Dio, dove sei?: Ripensare la preghiera nel tempo dell'emergenza (Italian Edition) 9788810961179

La preghiera ci costringe a fare chiarezza sul Dio in cui crediamo. L’immagine di un’energia, di una causa lontana che s

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Italian Pages 45 [60] Year 2020

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Table of contents :
Introduzione
In cerca della preghiera
Pregare da cristiani in una creazione libera
Oltre la preghiera di richiesta
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Dio, dove sei?: Ripensare la preghiera nel tempo dell'emergenza (Italian Edition)
 9788810961179

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Kurt Appel - Massimo Nardello Andrés Torres Queiruga

Dio, dove sei? Ripensare la preghiera nel tempo dell’emergenza

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KurtMenozzi Appel - –Massimo Nardello Daniele Pierangelo Sequeri Andrés Queiruga Stella MorraTorres – Paolo Benanti Angelo Vincenzo Zani – Kurt Appel

Profezia Dio, dove sei? di Francesco Ripensare la preghiera nel tempo dell’emergenza Traiettorie di un pontificato

Prefazione di Marcello neri

EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA

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Questo PDF contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificatamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo libro elettronico/e-book non potrà in alcun modo esser oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale libro elettronico non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. 2020 Centro editoriale dehoniano via Scipione Dal Ferro, 4  –  40138 Bologna www.dehoniane.it EDB® ©

Per i testi biblici: © 2008 Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena Per il testo di Andrés Torres Queiruga: © Editorial Galaxia S.A., Vigo © Andrés Torres Queiruga In copertina: foto di pzAxe, iStockphoto ISBN pdf: 978-88-10-961179 Impaginazione e redazione:  Edimill s.r.l.

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Introduzione

«Poiché la preghiera è un valore universale, ho accolto la proposta dell’Alto Comitato per la Fratellanza Umana affinché il prossimo 14 maggio i credenti di tutte le religioni si uniscano spiritualmente in una giornata di preghiera e digiuno e opere di carità, per implorare Dio di aiutare l’umanità a superare la pandemia di Coronavirus» (Francesco, Regina Caeli, 3 maggio 2020). Poche sobrie parole, con un respiro che va però oltre qualsiasi forma convenzionale  –  come è tipico dello stile di Francesco. Non solo perché ci restituisce l’immagine di una massima guida religiosa che aderisce a un’iniziativa proposta da altri. Non solo perché ci rende certi che quel giorno papa Francesco sarà esattamente uno come tutti nella moltitudine di fedeli appartenenti a religioni diverse. Non solo perché riconosce nella preghiera una pratica intorno alla quale tessere la trama di un’alleanza religiosa a favore di tutta l’umanità. Ma anche e soprattutto perché restituisce la preghiera all’umano comune di tutti noi  –  credenti e non. Poche parole per sancire, da parte cattolica, la fine di ogni addomesticamento clericale della preghiera: l’uomo e la donna della strada la sanno praticare, magari anche solo estemporaneamente, bene se non meglio degli specialisti di ogni religione che ne fanno un esercizio quotidiano di vita. Chi fra noi, in questi primi mesi di pandemia, non ha portato nel cuore un desiderio, una paura, un lutto, una speran-

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Dio, dove sei?

za, una mancanza (di relazioni, di volti, di contatto)? Chi non ha coccolato un sogno, un’immagine di futuro, una prospettiva in questo momento apparentemente impossibile? Anche i nostri ragazzi, così lontani dalla religione che propiniamo loro, coltivano una genuina preoccupazione per la qualità della convivenza umana che è stata seriamente limitata, forse anche ferita, dalle disposizioni dei vari governi. Francesco ci restituisce in maniera cristallina la consapevolezza che la preghiera è senza aggettivo. Possiamo così tranquillamente lasciare da parte tutto un repertorio stantio davanti alla realtà che viviamo, e chiamare queste disposizioni spirituali dell’animo con il nome che meritano: preghiera, appunto. Senza sacerdoti, senza tempio, senza ammaestramento. Ma non senza tempo: l’esperienza concreta e cangiante del vivere. E neanche senza luogo, a dire il vero: ovunque sulla terra amata da Dio. Fin dai primi giorni della pandemia uno strano senso di appartenenza comune e di destino condiviso ha portato i popoli dell’Occidente secolarizzato a esporre cartelli colorati, magari dai bimbi costretti in casa, con la scritta «andrà tutto bene». La comunicazione di massa l’ha banalizzato, ma si trattava di cosa decisiva per la tenuta spirituale di tutti. Anche le Chiese, che avrebbero potuto, non ne hanno compreso appieno la radice umana e spirituale. Non si trattava e non si tratta di un’affermazione  –  ce lo impedisce un minimo senso di realtà, soprattutto quando tutto andava drammaticamente male. È invece un’invocazione lanciata verso un destinatario ignoto. Ce lo dicevamo tra noi, ben sapendo però che nessuno di noi avrebbe potuto corrispondere a questa attesa. Non gli scienziati, non i politici, non gli uomini di Chiesa o i leader religiosi. Consapevoli di questo, abbiamo comunque azzardato, in una sorta di sentire spirituale collettivo, questa parola lanciata negli spazi dell’immaginario della nostra quotidianità in quarantena.

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Introduzione

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L’antica tradizione religiosa dei popoli ha un nome per questa pratica della parola: giaculatoria. Forma elementare ed essenziale della preghiera. Improvvisamente i popoli e le genti, ognuno di noi, si è ritrovato a vivere nel modo proprio della preghiera  –  magari senza averne del tutto consapevolezza, ma questo non è così importante. Un modo di vivere che chiede di essere onorato lasciandolo nelle mani e nei cuori di chi così lo pratica. Davanti a questa evidenza e coscienti delle domande profonde sollevate dal tempo presente, le Edizioni Dehoniane Bologna hanno pensato di offrire ai lettori un piccolo affondo, raccogliendo la voce di tre teologi, nella consapevolezza che la preghiera davanti al male costringe a fare chiarezza sulle rappresentazioni del Dio in cui crediamo o non crediamo. La preghiera ha la qualità di un gesto squisitamente teologico che la riflessione deve interrogare, approfondire, purificare. Perché pregare e chi? Dio ascolta la nostra preghiera? E come agisce nella sua creazione? Che senso ha “fare richieste” a un Dio che conosce tutto ed è amore sempre donato? I contributi raccolti in questo e-book intendono farsi carico della domanda su Dio per orientare la risposta a interrogativi fondamentali dell’esperienza umana. Marco Bernardoni  –  Marcello Neri

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In cerca della preghiera Kurt Appel

Nella crisi che stiamo attraversando spesso le persone cercano la preghiera, senza sapere però molto bene dove possono trovarla. La generazione dei nostri nonni, che ora in modo drammatico sta scomparendo troppo velocemente, è cresciuta con la preghiera. La generazione dei genitori sa quantomeno che la preghiera c’è, anche se sente che è difficile trovare un accesso a essa. I giovani di oggi, aperti a molte cose, trovano a stento persone in grado di insegnare loro a pregare. Non le trovano né dentro né fuori le comunità cristiane. La preghiera è la questione seria della domanda su Dio. I cristiani credono in un Dio che sostiene nella preghiera o Dio è semplicemente una potenza anonima? Esiste un Dio che ascolta ed esaudisce la preghiera? E, nel caso esista, non è Dio troppo lontano per ascoltare? E poi: perché alcune volte sostiene e altre, forse più spesso, non lo fa? Ad esempio, tutte le persone che pregano bene sopravvivono a crisi minacciose come la pandemia da Coronavirus e, quindi, ogni persona che sente di essere insufficiente nel pregare dovrebbe in qualche modo assicurarsi attraverso la preghiera di qualcun altro che sia devoto, o addirittura attraverso quella di una comunità ben esperta nel pregare? Oppure la preghiera non serve a niente e non ci rimane che il coraggio del singolo nel consegnarsi al suo destino?

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Dio, dove sei?

Il caso serio della preghiera La preghiera ci costringe a fare chiarezza sul Dio in cui crediamo. Dio come energia, come potenza, come causa lontana che forse sta all’origine del big bang, si dissolve nel momento in cui qualcuno cerca un Dio da pregare. Vi è poi anche un’antica e venerata rappresentazione di Dio, che si trova nell’arte classica, nel catechismo e nella coscienza collettiva. Si tratta di Dio come padrone del palazzo celeste, come signore onnipotente dei cieli e della terra. Un Dio che dal suo al di là controlla ciò che accade qui tra noi, al quale ci si può rivolgere  –  meglio se passando attraverso dei mediatori, come i santi, gli angeli oppure i morti. Secondo questa tradizione, vedere esaudito ciò che si chiede dipende da una serie di fattori che, in parte, sembrano essere arbitrari: perché Dio ascolta la preghiera della persona/comunità A e non quella di B? In parte questi fattori dipendono anche dalla persona che prega o dal mediatore che essa ha scelto per pregare. Egli dev’essere reso degno da un modo di vivere senza macchia affinché la sua preghiera venga esaudita. Oppure, dev’essere credente al punto giusto e, soprattutto, non permettersi di dubitare del fatto che Dio esaudirà ciò per cui lui prega. È ovvio, poi, che si deve pregare a lungo e intensamente. Ma anche quando tutte queste condizioni sono ottemperate non sembra esservi alcuna garanzia di successo. Con una certa arbitrarietà da parte di Dio devono far conto anche le persone più devote, quelle che vedono in Dio un onnipotente regista del mondo. Per questo suonano strane le parole di Gesù quando afferma senza ombra di dubbio: «Pregate e vi sarà dato» (Mt 7,7; Lc 11,9). Gesù parla dunque di un Dio che non pretende nessuna condizione particolare previa da parte di colui che prega, né tantomeno lascia nell’incertezza se esaudirà

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In cerca della preghiera

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o meno la preghiera. Dio ascolta colui che prega, esaudisce la sua preghiera, così che egli  –  dice sempre Gesù  –  può addirittura dire al monte di gettarsi in mare (cf. Mc 11,23). Allora perché muoiono così tante persone amate, nonostante si sia pregato Dio di salvarle? Dio non ha esaudito la preghiera? O, piuttosto, egli esaudisce solo le preghiere di coloro che gli stanno particolarmente a cuore? Facciamoci carico della domanda su Dio per trovare forse una risposta a questi più che leciti interrogativi. Il grande filosofo (e teologo) Hegel fu tra i primi a esprimere un sospetto inaudito e scandaloso: il fatto che la proprietà più importante di Dio, ossia la sua onnipotenza, può essere attribuita anche alla morte. Si tratta di una delle convinzioni più radicate del mondo greco antico che ha plasmato il nostro pensiero  –  anche quello della tradizione teologica cristiana: tutti noi siamo sottoposti al destino; e l’essenza del destino consiste nel fatto che noi tutti moriamo. Tutti noi, giudei, cristiani e pagani. Tutti noi, signori e servi. Tutti noi, uomini e donne. I greci sapevano che non si può sfuggire a questo destino; ma che è quantomeno possibile irridere la morte detronizzandola così per un attimo. Ma appunto, solo per un attimo. In ogni caso, sempre troppo breve. La morte, dunque, è il grande despota che domina sulla vita; anche se sempre ci sono stati dei tentativi per cercare di vincerla: con la tecnica; con la generazione di una discendenza nella quale continuiamo a vivere; con la creazione di una comunità che continuerà a esistere anche senza di noi; oppure con un atteggiamento stoico che ignora la morte. Tutte strategie, però, che in tempi di crisi sbattono rapidamente contro i loro limiti, non appena muoiono persone che ci sono care; quando le cose rimangono irrisolte; o quando addirittura ci viene negato un ultimo saluto.

