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CONVERSAZIONI
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Angelo Angeloni
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CONVERSAZIONI CON LA SOCIOLOGIA Interviste a Franco Ferrarotti
ARMANDO EDITORE
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ANGELONI, Angelo Conversazioni con la Sociologia. Franco Ferrarotti intervistato da Angelo Angeloni ; Roma : Armando, © 2011 96 p. ; 20 cm. (Conversazioni) ISBN: 978-88-6081-804-1 1. Rapporto Sociologia/Letteratura 2. La condizione giovanile 3. Sociologia della comunicazione
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© 2011 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 02-17-001 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]
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SOMMARIO
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Prefazione I.
Che cosa è la sociologia? 1. 2. 3. 4.
La memoria La sociologia Sociologia e Letteratura Il professore e il politico
II. La condizione giovanile: per una sociologia della gioventù 1. I giovani e la scuola 2. I giovani e la famiglia 3. I giovani e la violenza
7 11 13 15 18 20 23 23 26 30
III. Un possibile punto di riferimento per i giovani: l’affascinante esempio di Simone Weil
33
IV. Sociologia della comunicazione: a) parola scritta e immagine
43
V.
53 54 55 57 61
Sociologia della comunicazione: b) parola scritta e memoria 1. 2. 3. 4.
Socrate e la parola La fine della cultura del libro? Le due logiche “Tradizione e memoria in un mondo smemorato”
VI. La morte nella società tecnicamente progredita
63
VII. L’agire dell’uomo nella storia
71
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83
Cronologia delle opere di Franco Ferrarotti citate in queste conversazioni
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Note
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PREFAZIONE
Il mio primo incontro con Franco Ferrarotti avvenne attraverso un suo libro: Studenti, scuola, sistema, che l’editore Liguori di Napoli pubblicò nel 1976. Mi ero appena laureato in Lettere e, come tutti i giovani laureati, sognavo il lavoro. Quel libro, se da un lato mi teneva legato a un periodo che avevo attraversato e avevo appena lasciato (ancora vivo di ricordi e di speranze), dall’altro provocò in me disincanto, quando lessi questa pagina: «La difficoltà, l’impossibilità di trovare un lavoro […] ha un risvolto esistenziale e comporta effetti psicologici difficili da calcolare, ma certamente di gravità eccezionale. La disoccupazione dei giovani in cerca di prima occupazione non può essere equiparata ad alcuna altra forma di disoccupazione. Può sempre accadere che un operaio, meno spesso un impiegato, si trovino a dover affrontare un periodo di ozio forzato, quello che si chiama una fase di disoccupazione stagionale o congiunturale. La situazione è penosa. La cassa integrazione è un parafulmine inadeguato. La famiglia deve ridurre il tenore di vita. […] La sicurezza d’un tempo, cioè quello che potremmo chiamare il respiro o l’orizzonte vitale della famiglia appare drasticamente ridotto, poiché nulla è così necessario quanto i consumi apparentemente superflui e dolorosissima appare la rinuncia che significa riduzione del tenore di vita e quindi discesa, perdita della collocazione sociale raggiunta. Siamo pur sempre in presenza d’una situazione che si spera temporanea: una specie di infortunio, un’interruzione passeggera. Nel caso dei giovani in cerca di prima occupazione le cose sono radicalmente diverse. È generalmente difficile, per un giovane arrivato all’età di lavoro, comprendere pienamente il meccanismo economico e politico della società globale e vedere quindi il proprio caso personale solo come uno degli indici segnaletici d’una situazione generale, impersonale e oggettiva. L’im7
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possibilità di trovar lavoro rappresenta dapprima per questo giovane una sua incapacità individuale e implica il senso d’una colpa personale, che per essere oscura non è per questo meno reale e dolorosa. Ma, ben presto, l’impossibilità di occuparsi stabilmente viene, dal giovane disoccupato involontario, percepita soggettivamente come il rifiuto che la società inspiegabilmente e testardamente oppone alla sua offerta di energia e di collaborazione» (pagg. 33-34). Non dico che i miei sogni s’infransero, ma compresi che la realtà era più complessa. Le conversazioni qui raccolte sono nate in occasione della pubblicazione di alcuni libri di Franco Ferrarotti: esse, quindi, prendono spunto dal tema specifico di quei libri. Ma discorrendo, succedeva che si ampliassero, fino ad abbracciare una molteplicità di altri temi: i giovani, la famiglia, la scuola, la violenza, la lettura e la cultura in generale, la televisione e i mass-media, il lavoro, la fabbrica, la disoccupazione, l’immigrazione, i sistemi di produzione, il tempo del lavoro in una società frenetica e velocizzata, la morte, l’etica. Argomenti limitati, naturalmente, rispetto a quelli di cui egli si è occupato nella sua lunga attività di sociologo, e di cui è testimonianza un’immensa bibliografia*. Argomenti diversi, ma tutti legati da una profonda attenzione all’uomo nella società industrializzata: obiettivo di tutta la ricerca sociologica di Ferrarotti. La sociologia, infatti, se da un lato si occupa della realtà esterna in cui l’uomo agisce, non può ridursi – come spesso ha ripetuto – a semplice scienza documentaristica. E se nei suoi libri si nota bene questo “umanesimo”, basta una sola volta conversare con lui, in pubblico o in privato, che avverti un calore umano, il quale diviene, a volte, pietas per la condizione dell’uomo: quasi un sentimento “religioso” che ti coinvolge (intendendo per “religioso” un “penetrare”, uno “scavare” in quella condizione, e comprenderla). Il filo che tiene unite queste conversazioni è, dunque, la società e i valori umani che essa deve conservare: valori che vanno al di là di quelli semplicemente economici e amministrativi. Qualunque azione umana, se non si prefigge uno scopo umano, non ha valore. Se l’uomo 8
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crede di vivere solo l’attimo, senza uno scopo che lo superi e che tenda verso più ampi orizzonti, la sua azione è inutile. ***
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Ad eccezione dell’ultima conversazione, non pubblicata, le altre sono state pubblicate nelle seguenti riviste: – “Cosa è la sociologia”, in Tempo Presente, nn. 341-348, maggiodicembre 2009, pagg. 27-34, con il titolo: “Memorie di un outsider”. – “La condizione giovanile: per una sociologia della gioventù”: in Tempo presente, aprile 1995, con il titolo: “Il pianeta giovani”. Poi, in appendice al libro di Franco Ferrarotti, Rock, Rap e l’immortalità dell’anima, Liguori, Napoli 1996. – “Un possibile punto di riferimento per i giovani: l’affascinante esempio di Simone Weil”, in Avvenimenti, 31 luglio 1996, pagg. 66-67, con il titolo: “Simone Weil”. – “Sociologia della comunicazione: a) parola scritta e immagine”, in Mondoperaio, n. 3, maggio 2000, pagg. 120-127, con il titolo: “Lo scritto e l’immagine (libri e mass-media)”. – “Sociologia della comunicazione: b) parola scritta e memoria”, in Cultura e libri, nn. 145-146, ottobre 2003-marzo 2004, pagg. 13-19, con il titolo: “Libro e memoria”. – “La morte nella società tecnicamente progredita”, in Tempo presente, nn. 309-312, settembre-dicembre 2006, pagg. 21-25, con il titolo: “L’uomo di oggi di fronte alla morte”. Poi in Cultura e libri, nn. 158-159, gennaio-giugno 2007, pagg. 19-26. Ringrazio i direttori delle suddette riviste per aver consentito questa nuova pubblicazione. Forse qualche aspetto di queste conversazioni è legato al tempo in cui esse hanno avuto luogo. Ma gli argomenti di fondo che le costituiscono non hanno perduto importanza, né attualità. Angelo Angeloni 9
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I. CHE COSA È LA SOCIOLOGIA?
C’è in ognuno di noi il bisogno di ricordare, di tornare indietro nel tempo. Ognuno di noi – diceva Montaigne – sente il bisogno di «riservarsi un retrobottega tutto nostro, sicuro, in cui possiamo collocare la nostra vera libertà. […] In questo luogo bisogna di solito intrattenersi con noi stessi». Qualche volta, per non smarrirci nel quotidiano o per sfuggire la realtà, ci rifugiamo tra le pagine del gran “libro della memoria” dove sono scritte le nostre esperienze. Dalla lettura di questo libro si genera la scrittura, anch’essa come bisogno. Quando ricordiamo o raccontiamo le esperienze della nostra vita, siamo soliti dar rilievo a quelle che ci sono costate di più; o a quelle che più hanno contato. I ricordi dell’infanzia fanno parte a sé. Il libro di Franco Ferrarotti, che dà l’avvio a questa prima conversazione, ha origine – credo – da tali bisogni. Si intitola Pane e lavoro!: «l’antica invocazione della gente che quotidianamente fatica per procacciarsi i magri mezzi della sussistenza»; e raccoglie le memorie di lui, outsider: le memorie di chi – libero, autodidatta, un tempo senza fissa dimora e in lotta con la miseria, ma forte della forza dei libri e dell’amicizia di persone care – per tirare a campare ha dovuto svolgere diverse attività1. Negli anni del dopoguerra – anni di fame e di penuria – incominciò a guadagnarsi da vivere come traduttore di libri presso la casa editrice Einaudi. I libri, dunque, gli hanno fatto conoscere, per primi, la vita e il mondo e gli hanno dato da mangiare2. Dopo i libri, la fabbrica: Ferrarotti va a lavorare alla Olivetti come tornitore nel reparto attrezzaggio: lo aveva preferito al lavoro più tranquillo e rispettato di “addetto ai problemi sociali”. Il lavoro durò circa otto mesi; e furono mesi importanti, più istruttivi dei libri, forse. Per capire la vita di fabbrica, infatti, non bastavano i libri: bisognava viverla direttamen11
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te, sperimentarla di persona, sottostare alle umiliazioni e ai pericoli fisici. Se il lavoro di traduttore gli aveva consentito di capire l’altro attraverso il testo – attraverso la paziente interpretazione di esso e «il tormento delizioso di andare alla ricerca della traduzione perfetta, della parola che trasmetta, in un’altra lingua, significato e clima, senso e misura»3 –, la fabbrica gli ha permesso di avere una conoscenza diretta della condizione umana e sociale che lì si viveva. Come ha scritto nella vita di Simone Weil, «la fabbrica è il luogo in cui si incontra la vita vera: conflitto, durezza, dolore, sofferenza, stanchezza, ma anche vitalità, gioia, la soddisfazione di riuscire qualche volta, purtroppo non sempre, a vedere davanti a sé il prodotto del proprio sforzo, l’effetto della fatica, vale a dire la propria creatività»4. Allo stesso modo, il contatto diretto con la gente durante le campagne elettorali, la professione di docente e la ricerca sociologica gli hanno consentito quell’incontro umano e dialogico, attraverso il quale solamente l’uomo può aprirsi alla realtà degli altri. Niente, infatti, c’è di più biasimevole che chiudere gli occhi di fronte ai dolori e alle necessità degli altri. Insomma, in tutte le esperienze raccontate in questo libro – da quelle più importanti, a quelle meno e perfino ironiche – c’è il sociologo che vuol comprendere fatti e persone (“capire” è il verbo ricorrente in queste pagine): la sociologia – ripete – non è scienza che si possa studiare solo sui testi: è un servizio sociale e, come tale, ha bisogno della partecipazione, dell’osservazione del reale; è «l’occasione per l’incontro con l’umano, forse il primo passo per la costruzione di un’identità dialogica»5. Nella varietà delle sue professioni, dunque, Ferrarotti non ha mai cessato di interrogarsi sul rapporto che lega l’identità all’alterità – aspetto fondamentale del vivere (e del “convivere”), soprattutto oggi. Ma oggi, l’analisi della società va spostata su scala planetaria: al dialogo fra le culture, perché la comunicazione è il solo fattore di integrazione sociale; e Ferrarotti ha dedicato diversi lavori a questo aspetto. In Homo sentiens ha scritto: «Non siamo nulla in senso assoluto. […] Interdipendiamo. […] Non c’è “egoità” che non comporti l’esistenza e lo scambio con l’alterità»6. In lui, il discorso strettamente sociologico non è mai staccato da quello umano e sentimentale. Ci sono pagine in questo libro che sono state scritte, prima di tutto, col cuore: i capitoli iniziali sulla fame, per esempio; o quelli sull’incontro di amici, dove si 12
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percepisce che il tempo non ha cancellato il sentimento di amicizia e di “com-pagnia” (di chi divide lo stesso pane) di allora. “Caro, carissimo amico, forse paterno ancor più che fraterno” – dice ora, scrivendo di Pavese7. Ma da queste stesse pagine ci viene data, anche, una fotografia dell’Italia del dopoguerra: la povertà, l’industrializzazione, la contestazione studentesca, la condizione della donna, i partiti politici. A volte si tratta di confidenze che divengono riflessioni, analisi, interpretazioni di fatti che hanno segnato, positivamente o negativamente, la storia politica italiana.
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1. La memoria A.: I ricordi – si sa – non restituiscono mai i fatti così come si sono vissuti mentre accadevano. Tra il fatto primordiale e il ricordo di esso c’è il tempo trascorso, c’è la storia (individuale e collettiva), c’è la vita. Noi siamo, ora, ciò che siamo stati; anzi, “ciò che ricordiamo di essere stati” – come lei dice in Il silenzio della parola8. – Può chiarire questo concetto? F.: A me non accade spesso di citare in maniera positiva Benedetto Croce; ma egli affermò che non c’è storia che non sia “storia contemporanea”9. La stessa cosa potrebbe dirsi quando dalla “grande” Storia passiamo alle nostre storie “individuali”: le storie di vita, anche minima: quelle che, alla fine, vanno a formare la grande Storia. Quando parliamo, dunque, della storia di un individuo, non c’è dubbio che ogni qualvolta si ripensa al passato, lo si rielabora in termini del presente: tra presente e passato c’è una continuità, ma è una continuità mediata da una rielaborazione, la quale non è necessariamente nostalgia, né memoria fotografica, che non sarebbe possibile. Questi sono i due tipi di memoria che Hegel, soprattutto in Fenomenologia dello spirito, chiama Erinnerung (qualcosa che sorge dal di dentro, da ciò che è nell’interiorità ed esplode fuori) e Gedächtnis (una specie di rimpianto nostalgico, un richiamare il passato al presente, non solo con una certa nostalgia, ma anche con una 13
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sorta di rimpianto rammemorante). Ed è forse questo tipo di memoria che richiedeva, secondo Heidegger, la devozione, l’umiltà, la penombra. Detto ciò, si deve però affermare che – devozione o meno, nostalgia o meno, rimpianto o meno – non si può ripensare la vita senza riviverla. Il vero libro di memorie o di ricordi non è necessariamente un diario: il diario ha un’immediatezza empirica che non si può restituire; il libro di memorie (cioè: il tentativo di ricordare) è un tentativo, spesso destinato al fallimento, di ricongiungersi con se stessi. E allora, il concetto fondamentale è la continuità attraverso una fondamentale coerenza che sta sotto alle accidentalità di superficie. A.: Insomma, l’io del presente fa rivivere l’io nascosto nella nebbia della memoria. F.: In un mio libro – Il ricordo e la temporalità – ho elaborato la teoria secondo cui il ricordo del passato viene “ripresentificato”, rifatto presente. Ora, nel momento in cui il passato si fa presente, pur non cessando dall’essere passato, si trasforma, rielaborato attraverso la consapevolezza. Si tratta, in fondo, della “anamnesi” platonica: noi non impariamo mai, semplicemente “ricordiamo” ciò che era sepolto nei più profondi fondali della nostra coscienza. A.: Gli eventi della sua vita, che lei rievoca e rielabora in questo libro, che valore assumono oggi? Cominciamo dall’incontro con persone che hanno contato di più per lei. F.: Nessuno di noi può ricordare veramente tutto ciò che ha sperimentato nella vita: sarebbe un segno di follia. Si tratterebbe di quel tipo di ricostruzione del passato che Jorge Luis Borges ha immaginato nel racconto Funes el memorioso, in cui il personaggio – Ireneo Funes – “sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882”10. Questa specie di “ipermnesia” sarebbe insignificante o folle, perché metterebbe tutto sullo stesso piano. Il ricordo, invece, filtra, come un setaccio, il passato; e quello che ne resta ha significato permanente. Il passato non è passato: è dentro di noi; e torna costantemente. Ciò premesso, dico che gli eventi da me ricordati in questo libro hanno valore in quanto io, non ricordando tutte le esperienze 14
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nella loro “fatticità” empirica, ma ricordandone alcune, in qualche modo affermo di fronte a me stesso che non tutto è da accettare. In questo mondo dell’ “usa e getta”, ci sono personaggi, esperienze, momenti della vita che vanno tesaurizzati, perché hanno valore in sé. Se io penso a uomini come Cesare Pavese, Felice Balbo, Adriano Olivetti, Nicola Abbagnano, avverto una certa pietas (ma, naturalmente, anche gratitudine e riconoscenza), la coscienza di aver incontrato dei valori: persone che in qualche modo hanno instaurato una conversazione con me, e viceversa: io sono riuscito a stabilire con loro un dialogo, un contatto significativo.
2. La sociologia A.: Nel 1960 (come lei stesso ricorda) fu bandito il primo concorso a cattedra ordinaria per la sociologia. Si rimane sbalorditi di fronte alle battaglie che ha dovuto sostenere per l’introduzione o il riconoscimento di questa scienza. – Perché è stato così difficile? F.: Per due ragioni fondamentali. Allora c’era da una parte la filosofia cattolica come neoscolastica, dall’altra il neoidealismo italiano che si riassumeva in due nomi: Benedetto Croce e Giovanni Gentile. In nome dell’ortodossia cattolica, i filosofi neoscolastici (che potremmo chiamare genericamente “spiritualisti”) riscoprivano e rinverdivano l’insegnamento di Tommaso d’Aquino. Il neoidealismo italiano era, a sua volta, un’importante corrente filosofica che perpetuava quella che era stata tradizionalmente l’Italia di fronte alla situazione della filosofia: una provincia della grande filosofia tedesca classica – da Kant, a Hegel, fino alla sinistra e destra hegeliana. Gli stessi marxisti italiani erano così imbevuti di questo idealismo, da essere antisociologici. Ora chiediamoci: perché queste due correnti (lo spiritualismo cattolico e il neoidealismo, crociano e gentiliano) erano contro la sociologia? Perché esaltavano (soprattutto il neoidealismo) l’assoluta libertà e imprevedibilità del comportamento umano: essendo il comportamento dell’uomo nella società del tutto imprevedibile (legato, in sostanza, alla coscienza storica), non poteva essere ana15
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lizzato e previsto nel futuro, prossimo o a lunga scadenza. Allora, il fatto che le scienze (le scienze sociali, e in particolare la sociologia) si ponessero come oggetto di studio l’uomo in società (in quanto essere umano che si comporta a seconda di determinate variabili presenti nell’ambito in cui viene comportandosi) – questo era considerato una violazione del principio della libertà umana; voleva dire: fare una scienza dei manichini. Dunque, già nei primi anni del ’900 la sociologia veniva assolutamente condannata da Croce che si avvaleva anche della debolezza concettuale dei sociologi di quell’epoca, i quali confondevano Marx, Darwin, Spencer (la famosa “trinità”). Ma, fra il materialismo storico di Marx, l’evoluzionismo di Spencer e il biologismo di Darwin ci sono degli abissi. Per Croce e i crociani di stretta osservanza era facile usare una critica col pettine di ferro e in qualche modo dimostrare il carattere frammentario, occasionale delle ricerche sociologiche. Alla sociologia essi riservavano una funzione classificatoria dei dati, una specie di schedario intellettuale: era un mezzo inferiore della vita filosofica; non aveva capacità cognitive in senso proprio. A.: Dov’era l’errore? F.: L’errore, secondo me (ma anche secondo Nicola Abbagnano), consisteva nel porsi di fronte ad un dilemma: o l’uomo è libero e posseduto da una “psiche”, da una coscienza libera: e allora si può studiare la storia passata, ma non quella futura; oppure è assolutamente determinato: e allora si cade nel casualismo marxista, per cui la struttura genera la sovrastruttura. Noi, invece, dicevamo: l’uomo non è né assolutamente libero, né assolutamente determinato. L’uomo, nel suo comportamento in società, è condizionato dalle circostanze oggettive in cui si trova a vivere. Queste circostanze oggettive (che sono i termini reali dell’azione umana) si possono studiare benissimo dal punto di vista sociologico. Quindi la sociologia, pur non esaurendo l’essenza dell’uomo, ne studia i comportamenti esterni entro determinate circostanze, per giungere, poi, alle motivazioni interne. Ma c’era anche un’altra ragione – una ragione politica: i regimi dittatoriali, in Italia come in Germania, non potevano tollerare la sociologia perché, nel momento in cui questa studia scientificamen16
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te una istituzione, ne fa la critica. Sia il nazismo che il fascismo, pertanto, abolirono completamente la sociologia, salvando solo la parte della statistica e della demografia che serviva al regime. Pertanto, bisogna che i giovani colleghi che oggi scelgono e poi insegnano sociologia, si rendano consapevoli di ciò che ha voluto dire il ritorno della sociologia. Alcuni di loro – più per inconsapevolezza che per ignoranza – si limitano a dire: la sociologia è tornata con i carri armati americani… No! Molto prima della guerra, già negli anni Quaranta, io mi interessavo di sociologia. La sociologia non è caduta dalle nuvole, in Italia; è stata una dura battaglia da me combattuta, aiutato, ma da autodidatta non legato a nessuna corrente ufficiale11. A.: Chi l’ha aiutato? F.: Nessun accademico, con un’eccezione che dirò subito. Mi hanno aiutato scrittori (Cesare Pavese), filosofi fuori dall’Accademia (Felice Balbo); ma soprattutto, ho avuto la fortuna di avere quella che chiamerei la mia quinta colonna: Nicola Abbagnano. Abbagnano aveva seguito e si era formato sui corsi tenuti dal professor Aliotta, molto legato al discorso scientifico; ed era, in questo caso, un’eccezione luminosa. Pertanto, Abbagnano si trovava preparato ad accettare la sociologia12. C’è da dire anche un’altra ragione interna, a proposito di Abbagnano: di solito si pensa che il suo libro fondamentale – La struttura dell’esistenza (1939) – con cui presenta l’esistenzialismo italiano, sia debitore di Essere e tempo di Heidegger. Nulla di più sbagliato: Essere e tempo finisce per essere una sorta di dimostrazione di come la sola autenticità possibile sia data dalla morte. Pertanto, l’esistenzialismo di Heidegger è nichilistico; quello di Abbagnano, invece, è un esistenzialismo positivo, perché Abbagnano, invece di elaborare una teoria dell’esistenza come preparazione alla morte, ne elabora una in cui ritiene fondamentale il concetto di “possibilità”: l’esistenza come esercizio di possibilità, dove l’uomo si realizza sfruttando le sue possibilità con la scelta: la scelta in base al progetto: il progetto in base all’analisi dei termini storici ambientali in cui egli si trova a vivere. È questa la ricerca sociologica. 17
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3. Sociologia e Letteratura A.: Sono note le teorie dei romanzieri naturalisti (Zola, soprattutto) sul romanzo come “documento umano” e sociale: i comportamenti e i sentimenti dei personaggi venivano studiati non più secondo analisi interiori o sentimentali, ma nell’ambiente sociale in cui essi vivono. Anzi, quando nel secondo Ottocento il progresso tecnologico offrì un nuovo strumento per rappresentare o documentare la realtà – la fotografia – parecchi letterati, tra cui Verga, ne furono affascinati. Insomma, anche la letteratura ha come scopo quello di capire. – Che contributi ha dato la letteratura (specie quella realista o neorealista) alla sociologia? F.: La letteratura, in quanto ci aiuta a capire il clima intellettuale d’una fase storica, è importantissima; ma non va confusa con la sociologia. Bisogna tener presente tre livelli diversi: uno di creazione letteraria, in cui il momento sociale viene trasfigurato dalla vocazione estetica; un altro che chiamerei del giornalismo investigativo, nel quale, se è buon giornalismo, c’è molta sociologia. Infine, il livello specificamente sociologico: sebbene possa attingere idee dalla letteratura o dal giornalismo investigativo, l’inchiesta sociologica, rispetto a quella giornalistica o alla ricreazione letteraria, ha questo di particolare: che parte dal problema, elabora delle ipotesi e cerca di validare o invalidare tali ipotesi. A.: Questo discorso vale anche per il cinema neorealista? F.: Assolutamente! Si prenda, come esempio, Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, o il contributo dato come sceneggiatore da Cesare Zavattini. Ma la differenza tra questi discorsi parasociologici e la sociologia come tale è che la ricerca sociologica è una disciplina scientifica. A.: Facciamo un altro nome importante: Pier Paolo Pasolini. Ragazzi di vita è del 1955, Una vita violenta del 1959, più o meno gli anni in cui lei, tornato dagli Stati Uniti, frequentava con i suoi collaboratori Valle Aurelia, la “valle dell’inferno”, la zona di Monteverde Nuovo, dove stavano arrivando, soprattutto dal meridione, nuove ondate di immigrati. Cito dalla vita di Pasolini di Enzo Siciliano: «Ragazzi di vita parla… di borgate, di esistenze deragliate. Pasolini 18
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scrive di una vita che della vita ha solo l’apparenza. […] Quel libro ha una dirompente carica politica: mette a nudo, con la novità di uno stile elaboratissimo, il sobborgo esistenziale della società italiana»13. – Quali sono stati i suoi rapporti di sociologo con lo scrittore di questi romanzi? F.: Con Pier Paolo Pasolini io ebbi una garbata polemica che partiva dal fatto che egli – a mio giudizio persona intelligentissima, ma “rapida” (io lo chiamavo, senza mancargli di rispetto, “uno scugnizzo scippatore di idee”) – usa il termine “omologazione”: egli si doleva del fatto che dal balcone di una casa che si affaccia su una piazza, una volta si poteva dire, guardando sulla piazza, quello è un meccanico, l’altro un contadino, ecc. Poi, ad un certo punto, queste persone sono state tutte omologate14. Io rispondevo: ha guadagnato terreno l’uguaglianza sociale, con un miglioramento del tenore di vita, per cui anche un muratore, per fare un esempio, va a mangiare in una tavola calda15. Egli, invece, da esteta, vedeva tutto questo come un fatto “terribile”. Indubbiamente, per la vecchia idea fascista l’omologazione era un fatto sconvolgente, perché, per esempio, una domestica ad ore comperava ed usava lo stesso collant della signora per cui lavorava. Ma ci scontravamo anche su altre idee. Per esempio, a proposito della “descolarizzazione della società” – un’idea sostenuta da Ivan Illich16 – io replicai a Pasolini17 dicendo che non si poteva tornare al ’700, al tempo, cioè, del precettore del “giovin signore”18. Detto questo, però, nessun dubbio che sia in Ragazzi di vita che in Una vita violenta, o in certe poesie de Le ceneri di Gramsci o negli articoli sul Corriere della Sera ci fosse l’elemento sociologico. Tuttavia, bisogna sempre tener presente che ci deve essere una distinzione netta tra quella che è una “sensibilità” sociologica e la “ricerca” sociologica come impresa scientifica. Stimolato dalla sua domanda, però, devo dire che io già da giovanissimo, negli anni Quaranta, sentivo (e non era questione di intelligenza) che l’Italia cambiava; e sentivo che le tre ottiche intellettuali fondamentali su cui essa si basava, non erano più in grado di capire il cambiamento. La prima ottica – quella filosofica – non vedeva l’uomo in situazione. La seconda – giuridicoformale – ottima e coerente, ma di sistemi vigenti19. La terza, 19
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storico-economica: la storia era già “storica”: storia del passato. I crociani, come ho detto, non volevano sapere del presente, non raccoglievano storie di vita. Si sono scritte delle biografie, ma solo di uomini illustri, ma nulla che riguardasse il popolo. Io avvertivo (non so spiegarlo nemmeno a me stesso) che la cultura dominante, in quelle sue forme fondamentali, non riusciva a dar conto di ciò che succedeva a questo paese. Quindi, noi siamo arrivati ad avere un paese industrializzato, senza cultura industriale. Qualche romanziere può aver fiutato questa situazione. Poi finalmente la sociologia è stata accettata perché si è visto che era imposta dalle circostanze. Pasolini stesso, tuttavia, fuggiva dalla letteratura; e faceva il cinema, il drammaturgo. Molti romanzieri si sono messi a fare i cineasti. Non voglio dire che non possono farlo: ognuno sceglie i propri mezzi. A.: Ma non lo fanno certamente per ragioni sociologiche! F.: No! Lo fanno perché vogliono raggiungere il più vasto pubblico possibile. Insomma, per me la letteratura ha un suo ufficio fondamentale come custode e testimonianza della parola scritta: i grandi scrittori sono quelli in lotta con il linguaggio, quelli che reinventano la lingua. Oggi ci sono due logiche che si contendono le anime degli esseri umani: la logica della lettura e della scrittura, e quella dell’immagine sintetica, dell’audiovisivo. Le due logiche non si mescolano: l’errore, oggi, è quello di voler vendere i libri come saponette. È la commistione delle due logiche: non c’è nulla che non possa essere detto con la parola concettualmente orientata.
