Eutanasia di un potere. Storia politica d'Italia da Tangentopoli alla Seconda Repubblica 8842098221, 9788842098225

Nel 1992-93, sotto la spinta degli avvenimenti, Tangentopoli appare una rivoluzione. La fine della Repubblica dei partit

223 75 3MB

Italian Pages 334 [349] Year 2012

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Recommend Papers

Eutanasia di un potere. Storia politica d'Italia da Tangentopoli alla Seconda Repubblica
 8842098221, 9788842098225

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

i Robinson / Letture

Marco Damilano

Eutanasia di un potere Storia politica d’Italia da Tangentopoli alla Seconda Repubblica

Editori Laterza

© 2012, Gius. Laterza & Figli Prima edizione gennaio 2012 Seconda edizione febbraio 2012 Terza edizione marzo 2012 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2012 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9822-5

This is the way the world ends This is the way the world ends This is the way the world ends Not with a bang but a whimper. Così finisce il mondo, Così finisce il mondo, Così finisce il mondo, Non con uno schianto ma con un lamento. Thomas Stearns Eliot The Hollow Men

Indice

Presagi I.

3

Sciacquoni e pallottole

14

II. Cassandre

37

III. La Rivolta

52

IV. Barbari

74

V.

Il Botto

87

VI.

La Caccia



«Craxi voleva buttarmi giù dalle scale» 140

114

VII. Telepiazze

146

Dalla demo-tv alla telecrazia 164

VIII. Espiazioni

168

«Siamo morti sotto falso nome» 192

IX. Un mondo che muore

200



«Confesso: fu colpa nostra» 235



«Il mio sponsor fu la Fininvest...» 240 ­­­­­vii

X.

Il Gattopardo



Io, Craxi, Andreotti. E Berlusconi 285

XI. Exit

247

294

Vent’anni dopo 309

Cronologia

316



329

Indice dei nomi

Eutanasia di un potere Storia politica d’Italia da Tangentopoli alla Seconda Repubblica

Ringraziamenti Filippo Ceccarelli mi ha affidato, con legittimo orgoglio, alcuni pezzi pregiati del suo archivio: le veline di Vittorio Orefice, l’Agenzia Repubblica, l’agenzia Tac. E idee, suggestioni, il regalo della sua amicizia. Alla competenza e all’entusiasmo di Enza Gentile devo il recupero del film-inchiesta Mani Pulite curato da Pino Corrias e Renato Pezzini, a tutt’oggi il più completo documentario televisivo su Tangentopoli, una miniera di immagini, testimonianze, interviste, andato in onda in quattro puntate in prima serata nel giugno 1997 sulla Raidue di Carlo Freccero, in una stagione d’oro della televisione pubblica mai più ripetuta. Gianluca Di Feo mi ha segnalato alcuni snodi essenziali con la consueta meticolosità, addentando la pipa sul terrazzo post-industriale della nostra redazione. Marco Follini e Iginio Ariemma mi hanno aiutato a capire. Paolo Cirino Pomicino è stato uno strepitoso avvocato difensore. Bruno Tabacci è per me ben più che un testimone. A Giulio Anselmi sono riconoscente per mille motivi. Carlo De Benedetti si è sottoposto alle mie domande con disponibilità assoluta. Bruno Manfellotto mi ha seguito con curiosità e passione, consentendomi di lavorare in tranquillità. Questo libro è dedicato a due maestri che non ci sono più: Pietro Scoppola, che mi ha insegnato tutto, nelle aule universitarie e soprattutto fuori, Edmondo Berselli, che mi manca. E al mio papà, che ha riletto il mio lavoro e che mi è sempre vicino. ­­­­­2

Presagi

Craxi ricoverato in ospedale a Milano Roma, 4 gennaio, ore 23.15 – Si è appreso questa sera a Roma che il segretario del Psi Bettino Craxi ha avuto un malore mentre in auto si recava da Como a Milano. Il parlamentare si è fatto portare all’Ospedale San Raffaele dove i medici, dopo una prima visita, lo hanno ricoverato per accertamenti. Sembra, stando alle prime informazioni, che si sia trattato di una violenta sindrome influenzale (Ansa). Milano, 5 gennaio, ore 01.18 – Alcuni cronisti, appresa la notizia, sono accorsi all’ospedale, che si trova alla periferia nord-est di Milano, nella zona di ‘Milano 2’ [...]. La moglie dell’uomo politico, Anna Moncini Craxi, ha dichiarato che lei e il marito erano in vacanza presso alcuni amici in una villa, nei pressi di Cantù, in Brianza, quando Craxi ha cominciato a sentire dei forti brividi e ad avere qualche difficoltà nella respirazione. [...] Al San Raffaele sono accorsi, appena appresa la notizia, anche il medico di fiducia dell’on. Craxi, prof. Guido Pozza, e il sindaco di Milano, suo cognato, Paolo Pillitteri (Ansa).

Il 1990 si annuncia come un anno felice, per l’Italia e per il segretario del Psi. L’anno dei Mondiali, di notti magiche inseguendo un gol: 12 città coinvolte, 15 miliardi la somma dei telespettatori stimati, 2 milioni e 600mila biglietti venduti, 200 miliardi di fatturato. 6.868 miliardi spesi dallo Stato per le opere pubbliche, 1.193 per gli stadi e 5.675 per le infrastrutture, il doppio del previsto, denuncerà la Corte dei Conti. Il comitato promotore è diretto da Luca Cordero di Montezemolo, 43 anni, manager della Ferrari e della Cinzano. La Sip, per l’occasione, lancia il primo modello di mini-telefono portatile: peso tra i 300 e i 400 grammi, poco più grande di un pacchetto di sigarette, due batterie ricaricabili con ­­­­­3

un’autonomia di un’ora di conversazione ciascuna, il prezzo dei Nokia Cityman e dei Motorola MicroTac – i due telefoni portatili commercializzati dalla Sip – è di 2,8 e 3,9 milioni di lire con un canone bimestrale di manutenzione di 46mila e di 65mila lire. Ventiquattro gli operai morti nei cantieri e 670 i feriti. Per gli studenti di Palermo il 1990 comincia con un veglione nella facoltà di Giurisprudenza occupata da un mese, un happening all’aperto e un concerto rock, un dragone cinese che guida il corteo, canti, balli e mimi. Piatti e bicchieri di plastica, alba gelida e pioggia, cinquecento partecipanti. «Protestiamo contro un sistema sempre più privatizzato. In questa città fatta di silenzi, pensiamo che la gente debba tornare a pensare, confrontarsi e discutere». Il 2 gennaio è ricomparsa in pubblico, sulla via Casilina, la pantera avvistata cinque giorni prima sul Grande Raccordo Anulare. A dare la caccia al felino ci sono cento uomini, tra carabinieri, polizia, tiratori scelti, domatori dello zoo di Villa Borghese, il re del circo Nando Orfei. Non sarà mai ritrovata. «Addio Brutta Epoque! Congedo illimitato all’ingordigia di élite e all’eccitata ‘mediocrità’ di massa, commiato definitivo alle pirlate del consumismo d’animazione. Diamo il benvenuto agli anni Novanta reclamizzando bontà, sobrietà e moderazione. Arriva l’era dell’Edonismo virtuoso», scrive Roberto D’Agostino1. L’edizione di Fantastico, condotta da Massimo Ranieri e Anna Oxa, tocca la cifra record di 34 milioni di biglietti della lotteria venduti. Nella classifica dei libri di narrativa è in testa Gabriel García Márquez con Il generale nel suo labirinto, seguito da Una storia semplice di Leonardo Sciascia, appena scomparso; per la saggistica, in cima c’è il nuovo libro del presidente del Consiglio Giulio Andreotti Gli Usa visti da vicino. Nella prima hit-parade dell’anno spopola la Lambada, nei 33 giri dominano la top ten But seriously di Phil Collins e Persone silenziose di Luca Carboni. Giovani promesse che deludono: «Jovanotti pare per fortuna sgonfiato all’arrivo del momento della verità sul palcoscenico: il suo recente concerto di Milano è stata un’autentica buffonata», 1

“l’Espresso”, 7 gennaio 1990.

­­­­­4

scrive Marinella Venegoni2. Il mercoledì sera appassiona su Raidue l’inchiesta di Sergio Zavoli sul terrorismo e sugli anni Settanta: La Notte della Repubblica. Ai nostri parlamentari, auguri: che si diano una scossa per approvare la legge di regolamentazione tv che stiamo aspettando da quattordici anni (record mondiale). E auguri per Berlusconi, che non s’ingozzi così ingordamente di spot, e che riceva una buona volta la diretta per i tg. Ma è un augurio che il Cavaliere gradisce? E se dell’informazione non gli importasse un fico, visto che con i tg non rastrella spot, e visti soprattutto i risultati ottenuti sino ad ora per cui la sua migliore informazione (Striscia la notizia) è tutta da farsa? (Ugo Buzzolan, Auguri per la diretta e per l’autonomia, “La Stampa”, 2 gennaio 1990).

Per Bettino Craxi il 1990 è cominciato con una festa con gli amici di sempre, nella quiete della sua casa di Capiago, villa Roccolo, acquistata dalla sarta Gigliola Curiel e amministrata dall’architetto del Garofano Filippo Panseca, a due passi dal lago di Montorfano vicino Como, in mezzo al bosco, in cima a una collina. Nelle ville accanto vivono Bruno De Mico, il costruttore incriminato per tangenti sulle carceri nel 1988, e il finanziere Gianni Varasi. Fa freddo la prima notte dell’anno, nel viale di ingresso c’è una gran danza di macchine di alta cilindrata, scendono e si stringono nel cappotto gli invitati: Silvio Berlusconi e Fedele Confalonieri, c’è anche l’avvocato romano della Fininvest, chioma argentea e mascella volitiva, Cesare Previti. Con il presidente della Fininvest e del Milan è un’abitudine quasi scaramantica: dal 1985 Bettino e Silvio trascorrono il primo dell’anno insieme e l’alba del 1990 non può sfuggire alle regole, è un momento decisivo per entrambi: Berlusconi, 54 anni, è in attesa della legge che metterà al sicuro il suo impero televisivo. E sta combattendo le prime battaglie di quella che sarà chiamata guerra di Segrate, l’interminabile scontro con Carlo De Benedetti per la conquista della Mondadori e del gruppo editoriale Espresso-Repubblica. Il 22 dicembre, alla vigilia di Natale, giorno della caduta di Ceaus˛escu in Romania, il Cavaliere ha messo a segno un colpo da ko: una sentenza dichiara non valide le sedute del consiglio di amministrazione della Mon2

“La Stampa”, 2 gennaio 1990.

­­­­­5

dadori presieduto da Carlo Caracciolo, che deve quindi considerarsi decaduto. «La Mondadori verso una svolta. Dal 25 gennaio la gestione passa a Berlusconi», sintetizza “La Stampa”. Una svolta molto gradita all’ospite di Capiago, nemico dichiarato di De Benedetti e del gruppo fondato da Eugenio Scalfari. Craxi deve ancora compiere 56 anni, per lui è una sera felice, la scalata di Berlusconi è un’ottima notizia che lo mette di buon umore. Ha appena finito di correggere un’intervista che uscirà l’indomani sul “Corriere della Sera”, a firma di Barbara Palombelli, per ricordare il suo maestro Pietro Nenni a dieci anni dalla scomparsa: Craxi: Nenni m’insegnò a non fuggire, titola il giorno dopo il quotidiano di via Solferino. Tra le tante lezioni ricevute il segretario del Psi decide di rivelare questa: «Nenni subì maltrattamenti e infamie. Ma non pensò mai di darsela a gambe». Con gli amici il leader discute di politica. I fatti dell’Est, con le piazze di Praga, le folle che oltrepassano il muro a Berlino, i cadaveri del dittatore rumeno e di sua moglie ancora sulle prime pagine stanno già trasformando la politica italiana, ragiona Craxi. Il Pci di Achille Occhetto ha dato il via al lungo travaglio che lo porterà a cambiare nome e simbolo. In un referendum tra i lettori pubblicato dall’“Espresso” il nome più votato per la nuova formazione è Partito democratico. Seguono Democrazia socialista, Sinistra unita, Partito democratico della sinistra. Craxi fiuta l’aria, analizza i segnali. Si accende l’ennesima sigaretta al mentolo, fa una lunga pausa, scruta Berlusconi, un’ombra di diffidenza gli attraversa il viso. Riprende: «Il Pci sta facendo tutto questo per rientrare nel gioco, il rapido crollo dei regimi comunisti dell’Europa orientale aiuta Occhetto a provare il colpo di mano. Vogliono accelerare il cambio del nome per poi essere legittimati a candidarsi a governare con la Dc. Andreotti è pronto a guidare un governissimo con i comunisti in maggioranza. Per noi socialisti non c’è alternativa: alle amministrative di maggio dobbiamo indebolire il Pci e aprire la crisi di governo»3. Il giorno 2 esce l’intervista sul “Corriere”, Craxi si alza tardi, si sente affaticato. Per la sera è in programma un’altra cena, a casa di 3 Cfr. Massimo Pini, Craxi. Una vita, un’era politica, Mondadori, Milano 2006, p. 403.

­­­­­6

un altro amico, lo stilista Nicola Trussardi, socialista, inserito dal leader nell’assemblea del partito, nel 1987 è stato lui a disegnare personalmente la divisa delle 110 hostess al congresso di Rimini. Da anni, per il segretario del Psi sono loro i punti di riferimento affettivo: Berlusconi e Trussardi. C’è un terzo amico, un costruttore siciliano che ha fatto fortuna a Milano, Salvatore Ligresti. Craxi saluta Trussardi e ritorna in serata a Capiago. È un bagno di sudore, la stanchezza si è impadronita all’improvviso di lui, il viso si è coperto di macchie, è visibilmente gonfio. Eppure passa un’intera altra giornata prima di decidere il ricovero. Il giorno 4 c’è l’attacco decisivo: non è asma, non è il diabete, è il cuore che cede, un principio di infarto. Viene chiamato il medico condotto, il dottor Vincenzo Troiano: «Non stava per niente bene. Presentava insufficienza respiratoria, ingrossamento del fegato, edemi agli arti inferiori». Resterà a lungo la diagnosi più sincera. Lo portano di corsa in macchina all’ospedale più vicino, Cantù. I medici constatano la gravità della situazione, provano a trovargli una sistemazione nell’unico reparto dove ci sono le camerette singole, la maternità. Poi si arrendono e chiamano un’ambulanza che porta il paziente in emergenza al San Raffaele di Milano: durante il viaggio gli viene applicata la maschera di ossigeno. Gli amici che arrivano all’ospedale trovano la moglie Anna stravolta, in una serata da incubo. Il ministro degli Interni, il democristiano Antonio Gava, chiede una stretta alle facilitazioni di cui godono i detenuti in Italia. [...] «Prima di dare un permesso – ha spiegato Gava in un’intervista tv – bisognerebbe valutare, oltre che il buon comportamento in carcere, anche se il detenuto ha mantenuto un rapporto con la malavita. [...] Sarebbe importante stabilire che per alcuni reati di particolare odiosità, che richiedono un temperamento pervicace nel delinquere, non sia ammesso nessun beneficio». Esclusi dalle licenze premio dovrebbero essere i mafiosi, i sequestratori di persona e i riciclatori di narcolire (“La Stampa”, 2 gennaio 1990).

Quando arriva la notizia che Craxi sta male, nella sede di via del Corso a Roma si scatena il panico. «Assente Craxi, il Psi in coma diabetico», titola la democristiana “AgenParl”. E sulla malattia del leader cade un silenzio poco occidentale e molto sovietico. ­­­­­7

Versioni contraddittorie. Rassicurazioni. Bugie. È solo un attacco influenzale, «la prima vittima illustre dell’epidemia di cinese», viene fatto trapelare in un primo momento. «Craxi ha una leggera forma diabetica, così leggera che non necessita neppure di un uso costante di insulina», giura il medico di famiglia professor Guido Pozza. «Craxi è come una fuoriserie che sta facendo il tagliando di controllo», tranquillizza tutti Claudio Martelli dopo aver visitato il malato. La famiglia, il figlio Bobo in testa, cercano di trasmettere all’esterno l’immagine di un leader che non smette di lavorare. Ecco la stanza attrezzata come l’ufficio di via del Corso, con la Sip che ha allacciato una linea telefonica particolare. Ecco le telefonate dei grandi della Terra: il segretario dell’Onu Pérez de Cuéllar, l’ambasciatore americano Peter Secchia («Senza di lei, Bettino, c’è il vuoto politico»). Chiama anche l’ex presidente Sandro Pertini, «usa frasi bellissime», testimonia Bobo Craxi, «che possono tradursi in uno slogan: Forza Bettino». Pertini morirà un mese dopo, il 24 febbraio. Il 7 gennaio viene aperto a Roma il nuovo centro congressi del Psi. Un vecchio cinema abbandonato a due passi dall’hotel Hilton, in vetta a Monte Mario, il Belsito. Acquistato dal partito dopo averlo strappato a un gruppo di manager che voleva farne una palestra di squash. Settecento posti a sedere, centocinquanta in piedi e nove per disabili, con il busto di Garibaldi al posto della cassa. «Un palcoscenico in technicolor per il Psi», lo descrive Augusto Minzolini sulla “Stampa”. «Amore per la modernità, inclinazione per il grandioso. Il blu della moquette, il rosso delle poltrone e il lilla pallido delle pareti. Nell’atrio campeggiano due colonne dipinte in falso marmo che sorreggono un’arcata da cui discendono rami e foglie di false piante di plastica. Ma la parte più innovativa è data dal grande salone: quattro pedane che possono essere spostate su diversi livelli grazie a bracci idraulici che le sorreggono. Dal soffitto discendono decine di grossi riflettori mobili, per la potenza impressionante di 20.000 watt». A volerlo è stato Craxi, stanco di dover chiedere ospitalità a grandi alberghi e sale convegni in giro per l’Italia. Anche il Psi avrà la sede per ospitare le sue assemblee, come la Dc con Palazzo Sturzo e il Pci con Botteghe Oscure. Il simbolo di un potere destinato a non finire mai. ­­­­­8

Un leader politico indebolito significa l’indebolimento del progetto, equilibrio o dinamica politica che passa attraverso quel leader, e attraverso il suo corpo come mero vettore materiale. Se il corpo del potente rimanda in qualche modo alla Potenza, la malattia diventa il segnale oscuro che la Fortuna non sostiene più il Principe (Enrico Pozzi, Il corpo malato del leader. Di una breve malattia dell’on. Bettino Craxi, in “Sociologia e ricerca sociale”, n. 36, 1991).

Con il passare dei giorni l’allarme per le condizioni del leader aumenta. Cresce l’incertezza sulle cause del ricovero: scompenso cardiocircolatorio, edema polmonare, stato confusionale, disfunzione ventricolare, infarto. E iniziano le polemiche. Una vignetta di Riccardo Marassi sul “Mattino” diretto da Pasquale Nonno, vicino a De Mita («Il paziente sta meglio, mi è già sparito lo stetoscopio») fa indignare l’“Avanti!”: «Quando si arriva a questi livelli di inciviltà, non ci si può giustificare con nessuna motivazione giornalistica e politica. Ci si deve solo vergognare». Nelle stanze del San Raffaele continua la sfilata degli amici: Berlusconi è sempre più impegnato nella conquista della Mondadori. Il 25 gennaio sarà nominato presidente della Mondadori: «Qualcuno ha scritto che questa è un’operazione politica. Lo nego nel modo più deciso. È una pura operazione imprenditoriale, e chi dice il contrario è in malafede». Se l’operazione berlusconiana andrà in porto, noi vedremo a capo del più grande gruppo editoriale multimediale un membro della loggia P2, debitamente individuato come tale dalla commissione parlamentare d’inchiesta e reo confesso di iscrizione alla Loggia. [...] Questa faccenda, ne diamo formale assicurazione a Silvio Berlusconi, agli azionisti suoi alleati, ai suoi padrini e protettori politici, ma soprattutto ai nostri lettori e alla pubblica opinione non passerà liscia. [...] Se sta nascendo un regime col volto di Silvio Berlusconi, questo regime e quel volto avranno nei prossimi mesi ed anni la nostra più meditata e rigorosa attenzione. Dopotutto, viviamo in tempi di glasnost, non è vero? Ebbene, la glasnost in casa nostra certo non mancherà (Eugenio Scalfari, Il governo dell’allegra brigata..., “la Repubblica”, 7 gennaio 1990).

Craxi lascia il San Raffaele il 13 gennaio, dopo nove giorni di ricovero. Il 24 ritorna a Roma nell’ufficio di via del Corso. Chiuso ­­­­­9

in un cappotto blu, sciarpa beige, con l’apparente spavalderia di sempre. «Sto bene, i malati sono altri», ringhia. E quando Martelli lo accoglie nella sala Garibaldi con un mazzo di garofani rossi si infuria: «Ma i fiori non sono per i morti?». Nel pomeriggio rilascia un’intervista all’“Avanti!”. «Il tuo rientro al partito era atteso da tutti. Come ti senti?», chiede premuroso il direttore Roberto Villetti. «Ora sto bene, grazie. Si è trattato di malattie curabili e sono state fortunatamente curate a regola d’arte. Il mio stato di salute è ritornato assolutamente eccellente specie se lo paragono allo stato di salute politica di vari soggetti, uomini e partiti, che vedo in preda a febbri e febbriciattole, convulsioni e, in qualche caso, anche allucinazioni». Eppure la spavalderia del leader appare per la prima volta coperta da un velo di malinconia: «Ci sentiamo sempre tutti dei leoni, poi quando ti coglie un male, allora ti prende un grande bisogno degli altri, del loro aiuto, del loro affetto». E i suoi uomini lo trovano cambiato: «Alla direzione lo vidi smagrito, invecchiato, assai scavato nel volto», racconta Lelio Lagorio. «Mi venne detto in quei giorni da medici esperti che l’incedere del diabete determina anche incertezze nuove nel carattere di persone che ne soffrono», testimonierà Giuliano Amato. Il 24 marzo il Psi è riunito a Rimini per la sua assemblea programmatica. Al posto del tempio greco e della piramide dei precedenti congressi l’architetto Panseca ha escogitato come scenografia la riproduzione del Muro di Berlino. Trenta metri sotto il palco degli oratori, l’immagine di Topolino si affianca a quella della falce e martello sbarrata, a significare ‘mai più’, vicina a quella del garofano rosso. «Dopo Rimini e dopo il Muro c’è l’appuntamento con il 1992 e con il centenario del partito socialista. Come presidente degli amici dell’“Avanti!” ho pensato di inventare una grande festa europea. In quell’occasione faremo vedere l’evoluzione del Psi attraverso le immagini», racconta Panseca a Mino Lo Russo che lo intervista per il quotidiano socialista. La fantasia ingentilisce il Muro, titola quel giorno l’“Avanti!”. A illustrare le pagine c’è una grande foto di Craxi con il berretto che apre un varco simbolico nel Muro. È la kermesse del camper: un motorhome adibito a ufficio del leader, colori esterni bianco rosso e giallo, costo 70-80 milioni, più l’arredamento si arriva a 100. Tavolini, specchi, poltroncine ­­­­­10

in tessuto rosso, poltrone in similpelle nera, cuccette ribaltabili... La targa è BA-560056. A bordo salgono per la prima volta gli emissari di Occhetto, i due giovani colonnelli di Botteghe Oscure, Massimo D’Alema e Walter Veltroni. «Abbiamo parlato di storia, filosofia e politica», prova a mentire con i giornalisti un po’ imbarazzato D’Alema. E Veltroni, più secco: «Ci siamo annusati». L’Ospite del camper, d’altra parte, ha altro per la testa. È lì, al centro di tutti i giochi, corteggiato da democristiani e comunisti, possibile nuovo presidente della Repubblica, probabile presidente del Consiglio per la seconda volta. Eppure, i cronisti annotano durante il suo intervento un’imprevista caduta di voce e un caffè lunghissimo, «un bibitone scuro e fumante alto cinque dita», scrive Sebastiano Messina sulla “Repubblica”. «La voce si fa rauca e l’acqua non riesce più a schiarirla. Una frase resta in attesa del foglio successivo. ‘Scusate un attimo, c’è un po’ di disordine’. È finita, Craxi torna al suo posto. Ignora la mano tesa di chi vuole congratularsi, beve il suo caffè e se ne va nel camper. Da solo». È come se ci fosse un pensiero fisso, il discorso va sempre lì. «Qual è il mistero della morte di Gramsci? Morì da comunista o da socialista?», chiede ai compagni che lo accompagnano al ristorante Lo Squero, sul lungomare della Riviera. «Sulla sepoltura dei Savoia sono contrarissimo al Pantheon, se vogliono, c’è Superga. Non ne ho mai parlato prima perché non mi piace parlare di tombe». Qualche giorno dopo arriverà a dire: «Non so se vado in Cile. Dipende un po’ da me e un po’ anche dai medici». E i presentimenti si fanno analisi politica. A Milano «Craxi boia» è stato il convincente argomento usato in piazza da alcuni gruppi universitari in difesa dell’autonomia culturale dell’Università. A Roma e altrove, in pubbliche manifestazioni, si denuncia il dispotismo dei Ceaus˛escu italiani, sbeffeggiandone i nomi, da Forlanescu a Bettinescu. Sull’“Unità”, senza mezzi termini, si scrive della maggioranza come di un «blocco di potere per metà sommerso nella sua versione affaristica, piduistica, criminale». Nella satira dell’“Unità” Andreotti viene presentato nientemeno che come un tale che ricorda con nostalgia tutte le volte che comminò la pena di morte: a Pecorelli, Mattarella, La Torre, dalla Chiesa, Sindona... Tutto questo modo politico-parlamentare di fare e di disfare, di incertezze e di paralisi fa salire, ogni giorno, e sempre più pericolosamente, la tensione politica. La prospettiva di una grande rissa bussa e preme alle ­­­­­11

porte della scena politica. E i più responsabili fanno una grande fatica per impedire che siano spalancate (Ghino di Tacco, Una grande rissa, “Avanti!”, 8 febbraio 1990).

Il 10 aprile 1990 il Senato approva con 135 favorevoli, 12 astenuti e nessun contrario il disegno di legge che delega il presidente della Repubblica a concedere l’amnistia. Ha efficacia per i reati commessi fino al 24 ottobre 1989: pochi giorni prima della caduta del Muro di Berlino. Serve a smaltire l’arretrato degli uffici giudiziari in vista dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. Una misura amministrativa, burocratica. In pochi si accorgono in quel momento che tra i reati amnistiati c’è il finanziamento illecito ai partiti. «Una pura coincidenza con la chiusura della guerra fredda e dei suoi costi?», si chiederà il dc Enzo Carra4. C’è un prima e un dopo ’89 anche per chi ha illegalmente procurato soldi e mazzette al suo partito di appartenenza. È passato un anno da quella brutta notte di gennaio e dal ricovero in corsia. Il 30 dicembre Craxi è in tribuna all’ippodromo di San Siro a Milano. Il 1990 è finito, meglio, molto meglio di com’era cominciato. Il Pci cambia nome ma è in crisi verticale di consensi e indebolito da una scissione annunciata, la Dc mantiene il patto di fedeltà, la legge Mammì ha consegnato alla Fininvest il monopolio dell’emittenza privata. La guerra alle porte in Iraq annuncia il nuovo ordine mondiale, il nuovo Muro. Il 15 dicembre, poi, c’è stato un evento felice. In una sala di Palazzo Marino Silvio Berlusconi ha sposato in seconde nozze la compagna Miriam Bartolini, in arte Veronica Lario, madre di tre figli che si sono aggiunti a Marina e Pier Silvio. La prima, Barbara, è nata in una clinica svizzera e Craxi è stato suo padrino di battesimo. Ora Bettino è testimone dello sposo, insieme a Confalonieri. Con Veronica ci sono Anna Craxi e Gianni Letta. Celebra il sindaco di Milano Paolo Pillitteri, cognato di Craxi. Più che tra Silvio e Veronica sembra il matrimonio indissolubile tra i Craxi e i Berlusconi. Un solo clan, una grande famiglia, una dynasty destinata a conquistare l’Italia negli anni a venire. 4

Enzo Carra, Il Caso Citaristi, Sellerio, Palermo 1999, p. 27.

­­­­­12

Il leader del Psi può finalmente rilassarsi per le feste di fine anno con una visita all’ippodromo. Seduto sulla poltroncina segue con il binocolo la quinta corsa, fa il tifo per Iseo del Cigno, il cavallo favorito. Alla partenza Iseo è un fulmine, lascia alle spalle tutti gli avversari. Craxi lo osserva volare all’ultima curva e pensa: questo animale ha grinta. Iseo corre, vola verso il traguardo. Nell’anno che verrà si metteranno le basi per le partite cruciali, quelle che riguardano Palazzo Chigi e il Quirinale, Craxi lo sa, si prepara alla gara. Iseo ora ha davanti a sé solo pochi metri: e poi sarà la vittoria, la gloria, l’ingresso trionfale nella storia. Il leader socialista lo vede nel binocolo impennarsi all’improvviso, a un passo dalla meta. Iseo si solleva, si imbizzarrisce, stramazza al suolo, non si rialza più. In tribuna sono tutti in piedi, solo un uomo resta seduto. Lo sentono dire: «Potrebbe capitare anche a me»5. 5

Massimo Pini, Craxi cit., p. 404.

I

Sciacquoni e pallottole

Un solo pensiero occupa la mente sommersa dell’Impero: come non finire, come non morire, come prolungare la sua era J.M. Coetzee Aspettando i barbari

Lo sparo di Sarajevo che dà il via alla Grande Guerra che porterà all’estinzione gli imperi centrali della Prima Repubblica – l’impero austro-ungarico democristiano, con le sue correnti balcaniche, le sue mille nazionalità e il regno del Kaiser socialista, esperto nelle guerre lampo – ha un suono quotidiano, nulla di più familiare e rassicurante. Anche se l’innocuo strumento, in verità, era stato individuato come potenziale arma di ribellione di massa da Michele Santoro. «Nella prima puntata», aveva annunciato il conduttore presentando la nuova serie di Samarcanda, «il primo collegamento sarà da Gorizia, con un singolare sondaggio: a proposito di un acquedotto che non riesce a trovare un sistema per essere messo regolarmente in funzione, un gruppo di operai ha promosso una protesta originale, invitando la gente a tirare l’acqua degli sciacquoni di casa in contemporanea ogni sera alla stessa ora». «Chissà», aveva aggiunto Santoro, «forse ai vecchi sistemi della luce accesa per far votare il pubblico da casa, potremmo sostituire lo sciacquone in diretta». Enzo Biagi chiese una volta ai telespettatori di spegnere l’interruttore contro la pena di morte. Per far affondare la Prima Repubblica basterà tirare lo scarico. Nell’ufficio di Mario Chiesa in via Marostica, al Pio Albergo Trivulzio, la Baggina, l’istituto dei Martinitt, testimonianza concreta dell’impegno sociale meneghino, tutto buon cuore, solidarietà e pragmatismo, sta terminando un’altra giornata. È lunedì 17 ­­­­­14

febbraio 1992, il Parlamento è stato sciolto da tre settimane, alle elezioni politiche mancano meno di due mesi. Chiesa è un uomo di quarantasette anni, le giacche un po’ troppo grandi, la gomma americana sempre infilata in bocca, che ama farsi fotografare tra i medici e sul palco dell’Ambrogino d’Oro con piglio manageriale. Depone l’arroganza solo quando fa anticamera in piazza Duomo 19, il lunedì pomeriggio, il giorno di ricevimento del leader. Un ufficio di 348 metri quadrati, moquette rossa, porte a vetro blindate, busti di Garibaldi. La prima volta che viene ammesso, mentre nella grande sala d’aspetto c’è chi attende da più di due ore, la segretaria Enza Tomaselli gli fa notare il trattamento di favore: «Ti è andata bene». È una consacrazione: come dice Carlo Tognoli, «per essere craxiani di ferro bisogna essere passati da piazza Duomo». L’ufficio del presidente del Pio Albergo è molto più squallido. «Quando arrivai era un ente di serie C», dichiarerà. E squallidi, a ben vedere, sono gli impegni dell’ingegner Chiesa. Inaugurazioni in mezzo ai vecchietti, vuoti discorsetti di rito, come quello con cui si presentò nel 1986 al personale e agli assistiti: «Entro alla Baggina come un parente che va a fare visita al nonno», giurò. Il volto del buon amministratore onesto che desidera trasparenza: «La pulizia si farà, vedrete. Se omertà ci sono, o cesseranno o me ne andrò subito. Bisogna riportare nell’istituto ordine e certezza del diritto». E aveva aggiunto: «Non accetterò mai di spendere miliardi solo per fare qualche tinteggiatura e qualche gabinetto nei reparti cadenti». Profetico. Ancora più prosaiche sono le riunioni politiche che occupano il tempo di Chiesa. Nel 1990 prova a fare il salto, va a bussare alla porta di Francesco Colucci, detto Ciccio, uno dei gran visir del Psi milanese. «Ho i voti, mi metto con voi se mi date un assessorato», si offre. Colucci, però, non ci sta: «Io mi sono già impegnato con i miei per la giunta. Se hai tanti voti corri per i fatti tuoi o rivolgiti a qualcun altro». Un buon suggerimento, anche perché in corsa per un seggio in consiglio comunale in quelle elezioni c’è un pesce ancora piccolo che punta a diventare grosso. Vittorio Craxi detto Bobo, il figlio di Bettino, il delfino designato che deve imparare a nuotare presto e bene nel mare agitato del Psi milanese di inizio anni Novanta dove spadroneggiano squali e piranha. Chiesa punta su di lui, per la riconferma al Trivulzio e nuovi, importanti ­­­­­15

incarichi. Stampa i santini e paga i manifesti. Lo porta in giro in lungo e in largo. Cura perfino gli spot. E alla fine il giovane Craxi risulta eletto, con 10mila preferenze. L’assessorato, però, non arriva. Due anni dopo Chiesa è ancora in attesa di promozione. E sì che sogna in grande, agli amici confida che il suo obiettivo è conquistare la poltrona di Tognoli e di Pillitteri, sindaco di Milano. È per questo che lavora come un pazzo: interventi, interviste, tagli di nastro, accumulo di tessere, la dura vita dell’imprenditore politico costretto a tirare su i figli degli altri per conquistare un posto di prima fila. E poi richieste di contributo, perché la politica costa, e i soldi sono diventati l’unica base su cui si può contare. E tocca chiedere, sperando che non sia necessario dover spiegare troppo. Dio che noia, questo Luca Magni – pensa infatti Chiesa quel lunedì sera – uno dei più noiosi di tutti, questo grigio, untuoso imprenditore delle pulizie che lo infastidisce con le sue continue lamentele sul lavoro che manca. L’ultimo appuntamento della giornata, per fortuna. Adesso i due sono seduti uno di fronte all’altro, sono quasi le sette di sera, Magni con il suo pianto greco, Chiesa vuole sbrigarsi, forse lo attraversa un pensiero fastidioso: che lui e il concusso non sono poi così diversi, in fondo sono entrambi poveri diavoli, due sfigati costretti a barcamenarsi in questa giungla disumana che è diventata la Metropoli del Garofano, dove cacciatore e preda corrono fino a sfiancarsi e finiscono per confondersi... Cattivi pensieri, da scacciare immediatamente. In fondo stiamo parlando di 7 milioni di lire, mica una fortuna. Non sa, non può sapere Chiesa che il Magni, con quell’aria dimessa, quel pomeriggio porta con sé più di una sorpresa. Banconote segnate. Un microfono addosso, per registrare la conversazione. Fuori dalla porta i carabinieri guidati dal capitano Roberto Zuliani. E un mandato di cattura firmato da un sostituto procuratore che a Milano sta facendo parlare di sé: Antonio Di Pietro. Milano, le nuove nomine alle municipalizzate Milano, 1° dicembre 1990 – La scorsa notte, il sindaco di Milano Paolo Pillitteri è riuscito a sottoscrivere in tempo, il limite massimo fissato era la mezzanotte, le nomine per il rinnovo di presidenze e consigli di amministrazione di enti e aziende municipalizzate. Il documento (con oltre 200 nomi), è stato depositato quasi allo scadere ­­­­­16

alla segreteria generale dopo un lungo incontro tra Pillitteri e il vicesindaco Roberto Camagni. Il Psi ha confermato alla presidenza della Metropolitana milanese (Mm) l’architetto Claudio Dini, a quella della Sea (società che gestisce gli aeroporti di Linate e Malpensa) Giovanni Manzi, alla guida del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa e dell’Istituto autonomo case popolari (Iacp) Enzo Collio. Il Pci ha ottenuto che al vertice dell’Azienda trasporti municipali (Atm), della Triennale e della Sogemi (gestione dei mercati all’ingrosso) andassero tre tecnici ‘indipendenti’. Si tratta di Rodolfo Banfi (in passato presidente di Mediocredito Centrale), alla presidenza dell’Atm al posto del democristiano Maurizio Prada; del dirigente industriale Riccardo Casalegno alla Sogemi, che sostituisce il socialista Renzo Canciani; dell’architetto Claudio Dal Co che guiderà la Triennale. L’Azienda energetica municipale (Aem) sarà guidata dal repubblicano Antonio Duva, vice-direttore vicario del quotidiano economico “Sole 24 Ore”. I Verdi hanno invece designato alla guida dell’Azienda municipale servizi ambientali (Amsa) Mario Biava, primario dell’ospedale di Sesto S. Giovanni e esperto di problemi dell’inquinamento. Le nomine alla presidenza delle municipalizzate milanese sono completate da quella del senatore Pier Giorgio Sirtori, coordinatore nazionale della lista Pensionati, alla guida della Centrale del latte (Ansa).

Quando gli uomini del capitano Zuliani fanno irruzione, la prima reazione di Chiesa è il panico. «Questi soldi sono miei!», grida scomposto. «No, ingegnere, sono nostri», replica il carabiniere. In realtà il presidente della Baggina pensa ad altro. A una borsa nera, sotto un tavolo, depositata su una sedia, che contiene, già fascettati, altri 37 milioni di lire: i proventi della tangente precedente, incassata dalla ditta Carobbi Dante & C. per la tinteggiatura degli immobili della Baggina. Un altro corpo di reato da far sparire immediatamente. E Chiesa dimostra doti di rabdomante: mentre i carabinieri sono impegnati nella perquisizione, si impossessa delle mazzette e chiede di poter andare al bagno di cui dispone come presidente, troppa emozione da smaltire. Entra e versa nel water un primo rotolo di banconote. I soldi, in quei primi anni Novanta, sono ancora qualcosa di fisico, si toccano, si annusano, si buttano via. Qualche mese prima a Roma è stato arrestato un esponente della Dc con un pacco ­­­­­17

di centomila lire nascosto nelle mutande, dopo la denuncia di un piccolo commerciante, Paolo Pancino. E una sera d’estate gli abitanti del quartiere Flaminio hanno visto planare come aeroplanini di carta 13 milioni di lire, gettati dalla finestra di casa dalla signora Adriana Rosci, moglie di un altro notabile democristiano della Capitale, frutto di mazzette ricavate in una Asl. Ed ecco ora i rotoloni dell’ingegner Chiesa che spariscono nello scarico. Dopo qualche minuto il presidente della Baggina esce e finge ancora di sentirsi male. Rientra e via!, un altro pacco di centomila, un altro tiro. Fino a smaltire la refurtiva... Quanto tempo impiegano 37 milioni a sparire dentro un water? Per tentare una risposta, mi mancava un dettaglio non da poco: i 37 milioni erano in banconote di quale taglio? Da diecimila, da cinquanta o da centomila lire? Ma anche se fossero stati in banconote da centomila, erano pur sempre trecentosettanta pezzi da scaraventare nel nulla in pochi istanti. Insomma, un lavoro mica da ridere. E, in tutta evidenza, quasi impossibile (Giampaolo Pansa, I bugiardi, Sperling & Kupfer, Milano 1992, p. 93). Ve lo immaginate Chiesa inginocchiato davanti al water, messo lì a ricacciare i milioni che tornano a galla? Perché Dio esiste e fa l’idraulico (Dario Fo e Franca Rame, Settimo: ruba un po’ meno n. 2).

Quella sera la notizia dell’arresto di Mario Chiesa arriva tardi nelle redazioni dei giornali. L’Ansa la batte alle 22.16, con un titolo ‘british’: Amministratore casa di riposo arrestato per concussione. Le notizie ci sono tutte, ma bisogna arrivare alla fine per apprendere che l’amministratore in questione è anche un importante rappresentante del Psi milanese. Milano, 17 febbraio – L’ing. Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, una casa di riposo per anziani, è stato arrestato questa sera dai carabinieri con l’accusa di concussione. Lo hanno reso noto gli investigatori con un comunicato diramato in serata. «Dopo un anno di indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Milano, coordinate dal dott. Antonio Di Pietro – si legge nella nota – in serata è stato arrestato l’ing. Mario Chiesa per concussione». I carabinieri hanno rifiutato di dare altre notizie sull’arresto. Si presume che le indagini della procura riguardino l’amministrazione dell’ente comunale presieduto dall’esponente socialista. ­­­­­18

In consiglio comunale la bomba è esplosa qualche minuto prima. «Hanno arrestato Chiesa». L’ex missino Tomaso Staiti di Cuddia chiede al sindaco Borghini la conferma della notizia. A tarda notte arriva la prima reazione ufficiale del Partito socialista: «Non conosciamo esattamente i fatti. Certo è però che il Psi è totalmente estraneo a questa vicenda. Anche se Mario Chiesa è un noto esponente socialista», dichiara Vittorio Craxi detto Bobo. I quotidiani del giorno dopo relegano la notizia nelle pagine interne, come una notizia di cronaca. Il “Corriere” mette un richiamo in prima (Milano, arrestato il presidente dei Martinitt) e i servizi a pagina 40. Sulla “Stampa” la cronaca di Fabio Poletti è a pagina 9. Perfino “la Repubblica” colloca la notizia lontano dalla politica, a pagina 21. Quella sera i tg delle reti Fininvest, Studio Aperto di Emilio Fede su Italia Uno, il nuovissimo Tg5 di Enrico Mentana che ha festeggiato un mese di programmazione, dimenticano di citare il partito di provenienza dell’arrestato. Salta anche la puntata di Profondo Nord, la trasmissione di Raitre che doveva andare in onda dal teatro Faraggiana di Novara, ospiti Ugo Intini, Nando dalla Chiesa e Piero Ottone, ma in questo caso la politica non c’entra: la colpa è di una gastrite iperacuta del conduttore, Gad Lerner. A Palazzo di Giustizia il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli ha indirettamente replicato a Bobo Craxi, segretario cittadino del Psi, che lunedì aveva commentato l’arresto dichiarando a un quotidiano: «Mi pare di capire che la campagna elettorale è già cominciata». Ha detto Borrelli: «La Procura della Repubblica, io personalmente e tutti i magistrati, a cominciare da quello che ha svolto l’operazione, siamo talmente al di sopra del piano su cui può essere proferita una frase che allude alla campagna elettorale, che non intendo spendere neanche un fiato per contestare queste illazioni». Resta da vedere quale sarà la linea dell’ex potente presidente del Pio Albergo Trivulzio: dirà che la tangente era per lui, oppure che faceva parte di un gioco più grosso? (Michele Brambilla, Arrestato con la tangente tra le mani, “Corriere della Sera”, 19 febbraio 1992). Ieri Giovanni Colombo, consigliere comunale della Rete, ha spietatamente recuperato in archivio e distribuito decine di volantini elettorali, inviti a cene e dibattiti, nei quali i nomi Craxi e Chiesa compaiono affiancati, spesso con l’aggiunta di quello dell’allora sindaco Pillitteri. ­­­­­19

L’ultimo porta la data del 20 dicembre scorso: «Tutti insieme sotto l’albero e auguri di buon Natale con i compagni Paolo Pillitteri, Bobo Craxi e Mario Chiesa» (Alessandro Sallusti, Bustarelle alla Baggina, choc a Palazzo, “Corriere della Sera”, 19 febbraio 1992).

Nei palazzi romani l’eco dell’arresto di Chiesa arriva ovattato, è un piccolo evento di nessuna importanza, uno sparo alla periferia dell’impero. Milano dista da Roma quanto Sarajevo dal cuore dell’Europa. E in fondo già le precedenti campagne elettorali del Psi craxiano erano state segnate da arresti eccellenti: nel 1983 il savonese Alberto Teardo, nel 1987 il pugliese Rocco Trane, non è successo nulla, l’onda lunga elettorale non si è arrestata, perché darsi pena? In quei giorni, a Roma, pensano a tutt’altro. Un’utile nota di agenzia informa che in casa socialista è nata una nuova associazione, “I cacciatori dell’ambiente”, con l’obiettivo di mettere insieme ambientalisti, cacciatori e pescatori. Alla presentazione partecipano i big del Garofano, il tesoriere Vincenzo Balzamo, il vice-segretario Giulio Di Donato. E il coordinatore della simpatica iniziativa, un giovane che si chiama Valter Lavitola. Farà parlare di sé, vent’anni dopo. La Velina di Vittorio Orefice è l’agenzia ufficiosa più letta a Montecitorio e a Palazzo Chigi e nelle redazioni politiche dei quotidiani. Quattro cartelle dattiloscritte, attese con ansia nei palazzi del potere, piene di errori dettati dalla fretta, tanto non è lo stile quello che conta, anche se la Velina uno stile ce l’ha, eccome. La compila ogni fine pomeriggio prima dei tg il giornalista Vittorio Orefice, decano dell’informazione politica Rai, noto per il suo cravattino a farfalla e per il tono disincantato, da livornese cinico, con cui descrive le beghe di Palazzo. Con un solo dogma: nessuna salvezza fuori dalle istituzioni, o meglio, fuori dai partiti governativi, e per essere più precisi fuori dal partito-Stato, la Democrazia cristiana. Ma le vere istituzioni sono Orefice stesso e la sua Velina. «Nessun politico è entrato prima di me nel Palazzo e c’è rimasto più a lungo, solo Andreotti. Conosco Craxi da quando era ragazzino con i calzoni corti su gambe già allora troppo lunghe», si vanta. «Il giornalista è il potere o, almeno, una sua buona parte», teorizza. Ha fatto scuola e si moltiplicano le imitazioni: la più seguita è la Velina Rossa che riporta spifferi e maldicenze di ­­­­­20

Botteghe Oscure, firmata dall’ex giornalista dell’Ansa Pasquale Laurito. Sono le fonti di informazione privilegiate della Prima Repubblica, un mondo di iniziati con il suo linguaggio e i suoi riti, con i suoi sottintesi, sfumature, ambiguità. Con i suoi laudatori e i suoi tifosi. Perché la Velina, nel 1992, non fa venire in mente a nessuno ragazze poco vestite, ciarpami senza pudore e, orrore, corsi di formazione per aspiranti deputate, destinate a brillanti e rapide carriere ministeriali. Semmai ispira versi come questi: «La velina che fa Benso / dà notizie senza senso. / Poi Laurito fa la ‘rossa’ / e al Pci scava la fossa. / Leggi quella di Carloni / e ti rompi li cojoni. / Quando arriva la ‘Vittoria’ / sono pagine di storia». E sono pagine di storia quelle che Orefice scrive in quei mesi: la sua Velina è un diario quotidiano di un sistema che crolla. Nello stesso periodo Orefice è turbato da una dolorosissima vicenda privata, la depressione dell’amata nipote Alessandra cui dedicherà un libro, Il male di esistere, prima della scomparsa, nel 1998. Due drammi, quello politico e quello privato, che finiranno per intrecciarsi in un incubo. In quel 17 febbraio 1992, per fortuna, i fantasmi possono essere ancora tenuti a bada. La Velina non dedica neanche una riga all’arresto di Mario Chiesa, segno che a Palazzo l’evento è stato accolto con assoluta indifferenza. Eppure, proprio in quei giorni, l’informatore principe della cittadella politica rilancia un paio di voci interessanti. «Cossiga ha ricevuto questa mattina in separata udienza il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Viesti, il capo della Polizia Parisi, il comandante generale della Guardia di Finanza Berlenghi», fa sapere Orefice il 17 febbraio, nelle stesse ore in cui Chiesa viene arrestato. Due giorni dopo, il 19, Orefice riporta una voce curiosa che circola in ambienti giornalistici legati al Psi, l’agenzia Adn-Kronos diretta da Pippo Marra, ottimo amico del presidente Cossiga: «Un’agenzia socialista», scrive Orefice, «ha dato notizia di un fatto inquietante. L’arrivo nelle redazioni di ‘una vera e propria valanga di carte false: fotocopie di lettere firmate da alte personalità dello Stato indirizzate a ministri, segretari di partito, ambasciatori, nelle quali sostengono tesi quanto meno fantasiose in ordine ad alcuni dei più noti misteri della Repubblica, da Gladio alla strage di Bologna, Nicolosi, Ustica, il caso Moro’. È la tecnica dello sciacallaggio. Il tutto sarebbe opera di un mitomane». Ma se così fosse, perché darne conto? ­­­­­21

Roma, 3 marzo, ore 20.04 – «Mi preoccupo di creare le condizioni perché il Paese abbia un governo che affronti i momenti difficili che abbiamo davanti, e mi trovo un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito che a Milano in cinquant’anni, non in cinque ma in cinquant’anni, non ha mai avuto un amministratore condannato per reati gravi commessi contro la pubblica amministrazione», ha dichiarato il segretario del Psi Bettino Craxi al Tg3 sulle vicende giudiziarie a Milano di Mario Chiesa. Craxi ha affermato: «Purtroppo, una delle vittime sono proprio io» (Ansa).

Alle nove di mattina di giovedì 12 marzo 1992 Enzo Carra, il portavoce del segretario democristiano Arnaldo Forlani, è nel suo ufficio al primo piano di piazza del Gesù. Sta parlando con il suo amico Lino Rizzi, direttore del quotidiano dei vescovi “Avvenire”, delle elezioni ormai imminenti. Commentano l’editoriale del “Wall Street Journal” del giorno precedente, un duro attacco al partito di maggioranza relativa che da quasi cinquant’anni governa l’Italia: «Molti italiani sono critici verso i grandi partiti, e spesso vedono (specialmente nel caso della Democrazia cristiana) corruzione, incompetenza e legami con elementi indigeribili, come la mafia siciliana». Eppure proprio su quel fronte, ragiona Carra accarezzandosi la barba ormai imbiancata, la Dc ha provato a lanciare qualche segnale di novità. Carra si sente impegnato in prima persona, è amico personale del cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo, sensibile ai suoi consigli. L’anno prima, alle regionali del 1991, tutti i capicorrente si sono trovati d’accordo nella necessità di dichiarare guerra a Cosa Nostra. C’è stato poi il decreto del governo Andreotti che riportava in carcere sedici boss rilasciati per decorrenza dei termini. E la sentenza della Cassazione che confermava le condanne definitive per i capi della mafia... Alle dieci squilla il telefono, qualche istante prima che i terminali battano la notizia shock: l’europarlamentare Salvo Lima è stato assassinato a Palermo. Il portavoce della Dc è un cronista di rango che sa decifrare i palazzi romani alla perfezione, conosce bene anche la vittima: «Lima sembrava un bambino, con quegli occhioni azzurri, sempre servizievole», ricorda. Non ha bisogno di altri dettagli per cogliere la gravità dell’omicidio: «Vogliono colpire qualcosa di più della Dc», mormora pulendosi gli occhiali. «Vogliono eliminarci tutti». ­­­­­22

L’esecuzione è feroce, dura un tempo lentissimo, quello che serve all’uomo più potente di Palermo per accorgersi che è tutto finito e che sta morendo massacrato come un cane, in mezzo alla strada. Alle nove e quaranta l’eurodeputato esce dalla sua villa a Mondello dove ha ricevuto le visite dei fedelissimi, il rito del primo caffè servito in salotto, sotto una prova della Vucciria di Guttuso, un quadro con una ballerina insanguinata e le chiavi di San Francisco, ricordo degli anni in cui Lima era sindaco. Il politico è atteso al Palace Hotel, c’è una riunione per preparare l’appuntamento più importante della campagna: la cena elettorale di Giulio Andreotti prevista per il 23. Sale su una Opel, si siede accanto al guidatore, il professor Li Vecchi, consigliere di amministrazione delle Ferrovie, dietro di loro si accomoda un altro cliente. Ha appoggiato sulle spalle un loden verde, usa portarlo così, e poi l’aria è tiepida, la mattina sa già di primavera, nel cielo c’è solo qualche nuvolone, che il vento spazzerà via, insieme ai presentimenti malvagi. Come quello che Lima aveva affidato pochi mesi prima ad Enzo Biagi in una rarissima intervista al “Corriere”: «Qualche volta ho paura». La paura esplode nel petto di Lima quando all’incrocio tra via delle Palme e via Principessa Iolanda una Honda rossa affianca la Opel e i killer della mafia entrano in azione. Due colpi calibro 38 bucano il parabrezza e centrano il bersaglio al torace. Li Vecchi inchioda, terrorizzato. Lima capisce subito, è come se aspettasse quel momento, ha la lucidità di provare ad abbandonare la macchina che si sta trasformando per lui in una bara, spalanca la portiera, ma qualcosa gli fa perdere istanti preziosi: il loden rimasto impigliato tra il sedile e lo sportello. Quel cappotto appoggiato sulle spalle, come la mantella rossa di un papa, insieme alla sigaretta fumata con il bocchino, dava un senso di distanza reverenziale, era simbolo di eleganza e di superiorità. Ora è lì a bloccare un uomo di 64 anni che cerca di fuggire per salvarsi la vita. Racconta e piange, Franco Evangelisti: «Hanno ammazzato il mio migliore amico». Ricorda le cene al Girarrosto, a due passi da via Veneto. Dice: «Divideva il mondo in uomini e ricchioni. E dunque, quando la tavola era ancora apparecchiata, tra bucce di noci e d’arance, agitava il cucchiaio. Tu facevi un nome, e lui: Ricchione. Un altro nome, e lui: Ricchione». [...] «Avevo 24 anni quando l’ho conosciuto. Dopo aver fondato a Roma la corrente ‘Primavera’ mi guardai attorno nel resto ­­­­­23

d’Italia. E incontrai Lima, fanfaniano, che mi disse: Se vengo con Andreotti non voglio venire solo, ma con i miei luogotenenti, i colonnelli, la fanteria, le fanfare e le bandiere. Parlammo per tre giorni di fila. E quando arrivò la data fissata, nell’ufficio di Andreotti, in piazza Montecitorio, arrivò davvero alla testa di un esercito». Dice: «Era intelligente ed era fedele. Posso dire che Andreotti ha pochi amici veri. Tra loro certamente c’era Salvo Lima» (Francesco Merlo, Divideva tutti in uomini e ricchioni, “Corriere della Sera”, 14 marzo 1992).

Lima riesce finalmente a liberarsi del loden e corre disperatamente verso l’Addaura, verso il mare. Si appoggia a un platano, sente alle spalle i passi del killer, riprende la corsa, fa altri nove metri, si blocca di fronte a una cancellata, senza via di uscita, vede il sicario alzare la pistola, puntargliela alla testa, fargli esplodere il cervello, lasciarlo lì sul marciapiede in una pozza di sangue. Dentro la piccola baita di legno e mattoni di cotto, un ceppo arde nel minuscolo camino. Dalle finestre si scorgono i profili verdi e dolci delle colline circostanti. In una pausa di questo suo viaggio in Ciociaria, Giulio Andreotti li osserva, seduto su un piccolo divano, le mani giunte e lo sguardo sereno. Nessuno, forse, saprà mai perché: ma all’improvviso ha deciso di parlare. Chi ha ucciso Salvo Lima? «Qualcuno che vuole indebolire e scalzare la Dc. Ci può essere qualche desiderio politico occulto, non di una riforma democratica ma di una riforma dittatoriale...». Ecco, dunque, le ipotesi ed i timori di Giulio Andreotti. E non gli pare peregrina, adesso, nemmeno l’ipotesi che abbiano assassinato Lima per dare un colpo proprio a lui, candidato in pectore alla presidenza della Repubblica. Solo che, sibillino, avvisa: «Sarebbe un modo terribile di concepire la lotta politica. Vorrebbe dire che c’è un altro candidato al Quirinale che usa questi mezzi...» (Federico Geremicca, È il delitto di un nuovo terrorismo, “la Repubblica”, 15 marzo 1992).

«I grandi partiti popolari non si fanno intimidire. Non è con la violenza che s’influisce sul voto della gente», aveva dichiarato Lima appena qualche ora prima. Un’intervista, rilasciata a venti giorni dal voto. Come se per la prima volta l’europarlamentare, noto per i suoi silenzi, nonostante il ruolo eminente nella Dc – mai un discorso in un congresso, mai un intervento in Parlamento – avesse deciso di farsi sentire: «Non si parla mai troppo. Il fatto che Cossiga parli e straparli forse serve per indicare agli ­­­­­24

italiani come la parola sia necessaria. Nella liturgia cattolica, del resto, si dice che il diavolo è muto. Quindi, per me, più si parla meglio è». Dichiarazioni anomale, in bocca a Lima, ancora di più se affidate all’Agenzia giornalistica Repubblica, «quotidiano politicoeconomico-finanziario riservato agli abbonati» – così si definisce –, redazione in via dell’Arcione, a due passi da Fontana di Trevi, otto paginette al giorno dense di analisi, notizie e più spesso messaggi in codice, avvertimenti, allusioni, scandali, molto lette e ancora di più temute nei palazzi della politica. A curarle è il direttore Lando Dell’Amico, una antica conoscenza nel sottobosco della Capitale, il suo nome spuntò già alla fine degli anni Cinquanta in un rapporto della Questura di Roma a proposito dello scontro fra Tambroni e Fanfani nella Dc. All’epoca gli informatori lo etichettavano come socialdemocratico, nel 1992 Dell’Amico nuota in quella zona grigia tra giornalismo e controinformazione, tra brogliacci di partito e fonti riservate, in cui si muoveva anni prima Mino Pecorelli con la sua “Op”. È considerato andreottiano, ma è una categoria dello spirito che non basta più. L’Agenzia Repubblica è legata al massiccio deputato romano Vittorio Sbardella, lo Squalo, l’ex militante della destra fascista che ha scalato la Dc romana con le buone e più spesso con le cattive maniere fino a dominarla. Con il Divo Giulio ha appena rotto ogni legame, dopo il rifiuto di consegnargli la leadership della corrente a Roma e nel Lazio. Sbardella non l’ha presa bene, i suoi nemici sono il ministro Paolo Cirino Pomicino e il re delle acque minerali Peppino Ciarrapico (la «componente affaristica dell’andreottismo ministeriale», li attacca l’Agenzia Repubblica), il suo alleato numero uno è Lima, che a Roma con lo Squalo condivide lo studio in piazza Augusto Imperatore. Nulla di strano, dunque, che l’Agenzia di Dell’Amico lo intervisti. Colpisce semmai la coincidenza che il colloquio avvenga a ventiquattr’ore dall’omicidio. E poi fanno riflettere alcune analisi di Lima, in controtendenza con l’ottimismo sull’esito elettorale che va circolando in quelle settimane: «la criminalità è una componente attiva dello sfascio, nel Sud, come le leghe lo sono nel Nord». In sintonia con le analisi dell’agenzia sbardelliana che in campagna elettorale si abbandona a previsioni alquanto cruente: L’Italia come la Yugoslavia? – lancia l’allarme nel numero 5 del ­­­­­25

9 gennaio –. Il rischio di una ‘yugoslavizzazione’ della nostra società esiste e non va sottovalutato. Anche perché l’emergere impetuoso dei localismi, la contrapposizione dei principi di solidarietà nazionale a quelli degli egoismi locali si mischiano – sull’onda di una propaganda scientificamente alimentata da quasi tutti i media che fanno capo alle oligarchie finanziarie del Paese ormai affrancate dalla paura del comunismo – alla destabilizzazione del sistema della rappresentatività dei partiti e degli stessi valori del suffragio universale... C’è dunque poco da scherzare. Se la disgregazione sociale del Paese dovesse essere sanzionata in sede politica con una sconfitta dei partiti nazionali alle elezioni generali di aprile, si aprirebbero le condizioni per una guerra civile. Con le truppe rosse attestate lungo il triangolo BolognaFirenze-Perugia, le armate gialle trincerate lungo l’arco della Padania, i reggimenti bianchi in marcia su Roma dal profondo Sud. Il processo elettorale a forbice che premia i due partiti nazionali (Dc e Psi) da Roma in giù e i partiti regionali e movimentisti da Roma in su è già il sintomo di una guerra civile. Ecco perché queste elezioni dell’aprile 1992 ricordano quelle dell’aprile 1948. C’è davvero il rischio che le armi di milizie locali finiscano per sparare da sole.

All’indomani dell’omicidio Lima, quando le armi hanno sparato e non solo a Palermo (il giorno prima, l’11 marzo, viene ucciso il consigliere comunale del Pds Sebastiano Corrado a Castellammare di Stabia, il giorno dopo c’è l’omicidio del siciliano Salvatore Gaglio, rappresentante del Psi in Belgio, tutti e due ammazzati in mezzo alla strada da killer professionisti), l’Agenzia Repubblica si fa più esplicita. Fino a parlare, per la prima volta, di uno scenario di cui si discuterà molto nella fase successiva, quando la strategia terroristica di Cosa Nostra uscirà allo scoperto con le stragi del 1993: l’esistenza di un piano secessionista della mafia siciliana, fare della Sicilia un off-shore modello Singapore nel cuore del Mediterraneo, in alleanza con le leghe del Nord: «Paradossalmente il federalismo del Nord avrebbe tutto l’interesse a lasciar sviluppare un’analoga forma organizzativa al Sud, lasciando che si configuri come paradiso fiscale e crocevia di ogni forma di traffici e di impieghi produttivi, privi delle usuali forme di controllo»6. Nel giro di due mesi la guerra civile da rischio letale sembra essersi trasformata in una 6 Un’Ira per Lima? Sicilia come Singapore nel Mediterraneo, Agenzia Repubblica, 19 marzo 1992.

­­­­­26

vantaggiosa opportunità. E non sarà l’unico caso di preveggenza di Dell’Amico in quelle settimane. Lei presidente Andreotti ha detto di non fare progetti, ma l’assassinio di Lima non potrebbe indurla a rinunciare al Quirinale? «Sì, io non ho mai fatto progetti. E anche adesso non intendo farne: né in positivo né in negativo. Non mi sentirei affatto disoccupato se non andassi al Quirinale oppure a Palazzo Chigi. In fondo, un posto ce l’ho, sono senatore a vita, potrei scrivere e leggere» (Augusto Minzolini, Qualcuno prepara avventure dittatoriali, “La Stampa”, 15 marzo 1992). ’Ndove che vai, affà spesa e pe’ riscote, / pe’ Roma ce sta assai fibbrillazione, / tra gente, gentarella, generone / p’Andreotti-Craxi, coppia de gran dote. / ’Sti qua so un ambo pe’ tutte le rote, / beni pe’ quarzivoja involuzzione, / e ciànno come dogma, pe’ missione, / sempre ar potere, mai con le mano vote. / Ma entrambidue, però, ciànno un penziero / che je rode: tra Chigi e Quirinale / qual’è r mejo palazzo der potere? / Lòtteno a figurà chi è più balordo / e ner taschino téngheno er pugnale, / la mejo penna pe’ firmà n’accordo (Maurizio Ferrara, La coppia vincente, “l’Espresso”, 8 marzo 1992).

Con l’omicidio di Lima, per la prima volta nella storia della Repubblica, la mafia partecipa alla campagna elettorale. In tutte le altre precedenti, Cosa Nostra aveva osservato il silenzio pre-voto, per non attirare l’attenzione su di sé. Ma quella del 1992 non è una campagna elettorale come tutte le altre, neppure per i corleonesi di Totò Riina. E non lo è per i partiti e i loro leader. Se non altro perché, per la prima volta dal 1946, sulle schede elettorali non c’è più il simbolo del Partito comunista: fa il suo esordio in una competizione nazionale la Quercia del Pds di Achille Occhetto, con la falce e il martello relegati alle radici, in piccolo e in basso. Ma i leader che da anni egemonizzano la politica italiana non considerano le elezioni del 1992 la fine di un ciclo. Semmai l’inizio di una nuova, radiosa stagione di potere. Il Craxi-AndreottiForlani: il Caf. Un’era politica segnata dall’acronimo dei suoi protagonisti, come rare volte accade nella storia. Un patto nato tre anni prima, durante il congresso della Dc del febbraio ’89 che ha chiuso con il doppio incarico di Ciriaco De Mita. Il leader della sinistra del partito conserva la presidenza del Consiglio, ancora per poco, ma è costretto a consegnare la segreteria democristiana ­­­­­27

ad Arnaldo Forlani. Tre mesi dopo è Craxi che si incarica di sfilargli anche l’altra poltrona, al congresso di Milano del Psi, quello dell’Ansaldo e della piramide iper-techno immaginata dall’architetto Panseca. Via De Mita, a Palazzo Chigi torna Andreotti che mancava da dieci anni, da quando cioè Craxi l’aveva sfrattato con una frase rimasta famosa: «Prima o poi tutte le volpi finiscono in pellicceria». «Io in pellicceria ci sono finito, ma da vivo», ironizzò il Divo Giulio che in effetti ha preso studio in piazza San Lorenzo in Lucina, dove un tempo si vendevano i visoni. Sembra non dover finire mai, il Caf. È «una Muraglia Cinese, ma fatta di stercoso fango»7. Con la caduta del Muro di Berlino e il Pci in crisi di identità e di consensi. Il biennio 1990-91 è un gran ballo del potere. Con il partito trasversale in azione: nomine, lottizzazioni, occupazione delle istituzioni, minacce, ricatti, dossier, manine e manone. Gladio e memoriale Moro, logge che tornano a farsi sentire. Il Caf è benedetto sul quotidiano socialista “Avanti!” da un personaggio come Edgardo Sogno, medaglia d’oro della Resistenza che negli anni Settanta progettò un golpe anti-comunista: «Il nuovo governo unisce il pragmatismo della sinistra (con Craxi) e la concretezza della destra (con Andreotti) che concorreranno a gestire al meglio l’esistente senza inseguire progetti di palingenesi sociale»8. Il Caf piace moltissimo anche al capo della P2 Licio Gelli, che prevede il punto di crisi del triumvirato: «La cupola non ha ancora ultimato i suoi organigrammi. Andreotti e Craxi sembrano papabili al segretariato delle Nazioni Unite, di conseguenza può sparire un candidato per il Quirinale o per Palazzo Chigi. Anche Forlani, magari con un trapianto di attributi, può essere tenuto in considerazione. Io comunque in testa tra i politici metterei Andreotti. Secondo, Cossiga. Terzo, Craxi. Tutti gli altri in coda. E per loro è già molto restare in coda», dichiara il Venerabile nell’estate 1991, in vacanza a Cortina, a Franco Giustolisi dell’“Espresso”9. Ma non ci sono solo 7 Luciano Cafagna, La Grande Slavina. L’Italia verso la crisi della democrazia, Marsilio, Venezia 1993, p. 126. 8 Cfr. Giovanni Maria Bellu, Sandra Bonsanti, Il crollo, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 19. 9 Franco Giustolisi, Dal vostro burattinaio preferito, “l’Espresso”, 25 agosto 1991.

­­­­­28

anziani combattenti e piduisti in servizio permanente a blandire il Caf. Ci sono i più importanti gruppi imprenditoriali del Paese, almeno fino all’autunno del 1991, quando il vento all’improvviso cambierà. Ci sono le principali testate di informazione. La Rai della coppia Enrico Manca-Gianni Pasquarelli. Il Tg1 di Bruno Vespa. La Fininvest di Berlusconi. L’industria di Stato e le grandi banche pubbliche. Un potere in apparenza fortissimo, che tra il 1990 e il 1991 trova pochissime voci critiche a contrastarlo. Molti di più quelli che sperano di giocare una partita contro l’uno o l’altro dei lati del triangolo: lobby, gruppi di pressione, capitani d’industria, direttori di giornale. Tutti uniti nella convinzione che il Caf sia eterno, che nessuna alternativa sia possibile. E che tanto vale inserirsi in quel campo di competizione. [È un] Potere lucido, certo, forte di tanti errori altrui e di una crisi di orientamento del Paese, inevitabile in tanti cambiamenti sociali ed economici: ma esso stesso vecchio, impresentabile e, soprattutto espressivo di un coacervo di interessi politici, aperti ed oscuri, contraddittori tra loro e già oggi in sotterraneo violento conflitto. [...] Dell’alleanza Dc-Psi, si può dire quel che disse Churchill dei tedeschi nel ’40: È la loro ora migliore. Ma l’Italia è più grande e migliore di loro (Giovanni Ferrara, La resistibile ascesa dei congiurati del camper, “la Repubblica”, 24 gennaio 1990).

Nel 1992 molte cose sono cambiate. Ma per gli uomini del Caf, i generali e i colonnelli, è ancora una stagione d’oro in cui tutte le carriere politiche possono trovare lo sbocco. Sono ancora «le ore liete», di cui aveva parlato Aldo Moro in una sua lettera dal covo delle Brigate rosse, «le macabre, oscene ore liete del potere», di cui scriverà Leonardo Sciascia, che saranno ricordate con amarezza nel momento dei tradimenti e degli abbandoni. Le happy hours delle feste, dei matrimoni, dei giuramenti di fedeltà, della devozione spudoratamente ostentata. La sfilata dei clientes al matrimonio a Ischia del figlio di Antonio Gava ministro degli Interni, prefetti, questori, capi della Polizia, il capo del governo, «democristiani senza nome, piccoli e grandi elettori di città e cittadine senza blasone, assessori e consiglieri comunali, onorevoli e assessori regionali, professionisti e imprenditori, galoppini e portaborse. Tutti in rigoroso grigio, qualcuno in imbarazzo e gron­­­­­29

dante di sudore», li racconta Giuseppe D’Avanzo10. «Qualche sprovveduto non resiste alla tentazione e [...] entrando gli bacia la mano sull’anello. Come ad un cardinale. E sorride don Antonio, sorride ora con un sorriso ancor più largo», prima del gran finale, una torta di frutta fresca annegata nella panna con due enormi «cuori rossi fragola larghi come braccia», che pesa due quintali. Il socialista Gianni De Michelis, già autore di una indimenticabile guida alle discoteche, festeggia nel 1989 la sua nomina a ministro degli Esteri scatenandosi al Nautilus, la pista dell’hotel Maga Circe a Sabaudia, insieme a uno staff di venti persone, assistenti all’immagine compresi, infilandosi nel concorso di bellezza New Model Today. Un anno dopo il ministro vorrebbe festeggiare il suo cinquantesimo compleanno nel Castello di Praga, spedisce oltre un migliaio di inviti, ma che meraviglia, rispondono i fortunati, tutti vogliono esserci, si prenotano aerei, si affittano charter, si assoldano flotte, e chi vuole portare il fratello e chi il portaborse e chi la mamma e chi l’amica, la Farnesina si trasforma in un’agenzia di viaggi, Václav Havel rischia di vedere precipitare la rivoluzione di velluto in un brindisi al garofano, finché De Michelis si convince e rinuncia alla festa. Vent’anni dopo festeggerà i settant’anni più sobriamente, con una crociera sul Nilo, per pochi intimi. E poi gli elicotteri che atterrano sui campi di calcio, i caselli autostradali nel paesello del ministro, i ricevimenti da ottocento invitati per omaggiare il neo-cardinale Ruini, il premio Fiuggi, la signora Maria Girani vedova Angiolillo, che in quell’inizio decennio riapre le porte del suo salotto sopra piazza di Spagna. Modernità e tradizione, scampoli di nobiltà politica decaduta e sprazzi del nuovo che avanza si mescolano negli eccessi di una classe dirigente politica giunta di festa in festa al declino. La spensierata Belle Époque che precede la mattanza. Gli ultimi giorni dell’umanità dopo lo sparo di Sarajevo, immortalati dal genio di Karl Kraus: «Hanno ucciso l’Arciduca? Sarà un danno enorme per i teatri, il Volkstheater era esaurito... Bella serata rovinata»11. 10 Giuseppe D’Avanzo, Gava jr nozze da Gattopardo, “la Repubblica”, 3 luglio 1988. 11 Karl Kraus, Gli Ultimi giorni dell’umanità, Adelphi, Milano 1980, p. 52.

­­­­­30

La classe politica italiana sembra assoggettarsi senza resistenza a due spinte esattamente opposte, l’istinto di conservazione e un’oscura volontà di autoannientamento (Edmondo Berselli, L’ultima recita dei partiti, “Il Mulino”, n. 6, novembre-dicembre 1991).

Per Giulio Andreotti la campagna 1992 è la prima vissuta senza l’obbligo di raccogliere preferenze elettorali: nel giugno 1991 Cossiga lo ha nominato senatore a vita. E per festeggiare l’evento hanno imbandito per lui a Villa Attolico centodieci tavoli con gli elettori di sempre arrivati da ogni parte del Lazio. «Sono rimasto alla Camera quarantasei anni», sussurra il presidente del Consiglio nel brindisi di rito, di fronte agli uomini della Corrente, Sbardella e Pomicino, riuniti per l’ultima volta insieme. «Intendo restare al Senato almeno altri quarantasei anni, poi si vedrà...». Poi, dato che una cena non basta, lascia che l’altra fazione andreottiana, quella di Ciarrapico, organizzi un altro ricevimento a Palazzo Farnese, graziosamente concesso dall’ambasciatore francese, un amico. E lì, nel palazzo michelangiolesco, nella sala d’Ercole, va in scena il tripudio della gens Julia, banchieri come Natalino Irti, Giampiero Cantoni, Pellegrino Capaldo, Cesare Geronzi, boiardi di Stato (Biagio Agnes, Fabiano Fabiani, Giovanni Bisignani, Ettore Bernabei, Ernesto Pascale, Franco Nobili), direttori di tg, da Bruno Vespa a Sandro Curzi a Gianni Letta, ci sono anche Carlo Caracciolo e Enzo Biagi, il festeggiato è seduto tra la moglie di Peppino Ciarrapico, la signora Nella, tutta ingioiellata, e il premio Nobel Rita Levi Montalcini che sta nel comitato direttivo della fondazione premio Fiuggi. Tutti a sgomitare sulla terrazza degli aperitivi, tra i cocktail a disposizione gli invitati si accalcano sul Marilena, molto opportunamente ribattezzato con il nome di una delle figlie di Andreotti, un’idea del Ciarra. Ed è un vero peccato che la festa venga a coincidere con la retrocessione dell’economia italiana ad opera di Moody’s. «Nessuna preoccupazione per lo stato del Paese, nelle conversazioni, ma molta angoscia per quelli che si sono presentati in giacca e cravatta e non in smoking. ‘Non verrà mica preso come uno sgarbo al Presidente?’, si chiedevano, lo sguardo rivolto al loro benefattore vestito in perfetta cravatta nera», appunta Denise Pardo. «A Palazzo Farnese la sensazione ­­­­­31

che si aveva era quella del detto romanesco: ‘e chi c’ammazza a noi?’»12. E già, chi lo ammazza il Divo Giulio? Il suo non è più un governo, è una celebrazione dell’immortalità del suo potere, in attesa del nuovo salto. Il presidente del Consiglio, a 73 anni, corre come se fosse in gara, gira su e giù la penisola: è in gioco il Quirinale e ha bisogno di una netta vittoria del partito e della maggioranza. E amministra con oculatezza il suo mito. «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia...», è lo slogan dell’ultimo governo nato nel marzo 1991, il Giulio VII. «I restauri sui mobili antichi sono pericolosi». Sopravvivere, per lui, è ormai un obiettivo in sé. Molto più inquieto è Bettino Craxi. La campagna 1992 è tormentata dai lutti. Non c’è solo l’arresto di Mario Chiesa: il 25 marzo, a dieci giorni dal voto, il segretario del Psi è in un ospedale di Genova inginocchiato di fronte alla salma del padre Vittorio, militante antifascista, vice-prefetto di Milano dopo la Liberazione. Ai funerali partecipano 3mila persone, in prima fila gli amici più cari, Berlusconi, Trussardi e Ligresti. Il “Corriere” dedica alle esequie una cronaca, nella stessa pagina quel giorno il titolo è Centinaia di milioni a Chiesa. Più che le inchieste della magistratura, però, a preoccupare Craxi sono i «guaritori, medicastri, salvatori della patria, un numero così grande che non si vede neppure al Carnevale di Rio», ripete nei comizi. Tutti alleati contro di lui, il candidato più forte per Palazzo Chigi, «il candidato unico, sono in attesa che si facciano vivi gli altri», avverte in un’intervista rilasciata a Giovanni Minoli il 3 febbraio a Mixer. Comunque vada, il leader sa che dopo le elezioni difficilmente resterà segretario del Psi. Il suo compito storico si è esaurito con il cambio del nome del Pci di Occhetto. Il nuovo partito, il Pds, combatte strenuamente per evitare l’abbraccio mortale con i socialisti, ma la strada sembra obbligata e Craxi lo sa. Nel 1990 ha provato a buttare giù la sua agenda: «L’ideale sarebbe celebrare un secolo di storia del movimento socialista potendo salutare la nascita di una ritrovata 12

Con quelle facce un po’ così, “l’Espresso”, 14 luglio 1991.

­­­­­32

unità socialista». Obiettivo mancato, ma la strada è quella: a Milano, infatti, il sindaco è l’ex comunista Piero Borghini, militante della corrente migliorista guidata da Giorgio Napolitano. E il leader del Psi ha ricevuto, prima delle elezioni, la visita del vecchio amico Armando Cossutta, il più filo-sovietico dei dirigenti di Botteghe Oscure, che non ha aderito al nuovo partito e ha costituito Rifondazione comunista per non ammainare la vecchia bandiera. I due parlano a lungo e Cossutta chiede: «C’è spazio nel partito socialista per una componente comunista?». Certo che c’è, risponde Craxi, ansioso prima o poi di annettersi il boccone grosso, l’intero gruppo dirigente dell’ex Pci. Con Occhetto si è incontrato prima delle elezioni in via del Corso. Il segretario del Pds prova a sondare: se abbandoni la Dc noi ti appoggiamo per Palazzo Chigi. I due si conoscono da sempre, dai tempi della goliardia. Ma niente, nel colloquio si finisce a parlare di soldi. Craxi è ossessionato dall’autonomia finanziaria del Psi. Ne aveva parlato con Enrico Berlinguer alle Frattocchie, alla vigilia delle elezioni del 1983: «Voi avete le risorse che arrivano da Mosca, io devo organizzarmi da solo, altrimenti mi schiacciate». Nove anni dopo si informa con il compagno Achille: «E ora che l’Urss non c’è più, come vi finanziate?». «Craxi di fronte alla portata epocale degli eventi dell’Est, brillò stranamente per la sua assenza. Si arrivò persino a mormorare, di fronte a quell’incredibile carenza, che fosse malato», scrive Luciano Cafagna13. A simboleggiare la difficoltà politica arriva, inaspettata, la canottiera. È l’umile indumento che spunta sotto la camicia bianca del leader nel caldo soffocante del congresso socialista di Bari nel giugno 1991, immortalata dal binocolo di Giampaolo Pansa, a testimoniare il decadimento del grande modernizzatore. Suggestione spietata: la camicia bianca al posto del completo grigio ministeriale democristiano suggeriva spavalderia, spirito corsaro, vitalità, la canottiera testimonia una leadership che boccheggia, sudata, fradicia, in affanno. E Edmondo Berselli, sul “Mulino”, toglie il velo al «sospetto più imbarazzante: vale a dire che per una qualche misteriosa ragione il partito del movimento si sia trasformato rattrappendosi in fat13

Luciano Cafagna, La Grande Slavina cit., pp. 15-16.

­­­­­33

tore di blocco del sistema politico. Il fiume di piena è traditore: serpeggia, ristagna, imbocca cunicoli carsici»14. L’onda lunga della crescita socialista si è bloccata da tempo, il presidenzialismo sempre annunciato non è mai neppure partito, al segretario socialista non resta che mettere in scena una campagna elettorale interamente giocata sulla sua persona, come se ci fosse l’elezione diretta del premier. Il primo spot va in onda sulle reti Fininvest sette mesi prima del voto, curato dall’agenzia Testa e dal regista di fiducia di Berlusconi Davide Rampello. «L’Italia è una bella signora che merita tanti bei fiori. E noi possiamo offrirne uno semplice e bello», sventola un garofano Craxi rispondendo alle domande di una voce fuori campo. Una prova generale: il pezzo forte va in onda in campagna elettorale, un mini-film di dodici minuti per i telespettatori, ventidue in versione integrale per i militanti, titolo Craxi, l’uomo e le idee, girato dalla regista americana Sally Hunter e trasmesso sulle reti Fininvest. Il protagonista unico è lui, Bettino. L’idea è di riprenderlo al naturale, senza trucco, senza luci. L’effetto, però, è terrificante: invece del leader sicuro di sé, pronto a riprendere in mano le redini del governo, i primissimi piani rivelano le rughe, i segni, le macchie di un uomo stanco. Molto più telegenico l’amico del cuore che ha accettato di fare da testimonial di Bettino: «Va a finire che ci fa una migliore figura chi ha avuto l’accortezza di farsi riprendere da lontano, come Berlusconi, seduto di sbieco al pianoforte, bello come Julio Iglesias», commenta Emanuele Pirella sull’“Espresso”. «Sarà meno candid, meno natural, meno casual, ma all’elettore vien più voglia di votare Berlusconi, alle prossime elezioni, che quell’affaticata comparsa di Craxi». E già: la notazione del grande pubblicitario non passerà inosservata ad Arcore. Per paradosso il più consapevole della crisi del sistema appare il terzo vertice del triangolo, il segretario della Dc Arnaldo Forlani, in apparenza escluso dalle due poltronissime già prenotate dalla coppia Andreotti-Craxi. Il 1992 inizia con un Consiglio nazionale del partito a Palazzo Sturzo, l’orrendo cubo di cemento armato 14 Edmondo Berselli, Il Psi dal movimentismo al temporeggiamento, “Il Mulino”, 2, marzo-aprile 1991.

­­­­­34

voluto da Fanfani negli anni Cinquanta. E qui il Coniglio Mannaro si lascia andare a previsioni tetre: «Se la Dc vincerà faremo fronte alle insidie che minacciano di disgregare il Paese. Se invece dovesse perdere, il ventaglio eterogeneo delle forze che vorrebbero rappresentare l’alternativa alla Dc non potrebbe offrire nessuna risposta di governo, ma solo nuove spinte alla frammentazione e al disordine». Il pericolo comunista non esiste più, ma ora il rischio è un altro: o la Dc o il caos. O noi o dopo di noi il diluvio. «La campagna del 1992 è l’ultima corsa per il Caf», ricorda Carra che di Forlani in quel periodo è stato qualcosa di più di un braccio destro. «Craxi arriva all’appuntamento elettorale impecettato, ha smesso di pensare che il suo è un partito importante, conosce meglio di chiunque altro lo stato di disfacimento in cui versa il Psi, un partito non più governato da nessuno, il suo unico scopo è manovrare per tornare al governo. Andreotti per gli accordi congressuali del 1989 era il presidente del Consiglio, ma erano visibili i sintomi che la lunga incubazione della crisi cominciata nel 1978 con l’omicidio di Moro si era trasferita dai partiti al personale del governo e dello Stato. Un esempio? Alla fine del 1990 Andreotti per motivi misteriosi spara una raffica di nomine alla presidenza del Consiglio di direttori generali, un numero spropositato. I funzionari esclusi fanno ricorso e alla fine le nomine vengono tutte cancellate dal Consiglio di Stato. Un fatto inaudito». Però, nonostante tutto, a un mese dal voto, nel quartier generale di piazza del Gesù sono convinti di avere ancora una volta la vittoria alla portata. E per la prima volta nella loro storia fanno circolare un sondaggio: il 3 marzo il dipartimento organizzativo della Dc diffonde un calcolo simulato secondo il quale il quadripartito dalle elezioni potrebbe uscire addirittura rafforzato con nove seggi in più alla Camera e ventidue al Senato. Allo Scudocrociato il sondaggio assegna il 33,8 per cento, pochi decimali in meno del 1987, al Psi il 15,4. Giù il Pds (meno venticinque seggi) e il Msi del giovane segretario Gianfranco Fini (meno dieci), i repubblicani di Giorgio La Malfa in lieve crescita insieme ai Verdi, la Lega a un non eccezionale 4,6 per cento. Tanto era andata sempre così. Grandi catastrofi, tensioni insuperabili e poi invece, quando si arrivava al momento del voto, la Dc vinceva sempre, insieme ai suoi alleati. Perché mai le cose non dovevano andare anche in questo caso come sempre? ­­­­­35

«I dc non credono agli uccelli del malaugurio, alle cornacchie, perché ritengono di formare l’unico partito veramente robusto in mezzo a una disseminazione di piccole percentuali», si era inorgoglito Orefice nella Velina del 3 marzo. E un mese dopo, il 3 aprile, alla vigilia del voto, può finalmente tirare un sospiro di sollievo: «La campagna elettorale si è conclusa senza drammi, anzi nella quiete. L’assassinio di Lima aveva creato un’atmosfera di grande tensione e dato la stura a presagi foschi. Invece, per fortuna, la competizione si è svolta in condizioni di grande civiltà». E dunque, ancora una volta, croce su croce, si può, si deve votare per la Dc. Con serenità. E con civiltà, naturalmente.

II

Cassandre

È possibile sapere quando comincia la guerra, ma quando comincia la vigilia della guerra? Se ci fossero regole, bisognerebbe trasmetterle. Inciderle nella terracotta, tramandarle. Conterrebbero, tra le altre frasi: non fatevi ingannare da quelli della vostra parte. Christa Wolf Cassandra

C’è una Cassandra nel Palazzo della politica italiana, che vede prima degli altri arrivare la Fine. Lui stesso si definirà così anni dopo raccogliendo i suoi articoli in un libretto dal titolo: Mi chiamo Cassandra. Arguzie, giudizi e vaticini di un profeta incompreso15. Comincia a parlare un giorno di febbraio del 1990, durante una visita di Stato in Francia, e non la smetterà più. Come la Cassandra del romanzo di Christa Wolf, scrittrice della ex Germania Orientale, biografia tipica di fine Novecento: perseguitata dal regime della Ddr come dissidente e poi avversata dalla Germania del dopounificazione come spia della Stasi. Nel mito Cassandra è colei che vede oltre la realtà, che svela ciò che gli altri vogliono nascondere, che spezza il silenzio. Tocca a lei farlo, alla figlia di Priamo e di Ecuba, sacerdotessa di Apollo, inserita fin dalla nascita nella élite della città di Troia, cresciuta dentro il Palazzo, chiamata dalla Necessità a dover scegliere «tra le ragioni della stirpe e l’uffizio», l’esigenza di dire la verità. «Di colpo, come accade quando ci si sveglia di soprassalto, mi sono rimbalzati in testa alcuni problemi italiani», avvisa France15

Francesco Cossiga, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008.

­­­­­37

sco Cossiga, ottavo presidente della Repubblica, eletto nel 1985 al primo scrutinio con il voto dell’intero arco costituzionale. Il figlio prediletto della Dc, il più stimato da papa Montini, legato a Moro e ad Antonio Segni, ministro dell’Interno, uno dei più precoci presidenti del Consiglio, il più giovane presidente della Repubblica. Annuncia: «Da ora in poi mi toglierò qualche sassolino dalle scarpe...». Due anni dopo saranno una montagna. Al punto che Piero Chiambretti, il Portalettere di Raitre, consegnerà al senatore socialista Guido Gerosa, amico del presidente, un paio di mocassini di vernice nera e un paio di stivaletti camperos pieni di ciottoli, accolti di buon grado: «Forse i mocassini sono un po’ corti e gli stivali un po’ vistosi. Ma il presidente mi ha fatto sapere che prenderà il dono dopo il vertice della maggioranza». Ambizioso e riservato, ha studiato fin da piccolo per diventare un perfetto uomo di Stato, di dimessa solennità, conoscitore delle dinamiche del potere, anche le più lugubri. Con la ragion di Stato si è scontrato quando le Br hanno rapito e ucciso il suo amico e maestro Aldo Moro, lui era al Viminale e non è riuscito a salvarlo, sul suo volto, sulle mani, nei capelli precocemente imbiancati, nelle notti senza sonno restano i segni di quella tragedia. È lui l’uomo della transizione italiana, l’eroe della ritirata, come Hans Magnus Enzensberger ha definito il guerriero moderno. Non il condottiero classico che conquista i territori e incendia gli animi con il suo carisma, ma colui che guida la ritirata. La Storia lo tira in ballo per buttare giù l’antico regime e poi farsi da parte. È un destino amaro, il suo, di incomprensione, di solitudine, di sconfitta. Eroi della ritirata per Enzensberger sono il russo Michail Gorbaciov che smantella l’impero sovietico, il generale polacco Wojciech Jaruzelski che organizza un golpe militare per salvare il suo Paese dall’invasione straniera, il premier spagnolo Adolfo Suárez, protagonista del passaggio dal franchismo alla democrazia, il più vicino dei tre a Cossiga, per età e carattere. L’uomo del vecchio che trascina il suo popolo verso il nuovo. Per l’eroe della ritirata c’è un solo istante di gloria, un momento in cui si rivela al mondo, prima di finire coperto dagli insulti. Per Suárez è il gesto di restare seduto al suo posto quando la milizia del colonnello Tejero entra armi in pugno nel Parlamento di Madrid il 23 febbraio 1981. «Suárez [...] si appoggia allo schienale e resta lì, leggermente inclinato a destra, solo, statuario e spettrale ­­­­­38

in un deserto di scranni vuoti. Un gesto lampante che contiene molti gesti», lo descrive lo scrittore spagnolo Javier Cercas nel suo formidabile romanzo sul golpe Anatomia di un istante. «Restando seduto al suo scranno mentre fischiavano le pallottole, disse alla classe politica e al Paese intero che, sebbene avesse il pedigree più sporco della grande cloaca madrilena e fosse stato un falangistello di provincia e un arrivista del franchismo e un imbonitore senza formazione politica, lui era disposto a giocarsi la pelle per la democrazia»16. Arriverà anche per Francesco Cossiga il momento di fare il Gesto. Ma intanto bisogna seguirlo e provare ad ascoltarlo in quella data in cui la Storia svolta in modo drammatico per lui e le sue buone intenzioni si capovolgono nel loro opposto. È il 23 ottobre 1990. Quel giorno Cossiga è un uomo felice. Si trova in visita di Stato nel suo paese d’elezione, la Gran Bretagna. Per il presidente italiano anglofilo, amico di Margaret Thatcher, cultore di Thomas More e di John Henry Newman, il cerimoniale ha fatto le cose in grande. Arrivo alla Victoria Station accolto dalla Famiglia Reale, la regina Elisabetta avvolta in una cappa viola, la principessa Diana in livrea verde e cappellino modello pill box. Trasferimento a palazzo sul Cocchio di Stato 1902, la storica carrozza trainata da sei cavalli insieme ai sovrani. Visita in frac a Buckingham Palace, dove viene ospitato, colazione di mousse di cetrioli e fagiano nella Bow Room, durante la quale Cossiga riceve la massima onorificenza inglese, l’Ordine di Bath. Cena finale nel salone delle feste, ori e cristalli, composizioni di gigli, rose, garofani, fresie sui tavoli, suono di violini e di cornamuse... Per Cossiga è una giornata di festa anche per un altro motivo. Sulle agenzie italiane e internazionali è rimbalzata la lunga conversazione con il quotidiano “The Independent”. La prima riflessione è sulle conseguenze italiane della caduta del Muro, a un anno di distanza: «Due paesi sono stati spaccati da una cortina di ferro: la Germania sul piano territoriale, e l’Italia politicamente, moralmente, ideologicamente. Io non so dove la cortina di ferro sia caduta più pesantemente. Il crollo del Muro di Berlino è anche 16

152.

Javier Cercas, Anatomia di un istante, Guanda, Milano 2010, pp. 29-31,

­­­­­39

il crollo di un muro invisibile. Oltre alla Germania, anche noi siamo stati liberati e riunificati. Anche per noi la guerra è quasi finita». Quasi finita perché, aggiunge Cossiga, resta da portare a termine il processo di cambiamento della sinistra post-comunista. In Italia, spiega, «il comunismo è profondamente radicato, non è mai stato imposto con la forza, ha preso slancio attraverso liberi voti. Ora il Pci ha la possibilità di diventare una grande e democratica forza della sinistra socialista. E ha l’occasione di costruire un’Italia più giusta e più moderna, perché finora il sistema democratico è stato bloccato nel punto più delicato, quello dei sistemi d’alternanza». C’è tutto, si potrebbe dire. La democrazia bloccata. L’Italia divisa come la Germania. E il pieno appoggio allo sforzo di trasformazione del Pci di Occhetto. Manca solo un dettaglio: chi potrà guidare l’Italia fuori dalla palude? All’elezione del nuovo presidente della Repubblica mancano meno di due anni, il capo dello Stato a fine mandato è un uomo ancora giovane, appena 62 anni, chi meglio di lui potrebbe essere il garante del cambiamento? Purtroppo per Cossiga è questa la lettura dell’intervista che si fa a Palazzo Chigi nelle stesse ore. Basta poco a colui che si sente il grande candidato al Quirinale per organizzare una reazione. Ed è una mossa spettacolare, una carambola che tira il boccino a destra per scompigliare la sinistra. È di Giulio Andreotti il colpo dello scorpione. In grado di strappare Cossiga al fronte del cambiamento che si proponeva di guidare. E di sospingerlo nel campo opposto: l’anti-comunista livido che ha tramato contro la democrazia. Un nemico da eliminare per gli eredi del Pci che Cossiga si era preoccupato di sdoganare sulla stampa internazionale. Il veleno di Giulio agisce in un pugno di frasi pronunciate alla Camera per rispondere alle interrogazioni sul caso delle carte di Moro ritrovate in via Montenevoso: quasi con distrazione, di passaggio, il presidente del Consiglio ammette che dagli anni Cinquanta in poi opera in Italia «una rete informativa di reazione e di salvaguardia da attacchi nemici inserita nella Nato». È la rete Gladio, l’operazione Stay Behind, fino a quel momento intuita dal giudice veneziano Felice Casson che indaga sulla strage di Peteano. Nessuno ne sapeva nulla fino a quando nell’estate il governo ha consegnato i documenti alla commissione parlamentare che indaga sulle stragi. E ora la nuova conferma. ­­­­­40

Cossiga, in visita ad Edimburgo, capisce al volo che la mossa di Andreotti è diretta contro di lui e prova subito a difendersi: «È vero», ammette con i giornalisti, «da sottosegretario alla Difesa ho collaborato in via amministrativa alla struttura Gladio. Ma si vedrà che ho agito correttamente». E aggiunge, quasi a voler rassicurare Andreotti sulle sue intenzioni: «Non ho nessuna intenzione di farmi riconfermare al Quirinale. Il mio mandato scade il 3 luglio 1992». Sembra finita, invece il dramma di Cossiga è appena all’inizio. Perché il colpo di Andreotti ha raggiunto il risultato. Gli uomini del Pci che si sta trasformando in Pds non si fidano più del presidente. Cossiga lo capisce appena tornato in Italia. Chiama Ugo Pecchioli, il ministro dell’Interno del Pci, il suo principale interlocutore negli anni della solidarietà nazionale e durante i 55 giorni del sequestro Moro. È una persona con cui c’è confidenza, un lungo rapporto di collaborazione. E invece, per la prima volta, l’inquilino del Quirinale si trova davanti al gelo: «Questa cosa di Gladio è gravissima: un’organizzazione segreta anti-comunista. E tu ci hai tenuti all’oscuro di tutto». Da quel momento in poi l’isolamento del presidente è totale. E la sua amarezza enorme. «Alla fine del 1990 mi scrisse una lettera in cui mi diceva testualmente: ‘Non voglio che il crollo del comunismo porti alla rinascita della reazione. Il Pci lo avrebbe capito, ma quello era il partito di Amendola, Natta, Berlinguer, Ingrao, Napolitano, Macaluso, Chiaromonte, non di Salvi, Veltroni, Fassino, Rodotà, Riva e Bassanini’», spiega un dirigente del Pci con cui non si spezzeranno mai i rapporti, Emanuele Macaluso. «Una volta mi disse che aveva sbagliato a picconare la Prima Repubblica perché non aveva previsto cosa sarebbe venuto dopo. Lui voleva abbattere il sistema fondato sul suo partito, la Dc...». La guerra fredda, «quasi finita», si riapre. In quelle settimane il Pci travagliato dal cambio del nome porta in piazza 100mila militanti per chiedere verità sulle stragi, contro Cossiga. «Una manifestazione autunnale, cupa, tutta rivolta al passato», sospira Iginio Ariemma, all’epoca portavoce di Occhetto a Botteghe Oscure. È la prima occasione perduta per dare uno sbocco istituzionale ai cambiamenti che stanno per terremotare il sistema politico italiano. Torna invece, come una maledizione che ti fa voltare all’indietro, il fattore K. Come comunismo, come Cossiga. ­­­­­41

«In quel momento capii ciò che il dio aveva disposto: tu dirai il vero, ma nessuno ti crederà», si lamenta la Cassandra di Christa Wolf17. E nella primavera del 1991 diventa evidente che lo scontro di Cossiga non è solo con Occhetto e con il Pds, ma tutto interno al vecchio sistema, nel cuore della Democrazia cristiana, il partito del presidente. Dove tutti, ormai, sono uniti da una sola cosa, la voglia di stritolare l’ex figlio prediletto. Come testimonia Enzo Carra che gli è stato amico fino alla morte, avvenuta il 17 agosto 2010: «A un certo punto l’ufficio politico della Dc si divideva tra chi si affidava all’intervento del suo antico padre spirituale di Sassari monsignor Masia, perché gli parlasse e lo facesse rinsavire, chi minacciava di votare addirittura a favore dell’impeachment con il Pci. E chi, più semplicemente, voleva chiamare l’ambulanza». Le due fazioni si schierano l’una di fronte all’altra un pomeriggio di aprile, nel palazzo presidenziale, nel salone della Vetrata. Da un lato c’è tutto lo stato maggiore del partito, il segretario Forlani, il presidente De Mita, i capigruppo Gava e Mancino. Dall’altro c’è Cossiga, da solo. Il più duro è De Mita: è stato lui il regista dell’elezione dell’allievo di Moro al Quirinale, si sente tradito sul piano politico e umano. Il leader irpino ancora oggi ricorda bene la tensione di quell’incontro, «l’odio gonfio e succoso» che allontana per sempre uomini che sono stati amici e compagni di partito. «Francesco collezionava i soldatini, li aveva di fronte a sé sul tavolo, io ne prendo uno e glielo punto contro: ‘posizione d’attacco’, gli dico. ‘Allora mi metto in difesa’, reagisce lui e ne muove un altro», racconta De Mita. «‘Hai superato i limiti della legalità costituzionale’, lo accuso. Comincia un parapiglia». I due soldatini, Cossiga e la Dc, entrano in trincea e non smettono più di spararsi addosso. Le esternazioni presidenziali, fino a quel momento riservate agli uomini di Botteghe Oscure che non hanno capito la sua operazione di traghettamento (Occhetto? «Uno zombie con i baffi». Luciano Violante? «Un piccolo inquisitore, un Vjsinskij, un Beria»), cambiano bersaglio. Puntano sullo Scudocrociato. Un diluvio quotidiano di esternazioni, sempre più violente. Michele Zolla, vice-presidente della Camera, vicino a Oscar Luigi Scalfaro? «Un analfabeta di ritorno». Paolo 17

Christa Wolf, Cassandra, Edizioni e/o, Roma 1990, p. 141.

­­­­­42

Cirino Pomicino, ministro del Bilancio? «Un analfabeta e basta». Il rapporto tra il Tg1 di Vespa e la Dc? «Mamma chiama, picciotto risponde...». Gava? «Una testa senza collo». La Dc? «Un partito di ipocriti e di codardi». A Paolo Guzzanti, suo intervistatore sulla “Stampa”, confessa di sentirsi come il suo maestro nel covo delle Br, abbandonato dal suo partito: «La Dc ha già buttato alle ortiche Aldo Moro, figuriamoci se non ha la faccia di gettare alle ortiche anche me...». E la psicopolitica, per così dire, fa irruzione nel dibattito. «Cossiga è ormai un caso clinico», dice De Mita alla buvette di Montecitorio, «se il medico che lo ha in cura lo eccitasse di meno forse tornerebbe ad essere quello di un tempo». Alla festa dell’Amicizia di Ariano Irpino, intervistato da Enzo Biagi, ripete il concetto: «Cossiga vuole fare un partito? Non c’è bisogno del certificato di sanità mentale per metterne su uno...». Dal Quirinale il presidente replica a stretto giro di interviste: «De Mita è un poveraccio che dice cose miserabili, fossi in lui non dormirei per quello che ha combinato durante la ricostruzione dell’Irpinia». Ammette: «Soffro d’insonnia, è vero, prendo qualche pillola per dormire. Ho nascosto che faccio uso del lassativo, può interessare?». Non dovrebbe interessare, ma fa nulla. Perché i telefoni di ministri, deputati, direttori e giornalisti squillano all’alba, è il Matto del Quirinale che chiama, si difende, contrattacca, si deprime. Si moltiplicano i racconti sulla follia dell’inquilino del Colle. E le copertine con il pugno alzato e i capelli prematuramente imbiancati in disordine, a mostrare una confusione interna ed esterna intollerabile, storica quella dell’“Espresso” del marzo 1991 con il titolo Fuori controllo e relativa intervista a uno psichiatra sul quadro clinico e sintomatico della ciclotimia, con informazioni in fondo utili: «se il paziente non è curato o curato male la condizione di malattia tende a peggiorare e può durare molto a lungo». E chissà se il paziente è Cossiga o la Repubblica, o tutti e due. Spunta la storia di un vecchio ricovero del presidente in una clinica svizzera per malati mentali, ci sarebbe testimone il vecchio Amintore Fanfani: «Io di questa vicenda non so nulla. Ma sa cosa faccio ogni mattina e ogni sera? Io prego per i nostri matti». Uscendo dagli uffici, nelle carrozze del metrò e dei treni rapidi diretti verso la periferia, i parigini hanno scoperto ieri sera l’esistenza ­­­­­43

di quello stravagante capo di Stato leggendo sulla prima pagina di “Le Monde” un’intervista di Francesco Cossiga. [...] A molti francesi può anche essere apparso credibile nel suo ruolo di ‘pazzo’, ma come presidente non deve essere riuscito molto presentabile. [...] Come può restare sulla ribalta internazionale un capo dello Stato che accetta, anzi vuole apparire nelle vesti di un ‘buffone’ [...]? Quale paese democratico e civile accetterebbe di essere rappresentato in quel modo? Ma non è l’Italia, pensano forse non pochi francesi, da ieri sera, un vecchio paese di saltimbanchi e di marionette? (Bernardo Valli, Io buffone e presidente, “la Repubblica”, 13 dicembre 1991).