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Dietro l’immagine del Dio onnipotente non si nasconde forse in realtà il volto della morte? Il padre onnipotente non coincide da ultimo con la nera mietitrice? Quello che c’è di rivoluzionario in Gesù, secondo Hegel, è la liberazione dall’immagine di un Dio portatore della morte. Fino a Gesù chiunque aveva cercato di superare momentaneamente la morte attraverso l’ironizzare, il potere o la tecnica aveva contemporaneamente finito per assurgersi al suo trono. Così facendo, però, il principio della morte come faraone incontestato che domina la vita rimane in vigore. Di contro Gesù, nel momento stesso in cui si afferma quale signore delle cose e addirittura della vita, come mostrano le sue azioni simboliche, non si sogna affatto di salire sullo scranno del faraone onnipotente. Gesù non rimuove la morte, né la banalizza, gli dà piuttosto un nuovo significato: la morte diviene segno della fragilità, dell’esposizione alla ferita della creatura – proprio ciò che la rende amabile. La morte diventa segno che siamo vincolati gli uni agli altri per il sostegno, l’amicizia e la solidarietà. Nel Getsemani Gesù prova terrore e angoscia (cf. Mc 14,33), magari anche e proprio per i suoi discepoli che non saranno in grado di vegliare con lui. In ogni caso, gli ultimi momenti della vita di Gesù rivelano un’immagine di Dio completamente diversa da quella di un dominatore sovrano del mondo. Qui si mostra l’immagine della fragilità, dell’esposizione alla ferita, del bisogno di sostegno; ma anche quella di un essere-con, di un attraversare insieme, che supera i limiti della morte. Dopo questo rapido sguardo sul Venerdì santo e sulla Pasqua, ossia sulla fine e sulla nuova creazione del mondo, guardiamo ora brevemente alla creazione per avvicinarci alla preghiera. Dio parla nell’atto della creazione, per questo ci troviamo in un mondo posto in essere dalla parola: «Dio disse: “Sia

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In cerca della preghiera

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luce!”. E luce fu» (Gen 1,3). Il nostro mondo non è un’opera della potenza e del potere, ma è portatore della parola. Tutto ciò che è creato accoglie la parola e ha un significato. Il nostro mondo, dunque, non è (solamente) un’opera della potenza e del potere costituita da causa ed effetto, tenuta insieme nello spazio e nel tempo. Piuttosto, ogni creatura sta in una connessione di significati con tutte le altre creature. Mentre un’opera della potenza e del potere è completamente dipendente dal suo autore, la creazione mediante la parola si contraddistingue per il fatto che a essa vengono attribuiti infiniti e sempre nuovi significati plastici. Ogni creatura ha la sua storia che dev’essere raccontata sempre di nuovo. La preghiera consente di sottrarre le cose (ad esempio, un monte) dalle loro connessioni meramente fisiche; essa permette di dislocare altrimenti il monte rispetto alla sua dimensione puramente fisico-temporale. In tal modo si creano e sentono sempre nuove connessioni di significato: la mera cosa diventa creatura; diventa, come ben sapeva san Francesco d’Assisi, fratello e sorella. Non più un semplice oggetto della nostra percezione, ma soggetto che ci dona un nuovo significato nella nostra autocomprensione e che, al tempo stesso, riceve da noi un significato. La connessione fra le creature non è più (unicamente) di carattere fisico, ma diviene una connessione di senso, del donare reciproco. Nella preghiera colui che prega entra in questa connessione di senso. Da un punto di vista strettamente biblico, il mondo intero è preghiera. Le cose non esistono per se stesse, piuttosto esse si danno e ricevono reciprocamente il loro senso più profondo, ossia l’infinitudine della connessione di significato in Dio. Ogni uomo può mettere davanti a Dio la propria storia, che è sempre anche una storia degli altri e, in un certo qual modo, racchiude in sé tutti gli altri. Nella preghiera non entra in gioco semplicemente una trasformazio-

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ne fisica, come suo effetto, ma ciò che si trasforma nella preghiera è colui che prega e, con lui, il significato del mondo e, quindi, anche la connessione di senso in cui sta la creatura (che porta con sé anche delle conseguenze fisiche, così come la decisione di una persona di fare qualcosa trasforma anche fisicamente il mondo). Il Dio di Gesù non è il Dio faraone che si siede al sommo della piramide dell’essere e trasforma il mondo assecondando (o meno) i nostri desideri immediati. Piuttosto, attraverso il suo leggero, inapparente essere-con, che non si impone, egli apre per la nostra esistenza e per quella di tutte le creature nuovi orizzonti di senso, donando a ciascuna di esse una storia singolare in cui sono riconosciute e affermate.

Il destinatario della preghiera Detto in altre parole, Dio chiama ogni creatura con il suo nome e la unisce con il suo essere e con quello degli altri. In quest’ottica, la preghiera è un processo aperto in cui il mondo viene creato di nuovo in contatto con l’amicizia di Gesù e il suo essere insieme a ogni realtà creata. Ogni cosa ha il suo nome e il suo posto. Anche i morti non sono oggetti passati, ma creature la cui presenza si è trasformata. Non sono più con noi secondo coordinate spazio-temporali, ma nell’amore e nel significato che danno al nostro vissuto. In questo modo, la preghiera non è solo rivolgersi a Dio, il signore onnipotente dei cieli, ma include colui che prega, i viventi e i morti, tutti gli esseri umani e anche Dio stesso. Dio, quindi, non è il lontano, ma colui che parla nella e mediante la preghiera, che già si dà nell’atto dell’invocazione. Questo non toglie certo il dolore, l’esposizione alla ferita, l’esperienza del limite, la morte, ma le include tutte.

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Alla fine, però, tutto deve ricevere il nome destinato a lui, come mostra il sacramento del battesimo: tutto legato insieme con il SUO nome, il nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Il nome del suo essere-con. «YHWH»: io sono qui per voi. «Emmanuel»: Dio è con noi. In questo tempo che stiamo vivendo, segnato dal lutto, dalla mancanza del calore della prossimità fisica degli affetti più cari, dall’estrema incertezza per il futuro del lavoro delle persone e della possibilità di sostenere adeguatamente i desideri delle generazioni giovani, può essere che nella preghiera stessa si faccia sentire come la mancanza del destinatario della nostra invocazione. Eppure, anche questa sensazione così drammatica che proviamo oggi può trovare nella Scrittura un passaggio della storia di fede di Israele che ha delle assonanze con questa fase della storia del nostro mondo. Si tratta del libro di Ezechiele, nel quale si narra con insuperabile drammaticità la perdita del destinatario divino. Dopo che nel capitolo introduttivo viene detto come Ezechiele abbia scorto la gloria di YHWH, il Signore dei cherubini, nei capitoli 8-10 si arriva poi a un nuovo incontro con i cherubini e la gloria di YHWH. Questa volta la scena si svolge nella pianura del fiume Chebar in Babilonia, ma qui il cielo non si apre come agli inizi del libro; piuttosto il profeta viene trasportato fino al tempio di Gerusalemme in una visione. La localizzazione è più complessa, perché il presupposto di un incontro fra cielo e terra è quello di uno spostamento, di una vera e propria de-localizzazione del profeta (cf. Ez 8,3). Il palazzo celeste della gloria di YHWH si intreccia con il luogo reale del tempio di Gerusalemme, non in maniera diretta ma attraverso la visione del profeta che si ritrova spostato rispetto alle sue abituali coordinate e, quindi, vive una condizione di estraniamento. La narrazione fa accadere qualcosa che sta tra cielo e terra, tra sogno e realtà, tra Babilonia e Ge-

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rusalemme, tra futuro e passato. E il contenuto della visione è la fine di un regime assodato della presenza di YHWH in mezzo al suo popolo: quello che Ezechiele vede in questo stato di essere sospeso-tra è esattamente l’abbandono del tempio da parte delle gloria di YHWH. La maestria letteraria del testo è quella di narrare questa uscita della gloria di YHWH dal tempio di Gerusalemme con un ritmo di estenuante lentezza: «La gloria del Signore uscì dalla soglia e si fermò sui cherubini. I cherubini spiegarono le ali e si sollevarono da terra sotto i miei occhi; anche le ruote si alzarono con loro e si fermarono all’ingresso della porta orientale del tempio del Signore, mentre la gloria del Dio di Israele era in alto su di loro» (Ez 10,18-19). Poi, nel capitolo seguente (cf. Ez 11,22-24) lo sguardo torna a volgersi alla gloria di YHWH che troneggia sui cherubini e «va a fermarsi sul monte che è a Oriente della città». Uscita dal tempio, uscita dalla città, e qui termina la visione di Ezechiele. Sembra quasi che la gloria di YHWH, in questo lento procedere della narrazione che ritorna su se stessa, prosegua nel proprio congedo fino, appunto, a sparire definitivamente dal tempio e quindi dal mondo fisico  –  ossia dallo spazio dell’uomo. Ci vorranno molti capitoli prima che nel libro di Ezechiele si torni a parlare di un ritorno della gloria di YHWH nel tempio (cf. Ez 43,4). Ma si tratta di un ritorno legato a un futuro visionario che, come la nuova Gerusalemme nell’Apocalisse, trascende ogni spazio-tempo terrestre. In questi tempi di pandemia, anche la nostra preghiera può sentire questo drammatico congedo del suo destinatario dalle coordinate della fede e della devozione che ci erano familiari; quelle che, alla fin fine, avevano più la funzione di assicurarci piuttosto che quella di esporci all’azzardo di una preghiera destinata proprio in questo momento e in questa condizione alla vita della nostra terra. Ma è solo permanendo in que-

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sta sospensione della preghiera che in essa può nascere una trasformazione. Nostra, in primo luogo; e poi della nostra relazione a tutto il creato, che non ci incatena alla dimensione fisica, misurabile e quantitativa del nostro essere al mondo, dei nostri legami più profondi con gli altri, e dell’essere tra noi di YHWH, che rimane fedele al suo nome qualsiasi cosa accada.