4. Il professore e il politico A.: Abbiamo accennato alla scuola. Queste sue memorie si fermano all’anno della contestazione studentesca: il 1968. Solo alla fine, come in appendice, riporta l’articolo scritto sul Corriere della Sera del 25 febbraio 1977, dal titolo “Diario di un docente contestato nei giorni caldi dell’università”. – Due domande, al riguardo: prima domanda: 20
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da professore (i professori venivano definiti, allora, “baroni”) come ha vissuto il decennio 1968-1978 – il decennio, cioè, che va dalla prima contestazione, al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro? F.: L’ ho vissuto tutto in una situazione molto difficile. Ero del tutto d’accordo con alcuni scopi del movimento del ’68: per esempio, l’antiautoritarismo, una maggiore apertura verso l’esperienza umana in tutti i settori, una università non per pochi, ma per tutti, ecc. Tuttavia, non chiudevo gli occhi di fronte al marcio, alle “carogne” (detto naturalmente in modo metaforico) che la corrente del fiume trasportava con sé. Ero d’accordo con la direzione del fiume, ma il fiume aveva dentro di sé del marcio: i profittatori, che poi sono arrivati alla deriva della violenza. Insomma, ero un testimone “empatico” che era d’accordo e in disaccordo nello stesso tempo. Come mi diceva Raffaele D’Addario, allora preside di Statistica e Demografia (presso cui ho insegnato): caro Franco, tu diventerai “a Dio spiacente e a li nimici sui”: i “baroni” ti considerano un traditore, e gli studenti presto o tardi non accetteranno il fatto che tu vuoi che studino sul serio, e non accetti il voto politico. Ed è ciò che è accaduto. A.: L’altra domanda è questa: perché le sue memorie si interrompono al 1968? F.: Questo libro risponde a una domanda precisa: quali sono state le mie attività professionali che mi hanno dato uno stipendio? Sto lavorando ad altri progetti secondo tre dimensioni che qui non ho sviluppato: l’infanzia, la mia esperienza di Diplomatico a Parigi, che è stata molto importante20, l’esperienza politica. A.: Di questa esperienza, infatti,vengono ricordate, qui, solo le campagne elettorali, a cui dà grande rilievo. – La televisione, con la sua “retorica dell’immagine”, come ha cambiato il rapporto con la gente in simili occasioni? F.: Apparentemente, con la comunicazione elettronica si direbbe che il politico sia stato avvicinato ai suoi elettori. Al contrario! Sembra più vicino, ma di fatto è più lontano. Ai tempi a cui io mi riferisco nel libro, c’era veramente la visita a tu per tu, di casa in casa, al mercato: c’era un rapporto molto più diretto, non c’era 21
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lo spot televisivo, o scorciatoie tecniche; l’immagine non aveva l’importanza che ha oggi. A.: Questa lontananza del politico dalla gente, questa attenzione odierna all’immagine, dipende dalla mancanza di idee politiche, o da cosa? F.: Dipende da molti fattori. Il primo è certamente il crollo delle ideologie: che è stato un bene, perché le ideologie erano diventate un megafono dell’ufficialità. Mentre si prendeva atto di questo crollo, però, bisognava riaffermare gli ideali, perché le ideologie danno anche il senso dell’orientamento storico. Invece, cadute le ideologie, si sono lasciati cadere anche gli ideali, e sono rimasti in piedi, così, solo gli interessi personali o del piccolo gruppo. E allora la lotta politica è diventata una lotta giocata sullo pseudocarisma dell’immagine21; è diventata una specie di gara sportiva (come farebbe pensare la denominazione di Forza Italia). Insomma, il vuoto lasciato dal crollo delle ideologie, in sé positivo, non è stato riempito da nulla. E qui si inserisce il grande problema che si potrebbe esprimere con questa frase: non la mancanza della rappresentanza democratica politica, ma la scarsa rappresentatività della rappresentanza: la rappresentanza non è più rappresentativa. Forse, bisogna inventare nuovi modi di rappresentanza: la democrazia deve rinnovarsi dall’interno; le democrazie non crollano mai per colpi provenienti dall’esterno: crollano per autoconsunzione morale (come è mia convinzione). A.: Perché ha lasciato la politica? F.: L’ ho lasciata perché non volevo giocare su due tavoli; l’ ho lasciata per coerenza, perché non c’era più acqua pura. Io non ho avuto bisogno di “Mani pulite” per toccare con mano la corruzione: la corruzione c’era già, e come! Non c’era per chi non la voleva vedere.
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II. LA CONDIZIONE GIOVANILE: PER UNA SOCIOLOGIA DELLA GIOVENTÙ
Un campo che la ricerca sociologica ha coltivato con attenzione e interesse nell’ambito della società di massa industrializzata, è certamente quello dei giovani, nei suoi vari aspetti. È lo spunto di questa seconda conversazione. Se diamo uno sguardo al mondo giovanile, vi scorgiamo tanta voglia di fare, d’arrivare a un traguardo, ma anche rabbia, frustrazioni, incomprensioni, contraddizioni: vogliono la scuola, ma la trovano noiosa e distante; vogliono essere autonomi, indipendenti, ma sono costretti a vivere in famiglia; guardano a questa come a un porto sicuro, ma la scoprono in crisi; sono attratti da un giusto desiderio di lavoro, ma vivono una terribile disoccupazione. Gli adulti non li comprendono; ed essi, dietro un’apparente sicurezza di sé, mostrano tutta la loro fragilità. Vorrebbero vivere assieme agli altri, ma si ritrovano soli. Sono carichi di energia, che scatenano, però, nella violenza. Un mondo difficile, frastagliato, dove talvolta non riusciamo ad orientarci con sicurezza. ***
1. I giovani e la scuola A.: In un suo libro del 1976 – Studenti, scuola, sistema – ad un certo punto si chiedeva: «Com’è cambiato il clima intellettuale del dibattito sulla scuola nel corso degli ultimi anni?»22 – Le pongo, oggi, la stessa domanda. 23
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F.: In Italia, il dibattito sulla scuola è sempre stato caratterizzato, per la verità, da una volontà di riforma, che non si è mai concretamente realizzata nelle forme sperate e con i risultati che si volevano ottenere. Prima di tutto perché le riforme in Italia sono riforme sognate: si parla di esse, ma con un’impostazione tipicamente ideologica, non di “tecnica della riforma”. Poi, perché la riforma ha certi obiettivi che non si possono trascurare: obiettivi che vanno affermati. Ma l’affermazione pura e semplice di essi non garantisce la capacità tecnica e amministrativa di realizzare le riforme stesse. Quindi, la scuola italiana che, a partire dalla creazione della scuola media unica, si è posta come uno strumento della società italiana per raggiungere i livelli di una società mediamente sviluppata (com’era pur necessario), evidentemente oggi mostra ancora delle inadeguatezze gravi. Queste investono particolarmente tre campi: quello del rapporto tra scuola e vita (il raccordo, cioè, tra la preparazione scolastica e gli sbocchi professionali). Quello della trasmissione dei valori che tengono insieme una determinata società (per cui questa sviluppa e conserva in sé una vera e propria autocoscienza storica). Infine, il campo della funzione innovativa: la scuola non può tradursi e ridursi ad un ufficio di collocamento, e non può subordinarsi alle esigenze immediate operative dei grandi interessi economici. La scuola deve mantenere l’autonomia di se stessa rispetto ai grandi interessi economici, proprio in vista dell’innovazione e della produzione di quelle tecniche e di quei valori che apparentemente sono, per il momento, inutili. La cultura di per sé non può essere esaurita in un modulo utilitario: essa è un valore in sé, e come tale non può mai essere completamente asservita. A.: Ogni qualvolta si parla della scuola di oggi, il confronto (a volte fastidioso) va quasi inevitabilmente al ’68. Sembra che le occupazioni e autogestioni, sia quelle dell’inizio che quelle più recenti, servano più alla “socializzazione”, alla “conoscenza di sé e degli altri”, che non a risolvere concretamente i problemi veri degli studenti. F.: Questa funzione, che chiameremo di socializzazione primaria extrafamiliare, non era estranea al ’68. Allora, notavamo che studenti provenienti da famiglie ancora piuttosto arcaiche (nel senso di 24
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essere famiglie chiuse, autoritarie), proprio all’Università e nella contestazione trovavano l’occasione per una loro emancipazione. Però nel ’68 eravamo in una fase di alta congiuntura economica; e allora il movimento studentesco si poteva concedere il lusso di fare la contestazione globale, di volere l’immaginazione al potere, ecc. La grande differenza di oggi rispetto a quel periodo, è che oggi siamo in una fase di congiuntura economica bassa, di scarsi impieghi; non c’è più la forza ascendente dello sviluppo: siamo in una fase di stagnazione, di stasi; e quindi il movimento studentesco e contestativo non chiede tutto e subito, perché sa che non è possibile (del resto, la sconfitta del ’68 è consistita proprio in questo: nel realizzare che non tutto è possibile qui e adesso). E allora si contenta di avere dei corsi più semplici: una certa assicurazione sugli esiti degli esami e, soprattutto, delle tasse più basse. In generale, si può dire che oggi il movimento degli studenti è più movimento di categoria, preoccupato più della figura dello studente e del suo avvenire, meno dei destini della società nel suo complesso. A.: Una lamentela comune degli studenti, che si rivela il più delle volte come una necessità, è questa: i professori ci devono far esprimere di più quello che pensiamo. È un’esigenza che non viene rispettata. – Cosa risponde, professore? F.: In effetti, a volte è ancora vero. Io, già nel ’68, ho considerato sempre un dato positivo la rottura dell’autoritarismo accademico. Allora veramente non era possibile parlare. Oggi lo studente potrebbe parlare, ma spesso mantiene il silenzio perché non ha molto da dire. In effetti, la contestazione del ’68 (so che questa è una visione poco ortodossa, ma va detta) ha avuto un costo intellettuale molto alto che ha voluto dire, per un’intera generazione, una preparazione scolastica intellettuale (in senso accademico) piuttosto carente. Oggi, il nostro studente spesso non ha letto i classici (o non ha avuto il tempo di leggerli bene), e si contenta dei problemi così come sono sciorinati o popolarizzati dalla radio, dalla televisione, dai giornali, dalle riviste, dai settimanali d’opinione, soprattutto. Evidentemente, questa informazione non è abbastanza critica da consentire un effettivo dialogo. Credo, però, 25
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che stia alla responsabilità dei professori stimolare lo studente. Lo studente del ’68 era vocale, aperto, provocatorio, ribelle, ecc.; lo studente di oggi è conformista, prende appunti, sta molto attento a scuola, perché di fronte a lui c’è lo spettro della disoccupazione, ha bisogno di essere preparato, ha capito che se non è preparato non avrà nulla da fare. I professori dovrebbero non schiacciare lo studente, che già si è autoschiacciato, ma aiutarlo a uscire dal suo silenzio, a non aver paura di porre domande anche imbarazzanti: solo col dialogo si può stabilire un vero rapporto. A.: In che modo? F.: Io continuo a dire che la lezione è il momento privilegiato in cui docente e discente si incontrano. Ma non va concepita in maniera tradizionale, come quarantacinque minuti di gorgheggio a solo da parte del professore (si badi bene, però: questo non deve essere una scusa per non preparare le lezioni: la prima parte della lezione dovrebbe essere perfetta, al modo tedesco del secolo scorso). Ma fatta la presentazione, il professore dovrebbe riservare un quarto d’ora, venti minuti alla discussione, stimolandola lui stesso. Solo così potremo, forse, uscire da quella che è la piaga più grave della nostra scuola media, inferiore e superiore, e della nostra Università: la noia. La scuola italiana resta una scuola sostanzialmente noiosa.
2. I giovani e la famiglia A.: Da un lato, i giovani guardano alla famiglia come a un luogo che dà sicurezza, protezione; dall’altro, proprio in essa sono spettatori delle più gravi incomprensioni, disaccordi, crisi violente, ecc. – Come spiega questo drammatico contrasto? F.: È una domanda molto importante, decisiva, che ci porta subito nel cuore del problema. La contraddizione che lei nota, si lega a una contraddizione più profonda. La società industriale è afflitta da una contraddizione socio-culturale grave, che per il momento non è riuscita a risolvere: da una parte insiste e spinge il giovane ad autorealizzarsi, ad emanciparsi, a procedere nella vita per conto 26
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proprio, nel nome di un supremo individualismo che si autorealizza; ma dall’altra parte nega a questi giovani, così costantemente provocati perché si realizzino, i mezzi materiali indispensabili per costituirsi una famiglia, per vivere in modo proprio, trovare un appartamento, ecc.23. Da ciò deriva il fenomeno conturbante di giovani estremamente preparati e pronti a prendersi le proprie responsabilità, ma impossibilitati a prenderle da attori. Ecco, di conseguenza, la forzata, protratta adolescenza dei giovani: con un’accettazione che prima è passiva e poi diventa rabbia profonda e frustrazione, essi sono costretti a vivere in famiglia fino a venticinque, trenta, trentacinque anni. La famiglia è sempre un grande valore, un nido sicuro in un mondo che ti rifiuta; ma alla fine diventa anche l’oggetto di un odio, di una frustrazione profonda; e contro di essa si scatena l’aggressività di questi giovani costretti ad essere, nonostante la loro maturità ormai acquisita, ancora dipendenti dalla vecchia generazione. Tutto ciò ci fa capire come i giovani d’oggi, che pure avrebbero teoricamente molte possibilità, in realtà sono vittime, oltre che protagonisti, di un’aggressività straordinaria, che poi si risolve in due modi che si equivalgono: la violenza contro gli altri (terrorismo, manifestazioni violente, ecc.), o la violenza contro se stessi (con la droga): due forme di violenza equivalenti che esprimono in tutta la loro portata – credo – il dramma giovanile di oggi. A.: A questo contribuiscono anche le crisi, le separazioni, i divorzi tra genitori? F.: Certo! La famiglia è, nello stesso tempo, un rifugio e un limite: un rifugio, all’inizio, ma poi un limite: se un giovane non riesce a farsi una famiglia propria, essa diventa oggetto di odio. Ma questo è aggravato quando la famiglia è tale solo sulla carta, quando alle spalle del giovane c’è, in sostanza, una famiglia solo di nome, solo giuridica, astratta, non una famiglia effettiva. Come ho potuto notare nelle mie ricerche, a un giovane che non riesce ad inserirsi nella società si presentano tre fasi: in una prima fase, egli riconosce la propria responsabilità e dice: non trovo lavoro perché non ne sono capace. Nella seconda fase, invece, la responsabilità viene estesa alla famiglia. Dice il giovane: è la mia famiglia che 27
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non ha le conoscenze giuste, le aderenze sociali adatte. In una terza fase, l’amarezza, le frustrazioni, l’aggressività vengono canonizzate contro la società come tale: è questa società che mi rifiuta. Io credo che purtroppo la tecnologia produttiva di oggi non aiuti la soluzione di questo problema (e lo dico contro quei colleghi che confidano tutto nella tecnologia). Già anni fa io mettevo in guardia contro la tecnologia ritenuta la panacea di ogni problema, perché la tecnologia nel caso migliore è una perfezione priva di scopo. Perché oggi non aiuta? Perché ci mette in grado di produrre molto di più e molto meglio senza manodopera. Quindi, il dualismo dicotomico della società industriale avanzata viene enfatizzato, accresciuto dalla tecnologia, non sanato. E anzi, stiamo andando verso una società bipolare in cui a un’élite relativamente ristretta, minoritaria (un vertice sociale che ha la grande maggioranza delle risorse umane) si oppone non più la classe proletaria di un tempo, ma una sottoclasse generale: l’insieme della popolazione che dovrà vivere di precariato. Perché precariato? Ma perché sono finite le grandi carriere che erano tipiche di un’età ormai superata; perché la tecnologia produttiva di oggi cambia continuamente, e quindi crea continuamente nuove mansioni, nuovi posti di lavoro, ma precari, che danno poco. E così, noi abbiamo l’incredibile contraddizione di una società sempre più ricca per pochi, e una gran massa di persone sballottate di qua e di là, sconcertate da una tecnologia produttiva in rapido sviluppo che crea a getto continuo posizioni nuove, lavori nuovi ma precari. E lo stesso “terziario avanzato” – il ceto impiegatizio elettronicamente provveduto – è costantemente con l’acqua alla gola; o comunque pende su di esso la spada di Damocle dei cambiamenti, delle ristrutturazioni tecniche che possono decretarne, all’improvviso, il licenziamento in tronco. I giovani oggi avvertono in profondità questa incertezza: per la prima volta (storicamente parlando) siamo di fronte a una generazione consapevole che non potrà migliorare la propria posizione rispetto alla generazione dei padri e dei nonni; e quindi, siamo di fronte a una situazione che produce frustrazioni e incertezze. I giovani di oggi sanno che nel caso migliore potranno mantenere le posizioni dei padri. 28
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A.: I padri di un giovane di oggi sono quelli della generazione del ’68. – Non può essere che, in fondo, essi siano ancora un po’ immaturi? F.: Lei tocca un problema di grandissima importanza. I padri di oggi si trovano a dover fronteggiare i problemi della parità: parità tra i sessi, tra i figli, tra i ruoli, ecc. Tradizionalmente i ruoli erano fissi; oggi sono stati resi fluidi e vanno ridefiniti ogni volta. Non basta mettere al mondo dei figli per essere padri: la paternità va conquistata ogni giorno: essa non è solo un rapporto fisiologico, giuridico o formale: deve diventare un rapporto esistenziale, umano: il padre deve conquistarsi la fiducia del figlio, mai darla per scontata. Questa posizione di padre è difficilissima: nel ’68, i giovani avevano puntato troppo sulla produzione autonoma e spontanea delle virtù sociali: tutto sembrava che dipendesse dalla spontaneità. Ma la spontaneità di per sé non produce nulla; produce ciò che è già potenzialmente preparato dietro di essa. Quindi, la caduta dell’autorità non risolve i problemi; anzi, oggi c’è un ritorno, un bisogno di autorità: di un’autorità “autorevole”, però, non “autoritaria”. I padri di oggi, quando vogliono esercitare la loro autorità, rischiano di diventare autoritari, e scatenano la protesta dei figli. Manca loro quell’autorevolezza che dai figli viene percepita, viene sentita quando c’è, nei padri, una sicurezza interiore profonda. Ma come può esserci una tale sicurezza in chi viene dalla rivoluzione del ’68 che ha abbattuto in breccia tutte le verità tradizionali? Non si capì, allora, che la tradizione non necessariamente è “tradizionalista”. La tradizione può essere considerata rivoluzionaria nel senso e nella misura in cui proclama dei valori che non sono stati ancora realizzati. Per esempio, i valori della dignità personale, dell’autonomia, dell’eguaglianza fra gli uomini, del diritto al perseguimento della felicità, sono tutti valori tradizionali, ma sono rivoluzionari, perché ancora non sono stati realizzati. Invece, si è creduto che essere rivoluzionari volesse dire spazzar via la tradizione. È stato un errore tremendo, di cui paghiamo ancora le conseguenze. A.: Ci può essere un rimedio? F.: Sì, recuperando i valori tradizionali. Questo recupero, però, esige una sorta di ripiegamento su se stessi, di ripensamento dei pro29
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pri fondamenti. E questo è difficile chiederlo oggi a dei giovani che arrivano alla scuola, e la scuola è noiosa; guardano i massmedia, e i mass-media sono irresponsabili; leggono i giornali, e questi sono pieni di cronaca del momento. Guardano anche alla Chiesa, alla religione, ma le autorità religiose stesse sono percorse oggi da grandi fremiti di incertezza. Insomma, stiamo vivendo un’atmosfera di interregno molto diffusa, come quando si aspetta un’esplosione che non è arrivata, ma che sta arrivando; e i giovani, più di noi anziani, percepiscono questa tremenda incertezza. Io ho molta comprensione per i giovani d’oggi, sono molto vicino a loro. Bisogna capire che essere giovani, oggi, è già di per sé un fatto drammatico: significa non aver più punti di riferimento che un tempo erano dati per scontati.