Il vertice del Sistema parla come il leader anti-sistema. Usa un linguaggio pieno di disprezzo e di sberleffi, come se non fosse il sovrano ma il buffone che dice la verità. La Prima Repubblica agonizza con questo marchio di fabbrica. Lo chiameranno in molti modi: populismo, anti-politica... Il leader che smette di guidare e si mette al livello dell’uomo comune. Il capo che si pone alla testa della rivolta. Il politico da sempre inserito nella foto di gruppo ministeriale, che esce dalla famiglia degli uomini in blu, si infila una maglietta, va in televisione. E come Cassandra lancia il sasso contro la sua stirpe. «Avete ragione di risentirvi quando le vostre critiche sono accolte dai politici in maniera risentita. Alle prossime elezioni potrete operare nella maniera più appropriata, mandando in Parlamento uomini giovani e non compromessi con il passato». Cesare Romiti, l’amministratore delegato della Fiat, lui davvero non è una Cassandra. Non frequenta oroscopi, è un uomo duro e concreto. E non può essere certo inserito tra gli «uomini giovani e non compromessi con il passato»: è il vertice dell’establishment economico del Paese. Per questo quando lo sentono parlare così al convegno degli industriali di Cernobbio, il 15 settembre 1991, nel Palazzo romano cominciano a preoccuparsi. «Come classe industriale diciamo al governo che da oggi in poi intendiamo dividere le responsabilità: ciascuno si assuma le proprie. Da oggi in poi non potremo più arrivare a formule di compromesso con il governo o con la classe politica», ringhia Cesarone. «E se questo governo non è in grado di lavorare con efficienza, dobbiamo ricordargli che in democrazia c’è il ricambio!». La platea dedica ­­­­­44

all’affondo romitiano una standing ovation. «Ci vorrebbe un’altra marcia dei quarantamila, questa volta non per sconfiggere il prepotere del sindacato ma quello dei partiti», traduce ruvidamente l’ex presidente di Confindustria Luigi Lucchini. Ed è un altro pezzetto di muro italiano che frana giù. Perché dopo il Presidente Picconatore, anche questo è uno spettacolo del tutto inedito. La classe imprenditoriale più filo-governativa dell’Occidente che passa all’opposizione. Eppure, meno di un anno prima, il 2 dicembre 1990, il gotha dell’imprenditoria e della finanza italiana si era dato appuntamento all’hotel Leonardo a Bruzzano, alle porte di Milano, accorso in massa al convegno di corrente degli andreottiani del Nord organizzato dal ministro del Bilancio Paolo Cirino Pomicino. Andreot­ti era stato elogiato dal presidente della Confindustria Sergio Pininfarina: «È la prima volta che partecipo a un convegno di corrente. E l’ho fatto solo perché questa corrente fa capo al presidente Andreotti». Presente anche Carlo De Benedetti: «Anche per me è la prima volta. E sono qui perché la presidenza Andreotti della Cee è stata esemplare». Titolo del quotidiano Fiat, “La Stampa”: L’industria scopre di amare Andreotti. «Tra gli industriali e Andreotti è amore aperto e dichiarato. Negli archivi della Dc è impossibile trovare traccia di un flirt simile se si esclude la breve stagione che ha visto Umberto Agnelli vestire i panni di senatore scudocrociato», si legge. E dire che in quelle stesse ore di gloria l’Andreotti in carne e ossa era stato accolto a Venezia da una contestazione e da una pioggia di uova: «Fanno bene alla pelle...», aveva sorriso il presidente del Consiglio. Quanto a Romiti, per sapere cosa pensasse del Divo Giulio bisognava rileggersi l’intervento al convegno dei giovani industriali di Capri dell’anno precedente: «Conosco bene Andreotti e so bene quale valore attribuisca al sistema industriale per lo sviluppo del Paese...». Per questo, quando a Palazzo Chigi e in piazza del Gesù vengono a sapere delle bordate che arrivano da Cernobbio, la prima reazione è di stupore. E poi di indignazione. «Sull’onda di una generale eccitazione, molti si sono lanciati in una specie di gara al massacro, a chi spara di più e più in fretta», tuona Forlani, in preda a un’ira gelida in cui le parole non si misurano più. «Crediamo che, arrivati a questo punto, non basti più mantenere i nervi saldi e continuare a operare fingendo di non vedere il sabotaggio. Per sa­­­­­45

pere che cosa pensa realmente la gente, non accetteremo mai la presunzione che di essa ne siano interpreti pregiudiziali i pistoleros». Chi sono i pistoleros? Quelli che puntano allo sfascio. Quelli che fanno il gioco delle leghe. Il partito trasversale degli irresponsabili, traducono in piazza del Gesù. «Reagimmo così duramente perché avevamo capito», spiega Carra. «Qualche giorno dopo il meeting di Cernobbio a Palazzo Sturzo ci fu un chiarimento tra Romiti e Forlani. E lui ce lo disse con chiarezza: ‘Dovete cambiare, noi non ce la facciamo più’. Sembrava un ricatto». «C’è un disegno per colpire la Dc: quelli che l’hanno sopportata perché c’era il pericolo comunista, ora vorrebbero mandarla a casa. Certi ambienti laici. E diciamo pure certa massoneria. Eccoli i pistoleros: i tecnici e i capi industriali i cui volti compaiono sull’ultima copertina del “Mondo” con il titolo: E se governassero loro?. Ma non si accorgono che corrono un pericolo mortale: quello dell’ingovernabilità», attaccò all’epoca Cirino Pomicino. Un’idea che non ha mai abbandonato l’ex ministro del Bilancio, neppure a distanza di vent’anni: «C’era un’area azionista che immaginava di portare a compimento un disegno storico: essere la guida e la testa pensante di uno schieramento in cui i voti li avrebbe portati il Pci di Occhetto, divenuto Pds. Che, poveretto, come si dice a Napoli, non aveva Ciro da vedere né terra su cui camminare...». Ma gli industriali italiani hanno altre ragioni di inquietudine. A spiegarlo a Cernobbio è il rettore dell’Università Bocconi, il professor Mario Monti. Anche lui non è una Cassandra né tantomeno un pistolero. Affida le sue analisi alla fredda razionalità dei numeri. Però il messaggio è chiaro: l’economia italiana è malata e dovrà sottoporsi ad una cura particolarmente dura per tornare sana. Per esempio il debito pubblico: è al 102 per cento del prodotto lordo e nei piani del governo non dovrebbe crescere oltre la soglia del 102,8 per cento entro il 1994. La Cee, invece, ne fissa il limite al 50 per cento entro il 1993. La percentuale del disavanzo sul Pil: il rapporto dovrebbe arrivare al 6 per cento in tre anni, illustra Monti, un successo non trascurabile visto che oggi è al 10, ma sarebbe uno sforzo quasi inutile per la Cee che fissa il tetto al 3 per cento. Conclusione: l’Italia rischia la serie B. A Cernobbio l’ha detto anche il Nume tutelare degli imprenditori, l’Avvocato che Cossiga ha appena nominato senatore a vita insieme ad Andreotti: «Conosco un modo sicuro di finire in serie B ed è quello di giocare da serie ­­­­­46

B: vuol dire perdendo fuori casa e pareggiando a stento in campo amico». A spingere gli industriali all’opposizione, insomma, non è l’indignazione morale: è una cittadina olandese, Maastricht. Ogni tanto un oratore pronuncia quel nome strano, Maastricht, invocando l’unione dell’Europa senza ulteriori ragguagli. Se qualcuno consulta l’annuario più aggiornato, raccoglie informazioni elementari: «Città dei Paesi Bassi, 115.272 abitanti, sulla Mosa, capitale del Limburgo. Metallurgia, chimica, porcellane, vetro. Chiesa di S. Servazio, secolo XI». Gli oratori evitano di turbare o annoiare l’uditorio illustrando le regole stabilite a Maastricht, pochi mesi fa, per l’ingresso nella comunità monetaria europea. Eppure, il “Wall Street Journal” del 3 marzo ha riassunto la questione in brevi termini. L’Italia che «vive al di sopra dei propri mezzi» dovrebbe ridurre il disavanzo di bilancio annuale dal 10 al 3 per cento del prodotto interno lordo e il debito pubblico da oltre il 100 per cento al 60 in cinque anni. Dunque, per cominciare, la nazione in cui le donne possono andare in pensione a 55 anni e gli uomini a 60 at full rates dovrebbe rinunciare a certi privilegi, o rassegnarsi all’emarginazione «come la Grecia e il Portogallo». Ma non se ne parla proprio d’annunciare tempi duri e pericolosi, anzi alla fine tutto s’aggiusta secondo Giulio Andreotti e qualche ministro everoptimistic (Alberto Ronchey, Provate a spiegare l’Italia all’Europa, “la Repubblica”, 26 marzo 1992).

La firma ufficiale del Trattato sull’unione monetaria nella cittadina olandese avviene il 7 febbraio 1992. Un successo indubbio per il governo di Andreotti che aveva avviato il processo durante la presidenza della Cee nel 1990, riconosciuto perfino dall’Economist: «Andreotti ha colto l’occasione per far passare una decisione storica. Un risultato straordinario»18. Ma paradossale, perché la spinta alle riforme necessarie per restare nel gruppo di testa dell’Europa innesca la crisi del sistema politico italiano. Come intuì il ministro del Tesoro Guido Carli: «La classe dirigente non aveva capito che firmando il Trattato apriva un cambiamento di tale portata che difficilmente sarebbe rimasto indenne»19. E dieci giorni dopo la firma di Maastricht comincia Mani Pulite. 18 19

437.

Paul Ginsborg, L’Italia del tempo presente, Einaudi, Torino 1998, p. 468. Guido Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari 1993, p.

­­­­­47

L’ultima Cassandra di quel maledetto 1991 è quella che fa più male. Perché non è un industriale preoccupato dei suoi investimenti, oppure un presidente impazzito, o un giornalista vanitoso. No, al primo piano dell’arcivescovado di Milano, nelle stanze che furono di san Carlo e di Federico Borromeo, i capi democristiani arrancano come penitenti, stretti nei loro cappotti blu come se fossero sai, con la cenere in testa. Immagine terribile, il 29 novembre 1991, una sera grigia, fredda, sarebbe una pagina di Todo Modo se non fosse così reale e così carica di presentimenti. E se non fosse per la personalità del predicatore, seduto su un tronetto di velluto rosso, il cardinale Carlo Maria Martini. C’è tutta la direzione della Dc al gran completo: Forlani, De Mita, Gava, Gargani, Silvio Lega, l’anziano Fanfani, tutti tranne Andreotti, per questo esame di coscienza collettivo, questo rito di purificazione che nella liturgia democristiana è sempre servito a riaffermare la resurrezione del potere e che invece ora, chissà, sembra chiamare a una lunga, affannosa quaresima... «Fate spazio a uomini nuovi, ponete le condizioni per una loro militanza di partito che non comporti compromessi con la coscienza», scandisce il cardinale. E usa il linguaggio delle parabole: «gli otri che non vanno più per il vino nuovo», e oggi scorre vino nuovo nelle vene dei giovani, nella società del post-comunismo. Ci sono infinite attese e gli otri vecchi non bastano, «ci vuole il coraggio di sostituirli», «la toppa nuova e il vestito vecchio, perché serve il coraggio di cambiare vestito, di cambiare strutture, d’innovare quanto è necessario ad ogni livello e presto perché le toppe vecchie rompono il vecchio e il nuovo». E soprattutto, «il fico dalle belle foglie, ma senza frutti, che Gesù maledice dopo averne ammirato il fogliame, oggi diremmo i bei discorsi e i nobili propositi: ma è il frutto che ci vuole». Non è una predica isolata. Da mesi il mondo cattolico è in fermento contro il suo tradizionale partito di rappresentanza. E anche in questo caso la rivolta arriva dall’alto. La Conferenza episcopale ha appena approvato un documento intitolato, significativamente, Educare alla legalità. E ogni affermazione suona come un richiamo durissimo verso gli uomini che fanno politica in un partito che ha per simbolo la croce. I vescovi se la prendono con «l’iniquo legame tra politica e affari», «l’imposizione delle tangenti a chi chiede anche ciò che gli è dovuto», «il neo-feudalesimo», ­­­­­48

«l’eclissi della moralità», «le risposte istituzionali troppo deboli e confuse, talvolta meramente declamatorie, che rendono la coscienza civile sempre più opaca», «il “comparaggio” politico o criminale», «l’asservimento della legge» e perfino il «lessico oscuro» utilizzato dai politici. E forse i Forlani e gli Andreotti vorrebbero gridare: ma come, ci avete sempre votato e adesso non vi piace più neppure come parliamo? E invece no, tocca prendersi il ceffone e stare zitti. «È stato un incontro simpatico», mormora Forlani dopo la reprimenda di Martini. Come un angelo vendicatore, in questa apocalisse democristiana, il cardinale ha detto la parola fine sulla storia della Dc: un fico che era rigoglioso ma che ora non porta più frutto. E che sarà tagliato. Alla vigilia delle elezioni del 1992 Cossiga non è più l’unico picconatore in circolazione. C’è una buona parte dell’establish­ ment che si è messa a fare lo stesso: imprenditori, capitani di industria, cardinali. Ma nel Palazzo lo sostiene solo il piccolo e irrilevante Msi del giovane segretario Gianfranco Fini che gli offre, nientemeno, la guida di un Terzo polo, «distinto da quello comunista e da quello conservatore a guida democristiana». Cossiga non sembra più costituire un problema, anche se ha ancora un compito delicatissimo prima della scadenza del mandato: assegnare l’incarico di formare il nuovo governo. Il 16 aprile, undici giorni dopo le elezioni che hanno visto la sconfitta del quadripartito, la Velina di Orefice, informatissima sull’andamento delle giornate presidenziali («Cossiga arriva al Quirinale dalla sua abitazione digiuno, offre all’interlocutore del thè al latte o al limone, del caffè e brioches appena sfornate...», «Cossiga non si è voluto privare del gusto di collaudare personalmente la nuova Fiat 500 che gli è stata presentata da Agnelli al Quirinale. Ha pilotato la nuova vettura fuori dal palazzo, per qualche centinaio di metri»), comunica che incontrando il liberale Biondi, il presidente ha ipotizzato il seguente organigramma: Andreotti alla presidenza del Senato, un socialista (Labriola o Amato) alla presidenza della Camera, Martinazzoli a Palazzo Chigi e Craxi al Quirinale. «Si tratta di idee buttate lì, ma che hanno una loro logica», commenta Orefice quella sera. E invece nove giorni dopo Cossiga lascia. Si dimette anticipa­­­­­49

tamente dalla presidenza della Repubblica, invertendo il gioco delle poltrone: prima il Quirinale, poi Palazzo Chigi. Sceglie il 25 aprile, data non casuale, per annunciare le sue decisioni. Un evento misterioso. «Buttò tutto all’aria all’improvviso e si dimise», ricorda il socialista Rino Formica. In apparenza l’ennesimo colpo di testa, dopo l’elezione del rivale Scalfaro alla presidenza della Camera, in realtà un gesto a lungo meditato. Già da qualche mese prima Cossiga comincia a manifestare qualche perplessità sulla candidatura di Craxi a Palazzo Chigi. Nel dicembre 1991 avvicina il direttore del “Giorno” Francesco Damato, super-craxiano, durante una cerimonia alla prefettura di Milano e gli chiede se il leader socialista punta su Palazzo Chigi o sul Quirinale. «Io fossi in lui punterei sulla presidenza della Repubblica, ma è una mia idea personale», risponde il giornalista. «Può darsi che tu abbia ragione», lo interrompe Cossiga. «Ma nella Procura di Milano non amano la famiglia Craxi...». All’arresto di Mario Chiesa mancano ancora due mesi e l’inquilino del Quirinale è già informato di come andranno le cose. Nessuno lo sa, ma in quelle settimane il centralino del Quirinale, alle cinque e mezzo del mattino, compone il numero di un ancora sconosciuto pm milanese, Antonio Di Pietro. Agli occhi di Cossiga ha soprattutto un merito: è uno dei sei magistrati che in tutta Italia si è rifiutato di aderire allo sciopero di protesta delle toghe contro di lui. Un rapporto che ha il suo peso quando arriva il momento di dare la picconata finale, quella decisiva. «So che oltre a telefonarsi con Di Pietro si incontravano spesso», ha raccontato una volta il capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli. Carra conferma: «Cossiga aveva direttamente e indirettamente un filo con Di Pietro, canali di informazione riservati, seppe in anticipo cosa stava per accadere». Macaluso è ancora più esplicito: «Si dimise perché se fosse rimasto in carica avrebbe dovuto incaricare Craxi di formare il nuovo governo. E lui non voleva farlo. Era in strettissimi legami con il pm Di Pietro e con la Procura di Milano. Sapeva tutto, aveva già capito come sarebbe andata a finire ben prima che arrivassero i primi avvisi di garanzia e si dimise per voltare pagina. E allora davvero crollò tutto». Cossiga si è limitato anni dopo a rivelare che chiese notizie alla Procura di Milano su di un possibile coinvolgimento di Craxi nelle indagini: «Fui informato che non esisteva niente relativamente ­­­­­50

a Craxi, ma che qualcosa esisteva per quanto riguardava alcuni suoi compagni. Fu ad aprile, una settimana dopo le elezioni. Poi mi sono dimesso»20. Le parole con cui si congeda possono conferire una più alta statura al personaggio e l’epilogo può attribuire un senso nuovo all’azione. Nulla d’ora in poi sarà più come prima perché nessun italiano potrà dimenticare che il capo dello Stato ha usato il suo ultimo potere – quello di dimettersi – per denunciare al Paese gli errori e i vizi del regime politico di cui il Paese è prigioniero. Con le sue ultime parole Cossiga ha giocato alla oligarchia politica del Paese il suo tiro peggiore: ha lasciato, uscendo di scena, la parola agli italiani. Il messaggio è stato lungo, talvolta ripetitivo e non privo di qualche vena demagogica, ma credo che gli italiani abbiano avuto la sensazione, per la prima volta da molti anni, che qualcuno stava parlando con loro e li invitava a prendere la parola. L’ultimo messaggio di un presidente uscente potrebbe essere il primo messaggio di una nuova democrazia (Sergio Romano, Tiro mancino alle oligarchie, “La Stampa”, 26 aprile 1992).

«Le dimissioni furono il fatto più importante della mia presidenza», racconterà anni dopo il Picconatore. Il gesto con cui il «buffone» si consegna alla Storia come l’eroe della ritirata, l’uomo che arretrando porta con sé tutto il sistema. La Cassandra del Quirinale ha esaurito il suo compito, ma il dramma della Repubblica è appena all’inizio. Come sa bene Cossiga: «Lasciando il Quirinale, a casa ho trovato una candela e l’ho accesa. Poi è venuto il temporale: le candele degli altri si sono spente. La mia è rimasta accesa». 20

Francesco Cossiga, Mi chiamo Cassandra cit., p. 151.

III

La Rivolta

Bari, 28 giugno 1991, ore 16.56 – Un panfilo bianco ‘old style’, di proprietà di un miliardario greco amico di Papandreu e di Mitterrand, è stato l’albergo di Bettino Craxi nella sua prima notte barese. Il Christina, lo yacht-gioiello di Nicolaus Christodulopoulos, ha accolto il segretario socialista e signora di ritorno da un ristorante sul lungomare di Palese, dove avevano cenato insieme ad un ristrettissimo numero di collaboratori. Si tratta del locale preferito dal leader del Psi ogni qualvolta viene a Bari, rinomato per le specialità gastronomiche a base di pesce fresco. Sul ponte superiore del Christina, un natante lungo circa 50 metri e che ha nove uomini di equipaggio, il segretario socialista ha potuto godersi un po’ della brezza marina serale che ha in parte attenuato l’aria resa irrespirabile dalla calura e dall’afa. Una serata tranquilla giusto per riprendersi dalle fatiche del pomeriggio. Un po’ di vivacità è invece in programma stasera, quando sullo yacht saliranno per una festa sinora ‘top secret’ una settantina di persone (Ansa).

Le luci si spengono, nel grande capannone sulla via Ardeatina, nella zona dell’Eur. Sulle panche di legno sono seduti uno accanto all’altro studenti universitari reduci dal movimento della Pantera e professionisti affermati, il chirurgo famoso vicino all’Opus Dei, con i baffi ben curati e la moglie già abbronzata, e i ragazzi con le treccine rasta. E avvocati, notai, professori, qualche giornalista, hanno tutti avvertito che faranno tardi in questa riunione improvvisata dove si respira un’eccitazione carbonara. Nella sala è stato ammesso un solo politico, il deputato democristiano Mario Segni, accolto dagli applausi. Ma non è lui il leader di questo popolo che non ha niente in comune, deve fiutarsi, parlottare, imparare a conoscersi. Vanno giù le luci, sul grande schermo appare il volto cinico del ministro Cesare Botero, interpretato da Nanni Moretti: «Le vede queste due rughe qua intorno al naso? Sono per la ­­­­­52

felicità, è per quanto ho riso. Eppure in uno dei miei sogni più ricorrenti mi guardo allo specchio, e allo specchio non c’è niente. Sa di chi è questa frase? Di Andy Warhol...», rivela. E poi c’è il giovane Silvio Orlando, nel ruolo del professore di liceo Luciano Sandulli, timidissimo assistente del ministro piazzato nel comitato elettorale a ricevere i postulanti: Dirigente sanitario: Questo è l’elenco degli anziani ricoverati nei nostri reparti... circa quattromila ospiti... tutti voti che nelle elezioni precedenti sono andati a Castri e che ora possono cambiare bandiera... Luciano: Lei vuol dire che... che può convincere i ricoverati a votare Botero? E come fa? Come fa a sapere che quei quattromila voti che le hanno promesso, poi, nel segreto dell’urna... Dirigente sanitario: Ma quale segreto! Guardi, è matematico. In ogni scheda puoi dare fino a cinque preferenze, no? Per i gruppi più piccoli e omogenei basta la tripletta, per i più complessi ci vuole la cinquina. Luciano: Come sarebbe? Dirigente sanitario: Allora, Botero è il numero uno. Tripletta: 1 seguito da 4 e 5 sono i voti dell’Ente mutilati, 4-1-5 sono i conventi, 5-4-1 sono le cliniche convenzionate. Le cinquine servono per posti più grandi. 1-6-9 l’Ospedale maggiore, 5 in quarta riga il gerontocomio, 2 in quinta è Luigi, l’infermiere degli allettati con piaghe da decubito, che m’ha promesso 65 voti pure stavolta... (Luciano prende furtivi appunti, rilegge, nei suoi occhi c’è il vuoto.)

In tanti hanno già visto al cinema quel dialogo, ridono quando il dirigente sanitario dimostra come utilizzando i numeri delle preferenze si può annullare la segretezza del voto, conoscono le battute a memoria. È una delle scene clou del film di Daniele Luchetti Il portaborse, uscito nelle sale poche settimane prima. Il comitato che si batte per il sì al referendum che abolisce le preferenze multiple ha adottato il film come testimonial. E in quella serata all’Ardeatina un imprenditore romano ha aperto i cancelli della sua residenza per un dibattito con Segni, il presidente dei referendari, e annessa proiezione di alcuni spezzoni. Non è un’iniziativa isolata: in tutta Italia sono spuntati i banchetti con la locandina del film trasformata in manifesto politico. Il portaborse esce nelle sale venerdì 5 aprile 1991, esattamente un anno prima delle elezioni terremoto del 1992. All’inizio delle ­­­­­53

inchieste di Mani Pulite mancano ancora nove mesi, ma in questa attesa inconsapevole del Crollo per la prima volta un movimento politico trasversale si organizza da solo, senza capi e senza ideologie. Un fai-da-te della protesta che si mobilita su una battaglia in apparenza irrilevante, il quesito referendario che riduce a una le preferenze sulla scheda elettorale della Camera. E che trova come suo vessillo non un simbolo di partito, ma un film. La storia è semplice: Luciano, un professore di lettere di liceo, provinciale, ingenuo e appassionato, entra in contatto con il potente ministro delle Partecipazioni statali Cesare Botero e viene assoldato per scrivergli discorsi e dichiarazioni. La sua vita cambia radicalmente: la sua casa della costiera amalfitana viene dichiarata monumento nazionale e subito restaurata, la fidanzata viene trasferita in un liceo della Capitale, lui riceve in regalo una Bmw rossa fiammante decappottabile con radiotelefono... Il professore impara a conoscere direttamente le dinamiche del potere, cos’è e cosa sta diventando la politica all’inizio degli anni Novanta. Una mutazione genetica, antropologica: lasciare la macchina da scrivere e passare al computer. Oppure realizzare i brogli con il calcolatore elettronico e non più utilizzando la matita. O abbandonare le appartenenze ideali, i partiti che si fondavano sui militanti e sulle sezioni, e tuffarsi nell’era della politica personalizzata. Gli staff del leader, che nel 1991 non esistevano ancora, e che nel film sono già onnipresenti e operanti, hanno sostituito le vecchie strutture. I piano bar, i night, lo champagne a fiumi mentre si firmano i decreti e si decidono le nomine, i brindisi, i maccheroni allo stracotto. La retorica delle liberalizzazioni da parte di chi ha occupato lo Stato in ogni angolo e ora vuole svenderlo e ricomprarlo a prezzi stracciati: «Abbiamo ceduto il 10 per cento dell’ente chimico nazionale a una società canadese», dichiara il ministro in una conferenza stampa (e gli sceneggiatori non possono sapere che un anno e mezzo dopo la classe politica al gran completo sarà chiamata in tribunale a rispondere dell’operazione Enimont). Squarci di futuro sulla politica che verrà: le partite a ping pong in giardino, le ville con piscina, le segretarie dall’accento esotico. E poi gli accappatoi bianchi, la ragazza che si sente male nella stanza del ministro... La libreria che spunta nelle riprese alle spalle del politico, a trasmettere affidabilità e autorevolezza, ricca di volumi mai aperti e che non saranno aperti mai. ­­­­­54

La politica al passaggio d’epoca, simboleggiato dalla messa in piega di Rosanna Cancellieri del Tg3, dagli occhiali modello Lozza del ministro (saranno recuperati vent’anni dopo come oggetto vintage in seguito all’arresto del faccendiere Luigi Bisignani per il caso P4), dai call center per contattare gli elettori e soprattutto dall’avvento degli spot, il glamour straccione che convive con i vecchi metodi di raccolta del consenso. Moderno-elettrizzante quello di Botero, tutto zoom, immagini sfocate, rallenty e macchina a mano, primi piani sulla bocca del ministro che addenta un panino, «cos’è che ha impedito all’Italia di essere grande? Due religioni, due fedi, due chiese, quella cattolica e quella comunista...». Al ministro, però, tutta questa modernità non piace granché, in un’epica sfuriata fa a pezzi la cassetta vhs dello spot con una mazza da golf e azzanna il suo staff. «Come siamo messi con queste televisioni?», s’informa. «Ci danno quattrocento spot nazionali a un quarto del prezzo di mercato ma dobbiamo tenerci questo regista, è il fratello dell’amante del...», risponde il segretario. «Un quarto? Sei un imbecille! Noi per quei signori abbiamo fatto una legge in Parlamento con cui gli abbiamo regalato la metà del mercato pubblicitario televisivo di questo paese!». Il portaborse diverte e fa incazzare. Nel cinema romano Rivoli, a due passi da via Veneto, nella prima settimana incassa oltre 8 milioni di lire, tutto esaurito in ogni spettacolo (alla fine saranno otto miliardi di incasso). Tra gli spettatori c’è anche il vice-segretario del Psi Giulio Di Donato, napoletano, uno dei volti più rampanti del nuovo partito, trascinato al cinema da Barbara Palombelli per “la Repubblica” il primo giorno di programmazione. «Arriva in anticipo, accompagnato dalla scorta. Si stupisce: ‘Credevo non ci fosse nessuno... Sarà da quando avevo sedici anni che non vado al cinema a quest’ora. Forse l’ultima volta è stato quando ho visto I Dieci Comandamenti con la scuola’...». Di Donato è inizialmente ottimista: «La gente sa che la politica non è così, che non si passa dalle cene ai night. Il potere vero si conquista lavorando duro, con una fatica incredibile: io ho cominciato all’età di sedici anni, Gianni De Michelis andava fuori dai cancelli del petrolchimico di Marghera a dare volantini... Eppoi, il potere corrompe chi vuole farsi corrompere». [...] Ma il frullato delle immagini che scorrono sullo schermo non lascerà alcun dubbio negli spettatori: ­­­­­55

è sicuramente un socialista quel ministro cinico e crudele, eletto al Parlamento grazie a un imbroglio, uno che tradisce la moglie e tratta male i suoi collaboratori fino al punto di provocare infarti e suicidi. Quando si accendono le luci e finisce il primo tempo, Di Donato non ha più voglia di ridere e scherzare. Spara contro la pellicola: «È un film per bambini, un cartone animato in cui tutto il bene sta da una parte, quella della società civile, e il male dall’altra, nella politica. C’è una sola notazione positiva: le donne sono molto carine». E quelle del Psi sono brutte? «No, ma è gente che lavora dodici ore al giorno...». Secondo tempo. [...] I ragazzi presenti in sala ridono quando il portaborse riceve in anticipo dalla segreteria del ministro il testo dei temi di maturità (dacceli pure a noi, gridano). L’umore dell’uomo politico diventa invece pessimo: «Viene da vomitare... Dovremo fare qualcosa contro questa immagine deformata, contro questa propaganda, ma il rischio è che poi finiamo per fargli pubblicità». [...] Mentre escono i ragazzi ed entrano gli spettatori delle sei, Di Donato sembra assorto. Come se contasse, da oggi in poi, a quanta gente verrà raccontata la storia del ministro socialista... (Barbara Palombelli, Va in scena il ministro duro, cattivo e socialista, “la Repubblica”, 6 aprile 1991).

Il vero protagonista, nonostante la spaventosa bravura di Moretti nel dare vita a un personaggio odioso, resta il piccolo professore idealista ammaliato da un vortice di regali e raccomandazioni, sedotto e abbandonato dall’idea che il Sistema possa reggere tutto. Il professore-portaborse che non perde l’illusione di essere nel giusto, è, come lo sferza Botero, un’anima bella, «le figurine del presepe, le persone oneste, ne ho conosciute tante, erano tutte come te, con voi il mondo diventa più colorato, ma non cambia mai...». Sarebbe un moralista, ma nessuno può davvero fare la morale quando tutto è stato comprato e venduto. È la società civile che dalla politica ha ricevuto per decenni crescita e benessere e che i Botero ha continuato a votarli anche quando la loro spinta si era esaurita. E che ora prova a recuperare l’innocenza perduta, con rabbia. La scena finale, la spider decappottabile regalo del ministro distrutta dalla furia di Luciano, anticipa la pioggia delle monetine contro Craxi fuori dall’hotel Raphael. Mentre il ministro Botero, che attacca il «qualunquismo dilagante» e che ringrazia gli elettori facendo sfoggio di ottimismo («L’economia italiana tira, la lira è in netta ascesa su tutti i mercati, la locomotiva Italia ha smesso di essere un trenino a vapore e corre veloce ­­­­­56

verso il Duemila...»), pochi mesi prima della svalutazione, ha già il problema di sopravvivere alle inchieste giudiziarie che lo assillano. Attraverserà la Seconda Repubblica fino ad arrivare al 2006, quando alla vigilia di un altro scontro elettorale Botero-Moretti, diventato il premier Caimano, proclamerà la guerra civile contro i magistrati. Mentre nessuno, davvero nessuno, può prevedere nel 1991 che undici anni dopo Nanni Moretti si trasformerà davvero in un carismatico condottiero politico, alla testa di un movimento allegro, spontaneo, fuori dai partiti. Saranno chiamati Girotondi. «Ragazzi, al massimo possiamo essere un giornale-tettoia, un giornale che fa ridere e pensare. Anche se vien da piangere a pensare che le uniche persone rimaste serie siamo noi comici». Se Il portaborse è il film cult, la bibbia del movimento anti-partito a sinistra è un foglio verdolino formato tabloid, dodici pagine ogni settimana gonfie di sberleffi, delusioni, livori, rancori, nemici, desideri, sogni, rimpianti. Un successo editoriale, 155mila copie il primo numero, 130mila il primo anno, una festa ogni estate sulla riva dell’Enza a Montecchio dove sbarca un popolo variegato a buttare giù il muro di Bettino, un ciclone che nel primo anno di vita scuote le fragili radici della Quercia di Occhetto. “Cuore”, direttore Michele Serra, «settimanale di resistenza umana», nella travagliata alba degli anni Novanta è molto di più di un giornale di satira nato da un inserto dell’“Unità”: è una comunità sentimentale, come dice la testata stessa, è «la più colossale raccolta di graffiti da cesso del mondo», ammettono i redattori sconcertati dalla valanga di volgarità che si abbatte ogni settimana nella rubrica «Il Giudizio Universale», l’elenco delle cose per cui vale la pena vivere indicate dai lettori, dove «la figa» precede la musica, «toccare le tette» è più gettonato della pace e «vedere la fine di Andreotti» è una soave aspirazione rispetto a «Formigoni che perde la verginità ad opera di Tyson». C’è anche, prepotente, un enigmatico «vedere la fine della Dc di Agugliaro», paese del Vicentino di 2mila abitanti, dove “Cuore” viene distribuito in tre copie e dove il partitone bianco governa da sempre: con oltre 2.500 voti sfiora l’ingresso nei valori caldi, i primi venti della classifica. «Nazisti, figli della cultura che ha prodotto il terrorismo», per il direttore del “Popolo” Sandro Fontana che non apprezza la copertina sul delitto Lima («Come John Lennon, Lima ucciso da un ­­­­­57

fan impazzito. Le ultime parole: ‘La mafia non esiste, dunque giovanotto la smetta di spararmi addosso’»). «“Cuore” è una stupenda e collettiva negazione del principio di realtà», sentenzia Bruno Gambarotta. «Aspirante foglio libero di un partito del radicalismo politico», lo definisce Michele Smargiassi su “Repubblica”, «che guarda più agli antiproibizionisti, ad Amnesty International, agli immigrati e a don Ciotti che ai maneggi fra partiti più o meno cugini». Ma per i partiti della sinistra tradizionale “Cuore” è in qualche caso una coscienza critica, spesso una mina vagante pronta ad esplodere, sempre un problema. Più che gli amici, Pannella e Orlando, Veltroni, Taradash (versione anti-proibizionista) e Luigi Pintor, Tina Anselmi, la deputata democristiana anti-piduista che per mesi è in prima pagina con la coccarda tricolore «Tina for president», contano i nemici. Sempre gli stessi, soprattutto uno, Craxi Bettino e la sua tribù. Sui socialisti la banda Serra dà il meglio di sé. Ecco il titolo sulla Milano da bere, un anno prima di Mario Chiesa: «Milano: la giunta fa fronte alla Duomo Connection. Pronto il terzo anello di San Vittore. Smentite le voci di un rimpasto politico: Al Capone ha ritirato la candidatura». E l’immortale: «Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti» (nel sommario: «La Ganga e Teardo preparano la prima riforma istituzionale: sostituire all’ora legale l’ora d’aria. Dopo un incontro all’Onu Craxi cerca nuove soluzioni, De Cuéllar cerca il suo cartier d’oro. Tessera onoraria a tutti gli orologi d’Italia: questa notte rubano un’ora»). È più che satira. Settimana dopo settimana “Cuore” crea un linguaggio comune, l’unico accettato da tutti in quella Babele che è diventata la sinistra italiana post-comunista, nell’età di mezzo seguita alla caduta del Muro in cui noi di sinistra solo questo sappiamo dirti, quel che non siamo: ladri, yuppie, individualisti, arricchiti, maneggioni, insomma socialisti. I traditori dell’ideale. Gli antropologicamente mutati. La sinistra che è diventata destra, con cui è impossibile soltanto pensare a un’alleanza. E “Cuore” finisce per essere, questa è davvero una bella pagina di satira, il principale ostacolo al disgelo tra Pds e Psi. Nel Psi considerano quelli di “Cuore” il nemico numero uno. «Stalinisti!», grida il ministro Rino Formica, che poi sarebbe il più a sinistra del Psi, prima di lasciare la festa di Montecchio tra i fischi. «La cultura di “Cuore” è il peggio del dogmatismo comu­­­­­58

nista», tuona Gianni De Michelis. «Chi guarda con gli occhiali di “Cuore” è vile, sghignazza sulla forma e non ha il coraggio di arrivare alla sostanza», si disgusta Giuliano Amato. «I dirigenti del Pds parlano come “Cuore”, il loro linguaggio è da vignetta. Coltivano un sentimento anticraxiano invece di far politica realmente». Nel partito post-comunista in mezzo al guado “Cuore” imbarazza. «Giornalisti di regime. Bugiardi, moralisti che dicono di non volersi sporcare le mani con la politica e invece ci stanno dentro fino al collo ma non hanno il coraggio di dirlo. Con loro l’eterno e invincibile partito delle teste di cazzo acquisisce quadri di sicuro avvenire», li scomunica il compagno Maurizio Ferrara, ex direttore dell’“Unità”, il papà di Giuliano, tanto per dire quali umori suscitano quelli di “Cuore” nella vecchia guardia togliattiana. «“Cuore” l’ho creato io, dopo la chiusura di “Tango”, sulle pagine dell’“Unità”», si vanta Massimo D’Alema. «Ma è infantile pensare che le nostre scelte siano condizionate da un settimanale satirico. La politica del Pds non si riduce solo ai lettori di “Cuore”». Però una sera d’estate il popolo di “Cuore” si accanisce contro di lui, il numero due del partito, il figlio prediletto della tradizione comunista: «Troppo funzionariale», lo accusano i cuoristi. E quando il settimanale di Serra spara in copertina un Occhetto a metà strada tra Raul Casadei e Jovanotti, sotto il titolo «Un due tre casino! Via con la ‘svolta’, il ballo che fa impazzire gli italiani», partono addirittura «telefonate di chiarimento» tra il segretario del Pds e Serra, come tra leader avversari. Mentre il Pds in quei mesi fatica a diventare davvero il partito della svolta, c’è un foglio satirico che si trasforma in un partito. Un capovolgimento burlesco, che sia questo il moderno principe di Gramsci, il giullare che si fa re? Una inedita egemonia culturale: al posto del comunismo la comicità. Con un popolo trasversale della sinistra che si ritrova nelle incazzature verdoline ben più che nei confusi e malinconici comunicati di partito. E che raccoglie compagni delusi, ex elettori del pentapartito e perfino neoelettori della Lega. Talmente numerosi che la redazione li chiama i cuoristi-leghisti, a partire da Ueppo Brambilla, nickname del lettore tipo incazzato-padano. «Ho trent’anni, diedi il mio primo voto ai radicali, votai poi per il Pci, anche se aleggiava un’ombra di morte. Poi venne la Lega. Un vento di rabbia, un urlo di esasperazione. Che poi un uomo volgare come Bossi sia una cattiva ­­­­­59

pubblicità a questa idea, ciò non significa che l’idea sia in sé sbagliata», scrive Massimo. Ma il grosso dei lettori ha un sogno ancora più ambizioso: mettersi in proprio, fondare il partito di “Cuore”. «Siccome non sappiamo più cosa votare e tutti i partiti ci fanno schifo, perché non candidare “Cuore” alle elezioni? Considerando che i lettori sono 200mila, se tutti votassero arriveremmo allo 0,5 per cento. Ve lo immaginate Vincino che finalmente non sarebbe buttato fuori a calci nel culo da Montecitorio! Ps: È una proposta seria», si lancia il lettore Luca di Arezzo. Prova a rispondere Patrizio Roversi: «Avete mai visto il babbo o il nonno imbottigliare il vino? Si fa così: si mette la damigiana sul tavolo e si succhia, per creare il vuoto. Così si riesce a travasare il vino: creando il vuoto. Il grande vuoto, la grande depressione degli anni Novanta ha aspirato e ispirato il successo di “Cuore”. Ma dubito che “Cuore”, da solo, riuscirà a riempire la bottiglia vuota». Più che un partito, “Cuore” è un’ipoteca: pronto a salire sulle barricate ogni volta che i vertici ufficiali sembreranno smarrire l’identità e l’innocenza, attento a bastonarli in nome della purezza perduta, stimolo e freno, croce e delizia, richiamo alle origini gloriose e indice di tradimento per ogni leadership futura. Il segno, in ogni caso, che la politica dei partiti, anche a sinistra, si è dispersa, non c’è più. Che bisogna cambiare gioco o almeno essere all’altezza di affrontare un dissenso che non passa più dai documenti nei comitati centrali, stile “Manifesto”, ma dallo sberleffo, stile “Cuore”. E più tardi arriveranno Nanni Moretti, Sabina Guzzanti, Beppe Grillo. C’è anche lui, in quell’inizio di anni Novanta, sulle pagine di “Cuore”. A Montecchio lo candidano al Quirinale, il presidente ideale. Michele Serra collabora alla scrittura dei suoi spettacoli teatrali. E all’inizio del 1992 il comico cacciato dalla Rai per la sua battuta sui socialisti «tutti ladri» intuisce il clima del momento e si presenta solo sul palcoscenico. È vestito di nero, «non Armani come Michele Santoro», sul tavolo c’è un telefono, una linea verde con cui contattare l’interlocutore di turno. L’apice dello spettacolo arriva quando il pubblico, per la prima volta, viene invitato da Grillo a gridare la sua indignazione con un semplice urlo: fanculo. «Il fanculamento dei politici è un mero pretesto per fanculare la gente», spiega. «Perché è colpa nostra se siamo ­­­­­60

ancora comandati da questa gente. E i partiti nuovi fanno ancora più schifo di quelli vecchi. In Italia la situazione è talmente deteriorata da lasciar presagire un futuro nero. Nero come la pece». Il popolo del Vaff, lo chiameranno negli anni successivi. Quando Grillo diventerà davvero un leader. E la satira, uscita dai teatri e dai giornali, si farà partito. (Che poi, ad Agugliaro, il paese vicentino entrato nella classifica dei cuoristi, la fine della Dc è davvero alle porte: nel piccolo comune, nel 1992, alle elezioni lo Scudocrociato conquista il 42 per cento, nel 1994 raccatterà appena il 10. Ma non sarà la sinistra ad approfittarne: la coppia Lega-Forza Italia sfiorerà il 44 per cento. E per vedere la fine di quest’altra storia varrà la pena vivere, in effetti, ancora molto a lungo.) Sul referendum sulla preferenza unica si muove un fronte stranamente assortito. La stampa cattolica e i centri sociali, il settimanale satirico “Cuore” che regala ai lettori un poster con il volto di Craxi («Se non voti Sì, finirai così») e i giovani di Confindustria, il “Giornale” di Indro Montanelli, “la Repubblica” e “l’Espresso”. A Milano vengono sorpresi a fare volantinaggio insieme la coppia Gino e Michele, il liberale Antonio Baslini (il padre con Loris Fortuna della legge sul divorzio) e il cantautore Ivan Della Mea, firmano l’appello anti-astensionista Alberto Falck, Leopoldo Pirelli e Umberto Eco, Marcello Mastroianni e Federico Fellini. Uno strumento che da decenni non va più di moda risorge in quella primavera del 1991 su un argomento che in tanti considerano tecnico, incapace di mobilitare. Più di tutti Bettino Craxi che ha invitato gli elettori ad «andare al mare», sicuro di avere una vittoria facile a portata di mano. Lo stesso ha fatto, in sorprendente e rivelatrice sintonia, il nuovo convitato della politica italiana, il leader della Lega Umberto Bossi: «Il vero referendum saranno le prossime elezioni!». Finisce invece nel modo più inatteso: il 9 e il 10 giugno vanno a votare in 29 milioni, i Sì sono una valanga, oltre 27 milioni. Vanno a votare il cardinale Martini e le star Fininvest come Mike Bongiorno e Marco Columbro. Sulla preferenza unica si consuma la prima lite pubblica tra Bettino e Silvio, troppo calorose le reti Fininvest con i referendari: «Mi sono ritrovato solo», sbotta il segretario del Psi. «Non ho fatto neppure una campagna di spot, mentre gli altri ­­­­­61

l’hanno fatta, anche sulle tv private. Del resto, anche la Fininvest è senza patria. Lei incassa e basta!». E quando Craxi si lamenta con Berlusconi dell’ostilità del “Giornale” di Montanelli («Ma questi fanno un giornale leghista!») la risposta del Cavaliere è da ricordare: «Montanelli è un direttore indipendente, io non posso dirgli nulla». C’è da capirlo: per Craxi, il politico che più di tutti ha puntato le carte sulla Grande Riforma, la modernizzazione del sistema, è la prima vera sconfitta. «Uno shock politico», lo definisce Edmondo Berselli, «un festoso plebiscito». Sì, ma chi sono, da dove spuntano gli italiani che hanno affollato le urne per dire che sono stufi del sistema politico fondato su questi partiti? Saranno chiamati, nel corso degli anni, popolo dei fax, popolo delle mail, popolo delle primarie. Di certo, non sono populisti come quelli che, dall’alto del pulpito quirinalizio o dal basso delle vallate bergamasche, invocano una via d’uscita autoritaria dal sistema. E non sono antipolitici, come si continuerà a ripetere negli anni successivi. Tra chi chiede il cambiamento c’è chi non ha mai smesso di credere nella politica. C’è chi si era rifugiato nel disincanto negli anni Ottanta e in quel periodo torna al gusto dell’impegno. E c’è chi si impegna per la prima volta. Società civile, la chiamano, per comodità. Si è ribattezzato così il circolo fondato a Milano già nel 1985 da Nando dalla Chiesa e da altri 103 soci (nel nucleo iniziale, Giampaolo Pansa, Camilla Cederna, Corrado Stajano, il futuro pm di Mani Pulite Gherardo Colombo e il suo collega Giuliano Turone, i magistrati che hanno scoperto gli elenchi della P2, Nando Benigno, Paolo Brera, Gianni Barbacetto) per «riprendere a fare politica», con l’obiettivo di strappare i valori universali del primato della persona e del rispetto della legalità alle logiche di parte. Parole impronunciabili nella Milano da bere dei Craxi e dei Pillitteri, che passa indistintamente dalle giunte rosse al pentapartito ma rimanendo nello stesso colore, il grigio cemento. Nel primo numero della rivista nata dall’associazione, infatti, in copertina c’è Palazzo Marino raffigurato come una grande giacca ritagliata addosso a Salvatore Ligresti. Ma Società Civile non è solo un circolo milanese. A Palermo, dal capo opposto della penisola, c’è alla fine degli anni Ottanta la giunta del sindaco democristiano Leoluca Orlando: a Roma la considerano anomala perché, unico caso tra le grandi città, la Dc ­­­­­62

ha rotto l’alleanza con i socialisti e ha stretto un accordo con il Pci. Ma anomalo, soprattutto, è il movimento trasversale che sostiene la Primavera palermitana: parenti delle vittime della mafia, ambientalisti, studenti e professionisti, i gesuiti del centro Arrupe padre Bartolomeo Sorge e padre Ennio Pintacuda, il coordinamento antimafia protagonista di una feroce polemica con Leonardo Sciascia. E anomalo è anche il giovane sindaco: ciuffo nero a mezzaluna, carnagione libica, occhiaie profonde, sguardo irrequieto. Richiama auto blindate, fiaccolate, tramezzini trangugiati alle tre di notte, sfida la mafia e il Caf, «punta tutto sull’emozione della diretta, rendita sicura per i demagoghi di talento come lui», lo detesta Giuliano Ferrara. Nel 1990, a Muro appena caduto, Orlando si candida come capolista della Dc alle amministrative. «Fossi a Palermo voterei dal numero due in giù», ordina in Tv Andreotti. Succede l’opposto: conquista oltre 70mila preferenze a Palermo, un exploit simile a quello della Lega in Lombardia. Alla fine dell’anno, in un drammatico Consiglio nazionale, l’ex sindaco annuncia l’addio alla Dc. Non lo fanno neppure parlare. «Interverrà nel pomeriggio», annuncia il presidente di turno del parlamentino democristiano, il tesoriere Severino Citaristi, ancora sconosciuto alle cronache politico-giudiziarie. Ma Orlando sceglie di leggere il suo discorso nel cortile di cemento armato, davanti ai giornalisti. E un mese dopo fonda il movimento della Rete. Con l’obiettivo di abbattere «il regime della corruzione», «l’ultima nomenclatura rimasta al mondo». C’è una sorta di rigetto, una voglia di dissacrazione e di delegittimazione che sale dal fondo e arriva fino ai vertici dello Stato. La Repubblica è in discussione, i partiti sono sotto accusa. Questo rigetto globale è in larga misura meritato dalle prove di inefficienza, corruzione, viltà morale, clientelismo, piccole e grandi sopraffazioni che si sono accumulate nel corso di quarant’anni. Ma a tutto questo la classe governante reagisce con statuaria indifferenza (Eugenio Scalfari, Riflessioni sul 25 aprile. Il Garante ammaina bandiera..., “la Repubblica”, 26 aprile 1991).

Non è solo un rito la festa della Liberazione del 1991. A 46 anni dalla sconfitta del fascismo sono in tanti a chiedersi se non si sia esaurita la spinta della Repubblica nata dalla Resistenza ­­­­­63

e fondata sui partiti. O se i partiti non si siano trasformati in un’oligarchia soffocante. «Serve una nuova Resistenza. Ci deve essere il rifiuto personale e di gruppo di partecipare agli utili di regime», si indigna il mite professor Paolo Prodi, fratello di Romano, l’ex presidente dell’Iri e futuro premier dell’Ulivo, davanti ai giovani cattolici della Rosa Bianca, riuniti in Trentino, a Brentonico. Casta e anti-politica sono parole che ancora non esistono nel dibattito. Ad aprire il fronte della battaglia contro la partitocrazia sono esponenti dei partiti democratici, di governo addirittura, gli eredi delle dinastie che hanno fatto la storia repubblicana, i La Malfa, i Segni. «Il grande sogno degli antifascisti non si è avverato. Abbiamo davanti agli occhi i segni gravi di un disordine molto esteso, di un’inosservanza delle leggi piuttosto diffusa, di un dominio delle organizzazioni criminali che era impensabile nel 1945», lamenta in quel 25 aprile Giorgio La Malfa che è appena uscito dalla maggioranza per protestare contro l’estromissione del repubblicano Giuseppe Galasso dal ministero delle Poste. Ancora più duro è Segni: anche lui è un figlio d’arte, il papà Antonio è stato presidente della Repubblica. Ha fama di uomo di destra, il giovane Mariotto, ha sempre militato in piccole correnti democristiane, ma in quei mesi non parla più da moderato conservatore: «La vera guerra di liberazione oggi va combattuta contro la partitocrazia. Il modo migliore per ricordare non solo a parole il sacrificio di chi diede la vita per fondare un’Italia libera e democratica è combattere la battaglia contro la Repubblica dei partiti». Accanto a lui, nel comitato referendario, siede lo storico Pietro Scoppola che in quei giorni sta pubblicando il suo ultimo libro, intitolato per l’appunto La Repubblica dei partiti. È un cattolico democratico, è stato senatore indipendente della Dc negli anni Ottanta ma ora è tornato a insegnare, di studiare e di cercare di capire non ha mai smesso. I capelli bianchi, le sopracciglia folte, lo sguardo che si accende di intelligente ironia soprattutto quando al termine delle sue lezioni di storia contemporanea nell’atrio della facoltà di Scienze politiche alla Sapienza di Roma può fermarsi a parlare con gli studenti di politica, addentando la pipa. La sua è la prima interpretazione complessiva dei 45 anni di democrazia italiana. E nelle pagine finali sono già fotografati i fronti che si combatteranno. ­­­­­64

Vi sono ormai in tutti i partiti uomini seriamente preoccupati del futuro della democrazia italiana e convinti della necessità di ridefinire i meccanismi del suo funzionamento. È possibile che questo fermento porti solo alla delegittimazione del sistema esistente e non sia in grado di produrre effetti realmente innovativi [...] molte proposte di cui si discute rischiano di essere travestimenti del vecchio ordine, più che una premessa di una nuova realtà. Il problema non è quello di far nascere una ‘seconda repubblica’, bensì quello molto più complesso del passaggio da una ‘repubblica dei partiti’ a una ‘repubblica dei cittadini’: un passaggio tanto più arduo e difficile perché coinvolge questioni di mentalità e di cultura e non solo problemi istituzionali (Pietro Scoppola, La Repubblica dei partiti, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 436-437).

La restaurazione travestita da nuovo e le difficoltà dei rinnovatori a cambiare. La forza delle inerzie del passato e le contraddizioni di chi dovrebbe rappresentare l’alternativa. La Repubblica dei partiti che stenta a morire e la Democrazia dei cittadini che fatica a nascere: sarà la storia dei successivi vent’anni. Perché la Nuova Repubblica non è solo un fatto istituzionale o politico, richiede un altro modo di pensare. Un’assunzione di responsabilità, non accomodamenti da sudditi. Uno che rifiuta di obbedire, in quel 1991, è un laico senza esitazioni, un illuminista che crede nella ragione, si chiama Libero perché è nato nel 1924 e così ha voluto il padre in omaggio a Giacomo Matteotti, in dispregio di altri regimi. Non ha nessuna intenzione di cedere alla mafia quel signore dal profilo aquilino e dalla erre arrotata che si ribella alla dittatura del pizzo. I telespettatori lo conoscono la sera dell’11 aprile, quando appare nel programma di Michele Santoro Samarcanda. «Non sono un pazzo, sono un imprenditore e non mi piace pagare. Rinuncerei alla mia dignità. Non divido le mie scelte con i mafiosi», scandisce Libero Grassi, 67 anni, imprenditore tessile palermitano che qualche mese prima ha pubblicato sul “Giornale di Sicilia” una clamorosa lettera destinata all’esattore della mafia che si fa chiamare geometra Anzalone. Quella sera in televisione, vestito di grigio, gli occhiali sul naso, puntiglioso e deciso, Libero Grassi alza il tiro: «La prima cosa che controlla la mafia è il voto. A una cattiva qualità del consenso corrisponde una cattiva democrazia. La mafia in Sicilia dispone del voto, dei soldi, è la classe dominante. Le leggi le ­­­­­65

fanno i politici che puntano al consenso. E se il consenso è cattivo anche le leggi saranno cattive». Ma Libero Grassi è in tv anche per un altro motivo. Vuole replicare alle parole di un giudice di Catania, Luigi Russo. Qualche giorno prima ha assolto i cavalieri del lavoro di Catania con una sentenza shock che in pratica afferma: non è reato pagare tangenti alla mafia, chi accetta di pagare il pizzo a Cosa Nostra è una vittima, non un complice. «Certo, non tutti si comportano così», ammette il giudice in un’intervista. «Venti, trenta giorni fa qui a Catania è stato dato alle fiamme un magazzino del gruppo Rinascente. Ci sono industriali che con quella gentaglia non vogliono nemmeno discutere. Ma se tutti facessero così dalla Sicilia sparirebbero da un giorno all’altro migliaia e migliaia di piccole aziende, andrebbero in fumo tanti piccoli magazzini dal valore di quaranta milioni l’uno...». 15mila uomini, cinquecento cosche, divise in armate, corpi speciali. È la Criminalpol a lanciare l’allarme nella primavera 1991 sulle truppe della mafia che occupano militarmente quattro regioni d’Italia, Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, e che condizionano la politica, l’economia, la vita civile del Sud Italia. Estorsioni, sequestri di persona, racket, traffico di droga, appalti. L’altro volto dell’Italia che si appresta a entrare nella moneta unica europea. Un esercito invasore che però affonda le sue radici nella debolezza della società italiana, nello Stato che non c’è. Lo Stato che «si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità», come canta Fabrizio De André in quel periodo. Libero Grassi è indignato: «No, dottor Russo», scandisce nello studio di Santoro, «se tutti fanno come me non si distrugge la Sicilia, si distruggono gli estorsori!». Commenta Giampaolo Pansa: «Siano ben netti, sullo sfondo, i responsabili: chi comanda in questo paese, chi non lo governa da decenni, chi nella Roma dei partiti ha sempre scelto di avere la mafia come complice e non come nemica. Gridiamola, questa vecchia verità. A costo di apparire dei giapponesi. Ci sembra un giapponese l’imprenditore Libero Grassi. Ci sembrano giapponesi tanti bravi italiani che rifiutano questo clima da 8 settembre. Tuttavia, meglio giapponesi d’Italia che cavalieri di Catania: questo nessuno ci potrà impedire di dirlo». Nessun messaggio di solidarietà in quei giorni arriva dal Quirinale a Libero Grassi. E nella gran quantità di esternazioni pre­­­­­66

sidenziali di quell’anno invano si cercano negli archivi parole di Cossiga in difesa dell’imprenditore palermitano che sfida la mafia. Bisognerà aspettare il 29 agosto del 1991 perché il primo cittadino dello Stato trovi modo di rendere onore al coraggio dell’uomo che si è ribellato alla dittatura del racket. E che per questo quella mattina è stato assassinato a Palermo. Un eroe civile della povera Italia, quella di cui canta Franco Battiato due mesi dopo: Povera patria! Schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame che non sa cos’è il pudore, si credono potenti e gli va bene quello che fanno; e tutto gli appartiene. Tra i governanti, quanti perfetti ed inutili buffoni! Questo paese è devastato dal dolore... ma non vi danno un po’ di dispiacere quei corpi in terra senza più calore? Non cambierà, non cambierà [...] Sì che cambierà, vedrai che cambierà. Voglio sperare che il mondo torni a quote più normali, che possa contemplare il cielo e i fiori, che non si parli più di dittature, se avremo ancora un po’ da vivere... La primavera intanto tarda ad arrivare.

Sarebbe una bella idea, unire le forze. Una Lega degli Onesti, come propone Eugenio Scalfari alla vigilia delle elezioni del 1992. È venuto il tempo che la società civile rivendichi il suo ruolo di protagonista e prenda in mano direttamente la gestione della nazione. Una maggioranza c’è in Italia, anche se sommersa, anche se [...] è trasversale ai partiti esistenti. Pochi mesi fa votò il referendum di Mario Segni contro l’espresso parere di Craxi e di Bossi [...]. Ma bisogna che [...] si organizzi, che si presenti al corpo elettorale. Bisogna insomma che nasca una Lega nazionale con un programma di riforme istituzionali ed economiche, con una moralità nuova, con gente credibile e non compromessa. [...] I suoi punti di riferimento [...] si chiamano Luigi Einaudi, Ugo La Malfa, Ezio Vanoni, Sandro Pertini, Giorgio Amendola. Tutti simboli di onestà, impegno civile, competenza e decenza nazionale. È un bel partito trasversale quello rappresentato da quei cinque nomi. E credo che piacerebbe a moltissimi, così come piace a me (Eugenio Scalfari, È ora di fondare la Lega Nazionale, “la Repubblica”, 1° dicembre 1991).

Passano due mesi e con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale Scalfari ritorna sull’idea e elenca i soggetti che dovrebbero fare parte della Lega: il Pds di Occhetto, prima di tutto. Il Partito ­­­­­67

repubblicano di Giorgio La Malfa, che è uscito dalla maggioranza, «opposizione di centro, in nome del buon governo, dell’europeismo, della cultura industriale e del libero mercato», ben visto dall’establishment imprenditoriale-finanziario. La Rete di Orlando. Il movimento referendario di Segni che propone un patto trasversale ai futuri parlamentari. «Questa è dunque la scommessa del 5 aprile: abbattere le porte del kafkiano Castello del potere e farvi entrare il popolo sovrano»21. Il partito che non c’è, lo definisce Michele Santoro, in un’altra infuocata puntata di Samarcanda andata in onda tre giorni prima. L’idea è nata durante un incontro tra il giornalista televisivo e il direttore di “Repubblica”. «Intitoliamo la trasmissione Il partito che non c’è, come l’Isola che non c’è, la canzone di Edoardo Bennato», propone Santoro. Quella sera in studio ci sono Paolo Flores d’Arcais, Pietro Scoppola e Toni Muzi Falconi che presentano il manifesto dell’ipotetico partito, Occhetto e La Malfa, Maurizio Costanzo, Paolo Liguori, Scalfari e il direttore dell’“Avanti!” Roberto Villetti. È con lui che Scalfari ha lo scontro più duro: «In questo studio lo sviluppo economico si trasforma in corruzione. C’è una tesi precostituita, che il nostro Paese non sia la quarta potenza industriale del mondo ma un covo di manigoldi con a capo Craxi», si difende il buon Villetti, sosia di Woody Allen, socialista lombardiano. «Bisogna che vi abituiate a stare in minoranza», affonda il colpo il direttore di “Repubblica”. «In minoranza». All’arresto di Mario Chiesa mancano ormai due settimane. Il guaio è che il partito trasversale esiste davvero, ma fatica a trovare una rappresentanza politica. La società civile, il soggetto che ha fatto irruzione sulla scena, di cui molti vorrebbero raccogliere il consenso, è una nebulosa indecifrabile. E produce invenzioni a getto continuo, non sempre fortunate. La Rete di Orlando, il Patto di Segni. Il Sì di Democrazia Aperta del costituzionalista Massimo Severo Giannini, che corre alle elezioni del 1992 con una lista all star (ci sono lo storico Ernesto Galli della Loggia, il filosofo Giacomo Marramao, il critico Federico Zeri, l’economista e 21 Eugenio Scalfari, Il Castello di Kafka è cinto d’assedio, “la Repubblica”, 2 febbraio 1992.

­­­­­68

futuro numero due di Forza Italia Antonio Martino, menti piene urne vuote, prenderà lo 0,8 per cento, 320mila voti in tutta Italia). La sinistra sommersa. La sinistra dei club. La sinistra diffusa. E la Costituente: che si preferirebbe «di massa», e in ogni caso «aperta», per lasciar svolgere il «processo» e, più semplicemente, la «fase». L’era, felice e confusa, della Carovana. Non è il Nome che manca, ce ne sono fin troppi. E anche la Cosa, a ben guardare, è lì, a portata di mano: sono le famiglie politiche e culturali della Prima Repubblica che si stanno scomponendo e chiedono soggetti nuovi che le rappresentino. E invece il Nome e la Cosa si trasformano in scogli, sono l’ossessione per oltre un anno e mezzo di quello che resta del più grande partito comunista d’Occidente, dilaniato da un interminabile processo di trasformazione dopo la svolta della Bolognina di Occhetto. Uno scossone che, come sempre accade quando il sisma è davvero catastrofico, provoca a sua volta altri terremoti, sommovimenti, scosse di assestamento. Un magma in cui è difficile separare le strategie e le tattiche, le furbizie e le generosità, gli opportunismi di chi aderisce al nuovo senza crederci e l’assenza di lucidità di chi avrebbe la responsabilità di indicare la strada, le scorciatoie che portano dritto dritto nel vicolo cieco. «Prima viene la cosa e poi il nome», prova a mettere la discussione sui binari giusti Occhetto nel Comitato centrale del Pci alla fine della relazione del 20 novembre 1989 che apre il travaglio. E invece farà il caos. «Qual è stata la forza dello svoltismo?», si chiederà anni dopo il principale collaboratore dell’ultimo segretario comunista Massimo De Angelis: Non ho dubbi. È stata la società civile. Quel che ci ha dato coraggio è che noi abbiamo capito che potevamo ripartire dalla società civile. [...] Che di lì, dall’inquietudine della società civile, dalla sua vitalità, si poteva trarre l’energia per muovere scacco ai nostri avversari politici, la Dc, il Psi, i quali erano vincitori ma avevano il fiato grosso. Questa era la sua forza. Non lo si può dimenticare, la vittoria clamorosa al primo referendum elettorale avvenne prima di Mani Pulite. Mani Pulite fu la conseguenza non origine del nuovo spirito pubblico nazionale. Dello spirito da Seconda Repubblica (Massimo De Angelis, Post. Confessioni di un ex comunista, Guerini e Associati, Milano 2003, p. 65). ­­­­­69

La magnifica avventura, come si auto-incensano in un audace librettino di quel periodo alcuni protagonisti della Svolta. La scoperta di un nuovo mondo, si infervora Occhetto al termine della sua relazione al congresso di Bologna del 1990, citando l’Ulisse di Tennyson: «Venite amici, che non è mai troppo tardi per scoprire un nuovo mondo. Io vi propongo di andare più in là dell’orizzonte conosciuto...». In quell’ultimo congresso del Pci di passioni, sentimenti e risentimenti, dove il segretario si commuove fino alle lacrime e il capofila del fronte del No Aldo Tortorella per lo stress si accascia sul palco e esce in barella. E invece, ben presto, la spinta propulsiva della Svolta si esaurisce, la speranza si accartoccia in una snervante disputa tutta interna al mondo delle Botteghe Oscure, il mondo degli Ingrao e dei Napolitano, dei Macaluso e dei Tortorella, con le sue grandezze e le sue meschinità, i trentenni-quarantenni Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Piero Fassino, Livia Turco, Fabio Mussi, Gavino Angius, Umberto Ranieri, con le loro battaglie di posizione, il conformismo, l’incapacità di prendere davvero il largo, gli odi personali a lungo repressi. Conclusione: il Vecchio dimostra la sua capacità di tenuta e di adattamento e il Nuovo si dissolve in una catena di debolezze e di ingenuità. E l’orizzonte sconosciuto da inseguire, «indeboliti oggi forse dal fato», ammetteva l’Occhetto-Ulisse, si capovolge in un misero acquitrino fin troppo noto. Surreale la disputa sul nome. L’ala migliorista, la destra del Pci guidata da Napolitano, vorrebbe un riferimento al socialismo europeo, propone Sinistra per il Progresso e Partito del Lavoro, subito travolto dalle ironie. «Come si chiameranno i militanti di questo partito? Forse lavoristi?», si chiede Franco Bassanini, presidente dei deputati della sinistra indipendente. Mettere la parola ‘partito’ o toglierla? Alleanza per il Progresso non sarebbe male, ma è stato Andreotti a suggerirlo, meglio di no. Nella confusione semantica gli eredi di Gramsci rischiano di chiamarsi come i nipotini di don Giussani. «Occhetto pensava di chiamare il nuovo partito ‘Comunità e Libertà’, ma il nome era già occupato da voi», rivelerà nel 2003 Pier Luigi Bersani alla platea di Comunione e Liberazione del meeting di Rimini. La semplice dizione Democratici appare richiesta ardua, bisognerà attendere un paio di decenni: «In Italia tutti sono democratici. Peggio ancora sarebbero i sinistri. A quel punto il rischio è che continuino a chiamarci ex ­­­­­70

comunisti», si lamentano i dirigenti, dimostrando una certa lungimiranza, almeno in questo. I cento fiori fioriscano, dentro Botteghe Oscure la confusione è grande, ma anche fuori. Gli esterni che vogliono partecipare al nuovo partito si incontrano per la prima volta al cinema romano Capranica il 10 febbraio 1990, convocati dal direttore della rivista “Micromega” Paolo Flores d’Arcais, che è in quell’occasione, come sarà sempre in tutte le battaglie successive, martellante e solitario. Accanto a lui c’è Massimo Cacciari, caustico e irriverente, temuto dai dirigenti del partito per la sua franchezza, che di fronte alle prime file affollate di big, da Occhetto a Napolitano, spara a zero sul Pci: «Milioni di persone che potrebbero realizzare l’alternativa sono state tenute lontane dalla politica dalla forma organizzativa del Pci, simile a quella dei Paesi del socialismo reale. La vera diversità nel Pci oggi è tra il mondo dei desti e il mondo degli incantati». Si fanno chiamare Sinistra dei club, alla francese, vanno avanti per un po’, arrivano al congresso di fondazione del nuovo partito, il Partito democratico della sinistra a Rimini nel 1991, dallo slancio iniziale resistono 110 club dai nomi fantasiosi (Sottomarino rosso, Scusate il ritardo, lo Stato di grazia, Fuori orario e un fantastico Tallone di Achille), ma ormai il dibattito si è infilato nello psicodramma interno della lotta per il potere nel futuro partito. Il Mitterrand italiano non si trova e il nascente Pds resta senza Bad Godesberg e pure senza Épinay. E il primo congresso del nuovo partito si conclude con un bilancio disastroso: una scissione a sinistra, con la nascita di Rifondazione comunista, e alla guida del nuovo partito un leader azzoppato, dopo una giornata insieme drammatica e sciaguratamente comica. Occhetto si gratta il naso, la palpebra va in frenesia: «Ma questi risultati perché non li date?». Uno degli uomini dello staff si piega e nell’orecchio gli sussurra: «Achille, forse manca il numero legale...». Occhetto, seduto su una poltroncina di plastica rossa in mezzo alla platea, sbianca. Nella testa si accende subito il sospetto: «qui mi stanno facendo secco». E la prima reazione è uno scatto di fiele: «Allora, ve ne trovate un altro di segretario...». Sono le 14,58 e nel capannone B della Fiera di Rimini iniziano le quattro ore più nere di Achille Occhetto, ultimo segretario del partito comunista italiano, primo segretario ­­­­­71

impallinato del partito democratico della sinistra. Lui, guarda lassù, verso il tavolo della presidenza, cerca uno sguardo amico, il calore di un conforto. Niente da fare. Lassù, alla presidenza, serpeggia la febbre delle grandi occasioni, si cerca spasmodicamente tra le pieghe del nuovo Statuto, «quel maledetto statuto», una via d’uscita. Occhetto non parla più. Ha lo sguardo appeso nel vuoto e da quella sedia non si alza. Passano uno, due, quattro minuti. Zitto lui, zitti i compagni dello staff, impietriti di imbarazzo. Ecco, finalmente, il segretario riparla: «Ma dov’è D’Alema?». Già, dov’è D’Alema? Eccolo laggiù, in fondo alla sala, il delfino. Cappotto nero, sciarpa nera, D’Alema chiacchiera con Walter Veltroni. Occhetto è ancora solo. Anche la moglie Aureliana è lontana, in un angolo dell’enorme padiglione dove, da stamane, arrivano i salami, le provole affumicate e i prosciutti della mostra alimentare. Solo, solissimo e nessuno che gli dica come stiano esattamente le cose. Occhetto scatta in piedi, di colpo. «Dove va?», si chiede uno dei gorilla del servizio d’ordine. Occhetto va al bar. I delegati, cotti di stanchezza, ignari, guardano insospettiti quel drappello di guardaspalle nervosi che scortano il capo. A passo veloce, Occhetto raggiunge il bancone del baretto che fino ad un attimo prima ha sfamato e dissetato i delegati. E ordina: «Un whisky, per favore, un Johnny Walker». Il cameriere riempie il bicchiere. Bello pieno. Il capo tace, tacciono i gorilla e tacciono anche i giornalisti amici, quelli che fino a mezz’ora prima avevano chiacchierato con Occhetto, gongolanti per le battute a ruota libera del segretario. Il whisky va giù lento, lentissimo (Fabio Martini, L’angoscia e la solitudine di Achille, “La Stampa”, 5 febbraio 1991).

Dov’è D’Alema? È in questa domanda il Big Bang della sinistra, l’inizio di una storia infinita di rivalità, scontri, divisioni, guerre fratricide, prevista dal grande nemico Craxi: «Eravate gli uomini di marmo, non sarebbe un bel guadagno diventare gli uomini di gomma!»22. Il Pci era un partito militarizzato. Il Pds, al suo esordio, non riesce neppure a darsi un segretario. Impensabile: come un conclave che non riesce a eleggere il papa. Presagio di tutte le fragilità future. «Un grande partito! Occhetto: ‘Siamo d’accordo su tutto basta che non si parli di politica’», titola “Cuore”. Alla fine tutto si traduce in un cambio di insegne e di bandiere, pure costoso: due miliardi di lire, si calcola, costa il cambio di insegna di 12mila sezioni e di 116 22

Massimo De Angelis, Post cit., p. 136.

­­­­­72

federazioni provinciali, più altri 2 miliardi per spedire le bandiere – tre – in ogni sezione. Il primo di una lunga serie di traslochi, accompagnati dall’ossessione identitaria e organizzativa di restare sempre se stessi, cambieranno i partiti ma mai la classe dirigente. Ma quel che è peggio è che all’appuntamento di Tangentopoli la sinistra arriva scomposta in mille pezzi. E il Pds, nato per essere il primo partito della Seconda Repubblica, si porterà dietro tutti i vizi e le lentezze del passato. Condannandosi a un paradosso: il partito più giovane della Prima Repubblica sarà il partito più vecchio della Seconda. La magnifica avventura diventa la grande occasione perduta. Lasciando che, a sorpresa, il nuovo arrivi dal lato destro dello schieramento politico, fino a quel momento assente e fuori dai giochi. Il partito che non c’è, non ci sarà ancora per tanto, troppo tempo.

IV

Barbari

Che cosa aspettiamo così riuniti sulla piazza? / Stanno per arrivare i Barbari oggi. / Perché un tale marasma al Senato? / Che leggi voterebbero i Senatori? / Quando verranno, i Barbari faranno la legge. / Perché i nostri abili retori non perorano / con la loro consueta eloquenza? / È che i Barbari arrivano oggi. / E perché, all’improvviso, / questa inquietudine e questo sconvolgimento? / Perché le strade e le piazze si svuotano / così in fretta e perché rientrano tutti a casa / con un’aria così triste? / È che è scesa la notte e i Barbari non arrivano. / E della gente è venuta dalle frontiere dicendo / che non ci sono affatto Barbari... / E ora, che sarà di noi senza Barbari? / Loro erano comunque una soluzione. Costantino Kavafis Aspettando i Barbari

Io vengo dalla gavetta. Io sono un uomo della strada. Io viaggio a cavallo come i miei avi, con la carne cruda tra il sedere e il cavallo. Certo, mi sento un barbaro. Ma non ho nessuna intenzione di fare la fine di Paolo Diacono che cantava le gesta dei suoi avi longobardi per tacere della sconfitta subita da parte dei bizantini. Noi siamo barbari che devono diventare generali dell’esercito bizantino (Umberto Bossi, intervista di Roberto Di Caro, “l’Espresso”, luglio 1993).

Due morti di mafia stesi sul marciapiede. Una scena del maxiprocesso di Palermo con i boss nelle gabbie. Siringhe usate, gente che fa la fila davanti a uno sportello. Trenta secondi di immagini crude mentre in dissolvenza appare la sagoma di Umberto Bossi ­­­­­74

che scandisce il credo della Lega: «Nord, Centro e Sud sono realtà differenti con problemi differenti: solo lo Stato federale è in grado di dare le risposte vere al Paese». Seguono le note di Va’ pensiero. Lo spot dovrebbe andare in onda sulle reti Fininvest in conclusione della campagna elettorale, il 3 aprile 1992, ma all’ultimo momento viene sequestrato per ordine del procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Francesco Mollace, «perché il filmato riproduce avvenimenti realmente accaduti con particolari impressionanti idonei a turbare il comune sentimento della morale». «È la lunga mano del regime», ruggisce il Senatur. «Poiché al Sud alle scene di mafia sono abituati, il giudice avrà pensato che al Nord si sarebbero impressionati. Ma, caro Mollace, noi della Lega siamo duraci...». Al posto dello spot, quella sera, i telespettatori sintonizzati sulla Rai possono vedere il segretario del Carroccio impegnato nel tradizionale appello elettorale. Si materializza lo spadone di Alberto da Giussano, poi ecco Bossi, mani incrociate, giacca verdognola più grande di due taglie, maglione celestino, camicia bianca, cravatta floreale, occhiali a goccia, capelli ancora neri e ribelli, la spilla con il guerriero appuntata sulla giacca. Un look orripilante ma terribilmente adeguato a comunicare il messaggio voluto: sono uno di voi, non come i politici che mi seguiranno, imbalsamati nella loro divisa. L’appello dura due minuti e 33 secondi: Cari elettori, tra poche ore andremo a votare per scegliere le forze politiche che ci dovranno governare nei prossimi anni. I problemi principali di questo Paese, sintesi di tanti altri, sono il debito pubblico enorme, che condiziona ogni scelta economica del Paese, e il dilagare della delinquenza organizzata. I partiti hanno sicuramente la responsabilità di non aver fatto le riforme ieri e di non farle domani. Sul debito ci preannunciano che andrà tutto come ieri, aumenteranno le tasse invece che tagliare gli sprechi e comprimere le spese. Evidentemente sprechi significa per i partiti del regime comprarsi i voti, garantirsi il consenso elettorale. Per questo siamo prigionieri di un circolo vizioso, più tasse, più sprechi, più commistione tra mafia e politica. La mafia non la si batte con le forze dell’ordine e con la magistratura, la mafia è politica e per batterla occorre un atto politico, in cabina elettorale occorre scegliere una forza politica che sia anche una grande forza morale. Io conosco solo la Lega Nord, esaltata dalla stampa internazionale che ci dipinge come l’unica forza politica italiana che ha un progetto per un vero cambiamento del Paese. Dunque vota Lega Nord ­­­­­75

alla Camera e al Senato ricordando che nelle regioni del Centro e del Sud siamo presenti come Lega Nord-Centro-Sud. Grazie.

Quella sera Bossi è ancora un oggetto misterioso, non solo per i telespettatori. Negli studi della Rai di via Novaro, dove i leader di tutti i partiti sono convocati per registrare i loro appelli, l’arrivo del capo della Lega provoca scompiglio e curiosità. Con Bossi c’è un signore di 82 anni, «è il mio portavoce», lo presenta il Senatur, si chiama Luigi Rossi, ha lavorato nell’ufficio stampa della Dc a Palazzo Madama, si spinge in avanti con le previsioni: «Prenderemo il 13 per cento». Una regista delle tribune si infila in ascensore: «Mi può regalare un guerriero come quello che ha sulla giacca?». «Lo vuole di materiale pregiato?», sogghigna l’uomo del Carroccio, un po’ schifato di trovarsi nei corridoi di Mamma Rai. A tre giorni dal voto, per le vecchie volpi della politica romana la Lega resta un soggetto senza alcun peso politico. Appare un barbaro ignorante Bossi, di fronte ai senatori della Roma politica. Barbarici gli slogan: «La Lega ce l’ha duro», con tanto di gesto del braccio esplicativo. Barbarici i suoi giudizi sugli avversari: i democristiani «porci», «una cesta di lumache schifose che filano una volta a destra e una volta a sinistra», «sieropositivi della democrazia», Mario Segni «un travestito della politica», Occhetto «un saltimbanco incoerente», i socialisti «marcantoni da galera». E poi l’invocazione dei kalashnikov da oliare, l’ostentazione della virilità e se occorre della violenza... Espressioni che agli abitanti del Palazzo fanno ribrezzo, com’è giusto che sia. Anche se la reazione, più che di legittimo disgusto, è di lontananza. Come se quell’incivile non fosse neppure degno di essere preso in considerazione. Nella Velina di Orefice il Senatur è fuori dal gioco e basta, può meritarsi al massimo qualche appunto di galateo, come un allievo discolo che dovrà imparare e molto alla scuola della politica: «Con il linguaggio educato e garbato che gli è consueto Bossi oggi ha aggiunto che i cialtroni multicolori ricorrono alla menzogna...». «Bossi? E chi è questo Bossi?», chiede il caporedattore dell’“Eco di Bergamo” Renato Possenti al giovane cronista con in mano il volantino di una conferenza in un circolo culturale cittadino. «È un tizio che ha fondato la Lega lombarda per rimandare ­­­­­76

i terroni a casa loro», risponde senza pensarci il giovane cronista curioso. Si chiama Daniele Vimercati, ha solo 28 anni, è stato assunto da un anno dal quotidiano di Bergamo dopo una laurea in giurisprudenza all’Università Cattolica e la gavetta. «Vai a dare un’occhiata, poi decideremo se scrivere qualcosa». È il 9 dicembre 1985, nella sala del circolo La Porta ci sono al massimo trenta persone, agenti della Digos compresi, una coppia di anziani, uno studente con un libro, tre tizi con «le gote rosse e le mani callose», giacche a vento, cappotti usurati, colori mal abbinati, una platea insolita per un dibattito politico, «un campione di quell’elettorato interclassista che avrebbe portato al trionfo la Lega». Il primo a intervenire è il segretario bergamasco, tal Arizzi, che fa un discorso sconclusionato («non è che ce l’abbiamo con i terroni, ostrega, un po’ sì, ma per difenderci dall’invasione...»), sembra una serata andata a vuoto quando arriva il leader: «Aveva un volto strano, il Bossi. Il volto magro e segnato, pallido, l’andatura un po’ ciondolante, stretto in un impermeabilino sotto misura stropicciato e liso. La prima cosa che mi colpì fu la sua voce. Profonda, cavernosa, un po’ ruvida, ma potente e ferma. ‘Il nemico’, disse, ‘non sono i meridionali, sono i partiti che hanno meridionalizzato l’Italia. Il nemico è Roma, è il Palazzo del potere corrotto’»23. Bisogna immaginarseli quella sala, quel pubblico, quell’aspirante leader. Guardarli come con un microscopio, per ingrandirli. E riconoscere le stesse facce, gli stessi toni, le stesse parole d’ordine che esalteranno le adunate leghiste di Pontida, in cui una battuta di Bossi terrà in piedi o farà cadere i governi. Quella sera Vimercati arriva quasi alle mani con Bossi e tornato in redazione non scrive nulla, non ne vale la pena, non c’è pezzo. «La Lega lombarda è un movimento politico nato per combinazione. Uno scherzo del caso», scriverà poi. Sarà Vimercati, cronista di razza e uomo ironico e appassionato, a raccontare Bossi al grande pubblico con i suoi libri, quando soltanto scrivere della Lega significa dare fastidio ai boss dei partiti (“Il Giorno” di proprietà dell’Eni, in mano ai craxiani, rifiuta l’inserzione a 23

xi-xiv.

Umberto Bossi, Vento del Nord, Sperling & Kupfer, Milano 1992, pp.

­­­­­77

pagamento del suo primo libro, I lombardi alla nuova crociata), a costruire il mito del Senatur anti-partito e a contrastare duramente la sua creatura quando vedrà abbassare la guardia negli anni Novanta con la trasmissione Iceberg su Telelombardia. Fino alla scomparsa improvvisa e dolorosissima nel 2002, a soli 44 anni. Quando il salto sul Carroccio del vincitore di giornalisti molto meno curiosi di Vimercati e molto più sensibili a chi comanda è diventato uno sport nazionale. «Dove vuoi arrivare con questa avventura della Lega lombarda?», aveva chiesto Daniele a Bossi nel 1990. «Lontano, molto lontano. Vogliamo lo Stato federale. Dopo, potremo anche scioglierci». «Chi potrà fermarti?». «Dio». È stata la prima diretta televisiva sull’oggetto misterioso Lega lombarda e, sabato sera, a Legnano sul palco del cineteatro Galleria, con la regia di Raitre, si è trasformata immediatamente in una rissa tra leghisti e i politici tradizionali [...]. Uno spettacolo forse perfino un po’ scioccante per gli spettatori digiuni di Bossi e dei suoi lombard. La Lega, rumorosamente aiutata dalle urla di un pubblico amico non numerosissimo, ma molto effervescente (250 inviti erano stati dati ai seguaci di Bossi su circa 800 posti, il resto era stato diviso tra il Comune di Legnano, l’Azione Cattolica e i sindacati), ha mostrato il suo volto intollerante [...]. La cronaca della serata, guidata dal giornalista Gad Lerner, inizia con i toni tranquilli del professor Gianfranco Miglio, l’intellettuale più di spicco tra quelli vicini alla Lega. [...] Ma il massimo si ha nello scontro tra Lerner e il consigliere comunale milanese leghista Piergiorgio Prosperini, un leghista medio e tipico. Prosperini, che nella vita fa il medico, vorrebbe sottoporre a vaccinazione tutti gli extracomunitari, una proposta che per la sinistra puzza di schedatura sanitaria razzista, e sotto gli occhi di uno sbigottito senegalese, che non riesce a dire la sua, la platea leghista urla e protesta trionfante. [...] La trasmissione televisiva ha fornito a quasi tre milioni di spettatori (il dato è del finale di serata, in partenza erano solo mezzo milione) un materiale in presa diretta per discutere e valutare la Lega. [...] i leghisti incuranti delle critiche, valutano in almeno mezzo milione di voti il ritorno pubblicitario della diretta. Nella trasmissione di Raitre il movimento di Umberto Bossi è apparso senza alcuna rete di protezione, senza la maschera del doppiopetto ma è apparso anche come gli stessi dirigenti desiderano che si presenti in questo momento preelettorale: una formazione politica naive e all’attacco, senza freni, sola contro tutti i partiti (Guido Passalacqua, Rissa in diretta su Raitre. La Lega insulta i partiti, “la Repubblica”, 19 marzo 1991). ­­­­­78

Nel 1991-92 il partito che ha conquistato il voto di quasi un elettore su cinque nella più avanzata delle regioni italiane è una terra ignota. Eppure la Lega non è più da tempo una sorpresa elettorale. Alle elezioni europee del 1989 ha conquistato in Lombardia l’8,9 per cento dei voti. L’anno dopo, alle regionali del 6 maggio 1990, le prime consultazioni di rilevanza politica nazionale dopo gli sconvolgimenti dell’Est, ha raggiunto il 18,6 per cento, con oltre un milione e 183mila voti, secondo partito della regione dopo la Dc (vent’anni dopo, nel 2010, con la Lega ormai partito cardine del governo e alla conquista delle regioni del Nord i voti saranno meno: un milione e 117mila), con il 13 per cento a Milano e punte del 24 e del 22 nelle province di Bergamo e di Varese. Un successo incredibile, inaspettato, l’onda lunga, la vera spallata al sistema che Craxi insegue da un decennio a colpi di avanzamenti esasperanti, di un punto percentuale all’anno, e che la Lega fa in meno di dodici mesi. Alla vigilia del voto gli elettori interrogati da un sondaggio Cirm-l’Espresso puntano su un successo di Dc e Psi, solo il 2,6 di chi risponde scommette in un buon risultato delle leghe, ancora confuse con le liste locali. Per i sondaggisti il fenomeno Lega non esiste, per i politici neppure, i giornalisti non sgomitano ancora per stare sotto il palco. «Tanto vi conosco, voi giornalisti: siete sempre al servizio di qualcuno, e domani, quando saremo noi i più forti, sarete al nostro servizio», ringhia il numero due del movimento Franco Castellazzi al primo congresso del Carroccio, in una sala sotterranea del Jolly Hotel di Segrate, nel 1989: sarà espulso due anni dopo e riabilitato da Bossi dopo la morte, nel 2001. Siamo lontani dagli spettacoli dei decenni successivi. I grandi giornali del Nord che fanno a gara per accreditarsi con i nuovi potenti. Editoriali in adorazione. Reprimende stizzite in prima pagina contro chi osa criticare il Verbo padano. Interviste genuflesse. E poi azzimati banchieri che esaltano la «maturità» della Lega. Commentatori liberali che scoprono inedite affinità elettive: «I sindaci leghisti sarebbero piaciuti a Tocqueville». Intellettuali raffinati che spiegano come la Lega sia l’unico partito nato dal basso, dal popolo. Loro che il popolo, com’è noto, lo frequentano, l’hanno sempre capito e scritto, come mai non ve ne siete accorti? A frequentare i raduni della Lega sono pochi pionieri, ancor meno sono quelli che cercano di capire cosa sta accadendo nel ­­­­­79

profondo Nord alla fine degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta. Difficile, di conseguenza, raccontare com’è questa Lega prima della Lega. Nelle tesi del primo congresso del partito, nel dicembre 1989, per esempio, la Padania non c’è ancora. Arriverà dopo, con l’ingresso nel movimento del politologo Gianfranco Miglio, l’idea della divisione dell’Italia in tre repubbliche confederate: il Nord, il Centro, il Sud. Nel programma ci sono l’autonomia impositiva dei comuni, il vincolo territoriale per le sedi dei magistrati per evitare i giudici «terroni», qualche idea bizzarra come quelle sull’urbanistica, il ritorno al villaggio «contro la città tentacolare», l’addio ai palazzoni e ai condomini e via libera alla ristrutturazione delle antiche cascine, e qualche tesi sorprendente: per esempio la critica alla nuova legge sulle tossicodipendenze, considerata troppo punitiva, con qualche apertura all’anti-proibizionismo, o la proposta di stampo padano-marxista di far assumere dagli enti pubblici i lavoratori lombardi che sono stati licenziati dalle industrie. Un profilo ideologico difficile da incasellare, né di destra né di sinistra, confermato dalle prime indagini sociologiche sull’elettore leghista: quella dell’osservatorio elettorale della provincia di Milano della fine degli anni Ottanta, condotta da Giancarlo Rovati, definisce la Lega «una forza trasversale e interclassista»: «La presa di distanza dalla classe politica coincide con l’accentuata sfiducia verso la capacità dei partiti tradizionali di risolvere davvero i problemi del Paese. Quest’ultimo aspetto indica il carattere protestatario dell’adesione alla Lega lombarda». Più che la secessione, dunque, l’identità della Lega allo stato nascente è la contrapposizione verso il sistema dei partiti, inceppato e corroso. Votano Lega gli elettori cattolici delusi dalla Dc, lo dimostra il sociologo Ilvo Diamanti, soprattutto in provincia, gli elettori laico-socialisti nelle città come Milano e gli elettori del Pci stremati dal lungo percorso per cambiare nome voluto da Occhetto. Alla vigilia delle regionali del 1990 fa il suo esordio sul “manifesto”, in un’inchiesta in più puntate di Manuela Cartosio, un personaggio destinato ad avere grande fortuna nei decenni successivi: l’operaio periferico, spaventato dalla globalizzazione, con in tasca la tessera della Fiom e che vota Lega. È proprio il suo essere indefinita che rende la Lega attraente agli occhi di un elettorato orfano di appartenenze, ideologie, partiti mamma e ­­­­­80

che cerca un nuovo credo e un nuovo nemico. E non c’è nessun dubbio su chi sia l’avversario da sconfiggere. Roma, anzi, i partiti romani. La mobilitazione dei produttori sta provocando in Lombardia, ma anche in altre regioni, un salto organizzativo: le strutture associative vengono messe a disposizione delle Leghe, i finanziamenti consentono il diffondersi della rete leghista e l’uso più ricco dei mezzi di informazione (Giorgio Bocca, L’effetto Lega al centro del Palazzo, “l’Espresso”, 6 gennaio 1991). Qual è fra i grandi protagonisti del capitalismo privato italiano quello che preferisce, che le è più congeniale? «Silvio Berlusconi» (Umberto Bossi, intervista di Gianni Gambarotta, “Corriere della Sera”, 7 novembre 1990).

«Mi appello ai lombardi che hanno votato per la Lega, perché il senatore Bossi sia destinato, com’è giusto che avvenga, a predicare al vento, o ad abbaiare alla luna, come fanno notoriamente i cani». Francesco Damato, supponenza accresciuta da decenni di Transatlantico romano e dalla recente nomina a direttore del “Giorno” grazie all’ottimo rapporto con il clan craxiano, comincia a occuparsi della Lega nel 1989 e non molla il punto. Il giorno dopo le regionali del 1990, quando evidentemente gli elettori lombardi si sono abbastanza disinteressati dei suoi appelli, sfoga la sua rabbia contro «giornali e giornalisti specializzati nella denigrazione della politica e dei partiti»: «Continuino pure a parlare dei partiti come di cosche mafiose, di associazioni a delinquere, di gruppi criminali, chiedendo magari all’ultimo momento di turarsi il naso e di sceglierne uno fra i tanti. Le leghe non chiedono di meglio». Damato è un buon esemplare della classe politica, stampa di partito compresa, che di fronte all’imprevista crescita della Lega reagisce come può, con la criminalizzazione del voto leghista. Il rifiuto di capire. L’arroccamento nei propri confini tradizionali. In testa, all’inizio, ci sono i politici lombardi. Per esempio il segretario della Dc regionale Gianstefano Frigerio: «Ho scritto a tutte le sedi periferiche del partito per diffidare chiunque dal fare accordi con gli uomini di Bossi», rivela nel 1990: sarà arrestato e ­­­­­81

travolto da Tangentopoli, diventerà nel 2001 deputato di Forza Italia, in maggioranza con la Lega. Oppure il nemico numero uno della Lega, il Msi, con il suo federale lombardo, Ignazio La Russa: «Quelli sono razzisti e basta, meriterebbero una bella lezione. La loro presenza è un oltraggio per tutti gli italiani». Per contrastare il Carroccio il giovane Ignazio mette su perfino una Lega degli italiani di Lombardia, «per raccogliere i lombardi che sono italiani». Finirà col frequentarli assiduamente, nei vertici di governo. I più ostili sono i socialisti. Forse Craxi è sconvolto dall’idea che scrollato l’albero degli anni Ottanta della modernizzazione e della Milano da bere i frutti politici siano questi sconosciuti, vestiti male e che parlano peggio. Forse c’è l’intuizione che la bomba leghista sia potenzialmente molto più pericolosa per la strategia del Psi del rivale Partito comunista ormai agonizzante. Una beffa per Bettino, il socialista mediterraneo, il Mitterrand della Bovisa: quando finalmente il riequilibrio dei voti a sinistra sembra a portata di mano, ecco gli alieni leghisti che arrivano a strappargli la scena, a invadere il palcoscenico dove l’attore principale doveva essere lui. E con la Lega prova il bastone e la carota. La carota del giuramento di Pontida versione Garofano, quando nel marzo 1990 il segretario del Psi porta lo stato maggiore del partito nella storica cittadina a leggere una Dichiarazione con decalogo del federalismo così come lo vuole Craxi. E il bastone degli attacchi furenti: «Non penso proprio che la Lega, sulla base delle sue farneticazioni costituzionali separatiste e danzando attorno al falò del tricolore sia destinata a veder crescere i suoi consensi», sbaglia clamorosamente pronostico il dottor Sottile Giuliano Amato. «I leghisti sono pavidi, settari, infantili, demagoghi. E terroni», tuona il vice-presidente della Regione Lombardia Ugo Finetti. «Chi va in giro a imbrattare i cartelli stradali rivela una mentalità addirittura insulare, con scene viste finora soltanto in Sicilia o in Sardegna». Paolo Pillitteri fa di peggio: «Io con loro non faccio nessun accordo. Non so neppure chi siano questi signori», detta sprezzante dopo le amministrative del 1990, quando la Lega in città ha conquistato il 13 per cento. Continuerà a ignorarli a lungo, fino allo scontro con i tramvieri che lo contestano di fronte alle telecamere: «Fascisti, squadristi, nazisti, straccioni...», urla il sindaco di Milano, quando una tuta blu gli grida della moglie e del figlio, la famiglia craxiana. Un anticipo di Tangentopoli, qualche ­­­­­82

mese prima dell’arresto di Mario Chiesa. «Craxi è stato la vittima principale della nostra manovra», riconosce Bossi alla vigilia delle elezioni del 1992. «La Lega segna l’inizio della sua fine, la frantumazione dell’onda lunga. L’abbiamo proprio fregato, poveretto, quasi mi dispiace». I democristiani, al solito, sono più sornioni. Quando nella primavera del 1991 c’è il dibattito al Senato sulla fiducia al nuovo governo, Bossi parla ai banchi vuoti, a sentirlo seduto sulla poltrona di presidente del Consiglio c’è Giulio Andreotti, «acciambellato, mi ricordava un serpente pronto a scattare». «Sono venuto apposta per ascoltare te. Un bell’intervento. Forse prima o poi avremo bisogno l’uno dell’altro. Penso che ci potremo mettere d’accordo», sussurra alla fine il Divo Giulio, già impegnato in largo anticipo a raccogliere voti per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. «Quando gli ho stretto la mano, ho sentito un brivido, mi sono reso conto che uno dei due avrebbe liquidato l’altro», commenta il Senatur, affascinato. Per lui Andreotti è «il ragno che tesse tutte le tele», rivela che il sette volte premier ha una marcia in più: «ha in pugno i servizi segreti che non ci metterebbero molto a buttarmi fuori strada quando corro a centottanta l’ora da un comizio all’altro. Basta un Tir che mi tagli la strada...», racconta a Vimercati24. Il possibile attentato è una vera ossessione di Bossi. «Dopo la nostra vittoria di Brescia, è di nuovo circolata la voce che mi ammazzeranno. Possono usare la Falange Armata. Ne ha sentito parlare? Secondo me, è la P2 moderna. È uno dei gironi infernali di questo Stato. Ma io sono tranquillo. Non giro scortato. Non possiedo auto blindate. E per fortuna ho una moglie d’aspetto fragile, ma molto forte», confida a Giampaolo Pansa quando alle elezioni mancano meno di due mesi. Ma la Dc per bloccare i leghisti avrebbe a sua disposizione armi più sofisticate di un camion impazzito o di un servizio deviato. Una di queste è stata brutalmente indicata all’indomani delle regionali del 1990 dal fondatore del Censis, il sociologo bianco per eccellenza, Giuseppe De Rita: comprateli. Certo, il ragionamento di De Rita è più complesso: «Bisognerebbe fare come a Roma fa Sbardella. Certo, a noi que24

Umberto Bossi, Vento del Nord cit., p. 123.

­­­­­83

sto metodo può fare schifo, ma è l’unico che funziona. Combina rivendicazioni, interessi e identità locali. Proprio come la Lega lombarda. Come il sistema d’interessi del Pci emiliano, non come la Cosa di Occhetto», spiega l’inventore del «sommerso» a Milano di fronte a un pubblico selezionato, a discutere di un rapporto dell’Aaster di Aldo Bonomi sulla Lega. «Una possibilità di affrontarli sul loro terreno è quella di comperarli. Senza neanche sotterfugi. Alla luce del sole. Quanto costate? Sul piano regolatore, sui sussidi, sugli incentivi». «Quelle parole volevano essere provocatorie», ci ripensa oggi un lucido osservatore delle cose democristiane, fieramente alternativo alle politiche leghiste nella maggioranza di centrodestra da segretario dell’Udc tra il 2001 e il 2005, Marco Follini, «il guaio è che lo stato maggiore della Dc le prese alla lettera. Anche dopo le vittorie delle regionali nel 1990 e di Brescia nel 1991 in piazza del Gesù la Lega continuò a essere sottovalutata. Si pensava che fosse un fenomeno passeggero, come l’Uomo Qualunque, e che Bossi fosse un Giannini meno evoluto. C’era l’illusione di poter bloccare la Lega inserendola nel gioco politico, comprandola. E poi, soprattutto, nessuno nella Dc pensava che l’alternativa al sistema dei partiti potesse arrivare da destra. L’unico ad aver capito la pericolosità della Lega era stato Toni Bisaglia, alla sua prima apparizione elettorale, nel 1983. Aveva studiato i risultati sorprendenti della Liga veneta in alcuni paesini, i voti strappati alla Dc, ‘non avrebbero potuto farlo senza l’appoggio di qualche parroco’, aveva concluso». Bisaglia ne aveva anche parlato con Ilvo Diamanti, spingendosi a fare qualche previsione sulla crescita del fenomeno leghista una volta tanto azzeccata. Ma Bisaglia nel 1990-91 non c’era più, era morto da tempo, annegato misteriosamente nel Mar Ligure in una domenica pomeriggio di calma piatta. Così come alla Dc lombarda, nel momento più importante, era venuto a mancare il leader più intelligente, Giovanni Marcora, il capo della corrente di sinistra della Base. Al posto di Marcora e di Bisaglia, a guidare le correnti più importanti della Dc all’inizio degli anni Novanta c’erano Ciriaco De Mita e Antonio Gava, due meridionali. I dorotei, un tempo dominatori assoluti del Veneto bianco, erano stati ribattezzati Corrente del Golfo e nel 1988, per la prima volta, dal governo risultarono esclusi ministri del Veneto, un tempo il granaio di voti della Dc. ­­­­­84

La Lega parla a un mercato elettorale tutto da conquistare, quello che si sta sgretolando insieme al Muro, che ha bisogno di parole d’ordine nuove. E Bossi punta molte carte sul rendersi indecifrabile agli occhi degli avversari: «Quando sono al Senato voglio che mi stiano alla larga, che non mi prendano troppo sul serio, che non sappiano mai se scherzo o se dico quello che penso. È l’unico modo per sfuggire a questa piovra che altrimenti ti fagocita...»25. Ecco dunque, dopo Cossiga, un altro protagonista della transizione che veste i panni del Buffone. Che intuisce quanto sia dirompente spezzare le liturgie della politica della Prima Repubblica innanzitutto nel linguaggio, nella seriosità, nei riti, nel modo di vestire. Ci aveva provato prima di lui, e con un certo successo, Marco Pannella. E prima ancora, in anni più lontani, Guglielmo Giannini, che era un commediografo. Ma nessuno è alieno alla cifra dell’impero dei partiti quanto il Barbaro della Lega. La Padania non esiste ancora come invenzione, le cravatte e le magliette verdi arriveranno dopo, ma intanto Bossi è già alternativo in tutto. Le sue poesie rural-adolescenziali («Vori stà in cassina, mong i vach, sternì ra stala, che can la vegn, la me troa induée son nassuu, a marscì den dra palta...»: «Voglio vivere in cascina, mungere le vacche, pulire la stalla, che quando viene, mi trovi dove sono nato, a marcire nel fango...») stanno lì a dire: cari partiti, una risata grottesca, un fescennino, una pernacchia, un rutto, un peto vi seppelliranno. La Lega ha qualcosa di selvaggio, perfino di barbarico. Ma il ’92 del Carroccio è comunque tinto dai colori della vittoria. Alle elezioni politiche magari non sarà un diluvio, un terremoto, la grande catastrofe che inquieta come un incubo la classe dirigente, ma un trionfo sì, quello verrà di sicuro con tutti i suoi premi e le sue gratificazioni. [...] Che uso farà la Lega della sua vittoria? Pessimo, ne sono certo. Ma sono anche convinto che non importa, che la Lega funziona con un segno negativo, primitivo, casinaro, senza bisogno di grandi alchimie strategiche (Giuliano Ferrara, “Epoca”, 8 gennaio 1992).

Così le tribù barbariche della Lega, non trovando più barriere sul territorio, avanzano indisturbate alla conquista dell’impero. 25

Umberto Bossi, Vento del Nord cit., p. 110.

­­­­­85

«È come la calata dei barbari che non risparmia nessuno», urlerà ferito uno dei senatori dell’impero della Prima Repubblica, l’ex segretario della Dc Arnaldo Forlani, assistendo alla scena inconcepibile del suo portavoce Enzo Carra trascinato in manette in un’aula di tribunale davanti alle telecamere un anno dopo, nella tempesta di Tangentopoli, il 4 marzo 1993. Beccandosi la reprimenda di colui che tutti i giornali ormai blandiscono come l’ideologo della Lega, Gianfranco Miglio. «Che pena, che ignoranza», commenta il professore con Pierluigi Battista, «e pensare che solo grazie ai barbari abbiamo conosciuto la civiltà industriale moderna. Fosse stato per i difensori della ‘classicità’, l’Europa non avrebbe saputo riprendersi da un declino inesorabile e devastante». Per Miglio, al contrario di Forlani, l’invasione barbarica è un valore, che seppellirà in fretta i rimasugli dell’impero, così com’è accaduto con i Proci e con Ulisse: «Ulisse è il mondo che muore. È il predone che deve affrontare l’insurrezione dei nuovi ‘capigente’, i Proci che gli portano via non Penelope, quella non la voleva nessuno, ma le schiave. Le amatissime schiave che assomigliano in modo impressionante alle ragazzotte di oggi che hanno circondato i potentes finché erano tali (sì, parlo dei socialisti) e che alla fine se ne vanno con gli ‘usurpatori’, i Proci che instaureranno un nuovo regime», sogghigna Miglio. «Non resta che sperare nei barbari. [...] Ci vollero i barbari per inventare il mulino. Ci vollero quegli uomini rudi e sodi che abitavano le terre profonde e umide dell’Europa del Nord per arrivare a sostituire il lavoro dell’asino con l’aratro moderno»26. E ora servono i nuovi barbari, il rozzo esercito degli homines novi sceso dal Nord per costruire la Seconda Repubblica. Ma l’invasione era cominciata anni prima. Nell’indifferenza dell’impero, dei suoi retori, dei velinari e dei senatori che pensavano di poterli utilizzare per i loro giochi. E che invece saranno travolti.

26 Gianfranco Miglio, intervista di Pierluigi Battista, Nuovi barbari, aiutateci voi, “La Stampa”, 27 febbraio 1993.

­­­­­86

V

Il Botto

La Repubblica italiana a Palermo è morta. È morta in un giorno appiccicoso nello spettrale androne di marmo del Palazzo di Giustizia seppellita dagli sputi, dagli insulti, dalla pioggia di monetine, dal grido «Assassini!», dal coro «Mafiosi!» che, come un selvaggio scirocco, ha investito tutti coloro che – piccoli o grandi, colpevoli o innocenti (ma esistono innocenti?) – si sono avventurati in nome del Popolo italiano nella camera ardente di Palermo. La Repubblica italiana è morta [...] dinanzi a cinque bare con bandiere tricolore [...] al termine di una guida rossa lisa, sfilacciata qui, sforacchiata là. [...] La Repubblica italiana a Palermo non è morta di rabbia, non è morta di furore, non è morta di vergogna. [...] È morta del disprezzo cupo, solido, senza speranza – che ha accolto i poveri cristi e le facce di pietra venute a Palermo in nome della Repubblica italiana (Giuseppe D’Avanzo, «Vergogna, vergogna, assassini», “la Repubblica”, 25 maggio 1992).

«La prego di dire a Gava che se non sarò presidente della Repubblica finirà la Prima Repubblica». L’incontro dura pochi secondi, il tempo di una stretta di mano e di trasmettere il messaggio. Il prefetto Raffaele Lauro, uomo di apparato del Viminale, fidatissimo collaboratore del notabile della Dc napoletana, non è facile alle emozioni, sopravviverà all’estinzione della Balena Bianca e alla scomparsa del suo protettore e sarà eletto senatore del Pdl. Ma quella sera dell’11 maggio 1992, quell’aria appestata, l’attesa di una catastrofe di cui non è ancora chiara la dimensione, non potrà davvero dimenticarla. È stato convocato qualche ora prima al Viminale dal capo della Polizia Vincenzo Parisi, depositario di molti segreti dello Stato e degli uomini che lo governano. Parisi è rispettato da molti, temuto da tutti. È nella stanza che fu di Alcide De Gasperi presidente del Consiglio, ha un invito da consegnare a Lauro, che in quel momento ha 48 anni ed è capo di gabinetto ­­­­­87

del ministro dell’Interno Enzo Scotti, dopo esserlo stato per anni di Antonio Gava: «Il presidente del Consiglio ti vuole parlare con assoluta urgenza. Questa sera. Vai da lui»27. Nello studio di piazza San Lorenzo in Lucina, Giulio Andreotti si prepara alla direzione della Dc del mattino successivo. Ha partecipato a una riunione con Forlani, De Mita, i capigruppo Gava e Mancino, a Palazzo Sturzo all’Eur. Al vertice è rimasto silenzioso, se n’è andato prima della fine senza rilasciare dichiarazioni, inseguito dai sospetti. «Andreotti vuole correre solo per sé», titola quella sera l’Agenzia Repubblica vicina a Vittorio Sbardella, che ormai è il più sprezzante nemico del suo ex capocorrente: «L’incognita scudocrociata si chiama Andreotti, che si sta muovendo autonomamente nelle vesti di uomo per tutte le stagioni. Anche il suo pentimento al Viminale va visto in quest’ottica». L’agenzia dello Squalo si riferisce a un convegno del pomeriggio, quando di fronte ai prefetti riuniti al ministero dell’Interno il Divo Giulio si è lasciato andare a qualche ragionamento insolito per lui. L’occasione è la paludata presentazione di un rapporto sulle tensioni sociali nel Paese, un appuntamento di routine, nessuno si aspetta da Andreotti un intervento di quel tipo. Un’autocritica, un appello ai partiti a rinnovarsi. Ancora di più, a cambiare pelle o a chiudere i battenti. Una terapia shock. «Può darsi che sia meglio che i partiti se ne vadano, che sciolgano le fila. O che almeno si trasformino in comitati elettorali all’americana». La voce nasale del presidente del Consiglio si affila quando passa ad esaminare il tema più scabroso di quei giorni, lo scandalo di Milano: «I problemi che nascono dalle recenti inchieste vanno affrontati politicamente. Bisogna abolire il finanziamento pubblico dei partiti prima che sia un referendum a farlo». E, già che ci siamo, è necessario procedere anche con il dimezzamento del numero dei ministeri. Parole inaudite: in platea i funzionari, abbottonati nel loro abito blu, restano impietriti, sconcertati da quello che ascoltano dal presidente del Consiglio che del Sistema è il simbolo vivente. «È il suo programma per il Quirinale», mormora qualcuno. «Anche lui ha capito che deve dare qualche picconata». 27

44-45.

