Dove va la scienza? La questione del realismo


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DOVE VA LA SCIENZA La questione del realisn10 a cura di F. SclJeri e V. Tonini

EDIZIONI DEDALO

Introduzione

Nel 1955, quattordici giorni prima di morire, Einstein scrisse: «Siamo molto lontani dal possedere una base concettuale della fisica alla quale poterci in qualche modo affidare». Questa conclusione di sostanziale inaffidabilità dei fondamenti della fisica moderna era condivisa da altri grandi fisici, come Planck, Ehrenfest, Schrodinger e de Broglie, e si puo' aggiungere che le basi della fisica sono rimaste esattamente le stesse dal 1955 ad oggi. Altri grandi fisici (Bohr, Heisenberg, Pauli, Jordan) si batterono invece per affermare il carattere completo e definitivo di quella teoria dei quanti che viene considerata la più fondamentale fra le teorie della fisica moderna. Questo grande contrasto fra giganti del pensiero scientifico moderno potè sembrare risolversi a favore delle scuole di C.Openhagen e Gottingen, e a sfavore di Einstein, a quanti consideravano decisiva la scelta della maggioranza dei fisici. In realtà una risoluzione del contrasto non c'è mai stata, essendo gli uni e gli altri rimasti sulle rispettive posizioni. Il 1905 aveva visto il primo enunciato della Teoria della Relatività Speciale di Einstein che presto divenne, a torto o a ragione, quasi il simbolo di ogni relativismo. Undici anni dopo Einstein applicò il Calcolo Differenziale Assoluto sviluppato da Volterra, Ricci-Curbastro, Levi-Civita, Castelnuovo, alla formulazione della sua teoria della Relatività Generale che restituiva un ruolo attivo alle proprietà geometriche dello spazio. 5

D'nltrn pnrte tutte o qunsi le teorie della fisica moderna hnnno unn strutturale reversibilità temporale, mentre una riflessione sulla reiùtà e sulle sue proprietà porta facilmente il pens11tore realista - fisico o filosofo che sia - alla conclusione opposta dell'irreversibilità temporale, enunciata da Tonini nel 19-t6 ed indipendentemente da A.O. Aleksandrov nel 1959. Anche qui si ha una situazione un po' paradossale. Anche In matematica moderna ha sviluppato una su,1 consapevolezza dei molti nodi irrisolti. Due momenti sono !'uscita del libro Philosophy of Mathematìcs and Natural Sc1e11ce di Hermann Weyl (1927) ed il teorema di Godei (1931) ,he ha portato ad una profonda revisione critica della teoria h:!bertiana sulle proprietà dei sistemi assiomatici. L'impressionante vastità dello spazio logico per paradigmi alternativi è d'altra parte testimoniata anche dalla pubblicazione del libro di S.W. Carey, The Expanding Earth (1976) per la geofisica e di quello di H. Arp, Quasars, Redshifts and Controversìes (1987) per l'astrofisica. C'è insomma una sana tendenza della scienza contemporanea a rivedere criticamente le proprie stesse basi, il che dovrebbe portare o ad un sostanziale rafforzamento degli esistenti paradigmi, o ad una loro radicale revisione. Sulla questione di decidere quale delle due possibilità sia più probabile i pareri sono ancora divisi, come è narurale. Era quindi interessante paragonare opinioni e valutazioni diverse, cosa che questo libro cerca di fare raccogliendo i contributi di una quindicina di scienziati e filosofi italiani che hanno dedicato molte delle loro energie ai fondamenti della scienza moderna. L'idea che esista e sia importante un nostro spazio nazionale per i dibartiti sui fondamenti della scienza è confermata molto bene dai saggi qui raccolti. Il convegno di cui questo libro costituisce gli atti si è tenuto a Bari presso il Dipartimento di Fisica dell'Università nel maggio 1989. Il titolo del convegno era Modelli sdenti/id della realtà fisica e ad esso hanno partecipato scienziati di estrazioni diverse (fisici, chimici, matematici, biologi, esperti di intelligenza artificiale) oltre

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ad un numero importante di filosofi. Desideriamo qui esprimere la nostra gratitudine a quanti haMo concretamente contribuito all'organizzazione: l'Università di Bari, l'Accademia Pugliese delle Scienze, il Dipartimento di Fisica dell'Università di Bari, la Sezione di Bari dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Sotto lo stesso titolo e in perfetta comune consapevolezza, si è tenuto a Roma, per iniziativa dc «La Nuova Critica», presso la II Università degli Studi, un convegno mternazionale dallo stesso titolo, collegato al convegno di Bari e ad esso immediatamente precedente. Gli atti di questo convegno romano sono in corso di stampa sulla rivista «La Nuova Critica» a cura del prof. A. Carsctti.

Maggio 1990

F. Se/Ieri e V. Tonini

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Realismo senza dogmi di Fabio Minazzi*

«La realtà procede per fatti, non per ragionamenti» (Jeorge Luis Borges, Altre inquisizioni, trad. it. Felcrinelli, Milano 1985 [VI ed.], p. 94 ).

1. Il problema del realismo e l'epistemologia: alcune considerazioni critiche preliminari Secondo Alano di Lilla «le autorità hanno il naso di cera», malleabile a piacere dai diversi interpreti che potrebbero così sempre piegare questo o quello scritto, questo o quel passo, ai criteri interpretativi più diversi. Qualcosa di analogo può forse essere ripetuto anche per le grandi opzioni filosofiche (idealismo, realismo, positivismo, materialismo, ecc.) che spesso nelle opere degli stessi filosofi possono assumere valenze eterogenee dando luogo a singolari intrecci problematici. In un certo senso lo studio della storia del pensiero filosofico-scientifico coincide proprio con l'individuazione e la chiarificazione di questi nodi concettuali nel cui ambito si collocano secondo differenti ascendenze, i vari pensatori i quali appartengono sempre a una (o più) tradizioni intellettuali. Naturalmente la flessibilità delle «autorità» (di Alano di Lilla) e delle «categorie concettuali» è sempre una flessibilità relativa, non assoluta. In caso contrario se le autorità o le tradizioni concettuali non offrissero una resistenza specifica (dovuta, rispettivamente, nell'un caso all'esistenza fisica di cerri testi e di certi scritti, nell'altro all'esistenza di cerri problemi, di un determinato

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Dip. di Filosofia, Università di Genova.

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modo di affrontarli e di risolverli nonché dnl ricorso a specifiche tecniche di 1mnlisi, n termini consolidati, ecc.) sconfineremmo immediatamente nel regno dell'nrbitrarietÌI più completa e incontrollabile. Trn l'arbitrarietà più assoluta e l'adesione piatta e ncriùc1\ si colloca lo spnzio per In costruzione delle varie interpretazioni storiografiche diversificnbili proprio in base alIn loro cnpncità eurisùcn di render ragione dei vari elementi in discussione. Anche nell'affrontare In «quesùone del realismo» è pertanto indispensabile non dimenticare non solo che tale problema è stato spesso «piegato» alle più diverse esigenze, ma anche che esso possiede comunque una sua tradizione specifica da considerarsi con la debita attenzione. D'altra parte non è neppure pensabile che un breve scritto quale il presente possa esaurire uno dei problemi più discussi nella storia delh1 filosofia occidentale. Più modestamente vorrei soltanto offrire una serie di spunti problemaùci per mezzo dei quali, se non mi inganno, è possibile sia riconsiderare il problema del realismo (fuoriuscendo da talune formule stereotipate) sia recuperare la problematicità di una diversa tradizione concettuale denunciando, contemporaneamente, talune indebite assunzioni metafisiche spesso associate, inconsapevolmente, alla trattazione di tali questioni. L'individuazione (e il recupero) di una differente tradizione concettuale nell'ambito della prospetùva realista può infarti essere di un certo interesse per chi voglia riflettere sulla conoscenza scienùfica senza accettare facili soluzioni (spesso prodotte dal gran bazar del consumismo culturale che rutto vorrebbe omologare) né lasciarsi inùmorire da censorie «liquidazioni» apriorisùche del realismo. Bisogna infatù riconoscere che la discussione sul realismo è stata spesso inquinata e distorta dalla pretesa cli ricondurla esclusivamente e sistemaùcamente su un terreno prevalentemente «ideologico». In tal modo l'opzione a favore o contro il realismo è stata sovente presentata come una conseguenza inevitabile di una determinata scelta filosofica antecedente, dando l'impressione - come sarà sostenuto da alcuni neopositivisti - che in fondo l'essere

o no realisti potesse essere ridotto unicamente ad una questione del tutto personale, ad una questione di gusto assolutamente indifferente e immeritevole di una discussione filosofica specifica e autonoma. Tale, insomma, da non modificare significativamente lo stato (e l'immagine) della conoscenza scientifica. Rispetto a questo stato di cose la filosofia della scienza post-neopositivista ha anch'essa contribuito a «depurare» il problema ideologico del realismo continuando ad utilizzare (sia pur con esiti, a volte, di notevole interesse) le tecniche offerte dalla filosofia del linguaggio e dalla tradizione analitica. Tuttavia è mia impressione che in relazione al problema del realismo il contributo della cosiddettà «nuova filosofia della scienza» non sia di grande aiuto proprio perché quest'ultima ha spesso messo capo ad un'epistemologia ricca di interessantissime indicazioni e provocazioni (concettuali e metodologiche) ma sostanzialmente incapace di elaborare un'immagine realmente soddisfacente dell'impresa scientifica, tant'è vero che in qualche caso è giunta a proporre un'immagine volutamente paradossale della scienza. Malgrado certi esiti alquanto discutibili è però innegabile che il dibattito sorto entro la «nuova filosofia della scienza» sia stato ricchissimo e abbia prodotto opere di indubbio valore. Senza dubbio taluni risultati di questa epistemologia hanno interessato notevolmente alcuni scienziati i quali sono grati a questa filosofia della scienza per aver prodotto un'immagine più articolata e complessa dell'effettiva ricerca scientifica, più vicina alla concreta pratica scientifica, nella misura in cui ha posto in luce i molteplici vincoli (concettuali, pratici, ideologici, economici e psicologici) che condizionano - nel bene e nel male - il dispiegamento della ricerca scientifica nel mondo contemporaneo. D'altra parte è anche vero che altri scienziati hanno invece reagito negativamente a questa produzione epistemologica poiché in essa non hanno saputo rintracciare indicazioni utili per meglio intendere la natura della scienza cosicché è nato una specie di divorzio tra la ricerca scientifica svolta nei laboratori e la ricerca filosofica interessata a chiarire le problematiche scienti11

fiche. A questa frntturn hn certamente contribuito anche la tendenza della «nuova filosofia della scienza» a costruirsi una specie di «autobiogrnfin intellettuale» di comodo basata su quella che Pnolo Rossi ha qualificato, opportunamente, come una «rivoluzione immaginaria» 1 • In ogni caso, senza voler negare l'interesse reale che In «nuova filosofia della scienza» ha suscitato presso molti scienziati (soprattutto presso coloro i quali hanno sviluppato uno spiccato atteggiamento critico nei confronti delle regole che «governano» la vita normale di una comunità scientifica) in virtù della sua capacità di mettere in crisi una certa immagine stereotipata della stessa pratica scientifica mostrando la presenza entro la stessa ricerca sciemifica di molti elementi eterogenei ed «irrazionali», vorrei però ora adottare una diversa ottica prospettica per mettere in evidenza alcuni limiti filosofici della «nuova» epistemologia. Non essendo ora possibile prendere in considerazione tutta l'articolata produzione collegata alla «nuova filosofia della scienza» mi limiterò a riferirmi a taluni esiti, tra i più noti, cui è pervenuto Paul K. Feyerabend. La considerazione dell'opera di Feyerabend non è del resto casuale perlomeno per due buoni motivi. In primo luogo perché Feyerabend ha elaborato talune stimolanti e acute indicazioni che hanno il pregio di evidenziare con chiarezza i risultati cui porta una certa impostazione epistemologica. In secondo luogo perché sono convinto che sia possibile (e interessante) usare Feyerabend contro Feyerabend stesso senza doversi necessariamente fermare alle provocazioni cui giunge il suo anarchismo da «impertinente dadaista». Come è noto il risultato più appariscente nei confronti della scienza cui perviene la teoria anarchica della conoscenza abbozzata da Feyerabend non può non inquietare anche il più sofisticato dei razionalisti critici. Infatti dopo l'analisi feyerabendiana dell'impresa scientifica «quel che rimane sono giudi1 Cfr. P. RosSI, I ragni e le formiche, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 59-94.

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zi estetici, giudizi di gusto, pregiudizi metafisici, desideri religiosi, in breve: quel che rimane sono i nostri desideri soggettivi»'. Naturalmente per Feyerabend tutto ciò costituisce un pregio (non un difetto) della sua analisi giacché in tal modo dovrebbe risultare evidente che «la scienza al suo livello più avanzato e generale restituisce all'individuo una libertà che egli sembra perdere quando accede alle sue parti più banali, e anche la sua immagine del "terzo mondo", lo sviluppo dei suoi concetti, cessa di essere "razionale"». Più in generale questo risultato appare del tutto consono all'intenzionalità tipica dell'anarchico epistemologico il quale, sempre secondo Feyerabend, è associabile al «dadaista» «al quale assomiglia assai più che non somigli all'anarchico politico» poiché «"non soltanto non ha un programma, ma è contro tutti i programmi", anche se in qualche occasione sarà tra i più rumorosi difensori dello status quo o fra i suoi oppositori: "per essere dei veri dadaisti, si dev'essere antidadaisti". I suoi obiettivi rimangono stabili, o mutano solo in conseguenza del ragionamento, o della noia, o di un'esperienza di conversione, o del desiderio di far impressione a un'amante e cosl via. Una volta che si sia proposto un qualche obiettivo, può cercare di accostarsi ad esso con l'aiuto di gruppi organizzati o da solo; può usare la ragione, l'emozione, il ridicolo, un "atteggiamento di seria preoccupazione" e qualsiasi altro mezzo sia stato inventato dall'uomo per ottenere il meglio dai suoi simili. Il suo passatempo consiste nel confondere i razionalisti inventando ragioni convincenti a sostegno di dottrine irragionevoli. Non c'è alcuna opinione, per quanto "assurda" o "immorale", che gli si rifiuti di prendere in considerazione o in conformità con la quale si rifiuti di agire, e nessun metodo è considerato indispensabile. L'unica cosa alla quale egli si opponga fermamente e assolutamente sono gli standard universali, le leggi universali, le idee universali come "Verità", "Ragione", "Giustizia", "Amore" e il comportamento che esse implicano, anche se egli non nega spesso sia una ' Cfr. P. K. FEYERABEND, Contro il metodo, trad. it. Feltrinelli, Milano 1979 [II ed.], p. 236, corsivo nel testo. La cii. che segue nel testo è tratta dalla medesima pagina.

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buono politicn ngire come se tnli leggi (t11li st11ndnrd, tnli idee) esistessero e se egli credesse in esse. Egli può nvvicinnrsi nll'anarchico religioso nelln sun opposizione nll,1 scienza e nl mondo materiale e può supernre qunlsinsi premio Nobel nelln sun vigorosn difesa della purezza scientifica. Non h,1 obiezioni n considernre In Jabrica 1111111di, qual è descritti\ d,ùln scienza e qunle gli è rivel11t11 dni sensi, come una chimera che o nasconde unn renltù più profonda e, forse, spirituale, o un mero tessuto di sogni che non riveln e nasconde nulla[ ... ] Applicando questo punto di vistn n un soggetto specifico come la scienza, l'anarchico epistemologico trovn che lo sviluppo accettato di questa (per esempio dal mondo chiuso all"'universo infinito") ha avuto luogo solo perché gli scienziati hanno usato consapevolmente nell'ambito della loro attività la sua filosofia: essi hanno avuto successo perché non hanno permesso a se stessi di lasciarsi vincolare da "leggi della ragione", da "norme di razionalità" o da "leggi di natura immutabili". Al di sotto di tutte le sue violazioni c'è la convinzione che l'uomo cesserà di essere uno schiavo e che conseguirà una dignità che sarà qualcosa di più di un prudente conformismo solo quando diventerà capace di uscire dalle categorie e convinzioni più fondamentali, comprese quelle che si presume lo rendano più umano»'. La lunga citazione era necessaria per illustrare in modo sufficientemente articolato lo spirito di fondo con il quale Feyerabend ritiene opportuno svolgere la sua disamina dell'impresa scientifica. Come si è visto tra la scelta dell'anarchico epistemologo e quella dello scienziato vi sarebbe immediata coincidenza tant'è vero che a giudizio di Feyerabend la scienza si è sviluppata e ha prodotto nuove teorie solo nella misura in cui ha adottato e praticato la sua «filosofia anarchica». Insomma, il nocciolo dell'impresa scientifica sarebbe costituito dall'anarchismo epistemologico: per essere bravi scienziati occo"e dunque essere dadaisti impertinenti. Potrebbbe così sembrare naturale accostare questa pagina di Feyerabend a un famoso rilievo einsteiniano in base al quale lo scienziato, agli occhi dell'«epistemologo sistematico» risulterebbe essere «una specie di opportunista senza scrupoli» tale da apparire al filosofo della scienza ' P.K. FEYERABEND, Contro il metodo, cit., pp. 155-6, corsivi nel testo.

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«come un realista, poiché cerca di descrivere il mondo indi pendentemente dagli atti della percezione; come un idealista, poiché considera i concetti e le teorie come libere invenzioni dello spirito umano (non deducibili logicamente dal dato empirico); come un positivista, poiché ritiene che i suoi concetti e le sue teorie siano giustificati soltanto nella misura in cui forniscono una rappresentazione logica delle relazioni fra le esperienze sensoriali. Può addirittura sembrargli un platonico o un pitagoreo, in quanto considera il criterio della semplicità logica come strumento indispensabile ed efficace per la sua ricerca»'. Tuttavia questo accostamento, che a prima vista sembra perfettamente calzante, in realtà rischia di essere fuorviante e stravolgente se non si pone la debita attenzione ai diversi contesti argomentativi al cui interno Feyerabend ed Einstein motivano la loro immmagine di uno scienziato «opportunista senza scrupoli». Nel caso di Feyerabend, infatti, la mancanza di scrupoli è dettata da quell'esigenza di «dadaismo impertinente» richiamato esplicitamente nella pagina citata. Nel caso di Einstein, invece, la «mancanza di scrupoli» dello scienziato non si colloca sul piano morale, bensì nella necessità, cui lo scienziato non può mai sottrarsi, di fare i conti sistematicamente con i «dati di fatto», con i vincoli empirici posti dalla realtà extra-mentale, cui la scienza si confronta sempre nel suo sforzo costante di giungere al «possesso intellettuale di questo mondo extrapersonale». C.ome scrive Einstein lo scienziato «accetta con riconoscenza l'analisi concettuale epistemologica; ma le condizioni esterne, che per lui sono date dai fatti dell'esperienza, non gli permettono di accettare condizioni troppo restrittive, nella costruzione del suo mondo concettuale, in base all'autorità di un sistema epistemologico»'.

' Cfr. A. EINSTEIN, Replica alle osservavoni dei vari aulon, m AA. VV ., Alberi Einstein scienziato e filosofo, a cura di P .A. Schilpp, trad. it. Paolo Boringhieri, Torino 1958, pp. 609-35, la cit. alla p. 630. ' Op. cit., pp. 629-30.

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La differente posizione di Einstein e Feyerabend si radica proprio nell'nmmissione (o, rispettivamente, nel rifiuto) dell'esistenza di dati empirici oggettivi, «condizioni esterne» extra-mentali, cui la ricerca scientifica si deve sempre confrontare. Per Feyernbend tali «condizioni esterne» non possono mai essere considerate i11dipe11de11temente da uno specifico contesto teorico che costituisce una vera e propria cosmologia, inconfrontabile con le altre cosmologie. In profonda sintonia con tutta la «nuova filosofia della scienza», la quale ha posto in discussione radicale l'esistenza di una netta distinzione tra «termini teorici» e «termini osservativi» (cara alla tradizione neopositivista), Feyerabend opta cosl per la tesi dell'incommensurabilità ua le teorie scientifiche. Il suo anarchismo epistemologico non vuol essere altro che la presa dì coscienza (filosofica) dell'inesistenza di standard in grado dì favorire un confronto sempre realizzabile tra classi di contenuto di diffe. renti teorie. In tal modo Feyerabend (e con lui la «nuova filosofia della scienza») è costretto a concludere che ogni teoria scientifica si costruisce i propri fatti e la sua realtà sottraendosi, in linea di principio, ad ogni controllo effettuato mediante un confronto tra differenti teorie poste entrambe in relazione con il modo empirico. Proprio per questo motivo Feyerabend può anche sostenere, motivatamente, - contro Lakatos che la «metodologia dei programmi di ricerca scientifici» elaborata dall'epistemologo ungherese attraverso la costruzione di una versione sofisticata del falsificazionismo di Popper costiruisce una sorta di «anarchismo camuffato» con l'aggravante che «nella misura in cui la metodologia dei programmi di ricerca [lakatosiana] è "razionale", non differisce dall'anarchismo. Nella misura in cui differisce dall'anarchismo, non è "razionale"»'. Tuttavia proprio considerando questa tesi secondo la quale «i concetti osservativi non sono carichi di teoria, [bensl] • P.K. FEYERABEND, Contro il metodo, cii., p. 163, ma cfr., più in generale, le pp. 148-177.

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essi sono completamente· teorici» 7 è possibile rendersi conto dell'unilateralità di questa posizione filosofica che in tal modo pretenderebbe di" fagocitare ogni resistenza della realtà. Se si ammette questa posizione sono infatti inevitabili due conseguenze alquanto imbarazzanti: non solo occorre riconoscere che ogni teoria si «costruisce» la sua realtà, ma bisogna anche ammettere la «proliferazione» delle realtà (che cambieranno a seconda delle varie cosmologie considerate). Più in generale questa posizione, pur prendendo le mosse dal giusto rilievo che entro la nostra conoscenza non esistono ambiti del tutto liberi dalle teorie, finisce poi però per trascurare proprio i vincoli oggettivi, i condizionamenti effettivi, che il mondo empirico pone alla nostra libertà concettuale: la realtà, infatti, non ci consente di dire di essa qualsiasi cosa poiché è in grado di vietare alcune nostre costruzioni intellettuali. Soprattutto nell'ambito delle scienze sperimentali esistono in modo evidente delle «proposizioni vietate» proprio dal controllo sperimentale. Nella misura in cui lo scienziato non vuole limitarsi a costruire delle teorie ex-suppositione, ma si sforza di spiegare il mondo extrapersonale, è allora necessario riconoscere - come ricordava Einstein - che occorre sempre prendere le mosse proprio da questi «dati del mondo esterno». L'opportunismo epistemologico cui si riferisce Einstein va pertanto inteso come l'indicazione dell'estrema flessibilità teorica cui lo scienziato deve costantemente far riferimento onde elaborare teorie in gra di spiegare in modo sempre più ampio

e articolato proprio la complessità dei dati del mondo reale. Insomma: è Io scrupolo con il quale tiene in considerazione la «durezza del reale» che lo induce a saggiare vie diverse e alternative attingendo liberamente in tutte le direzioni concettuali offerte dalle tradizioni di pensiero nelle quali è inserito ' P.K. FEYERABEND, Il realismo scientifico e l'autorità della scienu, ed. lt. a cura di A. Artosi, Il Saggiatore, Milano 1983, p. 50, corsivi nel testo. Ma su questi problemi è da tener presente, in primo luogo, tutto il volume di FEYERABEND, Contro il metodo, cit., nel quale cfr ., in particolare, le pp. 185-237.

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senza però avere mai In pretesa di costruire dei 111011di i11com111e11S1irabili e priv,11i proprio perché, come gin ha rilevato Eraclito, «unico e l-omune è il mondo per coloro che son desti, mentre nel sonno ci11scuno si rinchiude in un mondo suo proprio e p:1rticol11re»•. Sul piano filosofico più generale questa singolare posizione difesa dalla «nuova filosofia della scienza» si esprime in una genernle (e pressoché sistematica) disattenzione per 111 dimensione tecnologica dell'impresa scientifica. La mancata considerazione della tecnologia è del resto coerente per una epistemologia che pretende di annullare la «durezza» del mondo reale riducendolo ad una proiezione delle diverse «cosmologie» teoriche. La dimensione tecnologica è infatti il luogo privilegiato nel quale qualunque teoria scientifica si confronta in modo significativo con la realtà: è il terreno al cui interno occorre tenere presente costantemente il «margine d'errore» delle proprie costruzioni teoriche (e delle loro applicazioni pratiche) al di fuori del quale le teorie, per quanto possano essere escogitate in modo ingegnoso facendo ricorso sistematico agli stratagemmi convenzionalistici e ad ardite ipotesi ad hoc, vanno incontro a clamorosi fallimenti pratici. La mancata elaborazione di una adeguata «filosofia della tecnologia» è così l'indice più macroscopico dell'unilateralità e della parzialità pregiudiziale con la quale la «nuova filosofia della scienza» si è mossa costantemente all'interno di una considerazione essenzialmente teoretidstica dell'impresa scientifica. Ricollegandosi ad una tendenza già ben presente nell'ambito del neopositivismo questa «nuova filosofia della scienza» ha infatti finito per far sua una visione della scienza dalla quale è esclusa una significativa riflessione sulla dimensione ingegneristica e tecnologica. Secondo questa tradizione concettuale la scienza è ridotta unicamente alla sua dimensione teorico-linguistica e l'epistemologia accarezza costantemente il sogno di cogliere l'essenza dell'impresa scientifica svolgendo unicamente ' Cfr. I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannamoni, Laterza, Roma-Bari 1975 [II ed.], p. 215 (B. 89).

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una disamina linguistica. La scienza non è però riducibile alla sola dimensione linguistica. ù,ndividendo questo dogma neopositivista si trascura sistematicamente la dimensione praticooperativa mediante la quale la scienza, operando significativi interventi nel mondo reale, si è costantemente sottoposta alla «prova dei fatti» verificando la concreta efficacia del proprio «possesso intellettuale del mondo extrapersonale». In fondo, in questo privilegiamento della dimensione teorico-linguistica della scienza a scapito di quella pratico-operativa, l'epistemologia (sia quella neopositivista sia quella post-neopositivista) non ha fatto altro che condividere il tradizionale disprezzo (plurisecolare) dei teorici (e, più in generale, tipico della stragrande maggioranza degli intellettuali) per ogni attività pratico-operativa e lavorativa (quella che già i greci indicavano sprezzantemente con il termine di attività « banausica» 9 ). Il secondo rilievo di fondo che mi pare possa essere mosso nei confronti della «nuova filosofia della scienza», sempre ai fini di metterne in evidenza una sua intrinseca debolezza, concerne la scarsa attenzione dedicata da questa epistemologia alla storia della scienza. Per la verità a qualcuno questo rilievo potrebbe sembrare estremamente stravagante poiché è ben vero che nei testi di questi filosofi della scienza molto spesso vengono fatti espliciti riferimenti a numerosi casi storici. Tuttavia, se si escludono talune eccezioni, è mia impressione che l'apertura di questi filosofi nei confronti della storia della scienza sia in realtà estremamente debole. Quest'ultima è spesso evocata nelle loro pagine, ma in modo del tutto subordinato e strumentale: la storia della scienza è da loro utilizzata, prevalentemente, per suffragare talune tesi filosofiche preconcette e quindi è ridotta - come ho già avuto modo di osserva-

• Platone nel Gorgia (512 b) fa dire a Socrate, rivolto a Calliche, che, pur riconoscendo l'utilità del costrunore delle macchine (belliche), «tu disprezzerai lui e la sua arte e come per offesa lo chiamerai banausos e non vorresti dare tua figlia in sposa a suo figlio né vorresti che tuo figlio sposasse una figlia di lui».

