di), Democracy, Accountability and Representation, Cambridge, Cambridge University Press, 1999. 132   H.F. Pitkin, Il concetto di rappresentanza, cit., pp. 83-84. Sul rapporto tra accountability e responsiveness, le riflessioni di A. Di Giovine, Dal principio democratico al sistema rappresentativo: l’ineluttabile metamorfosi, in «Rivista AIC», 1, 2020, pp. 93-98. 133   F. Scharpf, Governare l’Europa. Legittimità democratica ed efficacia delle politiche dell’Unione Europea, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 6-13. 134   J.M. Maravall, Accountability and Manipulations, in A. Przeworski, S.C. Stokes e B. Manin, Democracy, Accountability and Representation, cit.

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ro rinunciarvi al momento di rendicontare la loro azione? È improbabile, inoltre, che gli elettori siano in grado di giudicare più di quanto siano capaci di dare istruzioni credibili. Reagiscono a volte al funzionamento dei servizi pubblici, o all’andamento del costo della vita. Per lo più votano per inerzia. Altre volte aderiscono all’offerta elettorale di una parte politica unicamente per impedire a un’altra di prendere il sopravvento. Neanche gli elettori più informati sarebbero in grado d’esprimere con un semplice voto una valutazione complessiva e attendibile dell’operato degli eletti. Dalle parti della rational choice si sostiene che siano sensibili alle performances economiche. Ma vi sono dati di ricerca che mostrano come in media gli elettori abbiano memoria unicamente di quelle registrate alla vigilia del voto135. Tanto più che la contesa per la rappresentanza esercita anch’essa un’azione distorsiva non solo al momento di avanzare un’offerta elettorale, ma anche quando si tratta di render conto, i concorrenti usano criticarsi, e denigrarsi, reciprocamente. L’attenzione prestata all’accountability è semmai coerente con il government for the people e con la prospettiva esclusiva con cui gli eletti hanno preso a pensare e rivestire il proprio ruolo: per intendere le esigenze della collettività vi sono i gruppi d’interesse, i movimenti collettivi, i sondaggi, la società civile, i pareri degli esperti. Compito degli eletti è governare, secondo il principio per cui le scelte di policy non hanno colore politico, ma sono giuste o sbagliate. Consapevole della modesta affidabilità dell’accountability «verticale», la teoria politica le ha affiancato l’accountability «orizzontale»136. È l’azione di verifica e controllo svolta dalle magistrature, dalle corti costituzionali, dal Parlamento rispetto all’esecutivo, dall’opposizione rispetto alla maggioranza, dalla pubblica opinione, dai media. Grosso modo, è la separazione dei poteri. In linea di principio, ha maggiori opportunità di successo. Ma anche i margini di problematicità dell’accountability orizzontale sono elevati. I pubblici poteri sono 135   Questo dimostrano ad esempio per gli Stati Uniti i dati analizzati da C.H. Achen e L.M. Bartels in Democracy for Realists, cit., pp. 90-115. 136  G. O’Donnell, Horizontal Accountability in New Democracies, in «Journal of Democracy», 3, IX, 1998, pp. 112-126.

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in concorrenza tra loro e l’azione di controllo reciproco non sempre è affidabile. Quanto le magistrature sono indipendenti e quanto il loro operato è condizionato dalle preferenze politiche dei giudici?137 Non sono affidabili nemmeno le agenzie internazionali che valutano le performances dei regimi politici, che dettano ratings molto considerati dagli investitori e che magari misurano la qualità democratica138. Non sono in ogni caso questi i rimedi alla svolta occasionale ed esclusiva della rappresentanza politica. Un contributo per rinvigorire l’accountability potrebbe semmai venire dall’attività professionale di analisi e valutazione delle policies, condotta da specialisti, centri di ricerca, uffici ad hoc, che osservano le policies, la loro ideazione, il loro andamento, i loro costi, il loro impatto139. È un’attività che è considerevolmente cresciuta ed è apprezzabile, quantunque riveli anch’essa margini elevati di problematicità. Non solo non esistono criteri di valutazione universali, ma soprattutto, quale uso è fatto delle analisi professionali entro la contesa per la rappresentanza? Ancora una volta, comunque, se l’analisi delle politiche può essere utilissima per migliorare l’attività normativa e amministrativa, il suo contributo inclusivo è modesto ed è improbabile che concorra ad accorciare la distanza che la rappresentanza occasionale ha suscitato tra eletti ed elettori. Che è il fine che perseguono invece non le formule direttiste che si esauriscono nel voto – elezioni dirette, primarie, referendum –, ma le procedure partecipative adottate da 137   L’argomento è sviluppato da P. Rosanvallon, La legittimità democratica, cit. 138   L’attività di valutazione è largamente condotta internazionalmente e non solo. World Audit, è un’agenzia no profit che assembla informazioni raccolte da agenzie come Freedom House, Transparency International, Amnesty International, Human Rights Watch, The International Commission of Jurists (cfr. www.worldaudit.org), che misurano la qualità democratica. Dal 2006 viene compilato un Democratic Index a cura dell’Economist Intelligence Unit: una delle istituzioni culturali fondamentali del capitalismo giudica la democrazia. S’interroga sul tema D. Beetham, The Idea of Democratic Audit in Comparative Perspective, in «Parliamentary Affairs», 4, LII, 1999, pp. 567-581. 139   G. Regonini, Explaining Complexity to Power. A Failed Mission?, in «International Review on Public Policy», 1, V, 2023.

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molti regimi democratici, sempre nell’intento di rivitalizzare la rappresentanza politica140. Le procedure partecipative sono numerose: a volte sollecitate dai cittadini, altre volte istituite dalle autorità di governo per coinvolgerli e interpellarli. Forum civici, town meetings, débats publics, giurie popolari, assemblee decentrate d’ogni sorta, consessi e sondaggi deliberativi, consultazioni online, sono tecniche di governo ormai ordinarie. Si possono, grosso modo, distinguere tra democrazia diretta, o rappresentanza decentrata, e forme di consultazione su temi circoscritti. Le tecniche più raffinate sono ascrivibili alla cosiddetta «democrazia deliberativa», che più di ogni altra è stata oggetto di riflessione elaborata141. La democrazia rappresentativa è accusata di trattare i cittadini come consumatori o spettatori? Ebbene, è venuta l’ora di ascoltarne le opinioni in maniera meno sbrigativa e più attendibile che non attraverso il voto o i sondaggi: la deliberazione si preoccupa d’informarli, di migliorare le loro competenze sulle issues, di farli argomentare alla pari e in buona fede, di metterli in condizione di conoscersi e persuadersi reciprocamente, per maturare scelte condivise e orientate all’interesse generale. La pratica, come d’abitudine, non mantiene la promessa, la deliberazione è laboriosa e non si presta a ogni genere di decisione. Difficile è che sia egualitaria, perché non tutti hanno gli strumenti conoscitivi adeguati per partecipare alla pari ai suoi consessi, né sono in grado di impadronirsene entro di essi, tantomeno di argomentare in pubblico. Né è immaginabile un’informazione pienamente esaustiva attorno alle alternative disponibili. Come sono infine scelti i facilitatori professionali e gli specialisti che intervengono nei consessi deliberativi? Ancora: sono di solito i governanti a selezionare chi partecipa: con quali criteri lo fanno? Un altro limite della deliberazione 140  G. Smith, Democratic Innovations. Designing Institutions for Citizen Participation, Cambridge, Cambridge University Press, 2009; E. De Blasio e M. Sorice, Innovazione democratica: un’introduzione, Roma, Luiss University Press, 2016. 141  Per tutti: A. Floridia, La democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi, Roma, Carocci, 2013; Id., Un’idea deliberativa della democrazia. Genealogia e principi, Bologna, Il Mulino, 2017. Un contributo recente è il volume collettaneo curato da L. Blondiaux e B. Manin, Le tournant délibératif de la démocratie, Paris, Presses de SciencePo, 2021.

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è il suo côté spoliticizzante: i partecipanti sono individui, al cui buon senso, politicamente sterilizzato, sono demandate le scelte142. Ma esistono realmente scelte non politiche, dunque non divisive? La deliberazione, che, a pensarci, è anch’essa una forma di rappresentanza, immagina comunque un dialogo e una cooperazione orizzontale tra i cittadini in contrasto con l’accresciuta verticalità elitista dei regimi rappresentativi attuali. Malgrado i suoi limiti e le difficoltà a maneggiarla, non mancano perciò motivi per apprezzarla quale complemento – e non in contrasto – alla rappresentanza politica. Come altre forme partecipative, è una forma d’inclusione politica, ambivalente, ma rispettabile. Vi sono esperienze in cui la deliberazione ha aiutato a dirimere controversie molto delicate. In Irlanda e in Islanda sono stati convocati consessi deliberativi su temi di grande rilevanza, addirittura costituzionale143. Purché la loro convocazione non sia strumentale e i governanti concedano loro sincera considerazione, le consultazioni deliberative potrebbero restituire valore alla decisione condotta collegialmente e smentire il rabbioso antagonismo delle odierne contese elettorali. È da vedere se riusciranno ad attecchire. Niente, in verità, potrà mai acquietare le critiche alla rappresentanza politica. Dichiararne la crisi nell’ordinaria contesa politica torna utile a chi si voglia sgravare delle proprie responsabilità, oppure voglia propiziare revisioni delle regole, o lanciare nuovi claims di rappresentanza, o infine ridurre gli spazi delle istituzioni elettive. In compenso, neanche la modernità avanzata sembra pronta a rinunciare alla sua finzione. E 142   F.M. Rosenbluth e I. Shapiro, Responsible Parties. Saving Democracy from Itself, New Haven, CT, Yale University Press, 2018. Una critica serrata dei correttivi direttisti in F. Pallante, Contro la democrazia diretta, Torino, Einaudi, 2020. 143  Merita menzione il caso della riforma costituzionale condotta in Islanda nel 2009-2013: cfr. H. Landemore, Inclusive Constitution-Making: The Icelandic Experiment, in «Journal of Political Philosophy», 23, 2014, pp. 166-191. Pure interessante è il caso della Irish Constitutional Convention del 2012-2014, seguito dalla Irish Citizens’ Assembly. Cfr. D.M. Farrell, J. Suiter e C. Harris, Systematizing’ Constitutional Deliberation: The 2016-18 Citizens’ Assembly in Ireland, in «Irish Political Studies», 1, XXXIV, 2019. Sempre in Irlanda sono state riunite due assemblee deliberative nel 2012 e nel 2016 sui temi delle unioni civili e dell’aborto.

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infatti la lotta per la rappresentanza prosegue animatissima. Ne danno esempio i dibattiti sulle quote per rimediare al deficit di rappresentanza di cui soffre la popolazione femminile. Sono un claim ricorrente, già predisposto dall’azione di rappresentanza prepolitica dei movimenti femministi, di cui alcuni partiti si sono impadroniti. C’è chi intende guadagnare consenso entro tale popolazione, chi è favorevole per ragioni di giustizia, chi considera un’inclusione paritaria della popolazione femminile motivo di arricchimento e di uguaglianza. Che la discussione sia vivace è buon segno e ha anche ottenuto, in alcuni paesi, importanti risultati. Resta fermo che le quote sono un beneficio simbolico, mentre alla popolazione femminile sono dovuti miglioramenti sostanziali144. Persistono in compenso, e si sono aggravate di molto, altre disuguaglianze nella rappresentanza: le quali ormai non riguardano unicamente gli strati inferiori della società, ma anche i ceti intermedi. Ne è prova l’impressionante incremento dell’astensionismo, come pure la frequenza di verdetti elettorali che premiano formazioni politiche eccentriche. Per la rappresentanza è una sfida serissima. I suoi addetti professionali si sono forse persuasi che, salvate le apparenze, sia possibile governare anche in condizioni di bassa inclusione e d’incerta legittimità. Data l’entità dei problemi che tocca loro affrontare, forse sbagliano calcoli: la loro autorevolezza si è drammaticamente indebolita, la ribellione degli esclusi può rivelarsi molto scomoda, i nostalgici dell’autorità monocratica sono sempre all’erta.

144   K. Celis e J. Lovenduski, Power Struggles: Gender Equality in Political Representation, in «European Journal of Politics and Gender», 1-2, I, 2018, pp. 149-166.

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capitolo terzo

PARTITI

1. Dall’America all’Europa La tecnologia politica del moderno regime rappresentativo ha visto la luce in Inghilterra, donde è stata largamente esportata. Quel suo fondamentale ingranaggio che è il partito politico è stato inventato oltre Atlantico. In Europa dei partiti americani è a lungo invalsa un’immagine semplificata e distorta, tributaria delle esplorazioni condotte in loco da James Bryce e Moises Ostrogorski1, che furono condizionati dalle loro frequentazioni upper class, intellettuali, giornalistiche, dove, volgendo la fine del XIX secolo, i partiti erano oggetto di critiche impietose. Da tali critiche fu influenzato anche Max Weber2. Da allora, i partiti americani hanno prevalentemente goduto in Europa di modesta considerazione: partiti senza valori, né programmi, guidati da spregiudicati mestieranti della politica, funzionali unicamente alla conquista delle cariche elettive e responsabili della scarsa moralità della vita pubblica. Non era esattamente in questo modo. La storia dei partiti americani era iniziata intorno alla fine degli anni ’20, quando 1   Cfr. J. Bryce, The American Commonwealth (1889), New York, Macmillan, 1911; M. Ostrogorski, La démocratie et l’organisation des partis politiques, Paris, Calmann-Lévy, 1902. Sulla ricezione di Bryce e Ostrogorski in Europa e su come abbiano condizionato il punto di vista europeo sui partiti americani cfr. M. Vaudagna (a cura di), Il partito politico americano e l’Europa, Milano, Feltrinelli, 1991. È da segnalare inoltre il contributo di A. Testi, Trionfo e declino dei partiti politici negli Stati Uniti, 1860-1930, Torino, Otto, 2000. La bibliografia americana è ovviamente ricchissima. Ci limitiamo a M. Shefter, Political Parties and the State. The American Historical Experience, Princeton, Princeton University Press, 1993 e A. Ware, Political Conflict in America, New York, Palgrave MacMillan, 2010. 2  M. Weber, La politica come professione, in Id., Scritti politici, Roma, Donzelli, 1998.

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ci si era già approssimati al suffragio «universale»: ovviamente bianco e maschile. È nella cosiddetta età di Jackson che i partiti sono intervenuti a riconfigurare la rappresentanza politica. Eroe delle guerre indiane, avvocato, figura pubblica di prestigio, Andrew Jackson era un estraneo rispetto all’oligarchia notabiliare che aveva finora guidato il paese. Per sostenerlo vide pertanto la luce la prima grande impresa di rappresentanza collettiva, che sarà confermata dopo le elezioni. Per stabilire un confine più netto tra i detentori dell’autorità sociale, tutt’altro che sbandati dopo l’elezione di un outsider, e le istituzioni di governo, l’alternativa sarebbe consistita nel costituire burocrazie professionali centralizzate, analoghe a quelle che si erano iniziate ad allestire in Europa3. Burocrazie di tal fatta, però, oltre a essere in contrasto con il federalismo e la cultura americana dell’autogoverno, avrebbero resistito, oltre che ai notabili, anche ai nuovi arrivati, che preferirono i partiti e lo spoils system. In fin dei conti, era una soluzione democratica. Per utilizzare la formula di Maurice Duverger, quelli americani erano partiti d’origine «interna»4. Il primo, quello jacksoniano, fu allestito in vista delle elezioni. Ma vi provvide una fazione che aveva già avuto accesso alle istituzioni pubbliche federali e locali. Contrariamente a quanto ha argomentato la lunga schiera dei loro detrattori, e aspiranti riformatori, i partiti americani, benché non disponessero delle complesse elaborazioni ideologiche che caratterizzeranno i partiti europei, erano formazioni politiche nient’affatto sprovviste di principi e disegni politici. Ovvero, non erano unicamente strumenti per selezionare e sostenere i candidati e gate-keepers delle carriere politiche. Senza prevedere iscritti, come i partiti europei, erano comunque imprese di rappresentanza permanenti, che assemblavano larghe constituencies, strutturate a più livelli, ramificate sul territorio, guidate da addetti professionali, a loro volta affiancati da un gran numero di attivisti e simpatizzanti. Ai partiti americani mancava il riferimento tipicamente europeo alle classi sociali. Quantunque i conflitti sociali fossero aspri e col tempo i sindacati divenissero ben organizzati e combattivi, 3   M. Shefter, Political Parties and the State, Princeton, Princeton University Press, pp. 61-98. 4   M. Duverger, I partiti politici (1951), Milano, Comunità, 1961, p. 16.

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e le constituencies dei partiti includessero operai e immigrati, i percorsi della rappresentanza di questi strati non sono per nulla paragonabili a quelli offerti alla classe operaia dai partiti socialisti europei. Per Sombart, che s’interrogò sull’argomento, l’appuntamento con il socialismo era rinviato ed era prova della relativa arretratezza politica americana5. Ma è più appropriato ritenere che la tempistica della politica di massa e dei grandi conflitti industriali sia stata diversa sulle due sponde dell’oceano e che i claims di rappresentanza si siano perciò sviluppati diversamente. Per Martin Shefter la nazionalizzazione della working class fu condizionata dalla precoce introduzione del suffragio universale, dalla frammentazione delle istituzioni di governo, dall’insorgere di altre linee di frattura, in parte connesse alla guerra civile, intersecatesi con quella di classe6. Segnate dalla presenza di un’amplissima ed eterogenea popolazione immigrata, le classi lavoratrici d’oltreoceano si prestarono ben più a essere ricomposte lungo cleavages etnici. Entro e attorno alle fabbriche s’insedieranno i sindacati, ma, visto che i partiti si erano ormai impiantati, non si svilupparono quelle sinergie che hanno segnato l’esperienza del movimento operaio in Europa. Tre altri argomenti li ha sollevati Arnaldo Testi. Il primo è che un vivace movimento socialista, con un seguito anche nel mondo intellettuale, comparve pur sempre, ma ebbe solo vita più breve che in Europa. Il secondo argomento è la stretta alleanza stabilita tra Partito democratico e sindacati che ha segnato la stagione del New Deal. Il terzo sono gli apprezzabili risultati ottenuti dalle classi lavoratrici nei singoli stati, dove si concentreranno le loro rivendicazioni in termini di legislazione sociale e di welfare: non a carattere pubblico come quello europeo, ma pur sempre welfare7. I partiti americani e il party government hanno vissuto una prolungata stagione di successi dopo la Guerra civile. Specie nei centri urbani, ove le condizioni erano più propizie. Lì si concentrava la popolazione, lì i guasti prodotti dall’industrialismo erano più visibili e dolorosi, lì covavano i maggiori potenziali di 5   W. Sombart, Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo? (1906), Milano, Bruno Mondadori, 2006. 6   M. Schefter, Political Parties and the State, cit., p. 111. 7   A. Testi, Trionfo e declino..., cit., pp. 137-198.

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opposizione da ordinare e politicizzare. Il governo municipale era la prima istituzione pubblica a preoccuparsi dello stato della popolazione. Ciò ne faceva una posta appetibile per chiunque nutrisse ambizioni politiche. In queste condizioni sono stati escogitati dai partiti il patronage e la machine politics. I loro addetti erano liberi imprenditori affiliati al partito, spesso d’estrazione popolare, che con larga autonomia tessevano reti di relazioni, dispensavano favori, procuravano sussidi a chi versava in ristrettezze, intercedevano presso le autorità municipali, procacciavano opportunità di lavoro, promuovevano occasioni d’intrattenimento. Preposti a quella che per Weber era addirittura un’«impresa [...] fortemente capitalistica»8, i cosiddetti boss svolgevano un’attività di radicamento, ma anche di governo, modulata in funzione delle situazioni locali. Ancora a inizio Novecento i partiti americani, oltre a mobilitare la loro constituency popolare in vista delle elezioni, l’accudivano, la socializzavano alla politica, l’istruivano, l’organizzavano e la proteggevano in mille forme. È probabilmente la loro efficacia che ne fece oggetto delle durissime critiche evocate all’inizio9, finché dopo le riforme della Progressive Era i partiti non subiranno una profonda mutazione. Le riforme promossero la costituzione di un’amministrazione federale e la nazionalizzazione del governo del paese. L’obiettivo era contrastare i grandi interessi economici, insieme al patronage e alle macchine di partito, mediante una forma di governo fondata su una partecipazione più ampia e diretta dei cittadini e su un’amministrazione pubblica competente e attenta all’interesse generale10. Contro il degrado della vita pubblica, segnalato da una sequenza di casi di corruzione, l’idea dei   M. Weber, La politica come professione, cit., p. 211.   Per una ricostruzione, cfr. N.L. Rosenblum, On the Side of the Angels: An Appreciation of Parties and Partisanship, Princeton, Princeton University Press, 2008, pp. 165-189. Molto opportunamente vi si sottolinea l’uso sinergico dei termini corruzione e riforma: pp. 170-172. 10   P. Rosanvallon, La legittimità democratica, Torino, Rosenberg & Sellier, 1985, pp. 70-79. Ma cfr. anche G. Borgognone, I tecnocrati del progresso. Il pensiero americano tra capitalismo, liberalismo e democrazia, Torino, Utet, 2015. Quella che i difetti della democrazia si curassero con più democrazia sarebbe un’antica convinzione della politica americana, cfr. C.H. Achen e L.M. Bartels, Democracy for Realists. Why Elections Do Not Produce Responsible Government, Princeton, Princeton University Press, 2016, pp. 52-68. 8

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Progressisti era che servisse un consenso non-partisan e che i partisans divenissero indipendent citizens, capaci di scegliere razionalmente i propri rappresentanti, non intralciati da lealtà partitiche11. Pertanto, furono introdotte procedure referendarie a livello statale e locale, le primarie, il recall, l’investitura diretta del capo dell’esecutivo, nonché l’elezione a suffragio diretto dei membri del Senato. Sempre per moralizzare il costume politico, si adottò la registrazione obbligatoria alle liste elettorali e perfino i test di alfabetismo. Ma l’effetto non fu di rendere più libero il voto, ma di complicarne, e restringerne, l’esercizio. Fu un modo per consolidare il bipartitismo e liberarsi dei third parties: il Socialist Party e il People’s Party, sorto negli anni ’90 per sostenere le ragioni dei farmers poveri e del proletariato urbano contro la grande industria, la speculazione finanziaria, i monopoli12. Finora sollecitati a votare dalla machine politics, fasce consistenti di elettori working class e immigrati furono sospinti verso il non voto e ai margini della vita politica: nel giro di quindici anni la partecipazione elettorale, che era arrivata all’80 per cento degli aventi diritto, decadde di 15-20 punti13. Per i partiti americani iniziava un’altra stagione. Nel frattempo, varcata la metà secolo, i partiti moderni avevano cominciato ad attecchire in Europa14. Le comunicazioni erano già sviluppate a sufficienza perché le notizie sull’esperienza americana varcassero l’oceano. C’è da presumere che coloro che hanno fondato i partiti socialisti ne avessero qualche conoscenza15. In vista dell’allargamento del suffragio furono comunque allestite imprese di rappresentanza dello stesso genere, ma adattate ad altre circostanze e ad altri con-testi. È una vicenda iniziata con i partiti socialisti, i cui pre-testi originari sono stati l’industrializzazione e l’urbanesimo. Ma se   N.L. Rosenblum, On the Side of the Angels, cit., p. 181.   L. Goodwyn, Democratic Promise. The Populist Movement in America, New York, Oxford University Press, 1976. Sul consolidamento del biparitisimo A. Ware, Political Conflict in America, cit. pp. 100-104. 13   W.D. Burnham, Critical Elections and the Mainsprings of American Politics, New York, Norton, 1970, pp. 84-85. 14  Una ricognizione comparativa su Stati Uniti, Francia e Germania è condotta in I. Katznelson e A.R. Zolberg (a cura di), Working-Class Formation: Nineteenth-century Patterns in Western Europe and the United States, Princeton, Princeton University Press, 1986. 15   L’ipotesi è avanzata dalla comparazione transatlantica condotta da M. Ostrogorski, La démocratie et l’organisation des partis politiques, cit. 11 12

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il loro intento era offrire alle classi lavoratrici un’opportunità di opposizione e resistenza diversa dall’illegalità, dalla protesta locale, dalle esplosioni distruttive di violenza, il loro testo era un disegno alternativo d’ordine sociale e di giustizia. I dominati non sono d’istinto disposti alla ribellione16: convocarli per resistere insieme e ordinatamente, anche fuori dalle contese elettorali, richiese grandi capacità persuasive e organizzative. Nell’elaborazione dei loro testi, quasi tutti i partiti socialisti hanno impiegato dosi diverse di marxismo, traendone ispirazione per la loro azione simbolica e organizzativa intorno al concetto di classe. Quanto mai variegato è stato tuttavia il loro repertorio d’esperienze. Dapprincipio hanno tutti fruito delle forme di autorganizzazione dal basso delle classi popolari. Fondamentale era, naturalmente, il con-testo: l’andamento e il timing dello sviluppo capitalistico e la dislocazione territoriale della possibile audience del partito. In Germania, dove la struttura industriale aveva una conformazione policentrica, la Spd, anche grazie all’intesa col sindacato, riuscì a superare gli ostacoli opposti dal Reich bismarckiano e guglielmino. La socialdemocrazia austriaca era al contrario concentrata attorno a Vienna. Il socialismo italiano era diviso tra campagne, città, Nord e Mezzogiorno e infinite specificità municipali. I socialdemocratici scandinavi avranno largo seguito nelle campagne. Il laburismo inglese è invece gemmato col nuovo secolo dalle Unions, che da metà Ottocento avevano preso slancio e ottenuto significativi riconoscimenti legislativi: nell’attesa l’elettorato operaio si rivolgeva ai liberali. In Francia la rappresentanza del mondo del lavoro fino ai primi del Novecento fu condotta prevalentemente dai sindacati. Sul terreno elettorale suppliva il riformismo moderato di un partito di notabili come il Partito radicale, fin quando nel 1905 la Sfio non riuscì a unificare una parte delle preesistenti formazioni operaie e socialiste. Non tutte le esperienze nazionali hanno avuto uguale intensità. Usando una metafora idraulica, i partiti socialisti comunque concorsero a mettere a regime il malcontento e i sentimenti d’ingiustizia popolari, trasformando quelle che erano state finora intese come classes dangereuses in classes laborieuses. Laboriose, 16   Ancora B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta (1978), Milano, Comunità, 1983.

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ma organizzate e pertanto dotate di un potenziale d’intimidazione in grado di mettere in scacco sia l’autorità dello Stato, sia il dominio del mercato. Il seguito dei partiti non solo era denominato, identificato e rivendicato, era disciplinato e protetto, tessendo reti di socialità e di aiuto reciproco. I partiti dettavano norme sociali, codici di condotta, linguaggi, identità condivisi. Alla loro constituency offrivano un riparo e un’opportunità di abitare la politica. Nelle congiunture critiche il fabbisogno d’«integrazione», o d’inclusione, s’impennava e i partiti l’esaudivano17, svolgendo a un tempo un’azione di governo di portata sistemica. Il mondo del lavoro ha trovato rappresentanza anche nei grandi partiti moderati, conservatori, confessionali, che si definivano interclassisti. La cui esperienza non è stata meno impegnativa. Pure questi partiti si sono sviluppati raggruppando e incorporando trame associative preesistenti e creandone di nuove. Ha fatto da battistrada la politica britannica. Gli allargamenti del suffragio avevano indotto i pretendenti a organizzarsi sistematicamente, specie nei centri urbani. Ostrogorski ha reso famoso il caso del caucus di Birmingham, organizzato dai liberali18. Dagli anni ’80 del XIX secolo i conservatori avevano apprestato una macchina di propaganda agguerrita e condotta professionalmente come la Primrose League. Contava centinaia di migliaia d’iscritti e coinvolgeva proprietari e imprenditori, ceti intermedi e working class. Avanzando mirati propositi riformatori, venati di paternalismo, la Ligue e il partito svolgevano la loro azione promozionale entro le società locali, fatta anche di feste, banchetti e balli popolari. Offrì un contributo la Chiesa d’Inghilterra: era anch’essa un’istituzione che raggruppava e rappresentava, benché con altre finalità19. 17   Sul concetto d’integrazione, G. Roth, I socialdemocratici nella Germania imperiale (1962), Bologna, Il Mulino, 1971. Sul rapporto tra l’insorgere dei partiti e le congiunture critiche A. Pizzorno, I soggetti del pluralismo, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 11-50. 18   M. Ostrogorski, La démocratie et l’organisation des partis politiques, cit. Ostrogorski è aspramente critico. In realtà, organizzarsi politicamente era nell’ordine delle cose man mano che la contesa politica si animava: cfr. T.R. Tholfsen, The Origins of the Birmingham Caucus, in «The Historical Journal», 2, II, 1959, pp. 161-184. 19   D. Ziblatt, Conservative Parties and the Birth of Democracy, Cambridge, Cambridge University Press, 2017. Cfr. anche M. Roberts, Popular Conservatism in Britain, 1832-1914, in «Parliamentary History», 3, XXVI, 2007, pp. 387-410.

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In altri paesi la costituzione di partiti di massa in concorrenza con quelli socialisti ha incontrato più difficoltà. L’assemblaggio era complicato, anche per ragioni culturali: come radunare con un unico claim gli strati superiori, intermedi e popolari? Sono stati utilizzati più pre-testi: le reti notabiliari locali, l’appartenenza confessionale, il nazionalismo. E l’avversione al socialismo. Nel secondo dopoguerra due grandi partiti popolari su base confessionale si sono imposti in Germania e in Italia. In Francia, fallito il tentativo del Mrp di costituire un partito confessionale, solo dopo il 1958 un grande partito moderato nazionale si è raccolto attorno alla figura del generale de Gaulle, quando però il modello classico del partito di massa iniziava a consumarsi. Pur disponendo di un capitale politico d’avvio molto più sostanzioso, e avendo a che fare con tutt’altro pubblico, i partiti non socialisti hanno imitato la scelta d’instaurare rapporti durevoli e solidi con gli elettori e di attrarre iscritti che li sostenessero finanziariamente o col lavoro volontario. I partiti socialisti hanno trasformato operai, artigiani, maestri di scuola, impiegati, sindacalisti in dirigenti, sindaci, parlamentari, ministri. Vista la concorrenza, anche i grandi partiti moderati e conservatori hanno investito sulla carriera dei loro addetti mediante l’inclusione dei ceti intermedi. Fu un processo di democratizzazione generalizzata, seppur contenuta, delle élites. Con oltre due milioni di voti, cioè quasi il 30 per cento dei consensi, la Spd aveva radunato a fine secolo il seguito elettorale più numeroso tra i partiti tedeschi. Alla vigilia del primo conflitto mondiale i socialisti svedesi attraevano un terzo dei votanti, mentre i confratelli italiani, divisi in due partiti, e quelli austriaci erano a un quarto. Per contro, in Francia i socialisti e in Gran Bretagna i laburisti dovranno aspettare il dopoguerra per superare la soglia del 20 per cento. I partiti erano anche strutture composite e litigiose. Per ragioni ideologiche, ma pure per diversità di vedute sulle strategie e sulle tattiche da adottare. Per i partiti socialisti, la divisione più grave è stata quella con i comunisti nel primo dopoguerra: la rivoluzione dei soviet ha costituito un effetto di con-testo che avrà implicazioni politiche di gran momento, in Italia e nella Repubblica di Weimar. L’esperienza del dopoguerra successivo, condizionata dalla partecipazione comune alla lotta antifascista 174

e alla Resistenza, è stata meno drammatica, anche se, forti della loro coerenza ideologica e della loro consistenza organizzativa, i partiti comunisti in Italia e in Francia hanno superato i cugini socialisti. I comunisti italiani hanno comunque corretto il modello leninista, cui i confratelli d’oltralpe si sono attenuti più rigorosamente. Forse la leadership comunista italiana era più duttile, forse il radicamento operaio dei comunisti francesi era più robusto20. Ad ogni buon conto: l’elemento più qualificante del con-testo dei partiti europei è stata la torreggiante presenza dello Stato. Costituiva tanto un antagonista, quanto un modello. A metà XIX secolo i suoi apparati avevano assunto dimensioni imponenti e la dipendenza da essi della vita collettiva era in crescita. Fu una sollecitazione essenziale per mettersi per quanto possibile alla sua altezza. La socialdemocrazia tedesca ci provò con il massimo impegno. Per reclutare e accudire le sue centinaia di migliaia di iscritti, per organizzare le migliaia di quadri che li intrattenevano, allestì una burocrazia gigantesca21. Michels l’avrebbe definita «una copia in miniatura dello Stato»22. Parlamentari, eletti locali, quadri e collaboratori, professionali o volontari, sedi, organi di stampa e via seguitando, sostenevano la sua presenza sociale. Circondata da un ricchissimo insediamento subculturale e da un largo assortimento di organizzazioni collaterali, la Spd tedesca si configurava addirittura come «contro-società» – la formula è di Annie Kriegel23 – premessa e non solo promessa di un nuovo ordine. È il caso più illustre, ma non il solo. 20   M. Lazar, Maisons rouges: les partis communistes français et italiens de la Libération à nos jours, Paris, Aubier, 1992. 21   G. Roth, I socialdemocratici nella Germania imperiale, cit. Alle soglie del primo conflitto mondiale la Spd contava un milione di iscritti, 4 mila funzionari e 10 mila impiegati: ivi, p. 156. 22   La formula della copia in miniatura la ripropone R. Michels in Democrazia formale e realtà oligarchica (1909), in G. Sivini (a cura di), Sociologia dei partiti politici, Bologna, Il Mulino, 1970. Ancora: R. Michels, La sociologia del partito politico (1911), Bologna, Il Mulino, 1966, pp. 40 e 490. L’idea di Eduard Bernstein era che si dovesse dar luogo a una «democrazia efficiente, con assemblee rappresentative, funzionari retribuiti e una direzione centrale munita di pieni poteri»: in I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899), Bari, Laterza, 1968, pp. 200-201. 23  A. Kriegel, Le parti modèle: la social-démocratie allemande et la IIe Internationale, in Id., Le pain et les roses, Paris, Presses Universitaires de France, 1968, p. 165.

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Grazie allo spazio culturale e simbolico da essi circoscritto, i partiti erano pure nazioni nella nazione. Se l’intento era unificare una pluralità di condizioni sociali e locali eterogenee, di provvederle di una qualche coerenza, lo facevano anche operando sul piano simbolico. Gli Stati fabbricavano la nazione tramite la lingua, la bandiera, i monumenti, le cerimonie pubbliche, la scuola, la coscrizione. Anche i partiti lo facevano, svolgendo un’azione educativa, che accompagnavano elaborando simboli e rituali distintivi: bandiere, inni, raduni, feste popolari, perfino un loro linguaggio. Relazioni complesse si intrecciavano infine tra dirigenti, quadri, militanti, iscritti, elettori: professionali, fraterne, amicali, clientelari, formali e informali. Per apprezzare le differenze tra i partiti Weber ha distinto tra partiti di notabili, che erano dei proto-partiti, e partiti di massa. Seguiranno classificazioni più elaborate. Maurice Duverger, un giurista migrato dal diritto pubblico alle scienze sociali, ha scritto nel 1951 un libro fondamentale, in cui, oltre a distinguere partiti d’origine interna ed esterna, nati entro o fuori dalle istituzioni rappresentative, li ha classificati in partiti diretti e indiretti, di comitati, di sezioni, di cellule, di quadri, di massa, di milizia e perfino in famiglie politiche24. Come sempre, definizioni, classificazioni e tipologie sono utili, ma fanno torto alla pratica25. I partiti apprendono reciprocamente, ma differiscono i loro dirigenti, i quadri, i meccanismi di reclutamento, i comportamenti dei loro addetti, le forme di appartenenza, gli assetti organizzativi. Non meno diverse le prestazioni di rappresentanza, le tattiche e le strategie, i discorsi, le issues, nonché le policies di cui i partiti si fanno promotori. Fanno parte del con-testo dei partiti anche i rapporti tra loro. I partiti socialisti erano outsiders, ma, almeno fino 24   M. Duverger, I partiti politici, cit. Il concetto di famiglia politica sarà approfondito da D.L. Seiler, Partis et familles politiques, Paris, Presses Universitaires de France, 1980; e, più di recente P. Mair e C. Mudde, The Party Family and Its Study, in «Annual Review of Political Science», I, 1998, pp. 211-229. 25   Sono del tutto condivisibili le avvertenze di metodo di F. Raniolo, Miti e realtà del Cartel party. Le trasformazioni dei partiti alla fine del ventesimo secolo, in «Rivista italiana di scienza politica», 3, 2000, pp. 553-582.

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alla Prima guerra mondiale, alcuni lo erano più di altri: la Spd più di tutti, ma pure una parte dei socialisti italiani e francesi. Al momento del conflitto preferiranno però la lealtà nazionale alle tanto declamate solidarietà internazionali. A guerra finita, ciò non impedì alla contesa politica di divenire esplosiva e in Germania, come in Italia, i partiti socialisti, cui si erano aggiunti i partiti comunisti, furono estirpati con la forza da altri partiti, che Duverger ha definito pour cause «di milizia». Assai turbolento è stato l’entre deux guerres pure in Francia, dove l’estrema destra giungerà al potere all’indomani dell’invasione nazista. Terribile è stato in Spagna il destino del regime dei partiti repubblicani. Ha qualche buona ragione Daniel Ziblatt, secondo cui la presenza sociale del Partito conservatore è ciò che ha consentito in Gran Bretagna di affrontare più agevolmente lo stress del suffragio universale e di tenere a bada le pulsioni antiparlamentari, che anche lì non mancavano26. Screditato l’autoritarismo a partito unico, nel secondo dopoguerra i partiti hanno potuto far valere le loro benemerenze. Non tutte le loro dirigenze si erano arrese ai regimi autoritari, alcune si erano ritirate a vita privata, altre erano espatriate, altre si erano opposte anche armi alla mano. In molti avevano subito persecuzioni spietate. Quando si sono insediate alla guida dello Stato, nessuno, o quasi, ebbe forza d’obiettare. E i partiti sono stati riconosciuti finanche nei testi costituzionali, con i quali hanno ufficialmente sottoscritto la loro adesione al regime democratico27. Non che i rapporti reciproci fossero idilliaci, ma col trascorrere degli anni le asprezze decadranno. Nel caso ritenuto più pacifico, che è quello del Regno Unito, dopo aver collaborato per cinque anni al governo, in occasione della campagna elettorale del 1945, Churchill accusò il Labour di voler imitare la Gestapo per attuare il suo programma socialista. Ancora più teso è stato il conflitto in Francia e in Italia e ci è voluto del tempo perché si calmasse: il Partito comunista italiano, tolta la parentesi del ’45-’47, non è arrivato   D. Ziblatt, Conservative Parties and the Birth of Democracy, cit.  I. van Biezen, Constitutionalizing Party Democracy: The Constitutive Codification of Political Parties in Post-War Europe, in «British Journal of Political Science», 42, 2011. 26 27

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mai a ricoprire ruoli nel governo nazionale. Ma la volontà di non esasperare oltre misura la contesa politica ha permesso di stabilizzare i regimi democratici e ha incoraggiato importanti misure politiche inclusive. È questo il segno del Golden Age della democrazia dei partiti28, che si è esaurito, guarda caso, insieme alla stagione dello sviluppo, dell’intervento pubblico nell’economia e del welfare. 2. Il radicamento dei partiti Fino a quando è stato in vigore il suffragio ristretto la contesa elettorale è rimasta per lo più circoscritta all’attività dei notabili entro le sfere locali. Era riconosciuta a questi ultimi una posizione di preminenza sociale che erano tenuti a onorare, controbbligando gli elettori. Le affinità politiche più ampie, costituite attorno alle personalità di maggior spicco, non erano stringenti, e i confini di quelli che allora si chiamavano partiti erano fluidi. La novità dei grandi partiti popolari è stato l’allargamento a dismisura degli spazi della lotta politica, coinvolgendo nuovi strati sociali, ma pure il rinnovamento dei metodi di lotta: era diventata una guerra di posizione, condotta in maniera pianificata e sistematica, con le sue casematte e le sue trincee. Era quanto serviva a strutturare constituencies non solo disperse sul territorio, ma pure eterogenee per condizione sociale, occupazionale, perfino per la lingua che parlavano. Tutti i partiti hanno investito capitali simbolici, organizzativi, relazionali e di competenze per darsi un’organizzazione nazionale e anche un’articolazione funzionale complessa. Il mondo del lavoro era diviso tra grandi, medie, piccole industrie, imprese artigiane per settori produttivi, tra operai qualificati e generici, tra lavoro contadino e artigiano. C’erano i ceti intermedi, pubblici e privati, gli intellettuali, i giovani e anche le donne, già quando non votavano. I partiti dovevano essere pure istituzioni pensanti. Attiravano intellettuali di prestigio e ai loro dirigenti e quadri era richiesto un elevato livello cul28   La definizione è di P. Mair, Ruling the Void? The Hollowing of Western Democracy, in «New Left Review», 42, pp. 25-51.

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turale. Si costituiva così un sapere di partito, che precipitava in quotidiani, riviste, libri. Era anche un modo, specie per i partiti socialisti e comunisti, per approssimarsi ai circuiti del potere. Per i partiti moderati e conservatori l’avvicinamento era superfluo, visto che dai circuiti del potere avevano di solito avuto origine. Ma per i partiti socialisti e comunisti l’estraneità fu un problema. Pure la cultura ha concorso ad allargare le loro relazioni anche con gli avversari politici. Quantunque fossero organizzazioni nazionali, i partiti sono stati anzitutto i loro insediamenti locali. Avendo in mente il modello dello Stato-nazione, sono stati osservati troppo dall’alto verso il basso, o dal centro verso la periferia. Ma se i partiti hanno preso lo Stato a modello, operavano anche in tutt’altro modo. Il contatto con gli elettori era assicurato dalla loro presenza sul territorio e dalle loro pratiche di radicamento. Almeno finché i media non hanno invaso la rappresentanza. Alle contese elettorali per il governo municipale i partiti socialisti hanno dedicato le loro prime energie. Era localmente che il consenso andava reperito e accumulato, per essere ricomposto sul piano nazionale. Ma la condizione degli altri partiti non era troppo diversa: dovevano reggere la concorrenza. Gli insediamenti locali richiedevano manutenzione costante. La colorazione politica dei territori, una volta definita, è rimasta piuttosto stabile nel tempo, ma non era scontata dall’inizio. I partiti di massa lo sapevano e se ne preoccupavano. Era una scelta strategica: reclutavano in massima parte localmente i candidati alle elezioni nazionali e questi ultimi, una volta eletti, erano un raccordo permanente. Restavano legati ai loro collegi, li visitavano, vi pronunciavano discorsi, v’incontravano associazioni e portatori d’interesse, vi inauguravano opere pubbliche, presenziavano a manifestazioni sportive e a feste patronali, visitavano le scuole, ossequiavano i maggiorenti locali, stringevano mani, carezzavano infanti, scrivevano lettere di raccomandazione, si facevano intermediari con le burocrazie pubbliche e le autorità nazionali. Oggetto di grandi cure erano gli amministratori e le amministrazioni locali: erano poste pregiate, queste ultime, della competizione elettorale, erano presidi da conquistare per controllare il territorio e per alcuni partiti erano luoghi di sperimentazioni, in molti casi originali e di successo. Specie nei grandi centri 179

urbani è la storia del «socialismo municipale», sviluppatasi sovente in contrasto con il centralismo statale e nemmeno ristretta ai partiti socialisti29. Lo sviluppo locale dei partiti non poteva che avvenire secondo geometrie molto difformi e mutevoli. L’intensità della loro penetrazione era dettata dalle loro capacità e dalle loro scelte organizzative, ma anche dalle circostanze. Fungevano sovente da pre-testo circuiti preesistenti. Come già per lo Stato, non sempre ai partiti conveniva omologare e unificare più di tanto l’assortimento delle situazioni locali. La facciata nazionale ricopriva un variegato mosaico di tasselli, sul piano non solo sociale. A scavare nei radicamenti sul territorio si trova di tutto: solidarietà di classe, deferenze notabiliari, tradizioni municipali, antiche beghe paesane, varie forme di associazionismo civico, coalizioni d’interessi d’ogni genere, l’azione di qualche personalità politica, di qualche imprenditore, professionista o ecclesiastico di prestigio30. L’ibridazione tra organizzazione nazionale e insediamenti locali non era del tutto pacifica: alimentava costumi politici eterogenei ed era motivo di polemiche e competizione interna. In alcuni partiti più che in altri, lealtà nazionali e consuetudini locali confliggevano. Grande motivo di critica, dall’esterno, ma anche dall’interno, erano le relazioni personali, contrapposte, nel nome della moralità pubblica e della legalità, ai vincoli associativi impersonali. In alcuni partiti il dualismo era ben sopportato. Non potendo contare su risorse di autorità sociale, i partiti di sinistra si sono di solito mostrati critici verso il clientelismo, ma non ne erano del tutto immuni31. È da notare, per inciso, come il cosiddetto clientelismo non sia un fenomeno residuale, un retaggio arcaico destinato a scomparire. Non va nemmeno ridotto a patronage, cioè a 29   P. Dogliani, Un laboratorio di socialismo municipale. La Francia (18701920), Milano, Angeli, 1991. 30   Una ricerca da fare sarebbe quella sulla collocazione delle sedi periferiche dei partiti: quante erano collocate presso le parrocchie, le sedi sindacali, gli ambulatori dei medici condotti, gli studi degli avvocati, ecc. 31   Offre un interessante esempio M.P. Berg, Reinventing «Red Vienna» After 1945: Habitus, Patronage, and the Foundations of Municipal Social Democratic Dominance, in «The Journal of Modern History», 3, LXXXVI, 2014, pp. 603-632.

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scambio di voti e favori. Nella vasta galassia di relazioni approssimativamente unificate entro questa categoria rientrano autorità sociale, paternalismo, obbligazioni reciproche di vario genere, gratuità, amicizia, connivenze, intimidazioni: tutti moventi, che travalicano i confini della politica e non sono riducibili alla logica dello scambio. Questo ne spiega la sopravvivenza nelle democrazie avanzate32. È merito delle ricerche che in Italia sono state dedicate all’argomento l’aver aperto squarci illuminanti sulla complessità dei rapporti intrattenuti dai partiti con gli ambienti in cui s’insediavano per svolgere la loro azione di rappresentanza. Il difetto di molte di tali ricerche sta nell’aver ridotto indiscriminatamente le relazioni clientelari a testimonianza d’arretratezza e immoralità. Non è neanche infondato supporre che i ricercatori abbiano trovato rapporti clientelari laddove sono andati a cercarli, come nel Mezzogiorno d’Italia, non trovandoli dove non venivano cercati. Una teoria generale delle modalità con cui i partiti reclutavano proseliti, coltivavano elettori e curavano interessi è difficile da formulare. I fattori che entrano in gioco sono così numerosi che è difficile riconoscere regolarità affidabili. Tra i tentativi più riusciti c’è quello condotto da Martin Shefter, che ragiona sul timing dell’insorgere delle burocrazie pubbliche e della politica di massa33. Le burocrazie consolidatesi prima che quest’ultima si sviluppasse avrebbero fatto argine al patronage, che avrebbe trovato condizioni più propizie allorché per qualche motivo – il Mezzogiorno d’Italia, alcune regioni di Spagna, Grecia, della stessa Francia – l’azione dello Stato è stata rallentata o diluita. L’intermediazione personalistica e a corto raggio avrebbe più possibilità di persistere quando 32   Aiutano a rileggere la complessità del patronage e delle relazioni clientelari in maniera più distaccata rispetto al loro racconto come residui premoderni J.-L. Briquet e F. Sawicki (a cura di), Le clientélisme politique dans les sociétés contemporaines, Paris, Puf, 1998 e S. Piattoni (a cura di), Clientelism, Interests and Democratic Representation. The European Experience in Historical and Comparative Perspective, Cambridge, Cambridge University Press, 2001. Cfr. anche H. Kitschelt e S.I. Wilkinson (a cura di), Patrons, Clients, and Policies Patterns of Democratic Accountability and Political Competition, Cambridge, Cambridge University Press, 2007. 33   M. Shefter, Party and Patronage: Germany, England, and Italy, in «Politics and Society», 4, VII, 1977, pp. 403-451.

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difettano i servizi resi universalisticamente dallo Stato. Ogni teoria incontra comunque le sue eccezioni. È ovvio motivo di differenza la strategia organizzativa che ciascun partito decide di adottare. Gli studiosi dei partiti italiani hanno spesso utilizzato quale parametro il Partito comunista italiano e la rappresentazione che esso dava di se stesso. All’indomani del secondo conflitto mondiale aveva costituito una poderosa organizzazione politica nazionale, dotata di una leva di quadri di elevata professionalità, temprata negli anni della lotta clandestina e della resistenza antifascista. Geloso dei suoi confini e del suo severo costume politico, il Pci è stato però un caso unico per la capacità di governare con mano ferma i terminali locali. La stampa di partito era rigogliosa e distribui­ta capillarmente. Oltre al sindacato, l’affiancavano numerose organizzazioni collaterali. Le sue sezioni operavano in permanenza, gli iscritti si riunivano con regolarità, grandi energie erano dedicate all’addestramento dei quadri e all’istruzione degli iscritti. Il gruppo dirigente era impegnato a far aderire il partito alla società italiana, ma pure a fare aderire la società al partito, o a farvi aderire quella parte cui indirizzava la sua offerta di rappresentanza: il concetto gramsciano di egemonia è stato una guida preziosa. Erano ben diverse le forme in cui il partito era abitato e agiva in un luogo e in un altro: tra le fabbriche dei centri industriali del Nord, in cui era spalleggiato dai sindacati, nelle campagne emiliane, dissodate dal proselitismo socialista, e nel Mezzogiorno, dove la Democrazia cristiana, grazie al suo largo accesso alle risorse pubbliche, riusciva a rivolgere agli elettori un’offerta crescente di misure protettive. Il partito era diverso anche lì dove si era combattuta la Resistenza, nei luoghi in cui si erano svolte le lotte contadine del dopoguerra, nelle aree di piccola impresa più restie all’azione sindacale e in quelle in cui era più vivace la concorrenza della Chiesa e dell’associazionismo cattolico34. 34   In realtà, il Pci è riuscito fin quasi alla fine a inviare in periferia dirigenti di fiducia dei suoi organismi centrali, spesso estranei al contesto locale. Ma lo ha fatto più nel Mezzogiorno che nelle altre regioni, dove spesso s’imponevano logiche locali originali: L. Baldissara, «Per una città più bella e più grande». Il governo municipale di Bologna (1945-1956), Bologna, Il Mulino, 1994. Delle condizioni del Pci nel Mezzogiorno peninsulare dà ampia illustrazione S.G. Tarrow, Partito Comunista e contadini nel Mezzogiorno, Torino, Einaudi, 1972.