L’anacronismo della preghiera Trasformazione, questa, strettamente legata alla forma temporale della preghiera che è anacronistica come quella del cristianesimo nel suo complesso. Con questo voglio dire che il cristiano e la cristiana non coincidono con nessuna epoca, ma esistono esattamente nei differimenti e nelle fratture della storia. In questo senso potremmo dire che la fede cristiana abita la rottura che stiamo attraversando come una dimora che dovrebbe esserle familiare, senza togliere nulla alla sua drammaticità esistenziale (anche per il credente). L’esistenza cristiana, infatti, inizia là dove le figure storiche si sono esaurite, dove persino la contrapposizione tra morte e vita non può rivendicare più una validità ultima, dove il mondo precedente passa attraverso un congedo e una riconfigurazione. In questo senso, la preghiera è essenzialmente collegata alla «svalutazione di tutte le immagini» e al nuovo ordine simbolico che da essa scaturisce. Pensiamo al racconto di Mc 6,30-46, ossia alla cosiddetta «moltiplicazione dei pani», che è esattamente quanto non viene descritto dall’evangelista. Piuttosto, nella parola e nell’azione di Gesù vi è un forte riecheggiamento dell’evento eucaristico, richiamato dalla sequenza prendere-benedire-dare, interrotta unicamente dallo sguardo di Gesù verso quel cielo dal quale YHWH ha alimentato con la manna il suo po-

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polo nell’esodo. Nel versetto decisivo del racconto (Mc 6,41) incontriamo una preghiera di Gesù che viene indicata laconicamente con la semplice parola «benedire». Essa apre però un immenso potere creativo; una creatività in grado di cambiare completamente lo scenario del testo. Ciò che Gesù qui realizza è un paesaggio completamente nuovo, caratterizzato da abbondanza, festa e generosità: nella sua preghiera di «benedizione» si compie una trasformazione. Il deserto, nel quale ci troviamo esposti alla potenza del male, si muta nell’assemblea escatologica e festiva del popolo liberato da Dio. Non dobbiamo dimenticare il punto di partenza del racconto, che prende avvio nel momento in cui Gesù si lascia scuotere fin nelle sue viscere dalle ferite del «vecchio» mondo; e mediante questa sua sensibilità per l’umano diventa organo senziente di YHWH. Lo scenario di scarsità, di esposizione al male, si trasforma in una scena di abbondanza, generando, appunto, un nuovo ordine simbolico: quello della basileia di Dio. Ordine che è caratterizzato da un illimitato potere creativo, appunto la nuova creazione di un mondo che nutre: generosità e affezione nella quale il nome di Dio si realizza mediante la persona di Gesù. È questo ordine simbolico che ha in mente papa Francesco quando ci invita, insieme a tutta l’umanità, all’urgenza di «discernere e trovare il battito dello Spirito per dare impulso, insieme ad altri, a dinamiche che possano testimoniare e canalizzare la vita nuova che il Signore vuole generare in questo momento concreto della storia. Questo è il tempo favorevole del Signore, che ci chiede di non accontentarci, e tanto meno di giustificarci con logiche sostitutive o palliative, che impediscono di sostenere l’impatto e le gravi conseguenze che stiamo vivendo. Questo è il tempo propizio per trovare il coraggio di una nuova immaginazione del possibile, con il rea-

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lismo che solo il Vangelo può offrirci» (L’Osservatore Romano, 18 aprile 2020).

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Pregare da cristiani in una creazione libera Massimo Nardello

Una sofferenza sensata? La mentalità postmoderna, che caratterizza in modi diversi i vari paesi occidentali, è nota per la sua ritrosia a riconoscere l’esistenza di principi ultimi in grado di spiegare l’origine e il funzionamento di tutta la realtà, come pure la consistenza di valori etici universali che debbano normare l’esistenza di tutti gli esseri umani. Tale mentalità, infatti, preferisce pensare che questi riferimenti assoluti non siano identificabili in alcun modo, e che anzi l’illusione di comprenderli finisca per dar vita ad atteggiamenti settari o addirittura violenti giustificati dal bisogno di imporre a tutti una verità certa e non negoziabile. Nella postmodernità, invece, sono possibili molte verità diverse che, anche se alternative tra loro, devono essere comunque oggetto di apprezzamento, almeno nella misura in cui servono a un individuo o a un gruppo di persone a dare senso alle vicende della loro vita. Poco importa se queste verità non superano il vaglio critico della ragione filosofica, o se addirittura mettono insieme convinzioni che derivano da visioni delle realtà incompatibili tra loro, come quella religiosa e non religiosa. L’importante è che questi riferimenti siano percepiti come sensati sul piano soggettivo e risultino quindi utili a orientare le decisioni personali.

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In un tempo di pandemia, tuttavia, le giuste esigenze della ragione possono tornare prepotentemente alla ribalta. In contesti del genere, in cui è arduo dare un senso alle vicende dolorose che toccano tutta l’umanità, le visioni della realtà che non fanno seriamente i conti con la razionalità alla fin fine servono a poco. Vengono spazzate via dall’esperienza drammatica della fragilità umana e dalle domande radicali che essa pone. Non basta, insomma, dirsi che andrà tutto bene. È necessario cercare delle risposte a una domanda fondamentale, quella relativa al perché si stiano verificando eventi terribili, e queste risposte devono fare i conti con le esigenze dell’intelligenza, che non si accontenta mai di soluzioni meramente emotive. In realtà, questo interrogativo non è nuovo, ma antico quanto la vita umana sulla terra. Anche la storia del pensiero occidentale documenta come ci si sia posti a più riprese il problema del senso della sofferenza, in particolare di quella non prodotta dalle scelte malvagie di qualcuno, ma solo da dinamiche naturali, come le malattie, le carestie, i terremoti, e così via.1 Questo interrogativo è di natura teologica, in quanto ruota principalmente attorno alla questione dell’identità di Dio e del suo rapporto con la creazione. Ovviamente chi si muove in una visione rigorosamente atea e materialistica del reale risolve agevolmente questo problema, ritenendo che gli esseri umani, al pari degli altri viventi, esistano in un universo dominato dal caso in cui le dinamiche naturali non sono sempre favorevoli alla loro sussistenza. Anzi, come attestano le teorie evoluzioniste, la vita è frutto di un lunghissimo percorso evolutivo caratterizzato da una lotta terribile tra le varie forme viventi. In questo percorso, segnato ancora oggi da 1   Cf. ad esempio il classico testo di G.W. Leibniz, «Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male», in M. Mugnai  –  E. Pasini (a cura di), Scritti filosofici di Gottfried Wilhelm Leibniz. Volume terzo. Saggi di teodicea. Ultimi scritti, UTET, Torino 2000, 112 e 258-259.

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una violenza spaventosa, solo qualcuna di esse è sopravvissuta. La pandemia o altre vicenda analoghe, quindi, dovrebbero essere viste come l’ennesimo scontro tra diverse entità biologiche il cui esito non può essere scontato. Questa visione materialistica, però, anche se onora i dati scientifici, non dà risposta a un bisogno profondo che è insito nel cuore umano, quello di vivere in pienezza e per sempre. Siamo fatti per la vita, e non possiamo accettare che le realtà preziose che abbiamo costruito nella nostra esistenza  –  in fondo, l’esperienza dell’amore ricevuto e donato, e tutto ciò che questo ha generato  –  possa essere distrutto in modo definitivo da una dinamica naturale. Insomma, per noi umani la morte, se intesa come la disintegrazione dell’esistenza, resta qualcosa di profondamente inaccettabile. Anzi, essa renderebbe insopportabile la vita stessa, dal momento che tutto quanto si può sognare e costruire diventerebbe immediatamente effimero. L’unica possibilità resterebbe quella di dare credito al proverbio che Paolo ricorda ai Corinti, «mangiamo e beviamo, perché domani moriremo» (1Cor 15,32). La visione religiosa della realtà, in particolare quella cristiana, si muove su binari molto diversi. Chi ha fatto esperienza dell’amore del Padre grazie alla fede in Gesù Cristo e all’azione dello Spirito Santo sa bene come il Dio trinitario sia principio di vita e non di morte. Siamo stati creati per condividere la pienezza dell’esistenza divina, e il cammino terreno non è che un pellegrinaggio che ci conduce a questa meta. Eppure proprio questa visione cristiana della realtà fatica a fare i conti con la fragilità e la sofferenza che caratterizza ogni forma vivente. Per cogliere la portata di questa questione occorre riassumere alcuni elementi della comprensione cristiana del rapporto tra Dio e la creazione. Si tratta ovviamente di una tematica enormemente complessa, su cui faremo solo alcuni accenni a un livello introduttorio.

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Dio e la fragilità della sua creazione Nella visione cristiana, Dio ha portato all’esistenza l’universo di cui noi siamo parte come suo unico principio generativo. Dal momento che questo universo non si è creato da sé, si deve pensare che neppure possa restare esistente per virtù propria, ma che abbia bisogno di essere continuamente conservato nell’essere dall’azione creatrice divina. Si può quindi parlare di una creazione continuata, nel senso che il Creatore mantiene esistenti tutte le sue creature, che in se stesse non avrebbero la capacità di farlo.2 Nella tradizione teologica classica, soprattutto a partire dal Medioevo, quest’azione creativa divina è stata compresa nei termini di causalità. Dio è dunque la causa prima che determina permanentemente l’essere delle creature e quindi tutto ciò che queste compiono.3 Tuttavia alcune di esse, cioè gli angeli e gli esseri umani, sono state create come libere, cioè in grado di porre anche degli atti peccaminosi che sono difformi dalla volontà del Creatore. Queste creature, usando in modo malvagio la loro libertà, possono pure danneggiare gravemente altri individui o la natura in cui vivono. Dio rispetta le loro decisioni libere e anche le conseguenze drammatiche che possono determinare, e normalmente non interviene per prevenirle o farle cessare. Ovviamente, però, ciò che è frutto della malvagità delle creature non è imputabile in alcun modo al Creatore. Si deve notare, però, che questa visione teologica non può essere impiegata per comprendere quelle sofferenze che sono   Cf. L.F. Ladaria, Antropologia teologica, Piemme, Casale Monferrato 1995, 97-

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100.

3  Cf. J. Bracken, The One in the Many. A contemporary reconstruction of the Godworld relationship, William B. Eerdmans, Grand Rapids 2001, 19-21. Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I, q. 103, aa. 7-8.

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determinate semplicemente dalla fragilità umana (ignoranza, incompetenza ecc.) e non da una colpa personale. Evidentemente in questo caso non è in gioco la libertà creaturale, perché il male prodotto non dipende da un atto libero volto a danneggiare qualcuno, ma semplicemente da un limite che caratterizza intrinsecamente gli esseri umani, e che dunque dipende dal Creatore. Lo stesso si deve dire di quelle tragedie che sono prodotte continuamente dalle dinamiche naturali. Ad esempio, la maggior parte degli animali deve nutrirsi di altre forme viventi e quindi distruggerle, magari infliggendo loro un dolore molto forte. Oppure si può pensare ai fenomeni geologici, come i terremoti, le inondazioni o gli uragani, e alla loro potenza distruttiva delle forme viventi. Anche le malattie, come la pandemia prodotta dal Covid-19, sono dinamiche biologiche le cui conseguenze drammatiche non sono imputabili alle creature, ma al modo in cui Dio ha creato l’universo. Infatti, se egli è la causa prima di ogni cosa, eccetto il peccato, si deve pensare che abbia voluto creare e mantenere continuamente nell’essere un mondo caratterizzato dalla fragilità che constatiamo, e che dunque sia l’origine remota anche di tutte le sofferenze delle creature che non sono causate dal peccato. In caso contrario, vi sarebbero dinamiche creaturali che non avrebbero in Dio la loro origine, e dunque egli non sarebbe Creatore nel senso biblico del termine. Alla luce di queste considerazioni, si può capire come situazioni di particolare sofferenza mettano in difficoltà molti credenti. Alcuni di essi scelgono di non credere più, sentendosi profondamente delusi e ingannati. Per costoro il Padre di Gesù che è stato annunciato loro come amorevole e misericordioso nelle comunità cristiane ha un volto troppo diverso da quello di chi ha creato un mondo così fragile e imperfetto.