Antonio Gava, Il certo e il negato, Sperling & Kupfer, Milano 2005, pp.

­­­­­88

Il colpo più duro arriva in finale, un cupo esame di coscienza, un mea culpa pubblico al termine del quale il cattolico Andreotti emette una sentenza terribile, senza assoluzione né redenzione: «Per certe cose e per certe scelte che abbiamo fatto meritiamo l’inferno, che il Signore ci perdoni». E questa volta non è una battuta. «Non sappiamo se nell’aldilà il reo confesso eviterà l’inferno», commenta con laico sarcasmo il giorno dopo “La Voce Repubblicana”. «Noi vorremmo evitare di andarci con lui già nell’aldiqua». Interviene anche il segretario generale della Cei monsignor Dionigi Tettamanzi, ecumenico: «Non so se andremo tutti all’inferno o tutti in paradiso. So che la situazione attuale ci vede tutti in purgatorio». L’incontro con il prefetto Lauro arriva alla fine di questa giornata particolare. La stretta di mano è rapida, si entra subito nella questione. «La prego di dire a Gava che se non sarò presidente della Repubblica finirà la Prima Repubblica», scandisce Andreotti una sola volta. «Glielo dica. E la prego anche di riferirmi la sua risposta prima della riunione della direzione di domani mattina». Lauro esce dall’udienza frastornato e prova a contattare il capo doroteo, senza successo. A Gava le parole di Andreotti vengono riferite solo al risveglio, di buon mattino. Le occhiaie stanche, il sorriso sornione, il capogruppo della Dc ne ha viste tante nella vita, l’ambasciata di Andreotti gli arriva come l’esagerazione di un uomo che sente di essere escluso dalla corsa per il Quirinale e che prova a riaprirla. Certo, Andreotti non è mai stato tipo da parole eccessive. Ma il leader dei dorotei le allontana da sé come si fa con un cattivo pensiero. Quando alle nove comincia la direzione in piazza del Gesù, ci sono i soliti capi seduti intorno al solito grande tavolo quadrato, le solite telecamere che riprendono l’evento, è tutto come sempre, non c’è da preoccuparsi, ma quale fine della Repubblica, deve pensare Gava, al massimo sarà la fine di Andreotti, e quanto all’inferno, l’ha dichiarato alle agenzie, beh, parli per sé, ognuno valuti i peccati con la propria coscienza... Per il Quirinale l’uomo che possiede il pacchetto di maggioranza delle azioni del partito ha ormai fissato la strategia: la Dc deve mettere in campo il suo nome più rappresentativo. Non è il presidente del Consiglio, è il segretario Arnaldo Forlani. E poi non c’è più tempo per cambiare idea: all’inizio delle votazioni per eleggere ­­­­­89

il successore di Cossiga mancano solo ventiquattro ore. Il tabaccaio di Montecitorio ha raddoppiato le ordinazioni: 295 chili. I nuovi arrivati della Lega reclamano quindici stanze negli uffici della Camera: «Ce ne hanno date tre con quattro scrivanie. Per non parlare degli alberghi: per trentamila lire a notte ci hanno trovato una stanzetta a Cisterna di Latina». Alla buvette rafforzano le scorte di tramezzini e supplì. Tutto è pronto per il Gran Ballo della Repubblica. Ma Andreotti ha ragione: sarà l’inferno. E non solo per lui. Ha pianto, Pietro Longo, quando le prime ore di carcere hanno sfaldato la sicurezza di cui si era vestito per entrare all’interno del grande istituto penitenziario di Rebibbia. L’ex segretario del Psdi, l’ex onorevole, è riuscito nell’intento di offrire a tutti, quando tutti lo potevano vedere, un’immagine di estrema dignità. Ma poi, quando s’è trovato in cella, dopo che le prime ore di detenzione gli hanno fatto pesare sull’animo il senso fisico della solitudine, il vecchio combattente caduto sul fronte d’un processo per tangenti e di una sentenza passata in giudicato ha ceduto alla mortificazione. [...] Ha mormorato: «Ce l’hanno fatta a distruggermi», e s’è dovuto asciugare gli occhi con il fazzoletto. [...] «Non era mai successo a nessuno prima di me» (Emilio Radice, Le lacrime di Pietro Longo matricola in cella a Rebibbia, “la Repubblica”, 3 maggio 1992).

Sono inconsapevolmente tetri gli umori democristiani. Come se il giorno scelto per l’inizio delle votazioni, il 13 maggio, festa della Madonna di Fatima, possa smuovere chissà quali terribili profezie, segreti inconfessabili di catastrofi imminenti. Se ne accorge la delegazione del Pds guidata da Occhetto durante l’incontro ufficiale con lo stato maggiore della Dc. Vorrebbero discutere del Quirinale, capire che intenzioni hanno in piazza del Gesù. E invece Forlani comincia a parlare d’altro. Senza nessun motivo si mette a discettare delle ultime ore di Adolf Hitler nel bunker di Berlino, il 30 aprile del 1945. Di fronte a Occhetto un po’ stupito e ai suoi il segretario della Dc si dilunga sul matrimonio con Eva Braun, l’angoscia dei gerarchi, le ultime disposizioni, la distribuzione delle fiale di cianuro. «Loro sapevano che stavano per morire. Si preparavano al suicidio. E continuavano come se nulla fosse», sospira l’Arnaldo. «Ecco, noi ­­­­­90

siamo in una situazione del genere. E ora, se volete, discutiamo pure del capo dello Stato...»28. È questo lo stato d’animo con cui si preparano alla guerra del Colle. I due generali democristiani sono all’ultima battaglia, lo sanno entrambi. E scendono in campo ciascuno con la sua indole. Forlani, refrattario a candidarsi, si lascia pregare. «Che ci andrei a fare al Quirinale?», ripete ai suoi sponsor e ai suoi colonnelli. Il più attivo è il giovane Pier Ferdinando Casini che ha in testa un piano fantasioso e in apparenza impossibile: agganciare la Lega e il Msi. «Perché no?», ripete ai colleghi di partito che lo guardano perplessi. Il giovane Pier, 36 anni e già alla terza legislatura, lancia pubblicamente l’offerta: coinvolgere il Carroccio sul piano istituzionale, offrendo una vice-presidenza della Camera. E intanto prova a organizzare un incontro tra Forlani e Bossi che non ci sarà mai. Con Fini è più facile perché, segnala il portavoce del Msi Francesco Storace, «sono tutti e due di Bologna, la lobby felsinea», i missini sono 50 grandi elettori, buttali via. Andreotti, invece, non si tira mai ufficialmente indietro, sta come un ragno in attesa della presa e intanto tesse la tela a tutto campo. È il leader più conosciuto della Dc, ma dentro il partito è anche il più odiato. Non è un caso che non sia mai stato segretario, in piazza del Gesù non lo considerano neppure un democristiano. «Per lui c’era rispetto politico, non considerazione etica», secondo il giudizio sferzante dell’ex ministro Adolfo Sarti, amico di Cossiga, prematuramente scomparso nel 1992. Nel 1973 Andreotti era presidente del Consiglio, andò da Forlani segretario della Dc a proporgli un patto per far fuori i vecchi cavalli di razza Fanfani e Moro. «Ma Arnaldo rifiutò, per lui il partito veniva prima di tutto», ricorda Carra. «Gli rispose: ‘Ma cosa resterebbe della Dc senza Fanfani e Moro?’». Vent’anni dopo i cavalli di razza sono loro, tocca a loro trovare la soluzione per il Quirinale. Quando i due si incontrano finalmente faccia a faccia per discutere della cosa il risultato è un capolavoro di ambiguità. Si vedono in piazza San Lorenzo in Lucina, nella piccola stanza dello studio di Andreotti, c’è un

28 Massimo Franco, Tutti a casa. Il crepuscolo di mamma DC, Mondadori, Milano 1993, pp. 228-229.

­­­­­91

solo testimone, il ministro Cirino Pomicino. Giulio e Arnaldo la prendono alla lontana, cominciano a parlare di tutto tranne che della decisione all’ordine del giorno. «A sentirli fremevo», racconta Cirino Pomicino. «Perciò a un certo punto li interruppi e introdussi l’argomento senza tanti giri di parole: ‘C’è da scegliere il candidato della Dc alla presidenza della Repubblica, perciò, cari ragazzi, dovete mettervi d’accordo’». I due settantenni sorridono a sentirsi chiamare ragazzi e dicono la loro. Democristianamente. «Se c’è la candidatura dell’amico Arnaldo la mia non esiste», giura Andreotti. «Se c’è la candidatura dell’amico Giulio la mia non esiste», replica Forlani. «Ho capito, volete candidarvi tutti e due...», conclude Cirino Pomicino. Avvertono istintivamente che la fine è vicina, ma continuano con le passate abitudini come se niente fosse. L’elezione del presidente della Repubblica, ogni sette anni, è un momento infernale per ogni grande capo democristiano. Ogni volta le elezioni presidenziali sono state precedute da sgambetti, congiure, dossier, ricatti, manine, manone. Ogni capo della Balena Bianca che si rispetti sa riconoscere la maledizione del Colle, come affrontarla, come scongiurarla, come evitare di esserne travolto. Ma al conclave repubblicano del 1992 il Sistema arriva stremato. Ci sono state le elezioni, il 5 e il 6 aprile, ed è stato un rintocco a morto. La Dc sotto il muro del 30 per cento, per la prima volta nella sua storia, quasi 2 milioni di voti in meno rispetto a cinque anni prima. Il Psi inchiodato al 13 per cento, la risacca fatale dell’onda lunga degli anni Ottanta. A sinistra c’è l’esordio del Pds di Occhetto che raccoglie un deludente 16 per cento, perdendo consensi a vantaggio di Rifondazione comunista e dei nuovi movimenti come i Verdi e la Rete il risultato della Lega va ogni oltre previsione: 8,6 per cento, 55 deputati e 25 senatori. I barbari sono arrivati in Parlamento, il voto per il Quirinale è la loro prima prova. Nonostante la batosta, il quadripartito Dc-PsiPsdi-Pli (escluso il Pri di La Malfa uscito dalla maggioranza) ha ancora la maggioranza alla Camera (331 seggi) e al Senato (163), ma dal punto di vista politico traballa paurosamente. La scelta del presidente è la chiave di volta di tutta la legislatura. E c’è chi si consola: la Dc è ancora il partito centrale dello schieramento politico. L’unico in grado di dialogare a tutto campo, dal Pds alla Lega fino al Msi. Ma il 1992 è diverso, per tutti. Milano chiama ­­­­­92

il Quirinale. Le inchieste di Mani Pulite fanno irruzione nell’aula di Montecitorio. Alle sei della sera, due ex sindaci socialisti di Milano raccontano con la voce arrugginita, screziata dall’ansia e dallo sgomento di aver ricevuto un avviso di garanzia che li mette sullo stesso piano di chi fa incetta di autoradio: ricettazione. Prima, tocca al ministro Carlo Tognoli. Poi, a Paolo Pillitteri. Il primo sindaco per dieci anni (1976-1986), il secondo per cinque (1986-1991). Il primo è terreo, il secondo ha il respiro affannoso. [...] Suda, il ministro Tognoli, l’ex sindaco che è stato il primo cittadino più popolare di Milano, ‘il Carletto’, ‘il Tognolino’. La tensione sottopelle è tanta, e Tognoli ha un guizzo d’insofferenza, uno scatto di nervi sul finire del monologo sotto i faretti roventi delle tv, nell’accerchiamento dei taccuini e dei microfoni, nella saletta di Palazzo delle Stelline, la fondazione di cui è presidente. Scatta davanti alla domanda se intenda dimettersi. «Da che cosa?», sibila ai cronisti, «In un’altra occasione mi sono dimesso». Quale? «Informatevi». [...] Dopo il ‘pupillo’ di Craxi, [...] tocca ora al cognato, al Paolo Pillitteri sempre sorridente. Sorride anche stavolta, l’ex sindaco. Ma non è, il suo, un sorriso gioioso, assomiglia più a una smorfia e, dopo un esordio da eterno buontempone («Scusate il ritardo, ma non trovavo da parcheggiare, è questo uno dei drammi di questa città»), Pillitteri s’infila in un discorso che lentamente e un po’ faticosamente plana verso il concetto di estraneità. [...] Di intrecci tra affari e politica, l’ex sindaco lo ha appreso in questi giorni dai giornali. E se siano notizie vere o false, conclude Pillitteri «lo stabilirà la magistratura» (Vittorio Testa, Denaro? Mai ricevuto, “la Repubblica”, 3 maggio 1992). L’inchiesta, condotta finora con abilità e prudenza dalla magistratura, chiarirà le eventuali responsabilità penali dei due uomini politici, che, va rilevato, si dichiarano estranei a ogni storia di tangenti. Ma dall’indagine in corso sono già usciti dati più che sufficienti per provare che la tanto bistrattata ‘questione morale’ non era una fissazione di moralisti fuori moda, ma una forte e fondatissima richiesta della società. I partiti hanno abbandonato ogni progettualità e ai grandi disegni dei fondatori della Repubblica hanno sostituito gli schizzi dei geometri compiacenti. Ma l’orgogliosa società civile della metropoli europea può seriamente sostenere di essere estranea all’accaduto? [...] Sarebbero almeno 150 gli imprenditori che a Milano si spartivano le quote di mercato dei lavori pubblici: vale davvero l’argomentazione difensiva che erano costretti a subire per restare sul mercato? La verità è che una sorta di sordità morale era calata dal Palazzo su gran parte ­­­­­93

del Paese. Tutti sapevano, tutti dicevano, ma tutti erano rassegnati all’Ineluttabile. Il merito dell’inchiesta di Milano è quello di aver accelerato la reazione al fatalismo. L’indagine in corso si salda con la forte domanda di cambiamento rivelata dalle recenti elezioni, che i politici più avvertiti si affrettano a cogliere (Giulio Anselmi, La torta è finita, “Corriere della Sera”, 2 maggio 1992). L’inchiesta Mani Pulite è nata da uno scivolone commesso dall’ing. Mario Chiesa, poi è cresciuta grazie ad un clima nuovo e particolarmente favorevole dovuto forse, in parte, alla congiuntura elettorale, forse anche alle picconate che, in vario modo, si sono abbattute sul sistema dei partiti. Ma soprattutto alla sensazione di stanchezza se non addirittura di nausea che si è diffusa nella collettività di fronte all’occupazione sistematica e predatoria di alcuni settori pubblici da parte di ambienti politici (Francesco Saverio Borrelli, intervista di Chiara Beria di Argentine, “l’Espresso”, 2 maggio 1992).

Quel pomeriggio del 4 maggio, in via del Corso, a rendere ancora più drammatica la riunione dell’esecutivo socialista c’è un falso allarme per una bomba al tritolo. Nella sede della direzione nazionale del glorioso partito che sta per compiere un secolo di vita arrivano telegrammi inaspettati. Il più lapidario è stato spedito da Molfetta: «Craxi dimettiti!». Macché, Craxi non ci pensa neppure. Ascolta irrequieto, le dita che tambureggiano sul tavolo, la relazione di Claudio Martelli, ministro della Giustizia. Nomina commissario del Psi a Milano Giuliano Amato. E finalmente si presenta davanti alle telecamere. Il caldo è insopportabile. «Se mi fate respirare vi leggo una dichiarazione!», sbotta il leader di fronte ai fotografi. Estrae un foglietto. «Sto facendo l’elenco dei colpevoli», detta l’ex presidente del Consiglio, candidato a tornare a Palazzo Chigi. Ma non dei mariuoli alla Chiesa: quella fase, le mele marce, i pochi casi isolati, la rituale fiducia nella magistratura, è un tempo già finito. Quella che arriva dal bunker di Craxi è la prima dichiarazione di ostilità alle inchieste di Mani Pulite. «Sto compilando la lista di coloro che hanno confessato grossi reati contro la pubblica amministrazione, di coloro che ne sono sospettati e di coloro che lo potrebbero essere. Eppoi sto compilando la lista degli sciacalli, degli ipocriti e dei falsi moralizzatori. Vedete, io penso che in queste vicende chi sbaglia paga e deve pagare secondo regole di giustizia. Gli accusati devono avere la possibilità ­­­­­94

di difendersi e non possono essere giudicati sommariamente in base all’odio di parte. La moralizzazione della vita pubblica non farà un passo in avanti sulla base della menzogna e dell’ipocrisia». In dieci righe ci sono già tutti i temi, le parole d’ordine degli anni successivi: il golpe mediatico-giudiziario, il complotto delle toghe, l’uso politico, si dirà in seguito criminoso, della giustizia. Lo sparo di Sarajevo dell’arresto di Chiesa provoca la sua onda d’urto: l’inizio della Grande Guerra che durerà un ventennio. Ma l’effetto più immediato è sui mille deputati, senatori, delegati regionali che stanno per riunirsi per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Cresce l’inquietudine a Montecitorio per i fatti di Milano, si aggravano le preoccupazioni per il tam-tam di voci incontrollate e per la permanenza di un buio fitto per quanto riguarda la seduta di mercoledì prossimo. La questione morale si intreccia sempre più stretta con la scadenza presidenziale. [...] È un fatto che questo scatafascio avviene in coincidenza con l’elezione del presidente della Repubblica e con la formazione del nuovo governo. [...] Nel Transatlantico per tutta la giornata si sono rincorse le voci più drammatiche: si dice che anche...! È impossibile! Sarebbe un disastro! Ma sarebbe sotto il mirino dei Magistrati anche... Allora sarebbero in mezzo anche coloro che si scandalizzano tanto! Poi l’altra ipotesi che appare inverosimile, cioè dell’invio supposto, assolutamente non suffragato da niente, di avvisi di garanzia ai segretari dei partiti in tema di approvazione dei bilanci per una presunta violazione della legge sul finanziamento dei partiti. Tutte queste insinuazioni incredibili forniscono un quadro davvero molto cupo (Tam tam di voci incontrollate, Velina di Vittorio Orefice, 7 maggio 1992). Craxi a Palazzo Chigi e un democristiano (Forlani, De Mita, Andreotti) al Quirinale? Oppure Craxi al Quirinale e un dc a Palazzo Chigi? Le ipotesi su cui i grandi tessitori stavano lavorando erano queste. Poi è partito per la tangente lo scoperchiamento giudiziario delle pentole di Milano e tutto lo scenario ne è risultato sconvolto. La candidatura di Craxi è diventata di colpo poco spendibile, visto che la gran fiera del “pizzo” sulle commesse pubbliche ha colpito proprio il cuore craxiano del Psi. Ma le conseguenze non toccano solo i socialisti: poiché Craxi era il perno fisso di ogni combinazione, se salta lui a Milano saltano anche gli altri. Un problema che angoscia via del Corso quanto piazza del Gesù. Un po’ meno, forse, piazza San Lorenzo in Lucina. Usare la magistratura significa far politica con altri mezzi? Qual­­­­­95

cuno, in questi giorni di tensione, fa suo questo assioma aggiornato del machiavellismo. Quelli del Garofano che non conoscono ancora a fondo i misteri della Balena Bianca credono davvero che Andreotti sia Belzebù? [...] Il supposto Belzebù bazzica solo il Foro Romano. E, fino a questo momento almeno, non ha evocato lo scoperchiamento di pentole con tangenti. «Lo farà, lo farà!», sussurrano malignamente quelli del Garofano. Si stanno setacciando vecchi forzieri, archivi impolverati. Stiamo agli ultimi giorni di Pompei... (Roma chiama Milano, Agenzia Repubblica, 3-4 maggio 1992).

Non c’è solo la corsa per il Quirinale. In quei giorni l’attenzione degli italiani è attirata da un’altra competizione, solo in apparenza puramente sportiva. Nelle acque di San Diego in California c’è la sfida per la Coppa America, in gara c’è l’imbarcazione da trenta miliardi costruita in gran segreto in un cantiere Montedison di Porto Marghera e inaugurata due anni prima a Venezia durante una festa-kolossal (milleduecento invitati, venticinque alberghi requisiti) organizzata dal patron dell’impresa, il Contadino dell’imprenditoria italiana, Raul Gardini. «La nostra ultima passione? Mordere le acque e parlare con il vento», recita la pubblicità a titoli cubitali acquistata dal nuovo doge su tutti i grandi quotidiani. Versione corretta della prima, ancora più megalomane, «Mordere le acque e camminare sulle onde». Nei giorni in cui il Palazzo romano si divide sulla scelta del nuovo presidente, il Moro di Gardini vince la regata contro New Zealand in Coppa America. Le gare vanno in tv trasmesse da Telemontecarlo che non è rilevata dall’Auditel. Ma il tifo per il Moro è la moda del momento, i giornali si riempiono di accese discussioni sulla boma e sul bompresso, il fax di Gardini sputa messaggi a ripetizione, chiama anche Occhetto in diretta tv per congratularsi: «Sono bravissimi, sono felice per loro». «Il Moro di Venezia. Raul Gardini, dernier armateur européen dans la Coupe de l’America», titola in prima pagina “Le Monde”. Il Moro, in realtà, non è di Gardini. È rimasto alla famiglia Ferruzzi, da cui Raul si è separato con una liquidazione di 510 miliardi di lire curata dal fiscalista Victor Uckmar e dal collega più giovane e meno famoso Giulio Tremonti. Ma la gestione del veliero è sua, suo il sapore della vittoria. Mentre la politica affonda, il doge Gardini morde le acque, parla con il vento. E cammina sulle onde. ­­­­­96

Un piccolo segno lo abbiamo già lasciato. Era dal 1934 che una barca europea non vinceva una regata di Coppa America. [...] Si celebra quest’anno la scoperta dell’America che, rivoluzionando il world trade del tempo, avviò la decadenza di Venezia. Ci penso spesso quando sono a Venezia nella mia casa, terminata di costruire nel 1492 da Giovanni Dario, che la dedicò al Genio della Città dopo aver ratificato la pace della Serenissima con Maometto II. Quanto passato, quanto futuro e quindi quanta confusione in questa scoperta di Cristoforo Colombo. [...] E quante analogie con il nostro presente, con questa nostra epoca di mutamenti di world trade da reinventare. Mi piace pensare queste cose anche quando vado in barca come ieri (Raul Gardini, Abbiamo lasciato un segno, “la Repubblica”, 12 maggio 1992). Altro che i trionfi del Moro di Venezia sulle acque californiane, a spese dei neo-zelandesi e del loro bompresso. La vera corona d’alloro sul capo di Raul Gardini l’hanno appena posta i dirigenti dell’Enichem – già Enimont – con le anticipazioni sull’andamento del colosso chimico che la mano pubblica si ritrova ora sul gobbone al termine della tormentatissima e sciagurata disfida con il grande veleggiatore internazionale. [...] Lo scorso anno il baraccone chimico nazionale ha segnato una perdita superiore ai 600 miliardi mentre, per l’anno corrente, si stima un altro risultato negativo di oltre 700 miliardi che, con gli annessi e connessi, dovrebbe portare a una perdita complessiva d’esercizio vicino a quota mille. [...] Ma per quale ragione mai, nell’autunno del ’90, Raul Gardini smise all’improvviso di giocare all’apprendista chimico, si intascò una barca di soldi dall’Eni e doppiò la boa più fortunata della sua vita? Per quale ragione se non proprio per il fatto che egli ben conosceva quale tempesta di debiti si addensava sulla rotta dell’allora Enimont? L’ulteriore domanda che ne consegue è questa: possibile che allora solo Gardini fosse in grado di fiutare il vento e gli uomini dell’Eni no? [...] Le nuove perdite annunciate dall’Enichem ripropongono un quesito che finora non ha trovato risposta convincente: fu congrua la cifra versata dall’Eni per la fuoriuscita di Gardini-Montedison dall’Enimont? [...] Il minimo che si possa dire è che i dirigenti dell’Eni hanno sbagliato conti e previsioni, facendo a Gardini e soci un regalo di proporzioni colossali. Ma il peggio è che gli uomini dell’Eni non hanno gestito questo increscioso affare da soli. Una variopinta compagnia di ministri ed esponenti politici di diversa estrazione ha calpestato le scene dell’operazione Enimont dal primo all’ultimo atto. [...] I magistrati [...] stanno portando alla luce alcuni esempi clamorosi di corrompimento reciproco fra mondo politico e mondo degli affari. A suo modo [...] anche le vicende dell’Enimont meriterebbero qualche ­­­­­97

attenzione da parte della magistratura. [...] Qualcuno – fra i ministri e i boiardi di Stato che l’han fatta da protagonisti – dovrà pur rispondere di un simile capolavoro. [...] Il magnate del Moro la sua regata più ricca l’ha vinta nelle acque della politica italiana. E l’Erario ne sa qualcosa (Massimo Riva, L’Enichem e il Moro, “la Repubblica”, 8 maggio 1992). «Pensando a quanto sta accadendo in questi giorni mi viene in mente la caduta del fascismo: il giorno prima Mussolini non sapeva che poche ore dopo sarebbe caduto in mano ai partigiani». Con questo richiamo storico, dal sapore forte e in verità anche un po’ inquietante, Raul Gardini ha cercato di trasmettere agli imprenditori spagnoli il senso di ‘svolta’ che incombe in questi giorni in Italia. Lo ha fatto ieri a Lloret de Mar, località della costa catalana. [...] Nel suo breve intervento ha cercato di far comprendere quante cose, a suo avviso, potrebbero cambiare a breve termine in Italia (Gardini: sento arrivare molte novità, “la Repubblica”, 24 maggio 1992).

Striscioni, calci, pugni, urla («Ladri! Ladri!»), minacce di morte, pacchi di mazzette, rotoli di monetine. E manette. Per la prima volta qualcuno le sventola (lentamente, sfrontatamente) nell’aula del Parlamento: è il deputato di Piacenza Carlo Tassi, uno della vecchia guardia del Movimento sociale, un fascistone orgoglioso di esserlo, sempre in camicia nera anche alla Camera. Le inchieste di Mani Pulite fanno irruzione così nell’aula di Montecitorio, nel momento più solenne, l’ora più sacra della religione repubblicana, il conclave laico, la seduta comune per eleggere la più alta magistratura dello Stato. Molte altre cose mai viste prima accadono in quella mattina del 13 maggio. Sulla prima pagina di tutti i giornali c’è la foto di un oscuro, anonimo deputato bergamasco, non lo conoscono neppure i giornalisti del Transatlantico. È la notizia dell’avviso di garanzia firmato dalla Procura di Milano per il segretario amministrativo della Dc Severino Citaristi (per lui il primo di una lunga serie: alla fine saranno 72, un record, 16 anni di carcere definitivi, 8 miliardi di ammende), accusato di violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti per aver ricevuto 700 milioni di lire da un imprenditore. I giornali lo chiamano il tesoriere della Dc, il Cassiere. Non fanno in tempo ad assorbire il colpo, i grandi elettori di Montecitorio profumati e rivestiti con l’abito scuro delle grandi occasioni, che le agenzie battono la notizia di un nuovo ­­­­­98

avviso di garanzia. Questa volta tocca al capo del Pri milanese Antonio Del Pennino, uno degli uomini più vicini al presidente del Senato Giovanni Spadolini che a lungo è stato eletto nel collegio di Milano uno. Nel Palazzo sono rapidi a fare di conto: se l’inchiesta su Tognoli e Pillitteri sfiora Craxi e quella su Citaristi colpisce Forlani, questa su Del Pennino azzera le ambizioni di Spadolini, il candidato di Giorgio La Malfa al Quirinale, il favorito per la soluzione istituzionale. Bossi esulta: «Oggi tocca a Del Pennino, domani a del pennone e dopodomani ancora a del pennacchio». Il deputato della Rete Gaspare Nuccio aggiorna con un pennarello il cartellino che si è appuntato al bavero della giacca: «Pillitteri, Tognoli, Culicchia, Borsano, abbiate almeno la decenza di non votare». Sono le 11.36, alle 10 in punto il presidente della Camera ha aperto ufficialmente la seduta per il primo scrutinio. Scambio di apostrofi fra il deputato Serra e i parlamentari del MsiDestra Nazionale. Richiami del Presidente. I parlamentari del Msi gridano «ladri» all’indirizzo dei parlamentari della Dc. Il deputato Filippo Berselli si scaglia verso i banchi dei parlamentari della Dc ed è bloccato dai commessi (dal resoconto stenografico della seduta del 13 maggio 1992).

I missini sono i più scatenati. E tra di loro i deputati di prima nomina, i più vicini al segretario Gianfranco Fini. Uno dei più giovani, il veronese Nicola Pasetto, appena trentenne (morirà nel 1997 in un incidente stradale), immancabile nella curva degli ultras della squadra di casa, si infila in aula con una valigia di pelle di colore grigio in cui ha nascosto tutto piegato uno striscione di 10 metri per 3. L’hanno preparato durante la notte sei ragazzi del Fronte della gioventù, sopra c’è scritto: «Fuori i ladri dal Parlamento». Il piano è spalancarlo appena comincia la seduta, in diretta televisiva. Non c’è neppure il tempo di attuare il progetto, perché la rissa si scatena quando chiede la parola il capogruppo missino Giuseppe Tatarella per dichiarare illegittimo il seggio elettorale «moralmente, politicamente e giuridicamente, viziato di incostituzionalità». Il democristiano Pinuccio Serra, sardo di Sinnai, uomo della sinistra del partito, non ci sta, «Piazzale Loreto», grida. È il gong, la Camera esplode. Il presidente Scalfaro fa una gran fatica a riportare l’ordine: «Onorevole, nessuno la obbliga a ragionare, è facoltati­­­­­99

vo!», afferma scampanellando mentre Tassi sventola le manette. «Questa non è un’aula di pugilato, è un’aula di pensiero, se si è capaci di usarlo!». «Ladri!», si alza in piedi per primo il massiccio Altero Matteoli, che nei due decenni successivi sarà ministro in tutti i governi Berlusconi. «Ladri!», strepita avventandosi come una furia sui banchi democristiani il bolognese Filippo Berselli, che sarà in futuro il presidente della Commissione Giustizia del Senato impegnata a far passare le leggi ad personam del centrodestra berlusconiano. «Ladri!», si dimena al suo esordio sulla scena parlamentare, per fatto personale e familiare, la new entry Alessandra Mussolini, ricercatissima dai media internazionali. E «Ladri, ladri», urlano Ignazio La Russa, Maurizio Gasparri, i giovani missini che Fini ha fatto eleggere a Montecitorio, che nessuno potrebbe immaginare in quel momento vestiti da ministri e circondati da un codazzo di portaborse, clienti, collaboratrici... «La nostra reazione è stata sacrosanta», commenterà nel pomeriggio il segretario Fini con una nota preparata dal suo addetto stampa Storace, «perché quando fu appeso a Milano dalle tasche di quell’Uomo non venne giù una lira». Mani Pulite come rivincita di piazzale Loreto sul Cln? Intanto in aula volano le monetine: Teodoro Buontempo detto Er Pecora, noto a Roma come «il piccolo grande uomo», nemico dei viados, delle prostitute e dei grandi costruttori, si fa passare le cento e le duecento lire dai suoi colleghi di partito, le nasconde in un giornale, fa finta di uscire, torna indietro e scaglia il cartoccio contro Serra. «Vada in chiesa e dica una preghiera per Mussolini!», gli urla. E Tassi: «Lei non finisce l’anno, lei è già morto». Quando finalmente comincia la prima chiama, l’appello nominale degli elettori, scatta un altro applauso. È il radicale Pio Rapagnà, che indossa sempre una sgargiante sciarpa rossa, anche in piena estate. Applaude un collega, un deputato pidiessino che si chiama come il suo eroe: Di Pietro. E lo farà ogni volta, per tutti e sedici gli scrutini. Fuori dall’aula è il turno delle mazzette: le lanciano i Verdi addosso ai grandi elettori che escono dal Palazzo. «Pillitteri e Tognoli oggi non vengono, ci sono troppi carabinieri», scandiscono i parlamentari Stefano Apuzzo, Emilio Molinari e Edo Ronchi dietro lo striscione «Forza Di Pietro». Un paio di manette personalizzate è pronto per gli ex sindaci di Milano che però non si fanno vedere. In compenso, un pacco di banconote ­­­­­100

false tirato dai manifestanti investe in pieno il bersaglio grosso: il segretario della Dc Forlani. Il candidato numero uno al Quirinale. (Il primo giorno di votazioni si conclude come previsto con una fumata nera. Tra le schede nulle ci sono alcuni voti per il pm Antonio Di Pietro: non può essere votato e eletto perché non ha ancora compiuto cinquant’anni.) Forlani è il candidato della Dc. In partenza conta sui voti solo del quadripartito che sono in totale 546 rispetto al quorum di 508 voti. Le incognite nascono dalla quasi certezza di un congruo numero di franchi tiratori. Quanti potranno essere? Pomicino è ottimista. Egli calcola non più di una trentina di dissidenti. Andreotti è d’accordo: «Di fronte alla candidatura di Arnaldo la mia non esiste più» (dalla Velina di Vittorio Orefice, 15 maggio 1992).

Alla scelta del nome la Dc è arrivata dopo mille convulsioni e in un clima drammatico. Alla vigilia del voto le schegge delle inchieste arrivano in piazza del Gesù. Il segretario regionale della Dc lombarda Gianstefano Frigerio è nella sede nazionale del partito per riferire a Forlani sulla situazione. «Sono tranquillo con la mia coscienza e con Dio», rassicura. Qualche minuto dopo Citaristi chiede di lui: «Qualcuno ha visto Frigerio?». Ma in quel momento il capo della Dc lombarda è già impedito: i carabinieri del reparto operativo di Milano l’hanno arrestato all’hotel Inghilterra. È in un clima pesante che i capicorrente Gava e De Mita provano a rompere le resistenze e gettano sul tavolo la carta più prestigiosa, il segretario della Dc. Sicuri di poter contare sul voto dei socialisti e timorosi dell’incognita Andreotti che ufficialmente ha dichiarato di voler appoggiare l’amico Arnaldo, se mai ci sarà la sua candidatura. Il momento è arrivato: all’assemblea dei gruppi parlamentari il Divo Giulio prende la parola alla fine. «So che sul segretario saremo uniti, ho visto che Gava ha mandato una circolare a tutti i dorotei per dire di votare Forlani, ma per sbaglio l’ha mandata anche a me...». Una voce dal fondo della sala lo corregge: «No, a te l’hanno mandata i servizi!». In realtà gli emissari del Divo Giulio si muovono fino all’ultimo momento per la candidatura del presidente del Consiglio. In tutte le direzioni: a destra e a sinistra. Sul fianco missino lavora il nostalgico Peppino Ciarrapico, braccio armato e economico dell’an­­­­­101

dreottismo, che gira con in tasca un fogliettino con i numeri della maggioranza trasversale pronta a votare per il Divo (230 della Dc, 70 del Psi, 40 del Pds, 35 leghisti, 20 del Msi, 20 del Pli, 7 di Rifondazione, ci sono perfino quattro verdi...). «Ciarrapico è solo uno sbruffone: probabilmente ha provato a comprare qualche voto da noi, ma nessun missino può votare per Andreotti l’imbalsamatore», reagisce Fini: è l’inizio di un’inimicizia pluridecennale. Con la sinistra la trattativa è più felpata. «Incontrai Cristofori, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, braccio destro di Andreotti. Su sua richiesta. L’argomento non poteva essere che uno. Cristofori mi disse che Andreotti non era candidato ma che, se si fosse presentata l’occasione, era intenzionato a non lasciarsela sfuggire», ha testimoniato Claudio Petruccioli29. «Andreotti non aveva capito che non avrebbe mai avuto i voti degli ex comunisti. Si era bendato e aveva chiuso gli occhi. Eppure non erano informazioni di seconda mano. Era stato Giorgio Napolitano a dirci: ‘Andreotti non lo voteremo mai’. Ma lui si illudeva di poterli trascinare dalla sua. I suoi si scaldarono molto e crearono le condizioni per rafforzarlo», ricorda Enzo Carra, il più vicino a Forlani. «Il progetto era questo: Andreotti al Quirinale, Forlani segretario della Dc, Craxi a Palazzo Chigi con Martinazzoli vice», racconta Cirino Pomicino. «Prima delle votazioni organizzai una riunione in una villa sull’Appia antica. C’erano tutti i big: Andreot­ti, Forlani, Craxi, Gava. Io non ci andai, mi ero intimidito, e fu un errore. Arrivarono al caffè che non avevano combinato un cazzo. Fino al trappolone escogitato dai dorotei: Forlani candidato, Andreotti sacrificato. Non potevamo prenderla bene». Noi non sappiamo qual razza di demone abbia spinto i gruppi parlamentari della Dc a mettere temerariamente in campo Arnaldo Forlani per il Quirinale. Un candidato che parta dal quadripartito è condannato a priori a essere impallinato. Le ragioni conscie e subconscie che hanno irrefrenabilmente spinto i parlamentari dc a chiedere il sacrificio del proprio segretario sull’altare del Quirinale vanno ricercate nell’urgenza di scongiurare in questo modo l’incombente candidatura di Andreotti. I suoi lanzichenecchi Cirino Pomicino, Cristofori, Vitalone (insieme all’andreottiano di complemento Franco Marini) si erano agitati un po’ 29

Claudio Petruccioli, Rendiconto, il Saggiatore, Milano 2001, p. 91.

­­­­­102

troppo. «Giulio è un candidato che sa muoversi a tutto campo, perfino nel campo d’Agramante della Lega», dicevano. «Verrà accettato da tutti perché ha i poteri di vitalonizzare la magistratura, magari trasferendo nella pace romana dei sensi giudiziari le carte tangenziali milanesi. La sede Di Pietro non è forse nella città eterna?». Sono stati così convincenti i giannizzeri del Divo Giulio che subito, come folla che in un luogo chiuso si precipita verso l’uscita di sicurezza al preavviso di un incendio doloso, è stato fatto scendere dal letto il pompiere implorandolo di salvare la Balena Bianca dalle fiamme degli inferi. E Forlani stasera ha accettato per servizio di scendere domani nell’arena di Montecitorio per farsi sbranare, disarmato, dalle belve. Alla maniera degli antichi martiri cristiani di Roma: «Purché a prevalere non sia Belzebù!». Perché, se il segretario della Dc sarà sbranato – come non speriamo ma fortemente e motivatamente temiamo a causa del cecchinaggio andreottiano che si prepara – nel Colosseo di Montecitorio nessun altro scudocrociato potrà seguirne l’esempio come candidato ufficiale e unico del partito di maggioranza relativa. Nemmeno Giulio Andreotti, che con il sacrificio di Arnaldo Forlani sulla via del Quirinale muore politicamente anche lui (Agenzia Repubblica, 15 maggio 1992).

La Velina di Orefice, quella sera, è molto più laconica: «Concludendo, la linea subordinata a Forlani è la sconfitta. Se Forlani riuscirà, si chiuderà questo capitolo. Altrimenti, se ne aprirà uno completamente nuovo». «Io quello lì non lo voto!», sbraita di buona mattina il democristiano padovano Settimo Gottardo in via degli Uffici del Vicario, davanti alla storica gelateria Giolitti, la strada che porta in piazza Montecitorio. Gottardo, ex sindaco di Padova, è uno dei pattisti di Mario Segni che si battono per un nuovo referendum e per il sistema maggioritario. Gli altri ribelli democristiani si riuniscono nel gruppo dei Quaranta: sono le seconde e terze file della sinistra del partito, in dissenso dal capo storico De Mita. Anche nel Psi la riunione della sera prima è stata agitata come non mai, con Craxi che per la prima volta fatica a riportare l’ordine e con Rino Formica che agita la rivolta: «Un democristiano al Quirinale? Ma così mandiamo il partito allo sfracello!». È un sabato mattina meravigliosamente primaverile, l’aula è affollata come nelle grandi occasioni, Forlani arriva vestito di fresco lana blu chiaro, è sempre il solito Coniglio Mannaro, si avvia alla ­­­­­103

battaglia svogliatamente, «ho dormito benissimo», chiacchiera con i cronisti, «vedo che siete più emozionati di me», «cercherò di partecipare alla vostra emozione», cose così. Casini lo scorta in aula, si è messo in completo verde, «per scaramanzia, il blu verrà dopo». Il quotidiano del partito garantisce: «Dc compatta per Forlani». Ma basta guardarsi in giro per accorgersi che non è vero: Mario Segni non partecipa alla prima votazione, il socialista Formica neppure, i repubblicani tengono su Spadolini. E quando Scalfaro comincia a contare le schede ci si accorge subito che il nome di Forlani va a rilento. «Forlani, bianca, bianca, Jotti, bianca...». Andreotti, seduto in terza fila, tiene impassibile il conteggio dei voti. Alla fine della mattinata, in chiusura del quinto scrutinio, il candidato unico della Dc e di Craxi si arresta a quota 469, quaranta voti in meno del quorum necessario per l’elezione (508), settanta in meno dei previsti. Nella Dc parte subito la caccia al franco tiratore: qualcuno giura addirittura di aver visto il sottosegretario Cristofori infilarsi in tasca la scheda con il nome Forlani e infilare una scheda bianca nell’urna in stile liberty, la mitica Insalatiera. Vertici convulsi, i forlaniani affrontano gli andreottiani sospettati speciali, Forlani cede a quello che non avrebbe mai voluto fare, in un angolo di Montecitorio incontra gli ambasciatori leghisti, l’ideologo Miglio, il lumbard Speroni e il veneto Rocchetta, tutti trattano con tutti, la Camera si trasforma in un gran bazar. Ma Bossi non sembra lasciare spazio alle speranze democristiane: «Noi lombardi, di sabato e di domenica, facciamo il tiro al piattello, bam, bam, buttiamo giù tutto». L’unico in apparenza tranquillo è il candidato: «Venite, vi offro un Cynar, contro il logorio delle istituzioni», scherza con i colleghi. E a un giornalista che gli promette una visita al Quirinale: «Andremo insieme, a trovare qualcun altro». «Alla prima votazione, quella della mattina, molti di noi votarono contro Arnaldo per dare un segnale che non sarebbe stata una passeggiata», ammette Cirino Pomicino. «Ma con un risultato così negativo capii che non si poteva più scherzare e nelle ore che ci separavano dallo scrutinio del pomeriggio provai a convincere tutta la corrente, anche i più ostili come Vitalone e Cristofori, li chiamai uno a uno: ‘attenti, non pensate che silurando Forlani apriamo la strada ad Andreotti...’». Nel pomeriggio lo spoglio riparte alle 17. I capi dc si ritirano in una sala al pian terreno, con Forlani ci sono Casini e Carra, assistono terrei alla conta che va sempre più a rilento: «Forlani, bianca, bianca...», arrota Scal­­­­­104

faro. «Non giocava la Sampdoria? Potremmo vedere almeno un pezzetto», propone allora il candidato. De Mita si risveglia dal torpore: «Lascia stare, Arnaldo. E poi a quest’ora sarà finita». Sì, è finita. A Forlani il lavoro di colonnelli e caporali ha procurato dieci voti in più, ma il suo nome si blocca a 479 voti, 29 in meno del quorum. E come se non bastasse dalle urne sono spuntati cinque voti non previsti, cinque schede in più del numero dei votanti. Dal giorno dopo, per prevenire i brogli, i falegnami della Camera montano in fretta e furia due cabine di legno con tendine in cui votare prima di depositare la scheda nell’urna. «Un segno di sfiducia nei parlamentari», scuote la testa Francesco De Lorenzo. «È una bruttura, toglietelo di mezzo altrimenti lo faccio saltare per aria», si incazza Craxi. Ma c’è chi vede l’aspetto lugubre, tombale della faccenda. Il socialista Giorgio Casoli: «Per una Repubblica in fin di vita è il simbolo che preannuncia il decesso». Il repubblicano Oscar Mammì: «Un sistema in agonia aveva bisogno di un catafalco». Il neoeletto della Lega Mario Borghezio: «Sì, il voto è diventato un rito funebre. Ma non mi dispiace. Morta una Repubblica, se ne fa un’altra». E Forlani nella notte decide di ritirarsi. L’Agnello è stato sacrificato. La Dc ha portato al taglio giugulare davanti all’urna il vitello Forlani, impennacchiato nel suo vestito buono, coperto di serti di mirto, nastri e preceduto da cembali suonati da Antonio Gava, che guidava il corteo funebre come se fosse una festa, e trascinava la bestia al macello. E lui, il capro gentile, remissivo, offriva il collo ringraziando. Uno spettacolo religioso, perfino un briciolo di tauromachia. Il Parlamento ha dimostrato di essere figlio del 5 aprile, e dunque figlio delle leghe, del cossighismo, del neoliberalismo, della diaspora a sinistra, delle trasversalità, di tutto ciò che è orizzontale, indisciplinato. I partiti appaiono invece come statue di terracotta (Paolo Guzzanti, E a Montecitorio esplode una ola, “La Stampa”, 17 maggio 1992).

Dopo Forlani il diluvio. I candidati vengono bruciati uno dopo l’altro. «Sei piccoli indiani», li definisce Craxi con lo pseudonimo di Ghino di Tacco sull’“Avanti!” il 18 maggio. «Vassalli, De Martino, Valiani, Giugni, Amato, Lama. All’alba non ne rimaneva in piedi neppure uno». Oddio, proprio nessuno no. Anche perché le inchieste continuano: il 18 maggio finisce a San Vittore un altro assessore so­­­­­105

cialista, Walter Armanini, il compagno che si occupa di pompe funebri, destinato a diventare un personaggio da copertina per via della sua relazione con la modella Demetra Hampton, il primo a scontare la condanna in carcere prima della scomparsa prematura. E il cassiere della Dc milanese Maurizio Prada, il socialista Sergio Radaelli, il pidiessino migliorista Massimo Ferlini, l’ex autista di Tognoli Matteo Carriera detto «Matteo due pistole» per le revolver che appoggia sulla scrivania di presidente dell’Ipab, e il repubblicano Giacomo Properzj... Insomma, «in concomitanza con l’elezione per il Quirinale è tutto un turbinio di avvisi di garanzia e di richieste di autorizzazione in giudizio che investe il Garofano, quasi fosse il fiore più inquinato della politica italiana», segnala l’Agenzia Repubblica. I giorni passano inutilmente, i grandi elettori passano sotto il catafalco, filosofeggiano («ah, se potessi decidere io, ma chi sono io, un frammento nell’universo...», motteggia colto il capogruppo alla Camera della Dc Gerardo Bianco), si annoiano (un ancora sconosciuto deputato di prima nomina della Lega, Roberto Maroni, pubblica il suo diario su “Panorama”: «Che palle, vorrei essere alle Mantille!», e riferisce dei suoi primi incontri con i big della Prima Repubblica: «Incredibile, con i suoi De Mita parla italiano», «Paolo Cirino Pomicino ci invia una lettera per invitarci a segnalare il nostro nominativo per la squadra di calcio del Parlamento. Ma lui cosa c’entra, forse fa la palla...»), mangiano alla buvette (ventiquattro panini, cinque crocchette e tre litri di acqua consumati in una giornata dal dc Giovanni Alterio, che ha il fisico del ruolo ma non paga il conto, almeno secondo il collega verde Stefano Apuzzo che gli consegna un sacchetto di ghiande «per placargli l’appetito»), divorano padri della Patria, l’ex presidente della Corte costituzionale, il cattolico Giovanni Conso, proposto dal Pds, e poi l’ottantaduenne senatore a vita Leo Valiani: «Accompagnai Forlani nel colloquio in cui gli proponemmo l’appoggio della Dc», racconta Carra. «Lui ci teneva tantissimo, ci pose il problema della sua origine ebraica e noi: ma no, professore, che dice, noi cattolici saremmo onorati di votare per lei, come ha detto papa Wojtyła siete i nostri fratelli maggiori...». «A Bisanzio, al confronto, erano dilettanti», commenta D’Alema, capogruppo dei deputati del Pds. Fantasmi. Anime morte. Sui grandi elettori si abbattono Funari e il “Corriere della Sera”, ­­­­­106

Santoro e i fax che per la prima volta fanno la loro comparsa in un’elezione presidenziale. «Mi dicono: ma non vi vergognate. Non vi voteremo più», spiega Michelangelo Agrusti, uno del gruppo dei Quaranta, i ribelli della sinistra dc vicini a Mino Martinazzoli. «Contro tutto questo, stasera ho dato un voto simbolico, ho scritto sulla scheda il nome di Giorgio Ambrosoli. Non riesco a credere a quello che sto vivendo, a questo spettacolo di centinaia di persone che discutono se si debba votare Forlani o Andreotti...», protesta il deputato della Rete Nando dalla Chiesa. Craxi a questo punto capisce che deve rompere gli indugi e prova a lanciare un candidato del Psi al Quirinale: qualcuno spinge per farlo scendere in pista in prima persona, anche perché l’elezione di un socialista al Quirinale lo taglierebbe fuori da Palazzo Chigi. I franchi tiratori socialisti guidati da Formica, ma anche da Claudio Martelli, puntano a questo obiettivo: portare Craxi al Quirinale e da lì guidare la svolta a sinistra, il governo con il Pds, un’operazione Mitterrand all’italiana, che oltretutto lascerebbe finalmente libera la segreteria del Psi per Martelli. Il leader socialista sa che l’eliminazione dei due cavalli di razza dc Forlani e Andreotti gli apre la strada verso il Colle, ma «capisce con acuta intelligenza politica che la sua candidatura non è proponibile», intuisce Cossiga. E ripesca il professor Giuliano Vassalli, antifascista, l’uomo che ha fatto evadere da Regina Coeli due futuri presidenti, Saragat e Pertini, torturato in via Tasso, medaglia d’argento della Resistenza, padre del diritto penale italiano, ex ministro della Giustizia: la personalità con il prestigio e la competenza necessarie per bloccare la valanga Mani Pulite in arrivo. La Dc riunisce i suoi grandi elettori e dà il via libera, con uno stitico applauso. «Ma se volete l’applausometro», sogghigna Gava, «allora candidiamo Mike Bongiorno...». È il 21 maggio, l’Agenzia Repubblica scrive: «Scommettendo su questa nuova candidatura socialista il segretario della Dc rischia brutto. Non si vede perché i parlamentari del quadripartito dovrebbero privilegiare Vassalli rispetto alla precedente candidatura fallita dello stesso Forlani». E conclude: Siamo all’impasse? C’è da temere, a questo punto, che qualcuno rispolveri la tentazione tipicamente nazionale al colpo grosso. Le strategie della tensione costituiscono in questo paese una metodologia ­­­­­107

d’uso corrente in certe congiunture di blocco politico. Quando venne meno la ‘solidarietà nazionale’, ed il sistema politico apparve anche allora bloccato, ci ritrovammo davanti il rapimento di Moro e la strage della sua scorta. Non vorremmo che ci riprovassero: non certo per farci trovare un Andreotti a gestire ancora l’immobilismo del sistema (visto che i tempi sono mutati e Andreotti è politicamente deceduto) ma magari uno Spadolini o uno Scalfaro quirinalizzati.

È la sera del 21 maggio quando l’Agenzia vicina a Sbardella parla di strategia della tensione, strage di un’alta personalità dello Stato e della sua scorta. Colpo grosso: si intitola così, per puro caso, una trasmissione scollacciata condotta dal comico Umberto Smaila, popolata da ragazze seminude, le Mascherine, che mettono in palio al poker la loro biancheria intima. Scommesse sulla vita e sulla morte, anche quella è «una tentazione tipicamente nazionale». Il giorno prima Giovanni Falcone ha compiuto 53 anni. Ha festeggiato a Roma con l’amico Giuseppe Ayala, eletto deputato del Partito repubblicano, c’è anche il segretario La Malfa che ha lanciato il nome del magistrato come ministro dell’Interno in un governo dei tecnici. Al suo ritorno a casa, a Palermo, mancano meno di quarantotto ore. Il pomeriggio del 22 maggio, venerdì, l’elezione di Vassalli si trasforma in una mattanza. Il nome dell’illustre avvocato penalista si ferma a 351 voti, lontanissimo dal quorum dei 508. Il quadripartito si scioglie nell’aula di Montecitorio, si suicida in diretta televisiva. Un altro terremoto, centinaia di franchi tiratori scatenati, «e non si commentano i terremoti, sono senza parole», riesce a sussurrare Formica, anche Craxi non ha molto dire, «bell’esempio di coerenza e di lealtà», impreca non si sa contro chi. Forlani annuncia le sue dimissioni irrevocabili da segretario della Dc: «Cari amici, mi pare onestamente che sia abbastanza inutile rimanere...». «Lo fa o perché non controlla più il partito o perché è l’ultima carta da giocare per diventare presidente della Repubblica», reagisce a caldo nello studio di Giuliano Ferrara all’Istruttoria il leader della Lega Umberto Bossi, dimostrando ancora una volta il suo fiuto politico. Perché, in effetti, il Senatur non può sapere che alla stessa ora i colonnelli democristiani sono riuniti a cena. ­­­­­108

Ci sono Pino Leccisi, il demitiano Giuseppe Gargani, il ministro dell’Interno Enzo Scotti, il portavoce di Forlani Enzo Carra. «Ci dicemmo che esaurito il giro laico bisognava tornare a un democristiano, da cercare fuori dal recinto del quadripartito», ricorda Carra. «Sì, ma chi avrebbero votato gli ex comunisti? Decidemmo di telefonare a Gerardo Chiaromonte. Fu Scotti a cercarlo al telefonino, Chiaromonte era il presidente uscente della Commissione Antimafia, una figura istituzionale. Lunedì chi voterete? Andreot­ ti?, chiese Scotti. Risposta negativa. Qualcuno di noi sussurrò a Scotti: chiedigli di Scalfaro. Scotti eseguì, e Chiaromonte fu molto netto: ‘Scalfaro? Non esiste proprio’. E la nostra serata finì con una sensazione: la vera carta era tornare a Forlani. Come candidato di tutto il Parlamento e non più come uomo della Dc e della maggioranza». È la stessa cosa che pensano gli andreottiani. La strategia del Ragno sembra riuscita. Il Parlamento è nel caos, i candidati sono stati bocciati uno dopo l’altro, non c’è più una maggioranza, il Divo Giulio è pronto finalmente a scendere in campo. Come salvatore della Repubblica. È il momento decisivo. Nel fine settimana i grandi elettori si riposano. Lunedì 25, però, deve saltare fuori la candidatura risolutiva. Andreotti sta sotto il sasso, come la vipera. Punta tutto sul partito personale che copre l’intero arco parlamentare e fa paura. Nella riunione con i suoi Occhetto valuta gli effetti di una candidatura Andreotti appoggiata da uno schieramento di destra. «Alla fine saremo costretti a scegliere tra i candidati dei due partiti trasversali: Spadolini per quello scoperto; Andreotti per quello sommerso», commenta Gianni De Michelis. E l’Agenzia Repubblica, quella sera, scrive queste parole: Avremo, dunque, la candidatura obbligata e vincente di Giovanni Spadolini? Manca ancora, perché passi in modo indolore questa candidatura del ‘partito trasversale’, qualcosa di drammaticamente straordinario. I partiti cioè, senza una strategia della tensione che piazzi un bel botto esterno – come ai tempi di Moro – a giustificazione di un voto d’emergenza, non potrebbero accettare d’autodelegittimarsi.

Manca qualcosa di drammaticamente straordinario. Un bel botto, esterno. È la notte romana di venerdì 22 maggio. Giovanni Falcone ­­­­­109

chiude l’ultima telefonata con i colleghi del pool Mani Pulite di Milano, con il sostituto procuratore Antonio Di Pietro. Si contattano per collaborare sulle rogatorie internazionali. Restano d’accordo che si risentiranno all’inizio della settimana successiva. Alle sei del pomeriggio di sabato 23 maggio Andreotti è nel suo studio privato di piazza San Lorenzo in Lucina con Claudio Martelli. Stanno discutendo della «questione». «Sono sempre stato leale nei vostri confronti», rivendica il presidente del Consiglio. «Sì, ma se già la candidatura di Forlani ha incontrato resistenze nel Psi, quella tua spaccherebbe il partito», replica Martelli. È a quel punto che squilla il cellulare del ministro della Giustizia. È Enzo Scotti, il ministro dell’Interno, la voce è concitata: «C’è stato un attentato contro Falcone. Per fortuna è incolume». Martelli riferisce a Andreotti, il discorso sul Quirinale si chiude, si prepara rapidamente l’aereo di Stato con cui Martelli intende volare a Palermo per salutare il suo più stretto collaboratore, miracolosamente scampato a un grave attentato30. È morto, è morto nella sua Palermo, è morto fra le lamiere di un’auto blindata, è morto dentro il tritolo che apre la terra, è morto insieme ai compagni che per dieci anni l’avevano tenuto in vita coi mitra in mano. È morto con sua moglie Francesca. È morto, Giovanni Falcone è morto. Ucciso dalla mafia siciliana alle 17,58 del 23 maggio del 1992. La più infame delle stragi si consuma in cento metri di autostrada che portano all’inferno. Dove mille chili di tritolo sventrano l’asfalto e scagliano in aria uomini, alberi, macchine. C’è un boato enorme, sembra un tuono, sembra un vulcano che scarica la sua rabbia. In trenta interminabili secondi il cielo rosso di una sera d’estate diventa nero, volano in alto le automobili corazzate, sprofondano in una voragine, spariscono sotto le macerie. Muore il giudice, muore Francesca, muoiono tre poliziotti della sua scorta. [...] Un bombardamento, la guerra. Sull’autostrada Trapani-Palermo i boss di Cosa Nostra cancellano in un attimo il simbolo della lotta alla mafia. Massacro ‘alla libanese’ per colpire e non lasciare scampo al Grande Nemico. Una tonnellata di esplosivo, un telecomando, un assassino che preme un tasto. Così uccidono l’uomo che per dieci anni li aveva offesi, che li aveva disonorati, feriti. La vendetta 30 Bruno Vespa, Dieci anni che hanno sconvolto l’Italia, Mondadori, Milano 2000, p. 101.

­­­­­110

della mafia, la vendetta che diventa morte in un tratto di autostrada a cinque chilometri e seicento metri dalla città, la città di Giovanni Falcone, la città dove pochi lo amavano e molti lo odiavano. [...] 17,58, l’ora del massacro, l’ora dell’infamia, dell’orrore, della morte (Attilio Bolzoni, Una strage come in Libano, “la Repubblica”, 24 maggio 1992).

Le agenzie di stampa non hanno ancora battuto la notizia, il primo flash dell’Ansa è delle 18.53, si parla di un’esplosione sull’autostrada Trapani-Palermo e di una «nota personalità» coinvolta. Squilla il cellulare di Claudio Petruccioli, il braccio destro di Occhetto, il sottosegretario Cristofori desidera parlargli con urgenza. «Andai da lui. Mentre percorrevo i pochi metri che separano Montecitorio da Palazzo Chigi cercavo di immaginare cosa avrebbe detto», scriverà poi Petruccioli31. «Pensavo all’ennesima versione del discorso sull’emergenza: siamo a un punto gravissimo, dobbiamo ritrovare l’unità di tutti, chi meglio di Giulio può renderla possibile... Mi sbagliavo. Trovai Cristofori pallidissimo, prostrato. Quel che mi disse non lo dimenticherò mai. Lui – e il suo capo – interpretavano la strage di Capaci come un attacco diretto per sbarrargli la strada al Quirinale. Mi impressionò che la terribile analisi fosse svolta a caldo, con certezza assoluta e una sorta di rassegnazione, come se il messaggio fosse talmente chiaro da indurli subito a rinunciare a un obiettivo coltivato per tanto tempo, con tanta pazienza e accortezza. Uno spirito di abdicazione: come se ciascuno dei componenti il potentissimo Caf avvertisse che la situazione era sfuggita loro di mano; come se si fossero mosse forze potenti, che essi erano perfettamente in grado di valutare ma non potevano più controllare». Sono i giorni dell’incertezza più cupa e più devastante, nel vuoto delle istituzioni e delle coscienze nessuno sa bene che fare. Oggi la Politica, a tutti i livelli, appare paralizzata dall’incapacità di decidere: ed è questa malattia mortale a rappresentare il nesso che ciascuno di noi immediatamente ha istituito tra l’assassinio di Falcone e l’inconcludenza dei grandi elettori. Non si tratta di una tragica coincidenza, ma di un nodo della realtà italiana. [...] La solennità della prima magistratura della Repubblica ha poco a che vedere con lo spettacolo 31

Claudio Petruccioli, Rendiconto cit., pp. 94-95.

­­­­­111

cui assistiamo da dieci giorni: agguati di partiti trasversali, venerandi signori esposti al ridicolo, piccole vendette e affari di bottega. [...] Sollecitiamo le Camere a trovare la forza morale di uscire dall’impasse con l’unica soluzione possibile. Solo così, senza indugi ulteriori e incomprensibili, la Politica uscirà dal suo labirinto. E finalmente affronterà i problemi di un Paese che non riesce più a sopportare di procedere di tragedia in tragedia, assediato dalla criminalità e con una seria crisi economica alle porte (Giulio Anselmi, Per uscire dal labirinto, “Corriere della Sera”, 25 maggio 1992).

C’è la domanda di Oscar Luigi Scalfaro di fronte al Parlamento riunito in seduta comune: «È stata solo mafia?». E poi i funerali nella cattedrale di San Domenico. La rabbia degli agenti di scorta. Il lamento della vedova dell’agente Schifani, Maria Rosaria, che si trasforma in un’invettiva biblica contro gli uomini della mafia: «Sono qui, sono qui... devono chiedere perdono in ginocchio». A Palermo a rappresentare lo Stato c’è il presidente del Senato, Giovanni Spadolini, presidente della Repubblica supplente. La sera prima ha rivelato al ministro Enzo Scotti di aver già scritto il discorso di insediamento come nuovo capo dello Stato. Le cose, però, vanno diversamente. Di buon mattino il segretario generale del Senato Gaetano Gifuni, da anni ombra di Spadolini, riceve una telefonata di Scalfaro: «È probabile che stasera io venga eletto al Quirinale». «Ma come, presidente, non era nelle previsioni», replica Gifuni. «Lo so, non era previsto, ma andrà così. E lei sarà al mio fianco come segretario generale». A Spadolini la notizia arriva durante i funerali di Falcone, mentre la folla fischia le autorità. È il capo della Polizia Parisi a comunicarla32. Lunedì 25, alle 21.37, il Parlamento in seduta comune elegge con 672 voti il cattolicissimo deputato novarese di 73 anni. È il primo magistrato ad arrivare al Quirinale, anche se ha esercitato solo per trentasei mesi Scalfaro si sente con «la toga nell’anima». A Montecitorio fin dai tempi della Costituente, legato a Mario Scelba e alla destra democristiana, è stato votato in fretta e furia da uno schieramento trasversale che va dalla Dc alla Rete, dai radicali di Pannella ai Verdi agli ex comunisti che fino alla sera prima avevano escluso di poter prendere in considerazione 32

Bruno Vespa, Dieci anni cit., p. 105.

­­­­­112

la sua candidatura. Toccherà a lui, al parlamentarista Scalfaro, l’anti-Cossiga, guidare dal Quirinale la transizione che si sta per aprire e che si rivelerà terribile. Perché, come aveva previsto Andreotti, dopo questa elezione la Prima Repubblica è finita. E quello che verrà dopo è un mare nero, torbido, in cui è pericoloso navigare.

VI

La Caccia

È solo il capobanda ma sembra un faraone, / è solo il capobanda ma sembra un faraone, / ha gli occhi dello schiavo e lo sguardo del padrone, / si atteggia a Mitterrand ma è peggio di Nerone. / Ma prima della mattanza faremo esplodere questa stanza / e porteremo quello che avanza dall’Uomo Ragno. Francesco De Gregori La ballata dell’Uomo Ragno, 1992

«C’è un uomo cattivo, arrogante, con una famiglia ingombrante, che vuole per sé tutto, tutto il potere, tutto il denaro. C’è un uomo, invece, che è buono, un uomo che ha origini contadine, che ha rispetto per la proprietà altrui, che sa cosa sono i confini del proprio campo e che dà la caccia a questo cinghiale furioso, finalmente ferito da un’inchiesta giudiziaria, e al suo partito...». È ironico quella sera Giuliano Ferrara, passeggiando su e giù davanti ai telespettatori della sua trasmissione su Italia Uno, L’istruttoria. Siamo nel 1992, i due personaggi in questione si chiamano Bettino Craxi e Antonio Di Pietro, il primo avviso di garanzia per il leader del Psi è ancora lontano, tra i due è noto da che parte stia l’anchorman della Fininvest dalle bretelle rosse, futuro ministro del governo Berlusconi e poi direttore del “Foglio”, in quel momento ancora euro-parlamentare socialista. Non sa, non può sapere che in quelle poche frasi c’è già tutta la drammaturgia del ventennio successivo. Un archetipo narrativo che con protagonisti diversi segnerà tutta la Seconda Repubblica. Il Cacciatore Di Pietro contro il Cinghialone Craxi (il pm, oltretutto, è davvero un patito della doppietta, il settimanale “Noi”, edito da Silvio Berlusconi, nei mesi di Mani Pulite pubblica una sua foto a tutta pagina sotto la ­­­­­114

scritta «Il grande cacciatore»). Diventerà, nel corso degli anni, le toghe contro il Cavaliere. Ma l’archetipo è destinato a rovesciarsi nel suo opposto. Con Di Pietro nei panni della preda, dell’animale da abbattere. La caccia grossa comincia il 3 giugno 1992. Quella sera, scrive Vittorio Orefice nella Velina inviata nelle redazioni e nei palazzi poco prima dell’inizio del Tg1 delle 20, «Craxi si sente già con l’incarico in tasca e parla con i suoi interlocutori come futuro presidente del Consiglio». Nell’archivio del leader del Psi è conservato un bigliettino arrivato quel giorno, firmato dal vecchio leader socialdemocratico Luigi Preti, che gli fa molti auguri per la formazione del futuro governo e gli consiglia di scegliere pochi ministri, «competenti e coraggiosi, a prescindere dall’estrazione politica e dall’appartenenza al Parlamento». «Gava è il più forte, legittimamente di fatto è il candidato più autorevole alla segreteria della Dc», annota Orefice sul fronte di piazza del Gesù. Come se le inchieste non fossero mai cominciate e la strage di Capaci non fosse mai avvenuta, la Dc e il Psi lavorano sull’organigramma antico. E se nella Dc infuria lo scontro tra i dorotei di Gava e la sinistra che punta su Martinazzoli, il nome di Craxi per Palazzo Chigi non è in discussione. Anzi, il via libera di Craxi all’elezione di Scalfaro al Quirinale è arrivato sulla base di un patto di ferro: l’incarico di formare il nuovo governo tocca a lui. Nessuno può sapere che in quei minuti si sta consumando il primo, vero scontro diretto tra il candidato più forte alla guida del governo e il magistrato di Montenero di Bisaccia. Alle 19.30, quando manca mezz’ora all’inizio dell’edizione più importante del Tg1, il cronista Maurizio Losa chiama trafelato il direttore Bruno Vespa: «Chiesa ha incastrato Craxi. Ho un pezzetto di verbale senza intestazione, ce l’hanno anche gli altri colleghi, l’Ansa prima o poi batterà qualcosa. Che facciamo?»33. Vespa decide di aspettare dieci minuti, poi, visto che l’Ansa non ha ancora lanciato la notizia-bomba, prende l’iniziativa di avvertire Craxi. E dà per primo la notizia. «Ora nell’inchiesta sulle tangenti c’è anche il nome di Bettino Craxi», annuncia Losa in diretta. Nel verbale Chiesa racconta di aver chiesto al leader socialista un posto di 33

Bruno Vespa, Dieci anni cit., pp. 123-126.

­­­­­115

assessore e di aver appoggiato in cambio la campagna elettorale del figlio Bobo. «Notizia falsa come Giuda», smentisce Craxi chiamato al telefono da Vespa. «Nella mia vita quando qualcuno mi ha chiesto posti in cambio di voti l’ho messo alla porta». La mazzata, però, arriva quasi due ore più tardi, alle 21.52. Quando l’Ansa batte una dichiarazione del sostituto procuratore Antonio Di Pietro. Sono appena poche righe, ma contengono un inciso micidiale: «Pur non conoscendo i termini della notizia giornalistica posso dichiarare che, allo stato, il mio ufficio non ha rilevato nulla di penalmente rilevante che possa riguardare la famiglia Craxi. Altrimenti ci saremmo fatti carico di farlo rilevare nelle richieste di autorizzazione a procedere». Più che una smentita è una precisazione, che fa più male di una conferma. Far sapere che non c’è nulla di «penalmente rilevante» non esclude che la rilevanza delle notizie acquisite nell’inchiesta possa essere politica, o morale. E soprattutto, con due semplici parole, «allo stato», il pm dell’inchiesta Mani Pulite certifica che sì, Bettino Craxi non è indagato, ma solo in quel momento. La stessa formula che utilizzerà diciotto anni dopo il procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati a proposito dell’inchiesta sul caso Ruby e su Silvio Berlusconi: «il presidente del Consiglio non è indagato», dichiarerà alle agenzie nel novembre 2010, due mesi prima della richiesta di rinvio a giudizio di Berlusconi per sfruttamento della prostituzione minorile. Craxi reagisce come una belva ferita. «Una mascalzonata, contro di me e la mia famiglia», ringhia il giorno dopo mentre al Quirinale stanno per cominciare le consultazioni per la formazione del nuovo governo. Un gelido ringraziamento per «il dottor Di Pietro», per aver voluto precisare di «non aver rilevato nel corso dell’inchiesta che sta conducendo nulla di penalmente rilevante a carico della famiglia Craxi». E tuttavia, aggiunge Craxi, «resta da capire a quali fini siano stati trasmessi alla commissione per le autorizzazioni a procedere stralci di verbali di interrogatori. E come, in quali circostanze e da chi questi verbali, coperti, per modo di dire, da segreto istruttorio, giacché organi di stampa ne avevano già sostanzialmente pubblicato il contenuto, siano stati diffusi con grave violazione di legge». Alla Camera sono arrivate le richieste di autorizzazione a procedere per Tognoli e Pillitteri, per il repubblicano Del Pennino, ­­­­­116

per il pidiessino di area migliorista Gianni Cervetti e per il socialdemocratico Massari, i primi parlamentari inquisiti dal pool Mani Pulite. In un’altra stagione non ci sarebbe storia: appena due anni prima, il 23 maggio 1990, il Senato con 125 voti a favore e 76 contrari ha respinto la richiesta della Procura di Milano di poter indagare sul socialista Antonio Natali, accusato di aver intascato una tangente da 488 milioni da un imprenditore quando era presidente della Metropolitana milanese, uno dei maestri politici di Craxi. E quando Natali muore all’improvviso, il 22 marzo 1991, il leader del Psi tiene personalmente l’orazione funebre: «Il partito lo ricorderà collocandolo in una posizione d’onore per la passione, l’intelligenza e la dedizione che non saranno dimenticate». È vero, non sarà dimenticato Natali, neppure al Palazzo di Giustizia di Milano. «Magari l’avessimo avuta quell’autorizzazione!», esclamerà Francesco Saverio Borrelli. «L’inchiesta di oggi sta individuando Natali come uno degli inventori del sistema della tangente a Milano». Il sistema della tangente è descritto dai giudici Borrelli, D’Ambrosio, Colombo e Di Pietro nella domanda di autorizzazione a procedere: «Secondo un accordo evidentemente prestabilito gli illeciti guadagni andavano divisi in più parti: una andava alla Democrazia cristiana, una al Partito socialista italiano (erano queste probabilmente le fette più grosse), una al Pci/Pds, una, comunque ridotta, ad altri partiti [...] si è venuto a creare nel territorio milanese in diversi anni un particolare ‘ambiente di favore’ di cui hanno goduto taluni esponenti politici dei maggiori partiti e taluni imprenditori contigui ai politici di riferimento suddetti. Entrambi ne hanno tratto un illecito vantaggio a scapito del fondamentale principio della trasparenza amministrativa». Le conseguenze sul meccanismo democratico sono ancora più gravi: i partiti, di maggioranza e di opposizione, si presentano con un doppio volto. Di giorno, fingono di organizzarsi autonomamente, si contendono il voto degli elettori, con diversi simboli e programmi. Di notte, fanno parte di un Partito Unico della Tangente che si spartisce fraternamente il bottino. «Un arco costituzionale della tangente», lo definisce Miriam Mafai su “Repubblica”. Così i partiti tradiscono i loro elettori, sviliscono il voto, svuotano la democrazia. Ma per Craxi è in gioco qualcos’altro: a lui interessa sapere chi ha passato la notizia ai giornali e perché. Sa bene che per ­­­­­117

Palazzo Chigi siamo alla stretta finale: se l’incarico di formare il governo toccherà a lui nessuno potrà più fermarlo. E si prepara al combattimento finale con la grinta di sempre. Commenta Vittorio Orefice la sera del 4 giugno: «Il Psi ha reagito con estrema durezza a quella che giudica una manovra politica organizzata per sbarrare la strada a Craxi a Palazzo Chigi. Ed in effetti, con la divulgazione di alcuni stralci della deposizione di Chiesa, giuridicamente ininfluenti su Craxi e il figlio, come scrive l’“Avanti!”, si è operato per mettere una zeppa contro il segretario socialista». La ben informata Agenzia Repubblica, la sera prima, segnala con la consueta lucidità e brutalità il macigno che sta per frapporsi tra Craxi e la presidenza del Consiglio, l’iceberg contro cui la candidatura del segretario socialista sta per andare a sbattere: «Era nell’aria l’affare Craxi ormai da mesi, da quando emerse la maxibonifica di Tangentopoli. Ma i nomi di Bettino e di Bobo tardavano ad emergere. ‘Scandalosamente’! Alla prima occasione, che tutti aspettavano, un bel ‘tuffo provocato’ nella piscina degli scandali tangenziali milanesi la ‘famiglia’ l’avrebbe fatto. Un amico parlamentare, nei giorni delle elezioni quirinalesche, ci aveva detto: ‘Se nelle candidature per Palazzo Chigi affiorerà, come è previsto, il nome di Bettino Craxi, lo incapretteranno a colpi di tangente. Anche se è innocente’. Così è avvenuto». Il Cinghiale, però, non ha nessuna intenzione di darsi per vinto. È in quei giorni che comincia a prendere informazioni sul dottor Di Pietro. «Il primo a darmene fu il capo della Polizia Vincenzo Parisi. Io non lo conoscevo, anzi, non ne avevo mai sentito parlare. Non conoscevo lui né tantomeno il sottobosco che poi, almeno in parte, è venuto alla luce. Ripeto: il primo a farmi cenno delle sue debolezze e delle sue amicizie pericolose fu, in via privata, il capo della Polizia. Certo non ne avrà parlato solo con me»34. Fa come un po’ tutti, in realtà: nell’estate del 1992 a Di Pietro si interessa tutta l’Italia. Manifestazioni: il 12 maggio a Milano ce ne sono due, il corteo anti-tangente davanti al Palazzo di Giustizia organizzato da Società civile con Sabina Guzzanti, Paolo Rossi e quelli di “Cuore”, a San Babila ci sono i missini con Fini che 34

Antonio Padellaro, I vigliacchi del 1992, “l’Espresso”, 3 luglio 1997.

­­­­­118

raccolgono firme per presentare le liste Di Pietro alle elezioni (domanda: ma Di Pietro lo sa? «Non ancora, glielo chiederemo», improvvisa Fini). Lettere: le raccoglie il giornalista dell’“Espresso” Antonio Carlucci in un libro35: «Se i miei figli potranno vivere in un ambiente meno inquinato dalla corruzione [...] sarà anche grazie a quello che Lei sta facendo» (Milano, 9 maggio 1992); «La ringrazio per aver ripulito questa città da tanta sporcizia» (Milano, 28 maggio 1992); «Tu non devi mollare: [...] te per noi sei la speranza, ci puoi liberare dal male che ci ossessiona e ci perseguita» (Nuoro, 3 giugno 1992). Scrive anche, pensa un po’, il deputato dc di prima nomina Carlo Giovanardi, sul giornalino dei forlaniani “Centralità”: «Caro Di Pietro, sento il dovere di ringraziarLa per la professionalità ed il senso della misura con il quale conduce la difficile inchiesta a Lei affidata. Sappia che all’interno del cosiddetto Palazzo, ai piani alti come ai piani bassi, c’è chi fa il tifo per Lei» (Giovanardi diventerà ministro di terza fila e sottosegretario nei governi Berlusconi e indosserà i panni dell’accusatore di Mani Pulite con astiosi libretti). Sondaggi: già nel mese di luglio Di Pietro è tra i primi dieci italiani più popolari, preceduto da Mike Bongiorno e Corrado, e tra i quattro più simpatici (il più antipatico, a conferma, risulta essere uno dei più accaniti nemici di Di Pietro, Giuliano Ferrara). Scritte sui muri: «Di Pietro grazie», «Di Pietro non ci lasciare», «Di Pietro siamo tutti con te» e il perentorio «Di Pietro inculateli» (uscita della A24 a L’Aquila Sud). Pubblicità: due creativi dei centri Apple di Milano che si firmano «Le Balene» lo utilizzano per reclamizzare la loro marca «per non avere le mani legate» (uno dei due, Enzo Baldoni, finirà ucciso in Iraq nel 2004). Magliette: «Milano ladrona Di Pietro non perdona», si legge sulle t-shirt che spuntano in sala nella prima puntata del nuovo programma di Gad Lerner Milano, Italia il 15 giugno. Copertine: storica quella del settimanale berlusconiano “Tv Sorrisi e Canzoni”, il più diffuso d’Italia: «Di Pietro, facci sognare». Una Tonino-mania attraversa la penisola. Al punto che il satirico “Cuore” gli dedica una perfida rubrica settimanale, sul modello delle vecchie tavole della “Domenica del Corriere”, in cui il 35

Antonio Carlucci, Grazie Tonino, Baldini e Castoldi, Milano 1995.

­­­­­119

pm è protagonista di imprese sempre più mirabolanti: «Di Pietro salva la Fiorentina dalla serie B». «Di Pietro fa arrivare puntuale il Pendolino». Il cavaliere della pulizia e della purezza. Il figlio di papà Giuseppe e di mamma Annina. Di Pietro piace a tutti. Alla Lombardia che vota Lega e che lo acclama “bergamasco dell’anno”. Ai giovani imprenditori che alla prima uscita ufficiale del pm al convegno di Santa Margherita Ligure lo acclamano come una star. E alla gauche salottiera. «Non se ne può più dei bellocci, degli elegantoni, dei super-ricchi. Meglio un uomo forte e solido, senza fronzoli», si entusiasma Camilla Cederna. «Faccia intelligente contadina e rocciosità da giustiziere buono, ha portato alla ribalta una categoria per anni ignorata, minimizzata e pure presa in giro: quella degli italiani dimessi, tosti e perbene», conviene Maria Laura Rodotà su “Panorama”. «Un po’ l’italiano in gita che mangia il Magnum Algida, un po’ Franco Nero quando faceva il commissario giustiziere», lo immagina l’inventore di Blob Marco Giusti. Piace addirittura ai suoi indagati, in piena sindrome di Stoccolma, che raccontano di un giudice gentile, preparato, che offre i Ferrero Rocher estratti dal cassetto, magari un istante prima di firmare l’istanza di custodia cautelare. Il 28 aprile Borrelli affianca a Di Pietro un veterano delle inchieste scomode: l’intellettuale, tormentato Gherardo Colombo, il giudice che con il collega Turone ha scoperto gli elenchi della P2. Insieme a Gerardo D’Ambrosio, lo zio Jerry, memoria storica della Procura milanese, l’investigatore di piazza Fontana, l’amico di Galli e Alessandrini uccisi dal terrorismo rosso, al secchione Pier Camillo Davigo e a Borrelli, che in fondo è un laico illuminista, formano il pool Mani Pulite. Ma l’uomo in più che fa uscire le inchieste dal Palazzo di Giustizia verso il popolo («la ggente») è lui, Tonino. Ogni sera in tv c’è la sua silhouette, avanza nel corridoio al quarto piano del Palazzo di Giustizia verso la sua stanza, la 254. Di Di Pietro i giornali esaltano l’origine molisana, regione piccola e periferica, terra di miseria e di lavoro duro, il contrario della Milano da bere che ha spopolato con Craxi e Pillitteri, la rivincita della campagna con la sua autenticità sulla metropoli con le sue suggestioni, le sue tentazioni, i suoi tradimenti. Il pedalino corto del giudice venuto dal Sud («accavalla la gamba, solleva di poco il risvolto del pantalone, abbassa appena il calzino, sempre ­­­­­120

corto, e prende a grattarsi la caviglia», lo fotografa Giovanni Cerruti sulla “Stampa”) come antidoto sano e riposante allo yuppismo, alle hostess vestite di garofano, alle piramidi, alle pacchianerie degli anni Ottanta. Di Pietro è in realtà tante cose: contadino, ex seminarista, emigrato, operaio, cattolico, meridionale e bergamasco, diplomato, laureato, giustiziere, marito, padre, figlio, maschio che piace molto alle donne. «Abilissimo nello spacciarsi per la persona che le circostanze richiedono», annota Gigi Moncalvo, autore della prima biografia di Tonino, pubblicata dalle cattoliche Edizioni Paoline. E pure nuotatore provetto: «L’estate scorsa diventa un idolo della folla per aver salvato una donna», racconta Paolo Colonnello. «In poche bracciate raggiunge la poveretta ormai stremata e la porta in salvo. I bagnanti acclamano il salvatore come un Dio». Il salvatore dell’Italia. Anzi, l’uomo che nella sua biografia riassume l’Italiano. Di Pietro, prima di Berlusconi, ben più di Craxi, è un’autobiografia di una nazione. «Un national folk hero. Il corpo della Nazione autentico. L’Italiano paradigmatico», scrisse lo psicoanalista Enrico Pozzi. «Un simbolo politico trasversale, una moneta simbolica pura che vale al di là di qualsiasi matrice ideologica e sottocultura politica di riferimento, un assegno simbolico circolante che può essere incassato da chiunque lo abbia in mano». Sarà per questo che da più parti, in quell’estate del 1992, cercano di cavalcare il Fenomeno. «Ho moltissima stima di Di Pietro e gli auguro di procedere fino alla fine con la sua decisione con cui ha cominciato la sua opera», lo benedice il numero uno degli imprenditori italiani Gianni Agnelli, nonostante gli arresti, il giorno prima, del direttore generale della Cogefar-Impresit Vittorio Del Monte e dell’amministratore delegato Enzo Papi, società del gruppo Fiat. Lo blandiscono, vorrebbero strumentalizzarlo, lo temono. Ma Di Pietro è davvero un arci-italiano. Dell’italiano ha tutte le virtù e tutti i difetti, la furbizia e l’eccesso di furbizia che si capovolge nel suo opposto. Ma proprio per questo, nella caccia grossa che s’è scatenata, è lui più di ogni altro che ha le caratteristiche giuste per catturare la preda. La pazienza, la tenacia, la duttilità, la determinazione. Tendere la trappola e saper aspettare. Solo un arci-italiano, uno che si sentirebbe tricolore in qualunque angolo del mondo, può riuscire laddove hanno fallito tanti anti-italiani, stranieri in patria, incapaci di comprendere e ­­­­­121

di rappresentare gli umori del popolo e dunque inevitabilmente destinati alla sconfitta. Bettino Craxi no, lui non è ancora un simbolo. Lo diventerà in queste settimane di inizio estate 1992, quando si conclude la sua carriera politica e comincia l’ultima parte della sua vita, il nemico di Mani Pulite, l’anti-Di Pietro, l’Uomo Nero di Tangentopoli, in una guerra che non conosce possibilità di accordo, o vincitori o vinti, alla fine può restare in piedi uno solo. Non è mai stato leader popolare, Craxi Bettino, arrivato alla guida del Psi nel 1976 con il golpe generazionale dell’hotel Midas contro la vecchia guardia (nei corridoi circolava la filastrocca del giurista Federico Mancini: «Noi compagni socialisti / siamo stanchi e un poco tristi. / De Martino quest’estate / lo finiamo a fucilate. / Tutto quanto rinnoviamo: / Benny Craxi ci mettiamo»). «L’Unno», per i democristiani. «Un avventuriero politico, un abile maneggione e ricattatore, un bandito politico di alto livello», per i comunisti, nel ritratto senza chiaroscuri che emerge dagli appunti di Tonino Tatò, il più stretto collaboratore di Enrico Berlinguer. Sedici anni di dominio assoluto sui socialisti, il ventennio craxiano: piramidi, templi greci, meriti e bisogni, le sigarette al mentolo, i ballerini per lo spettacolo del centenario che si spogliano della tuta da operaio e indossano il blazer dello yuppie ballando il tip tap sulle note dell’Internazionale, le hostess dei congressi «tutte alte dal metro e 78 al metro e 83», informa magnifico e progressivo il quotidiano del partito “Avanti!”, le feste sulla terrazza dell’hotel Raphael del compagno Spartaco Vannoni: «C’era un viavai! Signore romane, giovani promesse, stelline...», testimonia Sandra Milo. «Avrò conosciuto duecento ragazze che si spacciavano per l’amante di Craxi. A Roma era uno status-symbol». Le serate romane, la corte, le donne: a partire dal 1983, quando diventa presidente del Consiglio e trascorre gran parte delle sue giornate a Roma, il tempo libero è occupato da un gruppo di sodali che il fotografo personale del leader Umberto Cicconi chiama «i giullari»: «Ridevano di loro stessi insieme a lui, per compiacerlo...»36. Serate in cui spunta la pornostar più famosa degli anni Ottanta, Moana

36

Massimo Pini, Craxi cit., pp. 270-271.

­­­­­122

Pozzi, che si candiderà nel 1992 alle elezioni con il Partito dell’Amore e mancherà di un soffio l’ingresso alla Camera: anticipatrice di altri partiti dell’Amore e di ancora più dense contaminazioni politico-sessuali: «Cominciò a farmi un sacco di complimenti, a guardare» raccontò lei. «Certo, ero gratificata. Loro erano tutti politici, segretari, portaborse. Poi andammo in una casa. Io dissi: ‘Provo a fare l’attrice, mi piacerebbe lavorare in televisione’. E lui: ‘Ah, davvero?’. Due giorni dopo mi telefonò e uscimmo soli... Cenammo in albergo e finimmo in camera. Lo feci per il carisma, non per altro. Allora non era nemmeno presidente. A lui piacevano più i preliminari che la cosa in sé. Era in adorazione delle donne, ti copriva di attenzioni, si preoccupava». L’Ape Regina, però, è una ex studentessa del liceo Tasso, Anja Pieroni, contesa dai salotti, temuta e riverita, che va alla scalata del potere politico e televisivo grazie all’amicizia importante, fino a diventare padrona di un’emittente privata, Gbr, «una tv femminile e nuova che entra tutti i giorni nelle case dei romani», la spaccia un giornalino di area, con la testata che è un programma esistenziale, “L’Effimero”. «Lo specchio deformato del tardosocialismo bettiniano inserito in una cornice di spiccata ‘romanità’ consumistico-salottiera», ha scritto Filippo Ceccarelli37. «Eppure in quel vitalismo c’era, c’è ancora qualcosa che non torna, un mistero, o una maschera. Né, d’altra parte, era giusto aspettarsi che ci arrivassero proprio loro, i socialisti mondanissimi in carriera, a immaginare che dietro ai lustrini e a tutto quell’andazzo festaiolo e godereccio ci potesse essere qualcosa di diametralmente opposto, sorprendente e oscuro. Che il Psi negli anni del successo, insomma, fosse già un partito – come ha poi scritto Bobbio – che ‘corre spensieratamente verso la propria rovina (e ben gli sta)’. Attimo per attimo con il cuore in gola, senza mai pensare – ma sapendolo – che potrebbe essere l’ultimo». E però, in tutto quel gran viavai, per l’appunto, di attricette, starlette, aspiranti conduttrici, telegiornaliste e cortigiane, Craxi dimostra la sua modernità. È un precursore dei tempi che verranno. Semmai è a disagio con le prestazioni che gli richiede la nuova stagione. Troppo alto. Troppo grosso. Troppo guardingo, con la 37

Filippo Ceccarelli, Il letto e il potere, Longanesi, Milano 2007, pp. 231-234.

­­­­­123

timidezza che come niente sconfina nell’arroganza. «Presidente, sappiamo che lei è un uomo schivo, difficile incontrarla fuori dai luoghi della politica...», si avventura Fabrizio Frizzi durante una memorabile dimostrazione di piaggeria a I fatti vostri su Raidue. «Io in piazza ci vado!», lo interrompe brusco Bettino. Troppo interno alla politica, agli equilibri di potere, ai complotti di Palazzo, troppo vecchio Craxi, per poter candidarsi a guidare con qualche possibilità di riuscita il fronte anti-magistrati come farà poi negli anni successivi con altri mezzi il suo amico Silvio Berlusconi. Così, in quell’estate del 1992, Craxi va incontro al suo destino. Per anni è stato l’uomo da bruciare per una parte della sinistra. Ma solo in quelle settimane dell’estate 1992 diventa finalmente un simbolo nazionale. La vittima designata, il capro espiatorio, l’agnello sacrificale. «Onorevoli colleghi...». Sono le 12 del 3 luglio quando il segretario del Psi si alza per pronunciare il suo intervento nell’aula di Montecitorio nel dibattito per la fiducia al governo presieduto da Giuliano Amato. Nell’emiciclo si fa silenzio, Craxi dà un’occhiata ai fogli, scruta i deputati, è ancora uno dei pochi in grado di rapire l’attenzione del Parlamento, ha scelto finalmente di dire in modo compiuto cosa pensa di quello che sta avvenendo in quelle settimane. È ferito, ma è ancora un leader, anzi, è il leader. È stato un mese terribile, da quel 3 giugno in cui il Tg1 per la prima volta ha diffuso la notizia che nei verbali di Chiesa si parlava di Craxi e della sua famiglia. Poi il film della crisi di governo si è messo in moto piuttosto velocemente. Il 10 giugno il segretario del Psi è al Quirinale, a colloquio con Scalfaro per le consultazioni. Quando esce il piglio è quello di sempre: «Per un governo che governi ci sarà l’impegno dei socialisti. Per un’altra cosa, un governicolo paralizzato dalle contraddizioni, decideremo la nostra collocazione parlamentare». «Craxi dice no a un Governicolo. Ai giornalisti è apparso molto teso», appunta quella sera frettolosamente Vittorio Orefice. «Buio pesto per il nuovo governo e per la sorte della segreteria Dc». Eppure il leader socialista ci crede, al punto di offrire la poltrona chiave di ministro degli Esteri al suo nemico di sempre, il capo della sinistra democristiana Ciriaco De Mita. «Mi disse: vieni alla Farnesina, gireremo il mondo», racconta l’ex segretario della ­­­­­124

Dc con una punta di malinconia. «Gli dissi di no, volevo fare il presidente della Commissione bicamerale sulle riforme, era l’unica cosa che mi interessasse davvero. Aveva già provato a candidarmi alla presidenza della Camera e avevo rifiutato anche in quel caso. Ricordo che Scalfaro mi inseguì per le scale per dirmi grazie, perché a quel punto alla presidenza sarebbe andato lui, un ottimo trampolino per il Quirinale. È che io volevo coinvolgere il Pds nella partita delle riforme. A Occhetto e Veltroni dissi: ‘Fateci sapere se volete entrare nel governo’. Craxi no, voleva solo andare a Palazzo Chigi, rovinò il gioco e poi bruciò se stesso». Solo in apparenza lontana dai giochi romani, l’inchiesta di Milano non conosce giorni di vacanza. L’8 giugno finisce in carcere il presidente di Italstat Alberto Zamorani. Il 9 viene arrestato nel suo studio di via Corridoni a Milano l’architetto Claudio Dini, ex presidente della Metropolitana milanese, socialista e amico personale di Craxi: quando arrivò a Palazzo Chigi nel 1983 fu lui a sostituire con due ritratti a olio di Garibaldi una Madonna del Guercino e un inginocchiatoio eredità dei presidenti del Consiglio democristiani, è stato lui a ristrutturare il suo ufficio di piazza Duomo 19. L’11 giugno viene spiccato mandato di cattura per il presidente della Sea Giovanni Manzi, che sarà latitante per molti mesi, al pari di un altro intimo di Bettino, l’architetto Silvano Larini, avvistato dalle parti di Rangiroa, in Polinesia, forse in barca a vela. Il comico Stefano Masciarelli per Avanzi ne fa un tormentone, lo imita con il camicione hawaiano, mentre si dondola sportivamente su un’amaca in una spiaggia tropicale. A conti fatti, a metà del giugno 1992, i politici indagati o arrestati nell’inchiesta milanese sono trentanove: 16 socialisti, 14 democristiani, 7 del Pds, 2 repubblicani. Di questi trentanove, i parlamentari coinvolti risultano nove: 4 democristiani, 3 socialisti, uno del Pds e uno del Pri. Il 16 giugno c’è un nuovo incontro tra Scalfaro e Craxi, è il momento decisivo. Il capo dello Stato è preoccupatissimo: conosce bene Bettino, è stato per quattro anni il suo ministro dell’Interno, sa di dovere al suo appoggio l’elezione al Quirinale. Ma è informato sulle mosse della Procura di Milano, vede già in controluce gli sviluppi dell’inchiesta, si è confidato con i ministri Enzo Scotti e Claudio Martelli, ritiene «diabolica» la campagna contro il segretario del Psi, ma non ne nega l’impatto politico. «Tra qualche ­­­­­125

mese, allontanatosi il temporale, ci sarà una possibilità di un ritorno di Craxi alla guida del governo. Per il momento deve attendere sicuro e fiducioso perché le cose potrebbero cambiare...». E il presidente, secondo la testimonianza di Martelli, a quel punto cala un tris di nomi socialisti che potrebbero sostituire Craxi: Amato, De Michelis e lo stesso ministro della Giustizia. «Le nostre parole furono: ‘Dietro Craxi ma secondi a nessun altro’», ha ricordato nel 2005 Martelli38. Un incontro che segnerà anche la fine dei rapporti tra Craxi e il suo storico delfino. «Sto in macchina per tornare al ministero quando mi chiama Marco Pannella che mi chiede a bruciapelo: ma cosa hai combinato da Scalfaro? Dicono che sei andato al Quirinale a candidarti al posto di Craxi. Resto senza parole. Riattacco e cerco Craxi. Ma da quel giorno Bettino non ha mai più risposto alle mie telefonate». Quando Craxi e Scalfaro si ritrovano per l’ultimo faccia a faccia il leader del Psi sa già dunque che Palazzo Chigi è perduto, la carta di riserva è un incarico al dc Martinazzoli, deve decidere se provare a impuntarsi o combattere un’altra battaglia. L’incontro è breve, teso, secondo Francesco Cossiga Scalfaro è in lacrime al momento di pronunciare il suo no all’incarico: «Sai il bene che ti porto, ma se non ti ritiri ti massacreranno». Craxi accetta il passo indietro, l’ha deciso con i suoi durante una lunga riunione notturna. Di Pietro si aggiudica la prima partita. Salvo colpi di scena Scalfaro darà domani mattina a Giuliano Amato il compito di formare il nuovo governo. Rendendosi conto di essere fuori gioco Craxi ha compiuto una scelta molto saggia, maturata nel corso della notte. L’indicazione di Amato è stata accolta generalmente come la liberazione da un incubo. «Non è un ritiro, è una caduta», ha commentato il segretario del Pds Occhetto (dalla Velina di Vittorio Orefice, 17 giugno 1992).

Nella giornata della svolta politica c’è anche il primo suicidio di Tangentopoli. Con un colpo di Beretta calibro 9 alla tempia in un campo di barbabietole si uccide il socialista Renato Amorese. Non è un nome di prima fila, è il segretario provinciale del Psi 38 Martelli: non sono Giuda, Bettino nella trappola del Colle, intervista di Fernando Proietti, “Corriere della Sera”, 25 gennaio 2005.

­­­­­126

di Lodi. «Mi hanno sputtanato», grida al telefono con un amico poco prima di spararsi. Il Psi prova a montare una campagna contro i metodi inquisitori della Procura, ma Amorese è un testimone spontaneo, è stato lui a chiedere di poter parlare con Di Pietro. E prima di suicidarsi ha lasciato al pm una lettera che il magistrato consegnerà a Enzo Biagi per la pubblicazione: Egregio dottor Di Pietro, mi perdoni, ma sono fortemente prostrato e consapevole dell’errore commesso e del disonore che ne è derivato alla mia famiglia. Le riconfermo che quanto detto circa gli episodi di cui abbiamo discusso è la verità, e che non sono coinvolto in altri fatti di tangenti. Le riconosco e la ringrazio per la sensibilità, pur nella rigorosità giusta delle sue funzioni, che mi ha dimostrato. A mia moglie che era all’oscuro e alla quale ho rivelato i fatti confessati ho anche detto dell’impegno a restituire quanto sarà dovuto e necessario e stia certo, e lo potrà capire parlandole, (mi raccomando ancora alla sua sensibilità) che farà di tutto per onorare la promessa. Sono a pregarla vivamente (lo consideri un ultimo desiderio), per lei e per i miei figli, di non attuare pignoramenti o sequestri perché possano realizzare il massimo, e potere così sperare che rimanga qualcosa per andare avanti e far studiare i miei figli. Io con quello che è successo, non sono più in grado di farlo, me ne pento ed è giusto che paghi. Non mi consideri peggio di come già mi sento. Con stima Renato Amorese.

Tragedia umana e dramma politico tornano a incrociarsi la settimana dopo, quando arriva la notizia che è stato arrestato a Milano Andrea Parini: il segretario regionale dei socialisti lombardi, faccia da bravo ragazzo, l’occhio liquido, la giacca stazzonata, il volto pulito del Psi meneghino, spedito in tv alla trasmissione di Lerner a difendere la buona fede e l’onestà dei compagni. Insieme all’arresto di Parini c’è il primo avviso di garanzia per il predecessore di Parini alla guida del Garofano lombardo, il deputato bresciano Sergio Moroni. E a questo punto in via del Corso si capisce che è arrivato il momento di reagire. Perché Parini è il primo capo del Psi lombardo a finire in cella a San Vittore dai tempi del fascismo. E Parini è il funzionario tipo, tutto casa e partito, iscritto al Psi da quando aveva tredici anni. «Conosco Parini da quando era segretario dei giovani. Leggo che ha giurato sulla sua innocenza, che ha dichiarato di non saper nemmeno dove sia la discarica per cui avrebbe ricevuto una tangente. E mi sono ricordato ­­­­­127

le fasi iniziali del caso Tortora, quando gli si dava del drogato, del colpevole che aveva infranto la legge», si infuria il senatore Guido Gerosa. Da Roma arriva una nota firmata da Gennaro Acquaviva, ispirata direttamente da Craxi, un violento attacco ai magistrati: «Nelle indagini vengono adottati provvedimenti di tale violenza che non hanno riscontro neppure nelle inchieste contro la mafia e vengono commesse illegalità sempre più evidenti, in dispregio dei diritti dei cittadini». «Qui siamo a un passo dal considerare l’intero sistema dei partiti come un’associazione a delinquere», si lascia andare un dirigente del partito. È in quelle ore che viene messa a punto la contro-campagna. Da ora in poi la Preda si batterà per trasformarsi in Cacciatore. «Nella vita democratica non c’è niente di peggio del vuoto politico...», è l’incipit del discorso di Craxi alla Camera il 3 luglio 1992. Il segretario del Psi si volta subito alla sua sinistra, verso i banchi del Pds. «Da un mio vecchio compagno ed amico che aveva visto nella sua vita i drammi delle democrazie, ho imparato ad avere orrore del vuoto politico. Nel vuoto tutto si logora, si disgrega e si decompone. Un minuto prima che una situazione degeneri, bisogna saper correre un rischio». E il rischio che quella mattina il leader socialista vuole correre è tutto qui: sfidare il vuoto, il caos, il crollo del suo mondo ad opera dei magistrati, dei giornalisti, della piazza. Certo, si atteggia a politico normale, Craxi, parla della risoluzione della crisi e del governo Amato, spiega il motivo del suo passo indietro («un’assunzione di responsabilità inevitabile, necessaria, doverosa»), si toglie un sassolino contro chi lo ha escluso da Palazzo Chigi quando ricorda che nel 1983 il direttore di “Repubblica” Eugenio Scalfari aveva considerato un «episodio squallido» l’inserimento di Scalfaro nel governo come ministro dell’Interno, attacca Occhetto che ha chiesto una trattativa ricorrendo all’Enrico IV di Shakespeare: «Una causa debole e ingiusta non ammette trattative». E cita De Gaulle, per cui l’Italia è sempre «en l’heure de la Quatrième», perennemente in mezzo al disfacimento della Quarta Repubblica. E nell’aula di Montecitorio Craxi lascia risuonare immagini terribili, i fantasmi di «progetti che contengono il germe demagogico e violento di inconfondibile natura antidemocratica», «gli infingimenti, le ipocrisie, le ingiustizie, i processi sommari, le grida spagnolesche»: «la necrosi», la ­­­­­128

crisi del sistema dei partiti, «screditati ed indicati come il male di tutti i mali, soprattutto da chi immagina o progetta di poterli sostituire con simboli e poteri taumaturgici che di tutto sarebbero dotati salvo che di legittimità e natura democratica». Parla davanti ai deputati, ma si rivolge a chi sta fuori: il suo indice è puntato contro il dottor Di Pietro. Almeno per oggi il pubblico ministero è lui. Si china sui fogli e arriva al tema che gli sta più a cuore: In quest’Aula e di fronte alla Nazione, io penso che si debba usare un linguaggio improntato alla massima franchezza. Bisogna innanzitutto dire la verità delle cose e non nascondersi dietro nobili e altisonanti parole di circostanza che molto spesso, e in certi casi, hanno tutto il sapore della menzogna. Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni, una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica [...] E così, all’ombra di un finanziamento irregolare ai partiti, e ripeto, al sistema politico, fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati. E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro.

Il pubblico ministero Craxi chiude la sua requisitoria contro chi vuole usare l’arma del finanziamento «irregolare e illegale al sistema politico» come un «esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica». «Da questo clima», conclude, «non possono nascere né le correzioni che si impongono né un’opera di risanamento efficace, ma solo la disgregazione e l’avventura». Per anni Craxi ha ripetuto come un mantra che quella mattina nessuno si alzò in aula per contraddirlo: a rileggere il resoconto stenografico della seduta della Camera bisogna dargli ragione. Va ­­­­­129

registrata la reazione infastidita del Pds e il botta e risposta con Massimo D’Alema. «Non si può ricondurre la questione morale al finanziamento dei partiti, la questione è il rapporto tra politica e affari», attacca il capogruppo del Pds. «È fastidioso sentire le prediche dei figli di una nomenklatura superfinanziata dal Pcus, dal Kgb e dai regimi del patto di Varsavia», replica il segretario del Psi. Anche i leghisti intervenuti nel dibattito, i debuttanti nell’aula di Montecitorio Roberto Maroni e Irene Pivetti, parlano d’altro. L’unica ad alzarsi, quel giorno, è la deputata cattolica della Rete Laura Rozza Giuntella: «Noi non abbiamo nulla di cui vergognarsi. E tanti altri italiani si alzeranno in piedi di fronte a lei». Da questo momento in poi Craxi esce dalla lotta politica e si butta nella battaglia simbolica. Fa quello che nessun altro leader si sogna, meno che mai i Forlani e gli Andreotti che accetteranno il loro status individuale di imputati rifiutando testardamente di farne una questione di sistema. Ha già capito tutto per tempo, perché sarà proprio il reato di finanziamento illecito a far saltare in aria i partiti. E lui s’offre come la guida dello schieramento che vuole resistere. Nessun terreno di scontro sarà evitato: i tribunali, le aule parlamentari, le prime pagine dei giornali, le trasmissioni televisive, le veline dei servizi. Identificando il Sistema con se stesso Craxi offre al Cacciatore il bersaglio grosso, quello che definisce la chiusura della battuta. Diventa un simbolo anche lui, come Di Pietro, per l’intero Paese: non più un semplice leader politico, ma il capobanda. Nel Transatlantico regna un clima di forti diffuse preoccupazioni per gli sconquassi generali del Paese. La Camera si pronuncia a favore di tutte le autorizzazioni a procedere mentre prosegue l’ondata degli arresti e a Milano si registrano i primi episodi di squadrismo. A tutto questo si aggiunga l’attesa per la mazzata dell’austerità (dalla Velina di Vittorio Orefice, 8 luglio 1992).

