Dal Futurismo all'Astrattismo. Un percorso d'avanguardia nell'arte italiana del primo Novecento 8880164902


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Dal Futurismo all'Astrattismo. Un percorso d'avanguardia nell'arte italiana del primo Novecento
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Digitized by the Internet Archive in 2023 with funding from Kahle/Austin Foundation

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DAL FUTURISMO ALL’ASTRATTISMO UN PERCORSO D'AVANGUARDIA

NELL'ARTE ITALIANA DEL PRIMO NOVECENTO

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FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI ROMA

Roma, Museo del Corso Via del Corso, 320

13 aprile - 7 luglio 2002

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FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI ROMA

DAL FUTURISMO ALL ASTRATTISMO UN PERCORSO D'AVANGUARDIA NELL'ARTE ITALIANA DEL PRIMO NOVECENTO

a cura di ENRICO CRISPOLTI

con la collaborazione di MARCO TONELLI

EDIEUROPATADE TUCA EDITORIDZARTE

SOTTO L'ALTO PATRONATO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

con il patrocinio di PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI REGIONE LAZIO

PROVINCIA DI ROMA COMUNE DI ROMA

MUSEO DEL CORSO FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI ROMA

Presidente Emmanuele Francesco Maria Emanuele

Segretario Generale Franco Parasassi

Staff

Maria Giulia Accorinti Guglielmo de’ Giovanni Centelles Sara Divisi

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DAL FUTURISMO ALL ASTRATTISMO

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UN PERCORSO D'AVANGUARDIA NELL'ARTE ITALIANA DEL PRIMO NOVECENTO

CGIE

Roma, Museo del Corso Via del Corso, 320

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13 aprile - 7 luglio 2002

:

Comitato scientifico

Enrico Crispolti Gillo Dorfles Bonizza Giordani Aragno

Ringraziamenti A arte Studio Invernizzi Archivio arte contemporanea Crispolti, Roma

Daniele Lombardi

Arte Centro Associazione culturale FUTUR-ISM Renato Barisani

Marco Tonelli

Narciso Bonato e Paola De Angelis

Mario Verdone

Freddy Battino

Referenze fotografiche A arte Studio Invernizzi, Milano

Av Z-

Archivio Cagli, Roma Archivio arte contemporanea Crispolti, Roma Archivio Mirko, Roma

Arte Fotografica, Roma Atelier 53, Parigi

Luciano Caramel

Luca Carrà, Milano Civica Galleria d'Arte Moderna di Gallarate Fondazione Lucio Fontana, Milano

Massimo Carpi Sergio Casoli

Foto Studio Gs, Bologna

Francesco Briguglio

Foto Mariani, Firenze

Bruno Conte Lucia Danesi

Galleria d'Arte Niccoli Galleria Morone, MilanoGalleria Martini & Ronchetti, Genova Lorenzelli Arte, Milano Giorgio Maino, Milano

Progetto della mostra

Giorgio Di Genova

Guglielmo Maraniello

Enrico Crispolti

Massimo Duranti

Musei Civici Monza Museo Brunori, Bertinoro

Civica Galleria d’arte Moderna e

Ideazione e organizzazione generale della mostra Edieuropa

Contemporanea, Comune di Gallarate Collezione Europa

Gabriella Di Milio

Mostra e catalogo a cura di Enrico Crispolti con la collaborazione di Marco Tonelli

Coordinamento organizzativo Raffaella Bozzini

Segreteria organizzativa Adriana Angoletta

Ezio Frea Fondazione Lucio Fontana, Milano Nini Laurini, Valeria Ernesti

FONSPA Morgan Stanley Real Estate Fund (MSREF)

Carlo Frittelli Galleria La Scaletta Galleria Narciso, Torino

Massimo Napoli, Roma Padovan, Torino Massimiliano Ruta, Roma Giuseppe Schiavinotto, Roma Cesare Somaini, Milano Studio 3, Milano

Valente Arte contemporanea, Finale Ligure

Mario Graziani

Maria Vittoria Guidi Maria Grazia La Padula Alberto Leone Matteo Lorenzelli

Fabio Marangon Museo Brunori, Attilio Zanmarchi

Musei Civici di Monza, Roberto Cassanelli

Progetto di allestimento Enrico Valeriani

Museo d’arte contemporanea di Villa Croce,

con la collaborazione di

Genova Museo d’Arte delle Generazioni italiane del

Francesco Ardizzone

Allestimento

Severini Group con Ivano Martino

‘900, Giulio Bargellini Giuseppe, Marco e Roberto Niccoli Elio e Marzio Pinottini Corrado Rava Virgilia Reggiani Anna Maria Ruta

Enzo Spadon Ufficio stampa Studio Esseci - Sergio Campagnolo

Toni Toniato

Valente Arte Contemporanea Mario Verdone

e tutti i prestatori che hanno preferito Assicurazioni Progress Insurance Broker

Trasporti Gondrand S.p.A.

mantenere l'anonimato

De Luca Editori d'Arte Coordinamento editoriale Anna Gramiccia Cura editoriale Federica Piantoni

Coordinamento tecnico Mario Ara

in copertina G. Balla, Velocità astratta, 1913, part. [cat. 2]

G. Capogrossi, Superficie CP/139, 1958 c., part. a pagina 2 G. Balla, Seraluci, 1929 c., part. [cat. 12]

d4ITI/CIg Maryland Institute, Éollege ot Art The Decker Library 1401 Mount Royal Avenue Baltimore, MD 21217

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© 2002 Edieuropa s.r.l. Viale Bruno Buozzi, 64 - 00197 Roma

© 2002 De Luca Editori d'Arte s.r.l. Via E.Q. Visconti, 11 - 00193 Roma

ISBN 88-8016-490-2

SOMMARIO

Le ragioni di una mostra + Emmanuele Francesco Maria Emanuele

13

Un percorso d’avanguardia nell’arte italiana nella prima metà del xx secolo Enrico Crispolti

Su

Passione astrazione: intervista a Gillo Dorfles + a cura di Paolo Campiglio

41

Innovazione e astrattismo nello spettacolo futurista + Mario Verdone

47

Le tre forme - Danzele Lombardi

DI

L'arte vestita + Bonizza Giordani Aragno

UN PERCORSO

D'AVANGUARDIA

NELL'ARTE ITALIANA:

DEL PRIMO NOVECENTO

testi introduttivi - Enrico Crispolti e Marco Tonelli letture delle opere * Marco Tonelli DI

Futurismo “analitico” è primi anni Dieci

76,

Futurismo “sintetico” + secondi anni Dieci

83

Futurismo “meccanico” - anni Venti

99

Futurismo “cosmico” » anni Trenta

109

Concretismo - anni Trenta

127

Movimento Arte Concreta + anni Quaranta-Cinquanta



Sviluppi di “Forma”, a Roma - anni Cinquanta

165

“Astratto-concreto” + anni Cinquanta

185

Spazialismo, a Milano e a Venezia + anni Quaranta-Cinquanta

205

Segno e materia a Roma, attorno a “Origine” + anni Cinquanta

221

Informale + anni Cinquanta

245

Dizionarietto biobibliografico * @ cura di Marco Tonelli

Enrico Prampolini, Costuzze motorumorista per coreografia futurista. Esaltazione coreografica di un essere in fuga, 1914

LE RAGIONI DI UNA MOSTRA

La Fondazione Cassa di Risparmio di Roma prosegue, nel suo Museo del Corso, il proprio programma culturale illustrando — così come ha fatto con i Macchiaioli e i Pittori della Campagna Romana — un altro movimento intellettuale nazionale, con larga partecipazione straniera: quello dei Futuristi, assai importante per l'influsso sugli sviluppi artistici successivi. Il percorso d'avanguardia del Futurismo connotò l’arte italiana della prima metà del Novecento, aprendo anche le porte all’Astrattismo, al Concretismo, all’Informale che l'hanno traghettata nel Terzo Millennio. Per non parlare dell’influsso decisivo sulla fotografia contemporanea: sono di matrice futurista la fotodinamica, l’immagine emblematica, il fotomontaggio: dal Ritratto futurista di Gino Gori pubblicato nell'aprile del 1914 dai fratelli Bragaglia ai photocollages di Carrà e Dottori dell’anno seguente, alle ricerche futuriste a cavallo tra grafica e fotografia di Prampolini o di Pannaggi tra il 1916 e 111924.