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Altri cristiani non rinunciano formalmente alla fede, ma arrivano a un esito molto simile perché finiscono per distorcere la loro idea di Dio al fine di far quadrare le cose. Costoro scelgono di pensare che il Creatore sia amorevole, e parimenti che tutto ciò che avviene, eccetto il peccato, sia voluto direttamente da lui. A questo punto, o ritengono che la sofferenza indotta dalle dinamiche naturali sia un realtà imputabile all’azione demoniaca  –  affrancandosi così completamente dalla visione scientifica della realtà, secondo la quale quella sofferenza è solo il frutto del processo evolutivo del cosmo e specificamente delle forme viventi  –, oppure si convincono che sia il giusto castigo di Dio per i peccati umani, o addirittura un bene utile alla loro educazione. È indubbio che Dio sappia servirsi della realtà drammatica del dolore per far crescere le persone, come pure che ogni cosa resti misteriosamente nelle sue mani e nulla possa pregiudicare il compimento del suo disegno di salvezza. Ritenere però che egli voglia positivamente la sofferenza delle sue creature non collima certo con il messaggio evangelico. Il Padre amorevole e misericordioso, il Figlio incarnato che ha sempre guarito ogni persona ammalata che ha incontrato e che ha dato la sua vita per noi, lo Spirito Santo che dimora incondizionatamente nella sua Chiesa nonostante qualunque peccato hanno evidentemente un’identità non compatibile con una logica di rivendicazione, di punizione o di giustizia distributiva.

Una creazione libera e solidale Dal mio punto di vista, un modo possibile per comporre il volto tipicamente cristiano di Dio con la fragilità strutturale della creazione è quello proposto dalla teologia del proces-

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so.4 Le sue radici nella metafisica processuale di Alfred North Whitehead le consentono di cogliere e di integrare nella propria interpretazione della Tradizione della fede alcuni aspetti della realtà che le filosofie classiche, su cui per molti secoli si è costruita la teologia cristiana, non sono state in grado di comprendere. Ci limitiamo a enunciarne tre, pur con grosse semplificazioni e senza avere la possibilità in questo contesto di spiegarne la fondazione teoretica sia sul piano filosofico sia su quello teologico. In primo luogo, tutta la creazione evolve in modo libero. Sia i componenti più elementari della realtà che gli enti più complessi si attuano godendo di un certo margine di libertà, anche se al di fuori dell’ambito umano (e angelico) tale libertà è ovviamente priva di consapevolezza e quindi di responsabilità morale. In virtù della sua libera attuazione, ogni entità è la protagonista del proprio percorso evolutivo, che incide in misura diversa su quello di tutto l’universo. L’evoluzione del cosmo, dunque, e soprattutto quello delle forme viventi, non è l’esito meccanicamente predeterminato di una serie infinitamente complessa di cause fisiche che dal big bang ci hanno portato fino al presente, ma è il frutto di uno sviluppo imprevedibile in cui la libertà di ogni componente dell’universo ha giocato un suo ruolo. Insomma, viviamo in uno dei mondi possibili, non in quello migliore ma in quello che la libertà dei vari enti ha reso effettivamente esistente. 4   In realtà le teologie processuali sono molteplici, anche se hanno tutte la loro origine nella metafisica del processo di A.N. Whitehead. La quasi totalità di esse, tuttavia, ha diverse criticità strutturali, come la mancanza di una teologia della creazione o di un’escatologia, per cui non paiono idonee a interpretare la fede ecclesiale, almeno nella sua comprensione cattolica. In questo contesto farò riferimento alla versione della teologia del processo che è stata proposta da J. Bracken e rielaborata dal sottoscritto, che potrebbe non risentire di quelle difficoltà e che ho presentato in M. Nardello, Dio interagisce con la sua Chiesa. La fedeltà ecclesiale alla rivelazione divina alla luce della teologia del processo, EDB, Bologna 2018.

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In secondo luogo, la creazione gode di tale libertà perché Dio l’ha voluta in questo modo. Egli, pur conoscendo perfettamente gli esiti delle libere attuazioni di ogni entità, non si impone su di esse, perché questo significherebbe sospendere l’autonomia che ha loro donato. Piuttosto, il Creatore interagisce con le sue creature con uno stile persuasivo, aprendo a ciascuna di esse nuove possibilità di miglioramento e di crescita, ma accettando poi le loro eventuali attuazioni regressive o distruttive. Anzi, egli condivide la sofferenza e l’appagamento delle sue creature sensibili, partecipando per amore (e non per imperfezione) al loro percorso. Nello stesso tempo, però, Dio impedisce che i loro orientamenti negativi possano pregiudicare il suo disegno di salvezza delimitando opportunamente le loro possibili attuazioni ed escludendo quelle che nel suo misterioso giudizio sarebbero eccessivamente devastanti. In terzo luogo, ogni ente si attua a partire da elementi della realtà già esistente, e influenza quelli che si attueranno in futuro.5 Esiste così un misterioso legame di solidarietà tra tutte le entità che costituiscono l’universo, in modo particolare tra quelle che sono vicine. Queste tre caratteristiche della realtà messe a fuoco dalla metafisica processuale possono lasciare perplessi, perché non sono così evidenti. Senza entrare nelle motivazioni che stanno dietro a tale comprensione del reale, ci limitiamo a osservare che essa consente di credere in un Dio che è amorevole pur prendendo atto della fragilità strutturale della sua creazione.

5   Questa visione è molto vicina a quanto insegna papa Francesco nella Laudato si’: «[...] tutto è connesso. Il tempo e lo spazio non sono tra loro indipendenti, e neppure gli atomi o le particelle subatomiche si possono considerare separatamente. Come i diversi componenti del pianeta  –  fisici, chimici e biologici  –  sono relazionati tra loro, così anche le specie viventi formano una rete che non finiamo mai di riconoscere e comprendere» (n. 138).

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Nella visione processuale, la sofferenza indotta dalle dinamiche naturali dipende dal fatto che Dio ha creato il mondo in una condizione di caducità (cf. Rm 8, 20), cioè caratterizzato da una libertà che può produrre dinamiche contrarie al suo disegno di amore, e lo chiama a crescere liberamente verso la pienezza della vita. Queste dinamiche negative continuano a esistere perché egli non agisce sul cosmo in modo deterministico, cioè imponendosi su di esso a scapito della sua autonomia, ma piuttosto facendolo evolvere perché progredisca liberamente verso la sua perfezione. Detto in altri termini, viviamo in un mondo che Dio non ha finito di creare, cioè incompiuto, un mondo che egli vuole portare a compimento solo interagendo amorevolmente con esso, nel rispetto della sua libertà. A tale scopo il Creatore agisce in modo persuasivo su ogni creatura, aprendole incessantemente nuove possibilità di vita a partire dalla situazione concreta in cui si trova. È proprio questa sua appassionata e rispettosa cura per quanto ha chiamato all’esistenza il segno certo del suo amore.

La preghiera cristiana in una creazione libera In questa comprensione processuale della realtà, la preghiera degli esseri umani  –  qualunque preghiera, non solo quella cristiana  –  riveste una grande importanza. Ovviamente essa non serve a convincere Dio a privare la creazione della sua libertà per imporre al suo interno degli esiti favorevoli per qualcuno, dal momento che egli non cambia idea su come l’ha costituita, né d’altra parte c’è bisogno di convincerlo a prendersi cura di essa, in quanto lo fa da sempre e in modo perfetto. La preghiera dovrebbe invece essere intesa come l’atto con cui gli esseri umani accolgono l’azione divina, even-

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tualmente facendosi voce di altre creature in difficoltà in virtù del legame che le rende tutte solidali. Se Dio agisce in modo persuasivo nel mondo, la preghiera è un modo con cui gli si dà il «permesso» di operare e di realizzare il suo disegno di amore e di vita in una determinata situazione. Così questa sua azione amorevole non sarà qualcosa di imposto, ma un dono rispettoso che sarà stato ricercato, desiderato e accolto. Ovviamente questa invocazione, anche quando domanda qualcosa di buono, si intreccia sempre con molte resistenze all’intervento divino determinate da altre creature, per cui non necessariamente ottiene quello che chiede. Dio rispetta la libertà di tutto ciò che ha creato, non solo di chi lo invoca perché la sua volontà si realizzi. Per questo ha perfettamente senso intensificare e allargare la preghiera nei momenti di grave difficoltà: non per «svegliare» Dio con una voce più forte  –  anche se la Scrittura utilizza talvolta questo linguaggio metaforico  –, ma per superare con la propria adesione al suo disegno di amore le resistenze che sorgono da altri ambiti della creazione, anche da dinamiche biologiche. Si deve notare, però, che questa concezione processuale non è ancora sintonica con il cristianesimo. Si tratta infatti di una visione naturalistica di Dio e della sua salvezza, in cui cioè manca la dimensione della grazia, ovvero di un dono divino ulteriore rispetto a quello della creazione che è indeducibile a partire da essa. Eppure proprio una criticità della comprensione processuale della realtà può aprire le porte alla dimensione soprannaturale, pur senza poterla immaginare o esigere. Se Dio agisce nel mondo in modo persuasivo, sembra logico pensare che il peccato umano e la resistenza di innumerevoli entità presenti nell’universo siano presumibilmente talmente forti da rendere l’azione divina inefficace e lasciare così la creazione in balia delle sue dinamiche distruttive.

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Ciò che impedisce questo esito drammatico non può essere colto con una riflessione metafisica, ma solamente mettendosi in ascolto dell’annuncio evangelico. Esso ci attesta il mistero dell’incarnazione, con la quale il Figlio di Dio ha assunto una natura umana, e dunque è divenuto parte della creazione. Nella sua vita di perfetta obbedienza e fiducia nel Padre fino alla morte di croce, Gesù ha acconsentito in modo pieno e irrevocabile alla sua azione a vantaggio dell’umanità e di tutto il cosmo. Dunque viviamo in una creazione che ha già «aperto le porte» al Creatore grazie al pieno abbandono del Figlio incarnato nelle sue mani. Il segno che questa sua obbedienza è realmente capace di portare il mondo al suo compimento è dato dal fatto che proprio questo compimento è già avvenuto nel corpo glorificato del Signore. Il Padre, facendo risorgere il suo Figlio dalla morte, ha già iniziato a trasformare questa creazione a partire da questo corpo, e a inaugurare così il compimento escatologico di tutto il cosmo. Queste considerazioni ci fanno cogliere le caratteristiche originali della preghiera cristiana. Essa non si limita a farsi voce del creato davanti a Dio per permettergli di realizzare il suo disegno di amore, ma può addirittura riecheggiare la preghiera di Gesù, cioè la sua fiducia e il suo abbandono nel Padre grazie al quale l’universo intero è già stato incipientemente segnato dalla risurrezione. Pregare in senso cristiano, insomma, significa pregare nel Figlio, dare continuità alla sua preghiera in quanto inseriti nel suo corpo ecclesiale, e dunque prendere parte attiva a quella dinamica di amore tra il Figlio e il Padre che ha già rinnovato l’universo e che un giorno lo renderà pienamente partecipe della vita trinitaria. Non ci deve stupire, quindi, che la norma della preghiera cristiana sia il Padre nostro, nel quale il Signore ci insegna a chiedere a Dio di compiere la sua volontà di vita, cioè di portare a compimento il suo regno.