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re' 0 - ad una sortn di s11pem111rket nel qunle l'epistemologo va n cnccin di «casi storici» (eventunlmente da acquisirsi anche a «buon mercato»!). In altri termini questa epistemologia non riesce qunsi m1ù n valutare In storia della scienza nella sua a11to11omia disciplinare e in qualche caso (basti pensare a Lakatos) non teme di giustificare apertamente la necessità di mettere capo ad unn ricostruzione razionale della storia della scienza che sia notevolmente di versa dalla storia reale (la quale, al massimo, va relegata nelle note a pié di pagina per mostrare come essa si sia «comportata male» alla luce degli standard di ricostruzione razionale!)". La scarsa attenzione per l'autonomia disciplinare della storia della scienza induce poi questi epistemologi (con l'unica eccezione di Thomas S. Khun che non a caso proviene dall'ambito della storia della scienza cui ha dedicato numerose ricerche) a sottovalutare la dimensione storica presente a/l'interno delle teorie scientifiche. Più in generale si può dire che questa filosofia della scienza finisce per condividere una interpretazione platonica - spesso inconsapevole - delle teorie scientifiche in base alla quale queste ultime non sono mai considerate come esiti di processi, bensì vengono discusse e valutate in una pretestuosa «fissità» teorica estrapolandole arbitrariamente dal concreto dibattito teorico verificatosi storicamente e nel cui seno le teorie si sono formate e hanno assunto forme molteplici 12 •

•• e&. E. AGAZLI, F. MINAZLI, L. GEYMONAT, Filoso/io, scienza e vmtà, Rusconi, Milano 1989, p. 63, ma cfr., più in generale, le pp., 56-75. 11 «Un modo per segnalare le discrepanze tra la storia e la sua ricostru• zione razionale è di riferire la storia interna nel testo e indicare nelle note come la storia reale "si è comportata male" alla luce della sua ricostruzione razionale• (I. LAKATOS, La storia della scienza e le sue ricostruzioni, trad. it. in AA.VV., Critica e crescita dello conoscenza scientifico, a cura di I. Lakatos e A. Musgrave, ed. it. a cura di Giulio Giorello, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 366-408, la cit. è a p. 385, corsivi nel testo). " È però interessante osservare che la produzione più recente di Feycrabend (cfr. il suo Dialogo sul metodo, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 123-4) è giunta a criticare proprio !'«interpretazione platonica delle teorieh avanzando l'esigenza di elaborare un punto di vista che tenga in maggior conto la componente storica delle stesse.

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Non essendo ora possibile dilungarsi nell'analisi crmca della «nuova filosofia della scienza» basti osservare che i due aspetti precedentemente rilevati (idest la mancanza di attenzione specifica alla dimensione tecnologica dell'impresa scientifica e la svalutazione del ruolo e della funzione dell'impresa scientifica) rendono, perlomeno a mio avviso, altamente problematica l'utilizzazione di questa riflessione epistemologica anche nell'ambito di una riconsiderazione della questione del realismo. D'altra parte era doveroso accennare a questi rilievi per rendere ragione della decisione di affrontare il problema del realismo senza ricollegarsi direttamente (e necessariamente) alla «nuova filosofia della scienza». Tale decisione non deriva da una scarsa valutazione dei pur interessanti risultati raggiunti da questa epistemologia, bensl dalla consapevolezza che le due lacune precedentemente considerate sono tali da richiedere un diverso approccio problematico il quale sia poi in grado di recuperare - su un diverso terreno - sia l'apertura alla storicità delle teorie scientifiche sia la considerazione del ruolo e dell'importanza d~lla dimensione tecnologica. D'alrra parte desidero avvertire che le considerazioni che svolgo nella presente sede si rifanno, perlomeno nel loro spunto problematico di fondo, ad alcune analisi suggerite e abbozzate da Giulio Preti (sia in scritti editi sia in scritti tutt'ora inediti conservati presso il Fondo «G. Preti» di Firenze) nonché ad un progetto di ricerca che ho già cercato di focalizzare in alrri interventi". Se non mi inganno grazie a questo programma di " Per gli scritti di Preti cfr., in particolare, Lo scellicismo e il problema tk//a conoscenza, «Rivista critica di storia della filosofia», anno XXIX, 1974, fase. I, pp. J.31; fase. II, pp. 123-43; fase. III, pp. 243-63 nonché il saggio inedito li neorealismo logico. Saggio di ontologia filosofica conservato al Fondo Preti sono la schedatura II, 6 (per altre indicazioni relative agli scritti di Preti cfr. F. M1NAZZI, Giulio Preti: bibliografia, Angeli, Milano 1984, pp. 289-411). Per i contributi dello scrivente cfr. Epistemologia, criticismo e storicità, in L. GEYMONAT, G. G!ORELLO, Le ragioni tkl/a scienza, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 223-51; La questione filosofica del realismo scientifico in V. TONINI. F. M1NAZZ1, La realtà della natura e la storia tkll'uomo, Angeli, Milano 1989, pp. 205-56; la relazione L'ontologismo critico

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ricerca è infatti possibile sviluppare un punto di vista realista (alternativo) sulla nnturn della conoscenza scientifica in virtù del quale siamo posti nelln condizione di apprezzare i risultati (parziali) cui è pervenuta In «nuova filosofia della scienza» senza però doverne condividere le grnvi limitazioni precedentemente accennate.

2. La scienza moderna e l'affermazione di un «nuovo realismo»

In una nota pagina dei Discorsi intorno a due nuove scienze, Salviati ad un certo punto osserva: «Non mi par tempo opportuno d'entrare al presente nell'investigazione della causa dell'accelerazione del moto naturale, intorno alla quale da varii filosofi varie sentenzie sono state prodotte, riducendola alcurù all'avvicinamento al centro, altri al restar successivamente manco parti del mezo da fendersi, altri a certa estrusione del mezo ambiente, il quale, nel ricongiugnersi a tergo del mobile, lo va premendo e continuatamente scacciando; le quali fantasie, con altre appresso, converrebbe andare esaminando e con poco guadagno risolvendo. Per ora basta al nosuo Autore che noi intendiamo che egli ci vuole investigare e dimostrare alcune passioni di un moto accelerato (qualunque si sia la causa della sua accelerazione) talmente, che i momenti della sua velocità vadano accrescendosi, dopo la sua partita dalla quiete, con quella semplicissima proporzione con la quale cresce la continuazion del tempo, che è quanto dire che in tempi eguali si facciano eguali additamenti cli velocità; e se s'incontrerà che gli accidenti che poi saranno dimostrati si verifichino nel moto de i gravi naturalmente descendenti ed accelerati, potremo reputare che l'assunta defirùzione comprende cotal moto de i gravi, è che vero sia che l'accelerazione loro vadia crescendo secondo che cresce il tempo e la durazione del moto»". di Giuuo Preli, in corso di pubblicazione nel volume che raccoglierà gli atti del C.Onvegno Il pensiero di G. Preti nella cultura filosofica del Novecento (Milano, 8-10 ouobre 1987) e i vari interventi che si trovano in E. AGAZZI, F. MtNAZZI, L. GEYMONAT, Filosofia, sdenza e verità, cit. " Cfr. GALILEO GALILEI, Opere, a cura di Franz Brunetti, U.T.E.T.,

Torino 1980 [II ed.], 2 voli., voi. II, pp. 553-839, la cit. a p. 734 (cfr. l'Edizione Nazionale delle Opere di Galilei a cura di Antonio Favaro,

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Nello studio del comportamento di un grave in movimento uniformemente accelerato Galileo ritiene dunque opportuno e necessario limitare l'indagine scientifica all'investigazione e alla dimostrazione delle sole passioni di questo moto, mentre lo studio della sue cause ci porterebbe inevitabilmente su un terreno minato, dominato da fantasie che potremmo discutere e risolvere «con poco guadagno». Galileo introduce, insomma, una distinzione metodologica della massima importanza poiché vi sono le passioni del moto che la scienza studia avendo come suo fine precipuo quello di individuare le leggi che regolano il movimento. Su questo piano potremmo aggiungere, in prima approssimazione e ricorrendo alla terminologia filosofica, che la scienza si occupa unicamente di studiare il mondo fenomenico individuando unicamente la connessione costante e la regolarità dei fenomeni considerati. Su un altro piano (quello che Galileo qualifica della «fantasia») si sviluppano invece tutte le ricerche volte ad individuare le cause della realtà fenomenica, cioè tutte quelle indagini che vogliono cogliere l'essenza ontologica della realtà studiata. La distinzione metodologica galileiana ha un significato eminentemente operativo tant'è vero che Galileo stesso non si sofferma ad illustrare la portata filosofico della sua scelta e pertanto preferisce insistere sui risultati concreti cui si è in grado di pervenire qualora si limiti il proprio studio della natura alla considerazione delle sole passioni del reale. Da questo punto di vista Galileo sembra anzi lasciar credere che esista una sorta di biforcazione concettuale preliminare: da un lato vi sarebbe l'indagine scientifica, che si limita a studiare le passioni dei mori e, dall'altro lato, vi sarebbero le indagini filosofiche le quali si perdono in discorsi fantastici privi di ogni riscontro reale. In realtà questa contrapposizione tra scienza e filosofia è presentata volutamente da Galileo in questa forma «assolutizzata», sia per meglio affermare la novità (e la fecondità) del nuovo punto di vista metodologico che ha abbracciato nel fondare la scienza moderna, sia per Barbera, Firenze 1890-1909, 20 voli., voi. VIII, pp. 202-3 a cui rinvierò sistematicamente).

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un suo oggettivo minor interesse nl discorso filosofico in quanto tale l Galileo non hn mai nvuto l'intenzione di elaborare una nuova filosofia poiché ha mirato costantemente a fondare una nuova scienza che trova In sua mnssimn espressione proprio in un'opera come i Discorsi i quali costituiscono indubbiamente il suo capolavoro sdentifico). Il lettore contemporaneo non può però non storidzzare questa presa di posizione di Galileo cogliendone sin lo spirito polemico nei confronti della filosofia delle scuole del suo tempo che lo scienziato pisano intendeva combattere apertamente costruendo un punto di vista scientifico profondamente diverso, sia la particolare curvatura filosofica implicita (ed emergente) dnlla scelta metodologica galileiana. Per comprendere tutta l'importanza filosofica del discorso galileiano basterebbe infatti riflettere sul diverso modo in et.i Galileo - proprio prendendo le mosse dnlla pagina precedentemente citata - è indotto a riconsiderare il nesso tra causa ed effetto. Come è noto per la tradizione aristotelica la conoscenza è, in primo luogo, sdre per causas, ma la conoscenza di queste cause· ha la pretesa di individuare proprio l'essenza del reale e pertanto il nesso di causa-effetto è inteso in senso rigorosamente metafisico. Di contro Galileo con la sua distinzione metodologica introduce un punto di vista profondamente alternativo nel quale ci si può limitare a considerare il rapporto che si instaura tra il fenomeno-causa e il fenomeno-effetto senza avere più la pretesa di individuare l'essenza ontologica della realtà. La sua proposta libera il nesso causale da tutta la sua tradizionale ponata ontologico-metafisica e si inserisce, oggettivamente, nella tradizione filosofica che da Occam a Hume ha costantemente sottoposto a una critica radicale la interpretazione metafisica del nesso causale. In questa pagina Galileo si rivela dunque buon erede proprio della tradizione occamista ed è in grado penanto di proporre una definizione del nesso causale che lo libera anche da ogni indebito riferimento antropomorfico: lo studio del nesso causa-effetto limitandosi nlle «passioni» dei moti non avrà più la pretesa di fornirci il significato assoluto e metafisico della realtà né, tanto meno, si occuperà dei «fini»

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della natura. Anche su questo piano, rispetto alla tradizione aristotelica, la rottura è netta e tale da modificare profondamente la stessa nozione della «conoscenza» cui l'uomo può mettere capo. L'uomo «conosce la natura» senza più avere la pretesa (e la preoccupazione) di individuare i fini ultimi e gli scopi che il creatore si è. prefissato nell'organizzare la «fabbrica dei cieli». Non a caso in Galileo il significato stesso del termine «spiegare» muta profondamente: la scienza «spiega» la natura non perché pretenda di svelarne il significato assoluto ed ontologico, ma proprio perché si limita a «descrivere» i moti dei corpi e le regolarità delle connessioni tra i fenomeni individuandone le leggi. Naturalmente la «descrizione» di cui si avvale la scienza non ha nulla a che vedere con la pura e semplice «descrizione fenomenica», ma si intreccia in modo indissolubile con la «spiegazione»: «spiegare» un fenomeno, per Galileo, significa essere in grado di costruire una teoria matematica a partire dalla quale si sia poi in grado di dedurre il comportamento fenomenico della realtà considerata. In Galileo la componente empirica si intreccia stabilmente con quella razionale e matematica tant'è vero che il suo appello al canone aristotelico (in base al quale «quello che l'esperienza e il senso ci dimostra, si deve anteporre ad ogni discorso, ancorché ne paresse assai ben fondato»") si rivela essere un'abile mossa con la quale si spiazza (dall'interno) la tradizione aristotelica avanzando, in realtà, una nuova concezione dell'esperienza stessa. Infatti l'esperienza cui si appellava Aristotele era l'esperienza sensibile basata sui cinque sensi, mentre l'esperienza cui si riferisce Galileo è invece un'esperienza matematiuata dove la «sensata esperienza» si intreccia costantemente con la «certa dimostrazione». La distinzione non è davvero di limitata importanza: se Galileo a volte si mostra più preoccupato di rivendicare la continuità della sua impostazione metodologica " G. GALILEI, Dialogo sopra i due massimi sistemi thl mondo tolemaico e copernicano, a cura di Libero Sosio, Einaudi, Torino 1984, p.

70 (cfr. VII, 80).

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con il cnnone di ricerca aristotelico (come per esempio accade nella celebre lettern del 15 settembre 1640 all'aristotelico Fortunio Liceù'•) lo fn perlomeno per due moùvi. In primo luogo per unn rngione strntegicn che gli consente di criticare dall'intemo l'acriùcn fedeltà ni testi dello stagirita sbandierata dagli aristotelici suoi contemporanei. fo secondo luogo - come appare anche dalle righe conclusive del passo citato in apertura del paragrafo - perché distingue meùcolosamente tra un discorso rigoroso (matematizzato) che possiede unicamente una validità ex suppositio11e e un discorso rigoroso cui si può attribuire una reale portata fisica. Un conto, infatù, è costruire un discorso rigoroso ma puramente formale, incapace di spiegare ciò che è attestato dall'esperienza (sia pure da un'esperienza matematizz.ata), cioè un discorso che si limita ad essere una teoria convenzionale puramente ipoteùca; un conto, ben diverso, è invece costruire una teoria fisica capace di «spiegare» (idest di «dedurre matematicamente») il corso degli eventi attestati dall'esperienza (la quale, a sua volta deve essere «quantificata»). Non per nulla Galileo stesso nella lettera del 7 gennaio 1639 al fisico e ingegnere Giovan Batùsta Baliani, spiegando l'«ag• gressione diversa» con la quale ha trattato il problema del moto nei Discorsi scrive: «Ma tornando al mio trattato del moto, argomento ex suppositione sopra il moto, in quella maniera diffinito; siché quando bene le conseguenze non rispondessero alli accidenti del moto naturale de' gravi descendenti, poca a me importerebbe, siccome nulla deroga alle dimostratione di Archimede il non trovarsi in natura alcun mobile che si muova per linee spirali. Ma in questo sono io stato, dirò così, avventurato, poiché il moto dei gravi et i suoi accidenti rispondono puntualmente alli accidenti dimostrati da me del moto da me definito»". " Cfr. G. GAULEt, Opere, op. cit., voi. I, pp. 973-77 (cfr. XVIII, pp. 247-51). 17 Cfr. G. GALILEI, Opere, op. cit., voi. I, pp. 960-63, la cit. a p. 962 (cfr. XVIII, pp. 11-3, la cit. alle pp. 12-3).

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Ed è proprio in virtù di questa «felice coincidenza» che Galileo si sente autorizzato ad attribuire un'autentica portata conoscitiva alle teorie fisiche elaborate dalla nuova scienza. Ancora una volta in profondo accordo con Aristotele lo scienziato pisano è infatti propenso ad attribuire un'autentica portata realista alle teorie fisiche anche se la sua fondamentale innovazione metodologica gli consente di elaborare un punto di vista più astratto e più fecondo in grado di meglio dominare il mondo reale proprio perché non è mai schiavo della realtà empirica nella sua datità immediata. Ed è per questo motivo che Galileo nei Dialoghi dichiara apertamente di non poter «trovar termine all'ammirazion [sua], come abbia possuto in Aristarco e nel Copernico far la ragione tanta violenza al senso, che contro a questo ella si sia fatta padrona della loro credulità»". La ragione deve «far violenza al senso» proprio perché deve essere in grado di «diffalcare» gli impedimenti che sembrano nascere sul terreno dell'esperienza quotidiana. Mentre la «ragione» degli antichi - nel solco della tradizione platonico-aristotelica - voleva essere essenzialmente una ragione mimetica nei confronti del reale (la razionalità doveva infatti costruire delle teorie che spiegassero la realtà così come quest'ultima si presentava nell'esperienza sensibile: all'esperienza sensibile del moto [apparente] del sole nel cielo doveva così corrispondere la teoria tolemaica che «sistematizzava» il dato empirico in un'elaborazione coerente), la nuova razionalità scientifica attinge invece ad un maggior grado di astrazione mediante il quale - pur entrando in apparente conflitto con l'esperienza nella sua immediatezza fenomenica - è però capace di fornire una spiegazione più profonda ed articolata della realtà permettendo predizioni (confermate) più interessanti e più ricche di contenuto empirico. Tra ragione ed esperienza 11

G. GALILEI, Dialogo ecc. op. cii., pp. 392-93 (cfr. VII, 355).

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sembra cosl instaurarsi un rapporto inversamente proporzionale: quanto più la ragione è astratta ed entra in conflitto, nei suoi presupposti postulatori (introdotti per via puramente ipotetica e convenzionale), con l'esperienza sensibile, tanto più si rivela profonda e in grado di spiegare sezioni più ampie del mondo reale, purché, naturalmente, sia in grado di mostrare un sostanziale accordo tra le conseguenze teoriche (ricavate per via puramente matematica) e il comportamento reale dei fenomeni fisici (da considerarsi matematicamente, donde la necessità di introdurre - sempre a livello metodologico-operativo - la celebre distinzione tra «qualità primarie» e «qualità secondarie» ) 19 • Legittimo porsi, a questo punto, una serie di domande concernenti la «realtà» di cui la scienza è in grado di parlarci mettendo capo a discorsi autenticamente conoscitivi. Se è infatti vero che Galileo non ha mai voluto occuparsi del problema dell'essenza della realtà resta comunque da spiegare quale sia la realtà di cui parla la sua «scienza nuova». Galileo era principalmente interessato ad affermare l'importanza e il significato della scienza moderna per la cultura in generale, mostrando anche la capacità che la nuova scienza possedeva nel risolvere problemi specifici e concreti. Proprio per questo suo interesse principale Galileo non ha mai sentito la necessità di chiarire i presupposti filosofici dello stesso meccanismo cui ha pure fatto riferimento in diverse occasioni presentandolo sempre solo come un «canone di ricerca» opportuno e fecondo per lo scienziato militante. Rimane però da stabilire se la «realtà» di cui parla la scienza moderna possa essere o meno assimilata alla «realtà» di cui parlava la precedente tradizione filosofica occidentale e occorre anche chiedersi se la categoria " Per la distinzione tra «qualità primarie,. e «qualità secondarie,., che Galileo non sovraccarica mai di alcuna portata ontologica-metafisica giacché si limita a proporla in chiave rigorosamente operativa (come un canone cui la ricerca deve attenersi se vuole raggiungere risultati significativi sul piano scientifico) il riferimento principale è, naturalmente, a Il Saggiatore cfr. in G. Galilei, Opere, op. cii., voi. I, pp. 602-807, in particolare si vedano le pp. 777-8 (cfr. VI, pp. 347-8).

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della realtà muti effettivamente di significato filosofico. Già si è accennato al diverso significato che il richiamo all'esperienza assume in Galileo e in Aristotele. Possibile - ci si potrebbe ora chiedere - che per Galileo non muti profondamente anche l'immagine della «realtà» studiata dalla scienza? A ben considerare il problema, anche se in Galileo manca una specifica e sistematica riflessione sul fondamento della nuova scienza, è però agevole rendersi conto che lo scienziato pisano con la sua opera (nonché introducendo le distinzioni metodologiche precedentemente richiamate), ha effettivamente fornito un contributo di primaria importanza che innesca un profondo rinnovamento anche in ambito più propriamente filosofico rivoluzionando la tradizionale nozione di «realtà». Le differenti tradizioni filosofiche e scientifiche avevano infatti spesso tacitamente ammesso (con una convergenza oggettiva cli massima, la quale non salvaguardava comunque dell'esistenza cli contemporanee, profondissime, differenziazioni concettuali) che il «realismo» potesse essere fatto coincidere con il riconoscimento dell'esistenza delle cose indipendentemente dal soggetto conoscente. L'ammissione di una realtà esterna, oggetto del conoscere del tutto separata dal soggetto conoscente, costituisce il presupposto fondamentale a partire dal quale si sono originati tutta una serie di problemi conoscitivi (spesso insolubili) su cui si è arrovellato il pensiero occidentale perlomeno a partire dalle celebri analisi platoniche svolte nel Teeteto. Queste ultime hanno del resto il pregio di mettere ben in evidenza come la discussione del problema conoscitivo (quello che per secoli è stato identificato come il problema filosofico per eccellenza: l'autoproblema dal quale ha sempre preso le mosse buona parte della riflessione filosofica) si leghi inevitabilmente con Io scetticismo. La «nuova scienza» di Galileo spiazza invece questa tradizione proprio perché non vuole assolutamente occuparsi di una realtà dichiarata per principio inavvicinabile e intangibile e non dedica pertanto alcuna attenzione alla tradizionale realtà metafisica considerata come assolutamente indipendente dal soggetto che studia la natura. Di

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questa realtà in sé, assolutn e irrelata, Galileo si disinteressa completnmente poiché di essn non possiamo sapere propriamente alcunché: ogni nostro discorso a questo proposito coincide necessnrinmente con una mera fantasia pri vn di ogni riscontro oggetùvo. D'nltrn pnrte questo esito fantastico è ineliminabile e derivo dalla stessa postulazione iniziale di una realtà (metafisica) del tutto ignota e irrelata con il soggetto che deve conoscerla. Se infotù si ammette che esiste una realtà cosl concepita, del tutto irrelata e assoluta, è allora inevitabile concludere - se le premesse sono vere - che di essa, in quanto tale (idest in sé), non possiamo conoscere proprio nulla e pertanto l'esito scetùco è anch'esso ineluttabile. Realismo metafisico e scetticismo risultano pertanto solidali e strettamente intrecciaù: due facce di una medesima medaglia (metafisica!). La posizione dello scetùcismo - come ha rilevato Giulio Preù - «equivale alla posizione del realismo filosofico: la implica e ne è implicata,.'0. La implica poiché pone il criterio del conoscere al di fuori della conoscenza stessa: la verità di una proposizione risiede sempre nell'oggetto cui si riferisce la proposizione stessa (l'enunciato «nevica» è vero - e costituisce quindi una conoscenza - se e solo se nevica). Ne è implicata poiché il realismo è il presupposto costante di tutte le argomentazioni scettiche. Si pensi, per esempio, alle analisi criùche di Platone della dottrina di Protagora: i sensi ci possono ingannare proprio perché dovrebbero « testimoniare,. su qualcosa che si verifica al di Juori di essi. La posizione conoscitiva cli Galileo evita questa (falsa) alternativa proprio perché non condivide né il presupposto del realismo metafisico (e si disinteressa quindi cli indagare una realtà definita aprioristicamente come del tutto irrelata e inconoscibile) né il presupposto (altrettanto metafisico) dello scetticismo (e non prende quindi neppure in considerazione tutte le tesi filosofiche - quali l'argomento cli Urbano VIII - che 20

p. 7.

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Cfr. G. PRETI, Lo scdticirmo e il problema della conoscenv,, cit.,

vorrebbero ridurre le teorie scientifiche ad un inganno di dio il quale nella sua infinita potenza potrebbe rivelarci un'apparenza copernicana sotto la quale si celerebbe una realtà tolemaica"). Galileo evita l'alternativa tra realismo metafisico e scetticismo proprio perché segue una ter:r.a via in virtù della quale la realtà di cui possiamo avere autentica conoscenza non ha più a che vedere con l'ammissione dell'esistenza di un mondo in sé del tutto indipendente e irrelato dal conoscere stesso. La realtà di cui parla la conoscenza scientifica è una realtà che si costruisce, si struttura e si articola all'interno del processo conoscitivo stesso: costituisce un polo obiettivo di questo processo della conoscenza e pertanto non può mai essere considerato indipendentemente dalle strutture rigorose di questa stessa conoscenza (d'altra parte neppure queste strutture teoriche possono pretendere di valere conoscitivamenle indipendentemente da un loro riferimento a questo polo della «realtà»: hanno reale portata conoscitiva solo nella misura in cui risultano in accordo con le «passioni», in caso contrario vanno assiinilate a costruzioni rigorose ma puramente ipotetiche e fantastiche). Per esprimersi ellitticamente - senza poter affrontare in questa sede in tutta la sua articolazione questo problema critico-interpretativo - potremmo anche dire che il nuovo concetto di «realtà» emerso con l'opera di Galileo troverà una sua prima formulazione rigorosa solo entro la trattazione kantiana del problema del realismo empirico. La trattazione kantiana più matura costituisce infatti uno dei tentativi più seri di riflessione sui fondamenti filosofici della metodologia galileiana e, non a caso, con la tematizzazione della «rivoluzione copernicana» Kant giunge a precisare il nucleo teoretico più profondo della rivoluzione scientifica moderna. Kant come ha sottolineato Preti " L'argomento di Urbano VIII è qualificato da Galileo come «mirabile e veramente angelica dottrina» (cfr. il Dialogo ecc., cit., p. 549 [VII, 489)), tanto mirabile e tanto angelica al punto che l'autore ... non si sofferma neppure a discuterla (il Dialogo termina infatti con questa ultima «obiezione» di Simplicio).

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«impostn unn rid11-.:io11e delln trndizionnle impossibile nozione realisticn dell'oggeuo al111 nuov,1, e unicn possibile, nozione trascendentnlisticn dell'oggetto come oggeuo-del-conosccre. Che, knntinnamente, è ciò che si chiumn (con un,1 espressione divenuta troppo ricca di possibilità di equivoci e di non-sensi) "fenomeno": sl che tutta l'ind,1gine gnoseologica verte ora sulla costituzione dell'oggetto come fenomeno»".

