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Dalla repubblica al principato Politica e potere in Roma antica
Roberto Crìstofoli, Alessandro Galimberti, Francesca Rohr Vio
Carocci editore f a j Studi Superiori
Il volume è corredato di materiali consultabili on line sul sito dell’editore.
r' edizione, settembre io 14 t Tiberio aveva quindi ricevuto Y imperium proconsolare per cinque anni (Hurlet, 1997, pp. 88-9). Tale potere gli era stato conferito Contestualmente a un’altra prerogativa, ovvero la facoltà di ottenere Un’ovazione nel caso in cui in futuro avesse conseguito importanti su c c h im i sul campo; tale onore sostituiva il trionfo, la cui celebrazione era Ititi H fortemente limitata dopo la rinuncia di Agrippa nel 19, ed era Unto riconosciuto anche a Druso. Effettivamente nel 9 (o nell’8, la cro nologia non è stata identificata con precisione dalla critica) Tiberio, militato imperator dalle sue truppe, aveva ottenuto l’ovazione per le Cttllipagne condotte in Pannonia sotto i suoi auspici. In virtù dell’z'wfm ittm proconsolare Tiberio aveva combattuto in Pannonia tra l’n e II V) dove aveva già assunto il comando delle operazioni, in qualità di IcgUl'o, dopo lo scoppio della rivolta che aveva fatto seguito alla morte di Ag rìppa nel 12, ottenendo gli ornamenta triumphalia. l'Ilio al 9 la promozione di Druso Maggiore si era prodotta in pa rallelo a quella del fratello, seppure con un ritardo conseguente alla I M H g g io r c anzianità di Tiberio. Nato nella primavera del 38 a.C., Druso ftVcvu assunto la toga virile nel 23. Nel 19 aveva ottenuto il diritto di ricoprire le cariche con un anticipo di cinque anni, come in preceden ts il fratello; nel 18 era stato questore e nell’n pretore, per accedere III consolato nel 9, l’anno della sua morte. Con Tiberio nel 16 aveva militato come legato nel quadrante alpino e nel 1$ aveva combattuto COlUro Reti e Videlici. Nel 13 si era recato in Germania. Nell’n, nel t ilt'
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contesto della «definizione delle responsabilità di governo tra i mem bri della domus principis, era stato stabilito che Druso, deposta l’anno successivo la pretura, dal i° gennaio del io avrebbe ottenuto Vimpe rium proconsolare da esercitare in Germania. In questa nuova veste aveva diretto le campagne tra il io e il 9 e, in conseguenza dei suoi successi, era stato acclamato imperator in almeno due occasioni, onore che si sommava agli ornamenta triumphalia che aveva ricevuto nell’11, quando ancora operava nelle vesti di legato. Nell’autunno del 9 Druso, tuttavia, era morto, probabilmente a causa di una ferita conseguente a una caduta da cavallo. Tiberio aveva assunto, allora, il comando in Germania, giovandosi della collaborazione del principe che conte stualmente operava nelle Gallie, e grazie ai suoi successi nell’8 aveva ottenuto prima, con Augusto, una salutatio imperatoria e in seguito il trionfo, celebrato nel 7, mentre era console ordinario. Nel 6 Tiberio era stato inviato in Oriente: gli veniva affidatala deli cata missione di riaffermare sul trono di Armenia un sovrano gradito a Roma, dopo i disordini che avevano fatto seguito alla morte di Tigra ne III. In occasione di questa campagna, era stato rinnovato a Tiberio Vimperium proconsolare conferitogli per un quinquennio nelhii e tale potere era stato esteso a tutte le province orientali; era stata, inoltre, attribuita per la prima volta al figlio di Livia la tribunicia potestas per cinque anni, secondo il modello già sperimentato con Agrippa. Scrive Cassio Dione (55,9,4): «[Augusto] conferì a Tiberio la potestà tribu nizia per cinque anni, e gli assegnò l’Armenia, che dopo la morte di Tigrane era diventata ostile». Divenuto collega del principe, Tiberio aveva deciso inaspettata mente, come si è detto, di abbandonare la vita pubblica e ritirarsi a Rodi in una sorta di “esilio volontario”, pur mantenendo fino a scaden za, nell’i, i poteri che gli erano stati conienti. Solo allora aveva assunto la carica, molto meno prestigiosa, di legato e nel x d.C. aveva ottenuto da Augusto e da Gaio Cesare il permesso di rientrare a Roma, che gli era stato negato l’anno precedente. Secondo Velleio Patercolo (1,100,1) la partenza di Tiberio per Rodi nel 6 aveva causato pessime ripercus sioni in tutto il mondo. La lettura dello storico riflette la sua volontà di adulazione dei confronti del principe perché quando il figlio di Livia aveva lasciato Roma Augusto sembrava, invece, nella condizione di promuovere agevolmente la gestione dell’impero nell’immediato e i suoi progetti dinastici per l’avvenire: i consensi al suo governo erano estesi e solidi e i due principi Gaio e Lucio Cesari si avvicinavano sem-
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Iuv più a un’età adeguata a succedergli, dimostrando inclinazioni e ca pacità adatte agli incarichi che sarebbero stati loro attribuiti. Anche la prospettiva di una trasmissione dinastica del potere di Augusto pareva Incontrare minori resistenze rispetto al passato. Nel 6, forse proprio in conseguenza del conferimento di tali poteri eccezionali a Tiberio (così l.evick, 1971b, pp. 785-6), il popolo, che sosteneva la causa dei Giuli contro i Claudi, aveva entusiasticamente eletto Gaio Cesare, che non aveva ancora assunto la toga virilis , al consolato. La morte prematura di Lucio Cesare e di Gaio Cesare riaprì la lott >1 per la successione e quindi una stagione di possibili nuovi conflitil nella res publica. Al decesso dei due principes iuventutis a Roma fu proclamato il lutto pubblico e così nelle città d ’Italia, in primo luogo nelle colonie fondate da Augusto: si intendeva che queste morti non rappresentassero solo perdite private per la casa del principe ma disgra zie gravissime che avevano colpito tutto il corpo civico (Segenni, 2.011, passim). CAstretto a ridefinire ancora una volta la propria strategia di succes sione, Augusto coinvolse il solo nipote sopravvissuto, Agrippa, detto l’osmmo perché nato a Giulia dopo la morte del marito Marco Agrip pa (Cogitore, 1990); era suo consanguineo, ma, data la giovane età del prescelto e la sua inesperienza, il principe si trovò costretto a valoriz zale la competenza di Tiberio. Promosse pertanto una nuova doppia designazione, adottando nel 4 d.C. il figlio di Livia e il sopravvissuto llglio di Giulia e Agrippa; impose inoltre a Tiberio (che pure aveva un llglio biologico ovvero Druso Minore) di adottare a sua volta Germa nico. In quanto figlio di suo fratello Druso Maggiore, un claudio, e di Antonia, figlia della giuba Ottavia, Germanico incarnava l’unione dei due rami della domus Augusta e poteva risultare nel futuro un principe i lie avrebbe definitivamente aggregato le due anime della famiglia im perlale. L’adozione di Germanico rispondeva anche alle pressioni dei gruppi ili senatori e cavalieri presso cui Druso Maggiore aveva sempre tyuduin di una popolarità superiore del fratello Tiberio e che, quindi, Itlentilìcavano in Germanico il miglior candidato alla successione. S crive Svetonio ( Tib. 15,z): «Tre anni dopo, essendo morti Caio e I .tic lo, ITiberio] venne adottato da Augusto, assieme al loro fratello M il iv o Agrippa, dopo essere stato costretto egli stesso ad adottare Gerlliu iilc o , figlio di suo fratello». Per consolidare ulteriormente i legami del d u e figli di Tiberio (Druso Minore, figlio biologico nato dalla sua |1 l'llltii moglie Vipsania, e Germanico, nipote e figlio adottivo) con la
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discendenza diretta di Augusto, i due giovani principi sposarono Dru so Minore Livida, sorella di Germanico e vedova di Gaio Cesare, e Germanico Agrippina, figlia di Giulia Maggiore e Agrippa. Tiberio ottenne Vimperium proconsolare sulla Germania e le Gal be e la tribunicia potestas per dieci anni (Cass. Dio 55,13,2). Rispetto al 6, data in cui il figlio di Livia aveva beneficiato degli stessi poteri, ora Tiberio nella prospettiva della successione poteva giovarsi dell’adozio ne da parte di Augusto (Hurlet, 1997, pp. 92-100, 141-4). Inoltre, ben presto le fortune di Agrippa Postumo andarono scemando: accusato di pazzia, argomento tuttavia sospetto per il suo ricorrere in seguito nella disgrazia di tanti principi sgraditi in particolare alle frange conservatri ci del senato, nel 6 d.C. il figlio di Giulia fu estromesso dalla famiglia di Augusto e nel 7 d.C. relegato prima a Sorrento e poi a Planasia. Nono stante la tradizione lasci ipotizzare un successivo riawicinamento tra Agrippa e Augusto, che si sarebbe segretamente recato in visita presso il nipote per essere poi, tuttavia, fermato nelle sue possibili volontà di reintegro da Livia, il figlio di Giulia non fece mai ritorno a Roma e morì in esilio nel 14 d.C., come sua madre, dopo la morte di Augu sto e l’ insediamento di Tiberio. La pazzia di Agrippa Postumo non è circostanziata dalla tradizione attraverso la menzione di fatti specifici e non è noto se Agrippa Postumo abbia in alcun modo promosso ini ziative eversive, come invece prima di lui la madre. Tuttavia egli, unico sopprawissuto tra i figli maschi di Giulia Maggiore, incarnava la sola possibilità di ascesa alla porpora di un giulio. Per questo, non è certo se attraverso un suo coinvolgimento attivo o solo mediante un suo ruolo passivo in progetti altrui, Agrippa divenne il candidato alla successione - presumibilmente non in un’ ipotesi di doppia designazione con T i berio - del ramo giulio della domus principis che, dopo l’allontamento di Giulia Maggiore, si era aggregato intorno a sua figlia, Giulia Minore. La donna era al centro di una rete di relazioni in parte ereditate dalla madre che coinvolgevano politici e intellettuali del tempo, tra cui il poeta Ovidio esiliato a Tomi nell’ 8 d.C. con ogni probabilità anche per queste sue relazioni pericolose. Insieme al marito Lucio Emilio Paolo, Giulia Minore si fece promotrice di azioni sovversive, presumi bilmente intese a garantire ai Giuli un’ influenza prevalente nella po litica imperiale e in particolare a sostenere la candidatura alla porpora del fratello Agrippa Postumo. Per questo, ma con l’accusa di adulterio come la madre, nell’ 8 d.C. fu relegata in insulam, a Trimero (le odierne Tremiti), mentre il marito, che nell’ i d.C. aveva assunto il consolato,
Dello stesso 8 d.C. fu accusato di cospirazione ed esiliato. Lafactio giuIla subiva in tale occasione un altro pesantissimo ridimensionamento e poteva confidare solo nella successione di Germanico, che per parte di madre vantava appunto sangue giulio. Dal 4 al 14 d.C. Tiberio consolidò progressivamente il suo potere. ( ìrazie alle campagne militari in Germania (tra il 4 e il 6 e tra il io e Il il d.C.) e nellTllirico (tra il 6 e il 9 d.C.) ottenne notevole visibilità attraverso le numerose salutationes imperatorie di cui fu oggetto e me diante il trionfo sull’Illirico che celebrò nel 11 d.C. Nel 13 d.C. furono l'innovati Ximperium proconsolare e la tribunicia potestas di Tiberio, contestualmente alla riconferma dei poteri di Augusto. Il principe e il suo collega disponevano allora di uguali facoltà di azione nello Sta to. Nell’agosto del 14 d.C. Tiberio venne richiamato dall’Illirico per l'aggravarsi delle condizioni di salute di Augusto: il principe morì il 19 agosto di quell’anno. Il senato attribuì a Tiberio una serie di preroga tive aggiuntive aXXimperium proconsolare e alla tribunicia potestas che Augusto aveva acquisito nel tempo a partire dalla restitutio rei publicae del 27. Erano gli strumenti necessari a governare; garantivano la tra smissione del potere imperiale al figlio di Livia Drusilla e del fìlorepubblicano Tiberio Claudio Nerone.
Reazioni al nascente principato: il dissenso L'immagine di consensus universorum accreditata dal governo augusteo, che rispondeva a una sostanziale consonanza di ampi settori dell’opinione pubblica sul primato di Augusto, venne tuttavia com promessa nella sua ambizione universalistica dal persistere nel corso ile 11’intera esperienza di governo dell’erede di Cesare di molteplici forme di opposizione. Esse furono promosse da individui diversi per estrazione sociale, obiettivi di azione, coinvolgimento con il potere. Si può delineare un’evoluzione nelle manifestazioni di dissenso antiiiugusteo attraverso l’analisi di obiettivi e rivendicazioni. Inizialmen te, l’opposizione maturò come tentativo di contrastare l’affermazione di un potere esclusivo al vertice dello Stato romano: quando Cesare tìglio rimase leader unico dopo la sconfitta di Antonio ad Azio, fra il 3i e il 30 Marco Emilio Lepido, figlio del suo collega triumviro, proba bilmente coadiuvato da complici rimasti anonimi nella testimonianza degli storici antichi, organizzò una congiura che venne sventata da Me-
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cenate, allora posto a capo della città e al comando di una vera e propria polizia segreta. Nel progetto era coinvolta la madre, Giunia, sorella di Marco Giunio Bruto e probabilmente parte attiva nell’azione politica di quest’ultimo, come lo era stata al fianco del marito Lepido dopo la morte di Giulio Cesare. Il cospiratore era sposato con Servilia, sua cugina, a sua volta legata ad ambienti filorepubblicani. Lepido aveva operato con lo scopo di eliminare il giovane Cesare, favorendo in tal modo un reale ritorno all’ordinamento repubblicano; il suo tentativo fallì e Lepido, condotto presso l’erede di Cesare per essere giudicato, venne ucciso (Rohr Vio, zoiz). Secondo alcuni la prima cospirazione contro Ottaviano fu ordita da Quinto Gallio, pretore del 43. In realtà, con ogni probabilità più che di una congiura si trattò di uno scontro tra Ottaviano console in carica e uno dei pretori preposti all’applicazione della lex Pedia (Cre sci Marrone, c.d.s.). In seguito, nelle fasi di progressiva definizione dell’assetto del principato, i cospiratori, in alcune occasioni coinvolti nel governo nascente ma comunque ostili a forme di potere assoluti stiche, attentarono alla vita di Augusto perché avevano compreso le ambizioni di quest’ultimo a esercitare e trasmettere per via dinastica un potere di fatto monarchico, nonostante l’ostentata res publica restituta. E questo il caso della congiura ordita nel Z3 da Fannio Cepione e Licinio Terenzio Varrone Murena. Cepione, espressione di ambienti filorepubblicani, e Murena, cognato di Mecenate e dell’amico carissi mo di Augusto Proculeio, organizzarono un complotto per uccidere il principe, delusi dalle recenti interferenze di cui questi si era reso re sponsabile nella politica estera del senato, in particolare in merito alle iniziative militari del governatore di Macedonia Marco Primo. Scoper ti in seguito alla delazione di Castricio, vennero processati e messi a morte. La loro vicenda destò notevole clamore, per il pericolo effettivo corso da Augusto ma anche per le ricadute sull’amicizia che legava il principe a Mecenate e che risultò da allora definitivamente incrinata, tanto che Mecenate abbandonò la guida del circolo che aveva fino ad allora presieduto gestendo i rapporti tra il potere centrale e gli intellet tuali (Cresci Marrone, 1999a). Il dissenso, infine, maturò all’interno della domus principis, in un processo di progressivo avvicinamento ad Augusto dei promotori dell’opposizione. A questa categoria si devono ricondurre le iniziative di Giulia Maggiore e Giulia Minore, connesse alle strategie dinastiche di Augusto e intese, in una prospettiva opposta rispetto a quella che
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indusse all’azione Marco Emilio Lepido nel 31-30, a indirizzare il prin cipe verso una politica marcatamente accentratrice che contenesse le interferenze del senato. La maturazione del dissenso all’interno della casa imperiale rappresentava uno degli aspetti di maggior contrasto con il consensus universorum vantato da Augusto. Per questa ragione la propaganda del principe, condizionante per buona parte della tra il izione letteraria pervenuta fino a noi, derubricò i reati commessi dal le due donne alla categoria, assai più diffusa nella denigrazione delle matrone, dell’adulterio; analogamente giustificò l’emarginazione di Agrippa Postumo attraverso il pretesto della pazzia, che divenne in se guito connotante per quanti tra i principi giulio-claudi, secondo quella stessa visione che il nipote di Augusto patrocinava, attuarono una pra tica di governo in cui il potere dell’imperatore si fondava sul consenso di plebe urbana ed eserciti e non sulla concertazione tra principe e se nato: Caligola e Nerone. In questi casi, dunque, la vulgata augustea operò al fine di negare la circostanza per cui anche all’interno della domusprincipis maturava un dissenso che portava all’orchestrazione di iniziative eversive. Diversa mente, in altri contesti il principe utilizzò strumentalmente l’accusa di congiura per giustificare l’uscita di scena, da lui stesso decisa e suscet tibile di biasimo, di personaggi la cui azione risultava in vario modo dannosa per il suo progetto politico. Presentare uno scontro politico come cospirazione, ovvero come minaccia alla riconquistata pace ga rantita da Augusto, legittimava il perseguimento dell’avversario con modalità di emergenza e catalizzava sul principe il consenso dell’opi nione pubblica. Nel 40, in occasione degli accordi di Brindisi, l’erede di Cesare aveva accusato di congiura Quinto Salvidieno Rufo Salvio. Questi, di poco più anziano di lui, gli era stato compagno fin dai tempi della cam pagna spagnola di Giulio Cesare; aveva in seguito assunto il comando ilei suoi eserciti contro Sesto Pompeo, in Spagna e nella guerra di Peru gia; in seguito era stato posto a capo del consistente contingente galli co al comando dell’antoniano Fufio Caleno e dopo la morte di questi transitato al giovane Cesare. Le capacità e la fedeltà di Salvidieno erano »tate premiate con la designazione al consolato per il 39, onore di ele vatissimo rilievo in particolare in ragione della sua provenienza italica e delle sue origini non nobili. Mentre si accingeva a raggiungere la sua lIcNtinazione gallica, nel 40, Salvidieno era stato improvvisamente con vocato a Roma da Ottaviano, che lo aveva accusato di aver negoziato
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segretamente con Antonio per defezionare in favore di quest’ultimo e spartirsi con lui il governo di Roma. Denunciato dallo stesso Antonio, dopo un colloquio privato con Ottaviano Salvidieno venne condan nato dal senato e indotto al suicidio (Rohr Vio, 1997; 1999; Arcaria, 2009 , passim). Amicus del giovane Cesare come Salvidieno fu anche Gaio Corne lio Gallo. Originario di Forum Iulii, identificata dalla critica in civitates diverse tra cui Fréjus, Voghera o Cividale del Friuli, Gallo appartene va a una famiglia con ogni probabilità premiata da Giulio Cesare con l’attribuzione della civitas, e forse addirittura del rango equestre. Dopo l’assassinio del dittatore, si era schierato con Antonio, per il quale ave va assolto incarichi delicati tra cui le operazioni di confisca di terra ita lica ai danni dei veteres possessores imposte dai triumviri per assegnare gli appezzamenti promessi ai veterani della battaglia di Filippi. In una fase imprecisata si era poi schierato con l’erede di Cesare, per il quale aveva combattuto in Africa, assumendo l’ incarico di praefectusfabrum e in seguito ottenendo (per primo nella storia) la gestione dell’ Egitto, di recente acquisito alla res publica, con il titolo di praefectus Aegypti. Dopo tre anni di retta amministrazione, Gallo fu richiamato a Romae subì, in seguito a una serie di imputazioni contestategli in sede privata dal principe, il provvedimento della renuntiatio amicitiae, che lo co stringeva all’esilio. La tradizione non consente di ricostruire un quadro accusatorio coerente e completo. Sembra che il prefetto venisse accusa to di aver assunto posizioni non allineate con l’orientamento augusteo in particolare in merito alla gestione della questione partica (Zecchini, 1980) e di aver ecceduto nella autopromozione della sua immagine, che si era compiuta anche attraverso quelle modalità celebrative fino ad al lora di esclusiva fruizione dell’aristocrazia romana, come l’apposizio ne di tabulae triumphales, e decisamente precluse, invece, a esponenti dell’ordine equestre quale Gallo era (Cresci Marrone, 1993, pp. 14063). Proprio gruppi influenti riconducili all’ordine senatorio sembra fossero responsabili della disgrazia politica di Gallo, subita da Augusto che non disponeva della forza politica per contrapporsi a una pars con cui aveva invece l’ interesse a stringere una duratura alleanza per l’am ministrazione dello Stato. La gestione dell’Egitto che, diversamente da quanto stabiliva la prassi per i territori extraitalici, era stata affidata a un cavaliere di nomina augustea e non a un senatore designato dalla Curia, poteva essere accettata come opzione temporanea dettata dal le esigenze di riassetto impostesi dopo la morte di Antonio, ma non
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come soluzione stabilizzata, secondo quanto la riconferma in carica di ( iallo nel 27 suggeriva invece fosse nelle intenzioni di Augusto (Rohr Vio, 2011, pp. 43-55). Si imponeva una dimostrazione evidente dell’inadeguatezza degli uomini insediati dal principe in posizioni di pote re e quindi dell’opportunità di un ripristino della prassi tradizionale. Dopo il perseguimento privato di Gallo ebbe, quindi, luogo anche una pubblica incriminazione, presumibilmente al cospetto di un tribunale senatorio e fondata sulle stesse imputazioni, che determinò il suicidio ilei prefetto (Arcaria, 2013, passim). Il principe, che aveva accondisce so al compromesso con l’aristocrazia e sacrificato Xamicus alle ragioni della politica, si trovava nella condizione di dover accreditare la colpe volezza di Gallo attraverso un’accusa grave che adombrasse la minaccia di un ritorno ai conflitti civili e legittimasse l’eliminazione di Gallo. I / imputazione per congiura rispondeva a questi obiettivi. Nonostante Augusto fosse stato indotto ad abbandonare Xamicus Gallo, l’assetto stabilito dal principe per l’Egitto non mutò e l’esperienza della prefet tura d ’Egitto risultò vincente. Nel 19 fu accusato di congiura Marco Egnazio Rufo. Si trattava di un senatore che, grazie al lungimirante impegno di sue consistenti ri sorse finanziarie nell’allestimento di équipe di vigili antincendio, ave va acquisito un seguito popolare tale da garantirgli l’elezione all’edilità prima e alla pretura poi, nonché la candidatura al consolato. La sua affermazione politica avveniva secondo quelle pratiche di captazione del consenso di cui l’aristocrazia romana aveva fruito per secoli e che consentivano margini di autonomia a quanti, nell’ambito dell’élite, in tendessero promuovere la carriera degli honores. Il caso di Egnazio di mostrava come anche nel corso del principato fosse percorribile la via di un’affermazione che prescindesse dall’appoggio di Augusto e si fon dasse, invece, sulla libertà dei comizi, che potevano eleggere persone gradite per ragioni diverse al popolo elettore. Tale opzione consenti va che anche personaggi sgraditi al principe potessero legittimamente assumere ruoli di responsabilità nello Stato. Augusto fermò quindi la corsa di Egnazio alla più importante magistratura dello Stato, accu sandolo di congiura: si trattava di un monito da far valere anche per il futuro (Cogitore, 2002, pp. 136-41). Solo in seguito il principe elaborò soluzioni più radicali al problema dell’autonomia di azione dei comizi. Nel 5 d.C. fu approvata la cosiddetta destinatio magistratuum , che dl fatto, come si è visto, esautorava i comizi popolari della libertà di Scelta dei candidati alla carica di pretore e console, istituendo le cen-
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turie destinate alla preselezione. Anche nel delicato caso dell’appro vazione di questo provvedimento Augusto ricorse alla strumentaliz zazione dell’accusa di congiura. Il proponente, Gneo Cornelio Cinna Magno, l’anno prima di elaborare il testo della legge come console era stato accusato di aver cospirato contro Augusto e aveva ammesso le sue colpe. L’intervento di mediazione di Livia avrebbe indotto il principe a esercitare la clementia, non solo evitando al reo confesso la morte ma addirittura aprendogli le porte del consolato. Insediato in carica, Cinna, eversore antiaugusteo, aveva poi sottoposto al voto una legge che di fatto legittimava interferenze del principe nell’elezione dei ma gistrati superiori. L’accusa di congiura sembra destituita di fondamen to, perché Augusto non avrebbe certo conferito una magistratura cum imperio a un individuo che solo l’anno precedente aveva progettato il suo assassinio. Tuttavia, l’idea di attribuire al proponente di un prov vedimento di fatto funzionale alla politica del principe istanze antiaugustee distoglieva dal sospetto che l’ispiratore della legge fosse proprio Augusto, con il fine di consolidare il suo potere a danno degli organi smi istituzionali dello Stato (Rohr Vio, zou, pp. 101-7). Augusto seppe, quindi, tramutare il dissenso da minaccia alla sua vita e al suo progetto politico in strumento di governo: giustificazione per azioni di giustizia sommaria, ma anche indicatore delle criticità del sistema che il principe stava strutturando, nonché incentivo alla rimo dulazione di iniziative rivelatesi inaccettabili per l’opinione pubblica e i gruppi al potere.