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Un amore inquieto

E così, quando il Signore ritornerà e si compirà questo regno, esso non sarà soltanto un dono divino, ma qualcosa che noi umani, e in modo diverso tutto il cosmo, avremo ricercato e desiderato, per cui avremo enormemente sofferto e lottato, portando il peso di una creazione la cui libertà non si è ancora compiuta. E se la sofferenza di questo tempo di ricerca è tanto grande, è solo perché immensamente di più lo sarà la vita che ci sarà donata.

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Oltre la preghiera di richiesta Andrés Torres Queiruga

Inconvenienti e difficoltà Ha senso «chiedere» a un Dio che è amore già sempre donato? Il modo con cui si prega dipende dal Dio che si prega. Per questo, ogni innovatore religioso e ogni maestro spirituale ha introdotto un modo peculiare di pregare. Gli stessi discepoli di Gesù gli chiedono di insegnare loro a pregare «come Giovanni» aveva insegnato ai suoi (Lc 11,1). Il titolo evidenzia subito il carattere teologico della domanda. Essa pone la questione a partire dalla pienezza positiva di Dio. Essa guarda verso quel Dio il cui volto si è andato configurando nel corso della lunga esperienza biblica, fino a culminare nel Dio di Gesù di Nazaret. Davanti a questo Dio, che è Abbà, vale a dire padre e madre che ama senza limiti e perdona senza condizioni, che quando «eravamo ancora peccatori» (Rm 5,8) ci ha donato il Figlio suo, che ci ha dato tutto e continua a essere sempre presente e operante nel mondo e nella vita (Gv 5,17)... insomma, davanti a questo Dio ha senso richiedere? Sottolineo la direzione espressamente teocentrica della domanda: la soluzione potrà essere più o meno riuscita, ma l’intenzione è che la nostra preghiera risponda a quello che Dio è e vuole essere per noi. La preoccupazione è che si rispetti nel miglior modo possibile la generosità senza limiti del suo amore e

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la squisita delicatezza della sua offerta. In definitiva, si tratta di esercitare in maniera cosciente e rispettosa la nostra relazione di creature bisognose di salvezza, adattandoci al modo in cui il Creatore realizza il dono salvifico che fa di sé. A partire dall’Abbà evangelico vediamo il Creatore come colui che ha fatto l’uomo per amore e solo per amore. Lo crea e lo sostiene continuamente nell’essere, con l’unica ed esclusiva preoccupazione di farlo progredire, sostenendolo nel suo sforzo di una realizzazione quanto più piena e umana è possibile. Tutto il nostro essere è perennemente impastato dal suo dinamismo amoroso, che si manifesta e incarna nell’impulso vitale, nel desiderio del bene, nell’ansia di fraternità e pienezza. Questo impulso, in ciò che ha di slancio verso la realizzazione personale e sociale, rispetta la libertà umana e si esercita come offerta gratuita. Questa libertà, da parte sua, è una libertà finita, mai completamente padrona di se stessa, continuamente ostacolata dall’inerzia e assediata dall’istinto. Dio, che ci ha creati e «sa di che pasta siamo fatti», si china su di noi, applicando tutto il suo essere, che «è amore» (1Gv 4,8.16), per aiutarci, potenziarci e renderci più dinamici. Vivere autenticamente significa aprirsi a Dio, lasciarsi lavorare dalla forza salvatrice della sua grazia. Non «conquistarlo», ma lasciarci conquistare da lui; non «convincerlo», ma lasciarci convincere… non «pregarlo», ma lasciarci pregare. Ogni preghiera, per essere autentica, deve inserirsi in questo movimento fondamentale. Movimento di per sé ovvio  –  ma in controtendenza rispetto all’immaginario abituale e alle formulazioni spontanee che lo nascondono e lo sviano  –  che appare nei momenti vivi o nelle esperienze più splendide e intense. È allora che si rende evidente «il paradosso della preghiera», secondo le parole di Paul Tillich: «L’essenza della preghiera è l’atto di Dio che sta operando in noi ed eleva a lui tutto il nostro essere. Il modo con cui avviene è chiamato da Paolo “gemiti”.

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Gemito è un’espressione della debolezza della nostra esistenza di creature. Solo in termini di gemiti senza parole possiamo accostarci a Dio, e anche quei sospiri sono opera sua in noi». In fondo, è ciò che sappiamo o intuiamo tutti; per questo ogni preghiera, fatta con spirito sincero, lo suppone e lo cerca. È questa anche la ragione per la quale molti si sconcertano e si sentono offesi e irritati quando gli si fa notare che la loro preghiera di richiesta non è coerente con il Dio rivelato in Gesù: essi pongono l’accento sulla loro preghiera, sull’intenzione soggettiva con cui pregano (che è genuina e autentica); ma non vedono che qui la critica è al «di richiesta», vale a dire, che essa analizza e vuole correggere la struttura oggettiva delle formule che esprimono (distorcendola) quella intenzione. Sarà ancora più facile coglierlo se sveliamo lo schema immaginativo sottostante la petizione. Il «da Dio» originario viene nascosto da immagini opposte, di grande forza, perché sono appena coscienti e si danno per scontate fin dall’infanzia: non Dio in noi e nella realtà, chinato su di noi, che ci sostiene dal di dentro con tutto il suo amore sempre in atto; ma noi qui e Dio là, che ci osserva, istruisce, comanda, giudica e ci soccorre, inviandoci di tanto in tanto qualche aiuto… Bisogna rivolgersi a lui, chiamarlo perché venga, chiedergli di intervenire, forse offrendogli qualche dono o facendo qualche sacrificio… Onestamente, appare molto difficile negare che sia questo lo schema sottostante e attivo nella maggioranza delle preghiere di richiesta, e che oggettivamente non sia coinvolto in tutte. Insisteremo ora su questo «essere oggettivamente coinvolto in tutte». Gli inconvenienti della preghiera di richiesta Chiedere qualcosa a qualcuno implica due presupposti fondamentali: informarlo di una necessità o desiderio  –  nel

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caso che non li conosca  –  e cercare di convincerlo ad agire (ritenendo che possa farlo). Nel caso di Dio, il primo presupposto manca di oggetto: lui conosce tutto. Il peso cade sul secondo: ottenere che Dio si decida a fare qualcosa perché noi gliela chiediamo. Facciamo un esempio forse un po’ brutale, ma che si può ascoltare la domenica in qualche chiesa: «Per l’Etiopia, perché non soffrano la fame, preghiamo / Ascoltaci, Signore e abbi pietà». Che cosa viene implicato qui? La formulazione implica che gli oranti prendono l’iniziativa: conoscono la necessità e ne hanno compassione. Esiste qualcuno che può porvi rimedio ma, o non la conosce ancora, oppure non è molto disposto a usare il suo potere; allora gli oranti s’impegnano a spingerlo perché alla fine venga in aiuto. La risposta comunitaria, nel suo tenore oggettivo, non solo lo conferma, ma lo acutizza con la ripetizione insistita: «ascolta», interessati... E «abbi pietà», cioè: non rimanere indifferente. Le attenuanti soggettive non potranno mai cancellare il contenuto di quello che si dice. Non è corretto per noi e neanche onesto nei confronti di Dio mantenere formule di questo tipo. La logica più elementare, infatti, conclude che se dopo una tale preghiera in Etiopia si continua ad avere fame è perché Dio non ha ascoltato e non ha avuto pietà. Noi, d’altro canto, abbiamo già fatto la nostra parte (lo abbiamo informato), e quindi possiamo starcene tranquilli e giustificati (senza considerare il fatto che tutta la semantica oggettiva di una tale preghiera annuncia in modo subliminale che noi siamo migliori di Dio). Oggi, con l’apporto dello strutturalismo, non possiamo più ignorare l’efficacia tremenda di questi processi o prendere alla leggera un fatto tanto grave. Il valore delle parole in se stesse, il loro potere di configurare la psicologia, il loro contatto con le radici stesse dello spirito sono troppo grandi; e quan-

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to più si medita su questo, tanto più se ne percepisce l’influsso incontrollabile. Ignorarlo potrebbe risultare, per molti aspetti, suicida. Le difficoltà filosofico-teologiche Esiste un punto fondamentale nel quale la preoccupazione filosofica coincide con quella teologica: il modo di concepire l’azione di Dio. Il rispetto per la sua trascendenza, l’attenzione a non ridurlo a una cosa tra le cose o a un fattore tra i fattori del mondo, l’interesse a evitare una concezione «intervenzionista», nella quale Dio continuamente interferisce con l’andamento della natura e della storia… tutto questo è qualcosa contro cui la filosofia ci ha messo in guardia, ma che preoccupa «dal di dentro» anche la teologia. Questa preoccupazione nasce da una coscienza più viva della presenza sempre attiva del Dio che crea e sostiene, che promuove continuamente il dinamismo della realtà e il cui amore sollecita continuamente la libera accoglienza della nostra libertà. Qui l’azione divina è permanente, ma la visione «intervenzionista» non trova spazio; la libertà umana è sostenuta, accompagnata e animata, ma tutto resta affidato alla sua responsabilità nel rispetto della sua autonomia. Ciò presuppone una rottura radicale nelle nostre concezioni, come affermava Karl Rahner: «Se anticamente si poteva credere nell’intervento di Dio, almeno in determinati casi, in maniera puntuale e spazio-temporale, in alcuni istanti concreti dell’andamento dell’universo, allora per davvero è avvenuto un mutamento enorme nella mentalità passando dalle epoche precedenti alla nostra, un mutamento che […] certamente non è arrivato a imporsi fino alle ultime conseguenze […] e, proprio per questo, ci sta riservando notevoli difficoltà».

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Questo «giungere alle estreme conseguenze» incontra resistenze spontanee quando viene applicato alla preghiera di richiesta. Esiste un timore elementare e involontario che con la richiesta si perda la preghiera in quanto tale. Lo stesso Rahner fa degli equilibrismi per salvarla in qualche modo. Qualcosa di simile avviene in questo testo di Hans Schaller, che imposta in modo ammirevole la questione: «Inteso così, Dio non ha bisogno di essere motivato a dare o a essere mosso a questo. […] Dio non ha bisogno di intervenire, ma di essere accolto: lui si trova già in mezzo al suo mondo, che non abbandona a se stesso e al suo destino, e spera di poter abitare anche nel cuore dell’essere umano. La preghiera di richiesta  –  “Venga il tuo Regno!”  –  è il coraggio con cui l’uomo si apre alla vicinanza di Dio e la lascia agire attraverso la sua vita». Un’applicazione importante e un buon esercizio di una simile logica s’incontra nel problema del male: questo è inerente alla realtà finita, la quale comprende già sempre in sé l’appoggio, il sostegno e l’aiuto di Dio; così che il male non è qualcosa che lui comanda o «permette», ma proprio ciò che lui non vuole e contro il quale sta già lottando al nostro fianco. La qual cosa, a sua volta, ci indica che neanche da questo punto di vista ha senso la richiesta: il problema non sta nell’ottenere che Dio venga in aiuto, dato che il suo aiuto è già donato in totale generosità; quanto risulta necessario è credere nel suo aiuto, esserne grati e accoglierlo  –  come Gesù  –  nell’opzione di combattere il male in tutte le sue forme. Queste indicazioni sono telegrafiche e si limitano a suggerire la direzione da seguire per impostare una questione così importante. Si pensi che cosa sarebbe il mondo se ogni volta che c’è una catastrofe, una disgrazia o una necessità, si pregasse Dio e lui intervenisse per risolverlo: il mondo sarebbe ridotto a una marionetta e la libertà umana a una parola vuota. Per non parlare dell’assurdo religioso a cui ci condurrebbe una si-

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mile visione «intervenzionista». Facciamo un esempio caricaturale: se in una stanza di ospedale ci fossero tre malati terminali e Dio decidesse di curarne uno solo perché ha una madre devota che ha fatto una novena, che cosa dovrebbero pensare gli altri due? E che padre di tutti sarebbe un Dio che si comportasse a quel modo?