È con il Futurismo che in Italia si affacciano le proposte artistiche non figurative, legate a una più intensa concezione della modernità fondata in Filippo Tommaso Marinetti (Effetì) all'insegna del macchinismo e della velocità. E, poi, della comunicazione immateriale (la radio, le onde hertziane). Pur intensamente, profondamente italiana — sovrastata com'era dal Tricolore di Balla —, 0 forse pro-

prio per questo, quella del Futurismo fu una stagione universale, che fece scuola da Parigi a Mosca, da Praga a Londra, ma anche in Giappone. I Futuristi, anticipando e interpretando la strada presa dall’Occidente all’inizio del secolo, puntarono i riflettori sulla macchina. Celebrarono attraverso di essa, facendoli oggetto d’arte, il dinamismo, la

velocità, l'energia inarrestabile, la vitalità, lo spirito agonistico. Persino la guerra. “La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l'estasi e il sonno — scriveva Marinetti in “Zang Tumb Tuuum” del 1914 —, noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno”. La sua parola d'ordine, sin dai tempi del primo “Manifesto del Futurismo” pubblicato a Parigi nel 1909 sul Figaro, fu: “Uccidiamo il chiaro di luna”. Tra le opere in mostra, appaiono emblematiche quelle di Umberto Boccioni (Reggio Calabria 1882 — erona 1916): pittore e scultore è il teorico di quel “dinamismo plastico” che fu il postulato di base dell’arte futurista. Padre delle molte novità della pittura futurista, con amplissima attenzione alla formalizzazione iconografica del multiritratto, affascina Duchamp, Picabia, Witkiewicz. Boccioni, che non a ca-

so compare anche nella monetazione dell'euro con le sue Forme uniche della continuità nello spazio del 1912, è per riconoscimento internazionale uno dei vertici artistici del Novecento. Un maestro tanto illustre quento raro e prezioso. La morte precoce — a 34 anni, nel 1916, durante il servizio miltare — gli consentì di lasciare solo sei anni — dal 1910 al 1916 — di lavoro futurista. L'attenzione della Mostra si muove nell'ottica di una stagione dell’internazionalità di Roma. Basti pensare al movimento futurista russo, con gli “uomini del futuro” di Majakovskij: i “budetkjany” tra cui

campeggiarono artisti come Malevic, Natalija Goncarova, Larionov, Burlink, Olga Rozanova, Aleksandra Ekster, Beatrisa Sandomirskaja. Il futurista russo simbolo della portata internazionale del movimen-

to, Majakovsky, che già a 14 anni è un militante bolscevico, aderisce a 19 al primo gruppo di futuristi formatosi a Mosca sui principi marinettiani.

A Roma il Futurismo s'imperniò dapprima su Balla per la pittura e su Folgore per la letteratura. Poi, a prendere la guida del movimento, fu Enrico Prampolini, il viferimento del secondo Futurismo degli Anni Trenta. E a Roma si avviò la stagione degli aeropittori tra i quali si iscrisse lo stesso Prampolini. Sono con lui l’umbro Dottori, Benedetta Marinetti, Monachesi, Enzo Benedetto, Favalli, Domenico Belli,

Mino Delle Site. A Balla è dedicata un'attenzione particolare. Giacomo Balla, FuturBalla (Torino 1871-Roma 1958), ospita nel suo studio romano i giovanissimi Boccioni, Sironi e Severini, che scoprono sotto il suo impulso la tecnica del Divisionismo. Grande artista, promotore di manifesti (L’Abito maschile futurista, 1914; La Ricostruzione futurista dell'Universo, 1915; Il Manifesto del Colore, 1918; Il Manifesto dell’ Aero-

pittura futurista, 1929) yzantiene sempre una sua autonomia e nel 1937 divorzia dal movimento futurista, e dalle sue ingenue esaltazioni del regime, per tornare a quella che chiamò la “pittura dal vero”. Ma non c'è solo il Futurismo romano nella Mostra. Il Futurismo conobbe presto una seconda capitale, la Milano delle macchine e della produzione: lì nel 1910 Boccioni, Carrà, Severini e Balla firmarono

il Manifesto della pittura futurista che svolgeva il più ampio appello (poesia, teatro, letteratura con Papini e Soffici, partecipi del primo Futurismo) dell’anno prima di Marinetti. Non si ferma tuttavia al Futurismo la Mostra, ma da esso (che in parte si tiene sempre alla figura e alla rappresentazione: Notte, Dottori, Primo Conti) approda — sulla sua apertura all'arte astratta — appunto alle ulteriori formulazioni della seconda parte del Novecento: dall’Astrattismo, al Concretismo, all’Informale.

Sta qui, di fronte anche all'ultima rassegna di Milano, l’importanza della nostra Mostra, volta alla ricognizione del passaggio dal futurismo all’astrattismo. È la prima Mostra che affronta la mutazione dal Futurismo all’Astrattismo documentando il passaggio dalla pittura iconica del dinamismo, al dinamismo formale, aniconico e all'impiego di materiali poveri, quell’Arte Povera già anticipata da Prampolini. I{ percorso delle 83 opere in mostra si muove per sezioni destinate a restare nella catalogazione scientifica. Le prime sono rigorosamente futuriste: Futurismo “analitico” primi anni Dieci (Boccioni, Balla, Dudreville, Severini, Prampolini, Depero, etc.), Futurismo “sintetico” secondi anni Dieci (Balla, Depero, Dottori, persino Evola, etc. ), Futurismo “meccanico” anni Venti e Futurismo “cosmico” anni Tren-

ta (Balla, Prampolini, Pannaggi, Oriani, Diulgheroff etc.). Poi il Concretismo. Ed ecco: Concretismo anni Trenta (Soldati, Magnelli, Melotti, Fontana etc.). Con le ultime sezioni, infine, la mostra raggiunge tempi più vicini: Movimento Arte Concreta anni Quaranta-Cinquanta (Bert, Barisani, Bonfanti, Ni-

gro, etc.), Sviluppi di “Forma” a Roma, anni Cinquanta (Dorazio, Turcato, Accardi, Sanfilippo, Perilli, Consagra), Astratto-Concreto anni Cinquanta (Afro, Santomaso, etc.), Spazialismo a Milano e a Venezia, anni Quaranta-Cinquanta (Forzarza, Crippa, etc. ), Segno e materia a Roma, attorno a “Origine”

anni Cinquanta (Prampolini, Cagli, Capogrossi, etc. ), Informale anni Cinquanta (Burri, Vedova, etc.). L'idea di Marinetti di rifiutare l’idea di un’evasione dal reale (il chiaro di Luna, la Capri dei man-

dolini), di “sollevare la testa dalla sabbia delle cose celesti”, si risolve così nel secondo dopoguerra in una nuova ricerca di purezza (il gruppo “Forma 1° di Dorazio, Turcato, etc.) e il ciclo ricomincia. L'ultimo Marinetti del resto si era già aperto all’immateriale, con la radio e il cosmo sostituiti al motore e al pistone degli anni Dieci.

La Fondazione Cassa di Risparmio di Roma è lieta di dare ancora una volta — con questa rassegna davvero unica per concezione, scandaglio e realizzazione — una vigorosa testimonianza della sua concezione del fare. Fare cultura, fare istruzione, fare concretamente attività nel sociale. È così che trasferisce alla società civile, come ha fatto in questi ultimi anni, il messaggio universale della solidarietà. È così che il patrimonio della sua tradizione, quello economico, viene destinato agli altri nei campi dove la società ha maggiore esigenza di sostegno.