Con questo non si vuol sostenere che solo Kant abbia colto - filosoficamente - il nucleo decisivo della scienza galileiana, né che il filosofo cli Konigsberg sia riducibile solamente - in modo univoco - a questo problema né, infine, che nella sua grandiosa costruzione non emergano aspetti problematici e talune tipiche sclerosi di pensiero oggi difficilmente accettabili. Questi (e altri) problemi vanno tenuti nel debito conto: ruttavi!! è mia impressione che grazie all'opera di Kant - unitamente a quella di molti altri filoni della filosofia moderna - sia possibile operare un significativo approfondimento della nuova nozione - implicitamente galileiana - della realtà elaborata dalla scienza moderna. Prendendo le mosse da questo nucleo problematico è allora possibile svolgere, contemporaneamente, sia l'approfondimento della «rivoluzione copernicana», sia un interessante riconsiderazione del problema gnoseologico tenendo conto della reale struttura della conoscenza scientifica moderna in tutta la sua complessità. In questa prospettiva se il vecchio problema gnoseologico, sotto un certo aspetto, viene criticato radicalmente, da un altro punto di vista si riqualifica come un tema teoretico della massima importanza poiché è proprio in virtù della sua analisi che possono essere meglio intesi i nuovi significati che assumono le categorie di «verità», «realtà», «conoscenza», «oggetto della conoscenza», ecc. alla luce del sapere scientifico moderno. Quest'ultimo, d'altra parte, rinasce su cli un nuovo fondamento nella misura in cui la sua giustificazione si radica nella sua " Cfr. ~- PRETI, Lo scetticismo e il problema della conosunza, cit., p. 255, corsivo nel testo.

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stessa evoluzione storica. Il «fondamento» del conoscere non può infatti più essere garantito né da un essere superiore né dall'appello ad un'autorità esterna (comunque essa sia presentata, secondo varie curvature metafisiche) ma si colloca, senza residui, nell'evoluzione della stessa conoscenza che ha alle sue spalle solo ... se stessa.

3. La prospettiva del neorealismo logico e il suo ambito problematico Se è vero, o perlomeno plausibile, quanto si accennava nella conclusione del paragrafo precedente, bisogna allora riconoscere che lo stesso kantismo - con riferimento privilegiato alla problematica della «rivoluzione copernicana» - può essere riconsicierato come una delle emergenze più feconde e rilevanti di una tradizione di pensiero più ampia ed articolata le cui radici si collocano già nella scolastica medievale e i cui esiti più interessanti percorrono - spesso in forma sotterranea - gli ultimi secoli della filosofia occidentale. Limitandosi anche al solo ambito filosofico è infatti possibile individuare lo sviluppo di una problematica la quale, in fasi diverse della storia del pensiero e secondo differenti ottiche prospettiche, ha contribuito ad elaborare una nozione alternativa della categoria del reale. A mio avviso proprio questa tradizione concettuale risulta particolarmente idonea per precisarefilcso/icamente il significato teoretico fondamentale della conoscenza quale si struttura nell'ambito della scienza moderna. Ma procediamo con ordine. Se si considera la storia del pensiero è agevole rendersi conto che la tradizione del realismo metafisico e quella dello scetticismo si sono spesso intrecciate (e, come si è accennato, implicate) polemicamente dando luogo ad interessanti confronti critici nel corso dei quali ogni posizione è stata in grado di mettere in luce con acutezza i limiti di quella opposta. È proprio prendendo le mosse da questi confronti che può forse 33

essere meglio illustrntn In genesi cli un diverso punto di vista il quale si sforza di snlvngunrdnre In consapevolezza critica di ciascuna tradizione di pensiero senza però doverne ereditare le peculiari chiusure mernfisiche e le indebite assolutizzazioni ipostnùzznnti. Poiché il presente scritto non possiede alcun intento storico, mn vuole unicamente limitarsi ad illustrare un preciso punto di vista teoretico, sarà allora sufficiente riferirsi ad un solo esempio storico per poi trarre alcune indicazioni di natura più generale. Si consideri, pertanto, il seguente - famoso - aneddoto narrato da Diogene Laerzio nelle sue Vite dei

filosofi: «Discorrendo Platone intorno alle idee e usando "tavolità" e "coppità" in vece di "tavola" e "coppa", Diogene disse: "lo, o Platone, \·edo la tavola e la coppa; ma le idee astratte di tavola e coppa non vedo". E Platone: "e giusto. Hai occhi per vedere la coppa e la tavola: non hai la mente per vedere le idee astratte di tavola e coppa"»". Secondo questa testimonianza Platone e Diogene il cinico rappresentano due alternative teoriche radicali e in opposizione sostanziale. Platone fa riferimento costante ad una prospettiva idealista in base alla quale la dimensione empirica è completamente svalutata a favore dell'affermazione della perfezione ideale delle idee costituenti l'autentica realtà. Di contro Diogene il cinico fa invece valere un punto di vista profondamente diverso: reale è solo ciò che può venir verificato a partire dalla conoscenza sensibile e l'idea risulta completamente subordinata all'empiria. Mentre Platone inclina a considerare l'empirico come una «brutta copia» del modello ideale (perfetto, eterno ed incorruttibile), Diogene è invece propenso a " DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, ed. it. a cura di Marcello Gigante, Laterza, Roma-Bari 1976, 2 voli., voi. I, p. 222. Per osservazioni analoghe a quelle svolte nel testo cfr. anche E. AGAZZI, F. MtNAZZt, L. G_EYMONAT, Filosofia, scienza e verità, cit., pp. 100 ss. nonché la mia relazione L'ontologismo critico di G. Preti, cit.

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compiere l'operazione inversa e pertanto antepone alle idee l'immediatezza del conoscere sensibile. La distinzione tra episteme e doxa è cosl interpretata da Platone e Diogene in modo nettamente antitetico e l'opposizione tra i due punti di vista non può essere più radicale. Tuttavia se si approfondisce l'esame, è agevole rendersi conto che esiste anche un atteggiamento filosofico di fondo in virtù del quale le due posizioni, al di là della loro opposizione, sono fortemente accomunate. Sia Platone che Diogene tendono infatti ad attribuire al loro punto di vista una assolutezza specifica e pertanto ipostatizzano la «realtà» (ideale o empirica) cui reputano opportuno far riferimento. Per l'idealista l'idea va intesa come l'idea ipostatizzata e fissata nella sua assolutezza ontologica capace di aprire alla dimensione della perfezione e dell'eternità. Per l'empirista deve essere invece assolutizzato il momento empirico nella sua certezza indubitabile: solo ciò che possiamo esperire direttamente con i cinque sensi possiede un'autentica realtà. Questa contrapposizione, la cui tensione dialettica si può rintracciare anche nel posteriore conflitto teorico tra realisti e nominalisti, presenta però un morivo di interesse se si pone attenzione al fatto che idealisti ed empiristi hanno sempre ragione in ciò che negano, ma hanno torto in quanto affermano. Infatti l'empirista nega realtà sostanziale all'idea (a suo avviso l'idea non costituisce una priorità ontologica rispetto alle diverse realtà empiriche), mentre l'idealista nega realtà sostanziale alla dimensione sensibile ( per lui il sensibile non è il reale). Entrambe le posizioni sviluppano pertanto una significativa critica radicale dell'ipostatizzai.ione cui si appella la prospettiva opposta, salvo poi ricadere in un errore analogo non appena provano a sviluppare in positivo la loro prospettiva teorica. A questo punto è però legittimo chiedersi: è possibile sviluppare una diversa prospettiva in grado di conservare i risultati positivi delle analisi critiche sviluppate dall'idealismo e dall'empirismo in questa loro contrapposizione senza però doverne necessariamente condividere i limiti evidenti? La possibilità di una reale alternativa che eviti ogni indebita ipostatizzazione si situa proprio nella capacità di rispondere po-

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sìtivamente n questa domanda. E proprio In tradizione del «neorealismo logico» (nome relntivnmente nuovo per indicare un insieme di dottrine di pensiero nssni antiche) permette di rispondere positivamente. È infntti possibile pensare a una diversa strntegin teoricn per uscire dalln paralizzante alternativa prospettata dall'opposizione tra empirismo e idealismo (o tra nominalismo e realismo). Per individuare questa alternativa teorica potremmo infatti chiederci: qual è il punto di forza della prospettiva idealista (e, rispettivamente, di quella empirista)? Senza dubbio l'empirista appellandosi nlla dimensione sensibile e trascurando completamente il piano delle idee (oppure riducendolo meccanicamente ad un prodotto secondario, totalmente subalterno nll'esperienza), omette di considerare che senza un'idea, senza un parametro obiettivo di selezione dei dati empirici, questi ultimi non sarebbero neppure «leggibili» e, pertanto, nel concreto dell'esperienza vissuta non saremmo neppure più in grado di distinguere i tavoli dalle sedie, le c0ppe dai bicchieri, ecc. D'altra parte anche l'idealista, mettendo in luce primaria la funzione e il ruolo del piano ideale, finisce però per compiere un errore speculare a quello dell'empirista nella misura in cui vuol attribuire portata ontologica primaria alle sole idee: giustamente contro questa prospettiva l'empirista ha buon gioco a ricordare che le idee non antecedono l'esperienza, poiché senza quest'ultima non possono neppure essere spiegate e comprese nella loro funzione paradigmatica e selettiva nonché nella loro genesi. In questo senso tanto l'empirista quanto l'idealista hanno ragione nell'individuare il punto debole dell'avversario. Per evitare il loro esito unilaterale bisogna però riconoscere, con il neorealismo logico, che le idee posseggono una ponata paradigmatico-obiettiva (storicamente variabile) funzionale all'esperienza concreta. Nel concreto della conoscenza esiste sia la componente ideale-obiettiva in virtù della quale possiamo elaborare dei parametri selettivi delle esperienze reali, sia la componente empirica cui rinvia sempre necessariamente ogni realtà ideale. Le due dimensioni godono pertanto di una autonomia relativa dando luogo ad un rapporto di reciproca integrazio-

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ne funzionale. Sul piano dell'analisi filosofica è però importante non ipostatizzare in una res una funzione. Per questo motivo bisogna evitare di «cosalizzare» un rapporto di reciproca integrazione funzionale trasformando, con la bacchetta magica della metafisica, in entità assolute ed irrelate quelli che sono solo processi interdipendenti ed obiettivi di crescita della conoscenza. Ma allora - qualcuno potrebbe obiettare - le due prospettive si collocano necessariamente sullo stesso piano cosicché non sarebbe possibile attribuire a nessuna di esse una qualche priorità (sia pur di tipo «funzionale»)? A mio avviso è possibile rispondere a questa domanda mettendo in luce come, in ultima istanza, bisogna sempre ammettere un riferimento primario proprio alla dimensione empirica a partire dalla quale si costwiscono i differenti parametri storico-obiettivi i quali, a loro volta, mirano sempre a ritornare sul piano empirico per investido di nuovi e più profondi nessi concettuali. Il riferimento al piano empirico è quindi primario, ma solo in ultima istanza, proprio perche sono gli uomini che elaborano le idee e non viceversa. Ma detto questo occorre aggiungere che il riconoscimento dell'autonomia relativa dei due piani (quello empirico e quello ideale-concettuale) deve essere in grado di tener presente anche la specificità dell'obiettività di ognuno di essi. Bisogna pertanto prendere sempre le mosse dal complesso intreccio dialettico che si crea tra questi piani, mediante il quale si origina una progressiva «complicazione» in virtù della quale non solo lo sviluppo della dimensione concettuale modifica profondamente la dimensione empirica, ma anche la trasformazione di quest'ultima, creando le premesse oggettive per l'ideazione di altre elaborazioni apparentemente stravaganti, costituisce un vincolo costante con il quale deve confrontarsi ogni elaborazione teorica che pretenda di avere anche un'autentica portata fisica. Secondo questa prospettiva i parametri ideali, mediante i quali vengono selezionati aspetti differenti del reale empirico (che si costruisce e si struttura sempre in relazione a questi parametri), posseggono una base convenziona/e e pertanto risultano essere imbevuti di storidtà. La «con37

venzionalità» di questi pnrnmetri non deve certnmente essere interpretntn - indebitamente - come «nrbitrnrietà», poiché essi si fom1nno e sono suggeriti sempre dn un concreto contesto teorico sin pur storicamente vnrinbile. D'altra parte nella misurn in cui si riconosce al pinno ideale una sua autonomia occorre sempre inserire questi pnrndigmi ideali storico-obiettivi entro l'evoluzione di questo pinno di oggettività cui va attribuita una realtà specifica. Pur senza costituire una oggettività assoluta anch'esso esercita però un vincolo reale alle diverse elaborazioni teoriche offrendo il terreno ideale al cui interno si strutturano le varie teorizzazioni. Questa prospettiva ci consente anche di modificare profondamente la tradizionale immagine teologica che, in varie forme, è però sopravvissuta all'interno di non poche filosofie e, in particolare, di quelle idealiste". Per comodità espositiva basti riferirsi direttamente al tradizionale schema offerto dalla teologia biblica. Secondo questa impostazione (cfr. Fig. 1) in primo luogo vi è il Logos: fin dall'eternità vi è dio che è puro spirito collocato al di fuori di ogni dimensione temporale. Il mondo, la realtà empirica, è frutto semplicemente di una «creazione ex nihilo» la quale configura una tipica «caduta» dall'ambito del pensiero (lo spirito) a quello del mondo concreto (la materia). È solo l'orizzonte religioso che permette di comprendere il significato di questa «caduta» la quale dà luogo ad una realtà teologicamente effimera giacché prima o poi tutto è destinato ad essere riassorbito nella dimensione dello spirito. Quest'ultima costituisce la vera realtà eterna, assolutamente fuori del tempo (la dimensione temporale nasce con la creazione, ma concerne unicamente il «creato»: il mondo ha una nascita, uno sviluppo, e una fine, non cosl dio che per definizione è eterno e immortale). D'altra parte la dimensione " Nello svolgimento delle considerazioni esposte successivamente

nel testo si è tenuto presente anche il saggio di G. PRETI, In principio era la carne, pubblicato nell'omonimo volume In principio era la carne. Sa[Ui filosofici inediti (1948-1970), a cura di Mario Dal Pra, Angeli, Milano 1983, pp. 161-202.

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(L) Logos

(L) Logos

Materia (M) Fig. 1

spirituale coincide per definizione con la perfezione assoluta ed eterna e pertanto non è possibile attribuirle alcuna trasformazione: lo schema teologico è essenzialmente uno schema statico all'interno del quale ogni sviluppo è apparente poiché concerne unicamente tutto ciò che rientra nella sfera del creato ed è pertanto qualcosa di caduco, di derivato, di non-essenziale. Ogni movimento reale è pertanto escluso in questo schema: la storia, il divenire è appannaggio esclusivo di una realtà (il mondo) del tutto subordinata che non ha alcuna consistenza ontologica autonoma (gli scolastici sostenevano che non era dotato di «aseità» ma unicamente di «abalietà») tant'è vero che la sua esistenza (nei confronti dell'eternità) è del tutto effimera e dura lo spazio di un istante; in ogni caso è destinata, prima poi, a «sparire» senza lasciare alcuna traccia di sé poiché sarà «riassorbita» dalla fonte che l'ha generata, lo spirito imperituro, immortale e perfetto. Di contro lo schema opposto a quello teologico tradizionale (cfr. Fig. 2) prende le mosse dal riconoscimento della funzione primaria della materia (e dell'esistenza materiale). Le insorgenze teoriche presuppongono sempre - in ultima istanza - una determinata situazione materiale concreta e si qualificano come una dimensione che attua una sospensione momenta-

o

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nen dell'esigenze del bios nella loro immediatezza. Le strutture teoriche, muovendosi sul piano del pensiero, sono comunque sempre funzionali ad un certo ambito empirico nel senso preciso che, prima o poi, hanno una «ricaduta» in questa dimensione materiale modificandola profondamente. In altri termini i paradigmi teorici sono spesso utilizzati per risolvere positivamente una certa situazione materiale e in tal modo creano le premesse per la costruzione di nuove teorizzazioni le quali nasceranno, a loro volta, in connessione con altre situazioni problematiche. (L)

Logos

Materia {M)

Materia

(M') Fig. 2

Questo schema che pone in evidenza la materia è quindi uno schema essenzialmente dinamico perlomeno in un duplice senso: sia perché la dimensione materiale possiede una sua evoluzione specifica (una sua storia evolutiva) che ad un certo punto si intreccia in modo significativo con l'evoluzione della dimensione teorica (la quale la struttura di fini e significati particolari innescandovi uno specifico «processo»), sia perché la stessa dimensione teorica, pur arricchendosi da un confronto costante con le varie situazioni problematiche con-

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crete del mondo materiale, possiede però una sua storia specifica - un suo piano di obiettività autonomo - al cui interno si collocano le differenti teorizzazioni. In questo schema la dimensione temporale pervade pertanto ogni piano: da quello materiale a quello teorico. Ma proprio per questa ragione il secondo schema non può più essere presentato in modo «statico»: occorre inserire al suo interno come componente fondamentale la sua insopprimibile dinamicità (cfr. Fig. 3).

Fig.,

Dinamicità che è allora di duplice livello: della realtà materiale che si modifica incessantemente e del pensiero che, pur avendo una sua storia autonoma (sempre di un'autonomia relativa), interagisce dialetticamente con il reale concreto (naruralmente questi nessi di rapporto dialettico tra «pensiero» e «realtà» si modificheranno anch'essi, essendo influenzati dal vario configurarsi dei due piani che interagiscono in modo storicamente variabile). In altri termini in questo schema ogni elemento va sempre considerato come un momento di un processo di sviluppo e pertanto non deve essere mai indebitamente assolutizzato e ipostatizzato. Il riconoscimento di questa duplice intrinseca dinamicità (del reale e del pensiero) non esclude, d'altra parte, l'ammissione - in ultima istanza - di una 41

priorità del piano materiale senza il quale l'intero processo non avrebbe alcuna realtà. Ciò nonostante occorre riconoscere un grado di realtà specifica anche al piano ideale il quale gode di una sua «esistenza» del tutto particolare: pur dipendendo dall'esistenza del piano empirico non si riduce affatto a quest'ultimo proprio perché presenta delle emergenze peculiari che non possono mai essere «ridotte» senza residui al piano empirico. La dimensione teorica si origina dal piano empirico ma non può affatto essere ridotta a quest'ultimo ed è per questo motivo che ogni sogno riduzionista cela nel suo seno un arbitrario dogmatismo in nome del quale non si è più in grado di cogliere la specificità del piano teorico che pure si pretenderebbe di «ridurre» in modo totalizzante ad una dimensione inferiore. Più opportunamente bisognerebbe parlare - con Nicolai Hartmann" - del modo con cui il piano del pensiero «poggia sopra» quello empirico. Se quest'ultimo costituisce un piano «più forte» è anche vero che esso si situa ad un livello più elementare a partire dal quale si sttutturano forme più complesse e più ricche di obiettività ideale (le quali presuppongono sempre una sospensione delle istanze vitali nella loro immediatezza biologica dando origine alla nascita del significato). Sul piano della riflessione filosofica sulla scienza le conseguenze più rilevanti di questa impostazione possono essere indicate nell'esigenza di prospettare una realtà in livelli. La realtà di cui parla una teoria scientifica è sempre una realtà funzionale ad uno specifico apparato categoriale che la struttura secondo una precisa intenzionalità conoscitiva. Anche in questa prospettiva occorre evitare il duplice pericolo di «assolutizzarre» la componente teorico-linguistica (dogma neopositivista) oppure di «assolutizzare» la componente empirica (dogma riduzionista). La «realtà» di cui parla una teoria scientifica è sempre una realtà ricavata tramite una dissectio naturae: rispetto alla ricchezza fenomenologica del reale nella sua immediatezza qualunque scienza opera una drastica selezione dei " Cfr. N. HARTMANN, Il problema dell'essere spirituale, cd. it. a cura di Alfredo Marini, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1971, pp. 25-8.

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dati riducendosi a quegli aspetti che risultano rilevanti da un particolare punto di vista (mediante il quale sono rielaborati anche i singoli «dati»). La realtà è più ricca di ogni sua «immagine conoscitiva»; d'altra parte ogni conoscenza, per approfondire significativamente lo studio del reale, deve necessariamente limitare e selezionare il proprio ambito di indagine. Ed è per questo motivo che la filosofia, se vuol riflettere seriamente sulla scienza, deve mettere in luce, in particolare, proprio le modalità di elaborazione dei dati empirici prospettate dalle differenti teorie grazie alle quali si strutturano gli oggetti della conoscenza. In questo senso si può allora sostenere che la nozione galileiana del «moto» costituisce una particolare «aggressione» al mondo fisico la quale non ne esaurisce, naturalmente, la complessa ricchezza fenomenologica pur rappresentando un modo conoscitivamente significativo di parlare del reale. L'impostazione trascendentalista di Kant ha colto perfettamente il ribaltamento concettuale operato da Galileo poiché il reale studiato dallo scienziato pisano è sempre un reale «strutturato» secondo particolari «forme» conoscitive aprioristiche. D'altra parte Kant ha creduto che queste forme a priori costituissero qualcosa di «assoluto» e di immodificabile il che non pare più accettabile se si tiene presente che ogni teoria scientifica costituisce sempre un ambito ipotetico-deduttivo basato su talune assunzioni convenzionali. Ed è per questo motivo che occorre sostituire alla nozione kantiana di un a priori assoluto e immodificabile una nuova nozione di un a priori storico e relativo. Lo studio di questi a priori coincide con l'individuazione dei principi costitutivi di ogni singolo ambito disciplinare il quale si organizza e si struttura secondo una particolare «ontologia regionale». Quest'ultima può infatti essere fatta coincidere con !'«architettonica» teorica mediante la quale un certo ambito empirico viene strutturato, organizzato, normato e indagato prendendo le mosse da taluni assunti ipotetici e mettendo capo a specifici interventi pratici. È interessante sottolineare, come, in questa prospettiva, la dimensione teori-

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ca assuma sempre anche un eminente valenza operativa senza rinunciare, peraltro, alla sua vocazione «conoscitiva». Quest'ultima non deve però essere considerata in modo mitico mettendo capo ad una «sostanzinlizzazione» dei concetti (e dei termini) teorici. Nella misura in cui l'essenvalismo mira a questa «sostanzinlizzazione» ci riporta inevitabilmente ad un ambito metafisico basato su un'indebita assolutizzazione di un momento del processo conoscitivo. Ed è per questo motivo che la «correzione» del kantismo va operata anche in un'altra direzione. Una volta riconosciuta la necessità di introdurre una nozione storica e relativa dell'a priori pare infatti necessario pluralizzare e storicizzare la stessa nozione kantiana di trascendentale non solo - per cosl dire - «orizzontalmente» (ammettendo cioè la possibilità di costruire innumerevoli «ontologie regionali» a seconda delle differenti discipline e delle varie teorie utilizzate) ma anche «verticalmente» poiché possono esistere vari piani di formalismo e differenti gradi di iniegra:uone /un:donale in virtù dei quali si struttura - questione sulla quale ha insistito in particolare Husserl - una vera e propria gerarchia di lratcendenlalilà. In ogni caso si vede come la dimensione «teorica» si complichi in modo non indifferente dando luogo ad un livello complesso e stratificato a partire dal quale possono esistere varie mediazioni nella considerazione (conoscitiva ed operativa) del reale. In ogni caso il «reale» di cui ha senso parlare (conoscitivamente e filosoficamente) è sempre un «reale» strutturato all'interno di un certo ambito conoscitivo-operativo. Del «reale» irrelato ed assoluto, su cui amava intrattenersi la metafisica tradizionale, non vi è più alcuna traccia e si può dire che esso sia «morto e sepolto» - in epoca moderna - dopo l'introduzione della rivoluzione concettuale galileiana e la parallela presa di coscienza filosofica emersa con la problematica della «rivoluzione copernicana» individuata da Kant. Naturalmente, da questo punto di vista, il kantismo non può non apparire in una luce caratterizzata da una tipica «ambiguità» costituzionale: da un lato in esso si può infarti individuare la piena consapevolezza della nuova

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nozione di «realtà» nata con la scienza moderna, dall'altro lato, però, in esso figurano anche talune indebite assolutizzazioni non più accettabili alla luce dello sviluppo posteriore del pensiero (sviluppo spesso nato direttamente in seno alla traclizione del criticismo oppure favorito proprio dalla riconsiderazione critica della problematica kantiana del trascendentalismo). A mio avviso è comunque possibile ripartire attualmente dal nodo problematico del kantismo, riletto in modo aperto e non dogmatico (in particolare, fuoriuscendo dalle tipiche «sclerosi di pensiero» che hanno ossificato la riflessione cli Kant stesso), per elaborare un programma di ricerca articolato e flessibile in grado di cogliere la natura profonda della conoscenza scientifica del mondo. Ma non solo è possibile, bensl, a mio avviso, è doveroso. È doveroso perché solo nella problematica kantiana della «rivoluzione copernicana» riemergono con chiarezza e forza teorica taluni fili tra i più interessanti e significativi della precedente riflessione filosofica e si dipartono correnci sotterranee della riflessione contemporanea che pure possono alimentare in modo decisivo una ripresa critica del problema conoscitivo evitando ogni indebita assolutizzazione metafisica delle varie componenti dell'impresa scientifica. La filosofia se vuole sviscerare la natura e l'articolazione della conoscenza scientifica deve infatti inclividuare la molteplicità delle «ontologie regionali» operanti all'interno di ogni particolare teoria scientifica senza però perdere di vista la specifica clipendenza gerarchica che si struttura, secondo varie modalità storicamente variabili, tra le differenti forme del sapere in connessione mediata con le reali situazioni problematiche cui si trovano sempre immersi gli individui viventi. Da questo punto di vista è allora possibile recuperare l'importanza decisiva sia della storicità della scienza sia della dimensione tecnologica. Per quanto concerne la storicità della scienza è infatti agevole rilevare come essa si collochi in tutti i piani gerarchici dei vari «formalismi» considerati. Meglio ancora ogni «oggetto» di cui parla una teoria non può mai essere compreso ed indagato criticamente se si trascura la sua costante «immersio-

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ne» in unn regione ontologica determinata In quale è sempre suscettibile di trasformazioni proprio perché possiede una sua specifica «storia». Il fondamento convenzionale delle teorie se spiega In loro essenzinle storicità ci rende anche avvertiti della peculiarità di questa dimensione storica che varia secondo molteplici piani di «oggettività» nell'ambito delle differenti tradizioni concettunli nonché di programmi di ricerca in competizione tra di loro. In nitri termini In storicità di una teoria scientifi. ca è qunlcosa di intrinseco nlla teoria stessa e coincide con l'essenzinle flessibilità delle categorie concettuali utilizzate per costruire un certo ambito conoscitivo. Ed è per questo motivo che l'interpretazione platonica delle teorie scientifiche non ha più alcuna giustificazione una volta che si sottolinei la loro natura essenzialmente processuale e dinamica in virtù della quale non possono mai essere separate dal processo storico che le ha generate (idest dalla storia delle differenti interpretazioni cui una teoria ha messo capo modificandosi significativamente all'interno dei vari patrimoni conoscitivi). Né bisogna infine dimenticare che tale storicità del livello teorico va poi ricollegata ad una differente «storicità» attinente più propriamente l'ambito delle situazioni problematiche vitali (in tutte le sue varie e differenti - spesso profondamente differenti - dimensioni: da quella «evolutiva» a quella economica-sociale, ecc.). Anche la dimensione storica non può dunque essere ridotta ad un solo «livello» privilegiato giacché occorre tener presente la stratificazione complessa delle varie «storicità» nel cui vario intersecarsi si struttura un punto di vista teorico specifico e particolare. A maggior ragione quest'ultimo è sempre da considerasi come profondamente permeato dalla «storicità» la quale non può mai essere elusa o ridotta ad una componente estrinseca secondaria o irrilevante. Se si ha la pretesa di trascurare la chiave d'accesso storica allo studio di una teoria si rischia infatti di collocarsi immediatamente su un terreno mitico che pretende di separare arbitrariamente una teoria sia dalla storia delle sue differenti interpretazioni sia dalla più generale evoluzione del patrimonio tecnico-scientifico dell'umanità.

