Dogma, teologia e pastorale: Un teologo parla (Italian Edition) 9789887897095

La testimonianza coraggiosa di un grande teologo, l'ultimo esponente della grande scuola romana di teologia che ann

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Italian Pages 75 [66] Year 2018

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DOGMA, TEOLOGIA E PASTORALE
Indice dei contenuti
Biografia Mons. Antonio Livi
Prefazione
Introduzione
Teologia come vocazione
Teologia come scienza
L'oggetto della teologia
Teologia o teologie?
Teologia e liturgia
Teologia e morale
Libri di Antonio Livi
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Dogma, teologia e pastorale: Un teologo parla (Italian Edition)
 9789887897095

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Antonio Livi (con Aurelio Porfiri)

DOGMA, TEOLOGIA E PASTORALE

Un teologo parla

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First Ebook edition: December 2018

ISBN: 9789887897095

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Indice dei contenuti

Biografia Mons. Antonio Livi Prefazione Introduzione Teologia come vocazione Teologia come scienza L'oggetto della teologia Teologia o teologie? Teologia e liturgia Teologia e morale Libri di Antonio Livi

Biografia Mons. Antonio Livi

Nato a Prato il 25 agosto 1938. Ordinato sacerdote nel 1963. Direttore spirituale del Seminario romano per le vocazioni adulte dal 1967 al 1971; Cappellano di Sua Santità dal 1998. Direttore spirituale del Seminario arcivescovile di Benevento dal 200 al 2005. Attualmente fa parte del Clero romano ed è vice rettore della chiesa di Sant’Andrea del Vignola. Autore di numerosi scritti tra cui ricordiamo Vera e falsa teologia (di prossima pubblicazione), Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede, Metafisica e senso comune. Per l'intera bibliografia si rimanda a: www.antoniolivi.com Incarichi culturali e attività accademiche Caporedattore della rivista mensile Studi cattolici dal 1972 al 1982. Membro dell’«Arcipelago, International Society for the Unity of Sciences» a partire dalla sua istituzione nel 1990. Socio ordinario della Pontificia Accademica di San Tommaso dal 1992. Fondatore e presidente dell’Associazione internazionale “Sensus communis” (Roma) dal 1998. Fondatore e direttore (dal 1994) della “Grande Enciclopedia Epistemologica”, collana di monografie di argomento epistemologico, edita prima dalle Edizioni Romane di Cultura e poi dalla Casa editrice Leonardo da Vinci. Fondatore e direttore della rivista filosofica Sensus communis. Annuario di logica aletica (dal 1999). Docente di Logica e Filosofia della conoscenza nella Pontificia Università Lateranense (1993-1996); professore stabile ordinario della stessa materia dal 1996. Docente di Antropologia alla Libera Università “Campus Bio-medico” (Roma) nell’anno accademico 19931994. Visiting professor nell’Università di Navarra (Spagna) e nella Pontificia Università della Santa Croce (Roma) dal 1996. Professore di Filosofia presso lo Studio Teologico di Benevento, affiliato al Pontificio Ateneo “Antonianum” (Roma), dal 2000 al 2005. Direttore editoriale della Casa editrice Leonardo da Vinci (Roma) dal 1999. Direttore della rivista internazionale di filosofia Aquinas dal 2002 al 2008. Decano della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense dal 2002 al 2008. Collaboratore dei quotidiani L’Osservatore romano e L’Eco di Bergamo, nonché di vari periodici culturali, tra i quali Filosofia oggi (Genova) Rivista di filosofia neo-scolastica (Milano) Per la filosofia (Pisa-Roma) Doctor Communis (Città del Vaticano) Acta

philosophica (Roma) Divus Thomas (Bologna) Tópicos (Città del Messico) Nova et vetera (English Edition, New York) Palabra (Madrid) Nuestro Tiempo (Pamplona) Istmo (Città del Messico) Humanitas (Santiago del Cile) Metafisica y Persona (Malaga, Spagna) Studi cattolici (Milano) Il Timone (Milano) Città di vita (Firenze) Sacerdos (Roma) Cultura & Libri (Roma) Espiritu (Barcelona) e Sapientia (Buenos Aires). Professore emerito della Pontificia Università Lateranense dal 2008. Collaboratore scientifico dei seminari filosofici organizzati dall’Ipe (Istituto per le attività educative) di Napoli. Direttore del Comitato scientifico per l’edizione delle opere complete del cardinale Giuseppe Siri, a cura di Fabrizio Serra Editore (Pisa-Roma), con i patrocinio della Fondazione Kepha. Membro del Comitato scientifico della rivista on-line Metafisica y Persona (Malaga, Spagna), diretto da Tomás Melendo Granados. Membro del Comitato scientifico della Cattedra “Gloria Crucis” (promossa dai Padri Passionisti e operante presso la Pontificia Università Lateranense. Fondatore e presidente (dal 2010) di “Fides et ratio” – Unione apostolica per la difesa scientifica della verità cattolica (www.fidesetratio.com).

Prefazione

Riccardo Cascioli

Devo ringraziare Aurelio Porfiri per averci regalato questa piccola “summa” del pensiero di monsignor Antonio Livi. Così in poche pagine tutti hanno la possibilità di comprendere sia la chiave interpretativa della notevole opera filosofica e teologica di Livi – che poi ognuno potrà approfondire in questo o quell’aspetto prendendo in mano i suoi volumi - sia la radice della crisi in cui oggi si dibatte la Chiesa. Dalle sue parole e dai suoi esempi si può comprendere bene come il sentimento, anzi il sentimentalismo, abbia preso il sopravvento sulla ragione, di come la pastorale sia diventata un modo per scardinare la dottrina, di come la percezione soggettiva abbia cancellato l’oggettività della rivelazione. Con un rapido excursus attraverso la teologia, la mistica, la liturgia, la morale possiamo apprezzare il metodo rigoroso e la fede che fa dell’opera di monsignor Livi un punto di riferimento fondamentale in questi tempi di disorientamento. In queste pagine egli risponde anche ai suoi critici, soprattutto a quei giornalisti che amano dividere la Chiesa secondo logiche politiche: progressisti e conservatori, con papa Francesco e contro papa Francesco, buoni e cattivi. Dividere il mondo e i fedeli in tifoserie è un bel modo per evitare di confrontarsi sui contenuti. Monsignor Livi esce da questa logica, è chiaro che gli interessa soltanto ciò che porta a Dio, ci aiuta a discernere la vera teologia, che a Dio ci avvicina, dalla falsa teologia, che invece ci porta lontano senza neanche che ce ne accorgiamo. È la stessa rigorosità e lo stesso amore alla verità che ho potuto apprezzare in questi anni in cui ha volentieri collaborato al quotidiano online La Nuova Bussola Quotidiana ( www.lanuovabq.it) che dirigo. Contrariamente a ciò che una certa narrazione vuole far credere, lo sforzo di presentare la dottrina che la Chiesa ci tramanda da due millenni non è affatto rigidità e freddezza dal punto di

vista umano. Anzi, ho sempre potuto apprezzare in monsignor Livi la passione di un vero pastore, ovvero la trepidazione per il destino del gregge che gli è affidato, la preoccupazione di portare ciascuno per la strada diretta verso il Bene ultimo, Dio e la vita eterna. Non posso dunque non ringraziare Dio per avermi messo al fianco per un tratto del mio cammino monsignor Livi, e monsignor Livi per la pazienza e l’attenzione dimostrata nell’indicare ai nostri lettori la strada retta.

Introduzione

Aurelio Porfiri

Conosco Monsignor Antonio Livi da molti anni, da decenni. Può essere interessante capire come sono venuto a conoscerlo. Quasi trent'anni fa, una persona al tempo a me molto cara era impegnata in una tesi di laurea sul grande filosofo cattolico padre Cornelio Fabro. Allora, con lei, cominciai a frequentare convegni in cui si ricordava la figura di questo gigante del pensiero cattolico. A quel tempo ero anche vicino al passionista Enrico Zoffoli, che di Cornelio Fabro aveva grande stima. Al tempo erano ancora vivi molti dei grandi esponenti della scuola romana di teologia: Antonio Piolanti, Brunero Gherardini, Dario Composta, Luigi Bogliolo, Enrico Zoffoli, Raimondo Spiazzi...devo dire che mi ritengo fortunato di averli conosciuti tutti, alcuni in modo più approfondito di altri. Fra coloro che venivano sempre citati con grande rispetto e considerazione c'era Antonio Livi, l'unico tra questi ancora vivente. Lo conobbi e visitai un giorno nel suo studio al Laterano. A volte poteva dare l'impressione di avere un atteggiamento severo, ma in realtà aveva sempre in dote una certa gentilezza, nascosta dal suo temperamento forte ma riservato. E non si poteva comunque, a prescindere dai dati personali, non ammirare la sua adesione alla grande tradizione teologica cattolica, pur se rivista alla luce della sensibilità moderna (rettamente diretta). Da quel momento non posso dire di averlo sempre frequentato, anzi per lunghi periodi ci siamo anche persi. Negli ultimi anni ci siamo però ritrovati e da questa recente frequentazione che ha accresciuto la nostra amicizia e che è stata certo favorita dalle nuove tecnologie, mi è venuta l'idea di questo libro. Io credo che bisogna tenere vicini e come grandi doni coloro che ci possono essere maestri. Essi sono una benedizione che Dio ci manda per aiutarci nel nostro pellegrinaggio terreno. Non sarà questo libro che darà la misura della grandezza di Monsignor Antonio Livi, ma il mio scopo è un altro. Quello di fornire un dito che indichi la luna, uno strumento che invogli poi a leggersi i

lavori più impegnativi per scoprire un pensatore originale, dalla forte tempra e sempre fedele al perenne insegnamento della Chiesa. Ecco lo scopo di questo testo. Chi volesse approfondire il suo pensiero dovrebbe leggere il testo di William J. Slattery pubblicato dalla casa editrice Leonardo da Vinci, creatura dello stesso Mons. Livi. Qui, in questo libricino, c'è solo una riflessione fatta da lui sulla teologia. All'inizio, come per altri testi della mia casa editrice, avevo pensato ad un dialogo, ma poi ho pensato fosse meglio lasciare a lui l'iniziativa e ritirarmi nel ruolo di sollecitatore. Nato nel 1938, ordinato sacerdote nel 1963, è stato allievo del grande pensatore francese Étienne Gilson. Insegnante alla Pontificia Università Lateranense, ha lì formato schiere di studenti ed allievi. Le sue riflessioni sul senso comune, sulla logica aletica sono di fondamentale importanza. In una recensione di Alessandro Sanmarchi sul volume di Antonio Livi "Verità del pensiero. Fondamenti di logica aletica", così la logica aletica viene spiegata: " La logica aletica , oggetto del volume che presentiamo, è la dottrina che si pone il problema di una logica materiale del pensiero, indagando i presupposti da cui dipende il contenuto veritativo, e non la pura coerenza formale, dell’argomentazione speculativa. Avendo dunque come oggetto proprio l’essere veritativo, che si distingue ad un tempo sia dall’essere reale sia dall’essere come coerenza formale, la logica aletica viene a coincidere con la ricerca stessa sulla possibilità e sui fondamenti del realismo gnoseologico. Tuttavia l’indagine fondazionale condotta dall’autore, pur collocandosi nell’alveo del realismo aristotelico-tomistico, ne allarga notevolmente gli orizzonti, armonizzando la dottrina tradizionale con tutta una serie di apporti, storicamente ad essa successivi, che ne attualizzano e ne rinvigoriscono gli ‘anticorpi teoretici’ rispetto ad ogni forma di apriorismo razionalistico o di scetticismo conoscitivo". Insomma, Mons. Livi si è impegnato tutta una vita per dimostrare che due più due fa quattro, e oggi questo non è proprio scontato. Fra i suoi innumerevoli testi, mi permetto di ricordare "Vera e falsa teologia", in cui smaschera tanti idoli di certo pensiero cattolico contemporaneo. Questo non gli ha attirato amicizie, ma non credo che lui se ne curi più di tanto. In una conferenza del maggio 2018 Mons. Livi osservava: " Per orientare tutti i fedeli a considerazioni che rendano più certa la loro fede – senza dare ascolto alle interessate deformazioni dell’attualità ecclesiale operate dai media - è necessario sottrarre il dibattito al contesto (improprio) delle opposte ideologie e ricondurlo al contesto che gli è proprio, ossia alle categorie epistemiche della teologia fondamentale, le sole che possano fornire i criteri di discernimento

riguardo a ciò che impegna la fede di un cattolico. Grazie a queste categorie epistemiche i fedeli possono individuare, nelle proposte pastorali, ciò che deve (o almeno può) essere accettato in quanto logicamente collegato alla fede della Chiesa, distinguendolo chiaramente da ciò che invece deve essere respinto in quanto contrario alla fede della Chiesa e sostenuto solo da argomenti retorici, non importa se ispirati dall’ideologia conservatrice o da quella riformatrice. In altri termini, si tratta di distinguere ciò che deve essere creduto perché legittimamente proposto dal Magistero come applicazione certa del Vangelo, da ciò che invece può solo essere eventualmente condiviso perché proposto da un’autorità privata in forma ipotetica, come mera opinione. Queste fondamentali distinzioni epistemiche serviranno, da una parte, per rifiutare decisamente qualsiasi proposta incompatibile con la fede della Chiesa, e dall’altra per non dare imprudentemente il proprio assenso di fede a delle proposte che, per quanto compatibili con la fede della Chiesa, sono però mere ipotesi teologiche sulle quali il Magistero non si è ancora pronunciato". Soltanto con la lettura di queste righe si può capire che a Mons. Livi non è mai interessato di essere conservatore o tradizionalista, ma di essere cattolico integrale, che non significa integralista. La Chiesa cattolica in passato è stata la più straordinaria interprete di ogni contemporaneità, producendo uomini e donne che con la loro fede, la loro attività, la loro cultura, hanno saputo cambiare il corso della storia. Il problema non è destra o sinistra: il problema è quale è il centro. Del tema del centro e la sua importanza nella religione parla Mircea Eliade in uno dei suoi testi più importanti. Si troveranno in questo volumetto varie tematiche, che lui affronterà in riguardo alla sua amata teologia con il piglio solito. Doveva essere un testo un poco più ampio ma siamo stati frenati da ragioni di salute. Comunque c'è abbastanza. Parlerà della morale, della liturgia, dei fondamenti della liturgia e di altri temi. Come ripeto, un testo introduttivo che non intende fornire un panorama completo ma solo essere quel famoso dito di cui parlavo prima. Se volete capire di più, guardate nella direzione che il dito vi indica: non ve ne pentirete.

Teologia come vocazione

Aurelio Porfiri - Mons. Livi, Lei come me dirige una casa editrice. La Sua, la Leonardo da Vinci, pubblica testi di filosofia, di scienze umane e di teologia, sulla base di criteri scientifici derivanti dalla logica e dall'epistemologia. C'è anche in Lei, suppongo, un criterio apostolico nella scelta dei testi, un filo rosso che fa capo alla necessità di combattere le tendenze eterodosse e a riportare nella teologia cattolica l’impegno di promuovere la vera fede. Antonio Livi - Quando fondai la Leonardo da Vinci (nel 1999), io riversai in questa impresa culturale tutte le idee che avevo maturato nei precedenti per trent’anni, interamente spesi alla ricerca del criterio di base per la valutazione della verità di ogni tipo di asserto, sia esso pragmatico (morale, religioso, politico) oppure scientifico (scienze fisico-matematiche, scienze umane, scienze storiche e sociali, metafisica, teologia). Avevo raggiunto la convinzione che la verità di ogni giudizio dipende dalla sua coerenza con tutte le premesse logiche, e in definitiva con le verità dell’esperienza fondamentale, che la filosofia moderna anti-cartesiana chiama “il senso comune”. Nel 1990 avevo pubblicato la prima edizione della mia Filosofia del senso comune: logica della scienza e della fede (Edizioni Ares). E nel 1997 avevo scritto Il principio di coerenza. Senso comune e logica epistemica (Armando Editore). Ero convinto che il rigore della critica epistemologia potesse servire all’unità del sapere (di quello valido, s’intende) e alla eliminazione di tutte le forme di pseudoscienza e di pseudosapienza. Se decisi di avviare le pubblicazioni della Leonardo da Vinci era per riunire in un coerente progetto culturale autori contemporanei in sintonia con il mio pensiero epistemologico (Evandro Agazzi, William Slattery, Ralph McInerny e Dario Sacchi per la logica e l’epistemologia; Cornelio Fabro, Tomás Melendo Granados e Vittorio Possenti per la metafisica; Carlo Caffarra, Ennio Innocenti e Jaime Mercant Simó per la teologia, Danilo Castellano per la filosofia politica; Mario Luzi, Giorgio Petrocchi e François Livi per la letteratura), riproponendo anche alcune opere classiche di pensatori medioevali e moderni (Anselmo d’Aosta, Tommaso d’Aquino, Réginald Garrigou-Lagrange, Étienne Gilson), convinto che l’approccio interdisciplinare fosse il modo più efficace per smascherare oggi le fallacie dello scientismo e i falsi miti della pace

e dell’umanesimo ateo. Anche il fatto di aver scelto, per dare un nome alla casa editrice, una figura poliedrica come Leonardo da Vinci (pittore, ingegnere, architetto, filosofo) e di aver inserito nel logo il suo motto («La semplice e mera sperienza, che è maestra vera») rivela come io sia convinto che tutto l’edificio della verità ha come base incommovibile l’incontrovertibilità dell’esperienza metafisica di base (il senso comune); è questo, infatti, il criterio scientifico che consente di distinguere in ogni campo tra le poche (ma essenziali) verità assolute e le tante verità relative (le quali, se non riconosciute come tali, fatalmente generano il fanatismo). Proprio per questo, la collana principale della Leonardo da Vinci è quella chiamata “Grande Enciclopedia Epistemologica - Il criterio della verità nella diverse forme del sapere”. Tra gli argomenti già affrontati ci sono la psicoanalisi, la biologia, la metafisica, l’etica, l’economia, l’estetica, la teologia. AP - Dunque, anche per Lei, avviare un’impresa editoriale con questi criteri di tipo epistemologico è una forma di apostolato. AL - Certamente. Io sono convinto che oggi lo strumento culturale più utile all’apostolato cristiano è la rivalutazione della ragione critica. I fedeli devono essere resi consapevoli che la logica naturale - riscoperta grazie a una conoscenza adeguata delle leggi del pensiero - è l’unica difesa possibile della verità rivelata contro le false ragioni del razionalismo ateo da una parte e del fideismo irrazionalistico dall’altra. Il mistero cristiano può essere accettato anche dagli uomini di oggi, purché si riscopra l’incontrovertibilità della certezza naturale circa l’esistenza di Dio, conosciuto come Creatore, Legislatore e Giudice, come il solo che ci può donare la salvezza (è a questo si riferiva Tommaso d’Aquino parlando dei « praeambula fidei», le verità di ragione indispensabili per poter credere agli « articuli fidei»). Il razionalismo ateo e il fideismo irrazionalistico vanno combattuti anche sul piano etico-sociale; la logica infatti aiuta ad apprezzare i progetti politici realmente rispettosi del diritto naturale e a diffidare delle utopie secolaristiche e totalizzanti (quindi totalitarie), che prima hanno combattuto la Chiesa cattolica da fuori e poi l’hanno destabilizzata da dentro, dando origine a ideologie teologico-politiche come la « teolog í a de la liberaci ó n» o la « teolog í a del pueblo», che si sono imposte nell’America Latina ma che derivano dalle idee del tedesco Johann Baptist Metz (autore del saggio Zum Begriff der neuen politischen Theologie), il quale peraltro era discepolo di Karl Rahner, ispiratore di tutte le forme contemporanee di falsa teologia.