A testimonianza di questo intendimento nel campo culturale (così come in quello sanitario, della ricerca, del volontariato, dell'istruzione) la Fondazione ha avviato il percorso che si snoda fino alla mostra odierna e che nel prossimo futuro ipotizza mostre altrettanto significative. Le successive saranno sul Surrealismo, la Famiglia nell'arte del 900, Fabergé. O ancora, nel Caveau del Museo: “Italiana — Cronaca

dell'Arte Italiana dal 1900 ad oggi” e “Capolavori della Ceramica del Novecento”. Questa attività, tuttavia, alla luce dei recenti provvedimenti normativi che si sommano a quelli numerosi degli ultimi anni — tutti improntati ad una volontà difforme da quella di coloro che fondarono questo istituto e che guidano questa Fondazione — rischia di inaridirsi, volendo il legislatore in estrema sintesi sovrapporsi sta alle scelte sia alla gestione. L’augurio che in questo momento riteniamo doveroso fare è che ciò non accada, che resipiscenza prevalga e il lavoro intrapreso possa seguitare. prof. avv. Emmanuele Francesco Maria Emanuele Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Roma

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se, dalle nuvole. La macchina, con le sue infinite possibilità, si instaura sul palcoscenico.

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drammatizzare il palcoscenico, sdoppiando, moltiplicando un personaggio, valendosi di ombre. Depero vuola musica esce dagli alberi, dalle ca-

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Fortunato Depero, Teatro magico

le fondere la scena con l'orchestra, e

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1918

Nei “Balli plastici” di Depero e Clavel - vennero ricostruiti nel 1980 per la Villa Olmo di Como, ed ora, registrati, si possono vede-

re in video-tape — la scena di Pagliacci è un villaggio luminoso, floreale, popolato da marionette: “clowns”, farfalle, una ballerina-gallina. L'uomo dai baffi ha ballerine azzurre, topi bianchi, arcigni baffuti, danze ebbre. “I selvaggi” sono una tribù in rosso e nero che conduce una danza-battaglia sfrenata, sotto cangevoli effetti di luce, per il possesso di una gigantesca selvaggia, il cui ventre partorirà sulla scena un selvaggetto d’argento. Orzbre ha piani grigi e neri, le ombre sono dinamiche, costruite. L'azione è astratta e ricorda la sintesi dello stesso Depero Colori. L'orso azzurro ha una danza dell’orso. Conclude lo spettacolo una danza di marionette. La guerra e l’immediato dopoguerra rallentano per qualche stagione le manifestazioni teatrali futuristiche, che però riprendono nel settembre 1921 a Napoli con le “strabilianti meraviglie” del Teatro della Sorpresa, compagnia diretta da Rodolfo De Angelis, e con l'intervento di Cangiullo e Marinetti. È praticamente una continuazione del Teatro Sintetico, con una accentuazione monellesca tipica di Can-

giullo, di sorprese (diciamo pure “gags”) e partecipazione del pubblico. Poi Marinetti preferì prodursi al Teatro degli Indipendenti (dove vennero rappresentate Biarca e rosso, Fantocci elettrici, Il suggeritore nudo, e vennero

riprese continuamente

le sintesi). Continuò

una attività drammaturgica

meno

avventurosa,

quasi avvicinandosi al teatro “regolare”. Adottò una forma sintetica in più quadri, mostrando nei momenti migliori — come in Tamburo difuoco — una incisiva forza stilistica, ma non fu sempre preoccupato di una autentica regìa còlta, non improvvisata, che ormai era resa necessaria dai tempi: e mieté scarsi successi, an-

che con espressioni dove qualche sciattezza poteva velare la genialità. Il testo suo più significativo degli anni Venti è forse Prigionieri, basato sugli incubi erotici di un gruppo di forzati, in un'isola, con forme oniriche che richiamano al surrealismo. Fu rappresentato col titolo I prigionieri e l’amore al Teatro Argentina di Roma il 20 dicembre 1927 con scene di Enrico Prampolini. Depero torna al teatro nel 1924 col ballo Arzccharz del 2000, musica di Franco Casavola, dove è inclusa una “Canzone rumorista” del 1916. Siamo in piena arte macchinistica, dopo il Manifesto di Ivo Pannaggi e Vinicio Paladini, cui poi si aggiungerà Prampolini (1922). Lo stesso anno Pannaggi e Paladini ideano il Ballo Meccanico Futurista, rappresentato al Circolo delle Cronache d’Attualità della Casa d'Arte Bragaglia. È eseguito da danzatori russi Ikar e Ivanoff: Pannaggi crea un costume meccanico, e Paladini gli contrappone un fantoccio umano. Al posto della musica è una polifonia ritmica di motori ottenuta orchestrando due motociclette collocate in un palco. “Variando l'intensità dei motori”, ha spiegato Pannaggi, “accelerando o rallentando, si potevano manovrare fughe prolungate e insistenti, raffiche sincopate, scivoli e scoppi, soste e riprese immediate culminanti in rabbiosi crescendo. Proiettori seguivano gli spostamenti dei danzatori, che si portavano dalla sala alla galleria, sparivano, riapparivano, salivano sulla gradinata che conduceva al foyer”. Il Circolo di Via degli Avignonesi è trasformato da Virgilio Marchi in Teatro degli Indipendenti, ma come architetto Marchi disegna anche scene sintetiche; poi è chiamato da Luigi Pirandello a strutturare un teatro da camera nell’Odescalchi. E dà al siciliano anche le scene per La sagra del Signore della Nave e La nuova colonia. In quest'ultimo dramma la scena dell’isola vulcanica doveva inabissarsi nelle acque per maremoto prodotto da un movimento tellurico. “Avvenimento inusitato”, ricordava Marchi, “la didascalia degli ultimi quadri venne improntata sull’aspetto dei disegni”. Il “Teatro Magnetico” fu una invenzione di Prampolini, ma non realizzata. Venne presentato come pro-

getto alla Esposizione Internazionale delle Arti Decorative e Industriali, a Parigi, dove ottenne il “Grand

La rivista “Der Futurismus”, 1922, organo del Futurismo in Germania, con un manifesto sulla scenografia di Prampolini e la riproduzione di Architettura dinamica di Ruggero Vasari, ritratto del drammaturgo futurista, eseguito dallo stesso Prampolini

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Prix du Théatre”. Si può qui ravvisare il coronamento dei tentativi prampoliniani di scenoplastica, di scenodinamica, e spazio scenico polidimensionale. La scena, o “spazio”, come l’autore si esprime, diventa D'elemento più importante della rappresentazione teatrale, “mediante un insieme di costruzioni plastiche mobili e semoventi, di superfici diversamente colorate secondo le necessità dell’azione, mediante una architettura luminosa di spazi cromatici”. La voce umana interverrebbe co-

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me uno degli elementi molteplici dell’azione, senza esserne il predominante. Il Teatro Magnetico è un “teatro antipsicologico astratto”, di suggestione, senza attori, senza scenografie tradizionali, incorporeo. Lo spettatore viene avvolto in una nuova atmosfera e corrente di “spiri-

tualità”, contro il materialismo della interpretazione scenica e lo psicologismo letterario-teatrale. I moti dello spirito sono interpretati a mezzo del fluido suggestivo degli elementi della astrazione scenica. Su questa stessa via l’anno precedente, il 1924, Prampolini aveva estremisticamente, nello scritto L'atmzosfera scenica futurista, già considerato l'attore come elemento inutile alla azione teatrale e pertanto pericoloso (!) per l'avvenire del teatro che è da lui visto, inteso nella sua più pura espressione, come centro di rivelazione del mistero tragico, drammatico, comico, al di là dell'apparenza umana. Il teatro poliespressivo futurista, preconizza Prampolini, sarà una centrale ultrapotente di forze astratte; e lo spettacolo un rito meccanico dell’eterna trascendenza della materia; una rivelazione magica di un mistero spirituale e scientifico. Alla Madeleine a Parigi Prampolini creò nel 1927 con Maria Ricotti il “Teatro della Pantomima Futurista” È un teatro che“sopprime la recitazione facile e lineare dell’artista il quale si limita a tradurre e descrivere nello spazio ciò che la musica esprime nel tempo”. Il superficiale decorativismo mimico è abbandonato, per entrare nel dominio dell’architettura, che è profondità. Tutti gli elementi musicali, pittorici ed attorali devono armonizzarsi tra loro senza perdere l'autonomia. Il ritmo del suono e quelli della scena o del gesto devono essere un sincronismo psicologico che non ha niente a che vedere con l’accordo esteriore e meccanico delle altre arti e risponde totalmente alle leggi della simultaneità che regolano la sensibilità futurista. Luigi Russolo si inserisce, con la sua nuova orchestra, nello spettacolo, valendosi di una sintesi di rumori mediante il Rumorharmonium. Sono autori delle musiche delle singole pièces Silvio Mix (Cockzaz/ di Marinetti e Psicologia delle macchine di Prampolini), Franco Casavola (Tre momenti di Luciano Folgore e Il mercante di cuori di Prampolini), Francesco Balilla Pratella (Popo/aresca di Prampolini), Alfredo Casella (L'ora del fantoccio di Folgore), Luigi Russolo (Santa Velocità di Prampolini, con intonarumori). E qui trova posto anche Luigi Pirandello con La salamandra, musiche di Massimo Bontempelli.