È come se fosse un meccanismo di azione-reazione, a un attacco di Craxi corrisponde un salto di qualità dell’inchiesta Mani Pulite. Quello del 16 luglio è sconvolgente perché al portone di San Vittore, questa volta, bussa un big dell’imprenditoria nazionale, uno degli uomini più liquidi, come si dice, del Paese, amico di Enrico Cuccia, membro di quasi tutti i consigli di amministrazione ­­­­­130

che contano. Il costruttore Salvatore Ligresti, 60 anni, siciliano di Paternò trapiantato a Milano, tra i principali costruttori italiani. Per cercare documenti che lo riguardano carabinieri e guardia di finanza entrano nei sancta sanctorum della finanza italiana: Mediobanca, Pirelli, Italmobiliare, Ferruzzi Finanziaria e Cir. Lo cercano una prima volta nella villa di via dell’Ippodromo a San Siro, ma non lo trovano. Il giorno dopo si presenta spontaneamente da Di Pietro, ma non serve a evitare l’arresto: lo nascondono in un montacarichi di servizio e lo trasferiscono a San Vittore. Ligresti è, soprattutto, insieme a Silvio Berlusconi, il migliore amico di Craxi. Si racconta che tale sia l’intimità tra i due che le stanze di casa Ligresti a Milano e a Roma, toilette comprese, siano riempite di cimeli garibaldini e di ritratti del Generale per mettere a suo agio il leader socialista quando va a trovarlo all’improvviso, per trascorrere qualche momento di relax. Ligresti è immancabile in prima fila nei congressi del Garofano e nelle cene di Natale e di Capodanno con il capo del Psi. Si conoscono dagli anni Sessanta, da quando il cognato di Bettino, Pillitteri, era assessore all’Urbanistica di Garbagnate, un paesone alle porte di Milano dove l’intraprendente costruttore siciliano organizza le prime speculazioni. È, al pari di quella di Berlusconi, una storia tipicamente milanese di quei primi anni Settanta, dove il fiuto per gli affari e per il mattone e la spregiudicatezza si mescolano, insieme al rapporto con i giovani leoni della politica, i socialisti autonomisti guidati da Bettino il Tedesco. E se in quelle ore Ligresti finisce in carcere, Berlusconi trema: è il momento in cui il suo coinvolgimento nelle inchieste sembra più vicino. Con Ligresti fa il suo ingresso ufficiale nell’operazione Mani Pulite l’autostrada Milano-Serravalle, di cui il costruttore siculomilanese è uno dei protagonisti. L’altro è il suo amico e socio Marcellino Gavio, ex autotrasportatore, amico del dc andreottiano Vito Bonsignore e del ministro dei Lavori Pubblici Gianni Prandini, beneficiario insieme a Ligresti di un bel pacchetto di appalti, oltre 320 miliardi di lire, per rifare l’autostrada. L’8 agosto la Procura ne chiede l’arresto, ma Gavio parte per una latitanza lunga oltre un anno: in cella finisce il suo braccio destro, l’imprenditore Bruno Binasco. E la Serravalle è un’autostrada che racconta vent’anni di relazioni pericolose per politici di destra e di sinistra: dall’estate 1992 fino all’estate 2011, quando della proprietà del ­­­­­131

tracciato si torna a parlare nelle cronache politico-giudiziarie per via dell’indagine che coinvolge l’ex presidente della Provincia di Milano, l’ex ds Filippo Penati, capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani nel Pd. Gavio non c’è più, è morto nel 2009, ma tra i nomi degli indagati c’è l’eterno Binasco: «Ho conosciuto tutti i politici, tutti». E tutti, di destra e di sinistra, hanno sfrecciato e sfrecciano sulla Serravalle. «È la Caporetto di un intero sistema», scrive Claudio Rinaldi sull’“Espresso”. «È l’impeachment di una parte rilevante della classe dirigente sia politica sia imprenditoriale, prosperata per anni, per decenni, all’insegna dell’illegalità e degli abusi». Mani Pulite procede a tappe forzate: il 14 luglio è il giorno del primo avviso di garanzia per uno dei big del Garofano, candidato appena un mese prima alla presidenza del Consiglio insieme ad Amato e a Martelli, l’ex ministro degli Esteri Gianni De Michelis (il suo segretario Giorgio Casadei finisce dietro le sbarre), il 17 luglio arrivano gli avvisi di garanzia per il vice-segretario della Dc Silvio Lega e per l’ex presidente della Regione Lombardia, uno dei più promettenti e attivi quarantenni della sinistra democristiana, Bruno Tabacci, il 30 viene arrestato a Milano per corruzione un altro fedelissimo di Craxi, Loris Zaffra. Sì, danno fastidio quei giudici che si sono messi in testa di riportare il Sistema alla legalità. È ora di bloccarli, di reagire, di dare una lezione. L’estate del 1992 è la stagione delle manette, degli arresti, ma anche dei sospetti, dei corvi, delle lettere anonime, dei presunti complotti e delle coincidenze straordinarie. Coincidenze straordinarie, s’intitola il lungo articolo non firmato ma dallo stile inconfondibilmente craxiano che fa il punto sulle indagini Mani Pulite. E per la prima volta il leader socialista parla di una congiura che si serve dei magistrati per spazzare via i partiti: «Quando il corso di un’inchiesta e le relazioni che si organizzano attorno ad essa tendono a straripare, facendo nascere un fondato sospetto che partendo da fini di giustizia si giunga in realtà a perseguire fini di ben altra natura, allora il silenzio diventa impossibile e le reazioni inevitabili. Dovremmo bendarci gli occhi, tapparci le orecchie e tagliarci la lingua per non rilevare e non commentare...». E l’editorialista dell’“Avanti!”, di certo, non è tipo da tagliarsi la lingua. Anzi, è abituato a ragionare di grandi scenari mondiali e di bassa cucina casalinga. E dunque: prima l’arresto di Mario ­­­­­132

Chiesa, in piena campagna elettorale, poi gli arresti durante le elezioni per il Quirinale, infine «non solo piove sulla capitale una nuova gragnuola di provvedimenti, ma una mano rimasta ignota, fa volare per l’aria verbali di interrogatori che ammorbano l’aria proprio come si voleva che facessero» e raggiungono l’obiettivo di escludere Craxi da Palazzo Chigi. «Può darsi che tutto questo sia avvenuto solo per caso», conclude l’articolo bettinianamente ispirato. «Una tempistica politico-giudiziaria di precisione così cronometrica presupporrebbe infatti l’esistenza di propositi verso i quali non vorremmo neppure avventurarci. Preferiamo concludere che si è trattato di coincidenze straordinarie. Anzi di coincidenze straordinariamente straordinarie». Quali coincidenze? E quali propositi? Craxi, in quelle settimane, è in ottima compagnia. Sono in tanti ad avvistare dietro Mani Pulite, complotti, scenari fantapolitici su scala planetaria. Comincia Sbardella, subito dopo l’omicidio di Salvo Lima, prendendosela con gli americani: «Io non credo al complottismo, ma bisogna avere davanti tutto lo scacchiere per capire quello che succede. Chi vuole la destabilizzazione dell’Italia? Ad esempio chi non vuole l’Europa: gli americani insieme ad alcuni gruppi industriali, che non si sentono preparati a questo passo». Il piano per destabilizzare l’Italia, come viene chiamato (e come se l’Italia non fosse già abbastanza destabilizzata di suo), viene avallato alla vigilia delle elezioni dal ministro dell’Interno Scotti, che diffonde una circolare destinata a tutti i prefetti invitandoli alla vigilanza. Nel piano si prevede l’assassinio di politici democristiani, socialisti e del Pds e il rapimento di «un futuro presidente della Repubblica»: insomma, il fantasma di una minaccia di colpo di Stato ordito da una misteriosa mente, certificato dal Viminale. Si scopre poi essere l’informativa di un noto estremista di destra, depistatore di professione, Elio Ciolini (tornerà sui giornali nel 2001 annunciando un attentato al premier Silvio Berlusconi). «Una patacca», la definisce Martelli. «Una pizza, che puzza di bruciato, ma pur sempre una pizza», concorda Cossiga. Ma intanto la pizza ottiene l’effetto che si voleva raggiungere: nei giorni che precedono il voto la paura del golpe è tema di campagna elettorale, intrecciato con gli attentati e con le inchieste. La leggenda più duratura nel tempo riguarda il convegno del Britannia, il panfilo della regina Elisabetta, che il 2 giugno 1992 ­­­­­133

naviga nel mare Tirreno al largo di Civitavecchia. «Il Maestro della Casa Reale ha avuto ordine dalla Regina di invitarla a bordo dello Yacht di Sua Maestà Britannia», recita l’esclusivo cartoncino di invito, compilato dai misteriosi organizzatori, i British Invisibles, che sembrano fatti apposta per alimentare il romanzone del complotto. Proibite macchine fotografiche e telecamere, i lavori durano un giorno: ci sono due contrammiragli ad accogliere a bordo i signori della City, banchieri inglesi e olandesi, gli gnomi della finanza internazionale collegati a Goldman Sachs, al club Bilderberg, a George Soros. Sale il direttore generale del Tesoro Mario Draghi, futuro governatore di Banca d’Italia e presidente della Banca centrale europea, con lui ci sono l’economista Mario Baldassarri, il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, il presidente dell’Ina Lorenzo Pallesi, l’ex ministro del Tesoro Nino Andreatta, Giovanni Bazoli, manager dell’Iri. È in quella crociera, secondo i complottisti, che Draghi dà il via libera al piano di privatizzazioni dell’industria pubblica italiana, la svendita alla finanza internazionale dei pezzi pregiati. «Draghi è il numero uno, il futuro papa del movimento capitalistico italiano, della nuova religione tecnocratica, un leader riconosciuto per tale da quanti, ad alto livello, industriale o bancario, rappresentano un movimento per la successione ai partiti, nella futura Europa tecnocratica», scrive con un certo qual buon intuito l’agenzia ufficiosa Tac diretta dal vetero-democristiano Norberto Messina, ex consigliere di amministrazione dell’Efim. Non può certo immaginare che qualche lustro dopo il governatore sarà invocato come il premier ideale di un governo di Grandi Intese, il “papa straniero”, né che la polemica sarà ripresa tale e quale nel 2011 dopo la nomina di Draghi a presidente della Banca centrale europea, né che le stesse accuse saranno rivolte all’altro Supermario, il professor Mario Monti diventato per l’appunto presidente di un governo tecnico e delle larghissime intese con il plauso dell’Europa. E che, per attaccare Draghi, negli stessi mesi della tempesta monetaria Giulio Tremonti ritirerà fuori la storia di quella crociera sul Tirreno: «Ogni tanto penso che questo periodo ha qualche affinità con i primi anni Novanta: ricorda la crociera sul Britannia nell’estate del 1992? Ecco, quella fu un’operazione elitaria che prescindeva dal popolo... non mi pare che ci si possa riprovare ignorando la volontà popolare». ­­­­­134

Insomma: nel 1992 fu la massoneria internazionale a spartirsi il patrimonio della povera Italia, con la complicità di Amato, di Ciampi e di Draghi e utilizzando Di Pietro come testa d’ariete. Potevano mancare i servizi segreti, più o meno deviati? Ovviamente no: c’è il grande attivismo, mediante incontri e cene con i politici, di Parisi che prima di diventare capo della Polizia aveva guidato il Sisde, il servizio segreto civile. E la Cia, e l’Fbi? Partecipano anche loro al piano di destabilizzazione, rivela la solita Agenzia Repubblica, dopo un viaggio di Martelli a Washington il 6 settembre: «L’appuntamento con l’establishment americano è stato seguito dalla presa di posizione anti-Craxi assunta nel Psi. Bettino Craxi, l’uomo di Sigonella, non è gradito in America...». Il 18 Sbardella torna ad addentrarsi nella trama del complotto politico che parte da oltre Atlantico e che attacca la lira: «Se c’è un imputato da far alzare», scrive l’intraprendente deputato ex andreottiano, vestito per una volta da giudice, «questi parla americano. E la destabilizzazione finanziaria guidata da Washington potrebbe essere stata preparata da una sapiente opera di destabilizzazione tout court, articolatasi attraverso il processo di un settore della magistratura al modo anomalo dei partiti di autofinanziarsi ed all’attacco terroristico di Cosa Nostra (notoriamente nell’orecchio di certe ‘intelligence’ d’oltre Atlantico). A capire veramente tutto, e ad esprimere questa convinzione a voce altissima, è stato Craxi. E anch’io se non in un complotto credo in un piano di destabilizzazione...». Sono inquietanti, ma in fondo anche rassicuranti questi scenari globali, questo pensare in grande, l’antica presunzione italiana di sentirsi nel cuore di immensi disegni universali, questa certezza di essere al centro di una congiura mondiale, del big game, il Piano per la Destabilizzazione. Anche quando incrociano qualche verità, più che spaventosi sono consolatori, aiutano a non affrontare la dura responsabilità di essere artefici delle proprie scelte, mandanti di tutte le cazzate che abbiamo fatto, come nella vignetta di Altan. Esprimono la nostalgia di un qualche grande burattinaio, la massoneria, la finanza, i servizi, gli americani, proprio ora che gli storici burattini della politica italiana, i Belzebù e i Belfagor, appaiono inanimati, senza più fili da manipolare. Il complotto più elaborato, alla fine, sembra proprio quello preparato da Craxi ai danni di Di Pietro. Le informazioni fornite ­­­­­135

del capo della Polizia Parisi hanno fatto il loro corso, alla fine di agosto il leader socialista può finalmente dichiarare di aver in mano le prove per incastrare il maledetto uomo di Montenero. Un bluffatore. Un falso. Uno spergiuro. Uno che ama apparire tutto il contrario di quello che è. È venuto il momento, finalmente, di farlo sapere al mondo. «Hai presente i poliziotti giustizieri dei film americani, quelli duri e incorruttibili che improvvisamente vengono scoperti con le mani in ambienti loschi?», chiede Craxi al fedelissimo (e immacolato) portavoce del Psi Ugo Intini. «Si scoprirà che Di Pietro è così». Craxi, o un suo anonimo alter ego, lo mette nero su bianco utilizzando la solita tribuna dell’“Avanti!”. Il primo editoriale è del 22 agosto, intitolato La fantasia e la realtà: «Con il tempo e attraverso una migliore conoscenza dei fatti di cui qualcuno dovrebbe finalmente occuparsi, potrebbe persino risultare che il dottor Di Pietro è tutt’altro che l’eroe di cui si sente parlare e che, in questo caso, come in tanti altri della vita, non è proprio oro tutto quello che riluce...», scrive il corsivista. «Vi sono nell’inchiesta da lui guidata diversi aspetti, rapporti e relazioni connessi e collegabili all’inchiesta tutt’altro che chiari e tutt’altro che convincenti». Non è il pericolo di un attentato che minaccia il pm, «sono semmai altri i rischi che possono riguardare il dottor Di Pietro». Quali? L’anonimo craxiano non lo specifica; il figlio del capo, Bobo, su “Panorama” allude alle frequentazioni socialiste del magistrato di Mani Pulite. Ma ormai è tardi: perché nel frattempo anche nel Psi si scatenano le reazioni solidali con Di Pietro («è una cultura del sospetto che non ci appartiene», sbotta l’ex segretario Giacomo Mancini, il ministro Carlo Ripa di Meana, amico personale di Bettino con la moglie Marina, spedisce addirittura un fax di solidarietà a Tonino) e perché alla segreteria del Psi del 26 agosto Craxi si presenta a mani vuote. Se davvero, come testimonia all’uscita Rino Formica, contro Di Pietro «Craxi ha un poker, anzi una scala reale», il leader evita di andare a vedere le carte. In compenso, durante la riunione, attacca Di Pietro e le sue amicizie pericolose, mettendo in imbarazzo il ministro della Giustizia Martelli, «che non aprì bocca e dopo, visto quel che ne seguì, fece finta di non capire di che cosa stavamo discutendo», ha raccontato poi il leader del Psi, e soprattutto il presidente del Consiglio Amato, che secondo alcuni presenti si rifugia nella toi­­­­­136

lette appena sente nominare Di Pietro. Sarà la sua ultima comparsata ai cenacoli di partito. Spiegherà Craxi: «Parisi e lo stesso Amato mi trasmisero messaggi di Di Pietro, il quale fece sapere che condannava gli eccessi in corso a Milano e prometteva di metterci qualche riparo. Chiedeva in cambio di non essere attaccato, giacché in questo caso, attaccato da un lato e dall’altro, cioè anche all’interno del Palazzo di Giustizia, la sua posizione sarebbe diventata insostenibile. Un doppio gioco bello e buono. Ma fu così che mi fermai. Alcuni compagni, per la verità, furono subito scarcerati. Pensai di aver fatto una cosa giusta, invece fu un grave, imperdonabile errore di calcolo»39. Ma forse la verità è un’altra: arrivato al momento decisivo della caccia grossa, quando si deve decidere se fermarsi o proseguire, Craxi non valuta che le cose sono andate troppo avanti. Lo spettacolo di uno statista che ha governato con dignità il Paese e che ora trascorre una delle estati più tragiche e pesanti della storia repubblicana a raccogliere dossier e dicerie contro un magistrato che indaga sui suoi amici è inguardabile, troppo grottesco per essere accettato. Ma è proprio vero che il Paese è schierato col giudice Di Pietro? Ma è proprio vero che Craxi ha perduto le sue doti di vecchio navigatore della politica per impantanarsi in oscuri attacchi personali al magistrato, simbolo della lotta alla partitocrazia delle tangenti? Questa tesi viene sostenuta senza eccezioni da tutti gli osservatori del caso Italia. [...] Tra il nuovo clima politico e l’operato dei giudici si è creata una sintonia che rafforza la richiesta di rinnovamento radicale e crea le condizioni perché i procuratori possano andare avanti. Ma qualcosa sta intervenendo in quello che gli economisti chiamerebbero «circolo virtuoso». Innanzitutto la crisi economica. [...] La malattia [...] diffusa su scala mondiale attraverserà da noi una fase particolarmente acuta perché tutti i nodi, pubblici e privati, sono venuti al pettine. E poiché il pane prevale sempre sulle idee, è prevedibile che si allenterà l’attenzione dell’opinione pubblica sui temi della questione morale, mentre i grandi gruppi saranno sempre più tentati di riporre le bandiere orgogliosamente sventolate per rincantucciarsi all’ombra protettiva 39

Antonio Padellaro, I vigliacchi del 1992 cit.

­­­­­137

dello Stato. Al di là delle buone intenzioni, gli alfieri del nuovo non hanno prodotto gran che. Segni sembra chiuso in una grande stanza insonorizzata: le sue parole non si odono e men che meno increspano la superficie della gran palude democristiana. Crescono i fermenti in casa socialista ma per ora si arrestano sulla soglia della stanza del capo. Martelli sembra la personificazione della virtù della prudenza, Amato pare non veda altro all’infuori della prossima Finanziaria. Del Pds non si può che tacere. In queste condizioni, tutte le speranze di rinnovamento della politica sono affidate all’attività giudiziaria. Ecco perché Craxi, che ha finito col personificare il vecchio sistema di potere tanto da apparire il grande normalizzatore, ha deciso di sferrare un attacco frontale, senza preoccupazioni di stile. Certo, anche se venisse dimostrato che Di Pietro ha avuto eccessive debolezze per le donne o per il gioco, ne verrebbe sminuita la sua figura ma non sarebbe affatto ridotta la responsabilità di esponenti politici pronti a derubare perfino i vecchi e i morti pur di salvaguardare il proprio potere e il proprio tenore di vita. Al di là [...] delle mitizzazioni e delle esagerazioni laudatorie che non abbiamo mai condiviso, noi riteniamo che l’inchiesta Mani Pulite rappresenti una grande occasione per il Paese, per i cittadini, per le stesse forze politiche: forse l’ultima occasione per un risanamento morale e per rifondare la politica prima che la Repubblica precipiti in un totale marasma (Giulio Anselmi, Craxi e Di Pietro con chi sta il paese?, “Corriere della Sera”, 28 agosto 1992).

Alla fine dell’estate Mani Pulite marcia spedita: sessantuno i politici arrestati o indagati (26 democristiani, 23 socialisti, 8 del Pds, 2 del Pri e 2 del Psdi), quattordici parlamentari di cui viene richiesta l’autorizzazione a procedere (7 democristiani, 5 socialisti, uno del Pds e uno del Pri). E il vuoto evocato da Craxi nel suo discorso alla Camera, quello in cui tutto si disgrega e si decompone, è arrivato nel modo più orribile. È una voragine, un cratere fumante che divora in una domenica di luglio, con la sua scorta, l’amico di Falcone Paolo Borsellino. Sirene che suonano, colonne di fumo, macchine incendiate, poveri corpi ridotti a nulla. Il presidente Scalfaro malmenato a Palermo in chiesa dagli agenti di polizia inferociti, protetto a malapena da Parisi. Lo sconforto di Antonino Caponnetto, il procuratore che aveva creato negli anni Ottanta il pool antimafia: «È tutto finito...». E in quel cratere finisce quel che resta della ­­­­­138

credibilità dello Stato. Venti anni di depistaggi, bugie, menzogne, i servizi che già un mese dopo l’attentato lavorano per indirizzare le indagini sul binario sbagliato. Fino ad arrivare, nel 2011, alla revisione del processo che aveva condannato all’ergastolo per la strage sei boss. Tutto da rifare, perché chi sa ha occultato per due decenni la verità: che Borsellino fu eliminato perché aveva intuito la trattativa in corso tra i corleonesi e gli uomini dello Stato. E perché in quell’estate 1992 in cui viene giù il sistema, con i partiti in agonia e la lira attaccata dalla speculazione, i soliti convitati occulti della vicenda nazionale, le mafie, le logge, le istituzioni infedeli, sono già nella fase successiva. A giocarsi la loro partita per spingere la transizione politica nella direzione a loro più gradita. Come sempre. In quell’inizio settimana, l’Italia sembrò tale e quale il palazzo sventrato di via D’Amelio. Un condominio partitico sventrato. Un edificio civile pronto ad afflosciarsi su se stesso. Una casa aggredita da troppi mali. Per niente difesa. Alla mercè di tutti i mafiosi di tutte le mafie e poi degli sciacalli. Sì, era un’Italia che faceva pena e paura. E che suggeriva un’immagine insieme banale e terrificante: quella della frana. Di una frana gigantesca. Di uno smottamento colossale. In moto da anni: dapprima lentamente, con movimenti quasi impercettibili, poi, via via, in discesa con velocità crescente verso l’inferno. Tanto per farti urlare: adesso non ci fermiamo più! (Giampaolo Pansa, Ultime notizie dal disastro, “l’Espresso”, 2 agosto 1992).

«Craxi voleva buttarmi giù dalle scale»

Canaglia. Mascalzone. C’è solo una persona che nel 1992 Bettino Craxi odia più di Antonio Di Pietro, tutta Milano lo sa. Per lui non c’è il poker d’assi, ma una sequenza di attacchi, accuse, perfino minacce fisiche. «Una volta mi chiamò e mi urlò: ‘Dopo le elezioni verrò lì e la butterò giù dalle scale a calci!’. Gli risposi: ‘Beh, intanto pensi a vincerle, le elezioni’». Giulio Anselmi oggi è una figura istituzionale per il giornalismo, presidente dell’Ansa e presidente della Federazione degli editori. Nel suo ufficio, alla parete, sopra il camino, c’è un trittico di immagini con la sua silhouette di profilo, piccolo vezzo di un uomo noto per riservatezza e serietà. Ha diretto tutto quello che si può: “Il Mondo”, “Il Messaggero”, l’Ansa, “l’Espresso”, “La Stampa”. Ma la direzione che non può dimenticare è quella del “Corriere della Sera”, ricoperta ad interim tra il febbraio e il settembre del 1992, nel mezzo della tempesta Tangentopoli. All’epoca il genovese Anselmi ha 47 anni, dopo una carriera da inviato speciale a “Panorama” e al “Secolo XIX” e la prima direzione al “Mondo”, è in via Solferino dal 1987, con il grado di vice-direttore vicario di Mikhail Kamenetzky detto Micha, ovvero Ugo Stille, il direttore venuto da lontano, una vita di esodi tra Mosca, la Lettonia, New York, fortemente voluto da Gianni Agnelli. «All’inizio del 1992 Stille si ammalò e tornò in America. Non poteva neppure parlare al telefono, in quei mesi mi sono ritrovato da solo alla testa del “Corriere”», racconta Anselmi. «Il mio unico interlocutore della proprietà era Giorgio Fattori, prese atto di quello che stavo facendo, passava la sera nel mio ufficio a salutarmi, si parlava dei fatti del giorno, mai mi disse: ‘mi raccomando, prudenza’». Il “Corriere della Sera”, nel 1992 come sempre nella sua storia, è l’oggetto del desiderio dei partiti di governo. E il ruolo del quotidiano di via Solferino, e del suo reggente Anselmi, chiamato dalle circostanze a tenere il timone nella tempesta, sarà decisivo per ­­­­­140

costruire il consenso attorno all’inchiesta Mani Pulite. Un esito per nulla scontato. Nel rapporto tra il “Corriere” di Stille e l’altro potere forte di Milano, il Psi di Craxi, c’è stato lo scivolone del direttore che non ama la politica italiana e che nelle sue acque limacciose si muove con una buona dose di ingenuità: 19 maggio 1989, congresso dei socialisti all’Ansaldo di Milano, c’è il camper parcheggiato dove sono riuniti con Craxi i maggiorenti del partito. Di fronte a tutti, arriva Stille, sale la scaletta del camper e va a salutare il leader del Psi, padrone di Milano. Dopo di lui, appuntano i cronisti, entra Silvio Berlusconi. L’omaggio del direttore del “Corriere” ben descrive i rapporti di forza che ci sono tra potere politico e stampa alla vigilia di Mani Pulite. Anselmi è cresciuto alla scuola dell’arcivescovo di Genova, il leggendario cardinale Giuseppe Siri, non è certo un sovversivo, incarna il profilo moderato di una città stufa di scandali e di paralisi politica. Nelle prime ore di Mani Pulite, il 18 febbraio, all’indomani dell’arresto di Mario Chiesa, il “Corriere” piazza un richiamo in prima pagina e i servizi nelle cronache locali, a pagina 40, firmati da Alessandro Sallusti, il futuro braccio destro di Vittorio Feltri e direttore del “Giornale” berlusconiano. Già dal giorno dopo, però, l’attenzione cresce e la squadra che segue l’inchiesta si arricchisce di due cronisti, Goffredo Buccini e Michele Brambilla. Il primo articolo su Antonio Di Pietro è datato 24 febbraio, un ritratto di Buccini sul pm «estroverso e imprevedibile, abruzzese d’origine». Da quel momento in poi l’indagine non abbandona più la prima pagina. E Craxi comincia a innervosirsi. «Quando partì l’inchiesta non avevo idea delle dimensioni dello smottamento» ricorda Anselmi. «Avevo la sensazione che stesse precipitando il craxismo, quel modo di intendere la politica, le mani del Psi su Milano, ma non avevo la più pallida idea di quello che sarebbe successo in seguito. Nessuno ce l’aveva, in realtà. Forse Cossiga: veniva spesso a Milano, non mancava mai di fare visita a Mediobanca. Si ipotizzava all’epoca che anche Andreotti avesse informazioni privilegiate, per alcuni era una certezza, c’è lui dietro Mani Pulite, ma il mio ricordo è diverso. Una volta mi chiamò Luigi Bisignani, ‘il presidente vorrebbe parlarti’, mi disse. Lo andai a trovare a Palazzo Chigi, sperando di ricevere qualche notizia. E invece fu Andreotti a chiedermi cosa stesse succedendo a Milano e fin dove si sarebbero spinti i giudici. Aveva meno informazioni di me». ­­­­­141

Il primo editoriale di Anselmi su Mani Pulite arriva il 2 maggio, all’indomani del primo avviso di garanzia per gli ex sindaci Tognoli e Pillitteri (La torta è finita). Segue, a distanza di quattro giorni, un secondo intervento (Milano al Quirinale, 6 maggio). «I socialisti ripresero a protestare, ma non erano gli unici. Giovanni Spadolini venne in visita al “Corriere”, che aveva diretto tanti anni prima, in veste istituzionale, era il capo dello Stato supplente e toccò a me riceverlo. Qualche giorno dopo, per commentare l’avviso di garanzia per il repubblicano Antonio Del Pennino, Giannelli fece una vignetta in prima pagina con un cavallone a forma di Spadolini in vista del Quirinale infilzato da un pennino. Lui mi chiamò furibondo: ‘Verrà il suo giorno, Anselmi, qualcuno le farà pagare il sabato’. Una maledizione: per dire la tensione di quei giorni, era bastato un disegno a farlo impazzire». Con Craxi lo scontro violento arriva qualche settimana dopo. Quando il segretario del Psi manca l’obiettivo di Palazzo Chigi e il quotidiano di Anselmi martella ogni giorno sulle inchieste. Titoli urticanti: Tempesta su Craxi, Dieci anni di tangenti miliardarie, Così pagavo Tognoli e Pillitteri. Interviste: l’8 luglio due pagine di Enzo Biagi con il pm Di Pietro sotto il titolo Vi racconto le mie mani pulite. Editoriali schierati: «Noi non apparteniamo al ‘partito’ di Di Pietro. Ma l’opinione pubblica ha individuato in Di Pietro e nei suoi colleghi che conducono le inchieste sulle tangenti i vendicatori per anni di soprusi, di corruzione, di inefficienza. I fascicoli processuali sono diventati, agli occhi di molti, le bandiere della necessità di cambiare. Non tenerne conto significa aver perso il polso della situazione del Paese» (Di chi è la giustizia, 28 giugno). «L’inchiesta Mani Pulite è diventata la prova della necessità di cambiare. E chiunque accarezzasse il progetto di passare un bel colpo di spugna sui giudici e sulle loro indagini, per riprendere l’andazzo bruscamente interrotto, troverebbe sulla sua strada tutti coloro che sono convinti di avere in Di Pietro e nei magistrati come lui i veri difensori dei loro diritti: ed è un numero impressionante di persone per bene» (Giustizia per chi, 16 luglio). E a questo punto Craxi ordina: da ora in poi non si subisce più. Il 17 luglio l’editoriale dell’“Avanti!” (Coincidenze straordinarie) è una dichiarazione di guerra contro il giornale di via Solferino e la sua direzione: «Non intendiamo in alcun modo ostacolare il corso della giustizia come insistono nel dire organi di stampa che hanno perso insieme equili­­­­­142

brio, misura, obiettività e senso della giustizia, ad esempio è il caso di tanti articoli, corrispondenze e corsivi del “Corriere della Sera”». «È vero, ho pubblicato l’intervista di Biagi a Di Pietro, c’erano gli editoriali, ma avevo come opinionista Gianfranco Piazzesi che di certo non era un anti-socialista, c’era Giuliano Ferrara che firmava una rubrica, io la conservai accompagnandola con un breve distico: ‘il contenuto di questo articolo non corrisponde alla linea del giornale’. Sallusti era uno dei cronisti più bravi, più attivi. In redazione c’era un vice-direttore che tremava ogni volta che facevamo il titolo di prima e che teneva il filo con i socialisti, io saggiamente non gli avevo dato deleghe... Una volta sbottò con me: ‘Ci farai cacciare via tutti’. E io gli risposi: ‘Perché ti preoccupi tu, che non sanno nemmeno che esisti?’». Una delle leggende più dure da sfatare, a distanza di vent’anni, è il complotto dei poteri forti contro i partiti, le «coincidenze straordinarie» tra stampa, magistratura e editori di cui parlò l’“Avanti!”, il circuito mediatico-giudiziario. «Non ho mai incontrato Di Pietro in quei mesi, mai parlato con lui neppure al telefono», replica Anselmi. «Non c’era nessun complotto contro i socialisti e contro i partiti: io e tutti gli altri capimmo quello che stava accadendo con gradualità, giorno dopo giorno. E per dire quale tipo di rapporto ci fosse tra la magistratura e il potere economico ricordo una cena al Savini con l’intero establishment schierato, da Cesare Romiti in giù. A un certo punto arrivò Borrelli, sembrava un generale che passa in rassegna le truppe, salutò tutti con un cenno del capo e con un militaresco colpo di tacco. In sala c’era un gelo paragonabile al terrore. No, grandi disegni non ce n’erano. Se non avessi fatto il giornale così a Milano mi avrebbero tirato i sassi alle finestre. E se ci fu complotto dei poteri forti, fu quanto meno mal congegnato». Da lì a poco, infatti, finiscono coinvolti nell’inchiesta i big dell’imprenditoria. Anche la Fiat viene coinvolta, mesi dopo, con l’arresto del numero tre di corso Marconi, Francesco Paolo Mattioli. «In estate uno dei massimi dirigenti della Fiat da Torino venne di persona a Milano per dirmi che la successione di Stille era ormai quasi fatta e che il direttore sarei stato io. Nel percorso di denuncia mi ero spinto molto in là, non potevo arrestarmi quando le inchieste dai politici locali passavano a toccare i santuari della finanza, non potevo fermarmi di fronte alla Fiat e a Mediobanca. Così, quando fu scarcerato Mattioli, anche il “Corriere” pubblicò la sua foto con in ­­­­­143

mano la giumenta, la borsa di cartone con le sue cose. E da Torino chiamarono per sapere se fossimo tutti impazziti. La verità è che nel 1992-93 Mani Pulite non ha abbattuto solo i partiti. Ha fatto crollare anche il mito della società civile». È indubbio che tra il 1992 e il 1993 i grandi quotidiani del Nord, dal “Corriere” alla “Stampa”, hanno appoggiato l’azione moralizzatrice dei giudici e hanno sostenuto il cambio della classe politica. Antonio Polito e Piero Sansonetti, all’epoca vice-direttori rispettivamente di “Repubblica” di Scalfari e dell’“Unità” (diretta da Walter Veltroni) hanno raccontato più volte di «un’alleanza di ferro tra i grandi giornali per abbattere Craxi»: «Ci si sentiva due, tre volte al giorno, si concordavano le campagne, i titoli». Risponde Anselmi: «La consultazione non era sulla linea politica, capitava che ci scambiassimo informazioni sulle notizie, con il terrore di prendere il buco. Semmai c’è un’altra auto-critica da fare a proposito dei giornali e di Mani Pulite: lo sbaglio è stato di aver riproposto l’idea che molti di noi, me compreso, avessimo un ruolo nella rinascita del Paese, con un impegno civile che forse andava al di là del nostro lavoro. Abbiamo sbagliato a dare troppa briglia ai giudici, abbiamo dimenticato a volte che le procure sono solo una delle fonti possibili e non la verità, abbiamo sbagliato a non riflettere subito sugli eccessi delle indagini e del giustizialismo, anche se molte critiche erano finalizzate esclusivamente a seppellire Mani Pulite. Forse c’è stato in alcuni casi un eccesso di militanza civile. Ma poi bisogna pur dirlo: tutto il tentativo revisionista degli anni successivi è stato peggio». Nell’editoriale del 28 agosto Anselmi attacca «i grandi gruppi che saranno sempre più tentati di riporre le bandiere orgogliosamente sventolate per rincantucciarsi all’ombra protettiva dello Stato». È il suo ultimo editoriale da reggente, il 2 settembre viene nominato Paolo Mieli, fino a quel momento direttore della “Stampa”. Scrive Massimo Pini che è il segretario del Psi a trasmettere il proprio benestare alla nomina con una telefonata a Ugo Intini: «Chiama Paolo Mieli e digli che farà il direttore del “Corriere”»40. Una delle pochissime vittorie di Craxi di quell’anno, anche se solo in apparenza. Anselmi resterà infatti in posizione di vertice come vice di Mieli per tutto il 1993, fino alla nomina a direttore del “Messaggero”:

40

Massimo Pini, Craxi cit., p. 473.

­­­­­144

«Quando la Camera negò per Craxi le prime autorizzazioni a procedere uscirono due editoriali sul “Corriere”, uno firmato da me e uno di Mieli. E quello di Paolo era molto più duro del mio». Nel 2008 i destini di Anselmi e di Mieli sono tornati a incrociarsi. Anselmi è dal 2005 direttore della “Stampa”, Mieli dal 2004 è tornato in via Solferino. E il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi li accomuna in una sorta di licenziamento in diretta. Riporta l’Ansa (2 dicembre 2008, ore 20.27): «‘Il tuo giornale titola oggi Berlusconi contro Sky. Che vergogna...’, si sdegna il premier rivolto ad Augusto Minzolini, cronista della “Stampa”. ‘E le vignette del “Corriere della Sera”? Ma che vergogna, che vergogna...’, aggiunge. ‘I direttori di questi giornali, come “La Stampa” e il “Corriere”, dovrebbero cambiare mestiere, andarsene a casa...’». Il desiderio del Cavaliere sarà presto esaudito. Passano quattro mesi e Anselmi e Mieli lasciano le direzioni dei loro quotidiani. Mentre Minzolini viene nominato direttore del Tg1. Sembra un poker d’assi, anche in questo caso. Ma è tutta un’altra storia. O forse no, forse è la stessa.

VII

Telepiazze

Intanto, per le strade, moltissimi curiosi. La rivoluzione era considerata uno spettacolo divertente. I curiosi discorrevano coi rivoltosi, davano consigli, motteggiavano, chiedevano chiarimenti ai costruttori delle barricate. La maggior parte dei rivoltosi, donne e ragazzi. Eugenio Torelli Viollier Lettera a Pasquale Villari, 3 giugno 1898

Dal teatro Biondo di Palermo e dal teatro Parioli di Roma e nelle case di 11 milioni di italiani va in onda un «rito liberatorio», titola il giorno dopo “Le Monde”, «un referendum popolare sulla lotta alla mafia», scrive “la Repubblica”, «la prima grande manifestazione di una volontà di cambiamento degli italiani. Tangentopoli e l’era dei giudici stanno per cominciare»: l’inizio della Rivoluzione, per Michele Santoro. È il 26 settembre 1991, per cinque ore, dalle nove di sera all’una passata, a reti unificate su Raitre e su Canale Cinque, la televisione processa gli uomini di Cosa Nostra che hanno ucciso un mese prima Libero Grassi, l’imprenditore che dallo studio di Samarcanda aveva sfidato il racket. Non finisce più la notte della rivolta catodica, come interminabile sembra essere l’agonia della Repubblica fondata sui partiti e impantanata nei legami inconfessabili con la criminalità mafiosa. E di quella notte resteranno a lungo nella memoria immagini, voci, emozioni. La maglietta con la scritta «Mafia made in Italy» che brucia. L’immancabile telefonata anonima con la segnalazione di un’autobomba parcheggiata all’esterno del Biondo di Palermo, una Renault rossa (come quella in cui fu ritrovato il corpo di Aldo Moro). L’esordio televisivo di un ­­­­­146

giovane democristiano accaldato e infuriato che urla in mezzo al teatro: «Questo è un giornalismo mafioso! Avete infangato la Sicilia, trasmissioni come questa fanno più danni di dieci anni di omicidi mafiosi». Maurizio Costanzo non capisce il nome, lo chiama Puffaro, invece il suo nome è Salvatore Cuffaro, in quel momento è un oscuro deputato regionale della Dc fedele a Calogero Mannino, sarà per un decennio l’uomo più potente dell’Isola, fino all’arresto nel 2011 dopo una condanna definitiva per favoreggiamento di Cosa Nostra. E il sorriso di Giovanni Falcone, ospite a Roma sul palco del Parioli, sornione, lucido, da disincantato idealista. Qui Palermo, qui Samarcanda. La staffetta è con Costanzo, ma il mattatore della serata è Santoro, il quarantenne giornalista del Tg3. L’idea è stata sua: al ritorno dalle vacanze in Sud Africa ha letto sui giornali che ai funerali di Libero Grassi c’era stata poca partecipazione. «Era stato ucciso il giovedì, il giorno di Samarcanda. Era venuto da noi a fare la sua denuncia. Allora ho pensato che non potevo ammazzare anch’io l’uomo con i sandali». Non è passato molto tempo da quando Beniamino Placido nelle sue critiche televisive su “Repubblica” lo sfotteva paragonandolo a Gigi er Bullo, «noto personaggio del folklore popolare romano, che minacciava tutti e non spaventava nessuno», «la faccia molle e severa al tempo stesso, la severità molle, esigente, invadente dei ragazzoni che passavano dall’Azione cattolica ai Pionieri del Pci». E scriveva: «Nella città televisiva di Samarcanda è sempre notte fonda. Tutto si svolge in una plumbea atmosfera di colore nero. Giovedì sera si era vestito di scuro con gran pullover girocollo alla Amleto-Albertazzi anche il conduttore Michele Santoro. L’effetto vorrebbe essere forse (va a capire) quello del nero su nero di Malevicˇ (pittore russo). Ne viene fuori invece una scenografia degna di certe filodrammatiche di provincia, quando si mettono in testa di recitare Shakespeare in abiti moderni. Dicono che Samarcanda è la città del dubbio, ma di dubbio a Samarcanda non si vede nemmeno l’ombra (anche per via di tutto quel nero): i suoi redattori-conduttori-intervistatori sono sempre convinti di aver ragione...»41. Ma Placido si sbaglia. Il conduttore Santoro, di nero-vestito 41 Beniamino Placido, C’è modo e modo di essere di sinistra, “la Repubblica”, 27 dicembre 1988)

­­­­­147

come un corsaro, spaventa moltissimo. Con la sua mollezza e la sua durezza, è uno spregiudicato, intelligente, furbissimo animale politico e televisivo. Uno che ha imparato il gusto della manovra e della provocazione alla scuola di Servire il Popolo e del Pci campano: alla “Voce della Campania”, il mensile del Pci che ha diretto e dove hanno esordito future firme importanti come Giuseppe D’Avanzo, non per niente lo chiamavano Santorkan. E ha tutte le carte in regola per rappresentare di fronte ai capi della Rai quello che Bossi è per il pentapartito: un alieno, un irregolare, un barbaro incontrollabile. Un outsider venuto dalle campagne del Sud, un Di Pietro dell’etere, arrivato dal nulla a far tremare i potenti. Perfetto, dunque, per interpretare il ruolo del Masaniello nella rivoluzione televisiva. Il 1992-93 non fonda una nuova Repubblica, ma di certo affonda la vecchia televisione. Fino a quel momento la politica in tv seguiva una formula immutabile nel corso dei decenni, come i volti che si alternavano di fronte alle telecamere, la liturgia delle tribune politiche della Rai, sempre la stessa dall’inizio degli anni Sessanta, quando i fatti di Genova e la caduta del governo Tambroni avevano spalancato gli studi televisivi al Pci e al suo leader Palmiro Togliatti. Una messa cantata, con il conduttore accigliato e imperturbabile come un vescovo, stile Jader Jacobelli, tutto compreso nel suo ruolo di arbitro, il segretario di turno al centro dell’altare ad officiare accompagnato dal suo portavoce, e i giornalisti intorno, divisi tra i devoti (molti) e gli eretici (pochi), ma uniti dalla stessa fede nella democrazia fondata sul sistema dei partiti e identici per linguaggio e costumi. Un modello così funzionale che le reti Fininvest lo avevano copiato tale e quale, schierando in conduzione il più curiale della scuderia, il vice-presidente Gianni Letta. In una trasmissione equivocamente titolata Italia Domanda. Perché di domande, da quelle parti, se ne sentivano davvero poche. E quanto all’Italia, meglio lasciar perdere. All’inizio degli anni Novanta quel sistema televisivo è già in crisi. Lo dimostra l’invasione dei politici nelle trasmissioni di intrattenimento e perfino sul palcoscenico del Bagaglino dove, però, in genere, sono serviti e riveriti, come annota Roberto D’Agostino: «I politici si precipitano e si intrufolano alle sfilate di Creme Caramel, tra le braccia giunoniche di Pamela Prati, perdono ­­­­­148

la testa e il testosterone, si emozionano esageratamente, sperando chissà quale trionfo che renda meno effimera e angosciosa la loro piccola popolarità». Serve qualcosa di nuovo. Nel periodo che precede Tangentopoli il piccolo schermo esplode. E si popola di piazze vocianti, fiaccolate, giovani indignati, politici minacciati, preti con il megafono, inviati circondati da operai rabbiosi, il fiato che congela nelle lunghe dirette invernali da qualche angolo dell’Italia che non ce la fa. E ancora: bidoni della spazzatura, Giuliano Ferrara che si rotola tra i rifiuti e le lische di pesce, simbolo di una politica da buttare, il neo-onorevole Vittorio Sgarbi che urla parolacce, mani che roteano, risse, mortadelle, carte igieniche, mutande. In una parola, la Realtà. Realtà pubblica, politica, non quella privata che sarà nel decennio successivo all’origine dei reality teorizzata dal direttore di Raitre Angelo Guglielmi, l’intellettuale comunista autore di programmi come Telefono giallo e Chi l’ha visto?. Ma è Santoro che mette in pratica l’intuizione, il primo a capire che è la televisione la leva di cambiamento, lo strumento che anticipa le inchieste della magistratura. E Samarcanda non si limita a rappresentare la realtà, punta a crearla. Dà voce alla rivolta, anzi, la sollecita. Come la sera dell’omicidio di Salvo Lima, quando Santoro si collega con Palermo e chiede alla piazza: «Siete contenti che hanno ammazzato Lima?», scatenando l’orrore del quotidiano della Dc “Il Popolo”: «una trasmissione disgustosa, priva di ogni capacità raziocinante, tesa a dimostrare l’indimostrabile. Il Robespierre dei nostri schermi televisivi voleva innalzare la ghigliottina a due passi dal feretro». Segue la chiusura ad opera del direttore generale della Rai Gianni Pasquarelli, il primo di una serie infinita di amministratori di viale Mazzini che provano a catturare l’inafferrabile Moby Dick Santoro. Il Santorismo, allo stato nascente, presenta già tutti gli stilemi della narrazione futura: il conduttore che vuole andare in onda a tutti i costi e al quale è impedito di parlare, con il contorno di contratti che scadono e che vanno rinegoziati, i politici che si intromettono, l’azienda Rai che ragiona secondo logiche partitiche, Santoro che chiama il popolo a decidere cosa deve fare... «Se ci chiudono sarà il nostro trionfo», annuncia a Giampaolo Pansa, e siamo solo nel 1991, quando nessun editto bulgaro è ancora ­­­­­149

immaginabile. Perché quello che Santoro intuisce è che nel 1898 le rivolte si combattevano con le occupazioni e con le file per il pane e venivano soffocate a colpi di arresti e di cannonate, anche se già all’epoca l’informazione era il terreno dello scontro su cui si combatteva la battaglia: «Mettiamo che l’insurrezione è vinta dappertutto. Non voglio che domani mattina il “Corriere” da Milano porti alle province notizie che incoraggino la Rivoluzione», ordina al suo caporedattore il primo direttore del “Corriere” Eugenio Torelli Viollier. Quasi un secolo dopo, alla fine del Novecento, gli eserciti non si muovono più per le strade (o quasi), bensì sono le piazze virtuali a mettere in scena il conflitto che nella realtà è stato cancellato42. La repressione si muoverà sui palinsesti da riscrivere, le trasmissioni da ammorbidire o da cancellare, lo scontro è interamente sul piano simbolico, per conquistare l’immaginario. E in questo campo Santoro non ha rivali. Almeno a sinistra. «Non è Samarcanda che processa i politici: è la società che li mette sotto processo. Samarcanda non fa che riprodurre la società», si difende il giornalista con chi lo accusa di voler trasformare una trasmissione televisiva nel processo pasoliniano a una classe dirigente. Sì, ma quale società? Il vuoto occupato da Samarcanda è il prodotto di una lunga incubazione, di dieci anni di addormentamento, il cui segno più evidente sono state le piazze deserte. L’ultima volta, per paradosso, fu il corteo dei quarantamila a Torino nel 1980 che chiuse con il decennio precedente, le manifestazioni, gli scioperi, i cortei, le occupazioni. E i funerali di Enrico Berlinguer nel 1984, con la piazza San Giovanni gremita dalle bandiere rosse, dalla folla accorsa non solo a dare l’addio a un leader amato, ma perché intuiva che un’idea di politica scompariva con lui. Poi il nulla. Torneranno le piazze, dieci anni dopo, il 25 aprile 1994 con la manifestazione anti-fascista di Milano, sotto una pioggia battente. E poi gli scioperi generali di quell’anno a ridosso della crisi del primo governo Berlusconi, con Santoro applauditissimo in mezzo al corteo. E seguiranno negli anni successivi il G8 di Genova 2001, i girotondi, il raduno della Cgil al Circo Massimo, il popolo Arcobaleno che sfila contro l’intervento americano in Iraq. Il ritorno della piazza come luogo centrale della lotta politica è riscoperto 42

Mario Isnenghi, L’Italia in piazza, Il Mulino, Bologna 2004, p. 144.

­­­­­150

anche dalla destra leghista e berlusconiana, con le marce del dio Po, i no tax day, le manifestazioni contro l’euro, la piazza cattolica del Family Day. Ma il 1992-93, il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, scivola via senza grandi manifestazioni. Nessuno prova a chiamare i suoi militanti in corteo: non il Pds, diviso al suo interno, meno che mai ci provano gli agonizzanti partiti di governo a organizzare una piazza in loro difesa. Perfino la Lega e il Msi sfuggono alla prova di piazza e si rifugiano in meno impegnative fiaccolate, nonostante l’evocazione per Bossi di una seconda marcia su Roma a settant’anni dalla precedente e una sfilata del Msi per festeggiare la ricorrenza, finita sotto il balcone di piazza Venezia al grido di «Dei ladri di regime non ne possiamo più, chiudiamo via del Corso e piazza del Gesù» e «Duce-Duce!». Un’uscita che entusiasma il segretario Gianfranco Fini: «La grandiosa manifestazione di Roma ha colpito nel segno». Il 1992 è una rivoluzione senza presa del Palazzo d’Inverno, una rivoluzione senza piazza. Forse perché, questa volta, la maggioranza silenziosa, quella che non protesta e che non marcia, è schierata dalla parte del cambiamento e si esprime con il voto che in pochi mesi cancella partiti storici come la Dc, il Psi, il Pri, il Psdi, i liberali. Forse perché la stessa maggioranza silenziosa per decenni ha sostenuto il Sistema che sta crollando e preferisce restare a guardare, dopo aver fatto finta di non vedere e aver partecipato all’allegra redistribuzione degli utili. Forse perché, in questo silenzio, in questa mancanza di partecipazione popolare, il 1992 si rivela genuinamente per quello che è: una lunga, drammatica coda degli anni Ottanta più che l’alba di una stagione nuova. Non si scende in piazza: al massimo, tra qualche mese, si scenderà in campo. Oppure si va in tv. Ma lì, quasi sempre, non c’è un popolo che aspetta di essere mobilitato o che ha preso in mano il suo destino. C’è una curva passiva, il tifo da stadio senza identità, tenuto insieme dalla rabbia. Ci sono, scrive lo storico Mario Isnenghi, «conduttori che hanno fatto il ’68, personaggi disponibili a fare i galli da combattimento della parola e del gesto, folle esacerbate e commosse»43. C’è la Gente. 43

Ivi, p. 456.

­­­­­151

«La gente in tv l’ha inventata Funari, non Santoro», si vanta parlando di sé in terza persona il sor Gianfranco. Non è Santoro l’unico paladino del popolo televisivo di quell’estate 1992, in effetti. “L’Espresso” affida a Lietta Tornabuoni un’inchiesta sui nuovi eroi capaci di fiutare gli umori popolari. «Sono quasi tutti uomini-contro», annota la Tornabuoni, «e sono quasi tutti uomini-media: capaci di comunicare con la gente, di parlare con semplicità o con virulenza, di colpire l’immaginazione o di provocare identificazione». Ci sono la vedova dell’agente Schifani morto nella strage di Capaci, Maria Rosaria, e il giudice Antonino Caponnetto, il sindacalista della Cgil Bruno Trentin e il presidente Scalfaro, il pm Antonio Di Pietro e Mario Segni, Michele Serra e il leghista Gianfranco Miglio e il delfino socialista Claudio Martelli, ma sono totalmente assenti Occhetto, D’Alema, Veltroni, i leader della svolta dal Pci al Pds, a conferma della totale irrilevanza del maggiore partito di opposizione nella stagione del cambiamento. Ci sono, naturalmente, Santoro e Funari. Santoro è «il portaparola sentimental-popolare di una sinistra sbandata». E Funari è «il portavoce della galassia piccolo-borghese, il suo uomo di fiducia. Un demagogo elettronico». Il demagogo Funari incrocia più volte il destino del capopartito Santoro. Come Michele, anche Gianfranco viene isolato in Rai e in Fininvest, conosce gli attacchi di Dc e Psi, viene accusato di essere di sinistra, anzi, leghista, anzi no, qualunquista. E non importa che quest’ultimo sia stato in gioventù pugile, piazzista di acque minerali e croupier in Asia, mentre Santoro si scontrava con i compagni su Cina e Unione Sovietica. Perché è proprio l’incredibile rimescolamento di appartenenze politiche, linguaggi, stili di vita, pubblico, forse l’effetto più visibile di Tangentopoli, ad accostare due figure così diverse e a trasformare i tele-predicatori Santoro e Funari nei profeti della Seconda Repubblica, quella televisiva, almeno. È Carlo Freccero, il geniale direttore di Italia Uno, a portare Funari in Fininvest dopo la rottura del conduttore con la Raidue socialista provocata da un veto del direttore Giampaolo Sodano sull’invito al segretario del Pri Giorgio La Malfa. Funari ha dunque già addosso le stigmate dell’epurato quando sbarca nella fascia di mezzogiorno di Italia Uno, trasferendo in politica il format già sperimentato con successo negli anni precedenti in A bocca aperta, quando il conduttore invitava gli spettatori a schierarsi su un ­­­­­152

tema di attualità. Il momento è buono, Funari è lì pronto a coglierlo: «L’aria nel Paese stava cambiando, serpeggiava il malcontento della gente nei confronti della classe politica, Tangentopoli era alle porte. E io lo avevo capito perché ho sempre ascoltato le persone»44. La formula di Mezzogiorno italiano è semplice: arrivo del politico sulle note della colonna sonora di Rocky e in compagnia di una stangona che lo sovrasta, applauso del pubblico, risposta alle telefonate da casa. Non c’è l’arena di Santoro, non ci sono collegamenti esterni e piazze inferocite. In compenso, però, ci sono le domande a sorpresa («’na mignottata», nel linguaggio funariano), i rimbrotti («vojo solo cercà de capì...»), la mamma in diretta (chiama la signora Ellade, la madre di Martelli, e rivela che il suo Claudio non la chiama mai, suscitando l’indignazione di Funari: «Ministro, ma come si fa? Ma se po’?»), le torte di compleanno (per Achille Occhetto e per Leoluca Orlando), gli ospiti imprevisti (il transfuga della Lega Castellazzi per Bossi che abbandona infuriato lo studio), le mutande (quelle di Funari: «Li ricevevo così i politici in camerino prima della diretta: ci tenevo a mostrare che le mie erano linde e fresche di bucato»), il water su cui il conduttore usa leggere i giornali. E la mortadella, «quella che mia madre non poteva comprarmi», da mettere in bocca ai potenti, da impartire come un’ostia. E i politici lì, tutti compresi in questa sorta di cammino di purificazione, per loro la passeggiata nello studio di Funari è una via crucis, un pellegrinaggio penitenziale, l’espiazione per essersi comportati male, con la promessa di non farlo più. Nelle tribune politiche il potere veniva sacralizzato. Qui, con un morso di salume, scende dal trono, si abbassa al livello della gente comune, si inchina, si svuota. Il «più britannico» dei leader politici si intrattiene nel corso di Mezzogiorno italiano col più rustico dei conduttori televisivi, illustra il suo «decalogo» per il «partito degli onesti», scherza con una casalinga di Brescia. Giorgio La Malfa, evidentemente, sta facendo politica e la fa in una maniera che ritiene efficace: ovvero attraverso il mezzo televisivo e il linguaggio televisivo. Quel mezzo e quel linguaggio costituiscono, oggi, la più diffusa forma di comunicazione politica e con44

Gianfranco Funari, Il potere in mutande, Rizzoli, Milano 2009, p. 71.

­­­­­153

tribuiscono all’affermarsi di una tendenza populista nel nostro Paese. Da qui la tendenza che enfatizza la figura del leader – e trascura quella del partito – per esaltare il confronto personalizzato con figure avversarie. Da qui la circolazione, come mai in passato, di virtù fragranti di sapori domestici (onestà, mani pulite, rettitudine...). [...] È questo il tratto qualificante del neo-populismo. È questo che porta La Malfa negli studi di Funari: per uscire dal centro delle istituzioni politiche, dove ha vissuto per quarant’anni, il Pri deve rivolgersi alla gente, deve richiamarsi a valori elementari (onestà) e accattivanti (rigore), deve ricorrere a un linguaggio «impolitico» e conviviale. A mezzodì dei giorni feriali. Prima della pubblicità delle scarpe Valleverde (Luigi Manconi, Populismo e Videocrazia, “La Stampa”, 25 novembre 1991).

In vista del voto del 5 aprile il fenomeno Funari dilaga, quasi 3 milioni di italiani si sintonizzano sul suo programma Conto alla rovescia, mentre il povero Letta a Italia Domanda ospita il ministro delle Poste Carlo Vizzini, che dovrà firmare le concessioni televisive per il gruppo Fininvest, fa del suo meglio per incensarlo («ecco l’uomo che porta le Poste italiane nell’Europa del Duemila!», cinguetta) e fatica a interessare 578mila telespettatori, una platea di pochi intimi. Da Letta sfilano i segretari, i volti del potere in caduta, i Forlani e i Craxi, da Funari sgomitano per assaggiare la mortadella gli homines novi, Occhetto e Martelli, Segni e Fini, Bossi e La Malfa. Una volta si accomoda di fronte alle casalinghe perfino il professor Ernesto Galli della Loggia, candidato per la lista dei referendari. Il più apprezzato è il giovane consigliere comunale milanese Giovanni Colombo, candidato della Rete, che sfiora il dieci e lode nelle pagelle del pubblico. Il più inviso, il ministro delle Finanze Rino Formica, bocciato senza appello. Il vero vincitore delle elezioni (oltre al Senatur), è stato Funari. Ha polverizzato le tribune politiche, e ha rivalutato l’efficienza del vernacolo. Nel titolo del suo programma: Conto alla rovescia, c’era già qualcosa che sapeva di annuncio. Aveva scandalizzato il pubblico spiegando come il minestrone agiva su di lui con un effetto liberatorio, lo ha conquistato dimostrando come si possono ridurre a proporzioni umane gli onorevoli. Senza ironia: molto più franco, libero e convincente dei cerimonieri in servizio permanente (Enzo Biagi, I cittadini chiedono che si cambi il gioco, non le regole, “Corriere della Sera”, 9 aprile 1992). ­­­­­154

Un po’ giornalaio, come si auto-definisce il conduttore, un po’ Howard Beale, il predicatore televisivo del film di Sidney Lumet Quinto potere che grida «sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più», Funari comincia a dare fastidio. Durante la trasmissione vanno in onda due spot. In uno compare il giudice di Mani Pulite sotto la scritta: «Vai avanti Di Pietro!». Nel secondo ci sono le immagini della strage di Capaci e una domanda: «Perché?». I socialisti spingono su Berlusconi perché il programma sia chiuso. Chiamano anche i democristiani. Prima salta Freccero dalla direzione di Italia Uno. Poi, in estate, tocca a lui. Anche perché per il Cavaliere ci sono ancora in ballo le concessioni per la messa in onda delle sue tre reti televisive, l’ultimo regalo che deve ottenere dai partiti. In vista dell’appuntamento Berlusconi si innervosisce, chiama Funari, gli raccomanda di abbassare il tiro sui socialisti («volentieri», la risposta, «così je posso sparà nei cojoni»), gli consiglia di occuparsi di cronaca rosa, dato che si va verso il caldo. E infine il 19 luglio, il giorno del massacro di Borsellino e della sua scorta, dopo un duro scambio di fax con Arcore, la Fininvest sospende la trasmissione. La ragion politica, in casa Berlusconi, in quel momento vale più degli sponsor, degli ascolti, delle leggi del mercato. «C’erano alcune compatibilità da rispettare», riconoscerà il Cavaliere, ma siamo ormai nel settembre 1993. «Non era una novità che io in quanto editore fossi schiavo del Principe». Un’ammissione che serve al Cavaliere per annunciare la buona novella, che Funari torna in Fininvest. Quel Principe che soffocava l’uomo di Arcore con le sue pressioni e che poteva cancellare le reti del Biscione con un tratto di penna non c’è più, è stato buttato giù. Il trono del potere è vacante, grazie anche a Funari. E Conto alla rovescia non è più solo il titolo della trasmissione pre-elettorale del Giornalaio: è un programma di azione per il Cavaliere che prepara lo start dell’ingresso in politica. «È stata un’altra giornata intensa per Tangentopoli, con nuovi arresti, interrogatori, polemiche clamorose e coinvolgimenti di altri personaggi eccellenti». Il 24 febbraio 1993, una giornata qualunque nella tempesta Mani Pulite, il direttore del Tg5, il 38enne Enrico Mentana, spara a raffica il sommario della serata. E gli aggettivi non sono scelti a caso. Secondo una ricerca di quel periodo Mentana usa la parola «clamoroso» 54 volte in un mese, battuta ­­­­­155

solo da «polemica» (61 volte). Clamorosi gli arresti. Clamorosi gli sviluppi (delle inchieste). Clamorose le reazioni (suscitate dagli arresti, dalle inchieste, dagli sviluppi delle inchieste). Un martellamento che funziona: in quel mese, dopo appena un anno di vita, il corsaro Tg5 batte regolarmente l’ammiraglia della Rai, il Tg1 diretto dal gentiluomo Albino Longhi dopo le (clamorose, direbbe Mentana) dimissioni di Bruno Vespa. E vai con le macchine che sgommano, gli ammanettati che entrano ed escono dal portone di San Vittore con la sporta in mano, l’inviato Andrea Pamparana onnipresente alle spalle dei giudici del pool, Di Pietro con un filo di barba che passeggia davanti al suo ufficio, l’ansiogena sigla del tg sparata nelle case che aggiorna su arresti, inchieste e sviluppi. «In cella a San Vittore, tra le 7 e le 8 del mattino guardavo il Tg5 e vedevo il mio nome dappertutto», racconterà nel 2000 Mario Chiesa a Stefano Zurlo del “Giornale”. «La musichetta del Tg5 è il mio incubo da otto anni». E dire che, «se non sbaglio la notizia dell’arresto di Mario Chiesa venne bucata dal Tg5», allude maliziosamente l’epurato dal Tg1 Bruno Vespa. In realtà, la sera dell’arresto di Chiesa Mentana dimentica di indicare il partito di appartenenza del presidente del Pio Albergo Trivulzio. Eppure il direttore del Tg5 conosce molto bene, e dall’interno, il Psi di Craxi e del suo amico Claudio Martelli. Ma è un errore da cui si riprenderà presto. Ha già cancellato la politica romana e il suo modo di presentarsi ai telespettatori della prima serata, il pastone di Orefice, le interviste per iniziati, la sfilata delle facce secondo le regole del manuale Cencelli del minutaggio da spartire tra maggioranza e opposizione. E ha la fortuna di lanciare il suo tg senza politici mentre i vecchi partiti spariscono davvero. Se Santoro incarna la tv che stringe d’assedio il Palazzo e Funari è il tribuno del popolo, Mentana è il timoniere del tg della Gente. Il suo pubblico è formato da adolescenti, famiglie giovani, lavoratori autonomi del Nord, i ceti emergenti, i settori dinamici della società, più o meno lo stesso cui si rivolgerà dopo l’ingresso in politica Silvio Berlusconi. E Mani Pulite è la benzina nel motore del suo giornale: nel mese febbraio-marzo 1993, politicamente il più devastante dell’inchiesta, il tg di Mentana le dedica 61 notizie contro le 27 del Tg1, 61 agli avvisi di garanzia e di custodia cautelare contro le 21 del tg Rai, 29 agli arresti contro le 12 del concorrente. ­­­­­156

Secondo lo studio Frasi di Milano, il 38 per cento dello spazio del tg nell’edizione delle ore 20 è dedicato alle inchieste di Milano, il 18 per cento alla cronaca, appena un quinto dello spazio va alla politica. Nel linguaggio abbondano le metafore ispirate alle catastrofi naturali: bufere, cicloni, raffiche, tempeste, nubi, valanghe, uragani. E se c’è il colpo di coda dell’inverno Mentana non si spaventa: «Un ciclone ha investito la Fiat più o meno come il ciclone che si sta abbattendo su Milano, con pioggia e vento»45. Mentana-Mitraglia, come lo ha ribattezzato Giampaolo Pansa, «portatore dell’imperativo categorico berlusconiano: correre, obbedire, combattere», si trova a suo agio con la velocità: «L’Italia è in guerra, durante i conflitti si leggono i bollettini con le ultime notizie sulle battaglie e i morti. Non c’è tempo per fermarsi e riflettere». E man mano che la guerra avanza e che il fronte dei partiti indietreggia verso la Caporetto, il generale Mentana reclama maggiore spazio per l’informazione targata Berlusconi. Il suo tg, nato nel 1992 come conseguenza della legge Mammì, ora può finalmente volare: «Non c’è più la spada di Damocle delle mancate concessioni, si può finalmente ballar bene davvero», avverte alla fine dell’anno, mentre su Craxi cominciano a grandinare gli avvisi di garanzia. «Metteremo le mani nelle grane interne ai partiti, che finora abbiamo trattato a volo d’uccello. Via libera ai commentatori di qualsiasi parte, purché la sappiano dir chiara e non siano paludati. E ben vengano, sul video, confronti e palleggi di idee, anche sull’economia: per esempio, si devono pagare o no le tasse?». Un esempio forse non del tutto casuale, dato che in quell’autunno-inverno la rivolta fiscale è la bandiera della Lega contro i partiti di Roma ladrona. E soprattutto sarà il grido di lotta con cui si prepara all’avventura politica l’editore di Mentana, il cavalier Berlusconi. Alla testa del Partito della Gente. Clamoroso, strillerà il Tg5. Cos’è poi uscito, venerdì sera, dal bidone della spazzatura in cui da giorni andava rovistando Giuliano Ferrara? Parolacce, parolacce, parolacce, facce illividite, vene del collo dilatate, «sceeemosceeemo», sputacchiamenti involontari; un onorevole Bossi molto veloce di lin45

Carlo Gallucci, Se lo dico io è clamoroso, “l’Espresso”, 11 aprile 1991.

­­­­­157

gua pure nel rivolgersi al suo ospite («Lei, Ferrara, che è socialista...»); un onorevole Sgarbi in crescendo («coglioni! coglioni! coglioni!»); due ministri (alle Finanze, onorevole Goria; alla Sanità, onorevole De Lorenzo) risentiti; un parlamentare siciliano del Pds, onorevole Francesco Aiello, scalmanato; i cittadini di Vittoria, provincia di Siracusa, che furono protagonisti d’una rivolta fiscale (vittoriosa) contro la legge sul condono edilizio; i militanti della Lega Nord di Milano, che incitano gli italiani a non investire in Bot; e un’intervista al presidente del Consiglio Giuliano Amato. A L’istruttoria, chi può, parla così: «Non s’incazzi signor ministro» (l’onorevole Aiello all’onorevole De Lorenzo); «Vada a fare il buffone dove sta» (l’onorevole De Lorenzo all’onorevole Aiello); «Ma vaffanculo» (l’onorevole Aiello all’onorevole De Lorenzo); «Lei è un totale cretino» (l’onorevole Sgarbi all’onorevole Aiello»); «Perché s’incazza?» (l’onorevole Aiello all’onorevole Sgarbi); «M’incazzo perché lei dice cazzate» (l’on. Sgarbi all’on. Aiello); «Sono speculatori e mafiosi» (l’on. Sgarbi ai cittadini di Vittoria); «Sceemo sceemo» (i cittadini di Vittoria all’on. Sgarbi); «Coglioni» (ripetuto a oltranza dall’on. Sgarbi all’indirizzo dei vittoriesi); «Bisogna capire che l’Italia è lunga e stretta» (l’onorevole Goria, più pacato). Il conduttore Giuliano Ferrara sventola a più riprese la bandiera italiana, e chiude la trasmissione: «Questa è tv spazzatura, questo è anche un po’ il nostro Paese». Bandiera, viva l’Italia, titoli di coda. Stabilito un nuovo record d’ascolto, con due milioni e mezzo di telespettatori rimasti in poltrona fino all’1 di notte (Stefania Miretti, Nel bidone onorevoli & parolacce, “La Stampa”, 11 ottobre 1992).

«Io non credo alla gente, alla piazza. Penso anzi che siano tra le più grandi menzogne possibili. A me succede di frequente di trovarmi in conflitto con le mie platee: spesso do del furbo ai miei ospiti», spiega Gad Lerner, l’anti-Santoro e l’anti-Funari di Raitre, tutto scatto nervoso, domande e dubbi sparsi a piene mani, conduttore di Milano, Italia, dopo aver scandagliato, primo fra tutti in televisione, la rivolta del Nord incarnata dalla Lega. L’indagine prosegue, sul palco di Lerner sfilano gli inquisiti, i corrotti, i reduci da San Vittore come l’ex dc Roberto Mongini e quelli che a San Vittore finiranno qualche ora dopo come il segretario del Psi lombardo Andrea Parini. E si indaga sulla zona grigia, quella che sta tra il bene e il male. «Lerner lotta strenuamente per spiegare in pratica, in corpore vili, ogni santissima sera, in mesi terribili, la differenza che passa fra una ­­­­­158

opinione pubblica severa mobilitata e vigile e una distruttiva ferocia di folla», scrive Luciano Cafagna46. Nella prima puntata di Milano, Italia, giugno 1992, mentre Craxi perde per sempre l’obiettivo di tornare a Palazzo Chigi, il teatro Litta di Milano è colmo di magistrati, avvocati, studenti, magliette con la scritta «Milano ladrona Di Pietro non perdona» e palloncini («Di Pietro siamo noi»). Sul palcoscenico sono raffigurati i dati degli arresti (26 imprenditori, 24 politici, 11 parlamentari inquisiti...), ma anche il titolo della puntata, L’Italia salvata dai magistrati?, dove la novità sta nel punto interrogativo, grande così. Dubbi, non certezze. No, non devono essere i magistrati a salvare il Paese, risponde Gerardo Chiaromonte, anziano senatore dell’area migliorista del Pds, la più ferita dalle indagini di Milano, vecchio signore garantista, già presidente della Commissione Antimafia. I magistrati come Di Pietro, attacca Chiaromonte, sbagliano a frequentare i convegni e le trasmissioni televisive, devono essere sobri, i partiti devono riformarsi da soli, senza opere di pulizia esterne. Qualche giorno prima il segretario del Pds Occhetto ha fatto la scelta opposta: è andato a Samarcanda, nello studio di Santoro, ad annunciare la svolta della Quercia sulla questione morale, la «seconda Bolognina»: «Domani proporrò di trasformare il Pds in un partito leggero, un partito-movimento, fondato sulla testimonianza, sul volontariato, sulla militanza, contro quel nucleo del partito che è rimasto coinvolto nell’affarismo e negli illeciti». E poi, porgendo le palme aperte davanti alle telecamere: «Io ho le mani pulite e chiedo conto a quei compagni di Milano che sono andati sulla linea diversa da quella che avevamo indicato con la svolta. Vado alla Bolognina per dire che non basta cambiare nome e simbolo, bisogna cambiare anche il partito». Dichiarazioni che non piacciono a gran parte dell’apparato: «Un partito leggero? Che cominci lui a sfoltire a Botteghe Oscure», replicano nella federazione bolognese. Ma l’Occhetto della seconda Bolognina è molto più radicale di quello della prima. Nel 1989 c’erano la Cosa e il nome della Cosa, oggi, dopo Mani Pulite, urla il segretario del Pds, bisogna cambiare tutto. Basta, 46

Luciano Cafagna, La grande slavina cit., p. 190.

­­­­­159

grida Occhetto, con i dirigenti «espressione di una nomenklatura separata, di un apparato impenetrabile, di un potere estraneo», basta con «il partito-macchina di cui i militanti sono semplici rotelle, variabili dipendenti, funzioni accessorie». E basta anche con «la nobile illusione storica del Pci: che il codice morale del partito fosse di un rango etico superiore a quella del singolo cittadino». Non è più sufficiente «autolegittimarsi come partito dalle mani pulite», bisogna sbaraccare il vecchio modello di partito leninista, la ditta che è rimasta tale e quale a prima della svolta cambiando solo insegna, serve una «rivoluzione culturale». È l’eco dello scontro interno che dopo il congresso di Rimini divide Occhetto da Massimo D’Alema: perché il numero due del partito, in quei mesi, prepara i capi di imputazione del futuro processo al padre della svolta. Eccesso di movimentismo. Debolezza culturale. Nuovismo. Rincorsa dei giudici, delle piazze e, naturalmente, dei giornali e delle televisioni. «I giornali ormai sono un problema in Italia, come la corruzione»47, arriva a dire il futuro presidente del Consiglio che sta scalando il vertice di Botteghe Oscure. E la televisione? «Anche qui si tocca un tasto dolente», risponde D’Alema a Chiara Valentini che lo intervista per “l’Espresso”. «C’è un delirio di onnipotenza dei giustizieri della tv urlata, da Giuliano Ferrara fino al mio amico Michele Santoro, che mi preoccupa. L’idea che con la tv si riparano le ingiustizie è inquietante. È ora che i giornalisti ritrovino il proprio ruolo»48. Per D’Alema è solo l’anticipo di una lunga stagione di guerre con il quarto potere, giornalisti, direttori ed editori, che lo porteranno ad affermare che «lasciare i giornali in edicola è un atto di civiltà». Ma qui si mettono le basi di uno scontro a sinistra che durerà oltre vent’anni. Tra innovatori e conservatori. Tra i sostenitori del partito leggero e i nostalgici del partito pesante. Tra chi sogna una sinistra alla guida del cambiamento e chi ha subito la svolta del Pci come un passo necessario per continuare a fare politica. Il partito-carovana e il partito-caserma. Il partito dell’accelerazione e il partito della resistenza, della restaurazione. Ma quel che più 47 Federico Geremicca, La guerra dei quattro partiti, “la Repubblica”, 12 novembre 1992. 48 Massimo D’Alema, Fate i giornalisti, non i giustizieri, intervista di Chiara Valentini, “l’Espresso”, 16 maggio 1993.

­­­­­160

interessa è che lo scontro parte da un’esternazione televisiva. L’annuncio della seconda Bolognina di Occhetto trova in televisione una sua rappresentazione e una sua dialettica, la sinistra con il punto interrogativo e quella con il punto esclamativo, entrambe destinate alla sconfitta. Perché il partito-leggero non nascerà mai, per la debolezza di chi lo propone. E quello pesante, senza rapporti con la società, è già all’epoca «tecnicamente obsoleto», per usare l’espressione con cui nel 1994 D’Alema dichiarerà chiusa la segreteria di Occhetto. Figuriamoci nel ventennio successivo. In questo campo abbandonato dai partiti della sinistra tradizionale, resta la televisione come rappresentanza del conflitto e promozione della leadership, i compiti che la politologia classica di inizio Novecento ha assegnato ai partiti. È da Santoro, nel confronto con la piazza convocata dal giornalista «rosso e nero» che nascono, si affermano, e a volte muoiono, i nuovi leader: Mario Segni, Francesco Rutelli, Leoluca Orlando, Antonio Bassolino, ma anche il segretario del Msi Gianfranco Fini, sdoganato dalle telepiazze santoriane prima che dai cieli azzurri di Forza Italia. Nel deserto provocato da Tangentopoli la tv si sostituisce alla sinistra. Costringe la sinistra ad inseguirla, a usare il suo linguaggio, la sua visione del mondo. Samarcanda, prima della Fininvest di Berlusconi, è la televisione che si fa partito. Il vero partito che non c’è. «I partiti tradizionali guardavano con fastidio alle nostre piazze. Più andavamo avanti più battevano la testa contro il muro della politica nelle sue forme attuali», ammette lo stesso Santoro49. «Non c’erano leader validi, quindi spettava a noi costruire uno sbocco politico alla protesta». Il partito che non c’è, la trasmissione ideata con Scalfari prima delle elezioni del 1992, «fece ancora più risaltare la povertà dei politici ai quali era destinata. Tutti avevano un partitino da salvare, in quanto a Occhetto era prigioniero di una federazione di partitini, in lotta per sopravvivere. Così, quando il voto del 5 aprile portò più conferme che smentite al partito che non c’è, non si mosse foglia, ma arrivò Tangentopoli a dare il colpo finale». Per il futuro, dunque, il Santoro dell’estate 1992 propone un nuovo Cln, «forze di destra e di sinistra, naturalmen49

Michele Santoro, Il partito di Samarcanda, “Micromega”, n. 3, 1992.

­­­­­161

te, una nuova leva di politici che sappia unirsi per far pulizia». E anche in questo caso, più che da giornalista, parla da leader. Il partito di Samarcanda nei due decenni successivi dimostrerà di saper condizionare in profondità il campo della sinistra. Ma l’egemonia di Santoro è dimostrata soprattutto dall’impegno profuso nel campo avverso da Berlusconi: un alternarsi di lusinghe e minacce, tentativi di disinnescare il nemico e di schiacciarlo allontanandolo per sempre dal piccolo schermo. «Fininvest non ha descritto l’Italia, ha inventato un’Italia virtuale, un modello-paese definitivamente descrivibile da un qualunque ufficio-vendite: c’è l’azienda, c’è l’agenzia di pubblicità, c’è la famiglia che compra. Punto e basta. Che gliene frega, a Berlusconi, dei ragazzi meridionali incazzati, delle vedove di mafia, dell’associazionismo militante e vindice che ha fatto la fortuna di Santoro e di Samarcanda?», si rivolta Michele Serra già nel 1993. Ma forse tra il mondo incantato di Silvio e la città indignata di Michele i punti di contatto sono più numerosi di quel che appare. Nel 1991 Berlusconi riceve Santoro ad Arcore, evento paragonabile all’incontro della primavera 1994, quando nello studio romano dell’avvocato Cesare Previti Berlusconi prova a convincere il pm Di Pietro a entrare nel suo primo governo come ministro dell’Interno. «Scusi se le faccio questa domanda, lei è comunista?», si informa a un certo punto il Cavaliere. «È difficile rispondere», replica Santoro. «Forse, dal suo punto di vista, io sono comunista. Da quello di coloro che lei considera comunisti, invece, non lo sono per niente». Nel 2011 Santoro lascia la Rai e comincia una sua personalissima sfida, il tentativo di fare una tv da solo. Ricomincia da capo, appellandosi al pubblico con un videomessaggio, come se si trattasse di lanciare un movimento, e non una trasmissione. In mezzo ci sono stati vent’anni di telefonate in diretta, avvicinamenti, come quando Santoro approda per poco alle reti Fininvest, con Berlusconi all’opposizione e allontanamenti di immediata esecuzione, come l’esternazione di Sofia con cui il Cavaliere tornato al governo ordina alla Rai di non far più lavorare Santoro (insieme a Enzo Biagi e al comico Luttazzi). E l’elezione di Santoro al Parlamento europeo con l’Ulivo. E il reintegro alla Rai con una sentenza del tribunale. E il premier di Arcore che butta giù dal letto i suoi sottoposti, direttori generali, consiglieri di amministrazione Rai, ­­­­­162

il membro delle authority sulle comunicazioni Giancarlo Innocenzi: «Ma lo sta vedendo Santoro? Una cosa indegna!». «Che cosa state a fare tutti quanti? Siete uno schifo, una barzelletta!». È Santoro il vero capo dell’opposizione, l’unico che Berlusconi riconosce, il solo che Berlusconi teme. Vent’anni di inseguimento, Achab e Moby Dick, in cui i due nemici si danno la caccia odiandosi, abbracciandosi, in fondo assomigliandosi, nel rapporto passionale con il pubblico, nella capacità di dare forma, culturale, politica, estetica ai rispettivi popoli di riferimento, nella scommessa che lo scontro è sul terreno dell’immaginario, è lì che si vince o si perde. E anche perché dal partito della Piazza al partito della Gente il passo è breve. Così come è breve il cammino da una rigorosa, dolorosa auto-critica a una festante auto-assoluzione collettiva. Più di una volta, in questi giorni, mi sono stupito della mia mancanza d’entusiasmo per quanto sta avvenendo a Milano o, meglio, nel Palazzo di Giustizia di Milano. In città c’è chi inalbera striscioni, chi organizza fiaccolate a sostegno del giudice Di Pietro; e io sento che fanno bene. Eppure, lo confesso, non riesco a partecipare al giubilo generale: e non tanto, credo, perché nella comprensibile eccitazione e nella sacrosanta soddisfazione per l’«arrivano i nostri» dell’onestà, della legalità e della punizione dei reprobi non può non insinuarsi [...] un po’ d’ansia o addirittura di sgomento al pensiero di quanto potrà avvenire, a Milano e nell’intero Paese, se l’inchiesta andrà davvero sino in fondo come è, beninteso, auspicabile e necessario. No, non è questo [...]. A vietarmi l’entusiasmo è un altro pensiero, sordo e ostinato e odioso come certi dolori, che con qualche semplificazione si potrebbe tradurre in questa domanda: e noi, nel frattempo, dove eravamo? (Giovanni Raboni, Ma noi dove eravamo?, “Corriere della Sera”, 15 maggio 1992).

Dalla demo-tv alla telecrazia

«Ho capito che Berlusconi sarebbe entrato in politica e avrebbe vinto quando un giorno all’inizio degli anni Novanta, di ritorno da Parigi a Milano, insieme a Angelo Codignoni di La Cinq andiamo a vedere il Milan. Quando arriviamo c’è Berlusconi in tribuna, lui si alza in piedi e saluta, tutto lo stadio a quel punto lo acclama. Un boato, tutti gridano ‘Silvio-Silvio’. È l’immagine che mi resterà per sempre nella memoria di Berlusconi padrone d’Italia». Per anni diretto collaboratore del Cavaliere, in Fininvest e come direttore di La Cinq in Francia, inventore di programmi e di innovazioni televisive, accusato nel 2001 da direttore di Raidue di aver guidato un complotto mediatico anti-berlusconiano condotto a colpi di comici, satirici e serate di Santoro, Carlo Freccero è l’intellettuale prestato alla televisione che negli anni Novanta, da direttore di Italia Uno, anticipa in tv lo smantellamento dei vecchi linguaggi, l’irruzione negli studi e nelle case di nuovi personaggi, la contaminazione dei generi. Il giornalista politico che fa il giullare e cavalca la trash-tv e il conduttore popolare che si trasforma in pensatore apocalittico e di denuncia. Giuliano Ferrara nel bidone dell’immondizia per la sua trasmissione L’istruttoria e accanto alla moglie Anselma per le Lezioni d’amore in prima serata che vengono annullate. E Gianfranco Funari, il «sor Gianfranco», che passa dalle risse sui fenomeni di costume in prima serata alla politica per il pubblico dell’ora di pranzo. Formidabili quegli anni, un periodo di sperimentazione televisiva e di creatività, la televisione che anticipa la rivoluzione di Mani Pulite, la scomparsa dei vecchi partiti, con la regia di Freccero, «una specie in sé rara di persona libera», lo definisce in quel periodo Ferrara. Ma c’è già in quest’alba degli anni Novanta la restaurazione successiva, televisiva e politica. ­­­­­164

«Oggi la televisione è censurata, è un preservativo», spiega Freccero. «Ma non si capisce nulla se non si parte da una verità che anche all’epoca faceva storcere il naso. L’Auditel, arrivato da poco come sistema di rilevazione degli ascolti e tanto vituperato, tanto disprezzato dagli intellettuali, significò al contrario la possibilità della libertà assoluta per le televisioni commerciali. Libertà assoluta: c’è l’audience, possiamo sperimentare. Era già una rivoluzione rispetto alla vecchia tv generalista che era il luogo dove si svolgeva la cerimonia. Alla fine degli anni Ottanta c’è l’esperimento della Raitre di Angelo Guglielmi. La sua tv verità è ancora un ibrido, si mescolava con i reality show di prima generazione. La tv commerciale è libertà, rompe ogni schema. L’audience è positiva, è democratica. È la teledemocrazia: una fase breve, che si chiude già a metà del 1992. Perché il passo dalla tele-democrazia alla tele-crazia è breve». «Per convincere Funari a venire a lavorare con me a Italia Uno lavoro tutta l’estate del 1991, aveva mille perplessità. Finalmente accetta e partiamo. Prende sul serio la cosa, si mette a studiare, si fa chiamare il giornalaio, ma dietro c’è una preparazione maniacale. Ricordo mattine intere trascorse a discutere degli editoriali di Rossana Rossanda sul “manifesto”. Il successo è immediato e Funari impazzisce. Riceve i politici in mutande nel suo camerino. Una mattina non arriva, non risponde al telefono, pensano che sia morto, chiamano i pompieri che sfondano la porta e lo trovano assorto che legge, seduto sul water». «Per la prima volta la tv fa ascolto con la politica, in una fascia oraria fino a quel momento inesplorata. E lo fa con un personaggio diverso da tutti gli altri. Maurizio Costanzo lavora da sempre per i poteri forti, per portare sul palco personaggi come Andreotti, per rendere umani i politici. Michele Santoro è politicamente strutturato, fa le trasmissioni sulla mafia, parla a un pubblico già politicizzato che si aspetta di vedere quelle denunce. Perfino Giuliano Ferrara ha capito che Craxi sta per finire e vorrebbe fare qualcos’altro, divertirsi, giocare, lanciare nuove trasmissioni come Lezioni d’amore. Ma Funari li batte tutti, è lui il numero uno nel 1992, il Di Pietro della televisione, l’outsider che parla il linguaggio di chi lo ascolta. Funari lavora per il pubblico, è il difensore della gente che rende popolare la politica e la trasforma in un genere di consumo. Grazie a lui la politica diventa un genere potabile per tutti, è la fine dell’élite. Per andare in trasmissione c’è la coda, frequentano il suo programma i ­­­­­165

perdenti e i vincenti prossimi venturi, Martelli, il futuro sindaco di Taranto Cito o Chicco Testa, il leghista Marco Formentini, si fanno crescere nuovi leader, si buttano giù i vecchi. E naturalmente Funari cavalca Mani Pulite, ne capisce immediatamente il significato dirompente. Ma il processo era partito un anno prima dell’arresto di Mario Chiesa. E forse senza questa rivoluzione non ci sarebbe stata Mani Pulite». «La tradizionale politica dei senza volto non capisce la pericolosità di questa tv democratica. Dc e Pci erano élite, avanguardia, pedagogia, erano soprattutto mediazione tra la società e le istituzioni. L’audience è l’irruzione della gente: sondaggi, televoto, rottura. Società che si rappresenta da sola. Craxi aveva capito il meccanismo, negli anni Ottanta è l’unico della Prima Repubblica a studiare la trasformazione. Dedica tempo, ad esempio, a interpretare i consumi, la moda, l’emporio. Ma poi, quando si sposta sul piano televisivo, agisce in modo vecchio. Nomina i direttori dei tg, si appassiona ai minuti del pastone, non fa un discorso culturale. Berlusconi è più avanti di tutti, su questo terreno». «La finestra della tele-democrazia si chiude nell’estate del 1992. Il 5 maggio, un mese dopo le elezioni, ho il mio ultimo colloquio con Berlusconi da direttore di Italia Uno. Lui mi dice che il Caf ha fatto qualche problema su di me, mi ripete che Craxi voleva vincere e che avrebbe vinto, anche se in realtà stava già crollando tutto, ma Berlusconi non ne aveva ancora la consapevolezza. Dentro la Fininvest contano altre voci. Quella di Adriano Galliani e soprattutto quella di Gianni Letta, l’anima nera dell’azienda, il portavoce di esigenze politiche che non hanno niente a che fare con le dinamiche commerciali: con l’informazione e con la politica io avevo portato Italia Uno al terzo posto negli ascolti, dopo Raiuno e Canale Cinque. Eppure si arriva a una riunione dove Galliani mi chiede come condizione per restare di cancellare la politica dalla mia rete. A quel punto capisco che si sta chiudendo una fase e che se ne sta aprendo un’altra: quella in cui la televisione dovrà mettersi al servizio di un progetto politico». «Nel 1993 arrivo in Rai e faccio un’intervista con “La Stampa” in cui dico che anche la Fininvest è lottizzata: si sta lottizzando da sé, da sola, per inseguire l’utopia del partito di Berlusconi. Una volta contavano solo gli ascolti. Ora si valuta la ‘valenza politica’ dei programmi. Aggiungo che per come lo conosco Berlusconi non ­­­­­166

resisterà alla tentazione di schierare le sue reti come ha già fatto nella carta stampata con “Panorama”. Il giorno dopo Berlusconi mi chiama. È incazzatissimo. È l’ultima volta che mi cerca. Dopo, parte la tele-crazia».

VIII

Espiazioni

Muore ignominiosamente la repubblica. Ignominiosamente la spiano i suoi molti bastardi nei suoi ultimi tormenti. Arrotano ignominiosamente il becco i corvi nella stanza accanto. Ignominiosamente si azzuffano i suoi orfani, si sbranano ignominiosamente tra di loro i suoi sciacalli. Tutto accade ignominiosamente, tutto meno la morte medesima – cerco di farmi intendere dinanzi a non so che tribunale di che sognata equità. E l’udienza è tolta. Mario Luzi

Carcere Don Salvatore ancora oggi lo conserva nella cassaforte della sua casa di Milano. Come una reliquia. Il pezzo pregiato della sua collezione. Unico, irriproducibile. Un Rolex che gli fu consegnato la sera del 16 luglio 1992, il giorno del suo arrivo a San Vittore, su ordine di cattura firmato da Antonio Di Pietro. Al momento dell’arresto Salvatore Ligresti, classe 1932, era uno degli uomini più ricchi e potenti d’Italia, introdotto in quasi tutti i consigli di amministrazione che contano, da Mediobanca a Pirelli. E quando c’è un ospite con cui ha confidenza ama rievocare quel momento. Fa sempre lo stesso numero, apre la cassaforte, estrae l’orologio con siciliana teatralità e racconta: «Di Pietro mi guardava: ‘Scommetto che lei parlerà’. Io, però, mi stavo zitto. Allora lui si sfilò il suo Rolex dal polso: ‘Guardi, glielo lascio. Lo porti con sé in ­­­­­168

carcere. Scommetto che lei parlerà’». A questo punto, immancabilmente, don Salvatore fa una pausa. Fa girare l’orologio tra i suoi interlocutori. E conclude, trionfante: «Il Rolex di Di Pietro ce l’ho ancora con me. E guardatelo bene da vicino: è falso!». Quel che Ligresti non ha mai piacere di rievocare è la prima notte in cella. Le proteste. Le urla. La richiesta di restare solo. E il compagno che si offre di rifargli il letto. «Sa, l’ultima volta che mi sono rifatto il letto è stato quando facevo il militare. E sono passati molti anni... Ormai non sono più capace», ringrazia Ligresti, nel racconto del suo avvocato Ennio Amodio. Uscirà il 25 novembre, dopo oltre quattro mesi di carcere. E dopo aver confessato. Li trascinano in catene, in schiavettoni, davanti alle telecamere, come animali al mattatoio. Erano potenti, temuti, in pochi istanti diventano un numero da affidare alle guardie penitenziarie, le telecamere che ne costellavano l’ascesa e solleticavano la vanità si trasformano in strumenti di tortura. E anche i più abituati a comandare e a divorare, i più abili, i più furbi, quelli che assomigliano a faine, reagiscono in modo insensato. Il presidente dell’Iri, il cattolicissimo Franco Nobili, sulla blindata che lo trascina via prova a coprirsi il volto con i fogli del mandato di cattura, l’effetto davanti ai flash dei fotografi è devastante, peggio di un assassino. Il direttore finanziario della Fiat Francesco Paolo Mattioli, il contrario dell’individuo socialmente pericoloso, esce dal carcere con due valigie e una busta di cartone, arranca chiuso nel cappotto, si arrende trafitto dagli scatti. In galera si entra, si esce, si rientra. Sempre con lo stesso dolore in gola. Lo sporco, la promiscuità con un’umanità sconosciuta. Il cesso alla turca, il sangue alle pareti. La solitudine, la paura. I topi. «I topi, presenti in massima compagine, sfilano al di là di un finestrino», ne ufficializza l’esistenza l’avvocato dell’amministratore delegato della Toro Antonio Mosconi, sbattuto con altri tre detenuti su materassi stesi per terra. Per i dannati di Tangentopoli è il primo girone infernale. Lo sprofondamento nell’abisso. L’inoltrarsi in una terra desolata e disabitata, il mondo di dentro al posto degli onori, degli orpelli del mondo di fuori. L’ultimo gradino da scendere per espiare le colpe commesse. L’Arcipelago Carcere. Sarà un percorso choc quello verso la cella. Se finirete in isolamento, da soli, vi apriranno due porte. Una è blindata, grigia, con un ­­­­­169

piccolo spioncino e l’altra è un cancello di ferro. La sentirete chiudere dietro di voi e non sperate che vi dicano buonanotte. Avrete un attimo di scoramento; si apre di fronte a voi uno spettacolo unico; il nulla in quattro metri per tre. Letto di ferro, arancione, ancorato o no a terra, materasso e cuscino di gomma piuma, ignifughi, di quelli fatti apposta per sudare. Un tavolino di legno con piano arancione di finta formica, uno sgabello con il buco in mezzo per trasportarlo, un armadietto [...] e una piccola mensolina di ferro. Tutt’intorno scritte, pezzi di manifesti, donnine nude o quasi, calendari scritti a mano sul muro. Sarete fortunati se il precedente inquilino vi avrà lasciato la scopa... (Mario Alberto Zamorani, Primo: portatevi un pigiama a righe, “l’Espresso”, 11 luglio 1993).

Lo chiamano il Globetrotter di Mani Pulite, il nostro Detenuto Speciale, il Flaneur delle carceri di massima sicurezza. Tra il 1992 e il 1993 se le gira tutte: sessantuno giorni a San Vittore, trentotto giorni a Le Vallette, diciotto giorni a Pordenone... Mario Alberto Zamorani, 45 anni, ex capo ufficio stampa di Ettore Bernabei, ex vice-direttore generale di Italstat, amministratore delegato di Metropolis, presidente del Consorzio Delta del Po, «lobbista potentissimo, più potente degli stessi parlamentari», come viene definito nelle carte delle inchieste, nel giugno 1992 ha già capito come andrà a finire: «Se va avanti così, arresto dopo arresto, i giudici metteranno in carcere altre mille persone». Calcolo sbagliato, per difetto. Il 31 marzo 1993, quando dall’arresto numero uno di Mani Pulite, quello dell’ingegner Mario Chiesa, sono passati tredici mesi, gli ordini di custodia cautelare per tangenti sono 1.356, 1.119 gli avvisi di garanzia. E non risparmiano nessuno: 152 parlamentari indagati, 852 amministratori locali (465 democristiani, 288 socialisti, 71 pidiessini, 39 del Psdi, 31 repubblicani, 20 liberali, 5 di Rifondazione comunista e 4 del Msi), 1.487 tra imprenditori, manager, funzionari, tutti i grandi gruppi industriali privati e pubblici coinvolti, l’Iri, l’Eni, la Fiat, il gruppo Ferruzzi, Ligresti, Pesenti, l’Enel, l’Anas... In testa alla classifica la Lombardia con il 20 per cento degli indagati, seguita da Veneto, Campania e Lazio. Saranno, alla fine, 12mila inquisiti e circa 5mila arrestati. E le carceri, già vergognosamente sovraffollate di detenuti tossicodipendenti e extracomunitari, si popolano di una nuova tipologia: il colletto bianco d’alto bordo, il miliardario in testa alle classifi­­­­­170

che di ricchezza del Paese, l’amministratore pubblico, il politico ladro, interi consigli di amministrazione che potrebbero riunirsi nei raggi, tra le sbarre, e che rappresentano miliardi di lire di fatturato. E di tangenti. A quanto ammonta il giro d’affari di Tangentopoli? «Prendiamo come base i 200 miliardi di finanziamento pubblico dei partiti: se moltiplichiamo questa cifra per quattro, cinque volte non siamo lontani dalla verità», calcola Zamorani, esperto in materia. L’ex manager pubblico, con il suo girovagare per le carceri italiane, si fa un nome soprattutto come il Silvio Pellico di Tangentopoli. Il vice-direttore dell’“Espresso” Bruno Manfellotto lo convince a scrivere un manuale per detenuti, pubblicato a puntate dal settimanale nell’estate del 1993, un Baedeker per tangentisti dietro le sbarre sul filo dell’ironia. E non manca nulla: cosa fare quando bussa la polizia, in genere all’alba, tra le 6 e le 7.30 del mattino, l’abbigliamento e gli effetti personali («Due camicie, possibilmente con le cifre: danno un tono. Una federa da cuscino: quella che passa il carcere è un po’ ruvida e non avete ancora la faccia abbrutita da delinquente che mostrerete all’uscita dal carcere. Al secondo arresto anche la federa potrà rimanere a casa»), i rapporti con gli altri detenuti, la cucina, gli interrogatori con Di Pietro («in carcere lo chiamano la Madonna»), le manette («Un doppio ferro di cavallo, pesantissimi, con uno spunzone su cui si è innestata una vite che, se non metterete bene i polsi, ve li arrosserà subito»). E la voglia di farla finita: «Mi sveglio sudato, i capelli incollati. Mi appoggio al lavabo, spompato, e vedo nel piccolo specchietto di plastica una faccia allungata dalla sofferenza. Cerco il vuoto sotto di me...». Nell’estate 1992 sono oltre cento i detenuti eccellenti che invadono il carcere milanese di San Vittore, una struttura progettata per contenere 700 persone e che ne ospita più di 2mila. Il 90 per cento finisce nel sesto reparto, lato b. Qui vivono per mesi Mario Chiesa, Salvatore Ligresti, Enzo Papi, Antonio Mosconi, il segretario di De Michelis Giorgio Casadei. Affiancati, nel reparto clinico, dall’uomo Fiat Mattioli, dal super-latitante Giovanni Manzi e dalla signora Vincenza Tomaselli, la fedelissima signora Enza, segretaria di Bettino Craxi da trent’anni, la donna che riceveva nell’anticamera di piazza Duomo: «Per fortuna mi avevano accordato la loro protezione alcune detenute politiche, forse delle Br. Mi salutavano, ­­­­­171

s’informavano sulle mie condizioni, mi davano libri da leggere. Ricordo un tomo alto così: la storia della Cina». L’impatto tra l’universo carcerario, popolato dai vinti della vita, e gli sconfitti di una stagione politica, in molti casi irriducibili, ansiosi di tornare all’esterno per ricominciare da capo, per nulla pentiti, non può che risolversi in una vittoria per i primi, tutti ridotti alla comune condizione di poveri cristi, ignudi, affamati di protezione e carcerati. Come ammette il socialista Matteo Carriera, ex presidente dell’Ipab di Milano: «La prima sera in cella l’ho passata con un marocchino, immobilizzato per una sospetta frattura della spina dorsale. Poi sono stato con Luis, un cileno. Grande umanità, mi hanno fatto scoprire una realtà nuova. Andavo a piangere nel bugigattolo, loro accostavano la porta per impedire che dal corridoio qualcuno potesse sentirmi». O come il dc Roberto Mongini, uno dei primi a finire in cella, ai convegni di Sirmione della corrente di Antonio Gava si presentava in Ferrari, diventerà un tifoso di Mani Pulite: «È più facile trovare qualcosa di veramente sincero e umano a San Vittore che non in molti altri posti della politica, magari in piazza del Gesù». Ma per scoprirlo, sinceramente, non c’era bisogno di finire in galera. I politici di peso, ministri, vertici di partito, arrivano in un secondo momento, la Camera dice di no alle richieste di arresto, bisogna aspettare la fine della legislatura e la mancata rielezione: il primo, meno di venti giorni dopo le elezioni, è il vice-segretario del Psi Giulio Di Donato, il 16 aprile 1994, l’ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo fa il suo ingresso a Poggioreale il 12 maggio 1994, per Paolo Cirino Pomicino bisogna attendere il 6 ottobre 1995, san Bruno Abate: «Mi arrestarono alle cinque del pomeriggio, a differenza di tanti altri non mi vennero a prendere di mattina presto, e fecero bene, perché di mattina presto io non sono mai di buon umore». In carcere i detenuti di Mani Pulite leggono moltissimo, perdono peso, si scambiano informazioni sui rispettivi interrogatori con la Madonna (Di Pietro), continuano a trafficare. Come in ogni universo concentrazionario, anche al Grand Hotel San Vittore ci sono i sommersi e i salvati. Ligresti, il più potente di San Vittore, riesce in poco tempo a farsi trasferire in infermeria. «Ogni mattina, appena sveglio, infilava il suo accappatoio verde smeraldo e dopo una rapida doccia [...] si sedeva nella stanzetta del medico ­­­­­172

di turno e iniziava la chiacchierata sui suoi acciacchi», racconta Zamorani50. Con il senatore leghista Achille Ottaviani che lo va a trovare si lascia andare a considerazioni filantropiche: «Il personale del carcere è gente troppo sottovalutata, fa un gran lavoro. È gente che merita di più». Il vero capo resta capo, anche dietro le sbarre. «Dopo dieci minuti nell’ufficio della Dia avevo preso così confidenza che stavo già seduto al posto del colonnello», racconta Cirino Pomicino. «Arrivai in cella la sera, avevo stabilito la mia strategia. Era un arresto politico, la risposta doveva essere non legale ma politica». O’ ministro, carattere solare e tenacia a prova di galera, a Poggioreale organizza i detenuti, riceve raccomandazioni, scrive articoli con gli pseudonimi di Geronimo e di Yanez, spedisce lettere (a De Mita e a Paolo Mieli), canta con il suo compagno di cella Peppino canzoni napoletane («ma fu Lili Marleen che ci fece piangere»), fa lo sciopero della fame, acqua, caffè e succo di mele, minaccia: «Vi consegnerò la mia salma impacchettata, ma giorno dopo giorno». Quando lo rilasciano, tirano un sospiro di sollievo. Spesso si resta in buoni rapporti: Ligresti, dopo il rilascio, scrive una lettera di ringraziamento al direttore di San Vittore. E, qualche anno dopo, assumerà qualche ex guardia carceraria a lavorare con lui, in azienda, forse per debito di gratitudine. Agli amici del Rolex falso di Di Pietro confiderà un segreto: «Per fortuna che c’ero io. Mattioli, quello della Fiat, sembrava un passerotto, in carcere lo avrebbero sbranato. L’ho salvato io, l’ho raccomandato a chi poteva proteggerlo. E un giorno, durante un appuntamento ufficiale, lui mi si avvicinò e mi disse solo: grazie». Ligresti, ecco un duro che dal confronto nel carcere esce vittorioso. Non per tutti sarà così. Gogna 9 agosto 1993, ore 20.03 – L’ex segretario della Dc Arnaldo Forlani ha smentito la notizia, riportata oggi da un quotidiano marchigiano, secondo la quale giorni addietro sarebbe stato contestato dai clienti di un ristorante di Pesaro al punto da dover abbandonare il locale. In 50 Mario Alberto Zamorani, Quando Dini urlava: non sporcatemi il cesso, “l’Espresso”, 18 luglio 1993.

­­­­­173

una lettera inviata al direttore del giornale e diffusa in serata, Forlani scrive che la notizia relativa alla contestazione «è del tutto inventata e priva di qualsiasi fondamento». «Evidentemente – aggiunge Forlani – il giornalista è stato tratto in inganno da qualcuno che racconta bugie». Secondo il quotidiano, che non cita il nome del ristorante ma lo colloca in viale Trieste, l’ingresso di Forlani era stato salutato da un rumoroso tintinnio di posate su piatti e bicchieri (Ansa).