AP - A questo proposito, il suo trattato su Vera e falsa teologia è ormai giunto alla quarta edizione (2018) e contiene un'appendice sull'esortazione postsinodale Amoris Laetitia e gli equivoci interpretativi che ne sono derivati. Lei non dice che quel documento di papa Francesco è eretico, ma dice che è ispirato da teologi eretici, a partire da Walter Kasper. In base a quali criteri, però, Lei giudica eretici alcuni teologi che il Magistero non ha ufficialmente condannato, ma anzi ha collocato in posti di grande influenza nella pastorale della Chiesa? AL - Io – non per qualche pregiudizio ma con serena e sicura coscienza - giudico eretici alcuni teologi in base a criteri di rigorosa epistemologia, quelli cui accennavo prima. La vera teologia ecclesiale (la sacra theologia) è la “scienza della fede”, ossia la riflessione operata da credenti i quali cercano di proporre ipotesi di interpretazione razionale del dogma (gli « articuli fidei» formulati dal Magistero). In questo senso la teologia vera e propria si differenzia, come scienza, da qualunque forma di filosofia: sia dalla filosofia di Dio (la cosiddetta “teologia naturale”) che dalla filosofia della religione (ivi compresa la filosofia del cristianesimo. Io dimostro nel mio trattato su Vera e falsa teologia che è falso – nel senso che non giova alla fede, anzi la svuota di significato – ogni discorso teologico che non abbia la consistenza di un sapere scientifico ma sia mera retorica; così come è falso ogni sistema teologico che, invece di presupporre la verità del dogma e di interpretarlo nei suoi termini razionali, pretende di giudicarla e di riformularla in nome di una presunta verità superiore. AP - Anche Lei, come io stesso e come tanti altri, ha parlato della situazione drammatica della Chiesa In un'intervista concessa alla rivista The Wanderer e ripresa dal Courrier de Rome lo scorso giugno, Lei ha paventato non tanto gli scandali sessuali (“la Lobby gay”) quanto il dramma della «eresia al potere». Cosa sta succedendo davvero, a Suo parere, dentro la Chiesa? AL - Succede che la falsa teologia ha preso possesso dei centri di ricerca e di insegnamento della Chiesa cattolica, e poi ha conquistato anche gran parte dell’episcopato europeo e nordamericano. Il magistero pontificio, che Cristo ha voluto dotare del carisma dell’infallibilità, non ha ovviamente approvato in modo formale alcuna dottrina eretica, ma talvolta – non in veri e propri insegnamenti dogmatici ma in discorsi finalizzati alla prassi pastorale – ha usato un linguaggio e delle categorie ideologiche che certamente derivano dalla falsa teologia. Ciò è avvenuto soprattutto con l’esortazione apostolica Amoris laetitia, e cui ambigue disposizioni sull’accesso ai Sacramenti da parte dei “divorziati risposati” ha determinato un disorientamento pastorale di tale gravità che prima

quattro cardinali hanno presentato al Papa i loro “ dubia”, poi quaranta teologi (ecclesiastici e laici) hanno scritto la nota Correctio filialis de haeresibus propagatis. AP - Nell'ultimo anno, a partire proprio dalla firma che Lei ha apposto alla Correctio filialis, Lei è stato spesso al centro di polemiche ed attacchi da parte di una certa stampa cattolica ( La Civiltà Cattolica, L’Osservatore Romano, Avvenire, Famiglia Cristiana) e da parte di giornalisti cattolici, come Andrea Tornielli, che svolgono la strana funzione di difensori d’ufficio di tutte le iniziative e di tutti i discorsi di papa Francesco. Hanno detto di lei che è un esponente del tradizionalismo, un oppositore del regnante Pontefice ed in sostanza di tutti i Papi postconciliari, anzi del Concilio stesso. Cosa si sente di rispondere ai suoi critici? AL - Rispondo rinfacciando a costoro l’assoluta mancanza di serietà professionale (come giornalisti) e di veracità (come laici cattolici o ecclesiastici). Tornielli, ad esempio, ha scritto sulla Stampa che nei miei interventi «emerge una vena di dissenso che mette in discussione il Vaticano II e tutti i successori di Pietro che l’hanno indetto, guidato, condotto a compimento e applicato ». Ciò è assolutamente falso. I miei scritti e i miei discorsi – che Tornielli non ha voluto prendere in considerazione - testimoniano il contrario. Io ho pubblicato recentemente, presso la mia casa editrice, un ottimo studio di ermeneutica teologica intitolato La dottrina del Concilio, dove l’autore (il sacerdote trentino Enrico Finotti) esprime quella che è anche la mia ovvia e notoria opinione, cioè che il Vaticano II è un atto solenne del magistero della Chiesa, la quale in questo concilio ecumenico non ha inteso formalizzare nuovi dogmi ma ha proceduto a un’interpretazione autentica dei dogmi già formulati, in chiave prevalentemente pastorale. Io ho poi pubblicato un saggio di Samuele Pinna (sacerdote milanese) sulla figura di Charles Journet, teologo svizzero che Paolo VI fece cardinale e volle al Concilio per aiutarlo nella redazione della costituzione dogmatica sulla Chiesa. Quanto ai papi successivi, basti dire che io ho dedicato numerosi studi a valorizzare la dottrina dell’enciclica Fides et ratio di san Giovanni Paolo II. E Benedetto XVI (che mi conosceva già come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e mi chiamò in Vaticano a collaborare all’esame dell’ortodossia di Antonio Rosmini), quando gli feci leggere la prima edizione di Vera e falsa teologia, mi scrisse una lettera di compiacimento. Di papa Francesco io non ho mai detto né scritto che egli sia incorso in eresie, ma ho solo deprecato il suo favore e la sua accondiscendenza nei confronti di teologi come Walter Kasper che gli suggeriscono criteri “pastorali” che presuppongono vere e proprie

eresie (sulla fede, sulla struttura della Chiesa, su rapporto con le altre religioni sui sacramenti), in contraddizione formale con gli stessi insegnamenti del Concilio. Insomma, io so distinguere il dogma dalle sue interpretazioni, e so distinguere anche la persona di ogni papa dalla funzione magisteriale che è chiamato a svolgere, non per imporre le proprie idee personali ma per proporre autorevolmente la dottrina di Cristo. Si tratta di un discernimento di fede che io sono tenuto a fare come credente, servendomi degli strumenti della logica, quando si tratta di problemi teologici. Ma a un giornalista militante come Tornielli questi discorsi non interessano, visto che a lui interessa solo la lotta di potere all’interno del mondo clericale (e infatti la sua rubrica si chiama Vatican Insider). Quando lui e altri come lui mi accusano di «dissenso» nei confronti del Vaticano II e di «tutti i papi del Concilio», fingono di dimenticare che i più acerrimi contestatori di Paolo VI (per l’enciclica Humanae vitae) e di Giovanni Paolo II (per l’enciclica Veritatis splendor) sono stati proprio Hans Küng, Carlo Maria Martini, Enzo Bianchi e Andrea Grillo, ossia gli esponenti di quella «eresia al potere» della quale ora si atteggiano a difensori, non certo per la devozione che si deve a papa Francesco, visto come vicario di Cristo al pari di ogni altro Papa, ma per gli interessi della lobby riformista che oggi detiene il potere nella Chiesa cattolica. AP - A me sembra che la falsa teologia oggi al potere abbia eliminato dal dibattito teologico contemporaneo l’autorità dottrinale di Tommaso d’Aquino, che pure è stato indicato dal Vaticano II come modello della vera teologia. Per questo mi sono rallegrato nel vedere che, tra le varie opere presenti in catalogo, la Sua casa editrice ha pubblicato Il senso comune, la filosofia dell'essere e le formule dogmatiche, del domenicano francese Réginald Garrigou-Lagrange (1877-1964), esponente di spicco del tomismo novecentesco. AL - Réginald Garrigou-Lagrange era un dotto domenicano che aveva approfondito intelligentemente la dottrina di Tommaso d’Aquino, non solo perché questa era la tradizione del suo Ordine, ma anche perché il papa Leone XII, alla fine dell’Ottocento, aveva chiesto agli studiosi cattolici di recuperare il tesoro filosofico e teologico del doctor communis, indispensabile – così ha sempre pensato la Chiesa – per preservare l’interpretazione del dogma dalle tendenze ereticali derivanti dall’influsso delle filosofie moderne incompatibili con la fede (soggettivismo, fenomenismo, idealismo, irrazionalismo). GarrigouLagrange comprese che l’utilità teologica del tomismo stava soprattutto nella dottrina dei « praeambula fidei», ossia nel corretto rapporto tra la “teologia naturale” (basata sul realismo metafisico) e la rivelazione soprannaturale

(oggetto di studio da parte della teologia sacra). Ciò lo portò a discernere, nella filosofia moderna, la tradizione idealistica (che va da Cartesio a Kant) dalla tradizione realistica (Pascal, Buffier, Reid, Vico, Jacobi, Rosmini, Balmes) dalla quale egli ricavò la nozione moderna di “senso comune”. Forte di questa struttura metodologica, Garrigou-Lagrange seppe contrastare dialetticamente i teologi modernisti (tra i quali i seguaci di Henri Bergson) e anche quelli neomodernisti (raggruppati attorno alla scuola della “ nouvelle théologie”). Si capisce perché gli attuali esponenti del neo-modernismo abbiano voluto dimenticare Garrigou-Lagrange e con lui l’utilizzo della metafisica in teologia.

Teologia come scienza

Aurelio Porfiri - Nel primo capitolo si sono toccati molti temi e lei con la sua verve ha già fatto vedere cosa bisogna aspettarsi da un testo come questo. Io vorrei che lei, in poche parole e accessibili da tutti, facesse capire in che senso la teologia è scienza. Antonio Livi - La teologia è scienza quando le sue affermazioni sono giustificate dal metodo. Nelle scienze il metodo è tutto. E c’è una scienza delle scienze – l’epistemologia o “filosofia della scienza” - che lo spiega molto bene. Le regole dell’epistemologia sono rispettate e osservate da tutti coloro che si occupano di scienza (ricercatori, insegnanti, divulgatori), almeno quando si tratta di persone che apprezzano la razionalità e non aderiscono alla teoria di Paul Feyerabend, autore di Against Method, il quale sosteneva una “epistemologia anarchica” secondo la quale « everithing goes», tutto va bene, perché non c’è né verità né falsità. Io sono uno specialista di epistemologia, e ho scritto un trattato di epistemologia generale ( Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede, terza edizione 2018), un trattato di epistemologia della filosofia ( Perché interessa la filosofia e perché se ne studia la storia, prima edizone 2008) e uno, appunto, di epistemologia della teologia. La teologia – dicevo prima - è scienza quando le sue affermazioni sono giustificate dal metodo. Per questo, un discorso teologico che pretende di essere considerato valido, cioè scientificamente giustificato, ma non lo è, io lo chiamo “falsa teologia”. Dunque è possibile e necessario distinguere tra vera e falsa teologia, così come gli epistemologi distinguono tra vera e falsa scienza fisica oppure tra vera e falsa scienza storica. AP - Ma è importante fare queste distinzioni? AL - Certo. E’ importante distinguere accuratamente una cosa dall’altra quando è in gioco qualche valore fondamentale della vita, sia esso un valore fisico come la salute o un valore morale come appunto la verità di ciò che Dio ha rivelato. Faccio un esempio: da secoli gli esperti dicono che bisogna stare attenti ai funghi; non è vero che tutti i funghi sono commestibili, così come non è vero che tutti sono velenosi. Bisogna distinguere tra specie e specie, esaminando non solo

le apparenze ma l’effettiva natura biologica di ciò che si vuole utilizzare per la tavola. Non è una cosa razionale che uno mangi personalmente e dia da mangiare agli altri (familiari, amici, clienti) una cosa che in generale è buona ma in questo caso concreto non è stata sufficientemente verificata e può risultare velenosa. Così la teologia: se è vera, è un sussidio prezioso per la vita di fede di noi cristiani nella rivelazione divina; se è falsa, allontana dalla verità rivelata. Invece di essere discepoli del Maestro (l’unico che «ha parole di vita eterna») diventiamo discepoli degli eresiarchi, che con i loro sofismi ci tolgono (quando l’inganno arriva fino alla intima persuasione) l’unica verità che salva. AP - Lei considera allora importante la razionalità e l’esercizio del discernimento, sia per quanto riguarda la fede che per quanto riguarda ogni altro campo dell’esistenza. AL - Considero importante per i tempi in cui viviamo aiutare tutti coloro che hanno veramente a cuore la verità dell’esistenza a usare rettamente la ragione, a possedere gli strumenti logici dell’autentico discernimento. I miei lavori scientifici possono e debbono servire a tutti per saper discernere le verità assolute, metafisiche e morali, da quelle relative, fisiche, biologiche, psicologiche, sociologiche, economiche, politiche. Nel trattato sulla Filosofia del senso comune ho spiegato che, mentre le verità assolute sono sempre presenti alla coscienza di tutti e forniscono l’unica base possibile per un dialogo costruttivo tra le culture, le verità relative dipendono dalle contingenze storiche e da interessi di parte, sicché non possono mai essere universalmente condivise. Quando si pretende di imporre come assolute le verità relative, come fanno i fautori del pensiero unico al servizio del nuovo ordine mondiale, non c’è più vero dialogo tra le diverse istanze democratiche ma solo propaganda e colonialismo culturale. In rapporto alla fede cristiana, io combatto tutti i fondamentalismi, che sono sempre un uso pragmatico della verità rivelata, pretendendo di poter dedurre da verità religiose assolute, quelle che sono garantite dalla parola di Dio, certe conseguenze politiche che in realtà rispondono solo alle proprie opinioni ideologiche. Come filosofo e come credente mi ribello a questo vizio di imporre le proprie idee in nome di Dio. Il peccato contro lo Spirito Santo non si commette solo quando si nega una verità esplicitamente rivelata da Dio, ma anche quando si etichettano come “Vangelo” le proprie ipotesi meramente umane, la propria parziale e interessata visione delle questioni socio-politiche. AP - Ma allora quali sono i principi logici che Lei vuole riproporre per evitare

oggi lo scientismo, il fanatismo ideologico, il fondamentalismo religioso? AL - Il rispetto di quello che i filosofi analitici americani hanno chiamato « epistemic justification», la giustificazione epistemica. Ciò significa, in pratica, che ogni discorso che pretenda di essere recepito in pubblico come verità deve esibire le proprie credenziali logiche e non affidarsi soltanto agli strumenti della persuasione retorica o allo sbandieramento della propria o altrui autorità in materia.