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Ma il Partito comunista era un unicum. La Democrazia cristiana, che al contrario concedeva ai propri terminali periferici ampia autonomia, è un parametro più realistico. Aveva alle spalle l’esperienza del Partito popolare, che aveva fatto delle autonomie locali uno dei capisaldi del suo programma politico. La Chiesa e l’associazionismo cattolico l’avevano aiutata a dotarsi di una macchina nazionale, complessa ed efficace. Stratificata e ramificata, disponeva anch’essa di un quotidiano, di una casa editrice, di grandi associazioni di cooperative e di un’organizzazione sindacale imparentate con essa. Giunta immediatamente al governo a tutti i livelli, ebbe largo accesso a risorse che le hanno consentito di liberarsi da legami troppo vincolanti con le gerarchie ecclesiastiche e gli ambienti imprenditoriali. Per quanto però fosse solido come istituzione nazionale, il partito seguitava a aderire dappresso alle società locali35. Nei primi anni ’50 ha provato a dotarsi di una leva di quadri professionali, ma è rimasta un patchwork di fazioni eterogenee. La Dc veneta era tutt’altra cosa da quella campana. I notabili bresciani non somigliavano a quelli abruzzesi. Sconfinamenti, colonizzazione, bricolages, erano la regola. Con pragmatismo, il patchwork contemplava la paura del comunismo e la più prosaica ambizione d’estrarre risorse dallo Stato, non senza offrire un ospitale riparo alle configurazioni locali di potere, alcune decisamente sulfuree. Pure la vicenda dei partiti francesi è fatta di adattamenti e ibridazioni con le circostanze locali. Nelle quali non solamente s’imponevano notabili autoctoni, ma se ne ospitavano molti paracadutati dal centro, che erano tuttavia tenuti a radicarsi localmente. La possibilità di accumulare mandati elettivi nazionali e locali era un incentivo a farlo e un mezzo per riuscirvi. Non sempre saldissime, le strutture di partito specie in provincia erano coadiuvate, e a volte surrogate, dalle amministrazioni municipali. È un fenomeno che seguita 35   Il clientelismo democristiano è stato un grande tema di ricerca. Cfr. P. Allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Torino, Einaudi, 1975. Cfr. ancora di P. Allum, Al cuore della Dc. Il caso veneto, in «Inchiesta», 70, 1985 pp. 54-63 e La Dc al Nord e al Sud. Due modelli di partiti clientelari, in «Meridiana», 30, 1997, pp. 194-224. Cfr. anche M. Caciagli, Democrazia cristiana e potere nel Mezzogiorno, Rimini, Guaraldi, 1977; L. Graziano, Clientelismo e sistema politico. Il caso dell’Italia, Milano, Angeli, 1984.

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a riprodursi: i partiti tendono ad «ancorarsi» localmente e l’ancoraggio resiste perfino alle recenti disavventure nazionali dei partiti maggiori. Nel 2022 le performances del Partito socialista e dei Repubblicani sono state decisamente superiori alle elezioni legislative rispetto alle presidenziali, sia in ragione del sistema elettorale, sia ancor più del radicamento locale di entrambi36. Le pratiche non sono le stesse, ma l’adattabilità locale dei partiti vale ovunque. Per citare con sicurezza altri esempi servirebbe spingere più avanti le frontiere della ricerca. Ne varrebbe la pena, per diverse ragioni. Quanto l’attuale fisionomia dei territori è stata plasmata dall’azione di rappresentanza svolta dai grandi partiti popolari? Quanto, questi ultimi, hanno costituito i territori? In più, il decadimento attuale dei partiti sta forse riportando in primo piano le tecniche di insediamento locale della politica. 3. I partiti e la democrazia Non vi sono partiti senza ostilità ai partiti 37. Hanno sempre suscitato un’avversione caparbia e astiosa: contro di essi e, quando conviene, dentro di essi. Pianta robustissima, l’antipartitismo ha resistito a tutte le mutazioni che i partiti hanno subito, o promosso, fino ad oggi. C’è l’antipartitismo, degno prolungamento dell’antiparlamentarismo, dei nostalgici 36   In Francia si fa ricerca su questi temi. La notabilizzazione è un tratto peculiare della politica francese, che si fonda sulla pratica del cumul des mandats. Tra i contributi recenti: J. Fretel, Le parti comme fabrique de notables. Réflexions sur les pratiques notabiliaires des élus de l’UDF, in «Politix», 65, XVII, 2004, pp. 45-72. Nello stesso numero P.-P. Zalio, D’impossibles notables? Les grandes familles de Marseille face à la politique (1860-1970), pp. 93-118; R. Lefebvre, La difficile notabilisation de Martine Aubry à Lille. Entre prescriptions de rôles et contraintes d’identité, pp. 119-146. Un interessante filone di ricerca è quello sviluppato sul radicamento locale. Cfr. ancora C. Mattina, Clientélismes urbains. Gouvernement et hégémonie politique à Marseille, Paris, Presses de SciencePo, 2016 e il numero della rivista «Politix» dedicato agli «Ancrages politiques», 92, XXIII, 2011. Infine, J.-L. Briquet e L. Godmer (a cura di), L’ancrage politique, Villeneuve d’Ascq, Presses universitaires du Septentrion, 2022. 37   Si rinvia nuovamente a D. Palano, Partito, Bologna, Il Mulino, 2013 e P. Ignazi, Party and Democracy. The Uneven Road to Party Legitimacy, Oxford, Oxford University Press, 2017.

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dell’autorità monocratica, che vorrebbero sopprimere i partiti. Non è trascorso molto tempo da quando i partiti costituivano un’imponente concentrazione di potere, utilizzata pacificamente, ma pur sempre temibile, sia per lo Stato, sia per il mercato capitalistico, che metteva in dubbio le gerarchie sociali e implicava attenzione per gli strati inferiori della società: ve l’hanno prestata anche i partiti moderati e conservatori. L’avranno fatto per calcolo elettorale, ma l’hanno fatto. E ciò li ha resi, e forse ancora li rende, ingombranti. Al polo opposto c’è l’antipartitismo democratico. I partiti fanno rappresentanza e come tali sono criticati38. Tra i due antipartitismi, non c’è parentela, ma c’è un antipartitismo intermedio e più sottile, per il quale non è il caso d’incrementare più di tanto il numero dei partiti. A ridurlo ne trarrà vantaggio la governabilità, sarà più agevole ascoltare la voce degli elettori, si offriranno meno motivi alla vita collettiva per dividersi e anche la moralità pubblica potrebbe giovarsene: sono argomenti familiari per qualsiasi osservatore della politica italiana degli ultimi cinquant’anni. Le imputazioni più ricorrenti rivolte contro i partiti si possono ridurre a tre. La prima, propria dei critici di destra e di cui Carl Schmitt è stato esemplare portavoce, li accusa di essere istituzioni divisive: pregiudicano l’unità dello Statonazione, dividono la vita collettiva, compromettono l’azione di governo39. Si sono già ricordati il punto di vista di Weber e la replica di Kelsen a Schmitt. Ma si può anche avanzare un’altra obiezione. Nessun dubbio che i partiti siano fazioni a pieno titolo, che, tramite la lotta per la rappresentanza, si contendano il monopolio statale promuovendo interessi di parte: lo erano in partenza e lo sono tuttora, quantunque abbiano perso gran parte del loro rilievo. È indubbio pure che le loro divisioni si proiettino sulla società e la dividano. Ma quantomeno i partiti di massa, che sono quelli cui si riferivano Schmitt, Weber e Kelsern, tanto dividevano, quanto riordinavano e semplificavano il pluralismo. La rappresentanza occasionale ha cambiato le 38   Un’esemplare argomentazione in M. Revelli, Finale di partito, Torino, Einaudi, 2013. 39  C. Schmitt, Parlamentarismo e democrazia (1923), in Id., Parlamentarismo e democrazia e altri scritti di dottrina e storia dello Stato, Cosenza, Marco Editori, 1998.

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cose, ma la fidelizzazione promossa dai grandi partiti popolari conduceva a una società suddivisa in grandi blocchi e non tra interessi circoscritti, locali o funzionali. Non bastasse: una volta esteso il diritto di voto e allargata la cittadinanza democratica, quei partiti svolgevano una fondamentale attività di mediazione – di linkage40 – tra Stato e cittadini. Erano corpi intermedi, oggidì decaduti. Il secondo grande capo d’imputazione elevato contro i partiti è la loro immoralità, la congenita propensione dei loro addetti a curare interessi di parte, e anche i propri, a scapito dell’interesse collettivo. L’accusa ha qualche fondamento: se i partiti sono fazioni, è inevitabile che perseguano profitti, per sé, per i propri quadri, per i propri elettori. Dando per scontato il «patronato delle cariche», e riconoscendo la presenza inevitabile di qualche interesse dietro ogni «causa», Weber si guardava tuttavia dal pronunciare sentenze definitive di condanna41. Anche perché tra patronato delle cariche e corruzione non c’è alcun nesso obbligato. Che il primo possa consentire vantaggi illegittimi è indubbio. E pure è indubbio che permetta di attribuire responsabilità di rilievo a figure incompetenti e immeritevoli, purché leali al partito. Ma ricoprire cariche pubbliche è anche condizione necessaria affinché un partito realizzi se non la propria visione del mondo, quanto meno un qualche progetto di governo. E occupare cariche pubbliche è il mezzo per riuscirci. In un regime pluralistico, che confida sulla concorrenza tra progetti di governo diversi, il problema sta negli abusi, o nella mancanza di contrappesi, oltre che nell’incerta distinzione tra cariche politicamente disponibili e cariche che non dovrebbero esserlo. Vecchia per quanto sia, l’accusa d’immoralità andrebbe anzitutto ponderata. Una cosa è la corruzione, un’altra la sua reputazione. Quanto sono attendibili le rilevazioni campionarie condotte anche da agenzie internazionali accreditate? Fondate solitamente sull’opinione dei cittadini o di specifiche categorie, come gli imprenditori, tali indagini non brillano per affidabilità. Un elemento per tutti: gli interpellati dai sondaggi 40   K. Lawson, Political Parties and Linkage, New Haven, Yale University Press, 1980. 41   M. Weber, La politica come professione, cit., p. 187.

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da un lato sono sovraesposti alla critica rivolta contro i partiti tramite i media, dall’altro in maggioranza confessano di non avere esperienza diretta di comportamenti corrotti42. Vi sono, senza dubbio, le illegalità accertate dall’ordine giudiziario. Ma non c’è alcuna prova che gli addetti ai partiti siano più inclini al malaffare di altre categorie professionali. Non è da sottovalutare neppure l’uso che è fatto dell’accusa d’immoralità nella contesa politica, nella dialettica tra istituzioni pubbliche e in quella tra Stato e mercato. Come sarebbe doveroso distinguere tra partito e partito. Vi sono partiti che proteggono con cura i propri confini e che impongono ai loro dirigenti, quadri e militanti una disciplina più severa, che valorizzano le remunerazioni simboliche a scapito di quelle materiali43. Solitamente è la parte dei partiti outsiders. I partiti established sono invece più permeabili a condizionamenti esterni e sono più disponibili a legittimare le ambizioni di carriera individuali e a consentire ai loro addetti di conseguire benefici privati dalla propria attività. I partiti non vivono fuori dal mondo e più si integrano entro di esso più ne condividono i valori, i costumi, le regole. Le semplificazioni moralistiche, da qualsiasi parte provengano, sono spesso argomenti in favore del contingentamento del pluralismo. Non risolve comunque il problema né ridurre il numero dei partiti, né ridurli a uno solo o abolirli: le autocrazie non sono più morali dei regimi pluralisti. È semmai, la concorrenza libera e aperta a costituire un antidoto: c’è sempre qualcuno pronto a denunciare le trasgressioni. C’è infine un terzo e grave capo d’imputazione sollevato contro i partiti: quello di lesa democrazia. La requisitoria più celebre è quella pronunciata a inizio del XX secolo da Robert Michels, il quale formulò nientemeno che una «legge ferrea dell’oligarchia», denunciando l’insuperabile incompatibilità tra le promesse di riscatto e d’uguaglianza avanzate dai partiti socialisti e la loro azione politica. I dirigenti dei partiti tendevano a imborghesirsi e a istituire nuove oligarchie e nuove disuguaglianze, facendo del partito un «fine a se stesso»44. 42   M. Flinders, Defending Politics. Why Democracy Matters in the TwentyFirst Century, Oxford, Oxford University Press, 2012, pp. 12-14. 43   D. Gaxie, Rétributions du militantisme et paradoxes de l’action collective, in «Swiss Political Science Review», 1, XI, 2005, pp. 157-188. 44   R. Michels, La sociologia del partito politico, cit., p. 519.

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Per quanto avesse eccellenti motivi per polemizzare, la risposta Michels se la dava da solo: «la democrazia non è concepibile senza organizzazione», e unicamente «nella misura in cui si organizzano in massa e danno al loro aggregato una struttura, i proletari acquistano capacità di resistenza politica e dignità sociale»45. L’organizzazione richiede tuttavia divisione del lavoro e competenze specifiche e segna inevitabilmente «l’inizio della formazione di una leadership professionale», che a sua volta, lui scrive, segna «l’inizio della fine della democrazia»46. Quel che sorprende è lo scandalo, del tutto fuori misura per un allievo di Weber, cui era dedicata la prima edizione della sua opera principale47. Per Weber il patronato degli uffici era inevitabile e non cancellava i benefici dei partiti. Per Michels, invece, nei partiti non c’era nulla da salvare: né il rinnovamento nella composizione sociologica delle élites, né l’azione inclusiva e di educazione politica rivolta ai ceti popolari. Come mai Michels non si accorgeva di come la vivace competizione interna ai partiti impedisse l’instaurarsi di oligarchie ossificate e impenetrabili? E perché non intese che la cooptazione di figure provenienti dai ranghi inferiori o da cerchie esterne al partito, seppur utilizzata come arma nelle rivalità interne, fosse di per sé motivo d’instabilità e di cambiamento? Michels traeva un altro dei suoi argomenti dalla scuola della psicologia delle folle. Mentre Weber considerava criticamente i contributi di Gustave Le Bon, Michels condivideva l’idea che le masse fossero per istinto sottomesse e gregarie e l’applicava ai partiti48. Non fosse che le masse, oltre a essere assai più articolate di quanto il termine supponga, non si sottomettono né indefinitamente, né appieno. Anche le leadership in apparenza più solide sono a rischio. Dichiaratosi seguace nei suoi primi   Ivi, pp. 55-56.   Ivi, p. 189. 47   Ivi, pp. 203-204. E infatti la discussione tra maestro e allievo fu molto animata: cfr. L. Scaff, Max Weber and Robert Michels, in «American Journal of Sociology», l, LXXXVI, 1981, pp. 1269-1286. Sui rapporti tra i due F. Tuccari, Sociologia del partito e teoria politica: Max Weber e Robert Michels, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», XXIV, 1990, pp. 295-317. Ancora dello stesso autore 100 anni dopo. Le radici, le ragioni e l’inattualità della Sociologia del partito politico di Robert Michels, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», XLVI, 2012, pp. 55-84. 48   R. Michels, La sociologia del partito politico, cit., p. 89. 45 46

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scritti della teoria della classe politica di Gaetano Mosca, Michels alla lunga pervenne a tutt’altre conclusioni sul fascismo rispetto allo studioso siciliano. Aveva iniziato la sua traiettoria politica da simpatizzante del sindacalismo rivoluzionario. Deluso dalla democrazia e dai partiti democratici, concluderà quale ammiratore di Mussolini, dimenticando le riserve assai severe da lui stesso manifestate all’indomani dell’insediamento del regime. La replica agli argomenti di Michels è che ai partiti non si può chiedere quanto non possono dare. Secondo Elmer E. Schattschneider, che è uno studioso americano dei partiti di buona fama, «la democrazia non va trovata nei partiti, bensì tra i partiti»49. Cioè nel pluralismo. Sarebbe anche auspicabile entro i partiti, ma non è detto che sia essenziale, specie alla luce degli effetti inclusivi – politici e sociali – che l’azione dei partiti ha per lungo tempo suscitato. I nostalgici dell’autorità monocratica resteranno indifferenti a ogni difesa. Lo resteranno pure i critici ultrademocratici. La storia della democrazia senza i partiti sarebbe però stata più democratica di quello che è stata con i partiti? Non lo sappiamo. Forse non sarebbe stata nemmeno possibile. Per contro sappiamo che l’odierna condizione dei partiti offre nuovi e seri motivi di riflessione. Gli antidoti che hanno per lungo tempo temperato gli effetti della legge di ferro dell’oligarchia hanno perso d’efficacia. Nelle pagine che seguono vedremo in che modo. 4. Quando gli «outsiders» divennero «established» Al termine del secondo conflitto mondiale i partiti europei hanno cambiato di status. Da outsiders sono stati promossi a established. I regimi autoritari avevano messo a dura prova lo Stato, la nazione, le istituzioni rappresentative. I partiti hanno contribuito a rilegittimare l’autorità pubblica e sono stati incorporati entro i nuovi regimi rappresentativi e democratici. 49   E.E. Schattschneider, Party Government (1942), New York, Holt, Rinehart & Winston, 1967, p. 60. Una posizione analoga è quella di G. Sartori, secondo cui la democrazia in grande non presuppone quella in piccolo: cfr. Democrazia, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, Treccani, pp. 742-759.

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Rispetto agli anni ’20 si erano registrate consistenti variazioni negli equilibri elettorali. Qualcuno aveva cambiato nome. Ma gli attori erano i medesimi: conservatori, liberali, partiti confessionali, socialisti e comunisti. I partiti fascisti furono messi al bando, anche se qualche loro filiazione è sopravvissuta ai margini del regime democratico. Il loro pluralismo non fu sottoposto a eccessive restrizioni. La Gran Bretagna si attenne al suo tradizionale bipartitismo, corretto dal Partito liberale. In Germania sarà la soglia di sbarramento prevista dal regime elettorale a porre un limite. Altrove si preferì lasciare liberi i partiti di moltiplicarsi. In genere, hanno preso il sopravvento i partiti moderati e conservatori. L’eccezione erano i paesi scandinavi, a prevalenza socialdemocratica, e il Regno Unito, dove gli elettori nel 1945 preferirono il Labour di Attlee ai Tories di Churchill. Probabilmente, proprio il fatto che lo spazio delle sinistre era ampio, ma non soverchiante, ha agevolato l’accettazione dei partiti. La prima ambiziosa ricognizione teorica e comparativa sui partiti, diversa dagli studi di caso condotti da Ostrogorski e Michels, è quella già citata di Maurice Duverger apparsa nel 195150. Scontato che nessuna indagine dedicata alle istituzioni democratiche potesse più ignorarli, Duverger affrontava anche la questione dei sistemi di partiti, ovvero delle loro interazioni, e quella degli effetti dei sistemi elettorali. La dialettica tra i partiti aveva rinnovato il funzionamento del regime rappresentativo e s’instauravano modelli di competizione politica diversi, che imponevano di aggiornare la classificazione delle forme di governo: un regime a due partiti funzionava diversamente da uno in cui i partiti erano più numerosi. Per almeno due fondamentali ragioni non poteva non incuriosirsi del successo dei partiti europei la political science per eccellenza, quella americana, figlia della sociologia empirica. Agli americani interessava conoscere come si stessero stabilizzando le democrazie europee. Un secondo movente è che per gli studiosi la fragilità dei partiti d’oltreoceano a confronto con gli interessi rimaneva un tema aperto. Nel 1942 Schumpeter li aveva liquidati come «marchi» e niente più, ma nello stesso anno era apparso il libro di Schattschneider, che definiva e 50

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  M. Duverger, I partiti politici, cit.

apprezzava il party government51. I partiti europei divennero pertanto oggetto di un grande sforzo di ricerca per i political scientists americani, che contribuiranno fra l’altro a inaugurare in Europa un nuovo ambito disciplinare collocato tra diritto pubblico e sociologia: la scienza politica. Tra i tanti contributi merita in special modo di essere ricordato un volume curato a metà anni ’60 da Joseph LaPalombara e Myron Weiner. Riconosciuta ai partiti una «funzione» specifica, e benefica per la vita democratica, quella d’integrazione sociale, il libro faceva il punto sulla condizione dei partiti europei e non solo, prestando anche attenzione ai cambiamenti che si profilavano52. A tali cambiamenti era in special modo dedicato il capitolo scritto da Otto Kirchheimer, un altro autorevole giurista weimariano, già allievo di Schmitt ed esponente della Spd, emigrato alla vigilia della guerra in America e poi tornato in Germania53, divenendo dagli anni ’50 un attento osservatore della politica europea. Avendo in mente le differenze tra i partiti nell’una e nell’altra sponda, e tra l’uno e l’altro dopoguerra, in un suo scritto del 1957 Kirchheimer 51   Tra gli altri, E.E. Schattschneider, Party Government, cit. Schattschneider confermerà l’idea che i partiti sono democraticamente essenziali in The Semisovereign People: A Realist’s View of Democracy in America, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1960. Dieci anni prima un comitato istituito dalla American Political Science Association, presieduto dallo stesso Schattschneider, aveva ribadito l’importanza dei partiti: cfr. Toward a More Responsible Two-Party System: A Report of the Committee on Political Parties, in «American Political Science Review», 3, XLIV, 1950. 52   J. LaPalombara e M. Weiner (a cura di), Political Parties and Political Development, Princeton, Princeton University Press, 1966. Su questo libro una special issue della rivista «Party Politics» e per un commento quarant’anni dopo J. LaPalombara, Reflections on Political Parties and Political Development. Four Decades Later, in «Party Politics», 2, 13, 2007, pp. 141-154. Non era il solo volume comparativo sui partiti. Dieci anni prima era apparso S. Neumann (a cura di), Modern Political Parties, Approaches to Comparative Politics, Chicago, The University of Chicago Press, 1956. Apparirà un anno dopo S.M. Lipset e S. Rokkan (a cura di), Party Systems and Voter Alignments, New York, Free Press, 1967. 53  O. Kirchheimer, The Transformation of the Western European Party Systems, in J. LaPalombara e M. Weiner (a cura di), Political Parties and Political Development, cit. Sul contributo di Kirchheimer cfr. A. Krouwel, Otto Kirchheimer and the Catch-All Party, in «West European Politics», 2, XXVI, 2003, pp. 23-40. Cfr. anche W. Safran, The Catch-All Party Revisited: Reflections of a Kirchheimer Student, in «Party Politics», 5, XV, 2009, pp. 543-554.

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annunciava la progressiva erosione in Europa della dialettica tra maggioranza e opposizione54. Qualche anno dopo, nel volume di La Palombara e Weiner, avanzava invece una previsione in netto contrasto con quella di Duverger. Quest’ultimo, aveva trattato l’America da paese politicamente arretrato: l’avvenire dei partiti consisteva nella generalizzazione del modello del partito di massa. Per Kirchheimer quel modello di partito, da lui denominato d’«integrazione democratica», era invece in via di superamento e piuttosto il destino dei partiti europei era di americanizzarsi: a questo scopo coniava la fortunatissima etichetta di partito catch-all. Nel 1960 Daniel Bell aveva annunciato la fine delle ideologie55. Kirchheimer non lo cita, ma nella medesima atmosfera, tenendo ben presenti le varietà nazionali, elencava alcuni motivi principali di cambiamento. Si erano rinnovati i pre-testi dell’azione di rappresentanza. I grandi contrasti ideologici e politici si stavano consumando grazie allo sviluppo economico e alle misure inclusive del welfare. L’attenuazione degli effetti delle divisioni di classe e la diffusione dei consumi cambiavano i sentimenti dei cittadini e pure le condizioni della contesa politica. Erano motivi sufficienti perché i partiti rivedessero la loro offerta di rappresentanza, e si rivolgessero ai segmenti di elettorato più prossimi e più compatibili con la loro constituency originaria, aggiornando del pari lo stile con cui la contesa politica era condotta. Anche i rapporti tra partiti ed elettori erano meno stringenti. Erano in ritardo unicamente i partiti comunisti in Francia e in Italia, ma s’intravedeva qualche spiraglio: i loro elettori restavano leali, ma non era più immaginabile alcuna opzione rivoluzionaria. Già nei suoi scritti precedenti Kirchheimer aveva registrato il profondo cambiamento di stile nelle relazioni tra i partiti. I quali si abituavano l’uno all’altro, sedendo fianco a fianco nelle istituzioni elettive. I partiti socialisti stavano assumendo stabilmente responsabilità di governo. I laburisti avevano vinto 54   O. Kirchheimer, The Waning of Opposition in Parliamentary Regimes (1957), ora in Id., Politics, Law and Social Change. Selected Essays, a cura di F.S. Burin e K. Shell, New York, Columbia University Press, 1969. 55   D. Bell, The End of Ideology: On the Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, Glencoe, The Free Press, 1960.

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le elezioni in Gran Bretagna nel 1945. In Francia la Sfio aveva fatto parte più volte dell’esecutivo, fino alla crisi del 1958. In Italia nel 1963 era nato il primo esecutivo di centrosinistra. In Germania era prevedibile che la Spd giungesse presto al governo. Tutti i partiti erano rappresentati negli esecutivi locali. I rapporti reciproci si erano distesi e si erano del pari adattati i regimi democratici. Da piazzaforte da espugnare lo Stato democratico era diventato una macchina da pilotare. La strategia catch-all forniva l’occasione per rivedere l’organizzazione e per semplificare la catena di comando. Leadership nazionale e rappresentanza in Parlamento si sovrapponevano, i partiti s’insediavano sempre più nei circuiti del potere e moltiplicavano le loro relazioni con gli ambienti economici. Il compito di accudire e includere gli elettori era meno pressante e se lo stavano assumendo direttamente gli eletti, nazionali e locali. Era pure iniziata l’emorragia degli iscritti. Traendo un bilancio mezzo secolo dopo, Susan Scarrow ha tuttavia invitato a non mitizzare il passato e a non sopravalutare la consistenza e la lealtà della membership di allora. Alla luce dei dati da lei esibiti, l’osservazione è pertinente. Il passato non è tale da meritare confronti troppo nostalgici56. Non esistevano del resto né un unico modello, né un’unica pratica di membership57, che non aveva nemmeno sempre il medesimo significato. Pure entro lo stesso partito le diversità territoriali erano consistenti. Sono anche incerte le conoscenze sulla qualità dell’adesione testimoniata dall’iscrizione. L’iscrizione a un partito era spesso una consuetudine dettata dall’ambiente. Non è nemmeno facile stabilire se l’erosione degli iscritti, che di solito si ritiene iniziata a metà anni ’50, sia da attribuire a un cambiamento di gusti dei cittadini o all’azione dei partiti, che, avvicinandosi al potere, hanno rivisto i loro servizi di rappresentanza e hanno promosso le iscrizioni con meno impegno, disponendo di altre fonti d’introito. Di sicuro, una volta divenuti established, avevano altri mezzi per retribuire 56  S.E. Scarrow, Beyond Party Members. Changing Approaches to Partisan Mobilization, Oxford, Oxford University Press, 2015. 57   Da una ricerca limitata a Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda un ulteriore invito alla cautela è quello di A. Gauja, The Politics of Party Policy. From Members to Legislators, Basingstoke, Palgrave McMillan, 2013.

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i loro addetti e attivisti e per gratificare la loro constituency, con la quale istituiranno un rapporto più professionale e più uniforme sul piano nazionale. Tornando a Kirchheimer, lui additava ancora un altro aspetto: stava prendendo quota e acquistando autonomia la rappresentanza pre ed extrapolitica, sollevando delicati problemi di equilibrio con i partiti. Non manca nemmeno nel suo saggio qualche accenno alla visibilità offerta dalla televisione, mentre il personalismo che caratterizzava il gollismo gli appariva più una deviazione che non l’avvio di una tendenza destinata a prevalere. Kirchheimer era un socialdemocratico d’anteguerra, che annunciava con qualche rimpianto e qualche inquietudine il tramonto di una tradizione illustre. Il ritratto da lui delineato non era privo di accenti critici. Al di là delle sue intenzioni, il suo resoconto aveva nondimeno il pregio di rassicurare. Certificava il decadimento di molti motivi di tensione. Il raffreddamento della contesa politica aveva indotto i grandi partiti a concentrare l’azione di rappresentanza su nuove issues e su idee meno contrapposte d’ordine sociale e di giustizia. In politica estera, tolti i partiti comunisti, nessun partito europeo si opponeva più all’alleanza occidentale e c’era un ampio accordo sulla convergenza europea. L’evoluzione era gradita a parecchi, alle burocrazie pubbliche e al mondo imprenditoriale, che avevano temuto l’azione dei partiti. Concentrandosi sul governo, anziché sulla mobilitazione elettorale, i partiti sembravano porre le premesse di una democrazia più conciliante. C’è da chiedersi se il resoconto non convenisse anche a molti addetti ai partiti. Pochi avranno letto Kirchheimer. Ma l’etichetta aveva appeal e ha superato i confini dell’accademia. Per i grandi partiti popolari l’integrazione delle cosiddette masse nello Stato era cosa fatta. Una volta familiarizzate col potere, le loro dirigenze si adeguavano. Va anche ricordato come almeno dagli anni ’60 fosse in corso un rinnovamento generazionale, professionale e culturale del personale politico. Una buona parte della leva di quadri e dirigenti che aveva occupato le istituzioni rappresentative dagli anni ’40 proveniva in gran parte da esperienze d’opposizione, o di marginalità politica. Ma era ormai entrata in scena una generazione più giovane, più variegata socialmente, più incline a governare 194

anziché a rappresentare, e anche a pensare la politica come una qualsiasi professione. Per questa leva la democrazia era un’altra cosa. Da metà anni ’60 il turnover si accentuerà. Gli ultimi arrivati saranno più spesso equipaggiati di studi superiori e si troveranno più a proprio agio entro le istituzioni elettive e di governo che non dentro gli apparati di partito. La struttura degli incentivi e delle remunerazioni si era sbilanciata a favore di quelli materiali contro quelli simbolici58. Lo sviluppo era fisiologico, ma gravido di conseguenze, anche sotto il profilo dell’immagine pubblica degli addetti alla politica. Il rinnovamento non ha investito tutti i partiti allo stesso modo. In parte è stato inconsapevole, in parte inevitabile, per i partiti di centro e conservatori è stato probabilmente meno impegnativo che per quelli di sinistra, i quali erano cresciuti svolgendo un’azione critica, ormai superata59. Nei partiti comunisti la preoccupazione di disorientare l’elettorato era ancora dominante. Non è detto nemmeno che entro il medesimo partito il cambiamento fosse omogeneo su tutto il territorio nazionale e per tutto il bacino elettorale. Ma la linea di tendenza era quella. Gli addetti all’apparato, più dedicati agli elettori, erano più legati al passato, perché il passato era la fonte del loro potere. Mentre coloro che operavano nelle assemblee elettive e nelle postazioni di governo erano più disposti a innovare. Fu un motivo di contesa, non a vantaggio dei primi. Per concludere sul punto. Kirchheimer aveva descritto in primo luogo la situazione tedesca, dove la Spd si accingeva ad avvicendare al governo la Cdu, che non quella italiana o francese. Ma aveva colto una tendenza, che sarebbe stata confermata dalla ricognizione condotta quasi vent’anni dopo da Angelo Panebianco, più concentrata sulla dimensione organizzativa, che disegnava anch’essa un modello e dettava un’altra etichetta: il partito «professionale-elettorale»60. Panebianco sottolineava anche il ruolo crescente dei media. La televisione era una tecnologia meno laboriosa da manovrare dei vecchi 58   Una riflessione sui cambiamenti generazionali del personale politico in A. Pizzorno, The Individualistic Mobilization of Europe, in «Daedalus», 1, XCIII, 1964, pp. 199-224, segnatamente pp. 211-217. 59   O. Kirchheimer, The Transformation..., cit. p. 190. 60   A. Panebianco, Modelli di partito, Bologna, Il Mulino, 1983.

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e ingombranti apparati, che prometteva anche di essere più efficace e più penetrante a fini elettorali, offrendo maggiori opportunità d’espansione al di fuori del proprio bacino iniziale, ridisegnando radicalmente tanto la fisionomia dei partiti, quanto l’andamento della lotta per la rappresentanza, che avrà però qualche sviluppo inatteso. 5. Gli «outsiders» non finiscono mai Nel 1967 il resoconto di Kirchheimer segnalava come la lotta per la rappresentanza si stesse rinnovando. L’offerta politica dei partiti tendeva sempre più a fondarsi sull’azione di governo e diveniva più generica e ormai restia a educare e formare gli elettori: stava diventando adattiva. Ma non c’è cambiamento senza imprevisti e senza calcoli sbagliati. Non lo immaginava Kirchheimer e nemmeno i partiti established immaginavano la comparsa di nuovi outsiders. Erano probabilmente convinti di aver stabilito un solido monopolio entro la sfera della rappresentanza: i gruppi d’interesse, divenuti molto attivi, non costituivano una sfida su quel terreno. Il calcolo, viceversa, era errato, perché nel giro di poco tempo hanno fatto la comparsa due categorie di outsiders temibili, che hanno rinnovato le modalità di conduzione della contesa politica: i movimenti collettivi da un canto, la nuova destra estrema dall’altro. Innanzitutto: non c’è solo la rappresentanza politica e non c’è un solo modo di fare rappresentanza. C’è la rappresentanza prepolitica, che si autoesclude dalla competizione elettorale, e di cui fanno appunto parte i gruppi d’interesse. I movimenti collettivi costituiscono, invece, un genere molto particolare, che dimostra come si possa lottare per la rappresentanza politica anche rinnegandola e conducendola in altre forme. I movimenti collettivi non erano un’invenzione dell’ultima ora. Sono una tecnica usata spesso nei regimi rappresentativi allorché alcuni claims non riescono a farsi largo tra le chiuse della rappresentanza politica ufficiale, salvo poi esaurirsi, o istituzionalizzarsi, dando luogo a nuovi partiti, o a longevi reticoli associativi61. In 61   Come si definisce un movimento sociale? Ne danno una definizione S. Tarrow e C. Tilly, secondo cui i movimenti sociali sono istituzioni che

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America i movimenti vantano una lunga storia, di autonomia, di sfide, ma pure di sinergie con i partiti62: nei primi anni ’60 era comparso il movimento per i diritti civili della popolazione afroamericana e, sotto la presidenza Johnson, si era aggiunto il movimento degli studenti contro la guerra in Vietnam. Sulla scena europea i movimenti sono invece ricomparsi nel 1968: non hanno travolto le imprese di rappresentanza politica attive in quel momento, ma ne hanno spezzato il monopolio. Erano movimenti, questi ultimi, che avevano tratti piuttosto specifici. Volutamente si configuravano non come partiti potenziali, bensì come contro-partiti. Come aggirare i partiti established? Le modalità con cui i concorrenti si autodefiniscono, e definiscono la situazione, servono ovviamente a plasmarli: una volta descritti i partiti quale ostacolo insormontabile alla volontà dei cittadini e alle attese degli elettori, la strategia dei movimenti è stata quella di costituirsi come il loro calco negativo. Nonostante fossero in piena evoluzione, i partiti erano ancora spazi perimetrati con cura, che da un canto accoglievano, dall’altro vincolavano in qualche misura chi vi aderiva. Erano condotti professionalmente e l’organizzazione presidiava l’intero territorio nazionale. I movimenti sociali apparsi dalla fine degli anni ’60 hanno condotto la lotta politica entro spazi vagamente definiti e spesso inconsueti. Amavano descriversi senza regole, senza gerarchie, senza confini stabiliti e senza membership stabile. Di fatto, non mancava una leadership, ma non era formalizzata, e, malgrado l’immagine pubblica che volevano dare di sé, alcuni erano anche piuttosto impositivi. I primi a sollevarsi furono gli studenti. Ne discuteremo di nuovo nel prossimo capitolo. Non elaboravano programmi, ma piuttosto ereditavano la funzione critica abbandonata dai partiti pigliatutti. Una caratteristica dei movimenti di quella stagione animano campagne di rivendicazione, che identificano obiettivi che pubblicizzano con grande varietà di strumenti, che organizzano un seguito entro il quale intrecciano vincoli di solidarietà e di cooperazione, e lo mettono in mostra. Cfr. Contentious Politics, New York, Oxford University Press, 2015, p. 11. 62   Su questi temi S. Tarrow, Movements and Parties: Critical Connections in American Political Development, Cambridge, Cambridge University Press, 2021.

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era la richiesta d’inclusione non mediata, attiva, egualitaria, nella vita pubblica. Tra i loro pre-testi va annoverata l’esperienza di un quarto di secolo di pratica democratica. La libertà di parola, d’associazione, di movimento, perfino di consumo, erano stimoli alla ribellione per vasti strati e categorie sociali. Unificando proteste, dissidenze, resistenze, pratiche di autodifesa, il movimento degli studenti elaborava un nuovo modo di pensare la vita associata, alternativo al mercato capitalistico: si raccontava come una costellazione di enclaves da abitare liberamente, ove si discuteva, ragionava, studiava, si dichiaravano i propri bisogni e le proprie aspirazioni, si agiva in solido con altri, coltivando la propria passione politica e ricostituendo le relazioni associative e i vincoli di solidarietà dismessi dai partiti. La pratica non era sempre fedele al racconto. Ma i movimenti studenteschi riproposero la speranza politica e sollevarono questioni di amplissima portata: i rapporti di dominio, la soggettività, le differenze di genere, il lavoro, i diritti, la pace. Politicizzata l’istruzione e la ricerca, fecero da innesco ad altre rivendicazioni di rappresentanza: le difficoltà abitative nei centri urbani, la condizione familiare e quella femminile, i diritti civili, la sanità, la disciplina militare, perfino la subordinazione del basso clero e dei fedeli. La ribellione si era estesa ad altre categorie sociali. Ancora in polemica con i partiti, i movimenti preferiranno smascherare l’inganno delle elezioni: piège a cons le definirà un saggio famoso di uno dei loro intellettuali di riferimento come Jean-Paul Sartre63. Fare lotta politica tramite le elezioni «serializzava», nelle parole di Sartre, gli elettori, omologandoli e privandoli della loro socialità. Erano echi della critica rousseuiana alla rappresentanza e ai suoi inganni. Al tempo stesso, le chances d’intaccare la preminenza elettorale dei partiti established erano minime: i tentativi d’estrarre dai movimenti qualche formazione politica competitiva si riveleranno fallimentari. Meglio allora nobilitare la propria azione denunciando le frustranti ritualità e la separatezza della rappresentanza convenzionale. I partiti erano ormai oligarchie sclerotizzate, paternalistiche, prigioniere di esangui rituali e di grevi vincoli burocratici. Il calco negativo 63  J.-P. Sartre, Elections, piège à cons, in «Les temps modernes», 318, XXIX, 1973, pp. 1099-1108.

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dei movimenti dichiarava l’intenzione di restituire alla politica un grado più elevato di trasparenza, moralità e democrazia. Indirizzando i propri claims non già verso il Parlamento e l’esecutivo, bensì verso le scuole, le università, le catene di montaggio, i municipi, gli ospedali, i teatri, i supermercati, le stazioni ferroviarie. Sottraendosi alle regole, la lotta per il potere si disperdeva tra mille luoghi. Fondamentale è stata la messa in scena da parte dei media dei movimenti, del loro seguito e delle loro pratiche di protesta. I movimenti ne hanno profittato e, da allora, la politica democratica non è stata più la stessa. Anche perché i movimenti entreranno in permanenza tra le tecniche utilizzate nella lotta per la rappresentanza. Non solo: già nemmeno nel loro Golden Age la reputazione dei partiti era stata troppo salda64, ma i movimenti ne hanno accelerato il decadimento. Per contro, oltre a rifornirli a medio termine di nuovi quadri, i movimenti suggeriranno ai partiti nuovi claims e li convinceranno ad aggiornare le forme di comunicazione verticali e orizzontali, traendo ispirazione dalla loro esperienza. Inizierà la stagione dell’autoriforma dei partiti. Quasi in contemporanea, un’altra schiera di nuovi venuti della rappresentanza, anche se a più lento rilascio, è stata quella dei partiti di destra nazionalista, che a metà anni ’80 saranno rietichettati come populisti65. Emarginato dopo la Seconda guerra mondiale, l’estremismo di destra era rimasto in attesa. Le incertezze economiche di fine anni ’60 e dei primi anni ’70 e, ancor più, la grande agitazione politica avviata dal ’68, gli hanno offerto una finestra di opportunità per iscriversi apertamente alla contesa politico-elettorale. Nel 1969 in Germania, dopo aver registrato promettenti risultati alle elezioni locali, i 64   Come mostra la ricerca di N. Clarke, W. Jennings, J. Moss e G. Stoker, The Good Politician. Folk Theories, Political Interaction, and the Rise of AntiPolitics, Cambridge, Cambridge University Press, 2018. 65   Anche qui la letteratura è sterminata. Di populismo riparleremo più volte. Al momento rinviamo ai testi più generali: R.C. Heinisch, C. HoltzBacha e O. Mazzoleni (a cura di), Political Populism: A Handbook, Baden Baden, Nomos, 2017; C. Rovira Kaltwasser,  P.A. Taggart,  P. Ochoa Espejo e P. Ostiguy (a cura di), The Oxford Handbook of Populism, Oxford, Oxford University Press, 2017; C. de la Torre (a cura di), Handbook of Global Populism, Abingdon, Routledge, 2018; M. Oswald (a cura di), The Palgrave Handbook of Populism, Cham, Palgrave MacMillan, 2022.

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neonazisti dell’Npd avevano sfiorato la soglia di sbarramento alle elezioni federali. Nel 1970 la maggiore formazione neofascista d’Europa, il Movimento sociale italiano, si era riproposto quale partito di protesta. Aveva animato la rivolta di Reggio Calabria e si era rivolto ai ceti e ambienti più turbati dal ’68: alle elezioni del 1972 sfiorava il 10 per cento. Infine: nel 1973 un reduce della guerra d’Algeria, già deputato poujadista, riu­ sciva a federare i nostalgici di Vichy e dell’Algeria francese, riprendendo, con una lieve variazione cromatica, il logo del Movimento sociale italiano. Il partito fondato da Jean-Marie Le Pen ci metterà un decennio a farsi largo. Solo nel 1984, dopo che socialisti e comunisti erano giunti al governo, con un ambizioso programma di nazionalizzazioni e riforme egualitarie, ha ottenuto alle elezioni europee un ragguardevole 11 per cento dei consensi. Ma già la sua costituzione aveva avviato il rilancio della destra estrema, con un programma antipluralista, autoritario e etnonazionalista. Evocando il popolo in quanto principio identitario, il Front national riscopriva i più tipici temi reazionari. La sinistra divideva, il Front prometteva di riunire. La piega sicuritaria e xenofoba erano il piatto forte della sua offerta politica. Seguiranno altri partiti. A metà anni ’70 il Vlaams Nationale Partij – più tardi divenuto Vlaams Blok e alfine Vlaams Belang  – si faceva portavoce in Belgio del separatismo fiammingo. Subito dopo in Gran Bretagna e in Germania apparivano rispettivamente, seppur con modesto seguito elettorale, il British National Party e i Republikaner. In Svizzera, nel 1979, un imprenditore zurighese, Christoph Blocher, riposizionava a destra un antico partito agrario e centrista come l’Svp/Udc. In Italia, la Lega Nord, guidata da Umberto Bossi, a inizio del nuovo decennio ha inventato la nazione padana. In Austria, nata per riciclare i quadri del partito nazista e a lungo incuneatasi tra popolari e socialdemocratici, la Fpö dal 1986, sotto la guida di Jörg Haider, ha assunto apertamente posizioni estreme. Dagli anni ’90 in Gran Bretagna, con fortune altalenanti, l’Ukip ha guidato una lunga campagna ferocemente ostile all’unificazione europea, che sarà premiata dal Brexit. Nel 1988 sono nati i Democratici svedesi, nel 1993 Alba dorata in Grecia, nel 1995 i Veri finlandesi. È un’onda lunghissima. 200

Nel 2013 ha visto la luce Allianz für Deutschland, instaurando ambigui rapporti col passato nazista. Nello stesso anno in Spagna compariva Vox, rivendicando apertamente la sua parentela col franchismo, e nel 2014 il Movimento sociale, che nel 1994 si era riconvertito in Alleanza nazionale, prendendo le distanze dal fascismo, è risorto sotto l’etichetta di Fratelli d’Italia. Malgrado l’evidente matrice politico-culturale di gran parte di essi, osservatori e studiosi li hanno riclassificati più asetticamente come populisti, includendo altri outsiders di più difficile collocazione. Nel 1972 in Danimarca e nel 1973 in Norvegia erano comparsi due partiti il cui pre-testo era la critica della fiscalità e dell’interventismo statale: si erano denominati entrambi partiti del progresso, ma presto avevano scoperto anch’essi l’immigrazione. Altamente innovativi nelle forme, i movimenti collettivi avevano mantenuto una continuità, seppur critica, con i principi della democrazia pluralista e con le ambizioni inclusive consolidatesi nel dopoguerra. La differenza con gli outsiders di estrema destra è palese. Questi ultimi proporranno un rinnovamento di tutt’altro segno della lotta per la rappresentanza, nel suo stile e nei contenuti. Sarà fondamentale la loro retorica: proclamarsi portavoce del popolo, vittima dei partiti, delle burocrazie pubbliche, dei sindacati, del fisco, della criminalità, dei migranti, delle istituzioni europee, delle complicità fra élites politiche, finanziarie, imprenditoriali, mediatiche, intellettuali. Distinguendo tra partiti d’estrazione fascista e partiti sprovvisti di simili radici, Piero Ignazi ha applicato ai secondi la teoria dei valori «postmaterialisti» di Ronald F. Inglehart66. Scontata per i movimenti, l’applicazione non lo è per i partiti della destra estrema. La loro xenofobia, insieme all’offerta di misure law & order, avrebbe esaudito domande non soddisfatte dalla destra established. La rilevanza assunta dai temi culturali non implica alcuna parentela. La destra estrema è semmai un 66   P. Ignazi, The Silent Counter-Revolution: Hypotheses on the Emergence of Extreme Right-Wing Parties in Europe, in «European Journal of Political Research», 1, XXII, 1992, pp. 3-34. Di R.F. Inglehart cfr. The Silent Revolution. Changing Values and Political Styles among Western Publics, Princeton, Princeton University Press, 1977.

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«contro-movimento», cioè una replica ai movimenti collettivi67. Aiuta a far chiarezza l’osservazione dei settori di elettorato che hanno inizialmente accolto l’offerta della nuova destra estrema. Risalendo alle elezioni del 1984, si scopre come a votare il Front national alle europee di quell’anno fossero per lo più segmenti di classe media, come commercianti, artigiani, agricoltori, impiegati privati, nonché una parte dei ceti a reddito medio-alto dei quartieri borghesi di Parigi e di Lione. Era un’utenza che già in passato aveva sostenuto alle elezioni presidenziali candidati d’estrema destra nazionalista. Gli uomini prevalevano sulle donne, scarseggiavano i giovani ed erano sottorappresentate le professioni intellettuali68. Con qualche aggiustamento dovuto alle circostanze nazionali, il pubblico sarà lo stesso per gli outsiders della medesima filiera. Solo più tardi le nuove destre estreme hanno trovato ascolto tra i ceti popolari e tra gli elettori della sinistra, in realtà molto sopravalutato69. Forse si sarebbe manifestata anche in loro assenza: ma l’offerta di rappresentanza della risorta destra nazionalista è molto in debito con l’aggiornamento delle tecniche di comunicazione politica. Per i partiti established si trattava di riconvertirsi. Le nuove destre erano più libere di adeguarsi alla politica spettacolo70. I media non sono stati però l’unica 67   D.S. Meyer e S. Staggenborg, Movements, Countermovements, and the Structure of Political Opportunity, in «American Journal of Sociology», 6, CI, 1996, pp. 1628-1660. 68   Così secondo la prima indagine sul seguito elettorale del Fn: M. Charlot, L’émergence du Front national, in «Revue française de science politique», 1, XXXVI, 1986, pp. 30-45. La parola populismo non è mai adoperata. 69   Già abbiamo ricordato (cap. II, nt. 26) come in realtà l’elettorato dei partiti di centrodestra sia sempre stato in buona parte un elettorato popolare. Non c’è da stupirsi se lo stesso accade anche per la destra estrema. Per un’indagine recente sui comportamenti degli elettori provenienti dagli strati inferiori – e anche sulla provenienza sociale degli elettori populisti – che smentisce i luoghi comuni sulla sua estrazione sociale cfr. D. Tuorto, Underprivileged Voters and Electoral Exclusion in Contemporary Europe, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2022. Sulla loro provenienza politica, di nuovo smentendo i luoghi comuni, cfr. A. Krouwel, T. Bale e L. Tremlett, Variation in the Extent to Which Mainstream Political Parties’ Voters Consider Voting for Radical Right Populist Parties, in S. Bukow e U. Jun (a cura di), Continuity and Change of Party Democracies in Europe, New York, Springer, 2020, pp. 169-201. 70   G. Mazzoleni, J. Stewart e B. Horsfield (a cura di), The Media and Neopopulism. A Contemporary Comparative Analysis, Praeger, Westport, 2003. Ricco

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arma di cui si siano serviti. Hanno puntato molte carte sulla rappresentanza occasionale, evitando di replicare il modello tradizionale di partito, che prevedeva una macchina organizzativa strutturata e diffusa su tutto il territorio. Sono comunque riusciti a svolgere un’efficace azione di constituency building. Viste le oscillazioni elettorali, attenuate solo a lungo andare, non è detto che abbiano raggruppato una constituency fidelizzata paragonabile a quelle dei partiti tradizionali, ma i claims e i testi della destra estrema hanno lo stesso attecchito entro una quota di elettorato. La collocazione di Berlusconi e del suo partito tra destra convenzionale e destra estrema è dopotutto intermedia. Ma rientrano nello spettacolo populista gli applausi entusiastici dei suoi fans, rimessi in onda quale intrattenimento televisivo. L’aspetto originale è che Berlusconi era anche un grande imprenditore mediatico, professionalmente predisposto a fare spettacolo della sua azione politica. Non possedendo i medesimi strumenti e le stesse competenze, Bossi dava spettacolo in canottiera e Matteo Salvini l’ha imitato in divisa e a torso nudo. Tra gli spettacoli apprezzati dalle nuove destre c’è il folklore, che, quando serve, si può inventare: la Lega Nord ha travestito i suoi militanti con le insegne della Lega lombarda, li ha fatti esibire a Pontida e ha celebrato un bizzarro battesimo alle sorgenti del Po. Il Front national, i Liberali austriaci, l’Ukip hanno sfruttato più stagionate rievocazioni nazionaliste. La nostalgia del passato e la sua romanticizzazione caricaturale sono ingredienti molto utilizzati71. Un altro ingrediente è la figura del leader e l’evocazione di un legame fiduciario personale con i suoi seguaci. La fid’informazioni e di spunti è T. Aalberg, F. Esser, C. Reinemann, J. Stromback e C. De Vreese (a cura di), Populist Political Communication in Europe, New York, Routledge, 2017. Cfr. anche F. Roncarolo, Media Politics and Populism as a Mobilization Resource, in R.C. Heinisch, C. Holtz-Bacha e O. Mazzoleni (a cura di), Political Populism: A Handbook, cit. Qualche dato di ricerca in T. Akkerman, Friend or Foe? Right-Wing Populism and the Popular Press in Britain and the Netherlands, in «Journalism», 12, VIII, 2011, pp. 931-945. 71  Sulla dimensione nostalgica del populismo, cfr. R. Genovese, Totalitarismi e populismo, Roma, Manifestolibri, 2016. Un’indagine empirica in E. Steenvoorden e E. Harteveld, The Appeal of Nostalgia: The Influence of Societal Pessimism on Support for Populist Radical Right Parties, in «West European Politics», 1, XLI, pp. 28-52.

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gura del leader – secondo Weber e Schumpeter – è sempre stata importante per i grandi partiti popolari, che però non la esageravano. Per i partiti pigliatutti, secondo Kirchheimer, che guardava con diffidenza al gollismo72, era un modo per semplificare il messaggio. Per la destra estrema la leadership personale è invece un tratto genetico. Le sue filiazioni attuali hanno anch’esse fatto dei loro leaders un simbolo unificante e trasfigurante e uno strumento d’espressione collettiva. È stato riproposto all’occasione il venerando concetto di carisma73. La citazione weberiana è forse sovradimensionata, ma è anche improprio l’accostamento allo stile di leadership del fascismo. Quest’ultimo esaltava le virtù straordinarie – e dunque il carisma – del capo e la sua capacità di guidare il proprio seguito verso un futuro glorioso. Gli attuali leaders populisti escludono i toni marziali, non sono eroi, né profeti e nemmeno élite. La postura tribunizia e la propaganda martellante soddisfano unicamente la preferenza dei media per i gesti sensazionali, i discorsi scandalosi e le figure istrioniche. Ma essi non esibiscono competenza, cultura e eventualmente una biografia straordinaria. Sono uomini e donne comuni, che si sono fatti da sé, anche quando imprenditori ricchissimi. Purché pronuncino le parole che i loro rappresentati vorrebbero pronunciare essi stessi. I leaders della nuova destra estrema drammatizzano, semplificano, offendono, denunciano e soprattutto offrono al loro seguito un’opportunità di rispecchiarsi. Non dissimulano nemmeno vizi e debolezze, che anzi studiatamente offrono all’occhio ingordo dei media. Le traversie della loro vita privata non hanno segreti. All’evidente estraneità sociologica e culturale delle dirigenze dei partiti established, i leaders populisti oppongono la comunanza affettiva con il loro seguito, fatta di emotività, tracotanza, volgarità nel linguaggio e nei gesti74. Ma questo non è carisma. Dirà il tempo se un 72   O. Kirchheimer, France from the Fourth to the Fifth Republic, in «Social Research», 4, XXV, 1958, pp. 379-414. 73  Su questo aspetto e sui leaders populisti F. Rositi, L’oggetto società. Studi di teoria sociologica, Pavia, Pavia University Press, 2020, pp. 121-122.   74   La letteratura sul populismo ha parecchio insistito sul tema della leadership. Per una messa a punto L. Viviani, A Political Sociology of Populism and Leadership, in «Società/Mutamento/Politica», 15, VIII, 2017, pp. 279-303.