3. I giovani e la violenza A.: Se apriamo un giornale, non leggiamo altro che di giovani che fuggono di casa, che si suicidano o uccidono i propri genitori e fatti simili, che ci rivelano una fragilità di fondo. Una volta, la vita era indubbiamente più dura, sacrificata; eppure, i giovani avevano resistenza, sopportazione, ecc. F.: Era una vita più dura, sì, ma più organizzata: vi erano ancora valori fermi, come punti di riferimento essenziali. Arrivo a dire qualcosa di eterodosso, di provocatorio: il lavoro dei fanciulli (per cui andò famoso l’Ottocento, soprattutto la seconda metà con la rivoluzione industriale) era forse preferibile alla disoccupazione forzata di oggi, perché quel lavoro era, sì, un ipersfruttamento, ma si era posti, comunque, in una situazione socialmente regolamentata. Oggi, invece, c’è un’enorme propaganda, pubblicità sul danaro, sul successo, ecc., ma non ci sono più i mezzi per arrivarci. Allora, la frustrazione o diventa aggressione contro la società (violenza, crimine organizzato, ecc.), oppure si rivolge contro se stessi (suicidi, droga, ecc.).
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A.: Il razzismo, il neonazismo, l’antisemitismo sono un’altra cosa? F.: Il razzismo è collegato con questo. In una situazione in cui larghe masse giovanili siano allo sbando o, comunque, siano incerte rispetto al loro futuro, sviluppano una tipica avversione verso i deboli: non perché c’è in loro il senso del nemico – come ha pensato Acquaviva, ma per paura di cadere nello stesso livello. Allora, attraverso l’aggressione al nero, al nordafricano, al mediorientale, si stabilisce una distanza rispetto al pericolo di una contaminazione da contatto. L’aggressione verso le minoranze, soprattutto quelle extracomunitarie, è la reazione a questo rischio e a quello di cadere al loro stesso livello. Così si spiega, per esempio, la lotta tra poveri o contro gli zingari nelle periferie cittadine. L’avversione contro il più debole è, poi, il bisogno di sfogare le frustrazioni che provengono dall’alto della società, dalle sfere in cui non si può arrivare, calpestando coloro che stanno sotto: creando, cioè, dei capi espiatori al di sotto. A.: Non c’è anche la paura di perdere il proprio spazio? F.: C’è questa paura, ma irragionevole, a mio avviso. Si pensa, infatti, che l’afflusso di manodopera straniera ci porti via il lavoro. In realtà, qualunque analisi (anche la più elementare) potrebbe dimostrare che degli immigrati filippini riempiono i bisogni di baby-sitter e camerieri che non ci sono più. Gli altri raccolgono le olive, fanno lavori agricoli che nessuno vuol più fare, lavorano nelle fonderie o nei reparti verniciatura che sono i più nocivi per la salute e che gli italiani non vogliono più fare. Invece, nelle aggressioni contro le minoranze extra comunitarie, c’è veramente lo spettro del diverso contro cui si combatte per paura di venir assimilati ad esso. È una distorta ricerca di dignità. Sulla violenza giovanile, poi, io ho idee che non sono quelle correnti: ritengo, infatti, che la violenza (parlandone in generale) sia un’energia vitale positiva che ha deragliato, che non è stata canalizzata, o dotata di un segno positivo, ma è stata fatta ristagnare. Arrivo a dire, in maniera paradossale, che essa è un abbraccio mal calcolato. La violenza sta a significare il fallimento delle istituzioni primarie, della socializzazione primaria (famiglia e scuola). 31
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A.: Lei si è interessato alle periferie romane. – C’è differenza tra la violenza attuale e quella analizzata, allora, da lei o da Pasolini, per esempio? F.: C’è differenza, indubbiamente. La violenza di quel tempo era, tutto sommato, una violenza nel segno ideologico (quando le borgate di Roma erano la famosa cintura rossa). Oggi, la violenza non ha più il segno di una giustificazione ideologica: è casuale, erratica, interpersonale: è meno prevedibile. Quella di allora era una violenza di gruppi organizzati: una violenza (se mi si consente di dire) con uno scopo: non giustificabile, naturalmente, ma almeno c’era. Oggi, siamo di fronte al fenomeno sconcertante della violenza gratuita o, per meglio dire, che si presenta gratuita, ma in realtà è giustificata dalle profonde frustrazioni di cui abbiamo parlato. Spesso, i giovani che hanno commesso atti di violenza, quando vengono intervistati dicono: l’abbiamo fatto per gioco, non sapevamo cosa fare. È un atto d’accusa tremendo: non tanto contro di loro (essi, naturalmente, vanno giudicati, perseguiti, messi in carcere, ecc.), ma che investe tutta la società. Una volta c’erano gli oratori, gli scout; arrivo a dire che perfino le organizzazioni della dittatura fascista avevano un senso. Oggi, all’organizzazione, all’irregimentazione paramilitare ma significativa del fascismo si è sostituito il vuoto assoluto. Bisogna assolutamente ricostruire i gruppi primari, i centri sociali, dare ai giovani la possibilità di incontrarsi tra i giovani.
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III. UN POSSIBILE PUNTO DI RIFERIMENTO PER I GIOVANI: L’AFFASCINANTE ESEMPIO DI SIMONE WEIL
Il lavoro di insegnante, pur in mezzo alle difficoltà e alle carenze della scuola di oggi, mi offre, almeno, la possibilità di avere contatti quotidiani e generazionali con i giovani. Ripenso a queste parole di Ferrarotti nella precedente conversazione: «Ho molta comprensione per i giovani d’oggi. Bisogna capire che essere giovani, oggi, significa non avere più punti di riferimento che un tempo erano dati per scontati». In questa drammatica assenza, qualche punto di riferimento credo possa essere offerto ancora dalla letteratura: dalla immaginazione che essa stimola, dall’esempio umano e sociale che offre. È il caso, per esempio, di Simone Weil. Simone Weil morì giovane, a 34 anni: una vita breve; ma la visse con furore, immergendosi nella storia e nel trascendente, con la forza delle idee, l’azione quotidiana, le esperienze più umili e disumane. Quando leggiamo i suoi libri, vorremmo trovarvi le certezze di cui oggi abbiamo bisogno. Il suo pensiero è rigoroso, chiaro, profetico, impietoso quando deve ingaggiar battaglia contro i mostri che opprimono l’uomo. Poi, scopriamo una donna, una mistica, in continua tensione tra conoscenza e azione, fra teoria e pratica. Non conosceva quale fosse la volontà di Dio, ma si interrogava per sapere «in cosa consistesse e in quale maniera possiamo riuscire a conformarci ad essa completamente». Si domandava se «Dio non voglia che vi siano uomini e donne che, pur essendo votati a lui e a Cristo, rimangano fuori dalla Chiesa»24. Cercava “la verità e la moralità assoluta in ogni cosa e in ogni momento”; un “disegno che superasse e giustificasse la 33
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Storia”25. Viaggiò instancabilmente per meglio capire gli altri, le cose, la storia. Sebbene appartenesse a un’agiata famiglia ebraica, scelse di fare l’operaia in fabbrica, perché nella fabbrica si svolge la vita intera. E vi si immedesimò; anzi, si sostituì – dice Ferrarotti – all’operaio, con le stesse ansie, gli stessi spasimi, le stesse paure dei ritmi lavorativi, dei ritardi, del licenziamento. Insomma, non si limitò ad osservare la realtà come un sociologo o uno psicologo del lavoro, ma vi partecipò con scrupolosa attenzione all’uomo negli ingranaggi della società. Tutto ciò che fece e scrisse, fu segnato “dalla protesta contro la sofferenza e l’ingiustizia sociale”. Franco Ferrarotti si accostò allo studio di Simone Weil fin dagli anni Quaranta: voleva scrivere una vasta opera in tre volumi. Non è stato possibile; ma – dice – «non avrei potuto concludere la mia carriera, senza tornare ad interessarmi di lei». Ed ecco questo libro: Simone Weil – La pellegrina dell’Assoluto. «Mutuo questo titolo» – scrive nella prefazione – «dall’indimenticabile autore di L’âme de Napoléon, La femme pauvre e Soeur de sang»26. «Mutuo questo titolo per indicare la natura ardente, assetata di certezze trascendenti e nello stesso tempo la grande capacità di analisi realistica di Simone Weil». È un’acuta analisi dell’attività e del pensiero di questa grande “mistica” che ebbe una vita breve, ma «tutta percorsa dal bisogno di una coerenza crudele che fa coincidere con precisione millimetrica chiarezza intellettuale e pratica esistenziale, e quindi vita di straordinaria intensità: trentaquattro anni di studio forsennato e di esperienze in prima linea: al fronte, in Spagna, e in fabbrica, tra gli operai»27. Man mano che procede in questa analisi, il discorso si fa più ampio, toccando, attraverso brevi excursus, temi come la Grecia classica e l’Impero romano, l’Evangelo di Gesù e il cristianesimo paolino e post-costantiniano, la Germania di Hitler e l’Unione Sovietica, e quelli dei tempi moderni, dove scorgiamo, a volte, l’attuazione del pensiero di Simone Weil. Simone Weil è, indubbiamente, una figura affascinante: una figura che Ferrarotti sente congeniale a sé. Mentre ne parla, avverto nel tono della sua voce la passione con cui vuol comunicare il suo personale approccio ad essa. A.: Alla base del pensiero e dell’attività di Simone Weil, c’è il bisogno di Assoluto, la sintesi della conoscenza e dell’azione, dell’eterno e del quo34
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tidiano. È il “realismo dei mistici” – come lei lo ha significativamente definito. Quando si parla di persone realistiche, la gente in genere pensa agli uomini d’affari, agli industriali, ai commercianti, ai politici. Simone Weil, invece, ci insegna che solo la tensione morale verso qualcosa che superi la realtà riesce a cambiarla radicalmente. – Ritiene che sia così anche oggi? F.: Credo che sia così anche oggi, soprattutto oggi. In un’epoca dominata dagli imperativi tecnologici e dalle esigenze di un’economia di mercato (in cui prevale il criterio utilitario in maniera sbilanciata rispetto ad altri criteri e ad altri valori) è necessario che non ci si limiti alla gestione routinière dell’esistente, ma si comprenda come una società non possa essere solo totalmente amministrata, senza perdere il suo significato, ma vada costantemente orientata sulla base di valori che trascendono l’immediato. Non dico che la società debba essere concepita secondo disegni palingenetici extra quotidiani, perché questa sarebbe una fuga dalla realtà. Credo che la corretta amministrazione della realtà implichi un criterio che necessariamente sia al di fuori della routine quotidiana. Se non fosse così, la società perderebbe il termine verso cui indirizzarsi e quindi quella necessaria tensione che la costituisce come sforzo umano significativo. A.: Tendere verso qualcosa che superi la realtà – dicevamo; possedere “certezze” o “ideologie” (intese nel significato più puro di “visioni del mondo”) che rafforzino in noi il bisogno di Assoluto. Ma proprio questa è la contraddizione in cui viviamo oggi: sono scomparse (o si sono affievolite) tali certezze che ci avrebbero permesso di cambiare la realtà. F.: Questa affermazione mi dà modo di chiarire un equivoco. Credo che l’errore più grave commesso da intellettuali e politici oggi è consistito (e consiste) nel ritenere che la crisi e la liquidazione delle ideologie globali dogmatiche significhi la liquidazione degli ideali. La crisi delle ideologie globali dogmatiche è stata (ed è) salutare, perché sta a significare l’esaurimento d’una funzione di orientamento che non può più essere affidata ad una sorta di binari unilaterali che si spingono verso l’avvenire in maniera rettilinea. La crisi delle ideologie, però, non va scambiata con il venir meno della necessità di ideali forti, di valori che in qualche modo 35
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prescindano dalle accidentalità quotidiane del discorso culturale e politico. L’errore che si è commesso (e che purtroppo ancora oggi si sta commettendo da molti, se non da tutti gli intellettuali, i commentatori della politica, gli attori stessi della politica) consiste nel pensare (o nell’illudersi) che, liquidate le ideologie, sono finiti anche gli ideali, e ci si può dedicare – in maniera unilaterale, acritica, secondo un criterio di convenienza caso per caso – a una sorta di pragmatismo più o meno illuminato, che io chiamerei, piuttosto, “praticismo inerte”: praticismo, cioè, privo di prospettive, che ritiene di poter autogiustificarsi giorno per giorno nelle piccole decisioni che prende, eliminando qualsiasi schema significativo di una certa universalità. Noi non possiamo ritenere che una società umana riesca a sopravvivere come tale, se non alla luce di una coscienza problematica, senza la quale la società umana stessa si riduce a un informe aggregato, a un puro e semplice coacervo28. A.: Questo tipo di rivoluzione, però, più che “sociale” è “spirituale”: una rivoluzione più “annunciata” che “effettuata”. F.: Mi sembra che quello che si può ricavare dalla lezione di Simone Weil è che non vi sia possibilità di una profonda rivoluzione, senza una contestuale metànoia: una conversione non tanto di tipo psicologico, quanto spirituale. Tant’è che ella rimprovera la stessa rivoluzione russa del 1917 di non aver costruito uno Stato operaio, ma burocratico. Perché questo? Perché nel momento in cui, in nome della classe operaia, si voleva rivoluzionare il rapporto sociale di forza rispetto all’antico impero zaristico e ai vecchi ceti dirigenti, ci si è limitati a cambiare i dirigenti: invece dello zar, Stalin (o Lenin prima di lui). Il che significava non costruire uno Stato sociale (uno Stato, cioè, prodotto da una rivoluzione globale-strutturale, economico-giuridica, ma anche spirituale e di orientamento di valori), ma soltanto sostituire un padrone con un altro. La tremenda polemica della Weil rispetto allo stesso Trotskji è proprio questa: voi non avete costruito in Russia un vero e proprio Stato operaio; avete costruito una realtà storicamente inedita: né uno Stato capitalistico, né uno Stato operaio; avete costruito lo Stato “burocratico” il quale, invece di esprimere la 36
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dittatura “del” proletariato, esprime una vera e pesante dittatura “sul” proletariato. A.: Simone Weil ci appare come una pensatrice o una donna politica. In realtà, la sua attenzione all’uomo nell’ingranaggio della società (e il suo essere dalla parte dell’uomo, non dell’ingranaggio), dà alla sua lotta un significato “religioso”, più che politico. – È questo il senso del suo libro? F.: In gran parte lo è, ma non lo esaurisce. È vero, infatti, che per la Weil conta l’individuo specifico, la persona in carne ed ossa, verso la quale ella è mossa costantemente dalla preoccupazione di invaderla, di profanarla (e si sa che la profanazione della persona, cioè dell’altro, è un sentimento profondamente religioso, perché nell’altro è presente Dio). Ma, se nel mio libro mi fossi limitato a questa interpretazione, avrei deviato verso un discorso meramente moralistico, di conversione individuale di tipo spirituale-religioso: importante, indubbiamente, ma non sufficiente, perché i rapporti materiali di vita (i rapporti strutturali di forza fra i gruppi sociali) cadono al di là di una conversione individuale o spirituale. Ho imparato da Simone Weil che i problemi dell’individuo indicano una questione non puramente individuale. A.: Un mostro contro cui la Weil ha lottato è stato il potere burocratico. – Furono ragioni politiche, sociali o morali a spingerla in questa lotta? F.: Come sempre, nella Weil il momento morale occupa una posizione prioritaria. Ma, appunto perché ella non è soltanto una mistica, ma gode del “realismo dei mistici”29, chiama in causa le forme culturali, politiche e giuridiche del mostro burocratico. Addirittura, fa presente come la grande eresia del nostro tempo, l’errore del nostro tempo (un errore fuori dal cristianesimo pre-costantiniano, evangelico) è dato dal fatto che i mezzi sono diventati fini. La burocrazia, nata per servire il cittadino, ha posto se stessa al proprio servizio. Si è autoalimentata; e crea a getto continuo non dei servitori, ma degli abusivi usurpatori del bene pubblico. In questo senso, la lotta contro la burocrazia per la Weil è fortissima. Nel mio libro ho notato che in lei c’è addirittura una finezza: ella, infatti, sembra comprendere che in un regime di libero mercato 37
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(se si vuole, capitalistico) l’esistenza di una pluralità di burocrazie rende possibile, in qualche modo, giocarne una contro l’altra. Si viene a creare, quindi, una situazione di relativo privilegio per il cittadino, perché può ingaggiare quasi una sorta di guerriglia urbana contro le varie burocrazie pubbliche, semipubbliche, private, privatissime, personali. Mentre, là dove la burocrazia coincide con il bene pubblico (e quindi con lo Stato) non può essere attaccata, perché questa coincidenza, in quanto garante del bene pubblico, rende il burocrate inamovibile, inattaccabile, privilegiato come e più degli antichi ceti nobiliari della Russia zarista. A.: Non le sembra che oggi la crescente disoccupazione, la necessità di lavoro o altre forme di mancanze sociali spingano l’uomo a sottomettersi a nuove forme di burocrazia? A una dipendenza accettata? F.: Indubbiamente, oggi siamo in presenza di una forma di degenerazione democratica e di depravazione del singolo il quale, attraverso una serie di incentivi più o meno diretti, può sperimentare bisogni che percepisce come suoi, ma che non sono suoi. Bisogni che in qualche modo vengono indotti in lui da una pubblicità massiccia; la quale, a sua volta, serve i bisogni puramente produttivi dell’attuale sistema di produzione, che ha bisogno di consumo per poter continuare a produrre. Fino a quando noi avremo un’economia che si sviluppa solo con il criterio del profitto restrittivamente inteso, non potremo uscire da questa contraddizione esistenziale. Avremo, in altre parole, il pericolo (che sta diventando realtà effettuale) di ingenti masse umane che accettano la logica dell’armento e si comportano autoprivandosi della propria libertà. Il profitto restrittivamente inteso è sommamente negativo, con una riserva fondamentale (altrimenti l’obiezione a quanto vengo dicendo sarebbe troppo facile). La riserva è che il profitto, nelle condizioni tecniche raggiunte dalla produzione, resta oggi l’indice più sicuro della gestione razionale dell’impresa. Invece, occorre avere di esso una concezione più ampia di quella prevalente: occorre vederlo non solo in termini ragionieristici, contabili rispetto alla singola azienda, ma capire che deve tener conto delle condizioni minime indispensabili per l’equilibrio del sistema complessivo. Occorre quindi che il profitto conglobi le 38
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esigenze del rapporto fabbrica-comunità, produzione economica e situazione ecologica dell’ambiente. Sono queste le variabili decisive di oggi che non vengono prese in considerazione. Invece, se vince (come sta vincendo) il profitto riduttivamente inteso, noi avremo una globalizzazione dell’economia, che significa dare alle società multinazionali il potere di massimizzare il loro tornaconto azienda per azienda nel più breve tempo possibile, dilapidando le risorse del pianeta. Questa è la situazione drammatica in cui oggi ci troviamo. Perché “drammatica”? Perché le società multinazionali hanno oggi più potere dei singoli Stati nazionali: hanno il potere di vita e di morte su intere famiglie, villaggi, centinaia e centinaia di persone. Nello stesso tempo, il codice civile vigente le considera soltanto “domicili privati”. Il “domicilio privato” (la società multinazionale) è investita oggi di responsabilità sociali planetarie. Questa è la discrepanza macroscopica più grave: probabilmente una falla mortale nella situazione del mondo di oggi. A.: Fra le altre preoccupazioni di Simone Weil nella vita di fabbrica, vi è quella del “tempo”. In una pagina del suo libro, lei distingue fra la modalità dell’“accorrere” e quella del “correre”30. – Vuole spiegare di cosa si tratta, precisamente? F.: Comincerò con il “tempo della produzione”, tenendo presente l’organizzazione scientifica del lavoro, nota con il nome di taylorismo, dall’ingegnere americano Frederik Winslow Taylor che per primo l’aveva elaborata teoricamente e poi applicata sul piano pratico dell’azienda – dell’azienda Ford e di altre31. Oggi siamo entrati in una fase post-tayloristica. Le otto ore di lavoro (che a volte, con lo straordinario, sono anche più lunghe) incidono in maniera massiccia sugli individui. Le persone che lavorano in regime di organizzazione scientifica del lavoro, hanno i tempi e i movimenti conteggiati e disposti disciplinarmente, prima ancora che esse agiscano. Quindi, l’operaio, oggi – se non alla catena di montaggio, almeno alla giostra della produzione o, comunque, alle organizzazioni informatiche e telematiche – si trova in qualche modo costretto in una serie di operazioni (che vanno da pochi secondi a qualche minuto) previste e tutte in anticipo, determinate in maniera molto precisa dall’Ufficio Progetti e 39
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Metodi. A questa situazione si è cercato di ovviare fin dagli inizi, perché era evidente che ogni persona ha i suoi bioritmi, i propri tempi, le proprie capacità di movimento, e non si possono considerare tempi “passivi” o tempi “morti” quelli che sono, magari, movimenti e tempi di relax: di rilassamento fondamentale. Allora, si è pensato di poter ovviare col “tempo libero”. Nelle prime formulazioni, “tempo libero” significava la capacità delle persone che svolgevano il lavoro industriale di recuperare la loro umanità, e quindi il tempo non lavorativo. Purtroppo, era un’illusione, perché il tempo libero si rivelò spesso come “tempo vuoto”: non solo per la mancanza di strutture per un uso creativo di esso, ma perché uno non può cambiare abitudini, reazioni, tempi di vita e di lavoro uscendo dalla fabbrica, come cambia la tuta o la camicia. Gli esseri umani non sono unitari; e quindi, il peso del conteggiamento e della determinazione autoritaria dei propri movimenti nei luoghi di fabbrica continua anche al di fuori di questa. Si potrebbe ovviare a questo non tanto con il tempo libero, dunque, ma con una vera e propria rivoluzione interna nell’organizzazione del lavoro industriale. È precisamente ciò che Simone Weil non ha semplicemente visto e descritto dall’esterno (come fanno molti sociologi, filosofi del lavoro, tecnici, ecc.), ma ha voluto vivere come esperienza; e si è resa conto che in effetti l’ansia di arrivare in ritardo, lo spasimo e l’angoscia della scadenza è ciò che a poco a poco pesa sull’operaio, perché all’ansia, allo spasimo della scadenza, all’angoscia del fare tardi si collega anche il timore, che diventa vero e proprio terrore (come ancor oggi si vede chiaramente ovunque), dell’essere licenziato per scarso rendimento. Aspetto delicatissimo, questo. Quindi, in regime industriale, indipendentemente dalle tariffe salariali, proprio per ragioni organizzative, gli esseri umani vivono costantemente rinunciando a una parte irrecuperabile della propria umanità32. A.: All’inizio del capitolo IV del suo libro, lei si pone una domanda fondamentale per capire meglio e in profondità la polemica di Simone Weil nei confronti della condizione operaia e, in generale, della società capitalistica: «Perché Simone Weil» – si chiede – «vuole, a un certo punto della sua vita, invece di restarsene tranquilla professoressa di filosofia, 40
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farsi operaia di fabbrica? Che senso ha, per una fille bien rangée del ceto medio-alto francese, con alle spalle una famiglia di professionisti affermati e di successo, voler essere a tutti gli effetti operaia?»33. F.: A questa domanda, non è possibile dare una risposta tranciante. Certamente, i tempi produttivi della Weil erano sempre in ritardo: chi è abituato a leggere, a scrivere, a riflettere mentre fa certe cose, non può avere la stessa velocità ripetitiva e quasi automatica di un operaio o operaia a livello medio. Però, devo anche dire che la partecipazione diretta, non accademica, non uno studio esterno, ma il tentativo di immedesimarsi nell’operaio; addirittura, il tentativo di “sostituirsi” all’operaio durante il lavoro34 – tutto questo ha, certamente, un valore incredibilmente importante. Non v’è dubbio che il suo Journal d’usine (il suo diario di fabbrica) è pieno di notazioni empiriche, circoscritte, di un realismo sconcertante, che farebbero invidia a molti analisti, antropologi, sociologi e psicologi del lavoro. Insomma, in questi tentativi, che sembrerebbero dettati solo da un senso apostolico, da un bisogno di condividere la sofferenza degli altri, c’è invece un aspetto di realistica percezione dei rapporti nella vita di fabbrica, che ancora oggi per noi sono pieni di insegnamenti. A.: Più volte, nella sua analisi, afferma che Simone Weil ha anticipato, è stata profeta di tante trasformazioni (politiche, sociali, religiose) di oggi; e più volte ha messo in risalto la sua critica al marxismo. – Oggi che di marxismo sembra non si parli più, come dobbiamo leggere tutto questo: come una previsione dell’attuale “crisi” del marxismo (ammesso che ci sia)? F.: Più volte il marxismo è stato dato per morto e spacciato, e poi regolarmente è tornato sempre sulla scena culturale, politica, intellettuale del nostro tempo. Benedetto Croce, fin dal 1912 scriveva un saggio intitolato Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia. Poi, nel 1945, lungi dall’essere morto, il marxismo è tornato in vita. Oggi, addirittura, sembra che in certi paesi arabi esso conosca un fiorire rigoglioso, al di là del fondamentalismo. Ciò che mi sembra importante ritenere in Simone Weil, è una duplice anticipazione: la prima, sul piano religioso, l’anticipazione dell’ecumenismo, tipico del Concilio Vaticano II, che troviamo 41
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nella Lettera a un religioso35 e nella sua stessa biografia. Il fatto di non essere mai entrata, benché ne fosse molto attratta, in una chiesa cristiano-cattolica, di essere rimasta sulla soglia della sinagoga o del tempio buddista, cosa vuol dire? Vuol dire che era una mistica di tutte le religioni. L’altra importante anticipazione consiste nel fatto che, scrivendo e pensando negli anni Trenta e nei primi anni Quaranta, Simone Weil prevede la crisi tremenda che ha portato al collasso dell’Unione Sovietica. Quindi, al di là di una rilevazione teorica delle lacune del marxismo (che, come s’è detto, sono specialmente quelle relative alla crescita di una struttura burocratica irresponsabile e inamovibile, nuova forma di sfruttamento delle classi subalterne) – al di là di questo (ed è già un’anticipazione fortissima), Simone Weil vede la crisi del partito politico: non solamente dell’Unione Sovietica, ma anche della stessa democrazia. Il fenomeno più sconcertante di oggi, dopo la caduta del socialismo reale, dell’Unione Sovietica, è che le democrazie occidentali non hanno avuto nulla da dire: hanno semplicemente richiesto mano libera ai capitali privati, ai grandi capitali vaganti, che sono come i pirati di oggi alla ricerca della massimizzazione del loro tornaconto. Simone Weil, invece, ha previsto, con una precisione impressionante e sbalorditiva, che la democrazia non può essere solo una procedura o una tecnica pura e semplice per determinare maggioranze e minoranze (storicamente parlando, non può esaurirsi in questo, come vogliono i politologi di oggi, senza suicidarsi). La democrazia deve essere anche un grande ideale morale: di giustizia e uguaglianza. In questo senso, Simone Weil ha dato un appuntamento allo sviluppo storico che oggi (possiamo dirlo) è puntualmente scattato.