La difesa della preghiera di richiesta Necessità antropologica e valori espressivi Quando qualcuno chiede qualcosa a Dio, non è sempre in primo piano l’intenzione di «convincerlo» o di «informarlo». Molte volte non si spera neanche che le cose cambieranno. Si tratta di uno sfogo, di una ricerca di contatto con Dio, di proclamare il suo amore e di ringraziarlo per il suo sostegno e la sua grandezza. Non riconoscere questo significherebbe essere ciechi e mancare della minima sensibilità nel percepire le enormi ricchezze di pietà autentica e di profonda esperienza religiosa che nel corso di secoli, se non di millenni, si sono espresse e alimentate attraverso questi modi di pregare. A un primo livello di riflessione si può parlare di una necessità antropologica della richiesta e di quanto sia indispensabile, di per sé, esercitarla davanti al Dio vivo e salvatore che vuole una relazione sempre personale con noi. A un secondo livello, è necessario dedurre ancora che la preghiera di richiesta si esercita a partire dalla dimensione espressiva del linguaggio, la qual cosa implica, da un lato, che questa dimensione giustifica gli usi della preghiera che conosciamo e, dall’altro, che non è lecito il tentativo di «sospenderla» partendo dall’analisi delle altre dimensioni.

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Siccome questa distinzione permette di inquadrare la questione con rigore e chiarezza, vale la pena prenderla come guida. Secondo la classica divisione di Karl Bühler, in ogni manifestazione linguistica sono sempre presenti tre dimensioni: 1) quella rappresentativa o espositiva, che informa di qualcosa; 2) quella espressiva, che manifesta l’intimo e l’intenzione di chi parla; e 3) quella appellativa o di chiamata, che cerca di provocare una qualche reazione in chi ascolta. Si visualizza molto bene il loro significato se si pensa alle distinte enfasi con cui qualcuno enuncia un teorema matematico, recita una poesia o impartisce un comando. Mentre la caratteristica principale in un teorema è il suo rigore logico, in una poesia essa è costituita dal mondo interiore del poeta e in un comando dalla sua capacità di influenzare la condotta di chi lo riceve. Se la richiesta potesse concentrarsi esclusivamente sul carattere espressivo dei suoi enunciati, le analisi precedenti non terrebbero conto delle sue intenzioni e, pertanto, le conclusioni sarebbero false. In effetti, è questa circostanza quella che sostiene vitalmente e rende realizzabile psicologicamente la preghiera di richiesta. Ma ci si chiede se questa enfasi esclusiva sulla dimensione espressiva sia corretta e se i suoi costi non siano alla fine troppo alti. Le tre dimensioni non sono separabili: l’enfasi può ricadere su una di esse, ma anche le altre due sono necessariamente presenti: il più astratto teorema modifica la mente e la condotta degli alunni e la poesia più intima dice qualcosa sul mondo. Anche riconoscendo uno spazio alla libertà e una flessibilità nell’uso del linguaggio, la combinazione non può essere arbitraria e, soprattutto, non deve portare a una contraddizione. Tanto la relazione reale tra gli interlocutori quanto la struttura oggettiva del linguaggio implicano un quadro di riferimento che non può essere articolato a seconda dell’arbitrio soggettivo: a un superiore non si dà un comando,

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e non si esprime l’affetto con un insulto. La preghiera non può sfuggire a queste leggi. Il linguaggio della preghiera deve anche  –  e in teologia bisogna dire principalmente  –  tenere conto del rapporto tra i partecipanti al dialogo. Non ha senso informare Dio, il quale sa tutto (dimensione espositiva), e non ha senso chiedere a colui che sta dando tutto (dimensione appellativa). L’importanza della dimensione espressiva ha diritto a richiedere un suo spazio e a cercare un equilibrio, ma senza esulare dall’insieme. A maggior ragione se essa ha costi che possono divenire elevati: la supplica continua  –  per effetto inevitabile delle sue dimensioni espositiva e appellativa  –  finisce per introiettare nell’inconscio e proclamare nell’ambiente l’immagine di un Dio che non fa quello che gli chiediamo, in definitiva, perché non vuole (perché non «ascolta» o non «ha pietà»), o che lo fa per alcuni e non per altri; alimentando un’idea di relazione nella quale siamo noi a prendere l’iniziativa e cerchiamo di convincere Dio ad avere compassione dei bisognosi e a decidersi ad aiutarli (strutturalmente stiamo dicendo che noi siamo migliori di lui). I valori espressivi della preghiera di richiesta non bastano a giustificarla. Inoltre, senza negare i suoi benefici, senza giudicare le intenzioni e anche riconoscendone il carattere psicologicamente inevitabile per molti, e senza negare neanche l’enorme difficoltà che comporterebbe una revisione di tutto il complesso devoto e liturgico della richiesta tradizionale, s’impone la necessità di correggere la situazione. E si dovrà farlo in un difficile equilibrio: da un lato, il processo pedagogico, il ritmo di ciascuno e il rispetto per ogni situazione; dall’altro, il non cadere nella trappola dei rinvii all’infinito o nella strategia snervante delle «mille qualificazioni» che dicono senza dire e cambiamo senza cambiare.

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«Esprimere» invece di «chiedere» Resta la grave questione dei valori tradizionali e biograficamente associati alla richiesta; ampia parte della vita è associata a formule molto amate: l’esperienza di incontri profondi con Dio, di confessione della propria indigenza e del rivolgersi con fiducia al Signore. La rinuncia alla preghiera di richiesta può dare la sensazione di una privazione violenta, di una violazione dell’intimità, di una perdita irreparabile delle radici stesse dell’essere religioso. Come conservare e preservare tutto ciò? In se stessa, la risposta è semplice e diretta: conservandolo, riportando tutto alla parola. Non negare nulla alla dimensione espressiva, ma senza invadere le altre. Se vogliamo esprimere la nostra indigenza, esprimiamola. Se vogliamo manifestare la nostra compassione e la nostra preoccupazione per quanti hanno fame, manifestiamole. Se abbiamo bisogno di lamentarci per la durezza della vita, lamentiamoci. Chiamiamo le cose e i sentimenti con il loro nome. Siamo abituati a lamentarci chiedendo, mentre dobbiamo imparare a lamentarci lamentandoci. Si osservi che in tutto quello che precede non interviene il verbo «chiedere». Non si è perduto nulla, visto che si è detto tutto. Ma si è guadagnato molto, dato che si evita di strumentalizzare il nome di Dio, con connotazioni che oggettivamente lo offendono e che soggettivamente ci danneggiano. Se si tratta della fame in Etiopia, la nostra preghiera parlerà di solidarietà e di desiderio di soluzioni, di unirci prendendo qualche iniziativa possibile; menzionando Dio, lo si farà per riconoscere che lui è il primo a esserne preoccupato, che il nostro desiderio è un semplice riflesso della sua attività nel nostro spirito, che vogliamo aprirci alla sua chiamata e lasciarci muovere dalla sua iniziativa; andando

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alla vita, non avremo la sensazione di aver già raccomandato al Signore una necessità e che, pertanto  –  inconsciamente  –  possiamo disinteressarcene; al contrario, saremo consci che lui ci accompagna e la sta raccomandando alla nostra responsabilità… In questo modo non solo non abbiamo smesso di esprimere nulla; non solo non abbiamo lasciato in sospeso dei presupposti ingiusti per l’amore di Dio, ma abbiamo proclamato la sua grandezza; non abbiamo rinunciato alla nostra responsabilità, ma l’abbiamo ravvivata e caricata di speranza. In principio questo cambiamento può apparire doloroso e difficile. Si può paralizzare il linguaggio e sembrare che si resti senza sapere che cosa dire: abitudini coltivate a lungo vengono sconvolte e appaiono senza senso, quando mancano le parole per dire altro. Si può arrivare alla sensazione che ormai non abbia nemmeno senso presentarsi a Dio per nulla. È senza dubbio una dura ascesi. Ma ne vale la pena. Non esiste nulla di quanto si esprimeva prima come richiesta che ora non possa essere espresso, e meglio, nel suo senso esatto e corretto. Mancheranno le formule, ma si scoprirà quanti luoghi comuni e abitudini, quante frasi vuote e ingiuste popolano la nostra preghiera. L’immagine di Dio si farà più cosciente e ci educheremo progressivamente al rispetto per la sua differenza, per il senso della sua trascendenza. Eserciteremo la nostra fede nella sua presenza, anche quando non la vediamo o ci sembra di sentirne l’assenza. Coltiveremo tutte le dimensioni della preghiera: lode, azione di grazie, fiducia, benedizione… Che cosa resta allora della Bibbia, delle parole di Gesù che invitano alla richiesta e di tutte le preghiere tradizionali cariche di orazioni, suppliche e richieste?