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simile stile di leadership sia irrinunciabile o meno. Gli avvicendamenti al vertice, resi inevitabili dalla lunga durata del fenomeno, potrebbero suggerire uno stile più misurato. Così pure l’accesso a importanti postazioni di potere. Al momento, tuttavia, seguita però a prevalere una sbrigativa retorica dell’efficienza. Poche misure di policy, semplici e risolute: meno tasse e meno regole, severità inflessibile contro ogni devianza e diversità, più indipendenza nazionale, meno ingiunzioni delle istituzioni europee, fuori dai confini i migranti, se del caso anche a mare. A quasi mezzo secolo dalla loro prima comparsa, grazie alle circostanze, la ricetta ha trovato il suo pubblico. Anche numeroso. 6. Divergenze e convergenze Kirchheimer aveva delineato un percorso di ravvicinamento tra i partiti, fatto di convergenze programmatiche e di pacifica concorrenza elettorale. Non aveva previsto la comparsa di nuovi concorrenti75, né aveva previsto i grandi cambiamenti economici, sociali e culturali che hanno smentito le sue previsioni. Nel suo modello si possono distinguere tre livelli: il primo è quello dei claims di rappresentanza, o dell’offerta elettorale; il secondo è quello delle relazioni reciproche; il terzo livello è quello della struttura organizzativa dei partiti. Riprenderemo di nuovo l’argomento nel prossimo capitolo, ma in queste pagine occorre comunque occuparsene. Lo faremo considerando per cominciare gli sviluppi avvenuti ai primi due livelli, iniziati con l’arrivo nel 1979 di Margaret Thatcher alla guida dei conservatori britannici e poi a Downing Street. Da parte di chiunque vincesse le elezioni era costume dal dopoguerra non contraddire troppo apertamente l’azione di chi aveva governato in precedenza e mostrare anche qualche attenzione alla sua constituency. Nonostante scontri sociali a volte molto duri, l’indirizzo inclusivo dell’azione di governo, 75   Sulle sfide, programmatica e organizzativa, dei movimenti, e sulla capacità di raccoglierle positivamente, dei partiti established, almeno fino ai primi anni ’90, cfr. R. Rohrschneider, Impact of Social Movements on European Party Systems, in «The Annals of the American Academy of Political and Social Science», 528, 1993, pp. 157-170.

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pur in dosaggi diversi, era condiviso da tutti i partiti. A metà anni ’70, la mediazione dei conflitti si era addirittura fondata sulla concertazione tra governo, associazioni imprenditoriali e sindacati. Sfruttando le opportunità offerte dal regime elettorale e dal governo di gabinetto, Thatcher ha invece rinnovato sia la strategia elettorale, sia i contenuti dell’azione di governo, sia lo stile con cui era condotta la competizione politica. Ha innanzitutto rinunciato alla prospettiva catch-all per ricostitui­ re la propria constituency intorno ai valori tradizionali e alla proprietà privata; ha in secondo luogo investito sulla propria figura di leader, a spese dell’esecutivo, del parlamento e del suo stesso partito; ha quindi ridefinito in chiave adversary i rapporti con il Labour e con le Unions; ha sopra ogni cosa avviato la grande svolta pro-market76. Ed è divenuta un modello per gli altri partiti di centrodestra. I modelli si possono applicare in molti modi. Di fatto, il modello Thatcher non è mai stato replicato integralmente. Sotto la presidenza Chirac il centrodestra francese, pur con qualche inasprimento, manterrà lo stile repubblicano. Per un riposizionamento radicale bisognerà attendere l’elezione nel 2004 di Nicolas Sarkozy. Sarà molto prudente la Cdu tedesca, attenta a salvaguardare le intese corporative tra mondo imprenditoriale e mondo del lavoro. E sarà prudente pure il Ppe spagnolo, giunto al governo nel 1996: il market turn era stato del resto già intrapreso dal Psoe. In Italia, la destra guidata da Berlusconi, in cui coabitavano velleità neoliberiste, conservatorismo cattolico e demagogia etnonazionalista, tenderà a distanziarsi dalle abitudini troppo accomodanti della Democrazia cristiana, ma più sul piano simbolico che nella sostanza. Per i partiti established del fronte opposto la postura adversary, anziché conciliante, costituiva un cambiamento del con-testo. Avrebbero forse potuto tornare indietro per riproporre il vecchio cleavage di classe e chiudersi in difesa della loro constituency originaria. Ed è quanto hanno provato a fare senza successo i 76   R. Heffernan e P. Webb, The British Prime Minister: More Than First Among Equals, in T. Poguntke e P. Webb (a cura di), The Presidentialization of Politics. A Comparative Study of Modern Democracies, Oxford, Oxford University Press, 2005.

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laburisti, guidati da Michael Foot, i quali però, subita una grave scissione, hanno dapprima perso rovinosamente le elezioni del 1983 e quindi hanno avviato una profonda revisione strategica. Negli anni ’90 essa culminerà, sotto la guida di Blair, nell’adesione sostanziale al market turn thatcheriano77, mantenendo tuttavia almeno in parte la prospettiva catch-all. Da un lato il New Labour ha tralasciato l’elettorato working class per concentrarsi sui ceti medi e sugli ambienti imprenditoriali. Dal lato opposto, ha rispettato lo stile catch-all nei rapporti con gli altri partiti, in coerenza con l’immagine moderata e tranquillizzante che intendeva dare di sé. È una strategia che è stata seguita dagli altri partiti socialisti e socialdemocratici, i quali hanno tutti più o meno bilanciato la loro riconversione pro-market sollevando nuovi temi che si sono però rivelati altamente divisivi, in quanto di portata antropologica, irriducibili al compromesso: i diritti civili, la condizione femminile, l’aborto, l’omosessualità, il fine vita, le convivenze familiari e infine, specie grazie alle provocazioni dei partiti populisti, l’immigrazione78. Per il modello piglia-tutti è stato un altro motivo di smentita. A tirare le somme, la contesa politico-elettorale si è polarizzata, benché in maniera asimmetrica, secondo l’esempio americano: a destra, per l’appunto, ma non a sinistra79. C’è in ogni caso una dimensione del modello catch-all che ha tenuto davvero ed è quella del ravvicinamento morfologico e programmatico tra i partiti. Ciò è stato possibile in virtù di alcune importanti innovazioni organizzative e di qualche intesa sulle regole. È l’argomento approfondito da Robert S. Katz e Peter Mair, i quali a metà anni ’90 hanno coniato un’altra formula molto fortunata, almeno tra gli addetti ai lavori: quella del cartel party80. 77   Come si dirà nel prossimo capitolo, i socialisti francesi avevano cambiato strategia già qualche anno prima: nel 1984, licenziando l’alleanza col Partito comunista. 78   L. Boltanski, The Left After May 1968 and the Longing for Total Revolution, in «Thesis Eleven», 1, 2002, pp. 1-20. 79  M. Grossmann e D.A. Hopkins, Ideological Republicans and Group Interest Democrats: The Asymmetry of American Party Politics, in «Perspectives on Politics», 1, XIII, 2015. 80   R.S. Katz e P. Mair (a cura di), How Parties Organize: Change and Adaptation in Party Organization in Western Democracies, London, Sage, 1994;

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Per ridurre i costi della concorrenza, i partiti established si sarebbero intesi in primo luogo per concedersi qualche beneficio differenziale rispetto agli outsiders che erano già sopravvenuti e che avrebbero potuto sopravvenire in futuro. L’avrebbero fatto stipulando un patto – non necessariamente esplicito – di oligopolio, con cui si sarebbero attribuiti i mezzi necessari a garantire una sopravvivenza confortevole a quelli fra loro che avrebbero pro tempore recitato la parte dell’opposizione. L’intesa si spiega anzitutto alla luce dei costi crescenti della contesa politica. Sperimentato nella Repubblica federale dal 1959, il finanziamento pubblico è stato esteso man mano con due motivazioni preminenti. La prima è il servizio reso dai partiti al regime democratico: in qualità di public utilities, andavano mantenuti a spese delle pubbliche finanze81. La seconda motivazione era una promessa: ne avrebbe tratto vantaggio la moralità pubblica, scoraggiando il ricorso alla corruzione e ai finanziamenti privati, gravati da condizionamenti, e talora addirittura illegali. In aggiunta, osservano Katz e Mair, i partiti established si sarebbero riconosciuti reciprocamente opportunità preferenziali d’impiego dei media di proprietà pubblica. L’obiettivo di proteggersi dagli outsiders era, a pensarci, irraggiungibile. Quale partito che si dicesse democratico avrebbe potuto escluderli dal finanziamento pubblico? Riguardo ai media, l’avanzata delle televisioni commerciali ha sventato ogni pretesa di trattamenti di favore: anzi, i media commerciali hanno molto gradito gli outsiders. Si sono, nondimeno, sviluppate altre e nuove convergenze – parziali – messe in luce da Katz e Mair in altri scritti successivi82. A cominciare dai temi di policy. Idd., Changing Models of Party Organization and Party Democracy, in «Party Politics», 1, I, 1995, pp. 5-28. Per l’importante riflessione di Peter Mair sui partiti si rinvia alla raccolta On Parties, Party Systems and Democracy: Selected Writings of Peter Mair, Colchester, Ecpr Press, 2014. 81   Per l’applicazione, anche empirica, del concetto di public utility, I. van Biezen, Political Parties as Public Utilities, in «Party Politics», 6, X, 2004, pp. 701-722. Sul finanziamento pubblico: K. Casas-Zamora, Paying for Democracy: Political Finance and State Funding for Parties, Colchester, Ecpr Press, 2005. Sull’Italia, D.R. Piccio (a cura di), Il finanziamento alla politica in Italia. Dal passato alle prospettive future, Roma, Carocci, 2018. 82   R.S. Katz e P. Mair, The Cartel Party Thesis: A Restatement, in «Perspectives on Politics», 4, VII, 2009, pp. 753-766.

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A loro parere, la fine della Guerra fredda, la globalizzazione, la terziarizzazione, la secolarizzazione e l’individualizzazione avevano trasformato la fisionomia delle società avanzate e corroso i cleavages su cui si erano fondati i partiti di massa, insieme al dualismo tra destra e sinistra, cambiando i pre-testi della rappresentanza83. È il motivo per cui i partiti si sarebbero ritrovati a perseguire strategie di policy molto simili. Il capitolo più convincente del racconto di Katz e Mair è però quello dedicato ai cambiamenti interni. I partiti established sarebbero divenuti più confortevoli per i loro gruppi dirigenti, mentre avrebbero assistito indifferenti alla fuga degli iscritti e all’estraneazione degli elettori84. È stato un doppio adeguamento: più i partiti si insediavano in public office, più deperiva la loro azione on the ground85. Di quando in quando hanno annunciato una campagna di reclutamento d’iscritti, ma perfino quelli che maggiormente tenevano a esibirli si sono riconvertiti a forme d’adesione più soft. Otto Kirchheimer aveva segnalato la mutazione in atto nei partiti con accenti un po’ nostalgici, ma rassegnati. Katz e Mair hanno toni michelsiani86. Peter Mair ha anche sottolineato gli effetti del cambiamento addirittura per i regimi democratici. Le nuove tecniche mediatiche di raccolta del consenso elettorale hanno reso i partiti leadership, media e capital intensive. Riconvertiti alla rappresentanza occasionale, hanno rinunciato alla 83   Alla luce dei casi degli Usa, del Regno Unito e della Svezia, cfr. M. Blyth e R. Katz, From Catch-All Politics to Cartelization: The Political Economy of the Cartel Party, in «West European Politics», 1, XXVIII, 2005, pp. 33-60. 84   Sul declino delle iscrizioni: R.S. Katz, P. Mair et al., The Membership of Political Parties in European Democracies, 1960-1990, in «European Journal of Political Research», 3, XXII, 1992, pp. 329-345; P. Mair e I. van Biezen, Party Membership in Twenty European Democracies. 1980-2000, in «Party Politics», 1, VII, 2001, pp. 5-21; I. van Biezen, P. Mair e T. Poguntke, Going, Going, ... Gone? The Decline of Party Membership in Contemporary Europe, in «European Journal of Political Research», 1, LI, 2011, pp. 24-56. Ma cfr. anche S.E. Scarrow, Beyond Party Members, cit. 85   R. Katz e P. Mair, The Ascendancy of the Party in Public Office. Party Organisational Change in XXth Century Democracies, in R. Gunther, J.R. Montero e J. Linz (a cura di), Political Parties. Old Concepts and New Challenges, Oxford, Oxford University Press, 2002, pp. 113-135. 86   Una critica a questi accenti è sollevata da H. Kitschelt, Citizens, Politicians, and Party Cartellization: Political Representation and State Failure in Post-Industrial Democracies, in «European Journal of Political Research», 2, XXXVII, 2000, pp. 149-179.

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manutenzione del loro seguito. Altre ricerche mostrano come i partiti si siano perfino adeguati alle ricette del New public management contestualmente somministrate alle pubbliche amministrazioni. Ovvero hanno esternalizzato e privatizzato molte loro attività87. Non bastando i finanziamenti pubblici, i partiti si sono rivolti ai professionisti di fund raising. L’identificazione dei temi di policy, il framing, il priming, l’agenda setting e la scelta delle soluzioni sono state delegate ai think tanks, ai media, ai gruppi di interesse e alle lobbies88. Si sono anche indeboliti i rapporti che i partiti intrattenevano con gli intellettuali e col mondo degli studi. Infine, veicolata dai media, e ultimamente dai social, l’attività promozionale è divenuta compito dei professionisti di marketing elettorale, di comunicazione e di sondaggi89, pronti a offrire i loro servigi a qualsiasi partito. Non c’è partito che non investa massicciamente in quest’ambito e non c’è neppure partito che non abbia investito sulla leadership. I leaders tradizionali dovevano in primo luogo riscuotere la fiducia dei maggiorenti del partito e il rispetto degli alleati e dei concorrenti. L’una e l’altro dipendevano dalla loro capacità di persuadere, mediare e organizzare il consenso intorno a sé. Contava anche, ovviamente, la popolarità elettorale di ciascuno. L’interlocutore immediato dei leaders contemporanei sono invece i mass media, che li hanno sospinti al centro dello spettacolo. Non c’è leader che non sia affiancato da spin doctors, da esperti d’immagine, da addetti al suo look e alla sua quotidiana messa in scena. 87   In merito cfr. A.-S. Petitfils, L’institution partisane à l’épreuve du management. Rhétorique et pratiques managériales dans le recrutement des nouveaux adhérents de l’UMP, e P. Aldrin, Si près, si loin du politique. L’univers professionnel des permanents socialistes à l’épreuve de la managérialisation, in «Politix», 3, XX, 2007, rispettivamente a pp. 53-76 e 25-51; nonché F. Faucher, La «modernisation» du Parti travailliste. 1994-2007. Succès et difficultés de l’importation du modèle entrepreneurial dans un parti politique, in «Politix», 81, XXI, 2008, pp. 125-149. 88  Sulle relazioni tra partiti e interessi E.H. Allern e T. Bale, Political Parties and Interest Groups: Disentangling Complex Relationships, in «Party Politics», 1, XVIII, 2011, pp. 7-25. Il testo introduce una special issue su Political Parties and Interest Groups: Qualifying the Common Wisdom. 89   P. Baines, C. Scheucher e F. Plasser, The «Americanisation» Myth in European Political Markets. A Focus on the United Kingdom, in «European Journal of Marketing», 9-10, XXXV, 2001, pp. 1099-1117.

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Secondo la teoria della «democrazia del pubblico» i media commerciali, in cerca di audience, avrebbero relativamente neutralizzato e depoliticizzato l’informazione, ridimensionando l’influenza dei partiti nella discussione pubblica, liberalizzando quest’ultima e rendendo più libere le scelte degli elettori, meno vincolate da affiliazioni sociali, culturali, partitiche90. Che gli elettori siano più liberi di farsi un’opinione e di scegliere non è però così certo. Sono più verosimili altri effetti nella conduzione della contesa politica. Divenuto prioritario l’appeal personale dei candidati, i partiti si sono messi in cerca di figure in grado d’attrarre l’attenzione mediatica – o le hanno fabbricate. A loro volta, le figure ritenute in grado di bucare lo schermo si sono messe alla ricerca di partiti interessati a adottarle91. Ovviamente, i media dicono la loro: fabbricano leaders e li impongono ai partiti. Trainata dall’esperienza americana, la personalizzazione è un obbligo cui i partiti non ritengono conveniente sottrarsi92. Da sempre le narrazioni della politica rivolte al largo pubblico hanno avuto un’istintiva preferenza per gli individui anziché per il lavoro collettivo. La media logic l’ha rafforzata smisuratamente. Vi avrà fors’anche contribuito la diversificazione e frammentazione delle società contemporanee, che ha eroso i cleavages tradizionali e rende più difficili da pensare progetti collettivi e suscitare speranza politica. Ad ogni buon conto, la gara mediatica tra i pretendenti alla leadership, che drammatizza la contesa e trasforma le elezioni in horse race, è movente decisivo di polarizzazione, ulteriormente eccitata dalla concorrenza dell’estrema destra etnonazionalista93. 90   B. Manin, Principes du gouvernement représentatif, Paris, Flammarion, 1996, pp. 283-290. 91  Anche quello della leadership è un tema molto frequentato: cfr. J. Blondel e J. Thiébault (a cura di), Political Leadership, Parties and Citizens, London-New York, Routledge, 2010. 92   Oltre ai già ricordati lavori di M. Calise, Il partito personale, RomaBari, Laterza, 2000 e Id., La democrazia del leader, Roma-Bari, Laterza, 2016, cfr. G. Rahat e O. Kenig, From Party Politics to Personalized Politics? Party Change and Political Personalization in Democracies, Oxford, Oxford University Press, 2018. 93  Già vent’anni fa segnalava l’azione spesso devastante dei media J.N. Cappella e K.H. Jamieson, Spiral of Cynicism: The Press and the Public Good, Oxford, Oxford University Press, 1997.

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Il cartel party indica insomma una riconversione singolare, che intreccia divergenze e convergenze. Molto probabilmente le convergenze nelle forme dei partiti sono dovute anche al rinnovamento generazionale degli addetti ai partiti e a una più avanzata professionalizzazione della politica: l’azione di governo è ritenuta fondamentale e quella di rappresentanza secondaria. È comunque avvenuta una riconversione produttiva in piena regola. I partiti, in quanto imprese politiche, producono altro rispetto al passato e lo fanno in maniera diversa, almeno in parte. Esternalizzata la rappresentanza ai gruppi d’interesse, alle organizzazioni professionali, ai movimenti, alle associazioni, ai sindacati, ai think-tanks e altro ancora, i partiti mantengono semmai una funzione di brokeraggio. In vista delle campagne elettorali si apre una doppia competizione: tra interessi, in lizza per assicurarsi i servizi dei partiti, e tra i partiti, che si disputano il gradimento e il sostegno finanziario degli interessi. Il decadimento della presenza sociale dei partiti e la loro rimodulazione organizzativa ha altresì sollecitato gli aspiranti alle cariche elettive a muoversi in proprio, a crearsi un loro seguito, a radunarsi in cerchie di eletti, nazionali e locali, di aspiranti all’elezione, di detentori di cariche pubbliche, di collaboratori a vario titolo. Ciascuna cerchia si adopera per reperire risorse finanziarie autonome e instaurare rapporti diretti con la sfera degli interessi. Dal canto loro, in sede locale non mancano imprese e imprenditori politici pronti a sfruttare in franchising il marchio del partito94. Nati localmente, i partiti seguitano comunque a riconoscere un elevato valore alle sfere politiche locali95, ove si disputano poste molto apprezzate, anche a motivo delle riforme introdotte da tutti i regimi democratici, 94   R.K. Carty, Parties as Franchise Systems. The Stratarchical Organizational Imperative, in «Party Politics», 1, X, 2004, pp. 5-24. 95   Si veda J.-L. Briquet e L. Godmer (a cura di), L’ancrage politique, cit. Interessanti dati di ricerca ad esempio in N. Brack, O. Costa e E. Kerrouche, MPs between Territories, Assembly and Party. Investigating Parliamentary Behaviour at the Local Level in France, Belgium and Germany, in «French Politics», 4, XIV, 2016, pp. 395-405. L’articolo introduce un numero dedicato a Constituency Representation in France, Belgium and Germany. Per il Regno Unito D. Denver, G. Hands e I. MacAllister, The Electoral Impact of Constituency Campaigning in Britain, 1992-2001, in «Political Studies», 2, LII, 2004, pp. 289-306.

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unitamente a circuiti militanti e reti di relazioni preziosi per compensare la fragilità della rappresentanza occasionale. È stata perfino reinventata la propaganda porta a porta96. Un altro fenomeno da studiare sono le fitte ibridazioni tra partiti established e interessi economico-finanziari che si sviluppano localmente. La letteratura sui «regimi urbani», sulle coalizioni che si costituiscono tra politica ed economia, avanza interessanti suggestioni97. Ma molto resta da esplorare. Qualche indicazione la offre la ricerca, condotta da Silvano Belligni e Stefania Ravazzi su Torino98. Le relazioni tra dirigenze dei partiti e gli addetti ad altre sfere – ambienti imprenditoriali e fondazioni bancarie in primo luogo  – sono divenute strettissime. Si sovrappongono anche i loro fini. Altre ragioni per riflettere le dà l’investigazione condotta da Luciano Brancaccio e Vittorio Martone su Roma e sulle vicende di «mafia capitale», dove si sono intensamente ibridati circuiti politici, imprenditoriali, affaristici, di volontariato e pure malavitosi99. Altrettanto intrigante è il caso di Marsiglia raccontato da Cesare Mattina, che descrive ancora altri intrecci, istituiti lungo un arco pluridecennale, da ambedue gli schieramenti politici in concorrenza. L’ibridazione con gli interessi economici si è fatta intima specie intorno alle policies100. Il market turn ha condotto a pensare il territorio come un patrimonio da mettere a reddito. Nel caso delle politiche urbane il fine primario delle istituzioni del governo locale non è erogare servizi agli abitanti, ma rendere la città business friendly. È una variante del «capita96  R. Lefebvre, La modernisation du porte-à-porte au Parti socialiste. Réinvention d’un répertoire de campagne et inerties militantes, in «Politix», 1, XXIX, 2016, pp. 91-115. Anche R. Ladini, The Differentiated Effects of Direct Mobilisation on Turnout: Evidence from the 2013 Austrian Parliamentary Election, in «German Politics», 2, XXX, 2021, pp. 267-296. 97   A. Harding, Urban Regimes and Growth Machines Toward a Cross-National Research Agenda, in «Urban Affairs Quarterly», 3, XXIX, 199, pp. 356-382. 98   S. Belligni e S. Ravazzi, La politica e la città. Regime urbano e classe dirigente a Torino, Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 13-26. 99   L. Brancaccio e V. Martone (a cura di), Mafia capitale, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», 87, 2016. Nonché V. Martone, Le mafie di mezzo. Mercati e reti criminali a Roma e nel Lazio, Roma, Donzelli, 2017. 100   Più in generale, G. Semi, Gentrification. Tutte le città come Disneyland, Bologna, Il Mulino, 2015. Inoltre, C. Mattina e G. Pinson (a cura di), La città neoliberale, Milano, Meltemi, 2021.

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lismo politico», in cui i profitti delle imprese dipendono dai vantaggi che riescono a ottenere dagli addetti alla politica101. Il territorio è un patrimonio da mettere a reddito e le istituzioni locali di governo, insieme alle formazioni politiche che le conducono, si fanno in concorrenza per attrarre investimenti e attività produttive. Devono sopperire alla riduzione tanto delle entrate fiscali, quanto dei trasferimenti dal centro, che spesso sono attribuiti mediante procedure competitive. Sono apprezzate parecchio le policies condotte in partenariato con i privati102. Nulla è al riparo dalla valorizzazione e dalla privatizzazione: rigenerazioni urbane, grandi infrastrutture, aeroporti, stazioni, porti, impianti sportivi, palazzi dei congressi, parchi di divertimento, centri commerciali, università, ospedali, ma pure teatri, musei, monumenti, fiere, cerimonie religiose e pellegrinaggi, eventi sportivi, concerti, spettacoli. Il turismo estromette gli abitanti originari e alcune città si scoprono smart e provano a rilanciarsi coltivando le alte tecnologie. È un fenomeno che raggiunge l’apice nelle grandi metropoli, ma che non risparmia i centri urbani grandi, medi e neanche i borghi abbandonati103. Con quali conseguenze? Alcune hanno riguardato il personale politico. Il training entro i partiti e le loro ramificazioni territoriali e funzionali tipico della generazione precedente appartiene al passato. Sono oggidì secondarie: opinioni, lealtà, esperienze. È accaduto anche che i partiti si aprissero all’associazionismo giovanile, ambientalista, femminista, antimafia. Ma le risorse più richieste sono quelle economiche, quelle relazionali e quelle di visibilità. Mediazione, contrattazione, gestione, facilitazione, marketing territoriale sono attività prio­ritarie. Va da sé che più l’azione di governo si ravvicina al business, e i governanti interagiscono con i suoi addetti, più i modi di pensare si contaminano e, a lungo andare, si contaminano pure gli stili di vita. Non necessariamente la politica si volge in corruzione perseguibile penalmente, ma non è un mistero che si possono 101   R.G. Holcombe, Political Capitalism: How Economic and Political Power Is Made and Maintained, Cambridge, Cambridge University Press, 2018. 102   G. Pinson, Gouverner la ville par projet. Urbanisme et gouvernance des villes européennes, Paris, Presses de SciencesPo, 2009. 103   C. Mattina, Clientélismes urbains, cit.

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condurre lucrosissimi affari senza lesioni della legalità, con lesioni non visibili, oppure difficili da perseguire penalmente. 7. In cerca del popolo Grande tema di dibattito nella sfera pubblica è ormai da molto tempo la sfiducia dei cittadini verso i partiti: è anche un claim di rappresentanza – c’è chi su di essa prova a guadagnare consenso – e un frequentato tema di ricerca. Divenuta preoccupante, la sfiducia ha sollecitato qualche replica. Tanto quanto l’ha suscitata l’irruzione dei movimenti e delle nuove destre104. I correttivi elaborati dai partiti a questo fine si possono per lo più unificare sotto l’etichetta sartoriana di direttismo, o sotto quella di disintermediazione105. Traendo ispirazione dai movimenti, l’iniziativa l’hanno assunta i partiti socialisti e socialdemocratici, interessati anche a differenziarsi maggiormente dai partiti di destra. Hanno pertanto introdotto riforme organizzative interne, intese a promuovere la partecipazione degli iscritti – e a volte degli elettori – alla vita del partito: alla selezione della leadership e dei candidati alle cariche elettive e perfino all’elaborazione programmatica, e all’assunzione di alcune scelte politiche chiave106. Quale motivazione più nobile può accampare un partito che essere più democratico, più responsive e più inclusivo? Una prima mossa è l’evoluzione monocratica, coe­rente con quella avvenuta entro i regimi parlamentari107. Vi si accompagnano le primarie, con cui si selezionano i candidati, vuoi 104   Una ricerca sul rapporto tra partiti e movimenti in D.R. Piccio, Party Responses to Social Movements. Challenges and Opportunities, New York, Berghahn, 2019. 105  Due ricognizioni generali: W.P. Cross e R.S. Katz (a cura di), The Challenges of Intra-Party Democracy, New York, Oxford University Press, 2013; A. Gauja, Party Reform. The Causes, Challenges, and Consequences of Organizational Change, Oxford, Oxford University Press, 2017. 106   Avendo condotto un’indagine qualitativa sull’esperienza britannica e francese, F. Faucher, New Forms of Political Participation. Changing Demands or Changing Opportunities to Participate in Political Parties?, in «Comparative European Politics», 13, 2015, pp. 405-419. 107  G. Passarelli (a cura di), The Presidentialisation of Political Parties, London, Palgrave, 2015.

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alle cariche interne, vuoi alle istituzioni rappresentative108. Animate dal fervore suscitato dai media, sono state accolte con curiosità e interesse. In Italia vi hanno fatto ricorso le coa­lizioni di centrosinistra. Il Partito democratico ha addirittura dato voce agli elettori per scegliere i propri segretari. In Spagna le primarie sono state adottate dal Psoe dal 1998 per eleggere il proprio leader, contestualmente candidato alla guida del governo. I socialisti francesi dal 2006 hanno scelto così il loro candidato alla presidenza della Repubblica. Il Labour si è accodato nel 2015. L’innovazione sarà introdotta pure da alcuni partiti di centrodestra: in Francia i Repubblicani, dopo aver sperimentato le primarie in alcune consultazioni locali, se ne sono avvalsi per scegliere nel 2016 e nel 2021 il loro candidato alla presidenza. Posto che le primarie americane sono un’altra cosa, la formula non è esente da critiche109. I candidati sono con cura preselezionati dai maggiorenti del partito e poco spazio è concesso agli outsiders. Di rado le primarie hanno condotto a esiti imprevisti: tra i più noti, per ben due volte, nel 2015 e nel 2017, gli iscritti al Labour hanno scelto una personalità marginale rispetto all’establishment come Jeremy Corbyn. È anche successo in Italia al Partito democratico, dove le primarie aperte hanno designato Elly Schlein. Ma è legittimo il sospetto che presidenzializzazione e primarie siano state pensate anche per risparmiare testi e offerte di rappresentanza troppo onerosi, per depotenziare gli organismi collettivi del partito e per soffocare il dibattito interno, nonché per concentrare il potere nelle mani del leader e della cerchia dei suoi fedeli110. 108   G. Sandri, A. Seddone e F. Venturino (a cura di), Party Primaries in Comparative Perspective, Farnham, Ashgate, 2016; R. Lefebvre e E. Treille (a cura di), Les primaires ouvertes: un nouveau standard international?, Villeneuve d’Ascq cedex, Presses universitaires du Septentrion, 2019. Non manca un handbook: R.G. Broatright (a cura di), Routledge Handbook of Primary Elections, London, Routledge, 2018. 109   Una riflessione critica in E. Melchionda, Alle origini delle primarie. Democrazia e direttismo nell’America dell’età progressista, Roma, Ediesse, 2005. Inoltre: F. Faucher, Leadership Elections: What Is at Stake for Parties? A Comparison of the British Labour Party and the Parti Socialiste, in «Parliamentary Affairs», 4, LVIII, 2015, pp. 794-820. 110   C’è anche chi sostiene che le riforme dei partiti siano controproducenti: suscitano modesta legittimazione e aggravano i vincoli sugli addetti alla poli-

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Interessati alla spettacolarizzazione antagonistica della contesa politica, a codeste innovazioni hanno significativamente contribuito, lo si è già ricordato, i mass media, non proprio a titolo gratuito. In molti casi si sono intromessi nella scelta sia dei candidati, sia dei vincitori. Tra le tante novità che i media hanno promosso c’è anche l’informalizzazione della vita politica. Non solo i nuovi partiti, o quelli che si rinnovano, non si vogliono più chiamare in questo modo. Ma i leaders, in carica o aspiranti, si sono persuasi a mettere senza riserve a disposizione dei media la loro vita privata. È una rivoluzione rispetto a quando essa era con cura protetta ed era moralmente inaccettabile violarne la soglia contro la volontà degli interessati. Mutuate dal mondo dello spettacolo o dello sport, è la strategia di peopolisation111. Grazie alla televisione l’informalizzazione è straripata, alimentando un grande spettacolo popolare. I leaders scendono dal palcoscenico, si aggirano in platea e finanche per strada. Pure in politica è caduta la parete invisibile che separa gli attori dal pubblico, il quale è entrato a far parte della performance112. Accade quando il leader appare fisicamente sulle piazze, oppure si esibisce nei programmi d’intrattenimento, dove si consente a chi assiste – in studio, per telefono, o tramite qualche sondaggio – di manifestare in presa diretta preferenze, pretese, risentimenti, delusioni. Nel frattempo, sulla rete si librano i cinguettii con cui i leaders pubblicizzano in tempo reale le loro mosse113. Neanche questo è tuttavia bastato. Per quanto si siano sottomessi allo spettacolo mediatico, gli addetti alla politica sono ancora percepiti come diversi e distanti, come casta privilegiata, a tutto vantaggio degli outsiders populisti, i quali per contro recitano la parte dei nuovi e genuini portavoce dei cittadini. tica: cfr. F.M. Rosenbluth e I. Shapiro, Responsible Parties: Saving Democracy from Itself, New Haven, Yale University Press, 2018. 111   J. Dakhlia, Politique People, Paris, Bréal, 2008. 112   G. Marrone, Corpi sociali. Processi comunicativi e semiotica del testo, Torino, Einaudi, 2001, pp. 215-285. 113   S.E. Scarrow, Beyond Party Members, cit., p. 20, ha coerentemente proposto il concetto di fan party. Il legame tra il leader e il suo seguito è simile a quello di una vedette dello spettacolo con i suoi ammiratori: l’uno non può esistere senza gli altri. Non ci sono ovviamente solo fans e non sono nemmeno maggioritari. Ma un po’ di fans ci sono indubbiamente e sono trattati come tali.

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Forse il distanziamento dai cittadini è inevitabile. È la tesi avanzata da Danilo Zolo, il quale considera l’autoreferenzialità delle élites politiche come una tecnica di autodifesa dalla complessità sociale114. Il problema è che l’autodifesa non funziona, non solo perché la critica al distanziamento dei partiti dagli elettori è onnipresente, ma perché i partiti stessi se ne fanno portavoce l’un contro l’altro. Convinti di contrastare in tal modo la concorrenza dei partiti populisti, ai quali si sono aggiunte alcune combattive formazioni di sinistra e ambientaliste, che tengono parecchio a rimarcare la loro diversità dai loro vicini socialisti. È una scommessa che al momento pare sia riuscita a Syriza in Grecia115, a Podemos in Spagna116, a France Insoumise e poi Nupes in Francia117, un po’ meno a Die Linke in Germania e ad alcuni partiti ecologisti tedeschi e francesi. Per un breve momento, c’è riuscito anche il Labour di Corbyn. Li si assimila sovente ai partiti populisti. Basta tuttavia tracciarne la genealogia, leggerne i programmi, osservarne l’operato, considerarne i quadri e pure gli elettori per dissipare ogni equivoco. La leadership di Podemos vantava qualche trascorso nella sinistra comunista. Syriza ha federato diverse formazioni della sinistra greca e nel Partito comunista ha fatto le sue prime prove Alexis Tsipras. Jean-Luc Mélenchon, leader di France Insoumise, proviene dal Partito socialista. La leadership di Die Linke è stata costituita inizialmente da fuorusciti della Spd e da reduci del Partito comunista della Ddr. Tutti hanno sottratto una quota più o meno ampia del seguito dei partiti socialisti, sia tra gli strati popolari, sia tra le classi medie istruite e legate al welfare. 114   D. Zolo, Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 145. 115   G. Katsambekis e A. Kioupkiolis (a cura di), The Populist Radical Left in Europe, Abingdon, Routledge, 2019. Su Syriza, Y. Stavrakakis e G. Katsambekis, Left-Wing Populism in the European Periphery: The Case of Syriza, in «Journal of Political Ideologies», 2, XIX, 2014, pp. 119-142. 116   J. Sola e C. Rendueles, Podemos, the Upheaval of Spanish Politics and the Challenge of Populism, in «Journal of Contemporary European Studies», 1, XXVI, 2018, pp. 99-116. Anche F. Campolongo e L. Caruso, Podemos e il populismo di sinistra. Dalla protesta al governo, Milano, Meltemi, 2021. 117  M. Cervera-Marzal, Le populisme de gauche. Sociologie de la France insoumise, Paris, La Découverte, 2021.

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Non mancano nell’attuale paesaggio politico nemmeno alcune formazioni difficili da classificare. Rientra nel novero il Movimento 5 Stelle, che è un singolare esempio di politica inventata in laboratorio: programmi fluidi, retorica antipolitica, lotta incondizionata ai privilegi dei politici established, cabina di comando situata all’esterno. In più, con un seguito elettorale ondivago: proveniente agli inizi da sinistra, poi estesosi verso destra, infine tornato al punto di partenza. In origine, un’innovazione è consistita nell’impiego della rete, quale strumento di ciclico interpello, neanche troppo trasparente, di una membership di dimensioni ignote, o comunque inattendibili. Anziché uno statuto, il movimento ha perfino elaborato un singolare non-statuto. Militanti e attivisti inizialmente si ritrovavano tramite strutture volutamente fluide, quali i meet up. Non è stato mai tenuto alcun congresso, ma solo qualche sporadica adunanza. In occasione delle elezioni i candidati al parlamento sono stati prescelti tramite una sorta di bando pubblico. Dopo aver condotto un’accanita guerra da corsa contro i partiti, pochi mesi al governo e qualche incarico ministeriale sono bastati per revocare gran parte dell’originalità del movimento, ma non per classificarlo con sicurezza. La polemica antipolitica avvicina il Movimento 5 Stelle ai populisti di destra, ma si tratta soprattutto di un partito Zelig – ci si consenta una classificazione così eterodossa – dal futuro molto incerto. Il tentativo di avvicinarsi al modello più consueto di partito è tutto da verificare118. Un’altra creatura anomala è La République en marche, fondata da Emmanuel Macron in occasione delle presidenziali del 2017. È un partito outsider, ben connesso tuttavia alle élites, anche economiche, dotato di larghi mezzi finanziari e guidato con piglio manageriale: ha assemblato esponenti del mondo 118   Non c’è niente di terribile nell’impossibilità di classificare. Il Movimento 5 Stelle non è ascrivibile al populismo etnonazionalista di destra e nemmeno al preteso populismo di sinistra. È difficile classificarlo sul piano programmatico e anche per la sua genealogia. Chi più si è addentrato nel labirinto del Movimento 5 Stelle sono P. Ceri e F. Veltri, Il movimento nella rete. Storia e struttura del Movimento 5 Stelle, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018. Inoltre, C. Biancalana, Political Parties and the Challenge of Disintermediation. Rhetoric and Practices of Organizational Change in Italy, Baden Baden, Nomos, 2022; L. Caruso, Digital Capitalism and the End of Politics. The Case of the Italian Five-Star Movement, in «Politics & Society», 4, XLV, 2017, pp. 585-609.

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imprenditoriale, della funzione pubblica e dell’attivismo civico, insieme a profughi dei tradizionali partiti di governo. Thomas Piketty l’ha definito un tentativo di assemblare quelle che lui chiama la droite marchande e la gauche brahmine119, profittando della débâcle bilaterale dei socialisti e dei Repubblicani. L’andamento delle elezioni del 2022, presidenziali e legislative, ha comunque testimoniato la fragilità del suo impianto. Chissà se l’essersi ribattezzato Renaissance gli porterà più fortuna. Ovunque collocati, l’aspirazione condivisa dei partiti outsiders è divenire established. Col tempo sia le destre populiste, sia le nuove sinistre hanno stabilito presidi nel governo locale, hanno attivato circuiti militanti, si sono contaminate con i circuiti del potere, non solo periferici, e in alcuni casi hanno avuto accesso al governo nazionale120. A consigliare loro di radicarsi è fra le altre cose l’esigenza di reclutare un personale politico idoneo a occupare cariche elettive e di governo. Il Front national, ribattezzato dal 2018 Rassemblement national, dispone ormai di una rete di eletti nelle amministrazioni municipali competitiva con quella degli altri partiti e ha infine avuto accesso all’Assemblea nazionale. Come succede alla Fpö austriaca, alla Lega, alla Svp/ Udc in Svizzera, da ultimo a Fratelli d’Italia, che sono riusciti a diventare partiti di governo. Chi se la passa peggio, al momento, sono i partiti established, la cui curva di rendimento tende disperatamente verso il basso. I dati parlano chiaro. Patrimoni elettorali imponenti, accumulati in decenni di attività, si sono dispersi. Ne sono stati vittime tanto gli established di sinistra, quanto quelli di destra. La Spd tedesca dal 41 per cento dei consensi dei primi anni ’90 119   T. Piketty, Capital et idéologie, Paris, Seuil, 2019, p. 1007. Sul partito B. Dolez, J. Fretel e R. Lefebvre (a cura di), L’entreprise Macron, Grenoble, Presses universitaires de Grenoble, 2019. Un punto di vista interessante, che tratta il partito di Macron come un caso di «tecnopopulismo», perché si appella ai francesi nella loro totalità, è esposto in C.J. Bickerton e C. Invernizzi Accetti, Technopopulism. The New Logic of Democratic Politics, New York, Oxford University Press, 2021. Più dubbio è l’accostamento, entro la medesima categoria, del Movimento 5 Stelle e di Podemos. Nel caso di Macron la centralità dei tecnici è palese, negli altri due casi molto vaga. 120  R.C. Heinisch e O. Mazzoleni (a cura di), Understanding Populist Party Organisation. The Radical Right in Western Europe, Basingstoke, Palgrave MacMillan, 2016. Da vedere è anche la special issue dedicata a Right-Wing Populist Party Organisation Across Europe: The Survival of the Mass-Party?, di «Politics and Governance», 4, IX, 2021.

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è discesa al 26 per cento del 2021; i socialdemocratici svedesi hanno registrato un calo simile, dal 45 al 28 per cento, i danesi dal 36 al 27 per cento. Dal canto loro i socialisti spagnoli sono passati dal 38 al 28 per cento, il Partito socialista francese è quasi scomparso, in Grecia è toccato al Pasok. La sinistra italiana a fine anni ’80 – Pci più Psi – si aggirava intorno al 40 per cento dei suffragi. Il Partito democratico è disceso dal 33 per cento dei consensi nel 2008 al 18 nel 2022121. Qualche attenzione specifica meritano le vicissitudini del Labour. Nel 1997 Blair vinse ottenendo 13 milioni e mezzo di voti, quattro anni dopo rivinse, ma perdendone quasi tre milioni, un altro milione andò disperso nel 2005 e un altro ancora nel 2010, quando i Tories tornarono al governo. A quasi vent’anni dall’invenzione del New Labour era fuoruscito più o meno un quarto degli elettori, finché la base del partito non ha sostenuto a sorpresa l’avventura di Corbyn, il quale, col suo programma anti-austerity e ristabilendo i rapporti con le Unions, si è riallacciato alla tradizione del laburismo, anche se forse non abbastanza. Col contributo di un’associazione d’iscritti, Momentum122, il partito ha risollevato le iscrizioni e rivitalizzato la militanza crescendo tra il 2015 e il 2017 da quasi 9 milioni e mezzo di voti a poco meno di 13 milioni123. È durata finché lo stress del Brexit e la riconversione nazional-populista dei Tories, 121   Una ricostruzione degli effetti elettorali punitivi della svolta pro-market dei partiti socialisti e socialdemocratici in Gran Bretagna, Danimarca, Svezia e Germania, che tiene in considerazione il sistema elettorale e la presenza o meno di altri partiti pro-welfare, in C. Arndt, The Electoral Consequences of the Third Way of Third Way Welfare State Reforms. Social Democracy’s Transformation and its Political Costs, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2013. Contano molto anche le scelte passate dei concorrenti di sinistra. Nel caso danese, erano stati corresponsabili delle politiche di riforma e una quota di elettori si sarebbe rivolta alla destra estrema. Cfr. anche L. Rennwald, Partis socialistes et classe ouvrière. Ruptures et continuités du lien électoral en Suisse, en Autriche, en Allemagne, en Grande-Bretagne et en France (1970-2008), Neuchâtel, Éditions Alphil-Presses universitaires suisses, 2015. 122  A. Rhodes, Movement-led Electoral Campaigning: Momentum in the 2017 General Election, in D. Wring, R. Mortimore e S. Atkinson (a cura di), Political Communication in Britain, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2019. 123   L’andamento delle iscrizioni è influenzato dalle scelte dei partiti. Cfr. P. Seyd, Corbyn’s Labour Party: Managing the Membership Surge, in «British Politics», 1, XV, 2020, pp. 1-24.

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guidati da Boris Johnson124, non hanno gettato lo scompiglio tra gli elettori working class e posto fine all’esperimento. La discesa della curva di rendimento elettorale non è meno severa per i partiti established di centro e di destra. La Democrazia cristiana è caduta in pezzi a inizio anni ’90. L’accoppiata Cdu-Csu a inizio anni ’90 superava il 40 per cento, ma alle elezioni del 2021 è discesa al 24 per cento. Il Partito popolare spagnolo ha più che dimezzato i suoi consensi da inizio millennio. Alle elezioni presidenziali del 2022, in Francia sono quasi spariti anche i Repubblicani, salvo rialzare un po’ la testa, in ragione del loro radicamento locale, alle elezioni dell’Assemblea nazionale. Anche i popolari austriaci non sprizzano di salute125. Si ripete spesso il luogo comune del tradimento della working class, ma non si fa mai il conto  – salato – di quanti elettori si siano spostati dai partiti moderati verso la destra estrema126. Non è un caso che la destra moderata stia sempre più accogliendo l’agenda di policy dei partiti populisti127 e mutuandone pure lo stile. Dopo Sarkozy e Boris Johnson, alle ultime elezioni presidenziali francesi Valérie Pecresse, candidata dei Repubblicani, ha riproposto temi e stile di Marine Le Pen. Anche la Cdu come successore di Angela Merkel ha scelto una figura molto orientata verso destra. La destra italiana ha giocato d’anticipo. Hanno trovato scampo solo i Tories, che, promuovendo il Brexit, hanno incorporato la destra estrema. Tra declino elettorale dei partiti established e riconversione della loro offerta di rappresentanza e di governo c’è un’impres124   Così E. Fawcett, Conservatism. The Fight for a Tradition, Princeton, Princeton University Press, 2020, p. 343. Sul rischieramento a destra dei Tories, cfr. anche G. Evans, R. De Geus e J. Green, Boris Johnson to the Rescue? How the Conservatives Won the Radical Right Vote in the 2019 General Election, in «Political Studies», pubblicata online nell’ottobre 2021. 125  T. Bale e C. Rovira Kaltwasser, Riding the Populist Wave: Europe’s Mainstream Right in Crisis, Cambridge, Cambridge University Press, 2021. 126   A. Krouwel, T. Bale e L. Tremlett, Variation..., cit. 127   Sull’impatto dei partiti populisti sulla competizione politica D. Albertazzi e D. Vampa (a cura di), Populism and New Patterns of Political Competition in Western Europe, London, Routledge, 2021. Sui temi dell’immigrazione J. van Spanje, Contagious Parties. Anti-Immigration Parties and Their Impact on Other Parties’ Immigration Stances in Contemporary Western Europe, in «Party Politics», 5, XVI, 2010, pp. 563-586.

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sionante coincidenza. Le politiche di austerità hanno aggravato il problema. C’è anche una coincidenza con l’estraneazione, anche sociologica, dei loro addetti dagli elettori. Quanto hanno ancora aiutato gli scandali che, grazie anche ai media, perseguitano i partiti perfino oltre le loro colpe? L’avanzata dei partiti populisti non era fatale, anche se hanno magari trovato leaders più capaci dei loro avversari128. Ma non è nemmeno detto che i tradizionali partiti established siano consegnati alla storia, o in procinto di esserlo. Va riconosciuto, piuttosto, che i partiti di massa da cui si sono sviluppati hanno a suo tempo seminato bene e in profondità: tuttora resistono le mappe politiche, ma pure sociali, che hanno disegnato per gli elettori. Le appartenenze politiche si trasmettono ancora da una generazione all’altra129. Si è sovente parlato di «volatilità» elettorale: gli elettori sarebbero divenuti irrequieti130. Il fenomeno si è accentuato con il nuovo secolo, ma, a ben vedere, gli elettori per lo più si ricollocano presso formazioni contigue, o semmai si estraniano. Forse, a essere volatile è soprattutto l’offerta elettorale. Intanto, i partiti established sono ancora molto attivi: conducono campagne elettorali, selezionano candidati alle cariche elettive, intrattengono rapporti con le altre élites, specie quelle imprenditoriali e mediatiche, si contendono un cospicuo patrimonio di risorse: il patronato delle cariche, o lo spoils system, nazionale e locale, non demordono. Il market turn ha ridimensionato il settore pubblico, ma sono tantissime le postazioni di potere appetibili. I media li hanno bensì espropriati di parte della loro capacità di orientare la pubblica opinione e sono decaduti anche sul piano del framing e dell’agenda setting delle politiche pubbliche. Ma la polemica tuttora condotta contro di essi conferma come siano temuti. 128   J.P. Veugelers, Challenge for Political Sociology: The Rise of Far-Right Parties in Contemporary Western Europe, in «Current Sociology», 4, XLVII, 1999, pp. 78-105. 129  È uno dei temi sollevati dalla circostanziata analisi condotta da G. Evans e J. Tilley, The New Politics of Class in Britain. The Political Exclusion of the Working Class, Oxford, Oxford University Press, 2017. 130   Discute il tema P. Mair, Party System Change. Approaches and Interpretations, Oxford, Oxford University Press,1998, pp. 27-31 e 79-81. Il fenomeno si è accentuato, ma gli elettori non sono allo sbando. Cfr. ancora A. Krouwel, T. Bale e L. Tremlett, Variation..., cit.

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I partiti in declino potrebbero anche riprendersi. Potrebbero elaborare offerte e servizi di rappresentanza più apprezzati. Che uso è immaginabile per le nuove tecnologie informatiche? La rete e i social sono armi già utilizzate nelle campagne elettorali e non solo, ma le loro potenzialità – e i loro pericoli – sono oggetto di grande studio. C’è chi li pensa come una macchina manipolatrice onnipotente e chi ha appreso a sfruttarli in campagna elettorale131. In America sono stati usati per ricostituire lealtà partitiche usurate e depresse. Sono una prospettiva realistica i partiti digitali? Qualcuno ritiene che potrebbero raggiungere un più largo numero di cittadini, informandoli e consentendo loro di concorrere alla discussione e ai processi decisionali. Forse nascondono robuste redini elitiste, ma il cantiere è stato appena aperto132. C’è solo da aspettare. Le vicissitudini dell’ultimo decennio mostrano come i partiti si possano anche improvvisare: gli investimenti che richiedono sono tutto sommato modesti. Non costa nemmeno moltissimo impadronirsi di un partito e ridisegnarlo da cima a fondo. Quale futuro dunque aspettarsi? Esprimendo un punto di vista sconsolato ed estremo, a inizio millennio Peter Mair paventava il rischio di una democrazia senza partiti. Dopotutto, una democrazia a basso tasso di politicità si prova a fabbricarla da parecchio tempo. Ma non è detto: la politica e l’ideologia tendono comunque a ricomparire e potrebbero suggerire ai partiti nuovi claims con cui raggruppare gli elettori. Sulla destra estrema lo stanno già facendo. La politica americana, che ha inventato i partiti intermittenti, eppure fortemente radicati nelle mappe mentali degli elettori133, potrebbe offrire qualche lezione, con la sua lunga esperienza di movimenti, che hanno periodicamente rivitalizzato i partiti. Due esempi recenti sono l’ormai declinante Tea Party e Black lives matter, tuttora 131  Su questa possibilità C. Cepernich, Le campagne elettorali al tempo della networked politics, Roma-Bari, Laterza, 2017. 132   P. Gerbaudo, I partiti digitali. L’organizzazione politica nell’era delle piattaforme, Bologna, Il Mulino, 2021; F. Raniolo e V. Tarditi, La rivoluzione digitale e le trasformazioni organizzative dei partiti, in «Rivista di Digital Politics», 2, I, 2021, pp. 249-270. 133  È quanto sottolineano e argomentano ripetutamente C.H. Achen e L.M. Bartels, Democracy for Realists, cit.