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IV. SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE: a) PAROLA SCRITTA E IMMAGINE
Il tema della scuola, della letteratura, del libro (accennato qua e là nelle precedenti conversazioni) prende risalto, ora, in questa. Simone Weil – abbiamo visto – è stata un esempio di un modo diretto, “personale”, di rapportarsi con gli altri: un esempio di rapporto vissuto sulla sua pelle. Ma, in una società di massa come la nostra, è possibile parlare di un simile rapporto? In che modo abitiamo il mondo? In che modo comunichiamo, oggi? Un po’ di storia. Quando Theut, un vecchio dio egizio, andò a trovare re Thamus, gli mostrò le arti che aveva inventato: i numeri, il calcolo, la geometria, l’astronomia, il gioco degli scacchi e dei dadi e, soprattutto, la scrittura. Voleva donarle tutte agli Egiziani. Allora il re volle informarsi sull’utilità di ciascuna. E mentre il dio gliene faceva l’esposizione, egli approvava o disapprovava con osservazioni che Socrate, in questo notissimo passo del Fedro platonico, non riferisce perché – dice – “sarebbe troppo lungo ripetere”. Riferisce, invece, con precisione, ciò che re Thamus pensa della scrittura elogiatagli dal dio: essa indebolisce la memoria di chi vi confida, per mancanza di esercizio; se la interroghi, “serba un dignitoso silenzio”: non ha vitalità dialettica. E questo è terribile. Ma soprattutto, il discorso scritto, circolando dappertutto, può capitare nelle mani sia di chi lo intende, sia di chi non ha per esso alcun interesse36. Fino ai tempi di Socrate in Grecia prevalse la parola orale: attraverso di essa, gli uomini appresero, e trasmisero ciò che avevano appreso. Come tutti i veri sapienti, Socrate non scrisse nulla: non aveva bisogno del libro: «chi ha la cognizione del giusto, del bello, del bene 43
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[…] non scriverà nell’acqua, in un’acqua nera, seminando quei semi per mezzo d’una cannuccia e di parole inette a difendere se stesse per via di ragioni, inette per di più a insegnare il vero». Se scriverà, lo farà per svago e per ricordare quando sarà vecchio37. Ma tra il V e il IV secolo a.C. si affermò il libro, e tutto ciò che era legato alla cultura orale cominciò ad essere messo in crisi. Di tale crisi furono pienamente coscienti gli uomini di allora, ed espressero, in modo pensieroso o ironico, il loro timore o la loro contraddizione. Platone, per esempio, comprese chiaramente il danno che sarebbe derivato dalla scrittura: e lottò per non lasciarsene coinvolgere o per difendere la cultura contro il pericolo di una sua “massificazione”. Ma – come afferma E.G. Turner – la sua fu “una battaglia di retroguardia”: il libro, ormai, s’era saldamente affermato38. E se egli non poté fare a meno di scrivere (e fu scrittore scrupoloso), non volle nemmeno rinunciare alla parola parlata. Ed espresse la sua filosofia nella forma del “dialogo”39. Oggi, diversamente da ciò che pensava re Thamus, sappiamo che il libro non è muto: esso ci dice cose diverse ogni volta che lo interroghiamo. Tuttavia, il mito platonico del dio Theut è di straordinaria attualità: come nel IV secolo a.C. o nel XV della nostra era, anche noi viviamo una radicale rivoluzione degli strumenti culturali: il computer e Internet hanno mutato irreversibilmente le tecniche della comunicazione. La cultura del libro, che Marshal McLuhan riteneva conclusa già negli anni Sessanta, ora sembra essere arrivata davvero al termine: tecnofili e tecnofobi almeno in questo concordano40. Non credo nelle contrapposizioni esclusive di ottimisti e pessimisti. Credo, invece, che, come Platone, dovremmo definire un nuovo rapporto tra oralità e scrittura. Se il computer e Internet hanno mutato il nostro modo di pensare e di apprendere, tuttavia – come ha scritto U. Eco – occorrono dei “filtri” contro una profusione di sapere che potrebbe diventare confusione. Senza filtri – dice Eco – si rischia l’anarchia del sapere: nessuno di noi, da solo, può ricostruire ex novo un insieme di conoscenze. Affinché un sapere comunitario non venga soppiantato da un sapere parcellizzato, occorre che le conoscenze vengano filtrate da un’Istituzione attraverso cui tutti si accordano su un determinato sistema di conoscenze. Occorre, quindi, intensifica44
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re i filtri esterni alla Rete, come la scuola, i libri, i giornali. Queste Istituzioni non possono essere soppiantate dalla Rete: sono, anzi, la condizione per un suo uso ragionevole41. Fondamentale obiettivo della scuola, per esempio, dovrebbe essere quello di abituare la “classe” a confrontarsi con il testo letterario: creerà, in questo modo, quella che Romano Luperini ha definito “comunità ermeneutica” (prefigurazione di comunità democratiche più ampie) la quale, partendo da un sapere comune, si dividerà, poi, di fronte ai diversi significati che ciascun componente darà al testo42. Momento importante, questo, nella formazione delle coscienze. L’uomo di oggi è “l’uomo delle notizie”: l’uomo che «ha abolito in sé la forza visionaria dello spirito, l’immaginazione, la pura tensione speculativa, l’amore del gioco, la tenerezza per le parole»43. La nostra società – caratterizzata dalla velocità e dalla simultaneità, invasa da informazioni rapide e d’immediata utilità che presumono essere idee – può trovare ancora nel libro un indispensabile strumento di formazione della coscienza e di modelli mentali, e nella lettura un momento di pausa, di silenzio e di riflessione. Il rapporto tra i libri e i media è l’argomento di questa quarta conversazione44. A.: Tra le cause della crisi del libro, grande rilievo acquista, nelle analisi da lei condotte, quelle relative alla televisione: fin dagli anni Sessanta, quando polemizzava con le idee radicali di Marshal McLuhan che già allora era convinto della morte del libro. Lei non era d’accordo su questo. – Perché? F.: McLuhan era molto vivace: amava definirsi “il profeta dell’elettricità”. Egli sosteneva (e gli sviluppi attuali gli danno qualche ragione) che la logica della scrittura (la comunicazione con supporto cartaceo) era destinata a soccombere, a non resistere alla pressione dell’audiovisivo45: la logica dell’audiovisivo, infatti, era destinata a vincere quella della scrittura, perché parlava direttamente all’immaginazione e a quella parte del cervello (l’emisfero destro) che era stata trascurata a favore dell’altra (emisfero sinistro). McLuhan tendeva a mescolare elementi tecnici, biologici, scientifici in senso stretto, con valori, citazioni tipicamente 45
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umanistici. Diceva che noi, finora, abbiamo sviluppato molto la parte dell’emisfero cerebrale sede della logica, del ragionamento sillogistico deduttivo e induttivo; mentre tutta la parte emotiva, calda, era stata trascurata. Con l’audiovisivo cominciava l’epoca in cui si passava a questa seconda fase sia del ragionamento che delle spinte ad agire. C’erano, quindi, due logiche: quella della scrittura (logica cartesiana, analitica), e quella dell’audiovisivo: logica dell’immagine sintetica: un’immagine, cioè, che ti colpisce in maniera fulminea e in qualche modo ti ipnotizza, facendo prevalere il momento emotivo su quello del ragionamento. Questo, fra l’altro, – secondo McLuhan – spiegava (e spiega tutt’ora) la grande attrazione che i mezzi audiovisivi esercitano sui giovani. La mia risposta era molto semplice: non sappiamo, in realtà, quale delle due logiche possa prevalere. Quello che sappiamo è che sarebbe augurabile un’interazione critica tra i vari mezzi di comunicazione di massa. Tra l’altro, anche il libro è un mezzo di comunicazione. Si tratta, cioè, di far interagire il libro, la televisione, Internet, ecc. Addirittura, per i bambini in particolare, e per i giovani in via di formazione, stabilire regole molto semplici: per esempio, un’ora di televisione e due di lettura, un’ora di Internet e una passeggiata, una conversazione, ecc. A.: Tuttavia, dopo tante polemiche e analisi in difesa del libro, anche lei, ora, riconosce che il libro è in pericolo; e il pericolo è mortale. E questo, nonostante il mercato se ne sia impadronito46. F.: Il libro è difficile. Ho constatato, specie nella mia attività didattica, che, ogni qualvolta notavo una certa stanchezza (se non apatia, o indifferenza, o distrazione) nel mio uditorio studentesco (studenti di ventitre, ventiquattro, venticinque anni; uomini maturi, ormai, alla soglia della laurea o del dottorato), era sufficiente per me incarnare un’idea astratta in un esempio concreto (raccontare, per esempio, una storia di vita) e subito l’attenzione si risvegliava. Era evidente che nei giovani della nuova generazione il vissuto è quasi più importante del pensato; e quindi, la logica emotiva che si connette con l’audiovisivo certamente vince la fredda logica della pagina stampata. Questo è così vero che oggi gli editori più avveduti (e più provve46
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duti finanziariamente) cominciano a vendere i libri con la cassetta; come dire: il supporto cartaceo deve essere integrato, irrobustito, aiutato dall’immagine contenuta nella cassetta. E gli autori non sono più solo scrittori, e non sono più neanche promotori di quello che hanno scritto. Gli autori diventano intrattenitori, commedianti: infatti, hanno molto successo quelli i cui libri vengono tradotti in film, o proiettati in programmi televisivi; o autori che si prestano a diventare dei guitti da televisione. La televisione è un gran lavandino che trangugia tutto, anche il libro: ne fa la pubblicità. Ma avviene a livello critico? Luciano De Crescenzo esprime veramente Platone? Io stesso (che non sono un aficionado dei talk-show, ne rifiuto il clima, anzi ho delle riserve nei suoi confronti), se un conduttore televisivo mi invita a presentare un mio libro, ci vado, perché il libro è una mia creatura che voglio presentare. Ora, quando parliamo di “morte del libro”, non intendiamo la morte del libro come manufatto. Quello che intendo dire, quello che McLuhan voleva dire, è che sta deperendo la civiltà della lettura: della lettura come modo di vita. Il problema richiederebbe un’analisi molto puntuale; ma potrebbero bastare anche degli esempi a farcene capire la natura: un tempo, l’operaio o l’impiegato, tornando a casa, leggeva, prima o dopo cena, un romanzo; anche i contadini leggevano il Guerin Meschino o l’Almanacco di Barbanera; i ragazzi di provincia I tre moschettieri. I libri si vendevano casa per casa. Tutto ciò è venuto meno: ritornati a casa, nessuno si mette più a leggere, ma ci si spaparanza davanti alla televisione, seguendo notizie ma anche sceneggiati. Tutto questo, però, non toglie che noi stiamo movendoci verso una fase nuova. A.: La televisione ha un rapporto contraddittorio con i libri: all’inizio ha fornito a tutti le basi (linguistiche) che hanno permesso l’approccio al libro; poi ci ha allontanato da esso. – Quali sono precisamente le sue responsabilità più rilevanti? F.: Per quanto concerne la cultura intesa come presa di coscienza di sé e del mondo, la televisione ha avuto (e ha) punti forti, positivi, ma anche aspetti e conseguenze negative, se non nefaste. Recentemente in Inghilterra la BBC ha deciso di non prestare 47
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più alcuna attenzione all’audience e badare solo alla qualità dei programmi. Alla base, il solito circolo vizioso: alla gente si offre ciò che essa vuole (televisione spazzatura); la gente, a sua volta, dice che, se le si offre solo spazzatura, evidentemente non si ha altro. L’accusa mossa subito alla BBC è stata di essere elitaria: di voler fare, cioè, programmi di qualità, indipendentemente dalla reazione del pubblico47. Non mi pare che questa critica sia fondata. Devo ammettere, però, che la televisione sulle prime ha portato un vasto pubblico (a volte ancora analfabeta, come succedeva in Italia) a un’informazione più ampia, offrendogli anche mezzi linguistici di media levatura. E questo è, senza dubbio, un merito. Anzi, come ho scritto molti anni fa parlando di televisione e costume in Italia, in molti villaggi dell’Abruzzo (e non solo) la televisione è arrivata prima dell’alfabeto48. Detto questo, però, a una più attenta analisi credo si possa dire che la televisione, facendo prevalere la logica dell’audiovisivo, presenta due aspetti negativi: in primo luogo cancella l’antefatto: la televisione è schiacciata tutta sul presente, sull’immediato, perché l’immagine, sintetica, brucia in qualche modo il passato e non fa pensare all’avvenire. Ora, la cancellazione dell’antefatto impedisce una conoscenza critica, perché qualsiasi conoscenza critica è tale solo nella misura in cui può valutare l’esperienza immediata alla luce di un’altra passata. E, comprendendo in profondità il presente, predispone gli strumenti per programmare il futuro. In secondo luogo, nei programmi televisivi prevale un’indifferenza ai contenuti che non consente più l’elaborazione personale di una tavola di priorità. C’è una confusione di informazioni. Anzi, le informazioni diventano così torrentizie, così rapide e di tempo reale, da impedirne l’assimilazione critica. A.: La gente potrebbe dire: se il libro e la televisione ci pongono ugualmente di fronte alla realtà, e la televisione o Internet ce la fa conoscere addirittura in tempo reale, perché si dovrebbe preferire il libro? F.: Quando descrive una data realtà, il libro presenta un’introduzione, consente un ritorno ai capitoli precedenti, esige ciò che la televisione considera del tutto marginale: una certa solitudine (ed è ciò che non piace ai giovani di oggi), silenzio: una delle risorse 48
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più preziose che oggi abbiamo perduto; l’esercizio della memoria: per essere informati senza essere deformati, occorre rifarsi con la memoria all’antefatto e concettualizzare. Non bastano solo le informazioni; ma, sulla base di esse, bisogna elaborare un proprio convincimento. Tutto questo la televisione non lo impedisce, ma lo rende più difficile, perché ci dà un torrente di informazioni non più governabili. Chi si espone eccessivamente alla televisione (come ai videogiochi) perde il contatto con la realtà vera e propria, non distinguendola più da quella televisiva; e finisce per essere l’individuo di un popolo di informatissimi idioti, che sanno tutto e non capiscono nulla: gli idiots savants – che Flaubert considerava patetici, e noi, nella nostra tradizione letteraria, abbiamo chiamato “sputasentenze”, “azzeccagarbugli”, ecc. Non sono persone ignoranti, perché sono molto informati; solo che non capiscono nulla. Anzi, di fronte ad essi, la saggezza sapienziale degli analfabeti appare di gran lunga preferibile. A.: Altra grande imputata della crisi del libro: la scuola, il luogo per eccellenza dove dovrebbe avvenire l’approccio e l’educazione alla lettura. – Cosa manca ad essa perché svolga convenientemente questo compito? F.: In tutte le civiltà e paesi, la scuola è la struttura fondamentale di socializzazione primaria dopo la famiglia. Il rapporto scuolafamiglia è un punto delicato anche per ciò che riguarda la lettura: non bisogna scaricare sulla famiglia funzioni che sono della scuola; ma la scuola ha diritto di esigere dalle famiglie un atteggiamento un po’ diverso. In gran parte delle famiglie italiane non c’è tradizione di una biblioteca famigliare. Vi si trovano libri fregiati in oro, ma come accessorio di arredamento. A sua volta, la scuola ha enfatizzato l’uso del computer o della lavagna luminosa, tanto che certi professori non riescono più a far lezione senza l’uso di essi; e le banche o le aziende fanno a gara nel regalarli alle scuole. Tutto questo ha indotto i giovani a considerare il libro come un manufatto arcaico. Esso ha perso non solo l’aura di sacralità degli antichi rotoli, ma anche la stima e il senso di cultura che gli davamo noi, figli di una cultura a supporto cartaceo. La scuola non aiuta in questo senso; anzi, rafforza lo stato di inferiorità del libro. 49
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A.: Un altro motivo della crisi del libro e della lettura potrebbe essere indicato, secondo lei, nell’attuale prevalenza di una mentalità scientifica e utilitaristica: la sola – si crede – che porterebbe al benessere personale e sociale? F.: Certamente! Siamo riportati all’antica contrapposizione tra otium e negotium, o a quella tra “cultura” e “civilizzazione” nell’ambito del romanticismo tedesco. Una società come la nostra, fondata sul calcolo razionale in termini utilitari (e quindi sulla massimizzazione del profitto in senso lato in tutti i campi, perfino in quello religioso), ha già compiuto – temo – un gravissimo errore: l’aver scambiato i valori strumentali con i valori finali. Valori strumentali (che io sono ben lontano dal disprezzare) sono i valori economici, del progresso tecnico, del reddito medio pro capite, del prodotto interno lordo. La tecnologia come tale è una perfezione priva di scopo49; e la scienza, contrariamente a ciò che pensano i tecnofili – questi ardenti credenti nel progresso scientifico – incontra limiti molto precisi. Infatti, ci sono problemi propriamente umani a cui essa non ha risposte da dare: il problema della morte50, dell’esigenza di giustizia, di libertà, di uguaglianza, di accettazione degli esseri umani come tali, ecc. Oggi, la mentalità scientifica è talmente pervasiva che si presenta perfino in forme mistificate. Pensiamo, per esempio, alle questioni relative alla bioetica, al trapianto di organi o, soprattutto, alla clonazione di esseri umani, per la quale viene a cadere il concetto perno della civiltà (non solo occidentale): il concetto di individuo come realtà unica, irriducibile e irripetibile. Ci stiamo avvicinando, cioè, a un’epoca in cui si vuole scientificizzare ciò che non è scientificamente significativo. I valori scientifici riguardano problemi che si risolvono con l’esatta applicazione delle istruzioni per l’uso, mentre i problemi propriamente umani sono tensioni permanenti, esigenze non solubili una volta per tutte. Se lasciamo cadere la distinzione fondamentale tra problemi tecnici e problemi umani, tra valori strumentali e valori finali, corriamo il grande rischio di avere, anche tra una o due generazioni, una società scientificamente molto progredita, ma spiritualmente imbarbarita.