Smentiscono via agenzia, ma la perdita del potere fa esattamente questo suono: più che un tintinnar di sciabole, o di manette, è un inglorioso (ma rumoroso) tintinnio di posate. Non è un colpo di Stato, un golpe giudiziario, come si affanneranno a ripetere negli anni successivi, a strappar via ai governanti gli inchini dei governati. È questo vocìo, un sussurro che sale di tono e che diventa urlo di rabbia. I clienti di ieri, che facevano a gomitate per conquistare il posto più vicino, ora, invece, non vogliono più sedersi neppure a tavola. Non vogliono più frequentare lo stesso luogo di vacanza. Per citare Groucho Marx, non vogliono più far parte di un circolo, un club, un ordine professionale di cui faccia parte gente come loro. «Ladro, buffone, venduto!», gridano a Gianni De Michelis in un’umida sera di febbraio sotto i portici di piazza San Marco. L’ex ministro è appena stato interrogato dai pm veneziani, con lui ci sono gli avvocati, due principi del foro, Giovanni Maria Flick con pipa e Gaetano Pecorella con sciarpa di seta rossa (il primo diventerà ministro della Giustizia nel primo governo Prodi, il secondo avvocato di Berlusconi e presidente della Commissione Giustizia della Camera con Forza Italia). De Michelis si barrica in un capiente impermeabile bianco, affretta il passo, la folla lo riconosce e lo insegue. Accelera, corre verso calle della Canonica, su per il ponte della Canonica e lungo la fondamenta di Sant’Apollonia. «Delinquente, bandito!», lo insultano dal ponte, nessuno vuole perdersi lo spettacolo unico di un ex potente che fugge. «Onto, onto!», gli urlano. In veneziano significa unto. Sporco. «Una pena senza fine e senza limiti», sospira l’ex ministro Francesco De Lorenzo nell’aula di Montecitorio che deve pronunciarsi sul suo arresto. «Una pena anticipata che sto scontando ogni giorno e ogni ora» («potevi pensarci prima!», gli grida il missino in camicia nera Carlo Tassi). La vergogna di chi ti stava ­­­­­174

vicino. L’ostracismo del tuo ambiente sociale. La gente che ti insulta al passaggio. La caduta. «Sono già alla gogna, forza giudici, sono pronto ad andare dietro le sbarre», si fa coraggio il socialista Giulio Di Donato, quasi un sollievo il carcere rispetto al disprezzo che lo circonda fuori. Senza fine e senza limiti, appunto: la gogna. Eppure, ancora il 5 maggio 1992, mentre già a Milano piovono le prime confessioni e i primi avvisi di garanzia, il ministro della Sanità De Lorenzo è ancora lì, nel suo habitat naturale, su un palcoscenico, di fronte alle telecamere, in smoking a ricevere applausi. Ci sono Corrado e Fabrizio Frizzi, si sganasciano dalle risate come sempre, quant’è simpatico il ministro, com’è bravo e generoso, c’è una colomba che porta con sé sulla zampa la cifra dell’incasso destinato all’associazione per la lotta contro l’Aids. Il ministro, 54 anni, immancabile nelle serate del teatro Parioli accanto a Maurizio Costanzo («questa trasmissione ha una storia di rapporti con l’onorevole De Lorenzo», proclama fiero una sera il conduttore durante una delle tante passerelle del ministro. «Ho dato spazio a De Lorenzo perché immaginavo che fosse l’uomo giusto al posto giusto e invece le inchieste giudiziarie hanno dimostrato il contrario», si scuserà in seguito), tiene molto alla sua immagine di anglo-partenopeo, un tecnocrate del Golfo, candidato al premio Nobel, addirittura, impegnato per i malati di Aids, censore degli sprechi delle Asl... A voler cercare il presagio, c’è una sera a Capri una tavolata con il ministro, quattrocento coperti, che si conclude per la maggior parte degli invitati laddove deve finire per via di un’intossicazione alimentare, colpa di una pasta e fagioli assassina. Ma quel pasto lasciato a metà per impellenti esigenze digestive, quel fuggi fuggi generale dalla tavola dell’uomo che è chiamato a vigilare sull’igiene alimentare, anticipa solo di qualche mese quello che sta per accadere. «Tangentomane a me, che sono stato candidato al premio Nobel?», si rivolta il ministro quando il suo nome comincia a spuntare nelle inchieste. Non può ancora immaginare che nella triste classifica dei politici più detestati il suo nome è destinato a occupare un posto di rilievo. Il candidato ideale al pubblico dileggio. Perché non si occupa di astratti tracciati autostradali, come un Prandini qualsiasi, o di vagoni della metropolitana, roba da geometri, ma di malati, sangue infetto, farmaci, ospedali: sofferenza, carne viva, morte. E perché la ricerca ossessiva di visibilità, con il suo carico ­­­­­175

di arroganza, presunzione, vanagloria, lo rende un bersaglio fin troppo facile da colpire al momento del rovescio nella polvere. Da figlio d’arte, come era adulato, viene retrocesso a figlio di papà: il padre Ferruccio è stato per trent’anni presidente dell’Ordine dei medici napoletano e per tredici parlamentare del Partito liberale. La lotta contro l’Hiv che si capovolge nell’accusa di aver preso tangenti sugli spot anti-Aids. Dalle pubbliche trasfusioni di sangue, steso sul lettino con l’ago infilato nel braccio in favore di telecamere, al pentolone in cui ammette di aver distrutto alcuni documenti compromettenti, variante napoletana dello sciacquone di Mario Chiesa. E il crollo in disgrazia, gli amici che voltano le spalle: lo sospendono dall’Ordine dei medici della Campania, come se il papa fosse espulso dal Vaticano, gli tolgono la cattedra di Biochimica alla II facoltà di Medicina, «per non infangare il buon nome dell’ateneo», lo buttano fuori dal Circolo Italia, uno dei più esclusivi di Napoli. E poi: il letame sulla villa di Anacapri, i passeggeri dell’aliscafo che lo fanno scendere, la vecchietta che a Capri lo insegue con il bastone e gli sputa in faccia. Alcune sono leggende, ma certe smentite sono quasi più umilianti della realtà. Sette mesi di carcere, decine di capi di imputazione, un tumore, il rischio suicidio. Una sera fanno entrare le televisioni a Poggioreale, per un reportage. È lui il bersaglio grosso del safari mediatico, le lucette rosse della tv che tanto amava lo braccano fin dentro la cella. De Lorenzo resta fisso, dieci minuti, faccia al muro, spalle alla porta, muto. Finché una guardia carceraria, misericordiosa, lo libera: «Onorè, se ne sono andati». Si presenta nell’aula del processo reggendosi i pantaloni, lo sguardo acquoso, la barba lunga («non me la faccio, ho paura di ferirmi», ha confidato allo psichiatra di Poggioreale), scoppia a piangere con il giudice: «La prego, mi aiuti, spieghi lei agli italiani che non sono un mostro». Ed è sfortunato oltre ogni misura: dopo aver riconquistato qualche simpatia almeno umana con la sua malattia, una sera si fa beccare a cena in un noto ristorante romano mentre affronta una pastasciutta. L’insegna è tutta un programma: I due ladroni. E si ricomincia: fotografi all’ingresso e indignazione popolare. Li inseguono per strada, li prendono a pedate non sempre metaforiche, l’“Unità” segnala una definitiva borsettata contro Pillitteri mentre è alle prese con un piatto di trenette a Portofino. Li cacciano dai ristoranti. A Milano la chiamano la crisi del tartufo, ­­­­­176

la chiusura dei grandi locali ai vip della politica. Il Savini nella Galleria Vittorio Emanuele dove Pillitteri pasteggiava, costretto a licenziare 29 camerieri, il Matarel dove Craxi cenava il lunedì sera, al suo posto calciatori e cantanti, al Caffè Milano di piazza Mirabello al tavolo di Mario Chiesa si accomoda il giudice Di Pietro, che festeggia un anno di Mani Pulite. «Craxi ci aveva fatto grandi e Di Pietro ci ha rovinati», si lamentano a Roma i proprietari della Maiella, rinomato ristorante a due passi dall’hotel Raphael. «Adesso come fanno a mangiar fuori i politici, se appena li vedono in giro li insultano e gli tirano le pietre?». I parlamentari, vista l’aria che tira, si rifugiano nella mensa di Palazzo San Macuto, inaugurata due anni prima con magnifica vista sul Pantheon, e nel ristorante interno della Camera, restaurato al costo di 12 miliardi di lire, dove pasta, bistecca e quartino costano diecimila lire e non si rischiano fischi e aggressioni. All’Augustea, la mensa dei socialisti romani, fanno finta di non conoscerli. «Oggi c’è un calo generale dei consumi e il ristorante è uno dei meno necessari. Anche perché si associa col mangiare. E mangiare oggi è una parola che ha tanti sensi». E da Fortunato al Pantheon, dove sono nati e morti i governi della Prima Repubblica, tra i tavoli vuoti si sottolinea il cambio d’epoca: «È cambiata l’allegria: quel ronzio di gente che corteggiava i parlamentari non si vede più». Tranquilli, torneranno: i clienti, le tavole imbandite, le macchie di sugo sulla camicia, le scorte all’ingresso, le ragazze. Tornerà, ancora più arrogante, la Casta. Ma intanto, nell’anno della gogna 1993, gli amici se ne vanno, i postulanti anche, il cinquantaduesimo compleanno De Michelis lo festeggia con qualche intimo. Diserta il Tartarughino e il Jackie O, i locali dove ha ballato per tutti gli anni Ottanta, a cena va nel sotterraneo del Raphael, a tenere compagnia a Craxi. E l’hotel Plaza di via del Corso, il suo quartier generale, tra arazzi, lampadari, leoni di marmo, scaloni pazzeschi, ora appare disabitato. Nelle agende sequestrate al portiere dell’albergo i magistrati trovano appuntati i nomi di Bianca, Ornella, Stefi, Mimosa, Lucia, Fiamma, Maresa, Camilla, Daniela, Simonetta, Samaritana, Debora, Fucsia, Trecy e altre. «I suoi collaboratori erano per lo più donne arrivate per caso», riferisce Nadia Bolgan, la ex portavoce, «incontrate di passaggio e senza nessuna preparazione professionale. [...] Ognuna pensava di essere la favorita dell’harem, ma in quell’harem non c’era alcuna ­­­­­177

favorita»51. Onore al merito del ministro socialista, che con i suoi eccessi e le sue feste è il vero precursore della Seconda Repubblica. E poi, almeno, all’epoca le favorite restavano nello staff. E non si candidavano alle elezioni. Malattia E poi arriva il momento in cui si esce dal tribunale e si va in ospedale, gli avvisi di garanzia si mescolano con le cartelle cliniche, gli atti giudiziari con le lastre al polmone. I moribondi di Montecitorio, fantasmi di se stessi che si aggirano pallidi, smagriti, imbiancati. E qui davvero, senza scomodare Ernst Kantorowicz, il corpo del re e tutto il resto, il Sistema malato, le Camere in agonia, occorre intervenire prima che il paziente muoia, senza proseguire con le metafore, accade che i potenti rotolati giù dal trono interiorizzano, somatizzano e si ammalano davvero. «Poiché sono inevitabilmente corporei, i momenti di caduta del corpo sovrano – la malattia, la morte, il post-mortem – mettono a nudo con particolare efficacia la densità delle funzioni sociali di questo corpo»52. Il disfacimento di una classe dirigente si fa gonfiore sospetto, passo incerto, respiro affannoso. Alta pressione, aritmia cardiaca, diabete. Depressione, deperimento fisico, tumore. Cellule killer e cuori che scoppiano, all’improvviso, di schianto. La crepa di Tangentopoli fa precipitare i partiti nel baratro e spezza le coronarie dei loro amministratori. E una generazione di politici che si pensava onnipotente, si scopre amaramente fragile, vulnerabile, mortale. In metastasi. «Ho perso 18 chili da quando sono iniziate le inchieste», lamenta con discrezione il tesoriere della Dc Severino Citaristi, malato di tumore. Gava è già fuori gioco per il diabete, lontano il tempo in cui a Sirmione gli gridavano «Forza Antonio!», nonostante la gamba sinistra claudicante. Calogero Mannino ridotto a scheletro dopo mesi di permanenza all’Ucciardone, oltre trenta chili persi. Pomicino con il cuore che fa le capriole, ma O’ Mini51 Giorgio Cecchetti, Molestie sessuali da De Michelis, “la Repubblica”, 28 maggio 1993. 52 Enrico Pozzi, Per una sociologia del corpo, “Il Corpo”, I, 2, marzo 1994, p. 131.

­­­­­178

stro è più matto delle sue coronarie, riesce a trascinare Di Pietro al suo capezzale, sotto la tenda ad ossigeno del Gemelli: «Se non ce la faccio lei mi deve fare l’orazione funebre, deve dire a tutti chi sono e cosa ho fatto», e alla fine supererà un trapianto di cuore, perfettamente riuscito, di certo andato meglio dell’innesto tra Prima e Seconda Repubblica. Fa impressione e parecchia pietà umana il 25 gennaio 1994 nei corridoi del tribunale di Roma l’ultima apparizione pubblica di Vittorio Sbardella, l’ex Squalo della Dc andreottiana, una montagna d’uomo, ridotto ora a passare da una procura all’altra, il cappello a larghe falde calato in volto, lo sguardo smarrito, a sessant’anni non ancora compiuti pelle e ossa, come si usa dire, ma in questo caso non è un’immagine. Eppure era un leone, un combattente, un monumento di vitalità. «A Dimichè, e nun me fate il solito articolo sul boxer, sul fascista. Stavolta so’ cazzi seri!», tuona con il cronista dell’“Unità” Stefano Di Michele che è andato a trovarlo. Il Male l’ha colpito dopo i primi avvisi di garanzia, se lo divora in pochi mesi. Nei primi mesi del 1994 capita di incontrare alla Camera, mentre entra negli uffici parlamentari di via degli Uffici del Vicario, l’uomo che appena sei anni prima era stato il presidente del Consiglio più giovane della storia repubblicana, saluta ancora con quel sorriso timido e gentile che chi lo ha conosciuto non ha dimenticato, ma la barba nera che faceva impazzire le donne nella stagione dell’ascesa non c’è più, è tutto bianco ora, a soli 50 anni, povero Giovanni Goria, sta lottando contro un tumore ai polmoni che gli hanno scoperto un anno prima. In coincidenza con l’altra battaglia che lo ha tormentato per tutta la carriera politica, quella per dimostrare la sua innocenza sulla vicenda della Cassa di Risparmio di Asti che lo avvelena da quasi vent’anni. Dal 1976, per l’esattezza: Goria, che in quel momento ha 33 anni e sta per essere eletto per la prima volta alla Camera, è nel collegio sindacale della Cassa, scopre una truffa miliardaria ai danni della banca per una vicenda di terreni che incidono sulla cintura milanese. Nella truffa è coinvolto un finanziere siciliano che ricorrerà nelle cronache politico-giudiziarie della Seconda Repubblica. Si chiama Filippo Alberto Rapisarda, è socio in affari di un personaggio ancora poco conosciuto ma che sarà uno dei protagonisti della stagione politi­­­­­179

ca post-Tangentopoli, l’assistente di Silvio Berlusconi, il palermitano Marcello Dell’Utri. Nella seconda metà degli anni Settanta Dell’Utri lavora con Rapisarda. E nessuno ora ricorda quel filo lontano tra il futuro capo di Publitalia, organizzatore dei primi circoli di Forza Italia, l’uomo più vicino al Cavaliere, il pianificatore della sua ascesa politica, in seguito senatore berlusconiano condannato a Palermo in primo grado e in appello per concorso esterno in associazione mafiosa, e la giovane promessa della Prima Repubblica, allievo di Giovanni Marcora e di Beniamino Andreatta, il volto della sinistra democristiana del Nord che sogna il rinnovamento della Balena Bianca. Eppure il filo c’è, e segnerà tutta la carriera politica di Goria. Perché c’è un magistrato che indaga su di lui e su uomini a lui vicini, il giudice Giorgio Della Lucia. C’è un deputato del Msi milanese, Tomaso Staiti di Cuddia, che si vanta di essere fascista e che lo perseguita, sostiene le accuse dei suoi nemici con le interrogazioni parlamentari, arriva all’aggressione fisica in pieno Transatlantico. E Goria, che ha scoperto il tentativo di truffa, che ha dato la caccia agli affaristi, finisce sul banco degli accusati, mentre Rapisarda e il suo socio Dell’Utri sono tra gli accusatori. «Facevo la guardia, mi ritrovo sospettato di essere stato complice dei ladri», si lamenta. La vicenda della Cassa di Risparmio di Asti non si smonta neppure quando Goria arriva a Palazzo Chigi. Solo nel 1993 arriva il proscioglimento definitivo. «Dopo quindici anni di sospetti e di aggressioni il Tribunale di Milano ha riscontrato l’assoluta infondatezza delle accuse nei miei confronti, cosa che fa onore a una magistratura libera e coraggiosa», scrive in una lettera al presidente del Consiglio Amato. Ma nel frattempo è stato costretto a dimettersi da ministro delle Finanze per un’altra inchiesta, una storia di tangenti sulla costruzione dell’ospedale di Asti. «Stanno liquidando la classe politica partendo dai suoi elementi migliori», si ribella. «Sono indicato del tutto arbitrariamente come un ministro inquisito. [...] Io sono un disoccupato strutturale e ho anche qualche problema economico, sfido a controllare il mio patrimonio», chiede. Nelle stesse settimane, dopo un esame di routine, scopre di essere malato di tumore ai polmoni. Avrà ancora in vita la soddisfazione di veder ribaltate le accuse. Il 17 marzo 1994 il tribunale civile di Milano arriva alle conclusioni opposte di Della Lucia: assolve tutti gli amministratori della Cassa di Risparmio ­­­­­180

di Asti, contro cui Rapisarda e Dell’Utri avevano intentato una causa miliardaria. Nelle motivazioni si legge che Rapisarda non è il danneggiato, ma anzi ha partecipato alla distrazione dei beni che portò al fallimento della società. E arriva l’incriminazione per corruzione e abuso di atti di ufficio per il giudice Della Lucia. La notizia che è stata aperta l’indagine sul giudice che lo ha perseguitato arriva il 18 aprile 1994, Goria muore quattro settimane dopo nella sua casa di Asti in corso Dante, quando non ha ancora compiuto cinquantuno anni. Al posto dello sfortunato e onesto politico arrivato dalla provincia piemontese fino a Palazzo Chigi da un mese sono sbarcati in Parlamento i nuovi padroni. Gli azzurri di Forza Italia, guidati dall’ex socio di Rapisarda, Marcello Dell’Utri. Non sfuggono al Male neppure i capi, chiamati sulla loro pelle a fare da capri espiatori. Al Quisisana, la clinica romana di proprietà di Giuseppe Ciarrapico, viene ricoverato l’inossidabile per eccellenza Giulio Andreotti; mentre gli avvocati attrezzano la difesa del processo di Palermo il senatore a vita si fa aspirare dal cervello, via naso, un fibro-adenoma ipofisario. Qualcosa di oscuro e per fortuna di benigno, insomma, è riuscito a infilarsi nella misteriosa e inaccessibile scatola cranica del Divo Giulio, ma chissà se è estranea alla formazione dell’intruso la novità sconvolgente e intollerabile di finire sotto processo per mafia. E le ferite che affliggono Craxi, a un certo punto, durante la lunga permanenza ad Hammamet, non sono più soltanto morali. Le immagini del segretario del Psi in vacanza in Tunisia, giovane, enorme, con il pareo, raffigurazione di una voracità sessuale e politica fin troppo esibita, vengono via via sostituite dagli scatti del piede malato, del leader in barella e in carrozzina, le macchie sul viso, il gonfiore allarmante... Laddove si mangiava, fin troppo, c’è l’anoressia. E dove i potenti scoppiavano di salute, c’è «una frana di cibi in decomposizione», come aveva scritto Leonardo Sciascia in Todo Modo. E di corpi, soprattutto. Morte «Egregio Presidente, ho deciso di indirizzare a Lei alcune brevi considerazioni prima di lasciare il mio seggio in Parlamento compiendo l’atto conclusivo di porre fine alla mia vita...». Se ne va così, il 2 settembre 1992, il deputato del Psi Sergio Moroni, ­­­­­181

nello scantinato di casa, con un colpo di fucile in pieno viso e con un atto politico, una lettera al presidente della Camera Giorgio Napolitano, perché se c’è una conclusione limpida da trarre dalla storia di quegli anni è che Tangentopoli non è una questione privata, i detenuti, gli inquisiti, i tumorati, gli infartuati, e più di ogni altro i suicidi di Tangentopoli sono figli della loro epoca, per citare la poetessa polacca Wisława Szymborska, e l’epoca in cui si trovano a vivere e a morire è politica: rubare è un atto politico, così come togliersi la vita. Scrivono tutti, al momento della fine. E chi non lo fa, forse non voleva finire. Non lascia nulla di scritto Sergio Castellari, il direttore generale delle Partecipazioni statali coinvolto nel caso Enimont, va a un appuntamento con Andreotti, poi chiama la moglie, «non torno a cena, mi vogliono arrestare», e sparisce. Lo ritrovano una settimana più tardi nelle campagne di Sacrofano, attorno a Roma, una bottiglia di whisky rimasta miracolosamente in piedi nonostante il vento di febbraio, le braccia allargate, il volto divorato dai cinghiali, come la mano destra, quella che ha impugnato la pistola, almeno in teoria. E lascia solo due righe ai suoi cari il segretario amministrativo della Dc di Rovigo Gino Mazzolaio, indagato per una tangente di 50 milioni e appena scarcerato, «non so più resistere a quanto sta succedendo, pur essendo completamente innocente. Vi chiedo scusa per il gesto che sto per compiere, pregherò per voi da lassù», scrive prima di gettarsi nell’Adige, ma qui il mistero è un altro: il destino comune di tre annegati eccellenti della Dc veneta, il boss doroteo Toni Bisaglia, affogato nel 1984 al largo di Portofino, il fratello di Toni don Mario, ritrovato in un laghetto del Cadore nel 1992, e Mazzolaio, che di Bisaglia fu segretario particolare. Gli altri suicidi no, sono atti politici, strumenti di battaglia. Lo scrive Moroni nella lettera a Napolitano: «Quando la parola è flebile, non resta che il gesto». Lo stesso compiuto due mesi prima dal segretario del Psi di Lodi Renato Amorese, il primo suicida di Tangentopoli. Ma nelle lettere di addio contano i destinatari e i contenuti. Nel caso di Amorese il destinatario è il dottor Di Pietro e c’è l’ammissione degli errori compiuti, con il pentimento e una terribile richiesta finale: «Non mi consideri peggio di come già mi sento». Anche nel messaggio di Moroni c’è il riconoscimento dello sbaglio, «ho commesso un errore accettando il ‘sistema’, ­­­­­182

ritenendo che ricevere contributi e sostegni per il partito si giustificasse in un contesto dove questo era prassi comune», ma il cuore è la rivolta di un politico verso la magistratura e soprattutto verso la stampa che cavalca il «processo sommario e violento» nei confronti della classe politica: È indubbio che stiamo vivendo mesi che segneranno un cambiamento radicale sul modo di essere nel nostro Paese, della sua democrazia, delle istituzioni che ne sono l’espressione. Al centro sta la crisi dei partiti (di tutti i partiti) che devono modificare sostanza e natura del loro ruolo. Eppure non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito delle ‘decimazioni’ in uso presso alcuni eserciti [...]. Né mi è estranea la convinzione che forze oscure coltivano disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la ‘pulizia’. Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento. Mi rendo conto che spesso non è facile la distinzione tra quanti hanno accettato di adeguarsi a procedure legalmente scorrette in una logica di partito e quanti invece ne hanno fatto strumento di interessi personali. Rimane comunque la necessità di distinguere, ancora prima sul piano morale che su quello legale. Né mi pare giusto che una vicenda tanto importante e delicata si consumi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televisive, a cui è consentito di distruggere immagine e dignità personale di uomini solo riportando dichiarazioni e affermazioni di altri. Mi rendo conto che esiste un diritto d’informazione, ma esistono anche i diritti delle persone e delle loro famiglie. A ciò si aggiunge la propensione allo sciacallaggio di soggetti politici che, ricercando un utile meschino, dimenticano di essere stati per molti versi protagonisti di un sistema rispetto al quale oggi si ergono a censori. Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da ‘pogrom’ nei confronti della classe politica, i cui limiti sono noti, ma che pure ha fatto dell’Italia uno dei Paesi più liberi dove i cittadini hanno potuto non solo esprimere le proprie idee, ma operare per realizzare positivamente le proprie capacità e competenze. Non lo accetto, nella serena coscienza di non aver mai personalmente approfittato di una lira. Ma quando la parola è flebile, non resta che il gesto.

«Hanno creato un clima infame», sibila Craxi dopo aver visitato la salma. Lo dice di Moroni, lo ripeterà di se stesso. «Si vede che c’è ancora qualcuno che per la vergogna si uccide», commenta ­­­­­183

invece il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio. «Inutile che Craxi pianga su una bara di un suicida, meglio sarebbe che piangesse sul Psi, su come lui lo ha conciato», scrive con la consueta brutalità Vittorio Feltri sull’“Indipendente” il 6 settembre. «Inutile prendersela con i giornali perché registrano i furti inducendo i ladri a uccidersi per vergogna. La colpa è del Psi che i mascalzoni se li è cresciuti in casa, perché necessari a finanziare il Garofano e i suoi uomini più in vista». Avrà tempo per riscoprirsi garantista. Ai funerali di Moroni ci sono Martelli e il tesoriere del partito Vincenzo Balzamo, craxiano di ferro, ex ministro, che alle elezioni del 5 aprile è stato eletto deputato nella circoscrizione BresciaBergamo con 23mila preferenze. Quel giorno comincia a morire anche lui. Il 16 settembre, all’uscita dal Palazzo di Giustizia di Milano, si avventa sui giornalisti: «Voi Moroni non lo dovete neppure nominare!». Il 14 ottobre riceve il primo avviso di garanzia. Il 26 crolla all’aeroporto di Linate mentre si sta imbarcando, lo ricoverano al San Raffaele con un infarto in corso. «Davanti a Dio io mi sento la coscienza a posto», lascia detto prima di entrare in coma. Muore il 2 novembre. Ai suoi funerali, nella chiesa romana di San Pio X alla Balduina, c’è tutto lo stato maggiore del Psi stravolto dal nuovo lutto. «Viveva da mesi in uno stato d’angoscia», reagisce Craxi. «La sofferenza gli è stata fatale». E sull’“Avanti!” il poeta calabrese Nino Neri compone l’Ode al compagno Balzamo: Caro Vincenzo, caro compagno sventurato, / figlio devoto, come molti altri, del partito. / La morte ti ha atteso sulle strade della Lombardia / e come con il povero Moroni / non ti ha dato scampo. / «Sei socialista?», ti ha chiesto. / E senza pietà ti ha conficcato nel cuore / la sua arma micidiale, fino a spezzarti la vita.

Muoiono solo i socialisti? Oltre a Amorese, Moroni e Balzamo ci sono altri suicidi (l’imprenditore edile Mario Majocchi, il novarese Giuseppe Rosato, il dirigente dell’unità sanitaria di Milano centro Franco Franchi). Nella Dc neppure un caduto, «perché è un partito che non ha cuore», argomenta il futuro inventore dell’Ulivo Arturo Parisi, sociologo e animatore del Mulino, «non ha un centro, è una galassia, per cui il partito in quanto tale non è mai colpito anche quando i suoi uomini finiscono sotto tiro. Per i socialisti è l’opposto. È un tutto compatto, di cui Craxi è il centro. ­­­­­184

Semmai l’impassibilità degli imprenditori è il lato più grave di Tangentopoli. In campo politico, almeno, il terremoto è in atto e ha avuto già le sue vittime»53. A farla finita, però, ci pensano in tanti, non solo i socialisti. «Soltanto la fede e mia moglie mi hanno salvato da decisioni disperate», confessa il cattolicissimo Citaristi. «Dopo il primo interrogatorio ho passato una crisi forte. Mi hanno salvato il pensiero di mia figlia Luna e quattro gocce di Valium», ammette l’uomo del Pci-Pds Primo Greganti, il signor G. «In tre mesi a San Vittore di gente che pensa a suicidarsi ne ho conosciuta molta, però». L’ex presidente dell’Iri Franco Nobili si affida alla cristiana sopportazione: «I miei figli mi hanno portato un libro su padre Pio che è stato quindici anni in carcere per Santa Romana Chiesa». Più disperato l’ex ministro Clelio Darida: «Siamo tutti morti. La nostra è una generazione di morti. E la nuova generazione è senza pietà». Non c’è pietà per Gabriele Cagliari che se ne va nel modo più orrendo la mattina del 20 luglio 1993 dopo 134 giorni di detenzione. Una fine così drammatica che neppure il freddo resoconto del ministro della Giustizia Giovanni Conso alla Camera riesce a mascherare: «Cagliari è stato rinvenuto con un sacchetto di plastica infilato in testa e legato al collo con una stringa di scarpa da tennis. Il sacchetto di plastica è stato immediatamente strappato dalla testa di Cagliari. Il medico di guardia ha constatato l’assenza di parametri vitali...». «Ebbi la sfortuna di assistere al suo trasporto in infermeria e di battere a macchina le prime note sulla morte», testimonia l’ex braccio destro di De Michelis Giorgio Casadei, detenuto a San Vittore. Più secco Sergio Cusani, l’uomo chiave della tangente Enimont: «L’uso della plastica per suicidarsi è frequentissimo», tra le sue proprietà c’è che è indistruttibile, quando cominci a soffocare non puoi farci più nulla. Una fine orrenda per l’ingegner Cagliari che si sente trattato come «una non persona», «un cane ricacciato ogni volta nel cortile», il primo di «una massa di morti civili, disperati e perseguitati» che si battono per sopravvivere nel carcere, «strumento di tortura, un serraglio per animali senza teste e senza anima». «Quei pochi di noi caduti nelle mani di 53

1992.

Sandro Magister, Perché tanti garofani recisi?, “l’Espresso”, 15 novembre

­­­­­185

questa ‘giustizia’ rischiano di essere i capri espiatori della tragedia nazionale generata da questa rivoluzione», accusa l’ex presidente dell’Eni, disperato, nella sua ultima lettera. «Per la mia piccolissima parte, ho contribuito a portare più in alto questo paese nella considerazione del mondo. Non lasciamo sporcare questa immagine da nessuna ‘mano pulita’». Il documento più spietato e doloroso della Norimberga di Tangentopoli. Anche perché nella tragedia personale e pubblica (politica) del presidente dell’Eni si riflettono le contraddizioni accumulate in più di un anno di inchieste. L’uso spropositato della carcerazione preventiva. I contrasti e le divisioni nel pool Mani Pulite che ormai è al centro di tutte le partite politiche ed economiche e fatica a stare dietro permessi di rilascio, interrogatori, la routine dei detenuti. Di Pietro si scontra con il sostituto procuratore Fabio De Pasquale, il futuro pm del processo Mills contro il presidente del Consiglio Berlusconi, che aveva promesso di scarcerare Cagliari prima del suicidio e poi invece rifiuta il via libera «senza calcolare le gravi ripercussioni psicologiche di chi si aspetta la libertà promessa e poi negata», scrive in un comunicato l’avvocato di Cagliari Vittorio D’Aiello. Ma c’è, più in profondità, la stanchezza della società italiana che vuole voltare pagina. L’estenuazione della vecchia classe dirigente, ormai rassegnata a sparire. E il cinismo dei nuovi padroni. «Un paese in cui vige una vera civiltà del diritto deve ammettere la possibilità di togliere la vita a chi commette reati particolarmente gravi», aveva già teorizzato il professor Gianfranco Miglio nei mesi precedenti. «È meglio che un innocente sia punito ingiustamente piuttosto che un colpevole la faccia franca». Poche ore dopo il suicidio di Cagliari, l’ideologo della Lega torna sul tema: «In fondo è un bene. Vuol dire che c’è gente che di fronte alla prospettiva della casacca a righe preferisce togliersi la vita». Il neo-sindaco leghista di Milano Marco Formentini diserta i funerali, con la benedizione di Bossi: «Come funzionario Cagliari è stato una vergogna per il Paese. Era in cima all’Eni non per meriti ma per girare i soldi a Bettino. Era figlio di un sistema crollato e non ha accettato la fine dei suoi privilegi». Già, e Craxi che farà?, gli chiede Pino Corrias della “Stampa”. E Bossi, profetico: «I re, quando scoppiano le rivoluzioni, non sono mai destinati alla galera. O salgono sulla ghigliottina o muoiono in esilio. Craxi ha già scelto l’esilio». ­­­­­186

Ma, a questo punto, i barbari leghisti si sono già rivelati per quello che sono. Gattopardi armati di cappio e di forca, che il Sistema non lo vogliono cambiare, ma soltanto ereditare. E una rivoluzione solo giudiziaria non può che portare a questo: nuove ingiustizie, nuove menzogne su cui fondare il potere. E nuovi lutti: mentre si celebrano i funerali di Cagliari, a duecento metri di distanza, nel palazzo settecentesco di piazzetta Belgioioso, con uno sparo di pistola e un bigliettino su cui c’è scritto semplicemente «Grazie» si ammazza Raul Gardini. «Diceva la sua verità, per questo gli hanno messo la pistola in mano», mormora il suo amico Leo Porcari. Era il più spavaldo tra i capitani di industria degli anni Ottanta, spericolato, famelico, uno che aveva dipinto la sua barca di rosso quando gli avevano detto che nell’ambiente il colore portava sfiga e che aveva comprato Ca’ Dario sul Canal Grande per lo stesso motivo. Giocare con la vita, con la fortuna, sfidare i grandi, gli elementi, il vento, il mare, vincere sempre. «Lei è come Berlusconi, fa irruzione nel sistema con gli stessi soldi», lo provoca in tv Piero Chiambretti la sera dell’inaugurazione di Ca’ Dario. E lui, in doppiopetto, cravatta verde, sospettoso, secco: «No, non sono come Berlusconi». Come il Cavaliere, però, aveva condiviso le relazioni pericolose con i poteri romani. E come il Cavaliere, forse, si preparava a una nuova avventura: la politica. «Questo è l’obiettivo che dobbiamo avere: fare a meno dei partiti», aveva detto a Enzo Biagi. «I partiti sono un branco di ladri. E vogliono continuare a rubare», aveva scandito nel libro-intervista con Cesare Peruzzi A modo mio. «Non si vogliono svezzare, vogliono restare attaccati alla mammella. Non vogliono cominciare a brucare l’erba, a ruminare: resteranno sempre poppanti. E finiranno per mangiarsi la vacca». La maxi-tangente Enimont da 150 miliardi di lire per tutti i partiti è la vacca che sfama i partiti, compresa la nuova Lega di Bossi che incassa 200 milioni. Ma a finire divorato, alla fine, è lui, il Contadino della finanza che ha toccato il cielo, il corsaro che ha volato sul vento e che si congeda in una mattina d’estate con un colpo di pistola. Dopo di lui saranno anni di plastica. Indistruttibile.

­­­­­187

Rinascita «Di notte sognavo De Gasperi, Zaccagnini, Donat Cattin, Martinazzoli che mi dicevano: ‘Noi abbiamo creato e tu hai tradito, hai distrutto il partito’. Vorrei gridare, pensavo, ma so che non sarei ascoltato. In tanti mi avevano abbandonato...», racconta l’ex ministro inquisito scomparso nel nulla da quasi vent’anni. È stato lui a telefonare, «mi chiamo...», resta quasi sorpreso che qualcuno ancora si ricordi del suo nome. L’appuntamento è per l’ora di colazione in un elegante studio legale, uno dei palazzi più belli di Roma, noto alle più recenti cronache giudiziarie perché qui c’era l’ufficio in cui riceveva il faccendiere Luigi Bisignani. Settimo piano di piazza Mignanelli, che affaccia su piazza di Spagna, open space all’ingresso, segretarie e praticanti nei corridoi, ma il titolare mantiene per sé uno stile ascetico. Il pasto è frugale, un piatto di pasta in bianco e una macedonia, nella stanza ci sono le foto con la famiglia e con papa Wojtyła quando era ministro, quel che resta di un’altra vita. A 68 anni l’avvocato Gianni Fontana vive la sua second life, di successo, come la prima. La fortuna e la resistenza alle avversità gli hanno concesso un’altra possibilità. In mezzo, però, c’è stata la ferita di Tangentopoli: la caduta, la solitudine, «la mortificante, piccola esistenza da inquisito». Nessuno lo riconosce per strada, i capelli sono ingrigiti rispetto alle ultime foto ufficiali che risalgono al 1993, per la politica è uno scomparso, si fa vedere nei palazzi romani solo in occasioni particolari, come la commemorazione dell’amico Martinazzoli alla Camera, si siede in ultima fila, in fondo alla sala, appena finito scivola via senza salutare nessuno. Eppure è stato un potente vero. Un giovane rampante dell’ultima generazione democristiana. Un primo della classe: deputato nel 1972 a 28 anni, il più giovane della legislatura, eletto alla Camera con oltre 48mila preferenze nella circoscrizione Verona-PadovaVicenza-Rovigo, detta la Sacrestia Bianca per la quantità di voti che regalava alla Dc. Sottosegretario a 32 anni ai Trasporti, e poi ai Lavori Pubblici e all’Industria. Segretario organizzativo della Dc negli anni Ottanta. Membro della direzione, vicino a Donat Cattin e poi a De Mita e Goria. Coordinatore della sinistra dc in Veneto: «Avevo visto in anticipo l’ascesa della Lega, Bossi aveva scritto un articolo sul mio giornale “Città popolare”. Noi cattolici non avevamo Cattaneo, ma Sturzo sì. Ma c’era il partito a Roma che non ­­­­­188

voleva cambiare, a De Mita e Gava il federalismo non piaceva, lo vivevano come la fine del potere centro-meridionale». Infine, ministro dell’Agricoltura del governo Amato nel 1992, a 48 anni, apprezzatissimo a Bruxelles. Il 21 marzo 1993 gli arriva l’avviso di garanzia, firmato dal pm veronese Guido Papalia, per concorso in violazione del finanziamento pubblico dei partiti, accusato di essere a conoscenza della provenienza illecita delle risorse per la sinistra dc veneta. «Un ex deputato riferì ai giudici che alcuni soldi erano andati a me. Lui provò a trattenermi: ‘Che razza di rea­ to è il concorso in finanziamento illecito?’. Ma io avevo deciso», ricorda Fontana. «Questa è la triste storia di questo momento e io faccio parte di questa storia», scrive nella lettera di dimissioni ad Amato. È il settimo a mollare il governo, in quell’anno disgraziato in cui i ministri saltano uno dopo l’altro: Scotti, Martelli, Goria, Ripa di Meana, De Lorenzo, Reviglio... Lasciai il ministero dell’Agricoltura in via XX Settembre dopo aver fatto le ultime telefonate. Mi misi in macchina, mi accompagnava un amico, Alberto. Sull’autostrada i camion, le auto che ti superano e io che non riuscivo neppure a pensare. Ero in fuga. Arrivai a Verona a notte fonda, in città non c’era nessuno ad aspettarmi come accadeva di solito, solo mia moglie Paola. E fu il primo impatto con il potere perduto: nessun codazzo fuori dalla porta, conoscenti che si presentavano a tutte le ore, alla festa di compleanno mi ritrovai con tre amici. Ma non fu un compleanno triste. Cosa temevo di più in quel momento? L’opinione pubblica, il giudizio dei miei figli, quel pubblico ministero che mi aveva indagato. La città che mi voltava le spalle. Il marchio della caduta. Le giornate che si aprivano e si chiudevano temendo il peggio da un momento all’altro. Non volevo morire di vergogna, né pensare che darsi la morte fosse un atto virtuoso, ma ho pregato per chi si è tolto la vita. Ricordo da bambino il Giornale Radio negli anni Cinquanta, la manopola pesante, si stava insieme in famiglia e si commentavano insieme le notizie per molti giorni. La scuola della Gioventù cattolica, il Concilio. L’incontro con la politica: i miei primi interventi in giacca e cravatta, citazioni, mani sudate, ero un artigiano. E poi il potere. Un po’ di gloria, la lenta perdita di appartenenza a se stessi: si appartiene al partito, alla corrente, agli elettori, agli amici che ti corteggiano perché vogliono ancora quella cosa, il potere. Noi della sinistra democristiana ­­­­­189

avevamo una concezione giacobina della politica, pensavamo che se fossimo arrivati noi sarebbe cambiato tutto, dall’alto. E non ci siamo accorti di cosa stava accadendo. Pensavamo, a torto, che la violazione della legge sul finanziamento pubblico non fosse un grave reato. Anche noi dovevamo iscriverci al partito, dentro il partito a una corrente, con le sue sedi e il suo sistema di finanziamento. Anche chi di noi non ne aveva approfittato ne aveva almeno usufruito. Subito dopo le mie dimissioni da ministro scrissi una lettera alle due persone che avevo sentito più vicine in quel momento, Bruno Tabacci e Giovanni Goria, che erano finiti sotto indagine come me. Ecco qui una copia. ‘Caro Giovanni, caro Bruno, la rivoluzione sta investendo la nostra piccola, personale storia e quella più grande del Paese. Abbiamo sbagliato per ingenuità, per imperizia o per passione di potere? Eppure eravamo noi la generazione del rinnovamento che non rivendicava successioni: sarebbe stata ridicola pretesa visti i violenti segnali di grandi cambiamenti e, riconosciamolo, anche di certi segnali nostri. Pensavamo che il partito fosse alla deriva, la nostra era una critica radicale al doroteismo morbido e nello stesso tempo arrogante, servile e padrone. E ora non siamo più nulla’. Goria si ammalò, non si capacitava di quello che era successo, non riusciva a trovare pace. Tabacci è un combattente come il suo maestro Albertino Marcora. Ero sottosegretario di Marcora quando lui era ministro dell’Industria, una mattina venne con la mano sinistra fasciata, ‘mentre andavo in campagna sono scivolato e ho appoggiato la mano su un roveto, si è strappata la pelle’, era una scusa, il male avanzava... E io? Io mi resi conto che negli anni del potere la politica mi aveva interamente assorbito e che avevo smarrito tutto. Stavo perdendo la mia famiglia, i miei figli, la mia coscienza, Dio. Dovevo ritrovare me stesso. Nella Dc e nel governo sentivo dire in quei giorni: resistiamo. Ma io avevo capito che quella storia era finita. E considerai le inchieste come qualcosa che era arrivato al momento giusto. Avevamo dimenticato che per noi la lezione di Machiavelli era inaccettabile. Volevo espiare la mancanza di sorveglianza, di vigilanza, la confusione tra mezzi e fini. Andai in Irlanda, in un convento benedettino. Ho passato molti mesi lì, lontano da tutto. Per mesi ho fatto la vita dei monaci: sveglia all’alba, le lodi, la messa a mezzogiorno con le vesti candide, il pranzo in refettorio, un’ora per giocare a scacchi o parlare con qualcuno, i vespri serali, il riposo. E il lavoro manuale: io che ero stato ministro dell’Agricoltura, che ogni settimana prendevo l’aereo e volavo a Bruxelles per occuparmi di latte e bestiame, io che stabilivo le quote per ­­­­­190

i paesi dell’Unione e che mi confrontavo con gli allevatori, mi ritrovai in una stalla, in mezzo alle mucche. Il pomeriggio lavoravo alla falegnameria, mi sentivo tornare bambino, il meccano con la seghetta... la persona più importante fu padre Celestino, un professore di storia medievale, un uomo coltissimo che aveva preso i voti da adulto e che parlava almeno quattro lingue, tra cui l’italiano, perfettamente. Un giorno lo accompagnai in un viaggio nel Nord-Ovest dell’Irlanda. E lì, tra le colline brulle tagliate dal vento dell’Oceano, mi disse: ‘sei un avvocato, riparti dalla tua professione’. E mi ha regalato il suo messaggio: sole orto spes, descendente pax. Quando il sole sorge la speranza, quando tramonta la pace. Non fu facile. All’inizio in Italia non volevano lavorare con me, temevano ripercussioni. Mi ritrovai a Bruxelles, da un avvocato belga, in una stanzetta senza fax e senza telefono, sono ripartito da zero. Ho avuto la fortuna di incontrare due ragazzi, un romano e un molisano, insieme a loro ho fondato più tardi lo studio Fontana e associati. Oggi siamo una realtà importante, curiamo le fusioni societarie tra le corporation. In questa veste, per un breve periodo, ho presieduto la Cirio. La politica? Nel 2004 sono stato capolista alle elezioni europee per l’Udeur di Mastella, me lo chiese Martinazzoli e lo feci per spirito di servizio. Mi tirai fuori subito, non mi chiedete altro, dissi. Però è una passione che non ti lascia mai.

Il pranzo è terminato, c’è ancora tempo per un caffè e il dono di due piccoli libri di meditazioni, Le mura e La sosta. L’avvocato Fontana fa strada nella stanza dove lavora. Piccola, monacale, con una finestra all’angolo. C’è un tricolore appeso e una grande sorpresa: proprio di fronte c’è la statua della Madonna di Trinità dei Monti in cima alla colonna dove il giorno della festa dell’Immacolata Concezione il papa deposita un cuscino di fiori. Da qui, dal settimo piano, si vedono bene i fiori secchi portati dai pompieri l’otto dicembre di ogni anno. «Credo nella Provvidenza, in un Dio che segue le cose della storia, nei profeti dell’Antico Testamento. Martin Buber scrive che in ogni generazione ci sono quarantacinque saggi, ma noi non li conosciamo. Credo in Dio, ma non sono sicuro della mia fede: sono inciampato tante volte nel dolore, così tanto da riempire il mondo», sussurra ora Fontana, l’ex ministro travolto da Tangentopoli e poi rinato. E prima di chiudere la finestra sulla Madonna cita una frase di Simone Weil: «Non il presente, non il futuro da immaginare. Solo il passato è realtà pura». ­­­­­191

«Siamo morti sotto falso nome»

«La sordità. Ecco la lezione di quegli anni: la fine arriva quando c’è sordità. E noi eravamo diventati sordi...». Dopo ore di conversazione Enzo Carra non risponde più al cellulare, lascia che gli appuntamenti si affollino nel suo piccolo ufficio in via dei Prefetti, alle spalle della Camera. Giugno 2011, la Procura di Napoli spedisce in carcere Luigi Bisignani, il faccendiere di Andreotti già noto alle cronache giudiziarie di Tangentopoli e chiede l’autorizzazione all’arresto per il deputato del Pdl Alfonso Papa, in un clima di tutti contro tutti, procure contro procure, Guardia di Finanza contro Guardia di Finanza, servizi contro servizi. «Sembra il libro di Paolo Monelli, Roma 1943...». Le convulsioni finali di un regime che cade Carra le conosce bene. Le ha vissute, e non per modo di dire, sulla sua pelle. Ne porta le tracce sul volto, nell’anima, nell’emozione che ancora gli spezza la voce quando ripercorre la sua vicenda. Giornalista, nei primi anni Novanta era molto più di un semplice portavoce per il segretario della Dc Forlani, il consigliere più ascoltato, l’eminenza grigia di piazza del Gesù, così potente che in Rai era nata un’apposita corrente, i carristi. Barba precocemente imbiancata, eletto nel 2001 deputato della Margherita, poi del Pd e dell’Udc, osservatore raffinato delle cose politiche, ha dedicato un libretto a Tangentopoli scrivendo del caso Citaristi. Ma c’è un caso Carra, che vale la pena di raccontare. «Al 1992 ci siamo arrivati dopo una lunga incubazione che secondo me comincia con l’omicidio di Moro, nel 1978. Ma in mezzo c’è stata la caduta del comunismo, l’89. Solo Cossiga aveva previsto tutto, noi in piazza del Gesù non avevamo capito niente. Il giorno dopo la caduta del Muro viene fuori un mondo sotterraneo. Il sistema era imbambolato, la gente non aveva più bisogno di un messaggio anti-comunista, noi democristiani non siamo stati in grado di ­­­­­192

trasmettere il senso della nostra vittoria. E poi c’erano i tre leader che erano arrivati a fine partita. Craxi aveva smesso di pensare che il Psi potesse diventare un partito importante, voleva solo tornare alla guida del governo. Forlani dirà fino all’ultimo di non aver mai pensato di diventare presidente della Repubblica, una sera di dicembre 1991 fui io a spiegarlo a Cossiga al Quirinale. Lui mi chiese se Forlani fosse in corsa per la sua successione e io gli risposi: ‘Francè, che Arnaldo si candidi è fuori dalla sua visuale’. Uscii e andai a fare una passeggiata davanti alle bancarelle di Natale con mio figlio, c’erano i primi telefonini, pesanti, squillò il mio, era Gava, voleva chiedermi spiegazioni sul perché in una notizia d’agenzia appena uscita si affermasse che io avevo annunciato a Cossiga il ritiro di Forlani. La mia chiacchierata informale era stata subito diffusa dal presidente! Era il momento più difficile tra Cossiga e la Dc. Nell’ufficio politico di piazza del Gesù parlavano di farlo interdire, volevano chiamare l’ambulanza, io lo difendevo sempre e gli sono rimasto vicino fino alla fine, questo faceva innervosire qualcuno. Una volta De Mita mi ringhiò: ‘Guarda che parla male anche di te!’. Eravamo al biliardo...». «In questo clima la Dc affrontò la sua ultima campagna elettorale. Io fui candidato al Senato, a Roma, in un collegio molto difficile, eppure ero il portavoce del segretario e tutti parlavano di me come uno dei personaggi più influenti della Dc. Ma era già partito lo scontro sotterraneo tra andreottiani e forlaniani in vista dell’elezione al Quirinale. Per dire quanto fossero lievi i metodi, ci fu Peppino Ciarrapico che arrivò a farmi minacciare. Disse a uno dei segretari di Forlani che avrebbero potuto farmi ammazzare, io risposi di riferire che era un miserabile. In ogni caso, sul piano politico, mi uccisero davvero: mi fecero la guerra per farmi mancare i voti, alla fine non fui eletto al Senato e le conseguenze furono almeno due. A Forlani venne a mancare in Parlamento un amico fedele che sarebbe stato capace di aiutarlo. E quando arrivò la tempesta delle inchieste, a differenza di tanti altri, non avevo l’ombrello protettivo dell’immunità parlamentare: ero l’unico dc di un certo rango che poteva essere arrestato». «Le elezioni per il Quirinale sono andate come sappiamo. Io ho sempre pensato che in quei dieci giorni, tra il 13 e il 23 maggio, ci siamo giocati tutto. Andreotti si illuse di riuscire a essere eletto. Si era bendato gli occhi e aveva fatto finta di non capire che i comu­­­­­193

nisti non lo avrebbero mai votato. Ce lo disse Giorgio Napolitano: ‘Andreotti non lo voteremo mai’. Forlani, invece, affrontò la partita come sempre: non fece niente. Non una riunione, non un incontro. C’era Pier Ferdinando Casini che insisteva perché si vedesse con Bossi almeno per parlare, Forlani non volle. Forse aveva capito che era finita. C’era un potere economico che ci aveva voltato le spalle. Con Romiti ci incontravamo a Palazzo Sturzo all’Eur. Colloqui sempre più tesi, difficilissimi. ‘Dovete cambiare, noi non ce la facciamo più a sostenervi’, ci ripeteva. Un ricatto. Forlani tentava di reagire, a dispetto di quanto è apparso in seguito la Dc era molto più indipendente dai poteri economici di quanto non fosse per esempio Craxi. Uno dei portavoce di questo potere che voleva voltare pagina era Berlusconi. Con lui gli incontri erano frequenti. Ci vedevamo a casa sua, all’epoca abitava in via dell’Anima, dietro piazza Navona. Cene da quattro, cinque persone massimo: Berlusconi, Gianni Letta, Fedele Confalonieri, Forlani e io. Ogni volta era una rassegna di tutte le frustrazioni, di tutte le insoddisfazioni del mondo imprenditoriale verso la classe politica. ‘State attenti perché siete finiti’, ci ripeteva. Prima gli imprenditori e la società civile si candidavano nei partiti, ora c’era il distacco: la mafia, la camorra, la corruzione, tutto era buono per darci addosso». «Quando sono partite le inchieste all’inizio non abbiamo capito. Ancora una volta l’unico che aveva intuito la portata dell’operazione era Cossiga. Si era dimesso dal Quirinale prima di essere messo nelle condizioni di dover decidere se dare o no l’incarico a Craxi perché sapeva che Bettino non era più candidabile. Aveva direttamente o indirettamente un filo con Di Pietro, un canale di informazione. Gli altri avevano notizie di livello infimo. Noi in piazza del Gesù ne sapevamo meno di tutti: la Dc a Milano non esisteva, si accontentava di un potere spicciolo. E da Milano ai partiti nazionali arrivavano le schegge. La prendemmo nelle prime settimane come una cosa locale, poi cominciarono ad arrivare gli avvisi di garanzia e tutto cambiò. Ricordo una sera Citaristi traballante di fronte alla televisione. E il balletto squallido di chi nella Dc voleva utilizzare le inchieste per sostituirsi. Vogliamo credere che il ministro dell’Interno e il ministro della Giustizia non sapessero quello che stava avvenendo? Scotti e Martelli avevano fatto un patto per sostituire Forlani e Craxi, poi le cose andarono male anche per loro». «Qualche tentativo di rinnovamento l’avevamo compiuto: io e ­­­­­194

De Mita alla conferenza organizzativa della Dc di Assago, nel dicembre 1991, avevamo posto il tema dell’incompatibilità assoluta tra incarichi di partito e di governo. Lo ricordo perché nel 1992 il tema ritornò di attualità, i ministri dc furono costretti da Forlani a dimettersi da parlamentari, Scotti rifiutò e lasciò il ministero degli Esteri... In molti mi hanno chiesto in questi anni: perché non avete fatto nulla per salvarvi, voi democristiani? C’era una babele: qualcuno voleva votare un’amnistia, qualcun altro cambiare la legge sul finanziamento pubblico dei partiti, oppure presentarsi di fronte al Paese e chiedere scusa, ma c’era un totale pessimismo sul fatto che saremmo stati capiti. Nelle parole di Craxi di fronte alla Camera c’era già la piena confessione dei fatti, quella era stata secondo me l’ultima occasione per fare piazza pulita. Sarebbe andata bene? Non lo so. Ripensandoci oggi devo ammettere che io e Citaristi, per fare due esempi, non avevamo capito che la Dc era un partito-Stato. E che per quasi tutti i dirigenti della Dc era inconcepibile che lo Stato chiedesse scusa e dicesse: ci siamo sbagliati. Ma non ci fu neppure il coraggio di sostenere questa posizione, come aveva fatto Moro nel 1977 sul caso Lockheed, quando disse alla Camera: non ci lasceremo processare nelle piazze. La Dc di Moro era un partito, la Dc di Forlani era un ex partito». «Nell’ottobre 1992 Martinazzoli appena eletto segretario della Dc mi prese sottobraccio. ‘La situazione è gravissima’, mi disse, ‘non sai che mi hanno raccontato’. Penso che si riferisse a un incontro con Di Pietro: aveva consultato i giudici prima di accettare di fare il segretario. Io però consideravo concluso lì il mio impegno in piazza del Gesù: ero stato portavoce del segretario per più di tre anni, ero arrivato in modo quasi casuale all’incarico, subito dopo l’elezione di Forlani a segretario eravamo andati a colazione nella casa romana dell’avvocato Agnelli alle pendici del Quirinale e di ritorno Arnaldo, con quel suo modo un po’ distratto di fare le cose, mi disse: ‘Eh già, qui bisogna pure risolvere la questione dell’ufficio stampa, io avrei pensato di farlo fare a te...’. Finita la segreteria Forlani ricominciai a guardarmi intorno, volevo proporre un programma culturale su Radiotre. Ero a pranzo con Bruno Zincone, mio amico dai tempi del “Tempo”, consigliere di amministrazione della Rai, quando mi telefona un maresciallo: ‘Di Pietro la vorrebbe sentire, l’aspetta per mercoledì prossimo. Non si preoccupi, può prendere l’aereo per Milano alle sette e trenta e alle undici è di nuovo a ­­­­­195

Roma’. Lo riferisco a Forlani e lui pigramente mi chiede: ‘E che vuole da te?’. Non ne avevo la minima idea: in quel momento non avevo più nessun incarico di partito, non ero parlamentare, ero solo un giornalista, non ne parlai con Martinazzoli». «Vado a Milano, è il mio primo incontro con Di Pietro. ‘Lei mi deve dire qualcosa’, attacca subito. Mi tratta con una cordialità pazzesca, voleva intessere un rapporto di confidenza, ‘noi uomini liberi’, ammicca a un certo punto. Mi chiede se fossi amico di Graziano Moro, un manager pubblico veneto che collaborava con il dipartimento economico della Dc, era stato lui a raccontare che gli avevo parlato di Alberto Grotti, il vice-presidente dell’Eni, a proposito dell’Enimont. ‘Carra può sapere qualcosa’, aveva buttato là ai magistrati. ‘Sa’, rispondo a Di Pietro, ‘nella Dc siamo tutti amici’. E lui un po’ se la prende: ‘Ma che fa, come Craxi?’. Alla porta, finalmente, mi dice: ‘Senta, lei dovrebbe tornare venerdì’. Torno a Milano venerdì, è il 19 febbraio, questa volta mi faccio accompagnare da un avvocato, uno dei pochi che conoscessi, ma sono tranquillo. Ho anche un appuntamento a pranzo con Alain Elkann, sulla panca in attesa mi fa compagnia un mio amico, il regista televisivo Gianni Barcelloni. Esce Di Pietro dalla stanza per mangiare un panino e a questo punto scopro che è in corso un confronto con Graziano Moro e con il suo avvocato. ‘Guarda che qui fanno sul serio’, mi avverte l’avvocato di Moro, ‘a Di Pietro serve una testimonianza, Moro non può ritrattare perché altrimenti lo rimettono dentro. Si accontenterebbero anche di una battuta tipo: ti pare che non c’è scappata una tangente’. ‘E ti pare che io faccio una battuta’, replico. Mi rifugio nel cesso finché non mi chiamano. ‘Non fare l’eroe’, continua a ripetermi l’avvocato di Moro, ‘una battuta e usciamo, io sono molisano come lui’. A quel punto mi incazzo davvero. Comincia il confronto. Chiedo a Moro di specificare in che luogo gli avrei parlato della tangente Enimont. ‘Nella sua stanza’, risponde. ‘Nella mia stanza c’era sempre qualcuno. E secondo lei io davanti ai giornalisti avrei detto che la Dc aveva preso una tangente da cinque miliardi?’, chiedo. Nella richiesta di arresto Di Pietro scrisse che mi ero comportato in modo arrogante. Mi accorgo che Moro lo chiamano ingegnere. L’ingegner Moro si alza in piedi e mi accusa: ‘Il dottor Carra nega perché fa parte del sistema’. Io grido a Di Pietro: ‘Gli chieda se ancora presiede due o tre gruppi dell’Eni’. E a quel punto mi viene in mente quello che mi aveva profetizzato Cossiga la sera prima: ­­­­­196

‘Domani a Milano ti arrestano, lo sai sì?’. E realizzo che anche in quel caso Francesco aveva capito tutto, come sempre». «Succede tutto come a teatro. Una pochade. Mi lasciano in uno stanzone pieno di carte, con un agente in borghese, mi metto nervosamente ad aprire i faldoni e a leggerli, lui mi dice che non si può fare, soprattutto nel mio stato. Di Pietro va dal gip Italo Ghitti con gli avvocati Corso Bovio e Nadia Alecci, mi viene in mente che c’era un articolo di Massimo Riva su “Repubblica”, in cui si faceva esplicito riferimento a una tangente per Enimont che avrei potuto citare. Nella stanza ci sono ora i magistrati del pool, Davigo, Colombo, io a quel punto dico che non posso confessare quello che non so. Spiego: una condanna è una condanna, una condanna peggiore sarebbe guardarsi allo specchio dopo aver messo in mezzo altre persone. Colombo mi stringe la mano, vedo che qualcun altro si commuove. Mi arrestano per falsa testimonianza, applicando l’ultimo decreto contro la mafia che prevedeva la possibilità di arrestare un testimone reticente. Nella stanza arriva per arrestarmi un maresciallo in borghese, lo stesso che aveva arrestato Renato Curcio. ‘Scusi, perché lo fa?’, chiedo sconvolto. ‘Perché non si dicono le bugie’, mi risponde. Ma in realtà mi arrestavano perché avevo detto la verità! Rientra Di Pietro, mi vede e mi saluta. C’è un momento surreale, in cui tutto si fa rarefatto. E io esplodo, dandogli del tu: ‘Quello che mi stai facendo te lo porterai dietro tutta la vita e andrai all’inferno!’. Lui diventa tutto rosso e abbassa lo sguardo». «Il 4 marzo, due settimane dopo, mi portarono da San Vittore a Palazzo di Giustizia all’alba, il processo per direttissima cominciò alle due del pomeriggio. Gli altri detenuti erano già tornati in cella, io rimasi nella cella sotterranea, non c’era nessun pericolo di fuga e di ordine pubblico. Il maresciallo dei carabinieri mi aveva portato un panino con la mortadella e mi aveva sussurrato di essere democristiano. Suonò il telefono alle sue spalle, gli dissero qualcosa, si voltò verso di me, aveva cambiato espressione, si era rabbuiato. Gli avevano appena comunicato che doveva ammanettarmi. E in quel momento realizzai. Ero troppo poco, io, per poter ambire agli schiavettoni. Capitava a me, poteva capitare a un altro, in fondo io non avevo l’immunità ed ero stato nella segreteria di Forlani. Ero l’interprete di una rappresentazione. Mi stavano per fare il processo di Pasolini. Io non ero Enzo Carra: io ero piazza del Gesù, la De­­­­­197

mocrazia cristiana, il partito-Stato. Questo pensiero, per paradosso, mi ha sollevato». «Ecco che comincia la passeggiata pasoliniana. Siamo saliti a piedi, appena aperta una porta si scatena l’ira di Dio di fotografi e telecamere, sento qualcuno che mi sorride e mi saluta. A quel punto, lo giuro, non me n’è fregato più niente. Avevano sbagliato loro, adesso dovevano portarmi fin dentro la gabbia. Vedo la sala che si riempie a tal punto che il presidente della Corte si rifiuta di procedere. Vedo Di Pietro alzarsi e venire verso di me. ‘Dottor Carra, non è questo il suo posto, venga con me’, mi dice. Mi accompagna in prima fila e mi dice sottovoce: ‘Buona fortuna’. Poi si volta verso il mio avvocato Domenico Contestabile e riprende tono: ‘Stiamo per arrestare Cagliari, ora sapremo tutto’. Vedo anche entrare nell’aula Umberto Bossi alla guida di un gruppo di leghisti. Va a stringere la mano a Di Pietro. E grida: ‘Avanti, andate avanti’. Gridano tutti, prima di andarsene. Non l’ho mai dimenticato. E questo forse giustifica perché la mattina che Bossi si sentì male, nove anni dopo, intervenendo nell’aula di Montecitorio, feci un accenno al destino che era toccato a chi in passato aveva predicato la disunione del Paese che porta dolore e morte e scatenai la reazione furiosa dei deputati leghisti...». «È finita che mi hanno chiesto ancora di ritrattare dopo la condanna per direttissima in primo grado. A quel punto della tangente Enimont tutti sapevano tutto. Avrei potuto parlare anch’io, magari togliendomi qualche soddisfazione con qualche avversario interno. Era una prassi comune in quel momento, c’era una gran voglia di confessare i propri peccati per purificare l’anima. Ma, ripeto, non potevo ritrattare la verità: io di quella tangente non sapevo nulla e non potevo dire il contrario. Nella sentenza di appello che mi ha ridotto la pena a un anno e quattro mesi mi è stato attribuito un ‘raro senso di dignità’. I giudici sono stati benevoli con me...». «Mi è dispiaciuto tutto quello che è avvenuto dopo. Mi dispiace che la Dc sia finita, che nel 1994 Casini abbia fatto la rottura e sia andato con la Casa berlusconiana e che Martinazzoli abbia cambiato il nome alla Dc mentre la Dc stava finendo. È stato come morire sotto falso nome. Mani Pulite poteva essere la grande occasione per mettere sotto accusa i nostri vizi, oltre che aprire un piccolo squarcio su corrotti e corruttori. È stata invece una grande occasione mancata per cambiare regole e comportamenti. Si sono contate le vittime, i morti e poi, come se niente fosse, tutto è ripreso come prima. E chi ­­­­­198

aveva osannato i giudici si è messo ad attaccarli, perché non servivano più. Invece di cambiar sistema, si è cambiato discorso. A me invece Mani Pulite ha cambiato la vita. La sofferenza di quel periodo mi ha fatto capire cose che non avevo mai compreso. È stata una depressione lunghissima. E l’unico ringraziamento lo devo a chi mi è stato sempre vicino con affetto costante e sterminato, il mio amico Francesco Cossiga».

IX

Un mondo che muore

«Dio si è voltato dall’altra parte» Mino Martinazzoli

Dalla Velina di Vittorio Orefice: 28 settembre 1992 I primi dati sulle elezioni provinciali di Mantova hanno provocato gelo e allarme a Montecitorio. Il commento più diffuso nel Transatlantico e nella sala stampa è stato: incredibile. Per la verità si aspettava la pioggia ma non il tifone. Enfatizzare può essere un errore perché Mantova non è l’Italia, tuttavia la persuasione dominante è che se si andasse alle politiche non ci sarebbe più quadripartito, pentapartito, il Governissimo o altre formule tradizionali. 30 settembre 1992 Stamane in aula i deputati della Lega Nord hanno inveito contro la partitocrazia ladrona e hanno urlato a squarciagola espressioni che da giorni si ripetono nella piazza di Montecitorio: «Ladri, ladri, ladri!», accompagnate dallo slogan rituale: «Roma ladrona, la Lega non perdona». Quotidianamente si radunano nella piazza, attorno all’obelisco, dimostranti che inveiscono contro i deputati, molti dei quali hanno protestato con Napolitano. In questo contesto la notizia degli arresti in Abruzzo ha provocato un forte turbamento dei Dc, nei socialisti e nei liberali. 1° ottobre 1992 «Voci di disturbo», offerta la segreteria Dc a Prodi. Craxi in Campidoglio: «Il 1992 è un anno nero». 6 ottobre 1992 Sondaggio del “Gazzettino” su Vicenza. Lega Veneta al 40%, Dc al 24, Pds all’8, tutti gli altri sotto il 5. ­­­­­200

13 ottobre 1992 Martinazzoli è stato eletto ieri mattina segretario della Dc con una procedura rapidissima che ha sconcertato. Tutto si è concluso in un’ora e mezzo. Perché nessuno ha chiesto di intervenire nel dibattito che poi non c’è stato? Martinazzoli ha pranzato stamane da Settimio con i suoi fedelissimi, Castagnetti, Fracanzani, Biasutti, Agrusti, Grazioli e Zaniboni. 14 ottobre 1992 Martinazzoli davanti ai deputati è stato molto franco, addirittura crudo. Ha sottolineato che nei comuni dove si voterà il 13 dicembre il partito si sta estinguendo, «è quasi un cimitero». 21 ottobre 1992 I Magistrati accrediterebbero la tesi secondo la quale Lima sarebbe stato ucciso perché dopo essere stato il Procuratore delle cosche non ne aveva più tutelato gli interessi. Inoltre Lima avrebbe avuto il terminale a Roma. Questa versione ha suscitato scalpore a Montecitorio perché è stata interpretata come una chiamata in causa di Andreotti. Luciano Violante: «È quanto mai singolare che oggi il senatore Andreotti prenda le difese di Lima». 23 ottobre 1992 La Dc si sente assediata, aggredita. L’aggressione non è rivolta contro i morti ma contro i vivi. Mannino ha sostenuto che la Dc non deve assumere un atteggiamento di fatalistica rassegnazione fornendo alibi a chi la vuole demolire. 19 novembre 1992 Fra tre settimane si voterà. Il nuovo test darà probabilmente una accelerazione al dibattito politico. La Dc confida in un lieve recupero rispetto alle previsioni più nere. I primi sondaggi per Monza e Varese darebbero però la Lega al 40 e la Dc al 18 per cento. 25 novembre 1992 Nel pomeriggio si era diffusa a Montecitorio la voce secondo la quale il socialista Finetti ex vice-presidente della Regione Lombardia sarebbe stato arrestato mentre stava entrando nella sala dell’Assemblea nazionale socialista. La voce, se fosse stata confermata, avrebbe avuto del clamoroso. Comunque è già di per sé significativo che sia stata messa in circolazione. ­­­­­201

La voce sull’arresto è risultata falsa. Ma com’è nata? Perché il tam tam? Evidentemente per tingere di giallo l’Assemblea nazionale. 2 dicembre 1992 Sgomento a Montecitorio per gli arresti a Reggio Calabria di esponenti socialisti e democristiani con l’imputazione di essere i mandanti dell’assassinio di Ligato. 3 dicembre 1992 La notizia del suicidio del giudice Signorino ha aggravato lo sgomento. Si ha la sensazione che si stia creando una sorta di borsino dei pentiti disposto a parlare su tutto e su tutti. Sorge il sospetto che uno dei punti più bassi del rapporto tra la sacrosanta ricerca della verità e il ruolo dei pentiti sia stato toccato con la escussione del Dr. Buscetta davanti alla Commissione Violante. Da allora è stato un precipitare degli eventi [...] Il Ministro Vitalone, magistrato, ha sottolineato che la materia dei pentiti va gestita con un altissimo senso di responsabilità. Indipendentemente dall’accertamento della verità, sul piano politico il danno per la Dc è scontato. 7 dicembre 1992 Pericoli di secessione, golpe strisciante. 14 dicembre 1992 I risultati elettorali sono una conferma del cambio degli equilibri politici del Paese. È inutile affermare che si tratta di un minitest. Anche in Italia si sta affermando il fenomeno polacco della frantumazione delle forze politiche in tanti segmenti. La Dc conserva il ruolo di partito di maggioranza relativa: non è una consolazione ma la constatazione che ci sono le condizioni per tentare un recupero. La Lega è al secondo posto, di gran lunga più forte di Pds e Psi. 15 dicembre 1992 Craxi ha riflettuto per alcune ore perché egli avesse ricevuto l’avviso di garanzia prima che se ne avesse la conferma ufficiale nella tarda mattinata. Si dice che fosse intenzionato a dimettersi dalla Segreteria, poi superato il primo turbamento, ci ha riflettuto e alle 15 e 30 ha stilato una dichiarazione molto dura (chiama in causa Martelli e Balzamo già morto). Martelli aveva convocato una riunione di amici all’Antica Pesa ma poi l’ha disdetta. ­­­­­202

È la prima volta che un avviso viene inviato a un Segretario per violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Se dovesse essere affermato il principio di responsabilità personale probabilmente non si salverebbe nessun segretario. 18 dicembre 1992 La dichiarazione di Forlani sulla responsabilità oggettiva significa che comincia a formarsi uno schieramento del non ci sto. La segreteria socialista ha diramato un comunicato per sottolineare che la gazzarra di ieri sera in via del Corso è stata organizzata dai professionisti della contestazione. Non ci sarebbe nulla di spontaneo. Si dice addirittura che ci sarebbe una organizzazione di professionisti che a pagamento sarebbero pronti a promuovere manifestazioni ovunque e contro chiunque con una tecnica ormai collaudata. Questi professionisti disporrebbero di striscioni, megafoni, cartelli e di stipendiati? Craxi sarebbe rimasto sgradevolmente sorpreso di un determinato canale ritenuto amico. Anche questo episodio lo avrebbe convinto della opportunità di chiarire molte cose. 19 dicembre 1992 Si va verso la chiusura di un bisestile infelicissimo per le forze politiche. Per fortuna le vacanze natalizie consentiranno una pausa. Dunque dopo le grandi botte arrivederci a metà gennaio, prima di allora sul piano strettamente politico non dovrebbero verificarsi nuovi fatti eccezionali traumatici.

Si può solo immaginare l’angoscia di Vittorio Orefice, il disincantato estensore delle note serali più lette nelle redazioni e nelle segreterie di partito, abituato da sempre a decifrare spifferi, micro-spostamenti, impercettibili riavvicinamenti e allontanamenti, sacerdote dell’eternità del potere democristiano. Rassicurare, tranquillizzare, tutto si aggiusta e invece no, non si aggiusta più un bel niente e le quattro paginette, in genere ricche di argute considerazioni e di sapienti manovre, giorno dopo giorno, si trasformano nel bollettino quotidiano di un disastro. Nelle sue veline ci sono tutti gli avvenimenti degli ultimi mesi del 1992: il crollo dei partiti alle elezioni provinciali di Mantova con il boom della Lega, l’elezione a segretario della Dc di Martinazzoli chiamato come il medico pietoso a salvare il malato quando non c’è più niente da fare, l’assemblea del Psi di novembre in cui per la prima volta Martelli sfida a viso aperto Craxi, l’avviso di garanzia ­­­­­203

per corruzione per il leader del Psi, il primo che coinvolge un segretario. E poi gli arresti a raffica in ogni parte d’Italia, l’intera giunta regionale abruzzese, l’ex sindaco dc di Reggio Calabria Agatino Licandro, la svalutazione della lira che fa seguito a una manovra economica estiva da 90mila miliardi, le proteste sindacali in piazza, la crisi economica, etica e politica che si intrecciano in un circuito infernale. Le elezioni perse a Monza e a Varese, i sondaggi che danno i partiti della Prima Repubblica in picchiata. Per proseguire con il terribile 1993: la retata di Napoli, provocata dalle rivelazioni ai magistrati del deputato dc Alfredo Vito, mister centomila preferenze, che confessa le tangenti intascate, il primo deputato pentito di Tangentopoli, e le diciotto richieste di autorizzazione a procedere in un giorno con la corrente trasversale del Golfo Pomicino-Gava-De Lorenzo-Di Donato nel mirino dei magistrati. E l’avviso di garanzia per Giulio Andreotti che chiude un’epoca: associazione mafiosa. Una catastrofe. Un sistema in decomposizione. E le metafore mortuarie, come ogni regime arrivato alla fine, mummie, tombe, cimiteri, si moltiplicano. Il segretario della Dc Forlani si congeda nella sua Pesaro, sarà l’ultima festa dell’Amicizia democristiana: «Qui c’erano macerie, rovine, lutti. Attraverso queste colline passava la linea gotica, c’erano i filari recisi, gli olmi, le querce, i gelsi abbattuti...». Vorrebbe promettere: resisteremo, «abbiamo attraversato tunnel più bui, passeremo anche questo». Ma, potenza dei simboli, restano nella memoria soprattutto quelle immagini di devastazione. Come non del tutto irrilevante, nel naufragio e a proposito di topi che abbandonano la nave, è la comparsa in scena di un topo vero, di fogna per di più, che Giulio Andreotti avrebbe incontrato al quarto piano di Palazzo Madama, racconta l’agenzia giornalistica Tac di area democristiana: «Un mago volante da noi interpellato ha dato queste spiegazioni: accorgersi di un topo è segno di disgrazia, se gli si schiaccia la testa è prova di salvezza. Vorremmo chiamare Andreotti per sincerarci se ha dato un calcio al sorcio pentito vagante nel Palazzo. Un augurio comunque al senatore, costretto a vivere e a operare in luoghi tanto spaventosi». (Qualche mese dopo la stessa agenzia Tac segnala la presenza di un gatto grigio e bianco che si infila negli uffici del Senato della Dc: senza specificare quale sventura porti con sé, stavolta.) ­­­­­204

Cipresso, De Profundis, Crisantemo, Mortinazzoli, si accaniscono sul segretario della Dc venuto da Brescia per evitare il decesso, o addirittura a compiere il miracolo di resuscitare il Lazzaro democristiano. «La Dc ha scelto i suoi chierici per il funerale finale», commenta l’elezione il barbaro Bossi. I capi dc, stremati dopo mesi di interregno, lo nominano con un applauso, per acclamazione, una mattina di ottobre del 1992, in Palazzo Sturzo. «Stiano attenti, se pensano di restare seduti ad aspettare», profetizza l’ex ministro Prandini. «Rischiano di vedere passare non uno, ma due cadaveri. Quello di Martinazzoli, certo. E subito dopo, quello della Dc». Molti più applausi il nuovo segretario li aveva incassati tre anni prima, al Palazzo dello Sport dell’Eur, quando i notabili si erano rifiutati di candidarlo. E i delegati del congresso, per protesta contro i patti segreti tra le correnti, gli avevano dedicato un’ovazione di ventisette minuti: tutti in piedi sulle tribune ad acclamare il combattente sconfitto. In quell’occasione Mino Martinazzoli si era lasciato sfuggire parole che ora sembrano profetiche: «Noi democristiani che abbiamo vinto contro chi credeva nel tutto della politica rischiamo di essere sconfitti da chi agita il nulla della politica...». Se fosse diventato segretario Martinazzoli allora, chissà. Il XVIII congresso del 1989, invece, elesse Forlani, in un trionfo di doroteismo e democristianeria: nessuno, davvero nessuno poteva immaginare che sarebbe stato l’ultimo della storia. Nel nulla ora si trova lui, il nuovo leader, «eletto quasi per disperazione», dice di sé, in quel deserto che in pochi mesi è diventato piazza del Gesù. Un leader atipico, uno strano democristiano senza potere e senza truppe, amante delle letture e dei paradossi. «In un mondo dove si esita davanti alla scelta della cravatta io rivendico per me irresolutezza e indecisione». «Qualcuno dovrà dare una mano, qualcun altro toglierla». Uno che Samarcanda di Michele Santoro non pensa di chiuderla, la fucila con una battuta: «Una fumeria d’oppio». Uno che cita Karl Kraus: «In politica, come nella vita, si costruisce solo sulle proprie rovine». Sulle rovine della Dc, però, è quasi impossibile costruire. E in piazza del Gesù, man mano che la distruzione va avanti, il clima si fa sempre più cupo, i corridoi prima affollati di clienti sembrano popolati dai fantasmi di Goya, l’ossessione della Fine: «Ogni giornata romana di Martinazzoli si annuncia con le sue dimissioni», scrive sul suo diario lo storico Gabriele De Rosa, capogruppo ­­­­­205

della Dc al Senato. «Le prime ore trascorrono nelle cure consolatorie che gli offrono i più stretti collaboratori, anzitutto il povero Castagnetti, sottoposto alle più varie escandescenze di Mino, alle sue improvvise cadute in trance, alle sue varie impennate. Gli altri amici devotissimi assistono impotenti al dramma. Il loro compito è riempire le tremende pause, cadute, avvilimenti verticali del capo con annunci alla stampa che tutto procede per il meglio»54. «Nel 1992 il tempo non c’era più, Mino accettò la scommessa per riconoscenza verso chi l’aveva preceduto e per espiazione delle colpe non sue ma della sua generazione», racconta Pierluigi Castagnetti, il capo della segreteria, l’uomo che gli è stato più vicino in quella via crucis insieme al portavoce Marco Giudici. Il tentativo spericolato è morire per risorgere. Anche se Martinazzoli, autore di un denso elogio di Nicodemo, il sacerdote della legge che incontra Gesù di notte, nel segreto, e gli chiede come sia possibile nascere una seconda volta, sa bene quale travaglio comporti l’impresa: «La fatica dolorosa del rinascere è la provocazione perenne che ci tocca, quale che sia la nostra fede o il nostro scetticismo». E non ci sono solo i nemici esterni. Ci sono i vecchi del partito che dovrebbero essere rinnovati e che seguono scettici il tentativo. Ci sono i quarantenni come Casini e Mastella, le seconde e terze file delle vecchie correnti che ora dileggiano i padri nobili crollati giù dal piedistallo («De Mita è una sessantenne che vuole portare ancora la minigonna, ha la cellulite da potere», sentenzia Mastella; «La questione morale coinvolge chi è coinvolto. Noi non siamo gli eredi del Caf e non vogliamo difendere il vecchio», giura Casini) e che cercano una via d’uscita, un nuovo partito di centro o una fantomatica Dc del Sud da portare in dote ai nuovi padroni, la Lega Nord. Ci sono i rinnovatori che vorrebbero correre di più, per esempio la nuova segretaria della Dc del Veneto Rosy Bindi, che gli avversari interni chiamano Giovanna d’Arco, pronta a impugnare la spada per decapitare gli inquisiti. E Mario Segni che qualche giorno prima dei referendum del 18 aprile sul maggioritario molla la Dc e se ne va: «Il drammatico accelerarsi della crisi, soprattutto in questi ultimi giorni, mi ha definitivamente convinto 54 Gabriele De Rosa, La transizione infinita. Diario politico 1990-1996, Laterza, Roma-Bari 1997.

­­­­­206

che il tentativo di riformare dall’interno questo partito è senza alcuna speranza». Il siciliano Vito Riggio consegna il suo addio in un consiglio nazionale stralunato ed è ancora più brutale: «Non mi iscrivo. I morti seppelliscano i morti». Come la balena di Pinocchio, il palazzo barocco, anzi rococò della Dc è vuoto, colmo di relitti, di suppellettili, sembra l’attrezzeria di Fellini. [...] Quando si ricostruirà la cronaca vera di questi giorni, si dovrà prender nota: il palazzo del partito di maggioranza relativa era vuoto come il guscio d’una tartaruga morta, e buio come un museo abbandonato. [...] Sulla porta l’occhio mi cade su un polveroso e antico arazzo di soggetto morale. Campeggia il motto: «Spera in Deo et fac bonitatem». Qui, a occhio e croce, al massimo sperano in Deo. [...] I telegiornali tambureggiano: il governo è agli sgoccioli. Chiedo se si va verso una sorta di governo di salute pubblica, un Cln per l’emergenza. La risposta è nei gesti: spalle strette, mah, chi lo sa, sembra di sì. Le segretarie trotterellano fuori, il palazzo chiude, e per ultima cede la lampadina che rendeva leggibile quello «Spera in Deo», che non lasciava tuttavia sperare in granché di buono (Paolo Guzzanti, Un museo abbandonato, “La Stampa”, 30 marzo 1993).

L’agenzia Tac di Norberto Messina, house organ della vecchia guardia democristiana, attacca il rinnovamento: «Quello che avrebbe dovuto essere il partito della fraternità, in pochi mesi, si sta trasformando nel partito della disuguaglianza» (e per fortuna che non viene invocato, a proposito della Dc, il Partito dell’Amore). «È come per i bar o per i ristoranti, dirottata la clientela, il locale è rimasto vuoto». A Martinazzoli nella Dc rimproverano tutto: di non abitare a Roma, di non voler prendere l’aereo, di non sorridere. «Se mi è consentito di dare un consiglio all’on. Martinazzoli, gli direi di essere meno triste e di sorridere un po’ di più», gli manda a dire il senatore Saverio D’Amelio. Pino Pisicchio, deputato di Bari (diventerà, ancora giovane, un vecchio saggio del Parlamento nella Seconda Repubblica): «Siamo diventati il partito di von Masoch: Martinazzoli piange e in tv ci rappresentano le facce allegre di Mattarella e della Bindi». Cesare Cursi, fanfaniano romano: «Per capire il nostro segretario c’è bisogno della traduzione simultanea. Le sue parole somigliano ai pensieri dei Baci Perugina, buoni solo per fare i simpatici con le donne». Giovanni Alterio, deputato campano: «Chista è ’na nemesi eschi­­­­­207

lea: stiamo pagando tutti i guai che c’ha provocato quel crisantemo del segretario». Giuseppe Gargani: «Sta portando l’elefante a morire di stenti». «Le mie amicizie si diradavano sempre di più, mi ritrovavo sempre più solo nel partito», ricorderà Martinazzoli. Tale è la tensione dopo un turno elettorale finito disastrosamente male per la Dc che lui, il sostenitore della mitezza in politica, si lascia andare con i giornalisti: «Sapete che c’è? Mi sono rotto i coglioni! Siamo morti, no? La Dc è un cimitero, no? E allora lasciateci in pace, che siete venuti a fare qua?». Suicidi, funerali, cimiteri, arresti, diserzioni, il fuggi fuggi di chi giurava fedeltà nel momento della convenienza e ora si rifiuta di combattere. È l’ora della grande tribolazione per la Dc, quella per cui – si legge nel libro dell’Apocalisse di Giovanni – sono passati «coloro che hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il sangue dell’Agnello». Il mysterium iniquitatis che travolge il partito con la croce nel simbolo. Ed è segno della presenza del male nel mondo che «questa dannata storia della Dc», impreca Gabriele De Rosa, «finisca con questo spettacolo indegno». E che a chiuderla tocchi proprio al migliore di quella storia, il più lucido, il meno coinvolto, che sia proprio Mino Martinazzoli a guidare il partito-Stato nel momento della caduta, a pagare gli sbagli non suoi. «Tangentopoli imperversava», ha raccontato Martinazzoli nella sua biografia scritta con Annachiara Valle55. «Non credo però che sia stata questa la causa determinante dell’implosione del partito. Piuttosto ne è stata la modalità». Ed è un mistero del male, anche, che lo sceriffo buono sia stato accusato di non aver salvato la Dc. «Non abbiamo reagito come avremmo dovuto», ha tuonato Forlani. «Avevamo un complesso di soggezione nei confronti della magistratura e della giustizia. Nonostante la storia dei cristiani fosse partita da un processo e da una sentenza di morte che ha tagliato in due la storia». Apocalisse democristiana: martirio, crocifissione, Giudizio Universale. L’uomo che ha mancato per un pugno di voti l’elezione al Quirinale sarà alla fine del 1993 immolato davanti alle telecamere al processo Enimont, smarrito 55 Mino Martinazzoli, Annachiara Valle, Uno strano democristiano, Rizzoli, Milano 2009, p. 146.

­­­­­208

di fronte al Grande Inquisitore Antonio Di Pietro. «Onorevole Forlani, da quanto tempo è onorevole?», chiede il pm. «Da tanto tempo». «Beato lei!». «Quello che dicono i politici che ammettono le tangenti è falso?». «Apprendo le cose come le apprende lei...». Intanto appare, agli angoli della bocca, quella salivazione spezzata, la bavetta dell’ex potente che, rivista mille volte alla moviola, conta più della condanna penale (che comunque arriverà). E di fronte alla dignità con cui Forlani affronta la giustizia torna la domanda: perché la Dc non ha fatto niente per salvare se stessa? Perché non ha fatto nulla Martinazzoli? All’ultimo segretario della Dc, scomparso nel 2011, è stata rimproverata l’eccessiva debolezza, l’accondiscendenza con i giudici, il rifiuto di utilizzare l’ultima risorsa che restava per bloccare le inchieste, la maggioranza parlamentare, e poi di aver dato il via libera allo scioglimento anticipato delle Camere. Negli anni successivi il Parlamento ha votato decine e decine di leggi ad personam, rogatorie, legittimo sospetto, intercettazioni, lodo Schifani, lodo Alfano, processo breve, processo lungo, prescrizioni varie, tutto per salvare un solo indagato, Silvio Berlusconi. Nessun provvedimento, neppure una leggina, per risparmiare invece una classe dirigente che ha governato il Paese per cinquant’anni, spedita al massacro mediatico-giudiziario. Presentando la sua biografia in una libreria di Brescia nel 2009, poco prima di ammalarsi, l’ultimo segretario della Dc ha provato a rispondere alla domanda sul perché non fece nulla per fermare Mani Pulite. E non ha smentito il suo stile: «Abbiamo avuto numerose prostituzioni con il potere, ma non avevamo un’idea di bellum della politica». Ha rivelato per la prima volta i suoi colloqui con il pool Mani Pulite: «Nella casa di un comune amico avvocato io parlavo con Di Pietro. Anche i magistrati erano preoccupati, anche loro volevano evitare che crollasse tutto». E ha ricordato che almeno una misura estrema fu azzardata: «Il tentativo fu fatto con il decreto Conso che depenalizzava il reato di illecito finanziamento pubblico e che avrebbe salvato gran parte degli inquisiti dai processi. Ma ci fu il veto di Scalfaro che negò la firma. Arrivai a Roma in treno da Sanremo, mi dissero che mi aveva cercato il Quirinale, chiesi di poter telefonare dalla saletta vip di Termini. E Scalfaro mi spiegò che non avrebbe firmato il decreto». In cuor suo Martinazzoli sapeva benissimo che quella ­­­­­209

storia era finita e che non sarebbe bastato un decreto a farla risorgere: «Se avessimo insistito sulla strada del colpo di spugna, saremmo finiti tutti ad Hammamet. Dovevamo resistere, non con i nostri torti, ma con le nostre ragioni». Conclusione coerente con una vita da combattente mite. Da politico coraggioso fedele a se stesso: «Ho una sola faccia, una sola, e in questi tempi non è poco». E con quanto aveva scritto nel suo elogio di Nicodemo al momento del congedo: «Tutto finisce. Nicodemo se ne va, laddove il mistero si illumina della sua stessa luce». Forse il buon Dio si era voltato da un’altra parte perché voltarsi altrove, voltare pagina, voltar gabbana è una tentazione cui nel 1992-93 non riesce a resistere neppure il Padre eterno. Ma se nella Dc la fine ha dimensioni religiose, apocalittiche, nel Psi l’addio a Craxi assume il tono della rissa tra cortigiani. Con gli amici di ieri che dalla sera alla mattina si tramutano nei fustigatori dei costumi di oggi, senza rispetto per la storia centenaria del loro partito, che infatti non sopravviverà, e per la tragedia che si sta compiendo altrove: gli inquisiti, gli incarcerati, gli ammalati, i suicidi di Tangentopoli. Lì fucilate in faccia, sacchetti di plastica in cella, lettere strazianti e durissime, morte, dolore, dignità. Qui vanità in gran spolvero, tradimenti, ripicche, vendette, miserie senza gloria. Ha ragione Giuliano Ferrara: «Questo è il momento in cui escono allo scoperto i Maramaldi, quei nobiluomini che hanno avuto carriere e campagne elettorali pagate coi soldi raccolti dai Moroni...». Il Capo, il Cinghialone, Bettino è l’unico all’altezza del ruolo shakespeariano che si è assegnato, quello del grande capro espiatorio. Ma intorno, davanti, e soprattutto dietro di lui, il re assediato, si studiano colpi di mano, si progetta la rivoluzione, arriva il cambiamento e oddio, non ho niente da mettermi. In apertura di un ideale Dictionnaire des girouettes del Garofano, epigoni duecento anni dopo dei rivoluzionari francesi che si trasformarono in sostenitori di Napoleone e poi in lealisti monarchici, potrebbe comparire la lettera datata, quando si dice il fiuto, 17 febbraio 1992. Nella giornata in cui la Fine ebbe inizio, nelle stesse ore in cui a Milano Mario Chiesa viene tradotto a San Vittore, il nobiluomo Carlo Ripa di Meana, ex commissario europeo, amico personale di Craxi, suo testimone di nozze, scrive un messaggio al segretario del Psi per assicurargli il pieno appoggio in vista ­­­­­210

delle imminenti elezioni. E lo informa che non tutti stanno facendo lo stesso: l’amico Silvio Berlusconi, per esempio. «Gianni Letta, che rappresenta Berlusconi, si è limitato a caracollare con telefonate senza seguito», segnala sdegnato Ripa di Meana. Ma si tratta di una faccenda personale: la moglie di Carlo, Marina, già Punturieri, già Lante della Rovere, ha fatto causa alla Fininvest riconoscendosi nei panni di Armida de Tolle, la protagonista della fiction Piazza di Spagna, andata in onda su Canale Cinque. «Tu ti sei gentilmente offerto di aiutare a trovare la soluzione di un equo risarcimento», ricorda Ripa. Insomma, il povero Craxi, alle prese con ben altri problemi in quella primavera 1992, è chiamato a intervenire per mettere pace tra Marina e Silvio56. Quando si dice la gratitudine: dopo quella lettera passano quattro mesi e Ripa di Meana entra in gran spolvero al governo come ministro dell’Ambiente. Nel frattempo imperversano le inchieste, si arriva all’estate dello scontro tra Craxi e Di Pietro e al «poker d’assi» contro il pm di Mani Pulite. E Carlo e Marina, in vacanza a Sabaudia, tornano a sdegnarsi. Questa volta contro il loro ex testimone di nozze, l’amico di una vita Bettino. Il ministro non si trattiene, dalla vacanza attiva il fax e spedisce alle agenzie una lettera aperta al dottor Antonio Di Pietro, «come cittadino che rientra in Italia dopo tredici anni di lavoro europeo». E già in quelle poche righe si può intuire che Ripa non è più craxiano, forse non è più neppure socialista. È un campione della società civile che si incazza perché il suo nuovo idolo, il pm di Mani Pulite, è stato aggredito «con accenni e attacchi dal contenuto oscuro» dal corsivista anonimo dell’“Avanti!”. Chi sarà mai costui, questo brutto ceffo? Non è dato sapere, ma Ripa in compenso sa cosa è necessario fare. «Da denunciare non sono certo i magistrati, ma il patto tra corrotti e corruttori. Il mio invito è continuare nel suo lavoro alla ricerca della verità, nella certezza che l’opinione pubblica non cadrà nella trappola di chi tenta di delegittimare chi opera per recuperare credibilità alle istituzioni», che poi, detta trappola, a tenderla sarebbe stato l’amico Bettino. E quell’estate, si apprende, per la prima volta, Carlo e Marina disertano le vacanze ad Hammamet, fanno rotta su Capri. Qui, racconterà lei, 56

Cfr. Massimo Pini, Craxi cit., p. 496.

­­­­­211

li raggiunge una telefonata del presidente del Consiglio Giuliano Amato: «Ci disse che avevamo fatto malissimo a dare solidarietà cieca a Di Pietro». Anche questa conversazione, naturalmente, verrà diffusa, per dire il clima non proprio di fiducia reciproca che si respira alla corte di Craxi. Ma ormai il Garofano non si porta più, si indossa la toga alla molisana. Le cronache di quei giorni segnalano la notizia che la cantante Ornella Vanoni ha deciso di andare a cantare alla festa dell’Amicizia della Dc di Pesaro, l’ultima della serie. La cosa ha una sua piccola rilevanza perché anche la Vanoni, come i Ripa di Meana, è amica personale della famiglia Craxi, ma in quel settembre 1992 sente il bisogno di dichiarare ai giornali che la musica è finita, e che a Milano «è morto l’albero», a quale fusto con gli occhiali si riferisca non c’è bisogno di aggiungerlo: «L’artista va dove si sente più ascoltato e, diciamo la verità, anche dove si sente più protetto», filosofeggia. Dichiarazioni che piacciono pochissimo al figlio di Bettino, Bobo: «dicono che ci tenesse tanto ad esibirsi alla Scala e che se la sia presa a male quando le hanno detto di no. Forse ora spera di rifarsi con Raiuno». Controreplica della «Cantante della Mala»: «Bobo Craxi si è talmente abituato a questo sistema politico che gratifica faccendieri di ogni risma che non riesce neppure a immaginare persone che facciano scelte disinteressate. Sento il bisogno di collocarmi in una posizione dove la mia sensibilità è rispettata e dove con più forza soffia il vento del cambiamento». La stessa urgenza, collocarsi per l’appunto in una posizione dove è possibile intercettare il vento nuovo, o almeno ricollocarsi e basta, coglie all’improvviso i giornalisti del Tg2, fino a quel momento ribattezzato TeleGarofano, che ora si riscoprono forsennatamente anti-craxiani. Si smarca il cronista inviato al seguito del leader, per anni apostolo del suo culto. «La mia carriera è iniziata molto prima che Craxi diventasse Craxi. Non ho mai avuto tessere di partito né mai le avrò», proclama Onofrio Pirrotta, prima di partire per un lungo viaggio di studio in Inghilterra full immersion, insieme alla moglie Serenella che di Craxi è la segretaria a Roma. In sintonia con il direttore della rete Giampaolo Sodano, detto Soddam Hussein per i baffoni e per il modo garbato con cui tratta gli avversari, l’uomo che ha cacciato Funari perché non abbastanza allineato con il Psi e che ora invece fa professione di ­­­­­212

autonomia: «Nego che Raidue sia una rete socialista. Sono abituato a pensare con la mia testa, non ricevo telefonate né pressioni». In Rai, al solito, il vento del cambiamento soffia un po’ di qua e un po’ di là: per un Gianni Minoli che si butta a sinistra e dedica una puntata al libro di Walter Veltroni su Bob Kennedy, c’è il responsabile delle relazioni esterne della Rai di Milano Renzo Canciani che restituisce la tessera del Psi («mi sentivo politicamente mortificato», giura compito) e si riscopre vicino alla Lega. Che in Rai non esiste ancora e dunque qualcuno dovrà pur occuparsi di rappresentarla in viale Mazzini e nelle sedi regionali: «I telegiornali regionali sono diventati di un leghismo stomachevole, gli stessi che tre anni fa facevano i soffietti a Pillitteri oggi li fanno a Bossi. Tempo sei mesi e io mi ritroverò a essere il meno leghista di tutti», ironizza Daniele Vimercati. Disertano l’Assemblea del partito i nani e le ballerine del Psi, come li aveva definiti Rino Formica, che poi nani non sono affatto, in confronto a quello che verrà nei decenni successivi sono giganti (Krizia, Vittorio Gassman, Francesco Rosi, Sergio Zavoli, Giorgio Strehler, Lina Wertmüller...), e quanto alle ballerine, beh, la Seconda Repubblica dimostrerà di prediligere ben altre professioni e ben altre danze... Nicola Trussardi non si fa vedere. L’altro stilista simbolo degli anni Ottanta, Gianni Versace, smentisce di aver fatto parte dell’Assemblea del Psi. E la butta sull’eleganza: «La giacca e la cravatta erano la divisa dei tangentomani. Ricordo certa gente: ti invitavano a cena, erano tutti vestiti in grisaglia grigia. Proprio una bella uniforme! Anche Di Pietro usa la cravatta, ma lui è onesto, sia in cravatta che in calzoncini. Lo adoro!». «Se prima Craxi era un antipatico da western, oggi si sta ritagliando un crepuscolo da vero sovrano», scrive Michele Serra57. «L’entità e l’efferatezza dei tradimenti subiti, i voltafaccia dei pretoriani, e infine le lucide pugnalate del suo Bruto Martelli, restituiscono onore e perfino pietà al suo cesarismo. In Craxi ci sono un sussiego, un vigore, una disperazione che colpiscono. E in qualche modo lo rivalutano: questo pokerista credeva davvero nel suo poker, questo avventuriero è così calato nella sua avventura, così posseduto dal proprio delirio, che il pubblico sente smorzarsi at57

Michele Serra, Non è più antipatico, “l’Espresso”, 18 ottobre 1992.

­­­­­213

torno a lui il sorriso sulle labbra. Il dileggio è una forma troppo banale di approccio di fronte a una tragedia vera». Bugiardi ed extraterrestri, chiamerà nelle sue litografie composte ad Hammamet i sopravvissuti di Tangentopoli, Oscar Luigi Scalfaro, Giorgio Napolitano, Achille Occhetto, Eugenio Scalfari: «I bugiardi sono coloro che hanno mentito fin dall’inizio e che continuano a mentire. Gli extraterrestri sono coloro che fingono di aver vissuto venti, trent’anni sulla luna». Becchino, recita il timbro rosso stampato sopra il ritratto di Giuliano Amato su sfondo rosa, un foglio bianco in mano e un altro in bocca, l’opera compare sul biglietto di invito alla mostra delle opere craxiane, presentate nel 2002 da Giulio Andreotti in una gioielleria romana con il titolo di Minimalia, quando l’autore non c’è più. Vigliacchi, pensa Craxi, e ogni volta il disgusto lo assale. Sono circondato da vigliacchi, ripete in privato e in pubblico. «Consentitemi una parentesi: un partito che in queste condizioni chiede al suo segretario di dimettersi è un partito di vigliacchi. Chiusa parentesi», tuona all’esecutivo del Psi dopo il primo avviso di garanzia che lo ha colpito. «Il vile è un egoista cinico che trae vantaggio dalla iniziativa e dal coraggio degli altri, e li sacrifica non appena è in gioco la propria sicurezza», scriverà qualche tempo dopo. «Gli uomini, invece di combattere con onore, al primo assalto dei nemici mostrano il volto della paura, della viltà e del tradimento», ripete il leader in cattività nella sua casa tunisina, in conclusione di un sapido romanzo intitolato Ghino di Tacco. Dove Ghino è il condottiero della rocca di Radicofani e Nerio è il più fedele luogotenente che lo tradisce: Ghino, una volta annusato il complotto, fa chiedere l’elenco di tutti quelli che hanno fatto affari e accumulato beni con lui. Sull’identità di Nerio ci sono pochi dubbi. L’ira del leader ferito, come accade nelle migliori famiglie, si concentra tutta su chi gli stava più vicino. Il discepolo prediletto, il delfino, il più intelligente, il più spregiudicato, il più craxiano di tutti. Claudio Martelli, l’aspirante alla successione, il Bruto che «ha azzannato la mano che l’aveva nutrito», «l’unico che aveva accesso al frigorifero», testimonia Anna, la moglie di Bettino. «Non sono il principe di Galles che deve aspettare le dimissioni della regina per diventare re. [...] La coppia è finita, umanamente e politicamente», prova a difendersi il bel Claudio. «Parole che rivelano slealtà e viltà», ­­­­­214

reagisce l’ex moroso di via del Corso: come dire, non hai neppure il coraggio di affrontarmi a viso aperto. E il dramma si trasforma in lite familiare: piatti che volano, libelli, ripicche, insulti. Martelli per Craxi è «psicolabile, uno invecchiato male, un amico di Di Pietro, una fuga di gas, ha i nervi in disordine»: «di lui farò poltiglia», avverte minaccioso. «Credevo di conoscerlo bene, ma non ne sono più tanto sicuro», balbetta lo sfidante, spaventato. «È irriconoscibile. Il suo linguaggio barbarico, pittoresco e vagamente borbonico, fatto di pugnali, sciacalli e perfino lanciafiamme, sta diventando stucchevole...». Nella casa del Psi i famigli litigano in portineria: «Sei un assaggiatore di budini» (Martelli a De Michelis), «sei una cortigiana» (Martelli a Margherita Boniver), «sei il primo dei craxini, anche per statura» (De Michelis ad Amato), «tre passi nel delirio» (Martelli su Ugo Intini), «sei un coglione» (De Michelis a Valdo Spini)... Il glorioso Psi che ha resistito alle cannonate del generale Bava Beccaris, alla Grande Guerra e al fascismo, non riesce a sopravvivere al ridicolo. La Dc si spegne fiocamente come una vecchia zia nel mezzo della Roma barocca, nel vetusto Palazzo Cenci Bolognetti di piazza del Gesù, tra gli ori e gli stucchi. Il Psi craxiano fa una fine rampante e smart, come in una strage del sabato sera, dopo una sbornia, nel mezzo di uno sballo. Anche lo scenario è da disco dance, l’ex sala cinematografica in vetta a Monte Mario inaugurata due anni prima da Craxi e dal tesoriere del partito Balzamo come sede dell’Assemblea socialista, e chissà quanto è costata e chissà chi l’ha pagata. Il bunker dell’ultima battaglia di Bettino, un ex cinema di un quartiere residenziale dal nome sinistramente ironico: Belsito. «Insegna giusta per una tomba di lusso, da giardino per l’eternità», lo definisce Giampaolo Pansa58. «Che lusso, dio mio! Porte di radica persino nei cessi. Tendaggi. Saloni. Salette per elaborare, verbalizzare e divulgare il Verbo socialista. E poi che arengo per le adunanze plenarie! Ponteggi con quasi trenta riflettori. Un palcoscenico ristretto per un vertice partitico sempre più ridotto, selezionato, quasi monocratico, dal potere superconcentrato. Quando si farà il catalogo dei luoghi dove crebbe 58 Giampaolo Pansa, Verrà il Topo e avrà i tuoi occhi, “l’Espresso”, 6 dicembre 1992.