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attivissimo134. Dotati di larghi circuiti di aderenti e condotti da quadri a tempo pieno, hanno soccorso i partiti, riducendo quella quota di elettori che manifesta la sua volontà disertando le urne. L’esempio non è da copiare pedissequamente, ma si potrebbe adattarlo. La grande partita dei partiti è sempre stata disseminata d’imprevisti e di nuove invenzioni. È presto darla per conclusa.

134  Sul Tea Party, T. Skocpol e V. Williamson, The Tea Party and the Remaking of Republican Conservatism, New York, Oxford University Press, 2012. Su Black lives matter A. Célestine, N. Martin-Breteau e C. Recoquillon, Introduction. Black Lives Matter: A Transnational Movement?, in «Esclavages & Post-esclavages», 6,  2022; e C. Recoquillon, Midterms: le rôle crucial de Black Lives Matter, in «AOC», 24 novembre 2022. Più in generale, S. Tarrow, Movements and Parties, cit.

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capitolo quarto

MERCATO

1. Un nuovo contratto sociale La tecnica pacifica di governo e di risoluzione dei conflitti sperimentata in Inghilterra a fine XVII secolo non ha mai avuto vita facile. È stata ampiamente contrastata e non sono mancati casi di regresso, verso l’originario nucleo coercitivo della statualità, come le autocrazie instaurate nell’entre-deux-guerres, cadute le quali per i regimi rappresentativo-democratici è iniziato un nuovo ciclo. Secondo il resoconto prevalente, le regressioni autoritarie erano dipese dalla fragilità dei regimi rappresentativi rispetto agli strascichi del primo conflitto mondiale, alla crisi economica e alle conseguenti turbolenze sociali. Pertanto, essi andavano non solo ristabiliti, ma anche rafforzati. Una prima forma di rafforzamento consistette nella piena ammissione dei partiti tra le istituzioni rappresentative e di governo. L’esclusione, spesso violenta cui li avevano condannati le autocrazie, era dopotutto un titolo di legittimazione. E di fatto i grandi partiti popolari divennero i nuovi protagonisti della vita democratica: quando ve n’è stato bisogno, sono stati essi che hanno scritto le nuove costituzioni. Erano eterogenei e dissentivano su molte cose. Nondimeno, per necessità o convinzione, riuscirono a concordare sulle regole e non solo. I testi scritti non scendevano troppo nei dettagli per lasciarsi aperta ogni possibilità. Ma esplicitavano alcuni principi e anche qualche impegno di sostanza: il primo articolo della Costituzione italiana è dedicato al lavoro. In realtà, a guerra finita il clima non era per nulla pacifico: erano aspri i contrasti sociali, politici e ideologici. Ci è voluto qualche tempo perché il clima divenisse meno concitato, con l’ausililio di altri ingredienti, stabilizzando i rinnovati regimi democratici. 227

Nel 1982, quando ormai si era infranto quello che potremmo chiamare il «regime di governo» del dopoguerra, cioè la miscela di Stato, mercato, partiti, società civile, Albert O. Hirschman ha avanzato un’interessante teoria per spiegare cosa stava accadendo dopo i sommovimenti del decennio precedente. Le preferenze degli esseri umani non sarebbero prefissate, ma instabili e si evolverebbero ciclicamente. Opponendo al concetto d’interesse, consueto agli economisti, quello di delusione, si alternerebbero per Hirschman stagioni in cui dominano le strategie individuali di ricerca della felicità e quelle in cui prevalgono le strategie collettive1. Durante le prime gli individui provano a cavarsela da soli, ma, quando la delusione sopravviene, si persuadono a collaborare con altri. Si avvia allora un nuovo ciclo fondato sull’azione pubblica e collettiva, che dura fino alla delusione successiva. Sperando di non far torto eccessivo a Hirschman, possiamo considerarli due sentimenti, due modi di pensare la vita collettiva, due immaginari, che si avvicendano: nell’uno la dimensione pubblica gode di un sovrappiù di legittimità, nell’altro il sovrappiù di legittimità è riconosciuto agli individui e all’interesse privato. I modi di pensare la società, gli immaginari, non si costituiscono d’un tratto, ma maturano lentamente. Non sono nemmeno compatti e universalmente condivisi. S’incontrano, si scontrano, si sovrappongono e s’intrecciano. La loro intensità è mutevole e si possono modulare e interpretare in vari modi. Gli immaginari sono anche declinabili: da destra, da sinistra, dal centro. Per quanto pubblici siano l’uno e l’altro, l’immaginario totalitario e la mobilitazione di massa propri del fascismo non sono la stessa cosa dell’immaginario pluralistico, ma anche solidaristico – lo aveva delineato il rapporto Beveridge – del postfascismo. Così com’è lontana l’atmosfera della ricostruzione negli anni ’50 e quella del decennio successivo in cui si era ormai infiltrato il consumismo, per non parlare delle ambizioni emancipative degli anni ’70. Eppure, sono tutti modi di pensare fondati sull’azione pubblica. I modi di pensare comunicano anche da un paese e da un milieu sociale all’altro e non necessariamente variano in sin1   A.O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica (1982), Bologna, Il Mulino, 1983.

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cronia. Soprattutto non sorgono, né aleggiano spontaneamente al di sopra delle istituzioni e degli attori. Sono fasci d’idee che hanno bisogno di prolungata digestione. Servono esseri umani in carne e ossa che li suscitino, accreditino, coltivino: dalla ricerca scientifica alla creazione letteraria e artistica, fino al dibattito pubblico. Il concetto gramsciano di egemonia prevede un disegno politico ed è senz’altro più impegnativo. I modi di pensare sono più vaghi, ma anche intorno a essi si svolge un gran lavorio2. Così, se il pluralismo dei partiti è stato il primo ingrediente del nuovo regime di governo e del nuovo contratto sociale «implicito»3, il secondo è stato l’immaginario pubblico e della solidarietà reciproca: non sappiamo quanto fosse diffuso, ma lo era alquanto nella sfera pubblica e nella sfera della cultura. Il terzo ingrediente è stato invece lo Stato, cui fu conferito il compito di tenere a bada e, se del caso, surrogare il mercato. In fondo, si trattava di uno scambio: il mondo del lavoro accettava di canalizzare entro le istituzioni rappresentative e democratiche il suo potenziale di autodifesa e di resistenza e otteneva in compenso di essere protetto dagli incerti dell’esistenza. Confermato un comune orientamento alla piena occupazione e alla riduzione delle disuguaglianze e delle ingiustizie, la conformazione di ciascuna economia, la cultura delle élites, le caratteristiche dei sistemi industriali hanno dettato all’azione dello Stato modalità e dosaggi diversi4. In alcuni 2   Che il ciclo dell’immaginario pubblico del secondo dopoguerra fosse inframezzato da ampi scorci privatistici lo ricorda A. Pizzorno, The Individualistic Mobilization of Europe, in «Daedalus», 1, XCIII, 1964, pp. 199-224.  3   B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta (1978), Milano, Comunità, 1983, pp. 38-41. 4   La Repubblica federale decise di privatizzare le imprese pubblicizzate dal nazismo: l’«economia sociale di mercato», inaugurata da Ludwig Erhard dal 1945, e ispirata dall’«ordoliberalismo», non era la stessa cosa del keynesismo. Prevedeva un’attiva azione statale, ma per promuovere il libero mercato, ritenuto un antidoto all’autoritarismo. Cfr. R. Ptak, Neoliberalism in Germany: Revisiting the Ordoliberal Foundations of the Social Market Economy, in P. Mirowski e D. Plehwe, The Road from Mont Pèlerin: The Making of the Neoliberal Thought Collective, Cambridge, Harvard University Press, 2009. Sul piano pratico, le cose erano più complicate, perché la preferenza per il libero mercato era temperata dal corporativismo cattolico-renano e dall’azione di sindacati e degli stessi imprenditori: così secondo W. Streeck, Playing Catch-Up, in «London Review of Books», 9, XXIX, 2017. Le politiche

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paesi furono nazionalizzati importanti comparti produttivi e i servizi fondamentali. Poiché in prevalenza a governare sono stati i partiti liberali, conservatori e democristiani, non del tutto convertiti all’intervento pubblico, magari agitando lo spettro del socialismo, fu posto qualche freno. In ogni caso lo Stato assunse un ruolo d’indirizzo e istituì con il mercato un’ibridazione molto stretta. Quelli che corrono tra il 1945 e il 1975 sono stati denominati i «Trenta gloriosi» anni dello sviluppo e gli specialisti li ritengono anche il Golden Age dei partiti. Sarebbero da ripensare in maniera meno nostalgica di quanto non li pensino tanti osservatori delle presenti condizioni dei regimi democratici. Le devastazioni prodotte dalla guerra erano state enormi, le economie paralizzate, le popolazioni allo stremo e diffusa era la miseria. Le urgenze della ricostruzione diedero perciò priorità agli investimenti produttivi e infrastrutturali, rimandando l’incremento dell’offerta di beni e servizi ai cittadini. Ciò malgrado, la situazione si sbloccò. Un grande aiuto per superare le avversità iniziali l’offrì il Piano Marshall. Ma intervennero pure alcune misure fortunate e alcune coincidenze. La liberalizzazione dei commerci internazionali fu forse troppo precipitosa e a lungo termine i suoi effetti sono stati meno virtuosi di quelli ottenuti a breve. Ma sul momento impresse una spinta di rilievo. Erano convenienti le ragioni di scambio con i paesi produttori di materie prime. Non era scontato in partenza, ma prese avvio un’enorme crescita della produttività e della produzione. Non mancarono nemmeno pratiche repressive brutali contro il mondo del lavoro. L’espianto di popolazione dalle campagne ai centri urbani in cui si concentravano le attività manifatturiere è stato doloroso. Una volta avviato, però, lo sviluppo offrirà dividendi cospicui e prolungati e una quota fu destinata a realizzare qualche promessa di giustizia sociale: era una tecnica complementare per pacificare e prevenire i conflitti. I beneficiari dello Stato sociale furono le classi medie e quelle lavoratrici. Ma l’ibridazione tra Stato democratico e mercato ha giovato anche alle classi superiori: l’inclusività dell’azione di governo, keynesiane saranno provvisoriamente adottate negli anni ’70, al tempo delle coalizioni tra Spd e Fdp.

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per quanto dapprincipio modesta, favorirà la stabilità politica e gli imprenditori avranno il loro tornaconto dalla domanda suscitata dai programmi di welfare, dall’edilizia popolare, dalla scolarizzazione di massa, dal progressivo miglioramento dei sistemi sanitari, oltre che dall’incremento dei consumi. In partenza, neanche la popolarità dei nuovi regimi democratici era troppo solida. In molti paesi, l’Italia è tra le eccezioni, la quota di elettori che si astenevano dal voto era consistente. In America gli scienziati sociali l’esorcizzavano parlando di «apatia» fisiologica, e addirittura benefica, che evitava un eccesso di aspettative5. Un’altra prova di disagio era il consenso radunato in Italia, in Francia e altrove da partiti che Sartori chiamava «antisistema»: quelli comunisti e quelli neofascisti6. Ma non solo. Assemblando ed esplorando dati tratti da indagini quantitative e qualitative svolte nell’arco di settant’anni, dunque su tempi lunghissimi, un’appassionante ricerca condotta or non è molto in Gran Bretagna ha documentato come insoddisfazione e diffidenza già negli anni ’40 e ’50 fossero endemici. Malgrado il governo laburista stesse investendo massicciamente nelle politiche abitative e sanitarie e a sostegno dell’occupazione, non difettavano i motivi di malcontento verso il governo e i partiti: il reinserimento dei reduci era laborioso, salari e stipendi erano bassi, il lavoro nelle fabbriche era duro e disagevoli erano le condizioni di vita sia nelle campagne, sia nei centri urbani. Forse l’immaginario collettivo suscitava ben maggiori aspettative. Con ogni probabilità considerazioni analoghe valgono anche per gli altri paesi. Gli studiosi di estrazione marxista avanzavano riserve sullo sviluppo e pure sui regimi democratici. Le scienze sociali dedicavano invece le loro ricerche ai problemi suscitati dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione, offrendo idee per grandi progetti riformatori. Ma nell’insieme i loro bilanci erano piuttosto positivi. A loro volta, studiosi che dall’America scrutavano l’Europa si rallegravano della sua convergenza con 5   Il contributo classico è W.H. Morris Jones, In Defense of Apathy. Some Doubts on the Duty to Vote, in «Political Studies», 1, II, 1954, pp. 25-37. Ma pure S.M. Lipset, Political Man. The Social Bases of Politics, New York, Doubleday, 1960, p. 63. 6   G. Sartori, Parties and Party Systems. A Framework for Analysis, New York, Cambridge University Press, 1976.

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la modernità americana e della sua conversione al gradualismo postideologico7. Il rischio di contrasti distruttivi sembrava scongiurato. Nel 1957 Otto Kirchheimer, che era tornato a frequentare la Germania, aveva evidenziato nientemeno che la tendenza dei partiti a stabilire «diverse forme di accordi di cartello»8. Un pluralismo più ordinato e meno conflittuale si stava impiantando dappertutto. Per Seymour M. Lipset era il miglioramento dei livelli di reddito e delle condizioni della middle class e delle classi popolari che alimentava la legittimità e stabilità dei regimi democratici9. Nel 1957 Ralf Dahrendorf si è fatto conoscere teorizzando l’avvenuta istituzionalizzazione del conflitto di classe10. C’era anche chi già immaginava di governare in maniera più efficiente concedendo una delega più ampia ai tecnici e alla scienza11. 2. Sessantotto Dopo vent’anni, l’usura tuttavia non sorprende. La Guerra fredda proseguiva, ma si avvertivano segni di disgelo. La ricostruzione era compiuta, o quasi, e la vita democratica si svolgeva in maniera abbastanza ordinata. Nel 1964 i laburisti britannici avevano avvicendato i conservatori. Nel 1966 al governo erano arrivati i socialdemocratici tedeschi, in coalizione con la Cdu. In Francia la Costituzione del 1958 era ormai accettata da tutte le forze politiche. In Italia si costituivano i governi di centrosinistra con i socialisti. Ma le acque non erano poi così calme. In America erano attivi da tempo i movimenti per i 7  N. Gilman, Mandarins of the Future. Modernization Theory in Cold War America, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2007, pp. 56-62. 8   Kirchheimer così precedeva il cartel party di R. Katz e P. Mair: cfr. O. Kirchheimer, The Waning of Opposition in Parliamentary Regimes (1957), ora in Id., Politics, Law and Social Change. Selected Essays, a cura di F.S. Burin e K. Shell, New York, Columbia University Press, 1969. 9   S.M. Lipset, Political Man, cit. Cfr. dello stesso autore The Changing Class Structure and Contemporary European Politics, in «Daedalus», 1, XCIII, 1964, pp. 271-303. L’articolo è contenuto in una special issue intitolata A New Europe che complessivamente registra questi cambiamenti. 10   R. Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale (1959), Bari, Laterza, 1963. 11   J. Meynaud, La tecnocrazia. Mito o realtà (1964), Bari, Laterza, 1964.

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diritti civili della popolazione afroamericana, seguiti da quelli giovanili contro la guerra vietnamita. In Europa si risvegliarono le proteste operaie e l’azione sindacale, salutando un traguardo mai raggiunto in precedenza come la piena occupazione. Che rendeva più facili da politicizzare i bassi livelli salariali, la ripetitività e faticosità delle catene di montaggio, le pratiche repressive in uso nelle fabbriche, le gravose condizioni di lavoro nelle piccole imprese, nell’edilizia, in agricoltura. Le nuove forme di protezione sociale si sviluppavano ancora con lentezza e non erano risolutivi i consumi di massa. Mediamente si viveva meglio, ma le fasce di popolazione svantaggiata restavano amplissime e chi era in condizioni più favorevoli nutriva aspettative ulteriori. L’irrequietezza circolava anche tra le classi medie. Gli stipendi dei dipendenti pubblici erano bassi, come quelli del settore privato, le gerarchie erano rigide. Costituivano già forme di resistenza i mutamenti, spesso ritenuti scandalosi, che si registravano nella moda, nella musica, nel teatro, nel cinema, nelle arti figurative. Un annuncio profetico lo si può trarre da un breve scritto di Titmuss, il primo studioso riconosciuto di social policy e politicamente prossimo al Labour12, apparso nel 1964. Il contratto stipulato tra le forze politiche, che coincideva con i nuovi sistemi di sicurezza sociale, era instabile: non aveva arginato i poteri privati, né arrestato la tendenza alle concentrazioni monopolistiche. La distribuzione del reddito e della ricchezza restava fortemente sperequata. Lo sviluppo tecnologico, per com’era orientato, insidiava l’occupazione, in prospettiva richiedendo al welfare di compiere costosi interventi riparativi, mentre azioni ulteriori sarebbero occorse a tutela dell’infanzia e degli anziani. Le riforme finora adottate non bastavano. Per Titmuss il welfare soffriva anche di un serio deficit culturale, che andava colmato iniettandogli qualche dose di altruismo, in particolare riscoprendo la cultura della solidarietà propria del movimento operaio tra Otto e Novecento. Il punto era fondamentale. Le culture non fioriscono spontaneamente. Sopraggiunto il benessere, l’immaginario collettivo e solidale  – che soprattutto il movimento operaio aveva suscitato in 12   R. Titmuss, The Limits of the Welfare State, in «New Left Review», 1, 27, 1964.

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contrasto con quello del mercato – si stava esaurendo. In effetti, concentrandosi sul governo, i partiti perdevano la capacità di produrre cultura e, tramite i consumi di massa, tutt’altra cultura produceva il mercato. Il welfare erogava prestazioni fondamentali, ma inesorabilmente le burocratizzava. Il futuro dell’incontro tra capitalismo e democrazia non si prospettava troppo felice. Entro la sinistra riformista che l’aveva inventato, Titmuss non era il solo a nutrire dei dubbi sull’avvenire dell’intervento pubblico. In molti s’interrogavano su come perfezionare il controllo democratico dell’economia di mercato, su come coinvolgere i lavoratori nella sua conduzione e come distribuire più largamente i frutti dello sviluppo. La strategia catch-all dei partiti di cui parla Kirchheimer non era incompatibile con l’impegno dei partiti socialisti per la giustizia sociale e con lo sforzo di preservare il loro seguito più tradizionale. Nel 1956 a Bad Godesberg la Spd aveva celebrato una revisione profonda, che prevedeva la piena accettazione del capitalismo, ma manteneva aperta la questione della democrazia economica, solo in parte affrontata dando voce ai lavoratori nel governo delle aziende mediante la cogestione. La sinistra riformista francese, impegnata nello sforzo di trovare un’alternativa alla modernizzazione conservatrice del gollismo, s’interrogava anch’essa su come rilanciare la pianificazione, introdotta nel dopoguerra. Riflettevano anche i laburisti e in Italia, mentre i comunisti erano stati presi alla sprovvista dal neocapitalismo, i socialisti si chiedevano come governarlo. Anche loro proponevano di programmare l’economia e l’intervento pubblico, in sintonia con la sinistra democristiana. La nazionalizzazione dell’energia elettrica fu una grande riforma varata a questo scopo13. Capita sovente d’indicare come punto di rottura il ’68. A ricostruire senza miti, positivi e negativi, la cronologia degli eventi, la mobilitazione collettiva era iniziata molto prima. Eppure, la rottura sopraggiunse tanto inaspettata quanto fragorosa. 13   Tra i documenti più interessanti, combinando prospettiva tecnocratica e prospettiva partecipativa, cfr. P. Mendés-France, La république moderne, Paris, Gallimard, 1966. Anche in Italia la stagione riformista fu molto fertile, basti pensare a riviste come «Tempi moderni» e «Mondo operaio».

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Avviata il 3 maggio la mobilitazione degli studenti, dieci giorni dopo cinquecentomila francesi si riversarono per le vie di Parigi, avviando uno sciopero generale grandioso, che coinvolse dieci milioni di lavoratori. Esprime bene la portata di quell’evento, e uno dei significati che gli furono attribuiti, un osservatore simpatetico: «a maggio scorso, si è presa la parola come si è presa la Bastiglia nel 1789. La piazzaforte che è stata occupata è il sapere detenuto dai dispensatori di cultura e destinato a mantenere l’integrazione o la compressione di lavoratori, studenti e operai entro un sistema che detta loro come funzionare [...] è la parola prigioniera che è stata liberata»14. Prendere la parola, da parte di chi tace, è un gesto di resistenza, anzi di sovversione e, al tempo stesso, un effetto, provvisorio, ma non insignificante, di redistribuzione del potere. Ammesso che gli eventi stiano da qualche parte, amano confondersi con le loro narrazioni. A dettare e amplificare il racconto del ’68 è stato l’ingente capitale culturale di cui erano dotati i suoi protagonisti, che ne ha condizionato tanto il resoconto immediato, quanto la memoria. Gli scaffali delle biblioteche traboccano di autobiografie, inchieste giornalistiche, indagini storiche e sociologiche, romanzi, a opera di quanti hanno vissuto quell’esperienza. Sovrabbondano i racconti cinematografici. Quel che è indubitabile è che gli accadimenti della primavera del ’68 attestarono una dissidenza imponente e una non meno imponente rivendicazione di rappresentanza15. Articolate in maniere diverse e di diversa durata, in ciascun contesto nazionale, le proteste si diffusero a macchia d’olio. Deflagrarono la differenziazione sociale, la pluralità e il plura14   M. de Certeau, La prise de parole et autres écrits politiques, Paris, Seuil, 1994, p. 27. 15   Ricorda la difficoltà di separare narrazioni e interpretazioni E. Neveu, The European Movements of ’68: Ambivalent Theories, Ideological Memories and Exciting Puzzles, in O. Fillieule e G. Accornero (a cura di), Social Movement Studies in Europe: The State of the Art, New York, Berghahn Book, 2016. Tra le tante letture disponibili G. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America con un’antologia di materiali e documenti, Roma, Editori Riuniti, 1988; K. Ross, May ’68 and Its Afterlives, Chicago, University of Chicago Press, 2002; M. Zancarini-Fournel, Le moment 68: une histoire contestée, Paris, Éditions du Seuil, 2008. Una comparazione a vasto raggio, da cui manca però l’Italia, in R. Vinen, The Long ’68: Radical Protest and Its Enemies, London, Allen Lane, 2018.

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lismo, per come erano stati finora canalizzati e riordinati dalla rappresentanza politica e dai partiti. Intorno al maggio del 1968 la conflittualità aveva raggiunto livelli molto elevati persino nell’Europa socialista: in Polonia e in Cecoslovacchia16. Si era ripetuta a distanze transoceaniche, in Messico e in Giappone. In Europa l’entrata in scena degli studenti fu l’innesco di un’amplissima ribellione collettiva, a volte rumorosa, altre volte più sorda. La frattura generazionale ne provocherà altre, coinvolgendo gli operai delle fabbriche, specie le fasce più giovani, meno qualificate, inurbate e immigrate di recente, gli intellettuali, i colletti bianchi, gli insegnanti, i giornalisti, gli inquilini, i medici, i malati, le donne, i quadri intermedi e i militanti sindacali, l’associazionismo, spezzoni del clero e perfino dei partiti. Le motivazioni di chi protesta sono sempre difficili da ricostruire. C’era chi ricercava miglioramenti salariali, chi opportunità di accesso ai consumi, chi servizi e condizioni abitative migliori, chi tutele sui luoghi di lavoro, chi mobilità sociale e occupazionale, al contempo guidati da genuine ragioni ideali. In ogni caso, la sollevazione investì l’intero «sistema»: la società e la cultura «borghese», l’autorità, l’organizzazione, i costumi, la disuguaglianza, il profitto, i consumi, il formalismo, la razionalità su cui si fondava l’ordine delle cose. Nessuna istituzione fu risparmiata: lo Stato, la religione, la famiglia, i partiti, inclusi quelli di sinistra, i sindacati, le fabbriche, la scuola, l’università, la cultura, la stampa, gli ospedali psichiatrici, le forze armate. Anche le misure riformatrici introdotte nell’ultimo decennio furono squalificate, in quanto strumenti di addomesticamento del dissenso, di prevenzione del conflitto e perciò di dominio: entro qualsiasi sfera il potere fu messo in discussione. I movimenti immaginavano un modello di società diverso. Grazie agli scioperi, nell’industria e nei servizi, la contesa per il potere politico s’intrecciò con quella per il potere economico. La critica della politica established da parte dei movimenti collettivi non aveva un significato antipolitico, né antidemocratico, tanto meno populista: il termine quasi non 16   G. Crainz (a cura di), Il ’68 sequestrato. Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni, Roma, Donzelli, 2018.

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esisteva, era riservato agli specialisti e indicava altre cose. Finalizzata all’emancipazione, era critica d’ogni forma di dominio e conteneva una critica morale, sorretta da un’acuminata critica sociale, che le impediva di decadere in moralismo: che è quel genere di accusa sbrigativa d’immoralità, che risparmia lo sforzo d’investigarne le ragioni, sociali, culturali, economiche17. Piuttosto, l’azione di rappresentanza condotta dai movimenti rivendicava una nuova con-vivenza, un nuovo modo di fare società, basati su altri valori, e un’altra politica, affrancata dal pragmatismo elettorale dei partiti. Non la soppressione della politica, ma una politica – e una società – più solidali, più pluraliste, più aperte, più egualitarie, più inclusive, più disponibili a riconoscere le soggettività individuali. Suscitando una quantità sorprendente di attivismo e partecipazione. In Italia, ad esempio, il livello di sindacalizzazione di molte categorie, come gli insegnanti e il pubblico impiego, crebbe in misura considerevole. La prospettiva normativa era ambiziosa, anche se vaga. La mobilità sociale individuale era derubricata da valore a disvalore, così com’era esaltato il primato della dimensione collettiva e politica su quella privata: il privato, si disse, è politico. Inventata in quelle circostanze, la formula indicava come le lotte contro il potere, e per il potere, avessero rotto gli argini che separavano la sfera politica da quella affettiva, sessuale, biologica. Il potenziale critico dei movimenti studenteschi stimolò la creatività per rinnovare, ampliare e adeguare i «repertori della protesta»18. Scioperi d’ogni sorta, organizzati ed estemporanei, «a gatto selvaggio» e prolungati, assemblee, cortei, marce, sit-in, picchettaggi, occupazioni di stabilimenti industriali e edifici pubblici, disobbedienza civile, interruzioni di servizi, boicottaggi, autogestioni, assenteismo organizzato, espropri proletari, campagne d’opinione, ma anche manifesti, ciclostilati, giornali, riviste, libri, canzoni testimoniavano la portata dell’insubordinazione. Pure il modo di abbigliarsi e acconciarsi divenne parte della protesta. 17   Sul moralismo come anti-politica cfr. W. Brown, La politica fuori dalla storia, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 19-46. 18   Il concetto è avanzato inizialmente in C. Tilly, The Contentious French. Four Centuries of Popular Struggle, Cambridge, The Belknap Press at Harvard University Press, 1986, p. 4.

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Il linguaggio era incandescente e comparirà la violenza, alla fine culminata nel terrorismo. Va ricordato tuttavia che la quantità di violenza impiegata dalla protesta non sempre era la stessa e diverse erano le intenzioni dei responsabili: enormi sono le differenze tra un esproprio proletario in un supermercato, un picchettaggio in occasione di uno sciopero, il danneggiamento di un macchinario in fabbrica, e l’assassinio di un dirigente d’azienda, di un magistrato, di un poliziotto, di un attivista sindacale, di un dirigente politico, di un imprenditore, di un giornalista. Sui motivi della degenerazione terroristica, il dibattito è tuttora aperto. Una convincente spiegazione generale  – perché in alcuni paesi si è sviluppato il terrorismo e in altri no – non si è ancora trovata. Sappiamo che i paesi più colpiti furono quelli che avevano conosciuto il fascismo. Nell’esperienza tedesca il terrorismo si legittimò istituendo una continuità tra la Repubblica federale e il nazismo. Nell’esperienza italiana qualche frangia estrema sostenne la continuità tra la sollevazione dei movimenti e la resistenza antifascista, ma l’impiego della violenza fu anche alimentato – e forse avviato – da un imponente terrorismo di estrema destra e dalle manovre di alcuni settori dello Stato. Si è già detto delle difficoltà dei partiti. Fra le altre cose, la mobilitazione collettiva scompaginò la cartografia convenzionale della sinistra. Molti studiosi marxisti erano rimasti interdetti, ma le formazioni operaiste e neomarxiste, apparse da metà anni ‘60 in avanti, avevano già messo in discussione lo sviluppo e l’impiego della tecnologia, avviando uno sforzo di ripensamento. I movimenti studenteschi e giovanili sfruttarono in special modo la critica del neocapitalismo e dello Stato sociale elaborata dalla Scuola di Francoforte e divulgata dal più celebrato maître à penser del momento e uno tra i primi intellettuali mediatizzati: Herbert Marcuse. A mezza strada tra Freud e Marx, Marcuse forniva una diagnosi critica del presente più coerente con la condizione e le esperienze degli studenti di quella offerta dalle interpretazioni marxiste tradizionali. Anziché avvalersi delle loro capacità tecnologiche ed economiche a fini d’emancipazione, le società capitalistiche avanzate se ne servivano per coltivare la propria irrazionalità intrinseca, per confermare la costrizione dei loro abitanti al lavoro alienato e per comprimerne i bisogni, i sentimenti, 238

i costumi 19. Fors’anche in ragione della comune origine francofortese, e della condivisione dell’esilio americano, Marcuse concordava sulla convergenza tra i partiti segnalata da Kirchheimer. Ma denunciava con accenti assai critici l’ambivalenza dell’azione inclusiva svolta dal neocapitalismo col concorso dello Stato in favore delle classi lavoratrici: la loro arrendevolezza era scambiata con la sicurezza occupazionale, la protezione sociale e i consumi di massa. Anche per lui il problema stava nella cultura. La sua replica era l’invito a ribellarsi: all’autorità, ai consumi, alla repressione sessuale, a ogni forma d’imposizione e vincolo gravante sugli individui e sulla vita associata. I movimenti collettivi accolsero l’invito e per un breve momento provarono a rilanciare la politica della speranza, o dell’utopia. Almeno a breve termine, il «sistema» si sarebbe mostrato più vulnerabile di quanto Marcuse prevedesse. Si sarebbe preso la rivincita più avanti. Messa in primo piano la dimensione culturale del dominio e del conflitto, i movimenti collettivi suscitarono anche una riflessione sul loro conto e sulle coerenze e incoerenze con i movimenti del passato20. Quando le ribellioni esplodono, è difficile stabilire quale sia stato l’«ingrediente» risolutivo21. Le università erano un luogo piuttosto appartato della vita collettiva e anche un luogo privilegiato. Quanto avevano in comune i movimenti con la storia del conflitto di classe? Un’interpretazione, almeno riguardo all’innesco, l’aveva suggerita con quasi dieci anni d’anticipo Jürgen Habermas avvistando nelle università un potenziale focolaio di ribellione22. In conformità con la richiesta di nuove competenze funzionali allo sviluppo, la popolazione studentesca, e universitaria, era cresciuta. Migliaia di studenti d’estrazione sociale eterogenea condividevano esperienze di vita, valori, interessi, preferenze politiche, aspettative e progetti di mobilità sociale, oltre che, naturalmente, motivi di malcontento, tra cui l’assenza di op  H. Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), Torino, Einaudi, 1967.   Un’interessante comparazione di lungo periodo C. Tilly, Social Movements. 1768-2004, New York, Routledge, 2004. 21   Lo sottolinea B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta, cit., p. 401. 22   J. Habermas, Riflessioni sul concetto di partecipazione politica (1961), in Id., L’università nella democrazia, Bari, De Donato, 1968. 19 20

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portunità corrispondenti alle attese che i loro titoli di studio suscitavano. Quella di Habermas era una previsione. Dopo il maggio saranno avanzate altre spiegazioni. Raymond Aron, accampò un classico argomento conservatore: gli studenti borghesi temevano il declassamento prodotto dall’università di massa23. Un altro punto di vista conservatore era che gli studenti erano più inclini all’anticonformismo e alla protesta dei giovani che lavoravano. Un’altra ipotesi ancora è che le università, come i partiti, la Chiesa, le imprese, la famiglia, i sindacati, seguitavano a proporre valori, norme, gerarchie convenzionali, ormai insopportabili. Il punto è che la sollevazione assunse portata ben più ampia e durevole della protesta studentesca, che l’aveva avviata e le aveva conferito il suo significato corrosivo. Tra i contributi fioriti a ridosso della ribellione del ’68 è da ricordare quello, simpatetico, di un importante sociologo del mondo del lavoro, Alain Touraine, fin dall’inizio prossimo agli studenti di Nanterre. Incombeva ormai la società postindustriale, segnata dalla contrazione del lavoro operaio e dall’esaurimento del conflitto di classe tradizionale. I «nuovi movimenti sociali» erano il nuovo soggetto storico corrispondente a una nuova frattura fondamentale, di carattere simbolico24. Sulla dimensione simbolica, e sull’originalità di quel ciclo di lotte, ragionerà più a distanza anche Alberto Melucci, avanzando un’interpretazione più dinamica. Il mutamento culturale e tecnologico aveva ridisegnato le soggettività degli individui, i loro modi di pensare se stessi e la vita collettiva. Sempre meno gli individui si sentivano appagati dai consumi di massa e dallo Stato sociale e si riconoscevano entro le identità che grazie al movimento operaio avevano finora indossato. Le richieste di redistribuzione erano divenute richieste d’emancipazione e il conflitto era tracimato oltre la sfera economica, dando luogo a una trama infinitamente più articolata e più mobile di motivi di aggregazione e di focolai di resistenza. Diveniva per Melucci 23  R. Aron, La révolution introuvable. Réflexions sur les événements de Mai, Paris, Fayard, 1968. 24   A. Touraine, La conscience ouvrière, Paris, Seuil, 1968; Id., Le mouvement de mai ou le communisme utopique, Paris, Seuil, 1968; Id., La société post-industrielle. Naissance d’une société, Paris, Seuil, 1969.

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prioritaria la questione del «riconoscimento». Gli individui erano tanto disponibili all’agire collettivo, quanto restii a farsi soffocare entro qualche forma politica verticalmente costituita, quali partiti e sindacati. Ed erano anche desiderosi di sottrarsi all’impersonalità burocratica dello Stato del welfare, per tessere, insieme ad altri, nuove trame di relazioni, nuovi codici condivisi e nuove identità collettive25. Prerogativa degli interpreti è attribuire un significato agli eventi. La preminente dimensione culturale prospettava per Melucci conflitti più numerosi e più erratici, grazie a una costellazione d’iniziative di rappresentanza eterodosse e instabili: la pluralità sociale e il pluralismo politico avevano, a suo dire, preso altre strade rispetto a quella del conflitto di classe. È una prospettiva che trova conferma entro un orizzonte intellettuale molto diverso. Con tutt’altro linguaggio – dalla sociologia del conflitto a quella della cultura politica – e traendone tutt’altre implicazioni, lo slittamento delle issues verso il piano culturale era confermato oltre Atlantico dal già ricordato Ronald F. Inglehart, con un’indagine fondata su dati di survey raccolti su scala internazionale. Una volta conseguita, grazie allo sviluppo, la sicurezza materiale, ed essendo cresciuto il livello medio d’istruzione insieme a quello d’informazione, era avvenuta una «rivoluzione silenziosa»26. Le nuove generazioni reclamavano più libertà individuale e più autonomia nei confronti dell’autorità. Pensavano ad autorealizzarsi e si concentravano sulla qualità della vita, i diritti, l’uguaglianza tra i sessi, la cultura, l’ambiente, la partecipazione alle scelte collettive. Nutrivano un altro atteggiamento verso la politica, meno deferente e meno disponibile a partecipare tramite il voto, o mediante l’iscrizione a partiti e sindacati, e più incline ad altre forme di attivismo: manifestazioni e petizioni, per esempio. 25  A. Melucci, L’invenzione del presente. Movimenti collettivi, identità, bisogni individuali, Bologna, Il Mulino, 1982. 26   Dopo aver parlato a ridosso del ’68 di valori «postborghesi» (cfr. R.F. Inglehart, The Silent Revolution in Europe. Intergenerational Change in PostIndustrial Societies, in «American Political Science Review», 4, LXV, 1971, pp. 991-1017), Inglehart introduce il concetto di «postmaterialismo» in The Silent Revolution. Changing Values and Political Styles among Western Publics, Princeton, Princeton University Press, 1977.

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Quant’erano però diffusi e condivisi i valori «postmaterialisti»? Erano realmente in declino quelli materiali? Qual è il confine tra gli uni e gli altri? Il transito dalla società della penuria a quella del benessere e della piena occupazione – o dove benessere e occupazione apparivano a portata di mano anche dei meno fortunati – non poteva non rinnovare i modi di pensare e pure le soggettività individuali. Ma il conflitto sociale, che era stato finora canalizzato da partiti e sindacati, non aveva mai perseguito unicamente il benessere materiale. Quanto ai movimenti, sì avevano segnato una rottura, ma, entro le lotte che avevano promosso, temi postmaterialisti e materialisti si accavallavano. Nel corso degli anni ’70 le lotte sindacali, le richieste di miglioramenti salariali e di condizioni e ritmi di lavoro più dignitosi, di nuove prestazioni di welfare hanno seguitato a riproporsi vivacissime. Tant’è che la mobilitazione del mondo del lavoro suscitò l’attenzione di altri studiosi autorevoli, che testimoniarono invece la vitalità del conflitto di classe27. Va nondimeno notata la considerevole influenza esercitata dalla teoria di Inglehart non solo tra le scienze sociali, ma nella sfera pubblica. Non smentiva l’idea, avanzata nei primi anni ’60, per cui le lacerazioni della società industriale erano sotto controllo. Ed era rassicurante la tesi secondo cui le rivendicazioni postmaterialiste erano esigenti, ma erano quelle della classe media istruita. L’epicentro del conflitto non era più la working class, che aveva la capacità d’inceppare la produzione. Acquietata dal benessere, era la classe media che sospingeva le società occidentali a rivedere le loro priorità: dai meno nobili, e più costosi, beni materiali ai più nobili, e meno costosi, beni immateriali. Si trattava d’estendere i diritti civili e d’incoraggiare la partecipazione democratica. Se non che, è successo ben di più. È intervenuta una trasformazione radicale delle strutture sociali, economiche e anche politiche.

27   C. Crouch e A. Pizzorno (a cura di), Conflitti in Europa: lotte di classe, sindacati e stato dopo il ’68, Milano, Etas Libri, 1977.

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3. Ripristinare l’autorità Le élites politiche established non potevano rimanere inerti di fronte alla grande mobilitazione collettiva e a una forma di rappresentanza anomala, ma comunque in concorrenza con esse. Dopo qualche esitazione i partiti di sinistra, coerentemente con la loro tradizione, ricercarono motivi d’incontro con le ragioni della protesta, escludendo le derive violente. I partiti moderati e conservatori si riposizionarono invece più a destra, ma nemmeno da parte loro mancarono tentativi di risposta. Quasi ovunque ebbe luogo nell’immediato una revisione inclusiva degli orientamenti di policy. Furono anzitutto riformate le università, ma furono anche adottate ambiziose riforme in materia di lavoro, diritti sociali, partecipazione democratica. In Italia nel 1970, la Democrazia cristiana condivise con i suoi alleati socialisti e, in parte, con i comunisti, che stavano all’opposizione, una tra le più feconde stagioni di riforme civili ed egualitarie della storia nazionale. A essere accolta, o subita, fu anche la richiesta di sfrondare le relazioni sociali e i costumi, da regole, forme, riti, gerarchie anacronistici. Una replica specifica alla protesta degli studenti è stata la cooptazione. I partiti recluteranno molti quadri dei movimenti. Molti si erano formati nelle loro organizzazioni giovanili. Altri saranno cooptati dalle università, dalla scuola, dalle case editrici, dai media. Alcuni sono diventati professionisti della protesta, trasferendosi da un movimento all’altro e portandosi appresso competenze e reti relazionali. Quasi mezzo secolo dopo, sono parecchi i reduci di quelle esperienze ancora attivi sulla scena pubblica o nei ranghi della società civile28. La quale, salutata come nuovo spazio politico alternativo ai partiti, emetteva i suoi primi vagiti29. In realtà, il cambiamento promosso dai movimenti, che era stato anzitutto culturale, si sarebbe rivelato infinitamente meno impegnativo del mutamento delle condizioni economiche, internazionali e nazionali. Fino al 1975 terrà ancora 28  Manca una ricerca sistematica. Un’indagine di pregio è quella di E. Neveu, Des soixante-huitards ordinaires, Paris, Gallimard, 2022. 29  Una definizione coeva in N. Bobbio, Società civile, in Dizionario di politica (1976), diretto da N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino, Torino, Utet, 1983.

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l’occupazione. Ma molti fatti problematici si sono susseguiti dall’inizio del decennio. Nel 1971 erano stati revocati gli accordi di Bretton Woods e la convertibilità del dollaro: era un modo con cui gli Stati Uniti internazionalizzavano i costi della guerra in Vietnam. Nel 1973 i paesi produttori avevano inaspettatamente rincarato i prezzi del petrolio, con pesanti effetti di traino sui prezzi delle altre materie prime. Non sarà l’ultimo shock energetico del decennio. Ne è seguita quella miscela d’inflazione di prezzi e salari e di stagnazione che è stata chiamata stagflazione, alimentata anche dall’incremento considerevole delle rivendicazioni sia degli addetti all’industria, sia degli addetti al terziario. Fu considerata una crisi di elevata gravità. O comunque fu vissuta come tale. Anche perché corrispondeva a un movimento più di fondo. L’avevano annunciato lo stesso Alain Touraine e anche Daniel Bell, l’uno più attento all’insorgere di nuovi conflitti, l’altro più fiducioso sul conto del progresso scientifico e tecnico: le società industriali stavano divenendo «postindustriali»30. Si stava concludendo una lunghissima e gloriosa avventura iniziata due secoli prima e giunta al culmine nell’ultimo trentennio. È stato un deperimento inevitabile, o è stata la conseguenza di una partita di potere tra gli addetti al capitalismo e lo Stato, i partiti, i sindacati, le burocrazie pubbliche? Non c’era altro modo per contrastare il ristagno dei profitti? Fatto sta che quello fu un momento cruciale giacché veniva messo in discussione il presupposto della prosperità e dell’egemonia occidentale31. A metterla in dubbio fu forse soprattutto la crisi petrolifera: ovvero la grande ribellione «politica» dei paesi produttori, rispetto ai quali l’Occidente si trovò in una condizione di grave debolezza. Nel mezzo secolo successivo il decadimento della manifattura ha desertificato intere regioni e impoverito vasti segmenti di popolazione, ha vanificato competenze, ha cancellato legami politici, relazioni sociali, perfino storie familiari. Sono aspetti 30   D. Bell, The Coming of Post-Industrial Society. A Venture in Social Forecasting, New York, Basic Books, 1973; A. Touraine, La société postindustrielle, Paris, Denoël, 1969. 31   Molto appropriato è anzitutto il titolo: D. Cohen, The Inglorious Years. Collapse of the Industrial Order and the Rise of Digital Society, Princeton, Princeton University Press, 2021.

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ancora da approfondire. La sostituzione con la new economy a elevato contenuto tecnologico e con servizi ad alta qualificazione non è avvenuta alla pari. Anzitutto sul terreno dell’occupazione. A distanza di mezzo secolo, se ne intende meglio la portata. Ma era appunto iniziata una complessa partita di potere. La piena occupazione aveva fatto crescere il costo, anche politico, della manodopera. La crescita della produttività ristagnava. Per contro, nei paesi in via d’industrializzazione la manodopera costava molto meno ed era meno tutelata. Si diffondevano anche le capacità tecnologiche. Sono state le condizioni in cui si è avviato il transito dal fordismo al postfordismo32, ed è la trovata con cui il capitalismo si è difeso. Sul momento ci si è concentrati piuttosto sull’irrequietezza dei movimenti, sulle rivendicazioni sindacali e sulle difficoltà della politica established. È stato di nuovo Habermas, in un libro del 1973, a formulare una teoria elaborata33. Lo Stato interventista aveva trasferito le contraddizioni proprie del capitalismo dalla sfera economica a quella politico-amministrativa. Che non era però in grado di governarle. Qualora fosse intervenuto energicamente per ridurre la spesa pubblica a beneficio dell’economia e a spese delle classi medie e popolari, sarebbe stata messa a repentaglio la sua legittimazione. Non troppo diversamente Claus Offe sosteneva che per il capitalismo il welfare era tanto una necessità, quando un costo insopportabile. Sciogliere l’intreccio avrebbe tuttavia messo a rischio le istituzioni democratiche34. A rompere gli indugi è stata dunque la fazione degli imprenditori, che, entrando in grande stile sulla scena pubblica, ha avviato una controffensiva politica di cui forse non prevedeva gli effetti, ma di cui intendeva essere parte attiva. Nella stagione della ricostruzione e dello sviluppo gli imprenditori non si erano dedicati unicamente ai loro affari. Le forze politiche e i loro addetti li tenevano a bada, ma li trattavano con gran riguardo. Se a volte adottavano policies scomode – misure fiscali, nazionalizzazioni, in alcuni paesi   A. Amin (a cura di), Post-Fordism. A Reader, Oxford, Blackwell, 1994.   J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo (1973), Roma-Bari, Laterza, 1975. 34   C. Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo (1975) Milano, Etas Libri, 1977. 32 33

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perfino la cogestione – erano pieni di cautele. Gli ambienti imprenditoriali contavano e intervenivano nella contesa politica, intrattenevano rapporti eccellenti con alcuni partiti, finanziavano campagne elettorali, disponevano di organi di stampa e di case editrici, nonché di giornalisti e intellettuali simpatetici. Al culmine dello sviluppo erano stati coinvolti nell’azione di governo tramite le intese neocorporative, a volte formalizzate ufficialmente. Finché alcuni tra loro, di fronte all’instabilità del momento e alle difficoltà economiche, non si sono risolti a ragionare di una strategia alternativa. Storicamente, gli imprenditori costituiscono un garbuglio di fazioni multiforme, stratificato, competitivo e anzi conflittuale. In difficoltà entro i confini nazionali, grazie all’incremento degli scambi, avevano intensificato le loro relazioni transnazionali. E di lì è giunta la loro proposta. Possiamo considerare tale il Report pubblicato nel 1975 dalla Trilateral Commission, dedicato nientemeno che alla «crisi della democrazia»35. La Trilaterale era un’istituzione americana, fondata da un grande banchiere come David Rockfeller e diretta da Zbigniev Brzezinski, che presto sarebbe diventato consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter. Per utilizzare un’etichetta che verrà di moda qualche anno dopo, era un think tank molto agguerrito. Era al contempo un club riservato a imprenditori e finanzieri di rango, a riconosciute personalità politiche in pensione, ad alti funzionari pubblici e a studiosi di prestigio, provenienti dagli Usa, dall’Europa e dal Giappone36. Lungi dal presentarsi come una riflessione di qualche colore politico, il rapporto convocava la competenza apolitica degli esperti e si proponeva come un’investigazione scientifica, distaccata e obiettiva. Anziché affidarlo a studiosi d’economia, non ancora incoronata regina delle scienze sociali, il rapporto fu redatto da tre scienziati sociali di prestigio: un sociologo francese della burocrazia e due politologi, uno americano, l’altro giapponese. Finora, per le scienze sociali la prospettiva 35   M. Crozier, S.P. Huntington e J. Watanuki, La crisi della democrazia (1975), Milano, Angeli, 1977. 36   S. Gill, American Hegemony and the Trilateral Commission, Cambridge, Cambridge University Press, 1991.

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prevalente era stata quella evoluzionistica della modernizzazione: c’erano regimi democratici moderni e altri meno, i quali andavano incoraggiati a mettersi al passo. Secondo il rapporto, viceversa, tutti i regimi democratici erano in difficoltà, nessuno escluso. La diagnosi era semplificata, ma efficace: i motivi dell’«ingovernabilità» risiedevano nella cultura e nella pratica democratiche invalse negli ultimi decenni, nella proliferazione e nel particolarismo degli interessi, nel pluralismo ridondante e nell’overload di attese e sfide che ne seguiva37. Tralasciando le critiche alla società capitalistica che avevano accompagnato la grande mobilitazione collettiva, la teoria del sovraccarico e dell’ingovernabilità da cui muoveva il rapporto suonava come una requisitoria contro i governanti e contro la loro inadeguatezza e soprattutto contro le istituzioni democratiche, quali si erano riconfigurate nel dopoguerra. La democrazia era il problema e il capitalismo la vittima: era un rovesciamento di 180 gradi. Lo stato presente delle società occidentali dipendeva dall’infiacchimento di tutte le autorità costituite e le dirigenze elettive ne erano responsabili. Preoccupate di mantenere il favore degli elettori, avevano abdicato la loro funzione di governo, non esercitandola con la necessaria risolutezza, tempestività ed efficacia, né contrastando le troppe illusioni prodotte dal benessere. Non era un problema d’investimenti o d’innovazione. Ma di leadership. Era giunto il momento per le classi dirigenti, politiche, economiche, intellettuali di unire le forze e mobilitarsi. Molti temi diverranno luoghi comuni negli anni a venire. Come il tono morale della critica: c’era un che d’immorale nello scarso rispetto per l’autorità, nell’aggressività degli interessi corporativi e nell’ignavia dei partiti e delle burocrazie pubbliche. Il rapporto infieriva sugli intellettuali critici, che spargevano troppe tossine, troppe accuse di corruzione e di complicità tra politica ed economia e che mettevano troppi grilli in capo ai cittadini. Pure i mass media erano redarguiti, perché troppo solleciti ad amplificare i problemi della società e a delegittimarne le élites. E ce n’era, ovviamente, per i cittadini, troppo preoccupati del loro interesse privato, troppo esigenti, 37  Il concetto di overload era stato proposto da A. King, Problems of Governing in the 1970s, in «Political Studies», 2-3, XXIII, 1975, pp. 162-174.

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troppo viziati dalla demagogia dei politici e poco rispettosi verso le autorità costituite. Erosi i valori e le autorità tradizionali, anche quelle religiose, a soffrire il declino di autorevolezza erano tutte le istituzioni. Nella grande varietà europea, sintetizzata da Crozier, i soli a resistere, in virtù della loro superiore robustezza organizzativa, erano i partiti comunisti, la cui affidabilità democratica era però molto dubbia. Oltre al sovraccarico di partecipazione, di partecipanti, di pretese, era un problema l’eccesso di responsabilità caricato sulla politica, insieme all’estrema complessità e tortuosità decisionale. Ulteriori motivi di crisi erano la disgregazione sociale, la repentina domanda di apertura di sistemi finora molto rigidi, la destabilizzazione delle istituzioni educative, la declinante presa dei sindacati sul mondo del lavoro e l’insufficiente autodisciplina di quest’ultimo, il peso eccessivo della middle class, troppo restia alla modernizzazione, nonché l’inflazione fuori controllo. Era urgente perciò approntare un nuovo regime di governo, scongiurando una temutissima involuzione statalista, all’insegna del socialismo, e procedere, malgrado gli ostacoli, sul cammino dell’unificazione continentale. Sugli Stati Uniti pesavano invece, a dire di Huntington, gli straripanti impegni sulla scena internazionale, insieme ai grandi programmi governativi di assistenza sociale avviati negli anni ’60. Tanto più che tali programmi non avevano curato l’insofferenza verso la politica. Persa fiducia negli effetti democratici attribuiti allo sviluppo economico dalla teoria della modernizzazione, già nei suoi scritti precedenti Huntington aveva insistito sul mantenimento dell’ordine a qualsiasi prezzo quale requisito fondamentale d’ogni regime politico38. Per lui, che aveva anche collaborato con qualche regime autoritario, il male dei mali era l’«eccesso di democrazia»39 maturato negli ultimi decenni. Meno preoccupante, grazie alle prestazioni della sua economia, era la condizione del Giappone, dove a trattenere le aspettative popolari concorrevano le gerarchie e la cultura tradizionale. Ma pure da quelle parti, negli anni a venire, si 38   S.P. Huntington, Political Order in Changing Societies, New Haven, Yale University Press, 1968. 39   M. Crozier, S.P. Huntington e J. Watanuki, La crisi della democrazia, cit., p. 108.