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A.: E allora, quale atteggiamento le sembra più fecondo di fronte ai contrasti che si sono visti tra libri e media, tra progresso tecnico e progresso spirituale? F.: Io direi questo: non demonizziamo i nuovi mezzi di comunicazione; nemmeno idealizziamoli, però. Cerchiamo di seguirne lo sviluppo, salvando in maniera equilibrata i valori importanti della tradizione, rispetto ai nuovi sviluppi tecnici e mantenendo ferma la distinzione fra progresso tecnico scientifico e progresso spirituale e culturale.
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V. SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE: b) PAROLA SCRITTA E MEMORIA
Parliamo ancora di libri: questa volta non come mezzi di comunicazione, ma come “custodi” di una tradizione, custodi della memoria. Nella conversazione precedente dicevamo che, diversamente da ciò che pensava re Thamus, il libro non è muto51: ogni lettore dà alla pagina “muta” la propria interpretazione, il proprio significato; e la pagina prende vita, e parla, rivelandoci infiniti segreti. La lettura moderna ha perduto la gravità d’una volta: è più leggera, frenetica. Noi leggiamo per mille diversi motivi: per passare il tempo, per fantasticare o dilettarci, per evadere dalla realtà o elevarci al di sopra di essa. Ma un motivo non dobbiamo mai perdere di vista: leggere per non dimenticare il passato: attività indispensabile nella società odierna che ci schiaccia sul presente, cancellando il passato e il futuro. Oggi conta l’effimero e, nell’effimero, una costruzione della vita basata sull’impulso personalistico. In questa condizione, la lettura riempie di ricordi il vuoto che è in noi, e l’effimero si dilata fino ad abbracciare il nostro passato, sul quale costruiamo il futuro. La storia individuale s’intreccia con la storia collettiva: l’una ha bisogno dell’altra, per essere compresa e dar senso a se stessa; l’una è nell’altra. La tesi da cui parte Franco Ferrarotti in Il silenzio della parola è l’atteggiamento di Socrate di fronte alla scrittura: «il silenzio della parola lamentato da Socrate» – dice – «è, in realtà, all’origine di quel numen multiplex della parola scritta. È un silenzio assordante, che ha un’incredibile ricchezza potenziale: la potenzialità del non detto. Il silenzio della parola scritta è all’origine dell’ermeneutica, della filologia, dell’infinita molteplicità del non detto»52. 53
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1. Socrate e la parola A.: Scrive Bruno Gentili nella prefazione al libro di Giovanni Cerri, Platone sociologo della comunicazione: «Pur riconoscendo gli aspetti positivi dell’agonismo orale e il danno ineluttabile insito nel discorso scritto, (Platone) di fatto scrive, né avrebbe potuto fare altrimenti, perché il linguaggio orale non avrebbe consentito la complessa articolazione dialettica del suo pensiero. E d’altra parte non volle rinunciare del tutto al dinamico potere della parola, conferendo ai suoi scritti la struttura del dialogo»53. – Vuole esprimere il suo parere? F.: Platone e Socrate hanno ragione quando affermano che con la scrittura si perde il corpo, la presenza viva, la voce dell’altro54. Ma – come ho detto nella pagina da lei ricordata – con la scrittura abbiamo il vantaggio di un’infinita molteplicità di significati. La scrittura vuol dire, poi, lettura; e la lettura di ciò che si è scritto significa isolamento, silenzio, concentrazione. L’oralità non ha necessariamente tutto ciò. Lo scambio diretto è certamente un grande vantaggio, perché possiede per sempre un elemento istrionico; ma non sempre rende possibile la concentrazione che invece si ha sulla pagina. A.: Nella nostra tradizione letteraria, si è sviluppata l’idea della lettura come incontro personale, dialogo, amicizia: dietro le parole d’un libro, scopriamo l’anima dell’autore: Petrarca scrive a Cicerone, a Virgilio, a Seneca, a Varrone; Machiavelli non si vergogna di parlare con gli antichi e di domandar loro la ragione delle loro azioni55. F.: Montaigne, addirittura, non solo parlava con gli autori, ma, parlando con essi, parlava con se stesso. Giunge a dire che ogni libro è un messaggio in bottiglia lanciata nell’oceano, che finirà non si sa in quali mari. Io ritengo che il libro (benché non sia più considerato libro sacralizzato, ma uno strumento della comunicazione intellettuale, anche se non più l’unico) resta sempre lo strumento che, non solo esige la solitudine, il silenzio, la concentrazione, ma che in qualche modo si presta (a differenza dell’audiovisivo) ad accompagnare una persona dovunque.
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2. La fine della cultura del libro? A.: George Steiner ha parlato della fine della civiltà della lettura; o meglio, dell’amore del libro. E lei, nel suo libro, condividendo questa analisi, aggiunge: «la fine della cultura del libro […] temo che vada ben al di là delle sue caratteristiche di mercato, degli alti e bassi della congiuntura economica”56. – Può analizzare brevemente il problema? F.: Ciò che dice George Steiner è un dato di fatto. Ma, in maniera quasi onirica, aggiunge: forse un giorno gli amanti della lettura ben fatta, com’erano un tempo, si ritroveranno, come i primi cristiani, in novelle catacombe, adepti di un culto misterico; la lettura apparterrà a ridotte, sparute minoranze. La crisi della lettura ha una matrice complessa. Ma, procedendo in maniera analitica, si potrebbe pensare, in primo luogo, a ciò che il libro richiede al lettore d’oggi, e che il lettore d’oggi non è più in grado di dare. Il libro – dicevamo – richiede solitudine: ma la solitudine non c’è; richiede silenzio: ma il silenzio è diventato privilegio per pochi che possono vivere in mezzo a un parco; esige concentrazione: ma la concentrazione non è più possibile, perché la stessa fretta di vivere induce ad assumere una fretta anche interiore che non consente più di fermarci a fare considerazioni su principi o risultati acquisiti. Il paradosso è che ciò si verifica nel momento stesso in cui nell’Università o nella scuola di massa si dovrebbe avere un più grande numero di lettori. Invece, gli studenti di oggi hanno quell’atteggiamento utilitario comune a tutti, per cui leggono utilitariamente solo i libri che servono, e poi si vanno a vendere al mercato dell’usato. Ma la lettura disinteressata, la lettura come momento formativo sta cadendo in disuso. A.: Come spiegare, allora, l’affluenza di persone, che pur si registra, nelle librerie? F.: Non si vuol dire che il bisogno di confrontarsi, di considerare, di riflettere sia venuto meno. È vero: le librerie vengono riscoperte (ma soprattutto vengono riscoperte e ricercate le biblioteche). A ben guardare, però, le saghe, le fiere del libro mi fanno ritenere – come ho già notato57 – che oggi lo scrittore si va trasformando nel promotore di se stesso e che, in fondo, sta diventando 55
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commediante: non è più sufficiente scrivere un buon libro; bisogna, poi, in qualche modo, presentarsi al pubblico come autore del libro stesso. E il libro stesso non può essere semplicemente l’espressione “idiosincratica” di un individuo; deve essere calibrato con il pubblico; e allora esso diventa come una sceneggiatura. Non si trova più un editore che sia convinto – come diceva Giulio Einaudi – di pubblicare in un anno almeno quattro libri su cui è sicuro che perderà. L’editore è diventato un mercante: l’editoria, per non andare fuori mercato, ha dovuto (e deve sempre di più) sincronizzarsi e obbedire alle regole del mercato. Le quali sono regole eccellenti, accettabili per il prodotto di mercato. Ma il libro è un prodotto di mercato? Il libro è un “prototipo”, anche quando viene pubblicato in migliaia di esemplari. È una presenza di valori. Un libro veramente pensato fino in fondo, non può essere un libro che risponda ad una richiesta di mercato: i libri veri – diceva Nietzsche – sono quelli scritti col sangue: quei libri, cioè, che uno non può fare a meno di scrivere58. Allora, scrivere vuol dire “rivivere”, e viceversa; vuol dire portare, in qualche modo, un contributo a una vita rapportata, dare una nuova sensibilità alla cultura, la quale altro non è se non la capacità di rafforzamento della propria matrice originaria, emotiva e razionale ad un tempo. Nella situazione attuale, invece, il libro è visto sempre più come un mero prodotto di consumo. È il libro che sta nello scaffale, ma non si consuma; anche se è di valore, viene svalutato o mandato al macero. Non c’è più quell’attesa che un tempo il vero lettore aveva. Altrove ho ricordato l’esempio di Nietzsche il quale, quando – ancora giovane – s’imbatté in Il mondo come volontà e come rappresentazione di A. Schopenhauer, ci visse insieme quattordici giorni e quattordici notti, infervorato, non facendo altro. Ecco, questo è veramente l’incontro con il libro che ti forma (anche nella polemica, naturalmente). Probabilmente, stiamo entrando in un mondo in cui la tecnologia ha un fascino tale, soprattutto per i giovani, per cui il libro, tecnicamente parlando, ha un manufatto povero rispetto, per esempio, ad Internet. Ma, cos’è Internet, se non una pattumiera planetaria dove si trova tutto, senza possibilità di discriminazione? Si continua a parlare di una “democratizzazione” della cultura, senza più distinzione tra quella dei “vertici” 56
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e quella “popolare”. Questo ha determinato la caduta di qualsiasi criterio di eccellenza, per cui tutto va, ma nulla ha più significato; i ragazzi di oggi “sanno” tutto, ma “non capiscono” nulla: c’è più “conoscenza” d’ una volta, ma meno partecipata, meno conoscenza come esperienza. E questo crea preoccupazione59. A.: I mezzi di comunicazione di massa hanno ucciso anche il “dia-logo”, la “con-versazione”: nessuno, oggi, possiede più l’arte dell’ascolto e del comprendere: quando si discute, le voci si accavallano maleducatamente; nessuno degli interlocutori ha rispetto dell’altro. Voci che gridano davvero nel deserto. F.: Il dialogo è ridotto a una sorta di solitario monologo, spesso privo di senso. Tecnicamente, oggi possiamo comunicare tutto a tutti su scala planetaria, ma non abbiamo più nulla di significativo da comunicare. Non diciamo più: comunicare “con”; diciamo: comunicare “a”: cioè, comunicare genericamente, urlare nel buio. Assistiamo allo spettacolo deprimente di una sorta di mercato del pesce, in cui ognuno esalta la propria merce come la migliore; ognuno grida (in maniera se non paranoica, paranoide) la propria condizione personale, senza curarsi dell’altro. Non c’è più il contatto tra i dialoganti, perché non c’è più comunicazione: il “comunicare” implica una “comunione”, una “comunanza” di valori condivisi e convissuti, di idee, (e anche di criteri del discorso) che non c’è più. Il paradosso inquietante di questo – come lei ha ben colto – lo si vede nei talk-show: persone che dovrebbero chiarire dei problemi, in realtà si parlano l’uno sull’altro, nessuno ascoltando l’altro; nel loro parlare non c’è sequenza, ragionamento; non c’è tesi, né antitesi; non c’è “dia-lettica” – intesa, naturalmente, come ars disserendi.
3. Le due logiche A.: Oltre a ciò che si è detto, lei ha ricondotto la crisi della civiltà della lettura all’esistenza, oggi, di due logiche. – Quali? F.: Le menti degli esseri umani sono contese, oggi, da due logiche fondamentali: da una parte, la logica della lettura (e della scrit57
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tura): analitica, cartesiana; un processo che esalta la memoria: leggere una parola dietro l’altra, una riga dietro l’altra, un capitolo dietro l’altro, ecc. Dall’altra parte, la logica dell’audiovisivo, oggi vincente (soprattutto con le giovani generazioni): logica che non ha bisogno necessariamente di un atteggiamento analitico cartesiano, chiaro e distinto, perché colpisce con la fulmineità dell’immagine sintetica. Abbiamo, così, un atteggiamento analitico cartesiano, contro (o differente da) l’immagine sintetica; la logica della razionalità e quella dell’emotività. A questa tensione fondamentale io vedo legata la sfida del XXI secolo. L’immagine sintetica ha un potere ipnotizzante, medusizzante, che vediamo comprovato, nell’esperienza empirica quotidiana, dall’efficacia dei messaggi pubblicitari: chi non compare sullo schermo televisivo, “evidentemente” non esiste. Un prodotto, anche ottimo, che non venga pubblicizzato attraverso i media, non esiste. Addirittura (e questo è davvero inquietante) una persona, indipendentemente dal suo valore, in quanto viene vista attraverso lo schermo televisivo, acquista non solo visibilità, ma anche autorevolezza. Non solo: mentre il libro ci costringe a costruire, per esempio, il paesaggio in esso descritto, o la struttura concettuale, nel mezzo audiovisivo (in particolare nella televisione) troviamo una sorta di meccanismo strano, per cui la realtà viene documentata, ma attraverso una enfatizzazione dell’emotività, in base alla quale essa viene spettacolarizzata, resa fotogenica e, in qualche modo, derealizzata. E noi siamo come di fronte a un mondo di fantasmi: abbiamo una quantità di messaggi, di immagini, che parlano alla nostra emotività, comunicano in modo planetario, ecc., ma la realtà viene derealizzata. A.: Tutto questo ha un effetto anche sul piano politico? F.: Certamente! Chiunque ha, se non il monopolio, l’influenza maggioritaria o un potere mass-mediatico riesce, indipendentemente dai contenuti, ad ottenere il suffragio degli elettori. Allora, non è più in pericolo solo il libro, o la formazione personale, o la capacità di riflettere; è in pericolo la struttura dei principi democratici, l’avvenire della libertà individuale. L’individuo che in qualche modo è solo per ore davanti alla televisione, è ancora individuo? 58
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O sta subendo, invece, un processo di sgretolamento interiore? Viene meno l’identità personale. L’identità a cui siamo stati abituati dai nostri classici – da Platone, da Aristotele, da Cicerone, da tutta la filosofia medievale e moderna da Kant in poi – era un’identità formata dall’unità della persona, garantita dalla coerenza. Oggi, invece, questa sfaccettatura, questa costruzione paratattica, sta producendo un’identità mobile, itinerante, a più piani. Così che, per un verso si ha l’impressione di vivere in maniera più ricca l’esperienza, perché ci sono delle realtà che si incrociano; ma in realtà, la persona come tale, l’individuo come realtà pensante e agente in base a un progetto che deve collegare i mezzi disponibili con i fini ritenuti desiderabili – questo individuo scompare. E infatti, qualche volta, anche in comportamenti delittuosi, si risponde: “Volevo provare!”. Viene meno la responsabilità piena dell’individuo, perché poi aggiunge: “Facevano tutti così!”. Ecco: il gruppo, il gruppo dei pari: se uno non fuma, o non prende una determinata pillola, non vi appartiene. C’è un ritratto sentimentale interno ad esso, a cui gli adulti non hanno accesso. Oggi, insomma, non c’è più il momento della considerazione tranquilla dei problemi; la loro risoluzione avviene in una formula quantitativa. A.: Più volte, parlando di questi problemi, lei ha suggerito un’interazione critica fra i mass-media (tra cui il libro), invitando a dividere il tempo, per esempio, fra lettura, televisione, conversazione, passeggiate, ecc. Ma tutti dicono che non hanno tempo. – Ecco: il tempo, la fretta. – Cosa risponde? F.: Questa è una società che ci ha dato molti vantaggi; ma io la definirei anche “iperproduttivistica” e “cronofagica” (che mangia il tempo). Consideriamo, per esempio, il problema delle casalinghe. Una volta, in una trasmissione televisiva, ho cercato di rivalutare le casalinghe: far crescere un figlio – dicevo – è molto più difficile che lavorare in ufficio. Tutti mi hanno dato addosso: le stesse donne (le femministe, specialmente) vedono nella casalinga il fallimento del successo professionale. La società iperproduttivistica e cronofagica, insomma, è riuscita ad affermare il successo professionale extracasalingo come l’unica meta degna di essere 59
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perseguita. Errore fatale, terribile: viene meno, così, il senso della famiglia come comunanza di valori e di affetti. Io vedo qui la bella, ma patetica, illusione di Max Horkeimer che vede nella famiglia il porto tranquillo contro la pressione competitiva del mercato. Si sbagliava: il mercato è entrato dentro la famiglia e ha imposto le sue regole anche nel “focolare domestico”. Così, credo che sia impossibile tener viva l’esigenza di affermare valori meta-utilitaristici, puramente umani (che sono valori in sé, non per quello che producono). A.: Riprendiamo il discorso dell’immagine televisiva: oltre la fulmineità dell’immagine, c’è anche la censura. La censura è un argomento complesso. – Di che si tratta in particolare? F.: Sì, oltre la fulmineità dell’immagine che cattura, c’è una sorta di strana censura: non quella dell’indice dei libri proibiti o dei dittatori, ma la censura determinata dalla quantità di messaggi, di fronte ai quali l’individuo (pur razionale) non è in grado di filtrare razionalmente quelli più importanti da quelli meno. Questa “folla” di messaggi produce un chiasso interiore che impedisce le scelte ragionevoli. È questa – credo – la censura più efficace, perché toglie all’essere umano la sua capacità fondamentale di stabilire una tavola di priorità. Così l’esperienza umana, invece di venire in qualche modo “progettata” (in base alle possibilità reali o a ciò che uno desidera scalando le varie mete), viene “frazionata”, “frammentata” e tenuta insieme da una costruzione sintattica “paratattica” in cui prevale la copula “e”: succede questo e questo; alla réclame d’un dentifricio segue, per esempio, la notizia di un massacro in Iraq, o quella del Papa malato, ecc. Insomma, abbiamo una folla di messaggi allo stesso piano, di fronte alla quale l’individuo sta a guardare, e ne viene fagocitato, e quindi paralizzato. A.: C’è anche la censura del silenzio! F.: In una situazione del genere, chi non compare sullo schermo televisivo – abbiamo detto – “evidentemente” non esiste: è condannato al silenzio. Il libro, invece – il buon libro – che ha avuto, per esempio, un periodo di latenza e che viene riscoperto anche dopo 60
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anni, emerge – credo – nel suo significato e mostra ugualmente la sua grandezza. In un mondo dominato dai media, anche i libri diventano sceneggiatura, si vendono come saponette. C’è, insomma, una mercificazione anche del libro, anche delle idee: un processo di banalizzazione.
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4. “Tradizione e memoria in un mondo smemorato” A.: Ho indicato nel titolo di questo paragrafo un interessantissimo e importantissimo aspetto del suo libro, di cui vorrei che parlasse brevemente. F.: Una delle conseguenze fondamentali di cui mi occupo in questo libro è l’obsolescenza della memoria: senza memoria, senza antefatto, senza rivisitazione critica del passato (individuale e collettivo), non c’è presente, né futuro. Ciò che soprattutto mi preoccupa oggi, è il fatto che stiamo vivendo in un mondo di smemorati60. E questo è tipico della televisione. La televisione è uno straordinario, meraviglioso strumento di documentazione che ignora l’antefatto, che colpisce e schiaccia sul presente. Si dice che ci sono ottime trasmissioni come La grande storia o altre. Sì, ma sono trasmissioni che vengono date come reperti folkloristici di età passate, senza il rapporto con il presente. E quando sentiamo uomini intelligenti come Todorov che parla di “abusi della memoria”61, stiamo attenti! Certo, la memoria idolatrata può dar luogo a massacri, ecc. Ma, parlare di “abusi della memoria”, quasi che essa oggi sia in eccesso, significa veramente non riconoscere il problema del nostro tempo, che è la mancanza, il venir meno della tradizione come prospettiva che guida, che dà senso al presente e al futuro. Indubbiamente, noi paghiamo un errore dell’illuminismo: la “tradizione” non è “tradizionale”. Nella tradizione ci sono già semi e valori che non si sono ancora realizzati sul piano storico effettivo. Per esempio: il bisogno di affettività, di riconoscimento, di giustizia; il senso della morte: la tradizione contiene tutto ciò, ma noi non lo vediamo, non lo comprendiamo. Il progresso non va considerato – come ha ritenuto stoltamente l’illuminismo, e come è stato dimostrato (sia pur teoricamente) da Max Horkheimer e 61
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Th. W. Adorno nella Dialettica dell’Illuminismo – come una sorta di fatalità cronologica, per cui bastava inquinare tutto il passato e andare avanti per un mondo sempre più moderno, sempre più progredito. Errore gravissimo, che il postmoderno oggi realizza. No! Bisogna tornare indietro, rivalutare il passato. Ma non abbiamo aiuti, perché i mezzi di comunicazione di massa non hanno la capacità di collegarsi vitalmente con l’esperienza passata.
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*** Un tempo la Memoria era la madre delle arti. Quando in Grecia dominava la cultura orale, il pubblico non “leggeva” Omero o i tragici, li “ascoltava”: «i maestri recitavano i poeti per istruire i giovani; i rapsodi recitavano i poeti nei simposi e nelle feste, in abitazioni private, così come nella piazza del mercato; gli attori presentavano le tragedie e le commedie nei grandi teatri, secondo ritmi e tempi ben precisi. L’asse portante di questo tipo di cultura era, quindi, Mnemosyne, ossia la dea Memoria, con una serie di regole molto precise»62. Oggi non domina più Mnemosyne; domina la Dimenticanza. La memoria è la base della nostra identità. È la realtà storica che non si esaurisce in un abbandono passivo. La memoria ha bisogno del libro – questo “luogo riparato, appartato” che la difende63.