­­­­­215

e prosperò la partitocrazia italiana sarà assolutamente d’uopo dedicare un capitolone a questo tempio oggi così funereo». Al Belsito, tra le luci da tv commerciale, Craxi e Martelli si affrontano sul palco, se le danno di santa ragione. «Ho vissuto mesi come in un maremoto, con tante bussole che sembravano impazzite», ringhia il leader. Tutto è a immagine e somiglianza di Craxi in questo partito, «anche il microfono è a sua misura», prova a scherzare lo sfidante. E la fine è contenuta tutta nel gesto che Craxi si lascia scappare mentre parla Martelli. «Rinnovarsi o perire», esclama il pretendente citando Pietro Nenni e Craxi alza indice e mignolo e fa un inconfondibile gesto scaramantico. Un giovane fotoreporter, Tonino Scattolon, prende coraggio e si avvicina al leader: scusi, può ripeterlo? E Craxi, come se niente fosse, si mette in posa e si lascia immortalare mentre sventola ancora le corna, comiche, ormai disperate. Le corna che seppelliscono il suo partito. A differenza di quasi tutti i leader politici del mondo occidentale, eccezion fatta ovviamente per i dittatori, Craxi ha impostato [...] la sua avventura politica su almeno due punti che un giorno o l’altro avrebbero ceduto: l’assoluta impunità, vale a dire l’impossibilità di ammettere abusi e irregolarità; la vittoria certa, cioè l’esclusione a priori che il Psi potesse perdere anche una sola mano della lunghissima partita a poker iniziata nel 1976. E se per disgrazia questi due capisaldi fossero franati contemporaneamente? Niente, meglio non pensarci. Il tutto mentre si rinchiudeva in un bunker essendosi scelto come compagni persone che o sono in malafede o evidentemente da anni non frequentano più un treno, un bar, non ascoltano i discorsi in autobus o in metropolitana, hanno un rapporto manipolato con la realtà, riescono a vedere soltanto le debolezze degli avversari, pensano davvero che i critici siano pedine di chissà quale complotto golpista internazionale. È incredibile ma è così. Craxi precipita tirandosi dietro i suoi e l’intero sistema politico perché ha perso da tempo il contatto con la realtà e probabilmente anche in queste ore si consola sognando, come i suoi predecessori in questo genere di cadute, di poter usare una qualche arma segreta contro i nemici, gli orditori della congiura ai suoi danni, di cui probabilmente non riesce più neanche a immaginare l’identità. La verità è che, come verrà fuori tra qualche tempo nella sede più equanime che è quella del giudizio storico, Craxi ha perso la sua partita indipendentemente da quella che sarà la sentenza dei giudici. Sempre che, come ci auguriamo per lui, Craxi a quel giudizio si presenti come un cittadino qualsiasi e sia lui stesso a chiedere che sia concessa ­­­­­216

dal Parlamento l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti (Paolo Mieli, Dal bunker al baratro, “Corriere della Sera”, 16 dicembre 1992).

Conclusione quanto mai illuminante, perché esattamente rovesciata sarà la vulgata post-craxiana (e berlusconiana) degli anni successivi, di amici e di avversari, quella del Craxi grande leader, il Craxi statista bloccato dalle inchieste della magistratura, il Craxi che non può essere ridotto soltanto alle condanne del tribunale di Milano ma che va giudicato sul terreno della storia e della politica. Al contrario, scrive nel 1992 il nuovo direttore del “Corriere” in occasione del primo avviso di garanzia al segretario del Psi, la partita di Craxi era già stata persa altrove, sul terreno della politica, rifiutandosi di prendere atto della realtà, di cambiare strada, di farsi da parte al momento giusto. E invece no. Dopo di me il diluvio, vorrebbe forse dire Craxi. Ma la verità è che ogni capo assoluto per il dopo di sé non vuole niente, desidera che ci sia il niente, preferisce vedere affondare con sé la nave piuttosto che metterla in salvo. Dopo di me, il nulla. Ed ecco che infatti il nulla arriva: due segretari in tre mesi, i sindacalisti Giorgio Benvenuto e Ottaviano Del Turco. I cartellini stampa scritti a mano con il pennarello riciclati dalla precedente riunione. Martelli ridotto davvero in poltiglia, travolto dallo scandalo sul conto Protezione rivelato dall’architetto Silvano Larini, l’amico di Craxi, il suo vendicatore. L’auto-sfratto dalla sede di via del Corso, l’auto-scioglimento, l’auto-dissoluzione. I coriandoli delle tessere strappate dai militanti incazzati che piovono sui notabili socialisti al loro arrivo per l’ultima assemblea: «So’ quarant’anni che damo er sangue ar partito e nun je la famo più». Il Belsito chiude per sempre, soffocato dai debiti del partito, quanti sono, 120, 130, 140 miliardi, non si sa, è a tutt’oggi un locale abbandonato, che nessuno vuole comprare, forse perché porta sfortuna, come certe case abitate dai fantasmi, forse perché deve restare così: un cubo di cemento deserto, un monumento al nichilismo del potente. Quello che porta all’identificazione fisica tra sé e il partito, il governo, lo Stato che dirige. E che conduce al disastro finale, alla distruzione, con il leader, di tutto quello che ha costruito: una lezione che vale per Craxi e per chi verrà dopo di lui. Tra il 1992 e il 1993 i partiti che ci sono spariscono, inghiottiti ­­­­­217

dal baratro degli odi personali, dei debiti, delle inchieste sempre più aggressive. E il Partito che non c’è, quello che sarebbe dovuto nascere per dare un volto e una struttura al nuovo, continua a essere assente dalle cronache politiche, ma in compenso fa la sua apparizione nelle carte giudiziarie. Tangentopoli fa giustizia, come si dice, di un paio di miti resistentissimi della Prima Repubblica: il Pri di La Malfa padre, Spadolini e La Malfa figlio come partito delle mani pulite, la diversità comunista. Il mito dell’Edera come partito degli onesti cade il 25 febbraio 1993: il segretario La Malfa cade su un avviso di garanzia spedito dal pm Fabio De Pasquale e si dimette da segretario. L’accusa è violazione del finanziamento pubblico ai partiti per un regalo da 50 milioni in manifesti: per ironia, il manifesto è quello con il segretario in abito grigio, gli occhiali da secchione, l’aria compresa, che recita: «Voglio unire l’Italia degli onesti e farla vincere». Solo il giorno prima il Pri aveva diffuso l’ennesimo comunicato di appoggio ai giudici e i soliti grandi scenari prediletti dal segretario, «per la nostra politica economica ci ispireremo a Clinton». «Il fatto che anche dei repubblicani possano essere stati coinvolti nelle inchieste non cambia la questione. Anzi: è la conferma che quello sforzo che segnalavo è ancora più necessario», aveva detto ai giornalisti. Ed eccolo qui invece, La Malfa e il suo manifesto, «uno scarafaggio schiacciato sul muro», scrive Francesco Merlo sul “Corriere”. Quella sera la Velina di Orefice non riesce a trattenere la soddisfazione: Nessuno per la verità ha «goduto» per l’incidente capitato al leader repubblicano. Però è anche vero che La Malfa è stato uno dei più intransigenti nella battaglia morale e quando nel dibattito sulla fiducia Forlani difese Craxi La Malfa fece i distinguo. È evidente che l’addebito rivolto al segretario repubblicano è una scheggia, come ha detto Occhetto. Ma questa scheggia mette in evidenza la gravità delle deviazioni in fatto di questione morale. È, in un certo senso, la rivincita di Craxi per il discorso che pronunciò alla Camera in occasione della fiducia al governo Amato.

«È la legge del contrappasso», esulta infatti il leader socialista. Al bar di Palazzo Madama due senatori democristiani, Delio Redi e Bruno Lazzaro, alzano il calice e brindano alla sventura del ­­­­­218

nemico: «Dov’è il partito degli onesti? Si vede che era un errore di stampa». Il segretario del Msi Gianfranco Fini non è meno clemente: «La foglia d’edera copriva vergogne». Nella sede del Pri piangono tutti, piange Giorgio Bogi, piange Enzo Bianco, vorrebbe forse piangere quella pubblicità elettorale ingiallita che recita: «Ho bisogno di te. Non abbiamo mezzi ingenti, né l’appoggio della tv di Stato. Per questo abbiamo bisogno del tuo aiuto. Anche 5.000 lire sono utili». E i salvadanai piazzati all’ultimo congresso a Carrara, la repubblicana che chiede al microfono: «Forse ho sbagliato congresso, comunque i delegati stiano attenti, in sala c’è un borseggiatore». Se ne vanno anche i sedici nomi della società civile che alle elezioni del 5 aprile avevano invitato a votare Pri «per un’Italia nuova»: Guido Crepax, l’autore di Valentina, il vignettista Emilio Giannelli che disegna se stesso nell’atto di rimangiarsi la firma, il direttore dell’“Indipendente” Vittorio Feltri, c’è anche lui, tra gli ex supporter di La Malfa, il futuro direttore del “Giornale” berlusconiano, che però se la prende con Spadolini: «La colpa è sua, solenne come un cigno, cioè come un’oca fuori serie, è nell’anima governativa del Pri che allignano quanti pensavano a rubacchiare». Eppure 50 milioni per uno stock di manifesti sono un nulla. Nulla, almeno, rispetto ai 300 milioni ricevuti da Giorgio La Malfa dalle mani di Carlo Sama come tangente per l’affare Enimont, per cui l’ex segretario sarà condannato a sei mesi e venti giorni, con il beneficio della non menzione nel casellario penale per la buona condotta processuale e «l’assenza di ogni beneficio personale». La casella penale dell’ex segretario resta pulita, la reputazione del leader che voleva guidare il cambiamento ne esce macchiata. Il glorioso Pri che aveva «un’altra idea dell’Italia» viene distrutto. Il partito degli onesti che non c’era. Nella stessa giornata delle dimissioni di La Malfa a Montecitorio si diffonde la voce di un avviso di garanzia per il segretario del Pds Achille Occhetto. Quella sera Botteghe Oscure è costretta a smentire l’esistenza di conti esteri del partito: «Invenzione di calunniatori male intenzionati». Linea dettata dal numero due del partito Massimo D’Alema: «A noi non risulta un conto in Svizzera intestato al Pci, né che noi abbiamo chiesto o fatto chiedere tangenti ad alcuno né che le abbiamo incassate. Si tratta di una vicenda oscura: sono colpito dal fatto che di questa cosa si parli ­­­­­219

da molti giorni nei corridoi di Montecitorio. Qualcuno ha messo in giro la voce prima che sorgesse in sede giudiziaria». Commenta velenoso Orefice nella sua Velina quotidiana: «D’Alema ha certamente ragione, ma è capitato un po’ a tutti e in particolare a Bettino Craxi. Il diabolico tam tam comincia nel Transatlantico sempre con qualche giorno d’anticipo. Si fa un nome sottovoce e poi dopo qualche giorno... la gola profonda arriva ovunque». E infatti, puntualmente qualche giorno dopo spunta il nome: lunedì 1° marzo entra a San Vittore il titolare del conto Gabbietta, il compagno G., ovvero Primo Greganti, ex amministratore della federazione di Torino del Pci, poi nell’amministrazione centrale del partito e imprenditore. Barba da compagno e sguardo fiero, non è il primo esponente venuto dal Pci a finire in manette o sotto inchiesta: a Milano l’avviso di garanzia è arrivato anche a uno dei capi della corrente migliorista, Gianni Cervetti. Ma al Bottegone l’ingresso in carcere di Greganti fa paura, perché dopo le indagini su Craxi, Martelli, La Malfa nulla può essere più escluso. E poi nel partito è in corso una lotta di potere sotterranea e feroce, fino a quel momento sconosciuta, tra Occhetto e il suo ex numero due D’Alema. Tangentopoli e guerra interna si erano già incrociati per la prima volta alla festa dell’Unità di Reggio Emilia nel settembre 1992, quando Giampaolo Pansa aveva attaccato le responsabilità del segretario: o sapeva delle tangenti, e allora è complice, o non sapeva, e allora è un ingenuo, nell’uno e nell’altro caso non può guidare il primo partito dell’opposizione. La platea della festa, a sorpresa, aveva espresso gradimento per quelle parole. Applausi, anzi, «un uragano di applausi», ricorda Pansa, imbarazzante per i vertici della Quercia. Occhetto l’aveva presa malissimo e minacciato le dimissioni, ma a difenderlo ci aveva pensato, il giorno dopo, il capogruppo D’Alema: «Un attacco immotivato, pretestuoso, perfino sciocco. Non è tollerabile, cari compagni, che qualcuno venga qui a dire che Occhetto si deve dimettere. Se lo fa dovete fischiarlo, perché insulta voi e non solo il segretario». Un appoggio, ma anche una dimostrazione di forza: caro Achille, tocca a me proteggerti dai giornali e dai giudici che tu invece con leggerezza imperdonabile hai cavalcato. Il 14 febbraio, due settimane prima dell’arresto di Greganti, D’Alema attacca per la prima volta il pm Di Pietro: «Trovo penoso questo mondo politico che va in ginocchio da lui. Non ­­­­­220

può diventare un punto di riferimento politico per il Paese». Su Tangentopoli, aggiunge il numero due della Quercia, «bisogna distinguere tra l’arricchimento personale e quello che può servire alla vita di un partito». Dopo la cattura di Greganti è ancora lui a guidare la linea della resistenza. «Se arrivasse un avviso di garanzia a un dirigente del Pds sarebbe un colpo di Stato». E perché mai? Perché dovrebbe essere diverso un capo del Bottegone dai suoi colleghi di via del Corso e di piazza del Gesù? Alla trasmissione di Gad Lerner Milano, Italia, si lascia andare a una previsione: «Fra tre giorni di Greganti non si parlerà più». Tre giorni dopo, durante un interrogatorio, il compagno G. si assume tutte le responsabilità: «il conto Gabbietta è mio», confessa. Ma di lui si sentirà parlare a lungo. Perché nel nome di Primo Greganti c’è tutta la doppiezza dell’ex partito comunista sulla questione morale. Sulla diversità etica dei suoi dirigenti il Pci ha costruito un bel pezzo della sua identità negli anni della Repubblica. C’è un episodio, raccontato da Pino Corrias nella biografia di Luciano Bianciardi, che descrive bene quanto fosse prezioso il monopolio della moralità in politica esercitato dal Pci. Nel 1956 si vota in provincia di Grosseto, pochi giorni dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria. A Sasso d’Ombrone parla l’oratore democristiano, il professor Ciattini, ed evoca il pericolo comunista e la soppressione delle libertà a Budapest. «Vedeva carri armati dappertutto, nelle strade, dietro gli angoli. Aveva ragione, poveretto. Se facevo così con l’orecchio, sentivo sparare anch’io», ricorda il comunista Enzo Giorgetti. Quando tocca a lui non sa che fare, come contrastare gli argomenti dell’avversario. «Io pensai: di che cazzo parlo io? Ero veramente scoraggiato. Ma in tasca avevo l’elenco dei funzionari dell’Ente inquisiti dalla magistratura. Stavo ancora all’“Unità” e queste cose le sapevamo fare. Lessi l’elenco, la piazza si scordò dei carri armati, applaudì e noi aumentammo pure i voti. Quando scesi dal palco il professor Ciattini mi disse: ‘I ladri dell’Ente hanno battuto i carri armati’»59. Il giustizialismo, come il Pci, ha dunque radici antiche e arriva da lontano: una data simbolica è il 7 aprile 1953, esattamente due 59

p. 69.

Pino Corrias, Vita agra di un anarchico, Baldini e Castoldi, Milano 1993,

­­­­­221

mesi prima delle elezioni con la nuova legge elettorale, la legge truffa. Quel giorno, per la prima volta, sull’“Unità” a proposito della Dc di De Gasperi appare il termine «forchettoni». Il Pci di Togliatti si presenta in alternativa al «partito della greppia»: editoriali di fuoco, vignette corrosive, poesie sfottenti («Osteria democristiana / c’è l’Italia alla democristiana / se rivincono le elezioni / se la pappano i forchettoni...»), un supplemento satirico, “Il Forchettone del lunedì”, l’antenato di “Tango” e di “Cuore”. Seguiranno, nel 1975, i manifesti per la campagna alle elezioni amministrative con lo slogan «Il Pci ha le mani pulite», e la storica intervista rilasciata da Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari su “Repubblica” del 1981: «La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, con la guerra per bande, con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati». Meglio rossi che ladri, trasmetteva la propaganda del Pci, meglio ladri che morti, replicavano i partiti di governo, meglio una tangente che i gulag di Stalin, meglio una democrazia corrotta che un regime totalitario, turatevi il naso e via. Scelta poco nobile, d’accordo, ma per cinquant’anni era stato l’unico bipolarismo possibile. Perché per il Pci era impossibile nell’Italia democratica giocarsi la sua diversità in chiave ideologica e politica, l’unica strada percorribile era farlo in chiave etica: siamo comunisti ma non rubiamo. Più crescono le difficoltà politiche del Pci, più ci si rifugia nella superiorità morale. Nel 1992-93, però, anche la diversità risulta annacquata, come tutto il resto. Comunisti non possiamo più dirci, dopo la caduta del Muro di Berlino. E onesti neppure più tanto. Sono diventati, secondo lo slogan di Nanni Moretti in Palombella rossa, diversi ma uguali. «Anche a proposito della questione morale il Pds aveva una identità non definita, incerta, meno limpida di quella del Pci di Berlinguer», riconosce Iginio Ariemma, in quel periodo portavoce di Occhetto60. Si parlerà per anni di un occhio di riguardo delle procure verso i post-comunisti e di toghe rosse controllate dall’alto, da Magistra60

Iginio Ariemma, La casa brucia, Marsilio, Venezia 2000, p. 137.

­­­­­222

tura democratica e da Luciano Violante, ma a spulciare i numeri il coinvolgimento della Quercia in Mani Pulite è pesante: 22 procure in tutta Italia indagano sul partito, 113 dirigenti indagati di cui sette parlamentari, 39 arresti. L’arresto del compagno G., quello di Renato Pollini, ex amministratore del Pci, e di Marco Fredda, responsabile del patrimonio, l’interrogatorio del tesoriere Marcello Stefanini che muore poco dopo stroncato da un ictus. La stessa tragica sorte tocca a Davide Visani, il capo della segreteria incaricato di studiare passo passo il corso delle indagini che riguardano il partito. E lo stesso Occhetto, nel luglio 1993, cede allo stress, gli viene «un coccolone» e si ritrova convalescente quando Gardini si spara: il suo biglietto d’addio, scrive il segretario del Pds turbato in un articolo per “l’Unità”, è «un colpo di tamburo che sovrasta il colpo di pistola alla tempia». Parole che inquietano i più stretti collaboratori del segretario. «Talvolta mi chiedo come avrebbe reagito lui se malauguratamente e iniquamente – perché sarebbe stata un’ingiustizia – avesse ricevuto un avviso di garanzia», racconta Ariemma. Sono i mesi in cui “l’Espresso” spara in copertina il ritratto grottesco del leader del Pds firmato da Sebastian Kruger con il titolo «Occhettopoli». E al secondo piano di Botteghe Oscure prevale l’angoscia, sentimento che accomuna i capi della Quercia ai vicini di casa di piazza del Gesù e ai compagni di via del Corso. La paura di un avviso di garanzia per Occhetto che darebbe un colpo letale alla svolta e al partito nuovo, già dilaniato dalle divisioni interne. Si studiano le carte, si pianificano le controreazioni, ma il clima è di confusione e di incertezza. Spuntano conti svizzeri segreti, e «ci trovammo completamente al buio», ha ammesso uno degli uomini più vicini ad Occhetto, Claudio Petruccioli, «non eravamo in grado di escludere nulla. Per fortuna, le cose si chiarirono a nostro vantaggio, ma per loro conto, senza che noi potessimo farci niente»61. E poi c’è l’episodio quasi tragicomico della missione Violante. Nell’autunno del 1993 ripartono le voci su un possibile interrogatorio di Occhetto da parte del pool milanese o di nuovi arresti alla vigilia della festa dell’Unità e ai vertici del Pds torna l’allarme rosso. «Il timore ci indusse a progettare, con la massima cautela, un passo presso la Procura di Milano», 61

Claudio Petruccioli, Rendiconto cit., p. 101.

­­­­­223

racconta Petruccioli. «Violante conosceva bene, tra i tanti, anche i magistrati del pool milanese. Gli chiedemmo se riteneva possibile informarsi. Violante si prese un paio di giorni, poi riferì: missione compiuta. Al momento non era previsto nulla». Invece, il giorno del comizio conclusivo alla festa dell’Unità, alle tre del pomeriggio Ariemma informa Petruccioli che sta per essere arrestato Marco Fredda, fratello della segretaria di Occhetto. «Abbiamo saputo che il mandato di arresto reca in calce le firme di tutti i componenti del pool di Mani Pulite. O è stato preso in giro Violante, o Violante ha preso in giro noi». Arrivano poi le inchieste veneziane del giudice Carlo Nordio sui legami tra il partito e le cooperative rosse e soprattutto il caso Enimont, con gli incontri tra Occhetto e Gardini, uniti dalla comune passione per la vela e con la famosa valigetta da un miliardo di lire che, secondo la testimonianza di Carlo Sama, Raul Gardini avrebbe depositato nel palazzo di Botteghe Oscure. Le indagini si arenano qui, perché non si saprà mai chi ha ricevuto quella valigetta. «La responsabilità penale è individuale. Non potevo portare in giudizio una persona che si chiama Partito di nome e Comunista di cognome», dirà Di Pietro. Il Pci era un corpo collettivo, di cui ogni singolo dirigente, fosse addirittura il segretario, era solo un’espressione. L’eredità di quel modo di pensare e di concepire la politica resiste nel caso Greganti, come in quelli successivi. Eventuali reati vengono scaricati sul singolo per preservare la purezza dell’apparato. Se un dirigente viene scoperto a rubare è bene che assuma su di sé ogni responsabilità e che si immoli per il bene del partito. Come se esistesse ancora una moralità rivoluzionaria che va oltre la moralità dei singoli, chiamati a sacrificarsi sull’altare della ragion collettiva. Tanto resta dell’antica diversità: la sacralità, l’intangibilità della Ditta. Un filo che parte da Greganti e arriva, vent’anni dopo, all’inchiesta sull’ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati. Ma questa rappresentazione del partito come corpo unitario si scontra con la novità di uno scontro di potere non più giustificabile con ragioni solo ideologiche. Dirigenti spregiudicati. Correnti che hanno bisogno di soldi per operare. Leadership parallele, con i capicorrente che organizzano truppe, sedi, canali di finanziamento, uffici di comunicazione. Abitudini sconosciute al vecchio Pci, che ­­­­­224

per di più si saldano con l’altra svolta culturale: il tentativo di proporre il partito post-comunista come l’unico rimasto in piedi, il solo legittimato a difendere la politica dagli attacchi esterni, contro le inchieste spettacolari e le campagne stampa esplosive. È la versione di D’Alema, ripetuta all’infinito nel corso degli anni: Tangentopoli è stato l’atto di nascita dell’anti-politica, delle scorciatoie populiste, dell’attacco dei poteri forti economici e editoriali alla democrazia. «Abbiamo sbagliato a cavalcare Tangentopoli», ha ripetuto il più importante leader post-comunista in questi ultimi vent’anni. «Tangentopoli ci arrivò addosso ancora convalescenti», ha scritto Petruccioli. «In tante riunioni fatte per capire cosa ci fosse stato davvero e cosa potevamo attenderci dall’iniziativa dei magistrati, ci siamo trovati di fronte a un impasto di rassicurazioni e di timori, condito dall’invito a stare attenti, a non ‘schiacciarci troppo’ – come si diceva – dei giudici. Più volte ho avvertito qualcosa di inafferrabile. Mai nulla di preciso, nulla che ci facesse intravedere una direzione lungo la quale approfondire e prendere misure, una sgradevole sensazione di preoccupazione, di reticenza. Una tensione, una nausea vaga e continua ci attanagliò per mesi, come quando si viaggia dentro una nebbia che sembra non finire mai»62. Tensione, nausea, nebbia: il partito che più di ogni altro aveva il compito di indicare una via d’uscita democratica alla rivoluzione di Tangentopoli si smarrisce. Gli eredi del Pci, il partito diverso della Prima Repubblica, si propongono come il partito uguale, anzi, il più uguale di tutti, della Seconda Repubblica. E perdono perché, al tempo stesso, troppo diversi e troppo uguali. Troppo diversi, nel senso dell’antica identità comunista, per non continuare a spaventare una parte dell’elettorato. E troppo uguali ai partiti degenerati del 1992, in nome di un presunto primato della politica che poi significa chiusura alla società civile, comportamenti etici allentati perché la politica viene prima anche dell’etica, per poter davvero rappresentare un elettorato che reclama il cambiamento. Così i post-comunisti si rassegnano a far parte del mondo che muore, più che provare a guidare il nuovo che stenta a 62

Ivi, p. 106.

­­­­­225

nascere. Con tutte le sue convulsioni, le sue contraddizioni, i suoi terribili passaggi simbolici. Qualcosa è successo all’improvviso, che ha stregato la politica tradizionale, paralizzandola e lasciandola senza vita, bloccata e impotente. Noi vediamo la peste di Tangentopoli che è esplosa all’interno di quel recinto, devastandolo. E fuori misuriamo la cavalcata della Lega, i nuovi barbari che circondano il Palazzo sapendo che cederà all’assedio. Ma prima e dopo, c’è la ragnatela del «vecchio» sparsa sui partiti e i loro uomini, sui leader, i simboli, gli slogan e la storia: una maledizione che avvolge e condanna, delegittima, consuma e alla fine uccide. Perché a partire dal 1992, chi appartiene al «vecchio» non ha più futuro. Gli stessi uomini che comandavano il Paese, pur conservando gli stessi ruoli, oggi parlano a vuoto, ansimano e inseguono come se fossero condannati a un ritardo non più rimediabile, minacciano e promettono in una lingua che è ormai morta. [...] Fuori, nel campo aperto che circonda il Palazzo, c’è il mondo che si dice «nuovo». Ecco dunque che la politica, singolarmente, è sospesa, come se l’incantesimo valesse anche al contrario: nel Palazzo perché tutto è per sempre immobile, fuori perché tutto è ancora in movimento. E tuttavia qui fuori, nel «nuovo», si è concentrata in gran parte quella spinta al cambiamento che sembra dar corpo allo spirito del tempo di questa Italia di fine secolo. La spinta a cambiare non è ancora diventata una politica coerente. Ma è già una domanda politica largamente presente nel Paese, certamente maggioritaria al Nord, confusa negli esiti, però pronta a esercitare la potestà di scegliere, attraverso la riforma delle regole elettorali. Perché è ormai chiaro che soltanto il cambiamento, finalmente compiendosi, può rompere il grande incantesimo, per restituire ai cittadini la possibilità di scegliere tra due schieramenti entrambi legittimati a governare. Con la politica che alla fine ritorna a dare un nome alle cose, ai partiti, alla destra e alla sinistra: non saranno più come prima, dopo l’incanto del ’92, ma riprenderanno a vivere (Ezio Mauro, L’anno dell’incantesimo, “La Stampa”, 29 dicembre 1992). Msi-Dn: On. Mussolini su vicenda Napoli 20 marzo 1993, ore 14.17 – L’on. Alessandra Mussolini (Msi-Dn) ha affermato, in una dichiarazione, che le confessioni di Alfredo Vito «costituiscono un gravissimo atto di accusa: la Dc napoletana è un’associazione per delinquere, in cui alcuni rubano, come Vito, e tutti, ministri, deputati e galoppini attingono soldi sporchi per le proprie campagne elettorali». [...] «Questo regime di illegalità – ha aggiunto ­­­­­226

– non è più tollerabile, questa gente deve pagare ed essere trascinata, in manette, coi ceppi, come si usa coi criminali peggiori davanti alla sbarra. La Dc di Napoli ha rubato alla gente la libertà e la democrazia; la Dc napoletana ha rubato come e quanto la camorra, ammesso che vi siano differenze tra le due organizzazioni; la Dc napoletana va sciolta e processata per associazione a delinquere di stampo mafioso» (Ansa).

«Arrendetevi, siete circondati!», portano scritto sulla maglietta. «Ma quale immunità parlamentare, il popolo, il popolo vi deve giudicare!», gridano. E anche: «Ruba il socialista, ruba il comunista, l’Italia che ruba è antifascista!». Sono le tre del pomeriggio del 1° aprile 1993, non è un pesce d’aprile, cinquant’anni dopo la caduta del fascismo i suoi eredi tentano l’assalto al Parlamento. «Scrivete pure che siamo fascisti, ci fate un piacere», specificano infatti i manifestanti ai cronisti, come se ce ne fosse bisogno. Un centinaio di militanti del Fronte della Gioventù accerchiano l’ingresso principale della Camera dei deputati, in piazza Montecitorio, gridano «elezioni subito!». Si tengono per mano, fanno cordone davanti alla porta da cui entrano e escono i deputati, sotto l’occhio compiaciuto dell’onorevole Teodoro Buontempo, il piccolo grande uomo, Er Pecora, il più amato e votato tra i missini romani. Con lui ci sono altri parlamentari, la crema della nouvelle vague finiana: Maurizio Gasparri, Giulio Maceratini, Nicola Pasetto. Le forze dell’ordine, piuttosto sguarnite, si schierano di fronte ai manifestanti che nel frattempo sono decisamente avanzati verso il portone. Quando esce il deputato verde Chicco Crippa partono cori da stadio ancora più forti, «Ladri, ladri!» e il classico «Boia chi molla!». Esce anche il pidiessino Angelo Fredda, volano parole grosse con Buontempo, insulti, spintoni, poi il fattaccio. Qualcuno impugna una mazzafionda, c’è un istante di silenzio, sibila una monetina o una biglia, va a scagliarsi contro il vetro smerigliato dell’ingresso. La porta del Parlamento è colpita come da un proiettile, incrinata, traforata. Profanata dai manifestanti della destra missina, da sempre esclusi dall’arco costituzionale. Accompagnati da un drappello di deputati che da lì a pochi mesi, incredibilmente, diventeranno ministri, sottosegretari, la guida politica del Paese. Quella sera due magistrati romani che si occupano dell’estrema destra, Giovanni Salvi e Pietro Saviotti, applicano l’articolo 289 del codice penale: turbativa dell’attività ­­­­­227

parlamentare per Buontempo e per Guglielmo Rositani, che diventerà consigliere di amministrazione della Rai, famoso per il suo presenzialismo televisivo. Avvisi di garanzia per Giulio Maceratini, Adriana Poli Bortone, Maurizio Gasparri, Ugo Martinat, Altero Matteoli, Giulio Conti, Nicola Pasetto e Domenico Nania: saranno ministri, vice-ministri, capigruppo... La sera vengono perquisite le abitazioni di due giovani dirigenti missini, il consigliere regionale Gianni Alemanno e il capo ufficio stampa del partito Francesco Storace. «Un comportamento assurdo, ingiustificato, sproporzionato, una indebita prevaricazione e persecuzione», protesta il segretario Fini, «una goliardata» per Gasparri. Quella sera i più duri contro l’attacco del Msi a colpi di fionde e di monetine sono il dc Casini («temo che sia soltanto l’inizio») e il leader della Lega Bossi: «Vengano avanti i fascisti, ci pensiamo noi a difendere il Parlamento». Due futuri alleati di Fini appena otto mesi dopo. L’assalto al Parlamento si spiega con una ragione di sopravvivenza: anche il Msi guidato dall’ex delfino di Giorgio Almirante teme di far parte del mondo che sta morendo con Tangentopoli. È il motivo per cui Fini schiera i missini per il no al referendum di Mario Segni, in difesa della legge proporzionale e contro il maggioritario, in compagnia di Rifondazione comunista e della Rete. La prima di una serie di scelte sbagliate che però, per eterogenesi, portano il capo del Msi alla soglia del potere. In fondo nel parlamentarismo della Prima Repubblica, così disprezzabile ma così comodo, per gli ex ragazzi di Salò e per i loro figli e nipoti ogni tanto arrivava qualche strapuntino al sole. E i missini si battono nelle piazze e nelle assemblee per rappresentare, a loro modo, il nuovo che avanza, la guerra alla corruzione. Particolarmente vivace, su questo fronte, risulta essere il consigliere comunale del Msi di Napoli Amedeo Laboccetta. Il 9 gennaio 1993 consegna alla Digos di Napoli una videocassetta in cui si vede il sindaco Nello Polese a una festa nel quartiere Barra, in compagnia di un ex presidente di circoscrizione accusato di collusione con la camorra. Il 26 marzo scoppia la Tangentopoli campana, in seguito alle rivelazioni del deputato dc napoletano Alfredo Vito, mister centomila preferenze, che si presenta ai magistrati, illustra i meccanismi del sistema delle tangenti sotto il Vesuvio, porta alla richiesta di diciotto autorizzazioni a procedere ­­­­­228

per altrettanti parlamentari in un giorno, un record, e restituisce quattro miliardi di lire al Comune di Napoli. Il 1° aprile, nella sala dei Baroni al Maschio Angioino, sede del consiglio comunale di Napoli, Laboccetta lancia l’attacco contro la giunta dimissionaria. Si registrano sirene da stadio per coprire la voce del vice-sindaco, lancio di microfoni, quattro gavettoni contro i banchi degli assessori. E pugni e schiaffoni tra Laboccetta e un consigliere comunale del Psi, Arcangelo Martino. Sei giorni dopo, a sorpresa, l’esuberante consigliere del Msi finisce in carcere: accusato da un imprenditore di aver chiesto al costruttore Bruno Brancaccio una tangente per ammorbidire la posizione del partito sulla ristrutturazione dello stadio per i mondiali di calcio del 1990. Anche in questo caso Fini minimizza: «Vogliono impedirci di puntare l’indice accusatore contro le vergogne di Napoli. Laboccetta ne uscirà a testa alta». (Fini ha ragione. Laboccetta sarà arrestato una seconda volta, nel 1994, e poi assolto da ogni accusa dopo un processo durato undici anni. Nel 2008 viene eletto deputato come suo fedelissimo, nel 2010 al momento dello scontro nel Pdl tra Fini e Berlusconi sceglie di passare con il Cavaliere e si trasforma in un implacabile avversario del suo ex leader. Interessante notare che anche l’assessore del Psi con cui venne alle mani nel 1993, Arcangelo Martino, ha fatto per così dire strada. Arrestato all’epoca di Tangentopoli e prosciolto, è rientrato in carcere nel 2010, accusato di far parte dell’associazione segreta P3 in compagnia di Marcello Dell’Utri, Flavio Carboni, Denis Verdini. Nel 2009, in un’intervista, ha dichiarato di essere stato l’uomo che presentò Berlusconi a Elio Letizia, il papà di Noemi, la ragazza di Casoria che chiamava il premier «Papi».) In nessun Paese d’Europa [...] si parla – come in Italia – di rivoluzione in atto, di governi e Parlamenti «illegittimi», e a volte addirittura di gogna, di ghigliottina, di giustizia rivoluzionaria. In nessuna nazione c’è questo compiacimento dello sfascio, questo cupio dissolvi esibito con impressionante disinvoltura nei grandi giornali e alla televisione. Impressionante è la disinvoltura con cui si parla di «regime», e dunque di necessari piazzali Loreto; di nomenklature partitiche, e dunque di cadute del Muro; di parlamentari corrotti, e dunque di Parlamento illegittimo. Implicata in Tangentopoli, una intera classe politica è invitata a fare harakiri: perché il Nuovo avvenga, e il Vecchio Regime sia incene­­­­­229

rito. Il sistema non è più correggibile, va sostituito. La partitocrazia ha derubato e guastato l’Italia, ed ecco che i partiti stessi, e la loro storia politica, diventano il Male assoluto. [...] Quel che stupisce è la facilità con cui queste terminologie son fatte proprie dalla grande stampa. Sempre più frequentemente, si oppone Tangentopoli a quel soggetto monolitico che sarebbe il Paese, o la Gente. [...] Anche questo è un modo di sequestrare la nazione, sia pure per il suo bene. Di opporre alle colpe degli inquisiti un Paese innocente, vergine. Un popolo di barbari forti e giovani, che abbatterà l’esangue Impero romano corrotto: il vocabolario perverso di Miglio entra, indisturbato, nel linguaggio corrente. [...] Comincia il processo al regime ed è bandita la freddezza di giudizio. A che pro i nervi saldi: più caloroso è il baccanale, più promettenti le grida delle tricoteuses, delle donne rivoluzionarie che assistevano ai processi all’ancien régime, e per prime urlavano: «Alla ghigliottina!» (Barbara Spinelli, Corsa allo sfascio, “La Stampa”, 2 marzo 1993).

È il 16 marzo 1993, nell’aula della Camera è in corso un dibattito sulla giustizia e sulla questione morale con il premier Giuliano Amato. Quindici anni prima, in un altro 16 marzo, il giorno più drammatico della storia repubblicana, il giorno del rapimento di Aldo Moro e della strage di via Fani, il Parlamento aveva trovato la forza di votare in poche ore la fiducia al governo Andreotti con una maggioranza di unità nazionale. In questo Parlamento, invece, non è più possibile nessuna discussione. Guanti bianchi, spugne, manette, sberleffi, sghignazzi, Vittorio Sgarbi che urla «ipocrita, ladro, falso, bestia», «in aula c’è il clima dei talk show, ma di quelli di tipo duro», annota il cronista del “Corriere” Gianluigi Da Rold. È quello che succede nel Parlamento di Tangentopoli, diviso tra inquisiti e giustizieri. E il presidente della Camera, Giorgio Napolitano, vive la mattina più amara della sua lunga carriera politica. xi legislatura

– discussioni – seduta del 16 marzo 1993

Giuliano Amato, Presidente del Consiglio dei ministri: È per questo... (I deputati del gruppo del MSI-destra nazionale espongono guanti bianchi e spugne.) Giulio Conti: Presidente, le diamo la spugna! Nicola Pasetto: Aiutiamo il Presidente del Consiglio a colpi di spugna! Teodoro Buontempo: È una rapina! ­­­­­230

Presidente: [...] Onorevole Tatarella [...]: richiami i suoi colleghi ad osservare l’invito del Presidente! Non me lo faccia ripetere, onorevole Tatarella! Non mi faccia ripetere questo invito e questo richiamo! (Il deputato Marenco espone delle manette.) Filippo Berselli: Ecco la spugna! Presidente: Onorevole Berselli, l’ho già richiamata due volte! Metta subito via quell’oggetto, onorevole Berselli! Onorevole Berselli, l’ho richiamata già per la seconda volta! Presidente: Onorevoli colleghi, si mettano immediatamente a sedere! Mettano immediatamente via quegli oggetti! Smettano con queste buffonate! (Vive proteste dei deputati del gruppo del MSI-destra nazionale.) Smettano con queste buffonate! (I deputati del gruppo del MSI-destra nazionale gridano: «Elezioni!») Franco Piro: Presidente, hanno proprio tutto! È un bazar! Vendono di tutto: catene, catenelle, spugne, guanti... È un suk arabo non autorizzato, non hanno la licenza! [...] Filippo Berselli: Elezioni! Teodoro Buontempo: Elezioni! Carlo Tassi: Al popolo! Presidente: Mettete via quegli oggetti! Mettete via quegli oggetti! Onorevole Maceratini, la prego di far eseguire la decisione del Presidente! Mettete via quegli oggetti! Filippo Berselli: Elezioni! Presidente: Onorevole Berselli, la escludo dall’aula! La escludo dall’aula per il resto della seduta! (Vivi applausi dei deputati dei gruppi della DC, del PDS, del PSI, repubblicano, dei verdi, del PSDI, liberale e federalista europeo.) Giuseppe Saretta: Era ora! Presidente: Onorevoli colleghi, vi prego di lasciare parlare il Presidente e solo il Presidente. Onorevole Berselli, lasci l’aula! Onorevole Berselli, lasci l’aula! Giovanni Nonne: Presidente, lascino l’aula tutti quelli che hanno gli oggetti esposti! Presidente: Lei stia tranquillo, onorevole collega, non pretenda di sostituirsi al Presidente! Non ho bisogno dei suoi suggerimenti! Onorevoli colleghi del Movimento sociale italiano, mettete via quegli oggetti! Prego i commessi di ritirare quegli oggetti. (Il deputato Berselli esce dall’aula.) Onorevole Amato, la prego di riprendere il suo discorso. ­­­­­231

Infine, quando tutto è davvero perduto, arriva la Forca. Non è del tutto inattesa. Anzi, è stata più volte evocata. «Ai politici ladri non solo le manette, ma anche il cappio al collo», recitava un cartello comparso settimane prima davanti al Palazzo di Giustizia di Milano. Subito ripreso dall’ideologo della Lega Gianfranco Miglio, seduto su un divanetto di Palazzo Madama: «Il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più alto della parola. C’è la giustizia dei legulei, che è il modo di imbrogliare il prossimo, e c’è la giustizia popolare che si esprime nei moti rivoluzionari. Questa classe politica di criminali cerca di salvarsi. Non capiscono più quello che pensa la gente, l’opinione pubblica. Non li vogliono vedere solo in catene, con le manette. Ma con la casacca dell’ergastolano». Ed ecco la Forca, quella vera, non una metafora, sventolata nell’aula della Camera. La Forca che fa paura, la Forca che fa venire i brividi e che disgusta, perché annuncia esecuzioni, pene capitali, morti impiccati. E un popolo che esulta per la punizione del colpevole e forse ancor più per l’eliminazione dell’innocente che ha provato a salvarsi e non ce l’ha fatta. Marco Formentini: Sei un provocatore! Sei indegno di stare in quest’aula! Corrado Peraboni: Ladri, ladri! Luca Leoni Orsenigo: Ladri, ladri! Presidente: Onorevoli colleghi, abbiamo inteso! (Vive proteste dei deputati del gruppo della Lega Nord. Il deputato Leoni Orsenigo espone una corda a forma di cappio.) Mario Raffaeli: Delinquente! Usatelo per voi! Mauro Del Bue: Mascalzoni! Giorgio Ghezzi: Delinquente! Vai via! Presidente: Onorevole Leoni Orsenigo, metta subito via quella roba. Onorevole Leoni Orsenigo, la richiamo all’ordine! (7 deputati del gruppo del MSI-destra nazionale espongono delle spugne – Il deputato Marenco espone dei guanti bianchi – Vive proteste dei deputati del gruppo della DC.) Onorevoli colleghi! Onorevoli colleghi della Democrazia cristiana, mettetevi a sedere. Marco Formentini: Provocatori! Vergogna! Presidente: Onorevoli colleghi! Onorevole Leoni Orsenigo, la richiamo all’ordine per la seconda volta! (I deputati del gruppo del MSI-destra nazionale espongono guanti bianchi e lanciano volantini, gridando: «Dimissioni» all’indirizzo del Presidente del Consiglio dei ­­­­­232

ministri.) Onorevoli colleghi, mettano via quegli oggetti! Onorevole Marenco, metta via quegli oggetti! Prego i commessi di ritirare quegli oggetti, se sono ancora sui banchi. Ritirate quegli oggetti! Onorevole Barbalace, onorevole Barbalace...! Onorevoli colleghi della Lega Nord! Onorevole Formentini! Onorevole Formentini, si prenda le sue responsabilità come presidente di gruppo! Faccia mettere a sedere i suoi colleghi! (I deputati della Lega Nord gridano: «Ladri!» – Il deputato Marenco espone uno striscione recante la scritta: «Fuori i ladri».) Onorevole Marenco, la escludo dall’aula. La escludo dall’aula. Lasci l’aula! (I deputati della Lega Nord gridano: «Mafia, mafia!».) Carlo Tassi: Signor Presidente, dica ai socialisti di rimanere al loro posto, tanto non c’è niente da rubare! Presidente: Onorevole Formentini, un collega del suo gruppo ha compiuto un gesto assolutamente inammissibile per cui io proporrò la necessaria sanzione all’Ufficio di Presidenza!

Il cappio fa su e giù, agitato da un cristone alto due metri. Ha un nodo scorsoio enorme, la fune scende giù fino al banco, il collare è orribilmente pronto per l’uso. Uno strumento mortuario che gela perché attende solo di essere calato sul collo del condannato. Eppure, tutti intorno, i deputati della Lega ridono. Si divertono, sghignazzano, si sbellicano al solo pensiero di innalzare un patibolo nel cuore del Parlamento. Nell’aula trasformata in una bolgia, l’aspirante boia della Lega è il più compreso nel ruolo. È l’unico che non ride, il volto è una smorfia di rabbia, le mani artigliano la fune, sembra pronto all’esecuzione. Si chiama Luca Leoni Orsenigo, nel 1993 ha 31 anni, ragioniere di Cantù, un negozio di attrezzature per la ricetrasmissione, militante della Lega dal 1987, uno dei tanti signor nessuno portati in Parlamento dal voto del 5 aprile nelle liste di Bossi. «Ho faticato a trovare la corda. Nei negozi di Como c’erano solo corde sportive, colorate, non adatte. Poi l’ho trovata. Il nodo scorsoio l’ho fatto fare a un amico alpinista. In aula, il cappio, è stato facilissimo farlo entrare. L’ho messo in una busta e via». Bossi non apprezza e indica la retromarcia. Anche in questo caso, come per le monetine di Gasparri, spunta la categoria della «goliardia», del popolo del Nord strozzato dalle tasse, «solo un giocattolo», lo liquida Marco Formentini che nel giro di tre mesi diventerà sindaco di Milano. Per fortuna, si fa per dire, ci pensa il solito Miglio a ripristinare la verità: «I nostri seguaci hanno ­­­­­233

apprezzato. Se fossi stato alla Camera avrei aiutato Orsenigo a far ballare la corda». «Guarda, scrivilo che per quelli la forca ci vuole davvero», ordina il leghista Sergio Castellaneta a Mino Fuccillo di “Repubblica”. «Per quelli che rubano e hanno rubato. Per chi se lo merita, per chi si merita il cappio...». La fine della Prima Repubblica ha finalmente trovato la sua immagine simbolica. Bestiale. La cosa più pericolosa, in questa Italia, è sentirsi senza peccato. Milioni di compari di seggio dei vari briganti di Stato (gli elettori sono i veri mandanti di quarantacinque anni di crimini politici...) rischiano di autoassolversi, di veder bruciare, nel fumo del rogo, le loro colpe o la loro sventata fiducia in personaggi che da almeno un ventennio sono in forte odore di ladrocinio, e peggio in odore di alto tradimento e di complicità in strage continuata. La cultura della forca, dei ceppi, del capro espiatorio, è sacrificale, vetero-religiosa, anti-laica. È subalterna, consegna alla volontà di Dio il compito di giudicare il male e affida il futuro bene a nuovi padroni, a nuovi potenti. È irresponsabile, perché non riuscendo a far sua la tragedia di un regime che si decompone rinuncia in partenza a farsi partecipe del nuovo ordine nascente. È reazionaria, perché, ritenendo il re unico responsabile del malaffare, è già disposta a ritenerlo prossimo benefattore (Michele Serra, Volete il capro? Siete delle Bestie?, “l’Espresso”, 4 aprile 1993).

Già: chi prenderà il posto di tutto questo vuoto?

«Confesso: fu colpa nostra»

«Politicamente e moralmente ho perduto...». Il 17 febbraio 1993, un anno esatto dall’inizio delle inchieste di Mani Pulite, c’è la prima (e unica) confessione di sconfitta nell’aula di Montecitorio: non penale, non giudiziaria, non è quello il terreno su cui Bruno Tabacci intende ammettere le sue responsabilità. In quel momento il mantovano Tabacci ha 47 anni, è deputato di prima legislatura dopo essere stato giovanissimo presidente della più importante regione italiana, la Lombardia, e colonnello della Dc di Ciriaco De Mita alla fine degli anni Ottanta, componente della Commissione Bilancio della Camera, membro della direzione democristiana. «A buon titolo ero uno di quelli che potevano aspirare con una certa autorevolezza a essere tra i protagonisti della fase del rinnovamento successivo», ricorda ora, «candidato a far parte del governo in un posto rilevante come ministro o ai vertici del partito. Io, figlio di un contadino morto a 48 anni e di una mamma con la terza elementare, iscritto all’università con il presalario...». Uno dei nomi nuovi della Dc lombarda, nato e cresciuto nella Bassa mantovana del prete scomodo don Primo Mazzolari, assistente di Giovanni Marcora, il partigiano Albertino, leader della sinistra dc di Base, interlocutore della borghesia imprenditoriale del Nord, terragno e pragmatico, che lo aveva voluto accanto a sé nel 1982, quando c’era stato da preparare il programma del governo che avrebbe dovuto presiedere, insieme a tre tecnici d’eccezione, Mario Baldassarri, Romano Prodi e Mario Monti: un governo che non vide mai la luce per la scomparsa di Marcora. «Stare in quella Dc significava entrare nel mondo. Ricordo le riunioni della sezione di Quistello, il mio paese, o del consiglio comunale, in cui si parlava di Vietnam. Il primo congresso nazionale da delegato, a Milano, con il discorso di Moro che passa all’opposizione interna e viene conte­­­­­235

stato. Di Moro ho un ricordo personale, venne a Mantova a fare un discorso, undici mesi prima di essere rapito. E lui, così riservato, si era emozionato a scoprire intorno a lui il calore della gente». Il caso Tabacci è l’esempio di una generazione di quarantenni democristiani ambiziosi, modernizzatori, a un passo dal comando, falciati da Tangentopoli. «Sono stato uno dei primi a finire nella gogna dell’avviso di garanzia», racconta Tabacci. «Mi arrivò il 16 luglio 1992, lo stesso giorno dell’arresto di Salvatore Ligresti. Il pool di Milano mi mise sotto inchiesta per ricettazione, perché Maurizio Prada aveva dichiarato di avermi consegnato una somma di 400 milioni tra il 1987 e il 1988. Conoscevo già il dottor Di Pietro. Nel 1989 mi aveva indagato per la vicenda dei finanziamenti alle chiese dell’Oltrepo pavese. In quell’occasione mi aveva difeso l’avvocato Giandomenico Pisapia. E anche nel 1992 chiesi assistenza a lui e al figlio Giuliano. Chiesi subito di essere interrogato da Di Pietro, sollecitai ulteriori indagini prima che la Camera votasse, intanto trasmisero gli atti a Mantova dove nel frattempo era stata aperta un’altra inchiesta per presunte irregolarità fiscali nelle mie campagne elettorali del 1990 e del 1993. Su quella vicenda scrissi una lettera personale al presidente Scalfaro: ‘Dovrei autodenunciarmi per non aver dichiarato la partecipazione a decine di cene, riunioni, incontri conviviali, sempre di natura elettorale, nel corso delle quali non ho accertato da chi mi invitava se fosse stata pagata la fattura del conto del ristorante e se questa fosse stata messa a bilancio a norma di legge. Non so se Ella nel corso della Sua lunga e sempre specchiata esperienza politica abbia potuto verificare in ogni occasione quanto viene richiesto oggi a me in applicazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti...’. Da Scalfaro però non ebbi mai risposta». In mezzo c’è quel discorso del 17 marzo 1993 che resta nella memoria. Perché in quell’aula di Montecitorio, in quelle settimane, si sentono auto-assoluzioni, denunce di complotti della magistratura, chiamate in correo di tutti i partiti e di tutta la classe dirigente di maggioranza e di opposizione. Ma nessuna assunzione di responsabilità politica per quanto stava accadendo. «E io invece feci l’opposto: non avevo nessuna colpa sul piano penale e ho combattuto nei palazzi di giustizia perché questo mi fosse riconosciuto», spiega Tabacci. «Ma come politico che era stato nel principale partito di governo in posizioni importanti una responsabilità ce l’avevo, ecco­­­­­236

me!». «Non sono stato in grado di vigilare e di impedire l’affarismo e la corruzione», scandisce il deputato di Mantova in quel discorso appassionato seguito per una volta con rispettoso silenzio da tutti i gruppi parlamentari. «Per questa obiettiva responsabilità politica, non certo per i risvolti penali, credo sia giusto farmi da parte per lasciare spazio a persone più accorte e capaci di affrontare la drammatica situazione che abbiamo di fronte. Ho tratto da tempo una conclusione personale, con grande sofferenza, non aderendo alla Dc, si tratta di una cosa molto diversa dall’auto-sospensione di cui si parla, e rinunciando conseguentemente ad ogni ruolo negli organismi di partito, a qualsiasi livello, per adesso e per il domani. Ho dichiarato la mia disponibilità a continuare a fare il parlamentare come indipendente nel gruppo della Dc fino alla rapida conclusione di questa legislatura, pronto, se richiesto, ad anticipare anche il distacco personale». Una drammatica ammissione di colpa, in cui Tabacci, forse inconsciamente, ripercorre le parole più laceranti delle ultime lettere di Moro, quelle in cui il prigioniero delle Br annunciava di voler lasciare il gruppo della Dc per iscriversi al gruppo misto. E anche il discorso del 1977 alla Camera, quando il presidente della Dc difendendo Luigi Gui sullo scandalo Lockheed avvertì che il suo partito non si sarebbe lasciato processare nelle piazze: un’assunzione totale di responsabilità politica. «Il 27 agosto 1996 scrissi un’altra lettera al presidente Scalfaro. Ero stato appena assolto con formula piena in due sentenze, del tribunale di Mantova e della Corte d’Appello di Brescia. La notizia fu pubblicata soltanto dall’“Osservatore Romano” con il titolo Tabacci scagionato dalle accuse del pool milanese. Era un piccolo riquadro, ma la cosa mi fece enormemente piacere, ne compresi il significato, tanto più che gli altri quotidiani, a partire dal “Corriere”, neppure diedero conto dell’assoluzione che mi ripagava di quattro anni di calvario. A Scalfaro scrissi ancora non per piatire qualcosa, le sofferenze personali di quegli anni, le amarezze, le umiliazioni me le terrò sempre per me, ma per tornare a denunciare i processi celebrati nelle piazze, sulle colonne dei giornali e soprattutto dei videogiornali, con la pronuncia di sentenze sommarie e la criminalizzazione di un’intera classe dirigente, la soppressione violenta della Dc, considerata in blocco un partito di ladri e di mafiosi. Nel frattempo ero uscito dalla politica per dedicarmi alla mia difesa, ­­­­­237

avevo avviato una attività di consulenza professionale, provando così a riprendere almeno la stima in me stesso». Intanto però le «persone più accorte e più capaci» invocate da Tabacci nel 1993 tardano ad arrivare. Al loro posto c’è il vecchio truccato da nuovo, ci sono gli apprendisti stregoni che promettono miracoli. Tabacci torna alla Camera nel 2001, sono passati quasi dieci anni dall’avviso di garanzia che gli ha stroncato la carriera politica, i vecchi partiti non ci sono più, l’ex pupillo di Marcora è stato eletto nella coalizione del centrodestra che vince le elezioni, aderisce al gruppo del Ccd-Cdu di Casini e Buttiglione. Diventa presidente della Commissione Attività Produttive e comincia la legislatura con un clamoroso atto di dissenso, il primo di una lunga serie. «Il governo Berlusconi era partito da tre mesi, votai contro la legge sulle rogatorie, un provvedimento ad personam che si preoccupava di bloccare l’acquisizione di documenti utili per i processi a carico di Berlusconi e di Previti. Il voto era segreto e in alcune votazioni il governo andò sotto, potevo stare tranquillo, invece dichiarai pubblicamente di aver disubbidito alle indicazioni. Incontrai l’avvocato Ghedini, era appena stato eletto deputato, e gli dissi: ‘Guarda, la legislatura è appena cominciata, se pensate di andare avanti così non porterete a casa niente...’». Da quel momento in poi Tabacci non ha mai smesso di contrastare le leggi ad personam dei vari governi Berlusconi o di disturbare con le sue denunce parlamentari le scalate bancarie dei cosiddetti furbetti del quartierino, guadagnandosi sul campo la definizione di «spina nel fianco». Fino alla sua uscita dal centrodestra. «Io non ho mai dimenticato che mentre molti di noi finivano sotto processo, messi sotto la gogna mediatica, Berlusconi pianificava la sua ascesa politica costruendo il suo partito ben prima della discesa in campo. Sono stati i suoi videogiornali a costruire quel clima per cui si era già condannati al primo avviso di garanzia. E non ho mai accettato che la storia italiana fosse riscritta dai suoi interessi personali. Quella classe politica aveva esaurito la sua missione, è stata una nostra colpa grave non essere stati capaci, noi più giovani, noi quarantenni, di rinnovare la Dc e gli altri partiti finché eravamo ancora in tempo. Ma dopo di noi, dopo Tangentopoli, non è arrivata la nuova politica, è stata la morte della politica. E oggi la situazione è molto più grave di allora: con i rimborsi elettorali i finanziamenti ai partiti sono aumentati di cinquanta volte, i partiti spendono dieci e incassano ­­­­­238

cinquanta, perché i rimborsi si basano non sul numero effettivo degli elettori ma sugli aventi diritto, i partiti prendono i soldi anche di chi non va a votare: e quali partiti poi! Cartelli personali, liste di singoli, senza contenuto...». Nel 2011 il deputato Tabacci è tornato a fare politica nella città dove aveva amministrato la Regione Lombardia, a Milano. A chiedergli di fare l’assessore al Bilancio al comune è stato il nuovo sindaco del centrosinistra Giuliano Pisapia. E Tabacci è tornato nello stesso studio di via Fontana 22, dove con il padre Giandomenico aveva preparato i primi interrogatori con Di Pietro nel 1992. E non più da inquisito ma da politico universalmente stimato. Vent’anni dopo, una nuova storia.

«Il mio sponsor fu la Fininvest...»

Per chi votò il pm Antonio Di Pietro alle elezioni del 27 marzo 1994, le prime della Seconda Repubblica? «Non ricordo bene...». Risposta insoddisfacente, si direbbe in tribunale. «In passato avevo sempre votato per la Dc. Mio padre portava in tasca la tessera della Coldiretti e dello Scudocrociato. In quelle elezioni scelsi i radicali che erano fuori dagli schieramenti. Almeno mi pare...». Nove mesi dopo si tolse la toga di fronte alle telecamere e lasciò la magistratura: il volto simbolo di Mani Pulite, il nemico di Craxi, il Grande Inquisitore che metteva paura ai partiti e agli imprenditori, nel 1992 e 1993 l’italiano più popolare, corteggiato e temuto, la Madonna per i detenuti politici di San Vittore, cominciava la sua lunga traversata verso la politica. Oggi bisogna inseguirlo tra comizi in piazza, sedute parlamentari, comparsate televisive, la routine del capopartito impegnato a raccogliere voti per il simbolo di Italia dei Valori dove c’è il suo nome. «Sto cercando di guadagnarmi un righino nei libri di storia...», addenta un sigaro nel cortile di Montecitorio. Ma l’ex pm sa benissimo che il suo posto è già assicurato. Al punto che, racconta, sta ordinando il fascicolo Mani Pulite in un archivio telematico che tutti potranno consultare. L’archivio Di Pietro, che contiene la memoria della fine della Prima Repubblica. «Tangentopoli è stata un’importante operazione che ha certificato l’esistenza di un tumore maligno che stava mandando in metastasi la nostra democrazia. Sul piano degli effetti è successo quel che accade in natura: l’antivirus cerca di fermare la malattia, il virus si abitua, si adatta, sviluppa una strategia per non farsi distruggere. Oggi la Tangentopoli due è la prosecuzione della prima, in versione ingegnerizzata. Un tempo la tangente era una banale mazzetta avvolta in carta straccia, oggi è diventata un provvedimento di legge, ­­­­­240

un emendamento infilato in un decreto, un sistema per cui quel che era reato non è più reato». C’è un momento preciso in cui Di Pietro capì che le sue inchieste avrebbero fatto saltare il sistema dei partiti. «Avvenne quando ci fu riferito di un incontro avvenuto prima delle vacanze di Natale del 1991. Lo feci mettere a verbale, anche se era un episodio di difficile definizione sul piano giudiziario e processuale. Tangentopoli si era sviluppata inizialmente con singole operazioni di corruzione politica, c’erano funzionari o politici da cui bisognava passare per accedere al sistema degli appalti. C’era una forma di ipocrisia a livello imprenditoriale: quelle che venivano chiamate le ‘migliori imprese’, quasi tutte iscritte all’Igi, l’Istituto grandi imprese, 151 soci, erano in realtà quasi tutte coinvolte, sembrava la crema, ma era una crema avariata. Successivamente la lotta fratricida all’interno della politica mise le imprese nelle condizioni di doversi scegliere un partito, e al loro interno la corrente e il politico di riferimento. Fecero cartello: accettarono che nell’assegnazione dell’appalto ci fosse la voce ‘tangente’, a prescindere. Per questo coniai il termine ‘dazione ambientale’. Alla fine del 1991 ci fu un altro salto di qualità: una riunione tra i rappresentanti degli imprenditori cui parteciparono i segretari amministrativi dei partiti nazionali, Pci compreso. Stabilirono la quota percentuale sulla torta degli appalti che lo Stato doveva assegnare alle imprese nell’anno successivo e la distribuzione tra i vari partiti, il 25 per cento alla Dc, il 25 al Psi, il 25 ai ministri del governo in carica dei partiti minori, il 25 all’allora Pci non in forma di denaro ma in forma di quota lavoro da assegnare al sistema delle cooperative. Il Pci che ci teneva alla sua diversità: non prendeva denaro, ma lavoro... Lo stesso meccanismo della maxi-tangente Enimont, quando nella provvista entrò anche la Lega, con i 200 milioni consegnati al tesoriere Patelli. Sul Pci-Pds noi siamo riusciti a provare che Gardini è sceso con la macchina a Botteghe Oscure: non sappiamo se poi si è fermato con la valigetta al terzo o al quarto piano. E non potevamo mandare un avviso di garanzia a un signore chiamato Partito... Questa è sempre stata la differenza tra il Pci-Pds e gli altri partiti, sul piano processuale». Mani Pulite ha una data ufficiale di inizio, il 17 febbraio 1992, il giorno dell’arresto di Mario Chiesa. Sul piano politico, però, la bomba deflagra tre mesi dopo, quando i primi avvisi di garanzia condizionano la corsa per il Quirinale e per Palazzo Chigi. Dopo le ­­­­­241

dimissioni da presidente della Repubblica di Cossiga che, secondo più testimoni, era stato avvertito in anticipo da Di Pietro della tempesta in arrivo. «Non so se Cossiga si dimise perché aveva capito che le inchieste sarebbero arrivate a Roma, a toccare Craxi. È certo che in quel periodo mi capitava spesso di essere svegliato alle cinque e mezzo del mattino dal centralino del Quirinale, lui chiamava a quell’ora. Era una conoscenza solo telefonica, non c’eravamo mai visti, mi aveva preso in simpatia perché non avevo aderito allo sciopero dichiarato dall’Associazione nazionale magistrati contro di lui. Non mi ha mai chiesto notizie sulle inchieste, mi esprimeva solidarietà per quello che stavo facendo e mi invitava ad andare avanti. Ci siamo visti dopo, quando mi sono dimesso dalla magistratura. Mi diede tre ottimi consigli: primo, è bene che per un po’ stai fermo perché altrimenti le tue dimissioni apparirebbero finalizzate all’attività politica. Secondo, nei tuoi confronti è in corso un’attività di dossieraggio (lui la conosceva per filo e per segno), ce la puoi fare a uscirne ma devi avere le mani libere. Terzo, devi continuare a essere un uomo delle istituzioni, per questa ragione mi propose di fare il consulente della Commissione Stragi e fece da tramite con il presidente Giovanni Pellegrino». «Di contatti con altri politici non ne ho avuti da magistrato. Ricordo gli interventi di Martinazzoli in difesa di Mani Pulite e una cena con lui, non saprei dire se prima o dopo aver lasciato la magistratura. Era una persona perbene, se lui ha ricordato di avermi incontrato quando ero ancora pm ha senz’altro ragione. Come aveva ragione Martinazzoli a osservare che anche noi magistrati eravamo preoccupati di trovare una soluzione politica per uscire da Tangentopoli. Anche noi comprendevamo che la via esclusivamente giudiziaria era efficace per distruggere il vecchio sistema, ma non per costruirne uno nuovo fondato sulla legalità. Fummo accusati di voler fare politica, ma noi intervenivamo da esperti della materia, conoscevamo il sistema della corruzione a menadito, ci sentivamo legittimati a indicare una soluzione. In effetti ragionammo sulla via d’uscita politica da Tangentopoli, e non da soli. Ci furono diversi incontri sia alla Procura che all’università tra alcuni esponenti del pool, io e Davigo in particolare, e gli avvocati dello studio Stella, che non era uno studio qualsiasi, Federico Stella era docente all’Università Cattolica e aveva tra i clienti il gotha dell’imprenditoria italiana che vedeva i lavori bloccati e gli appalti fermi. Riflessioni comuni ­­­­­242

che sfociarono nell’incontro di Cernobbio organizzato dallo studio Ambrosetti nel 1994. Lì andai io a portare la nostra proposta di legge, ma ci misi soltanto qualcosa di ‘dipietrese’, la proposta fu scritta da alcuni giuristi tra cui Domenico Pulitanò e da Piercamillo Davigo. La corruzione è un reato a concorso necessario, c’è uno che dà e uno che riceve soldi, poiché entrambi commettono reato nessuno dei due ha interesse a denunciarlo, bisogna trovare un sistema per spezzare il muro di complicità e di omertà tra corrotto e corruttore. Noi proponemmo un meccanismo che rendesse vantaggiosa la dissociazione: la non punibilità per chi confessava entro tre mesi dalla commissione del fatto e fino a quando la notizia di reato non fosse stata iscritta a suo nome. Ancora oggi è una proposta attualissima». «Ho incontrato Craxi per la prima volta in casa di Nicolò Amato, il suo avvocato. Colloqui informativi, veri e propri interrogatori, verbalizzati. Ricordo che fumava, fumava tantissimo, con me provò a comportarsi da giocatore di poker. Pensava di potermi utilizzare a suo vantaggio: sfruttare le inchieste Mani Pulite per attaccare i suoi avversari politici, per chiamare in causa il Pci sui finanziamenti ricevuti da Mosca. In larga parte accuse generiche, riferimenti oscuri, allusioni, io gli chiesi: ‘Mi faccia avere i documenti necessari’. Lui mi fece arrivare qualcosa, ma erano tutti episodi ampiamente amnistiati. Non riusciva a distinguere tra un’aula di tribunale e una sede politica, anche per questo prese una topica clamorosa. Nell’interrogatorio al processo Cusani gli lasciai briglia sciolta, fu una mia scelta tattica, era concentrato sulla sua prosopopea e si incastrò da solo. Quando affermò che tutti prendevano i soldi e che tutti sapevano, per lui era un comizio, una campagna politica, ma dirlo in un’aula di tribunale equivaleva a rilasciare una confessione piena. Quando poi si rese conto di non potermi strumentalizzare a suo vantaggio si dimostrò essere quello che è sempre stato: un ricattatore politico. Sull’“Avanti!” scrisse ‘non è tutto oro quel che luccica’, riferendosi a me, e si mise a costruire un dossier che io ho impiegato dieci anni a smontare. Il famoso e inesistente ‘Giovanni Salvi’ che ha costruito quel falso dossier ancora non si trova, ma la manina ce la mise il capo della Polizia Vincenzo Parisi. Fu lo stesso Craxi a rivelarlo, dopo la morte di Parisi, naturalmente. Però è riuscito nel suo intento: negli anni successivi è sembrato che Mani Pulite fosse una guerra tra bande, lo scontro tra giudici e politici, tra magistratura e politica, quando invece era una guerra tra guardie e ladri». ­­­­­243

«Berlusconi all’inizio non entrò nelle inchieste. Non è vero che era pronto un ordine di cattura per lui già nel 1992. Il nostro filone erano i trasporti: metropolitane, strade, autostrade, le sue aziende non c’erano. E ricordo che per tutto il 1992 e gran parte del 1993 la Fininvest di Berlusconi fu il principale organo di informazione delle inchieste Mani Pulite presso l’opinione pubblica. Emilio Fede aveva messo una capanna davanti al tribunale, Paolo Brosio era diventato una barzelletta, Enrico Mentana aveva spedito Pamparana... La Fininvest sponsorizzò Mani Pulite. Fino a quando? Berlusconi ha sempre detto: quando sono entrato in politica i magistrati hanno cominciato a indagare su di me. Ma è vero l’esatto contrario. Su questo punto c’è la sentenza del tribunale di Brescia, a pagina 106, non me la dimenticherò mai: non è vero che i magistrati di Milano hanno cominciato a indagare su Berlusconi quando è entrato in politica, è documentalmente provato che Berlusconi si è messo in politica quando ha capito che i magistrati sarebbero arrivati a indagare su di lui. Berlusconi, tra fare il pentito o fare il latitante, ha scelto la terza via: faccio il politico e mi faccio eleggere per non farmi processare». «Nel 1994, in realtà, Berlusconi tenta il colpo grosso: spacciarsi per il nuovo, per l’uomo di Mani Pulite. Vince le elezioni e per rifarsi la verginità chiede a me di fare il ministro dell’Interno nel suo governo. Ero a Roma per un’inchiesta insieme al colonnello Gallitelli, ricevo una telefonata dal Quirinale, mi passano il presidente del Consiglio incaricato. ‘Buongiorno signor magistrato, sono Silvio Berlusconi’, mi dice. Era la prima volta che sentivo la sua voce, non gli avevo mai parlato in vita mia. ‘Sono qui davanti al capo dello Stato, avrei bisogno di parlarle’. Io non sapevo cosa volesse propormi, ho saputo dopo della contrarietà di Scalfaro a un mio incarico governativo. Berlusconi mi dà appuntamento, ‘venga a questo indirizzo nel pomeriggio’, io prendo l’appunto e ci vado, e che avrei dovuto fare? Mi chiamava dallo studio del presidente della Repubblica! Mi faccio accompagnare dalla pattuglia dei carabinieri in via Cicerone 40, non sapevo cosa fosse, suono e mi apre Cesare Previti, lì per lì non so neppure chi sia, a Roma lo conoscevano bene, a Milano no... C’era anche Gianni Letta, mi pare. Berlusconi è cordialissimo, mi fa un sacco di complimenti, mi offre il Viminale, io gli dico di no, ‘la ringrazio, sono onorato, però vorrei concludere il mio lavoro’, più qualche frase di circostanza e un generico interesse a un incarico nell’ambito dei servizi segreti quando le inchieste fos­­­­­244

sero terminate, e la cosa finisce lì. Lui in quella data aveva già fatto una scelta: se avessi detto di sì avrebbe eliminato l’investigatore che poteva arrivare a lui e come immagine sarebbe passata l’idea che il suo era il governo di Mani Pulite. Sono orgoglioso di aver fatto quella scelta, di avergli detto di no. Da lì Berlusconi, come prima di lui Craxi, capisce che non ha altra strada che quella di distruggermi. Riprende in mano il cosiddetto dossier Achille e l’8 ottobre 1994 le carte arrivano al ministero della Giustizia e al capo degli ispettori Dinacci. Partono le denunce al tribunale di Brescia. Le mie dimissioni dalla magistratura sono state una scelta che rivendico ancora, piangendoci sopra, era l’unico modo per contrattaccare con le mani libere, come mi aveva consigliato di fare Cossiga. Erano convinti di avermi stroncato, ma mi sottovalutarono: la mia migliore inchiesta è stata quella per difendermi dagli attacchi contro di me e contro Mani Pulite». «Il mio più grande rimorso è di non aver arrestato Gardini alla mezzanotte e cinque minuti di quel 23 luglio in cui si è ucciso. Avevamo concordato con i suoi legali che venisse il giorno dopo da me a riferire. Erano già pronti due provvedimenti restrittivi, gli avvocati lo capiscono, tra me e loro non c’è nessuna trattativa, io non do nessuna garanzia né in un senso né nell’altro, concordiamo che la mattina dopo sarebbe venuto in Procura alle otto e trenta. Mi richiamano e mi confermano: Gardini viene da lei, ci vediamo domani. Io però non mi fido e spedisco i carabinieri in borghese sotto casa sua, non volevo che decidesse di scappare. A mezzanotte e cinque lo vedono entrare nel palazzo di piazza Belgioioso e mi chiamano: ‘Che facciamo, lo prendiamo?’. Io dissi di no, avevo l’impegno con i suoi avvocati che sarebbe venuto da me in Procura spontaneamente e lo rispettai. So che la mattina Gardini si era vestito per l’interrogatorio, poi si è sparato. Era un grande personaggio, uno che voleva vincere o perdere tutto». «Sì, ho incontrato Gianni Agnelli. Non nella fase delle inchieste, però! Quando ero uscito dalla magistratura mi invitò a colazione nella sua casa romana. Non ebbe nessuna curiosità, per così dire, retrospettiva, sulle inchieste che avevano coinvolto gli uomini della Fiat. Cercò di capire se avrei fatto politica e con chi mi sarei schierato, mi confidò di temere gli uomini della Provvidenza che scendono in politica». L’ex capo dell’ufficio di Di Pietro, il procuratore Francesco Save­­­­­245

rio Borrelli, vent’anni dopo ha tracciato un bilancio amaro dell’opera del pool: «Se fossi un uomo pubblico di qualche Paese asiatico, dove è costume chiedere scusa per i propri sbagli, chiederei scusa: scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale». Di Pietro non condivide il pessimismo di Borrelli. «Oggi sto raccogliendo l’archivio Mani Pulite, perché è un pezzo di storia. Sul piano giudiziario quella stagione è stata un unicum, sarebbe difficile realizzare le stesse condizioni. Sul piano politico non sarà un’altra inchiesta Mani Pulite ad aprire una stagione nuova. L’abbiamo già visto, la soluzione giudiziaria da sola non basta. Deve essere la politica a trovare in sé la forza di cambiare. Oppure sarà l’esasperazione della piazza che farà crollare il sistema».

X

Il Gattopardo

L’Italia è donna ed esce da una rivoluzione; o, per meglio dire, mette giù la sopraveste della rivoluzione. Le rivoluzioni consumano prontamente. Si vuole il nuovo, non il diverso. Ferdinando Petruccelli della Gattina I moribondi del Palazzo Carignano, 1862

«Vede, io sono un pratico, ma anche un sognatore: spero che venga fuori una nuova classe politica senza cadaveri nell’armadio, le mani pulite, poche idee ma chiare, capacità di farsi capire in modo comprensibile...». È prima, molto tempo prima che l’inchiesta giudiziaria cominci, ma per Silvio Berlusconi l’operazione Mani Pulite parte in largo anticipo. Nell’estate 1977 Mario Pirani, uno degli inviati di punta di “Repubblica”, viene spedito da Scalfari a indagare cosa si muove nel Nord e quali sono gli umori del mondo imprenditoriale rispetto all’imminente ingresso del Pci nella maggioranza. A Pirani segnalano questo giovane costruttore, presidente di Edilnord, che ha comprato una quota del 12 per cento del “Giornale”, il nuovo quotidiano diretto da Indro Montanelli che dà voce all’elettorato moderato e anti-comunista. Berlusconi in quel momento ha appena quarant’anni, non ha ancora dato il via libera alle trasmissioni di Telemilano 58 (i programmi partiranno un anno dopo, il 7 settembre 1978), è solo un palazzinaro molto ambizioso e molto arrogante. L’intervista esce venerdì 15 luglio 1977, a tutta pagina, con il titolo che è un progetto di vita: Quel Berlusconi l’è minga un pirla. Ed è un documento ancora oggi quasi sconosciuto, eppure fondamentale perché in quelle risposte a Pirani c’è già tutto il Berlusconi­­­­­247

pensiero, rimasto immutato per decenni. L’orgoglio di chi si è fatto da solo: «Io sono un prima-generazione. Ho decollato come industriale attorno al ’60 senza conoscenze, appoggi, aiuti. Mi è andata bene». Sorvoliamo sulla Banca Rasini, le 22 holding da cui è nata la Fininvest, la presenza nella villa di Arcore del mafioso Vittorio Mangano e l’inquietante figura di Marcello Dell’Utri che fa da assistente al rampante imprenditore brianzolo, seguiamo il quarantenne Berlusconi nel suo ragionamento: «Gli altri? Era facile diventare ricchi al loro tempo, col basso costo del lavoro e non pagando le tasse. Quando hanno sentito arrivare la crisi, hanno portato i capitali all’estero e si sono fermati. Ma facciano il piacere. Erano dei ragionieri, altro che industriali!». La politica? «In Lombardia e a Milano un uomo di grande valore come Mazzotta ha conquistato la federazione della Dc coagulando la sinistra anticomunista della Base e di Forze Nuove, la Coldiretti, Comunione e liberazione. Altre forze si ritrovano attorno ad uomini come l’onorevole Usellini che si è impegnato nella politica sull’esempio di Umberto Agnelli; come Mario Segni; come il ministro Pandolfi». Per loro Berlusconi promette di impegnarsi «non certo pagando tangenti, ma mettendo a disposizione i mass-media. In primo luogo Telemilano, che sto riorganizzando e che diventerà un tramite tra gli uomini politici che dimostreranno di non avere divorziato dall’economia e dalla cultura e l’opinione pubblica». Resta lo spazio per un’ultima, sinistra annotazione: «Sono politici che si sanno presentare in modo chiaro e immediato, facendosi capire dalla gente. Non come Moro, che ogni volta che apre bocca ci vuole un esercito di esegeti per interpretarlo. Questi capi storici hanno il culo per terra ma ingombrano la porta». Una sentenza terribile, perché dieci mesi dopo ci penseranno le Brigate rosse a sgombrare il passaggio con il rapimento e l’omicidio dello statista democristiano. Malamente ostacolate, per non dire di peggio, dai servizi di sicurezza i cui vertici risulteranno tutti iscritti alla P2, insieme alla tessera numero 1816, quella di Berlusconi, che nel frattempo è entrato nella loggia di Gelli. E dopo la morte di Moro, finalmente, gli anni Ottanta potranno cominciare. In quella remota prima uscita politica ci sono già i tratti distintivi del personaggio. L’outsider di successo. L’anti-comunista viscerale. L’imprenditore che coltiva un suo partito personale e trasversale, uno schieramento di amici presenti nelle formazio­­­­­248

ni di governo, incoraggiati a prendere il potere, foraggiati non a colpi di tangenti ma di spazi televisivi che garantiscono la nuova dote indispensabile per farsi largo, la visibilità. Il miliardario che vuole chiudere con il linguaggio e i riti della vecchia politica, che già nel 1977 è ansioso di corteggiare il sistema partitico e al tempo stesso invoca l’avvento di una classe politica «senza scheletri nell’armadio». E con le mani pulite, già. Un golpe giudiziario. Per vent’anni Berlusconi e gli uomini del suo partito e il gigantesco apparato mediatico da lui controllato hanno ripetuto questa definizione in modo ossessivo. «Nel 199293 c’è stata un’azione unidirezionale da parte di certa magistratura che ha fatto fuori solo una classe politica, guarda caso quei partiti di tradizione occidentale e democratica che hanno garantito per tanti anni la democrazia nel nostro Paese». Gli anni del Terrore, «quando un cittadino rinchiuso nella patria galera, trattato come un cane in un canile, non accettando più questa condizione, rinunciava alla sua vita» (9 luglio 1998). «I partiti che per cinquant’anni hanno permesso di vivere nella democrazia sono stati messi da parte. Sono sopravvissute solo le persone che in quei partiti erano più vicine alla sinistra» (4 luglio 1998). «Oggi è in atto un tentativo di golpe giudiziario come quello che ci fu con Tangentopoli» (8 aprile 2011). A leggere certe ricostruzioni («Mani Pulite dilagava ormai in tutta Italia. Venivano arrestate, in media, tre persone al giorno. Tutte le mattine, la gente leggeva con avido sdegno i giornali e sentiva covare dentro di sé una repulsione crescente verso l’intero mondo politico», ha scritto Bruno Vespa63) si direbbe che in quel biennio l’Italia è stata come il Cile di Pinochet, torture, desaparecidos e pochi partigiani della libertà a combattere sulle montagne per sfuggire al massacro: Berlusconi in testa. Le cose, però, non sono andate esattamente così. C’è una verità scomoda, sgradevole per il Cavaliere, che va raccontata. All’inizio del 1993 tutti i partiti, Pds compreso, vivono nell’incubo della fine. Ma ancor più terremotati sono i principali gruppi imprenditoriali pubblici e privati, il traino dell’economia nazionale, i personaggi simbolo del capitalismo italiano. Quasi tutti i 63

Bruno Vespa, Dieci anni cit., p. 218.

­­­­­249

vertici delle imprese salgono in quei mesi le scale del tribunale di Milano per bussare alla porta del pool e in molti casi finire trasferiti a San Vittore: il presidente dell’Iri Franco Nobili, il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, l’amministratore delegato della Techint Paolo Scaroni, futuro amministratore delegato dell’Eni, alti dirigenti delle Poste, delle Ferrovie... L’ex presidente dell’Iri Romano Prodi viene interrogato per due ore in una domenica di luglio dal pm Di Pietro che sarà ministro dei Lavori Pubblici e delle Infrastrutture nei due governi da lui presieduti: «‘E i soldi alla Dc?’. La voce del magistrato rimbomba nei corridoi deserti della Procura», annota il giovane cronista giudiziario del “Corriere” Gianluca Di Feo, che un anno dopo firmerà lo scoop del primo avviso di garanzia a Berlusconi. E i grandi? I Condottieri, come li aveva chiamati il settimanale francese “L’Express” nel 1985 mettendoli in copertina: Gianni Agnelli, Carlo De Benedetti, Silvio Berlusconi? I miracle makers, presentati nel 1987 al pubblico americano da “Newsweek”, i costruttori di miracoli, che «hanno trasformato l’economia italiana (alcuni dicono, anche la sua gente) nella più scattante in Europa», oltre ai tre già citati c’è anche Raul Gardini. Così famosi da essere chiamati solo con il titolo di studio o di professione: l’Avvocato, il Contadino, l’Ingegnere, il Cavaliere. I primi tre italiani più ricchi del mondo nella classifica di “Fortune” del 1990: Agnelli (4 miliardi di dollari), Gardini (3 miliardi), De Benedetti (2,7). Berlusconi è in quarta posizione con 2,6 miliardi. Il quinto, con 1,8 miliardi, è Salvatore Ligresti. Nel 1993 quella classifica che evoca soldi, imprese sportive, giornali, televisioni, successo, fascino, il vero potere, è devastata da una catena infinita di interrogatori, memoriali, vertici con gli avvocati, documenti bruciati, tragedie. E non viene risparmiato nessuno, o quasi. «Non abbiamo pagato cose grosse, mi risulterebbero», afferma Umberto Agnelli quando le inchieste di Milano non hanno ancora puntato al cuore di corso Marconi, fedele alla linea scelta dall’avvocato della famiglia, Vittorio Chiusano: circoscrivere i casi isolati, non ammettere nulla, resistere. «Il giorno che smetteranno di pagare le tangenti o di tenere un comportamento che permette di pagarle il problema si risolve da sé», la mette giù dura Piercamillo Davigo al termine di settimane di trattative e ­­­­­250

di polemiche tra la Fiat e la Procura, seguite all’arresto più clamoroso, il direttore finanziario Francesco Paolo Mattioli, nipote del mitico banchiere Raffaele Mattioli, presidente della CogefarImpresit, finito fotografato anche sul “Corriere” con la busta di plastica in mano dopo trentotto giorni di carcere. E a quel punto la più importante azienda italiana cambia linea. «Anche in Fiat si sono verificati alcuni episodi non corretti di commistione con il sistema politico», è costretto a mostrarsi contrito in pubblico il 17 aprile durante il convegno della Confindustria di Venezia il Numero Uno in persona. «È errato e fuorviante pensare che le indagini della magistratura siano parte di un complotto o di oscure manovre politiche. Ci sono demagoghi che vogliono un sistema ancora più arretrato, populista, illiberale di quello che sta finendo. È augurabile che le inchieste arrivino a conclusione, distinguendo tra chi ha fatto seriamente impresa e chi ha fondato la sua fortuna sulla sistematica collusione con il potere politico», guarda i fogli Gianni Agnelli, visibilmente preoccupato e umiliato di quel clamoroso atto di mortificazione. Chi lo avvicina in quelle settimane riferisce della grande paura che attraversa la Real Casa di Torino: che avvenga l’inconcepibile, un avviso di garanzia per il Re d’Italia, una richiesta di comparizione a testimoniare per l’Avvocato di Torino. L’impensabile: un’inchiesta su Gianni Agnelli. È questa angoscia che spinge a cambiare strategia e passare alle ammissioni dei vertici dell’azienda, spediti dai magistrati di Milano a immolarsi. Tre giorni dopo l’amministratore delegato Cesare Romiti prende un elicottero da Torino, atterra in un piazzale davanti alla stazione Garibaldi, va in Procura da Di Pietro, consegna un memoriale e dichiara che sì, la Fiat pagava le tangenti, «i partiti ci taglieggiavano». Come segno di buona volontà si consegnano i dirigenti latitanti, primo fra tutti Giorgio Garuzzo, il direttore generale, il numero tre della Fiat. Antonio Mosconi, l’ex presidente della Cogefar anche lui agli arresti, darà un piccolo spaccato dell’ansia di quelle settimane, con la rivelazione (sempre smentita da Romiti) di un vertice aziendale a Vaduz, in Liechtenstein, per distruggere documenti su ordine dell’amministratore delegato. Si parla di un patto tra Fiat e Procura, ma ancora una volta Davigo smentisce: «Quale patto? Sono venuti i plenipotenziari della Fiat e hanno firmato la resa senza condizioni». Il 21 maggio, infatti, ­­­­­251

un mese dopo il discorso dell’Avvocato, arriva il primo avviso di garanzia per Cesare Romiti: corruzione. Qualche giorno prima ha chiesto di essere ascoltato dai magistrati di Milano Carlo De Benedetti. Un’ora di colloquio in cui l’Ingegnere confessa a Di Pietro che anche il gruppo Olivetti era costretto a pagare tangenti ai partiti: «Un racket». Nel memoriale De Benedetti indica «i casi specifici cui intendo fare riferimento: fatti relativi al Ministero delle Poste – Rapporti con il Psi – Rapporti con la Dc – Fatti relativi alle Ferrovie dello Stato – Rapporti con Mach di Palmstein – Fatti connessi al decreto sui registratori per ambulanti – Fatti relativi al Ministero di Grazia e Giustizia – Fatti relativi all’Inail». «Non mi sono mai occupato personalmente delle questioni sopra riportate. In particolare non ho trattato alcuna erogazione e non ho effettuato alcun pagamento», precisa il presidente dell’Olivetti. Per i craxiani De Benedetti, l’editore del gruppo EspressoRepubblica, è il regista occulto che muove i fili delle campagne stampa su Mani Pulite, il capo del circuito mediatico-giudiziario che stringe nella morsa i partiti. Invece anche lui è costretto a salire le scale della Procura di Milano. E non bastano i pm: l’Ingegnere deve affrontare anche, spettacolo inedito, la reazione dei suoi giornali e delle sue firme di punta. «Siamo feriti e infuriati, anch’io sono incavolato nero», lo affronta Giampaolo Pansa in un colloquio su “l’Espresso”. Più che un’intervista, un match, fortemente voluto dal direttore Claudio Rinaldi che ha il coraggio di dedicare una copertina ai problemi giudiziari del suo editore. «Con altrettanta schiettezza, caro Giampaolo, ti dico: sono sconcertato che voi siate infuriati. Io mi sono presentato spontaneamente alla Procura di Milano», replica De Benedetti. «E fino a oggi sono l’unico presidente di un gruppo italiano che si sia assunto, personalmente, la responsabilità di un numero di casi circoscritti e limitati e non di una prassi aziendale che in Olivetti non è mai esistita... Potevo inventarmi: l’ha fatto quel dirigente che poi è morto. È una tattica molto in voga oggi. Ma mi sarei sentito un verme. Ho detto: l’ho fatto io». «L’inchiesta Mani Pulite è finita», dichiara il procuratore aggiunto D’Ambrosio. «L’impianto generale del sistema mazzette è ormai venuto alla luce. Con le confessioni di Romiti e De Benedetti abbiamo messo a posto l’ultimo tassello. Cos’altro resta da ­­­­­252

aggiungere di fondamentale?». E già, cos’altro resta? Riprendiamo la classifica di “Fortune” del 1990: nella primavera del 1993 Agnelli e la Fiat sono nella condizione dell’animale braccato dai magistrati di Milano, De Benedetti porta il suo memoriale in Procura, Ligresti è reduce da quattro mesi di carcere. E Gardini, il Contadino, l’uomo che di sé diceva: «La chimica sono io» e che aveva dato l’assalto al cielo, «amo il vento, amo le cose che stanno intorno, stare dentro gli elementi, l’acqua, la terra...», si suiciderà con un colpo di pistola. Solo uno dei condottieri, nel 1992 e nel 1993, non viene mai convocato in Procura, non è costretto a presentarsi per ammettere il versamento di tangenti, non viene neanche sfiorato da un avviso di garanzia, meno che mai da un’ipotesi di arresto. Eppure tra tutti è l’imprenditore più vicino alla politica, con un partito a disposizione, il Psi di Craxi. E sarà proprio lui a gridare negli anni successivi alla persecuzione e al golpe giudiziario, lui che del crollo dei partiti sarà il gran beneficiato. Lui, il Cavaliere, Silvio Berlusconi. C’è un episodio che spiega bene lo stato dei rapporti tra il presidente della Fininvest e i suoi padrini partitici alla vigilia di Tangentopoli. Estate 1991, le ultime vacanze serene della famiglia Craxi, Berlusconi arriva ad Hammamet con la signora Veronica per trascorrere qualche giorno con l’amico. Una sera si parla delle prospettive dell’anno in arrivo, la partitissima che vede il leader del Psi favorito per la guida del governo, ma Berlusconi, a sorpresa, non è della stessa idea, spinge su Craxi perché si candidi al Quirinale. «Ti conviene: è una posizione di grande potere, ti fai eleggere lì e per sette anni diventi il leader più autorevole del Paese», insiste Silvio. È solo una chiacchiera estiva, eppure c’è qualcosa che non va. «Bettino lo ascoltava stringendo le palpebre, come sempre faceva quando sospettava qualche trappola», racconta Massimo Pini. «Perché mai Berlusconi si immischiava in questioni di alta politica?, rifletteva ad alta voce dopo la partenza della coppia di Arcore. Forse che dietro questa sollecitazione, addolcita dal consiglio di pensare alla salute e a un periodo di sosta dopo tante e tante battaglie, si celasse un’ambizione personale?»64. 64

Massimo Pini, Craxi cit., p. 441.

­­­­­253

Certo, per la prima volta l’asse Fininvest-Psi si era incrinato per la decisione delle emittenti berlusconiane di mandare in onda gli spot dei referendari di Segni, scelta che aveva fatto inferocire il segretario del Psi: «La Fininvest è senza patria, pensa soltanto ai soldi!». Qualche settimana dopo Berlusconi aveva disertato la relazione d’apertura del congresso Psi di Bari, aveva spedito in avanscoperta Fedele Confalonieri: «Sì, tra i due c’è il gelo. Ma passerà». Troppo poco, però, per giustificare l’improvvisa diffidenza. In realtà, l’incontro di Hammamet tra Craxi e Berlusconi fotografa i due leader in un momento decisivo: uno costretto a puntare sull’accordo con la Dc per tornare a Palazzo Chigi, l’altro che ha appena incassato la legge Mammì e che comincia a guardarsi intorno per capire cosa farà da grande. Berlusconi nel 1991 è un uomo di 56 anni, reduce dallo scontro con il gruppo Espresso e con l’arci-rivale De Benedetti per il controllo della casa editrice Mondadori. La guerra di Segrate, cominciata alla fine del 1989 e terminata con la spartizione dell’impero editoriale (la casa editrice e i periodici della Mondadori a Berlusconi, il gruppo Espresso a De Benedetti). Due anni di colpi di scena, capovolgimenti di fronte, interventi della magistratura (la sentenza scritta dal giudice Vittorio Metta che dà torto a De Benedetti riguardo alla proprietà delle azioni della famiglia Mondadori-Formenton risulterà comprata dalla Fininvest e provocherà un maxi-risarcimento danni alla Cir dell’Ingegnere di 750 milioni di euro in primo grado, scontati nel 2011 a 560 milioni nella sentenza d’appello) e uno scontro politico senza fine. Fanno il loro esordio, in quella vicenda, i partiti trasversali che si combatteranno nel corso di tutta la Seconda Repubblica. Il primo, quello che resiste all’annessione ad Arcore del gruppo Espresso-Repubblica, sarà l’area del partito che non c’è ipotizzato da Scalfari nel 1992: la sinistra Dc, il Pds di Occhetto, il Pri di Giorgio La Malfa, la Rete di Orlando, i referendari di Mario Segni, con qualche eccezione è il nucleo del futuro Ulivo. Il secondo, a sostegno del Cavaliere, il Psi di Craxi, il Psdi di Carlo Vizzini, un pezzo di Dc, il piccolo Partito liberale, qualche corrente del Msi: l’embrione del partito berlusconiano che verrà. Ancora futuribile, in quel momento. Nel 1990, quando Berlusconi entra in campo per strappare la Mondadori a De Benedetti, i rapporti di forza tra la Fininvest e il ­­­­­254

Palazzo sono ancora a senso unico. Il Cavaliere ha bisogno della politica per portare a casa la legge sull’emittenza che metta in salvo il suo regno televisivo, la politica si serve di lui per le operazioni più spericolate: «Berlusconi è l’agente dormiente di Craxi dentro Segrate», avvertono in piazza del Gesù prima che cominci la scalata. Chiamato dal leader socialista a sferrare l’attacco contro “Repubblica” e “l’Espresso”, i giornali che in via del Corso considerano in testa alla lista dei nemici. Ghino di Tacco sull’“Avanti!” non cessa di bombardare: Scalfari e i suoi giornalisti sono «mascalzoni, incommensurabili e recidivi». Craxi, in privato, con l’Ingegnere è ancora più esplicito: «Questa è una guerra totale. E da una guerra totale uno dei due esce distrutto. Io non ho nessuna intenzione di farmi distruggere. Anzi, sono io che vi distruggo. Ho carte e documenti che vi distruggeranno»65. La scalata di Berlusconi non è una scelta imprenditoriale. Silvio agisce su ordine del suo mandante politico per distruggere l’avversario. E tutta politica è anche la chiusura della vicenda. Nell’estate 1990 Andreotti non ha esitato a sostituire in pochi minuti cinque ministri della sinistra Dc che si erano dimessi in polemica con la legge Mammì e a far approvare a colpi di fiducia il provvedimento che ha consegnato al Cavaliere tre reti televisive e la metà del mercato pubblicitario: la prima legge ad personam, dopo il decreto salva-Berlusconi degli anni Ottanta che gli aveva consentito di andare in onda. Anche il Divo Giulio pesa moltissimo nella galassia Fininvest: non è amico personale del Cavaliere, come Craxi, ma può contare su un uomo di fiducia che appartiene al suo mondo, i soffici divani curiali dei palazzi romani, i modi eternamente gentili che non temono di apparire ipocriti, i capelli imbrillantinati e mai fuori posto, gli abiti scuri, la pelle levigata. Gianni Letta condivide con Andreotti tutto questo, e in più frequentazioni riservate ma importanti, come quella con il giornalista Luigi Bisignani. Ufficialmente a metà anni Ottanta è un semplice redattore dell’Ansa, noto alle cronache per essere scivolato sulla loggia P2 di cui nel 1981 è risultato essere il più giovane iscritto, a soli 27 anni, come portavoce del ministro Stammati; in realtà è al servizio di Andreotti, una specie di agente per gli affari riser65

Giampaolo Pansa, L’intrigo, Sperling & Kupfer, Milano 1990, p. 83.

­­­­­255

vati del premier. C’è Letta in prima fila al teatro Eliseo, quando Bisignani presenta il suo primo romanzo, la spy-story Il sigillo della porpora. Sul palco per parlare del libro si sono scomodati il re della sinistra letteraria Enzo Siciliano, il nuovo pupillo di Craxi Giuliano Ferrara e naturalmente Andreotti, ministro degli Esteri, che si spertica in lodi: «Il gelido protagonista si commuove solo quando gli uccidono la figlia: una pagina di toccante ed eloquente umanità». È stato Bisignani, per conto di Andreotti, a raccomandare Letta a Berlusconi quando l’ex direttore del “Tempo” è rimasto disoccupato nel 1986: «Cavaliere, le serve qualcuno che si muova a suo agio nei palazzi romani, Letta andrebbe benissimo...». Da quel momento in poi, grazie all’intervento del gruppo andreottiano, Letta diventa il decoder di Berlusconi nella Capitale e non smetterà più di esserlo. È una presenza che non rilascia dichiarazioni, non prende la parola ai congressi, non si candida alle elezioni. Interessi senza volto. Comunanze e affinità che sostituiscono le sedi visibili. Filiere trasversali. Un’Ombra. Che attraversa gran parte della Prima Repubblica e tutta la Seconda. Una caratteristica della vita italiana di questi anni è la presenza a vari livelli di personaggi potenti e incensurati che si trovano al centro di vaste reti di potere, le hanno tenacemente costruite con sapienti alleanze, le alimentano con reciproci favori. Queste reti di potere travalicano talvolta nel malaffare, ma chi sta al centro di esse riesce di solito a non lasciar tracce del suo passaggio e della sua presenza. Passa attraverso il fuoco come la salamandra, senza bruciarsi e senza conservarne segno alcuno. [...] Spesso i personaggi in questione sono addirittura simpatici alla gente. Spesso sono molto popolari. Talvolta sono filantropi, d’una filantropia mirata e ben calcolata. Finanziano ospizi. O premi letterari. O squadre di calcio. Un tempo i signori lanciavano zecchini d’oro alla plebaglia che se li disputava sotto i loro occhi divertiti. Oggi i costumi sono diversi, il risultato è il medesimo. Ripassando nella memoria alcuni episodi del passato prossimo e del passato remoto e anche alcuni fatti degli ultimi giorni, m’era venuta in mente la celebre ballata con cui si apre l’Opera da tre soldi, quella cantata da Jenny delle Spelonche alla fiera del quartiere di Soho. Ho voluto riascoltarla. Descrive Mackie Messer, il gangster, il furbissimo e simpatico a modo suo personaggio centrale dell’Opera. Ricordate i versi di Brecht e la musica di Kurt Weill? Tanti denti ha il pescecane ­­­­­256

e a ciascun li fa veder, Mackie Messer ha il coltello ma chi mai lo può saper? Sbrana un uomo il pescecane ed il sangue si vedrà. Mackie ha un guanto sulla mano nessun segno resterà. [...] Naturalmente i personaggi dei tempi nostri non sono così truculenti come il gangster di Bertold Brecht. Sono molto più felpati, più soffici, più ironici. I loro supporters non sono i pezzenti di Soho ma la crema, il fior fiore dell’establishment. La grande finanza è a loro disposizione. Il Parlamento anche, quando serve. Il governo quasi sempre. Stuoli di avvocati ne guidano le mosse. I servizi segreti alla bisogna gli danno una mano. Le Logge, più o meno massoniche, li accolgono fraternamente (Eugenio Scalfari, Mackie Messer ha il coltello ma vedere non lo fa..., “la Repubblica”, 13 gennaio 1990).

Sulla Mondadori Andreotti la pensa in modo esattamente opposto a Craxi: la guerra deve concludersi senza vincitori né vinti. Troppo pericoloso lo strapotere mediatico di Berlusconi. Troppo rischioso ritrovarsi con un polo editoriale-televisivo di quelle dimensioni, le tre reti Fininvest, “Repubblica”, “l’Espresso”, “Panorama”, la catena dei giornali locali, la casa editrice più importante del Paese, alla vigilia delle elezioni che determineranno i nuovi equilibri di potere, gli inquilini di Palazzo Chigi e del Quirinale. C’è Cossiga che in quei mesi apre la strada a una svolta in senso presidenziale. Cosa succederebbe, si chiede Andreotti, se Cossiga, Craxi e Berlusconi si saldassero in un unico disegno. «Di elefantiasi si può morire», manda a dire al Cavaliere il ministro Cirino Pomicino. «Bisogna vincere, mai stravincere. È la vecchia cultura della tolleranza, poco in voga negli ambienti editoriali». E andrà così, infatti. Per far calare la pax andreottiana sulla guerra di Segrate, il presidente del Consiglio incontra Berlusconi e De Benedetti, mette in campo Bisignani e un altro uomo di fiducia, il re delle acque minerali Peppino Ciarrapico. E così finirà: dopo la sentenza del giudice Metta, nella primavera del 1991, la mediazione di Andreotti porta alla spartizione della Mondadori. Senza vincitori né vinti. In quella fase il Cavaliere tiene bene a mente due cose: che non deve più dipendere dal potere politico. E che, a differenza di quanto consigliano le regole delle Prima Repubblica, lui non vuole limitarsi a vincere, al solito vuole stravincere. Tra il 1990 e il 1992 Berlusconi è l’imprenditore di fiducia dei partiti di governo, il volto sorridente del Caf, al punto che quando nasce il nuovo telegiornale di Canale Cinque Confalonieri si lascia scap­­­­­257

pare con Stella Pende sull’“Europeo”: «La nostra informazione sarà omogenea al mondo che vede nei Craxi, nei Forlani e negli Andreotti l’accettazione della libertà». Ma è anche l’uomo che si sente stretto nella gabbia dei vecchi partiti. «Ma perché lei continua ad attaccarmi? Noi abbiamo in comune lo stesso disprezzo per la classe politica», chiede Berlusconi a Giovanni Valentini, direttore dell’“Espresso”, incontrandolo al ristorante di Segrate. «Il successo della Lega lombarda vorrà pur dire qualcosa, no? È stato un voto di rifiuto contro l’abitudine a non reagire a ciò che è ingiusto e disonesto, contro uno Stato che pretende sempre di più e dà molto poco», sbotta dopo che il Milan ha perso lo scudetto con il Napoli. Il Cavaliere dimezzato, metà fedele esecutore dei partiti del Caf, metà voglioso di mettersi in proprio, si manifesta in un giorno felice e importante per lui. È il 15 dicembre 1990, in una sala di Palazzo Marino il sindaco di Milano Paolo Pillitteri celebra le nozze tra Berlusconi e Miriam Bartolini, in arte Veronica Lario. Testimoni dello sposo sono Bettino Craxi e Fedele Confalonieri, della sposa Anna Craxi e Gianni Letta: il vecchio regime partitico accorre a festeggiare il suo imprenditore di riferimento. Le foto dell’evento finiscono in esclusiva sull’ultimo numero del 1990 del settimanale “Tv Sorrisi e Canzoni” edito da Berlusconi. In copertina ci sono gli sposi, lei bellissima, raggiante nel suo vestito di Valentino, un abito di raso color bronzo, lui compreso nel ruolo con una mano nella tasca della giacca, il titolo da matrimonio reale: Una favola italiana. Dentro, grandi foto con l’effetto velatino che va tanto di moda in quel periodo, che rende le immagini sfuocate e fiabesche. Per la campagna elettorale del 2001 nelle case di tutti gli italiani entrerà un fascicolo patinato molto simile a quello: cento pagine come un rotocalco, le tappe di un’esistenza da sogno, soldi, belle donne e Coppe dei campioni, un messaggio subliminale – il mio programma elettorale sono io, la mia vita, se mi votate diventerete come me –, anche il titolo è quasi identico, Una storia italiana. In quel numero di “Tv Sorrisi e Canzoni” che festeggia il matrimonio del suo editore non c’è solo l’album fotografico. Interessano anche i testi che lo accompagnano. «Il matrimonio è stato il coronamento di una favola in una favola», si legge, perché, sia chiaro, per il settimanale berlusconiano la fiaba non è la storia d’amore, ma la straordinaria vita dello sposo. ­­­­­258

«Silvio Berlusconi rappresenta per gli italiani la realizzazione di un sogno». A dimostrazione dell’assunto c’è un sondaggio con una strana intuizione: «Se Silvio Berlusconi fondasse una Lega nazionale che si proponesse di governare meglio il Paese, più di un italiano su due sarebbe d’accordo con lui». Siamo ancora nel 1990, il Caf è ben solido, nessuno potrebbe prevedere un cambiamento, meno che mai Berlusconi che ha ancora bisogno dei partiti di governo per ottenere le concessioni e che nel 1991 ha provocato l’uscita dalla maggioranza del Pri di Giorgio La Malfa, dopo il cambio in corsa del ministro delle Poste designato Galasso con il socialdemocratico Vizzini. E il Cavaliere all’inizio del 1992 è ancora così servizievole con i suoi amici politici che basta un editoriale del deputato dc forlaniano Luciano Radi contro l’innocua trasmissione Lezioni d’amore di Giuliano Ferrara e della moglie Anselma in onda su Italia Uno in prima serata, considerata «un’aggressione all’ordinato e armonico sviluppo fisico e psichico dei bimbi delle nostre famiglie», perché il Cavaliere prontamente esegua. Il garante chiede uno spostamento di orario, Berlusconi fa di più e sospende il programma. Al povero Ferrara non resta che lamentarsi: «Come si permette la tv delle otto e trenta di scongelare il Presepe? I bacchettoni, rivelatisi una minoranza prepotente e arretrata, non hanno capito niente», tuona il futuro testimonial del cattolico Family Day. In quell’alba di 1992 il Cavaliere dimostra di aver capito poco di cosa sta per succedere. Le sue tv e i suoi tg abbondano di giornalisti di area socialista e craxiana: Ferrara, Emilio Fede, Francesco Damato, Enrico Mentana. «Non è colpa mia se con Bettino siamo amici da vent’anni», ripete Silvio in privato. Sulle sue tv, poi, i politici amici spopolano. Nei contenitori e nei talk-show politici, la novità di quell’anno, sono onnipresenti: all’ora del risveglio, a colazione, a pranzo, a cena, prima di andare a nanna. Apparizioni preziosissime, che valgono più di mille finanziamenti, dato che quelle del 1992 sono le prime elezioni con la preferenza unica sulla scheda elettorale, combattute voto per voto contro gli altri nomi della stessa lista. E per un candidato la notorietà di fronte all’elettorato è tutto. Per la campagna elettorale in vista del voto del 5 aprile 1992 il primato di presenze nelle trasmissioni Fininvest (Conto alla ­­­­­259

rovescia di Funari, Elettorando di Costanzo, Italia Domanda di Letta...) è conquistato da Dc e Psi, con 35 presenze a testa, il 50 per cento del totale, il 10 per cento va al Pds con preferenza per l’ala migliorista filo-craxiana, agli altri partiti restano le briciole. I più gettonati sono i socialisti Claudio Martelli, Carlo Tognoli, Francesco Forte, Alma Agata Cappiello, Francesco Colucci detto Ciccio, Paolo Pillitteri, l’attore Massimo Boldi. Craxi va in video una sola volta, nel salotto di Letta, alla vigilia del voto. Ci sono i futuri protagonisti di Tangentopoli, dal dc milanese Mongini al tesoriere del Psi Balzamo. Ma la rete berlusconiana è più ampia della maggioranza: negli studi della Fininvest, infatti, si fanno vedere i missini La Russa e Servello, il repubblicano Del Pennino (ben cinque presenze contro una sola del segretario La Malfa), i pidiessini Claudio Petruccioli, Gianni Cervetti e Chicco Testa, il dc Roberto Formigoni, il socialdemocratico ministro delle Poste Vizzini, i radicali Pannella e Taradash, il liberale Carlo Scognamiglio, il rifondarolo Armando Cossutta. E la Lega? Alle regionali del 1990 le presenze sulle reti Fininvest erano state quasi inesistenti: una sola (contro le 58 della Dc, 56 del Psi, 24 di Pci e Pri, 8 del Msi e 5 di tutti gli altri partiti). Nel 1992 la partecipazione dei leghisti schizza a 13 comparsate: c’è Bossi ospite di Costanzo, Speroni che va da Funari, le esordienti Irene Pivetti e Rosi Mauro che appaiono su Retequattro nel contenitore della mattina Onorevoli signore, l’ideologo Miglio, Marco Formentini. A scorrere questo elenco di invitati ci sono già alcuni futuri deputati di Forza Italia e i futuri alleati di Berlusconi: il partito trasversale del Cavaliere. Come aveva anticipato il giovane Berlusconi nell’intervista con Pirani del 1977: aiutare i politici amici «non certo pagando tangenti, ma mettendo a disposizione i mass-media». Sarà un manager Fininvest, Sergio Roncucci, un ex assessore comunista approdato in Fininvest, a raccontare ai magistrati come funziona il manuale Cencelli dei tele-inviti sulle reti berlusconiane: «Esistono due tipi di servizi televisivi per le campagne elettorali. Il primo sono le trasmissioni istituzionali: questo servizio non ha nessun costo per il candidato in quanto rientra nell’ambito dei servizi di informazione. Di conseguenza rientra nella discrezione della società televisiva invitare questo o quel candidato. Ero io stesso che ricevevo le telefonate dei segretari e dei funzionari di partito che mi chiedevano di essere inseriti in ­­­­­260

trasmissioni istituzionali. Molto spesso la scelta avveniva anche sulla base delle rose di nomi fornite direttamente dai partiti»66. Il secondo canale, naturalmente, sono gli spot a pagamento. Anche in questo caso, però, le emittenti del Cavaliere fanno una scelta molto conveniente: il prezzo è puramente simbolico, lo sconto è formidabile, il 90 per cento della tariffa, assicurato a tutti i partiti da una delibera di Publitalia, la concessionaria della Fininvest presieduta da Dell’Utri. C’è poi la campagna elettorale che svolge Berlusconi direttamente. Tra il 1991 e il 1992 il Cavaliere scende in campo. Non è la prima volta che gira l’Italia per le convention tra i manager del gruppo e le aziende che investono in pubblicità. Ma il tour che lo vede impegnato mentre gli uomini dei partiti vanno a caccia del voto ha un sapore particolare. Perché, come se niente fosse, Berlusconi smette di parlare dei suoi prodotti e delle sue reti televisive e si lancia a parlare dell’Italia. È stato il suo ritornello per tutto il 1991: su e giù per la penisola, sedici cene-incontro su un grande pullman-ufficio di colore grigio, inusuale per lui, accompagnato da Dell’Utri. Una personale crociata che si riassume in uno slogan: contro il pessimismo, per l’ottimismo. Il tradizionale intervento per vendere spazi pubblicitari è preceduto da quello che gli stessi collaboratori del Cavaliere definiscono «un comizietto». «Non date retta, la guerra in Iraq non comporterà una crisi dei consumi. Non ci sarà la recessione», ripete. Altro giro, teatri pieni, a San Lazzaro di Savena, vicino Bologna, si mette al pianoforte e canta per quattrocento invitati. A Brescia parla per quasi due ore: «Altro che Italia al capolinea. In barba alle Cassandre siamo stati capaci di fare più soldi. Dobbiamo continuare così». Dopo la cena il rito del giro dei tavoli: Berlusconi conosce già tutti, per ognuno dei presenti ha imparato a memoria una scheda biografica. E quando la serata finisce, alle due di notte passate, regala ai fortunati un’ultima suggestione, la più forte: se stesso, la sua vita, la sua ricetta per raggiungere il successo. «Ho vinto quando, contro l’opinione di tutti, ho voluto dar retta più al cuore che alla 66

1993.