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Gesù e la preghiera di richiesta La lettera e l’intenzione La questione della preghiera di richiesta nelle parole di Gesù non è oziosa né, certamente, arbitraria. E la sua presenza è costante nella stessa tradizione, proprio quando essa si pone esplicitamente il problema della peculiarità della relazione con Dio. San Tommaso lo esprime in forma condensata e precisa: «Dobbiamo pregare non per informare Dio delle nostre necessità o desideri, ma perché noi stessi ci convinciamo che in tali cose abbiamo bisogno di ricorrere all’assistenza divina». E aggiunge: «La preghiera non è offerta a Dio per cambiare lui, ma per esercitare in noi la fiducia di chiedere. La quale si eccita principalmente considerando il suo amore per noi, per colui che vuole il nostro bene». Non è indispensabile una lettura letterale dei testi biblici, ma occorre cercarne l’intenzione più genuina attraverso il significato letterale. Nell’Antico Testamento ciò appare ovvio per il suo carattere di cammino verso il Nuovo: nessuno può, ad esempio, prendere come normative le imprecazioni contro i nemici, o l’esclusivismo intollerante che caratterizza tante pagine, per altri aspetti ammirevoli. Di qui ne deriva, anche per brevità, che interessa concentrarsi sulla dottrina e sull’atteggiamento di Gesù di Nazaret. Nel farlo, emergono da subito testi chiari ed espressivi: «Chiedete e vi sarà dato» (Mt 7,7; cf. Lc 11,9; Gv 16,24); «Tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete» (Mt 21,22; cf. Mc 11,24; Gv 14,13-14; 15,7.16; 16,2326). O si ricordano delle richieste dello stesso Gesù: «Padre, se è possibile, passi via da me questo calice» (Mt 26,39; Mc 14,36; Lc 22,42). Questi passi sembrano non lasciare dubbi all’interpretazione. Ma la prima sorpresa si ha quando si vo-

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gliono citare altri testi evangelici. Esistono, ma in genere non parlano più di «chiedere», ma di «pregare», e anche se parecchie volte si conserva il senso del domandare è pur sempre un buon avvertimento. Appare evidente anche una seconda sorpresa, più forte: in realtà, nessuno può prendere alla lettera testi come, ad esempio, «chiedete e vi sarà dato». Come ha fatto notare Clive Staples Lewis, l’esperienza dice piuttosto il contrario: la fiducia suscitata da queste parole si vede quasi sempre frustrata. Si sente quanto siano strane le questioni che sorgono quando si vuole prendere «sul serio» il dettato letterale. Non senza una certa ironia Karl Rahner scriveva: «Ci si è chiesti se l’“efficacia” di una preghiera di richiesta riguardo a dei beni temporali sia dimostrabile empiricamente; ad esempio, se il tempo nel Tirolo meridionale, con i suoi contadini devoti e le sue processioni in campagna e le sue benedizioni del tempo, sarebbe diverso nel caso in cui vi si trapiantassero dei contadini tibetani, che non pregherebbero allo stesso modo». Ma quando, con buon senso, si abbandona questa via e si cerca di «spiegare» che non si tratta di «questo», che si tratta di un altro genere e di un altro tipo di efficacia, l’interpretazione smette inevitabilmente di essere letterale per cercare l’intenzione genuina. Le spiegazioni a cui si ricorre sono allora di ogni tipo: la preghiera si compie sempre, ma solo se quello che chiediamo ci conviene, se è spirituale, se presuppone che la nostra volontà si identifichi con quella di Dio… Oggi queste spiegazioni danno l’irrimediabile impressione di «stratagemmi» per cavarsela; tanto che alla fine non dicono più quello che dicevano al principio, non convincono e finiscono per irritare. Ma questo non è bene né per la fede né per la pietà. Non vale neanche la spiegazione classica: Dio ha unito dall’eternità la concessione di questa grazia al fatto della nostra richiesta... Appare più

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onesto riconoscere che è avvenuto un cambiamento di paradigma e che è corretto procedere a un’altra lettura, più naturale e perfettamente rispettosa del testo. È fondamentale la fiducia La preghiera biblica è molto più che semplice richiesta. Lode, ammirazione, azione di grazie, fiducia e dono di sé vi sono presenti in modo non meno massiccio e di maggiore caratura religiosa. Ciò è evidente in Gesù, a cominciare dal dato elementare che egli passava la notte in preghiera: nessuno, di solito, si ritira a pregare tutta la notte se non è spinto da uno spirito contemplativo, se non è stupito da Dio e se non si è lasciato invadere da lui. Cosa che viene confermata quando andiamo all’esperienza centrale che configura la vita di Gesù: quella dell’Abbà, che allude alla fiducia gioiosa, all’identificazione totale, alla vita donata che viene dal Padre. L’«inno di giubilo» (cf. Mt 11,25-26; Lc 10,21) costituisce un buon indizio di quella che poteva essere la sua preghiera. Quando i discepoli chiedono a Gesù di insegnar loro a pregare, egli li introduce nel suo stesso atteggiamento: «Quando pregate, dite: Abbà» (Lc 11,2). Una chiamata alla stessa fiducia piena, che colora tutta la preghiera, le dà il tono e le conferisce il suo significato profondo. La prima parte del Padre nostro non è di «richiesta», ma di desiderio ardente e di apertura all’accoglienza dell’iniziativa divina. E la seconda parte, che ha forma di richiesta, è già tutta determinata da questa atmosfera di affidamento totale nelle mani di Dio. La prima e più tipica «richiesta», quella del pane, è l’oggetto esplicito di una chiamata dello stesso Gesù, a indicare che la cosa importante non è chiedere, ma confidare: «Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete… Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno» (Mt 6,25-34; Lc 12,22-

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31). In quanto alla richiesta di perdono, abbiamo già visto come anche qui la prima cosa è il perdono di Dio  –  «Quando ancora eravamo peccatori…»  –  e il nostro compito è accoglierlo. Offrire il perdono come dono che precede la stessa conversione costituisce un tratto specifico e «scandaloso» dell’annuncio di Gesù, fino al punto da provocare «una bufera di indignazione», visto che «contraddiceva tutte le regole di pietà di quell’epoca» (Joachim Jeremias). Avendo così allertato lo sguardo, una panoramica dei testi permette di vederli sotto una nuova luce, che li rende molto più vividi ed espressivi. La chiamata alla preghiera da parte di Gesù, nei diversi contesti, è sempre e fondamentalmente chiamata alla fiducia. In Matteo, con una redazione rivolta alla comunità credente, si insiste sull’evitare l’«eccesso di parole», «come i pagani, che credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6,7). La conclusione va nella direzione opposta e, in fondo, mina le basi di qualsiasi richiesta presa alla lettera: «Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (6,8). In tale direzione proseguono il Padre nostro, l’esortazione a non preoccuparsi per il mangiare o il vestire (6,25-34) e il «Chiedete e vi sarà dato» (7,7-11). Quest’ultima pericope, che rappresenta il vertice della narrazione, si concentra ormai in maniera esplicita ed esclusiva sulla fiducia, con tutta la forza del contrasto: «Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!» (7,11). In Luca, che si rivolge a quanti vengono da fuori, l’enfasi è la stessa. Inizia con il Padre nostro, per continuare, come esempio evidente, con la parabola dell’amico importuno (11,5-8). Si tratta di uno dei luoghi classici che vengono addotti sempre per giustificare la richiesta. Si presuppone che questa pa-

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rabola, insieme a quella del giudice iniquo (18,1-8), rappresenti un’esortazione di Gesù a chiedere con insistenza. Oggi si ammette quasi in modo unanime che non è quella l’intenzione originale, che invece fa perno ancora sulla fiducia. Come ha dimostrato Jeremias, il senso dato da Gesù stesso a queste parabole non è quello di esortare «alla richiesta perseverante» (enfasi secondaria, introdotta da Luca). Si tratta invece, nell’uno e nell’altro caso, di parabole «di contrasto», dove la cosa decisiva è la fiducia certa nel fatto di venire ascoltati, basata proprio sull’inaudito «molto più» della bontà e dell’amore di Dio di fronte a tutto quello che si può pensare e immaginare. Se appare inconcepibile che un amico manchi in tal modo verso l’ospitalità e persino un giudice iniquo finisce per fare giustizia, quanto più Dio! In Marco, il tema non è trattato in modo così esteso. Tuttavia l’evangelista riporta una frase che, con la sua grammatica tormentata, è tutta un sintomo della peculiare tensione del linguaggio di Gesù su questo punto: «Per questo vi dico: Tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà» (Mc 11,24). La sua interpretazione presenta delle difficoltà. In ogni caso, accettando la tensione tra futuro e passato, non c’è dubbio che qui si esorti a «una fiducia senza limiti» (Gerhard Lohfink), la quale appare ancora una volta l’elemento fondamentale nell’intenzione di Gesù. Non si vuole dire che Gesù non abbia parlato di «richiesta». Si tratta di mostrare qualcosa di più importante: che l’essenziale non consiste in essa, che quanto interessa in definitiva è la chiamata a confidare pienamente in Dio, nell’Abbà. È questo ciò che va mantenuto a ogni costo. E per mantenerlo non è necessaria la richiesta. Ancora di più: quando si rinuncia ad essa, non solo è possibile conservare tutti i valori tradizionalmente veicolati dalle sue formule, ma li si libera da pericolose connotazioni oggettive (che agiscono al di là e nono-

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stante l’intenzione soggettiva dell’orante) e si apre un nuovo e fecondo orizzonte.

La richiesta trascesa e assunta Una volta entrati in questa nuova prospettiva, il panorama si schiarisce. Si comprende subito che sotto la maggior parte dei ragionamenti in difesa della preghiera «di richiesta» vi era un residuo, neanche cosciente, di «positivismo della rivelazione»: quanto «è scritto» va difeso a ogni costo, anche a costo della logica e della coerenza interna. Una nuova coerenza Un chiaro esempio è quello di Hans Urs von Balthasar nella sua Teodrammatica. Balthasar inizia con un paragrafo magnifico, dove mostra che l’intero nostro essere è tutto un «grato riceversi di Dio», con la conclusione che il «grato riceverci deve trasformarsi nella tendenza a configurare la nostra vita in una parola di azione di grazie». Ma subito dopo, si sente obbligato a sostenere la preghiera di richiesta  –  chiaramente motivato da quella che crede essere una «esplicita esortazione di Cristo»  –, pensando che occorra difenderla di fronte alla «provocazione» della filosofia (si noti: non della riflessione critica della teologia). Ma, letta nella nuova luce, la Scrittura non perde nulla della sua coerenza profonda. Superata la barriera del letteralismo, tutta la ricchezza delle sue gradazioni e l’inesauribile suggestione delle esperienze in essa riflesse può essere goduta senza bisogno di artifici interpretativi e con la libertà di chi va all’essenziale. Credo che si possa affermare la realtà di un fenomeno importante: questo nuovo stile è già nell’ambiente.

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L’idea trova risonanza immediata in quanto è presentata con sensibilità, perché molte persone vi vedono riflessa la propria esperienza più intima e sentono che qualcuno sta esprimendo un’intuizione che già percepivano in maniera oscura. In secondo luogo, cambia l’atteggiamento nei confronti della riflessione filosofica su tale problema. L’aver reso cosciente la differenza teologica della propria impostazione, fondata sulla specificità dell’esperienza cristiana, permette di accogliere le critiche senza paura di falsare l’immagine di Dio; ma anche, di purificare le false rappresentazioni e avvalersi dell’apporto positivo. Occorre così, per esempio, leggere la famosa «Osservazione generale» di Kant, e senza accettare la sua concezione astratta di Dio né la sua mancanza di un carattere autenticamente dialogico, non rinunciare a imparare dal suo rispetto per l’autonomia umana, dal suo impegno etico e dalla sua fine osservazione sullo «spirito di preghiera», di chiara provenienza paolina. Occorre raccogliere il suggerimento di Henri Bergson, quando parla dell’esperienza religiosa più dinamica e genuina come di un’identificazione con «l’amore di Dio per la sua opera». O quella di Edmund Husserl, che parla di Dio come dell’«entelechia» ultima che spinge tutto verso la sua realizzazione piena nel bene. Oppure quella di Friedrich Schleiermacher: possiamo lasciarci portare dalla forza della sua impostazione  –  che vede la preghiera come la disposizione radicale a identificarsi con l’atteggiamento di Gesù, con la coscienza della Chiesa e con la forza espansiva del Regno di Dio  –, cercando di far diventare la nostra preghiera davvero «in nome di Cristo». In terzo luogo, arricchisce e spiega la preghiera in se stessa. Ciò dovrebbe essere oggetto di uno sviluppo dettagliato, con le sue conseguenze e il suo modello concreto. Non può tuttavia essere sviluppato qui, e forse è meglio così, poiché l’impostazione, rispondendo a una nuova sensibilità, deve fare an-