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Per quanto concerne invece la dimensione tecnologica la prospettiva del neorealismo logico induce a non mai trascurare il carattere eminentemente «operativo» delle teorie sottolineando, in particolare, come la tecnica svolga un ruolo strategicamente rilevante per la costituzione e l'affermarsi della stessa scienza. Contro ogni pretesa di ridurre la tecnica ad un ruolo ancillare nei confronti della teoria si deve al contrario rilevare come la dimensione tecnica si collochi al cuore stesso dell'impresa scientifica costituendone un momento fondamentale e centrale: quello in virtù del quale una determinata costruzione teorica verifica la sua portata 'effettivamente conoscitiva della realtà. Mediante la tecnica la scienza si confronta con i vincoli della realtà sl che ogni pensiero mostra la sua effettiva «verità». Già Filippo Brunelleschi (il quale, non a caso, ha svolto opera d'artista e di scienziato, d'architetto e d'ingegnere) in un sonetto in risposta a Giovanni da Prato sosteneva che l'essere non si oppone all'impossibile bensl al falso: «Ogni falso pensier non vede l'essere[ ... ] / Falso giudizio perde la baldanza/ che sperienza gli si fa terribile». La tecnica costituisce proprio questo banco di prova , 5, 1984 e Epistemologia debole, Bertani, Verona 1985, Cap. I. u L. BoLTZMANN, Ober der Statistische Mechanik, cit., pp. 353-354. " Cfr. G. BACHELARD, La formation de l'esprit scienlijique, Vrin, Paris 1938.

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dere concetti magari fondamentali ma ancora non defiruti in maniera rigorosa, come ad esempio il concetto di probabilità introdotto appunto da Boltzmann sin dall'inizio delle sue ricerche. Nella costituzione della teoria atomica, infatti, il modello a inferenze probabilistiche ha giocato un ruolo fondamentale nel fare intravvedere particolari ancora ignoti della struttura della materia, nel modificare uno degli assunti centrali del paradigma fisico precedente, nel variare radicalmente i presupposti e le nozioni di base nello sviluppo delle conoscenze. I modelli, grazie alla loro natura matematica capace di fornire generalizzazioni degli assiomi di base, sono momenti costirutivi delle teorie fisiche, anche se poi quegli stessi modelli vengono per lo più abbandonati dopo aver permesso la nascita e lo sviluppo di una teoria, come dice Selleri: «tutto questo sembra indicare con forza che la matematica funziona come strumento conoscitivo diretto ... Cosl le equazioni di Maxwell e l'equazione di Schréidinger sono runora parte essenziale dei patrimonio scientifico, mentre sono stati abbandonati i modelli fisici dai quali partirono Maxwell e Schrodinger».,. Boltzmann, grazie alla «svolta» storica impressa alla conoscenza fisica e nello stesso tempo imperniata su una concezione realistica, tiene sempre a precisare che i modelli srudiano la struttura stessa della materia, diversamente dalla maggior parte dei fisici suoi contemporanei che si limitavano, come Rutherford, a considerarli raffigurazioni concetruali dei fatti atomici; per la consapevolezza epistemologica del nuovo staruto assegnato alla fisica-matematica, Boltzmann riesce ad anticipare ciò che poi avverrà nella relatività di Einstein con l'uso del calcolo tensoriale, nella meccanica quantistica con l'uso degli spazi astratti, col modello matematico di Dirac e con l'uso dell'algebra non-commutativa. Per questo si può dire con Agazzi, che studia le implicazioni epistemologiche della meccanica quantistica in senso neorealista: «attraverso questi model., F. SELl.Ell1, Paradossi t rtaltò, cit., pp. 23-24.

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li noi studinmo l'atomo e nllorn dobbiamo riconoscere che la costruzione e lo studio delle teoria ntomica, ossia che il modello è in renltà In teoria o, almeno una parte di essa... La caratteristica del modello, infatti, è quella di essere in definitiva un nuovo oggello, che viene studiato autonomamente, nella convinzione che ci faciliti (grazie ad una supposta e almeno parzialmente verificata analogia di struttura) una conoscenza indiretta dell'oggello vero e proprio che interessa la nostra ricerca ... Proprio per questa profonda analogia fra il fare ipotesi e il costruire modelli, possiamo dire che, come non si fa scienza senza ipotesi, così non si fa scienza senza modelli: se questi ci fossero vietati, noi non avremmo alcuna possibilità di attenderò alcunché di nuovo, saremmo perpetuamente impigliati nell'esperienza e nel tipo di conoscenza presenti; l'immaginare qualcosa di nuovo che possa farci uscire da difficoltà logiche presenti è sempre, in quakhe modo, un progettare un certo nuovo modello di realtà» 26 • Grazie al suo sistema paradigmatico basato sulla scelta probabilistica e sull'apparato fisico-matematico, Boltzmann perviene ad un discorso teoretico che potremmo chiamare realismo critico razionale, proposta a cui sono pervenuti, anche e non a caso, fisici e filosofi della fisica di questa seconda metà del '900 27 dopo l'avvento della relatività e della meccanica quantistica, con la presa di coscienza dei limiti interpretativi della Scuola di Copenaghen, di certi esiti riduzionistici del movimento neopositivista e di certo teoreticismo delle epistemologie storiche anglo-sassoni. Queste tendenze, pur operando «svolte» concettuali decisive" con l'introduzione di itinerari di ricerca quali l'analisi logico-linguistica delle teorie scienti•• E. AGAZZI, Temi e problemi di filosofia del/4 fisica, cit., pp. 293 e pp. 296-297. " Cfr. V. TONINI, I..,, scelte della scien:11, cit.; F. SELLERI, Paradossi e re11ltà, cit.; M. PATY, Lz m11tière dérobée, cit. " Si intende «svolta,. nel senso datone da M. Schlick; cfr. Die Wende der Phiwsophie (1930) in M. SCHLICK, Tra realismo e neopositivismo, li Mulino, Bologna 1974, pp. 27-34.

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fiche da una parte e l'approccio storico dall'altra, hanno però sottovalutato il grosso problema dei rapporti fra scienza e realtà, che è stato invece uno dei presupposti centrali del pensiero fisico di Boltzmann: come ben dice Selleri, «il trionfo dell'atomismo dovuto alle ricerche teoriche di Boltzmann e Einstein e a quelle sperimentali di Perrin e Rutherford fu seguito ben presto da un sostanziale svuotamento della sua portata ontologica dalla formulazione soggettivistica della meccanica quantistica delle scuole di C.Openaghen e di Gottingen»". Le istanze realiste presenti in Boltzmann non certo improntate a posizioni ingenue, hanno quindi portato, nello scontro e nelle controversie con i presupposti filosofico-scientifici dei suoi avversari, ad accentuare il carattere storico, relativo e pluralista delle conoscenze fisiche; Boltzmann ha costruito urùversi conoscitivi dotati di una portata oggettiva e ha introdotto nel nostro patrimorùo epistemologico categorie concettuali quali storicità e razionalità della scienza, non certamente aprioristicamente assunte, ma frutto di un lavorìo teorico di base e calate nella reale prassi scientifica criticamente interrogata nei suoi risvolti filosofici più generali ed epistemologici in particolare. Per questo una storia dell'epistemologia neorealista deve fare riferimento alle vicende e alle risposte date da Boltzmann, deve considerarlo punto di partenza di un percorso teoretico, di un «pellegrinaggio filosofico» a dirla con Holton' 0 , che caratterizzerà la «lunga marcia del realismo scientifico», per affermare con Torùrù che «la realtà non è un sillogismo della ragione» 31 contro le sempre presenti istanze fenomenistiche e teoreticistiche. Il «caso Boltzmann», preso in tutti i suoi risvolti scientifici e filosofici senza artificialmente dividere i due momenti, è un esempio storico di battaglia condotta in " F. SELLERI, Paradossi e realtà, cit., p. 17. '° Cfr. G. HoLTON, L'immaginazione scientifica, trad. it., Einaudi, Torino 1983, pp. 143-180. " Cfr. V. TONINI, La realtà non è un sillogismo della ragione, in «La Nuova Critica», I982, 62, pp. 3-8.

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nome della difesa della razionalità scientifica e dei suoi contenuti oggettivi; il suo è il tipico esempio di «quel fatto notevole nellà storia della scienza» che «è costituito dalla nascita di nuove teorie con basi filosofiche in contraddizione con quelle delle teorie più vecchie»". Per questo Boltzmann enuclea i nodi centrali di un nuovo quadro teorico che gli permette di uscire da uno stato epistemologicamente incerto, pur riconoscendo il carattere fisico-matematico in formazione delle sue costruzioni teoriche; getta le basi di una accurata e precisa visione realista, critica e razionale non compresa poco dopo da un realista metafisico e ingenuo come Perrin, che affidava ancora al potere dell'intuizione la capacità di cogliere la «strutrura nascosta dell'universo»». La differenza &a il programma realista ma intuizionista di Perrin e il «programma realista, ma critico e razionale» di Boltzmann" è evidente sul piano epistemologico, dove quest'ultimo aveva teorizzato il carattere storico, conoscitivo e nello stesso tempo oggettivo delle conoscenze fisiche, per aver operato e compreso il processo di matematizzazione della fisica necessario per seguire le ristrutrurazioni interne degli assiomi di base ed espellere dalla ricerca il ricorso a concetti intuitivi, dogmatici e assoluti. Pertanto per evitare che nel pensiero fisico si ripetano le sconfitte del programma realista, storicamente verificatesi prima con Boltzmann e dopo con Perrin, Einstein e de Broglie, occorre acquisire una consapevolezza logico-epistemologica delle strurrure delle teorie, dei suoi apparati e sistemi formali, come è avvenuto con notevoli risultati all'interno del movimento neopositivista, che però è approdato a concezioni fenomenistiche, talvolta con esiti strumentalistici circa il ruolo delle teorie. Il realismo critico e razionale, elaborato dunque per " F. SELLERJ, Paradossi e rtmtà, cit., p. 227 e M. PATY, uz malim dbobù, cit., p. 290. " Cfr. J. l'EluuN, Gli atomi (1913), trad. it., Ed. Riuniti, Roma 1981.

" Cfr. E. BELLONE, I modelli e la concezione del mondo, cit., p. 178.

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primo e in situazioni drammatiche da Boltzmann, costituisce un vero e proprio programma di ricerca di fisici e filosofi della fisica" di questa seconda metà del '900, anche perché permette di problematizzare le conoscenze scientifiche stesse senza cadere nelle interpretazioni convenzionalistiche date per spiegare il carattere autocorrettivo delle teorie e la loro processualità. Certo, oggi la ricerca fisica non si dibatte più fra la scelta del sistema deterministico e scelta probabilistica, ma studia le condizioni teoretiche e sperimentali per assegnare in modo esatto e non solamente statistico certe proprietà ai micro-oggetti; per questo qualsiasi «teoria non statistica dei mieto-oggetti», che richiede quindi la costruzione di una «teoria radicalmente diversa dalla meccanica quantistica attuale»" deve però evitare l'errore di Perrin, di ricorrere, cioè, all'esistenza di «variabili nascoste»; e come ha fatto Boltzmann, deve dotarsi di un quadro epistemologico ben fondato su un realismo fisico in senso forte per evitare fraintendimenti e slittamenti idealistici, ·atteggiamenti piattamente fenomenistici, posizioni filosofiche agnostiche. Per uscire dal grande «pasticcio dei quanti» e dal «labirinto quantistico»", occorre riproporre quel «realismo causale», di cui parlano Tonini e Selleri, che «è alla base di tutte le scienze della natura (astrofisica, geofisica, genetica ... ) e che non può essere abbandonato senza snaturare profondamente la metodologia scientifica»)I. Il «caso Boltzmann» è dunque un capitolo importante del nostro patrimonio scientifico e dello stesso patrimonio epistemologico; tenere presente le ripercussioni di questo caso può servire ai fisici e ai filosofi della fisica a non ripetere errori di natura metodologica e a non cadere in posizioni mistico-realistiche del tipo di quella di " Cfr. i lavori cit. di Tonini prima e dopo di Agazzi, Bungc, D'Espagnat, Scllcri, Paty. •• E. AGAZZI, Temi e problemi di filosofia della fisica, cit., p. H6. " F. SELLERI, Paradossi e rea/là, cit., p. 233. •• F. SELLERI, L'altro labirinto, in «La Nuova Critica•, cit., pp. 37-38.

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Perrin. La stessa storin della filosofia della fisica, cosl, può essere uno strumento utile per prendere coscienza sul piano storico-epistemologico della natura dei problemi della fisica quali concretamente si sono verificati nei singoli casi, anche perché evidenzia nettamente In non-neutralità filosofica delle teorie scientifiche; nello stesso tempo serve a chiarire concettualmente gli stati epistemologicamente instabili delle teorie di fronte all'emergere di problemi e risultati non del tutto inseriti in un quadro teorico preciso. La filosofia della fisica, quindi, e le sue vicende permettono di acquisire un'adeguata presa di coscienza della pluralità degli approcci e delle «scelte» operate nell'ambito del pensiero fisico, con il conseguente arricchimento dello stesso patrimonio conoscitivo; la «svolta realista» operata da Boltzmann e il «realismo critico razionale» propugnato in questi ultimi anni da alcuni fisici e filosofi della fisica sono esempi concreti di un approccio pluralista verso i fondamenti di tale disciplina e ne possono permettere progressi reali.

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Recenti sviluppi dell'astrofisica Carlo De Marzo*

L'utilizzazione dei risultati della fisica nucleare e subnucleare per lo sviluppo di teorie astrofisiche risale agli inizi degli aruù Trenta. Molto più recentemente invece si è stabilito un capitolo della Fisica denominato Particle Astrophysics ovvero, con traduzione approssimativa dall'inglese, Astrofisica delle particelle. La consistenza del fenomeno poggia sull'esistenza di una produzione scientifica pubblicata, su serie regolari di congressi, su programmi di ricerca finanziati e su analoghe attività espressamente dette «Particle Astrophysics». Che cos'è la «Particle Astrophysics»? È opportuno definirla attraverso i problemi che tratta, ossia attraverso quello che fa (1). Perciò alcuni riferimenti.

Cronologia schematica della «Particle Astrophysics» - 197 3-74

19 80 circa

Inizia una produzione teorica, successivamente detta «Grand Unified Theories» (GUT), che prevede l'unità delle forze fondamentali ad energia abbastanza elevata (Glashow, Salam, Weinberg - Nobel nel 1979). Parte la generazione di acceleratori con ener-

* Dip. di Fisica, Università di Bari. 143

- 1980 circa

- 1983

- 1985

- 1987

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gia sufficiente n sottoporre a test l'unificazione elettrodebole. Tempo di realizzazione previsto: 6-8 anni (2). L'attenzione si appunta sulla possibile instabilità del protone, prevista dalle GUT. Per sottoporre a test questa previsione parte la prima generazione di esperimenti sul «proton decay»; i relativi apparati sono tutti localizzati in laboratori sotterranei. Si calcola che la vita media del protone debba essere dell'ordine di 10E31 anni. Tempo di realizzazione previsto per gli apparati: 2-3 anni. Parte un programma di ricerca congiunto tra Fermilab e NASA per lo studio dell'interfaccia tra «lùgh energy physics and astrophysics». Appare lo slogan: «Usare il Big Bang come acceleratore» (3, 4, 5). Al Cern, dove si bruciano le tappe realizzando il C.Ollider, vengono prodotte le particelle W e Z mediatrici dell'interazione elettrodebole, (Rubbia · Nobel nel 1984). La prima generazione di esperimenti sul «proton decay» non verifica le previsioni, il protone è più stabile di quanto atteso. Viene posto un limite maggiore di 10" anni. Si capisce che gli apparati per il «proton decay» sono anche dei buoni osservatorii di raggi cosmici. Alcuni di questi apparati comunicano di aver rilevato un possibile segnale dalla sorgente astrofisica di raggi X Cygnus X3. Parte la seconda generazione di apparati sotterranei (Laboratorio del Gran Sasso). C.Ompare la supernova di Sheldon (SN1987A).

In coincidenza con la rivelazione ottica della SN1987A alcuni apparati «underground» rivelano un segnale di neutrini, indicativo del processo che ha trasformato in supernova la stella. Nasce cosl l'astronomia neutrinica. Come campione, che non pretende esaurire l'insieme dei congressi che si tengono sul tema, riportiamo (6): 1983 1983

- 1986

- 1988

- 1984

1987 19 88

- 1988

lnternational Colloquium on Matter Non Conservation, Frascati, Italy. 1st ESO-CERN Joint Symposium: Large scale structure of the Universe, cosmology and fundamental physics, CERN, Switzerland. 2nd ESO-CERN Joint Symposium: Cosmology, astronomy and fundamental physics, Garching, FDR. 3rd ESO-CERN Joint Symposium: Astronomy, cosmology and fundamental psysics, Bologna, Italy. Inner Space/Outer Space: A Conference on Physics at the interface of Astrophysics/Cosmology and Particle Physics, Fermi National Accelerator Laboratory, USA. Scientific Meeting on Physics and Asttophysics in the Space Station Era, Venezia, Italy. lnternational School of Parti de Astrophysics, 2nd Course: Dark matter in the Universe, Erice, Italy. Particle Astrophysics Workshop, Lawrence Berkeley Laboratory, USA.

Il contesto concettuale Emerge dai suddetti riferimenti che la «particle astrophysics» si dà il problema di legare in un discorso scientifico 145

unitario macrofisicn e microfisicn, fisica nlln scnln dell'universo e fisica nlla sc1ùa delle particelle elementari. Il quadro concettuale in cui avviene questa unificazione ha per riferimento il modello del «big bnng» sul fronte dell'astrofisica e l'idea della grnnde unificazione delle forze fondamentali sul fronte della fisica subnuclellre. li big bang, come modello cli un universo soggetto ad un processo evolutivo che inizia da un tempo zero calcolabile in base alle condizioni fisiche del presente, si afferma definitivamente dopo il 1965, i principali fatti osservativi che sostengono questa concezione sono: - il «red shift» delle galassie lontane, indicativo cli una velocità di espansione dell'universo proporzionale alla distanza tra gli oggetti; - l'esistenza di una radiazione cli fondo con elevato grado di isotropia, interpretata come residuo fossile delle condizioni fisiche primordiali; - l'abbondanza relativa degli elementi leggeri nel cosmo. Indicativa del profondo influsso che la fisica delle particelle elementari esercita oggi sulla cosmologia è la larghissima accettazione della teoria dell'«universo inflazionario» («inflationary uni verse») avanzata da Guth nel 1980 (7 ), che collega la cosmologia dei primi istanti dopo il bing bang con la teoria dell'unificazione delle forze fondamentali. A ciò vanno aggiunte un certo numero cli altre questioni, ciascuna delle quali appare degna di un programma cli ricerca adeguato a risolverla: - La stabilità dinamica delle galassie richiede che si postuli l'esistenza cli una materia oscura («dark matter») in aggiunta a quella osservabile perché luminosa. Se questa «dark matter» effettivamente esiste, e quali ne siano i costituenti, è problema da risolversi con la ricerca. - L'ipotesi della «dark matter» stringe un saldo legame tra fisica delle particelle e cosmologia avendo altresl la funzione di permettere una teoria della formazione delle galassie 146

coerente con i dati osservativi. Ad essa si collegano varie altre questioni, come ad esempio la eventuale massa dei neutrini o l'esistenza di altre ipotetiche particelle. Inoltre il problema, non risolto, della quantità totale di materia nell'universo è l'elemento necessario per prevedere il suo destino ultimo. - La possibile presenza di antimateria nel cosmo costituisce un'ulteriore linea di ricerca e può rappresentare elemento decisivo di validazione della cosmologia del big bang. Un'analoga ruolo potrebbe essere svolto dalla rivelazione di monopoli magnetici. Cosl, nel quadro della cultura moderna la Fisica diventa propriamente titolata a dire sulla Cosmologia che è diventata nient'altro che un capitolo della Astrofisica. Attraverso il problema della stabilità del protone anche l'antica questione filosofica della permanenza della materia viene sotto controllo scientifico. Nella sua ultima formulazione, ossia come conservazione del numero barionico, essa viene questionata e posta sotto test. Concettualmente la tematica dell'unificazione delle forze fondamentali continua una tradizione di antica data che ha conseguito importanti risultati, ormai consolidati nelle più fondamentali teorie della Fisica. Postulare l'unità delle forze implica assumere l'idea di un'intrinseca razionalità del mondo (a livello fisico), con l'impegno di una verifica sperimentale. Il dato da sottolineare è come in questo campo disciplinare - e non è il solo - la soluzione dei più fondamentali problemi conoscitivi richieda una sperimentazione che impiega le più sofisticate tecnologie nella realizzazione di imprese scientifiche stupefacenti. Laboratori di elezione della Particle Astrophysics sono i laboratori sotterranei, ma anche le piattaforme spaziali, senza con questo escludere le più avanzate macchine acceleratrici. Diamo in conclusione un elenco dei principali laboratori dedicati alla Particle Astrophysics.

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Underground laboratories Apparecchiature sotterranee per la misura di raggi cosmici erano in funzione già da tempo. Per esempio, nel 1963 un apparato sperimentale per raggi cosmici aveva cominciato le misure in una sala scavata nel tunnel del Monte Bianco. Con lo stabilirsi della Partlcle Astrophysics, secondo quanto detto sopra, impianti di questo genere si moltiplicano e si potenziano. - Monte Bianco

- Kolar Field

- Soudan I

- 1MB

- Homestake - Kamioka - Frejus

- Gran Sasso

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- Traforo stradale tra Italia e Francia. Laboratorio italiano. Funziona in varie versioni dal 1963; ha una copertura di roccia equivalente a circa 5000 metri di acqua. - Miniera d'oro della Barath Gold Mines Ltd. India, Operativo ott. 1980. Profondità 7600 m.w.e. - Miniera di ferro, Minnesota: Comincia a misurare nell'ottobre del 1981. Orca 2000 m.w.e. - Miniera di sale della Morton Thiokol Salt Mine, Oeveland, Ohio • Dal 1982, 1600 m.w.e. - Miniera d'oro, South Dakota. Operativo gen. 1983. 4200 m.w.e. - Tokio, Operativo luglio 83, 2700 m.w.e. - Traforo stradale tra Italia e Francia. Laboratorio francese. Lo scavo comincia nel 1982, il montaggio dell'apparato nell'83, i test nell'85. 4400 m.w.e. - Traforo stradale in Abruzzo. Lo scavo inizia nel 1982 circa; il montaggio degli apparati a fine 1987; le misure agli inizi del 1989. La profondità è 4000 m.w.e. All'esterno, al sommo della montagna, è situato un apparato per la misura di sciami

- DUMAND

estesi cli raggi cosmici che consente misure in coincidenza con gli apparati sotterranei. - Sarà propriamente un apparato sottomarino. Il progetto è in sviluppo e prevede l'installazione cli un apparato cli rivelazione cli neutrini ed altre particelle penetranti a 5000 metri cli profondità al largo delle Hawai. La stessa. acqua dell'oceano partecipa del rivelatore che sarà un cubo cli 500 metri cli lato.

La copertura cli roccia dei laboratori sotterranei, più o meno spessa secondo i casi, ha la funzione cli filtrare la componente cli bassa e media energia dei raggi cosmici lasciando penetrare quella a più alta energia. Il fattore cli riduzione dell'intensità è considerevole, un milionesimo nel caso del Laboratorio del Gran Sasso. Questo fatto permette inoltre di disporre di un ambiente a bassa radioattività ambientale in cui è possibile indagare fenomeni rari che sarebbero altrimenti sommersi dal fondo cli radioattività naturale.

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Bibliografia I. Secondo alcuni alltorì: «[pnr1ìcle nstrophysics] ... ìs the attempt to

2. 3. 4. 5.

6. 7.

unders1and 1he nucleosynthesìs, ncceleru1ion and subsequenl hìstory of these [cosmic rnys] e,memely energe1ìc, presumably galnc1ic, parti• des». cìt. d11 ÙRMES J.F., Searchi11g /or 011/ima/ler /ro111 the Space Statio11. Sta in Proc. of Conf. on Physic and Astrophysics in 1he Space Station Era; Venezia 4-7 011. 1987. « To put the new elec1roweak theory really 10 1he test, the LEP project ìs being proposed to open up a new energy range wi1h ideai expcrimcmal conditions». «Cern Courier», maggio 1980, p. 114. Fermìlab Report, seuembre 1983, p. 13. Ellis J.. Nanopoulos D., Particle physics and cosmology. «Cern Courìer», luglìo/agos10 1983, pp. 211-16. In ques1a affermazione sì rifle11e la consapevolezza del fauo che alcune previsioni teoriche fondamentali comportano energie evidentemente inaccessibili a qualunque tecnica di labora1orio. Le dimensioni ed il costo di un accelera1ore crescono con il quadralo dell'energia. Con le tecnologie di accelerazione a11ualmen1e concepibili, occorrerebbero macchine lunghe vari anni luce. Gli ani di ru1ti i congressi ci1ati sì tr0vano pubblicati in corrispondenti ,'Olumì. Guth A.H., lnflationary universe: A possible solution lo the bori.on and flatness problems. «Physìcal Rcview» D23 (1981) 347-56. Linde A.D., A new infla1ionary unìverse scenario: A possible solution of the horizon, flamess, homogeneiry, isotropy and prìmordial monopole problems. «Physics Leners» 108B (1982) 389.

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Crescita di un nuovo paradigma in chimica: relazione tra energia materia ed informazione e nuovo approccio creativo per la educazione chimica Paolo Manzelli*

Abstract Chimica è lo studio della trasformazione della materia. La trattazione di tale trasformazione non implica il concetto di «informazione», quindi tutti i fenomeni chimici che correlano le trasformazioni chimiche alla elaborazione di informazione in Natura restano attualmente cli difficile interpretazione. Il presente articolo affronta la problematica generale del «Modelli Scientifici della Realtà», in un ampio contesto di riflessione che tende a far emergere necessità di sviluppare un nuovo paradigma interpretativo, tramite il quale ogni trasformazione chimica possa essere spiegata sulla base di una concezione integrata delle relazioni tra Energia/Materia/Informazione. La metodologia cli integrazione concettuale, congeniale a tale impostazione costruttivistica dei modelli scientifici della realtà, introdotta nel sistema educativo, è finalizzata a favorire una rinnovata coerenza logica dello sviluppo delle varie discipline specialistiche, in modo che esse possano ricondursi comprensibilmente ad una fondamentale unità della scienza.