La stabilizzazione del principato da Tiberio a Domiziano: anni 14-96 d.C. di Alessandro Galimberti
I , contiene disposizioni relative alla destinatio —la procedura secon do la quale venivano designati i magistrati da eleggere alle magistrature superiori (consolato e pretura) - che aggiornano quelle contenute nel la lex Valeria Cornelia del 5, voluta da Augusto e che prevedeva il tra sferimento dell’elezione dei magistrati dai comitia al senato. Alle dieci centurie senatorio-equestri del 5 - in onore di Gaio Cesare e di Lucio Cesare —si aggiungevano ora altre cinque centurie in onore di Germa nico, che nel 13 furono incrementate di altre cinque unità in onore di Druso Minore, il figlio di Tiberio scomparso in quell’anno (a cui fa riferimento la cosiddetta Tabula Illicitana ). Gaio Cesare, Lucio Cesa re, Germanico (e poi Druso) venivano assimilati a eroi: la procedura tecnico-politica della destinatio assumeva così tratti “religiosi”, saldan do l’orizzonte politico con quello religioso. Questa impostazione, av
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viata dalla lex Valeria Cornelia., ma che era alla base dell’ intera azione riformatrice di Augusto, veniva ora ripresa da Tiberio senza soluzione di continuità, ed era perfettamente in linea con quanto aveva sancito Augusto. La Tabula Siarensis è una lunga iscrizione scoperta nel 1982 presso Siviglia, relativa agli onori da accordare al defunto Germanico, morto il 10 ottobre 19 ad Antiochia in circostanze sospette. La Tabula è un documento molto interessante perché consente di integrare alcune in formazioni già presenti nella Tabula Hebana, e perché contribuisce a gettare luce su un tratto molto discusso della personalità di Tiberio: soprattutto nelle pagine di Tacito, infatti, Tiberio appare l’emblema dell’ ipocrisia (dissimulatio) e del sospetto. C ’è da dire però che Tiberio stesso era consapevole della cattiva fama di cui godeva tra i contempora nei e aveva perciò provato a difendersi dall’accusa di dissimulatio-, la Ta bula Siarensis rivela come già nel 19 Tiberio intendesse pubblicamente respingere questa accusa e rivendicasse il fatto che la sua condotta fosse sempre stata all’ insegna della trasparenza. Parlando del libello scritto in onore di Germanico, Tiberio dichiarava: «il libello (libellum) di Tibe rio Cesare Augusto su sé stesso e sul figlio Germanico Cesare conteneva non tanto un elogio quanto lo svolgimento di tutta la sua vita e la vera testimonianza della sua virtù ed egli personalmente in quel libello aveva solennemente dichiarato che non intendeva dissimulare e riteneva fosse utile alla gioventù dei nostri figli e ai nostri posteri». Velleio Patercolo, contemporaneo di Tiberio che scrive la sua Storia romana nel 30, ci assicura che Tiberio sapeva fare un uso consapevole della dissimulatio quando si trattava di fingere di non vedere per non punire. Racconta infatti Velleio (2,114,3-4) che «perdonò a chi non avesse rispettato la disciplina, purché non si nuocesse con il cattivo esempio; frequenti era no le ammonizioni, talvolta rimproverava, ma molto di rado puniva e teneva una via di mezzo tra chi finge per lo più di non vedere, e chi in alcuni casi reprime » ; Cassio Dione, infine, riferisce che Tiberio andava fiero della sua capacità di autocontrollo, così come del resto appare nel la stessa Tabula Siarensis. Tiberio insomma sapeva unire il suo innato senso della misura (moderatio) alla virtù della clementia, già ampiamen te propagandata prima da Cesare e poi da Augusto. Il senatus consultum de Cn. Pisone Patre, venuto alla luce nel 1990
e proveniente dalla provincia della Betica (territori dell’odierna Anda lusia), è il testo del senatus consultum del io dicembre del 20, che con tiene la sentenza a carico di Gneo Pisone (il quale si era suicidato poco
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prima) e dei suoi familiari, processati per la morte di Germanico e per aver scatenato un bellum civile. Il documento è molto importante, oltre che per il suo contenuto, anche perché consente di verificare il raccon to di Tacito su questa vicenda, che risulta sostanzialmente attendibile. Germanico era morto in circostanze misteriose ad Antiochia di Siria nell’ottobre del 19: secondo Tacito era stato avvelenato da Cn. Pisone, l’energico (ferox) legato inviato da Tiberio in Siria nel 17 in sostituzio ne di Cretico Silano con il compito di “sorvegliare” il figlio adottivo. Germanico, reduce dai successi in Germania, aveva ricevuto dal senato - non senza il consenso di Tiberio - un imperium maius sulle province d ’oltremare («provinciae quae mari dividuntur»: Ann. z,43,i) e de teneva dunque un potere superiore a quello di qualsiasi governatore di provincia, sebbene non pari a quello di Tiberio, come ha cura di precisare il senatus consultum (11. 34-7). Per equilibrare questa situa zione, che indicava chiaramente la supremazia della.gens Iulia sul resto della nobilitas, Tiberio molto probabilmente sentì il bisogno di affian care a Germanico, noto per le sue simpatie “ellenizzanti”, un esponente dell’aristocrazia senatoria onde non urtare l’ala più tradizionalista del senato. Tuttavia, il compromesso non funzionò. All’origine del contra sto tra Germanico e Pisone non furono peraltro, come intende far cre dere Tacito, l’ostilità di Tiberio e i suoi oscuri ordini (occulta mandata) a Pisone per togliere di mezzo Germanico, bensì, al di là dei dissapori di natura personale, gli opposti atteggiamenti dal punto di vista poli tico e culturale. Secondo Pisone - e dunque secondo i senatori, vale a dire i suoi detrattori - Germanico mostrava eccessiva comitas (confi denza) verso greci e orientali (aveva osato addirittura recarsi ad Ales sandria in quell’Egitto che Augusto aveva interdetto all’ingresso dei senatori) ed era privo del necessario decus (compostezza) del romano; inoltre gli si rimproverava, più o meno larvatamente, l’emulazione di Alessandro il Macedone (imitatio Alexandri) per le sue imprese sia in Occidente che in Oriente, al di sotto della quale però va vista la ripresa dcU’ecumenismo augusteo; Germanico, infine, non perdeva occasione per rimarcare la sua discendenza imperiale e dunque la sua superiorità dinastica. Pisone peraltro non si risparmiò: egli infatti si mise subito in concorrenza, se non in esplicita opposizione a Germanico, sostituen do ad esempio con propri clienti quelli di Germanico in occasione del soggiorno in Egitto di quest’ultimo nell’inverno 18-19; l’atteggiamen to della moglie, Plancina, non costituì senz’altro un freno: amica di Livia, c novella Agrippina - e in questo a lei contrapponendosi con-
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sapevolmcntc - prendeva parce alle esercitazioni delle legioni, secon do una pratica che alcune matrone coinvolte nella politica (come, ad esempio, Fulvia) avevano acquisito e per la quale erano pesantemente contestate; infine, in occasione della successione al trono di Armenia, Pisone appoggiò il candidato partito filoromano Vonone, Germanico il neutrale Artaxia del Ponto, che ebbe la meglio. Tutto ciò però non deve far pensare che Pisone, malgrado l’acrimo nia contro Germanico, si fosse spinto ad avvelenare il figlio adottivo dell’imperatore. Di fatto, nonostante le indicazioni in senso contrario degli amici di Germanico recepite da Tacito, che scatenarono il pro cesso contro Pisone, la morte di Germanico fu molto probabilmente dovuta a cause naturali. Sebbene nel processo gli accusatori tentassero di far passare la versione dell’avvelenamento, ciò che emerge, sia dalle pagine di Tacito sia dal testo del senatus consultum, è che l’accusa cadde nel vuoto e che nella relatio in senato Tiberio puntò il dito sull’in subordinazione di Pisone nei confronti di Germanico - che deteneva Vimperium maius - nonché sul suo intervento armato in Siria dopo la morte di Germanico, che configurava un bellum civile. Vero è che Ger manico aveva allontanato Pisone dalla provincia di Siria, ma è altret tanto vero che, dopo la sua morte, Pisone tentò di riconquistarla con le armi, trovando la strada sbarrata dagli amici di Germanico, i quali ebbero buon gioco con Tiberio a imporre al governo della provincia Senzio, a loro vicino. Ecco perché Pisone fu colpito dall’accusa di aver intrapreso una guerra civile e per questo fu condannato. Accanto a Pisone l’altra “anima nera” del regno di Tiberio è Lucio Elio Seiano, prefetto del pretorio di Tiberio dal 16 al 31 d.C. La sua vicenda presenta, di fatto, tutti i contorni di un vero e proprio scontro istituzionale a sfondo dinastico, a cui il principe dovette porre rimedio con una soluzione estrema. Il padre di Seiano, L. Elio Strabone, origi nario dell’etrusca Volsinii (l’odierna Bolsena), era prefetto del pretorio alla morte di Augusto nel 14 d.C. e proprio allora Tiberio gli aveva dato come collega il figlio, il quale era rimasto unico prefetto l’anno dopo, quando il padre era stato nominato prefetto d ’Egitto. Secondo un’interessante ipotesi moderna (Sealey, 1961), L. Elio Strabone sareb be appartenuto a un gruppo che si ispirava all’eredità poltica di Mece nate e che dunque non gradiva la successione di Augusto a favore di Tiberio: soltanto l’assenso ad Augusto consentì prima a Seio Strabone e poi a Seiano di percorrerre brillanti carriere culminate nella prefettu ra del pretorio.
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Seiano aveva già frequentato la corte imperiale sotto Augusto (nell’1-2. d.C. era stato nel seguito di Gaio Cesare in Oriente e nel 14 aveva accompagnato Druso in Pannonia). Rimasto unico prefetto del pretorio, nel 23 aveva radunato in una sola sede le coorti pretorie (che sotto Augusto stazionavano in vari alloggiamenti a Roma), ponendo molta cura nel disciplinarle e nel legarle a sé. Proprio le coorti furono il potente strumento nelle mani del prefetto per le sue manovre politi che. Già a partire dal 20, a seguito della tragica morte di Germanico in Oriente, Seiano si era introdotto nella famiglia imperiale, fidanzando la propria figlia al futuro imperatore Claudio (fratello di Germanico e di Livilla). Proprio la morte di Germanico nel 19, che aveva lasciato in dote alla moglie Agrippina sei figli, di cui tre maschi (Nerone, Druso e Gaio, il futuro imperatore Caligola), aveva riacceso le ambizioni dina stiche della stessa Agrippina, all’opera già nel 14 alla morte di Augusto, quando, attraverso la rivolta delle legioni di Germania e l’uso strumen tale di Agrippa Postumo, nonché del piccolo Caligola, aveva tentato di imporre la linea Giulia nella successione ad Augusto. Agrippina ora non poteva tollerare che Tiberio preferisse ai suoi figli il di lui figlio Druso Minore (marito di Livilla). Seiano aveva ben compreso la natura degli attriti tra Agrippina e Tiberio e pertanto, in un primo momen to, decise di inserirsi in questo conflitto cercando di trarne il massimo vantaggio: la sua ambizione era quella di divenire il reggente del futuro successore. Nel 22 Tiberio si era associato infatti il figlio Druso attri buendogli la tribunicia potestas, senza per questo accantonare i figli di Agrippina: nel 20 Nerone era stato presentato in senato in occasione dell’assunzione della toga virile e subito dopo aveva sposato Giulia, fi glia di Druso e di Livilla. Nel settembre del 23 Druso mori: Tacito {Ann. 4,10-11) riferisce che era stato avvelenato da Livilla, amante di Seiano che l’avrebbe spinta al delitto. Certamente tra Druso e Seiano non correva buon sangue, tut tavia la versione di Tacito, che qui dipende per sua espressa ammissione dai commentarii di Agrippina Minore, lascia perplessi, dal momento che non si capisce quale interesse avesse Livilla, già destinata a regnare legittimamente in quanto moglie di Druso, nel tentare un’iniziativa così arrischiata. Tiberio poi, subito dopo la morte del figlio, con un solenne discorso in senato raccomandò al senato stesso i due figli di Agrippina Nerone e Druso, sottraendo a Seiano la speranza di farsi reggente per loro. Ciononostante Seiano, che con la morte di Druso poteva godere dell’appoggio di quanti un tempo erano stati gli amici
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di Germanico che ora si distaccavano da Agrippina (Pani, 1966; 1968; 1977), non rimase inerte. A partire dal 24 iniziò a premere su Tiberio, riferendogli che la città era divisa in fazioni come in una guerra civile e che molti si dichiaravano apertamente partigiani di Agrippina {par tes Agrippinae) c sarebbero stati più numerosi se non si fosse reagito. Seguirono alcuni processi - a onor del vero pochi - che colpirono al cuni sodali di Agrippina, sinché nel 25 Seiano chiese di sposare Livida. Tiberio però gli oppose un cortese ma risoluto rifiuto, e altrettanto fece nel 26 nei confronti di Agrippina, dopo la condanna nello stesso 26 di Claudia Pulcra, cugina di Agrippina, accusata di adulterio e di pratiche magiche contro il principe. Con il 27 il panorama però mutò in modo irreversibile. Tiberio decise di ritirarsi a Capri e da li non fece quasi mai più ritorno a Roma sino alla fine del suo principato. La sua decisione, dettata molto probabilmente dal torbido clima politico di Roma, rappresentò una cesura decisiva del suo principato ed ebbe con seguenze immediate sulla lotta politica a Roma. A Seiano consentì di agire più liberamente in vista dei suoi disegni: tra il 27 e il 30 cercò di dividere, in parte riuscendovi, i due figli di Agrippina, Nerone e Druso, e proseguì nella sua azione di danneggia mento nei confronti delle partes Agrippinae attraverso i processi. Nel 30 il senato dichiarò Agrippina e Nerone nemici pubblici (Agrippina fu relegata a Ventotene, Nerone a Ponza, dove poco dopo si suicidò) e Seiano, grazie all’ incarcerazione di Druso Cesare a Roma a seguito di un’oscura accusa, parve avere finalmente completato la sua opera. A questo punto Tiberio dichiarò di voler rivestire il consolato del 31 con Seiano, al quale fu ora concesso di sposare Livilla. L ’ambizioso prefetto, per accattivarsi il favore della plebe urbana, rimasta orfana di Agrippina e dei suoi, si fece confermare la designazione al consolato per mezzo di un’elezione popolare sull’Aventino. Fortunatamente di questa insolita procedura è rimasta traccia in un prezioso documento epigrafico { i l s 6044) che ricorda le inprobae comitiae tenute da Seiano sull’Aventino per il consolato del 31. L ’ insolita procedura organizzata da Seiano faceva leva anche su due notevoli elementi ideologici (Syme, 1936): l’Aventino infatti richiamava la figura di Servio Tullio, primo re “democratico”, ed era inoltre il colle plebeo per eccellenza, ove peraltro aveva sede il culto della Fortuna che 1’ “etrusco” Seiano venerava con particolare zelo. Eliminata dunque, ma non del tutto - poiché rimaneva ancora in vita Caligola che si trovava a Capri presso Tiberio —la possibilità che a
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succedere fossero i figli di Germanico e di Agrippina, a Seiano fu con ferito anche 1’imperium proconsulare. A questo punto sembrava che Tiberio avesse deciso che a succedergli sarebbe stato il giovane nipote Tiberio Gemello (figlio di Druso Minore) e che la reggenza fosse affi data al suo prefetto del pretorio. Sennonché, per suggellare un simile progetto mancava ancora un tassello: la tribunicia potestas per Seiano, che però non arrivò mai. Venne invece improvvisamente il drammati co crollo (Garzetti, i960, p. 193). Di fronte alla richiesta di Seiano di inviare Caligola a Roma (dove era già pronto un accusatore contro di lui), Tiberio, insospettitosi, cominciò a valorizzare il nipote facendogli rivestire la toga virile, nominandolo pontefice e tenendolo presso di sé a Capri. Proprio allora Tiberio dovette ricevere una comunicazione di Antonia (la madre di Germanico e nonna di Caligola), che confermava i suoi sospetti circa i troppo ambiziosi progetti del suo prefetto del pre torio, e decise di aprire la crisi. Con l’aiuto di Nevio Sutorio Macrone, nominato segretamente prefetto del pretorio, di Grecinio Lacone, pre fetto dei vigili, e di P. Memmio Regolo, console suffectus, il 18 ottobre del 31, facendo balenare a Seiano il conferimento della tribunicia pote stas', fu letta in senato una «verbosa et grandis epistula» (luven. 10,71) che conteneva l’atto di accusa contro Seiano che lo inchiodava alle sue responsabilità. Il senato non fece altro che ratificare la condanna e la sera stessa Seiano fu messo a morte e gettato nel Tevere: era, nella tradi zione romana, un modo per non trasformare i morti in Manes ma farli rimanere lemures-, nei giorni e nelle settimane successive furono messi a morte i figli, mentre la moglie Apicata si suicidò. La repentina fine di Seiano e della sua famiglia lasciò dietro di sé una lunga striscia di sangue, che trascinò in rovina anche quanti si era no schierati accanto al prefetto. Seguì infatti un’impressionante serie ili processi de maiestate, in cui caddero vittime anche degli innocenti. Di fatto, nonostante la tradizione ostile sostenga il contrario, Tiberio cercò di limitare i danni. Il suo vero torto fu semmai quello di lasciare troppo campo al senato, per un eccessivo scrupolo legalistico e un ma linteso senso di collaborazione politica: il senato infatti —che era la corte di giustizia —non tardò a consumare le sue vendette. Ciò non to glie tuttavia che l’eliminazione di Seiano si era resa necessaria, poiché l'imperatore non poteva tollerare che il suo potere venisse minacciato ila quello che, a tutti gli effetti, doveva rimanere un istituto militariz zato al suo servizio. Seiano inoltre non aveva esitato a impiegare mezzi analoghi a quelli di Agrippina, facendo leva sull’appoggio della plebe
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urbana, determinante nel consenso di cui Tiberio aveva bisogno. Al di là dei molteplici episodi che contrassegnarono la vicenda di Seiano, essa aveva rivelato per la prima volta la temibile natura del potere del prefetto del pretorio. La politicizzazione del prefetto lo rendeva infat ti agli occhi dell’ imperatore un formidabile avversario dotato di quel potere militare, che era uno dei fondamenti stessi del potere imperiale. Il dopo Seiano con le condanne che ne seguirono, su cui la tradizio ne antica ha molto speculato in modo spesso tendenzioso, contribuì a gettare ulteriore discredito su Tiberio. Dal punto di vista filosofico Tiberio, come ogni buon politico romano, si ispirava alla cosiddetta statio principis, secondo la quale dovere dell’ imperatore era quello di impegnarsi nel servire lo Stato e dunque di vigilare e salvaguardarne gli interessi. Nel 25 ebbe modo di dichiarare in senato: Io, o senatori, non sono che un essere mortale e a un essere umano sono per tinenti le funzioni che assolvo. A me basta occupare il posto più elevato: sia tene testimoni e ben lo ricordino i miei posteri, che onoreranno più che a sufficienza la mia memoria se mi giudicheranno degno dei miei avi, sollecito dei vostri interessi, imperturbabile nei pericoli, non timoroso di affrontare l’impopolarità se è necessario per il bene dello Stato (Tac., Ann. 4,38,1). L ’ impopolarità, frutto del suo carattere e della sua austerità di stampo veteroromano, era in effetti il suo limite e in questo la storiografia an tica ebbe facile gioco nel contrapporgli Germanico, l’emblema dell’af fabilità e della popolarità. «La popolarità egli stesso \scil.: Tiberio] non la cercò mai; disse espressamente ch’egli mirava solo alla stima dei posteri. Già gli uomini intesi solo a compiere il proprio dovere, e di conseguenza a farlo compiere agli altri, sono poco divertenti. Era facile che la serietà potesse apparire durezza, l’austerità grettezza, e perfidia la prudenza, e disprezzo il riserbo» (Garzetti, i960, p. 31). Indubbiamente, alcune scelte non gli giovarono: ad esempio non partecipò alla tumulazione delle ceneri di Germanico presso il Mauso leo di Augusto (in questo seguito dalla madre Livia e da Antonia, ma dre di Germanico) e non amava i giochi e gli spettacoli, tanto da non presenziare neppure a quelli presieduti dal figlio Druso Minore nel 15. Probabilmente vedeva in essi una fonte di disordini, ma anche una forma di corruzione della morale pubblica. Un notevole documento epigrafico, il senatus consultum di Larino (del 19), era infatti volto a di sciplinare l’esibizione sulle scene e nell’arena di cavalieri e senatori, che