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cora il suo percorso e i suoi esperimenti. Accontentiamoci di dare di seguito alcune indicazioni. Iniziamo con la coerenza stessa della coscienza cristiana attuale. Nonostante le difese teoriche, è chiaro che non solo l’esperienza individuale (la quale tende a lasciare la preghiera di richiesta per sostituirla con la lode, l’accoglienza o l’azione di grazie), ma anche quella collettiva stanno avanzando per vie nuove. Oggi è molto raro e strano che qualcuno faccia delle rogazioni per la pioggia; e sono molti quelli che non chiedono neanche una guarigione, e ancora meno quelli che chiedono un determinato successo materiale. In ogni caso, nel tipico processo di lento abbandono delle posizioni, avvalendosi di piccoli rifugi provvisori, la richiesta sopravvive ancora in situazioni meno controllabili. Lo sottolinea, con sottile ironia, Jean Pierre Jossua: «Non si pregherà più per la pioggia, ma per la pace». O, in maniera ancora più sottile, la richiesta ricorrerà all’ultimo espediente: Non chiedere Dio la guarigione di un malato, ma «di essere capaci di aiutarlo…», «di ricevere la forza di...». Non è assolutamente mia intenzione ironizzare su questo punto, poiché queste frasi suppongono una risorsa pedagogica profonda, che ci ha aiutato tutti. La sequenza degli espedienti  –  più sottili, ma strutturalmente identici  –  indica di per sé che un paradigma si sta rompendo, e che la cosa migliore è riconoscerlo e avanzare con decisione verso la nuova situazione. Una nuova ricchezza Procedere nella direzione indicata, non solo avvicina un po’ di più la preghiera alla verità integrale dell’«esistenza cristiana», ma ottiene qualcosa di più importante: rende liberi di riconoscere la sua ricchezza e di esercitare tutte le sue forme, così come di sfruttarne l’enorme potenzialità educativa.

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Educativa, in primo luogo, rispetto alla verità di Dio. Non tanto perché smettiamo di usarlo come strumento per riempire i nostri vuoti, quanto perché ci poniamo in una disposizione migliore per credere nel suo amore «incredibile». Se interrompiamo il flusso della richiesta, ci obblighiamo a diventare coscienti del fatto che il nostro essere è ormai sempre accompagnato da Dio, spinto, liberato per il compito propriamente umano: non si tratta di «chiedergli» di aiutarci, ma di credere che il suo aiuto è già reale, malgrado ogni possibile oscurità, e di aprirci al suo impulso nella responsabilità adulta di chi sa che ormai tutto è affidato alla sua libertà (la quale, tuttavia, non è sola…). La preghiera è educativa anche rispetto al nostro essere. Ciò rimanda alla sua essenza più radicale: non un umanesimo prometeico, ma questo modo di essere che è «più di un umanesimo», in quanto pensa all’essere umano nella vicinanza di Dio come sua «casa» e suo «pastore»: come sua «immagine», suo «rappresentante [re-presentante]» e «incarnazione» viva, per dirlo in termini biblici. Per essere più concreti, forse, possono essere d’aiuto due osservazioni. La prima è che il linguaggio del desiderio può operare da eccellente «convertitore». Quasi tutto quello che si porta davanti a Dio come richiesta è in realtà desiderio: ebbene, invece di «desiderare chiedendo», «desideriamo desiderando», esprimendo in maniera concreta il desiderio, ma orientandolo adesso nella sua giusta direzione. Ciò significa, da un lato, rivolgere lo sguardo al Dio che sta già operando quello che desideriamo, suscitando il nostro desiderio; e, dall’altro, incanalare il nostro psichismo verso la fede fiduciosa in questa presenza attiva, cercando di benedirla, accoglierla e trasformarla in impegno liberatorio. La seconda osservazione è piuttosto un’applicazione concreta. Suppongo che, come me, molti abbiano sofferto per le

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battute rozze e le ironie superficiali a proposito di Dio ai tempi della guerra del Golfo: «Dio» o «Allah»? Chiedere che vincano i «cristiani» o i «musulmani»? Poniamo la questione in maniera più seria, estremizzandola per renderla più realistica: Saddam Hussein e George Bush potevano pregare contemporaneamente in verità? La questione non è oziosa, perché non solo è stata (o è potuta essere) dolorosamente reale, ma perché questo è da sempre un luogo classico per porre il problema della preghiera di richiesta: ha senso che due fazioni opposte chiedano la vittoria al medesimo Dio? L’assurdo e il grottesco si trovano appena svoltato l’angolo. Se non si abbandona la richiesta non vedo bene come possano essere evitati. Ma sarebbe molto grave che nella tragica ambiguità di questa situazione limite l’essere umano non potesse rivolgersi a Dio. Il problema comincia a chiarirsi se invece di richiesta parliamo di preghiera. Allora sì, due persone veramente religiose possono pregare il (loro) Dio dal profondo del cuore. Infatti, essi non «domanderanno» più a lui, ma «si lasceranno domandare» da lui. Ossia, riconosceranno che la situazione è ormai contraria all’amore di Dio, ai suoi piani e alla sua azione nel cuore di tutti per instaurare la pace tra gli uomini; che è lui, non noi, il primo a volere la soluzione migliore, e che sono le circostanze e soprattutto il nostro egoismo a opporvisi; riconosceranno che anch’essi sono incorsi in questa opposizione e cercheranno di lasciarsi istruire, mettendo a tacere l’egoismo, i desideri di vendetta, la prepotenza…; prenderanno coscienza che, nonostante tutto, Dio sta con loro, «spingendoli» verso la migliore soluzione, cercando di illuminarli, aiutandoli per quanto può; cercheranno di scoprire dove va questo cammino di Dio, ricorrendo alla Sacra Scrittura, ascoltando il cuore, esaminando la situazione, dialogando con degli esperti…; finalmente, senza essere mai sicuri di poter dire che la propria decisione è quella di Dio, anche se han-

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no cercato di farla coincidere con essa e avendo fiducia nel fatto che, malgrado tutto, Dio sta accompagnando tutti, si assumeranno la propria responsabilità: che può essere l’accordo, il rinvio o la tragedia del conflitto… Una scommessa aperta L’esempio mostra ancora una volta che non è facile pregare così. Esige una riconversione faticosa, e a volte il prezzo iniziale sembra molto alto: confusione nella preghiera, necessità di ricomporre il proprio mondo interiore che viene scosso a partire da radici molto intime e molto care. L’esercizio può produrre l’impressione di entrare in una tempesta dove tutto è stato rivoltato e si devono trovare le formule, fino a giungere al limite di avvertire la minaccia di «restare senza Dio». Credo tuttavia non solo che sia necessario affrontare il problema, ma che oggi siamo ormai nelle condizioni per farlo. In effetti, vi sono anche persone che hanno compiuto questo passo e  –  superato lo sconcerto iniziale  –  riconoscono grate e anche entusiaste il nuovo spazio che così si apre allo spirito  –  allo Spirito. Uno spazio che si traduce nella dissoluzione reale dei sospetti sulla preghiera, in un vissuto esistenziale più personalizzato (vinta l’abitudine alle mille frasi fatte di cui è popolata la nostra mente) e soprattutto più attenta all’originalità di Dio nella nostra vita e all’incredibile gratuità del suo amore.

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A proposito di questo volume

La preghiera ci costringe a fare chiarezza sul Dio in cui crediamo. L’immagine di un’energia, di una causa lontana che sta all’origine dell’universo, si dissolve nel momento in cui si cerca un Dio da pregare. L’immagine del “signore onnipotente dei cieli e della terra”, che dal suo “al di là” controlla ciò che accade tra noi e interviene, solleva domande alla luce dell’esperienza: perché sembra ascoltare solo la preghiera di alcuni e di molti altri no? Da che cosa dipende l’efficacia della preghiera? Suonano strane le parole di Gesù: «pregate e vi sarà dato», perché parlano di un Dio che non pretende nessuna condizione previa da parte di colui che prega, né tantomeno lascia nell’incertezza se esaudirà o meno la preghiera. Dio ascolta colui che prega, esaudisce la sua preghiera. Allora perché muoiono tante persone nonostante si sia pregato Dio di salvarle? Dio non ha accolto la preghiera? O, piuttosto, egli esaudisce solo le preghiere di coloro che gli stanno particolarmente a cuore? I contributi che compongono il nostro itinerario intendono farsi carico della domanda su Dio per orientare la risposta a questi fondamentali interrogativi dell’esperienza umana. I testi di Kurt Appel e Massimo Nardello sono stati pubblicati in una versione ridotta sulla rivista online Settimana News. Il testo di Andrés Torres Queiruga riprende una parte

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del capitolo V del volume Io credo in un Dio fatto così. Le risposte di un teologo alle obiezioni sulla fede (EDB, Bologna 2017).

Gli autori Kurt Appel docente ordinario e direttore del Dipartimento di teologia fondamentale presso la Facoltà cattolica di teologia dell’Università di Vienna, dove dirige il Centro di ricerca interdisciplinare “Religione e Trasformazione nella Società Contemporanea”. In italiano è stato tradotto il suo saggio Tempo e Dio. Aperture contemporanee a partire da Hegel e Schelling (Brescia 2018) e la curatela Misericordia e tenerezza. Il programma teologico di Papa Francesco (Cinisello Balsamo 2019). Con EDB ha pubblicato il saggio Apprezzare la morte. Cristianesimo e nuovo umanesimo (2015) e un contributo nel volume collettaneo Profezia di Francesco. Traiettorie di un pontificato (2019). Massimo Nardello è docente stabile straordinario di teologia sistematica all’Istituto superiore di scienze religiose dell’Emilia, docente a tempo pieno allo Studio teologico interdiocesano di Reggio Emilia e docente incaricato alla Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna. È membro del Consiglio direttivo dell’Associazione Teologica Italiana. Nel 2016-2017 è stato Senior fellow presso il Martin Marty Center della Divinity School dell’Università di Chicago. Con EDB ha pubblicato I Carismi, forma dell’esistenza cristiana. Identità e discernimento (2012), Come si scrive una tesi in Teologia (con Paolo Boschini e Federico Badiali, 2017), Dio interagisce con la sua Chiesa. La fedeltà ecclesiale alla rivelazione divina alla luce della teologia del processo (2018).

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A proposito di questo volume

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Andrés Torres Queiruga, teologo spagnolo di lingua galiziana, è docente ordinario di filosofia della religione all’Università di Santiago de Compostela. Tra i fondatori di Encrucillada. Revista Galega de Pensamento Cristián, ha coordinato l’équipe di specialisti che ha tradotto la Bibbia in galiziano. Membro del comitato internazionale di redazione della rivista teologica Concilium, con EDB ha pubblicato Dialogo delle religioni e auto comprensione cristiana (2007), Ripensare la risurrezione. La differenza cristiana tra religioni e cultura (2007) e Io credo in un Dio fatto così. Risposte di un teologo alle obiezioni sulla fede (2017).

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Indice

Introduzione.................................................................... pag. 5 In cerca della preghiera Kurt Appel ....................................................................... » 9 Pregare da cristiani in una creazione libera Massimo Nardello ............................................................. » 21 Oltre la preghiera di richiesta Andrés Torres Queiruga ..................................................... » 33 A proposito di questo volume .......................................... » 55

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