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prospettavano tensioni analoghe a quelle che si erano manifestate negli altri paesi trilaterali e quindi conveniva anticiparle. Tre elementi erano essenziali nel rapporto. Il primo, si è detto, era l’ammissione delle comuni difficoltà dei paesi interessati. Il secondo era la cura con cui si evitava di polemizzare direttamente con la democrazia: il rapporto dichiarava l’intenzione di proteggerla e di aggiornarla. Il terzo elemento era l’appello al mondo libero e alle classi politiche established lanciato dalle élites imprenditoriali. Il Report opponeva un grande spazio democratico ai regimi non democratici e alle economie non capitaliste. A tale spazio spettava il compito di darsi fini comuni e d’incrementare la propria capacità di governo, in maniera stabile ed efficiente. Accettando il fatto, sentenziava Huntington, che gerarchia, coercizione, disciplina, segretezza, inganno, delusione delle aspettative degli elettori sono armi legittime e irrinunciabili d’ogni azione di governo, anche democratico40. Alla diagnosi, discussa in riunione plenaria dalla Commissione, faceva seguito un protocollo terapeutico. Meno concertazione, meno conciliazione, più decisione. Andava rimessa a punto l’articolazione tra le istituzioni: esecutivo, parlamento, partiti, governi locali, potere giudiziario. I partiti dovevano operare da filtro, più che da tramite, e tale azione andava loro riconosciuta finanziandoli a carico dei pubblici bilanci. I media dovevano mostrarsi più responsabili e più sobri nel trattare le informazioni. I processi produttivi erano da riorganizzare. L’istruzione superiore andava valorizzata, ma occorreva del pari riabilitare il lavoro manuale, affinché ciascuno stesse di buon grado al proprio posto. Era una perorazione sottilmente conservatrice. I toni erano pacati, ma il Report rovesciava il significato che a guerra finita era stato attribuito al termine democrazia. Confermava la confezione, ma ribaltava le priorità stabilite trent’anni prima. Il problema non stava nel capitalismo, bensì nella democrazia. Era lei il malato da curare. Era una mossa formidabile: la premessa di un programma di sdemocratizzazione soft. Niente misure drastiche, ma la democrazia andava resa meno democratica: anzitutto sul piano formale. Per gli aspetti di sostanza nulla era 40   Ivi, p. 92. Si avverte in queste parole qualche accento polemico verso gli scandali che avevano travolto la presidenza Nixon.

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detto e provvederà qualcun altro. Per l’immaginario pubblico del dopoguerra era una ferita sanguinosa. Approssimandosi la fine del decennio le riflessioni sulla governabilità si moltiplicheranno e diverranno un tema politico di prima grandezza. L’idea che si fosse esagerato, e si fosse superata la soglia del disordine, che gli interessi «corporativi» fossero di pregiudizio all’azione di governo, era comoda per molti usi, per i conservatori e pure per le sinistre di governo. Tornava comunque in superficie il pregiudizio liberale verso la sovranità popolare e i suoi dispositivi, a iniziare dal principio di maggioranza, enunciato in America negli anni ’20 da Walter Lippman e ribadito vent’anni dopo da Schumpeter41. Amplificato e semplificato a puntino dai media e dalla stampa internazionale, il messaggio susciterà ragguardevole attenzione. Nei decenni successivi i grandi capitalisti del pianeta moltiplicheranno le occasioni per ritrovarsi, con largo seguito di esperti e giornalisti. Saranno costituiti altri club. Nel 1975 iniziava la consuetudine del G7 e dei periodici incontri tra i leaders delle maggiori potenze economiche. Crescerà la pressione sulle élites della politica, che la sollevazione degli anni ’70 aveva predisposte ad accogliere il messaggio. Governare è sempre arduo e il Report le autorizzava ad assumere una postura più gestionale e più rigorosa. Nel 1975 il grande market turn non era ancora alle viste. Nel rapporto erano assenti termini come tecnologia, innovazione, informatica. Ma quando si tratterà di congedare la fabbrica fordista fondata sulla produzione di massa, di disdire le concertazioni tra esecutivo, imprenditori, sindacati e di promuovere il mercato a dispositivo fondamentale di governo, i suoi argomenti torneranno utilissimi. Non sappiamo se Margaret Thatcher l’avesse letto, ma nell’interpretare il suo ruolo di premier avrebbe potuto ispirarla parecchio. 4. Neoconservatorismo e neoliberismo Le alchimie del cambiamento non sono meno complicate e ardue da decifrare di quelle della ribellione. A cose fatte, 41   Il testo di W. Lippman in cui l’argomento è riproposto più vigorosamente è The Phantom Public (1925), Chicago, Transactions, 1993.

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è facile concordare sulla portata del cambiamento avviato a fine anni ’70, che ha ridisegnato gli equilibri tra i protagonisti dell’intesa postbellica: i partiti, lo Stato, il mercato, il mondo del lavoro. Ma c’è dissenso sui dettagli, dove il diavolo solitamente si nasconde. Il rapporto della Trilateral Commission testimoniava una ripresa d’iniziativa politica entro il mondo imprenditoriale, ancora affezionato alle pratiche concertative. A rompere definitivamente il regime di governo istituito nel dopoguerra è stata l’iniziativa politica di due leaders, Ronald Reagan e Margaret Thatcher. A confronto con i più modesti tentativi di ridimensionamento della spesa pubblica avviati dai loro predecessori, Carter e Callaghan, entrambi hanno amplificato e pubblicizzato la rottura e le hanno conferito il significato di una grande svolta: conservatrice, neoliberale e anche modernizzante. Concentriamoci di nuovo su Thatcher. Tolti i paesi scandinavi, il Regno Unito era il paese che più era stato segnato dall’intesa del dopoguerra. Aveva perso in pochi anni il suo sconfinato impero coloniale. Ma l’esperimento del welfare vi era stato condotto con grande impegno, trovando l’accordo dei due partiti maggiori. A metà anni ’70 tra stagflazione, eccesso di spesa pubblica, rivendicazioni sindacali, si era fatto invece la nomea di paese più malandato d’Occidente. Era anche il primo in cui si era manifestato il declino industriale42. L’allarme giungerà al culmine durante il winter of discontent tra il 1978 e il 1979. È tipico delle crisi suscitare condizioni propizie a destabilizzare gli equilibri politici precedenti e, eventualmente, per affidarsi a un leader salvifico, pronto a adottare le inevitabili terapie d’urto. Che effettivamente la situazione fosse critica importa poco. Importa che fu definita come tale e che Thatcher seppe assumere il profilo del leader adatto alla crisi. 42  Sul declino di lunga durata dell’imprenditoria britannica, cfr. M.J. Wiener, Il progresso senza ali. La cultura inglese e il declino dello spirito industriale, 1850-1980 (1981), Bologna, Il Mulino, 1985. Un political scientist attento come D. Kavanagh descrive al contrario una condizione di crescita più lenta di altri paesi europei, ma comunque regolare e interrottasi in occasione della crisi petrolifera del 1973: cfr. Thatcherism and British Politics. The End of Consensus, Oxford, Oxford University Press, 1990, pp. 17-18. Fatto sta che l’imputazione della crisi al particolarismo dei sindacati ebbe successo e fu riproposta in tutto l’Occidente.

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Alle elezioni tenutesi nella primavera del 1979 l’astensionismo crollò, votarono due milioni in più di elettori, il Labour mantenne i suoi consensi, ma i conservatori crebbero di tre milioni, recuperando sull’astensione e sui liberali. E ottennero un’ampia maggioranza ai Comuni. Non abbiamo troppe certezze sulle ambizioni iniziali di Thatcher. Tra le tante definizioni possibili del suo disegno, quando di populismo ancora non si parlava, o indicava altre cose, Stuart Hall, padre dei cultural studies, lo definiva «populismo autoritario»43. È una definizione che sarà molto discussa44, ma che metteva in evidenza il riorientamento strategico proposto da Thatcher sul terreno della rappresentanza, su quello del governo e su quello dello stile politico. Se i laburisti avevano usato le Unions e lo Stato per proteggere la loro constituency fatta di operai e colletti bianchi legati al welfare, Thatcher avanzava un nuovo claim di rappresentanza a beneficio di chi non godeva di simili protezioni: piccoli e medi imprenditori, operai specializzati, commercianti, professionisti, risparmiatori e soprattutto tax payers. Non erano ceti non protetti, tutt’altro, ma sicuramente risentiti per il potere dei sindacati e sensibili a un’offerta politica che intrecciava valori tradizionali, moralismo vittoriano, promesse di misure law & order, nostalgie imperiali, anti-intellettualismo e insofferenza verso la popolazione immigrata45. Coronava l’offerta un vigoroso appello identitario. Thatcher si faceva così portavoce di quanti erano turbati dai cambiamenti del costume e dall’aumento della criminalità. I Tories erano stati finora il partito dell’establishment, con una palese attenzione di marca paternalista ai ceti medi e in43   S. Hall, The Great Moving Right Show, in «Marxism Today», 1, XXIII, 1979, pp. 14-20. L’articolo è ripubblicato in Id., The Hard Road to Renewal. Thatcherism and the Crisis of the Left, London, Verso, 1988. 44   Si veda per esempio la critica a S. Hall di B. Jessop, K. Bonnett, S. Bromley e T. Ling, Authoritarian Populism, Two Nations, and Thatcherism, in «New Left Review», 147, 1984, pp. 32-60. L’articolo, che è scritto anch’esso mentre gli eventi si svolgono, critica l’interpretazione di Hall, ma mette in evidenza come il thatcherismo si stesse liberando della vecchia strategia «One Nation» del Partito conservatore e ne adottasse una opposta. 45  La miccia del risentimento contro gli immigrati l’aveva accesa dieci anni prima Enoch Powell: cfr. M. Sobolewska e R. Ford, Brexitland, Identity, Diversity and the Reshaping of British Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 2020, pp. 98-113.

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feriori46. Con l’aiuto della stampa popolare, si riqualificarono come il partito della gente comune: la libera concorrenza era il mezzo che ne avrebbe premiato le virtù, la laboriosità, la sobrietà, lo spirito d’iniziativa. Seguirà l’azione di governo, all’insegna del binomio classico della destra: autorità e proprietà. In ossequio a quest’ultima, Thatcher consoliderà la constituency originaria del partito all’insegna del «capitalismo popolare». Una quota di azioni delle grandi imprese privatizzate era messa a disposizione di chiunque volesse acquistarle: era quella la vera sovranità restituita al popolo. Geniale operazione d’ingegneria sociale è stata l’alienazione delle council houses agli inquilini: cosa c’era di meglio che inventare uno strato di piccoli proprietari immobiliari avversi al fisco?47 Se c’era sentore di populismo – inteso come appello al popolo – in questo claim, c’era pure qualche sentore autoritario nello stile antagonistico della nuova premier. Dietro la continuità delle forme, la rimodulazione della pratica di governo superava le ricette della Commissione Trilaterale. Rilanciava in particolare il conflitto sociale, rompendo un costume introdotto dai partiti britannici già durante la guerra: anche per i conservatori valeva l’impegno a includere gli strati inferiori. Tornate le vacche magre, ogni mediazione statale entro le relazioni industriali era cancellata48 e il conflitto sociale veniva perfino criminalizzato: come all’occasione del grande sciopero dei minatori del 1984-198549. Coerentemente, misure spietate erano assunte contro gli irredentisti irlandesi. Infine, d’intesa con Reagan, era rilanciato il confronto con l’Unione Sovietica e i negoziati con i partners europei divennero accaniti. Nel momento di 46   Nel 1938 Harold MacMillan, premier dal 1957 al 1963, aveva pubblicato un libro intitolato The Middle Way: A Study of the Problems of Economic and Social Progress in a Free and Democratic Society, New York, Macmillan, 1938. 47  Merita la lettura B. Biais e E. Perotti, Machiavellian Privatization, in «American Economic Review», 1, XLII, 2002, pp. 240-258. 48   D. Kavanagh e P. Morris, Consensus Politics from Attlee to Thatcher, Oxford, Blackwell, 1989. 49   P. Scraton, If You Want a Riot, Change the Law: The Implications of the 1985 White Paper on Public Order, in «Journal of Law and Society», 3, XII, 1985, pp. 385-393. Sulla svolta punitiva, che sarà condivisa e aggravata dai governi del New Labour, cfr. Anche S. Farrall, N. Burke e C. Hay, Revisiting Margaret Thatcher’s Law and Order Agenda: The Slow-Burning Fuse of Punitiveness, in «British Politics», 2, XI, 2016, pp. 205-231.

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più bassa popolarità, sopraggiunse il caso a rompere definitivamente gli equilibri. Indossò le divise dei generali argentini. Nell’autunno del 1982 la guerra delle Falkland permetteva a Thatcher di richiamare in servizio l’antico orgoglio imperiale, di umiliare i generali argentini e di stravincere le successive elezioni, peraltro con l’aiuto dei laburisti, che un anno prima avevano pensato bene di dividersi. Congedati i tecnici di scuola keynesiana e affascinata dalle idee di Hayek e di Friedman, Thatcher impose un’agenda fatta di riorientamento dell’economia verso l’offerta e le esportazioni, di compressione dei salari, di redistribuzione del carico tributario da redditi e patrimoni a beni e servizi, di difesa della stabilità dei prezzi, di privatizzazioni delle imprese pubbliche, di riforma del governo locale. La vittima più illustre è stato il welfare, accusato di creare rapporti di dipendenza: anziché lavorare, era più conveniente sfruttare le sue protezioni. Chi ha studiato l’argomento sostiene che il welfare ha dato prova di resistenza, anche in virtù della sua popolarità50. Ma per quanto l’azione di governo rinunciasse a rotture troppo brusche, alcuni programmi, quelli meno in grado di suscitare proteste, furono ridimensionati, gettando le premesse di restrizioni ulteriori. Era anche questa una manovra che sollecitava l’archiviazione dell’immaginario della felicità pubblica a favore di quella privata. Eroicizzare la leadership è un modo per raccontare la storia. L’operato di una specifica figura politica, per quanto considerevole sia la sua personalità, è in realtà parte di processi molto più complessi. Di suo, un leader ci può mettere parecchio: i suoi talenti, la capacità di distinguere le situazioni favorevoli da quelle che non lo sono, di calcolare le mosse da compiere e le possibili conseguenze, di rischiare, quando è il caso, di trovare alleati e scegliersi i nemici, di selezionare i propri col50   Di grande interesse l’analisi di Paul Pierson, intesa a mostrare proprio la capacità di resistenza del welfare confrontando le due esperienze di Thatcher e di Reagan. Malgrado la posizione di Thatcher fosse più favorevole di quella di Reagan, il governo di gabinetto britannico concentra il potere, mentre il divided government lo disperde, le difficoltà che incontrò furono comunque considerevoli. Il primo problema è sempre liberarsi degli impegni e delle inerzie del passato. Quindi, da un lato sono fondamentali i programmi, dall’altro le capacità tattiche degli attori: cfr. P. Pierson, Dismantling the Welfare State. Reagan, Thatcher, and the Politics of Retrenchment, Cambridge, Cambridge University Press, 1994.

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laboratori. Ma sono fondamentali le circostanze in cui opera. Thatcher è stata anche un personaggio mediatico ben studiato e ben riuscito, coerente con la domanda di leadership sollevata dai media. Pronta ad appellarsi alla pubblica opinione, ebbe fortuna per i suoi toni assertivi, sprezzanti, non solo verso l’opposizione, ma pure verso i suoi ministri, i parlamentari, il suo partito. È stata ancora lei a trascinare gli imprenditori51. A darle aiuto è stata anche la sintonia con l’esperienza di Reagan. In una situazione ormai protratta di stagnazione, inflazione e accesa conflittualità sociale, miscelando conservatorismo morale e denuncia dei privilegi di cui godeva l’elettorato democratico, specie la sua componente afroamericana, Reagan trovò il sostegno di una parte dell’elettorato bianco preoccupata dall’incremento numerico di tale componente. Gli servì a vincere le elezioni e ad avviare lo smantellamento dell’eredità del New Deal, che per il Partito democratico costituiva un’importante risorsa di potere. Ancor più che per Thatcher, i risultati sarebbero stati inferiori alle attese, ma se ciò che conta è l’immagine, è un fatto che la svolta da lui impressa alla politica americana non sia stata ancora contraddetta. Al più riaggiustata. 5. «Market turn» Margaret Thatcher e Ronald Reagan da soli non ce l’avrebbero mai fatta a ridisegnare il regime di governo delle democrazie occidentali e i confini tra mercato e Stato. Furono bensì capaci di radunare intorno a sé un vasto seguito elettorale, che ha permesso loro di promuovere il ridisegno nel rispetto delle regole della democrazia formale e anche di far scuola. Ma se la fuoruscita dal fordismo è stata una sfida comune a tutte le democrazie occidentali, la direzione che ha preso il cambiamento è stata frutto di un gran numero di fattori. Quali i più importanti? Questo non è un libro di storia e si contenta di perlustrare alcune piste. La selezione è ovviamente soggettiva e resta al lettore l’onere di farsi un suo giudizio. La prima pista è quella che conduce alle nuove tecnologie e al loro impiego. Per considerarne la portata si può utilmente 51

  D. Kavanagh, Thatcherism and British Politics, cit., pp. 123-150.

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profittare dell’indagine comparativa condotta da due studiosi, Torben Iversen e David Soskice, entrambi affiliati all’autorevole scuola delle varieties of capitalism52. Negli anni ’70, è la premessa, il fordismo aveva ormai dato tutto quanto poteva dare e la tecnologia, in particolare l’informatica, ha costituito a un tempo la sfida e il rimedio. Tutt’altro però che scontato: la sua somministrazione e la sua efficacia sono infatti dipesi dalla collaborazione attiva dello Stato. È una prospettiva un po’ diversa da quella, sostanzialmente evoluzionistica, di molti contributi della medesima scuola. Smentendo un argomento assai ripetuto, nel capitalismo globalizzato le imprese dei paesi avanzati godrebbero di un vantaggio tecnologico che le tutela dalla concorrenza delle economie emergenti. E sarebbero al tempo stesso dipendenti da competenze radicate sul territorio e dunque meno mobili di quanto si dica e anche meno in grado di dettare condizioni alle autorità di governo. Il grande merito di queste ultime, e dei regimi democratici, è consistito nel contrastare la propensione del capitalismo a costituire monopoli inefficienti: a questo è servito liberalizzare la circolazione di capitali, merci, servizi, manodopera e competenze. Com’è servito rimuovere i poteri di veto dei sindacati e riformare le relazioni industriali. Da un lato sono state premiate le imprese più pronte ad aggiornarsi e a sostenere la concorrenza, dal lato opposto quelle a bassa produttività sono state forzate a innovare, o a uscire dal mercato. A smentita di chi lo dà per superato, lo Stato avrebbe reinventato il capitalismo. L’avrebbe fatto, tuttavia, in conformità con le preferenze degli elettori, che avrebbero spronato i governanti a condurre politiche lungimiranti, superando pure la riluttanza degli imprenditori. A farla da protagonista sarebbe stata la constituency degli highly skilled workers, o la nuova middle class, altamente scolarizzata e legata alla new economy, alla conoscenza, alla ricerca, alla tecnologia, all’informazione, alla finanza e addensata nei grandi centri urbani. Estesa anche a coloro che aspirano a farne parte, tale constituency, per mantenere il proprio benessere, pretende un’economia performante e chiede allo Stato, oltre che di promuovere la concorrenza, di 52   T. Iversen e D. Soskice, Democracy and Prosperity. The Reinvention of Capitalism in a Turbulent Century, Princeton, Princeton University Press, 2019.

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effettuare massicci investimenti in istruzione e ricerca: proprio quanto serve a farsi valere entro il capitalismo globalizzato. Sono rimasti indietro invece i losers: la old middle class e gli unskilled e semi-skilled workers. L’incremento delle disuguaglianze denunciato dai critici della globalizzazione sarebbe tuttavia molto dubbio. L’inconveniente più serio è che, mostrandosi restii a seguire il ritmo del progresso, i losers sarebbero facile preda del populismo, che però, stiamo attenti, è unicamente un danno collaterale e provvisorio, provocato dalla grande crisi finanziaria del 2008 e destinato a essere sanato una volta rilanciata la crescita. Il resoconto è ben documentato. Ha il merito di non ridurre la tecnologia a variabile esogena e mossa da dinamiche proprie. Le imprese hanno deciso come svilupparla e come utilizzarla e lo Stato ha svolto un’azione promozionale e di facilitazione nei confronti delle loro decisioni. Solleva, tuttavia, qualche perplessità la tesi della prevalenza elettorale degli high skilled workers sulla old middle class e sulle fasce meno qualificate della working class. Sì, perché gli elettori non votano solo alla luce delle loro convenienze economiche e, come mostra il caso Thatcher, il neoconservatorismo è stato un’arma accortamente maneggiata per coinvolgere alcuni settori della working class, non necessariamente i più progrediti. Ulteriori dubbi li solleva il ritratto complessivamente idilliaco che Iversen e Soskice tracciano del nuovo regime di governo. Non tutti i capitalismi, essi ammettono, né tutti i regimi democratici, se la sono cavata allo stesso modo. Non mancano ritardi e fallimenti. Ma quanti sono rimasti attardati, o faticano, o scartano, hanno pur sempre un modello da seguire. Quant’è però verosimile che ciò avvenga davvero, o il ritardo di alcuni paesi e di alcuni settori di popolazione è funzionale alla riuscita di altri? Il capitalismo ha sempre prosperato tra le disuguaglianze che suscita e le ha sempre suggerite quale tecnica di governo. Non solo, ma le controversie in seno al capitalismo sono state molto più ampie e drammatiche di quelle tra settori tecnologicamente avanzati e settori in ritardo. Quella che ha suscitato l’attenzione di Luciano Gallino si è svolta tra il capitalismo industriale e il capitalismo finanziario, il quale proprio dalle nuove tecnologie ha tratto grande impulso. Per Gallino, la «produzione di denaro per mezzo di denaro», 257

ovvero la finanziarizzazione, con l’obiettivo di ricavarne un reddito «decisamente più elevato rispetto alla produzione di denaro per mezzo di merci»53, è stata il modo per rimediare, di nuovo con l’avallo e il favore dello Stato, al deperimento della manifattura. Se però le classi superiori ne hanno ottenuto smisurati vantaggi, sia pure correndo alti rischi, vista la congenita instabilità della speculazione, la terapia è stata motivo d’indebolimento aggiuntivo del capitalismo industriale nei paesi avanzati e di gravi danni per vasti strati sociali. L’argomento è stato ripreso da un reputato specialista tedesco di sociologia economica, Wolfgang Streeck, nelle pagine di un libro aspramente polemico, scritto a ridosso della crisi del 2008, dal titolo Tempo guadagnato, ma in verità dedicato a denunciare il troppo tempo perso. Il capitalismo finanziario ha tutelato i capitalisti, ma non il capitalismo come tale e soprattutto non la società che gli sta intorno. Nella prospettiva di Streeck il rapporto tra Stato e mercato è raccontato in termini più complessi: la crisi di metà anni ’70 sarebbe stata infatti l’avvio di una vera e propria ribellione delle élites economiche contro il contratto sociale negoziato nel dopoguerra54. È stato un conflitto in piena regola, con cui il mercato capitalistico e i suoi addetti si sono presi la rivincita sullo Stato con due mosse fondamentali. La prima è stata una mossa simbolica, cioè la dichiarazione, strumentale, dello stato di crisi, imputata all’intervento statale sul mercato. La seconda mossa è stata la rivolta contro la fiscalità, condotta sul piano simbolico, ma pure, concretamente, mediante la fuga dei capitali, il loro trasferimento nei paradisi fiscali, nonché con l’evasione. Il capitalismo finanziario, che ha carattere eminentemente speculativo, è stato anche un’arma tanto per suscitare una gigantesca ridislocazione della ricchezza dai ceti inferiori a quelli superiori, quanto per ridisegnare i rapporti dello Stato col mercato. Infatti, se per qualche tempo la crisi dello «Stato fiscale» è stata tamponata lasciando crescere l’inflazione, lo «Stato debitore» è stato stretto d’assedio dai 53  L. Gallino, Finanzcapitalismo: la civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2011. 54   W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano, Feltrinelli, 2013.

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suoi creditori, finché quello che Streeck chiama lo «Stato del consolidamento» non è caduto nella trappola della speculazione finanziaria. Alla riduzione delle entrate tributarie provocata dalla crisi negli anni ’70 gli Stati non hanno potuto replicare aggravando l’imposizione, vuoi per non scontentare settori dell’elettorato ritenuti cruciali, vuoi perché la deregolamentazione finanziaria li ha messi in concorrenza tra loro su questo terreno. Per esaudire le aspettative dei cittadini, hanno allora fatto ricorso al debito e hanno privatizzato una quota crescente di asset pubblici. Come coadiuvante, sono state abbattute le tutele del lavoro e si è ridotto il costo di quest’ultimo, anche delegittimando e contenendo le organizzazioni sindacali, finché gli Stati non sono finiti in mano ai creditori, che speculano sui loro debiti. Sono entrate nella partita le istituzioni internazionali di consulenza, vigilanza e certificazione, tutte private, che dovrebbero rassicurare i creditori. I paesi dell’Unione europea hanno in più adottato il famigerato fiscal compact: il quale, mascherato da solidarietà transnazionale, ha ridotto ulteriormente la sovranità statale. Ciò malgrado, dopo la crisi del 2008 gli Stati sono stati obbligati a soccorrere i loro aguzzini, cioè le banche. Incentivate dalla finanziarizzazione, queste ultime erano intervenute a sostegno dei consumi e della domanda, favorendo la crescita del debito privato, fino a trovarsi a rischio d’insolvenza. Essendo too big to fail, il punto d’arrivo è stato una tripla crisi, bancaria, delle finanze pubbliche e dell’economia reale. Due constituencies incompatibili, il «popolo dello Stato» e il «popolo del mercato internazionale», hanno dunque stritolato gli Stati. Ciascuno dei due popoli ha una sua idea di giustizia: la «giustizia sociale» l’uno, la «giustizia di mercato» l’altro. Mediante le politiche di austerità gli Stati si sono accaniti sui cittadini e sui lavoratori per esaudire le pretese del popolo del mercato. Non fosse che – mirabile invenzione! – il popolo del mercato è intrecciato col popolo dello Stato. Il quale, attraverso i fondi d’investimento e quelli pensionistici, detiene una quota del debito e possiede azioni e obbligazioni di quelle medesime imprese, industriali, bancarie, di servizi, che dettano allo Stato le loro pretese. Le vittime sono i padroni dei loro carnefici. Ma la grande partita di potere non si è esaurita nell’azione degli addetti allo Stato e degli addetti al capitalismo. Non ha 259

avuto minore importanza il rinnovamento dei modi di pensare la vita associata, l’economia e la politica – brillantemente evocato da Hirschman nel suo saggio sui modelli di felicità – che è stato promosso da vari attori e agenzie e che ha indotto a pensare diversamente tanto le élites quanto la gente comune. Le idee, si sa, dispongono di sacerdoti, di missionari, di fedeli, che le mettono in circolo e che anch’essi partecipano alle contese per il potere. La stagione dell’intervento pubblico era iniziata con la crisi del 1929. Ma il convincimento che più giustizia sociale e più inclusione giovassero alla vita collettiva e anche all’economia si era consolidato perché condiviso da un gran numero di attori, cui però, com’è ovvio, non sono mancate le opposizioni: in particolare la critica al keynesismo condotta da autorevoli tribune nelle università, nelle banche centrali, ai vertici delle pubbliche amministrazioni, negli ambienti dell’imprenditoria e della finanza, sui grandi organi di stampa, entro i partiti conservatori, liberali, confessionali. Era una critica anche politica, fomentata dal clima della Guerra fredda e dall’anticomunismo: mentre il mercato era presidio essenziale di libertà, l’intervento pubblico era preludio di una resa al socialismo. Ebbene, proprio quando la Guerra fredda stava consumando la sua ultima vampata e il capitalismo industriale ha iniziato a decadere, la critica ha guadagnato posizioni nel dibattito pubblico, fino a diventare ortodossia per l’azione di governo. Dal 1947 uno dei più agguerriti circoli di resistenza al keynesismo era stata la Mont Pélerin Society, insieme alla scuola monetarista di Chicago e a quella della public choice55. Segnala l’autorevolezza della prima il Nobel attribuito a Friedrich von Hayek, premiato unitamente a un economista di tutt’altra obbedienza come Gunnar Myrdal. Nel 1976, più o meno quando 55  Per cogliere la complessità, anche nel contesto internazionale, della marcia intellettuale e politica del neoliberalismo e del suo contrasto con la socialdemocrazia, cfr. P. Mirowski e D. Plehwe (a cura di), The Road from Mont Pélerin, cit. Sulla rational choice, cfr. M. Amadae, Rationalizing Capitalist Democracy. The Cold War Origins of Rational Choice Liberalism, Chicago-London, The University of Chicago, 2003. Sul ruolo del monetarismo e della public choice, M. Blyth, Great Transformations: Economic Ideas and Institutional Change in the Twentieth Century, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 139-147.

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impartiva i suoi ammaestramenti agli ufficiali cileni che avevano abbattuto il governo Allende, sarà invece premiato un esponente della scuola di Chicago: Milton Friedman. Dieci anni più tardi il premio sarebbe toccato a James M. Buchanan, un alfiere della public choice, anche lui proveniente da Chicago e già consigliere di Pinochet56. Due studiosi di scuola polanyana, Fred Block e Margaret R. Somers, hanno chiamato le loro idee «fondamentalismo di mercato»57, per il quale la libera concorrenza, la responsabilità individuale e la pluralità dei centri decisionali propria del mercato sarebbero la tecnica di governo più idonea a decongestionare il sovraccarico e a promuovere la crescita. Ne avrebbero ricavato vantaggi pure i membri più deboli della società. Bastava liberarsi della pervasiva presenza delle burocrazie pubbliche, in primis quelle del welfare, degli intrecci corporativi con i sindacati, per affidarsi alle capacità creative degli individui tramite il libero mercato. Grosso modo, il programma thatcheriano. Un interessante confronto, sempre di matrice polanyiana, tra il caso americano e quello svedese, lo ha effettuato Mark Blyth, per illustrare come le nuove idee abbiano potuto attecchire. Nei momenti di crisi le idee nuove riducono l’incertezza, ravvicinano e coalizzano interessi diversi, offrono argomenti utili a superare gli equilibri di potere preesistenti, concorrono a creare nuove istituzioni e a rinnovare l’azione di governo, suscitando infine tra gli attori l’aspettativa e le condizioni di una nuova stabilità58. La stagflazione, a metà anni ’70, e l’incapacità dei governi di rimediarvi, avrebbero persuaso un gran numero di studiosi, istituzioni universitarie, centri di ricerca, fondazioni, think tanks, organi di stampa nazionali e internazionali. 56  Hayek, Friedman e Buchanan hanno tutti e tre presieduto la Mont Pélerin Society. Anche il Nobel è un dispositivo promozionale. Pur cercando di mantenere un equilibrio tra economisti di diverse obbedienze, è stato molto generoso verso il neoliberalismo. Particolarmente intrigante la vicenda di Hayek, uno studioso emarginato in Gran Bretagna, che otterrà grande fortuna negli Usa grazie al premio, istituito nel 1969. Sul quale cfr. A. Offer e G. Söderberg, The Nobel Factor: The Prize in Economics, Social Democracy and the Market Turn, Princeton, Princeton University Press, 2016. 57  F. Block e M. Somers, The Power of Market Fundamentalism. Karl Polanyi’s Critique, Cambridge, Harvard University Press, 2014. 58   M. Blyth, Great Transformations, cit.

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Il disegno non era antidemocratico, ma identificava totalmente la democrazia e il liberalismo: il libero mercato era presupposto necessario della libertà individuale. È quanto Friedman aveva enunciato da tempo59. Il mercato rivelerebbe e integrerebbe le preferenze degli individui, rispettandone la diversità, in maniera incomparabilmente più affidabile di qualsiasi regime elettorale, che permette di trovare rappresentanza solo a un numero limitato d’interessi. L’intervento dello Stato, purtroppo, resta inevitabile, poiché residua una ristretta gamma di issues – ordine pubblico, sicurezza, tutela dei contratti, definizione dei diritti di proprietà – che non sono trattabili mediante scambi di mercato, che gli addetti allo Stato, elettivi e burocratici, in quanto attori autointeressati, hanno il difetto congenito d’inquinare. L’unica soluzione, pertanto, avendo licenziato l’interesse generale quale principio normativo, è ridurre al minimo il raggio d’azione di qualsiasi autorità pubblica. Sono idee che hanno avuto fortuna. Per farsi un’idea della penetrazione capillare del nuovo immaginario privatistico conviene leggere invece la ricerca molto originale di due sociologi francesi: Luc Boltanski ed Eve Chiapello60. Il capitalismo e i suoi addetti avrebbero vinto la partita profittando nientemeno che delle critiche dei loro ultimi avversari, ovvero delle energie intellettuali sprigionate dalla protesta dei movimenti collettivi. Lungi dall’essere solo una tecnica di produzione e distribuzione, il capitalismo è un fatto culturale, è una costruzione di giustificazioni morali, di norme e di valori. L’interesse individuale e la ricerca del profitto corrispondono a uno «spirito» – è una citazione weberiana – a una formula, a un apparato simbolico che li legittima, li naturalizza e li rende collettivamente accetti. Capita però anche a norme e valori elaborati dal capitalismo di essere messi in dubbio, dando luogo a una continua attività di negoziazione e aggiornamento, che, quando serve, incorpora pure le critiche: che possono sia essere represse, sia messe a frutto. 59   M. Friedman, Capitalism and Freedom (1963), Chicago, Chicago University Press, 2002. 60  L. Boltanski e E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Paris, Gallimard, 1999.

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Due categorie fondamentali di critiche si sarebbero storicamente rivolte contro il capitalismo. Da un lato la critica «sociale», fondata sui concetti di giustizia e uguaglianza, che tratta il capitalismo quale fonte di sfruttamento, disuguaglianze, miseria, ingiustizia. Dall’altro la critica «artistica», fondata sul principio di libertà, che ne evidenzia la dimensione oppressiva e lo accusa di soffocare le soggettività individuali, di suscitare inautenticità e alienazione, d’intossicare i rapporti sociali. L’una è focalizzata sulla dimensione materiale, l’altra su quella simbolica. Finora la critica sociale aveva prevalso: dopo la Grande depressione e nel secondo dopoguerra, un «secondo spirito» del capitalismo aveva sostituito il «primo spirito», che era stato quello del capitalismo familiare, della borghesia imprenditoriale e della fiducia nei benefici del progresso. Associato alla produzione di massa e alla fabbrica fordista, il «secondo spirito» autorizzava l’azione dello Stato, per regolare il mercato e ovviare alle sue carenze. Colpito, tra gli anni ’60 e ’70, da nuove critiche, lo spirito del capitalismo è tornato ad aggiornarsi. Stavolta però si è registrata un’importante novità: offuscando la critica sociale, è stata la critica artistica ad avere la meglio. Valendosi di un’approfondita ricognizione della letteratura manageriale, che evidenzia la manovra culturale condotta attraverso di essa, Boltanski e Chiapello ritraggono il «terzo spirito» del capitalismo. Il cui rinnovamento tecnologico, produttivo e organizzativo sarebbe stato guidato dalla richiesta di autonomia individuale, autenticità, creatività, emancipazione, avanzata dalla critica artistica. Nei nuovi movimenti collettivi non c’era solo una componente individualista e libertaria. Vi era una forte spinta alla socialità, alla solidarietà, alla reciprocità. Il capitalismo è stato perciò selettivo nella sua manovra d’appropriazione. Introiettata l’avversione alla gerarchia e al formalismo della critica artistica, ha da un lato puntato a coinvolgere e responsabilizzare i lavoratori, dall’altro si è adoperato per aggiornare i modelli di consumo: dal consumo di massa di prodotti standardizzati alla differenziazione e individualizzazione dei prodotti, la quale concede ai consumatori la più piena libertà di scelta. La rimozione del concetto di classe è il coronamento simbolico di questo aggiornamento61. Naturalizzate le disuguaglianze, segnalati coloro che 61

  Ivi, pp. 419-422.

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non si adeguano con termini politicamente asettici come quello di esclusione, il paesaggio è ripopolato dagli individui, con le loro soggettività, i loro bisogni, la loro imprenditività, creatività, adattabilità. Sono le virtù richieste dalle nuove professioni e dal mercato del lavoro. Partecipativo e inclusivo, il terzo spirito del capitalismo ha archiviato la gerarchia e premia l’autocontrollo e la cooperazione: orizzontale e soi-disant paritaria. Non ha nemmeno tralasciato di tutelare i meno fortunati: anziché le impersonali e opprimenti burocrazie del welfare, interverrà qualche provvedimento riparatorio dello Stato, insieme alla generosa spontaneità della società civile e all’azione caritatevole dei ceti abbienti62. Il congegno è ben architettato. Prestare attenzione alle idee e ai modi di pensare non implica comunque prestare minor attenzione alle trasformazioni d’ordine strutturale, sulle quali, per concludere, un punto d’osservazione ideale l’offre infine il ceto medio. Ormai maggioritario, dopo aver preso il largo dai ceti inferiori ed essersi avvicinato ai ceti superiori, s’è trovato inaspettatamente ad affrontare una perigliosa odissea, tutt’altro che conclusa e che rischia di portarlo al punto di partenza. Cosa sia accaduto da queste parti l’ha raccontato Arnaldo Bagnasco, che sul tema ha diretto un ambizioso programma di ricerca63. Secondo Bagnasco la fuoruscita dal capitalismo industriale e le trasformazioni provocate dalle nuove tecnologie informatiche nella vita collettiva, nella struttura occupazionale, nell’organizzazione del lavoro, non hanno investito solamente la working class. Hanno investito in pieno il terziario, diviso tra lavoratori dipendenti e autonomi, tra dipendenti privati e pubblici, tra attività tradizionali e terziario avanzato, tra redditi elevati e redditi modesti, tra lavoratori stabili e precari, tra giovani e anziani. Diversificato anche per costumi e modelli di consumo, questo largo segmento di società è stato destabilizzato e soprattutto reso inquieto, tanto più che non s’intravede un possibile punto d’approdo. La tecnologia ha alimentato parecchie illusioni. Ma non ha impedito a chi si era sentito assestato in una condizione di 62   Cfr. L. Boltanski e E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, cit., pp. 467-481. 63   A. Bagnasco, La questione del ceto medio. Un racconto del cambiamento sociale, Bologna, Il Mulino, 2016.

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benessere e sicurezza di essere in parte precarizzato, in parte privato di una quota della propria retribuzione, in parte colpito dalla caduta dei valori immobiliari o dalla speculazione finanziaria. Solo una minoranza si è avvantaggiata. Ne sono derivati percorsi di vita frammentati e caotici e disuguaglianze in sensibile aumento. Il problema è particolarmente visibile in Italia, dove sono le famiglie a sopperire alle difficoltà che i giovani incontrano a entrare non solo nel mercato del lavoro, ma nella vita adulta. Ne deriverebbe un deficit d’integrazione, che è in primo luogo un fatto culturale, aggravato dall’incapacità della rappresentanza politica, cioè dei partiti, di svolgere quell’azione di riordinamento e raggruppamento sociale che erano riusciti a svolgere tra gli anni ’50 e ’70. È in queste condizioni che si è registrata, stando all’analisi di un altro sociologo economico, Steffen Mau, una larga e inattesa adesione del ceto medio al market turn e ai suoi principi64. Mau però avanza una ulteriore suggestione: le rotture nei modi di pensare non avvengono mai all’improvviso e il caso del ceto medio è esemplare, perché il suo riorientamento culturale e politico precede la svolta pro-market. Lo sviluppo, le provvidenze e le misure redistributive del welfare gli avevano consentito di crescere di dimensioni e di progredire in termini di retribuzione, istruzione, patrimonio, status, consumi, mobilità ascendente. Comprensivo ormai degli strati più qualificati della working class, era stato così indotto ad aggiornarsi. Per quanto i livelli di consenso nei confronti del welfare non fossero decaduti e una parte del ceto medio fosse rimasta politicamente affezionata ai partiti di sinistra, si è fatta strada entro di esso la convinzione che i suoi progressi si sarebbero consolidati solo a condizione di aderire a un’idea di welfare meno generosa. Maturando del pari una discreta avversione alla fiscalità e alle politiche redistributive. È stata la premessa di una grandiosa operazione d’ingegneria sociale. Il benessere aveva consentito al ceto medio l’accesso alla proprietà: la casa di abitazione e poi la seconda casa. Gli aveva dato l’opportunità d’investire in azioni, obbligazioni, 64  S. Mau, Inequality, Marketization and the Majority Class. Why Did the European Middle Classes Accept Neo-Liberalism, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2015.

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titoli pubblici, polizze assicurative. Un esercito di consulenti finanziari l’ha convinto a adottare un’ottica speculativa, onde ricavare qualche incremento di reddito. Le riforme dei sistemi pensionistici hanno favorito l’investimento in fondi pensione privati, dunque in attività finanziarie, e le privatizzazioni delle imprese pubbliche, effettuate a prezzi di saldo, l’hanno indotto a preferire trattamenti fiscali favorevoli agli investimenti finanziari: il ceto medio è entrato a far parte del popolo del mercato evocato da Streeck. Si capisce pertanto come, divenuto attuale il rischio di declassamento, possa essersi radicato un atteggiamento critico verso le politiche inclusive nei confronti dei disoccupati, dei precari, dei ceti deboli, troppo dipendenti dal soccorso pubblico. È un’operazione persuasiva, cui sono parzialmente sfuggiti unicamente gli occupati stabili del settore pubblico – ormai in diminuzione65 – e che richiama alla mente il monito di Titmuss sul fragile entroterra culturale del welfare. Un’operazione alla quale ha dato il suo contributo finanche la rappresentanza politica del mondo del lavoro, in special modo i partiti socialisti. È l’argomento delle pagine che seguono. 6. Dalla sinistra al centro La logica del consenso elettorale è nei regimi democratici un motore potentissimo. È stata essa a persuadere i partiti socialisti e socialdemocratici a ripensare la propria strategia, oppure l’analisi della direzione che aveva preso il cambiamento sociale e dei suoi effetti? La risposta più attendibile è che abbiano contato entrambe le ragioni. L’esempio più citato è quello del Labour. Era stato fin dall’origine un partito non marxista e riformista. Dopo aver impiantato il welfare nella seconda metà degli anni ’40, era tornato al governo nel 1964, avendo diluito il progetto riformatore del dopoguerra, elaborato in circostanze diverse. Avvicendatosi con i Tories per tutti gli anni ’70, sconfitto da Thatcher nel 1979, nel 1981 aveva subito la secessione della sua ala moderata. Due anni dopo, nel 1983, avrebbe perso quasi 65   G. Standing, The Precariat. The New Dangerous Class, London, Bloomsbury, 2011, pp. 51-54.

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cinque milioni di voti e consentito ai conservatori, che pure per parte loro di voti ne avevano persi due milioni – dunque gli elettori non erano poi così contenti –, di conseguire, grazie al sistema elettorale, una maggioranza straripante di seggi. Da allora il Partito laburista ci ha messo all’incirca un quindicennio per trovare la ricetta vincente, sotto la leadership di Tony Blair. È stato lui a farsi promotore, dal 1996, di un progetto radicale di rebranding, il cui riferimento intellettuale era la dottrina della Third way di Anthony Giddens. Sociologo di fama, affiliato come Beveridge e Marshall alla London School of Economics, Giddens delineava uno scenario correttivo rispetto alla New Right e addirittura alternativo rispetto alla Old left 66, condividendo molte delle critiche rivolte dalla prima allo Stato sociale e all’intervento pubblico. Mutamenti irreversibili erano avvenuti nelle società avanzate ed erano irreversibili pure il declino della working class e la crescita dei ceti intermedi. Un cambio di paradigma era inevitabile: al conflitto sociale doveva subentrare la partnership e il welfare «negativo» di Beveridge andava sostituito con un welfare «positivo». «Al posto del bisogno», scriveva Giddens, andava collocata «l’autonomia; al posto della malattia, la tutela della salute; al posto dell’ignoranza, l’istruzione, come componente continua della vita; al posto della povertà, il benessere; al posto dell’ozio, l’iniziativa»67. Pur senza aderire all’elogio della meritocrazia, le pretese di autorealizzazione degli individui erano legittime e l’imprenditività e la creatività di ciascuno andavano premiate68. In buona sostanza: il problema non era il capitalismo, ma adattare al capitalismo tutto il resto. 66  Prima di The Third Way. The Renewal of Social Democracy (1998), London, Polity, 2008, A. Giddens aveva scritto Beyond Left and Right. The Future of Radical Politics, London, Polity, 1994. Anche Tony Blair scriverà un pamphlet intitolato: The Third Way: New Politics for the New Century, London, Fabian Society, 1998. 67   A. Giddens, The Third Way, cit., p. 64. 68   L’esperienza laburista sotto la guida di Blair e le sue matrici culturali sono state largamente studiate. Ci limitiamo a citare: M. Bevir, New Labour: A Critique, London, Routledge, 2005. Un bilancio di lungo periodo in F. Faucher e P. Le Galès, The New Labour Experiment. Change and Reform Under Blair and Brown, Stanford University Press, Stanford, 2010, ma pure G. Evans e J. Tilley, The New Politics of Class in Britain. The Political Exclusion of the Working Class, Oxford, Oxford University Press, 2017.

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Se Giddens suggeriva una revisione tecnocratica del regime democratico, accompagnata da qualche preoccupazione egualitaria e inclusiva, nell’azione di governo del New Labour, pur temperando il feroce individualismo thatcheriano, i temi dell’uguaglianza e dell’esclusione resteranno molto in ombra. Lo Stato tornava in gioco, ma erano escluse misure macroeconomiche a tutela dell’occupazione, men che mai negoziate con i sindacati, e il New Labour si convertiva alla libera concorrenza e alla crescita trainata dalle esportazioni, rinunciando ad alimentarla tramite la domanda e i salari. Quanto alla revisione del welfare, insistendo a considerarlo una trappola che manteneva la povertà più di quanto la riducesse, la proposta del New Labour era di abilitare gli individui a operare autonomamente sul mercato, a proteggersi da sé dai rischi dell’esistenza per ascendere con le loro forze lungo la scala sociale, investendo in formazione e facilitazione dell’accesso all’impiego. Ancora: se il thatcherismo aveva riscoperto i valori tradizionali, il New Labour ha preferito i fermenti solidali, i vincoli comunitari e l’attivismo della società civile. Era il suo rimedio alle lesioni provocate alla «coesione» sociale dalla povertà e dall’eccesso di disuguaglianza. Almeno dapprincipio, la cittadinanza sarà intesa come il nuovo principio unificante, in sostituzione delle identità: o di classe, cara ai socialisti, oppure nazionale, cara al thatcherismo69. Preventiva rispetto alle disuguaglianze suscitate dal mercato, l’«uguaglianza di opportunità»70 avrebbe schiuso l’orizzonte di una comunità coesa, moderna, istruita, tecnologicamente progredita, cosmopolita e tollerante, resa tale da cittadini autonomi, imprenditivi, operosi, e reciprocamente responsabili. I partiti di destra si erano riposizionati più a destra. I partiti di sinistra hanno puntato a occupare gli spazi rimasti liberi al centro. Non c’è stata solo la svolta laburista71, che non 69   D. Morrison, New Labour, Citizenship and the Discourse of the Third Way, in S. Hale, W. Leggett e L. Martell (a cura di), The Third Way and Beyond. Criticisms, Futures, Alternatives, Manchester, Manchester University Press, 2018. 70  La formula fa tuttora parte dell’armamentario dei partiti di sinistra. Ma è alquanto problematica, come illustra E. Granaglia, Uguaglianza di opportunità. Si, ma quale?, Roma-Bari, Laterza, 2022. 71   Un bilancio sul New Labour, elevato a modello per altre esperienze, in S. White (a cura di), New Labour: The Progressive Future, Basingstoke,​ Palgrave, 2001.

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è stata nemmeno la prima. Già nel 1984, disdetta l’Union de la gauche con i comunisti, sotto la presidenza Mitterand, in Francia era stata dismessa l’industria siderurgica e il ministro delle finanze Delors aveva schierato il governo all’avanguardia della finanziarizzazione dell’economia72. Anche di lì, oltre che dalla revisione voluta da Clinton in America, Blair potrebbe aver ricavato qualche ammaestramento. Si è invece apertamente ispirato alla Terza via un altro grande esperimento di revisione, quello pilotato dalla Spd, tornata nel 1998 al governo con i Verdi. Finora la Germania si era caratterizzata per la sua solida consuetudine corporativa, che aveva compensato la relativa riluttanza dello Stato a intervenire nella vita economica: la Mitbestimmung con i sindacati era l’istituzione fondamentale di quella consuetudine. Ebbene, all’inizio degli anni Duemila il governo Schröder ha fatto quanto non avevano osato fare i governi guidati da Kohl. Secondo il progetto di «Agenda 2010» e il piano Hartz, nel 2003, per contrastare il rallentamento dell’economia e incrementarne la competitività, il governo si decise a somministrare dosi massicce di flessibilità al mercato del lavoro, a decentrare parte della contrattazione, a ridimensionare i sindacati. Erano di contorno i tagli ai sussidi di disoccupazione, alla sanità, alle pensioni, insieme all’istituzione dei famosi mini-jobs. Sono misure che hanno giovato alle imprese e alla finanza, ma che, a detta di molti osservatori, hanno scavato una profonda linea di frattura tra la parte sindacalmente protetta e stabile del mondo del lavoro e quella non protetta. Anche a motivo della fuoruscita della sua ala più critica, la Spd ha pagato nel 2005 un prezzo elettorale molto alto73. La fuoruscita da fordismo aveva articolato e complicato la vecchia constituency dei partiti socialisti: un aggiornamento dell’offerta elettorale era inevitabile. La revisione delle promesse egualitarie e redistributive era con ogni probabilità la soluzione più coerente con la loro storia. È questa la tesi di Stephanie L. Mudge, secondo cui il nuovo knowledge regime, che aveva attecchito entro tali partiti, e tra economisti e sociologi a loro   M. Bernard, Les années Mitterrand, Paris, Belin, 2015.   W. Streeck, Re-forming capitalism, cit.; A. Busch e P. Manow, The SPD and the Neue Mitte in Germany, in S. White (a cura di), New Labour, cit. 72 73

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vicini, è stata la logica prosecuzione dei compromessi che il riformismo socialista aveva già stipulato col mercato tra gli anni ’50 e ’60, auspice il keynesismo74. In fin dei conti, i partiti socialisti hanno temperato le misure pro-market con le politiche attive del lavoro, la flexsecurity, il welfare. aziendale e fiscale. Tra molte varianti nazionali, l’eco della Terza via si è fatta sentire pure tra i partiti più convintamente riformisti, quelli scandinavi: la tradizione corporativa dei sindacati ha fatto una resistenza limitata e in nessun paese è avvenuta una privatizzazione integrale del sistema scolastico come in Svezia75. In Italia la provenienza comunista di una componente fondamentale del gruppo dirigente della sinistra negli anni ’90 spiega forse il sovrappiù di zelo con cui sono state privatizzate le imprese pubbliche. La sfida posta dalla contrazione del capitalismo industriale era impietosa: i partiti socialisti hanno ritenuto che le promesse inclusive del dopoguerra si fossero definitivamente consolidate nei diritti sociali, che andassero solo un po’ sfrondati i cattivi costumi – il burocratismo e il parassitismo assistenziale – suscitati dal welfare. Il pluralismo democratico si era radicato nelle menti dei cittadini e non serviva nemmeno più un contropotere – e una controcultura – quale essi erano stati per lungo tempo. Il loro compito era governare razionalmente un nuovo ordine sociale. Affidati a professionisti della politica provenienti dalla classe media istruita, hanno redatto il loro business plan. È una strategia che non ha pagato più di tanto sul piano elettorale. Le oscillazioni del malcontento li hanno più volte riportati al governo, ma, lo si è già visto, nell’arco di quarant’anni il loro share tra gli elettori si è più o meno dimezzato76. 74   S.L. Mudge, Leftism Reinvented. Western Parties from Socialism to Neoliberalism, Cambridge, Harvard University Press, 2018. Per orientarsi nella parabola delle socialdemocrazie in Europa cfr. P. Borioni, Socialdemocrazia e capitalismo: dalla parità del lavoro col capitale alla sua rimercificazione, in «Studi storici», 1, LXII, 2021, pp. 247-276. Un ritratto di più breve periodo, ma più dettagliato, limitato a quattro casi, in F. Escalona, Du régime social-démocrate keynésien au régime social-démocrate de marché, Paris, Dalloz, 2018. 75   Un piccolo, ma emblematico squarcio in L. Pelling, Le scuole svedesi: il sogno proibito di Milton Friedman, in «Il Menabò», 174, 2022: https:// eticaeconomia.it/le-scuole-svedesi-il-sogno-proibito-di-milton-friedman/. 76   Vedi supra, pp. 220-221.