• Lab. di Ricerca Educativa • Dip. Chimica Università di Firenze.

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Premessa • Un fenomeno che connette energia materia ed in/orma;ione: la Co1111micavone Chimica Conviene iniziare tale riflessione sulle relazioni concettuali tra energia materia ed informazione ponendo attenzione al tema della comunicazione chimica. Quest'ultima concezione è stata coniata in relazione al fatto che conosciamo diversi modi con cui in Natura viene comunicata informazione: le farfalle ed altri insetti comunicano tra loro tramite «feromoni» (parola derivata da «Ferein»portare e «Hormon»-eccitare), con i quali realizzano un linguaggio che si basa sulla emissione cli particolari sostanze chimiche. La «comunicazione chimica» è utilizzata come sistema di scambio cli informazione dagli organismi viventi (piante ed animali), più semplici ed antichi, che non hanno né occhi né orecchie per registrare le vibrazioni luminose o sonore provenienti dal mondo esterno. Negli animali superiori è rimasto importante il linguaggio chimico, in particolare quello degli odori, sia per tracciare confini come notoriamente usano fare cani e gatti ed altri animali sia per molteplici indicazioni segnaletiche che suscitano, come ad esempio nei pesci, variazioni nel comportamento del branco sul piano emozionale e sessuale. Possiamo però pensare, che in realtà, ogni modalità di trasmettere percepire ed elaborare informazione degli animali superiori, rappresenti un evoluzione delle primarie capacità di comunicazione chimica, che nei sistemi più evoluti sono associate ad un elevato grado cli specializzazione nell'utilizzazione delle trasformazioni chimiche che avvengono alle sinapsi nel cervello o nella regolazione dei rapporti corpo/mente realizzata dagli ormoni. Tali considerazioni preliminari ci fanno capire come l'approfondimento degli srucli della «comunicazione chimica», considerata al livello cli generalizzazione sopra indicato, potrà realizzare un avanzamento cognitivo, anche in relazione alle nostre modalità di percepire conoscere e comunicare.

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Sappiamo che il risultato della nostra capacità di comunicare e conoscere è dovuto a tutta una serie di attività di trasformazioni biochimiche che traducono i dati ricevuti dai ricettori sensoriali in messaggi tra cellule, controllati dai neurotrasmettitori chimici i quali accelerando od inibendo il metabolismo dei neuroni, modificano i flussi di sangue che percorrono il nostro cervello. Un tale sistema di trasduzione ed elaborazione delle nostre relazioni sensoriali con l'ambiente è proprio quello che tra l'altro ci permette di realizzare ogni nostra rappresentazione del mondo.

I modelli sdenti/id ed il problema cognitivo

In vero possiamo riconoscere che il problema cognitivo che ·ci riguarda direttamente, ancora non è stato posto in termini di analisi delle relazioni generalizzate tra «energia materia ed informazione», e ciò in quanto, in relazione alla griglia conoscitiva che abbiamo sviluppato nella scienza a partire dalla Renè Descartes (1596-1650), i problemi relativi al nostro pensiero sono certamente da considerarsi fenomeni talmente com plessi da farci scartare a priori ogni ipotesi di realizzare una loro interpretazione scientifica. È possibile però supporre che la complessità del fenomeno della «comunicazione chimica», in special modo per ciò che riguarda il nostro stesso sistema di apprendimento e di risposta comportamentale ai cambiamenti ambientali, sia in gran parte una conseguenza della nostra incapacità di interrogare la natura, a cui noi stessi apparteniamo, sulla base di concezioni che permettano di comprenderlo in modo più semplice ed unitario. Pur ammettendo le difficoltà di rielaborazione cognitiva a cui indubbiamente andiamo incontro, iniziando a pensare a questi problemi nell'ambito della struttura concettuale della chimica, riteniamo che comunque sia importante domandar153

si: q11ali so110 i criteri che ci permelleran110 di capire la natura

del pe11siero 111110110 come risposta della elaborazione di sensazioni esteme ed i11teriori? Ragionevolmente le difficoltà che incontriamo nel tentare di impostare una risposta scientifica ad una tale domanda, a nostro avviso, indicano con evidenza che il nostro consueto modo di pensare a questo essenziale problema cognitivo, si svolge sulla base di categorie insufficienti per sviluppare un discorso razionale attorno alla domanda che ci siamo proposti. In seguito a tali riflessioni preliminari, la ipotesi principale che facciamo, nel dare inizio alla nostra «ricerca educativa» sulla «chimica della comunicazione», deriva dalla considerazione che, quanto ci impedisce di realizzare una più completa interpretazione cognitiva del fenomeno con cui le informazioni che ci provengono dal mondo esterno, vengono decodificate e attivamente ricodificate in sensazioni immagini e pensieri, viene ad essere conseguenza del fatto che i parametri fondamentali che la scienza contemporanea ha messo in correlazione nel tradizionale paradigma interpretativo di stampo «meccanicistico», sono sostanzialmente relativi ai concetti cli «Energia e Materia», mentre le relazioni concettuali tra Energia/Materia/ed Informazione, solo in epoca molto recente hanno iniziato ed essere prese in maggiore considerazione. È utile ricordare che il riduzionismo meccanicistico della fisica classica fu aspramente contestato dal così detto padre della Oùrnica moderna, Robert Boyle (1627-1691), il quale considerava logicamente limitato il modello concettuale con cui la scienza Newtoniana studiava le relazioni reciproche tra i corpi come «proprietà oggettive», indipendenti dalle qualità sensibili del soggetto interprete, cui sono in realtà relative. Criticando il mondo geometrizzato e grigio del meccanicismo, che considerava colori, odori e sensazioni come qualità secondarie, nel suo libro Experimental History o/ Colours, Boyle mise in evidenza come certamente ci si esprime in termini cli una «fittizia-oggettività» della scienza, in tutti i casi in cui si prescinde dal fatto che esperienze ed interpretazioni 154

degli scienziati sono comunque cli indole soggettiva. Nella sua opera egli, per primo, descrisse come dal succo di fiori di violette si possa realizzare un «indicatore», che vira al rosso in •sostanze acide e si trasforma in un bellissimo verde con sostanze alcaline; l'importanza del colore, quale sensazione propria del soggetto, era, quindi decisiva per ogni scienza, che evitando un puro idealismo, voglia essere dotata di umana ragionevolezza, sviluppandosi sulla base degli esperimenti (1). Boyle, derivava questa sua critica alla parvente oggettività della fisica Newtoniana, da una riflessione introdotta già dal filosofo francese Pierre Gassencli (1592-1655) sulla concezione Epicurea dell'Atomo. La riscoperta della filosofia Greca fu all'inizio dell'epoca industriale un campo cli ampio dibattito nella scienza, ed un cardine di tale discussione, che divise all'epoca gli scienziati in Cartesiani e Gassenclisti, fu proprio la concezione di Atomo, quale base della concezione scientifica della materia. In sintesi il nodo del contendere era proprio attorno alle modalità di costruzione della conoscenza scientifica, che derivava dalla riflessione sulla ingenuità di pensare alla materia come generatrice cli forme, indipendentemente dalla conoscenza del funzionamento delle nostre modalità di percezione. Ricordiamo infatti che mentre Leucippo e Democrito introdussero il concetto di Atomo, come principio logico non sensibile, Epicuro, circa 150 anni dopo, criticò in quanto non obiettiva ogni descrizione, ivi compresa quella di Atomo, vista in termini cli quantità intellegibile non sensitiva, e a sua volta descrisse la concezione cli Atomo come «in/onn11zione-minima», percettibile dai sensi e pertanto successivamente concepibile, come elemento fondamentale della costituzione della materia, in termini cli ragionamenti interpretativi (2). Rifacendosi alla impostazione Epicurea rielaborata da Gassendi, lo scetticismo cli Boyle nei riguardi della impostazione meccanicistica della scienza Newtoniana, fu molto accentuato ed esso è rimasto sotteso alla struttura concettuale della chimica moderna, come abbiamo voluto sottolineare in alcuni nostri articoli (3), (4). 155

Inoltre in occasione di una relazione ad un recente convegno, nel quale abbiamo delineato alcuni aspetù della nostra impostazione criùcn e costruttivista del rinnovamento educativo in clùmica, abbiamo sottolineato proprio, come in conseguenza alla consueta concezione meccanicisùca della scienza, il concetto di «informazione» pur essendo decisamente importante nel mondo contemporaneo, riveli ancora un significato ben poco integrato con le altre concezioni scientifiche fondamentali. Spesso il concetto cli «informazione» viene infatti correlato in modo posticcio nelle spiegazioni scientifiche, tramite il ricorso ad analogie e metafore; classiche ad esempio sono quelle del «Programma Genetico» e dell'adattamento del tipo «Chiave/Serratura» in proposito del riconoscimento molecolare, metafore quest'ultime, utilizzate comuneipente in Biologia, senza che ancora il concetto di «informazione» sia stato opportunamente derivato, secondo una ragionevole logica, dalle interazioni tra energia e materia (5) (Vedi fig. 1). Ci proponiamo ora di analizzare ancora più puntualmente le relazioni concettuali che plausibilmente sussistono tra «Energia, Materia ed Informazione» (relazioni che nel loro complesso chiameremo paradigma E/M/1), ragionando in modo da capire se sia possibile costruire una base concettuale nella scienza, più adeguata per dare risposta alla precedente domanda sulla natura del pensiero; questo nostro tentativo va visto in relazione al progetto di ricerca educativa sulla analisi del significato scientifico .della «comunicazione clùmica» in natura, concetto la cui spiegazione presuppone un approfondito chiarimento delle relazioni E/M/1. Ricordiamo innanzirutto che per primo Albert Einstein sollevò la questione di quante dovessero essere le variabili fondamentali necessarie per realizzare una interpretazione significativa e generalizzata della scienza. Einstein giunse a questa proposizione, a volte detta delle «variabili nascoste», dopo una profonda riflessione fatta in età avanzata che lo portò a ripensare agli insegnamenti del

156

INFORMATION

o

GENETICS

DEPT. 2ND FlOOR

Fig. 1

suo professore della scuola di Aarau vicino a Zurigo, sulle relazioni tra invarianza e mutamento delle regole di trasformazione del linguaggio (6). Il dr. Jost Winteler (questo era il nome del professore di Einstein da lui ricordato con affetto ed elogio) era approdato alla piccola scuola cantonale di Aarau proprio in quanto emarginato dalla ricorrente incomprensione dei colleghi che lo accusavano di essere più rivoluzionario e più rosso dei socialisti a causa delle sue teorizzazioni sulla relatività configurazionale (Relativitat der Verhiiltnisse), con la quale egli aveva impostato lo studio delle regole di trasformazione del linguaggio, correlando la struttura linguistica dei significanti (signans) al processo evolutivo di comunicazione di significati (signatum). 157

L'adolescente Einstein che ern capitato ad Aarau dopo essere stato escluso dal Liceo Oassico di Monaco di Baviera e dall'Istituto Tecnico Federale di Zurigo, apprese quelle concezioni relativistiche sul linguaggio sviluppandole successivamen• te nell'ambito del pensiero scientifico; ma ancora da anziano considerava attentamente la notevole lungimiranza del suo maestro, ricordando l'importanza che egli attribuiva agli esperi• menti mentali, i quali ipotizzano soluzioni innovative, nel rispetto delle regole di trasformazione dei significati del linguaggio; quest'ultime si fondano sulla logica della «integrazione concettuale», tra vecchi e nuovi significati, in modo che tra invarianza e mutamento si possa realizzare una continuità di pensiero. La ricerca educativa che qui proponiamo per somme linee, prende spunto dalla considerazione che ciò che limita la nostra capacità cli pensare scientificamente alla formazione del nostro pensiero, sia intrinseco alla carenza di significanti e cioè di elementi concettuali di base, necessari come variabili fondamentali della descrizione scientifica. Pertanto al fine di superare le barriere limitative del nostro consueto modo cli pensare, riteniamo necessario rileggere con attenzione lo sviluppo concettuale dei principi interpretativi della scienza (nel nostro caso quelli che riguardano le relazioni tra E/M/I), proprio allo scopo di ricercarne una integrazione-concettuale, che favorisca lo sviluppo della interpretazione scientifica del significato della «comunicazione chimica» e della sua evoluzione in Natura.

Considerazioni sulle relazioni tra Energia e Informazione

Iniziamo questo paragrafo ricordando che l'interpretazione scientifica del concetto cli Informazione ha una data molto recente, generalmente a tale proposito viene indicata quella del lavoro di C.E. Shannon del 1948 dal titolo The Mathemati-

cal Theory o/ C-Ommunication (7). 158

Il contributo di Shannon alla teoria dell'informazione è essenzialmente limitato a definire una misura quantitativa nella trasmissione di informazioni e quindi, considerando che si trasmettono segnali e non significati, egli non si pose il problema di quali connessioni strutturali esistano tra i dati informativi e come si acquisisce informazione. Comunque per quanto la relazione di Shannon abbia un carattere disegnato da specifiche esigenze tecnologiche è importante comprendere la relazione che egli descrisse per definire quantitativamente le correlazioni tra Energia ed Informazione. In sintesi Shannoa dice: indicando con «X» la conoscenza di una determinata questione «Q» la probabilità «p, » di ottenere una particolare risposta (i), viene descritta dalla seguente relazione: S (Q:X)

= - k :E, p, In p,

(k

= fattore di scala arbitario)

nella quale con «S» viene indicata la funzione di incertezza od Entropia associata alla conoscenza «X» di modo che, se « p» assume valore zero [O], non si ha alcuna risposta a Q sulla base di X, se «p» assume valore uno [I], la risposta è univocamente certa; in tutti gli altri casi ha una probabilità più o meno ampia di trasmettere e ricevere informazioni. La quantità di informazione trasmessa si ottiene dalla differenza tra conoscenza X emessa dal" generatore e la conoscenza X' appresa dal ricevitore; simbolicamente nel formalismo di Shannon si ha: I

=

S' (Q : X') - S (Q : X).

Quanto sopra significa che, l'informazione relativa ad una data questione (Q costante), per essere definibile, ha necessità di essere correlata a due differenti stadi di conoscenza; ha infatto un senso parlare di scambio di informazione, soltanto se i messaggi recepiti producono una variazione dei precedenti stati cognitivi.

=

159

Shnnnon utilizzò tale importante relazione per giungere alla miglior codificazione di un testo nell'effettuare una trasmissione di dati, utilizzando il BIT, (Blnary DigiT), quale unità di Informazione: infatti la cifra binaria (0/1 «SI : NO»), rappresenta la condizione basilare di incertezza. Il ragionamento che lo condusse ad una tale concezione della Informazione è sostanzialmente questo: si distrugge informazione quando due situazioni precedentemente distinte divengono indistinguibili: quindi il limite minimo del discernimento è definibile da una codificazione binaria, la quale rappresenta la discontinuità elementare della quantità di informazione che è possibile estrarre, tramite il campionamento di differenze di- valori, da una funzione continua, quale è la Energia. Nei sistemi fisici di trasmissione dati, ogni volta che viene dissipata energia come calore (rumore termico), proporzionalmente si distrugge la corrispondente possibilità di campionamento e quindi si disperde informazione (rumore di fondo della trasmissione dati). Queste osservazioni ci permettono di comprendere l'equivalenza tra la funzione «Entropia» introdotta da Shannon e la definizione di «Entropia» (indicata sempre con «S» ), introdotta da R. Clausius nel 1864, nel suo trattato sulla teoria del calore, come rapporto tra quantità di calore, (Qr - scambiata in un processo termico reversibile tra i differenti stati x de x'), e la temperarura in gradi assoluti (T"); (S è il simbolo matematico della operazione di integrazione): ·

=

S - S'

=

§ (x -

x') dQr/T°

Ricordiamo che fu Rudolf Clausius (1822-1888), colui che coniò per primo il concetto di Entropia, traendolo da Greco Antico En-(dentro), Tropos-(Direzione), che pertanto etimologicamente significa, trasformazione interna, ovvero evoluzione del sistema (8). Dal confrnto delle due definizioni di entropia otteniamo 160

che l'evoluzione del sistema di trasformazione del calore viene ad essere correlata all'informazione scambiata nel sistema. T aie equi valenza discende infatti soltanto dalla supposta analogia tra le due definizioni di Entropia di Shannon e di Clausius, che emerge dal paragone di come degrada la energia in calore e come si disperde la informazione. Il trattamento della teoria dell'informazione, iniziata da Shannon, ha gettato un ponte concettuale tra il mondo degli eventi fisici, tradizionalmente considerato esterno a noi, e gli eventi mentali e psichici interpretati come più propri del soggetto; bisogna però diffidare di facili estensioni che superano la dimensione nella quale Shannon ha individuato il problema delle relazioni Energia/Informazione. Dobbiamo considerare infatti che la teoria di Shannon, al di là della sua utile applicazione tecnologica in relazione alla trasmissione dei dati, che ci mette in condizione di conoscere per ciascun tipo e distanza e tempo di trasmissione (radio, T.V., radar, ecc.), di quanta energia per Bit abbiamo bisogno, risulta poco generalizzabile a qualsiasi caso in cui si vogliano studiare i criteri di elaborazione della informazione in natura. Quanto sopra discende in primo luogo dal fatto che l'attrito e quindi il calore non sono una condizione necessaria per elaborare informazione (9); quest'ultima costatazione è importante per iniziare a capire quali siano i limiti interpretativi delle relazioni tra Energia ed Informazione nel profilo concettuale dèlla scienza contemporanea. In primo luogo balza alla mente il fatto che Shannon, avendo collegato la informazione al calore per ottenere utili informazioni tecnologiche sui rapporti tra Energia e contenuto informativo trasmesso, ha realizzato soltanto una correlazione parziale dei rapporti Energia/Informazione, escludendo anche alcune forme di energia, che in condizioni di equilibrio dinamico non generano calore e quindi non sono incluse nella definizione di Entropia di Clausius, quali la gravitazione universale, l'energia di rotazione, le energie di movimento orbitale e di spin degli atomi, la trasmissione di energia in un supercondut-

161

tore; tutte forme di Energia queste ultime a cui corrisponde Entropia termodinamica ugu1tle a zero. Shnnnon inoltre, limitando In relazione tra informazione ed energin ni soli processi «reversibili», indubbiamente non prende in considerazione tutta la importante problematica delle relazioni che si instaurano tra qualità della energia ed i11/orma::io11e; relazioni che si rendono evidentemente importanti nelle trasformazioni energetiche evolutive. La Energia non è rappresentabile concettualmente da un tutto indifferenziato la cui unica proprietà postulata è quella che non si crea ne si distrugge; quando ad esempio si hanno trasformazioni di energia generate da processi detti di «autoorganizzazione», la trasformazione viene ad essere caratterizzata da un fattore di crescita della «qualità della energia»; quest'ultima concezione è necessaria per interpretare il fatto che nei processi a ciclo irreversibile, l'input di energia è qualitativamente diverso dall'output energetico del processo. H. Odurn, recentemente, considerando trasformazioni cicliche evolutive di un eco-sistema, indica con il nome di «trasformity» la energia di un tipo richiesta per ottenere una unità energetica gerarchicamente superiore nella scala qualitativa delle energie (1 O). Questa gerarchia delle forme energetiche (termica, meccanica, elettromagnetica, chimica, ecc ... ), dipende in sostanza proprio dalla capacità del sistema di includere informazione nel processo di trasformazione dell'energia; la irreversibilità in tal modo viene ad essere conseguenza del fatto che il dato di ingresso non può essere confrontato con quello di uscita, a causa del fatto che viene inglobata informazione dal processo di trasformazione delle forme di energia. Per poter descrivere come da energia di bassa qualità come il calore si passi ad altre forme energetiche qualitativamente migliori, Odum, definisce come «EMERGY» (Energy Memory) il prodotto tra Energia ed Informazione. Possiamo concludere queste osservazioni sulle relazioni tra Energia ed Informazione, considerando come anche i tenta162

tivi sopra indicati cli codificare nuovi vocaboli scientifici, mostrano con evidenza quanto questa problematica della scienza contemporanea sia attuale ed apertissima a vari tipi di ulteriore sviluppo concettuale.

Considerazioni sulle relazioni tra Materia ed Informazione Recenti avanzamenti della Biologia iniziano a trattare le relazioni che sussistono tra le trasformazioni tra materia ed informazione non limitando più la concezione della informazione alla sola genetica; così la concezione della «informazionebiologica» non si esaurisce esclusivamente in relazione al sistema di «codificazione protetta», propria del D.N.A., molecola, che come è noto, dirige la sintesi delle proteine in una cellula. Le relazioni «Materia/Informazione», vengono infatti generalizzate nell'intento cli studiare i processi catalitici prodotti da proteine dette bio-catalizzatori od «enzimi» (enzima dal Greco En-dentro e Zyme lievito, poiché sono utilizzati nei processi di fermentazione). Sappiamo che senza enzimi la maggior parte delle reazioni chimiche, non avverrebbero in tempi brevi, poiché le molecole che interagiscono spesso sono molto stabili; gli enzimi accelerano le reazioni chimiche, realizzando le sequenze di interazione atomiche che provocano la trasformazione. Essi hanno un ruolo di riconoscimento ed informazione molecolare ( 11 ), ( 12). Per esemplificare quanto abbiamo appena detto, consideriamo come zucchero ed ossigeno dell'aria non reagiscono, finché non viene aumentata la quantità di calore per mezzo di una fiamma provocando la combustione dello zucchero; sappiamo però che lo zucchero, all'interno di un processo metabolico contenente enzimi, viene ridotto ad acqua e anidride carbonica a temperatura ambiente; ciascun enzima controlla un particolare passaggio della reazione cli ossidazione, così che, il processo enzimatico in sostanza, sostituisce informazione ad

163

energia, per ottenere un differente e più rapido andamento del processo di ossidazione dello zucchero. L'indagine delle relazioni, un informazione e materia, utili ad interpretare più in generale tutti i fenomeni catalitici {dal Greco Katà-in profondità e Lysis-sepnrazione) è complicata per il fatto che gli studi delle trasformazioni chimiche « auto-catalitiche» di sistemi aperti a scambi di energia e materia, non sono trattabili unicamente in base alle relazioni ua materia ed informazione, del tipo di quelle con cui è stato intrapreso lo studio analitico delle «codificazioni» delle basi {in termini di «linguaggio biologico»), come nel caso classico delle studio del D.N.A. A nostro avviso, anche per introdurre nella trattazione della catalisi chimica, il concetto di «informazione», riteniamo che sarà necessario trattare in termini generalizzati le interazioni tra energia materia ed informazione.

Osservazioni sulle relazioni tra energia/materia/informazione Per delineare l'esigenza di definire una struttura integrata di questi concetti entro un paradigma generale (E/M/1), con il quale le varie discipline scientifiche possano confrontarsi, sicure di comunicare tra loro su una base concettuale comune, è opporruno riferirci in pratica alla osservazione di semplici esperimenti di chimica, noti da molti anni, che vengono spesso trascurati dall'attenzione della ricerca scientifica, proprio in quanto la loro interpretazione non sembra ancora rientrare pienamente nel dominio cognitivo tradizionale della chimica (14). Prendiamo ad esempio in considerazione le «reazioni oscillanti» (14 e 14') e gli Anelli di Liesegang (15). Tali reazioni sono state considerate, ua i migliori esempi adatti ad illustrare la tendenza della comunità scientifica a non prestare attenzione ad osservazioni di fenomeni, quando questi ultimi, anche se sono sicuramente riproducibili, non sono spiegabili entro il quadro delle teorie comunemente accettate. 164

Infatti le reazioni oscillanti, dette anche di Belousov-Zhabotinsky, oppure «clock-reactions», sono ben note fin dal 1828 (16), ma essendo fenomeni che avvengono in condizioni lontane dall'equilibrio termodinamico, e che mostrano andamenti non-lineari dei potenziali di ossido-riduzione, i quali oscillano ad ogni ciclo da riducenti ad ossidanti e poi di nuovo a riducenti nel mentre le temperature locali variano ritmicamente con la evoluzione del fronte di reazione da valori più bassi a più elevati per tornare ai valori precedenti ecc ... sono state considerate, fino ad epoca recente, per Io più dei divertenti giochi, utilizzabili prevalentemente da prestigiatori, anzi. ché studiati da seri ricercatori scientifici. Un simile atteggiamento mentale è stato riservato dalla scienza accademica, anche alle precipitazioni di sali su gelatine che si presentano come anelli concentrici, che vennero osservati per la prima volta da R.E. Liesegang nel 1896. Invero, in questo caso, motivazioni di ordine economico, hanno incentivato, per qualche tempo, l'attenzione per lo studio di questo strano fenomeno, allo scopo di trovare la tecnica per ridurlo a condizioni macroscopicamente non apprezzabili, cosl che esso non si presentasse come «noise» nella tecnologia dello sviluppo fotografico (17) (vedi fig. 2). In seguito alla osservazione sperimentale di questi fenomeni ci domandiamo:

Cosa rende periodico e quindi non-casuale, l'andamento della «clock reaction» o della precipitazione ad anelli concentrici di Liesegang? Quali sono i criteri che regolano l'oscillavone dei parametri energetici (termici, potenziometrici, ecc.. .), che conduce alla realiv:azione di nuove forme molecolari nei suddetti processi di reazione e precipitazione chimica? Occupandoci di ricerca educativa e quindi di apprendimento dei concetti della scienza ci pare importante analizzare il perché resti difficile sia pure avere una risposta indicativa rispetto a tali domande. A nostro avviso, una risposta generale ai precedenti quesi165

(a)

(b) ( in termini matematici, ancorché non traducibile nel linguaggio comune dell'esperienza ordinaria, non possa essere ritenuta come non-razionale. A questa osservazione si può obietta• re che mentre la matematica è la scienza che indaga tulle le possibilità razionali, la fisica va intesa più restrittivamente come la scienza che indaga la costituzione di quell'unica razionalità che coincide con il reale, e resta quindi sempre valido l'antico ammonimento di Francesco Bacone secondo il quale «la matematica è al termine della filosofia naturale, ma non la deve né generare, né procreare• (Novum Organum, li, 96 · citazione da N. ABBAGNANO, Storia della Filosofia, Ed. U.T.E.T., 1982, Voi. II, p. 181). Su questo argomento vedi anche la nota (31). Infine, a proposito della accennala «reazione•, si vedano ad esempio gli Atti del Convegno su «Physical lnterpretations of Rclativity Thcory», British Society for the Philosophy of Science, Londra, 1988, e ua questi in particolare la relazione di F. Winterbcrg, il recente testo di F. SELLERI, La causalità impossibik, Ed. Jaca Book, 1988, e la nota di R.L.