! Cfr. Futurisme 1909-1944 a cura di Enrico Crispolti, Mazzotta, Milano, 2001.

2 Cfr. Manifesti futuristi e scritti teorici di Arnaldo Ginna e Bruno Corra, Longo, Ravenna, 1984. 3 Bruno Corra, Musica cromatica, in Cinema e letteratura del futurismo, Bianco e Nero, Roma, 1970; nuova edizione, Manfrini, Rovereto, 1990. 4ET. Marinetti, La cinematografia astratta è una invenzione italiana (1926), idem.

5 Cfr. Mario Verdone, Teatro del tempo futurista, Lerici, Roma, 1969; nuova edizione, Bulzoni, Roma, 1988. 6 Cfr. Fortunato Depero, Depero futurista 1913-1927, Dinamo Azari, Milano, 1927. ? Cfr. Mario Verdone, La FEKS, Premier Plan, Lyon, 1975.

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LE TRE FORME - Daniele Lombardi

Quando Arnold Schénberg nel 1909 seppe che Ferruccio Busoni aveva trasformato il suo K/avierstiick op. 11 n. 2 per pianoforte in una — a detta di Busoni — “Interpretazione da concerto”, commentando la cosa scrisse che la sua musica avrebbe dovuto essere “...breve, concisa! In due parole: non costruire ma Esprizere!” (A. Beaumont: Busorz the Composer, Londra, 1985). Busoni era intervenuto sul K/avierstiick perché voleva rendere il brano maggiormente strutturato e rispondente ad una sua idea di forma che non cercava la concisione ma una organicità strutturale interna, unita a piccoli ritocchi volti a mostrare effetti sonori più appariscenti nella esecuzione concertistica, vista la sua grande esperienza di pianista. Anche se in fondo erano soltanto piccolissime varianti, la cosa sta a dimostrare la contrastante visione di questi due grandi compositori degli inizi del Novecento, e qui sta la differenza di un approccio con le forme musicali, con processi compositivi che riproducevano la dialettica romantica tra irrefrenabile energia intuitiva e senso della costruzione, come necessità di portare l'invenzione sul piano di un linguaggio i cui stilemi sono l’impalcatura di un apparato semantico legato alle convenzioni. Considerando oggi queste problematiche che risalgono ormai al secolo scorso, si vede come un basilare topos per l'espressività della musica risiedesse nella tensione intervallare, vale a dire che la sclerotizzazione di significati, interni a una serie di patterns armonici e melodici, che si basano appunto sul rapporto intervallare, in musica aveva trovato nell’evoluzione del sistema tonale un linguaggio compiuto ed efficace. L'aspetto grammaticale sito nel rapporto tra due soli suoni andava poi ad unirsi ad altri elementi espressivi che erano dati dalla costruzione sintattica, dai fraseggi, dai contrasti timbrici e dinamici, da tutti quei fattori che sono insiti nella prassi. Si partiva da lontano: sulla semantica dell’intervallo si era costituita nell’arco di tutto l’Ottocento una serie di solide convenzioni melodiche e armoniche che dal Brederzzezer erano andate via via arricchendo il linguaggio, ma anche complicandosi fino a un livello di entropia, finché il sistema è imploso ed esploso agli inizi del Novecento. Schénberg, in una linea che era nell’aria già da tempo, dall’Alkan (Charles Valentin Morhange) degli Esquzsses, da Frederic Chopin dei Préludes, dai cicli pianistici di Johannes Brahms, fino a quelli di Alexandr Scriabin, compose delle serie di piccoli brani, cercando in questo la liberazione da vincoli di macroforme come poteva essere un movimento di una Sonata. Questi piccoli mondi sonori rispondevano alla liberazione di gesti ed emozioni che scaturivano sempre più informalmente e si liberavano sempre più da una idea di consequenzialità che Chopin aveva lacerato irreversibilmente. Di pari passo la dialettica tra figurazione ed astrazione in musica ha

percorso un cammino parallelo allo sviluppo di forme classificate e classiche, a fronte di vari escazzotages quali i pezzi caratteristici, la musica a programma, quella descrittiva, altre modalità che dall’interno della struttura premevano in tutte le direzioni fino a privilegiare già dalla metà dell'Ottocento una traccia sonora di gesti emotivi interni piuttosto che la linea classicheggiante, quindi estetizzante, della quale Busoni è stato massimo cultore e Igor Stravinsky massimo deformatore: malinconia ed ironia. Colta nell’aspetto della sua matericità, la musica è stata sempre più sentita come arte del tempo in dialettica con lo spazio, ma il mito futurista della velocità, tendente alla simultaneità, è stato rappresentato mediante i suoni in modi molto diversi da quelli delle arti spaziali, perché qualsiasi accelerazione o altro effetto scorreva comunque nel vettore tempo creando una impossibilità di sintesi di attimi. Su questo esistono molti scritti, da Henri Bergson a Filippo Tommaso Marinetti, da Alfred Einstein a Massimo Cacciari: la sostanza è nello scontro-incontro-deflagrazione-contaminazione-omissione delle due parti: quella sonora e quella visiva, per cui tanta arte

e tanta musica hanno potuto concretizzare delle opere che chiedono di scambiare metaforicamente i codici. Il tempo come quarta dimensione dello spazio rivelava in quegli anni una potenzialità evocativa che per-

metteva ai musicisti di pensare suoni visibili e agli artisti visivi di ascoltare le evocazioni sonore delle im-

LUIGI

Luigi Russolo, L'Arte dei rumori, Edizioni Futuriste di “Poesia”, Milano, 1916

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CORSO VENEZIA, 61 - MILANO

magini. Questo scambio era un percorso che andava verso il teatro, e come si è visto la confluenza in uno spazio scenico ha prodotto parti ture per occhi, immagini per orecchi, testi che non avrebbero avuto 72se en scène, ma che valevano come progetti, tracce immaginarie di even-

ti: era quindi l’utopia di una comunicazione pre-audiovisiva che dalla seconda parte del secolo scorso ha poi caratterizzato la nostra epoca. Soprattutto il Futurismo di Marinetti ha teso a creare una nuova sensibilità, una nuova possibilità di appercezione che è stata anche evocata da

tutte le altre avanguardie, costituendo le premesse di quella abitudine ai

messaggi audiovisivi che oggi pare scontata, un ping pong tra visivo ed

uditivo che troviamo anche nella musica degli anni Cinquanta-Sessanta, quando l’informzale in musica passava a volte da sistemi semiografici che volevano la partitura come luogo dell’azione, affidando a immagini, codici e testi verbali, strutture mobili, una più o meno necessaria esecuzione fisica da parte di interpreti, spesso chiedendo all’osservatore non musicista di immaginare egli stesso una soluzione alla utopia dell’autore. Ascoltare la pittura e vedere la musica: meccanismi speculativi che hanno formato nuove grandi sensibilità e hanno alluso a quella inarrestabile tendenza alla simultaneità che Stephen Kern ha così bene descritto e storicizzato nei suoi scritti. Tutto questo partì da Marinetti, che tra l’altro con le Tavole parolibere creò un significativo precedente per i processi semiografici delle notazioni di azione che si affidavano a codici visivi, ideogrammi, che in tutto e per tutto rispondevano agli stessi criteri di visualizzazione dei Mozs en liberté. In musica dunque futurismi e cubismi venivano azzerati dallo scorrimento del tempo biologico, ma una buona strada fu possibile attraverso l’imitazione dell’isocronia della macchina, ed anche con il collage e l’improvvidr

sazione‘estemporanea, mentre intanto nella prassi compositiva una nuova realtà sperimentale proponeva atonalità, dodecafonia, suono-rumore e tutte le possibili evoluzioni e contaminazioni.