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i im questa condotta intaccavano gravemente la reputazione dei loro m lines: Tiberio vietò questa pratica infamante e la interdi ai discen
denti (maschi e femmine); fissò infine un tetto alla paga degli attori e, nel 13, li fece allontanare da Roma. Personalmente Tiberio era affascinato dall’astrologia ed erano noti 1 suoi rapporti con l’astrologo Trasillo: Tacito {Ann. 4,58) riferisce che gli astrologi, nel momento in cui Tiberio lasciava Roma per Capri, predissero che non vi avrebbe fatto più ritorno. Si era sempre oppoNlo al culto della propria persona, ritenendo che un simile privilegio potesse essere conferito solo al divus Augustus. Emblematico di questo nuo atteggiamento fu il rifiuto opposto nel 15 alla richiesta dell’ambasceria della Spagna Ulteriore di innalzare un tempio in suo onore c ili sua madre Livia, sull’esempio di quanto concesso due anni prima alla provincia d ’Asia: Tiberio, parlando in senato, disse che nel caso ilei provinciali d ’Asia, a cui aveva concesso l’erezione di un tempio in nuo onore e del senato, aveva seguito l’esempio di Augusto - che in Oriente (a Pergamo) aveva concesso che si edificasse un tempio in suo onore e in onore di Roma - , mentre non era possibile acconsentire alla richiesta spagnola poiché sarebbe stato un segno di superbia da parte Nini moltiplicare i templi in suo onore in tutte le province e soprattutto avrebbe significato un ridimensionamento degli onori tributati ad Au gusto. Simile atteggiamento tenne nei confronti della città di Githion , In Laconia, che aveva avanzato analoghe richieste: anche in tal caso un eccezionale ritrovamento epigrafico conserva la lettera scritta da Ti berio agli abitanti della città a cui oppone un fermo rifiuto (SEG 912.). Di fronte ad altri culti prese anche provvedimenti drastici: nel 19 non esitò a punire severamente i seguaci del culto Isiaco e ad allontanare gli librci da Roma, in seguito ad alcuni scandali che li avevano coinvolti. Tertulliano {Apol. 5,2) afferma che nel 35 un senatus consultum avrebbe respinto la proposta di Tiberio al senato di riconoscere la di vinità di Gesù Cristo e di ammetterne il culto nell’impero. Il provve dimento del senato, che la maggior parte della critica ritiene spurio, sarebbe invece secondo M. Sordi (1957, p. 70) la risposta alla proposta ili Tiberio al senato stesso di riconoscere il culto cristiano che però in contrò le resistenze dei senatori che la respinsero, nonché il fondamen to giuridico delle persecuzioni anticristiane sino alla fine del 11 secolo: « il senatus consultum del 35 rifiutava di riconoscere la divinità di Gesù Cristo e di ammetterne il culto nell’Impero; con esso il Cristianesimo diventava superstitio illicita ed era giuridicamente perseguibile».
In materia di politica economica Tiberio dovette rimediare all’ im provvisa inopia rei nummariae (mancanza di liquidità) venutasi a crea re nel 33, forse a causa dell’eccessiva pratica dell’usura che aveva spinto i creditori a ritirare i capitali dati a prestito, con un provvedimento che intendeva rilanciare l’agricoltura italica. In senato fu deciso che i due terzi del capitale dato a prestito dai creditori fosse investito nell’acqui sto di terreni in Italia, i cui prezzi erano però crollati poiché i debitori erano costretti a svendere le loro proprietà, mentre gli usurai avevano accantonato tutto il denaro per acquistare terreni. Tiberio interven ne con un prestito di 100 milioni di sesterzi e concesse la facoltà di contrarre prestiti senza interessi per un triennio a chi avesse dato allo Stato una garanzia in terreni pari al doppio della somma richiesta: in tal modo fu ristabilito il credito e i privati tornarono a prestare denaro. Per quanto concerne la politica estera nel 36-37 il legato di Siria Lu cio Vitellio raggiunse un accordo sull’ Eufrate con il re dei Parti Arta bano il sulla questione relativa al trono d’Armenia. L ’episodio - in sé uno dei numerosi accordi raggiunti dai Romani con i Parti - rivela la grande abilità diplomatica di Tiberio. L ’imperatore infatti doveva co noscere bene le dinamiche diplomatiche orientali, poiché nel 20 a.C., per ordine di Augusto, aveva recuperato le insegne romane perdute da Crasso a Carre nel 53 a.C. Già Germanico poi, durante la sua missione in Oriente, si era accordato con il re di Parda Artabano 11, riconoscen do Zenone Artaxia sul trono armeno e provocando non pochi pro blemi ai Parti. Ora, con Artabano IH sul trono di Partia, la questione armena era tornata d’attualità: il sovrano partico aveva infatti posto sul trono d’Armenia un suo protetto; Tiberio, con una sapiente azione diplomatica attraverso il suo legato (Lucio Vitellio), e approfittando delle divisioni interne ai Parti, si servì degli Iberi e degli Albani del Caucaso per attaccare i Parti i quali decisero di scendere a patti con Roma. L ’accordo, che prevedeva il riconoscimento di un sovrano fi loromano sul trono d ’Armenia, fu molto probabilmente siglato sotto Caligola, ma l’ iniziativa e la preparazione di esso furono senz’altro un successo da ascrivere interamente a Tiberio. In generale la politica estera di Tiberio, che pur era stato un gran dissimo generale sotto Augusto combattendo per lunghi anni su fronti diversi (Illiria, Pannonia, Germania), si attenne scrupolosamente al noto consiglio di Augusto, considerato un praeceptum dal suo succes sore, di mantenere l’ impero nei suoi confini (consilium coercendi intra terminos imperii-. Tac., Ann. i,ii) e di risolvere le controversitplura con
silio quam vi. Certo, ci furono alcune eccezioni dovute all’instabilità
Interna di alcune aree : la guerra in Africa contro Tacfarinate tra il 17 e il 14; la guerra in Tracia tra il 19 e il 2.6; l’insurrezione in Gallia del zi op pure le rivolte di Frigia nel z8 e di Cappadocia nel 36, tutte di carattere "fiscale”, generate cioè dagli eccessivi tributi imposti da Roma. Tutta via, Tiberio si rivelò molto sollecito nel portare aiuti o nel concedere liberalità alle province in difficoltà (emblematico il caso del terremo to che devastò la provincia d ’Asia nel 17), e nel vigilare attentamente sull’amministrazione dei diversi territori, attraverso l’oculata nomina ilei governatori di provincia che spesso - suscitando malumori in sena to - rimanevano in carica a lungo e con successo, nonché nel limitarne gli abusi. Tiberio, fin sul letto di morte, portò avanti una doppia successione che prevedeva sia Caligola, figlio di Agrippina e Germanico, sia suo nipote Tiberio Gemello (figlio di Druso Minore e di Livida, sorella di Germanico). Di fatto questa doppia designazione non aveva alcun fu turo: il prestigio di Germanico nonché le ragioni del sangue dovevano alla fine prevalere. I membri della famiglia Giulia e in prim is Agrippina avevano infatti sempre ritenuto in cuor loro che la successione di T i berio ad Augusto fosse stata un’usurpazione. Tiberio era un Claudio c dunque non un discendente diretto di Augusto: era fatale che, no nostante e comprensibilmente Tiberio non avesse potuto rinunciare a designare suo nipote, Tiberio Gemello fosse un candidato senza spe ranza. Caligola infatti, con il consenso del senato, non ebbe difficoltà a far annullare il testamento di Tiberio e, in occasione della prima crisi del suo principato nel 38, a eliminare il cugino. La distorsione operata dalle fonti (ostili) di matrice senatoria ai danni di Caligola, dipinto come un mostro autore di ogni scelleratezza, si riverbera sulla questio ne della successione a Tiberio e arriva addirittura a mettere in scena il soffocamento del principe stesso a opera del mostruoso nipote: in real tà, si tratta solo di invenzioni, frutto della leggenda nera di cui Caligola l’ti vittima. Il giovane Caligola, infatti, poteva contare su una vastissima platea di consensi: aveva l’appoggio dei pretoriani grazie al prefetto del pretorio Macrone, degli eserciti (sul Reno Caligola era già stato fatto conoscere dalla madre a suo tempo), della stessa aristocrazia senatoria, che in quel momento era senz’altro schierata con il figlio di Agrippina, nonché della plebs urbana, tra cui il ricordo di Germanico non era mai venuto meno: eserciti e plebe rappresentavano il tradizionale bacino clientelare dei Giuli. Il ricordo di Germanico era sopravvissuto ben
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al di là della sua morce, sia per l’ indefessa opera politica della moglie Agrippina, sia per il numero dei figli che aveva avuto (ben sei), di cui ora restava il solo Caligola tra i maschi, ma anche - e forse soprattutto - per ragioni ideologiche: dietro il nome di Germanico si celava infatti una concezione “ellenizzante” del principato, secondo cui al principe spettava un ruolo più “monarchico” e carismatico nella direzione della res publica in opposizione alla concezione augustea e ancor più tiberiana di un principato civile, dialogante con il senato, che Tiberio aveva difeso, con poco successo, sino alla fine.
C aligola: il m onstrum ? La ricostruzione e la valutazione del regno di Caligola sono rese diffi cili dalla natura delle fonti: sia Tacito - la cui narrazione del principato di Caligola è conservata solo in minima parte - sia Svetonio sia Cassio Dione dipendono intatti da fonti di matrice senatoria ostili all’impe ratore. La biografia svetoniana suddivide nettamente il breve regno di Caligola (37-41) in due momenti, individuando nell’anno 38 la cesura: da quell’anno in poi Caligola si sarebbe trasformato in un monstrum (Cal. 22,1: «Fino a questo punto abbiamo parlato di un principe, ma da ora dobbiamo parlare di un mostro»). Anche Dione legge il prin cipato di Caligola in modo oppositivo: da un lato il Caligola buono, dall’altro il folle. Questa distorsione è particolarmente grave e tipica della storiografia senatoria che valutava gli imperatori in rapporto al gradimento del senato stesso. Di fatto la valutazione tra un “prima” e un “dopo” del regno di Caligola è inevitabile: anche una fonte meno schierata e dunque per noi molto preziosa, Filone d ’Alessandria, che, reduce da una ambasceria a Caligola nel 38 per conto dei Giudei ales sandrini, stese un interessante resoconto - la Legatio ad Gaium - che rivela non poco della personalità di Caligola, non riesce a fare a meno di accusare Caligola di follia. Tuttavia, questo “prima” e “dopo” devo no essere intesi più in base a una lucida ricostruzione dei fatti e del la loro valutazione che a presunte malattie cerebrali o accessi di fol lia dell’ imperatore, che hanno il pregio di spiegare alcunché. Non v ’è dubbio piuttosto che il fatto di gran lunga più importante fu la rottura tra Caligola e il senato del 38, che rappresentò il vero spartiacque del suo principato. Nato ad Anzio nel 12 d.C., sin da piccolo fu condotto dalla madre
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Ahrippina negli accampamenti dove ricevette il nomignolo di Caligola (du caliga, la calzatura militare), e strumentalmente utilizzato dalla ma dre per i suoi disegni dinastici; la familiarità con gli ambienti militari del padre e della madre fu accresciuta in occasione del trionfo di Ger manico del 17 a Roma nonché nel corso della missione di Germanico 111 Oriente, iniziata nello stesso anno. Fu quindi al seguito del corteo funebre, formato da Agrippina e dalla piccola Livilla (ultima nata), che riportava in Italia l’urna con i resti mortali di Germanico: ad attenderli il Brindisi c’erano una folla in lutto e due coorti pretorie che li scorta rono fino a Roma. Poco prima, a Terracina, furono accolti da buona parte della famiglia imperiale (c’erano i quattro figli di Agrippina e ( ìcrmanico rimasti a Roma, Claudio, fratello di Germanico e Druso Minore, figlio di Tiberio), dai consoli e dal senato, che insieme rag giunsero Roma seguiti da un grande concorso di popolo. A Roma, i remi di Germanico furono sepolti nel Mausoleo di Augusto. I .a morte di Germanico rappresentò senz’altro una cesura nella vita ili Caligola, che non perse occasione di onorare la memoria del padre durante il suo breve regno. La biografìa di Caligola di Svetonio con densa significativamente nei primi sette capitoli la biografìa di Germa nico, lasciando cosi intendere quale fosse la sua importanza e il peso della sua eredità politica. II piccolo Caligola ebbe pertanto modo di sperimentare sin da pic colo la vita militare nonché il clima di corte e queste esperienze do vettero certo giovargli all’indomani della morte di Tiberio e della sua Mucosa al trono: il figlio di Germanico era infatti ben voluto sia dagli eserciti sia dal popolo. Dopo le prime peregrinazioni, nel zj, con Tiberio ritiratosi or limi a Capri, la madre Agrippina e il fratello Nerone furono relegati rispettivamente a Ventotene e a Ponza: Caligola visse allora, insie me alle sorelle Drusilla, Livilla e Agrippina Minore, prima presso la bisnonna Livia (morta nel 19) e poi sotto lo sguardo vigile della nonI1MAntonia Minore. In occasione della morte di Livia il diciassettenne Càdlgola pronunciò la sua prima orazione pubblica; presso Antonia ebbe modo di frequentare alcuni regoli orientali clienti di Antonia, d ie aveva ereditato dal padre Marco Antonio e che sarebbero tornati Utili a Caligola stesso. Fu quindi trasferito a Capri presso Tiberio, al lorché si andava disvelando la “congiura” di Seiano, onde proteggerlo dalle mire del potente prefetto del pretorio, ma anche per sottrarlo a fucili strumentalizzazioni di chi vedeva un’alternativa a Tiberio nella
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famiglia di Germanico. Le cure che Tiberio a Capri fece prestare al giovane Caligola rivelano quale fosse la sua importanza: Caligola era infatti l’unico figlio maschio di Germanico e Agrippina (che morirà di lì a poco nel 33) non compromesso dagli intrighi e dunque, agli occhi di Tiberio, l’unico successore possibile accanto a suo nipote Tiberio Gemello, il cui padre Druso Minore era scomparso tragicamente (per avvelenamento) nel 23. 1 due fratelli di Caligola Druso Cesare (che si era lasciato attrarre da Seiano) e Nerone Cesare (complice delle mene di Agrippina) morirono entrambi nel giro di pochi anni: Nerone nel 31 a Ponza, dove si suicidò; Druso d ’ inedia nel 33, dopo essere stato gettato in un carcere del Palatino tre anni prima. Flavio Giuseppe, lo storico giudaico autore del Bellum ludaicum e delle Antiquitates Iudaicae al tempo dei Flavi, in un passo delle Anti quitates (19,208-209), parlando del soggiorno di Caligola a Capri, ri corda che aveva avuto un’ottima educazione (maSsia) e il modello per la sua formazione era stato proprio Tiberio: « [Caligola] aveva grande desiderio di eccellere negli studi per il fatto che anche Tiberio sera distinto per l’alto livello della sua cultura; Caligola era anch’egli un amante del bello e, conformandosi agli ordini del suo parente e guida, eccelleva tra i suoi coetanei». Ciononostante, non bisogna dimentica re che Caligola si trovava presso colui che aveva esiliato sua madre e, di fatto, condannato a morte i suoi fratelli, e che dunque godeva dei con sensi della “opposizione germaniciana” a Tiberio ma che, al contrario, incontrava l’ostilità di quanti gli preferivano Tiberio Gemello. Di que sta situazione a Capri parla Tacito {Ann. 6,20,1), che però non manca di deformare anche la personalità del giovane Caligola, trasformando lo in un camaleontico simulatore, come se avesse imparato molto bene da Tiberio l’arte della dissimulatio-. «Sotto apparenze di moderazione, egli nascondeva un animo efferato; né la condanna della madre né la rovina dei fratelli gli strappò un lamento. Giorno per giorno, secondo la maschera che Tiberio portava, egli modellava su di essa il proprio aspetto, adoperando parole quasi identiche alle sue». Questo atteggiamento delle fonti (analogamente a Tacito si espri mono infatti anche Svetonio e Cassio Dione) che proiettano l’ imma gine del Caligola mostro già negli anni capresi, non facilita la com prensione di ciò che avvenne in vista della successione. Vero è che Tiberio nel 33 aveva stilato un testamento, nel quale lasciava impre giudicata la questione: Caligola e Tiberio Gemello venivano nominati eredi dei suoi beni in parti uguali. Tuttavia nel frattempo erano andate
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maturando le condizioni perché fosse Caligola a succedere. Di là dal latto che già nel 33 era diventato questore e aveva acquisito il diritto di rivestire con cinque anni di anticipo le altre cariche, onore che veniva solitamente concesso a chi era destinato alla successione, era Caligola, in quanto figlio di Germanico, a godere dell’appoggio popolare, ma anche dell’aristocrazia senatoria - che dopo la fine di Agrippina aveva puntato tutto su di lui -, nonché del prefetto del pretorio Macrone (c della moglie Ennia, sul cui conto le fonti imbastiscono una trama scandalistica) e soprattutto delle legioni (senz’altro la Siria di Lucio Vitellio), che alla morte di Tiberio nel 37 giurarono fedeltà a Caligola. 1)i fronte a un simile quadro è chiaro che il destino di Tiberio Gemello era segnato. Il 16 marzo del 37, giorno della morte di Tiberio, il figlio di Germanico venne proclamato imperatore dai pretoriani di stanza a Miseno; due giorni dopo, il 18 marzo, il senato sancì ufficialmente la sua ascesa al trono annullando il testamento di Tiberio. Caligola entrò trionfalmente a Roma il 18 marzo del 37: il viaggio da Miseno a Roma, con il nuovo imperatore nel corteo funebre di T i berio, fu accolto da numerose manifestazioni di gioia popolare. Con il suo primo discorso in senato, alla presenza anche di cavalieri e di uomini del popolo, Caligola ebbe un’ottima accoglienza: mostrò deferenza verso il senato e promise, sulla linea di Tiberio, di collaborare con il senato, dicendo addirittura «che avrebbe fatto tutto quello che essi I i senatori] avessero deciso dicendo di essere loro figlio e pupillo» (Cass. Dio 59,6,1). Sembrava che Caligola fosse davvero il «principe desideratissimo» (Suet., Cai. 13). Gli atti che seguirono rispettarono le promesse: abolì i processi di maiestas che avevano funestato gli ulti mi anni di Tiberio; furono richiamati gli esuli e concessa la libertà ai prigionieri; furono bruciati pubblicamente gli atti processuali, anche quelli riguardanti sua madre e i suoi fratelli (salvo trattenerne almeno lina copia, come si scoprì più tardi); diede solenne sepoltura a Tiberio Ilei Mausoleo di Augusto e pagò con generosità i suoi lasciti testamen tari; adottò infine Tiberio Gemello - che era stato diseredato - come lìgi io, conferendogli la toga virilis. Tuttavia, tra questi atti di deferenza, Caligola non si lasciò sfug gire r ’occasione per celebrare la sua famiglia, sia i defunti che i vivi, alimentando dunque nuovamente il ricordo di Germanico, rivalutan do Il ramo Giulio della dinastia a dispetto di Tiberio che era, per diHCcnilenza diretta, un Claudio e rafforzando dunque la sua discenden za da Augusto: il mese di settembre ebbe ora il nome di Germanicus