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Ciò non toglie che la preoccupazione per i diritti civili, per l’emancipazione femminile, per l’integrazione dei migranti abbia prodotto apprezzabili iniziative di policy e che essi abbiano pure promosso alcune innovazioni intese a temperare la loro immagine d’estraneità rispetto ai cittadini77. Molte misure «direttiste» sono state opera loro. Non sono bastate tuttavia a rimediare all’impopolarità della politica established, e non è nemmeno bastata l’untuosa salsa moralistica che ha impregnato la scena pubblica. Le istanze morali hanno una lunga tradizione78. Se le sono a lungo disputate la destra e la sinistra, con singolari inversioni delle parti. Per semplificare: la destra conservatrice ha a lungo accusato la sinistra di importare nella sfera dell’interesse generale gli interessi particolari delle classi lavoratrici. Finché le parti non si sono invertite: il bene collettivo è passato a sinistra e la destra è divenuta portavoce della proprietà e degli interessi privati. La politica mediatica si è impadronita della disputa, amplificando l’efficacia della denuncia. Stavolta la destra, quando ha potuto, ha raccolto la sfida. Alle presidenziali americane del 2016 tema fondamentale della campagna elettorale è stato la moralità di ambedue i concorrenti. È stato riproposto nel 2020. In Spagna, sempre nel 2016, i due partiti maggiori sono stati sfidati con successo da due formazioni politiche di nuova costituzione, la cui fondamentale priorità era la moralizzazione della vita pubblica. Nella campagna per le presidenziali francesi del 2017 l’accusa d’immoralità ha escluso dalla gara il concorrente favorito dai sondaggi. Sempre nel 2017 l’immoralità dell’establishment è stata al centro della campagna elettorale in Gran Bretagna e la moralità del candidato premier più promettente è tornata ancora in ballo alle elezioni del 2019: più tardi sarà costretto a dimettersi proprio dai dubbi sollevati sul suo conto. Dopo quasi mezzo secolo di rivendicazioni moralistiche, alle elezioni politiche italiane del 2013 una formazione politica che non aveva altro programma che la lotta al malaffare ha 77   Il New Labour ha fatto da battistrada anche in questo: P. Seyd, New Parties/New Politics? A Case Study of the British Labour Party, in «Party Politics», 5, III, 1999, pp. 383-405. 78   Come mostrano C. Mattina, F. Monier, O. Dard e J.I. Engels (a cura di), Dénoncer la corruption: chevaliers blancs, pamphlétaires et promoteurs de la transparence à l’époque contemporaine, Paris, Demopolis, 2018.

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raccolto il consenso di un quarto dei votanti, salito a un terzo alle elezioni successive. Sottoposto alla prova del governo, per il Movimento 5 Stelle la discesa è in compenso stata brusca. A difesa della moralità pubblica il nuovo mantra è la trasparenza. Agli addetti alla politica e alle pubbliche amministrazioni le norme impongono di rendere noti redditi e patrimoni, quelli dei loro congiunti, le donazioni che eventualmente ottengono e quant’altro. S’istituiscono autorità specificamente dedicate al contrasto della corruzione. La vigilanza sulle borse, a tutela degli investitori e degli azionisti, ha una lunga tradizione. Oggidì si tutelano anche i consumatori e gli utenti. È una nuova variante d’intervento pubblico. Si moltiplicano i codici di condotta: nelle amministrazioni pubbliche, nelle università, negli ospedali, nelle aziende private, e molto oltre. Hanno successo gli esperti di moralità. Una grande mobilitazione di competenze, giuridiche, manageriali, filosofiche, sociologiche e politologiche è da tempo in atto: oltre a essere oggetto di misurazioni e confronti, la corruzione come oggetto di ricerca è popolarissima79. Ed è divenuta un affare profittevole pure la certificazione, spesso affidata ad agenzie private, della moralità pubblica nazionale e internazionale. Non hanno fatto difetto nemmeno le manifestazioni d’immoralità dei moralisti. È possibile che negli ultimi decenni si sia elevata la soglia di tolleranza dei cittadini. Un’ipotesi è che l’eccesso di regole proprio dello Stato regolatore, a tutela del libero mercato, accresca gli incentivi a trasgredire o vanifichi le sanzioni80. Il rischio di regole inapplicabili, incomprensibili, estranee alla comune sensibilità, ritenute ingiuste dai destinatari – aggiungiamoci le ambivalenze della soft law così di moda – sarebbe più elevato. Ma potrebbe contare la frenesia di profitto del capitalismo contemporaneo81, insieme alla concentrazione dei partiti sul successo elettorale, incoraggiata dalla rappre79   L’indicatore è molto rozzo. Alla parola corruption Google Scholar offre 15.100 risultati tra il 1956 e il 1965, 22.100 tra il 1966 e il 1975, 33.600 tra il 1976 e il 1985, 754.000 tra il 1986 e il 1995, 294.000 tra il 1996 e il 2005 e 656.000 tra il 2006 e il 2015. 80   R.G. Holcombe, Political Capitalism: How Economic and Political Power Is Made and Maintained, Cambridge, Cambridge University Press, 2018. 81  È la tesi di W. Streeck, Come finirà il capitalismo? Anatomia di un sistema in crisi, Milano, Meltemi, 2021.

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sentanza occasionale. Ovvero: se in una società fondata sulla competizione, in varie forme, per il potere la corruzione è endemica, potrebbe anche darsi che l’andamento attuale di tale competizione renda la corruzione più conveniente per chi vi partecipa. Ciò detto, nulla autorizza a concludere che tutti siano corrotti: c’è anche chi lotta per il potere facendosi un’arma della propria moralità. La denuncia dell’immoralità è comunque un nuovo modo di far politica. Ai moralisti importa unicamente indignarsi, scovare, denunciare, perseguire, epurare, punire. Conta la caccia ai colpevoli, ai reprobi, ai disonesti, spettacolarizzata dai media. Fa parte dell’immaginario privatistico l’insistenza sulle responsabilità personali. Piacciono la gogna, le manette, la forca, le esecuzioni sommarie. Non senza confondere fatti di gravità molto differente. Al moralismo sono d’ingombro le cautele e le sottigliezze, per quanto imperfette, dello Stato di diritto. Mentre le indispensabili gogne mediatiche, non di rado smentite dagli approfondimenti d’indagine e dalle sentenze giudiziarie, non trovano mai risarcimento. Si è pure aperto uno spazio per i garantisti: che lanciano l’anatema contro il «populismo giudiziario»82. Poco ci s’interroga nella sfera pubblica sulle cause sociali dei fenomeni degenerativi, sugli incentivi e sui vincoli che li producono. La conclusione, come osservava ai tempi suoi Edmund Burke, è che quando le accuse sono generalizzate e se ne abusa, ricadono sulle istituzioni e servono a screditarle83. È l’obiettivo che qualcuno intenzionalmente si prefigge. 82   P. Blokker e O. Mazzoleni, Judicial Populism: The Rule of the People against the Rule of Law, in «Partecipazione e conflitto», 3, XIII, 2020, pp. 1411-1416. Nello stesso numero Idd., In the Name of Sovereignty. Right-Wing Populism and the Power of the Judiciary in Western Europe, pp. 1417-1432. Ma il populismo giudiziario, alimentato dai media, non è un’esclusiva dei partiti populisti. 83   Scrive più precisamente Burke: «L’idea della corruzione indiscriminata della Camera dei Comuni indurrà alla fine un disgusto per i parlamenti. Sono gli stessi corruttori che fanno circolare questa accusa generale di corruzione. Sono loro che hanno interesse a confondere tutte le distinzioni e a coinvolgere tutto in un’unica accusa generale». Cfr. E. Burke, Letter to a Member of the Bell-Club, Bristol, 1777, ora in H.J. Laski (a cura di), Letters of Edmund Burke A Selection, Edited with an Introduction, Oxford, Oxford University Press, 1920, p. 215.

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L’indignazione moralista è coerente con lo stile agonistico gradito ai media. E trae nuovo alimento dall’opportunità offerta a chicchessia dai social di esprimere pubblicamente le proprie opinioni. Secondo Wendy Brown l’incessante ripetizione dell’accusa d’immoralità rivolta alla politica, da più parti, ma anche dalla politica stessa, dissimulerebbe la rinuncia a prospettare un mondo preferibile all’attuale. Questo è il mondo, col suo bagaglio inevitabile di disuguaglianze, violenze, ingiustizie, privilegi. Forse per questo da un lato si pretende che la politica, se non altro, sia morale, mentre, dal lato opposto, la moralità è il massimo che essa promette. Nell’additare la rinuncia, Brown polemizza in special modo con le forze politiche di sinistra, che avrebbero abdicato le loro promesse di giustizia, uguaglianza, emancipazione e redistribuzione, per dedicarsi a quella forma di politica low cost che è l’antipolitica84. È anche un problema quando il moralismo spaccia formule democraticamente incerte come il direttismo, la disintermediazione, il governo dei tecnici e la compressione del regime rappresentativo quali garanzie di moralità. Alla denuncia dei misfatti dei politici85 si oppone infine il racconto edificante del cittadino smanioso di partecipare, di ovviare in prima persona ai vizi della politica, e quello della società che vuol rappresentarsi da sé, pronta ad affrancarsi dai partiti. Fa da accompagnamento la domanda pressante, veicolata dai media, di personale politico giovane, anticonformista, dotato di leadership e di visione, estraneo agli intrighi della politica convenzionale, espressione della società civile o delle imprese. Fecondo come sempre di neologismi, Giovanni Sartori l’ha battezzato «novitismo»86. Era una denuncia della stretta parentela tra i cliché della pubblicità commerciale e quelli del marketing politico. Ironica, ma sconsolata.

84   W. Brown, La politica fuori dalla storia, cit. Cfr. anche V. Mete, Antipolitica. Protagonisti e forme di un’ostilità diffusa, Bologna, Il Mulino, 2022. 85   Sulle strumentali esagerazioni di tale denuncia cfr. M. Flinders, Defending Politics. Why Democracy Matters in the Twenty-First Century, Oxford, Oxford University Press, 2012. Si veda anche Id., The Demonisation of Politicians: Moral Panics, Folk Devils and MPs’ Expenses, in «Contemporary Politics», 1, XVIII, 2012, pp. 1-17. 86   G. Sartori, Democrazia. Cosa è, Milano, Rizzoli, 1993, p. 263.

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7. La Grande dispersione La rottura dell’equilibrio di poteri del dopoguerra e il declino del capitalismo industriale, col suo sogno di sviluppo e prosperità senza limiti, hanno lasciato prevalere una nuova idea di ordine sociale e di giustizia. Si è trattato, sia chiaro, di una difficile partita di potere e non di una manovra politica lineare. Ex post si usa spesso attribuire al cambiamento una regia, che è facile imputare ai suoi beneficiari. È possibile che qualcuno, inizialmente, l’abbia concepito come un disegno high modernist, nei termini di James C. Scott87. Nella pratica si sono accavallate una pluralità di manovre, di misure di policy, d’idee elaborate da intellettuali, esperti, centri di ricerca, think-tanks, vittorie e sconfitte elettorali, moti di resistenza e conflitti d’ogni sorta. Attori e coalizioni di attori eterogenei e in concorrenza hanno adottato strategie e tattiche non coordinate, secondo le circostanze, e hanno adoperato armi diverse. Archiviare il regime di governo maturato a metà del XX secolo, è stata un’impresa complicatissima ed è tuttora in corso di svolgimento. Non è stata la fine dello Stato, ma di un dato modo di fare lo Stato, che ha dovuto reinventarsi e ibridarsi altrimenti con altre istituzioni di governo e di risoluzione dei conflitti. Sottomettendosi a un grandioso processo di dispersione, esternalizzazione, privatizzazione e anche spoliticizzazione della propria autorità, che è defluita in più direzioni, di cui quattro appaiono più importanti: lateralmente, la più scontata, verso il mercato; verticalmente, verso l’alto, in direzione delle istituzioni sovranazionali; verso il basso, a profitto delle istituzioni di governo subnazionali; di nuovo verso il basso, cioè verso la società civile88. Del deflusso e della nuova ibridazione con il mercato si è già detto, ma qualcosa resta ancora da precisare. Distinguendo due aspetti: il primo è la dispersione dello stesso mercato, il quale è disperso di per sé, ma può esserlo in modi e misure 87   J.C. Scott, Seeing Like a State: How Certain Schemes to Improve the Human Condition Have Failed, New Haven, Yale University Press, 1998. 88   Il ragionamento che segue è una rielaborazione di quello svolto in A. Mastropaolo, F. Roncarolo e R. Sciarrone, Processi di convergenza e divergenza politica nelle democrazie avanzate, in C. Trigilia (a cura di), Modelli di capitalismo e tipi di democrazia, Bologna, Il Mulino, 2021.

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diversi. Fino agli anni ’60 il capitalismo è stato «organizzato»89 dalla grande industria manifatturiera, dai rapporti associativi e collaborativi tra le imprese e dai sindacati, nonché dalla sua particolare ibridazione con lo Stato interventista. Nell’insieme: la proprietà azionaria delle imprese era stabile, la fabbrica fordista raggruppava e stabilizzava un’ampia quota della manodopera – in media in Europa gli addetti all’industria superavano un terzo degli occupati – le condizioni salariali tendevano a omologarsi, i consumi di massa erano standardizzati ed erano anch’essi uno strumento in fin dei conti d’integrazione sociale. I diritti, individuali e collettivi, riconosciuti ai lavoratori costituivano un avvio di demercificazione del lavoro. La formula opposta, quella del capitalismo «disorganizzato», semplifica anch’essa, ma evidenzia il contrasto90. La disorganizzazione non è accidentale, né frutto di derive irrazionali. Corrisponde a nuovi conflitti e a nuove e fortissime relazioni di potere. Ne è risultato per il mercato un assetto assai più policentrico e fluido che in precedenza. Ma si sono comunque istituite nuove gerarchie, dove primeggiano le grandi istituzioni finanziarie, i grandi fondi d’investimento, le banche, le agenzie di rating, che dietro le apparenze del disordine nascondono parecchia intenzionalità. Il capitalismo del nuovo millennio è più differenziato e più instabile, ignora i confini tra gli Stati e ancor più ne piega le regole. Anche quando alleati, gli addetti al capitalismo sono sempre stati divisi da profondi contrasti. Al momento la sua divisione principale è tra capitalismo finanziario e speculativo e capitalismo industriale e produttivo. Rinnovato il modo di fare il mercato, il capitale è diventato «impaziente» e le imprese stesse sono un bene da scambiare liberamente. Pertanto, le loro performances non si misurano più in fatturato, vendite, investimenti, innovazione, dividendi, occupazione, ma in capitalizzazione borsistica, andamento 89   S. Lash e J. Urry, The End of Organized Capitalism, Cambridge, Polity, 1988. 90  C. Offe, Disorganized Capitalism: Contemporary Transformations of Work and Politics, Cambridge, MIT Press, 1985. Una descrizione dettagliata delle modalità di dispersione e disorganizzazione del mercato, seppure circoscritta a un solo paese, che tuttora mantiene la reputazione di un paese ben organizzato, in W. Streeck, Re-Forming Capitalism. Institutional Change in the German Political Economy, Oxford, Oxford University Press, 2009.

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delle quotazioni, relazioni trimestrali, attenzioni dei grandi investitori istituzionali91. Qual è il loro orizzonte temporale? Quanto le imprese si soffermano a valutare gli effetti di lungo termine delle loro scelte? Quale affezione hanno per i loro dipendenti e quanta ne richiedono e ne ottengono? Il massimo della provvisorietà lo raggiunge il «capitalismo delle piattaforme», dominato dal cambiamento tecnologico, dall’informatica, dall’intelligenza artificiale. È dispersione anche avere rimosso ogni limite ai movimenti di capitali, merci e servizi. Le imprese possono liberamente decidere dove collocare il proprio quartier generale, la sede legale, la domiciliazione fiscale, su quale mercato borsistico quotarsi, dove svolgere le attività di ricerca, di progettazione, di marketing e quelle produttive. Usano mettere solitamente le autorità pubbliche nazionali e subnazionali in concorrenza tra loro, in ragione delle condizioni che offrono. Rispetto alla produzione e ai consumi di massa del fordismo, le aziende hanno, inoltre, puntato a individualizzare i comportamenti di consumo, facendone opportunità di distinzione. Per questa, e altre ragioni, l’organizzazione produttiva è stata rivista all’insegna delle flessibilità, che ha coinvolto tempi e condizioni di lavoro, mansioni, figure contrattuali, retribuzioni. Le grandi imprese sono divenute assemblaggi di servizi e attività pronti a essere esternalizzati ed eventualmente messi sul mercato. Parlare di lavoro operaio non evoca più la fabbrica fordista, con le sue produzioni in grandi serie, le sue migliaia di tute blu e colletti bianchi, spesso affezionati all’azienda, che cercava a modo suo di gratificarli. È problematico perfino stabilire chi siano gli operai: le statistiche classificano così gli autisti, gli addetti alle manutenzioni, alla logistica, alle pulizie. In uno spazio ancora più incerto si collocano gli addetti alla ristorazione, al turismo, alla cura della persona. Sempre più i lavoratori dipendenti sono vincolati alle prestazioni anziché alle mansioni. Mentre la quota di lavoratori a termine, precari, intermittenti, part time, on demand, giù fino alla cosiddetta gig economy, governata dagli algoritmi, pare sfiori un quarto degli 91  Fondamentali considerazioni sulla rimercificazione del lavoro in A. Supiot, La sovranità del limite. Giustizia, lavoro e ambiente nell’orizzonte della mondializzazione, Milano, Mimesis, 2021.

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occupati92. Infine, lo Stato ha rimercificato la condizione giuridica del lavoro, «decorporativizzando» le relazioni industriali93. Ne hanno risentito i sindacati e perfino l’associazionismo imprenditoriale. Il secondo aspetto dello slittamento verso il mercato consiste nella privatizzazione d’interi comparti in precedenza sottoposti all’autorità pubblica. Dopo la Grande crisi, lo Stato aveva salvato il mercato capitalistico promuovendo investimenti e consumi, pubblici e privati, e nazionalizzando alcune imprese. Ebbene, una delle repliche al decadimento industriale è consistita nel restituire ai privati non solo le imprese pubbliche che erano state nazionalizzate, ma anche alcuni servizi pubblici essenziali. Sono stati così ceduti al mercato istruzione, sanità, pensioni, sicurezza, trasporti, carceri, difesa, giustizia, energia: l’elenco potrebbe continuare. Gli stessi spazi urbani sono a disposizione ben più degli investitori che degli abitanti. Il capitalismo finanziario ha pure ottenuto la privatizzazione e liberalizzazione dell’attività creditizia, in precedenza condotta da banche pubbliche, o controllate dallo Stato, tenendo ben separate l’attività d’investimento dalla raccolta del risparmio. Ma quello verso il mercato non è che uno dei grandi movimenti dispersivi e di re-ibridazione dello Stato. Un secondo movimento è avvenuto in favore delle autorità sovranazionali94. Si era avviato già dal dopoguerra. La promessa preminente era la pace: l’indebolimento della sovranità territoriale degli Stati avrebbe consentito l’istituzione di un regime di governo e di mediazione pacifica d’interessi e conflitti di rango superiore e dunque più efficace. La promessa non è stata mantenuta, ma le istituzioni sovranazionali si sono via via moltiplicate e hanno esteso le loro competenze. Si sono moltiplicate anche le 92  G. Standing, The Precariat, cit., p. 24. Pur riconoscendo come il precariato sia a volte volontario e inteso come una liberazione dal lavoro, il racconto di Standing è a dir poco inquietante. 93  È una tendenza che non risparmia nemmeno i paesi con più solide tradizioni neocorporative. Cfr. S.A. Rothstein e T. Schulze-Cleven, Germany After the Social Democratic Century: The Political Economy of Imbalance, in «German Politics», 3, XXIX, 2020, pp. 297-318 e P. Munk Christiansen, Still the Corporatist Darlings?, in P. Nedergaard e A. Wivel (a cura di), The Routledge Handbook of Scandinavian Politics, Abingdon, Routledge, 2018. 94  A. Caffarena, Le organizzazioni internazionali, Bologna, Il Mulino, 2009.

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istituzioni private, in concorrenza o a complemento di quelle pubbliche95. Il market turn e la globalizzazione hanno fatto da acceleratore: si occupano di scambi commerciali, di sostegno allo sviluppo, di soccorso agli Stati in difficoltà, di protezione e valorizzazione del patrimonio culturale, di tutela di sanità e ambiente, di lotta al crimine e alla corruzione. Vi sono istituzioni giudiziarie e arbitrali e anche alleanze militari. Tutte impongono limiti allo Stato: in materia di diritti, di debito pubblico, di good governance e altro ancora. L’alienazione – ufficiale – di sovranità di gran lunga più impegnativa, e il tentativo di collaborazione più stringente, ha coinvolto i paesi europei, facendo da modello ad altre, assai meno riuscite, cooperazioni regionali. Dagli anni ’80 sono servite a riscrivere le relazioni tra Stato e mercato e ad accelerare la disdetta dei contratti sociali stilati nel secondo dopoguerra. L’Unione ha adottato norme vincolanti in fatto di politica commerciale, industriale, fiscale, ambientale, regionale, ma anche demografica e da ultimo monetaria. La formula dello «Stato membro» sostituisce efficacemente quella dello Stato nazione per rappresentare l’ibridazione, ormai quasi inestricabile, con le istituzioni europee e gli altri Stati membri96. Evitando lo sviluppo di una qualche forma di sovranità comune, si è comunque costituito un nuovo regime di governo, insieme a una trama transnazionale di contese per il potere. La difficoltà di conciliare le esigenze di paesi molto eterogenei è stata motivo per adottare uno stile fondamentalmente apolitico, tecnocratico, burocratico, elevando almeno dagli anni ’80 il libero mercato a principio unificante e legittimante del governo comunitario97. 95   M.R. Ferrarese, Poteri nuovi. Privati, penetranti, opachi, Bologna, Il Mulino, 2022. 96  C.J. Bickerton, European Integration. From Nation-States to Member States, Oxford, Oxford University Press, 2012. Può dare un’idea del grado di interpenetrazione tra Stati membri e Unione europea uno dei documenti preparatori dell’European Union (Withdrawal) Act 2018, per regolare la fuoruscita del Regno Unito: circa 8.000 leggi avrebbero dovuto essere convertire in leggi nazionali, insieme a 12.000 regolamenti europei, mentre più o meno il 15 per cento degli atti del Parlamento avrebbero dovuto esser emendati (da The Guardian, 30 marzo 2017). 97   N. Jabko, Playing the Market. A Political Strategy for Uniting Europe, 1985-2005, Ithaca-London, Cornell University Press, 2006. Per una guida S. Cassese, From the Nation State to the Global Polity, in D. King e P. Le

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Quanta democrazia ne è scaturita? Stando a Fritz Scharpf va intesa come government for the people anziché come government of the people98. Sono gli addetti alle istituzioni europee a conoscere e stabilire dall’alto cosa convenga all’Unione e ai suoi cittadini99. Secondo Perry Anderson, il deficit democratico è originario100. Un indirizzo spiccatamente pro-market si è radicato fin dall’inizio, in particolare, entro l’Alta Corte di giustizia, che si sarebbe subito imposta quale suprema autorità normativa, ancor più che giurisdizionale, collocata al vertice di un sistema che ha attribuito straordinaria centralità, in contrasto con la politica, proprio all’azione dei giuristi101. Un’altra istituzione sovrastante, introdotta più di recente, e indipendente secondo il modello invalso da tempo per le banche centrali, è la Banca centrale europea. L’applicazione alquanto eterodossa dei principi democratici contrassegna comunque tutto il regime di governo dell’Unione. Il Consiglio dei ministri, che è l’istituzione politica di rango più elevato, adotta le sue decisioni senza che alcuna istituzione elettiva nazionale, né l’Europarlamento, siano in grado di farle opposizione. La Commissione, che ha potere d’iniziativa legislativa e una considerevole capacità regolamentare, svolge la sua attività con stile rigorosamente non partisan, in gran parte attraverso le sue direzioni generali: le quali interagiscono e negoziano con gli stakeholders, gli interessi organizzati, la società civile, i sindacati, le autorità regionali e locali, i policy networks e le lobbies, attivissime presso gli uffici di Bruxelles102. Quanto all’Europarlamento, è bensì titolato a Galès, (a cura di), Reconfiguring European States in Crisis, Oxford, Oxford University Press, 2017. 98   F. Scharpf, Governare l’Europa. Legittimità democratica ed efficacia delle politiche dell’Unione Europea, Bologna, Il Mulino, 1999. 99   Per alcuni osservatori, simili formule edulcorano un vistoso deficit democratico: cfr. A. Vauchez, Démocratiser l’Europe, Paris, Seuil, 2014. Ma c’è chi la pensa diversamente. Cfr. A. Moravcsik, Le mythe du déficit démocratique européen, in «Raisons politiques», 2, X, 2003, pp. 87-105. 100   P. Anderson, Ever Closer Union? Europe in the West, London, Verso, 2021. 101   Ivi. Sul ruolo dei giuristi e degli avvocati si veda la ricerca di A. Vauchez, Brokering Europe. Euro-Lawyers and the Making of a Transnational Polity, Cambridge, Cambridge University Press, 2015. 102   H. Kriesi, S. Adam e M. Jochum, Comparative Analysis of Policy Networks in Western Europe, in «Journal of European Public Policy», 3, XIII,

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pronunciarsi sulle norme approvate della Commissione, sul bilancio comunitario e su altre decisioni di rilievo, ma non dispone di capacità legislativa e fiscale e si contenta di svolgere tramite le sue commissioni, un’attività di consultazione e audizione importante, ma non risolutiva. L’Unione corrisponde al modello dello Stato «regolatore»103, che suggerisce anche agli Stati membri. Ciò non ha impedito alla politica europea di costituire una sfera a sé, dove si è sedimentata una considerevole produzione d’idee, competenze, professionalità e si è rappresa un’élite amministrativa e tecnica, identificata con le istituzioni comunitarie. Per quanto di diversa estrazione nazionale, gli addetti all’Unione sono divenuti una fazione, tanto interessata a promuovere il processo di unificazione, quanto a sottrarre potere agli Stati-membri, tramite la produzione di regole104. Siamo così al terzo moto di deflusso e d’ibridazione: verso le istituzioni subnazionali. Di per sé, non è originale. Malgrado la pretesa di esercitare un’autorità omogenea su tutto il suo territorio, l’azione dello Stato è sempre stata irregolare. Il decentramento e l’autogoverno locale sono una tecnica – difensiva e utilizzata in dosi variabili – per contenere e sfruttare l’irregolarità, spesso dotata di un significato democratico. Dagli anni ’60 si sono risvegliate le «nazioni senza Stato»: in Scozia, Catalogna, Paesi Baschi, Fiandre e altrove105. Concorrendo a suscitare pretese delle fazioni politiche locali anche dove simili precedenti mancavano. Finché dagli anni ’80 la devolution non è entrata nell’armamentario dei critici dello Stato106. Il New 2006. Su questa operazione di ridefinizione, e sulla sua portata politica, cfr. P. Aldrin e N. Hubé, From Democracy by Proxy to a Stakeholder Democracy. The Changing Faces of an EU Founding Value, in F. Foret e O. Calligaro (a cura di), European Values: Challenges and Opportunities for EU Governance, London, Routledge, 2018. Secondo P. Anderson, Ever Closer Union? Europe in the West, cit., a Bruxelles c’è più del doppio di lobbisti registrati che a Washington. 103   A. La Spina e G. Majone, Lo Stato regolatore, Bologna, Il Mulino, 2000. 104   Ancora C.J. Bickerton, European Integration, cit.; D. Georgakakis e J. Rowell (a cura di), The Field of Eurocracy. Mapping EU Actors and Professionals, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2013. 105   M.J. Keating, Plurinational Democracy: Stateless Nations in a PostSovereignty Era, Oxford, Oxford University Press, 2001.  106   In particolare, M.J. Keating, Rescaling the European State. The Making of Territory and the Rise of the Meso, Oxford, Oxford University Press,

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Federalism americano le ha attribuito un valore eminentemente fiscale. Per rivestirlo di paramenti più nobili, si è detto che il decentramento avrebbe ravvicinato i governanti ai governati: avrebbe consentito a questi ultimi d’influenzare direttamente l’operato del governo, di vigilare intorno all’impiego della spesa pubblica, e ai governanti di commisurare più puntualmente i servizi alle esigenze dei cittadini. L’autogoverno, con corredo d’identità territoriale, avrebbe altresì compensato l’erosione di quella nazionale. Ma la devolution è stata introdotta più spesso come mezzo per ridurre la spesa. Conferiti alcuni servizi alle autorità locali, a esse spetta decidere se sfidare l’impopolarità, aumentando la pressione tributaria per mantenerli, o ridurli, o ancora privatizzarli. Una parte molto attiva nella dispersione verso il basso l’hanno svolta gli addetti al capitalismo. Le imprese hanno sempre abitato il territorio come meglio loro conveniva: in funzione d’infrastrutture, risorse energetiche, materie prime, disponibilità di manodopera e altri fattori. Dopo essersi trovate per due secoli più a loro agio col mercato nazionale, che alimentava la domanda e offriva una molteplicità di servizi, le imprese accolgono il decentramento con favore. Mette le autorità pubbliche in concorrenza e le rende più condiscendenti nei loro riguardi. Ma è soprattutto cambiata la prospettiva. Per secoli l’ambizione dello Stato è stata riequilibrare e ricomporre le asimmetrie territoriali: mediante la lingua, l’istruzione obbligatoria, il servizio di leva. Era una tecnica di dominio. La nazione era pensata come uno spazio unitario e a tutti i cittadini, almeno in linea di principio, erano attribuiti uguali diritti, uguali doveri e uguali servizi. Il culmine è stato raggiunto nella stagione dell’intervento pubblico. Le aree in ritardo erano aiutate a svilupparsi; quelle più avanzate andavano decongestionate. Lo Stato regolatore ha molto semplicemente mercificato i territori: 2013. Ma pure The Territorial State, in D. King e P. Le Galès (a cura di), Reconfiguring European States in Crisis, cit. Dello stesso autore The Invention of Regions: Political Restructuring and Territorial Government in Western Europe, in N. Brenner, B. Jessop, M. Jones e G. MacLeod (a cura di), State/ Space. A Reader, Chichester, Wiley, 2003. Inoltre: L. Hooghe, G. Marks e A.H. Schakel, The Rise of Regional Authority. A Comparative Study of 42 Democracies, London, Routledge, 2010.

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ha legittimato le disuguaglianze tra loro e ha consentito che i servizi pubblici dipendessero dalle possibilità finanziarie delle istituzioni locali107. I territori sono stati messi in concorrenza in ragione della loro struttura produttiva, delle loro risorse naturali, delle capacità delle loro dirigenze politiche e amministrative, dei loro imprenditori, delle scuole, delle università e dei centri di ricerca, nonché del capitale sociale e dello spirito d’iniziativa dei loro abitanti. È compito specifico delle autorità locali negoziare con i privati e attrarre investimenti offrendo norme compiacenti, infrastrutture e servizi, drenando competenze da altri territori e disputandosi con successo le risorse finanziarie messe in palio dallo Stato, dall’Unione europea, dai privati. Gli elettori scontenti, si dice, non hanno che da sanzionare chi li governa localmente. Per le regioni più prospere il soccorso a quelle in difficoltà da obbligo di solidarietà – non sempre disinteressato, peraltro – è divenuto un costo tra gli altri. L’Unione europea ha incoraggiato la regionalizzazione, per ridurre l’influenza delle autorità statali, introducendo il principio, alquanto nebuloso, di sussidiarietà e la tecnica di multi-level governance108. A titolo di compenso alle regioni svantaggiate sono state elargite le politiche di coesione, che tuttavia non paiono risolutive per rimuovere disuguaglianze stridenti, che spesso suscitano sollevazioni elettorali esplosive109. Nella grande concorrenza tra regioni, città, territori, hanno preso le distanze le global cities110, ove si concentrano le attività di comando, finanziarie, creative, la ricerca avanzata. Connesse dalle tecnologie digitali, le città globali sono rappresentate come una rete saldata da un peculiare costume cosmopolita, da una lingua franca, che è l’inglese, e da ogni sorta d’interdipendenze. Negoziano spazi di governo riservati. Di qui a   M.J. Keating, Rescaling the European State, cit. e The Territorial State, cit.   S. Piattoni, Multi-level Governance: A Historical and Conceptual Analysis, in «Journal of European Integration», 2, XI, 2009, pp. 163-180. 109   A. Rodríguez-Pose, The Revenge of the Places That Don’t Matter (and What to Do About It), in «Cambridge Journal of Regions, Economy and Society», 1, XI, 2018, pp. 189-209; G. Viesti, Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo, Roma-Bari, Laterza, 2021. In realtà, la ribellione elettorale ha portata ben più ampia. È sotto gli occhi di tutti il contrasto di comportamenti elettorali tra i centri urbani grandi e medi e la provincia. 110  S. Sassen, Cities in a World Economy, New York, Safe, 2018. Cfr. anche T. Iversen e D. Soskice, Democracy and Prosperity, cit., pp. 276-277. 107 108

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farne attori politici in concorrenza con lo Stato tuttavia ce ne corre. Più che un singolo attore, le città sono fasci di attori, non necessariamente coordinati tra loro. È più convincente l’idea che quando le città sono prospere, gli introiti fiscali sono più elevati e più opportunità si offrono a chi le governa, che è dunque più in grado di mobilitarsi per ottenere risorse dallo Stato e anche per negoziare con le imprese. Talvolta le città sono in grado di trainare anche l’hinterland e la regione in cui sono collocate. Ma non è affatto detto che le élites urbane siano compatte nel sostenere i loro progetti, né che siano in grado di resistere alla concorrenza di altre istituzioni di governo. È da vedere quali rapporti il governo cittadino riesca a stabilire vuoi con lo Stato, vuoi col mercato. Se per talune imprese vi sono sinergie convenienti, non è detto che valga per tutte. Così come lo Stato, magari per calcoli politici, può mostrarsi collaborativo, oppure ostile111. Il quarto movimento di deflusso e dispersivo è quello che ha reinventato la società civile. La formula è veneranda e venerata, ma i suoi significati sono cambiati più volte. Forme di cooperazione autorganizzata e gratuita fuori dallo Stato e dal mercato ve ne sono sempre state. Fondate sul disinteresse, la reciprocità, l’altruismo, la generosità, la carità, la solidarietà, il civismo, hanno costituito una quota di rilievo del governo del sociale tramite il sociale. I movimenti collettivi degli anni ’70 hanno reinscritto nel lessico politico la società civile per definire le forme di autorganizzazione cui avevano dato impulso112. All’inizio degli anni ’90, Robert D. Putnam ha coniato il concetto di «capitale sociale» sottolineandone l’importanza113. Non è un’esclusiva progressista. Tanto Reagan, quanto Thatcher avevano già riesumato la filantropia delle classi superiori. Nella seconda metà degli anni ’90 è stato il New Labour a fare della società civile uno dei suoi strumenti114. Ma il Partito 111   G. Pinson, Voracious Cities and Obstructing States?, in S. Oosterlynck, L. Beeckmans, D. Bassens, B. Derudder e B. Segaert (a cura di), The City as a Global Political Actor, London, Routledge, 2018. 112   Di nuovo N. Bobbio, Società civile, cit., p. 1088. 113   A dire il vero, non è stato lui l’inventore, ma ne ha fatto la fortuna. Cfr. R.D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano, Mondadori, 1993. 114   Il teorico è ancora A. Giddens, The Third Way, cit., pp. 43-46.

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conservatore ci riproverà con la Big Society di David Cameron e dalla Shared Society di Theresa May. Nella prospettiva della governance la società civile è ormai divenuta uno stakeholder molto ascoltato dalle istituzioni rappresentative e di governo, mentre le grandi organizzazioni internazionali l’hanno promossa a prodotto d’esportazione verso il Global South e a certificato indispensabile di dignità democratica. L’immagine della società civile è appunto quella di un deposito di moralità e di relazioni solidali sottratto al mercato, agli opportunismi elettorali, ai pregiudizi ideologici, ai corporativismi sindacali, all’impersonalità burocratica, e universalistica, del welfare115. La presidiano una galassia d’attività associative e una folla di operatori disinteressati e altruisti che vi trovavano un’opportunità tanto di partecipazione sostitutiva di quella offerta dai partiti, quanto di colmare i vuoti lasciati dal welfare in ritirata. La società civile, e la costellazione d’istituzioni via via classificate come terzo settore, privato sociale, non profit, volontariato, servono a soccorrere i poveri, gli ammalati, gli anziani, i minori in difficoltà, i disabili, i migranti, gli ex-carcerati, le vittime del racket. Le agenzie di advocacy svolgono un’azione benemerita nella protezione dei diritti. Se non che, col supporto anche finanziario dello Stato regolatore, la società civile è stata riconvertita in fornitrice sostituitiva di servizi, spesso appaltati a seguito di procedure competitive, in partenariato con imprese for profit e anche sottomessi ai criteri del New Public Management, ovvero: previsioni, valutazioni d’impatto, calcoli costi/benefici, rankings, benchmark, audit e quant’altro. Hanno dato un impulso le imprese e la finanza, che hanno ritenuto conveniente reinvestire nelle charities una quota dei loro profitti, non solo per migliorare la propria reputazione. In cambio di vantaggi fiscali, di agevolazioni normative, di risorse finanziarie, di visibilità mediatica, il «filantrocapitalismo» ha invaso la società civile e ne ha indossato i paramenti116. 115   Su questa immagine idealizzata N. Rose, Powers of Freedom. Reframing Political Though, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, pp. 167-196. 116   P. Arrigoni, L. Bifulco e D. Caselli, Perché e come studiare la filantropia, in «Quaderni di Sociologia», 82, LXIV, 2020, pp. 3-23. In America il dibattito è molto animato: cfr. ad esempio T. Skocpol, Why Political Scientists Should Study Organized Philanthropy, in «Political Science and Politics», 3, XLIX,

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Così allarga e stringe i cordoni della borsa, detta l’agenda e le iniziative da promuovere, i modelli d’azione da applicare, sollecita la maturazione di competenze specifiche, prescrive capacità imprenditoriali, o ciò che viene chiamato social entrepreneurship. Pronto a sostenere le attività caritative tradizionali, il social housing, la ricerca, il restauro e la valorizzazione dei beni culturali, il capitalismo filantropico si è assicurato un’opportunità aggiuntiva e prioritaria d’intervento nel policy making. Il welfare, figlio del contratto sociale del dopoguerra, era una responsabilità collettiva. La sua attuazione sarà pure stata imperfetta, ma era sottoposta al governo democratico e alla discussione pubblica. Si è sviluppata al suo posto un’altra forma d’ibridazione, che ha aperto altro spazio ai privati e agli interessi imprenditoriali117. 8. Altre dispersioni Le dispersioni che hanno investito l’autorità statale non si contano. Si è dispersa, lo si è visto, pure la rappresentanza: politica, affidata ai partiti, e prepolitica, condotta dai gruppi d’interesse, dai sindacati, dai movimenti. Era un rischio, alla luce dei fenomeni di frammentazione e dispersione sociale e culturale che hanno caratterizzato tutte le società avanzate, e non è stato evitato. Dove la dispersione, anche se in dimensioni ben più ridotte, da sempre è una tecnica di governo. Si governa omologando e standardizzando, ma si governa pure disperdendo. Può divenire una forma di dispersione finanche la politica dei diritti fondamentali, che pure nutre l’ambizione di ravvicinare e rendere uguali tra loro gli esseri umani addirittura 2016, pp. 433-436. Ma non manca però nemmeno qualcuno che tessa gli elogi della filantropia dei ricchi: cfr. Z.J. Acs, Why Philanthropy Matters: How the Wealthy Give, and What It Means for Our Economic Well-Being, Princeton, Princeton University Press, 2013. 117   A. Eikenberry e D. Kluver, The Marketization of the Nonprofit Sector: Civil Society at Risk?, in «Public Administration Review», 2, LXIV, 2004, pp. 32-40. Con qualche serio attentato alla virtuosità della società civile: cfr. G. Moro, Contro il Non profit, Roma-Bari, Laterza, 2014. Sulla mutazione del welfare indotta dalle varie forme di commistioni col privato si rinvia a O. De Leonardis, In un diverso welfare. Sogni e incubi, Milano, Feltrinelli, 1998.

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su scala universale. Lasciamo da canto la questione, serissima, dell’universalità, che è ampiamente contestata118. Consideriamo piuttosto come i diritti sono vissuti. La consacrazione solenne contenuta nel termine svolge un’importante azione performativa, che non basta però a inverarli. I diritti si possono definire, ridefinire, reinterpretare, applicare selettivamente, disapplicare, senza necessariamente revocarli. La distinzione tra diritti che costano, come i diritti sociali, e diritti che non costano, tra cui, guarda caso spiccano i diritti di proprietà, è un argomento di cui i decisori politici si valgono119. La loro implementazione tramite l’azione amministrativa e la loro protezione affidata al potere giudiziario non sono motivi di certezza120. L’una e l’altra non sono insensibili alle preferenze politiche dei loro addetti, alle circostanze sociali e politiche, al clima d’opinione del momento. Il potere legislativo ha sempre spazi per intervenire. Ha conseguenze anche il declino delle istituzioni che avevano rivendicato alcuni diritti. Conta infine come i loro titolari li vivono: trattarli come prerogative individuali, per nessun motivo comprimibili, nel nome della soggettività di ciascuno, o di qualche gruppo particolare, è diverso dall’esercitarli alla luce del principio della responsabilità reciproca. I diritti rischiano perfino di diventare un’arma politica regressiva: la polemica contro i vaccini insorta al tempo del Covid ne ha fornito una prova. Un modo per vanificare i diritti è anche contrapporli tra loro. Una grave forma di dispersione si cela dietro la questione delle «differenze» e della loro tutela. Da un lato vi è il diritto di ciascuno alla propria individualità: dunque il contrasto doveroso alle discriminazioni, a cominciare da quelle che colpiscono la 118   R. Romanelli, Nelle mani del popolo. Le fragili fondamenta della politica moderna, Roma, Donzelli, 2021, pp. 195-218. 119  I diritti in realtà costano sempre. Cfr. S. Holmes e C.R. Sunstein, Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalle tasse (1999), Bologna, Il Mulino, 2000. 120  Una ricognizione sulla problematica effettività dei diritti in P.-Y. Baudot e A. Revillard (a cura di), L’État des droits. Politique des droits et pratiques des institutions, Paris, Presses de SciencesPo, 2015, in particolare Introduction. Une sociologie de l’état par les droits dei curatori del volume, pp. 11-58. Un’indagine sull’applicazione del diritto al lavoro in C. Bec, De l’État social à l’État des droits de l’homme?, Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2007. È in generale fondamentale S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza, 2014.

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popolazione femminile e le minoranze: sessuali, etniche, linguistiche che siano. Concentrata sulle disuguaglianze socioeconomiche, l’azione dello Stato sociale era parecchio manchevole. Dal lato opposto, l’azione di governo ha messo sovente la lotta alle discriminazioni in rotta di collisione con l’uguaglianza e con la tutela dei diritti sociali. È stata la mossa politica compiuta da quello che Nancy Fraser ha chiamato il progressive neoliberalism, inaugurato da Bill Clinton121 e condivisa dalle socialdemocrazie europee. Non sarà forse perché contrastare le discriminazioni di genere ed etnoculturali è meno costoso che non contrastare le disuguaglianze sociali? Secondo Axel Honneth, invece, conflitti identitari e conflitti redistributivi sono tutti conflitti per il «riconoscimento»122. Da unificare e non da separare. Eppure: se la dispersione dell’autorità pubblica si è spinta tanto in profondità, la partita di potere intorno alla governabilità ha anche provocato un contromovimento, volto ad accorciare, sveltire, rendere più pronta ed efficace la catena di comando dell’autorità. L’abbiamo già menzionata come presidenzializzazione123, intesa a ridurre i tempi della discussione, del negoziato, del compromesso, per affidare l’esercizio di quella quota di autorità statale di competenza delle autorità elettive a un leader incoronato dagli elettori. Di fronte alla sfida della complessità, già un quarto di secolo fa Danilo Zolo aveva ritenuto inevitabile l’involuzione oligarchica dei regimi democratici e addirittura l’avvento, grazie ai media, di un «principato multimediale»124. 121   N. Fraser, Il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Dal neoliberalismo progressista a Trump e oltre, Verona, Ombrecorte, 2019. Il caso dell’amministrazione Clinton è esemplare. Da un lato si è predicata l’uguaglianza della popolazione afroamericana, dall’altro è proseguita la politica di aggravamento delle misure repressive verso forme di criminalità che sono più diffuse tra quella popolazione. È il fenomeno di mass incarceration. Cfr. L. Wacquant, Punishing the Poor. The Neoliberal Government of Social Insecurity, Durham, Duke University Press Books, 2009. 122  Quella di A. Honneth è una delle più penetranti critiche della dispersione di cui disponiamo. Oltre a A. Honneth, Riconoscimento. Storia di un’idea europea, Milano, Feltrinelli, 2004, cfr. la raccolta di saggi curata da M. Solinas, Capitalismo e riconoscimento, Firenze, Firenze University Press, 2010. 123   T. Poguntke e P. Webb (a cura di), The Presidentialization of Politics. A Comparative Study of Modern Democracies, Oxford, Oxford University Press, 2005. 124   D. Zolo, Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Milano, Feltrinelli, 1992, pp. 135-175.

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La redistribuzione dell’autorità dello Stato dal parlamento verso l’esecutivo non manca, tuttavia, d’incontrare ostacoli ingombranti. A dispetto della diffusa insofferenza verso la politica partisan e della sua perdita di legittimità, la sottomissione dei partiti e del parlamento non è affatto scontata e le loro resistenze possono costituire un intralcio piuttosto efficace. Non sempre i partiti sono coesi, né le loro proiezioni parlamentari sono sempre sottomesse all’esecutivo. Si prova ad aggirare il problema dissociando la politics dal policy-making. Una cosa è la politica dichiarata, in cui i conflitti hanno preso l’abitudine di aggravarsi, un’altra sono i negoziati e i compromessi che si stipulano dietro le quinte, sottratti soprattutto allo sguardo dei media. Non è tanto politica occulta, quanto un’ardua necessità. Restano comunque altri ostacoli, come quelli opposti dall’ordine giudiziario e dalle corti costituzionali125, dalle banche centrali e dalla pletora d’istituzioni definite «indipendenti»126: authorities regolative127, comitati di «saggi», agenzie specializzate, commissari e garanti d’ogni sorta, affidati a figure definite «tecniche», ovviamente non immuni da preferenze politiche, che esercitano un ruolo indiretto di governo tutt’altro che secondario. Non si tratta di vincoli insormontabili, anche perché le istituzioni elettive mantengono un potere di nomina. Ma la portata del contromovimento promosso intorno all’esecutivo ne risulta comunque ridimensionata128. 125   Qualche ostacolo l’oppone quella che è stata definita la «giuridificazione»: L.C. Blichner e A. Molander, in Mapping Juridification, in «European Law Journal», 14, pp. 36-54, 2008, distinguono cinque dimensioni. La moltiplicazione delle norme costituzionali; l’espansione e diversificazione della legislazione; la tendenza a risolvere sempre più i conflitti tramite il diritto; la crescita del potere giudiziario; la propensione degli individui e dei gruppi a considerarsi secondo una prospettiva giuridica. 126  B. François e A. Vauchez (a cura di),  Politique de l’indépendance. Formes et usages contemporains d’une technologie de gouvernement, Villeneuve d’Ascq, Presses universitaires du Septentrion, 2020. 127   F. Vibert, The Rise of the Unelected. Democracy and the New Separation of Powers, Cambridge, Cambridge University Press, 2007; F. Gilardi, Delegation in the Regulatory State: Independent Regulatory Agencies in Western Europe, Cheltenham, Edward Elgar, 2008. Offre una giustificazione democratica alle authorities, e ad altre istituzioni indipendenti, come antidoti alle strumentalizzazioni plebiscitarie della democrazia, P. Rosanvallon, La legittimità democratica. Imparzialità, riflessività, prossimità, Torino, Rosenberg & Sellier, 2015. 128   Tratta molto efficacemente tutti questi temi Y. Papadopoulos, Democracy in Crisis? Politics, Governance and Policy, London, Palgrave MacMillan, 2013.

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Nella Grande dispersione c’è però anche un aspetto paradossale: i vigorosi movimenti e il più tenue contromovimento in cui si articola corrispondono a una spinta possente a omologare le tecniche di governo, se non altro fra le democrazie occidentali. È anche questa una partita di potere, di durata lunghissima. Ed è un aspetto, è inutile nasconderlo, dell’egemonia americana sull’Occidente manifestatasi dall’indomani del secondo conflitto mondiale. Ristabilita la pace, insieme all’Unione Sovietica, gli Stati Uniti erano il maggior protagonista della nuova società internazionale, incline, per comprensibili ragioni, a vigilare su ciò che accadeva fuori dai propri confini. La partita non è stata esclusivamente militare. Gli Stati Uniti sono stati un partner fondamentale delle economie europee e un formidabile punto di riferimento culturale: cinema, letteratura, musica, costume. Entro l’imponente lavorio di contaminazione che plasma il pianeta da secoli129, anche le tecniche di governo americane sono state oggetto di una potente azione promozionale130. L’Europa aveva importato il New Deal. Tolto il Regno Unito, che ha fatto da sé, ha importato anche la svolta pro-market e la Grande dispersione. Negli anni ’40-’50 a promuovere tale importazione hanno contribuito le scienze sociali e gli specialisti accademici dello sviluppo, economico e politico131. A fine millennio sono intervenute le grandi società di consulenza, che hanno dato un contributo all’omologazione promossa anche dalle tecno-burocrazie di Bruxelles. È un’omologazione, quest’ultima, che Wolfgang Streeck suggerisce d’interpretare come un’altra partita di potere: intesa a stabilire una nuova divisione del lavoro su scala continentale, tra paesi dell’Europa centrosettentrionale e paesi dell’Europa meridionale132. Non è stata una congiura. Ottime ragioni dettano le scelte compromissorie adottate dall’Unione, le quali però sono state sempre effettuate alla luce delle strategie di autodifesa degli Stati-membri, riconducibili a molte varia129   È da segnalare la riflessione di J.-F. Bayart, L’énergie de l’État. Pour une sociologie historique et comparée du politique, Paris, La Découverte, 2022.  130   Sui costumi, cfr. V. de Grazia, Irresistible Empire. America’s Advance Through Twentieth-Century in Europe, Cambridge-London, The Belknap Press of Harvard University Press, 2005. 131   N. Gilman, Mandarins of the Future, cit. 132   W. Streeck, Tempo guadagnato, cit.