L'oggetto della teologia

Aurelio Porfiri - Se si parla dell'oggetto della teologia non ci dovrebbero essere dubbi, esso è Dio. Ma dovremmo parlare di oggetto della teologia o di soggetto della stessa? Mi sembra che se ci riferiamo ad un oggetto stiamo quasi ponendo l'Onnipotente su un tavolo da laboratorio pretendendo di costruire la nostra idea su di Lui, come Ludwig Feuerbach aveva in fondo prefigurato. A me sembra, da non teologo, che Dio sia il soggetto della teologia, cioè Colui che opera nel teologo per far in modo che noi possiamo conoscerlo meglio. Insomma, la massima “ Theologia Deum docet, a Deo docetur, et ad Deum ducit ” che trovavamo nei manuali di teologia del secolo scorso mi sembra avere ancora la sua grande validità. Non è un pericolo se la teologia diviene "il discorso del teologo"? A me non interessa questo o quel teologo per se stessi, mi interessano quando mi introducono di più a Dio. Antonio Livi - Lei ha ragione, ma anche in questo ambito di discorso bisogna fare le opportune distinzioni. Io fino ad ora ho parlato di teologia come scienza, ossia come tentativo di interpretazione razionale della rivelazione divina. In questo senso, la teologia non ha direttamente Dio come oggetto, ma ha come propior specifico oggetto la rivelazione divina, ossia ciò che Dio ha rivelato di Sé e che i cristiani sono tenuti a credere per avere e accesso alla salvezza (la “ fides quae creditur”). Se invece per “teologia” si intende (legittimamente ma arbitrariamente) la stessa rivelazione divina, ossia la Parola di Dio, allora è giusto quello che diceva Lei, ossia che in questo caso non è l’uomo che dice qualcosa si di giusto su Dio ma è Dio stesso che parla di Sé, rivelando i misteri della sua vita intima (la Trinità) e dei suoi disegni di salvezza (l’Incarnazione, la Chiesa). Stando così le cose, bisogna riconoscere che è falsa teologia, come sostengo io con il trattato che ho prima citato ( Vera e falsa teologia), quella proposta di verità su Dio che non si subordina umilmente alla divina rivelazione. Il vero teologo, soprattutto se è un mistico (come lo sono stati Agostino, Anselmo, Tommaso, Buonaventura) è animato dalla “ fides qua creditur”, cioè dalla vera fede nella Parola di Dio; egli sa bene che la propria scienza umana nulla di vero può sapere in relazione al mistero di Dio, e quindi rispetta il dogma, ossia la rivelazione certificata e interpretata infallibilmente dalla Chiesa.

Un esempio di vera teologi del nostro tempo (il tempo del Vaticano II) ci è offerto dallo svizzero cardinale Charles Journet (vedi il recente saggio di Samuele Pinna, Charles Journet e la teologia come servizio alla Chiesa del Verbo Incarnato, Leonardo da Vinci, Roma 2018). Invece, il falso teologo presume di essere guidato ispirato direttamente dallo “Spirito” e cade nell’errore gnostico di ritenersi più intelligente, più colto, più progredito, più capace di penetrare nel profondo di quanto non lo siano i comuni fedeli o i teologi del passato, compresi i dottori della Chiesa. Questa superbia intellettuale è tipica dei capiscuola, come il gesuita Karl Rahner, e seguaci si accontentano di giurare « in verbo magistri», come fanno il cardinale tedesco Walter Kasper o il vescovo italiano Bruno Forte. AP - Ma vorrei un momento rimanere nella mistica. In che modo essa si relaziona alla teologia vera e propria? Mi verrebbe da pensare che un mistico, le cui esperienze straordinarie hanno avuto l'approvazione certa della Chiesa, sia in una posizione migliore del teologo puro e semplice, in quanto ha esperienza diretta (per come essa possa manifestarsi) del divino. Un poco come un medico che parla del cuore e uno che lo osserva durante una operazione. Certo anche qui c'è un problema. Cerco di spiegarlo. Tra un medico che parla con cognizione del cuore e le sue funzioni senza però poterlo far esperienzare dal vivo, e uno come me, che può vedere un cuore vero durante una operazione chirurgica, chi è più sapiente? Io penso sempre il medico, in quanto io non ho gli strumenti per descrivere quello che vedo, mentre egli può benissimo descrivere quello che non vede. Come vede nel rapporto fra teologia e mistica vedo presente una ambiguità, una sintonia ma anche dicotomia, che forse Lei potrà aiutare a risolvere. AL - Lei tocca un tema che mi sta molto a cuore. Il termine “mistica” è ambiguo, e oggi usato spesso a sproposito. Nella tradizione cristiana, a cominciare dall’Oriente (come nel trattato di Dionigi Areopagita sulla Teologia mistica), il termine voleva indicare una certa qual comprensione personale dei misteri che Dio a rivelato a tutti con quella che giustamente è stata chiamata la “rivelazione pubblica”. Ma nessun cristiano, nemmeno se dotato della grazia della contemplazione, può aggiungere alcunché a ciò che tutti credenti possono e devono sapere sui misteri divini. A mio avviso, l’inclusione della mistica all’interno dell’opera stessa della teologia (e in posizione privilegiata) si presta a una perniciosa confusione concettuale, perché finisce per equiparare l’esperienza interiore (soggettiva) del singolo credente alla fede nella rivelazione pubblica. In varie occasioni io ho sostenuto che l’esperienza mistica delle persone privilegiate da particolari carismi, quando non è comunicata alla Chiesa

attraverso i suoi veri presupposti (ossia, la dottrina della fede comune a tutti i credenti), non trascende la testimonianza (sentimentalmente edificante ma non intellettualmente illuminante) di una soggettività individuale che è di per sé incomunicabile (cfr Antonio Livi, Esperienza, rivelazione e teologia in Angela da Foligno. La conoscenza mistica come contemplazione dell’opera di Dio nella propria anima, in in Angela da Foligno, la grande metafisica della mistica, a cura di Domenico Alfonsi e di Mario Mesolella, Leonardo da Vinci, Roma 2011, pp. 77-90). È un problema che anche il cardinale Journet, come osserva Samuele Pinna, riconosceva esplicitamente: «Se nel cuore dell’Aquinate – sostiene Journet –, come in quello dei Padri e dei mistici, ardeva la fiamma della sapienza propriamente inesprimibile dei doni dello Spirito, il suo lavoro si svolgerà su un piano e secondo le leggi di una sapienza veramente esprimibile, di per sé concettuale e discorsiva» (Samuele Pinna, Charles Journet e la teologia come servizio alla Chiesa del Verbo Incarnato, Leonardo da Vinci, Roma 2017, p. 123). Ma resta il fatto che lo stesso Journet sembra applicare il celebre motto tommasiano (« contemplari et contemplata aliis tradere») solo alla teologia, quando invece esso va inteso come esigenza apostolica di ogni cristiano che abbia avuto la grazia della contemplazione come risultato del suo rapporto con Dio Padre: un rapporto che – essendo costituito, ex parte hominis, di atti consci dell’intelletto e della volontà – può certamente essere comunicato, per analogia, ad altri soggetti capaci degli stessi atti, capaci cioè di riconoscere in ogni momento Dio come Padre che è Creatore e Provvidenza amorosa, come Dio Figlio che è il Rivelatore dei misteri del Padre e come Spirito Santo che è il Santificatore. Per questo ho molto apprezzato (e pubblicato in una collana della Leonardo da Vinci) il discorso condotto da uno studioso veronese sulla dottrina tommasiana della contemplazione in rapporto con la conoscenza mistica (cfr Alessandro Beghini, Contemplazione e conoscenza mistica. La dottrina di Tommaso d’Aquino nella “Summa contra Gentiles”, Presentazioni di Luigi Borriello e di Antonio Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2015). Partendo dalla dottrina di Tommaso d’Aquino, che anche il cardinale Journet adotta sempre come punto di partenza della riflessione teologica, io ritengo che si debba giungere a questa conclusione: che la contemplazione, in quanto esercizio della fede teologale ( habitus supernaturalis) sotto l’influsso attuale dei doni dello Spirito Santo ( scientia, sapientia, intellectus), ha come suo oggetto remoto le verità contenute nella rivelazione pubblica, necessariamente condivise da tutti i credenti, e come suo oggetto prossimo gli eventi interiori ed esteriori

dell’esistenza di ciascuno, interpretati come conferma di ciò che Dio ha rivelato a tutti, ossia l’azione santificatrice dello Spirito di Cristo nell’anima del credente e di coloro che gli sono prossimi. Così intesa, la contemplazione è quindi il frutto ordinario delle grazie che Dio elargisce a tutti come « gratiae gratis datae» perché ciascuno possa vivere tutti gli avvenimenti della sua vita alla luce di quel « lumen publicum» che è la fede, e proprio per questo il « contemplata aliis tradere» è sempre possibile, dato che le realtà comprese dall’anima contemplativa non esulano dal campo delle verità che tutti i credenti conoscono ma ne sono soltanto un’applicazione al concreto esistenziale. Anzi, questa comunicazione è il dovere di ogni credente consapevole della propria responsabilità apostolica, il che vale eminentemente per i Pastori e per i teologi, come Journet mette molto bene in evidenza. AP - Ma allora l'esperienza mistica? AL - Ben diverso è il caso di quella che viene denominata “esperienza mistica”, perché essa comprende una serie di carismi che rientrano nella categoria teologica della « gratia gratum faciens». Dio elargisce certamente questi carismi per il bene comune della Chiesa ma solo mediatamente, essendo indirizzati immediatamente al bene spirituale di un singolo credente che Dio vuole unire particolarmente a Sé in modo che poi si adoperi con maggiore efficacia nell’edificazione di tutta la Chiesa. Le esperienze propriamente mistiche non sono di per sé comunicabili, né gli eventi relativi a tali esperienze sono pubblicamente conoscibili se non per testimonianza degli stessi mistici. Già Paolo, l’Apostolo per antonomasia, diceva che nell’oggetto della sua predicazione agli Ebrei e ai Gentili non rientravano le sue esperienze mistiche: «Conosco un uomo in Cristo che quattordici anni fa (se fu con il corpo non so, se fu senza il corpo non so, Dio lo sa), fu rapito fino al terzo cielo. So che quell’uomo (se fu con il corpo o senza il corpo non so, Dio lo sa) fu rapito in paradiso, e udì parole ineffabili che non è lecito all’uomo di pronunciare» ( Seconda Lettera ai Corinzi, 12, 2-4). Tutto ciò era stato ben compreso dal teologo gesuita Jean-Pierre de Caussade (1675-1751), uno dei grandi maestri moderni di spiritualità contemplativa, quando scriveva: «Gesù Cristo vive in noi fin dall’origine del mondo, e opera in noi lungo tutto il tempo della nostra vita...; ha cominciato in se stesso e continua nei suoi santi una

vita che non finirà mai. ... Se “il mondo intero è incapace di contenere tutto quello che si potrebbe scrivere di Gesù”[cfr Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 21, 20-25], ciò che ha fatto o detto e la sua vita intima; se il Vangelo non ce ne delinea che pochi piccoli tratti, se la prima ora è così sconosciuta e così feconda, quanti vangeli bisognerebbe scrivere per fare la storia di tutti gli istanti di questa vita mistica di Gesù Cristo che moltiplica le meraviglie all’infinito e le moltiplicherà eternamente? Poiché tutti i tempi, propriamente parlando, non sono che la storia dell’azione divina! Lo Spirito Santo ha fatto incidere con caratteri infallibili e incancellabili alcuni momenti di questa vasta durata, ha raccolto nelle Scritture qualche goccia di questo mare, ci ha svelato attraverso quali segrete e sconosciute operazioni ha realizzato la comparsa di Gesù Cristo nel mondo.[...] Così tutto il resto della storia di quest’azione divina che racchiude tutta la vita mistica che Gesù conduce nelle anime sante fino alla fine dei secoli, è destinato a rimanere l’oggetto della nostra fede. [...] Lo Spirito Santo non scrive più vangeli se non nei cuori; tutte le azioni, tutte le esperienze dei santi sono il vangelo dello Spirito Santo. Le anime sante sono la carta, le loro sofferenze e le loro azioni sono l’inchiostro. Lo Spirito Santo, con la penna della sua azione, sta scrivendo dei vangeli viventi che non potranno essere letti che nel giorno della gloria quando, dopo essere usciti dalla tipografia di questa vita, saranno pubblicati. Che bella storia! Che libro meraviglioso lo Spirito Santo scrive attualmente! Esso è in corso di stampa, anime sante, e non c’è giorno in cui non se ne compongano i caratteri, non vi si applichi l’inchiostro, non se ne stampino i fogli. Ma siamo nella notte della fede, la carta è più nera dell’inchiostro; [...] è una lingua dell’altro mondo, incomprensibile e non si potrà leggere questo vangelo che in cielo» (Jean-Pierre de Caussade, L’Abbandono alla Provvidenza divina, cap. 11, § 191ss). Ciò significa che quel grado di perfezione del lavoro teologico che molti denominano “mistico” non comprende logicamente quelle che propriamente si chiamano “esperienze mistiche”; io ritengo che nella «teologia mistica» si debba comprendere invece il guadagno speculativo che può derivare da quel grado di unione con Dio – unione con il Verbo Incarnato, sotto la guida dello Spirito Santo – che ogni cristiano può ottenere con l’esercizio delle virtù teologali della fede, dell’amore e della speranza e che il teologo certamente ottiene con il suo impegno di servizio alla Chiesa mediante la promozione dell’« intellectus fidei», la cui condivisione Antonio Rosmini denominava giustamente «carità intellettuale». AP - Sembra una critica della teologia mistica…

AL - Quanto ho appena detto non vuol essere in alcun modo una critica dell’espressione «teologia mistica»: è solo un chiarimento concettuale che rende ragione di ciò che i teologi intendono dire. Del resto, anche Samuele Pinna, autore della più completa monografia su Charles Journet, riconosce, quando parla dell’opera di comunicazione della verità evangelica, che ogni contemplativo (non importa se ritenuto un “teologo” come Tommaso d’Aquino o un “mistico” come Giovanni della Croce) è in grado di fornire alla Chiesa avvalendosi della propria personale esperienza dell’azione di Dio. Scrive infatti Pinna: «Se nel cuore dell’Aquinate – sostiene Journet –, come in quello dei Padri e dei mistici, ardeva la fiamma della sapienza propriamente inesprimibile dei doni dello Spirito, il suo lavoro si svolgerà su un piano e secondo le leggi di una sapienza veramente esprimibile, di per sé concettuale e discorsiva, la sapienza teologica. Lavorerà pure sul piano ancora inferiore della filosofia» (Samuele Pinna, Charles Journet e la teologia come servizio alla Chiesa del Verbo Incarnato, Leonardo da Vinci, Roma 2017, p. 123). Insomma, Charles Journet stesso riconosce esplicitamente che l’esperienza mistica è di per sé incomunicabile e che il suo rapporto con la teologia non riguarda i suoi contenuti (le ipotesi di interpretazione razionale del dogma) ma riguarda soltanto le sue motivazioni spirituali (la soggettività del teologo). Ma allora, perché parlare di “teologia mistica”, che è un’espressione ambigua, proprio lì dove l’esposizione del tema (la natura e il metodo della teologia) richiederebbe il massimo rigore e la massima chiarezza concettuale e terminologica? Perché i teologi ricorrono a un termine come «teologia mistica» dove l’aggettivo “mistica” impedisce di intendere il sostantivo “teologia” con un significato applicabile univocamente agli altri termini da loro usati, come «teologia biblica» e «teologia storica»? Forse perché l’uso del termine «teologia mistica» sembra efficace in funzione dell’opportunità di ricordare quell’ispirazione (propriamente mistica) che indubbiamente guida il lavoro razionale del teologo. AP - Lei come si regola... AL - Io, da parte mia, continuo a evitare nelle mie opere sulla “scienza della fede” l’impiego di un linguaggio epistemico ambiguo, perché esso vanificherebbe gli sforzi che ho profuso per conservare al termine “teologia” un significato preciso, semanticamente non estensibile a ciò che appartiene ad altre

forme di discorso su Dio, a cominciare da quello stesso della rivelazione divina e alla sua multiforme ricezione nell’anima dell’uomo credente. Sono molto significative, a questo riguardo, le espressioni di un classico della teologia mistica: «Chi mai, dico, potrà investigare la sublime essenza di Dio, ineffabile e incomprensibile? chi potrà scrutare i suoi altissimi misteri? Chi oserà dire qualcosa di colui che è il Principio eternamente esistente di tutte le cose create? Chi potrà vantarsi di conoscere Dio infinito, che tutto riempie di Sé e tutto abbraccia, tutto penetra e tutto trascende, tutto comprende e tutto sfugge? […] Nessuno pertanto presuma di investigare i misteri incomprensibili di Dio: che cosa sia, come sia, dove sia. Questi sono misteri ineffabili, inscrutabili, impenetrabili. Devi credere questo solo, però con tutte le forze del tuo cure: che Dio è sempre così, come è sempre stato e come sempre sarà, perché è immutabile. Chi dunque è Dio? Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo Dio. Non cercare altro di Dio, […] Se dunque qualcuno vuol conoscere quello che deve credere, deve rendersi conto che non potrà capire di più parlandone che credendo. La conoscenza di Dio, infatti, quanto più viene a essere oggetto di discussioni, tanto più sembra allontanarsi da noi. Cerca pertanto la conoscenza di Dio più alta, quella che non deriva dalle dispute verbose ma dalla santità di una buona vita: non nel parlare ma nella fede che sgorga dalla semplicità del cuore; non quella conoscenza che si ottiene mettendo insieme le opinioni di una dotta empietà. Se cercherai con le discussioni colui che è ineffabile, Egli “fuggirà da te più lontano” [cfr Qo 7, 23] di quanto non lo fosse prima. Se invece lo cercherai con la fede, troverai la sapienza presso le porte della città dov’è la tua dimora; lì almeno in parte la potrai vedere; anche allora però non potrai mai raggiungerla, proprio perché è invisibile e incomprensibile. Dio è invisibile e tale dobbiamo crederlo, anche se è possibile averne qualche conoscenza da parte di chi ha il dono della fede» (Colombano abate, Istruzione sulla fede,4-5: Opera, Dublino 1957, pp. 65-66).

Teologia o teologie?