Le avanguardie storiche degli inizi del Novecento hanno consumato la distruzione di un plot sonoro narrativo, lo hanno esploso determinando un’irreversibile frammentazione, il collage, la vera o falsa citazione, ed il tutto, sempre più astratto da racconti o da figure, ha prodotto un rapporto con la forma che possiamo identificare concisamente secondo tre diverse modalità:

1. forma sformata; 2. forma affermata; 3. forma negata. La distruzione di una sintassi, la deformazione per ampliamento o per restringimento, sono i motori della forma sformata. La griglia concettuale latente, un’idea modernista di rinnovamento, era il filtro che rendeva la rappresentazione visiva e sonora il prodotto di una visione interna spesso in antitesi con criteri di figurazione inte-

si come la logica formale che si era precedentemente consolidata nella competenza comune. Modernismo versus tradizione fecero del Futurismo, del Cubismo e di altri -ismi anche in musica il perno sul quale girò l’opera d’arte, per prendere direzioni più o meno programmate. Il sistema tonale, reso complesso fino alla soglia dell’entropia, confluì nella politonalità, poi ancor più nella atonalità che fu il bagno di coltura della dodecafonia nel quale i tanti fiumi della polifonia furono la componente più naturale. L’informale in musica nacque nel momento in cui il suono divenne materia da indagare più da vicino, fino a considerare tale anche qualsiasi rumore, tornando alla miope ma rivoluzionaria idea di Luigi Russolo e dei futuristi, che Edgard Varèse contrastò, di imitare la nuova realtà urbana. Dopo aver teorizzato il ready made sonoro solo un atteggiamento metafisico rese possibile che la forma, verso gli anni Venti, venisse riaffermata, con la stagione neo-classica, con forme ritrovate pur deformate, o è la n24-

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niòre de..., in cerca di una continuità storica che recuperasse stili e modi forse feticisti e necrofili, tra l’accademico e le seduzioni di modalità coatte in odore di asservimento più o meno consapevole e diretto a — e da — regimi totalitari, ma il neo-classicimo di Igor Stravinsky, come quello di Erwin Schulhoff, sono stati ben altra cosa, contaminando elementi jazzistici e articolando una lucida ironia che portò le loro composizioni a essere bollate come musica degenerata dal Nazismo. L'altra strada, quella che passa successivamente da Olivier Messiaen e poi dai suoi allievi Pierre Boulez e

John Cage, da TV Kéln for piano solo, Kòln 10/58, Henmar Press, New York Franco Evangelisti, da “Aleatorio” .

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Karlheinz Stockhausen, è quella di uno sviluppo formale che porta con sé l'utopia di una qualità analitica nell’ascolto che oggi appare poco probabile. A fronte di brani di estrema complessità strutturale, l’impat-

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guidato dall’itinerario della lettura della partitura, provoca la sensazione di informale, e qui si apre un pro-

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blema non risolto: la soglia tra persmmre au sv smar smise ne mapei arse, si von 04 SER a S nin. cezione della forma e scivolamento nell’entropia, per chi non esegue o conosce approfonditamente la partitura che sta ascoltando. Ciò che appare informe è frutto di un incredibile lavoro di aggregazione, non sempre desunto dall’accostamento orizzontale o verticale dei suoni, ma prodotto da fatti extramusicali, come per esempio il caso di Structures I di Boulez, che

partì da un lavoro di interpolazioni numeriche per approdare ad una revisione, Structures II, che veniva dal raccordo con una rinnovata concentrazione sul risultato fonico. In questo senso il compositore forse più emblematico è stato Jannis Xenakis, che però ha anche trovato una terza via, perché se è pur vero che molte sue composizioni hanno una origine formale nell’applicazione ai parametri musicali di procedimenti stocastici, desunti quindi dalla trasposizione delle altezze dei suoni in numeri, il pensiero sintattico del suo procedere compositivo aveva sempre davanti a sé una necessità di aggregazione che viveva i suoni in una metafora dello spazio, affidando alla materia sonora una finale corporeità che era il contrario dell’inforrzale.

Su tutto questo la forza negata, l’informale, storicamente necessario, è passato in musica attraverso i procedimenti aleatori. Questi veri azzeratori della semantica dell’intervallo che la dodecafonia aveva soltanto eluso,

ma non deluso, furono il trampolino che permise di saltare nella estemporaneità di un gesto sonoro, dunque più o meno fissato sulla carta, che cercava lo spazio della forma in alleanze tra la percezione uditiva e suggestioni cromatiche come tracce di azioni. Ciò implicava una dimensione sempre più teatrale, di una scena immaginaria che poteva essere la partitura stessa o l’azione estemporanea dell’esecutore. Informale come negazione della forma? In questo senso il grado zero della musica, che possiamo considerare il brano di John Cage 4733”, tacet any instrument or group of instruments, è il gesto massimo di rispecchiamento di un silenzio che fa davvero entrare la vita con la sua estemporanea imprevedibilità nel concetto di opera. Questa provocazione massima è stata con l’bappering l’ultima spiaggia di un atteggiamento appassionato che tendeva a rendere visibile, udibile, comprensibile, quella energia allo stato creativo, la sorgente di una invenzione che dalla fine del romanticismo Marinetti aveva lanciato come messaggio in una bottiglia di champagne che eplode. Cage può oggi essere collegato con un filo diretto a Marinetti, attraverso lo stesso lavoro di inventore, di creatore di strategie di gioco che in qualche modo coinvolgono la vita quotidiana nelle astrazioni di un sistema culturale ed artistico che portava sempre ogni espressione sul piano di una rappresentazione che doveva filtrare la reatà. Il tempo futuro, quindi, del quale possiamo prevedere soltanto lo scorrimento, ma nel quale ogni evento, incapaci a prevederne i nessi logici e formali, è un accadimento, tra la volontà di un gesto e la passiva contemplazione. Lo scossone dato da Cage non lasciò indifferenti i musicisti darmstadtiani di area romana ed è bene ricordare Franco Evangelisti, i cui frammenti sonori appaiono oggi più che mai frammenti di informale, in contrappunto con l’afasica tensione al silenzio di Anton Webern, seguendone la stessa strada. Particolare significato in questa panoramica viene assunto da Aldo Clementi, con i suoi Irforzzel I, Il e III, e il suo sviluppare una idea di informale che egli ricollegava a Jean Fautrier e Antony Tàpies, con il bisogno di evadere dalla percezione del singolo intervallo o qualsiasi altro dettaglio ben definito, oltre alla necessità di annullare ogni articolazione formale, fino a quello che si poteva definire materismo statico. Nei fatti questo è stato realizzato da Clementi, anche nelle opere successive, attraverso linee polifoniche: una

idea di tempo circolare come slittamento con uno scorrimento della materia sonora tra episodi sovrapposti ed

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Domenico Guaccero, da “Esercizi” pianoforte, Roma, 1965 (mscr)