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VI. LA MORTE NELLA SOCIETÀ TECNICAMENTE PROGREDITA
Ricapitoliamo: non si hanno più precisi punti di riferimento; la comunicazione planetaria, comunicando ormai tutto nell’intero orbe, non comunica più nulla di essenziale per l’uomo; anzi, cancella memoria e tradizione, e relega i libri che le trasmettono in secondo piano, decretandone, forse, la fine: i libri, che in questa società di massa e di chiacchiera rappresentano ancora l’alterità – silenziosa, certo, ma capace di formare quell’autocoscienza morale, necessaria alla crescita dell’individuo. Una società tecnicamente progredita (che ha fatto della tecnica un fine, non un mezzo) può offrire ancora punti di riferimento? Può dare risposte alle domande esistenziali dell’uomo? Poniamone una, di queste domande: la morte. L’uomo di oggi teme la morte. Quando il mondo era governato da certezze e tutto aveva un significato, anche la morte lo aveva. Bìos e Thànatos erano compagne inseparabili: non si comprendeva l’una senza l’altra. Pensare alla morte significava dare alla vita un senso che trascendesse le quotidianità e l’agire automatico. Se la vita terrena era un cammino, la morte ne era non il limite, ma il passaggio verso un’altra vita. Oggi, invece, l’uomo della società industrializzata, iperproduttivistica, protesa verso il futuro, teme la morte. Teme perfino di parlarne: l’idea stessa gli fa paura. È attaccato alla vita, si chiude in essa, nutrendosi del tempo che scorre, di cui nemmeno un istante deve andare sprecato. Non accetta l’idea che essa sia breve (idea che una volta dava senso alla morte e alla vita stessa). La morte – questa figlia della Caducità, come la definisce Leopardi – lo pone di fronte alla sua finitudine: per questo vuol tenerla il più possibile lontano; dimenticarla, quasi, perché è l’interruzione, il termine della vita. 63
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Nessuno più di Lev N. Tolstoj ha rappresentato in modo straordinario l’atteggiamento dell’uomo di oggi di fronte alla morte, nel racconto La morte di Ivan Il’ič. Mentre Ivan Il’ič si trova ormai alla vigilia della sua morte, le persone che gli stanno intorno hanno ridotto «l’atto terribile, spaventoso della sua morte […] a livello di spiacevole incidente, di indecenza perfino, come se si trattasse di una persona che entrando in un salotto emani cattivo odore». Quando poi apprendono la notizia della sua morte, i colleghi pensano alle «implicazioni che quella morte avrebbe avuto su eventuali trasferimenti e promozioni». Uno di loro, addirittura, non vede il motivo per cui l’“incidente del funerale” debba impedire di trascorrere piacevolmente la serata64. La vita deve continuare. Nessuna delle persone che gli stanno intorno ha mai avuto pietà di Ivan Il’ič, perché nessuno ha capito mai la sua situazione. Ecco il punto: la pietà. Pur negli ingranaggi di una società tecnicizzata, l’uomo non deve dimenticare la sua individualità, la sua interiorità; non deve dimenticare, insomma, di essere prima di tutto “umano”. *** A.: Professore, più volte lei ha trattato il tema della morte65. Vorrei chiederle, ora, di riassumerne alcuni aspetti. Ma prima una chiarificazione: la sociologia, credo, non si è interessata molto della morte. – È proprio così? F.: Esiste un settore della sociologia – la “tanatologia” – che ha come oggetto fondamentale questo “capolinea” della vita umana. Però, lei dice una cosa esatta: non è tipico della tradizione sociologica dare alla morte quel rilievo che forse meriterebbe, per una ragione molto precisa: la sociologia è nata in concomitanza della grande crisi della transizione da mondo agricolo a società industriale. E la società industriale è una società fondamentalmente ottimistica da due punti di vista: dal punto di vista esterno, fenomenologico, è iperproduttivistica, panlavorista, cronofagica (il tempo venduto prevale sul tempo vissuto). Da un altro punto di vista, è legata all’idea illuministica (l’idea di Condorcet) di progresso come fatalità cronologica. La società tecnicamente progredita è una società che si sviluppa nel tempo in maniera indefinita; una società 64
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che, in maniera quasi agglutinante, si sviluppa aggiungendo nelle città quartiere a quartiere, e nella produzione prodotto a prodotto. Pur di tenere le ruote del mercato in movimento, giunge a produrre, addirittura, non solo il prodotto, ma anche il consumatore del prodotto. Mentre prima la società era legata alla rivelazione, e poi alla coscienza morale (la società elitaria kantiana), la società industriale ha l’incredibile ambizione di far uscire da se stessa, per via immanente, i valori che la dirigono. In questo contesto, la morte è uno scacco per essa. A.: Un tempo, quando moriva una persona, i parenti, il vicinato, tutti si precipitavano in casa sua. Una calda atmosfera umana avvolgeva un evento così triste. Nei volti scorgevi il dolore della perdita, ma anche una naturale rassegnazione di fronte a qualcosa che confinava con il sacro. Oggi, nei volti non scorgi più alcuna emozione: la morte è la fine della vita. F.: Nel mondo contadino paleoindustriale, c’era il famoso ideale (espresso in un verso non bellissimo) “che bel fin fa, chi ben amato muore!”. Si moriva nel grande letto, circondato dai propri congiunti. Ormai, tutto questo è finito. La morte oggi fa parte, direi, dell’“industria del corpo”: è un business, come tutto nella società industriale. Anche nelle società più tradizionali (come quella italiana) ci sono ormai organizzazioni commerciali, o ditte, che si interessano del morto e che a vederle dal di fuori, appaiono come gelaterie dai colori rosa o grigio perla: il tragico della morte viene completamente oscurato. Inoltre, siccome la morte è l’interruzione di un ciclo, di una attività, ecc., la società industriale l’ha derubricata a “incidente tecnico”; ha perso – come ha detto lei – l’alone, il significato che aveva nel mondo contadino; ha perso il senso cristiano di “passaggio a miglior vita”, premessa di una vita diversa. E allora, o viene “cosmeticizzata”, o rimossa completamente, o diviene occasione per uno sfoggio, direi quasi una festa funeraria. Insomma, per la società tecnicamente avanzata, la morte è un assurdo che bisogna dimenticare66. A.: In realtà, si fa di tutto per nascondere la morte. – Perché? F.: Perché la morte è qualcosa di osceno che va sottaciuta o addirit65
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tura negata: essa è il limite. Una società tecnicamente progredita è fondata sull’imperativo tecnologico: la morte è lo scacco, la sconfitta, il fallimento della tecnologia. Da qui la moda attuale dell’accanimento terapeutico: sentendosi sfidata, la tecnologia intuba il morto, come se questi non dovesse morire. È uno dei grandi paradossi del nostro tempo, su cui le religioni positive non hanno raggiunto – mi sembra – una grande chiarezza concettuale. In una società in cui, in fondo, si va diffondendo la miscredenza, la morte perde il suo significato. Quindi, bisogna nasconderla, rimuoverla. Addirittura, questa non accettazione della morte comporta il disperato tentativo di tener in vita il morente. Direi, allora, che non si tratta solo della solitudine del morente, come voleva N. Elias; il fatto è che c’è troppa gente che si affatica intorno al morto. A.: Può essere anche che quanto più miglioriamo la vita e allontaniamo da noi il dolore, tanto più rimuoviamo l’idea della morte? F.: Indubbiamente, si deve riconoscere che la sofferenza corporale viene allontanata. Ciò si capisce. Ma ciò che si capisce meno, è il sorgere rigoglioso, il lussureggiare di centri di benessere, di palestre ginniche estremamente elaborate, centri di fitness. Il corpo, oggi, celebra un trionfo che è fittizio. Noi possiamo prolungare la vita media, ma la scadenza arriva. Siamo, e restiamo, merce deperibile senza data di scadenza. Su questo punto, la tecnologia moderna e le società che su di essa si fondano dimostrano il loro limite. Infatti, anche non considerando i disastri ecologici che pure esistono, la tecnologia moderna è una perfezione priva di scopo. L’antica teologia morale o la saggezza popolare contadina vedevano, in fondo, nella morte un trapasso; non uno scacco della medicina, ma la scomparsa di un prototipo: si piangeva perché una persona che prima c’era, poi non c’era più. Ed era una perdita secca per l’umanità, perché quella persona non è meccanicamente riproducibile. Anche dove si parla di società massificata, di omologazione, o dove l’individuo sia meno sviluppato, o la vita media non si sia ancora allungata; anche fra i bambini africani che muoiono di fame, resta vero il fatto che la morte di un essere umano è una perdita secca per tutta l’umanità. 66
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A.: Un paradosso delle società industrializzate e tecnicamente progredite è questo: quanto più la morte viene mostrata in immagini televisive e diventa notizia, tanto più viene rimossa, allontanata; cancellata, direi. – Perché? F.: Il tema che lei tocca è molto delicato. La televisione, più ancora di altri mass-media, teatralizza tutto ciò che tocca, e in quel preciso momento lo banalizza, e banalizzandolo provoca un effetto paradossale: da una parte, ci offre una teatralizzazione straordinaria (per cui, per esempio, si applaude una bara che sta passando); dall’altra, siccome con la sua petulanza indiscreta ci propone scene tragiche di morte (per fame, per bombardamenti, per i kamikaze, ecc.), presenta la morte come esperienza quotidiana. Ora, nel momento in cui la morte viene “quotidianizzata”, non solo cessa di interessare, ma non è più morte: è spettacolo; per questo si applaude (l’applauso fa parte dello spettacolo, come avviene alla fine di un concerto, di una commedia, di un film). In altre parole, accanto all’effetto di teatralizzazione, c’è una banalizzazione che rende il fatto teatralizzato privo di senso (è un déjà vu: qualcosa che abbiamo già visto). Ma c’è anche qualcosa di più profondo: c’è una irrealtà. La televisione ci fa vedere un morto, mostrandoci tutto di esso, anche i minimi dettagli (terribile! L’occhio della televisione è crudele: vede molto più dell’occhio umano). Però, nel momento in cui tutto è visto, amplificato, teatralizzato, non tocca il teleutente, perché la morte di quella persona è avvenuta altrove. Anzi, dà luogo in lui a una reazione in fondo ambivalente e non precisamente chiarificabile in senso intellettuale, di cui si vergogna. Egli dice: “Guarda cos’è successo! Mi dispiace molto!”. Ma subito aggiunge: “Meno male che non è capitato a me!”. È l’imbarazzante felicità del sopravvissuto. La teatralizzazione è così forte che soltanto con l’indifferenza e l’apatia ci si salva. La gioia che quella morte non è capitata a lui, è una forma elementare di difesa. A.: La morte è un tabù: uno dei più grandi del nostro tempo. – È un tabù solo della cultura occidentale? F.: La domanda pone un tema molto particolare. Il buddismo indica una tecnica per il controllo della mente; il corpo non costituisce 67
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un problema. Per i vari induismi, la visione non antropocentrica fa sì che il destino dell’uomo (anche come corpo) non abbia tutta l’importanza che ha in occidente. Tuttavia, anche in occidente abbiamo avuto la grande lezione socratica, ormai dimenticata. Socrate dice che se è il corpo ad impedirci di pensare rettamente, di elevarci nelle sfere superiori del pensiero, dovremmo essere felici quando finalmente muore. In questo senso, anche in occidente la filosofia altro non è stata che melète tou thanàtou: esercizio di preparazione alla morte. A.: Parliamo di un aspetto delicatissimo della morte: il suicidio. Chi di noi può ergersi a giudice di questo atto tremendo? Chi può penetrare negli abissi della coscienza di un individuo? Lei, che tra i suoi amici carissimi ha avuto Cesare Pavese, suicidatosi una domenica d’agosto del 1950, cosa ci può dire al riguardo? F.: Quella quarta domenica d’agosto ero andato al mare. Quando tornai ad Ivrea, trovai due o tre chiamate fatte da lui. Credo di essere stato una delle ultime persone a cui aveva telefonato. Qualcuno parlò di delusione amorosa. Io che l’ho conosciuto intimamente, posso escludere motivi così banali. – Il suicidio va rispettato: è certamente un atto definitivo, ma non sempre di disperazione. È, forse, un atto di superbia: dietro di esso credo ci sia l’idea, crudele, secondo la quale, poiché non siamo stati noi a decidere il momento della nostra nascita, possiamo decidere quello in cui morire. A.: Questa presunzione giustificherebbe anche l’eutanasia? F.: L’eutanasia non è un suicidio attuato dalla vittima consenziente, ma un aiuto dato a chi voglia porre fine alla propria vita. C’è sempre un momento di incertezza per ciò che concerne un intervento esterno: era veramente quella la volontà del paziente? Il suicida ha una sua idea ambivalente: come il pensiero della morte non è mai quello della propria morte, ma sempre della morte del vicino, così, nel momento in cui il suicida decide di compiere l’atto finale, si illude stranamente di essere ancora lì presente a vederne gli effetti. Il fatto che una mente così straordinariamente lucida, ricca come quella di Cesare Pavese abbia potuto lasciar scritto: «non 68
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fate troppi pettegolezzi», ci fa riflettere su un punto delicato: forse il suicida, nel momento in cui commette il suicidio, pensa che il suo atto non sia così definitivo. È un quesito, questo, che mi tormenta: non ho trovato la risposta. Ma, a parte questo atto di superbia, se mi dovesse capitare (come m’è capitato) un giovane sofferente del “mal di vita”, gli direi: perché affrettare un processo inevitabile? A.: Mi viene in mente, ora, l’atteggiamento di Socrate di fronte alla morte, quale è descritto nel Critone: gli amici vogliono salvarlo, corrompendo le guardie; egli no! Vuole andare incontro alla morte. – Come giudicarlo? F.: Socrate accetta di andare incontro alla morte: è la legge – dice. Critone replica che la legge è ingiusta. E Socrate: la legge, anche se ingiusta, è la voce della comunità; e io sento risuonare nella mia anima la voce della legge, come il suono dei flauti nella festa di Cibele. Socrate, tuttavia, non commette suicidio, ma aspetta di venire suicidato. C’è, infatti, un altro aspetto del suicidio (quelli di cui abbiamo parlato, danno conto della insondabilità del suicidio): per i sociologi, poiché i problemi dell’individuo vanno al di là dell’individuo stesso, non ci sono “suicidi”, ma soltanto “suicidati”: sono le condizioni oggettive che spingono al suicidio. È ciò che dice E. Durkheim in Il suicidio (1897): un testo straordinario, fondamentale. Alla conoscenza comune, il suicidio sembra un gesto tipicamente individuale. Durkheim, invece, dice che esso dipende dalle condizioni extrasoggettive della società in cui uno si trova a vivere: massima percentuale nei paesi protestanti, altamente individuali, dove c’è un eccesso di responsabilità per l’individuo; minima o inesistente nei paesi mediterranei dove c’è forte coesione sociale; molto poca fra i liberi pensatori, coloro che hanno la presunzione o l’ambizione di poter decidere della propria vita. Inesistente nei gruppi degli Ebrei praticanti. Tutto questo ci dice che il suicidio è un fenomeno che può essere chiarito (o almeno studiato) solo secondo un’impostazione multidisciplinare. Ma si ferma sempre sulla soglia del mistero individuale. *** 69
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Nella Prima lezione sulla letteratura, che inizia con il capitolo dedicato al “morire”, Piero Boitani scrive: «Esiste un modo di sfuggire alla morte? Naturalmente no. Ma ci sono modi per tenerla a bada, per vivere appieno la vita. Uno è conoscere. L’acquisto della conoscenza ci occupa al punto che dimentichiamo per breve tempo il nostro destino»67. Conoscere, poi, vuol dire comprendere: comprendere la condizione umana, perché nulla c’è di più universale del dolore e della morte.
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VII. L’AGIRE DELL’UOMO NELLA STORIA
La precedente conversazione sulla morte ci porta ad affrontare, da ultimo, un altro argomento: il senso della vita, l’agire dell’uomo nella storia. In una parola: la questione etica. Una riflessione preliminare mi viene offerta da Dante. Mentre attraversa l’inferno, Dante incontra tra i golosi il fiorentino Ciacco. Dopo aver appreso da lui la triste situazione politica di Firenze e, indirettamente, il suo esilio, Dante gli chiede informazioni su alcuni cittadini che in vita «fuor sì degni» – così autorevoli e stimati – e «ch’a ben far puoser li ’ngegni». Ha gran desiderio di sapere dove sono: se beati in cielo, o tormentati nell’inferno. «Ei son tra l’anime più nere» – risponde Ciacco: dunque, giù, nel profondo inferno, dove maggiori sono i tormenti. Sebbene avessero agito con dedizione per il bene pubblico, non si sono salvati. Giudicando dall’al di là le azioni terrene degli uomini, Dante distingue tra due diversi obiettivi dell’agire umano: uno “storico” (limitato), l’altro “metastorico” (eterno); tra la sfera “umana” (naturale) e una “sovrumana” (soprannaturale: il “trasumanar”). La vita terrena che gli uomini vivono secondo dei valori, viene giudicata secondo verità eterne. Dante cristiano non rinnega il “ben far” nella vita pubblica: lui stesso si è comportato così – come gli riconosce Brunetto Latini; anzi, proprio per il suo “onesto operare”, Firenze gli diventerà nemica. Ma, a differenza di lui (che pure gli aveva insegnato “come l’uom s’etterna”: come diviene eterno, cioè famoso, qui sulla terra), Dante aveva compreso che tale agire non era sufficiente all’uomo, il cui obiettivo è oltre la terra. Dunque, il trascendente, l’Assoluto, ciò che non è mutabile o necessario, l’universale, di contro al limitato, al terreno, al mutabile. 71
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Noi viviamo in società, e nella società sviluppiamo la nostra umanità, fondiamo dei valori, creiamo una “coscienza collettiva”, in base alla quale talvolta ci indigniamo per le ingiustizie o perdoniamo gli errori degli altri, perché l’indignazione e il perdono scaturiscono quando ci raffrontiamo con essi e comprendiamo che tutti abbiamo un’anima, che tutti soffriamo allo stesso modo. Ma, la presenza dell’altro richiede non solo il rispetto delle sue esigenze fondamentali, identiche per natura alle nostre, ma anche un forte senso del dovere, che nasce da una coscienza retta, scrupolosa, la quale sa di fare ciò che deve essere fatto, secondo le sue convinzioni, non secondo l’approvazione dell’altro, e ci permette di vivere bene in società. Avere una coscienza etica significa riconoscere di aver agito bene o male nei confronti dell’altro – chiunque si voglia comprendere nel concetto di “altro”: Dio, se stessi, il prossimo. In questa coscienza è la nostra dignità: il frutto che lasciamo in eredità dopo la nostra morte. Credere che la vita continui: su questa fede si fonda, infine, il senso del dovere che muove (dovrebbe muovere) l’azione. Ogni persona – credente o no – attende la morte e cerca di darle un senso. Il porsi di fronte alla morte è già, di per sé, un atteggiamento religioso. E l’uomo fa di tutto per costruirsi modelli che lo aiutino in questa attesa (uno dei compiti della letteratura, in fondo, è anche questo). Ma, se per il credente il “ben far” non è sufficiente a salvarsi, per il laico che prende coscienza della comune sorte dell’umanità, della disumanizzazione perpetrata su milioni di persone e agisce, sì: per lui, forse, è il solo modo. Pietro Spina (il protagonista di Vino e pane di Ignazio Silone) nei “Colloqui con Cristina”, scrive: «Si salva l’uomo che supera il proprio egoismo d’individuo, di famiglia, di casta, e che libera la propria anima dall’idea di rassegnazione alla malvagità esistente». È l’idea cristiana di “prossimo”, non limitata alla propria famiglia o casta, ma estesa all’intera umanità. E di fronte alla disumanizzazione dell’altro, non possiamo restare indifferenti o rassegnati: sdegnamoci, almeno! È la nostra condivisione della comune sorte. In una riflessione su un verso del Paradiso dantesco, J.L. Borges dice: «Forse un tratto del volto crocifisso si cela in ogni specchio; forse il volto morì, si cancellò, affinché Dio sia tutti»68. Scoprire negli 72
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altri un tratto del volto del Crocifisso, significa accostarsi ad essi nel rispetto di quella dignità e libertà che, parafrasando ancora Dante, è il più gran dono che Dio ci fece quando ci creò. Al termine “umanità”, Moravia preferiva quello di “specie”. Noi tutti facciamo parte della “specie”; e pertanto, dobbiamo acquisire una “coscienza della specie”, attraverso la quale – attraverso l’impegno che essa richiede – ristabilire i valori che ci permettono di vivere filantropicamente con gli altri. Ma facciamo parte anche di questo universo. E forse il nostro comportamento potrà contribuire all’armonia o disarmonia di esso. Il creato è opera di Dio? Anche per questo, credo che ci siano dei punti in cui l’etica del credente e quella del laico possano incontrarsi. *** A.: Chi è l’uomo laico? F.: L’uomo laico è l’uomo libero69. La laicità costituisce un valore nel senso che esprime una vera e propria situazione di libertà, che poggia sulla reciprocità. La laicità, cioè, presuppone una comunicazione a due vie: non si può mai intendere una comunicazione dall’alto verso il basso, senza la possibilità (non solo teorica, ma pratica) di una risposta dal basso. Inoltre, la laicità poggia sull’eguaglianza, su uno status di parità (punto, questo, molto delicato per la Chiesa di oggi). In realtà, quando prima ho detto “comunicazione dall’alto verso il basso, ecc.”, non ho detto correttamente, perché la vera e propria reciprocità avviene quando si svolge sullo stesso piano: su un piano di parità. Pertanto, si può definire “laica” quella situazione sociale in cui ognuno può esprimere la sua opinione nella massima libertà, ma deve attendersi che l’altro possa esprimerne una contraria. A.: Nei libri in cui si è interessato al problema religioso70, lei affronta un tema di grandissimo interesse: il sacro; e afferma che nemmeno le società tecnicamente avanzate possono cancellarlo. – Può riassumere, qui, il suo pensiero? F.: Studiando la società industriale, e attraverso le varie ricerche fatte 73
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nell’arco degli ultimi quaranta o cinquant’anni, più d’una volta mi sono imbattuto in questo groviglio di problemi; e ne parlavo con colleghi71. La tesi che ho incontrato in loro non mi ha mai del tutto convinto. Secondo questi colleghi (tutti rispettabilissimi), quanto più una società si razionalizza, si tecnicizza – diventa, cioè, una società industriale72 – tanto più esperimenta una sorta di “eclissi del sacro”. È una tesi, questa, fondata numericamente, statisticamente, sulla frequenza dei sacramenti, sulle persone che vanno a messa, ecc.: insomma, sulla pratica religiosa, e che avevo già riscontrato in un libro dal titolo Le mécanisme de la déchristianisation, nel quale si lanciava un grido d’allarme proprio per questi motivi. Io ho studiato a fondo questa tesi, e mi sono reso conto, invece, che quanto più una società si tecnicizza, e da rurale diventa industriale, tanto più cresce il bisogno di sacro. Prova ne sia che in una società come gli Stati Uniti, c’è tutto un proliferare di sette, di movimenti, di culti religiosi. Quindi, i miei colleghi si erano sbagliati. L’errore, secondo me, era dovuto al fatto che misuravano (o presumevano di poter misurare) la presenza del sacro attraverso comportamenti osservabili, statisticamente rilevabili, ma non significativi quanto al sacro: riducevano, cioè, il sacro alle pratiche religiose (della religione di chiesa); non si erano accorti di un grande passaggio dalla religione burocratizzata di chiesa, alla religiosità come esperienza personale profonda. Ora, una religiosità profonda non la si può misurare. E questa religiosità profonda, proprio nei paesi scristianizzati, irreligiosi, è più forte che mai. Il che mi ha portato a considerare che la religione come tale è braccio amministrativo del sacro73. L’idea su cui sto lavorando anche adesso, è che in fondo le religioni (parlo, in primo luogo, delle tre grandi religioni monoteiste: cristianesimo, giudaismo e islamismo) sono “dissacranti”: usano, cioè, il sacro; gestiscono il sacro. E quando lo gestiscono in regime di monopolio lo dissacrano; fanno rientrare il sacro in ciò che lo nega: entro la logica del mercato. Ma c’è un secondo argomento che liquida in maniera radicale la tesi dell’eclissi del sacro. Cosa sono le società tecnicizzate, industrializzate, altamente progredite? Sono società in cui il momento economico è preponderante: c’è una produzione di merci; anzi, una sorta di feticismo delle 74