Aurelio Porfiri - Ricordo tempo fa di avere letto un testo di un autore benedettino, che diceva non esser possibile parlare di "teologia" ma si deve parlare di "teologie", cioè un approccio plurale piuttosto che singolare. Non lo so, a me questo tipo di osservazione mi sembra un poco ambiguo. Cioè, è palese che ci siano diversi approcci al problema teologico, ma quando esso è cattolico, dovrebbe tendere all'unità della dottrina rivelata piuttosto che desiderarne la frammentazione in mille rivoli di pensiero o ermeneutici. Tommaso e Agostino hanno un diverso stile ma tendono alla stessa cosa. Oggi mi sembra che alcuni teologi fanno riferimento proprio ad un altra confessione cristiana, piuttosto che a quella cattolica. E questo è reso più evidente dal fatto che la teologia tradizionale, il tomismo, la scolastica, vengono quasi esecrati come cose inutili del passato. Antonio Livi - Anche in questo Lei ha ragione. Io ho detto le stesse cose nel mio trattato su Vera e falsa teologia, dove spiego, con rigorose ragione epistemologiche, che è vera teologia cristiana solo quella che è frutto di un soggetto credente che non rimette in discussione il dogma ma cerca sinceramente di dargli la più efficace illustrazione razionale – pur mantenendo i limiti del mistero divino, in sé incomprensibile – elaborando ipotesi di interpretazione che, come tali, non hanno mai un carattere di assolutezza né di esclusione di altre ipotesi elaborate da altri teologi del passato o del presente. È appunto il dogma il “referente” unico di tutte le ipotesi di interpretazione, e quindi è ciò che assicura l’unità di base di tutte le scuole teologiche, di tutti i metodi di ricerca e di tutti i modi di comunicazione al popolo di Dio dei risultati della ricerca. Il filosofo francese Étienne Gilson, autorevole interprete di Descartes e ancora più autorevole studioso della filosofia medioevale, affermava che la grande varietà di sistemi e di proposte teologiche che hanno arricchito la vita di fede della cristianità dall’epoca tardo antica fino all’Umanesimo, avevano un carattere unitario perché erano tutti sistemi dottrinali che rispettavano la verità rivelata (la Scrittura, magistero ecclesiastico garantita nella sua ispirazione divina) e ne tentavano la migliore interpretazione razionale possibile servendosi della filosofia. Gilson ha dedicato a illustrare questa sua tesi la sua opera più

nota, L’Esprit de la philosophie médiévale, del 1931. E in questa sua opera, come in altre successive ( Christianisme et philosophie, del 1935), egli ha sostenuto anche la tesi che la filosofia del Medioevo cristiano era tutta di ispirazione teologica: era una ricerca della verità naturale all’interno dei contenuti speculativi della verità soprannaturale. Questa tesi va sotto il nome di “filosofia cristiana”, e ed è stata in parte condivisa da Jacques Maritain. Fu a centro di un vasto dibattito in tutta Europa, a cominciare da una riunione tra studiosi alla Sorbona di Parigi nel 1931. In quell’occasione si vide chiaramente che nell’età contemporanea si era persa quasi del tutto la nozione di teologia come scienza della fede, che può e deve utilizzare una filosofia con essa compatibile. Alcuni ritengono che la teologia dipenda solo dalla fede, e che la fede sia qualcosa di postulatorio, nel senso che sarebbe priva di presupposti razionali. Altri si spingono fino a dire che la stessa filosofia cristiana è qualcosa di irrilevante dal punto di vista razionale: Émile Bréhier (storico della filosofia antica e specialista di Plotino) diceva che dove c’è cristianesimo non c’è filosofia, perché il cristianesimo è solo una prassi religiosa che non ha da difendere nessuna verità rivelata. Bréhier era un razionalista ateo, ma nella medesima occasione un cattolico come Maurice Blondel criticava anche lui la nozione di “filosofia cristiana” difesa da Gilson per parlare di una teologia che elimina la distinzione tra natura e soprannaturale e quindi anche la distinzione tra filosofia e teologia. Non a caso questa linea di pensiero, basata sulla nozione di “immanenza” trovò consenso e sviluppo in un teologo come il gesuita Henri de Lubac, caposcuola della “ nouvelle théologie”. Il risultato è che oggi le varie scuole teologiche – tutte purtroppo allineate sul falso presupposto che la fede non ha bisogno di premesse razionali e che bisogna dimenticare la chiara lezione di Tommaso d’Aquino sui « praeambula fidei» - si presentano come forme di quella “filosofia religiosa” che per me equivale alla “falsa teologia”. La fede, interpretata prima alla luce del “principio di immanenza” e poi alla luce della “svolta antropologica della teologia”, non ha più nulla a che vedere con il dogma della Chiesa cattolica e viene sempre più assimilata alla concezione luterana. Con Lutero c’è piena sintonia, perché la riforma luterana parte dal presupposto che la fede non è sorretta da presupposti razionali e che il suo referente non è il magistero della Chiesa ma la “ sola Scriptura”. E il “libero esame” della Scrittura diventa il paradigma dell’indefinita e indefinibile libertà di interpretazione della fede cristiana da parte dei teologi. In definitiva, tutte queste forme di “falsa teologia” non hanno più messaggi comprensibili da comunicare ai credenti, ma servono solo a fornire uno strumentario retorico alle gerarchie ecclesiastiche intenzionate a promuovere ampie e profonde riforme della Chiesa cattolica, tra le quali – e non è un caso - la cancellazione delle condanne di Lutero e

l’unificazione di tutte le confessioni cristiane in un’unica grande comunità religiosa. AP - Certamente il quadro che lei presenta è molto drammatico. Ricordo di aver assistito ad una conferenza dove Lei faceva da moderatore e dove sosteneva che il grande problema moderno è la confusione tra dottrina, teologia e pastorale. Se ho ben capito (e nel caso non ho ben capito mi corregga) Lei voleva dire che in passato il punto di partenza era la dottrina, da cui si elaboravano le teologie (con carattere unitario perché partivano dall'unica dottrina) che poi davano vita alla pastorale, che quindi aveva la dottrina, il dogma, come suo referente ultimo. Mentre oggi si parte dalla pastorale, cioè sull'elemento soggettivo, da cui si elaborano poi teologie che pretendono alla fine di cambiare pure la dottrina, cioè il dogma. Se la mia interpretazione della sua asserzione è corretta mi sembra che siamo veramente ad un capovolgimento epocale, straordinario, per cui non so se la fede cattolica può essere ancora tale. AL - Lei ha compreso perfettamente quello che volevo dire in quell’occasione. Ma voglio aggiungere alcune importanti precisazioni. La prima precisazione che mi interessa fare è che la pastorale, rettamente intesa, altro non è se non l’esercizio della funzione vicaria che il papa ha in relazione a Gesù Cristo, che è l’unico vero Buon Pastore, colui che la Scrittura denomina «il Pastore grande delle pecore». Cristo buon pastore pasce il gregge che è suo (perché se lo è conquistato con il suo Sangue) in tre modi: sono i ben noti « tria munera Christi», ossia il « munus docendi» (la potestà di insegnare i misteri divini, perché «nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo»), il « munus regendi» (la potestà di governare, essendo Cristo il Re dell’Universo) e il « munus sanctificandi» (il potere di conferire la grazia santificante mediante il Battesimo e gli altri sacramenti della Nuova Legge). Ora, quando esercita la sua funzione vicaria, con i poteri che Cristo gli ha conferito («Pasci le mie pecorelle»), il Papa: 1) insegna in nome di Cristo (magistero ecclesiastico, arricchito del carisma dell’infallibilità); 2) governa il popolo di Dio in nome di Cristo («Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le

chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli»: Vangelo secondo Matteo, 16, 14-19); 3) santifica gli uomini amministrando i sacramenti, il cui valore non è simbolico ma reale, perché realmente trasmettono la grazia di Cristo. Nessuna di queste tre funzioni può essere esercitata indipendentemente dalle altre, perché l’azione di governo ecclesiastico (la pastorale in senso stretto) deve tenere in conto le verità rivelate, e lo stesso va detto per l’amministrazione dei sacramenti. Lo insegna Cristo stesso quando associa il primo dei sacramenti, il Battesimo, alla predicazione del Vangelo: «“Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato”» ( Vangelo secondo Marco, 16, 15-16). Ricordo, a questo proposito, che la Conferenza episcopale italiana decise, negli anni del post-concilio, di rinnovare la pastorale dei sacramenti (soprattutto per quanto riguardava il sacramento del Matrimonio) unendola alla dottrina dogmatica su di essi; si trattava di un documento intitolato appunto Evangelizzazione e sacramenti. L’obbedienza ai comandamenti di Cristo, che ordina agli Apostoli di annunciare il Vangelo e di battezzare coloro che crederanno è l’unica cosa che conta; non conta invece la pretesa di “creatività” dei Pastori della Chiesa che cercano strade nuove per la pastorale dimenticando o contraddicendo la Parola di Cristo. Perché è solo dalla fedeltà alla Parola di Cristo che deriva l’efficacia della pastorale: essa dipende totalmente dal potere salvifico di Cristo, che agisce infallibilmente per mezzo degli Apostoli, che, se obbediranno a Lui, non potranno impedire che agli uomini giunga la verità e la grazia di Cristo, malgrado tutte le possibili loro miserie personali. C’è una pagina del Vangelo che fa comprendere bene questa verità, riferendo come Cristo affidi agli Apostoli (che erano rimasti in undici, dopo che Giuda aveva tradito il Maestro) la missione salvifica, ben sapendo che la loro fede è sempre minacciata dall’incertezza: «In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla

terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”» ( Vangelo secondo Matteo, 28, 16). Di conseguenza, i Pastori non debbono riporre la loro fiducia in se stessi ma solo in «Colui che dà la forza»; non debbono fidarsi dei consigli dei «consiglieri fraudolenti» ma restare sempre fedeli alla direttive della Sapienza divina. Il discernimento di fede consente anche oggi, come in altre epoche della storia della Chiesa, di distinguere tra autentica e falsa pastorale. Una pastorale che trascura o addirittura contraddice i principi fondamentali del dogma non è vera pastorale, ma è soltanto una prassi ecclesiastica (ideologica, politica) che mantiene della dottrina cattolica solo alcune espressioni verbali, a volte addirittura solo degli slogan. AP - Quale sarebbe la sua seconda precisazione? AL - La seconda precisazione che mi interessa fare è che il fenomeno (davvero negativo) delle iniziative di prassi ecclesiastica che trascurano o rinnegano la verità della fede non sfugge a nessuno. Se ne parlo io e tanti altri come me che ne soffrono per il danno che ciò provoca alla Chiesa, ne sono certamente consapevoli anche gli autori di queste iniziative (mi riferisco innanzitutto al Papa, ma anche ai vescovi che partecipano ai diversi sinodi convocati dal Papa negli ultimi anni). Essi sanno molto bene, anche prima di ricevere degli ammonimenti in merito (come i “ dubia” che a suo tempo presentarono quattro cardinali a proposito dell’esortazione apostolica Amoris laetitia, e come la “ Filialis correctio” che sul medesimo argomento fu presentata successivamente da un folto gruppo di studiosi, tra i quali io stesso), che la loro prassi è contraria ai fondamentali doveri dei Pastori della Chiesa di Cristo. Essi sanno che il Maestro divino non può gradire che i suoi insegnamenti siano messi da parte dal suo Vicario con il pretesto di promuovere il bene della Chiesa. Allora ricorrono ai sofismi dei teologi neo-modernisti, maestri nell’inventare discorsi retorici che agli occhi dell’opinione pubblica cattolica dovrebbero giustificare le interpretazioni più aberranti del dogma cristiano e persino, quando può essere utile, la negazione stessa del dogma, presentato non come verità rivelata da Dio e sempre valida per la salvezza degli uomini ma come una dottrina di comodo elaborata da una «Chiesa autoreferenziale», cioè da una Chiesa “conservatrice”, ostile alle riforme e al dialogo con il luteranesimo, con l’ebraismo, con l’Islam….

AP - In effetti il tema del dialogo sembra essere un Leitmotiv di questi ultimi anni... AL - Una prassi del genere, con l’etichetta della “pastorale”, porta a risultati sconcertanti. Il più clamoroso – e il più direttamente responsabile del “disorientamento pastorale” che affligge oggi la Chiesa cattolica (cfr Danilo Quinto, Disorientamento pastorale, introduzione di Antonio Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2017) – è che la prassi dei Pastori, che con il nome abusato di “pastorale” cerca di coprire un contenuto effettivo di mera politica ecclesiastica, non ha mai un legame obbligato con la teoria, ossia con il dogma. Esso, il dogma, viene talvolta citato solo per tranquillizzare retoricamente le coscienze più vigili e allarmate, ma non è mai considerato normativo per le concrete scelte pastorali. Lo ha compreso molto bene un laico di formazione filosofica, grande esperto di dottrina sociale della Chiesa: «Alla base di questo nuovo approccio al tema della dottrina e della prassi stanno due atteggiamenti. Il primo consiste nel vedere le varie realtà esistenziali come un insieme di aspetti che si sommano tra loro, senza una gerarchia che dia un senso al tutto per la quale ci sia bisogno della dottrina. C’è quindi l’aborto, ma c’è anche la povertà delle donne-madri, c’è l’aborto ma ci sono gli immigrati, c’è l’aborto ma c’è anche il riscaldamento climatico che genera miseria: la realtà è complessa e bisogna tenere conto di tutti i suoi aspetti. Emma Bonino dice aborto ma dice anche lotta alla fame nel mondo. L’Esortazione Gaudete ed Exsultate non pone sullo stesso piano il feto e il migrante in quanto tutti e due avrebbero bisogno di protezione? Così, però, non è. La prassi incontra i singoli aspetti, è la dottrina a vedere il tutto e a dare le priorità. Ci sono degli aspetti che, oltre ad essere tali sono anche dei principi. È questo il caso del diritto alla vita che non indica solo un ambito esistenziale della pastorale ma un principio della dottrina che illumina tutti gli ambiti dell’esistenza e della pastorale. Il secondo consiste ne pensare che la realtà così complessa ed articolata, struttura a forma di cipolla o di carciofo, mai da noi conoscibile fino in fondo, non ci autorizzi mai a nessun giudizio definitivo. Non si rimarrebbe che entrare in essa e, vivendo insieme e condividendo le situazioni, provare a discernere in modo tuttavia sempre provvisorio e senza giudizi di condanna. La dottrina emetterebbe giudizi di condanna, la prassi no. Essa accompagna e basta. È anche questa una vittoria della prassi sulla dottrina. Non esistono principi orientativi a carattere definitivo, ciò che appunto si chiama dottrina, ma ad essi si deve sempre ritornare dall’interno dell’esistenza per conoscerli interpretandoli. Nessuna conoscenza senza interpretazione. Ma anche nessuna verità se non come interpretazione»

(Stefano Fontana, in La Nuova Bussola Quotidiana, 11 ottobre 2018).

Teologia e liturgia

Aurelio Porfiri - Non molti parlano del rapporto fra teologia e liturgia, malgrado il famoso assioma lex orandi, lex credendi . Anche la liturgia è stata piagata da innumerevoli "liturgismi" tutti uniti, come dicevamo prima, da questo predominio della pastorale svicolata dal dogma, come se tutto debba sempre essere, come dice un titolo di un libro di liturgia di qualche anno fa, "un cantiere in corso d'opera". Eppure la liturgia è " theologia prima ", laddove ogni teologo prende nutrimento per il proprio cammino intellettuale. Mi sembra che il notevole deperimento del pensiero teologico sia accompagnato da quello della dignità della liturgia, o forse proprio il disfacimento della liturgia ha anche sconquassato il buon metodo della teologia. Antonio Livi - Lei, che è un esperto di liturgia e un noto maestro di musica sacra, ha impostato subito la questione nei termini giusti. Io Le ho illustrato in precedenza la mia preoccupazione per l’inquinamento della teologia cattolica ad opera di fanatici sostenitori della riforma della Chiesa in senso luterano. Anche la teologia liturgica è stata inquinata da due eresie metodologiche che posso indicare con il nome di storicismo e di sociologismo. AP - In cosa consistono? AL - Lo storicismo è un paradigma ermeneutico del dogma che comincia con relativizzare la verità rivelata facendone una “ Filia temporis” e finisce per sostenere la necessità di sostituire al dogma come “Parola di Dio” la mutevole “coscienza del popolo di Dio”, formula con la quale si spacciano per “istanze della base” le ideologie della teologia clericale progressista. Questa ideologia moltiplica i sofismi per ottenere il consenso delle gerarchie ecclesiastiche al progetto di abbandono di tutto quello che appare come tradizionale, senza distinguere la Traditio ecclesiae (che esprime il cuore stesso della fede cattolica in quanto riflette la volontà di Cristo nel fondare la sua Chiesa) dalle tradizioni universali o locali che esprimono soltanto determinate applicazioni prudenziali del dogma, ossia della verità divina immutabile, alle mutevole esigenze pastorali dei diversi tempi e dei diversi luoghi. Facendo di tutte le erbe un fascio e condannando indiscriminatamente tutto ciò che appare come tradizionale (ossia,