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Quesrn irruzione «incontrollntn» nelln fisicn non tanto delIn mntem1\ticn, si bndi bene, quanto · piuttosto di un certo modo di concepire In mntemnticn - che era di moda nel periodo in esame, ed è rimasto pressoché inalterato fino ad oggi, a seguito del successo del programma cosiddetto formalista fornisce unn forte motivazione per l'approfondimento del punto di vistn matematico in oggetto, e «giustifica» la scelta del temn di questa relazione in rapporto allo spirito del Convegno. Passiamo quindi ad occuparci senza più indugi del nostro soggetto specifico, senza dimenticare per finire questa prima parte dedicata ai rapporti tra matematica e fisica) quanta importanza in effetti abbiano avuto negli sviluppi della fisica teorica della prima parte del XX secolo (tanto ad esempio nell'elaborazione cli teorie relativistiche, quanto in quella di teorie quantistiche) !'«influenza» e le opere di matematici quali H. Minkowski, D. Hilbert, H. Weyl, J. von Neumann, ecc., e l'elencazione potrebbe continuare in realtà fino ai nostri giorni (si veda al proposito anche la nota 19). 2. Il modo di inttodurre in matematica il concetto di numero reale, che costituisce una nozione chiave per lo sviluppo di rutto l'edificio matematico, rappresenta un sicuro test per la comprensione della «filosofia» che presiede all'intera costruzioThe new physics. Physic11l or m11them11tical science?», Am. Phys., 56 (12), 1988, pp. 1075-1081. • Si osservi al riguardo che la prima vera enfatizzazione del ruolo della matematica nella fisica avviene nella contrapposizione (non casuale) dei titoli di quelle due opere fondamentali per lo sviluppo della cultura moderna che sono i «Principia Philosophiae• di Cartesio, cd i «Philosophiae Naturalis Principia Mathematica» di Newton. Nella edizione di Amsterdam del 1723 il termine «Mathematica• nel frontespizio della pubblicazione è stampato in cara11eri assai più grandi degli altri ue! E forse interessante aggiungere il parere di R. Thom (loc. cit., p. 8): •Canesio, con i suoi vortici e i suoi atomi uncinati, spiegava tutto e non calcolava nulla; Newton con la legge di gravitazione calcolava tutto e non spiegava nulla (. .. ) non sono affatto convinto che il nostro intelletto possa accontentarsi di un universo re110 da uno schema matematico coerente, privo però di contenuto intuitivo».

0LDERSHAW,

J.

178

ne. Come noto, verso la fine élel secolo scorso, a proposito del problema posto dalla «natura» degli enti matematici, si impose l'opinione che questi non dovessero essere considerati altro che come concetti inerenti alla pura logica formale, senza alcun sostrato intuitivo, e men che meno aventi qualsiasi riferimento ad una sorta cli «realtà», vuoi fisica che «psicologica». Questa soluzione, che si basava su una sopravvalutazione del significato filosofico dell'«esistenza» delle cosiddette geometrie non-euclidee', scoperte alcuni anni prima, indusse matematici quali K. Weierstrass, R. Dedekind, ed altri, a voler rifondare l'intera teoria dei numeri, sganciandone l'introduzione da ogni aspetto intuitivo espresso mediante i termini della geometria euclidea. Non era stato dimostrato infatti che questa non era l'unica geometria razionale, e che il suo ruolo privilegiato ' Si è sostenuto spesso con eccessiva facilità che la «scoperta- delle geometrie non-euclidee avrebbe arrecato un «colpo mortale• alla filosofia kantiana dello spazio. H. Meschkowski sostiene ad esempio che sia «impossibile all'uomo moderno di restare fermo alla concezione spaziale di Platone e di Kant» (Mutamenti nel pensiero matentatiro, Ed. Boringhieri, 1973, p. 87), mentre B. Russell parla di «quella massa di pregiudizi non analizzati che i kantiani chiamano intuizione• (citazione da C. MANGIONE, Logica e problema dei Jo11dame11ti nella seco11da metà del/'800; sta in L. GEYMONAT, Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico, Ed. Garzanti, 1971, voi. VI, p. 369). Val forse allora la pena di riportare per intero la confutazione di questa opinione effetruata da G. Simmel nel 1904 (citazione da P. MARTINETTI, Ka11t, Ed. Fehrinelli, 1968, p. 47): «Gli assiomi geometrici sono così poco necessari logicamente come la legge causale; si possono pensare spazi, e quindi geometrie, in cui valgono tutt'altri assiomi che i nostri, come ha mostrato la geometria non euclidea nel secolo dopo Kant. Ma essi sono incondizionatamente necessari per la nostra esperienza, perché essi solamente la cosùtuiscono. Helmholtz errò quindi completamente nel considerare la possibilità di rappresentarci senza contraddizione spazi nei quali non valgono gli assiomi euclidei come una confutazione del valore universale e necessario di questi, da Kant affermato. Infatti l'apriorità kantiana significa solo universalità e necessità per il mondo della nostra esperienza, una validi rà non logica, assoluta, ma ristretta alla cerchia del mondo sensibile. Le geometrie antieuclidee varrebbero a confutare l'apriorità dei nostri assiomi solo quando qualcuno fosse riuscito a raccogliere le sue esperienze in uno spazio pseudosferico, o a riunire le sue sensazioni in una forma di spazio nel quale non valesse l'assioma delle parallele».

179

era dovuto probabilmente soltanto ad una commistione tra la nostra ragione e la percezione sensibile del nostro «piccolo» mondo? Con siffatte premesse, furono proposte diverse definizioni dei numeri reali, aventi tutte la caratteristica comune di ricondurre tale concetto a quello di numero razionale, il quale ultimo sembrava potersi ricondurre poi senza difficoltà all'arilmeh·ca, le cui possibilità di derivazione dalla pura logica sembravano ben più sicure'. Senza entrare adesso qui in dettaglio su definizioni quali ad esempio quella di Dedekind, che dice essere un numero reale costituito da una particolare coppia ordinata di sottoinsiemi (sezione) dd campo razionale, notiamo soltanto che la cosa più imponante dal punto di vista fondazionale è che si cercò semplicemente di diminare dal concetto di numero reale ogni riferimento a proprietà ed enti di natura geometrica, considerati questi come provenienti da un «momento intuitivo e vago della fondazione»•. Nelle seguenti parole è chiaramente enunciato il «programma» dell'aritrnetizzazione dell'analisi: «concepire i numeri reali come strutture concettuali, invece che come grandezze intuitive ereditate dalla geometria euclidea» 7 •

3. Purtroppo, soltanto una ristretta minoranza di matematici sembra oggi condividere l'opinione che una fondazione di tipo logico-insiemistico della matematica, se elitnina apparentemente all'origine il riferimento a concetti che possono essere ritenuti di natura empirico-psicologica, indica però come «basi ' All'arianetizzazione dell'analisi segul in effetti una fase di logiciru'lione tkll'aritmetica, secondo quello schema che viene indicato con il nome di riduzionismo ottocentesco. Questo condusse però nei primi anni del 1900, dopo la scoperta dei primi paradossi dell'infinito nella te0ria degli insiemi, a quel momento che viene ricordato come la crisi tki fondamenti, sicché il programma riduzionista non può comunque dirsi coronato da un vero successo. • Da c. MANGIONE, /oc. cii., p. 369. ' Da C.B. BoYER, Storia tklla Matematica, Ed. I.S.E.D.I., 1976, p. 642.

180

più vere ed adeguate della nuova pratica matematica»• un terreno ben più infido della diretta percezione intuitiva degli enti della geometria euclidea. Basta invero riflettere sul fatto che la teoria degli insiemi introduce subito nelle basi della matematica alcuni «paradossi» che sono irrisolti oggi non meno di ieri, e la cui ricerca «va ricercata unicamente nell'arbitrio ( ... ) di considerare un campo di possibilità costruttive come un aggregato chiuso di oggetti esistente in sé»'. Del resto, una sistemazione assiomatico-formale della teoria degli insiemi non esiste, o meglio, ne esiste più d'una, e quindi tanti diversi ,,modelli», sicché non è proprio un caso che in effetti la maggioranza dei matematici non faccia mai cenno a quale delle varie «teorie degli insiemi» si riferisce nei propri lavori, e che siffatte questioni siano di regola escluse dal curriculum degli studi di un ordinario corso di laurea in matematica. In realtà, l'insegnamento di questa disciplina continua a presentare- «una rozza e superficiale mistura di sensismo e di formalismo»'", simile a quella già prima rimproverata da R. Thom alla fisica a proposito della contrapposizione tra precisione numerica e scorrettezza dei concetti di base. Una matematica che pretende di eliminare dal momento della propria fondazione ogni pur necessario riferimento ad una qualsivoglia «filosofia» dello spazio e del tempo, per cercare di costruirsi letteralmente sul «vuoto», richiama alla mente l'immagine kantiana della «colomba leggera che portata dalle ali sull'aria, crede di poter volare senza resistenza nel vuoto»".

• Da C. MANGIONE, /oc. cit., p. }~9. • H. WEYL, Fiwso/id della mdtemdtica e tklk scienze ndturdli, Ed. Boringhieri, 1967, p. 61.

•• H.

WEYL,

Il continuo, Indagini critiche sui fondamenti dell'analisi,

1917; Ed. italiana, Bibliopolis, 1977, p. 1O. 11 Citazione da F. ENRIQUES, Le mdtemdtiche nella storia e nella cultura, Lezioni pubblicate per cura di A. Frajese, Ed. Zanichelli, 19}8, p. 148. A proposito del «vuoto~, si pensi al ruolo fondante dell'insieme vuoto in certe assiomatiche della teoria degli insiemi!

181

Ma ritorniamo al nostro argomento principale, sottolineando alcuni dei fotti presenti nella attuale presentazione dei numeri in generale, e cercando di indicare invece quella che potrebbe essere ritenuta una più «giusta» vin. 4. La corrente fondazione formalistica della teoria dei numeri reali rinuncia in linea di principio alla ricerca di cosa possa essere considerato costituire un singolo numero reale, limitnndosi ad individuare le proprietà caratteristiche dell'intera loro totalità. Ovvero, a fornire una «definizione» del campo di tutù i numeri reali, la quale, per il modo di procedere stesso, non può individuare l'oggetto di proprio interesse che a meno di isomorfismi 12 • L'indicazione di tali proprietà, ancorché interessante, lascia però irrisolto tutto il problema di «cosa» siano i numeri reali, visto che sembra difficile sostenere che alcuni di questi singolarmente, o peggio l'intera loro totalirà, costituiscano un dato immediato e primitivo della nostra percezione, al contrario di quanto accade invece per i numeri naturali: 1, 2, 3, ... In effetti, risulta allora necessario, sotto questo punto di vista, introdurre dei precisi «modelli» della teoria, vale a dire, degli «esempi» di campi ordinati archimedei completi, i quali sono costruiti, con una serie di operazioni successive, a partire dalla totalità dei numeri naturali. È questa la procedura con la quale si riconduce, come annunciato, la nozione di numero reale ad entità di tipo aritmetico. Si raggiunge così lo scopo desiderato di fondare la nozione in esame sull'aritmetica, consi12 «Una scienza non può, nella individuazione e definizione del proprio campo di indagine, andare oltre una rappresentazione isomorfa di esso. In particolare, ogni scienza rimane del tutto indifferente circa I' "essenza" dei propri oggetti» (H. WEYL, Filosofia della matematica e delle scienze naturali, loc. cit., p. 3 I). Si faccia però anche riferimento a questo riguardo a quanto successivamente detto a proposito della possibile distinzione tra una «logica dell'intelletto~ ed una «logica della ragione•, suggerita saggiamente da F. Enriques (cfr. la nota 28), e si osservi che ovviamente tutto sta qui nell'intendersi sul significato della parola «scienza»!

182

derata questa come un momento abbastanza «certo» della fondazione, ed il problema della non-contraddittorietà della matematica si trasforma cosl in quello della non-contraddittorietà dell'aritmetica. A prescindere dal particolare modello usato, a seconda delle preferenze, si ha comunque a che fare con una costruzione che, se pur logicamente corretta, certamente è lontana dalla genesi naturale del concetto che si vuole definire, e pertanto è da ritenersi, anche soltanto dal punto di vista didattico, poco conveniente. Potremmo aggiungere poi che a tale procedimento si adatta perfettamente l'osservazione di essere soprattutto «not honest in structure»", visto che cancella accuratamente le tracce che hanno consentito di arrivare ad una certa concezione, ribaltando poi il punto di vista con il presentare arbitrariamente per la prima l'idea che era invece nata per ultima. La chiave per un'autentica comprensione della nozione di numero reale risiede piuttosto nell'operare una distinzione era i due aspetti del numero come misura e del numero come quantità, in quanto provenienti da categorie (forme) del pensiero da ritenersi primitive ed indipendenti l'una dall'altra, e nel riconoscere senza pregiudizi ai numeri reali la loro origine nell'intuizione geometrica. Gli stessi numeri razionali, ed i numeri negativi, più che concetti di natura aritmetica, vengono ad essere trattati allora più propriamente come grandezze «derivate» di natura geometrica (vedi anche la nota 20). La distinzione così introdotta si ritrova adombrata nelle seguenti parole di Leibniz: «Mathesis universalis est scientia

11

Tanto per usare un'cspressione contenuta in una lettera del 1916

di A. Einstein a P. Ehrenfest (da A. PAis, Subile is lhe Lord... , Oxford Univcrsity Press, 1982, p. 261). Il commento di Einstein si riferisce alla presentazione della teoria della relaùvità generale elaborata da D. Hilbert, che fu proprio uno dei principali sostenitori della filosofia formalista: «I don't like Hilbert's presentation ... unnecessarily special ... unnecessarily complicated ... not honest in structurc (vision of the 0bcrmcnsch by means o/ camouflaging the methodsJ•.

183

de qua11titate in universum, seu de ratione aestimandi ... scientia de me11surae repetitione seu de 1111,nero»". Da questo punto di vista allora, il principale difetto di un'introduzione di tipo aritmetico dei numeri reali sarebbe rappresentato da una «commistione» tra le categorie di spazio e di tempo, indebita, ma soprattutto criptica, visto che un tentativo esplicito di «riduzione» dell'una all'altra «forma» apparirebbe chiaramente destinato all'insuccesso. Del resto, ad una cattiva presentazione concettuale delle basi dei numeri reali si accompagna spesso, come è ovvio in questo stato di cose, anche una cattiva presentazione di quelle dei numeri naturali, tenuto conto del fatto che si accosta di solito questo concetto a quello di numero cardinale (di un insieme finito), e non piuttosto, come dovrebbe invece più propriamente essere fatto, a quello di numero ordinale".

5. Oltre al difetto basilare precedentemente indicato, l'attuale presentazione della teoria dei numeri reali mostra anche alcuni altri «inestetismi», ai quali sommariamente accenniamo. Prima di tutto, si è condotti ad introdurre, sin dall'inizio della pratica matematica, un abuso di linguaggio, quando si parla ad esempio de «i/» campo dei numeri reali, anziché di «un» campo dei numeri reali, visto che di questi ne «esistono» infiniti, ancorché tutti tra loro isomorfi. Ciò conduce ad un altro abuso, quando si dice ad esempio che l'insieme dei numeri razionali è contenuto in quello dei numeri reali, visto che bisognerebbe fare invece differenza tra un numero raziona,. Citazione da F. ENRJQUES, wc. cii., p. 140. " Cfr. ad esempio H. WEYL, Fiwsofia dtlla mattmalica t dtllt scitnlt naturali, loc. cit., p. 44 e p. 41: «Circa il rapporto in cui il numero si trova con lo spazio e il tempo. si può osservare che il tempo, come forma della pura consapevolezza, costituisce un prtsupposlo tsstnziale, e non accidentale, delle operazioni mentali su cui si fonda il signilìcato degli enunciati numerici»; «occorrono speciali considerazioni per assicurare il fatto fondamentale che il risultato del contare è indipendente dall'ordine•.

184

le, concepito ad esempio come una classe di equivalenza di coppie ordinate di numeri interi, e lo «stesso» numero razionale, concepito invece, se si vuole, come una sezione di Dedekind del campo razionale. L'abitudine a considerare isomorfismi (non necessariamente suriettivi) come vere e proprie inclusioni è molto diffusa, e soltanto pochi autori 16 la mettono in rilievo, nel linguaggio oltre che nei simboli. Del resto, «la distinzione tra «vecchi» e «nuovi» razionali sembra artificiale, ma è essenziale»", sicché il detto abuso di linguaggio non appare neppure troppo scusabile, ed è da considerarsi in effetti rivelatore di quella contraddizione insanabile tra intuizione e linguaggio naturale da un lato, e filosofia formalista dall'altro, di cui abbiamo in precedenza parlato. Ancora, quando si introducano sbrigativamente i numeri reali identificandoli ad esempio con la propria scrittura decimale ( come se si trattasse di cosa ovvia), a parte il fatto che nella pratica didattica non si spiega allora di solito in modo chiaro fino a che punto ci sia corrispondenza biunivoca o no tra i numeri e loro possibili scritture, si viene ad avere in questo caso come risultat!) la sgradevole circostanza che tanto un numero razionale quanto un numero irrazionale possano avere una scrittura «infinita», ovvero, lo spartiacque tra i due tipi cli numero, che dovrebbe essere indissolubilmente legaro alla distinzione tra finito ed infinito, non apparirebbe più così evidente. Infine, la presentazione formalista, non pennettendo di riconoscere la differenza tra il numero inteso come quantità cd il numero inteso come misura, rinuncia in fondo alla comprensione stessa di cosa si debba intendere con il concetto di numero. E la questione è più sostanziale, e meno storico-linguistica, di quanto non potrebbe sembrare a prima vista, se si osserva ad esempio che è usuale parlare dei «numeri» comples•• Tra questi, ad esempio, G. SCORZA DRAGONI, Elementi ,J; Analisi M111em11tic11, 3 voli., Ed. Ccdam, Padova 1963. " J .H. CoNWAY, On numbers and games, Acadcmic Press, 1976, p. 4.

185

si, dopo nverli introdotti mediante uno costruzione formale nnlllog:1 n quelln effettuata per i numeri reali, trascurando però unll circostanza che li distingue nettamente da questi, ovvero l'esistenza di a11/0111orfis111i propri nella loro struttura. In altre pllrole, mentre due modelli di campi reali sono tra loro isomorfi medinnte un 1111ico isomorfismo (ogni «numero» è «uguale» soltnnto n se stesso!), la stessa circostanza non si verifica invece per due modelli di campi complessi, visto che quanto meno, nnche se si considerano soltanto isomorfismi che portano il sottocnmpo reale dell'uno nel sottocampo reale dell'altro, le due unità immaginarie i e - i resteranno sempre assolutamente indistinguibili l'una dall'altra 18 • 6. Quanto precedentemente esposto conduce alla convinzione che il successo del punto di vista formalista in matematica possa essere farto risalire, più che alla presenza di condizioni scientificamente oggettive, a quella che potremmo definire soltanto come una «moda positivista»", e che le stesse esigenSi veda a questo proposito anche quanto osservato da J.H. /oc. cii., p. 3. Nella affascinante definizione di Conway dei numeri come giochi, che fornisce un «grande» campo di numeri ( in termini tecnici, un campo il cui sostegno è una classe propria, e non un insieme, secondo la distinzione di J. von Neumann), ci si imbatte in rutti i numeri reali, tutti i numeri ordinali, e tanti altri «numeri» inusuali, quali «infinitesimi attuali» del tipo degli inversi degli ordinali infiniti, e le loro radici quadrate, o cubiche, ccc.; ma non appare mai un numero che elevato al quadrato sia uguale a -1: «In the system we shall describc, every numbcr has its own unique name and proper• tiens ... But the numbcr i will not arise in the samc way, sincc there is no property enjoyed by i which is noi shared by -i». •• Per usare un'espressione che compare in I. LAKATOS, La falsificaz:ione e la metodologia dei progr11mmi di ricerc11 scienlifici; sta in Cri1ic11 e crescila tkl/11 conoscenu, Campi del Sapere, Ed. Feltrinelli, 1984, p. 240. Molto si potrebbe dire sulla presenza di una tale moda anche nella fisica, a proposito ad esempio del successo di teorie quali quella della relatività ristretta, ecc. In effetti, la premessa ideologica per la loro affermazione (naturalmente una volta concepita una teoria fisica come un frammento di informazione sulla costituzione autentica della natura, una intuizione su qualcuna delle sue caratteristiche essenziali, e non già come una serie di ricette efficaci) è identica a quella che si può 11

C.ONWAY,

= v-1

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ze cli rigore della matematica del XIX secolo avrebbero potuto essere soddisfatte utilizzando delle differenti premesse. Del resto, chi volesse oggi (o avesse voluto in passato) tentare una presentazione «geometrica» della teoria dei numeri reali, non dovrebbe neanche fare troppi sforzi di immaginazione, visto che una definizione di numero reale si trova già bella e pronta negli stessi Elementi di Euclide. Circostanza questa che era peraltro lecito aspettarsi, in accordo con il ruolo essenziale del numero come misura in ogni settore della matematica. A parte ovviamente la terminologia, una tale definizione si ritrova infatti nel Libro V degli Elementi, Definizione V: un numero reale (positivo) viene ad essere, del tutto coerentemente con quella che consideriamo la genesi naturale del concetto, una classe di equivalenza di coppie ordinate di segmenti'", dove, va eia sé, tutto il problema è costituito dal decidere quand'è che due coppie di segmenti siano da ritenersi equivaconstatare essere presente nella filosofia della matematica del periodo che stiamo illustrando, dopo di aver rilevato anche da un punto di vista storiografico gli «appoggi» che le «nuove• interpretazioni della materna• tica e della fisica si sono reciprocamente fornite (con espressione significativa, possiamo parlare dello «spirito di Gottinga»). L'aspetto paradossale della situazione è che da una premessa positivista si sia andati a finire poi in punti di vista decisamente «poco razionali», cd in filosofie «oscure», sicché diventerebbe difficile dire a questo punto chi sia «più positivo» oggi, se !'«ortodossia» attuale, o la sua opposizione. 0 ' Questi vanno naturalmente pensati a meno di un punto di applicazione, il che suggerisce l'opportunità di introdurre esplicitamente sin dall'inizio la nozione di «vettore». Questa conduce poi subito a sua volta al concetto di numero negalivo, in relazione alla presenza dei due versi della rena. Un numero negativo viene ad essere definito infatti come un «rapporto» tra due vettori controversi. Si osservi anche che, sono questo punto di vista, l'operazione fondamentale non è tanto il prodollo di un vettore per un numero reale, come si fa nell'ordinaria teoria degli spazi vettoriali, quanto piuttosto il ,apporlo tra ,·ettori, che produce un numero. Si sostiene cosl che anche la nozione di numero negativo, come peraltro quella di numero razionale, debba essere più opportunamente riconsiderata come propria della concezione del numero come misura, e legata all'intuizione geometrica, piuttosto che a considerazioni di natura aritmetica (costruzioni simboliche del risultato di operazioni non ammissibili, o peggio, come, pure si fa spesso, attraverso l"tntroduzione del concetto di «debito»).

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lenti. Questo è per l'appunto l'oggetto della richiamata definizione quinta, la quale specifica quando quattro «grandezze» debbano intendersi tra di loro propori.io11ali, e si può considerare essere, quando applicata ai segmenti della retta, « parola per parola la stessa definizione di Weierstrass o di Dedekind» 21 ! Osserviamo esplicitamente però che, se si può sostenere che «i greci possedevano una nozione di numero nella stessa generalità e chiarezza che abbiamo oggi»", è anche giusto riconoscere che, ad una adeguata introduzione «ontologica» dei numeri reali, non si accompagna con la stessa chiarezza la comprensione della loro struttura, anche intesa questa soltanto in rdazione alle operazioni fondamentali di somma e prodotto. Questa circostanza potrebbe essere forse ascritta, anziché ad autentiche difficoltà di tipo concettuale, al semplice fatto che Euclide, con un modo di procedere del tutto «moderno»!, ha voluto nella sua teoria delle proporzioni fare forse «troppo» tutto insieme, considerando al tempo stesso il caso dei segmenti e quello di altre grandezze geometriche, tra l'altro lasciando i suoi successori nel dubbio relativamente a quali classi di grandezze poter applicare la sua teoria". ,. Secondo un'opinione di M. Simon, condivisa peraltro anche da

H.G. Zeuthen (citazione da T.L. HEATH, The thirte,n boolts o/ Euclid's E/nnents, Dover Publications, 19.56, Voi. II, p. 124). " T .L. HEATH, The thirteen boolts o/ Euclid's Elemenls, loc. cit., Voi. Il, p. 124. " Basta tenere presente la lunga controversia sul tema se si potesse o no applicare la teoria euclidea anche agli angoli curvilinei, quali ad esempio !'«angolo di contingenza». Osserviamo peraltro che un'analisi attenta della situazione individuerebbe in realtà soltanto i segmenti come gli enti concettuali adatti all'applicazione delle prescritte necessarie proprietà. Se è vero infatti che Euclide evita accuratamente di parlare di sottomultipli, già soltanto il ricorso all'operazione di multiplo, intesa come un'operazione tra «grandezze» che fornisca un risultato univoco, forza la detta conclusione. In particolare, soltanto al segmento sembra potersi applicare la seguente considerazione di Husserl: «permet• te uno smembramento tale che i pezzi ottenuti appartengono per loro stessa definizione a una specie non diversa da quella determinata dalla totalità indivisa• (citazione da H. WEYL, Filcsofia del/4 matematica e delle scienze naturali, loc. cit., p. 64).

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E chiudiamo questo paragrafo sottolineando che non costituisce impedimento alla presente interpretazione il fatto incontestabile che i greci non considerassero i «numeri irrazionali» come «numeri» alla stessa stregua degli altri, chè forse non avevano neppure troppo torto nell'operare una cosl drastica separazione, con una consapevolezza intuitiva dei cosiddetti « paradossi dell'infinito». 7. Pervenuti cosl alla persuasione che, sulle orme di Euclide, potrebbe essere data su basi puramente geometriche una teoria dei numeri reali altrettanto rigorosa ed «up to date» che quella fornita su basi puramente aritmetiche, ecco che sembrerebbe risolto il problema dei fondamenti che ci si era posto. In effetti, si può forse dire di essere arrivati ad indicare la giusta via, ma non è ancora detto che la presentazione euclidea sia proprio la migliore possibile, e che tutto si possa ritenere definitivo a questo riguardo. Terminiamo quindi questo intervento dando alcuni cenni su tale problema cominciando pure con il riportare quanto osservato al proposito chiaramente dal De Morgan": «- che diritto ha Euclide, o chiunque altro, di aspettarsi che la precedente proposizione, del tutto prolissa e farraginosa, possa essere accettata dal principiante come una definizione di una relazione la cui percezione è uno dei più comuni alti del suo pensiero (... )?; - dopo aver risposto chiaramente alla questione precedente, come può essere mai usata la definizione di proporzione, ovvero come è possibile paragonare ciascuno degli infiniti multipli di un termine della proporzione con ciascuno dei multipli dell'altro?». Tale «critica» è simile ad una che fu avanzata precedentemente da Galileo, il quale pure si occupò della questione in un suo interessante scritto composto verso la fine della sua

" Citazione da T.L. HEATH, Tht thirtun boa/es o/ Euclid's Ek• mtnts, loc. cit., voi. II, p. 122.