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merci. Bisogna riconoscere che Marx (il Marx filosofo, sociologo) aveva perfettamente ragione74. Inoltre, essendo società di merci che si producono, affermano la presunzione di una loro capacità di fondare i propri valori per via immanente, e non più per via trascendente. E devo dire che lo stesso grande sociologo francese Émile Durkheim sbaglia: per Durkheim, la società non solo fonda i valori, ma deifica se stessa, fornendo agli esseri umani le regole fondamentali. Immanenza totale: immanenza di una società che produce valori ridotti a merci economiche. Questa economia di mercato continua ancora oggi. Infatti, tutte le nostre questioni (politiche, culturali, ecc.) sono questioni economiche. E il dato che (a torto) definisce le società moderne è il Prodotto Interno Lordo (PIL), il reddito pro capite. Insomma, la nostra è una società in cui il momento economico prevale. Inoltre, con la a-territorialità delle società multinazionali globali si acquisiscono nuovi mercati di merci da produrre e da vendere. Ma una società in cui l’economia di mercato è così forte, è destinata ad essere tracimata e trasformata in società di mercato. Questo il grande problema di oggi di cui nessuno parla. Ora, parlare di “società di mercato” significa enunciare una contraddizione in terminis, perché significa che i rapporti sociali sono soltanto rapporti utilitari, di mercato, del dare e dell’avere; non ci sono più rapporti affettivi, comunitari. La grave falla della globalizzazione è il fatto che tutte le forze in essa attive (aziende, Enti, ecc.) sono a-territoriali. Ed essere a-territoriali vuol dire la completa irresponsabilità verso la comunità d’origine. A.: Chiarito questo, riprendiamo la definizione del concetto di “sacro” in tale contesto sociale. – Cos’è sacro? F.: Il sacro è un nucleo di valori (immanenti o trascendenti) che non soggiacciono al mercato, e che possono costituire la base per la ricostruzione di una comunità umana che è stata sfigurata dall’impeto dello sviluppo economico. Quindi, non solo non c’è una eclissi del sacro, ma le società più sviluppate – lungi dall’esperimentare una tale eclissi – sono (anche inconsapevolmente) le più bisognose di esso, perché altrimenti non sarebbero più “società”75. Io mi sono domandato se proprio questa nozione di sacro non sia 75
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ciò che in fondo può salvare l’idea di società: non solo come realtà empirica, ma come valore, in quanto “compagine di soci”, “comunità di soci”, sottratta alle leggi del mercato, della mercificazione. Si dirà: ci sono state le rivoluzioni. È vero! Ma non c’è rivoluzione o progetto utopico, riformistico o rivoluzionario che dir si voglia, che non si ponga come momento trascendente. Nel mio ultimo libro, L’identità dialogica, parlando di Max Stirner (che Marx ed Engels non si stancavano di deridere), dico che egli fa valere di fronte a loro l’obiezione fondamentale: qualunque movimento rivoluzionario, nel momento in cui indica uno scopo rivoluzionario, per quello scopo trascende la datità storica76. Quindi, il momento del sacro è ineliminabile anche da questo punto di vista. A.: Il credente obietta che non si può dare un senso alla vita e alla morte senza una realtà trascendente. – Lei cosa risponde? F.: Il trascendente è inevitabile – abbiamo detto – anche solo in un progetto laico razionale77, senza riferimento a un sovramondo. Posta la domanda come la pone lei, devo dire che non è questione se “può” o “non può”. Intanto, bisogna pensare piuttosto all’homo religiosus. Chi è? È l’uomo che ha il senso della finitudine propria, della morte inevitabile, della sua ignoranza ed esigenza inappagabile; ed è una persona (secondo me) la quale, più che il problema dell’esistenza di Dio e del trascendente, si pone il problema del mistero di Dio: l’uomo religioso è l’uomo che ha un grande senso del mistero. È questa la premessa per una religione non più di chiesa. L’uomo religioso, più che credere nella trascendenza, è consapevole dei limiti, della finitudine: non solo dell’intelligenza, ma anche della sua corporale presenza nel mondo, che è destinata a finire. In questo senso, egli è capace di autointerrogarsi, rinuncia alle certezze magari illusorie, e acquista un atteggiamento in cui vive il trascendente come parte della sua presenza immanente. Ci sono persone perfettamente oneste che in sostanza sono convinte di sapere ciò che sanno, ciò che scientificamente è provato, e non tendono a rendersi conto dei limiti della scienza. Io non li chiamerei più “scienziati”, ma “scientisti” (lo scientismo è un atteggiamento feticistico della scienza, per cui si crede che questa possa rispondere a tutto); e dicono tran76
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quillamente di essere atei. Ora, non è questione di essere o non essere atei, di credere o non credere in Dio; ciò che discrimina gli esseri umani, è il “mistero” di Dio, questo “rospo” (per dirla con Sören Kierkegaard) che tutti ci portiamo in gola, e che non va né su né giù. A.: Non può esserci il rischio che in una società tecnicamente avanzata il comportamento etico degli individui tenda esclusivamente al progresso tecnologico? F.: L’idea di progresso in cui noi, eredi dell’illuminismo, siamo cresciuti, è un’idea troppo generica. La grande contraddizione che oggi più spaventa (o dovrebbe spaventare) è che si hanno società come quelle europee occidentali e nord-americane (1/5 dell’umanità) tecnicamente molto progredite, ma interiormente imbarbarite: al progresso tecnico, cioè, non corrisponde un progresso interiore. A.: Prendiamo uno studioso a lei caro: Max Weber, e la sua opera più conosciuta L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (19041906). – Non sostiene che il calvinismo ha dato un contributo allo spirito del capitalismo, almeno nei paesi anglosassoni? F.: Questo oggi è molto discusso. Max Weber ha avuto l’intuizione. La sua tesi è stata, a volte, mal compresa, anche per colpa di Weber stesso, o del momento. Siamo ai primi anni del Novecento: in Italia, dal 1892-1893 c’era il Partito Socialista, in Germania la Social Democrazia, in Francia il Movimento Socialista. Marx (inteso in maniera grossolana) diceva che tutto dipendeva dalla struttura economica; questa produceva la sovrastruttura (giuridica, politica, intellettuale, religiosa, ecc.). Weber, invece, in questo famoso saggio sembra che rovesci la tesi di Marx: l’economia non è la struttura portante, ma il prodotto di un’etica vissuta. Ma non è così semplice. Weber diceva queste cose in maniera puramente ipotetica, come ipotesi di lavoro: infatti, passò poi la vita a studiare le religioni universali – dall’ebraismo, all’islamismo, al confucianesimo – per domandarsi come mai in esse non si era sviluppato il capitalismo. All’origine, il saggio di Weber era stato in qualche modo occasionato leggendo la tesina di un suo studente. In que77
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sta tesina, lo studente rilevava che, mentre le famiglie cattoliche facevano intraprendere ai loro figli studi umanistici, tradizionali, le famiglie protestanti li indirizzavano, invece, verso ingegneria, tecnica, ecc. Poi, esaminò il calvinismo; e trovò che il capitalista, in fondo, è colui che conduce una vita “metodica”: lavora: e lavorando produce: producendo, guadagna: guadagnando, accumula capitale. Il calvinista accumula danaro e lo reinveste. In altre nazioni come l’Italia e la Spagna non c’era quest’etica. Il calvinista è ossessionato dalla certitudo salutis. Ora, la “certezza della salvezza” poteva essere data soltanto dall’opulenza dei buoni affari in questa vita: con onestà, certo, con grande morigeratezza, con una vita molto regolata; ascetica, quasi: l’ascesi mondana. Weber, però, non ha risolto tutto il problema. Per esempio, Werner Sombart, un suo coetaneo e conterraneo, dice, invece, che il capitalismo non è nato da questa etica vissuta, metodica, morigerata, “ascetica”; è nato dalle corti papali del Rinascimento, dai Principi italiani, imitati dai re di Francia, che, attraverso il lusso, davano lavoro agli artisti, agli orafi, agli artigiani; e consentivano lo sviluppo del commercio. Insomma, le due tesi sono: è il risparmio che genera il capitalismo, o il lusso? A.: L’etica – abbiamo detto – si sviluppa quando c’è l’altro. Ma essa è data, anche, da una tensione tra interiorità ed esteriorità dell’individuo: tra l’intus e il foris. Il cristianesimo, per esempio, pone l’accento sull’interiorità dell’uomo: interiorità che i Padri della Chiesa (per esempio, S. Agostino) hanno rafforzato. F.: Nell’eredità filosofica cristiana, ci sono due grandi correnti: da un lato, la “cristianizzazione”, attraverso la filosofia scolastica di S. Tommaso d’Aquino, di Aristotele, che egli conosceva attraverso la traduzione di Averroè. Dall’altro, il pensiero di S. Agostino: un pensiero che ha incredibili aspetti di modernità, con accenti che sembrano di “esistenzialismo” avant la lettre. Non solo: io mi sono permesso di dire altrove che, quando parla di ego superior e di ego inferior, c’è in lui un albeggiare della psicanalisi78. Agostino non si muove certo verso l’altro. Nelle Confessioni, parla con se stesso. Incomincia invocando Dio; ma poi parla con se stesso: si domanda perché ha ceduto al peccato, si pente del peccato, cerca 78
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la via per uscirne, ecc. Insomma, c’è in lui una lotta interiore, costante. Però, c’è anche l’altro: solo che questo “altro” è Dio stesso, l’istanza suprema. Inoltre, Agostino è molto moderno per la sua conversione. Egli è sempre stato conteso tra due vocazioni: per un verso, la meditazione, la solitudine, ecc.; per un altro, l’attività pastorale. Quindi, non è stato un uomo puramente interiore, ma è riuscito a stabilire un dialogo interiore – fra ego superior ed ego inferior – ma costantemente sotto l’occhio di Dio79. Invece, chi veramente instaura il dialogo interiore in senso moderno (e addirittura in senso laico, senza rifarsi a un disegno trascendente) è Montaigne (o, su un altro piano, Benvenuto Cellini). Montaigne è uno “speleologo” della propria anima: giorno per giorno, ausculta se stesso, e scrive la testimonianza dei suoi movimenti interiori. I suoi Essais sono, appunto, degli “assaggi” (il “saggio” non è una trattazione completa filosofica o scientifica; è piuttosto un “assaggiare”). A.: Il massimo dei comandamenti cristiani è «amare il prossimo»: “proximus” è “il più vicino”. – Chi è l’altro da cui scaturisce il comportamento etico? F.: Lei ha espresso un’idea che in questo momento mi sta interessando. In realtà, l’idea di “prossimo” nel cristianesimo è in qualche modo desueta. A Cristo che dice: «Ama il prossimo tuo come te stesso», si può obiettare la risposta di Dostoevskij: e se io non mi amo? Se io mi odio? Qui siamo in presenza di quella teoria della “empatia creatrice” su cui sto lavorando. Il vero problema della società “avanzata” di oggi è che la nostra identità ha bisogno dell’alterità. Tuttavia, sentiamo che l’alterità o ci sfugge, o è terreno misterioso, minato, oppure cade sotto la legge del mercato e del feticismo delle merci. È rarissimo poter avere un rapporto puramente disinteressato con l’altro. La tragedia di oggi è che la società mercificata non ha più rapporti umani come valore in sé: ha rapporti solo utilitari, per fini interessati (la carriera, per farsi conoscere, ecc.): rapporti che o rendono, o nuocciono. E questo – credo – va superato80.
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A.: Se noi restringiamo il concetto di “altro” alla nostra razza, alla nostra etnia, al nostro sangue, è inevitabile che massacri ed olocausti si ripetano sempre. F.: Inevitabile, sì! Oggi, la situazione drammatica è semplice: o impariamo di nuovo a dialogare, o l’alternativa è l’autosterminio. Noi vediamo l’“altro” a volte come oggetto di sfruttamento, a volte come rivale, ma spesso, nei casi più gravi, anche come nemico mortale. E l’altro, a sua volta, vede noi come nemici mortali. A.: L’etica religiosa ha di fronte a sé valori “assoluti”; l’etica laica è “relativa”, in mutamento. Ora, uno dei fondamenti etici di una religiosità laica universale è la posizione dell’uomo di fronte al dolore. Infatti – come s’è detto – nulla è più universale del dolore. – È d’accordo? F.: L’etica, tutto sommato, altro non è che una tecnica di convivenza: un insieme di regole per convivere, sopportarsi, parlare. L’etica religiosa si basa su degli assoluti, d’accordo; ma sono “astorici” o “metastorici”; mentre i valori vanno raccordati con l’esperienza storica. Il loro fondamento, pertanto, non può essere quello di una religione; deve essere la consapevolezza sociale media, aiutata dall’interscambio fra gli esseri umani. Per esempio: la Chiesa proibisce l’aborto. Ma nelle condizioni di oggi (che non sono più quelle di una famiglia di una società agricola rurale), negare la possibilità di un aborto sicuro significa condannare molte persone a una infelicità incredibile. Insomma, i precetti etici basati su un dogma astorico non valgono, perdono di significato81. Noi dobbiamo avere il coraggio di “storicizzare” l’etica. L’uomo è capace di dinamismo, di evoluzione, ma dentro un determinato orizzonte storico. Da questo punto di vista, si capisce perché la Chiesa o le religioni combattono lo storicismo: perché lo vedono come “relativizzazione”: esso storicizza ciò che, essendo dogmatico, non va storicizzato. Storicizzandola, infatti, la regola dogmatica diventa relativa; quindi, non più valida universalmente. Ora, non ci sono (non ci possono essere) regole universalmente valide per un genere umano che si evolve nel tempo. Oggi, tutti riconoscono la necessità del dialogo – interpersonale, interculturale, interreligioso, ecc. – però, siccome le religioni storicamente sono diventate delle strutture ierocratiche, dogmatiche, chiuse, scattano fra 80
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loro le guerre. Secondo me, la via è stata intravista da Giovanni XXIII (che io considero uno dei grandissimi Papi), seguito in parte dall’amletico, incerto, ma molto onesto Paolo VI: questi due Papi hanno visto il bisogno di un grande dialogo interreligioso, che facesse piazza pulita di tutti gli interessi pratici delle religioni storiche. L’uomo è certamente storia, ma non si esaurisce in essa. Se tutto fosse relativo, la stessa verità del relativismo sarebbe relativa. D’altro canto, l’uomo non ha natura come la pietra o la pianta. Propongo l’idea di “orizzonte storico” determinato, in cui si realizza la consapevolezza etica raggiunta in una data epoca. Oggi, per esempio, non accettiamo più, da parte del pater familias, lo ius vitae ac necis nei confronti dei familiari; così come non pratichiamo più il crurifragium a carico dei servi disubbidienti; e neppure l’accecamento dei nemici sconfitti, come si faceva a Bisanzio, anche se in alcune zone del pianeta è ancora accettabile l’infibulazione, vale a dire la mutilazione degli organi genitali delle donne. La sola grande regola, che dovrebbe valere in primo luogo per le religioni storiche e per le loro chiese, è l’uomo come fine, mai come strumento. A.: Non le sembra che il cristianesimo oggi dia meno risalto ai grandi temi della fede (dei misteri della fede), e consideri più i problemi eticosociali? F.: Oggi, il cristianesimo (o il cattolicesimo, che è quello che conosciamo meglio) sente che c’è qualcosa che frana sotto i piedi. Faccio un esempio: la proibizione dell’uso dei contraccettivi ha determinato un terremoto fra i cattolici nord-americani, che evidentemente prendono sul serio le parole del Papa; e molti hanno lasciato la Chiesa. Secondo me, c’è il tentativo di mondanizzarsi, ma per recuperare il terreno perduto. Se la Chiesa non è attenta o aperta in questa sua opera di recuperare spazio, o parte del mondo moderno, questo può essere percepito come intrusione indebita, e dar luogo a una reazione di anticlericalismo selvaggio, di cui abbiamo avuto qualche pallido esempio nella rivoluzione del 1789 in Francia, ma anche nella guerra civile spagnola del ’36. Per esempio, l’attuale Papa è veramente spinto a cercare un ter81
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reno di conciliazione tra fede e pensiero laico, tra fede e scienza, tra fede e filosofia. Ma ho l’impressione che gli venga meno, in qualche modo, il senso della misura. La Storia non si dimentica: non si dimentica Galileo, o Giordano Bruno, anche se la Chiesa ha chiesto perdono, peraltro con un certo ritardo.
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NOTE
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Prefazione * In un libro di 193 pagine è indicata la Bibliografia degli scritti di Franco Ferrarotti dal 1945 al 1997, curata da Pasquale De Gaetano e Nicoletta Danese, fino al 1985; da M.I. Macioti, la parte relativa agli anni 1985-1997 [Seam, Formello (RM) 1998]. Nell’avvertenza si legge: «La nota bibliografica, nel suo complesso, indica circa l’80% degli scritti dell’autore, essendo stato impossibile reperire nella sua completezza la sua produzione all’estero, o avere notizie esaurienti della sua produzione scientifica e pubblicistica in Italia». Trascrivendo queste conversazioni, ho aggiornato (parzialmente) tale bibliografia, in riferimento alle tematiche in esse trattate (se ne veda l’elenco alle pagg. 95-96).
I. Che cosa è la sociologia? 1 F. Ferrarotti, Pane e lavoro! Memorie dell’outsider, Guerini e Associati, Milano 2004. 2 Del suo rapporto con i libri Ferrarotti parla, soprattutto, in Leggere, leggersi, Donzelli, Roma 1998. 3 F. Ferrarotti, Pane e lavoro!, cit., pag. 36. 4 F. Ferrarotti, Simone Weil. La pellegrina dell’Assoluto, Edizioni Messaggero, Padova 1996, pag. 87. Questo libro sarà lo spunto della III conversazione. 5 F. Ferrarotti, Pane e lavoro!, cit., pag. 75. 6 F. Ferrarotti, Homo sentiens, Liguori, Napoli 1995, pag. 120. 7 F. Ferrarotti, Pane e lavoro!, cit., pag. 41. 8 F. Ferrarotti, Il silenzio della parola. Tradizione e memoria in un mon-
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do smemorato, Dedalo, Bari 2003, pag. 40. Si veda, anche, dello stesso, Il ricordo e la temporalità, Laterza, Roma-Bari 1987. 9 B. Croce, La Storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1938, 1970, pag. 11. 10 J.L. Borges, “Funes o della memoria”, in Ficciones (1944): si veda J.L. Borges, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1984, vol. I, pagg. 707715. Umberto Eco, in una conferenza del 1991 (ora nel volume La memoria vegetale e altri scritti di bibliofilia, Rovello, Milano 2006, poi nelle edizioni Bompiani, Milano 2007), citando lo stesso racconto di Borges, dice ugualmente: «La memoria ha due funzioni. Una, ed è quella a cui tutti pensano, è quella di trattenere nel ricordo i dati della nostra esperienza precedente; ma l’altra è anche quella di filtrarli, di lasciarne cadere alcuni e di conservarne altri. […] Ricordare tutto significa non riconoscere più nulla. […] Questa memoria selettiva, così importante per permetterci di sopravvivere come individui, funziona anche a livello sociale e permette di sopravvivere alle comunità» (le citazioni sono alle pagg. 11, 12, 14 dell’ed. Rovello). 11 Per meglio comprendere il clima culturale in Italia di cui si sta parlando, si legga, di F. Ferrarotti, La Società e l’Utopia, Donzelli, Roma 2001; pag. 18. 12 Cfr. anche F. Ferrarotti, La Società e l’Utopia, cit., pagg. 18-19. 13 E. Siciliano, Vita di Pasolini, Rizzoli, Milano 1978; pag. 185. 14 P.P. Pasolini, “10 giugno 1974. Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia”, in Scritti Corsari, Garzanti, Milano 1975; pp. 50-55. 15 Ferrarotti rispondeva con un articolo su Paese Sera del 14 giugno 1974, dal titolo: “Uno sfogo poetico: gli Italiani di Pasolini”. Si legga, anche, «Scrittore corsaro della “omologazione” culturale. Pier Paolo Pasolini, con lo sguardo rivolto al passato», in L’Opinione del 29 ottobre 1985; ora in F. Ferrarotti, Vita e morte di una classe dirigente, EDUP, Roma 2006; pagg. 119-120: libro, questo, in cui sono raccolti articoli pubblicati negli anni Settanta e Ottanta su varie riviste e giornali: una disamina della classe dirigente come classe separata dalla società italiana; una classe non interessata a dirigere, ma a durare. Si legge nella premessa: «La classe politica, ma in generale la classe dirigente, come classe di potere, vive in una “stanza separata”, si parla addosso, litiga, fa pace, diverge, converge. Ma sembra del tutto indifferente a ciò che avviene fuori, nella società di tutti i giorni. Come mai?». Mentre correggo 84
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queste note, Ferrarotti e Maria Immacolata Macioti mandano in libreria un nuovo libro sulle periferie: Periferie – da problema a risorsa, Sandro Teti, Roma 2009. Si leggano, inoltre, di F. Ferrarotti, Spazio e convivenza – Come nasce la marginalità urbana; Armando, Roma 2009; Idem, Il senso del luogo, Armando, Roma 2009. 16 I. Illich, Deschooling Society, New York, 1970. 17 P.P. Pasolini, “Le mie proposte su scuola media e TV”, in Corriere della Sera del 29 ottobre 1975; ora in Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, pagg. 172-178. 18 Oltre ai vari articoli pubblicati su diversi quotidiani, si veda, specialmente, F. Ferrarotti, Studenti, scuola, sistema, cit.: un libro sulla crisi del sistema scolastico italiano: «Una crisi che è nello stesso tempo conseguenza e spia preziosa per intendere analiticamente e per comprendere la crisi della società globale» (pag. 5). 19 Basti pensare, per esempio, alle modifiche del diritto di famiglia: c’è voluta quasi una rivoluzione – dice Ferrarotti – per avere la legge sul divorzio, sull’aborto o sulla divisione della patria potestas. 20 Dal 1956 al 1961, Ferrarotti fu chiamato dal Segretariato internazionale come directeur della divisione dei Facteurs sociaux presso OECE, ora OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico). Si veda F. Ferrarotti, Diplomatico per caso, Guerini Studio, Milano 2007. Presso lo stesso editore, Ferrarotti ha pubblicato, poi, Le briciole di Epulone (2005), «briciole di vita, […] briciole raccolte a caso, senza preoccupazione di ordine cronologico» (il libro è stato tradotto in francese da Antonella Marcucci De Vincenti, con il titolo Les Miettes d’Epulon, e il sottotitolo Récit d’un pionner des histoires de vie, l’Harmattan, Paris 2009). Si veda, poi, sempre presso lo stesso editore, Nelle fumose stanze (2006): resoconto di un’esperienza – quella di una “stagione politica di un ‘cane sciolto’”. 21 Su questo aspetto della lotta politica, v. infra, pag. 57 sgg.
II. La condizione giovanile: per una sociologia della gioventù 22
F. Ferrarotti, Studenti, scuola, sistema, cit., pag. 7. Si legga, anche, dello stesso, Il ’68 quarant’anni dopo, EDUP, Roma 2008: analisi di un sociologo che ha vissuto personalmente quel periodo; che «capiva e 85
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condivideva gli scopi finali del movimento. Ne criticava, ne denunciava duramente i mezzi e le tecniche, le iniziative pratiche e organizzative» (pag. 13, corsivo mio). 23 Ferrarotti aveva espresso questa contraddizione fin dai tempi in cui si occupava di giovani e droga. Si veda, per esempio, Giovani e droga, Liguori, Napoli 1977.