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(soltanto Cesare e Augusto potevano vantare prima di allora il loro nome associato a quello di un mese dell’anno); i resti di Nerone furono tumulati nel Mausoleo di Augusto e per quelli di Druso furono eretti cenotafi; fu soprattutto riabilitata la memoria di Agrippina, che rice vette anch’ella sepoltura nel Mausoleo di Augusto, dove né la madre Giulia Maggiore né la sorella Giulia Minore avevano trovato posto, per espressa volontà dello stesso Augusto. Alla nonna Antonia Minore vennero accordati il titolo di Augusta e tutti gli onori che spettavano a Livia. Allo zio Claudio fu conferito per la prima volta il consolato, che rivesti insieme a Caligola. Alle sorelle Drusilla, Agrippina e Livida fu rono concessi i privilegi delle Vestali e la possibilità di assistere ai giochi del circo dalla loggia imperiale accanto al fratello, ma soprattutto i loro nomi ora comparivano nelle formule dei giuramenti pubblici. La nomina a console insieme a Claudio (per soli due mesi) nel lu glio del 37 fu l’occasione per un nuovo discorso in senato: Caligola ribadì i suoi propositi di collaborazione nonché la sua moderazione. Gli esordi di Caligola, insomma, avevano rivalutato in pieno il model lo civile-augusteo già percorso da Tiberio, per cui l’ imperatore era un primus inter pares, e avevano assicurato al senato che gli eccessi degli ultimi anni di Tiberio non si sarebbero più ripetuti. Il 38, secondo le fonti, fu l’anno della svolta “in peggio”: di qui in poi Caligola si sarebbe trasformato da princeps in monstrum. In realtà, oltre che con la tradizione storica ostile, bisogna fare i conti con la ma lattia patita da Caligola alla fine del 37 che, anche se non fu in sé la cau sa della svolta, provocò senz’altro un mutamento d’ indirizzo politico. La natura della malattia ci sfugge: tuttavia si trattò certamente di una grave patologia che lo mise in pericolo di vita, anche se Caligola non impazzì affatto. Nel frattempo, però, il prefetto del pretorio Macrone e il consolare Marco Giunio Silano (padre di Giunia Claudilla prima moglie di Caligola morta di parto) prepararono la successione a favore di Tiberio Gemello. La reazione di Caligola - che evidentemente non era affatto impazzito - già nei primi mesi del 38 non tardò a venire. Per prima cosa nominò erede dei suoi beni e dell’ impero la sorella Dru silla con suo marito Lepido, che avrebbe avuto dunque la reggenza, contrapponendosi espressamente alla scelta di Macrone e di Silano, spalleggiati da quella parte dell’aristocrazia senatoria che non aveva mai amato Caligola, né ora poteva tollerare Lepido. Macrone e Silano insieme a Tiberio Gemello furono i primi a cadere. Nonostante le fonti facciano di Gemello un attivo cospiratore contro Caligola (che a sua
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volta avrebbe tentato di complottargli contro), è molto più probabile clic questa fosse l’accusa ufficiale utilizzata da Caligola e che Gemello Invece fosse stato lo strumento delle manovre di chi lo circondava per determinare la successione - a cui certo il nipote di Tiberio non aveva avuto la forza di sottrarsi - e che per questo Caligola, presa coscienza della sua pericolosità politica, in quanto poteva diventare un punto di aggregazione per chi aspirava a una successione a lui ostile, decidesse di eliminarlo prontamente, seguendo così il precedente di Augusto con Agrippa Postumo. Con lucida consapevolezza dei rapporti di forza di cui è fatta la po litica imperiale, scrive Filone {Leg. 67): Riguardo al cugino e coerede si diceva: il potere assoluto non è divisibile. È un’immutabile legge di natura. Caligola, essendo il più forte, faceva al più debole ciò che questi avrebbe altrimenti fatto a lui. E istinto di autoconservu/.ionc, non omicidio. Anzi, il giovane è stato forse eliminato provviden zialmente, a benefìcio di tutta l’umanità, dal momento che ci sarebbero stati partigiani dell’una o dell’altra fazione, il che avrebbe provocato disordini, lotte civili, guerre esterne.
Al posto di Macrone vennero designati due prefetti del pretorio, di cui ci è noto il nome soltanto di uno: Marco Arrecino Clemente, un per sonaggio considerato di secondo piano. Si tornava così allo sdoppia mento della carica di prefetto del pretorio, secondo quanto già fatto da Augusto, onde favorire il controllo e l’antagonismo reciproci, nonché una maggior dipendenza dall’imperatore. Caligola del resto era stato spettatore degli eccessi di Seiano e ora non era più disposto a soppor tare quelli di Macrone il quale, poco dopo la sua prowisioria nomina a prefetto d ’Egitto, fu colpito da accuse infamanti e fu costretto a to gliersi la vita (anticipato in questo dalla moglie Ennia); stessa sorte fu riservata anche a Silano, nonché a una serie di personaggi che, in alcuni casi, non avevano tanto dato il loro appoggio a una successione in favo re tli Gemello, quanto si erano macchiati delle condanne di Agrippina C ilei suoi figli sotto Tiberio: contrariamente a quanto aveva lasciato Credere ai suoi esordi, Caligola aveva conservato copia degli incarta menti relativi alle condanne dei suoi familiari. Si consumò quindi la rottura con il senato. C ’è da dire però che prima di arrivare allo scontro Caligola fu abile nel procurarsi una soli di) base d ’appoggio tra il ceto equestre e il popolo. Ciò si può cogliere
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da una serie di provvedimenti presi dopo la morte di Gemello: venne effettuata una revisione dell’ordine equestre rimuovendo persone in degne e accogliendo homines novi, ad alcuni dei quali venne conces so direttamente il laticlavio; vennero esonerati gli abitanti dell’ Italia dalla tassa sulle vendite; furono infine ripristinati i collegia e i giochi gladiatori. Se in un primo momento nessuno aveva criticato l’eliminazione di Tiberio Gemello, di Macrone e di Silano, a seguito della morte di Drusilla ( io giugno del 38) Caligola pretese che il senato la dichiarasse diva; inoltre, fu restituita al popolo di Roma l’elezione dei magistrati, che da Tiberio era stata trasferita al senato (salvo poi tornare al passato poco dopo); volle infine diventare console per la seconda volta nel 39, cosa che avvenne ogni anno sino alla morte. Le cose precipitarono proprio nel 39, quando Caligola prese la pa rola in senato mettendolo sotto accusa (Cass. Dio 5 9 ,16 ,1-7 ) . I senato ri furono espressamente indicati da Caligola come responsabili delle condanne a morte per maiestas avvenute sotto Tiberio: avevano agito così solo per compiacerlo e i documenti ancora in suo possesso mostra vano che erano stati i senatori, non Tiberio, a muovere e sostenere le accuse. Lesse poi un immaginario discorso rivoltogli da Tiberio, in cui il defunto imperatore gli raccomandava di badare non alle chiacchiere dei senatori ma alla sua sicurezza: solo così non avrebbe subito alcun male e sarebbe stato comunque onorato, indipendentemente dalla vo lontà dei senatori: in caso contrario sarebbe morto in modo inglorioso, cadendo vittima di una congiura. Un simile discorso rappresentava un durissimo atto di accusa che segnava una svolta decisiva: la rottura tra l’ imperatore e il senato col pito nella sua dignità. Caligola con il suo discorso aveva messo a nudo l’ ipocrisia dei senatori e la loro doppiezza: ai suoi occhi essi erano or mai un gruppo di adulatori pronti a eseguire le volontà del principe. L ’enorm ità del discorso non stava in
cosa
C a lig o la aveva detto. N on c ’era
bisogn o di inform are i senatori del loro com portam ento. A tutti era chiaro che nel tributare ossequiosi om aggi a ll’ im peratore si com piva un atto di sottom issione, e non era neppure una novità la latente propensione alla co n giura. Il fatto inaudito stava n e ll ’ a v e r l o detto. L ’ im peratore, rinfacciando al Senato il codice di com unicazione adottato nei suoi con fro n ti, lo rendeva inservibile. I senatori non potevan o aderire alla sua m etacom u nicazione che denunciava la doppiezza del loro atteggiam ento. I rapporti di forza im ped i
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vano che potessero dargli ragione: “Sì, ti odiamo e ci piacerebbe eliminar li", cosa che probabilmente a quell’epoca corrispondeva ormai a realtà. Il l'Uiiltato era che restavano impotenti, spiazzati e personalmente umiliati» (Winterling, 1005, p. 86). II (9 fu, di fatto, il vero anno di svolta anche perché fu svelata un’altra
grande congiura contro Caligola. Il governatore della Germania Supe riore Gneo Lentulo Getulico, l’ex cognato di Caligola Marco Emilio I .cpido, le sorelle di Caligola Agrippina Minore, già madre del piccolo Lucio (il futuro Nerone nato nel 37), e Livida pare avessero deciso di eliminare Caligola per far posto a un nuovo successore, alternativo a quello voluto da Caligola stesso, il quale, recentemente sposatosi con Milonia Cesonia, era finalmente diventato padre di una bambina: Giulia Drusilla. Il legame adulterino tra Agrippina e Lepido, di cui ci parlano le fonti (Tac., Ann. 14,2,2), lascia intendere che la sorella di t laligola, nonostante fosse ancora sposata con Enobarbo (il padre del piccolo Lucio) - il quale forse già nel 37 nei piani di Agrippina avrebbe potuto rappresentare una valida alternativa al fratello nel caso le cose non fossero andate a buon fine - , poteva puntare, attraverso Lepido, vedovo di Drusilla dal 38, a imporre per il futuro il piccolo Lucio.
Il coinvolgimento del governatore di Pannonia C. Calvisio Sabino, III stretto rapporto con Getulico, e il ruolo di Cornelia, moglie di Sa bino e forse addirittura sorella di Getulico, la quale, come una novella Agrippina Maggiore, si era insinuata tra le legioni comandate dal ma rito, facendo la ronda e osservando i soldati durante le esercitazioni, suggeriscono che la vasta operazione contro Caligola celava forse la re gia di Agrippina la quale, sull’esempio della madre nel 14 e nel 15, aveva individuato nelle legioni stanziate lungo il corso del Reno il potente strumento per i suoi disegni. Di fatto la congiura dovette abortire sul nascere e i colpevoli venne ro immediatamente puniti: Getulico venne giustiziato in Germania e sostituito da Servio Sulpicio Galba (il futuro imperatore); Lepido subì anche lui la pena capitale, mentre Sabino e la moglie Cornelia si suici darono. Agrippina e Livilla - che dovette giocare un ruolo secondario nella vicenda, un po’ a traino della sorella - furono relegate a Ponza e Agrippina, prima di allontanarsi, fu costretta a riportare a Roma l’urna con le ceneri di Lepido parodiando il viaggio della madre Agrippina Maggiore di vent’anni prima con le ceneri di Germanico. Il colpo per Caligola fu senz’altro notevole: con la seconda metà del
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39 egli infatti modificò completamente la sua politica dinastica, arrivan do ora a escludere qualsiasi membro della sua famiglia da ogni onore. Di questo nuovo indirizzo politico ne fecero le spese in particolare lo zio Claudio (umiliato pubblicamente in più di un’occasione), il nipote Lu cio (che fu tolto alla madre e affidato alla zia Lepida), il cugino Tolomeo di Mauretania, nipote di Marco Antonio (che fu eliminato). Ciononostante Caligola non rinunciò a svolgere la sua politica este ra che, proprio nel 39, lo vedeva impegnato in una grande spedizione sulle coste del mare del Nord e poi nel 40 in Britannia, alla ricerca di una gloria militare che potesse rinverdire i fasti di Germanico. Le fonti ridicolizzano queste due azioni di Caligola, che sarebbero state con trassegnate da episodi risibili: durante la spedizione nordica Caligola si sarebbe limitato a compiere un’ incursione in territorio nemico in cui non incontrò nessuno, non prima di aver punito duramente ufficia li, centurioni e soldati e aver insediato Galba a capo delle legioni; per quanto riguarda la Britannia Caligola si sarebbe limitato ad accogliere la deditio del transfuga Adminio, figlio del re dei Catuvellauni Cunobellino, a far raccogliere conchiglie ai soldati sulla costa al di qua della Manica, come se avesse sottomesso l’oceano, e a costruire un faro. A coronamento di queste “imprese” Caligola ottenne ben sette salutazio ni imperatorie e la celebrazione del trionfo. Tuttavia, le stesse fonti consentono di stabilire che in realtà la spedi zione nordica era stata anticipata da ingenti preparativi con imponenti leve cominciate tempo addietro, e che il vero obiettivo di Caligola era invadere la Britannia. La direttrice germanica era infatti troppo impe gnativa e poco sicura alla luce della recentissima congiura di Getulico. La Britannia invece, dopo il duplice sbarco di Cesare nel 55 e nel 54 a.C. e la rinuncia augustea a mettervi piede, rappresentava agli occhi del “cesariano” Caligola una meta più appetibile per ottenere quel pre stigio militare di cui andava in cerca, e che lo avrebbe notevolmente rafforzato. In realtà, però, l’ imperatore dovette rinviare i suoi disegni, non tanto per l’ insicurezza della situazione a Roma (Willrich, 1903, p. 314) o per il rifiuto dei legionari di passare il Canale della Manica (Balsdon, 1934, pp. 88-92), quanto più probabilmente per i soprag giunti contrasti tra i Catuvellauni divisi tra antiromani (Cunobellino) e filoromani (Adminio) : la cacciata di Adminio da parte del padre ave va imposto a Caligola una revisione dei piani d ’attacco e gli aveva sag giamente consigliato di rinviare la spedizione più in là nel tempo, senza rischiare un difficile sbarco sull’ isola (Zecchini, c.d.s.).
Nel quadro della politica estera di Caligola, che va però in questo ri sovrapporsi con la sua politica religiosa, bisogna annoverare la llirmentata vicenda dei rapporti con Alessandria e Gerusalemme. PreItirnmt Indispensabile a questa circostanza che, con alterne vicende, si I I ' « nel nò per due anni e trovò uno sbocco solo dopo la morte di CaligoIti stesso con l’intervento di Claudio, è il problema della divinizzazione il i ( lallgola in vita e il suo presunto orientalismo. Le fonti riferiscono dtp l'imperatore, mentre inizialmente aveva vietato che fossero espo rne slitt ile con la sua immagine e aveva rifiutato il culto del suo genius Voluto dal senato, dal 40 non esitò a comparire in pubblico vestito da lllvllllti\ (dei e dee): fu così istituito un culto al suo numen con relativo tempio c collegio sacerdotale. Bisogna tuttavia probabilmente esclude te che Caligola avesse voluto introdurre un culto pubblico dell’impeflltorc vivente-, semmai, alcuni indizi (come ad esempio la mancanza di qiltilsiusi modifica dei titoli ufficiali nella documentazione epigrafica, ovvero l’immutata iconografia numismatica rispetto gli anni prece denti) spingono ad escluderlo. E forse preferibile pensare, come è stato lutto (Cìradei, 2002, pp. 140-2), che il senato, dopo aver invano votato Il t luligula onori divini e sacrifìci al suo genius, da lui puntualmente ri fiutati, nel 40 riuscì a persuadere l’imperatore ad accettarli, limitando Il Nilo assenso all’istituzione di un culto in forma privata, come rivela l'Istituzione di un tempio sul Palatino proprio per volere di Caligola, Il citi culto venne amministrato da un collegio sacerdotale apposito al quille si accedeva attraverso il pagamento di ingenti somme. Così si comprendono meglio quelle manifestazioni di irrisione verso il sena to, sempre desideroso di compiacere l’imperatore - i senatori erano Inflitti disposti a sborsare cifre considerevoli pur di essere ammessi nel collegio del culto di Caligola - ampiamente documentate dalle fonti letterarie, nonché i travestimenti dell’imperatore per dimostrare nuo vamente il suo disprezzo verso qualsiasi onore divino concessogli dal NCItuto. Questi atteggiamenti potrebbero spiegare peraltro anche il p r c N i m t o “orientalismo” di Caligola, manifestatosi in almeno due epimnll: il trionfo di Baia, dopo il precipitoso rientro a Roma dal nord, NU un ponte di barche in cui Caligola esibì espliciti richiami ai re per niimi Dario e Serse, e soprattutto ad Alessandro Magno; l’intenzione di spostare la capitale dell’impero da Roma ad Alessandria. Di fatto queste suggestioni sono destinate a rimanere tali: Caligola, anche nei momenti più stravaganti, non pensò mai che l’imperatore dovesse tro vare ispirazione nel modello delle monarchie ellenistiche. La sua azioCrino
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ne politica, comunque la si giudichi, trova la sua spiegazione entro le coordinate politiche del mondo romano. Ecco dunque che anche la vicenda del 38, che ebbe come protago nisti i Giudei, prima di Alessandria e poi di Gerusalemme, può essere circostanziata meglio tenendo conto dell’evoluzione della politica re ligiosa di Caligola in questi anni. Nell’estate del 38, in occasione del soggiorno ad Alessandria del principe giudeo Agrippa, sulla via per prendere possesso dei territori in Giudea a lui assegnati da Caligola suo amico sin dai tempi di Capri —con il titolo di re, si erano verificaci violenti scontri tra gli Ebrei e i Greci residenti, appoggiati dal praefec tus romano Avillio Flacco: i Greci pretendevano infatti di trasformare le sinagoghe in templi di Caligola. Questi ricevette le ambascerie di entrambe le parti a Roma poco dopo — fortunatamente possediamo l’ampio resoconto della Legatio ad Gaium di Filone di Alessandria, che faceva parte della delegazione giudaica —concedendo ben poco ai Giudei, e anzi esasperandoli ancor di più, a tal punto che nella prima vera seguente, di fronte alla distruzione dell’altare di Caligola eretto dai Greci nella città giudea di Iamnia, diede ordine al legato di Siria R Petronio di porre nel tempio di Gerusalemme una statua di Zeus con le sue sembianze e ricorrendo, se fosse stato necessario, alla forza. L ’ intervento di Agrippa a Roma riuscì a indurre l’ imperatore a revo care l’ordine della statua. Tuttavia nel corso del 40, di fronte ad altri contrasti, pare che Caligola avesse progettato di recarsi personalmente in Palestina per portarvi la sua statua e proclamarsi dio nel tempio di Gerusalemme: solo l’improvvisa morte di Caligola mise fine al “folle” progetto. In quell’anno, dunque, si esasperarono i comportamenti di Caligola, che agli occhi dei senatori dovevano sembrare “sacrileghi”. Caligola fu infine assassinato il 24 gennaio del 41, all’uscita da teatro, da una congiura capitanata dal tribuno di coorte della guardia pre toriana Cassio Cherea che, insieme al suo collega Cornelio Sabino e ad altri, fu il protagonista dell’assassinio. Tra i congiurati figuravano membri del senato e dell’ordine equestre: Valerio Asiatico (un ricco senatore) e L. Annio Viniciano (imparentato con M. Vinicio marito di Livilla); i prefetti del pretorio di cui è noto il nome del solo M. Arrecino Clemente; Callisto e Narcisso (liberti che diverranno noti sotto Claudio). I convulsi fatti di quel giorno e dei giorni seguenti sancirono la damnatio memoriae per Caligola da parte del senato (torse mai ese guita: Bianchi, 2014) e l’acclamazione a imperatore di Claudio, zio di Caligola, da parte dei pretoriani. Costoro, agendo nel solco della con-
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timiltà dinastica, rivelarono quanto deboli e velleitari fossero i progetti tiri congiurati di dar vita a un’alternativa che non fosse quella della fa miglia giulio-claudia: in realtà a Caligola l’appoggio dei soldati e della plebe non era mai venuto meno.