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un gioco di tensioni non consequenziali, ma eludendo costantemente e paradossalmente la coazione a ripetere di queste possibili strutturazioni con gesti e con una inter-

polazione aleatoria. Un altro esempio di estemporaneo SUONI ACUTI gesto informale è dato dalle com* PEDALE “ DESTRO posizioni di Domenico Guaccero, che racchiudeva in sé un atteggiamento sperimentale nei confronti del gesto esecutivo e della traccia sonora da esso determinato, il tutto tra una idea aleatoria di interpolazione del materiale e uno spiccato senso del teatro — azione sonora come azione mi-

mica — che si manifestava vivamente nei tanti concerti nei quali l’improvvisazione aveva un ruolo centrale, concerti cui ebbi a volte la possibilità di partecipare anche come esecutore. Roma negli anni Sessanta aveva un ruolo importante per questa visione musicale ed artistica, e bisognerebbe indagare più a fondo su questi compositori tra i quali Egisto Macchi, Vittorio Gelmetti, ma anche sulle composizioni di Giacinto Scelsi, spesso illuminazioni scritte di eventi estemporanei da lui suonati, in una modalità simile a quella operata negli stessi anni dall’altra parte del mondo da Leo Ornstein, e su tutto ciò che girò intorno alla costituzione e ai primi anni di attività di Nuova Consonanza, associazione della quale questi compositori furono soci fondatori e protagonisti. In quegli anni era nato anche il Gruppo di Improvvisazione di Nuova Consonanza, che eseguiva concerti più o meno basati su precomposizioni schematiche di carattere aleatorio, gruppo che era il sintomo di una fuga dalla forma strettamente prefissata, grammaticale e/o sintattica, verso l’esperienza diretta sulla espansione timbrica e su sottili stati d’animo. Anche queste cose hanno un forte legame con il Futurismo, se si pensa al Marzfesto della Improvvisazione musicale, che nel 1921 fu firmato dai musicisti romani Mario Bartoccini

e Aldo Mantia, per

non parlare delle teorie di Francesco Balilla Pratella sullo stato d’anzzzo generatore che mosse in lui un cammino sulla libera forma, anche se il suo linguaggio non mostrò l’audacia che i suoi manifesti avevano promesso. Dunque la parabola della creatività musicale ha visto nella seconda metà del secolo scorso intrecciarsi una grande molteplicità di realtà foniche: l'invenzione e l’arbitrio linguistico parevano la molla della modernità ir progress, per cui non è esistita una nuova musica, ma ne sono esistite molte che hanno interagito con esiti a volte tanto straordinari quanto inascoltati. Come per le arti visive il grande numero di differenti produzioni musicali può essere visto oggi come una sconfinata biblioteca di suoni nella quale il solo approccio dell’ascolto induce a pensare che una grande quantità di questi suoni stia oltre la soglia dell’entropia. C'è da fare un monumentale lavoro di carattere musicologico per creare dei ponti con la competenza comune, per identificare ciò che sta dietro le evidenze sonore, le tante linee che compongono la matassa aggrovigliata che è la musica del nostro tempo. Di questo intreccio le tre forme sono i tre poli che potrebbero essere utili a dare una chiave di lettura, ma il problema è che gli ascoltatori dovrebbero conoscere sia l’evoluzione dei linguaggi che a queste realtà foniche hanno portato, sia quale è il rapporto tra autore ed esecutore, che si identifica nel progetto grafico della partitura, quasi sempre non conosciuta all’atto dell’ascolto. Ma in ultima analisi l'impatto con una idea dell’informale in musica è l'impatto fisico con una materia sonora in tutto e per tutto analogo a quello con una materia pittorica o plastica, in quanto sono in gioco gli stessi preconcetti di figurazione-astrazione, di costruzione e di Gestalt, di fascino o repulsione. Ma non c'è stato in musica un vero e proprio movimento rforzzale. In molte opere si ravvisa però un corto circuito con l'energia

creativa, sia essa nel segno, nel gesto o nel suono, che fa dell’opera un divenire più o meno irripetibile. Tutto questo non può prescindere dal rapporto con una competenza comune che dall'impatto con queste opere dovrebbe aprire orecchi e occhi per un'immersione che è sconsigliata a chi non vince pregiudizi simili alla incapacità di concentrazione o a chi soffre della psicosi dell’apnea. 30)

L'ARTE VESTITA - Bonizza Giordani Aragno

L'abito come oggetto della nostra “cultura” e soggetto delle avanguardie artistiche raccontato in un evento, in cui la moda si presenta con tutta la sua vitalità seguendo il percorso storico-critico che illustra l’origine del presente. Un'’esposizione di piccoli capolavori, espressività corporea di un’epoca che ha mutato il modo d’intendere la moda ‘protagonista’ dei mutamenti del novecento. Tracciare un itinerario parallelo tra arte e moda, tra armonie e dissonanze che hanno rinnovato il linguaggio del tessuto, del taglio, della linea che da costrittiva e complessa si aprì grazie ai futuristi e agli astrattisti a soluzioni moderne, fino al più eclatante fenomeno con la riproduzione 10 dei capi, anticamera del successo del Made in Italy. Sono le grandi firme della moda che hanno saputo leggere il messaggio dell’arte. io ‘alla moda’ che inizia strabiliando a Parigi, con l’illuminazione di cinquemila lampadine multicolori accese contemporaneamente dal Palais de l’a un simbolo di cambiamento, un inno alla modernità. Una manifestazione stupefacente, un’omogeneizzazione

di massa che

partecipa al dinamismo delle metropoli, sempre più rumorose e aperte alle nuove tecnologie. Saranno le avanguardie artistiche il motore di tanti cambiamenti proponendo stili di vita e valori moderni causa anche dei mutamenti del vestire. Per l’Italia l’aspetto piu significativo sarà l'intuizione e la progettazione di un abbigliamento antiborghese proposto dai ‘futuristi’ che ha contribuito ad avviare il processo verso la democratizzazione della moda e contro ogni riferimento passatista.

Il movimento proclamò la sua guerra culturale, e fu Balla, leader della nuova corrente modaiola, con il manifesto dal titolo il Vestito antineutrale del settembre del 1914 a definire i ruoli e i modi in cui l’uomo doveva vestire, usando un linguaggio “marinettiamo” rude ed aggressivo. Crea completi maschili asimmetrici caratterizzati da colori acidi forti e contrastanti, in un clima di severa rinuncia, luomo vestiva in nero e in grigio.

In una manifestazione a Roma, all’Università fu Cargiullo con un completo tricolore disegnato da Balla, e con un cappello sormontato da una stella d’argento, a lanciare l’abito della contestazione. Provocazione e ricerca stilistica che si ritrova nell’abbigliamento “senza senso” nei primi anni Settanta.

L’abito moderno femminile rompe dame Vionnet in collaborazione con vi schemi, proponendo le due facce tica e simmetria dinamica che negli grande attualità. Moda come provocazione, come l’evento il suo momento effimero.

il suo percorso tradizionale sarà Mail futurista Thayaht a suggerire nuodello stesso problema simmetria staanni Novanta e ancora oggi, sono di

dimostrazione reale che troverà nel-

La moda intuisce i mutamenti sociali, libera la collettività dall’autorità

della storia.

Alla pagina precedente Un esempio di sartoria romana, 1927

a. Una copertina di “Vogue”, 1929

d. Emilio Pucci, Nastri, 1969

b. Premio Pittura Sorelle Fontana, Roma,

e. Una creazione di Enzo, 1969

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c. Un disegno per abito di Roberta di Camerino, anni Sessanta

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Una creazione di Fausto Sarli, autunnoinverno 1969-1970

La novità diventa bisogno mondano, veste il momento preciso, si emancipa dall'influenza del passato a favore di un presente degno di rispetLO,

L'abito come una tela da pittore, ed è l’artista che opera sul tessuto stampato rendendo popolare il suo segno. Sono molti gli artisti astratti che hanno creato forme e materie su abiti firmati, testimoni eccellenti

del novecento. Contaminazione dei generi, esaltazione delle materie, trionfo del colore, ricerca di funzionalità, rifiuto di un lusso ostentato indice di cattivo gusto.