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vita", ed è delle osservazioni di Galileo che preferiamo occuparci, visto che esse forniscono degli spunti di meditazione che, in qunnto a metodologia della matematica, o, se si preferisce, della didattica della matematica, possono essere considerati del tutto attuali anche ai giorni nostri (o meglio forse, in particolar modo ai giorni nostri!), a conferma del sospetto che «nella m,1ggior parte dei casi la scienza moderna è più opaca, e molto più illusoria, della scienza del Cinquecento e del Seicento»'•. E va osservato subito, prima cli andare avanti, che questa circostanza si verifica pur non essendo Galileo particolarmente interessato a speculazioni di matematica pura 27 , ma che forse è proprio per questo che le sue riflessioni in materia di metodologia sono tuttora fresche e convincenti. Prima cli tutto, è evidente come Galileo ritenga che la questione relativa al quando due coppie cli grandezze debbano considerarsi tra loro proporzionali, appartiene alla sfera di quei concetti che sono da ritenersi alla base cli atti comuni ad ogni umano intelletto: «avendo il lettore concepito già nell'intelletto che cosa sia la proporzione fra due grandezze (. .. ) mi sforzerò cli secondare con la difìnizione delle proprozioni il " Si tratta di un Principio di giornata aggiunta (Giornata quinta) contenuto nei «Discorsi e Dimostrazioni matematiche intorno a due nuove Scienze•, intitolato Sopra le definizioni delle proporzioni d'Eucli,k (ci riferiamo qui sempre all'Edizione Boringhicri, 1958). Nonostante si tratti di uno scritto composto come detto negli ultimi anni della vita di Galileo, esso concerne peraltro una questione che certamente Galileo •scnti,·a• già da molto tempo: «avendo io un poco di dubbio già antiquato intorno a questa difinizione». " Secondo un'opinione di P.K. FEYERABEND, Conlro il me/odo, Abbozzo di una leoria anarchica della conoscenu, Campi del sapere, Ed. Feltrinelli, 1984, p. 53. " Per usare le pasole dello stesso Galileo in una lettera al Granduca di Toscana: «Quanto al titolo et pretesto del mio servizio, io desidererei oltre al nome di Matematico, che S.A. ci aggiugnesse quello di Filosofo, professando io di havere studiato più anni in filosofia, che mesi in malemalica pura• (citazione da Galileo e la ma/emalica, Saggi su Galileo Galilei, Comitato Nazionale per le manifestazioni celebrative del IV centenario della nascita di Galileo Galilei, Ed. Barbera, Firenze 1967).

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conce/lo universale degli uomini anche ineruditi nella geometria». Questa non può essere considerata però come un dato «primitivo», ed è necessario di discuterla con attenzione. Inoltre, la definizione proposta da Euclide, ancorché logicamente ineccepibile, non soddisfa completamente le esigenze cli chiarezza inerenti alla fondamentalità della questione. Tutti e tre i protagonisti del dialogo galileiano confessano infatti tale insoddisfazione: Sagredo («Questa è una certa ambiguità che io ò sempre avuta nella mente intorno alla quinta difinizione del quinto libro d'Euclide»; «non restai con quella chiarezza che avrei desiderato nella predetta proposizione»), Simplicio («Non ebbi mai il più duro ostacolo di questo in quella poca di geometria che io studiai già nelle scuole da giovanetto»), e lo stesso Salviati («Io poi confesso che per qualche anno dopo aver istudiato il V libro d'Euclide, restai involto con la mente nella stessa caligine»}. Galileo applica quindi alla definizione euclidea di proporzione un criterio che dovrebbe essere tenuto sempre presente (non solo in matematica!}, e che si può riassumere nella necessità di operare una distinzione tra asserzioni le quali, pur logicamente equivalenti, si presentino in sequenza temporale in momenti diversi dalla riflessione naturale, tanto da potersi distinguere l'una come una derivazione dell'altra, ma 110n viceversa: «Per dare una difinizione delle suddette grandezze proporzionali la quale produca nell'animo del lei/ore qualche con-

ce/lo aggiustato alla natura di esse grandezze proponionali, dovremmo prendere una delle loro passioni, ma però la più facile cli tutte e quella per appunto che si stimi la più intelligibile anco dal volgo non introdotto nelle matematiche», e proseguendo «Cosl fece Euclide stesso in molt'altri luoghi. Sovvengavi che egli non disse, il cerchio essere una figura piana, dentro la quale segandosi due rette, il rettangolo sotto le parti dell'una sia sempre uguale al rettangolo sotto le parti dell'altra; ovvero, dentro la quale tutti i quadrilateri abbiano gli angoli opposti uguali a due retti. Quand'anche così avesse detto, sarebbero state buone difiniz.ioni: ma mentre egli sapeva

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un'altra passione del cerchio, più intelligibile della precedente e più focile da formarsene concetto, chi 11011 s'accorge che egli fece assai meglio a 111ellere avanti quella più chiara e più evidente co111e difi11izio11e, per cavar poi da essa quell'altre più recondite e dimostrarle come conclusioni?». Naturalmente, la possibilità di operare una siffatta distinzione non appartiene all'ambito proprio della matematica, almeno in una sua accezione restrittiva (vedi anche la nota 12), ma è comunque, specializzazioni a parte, una delle possibilità a disposizione del pensiero umano. La questione è perfettamente illustrata dall'Enriques21 : «Il matematico che nel suo sforzo di astrazione e nel desiderio di compiutezza ha purificato la logica discorsiva, si trova condotto a riconoscere che questa logica dell'intelletto postula un giudizio superiore della ragione, che lo porta al di là delle stesse matematiche (... ) Distinguere una logica della ragione che supera la semplice logica dell'intelletto non è comune &a i matematici. Il loro amore per ciò che è chiaro e preciso li induce volentieri a concentrare rutta l'attenzione sui criteri meccanici del rigore formale della deduzione o della definizione( ... ) La discussione sulle definivoni mostra in molti casi quale senso logico più largo venga ad assumere il giudizio razionale». 8. Galileo si pone insomma, in rdazione alla definizione V del Libro V degli Elementi di Euclide, sostanzialmente le stesse domande formulate molti anni dopo dal De Morgan, ma mentre questi cercò soprattutto di chiarire, e quindi di giustificare, l'approccio euclideo alla questione, Galileo assai arditamente, come del resto suo cosrume, osò proporre una sua propria definizione di uguali proporzioni diversa da quella dell'antico maestro". Non si può qui entrare in particolare " Loc. cii., p. 148. ,. Si potrebbe pensare che proprio l'atteggiamento di eccessiva «venerazione• verso il contenuto e nmpostazione degli Elementi di Euclide sia stato responsabile di un cosl grave ritardo nella comprensione del problema costituito dalle cosiddette «geometrie non-euclidee», la cui

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dettaglio su come Galileo «ritenne cli correggere dal punto cli vista didattico-intuitivo la definizione V»'0 • Ciò che è importante sottolineare è comunque il fatto che egli fu spinto ad operare tale correzione, e comprendere quindi le motivazioni che lo ispirarono. In conclusione cli questo discorso, possiamo dire che, dopo essere partiti respingendo le costruzioni aritmetiche dei numeri reali, e riproponendo quindi nella fondazione della matematica" la centralità della geometria euclidea (quale unica descrivente la categoria «spazio» dell'intelletto umano), è merito di Galileo se ci accorgiamo che non è sufficiente essersi collocati nell'ambito della geometria euclidea per ottenere au«soluzione» non sembra rivestire particolari difficoltà né di ordine matematico, né di ordine filosofico, a meno di fraintendimenti' della questione (vedi anche la nota 4 ). In effetti, la stessa attenzione posta fin dall'antichità nei confronti del V postulato di Euclide sembra originare soltanto dalla particolare forma con cui questo fu proposto da Euclide, il quale anche nella scelta del postulato in oggetto ( al posto di altri equivalenti più «semplici» e «naturali») appare suscettibile delle stesse critiche che qui vengono avanzate in relazione alla teoria delle proporzioni (sullo stesso argomento vedi anche la nota 23). Altrettanto discutibile, anche se non è usuale di farlo, è il metodo di procedere con un numero il più piccolo possibile di grossi «assiomi», posti rutti all~nizio dell'argomentazione, anziché, come pure sarebbe possibile, 0) di volte, si ricava B esattamente una volta» oppure (3) «usando A esattamente una volta, si ricava B un certo numero ( > O) di volte» oppure ( 4) «usando A un numero ( > O) di volte, si ricava B un numero ( > O) di volte». 205

Invece, nel formalismo delln logica lineare i quattro significati danno luogo a qunttro diverse proposizioni (dove «implica linearmente» è uno dei connettivi dell'implicazione della logica lineare): ( 1) «A implica linearmente B» (2) « !A implica linearmente B» (3) «A implica linearmente ?B» (4) «!A implica linearmente ?B» Inoltre, il calcolo logico è tale che se abbiamo una deduzione in cui A è assunzione e B è conclusione sappiamo subito che A è stata usata esattamente una volta e che B è stata ottenuta esattamente una volta. Infatti, una deduzione nella logica classica in cui l'assunzione A in realtà non sia stata mai usata o in cui sia stata usata più volte, è nella logica lineare una deduzione in cui è assunzione non la proposizione A ma la proposizione !A; e una deduzione nella logica classica in cui la conclusione B in realtà non sia stata davvero ottenuta o in cui sia stata ottenuta più volte, è nella logica lineare una deduzione in cui è conclusione non la proposizione B bensl la proposizione ?B. Proviamo a rimpiazzare la logica classica con la logica lineare nella spiegazione deduttiva, cioè richiediamo che una spiegazione deduttiva di un explanandum consista in primo luogo nel mostrare una deduzione logica (nella logica lineare) della proposizione che lo esprime da altre proposizioni che costituiscono l'explanandum. Prendiamo quel che Nagel richiede come condizioni aggiuntive perché una conseguenza logica sia una spiegazione scientifica: «una spiegazione deduttiva scientifica, il cui explicandum sia il verificarsi cli qualche evento o il fatto che un dato oggetto possieda una data proprietà, deve dunque soddisfare due condizioni logiche. Le premesse devono contenere almeno una legge universale, la cui inclusione nelle premesse stesse sia essenziale per la deduzione dell'explicandum; e debbono contenere inoltre un numero convenzionale di condizioni iniziali». Ebbene, se formuliamo le premesse e la conclusione di una spiegazione come formule del forma-

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lismo della logica lineare, una deduzione dell'explicandum dell'explanans entro il calcolo logico della logica lineare soddisfa la condizione che tutte le premesse sono essenziali nella deduzione. Infatti, che una premessa non sia essenziale in una deduzione può dipendere soltanto per il fatto che essa è stata aggiunta mediante la regola di attenuazione; ma nella logica lineare si possono aggiungere mediante regola di attenuazione solo premesse della forma !A. Nella logica lineare quando vogliamo far dipendere una conclusione da una premessa A non essenziale, si ha una deduzione in cui non compare come premessa A ma una formula !A. C.On ciò è possibile dare forma rigorosa al requisito che nell'explanans di una spiegazione una legge sia essenziale per la deduzione dell'explanandum. Se rimpiazziamo il connettivo dell'implicazione usato nella logica classica con il connettivo «implica linearmente» proprio della logica lineare, e lo facciamo ad esempio nella formulazione delle leggi o delle ipotesi scientifiche, allora siamo in grado di formulare in modo logicamente ineccepibile rapporti reali di dipendenza tra antecedente e conseguente cli una implicazione. Ed è evidente che per fare chiarezza sulle leggi causali è necessario poter esprimere chiaramente almeno dei rapporti di dipendenza. Inoltre, il significato logico del connertivo «implica linearmente» è tale che dicendo «A implica linearmente B» si ha una azione cli A su B e una reazione di B su A (cfr. Girard); per esprimere che non c'è azione-reazione, nell'implicazione bisognava scrivere « !A implica linearmente ?B». È anche evidente che, sulla base cli questi nuovi connettivi e della loro logica, va interamente reimpostato il capitolo dedicato alla conferma delle ipotesi, a cominciare dalla precisazione di ciò che si deve intendere per prova diretta cli una ipotesi. La logica lineare è inoltre una logica sensibile ai contesti, per cui potrebbe essere adeguatamente usata per studiare i contesti delle spiegazioni. Logicamente, può essere chiamato contesto di una deduzione cli B da A il sistema di tutte le altre assunzioni e di tutte le altre conclusioni della deduzione. Le regole strutturali della logica classica hanno lo scopo di annui-

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lare i contesti, in quanto due contesti diversi possono essere identificati mediante ripetute applicazioni delle regole strutturnli. La logica lineare non permette cli identificare due contesti, a meno che tutte le assunzioni del contesto siano della forma !C e tutte le conclusioni del contesto siano della forma ?D. Non snrà difficile tradurre (almeno in certi casi) i contesti teorici cli cui si pnrla in filosofia della scienza in qualcosa di esprimibile mediante contesti nel senso sopra indicato, e quindi valutare che apporti può dare la logica lineare al loro studio. Ciò porterebbe a confutare l'assunto che per parlare dei contesti delle spiegazioni bisogna abbandonare il campo della logica. Se rimpiazziamo la logica classica con la logica lineare nella nozione di teoria, la logica lineare permette di distinguere tra i principi (che nella deduzione di una proposizione possono essere usati quante volte si vuole, ed hanno la forma !A) e gli stati co"enti (che possono essere usati in una deduzione al massimo una volta); una distinzione che potrebbe essere di qualche importanza per certe questioni intorno alle teorie empiriche, quando si ha a che fare con qualcosa che la teoria reputa immutabile e qualcosa che· invece è soggetto a variazione. La logica lineare sembra adeguata a render conto in modo logicamente soddisfacente dei problemi che sorgono nella trattazione e nell'aggiornamento dei data bases. Ora, tali problemi non sembrano davvero lontani da quelli che si incontrano quando si voglia render conto dello sviluppo delle teorie: se considerata nel suo aspetto di uso o nel suo aspetto storico, una teoria non è molto diversa da un data base che viene continuamente arricchito, modificato, aggiornato. Perciò sembra plausibile anche l'uso della logica lineare per dar conto dello sviluppo delle teorie scientifiche. C.On ciò si vede come sia possibile superare in parte, con la logica lineare, certi limiti della sistemazione offerta dagli empiristi logici e che sono stati alla base delle critiche mosse ad essa.

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b stato inoltre segnalato più volte nei lavori di filosofia della scienza come nella attività scientifica conti molto un aspetto trascurato dagli empiristi logici: le interazioni fra più soggetti, tra più teorie, ecc. Ora, la logica classica è per sua natura incapace cli trattare questo tema, mentre la logica lineare si presenta come una base per una teoria generale matematica dell'interazione, per quella che Girard chiama geometria de/l'interazione e che procede utilizzando concetti e risultati dell'analisi funzionale per dare chiarezza su cosa avviene nella comunicazione (tipicamente, tra un input e un output). Ancor più significativa per le applicazioni nelle discussioni di filosofia della scienza sembra essere la logica lineare non commutativa, nella quale viene dapprima eliminata e poi recuperata in un rigoroso controllo logico anche la regola strutturale di scambio (che permette cli scambiare l'ordine delle assunzioni o delle conclusioni in una data deduzione). Lo studio di questa logica è cominciato nel 1989. La logica lineare non commutativa permette di distinguere due significati diversi della proposizione «A implica linearmente B». Infatti potremmo leggerla come ( 1) «A produce B nel futuro» oppure (2) «A produce B nel passato». La ( 1) può essere vista come causalità nel futuro o come predizione, e la seconda come causalità nel passato o come retrodi:r.ione. Per ciascuno dei due significati, la logica lineare non commutativa ha un connettivo diverso. Cosicché essa sembra poter utilmente rimpiazzare la logica classica per quanto concerne la trattazione delle predizioni e delle retrodizioni. Conclusione

Ho indicato alcune, e altre potrebbero essere aggiunte, possibili direzioni cli ricerca che andrebbero adeguatamente 209

esplorate, ottroverso lo collaborazione di filosofi della scienza e di logici, non per dire l'ultima parola su questioni complesse ma per gettare più luce su di esse e per ricavare nuovi stimoli per lo stesso sviluppo delln logica. Per chi è convinto che si debba poter descrivere logicamente lo struttura sia statica che dinamica della scienza, si tratta di un compito che va perseguito: per scrivere collettivamente, forti sia del dibattito intenso nella odierna filosofia della scienza sia dei progressi nella logica, una versione aggiornata di quel testo di Nagd La str11//11ra della scienza che deve essere preso come un esempio illustre di procedimento e di metodologia nella filosofia della scienza ma non come un testo sacro della filosofia della scienza.

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Particelle elementari quali micro-universi Erasmo Recami* e Vilson T. Zanchin *

1. Premessa Chi di noi non ha mai pensato, fin da piccino, che ogni microscopica particella cli materia potesse essere - in scala estremamente ridotta - un intero cosmo? Tale pensiero ha origini probabilmente molto antiche. Esso appare già adombrato, ad esempio, negli scritti del grande atomista Democrito (verso il 400 a.C.). Democrito infatti, invertendo l'analogia, parla di atomi giganteschi che raggiungono le dimensioni del cosmo; e, per amore della chiarezza, aggiunge: se uno di questi superatomi (che costituiscono dei supercosmi) si distaccasse dal suo «universo gigante» e cadesse sul nostro mondo, questo ne verrebbe distrutto ... Considerazioni cli questo tipo si ricollegano alle fantasie (pur esse molto comuni) sugli effetti fisici di una dilatazione o una contrazione cli tutti gli oggetti che ci circondano, o addirittura dell'intero «mondo». Fantasie riprese, come noto, anche da vari scrittori, da F. Rabelais (1565) a J. Swift, narratore dei viaggi di Samuel Gulliver ( 1727), e ad I. Asimov. Probabilmente è stato proprio questo terreno di idee a favorire il grande successo che ebbe a suo tempo, tra il pubblico, l'approssimativo modello assimilante ogni atomo al sistema solare. Tali idee intuitive si possono incontrare anche nell'arena

* Dip. di Fisica, Università di Catania. 211

scientifìcn. Oltre nl già citnto Democrito da Abdera, ricordiamo l'antica concezione di unn gerarchia di universi, o meglio di cosmi, corrispondenti n /allori di scala molto diversi; e magari organizzati come una serie di bambole russe. Oggi si può proprio dire che nell':mnlisi microscopica della materia si è rivelata - grosso modo - una serie di scatole cinesi: e nulla vieta di pensare che qualcosa di analogo si verifichi anche nello studio dell'universo in grande, cioè nella direzione del macro oltre che del miao. Teorie gerarchiche furono formulate ad esempio da J.H. Lambert (1761) e, più tardi, da V.L. Charlier (1908-1922) e F. Selety (1922-24), seguiti in giorni più recenti da O. Klein, H. Alfvén e G. de Vaucouleurs, fino ai lavori di A. Salame collaboratori, K.P. Sinha e C. Sivaram, M.A. Markov, E. Recami e colleghi, D.D. Ivanenko e collaboratori, J.E.Charon, H. Treder, P. Roman, R.L. Oldershaw, e altri (1). 2. Introduzione

In questo articolo ci litnitiamo ad esaminare la possibilità che le particelle elementari di materia siano dei micro-universi(2): cioè siano simili - in un senso da specificare - al nostro cosmo. Più precisamente, ci riferiamo al filo logico seguito da P. Caldirola, P. Castorina, A. Italiano, G.D. Maccarone, M. Pavsic, V.T. Zanchin e chi scrive (3). Ricordiamo che già Riemann, come più tardi Clifford e anche Einstein (4), riteneva che le particelle fondamentali fossero la manifestazione sensibile di una forte curvatura locale dello spazio. Una teoria di tale tipo già esiste per l'intero nostro cosmo: ed è la Relatività Generale, imperniata sulle equazioni di Einstein del campo gravitazionale. Dette equazioni sono probabilmente le più importanti di tutto il corpo delle teorie classiche, insieme con quelle di Maxwell del campo elertromagnetico. Mentre esistono numerosi tentativi di generalizzazione delle equazioni di Maxwell (passando ad esempio dal campo elettromagnetico ai campi di Yang-Mills; tanto che 212

quasi tutte le moderne teorie di gauge si ispirano alle equazioni di Maxwell), le equazioni di Einstein non sono state applicate, invece, a campi diversi da quello gravitazionale. Anche se, come tutte le equazioni differenziali, esse non contengono alcuna lunghezza fondamentale intrinseca: cosl che, a priori, esse possono essere usate per descrivere cosmi grandi come il nostro, o molto più grandi, o molto più piccoli. La strada che vogliamo intraprendere si propone, come primo obiettivo, di esplorare fino a che punto i metodi della relatività generale (RG) possono essere applicati con successo (oltre che alle interazioni gravitazionali) al mondo delle cosiddette interazioni nucleari o forti (5): cioè al mondo delle particelle fondamentali dette adroni. Un secondo obiettivo si ricollega al fatto che la teoria standard (QCD) delle interazioni forti incontra difficoltà nello spiegare perché i costituenti degli adroni (quark) appaiano permanentemente confinali all'interno di tali particelle; nel senso che mai, finora, si è visto un quark isolato, «libero», al cli fuori di un adrone. C.Osl che, per spiegare detto confinamento, si è dovuti ricorrere a modelli fenomenologici, come quelli detti a «bag». Il confinamento può essere invece spiegato in modo naturale, e sulla base di una teoria solida come la RG, quando si associ ad ogni adrone [protone, neutrone, pione, ... ] un opportuno modello cosmologico.

3. Modelli a Micro-universi Vediamo di giustificare più da vicino l'idea che le particelle che interagiscono fortemente (gli adroni, appunto) possano essere dei micro-universi. Un primo motivo ispiratore lo si incontra nelle cosiddette «coincidenze dei grandi numeri», note empiricamente da parecchi decenni, e messe in evidenza da H. Weyl, A.I. Eddington, O. Klein, P. Jordan, P.A.M. Dirac, e altri. La più nota di queste osservazioni empiriche è che il 213

rapporto R/r tra il raggio R::d O'•m del nostro cosmo ( uni verso grovitazionnle) e il raggio tipico, r= 10-um delle particelle elementari è grosso modo uguale nl rapporto S/s tra la intensità S del campo nucleare («forte») e la intensità s del campo gravitazionale (per una definizione di S, s si veda più avanti). Ciò suggerisce immediatamente l'esistenza di una similitudine, in senso geometrico-fisico, tra macrocosmo e adroni. Sulla base di una tale similitudine, infatti, la teoria dei modelli ci dice subito - attraverso semplici considerazioni dimensionali - che, contraendo il cosmo di un fattore p-1"'R/r= 10"" 1 (trasformandolo cioè in un microcosmo adsonico simile al precedente), nello stesso rapporto aumenta l'intensità del campo (passando così da campo gravitazionale a campo forte). Poiché, poi, la durata tipica di un decadimento è inversamente proporzionale alla intensità dell'interazione stessa, si può analogamente spiegare perché la vita del nostro macrocosmo gravitazionale ( = 10 11 s circa, dusata - ad es. - di un ciclo completo espansione/contrazione, se si accetta la teoria del big bang ciclico) è multipla secondo il medesimo rapporto della vita tipica (', in verità ce ne sono almeno sette che possono essere così parafrasate e riassunte: 1: «Esiste un mondo esterno»; 2: «La teoria non costruisce tale mondo esterno»; 3: «Elementi di tale mondo esterno sono dati (e non /alti) solo tramite esperimenti»; 4: «La teoria arriva a toccare un elemento della realtà quando essa riesce a predire con certezza il valore della relativa quantità fisica senza disturbare il sistema»; 5: «Una teoria deve essere completa"»; 6: «Una teoria è soddisfacente solo se è completa ed è empiricamente corretta»; 7: «La realtà è separabile,'».

" Un modello quantistico, nel senso da noi dato a tale termine, pub essere, ad esempio, quello descrivente una buca di potenziale unidimensionale e tanto noto agli studenti di fisica per il suo costituire uno dei banchi di prova delle loro prime conoscenze di meccanica quantistica.

" M. ]AMMER, The philcsophy of quantum mechanics, ]. Wiley, New York 1974, pp. 184-5. " Una teoria fisica è detta completa quando ogni elemento della realtà fisica ha una contropane nella teoria fisica. Cfr. A. EINSTEIN, B. PoDOLSKY, N. RosEN, cii., p. 777. " La realtà è detta separabile quando, dopo che due sistemi hanno interagito fra loro, nessun mutamento può avvenire nel secondo come conseguenza di qualcosa che è awenuto nel primo. Cfr. lvi, p. 779.

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Questi sette assunti costituiscono parte di quella che è la Weltanschauung einsteniana, almeno per quanto riguarda la teoria in oggetto. Essi sono tutti degli assunti ontologici ed epistemologici sull'esistenza e sulla struttura del mondo e sulla struttura e sul valore delle teorie che devono coglierlo e, come tali, sono delle credenze che possono essere accettate o rifiutate sic et simpliciter, o, al massimo, argomentate positivamente o negativamente, ma mai dimostrate vere o false tramite la ragione o l'esperimento. Comunque, EPR, partendo da una tale Weltanschauung, vanno ad esaminare Qo. Da tale analisi, come è ben noto, essi concludono che la meccanica quantistica è una teoria incompleta e che quindi sarebbe auspicabile la costruzione di un Qepr, ossia di un'immagine quantistica del mondo completa e che tenga conto dalla separabilità ontologica di quest'ultimo. Ma, in realtà, essi giungono alla conclusione, della quale non ne sono però completamente consapevoli, che pur non essendo Qo compatibile con Wepr, non è detto che Qo sia sempre incompatibile con ogni intuizione del mondo. Ad esempio, esiste Wo, ovviamente diversa e forse incommensurabile con Wepr, che è completamente compatibile con Qo. In pratica, EPR prima considerano l'immagine quantistica ortodossa del mondo e poi la rifiutano in base ad una intuizione del mondo diversa da una di quelle possibili che sottendono tale immagine. Solo partendo dalla loro intuizione del mondo si arriva alla conclusione che Qo è incompleta e che quindi bisogna modificarla, magari introducendovi delle variabili nascoste. Con questo si vuol dire che quello che viene chiamato il «paradosso di EPR» in realtà è tale solo per chi accetta o parte da Wepr, mentre per chi parte da Wo, costituito da credenze diverse sia sul mondo che sulle teorie che lo trattano, esso non sussiste. Questo momento della disputa sui fondamenti della meccanica quantistica è caratterizzato dall'essere puramenente filosofico: è il tipico esempio di una lotta tra due We/tanschauungen 257

diverse ed incompatibili". Quello che vogliamo cosl evidenziare è il semplice fotto che molte discussioni sui fondamenti della fisica non riguardano né i modelli, né le immagini del mondo, bensì le intuizioni del mondo. Ed essere consapevoli cli ciò conduce a trattare ed n discutere i problemi secondo direttrici corrette. Ad esempio, se si tenesse conto di ciò non si arriverebbe agli eccessi fnntamatematici e fantafisici con cui molti ricercatori tentano di risolvere il cosiddetto paradosso di

EPRl6. 6. Conclusione Il fine a cui vorrebbe essere giunta la nostra analisi della differenza fra modelli, immagini ed intuizioni del mondo, è semplice. E cioè l'enfatizzazione del fatto che vi sono tre differenti livelli epistemologici, ognuno dei quali ha un proprio ruolo, un proprio statuto e delle proprie regole di critica. Eludere tale diversità epistemologica è, a nostro avviso, cadere in un mare di fallacie che conducono solo a rendere più confuso ed intricato lo studio dei fondamenti della fisica.

" Ovviamente non rune le discussioni sui fondamenti della meccanica quantistica ineriscono le Weltamchauungen. Non è tale, ad esempio, quella attorno al teorema di completezza proposto da J. von Neumann.

Questa riguarda il We/Jbild.