stimato in tempi passati come consono alla fede), il teologo storicista si sente autorizzato ad abolire o a cambiare tutto: la catechesi, il diritto canonico, la struttura gerarchica della Chiesa, e anche, appunto, la sacra liturgia. Tutto va cambiato in direzione di una riforma totale della Chiesa che, paradossalmente, riprende dal passato (al secolo XVI!) i capisaldi della riforma voluta da Lutero: una Chiesa senza più gerarchia, senza più sacramenti oltre al battesimo, senza più la Presenza Reale di Cristo nell’Eucaristia, senza più la santa Messa come sacrificio, senza più una dottrina morale fedele ai dieci Comandamenti, ma solo una mistica irrazionalistica che si basa sul principio della fede fiduciale e del motto “ Pecca fortiter et crede fortius!”… AP - Sembra proprio un quadro della situazione odierna... AL - Un’altra eresia strisciante che ha portato a questa ambigua e disorientante prassi è il sociologismo, che consiste nell’interpretare il dogma ecclesiologico come se la dinamica della Chiesa di Cristo fosse semplicemente un’espressione delle leggi della scienza sociologica. L’eresia sociologistica porta a voler negare i peccati (ad esempio, il divorzio e la convivenza adulterina, la pratica omosessuale) proprio per poter accogliere nella comunità sociologicamente intesa visibile (ossia il corpo della Chiesa visibile, che non coincide con il Corpo mistico di Cristo) tutti coloro che la rigidità (che in realtà è solo apparente) delle norme morali esclude dalla partecipazione all’Eucaristia se non passando prima dal pentimento sincero, dal ravvedimento operoso e dalla riconciliazione (che è innanzitutto riconciliazione con Dio, e poi, conseguentemente, con la Chiesa). Mi piace citare a questo proposito un brano di sant’Agostino che mostra come la vera teologia cristiana intenda la comunione ecclesiale come basata sui rapporti interiori di grazia, non su rapporti di mera vicinanza esteriore: «Fate attenzione, vi prego, a quello che disse il Signore Gesù Cristo, stendendo la mano verso i suoi discepoli: "Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre" [Mt 12, 49-50]. Forse che non ha fatto la volontà del Padre la Vergine Maria, la quale credette in virtù della fede, concepì in virtù della fede?... Ha fatto, sì certamente, la volontà del Padre Maria santissima e perciò... era beata, perché, anche prima di dare alla luce il Maestro, lo portò nel suo grembo. Osserva se non è vero ciò che dico. Mentre il Signore passava, seguito dalle folle, e compiva i suoi divini miracoli, una donna esclamò: "Beato il grembo che ti ha portato!". Felice il grembo che ti ha portato! E perché la felicità non fosse cercata nella carne, che cosa rispose il Signore? "Beati piuttosto coloro che

ascoltano la parola di Dio e la osservano". Anche Maria proprio per questo è beata, perché ha ascoltato la parola di Dio e l'ha osservata. Ha custodito infatti più la verità nella sua mente, che la carne nel suo grembo. Cristo è verità, Cristo è carne; Cristo è verità nella mente di Maria, Cristo è carne nel grembo di Maria. Conta di più ciò che è nella mente, di ciò che è portato nel grembo. Santa è Maria, beata è Maria!... Perciò, o carissimi, badate bene: anche voi siete membra di Cristo, anche voi siete corpo di Cristo [1Cor 12, 27] ... perché "Chiunque ascolta e chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre".... Quando dico fratelli, quando dico sorelle, è chiaro che intendo parlare di una sola e medesima eredità. Perciò anche nella sua misericordia, Cristo, essendo unico, non volle essere solo, ma fece in modo che fossimo eredi del Padre e suoi coeredi [Rm 8,17]» (Agostino d’Ippona, Discorsi sul vangelo di Matteo, 25,7-8; PL 46,937). Per tornare a quello che Lei diceva all’inizio, voglio ribadire ancora una volta che il nesso intrinseco che lega la liturgia al dogma (tradizionalmente espresso dal motto “ lex orandi, lex credendi”) ha un riscontro preciso nella vera e santa Traditio ecclesiae. La Chiesa, che ha sempre visto la vita liturgica, con la sua evoluzione e le sue riforme, in dipendenza dalla formulazione e alla difesa del dogma, sicché l’impegno pastorale della gerarchia ecclesiastica, tanto nel governo delle Chiese locali come nel governo della Chiesa universale, si è sempre svolto all’insegna dell’unità tra la funzione sacramentale ( potestas sanctificandi) e la funzione magisteriale ( potestas docendi), nel senso che l’amministrazione dei sacramenti a quanti accoglievano l’invito a entrare a far parte della Chiesa è sempre stata praticata come una logica conseguenza dell’accettazione del messaggio di salvezza in Cristo da parte degli “uditori della Parola”. Ciò è vero soprattutto per quanto riguarda il Battesimo, come risulta evidente dalle parole stesse di Gesù quando affida agli Apostoli la missione di evangelizzare: «Gesù, avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Vangelo secondo Matteo, 28,18-20); «Gesù disse loro: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, mentre invece a chi non crederà sarà condannato”» (Vangelo secondo Marco, 16, 15).

AP - E quindi? AL - La Chiesa ha dunque mantenuto fede a un’intenzione di Cristo, esplicitamente manifestata proprio nel momento in cui Egli la istituiva e le conferiva la necessaria partecipazione alla sua exousia divina (il “potere in cielo e in terra” che gli compete come Dio) in ordine all’annuncio di salvezza da portare a tutti gli uomini: un annuncio di salvezza (verità rivelata, dottrina, dogma) che comporta anche il conferimento dei mezzi necessari alla salvezza, ossia i sacramenti attraverso i quali i credenti, inseriti nel Corpo Mistico, vengono dotati delle virtù teologali infuse e dei doni dello Spirito Santo. Solo così gli uomini possono diventare i «veri adoratori», in grado di adorare Dio «in spirito e verità», come dice Gesù quando annuncia l’avvento del vero e perfetto culto di Dio dicendo: «Viene l’ora, ed è questa, nella quale i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché così il Padre vuole che siano quelli che lo adorano» ( Vangelo secondo Giovanni, 4, 23). AP - Cosa significa adorare come Dio vuole? AL - Adorare Dio come Dio vuole significa mettere tutto se stessi, tutta la propria vita, a cominciare dal “cuore” (nel senso biblico del termine), in rapporto con il Mistero di amore e di salvezza che Dio stesso ci ha rivelato. Significa cioè “vivere la fede”, essere docili all’azione dello Spirito Santo ed entrare così nella vita stessa della Trinità. Infatti, Gesù, che dopo l’Ascensione “siede alla destra del Padre”, ci ha inviato lo «Spirito di verità» che ci aveva promesso e con la Pentecoste, agisce nel cuore dei fedeli perché ciascuno di essi, nelle vicende della propria esistenza redenta, possa giungere alla «verità tutta intera» (cfr Vangelo secondo Giovanni, 16, 12). Ciò si realizza principalmente riconoscendo, sotto l’azione dello Spirito, che «Cristo è il Signore» (cfr Lettera ai Corinti, 12, 3), cioè il nostro creatore e redentore, la cui grazia salvifica ci è data con i sacramenti della fede e particolarmente con la sua “presenza reale” nell’Eucaristia. Tale riconoscimento, ci è stato rivelato, non deve essere solo interiore e individuale ma deve essere anche “professato” esteriormente: «La giustizia che viene dalla fede parla così: Non dire nel tuo cuore: Chi salirà al cielo? Questo significa farne discendere Cristo; oppure: Chi discenderà nell'abisso? Questo significa far risalire Cristo dai morti. Che dice dunque? Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede

che noi predichiamo. Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso» ( Lettera ai Romani, 10, 6-11). Ci è stato dunque rivelato che lo «Spirito di verità» ci rende «veri adoratori» aprendo il nostro cuore alla fede e all’adorazione. Nel cuore di chi gli è docile Egli suscita l’atto di fede con cui ognuno aderisce in modo pieno e convinto alla fede della Chiesa, a cominciare dal dogma fondamentale che essa “propone a credere”; con ciò stesso lo Spirito suscita anche l’atto di adorazione, la lode, il ringraziamento ( eucharistia), l’affidamento fiducioso, l’obbedienza gioiosa all’Amore che ci redime e ci santifica. Il dogma ci fa certi che Cristo non solo prega per noi (cfr Prima Lettera di Giovanni, 2, 1), ma anche prega in noi e con noi, come sappiamo per certo perché ci è stato rivelato: «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili» ( Lettera ai Romani , 8, 26). E questa azione dello Spirito di Cristo è appunto la liturgia. Essa, logicamente, non può essere concepita come Dio l’ha voluta nell’istituire la Chiesa come “comunità orante” né può essere praticata come Dio vuole da ciascuno di noi, senza che il suo fondamento vivo e attuale sia – come sto ribadendo con tutta l’energia che il tema esige – solo e sempre il dogma. La connessione tra dogma e liturgia è stata sempre vissuta fedelmente dalla Chiesa perché essa non ha mai perduto la coscienza della propria missione –né poteva perderla, perché Cristo sempre l’assiste in modo che quanto alla missione stessa, essa sia di fatto indefettibile, ossia fedele fino alla fine dei tempi. Questa coscienza di sé (che papa Paolo VI ha illustrato magistralmente nell’enciclica Ecclesiam suam) è fede ed è anche teologia, intesa rettamente come intellectus fidei. E il motivo teologico di fondo per il quale il dogma suscita e orienta la vita liturgica della Chiesa è che Cristo, nel formare i suoi apostoli alla missione nel mondo, ha fatto loro comprendere che Egli è allo stesso tempo, per tutti gli uomini chiamati alla salvezza, «la via, la verità e la vita» ( Vangelo secondo Giovanni, 15, 15), ossia non solo l’unico Maestro (la cui dottrina, custodita e trasmessa infallibilmente dalla Chiesa, costituisce il dogma) ma anche l’unico Medico capace di guarire le malattie mortali dell’anima con la grazia dei sacramenti, a partire dal Battesimo,

che la Chiesa amministra rendendo culto al Salvatore (liturgia). La fede viva e vissuta – che non può esistere senza una sempre più convinta adesione al dogma – porta innanzitutto allo spirito di adorazione, cioè a lodare e a ringraziare Dio che ci ha rivelato la sua natura (la trinità delle Persone nell'unità della sostanza divina) e i suoi disegni di salvezza in Cristo (l'Incarnazione, la Redenzione, la Chiesa). Ma l'adorazione non si esprime solo nell'intimità della preghiera individuale ma anche nella preghiera comunitaria e nei riti pubblici, e questo è appunto la liturgia. A sua volta, la partecipazione piena e assidua alla vita liturgica della Chiesa viene chiamata “fruttuosa” dai documenti del Magistero perché produce infallibilmente il frutto di un incremento della fede, e anche proprio di una sempre maggiore penetrazione nella verità della fede, ossia nel significato spirituale del dogma, che è l’espressione “definita” dei misteri rivelati da Dio e custoditi infallibilmente dalla Chiesa. Da qui la compresenza di insegnamento e preghiera nei luoghi e nei momenti del culto divino. Di qui, tra l’altro, la necessità di una catechesi continua del popolo cristiano, sia quando esso si trova riunito in chiesa in assemblea orante per la celebrazione del Sacrifico eucaristico, sia quando si amministrano i sacramenti anche al singolo fedele, come avviene nel caso della Confessione individuale. Le norme liturgiche oggi vigenti, dopo la riforma voluta dal Vaticano II, prevedono infatti l’istruzione catechistica (omelia) dopo le letture scritturistiche della santa Messa, all’inizio del rito del Battesimo e anche del Matrimonio fuori della Messa, come anche un ricordo esplicito della dottrina rivelata all’inizio del rito della Penitenza sacramentale. Da noi, in Italia, la Conferenza Episcopale ebbe cura, a suo tempo, di fissare delle norme precise in merito nel celebre documento che si intitola appunto Evangelizzazione e sacramenti e che fissa il piano pastorale per gli anni dal 1973 al 1980 (cfr Conferenza Episcopale Italiana, Evangelizzazione e Sacramenti. Documento pastorale, in Enchiridion CEI. Decreti, dichiarazioni, documenti pastorali per la Chiesa italiana, vol. II [1973-1979], Edizioni Dehoniane, Bologna 1985, pp. 168-198). Ma già agli albori della vita della Chiesa i primi cristiani, imitando lo stesso Gesù, avevano scelto come come luogo privilegiato dell’evangelizzazione proprio il Tempio di Gerusalemme, luogo privilegiato del culto di Jahvè. Narra infatti san Luca: «In quei giorni, si alzò il sommo sacerdote e quelli della sua parte, cioè la setta dei sadducei, pieni di livore, fatti arrestare gli apostoli li fecero gettare nella prigione pubblica. Ma durante la notte un angelo del Signore aprì le porte della prigione, li condusse fuori e disse: "Andate, e mettetevi a predicare al popolo nel

tempio tutte queste parole di vita". Udito questo, entrarono nel tempio sul far del giorno e si misero a insegnare. Quando arrivò il sommo sacerdote con quelli della sua parte, convocarono il sinedrio e tutti gli anziani dei figli d'Israele; mandarono quindi a prelevare gli apostoli nella prigione. Ma gli incaricati, giunti sul posto, non li trovarono nella prigione e tornarono a riferire: "Abbiamo trovato il carcere scrupolosamente sbarrato e le guardie ai loro posti davanti alla porta, ma, dopo aver aperto, non abbiamo trovato dentro nessuno". Udite queste parole, il capitano del tempio e i sommi sacerdoti si domandavano perplessi che cosa mai significasse tutto questo, quando arrivò un tale ad annunziare: "Ecco, gli uomini che avete messo in prigione si trovano nel tempio a insegnare al popolo”. […] E ogni giorno, nel tempio e a casa, non cessavano di insegnare e di portare il lieto annunzio che Gesù è il Cristo» ( Atti degli Apostoli, 5, 17-25; 42). Questi principi teologici riguardanti il rapporto intrinseco tra dogma e liturgia hanno guidato i Pontefici che nell’ultimo secolo, ossia dai primi decenni del Novecento a oggi, sono intervenuti con l’aggiornamento dottrinale e le necessarie riforme in materia liturgica: basti ricordare il venerabile Pio XII, che pubblicò un’enciclica sul rinnovamento liturgico (la Mediator Dei et hominum, del 20 novembre 1947) e inoltre provvide a un’importante ristrutturazione dei riti della Settimana Santa; poi san Giovanni XXIII, al quale si deve l’inserimento della “memoria” di san Giuseppe. Sposo della Beata Vergine Maria, nel Canone romano; poi ancora Paolo VI, il quale emanò le disposizioni necessarie per l’attuazione delle nuove direttive liturgiche emanate dal concilio ecumenico Vaticano II, a cominciare dal Novus Ordo Missae, pubblicato con la costituzione apostolica Missale Romanum del 3 aprile 1969; infine, Benedetto XVI, che con il motu proprio Summorum Pontificum (7 luglio 2007) volle sapientemente precisare l’ambito di discrezionalità nell’uso del Vetus Ordo accanto al nuovo. AP - Con molte opposizioni, purtroppo... AL - Anche tra i vescovi residenziali numerosi sono stati quelli che hanno impostato la loro azione pastorale assicurando nella propria diocesi l’osservanza delle norme liturgiche, sia tradizionali che nuove, facendo sì che l’adeguata conoscenza e a personale interiorizzazione dei misteri rivelati servissero a incrementare lo spirito di adorazione di tutti i fedeli e la loro la fruttuoso partecipazione all’azione liturgica comunitaria nelle parrocchie e negli istituti religiosi. Tra questi vescovi un posto di assoluto rilievo va riconosciuto al cardinale Giuseppe Siri (1906 – 1989), arcivescovo metropolita di Genova dal 1946 al l987, pubblicamente elogiato, proprio per questo, da san Giovanni Paolo