La formula esiste da sempre e appartiene all’uomo “guardare il passato per riscoprire il nuovo”. L'arte entra nel ciclo-moda, con i suoi mutamenti e i suoi ammiccamenti, usa mescolare esperimenti cromatici con forme, per rinnovare il

linguaggio dello stile da Balla a Delaunay, da Fontana a Capogrossi, da Dorazio a Sanfilippo, da Getulio Alviani a Vedova. Sono le grandi firme della moda ad interpretare il messaggio cromatico e la forza del segno da Emilio Pucci a Roberta da Camerino, da Livio de Simone a Missoni, da Ken Scott ad Albini. Volumi e materie per le Sorelle Fontana, Germana Marucelli, Maria Antonelli, Simonetta, Federico Schuberth, Carosa, Roberto Capucci, Mila Schén, Gattinoni, Valentino, Lancetti, Fausto Sarli, Romeo Gigli, Mau-

rizio Galante ecc. Assemblaggi di capi come partecipazione emotiva di una narrazione apparentemente indecifrabile, liberando la moda da “quell’ancestrale senso di colpa”.

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L’anno della nascita del Futurismo in pittura è il 1910, quando nei primi mesi furono lanciati il “Manifesto dei pittori futuristi” e soprattutto “La pittura futurista. Manifesto tecnico”, i cui firmatari definitivi sono Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, e

Severini (ma inizialmente recavano le firme di Romani e Bonzagni, in luogo dei due ultimi). In particolare i concetti chiave del manifesto ‘tecnico’ si incentrano sulla rapidità nuova delle sensazioni del mondo contemporaneo, in cui lo sviluppo della tecnologia aveva potenziato la velocità dei mezzi di trasporto, delle telecomunicazioni e dei processi stessi dell'esperienza quotidiana e del pensiero. La pittura doveva saper cogliere questa nuova bellezza al di sotto della pelle dei fenomeni, collegando realtà in movimento e situazioni psicologiche accelerate e distanti tra di loro, in compenetrazioni di simultaneità di sensazioni ed emozioni affluenti al di là dei limiti di spazio e di tempo. Nel suo fondamentale libro teorico “Pittura e scultura futuriste (Dinamismo plastico)”, pubblicato nel 1914, Boccioni afferma ripetutamente la necessità di pervenire ad una visualizzazione “astratta” della realtà, che definisce “una specie di concettualismo plastico che possa sostituire praticamente l’intuizione dell’artista”. In questo senso nella fase “analitica” della ricerca pittorica e plastica futurista (parallela alla analoga fase nella ricerca cubista) l’astrazione si pone come un corrispettivo non formalistico ma simbolico ed efficace della realtà, in grado di proporre sulla tela l’esito di nuove dinamiche fisiologiche e psichiche. E tuttavia rimane sostanzialmente un processo ancorato alla circostanza emotiva reale iniziale.

Boccioni polemizza infatti con Kandinskij accusandolo di trasposizioni analogiche musicali; come del resto accade allora anche a Prampolini, rifiutando una valenza di “interiore spirituale” nell’“arte pura” Nella propria ricerca di “dinamismo plastico” Boccioni giunge al limite dell’astrazione

in dipinti del 1913 sul tema del dinamismo del corpo umano. Mentre nel medesimo anno per Severiniè il traguardo in particolare delle sue “espansioni sferiche di luce”. Per parte sua Balla nel 1913 risolve in elaborazioni formali dinamiche di “velocità astratta” il tema della velocità d’automobile, sintetizzando subito dopo, in termini d’astrazione dinamica, linee di velocitàe e paesaggio. Ma si devono a Balla anche le più radicali formulazioni d’astrazione presenti nella fase “analitica” delle ricerche futuriste, enunciate nel breve ciclo delle “Compenetrazioni iridescenti”, sviluppato dal 1912 al 714. Ma anche

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Il movimento romano “Forma” nasce nel 1947, con la pubblicazione del primo foglio omonimo, e fino alla sua conclusione nel ’51 riunisce i pittori Accardi, Attardi, Dorszio, Mino Guerrini, Maugeri, Perilli, Sanfilippo, Turcato, e lo scultore Consagra La dichiarazione programmatica contenuta in “Forma 1”, che precede Lolita realiz-4-ione ii opere, parla di pratica della “forma pura”, di “formalismo”, di “forma” come “mezzoe fine”, tuttavia intendendolo come impegno politico nell’intenzione di essere allo stesso tempo “formalisti e marxisti”. Il che voleva dire partecipare della realtà delle cose senza preconcetti né i tradizionali contrappesi che

impediscono la libera espressione artistica ed umana in senso lato. Inizialmente gli esponenti del gruppo guardano soprattutto alle formulazioni astratte di Magnelli, per superare una partenza postcubista. E nel panorama storico dell’arte astratta sarà di rivelante importanza la riscoperta e l’interesse degli esponenti del gruppo appunto per Magnelli o l’esplicito rifarsi alla tematica del dinamismo futurista delle forme sintetiche e astratte di Balla o in generale per la pittura di Severini e per le nuove elaborazioni di quella di Prampolini. L'attività del gruppo si caratterizza anche e soprattutto per l'entusiasmo operativo nelle diverse combinazioni di proposizioni formali praticate, e per le doti di iafaticabili agitatori culturali di alcuni dei suoi esponenti con l’organizzazione di importanti esposizioni e dibattiti sull’arte astratta, oltre che per la fondazione del Club Age d’Or. Ma al di là degli anni della presenza del gruppo (qui esemplificati da significative opere di tale livello cronologico, di Dorazio, di irruenza costruttiva e quasi meccanica, progressiva, estroversa e dinamica, e di Perilli invece conflittuale di

ispirazione prampoliniana), negli svolgimenti della ricerca dei suoi maggiori esponenti, rimane nel tempo l’impronta di una sostanziale fiducia nelle possibilità di una libera ammistrazione immaginativa della forma pura, finendo per divenire questa la caratterizzante d’una opzione formalistica romana, entro la quale riemergono, tuttavia appunto nella loro esplicitazione più formalistica, anche prospettive d’una possibile via italiana all’astrattismo. Così si evidenziano gli approdi personali ad esiti di sintesi formalistiche e segniche che avrebbero costituito il tratto distintivo della loro poetica per il resto dell’attività. Soprattutto, per esempio, nel caso della pelle pittorica della Accardi, al di là del momento più inquieto e significante della sua ricerca nei primi anni Cinquanta, energica, espressiva ed in assestamento. Oppure in quello dell’intreccio nervoso e corsivo di Sanfilippo. Peraltro a quel livello di tensione confluiti in prospettive “informali”. E altrimenti nel caso della insistita ricerca di bidimensionalità presente nella scultura di Consagra, e risolta in un modi di regia formale. E persino in quello di Turcato, pur operante sempre alle radici del poetico pittorico, in modi diversi e imprevedibili eppure sempre infine formalmente motivati.

Piero Dorazio Soprattutto incanto, 1950 olio su tela, cm 92 x 65 Collezione Credito Fondiario e Industriale, Roma

Negli anni compresi tra il 1949 ed il 51 Dorazio spoglia la sua pittura di tutto il superfluo, vale dire di ciò che non riteneva necessario ai fini di una ricerca analitica, metodica e rigorosa come una scienza. Già interessato al futurismo tra il 1946 ed il ‘47, nel ’50 conosce a Parigi Magnelli, Vantongerloo, Arp, Severi. ni ed incontra Balla a Roma. Soprattutto incanto testimonia della fascinazione di Dorazio per queste esperienze futuriste ed astratte di respiro internazionale, un’apertura che terrà bene a mente per tutta la sua carriera. È un’opera che si presenta come un assemblaggio lamellare di forme, un fascio di energie di cui si hanno sulla tela i ritmi del loro movimento e passaggio, quasi ne fossero soltanto percepibili ormai, a livello di sensazione, i meccanismi interni e le evoluzioni ritmiche. È l’idea delle pure sensazioni pittoriche di Boccioni che Dorazio sta cercando di mettere in moto. Questo interesse per uno spazio elastico e teso, strutturato e archi-

tettonico, lo porterà a dipingere opere ispirate a Malevié e Mondrian, a comporre rilievi in legno e costruire colonne in plexiglas (Sospensioni trasparenti), sperimentando applicazioni concrete di concetti come solidità, ombra, vuoto, luce. Il titolo dell’opera Soprattutto incanto spiega lo stesso artista, gli fu dato “i polemica con il realismo socialista dell’epoca e vuole confermare le dichiarazioni di poetica del manifesto di Forma 1”. L'incanto