Claudio : uno studioso al potere Anche su Claudio la tradizione storiografica di matrice senatoria è decisamente ostile. La maggior parte delle fonti letterarie (Tacito, Nvctonio, Cassio Dione) ci presenta infatti il fratello di Germanico, e /.lo di Caligola, come inadatto alla vita politica. All’origine di questo giudìzio —fondato su un’accentuazione malevola di alcuni difetti fisici (balbuzie, zoppia), la sua cosiddetta ineptitudo - ci sarebbe stata anche la scarsa considerazione nutrita nei confronti di Claudio da parte di Augusto e più in generale della famiglia imperiale. Se dobbiamo pre stare fede a Svetonio (C/. 3,1) sia Augusto siala madre Antonia usarono parole di fuoco nei confronti di Claudio in una loro corrispondenza privata non esitando a definirlo un imbecille. Tiberio, seguendo scru polosamente la linea di Augusto e i suoi familiari, fece tutto il possibile per esporre il meno possibile pubblicamente Claudio: di fronte alla richiesta di Claudio stesso nel 14 di rivestire qualche carica, Tiberio si limitò a conferirgli gli ornamenti consolari. Caligola, sempre secondo Svetonio (C/. 9,1), non gli risparmiò pubblici insulti e comportamenti offensivi; il mutamento di indirizzo della politica dinastica di Caligola ebbe tra le sue vittime proprio lo zio Claudio, il quale dovette subire umiliazioni di non poco conto: su tutte l’essere stato retrocesso a pren dere la parola per ultimo in senato. Claudio inoltre era uomo di studi - e dunque giudicato, erronea mente, poco adatto alla vita politica - ai quali si era dedicato con am pio profitto: scrisse opere storiche dietro esortazione del grande sto rico Tito Livio e di Sulpicio Flavo, nonostante la madre e la nonna lo facessero recedere dal suo iniziale progetto (di cui compose solo due libri ) di scrivere partendo dalla morte di Cesare, per iniziare invece con un periodo più consono agli interessi familiari come la fine delle [lierre civili (scrisse ben quarantatré libri); compose trattati di etruscoogia ( Tyrrenikà), di storia cartaginese (otto libri) e un saggio di critica letteraria (Difesa d i Cicerone contro i libri di Asinio Gallo), forse più vicino a un pamphlet a sfondo politico; propose in un suo scritto eru
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dito l’ introduzione di tre segni nuovi nell’alfabeto latino (che furono effettivamente adottati, ma soltanto per la durata del suo regno); fu autore infine di un De vita sua in otto libri. A questa immagine poco convincente, si deve poi sommare il giu dizio politico ostile sul suo principato, che si può condensare in una formula che troviamo in Cassio Dione: Claudio fu l’imperatore suc cube delle donne e dei liberti. L’accusa di essere schiavo dei liberti pro viene senz’altro dalla risentita tradizione senatoria, che mal tollerava che a posti di responsabilità fossero stati insediati dei liberti; l ’accusa di debolezza nei confronti delle donne è dovuta, molto probabilmen te, alle sfortune coniugali di Claudio, vale a dire il matrimonio prima con Valeria Messalina e poi con Agrippina madre di un “mostro” come Nerone, la cui immagine si è riflessa negativamente all’ indietro sulla moglie di Claudio nonché su Claudio stesso. Per sfatare questi pregiudizi è sufficiente ripercorrere gli esordi di Claudio per rendersi immediatamente conto che politicamente fu tutt’altro che uno sprovveduto, né fu mai ostaggio dei voleri di don ne o liberti. Poco dopo l’assassinio di Caligola a teatro, il 14 gennaio del 4 1, Claudio, mentre se ne stava nascosto in un recesso del palaz zo imperiale in preda al panico, fu sorpreso da una guardia pretoriana e, condotto immediatamente presso la caserma dei pretoriani, venne proclamato imperatore. Il senato, di fronte all’avvenuta proclamazio ne, cercò sulle prime di opporre resistenza, aprendo una trattativa con Claudio. Di fatto però l’assenza di una precisa prospettiva politica sia dei congiurati sia dei senatori, divisi tra un impossibile salto all’ indie tro di restaurazione repubblicana - giustamente c’è chi, come Momi gliano (19 3 2 a , p. 4 4 ) , ha parlato di «repubblica da operetta» - e su chi dovesse essere il candidato all’ impero, ma soprattutto la fermezza dimostrata da Claudio e la pressione esercitata dai pretoriani, che non esitarono a circondare il senato per far valere la loro volontà, spensero sul nascere qualsiasi velleità senatoria. L ’ immagine consegnataci da Svetonio di un Claudio timoroso e in preda al panico di fronte alla proclamazione dei pretoriani non corri sponde affatto alla realtà: Claudio capì immediatamente che era arri vato il suo momento e non si sottrasse affatto alle sue responsabilità, ma agì in modo deciso nella “trattativa” con il senato, sapendo di poter contare sul decisivo appoggio dei pretoriani. C ’è anzi chi ha ipotizza to (Jung, 19 7 2 ) che Claudio fosse al corrente della congiura contro il nipote e che dunque si fosse sottratto per tempo al massacro (era pur
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»H u p te In zio di Caligola) in ciò istruito da Callisto, liberto tra i prei l l l n t l d i ( Claudio che nel corso del suo principato rivestì l’importante l l l l i i In d i ab epistulis. Tuttavia, non appare dimostrabile alcuna corn ili li Ini d i Claudio nell’uccisione di Caligola, né la sua reputazione né
ili liu arichi sino ad allora rivestiti nonché la sua età (cinquant’anni), liiViiiin intrawedere un futuro da imperatore. Appare più prudente i III niingerisce (Levick, 1990, p. 38) che la posizione di Claudio rispetto al la i nngiura del 41 sia destinata a rimanere indeterminata: forse, chi gli nil favorevole può aver interpretato o anticipato i suoi desideri. Ciò i he unii deve sfuggire è che il ruolo decisivo nell’elezione dello “scoIII mi imo" Claudio fu quello dei pretoriani. Oltreché ai propri interessi i in pur,itivi, i pretoriani con la loro scelta mirarono a un obiettivo preI lm; assicurare la continuità dinastica all’ impero. ( nononostante, una parte del senato non si arrese del tutto: nel 4z il legato di Dalmazia L. Arrunzio Camillo Scriboniano aveva tentato illi i u l p o di mano, spalleggiato da alcuni senatori, subito rientrato per l 'o p p o s iz io n e delle truppe stesse, che spinse il legato a togliersi la vita e i he non mancò di provocare strascichi anche a Roma: caddero illu ni I senatori come Annio Viniciano (tra i protagonisti della congiura i u n i t o Cialigola), Gaio Appio Silano, Cecina Peto (console del 37), Q. P o m p o n i o Secondo (console del 41). Quando Claudio salì al potere nel gennaio del 41 era in corso una nprdlzionc in Mauretania che si concluse felicemente per le armi ro mane proprio nei primi mesi di quell’anno. Claudio accettò le insegne ll lonlali per questo successo che, in realtà, è da ascrivere al suo predei essore. Il ,|t, però, fu un anno chiave, in quanto Claudio conquistò trionIillinente la Britannia. Questa regione, dopo il duplice sbarco di Cesare Ilei st e nel 54 a.C., non aveva più interessato la politica romana: con A u g u s t o e Tiberio aveva prevalso la prudenza, avendo di mira innanzil i u t o la salvaguardia dei confini acquisiti, in virtù anche del fatto che lu I r o n t iera germanica destava non poche preoccupazioni, soprattutto d o p o il disastro di Varo a Teutoborgo (risalente al 9 d.C.). Con Clau d io , Invece, la questione britannica ritornava al centro degli interessi romani: a questo punto il confronto con Cesare - soprattutto con il ( anal e /lux e imperator degli eserciti - s’imponeva. Per Claudio la spe d iz io n e in Britannia si presentava in primo luogo come l’occasione per guadagnare il prestigio militare che ancoragli mancava, tenendo conto tfh f p r o p r i o ai pretoriani doveva la sua elezione.
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L’ intervento fu occasionato dall’instabile situazione sull’ isola, ove al defunto Cunobellino re dei Catuvellauni, la tribù più potente della Britannia, erano subentrati i due figli Carataco e Togodumno, entram bi antiromani. Quando la pressione dei Catuvellauni da parte di Caracaco sugli Atrebati filoromani si fece troppo pesante, il re Verica cercò riparo presso Claudio, che accolse immediatamente la richiesta d’aiu to. La spedizione era stata accuratamente preparata (il precedente di Caligola non era passato invano): furono impegnate ben quattro legio ni al comando di Aulo Plauzio, affiancato dal futuro imperatore Flavio Vespasiano, dal fratello Flavio Sabino e da Osidio Geta. Nonostante qualche difficoltà iniziale - pare che dovette intervenire il liberto Nar cisso per convincere le truppe riluttanti a passare la Manica - una volta sbarcato sull’ isola Plauzio ottenne con relativa facilità alcune decisive vittorie: messa al sicuro la situazione, Claudio raggiunse la Britannia con un vasto seguito che comprendeva tutta l’aristocrazia più in vista (D. Valerio Asiatico, M. Licinio Crasso Frugi e suo figlio Cn. Pompeo Magno, L. Giunio Silano, M. Vinicio) nonché un contingente di pre toriani al comando del prefetto Rufrio Pollione; a Roma fu lasciato Lucio Vitellio. L ’ingresso di Claudio a Camulodunum (Colchester) segnò il trionfo: l’imperatore rimase sull’ isola per sedici giorni. Di fat to le operazioni continuarono con la sistematica sottomissione della regioni sud-occidentali accompagnate da missioni esplorative a nord, che raggiunsero probabilmente anche l’arcipelago delle Orcadi. Con la conquista della Britannia Claudio dunque guadagnava una volta per tutte quel prestigio militare che ancora gli mancava e che, soprattut to, gli permetteva di ricompensare adeguatamente quanti lo avevano voluto all’impero. Dal punto di vista geopolitico, inoltre, la conquista segnava un deciso orientamento occidentale della politica estera del neoimperatore, mentre da quello ideologico la vittoria in Britannia fu celebrata come la conquista di un “secondo mondo” {alter orbis)-. Clau dio non esitò infatti a proclamare l ’aggiunta all’ impero di un nuovo continente “al di là dell’oceano”. L ’eredità ideologica cesariana non poteva essere più acciarata: fu Cesare il primo a presentare il suo sbar co sull’ isola come la scoperta di un alter orbis e la propaganda di età augustea riprese il motivo cesariano; ma Claudio fece di più: durante la cerimonia del trionfo salì la scalinata del Campidoglio in ginocchio, esattamente come aveva fatto Cesare nel suo trionfo del 46 a.C. Bar bara Levick (1978) ha messo giustamente in luce come questi aspetti della propaganda cesariana non siano stati recepiti in maniera episodi-
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f« ilii I Claudio ma come l’eredità cesariana, intesa in chiave popularis, tld lit lolite ispiratrice dal punto di vista ideologico del principato di (Um ililo. Come Cesare, Claudio diede senz’altro un grande impulso Hi liivorl pubblici: a Ostia procedette a un notevole ampliamento del p o llo c ili un grande deposito granario onde assicurare e organizzare lltëtyllo le distribuzioni granarie; a Roma diede vita alla Porticus M iMHi lil Prumentaria dove veniva convogliato il grano per lefrum enta(itiur.u Intraprese una vasta bonifica del lago Fucino e costruì i nuovi Acquedotti delVAqua Claudia e àtWAnio Novus; fu inoltre generoso Ilei mioi congiari (le donazioni in cereali che l’imperatore faceva alla pltbs urbana), nonché nell’offrire giochi e rappresentazioni; nel 49 in line, In quanto conquistatore della Britannia, estese il pomerium della d ith sino a includere l’Aventino (il colle plebeo per eccellenza). Forse nuli è un caso che nc\YOctavia, la tragedia pseudo-senecana composta Ilei periodo post-neroniano, Claudio e la sua infelice figlia sembrino l'ili'i'oglicre ancora, più di Nerone, il consenso della plebs urbana. CClaudio fu molto sollecito nel concedere la cittadinanza, motivo centrale nel programma popularis, a quanti riteneva ormai maturi per iivei'la: emblematico è il caso della concessione agli abitanti delle regio ni alpine, Anauni, Sinduni e Tulliassi (il s io 6, la cosiddetta Tabula ill ( lies) nel 46, i quali per anni avevano usurpato i privilegi che deri vavano dalla cittadinanza, tra cui soprattutto quello di essere reclutati Ilei pretoriani o di far parte delle corti di giustizia a Roma. Claudio, concedendo loro ufficialmente la cittadinanza, non esitò a criticare il tllNliucrcsse di Tiberio e la trascuratezza di Caligola per il problema sollevato dalle popolazioni tridentine. I benefici legati alla cittadinany.tl furono peraltro concessi da Claudio anche a quanti avevano portato il termine onorevolmente il loro servizio nelle truppe ausiliarie. Questa generosità di Claudio non deve però essere scambiata né Con un’eccessiva benevolenza né con il desiderio di concedere indi scriminatamente la cittadinanza a chiunque. Al contrario, se dobbia mo prestar fede a quanto riferisce Svetonio in un passo della Vita di Claudio (2.5,3) - che sembra trovar conferma in uno analogo di Cassio Dione (60,17,5) ~ l’imperatore decise che fossero giustiziati sull’Esquillno quanti avevano usurpato la cittadinanza romana; quando invece Seneca (Apocol. 3) accusa Claudio di volere Greci, Ispanici e Britanni tutti in vesti romane o Cassio Dione (60,17,6) imputa all’imperatore la responsabilità di svendere la cittadinanza romana, è più probabile che dietro queste parole si celino i malumori dei senatori che mal tollerava
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no l’ ingresso in senato dei provinciali. Claudio in realtà era disposto a concedere la cittadinanza agli elementi già romanizzati da lungo tempo secondo il principio, tipicamente romano, del rinnovamento nel solco della tradizione, e non lo faceva affatto in maniera indiscriminata. Proprio su questo delicato tema verte il documento più noto e senz’altro uno dei più significativi dell’epigrafia romana: l’orazione pronunciata nel 4 8 da Claudio in senato (ils 2 1 1 , la cosiddetta Tabula Claudiana o Lugdunensis, venuta alla luce a Lione nel 1 5 2 8 ) , conserva ta in larga parte, e di cui fornisce un ampio estratto anche Tacito {Ann. 1 1 , 2 3 - 2 4 ) . Il discorso riguarda lo scottante problema relativo all’ammis sione alla carriera senatoria dei maggiorenti della Gallia Transalpina (la cosiddetta Comata) per cui si ebbe un duro confronto nella Curia. Di fronte all’opposizione dei senatori, che manifestavano tutta la loro riluttanza all’ammissione dei notabili transalpini, ritenendo che l’ Ita lia fosse un bacino ancora in grado di fornire un numero adeguato di senatori all’altezza dei compiti loro affidati, Claudio invocò le ragioni della storia di Roma e della dialettica che l ’aveva sino ad allora guida ta. Il principe nel suo discorso, richiamando tutta una lunga serie di precedenti che rimontavano sino alle origini della città e in particolare a Servio Tullio (il re “democratico” per eccellenza) intese dimostrare che caratteristica peculiare della storia di Roma era stata l’accoglienza di genti esterne e che il contributo del novum, se innestato sulla tra dizione stessa di Roma, aveva portato la città ad acquisire l’egemonia mondiale. L ’ individuazione di questa dialettica alla base della storia dell’ Urbe rivela tutto il suo talento di storico e di studioso (a proposito di Servio Tullio, Claudio cita fonti etrusche) maturato nei lunghi anni in cui fu emarginato dalla vita politica, ma anche l ’accusa di pedante ria che gli veniva rivolta dai contemporanei: Claudio, in effetti, amava elencare tutti i precedenti storici con i quali sosteneva le sue argomen tazioni, sfidando la pazienza dei suoi ascoltatori. Alla fine soltanto agli Edui, popolazione che da antica data era fortemente legata a Roma — Tacito {Ann. 1 1 , 2 5 , 1 ) ricorda che erano gli unici tra i Galli ad avere il vincolo fraternitas con i Romani —, fu concesso di essere i primi a essere ammessi in senato. Connessa al problema della cittadinanza, seppure in forme diverse, era anche la questione relativa ai Giudei di Alessandria. Alla morte di Caligola, i contrasti tra Greci e Giudei ad Alessandria - ma anche in al tre importanti città della diaspora - non si erano affatto placati. Nella seconda metà del 4 1 Claudio accolse due ambascerie a Roma: una dei
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i'li l'ultra dei Giudei alessandrini. Al centro della contesa, oltre alle ffSpoiiNabilità per i disordini, cerano le presunte violazioni del diritto (Il illladinanza compiute dalla comunità giudaica. I Giudei alessantll'lllli Infatti, erano sì cittadini di Alessandria, ma solo nel senso che VUMlIt iilvano un politeuma autonomo che agiva nel rispetto della legge Hllldulcu; in effetti, non godevano della cittadinanza come i Greci. A «Vallilo ili ciò l’imperatore emise un editto - di cui fortunatamente possediamo una copia papiracea venuta alla luce nei primi decenni del I t o m r o secolo, presente nella raccolta dei papiri londinesi del British Muscum - noto come Lettera agli Alessandrini, datata io novembre tld 4 11 iI documento peraltro ci è trasmesso anche dallo storico giudai co l'Invio Giuseppe nelle.Antichità Giudaiche (19,178-292). La lettera si può suddividere in tre parti: nella prima Claudio ringrazia degli onori die gli sono stati offerti dalla città di Alessandria e dichiara quali tra essi accetta e quali intende rifiutare; nella seconda conferma i diritti degli Alessandrini e in parte accorda e in parte respinge alcune innova zioni negli ordinamenti civici e nelle magistrature; nella terza, quella die qui più interessa e di cui parla anche Flavio Giuseppe, si occupa delle relazioni tra gli Alessandrini e i Giudei di Alessandria. Di fatto Claudio, rivolgendosi a entrambi i contendenti, mise al primo posto la questione dell’ordine pubblico, minacciando un intervento armato Ilei caso le sue parole fossero cadute nel vuoto; ribadì con chiarezza che I diritti dei Giudei (che vantavano una serie di privilegi loro concessi il partire da Cesare) andavano rispettati e, parlando ai Giudei, intimò loro di non “insinuarsi” nei luoghi frequentati dai Greci - e comun que di non fomentare disordini con i Greci - né di inviare a Roma ambascerie separate (Claudio qui si riferisce molto probabilmente al latto che da parte dei Giudei erano giunte due ambascerie distinte: lina antigreca, l’altra più moderata). Il documento rivela, oltre che la fermezza di Claudio nel suo primo anno di regno (tu tt’altro che uno stupido inadatto a governare l’impero!), il tipico stile dell’imperato re che amava fare riferimento nei suoi provvedimenti ai precedenti ai quali ispirava le sue decisioni, senza rifuggire da notazioni di carattere personale: qui, ad esempio, colpisce il richiamo dell’imperatore alla sua humanitas (çiXavGpama), che raccomanda però ai contendenti di non mettere così duramente alla prova, pena provvedimenti molto se veri. La sostanza politica del documento è però molto chiara: Claudio ribadiva a chiare lettere la liceità del giudaismo, ma non era disposto il concedere che una comunità come quella giudaica, particolarmente
“dinamica” e poco sensibile alle esigenze altrui, ingrossasse le sue file nelle grandi città dell’ impero provocando o suscitando conflitti con gli indigeni. Il timore di Claudio per scontri e disordini pubblici che appare, in sieme alla libertà di culto agli Ebrei, al centro dell’editto, corrisponde effettivamente alla politica religiosa di Claudio sin dal suo primo anno di principato: l’ imperatore era sinceramente preoccupato che le prati che religiose tollerate da Roma non turbassero l’ordine pubblico. Lo stesso atteggiamento lo ritroviamo infatti nel provvedimento di espul sione degli Ebrei da Roma del 49, che era perfettamente in linea peral tro con quanto alcuni dei suoi predecessori avevano fatto: esattamente trent’anni prima, nel 19, Tiberio aveva allontanato da Roma i Giudei (insieme ai seguaci di Iside), responsabili di gravi tumulti. Il presunto coinvolgimento dei Cristiani nell’espulsione ai danni degli Ebrei del 49 decretata da Claudio, sulla base di un discusso passo di Svetonio (Cl. 25, 4) che parla di un certo Cresto come l’ istigatore dei tumulti, è quasi certamente da escludere. In ogni caso, la politica di Claudio verso i Giudei di Palestina fu molto realista: nel 41 Agrippa I fu nominato re di Giudea, riunendo così sotto il suo scettro l’ex regno di Erode il Grande che, dopo la sua morte nel 6, si era andato frammentando in diversi territori in mano ai suoi discendenti; tre anni dopo però, nel 44, alla morte di Agrippa, Claudio non volle concedere al figlio del sovrano defunto, Agrippa II, lo stesso onore, ritenendolo ancora troppo giovane (aveva solo sedici anni) e dunque facile preda della pericolosa concorrenza dei dinasti locali - ma anche esterni - che aspiravano alla corona di Giudea. Ad Agrippa II furono dunque concessi i soli possessi del principato di Calcide nel 48 e altre terre al di là del Giordano nel 53; la Giudea tornò a essere provincia procuratoria, governata da un prefetto che prendeva gli ordini dal governatore di Siria. Uno degli aspetti più discussi, anche perché strumentalizzato dalla storiografia senatoria in senso sfavorevole a Claudio, è la sua sottomis sione a schiavi, liberti e donne: per Cassio Dione (60,2,4) «Le cause della corruzione di Claudio erano i liberti e le donne che frequentava: tra i suoi pari era infatti il più palesemente succube degli schiavi e delle donne»; analogamente, per Svetonio (Cl. 25, 5) «in genere tutta la sua [scil.: di Claudio] attività di governo esprimeva più la volontà delle sue mogli e dei suoi liberti che la sua propria, ed egli non ebbe altra regola che il loro interesse e il loro capriccio».