" Per una critica a questi tentativi, cfr. F. SELLERI, Scienza ed oggellività: scelte ritardate fra amici ed elellroni, «La Nuova Critica.., I-Il (1988), pp. 23-39. Per una ricostruzione del dibattito - naturalmente a partire da una ben precisa Weltanschauung -, cfr. F. SELLElll, Paradossi e realtà, Laterza, Bari I 987.

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Paradigma galileiano o paradigma indiziario?

Bruno Giorgini *

Estratto

In questo scritto suggerisco la possibilità che i metodi di ricerca in astrofisica relativistica e in cosmologia non siano sottesi (e sostanziati) dal paradigma galileiano, ma da un altro, diverso, paradigma che, seguendo lo storico C. Ginzburg, ho chiamato «indiziario». Questa ipotesi è definita, in particolare, nel contesto del «principio d'ignoranza» di Hawking. Introduzione La ricchezza e la fantasia dispiegate dall'atruale ricerca fisica, in particolare teorica, e astrofisica sembrano in alcuni casi essere molto lontane (se non stravolgere) dal metodo galileiano o, in modo più preciso, le ricerche in questi campi sembrano spesso non più sussunte e/o sostanziate dal paradigma galileiano. Ad esempio per quanto attiene la fisica dell'unificazione delle interazioni fondamentali ( teorie grandunificate, corde e supercorde, teorie di Kaluza-Klein, eccetera) che investiga la natura a energie dell'ordine di 10 17-10 19 GeV, su tempi di • Dip. di Fisica - Università di Bologna.

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10--0 sec e lungo distanze di 10-H cm, cioè nei dintorni del Big Bang, il riferimento all'esperienza appare piuttosto aleatorio, almeno nella sua forma più diretta. Inoltre un insieme di fenomeni, di eventi, di teorie del cielo, del Big Bang appunto, ai Buchi Neri, e/o le moderne cosmologie paiono non avere molto in comune con gli esperimenti «galileiani» (o con il modo in cui questo processo di ricerca è diventato un insieme di codici e protòcolli più o meno prescrittivi, perché forse Galileo non era «galileiano», come Marx non era marxista). Negli appunti che seguono intendo non dimostrare ma almeno ragionevolmente argomentare che in questi ambiti, più o meno consciamente, i ricercatori hanno abbandon2to il paradigma galileiano per sostituirlo con un diverso paradigma che ho chiamato indiziario riprendendo la dizione (e le suggestioni) usata, in altro contesto, dallo storico C. Ginzburg. Paradigma indiziario che, con l'ausilio del «principio di ignoranza» di Hawking, ho cercato di definire più rigorosamente, almeno per quanto riguarda il campo gravitazionale. È, inoltre, mia convinzione (che tento di motivare) che questo mutamento di paradigma non infici le capacità predittive delle scienze fisiche né, tantomeno, la loro potenza conoscitiva. Anzi ritengo che, nell'attuale fase di sviluppo tumultuoso e contraddittorio delle scienze naturali, il paradigma indiziario sia più conforme, aderisca meglio e, in ultima analisi, sia una via per estendere i territori della ragione e della conoscenza ai nùsteri di una narura i cui confini spazio-temporali si sono enormemente allargati e che ha messo in mostra eventi tanto multifornù e variegati da essere inimmaginabili soltanto poco tempo fa. Si pensi, per esempio, a come l'Universo si è dilatato, in poche decine d'anni, dalla via lattea (all'incirca la nostra galassia) a milioni di galassie. Oppure ad ipotesi di spazi-tempi con più di quattro dimensioni (5, 10, 11, 26, eccetera) comunemente adottate in molti lavori di fisica teorica. Laddove le dimensioni in più devono, necessariamente, essere inosservabili (dell'ordine della lunghez-

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za di Planck in genere), per cui è buona la teoria che, prima di tutto, riesce a fare dilatare le tre dimensioni spaziali usuali (più il tempo) e a fare contrarre oltre l'invisibile le altre. Come dire un vero e proprio rovesciamento epistemologico quello in cui l'inosservabilità cli una parte del mondo (o dei mondi) - le dimensioni nascoste - è la chiave di interpretazione e spiegazione (o una possibile chiave) per il resto del mondo, quello usuale a quattro dimensioni. Cosl mi viene da dire - concludendo questa introduzione - che forse aveva ragione l'antico sapiente, Eraclito, quando scriveva che «l'armonia nascosta è più forte di quella manifesta» o anche «la natura primordiale ama nascondersi».

l. Paradigma indiziario secondo Ginzburg e paradigma galileiano

Scrive Ginzburg in Spie. Radici di un paradigma indiziario: «Ciò che caratterizza questo sapere è la capacità di risalire da dati sperimentali apparentemente trascurabili a una realtà complessa non sperimentabile direttamente» (sottolinearura mia). È un sapere che va dalla critica d'arte di Morelli alla tecnica investigativa di Sherlock Holmes al giovane Freud che hanno in comune «la proposta di un metodo interpretativo imperniato sugli scarti, sui dati marginali, considerati come rivelatori. .. in tutti e tre i casi, tracce magari infinitesima/i consen/0110 di cogliere una realtà più profonda, altrimenti inattingibile» (sottolineatura mia). È un sapere che coglie «l'unicum», l'«irripetibile», «l'inimitabile», «l'individuale», il singolare aggiungo io, è un sapere tendenzialmente «muto», fondato su un paradigma che «verso la fine dell'ottocento è emerso silenziosamente nell'ambito delle scienze umane». È il paradigma del «rigore elastico» imperniato sulla capa261

citò di avere fiuto, colpo d'occhio, intuizione. È patrimonio delle donne, dei marinni, dei cnccintori. E, aggiunge «Il paradìgmn indizinrio può diventnre uno strumento per dissolvere le nebbie dell'ideologia che oscurano sempre più una struttura sociale complessa come quella del capitalismo maturo. Se le pretese di conoscenza sistematica appaiono sempre più velleitarie non per questo l'idea di totalità deve essere abbandonata. Al contrario: l'esistenza di una connessione profonda che spiega i fenomeni superficiali viene ribadita nel momento stesso in cui si afferma che una conoscenza diretta dì tale connessione non è possibile. Se la realtà è opaca esistono zone privilegiate - spie, indizi - che consentono di decifrarla». Infine Ginzburg contrappone in modo esplicito paradigma indiziario e paradigma galileiano, restringendo la validità del . primo alle scienze umane e alla medicina, assegnando al secondo il dominio della fisica e delle scienze naturali matematizzate (resta così in piedi, anzi viene codificata in modo paradigmatico e, per così dire, irriducibile, la distinzione tra le due culture, quella umanistica e quella scientifica). E lo fa con un'immagine corposa e sensitiva: « ... e certo tra il fisico galileiano professionalmente sordo ai suoni e insensibile ai sapori e agli odori, e il medico suo contemporaneo, che arrischiava diagnosi tendendo l'orecchio a petti rantolanti, fiutando feci e assaggiando urine, il contrasto non poteva essere maggiore». Un'immagine forse troppo emotiva e corposa, che suggerisce tutta la differenza concentrata nell'uso o meno dei sensi e allora è facile ribattere che coi soli sensi, l'occhio per esempio, il sole girerebbe ancora intorno alla terra. A questo riguardo già molti hanno sottolineato come «c'è il Galileo che muove da tracce, sintomi, indizi» (G. Giorello), inferendone però che, in fondo, quando il paradigma galileiano è correttamente inteso, racchiude e sussume anche il paradigma (o, meglio, la tecnica) indiziario. Vale quindi la pena cli specificare un po' meglio. Il paradigma galileiano è incentrato sull'invenzione del)'«esperimento» che non è semplice osservazione della natura 262

(anche Aristotele osservava la natura) ma riproduzione in laboratorio della natura stessa (dei fenomeni naturali). Riproduzione in laboratorio significa possibilità di depurare il fenomeno in studio dagli «accidenti» - per esempio gli attriti nei fenomeni meccanici - ed è proprio questa «depurazione» che permette la formulazione del principio d'inerzia o della legge di caduta dei gravi - di distinguere le cause dagli effetti, di misurare le grandezze in gioco isolandole l'una dell'altra, di confrontare i risultati di uno sperimentatore con quelli di un altro senza tener conto del tempo e dello spazio che li separano. Proprio come un falegname conosce una sedia costruendola, cosl Galileo conosce e fonda la nuova meccanica lei/era/mente costruendola, certo in modo analogico e per similitudine colla natura «esterna» al laboratorio. In questo contesto la predicibilità, il potere predittivo della teoria e la sua «oggettività» - garantita dalla riproducibilità dei risultati - che sono vanto delle scienze fisiche sono qualità fortemente segnate dalla possibilità/potenza di riprodurre i fenomeni. E questa potenza di riproduzione dei fenomeni si intreccia inestricabilmente con il concetto di dominio dell'uomo sulla natura, o, piuttosto, la potenza del fisico che riproduce la natura in laboratorio appare essere il modo - materialmente e storicamente determinato - in cui si concretizza sul piano della praxis l'aspirazione, la filosofia del dominio, del potere dell'uomo sulla natura. E ovviamente - viceversa; nel senso che i successi della fisica, strutturata dal paradigma galileiano, estendono, amplificano e danno corpo al dominio sulla natura, rendono questo concetto più forte fino a farlo egemonico, se non totalitario. Galileianamente dunque la scienza è lavoro, fabbricazione e invenzione del «riproducibile», modo di riproduzione dei fe110meni, che fonda (e che è fondata da) il dominio dell'uomo sulla natura: la conoscenza si esprime intrinsecamente allraverso la conoscenza della praxis della produzione e riproduzione degli eventi naturali e questo diventa il veicolo del dominio sulla natura.

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Ovviamente il pnrndigmn gnlìleinno è anche altro, ad esempio l'assunzione orgnnicn del linguaggio matematico e l'egemonia della quantità - nttrnverso il processo di misura - come mezzo di descrizione dei fenomeni (tutto ciò che scientificamente è, è misurabile, almeno in linea di principio), eccetera mn mi sembra che l'invenzione dell'esperimento nel senso sopraddetto ne sin l'elemento forte e caratterizzante di novità e di rottura rispetto nlla scienza precedente. A questo punto è interessante osservare che se, fino alla fine del 1800 si riproducevano in laboratorio fenomeni osservabili in natura, fenomeni, per cosl dire su scala umana, come per esempio i fenomeni elettrici e magnetici, in seguito non sarà più così. Per spiegare questo livello della realtà i fisici, nella prima metà del secolo, &antumato l'atomo nei suoi costituenti protone, neutrone ed elettrone, ipotizzano l'esistenza del neutrino e scrivono le relative equazioni, trovando cosl un'origine ragionevole e profonda delle proprietà chimico-fisiche della materia e dei rispettivi campi di forze. Qui siamo ancora nell'ambito di esperimenti che, in qualche modo, sono strettamente correlati a fenomeni naturali, cioè osservabili direttamente in natura quali, per esempio, l'emissione di raggi X o ~ o a da parte di materiali radioattivi. Un primo salto si ha nella seconda metà del secolo quando, con la nascita dei grandi acceleratori di particelle, vengono prodotte tniriadi di particelle effimere che, spesso, non ritroviamo fuori dagli acceleratori stessi. In un certo senso gli acceleratori sono in luogo della produzione autonoma di innumerevoli ed effimeri frammenti submicroscopici cli materia, le cosiddette particelle elementari. Ovvero sono, gli acceleratori, per così dire, l'estrinsecazione più potente e tesa del dominio sulla natura, l'estrapolazione coerente delle premesse già contenute nel primigenio laboratorio cli Galileo. Ma un salto ulteriore, qualitativo, si ha quando i fisici si pongono il problema prima della spiegazione più profonda delle particelle elementari e delle loro interazioni, poi dell'unifica• 264

zione delle interazioni fondamentali (gravitazionale, eletttromagnetica, forte, debole). Qui, a mio avviso, la corda tesa tra . il laboratorio di Galileo e il grande acceleratore di particelle, si rompe. Si rompe perché, per affrontare il problema dell'unificazione, bisogna andare a energie cosl elevate ( ~ 10 17-10 19 GeV), a distanze cosl piccole (~ 10-33 cm) e a tempi cosl minuscoli ( ~ 10-43 sec) che ogni acceleratore appare del tutto incommensurabile, ogni acceleratore e anche ogni ragionevole apparato sperimentale che possiamo costruire o inventare sulla terra. Siamo ormai cosl lontani dalla scala umana e da un qualunque terrestre laboratorio da sconfinare nella fantascienza o nella metafisica. Siamo qui obbligati a rivolgerci al cielo, cioè l'unico laboratorio adeguato appare essere l'universo, e, più propriamente, l'Universo primordiale, nelle sue fasi iniziali e più calde. Ma pensare l'Universo, per di più nei dintorni del Big Bang, come un laboratorio, seppure teorico, pone una messe di problemi epistemologici ma anche fisici non indifferente. In particolare mette in crisi, come cercherò di argomentare nel seguito, il paradigma galileiano e, più in generale, rivolgersi al cielo modifica il rapporto uomo-natura, o, anche, modifica profondamente la nostra filosofia naturale. 2. Quando l'occhio e il pensiero sono rivolti al cielo Tutta la storia dell'astronomia è pervasa dall'impossibilità di. sperimentare (in senso galileiano). Più precisamente se assumiamo la regione d'interazione, cioè la regione limitata dalla superficie iniziale dei dati e dalla superficie finale dei risultati (delle misure), nell'esperimento di laboratorio possiamo, tenuto conto delle condizioni al contorno: a) predeterminare la superficie iniziale secondo i nostri criteri definiti a-priori (per esempio, criteri di comodità o di semplicità). b) Intervenire sul fenomeno nel corso della sua evoluzione.

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c) Infine misurare e leggere i risultati, cioè inserirli in una teoria già nota o utilizzarli come indicatori per una nuova, possibile teoria. I due principi che definiscono i limiti dell'interazione osservatore-osservato sono quelli di azione e reazione, nel caso classico, e quello d'indeterminazione nel caso quantico. Ovvero, nel corso di un'esperienza galileiana, l'osservatore interagi-

sce dire/tamente con /111/a la regione d'interazione. Nel caso dell'osservazione astronomica invece l'osservatore interagisce soltanto con la superficie finale, quella delle misure, può unicamente osservare e decifrare la radiazione ottica, X, radio, ecc... che riceve sulla terra e tentare di estrarne delle informazioni sulla sorgente (una stella, un quasar, una galassia, ecc... ). Mai l'osservatore astrofisico può intervenire sulla sorgente. La natura che investiga è assolutamente indenne dal suo dominio; l'oggello è pienamente irriducibile al sog-

gello. Eppure questa impossibilità di fare l'esperienza galileiana, questa profonda differenza nella relazione soggetto oggetto, tra l'esperimento galileiano e l'osservazione astrofisica non inficia (né modifica) lo statuto di scienza «galileiana» dell'astr0nomia. L'astrofisica e l'astronomia continuano ad essere sussuntc dal paradigma galileiano tramite l'affermazione che le leggi della fisica scoperte sulla terra - nel laboratorio terrestre o nei suoi immediati dintorni - sono valide e/o estendibili a qualunque punto dell'Universo. Per esempio, nel diagramma di Hertzsprung-Russel del 1914, dove vengono classificate le stelle più vicine a noi, oltre a quelle della sequenza principale, quelle «normali», ce ne è una, Eridanus B, che è chiaramente anormale, deviante. Si tratta di una «Nana Bianca», il primo di una lunga serie di monstra che dovevano, in pochi anni, comparire nel cielo dell'astrofisica. Su base classica le Nane Bianche erano inspiegabili e, d'altra pane, nessuno poteva pensare di andare a vedere come funzionavano in loco o di riprodursele in laboratorio. Ma in-

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tanto Fermi, Dirac, Bose, Einstein fondavano la meccanica statistica quantica e Fowler, nel novembre del 1926, pochi mesi dopo la pubblicazione del lavoro di Dirac, utilizzò questi risultati per spiegare la formazione e la stabilità delle Nane Bianche. Dunque una stella, una galassia, un quasar, «si vedono» e, sulla base di questa visione, si possono fare dei modelli dell'oggetto osservato estrapolando a grandi distanze spaziotemporali le leggi fisiche scoperte nel laboratorio terrestre. Fino alle Relatività, speciale e generale, che, in particolare quest'ultima, permettono di arrivare a una teoria coerente e globale dello spazio-tempo; in ultima analisi, introducendo dei dati fenomenologici (ad esempio, quanta materia c'è nell'universo), di costruire e/o inventare dei modelli del cosmo nella sua totalità. Ma, proprio con la Relatività Generale, le cose si complicano cosl come si complicano - e sono le due facce della stessa medaglia come vedremo in seguito - quando si srudiano eventi come il Big Bang o i Buchi Neri. Nel 1964 veniva scoperta nel cielo un'emissione radio alla temperatura di 3 (tre) gradi Kelvin che aveva le caratteristiche di una radiazione di fondo, omogenea e isotropa. Dicke e altri interpretarono questo dato osservativo - la cosiddetta radiazione di fondo di corpo nero - come il residuo dell'esplosione primordiale, il Big Bang, teorizzato da Gamow nel 1946, da cui ebbe origine l'attuale universo. Come si vede un dato osservativo (la radiazione a 3"K) è assunto, in questo caso, come indizio dell'effetto di una causa (il Bing Bang) per definizione non sperimentabile e nemmeno

direttamente osservabile. La black body radiation è la traccia di una realtà «inattingibile», di un evento «esploso» una volta per tutte, che non si può né osservare né sperimentare; ovvero il Big Bang non è galileiano, nemmeno nel senso lato in cui potrebbero definirsi galileiane le Nane Bianche di cui abbiamo parlato sopra. Eppure, corretta o sbagliata che sia (e la maggioranza dei ricercatori la ritiene oggi corretta), l'ipotesi del Big Bang è 267

sicuramente un'ipotesi scientifica, il non galileiano Big Bang fa parte certamente del corpus della scienza, delle moderne astrofisica e cosmologia. Ma se il Big Bang fosse il solo fatto «anomalo» rispetto al paradigma galileiano - un evento unico avvenuto un volta per tutte e che si perde nella notte dei tempi - potremmo essere in presenza della classica eccezione che conferma la regola e dunque non porci problemi cli paradigma, epistemologici o di filosofia naturale. Quando però affrontiamo il problema del collasso gravita• zionale delle stelle dense e iperdense le anomalie si moltiplica• no. Già nd 1798 Pierre Simon Laplace aveva osservato, che sulla base dei principi cli Newton - potevano darsi condizioni fisiche in cui l'attrazione gravitazionale di un corpo diventava così forte da trattenere gli stessi raggi luminosi. Ma, fino al 1920, il lavoro cli. Laplace resta poco più che una curiosità, una previsione formalmente ineccepibile ma, rea• listicamente, impossibile. A partire da questo periodo la Relatività Generale fornisce una base teorica (che diventerà abbastanza presto la base) per la comprensione scientifica dell'universo, inteso come totalità, governata da sue proprie leggi di evoluzione. D'altra parte, quasi contemporaneamente, i lavori e i risultati sulla struttura e sull'evoluzione stellare segnano la nascita dell'astrofisica moderna. Nel collasso gravitazionale delle stelle dense e iper-dense le due problematiche, queste due vie della conoscenza, si intrecciano inestricabilmente, diventano le due facce della stessa medaglia. Basti pensare che, se per le Nane Bianche gli effetti relati• vistici sono trascurabili per quanto attiene la struttura e significativi per la stabilità, la pulsazione, la formazione, per le Stelle cli Neutroni la Relatività Generale induce effetti correttivi di ordine due ( 2) sulla struttura e sui periodi di vibrazione. In questa linea cli ricerca incontriamo la previsione dell'esi• stenza dei Buchi Neri: ciascun corpo astrofisico con una massa 268

superiore a 2-3 masse solari inevitabilmente collassa a un raggio cosl piccolo da creare una curvatura spaziotemporale tale che nessuna comunicazione è possibile con il resto dell'Universo. O, in un altro linguaggio - per i nostri scopi equivalente i Buchi Neri sono oggetti con una attrazione gravitazionale cosl grande da trattenere i raggi luminosi. Cioè noi non possiamo avere alcuna informazione diretta né sulla loro presenza né sulla loro struttura. Da una parte siamo nella stessa situazione che abbiamo già visto per il Big Bang ma, dall'altra, i Buchi Neri sono degli oggetti molto più comuni; devono trovarsi, se esistono, nel nostro «normale» ambiente astrofisico (la nostra galassia o qualcuna di quelle più vicine, per esempio). E però i Buchi Neri, dal punto di vista del paradigma galileiano, non esistono: per loro non solo è impossibile la sperimentazione ma anche l'osservazione. Eppure, in modo congetturale e analogico, sono stati stabiliti, per esempio, i quattro principi della meccanica di Buchi Neri, simili ai principi della termodinamica, principi che si studiano - tanto per dire - in qualunque corso di astrofisica relativistica avanzato. In sostanza dei cacciatori pazienti, rigorosi, elastici e pieni di fantasia hanno cercato delle tracce nel mondo dei segni matematici, inventato delle grandezze e delle- definizioni, pensato delle tecniche per osservare gli effetti indotti dalla presenza di un Buco Nero sullo spazio circostante, al fine di cogliere «una realtà altrimenti opaca», impermeabile allo sguardo e alla comunicazione. Esattamente come possiamo tentare di comprendere le caratteristiche di chi abita una stanza, senza conoscerlo, personalmente, e senza mai nemmeno vederlo, dai libri che ci sono, dagli abiti negli armadi, ecc., cioè dalle tracce, dai segni che lascia. Oppure, viceversa, presumendo, sulla base di una teoria, alcune caratteristiche di un individuo, di un possibile abitante, si possono esplorare tutte le stanze a caccia delle sue tracce,

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dei segni congruenti con le ipotesi teoriche, cli indizi della sua presenza in una delle stnnze, snpendo che direttamente non lo si vedrn mni, che egli è, per 11at11ra, invisibile. Questo è un metodo cli ricerca basato su tracce quasi impercettibili, sulla capacità di invidunre e leggere «scarti» e «residui,., di affrontare problemi nascosti nelle pieghe o relegati al margine, sul confine; una ricerca su e di oggetti «devianti» e, proprio per questo, estremamente significativi per la storia dell'Universo. Un metodo che molto difficilmente e, per cosl dire, soltanto arrampicandosi sugli specchi, può essere assimilato al metodo galileiano, tanto più che non c'è nessuna esperienza da fare, né alcun oggetto o fenomeno da riprodurre in laboratorio. Piuttosto assomiglia a quello descritto da Ginzburg nell'articolo citato - a un metodo, in qualche sorta, indiziario. Se, di fronte ai Buchi Neri, il fisico galileiano è impotente, l'astrofisico «indiziario» trova invece le strade, seppur non sempre luminose e lineari, anzi spesso nascoste e segrete, per comprenderli, per disvelarli, forte - e non è questo un dato secondario - di una teoria. Ma, si dice, la forza del paradigma galileiano è, tra l'altro, il suo potere predittivo. In effetti, in quanto a previsioni, gli astrofisici e i cosmologici non scherzano. Per esempio su «Sky and Telescope» - rivista di alta divulgazione - nel 1979 J.N. Islam, dell'università cli Cambridge, scriveva: «In circa 100 bilioni di anni la galassia sarà un sistema di Buchi Neri, Stelle di Neutroni e Nane Bianche» e, per l'Universo « ... così in circa 10" anni l'Universo consisterà di Buchi Neri galattici e supergalattici che si allontanano l'uno dall'altro mentre Stelle di Neutroni, Nane Bianche ormai fredde, piccoli Buchi Neri vagano singolarmente nello spazio vuoto» e infine dopo (10 10 ) 77 anni - la cosiddetta età di Dyson - «l'Universo diventa pura radiazione che tende allo zero assoluto». Sottolineo che non a caso ho scelto un articolo abbastanza

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vecchio e pubblicato su una rivista di alta divulgazione, cioè in cui si raccontano i risultati e/o le ipotesi date, più o meno, per acquisite, ovviamente in un certo ambito storico o, se si vuole, rispetto ad un certo modello, nel nostro caso cosmologico. Il che non vuol dire che non ci siano altri modelli evolutivi dell'universo che producono previsioni diverse da quelle citate. Quello però che qui preme rilevare è, comunque, la potenza di un pensiero che osa spingersi oltre ( 10' 0 ) 77 anni nel futuro, continuando a caratterizzarsi (o ad autodefinirsi) come pensiero scientifico. Anche se, ancora una volta, qualunque verifica diretta di queste previsioni è improponibile - se non addirittura impensabile - E, in questo senso, il legame cosl stretto nel paradigma galileiano, tra riproducibilità dei fenomeni e potere predittivo della scienza stessa, si allenta molto, fin quasi a sciogliersi.

3. Dove il Bing-Bang e i buchi neri diventano singolarità con qualche epistemologica riflessione Ristrutturiamo, a questo punto, la narrazione. Tra le forze fondamentali del mondo fisico la gravità ha un ruolo dominante su grande scala. Questo perché l'interazione forte e quella debole sono a corto range ( ~ 10-13 cm o meno) e, sebbene quella elettromagnetica sia a lungo range, la repulsione di cariche dello stesso segno è, nei corpi macroscopici, esattamente bilanciata dall'attrazione cli cariche di segno opposto. Inoltre la gravità è sempre attrattiva, così i campi gravita• zionali di tutte le particelle di un corpo si sommano dando luogo a una forza gravitazionale che, per corpi abbastanza grandi, domina tutte le altre forze. Non solo ma la gravità influenza ogni particella nello stesso modo e deflette la luce. Per questo - poiché nessuna infor271

mozione può vingginre più veloce della luce - In gravità deter• minn la strutturi\ cnusnle dello spnzio-tempo su larga scala. Inoltre se nbbinmo, in unn certn regione dello spazio, sufficiente quantità di materia, è possibile ipotizzare una attrazione grnvitnzionnle cosl forte da trattenere i raggi luminosi, incurvandoli su se stessi, fino n rimanere intrappolati nel corpo: i Buchi Neri di cui abbiamo già parlato. Per esprimere più precisamente questo concetto possiamo usare un'idea abbastanza recente dovuta a Penrose, quella di closed trapped surface (Superficie chiusa intrappolata)', una regione in c11i materia e radiazione elettromagnetica restano intrappolate all'interno di confini che tendono a 1.ero in un tempo finito: abbiamo cosl quella che si dice una singolarità. In due casi possiamo aspettarci di avere una closed trapped surface. Il primo è il collasso gravitnzionale di una stella più pesante di 2-3 masse solari, che porta ai Buchi Neri, che sono quindi singolarità del continuo spazio-temporale però nascoste, non visibili al resto dell'Universo. Il secondo è quello dell'intero Universo che contiene abbastanza materia per produrre una closed trapped surface e quindi una singolarità nel passato, per cui la presente espansione è il frutto dell'esplosione (Big Bang) di questa singolarità inizia• le e il nostro Universo può essere pensato come un Buco Nero (nessun raggio luminoso può fuoriuscire dall'Universo stesso). E, dopo decenni di battaglie contro l'insorgenza di questi «monstra» - le singolarità - che ogni volta però si ripresenta• ' Consideriamo una sfera G attorno al corpo fisico in studio e ad un ceno istante t supponiamo che G emetta un flash luminoso; ad un ceno altro tempo t + t.t i fronti d'onda entranti cd uscenti formeranno le sfere G, e G,. Normalmente l'arca di G, (fronte entrante) sarà minor