II quando si recò in visita pastorale a Genova nel giugno del 1985. Io, per rendere accessibili oggi a un pubblico vasto i documenti di questa illuminata azione pastorale ho raccolto in volume alcuni tra i più significativi interventi dottrinali e disciplinari del cardinale Giuseppe Siri (lettere al clero e ai fedeli, comunicati, decreti) che vanno dal 1955 al 1972 e riguardano la santità del popolo di Dio nella sua amatissima Diocesi di Genova a partire dalla vita liturgica e sacramentale (cfr Giuseppe Siri , Dogma e liturgia, Leonardo da Vinci, Roma 2015). Ho ordinato i testi, non secondo la loro successione cronologica ma secondo un criterio tematico, quello che mi sembra il più idoneo a mostrare la ricchezza e l’efficacia pastorale del suo contenuto dottrinale, indicato già nel titolo che ho voluto dare a questa raccolta ( Dogma e liturgia), aggiungendo nel sottotitolo un accenno diretto al culto eucaristico e anche un riferimento esplicito alla riforma liturgica voluta dal concilio ecumenico Vaticano II, che ha avuto tra i suoi protagonisti e tra le personalità ecclesiastiche più attive nella sua applicazione in loco proprio l’arcivescovo di Genova. Alcuni teologi, liturgisti e storici della Chiesa, tra i troppi interventi polemici che agitarono l’opinione pubblica cattolica negli anni del “post-Concilio”, vollero presentare il cardinale Siri come capofila di una presunta “sorda opposizione” degli “ambienti tradizionalisti” all’aggiornamento dottrinale e alle riforme dei riti promossi dal Vaticano II con il suo primo documento solenne, la costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium, del 4 dicembre 1963, con le norme canoniche di attuazione disposte da Paolo VI nel 1966. Si tratta in realtà di una falsa interpretazione dei fatti, ispirata più da passione ideologica che da vero amore per le direttive emanate dal Vaticano II in un contesto di verità di fede che la costituzione liturgica ha riproposto suggerendo nuove applicazioni pastorali, senza logicamente obliterare o tanto meno negare alcun dogma. Oggi tutti i documenti originali in nostro possesso dimostrano che il cardinal Siri fu non solo un attivo protagonista dei lavori conciliari e un entusiasta esegeta dei documenti approvati dalla «quasi unanimità dei Padri conciliari», come sottolineava volentieri (Cfr Card. Giuseppe Siri, La giovinezza della Chiesa. Testimonianze, documenti e studi sul Concilio Vaticano II, Giardini Editori, Pisa 1983, passim) ma anche un appassionato promotore della loro fedele esecuzione tra i fedeli della sua diocesi e di tutto il mondo. A parte i testi inediti di Siri che si possono leggere nel volume di cui sto parlando, basterà qui ricordare un passaggio di un testo sassi significativo, pubblicato molti anni or sono: «Per la prima volta nella storia un Concilio Ecumenico dedica la sua prima e conclusiva fatica al riordinamento generale della divina liturgia. IL fatto è dunque rilevantissimo. Che significa questo? Significa anzitutto che la chiesa ha

voluto richiamare al mondo una verità tanto elementare quanto trascurata: il primo atto al quale sono tenuti gli uomini, come singoli e nella loro vita associata, e quello di rendere nell’intimo del cuore per la sincerità, nella pubblica espressione per la giustizia verso il Creatore, quel culto che gli è dovuto come a dispositore di ogni cosa, salvatore ed eterno amore. […] Significa, in secondo luogo, che la Liturgia è i primo strumento ordinario per la salvezza delle anime. […] Con la divina liturgia, specialmente se capita e seguita, si insegna, si santifica, si eleva tutto. La costituzione conciliare sulla liturgia non significa affatto una rivoluzione di quello che è stato in qui. In verità le mutazioni sono marginali, sono semplificatrici, sono di adattamento (soprattutto per quanto concerne la lingua latina) alla migliore comprensione dei fedeli sotto i diversi climi. Nella sostanza, oltre che nel suo schema, la liturgia rimane quella di prima. […] La costituzione conciliare significa invece che i fedeli sono solennemente invitati non solo a partecipare al culto divino ma a prepararsi con una cultura adeguata, un esercizio metodico, una personale preghiera che scaldi l’anima per la fruttuosa partecipazione ai sacri riti» (Giuseppe Siri, La costituzione conciliare sulla liturgia, in Idem, La giovinezza della Chiesa. Testimonianze, documenti e studi sul Concilio Vaticano II, Giardini Editori, Pisa 1983, pp. 109-117; qui pp. 109-110). Sono pensieri che fugano ogni dubbio, e che sono – anche nelle espressioni verbali – gli stessi pensieri che papa Benedetto XVI, l’autorevole interprete del Concilio nella linea della «riforma nella continuità», ha manifestato ai sacerdoti romani nel suo ultimo discorso pubblico prima di lasciare il ministero petrino. Infatti, a proposito della costituzione liturgica del Vaticano II, papa Ratzinger volle ricordare il significato teologico del fatto che essa fosse il primo documento solenne approvato dal Concilio: «È stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. “ Operi Dei nihil praeponatur”: questa parola della Regola di san Benedetto [cfr 43, 3] appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione» (Benedetto XVI, Incontro con i Parroci e il Clero della Diocesi di Roma, 14 febbraio 2013 ).

Mi preme sottolineare, per concludere il discorso che Lei, caro Porfiri, ha così bene impostato, che nella pastorale di Siri la centralità spetta al culto eucaristico. Quando egli esortava i suoi sacerdoti e i fedeli laici a dare a Dio il culto dovuto, gli stava a cuore soprattutto l’Eucaristia, che deve essere creduta, compresa e vissuta come il vero centro della vita cristiana. Ogni considerazione del cardinal Siri sul culto divino (non importa se di carattere teologico o giuridico o devozionale) era ispirata da una profonda convinzione di fede: la presenza reale di Gesù Cristo, nostro Salvatore, nel sacramento dell’Altare. Si tratta di una profonda convinzione di fede che – riteneva giustamente Siri, il cui esempio mi sembra utile riproporre oggi – genera in ogni anima cristiana un amore che non può non esprimersi nell’attitudine all’adorazione ininterrotta, nell’ansia apostolica di coinvolgere tutti, sapendo di trovarsi in un contesto ecclesiale di rapidi cambiamenti e di drammatici sconvolgimenti. Come in tutte le sue opere spirituali e pastorali, anche in questa che qui presento Giuseppe Siri parla, prima ancora che da Pastore, da semplice credente, parla ex abundantia cordis: se desiderava che tutti – sacerdoti, religiosi, laici, persino bambini – avessero come centro della loro vita l’Eucaristia, partecipando con la massima consapevolezza possibile al Santo Sacrificio della Messa e recandosi a visitare Gesù Sacramentato nel Tabernacolo per ringraziarlo e per adorarlo, è perché l’Eucaristia era innanzitutto il vero centro della sua propria vita spirituale. La catechesi, le esortazioni, le direttive pastorali, le norme giuridiche e disciplinari che ho raccolto in questo volume riflettono la fede personale del Cardinale, la sua pietà sincera, la lunga esperienza di vita pastorale alla guida della sua Diocesi: è da qui che nasceva il suo impegno per far sì che l’Eucaristia fosse anche al centro della vita cristiana della comunità e di ogni singola persona (tra i sacerdoti, i religiosi e i laici) verso la quale egli avesse una responsabilità pastorale.

Teologia e morale

Aurelio Porfiri - Mi sembra che un altro campo in cui ci si trovi in grandi ambasce è quello della morale. Una morale che oramai si è fatta molto elastica. Tutti noi sappiamo delle contestazioni alla Humanae Vitae 50 anni fa e quelle, di segno probabilmente opposto, alla Amoris Laetitia . Mi sembra che, al di fuori di questi documenti, si sia sofferto da un lato di un eccessivo rilassamento, oggi prevalente, dall'altro in un rigorismo, specialmente in materia sessuale, che è spesso sfociato in spiritualismo o peggio in moralismo. Leggendo un discorso del Cardinale Carlo Caffarra sulla fedeltà coniugale, lui che certamente non era rilassato nel campo della teologia morale, notavo però un approccio di buon senso, perché se definiva la dottrina in modo fermo, si rendeva poi conto di come l'uomo è fragile. C'era un detto che girava fra i confessori: peccato di pantalone, pronta assoluzione. Ciò non significa rendere questi peccati come "non peccati", ma comprendere che l'uomo è fragile e che questa fragilità va guidata ma anche compresa. Insomma, non misericordia senza giustizia, ma una giustizia misericordiosa. Antonio Livi - Caro Porfiri, fino ad ora ho sempre apprezzato il modo con cui mi propone dei temi da approfondire. Questa volta devo dirLe che non sono affatto d’accordo con l’impostazione che Lei fa della questione morale. Certamente ci sono dei problemi che riguardano, come Lei giustamente dice, il conflitto in atto tra la teologia morale tradizionale e quella cosiddetta progressista. Ma di questo parlerò più avanti. Ora mi interessa trattare subito l’argomento del modo con cui la gerarchia ecclesiastica e i semplici sacerdoti trattano l’amministrazione del sacramento della Penitenza, in vista dell’ammissione all’Eucaristia. Questo tema non è di per sé una tema di teologia morale ma di teologia pastorale. Son due temi formalmente collegati intrinsecamente, ma bisogna vedere come risultano materialmente collegati nella prassi dei confessori. Lei cita il cardinale Carlo Caffarra, che è stato uno dei più autorevoli teologi moralisti, fondatore e primo presidente dell’Istituto Giovanni Paolo II “per studi su matrimonio e famiglia”. Lei forse non riporta nel modo giusto quello che Le disse in un’intervista. Io so bene quale fosse il suo pensiero in proposito; sono stato sempre un suo grande amico, e poco prima della sua improvvisa e prematura morte (era mio coetaneo)

pubblicai un suo intervento proprio sul problema di come applicare alla prassi dei confessori i veri principi della teologia pastorale, dipendenti a sua volta dai veri principi della teologia morale (cfr Carlo Caffarra, Misericordia e conversione: “simul stant, simul cadunt”, in Inscindibili. Giustizia, verità misericordia; se mancano le prime due, l’ultima non è tale, a cura di Giuseppe A. Possedoni, Leonardo da Vinci, Roma pp. 51-64). Lei poi cita un detto clericale: «Peccato di pantalone, pronta assoluzione». Questo detto – che io ritengo alquanto sciocco, oltre che un po’ sacrilego, come sono del resto tutti i detti clericali – può servire a taluni per sentirsi e per esibirsi come Pastori misericordiosi, comprensivi, tolleranti. Ma nell’amministrazione del sacramento della Penitenza i sacerdoti sono tenuti a giudicare un penitente in base ai Comandamenti della Legge di Dio e alle leggi della Chiesa (dottrina sui sacramenti e del diritto canonico), non in base ai propri criteri personali e ai propri sentimenti. Per loro non vale la tipologia che si fa in riferimento ai giudici umani, a seconda che applichino le leggi positive dello Stato con eccessiva severità o con eccessiva indulgenza. Nel sacramento della Penitenza il ministro della misericordia divina si deve limitare a comprovare che il penitente che confessa i propri peccati sia sufficientemente pentito e disposto davvero ad emendarsi; verificato ciò (ed è una verifica che va fatta con la serietà e la responsabilità di chi non vuole rischiare di rendere nullo un sacramento della grazia divina), il sacerdote deve assolvere. E non è determinante, a questo scopo, che il peccato di cui il penitente si accusa sia particolarmente caratterizzato dalla fragilità, se si tratta di un vero e proprio peccato, che presuppone l’aver agito contro la legge di Dio con piena avvertenza e deliberato consenso. Che poi i peccati contro il Sesto comandamento siano di per sé peccati imputabili alla fragilità umana è un luogo comune privo di fondamento, quando non è un alibi per alleggerire la propria coscienza: basti pensare a peccati di vera e propria malizia, come sono quelli contro natura, a cominciare dai rapporti omosessuali per finire con la pedofilia, l’incesto e l’animalismo). E poi, c’è di mezzo la fragilità anche nei peccati contro il Settimo comandamento (la menzogna o l’inganno per sfuggire alla proprie responsabilità), nei peccati commessi in un accesso di ira o nelle omissioni del proprio dovere per mancanza di coraggio di fronte a un pericolo. AP - Mea culpa...mea maxima culpa...ma continuo ad ascoltarla... AL - Questi sono criteri dogmatici e liturgici (per quanto riguarda il sacramento della Penitenza) che escludono, nella prassi pastorale, i criteri sentimentali per cui si distingue scioccamente il confessore severo da quello indulgente. Oggi si

sta diffondendo una mentalità per la quale il modo di amministrare il sacramento della Penitenza dovrebbe rispondere alle (presunte) istanze popolari, ossia, in pratica, alla ribellione di molti cristiani che fingono di ignorare i comandamenti della Legge di Dio per sentirsi liberi di uniformarsi nella condotta a coloro che il cristianesimo non conoscono o rifiutano. Alcuni vescovi di lingua francese che partecipano in questi giorni al Sinodo sui giovani hanno scritto in un loro documento: «La Chiesa è chiamata ad aggiornare il suo insegnamento su questi temi, nella consapevolezza di essere serva della misericordia di Dio», e chiedono che «l’accompagnamento dei giovani nella vita affettiva e sessuale» avvenga «con limpidezza, profonda umanità ed empatia». Fa loro eco il vescovo italiano Bruno Forte, protagonista, nello scorso Sinodo sulla famiglia, del tentativo (fallito) di promuovere una pastorale più aperta verso le coppie omosessuali. Tedeschi e austriaci, invece, chiedono di enfatizzare, in vista di un approfondimento e di un orientamento antropologico su questa dimensione della vita, «la qualità delle relazioni umane». Curioso l’appello dei vescovi spagnoli per una riflessione sulla fase del “corteggiamento”. Per fortuna i vescovi di lingua inglese lamentano l’assenza nell’ Instrumentum laboris di una sottolineatura del valore della castità, «buono e possibile da raggiungere per i ragazzi». Il ministro del sacramento della Penitenza deve innanzitutto rispettare la santità della Legge di Dio, che costituisce il vero interesse del popolo, come è ben insegnato già nell’Antico Testamento: «Ora dunque, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, perché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso del paese che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore Dio vostro che io vi prescrivo» ( Libro del Deuteronomio, 4, 1-2). «Le osserverete dunque e le metterete in pratica perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente. 7 Infatti qual grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E qual grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi espongo?» ( Libro del Deuteronomio, 4, 6-8). AP - La sua esperienza personale? AL - Io, come sacerdote e formatore di sacerdoti (sono stato direttore spirituale del Seminario romano Maggiore e del Seminario interdiocesano di Benevento)

ho praticato e insegnato la retta obbedienza del confessore alla Legge di Dio e alle norme liturgiche della Chiesa (oggi aggiornate da Paolo VI alle direttive del Vaticano II). E ho scritto in proposito un libro che si intitola Perché confessarsi e che ha avuto molte edizioni presso l’Ares di Milano. Ma adesso il mio principale impegno è di carattere dottrinale, per combattere efficacemente la diffusione di una prassi che presuppone l’eresia. In effetti, in questi ultimi tempi si sono susseguite, a tutti i livelli, proposte teologico-morali di revisione delle norme che sulla contraccezione furono stabilite nel 1968 da papa Paolo VI con l’enciclica Humanae vitae. La natura più ideologica che scientifica di tali proposte si scopre facilmente alla luce di eventi ecclesiali oramai ben evidenti a tutti, anche se solo pochi (tra questi io stesso) hanno il coraggio di denunciarli come quello che essi rappresentano, ossia l’eresia al potere. In vari interventi orali e scritti io ho denunciato le contraddizioni logiche di una teologia morale che presenta le proprie tesi come “rivoluzione scientifica” e al contempo come “evoluzione omogenea”. A seguito dell’esortazione apostolica Amoris laetitia, i teologi moralisti si sono sentiti autorizzati a trattare i testi del Magistero come documenti della prevalenza ora di una ora di un’altra scuola teologica, il che comporta un atteggiamento di approvazione e consenso (nel caso che la scuola teologica adottata sia la propria) oppure di critica e di contestazione (nel caso che la scuola teologica adottata sia invece una di quelle da essi considerate “preconciliari”). Si deve proprio a questo atteggiamento – che implica una scorretta ermeneutica del Magistero – il passaggio di molti teologi moralisti di indirizzo “progressista” dai commenti entusiasti della esortazione apostolica Amoris laetitia a una revisione critica dell’enciclica Humanae vitae. Il passaggio ha – da un punto di vista rigorosamente logico – il carattere di una tale irrazionalità che quei teologi devono ricorrere ai più complicati sofismi dialettici per tentare di nasconderla. E infatti è irrimediabilmente irrazionale il voler magnificare i progressi registrati, a loro dire, dall’adozione del «nuovo paradigma» teologico-morale da pare di papa Bergoglio con la Amoris laetitia, e poi pretendere di applicare questo stesso «nuovo paradigma» al testo dell’ Humanae vitae pensando di poterlo così “rileggere”, ossia “riformarlo” a mezzo secolo di distanza dalla sua pubblicazione da parte di Paolo VI. II primo teologo che ha difeso pubblicamente questa operazione insensata è stato il domenicano Christoph Schönborn, attualmente l’arcivescovo di Vienna e cardinale; in una serie di interviste concesse alla stampa dopo la presentazione in Vaticano della Amoris laetitia, egli ha affermato che la continuità di questo documento con tutta la Tradizione: l’ Amoris laetitia si deve certamente leggere alla luce del magistero precedente, ma anche il magistero precedente si deve leggere alla luce dell’ Amoris laetitia; questa assurda ermeneutica con effetto retroattivo vien

spacciata come un caso di evoluzione omogenea del dogma (cfr Christoph Schönborn, conferenza stampa dopo la presentazione dell’ Amoris laetitia presso la Sala stampa della Santa Sede, 8 aprile 2016). Non ci si rende conto, così parlando, che il concetto di “evoluzione” implica quella che i fisici chiamano « the arrow of time», ossia l’irreversibilità nel tempo dei processi di miglioramento qualitativo, che vanno dal passato al presente e dal presente al futuro, mai dal presente al passato. D’altra parete, l’utilizzo di una categoria epistemologica come quella di «nuovo paradigma» comporta l’accettazione della teoria epistemologica di chi l’ha coniata, ossia l’americano Thomas Kuhn, il quale sosteneva che non c’è continuità o «processo di accumulo» nella storia delle «rivoluzioni scientifiche», ma discontinuità assoluta proprio in base all’assunzione di nuovi paradigmi interpretativi delle dinamiche dei corpi fisici: questo « paradigm shift» rende incommensurabili i diversi sistemi che si succedono nel tempo, sicché nulla autorizza a considerare un determinato sistema più conforme ai tempi o più “avanzato” dei precedenti (cfr Thomas Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, Chicago 1962). AP - Questo mi sembra importante sottolinearlo. AL - La teologia morale di orientamento riformistico ha ispirato un’ingente produzione di opere di teologia “pastorale” e di teologia “catechetica” con le quali si tenta di giustificare una prassi pastorale che dovrebbe lasciare da parte la dottrina della Chiesa sulla sessualità e il matrimonio ‒ dottrina che peraltro la Chiesa stessa ha consentito che sia rimessa in discussione ‒, dedicandosi piuttosto alla conoscenza sempre più particolareggiata degli usi e dei costumi sociali. Ciò è stato reso possibile dalla polemica condotta da due esortazioni apostoliche di papa Francesco, la Evangelii gaudium e la Amoris laetitia contro i pericoli pastorali che sarebbero costituiti dai Pastori e dai teologi convinti di dover rimanere fedeli alle norme vigenti (enciclica Humanae vitae, Codice di diritto canonico, Catechismo della Chiesa Cattolica,) sulla sessualità e il matrimonio. L’obiettivo polemico di papa Francesco è sostanzialmente quello di tutto il grande movimento teologico neomodernista, che riesuma e attualizza le istanze ereticali della riforma luterana: l’eliminazione di ogni riferimento dogmatico alla conoscenza naturale di Dio e a ciò che ne consegue sul piano morale, a cominciare dall’esclusione della nozione di legge naturale. Ed essendo la nozione di legge naturale materia di studio e di discussione per i filosofi, non desta meraviglia che siano stati proprio loro, i filosofi (come Robert Spaemann, Josef Seifert, Danilo Castellano, Claudio Pierantoni, Luca Gili), a rilevare