Per quanto riguarda i liberti bisogna innanzitutto ricordare che le personalità, talvolta ingombranti, dei vari liberti e il crescente pote re, Koprattutto in termini di influenza politica a corte, dei più in vista ll'ti di loro a scapito dei senatori, possono aver condizionato in modo decisivo il giudizio su di loro, enfatizzando a dismisura il loro ruolo nel Usto presso Claudio e connotandolo più in generale negativamente, ili quanto frutto di posizioni di potere, agli occhi dei senatori, ingiu sti lìcatc. Claudio affidò i cosiddetti grandi uffici imperiali a Callisto a Ilbellìs (addetto alle petizioni rivolte al principe), a Pallante l’a ratio nibus (addetto alle finanze), a Narcisso Y ab epistulis (addetto alla cor rispondenza imperiale) e a Polibio Y a studiis (addetto alle diverse ri chieste rivolte al principe, non sempre definite). Di fatto però Claudio, II) questo modo, non fece altro che seguire e ampliare una tradizione Invalsa nelle grandi famiglie aristocratiche senatorie, ove ai liberti ve nivano affidati mansioni di tipo amministrativo. A proposito di questi "grandi uffici” in passato (Momigliano, 1931a, pp. 10-73) si è insistito molto sulla creazione da parte di Claudio di una burocrazia centraliz zata; attualmente però dopo gli studi di Millar (1967; 1977,passim) si è rinunciato a teorizzare questa grande burocratizzazione dell’impero da parte di Claudio (Levick, 1990, pp. 81-1), valorizzando il ruolo del principe e dei suoi più diretti collaboratori nei diversi settori dell’am ministrazione. Uno dei terreni su cui si è esercitata maggiormente questo tipo di critica è stata la giustizia. Le fonti insistono infatti sull’assidua presen za di Claudio nei giudizi: non si sarebbe assentato nemmeno in occa sione del fidanzamento della figlia Claudia nel 44 o della celebrazione delle feste connesse con il trionfo britannico dello stesso anno. Questo iperattivismo giudiziario di Claudio può però essere letto anche alla luce della forte instabilità politica che caratterizzò il suo principato: se si sommano i processi “politici” fino al 47, il più famoso dei quali fu quello celebrato nel 47 intra cubiculum (cioè nelle stanze imperiali) contro il senatore Valerio Asiatico, ai casi di Messalina e quindi alfascesa di Agrippina con i loro strascichi giudiziari si arriva all’impor tante cifra, secondo Seneca (Apocol. 14, 1), di 256 condanne a morte: 3S senatori e 221 cavalieri (secondo Svetonio 35 senatori e più di 300 cavalieri). Se dobbiamo prendere seriamente in considerazione queste cifre è evidente che Claudio dovette provvedere a un vero e proprio l'innovamento del ceto senatorio ed equestre per via giudiziaria: ciò però è diffìcilmente dimostrabile; semmai, vale la pena ricordare che
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fu proprio Claudio a richiamare dall’esilio Seneca, Agrippina e altri illustri personaggi allontanati da Caligola. Al di là di queste considerazioni, bisogna tuttavia osservare che, alla base delle riforme di Claudio, si può leggere un disegno più am pio, volto a promuovere e ad ampliare il sistema procuratorio di am bito equestre. Strumento per una vasta opera riformatrice fu senz’al tro anche la censura che Claudio rivestì nel 47 insieme a L. Vitellio, sessantotto anni dopo che era stata assunta per l’ultima volta da Au gusto. In effetti, Claudio moltiplicò il numero dei funzionari equestri avocando a sé la scelta: è il caso, ad esempio, della sostituzione dei due pretori destinati all 'aerarium (sorteggiati annualmente dal 13 a.C.) con questori nominati direttamente dal principe. Per rimanere in am bito equestre fu Claudio a riformare la gerarchia militare equestre, le cosiddette tres m ilitiae (prefettura di coorte, tribunato militare, pre fettura d’ala di cavalleria), creando le premesse per più rapidi avanza menti di carriera. Per quanto riguarda le donne, Claudio ebbe una vita sentimentale piuttosto turbolenta. Si sposò ben quattro volte: la prima con Plauzia Urgulanilla, dalla quale ebbe due figli (Druso e Claudia, morti prema turamente); la seconda con Elia Petina, dalla quale ebbe Antonia; la terza con Valeria Messalina, dalla quale ebbe Britannico e Ottavia; la quarta e ultima con Agrippina, di cui adottò il figlio Lucio Domizio Enobarbo (il futuro imperatore Nerone). Dal punto di vista politico, decisivi furono i matrimoni con Messa lina e Agrippina. Claudio aveva sposato Messalina durante il regno di Caligola e i due figli Ottavia e Britannico nacquero rispettivamente nel 40 e nel 41. La “ biografia politica” di Messalina si caratterizza per l’u so spregiudicato dei processi e l’alleanza stretta con alcuni dei potenti liberti di Claudio (soprattutto Y ab epistulis Narcisso), nonché con al cuni personaggi dell’entourage di Claudio (tra cui, soprattutto, Lucio Vitellio). Al centro dell’azione di Messalina ci sono poi almeno due grandi questioni: la successione e la costruzione di uno spazio politico autonomo. Circa il primo aspetto non va dimenticato che Messalina era pronipote di Ottavia, sorella di Augusto, e dunque poteva vantare la sua discendenza dalla gens Iulia. Sebbene Claudio non le concedes se il titolo di Augusta, sin dal 44, in occasione del trionfo britannico, Messalina ottenne il carpentum e un posto d’onore a teatro accanto a quello dell’ imperatore. La tradizione indulge sulle sfrenate passioni di Messalina: tuttavia, più che il soddisfacimento delle sue passioni, ella
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probabilmente utilizzava la sua mancanza di inibizione come mezzo per procacciarsi consensi ovvero come un mezzo di ricatto. Vediamo Messalina all’opera già nel 42, anno in cui cade il processo di Giulia I ,ì villa, richiamata (insieme alla sorella Agrippina), per volere di Clau dio, dall’esilio a cui l’aveva condannata Caligola, mentre l’anno dopo è il turno di Appio Giunio Silano: entrambi potevano rappresentare un pericolo per il suo potere, nonché essere dei potenziali concorrenti per la successione. Da notare che i processi furono celebrati intra cubi culum non solo alla presenza di Claudio, ma anche di Messalina e dei liberti, tra i quali soprattutto Narcisso che, in questo momento, appa riva il più solido alleato di Messalina. Al 43 spetta un passaggio chiave nella parabola di Messalina: l’eliminazione del prefetto del pretorio Clatonio Giusto e, poco dopo, la sostituzione, in seguito alla sua mor ie, dell’altro prefetto Rufrio Pollione, rispettivamente con Lusio Geta e Rufrio Crispino, ambedue uomini fedeli a Messalina. Con questa mossa - complice forse Lucio Vitellio - Messalina aveva così raggiun to un duplice obiettivo: aveva messo in condizione di non nuocerle I pretoriani, che erano stati determinanti per l’elezione di Claudio e rappresentavano pertanto una porzione importante del suo potere, e si era guadagnata uno spazio politico autonomo. Lliminati dunque attraverso i processi e con l’appoggio dei liberti alcuni personaggi eminenti che potevano rappresentare un pericolo per il suo potere e un ostacolo per la successione dei suoi figli, e neu tralizzati anche i pretoriani, dal 47 la sua ascesa raggiunse il culmine e, contemporaneamente, segnò la sua precipitosa rovina. Dopo il proces so a Valerio Asiatico, che vide nuovamente la collaborazione tra Mes salina e Narcisso - Asiatico dichiarò significativamente di essere stato vittima di una fraus muliebris - , Messalina sferrò l’ “attacco finale” a Claudio attraverso le nozze con Gaio Silio. Di fatto questo matrimo nio si configurava come un atto politico senza ritorno: Narcisso e le coorti pretorie, davanti alle quali il liberto condusse Silio, ritirarono Immediatamente il loro appoggio a Messalina e ne decretarono la fine. Alla morte di Silio e di Messalina seguirono i suicidi di alcuni cava lieri (’Lizio Proculo, Vettio Valente, Pompeo Urbico, Saufeio Trogo), del prefetto dei vigili Decrio Calpurniano, del procurator ludi Sulpicio Rtllò, nonché del senatore Iunco Vergiliano. Questi suicidi mostrano ulte la moglie di Claudio aveva saputo raccogliere un certo seguito an che fra i cavalieri e, sebbene in misura assai ridotta, per quanto ci è dato di giudicare, in senato.
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A ll’ indomani della morte di Messalina si aprì una vera e propria contesa nell’entourage di Claudio per dare all’ imperatore una nuo va moglie. Si formarono così tre schieramenti in cui, secondo Tacito {Ann. 12,1), «pari contesa ardeva tra le donne»: Callisto sosteneva Lollia Paolina, Narcisso Elia Petina (già seconda moglie di Claudio), e infine Pallante Agrippina. In realtà, l’appoggio decisivo alla causa di Agrippina venne dal potente Vitellio, allora censore, il quale incriminò Lucio Giunio Silano, già fidanzato a Ottavia e che vantava un legame dinastico con la famiglia Giulia, in quanto pronipote di Augusto, per far posto al matrimonio tra Ottavia e Nerone. L ’eliminazione di Silano rivela come ad alimentare lo scontro fosse stata la decisione di Agrippina di imporre sé stessa e la sua discendenza come garanti della continuità della dinastia giulio-claudia. Ella, infatti, era l’unica che poteva rivendicare l’appartenenza tanto al ramo Clau dio (grazie a suo padre Germanico) quanto a quello Giulio (grazie a sua madre Agrippina) sia per sé che per suo figlio; Agrippina, infine, recava come dote la sua popolarità, che non avrebbe certamente nuo ciuto al regno di Claudio dopo lo scandalo di Messalina. Anche Clau dio doveva aver visto nel matrimonio con Agrippina un’opportunità politica. Così nel 49, nuovamente grazie all’ intervento di Vitellio e con il consenso di Claudio, anche l ’ostacolo legale al matrimonio tra l’ imperatore e sua nipote fu superato in senato. Da questo momento in poi le fonti, e soprattutto Cassio Dione (60,32,1-2), affermano che Agrippina prese il sopravvento: ella riuscì a organizzare attorno a sé una rete di potere sufficientemente vasta che comprendeva liberti, se nato, popolo e soldati, soprattutto al fine di preparare l’adozione e, dunque, la successione di Nerone. In effetti, le parole di Cassio Dione trovano conferma nell’alleanza tra Agrippina e Pallante, già in atto nel 48, quando, come se visto, il liberto aveva sostenuto il matrimonio di Agrippina con Claudio: fu grazie agli intrighi di Pallante - accanto alle manovre di Agrippina stessa - che Nerone fu adottato da Claudio; Pallante inoltre, in quanto a rationibus di Claudio, controllava l’ im portante leva del potere finanziario che faceva capo alfiscus, la cui im portanza è rivelata da Tacito {Ann. 13,14,1) quando afferma che la sua rimozione nel 35 sottrasse ad Agrippina una rilevante porzione del suo potere. In senato Agrippina poteva contare su uomini come Vitellio e, dopo la sua morte, avvenuta poco prima della metà degli anni Cin quanta, su Barea Sorano e Tarquizio Prisco. È proprio grazie all’aiuto di Vitellio, praecipuus propugnator di Agrippina {Ann. 12,42,3), che ella
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IH'I »|9 riuscì a far allontanare da Roma due rivali (Lollia Paolina e Cal purnia), e fu in senato, su proposta di Memmio Pollione, che venne milli ito il fidanzamento tra Nerone e Ottavia. Infine, il senato votò gli ornamenta praetoria proprio a Pallante iubente Agrippina (Plin., NH Con il richiamo di Seneca nel 49, a cui venne affidata l ’edul'il/Jonc di Nerone, e la nomina di Sesto Afranio Burro a prefetto del pretorio nel 51, Agrippina stabilì un solidissimo asse politico. Ma, già l'unno precedente, il potere di Agrippina fu ulteriormente rafforzato (pullulo, prima donna a ottenerlo con il marito ancora vivo, ebbe il tilolo di Augusta. Il 50 fu peraltro un anno trionfale: il 15 febbraio Ne rone fu adottato da Claudio come figlio con la ratifica del senato e la iiipitalc degli Ubii in Germania divenne Colonia Claudia Ara Augusta Agrippinensium. Nel 51 infine, in occasione del trionfo su Carataco, Agrippina mostrò tutta la sua potentia sedendo accanto a Claudio e ricevendo il privilegio di utilizzare il carpentum. La priorità di Agrippina a questo punto era quella di porre il fi glio, attraverso il matrimonio con Ottavia, nelle condizioni di essere nominato successore a tutti gli effetti. In seguito a contrasti di poco o piccolissimo conto tra Nerone e Britannico, Agrippina ne approIhlò per dipingere a Claudio un quadro a tinte fosche, imputando la Colpa ai precettori di Britannico e chiedendo che venissero sostituiti, sostenendo che in tal modo l’adozione di Nerone veniva disprezzata e veniva cancellata la volontà del popolo e del senato: Claudio cedette e affidò Britannico alla sorveglianza di altri precettori scelti dalla ma trigna. Ancor più significativo è però il fatto che Agrippina approfittò dell1'occasione «con falsi motivi o con il pretesto di una promozione » (Tue,, Ann. 11,41,2) per allontanare coloro che, tra i centurioni e i trilumi, compiangevano la sorte di Britannico. Poco più tardi l’operazio ne I II completata con la rimozione dei due prefetti del pretorio Lusio Cicta e Rufrio Crispino, ancora legati al ricordo di Messalina e dunque ili suoi figli, e la loro sostituzione con Afranio Burro. L ’ intervento di A# rippina in un settore così delicato per gli equilibri di potere, specie sotto Claudio, riprendeva lo schema già messo in atto da Messalina, miche se in modo più sottile. Agrippina, infatti, non si limitò al con trollo del solo prefetto, ma si insinuò abilmente anche nei ranghi più bussi dell’ufficialità e della sottufficialità. Ciò, di fatto, le garantì un’as soluta ledeltà da parte dei pretoriani fino alla fine come rivela il fatto clic nel 59, di fronte alla richiesta di Nerone di far uccidere la madre tini pretoriani, Burro oppose il suo rifiuto in quanto i pretoriani «mai
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avrebbero osato commettere un atto crudele contro la discendenza di Germanico» {Ann. 14,7,4). Nel 53 furono finalmente celebrate le nozze tra Nerone e Ottavia; tuttavia, l’anno seguente, Claudio in un discorso al senato racco mandò entrambi i figli, li nominò sullo stesso piano nel testamento e volle dare la toga virile a Britannico. A questo punto Agrippina prima tolse di mezzo Domizia Lepida, madre di Messalina e nonna di Britannico, e infine Claudio, avvelenandolo. Lo stesso giorno, il i i ottobre del 34, i pretoriani giurarono fedeltà al nuovo imperatore Nerone.