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bili tra cui le condizioni, economiche o politiche, di ciascuno Stato, la capacità d’insediarsi entro le istituzioni comunitarie, l’abilità negoziale. In mancanza di un forte potere costituente, la filosofia dell’omologazione, più che della cooperazione, per alcuni è un rischio, per altri un’opportunità. I compromessi tra strategie di autodifesa hanno imposto le medesime regole – tra cui quelle riguardanti la libera concorrenza e l’unione monetaria – a paesi che avevano vissuto esperienze storiche divergenti, nonché in condizioni politiche, economiche, sociali diversissime. In Italia, per limitarsi a un solo esempio, da un lato la contesa politica nazionale ha proposto l’Europa come un’opportunità irrinunciabile di rimediare a secolari ritardi e di definitiva modernizzazione, dall’altro le tappe più impegnative sono state compiute nella sua stagione politicamente più incerta dal dopoguerra, in termini di difficoltà economiche e anche politiche. Fatto sta che i paesi dell’Europa centrosettentrionale sono riusciti a difendere, in gran parte, il loro sistema industriale, magari delocalizzando le produzioni meno redditizie nei paesi di nuova ammissione dell’Europa exsocialista, e i paesi dell’Europa mediterranea hanno aggravato le loro asimmetrie territoriali interne. Da tempo prevale la teoria secondo cui solo formazioni politiche più ampie di quelle nazionali siano in grado di resistere adeguatamente alla competizione globale, che non è solo economica, ma, come stanno rammentando gli eventi in corso, anche militare, o, come si usa dire, geopolitica. È possibile che un giorno o l’altro anche questa teoria sia rivista. Per intanto, alla luce della sua applicazione, posto che l’Unione europea è diventata un’imprescindibile unità di analisi da cui considerare l’azione di governo, resta da vedere quanto e come entro i vecchi confini nazionali l’omologazione all’insegna del market turn e della Grande dispersione abbia attecchito. Con molta approssimazione: se un tratto condiviso dagli Stati membri è la dissoluzione di alcune delle grandi concentrazioni di potere che avevano negoziato il contratto sociale implicito del dopoguerra, cioè i grandi partiti popolari, il mondo del lavoro organizzato e le burocrazie pubbliche, il cambiamento ha assunto tutt’altre fattezze entro ciascun paese. I mercati nazionali si sono aperti, ma sono rimasti diversi, così come la dialettica tra le forze politiche, quella tra 291

istituzioni di governo nazionali e decentrate, la dislocazione degli interessi, il regime proprietario delle imprese, lo stato del sistema industriale, il ruolo dei sindacati, i divari territoriali. Capita ogni volta si trapiantino regole e istituzioni: il regime rappresentativo raccontato da Montesquieu alla luce dell’esperienza inglese non si è realizzato da nessuna parte, forse nemmeno in Gran Bretagna. Le riforme ispirate o imposte dall’Unione europea si sono ibridate con le situazioni nazionali, e, così, pure i movimenti che hanno caratterizzato la Grande dispersione dell’autorità pubblica: non è da escludere che se per un verso c’è stata effettivamente dispersione, per un altro si sia realizzata comunque un’accettabile divisione del lavoro tra livelli e istituzioni di governo. Molto dipende anche dall’azione delle élites, politiche, imprenditoriali, intellettuali, ma non solamente da esse. Confrontare nei dettagli i regimi di governo, le miscele tra tecniche di rappresentanza, governo e di risoluzione dei conflitti prodotte dalla Grande dispersione sarebbe tema di tutto un programma di ricerca, anche molto impegnativo133. Ci concederemo perciò solo una domanda, cui non daremo risposta. C’erano altre possibilità di affrontare la ritirata – parziale – dal capitalismo manifatturiero? A prendere almeno un po’ sul serio le avvisaglie del cambiamento, forse entro il vecchio ordine erano ancora disponibili risorse di potere e di legittimazione utili ad apprestare altre difese. La crescita non è tutto e le capacità tecnologiche avrebbero potuto essere usate per concertare una ritirata socialmente meno ingiusta e politicamente meno problematica, promuovendo i consumi pubblici anziché quelli privati, riducendo gli orari di lavoro, redistribuendo l’occupazione, contenendo sprechi e trappole del welfare, tutelando le minoranze, salvaguardando l’ambiente, sperimentando nuove e più egualitarie forme di coordinamento e cooperazione tra gli umani, disseminando più qualità della vita e meno guerre. Oltre che rinunciando ad abbandonare al mercato il trattamento dei rapporti tra i paesi più fortunati e il Global South. Anche la sfida – nient’affatto secondaria – del pluralismo ridondante si sarebbe potuta alleviare elevando la 133   Ma è già utile leggere C. Trigilia, Modelli di capitalismo e tipi di democrazia, cit.

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competenza dei cittadini e potenziando le capacità di mediazione dei regimi democratici. Ha preso il sopravvento l’indirizzo opposto, che ha polarizzato la contesa politica e acuito le disuguaglianze. La coincidenza con il risveglio del nazionalismo identitario è un motivo di riflessione134. 9. Alla ricerca del populismo È coincidenza o retroazione? È una delle domande che suscita l’avanzata dagli anni ’80 del Novecento di una nuova generazione di partiti, denominati «populisti». Come si è detto nel capitolo precedente, alcuni sono unicamente il riciclaggio di antichi partiti di destra estrema. Altri sono il restyling di partiti più moderati, e altri ancora sono di nuova formazione. Tutti avanzano claims di rappresentanza eccentrici rispetto a quella dei partiti established. Non senza sollevare qualche serio problema di classificazione. Perché mai chiamarli populisti quando si sono ben guardati dall’autodefinirsi in questo modo? Perché l’impiego della categoria di destra estrema, radicale, fascista, postfascista o nazionalista, è stato sopraffatto da quella di populismo?135 La parentela col fascismo i diretti interessati l’hanno solitamente negata e hanno qualche ragione: non è facile confrontare un fenomeno tuttora in sviluppo con un altro, storicamente compiuto, di grandissima ampiezza, che è stato movimento, 134  In fondo, qualche tentativo di prevenire c’è stato. Basti pensare al Rapporto sui limiti dello sviluppo del 1972 commissionato dal Club di Roma e al Rapporto Nord/Sud prodotto dalla Commissione Brandt. Entrambi, per ragioni diverse, molto discussi. Molto discutibili anche a mezzo secolo di distanza, comunque, molto poco ascoltati. 135   A dire il vero, c’è chi ancora li denomina destra estrema. Ad esempio, P. Ignazi, L’estrema destra in Europa, Bologna, Il Mulino, 1994; H. Kitschelt e A.J. McGann, The Radical Right in Western Europe: A Comparative Analysis, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1995; M. Schain, A. Zolberg e P. Hossay (a cura di), Shadows over Europe: The Development and Impact of the Extreme Right in Western Europe, New York, Palgrave Macmillan, 2002. Qualcuno accoppia le due etichette: T. Akkerman, S.L. de Lange e M. Rooduijn, Radical Right-Wing Populist Parties in Western Europe. Into the Mainstream?, London, Routledge, 2016. Mentre Cas Mudde, che è tra gli studiosi più noti del fenomeno, ha infine preferito The Far Right Today, Cambridge, Polity, 2019.

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partito, ideologia e addirittura regime. Fascismo e nazismo sono apparsi in tutt’altre circostanze storiche: all’indomani di un’esplosione smisurata di violenza, che aveva, tra l’altro consentito una straordinaria diffusione di competenze militari. Entrambi sono giunti al potere costituendo milizie private, che hanno aggredito gli avversari politici e preso d’assalto lo Stato, ottenendo la connivenza dell’esercito, delle forze dell’ordine, delle burocrazie pubbliche, degli ambienti imprenditoriali. Incomparabili con quelle attuali sono anche le condizioni economiche e politiche. Non è in corso nulla di simile alla Rivoluzione d’Ottobre, nessuna sinistra rivoluzionaria insidia i regimi democratici e il movimento operaio è divenuto un reperto. Infine, al momento, le destre denominate populiste rispettano le regole, sono a loro agio tra le liturgie elettorali e, a loro dire, non mettono per nulla in discussione le libertà fondamentali. Ciò malgrado, qualche affinità si ripropone non appena si getti lo sguardo al linguaggio, allo stile e all’offerta di rappresentanza. A cominciare dal fondamentalismo democratico, che i cosiddetti populismi predicano: le forme della democrazia pluralista sono rispettate, salvo darne una reinterpretazione plebiscitaria. È aperta l’insofferenza verso la divisione dei poteri, lo Stato di diritto, i diritti delle minoranze e verso i congegni di salvaguardia che il costituzionalismo ha predisposto contro gli abusi della sovranità popolare e del principio di maggioranza136. È vero, la retorica e lo stile dei populisti potrebbero anche essere effetti indotti dai media, e non tratti politici intrinseci137. Ma il loro è pur sempre un linguaggio oltremodo brutale, contro avversari e dissenzienti, refrattario a ogni riflessione e argomentazione elaborata: predilige la disinformazione, i complotti, le intimidazioni. Rivolti contro un largo assortimento di nemici: la politica established, la burocrazia, l’expertise, il fisco, le istituzioni europee, i sindacati, il femminismo, gli omosessuali, i rom, i migranti, gli islamici. 136  Osservando le esperienze della Polonia e dell’Ungheria, P. Blokker traccia il profilo di un costituzionalismo populista. In Europa occidentale quando i populisti sono arrivati al potere hanno incontrato molti ostacoli. Ma qualche parentela si scorge: cfr. P. Blokker, Populism As a Constitutional Project, in «International Journal of Constitutional Law», 2, XVII, 2019, pp. 536-553. Più in generale, cfr. N. Urbinati, Io, il popolo: come il populismo trasforma la democrazia, Bologna, Il Mulino, 2020. 137  Cfr. nota 70, Cap. III.

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Dove l’asino casca davvero è però quando pronuncia il nome del popolo. In democrazia, lo sappiamo, la parola è impiegata con larghezza. Solo che quello della destra estrema non è il popolo demos, ma dichiaratamente un popolo ethnos138, unito dalla storia, dalla religione, dai costumi, dal colore della pelle. Non fosse depresso, infelice e vittimista, sarebbe lo stesso popolo della tradizione fascista. Sono vaghe, infatti, le tracce della comunità di destino, dell’orgoglio da razza superiore, degli antichi disegni di potenza. Sono tramontati gli spazi vitali, il culto della forza e della guerra. È pure venuta a mancare la nazione in armi, pronta al sacrificio. Dietro termini come «sovranismo» e «nativismo»139, si cela un nazionalismo di second’ordine, fatto di presunti valori tradizionali, di offese ai migranti, di abborracciate riscritture della storia patria, di riti funerari ed evocazioni folcloristiche. Il fascismo idealizzava lo Stato, gli sottometteva l’individuo e proclamava la superiorità della politica sull’economia. Tra Stato e mercato la destra estrema non ha dubbi. Promette un po’ di attivismo statale in più, ma nient’altro. Il fascismo era per le gerarchie militaresche. Le disuguaglianze suscitate dal mercato sono per il populismo una tecnica di governo. Lo Stato per esso è fatto di misure poliziesche, stabilimenti carcerari, respingimenti alle frontiere. Il fascismo si voleva inoltre rivoluzionario e attingeva talvolta alla cultura della sinistra. Nell’arte, in architettura, nell’urbanistica, nel culto della tecnica era moderno. Nella destra populista non c’è molta cultura, ma solo qualche elogio nostalgico di quando eravamo tra noi, e di formule malinconiche come «prima gli italiani», les français d’abord, America first, taking back control. Eppure, una certa aria di famiglia si avverte140, peraltro in consonanza con altri fenomeni regressivi da ultimo comparsi ben oltre i confini 138   Non senza fare torto al concetto di etnia: U. Fabietti, L’identità etnica, Roma, Carocci, 1998. 139   Sul sovranismo si veda il numero dedicato al tema da «Parole chiave», 3, 2020. Sul nativismo H.-G. Betz, Facets of Nativism: A Heuristic Exploration, in «Patterns of Prejudice», 2, LIII, 2019, pp. 111-135. 140   Da ultimi, A. Mondon e A. Winter, Reactionary Democracy How Racism and the Populist Far Right Became Mainstream, London, Verso, 2020; C. Vercelli, Neofascismo in grigio. La destra radicale tra l’Italia e l’Europa, Torino, Einaudi, 2021.

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occidentali141: non solo in America latina, dove il nazionalismo ha lunghissime radici, ma perfino in India e in Giappone. La globalizzazione ha accelerato anche la circolazione delle idee e le idee sanno acclimatarsi anche in condizioni molto eterogenee. Il nazionalismo viaggia ormai da un secolo e mezzo e, in tempi d’incertezze, di frammentazioni, di divisioni, di difficoltà a governare, la riscoperta dell’identità nazionale è una ricetta che si presta molto a farvi fronte. Ma restiamo alle esperienze occidentali. Diversamente dai partiti liberali, socialisti, confessionali, che annunciano fin dal nome la famiglia politica cui sono affiliati, le destre populiste usano molte denominazioni diverse. Sono, si è detto, i loro osservatori e concorrenti che le hanno chiamate in questo modo. Per quale ragione? Categorie e classificazioni non sono mai innocenti. Come mai è invalsa l’etichetta di populismo che per più di un secolo aveva indicato fenomeni quanto mai eterogenei e che, come ha mostrato Margaret Canovan, sfuggono a ogni troppo precisa definizione?142 La domanda non è peregrina, perché anche l’impiego di un termine a prima vista innocuo, o non troppo scomodo, potrebbe esser stato tra i motivi del successo dei partiti cosiddetti populisti. Le vicissitudini del termine sono iniziate da più di un secolo e mezzo143, grazie a un movimento politico e intellettuale che in Russia, superata la metà del XIX secolo, mitizzava la comunità contadina e la opponeva alla modernità di provenienza europea. Lenin ne fece oggetto di una dura polemica tacciandolo di scarso realismo e contrapponendogli il marxismo144. Le vicissitudini sono proseguite non molto dopo tra i contadini del Midwest 141   È l’ipotesi avanzata nel libro di F. Finchelstein, Dai fascismi ai populismi. Storia, politica e demagogia nel mondo attuale, Roma, Donzelli, 2019. 142   Canovan distingue due ceppi principali – i populismi «agrari» classici e i populismi «politici» – l’uno suddiviso in tre tipi, l’altro in quattro, accomunati dalla retorica multiuso del popolo contro l’élite. Cfr. M. Canovan, Populism, New York, Harcourt Brace, 1981. 143  Oltre a Canovan le hanno ricostruite D. Palano, L’invenzione del populismo. Note per la genealogia di un concetto paranoico, in «Storia del pensiero politico», 2, 2019, pp. 273-295; A. Jäger, The Semantic Drift: Images of Populism in Post-War American Historiography and Their Relevance for (European) Political Science, in «Constellations», 3, XXIV, 2017, pp. 310-327. 144   V.I. Lenin, Che cosa sono gli «Amici del popolo» e come lottano contro i socialdemocratici? (1894), Roma, Editori riuniti, 1972.

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e gli abitanti della provincia americana: dove il populismo ha designato un movimento vivacemente avverso alle corporations e alle élites politiche in carica. Favorevole alla fiscalità progressiva, alla nazionalizzazione delle ferrovie, all’intervento governativo nella vita economica, il movimento col nuovo secolo si è esaurito, pur lasciando molti residui confluiti per lo più nel Partito democratico145. Finché, sempre in America, da etichetta politica, tra gli anni ’40 e ’50 del Novecento il populismo non è diventato una categoria accademica, grazie ad alcuni storici e scienziati sociali molto noti, come Richard Hofstadter, William Kornhauser, Daniel Bell e Seymour M. Lipset146. Questo gruppo di studiosi ha tacciato il populismo di antimodernismo, antiintellettualismo, autoritarismo, plebiscitarismo, complottismo, antisemitismo: l’hanno ritenuto addirittura una patologia regressiva e provinciale della democrazia di massa. Reinterpretando le vicende più disparate, nel mazzo populista venivano ricongiunte la democrazia jacksoniana, il People’s Party, il New Deal e il maccartismo. Non solo: anche il fascismo, il nazismo e – perché no? – il comunismo. Né più generosamente erano trattati gli elettori: quale che fosse la loro estrazione sociale, era il loro basso livello culturale a indurli ad apprezzare le formule semplificanti e manichee dei populisti. È il viatico – per la verità non sempre condiviso147 – che ha sospinto l’etichetta a fare il giro del mondo, adoperata per classificare i movimenti e regimi apparsi anzitutto in America latina e poi in Africa e in Asia148 renitenti alle categorie occidentali, quali il socialismo e la democrazia liberale, ma anche il 145   Un’interpretazione simpatetica in L. Goodwyn, Democratic Promise. The Populist Movement in America, New York, Oxford University Press, 1976. 146   Cfr. per tutti, S.M. Lipset, Political Man, cit. 147   Il pieno accoglimento del populismo nelle scienze sociali è stato molto prudente: nell’Encyclopedia of the Social Sciences, diretta da E.R.A. Seligman, New York, Macmillan, 1937, il lemma «Populism» si limitava a rinviare ai lemmi Agrarian Movements e Russian Revolution. L’indice dell’International Encyclopedia of the Social Sciences, diretta da R.K. Merton e D.J. Sills, New York, Macmillan, 1968 non prevedeva nemmeno una voce dedicata al populismo, ma rinviava al lemma Radicalism, ove al populismo sono dedicate poche righe, che indicano come suoi tratti distintivi la fiducia nell’uomo comune, che vive in prossimità con la natura, e i cui interessi sono in contrasto con quelli delle oligarchie che detengono il potere. 148   Un testo molto influente è quello di G. Ionescu e E. Gellner (a cura di), Populism: Its Meaning and National Characteristics, New York, Macmillan, 1969.

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fascismo, collocati in qualche punto intermedio tra arretratezza e modernità, accomunati dalla retorica del popolo e guidati da leaders capaci di suscitare grande favore popolare. Di fronte a simili estensioni, Margaret Canovan ha provato a troncare la disputa, rigettando ogni teoria generale. Non c’è il populismo, ma una pluralità di fenomeni, difficili da comparare, e semmai di sindromi, accomunate da una retorica vaga e ambigua del popolo opposto alle élites149. Non è servito a granché. Più o meno allo stesso momento Stuart Hall definiva authoritarian populism il thatcherismo150. Ragionava sulla scia di Ernesto Laclau, un intellettuale argentino, già prossimo al peronismo di sinistra, il quale, forte della sua esperienza latinoamericana, considerava il populismo una categoria interpretativa difficile da maneggiare, ma da sottrarre in ogni caso al dilemma modernità/arretratezza e che poteva essere utilmente adoperata per interpretare forme d’azione politica progressista non riducibili neppure alla prospettiva classista della sinistra151. Il populismo sarebbe un modo per conferire un significato al contrasto universale tra il popolo e le élites. Poteva sfruttarla la destra ma, dopotutto, anche la sinistra152. Hall e Laclau erano intellettuali di spicco, ma radicali, collocati entro un orizzonte politico radicale, che ostacolava la diffusione delle loro idee. E più probabile che l’applicazione dell’etichetta di populismo agli outsiders di estrema destra entrati sul mercato politico-elettorale tra gli anni ’70 e ’80 abbia un’altra origine153. Ovvero, sia da attribuire a uno storico francese dell’antisemitismo, Pierre-André Taguieff, il quale, nel 1984, definiva in questo modo il Front national. Benché quest’ultimo non nascondesse la sua parentela col neofascismo italiano e riproponesse temi tipici della destra estrema quali l’antiparlamentarismo, l’ordine e la sicurezza contro la criminalità diffusa, l’opposizione «al marxismo e al liberalismo cosmopolita», nonché l’intolleranza xenofoba,   M. Canovan, Populism, cit.   S. Hall, The Great Moving Right Show, cit. 151   E. Laclau, Politics and Ideology in Marxist Theory. Capitalism, Fascism, Populism, London, NLB, 1977, p. 173. 152  Per Canovan il populismo di Thatcher non era affatto una novità: era una retorica piuttosto consueta per i conservatori opporre il popolo alle Unions, cfr. Populism, cit., p. 215. 153   È la tesi di A. Jäger, The Semantic Drift, cit. 149 150

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Taguieff lo classificava come «nazional-populismo»154. La nuova destra estrema avrebbe così trovato il suo nome. Perché, però, l’etichetta ha attecchito? Forse perché serviva a rendere meno indigesta l’irruzione. Riconoscere il ritorno in grande stile della destra estrema, del nazionalismo e del fascismo sarebbe stato un grave smacco per i regimi democratici. In fondo, per qualcuno, il difetto più grave stava nei toni. Meglio dunque evitare uno stigma insormontabile. Non si solleverà troppo scandalo, infatti, allorché qualche partito established vorrà intrattenere con i cosiddetti populisti fruttuosi commerci e stringere con essi qualche intesa di governo. Al contempo, l’etichetta suggeriva un nuovo dualismo, di quelli che la contesa politica, i mass media e, per altre ragioni, le scienze sociali prediligono. Collassati i regimi comunisti, ecco da una parte allineati i partiti established, normali, civili, razionali, responsabili e naturaliter democratici, e, sul fronte opposto, gli intrusi. Erano il nuovo altro in cui rispecchiarsi, ridefinendo la propria identità: scomodo, ma non terribile. Il bello è che, dopo aver dato un’etichetta ai nuovi outsiders, c’è stata qualche difficoltà a precisarne il significato155. Il populismo è di volta in volta definito uno stile, una strategia comunicativa156, un’ideologia, benché «sottile»157, oppure l’altro volto dei regimi democratici158 o una variante «illiberale» della democrazia159. Quanto però è la parola che ha orientato le in154   P.-A. Taguieff, Le populisme et la science politique, in «Vingtième-siècle. Revue d’histoire», 56, 1997, pp. 4-33 e soprattutto in L’illusion populiste. De l’archaïque au médiatique, Paris, Berg International, 2002. 155   È meno secondario di quanto sembri. Il populismo è divenuto tema di una quantità smisurata di programmi di ricerca, convegni, seminari, corsi universitari, articoli su riviste specializzate, libri individuali e collettivi. Il business è colossale. Ai numerosi handbooks di cui alla nota 70, cap. III, si è infine aggiunta una rivista scientifica ad hoc : «Populism». 156   Così la prudentissima M. Canovan, Populism, cit. 157   C. Mudde, Populist Radical Right Parties in Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 2007. L’ideologia populista si fonderebbe sull’idea dell’unità e omogeneità del popolo e sulla visione negativa delle élites. 158   Y. Mény e Y. Surel (a cura di), Democracies and the Populist Challenge, Basingstoke, Palgrave, 2003. 159   C. Mudde e C. Rovira Kaltwasser, Populism: A Very Short Introduction, Oxford-New York, NY, Oxford University Press, 2011. Di questa formulazione si è notoriamente impadronito Viktor Orbàn, che, dopo la sua rielezione nel 2014, ha con orgoglio definito l’Ungheria uno «Stato illiberale».

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terpretazioni, anche accademiche, del fenomeno? E quanto l’ha condizionato? Nella contesa per la rappresentanza sono armi anche le parole e le classificazioni, che pure producono effetti di con-testo. È possibile che chi le subisce se ne appropri. Per il risorto nazionalismo di destra è stata una fortuna scoprirsi populista a sua insaputa. Non a caso, anziché respingere lo stigma della propria alterità, l’ha indossata, istituendo fra l’altro una coerenza sovranazionale, che ha sormontato la varietà delle sue manifestazioni. Il vero regalo ai cosiddetti populisti è stato, tuttavia, il riconoscimento della loro amicizia col popolo e con i ceti popolari contenuto nel nome. Accompagnata dall’attenzione della sinistra per i ceti medi istruiti e benestanti, quest’amicizia è divenuta un testo già pronto all’uso per i partiti populisti. I quali nella loro offerta di rappresentanza non parlano di disuguaglianza, ingiustizia, sfruttamento, ma di freno all’immigrazione, di vincoli burocratici da rimuovere, di tasse da ridurre, di parassiti da punire. Quanto ai ceti popolari essi sono un mondo variegato. In parte hanno preferito sempre i partiti di destra, mentre una parte non è forse troppo grata per le misure che ultimamente promettono loro i partiti socialisti: spesso classificate come assistenziali, saranno sì utili a sopravvivere, ma sono un certificato di fallimento e anche d’indegnità. Non c’è perciò da stupirsi, posto che il partito attualmente preferito dalla working class è l’astensione160, se i partiti populisti hanno ottenuto tra questi ceti qualche significativo riscontro elettorale. Senza, tuttavia, esagerare: se c’è un confine elettorale permeabile è più quello tra l’elettorato dei partiti established di destra e la destra estrema. Le parole d’ordine dei populisti sono valori tradizionali, sicurezza, proprietà e identità. Fatti a misura delle classi medie, come lo sono le promesse di sgravi fiscali, deregulation, riduzione del costo della manodopera, assenza di vincoli ambientali161. Anche i ceti abbienti possono essere risentiti e intolleranti. Perché mai, d’altronde, l’estrema destra populista prospera anche in paesi e regioni non certo disagiati quali la Norvegia, la Svezia, le Fiandre, l’Austria, la   D. Tuorto, Underprivileged Voters and Electoral Exclusion, cit.   É. Agrikoliansky e A. Collovald, Mobilisations conservatrices: comment les dominants contestent?, in «Politix», 2, XXVII, 2014. 160 161

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Svizzera, l’Olanda, il Sud-Est della Francia, la Lombardia e il Veneto, la Baviera? Sono i ceti benestanti che a Parigi hanno votato Éric Zemmour, secondo candidato d’estrema destra alle presidenziali francesi del 2022, così come è nei quartieri alti di Madrid che Vox ha trovato il suo primo bacino elettorale di qualche consistenza. Qualche varco verso il populismo sembra esserci semmai con la sinistra radicale162. Eppure, niente ha impedito di avere largo corso alla teoria secondo cui l’audience privilegiata dei populisti sarebbero gli sbandati dell’elettorato popolare. Le hanno dato veste accademica anche indagini di pregio sullo stato dei regimi rappresentativi e democratici. Secondo una di esse, condotta da studiosi tra i più autorevoli, il vento impetuoso della globalizzazione avrebbe scompaginato la mappa delle fratture che avevano diviso le società europee tracciata da Lipset e Rokkan. In particolare, avrebbe «disallineato» l’antico cleavage tra capitale e lavoro e ne avrebbe suscitato un’altro, eminentemente culturale, tra perdenti e vincenti della globalizzazione163. Questi ultimi sarebbero gli imprenditori e gli addetti ai settori aperti alla competizione globale, i ceti istruiti e cosmopoliti, coloro che accettano senza timore le sfide del cambiamento e sono virtuosamente portati a vivere in un mondo più vasto. Li caratterizzano i grandi valori universalistici e una prospettiva libertaria, di cui si farebbero alfieri i partiti established. Viceversa, i losers, cioè gli strati operai più arretrati, gli impiegati semi-qualificati, gli addetti ai servizi alla persona, i piccoli commercianti, i ceti meno scolarizzati e meno abbienti, i disoccupati, i lavoratori flessibili e precari, la pensano in tutt’altro modo. Inadeguati al cambiamento, non più trattenuti dai partiti socialisti, il loro conservatorismo congenito non troverebbe più freno e ne farebbe la clientela ideale dei partiti populisti, che ne strumentalizzano le inquietudini: 162  A. Krouwel, T. Bale e L. Tremlett, More or Less Vulnerable? Variation in the Extent to Which Mainstream Political Parties’ Voters Consider Voting for Radical Right Populist Parties, in S. Bukow e U. Jun (a cura di), Continuity and Change of Party Democracies in Europe, New York, Springer, 2020, pp. 169-201. 163   Rivisitando la mappa dei cleavages redatta da S.M. Lipset e S. Rokkan, cfr. il contributo di P. Beramendi, S. Häusermann, H. Kitschelt e H. Kriesi (a cura di), The Politics of Advanced Capitalism, New York, Cambridge University Press, 2015.

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quelli di destra opponendo misure esclusive, intolleranti e autoritarie, quelli di sinistra – giacché, lo si è visto, ci sarebbero anche quelli – vagheggiando il ritorno alle misure assistenziali proprie dello Stato interventista. Che il cleavage si sia disallineato è un’affermazione discutibile. È semmai decaduto il suo sfruttamento politico. Il cleavage tra capitale/lavoro c’è ancora, o ci sarebbe se non mancasse il lavoro stabile e se qualche formazione politica si preoc­cupasse di dar voce insieme al mondo del lavoro e del post-lavoro: ai disoccupati, ai precari, ai lavoratori flessibili. È probabile che alcuni segmenti di elettorato popolare siano stati disorientati dal cambiamento. Ma se c’è scivolamento verso destra, per di più limitato, cosa l’ha provocato? Gli istinti conservatori e autoritari delle classi popolari sono un vecchio motivo per la sociologia politica164. Riportarlo in auge serve soprattutto a sgravare d’ogni responsabilità il market turn, le classi superiori, le dirigenze politiche established e quelle dei partiti socialisti, che, piuttosto che contrastare il destino toccato al loro seguito elettorale, l’hanno abbandonato. La sfida era difficilissima. Ma non ci hanno nemmeno provato. Prendersela con i losers torna buono pure per condurre un’altra manovra: ghettizzare come populiste le formazioni di nuova sinistra, che vantano tutt’altra storia, professano tutt’altri principi e proprio ai ceti popolari si rivolgono aggiornando il lessico classista. Screditare i propri rivali, classificandoli in maniera arbitraria, riesumare il vecchio motivo degli estremi che si toccano, non è una mossa inconsueta nella contesa per la rappresentanza. Ecco così, accatastati alla rinfusa, culturalmente obsoleti e democraticamente inaffidabili, tanto i «nuovi barbari» dell’estrema destra populista, quanto la sinistra démodée, che si preoccupa dei ceti deboli ed è affezionata ai temi della giustizia sociale e dell’uguaglianza165. Non fosse che, per complicare le cose, qualche outsider di sinistra si è lui stesso definito populista. Gli ha offerto legittimazione teorica il succitato Ernesto Laclau, il quale, stabilitosi 164   È la tesi del working-class authoritarianism di S.M. Lipset, Political Man, cit., pp. 97-130. Per Lipset, vi sarebbero pulsioni autoritarie dappertutto, tranne che tra le élites. 165   G. Katsambekis e A. Kioupkiolis (a cura di), The Populist Radical Left in Europe, Abingdon, Routledge, 2019.

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in Gran Bretagna dagli anni ’80, ha approfondito il suo sforzo di riabilitazione. Armato di letture gramsciane e schmittiane, Laclau ha precisato la sua idea di populismo, come terapia, anziché patologia, democratica166: nelle società globalizzate le lotte per l’emancipazione avrebbero dovuto congedare le classi sociali e avvalersi di nuove categorie: il popolo, appunto, e le élites. Il populismo sarebbe una strategia discorsiva, che coincide in realtà con la politica. Nella prospettiva costruttivista e «antiessenzialista», da lui condivisa con Chantal Mouffe, il dilemma tra popolo ed élites, tra dominanti e dominati, è ubiquo. Su di esso occorre però allestire un’appropriata costruzione ideologica e dunque un claim di rappresentanza, che additi un nemico comune, ricomponendo i dominati, con i loro disparati motivi di risentimento e le loro domande di giustizia: il popolo è un «significante vuoto», da riempire di volta in volta. Quella indicata da Laclau è una strategia divisiva, in aperto contrasto con quella tecnocratica, che dà per superato il conflitto, dei partiti socialisti, che ha anche trovato chi era disposto ad applicarla: ovvero quel gruppo d’intellettuali spagnoli che hanno fondato Podemos. Hanno persino intrecciato legami con qualche populismo sudamericano, specie quello di Chàvez, visto come opportunità di riscatto per quella regione del globo. Alla sfida delle urne, Podemos ha in realtà proposto ricette tratte dall’esperienza riformista della socialdemocrazia postbellica, come hanno fatto i suoi imitatori: Tsipras, Corbyn e Mélenchon. Niente a che vedere comunque con la destra populista. La nuova sinistra non è mai intollerante e xenofoba, ma eventualmente è eurocritica. È anche saldamente ancorata ai principi della democrazia rappresentativa. Ne immagina semmai un’estensione partecipativa, inclusiva, ugualitaria e non torsioni plebiscitarie, cui è difficile anche ricondurre la leadership personale che caratterizza alcune sue formazioni. In conclusione: la mappa tracciata da Lipset e Rokkan dimostra ancora una buona capacità di tenuta. Sebbene qualche correzione si possa pur sempre introdurla. Tra di esse, una in special modo. Quando a metà anni ’60 l’avevano disegnata i suoi 166   E. Laclau, La ragione populista (2005), Roma-Bari, Laterza, 2008. Di C. Mouffe il contributo più recente è: Per un populismo di sinistra, RomaBari, Laterza, 2018.

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autori, l’avevano fatta à rebours: in funzione delle configurazioni partitiche del momento, che avevano emarginato l’estrema destra. Avevano, perciò, dimenticato come l’Illuminismo e la Rivoluzione francese avessero scavato anch’essi un cleavage e suscitato un viluppo di sentimenti e idee antiuniversalisti, intolleranti, oscurantisti, autoritari, antipluralisti, antidemocratici, antipolitici. I quali per due secoli hanno costituito i pre-testi dell’azione di rappresentanza pre-politica e politica di ambienti, circuiti, associazioni, formazioni politiche, anche di respiro internazionale167. A coltivare il cleavage in questione ha provveduto nel tempo una grande e persistente filiera politica, articolata tra mille obbedienze: elitiste e plebee, laiche e religiose, eversive, legittimiste e plebiscitarie, qualcuna persino compatibile col regime rappresentativo, antimoderne, ma anche modernizzanti, reazionarie, rivoluzionarie, pro e anticapitaliste, nazionaliste, organiciste, antisemite, antislamiche. Spesso anche molto colte. Non sempre il passato è da archiviare e il nuovo è da preferire: è da vedere in che modo. Di questa filiera il fascismo è stato un episodio, che aveva calato quei pre-testi in un nuovo stampo, quello della politica di massa. È stato anche un’esperienza troppo ampia e invasiva perché la sua rovina ne cancellasse ogni traccia. I conti in tutta Europa furono chiusi frettolosamente e in superficie. Ma un discreto residuo di reti associative, organi di stampa, case editrici, di militanti politici e anche d’intellettuali, è sopravvissuto ed è rimasto molto attivo. Si è talora manifestato anche in modo drammatico, o si è dissimulato dietro le componenti più conservatrici della destra established: in America, l’estrema destra razzista non si è mai inabissata. Finché negli anni ’80 l’estremismo di destra non ha trovato in Europa le condizioni per riaffiorare autonomamente. 167   Una ricostruzione della genealogia intellettuale della destra estrema, che le attribuisce un respiro addirittura planetario, in M. Varga e A. Buzogáni, The Two Faces of the «Global Right»: Revolutionary Conservatives and NationalConservatives, in «Critical Sociology», 6, XLVIII, 2021, pp. 1089-1107. I due autori avanzano un’interessante distinzione tra due orientamenti in concorrenza: l’uno più legato alla dimensione identitaria europea, l’altro apertamente nazionalconservatore, concentrato sui temi della famiglia, della condizione femminile, del genere. La dice lunga anche la convergenza tra le destre populiste occidentali e quelle polacche e ungheresi, le cui posizioni sui temi della famiglia, della condizione femminile, del genere sono inequivocabilmente reazionarie.

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Il mutamento sociale e culturale dell’ultimo mezzo secolo, tumultuoso a dir poco, ha fatto da fertilizzante. La nuova condizione femminile, le famiglie omogenitoriali, i cambiamenti del costume e delle norme sociali sono per gli elettori più anziani, meno istruiti, più provinciali motivo più che comprensibile di turbamento e di ansia168. Lo sono anche le migrazioni. L’insofferenza verso l’estraneo non è un tratto della natura umana, ma, allorquando sopraggiungono gli estranei, ormai regolarmente fioriscono incomprensioni, diffidenze, paure. La sfida della diversità e dell’integrazione è sempre ardua, specie quando la diversità è eccitata come arma politica, quando si agita l’immagine di una invasione fuori controllo e quando i pubblici poteri non ritengono d’investire per trattare in maniera adeguata la questione. Dal canto loro, gli estranei tengono alla propria storia, alla propria lingua, ai propri costumi: quanto più l’ambiente è ostile, tanto più essi divengono armi di autodifesa169. In queste condizioni le destre populiste, alfine interconnesse su scala internazionale170, hanno avuto buon gioco a trasformare il tema della disuguaglianza, tralasciato dai partiti established, in questione identitaria. Non è stato così difficile. Accantonando la retorica dei losers, neanche i ceti più istruiti sono indenni dagli effetti di spaesamento indotti dalla diversità culturale. Che le identità nazionali siano un principio di coagulo durevole è molto dubbio. Nella grande frammentazione contemporanea consentono più che altro di assemblare maggioranze elettorali risicate. Ma è ciò che basta alle nuove destre per ritrovare un posto nei quartieri alti del potere e per esercitare un’apprezzabile influenza culturale. Quanto a ciò che esse sono: fasciste no, perché fuori tempo, populiste abusive, nazionaliste per inerzia, una possibilità è infine che siano la variante pop della tradizione antilluminista, comunitaria, reazionaria, coerente con i 168  Per Ronald Inglehart e Pippa Norris, che l’hanno studiata su scala globale, l’involuzione conservatrice riguarda in prevalenza le generazioni più anziane: cfr. R. Inglehart e P. Norris, Cultural Backlash: Trump Brexit and Authoritarian Populism, New York, Cambridge University Press, 2019. 169   A. Ciccozzi, Il rischio dei muri degli altri. Cirese, dislivelli di cultura e rimossi antropologici, in «Dialoghi Mediterranei», n. 50, 2021. 170   J.M. Ramos e P. Torres, The Right Transmission: Understanding Global Diffusion of the Far-Right, in «Populism», 3, I, 2020, pp. 87-120.

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tempi, i costumi e la politica mediatica. Naturalmente, qualora riuscissero a dare consistenza al cleavage dimenticato, e magari a intendersi – per ragioni di convenienza elettorale  – con le destre established, il futuro dei regimi democratici prenderebbe una piega parecchio inquietante.

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POST SCRIPTUM VERSO UNA DEMOCRAZIA ESCLUSIVA?

La storia della modernità occidentale è storia d’invenzioni, anche di tecniche di dominio e di governo della vita collettiva. Spiccano da un lato lo Stato-nazione, aggiornato dal regime rappresentativo-democratico e dal welfare, dall’altra il mercato capitalistico. Possiamo anche considerare Stato e mercato, nelle loro diverse versioni, come gli ingranaggi di un meccanismo che finora nessuno è riuscito a dissociare, sebbene inconvenienti, tensioni, rotture, fallimenti non si contino. A maggior ragione dacché si è prospettata la possibilità che lo Stato diventasse democratico. L’ambivalenza è intrinseca e le prestazioni, per chi voglia considerarle dal punto di vista dell’uguale dignità degli esseri umani1, non sono mai state soddisfacenti. Fa in compenso parte dell’ambivalenza quella che Norbert Elias definisce la «riduzione dei differenziali di potere» tra governanti e governati e pure tra strati sociali2. Per nulla univoca e lineare, e in una prospettiva plurisecolare, qualche riduzione è avvenuta. Atteso che la riflessione di Elias è contenuta in un libro dato alle stampe a fine anni ’60, che ne è però, dopo circa mezzo secolo, dei differenziali di potere alla luce delle ultime mutazioni delle società occidentali? È possibile argomentare che la riduzione comunque prosegue su scala planetaria: a danno dell’Occidente e a beneficio di altre regioni del globo. Se nelle società occidentali le disuguaglianze si sono considerevolmente aggravate, la globalizzazione avrebbe portato benefici in molti paesi in precedenza esclusi dallo sviluppo. Alcuni vi sono stati alfine inclusi e si sono registrati sensibili miglioramenti, non egualitari, per tutta la popolazione. Molti   Sempre che ci s’intenda su cosa sia.  N. Elias, Che cos’è la sociologia?, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990, pp. 74-76. 1 2

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paesi, tuttavia, restano ancora esclusi. In ogni caso, una quota mostruosa della ricchezza planetaria si è concentrata nelle mani di una minoranza ristrettissima. Al contempo, se la marcia della democrazia aveva preso un po’ di abbrivio tra i due millenni anche fuori dall’Occidente, sembra al momento essersi interrotta. Alcuni regimi, che si erano aperti al pluralismo, sono regrediti all’autoritarismo, in altri persiste solo la patina della democrazia elettorale, mentre nelle democrazie occidentali, dal market turn in poi, è indubbio che i governanti prestino minor attenzione alle attese e alle esigenze di gran parte dei governati. Non solo: ma da queste parti l’arresto nella riduzione dei differenziali si protrae da tanto tempo da far sospettare qualcosa di diverso dalle tante restaurazioni che hanno contrastato in precedenza la riduzione. Potrebbe essere iniziato un terzo ciclo, in cui gli ingranaggi dello Stato e del mercato hanno preso a funzionare all’incontrario e a incrementare i differenziali di potere. Per misurare l’andamento dei differenziali l’indicatore più ovvio sono le disuguaglianze economiche e sociali e quelle politiche. Sulle prime la letteratura, dopo un lungo silenzio, si è alfine arricchita di contributi di pregio3. Dopo tre decenni di riduzione, dagli anni ’80 nei paesi occidentali le differenze di patrimonio e di reddito si sono aggravate. Le funzioni, non sappiamo quanto socialmente utili, di una minoranza d’individui sono premiate smisuratamente, l’occupazione è diventata instabile e il peggioramento delle condizioni di lavoro e retributive è la norma. La mobilità discendente, che può essere lenta, ma anche accelerata e drammatica, è un rischio frequente. Per gli strati inferiori si sono in qualche caso ridotte le chances di vita. Si sono anche allargate le asimmetrie territoriali e la provenienza etnica è un altro motivo di disuguaglianza. Rispetto a un passato non troppo remoto il processo è doppio: molti arretrano, o sono in stallo, alcuni avanzano, ma non riducono più di tanto la distanza da una minoranza di super-ricchi, che in larga parte si riproduce per via ereditaria. Ad aggravare 3   M. Franzini e M. Pianta, Disuguaglianze: Quante sono, come combatterle, Roma-Bari, Laterza, 2016. Il contributo, anche mediaticamente più celebre, è quello di T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani, 2013. Cfr., anche per le implicazioni politiche che trae, M. Savage, The Return of Inequality. Social Change and the Weight of the Past, Cambridge, Harvard University Press, 2021.

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le disuguaglianze socioeconomiche concorrono pure fattori culturali e psicologici. Dopo aver costituito per un secolo il principale pre-testo dell’azione di rappresentanza, la disuguaglianza economica è addirittura fuoruscita dall’agenda delle maggiori forze politiche. Rinominata libera concorrenza, è divenuta una tecnica di dominio preferenziale e c’è voluta la catastrofica crisi finanziaria del 2008 per riproporla nel dibattito pubblico, anche se non altrettanto nell’azione di rappresentanza e di governo. In parallelo, ha ripreso a crescere il secondo differenziale di potere, quello tra governanti e governati, che i regimi rappresentativi e democratici avevano consentito di ridurre. La manifestazione fondamentale di disuguaglianza politica risiede nella sproporzionata capacità di farsi valere di cui dispongono alcuni individui, interessi, categorie e gruppi sociali. Le élites economiche hanno sempre beneficiato di maggiori opportunità di rappresentanza e di ascolto, da parte dell’esecutivo, delle assemblee elettive, delle pubbliche amministrazioni e di altri centri decisionali. Ma il fenomeno si è aggravato. È un segno, dopotutto, anche questo: non solo ai ceti superiori basta sostenere l’uno o l’altro candidato, o ingaggiare un’agenzia di lobbying, o promuovere una campagna di stampa, ma pure godono di un accesso preferenziale alle cariche pubbliche. Al Congresso americano metà degli eletti sono milionari4. In Europa i seggi nei parlamenti nazionali sono riservati a individui altamente scolarizzati e con discreti livelli di reddito5. A servizio di questi ceti sono anche le capacità persuasive dei media, incrementate dall’evoluzione tecnologica. La piena uguaglianza politica, foriera di maggiore uguaglianza sociale, era stata la grande promessa – ma per molti conservatori era una minaccia – del suffragio universale. Filtrato dalla rappresentanza politica, era congegnato in modo tale da attutirne l’impatto. Nei regimi rappresentativi si era subito consolidata la divisione del lavoro tra gli addetti professionali 4   N. Carnes, The Cash Ceiling Why Only the Rich Run for Office and What We Can Do about It, Princeton, Princeton University Press, 2018. 5  Cfr. D. Gaxie e L. Godmer, Cultural Capital and Political Selection. Educational Backgrounds of Parliamentarians, in H. Best e M. Cotta (a cura di), Democratic Representation in Europe. Diversity, Change and Convergence, Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 106-135.

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alla politica e i cittadini comuni e i regimi democratici l’hanno confermata. Ciò malgrado, la rappresentanza politica fidelizzata consentiva in qualche misura la riduzione di questo secondo differenziale. Rispettata per qualche decennio, la promessa del suffragio è stata alfine smentita6. Il voto non è un comportamento naturale e men che mai lo è per i ceti meno istruiti e meno abbienti. Compensava l’azione persuasiva e d’incitamento dei partiti. Alla loro evoluzione in agenzie di marketing elettorale, e al loro rinnovamento programmatico, ha corrisposto il declino della partecipazione al voto, specie tra i ceti più deboli. Non meno diseguale è la partecipazione associativa e ai movimenti di protesta7: anche quella che si definisce spontanea richiede competenze – comunicative e organizzative, ormai anche informatiche – che sono socialmente distribuite in maniera molto diseguale. A loro volta, gli attivisti dei movimenti trovano più agevolmente i propri interlocutori tra i loro pari che non tra i ceti inferiori. Anche le istituzioni partecipative di base coinvolgono maggiormente i ceti medi. Sia pure imperfettamente, le disuguaglianze si cumulano. E si cumulano anche le discriminazioni di genere e di razza. Perché si erano ridotti i differenziali? La risposta della sociologia di Elias rinvia al crescere delle interdipendenze tra gli esseri umani promosso dal monopolio statale e dalla modernità: a dettare i differenziali è il loro grado di dipendenza reciproca. L’ipotesi che possiamo avanzare è che le élites abbiano trovato il modo di affrancarsene. Un saggio premonitore, vecchio ormai di un quarto di secolo, di Christopher Lasch era intitolato alla loro ribellione8. Il fondamentalismo di mercato e le riforme finalizzate a promuovere la governabilità hanno trasformato la ribellione in secessione delle élites. Le élites contemporanee 6   K.L. Schlozman, H.E. Brady e S. Verba, Unequal and Unrepresented. Political Inequality and the Peoples Voice in the New Gilded Age, Princeton, Princeton University Press, 2018. Per quanto dedicate agli Usa, molte conclusioni sono applicabili anche all’Europa. Un’altra interessante ricerca americana è quella di M. Gilens e B. Page, Testing Theories of American Politics: Elites Interest Groups and Average Citizens, in «Perspectives on Politics», 3, XII, 2014, pp. 564-581. 7   M. Quaranta, Political Protest in Western Europe. Exploring the Role of Context in Political Action, Heidelberg-New York, Springer, 2015. 8   C. Lash, La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Milano, Feltrinelli, 2001.

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hanno la loro morale, la loro cultura, il loro linguaggio, il loro sistema penale, sanitario, scolastico, fiscale, nonché luoghi riservati e ben protetti in cui vivere. Le élites non sono compatte, i loro confini sono slabbrati e tra loro imperversano concorrenza e contrasti. Non tutti fra l’altro apprezzano senza riserve la propria secessione. Dopo avere però subito per tre secoli le pressioni dal basso, sembrano aver trovato la formula per non arretrare più neanche quel tanto che basta a governare quelle pressioni. L’iniziativa l’hanno presa le élites del mercato. E hanno coinvolto nella secessione altri gruppi sociali, tra di essi le élites della politica e le antiche contro-élites, cioè le leadership dei partiti socialisti. E dire che le disuguaglianze, oltre a essere un problema morale e motivo d’instabilità politica, elettorale e sociale, sono un ostacolo alla crescita9. * * * Eppure: perché mai le vittime della disuguaglianza apparentemente non si difendono? Perché, nonostante i differenziali di potere abbiano ripreso a crescere di buona lena, nei paesi avanzati il conflitto non si era mai svolto in maniera tanto pacifica? Perché mai i diseguali fanno tanta fatica a trovare portavoce nella contesa per la rappresentanza? Dov’è finito il loro potenziale di resistenza e d’opposizione? Nei primi anni ’70 Habermas e Offe consideravano l’ibridazione tra Stato sociale e mercato insuperabile, pena suscitare gravi problemi di legittimazione. E invece lo Stato sociale è stato ridimensionato seriamente senza proteste eccessive. Cos’è successo allora al conflitto, tenuto conto che i motivi non gli mancano? La prima risposta è che gli esseri umani hanno sempre faticato a ribellarsi apertamente insieme ad altri. Tranne che incontrino imprenditori politici che li incoraggino, ribellarsi collettivamente è costoso e carico di rischi10. Preferiscono resistere individualmente, o adattarsi, o piegare le norme, o profittare delle situazioni. Molta parte dei conflitti sfugge perciò alla vista, 9   M. Franzini e M. Pianta, Disuguaglianze: Quante sono, come combatterle, cit., pp. 31-33; A. Bagnasco, La questione del ceto medio. Un racconto del cambiamento sociale, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 50-51. 10   B. Moore jr., Le basi sociali dell’obbedienza e della rivolta (1978), Milano, Comunità, 1983.

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è una fortuna per chi detiene il potere. La seconda risposta è che la Grande dispersione, la ridefinizione della statualità, gli spazi di governo occupati dal mercato, l’importanza assunta dai media, gli sviluppi della tecnologia e la loro applicazione ai processi produttivi, è possibile abbiano alzato i costi della ribellione. Ha avuto un certo successo la formula dell’inevitabilità: non c’è alternativa, diceva Thatcher, invitando a adattarsi. Due politologi americani, Mattew A. Crenson e Benjamin Ginsberg, la raccontano invece in questo modo: una volta professionalizzate le forze armate, ridotta la tassazione diretta a beneficio di quella indiretta, notoriamente meno visibile e più agevole da esigere, riformato il governo locale, le élites avrebbero scoperto come costi meno, e sia più redditizio, investire nel rovesciamento dei modi di pensare dei cittadini anziché nel fornire servizi pubblici, libertà sindacali e quant’altro11. Ovvero, le élites hanno affinato le tecniche con cui esercitano la loro azione di dominio. O con cui conducono il conflitto dall’alto verso il basso. L’hanno fatto, con l’aiuto di osservatori e interpreti, i quali concorrono a dare un significato al conflitto, occultandolo, negandolo, deviandolo, confondendone e delegittimandone le ragioni. Non è una novità, ma i media offrono un aiuto senza precedenti. Sono state riscritte le categorie con cui le disuguaglianze e il disagio sociale erano definiti in precedenza. Che dire dei racconti incantati della libertà individuale, della soggettività, della creatività? Le disuguaglianze sarebbero anzi virtuose: basta rietichettarle come merito12. Suonano a stormo le campane avverse all’«assistenzialismo»: cosa c’è di più giusto che premiare il merito, la competenza, la laboriosità? Nella retorica pro-market, tagliare i posti di lavoro, introdurre nuove tecnologie, adottare nuovi algoritmi, delocalizzare senza preavviso, ridurre le imposte ai ceti abbienti, è solo ricerca della combinazione più appropriata dei fattori di produzione a beneficio della crescita. Le parole sono armi possenti. Danno una mano pure le statistiche: basta vedere quelle sulla disoccupazione. Per una stagione, le rivendicazioni del mondo del 11   M.A. Crenson e B. Ginsberg, Downsizing Democracy. How America Sidelined Its Citizens and Privatized Its Public, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2002. 12   S. Cingari, La meritocrazia, Roma, Ediesse, 2020.