l’incongruenza delle nove prospettive della teologia morale basate sulla “ sola fides” (vedi Carlo Testa, L’ordine giuridico e l’ordine morale. Riflessioni sul diritto naturale e sulla deontologia dei giuristi a proposito della “correctio filialis” a papa Bergoglio, Leonardo da Vinci, Roma 2017). Resta solo una nozione vaga di “fede” di stampo prettamente fideistico (quella condannata esplicitamente da Giovanni Paolo II nella Fides et ratio), pienamente compatibile con la «svolta antropologica» di Karl Rahner (vedi in proposito i recenti studi di Jaime Mercant Simò: Los fundamentos filosòficos de la teologia trascendental de Karl Rahner, Leonardo da Vinci, Roma 2017). Ne consegue l’accantonamento del dogma e di conseguenza la riforma radicale della funzione magisteriale della Chiesa: resta una prassi governata da un’autorità ecclesiastica ansiosa di essere accettata dai poteri mondani che sono (o appaiono) dominanti nelle strutture di governo civile e nella cultura globalizzata. Sicché la dottrina non è più assertiva, ma “aperta al dialogo”: da una parte, il dialogo con il mondo secolarizzato e secolaristico, del quale si esaltano i supposti “valori” (uno dei tanti termine non biblici, come quello di “storia”, che pure sono fondamentali nel linguaggio dei teologi affetti da “biblicismo”) e si ignorano gli errori (non i sarebbe nulla da condannare), tanto da annullare alla fine la nozione stessa di “evangelizzazione”; dall’altra, il dialogo con le forme più estreme di “contestazione” all’interno della Chiesa, fino al punto di sconvolgere il retto rapporto tra Magistero e teologia. E infatti il dehoniano Luigi Lorenzetti, considerato da Famiglia cristiana «il capofila della nuova teologia morale», scriveva, sempre a proposito della Amoris laetitia, che oramai siamo di fronte a una Chiesa docente che si fa discente, mentre una Chiesa discente si fa “docente”. E un docente di Teologia e catechetica presso la Facoltà Teologica di Sicilia aggiunge: «Papa Francesco, con questa esortazione, su un tema così delicato e fondamentale, dà un apporto decisivo per superare una tentazione sempre in agguato: contrapporre la dottrina alla pastorale o ridurre la pastorale ad applicazione della dottrina. Non si tratta di definire procedure di legittimità o di sbrigar pratiche che rendono legale una realtà, bensì di riscoprire una missione di prossimità e di amore concreto. [...] Francesco sostiene che non tutte le problematiche dottrinali, morali o pastorali devono avere lo stesso punto di partenza, pur mantenendo salda una unità di dottrina e di prassi; e chiede quindi di eliminare ogni logica rigidamente schematica che deduce i singoli comportamenti pastorali dai principi dottrinali, senza tener in nessun conto la storia personale e la cultura dei popoli dove viene annunciato il Vangelo [cfr AL 3]. Non si tratta di tenere presente solo il tema di cui si parla, m anche i destinatari con si parla e dare loro reale ascolto, per passare da un livello formale

di osservanza della legge ad un livello più incisivo ed esistenziale, per non imporre pesi inutili e andare all’essenziale. [...] Quello che per tanti anni, implicitamente o esplicitamente, è stato considerato un fatto automatico, affermare i principi e dedurne le conseguenze per la vita, riducendo la pastorale e la catechesi alla volgarizzazione della teologia e della vita morale, viene da Francesco messo in discussione. Francesco, in altri termini, sta attuando con i suo magistero una “decentramento” delle istanze dottrinali, senza per questo mettere in discussione il depositum fidei. Questo “decentramento” è una sfida e una preoccupazione di cui l’esortazione si fa carico per non incorrere nel pericolo di ridurre ad ideologia la fede cristiana» (cfr Luigi Lorenzetti, «Una nuova visione di Chiesa. Il Vangelo alle famiglie in condizioni difficili», in ll Regno/Attualità, 4 [2014], pp. 73-76). Da premesse metodologiche di stampo irrazionalistico non può derivare che un cumulo di frasi banali, dove l’unica cosa chiara è che gli operatori della pastorale e della catechesi considerano una loro vittoria l’essere stati finalmente liberati dai vincoli “estrinseci” del depositum fidei: il quale viene sì mantenuto, solo nominalmente, perché non deve ispirare la prassi in alcun modo, ossia è come se non fosse la Parola di Dio ma solo un’astratta dottrina di uomini di altri tempi, o addirittura una «ideologia». e tutto quello che la tradizione ecclesiale, anche recente, ha fissato ( Codice di diritto canonico, Catechismo della Chiesa Cattolica, magistero ordinario e universale di Paolo VI e di Giovanni Paolo II) come necessario per l’annuncio del Vangelo e la formazione delle coscienze in materia di matrimonio e famiglia va messo da parte: al suo posto, la professione di vaghi sentimenti di comprensione umana e propositi di vicinanza, di accompagnamento (senza mai pensare allo scopo vero del Vangelo che è la salvezza eterna di ogni singolo uomo) , con la paura di imporre qualche norma assoluta stabilita proprio da «Dio che è amore», dimenticando che compito dei Pastori è di parlare non in nome di se stesi o della loro scuola teologica ma in nome di Dio creatore e legislatore e in nome di Gesù redentore, il quale ha detto di avere una legge che va rispettata per corrispondere con amore all’amore di Dio: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete

che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Gv 14, 1521). E Gesù ha anche precisato che la sua legge (la nuova legge evangelica) non comporta l’abolizione della legge naturale, che ogni uomo conosce infallibilmente con la sua ragione e che Dio ha voluto sancire consegnando a Mosè le tavole di pietra con sopra incisi i Dieci Comandamenti: «Non pensate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti; io sono venuto non per abolire ma per portare a compimento. Poiché in verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, neppure un iota o un apice della legge passerà senza che tutto sia adempiuto. Chi dunque avrà violato uno di questi minimi comandamenti e avrà così insegnato agli uomini, sarà chiamato minimo nel regno dei cieli; ma chi li avrà messi in pratica e insegnati sarà chiamato grande nel regno dei cieli. Poiché io vi dico che se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, non entrerete affatto nel regno dei cieli» (Mt 5,17-20). AP - Veniamo al primato della coscienza. AL - Il principio (teologicamente ingiustificato e ingiustificabile) del primato assoluto della coscienza (individuale ma anche sociale) serve a giustificare gli orientamenti pastorali che, in nome della “misericordia” e dell’«accompagnamento”, impongono di fatto il silenzio sulla legge di Dio e su ogni norma morale assoluta. Come tutti hanno riconosciuto, perché è scritto espressamente nel testo, Amoris laetitia non stabilisce norme chiare e definitive sulla cura pastorale delle famiglie nelle quali ci sono situazioni “irregolari”. Non riafferma le norme già stabilite dal diritto canonico e dai documenti pastorali di Giovanni Paolo II, e nemmeno le sostituisce con norme nuove. Lascia tutto, volutamente, nell’ambiguità, e ciò si traduce nella più ampia discrezione delle conferenze episcopali, dei vescovi e persino dei singoli sacerdoti in cura d’anime. Scrive infatti il papa: «Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete (…) è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi» (Francesco, esortazione apostolica Amoris laetitia, 19 marzo 2017, § 30).

In mancanza di autentiche ragioni, che non possono non essere fondate sulla logica aletica (la quale che presuppone la metafisica), i teologi moralisti procedono allo smantellamento dell’impianto normativo dell’ Humanae Vitae accumulando tutta una serie di argomenti retorici, ricavati il più delle volte dalle cosiddette scienze umane, che in pratica servono come surrogato di quelle scienze filosofiche (metafisica e logica) che da sempre costituiscono l’ossatura della dottrina morale cattolica. L’argomento retorico più usato dai teologi moralisti – i quali, data la gravità della materia, hanno la responsabilità di confondere i credenti con veri e propri sofismi – è quello della riduzione della legge di Dio a norme umane, imposte da un’autorità illegittima, senza tener conto delle reali possibilità che i singoli fedeli hanno di obbedire alla legge. La legge diventa una costruzione arbitraria di fattispecie astratte, oppure a un’ideale che – come tale – non può esser praticamente raggiunto da alcuno in circostanze che la sociologia considera “normali”. A questo sofisma si piega anche il discorso che fa papa Francesco nella Amoris laetitia, dove la Chiesa, invece di richiamare le coscienze all’osservanza della legge di Dio (che in ogni suo precetto è sempre una manifestazione d’amore, una grazia concessa all’uomo perché conosca e ottenga il suo vero bene) dovrebbe limitarsi a «proporre dei valori»: «Come cristiani non possiamo rinunciare a proporre il matrimonio allo scopo di non contraddire la sensibilità attuale, per essere alla moda, o per sentimenti di inferiorità di fronte al degrado morale e umano. Staremmo privando il mondo dei valori che possiamo e dobbiamo offrire. Certo, non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità. Ci è chiesto uno sforzo più responsabile e generoso, che consiste nel presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro. […] Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario» (Francesco, esortazione apostolica Amoris laetitia, § 35-36). Questo modo di esprimersi di papa Francesco consente a un teologo domenicano, il cardinale di Vienna, a sostenere una tesi difensiva del tutto improponibile:

«Il papa non innova in questo documento, questo è importante dirlo, non innova, sta nella grande tradizione pastorale, prudenziale, della Chiesa. È il ricorso alla prudenza pastorale che ogni prete, ogni vescovo deve esercitare» ( Christian Schönborn, conferenza stampa dopo la presentazione dell’ Amoris laetitia presso la Sala stampa della Santa Sede, 8 aprile 2016). Persino il sistema etico di Tommaso d’Aquino, il teologo la cui dottrina viene esplicitamente recepita dalla Familiaris consortio (ma anche e soprattutto della Veritatis splendor), viene manipolato allo scopo di dimostrare che la Amoris laetitia non lo contraddice, anzi lo applica rettamente a caso dei “divorziati risposati”: «Ci tengo a far notare un aspetto: papa Francesco parla qui, con una chiarezza che è rara, del ruolo che anche le " passiones", le passioni, le emozioni, l’eros, la sessualità hanno nella vita matrimoniale e familiare. Non è un caso che papa Francesco si riallacci qui in modo particolare a san Tommaso d’Aquino. […] Devo dire la mia gioia alla lettura di questo documento, che è profondamente tomistico. È vero, posso provarlo, sistematicamente. È la grande visione di san Tommaso della felicità come meta della vita. E tutto il cammino umano, l'essere in via, è il camminare verso questa beatitudine che ci è promessa e che ci attira. Solo il bene attira e questo metodo pedagogico è sviluppato tanto da san Tommaso. E per questo san Tommaso parla tanto dell'importanza delle passioni nell’educazione e nel camminare verso un matrimonio felice. È un tema tanto trascurato nella teologia morale moderna, non esiste quasi più: le passioni. Nel Catechismo della Chiesa cattolica, il cardinale Ratzinger insisteva molto che si parlasse esplicitamente dell'importanza delle passioni per la vita morale. E troverete bellissime pagine su questo in papa Francesco» (Christian. Schönborn, conferenza stampa dopo la presentazione dell’ Amoris laetitia presso la Sala stampa della Santa Sede, 8 aprile 2016). Il teologo domenicano, oggi cardinale, dice che può provare che Amoris laetitia sia «profondamente tomistico». Ma ovviamente non è in grado di provarlo. La dottrina di Tommaso sulle passioni dell’anima è fondata sulla teoria aristotelica di quel «dominio politico» che compete alla ragione e alla volontà, che sono le facoltà specificamente umane, mentre i sentimenti dei quali tanto si parla nel documento di Francesco, a cominciare dall’amore (eros), non sembrano doversi sottomettere a quelle norme della retta ragione che il papa interpreta come fredde a astratte elucubrazioni. Anche Rocco Buttiglione, in alcune pubblicazioni con le quali ha voluto replicare alle osservazioni critiche formulate da me e da altri alla

Amoris laetitia per alcuni passaggi che sembrano contraddire il magistero ordinario e universale dei papi precedenti, sostiene il carattere “tomistico” della esortazione apostolica di papa Francesco. Poi, riferendosi agli elementi di filosofia morale tommasiana presenti nei documenti sul matrimonio di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, il filosofo italiano aggiunge un’altra considerazione: secondo lui, tra Amoris laetitia e Familiaris consortio non c’è contraddizione alcuna ma solo una opportuna «accentuazione di paradigmi personalistici già presenti negli insegnamenti di papa Wojtyla», il quale avrebbe insegnato che «non si può assolutizzare né la dimensione oggettiva e trascendente né quella immanente e storica dell’etica. Esse devono rimanere in tensione tra di loro ed è compito della teologia pastorale mantenerle in tale tensione. Amoris laetitia si situa esattamente nello spazio di questa tensione e proprio per questo continua il grande insegnamento morale di san Giovanni Paolo II» (Rocco Buttiglione, Guida per i perplessi, in E. Antonelli - R. Buttiglione, Terapia dell’amore ferito in “Amoris laetitia”, Ares, Milano 2017, p. 98). AP - Può spiegare meglio. AL - I «paradigmi personalistici» consistono in pratica nell’opporre alla «dimensione oggettiva e trascendente» dell’azione morale la dimensione «quella immanente e storica». L’immanenza degli Erlebnisse e la storicità dell’esistenza personale sono i Leitmotive della fenomenologia esistenziale È vero che la Chiesa, rivolgendosi ai teologi di professione, ha raccomandato l’utilizzo, non solo della filosofia (come è stato fin dall’inizio) ma anche delle scienze umane (che hanno avuto sviluppo e prestigio sociale negli ultimi due secoli); ma è anche vero che nel contempo li ha avvertiti di non mettere a rischio la metodologia propria della teologia ecclesiale: «A questo proposito è importante sottolineare che l’utilizzazione da parte della teologia di elementi e strumenti concettuali provenienti dalla filosofia o da altre discipline esige un discernimento che ha il suo principio normativo ultimo nella dottrina rivelata. È essa che deve fornire i criteri per il discernimento di questi elementi e strumenti concettuali e non viceversa» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum veritatis, 24 maggio 1990, § 10). Per questo io parlo sempre di “incerte categorie delle scienze umane”. Ora aggiungo che particolarmente incerte – e incompatibili con un discorso che vorrebbe essere teologico – sono le categorie elaborate sulla base di rilevamenti

sociologici circa l’accettazione o il rifiuto della morale cattolica da parte dell’opinione pubblica (evidentemente, non quella dell’intero mondo cattolico ma solo quella influenzata dalla cultura secolaristica e consumistica dominante in Occidente). Proprio su questo argomento fa leva, dopo Walter Kasper, anche Maurizio Chiodi, il quale contesta l’enciclica Humanae vitae lì dove Paolo VI dichiara illecita ogni azione che, nel matrimonio, separi intenzionalmente i «due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo» (cfr Paolo VI, enciclica Humanae vitae, 1968, § 12); secondo Chiodi, tutti i rilevamenti statistico-sociologico-pastorali dimostrano che questa norma non è stata accettata e tanto meno osservata dalla maggior parte dei fedeli cattolici, i quali, pur ricorrendo abitualmente alla contraccezione, non si accusano di questo peccato nella confessione sacramentale, né chiedono l’aiuto del confessore per giudicare circa la rettitudine o meno del loro comportamento; insomma, dice il teologo milanese, «una vasta maggioranza anche delle coppie di credenti sposati vive come se questa norma non esistesse» (Maurizio Chiodi, Rileggere “Humanae vitae” (1968) alla luce di “Amoris laetitia” (2016), conferenza tenuta il 14 dicembre 2017 all’università Gregoriana: testo pubblicato in Avvenire, 28 gennaio 2018). AP - Lei come commenta questo? AL - Si tratta di un sofistico ricorso a presunti dati di tipo sociologico che non offrono ai responsabili della pastorale alcuna garanzia di serietà scientifica, né in quanto al metodo di rilevazione (chi l’ha fatta? e quando? e su quali campioni di popolazione? e in quali aree geografiche?). Ho visto che già negli anni Ottanta del Novecento avevano fatto leva sul credito (immeritato) di cui godono i rilevamenti socio-religiosi in certi ambienti ecclesiastici (soprattutto nei paesi dell’Europa centrale), parecchi esponenti della Scuola teologica di Milano, alla quale Chiodi appartiene; uno di loro, che altrove ho avuto occasione di criticare (cfr Antonio Livi, Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca filosofia religiosa, quarta edizione con un’Appendice su Gli equivoci della teologia morale dopo la “Amoris laetitia”, Leonardo da Vinci, Roma 2018), ha scritto: «La divaricazione tra morale personale dei cattolici e magistero ecclesiale è particolarmente accentuata sul tema della contraccezione. […] È stata più volte rilevata la distanza delle argomentazioni proposte per sostenere la condanna morale di ogni artificiale tecnica contraccettiva rispetto alla prospettiva