N erone: un im pero che guarda a O riente Aurelio Vittore, che scrive nel IV secolo, attribuisce all’ imperatore Traiano (il see.) l’ individuazione dei primi cinque anni del principa to di Nerone, il quinquennium Neronis {Cues. 5,1), come i migliori del suo governo. Si tratta di una tradizione senz’altro senatoria, dal momento che gli anni 34-59 sono giudicati positivamente sulla base del fatto che i rapporti tra Nerone e il senato furono migliori rispetto agli anni successivi. E chiaro che siamo di fronte a una periodizzazione del regno neroniano che risente di un particolarissimo punto di vista; è però altrettanto vero che il 59 coincide con il matricidio, che rappresenta senz’altro una svolta. Se dovessimo però individuare una data in cui mutarono in peggio —e in modo irreversibile - i rapporti tra Nerone e il senato si potrebbe indicare in alternativa il 62, l’anno in cui Nerone mise a morte la sorella Ottavia e rinnegò definitivamente la tradizione giulio-claudia. Ma, al di là dei vari tentativi di periodizzazione e della loro fondatezza, i primi cinque anni di Nerone furono di fatto gli anni in cui sua madre Agrippina potè esercitare in modo pressoché indisturbato il suo potere, affiancando al diciassettenne Ne rone due personalità di sua fiducia: il filosofo Lucio Anneo Seneca e il prefetto del pretorio Sesto Afranio Burro. Seneca doveva ad Agrippina il richiamo dall’esilio nel 49 in Corsica, decretato da Caligola nel 41 con l’accusa di essere stato l ’amante di sua sorella Giulia Livilla; al suo rientro Seneca fu nominato pretore, nonché tutore di Nerone. Fu autore del discorso con cui Nerone esordì in senato nell’ottobre del 54: il neoimperatore prometteva, nel nome di Augusto, una disten sione nei rapporti con il senato e una maggior collaborazione onde
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dim emicare gli anni bui di Claudio; non si sarebbe arrogato il diritto (Il giudicare in ogni questione e non avrebbe racchiuso accusatori e fl CiilNUt i entro le mura del suo palazzo lasciando spadroneggiare pochi favoriti, tenendo dunque separate la domus imperiale e la res publica (Tue., Ann. 13,4,2). Al di là delle buone intenzioni, i pretoriani e il senato non avevano (Itlhbi che Nerone fosse stata una buona scelta: i primi avevano ricevu to non lauta ricompensa e continuavano a ritenere in cuor loro che il Uliovo principe avrebbe assicurarato la continuità dinastica; il senato, nonostante la giovane età di Nerone e la sua inesperienza, vedeva in Unno e in Seneca una garanzia a difesa dei suoi interessi e la possibili tà di induire sulle decisioni del principe. Nessuno, come in occasione dell'elezione di Claudio, si sognava di sovvertire l’ordinamento poli tico voluto da Augusto: in presenza di un erede certo, la dinastia del fondatore non poteva trovare veri ostacoli. Proprio in virtù di questo HNNloma Agrippina non perse tempo e nel 54 fece subito eliminare un potenziale concorrente per il figlio: l’ inoffensivo proconsole d’Asia Cillinio Silano; di lì a poco, nel 55, la stessa infelice sorte sarebbe tocCillu al ben più in vista e “pericoloso” Britannico, figlio di Claudio e Messalina: Seneca e Burro senz’altro approvarono o quantomeno non leccro nulla per opporsi. I )a parte sua Nerone, comunicando la nuova parola d’ordine ai pretoriani (optima mater) capì immediatamente la situazione e agì ili conseguenza: si adeguò alle aspettative senatorie e ai suggerimenti del suoi due autorevoli consiglieri. Certo è che, se nell’ immediato i provvedimenti a favore del senato furono soltanto quelli ricordati da Taci co (abolizione dell’obbligo per i questori designati di celebrare npcttacoli gladiatori; divieto di ricevere denaro o doni per difendere lillà causa), se ne deve concludere che il senato si accontentava di ben poca cosa. Ciò che più sconcertava era comunque l’assidua e ingombrante Presenza di Agrippina. Pare che avesse modo di ascoltare, non vista, CNed li te del senato che si tenevano sul Palatino (ma è molto probabil mente un’esagerazione di Tacito: non c’è dubbio però che Agrippina disponesse di suoi uomini fidati in senato); in un’occasione si sfiorò UH clamoroso incidente diplomatico: mentre gli ambasciatori armeni Nl'tivano per esser ricevuti da Nerone, Agrippina si mosse verso il palco dov era assiso l’imperatore per raggiungerlo; solo la prontezza di riflesHl eli Seneca, che suggerì a Nerone di farsi incontro alla madre per por
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gerle il suo saluto, evitò lo scandalo. Ma il protagonismo di Agrippina non poteva essere tollerato a lungo. La sua forza risiedeva nel fatto che - oltre a essere la madre dell’ imperatore - era riuscita a organizzare attorno a sé una rete di potere sufficientemente vasta che comprendeva liberti, senato, po polo e soldati, già a partire dagli anni del matrimonio con Claudio, soprattutto al fine di preparare l’adozione e dunque la successione di Nerone. Emblematica è a questo proposito l’alleanza tra Agrip pina e il liberto Pallante, già in atto nel 48, quando questi aveva caldeggiato il matrimonio di Agrippina con Claudio. Flavio G iu seppe ( a i 2.0,182) riconduce all’ indebita influenza di Pallante e di Agrippina il salvataggio del governatore di Giudea Felice, fratello di Pallante; questi inoltre, in quanto a rationibus di Claudio dete neva il controllo del fiscus. In senato Agrippina poteva contare su uomini come Lucio Vitellio, Barea Sorano e Tarquizio Prisco. Con l ’aiuto di Vitello, Agrippina nel 49 fece allontanare da Roma Lollia Paolina e Calpurnia, due potenziali rivali; inoltre con il richiamo di Seneca nel 49 e la nomina di Burro a prefetto del pretorio nel 51 si era costituito un solidissimo asse politico. Il potere di Agrippina in questi anni è rivelato infine indirettamente anche dal fatto che, secondo Svetonio ( Vesp. 4,1-2), l’alleanza con Narcisso era costata a Vespasiano una brusca interruzione della sua brillante carriera sotto Claudio: Narcisso infatti, durante le divisioni che erano sorte tra i liberti nel 47, quando si era trattato di dare una nuova moglie a Claudio, si era schierato contro Agrippina. Fu tuttavia l’assassinio di Britannico nel 54 e, in misura mino re, l’ innamoramento di Nerone per la liberta Atte, a provocare lo spostamento del conflitto all’ interno della domus tra Agrippina e suo figlio. In effetti, anche se l’asse tra Agrippina, Burro e Seneca rimaneva intatto, Agrippina, di fronte alle intemperanze del figlio aveva iniziato, in modo senz’altro strumentale, a mostrare le sue simpatie per Britannico, al fine di stringere il freno a Nerone. A seguito della morte di Britannico, la collera di Agrippina montò a tal punto che moltiplicò le sue già numerose iniziative: così, oltre che nei pretoriani, Agrippina cercò ora una sponda nell’aristocrazia senatoria per trovare un leader alla sua pars, soprattutto al fine di porre un argine al potere del figlio. La reazione di Nerone non si fece attendere: tolse immediatamente alla madre la scorta formata dalla guardia pretoriana nonché l’appartamento sul Palatino, dan-
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ilolc la residenza che era stata di Antonia, per evitare che le schiere ili clientes e amici (tra cui certamente alcuni senatori) entrassero u palazzo. D ’altro canto, nel 55 Burro e Pallante furono accusati di cospirare contro Nerone onde imporre Fausto Cornelio Siila, il marito di Antonia figlia di Claudio. La cosa si risolse nel nulla ma portò nuovamente allo scoperto il contrasto che ormai si stava con sumando tra Nerone e Agrippina: le già tese relazioni tra madre e figlio di lì in poi precipitarono. La sequenza degli episodi che por tarono al matricidio nel 59, sebbene non del tutto perspicua, mostra in sostanza la crescente volontà di Nerone di affrancarsi dalla tutela della madre e di assecondare le ambizioni della sua nuova amante: Nerone infatti si era innamorato di Poppea Sabina, moglie di Salvio Otone (il futuro imperatore del 69), che nel 58 fu inviato come governatore in Lusitania. La determinazione di Nerone nel compiere il matricidio è ri velata inoltre dalle modalità in cui fu uccisa Agrippina. Stando al drammatico racconto di Tacito fu compiuto un primo tentativo, molto ingegnoso, presso Bauli, andato però a vuoto: dopo essere stata ricevuta dal figlio in un sontuoso banchetto per simulare una riconciliazione, a notte fonda Agrippina fu imbarcata insieme a due suoi fedeli servitori, Crepereio Gallo e Acerronia, su una nave che, poco dopo essersi allontanata dalla riva, ebbe un improbabile incidente: la cabina dove erano alloggiate Agrippina e Acerronia fu fatta crollare ma, nonostante Gallo fosse morto subito, le due donne riuscirono fortunosamente a salvarsi grazie alla confusione che si era creata tra i marinai, tra chi cercava di affondare la nave e chi agiva in senso contrario, cosicché l ’urto che costrinse le due donne a gettarsi in acqua fu meno violento del previsto. Acerronia, che invocava aiuto gridando di essere la madre dell’ imperatore, fu uccisa, mentre Agrippina riuscì fortunosamente a mettersi in salvo e a raggiungere la sua villa. Qui però il giorno dopo fu sorpresa dal prefetto della flotta e dai suoi sicari: pare che Agrippina sfidasse il suo esecutore con coraggio invitandolo a colpire dopo aver scoperto il ventre. La decisione di Nerone di eliminare Agrippina fu senz’altro una svolta dal punto di vista politico, in quanto spezzò quel consenso “di nastico” che si era formato in modo compatto attorno alla sua figura. Il segno di una rottura dinastica, in particolare con la pars della domus che faceva riferimento ad Agrippina e che vedeva in Nerone il discen-
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dente oltreché di Augusto soprattutto del nonno Germanico, è ben condensato nella risposta data da Burro a Seneca, che aveva chiesto al prefetto se i pretoriani fossero disposti ad assassinare Agrippina: «i pretoriani, attaccati a tutta la casa dei Cesari e fedeli alla memoria di Germanico, mai avrebbero osato commettere un atto crudele contro la sua discendenza» (Tac., Ann. 14,7,4). Eliminata Agrippina, la distru zione della sua pars fu completata con il richiamo di quanti le si erano opposti ed erano stati pertanto da lei esiliati. Nonostante il rimorso, dopo il matricidio Nerone diede libero sfo go alle sue passioni artistiche: musica, poesia, recitazione, danza, corse con i carri. Nel 59 trasformò una cerimonia famigliare, gli luvenalia (per celebrare il primo taglio della sua barba), in una manifestazione pubblica con rappresentazioni teatrali e si esibì per la prima volta in pubblico suonando la cetra: per l’occasione fu creata una stabile cla que composta da giovani aristocratici (gli Augustiani)-, nel 60, infine, Nerone istituì delle feste che dovevano essere celebrate con cadenza quinquennale, i Neronia, caratterizzate da spettacoli teatrali, musicali e atletici di chiara derivazione greca. Tuttavia, dopo la prima esibizione pubblica del 59, Nerone non si presentò più sulle scene sino al 64 a Napoli (città di cultura greca). Vero è che questa vena artistica e tea trale in Nerone era molto accentuata (pare che la sua ultima celebre battuta prima di morire fosse stata Qualis artifex pereo! ( « Quale artista muore!»), ma è altrettanto vero che le sue smanie artistiche non sono una chiave sufficiente per comprendere la trama politica degli eventi successivi al 59. Se da una parte questa serie di atteggiamenti istrionici, uniti a una particolare sollecitudine per i bisogni della plebe, gli accat tivarono senz’altro i favori di quest’ultima sino alla fine, dall’altra Ne rone suscitò un diffuso malumore tra una parte importante dell’aristo crazia senatoria, disgustata dallo spettacolo che l’ imperatore dava di sé e che spesso imponeva anche ai senatori stessi obbligandoli a esibirsi sulla scena: «G li sforzi di Nerone di acquisire popolarità nella capitale furono dunque coronati da un pieno successo. L ’ importanza politica di tale consenso era indiscutibile, come avevano riconosciuto anche i suoi predecessori. L’errore di Nerone fu quello di attribuire maggior peso agli applausi in teatro che alla stima dell elite politica e militare dell’ impero» (Malitz, 1003, p. 57). Tre furono le aree interessate dalla politica estera neroniana: la Bri tannia, l’Armenia e la Giudea. In Britannia, dopo la conquista di Clau dio del 43, c ’era stato un periodo di consolidamento ma anche una
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prolungata resistenza all’avanzata romana. Il governatore romano, C. Svetonio Paolino - già artefice delle vittoriose campagne di Claudio in Mauretania e insieme a Domizio Corbulone il miglior generale di età neroniana - tra il 57 e il 58 riuscì ad avanzare notevolmente nelle regioni occidentali (l’odierno Galles) arrivando a distruggere la roc caforte dei Druidi ad Anglesey, che si pensava fosse uno dei rifugi dei ribelli. Tuttavia le operazioni a Occidente dovettero essere interrotte dalla notizia che a est gli Iceni del Norfolk, sotto il comando della re gina Boudicca, si erano sollevati in massa. Il re filoromano Prasutago (marito di Boudicca) alla sua morte, aveva nominato erede del regno, accanto alle due figlie, Nerone. L ’asprezza del trattamento inflitto dal procuratore romano alle principesse, e soprattutto la prospettiva di un dominio diretto da parte romana, nonché i prestiti fatti da eminenti Romani ai Britanni che ora venivano riscossi con la forza (tra i credito ri c’era anche Seneca, violentemente accusato da Dione di essere stato il responsabile della rivolta britannica - ma è chiaramente un’esagera zione non corrispondente al vero), avevano spinto la valorosa regina degli Iceni alla ribellione: Camulodunum (Colchester), Londinium (Londra), Verulamium (St. Albans) caddero nelle sue mani. La riscos sa romana non si fece attendere: nel 61 Svetonio Paolino, pur avendo affrontato la rivolta in modo efficace, fu richiamato a causa della sua eccessiva efferatezza e al suo posto fu inviato come governatore Petro nio Turpiliano, capace di governare con maggiore saggezza: ulteriori avanzate furono rinviate sino al tempo dei Flavi. In Oriente il regno di Armenia, tradizionale “ponte” tra Roma e i Parti, il cui controllo sanciva di volta in volta il predominio degli in teressi dell’una o dell’altra parte, era oggetto di contesa poiché, poco dopo la morte di Claudio nel 54, Tiridate, fratello del re dei Parti Vo logese, si era impadronito del trono d’Armenia. Nerone decise quindi di inviare Corbulone in Oriente anche se il conflitto per l’Armenia non si aprì prima del 58, dopo lunghi preparativi. In realtà il generale romano chiedeva per conto di Nerone non tanto la restituzione del trono d ’Armenia al candidato filoromano quanto il riconoscimento della supremazia romana sul regno. Tiridate preferì darsi alla fuga, cosicché Roma potè insediare sul trono d ’Armenia il suo candidato, Tigrane. Sennonché questi, appena insediatosi, per prima cosa si diede ad attaccare l’Adiabene, possesso partico: Vologese dal canto suo, che era ben disposto a evitare uno scontro armato con Roma, dapprima tentò personalmente di impegnare i Romani in Siria inviando Tiridate
contro Tigrane, ma poi nel 6z inviò i suoi messi a Roma per trattare la proposta di Corbulone per il trono d’Armenia. Frattanto L. Cesennio Peto, legato di Cappadocia e Galazia, mosse contro i Parti e rimediò una sonora sconfitta che lo costrinse a ritirarsi dall’Armenia. Ciono nostante Vologese non infierì e la trattativa non si interruppe: Roma doveva ora riconoscere Tiridate sul trono armeno, ma ottenne che l’ in vestitura avvenisse nell’ Urbe; a Randeia, dove si era raggiunto l’accor do, Tiridate depose il diadema davanti a un’effigie di Nerone, giurando di riprenderlo solo dalle mani dell’ imperatore a Roma. Nel 66 nel Foro ebbe luogo la cerimonia in cui Tiridate chiese a Nerone di assegnargli la sua sorte «come se questi fosse un’ incarnazione di M itra» (Cass. Dio 63,5,2.), e l’ imperatore cinse il diadema a Tiridate dichiarandolo re d’Armenia; Nerone assunse il nome di Imperator e fu annunciato che la capitale del regno partico avrebbe ricevuto il nome di Neronia. L ’ intera vicenda, dal punto di vista politico, non può essere definita - come fu presentata - un trionfo romano: fu un successo diplomatico in nome di un equilibrio che sia i Parti sia i Romani avevano interesse più a conservare che ad alterare, non senza grandi sforzi. A Nerone tuttavia questo successo fruttò un incredibile prestigio: in Oriente, e particolarmente tra i Parti, egli godette sino alla fine di un’ indiscussa popolarità; pare che Nerone ancora in ultimo pensasse di rifugiarsi tra i Parti onde sfuggire a chi lo voleva morto e, dopo la sua morte, si ricor da la comparsa di almeno tre pseudo-Nerone di cui ben due trovarono appoggi tra i Parti. Il 66 fu anche l’anno in cui precipitarono i disordini in Giudea che portarono alla prima grande rivolta giudaica, immortalata dalle pagi ne dello storico giudiaco Flavio Giuseppe - che prese personalmente parte alla guerra ma che nel 67 passò con i Romani - nella sua Guerra Giudaica (in sette libri, composta sotto Vespasiano). La situazione in Giudea divenne esplosiva allorché il procuratore Gessio Floro - che già si era distinto per vessazioni di ogni genere - nella primavera del 66 confiscò il tesoro del tempio di Gerusalemme e represse con la violenza le rimostranze giudaiche. Al di là del cruento episodio, la lotta antiro mana in Giudea trovava terreno fertile nel brigantaggio e nei movi menti radicali, tra cui si distinguevano gli Zeloti; tra i moderati invece spiccava quell’Agrippa II (che nel frattempo nel 61 aveva ricevuto parte della Galilea e della Perea) il quale, nel tentativo di allontanare la guer ra contro Roma che avrebbe portato alla catastrofe, aveva rivolto, in vano, un accorato discorso ai suoi compatrioti, che si può leggere nelle
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pagine di Flavio Giuseppe (Bl 1,345-401). Nell’autunno del 66, a segui to della sospensione dei tradizionali sacrifìci in nome dell’ imperatore, prese piede l’insurrezione generale. L ’ invio di Vespasiano fu determi nante per Roma: nonostante l’unico episodio che lo riguarda al tempo di Nerone sia negativo (si narra che durante un’esibizione di Nerone si fosse addormentato), ciò non gli impedì di ottenere il comando delle operazioni in Giudea: Vespasiano era infatti un generale che aveva già dato buona prova di sé durante la campagna in Britannia di Claudio nel 43. Per limitarci al primo biennio di guerra (66-68), grazie a Vespa siano - e al figlio Tito - fu presa la fortezza di Iotapata, ove fu fatto un gran numero di prigionieri, che in parte vennero inviati in Grecia nei lavori all’ istmo di Corinto, inaugurati per volere di Nerone nel 67; al comando della guarnigione giudaica c’era tra gli altri Ioseph ben Mat tia il quale si arrese ai Romani, dopo un drammatico suicidio di massa; Ioseph si consegnò a Vespasiano e divenne Flavio Giuseppe: godette della protezione degli imperatori Flavi e sotto di loro potè godere di larghi benefici e pubblicò le sue maggiori opere: i già ricordati Bellum Iudaicum e Antiquitates Iudaicae e alcuni scritti apologetici (l’Autobio grafia e il Contra Apionem). In rapida successione tra il 67 e il 68 i mag giori centri della Galilea (Tarichea, Jaffa, Tolemaide, Gamala) caddero nelle mani di Vespasiano. A Roma, pochi anni dopo il matricidio, l’atteggiamento di Nerone era cambiato: la morte di Burro e il ritiro di Seneca dalla vita pubblica nel 62 segnarono la fine del progetto politico ideato e attuato da Agrip pina. Al posto di Burro furono nominati due prefetti: Fenio Rufo (già prefetto dell’annona) e Ofonio Tigellino (esiliato da Caligola nel 39 e già prefetto dei vigili con Nerone); nel 62, infine, Nerone prima ordinò di uccidere Rubellio Plauto (legato da vincoli di parentela con Augu sto ed esiliato in Asia Minore nel 60), poi ripudiò Ottavia, che andò in esilio a Pan dataria, dove trovò la morte, e sposò Poppea: per Tacito (Ann. 15,61,2) Tigellino e Poppea erano gli «intimi consiglieri delle crudeltà del principe». L ’autore dell ’ Octavia pseudo-senecana ritiene invece che Nerone con il 62 diventi un usurpatore e un tiranno. La portata di queste affermazioni indica chiaramente una svolta: tutta via, non è facile individuare la serie di atti che dopo il 62 arricchirono questa galleria degli orrori. Tra i “misfatti” di Nerone effettuati nel 63 si registrano infatti soltanto la condanna di D. Giunio Silano Torquato e le nozze con il liberto Pitagora. Indubbiamente, ciò che più colpisce nelle fonti è la continua sottolineatura del contrasto che Nerone crea