III. Un possibile punto di riferimento per i giovani: l’affascinante esempio di Simone Weil
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Per il controverso rapporto di Simone Weil con il cattolicesimo, si veda, soprattutto, Lettre à un religieux; Gallimard, 1951 (trad. ital.: Lettera a un religioso; a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1996). Si veda, anche, Attente de Dieu, Librairie Arthème Fayard, Paris 1969 (trad. ital.: Attesa di Dio, a cura di J.-M. Perrin, Rusconi, Milano 1972). 25 F. Ferrarotti, Simone Weil, cit., pagg. 16 e 66. 26 Léon Bloy (1846-1917). 27 F. Ferrarotti, Simone Weil, cit., pag. 7. Simone Weil nacque a Parigi nel 1909 e morì ad Ashford, Kent, nel 1943. «Se fosse viva – ha scritto Pietro Citati in un bellissimo “ritratto” di lei – Simone Weil avrebbe compiuto ottant’anni il 3 febbraio 1989. Era dunque più giovane di tutti gli scrittori francesi della sua generazione […]. Abbiamo dimenticato molti tra essi: ci sembra che appartengano ad un tempo per sempre finito. Ma se leggiamo la Weil, se leggiamo e rileggiamo i Quaderni, i saggi religiosi e politici e le lettere – ci pare meravigliosamente giovane, fresca, virginea, ancora da scoprire – una ragazza indifesa, che da sola, armata esclusivamente della sua intelligenza e del suo coraggio, affrontò il tempo, Dio, l’universo» (P. Citati, “Ritratto di Simone Weil”, in Ritratti di donne, Rizzoli, Milano 1992, pag. 264). 28 Si legga, per esempio, su questo argomento, un saggio di Ferrarotti del 1963: “Fine o evoluzione delle ideologie?”, in F. Ferrarotti, Idee per la nuova società, Vallecchi, Firenze 1974, pagg. 60-66. 29 Per citare una figura molto lontana dalla Weil, bisognerebbe pensare a Ignazio di Loyola (1491-1556). 30 «Già oggi, in una società anche solo mediamente sviluppata dal punto di vista tecnico, sappiamo che più si ha fretta e meno si ha tempo. 86
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L’urgenza brucia il tempo in anticipo. Si può persino morire senza avere ancora vissuto. Alla fine non si dà più l’ “accorrere”, ossia la fretta con un senso, con uno scopo, bensì il solo e semplice “correre”, senza sapere né per dove né perché: l’urgenza pura, divenuta abitudine interiore e modo di vita, priva di uno scopo che le dia un senso. Dunque, si dà oggi il “correre”, ma sempre meno l’ “accorrere”, ossia il correre verso un obiettivo, il correre motivato. La fretta non è più significativa» (F. Ferrarotti, Simone Weil, cit., pag. 90 e relativa bibliografia). 31 F. Ferrarotti, Il capitalismo, Newton & Compton, Roma 2005; Idem, America oggi. Capitalismo e società negli Stati Uniti, Newton & Compton, Roma 2006, v. specialmente pag. 69 sgg. 32 Più volte Ferrarotti si è occupato del problema del “tempo”: un problema capitale nell’odierna società della velocizzazione e della fretta. Oltre a questo libro, si leggano: “Dove va la società industriale” (1963), in Idee per la nuova società, cit., pagg. 132-158 (specialmente il par. 4, “Tempo esistenziale e tempo meccanico”, pag. 139 sgg.); Storia e storie di vita, Laterza, Roma-Bari 1981. 33 F. Ferrarotti, Simone Weil, cit., cap. IV, “La condizione operaia vissuta”, pag. 83. 34 Non è solo l’immedesimazione – precisa Ferrarotti: è il tentativo di sostituzione, quasi una sostituzione necessaria, salvifica, per poter capire e nello stesso tempo superare una data situazione umana ma – aggiunge – «non so se questo sia, forse, un eccesso da parte mia nell’interpretazione di questa figura straordinaria» (ibidem). 35 Si veda la nota 24.
IV. Sociologia della comunicazione: a) parola scritta e immagine 36
Platone, Fedro, 274 b, 6 sgg. Ivi, 276 e. Trad. di E. Martini. 38 E. G. Turner, “I libri nell’Atene del V e IV sec. a.C.”, in G. Cavallo (a cura di), Libri, editori e pubblico nel mondo antico. Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari 1973, BUL 1992², pag. 24. 39 Per quanto riguarda il problema della comunicazione della filosofia platonica, si legga il libro di G. Cerri, Platone sociologo della comunicazione, il Saggiatore, Milano 1991. 37
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Si veda N. Postman, Technopoly: The Surrender of Culture to Technology, New York 1992 (trad. ital.: Technopoly: la resa della cultura alla tecnologia, Bollati-Boringhieri, Torino 1993). 41 “La rivoluzione è Internet, chi non naviga è perduto”: intervista ad Umberto Eco a cura di Florent Latrive e Annick Rivoire, in la Repubblica dell’ 8 febbraio 2000, pag. 13. Si legga, inoltre, il libro-intervista a Jan-Claude Carrière (sceneggiatore cinematografico e televisivo) e a Umberto Eco, Non sperate di liberarvi dei libri, a cura di J.-P. de Tonnac, e la traduzione di Anna Maria Lorusso, Bompiani, Milano 2009. In due capitoli dal titolo “Citare i nomi di tutti i partecipanti alla battaglia di Waterloo” e “La vendetta dei filtrati” (pagg. 59-96), i due studiosi discutono proprio dell’importanza che una cultura ha di filtrare ciò che riceve in eredità dal passato. 42 R. Luperini, Il professore come intellettuale – La riforma della scuola e l’insegnamento della letteratura, Lupetti/Manni editore, Lecce 1998, pag. 15. 43 P. Citati, “Malati di notizie” (1975), ora in L’armonia del mondo – Miti d’oggi, Rizzoli, Milano 1998, pag. 78. Scrive Ferrarotti in Homo sentiens, cit., che l’immaginazione ha la sua nemica nella televisione: la televisione, con il suo potere ipnotico, atrofizza l’immaginazione e riduce progressivamente l’abitudine alla lettura. Di fronte alla televisione, ci accontentiamo dell’appagamento delle immagini (v. il cap. 26, pag. 107 sgg.). Per quanto riguarda l’importanza sociale dell’immaginazione narrativa, si legga, fra l’altro, il bel libro di M.C. Nussbaum, Coltivating Humanity. A Classical Defense of Reform in Liberal Education, Harvard 1997 (trad. ital. a cura di S. Paderini, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, Carocci, Roma 1999. Si v. soprattutto il cap. 3: “L’immaginazione narrativa”, pagg. 99-123). 44 A questo rapporto, Ferrarotti ha dedicato diversi lavori; per esempio, Mass-media e società di massa, Laterza, Roma-Bari 1992; Homo sentiens, cit.; Rock, rap e l’immortalità dell’anima, Liguori, Napoli 1996; La perfezione del nulla. Promesse e problemi della rivoluzione digitale, Laterza, Roma-Bari 1997; Libri, Lettori, Società, Liguori, Napoli 1998; Leggere, leggersi, cit. 45 McLuhan non si riferiva soltanto alla televisione, ma anticipava, in maniera ancora nebulosa, gli sviluppi di Internet. 46 F. Ferrarotti, Leggere, leggersi, cit., pag. 19. 88
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Il problema della qualità, per Ferrarotti, è molto importante perché – dice – «un effetto non secondario delle trasmissioni televisive è quello di un relativo appiattimento che finisce per essere un’obliterazione delle radici culturali storicamente specifiche di un dato paese, cultura o storia». 48 Si vedano i seguenti studi di Ferrarotti: Storia e storie di vita, cit.; La Storia e il quotidiano, Laterza, Roma-Bari 1986; Mass-media e società di massa, cit.; La perfezione del nulla, cit.; La televisione: i cinquant’anni che hanno cambiato gli usi e i costumi degli italiani, Newton & Compton, Roma 2005. 49 È questa la tesi di fondo di La perfezione del nulla, cit. A pag. 153, per esempio, si legge: «L’elettronica, l’informatica, la telematica, Internet, la “realtà virtuale” di oggi sono tutte cose meravigliose, perfettamente funzionanti al di là delle vecchie, classiche “frizioni” dello spazio e del tempo. Peccato che possano comunicare, dire tutto in tutto il mondo, ma che non abbiano niente da dire. Sono la perfezione del nulla». 50 V. infra, pagg. 63-70.
V. Sociologia della comunicazione: b) parola scritta e memoria 51
V. supra, pag. 44. F. Ferrarotti, Il silenzio della parola, cit., pag. 10. 53 G. Cerri, Platone sociologo della comunicazione, cit., pagg. VII-VIII. 54 A proposito della voce, Ferrarotti nota che il passaggio dall’oralità alla scrittura non è avvenuto in modo diretto: fra il racconto orale (mythos) e la scrittura c’è la “vocalità”: la voce come “fiato” e “afflato”: ànemos, quindi “anima” (Il silenzio della parola, cit., pag. 8 sgg.). 55 È nota, tuttavia, la risposta di Marcel Proust alla stessa idea di lettura espressa da John Ruskin (1819-1900) il quale in Sesame and the lilies (1865) aveva mostrato (così riassume Proust) che «la lettura è precisamente una conversazione con uomini molto più saggi e più interessanti di quelli che possiamo avere l’occasione di conoscere nella nostra cerchia» (idee, queste, che erano state anche di Cartesio). Proust, al contrario, in Giornate di lettura (dove si trovano la maggior parte delle pagine scritte per una traduzione di Sesame and the lilies, pubblicata nelle edizioni del Mercure de France, Parigi 1906), cerca di dimostrare che 52
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«la lettura non può essere assomigliata a una conversazione, fosse anche con il più saggio degli uomini; che la differenza essenziale tra un libro e un amico sta non già nella loro maggiore o minore saggezza, bensì nella maniera di comunicare con loro: in quanto la lettura, al contrario della conversazione, consiste per ciascuno di noi nel ricevere comunicazione del pensiero di un altro, ma restando pur sempre solo, ossia continuando a godere della potenza intellettuale che si possiede nella solitudine e che la conversazione dissipa immediatamente; continuando a poter essere ispirato, a rimanere in pieno lavoro fecondo dello spirito su lui stesso» (M. Proust, Giornate di lettura, a cura di P. Serini, il Saggiatore, Milano 1979, pagg. 118-160. Le citazioni a pag. 134). 56 F. Ferrarotti, Il silenzio della parola, cit., pag. 101. Di George Steiner vorrei segnalare, almeno, i saggi raccolti nel volume No passion spent (1996), trad. ital. di C. Béguin, Nessuna passione spenta, Garzanti, Milano 1997; soprattutto il saggio di apertura: “Una lettura ben fatta”, pagg. 7-27). 57 V. supra, pag. 47. 58 F.W. Nietzsche, in quel “libro per tutti e per nessuno” che è lo Zarathustra, fa dire a Zarathustra, in uno dei suoi discorsi sul leggere e lo scrivere: «Di quanto fu scritto, amo soltanto ciò che fu scritto col proprio sangue. Scrivi col sangue: e imparerai che il sangue è spirito. Non è facile comprendere il sangue degli altri: odio gli oziosi che leggono. […] Chi scrisse col sangue e per aforismi, non vuol essere letto, ma imparato a memoria» (F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, trad. ital. di M. Costa, con la presentazione di Remo Cantoni: Così parlò Zarathustra, Mursia, VIII ed. GUM, 1978, pagg. 42-43. E Kierkegaard, nel suo Diario: «Ai nostri giorni lo scrivere libri è diventata una cosa talmente miserabile, e la gente scrive cose nelle quali non ha mai riflettuto, né tanto meno vissuto. Per questo io ho deciso di leggere solamente gli scritti degli uomini che sono stati giustiziati, o che in qualche modo si sono trovati in pericolo». 59 In Leggere, leggersi, Ferrarotti ha espresso con molta chiarezza questo concetto di “neo-analfabetismo”: «Sta crescendo l’analfabetismo degli alfabetizzati, la grande, irresistibile, a quanto sembra, ondata degli analfabeti di ritorno e degli aficionados di Internet, degli idiots savants che sanno tutto, che sono informati in tempo reale di tutto, ma non capiscono niente, fagocitati dalla stessa ricchezza dei dati non assimila90
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ti né assimilabili, storditi dalla rapidità medusizzante delle immagini» (pag. 19). V. anche supra, pag. 48 sgg. G. Sartori, in Homo videns. Televisione e post-pensiero (Laterza, Roma-Bari 1998), a proposito dell’“impoverimento del capire”, scrive che, a differenza della parola scritta, la televisione «produce immagini e cancella i concetti; ma così atrofizza la nostra capacità astraente e con essa tutta la nostra capacità di capire» (pag. 21). R. Simone, in La terza fase - forme di sapere che stiamo perdendo (Laterza, Roma-Bari 2000), afferma che il passaggio da uno stato in cui la conoscenza si acquistava “attraverso il libro e la scrittura”, a uno stato in cui essa si acquista anche – e per taluni soprattutto – “attraverso l’ ascolto”, o “la visione non-alfabetica”, lo si può osservare, tra i tanti indizi, «dal graduale arrestarsi, in tutto il mondo, del decremento dell’ analfabetismo e, corrispettivamente, dall’enorme aumento della varietà degli stimoli uditivi che veicolano messaggi e della tipologia delle immagini visive. L’arresto dell’alfabetizzazione è tanto più sconcertante in quanto fa seguito a un’avanzata che per diversi anni era sembrata interminabile. Esso lascia pensare che la diffusione dell’alfabeto (e, più in profondità, quella delle procedure di conoscenza che esso permette e attiva) abbia incontrato impedimenti imponenti e profondi – cioè che per qualche motivo lo “spirito del tempo” non sia più favorevole alla diffusione dell’alfabeto, della visione alfabetica e delle forme di intelligenza che essa favorisce» (pagg. 22-23). 60 Nel libro, Ferrarotti utilizza, a questo proposito, la controversia tra Henri Bergson e Maurice Halbwachs: la memoria è un fatto puramente individuale, intimo e introspettivo, o invece è un’esperienza messa in moto dalla storia, dal gruppo, ecc.? Si v., soprattutto, il cap. 3: “Enigmi, dilemmi e antinomie della memoria”; pagg. 31-62. 61 T. Todorov, Gli abusi della memoria, Ipermedium, Napoli 2001. Si v. la posizione di Ferrarotti in Il silenzio della parola, cit., cap. 3. 62 G. Reale, Socrate. Alla scoperta della “sapienza umana”, Rizzoli, Milano 2000, pag. 76. 63 A proposito di libro e memoria, vorrei raccomandare la lettura di un’interessante raccolta di saggi curata da J. Rose, Il libro nella Shoah, Silvestre Bonnard, Milano 2003: un libro sul rogo dei libri degli Ebrei da parte dei nazisti, il 10 maggio 1933: un libro, cioè, sul delitto più tremendo dell’umanità, perché, bruciando i libri, si brucia il pensiero dell’uomo; si cancella la memoria e la storia. 91
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VI. La morte nella società tecnicamente progredita
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L.N. Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, trad. ital. di E. Klein, Rizzoli, Milano 1999. Le citazioni, a pagg. 21 e 68. 65 Si v., per esempio, F. Ferrarotti, Il paradosso del sacro, Laterza, Roma-Bari 1983; pag. 9 sgg.; Idem, Una teologia per atei, Laterza, RomaBari 1984, pag. 181 sgg. Ed ora questo libro Vietato morire – Miti e tabù del secolo XXI, La Mandragora, Imola (BO) 2004. 66 Il titolo stesso del libro di Ferrarotti (Vietato morire) ironicamente e paradossalmente vuol riferirsi a una società in cui morire non è di buon gusto. 67 P. Boitani, Prima lezione sulla letteratura, Laterza, Roma-Bari 2007, pag. IX.
VII. L’agire dell’uomo nella storia 68 I. Silone, Vino e pane (1936), in Romanzi e saggi, vol. I (1927-1944),
Mondadori, Milano 1988, pag. 449; J.L. Borges, “Paradiso, XXXI, 108”, in L’Artefice (1960), ora in Idem, Tutte le opere, vol. I, cit., pag. 1153. 69 Nella storia europea medievale e moderna – precisa Ferrarotti – laico si contrappone a un ordine religioso dai voti di castità, povertà e obbedienza. A volte, può venir meno uno di questi voti, ma restano sempre gli altri due. Per esempio, i cosiddetti preti “secolari” non sono legati alla povertà (per quanto riguarda il problema dei voti religiosi nella dottrina della Chiesa, si consiglia la lettura dei bellissimi canti III e IV del Paradiso dantesco). 70 Sono molti gli scritti di Ferrarotti (in monografie, miscellanee, periodici, convegni, recensioni) su questo argomento. Segnalo i principali: Il paradosso del sacro, Laterza, Roma-Bari 1983; Una teologia per atei, Laterza, Roma-Bari 1984; Sacro e religioso: dalla religione dissacrante al sacro fatto in casa, Di Renzo, Roma 1997; Si veda anche in Idee per la nuova società (Vallecchi, Firenze 1974) il capitolo “Cristianesimo e limiti della cultura occidentale nei paesi del Terzo Mondo”, pagg. 81-91. Ma si leggano, anche, più in generale, Vietato morire, cit.; Simone Weil, cit.; Forme del sacro in un’epoca di crisi, Liguori, Napoli. [Si legga, al riguardo, la “Risposta preliminare a La civiltà cattolica” (1979): ora in Quarant’anni 92
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di battaglie culturali - i corsivi della rivista “La Critica Sociologica” (19672007), l’ Albatros, Roma 2007]. 71 Per esempio, con Sabino Acquaviva, Gustavo Guizzardi, Enzo Pace ed altri. 72 Società che Ferrarotti ha studiato a fondo, definendola secondo quattro caratteristiche fondamentali: società iperproduttivistica, panlavorativa, cronofagica, competitiva (sia tra gruppi che tra persone). 73 Le religioni – afferma Ferrarotti – sono degli organismi, delle strutture che amministrano. Addirittura (nel caso della Chiesa di Roma), legano e sciolgono. Arrivano a dire (e qui è il limite invalicabile rispetto alla laicità): «extra Ecclesiam, nulla salus»: cosa che impedisce, tra l’altro, il dialogo interreligioso. 74 Si veda, per esempio, F. Ferrarotti, Una teologia per atei, cit. 75 «La nostra – dice Ferrarotti – non è già più una società: è una giungla. In termini hobbesiani, è il bellum omnium contra omnes: vi è un rapporto in cui ognuno cerca di raggirare l’altro». 76 F. Ferrarotti, L’identità dialogica, ETS, Pisa 2007. 77 «Per “laico”, in questo caso – precisa Ferrarotti –, intendo la persona libera che accetta il confronto, la reciprocità». 78 Si legga, in proposito, F. Ferrarotti, Vietato morire, cit.; Idem, L’identità dialogica, cit., soprattutto il capitolo II, “Fenomenologia della soggettività etica”. 79 Cfr. F. Ferrarotti, Vietato morire, cit.: «La modernità di Agostino […] è da cogliersi nell’ambivalenza che ne segna in profondità il destino. Da una parte, il forte richiamo della teoria pura, dello studio solitario e della meditazione non turbata né interrotta dalle cure quotidiane; dall’altra, il fervore attivistico dell’organizzatore religioso e politico, immerso nelle contraddizioni di un’epoca storica tempestosa, con l’Impero che crolla e i Vandali di Genserico che premono alle porte di Ippona. […] Secondo il vescovo di Ippona, l’individuo ha certamente un valore, ma solo in quanto stabilisce un rapporto con Dio. Persino un popolo, preso nel suo insieme, che cos’è per Agostino? Senza Dio, non è nulla» (pag. 44 sgg.). 80 Su tutti questi problemi, si veda, ora, di F. Ferrarotti, L’identità dialogica, cit. 81 Si legga, per contrasto, questa idea del cardinal Carlo Maria Martini: «Pur con tutte le difficoltà storiche e culturali che un dialogo [tra 93
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le grandi religioni] comporta, esso è reso possibile dal fatto che tutte le religioni pongono, sia pure con modalità diverse, un Mistero trascendente come fondamento dell’agire morale». E cita un pensiero del teologo Hans Küng (da Progetto per un’etica mondiale, Rizzoli, Milano 1991): «La religione può fondare in maniera inequivocabile perché la morale, le norme e i valori etici devono vincolare incondizionatamente (e non soltanto quando fa comodo) e universalmente (per tutti i ceti, classi e razze). L’umano viene mantenuto proprio in quanto viene considerato fondato sul divino. È diventato chiaro che soltanto l’incondizionato può obbligare in maniera assoluta, soltanto l’Assoluto può vincolare in maniera assoluta» (C.M. Martini, U. Eco, In cosa crede chi non crede?, Edizioni liberal, Roma 1996, pagg. 63-64).
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CRONOLOGIA DELLE OPERE DI FRANCO FERRAROTTI CITATE IN QUESTE CONVERSAZIONI
1974: 1976: 1977: 1981: 1983: 1984: 1986: 1987: 1992: 1995: 1996: – 1997: 1998: – 2001: 2003: 2004: – 2005:
Idee per la nuova società, Vallecchi, Firenze. Studenti, scuola, sistema, Liguori, Napoli. Giovani e droga, Liguori, Napoli. Storia e storie di vita, Laterza, Bari-Roma. Il paradosso del sacro, Laterza, Bari-Roma. Una teologia per atei, Laterza, Bari-Roma. La storia e il quotidiano, Laterza, Bari-Roma. Il ricordo e la temporalità, Laterza, Bari-Roma. Mass-media e società di massa, Laterza, Bari-Roma. Homo sentiens, Liguori, Napoli. Simone Weil. La pellegrina dell’Assoluto, Messaggero, Padova. Rock, Rap e l’immortalità dell’anima, Liguori, Napoli. La perfezione del nulla. Promesse e problemi della rivoluzione digitale, Laterza, Bari-Roma. Leggere, leggersi, Donzelli, Roma. Libri, lettori e società, Liguori, Napoli. La società e l’Utopia, Donzelli, Roma. Il silenzio delle parole. Tradizione e memoria in un mondo smemorato, edizioni Dedalo, Bari. Pane e lavoro! Memorie dell’outsider, Guerini e Associati, Milano. Vietato morire. Miti e tabù del secolo XXI, editrice La Mandragora, Imola (BO) . Le briciole di Epulone, Guerini Studio, Milano (trad. francese a cura di A. Marcucci De Vincenti, con il titolo: Les miettes d’Epu95
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– – 2006: – –
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2007: 2008: 2009:
– –
lon - Récit initiatique d’un pionnier des histoires de vie, l’Harmattan, Paris 2009). Il capitalismo, Newton & Compton, Roma. La televisione: i cinquant’anni che hanno cambiato gli usi e i costumi degli Italiani, Newton & Compton, Roma. Vita e morte di una classe dirigente, EDUP, Roma. Nelle fumose stanze (La stagione politica di un “cane sciolto”), Guerini Studio, Milano. America oggi. Capitalismo e società negli Stati Uniti, Newton & Compton, Roma. Diplomatico per caso (La Parigi degli anni Cinquanta raccontata da un giovane osservatore), Guerini Studio, Milano. Il ’68 quarant’anni dopo, EDUP, Roma. Periferie – da problema a risorsa, Sandro Teti, Roma (libro scritto insieme a Maria Immacolata Macioti, docente presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”). Spazio e convivenza – Come nasce la marginalità urbana, Armando, Roma. Il senso del luogo, Armando, Roma.
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