personalistica di approccio al tema della sessualità» (Giuseppe Angelini, La teologia morale e la questione sessuale. Per intendere la situazione presente, in Uomo-donna. Progetto di vita, a cura del Centro Italiano Femminile, UECI, Roma 1985, pp. 47-102, qui pp. 49-50). Dall’argomento sociologico Angelini passa a quello antropologico, proprio come fa Chiodi, che poi passa a enunciare il suo progetto di riforma della dottrina morale: «Io credo che il compito della teologia morale di oggi, riprendendo le istanze conciliari di Gaudium et spes n. 16 e alla luce anche della svolta antropologica rahneriana, è quello di affrontare una sfida per pensare una teoria della coscienza del soggetto morale che dimostri la forma morale e credente» (M. Chiodi,, Rileggere “Humanae vitae” alla luce di “Amoris laetitia”, cit.). Dopo una siffatta dichiarazione metodologica, dove è esplicitamente ammessa la dipendenza da Karl Rahner, non sorprende che tutti gli argomentiaccumulati dal teologo moralista per rivendicare l’autonomia della coscienza personale convergano nell’affermazione del primato di una soggettività che non riconosce nulla che la trascenda: né la dottrina del magistero ecclesiastico né la stessa rivelazione divina: «La coscienza non è riducibile a una consapevolezza di sé, né alla conoscenza di una verità “oggettiva”, né a una facoltà che applica la legge morale, né al giudizio che mi dice che cosa devo fare hic et nunc. Essa coincide con la totalità del sé (persona), nella sua valenza insieme patica ( pathos) e pratica ( praxis). [...] Le norme morali non sono riducibili ad una oggettività razionale, ma chiedono di essere inscritte nella vicenda umana, intesa come storia di grazie e di salvezza. [...] La riflessione svolta ci autorizza a ripensare il senso della norma di Humanae vitae, evitando di concentrarci su di essa come su una verità oggettiva che starebbe di fronte alla ragione. L’intento è di riprendere la norma, per pensarla fino in fondo. Non si tratterà affatto di abolirla, ma dimostrarne il senso e la verità: il suo senso antropologico è, nel legame sponsale, il nesso tra sessualità e generazione, che rimanda al senso della sessualità. Su tale sfondo si porrà la domanda se i metodi naturali possano/debbano essere l’unica forma di generazione responsabile oppure se questa non debba essere interpretata come l’accoglimento della valenza religiosa inscritta nel rapporto al figlio. Inoltre dobbiamo sottolineare che queste evidenze pratiche hanno il carattere di un bene promesso, che si inscrive nell’intrico delle vicende umane. Tutto ciò apre alla

possibilità dello “scacco” e dei tanti enigmi della vita. In molte situazioni difficili la persona è chiamata a trovare le forme del cammino, discernendo quel “bene possibile” che, sfuggendo all’opposizione assoluta tra bene e male, si fa carico delle circostanze drammatiche della vita» (M. Chiodi,, Rileggere “Humanae vitae” alla luce di “Amoris laetitia”, cit.). Chiarita l’intenzione di “rileggere” l’enciclica di Paolo VI alla luce delle presunte acquisizioni delle scienze umane (antropologia e sociologia) e ignorando completamente il loro valore di “magistero ordinario e universale”, Chiodi spiega perché la teologia morale dovrebbe riconoscere oggi come lecito proprio ciò che l’ Humanae vitae ha insegnato ieri essere illecito in quanto contrario alla legge di Dio: «Ciò che la pratica dei “metodi naturali di fecondità” attesta è il carattere responsoriale della generazione: anch’essi dicono che generare non è creare. Il metodo attesta però più di quanto possa garantire da se stesso. Rivela un senso che lo trascende. Se la responsabilità del generare è ciò a cui rimandano questi “metodi”, allora si può comprendere come nelle situazioni in cui essi siano impossibili o impraticabili, occorre trovare altre forme di responsabilità: queste “circostanze”, per responsabilità, richiedono altri metodi per la regolazione delle nascite. In questi casi, l’intervento “tecnico” non nega la responsabilità del rapporto generante, così come del resto un rapporto coniugale che osservi i metodi naturali non è automaticamente responsabile. L’insistenza del magistero sui metodi naturali non può dunque essere interpretata come una norma fine a se stessa né come una mera conformità alle leggi biologiche, perché la norma rimanda al bene della responsabilità coniugale e le leggi fisiche ( physis) dell’infecondità si inscrivono in un corpo di carne e in relazioni umane irriducibili a leggi biologiche. La tecnica, in circostanze determinate, può consentire di custodire la qualità responsabile dell’atto sessuale. Essa perciò non può essere rifiutata a priori, quando è in gioco la nascita di un figlio, poiché anch’essa è una forma dell’agire e come tale richiede un discernimento sulla base di criteri morali irriducibili ad un’applicazione sillogistico-deduttiva della norma» (M. Chiodi, Rileggere “Humanae vitae” alla luce di “Amoris laetitia”, cit.). AP - Immagino che a Lei questo non convince. AL - La proposta di Chiodi è stata commentata molto favorevolmente dal quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana, secondo la quale l’ Humanae

vitae farebbe parte di una «tradizione teologica» che «non va sclerotizzata ma resa dinamica, cioè coerente con una società che cambia». Per questi stessi motivi, deve essere modificata anche la dottrina del Magistero sull’omosessualità: «Ci sono coloro che, riconoscendosi nella tradizione cattolica ribadita nel Catechismo, sostengono la necessità di una vita affettiva condotta nella castità. Ma c’è anche chi, vescovi e teologi compresi, chiede alla Chiesa una riflessione più profonda sul significato della sessualità senza escludere una revisione della teologia morale» (Luciano Moia «un giusto impegno. Mai omofobia ma senza confusione», in Avvenire, 18 maggio 2017). Ma questo processo di generalizzata «revisione» non è ciò che chiedeva ai fedeli la Chiesa allorché furono celebrati i vent’anni dalla pubblicazione dell’ Humanae vitae: «Il Magistero della Chiesa è stato istituito da Cristo Signore per illuminare la coscienza […]; non si può, pertanto, dire che un fedele ha messo in atto una diligente ricerca del vero, se non tiene conto di ciò che il Magistero insegna; se, equiparandolo a qualsiasi altra fonte di conoscenza, egli se ne costituisce giudice; se, nel dubbio, insegue piuttosto la propria opinione o quella di teologi, preferendola all’insegnamento certo del Magistero. [...] Paolo VI, qualificando l’atto contraccettivo come intrinsecamente illecito, ha inteso insegnare che la norma morale è tale da non ammettere eccezioni: nessuna circostanza personale o sociale ha mai potuto, può e potrà rendere in se stesso ordinato un tale atto. L’esistenza di norme particolari in ordine all’agire intra-mondano dell’uomo, dotate di una tale forza obbligante da escludere sempre e comunque la possibilità di eccezioni, è un insegnamento costante della Tradizione e del Magistero della Chiesa che non può essere messo in discussione dal teologo cattolico» (Giovanni Paolo II, discorso ai partecipanti al II Congresso internazionale di teologia morale, Roma 1988). E invece, con il discorso sul «superamento» di Humane vitae anche il magistero di papa Wojtyła viene ad essere messo in discussione, a partire dall’esortazione Familiaris consortio del 1981 e dall’enciclica Veritatis splendor del 1993. In quest’ultimo documento, infatti, si parlava certamente di “discernimento”, ma in modo ben diverso da quello indicato dal «nuovo paradigma»: «Rivolgendomi con questa enciclica a voi, confratelli nell’episcopato, intendo

enunciare i principi necessari per il discernimento di ciò che è contrario alla “sana dottrina”, richiamando quegli elementi dell’insegnamento morale della Chiesa che sembrano oggi particolarmente esposti all’errore, all’ambiguità o alla dimenticanza» (Giovanni Paolo II, enciclica Veritatis splendor, § 30). La riduzione degli insegnamenti ufficiali del Magistero in materia morale a mere opinioni teologiche basate su vecchie o nuove categorie filosofiche – le nuove sarebbero quelle ispirate all’antropologia trascendentale di Karl Rahner – e su presunte acquisizioni delle scienze umane apre la strada a un’ulteriore riduzione epistemologica, quella per cui il Magistero elimina dalla pastorale la componente dottrinale e si limita a suggerire nuove tattiche di “dialogo” con quella che è considerata la cultura dell’uomo moderno e che si suppone informare anche la coscienza dei fedeli cattolici. Dando per perduta la battaglia per la formazione di una retta coscienza morale tra i fedeli (parte integrante di quella “nuova evangelizzazione” che era stata promossa da papa Giovanni Paolo II), la Chiesa ritiene di poter sopravvivere solo cercando di parlare il linguaggio della società secolarizzata e professando una incondizionata condivisione dei valori etico-sociali riconosciuti dall’opinione pubblica. Interpretando questo orientamento pastorale, il già citato Rocco Buttiglione esalta le ambigue aperture della Amoris laetitia presentandole come un progresso sulla linea indicata da Giovanni Paolo II, il quale avrebbe utilizzato nei suoi documenti magisteriali (soprattutto nella Familiaris consortio) la sua condivisione della filosofia moderna (soggettivistica, personalistica, esistenziale e fenomenologica), allo scopo di eliminare dalla pastorale della Chiesa ogni residuo di teologia morale su base dogmatica, dimostratasi incomprensibile e inaccettabile per gli uomini di oggi, sia pure appartenenti alla Chiesa. Dopo aver ricordato la simpatia di Karol Wojtyla per la filosofia di Max Scheler e la sua «etica dei valori», Buttiglione conclude: «Ci siamo soffermati sulla filosofia di Wojtyla perché pensiamo che essa ci aiuti a capire il magistero di san Giovanni Paolo II più in profondità e a evitare interpretazioni unilaterali. È nota la battaglia di san Giovanni Paolo II contro l’etica della situazione e, più in generale, contro la nova teologia morale. Dobbiamo concludere che egli sia stato semplicemente un difensore dell’oggettivismo nell’etica e vada quindi identificato con una posizione tradizionalista? No. […] egli ha proposto una rivoluzione nella teologia morale che avrebbe dovuto superare e ricomprendere in sé l’etica della situazione. Questa rivoluzione non è stata compresa ed è stata rigettata da molti teologi moralisti che parlavano a nome della “svolta antropologica della teologia

morale”. Essi si sono opposti all’insegnamento del Papa. La proposta di san Giovanni Paolo II è stata sostanzialmente rigettata o almeno è rimasta incompresa da parte di molti “tradizionalisti” che hanno visto in essa solo la conferma delle proprie posizioni sull’oggettività dell’etica, ma hanno passato sotto silenzio il suo aspetto innovativo. Proprio per questo il Magistero di san Giovanni Paolo II contiene ancora molte potenzialità inespresse. A me sembra che papa Francesco con l’esortazione apostolica postsinodale Amoris laetitia si situi esattamente sulla linea di queste potenzialità inespresse» (Rocco Buttiglione, Risposte amichevoli ai critici di “ Amoris loetitia”, Ares, Milano 2017, pp. 131-132). Secondo Buttiglione, la Veritatis splendor avrebbe semplicemente «proposto una rivoluzione nella teologia morale»; come si vede, il linguaggio e soprattutto i contenuti di questo discorso confermano che la Amoris laetitia viene esaltata, non come un pronunciamento del Magistero cui attenersi ma come un’opinione personale di papa Francesco che ha saputo saggiamente contrapporsi ai “tradizionalisti” e ha pienamente legittimare la scuola di pensiero capitanata da teologi come Walter Kasper, alla quale aderiscono molti teologi moralisti come Maurizio Chiodi. Devo dunque ripetere che il consenso da parte di molti teologi moralisti alla Amoris laetitia non appare ispirato tanto da motivi di fede – come richiesto dal corretto rapporto tra teologia e Magistero – quanto da interessi ideologici. In un volume collettaneo che ho recentemente promosso (cfr La legge eterna di Dio e l’insegnamento morale della Chiesa di oggi. Discussioni teologiche sulla riforma della prassi pastorale voluta dall’«Amoris laetitia», a cura di Antonio Livi, contributi di Luca Gili, Ivo Kerze, Antonio Livi, Claudio Pierantoni, Leonardo da Vinci, Roma 2018) è esaminato quel groviglio di contraddizioni che conseguono all’intenzionale riduzione metodologica del Magistero a mera teologia, proprio nel momento in cui si verificava la riduzione metodologica della teologia a mera “filosofia religiosa”. Ed è proprio questa duplice riduzione metodologica ciò che ha consentito l’usurpazione, da parte della teologia, di quell’autorità carismatica che, in rebus fidei et morum, spetta solo al Magistero.

Libri di Antonio Livi

Il cristianesimo nella filosofia (Il problema della filosofia cristiana nei suoi sviluppi storici e nelle prospettive attuali), L'Aquila: Ed. Japadre, 1969 Etienne Gilson: filosofia cristiana e idea del limite critico, Pamplona: Ediciones Universidad de Navarra, 1970 Blondel, Bréhier, Gilson, Maritain: il problema della filosofia cristiana Bologna: Pàtron, 1974 Louis Althusser: "La revolución teórica de Marx" y "Leer el Capital", Madrid: Editorial Magisterio Español, 1976 Cristo non è Marx, Torre del Benaco: Ed. Colibrì, 1979 Etienne Gilson: "El espiritu de la filosofia medieval" Madrid: Editorial Magisterio Español, 1980 Filosofia del senso comune (Logica della scienza e della fede) Milano: Ed. Ares, 1990 Il senso comune tra razionalismo e scetticismo (Vico, Reid, Jacobi, Moore) Milano: Editrice Massimo, 1992 Lessico della filosofia (Etimologia, semantica e storia dei termini filosofici) Milano: Edizioni Ares, 1995 Il principio di coerenza (Senso comune e logica epistemica), Roma: Editore Armando, 1997 Tommaso d'Aquino: il futuro del pensiero cristiano Milano: Mondadori, 1997 La filosofia e la sua storia, vol. I: La filosofia antica e medioevale; vol. II: La filosofia moderna; vol. III: La filosofia contemporanea (tomo 1: L'Ottocento; tomo 2: Il Novecento)Roma: Società editrice Dante Alighieri, 1997- 1998

(seconda edizione 2000; terza edizione 2001) Dizionario storico della filosofia, Roma: Società Editrice Dante Alighieri, 2000 (seconda edizione 2001) La ricerca della verità Roma: Leonardo da Vinci, 2001 Verità del pensiero (Fondamenti di logica aletica) Roma: Lateran University Press, 2002 Razionalità della fede nella Rivelazione (Un'analisi filosofica alla luce della logica aletica) Roma: Leonardo da Vinci, 2005 La ricerca della verità (Dal senso comune alla dialettica) Roma: Leonardo da Vinci, 2005 (terza edizione aumentata, 2005) L'epistemologia di Tommaso d'Aquino e le sue fonti Napoli: Editoriale comunicazioni sociali, 2005 Senso comune e logica aletica Roma: Leonardo da Vinci, 2005 (terza edizione aumentata, 2007). Reasons for Believing. On the Rationality of Christian Faith Aurora (Colorado): The Davies Group Publishers, 2005 Perché interessa la filosofia e perché se ne studia la storia Roma: Leonardo da Vinci, 2006 Storia sociale della filosofia, vol. I: La filosofia antica e medioevale; vol. II: La filosofia moderna; vol. III: La filosofia contemporanea (tomo 1: L'Ottocento; tomo 2: Il Novecento)Roma: Società Editrice Dante Alighieri, 2005- 2007Logica della testimonianza (Quando credere è ragionevole), Roma: Lateran University Press, 2007 Senso comune e metafisica. Sullo statuto epistemologico della filosofia prima Roma: Leonardo da Vinci, 2007 Nuovo Dizionario storico della filosofia Roma: Società Editrice Dante Alighieri, 2008

(ed.) Premesse razionali della fede. Filosofi e teologi a confronto sui praeambula fidei Roma: Lateran University Press, 2008 Etica dell'imprenditore. Le decisioni aziendali, i criteri di valutazione e la dottirna sociale della Chiesa Roma: Leonardo da Vinci, 2008 Dizionario critico della filosofia, Roma: Società Editrice Dante Alighieri, 2009. Filosofia e teologia, Bologna: Edizioni Studio Domenicano, 2009. Il senso comune al vaglio della critica, Roma: Leonardo da Vinci, 2010. Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede, nuova edizione interamente rielaborata, Roma: Casa Editrice Leonardo da Vinci, 2010. Vera e falsa teologia. Come distinguere l'autentica "scienza della fede" da un'equivoca "filosofia religiosa", Roma: Casa Editrice Leonardo da Vinci, 2012. L'istanza critica, Roma: Leonardo da Vinci, 2013. La certezza della verità. Il sistema della logica aletica e il procedimento della giustificazione epistemica, Roma: Leonardo da Vinci, 2013. Dogma e pastorale. L'ermeneutica del Magistero, dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, Roma: Leonardo da Vinci, 2013. Le leggi del pensiero. Come la verità viene al soggetto, Roma: Leonardo da Vinci, 2016. Teologia e Magistero, oggi, Roma: Leonardo da Vinci, 2017. Vera e falsa teologia. Come distinguere l'autentica "scienza della fede" da un'equivoca "filosofia religiosa", quarta edizione, con un'Appendice su Gli equivoci della teologia morale dopo la "Amoris laetitia'" Roma: Leonardo da Vinci, 2018. Filosofia del senso comune (Logica della scienza e della fede), terza edizione, Roma: Leonardo da Vinci, 2018. Luigi Calabresi. Un giovane controcorrente ai tempi della crisi della famiglia e

della società, Roma: Leonardo da Vinci, 2018.

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