va attraverso gli atteggiamenti con la tradizione romana, con la quale si identificava l’aristocrazia senatoria. Ad acuire questo contrasto non giovavano senz’altro gli atteggiamenti istrionici del principe né le sue velleità artistiche, che spesso imponeva in modo dispotico anche ai senatori, ma è anche vero che questi atteggiamenti furono enfatizzati da quella parte - l’aristocrazia senatoria stessa - che più si sentiva mi nacciata e aveva dunque tutto l’interesse a minimizzare o addirittura a tacere altre attività che non erano necessariamente negative. E fuori di dubbio, tuttavia, che la scomparsa di Burro e soprattutto l’allonta namento di Seneca, che era il trait d ’union fra l’ imperatore e il senato, in grado dunque di ammorbidire i conflitti sempre latenti con la corte, avevano fatto venir meno un importante canale di mediazione politica necessario ai delicati equilibri instaurati da Agrippina fra imperatore, pretoriani e popolo da una parte e senato dall’altra. Bisogna infine ricordare che proprio a partire dal 62 s’ interrompe la monetazione neroniana di aurei e denarii con la legenda exs(enatus) c(onsulto) e che nel 64 Nerone dà avvio alla cosiddetta riforma mone taria attraverso la svalutazione delle due monete abbassandone il con tenuto di metallo prezioso (oro nel primo caso e argento nel secondo): ciò implicava un significativo guadagno per le finanze della respublica ma anche per i “piccoli risparmiatori”, poiché il rapporto tra oro e ar gento era a vantaggio del secondo ed era naturalmente più diffusa la monetazione argentea di quella aurea. A peggiorare le cose nell’estate del 64 intervenne la più grave scia gura del principato neroniano: un grande incendio devastò larga parte della città. Non era raro che a Roma - e soprattutto nei quartieri più popolari, costruiti con materiali altamente infiammabili - periodica mente scoppiassero incendi; quello della notte del 18 luglio del 64 fu senz’altro, per entità e forza distruttrice, di portata eccezionale: ben dieci delle quattordici regioni augustee in cui era suddivisa Roma bru ciarono. Il fuoco ebbe origine nei quartieri presso il Circo Massimo, si prolungò per sei giorni e, anche dopo essere stato circoscritto, per altri tre. Tacito, che conserva il racconto più esteso e articolato dell’ incen dio {Ann. 15,38-41), mostra di conoscere almeno due versioni: una in nocentista, che scagiona Nerone da qualsiasi responsabilità nello scop pio dell’incendio e una colpevolista, secondo cui non lasciavano dubbi sulla colpevolezza dell’ imperatore la lontananza da Roma (Nerone si trovava ad Anzio) e la lentezza nel rientrare e nel portare soccorsi alla popolazione, le voci su un suo compiacimento nel cantare sulla cetra
la sua Presa di Troia dall’alto di una torre nei giardini di Mecenate, nonché il fatto che la ricostruzione ebbe come esito lo stravolgimento di alcuni quartieri per far spazio alla cosiddetta domus aurea - la ma gnifica residenza imperiale costruita ex novo da Nerone, che collegava i quartieri centrali dell’ Urbe (Palatino, Esquilino e Celio) in sostituzio ne della precedente domus transitoria. Tuttavia, sebbene sia vero che una parte dei quartieri investiti dall’incendio non fu più ricostruita per fare spazio alla domus aurea, è altresì vero che Nerone procedette alla ricostruzione dei quartieri devastati dalle fiamme con solerzia ed ema nando nuove norme di sicurezza in materia edilizia. L ’imperatore, in fine, non si disinteressò affatto della popolazione in difficoltà e prestò sollecitamente aiuto in più parti della città. L ’ incendio insomma non fu affatto doloso, ma casuale, e la sua intensità fu favorita tra l ’altro da condizioni climatiche sfavorevoli che ne accentuarono il raggio d’a zione. Comunque, sia di fronte alle proporzioni della sciagura e onde mettere a tacere le insistenti voci sulla colpevolezza di Nerone, si volle a tutti i costi cercare un capro espiatorio: fu individuato nei Cristiani che, per l’occasione, furono duramente perseguitati. E probabile che le attenzioni si fossero dirottate su questa “setta” poiché i Giudei, ai quali si era pensato in un primo momento, a corte godevano della benevo lenza di Poppea che, secondo Flavio Giuseppe, era una proselita {a i i o , i i : ösoaeßf]«;). L ’apparente calo di popolarità di Nerone provocato dall’ incendio può aver contribuito a far nascere un complotto aristocratico sventa to nella primavera del 65, noto come la congiura dei Pisoni, dal nome dal consolare C. Calpurnio Pisone - un personaggio tutto sommato incolore - che, oltre a essere il candidato a sostituire Nerone, aveva of ferto la sua villa sul golfo di Napoli come base operativa. Al complotto parteciparono il poeta Lucano, il prefetto del pretorio Fenio Rufo, L. Giunio Silano Torquato, il console Vestino e altri eminenti personaggi (senatori, cavalieri, militari); Seneca, che probabilmente era al corrente dei progetti dei congiurati, non partecipò al complotto: cionostante, nel 65 Nerone ne approfittò per incriminarlo e il filosofo si tolse la vita. Per quanto le fonti letterarie sembrino suggerire l’esistenza di un’op posizione a Nerone da parte dei letterati e dei filosofi - e in particola re degli stoici - è diffìcile sostenere che tale opposizione, salvo alcuni singoli casi, agisse in modo organizzato e univoco. La stessa congiura pisoniana fu un ricettacolo di oppositori dominati sì dal comune mal contento, ma spesso mossi più da ambizioni personali che da un pro
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getto pienamente condiviso; Trasea Peto, martire dell’ “opposizione stoica” si distinse per il suo disimpegno dalla vita pubblica, senz’altro una nobile forma di opposizione, ma poco spendibile sul piano del la proposta politica. Le coraggiose iniziative personali non trovarono dunque un terreno comune sotto il profilo politico e non riuscirono pertanto a modificare i rapporti di forza con il principe, proponendo una valida alternativa a Nerone. Nell’autunno del 66 Nerone realizzò il suo sogno: un lungo viag gio in Grecia - la durata prevista doveva essere due anni - , già pro grammato per il 64 ma rimandato a motivo dell’ incendio di Roma. Il filellenismo neroniano nasceva certamente dai suoi interessi artistici (musica, poesia, danza): per questo partecipò a tutte le quattro mag giori competizioni greche (Olimpia, Delfi, Istmo, Argo) e ovunque fu un trionfo. Ma il viaggio in Grecia ebbe anche risvolti politico-propa gandistici; Nerone visitò Azio per onorare l’Apollo venerato da Augu sto; intraprese gli scavi per il taglio dell’ Istmo di Corinto (progetto già cesariano) allo scopo di facilitare la navigazione commerciale - onde evitare la più lunga circumnavigazione del Peloponneso - e soprattut to a Corinto proclamò la libertà della Grecia. L ’Acaia avrebbe cessato di essere una provincia e non avrebbe pagato più il tributo (ma poco dopo Vespasiano restaurò il precedente regime, approfittando di alcu ni disordini); il senato, dai cui ranghi veniva scelto il governatore, fu compensato con l’assegnazione della Sardegna. La liberazione della Grecia, per quanto ciò non significasse certo indipendenza politica interna ed esterna, suscitò grande entusiasmo persino nei ceti intellettuali: Plutarco - che allora doveva essere molto giovane - ricorda con favore il gesto di Nerone e lo stesso fa ancora Pausania nel II secolo. Nerone però nel suo lungo tour si disinteressò della Grecia classica a tal punto che non fece neppure visita ad Atene e a Sparta, mentre il centro di maggior interesse per il principe fu Corin to: «è possibile che dietro l’evidente predilezione per Corinto vi fosse la concezione dell’esistenza di una Grecia romana, contrapposta alla Grecia classica, come parte costitutiva dell’ impero e non solo come una provincia tra le tante» (Malitz, 2003, p. 94). Nerone, nonostante i grandiosi progetti, dovette però interrom pere il viaggio in Grecia a causa delle cattive notizie che provenivano da Roma recategli dal liberto Elio (insieme all’altro liberto Policlito e al nuovo prefetto del pretorio Ninfidio Sabino era stato infatti lascia to da Nerone a reggere Roma in sua assenza): pare che una congiura
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da Viniciano, genero di Corbulone, nonché la rimozione
d i i 'orini Ione stesso come legato di Galazia e Cappadocia e dei due
legitil di Germania (i fratelli Scribonii P. Scribonio Rufo e P. Sulpicio Si i il ionio Proculo) e la loro uccisione avessero destabilizzato non poco lit di nazione. Proprio dagli eserciti occidentali incominciarono i moti i lir portarono alla fine di Nerone. Il governatore della Gallia Lugdu« iv/i/i Giulio Vindice, notabile dell’Aquitania e senatore romano, al t|iiiilr I uttavia non erano estranee nostalgie per l’antica libertà gallica e will linenti antiromani, si era ribellato; il governatore della Spagna Tarhii oncnsìs Servio Sulpico Galba, nonostante qualche titubanza inizia le, Ione poi del sostegno di Salvio Otone (governatore della Lusitania) e ill A. ( lecina Alieno (questore della Betica), aveva infine proclama lo la sua ostilità a Nerone, mentre giungeva la notizia che a Vesonzio ( llrsiini.oii) Vindice era stato sconfitto dal governatore della Germania Superiore Verginio Rufo e si era suicidato. Verginio però aveva saggiallieuie rifiutato l’acclamazione a imperator desiderata dalle sue truppe. Nonostante la notizia della morte di Vindice, Nerone non si sentiva ili)ili lo al sicuro: era il tradimento dell’esperto Galba a preoccuparlo Maggiormente. Con la complicità di Ninfidio Sabino che era riuscito a litri in e sotto accusa il collega Tigellino e ad assicurare così l’appoggio ilip p . 6 1 - 7 1 .
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Indice dei nomi
Ai l'ironia, 225 All IMi n io, 206 Ailri.mo, Publio Elio, 236, 244 Air.mio, Lucio, 81-2 A)1,ricola, Cìnco G iulio, 244, 249-50, .'52, 25Ó Agrippa 1, 208, 216 A)',l ippa il, 216, 228, 246 A)’,lippa, Marco Vipsanio, 105, 107, 122, 130, 132, 134-5, I 4 Z. 14 4 , 148, 150-4, 163-4, 166, 168, 170, 173-6 Agrippa, Postumo, 153, 163, 175-6, 179, 186, 191, 203 Agrippina Maggiore, 153, 176, 185-6, 189, 191-3, 197-203 Agrippina Minore, 205, 210, 217-26, 229-30, 240, 249 Alessandro Helios, 133, 168 Alessandro Magno, 88, 189, 207 Alieno, Aulo Cecina, 233, 238, 243, 245 Allieno, Aulo, 119 A m a/ io, Gaio, 87, 106 Antillo, 10 3,16 8 Antonia (figlia di Claudio), 218, 225 Antonia Minore, 175, 194, 199, 202, 209, 225
Antonio, Gaio, 10 7 ,119 Antonio, Iullo, 168-71 Antonio, Lucio, 117, 121-2 Antonio il Cretico, Marco, 36-7 Antonio, Marco, 36, 66, 70, 75-87, 92-3, 95-7, 10 1-18 , 120-5, 12.7-35, 14 2 , 159-60, 168-9, 171, 177. 180, 199, 206 Antonio Hybrida, Gaio, 46, 76 Antonio Primo, Marco, 239, 247 Apuleio, Marco, 119 Aquilio, Manio, 25 Archelao, 66 Ario, 149 Ariobarzane, 165 Ariovisto, 60, 66 Aristobulo II, 76 Arm inio, 157 Artabano i i , 196 Artabano in , 196 Asiatico, Decim o Valerio, 208, 212, 217, 219 Ateio, 122 Atte, 224 Attico, T ito Pomponio, 119, 124 Azia, 8 7,104-5
' L’indice comprende i personaggi protagonisti dei fatti storici; non vengono i personaggi quando sono stati citati esclusivamente come autori o figure di iipcre letterarie o destinatari di epistole. Non sono registrate le occorrenze dei nomi moderni citati, né quelle di C. Giulio Cesare e di Ottaviano-Augusto. legist rati
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Balbo, Lucio Cornelio, 56, 87,107, 144
Catone Uticense, Marco Porcio, 38,
Balbo, Marco Azio, 104
43, 48, 53, 55-6, 58, 64, 66-7, 69, 76, 83, 88-9, 94 Catonio Giusto, 219 Catullo Messalino, 250 Catulo, Quinto Lutazio, 32-3,35, 55
Basso, Publio Ventidio, 108, 114,116-7,
112,133 Basso, Quinto Cecilio, 119 Berenice I V (figlia di Tolomeo xii), 66 Berenice di Giudea, 146 Bibulo, Marco Calpurnio, 56, $8-9, 63, 81
Cecilia Merella Calva (madre di Lu cullo), 39 Cecilia Metella Dalmatica (moglie di Silia), 24, 32 Celso, Mario, 238 Copione, Fannio, 163,178 Cepione, Quinto Servilio, 42 Ceriale, Quinto Petilio, 239, 244 Cesare, Flavio, 249 Cesare, Gaio (nipote di Augusto), 150,
Bitinico, Pompeo, 12 6 Bocco 1 , 1 4 Boudicca, 12 7 Britannico, Tiberio Claudio Cesare,
218, 221-4,145 Brogitaro, 64 Bruto Albino, Decimo Giunio, 66, 81,
93, 95,102, 106, 10 8,110-4, 118
163,165,171-2,174-6, 187,191 Cesare, Lucio Giulio (cos. 90 a.C.), 24 Cesare, Lucio Giulio (nipote del cos. 90 a.C.), 78 Cesare, Lucio (nipote di Augusto),
Bruto, Lucio Giunio, 88 Bruto, Marco Giunio (padre), 33 Bruto, Marco Giunio (figlio, il cesaricida), 88-9, 93-7, 101, 103-4, 106-7,
109, 114, 118-21,127,169, 178
163, 165,175, 187
Burro, Sesto Afranio, 221-6, 229, 230
Cesarione, 133 Cherea, Cassio, 208 Cicerone, Marco Tullio, 37, 45-8, 54-6,
Caleno, Quinto Fufio, 122,179 Calgaco, 252 Caligola, 179, 185-6, 191-3, 196-8, 209-
62, 64-7, 74, 77, 81-3, 86, 88-9, 91, 96, 101-2,107,110-4,116,118,124-5 Cimbro, Lucio Tillio, 95,106 Cinna, Lucio Cornelio, 26-7, 31,53 Cinna Magno, Gneo Cornelio, 148,182 Civile, Giulio, 239 Classico, Giulio, 239 Claudia (moglie di Ottaviano), 117,127 Claudia (figlia di Claudio), 217-8 Claudia Pulcra, 192 Claudio, 185, 191, 199, 202, 206-8, 2227, 229, 240, 242, 244-5,155 Clemente, Flavio, 254-6 Clemente, Marco Arredilo, 203, 208, 250 Cleopatra v i i , 84, 120, 123, 133-5, 168,
14, 218-9, i n , 1 1 9 , 1 4 °, 1 4 1 Callisto, 208, 211, 217, n o Calpurnia (moglie di Cesare), 102 Calpurnia (aspirante moglie di Clau dio), 221, 224 Calpurniano, Decido, 219 Calvino, G neo Domizio, 117 Camillo, Marco Furio, 28 Carataco, 212, 221 Carbone, Gneo Papirio, 27 Carfuleno, Decimo, 113 Carrinate, Gaio, 124 Casca Longo, Publio Servilio, 111 Cassivellauno, 68 Castrino, 178 Catilina, Lucio Sergio, 43-9,52, 62, no
171 Cleopatra Selene, 133, 168 Clodio, Gaio, 119
298
Elia Petina, 218, 220 Elio, 232 Emilia, 32 Emilia Lepida, 206 Ennia Nevia, 201, 203 Enobarbo, Gneo Domizio (cos. 54 a.C.), 66-7,69,80-1, 83 Enobarbo, Gneo Domizio (cos. 32 a.C.),
Clodio Pulcro, Publio, 42,59,61-7,6970, 76, 85,104, no, 117 Corbulone, Gneo Domizio, 227-8, 233 Cornelia, 53 Cornelia Metella, 69 Cotisone, 160 Cotta, Gaio Aurelio, 35 Cotta, Lucio Aurelio, 36, 44 Cotta, Marco Aurelio, 40 Crasso, Marco Licinio, 27,34-6,38, 457. 5i'3> 55'9> 61, 65-8, 120, 132-3, 143, 169, 237 Crasso, Marco Licinio Frugi, 212 Crasso, Publio Licinio, 67-9 Cresto, 216 Crispo, Quinto Marcio, 119 Crispo, Vibio, 250 Critognato, 68 Cunobellino, 206, 212 Curione, Gaio Scribonio, 70, 72-3, 756, 78-81, 85
134
Enobarbo, Lucio Domizio (padre di Nerone), 205 Entello, 256 Epafrodito, 256 Eprio Marcello, Tito Clodio, 243 Erode il Grande, 216
Dario, 207 Decebalo, 251-2 Deiotaro, 38, 64, 88 Diviziaco, 66 Dolabella, Publio Cornelio, 86-7,106, 118-9,12-4 Domizia, 249 Domizia Lepida, 222 Domiziano, 239, 246-57 Drusilla (sorella di Caligola), 199, 202, 204-5 Druso, Marco Livio, 25 Druso, Scribonio Libone, 186 Druso Cesare (figlio di Germanico), 191-2, 200, 202 Druso Claudiano, Marco Livio, 129 Druso Claudio (figlio di Claudio), 218 Druso Maggiore, Claudio Nerone, 129,150,166-7,173-5 Druso Minore, Giulio Cesare, 175-6, 187,191,193-4,197,199-200
Fabato, Lucio Roscio, 78 Faonte (liberto di Nerone), 233 Farnace, 84 Fausta, 24 Favonio, Marco, 69 Felice, Marco Antonio, 224 Filippo, Lucio Marcio (padre), 33 Filippo, Lucio Marcio (figlio), 87,105 Filone, 124 Fimbria, Gaio Flavio, 22, 26-7, 42 Fiacco, Lucio Valerio (comandante mariano), 26 Fiacco, Lucio Valerio (interrex nell’82), 2-7
Flavia Domicilia, 254-6 Flavio Cesare, 249 Flavio Sabino, 212, 238-40, 247 Flavo, Lucio, 64-5 Flavo, Lucio Cesezio, 92 Flavo, Sulpicio, 209 Floro, Gessio, 228 Fonteio, Publio, 62 Fraate ni, 41 Fraate iv, 165 Fraate V, 165 Frontino, Giulio, 244 Fulvia, 62, 70, 85,117,121-2,168
299
Furnio, Gaio, 151 Fusco, Cornelio, 250-1
Gabinio, Aulo, 56, 64, 66, 76 Galba, 205-6, 233, 235-8, 243 Galba, Servio Sulpicio, 113 Gallio, Quinto, 178 Gallo, Annio, 209, 239 Gallo, Crepereio, 209 Gallo, Gaio Cornelio, 180, 181 Gallo, Rubrio, 209 Gemino, Gaio Servilio, 27 Germanico, 148, 175-7, 185-94, 196201, 205-6, 209, 220, 222, 226, 242 Gesù Cristo, 195, 234 Geta, Lusio, 212, 219, 221 Geta Osidio, 212 Giuba 1, 81, 83 Giugurta, 19, 23-5, 39 Giulia (moglie di Mario), 19, 53, 103-4 Giulia (madre di Antonio), 75, 127 Giulia (sorella di Cesare), 87 Giulia (figlia di Cesare), 58, 66, 68-9 Giulia (figlia di Druso Minore), 191 Giulia (nipote di Domiziano), 249 Giulia Maggiore, 12 9 ,1 5 1 , 153,16 0,16 23, 165-72, 173, 175-6, 178 Giulia Minore, 153,17 6,17 8 Giuliano, Lucio Tettio, 251 Giunia Claudilla, 202 Giunia Seconda, 103, 178 Giunia Terza, 103 Giusto di Tiberiade, 246 Glabrione, Manio Acilio, 254-6 Gracco, Caio Sempronio, 73 Gratiana, 4 4 Gratidiano, Marco Mario, 44 Grecinio Lacone, 193
Ilaro, 124 Ioseph ben Mattia, 229 Irtuleio, Lucio, 34
Irzio, Aulo, 66, 77, 87, 102, 107, 111-3, 115-6,125 Isaurico, Publio Servilio, 81, 84, 117
Labieno, Tito, 66-7, 83 Lacone Cornelio, 236 Lentulo Clodiano, Gneo Cornelio, 36 Lentulo Cture, Lucio Cornelio, 74, 79 Lentulo Getulico, Gneo Cornelio, 205-6, 240 Lentulo Sura, Publio Cornelio, 46, 75 Lepido, Lucio Emilio, 176
Lepido, Marco Emilio (padre del triumviro), 32-3,35 Lepido, Marco Emilio (il triumviro), 80-1, 84-6, 94-5, 101-2, 105-6, 114-6, 120,123, 125, 130-1, 145, 160, 178 Lepido, Marco Emilio (figlio del triumviro), 145, 177-9 Lepido, Marco Emilio (cognato di C a ligola), 202, 205, 240 Libone, Lucio Scribonio, 124-5, 12-7 Ligario, Quinto, 95 Livia Drusilla, 129, 146, 160-1, 166-8, 173-7,182,185,189,194-5,199» 2.02, 235 Livilla Claudia, 17 6 ,19 1-2 ,19 7 Livida Giulia, 199, 202, 205, 208, 219, 222 Livio, Tito, 209 Lollia Paolina, 220-1, 224 Longino, Gaio Cassio, 93-7, ioi, 103-4, 1 0 6 , 1 0 9 - 1 0 , 1 1 4,118-21, 127, 169 Longino, Lucio Cassio, 47 Longino, Quinto Cassio, 75, 77-8 Lucceio, Lucio, 57 Lucullo, Lucio Licinio, 25, 37-43, 52, 54, 61-2
Macrone, Nevio Sutorio, 193,197, 201-4 Manilio, Gaio, 37 Manlio, Gaio, 47 Marcello, Gaio Claudio, 72, 74, 79
300
Milli l'Ilo, Murco CMiiudio (cos. 51 a.C.),