Antonio Carlucci e Leo Sisti, Nella rete di Silvio, “l’Espresso”, 16 maggio

­­­­­261

ragione». L’ha scritto anche nell’introduzione al volume in carta avorio e copertina di pelle che la Silvio Berlusconi Editore ha regalato per Natale in una tiratura limitata di 2mila copie. È l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. «La vera genuina saggezza sta non in un atteggiamento razionale, necessariamente conforme alle premesse e perciò sterile, ma nella lungimirante, visionaria ‘pazzia’», ha voluto mettere a epigrafe di suo pugno. Una frase che lo accompagnerà in tutta la sua carriera politica: anche quando di pazzia ce n’è davvero poca e invece moltissimo calcolo. Un ottimismo ben motivato: nel 1991 la raccolta pubblicitaria per la Fininvest, in seguito alla legge Mammì, è cresciuta del 13 per cento. E il Cavaliere può guardare al nuovo anno con gli occhiali rosa. Un piacere di vivere annunciato dalla copertina del settimanale mondadoriano “Panorama” in cui si vede una donna che sorride mostrando il seno e guardando una mongolfiera tricolore che sale. Titolo: «1992, scommetto sull’Italia». Un attivismo che non passa inosservato nel Palazzo romano. La professione di ottimismo dà una mano ai partiti di governo Dc e Psi in difficoltà, impegnati in campagna elettorale contro gli «sfascisti», come sono chiamati in blocco i politici di opposizione, gli imprenditori, gli intellettuali, i giornalisti, tutti coloro che osano criticare il regime del Caf. Crea scompiglio tra gli industriali che appena pochi mesi prima hanno dichiarato che la festa è finita. «Io credo che siamo davvero al capolinea. Il fatto che Berlusconi pensi il contrario non mi stupisce: dimostra che lui non è un imprenditore vero e proprio, ma un uomo d’affari», reagisce l’ex presidente di Confindustria Luigi Lucchini. «L’ottimismo di facciata è pericoloso perché aiuta coloro che si battono per frenare i cambiamenti necessari», aggiunge il leader dei giovani imprenditori Aldo Fumagalli. Nonostante l’indubbio impegno di Sua Emittenza, come lo chiamano ancora, a vantaggio degli amici politici di sempre, qualcuno comincia a chiedersi cosa si sia messo in testa Berlusconi. I suoi giri per l’Italia, pericolosamente simili a una campagna elettorale personalizzata, all’americana, mai vista in Italia, possono essere considerati un appoggio a Craxi e ad Andreotti? O il Cavaliere sta cominciando a pensare a una partita diversa, vuole mettersi in proprio, giocare per se stesso? Anche su questa materia l’Agenzia Repubblica, legata a Vittorio Sbardella, si dimostra un passo avanti agli altri. Al voto del 5 ­­­­­262

aprile mancano due mesi quando sull’agenzia appare un articolo che parla dell’accordo con cui la Rcs pubblicità diventa concessionaria per il gruppo Rusconi conquistando l’11 per cento del mercato. Un’inezia, scrive l’Agenzia Repubblica, dato che la Fininvest controlla con la Mondadori una quota del 35 per cento che diventa il 61 per cento nel settore televisivo. Ma poi arriva un avvertimento: L’esistenza di un rischio Berlusconi è ormai recepito in tutti i settori della politica e dell’economia. In allarme sono anche schegge del Psi, che si sono rese conto lo scorso anno della precarietà di un rapporto di collateralità che pareva inossidabile. Il gruppo Fininvest costituisce nella società italiana una metastasi che ne stravolge la linearità. E se è vero che questo monopolio editoriale-televisivo-pubblicitario mantiene strettissimi rapporti con i partiti di governo, e con i socialisti ed i democristiani in particolare, è anche ormai chiaro come Sua Emittenza si serva di questi circoli politici come se fossero taxi, dei quali ci si serve, si paga la corsa, e si prosegue per i propri affari. Certo, il Psi (per limitarsi ai finanziamenti ufficiali, che emergono dalle dichiarazioni pubblicate il 9 maggio scorso sulla “Gazzetta Ufficiale”) ha ricevuto in un solo anno dalla Publitalia ’80 di Berlusconi 5 miliardi 811 milioni e 505mila lire come sconto su fatture e prestazioni televisive; ed altri 11 milioni 872mila lire sono stati scontati al Psi dalla stessa Publitalia su fatture relative alla pubblicazione del bilancio del Garofano. Regalie puramente simboliche, naturalmente, visto che il viluppo di interessi tra l’oligopolio di Sua Emittenza con i circoli della politica è così consolidato e composito da prefigurarsi più nel rosso che nel nero. D’altro canto l’innesto della Fininvest sulla Mondadori ha colto di sorpresa, e comunque disarmato, il Parlamento. La complicità nella edificazione di questa grande concentrazione editoriale-televisiva-pubblicitaria al centro del sistema delle comunicazioni italiano è evidentissima. Che governo e forze politiche abbiano facilitato il formarsi di questa metastasi è il vero scandalo.

L’articolo si intitola, con la ferocia che è il tratto stilistico della testata sbardelliana, La metastasi berlusconiana al centro del sistema delle comunicazioni. L’Agenzia Repubblica lo diffonde sul numero del 7 febbraio 1992. Mancano solo dieci giorni all’arresto di Mario Chiesa e all’avvio di Tangentopoli. E c’è un pezzo importante di mondo politico che in quel momento già vede Berlusconi come un rischio, un pericolo, uno che si è allargato troppo. Un ­­­­­263

gran corruttore, come Enrico Mattei, uno che paga i partiti come un taxi, per l’appunto. O, peggio ancora, un potenziale competitore dei partiti. Nelle agiografie di Arcore si è sempre ripetuto che Berlusconi ha cominciato a pensare di fare un partito da lui guidato nell’estate 1993, dopo l’approvazione della legge elettorale uscita dai referendum Segni. «Sono dovuto intervenire per evitare che le sinistre prendessero il potere», ha sempre giurato il Cavaliere. «Mi sono messo nella condizione di chi, partendo per una crociera, si è trovato qualcuno a fianco che aveva bisogno di aiuto. Il pericolo per il Paese era grande, se non avessi risposto avrei commesso omissione di soccorso», dirà nella prima convention di Forza Italia alla fiera di Roma, il 6 febbraio 1994. Macché, risponde il fronte anti-berlusconiano, l’uomo di Arcore è stato costretto a buttarsi in politica per evitare la catastrofe provocata dalla fine dei suoi padrini politici e dalla paura delle inchieste. Nell’uno e nell’altro caso, si immagina una mossa disperata e improvvisata. Ma non è così: a scorrere gli eventi di quei mesi appare chiaro come l’operazione Forza Italia sia stata pianificata fin nei minimi dettagli, con largo anticipo. «Se l’Azienda Italia fosse affidata a un imprenditore capace di condurre con successo la propria attività, e ce ne sono, in cinque anni potrebbe essere rimessa a posto». È il 23 settembre 1992, un mercoledì, annota Massimo Mucchetti che segue l’evento per “l’Espresso”, Silvio Berlusconi alza gli occhi dai fogli scritti e lascia cadere a braccio una frase che per la prima volta testimonia la sua gran voglia di entrare in politica. E per farlo sceglie la sede meno istituzionale e meno solenne: il Gran Hotel Billia di SaintVincent, la convention dei rappresentanti pubblicitari della Mondadori per presentare il nuovo settimanale popolare di prossima uscita, “Noi”. Un’incongruenza solo apparente, però. Perché per Berlusconi è questo il pulpito migliore da cui parlare, il lancio di un periodico per famiglie da un milione di copie, «il settimanale degli italiani», per cui l’azienda ha stanziato 12 miliardi di battage pubblicitario: il suo target di riferimento, il suo pubblico. Lo stesso che segue le reti Fininvest, le «donne sole», come le chiama l’Auditel in un suo studio qualitativo di inizio 1992, al 47,9 per cento spettatrici dei programmi del Biscione. Pensionate, vedove, pochi risparmi e consumi ridotti soprattutto sul piano culturale ­­­­­264

(libri, cinema, musica), le casalinghe, le donne del Sud, che rappresentano lo zoccolo duro dell’ascolto della Fininvest (al contrario delle reti Rai, più viste dalla fascia dei cosiddetti «impegnati»). Il futuro elettorato berlusconiano. In quel mese la crisi italiana è a un nuovo punto di svolta. Il 4 settembre è il primo venerdì nero della lira, la Banca d’Italia aumenta il tasso dal 13,25 al 15 per cento, il 13 arriva la svalutazione della lira, meno 7 per cento, il 17 settembre l’Italia esce dallo Sme, mentre il governo vara una manovra da 90mila miliardi. «Un paese sull’orlo del baratro, eravamo in una situazione assolutamente bastarda. Stavamo offrendo una pista di slalom speciale agli gnomi di tutto il mondo», racconterà Giuliano Amato. Il settembre nero: c’è un solo personaggio che sembra considerare quella tempesta una fortuna, un’opportunità da non perdere, un’occasione d’oro. Eppure, fino a quel momento per Berlusconi il 1992 è stato un anno ad alto rischio. Quando arriva l’arresto di Mario Chiesa la reazione è di appoggio al Psi: la linea del mariuolo. E in estate la Fininvest, sensibile alle proteste dei socialisti e dei democristiani, rimuove Carlo Freccero dalla direzione di Italia Uno e sospende il programma di Funari, che in quei giorni gira per le feste dei partiti (a quella missina del “Secolo” lo acclamano quando sfotte «Bettino Berlusconi»). C’è ancora la partita delle concessioni da chiudere. Anche la nuova stagione non dovrebbe portare nulla di buono: l’economia allo sfascio, i socialisti in picchiata alle elezioni di Mantova, l’elezione alla segreteria della Dc di Martinazzoli, uno dei cinque ministri che nel 1990 si sono dimessi dal governo contro la legge Mammì. E invece il Cavaliere sprizza energia. Diffonde fiducia. Spande ottimismo a piene mani: sul Paese. E soprattutto su di sé. Il giorno dopo l’intervento a Saint-Vincent, il 24 settembre, esce una lunga intervista sul “Corriere della Sera” firmata da Ferruccio de Bortoli. Il quotidiano di via Solferino, da pochi giorni diretto da Paolo Mieli, la spara con grande evidenza sotto il titolo Italia, quanti nemici interni. Berlusconi è presentato come «una voce fuori dal coro», «l’Incrollabile Ottimista» che attacca «i catastrofisti: certi politici, che sperano così di far accettare pesanti inasprimenti fiscali in nome della salvezza del Paese, alcuni imprenditori che cercano di accreditare l’idea che i guai delle loro ­­­­­265

aziende sono dovuti alla crisi generale e a non meglio precisati fattori internazionali, e non a errori di gestione. E i mass media, che comprensibilmente tendono a esagerare la portata delle notizie». E conclude parlando di politica: Sotto accusa è il sistema dei partiti. Lei non è in prima fila nell’attaccarlo. Perché? Pensa che possa rinnovarsi da solo? «Il sistema dei partiti deve rinnovarsi da solo. Se non sono i partiti a promuovere la riforma del sistema politico anche, quando necessario, con il ricorso a un referendum, chi può farlo? Una democrazia che si dimostrasse incapace di riformare se stessa sarebbe, come la storia insegna, condannata; e io non credo che la nostra lo sia».

Il “Corriere” illustra l’uscita berlusconiana con una vignetta di Chiappori in cui si vede la silhouette nera di Giuliano Amato che dice: «Se la mia manovra dolorosa non passa me ne vado. Voglio vedere se c’è qualcuno tanto ottimista da avere il coraggio di guidare un governo che non chieda lacrime e sangue». Alle sue spalle spunta Berlusconi sorridente, il biscione di Canale Cinque e la scritta trionfale: «Why not?». Perché no?, deve pensare Berlusconi, che con un’altra intervista sul settimanale di sua proprietà “Panorama” torna ad accusare i catastrofisti: «L’Italia non va così male come si vuole far credere. Certo, è stato un anno difficile per tutti, complicato dalla crisi politica e morale. Ma il dato di fondo incontestabile è che la nostra economia è andata avanti». E se si deve trovare un colpevole della crescita della spesa pubblica va cercato «nella demagogia delle opposizioni e nel consociativismo delle forze politiche». In un’altra convention di pubblicitari, questa volta a Montecarlo con i manager di Publitalia, il Cavaliere spiega meglio cosa intenda per catastrofisti. «Da quando la Fiat ha mandato via Ghidella non indovina più un modello, De Benedetti avrebbe fatto meglio a occuparsi del prodotto invece di fare il finanziere». «L’Avvocato è giù di morale? Per forza, ha perso il 16 per cento del mercato dell’auto in Italia, in Formula Uno la Ferrari viene regolarmente battuta dalla Benetton, uno che fa i maglioni. E la sua Juventus non vince lo scudetto da sette anni». L’offensiva di autunno è sorprendente per chi si aspetta un Berlusconi depresso per la crisi dei partiti di riferimento e degli ­­­­­266

uomini politici che ne hanno sostenuto l’ascesa. Ma nella villa di Arcore ci sono almeno due buoni motivi per essere felici: le tanto attese concessioni televisive previste dalla legge Mammì, alla fine, sono arrivate, con un decreto ferragostano firmato dal ministro socialdemocratico Maurizio Pagani che assegna alla Fininvest le tre reti in chiaro più le tre pay tv Tele+ di cui Berlusconi è proprietario al dieci per cento. «Una giornata storica», esulta. E poi ci sono i sondaggi che danno Berlusconi in crescita nella popolarità tra gli italiani. Su “Panorama” una rilevazione sui possibili salvatori della patria piazza il padrone della Fininvest al primo posto, davanti a Gianni Agnelli e a Norberto Bobbio. Al meeting di Comunione e liberazione di quell’anno lo proclamano italiano più simpatico. E la rivista cattolica “Prospettive nel mondo” pubblica i dati di una ricerca compiuta tra 643 adolescenti in cui risulta essere il personaggio reale più amato dai bambini italiani, più dell’ex presidente Cossiga, di Arnold Schwarzenegger e perfino di Gesù. Motivazione di tanta passione: «è ricco sfondato e presidente della Fininvest». Eh no, in effetti l’uomo di Nazareth almeno queste due qualità non può vantarle. Si può essere laici quanto si vuole, ma il colpo è duro. [...] Fra vent’anni, quando questi bimbi saranno adulti, una nuova teologia ci avrà definitivamente indottrinati. In luogo del Figlio di Dio, le masse adoreranno il Padre di Retequattro. Gli ex liberi pensatori, ricordando il motto di Benedetto Croce, spiegheranno i motivi della loro conversione: «Perché non possiamo non dirci berlusconiani». [...] Invece della messa, si celebrerà lo spot. [...] Diverrà quanto meno urgente trovare un Vicario al presidente della Fininvest. Già si può prevedere, in un futuro Conclave, la lotta senza quartiere fra Emilio Fede ed Enrico Mentana. [...] Via televisione, i missionari di Silvio si sono sparsi attraverso le genti. Hanno diffuso la lieta novella. Hanno allevato nuovi apostoli. Dall’alba al tramonto, i minorenni d’Italia assistono a una crociata non stop, fatta di cartoni animati, trasmissioni-giocattolo, telenovele per lattanti, parabole per adolescenti, catechismi per impuberi e giaculatorie ad uso degli italiani del Terzo Millennio. Così la competizione fra il Redentore e il Comunicatore è diventata impari. A questo punto, altro che Guinea, altro che Gambia! Se fosse davvero furbo, Giovanni Paolo II dovrebbe correre in pellegrinaggio a Milano Due (Nello Ajello, Silvio di Nazareth, “la Repubblica”, 25 febbraio 1992). ­­­­­267

Mentre finisce nella polvere il mondo in cui è nato, cresciuto e prosperato, «il mondo che vede nei Craxi, nei Forlani e negli Andreotti l’accettazione della libertà», come aveva detto Confalonieri, mentre Dc e Psi vengono giù, Craxi si consuma con improbabili poker d’assi ed è consigliabile non farsi vedere dalle parti di Hammamet, mentre Moroni si spara e Balzamo muore, Berlusconi predica ottimismo, fiducia nel futuro, ricchezza privata e felicità pubblica. E c’è chi nella famiglia del Psi non la prende per niente bene: «Da tempo sospetto che la politica editoriale della Fininvest incoraggi un certo tipo di estremismo antipartito che oggi va molto di moda», dichiara Bobo, il figlio di Bettino. «Se è giusto che le tv private non siano il megafono del regime, non debbono neppure fare da apripista ad un nuovo regime». A cosa si riferisce il rampollo del leader socialista? In quelle settimane appare evidente l’annusamento in corso tra gli uomini del Biscione e quelli di Alberto da Giussano. Il primo incontro tra Berlusconi e Umberto Bossi risale al novembre 1990, a Melzo, all’inaugurazione dello stabilimento dove si stampa “Tv Sorrisi e Canzoni”. Poche battute, una stretta di mano davanti ai fotografi, il leader della Lega ha un tragico gessato e la cravatta sbilenca, il presidente della Fininvest è in doppiopetto e notevolmente magro. Nessuno dei due può immaginare che è l’inizio di una coppia politica che tra alti e bassi, litigi, riappacificazioni, rotture, insulti bestiali, tentativi di omicidio (politico), ricatti, dossier, compravendite, atti notarili, finanziamenti più o meno occulti, cene di Arcore, passeggiate in canottiera, carezze, sbadigli e pernacchie governerà l’Italia per vent’anni. Alla fine del 1992 i due hanno soprattutto in comune un problema: Bossi deve gestire la crescita del suo movimento, dopo le vittorie alle amministrative e con l’elezione per il Comune di Milano in arrivo, Berlusconi non vuole farsi trovare impreparato da una caduta fragorosa del craxismo. E cominciano a scambiarsi messaggi. «Berlusconi è uno che ha rischiato del suo, ha messo su un impero senza i sussidi dello Stato», si complimenta Bossi, chissà con quanta convinzione e cognizione di causa. «Facciamo molta attenzione al nuovo che sta nascendo nel Paese», ordina il Cavaliere ai suoi. Detto fatto, ecco l’intervista al Tg5 al segretario del Carroccio all’indomani della vittoria di Mantova e la copertina di “Panorama” con il titolo «Urlo del Nord». «Berlusconi non si toc­­­­­268

ca. È la Rai che va buttata per aria con tutta quella canaglia che ci lavora», ricambia il Senatur. «Alla Fininvest sono più democratici. Una virgola di spazio ce l’hanno sempre data, anche quando non contavamo niente. È inevitabile che il cuore stia dalla parte di chi ha mostrato maggiori aperture nei nostri confronti». E conclude: «Berlusconi ci è simpatico. Ma non per questo l’abbiamo sposato». Rassicurante per gli interessi del Cavaliere? Per nulla. Anche perché, appena si diffonde la notizia di una possibile candidatura di Berlusconi nelle liste della Lega o a sindaco di Milano o addirittura presidente onorario di una Repubblica del Nord, nel Carroccio parte un fuoco di sbarramento: «Magari lo candidiamo a ottant’anni, così chiude in bellezza», scherza Formentini. E gli uomini più vicini a Bossi hanno in mente per il capo del Biscione ben altro ruolo: utilizziamolo, dicono, sfruttiamolo, lui vorrebbe usarci, noi dobbiamo essere più bravi di lui e portarlo ad appoggiare i nostri obiettivi. Tutte sciocchezze, replicano gli uomini della Fininvest: Silvio non si candiderebbe mai nelle liste di un partito e neppure in una lista civica mascherata. Se farà qualcosa in politica sarà un’impresa tutta sua. Almeno una cosa insieme, alla fine del 1992, Berlusconi e Bossi provano a farla davvero: tirare su la pubblicità e le vendite del quotidiano “L’Indipendente” diretto da Vittorio Feltri che si sta conquistando uno spazio di mercato tra i lettori leghisti e del Nord incazzato con i partiti. Il presidente della Fininvest acquista quasi la metà delle inserzioni pubblicitarie, la Lega fa distribuire alle sue feste e raduni il bollettino per gli abbonamenti a prezzi scontati. È Feltri, in quella fase, a interpretare lo spirito dei tempi, il collante culturale che unisce leghismo e berlusconismo, i barbari che vogliono fare pulizia e l’ottimista che prova a sopravvivere alle macerie delle sue antiche frequentazioni. Ogni arresto un inno di gioia, ogni suicidio un ruvido invito a non cedere alla pietà umana. Titoli sparati: Il Ppi di Mino ce le ha dure (su Rosy Bindi), Nel Psi si sono fatti fuori anche il garofano, Un De Lorenzo tira l’altro (in prigione), Il soviet di dalla Chiesa e l’enigmatico Hitler difendeva la razza bucando i preservativi, a proposito delle politiche demografiche del nazismo. E editoriali mirati a intimidire, spaventare, terrorizzare una classe politica che va trascinata in galera come gli animali al mattatoio. Sì, se il 1992-93 è l’anno del Terrore, il giornale di Feltri è il megafono che deve spargere la ­­­­­269

paura tra i candidati al patibolo. «La Democrazia cristiana è bene avviata sulla strada del Psi: la strada della fine, una brutta fine, fra tintinnio di manette, cigolio di cancelli a San Vittore e Regina Coeli... Che pena. Neanche un pizzico di dignità per ritirarsi senza rumore sia pure con la refurtiva in tasca», scrive il direttore dell’“Indipendente” il 7 aprile 1993. «Tutti i giornali, tranne il nostro, pubblicano articolesse intrise di lacrime sui giorni ‘cupi e drammatici’ che sta vivendo l’Italia, e si auspicano interventi politici per far finire lo stillicidio degli arresti che getterebbe il Paese in rovina. Scusate la franchezza, ma a me questi giorni non paiono né cupi né drammatici, ma radiosi e allegri», esulta il 2 marzo. Giusto, passeranno pochi mesi e Feltri e Mike Bongiorno si ritroveranno a lavorare per la stessa ditta: allegria! Quello che Bossi non può sapere è che Berlusconi pensa di mettere su un suo partito già dall’estate 1992, come ha intuito Craxi prima di tutti. All’inizio più che un progetto è una sorta di uscita di sicurezza nel caso in cui le cose dovessero mettersi male. Già nel giugno di quell’anno, poche settimane dopo l’elezione di Scalfaro al Quirinale e la rinuncia di Craxi a Palazzo Chigi, Marcello Dell’Utri avvicina Ezio Cartotto, un dc milanese che aveva tenuto qualche corso alle scuole di formazione di Publitalia. «Dell’Utri sosteneva la necessità che di fronte al crollo degli ordinari referenti politici del gruppo Fininvest, il gruppo stesso ‘entrasse in politica’ per evitare che una affermazione delle sinistre potesse portare prima a un ostracismo e poi a gravi difficoltà per il gruppo Berlusconi», testimonia. Incontri in cui, ben presto, viene coinvolto anche l’avvocato romano Cesare Previti. C’è anche Cartotto alla convention di Publitalia a Montecarlo in cui il Cavaliere attacca Agnelli e De Benedetti. «I nostri amici che ci aiutavano contano sempre meno, i nostri nemici contano sempre di più, dobbiamo prepararci a qualsiasi evenienza per combatterli», spiega Berlusconi in quell’occasione a luci spente, a convention conclusa. Le cose, però, non stanno così: perché in quel momento Dc e Psi sono ancora saldamente al potere, controllano il governo, hanno appena regalato le concessioni televisive alla Fininvest con un decreto. E l’opposizione di sinistra, il Pds di Occhetto, al contrario appare in una crisi elettorale irreversibile. Né il Cavaliere ha da temere in questo momento un invito ­­­­­270

a comparire di fronte al pool di Milano. Anzi, le sue televisioni, dopo un primo sbandamento iniziale, si spostano decisamente dalla parte dei magistrati che indagano su Tangentopoli. «Noi siamo protagonisti della Milano del bene, siamo parte integrante di una Milano morale», arriva a dire nel maggio 1992. «Da anni non lavoriamo più con il Comune, non abbiamo voluto piegarci a certi ricatti. Pagare tangenti non è obbligatorio». Che afflato moralizzatore: e dire che il Comune in questione è egemonizzato dai compagni socialisti dell’amico Bettino e che il sindaco Pillitteri ha celebrato le nozze Berlusconi-Veronica Lario. Il segnale, però, è chiarissimo e arriva nelle retrovie del gruppo di Arcore: lo slogan «Forza Di Pietro» da quel momento in poi diventa un tormentone sulle reti Fininvest. Per arrivare a un alto dirigente del gruppo che si siede di fronte al pm simbolo di Mani Pulite bisogna infatti aspettare ben dieci mesi, l’8 aprile 1993, giovedì santo, vigilia di Pasqua. Quella mattina alle 9.30 arriva a Palazzo di Giustizia e si accomoda nel nuovo ufficio di Di Pietro un pezzo grosso del Biscione, anzi, il più importante dopo Berlusconi. «Letta Gianni, nato ad Avezzano il 15-4-1935, domiciliato a Roma in via della Camilluccia...», recita il verbale. Il numero due, il vice-presidente della Fininvest viene interrogato a proposito delle confessioni di Roberto Buzio, l’uomo di fiducia del segretario del Psdi Antonio Cariglia che ha rivelato ai magistrati di finanziamenti Fininvest ai socialdemocratici. «Cariglia mi ha riferito di aver ricevuto un contributo in denaro da Letta della Fininvest», testimonia Buzio, con qualche incertezza sulla data: «Mi pare fosse nel 1989». Letta ammette il versamento: fu Cariglia a contattarlo alla vigilia delle elezioni europee, per chiedergli spazi televisivi sulle reti berlusconiane e un aiuto economico: 70 milioni di lire. Il dottor Letta mette a verbale e se ne va senza rischiare nulla: il versamento risale al 1989 e dunque il reato di violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti non esiste, è stato cancellato con l’amnistia del 199067. C’è un altro momento, in realtà, in cui il nome della Fininvest è risuonato nei corridoi della Procura di Milano. Ed è uno dei gran67 Cfr. Chiara Beria di Argentine, Lo chiamavano Sua Trasparenza, “l’Espresso”, 25 aprile 1993.

­­­­­271

di misteri dell’inchiesta Mani Pulite. Alla vigilia dell’arresto più clamoroso della prima fase, quello dell’ingegner Ligresti, il collettore delle tangenti milanesi per conto della Dc Maurizio Prada racconta di un abboccamento con la Fininvest: «Ho ricevuto una telefonata dal dottor Roncucci della Fininvest il quale mi disse che in occasione della campagna elettorale del ’92 la sua società avrebbe cercato di aiutarci»68. È il 14 luglio 1992, Ligresti sarà arrestato due giorni dopo per analoghe rivelazioni. E l’ingegnere, il miglior amico di Craxi a Milano insieme a Berlusconi, è sempre stato convinto che oltre a quello destinato a lui fosse pronto un mandato di arresto anche per il Cavaliere. Lo ripete agli amici, è un sospetto che lo tormenta e che con il passare degli anni ha acquistato ancora più forza, fino a diventare una certezza. Un sospetto che non ha nessuna conferma, però, perché i magistrati di Milano giurano di non saperne nulla. Certo, se il pool di Mani Pulite avesse aperto un’indagine sulla Fininvest per finanziamento illecito ai partiti già nell’estate del 1992, per non parlare di un eventuale arresto di Berlusconi, la storia italiana sarebbe radicalmente cambiata. E, c’è da scommetterlo, le reti berlusconiane sarebbero state all’improvviso molto meno simpatizzanti con Di Pietro, come infatti avverrà due anni dopo, nel 1994, con il primo avviso di garanzia all’imprenditore che nel frattempo è entrato in politica ed è il presidente del Consiglio impegnato a rappresentare l’Italia in un vertice internazionale a Napoli. Invece, nel 1992, tutto va per il verso giusto: la Fininvest non finisce nell’indagine, Berlusconi non viene invitato al gran ballo degli interrogatori della Procura né ai festini ancora meno eleganti che si tengono a San Vittore, e le sue reti continuano a sostenere le inchieste, con gli inviati dei tg Andrea Pamparana (Tg5) e Paolo Brosio (Tg4) che stazionano giorno e notte davanti al Tribunale e si conquistano una notorietà pari a quella di Davigo e Colombo. Brosio, in particolare, con i suoi collegamenti dai binari del tram, le zoomate della telecamera sulla stanza illuminata del pool, come se fosse la finestra del papa, diventerà famoso: scriverà libri sui suoi novecento giorni sul marciapiede, organizzerà squadre di calcio, sposerà una modella cubana, subirà attentati incendia68

Antonio Carlucci e Leo Sisti, Sua Innocenza, “l’Espresso”, 4 luglio 1993.

­­­­­272

ri, entrerà nel tunnel dell’alcol e della droga fino a incontrare la Madonna (quella vera, non Di Pietro) durante un pellegrinaggio a Medjugorje. Indimenticabile il suo servizio del 6 dicembre 1994 quando il pm di Montenero lascia la toga: un pianto in diretta mentre dietro di lui un gruppo di sostenitori delle inchieste intona cori poco simpatici sulla mamma di Giuliano Ferrara. «Ho un groppo alla gola, io mi sentivo legato a ’sto magistrato», singhiozza Brosio. E Emilio Fede dallo studio: «Paolo, tu non sei in grado di fare il tuo lavoro!». La denuncia di Prada, in realtà, ha un seguito: i magistrati ricostruiscono che 150 milioni di lire sono stati in effetti versati, Prada li ha ricevuti dal segretario regionale della Dc Gianstefano Frigerio che li ha ottenuti, fa capire, dalla Fininvest. Ma l’inchiesta, come accadrà in altri casi, devia da Silvio al fratello Paolo Berlusconi e viene spiegata come un contributo per una storia di discariche. Mentre Roncucci assicura che in quella storia lui compare come consulente di Paolo Berlusconi e non come dirigente Fininvest. E racconta al pool il sistema degli spot scontati e delle ospitate dei politici in tv teleguidate dai dirigenti del gruppo e dai capipartito. È lo stesso Frigerio, che sarà deputato di Forza Italia nella legislatura 2001-06, a spiegare ai magistrati come funzionano i rapporti tra l’emittente berlusconiana e i partiti: «I rapporti tra la Dc e la Fininvest sono sempre stati particolarmente positivi e costruttivi a tutti i livelli, dal nazionale al locale. Sul piano degli aiuti economici la Fininvest ha sempre aiutato il partito con delle contribuzioni per così dire in natura, con delle contribuzioni televisive. In ogni campagna elettorale mette a disposizione del partito una serie di spazi per la pubblicità del partito, gli slogan, le sue iniziative. In secondo luogo, la Fininvest offre spazi pubblicitari televisivi e sulla stampa, gratuitamente, a una serie di candidati a lei particolarmente amici, fa un vero e proprio lavoro di lobby in questo caso, scegliendo i candidati più allineati politicamente. In termini economici è un contributo molto forte, valutabile per Milano e Lombardia in non meno di mezzo miliardo per la campagna elettorale. Non sono a conoscenza di contributi in denaro versati dalla Fininvest ai vari livelli di partito. Certo è che questo robusto aiuto elettorale ha creato nella Dc una disponibilità cordiale verso le iniziative industriali della Fininvest...». ­­­­­273

Spazi televisivi in cambio di appoggi politici: è il sistema che la sbardelliana Agenzia Repubblica ha già segnalato nel febbraio 1992. Nessuno però, in ogni caso, chiama a testimoniare i vertici del gruppo su questo contributo indiretto, il pagamento in natura, spot e comparsate televisive per creare la lobby del Biscione. L’autunno e l’inverno del 1992-93 trascorrono sereni per Berlusconi, la vera preoccupazione sono i debiti: già nel 1991 il gruppo Fininvest risulta indebitato per 4mila miliardi di lire, con il rialzo dei tassi di interesse le proiezioni per il 1993 sono drammatiche. Ma sul fronte giudiziario, in apparenza, non c’è nessun pericolo. Nell’anno del Terrore, della grande paura del mondo imprenditoriale di finire in cella e sotto il torchio di Di Pietro, in quello che per due decenni Berlusconi si ostinerà a chiamare il golpe giudiziario, nessuno va a disturbare la quiete del signore di Arcore. Se golpe c’è, riguarda altri: o forse no, coinvolge anche lui. Dalla parte opposta della barricata, però. Silvio Berlusconi ha preparato con cura la sua prima vera uscita politica. Per scendere in campo il Cavaliere sceglie il momento più drammatico di Mani Pulite, il mese di febbraio 1993, il momento in cui Craxi lascia la segreteria del Psi, i ministri abbandonano il governo Amato uno dopo l’altro costretti dalle inchieste, a partire da Claudio Martelli, travolto dal ritorno in Italia di Silvano Larini, l’architetto amico di Bettino e di Silvio, i vertici delle aziende pubbliche e private finiscono in manette, Miglio invoca i barbari e difende la legittimità del linciaggio... È in questo momento che il Cavaliere concede una lunga intervista alla “Stampa” di Ezio Mauro per esprimere la sua ricetta politica. «Benvenuti nel quartier generale dell’Anticrisi. La grande villa è silenziosa, immersa in un parco curatissimo. Nel ‘salone dei bottoni’, maestri del ’500 e del ’600 alle pareti, vetrine di argenti e porcellane, libri, riviste. In un angolo, un televisore a grande schermo. Sul divano, un signore in scarpe da ginnastica, pantaloni da jogging e felpa blu notte», lo presenta Sergio Luciano. «Un personaggio che fa contraddizione, amatissimo o detestato». «Nel mese scorso Publitalia», racconta il Cavaliere, «la mia concessionaria di pubblicità, ha fatturato il dieci per cento in più del gennaio 1992. Se sono ottimista? Certo che lo sono, e ne ho ben ragione. E poi gli imprenditori, quelli veri, sono condannati ad essere ottimisti. Altrimenti non sei un vero leader, e ­­­­­274

chi non è leader non è un imprenditore completo». Poi, finalmente, si arriva alla politica: In America i sintomi della ripresa sono venuti insieme alle attese del rinnovamento politico. Anche da noi sarà così? «Io spero di sì. Questi cambiamenti che si annunciano nella sfera politica potrebbero indurre un rinnovamento anche nel mondo delle imprese: dirigenti più giovani, con energie fresche da dedicare al lavoro. Sì, il rinnovamento politico può essere uno stimolo...». Ma come, anche lei è favorevole al rinnovamento politico? Ma non era lei il pupillo del regime del Caf, Craxi-Andreotti-Forlani? Non vorrà dirci che neanche Craxi l’ha aiutata... «Craxi non ci ha sostenuto per vicinanze personali. Ha creduto più degli altri nel ruolo della televisione commerciale in Italia. [...] Se al suo posto un altro leader socialista avesse scelto l’alternativa di sinistra, l’Italia sarebbe diventata un Paese dell’Est. Questo gli va riconosciuto. E poi, come uomo di governo ha dato ottime prove». (Basta con i politici di mestiere, intervista di Sergio Luciano, “La Stampa”, 9 febbraio 1993).

Dato a Bettino quel che è di Bettino, Berlusconi passa al futuro. Con una sorpresa: i comunisti non ci sono più. «Un modo per rinnovare», spiega il Cavaliere, «è certamente il ricambio delle classi dirigenti, l’alternanza al potere. Ma in Italia fino a ieri era impraticabile: alternanza significava dare il potere ai comunisti. Ora, però, il comunismo è caduto, sono cadute le ideologie ed hanno dato il via anche al declino in tutta Europa dei partiti socialisti. Nel futuro, perciò, intravedo il confronto e lo scontro della persistente cultura statalista e dirigista con quella del liberismo. E mi auguro, naturalmente, che prevalga quest’ultima». Perché per il fondatore della Fininvest la strada nuova da percorrere è un’altra: Ma come immagina la classe politica di domani? «Non mi piace immaginare una classe politica. È questo il punto: sarebbe auspicabile che la carriera politica non esistesse più, almeno come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. Il nuovo sistema elettorale dovrebbe creare condizioni che non consentano il formarsi di una casta politica, composta da professionisti della politica, da politici di professione. A governare dovrebbe essere chiamato chi, essendo affermato in una professione, dopo aver governato possa tornare a svolgerla come prima. [...] Il pro­­­­­275

blema sarà trovare uomini nuovi e capaci da chiamare alla politica dal mondo delle imprese, delle professioni, dell’università».

E lui? Berlusconi giura di non voler fare politica. «Io conduco una vita stressante, con ritmi di lavoro esagerati, in mezzo a mille problemi. Ma ho soddisfazioni morali importanti, che mi fanno pensare che ne valga la pena». «Non le viene mai voglia di oziare, di lasciar perdere tutto, starsene un po’ a casa con i figli?», chiede Luciano, è l’ultima domanda: «Qualche volta sì, mi piacerebbe davvero farmi da parte, lasciare che gli altri se la cavino da soli. Mi viene in mente Ungaretti: ‘Lasciatemi così, come una cosa posata in un angolo e dimenticata’. Per due o tre giorni, naturalmente. Non di più». Eccolo qui, fissato una volta per tutte, il manuale dell’imprenditore prestato alla politica, le regole della discesa in campo. Primo: rilasciare un’intervista in cui attaccare la classe politica in blocco, senza distinzioni di destra e di sinistra, di riformisti e di conservatori. A Berlusconi va consegnato il copyright di una parola che avrà un grande successo negli anni successivi: casta. Secondo: alludere al fatto che ci sono uomini volenterosi e pronti a impegnarsi fuori dalla politica, basta andarseli a cercare. Terzo: giurare che no, mai e poi mai c’è un interesse a fare politica in prima persona, io sono qui soltanto a dare una mano, da cittadino impegnato, da civil servant... Chiaro, preciso come le tavole della legge, come l’Arte della guerra di Sun Tzu, per tutti i futuri aspiranti uomini della Provvidenza venuti dal mondo dell’impresa e delle professioni. Basta con i politici di mestiere, titola “La Stampa” il 9 febbraio a tutta pagina. Il messaggio, a saperlo leggere, sarebbe chiarissimo. C’è un partito di «uomini nuovi e capaci» che si prepara, guidato dal Cavaliere salvatore della patria. Eppure l’intervista di Luciano viene accolta dal Palazzo romano con scetticismo e ironia. «Mah, io qui in cinquant’anni ho visto di tutto: maghi del bisturi, cantanti. Cos’hanno combinato?», ragiona disincantato Vittorio Orefice con Massimo Gramellini che lo interroga per il quotidiano di Torino. «I tecnici sono utili ma da soli non bastano. Berlusconi ministro ci perderebbe: è uno che utilizza talmente bene i politici. Perché mai dovrebbe passare sull’altra sponda?», si chiede il leghista Marco Formentini. Perfino Vittorio Sgarbi non crede al Berlusconi politico: «La politica è una professione e richiede ­­­­­276

caratteristiche specifiche: avere un progetto e saperlo realizzare, come il Craxi dei tempi migliori». Più scettico di tutti, in quei giorni, è il giornalista Giuseppe Turani, sostenitore di Berlusconi e appena rientrato nel gruppo Espresso: «Berlusconi è ormai alle nostre spalle», sentenzia. «La sua è un’armata decimata. [...] I suoi maggiori sponsor, i socialisti, sono quelli che escono peggio dalle inchieste su Tangentopoli. E la crisi della società dei consumi manda a picco il suo modello culturale di televisione consumista, tutta lustrini e paillettes, fatta di un’America che ormai esiste soltanto sulle reti Fininvest, per gente che non è nessuno se non usa la sua supercarta igienica. Ma il mondo è cambiato». Povero Turani, il primo di una lunga serie che nel corso degli anni darà il Cavaliere per spacciato anzitempo. Ma c’è chi, per fortuna, prende molto sul serio il rischio Berlusconi. È il direttore dell’“Espresso” Claudio Rinaldi, che conosce bene Sua Emittenza – ai tempi della guerra di Segrate si dimise da direttore di “Panorama” –, è il primo a intuire cosa si sta preparando nella villa di Arcore e a lanciare l’allarme. Una battaglia che almeno all’inizio Rinaldi combatte in solitudine e che non mollerà mai. Dalla primavera del 1993 il settimanale di via Po dedica inchieste, interviste, editoriali, copertine al «partito di Berlusconi» in preparazione. Buoni, sennò mi butto in politica, titola “l’Espresso” già il 2 maggio. «Quest’uomo ha troppi canali», avverte Rinaldi il 6 giugno in un lungo articolo dedicato alla «questione Berlusconi». Una settimana dopo, il 13 giugno, Rinaldi torna a picchiare sullo stesso tema: «Sua Emittenza, come il padreterno del vecchio catechismo, è in cielo, in terra e in ogni luogo. Così ama presentarsi il potere berlusconiano: imperiale e discreto, duro e candido, spietato e amichevole. Un fenomeno raro, anzi unico. Quello di Berlusconi è uno dei poteri più diabolicamente intrusivi che si siano mai conosciuti». In quelle settimane cominciano a farsi sentire, al fianco del Cavaliere, le star della Fininvest: sull’abolizione delle telepromozioni. Come non avveniva dai tempi dell’oscuramento delle reti berlusconiane negli anni Ottanta, ma con ben altra potenza di fuoco. Tutti i big si scatenano nelle loro trasmissioni: in testa Mike Bongiorno («Aprite bene le orecchie, amici: se questa legge passa il nostro gruppo prende una bella mazzata. Dobbiamo fare qualcosa, ci dovete dare una mano»), e poi Maurizio Costanzo, Lorella ­­­­­277

Cuccarini, Rita dalla Chiesa, Davide Mengacci, i conduttori dei tg. E la protesta si intreccia con l’attacco ai partiti di Tangentopoli: «Sulle nostre teste si stanno prendendo decisioni come se fossimo criminali. Mentre vi rubavano per 20, 30 anni i partiti vi hanno chiesto il permesso di rubare?», chiede Gerry Scotti che fino a pochi mesi prima è stato deputato del Psi. La chiamata alle armi dei volti simbolo del berlusconismo mobilitati in un anno drammatico per difendere la possibilità di pubblicizzare il tonno in scatola o il prosciutto è solo la prova generale di quanto accadrà pochi mesi più tardi, quando in ogni programma Fininvest sarà lanciato l’appello al voto per la nuova marca da sponsorizzare, il partito azzurro di Berlusconi, Forza Italia. Quando serve si fa vivo il Cavaliere in persona. Succede una sera al Processo del Lunedì di Aldo Biscardi, dove si parla dell’assegnazione delle frequenze del Giro d’Italia. Squilla il telefono, è il centralino di Arcore che chiede di mettere in collegamento il padrone di casa. E per 18 minuti Berlusconi è un fiume in piena: «Siete professionisti della mistificazione. Il Processo del Lunedì è stata l’agghiacciante fotografia di quello che succederebbe a tutti noi se certi nipotini di Stalin prendessero il governo dell’Italia futura». Già che c’è, il Cavaliere ne approfitta per mandare in onda un lungo spot, di se stesso: «Mi onoro di avere fondato e costruito in questo paese la tv commerciale, portando vantaggi a tutti con un aumento rilevante della qualità della vita». La scelta del Processo non è casuale: Berlusconi non parla a un pubblico già politicizzato, lancia il suo messaggio al popolo del calcio e al target delle trasmissioni popolari, inventa i nemici da battere che saranno gli stessi per vent’anni, «i nipotini di Stalin», e pazienza se in quel caso il cosacco alle porte è solo Aldo Biscardi, il primo a ricevere la sfuriata in diretta via telefono, predecessore di Santoro, Floris, Lerner. E sia gloria a Tito Stagno, il mitico telecronista dello sbarco sulla luna, che alla Domenica Sportiva si ribella e gli butta giù la linea: «La mia tribuna non gliela do: ha le sue televisioni, i suoi giornali, parli da lì». In quelle settimane sui muri delle città italiane cominciano anche ad apparire alcuni strani manifesti formato gigante, sei per tre, con un messaggio misterioso: Può fare sorridere, può ispirare tenerezza, può anche irritare e ri­­­­­278

sultare leziosa, bamboleggiante, persino un po’ falsa. Una cosa è certa: la campagna pubblicitaria di «Fozza Itaia» ha colpito nel segno poiché la gente ne parla, si chiede cos’è, sorride di quel messaggio genericamente ottimista. [...] Ma che cosa promuovono quei dieci bambini under three che sorridono, ammiccano, strizzano gli occhi, fanno smorfie dalle fiancate degli autobus, da tabelloni giganti, da poster metropolitani 6 metri per 3? [...] In ogni manifesto, sotto la gigantesca scritta in baby talk «Fozza Itaia», la dicitura: «È un augurio della Pubblicità Esterna», nient’altro. Dalle ceneri fumanti di Tangentopoli sale dunque lo slogan degli infanti. «C’è venuto spontaneo e immediato il pensiero di lanciare un messaggio ottimista al paese, un invito a tener duro e ad andare avanti anche in questo momento di generale demoralizzazione», spiega Marco Testa, dell’omonima agenzia. Il quale mirava altissimo, addirittura – incredibile ma vero – al Quirinale. «Ci siamo posti una domanda: chi può oggi lanciare un messaggio ottimista al paese? La risposta è stata immediata: o la voce più autorevole, una voce super partes, come ad esempio quella del presidente della Repubblica, o la voce più pura ed onesta, quella dei bambini. Devo confessare che abbiamo fatto un tentativo per offrire al presidente questa grande affissione per parlare agli italiani, ma considerando il periodo particolarmente delicato, abbiamo avuto un gentile rifiuto. Abbiamo puntato quindi sui bambini». [...] Forza Italia, forza Italia...» (Laura Laurenzi, E per l’Italia malata ottimismo formato bebè, “la Repubblica”, 31 marzo 1993).

Cieli azzurri, bambini, ottimismo, volti nuovi e capaci, sondaggi, telefonate in diretta. Per dare il via all’Operazione c’è tutto, manca solo una cosa: la strategia politica. È il 4 aprile 1993, quando una macchina con a bordo il dc assoldato da Dell’Utri Ezio Cartotto entra nel viale di Villa San Martino ad Arcore. È una domenica di pioggia, cielo nerissimo e invernale, Cartotto è tutto fasciato perché il giorno prima è scivolato e ha fatto un brutto volo, il Cavaliere lo accoglie in tuta da ginnastica ed è nervosissimo: «Come sto? Sono esausto, ecco come sto. Mi avete fatto venire un esaurimento nervoso», dice subito. «Confalonieri e Letta mi dicono che è una pazzia entrare in politica e che mi distruggeranno. Che mi faranno di tutto, andranno a frugare tutte le carte per vedere se trovano qualcosa fuori posto. Tu, invece, e Marcello mi dite che sono il bottino di un’eventuale vittoria della sinistra e che se le cose dovessero andare male mi ritirerebbero le concessioni, le banche mi toglierebbero i fidi. E allora che devo ­­­­­279

fare? Non so come uscirne. A volte mi capita perfino di mettermi a piangere, quando sono sotto la doccia e sono solo con me stesso...». Per decidere, aggiunge Berlusconi, c’è una persona che aspetta, vediamo se da un confronto nasce un’idea decisiva. «Di là c’è Bettino Craxi. L’hai mai conosciuto prima?». No, Cartotto non l’ha conosciuto. Ma quello che si tiene in quella sera piovosa ad Arcore è un faccia a faccia completamente diverso da quello dell’estate del 1991 nella residenza di Hammamet. In meno di due anni si sono ribaltati i rapporti di forza: Craxi è un politico senza più incarichi, ha perso per sempre l’obiettivo di Palazzo Chigi e si è dimesso da segretario del Psi, lotta per non finire sotto processo, Berlusconi non è più l’imprenditore che dipende dalla politica per i suoi interessi ma ha già messo in piedi un apparato teorico, economico e comunicativo che lo spinge ad entrare nella competizione elettorale. Sono il vecchio e il nuovo potere, a confronto. E si può solo immaginare la frustrazione del vecchio leader: lui che ha discusso per anni con i grandi del mondo, che ha tenuto testa a Reagan e alla Thatcher, eccolo qui, a discutere con il tycoon che lui non ha mai considerato un genio della politica e con un piccolo politico locale. Eppure è Craxi, ammaccato, depresso, ferito a morte, è lui che regala l’intuizione politica giusta. Non sta fermo un attimo, va su e giù per il salone, si siede soltanto quando deve spiegare cosa andrà fatto con la nuova legge elettorale che uscirà dal referendum Segni, prende un foglietto, con la penna disegna uno schema, tanti cerchietti: «Questo è un collegio elettorale. Gli abitanti saranno circa 110mila per collegio e 80-85mila gli aventi diritto al voto, quelli che andranno a votare saranno circa 60-65 mila. Con l’arma che tu hai in mano, le televisioni, puoi fare una propaganda martellante a favore di questo o quel candidato, ti basterà organizzare un’etichetta che riesca a raggruppare 25-30mila elettori per rovesciare il pronostico. Accadrà per l’effetto delle televisioni o per l’effetto del desiderio che gli elettori non comunisti hanno di non essere governati dai comunisti». Non si respira più dalla tensione. «Non potremmo camminare un attimo?», chiede il Cavaliere. Cartotto, tutto fasciato, arranca. Sotto la pioggia Craxi continua la conta dei potenziali alleati: «Con Martinazzoli non vai da nessuna parte, quelli della sinistra democristiana sono i tuoi nemici, peggio di Occhetto, ricordatelo sempre, più di quelli del Pci-Pds. Con la Lega invece ­­­­­280

bisogna trovare un punto d’accordo, perché altrimenti la Lega potrebbe dividere l’elettorato non comunista facendo vincere gli ex comunisti, salvo qualche collegio dove vincerà la Lega». Un capolavoro di tattica politica, Berlusconi al confronto sembra uno scolaretto. Il professor Craxi conclude calando l’ultimo consiglio, quello decisivo: «A questo punto bisogna trovare un’etichetta, un nome nuovo, un simbolo, un qualcosa che possa unire gli elettori che un tempo votavano per il pentapartito. Io sono convinto che, se tu trovi la sigla giusta, con le televisioni e con le strutture aziendali di cui disponi, puoi riuscire a recuperare un elettorato sconvolto e confuso». La lezione di politica è finita, Craxi se ne va, Berlusconi è quasi commosso, «hai visto che uomo? È un grande uomo, sotto tutti i punti di vista», scalda Cartotto. «Allora andiamo avanti, procediamo su questa strada, la decisione è presa»69. Un’etichetta, un nome, un simbolo nuovo per riunire il vecchio. È Craxi a indicare la strada a Berlusconi: un’enorme manovra di riciclaggio, di trasformismo, di ripulitura. Non solo della classe politica, ma anche di quell’elettorato che ha sempre votato per i partiti travolti da Tangentopoli. E che ora ha la necessità di ripresentarsi alla guida del Paese con l’abito immacolato di una nuova formazione. Da Arcore, in quella sera di pioggia, non esce la Rivoluzione italiana. Ma una gigantesca Operazione Gattopardo. Un’operazione, resta da dire, che fonda la sua credibilità sull’incredibile condizione di Silvio Berlusconi che nel 1993 è al tempo stesso l’uomo più vicino al vecchio regime, nessun altro potrebbe vantare rapporti di confidenza e di intimità con Craxi come i suoi, ma anche l’unico che non è stato ancora personalmente coinvolto nelle inchieste della Procura di Milano. Non è vero però, come ha ripetuto per due decenni il Cavaliere, che i magistrati hanno cominciato a occuparsi di lui solo dopo il suo ingresso in politica. In quell’inizio estate l’attenzione del pool di Milano comincia a concentrarsi pericolosamente sugli uomini della Fininvest. L’8 aprile c’è stato l’interrogatorio di Gianni Letta. A metà maggio 69 Ezio Cartotto, “Operazione Botticelli”. Berlusconi e la terza marcia su Roma, Sapere 2000, Roma 2008, pp. 19-27.

­­­­­281

viene arrestato il repubblicano Davide Giacalone, ex assistente del ministro Mammì, estensore materiale della legge che ha blindato l’impero televisivo del Cavaliere, arruolato come consulente del Biscione. Il 18 giugno finisce a San Vittore l’ex prete paolino Aldo Brancher, l’uomo incaricato dal gruppo di tenere i rapporti con i partiti a proposito delle campagne pubblicitarie per le elezioni. Ci sono di mezzo 300 milioni sottobanco, allungati allo staff del ministro De Lorenzo, ma Brancher nega tutto, si assume ogni responsabilità, quei soldi sono miei, confessa, della mia società, la Promo Golden. Una determinazione che gli vale il soprannome di «Greganti della Fininvest». Un parallelo che fa venire i brividi a Claudio Rinaldi: «I Brancher, come i Greganti, nascono solo nelle organizzazioni monolitiche, con sacche di fanatismo, e ne fanno la fortuna». Il Cavaliere segue con apprensione l’eroica resistenza del suo collaboratore, ricorre alla telepatia: «Io e Confalonieri facemmo il giro della prigione, volevamo comunicare con lui». Sarà scarcerato tre mesi dopo e ampiamente ricompensato con una carriera politica da favola, deputato, sottosegretario addetto a tenere i rapporti con la Lega e con Umberto Bossi e perfino ministro per qualche giorno, nell’estate 2010. Sfortunato, però: l’ex prete Brancher scivola su un altro processo, questa volta per appropriazione indebita, e la sua corsa politica finisce com’era cominciata, davanti ai giudici. Il 22 giugno, infine, viene chiamato a deporre davanti al pm Paolo Ielo il più vicino a Berlusconi, il compagno inseparabile, il braccio destro Fedele Confalonieri. In ballo c’è un versamento di 300 milioni al Psi in occasione del congresso dell’Ansaldo del 1989, quello della piramide craxiana e del camper. Più altri 300 milioni versati al Pri e al Pli per la campagna delle elezioni europee del 1989. Anche in questo caso il reato è coperto dall’amnistia del 1990, ma Confalonieri parla a lungo del sistema Fininvest, di spot e di apparizioni televisive dei leader amici. «Preciso che sin dall’85 il nostro gruppo aveva elaborato un meccanismo in cui venivano preconfezionati pacchetti pubblicitari proposti in blocco ai partiti con prezzo, quantità e posizione di inserimento bloccati. Gli sconti oscillavano dal 40 al 90 per cento. Al fine di rispettare le previsioni della legge sul finanziamento dei partiti Publitalia ’80, la nostra concessionaria, deliberava la concessione di tali sconti il cui ammontare veniva regolarmente comunicato alla presidenza della Camera ­­­­­282

dei deputati». Di nuovo c’è l’ammontare degli sconti: dal 1985 al 1992, dichiara Confalonieri, gli spot a prezzi stracciati sono costati all’azienda 15 miliardi di lire a campagna elettorale. E i beneficiari: «I maggiori acquirenti erano i partiti dell’area di governo e in particolare il Psi e la Dc». Finita? No, perché c’è, un ultimo colpo di scena. È martedì 22 giugno. Mentre Confalonieri depone la sua testimonianza con il pm Ielo, il Cavaliere finalmente fa la sua conoscenza con il nucleo della Guardia di Finanza che opera con la Procura di Milano. Bussano negli uffici della Fininvest di via Paleocapa, di via Rovani e di Palazzo Donatello. «La Fininvest ha offerto come al solito la massima collaborazione mettendo a disposizione tutta la documentazione richiesta», recita un comunicato dell’azienda. «I finanzieri, dal canto loro, hanno operato con professionalità e correttezza». Un quadretto idilliaco, insomma, lontano dalle urla di dolore che arrivano da San Vittore, per non parlare del dramma umano di Gardini. Dal punto di vista tecnico non si tratta neppure di una perquisizione, in realtà: è un’acquisizione di documenti. E a ordinarla non è stato il solito pool di Mani Pulite, ma la pm Margherita Taddei che indaga su un giro di frodi fiscali sui contributi europei per la soia e in una perquisizione ha trovato una documentazione che porta alla Fininvest. I finanzieri arrivano anche nella villa di Arcore con un mandato per perquisire l’ufficio personale del numero uno. Ad accoglierli c’è Berlusconi in persona, battuta pronta, sorriso ostentato, di ottimo umore: «Noto un certo accanimento nei miei confronti. Ma parlerò bene di voi», scherza. Ad attirare l’attenzione dei finanzieri ci sono alcuni fogli pieni di numeri e di grafici sul tavolo del padrone di casa. «È un’indagine sulle indicazioni elettorali degli italiani», spiega il Cavaliere. Tabelle che fotografano i desideri politici dell’elettorato, come sarebbe accolto un nuovo partito guidato da un imprenditore... I primi sondaggi di gradimento e di posizionamento elettorale sul soggetto politico che sta per nascere in quelle settimane. Così significativi da suscitare l’interesse dei finanzieri che includono la scoperta nella loro relazione di servizio: sarà acquisita già nel giugno 1994 dalla superprocura antimafia che indaga sulle stragi del 1993 di Firenze, Milano e Roma. Ma in quello strano incrocio, la prima perquisizione ai danni del Cavaliere che raccoglie sondaggi ­­­­­283

elettorali, la prova che il partito Forza Italia era già in incubazione ben prima di quanto hanno dichiarato in seguito Berlusconi e Dell’Utri, c’è tutta l’anomalia, l’ambiguità della rivoluzione di Mani Pulite, in cui il più importante beneficiario del regime dei partiti si prepara a cambiarsi d’abito e a raccogliere il vento del cambiamento. Per arrivare al primo vero coinvolgimento del gruppo Fininvest in un’inchiesta del pool bisognerà aspettare il 10 marzo 1994, la richiesta di arresto per Dell’Utri e altri manager di Publitalia, annullata dopo una fuga di notizie sul Tg5. C’è da registrare, in quell’occasione, il primo attacco di Berlusconi ai magistrati di Milano: «Hanno svolto un ruolo positivo, ma ora qualcosa è cambiato. C’è un’involuzione spiegabile solo con motivazioni politiche». Seguito dalla prima volta di Berlusconi in Procura per un breve incontro con il procuratore Borrelli. Si vedono alle sei di sera: «Buongiorno, dottor Borrelli... sono Silvio Berlusconi». «Eh, la conosco, la conosco benissimo». Ma ormai alle prime elezioni della Seconda Repubblica mancano pochi giorni, si voterà il 27 marzo. Un’intera classe dirigente è stata spazzata via dalle inchieste. Al suo posto avanza la nuova sigla, la nuova etichetta, il nuovo partito: «senza cadaveri nell’armadio», «anche se c’è qualcuno che vede dei cadaveri dove ci sono stampelle o al massimo abiti», ripete nella campagna elettorale del 1994, una classe dirigente di «uomini nuovi e preparati» e soprattutto «con le mani pulite». Il partito che Silvio Berlusconi aveva già in mente nel 1977, per conquistare l’Italia.

Io, Craxi, Andreotti. E Berlusconi

Lo consideravano il Grande Manovratore del complotto mediaticogiudiziario contro i partiti della Prima Repubblica. Il capo del partito trasversale. «Un unico mascalzone grandissimo, incommensurabile e recidivo», lo definì Craxi in un editoriale sull’“Avanti!”. Il nemico numero uno di Silvio Berlusconi nello scontro per il controllo della Mondadori, la guerra di Segrate da cui cominciò tutto, la prova generale dell’ingresso del Cavaliere in politica. Nei venti anni successivi Carlo De Benedetti, l’Ingegnere, il presidente del gruppo EspressoRepubblica, uomo di mille relazioni internazionali, è stato considerato da Berlusconi l’unico, vero oppositore. Anche in quei primi anni Novanta era visto dagli uomini del Caf come la bestia nera, l’ultimo ostacolo da superare prima della conquista del potere assoluto. E quando partirono le inchieste Mani Pulite guardarono verso di lui come il burattinaio che complottava per sbaraccare la vecchia classe politica. «Pensavano che fossi il diavolo», spiega De Benedetti. «E invece non si erano accorti di avere il nemico in casa: fu Berlusconi a cavalcare Mani Pulite, contro Craxi. Ebbe il cinismo di farlo non scagliandosi contro Craxi direttamente, ma appoggiando i magistrati con il suo apparato mediatico. Berlusconi è l’unico che ha tratto vantaggio dall’operazione Mani Pulite». L’Ingegnere è l’ultimo rimasto tra i grandi capitani d’industria, i condottieri che negli anni Ottanta conquistavano le copertine dei grandi magazine europei e americani e pezzi di mercato internazionale. Un protagonista della fase di passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica e di quella successiva. «Fino all’89 noi siamo stati un paese di confine, un paese di frontiera tra Est e Ovest, eterodiretti dalla Cia e dal Kgb. Da una parte c’era l’ambasciata americana a Roma che finanziava la Dc e che inventò il Psdi, dall’altra i comunisti finanziati dall’Unione Sovietica. Un sistema che aveva retto grazie alla duttilità dei democristiani. Non ho mai votato per la Dc, ma quel partito aveva un merito straordinario: ­­­­­285

era una somma di correnti che nel momento della difficoltà trovavano la loro unità e facevano sgomberare da Palazzo Chigi l’inquilino che non era più utile. Quando Fanfani, o Andreotti, non andavano più bene, i Forlani, i Bisaglia, i De Mita imponevano un passaggio di mano. La Dc conteneva in sé Gava e Vanoni, Bisaglia e Donat Cattin, non è mai stata un partito, è stata il vero cartello dei moderati. E l’Italia è un paese di moderati. Nel frattempo c’era stato un boom economico colossale per cui tanta gente era diventata benestante o aveva messo su un’impresa spesso evadendo le imposte. Il debito pubblico, d’altronde, ha un padre e una madre, è nato perché il consenso veniva acquisito parlando con voci che toccavano le varie anime del Paese. Gli altri partiti lasciavano fare. Il Psi si era sempre ampiamente adeguato accontentandosi di vittorie di bandiera come la nazionalizzazione dell’energia elettrica con Lombardi, la programmazione con Giorgio Ruffolo, la poltrona di vice-premier per Nenni o De Martino. Anche il partito che ho sempre votato, il Pri di Ugo La Malfa, teorizzava che bisognava restare nel sistema per cercare di correggerlo, di cambiarlo almeno nella direzione del buon senso, la riforma fiscale di Visentini era un modo per dire: beh, almeno lo scontrino facciamolo... C’era un senso di realismo perfino in persone rigide sul piano morale e intellettuale come Visentini, per cui per esempio si tollerava la presenza nel partito di certi personaggi in Sicilia». «Nel 1976 arriva Bettino Craxi. Di lui si può dire quello che si vuole, io sono sempre stato un suo avversario, lo consideravo un bandito con atteggiamenti fascistoidi, di quelli sei con me o contro di me, un atteggiamento che i democristiani non avevano. Ma è stato un personaggio politico che ha marcato la storia italiana. Il suo primo obiettivo è stato distruggere l’asse Dc-Pci, l’intesa per cui Virginio Rognoni, ministro dell’Interno e mio amico personale, mi ripeteva: ‘Noi non facciamo niente senza aver sentito Ugo Pecchioli’. Lo stesso mi diceva Marcora sulle politiche industriali. Era un rapporto quasi istituzionalizzato, il Pci non comandava ma veniva consultato. Tra Dc e Pci c’era una co-gestione, in cui nessuno dei due aveva il coraggio di andare a letto insieme però si ritrovavano a filare di nascosto... Era evidente che se si fosse solidificato il rapporto Dc-Pci per Craxi non ci sarebbe stato nessuno spazio, avrebbe avuto al massimo qualche pezzetto di carne da mangiare. Craxi si rese conto che doveva fare un salto di qualità: capì che senza i soldi non si fa politica. E dunque cominciò a reclamare risorse in modo palese, spiegando che gli industriali ­­­­­286

per evitare il ricongiungimento cattocomunista avevano l’obbligo di finanziare l’unico politico che lo poteva impedire. ‘Guardi’, ti diceva con il suo modo spiccio di fare, ‘lei di politica non capisce un cazzo. Questo Paese ha bisogno di superare la vera tenaglia di arretratezza economica, culturale che è rappresentata dal ricongiungimento di due forze che sono entrambe conservatrici’. Ti poteva infastidire per il modo con cui ti porgeva le sue argomentazioni, l’arroganza, il sudore, le amicizie di cui si circondava, la volgarità della persona. Ma in quei primi anni Ottanta era difficile dargli torto nell’esigenza di modernizzazione del Paese che esprimeva». «Penso che all’inizio i soldi li chiedesse per finanziare il suo partito e la sua politica. Balzamo aveva l’incarico di passare a incassare: tu prendevi un ordine, per dire, alle Poste e arrivava Balzamo e ti chiedeva il cinque per cento. Tutti pagavano, tutti. Anche perché la virulenza di Craxi era temibile, si capiva che in caso contrario si sarebbe vendicato. Lo provai sulla mia pelle: per il fatto di averlo contrastato anche su questi argomenti mi ostacolò sulla Sme. Per lui significava mandare un messaggio chiaro a tutti gli altri, per esempio a Cesare Romiti sull’Alfa Romeo. Colpirne uno per educarne cento, direi. Io diventai un bersaglio non solo perché ero legato a “Repubblica” che stava con De Mita e contro Craxi, ma soprattutto perché ero un personaggio in vista, per cui dare una legnata pubblica a me significava spaventare molti altri. Io ero un irregolare per quelli che comandavano il Paese. Non ho mai avuto la prova provata, ma ho la certezza che sulla vicenda del Banco Ambrosiano si tentò di incastrarmi per ottenere una condanna che significava mettermi fuori da ogni scenario. Cosa che stava bene a tanta gente: l’Avvocato Agnelli aveva per me una simpatia del tutto personale, avevamo le case confinanti a Torino, mi invitava, si divertiva e mi stimava. Però, sul piano pubblico, anche lui mi vedeva come uno anomalo». «Negli anni Ottanta Craxi cercò in tutti i modi di allontanare il Pci dalla Dc, e riuscì nell’obiettivo. E poi ci fu la sua seconda evoluzione, quando si rese conto che il suo limite di voti restava al 13 per cento e che non sfondava. Molto realisticamente capì che per coronare il suo sogno di diventare premier doveva fare un patto con Forlani, che rappresentava le correnti più moderate della Dc, e con Andreotti, che era una potenza politica vera, con gli americani, con il Vaticano, aveva agganci con la massoneria e con la P2. Craxi, che per anni lo aveva insultato, la volpe che finisce in pellicceria, Belfagor e Belzebù, ­­­­­287

per andare a Palazzo Chigi scese a patti con il suo peggior nemico. Perché Andreotti era davvero il suo principale nemico. Non avevano nulla in comune, si odiavano. Andreotti aveva una raffinatezza di modi, di cultura, di savoir faire, di diplomazia irraggiungibile per Craxi. Craxi esibiva la sua amica di Gbr, Andreotti non ha mai visto una donna per paura che qualcuno lo vedesse, passava il suo tempo libero a giocare a carte la domenica con Sandra Carraro e con Bruno Pazzi, il presidente della Consob, una roba casalinga, familiare e normale. Andreotti chiedeva o faceva chiedere soldi per la sua corrente ma per se stesso no. Quando entri nella casa di un politico ti fai immediatamente un’idea se ha rubato o no. Io sono stato diverse volte nella casa di Andreotti in corso Vittorio a Roma: c’era quel salotto mesto, con le foderine bianche appoggiate al divano per non sporcare con la brillantina dei capelli il tessuto... cose da Ottocento». «Questo clima è andato avanti e si è consolidato in maniera quasi sovietica con il Caf. Poi è arrivato l’89. Il Muro di Berlino è crollato in Italia. Perché ci siamo immediatamente trasformati in un paese che non era più di frontiera. Nessuno lo aveva capito, neppure i comunisti. I partiti di governo, la Dc e il Psi, si sono detti che il disegno comunista non aveva più credibilità nel mondo e che al Pci non sarebbero più arrivati i soldi da Mosca, si sono ritenuti inamovibili: abbiamo vinto, siamo al potere, andiamo avanti così. E però c’era, in the back of their mind, in qualche parte di loro stessi, un cattivo pensiero. Sì, un rovello che li spingeva a dire: approfittiamone finché dura. Perché si rendevano conto che il livello di diffusione della corruzione era tale che il sistema poteva saltare da un momento all’altro». «Sulla guerra di Segrate Craxi fu il motore di Berlusconi, non c’è dubbio. A Berlusconi della Mondadori non interessava niente, il suo compito era conquistare “Repubblica”, era lo scalpo da portare a Craxi, perché la fissa di Craxi erano Scalfari e De Benedetti. Bisogna tenere presente che a un certo punto “Repubblica” stava per fallire e io l’avevo salvata, per Craxi rappresentavo dal punto di vista finanziario la garanzia di solidità economica del quotidiano, al di là della mia condivisione delle idee e della mia amicizia con Scalfari. Allora ha tentato il colpo tramite Leonardo Mondadori e Berlusconi per arrivare a “Repubblica”. Però Berlusconi aveva già cominciato a maturare l’idea che il sistema fosse alla fine. Ricordo una colazione con lui a casa mia. ‘Sai’, mi disse, ‘se volessi farei il ­­­­­288

culo a Craxi domani mattina, perché io ho molto più potere di lui, con il Milan, le mie televisioni, lo faccio fuori in cinque minuti’. Ma aveva bisogno della legge Mammì, per ottenerla era disposto a fare qualsiasi cosa, era il suo business». «Andreotti, che non ha mai potuto vedere Craxi, mi chiamò a Palazzo Chigi, nella sua stanza, e mi disse: ‘A lei la Mondadori non la daremo mai, è già abbastanza quello che ha con “Repubblica”. Ma ancor di più io non permetterò mai che Berlusconi si impossessi di “Repubblica”, è troppo potente già oggi. Dunque dovete trovare una soluzione’. Aggiunse: ‘E noi la aiuteremo a trovarla: quando lei uscirà da questa stanza troverà nell’anticamera chi le può dare una mano’. Uscii, nell’anticamera ad aspettarmi c’era Luigi Bisignani... Dopo arrivò la mediazione di Ciarrapico». «Il potere del Caf era tale che il presidente del Consiglio ti chiamava non a casa sua o spedendoti un messaggero, no, ti convocava nella sede istituzionale, nello studio di Palazzo Chigi, lui seduto dietro la sua scrivania, io davanti, e mi diceva: ‘Ma che cosa perdete tempo e soldi con gli avvocati, con le sentenze? Ci pensiamo noi’. Andreotti non considerava Berlusconi un nemico, ma sapeva che rispondeva più a Craxi che a lui, di me sapeva che non rispondevo né a Craxi né a lui, ma non voleva che qualcuno prevalesse sugli altri. E questo dimostra che il Caf fu un modo con cui ognuno dei tre, Craxi, Andreotti e Forlani, tentava di prolungare il proprio potere. Non era un patto politico vero, era un’alleanza di potere». «La leggenda del partito trasversale di Repubblica-Espresso nacque con l’infatuazione di Scalfari per De Mita. Nell’82, in vista dell’elezione del nuovo segretario della Dc, Marcora organizzò una cena a casa di Mario Formenton con una decina di persone, c’erano Pirelli, Lucchini, Romiti e l’establishment milanese, alla fine ci disse che avevano deciso di puntare su De Mita. Ci fu un ululato di scontento: ai nostri occhi De Mita era quello che da ministro aveva bloccato il prezzo della pasta, era visto come un dirigista, un politico meridionale vecchio stile, uno che avrebbe imposto il blocco dei prezzi su tutto, insomma il peggio che si potesse avere. Marcora il giorno dopo mi richiamò: ‘è andata male, mi pare’. Io gli risposi un po’ ruvido: ‘Beh, che ti aspettavi, non poteva che andare così’. Scalfari invece pensò di poter gestire De Mita e attraverso di lui la Dc. Fino a quel momento aveva provato a gestire il Pci, e c’era riuscito. Quando De Mita andò a Palazzo Chigi, per esempio, Scalfari gli ­­­­­289

consigliò la nomina di Andrea Manzella a segretario generale della presidenza del Consiglio, che era vicino a Spadolini e con De Mita e con la Dc non c’entrava nulla. De Mita chiamava Scalfari tutte le mattine, c’era una sudditanza impressionante». «All’inizio degli anni Novanta succede un’altra cosa importante: si rompe il patto che aveva tenuto unita la Repubblica negli anni della ricostruzione, quello tra De Gasperi e Menichella e Costa, Togliatti e Di Vittorio. Il ragionamento di Guido Carli e di Agnelli non era anti-sistema o anti-Dc e anti-Psi. Loro ragionavano in base agli interessi: non si poteva andare avanti con le svalutazioni continue, con un debito crescente, soprattutto quando si apriva una prospettiva europea da cui sarebbe stato fatale per l’Italia restare fuori. Le loro critiche al governo furono di nuovo un’operazione di convenienza, non ideologica, una convenienza legittima. Gli imprenditori avevano capito che era finita, e lo capirono un po’ prima dei politici. Non avevano in odio i partiti, però». «Se mi si chiede con quale ipotesi politica l’establishment imprenditoriale italiano arriva al 1992 rispondo: nessuna. La Lega, per esempio, era vista malissimo. Io avevo visto Bossi una volta per curiosità, alla fine degli anni Ottanta. Gli chiesi: ‘Voglio sapere da lei una sola cosa, lei dove lo mette il debito pubblico?’. Lui mi rispose: ‘A Roma’. Allora capii che non valeva più la pena di parlargli: mi sembrò di grande superficialità e di un opportunismo totale, non l’ho mai più incontrato da allora. Poi sono cominciate le inchieste e onestamente devo dire che nessuno ha più pensato alla politica. Ci fu un vuoto, gli industriali non avevano un progetto politico, il loro unico pensiero era come uscirne. All’improvviso è crollato tutto il sistema delle alleanze. È stato come trovarsi di fronte a un deserto e ognuno ha cominciato a giocare per sé perché ognuno aveva la coscienza sporca. Ci siamo trovati di fronte a Di Pietro che faceva paura». «Nel maggio 1993 concordai con il pool tramite l’avvocato De Luca che mi sarei presentato spontaneamente e che mi sarei assunto tutte le responsabilità, indicando un elenco di quattro o cinque operazioni in cui la Olivetti aveva elargito soldi e a chi. Nessun capo di azienda si comportò come me. La mia esperienza a Regina Coeli fu tutta un’altra storia. C’erano tre mandati di cattura, per me, per Gianni Letta e per Adriano Galliani. Il gip Augusta Iannini disse di avere ottimi rapporti di famiglia con Letta e con Galliani, per via del marito Bruno Vespa, e che non poteva essere obiettiva. Io ­­­­­290

obiettai che questo valeva anche per me, al contrario, tutti erano a conoscenza dei miei pessimi rapporti con Berlusconi. Comunque ci fu un interrogatorio, chiarii la mia posizione, uscii di prigione e nel processo venni assolto». «C’era poi la linea di Chiusano, l’avvocato della Fiat, che era quella di contrastare i magistrati. A un certo punto l’Avvocato mi chiese se si sarebbero fermati, io gli risposi: ‘Guardi, non c’è niente da fare, questi sono portati dal vento’. La condizione di Agnelli era di angoscia. Il solo pensiero non dico di un arresto ma di finire in un interrogatorio non lo faceva dormire la notte. La paura individuale era il sentimento prevalente. E ognuno andò per conto suo: non ci fu neppure il tentativo di organizzare, non so se la parola sia esatta, una forma di difesa». «Di Pietro aveva un’incredibile forza organizzativa, direi perfino fisica, psicologica, me ne resi conto da come faceva le fotocopie o telefonava durante l’interrogatorio. Era un fulmine, una valanga. Il pool era composto da persone molto diverse: Borrelli era molto più raffinato, Colombo era un magistrato di grande qualità, Davigo un uomo specchiato che lavorava per far rispettare la legge, Di Pietro aveva una forte carica di esibizionismo personale, di popolarità e di populismo, ognuno aveva la sua parte, fecero saltare il sistema. Era come una catena delle caramelle, un caso ne tirava un altro, e alla fine Di Pietro è entrato in politica. In quell’operazione certamente il Pci è stato protetto, perché sia Borrelli che D’Ambrosio volevano distruggere un sistema di potere, non tutti i partiti, non la politica. Affondarono il coltello in una marmellata, non trovarono nessuna resistenza, non c’era più niente. Era un’ondata di piena che si accompagna alla fine di un regime. Incontrai Gardini tre giorni prima che si sparasse, si confidò: ‘Non posso pensare a finire in carcere, non credo che reggerei’. Quando appresi la notizia del suo suicidio, alle otto e mezzo del mattino, chiamai subito l’Avvocato. ‘Gardini si è sparato’, gli dissi. Ero molto scosso, agitato. Lui restò silenzioso un istante. ‘Era la sua fine’, commentò con cinismo assoluto, ‘perché lui doveva morire come un eroe del far west’. E un avventuriero del far west non finisce con gli avvocati, tra le carte bollate, ma con uno sparo». «Tra il 1992 e il 1993 non c’è stata la politica. C’era il governo Amato, che proprio in assenza di politica scrisse una Finanziaria da 93mila miliardi. Un punto di riferimento era Scalfaro, Ciampi era più prudente, Segni ha avuto il merito storico di introdurre il maggiorita­­­­­291

rio in Italia ma l’ha sprecato malamente. Occhetto non c’era, da me per il Pds veniva a parlare D’Alema, andò anche da Agnelli. ‘Questo D’Alema mi piace perché è intelligente’, mi diceva, ‘ma mi fa anche paura, mi sembra Vishinsky’. Ci fu dal 1992 al 1994 un vuoto totale della politica. E in questo vuoto c’è chi ha guadagnato. Draghi al Tesoro era terrorizzato dal debito pubblico, per lui le privatizzazioni erano la strada maestra per contenerlo. Che poi siano state fatte male non c’è dubbio. Certamente ci fu lo smantellamento ideologico dell’Iri. Quella classe politica che ormai era wiped out, cancellata, era anche connotata sul piano economico per aver sostenuto l’Iri». «In quell’estate del 1993 Claudio Rinaldi, il direttore dell’“Espresso”, mio carissimo amico, mi ripeteva: ‘Guarda, Berlusconi vuole fare un partito’. Andai da Agnelli a chiedere se ne sapesse qualcosa, era il mese di giugno. ‘È vero che Berlusconi entra in politica?’, gli domandai. ‘Qualche giorno fa è venuto a trovarmi il professor Giuliano Urbani, il capo del centro Einaudi a Torino, e mi ha proposto di scendere in campo per prendere il controllo del Paese. Io non sapevo come sbarazzarmene, l’ho spedito da quel matto di Berlusconi’. Parola di Agnelli del giugno 1993. Se si va infatti a vedere il programma iniziale di Forza Italia si trovano il buon governo e la riforma liberale, persone come Urbani e Martino sognavano Agnelli e trovarono Berlusconi. Ho un altro ricordo dell’Avvocato. Gennaio 1994, colazione nella sua casa di St. Moritz, lui e io. Parliamo di Berlusconi e del suo partito. E l’Avvocato fa una previsione: ‘Farà un buco nell’acqua. Prenderà al massimo il tre per cento, come i repubblicani’. Io ero meno convinto di lui, pensavo che al dieci per cento sarebbe arrivato. Nessuno di noi pensava che sarebbe stato votato da un terzo degli italiani e che avrebbe vinto le elezioni. Eppure Agnelli era un uomo attento, con una grande sensibilità politica. Quando raccontai il colloquio a Rinaldi mi disse: ‘Hai ragione tu’. Ma anche lui, che pure il pericolo Berlusconi l’aveva segnalato prima di tutti, non immaginava che sarebbe arrivato a Palazzo Chigi». «Berlusconi in partenza fu accolto bene in Italia, ma anche dai partner europei, era visto come l’imprenditore di successo che sbloccava il sistema politico paralizzato. Venne visto con speranza. Anche il suo linguaggio semplificatore inizialmente sembrava una novità rispetto all’involuzione di un discorso di Forlani o alla violenza di Craxi. Ma la sua riforma liberale si rivelò rapidamente per quello che era. Subito dopo la sua nomina a premier nel 1994 ci fu una cena ­­­­­292

organizzata da Agnelli in casa sua, intorno al tavolo c’eravamo io, Marzotto, Romiti, Lucchini. Era una sorta di introduzione del Berlusconi premier di fronte all’establishment confindustriale. Agnelli gli dava del lei: ‘Adesso che è arrivato a Palazzo Chigi la prima cosa che lei deve fare è la privatizzazione della Stet’. Romiti si accodò immediatamente: ‘Assolutamente d’accordo con l’Avvocato, quello è un simbolo’. Berlusconi li bloccò subito: ‘Quella azienda ora è mia, va bene, perché dovrei venderla?’. Il suo concetto politico era che lui era diventato lo Stato, non capiva perché bisognasse privatizzare. Rimasi colpito dalla reazione, avrebbe potuto dire che era un’operazione complessa, invece disse semplicemente: la Stet ora è mia». «Mani Pulite non fu un’operazione studiata a tavolino. È stata una combinazione di protagonismo dei giudici e di un vaso ormai troppo pieno. Mario Chiesa era un nessuno, Di Pietro poteva esserci o non esserci, il bubbone poteva scoppiare da un’altra parte. C’erano stati la fine degli anni Ottanta, la fine dei riferimenti internazionali, la fine di un paese di frontiera, l’Europa che avanzava come soggetto comunitario. Dopo il 1994 nessun politico è venuto più a chiedermi qualcosa, mai. Alle richieste della politica è subentrata la mafia che oggi ha invaso le grandi città del Nord. Cos’è rimasto di Tangentopoli? Niente. Vista con molto cinismo e con molto distacco e con qualche amarezza viene da dire che l’operazione Mani Pulite non ha cambiato il Paese. La bufera è passata, l’Italia è rimasta la stessa. E in questa Italia immutabile a lungo ha vinto Berlusconi». Nell’estate del 2011, vent’anni dopo l’inizio di questa storia, la Cir di De Benedetti ha ottenuto in appello dalla Fininvest un maxi-risarcimento di 560 milioni di euro per i danni subiti con la perdita della Mondadori provocata dalla corruzione del giudice Vittorio Metta, dopo che nella sentenza di primo grado Berlusconi era stato riconosciuto «corresponsabile della vicenda corruttiva». Una sentenza che è arrivata un mese dopo un nuovo sconvolgimento politico: la vittoria a sorpresa di Giuliano Pisapia alle elezioni comunali di Milano, per decenni culla del berlusconismo. E che ha anticipato di qualche mese l’uscita di Berlusconi da Palazzo Chigi. Tutto era cominciato da lì, da quella lontana guerra non solo editoriale, ma politica: il partito-azienda, il conflitto di interessi, la lunga egemonia di Berlusconi sulla politica italiana. E tutto, in un certo senso, lì è finito. ­­­­­293

XI

Exit

– Quando dici che finirà, patriota? – Primavera, – rispose, ma la voce gli uscì troppo rauca e falsa. Diede un colpo di tosse e ripeté: – Primavera. Allibirono. Uno bestemmiò e disse: – Ma quale primavera? C’è una primavera di marzo e una primavera di maggio. – Maggio, – precisò Milton. Beppe Fenoglio Una questione privata

E poi sembra che arrivi la Fine, quella vera, quella che – ha scritto il poeta inglese Thomas Stearns Eliot – si annuncia senza fragore: arriva non in un colpo ma con un lamento. Sembra morire la Prima Repubblica, pare spegnersi dopo una lunga agonia nel giro di quattro settimane, nella più crudele delle primavere, nell’aprile che mezzo secolo prima aveva segnato la ritrovata libertà, la conquista della democrazia. In un mese, dal 27 marzo al 29 aprile 1993, viene giù tutto. Cade l’ultimo governo dei partiti storici, un referendum spazza via la legge elettorale che aveva segnato il patto tra gli italiani e la loro rappresentanza politica, il proporzionale e la preferenza, con la formidabile capacità di tenere dentro tutti, ogni categoria, ogni territorio, ogni singola corporazione e ogni clientela. Muore il Psi, rantola orrendamente la Dc abbandonata, crollano gli dei. È il 27 marzo quando il pentito Pasquale Galasso fa il nome di Antonio Gava come referente politico della camorra: il giorno dopo l’ex ministro dell’Interno, il capo della corrente più potente della Dc, viene «avvisato» dalla Procura di Napoli per associazione a delinquere di stampo mafioso (con lui ci sono ­­­­­294

i dc Cirino Pomicino, Alfredo Vito e Vincenzo Meo e il socialista Raffaele Mastrantuono). Ma la bomba deve ancora arrivare. Sono le 17.34 del 27 marzo quando l’Ansa batte l’incredibile notizia: «L’ex presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, ha ricevuto dalla procura di Palermo un avviso di garanzia per ‘attività mafiosa’». Il senatore a vita è appena tornato nella sua casa di corso Vittorio da una comparsata televisiva, una delle tante con cui ha coltivato il suo mito popolare. Il programma si chiama Invitato speciale, si va a pranzo da una famiglia scelta a caso (per la storia: la romanissima famiglia Ramoni al quartiere Appio Latino), si mangia e si chiacchiera. Davanti a una tavola di cannelloni fumanti, saltimbocca, carciofi, frutta, gelato e caffè. Si discute di mafia, Andreotti difende Salvo Lima, attacca Leoluca Orlando, discetta di Tangentopoli. Una giornata normale, la quotidianità pubblica che il senatore ormai illustre pensionato della politica, privo di ogni incarico, cerca di mantenere. Se non fosse per quella telefonata di Spadolini che arriva a spezzargli la vita. Perché c’è un prima e un dopo per tutti, perfino per Andreotti, e quello squillo lui non lo dimenticherà mai: «Credo di dover all’aiuto di Dio e a qualche attimo d’incredulità se non fui travolto da un colpo apoplettico». Che la notizia non dovesse però arrivare del tutto inaspettata, lo dimostra un’altra casuale coincidenza. Proprio quel giorno, qualche ora prima, la rivista cattolica “Lettere romane” ha diffuso un articolo di Andreotti scritto nelle settimane precedenti, per un numero speciale sul viaggio ad Assisi di Pier Paolo Pasolini in preparazione del film Il Vangelo secondo Matteo. Con Pasolini Andreotti aveva avuto una durissima polemica quando lo scrittore nel 1975 aveva preconizzato la necessità di un processo agli uomini della Democrazia cristiana. Processo metaforico, sia chiaro. «L’immagine di Andreotti o Fanfani, di Gava o di Restivo ammanettati tra i carabinieri sia un’immagine metaforica. Il loro processo sia una metafora...», aveva scritto Pasolini. Perché a lui interessava la rigenerazione civile e morale del popolo italiano calpestato dal trentennio democristiano e dalle sue trasformazioni che per il poeta erano altrettanti capi di imputazione: «Dunque: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di ­­­­­295

enti, come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono ‘selvaggio’ delle campagne, dell’esplosione ‘selvaggia’ della cultura di massa e dei mass media, della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari anche distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori...»70. Nessuno poteva immaginare che un processo del genere si sarebbe davvero realizzato, ci voleva un visionario come Pasolini soltanto per renderlo come una suggestione letteraria. Ed ecco invece che, volendo calmare chissà quale oscura inquietudine, Andreotti, a un passo dal finire lui sotto processo, reale e non metaforico, sente il bisogno di chiedere scusa allo scrittore per lo scontro che li divise. «Lui scrisse un articolo intitolato Vuoto di potere che era un elogio funebre della Democrazia cristiana e in genere degli uomini di potere definiti ‘maschere che a sollevarle non si troverebbe neppure un mucchio di ossa e di cenere’‚ io polemizzai con lui sul “Corriere”». Ma aveva ragione Pasolini, invece. E nel riconoscerlo tardivamente l’uomo simbolo del governo democristiano ripercorre in poche righe un cinquantennio di potere. E inconsciamente compila l’epitaffio della Democrazia cristiana: Forse a differenza dei giovani che come tali non avevano conosciuto il sottosviluppo di prima, noi sentivamo l’orgoglio di un’indubbia crescita economica collettiva. Ci scandalizzava lo scagliarsi di molti, in nome della critica del consumismo, contro gli undici milioni di elettrodomestici entrati nelle famiglie. Io invece ricordavo le mani di mia madre spaccate per il bucato e vedevo le lavatrici come strumento di redenzione familiare; così la motorizzazione privata mi sembrava un segno di giustizia distributiva, memore dell’anteguerra quando non solo l’automobile ma una motocicletta era indice di invidiabile ric70 Pier Paolo Pasolini, Il Processo, in Lettere Luterane, Einaudi, Torino 2003, pp. 114-116.

­­­­­296

chezza. Avrei dovuto condurre il dialogo approfondendo di più i valori culturali e morali dell’analisi di Pasolini, che senza enunciarlo ricordava a me che l’uomo non vive di solo pane. Io ero forse prosaicamente radicato alla convinzione che senza pane non si vive sicuramente. Ci ripromettemmo di instaurare un confronto non forzatamente pubblico. Avrebbe potuto essere – lo credo senza peccare di presunzione – utile anche per contribuire a correggere l’involuzione morale di cui oggi si sentono pesantemente le conseguenze. Purtroppo la sua tragica morte lo rese impossibile.

Neppure un anno prima aveva liquidato con un’alzata di spalle l’omicidio di Salvo Lima, mentre preparava da Palazzo Chigi l’ascesa al Quirinale. E tramite il capo della Polizia Parisi aveva spedito un messaggio a Gava la sera prima della scelta del candidato democristiano alla presidenza: se non vengo eletto io finirà la Prima Repubblica. Ed eccoli lì, tutti e due, messi in mezzo dai pentiti di mafia e di camorra, senza più traccia del sarcasmo che li aveva caratterizzati da potenti. Ossequiati, temuti da tutti, e ora improvvisamente smarriti, invecchiati, decrepiti. Maschere che a sollevarle..., li aveva definiti Pasolini. E già, proprio così. «Sempre peggio. Nessuna certezza. Nel Transatlantico i politici, smarriti, si chiedono che cosa ancora potrà accadere. Si guarda al Quirinale, a piazza del Gesù, al Bottegone in attesa di non si sa bene che cosa che consenta di uscire da una situazione di incubo», attacca quella sera in preda al panico Vittorio Orefice sulla Velina. I leggendari errori di battitura più numerosi del solito rendono l’ansia, l’aspettativa di qualcosa che non arriverà mai, perché nessuno meglio di Orefice sa che da quei palazzi ormai vuoti non può arrivare nessun soccorso: «Con gli avvisi ad Andreotti per mafia e a Gava per camorra, la delegittimazione del quarantennio ha fatto un salto di qualità. Le accuse di corruzione non riguardano più esclusivamente le mazzette, la zoomata si è allargata in misura ancora più inquietante. Il 23 marzo scorso il vice-capo della Polizia e direttore della Criminalpol, il prefetto Luigi Rossi, aveva dichiarato che esisterebbero manovre da parte di organizzazioni criminali mafiose finalizzate a recare discredito anche con l’utilizzazione di pentiti a personalità dello Stato. La mafia non colpisce solo uccidendo, spesso usa i veleni del discredito...». In un quadro così spettrale mette quasi allegria che Carlo Vizzini ­­­­­297

scelga quel giorno drammatico per dimettersi da segretario del Psdi con una motivazione significativa: non ci sono più soldi per pagare stipendi, affitto e bollette. Il 14 aprile è l’Andreotti day di fronte alla giunta per le autorizzazioni a procedere di Palazzo Madama. La macchina del senatore a vita si ferma davanti al portone di Sant’Ivo alla Sapienza, uno dei capolavori del Barocco e di Francesco Borromini, dove per decenni si sono riuniti gli universitari cattolici della Fuci e i laureati cattolici, le organizzazioni in cui Andreotti ha cominciato la sua vita pubblica all’inizio degli anni Quaranta. «A Sant’Ivo ci ritrovavamo la domenica, fermandoci a lungo nell’ampio cortile a conversare dopo la messa, celebrata da monsignor Montini...», monsignor Giovanni Battista «Giobatta» Montini, il futuro papa Paolo VI, il più influente costruttore di classi dirigenti non solo nella Chiesa, maestro di tre generazioni di democristiani. E lì, nel luogo dove tutto è cominciato, tutto per il Divo Giulio finisce. Avanza di qualche metro, sale i pochi scalini che portano nel cortile, sotto la pioggia, in mezzo a un muro di cameramen di tutto il mondo, messicani e giapponesi, scoppia un poco solenne parapiglia con qualche operatore contuso al pronto soccorso, urla, i francesi strillano nei loro lanci un vocabolo terribile, guillotine, i suoi piccoli passi che assomigliavano a un fruscio, il passo felpato di chi appare e scompare senza fartelo sentire, sono ora il cammino incerto di un vecchio che va incontro al patibolo. Dentro c’è il senatore del Pds Giovanni Pellegrino, un avvocato garantista che valuta con molta prudenza le carte spedite dalla Procura di Palermo. A differenza di quello che accade nella Commissione parlamentare Antimafia presieduta da un altro pidiessino, l’ex magistrato Luciano Violante, che il 6 aprile approva una relazione in cui si fa esplicito riferimento alla corrente andreottiana in Sicilia: «Risultano certi alla Commissione i collegamenti di Salvo Lima con uomini di Cosa Nostra. Lima era il massimo esponente in Sicilia della corrente democristiana che fa capo a Giulio Andreotti». Votano a favore della relazione Violante tutti i parlamentari dello Scudocrociato, compreso il quarantenne Clemente Mastella già in procinto di lasciare il partito: «Non è assolutamente vero che abbiamo scaricato Andreotti, ma le eventuali responsabilità penali sono personali», si lava la coscienza. «In ogni caso resta sempre l’amicizia e la solidarietà con chi è in ­­­­­298

difficoltà». Forse per rimorso si farà vedere con l’amico Casini alla prima udienza del processo di Palermo, tre anni dopo. Vota a favore di Violante anche il liberale Alfredo Biondi, che sarà ministro della Giustizia nel primo governo Berlusconi. Gli unici contrari sono i due parlamentari del Msi (per Altero Matteoli la relazione Violante è l’acqua calda) e il radicale Marco Taradash: «La partitocrazia si autoassolve, e consegna qualche testa alla storia. Tutti a favore, lupi, sciacalli e gattopardi». La giunta concede l’autorizzazione a procedere per Andreotti il 27 aprile, con l’astensione dei senatori democristiani. Il 13 maggio, esprimendosi per alzata di mano, l’aula del Senato vota perché il sette volte presidente del Consiglio sia messo sotto inchiesta come amico dei mafiosi. Non c’è uno schianto nella caduta, ma solo un flebile lamento, al massimo. Andreotti nel suo intervento chiede il via libera all’autorizzazione a procedere, inaugurando uno stile che lo porterà a essere sempre presente in tutte le udienze che lo riguardano a Palermo e a Perugia, resta impassibile quando Vittorio Sgarbi sbraita dalla tribuna contro il senatore Arrigo Boldrini, il vecchio comandante Von Bulow dei partigiani rossi, subito dopo il sì del Senato fissa a lungo il vuoto, prima che arrivi il primo compagno di partito a stringergli la mano, Antonio Gava. La sentenza che più gli interessa, quella di fronte alla storia, l’ha pronunciata già di fronte alla giunta Pellegrino, a Sant’Ivo alla Sapienza: «Io sinceramente, lo dico con molta responsabilità, avrei preferito che la mafia, o chiunque fosse che allora ce l’aveva con me, mi avesse fatto fare la fine di dalla Chiesa invece di essere costretto a difendermi da queste calunnie». E poi: «Hanno calpestato un’intera vita». Di andreottiano resta solo quell’oscuro riferimento a qualcuno di più grande e di più feroce che può avercela con lui: servizi segreti stranieri, come ha a lungo ipotizzato, che magari si sono serviti di sponde impensabili, alleanze spurie, incroci inconfessabili, come quelli sempre allusi a mezza bocca tra gli americani che volevano ripulire il Paese e alcuni uomini dell’ex Pci. Il resto è una condanna che il senatore si è già scritto da solo, e che nessuna sentenza di assoluzione o di prescrizione, potrà cancellare. Lupi, sciacalli e gattopardi sono scatenati. E in quelle settimane di aprile giocano la partita decisiva. Chi per non morire, ­­­­­299

chi per sopravvivere, chi per guidare la fase successiva. Si confrontano nel Palazzo trasformato in un bunker. Il Partito dei Resistenti ha tentato il colpo di spugna, il decreto del ministro della Giustizia Giovanni Conso che depenalizzava il reato di violazione di finanziamento pubblico dei partiti, un’amnistia preventiva, bloccato dal rifiuto di Scalfaro di firmarlo. E ora si batte contro lo scioglimento anticipato delle Camere e per portare avanti la legislatura in un disperato rifiuto di prendere atto del tramonto di un’era: si riuniscono all’alba in via di Campo Marzio, alle spalle di Montecitorio, gli auto-convocati delle sette del mattino, la folla dei parlamentari dei vecchi partiti che si battono contro lo scioglimento anticipato delle Camere: inquisiti, semplici peones, una ciurma eterogenea guidata dal radicale Marco Pannella, il partito trasversale di chi resiste al cambiamento. Il Partito dei Riformisti vorrebbe indicare una via d’uscita positiva alla crisi, la soluzione politica per Tangentopoli e una nuova Repubblica da fondare sulle macerie della Prima, che il 19 aprile ha raggiunto un risultato storico, il referendum elettorale che ha chiuso con l’era della legge proporzionale e con la Repubblica fondata sui partiti, aprendo la strada al maggioritario. E il Partito dello Sfascio, che punta tutto sul collasso terminale del Sistema, non per cambiarlo ma per ereditarlo. Come in altre fasi torbide e violente della storia italiana, il biennio 1920-22, terminato con l’avvento del fascismo, il biennio 1943-45, la divisione del territorio nazionale, il ritorno alla democrazia, si scontano, al momento della verità, contraddizioni, ritardi, immaturità, insicurezze storiche che impediscono la nascita di una diversa stagione. E nel caos si inseriscono i poteri occulti e criminali, i tradizionali convitati di pietra della democrazia italiana che provano a deviare e a condizionare il corso degli eventi, la strategia stragista che ha sempre accompagnato le fasi di transizione della vita italiana. Il 14 maggio c’è la prima bomba, in via Ruggero Fauro a Roma, contro il conduttore Maurizio Costanzo. La notte tra il 26 e il 27 maggio salta in aria una Fiat Fiorino sotto la Torre dei Pulci, in via dei Georgofili a Firenze. Muoiono cinque persone: uno studente ventiduenne, Dario Capolicchio, e l’intera famiglia Nencioni, il papà Fabrizio, la mamma Angela, le sorelline Nadia, nove anni, e Caterina che ha appena cinquanta giorni di vita. «Il sole sta andando a letto / è gia sera. Tutto è finito», aveva scritto su un ­­­­­300

quaderno Nadia, come in un presentimento. Due mesi dopo, nella notte del 27 luglio, alla stessa ora, un’autobomba a Milano in via Palestro uccide tre vigili del fuoco, un vigile e un passante, due esplosioni a Roma devastano la chiesa di San Giorgio al Velabro e la basilica di San Giovanni in Laterano: in quella notte il presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi prova a mettersi in contatto con Palazzo Chigi e scopre che i centralini della sede del governo sono stati disattivati. Attacco al cuore dello Stato, si dirà. Sì, ma da parte di chi? E dov’è lo Stato, in questa bufera? Chi ricatta gli uomini delle istituzioni? Giocano tutti la loro partita decisiva, in quelle settimane. Non solo la mafia, le logge massoniche, i servizi deviati. Giocano la loro ultima partita gli uomini simbolo della Prima Repubblica. «La mia proposta già nell’ottobre 1992 era: andiamo da Scalfaro, buttiamo giù il governo Amato e chiediamo che venga affidato l’incarico a Cossiga, appoggiato da tutti i partiti», racconta Cirino Pomicino. «Eravamo ancora in tempo, Cossiga godeva dell’appoggio di gran parte dell’opinione pubblica, era l’unico che sarebbe riuscito nel compito di portare in salvo il Sistema. Non capirono la portata del dramma. Nella Dc non c’erano più i cavalli di razza. E Andreotti? Andreotti è sempre stato uno statista, ma di manovre politiche capiva pochissimo. Quando il nome di Cossiga tornò a circolare, dopo il referendum del ’93, noi eravamo indeboliti, non c’era più niente da fare». C’è una data in cui i Resistenti, i Riformisti e gli Sfascisti si danno appuntamento. È lo scontro finale, in quelle ore che vanno dalle dieci del mattino alle otto di sera del 29 aprile i partiti che si combattono per strattonare la crisi italiana in un senso o nell’altro si affrontano nell’aula di Montecitorio. E alla fine di quella giornata, l’ultima giornata della Prima Repubblica, nulla davvero sarà come prima. Alle dieci del mattino del 29 aprile, puntuali, si presentano a giurare al Quirinale nelle mani di Oscar Luigi Scalfaro i ministri del governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi. Non è stato facile arrivare alla soluzione: il 22, all’indomani del referendum, si è dimesso il governo Amato. Per Palazzo Chigi è inizialmente in corsa il presidente della Camera Giorgio Napolitano, una figura istituzionale che segnerebbe una novità storica, il primo ex comu­­­­­301

nista alla guida del governo. In un sondaggio dell’“Espresso” tra 154 parlamentari di ogni partito è lui il candidato numero uno a prendere il posto di Amato e gode di un consenso trasversale. Con l’eccezione, forse, degli uomini della segreteria del suo partito. Il vero candidato a Palazzo Chigi di Scalfaro, in realtà, è un personaggio fuori dal Parlamento: il professore di Bologna Romano Prodi, ex presidente dell’Iri, cattolico, di area democristiana ma senza tessera di partito, vicino a Martinazzoli ma anche a Mario Segni con cui ha condiviso la battaglia referendaria: il suo amico Arturo Parisi, sassarese come il deputato ex dc, è il cervello del comitato che dopo la vitttoria del 18 aprile sogna di introdurre una democrazia all’anglosassone in Italia. La democrazia dei cittadini, dopo la Repubblica dei partiti. Prodi viene convocato a Roma da Scalfaro, prende il treno da Bologna e chiama Segni offrendogli di fare il vice-premier e il ministro delle Riforme nel nuovo governo. Dopo l’incontro con il presidente al Quirinale va a trovare il leader referendario, gli riferisce che il suo sarebbe un tentativo difficilissimo, lo prega di dargli una risposta entro la fine della giornata perché deve ripartire. Quando il Professore a tarda sera scende dal treno che lo ha riportato a Bologna, Segni ha deciso: non entrerà a far parte del governo. Forse spera che Scalfaro decida di puntare su di lui, forse ha il timore di mettere la faccia su una manovra di restaurazione. Il risultato è che nel giro di poche ore l’ipotesi Prodi non c’è più, è bruciata. Ma Scalfaro ha già pronta la mossa successiva. L’incarico di formare il nuovo governo va a un altro personaggio fuori dai partiti: il livornese Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia, il primo non parlamentare a ricevere il mandato di presidente del Consiglio della storia repubblicana. Con il compito di mettere su un governo tecnico-politico, allargato al Pds di Occhetto e ai Verdi. E non è per uno scherzo del caso che in poche ore per guidare il governo che dovrebbe portare l’Italia fuori dalla tempesta di Tangentopoli siano in corsa Prodi, Napolitano e Ciampi: il cattolico senza tessera, l’ex comunista diventato una figura istituzionale, il banchiere centrale con un passato da azionista. Tre personaggi molto diversi, che rappresentano le grandi culture politiche repubblicane e che vanno oltre. I loro nomi torneranno a incrociarsi negli anni successivi. L’incarico a Ciampi mette nei guai soprattutto Botteghe Oscu­­­­­302

re. Nel momento più delicato, quando gli uomini del Pds sono chiamati a decidere se partecipare direttamente con i loro ministri al nuovo governo, sarebbe la prima volta che succede dal 1947, al vertice del Pds scoppia la guerra tra Occhetto e D’Alema. Il segretario è favorevole ad aprire a Ciampi: vuole cogliere l’occasione storica di partecipare alla nascita di un nuovo sistema politico, in fondo è il motivo per cui ha cambiato nome al partito. Il numero due, capogruppo alla Camera, vede con sospetto l’ingresso in scena di personaggi fuori dai partiti. «Precedenti di un presidente del Consiglio extraparlamentare? Forse Badoglio», spara nella riunione della segreteria. «Dopo il governatore della Banca d’Italia a chi tocca? Al capo di stato maggiore della Difesa?»71. Alla fine dopo mille convulsioni, isolato o quasi nella sua segreteria, Occhetto dà il via libera all’ingresso nel governo di tre ministri di area Pds: Vincenzo Visco, Luigi Berlinguer, Augusto Barbera. Sono le novità, i più festeggiati al giuramento del governo, insieme al verde Francesco Rutelli ministro dell’Ambiente, che arriva in impermeabile sul suo motorino Sh-Honda bianco e parcheggia dentro il cortile del Quirinale in mezzo alle auto blu. La cerimonia comincia con più di un’ora di ritardo per una questione di conflitto di competenze tra il neo-ministro Barbera e il dc Leopoldo Elia, poi finalmente si può iniziare. «Ciampi ha mostrato di trovarsi a suo agio a Capo del tavolo ovale», appunta Orefice, livornese come il nuovo presidente del Consiglio. «Ha esordito con una raccomandazione: ‘Odio gli orologi. Se il consiglio dei ministri è convocato alle 9 sono le 9 e non le 9 e 10. Se alla riunione di Basilea un partecipante arriva con un minuto di ritardo si scusa con i colleghi che lo guardano di traverso’». Una pignoleria che segna il cambio di stagione, il clima nuovo: il governo Ciampi, con i ministri della Dc di Martinazzoli, quel che resta del Psi e l’appoggio di Occhetto, è la grande occasione per guidare una via d’uscita positiva da Tangentopoli. Il leader della Lega, infatti, la prende malissimo: «Il governo Ciampi è un’accozzaglia che non può governare. Ciampi è un droghiere che ha mangiato i risparmi degli italiani», sbraita Bossi che annuncia la sua candidatura a sindaco di Milano: «Scalfaro si è messo contro 71

Claudio Petruccioli, Rendiconto cit., p. 149.