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lavoro sono state squalificate come corporative: facendo tutt’uno con quelle di qualche robusta corporazione professionale. Da ultimo, veicolare o dar retta a quelle rivendicazioni è diventato populismo. D’altro canto, le misure politiche che hanno consentito l’incremento della disuguaglianza sono state introdotte con studiata gradualità, tenendo d’occhio in primo luogo i loro effetti elettorali. Si è fatto anche un po’ di maquillage alle disuguaglianze, tramite opportunità di consumo messe alla portata di tutti. Un’altra antica tecnica è mettere i disuguali in concorrenza tra loro: gli occupati stabili contro i precari, i giovani contro gli anziani, i nativi contro gli immigrati: la razzializzazione delle disuguaglianze è diventata il piatto forte del menù. I penultimi si specchiano negli ultimi e si battono per restarlo. Né mancano forme più banali di prevenzione e repressione del conflitto. L’azione sindacale è ammessa, ma lo sciopero, oltre a essere stato sottoposto a qualche restrizione normativa, è stato riclassificato come disturbo alla vita collettiva. Quando le imprese lo ostacolano, anche in maniera eterodossa, magari incontrano il favore del pubblico. Anche in questo caso, da che parte stiano i mass media è inutile precisarlo. Potrebbe essere ritenuto perfino un successo delle istituzioni democratiche: se il loro fine è condurre pacificamente i conflitti, il ridimensionamento dei conflitti al di fuori di esse prova che funzionano. Il punto è: quale interpretazione dare del voto? Si può protestare anche rinunciando a deporre la scheda nell’urna, o deponendola bianca, o preferendo un partito d’opposizione. Se non che, intorno al voto si svolge da tempo un’intensa attività di sottovalutazione, rimozione, distorsione. In particolare: i comportamenti di voto che potrebbero testimoniare malessere sociale e scontento sono stati da ultimo reindirizzati in via esclusiva – evitando problematizzazioni ulteriori – contro la politica e i suoi addetti. È la capiente rubrica dell’antipolitica13. Antipolitica è l’astensione, è la volubilità elettorale, è rifuggire l’impegno nei partiti, è dichiarare la propria sfiducia ai sondaggi, è votare per 13   V. Mete, Antipolitica. Protagonisti e forme di un’ostilità diffusa, Bologna, Il Mulino, 2022.

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i partiti outsiders. Sono tutti gesti interpretati come dissenso verso gli addetti alla politica: per i loro comportamenti e il loro basso livello di moralità. Sono distanti e sono una casta privilegiata e questo è ciò che gli elettori patiscono. Ma è davvero la politica l’oggetto del dissenso? E se per caso il dissenso fosse indirizzato contro le politiche che i politici adottano, o non contrastano, a beneficio di alcuni interessi e non di altri? Se fosse un modo di ribellarsi alla disuguaglianza? Non importa più di tanto: dopotutto, anche gli addetti alla politica fruiscono della secessione delle élites. Ed è giusto che paghino il biglietto, recitando la parte del capro espiatorio. Non si fa caso nemmeno al fatto che una quota di risentimento è congenita e che i politici sono esposti by default all’impopolarità14. Tanto meno si fa caso all’atmosfera antipolitica in cui i cittadini sono immersi, alla critica onnipresente della politica, di cui i media fanno spettacolo, come lo fanno del malcontento antipolitico dei cittadini. Ma c’è ancora un altro modo per gravare di uno stigma d’indegnità le scelte elettorali di alcune categorie sociali: è addossare loro i successi dei partiti populisti. Dati alla mano, l’accusa non è troppo fondata. Una minoranza delle vittime della disuguaglianza, dei losers, usa il voto populista come forma estrema di protesta, ma è più frequente la tendenza ad astenersi. I losers sono comunque accusati di ignoranza e congenita propensione alla conservazione, all’autoritarismo, all’intolleranza e al ripiegamento identitario. Il giudizio è ingiusto e sbrigativo. Le scelte di voto sono dettate da ragioni infinitamente più complesse e variegate di quelle che traspaiono dai dati statistici, comunque raccolti. Si dà alfine un paradosso. Dopo aver provato a rivitalizzare i regimi democratici coi rimedi che Sartori chiamava «direttisti», restituendo lo scettro al popolo sovrano, si è scoperto che il popolo non sa maneggiarlo come si conviene e si è ingranata la marcia indietro. Verrebbe insomma dal popolo, incompetente e irresponsabile, la minaccia alla legittimità e stabilità 14   Non c’è società, notava Pierre Bourdieu, «che non abbia una visione sospettosa sulle condotte disinteressate. In tutte le società, al fondo, si trova una filosofia del sospetto sulle condotte che si vogliono disinteressate, pure, etiche, ecc.». Cfr. L’intérêt au disintéressement. Cours au Collège de France.1987-1989, Paris, Seuil/Raisons d’agir, 2022, p. 225.

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delle istituzioni democratiche. La colpevolizzazione sa anche di beffa. Le cause sociali del cosiddetto populismo sono assai più profonde. * * * Il silenzio dei disuguali non vuol dire che abbiano rinunciato a resistere. C’è la resistenza individuale: come taluni comportamenti elettorali, l’emigrazione delle giovani generazioni e perfino la denatalità. Ma di tanto in tanto, anche qualche grande sussulto collettivo smuove l’atmosfera. Non sono sussulti comparabili alle prolungate e ripetute turbolenze degli anni ’60 e ’70, ai grandi scioperi, alle grandi manifestazioni, ai movimenti di allora. E nemmeno alle lotte della prima metà del Novecento. Ma non sono insignificanti. È stato scritto che la protesta collettiva odierna sarebbe gratificante sul piano simbolico, ma innocua nella sostanza15. È un’affermazione opinabile. Gli esiti a breve termine saranno modesti, ma si iscrive in memoria, tesse nuovi legami, contrasta l’invasione mediatica della sfera pubblica e pur sempre imbarazza i dominanti. Le grandi adunanze pacifiste d’inizio millennio non hanno distolto i governanti occidentali dai loro propositi bellicosi. Occupy Wall Street ha ottenuto aggiustamenti insignificanti nei confronti della finanza. Né hanno avuto più fortuna le proteste no-global in occasione dei summit internazionali o i movimenti antiausterity. Ma le agitazioni ambientaliste hanno preso qualche slancio. Tributario del movimento degli Indignados, Podemos ha frenato la deriva neoliberista della politica spagnola. L’ambientalismo tedesco ha portato i Verdi al governo. Momentum ha promosso il rinnovamento, provvisorio, ma non trascurabile, del Labour di Corbyn. La mobilitazione insorta attorno alla figura di Bernie Sanders ha bilanciato l’attivismo reazionario intorno a Donald Trump. È importantissimo al momento il ruolo svolto da Black lives matter anche per i suoi effetti elettorali. In Francia hanno riscosso grande partecipazione le proteste di Nuit debout e poi quella dei gilets jaunes: repressi con le maniere forti, c’è voluta la pandemia per mettere questi 15   N. Srnicek e A. Williams, Inventing the Future: Postcapitalism and a World Without Work, London, Verso, 2016.

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ultimi a tacere. L’Irlanda e l’Islanda sono piccoli paesi, dove però la mobilitazione civica ha favorito esperimenti costituzionali di notevole interesse. C’è qualche assonanza con le amplissime sollevazioni che hanno agitato paesi più lontani, molte represse con la violenza, ma che nel lontano Cile sono culminate in un sorprendente rovesciamento politico di cui sono stati protagonisti la popolazione femminile, le giovani generazioni e i popoli indigeni: l’esperimento costituzionale condotto colà non ha avuto vita facile e sembra essersi arenato. Non esistono però percorsi rettilinei. Sebbene non siano tutte visibili, le resistenze dei disuguali resistono. Una quota non secondaria addirittura si ammalora: diventa devianza, malessere psichico, consumo di droghe, autoesclusione, intolleranza razziale, tifoserie calcistiche violente, fondamentalismo religioso, protesta anti-vax. Ma non c’è da scoraggiarsi. Si è abusato della formula della modernità «liquida» coniata da Zygmunt Bauman, anche contro le sue intenzioni16. Se però i legami sociali sono divenuti più instabili, continuamente se ne intrecciano di nuovi. Si sviluppano nuove connessioni e nuovi esperimenti di socialità e solidarietà. Incontrano difficoltà a guardarsi tra loro, si sono frazionati e hanno moltiplicato i loro temi: il genere, l’ambiente, l’energia, l’abitare, il paesaggio, il lavoro, le grandi infrastrutture, le migrazioni, la vita quotidiana. Differenziazione e pluralismo producono forme di sperimentazione democratica circoscritte, ma pur sempre vitali: le comunità parrocchiali, i comitati di quartiere, le attività di assistenza ai malati, ai disabili, ai carcerati, ai richiedenti asilo, i movimenti dei consumatori e i gruppi d’acquisto, le iniziative di difesa dell’ambiente e del territorio, le attività economiche alternative al mercato, i workers’ buyout, le agenzie di advocacy, i movimenti antirazzisti e benicomunisti. Per quanto si provi a emarginarli come devianza, sono forme d’azione politica anche i centri sociali e lo squatting. E resiste sempre il pensiero critico, che mette in discussione il presente e che prova ad allargare l’orizzonte del possibile. Magari sotto forma di letteratura, di musica, di graffiti sui muri. Il sentimento di abitare un mondo ingiusto è bene all’erta. L’immaginario del bene pubblico, della soli16

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  Z. Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2011.

darietà reciproca, dell’uguaglianza, non si è inaridito, ma si riproduce, e non solo nelle pieghe, ai margini, sullo sfondo. Capita che torni in primo piano: è successo in occasione della pandemia. Purtroppo, si è lasciato subito soffocare. Saranno orizzonti parziali, ma sono altri orizzonti: c’è ancora la memoria, non nostalgica, ma critica, di un altro regime di governo più inclusivo. Le sinistre established e gli ambienti intellettuali loro prossimi si sono riconvertiti, ma non compattamente. Importanti residui della loro storia sopravvivono. Un cospicuo lascito d’idee e d’esperienze proviene dai movimenti collettivi che negli anni ’70 avevano rinnovato la rappresentanza. Il loro claim specifico era l’emancipazione: i regimi occidentali erano invitati a revocare le loro pratiche imperialiste, a contrastare meglio e di più le disuguaglianze, a escogitare nuove opportunità di coinvolgimento dei cittadini, più mature di quelle – già allora in decadenza – offerte dai partiti. Quei movimenti sono stati superati, ma hanno cambiato la società, anche se non come avrebbero voluto. Ha attinto a piene mani da quelle idee, secondo Boltanski e Chiapello, il terzo spirito del capitalismo. Perché mai non dovrebbe ispirarsi a esse anche la resistenza e la critica al mercato? Tutto questo non basta ad arrestare l’aspirazione del capitalismo, anziché dello Stato questa volta, a impadronirsi di ogni ambito della vita collettiva – non è fatta grazia nemmeno alla sfera religiosa, a quella sessuale, a quella familiare – ma intanto si resiste. Dalla recessione del 2008 in avanti sembra essere fra l’altro maturato un nuovo stile nella conduzione dei movimenti e nelle forme associative. I movimenti collettivi degli anni ’70 erano imprese di rappresentanza alternative, sì debolmente organizzate, ma dotate pur sempre di gerarchie e gruppi dirigenti, oltre che provviste di una ragguardevole elaborazione culturale. Le proteste femministe e antiglobal ne hanno replicato lo stile. Le ultime forme di agire collettivo provano a svilupparsi in orizzontale, conducono esperienze di cooperazione, di autogoverno, d’inclusione, per risolvere problemi condivisi, o per condividere problemi individuali. Disordinate per quanto siano, servono a far circolare informazioni e competenze, ad allargare le reti di relazioni, a imbastire discussioni collettive, a formulare proposte e a guadagnare spazi di autonomia, distinguendosi dalle lotte per la rappresentanza politica e per i ruoli 317

di governo. Nel loro stesso farsi servono a vivere la società e la politica in un altro modo. Non senza ambivalenze. Perché costituiscono anche un rischio di segmentazione e di secessione particolaristica dei dominati17. * * * A prima vista, il pluralismo e gli spazi di autonomia degli individui si sono parecchio allargati. Ciascuno può pensare ciò che vuole, può dirlo liberamente. Le soggettività si sono evolute e da destra e da sinistra è un incessante salmodiare alle loro virtù. Ciascuno può praticare lo stile di vita che più gli aggrada, può consumare secondo le sue preferenze, può finanche decidere, da qualche parte, su quando e come porre fine alla propria esistenza. La famiglia è sempre meno intesa come un’istituzione costrittiva. Non c’è più nemmeno un unico modello di famiglia. Anche la condizione femminile ha registrato progressi, pur con molte differenze da un paese all’altro. Ai cittadini si sono infine offerte nuove opportunità di partecipazione alla vita pubblica. Il problema insorge quando si avvicina lo sguardo e si osservano i dettagli. I dominanti sono sempre piuttosto severi nel prescrivere come gli individui debbano essere liberi. Lo Stato ha preteso, con qualche ottima ragione, che tutti i cittadini fossero sottoposti alla legge. Il suffragio universale ha consentito a tutti i cittadini che ne avessero titolo di concorrere, indirettamente, alla sua scrittura. Non si è però risolto il problema delle leggi ingiuste e nemmeno quello dell’uguaglianza di fronte alla legge. Ultimamente, si pretende che tutti gli individui divengano imprenditori di sé stessi, impegnandosi ad abilitarli. Anche ammesso che sia possibile, è una pretesa che scivola nell’arbitrio. Le disuguaglianze sociali ed economiche sono anche un ostacolo alla piena fruizione delle libertà fondamentali. Infine, si è manifestato un vigoroso backlash reazionario, che incombe sui luminosi destini della soggettività, non riducibile all’influenza dei partiti populisti. La destra repubblicana americana rivendica 17   Dati di ricerca interessanti in C. Neveu (a cura di), Expérimentations démocratiques. Pratiques, institutions, imaginaires, Villeneuve d’Ascq, Presses universitaires du Septentrion, 2022.

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la massima libertà dallo Stato. Ma la recente sentenza della Corte suprema, dove essa è dominante, in materia d’interruzione volontaria della gravidanza è un precedente. Nessuna legge ha introdotto limiti alla vita associativa, ma qualche non lieve ritocco ha ristretto le libertà sindacali: nei servizi di pubblica utilità, motivato con l’esigenza di tutelare gli utenti. Sono limitazioni che si possono estendere. La minaccia del terrorismo è diventata motivo, non infondato, per aggravare i controlli. Si è già ricordato come la mediasfera, fatta di giornali, catene televisive, social, in mano a pochissimi grandi imprenditori globali invochi sì a sua difesa la libertà d’opinione, ma di fatto la restringa18. Ma c’è un altro grave motivo d’inquietudine. Per descrivere il mutamento del costume politico avvenuto in Germania all’indomani del primo conflitto mondiale, George L. Mosse ha adoperato il concetto di «brutalizzazione»19. Fu, nel caso del nazismo e del fascismo, una brutalizzazione senza limiti dei conflitti e dell’azione di governo: era uno strascico della guerra e la violenza culminò in un’altra guerra. Un aspetto della situazione attuale è l’impennata di brutalizzazione e, a voler usare le coordinate di Norbert Elias, di rimilitarizzazione dei conflitti. Siamo, per ora, lontani da condizioni tanto drammatiche, la brutalizzazione avviene ai margini, o per vie traverse. Ma è in atto. Una forma è la violenza verbale, che è in crescita da tempo. Nelle manifestazioni di piazza, nei raduni pubblici, negli incontri elettorali, nelle aule parlamentari, nelle assemblee elettive decentrate. La polarizzazione come stile politico arriva da destra anziché da sinistra. Accelerato però dai media e dai social, il linguaggio dell’odio circola ampiamente e contamina la pubblica opinione e il costume civile20. Da qualche parte è già tracimato sotto forma di violenza fisica. C’è pure da interrogarsi sull’azione di governo. I regimi democratici hanno previsto da sempre una dose di coercizione: 18  Pongono la questione, in linea di principio divenuta ineludibile, del regime proprietario dei media J. Cagé e B. Huet, L’information est un bien public. Refonder la propriété des médias, Paris, Seuil, 2021. 19  G.L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza, 2005. 20   S. Bentivegna e R. Rega, La politica dell’inciviltà, Roma-Bari, Laterza, 2022.

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a difesa dell’ordine pubblico, della sicurezza dei cittadini, della legalità. Ma, il dosaggio della coercizione, e dunque della brutalità, si direbbe in crescita anch’esso. Con crescente fastidio sono accolte le azioni di protesta. Le violenze in occasione del G8 di Genova hanno fatto storia. Le brutalità poliziesche d’oltreoceano fanno sempre rumore. Ma anche nella patria dei diritti dell’uomo molta violenza è fuoruscita dalle caserme delle forze dell’ordine per contrastare i Gilets jaunes21. Alla luce di un approccio vendicativo alla devianza, è cresciuto l’impiego della coercizione nella giustizia penale, in special modo contro i ceti disagiati, meno attrezzati per difendersi. Sono brutali gli sgomberi dei senza casa e dei rom. Ed è brutale la pratica dei respingimenti, in terra e in mare, e altri episodi di brutalità si annoverano perfino contro coloro che si mostrano solidali con le vittime della fame e della guerra. Purtroppo, le pubbliche opinioni si abituano. Tanto più che alcune forze politiche avallano la brutalità e altre non si oppongono abbastanza. È pure impressionante la coincidenza tra la brutalizzazione all’interno dei confini nazionali e quanto accade nelle relazioni tra Stati. La scomparsa degli eserciti di leva ha costituito una sorta di rivoluzione postfordista applicata alla guerra: manodopera meno numerosa, ma più qualificata e più tecnologie. Incluse quelle mediatiche. Anziché scoraggiare la guerra, la rinuncia alla coscrizione, l’incoraggia: le opinioni pubbliche la guardano con più distacco. Forse la guerra esplosa ai confini dell’Europa ha cambiato un po’ le cose. In ogni caso: la globalizzazione alimenta la ridefinizione delle gerarchie del sistema internazionale e non è detto che debba avvenire in maniera pacifica. Qualcuno potrebbe essere indotto a ricorrere alla forza militare: anzi, sta già succedendo. È pure da tenere a mente il monito di Tilly sugli Stati e sulla guerra: quando gli Stati si predispongono alla guerra investono risorse in armamenti e li sottraggono ai servizi pubblici e ne risente pure lo spirito pubblico e il costume civile. Per limitarsi a un esempio recente: la discussione pubblica intorno alla guerra in Ucraina si sottrae troppo spesso al principio del rispetto delle altrui ragioni. 21   O. Filleule e F. Jobard, Politiques du désordre. La police des manifestations en France, Paris, Seuil, 2020.

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La rimilitarizzazione delle relazioni internazionali è avvenuta anche attraverso il terrorismo, che è un delicatissimo punto di congiunzione, donde la rimilitarizzazione delle relazioni internazionali si è riversata entro la sfera statale. George W. Bush ha ipocritamente aperto un carcere a Guantanamo, fuori dai confini americani, e Barak Obama, a dispetto del Premio Nobel per la pace, si è guardato dal chiuderlo e dall’abolire le eliminazioni mirate. È ancora in funzione. In Occidente, in barba alla sua celebrata civiltà giuridica, qualcuno ha proposto di legalizzare, seppure in situazioni di emergenza, la tortura22. Viste le difficoltà del momento, tra le élites che hanno fatto secessione si manifesta anche la tentazione di rienergizzare l’azione di governo introiettando qualche dose di populismo. Il quale non ha alcuna remora a convivere con il fondamentalismo di mercato in quanto eleva anch’esso a criterio supremo l’autonomia dell’individuo, affrancato d’ogni obbligazione collettiva. Il capitalismo è sempre la gallina dalle uova d’oro di cui non si discute. Le riserve che i populisti nutrono verso la globalizzazione e l’unificazione europea sembrano destinate al più a risolversi in vaghe misure protezionistiche e in parecchio «sciovinismo del welfare»23, esclusivo dei migranti. Potrebbe costituire, il populismo, una risorsa politica da sfruttare e da qualche parte l’esperimento è in corso. Quanto al regime rappresentativo, pare si contenti di diluirne alcuni tratti senza rimuoverlo. Più qualche dose di brutalizzazione simbolica. Se non che, l’etnonazionalismo, che evoca nemici estremi, interni ed esterni, e che alza muri visibili e invisibili, corre il rischio di tralignare. La brutalizzazione può estendersi alla contesa politica. Il Brasile è lontanissimo, ma l’assalto al Campidoglio il 20 gennaio 2020 è un episodio da scrivere 22   Ci ha provato l’illustre giurista americano A.M. Dershowitz, Terrorismo, Roma, Carocci, 2003. Criticamente il tema è trattato in K.J. Greenberg e J.L. Datel, The Torture Paper. The Road to Abu Ghraib, Cambridge, Cambridge University Press, 2005. Anche M. Di Giovanni, C.R. Gaza e G. Silvestrini (a cura di), Le nuove giustificazioni della tortura nell’età dei diritti, Perugia, Morlacchi, 2017. 23   La formula è di H. Kitschelt e A. McGann, The Radical Right in Western Europe: A Comparative Analysis, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1995, pp. 22-24.

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a caratteri cubitali nella storia della più vantata democrazia d’Occidente. Gli Stati Uniti non sono l’Europa, ma l’Europa ha da lì imparato parecchio. * * * La democrazia inclusiva del dopoguerra è destinata a trasformarsi in democrazia socialmente e politicamente esclusiva? C’è ragione di temerlo. Dinnanzi alla sfida delle disuguaglianze in crescita e del pluralismo culturale, religioso, politico, andrebbe riscoperta anzitutto, e rivitalizzata, la vocazione al confronto pacifico e al compromesso che aveva dato origine ai regimi rappresentativi. Frustrata e contraddetta tante volte, non si è mai estinta. Nelle attuali condizioni, la riconversione dicotomica della competizione politico-elettorale è un lusso che le democrazie avanzate non possono più concedersi. Poteva funzionare in un’altra stagione. Adesso è un problema: polarizza la pubblica opinione e avvelena l’azione di governo e indebolisce per giunta qualsiasi parte politica ne sia titolare pro tempore. Ormai, le elezioni partoriscono per lo più maggioranze risicate, quando non fittizie, comunque poco legittimate. È pure in corso una difficilissima partita tra il pianeta e gli esseri umani che lo abitano: una parte di essi ne hanno largamente abusato e un’altra parte non vuole rinunciare alle opportunità di crescita che l’abuso può offrire loro. Nessuno al momento sembra in grado non di giocare d’anticipo, perché è troppo tardi, e nemmeno di prevenire gli inconvenienti più gravi. Le élites alla testa dei regimi democratici sono per contro prigioniere dei loro calcoli elettorali, delle pretese del mercato e dei conflitti di potenza che si sono riaperti. Non versano in condizioni più favorevoli i regimi autoritari e i nuovi venuti sulla scena dello sviluppo. C’è anche il rischio che l’Occidente si faccia prendere dalla sindrome dell’assedio. Mentre forme di conduzione più riflessive e più rispettose delle altrui ragioni di conduzione dei regimi democratici sarebbero auspicabili. Se possibile adoperandosi per estenderle alle relazioni tra gli Stati. La regola secondo cui nessun regime di governo è invulnerabile è, tuttavia, ben collaudata: quello in carica è stanco, il fondamentalismo di mercato è messo sempre più in discussione. 322

Resta da intendere quali fazioni e quali interessi potrebbero imporre un altro disegno di ordine sociale e di giustizia e in che modo. Chi è in grado di mobilitare e unificare le vittime della disuguaglianza? Che possibilità di farsi ascoltare hanno le correnti di pensiero, le formazioni politiche, i segmenti di società che coltivano un immaginario alternativo? A prima vista, modeste. Qualcuno tra gli addetti al capitalismo ha inteso che il limite è stato raggiunto, che le uova d’oro ha costi insopportabili. Dove sta, però, il punto d’incontro donde sincronizzare gli ingranaggi ultracomplessi dello Stato e del mercato in maniera socialmente più giusta? C’è ancora spazio per un’idea d’ordine, di giustizia, di sicurezza, anche su scala internazionale, meno ipotecata dal profitto e più attenta alla civile convivenza e alla dignità di ciascuno? L’unica raccomandazione che chi ha scritto questo libro si sente di avanzare è di coltivare la conoscenza, la ricerca, la scuola, lo studio: bisogna battersi per sottrarli al mercato e rivolgerli a dubitare, a capire, a spiegare, a criticare, a inventare. La conoscenza è un’arma che è sempre stata utilizzata nella contesa per il potere. Lo è anche l’ignoranza, che assume al momento le vesti del depauperamento dei sistemi d’istruzione, che va assolutamente contrastato. Chi si batte per un mondo diverso può contare sulle idee, che rientrano pure loro nei rapporti di forza. Per fortuna, la storia rifugge i percorsi prefissati e le circostanze offrono a volte opportunità impreviste. Il futuro è sempre aperto, anche quando sembra più fosco. La sola cosa che sappiamo è che può accadere di tutto.

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INDICE DEI NOMI

INDICE DEI NOMI

Aalberg, T., 203 Accornero, G., 235 Achen, C.H., 107, 122, 161, 170, 224 Acs, Z.J., 286 Adam, S., 280 Agostino, 15 Agrikoliansky, É., 113, 300 Akkerman, T., 203, 293 Albertazzi, D., 222 Aldrin, P., 149, 210, 281 Allamprese, A., 61 Allende, S.G., 261 Allern, E.H., 210 Allum, P., 183 Alter, K.J., 86 Altheide, D.L., 89 Althusius, J., 45, 52 Amadae, M., 260 Amin, A., 245 Anderson, B., 26 Anderson, P., 39, 280, 281 Anter, A., 14, 38 Armao, F., 87 Arndt, C., 221 Aron, R., 240 Arrigoni, P., 285 Atkinson, S., 221 Attlee, C., 190 Bagehot, W., 138, 143 Bagnasco, A., 264, 311, Baines, P., 210 Bairoch, P., 76 Baker, K.M., 78, 80 Baldissara, L., 182 Bale, T., 202, 210, 222, 223, 301 Bargel, L., 149 Barnett, M., 85 Bartels, L.M., 107, 122, 161, 170, 224

Bartolini, S., 116, 118 Bassens, D., 99, 284 Bateman, A., 143 Baudot, P.-Y., 131, 287 Bauman, Z., 316 Bayart, J.-F., 290 Beck, U., 93 Beeckmans, L., 99, 284 Beetham, D., 162 Beik, W., 46 Bell, D., 192, 244, 297 Belligni, S., 213 Benelbaz, C., 146 Benigno, F., 39, 53 Benkler, Y., 91 Bentivegna, S., 319 Beramendi, P., 301 Berg, M.P., 180 Berman, H.J., 24 Bernard, M., 269 Best, H., 309 Betz, H.-G., 102, 295 Beveridge, W., 72, 228, 267 Bevir, M., 52, 86, 94, 159, 160, 267 Bezes, P., 100, 101 Bhambra, G.K., 84 Biais, B., 253 Biancalana, C., 159, 219 Bickerton, C.J., 220, 279, 281 Biezen, I. van, 145, 177, 208, 209 Bifulco, L., 285 Billig, M., 102 Bismarck, O. von, 130 Blackstone, W., 134 Blair, A. (Tony), 207, 221, 267, 269 Blichner, L.C., 289 Blickle, P., 45-47 Blocher, C., 200 Block, F., 60, 261

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Blokker, P., 273, 294 Blondel, J., 211 Blondiaux, L., 163 Blyth, M., 209, 260, 261 Bobbio, L., 99 Bobbio, N., 54, 151, 243, 284 Bodin, J., 36 Boltanski, L., 30, 91, 109, 119, 207, 262-264, 317 Bonnett, K., 252 Borgna, P., 86 Borgognone, G., 170 Borioni, P., 270 Bossi, U., 200, 203 Bouckaert, G., 100 Bourdieu, P., 15, 20-23, 25-28, 55, 63, 87, 91, 109, 112, 119, 314 Boyer, R., 21 Brack, N., 212 Braconnier, C., 147 Brancaccio, L., 213 Brennan, J., 145 Brenner, N., 282 Briquet, J.-L., 181, 184, 212 Broatright, R.G., 216 Bromley, S., 252 Brown, W., 237, 274 Brunner, O., 49 Bryce, J., 167 Brzezinski, Z., 246 Buchanan, J.M., 261 Bué, N., 149 Bukow, S., 202, 301 Burbank, J., 46 Burin, F.S., 192, 232 Burke, E., 80, 133, 134, 136, 273 Burke, N., 253 Burke, P., 37, 48 Burnham, W.D., 171 Buscetta, T., 17 Busch, A., 269 Bush, G.W., 321 Buzogáni, A., 304 Caciagli, M., 183 Caffarena, A., 278 Cagé, J., 319 Calise, M., 121, 211 Callaghan, J., 251 Calligaro, O., 281

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Camau, M., 152 Cameron, D., 285 Campati, A., 107, 159 Campolongo, F., 218 Canfora, L., 127 Cannon, J., 80 Canovan, M., 296, 298, 299 Cappella, J.N., 211 Carlo I, 45, 56, 76 Carnes, N., 309 Carré de Malberg, R., 139, 140 Carter, J., 246, 251 Carty, R.K., 212 Caruso, L., 218, 219 Casal Bértoa, F., 145 Casas-Zamora, K., 208 Caselli, D., 285 Cassese, S., 279 Castel, R., 70, 72 Castiglione, D., 114, 159, 160 Cedrini, M., 94 Célestine, A., 225 Celis, K., 165 Cepernich, C., 224 Ceri, P., 219 Cervera-Marzal, M., 218 Chadwick, A., 159 Chandler Jr., A.O., 85 Charlot, M., 202 Chàvez, H., 303 Chiapello, E., 262-264, 317 Chirac, J., 206 Christin, O., 46, 78 Churchill, W., 177, 190 Ciccozzi, A., 305 Cingari, S., 312 Clark, J.D.C., 149 Clarke, N., 199 Clausewitz, C.P. von, 75 Clinton, W.J. (Bill), 144, 269, 288 Cohen, D., 244 Coke, E., 134 Cole, G.D.H., 52 Collovald, A., 113, 300 Comte, A., 91 Conniff, J., 134 Constant, B., 143 Cooper, F., 46 Corbyn, J., 216, 218, 221, 303, 315 Costa, O., 212

Cotta, M., 114, 309 Cottino, A., 53 Crainz, G., 236 Crenson, M.A., 312 Croce, B., 141 Cromwell, O., 40, 76 Cross, W.P., 215 Crouch, C., 242 Crozier, M., 127, 246, 248 D’Agostino, G., 105 D’Ambrosio, L., 61 D’Orsi, A., 142 Dahrendorf, R., 232 Dakhlia, J., 217 Dard, O., 62, 271 Datel, J.L., 321 De Blasio, E., 163 De Certeau, M., 235 De Gaulle, C., 148, 174 De Geus, R., 222 De Grazia, V., 290 De la Torre, C., 199 De Lange, S.L., 293 De Leonardis, O., 286 De Vreese, C., 203 Delmas, C., 91 Delors, J., 269 Denver, D., 212 Dershowitz, A.M., 321 Derudder, B., 99, 284 Di Giovanni, M., 321 Di Giovine, A., 160 Di Leo, R., 127 Di Palma, G., 29, 69, 132 Diletti, M., 93 Dogan, M., 117 Dogliani, M., 119 Dogliani, P., 180 Dolez, B., 220 Dormagen, J.-Y., 147 Doyle, M.W., 46 Dubet, F., 74, 98 Duguit, L., 52 Dulong, D., 92 Durkheim, É., 71 Dutoya, V., 108 Duverger, M., 148, 168, 176, 177, 190, 192

Eikenberry, A., 286 Elias, N., 15, 17, 18-22, 28, 58, 60, 63-65, 74, 75, 81, 83, 84, 142, 307, 310, 319 Engels, J.I., 62, 271 Erhard, L., 229 Escalona, F., 270 Esser, F., 87, 89, 203 Evans, G., 222, 223, 267 Evans, P.B., 15 Eyal, G., 92 Fabietti, U., 295 Faris, R., 91 Farrall, S., 253 Farrell, D.M., 164 Faucher, F., 210, 215, 216, 267 Fawcett, E., 222 Ferrarese, M.R., 52, 85, 96, 279 Ferraresi, F., 27 Figgis, J.N., 52 Fillieule, O., 235 Finchelstein, F., 296 Finnemore, M., 85 Fischer, N., 53 Flinders, M., 187, 274 Floridia, A., 163 Florio, M., 97 Foot, M., 207 Ford, R., 252 Foret, F., 281 Foucault, M., 30, 49, 55, 65-69, 75 Fraenkel, E., 54 France, P., 95 Franzini, M., 308, 311 Fraser, N., 288 Fretel, J., 184, 220 Freud, S., 65, 238 Friedman, M., 254, 261, 262 Gallino, L., 86, 96, 257, 258 Garrigou, A., 147 Gaudin, J.-P., 52, 99 Gauja, A., 193, 215 Gaxie, D., 107, 110, 147, 187, 309 Gaza, C.R., 321 Gellner, E., 297 Genovese, R., 203 Genschel, P., 96 Georgakakis, D., 281

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Gerbaudo, P., 103, 224 Germanese, D., 119 Giddens, A., 267, 268, 284 Gierke, O. von, 52 Gilardi, F., 289 Gilens, M., 310 Gill, S., 246 Gillis, J.R., 44 Gilman, N., 232, 290 Ginsberg, B., 312 Ginsburg, T., 146 Giolitti, G., 130 Girotti, F., 71 Godmer, L., 184, 212, 309 Goodin, R.E., 88 Goodwyn, L., 171, 297 Gorski, P.S., 50 Granaglia, E., 268 Graziano, L., 183 Green, J., 222 Greenberg, K.J., 321 Grosser, A., 151 Grossmann, M., 149, 207 Groulier, C., 102 Gruening, G., 100 Guinier, L., 144 Gunther, R., 209 Habermas, J., 77, 78, 239, 240, 245, 311 Haider, J., 200 Hale, S., 268 Hall, S., 252, 298 Hallin, D.C., 88 Halpern, C., 98 Hamilton, A., 137 Hands, G., 212 Harding, A., 213 Harling, P., 80 Harris, C., 164 Hart, P. ‘t, 94 Harteveld, E., 203 Hartmann, M., 86 Häusermann, S., 301 Hay, C., 253 Hayat, S., 105, 108 Hayek, F. von, 254, 260, 261 Hazan, E., 94 Heffernan, R., 206 Heinisch, R.C., 199, 203, 220

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Hermet, G., 52 Hibou, B., 31, 35, 102 Hintze, O., 43, 44, 105 Hirschman, A.O., 31, 36, 228, 260 Hirst, P.Q., 52 Hobbes, T., 28, 36, 45, 76, 108, 125 Hobsbawm, E., 76 Höfert, A., 46 Hofstadter, R., 297 Holcombe, R.G., 62, 94, 95, 214, 272 Holmes, S., 287 Holmwood, J., 84 Holtz-Bacha, C., 199, 203 Honneth, A., 288 Hooghe, L., 282 Hopkins, D.A., 149, 207 Horsfield, B., 202 Hossay, P., 293 Hubé, N., 281 Huet, B., 319 Huntington, S.P., 127, 246, 248, 249 Hupe, P., 94 Huq, A.Z., 146 Ignazi, P., 153, 184, 201, 293 Inglehart, R.F., 201, 241, 242, 305 Invernizzi Accetti, C., 220 Ionescu, G., 297 Iversen, T., 256, 257, 283 Jabko, N., 279 Jackson, A., 168 Jäger, A., 296, 298 Jamieson, K.H., 211 Jasanoff, S., 87 Jay, J., 137 Jellinek, G., 138 Jennings, W., 199 Jessop, B., 252, 282 Jessoula, M., 61 Joachim, J., 86 Jobard, F., 320 Jochum, M., 280 Johnson, B., 222 Johnson, L.B., 197 Jones, M., 282 Jouvenel, B. de, 131 Jun, U., 202, 301

Kane, J., 94 Kantorowicz, E.H., 22, 49 Katsambekis, G., 218, 302 Katz, R.S., 207-209, 215, 232 Katznelson, I., 171 Kauppi, N., 86 Kavanagh, D., 251, 253, 255 Kazancigil, A., 52 Keane, J., 94 Keating, M.J., 281, 283 Kelsen, H., 81, 107, 139, 151, 153, 154, 185 Kenig, O., 211 Kerrouche, E., 212 King, A., 247 King, D., 100, 279, 282 King, D.S., 96 Kioupkiolis, A., 218, 302 Kirchheimer, O., 191, 192, 194-196, 204, 205, 209, 232, 234, 239 Kitschelt, H., 181, 209, 293, 301, 321 Kluver, D., 286 Kohl, H., 269 Kornhauser, W., 297 Koselleck, R., 78 Kriegel, A., 175 Kriesi, H., 280, 301 Krouwel, A., 191, 202, 222, 223, 301 La Spina, A., 98, 281 Laband, P., 138, 139 Laclau, E., 298, 302, 303 Ladini, R., 213 Landemore, H., 164 LaPalombara, J., 191 Lasch, C., 310 Lascoumes, P., 95, 98 Lash, C., 310 Lash, S., 276 Laski, H.J., 52, 273 Latour, B., 124 Lawson, K., 186 Lazar, M., 175 Le Bon, G., 188 Le Galès, P., 96, 98, 100, 267, 282 Le Pen, J.-M., 200 Le Pen, M., 222 Lebaron, F., 92 Lefebvre, R., 184, 213, 216, 220 Leggett, W., 268

Lehingue, P., 115 Lehmbruch, G., 156 Leibholz, G., 155 Lenin, V.I., 296 Lijphart, A., 149 Ling, T., 252 Linz, J., 209 Lippman, W., 250 Lipset, S.M., 115, 116, 191, 231, 232, 297, 301-303 Locke, J., 76, 144 Lombardini, S., 151 Lovenduski, J., 165 Luigi XIV, 19, 37, 46 Luigi XVI, 105 Lupo, S., 48 Mabileau, A., 121 MacAllister, I., 212 Machiavelli, N., 36 MacLeod, G., 282 MacMillan, H., 253 Macron, E., 219, 220 Madison, J., 136, 137 Madsen, M.R., 86 Mair, P., 115, 176, 178, 207-209, 223, 224, 232 Maitland, F.W., 52 Majone, G., 98, 281 Malthus, T.R., 59 Mancini, P., 88 Manin, B., 78, 121, 143, 159, 160, 163, 211 Manow, P., 49, 269 Maravall, J.A., 23, 24, 42, 44, 45 Maravall, J.M., 160 Marchionatti, R., 94 Marcuse, H., 238, 239 Maria Antonietta, 105 Marini, R., 89 Marks, G., 282 Marrone, G., 217 Marshall, T.H., 73, 267 Martell, L., 268 Martin-Breteau, N., 225 Martone, V., 213 Marx, K.H., 59, 72, 238 Massardier, G., 152 Mastropaolo, A., 275 Matteucci, N., 243

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Mattina, C., 62, 184, 213, 214, 271 Mau, S., 265 May, T., 285 Mayer, A.J., 39, 40 Mazlish, B., 85 Mazzoleni, G., 87, 202 Mazzoleni, O., 199, 203, 220, 273 McGann, A.J., 293 McIlwain, C.H., 77 Mégie, A., 52 Mélenchon, J.-L., 218, 303 Melucci, A., 240, 241 Mendés-France, P., 234 Mendilow, J., 147 Mény, Y., 299 Merkel, A., 222 Merton, R.K., 297 Mete, V., 274, 313 Mettler, S., 150 Meyer, D.S., 202 Meynaud, J., 91, 232 Michels, R., 30, 130, 153, 154, 175, 187-190 Miglio, G., 13 Mill, J.S., 137, 143 Miller, J.J., 143 Mineur, D., 153 Mirkine-Guétzévich, B., 151 Mirowski, P., 229, 260 Mitterand, F., 269 Molander, A., 289 Mondon, A., 295 Monier, F., 62, 271 Montero, J.R., 209 Montesquieu, C.-L. de Secondat de, 76, 80, 292 Moore Jr., B., 30, 32, 40, 56-59, 113, 117, 118, 172, 229, 239, 311 Moravcsik, A., 280 Morgan, E.S., 133 Moro, G., 286 Morris, P., 253 Morris Jones, W.H., 231 Morrison, D., 268 Morss, E.R., 85 Mortimore, R., 221 Mosca, G., 108, 140, 141, 153, 189 Moss, J., 199 Mosse, G.L., 319 Mouffe, C., 303

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Mudde, C., 176, 293, 299 Mudge, S.L., 269, 270 Mughan, A., 150 Munk Christiansen, P., 278 Murray, G., 93 Mussolini, B., 189 Myrdal, G., 260 Namier, L.B., 79, 80 Napel, H.M. ten, 145 Napoleone, 41 Nedergaard, P., 278 Neumann, S., 191 Neveu, C., 318 Neveu, E., 93, 235, 243 Nixon, R., 249 Norris, P., 305 O’Donnell, G., 161 O’Gorman, F., 80 Obama, B., 321 Ochoa Espejo, P., 199 Offe, C., 151, 245, 276, 311 Offer, A., 261 Offerlé, M., 110 Ongaro, E., 100 Oosterlynck, S., 99, 284 Orlando, V.E., 139, 140, 154 Ortoleva, G., 235 Ostiguy, P., 199 Ostrogorski, M., 167, 171, 173, 190 Oswald, M., 199 Page, B., 310 Palano, D., 153, 184, 296 Palidda, S., 83 Pallante, F., 164 Palumbo, A., 97, 101 Panebianco, A., 195 Papadopoulos, Y., 142, 289 Parkin, F., 117, 118 Pasquino, G., 243 Passarelli, G., 215 Passeron, J.-C., 26 Patapan, H., 94 Pavolini, E., 61 Pecresse, V., 222 Pelling, L., 270 Pellizzoni, L., 93 Perotti, E., 253

Petitfils, A.-S., 210 Phélippeau, É., 81, 147 Phillips, A., 61 Pianta, M., 308, 311 Piattoni, S., 181, 283 Piccio, D.R., 145, 208, 215 Pierson, P., 254 Piketty, T., 220, 308 Pina, C., 149 Pinochet, A., 261 Pinson, G., 99, 213, 214, 284 Pitkin, H.F., 107, 120, 123, 126, 160 Pizzorno, A., 29, 76, 119, 123, 126, 127, 130, 173, 195, 229, 242 Plasser, F., 210 Plehwe, D., 229, 260 Poggi, G., 17, 53, 71 Poguntke, T., 150, 206, 209, 288 Polanyi, K., 59, 60, 71, 72 Pollitt, C., 94, 100 Poulantzas, N., 95 Procacci, G., 70 Prud’homme, J.-F., 52 Przeworski, A., 160 Ptak, R., 229 Putnam, R.D., 284

Roberts, M., 173 Rockfeller, D., 246 Rodotà, S., 287 Rodríguez-Pose, A., 283 Rohrschneider, R., 205 Rokkan, S., 115, 116, 191, 301, 303 Romanelli, R., 82, 84, 287 Romano, C.P.R., 86 Romano, S., 52 Roncarolo, F., 203, 275 Rooduijn, M., 293 Rosanvallon, P., 143, 146, 149, 150, 162, 170, 289 Rose, N., 69, 70, 73, 74, 285 Rosenblum, N.L., 170, 171 Rosenbluth, F.M., 164, 217 Rositi, F., 204 Ross, K., 235 Roth, G., 173, 175 Rothstein, S.A., 278 Rousseau, J.-J., 106, 123, 141 Rovira Kaltwasser, C., 199, 299 Rowell, J., 281 Rozenberg, O., 131 Runciman, D., 13, 52 Russo, F., 114

Quaranta, M., 310

Safran, W., 191 Saint-Simon, C.-H. de Rouvroy, 91 Saitta, P., 30, 61 Salas-Porras, A., 93 Sanders, B., 315 Sanderson, G.N., 149 Sandri, G., 216 Sarkozy, N., 206, 222 Sartori, G., 107, 115, 142, 148, 159, 189, 231, 274, 314 Sartre, J.-P., 198 Sassen, S., 283 Savage, M., 103, 308 Saward, M., 108 Sawicki, F., 181 Scaff, L., 188 Scarrow, S.E., 193, 209, 217 Schain, M., 293 Schakel, A.H., 282 Scharpf, F., 160, 280 Schattschneider, E.E., 109, 189-191 Scheucher, C., 210 Schlein, E., 216

Ragona, G., 21 Rahat, G., 211 Ramos, J.M., 305 Raniolo, F., 176, 224 Rashkova, E., 145 Ravazzi, S., 213 Reagan, R., 251, 253-255, 284 Recoquillon, C., 225 Rega, R., 319 Regonini, G., 162 Reinalda, B., 86 Reinemann, C., 203 Rendueles, C., 218 Rennwald, L., 221 Revelli, M., 185 Revillard, A., 287 Reybrouck, D. Van, 145 Rhodes, A., 221 Ricardo, D., 59 Rich, A., 93 Roberts, H., 91

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Schlozman, K.L., 310 Schmitt, C., 49, 153, 154, 185, 191 Schmitter, P.C., 156 Schröder, G., 269 Schulze-Cleven, T., 278 Schumpeter, J.A., 82, 108, 109, 157, 158, 190, 204, 250 Sciarrone, R., 275 Scott, A., 101 Scott, J.C., 30, 34-36, 275 Scraton, P., 253 Scuccimarra, L., 136 Seddone, A., 216 Segaert, B., 99, 284 Seligman, E.R.A., 297 Semi, G., 213 Seyd, P., 221, 271 Shany, Y., 86 Shapiro, I., 164, 217 Sharman, J.C., 61 Shefter, M., 167-169, 181 Shell, K., 192, 232 Sidney, A., 134 Sieyès, E., 80, 135, 136, 138, 139, 145, 146 Sills, D.J., 297 Silvestrini, G., 321 Sivini, G., 175 Skinner, Q., 13, 36, 45, 46, 76 Sklair, L., 86 Skocpol, T., 15, 225, 285 Skornicki, A., 66 Smith, G., 163 Snow, R.P., 89 Sobolewska, M., 252 Sola, J., 218 Solinas, M., 288 Sombart, W., 169 Somers, M.R., 60, 261 Sorice, M., 163 Soskice, D., 256, 257, 283 Spagnoletti, A., 48 Spanje, J. van, 222 Spinoza, B., 45 Spire, A., 53 Srnicek, N., 315 Staab, P., 90 Staggenborg, S., 202 Standing, G., 98, 266, 278 Stavrakakis, Y., 218

334

Steenvoorden, E., 203 Stewart, J., 202 Stoker, G., 199 Stokes, S.C., 160 Strange, S., 86 Strath, B., 13, 45, 46 Strayer, J.R., 34 Streeck, W., 94, 95, 229, 258, 259, 266, 269, 272, 276, 290 Strömbäck, J., 87, 89, 203 Suiter, J., 164 Suleiman, E.N., 101 Sunstein, C.R., 287 Supiot, A., 61, 277 Surel, Y., 299 Swigart, L., 86 Szakolczai, A., 70 Taguieff, P.-A., 298, 299 Tarditi, V., 224 Tarrow, S.G., 182, 196, 197, 225 Terris, D., 86 Testi, A., 167, 169 Thatcher, M., 70, 151, 205, 206, 250255, 266, 284, 298, 312 Thiébault, J., 211 Thiel, S. van, 100 Thiel, T., 90 Tholfsen, T. R., 173 Thompson, E.P., 95, 116 Tilley, J., 223, 267 Tilly, C., 15, 17, 19, 21, 28, 33, 44, 45, 88, 117, 196, 237, 239, 320 Titmuss, R., 73, 233, 234, 266 Tocqueville, C.-A.-H. Clérel de, 106 Torres, P., 305 Touraine, A., 240, 244 Traverso, E., 84 Treille, E., 216 Tremlett, L., 202, 222, 223, 301 Trigilia, C., 150, 275, 292 Trump, D., 315 Tsipras, A., 218, 303 Tuccari, F., 188 Tuorto, D., 202, 300 Ullmann, W., 44, 45 Underdown, P.T., 134 Urbinati, N., 107, 294 Urry, J., 276

Vampa, D., 222 Varga, M., 304 Vauchez, A., 95, 280, 289 Vedel, G., 151 Veltri, F., 219 Venturino, F., 216 Verba, S., 310 Verbeek, B., 86 Vercelli, C., 295 Veugelers, J.P., 223 Vibert, F., 289 Viesti, G., 283 Vinen, R., 235 Violante, P., 135 Viviani, L., 204 Wacquant, L., 83, 288 Walzer, M., 50 Ware, A., 167, 171 Watanuki, J., 127, 246, 248 Watson-Wentworth, C., marchese di Rockingham, 133

Webb, P., 150, 206, 288 Weber, M., 11, 13-15, 21, 22, 28, 30, 50, 58, 59, 65, 81, 82, 121, 128, 129, 153, 154, 167, 170, 176, 185, 186, 188, 204 Weiner, M., 191, 192 White, S., 268, 269 Wiener, M.J., 251 Wilkinson, S.I., 181 Williams, A., 315 Williamson, V., 225 Winter, A., 295 Wivel, A., 278 Wolfe, A., 54 Wring, D., 221 Zalio, P.-P., 184 Zancarini-Fournel, M., 235 Zangl, B., 96 Zemmour, É., 301 Ziblatt, D., 173, 177 Zolberg, A.R., 171, 293 Zolo, D., 87, 218, 288

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SAGGI

Ultimi volumi pubblicati: 923. Lucia Ceci, La fede armata. Cattolici e violenza politica nel Novecento. 924. Matteo Jessoula - Emmanuele Pavolini, La mano invisibile dello stato sociale. Il welfare fiscale in Italia. 925. William D. Nordhaus, Spirito Green. 926. Maurizio Catino, Trovare il colpevole. La costruzione del capro espiatorio nelle organizzazioni. 927. Emanuele Stolfi, La giustizia in scena. Diritto e potere in Eschilo e Sofocle. 928. Michele Dantini, Storia dell’arte e storia civile. Il Novecento in Italia. 929. Chiara Saraceno - Davide Benassi - Enrica Morlicchio, La povertà in Italia. Soggetti, meccanismi, politiche. 930. Giuseppe Zaccaria, Postdiritto. Nuove fonti, nuove categorie. 931. Alessandro Stanziani, Le metamorfosi del lavoro coatto. Una storia globale, XVIII-XIX secolo. 932. Luigino Bruni, Capitalismo meridiano. Alle radici dello spirito mercantile tra religione e profitto. 933. Lorenzo Codogno - Giampaolo Galli, Crescita economica e meritocrazia. Perché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce. 934. Piero Ignazi - Enzo Risso - Spencer Wellhofer, Elezioni e partiti nell’Italia repubblicana. 935. Alessandro Armando - Giovanni Durbiano, Critica della ragione progettuale. 936. Philippe Audegean, Violenza e giustizia. Beccaria e la questione penale. 937. Francesca Fauri, Storia dell’industria aeronautica italiana. Dai primi velivoli a oggi. 938. Alfio Mastropaolo, Fare la guerra con altri mezzi. Sociologia storica del governo democratico.