­­­­­303

il Nord, contro la Lega: Milano sarà la Stalingrado, la El Alamein del regime». Ma la verità è un’altra: alle dieci del mattino di quel 29 aprile la Lega è tagliata fuori da tutto. Nessuno o quasi ha fatto caso al calendario dei lavori della Camera che per quella giornata recita: «Esame delle autorizzazioni a procedere». Un appuntamento di routine, per un Parlamento che alla fine di due anni di legislatura vedrà 438 parlamentari inquisiti. Ma questa volta c’è uno spettacolo da non perdere, perché all’ordine del giorno ci sono le votazioni sulle inchieste che riguardano il personaggio numero uno di Tangentopoli, il Capro espiatorio, il Cinghialone, Bettino Craxi. Sembrano quasi essersi dimenticati di lui. Craxi non è più segretario del Psi da più di due mesi, non si fa più vedere a Montecitorio, è un ex fuori da tutto. E invece in questo Parlamento, nel Parlamento degli inquisiti, conta ancora moltissimo. È il vero capo del Partito dei Resistenti, altro che Pannella, l’unico leader carismatico del sistema che è già finito e che non vuole morire. E ancora una volta in quel pomeriggio, come in molte altre occasioni della storia italiana, i Resistenti si alleano con gli Sfascisti, un patto inconfessabile per distruggere la possibilità di una via di uscita riformista dalla lunga crisi. Nel segno di Craxi: perché il vecchio ancora una volta si dimostra molto più abile, scaltro e spregiudicato del nuovo. «La mattina giurano i ministri e il pomeriggio Craxi domina a Montecitorio, come la Callas alla Scala. Perché a nessuno, con un’elementare valutazione politica, è venuto in mente di mettere un po’ di distanza tra i due avvenimenti?», si chiede ancora oggi Claudio Petruccioli. «La sera prima, quando Occhetto chiedeva un po’ di tempo a Scalfaro, lui gli rispose che il governo doveva giurare al mattino perché nel pomeriggio c’erano le autorizzazioni a procedere. Occhetto coprì con una mano il telefono e chiese: domani ci sono le autorizzazioni a procedere?, come qualcosa di sorprendente e anche un po’ strano. Sì, rispose qualcuno, e non si aggiunse altro, tutto passò inosservato»72. Negli anni successivi Napolitano, presidente della Camera, ha ricordato che nessuno fece richiesta di cambiare il calenda72

Ivi, p. 176.

­­­­­304

rio: nessuno di quelli legittimati a farlo, i capigruppo. Nessuno alzò la mano per far notare che in quel modo, con quel timing così strampalato e con la previsione di sei votazioni a scrutinio segreto, si dava un’occasione colossale a chi aveva interesse a far saltare il governo appena costituito. Nessuno lo fece: compreso il capogruppo del Pds Massimo D’Alema, contrarissimo alla partecipazione del suo partito al governo Ciampi. La trappola scatta alle sei del pomeriggio, quando prende la parola Craxi. Come Callas alla Scala, già: perché il Paese che ha votato appena undici giorni prima al referendum per voltare pagina è lontano quella sera. La mattina l’ex segretario del Psi appare come un uomo disperato, «mai così profondamente inquieto, così apparentemente indifeso», lo ritrae Francesco Merlo sul “Corriere”, «appoggiato alla parete, la camicia aperta sulla pancia, mostra la famosa canottiera, persino la patta è sbottonata, la cravatta di maglina rossa è ridotta peggio di uno straccio». La cravatta rossa dei bei tempi, quando era un grande tra i grandi della Terra. Ma quando arriva il suo momento, in quest’aula stracolma, con le tribune piene di invitati come raramente accade, Craxi ritrova il piglio del leader. Ferito a morte, se li mangia ancora tutti. Parla 53 minuti, in un silenzio assoluto e irreale. «Circa dieci mesi orsono», comincia, «prendendo la parola alla Camera dissi con franchezza ciò che poi un ex presidente della Repubblica definì come l’apertura della Grande Confessione...». Fa una lunga auto-citazione del suo discorso alla Camera, quello del «tutti sapevano», accusa «il processo di criminalizzazione dei partiti e della classe politica che si è fatto strada con la forza di una valanga», ricorda i magici anni Ottanta in cui governava lui, «un ciclo di espansione e di sviluppo senza precedenti toccando le punte di sviluppo più alte tra i paesi dell’Europa industrializzata». E conclude rivolgendosi ai colleghi parlamentari: «Davvero siamo stati protagonisti, testimoni o complici di un dominio criminale?». Finisce e scappa via: «Se resto qui faccio soltanto confusione». Claudio Martelli lo vede scendere le scale, gli sorride, gli stringe la mano, dopo un anno di coltellate. «Ma nessuno di noi dice niente? Qui serve una replica politica», si infuria tra i banchi del Pds Petruccioli, fiutando l’aria. «Ma noooo...», risponde D’Alema. E invece l’appello craxiano ha funzionato. Perché quando si vota alle 19.15 il Morto afferra il Vivo, il Vecchio abbatte il Nuovo. ­­­­­305

Quattro autorizzazioni su sei sono respinte, in trecento deputati coperti dal voto segreto votano per dire no ai giudici di Milano. C’è un istante di calma attonita, quando Giorgio Napolitano legge i risultati delle votazioni. Poi scoppia il caos: urla, fascicoli che volano nell’emiciclo, i deputati della Lega lanciano volantini già preparati in precedenza, evidentemente, rissa, mani in faccia, giacche strappate, volti paonazzi, i commessi costretti a separare onorevoli che si azzannano tra di loro come furie assassine. Così il Parlamento degli inquisiti, per salvare il suo leader indiscusso, si suicida. Muore così, in modo violento, la Prima Repubblica. Ma finisce anche ogni possibilità del Sistema di rigenerarsi. E Craxi ottiene la sua ultima, paradossale vittoria. La distruzione di ogni alternativa. Hanno votato a favore di Craxi certamente i socialisti, una gran parte del gruppo democristiano, gli ex del pentapartito. Ma nel segreto nella maggioranza salva-Bettino sono confluiti soccorsi inaspettati: forse i leghisti che volevano far saltare il governo Ciampi e ci sono riusciti, forse alcuni deputati della Rete e di Rifondazione, forse i pidiessini contrari all’ingresso del partito nel governo. Resistenti e Sfascisti, quelli che puntano a conservarsi e quelli che vogliono far saltare tutto, si confondono, si mescolano, si scambiano i panni nel buio del voto segreto, uniti dalla volontà di spezzare il rinnovamento, di bloccare qualsiasi cambiamento. E sono l’ingenuità dei Riformisti, le loro divisioni, le lotte di potere, a rendere possibile questo esito catastrofico. È l’ora dei sospetti, dei serpenti sotto le foglie. «Oggi i ladroni hanno salvato il loro capobanda», esulta il missino Fini. «L’hanno salvato i porci democristiani, quel Rasputin che sta al Quirinale ha fatto naufragare la baracca degli zar in Russia», si scatena Bossi, visibilmente risollevato. «Usciamo subito dal governo. Con questi qui non possiamo più stare un minuto di più», sbotta Occhetto un minuto dopo il voto, stravolto. Sono lui e Ciampi le vere vittime del voto. C’è una fulminea riunione della segreteria del Pds a Montecitorio. «Noi dello staff del segretario eravamo tutti contrari ad abbandonare il governo, ma non ci fu tempo di discutere», ricorda Iginio Ariemma. «La decisione di sostenere Ciampi Occhetto l’aveva presa in solitudine, contro il volere di D’Alema. E dopo il voto su Craxi D’Alema si rafforzò moltissimo». Il governo Ciampi andrà avanti, fino alle elezioni anticipate del ­­­­­306

1994, ma senza una reale novità politica, azzoppato in partenza da quell’agguato parlamentare. I ministri che hanno giurato alle dieci del mattino, la svolta storica, la prima volta dei post-comunisti al governo, si dimettono alle nove di sera: la storia è stata una parentesi, sono durati appena undici ore. Va meglio a Rutelli, si dimette anche lui ma con il suo gesto conquista la candidatura a sindaco di Roma per le elezioni amministrative di autunno, una leadership che nasce tra le tante che in quel giorno si spengono. «Il giorno più grave della nostra storia repubblicana», scrive all’indomani Eugenio Scalfari. «Ciechi, sordi e suicidi», definisce Giulio Anselmi sul “Corriere” i trecento deputati con il volto coperto che hanno salvato Craxi. «Un nocciolo duro di malaffare politico», è ancora più sprezzante Ernesto Galli della Loggia. «Votando contro i giudici e a favore di Craxi la Camera ha votato contro ogni possibilità di svolta, testimoniando la sua verità tragica: il Paese può perire, ma non deve cambiare», scrive il direttore della “Stampa” Ezio Mauro. E per un giorno le piazze, quelle vere non quelle televisive, tornano a riempirsi in segno di protesta. Settemila persone di prima mattina di fronte al tribunale di Milano. Sciopero di due ore ad Ancona, in Liguria, al Mugello. Cortei spontanei in fabbrica a Torino, Catania, Palermo, Firenze, Bari. Occupazioni studentesche, con i docenti a fianco degli studenti. Giornali invasi dai fax. Ci si mette anche l’inserto settimanale del quotidiano spagnolo “El Pais” che piazza in copertina un disegno dove si vedono Craxi e Ilona Staller Cicciolina a seno nudo, incolpevole almeno lei in fondo, sotto la scritta «Porca Italia!». C’è un solo posto, in tutta Italia, dove si festeggia e si brinda. È l’hotel Raphael, l’ultimo party. C’è il nuovo delfino di Craxi Luca Josi, arriva l’ex direttore del Tg1 Bruno Vespa per un’intervista, a lui viene concessa, a quelli del Tg2 no, Craxi li considera dei traditori. L’ex segretario si gode il successo: «Vogliono una vittima da immolare, da sacrificare. Non cercano la mia sconfitta politica, cercano il rogo... Se volete un precedente andatevi a rileggere la Colonna infame e quella prefazione di Leonardo Sciascia. E poi che vogliono da me? Non è mica colpa mia quel voto. Pretendevano che non mi difendessi? La verità è che ci sono violenti che usano il loro potere in modo violento e avventurieri che cercano di pescare nel torbido». È seduto su un divano quando intorno alle 22 entra finalmente nell’albergo quartier generale l’amico di sem­­­­­307

pre. «Che rispetto potremmo avere di noi stessi se essendo amici di qualcuno da anni dovessimo voltargli le spalle proprio nei momenti della cattiva sorte e della difficoltà?», dice Silvio Berlusconi ai cronisti che lo vedono arrivare. «Sono amico di Bettino Craxi da vent’anni, e da amico, personalmente, sono contento per lui». Finisce così la Prima Repubblica. Con quell’omaggio di Berlusconi all’amico, che sembra una genuflessione e invece è un congedo. E con la pioggia di monetine e lo sventolare delle mille lire che accoglie Craxi all’uscita del Raphael il giorno dopo. Un gesto non fanatico, anzi a suo modo allegro, romanescamente beffardo, lo ricorda chi partecipò. Una nuova piazzale Loreto, per come è stato tramandato negli anni successivi dello scontro tra Berlusconi e i giudici, un tentativo di linciaggio in piazza di colui che aveva governato l’Italia degli anni Ottanta. Nell’uno e nell’altro caso, un rito di auto-assoluzione. Una brutta fine, come aveva previsto Noberto Bobbio già nel 1991: Ma dov’è il nemico? Il nemico è dentro di noi. Disfacimento indica una lenta inesorabile decadenza delle nostre istituzioni per insipienza, superficialità, disonestà degli uomini che se ne servono. Mi sembra di assistere, ormai vecchio, sfiduciato, spenta ormai ogni volontà di combattere, al fallimento di una classe politica, e non solo quella di governo (la crisi del comunismo non ha generato una nuova forza politica ma un coacervo di debolezze). Se questa Prima Repubblica, come dicono molti osservatori, è alla fine, finisce male, malissimo. Per chi come me appartiene alla generazione che ha assistito pieno di speranza alla sua nascita, questa constatazione è molto amara. La gestazione della Seconda Repubblica, se dovrà nascere, sarà lunga. Forse non avrò neppure il tempo di vederne la fine. Ma poiché, se nascerà, nascerà con gli stessi uomini che non solo sono falliti ma sono inconsapevoli del loro fallimento, non potrà nascere che male, malissimo. Come male e malissimo è finita la Prima (La disfatta della nostra Repubblica, “Tuttolibri”, 24 settembre 2011).

Vent’anni dopo

Il muro di Berlusconi è venuto giù lo stesso giorno del Muro di Berlino, nel tardo pomeriggio del 9 novembre 2011, quando con una doppia mossa a sorpresa il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha indicato la data di scadenza del premier uscente e ha designato il suo successore, nominando il professor Mario Monti senatore a vita. La corsa, in realtà, si era fermata il giorno prima, quando la maggioranza Pdl-Lega si è dissolta nell’aula di Montecitorio, in un clima reso ancor più funereo dalla commemorazione del deputato Pietro Franzoso, scomparso tragicamente una settimana prima. Le rose rosse deposte sul seggio. Il minuto di raccoglimento. Gli interventi dei colleghi. «Questa morte ci fa pensare alla fragilità umana, alle cose che veramente contano, in questa giornata particolare...», sospirava, cattolicamente, Pier Ferdinando Casini. Mentre Berlusconi compulsava un blocco di fogli bianchi, su cui scriverà per la gioia dei fotografi: otto traditori. Gli otto deputati del Pdl che lo hanno abbandonato: prima della lista, Gabriella “Iscariota” Carlucci... Per uno scherzo della storia, è stata lei a dare il via al nuovo 25 luglio. Una ex conduttrice tv entrata in politica è stata il Dino Grandi del berlusconismo. La Prima Repubblica finì in modo drammatico: stragi, suicidi, ex presidenti del Consiglio trascinati nei tribunali o in fuga all’estero. Uno scenario degno del crollo di un regime dittatoriale più che di un normale ricambio democratico. La caduta del berlusconismo, invece, è stata burocratica, con un voto parlamentare. Andreotti rovinò sulla strage di Capaci, Berlusconi è scivolato sul rendiconto dello Stato. Anche il popolo radunato fuori dal Quirinale la notte delle dimissioni del Cavaliere ricordava solo da lontano le monetine lanciate contro Craxi nel 1993. Nessuna bandiera di partito, solo il tricolore. Cori di insulti per Berlusconi, ma ancor più di approva­­­­­309

zione per Napolitano: «Grazie Giorgio!». E quando mai si era vista un’orchestra con strumenti e spartiti che intonava gioiosa l’Hallelujah di Haendel per festeggiare un governo che se ne va? Solo in un altro caso, in effetti: quando il grande Rostropovicˇ suonò il violoncello davanti alle macerie del Muro di Berlino. A celebrare l’addio dell’uomo di Arcore erano, quella sera, ragazzi e ragazze non ancora nati venti anni fa, il giorno dell’assedio all’hotel Raphael, o appena bambini. Una generazione intera che non ha conosciuto una forma politica diversa da quella del berlusconismo. La generazione della Seconda Repubblica, nata senza Resistenza, senza un atto di liberazione, fondata sull’eutanasia della Prima. E su un’auto-assoluzione collettiva. Quell’uscita di scena è stato l’atto finale di un periodo lungo, cominciato prima che la Repubblica dei partiti crollasse e proseguito oltre quel disastro. «Se si vuole analizzare la fine della Seconda Repubblica», ha scritto Barbara Spinelli, «bisogna fare quel che non si è fatto: capire perché la Prima cadde, e come. Riconoscere i mali che sopravvissero nella Seconda, e anche certe virtù che nella distruzione vennero spazzate via. Rimeditare la fine della Prima Repubblica significa svelare la vera natura della Seconda»73. Nel 1992-93, sotto la spinta degli avvenimenti, Tangentopoli apparve come una rottura. Una cesura paragonabile a quella di altre fasi di passaggio del Novecento italiano: il biennio 1921-22 con la nascita dei partiti di massa che precedette l’avvento del fascismo, il biennio 1943-45 della Nazione divisa e del ritorno alla democrazia. La scomparsa di un’intera classe dirigente, senza precedenti nell’Occidente del secondo dopoguerra, che nei decenni successivi ha trovato due contrapposte narrazioni. La prima recita: c’era una volta un sistema politico florido, che ben governava e che godeva del consenso popolare, un golpe mediatico-giudiziario lo ferì a morte... La seconda replica: c’era una volta un regime corrotto, arrivò un pool di giudici buoni con un pm venuto dalle campagne a spazzarlo via... Due letture, in fondo, consolatorie. Come se potesse essere solo questa la sede in cui scontrarsi: il Processo. Non quello pasoliniano, che sognava una rigenerazione etica, ma quello giudiziario, affidato 73 Barbara Spinelli, L’impotente grandezza del Cavaliere, “La Stampa”, 15 agosto 2010.

­­­­­310

all’accusa e alla difesa, alle condanne e alle prescrizioni. Ma la crisi della Prima Repubblica non fu provocata soltanto dall’offensiva della magistratura. «Fu dovuta», ha affermato Paul Ginsborg, «tanto ai vizi della democrazia italiana quanto alle sue virtù, e risulterebbe incomprensibile se non si considerassero insieme gli uni e le altre»74. L’ingresso dell’Italia nell’Europa di Maastricht firmato da Andreotti, da Gianni De Michelis e da Guido Carli che significa lotta all’indebitamento, rigore nei conti pubblici, il vincolo esterno che soffoca i classici strumenti di governo della politica nazionale, svalutazione delle monete, finanziamenti a pioggia, politiche di spesa, tutto ciò che aveva creato e garantito il benessere degli italiani. La crescita di peso delle élites tecnocratiche europee e la messa fuori gioco del vecchio ceto politico, non più funzionale al nuovo ordine. La fine della guerra fredda che in Italia, come aveva intuito Francesco Cossiga, si esprime con lo scongelamento dell’elettorato al Nord e con la rivolta civile contro la mafia nel Meridione. Un sistema politico che si percepisce come invincibile e che invece è già da tempo sopravvissuto a se stesso. La Prima Repubblica era simbolicamente morta quindici anni prima di Tangentopoli, il 9 maggio 1978, con il ritrovamento di quel cadavere «acciambellato in quella sconcia stiva, quell’abbiosciato sacco di già oscura carne fuori da ogni possibile rispondenza con il suo passato e con i suoi disegni, fuori atrocemente»75. Aldo Moro nella Renault rossa parcheggiata a metà strada tra piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure diventa il simbolo del mancato rinnovamento legato non solo alle alleanze di Palazzo. Perché fino a quel momento era stata la politica la leva privilegiata per cambiare il sistema: partiti, sindacati, congressi, scandali, lungaggini, svolte. Era la politica che, bene o male, rappresentava e modificava la società. Dopo, l’egemonia passa di mano. Le illusioni collettive lasciano il posto a quelle private. E arriva l’Illusionista. In circostanze torbide, con le stragi e le bombe che portano morte e distruzione fuori dalla Sicilia, con l’inserimento nel gran gioco – come in tutte le fasi di transizione della vicenda nazionale – dei tradizionali convitati di pietra, criminalità mafiosa, logge massoniche, 74 75

Paul Ginsborg, L’Italia del tempo presente cit., p. 472. Mario Luzi, Per il battesimo dei nostri frammenti, Garzanti, Milano 1985.

­­­­­311

poteri internazionali, le «menti raffinatissime» di cui parlava Giovanni Falcone, con una tutt’altro che improvvisata discesa in campo tocca all’ospite inatteso intercettare gli animal spirits del Nord e offrire rifugio ai naufraghi del precedente regime. È lui il vero beneficiario di Tangentopoli, l’unico condottiero dell’establishment che aveva conquistato le copertine dei magazine internazionali a restare indenne nelle inchieste giudiziarie fino a tutto il 1994. L’uomo del lavacro con cui una parte della società si assolve e ricomincia da capo. Un Caimano che devasta il residuo senso civico degli italiani, ma anche un Gattopardo che purifica da tutte le colpe e restituisce immacolati ai vecchi vizi, alle antiche abitudini. Silvio Berlusconi è il nuovo, ma – come è capitato in altre fasi della storia italiana – non è il diverso. «Uno dei passaggi più significativi del 1993», racconta Marco Follini, «è lo scontro tra Martinazzoli e Berlusconi. Martinazzoli si batteva per una veste nuova, Berlusconi ha rivoltato quella vecchia. Martinazzoli voleva rinnovare i costumi, Berlusconi ha rinnovato le apparenze». E sempre, nel corso della Seconda Repubblica, Berlusconi troverà un democristiano a ostacolarlo: avversari come Oscar Luigi Scalfaro, Prodi, Nino Andreatta, Rosy Bindi, alleati come Casini, Follini, Bruno Tabacci e perfino un suo ministro come Giuseppe Pisanu. Fino alle ultime ore del governo, quando alla Camera riapparirà un sopravvissuto di Tangentopoli, Paolo Cirino Pomicino. Nel 1992 aveva organizzato i franchi tiratori contro il candidato della Dc al Quirinale Forlani, nel 2011 è stato decisivo per strappare deputati al Cavaliere. L’ex ministro pattinava in Transatlantico, felice come un folletto. Sembrava voler interpretare la scena dello skateboard nel film Il Divo di Paolo Sorrentino, ma alla rovescia: lì la morte della Dc, qui la resurrezione. In questi vent’anni Tangentopoli non è mai finita: il tangentista ordinario, per così dire, routinario, continua ad affollare le procure e le pagine dei giornali a tutti i livelli, da quello nazionale a quello locale. Nell’ultima legislatura c’è stato il ministro indagato per collusioni mafiose, l’ex sottosegretario all’Economia sospettato di far parte del clan dei casalesi, l’ex capo della segreteria del maggior partito della sinistra finito sotto inchiesta per corruzione, per l’ex presidente della regione Sicilia Salvatore Cuffaro è scattata la pena da scontare per favoreggiamento della mafia, un senatore e un deputato sono finiti in carcere, con il Parlamento chiamato quasi ­­­­­312

ogni settimana a votare sulle autorizzazioni a procedere come due decenni fa. Ma è la natura del reato e della politica che è cambiata. Schematizzando: non si ruba più per fare politica, si entra in politica per rubare. Ieri c’erano i partiti che si trasformavano in comitati d’affari, oggi ci sono gli affaristi che si fanno eleggere. Ieri c’era il politico che si trasformava in banchiere, oggi il banchiere che dirige il partito. Le cricche informali hanno sostituito le direzioni di piazza del Gesù, di via del Corso e di Botteghe Oscure. Le candidature alle elezioni si decidono alle riunioni della P3, tra dossier e ricatti. Frutto avvelenato del conflitto di interessi, della privatizzazione della politica che ha trasformato i partiti in macchine al servizio del leader di turno, liste personali. Sarà per questo che Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano che inventò il pool dei primi anni Novanta, si è detto pentito del risultato: «Chiedo scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale». E nella personalizzazione della politica si è avverata trent’anni dopo la surreale previsione del direttore di “Op” Mino Pecorelli. La Pornopolitica è sbarcata in Parlamento, nel tempio della democrazia. Nel corso dei decenni repubblicani, si era discusso di conti svizzeri, bustarelle, massoni, discariche, camorristi, antilopi, baci mafiosi, scandali dei petroli, carceri d’oro, generali cospiratori. Con Berlusconi sono stati sostituiti da impresari artistici, cortigiani, starlette, escort, meteorine, papponi. E l’aula della Camera è stata chiamata a votare sulla nipotina di Mubarak. La carriera del Cavaliere era cominciata con la P2 ed è terminata con la B2: il Bunga Bunga. Una parte consistente della società italiana (non tutta) ha cambiato classe politica ma non ha mutato mentalità. Anzi, si è fatta dolcemente cullare da una realtà virtuale, fondali di cartapesta, cieli azzurri, jingles, volti liftati. Una nazione immobilizzata nell’eterno presente del Cavaliere, nel suo sorriso ormai senza età, nelle sue ossessioni personali tramutate nelle ossessioni di un intero popolo, sostenitori e oppositori. Un potere che si è creduto imperituro, come tutti i poteri che, arrivati al termine, vorrebbero nient’altro che questo: durare per sempre, non morire. Fino al drammatico risveglio. Un’altra fine, la fine della Seconda Repubblica, per certi versi non meno traumatica della Prima. Il ventennio berlusconiano si è concluso con l’Italia sull’orlo del fallimento non solo economico, come nel 1992 dell’attacco speculativo alla ­­­­­313

lira e della manovra del governo Amato da 93mila miliardi, il prelievo forzoso dai conti correnti, lo spettro della bancarotta. Ancora una volta la classe politica è stata costretta a ricorrere all’intervento di un commissario esterno. Ancora una volta è il Quirinale l’unica istituzione a restare in piedi e a gestire la transizione. Nel 1993 la decisione di Scalfaro di affidare la guida del governo a Carlo Azeglio Ciampi, il primo presidente del Consiglio non parlamentare della storia repubblicana, rappresentò un compromesso con i partiti, un governo tecnico-politico che non bastò a salvare le formazioni della Prima Repubblica. Nel 2011 un uomo di 86 anni che da ragazzo è entrato in politica come scelta di vita, il presidente Napolitano, ha pilotato con saggezza e con fantasia una crisi di governo che poteva precipitare in una crisi di sistema. Ma il governo di Mario Monti, chiamato per sua stessa ammissione a salvare la Patria dalla tempesta finanziaria, dal discredito internazionale, dalla disgregazione interna, appare come una disfatta dell’intera classe politica, una capitolazione. Una democrazia ancora più fragile, a rischio. Il populismo ha svuotato di senso la politica e il Parlamento. E dopo il fallimento sono arrivati i professori, i competenti, i tecnici a sgombrare le macerie. Un esito che lascia i partiti e le istituzioni rappresentative in un vuoto di fiducia senza precedenti, neppure nel biennio di Tangentopoli. All’epoca c’erano i parlamentari inquisiti contro cui sventolare cappi e lanciare monetine e i politici onesti supplicavano i loro elettori: distinguete, non siamo tutti uguali. Il Capro espiatorio è oggi la politica in blocco. Una Casta contestata per il solo fatto di esistere. Un costo inutile. Da eliminare. Oggi è possibile riconoscere che la Seconda Repubblica che aveva suscitato tante speranze è stata «un travestimento del vecchio ordine, più che una premessa di una nuova realtà», come aveva scritto Pietro Scoppola già nel 1991, segnalando il pericolo prima della fine del sistema politico fondato sui partiti76. Una falsa rivoluzione che ha condannato un’intera generazione, quella nata tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, a vivere in uno show ripetitivo, con l’audience crollata e gli attori invecchiati. Non man76 Pietro Scoppola, La Repubblica dei partiti, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 436-437.

­­­­­314

cano segnali di riscossa: a Milano, la città da cui partì Mani Pulite, è stato eletto sindaco Giuliano Pisapia, che fu avvocato negli anni di Tangentopoli e che rappresenta la necessità di riscoprire le virtù del senso civico e del bene comune. A Napoli, in una situazione di collasso, ha vinto a sorpresa un ex magistrato, Luigi De Magistris, uno sceriffo dotato di pieni poteri. Ma non basterà attendere un nuovo 1992, un nuovo colpo di sciacquone come quello di Mario Chiesa, un Salvatore della Patria in versione populista o tecnica. Può darsi che il futuro delle democrazie occidentali, non solo di quella italiana, sarà affidato all’alternativa tra populismo e tecnocrazia. Ma il problema resta lo stesso dei primi anni Novanta: non quello di far nascere una Terza repubblica al posto della Seconda fallita, ma quello di fondare, finalmente, una democrazia dei cittadini. Oggi, come allora, serve un coraggioso passaggio di riforma della Costituzione: un cambio di regole per rafforzare la politica e non per indebolirla. Serve, soprattutto, una ricostruzione civile, culturale, morale. Perché al termine di questo viaggio la società italiana si riscopre più rancorosa, più rabbiosa, più abbandonata a se stessa e al suo cahier infinito di recriminazioni e rivendicazioni. E l’Italia resta quella maledetta dal poeta Andrea Zanzotto, «incarognita di alluvioni, pidocchiosa, scompisciata»77. Eternamente in ostaggio tra la resistenza del vecchio a morire e la difficoltà del nuovo a nascere. Prigioniera del nemico che ci portiamo dentro. Sempre in attesa di un liberatore, per non dover affrontare finalmente la responsabilità, la fatica e la felicità di liberarsi da sola. 77

2011.

Andrea Zanzotto, Il fantasma delle origini, “la Repubblica”, 19 ottobre

Cronologia

1990 4 gennaio 7 gennaio 25 gennaio 2 febbraio 16 febbraio

7 marzo 24 marzo 10 aprile 6 maggio 23 maggio 8 giugno

29 giugno 26 luglio

Bettino Craxi viene ricoverato al San Raffaele di Milano dopo un malore. Inaugurato il nuovo centro congressi del Psi a Roma: l’ex cinema Belsito. Silvio Berlusconi conquista la Mondadori e viene nominato presidente. Esternazioni del presidente della Repubblica Francesco Cossiga in visita in Francia: «Da oggi mi toglierò qualche sassolino dalle scarpe». A Milano Raul Gardini rivendica: «La chimica sono io». Sono passati due anni dall’avvio delle trattative tra Eni e Montedison per dare vita al colosso Enimont, un anno dal debutto del titolo in Borsa. Il congresso del Pci a Bologna apre la fase costituente del nuovo partito. Comincia a Rimini l’Assemblea del Psi. Massimo D’Alema e Walter Veltroni salgono sul camper di Craxi. Il Senato approva in via definitiva la legge di amnistia per i reati commessi fino al 1989 con pena massima di quattro anni. Elezioni regionali. Boom di voti per la Lega di Umberto Bossi: 18,6 per cento in Lombardia, è il secondo partito della regione. Il Senato respinge la richiesta di autorizzazione a procedere per il socialista Antonio Natali, accusato di aver intascato una tangente per la Metropolitana milanese. Calcio d’inizio a Milano per i campionati mondiali di calcio, ospitati in Italia per la prima volta dal 1934. Notti magiche, come s’intitola l’inno della manifestazione, stadi kolossal e appalti miliardari che finiranno nelle inchieste di Mani Pulite. Berlusconi revocato dalla presidenza della Mondadori. Si dimettono cinque ministri della sinistra Dc contro l’approvazione della legge Mammì sull’emittenza privata for-

­­­­­316

temente voluta dalla Fininvest di Berlusconi. Andreotti li sostituisce in poche ore. 1° agosto Approvata la legge Mammì che fotografa il monopolio privato della Fininvest. 4 agosto Andreotti svela alla Commissione Stragi l’esistenza della struttura segreta Gladio. 21 settembre Assassinato ad Agrigento il giudice Rosario Livatino. Achille Occhetto presenta il nome della Cosa che sostitui­ 10 ottobre rà il Pci: Partito democratico della Sinistra. Il simbolo è una quercia con la vecchia falce e martello alle radici. 15 ottobre Antonio Gava lascia il Viminale per motivi di salute. Lo sostituisce Enzo Scotti. 23 ottobre Cossiga in visita in Inghilterra, ad Edimburgo, apre alla possibilità che il Pds possa andare al governo. Andreotti alla Camera riferisce sulle lettere di Moro e su Gladio. 5 novembre L’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando lascia la Dc. 22 novembre Divorzio in Enimont tra Gardini (Montedison) e l’Eni. 2 dicembre Convegno degli andreottiani a Bruzzano, alle porte di Milano, organizzato dal ministro del Bilancio Paolo Cirino Pomicino. Partecipa il gotha dell’imprenditoria. E “La Stampa” titola: L’industria scopre di amare Andreotti. 15 dicembre A Milano Silvio Berlusconi in seconde nozze sposa Miriam Bartolini, in arte Veronica Lario. Celebra il sindaco Paolo Pillitteri, testimoni Craxi e la moglie Anna, Fedele Confalonieri e Gianni Letta. 1991 24 gennaio

2 febbraio 4 febbraio 1° marzo 18 marzo 5 aprile

Sentenza della Corte d’Appello di Roma sul lodo Mondadori. La corte presieduta dal giudice Vittorio Metta annulla l’accordo tra la Cir di Carlo De Benedetti e la famiglia Formenton e dà ragione alla Fininvest di Berlusconi. Negli anni successivi i processi stabiliranno che la sentenza è stata comprata con la corruzione del giudice Metta. La Fininvest sarà obbligata a un maxi-risarcimento di 560 milioni di euro per la Cir. Nasce il movimento La Rete. Esce il primo numero del settimanale satirico “Cuore”. Achille Occhetto manca il quorum per l’elezione a segretario del Pds. Decreto del governo Andreotti contro le scarcerazioni dei boss mafiosi. Esordio televisivo della Lega di Bossi in uno speciale di Raitre condotto da Gad Lerner. Esce nelle sale il film Il portaborse di Daniele Luchetti.

­­­­­317

11 aprile 13 aprile 30 aprile

2 giugno 9 giugno 27 giugno 1° luglio 9 agosto 29 agosto 15 settembre 16 settembre 26 settembre

15 ottobre 24 novembre 29 novembre 1° dicembre 1992 13 gennaio

Nanni Moretti interpreta un ministro socialista rampante e corrotto. L’imprenditore palermitano Libero Grassi, ospite alla trasmissione di Michele Santoro Samarcanda, denuncia il racket della mafia. Nasce il settimo governo Andreotti. Il Pri di Giorgio La Malfa esce dalla maggioranza. L’accordo tra la Cir di De Benedetti e la Fininvest di Berlusconi, con la mediazione dell’andreottiano Giuseppe Ciarrapico, chiude la guerra di Segrate per il controllo della Mondadori. Andreotti nominato senatore a vita. Referendum sulla preferenza unica: 27 milioni dicono di sì. Sconfitto Craxi che aveva invitato ad astenersi, vince il comitato presieduto dal deputato dc Mario Segni. Congresso del Psi a Bari. Craxi legge la relazione in camicia, inzuppato di sudore: il discorso della canottiera. Moody’s declassa l’Italia mentre Andreotti festeggia a Palazzo Farnese la nomina a senatore a vita. Assassinato in Calabria il sostituto procuratore generale di Cassazione Antonino Scopelliti. Libero Grassi assassinato a Palermo. Al convegno degli industriali di Cernobbio, Cesare Romiti invoca un ricambio di governo. Replica di Forlani: «Non prendiamo ordini dai pistoleros». Prima puntata su Italia Uno di Mezzogiorno italiano, il programma di Gianfranco Funari con i politici intervistati all’ora di pranzo. Per cinque ore va in onda la serata televisiva in memoria di Libero Grassi: una staffetta tra Raitre e Canale Cinque, con Michele Santoro a Palermo e Maurizio Costanzo a Roma. Undici milioni di telespettatori. «Un rito liberatorio», scrive “Le Monde”. Prima puntata su Raitre di Profondo Nord, condotto da Gad Lerner. Elezioni comunali a Brescia. Tracollo della Dc, successo della Lega. Assemblea della Dc ad Assago. Il cardinale Carlo Maria Martini legge ai capi democristiani la parabola evangelica del fico diventato sterile. Eugenio Scalfari su “Repubblica” lancia l’idea della Lega nazionale, il partito degli onesti. Cominciano le trasmissioni del Tg5, diretto da Enrico

­­­­­318

30 gennaio 7 febbraio 17 febbraio

24 febbraio 3 marzo 12 marzo 17 marzo 18 marzo 5 aprile

24 aprile 25 aprile 27 aprile 28 aprile

30 aprile 1° maggio 2 maggio

Mentana. «Da oggi», commenta Gianni Letta, «parte l’era dell’informazione Fininvest». Puntata di Samarcanda dedicata al Partito che non c’è con un duro scontro in studio tra il socialista Roberto Villetti e Eugenio Scalfari. Cinque milioni di telespettatori. Andreotti firma a Maastricht il trattato dell’Unione economica e monetaria europea che impone all’Italia vincoli di bilancio. Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, socialista, viene arrestato mentre incassa una mazzetta di 7 milioni di lire su ordine del pm Antonio Di Pietro. Comincia Tangentopoli. In un sondaggio Berlusconi risulta il personaggio più amato dai bambini italiani, prima di Cossiga e di Gesù. Dichiarazione di Craxi al Tg3: «Chiesa è un mariuolo». L’europarlamentare dc Salvo Lima, andreottiano, viene assassinato dalla mafia a Palermo. Mario Segni propone un patto trasversale per la riforma elettorale. Aderiscono 457 candidati di tutti i partiti, tranne Psi e Lega. Il ministro dell’Interno Enzo Scotti diffonde una circolare ai prefetti in cui si parla dell’esistenza di un «piano destabilizzante». Elezioni politiche terremoto. Per la prima volta nella storia la Dc scende sotto il 30 per cento, 2 milioni di voti in meno. Il Psi cala dal 14,3 al 13,6 per cento. Il Pds all’esordio si ferma al 16,1, dieci punti in meno del Pci. La Lega vola: dallo 0,7 all’8,7. Oscar Luigi Scalfaro eletto presidente della Camera, Giovanni Spadolini confermato al Senato. Cossiga si dimette. A San Diego il Moro di Raul Gardini vince la sesta regata della Coppa America. Arrestato a Milano il socialista Matteo Carriera, presidente dell’Ipab. Il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli affianca a Di Pietro il pm Gherardo Colombo. Con l’aggiunto Gerardo D’Ambrosio e Piercamillo Davigo formeranno il pool Mani Pulite. Arrestati a Milano i pidiessini Sergio Soave e Epifanio Li Calzi. Avvisi di garanzia agli ex sindaci di Milano, i socialisti Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri. Primo editoriale del “Corriere della Sera” su Tangento-

­­­­­319

4 maggio 6 maggio

7 maggio 11 maggio 12 maggio 13 maggio 16 maggio 19 maggio 22 maggio 23 maggio

25 maggio 27 maggio 28 maggio

2 giugno

poli firmato da Giulio Anselmi, La torta è finita: pieno appoggio ai giudici. La direzione del Psi invia Giuliano Amato come commissario del partito a Milano. Craxi: «Sto compilando la lista degli sciacalli, degli ipocriti e dei falsi moralizzatori». Nuovi arresti a Milano: il segretario regionale della Dc Gianstefano Frigerio e il tesoriere Maurizio Prada, il socialista Sergio Radaelli, l’ex senatore Augusto Rezzonico, l’amministratore delegato della Cogefar Enzo Papi, il consigliere comunale del Pds Massimo Ferlini. Carlo Freccero costretto a lasciare la direzione di Italia Uno. Discorso di Andreotti al Viminale: «Meritiamo l’Inferno...». Primo avviso di garanzia al tesoriere della Dc Severino Citaristi. Ne totalizzerà 72. Cominciano le votazioni per l’elezione del presidente della Repubblica, tra monetine, striscioni e manette nell’aula di Montecitorio agitate dai deputati del Msi. Avviso di garanzia per il repubblicano Antonio Del Pennino. Forlani, candidato al Quirinale del quadripartito, viene bruciato dai franchi tiratori. Nuovi arresti a Milano: l’assessore socialista Walter Armanini, il segretario cittadino del Pds Roberto Cappellini, il repubblicano Giacomo Properzj. Il socialista Giuliano Vassalli bruciato dai franchi tiratori. Forlani si dimette da segretario della Dc. Strage di Capaci: uccisi con un’esplosione sull’autostrada Trapani-Palermo Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, gli agenti di scorta Antonio Montinari, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Funerali a Palermo di Falcone e degli agenti. Esplode la rabbia della folla. La vedova Schifani accusa gli uomini della mafia presenti nella cattedrale. Alle nove di sera, con 672 voti, Scalfaro viene eletto presidente della Repubblica. Avviso di garanzia per Gianni Cervetti, Pds, capo della corrente migliorista. Occhetto annuncia a Samarcanda di voler fare «una seconda Bolognina», una nuova svolta per trasformare il Pds in un «partito leggero», una nuova svolta contro l’apparato «coinvolto nell’affarismo e negli illeciti». Convegno sul panfilo della famiglia reale inglese Britannia al largo di Civitavecchia. Partecipano numerosi esponenti

­­­­­320

3 giugno

8 giugno 10 giugno 11 giugno 16 giugno 17 giugno 18 giugno 25 giugno 26 giugno 28 giugno 3 luglio 5 luglio 8 luglio 14 luglio 16 luglio 17 luglio 19 luglio

21 luglio 29 luglio

dell’economia e della finanza italiana, tra cui il direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Mentre partono le trattative per la formazione del nuovo governo, il Tg1 delle 20 dà la notizia di un coinvolgimento di Craxi nell’inchiesta Mani Pulite. Due ore dopo Di Pietro smentisce. Giorgio Napolitano (Pds) eletto presidente della Camera. Arresti a Milano: il presidente dell’Italstat Alberto Mario Zamorani, il socialista Claudio Dini, amico di Craxi. Consultazioni al Quirinale. Craxi dice no all’appoggio di «un governicolo». Si sente ancora il candidato numero uno a Palazzo Chigi. Mandato di cattura per l’architetto Silvano Larini, socialista, latitante. Incontro Scalfaro-Craxi. Il segretario del Psi decide il passo indietro. Si uccide il segretario del Psi di Lodi Renato Amorese. Il primo suicida di Tangentopoli. Giuliano Amato incaricato di formare il governo. La Dc impone l’incompatibilità tra la carica di ministro e di parlamentare. Arrestato il segretario lombardo del Psi Andrea Parini. Nasce il governo Amato. Intervento di Craxi alla Camera: «Tutti i partiti ricorrono a un finanziamento irregolare o illegale. Chi lo nega è uno spergiuro». Amato annuncia una manovra economica da 30mila miliardi. Intervista di Enzo Biagi a Di Pietro sul “Corriere”: Vi racconto le mie mani pulite. Avviso di garanzia per l’ex ministro socialista Gianni De Michelis. Arrestato l’imprenditore Salvatore Ligresti, uno degli uomini più ricchi d’Italia. Avvisi di garanzia per i parlamentari democristiani Bruno Tabacci e Silvio Lega. Strage di via D’Amelio: con un’autobomba a Palermo la mafia uccide il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Claudio Traina e Emanuela Loi. Ai funerali di Borsellino la folla si scaglia contro Scalfaro e il capo della Polizia Parisi. Sospeso dalla Fininvest il programma di Funari Mezzogiorno italiano. Enzo Scotti si dimette da ministro degli Esteri.

­­­­­321

13 agosto

Il ministro socialdemocratico Maurizio Pagani annuncia di aver rilasciato le concessioni televisive previste dalla legge Mammì: le tre reti Fininvest più Videomusic, Rete A e Tmc. 22 agosto Editoriale dell’“Avanti!” contro il pm Di Pietro: «Non è tutto oro ciò che riluce...». 26 agosto Segreteria del Psi. Rino Formica: «Contro Di Pietro Craxi ha un poker d’assi». 2 settembre A Brescia si uccide il deputato del Psi Sergio Moroni, inquisito, per protesta contro «il processo sommario e violento» nei confronti della classe politica. Paolo Mieli nominato direttore del “Corriere della Sera”, Ezio Mauro alla direzione della “Stampa”. 8 settembre Alla festa dell’Unità di Reggio Emilia Giampaolo Pansa chiede le dimissioni di Occhetto, la folla dei militanti della Quercia applaude. 12 settembre Martelli sfida Craxi: «Una nuova guida per il Psi». 13 settembre Il governo Amato svaluta la lira del 7 per cento. Forlani conclude la festa dell’Amicizia della Dc a Pesaro sulle note di Rossini. Sarà l’ultima kermesse dello Scudocrociato. 16 settembre Il mercoledì nero delle valute. La lira e la sterlina escono dallo Sme. 23 settembre A Saint-Vincent Berlusconi avverte: «Bisognerebbe affidare l’Azienda Italia a un imprenditore: la rimetterebbe a posto in cinque anni». 28 settembre Elezioni provinciali a Mantova. Lega primo partito, Dc e Psi dimezzati. Forlani conferma le dimissioni da segretario della Dc. 30 settembre Arrestata l’intera giunta regionale abruzzese. 12 ottobre Mino Martinazzoli eletto per acclamazione segretario della Dc. 2 novembre Muore per un infarto il tesoriere del Psi Vincenzo Balzamo. Il 15 ottobre aveva ricevuto un avviso di garanzia. 25 novembre Scontro tra Craxi e Martelli all’assemblea nazionale del Psi. 3 dicembre Si suicida a Palermo il giudice Domenico Signorino accusato da un pentito. 14 dicembre Elezioni comunali a Monza e a Varese: la Lega vola al 40 per cento. 15 dicembre Avviso di garanzia a Craxi per corruzione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti. Il segretario del Psi rifiuta di dimettersi.

­­­­­322

1993 15 gennaio 20 gennaio 9 febbraio

10 febbraio 11 febbraio 14 febbraio 16 febbraio 19 febbraio 22 febbraio 25 febbraio 27 febbraio 1° marzo 2 marzo 4 marzo 6 marzo

7 marzo 9 marzo

I carabinieri del Ros arrestano il capo della mafia Totò Riina, latitante da 23 anni. Comincia l’inchiesta sulla maxi-tangente dell’affare Enimont, la mancata fusione tra Eni e Montedison. Silvano Larini ammette di essere il titolare del conto Protezione, il versamento di 7 milioni di dollari del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, di cui avrebbero usufruito Craxi e Martelli. Intervista di Berlusconi alla “Stampa”: Basta con i politici di mestiere. Claudio Martelli si dimette da ministro della Giustizia e lascia il Psi. Dopo sedici anni Craxi lascia la leadership socialista. Il nuovo segretario è Giorgio Benvenuto. Massimo D’Alema attacca Di Pietro: «Trovo penosi i politici che vanno in ginocchio da lui». Craxi riceve il settimo avviso di garanzia. Arrestata la segretaria Vincenza Tomaselli. Si dimettono i ministri Giovanni Goria (Dc) e Francesco De Lorenzo (Pli). Arrestato a Milano Enzo Carra, l’ex portavoce del segretario della Dc Forlani. Arrestati Francesco Paolo Mattioli e Antonio Mosconi, top manager della Fiat. Avviso di garanzia per il segretario del Pri Giorgio La Malfa. Ritrovato nelle campagne romane, sfigurato dagli animali, il corpo di Sergio Castellari, direttore generale del ministero delle Partecipazioni Statali. Occhetto smentisce l’esistenza di conti esteri del Pds. Arrestato Primo Greganti del Pds, titolare del conto Gabbietta in Svizzera. Ciriaco De Mita si dimette dalla presidenza della Bicamerale dopo l’arresto del fratello Michele. Processo per direttissima a Carra. L’ex portavoce della Dc appare in manette nell’aula del tribunale davanti a fotografi e telecamere. Il governo Amato approva il decreto Conso per la depenalizzazione del reato di violazione del finanziamento pubblico dei partiti, la cancellazione del reato cardine di Tangentopoli, il colpo di spugna. Ma il presidente Scalfaro si rifiuta di firmare. Carlo Ripa di Meana lascia il ministero dell’Ambiente. Arrestato il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari.

­­­­­323

16 marzo 19 marzo 20 marzo

21 marzo 26 marzo 27 marzo 28 marzo 29 marzo 30 marzo 31 marzo 1° aprile 4 aprile 5 aprile 6 aprile

8 aprile 14 aprile 17 aprile 19 aprile 22 aprile 26 aprile

Il deputato della Lega Luca Leoni Orsenigo sventola un cappio nell’aula della Camera. Il deputato napoletano dc Alfredo Vito, «mister centomila preferenze», si auto-accusa delle mazzette incassate e restituisce 4 miliardi di lire al Comune di Napoli. Prima convention del movimento Alleanza Democratica con Mario Segni. Sul palco Ferdinando Adornato, Willer Bordon, Giuseppe Ayala e Giovanna Melandri cantano Adelante insieme a Francesco De Gregori. Avviso di garanzia e dimissioni per Gianni Fontana, ministro dell’Agricoltura, Dc. Avvisi di garanzia per diciotto parlamentari napoletani: tra loro Scotti, Cirino Pomicino, Di Donato, De Lorenzo. Alle 17.34 l’Ansa batte la notizia: Andreotti indagato a Palermo per «attività mafiosa». In seguito alle dichiarazioni del pentito Pasquale Galasso, la Procura di Napoli indaga Antonio Gava come referente politico della camorra. Mario Segni lascia la Dc. Si dimette dalle Finanze il socialista Franco Reviglio: è il settimo ministro a lasciare il governo Amato. Sui tabelloni pubblicitari appare uno strano manifesto. Un bambino che sorride sotto la scritta «Fozza Itaia». Manifestazione dei giovani del Msi di fronte al portone della Camera, scheggiato da una monetina. Incontro tra Berlusconi e Craxi ad Arcore: «Bisogna trovare un’etichetta, un simbolo, un nome nuovo», suggerisce l’ex segretario del Psi. Avviso di garanzia per Arnaldo Forlani. La Commissione Antimafia presieduta dal pidiessino Luciano Violante approva una relazione in cui si accusano le collusioni tra la corrente andreottiana e la mafia in Sicilia. La Dc vota a favore. Gianni Letta, vice-presidente della Fininvest, interrogato da Di Pietro. Andreotti di fronte alla giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato. In un convegno a Venezia Gianni Agnelli ammette che la Fiat ha pagato tangenti. Referendum elettorale. Grande vittoria dei sì, l’82,7 per cento è favorevole al sistema maggioritario. Il 90 per cento vota per abrogare il finanziamento pubblico ai partiti. Il governo Amato si dimette. Il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi incaricato di formare il nuovo governo. È il primo presi-

­­­­­324

28 aprile 29 aprile

30 aprile



11 maggio 12 maggio 13 maggio 14 maggio 15 maggio 16 maggio 21 maggio 27 maggio 2 giugno 6 giugno 9 giugno 18 giugno 20 giugno

dente del Consiglio non parlamentare e non iscritto a un partito della storia repubblicana. Ciampi presenta la lista dei ministri. Entrano per la prima volta tre ministri del Pds (Vincenzo Visco, Luigi Berlinguer, Augusto Barbera) e il verde Francesco Rutelli. Alle 10 giura al Quirinale il governo Ciampi. Alle sette di sera la Camera dice no con voto segreto per quattro volte all’autorizzazione a procedere per Craxi. Alle nove di sera i ministri pidiessini e Rutelli si dimettono. Manifestazioni in tutta Italia contro il salvataggio di Craxi. A Roma un gruppo di manifestanti lancia oggetti e monetine contro l’ex segretario del Psi davanti all’hotel Raphael. Ritrovato nell’Adige il cadavere dell’ex segretario amministrativo della Dc di Rovigo Gino Mazzolaio, scomparso da giorni. Era stato arrestato un mese prima e rimesso in libertà. Arrestato Renato Pollini, ex segretario amministrativo del Pci. Arrestato il presidente dell’Iri Franco Nobili. Con un voto per alzata di mano il Senato concede l’autorizzazione a procedere per Andreotti. Bomba in via Ruggero Fauro al quartiere Parioli di Roma contro il conduttore Maurizio Costanzo, illeso. Romano Prodi torna alla presidenza dell’Iri. Dichiarazioni spontanee dell’ingegner Carlo De Benedetti alla Procura di Milano. Avviso di garanzia per l’amministratore delegato della Fiat Cesare Romiti. Autobomba a Firenze, in via dei Georgofili. Muoiono cinque persone, tra cui l’intera famiglia Nencioni con le due sorelline Caterina e Nadia. A Roma, in via dei Sabini, a 100 metri da Palazzo Chigi, viene scoperta una bomba rivendicata dalla sigla Falange Armata. Crollano i partiti di governo al primo turno delle amministrative con l’elezione diretta del sindaco. La Procura di Roma chiede l’autorizzazione a procedere contro Andreotti per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Arrestato Aldo Brancher, ex prete, manager della Fininvest, indagato per le campagne pubblicitarie dei partiti. Il leghista Marco Formentini sconfigge Nando dalla Chiesa e viene eletto sindaco di Milano. La Dc travolta: solo 7 sindaci su 61.

­­­­­325

22 giugno

Prima perquisizione degli uffici Fininvest su ordine del pm Margherita Taddei per un giro di frodi fiscali. Ad Arcore Berlusconi accoglie la Guardia di Finanza. Fedele Confalonieri interrogato dal pm milanese Paolo Ielo. 25 giugno Il segretario regionale della Dc veneta Rosy Bindi lancia da Belluno l’idea di un nuovo partito. 30 giugno Sì del Senato all’autorizzazione a procedere contro Andreotti per l’omicidio Pecorelli. 20 luglio L’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari si suicida nel carcere di San Vittore soffocandosi con un sacchetto di plastica. Era detenuto da 134 giorni. 23 luglio Nella sua casa milanese di piazza Belgioioso Raul Gardini si uccide con un colpo di pistola. Era atteso in Procura dal pm Di Pietro. 25 luglio Assemblea costituente all’Eur, la Dc di Martinazzoli torna all’antico nome: Partito popolare italiano. La Balena Bianca chiude con le note del concerto per pianoforte e orchestra in do maggiore K 467 di Mozart. 27 luglio Alle 23.14 un’autobomba esplode in via Palestro a Milano davanti alla Villa Reale, uccidendo cinque persone: tre pompieri, un vigile urbano e un immigrato dal Marocco. Poco dopo a Roma due ordigni devastano la Basilica di San Giovanni in Laterano e la chiesa di San Giorgio al Velabro. Il centralino di Palazzo Chigi rimane isolato per alcune ore. 29 luglio Avvisi di garanzia per l’affare Enimont a Craxi, Forlani, Cirino Pomicino, Martelli e Citaristi. 30 luglio Craxi annuncia di volersi allontanare dall’Italia. 3 agosto Ordine di custodia per il giornalista dell’Ansa Luigi Bisignani, per il caso Enimont, latitante. 4 agosto Approvata la nuova legge elettorale, relatore il dc Sergio Mattarella, il cosiddetto «Mattarellum»: il 75 per cento dei parlamentari eletti con i collegi uninominali, il 25 con una quota proporzionale tra i partiti. 24 agosto Avviso di garanzia per il tesoriere del Pds Marcello Stefanini. 27 agosto La Procura di Milano chiede il giudizio immediato per il finanziere Sergio Cusani arrestato nell’ambito dell’inchiesta Enimont. 14 settembre Il segretario del Msi Gianfranco Fini si candida a sindaco di Roma. 15 settembre Ucciso a Palermo don Pino Puglisi, prete antimafia. 19 settembre Arrestato il responsabile del patrimonio immobiliare del Pds Marco Fredda mentre Occhetto conclude la festa

­­­­­326

dell’Unità a Bologna. La Finanza perquisisce la sede nazionale di Botteghe Oscure. 30 settembre Segni lascia Alleanza Democratica: «Voglio lavorare a un terzo polo». 1° ottobre Scalfaro critica la Camera che ha respinto la richiesta di arresto per De Lorenzo e afferma che scioglierà le Camere dopo il completamento della riforma elettorale. 29 ottobre Inchiesta sui fondi riservati dei servizi segreti: arrestato a Roma l’ex direttore del Sisde Riccardo Malpica. L’ex direttore amministrativo del Sisde Maurizio Broccoletti chiama in causa i ministri dell’Interno degli ultimi dieci anni, compreso Scalfaro. 3 novembre Scalfaro appare in televisione e denuncia un tentativo di destabilizzare lo Stato: «Prima si è tentato con le bombe, ora con gli scandali. Io non ci sto». Quella notte la Cgil diffonde un appello in cui invita i militanti alla vigilanza e alla mobilitazione, «nell’eventualità che si determini una minaccia effettiva alle istituzioni democratiche». 5 novembre Il ministro della Giustizia Conso firma un provvedimento di revoca del 41 bis per 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone. 21 novembre Elezioni comunali shock. La Dc e i partiti di centro restano fuori dai ballottaggi. Lo scontro a Roma e a Napoli è sinistra contro destra: Rutelli e Fini, Bassolino e Mussolini. Plebiscito per Orlando sindaco di Palermo: il 76 per cento. 23 novembre Prima uscita politica di Berlusconi, all’inaugurazione di un ipermercato a Casalecchio di Reno, vicino Bologna: «Se fossi a Roma, nessun dubbio, voterei per Fini. Rappresenta quell’area moderata che può garantire un futuro al Paese». 24 novembre Pubblicato l’opuscolo Alla ricerca del Buongoverno. Appello per la costituzione di un’Italia vincente, il primo manifesto politico del progetto Forza Italia. 5 dicembre Vittoria dei Progressisti al ballottaggio delle amministrative: Rutelli sindaco a Roma, Bassolino a Napoli, Massimo Cacciari a Venezia, Adriano Sansa a Genova, Riccardo Illy a Trieste. 7 dicembre Il tesoriere della Lega Alessandro Patelli arrestato con l’accusa di aver ricevuto una tangente di 200 milioni dalla Montedison: la quota per il Carroccio nell’affare Enimont. 11 dicembre Progetto di costituzione della Lega: un’Unione italiana, formata dalla Repubblica padana, dell’Etruria, da quella del Sud e dalle regioni autonome esistenti.

­­­­­327

17 dicembre 18 dicembre 20 dicembre 21 dicembre 29 dicembre 1994 2 gennaio 6 gennaio

16 gennaio 18 gennaio

19 gennaio

26 gennaio

Il Msi approva la svolta di Fini: la trasformazione in Alleanza nazionale. Al processo Cusani-Enimont Di Pietro interroga gli ex segretari di Dc e Psi Craxi e Forlani. La Prima Repubblica va alla sbarra. Martinazzoli e Berlusconi si incontrano a Brescia. Il Cavaliere assicura: «Sono pronto a farmi da parte». Umberto Bossi indagato per violazione della legge sul finanziamento dei partiti. Incontro a Roma tra Berlusconi e Fini. Secondo e ultimo incontro tra Martinazzoli e Berlusconi: il segretario della Dc va ad Arcore. Incontro segreto tra Berlusconi e Bossi. Emilio Fede, direttore del Tg4, chiede in diretta le dimissioni di Indro Montanelli dalla direzione del “Giornale” perché appoggia Segni e non Berlusconi. L’11 Montanelli lascia il quotidiano della famiglia Berlusconi. Lo sostituisce il direttore dell’“Indipendente” Vittorio Feltri. Scalfaro scioglie le Camere: si voterà il 27 marzo. Martinazzoli chiude con l’era della Dc, nasce il Ppi, Partito popolare italiano. Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella lasciano il partito e fondano il Ccd, Centro cristiano democratico. Ultimatum di Berlusconi: «Entro la fine della settimana Segni e Martinazzoli devono dire se aderiscono al polo liberal-democratico, altrimenti mi vedrò costretto a scendere direttamente in campo». Berlusconi spedisce alle reti televisive il suo messaggio videoregistrato: «L’Italia è il paese che amo...». Alle 17.30 è il Tg4 di Fede il primo a mandarlo in onda. Nove minuti in cui la parola più ripetuta è «libertà», sette volte. Doppiopetto grigio, libreria alle spalle, cornici sulla scrivania, la calza sulla telecamera per dare calore. È la nascita di Forza Italia, la discesa in campo per «un nuovo miracolo italiano». Comincia la Seconda Repubblica.

Indice dei nomi*

Acquaviva, Gennaro, 128. Agnelli, Gianni, 46, 49, 121, 140, 195, 245, 250-251, 253, 266-267, 270, 287, 290-293. Agnelli, Umberto, 45, 248, 250. Agnes, Biagio, 31. Agrusti, Michelangelo, 107, 201. Aiello, Francesco, 158. Ajello, Nello, 267. Albertazzi, Giorgio, 147. Alecci, Nadia, 197. Alemanno, Gianni, 228. Alessandra, nipote di Vittorio Orefice, 21. Alessandrini, Emilio, 120. Alfano, Angelino, 209. Allen, Woody, 68. Almirante, Giorgio, 228. Altan (Francesco Tullio Altan), 135. Alterio, Giovanni, 106, 207. Amato, Giuliano, 10, 49, 59, 82, 94, 105, 124, 126, 128, 132, 135-138, 158, 180, 189, 212, 214-215, 218, 230-231, 265-266, 274, 291, 301302, 314. Amato, Nicolò, 243. Ambrosoli, Giorgio, 107. Amendola, Giorgio, 41, 67. Amodio, Ennio, 169. Amorese, Renato, 126-127, 182, 184. Andreatta, Beniamino (Nino), 134, 180, 312. Andreotti, Giulio, 4, 6, 11, 20, 22-25, 27-28, 31-32, 34-35, 40-41, 45-49,

57, 63, 70, 83, 88-92, 95-96, 101104, 107-111, 113, 130, 141, 165, 181-182, 192-194, 201, 204, 214, 230, 255-258, 262, 268, 275, 286289, 295-299, 301, 309, 311. Andy Warhol, 53. Angiolillo, Renato, 30. Angius, Gavino, 70. Anselmi, Giulio, 94, 112, 138, 140145, 307. Anselmi, Tina, 58. Anzalone, geometra (estortore di Libero Grassi), 65. Apuzzo, Stefano, 100, 106. Ariemma, Iginio, 41, 222-224, 306. Arizzi, Carlo, 77. Armani, Giorgio, 60. Armanini, Walter, 106. Ayala, Giuseppe, 108. Badoglio, Pietro, 303. Baldassarri, Mario, 134, 235. Baldoni, Enzo, 119. Balzamo, Vincenzo, 20, 184, 202, 215, 260, 268, 287. Banfi, Rodolfo, 17. Barbacetto, Gianni, 62. Barbalace, Francesco, 233. Barbera, Augusto, 303. Barcelloni, Gianni, 196. Bartolini, Miriam, vedi Lario, Veronica. Baslini, Antonio, 61. Bassanini, Franco, 41, 70.

* Non sono indicizzati i nomi delle note e della Cronologia.

­­­­­329

Boldi, Massimo, 260. Boldrini, Arrigo (partigiano Von Bulow), 299. Bolzoni, Attilio, 111. Bongiorno, Mike, 61, 107, 119, 270, 277. Boniver, Margherita, 215. Bonomi, Aldo, 84. Bonsignore, Vito, 131. Borghezio, Mario, 105. Borghini, Piero, 19, 33. Borrelli, Francesco Saverio, 19, 50, 94, 117, 120, 143, 245-246, 284, 291, 313. Borromeo, Carlo, santo, 48. Borromeo, Federico, 48. Borromini, Francesco, 298. Borsano, Gian Mauro, 99. Borsellino, Paolo, 138-139, 155. Bossi, Umberto, 59, 61, 67, 74-79, 81, 83-85, 91, 99, 104, 108, 148, 151, 153-154, 157, 186-188, 194, 198, 205, 213, 228, 233, 260, 268-270, 282, 290, 303, 306. Bovio, Corso, 197. Brambilla, Michele, 19, 141. Brancaccio, Bruno, 229. Brancher, Aldo, 282. Braun, Eva, 90. Brecht, Bertolt, 256-257. Brera, Paolo, 62. Brosio, Paolo, 244, 272-273. Bruti Liberati, Edmondo, 116. Buber, Martin, 191. Buccini, Goffredo, 141. Buontempo, Teodoro, 100, 227-228, 230-231. Buscetta, Tomasino, 202. Buttiglione, Rocco, 238. Buzio, Roberto, 271. Buzzolan, Ugo, 5.

Bassolino, Antonio, 161. Battiato, Franco, 67. Battista, Pierluigi, 86. Bava Beccaris, Fiorenzo, 215. Bazoli, Giovanni, 134. Beale, Howard, 155. Benigno, Nando, 62. Bennato, Edoardo, 68. Benvenuto, Giorgio, 217. Beria (Berija), Lavrentij Pavlovič, 42. Beria di Argentine, Chiara, 94. Berlenghi, Costantino, 21. Berlinguer, Enrico, 33, 41, 122, 150, 222. Berlinguer, Luigi, 303. Berlusconi, Barbara, 12. Berlusconi, Marina, 12. Berlusconi, Paolo, 273. Berlusconi, Pier Silvio, 12. Berlusconi, Silvio, 5-7, 9, 12, 29, 32, 34, 60-61, 81, 100, 114, 116, 119, 121, 124, 131, 133, 141, 145, 150, 155-157, 161-164, 166-167, 174, 180, 185-186, 209, 211, 229, 238, 244-245, 247-250, 253-285, 288289, 291-293, 299, 308, 312-313. Bernabei, Ettore, 31, 170. Bersani, Pier Luigi, 70, 132. Berselli, Edmondo, 31, 33, 62. Berselli, Filippo, 99-100, 231. Biagi, Enzo, 14, 23, 31, 43, 127, 142143, 154, 162, 187. Bianciardi, Luciano, 221. Bianco, Enzo, 219. Bianco, Gerardo, 106. Biasutti, Adriano, 201. Biava, Mario, 17. Binasco, Bruno, 131-132. Bindi, Rosy, 206-207, 269, 312. Biondi, Alfredo, 49, 299. Bisaglia, Mario, 182. Bisaglia, Toni, 84, 182, 286. Biscardi, Aldo, 278. Bisignani, Giovanni, 31. Bisignani, Luigi, 55, 141, 188, 192, 255-257, 289. Bobbio, Norberto, 123, 267, 308. Bocca, Giorgio, 81. Bogi, Giorgio, 219.

Cacciari, Massimo, 71. Cafagna, Luciano, 33, 159. Cagliari, Gabriele, 134, 185-187, 198, 250. Callas, Maria, 304-305. Camagni, Roberto, 17. Cancellieri, Rosanna, 55.

­­­­­330

Ciampi, Carlo Azeglio, 135, 291, 301303, 305-306, 314. Ciarrapico, Giuseppe (Peppino), 25, 31, 101-102, 181, 193, 257, 289. Ciarrapico, Nella, 31. Ciattini, professore, 221. Cicconi, Umberto, 122. Ciolini, Elio, 133. Ciotti, Luigi (don Ciotti), 58. Citaristi, Severino, 63, 98-99, 101, 178, 185, 192, 194-195. Cito, Giancarlo, 166. Clinton, Bill, 218. Codignoni, Angelo, 164. Coetzee, J.M. (John Maxwell), 14. Collins, Phil, 4. Collio, Enzo, 17. Colombo, Cristoforo, 97. Colombo, Gherardo, 62, 117, 120, 197, 272, 291. Colombo, Giovanni, 19, 154. Colonnello, Paolo, 121. Colucci, Francesco, detto Ciccio, 15, 161. Columbro, Marco, 61. Compagno G., 223; vedi anche Greganti, Primo. Confalonieri, Fedele, 5, 12, 194, 254, 257-258, 268, 279, 282-283. Conso, Giovanni, 106, 185, 209, 300. Contestabile, Domenico, 198. Conti, Giulio, 228, 230. Cordero di Montezemolo, Luca, 3. Corrado (Corrado Mantoni), 119, 175. Corrado, Sebastiano, 26. Corrias, Pino, 186, 221. Cossiga, Francesco, 21, 24, 28, 31, 37-51, 67, 85, 90-91, 107, 113, 126, 133, 141, 192-194, 196, 242, 245, 257, 267, 301, 311. Cossutta, Armando, 33, 260. Costa, Angelo, 290. Costanzo, Maurizio, 68, 147, 165, 175, 260, 277, 300. Craxi, famiglia, 116, 124. Craxi, Anna, vedi Moncini Craxi, Anna. Craxi, Bettino, 3, 5-13, 19-20, 22,

Canciani, Renzo, 17, 213. Cantoni, Giampiero, 31. Capaldo, Pellegrino, 31. Capolicchio, Dario, 300. Caponnetto, Antonino, 138, 152. Cappiello, Alma Agata, 260. Caracciolo, Carlo, 6, 31. Carboni, Flavio, 229. Carboni, Luca, 4. Cariglia, Antonio, 271. Carli, Guido, 47, 290, 311. Carlucci, Antonio, 119. Carlucci, Gabriella, 309. Carra, Enzo, 12, 22, 35, 42, 46, 50, 86, 91, 102, 104, 106, 109, 192-199. Carraro, Sandra, 288. Carriera, Matteo, 106, 172. Cartosio, Manuela, 80. Cartotto, Ezio, 270, 279-281. Casadei, Giorgio, 132, 171, 185. Casadei, Raul, 59. Casalegno, Riccardo, 17. Casini, Pier Ferdinando, 91, 104, 194, 198, 206, 228, 238, 299, 309, 312. Casoli, Giorgio, 105. Cassandra (mito), 37, 44, 46, 48. Casson, Felice, 40. Castagnetti, Pierluigi, 201, 206. Castellaneta, Sergio, 234. Castellari, Sergio, 182. Castellazzi, Franco, 79, 153. Cattaneo, Carlo, 188. Ceaus˛escu, Nicolae, 5, 11. Ceccarelli, Filippo, 123. Cederna, Camilla, 62, 120. Celestino, monaco, 191. Cercas, Javier, 39. Cerruti, Giovanni, 121. Cervetti, Gianni, 117, 220, 260. Chiambretti, Piero, 38, 187. Chiappori (Alfredo Chiappori), 266. Chiaromonte, Gerardo, 41, 109, 159. Chiesa, Mario, 14-22, 32, 50, 58, 68, 83, 94-95, 115, 118, 124, 132-133, 141, 156, 166, 170-171, 176-177, 210, 241, 263, 265, 293, 315. Chiusano, Vittorio, 250, 291. Christodulopoulos, Nicolaus, 52. Churchill, Winston, 29.

­­­­­331

27-28, 32-35, 49-52, 56-58, 61-62, 67-68, 72, 82-83, 93-95, 99, 102108, 114-138, 140-142, 154, 156157, 159, 165-166, 171, 177, 181, 183-184, 186, 193-196, 202-203, 210-218, 220, 240, 242-243, 245, 253-260, 262, 268, 270-272, 274275, 277, 280-281, 285-289, 292, 304-309. Craxi, Vittorio (padre di Bettino), 32. Craxi, Vittorio, detto Bobo, 8, 15-16, 19-20, 116, 118, 136, 212, 268. Crepax, Guido, 219. Crippa, Chicco, 227. Cristofori, Nino, 102, 104, 111. Croce, Benedetto, 267. Cuccarini, Lorella, 277-278. Cuccia, Enrico, 130. Cuffaro, Salvatore, 147, 312. Culicchia, Enzo, 99. Curcio, Renato, 197. Curiel, Gigliola, 5. Cursi, Cesare, 207. Curzi, Sandro, 31. Cusani, Sergio, 185, 243.

de Bortoli, Ferruccio, 265. De Gasperi, Alcide, 87, 188, 222, 290. De Gaulle, Charles, 128. De Gregori, Francesco, 114. Del Bue, Mauro, 232. Della Lucia, Giorgio, 180-181. Della Mea, Ivan, 61. Dell’Amico, Lando, 25, 27. Dell’Olio Ferrara, Anselma, 164, 259. Dell’Utri, Marcello, 180-181, 229, 248, 261, 270, 279, 284. Del Monte, Vittorio, 121. De Lorenzo, Ferruccio, 176. De Lorenzo, Francesco, 105, 158, 172-176, 189, 204, 269, 282. Del Pennino, Antonio, 99, 116, 142, 260. Del Turco, Ottaviano, 217. De Luca, Marco, 290. De Magistris, Luigi, 315. De Martino, Francesco, 105, 122, 286. De Michelis, Gianni, 30, 55, 59, 109, 126, 132, 171, 174, 177, 185, 215, 311. De Mico, Bruno, 5. De Mita, Ciriaco, 9, 27-28, 42-43, 48, 84, 88, 95, 101, 103, 105-106, 124, 173, 188-189, 193, 195, 206, 235, 286-287, 289-290. De Pasquale, Fabio, 186, 218. De Rita, Giuseppe, 83. De Rosa, Gabriele, 205, 208. Diamanti, Ilvo, 80, 84. Diana, principessa, 39. Di Donato, Giulio, 20, 55-56, 172, 175, 204. Di Feo, Gianluca, 250. Di Michele, Stefano, 179. Dinacci, Ugo, 245. Dini, Claudio, 17, 125. Di Pietro, Antonio, 16, 18, 50, 100101, 103, 110, 114-122, 126-127, 129, 131, 135-138, 140-143, 148, 152, 155-156, 159, 162-163, 165, 168-169, 171-173, 177, 179, 182, 186, 194-198, 209, 211-213, 215, 220, 224, 236, 239-246, 250-252, 271-272, 274, 290-291, 293.

D’Agostino, Roberto, 4, 148. D’Aiello, Vittorio, 186. Dal Co, Dario, 17. D’Alema, Massimo, 11, 59, 70, 72, 106, 130, 152, 160-161, 219-220, 225, 292, 303, 305-306. dalla Chiesa, Alberto, 11, 299. dalla Chiesa, Nando, 19, 62, 107. dalla Chiesa, Rita, 278. Damato, Francesco, 50, 81, 259. D’Ambrosio, Gerardo, 117, 120, 184, 252, 291. D’Amelio, Saverio, 296. Darida, Clelio, 185. Dario, Giovanni, 97. Da Rold, Gianluigi, 230. D’Avanzo, Giuseppe, 30, 87, 148. Davigo, Pier Camillo, 120, 197, 242243, 250-251, 272, 291. De André, Fabrizio, 66. De Angelis, Massimo, 69. De Benedetti, Carlo, 5-6, 45, 250, 252254, 257, 266, 270, 285-293.

­­­­­332

45-49, 86, 88-92, 95, 99, 101-107, 109-110, 130, 154, 173-174, 192197, 203-205, 208-209, 218, 258, 268, 275, 286-287, 289, 292, 312. Formentini, Marco, 166, 186, 232233, 260, 269, 276. Formenton, Mario, 289. Formica, Rino, 50, 58, 103-104, 107108, 136, 154, 213. Formigoni, Roberto, 57, 260. Forte, Francesco, 260. Fortuna, Loris, 61. Fracanzani, Carlo, 201. Franchi, Franco, 184. Franzoso, Pietro, 309. Freccero, Carlo, 152, 155, 164-167, 265. Fredda, Angelo, 227. Fredda, Marco, 223-224. Frigerio, Gianstefano, 81, 101, 273. Frizzi, Fabrizio, 124, 175. Fuccillo, Mino, 234. Fumagalli, Aldo, 262. Funari, Gianfranco, 106, 152-156, 158, 164-166, 212, 260, 265.

Di Pietro, Peppino (padre di Antonio di Pietro), 120. Di Vittorio, Giuseppe, 290. Donat Cattin, Carlo, 188, 286. Draghi, Mario, 134-135, 292. Duva, Antonio, 17. Eco, Umberto, 61. Einaudi, Luigi, 67. Elia, Leopoldo, 303. Eliot, Thomas Stearns, 294. Elisabetta II, regina, 39, 133. Elkann, Alain, 196. Enzensberger, Hans Magnus, 38. Erasmo da Rotterdam, 262. Evangelisti, Franco, 23. Fabiani, Fabiano, 31. Falck, Alberto, 61. Falcone, Giovanni, 108-112, 138, 147, 312. Fanfani, Amintore, 25, 35, 43, 48, 91, 286, 295. Fassino, Piero, 41, 70. Fattori, Giorgio, 140. Fede, Emilio, 19, 244, 259, 267, 273. Fellini, Federico, 61, 207. Feltri, Vittorio, 141, 184, 219, 269270. Fenoglio, Beppe, 294. Ferlini, Massimo, 106. Ferrara, Giovanni, 29. Ferrara, Giuliano, 59, 63, 85, 108, 114, 119, 143, 149, 157-158, 160, 164165, 210, 256, 259, 273. Ferrara, Maurizio, 27, 59. Ferruzzi, famiglia, 96. Finetti, Ugo, 82, 201. Fini, Gianfranco, 35, 49, 91, 99-100, 102, 118-119, 151, 154, 161, 219, 228-229, 306. Flick, Giovanni Maria, 174. Flores d’Arcais, Paolo, 68, 71. Floris, Giovanni, 278. Fo, Dario, 18. Follini, Marco, 84, 312. Fontana, Gianni, 188-191. Fontana, Sandro, 57. Forlani, Arnaldo, 22, 27-28, 34-35, 42,

Gaglio, Salvatore, 26. Galasso, Giuseppe, 64, 259. Galasso, Pasquale, 294. Galli, Guido, 120. Galliani, Adriano, 166, 290. Galli della Loggia, Ernesto, 68, 154, 307. Gallitelli, Leonardo, 244. Gambarotta, Bruno, 58. Gambarotta, Gianni, 81. García Márquez, Gabriel, 4. Gardini, Raul, 96-98, 187, 223-224, 241, 245, 250, 253, 283, 291. Gargani, Giuseppe, 48, 109, 208. Garuzzo, Giorgio, 251. Gasparri, Maurizio, 100, 227-228, 233. Gassman, Vittorio, 213. Gava, Antonio, 7, 29-30, 42-43, 48, 84, 87-89, 101-102, 105, 107, 115, 172, 178, 189, 193, 204, 286, 294-295, 297, 299.

­­­­­333

Haendel, Georg Friedrich, 310. Hampton, Demetra, 106. Havel, Václav, 30. Hitler, Adolf, 90, 269. Hunter, Sally, 34.

Gavio, Marcellino, 131-132. Gelli, Licio, 28, 248. Geremicca, Federico, 24. Geronzi, Cesare, 31. Gerosa, Guido, 58, 128. Gesù, 48, 206, 267. Ghedini, Niccolò, 238. Ghezzi, Giorgio, 232. Ghidella, Vittorio, 266. Ghino di Tacco, pseudonimo di Craxi, 12, 105, 214, 255. Ghitti, Italo, 197. Giacalone, Davide, 282. Giannelli (Emilio Giannelli), 142, 219. Giannini, Guglielmo, 84-85. Giannini, Massimo Severo, 68. Gifuni, Gaetano, 112. Gino e Michele, vedi Vignali, Luigi e Mozzati, Michele. Ginsborg, Paul, 311. Giorgetti, Enzo, 221. Giovanardi, Carlo, 119. Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła), papa, 106, 188, 267. Girani, Maria, 30. Giudici, Marco, 206. Giugni, Gino, 105. Giussani, Luigi, 70. Giusti, Marco, 120. Giustolisi, Franco, 28. Goria, Giovanni, 158, 179-181, 188190. Gottardo, Settimo, 103. Goya, Francisco, 205. Gramellini, Massimo, 276. Gramsci, Antonio, 11, 59, 70. Grandi, Dino, 309. Grassi, Libero, 65-66, 146-147. Grazioli, Carlo, 201. Greganti, Luna, 185. Greganti, Primo, 185, 220-221, 224, 282. Grillo, Beppe, 60-61. Grotti, Alberto, 196. Guglielmi, Angelo, 149, 165. Gui, Luigi, 237. Guzzanti, Paolo, 43, 105, 207. Guzzanti, Sabina, 60, 118.

Iannini, Augusta, 290. Ielo, Paolo, 282. Iglesias, Julio, 34. Ingrao, Pietro, 41, 70. Innocenzi, Giancarlo, 163. Intini, Ugo, 19, 136, 144, 215. Irti, Natalino, 31. Isnenghi, Mario, 151. Jacobelli, Jader, 148. Jaruzelski, Wojciech, 38. Josi, Luca, 307. Jotti, Nilde, 104. Jovanotti (Lorenzo Cherubini), 4, 59. Kantorowicz, Ernst, 178. Kavafis, Costantino, 74. Kemenetzky, Mikhail (Micha) (Ugo Stille), 140-141, 143. Kennedy, Bob, 213. Kraus, Karl, 30, 205. Krizia (stilista), 213. Kruger, Sebastiano, 223. Laboccetta, Amedeo, 228-229. Labriola, Silvano, 48. La Ganga, Giuseppe, detto Giusi, 58. Lagorio, Lelio, 10. Lama, Luciano, 105. La Malfa, Giorgio, 35, 64, 68, 92, 99, 108, 152-154, 218-220, 254, 259260. La Malfa, Ugo, 67, 218, 286. Larini, Silvano, 125, 217, 274. Lario, Veronica (Miriam Bartolini), 12, 253, 258, 271. La Russa, Ignazio, 82, 100, 260. La Torre, Pio, 11. Laurenzi, Laura, 279. Laurito, Pasquale, 21. Lauro, Raffaele, 87, 89. Lavitola, Valter, 20. Lazzaro, Bruno, 218.

­­­­­334

Leccisi, Pino, 109. Lega, Silvio, 48, 132. Lennon, John, 57. Leoni Orsenigo, Luca, 232-234. Lerner, Gad, 19, 78, 119, 127, 158, 221, 278. Letizia, Elio, 229. Letizia, Noemi, 229. Letta, Gianni, 12, 31, 148, 154, 166, 194, 211, 244, 255-256, 258, 260, 271, 279, 281, 290. Levi Montalcini, Rita, 31. Li Vecchi, Alfredo, 23. Licandro, Agostino, 204. Ligato, Ludovico, 202. Ligresti, Salvatore, 7, 32, 61, 131, 168171, 173, 236, 250, 253, 272. Liguori, Paolo, 68. Lima, Salvo, 22-27, 36, 57, 133, 149, 201, 295, 297-298. Lombardi, Riccardo, 286. Longhi, Albino, 156. Longo, Pietro, 90. Lo Russo, Mino, 10. Losa, Maurizio, 115. Lucchini, Luigi, 45, 262, 289, 293. Luchetti, Daniele, 53. Luciano, Sergio, 274-276. Lumet, Sidney, 155. Luttazzi, Daniele, 162. Luzi, Mario, 168.

Mannino, Calogero, 147, 178, 201. Manzella, Andrea, 290. Manzi, Giovanni, 17, 125, 171. Maometto II, sultano, 97. Marassi, Riccardo, 9. Marcora, Giovanni (partigiano Albertino), 84, 180, 190, 235, 238, 286, 289. Marenco, Francesco, 232-233. Marini, Franco, 102. Maroni, Roberto, 106, 130. Marra, Pippo, 21. Marramao, Giacomo, 68. Martelli, Claudio, 8, 10, 94, 107, 110, 125-126, 132-133, 135-136, 138, 152-154, 156, 166, 184, 189, 194, 202-203, 213-217, 220, 260, 274, 305. Martelli, Ellade, 153. Martinat, Ugo, 228. Martinazzoli, Mino, 49, 102, 107, 115, 126, 188, 191, 195-196, 198, 200209, 242, 265, 269, 280, 302-303, 312. Martini, Carlo Maria, 48-49, 61. Martini, Fabio, 72. Martino, Antonio, 69, 292. Martino, Arcangelo, 229. Marx, Groucho, 174. Marzotto, Pietro, 293. Masciarelli, Stefano, 125. Masia, Giovanni, 42. Massari, Renato, 117. Mastella, Clemente, 191, 206, 298. Mastrantuono, Raffaele, 295. Mastroianni, Marcello, 61. Mattarella, Piersanti, 11. Mattarella, Sergio, 207. Mattei, Enrico, 264. Matteoli, Altero, 100, 228, 299. Matteotti, Giacomo, 65. Mattioli, Francesco Paolo, 143, 169, 171, 173, 251. Mattioli, Raffaele, 251. Mauro, Ezio, 226, 274, 307. Mauro, Rosi, 260. Mazzolaio, Gino, 182. Mazzolari, Primo, 235. Mazzotta, Roberto, 248.

Macaluso, Emanuele, 41, 50, 70. Maceratini, Giulio, 227-228, 231. Mach di Palmstein, Ferdinando, 252. Machiavelli, Nicolò, 190. Mafai, Miriam, 117. Magni, Luca, 16. Malevič, Kazimir Severinovič, 147. Malocchi, Mario, 184. Mammì, Oscar, 12, 105, 177, 254-255, 262, 265, 267, 282, 289. Manca, Enrico, 29. Mancini, Federico, 122. Mancini, Giacomo, 136. Mancino, Nicola, 42, 88. Manconi, Luigi, 154. Manfellotto, Bruno, 171. Mangano, Vittorio, 248.

­­­­­335

Mussolini, Benito, 98, 100. Muzi Falconi, Toni, 68.

Mengacci, Davide, 278. Menichella, Donato, 290. Mentana, Enrico, 19, 155-157, 244, 259, 267. Meo, Vincenzo, 295. Merlo, Francesco, 24, 218, 305. Messina, Norberto, 134, 207. Messina, Sebastiano, 11. Metta, Vittorio, 254, 257, 265, 293. Mieli, Paolo, 144-145, 173, 217, 265. Miglio, Gianfranco, 78, 80, 86, 104, 152, 186, 230, 232-233, 260, 274. Mills, David, 186. Milo, Sandra, 122. Minoli, Giovanni, 32, 213. Minzolini, Augusto, 8, 27, 145. Miretti, Stefania, 158. Mitterrand, François, 52, 71, 82, 107, 114. Molinari, Emilio, 100. Mollace, Francesco, 75. Moncalvo, Gigi, 121. Moncini Craxi, Anna, 3, 7, 12, 214, 258. Mondadori, Leonardo, 288. Mondadori-Formenton, famiglia, 254. Monelli, Paolo 192. Mongini, Roberto, 158, 172, 260. Montanelli, Indro, 61-62, 247. Monti, Mario, 46, 134, 235, 309, 314. Montini, Giovanni Battista, vedi Paolo VI. More, Thomas, 39. Moretti, Nanni, 52, 56-57, 60, 222. Moro, Aldo, 21, 28-29, 35, 38, 40-43, 91, 108-109, 146, 192, 195, 230, 235-237, 248, 311. Moro, Graziano, 196. Moroni, Sergio, 127, 181-184, 210, 268. Morvillo, Francesca, 110. Mosconi, Antonio, 169, 171, 251. Mozzati, Michele, 61. Mubarak, Hosni, 313. Mucchetti, Massimo, 264. Mussi, Fabio, 70. Mussolini, Alessandra, 100, 226.

Nania, Domenico, 228. Napoleone Bonaparte, 210. Napolitano, Giorgio, 33, 41, 70-71, 102, 182, 194, 200, 214, 230, 301302, 304, 306, 309-310, 314. Natali, Antonio, 117. Natta, Luigi, 41. Nencioni, famiglia, 300. Nencioni, Angela, 300. Nencioni, Caterina, 300. Nencioni, Fabrizio, 300. Nencioni, Nadia, 300-301. Nenni, Pietro, 6, 216, 286. Neri, Nino, 184. Nero, Franco, 120. Nerone, imperatore, 114. Newman, John Henry, 39. Nobili, Franco, 31, 169, 185, 250. Nonne, Giovanni, 231. Nonno, Pasquale, 9. Nordio, Carlo, 224. Nuccio, Gaspare, 99. Occhetto, Achille, 6, 11, 27, 32-33, 40-42, 46, 57, 59, 67-72, 76, 80, 84, 90, 92, 96, 109, 111, 125-126, 128, 152-154, 159-161, 214, 218-220, 222-224, 254, 270, 280, 292, 302304, 306. Occhetto, Aureliana, 72. Orefice, Vittorio, 20-21, 36, 49, 76, 95, 101, 103, 115, 118, 124, 126, 130, 156, 200, 203, 218, 220, 276, 297, 303. Orlando, Leoluca, 58, 62-63, 68, 153, 161, 254, 295. Orlando, Silvio, 53. Ottaviani, Achille, 173. Ottone, Piero, 19. Oxa, Anna, 4. Pagani, Maurizio, 267. Pallesi, Lorenzo, 134. Palma, Annina (madre di Antonio di Pietro), 120. Palombelli, Barbara, 6, 55-56.

­­­­­336

Pininfarina, Sergio, 45. Pinochet, Augusto, 249. Pintacuda, Ennio, 63. Pintor, Luigi, 58. Pirani, Mario, 247, 260. Pirella, Emanuele, 34. Pirelli, Leopoldo, 61, 289. Piro, Franco, 231. Pirrotta, Onofrio, 212. Pirrotta, Serenella, 212. Pisanu, Giuseppe, 312. Pisapia, Giandomenico, 236. Pisapia, Giuliano, 236, 239, 293, 315. Pisicchio, Pino, 207. Pivetti, Irene, 130, 260. Placido, Beniamino, 147. Polese, Nello, 228. Poletti, Fabio, 19. Poli Bortone, Adriana, 228. Polito, Antonio, 144. Pollini, Renato, 223. Pomicino, Paolo Cirino, 25, 31, 43, 45-46, 92, 101-102, 104, 106, 172173, 178, 204, 257, 295, 301, 312. Porcari, Leo, 187. Possenti, Renato, 76. Pozza, Guido, 3, 8. Pozzi, Enrico, 9, 121. Pozzi, Moana, 122-123. Prada, Maurizio, 17, 106, 236, 272273. Prandini, Gianni, 131, 175, 205. Prati, Pamela, 148. Preti, Luigi, 115. Previti, Cesare, 5, 162, 238, 244, 270. Prodi, Paolo, 64. Prodi, Romano, 64, 174, 200, 235, 250, 302, 312. Properzj, Giacomo, 106. Prosperini, Piergiorgio, 78. Pulitanò, Domenico, 243.

Pamparana, Andrea, 156, 244, 272. Pancino, Paolo, 18. Pandolfi, Filippo Maria, 248. Pannella, Marco, 58, 85, 112, 126, 260, 300, 304. Pansa, Giampaolo, 18, 33, 62, 66, 83, 139, 149, 157, 215, 220, 252. Panseca, Filippo, 5, 10, 28. Paolo VI (Giovanni Battista Montini), papa, 38, 298. Paolo Diacono, 74. Papa, Alfonso, 192. Papalia, Guido, 189. Papandreu, Andreas, 52. Papi, Enzo, 121, 171. Pappalardo, Salvatore, 22. Pardo, Denise, 31. Parini, Andrea, 127, 158. Parisi, Arturo, 184, 302. Parisi, Vincenzo, 21, 87, 112, 118, 135138, 243, 297. Pascale, Ernesto, 31. Pasetto, Nicola, 99, 227-228, 230. Pasolini, Pier Paolo, 197, 295-297. Pasquarelli, Gianni, 29, 149. Passalacqua, Guido, 78. Patelli, Alessandro, 241. Pazzi, Bruno, 288. Pecchioli, Ugo, 41, 286. Pecorella, Gaetano, 174. Pecorelli, Mino, 11, 25, 313. Pellegrino, Giovanni, 242, 298-299. Penati, Filippo, 132, 224. Pende, Stella, 258. Peraboni, Corrado, 232. Pérez de Cuéllar, Javier, 8, 58. Pertini, Sandro, 8, 67, 107. Peruzzi, Cesare, 187. Pesenti, Carlo, 170. Petruccelli della Gattina, Ferdinando, 247. Petruccioli, Claudio, 102, 111, 223225, 260, 304-305. Piazzesi, Gianfranco, 143. Pieroni, Anja, 123. Pillitteri, Paolo, 3, 12, 16-17, 19-20, 62, 82, 93, 99-100, 116, 120, 131, 142, 176-177, 213, 258, 260, 271. Pini, Massimo, 144, 253.

Raboni, Giovanni, 163. Radaelli, Sergio, 106. Radi, Luciano, 259. Radice, Emilio, 90. Raffaeli, Mario, 232. Rame, Franca, 18.

­­­­­337

Sallusti, Alessandro, 20, 141, 143. Salvi, Cesare, 41. Salvi, Giovanni (spacciato accusatore di Di Pietro), 243. Salvi, Giovanni, magistrato, 227. Sama, Carlo, 219, 224. Sansonetti, Piero, 144. Santoro, Michele, 14, 60, 65-66, 68, 107, 146-147, 149-150, 152-153, 156, 158-165, 205, 278. Saragat, Giuseppe, 107. Saretta, Giuseppe, 231. Sarti, Adolfo, 91. Saviotti, Pietro, 227. Sbardella, Vittorio, 25, 31, 83, 88, 108, 133, 135, 179, 262. Scalari, Eugenio, 6, 9, 63, 67-68, 128, 144, 161, 214, 222, 247, 254-255, 257, 288-290, 307. Scalfaro, Oscar Luigi, 42, 50, 99, 104, 108-109, 112-113, 115, 124-126, 128, 138, 152, 209, 214, 236-237, 244, 270, 291, 300-304, 312, 314. Scaroni, Paolo, 250. Scattolon, Tonino, 216. Scelba, Mario, 112. Schifani, Maria Rosaria, 112, 152. Schifani, Renato, 209. Schwarzenegger, Arnold, 267. Sciascia, Leonardo, 4, 29, 63, 181, 307. Scognamiglio, Carlo, 260. Scoppola, Pietro, 64-65, 68, 314. Scotti, Enzo, 88, 109-110, 112, 125, 133, 189, 194-195. Scotti, Gerry, 278. Secchia, Peter, 8. Segni, Antonio, 38, 64. Segni, Mario (Mariotto), 52-53, 64, 67-68, 76, 103-104, 138, 152, 154, 161, 206, 228, 248, 254, 264, 280, 291, 302. Serra, Giuseppe (Pinuccio), 99-100. Serra, Michele, 57-60, 152, 162, 213, 234. Servello, Franco, 260. Sgarbi, Vittorio, 149, 158, 230, 276, 299. Shakespeare, William, 128, 147. Siciliano, Enzo, 256.

Ramoni, famiglia, 295. Rampello, Davide, 34. Ranieri, Massimo, 4. Ranieri, Umberto, 70. Rapagnà, Pio, 100. Rapisarda, Filippo Alberto, 179-181. Reagan, Ronald, 280. Redi, Delio, 218. Restivo, Franco, 295. Reviglio, Franco, 189. Riggio, Vito, 207. Riina, Totò, 27. Rinaldi, Claudio, 132, 252, 277, 282, 292. Ripa di Meana, Carlo, 136, 189, 210212. Ripa di Meana, Marina (già Punturieri, già Lante della Rovere), 136, 211-212. Riva, Massimo, 41, 98, 197. Rizzi, Lino, 22. Rocchetta, Franco, 104. Rodotà, Maria Laura, 120. Rodotà, Stefano, 41. Rognoni, Virginio, 286. Romano, Sergio, 51. Romiti, Cesare, 44-46, 143, 194, 251252, 287, 289, 293. Ronchey, Alberto, 47. Ronchi, Edo, 100. Roncucci, Sergio, 260, 272-273. Rosato, Giuseppe, 184. Rosci, Adriana, 18. Rosi, Francesco, 213. Rositani, Guglielmo, 228. Rossanda, Rossana, 165. Rossi, Luigi, 76, 297. Rossi, Paolo, 118. Rostropovič, Mstislav Leopoldovič, 310. Rovati, Giancarlo, 80. Roversi, Patrizio, 60. Rozza Giuntella, Laura, 130. Ruby (Karima El Marhoug), 116. Ruffolo, Giorgio, 286. Ruini, Camillo, 30. Russo, Luigi, 66. Rutelli, Francesco, 161, 303, 307.

­­­­­338

Signorino, Mimmo, 202. Sindona, Michele, 11. Siri, Giuseppe, 141. Sirtori, Pier Giorgio, 17. Smaila, Umberto, 108. Smargiassi, Michele, 58. Sodano, Giampaolo, 152, 212. Sogno, Edgardo, 28. Sorge, Bartolomeo, 63. Soros, George, 134. Spadolini, Giovanni, 99, 104, 108109, 112, 142, 218-219, 290, 295. Spencer, Diana, vedi Diana, principessa. Speroni, Francesco, 104, 260. Spinelli, Barbara, 230, 310. Spini, Valdo, 215. Stagno, Tito, 278. Staiti di Cuddia, Tomaso, 19, 180. Stajano, Corrado, 62. Stalin, 222, 278. Staller, Ilona (Cicciolina), 307. Stammati, Gaetano, 255. Stefanini, Marcello, 223. Stella, Federico, 242. Stille, Ugo, vedi Kemenetzky, Mikhail (Micha). Storace, Francesco, 91, 100, 228. Strehler, Giorgio, 213. Sturzo, Luigi, 188. Suárez, Adolfo, 38. Sun Tzu, 276. Szymborska, Wisława, 182.

Testa, Vittorio, 93. Tettamanzi, Dionigi, 89. Thatcher, Margaret, 39, 280. Tocqueville, Alexis de, 79. Togliatti, Palmiro, 148, 222, 290. Tognoli, Carlo, 15-16, 93, 99-100, 106, 116, 142, 260. Tomaselli, Vincenza (Enza), 15, 171. Torelli Viollier, Eugenio, 146, 150. Tornabuoni, Lietta, 152. Tortora, Enzo, 128. Tortorella, Aldo, 70. Trane, Rocco, 20. Tremonti, Giulio, 96, 134. Trentin, Bruno, 152. Troiano, Vincenzo, 7. Trussardi, Nicola, 7, 32, 213. Turani, Giuseppe, 277. Turco, Livia, 70. Turone, Giuliano, 62, 120. Tyson, Mike, 57. Uckmar, Victor, 96. Ungaretti, Giuseppe, 276. Urbani, Giuliano, 292. Usellini, Mario, 248. Valentini, Chiara, 160. Valentini, Giovanni, 258. Valentino (Valentino Garavani), stilista, 258. Valiani, Leo, 105-106. Valle, Annachiara, 208. Valli, Bernardo, 44. Vannoni, Spartaco, 122. Vanoni, Ezio, 67, 286. Vanoni, Ornella, 212. Varasi, Gianni, 5. Vassalli, Giuliano, 105, 107-108. Veltroni, Walter, 11, 41, 58, 70, 72, 125, 144, 152, 213. Venegoni, Marinella, 5. Verdini, Denis, 229. Versace, Gianni, 213. Vespa, Bruno, 29, 31, 43, 115-116, 156, 249, 290, 307. Viesti, Antonio, 21. Vignali, Luigi, 61. Villetti, Roberto, 10, 68.

Tabacci, Bruno, 132, 190, 235-239, 312. Taddei, Margherita, 283. Tambroni, Fernando, 25, 148. Taradash, Marco, 58, 260, 299. Tassi, Carlo, 98, 100, 174, 231, 233. Tatarella, Giuseppe (Pinuccio), 99, 231. Tatò, Tonino, 122. Teardo, Alberto, 20, 58. Tejero, Antonio, 38. Tennyson, Alfred, 70. Testa, Armando, 34. Testa, Chicco, 166, 260. Testa, Marco, 279.

­­­­­339

Wojtyła, Karol, vedi Giovanni Paolo II. Wolf, Christa, 37, 42.

Vimercati, Daniele, 77-78, 83, 213. Vincino (Vincenzo Gallo), 60. Violante, Luciano, 42, 201-202, 223224, 298-299. Visani, Davide, 223. Visco, Vincenzo, 303. Visentini, Bruno, 286. Vishinsky (Višinskij), Andrej Ja­nua­r’e­ vič, 42, 292. Vitalone, Claudio, 102, 104, 202. Vito, Alfredo, 204, 226, 228, 295. Vizzini, Carlo, 154, 254, 259-260, 297.

Zaccagnini, Benigno, 188. Zaffra, Loris, 132. Zamorani, Mario Alberto, 125, 170171, 173. Zaniboni, Antonino, 201. Zanzotto, Andrea, 315. Zavoli, Sergio, 5, 213. Zeri, Federico, 68. Zincone, Bruno, 195. Zolla, Michele, 42. Zuliani, Roberto, 16-17. Zurlo, Stefano, 156.

Weil, Simone, 191. Weill, Kurt, 256. Wertmüller, Lina, 213.

­­­­­340