è dato qui dalla delicatezza dei colori che trasformano, metaforicamente, l’incontro di due presenze astratte in una coppia di innamorati. A partire dal ’58 queste vere e proprie “prove di laboratorio” verranno fatte confluire in retinature, reticoli e tessiture di colore, come l’artista avesse finalmente chiarito quello che sarà il suo metodo. Da questo momento infatti la sua pittura può definirsi trasparente e riflessivamente critica, basata cioè su vna tecnica che lascia assolutamente scoperto il proprio procedimento e che si affida esclusivamente ai suoi aspetti sensori e mentali per metterne in luce, in trasparenza, la propria verità. Per Dorazio il vedere, come dirà Ungaretti a proposito delle sue opere, “non è fidarsi delle apparenze ma insegnare all’occhio a servirsi di quelle armi mentali che forano le apparenze e portano a sapere come le apparenze si formino”. Per questo la sua pittura può dirsi una si-

tuazione in crescita costante, un processo additivo alla ricerca dei principi fondamentali della visione, una messa a punto delle proprie strutture “chimiche” e sensoriali. Un pensiero ottico-critico che abolisce ogni mistero, ogni opacità e che fa della superficie dipinta una pelle sensibile, modulata nel tempo per vibrazioni sottili ed infinitesimali (Crack bleu del ’59), poi per bande (Passato e presente del ’63), strappi, fasci energetici e flussi corpuscolari di colore (Staccato del ’77). Dorazio ritiene che il comportamento dell’uomo sia fondamentalmente stimolato dalla percezione visiva, dal colore, dalla forma, dalla luce e che la consapevolezza di ciò permetta di avere esperienza di una realtà nuova ed esatta come quella della scienza ma che non è naturalmente una scienza. Come scrive lo stesso artista, la pittura deve riuscire ad “affrontare le immagini senza più bussola, in uno stato di totale candore facendo affidamento soltanto ai sensi” e mostrare che tramite la superficie della

tela si scopre la realtà della mente.

ESPOSIZIONI: Piero Dorazio, Galleria Marlborough, Roma, 1964 (cat. fig. 2); A Todi splendida, Palazzo del Popolo, Todi, 1975 (cat. fig. 7); Palazzo delle Scuole, Trissino, 1986 (cat. n. 6); Ludwigshafen, Monaco, 1981-82 (cat. n. 3 p. 23); Quadrat Moderne Galerie, Bot-

trop, 1982 (cat. n. 3); Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma, 1983-84 (cat. p. 26); Piero Dorazio, Musée de Grenoble, 1990 (cat. p. 48 fig. 9); Piero Dorazio, Galleria Comunale d'Arte Moderna, Bologna, 1990-91

BIBLIOGRAFIA: Will Grohmann, Piero Dorazio del ritorno della qualità in pittura, “Metro”, n. 4-5, 1962, fig. 8 p. 39; Piero Dorazio, “Letteratura”, novembre-dicembre, 1964, p. 106; Maurizio Fagiolo dell'Arco, Piero Dorazio, Officina Ed., Roma, 1966, p. 10 fig. 3; Murillo Mendes; Dorazio, 1968, fig. 5 p. 55; Giulio Carlo Argan, L'arte moderna, Sansoni, Firenze, 1970, fig. 684 p. 633; Marisa Volpi Orlandini, Dorazio, Alfieri edizioni d’arte, Venezia, 1977, fig. 9; Splendide mostre di Dorazio, A. Bovi, “Il Messaggero”, 18 aprile 1975, Roma

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Achille Perilli Più tutti, 1953 olio su tela, cm 99,5 x 99,5 Collezione dell’artista

Il dipinto Pià tutti, con la sua tensione e quel rapido movimento di forze che si contrastano, è interpretabile come un campo di “furiosi combattimenti e incredibili deformazioni”, secondo un'espressione dello stesso Perilli, una vera e propria onda d’urto vista nel momento in cui si genera e si prepara all’impatto. L'idea di due entità geometriche opposte e diverse che si combattono, rientra in linea generale nella complessa poetica dello spazio che Perilli ha indagato a partire dal 1950. Uno degli assunti di questa poetica è che solo grazie alle contraddizioni del linguaggio si rende possibile il movimento del pensiero e lo sviluppo delle forme. Un dipinto privo di centro e guizzante, insicuro, instabile, è quindi un’ottima immagine per rappresentare questa tesi, che prende avvio dai suoi inizi futuristi ed astrattisti (Balla e Magnelli), con contrasti di forze e strutture coloristiche che altro non sono per Perilli che tentativi di “concentrare in un'immagine precisa, concreta, reale, le

incertezze, gli squilibri, le irrazionali paure” del mondo civile. Si tratta di una visione che vede nella catastrofe, nell'incontro forzato di spazi separati che non hanno niente in comune, la possibilità di trovare altri modi di essere.

Se Più tutti racconta in maniera ancora “eroica”, travolgente e descrittiva il tentativo di eliminare lo spazio fisico ed aprirsi ai tanti spazi possibili, a partire dal ’58 l’artista, grazie ad un viscerale interesse culturale per il dadaismo ed in particolare per Schwitters, troverà nella grafia spontanea, incisa ed infantile, un modo per esprimere gli squilibri e l’irrazionalità della sua idea di spazio come parte vitale ed embrionale dell’interiorità. Ciò lo porterà a trovare nella forma ironica del racconto a “fumetti”, come Gli amori di Cleopetra del ’61, una nuova figurazione del tutto libera, non codificabile, non misurabile e non geometrizzabile. E in questo stesso anno che realizza con Aldo Clementi Collage, uno spettacolo visivo astratto (il primo di una lunga attività scenografica e teatrale), una vera e propria galassia di spiazzamenti e di spazi sorprendenti: sarà un modo di estendere allo spazio tridimensionale il dinamismo di quello pittorico. A partire dal ’65, attraverso un meticoloso percorso di distruzione della geometria, arriverà ad individuare immagini di complesse e paradossali costruzioni aperte a varie prospettive, allo stesso tempo illogici spazi dadaisti e costruttivisti (Mourzerzent-Monument dada del 72), una programmatica manipolazione della geometria a testimoniare un’uscita da ogni tipo di condizionamento repressivo della prospettiva. Queste “scatole matte”, questi “burleschi meccani”, come li definì Angelo Maria Ripellino, sono un'alterazione di significati e di codici che Perilli interpreta come un atto rivoluzionario e creativo. Le sue geometrie più recenti, vere e proprie proiezioni allungate di traiettorie quasi soltanto immaginate, simili a figure anamorfiche, provano come il suo spazio intuitivo ed irregolare sia stato in grado di modificarsi ed adattarsi ai tempi mutevoli della sua esistenza. BIBLIOGRAFIA: Achille Perilli, continuum 1947/1982, Electa, Milano, 1982, p. 29

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Carla Accardi Frammenti,

1954

caseina su tela, cm 90 x 130

Collezione M. Carpi, Roma

La nascita del segno tipico della pittura di Accardi avviene nel ’54, proprio la data di esecuzione di questa opera. Appena un anno prima l’artista aveva attraversato un periodo di crisi ed iniziato a lavorare con la tela poggiata direttamente a terra, pratica che non ha mai più abbandonato. Il segno occupa quindi lo spazio vuoto di una tabula rasa, di un azzeramento mentale e visivo. I frammenti segnici che inondano la superficie della tela creano una sorta di labirinto mobile che viene dalle forme sparpagliate dei motivi di “forme e rumori” e dai “modificanti” di Balla. È significativo che Frammenti faccia parte di un ciclo di opere simili a costellazioni esplose e senza centro, ispirate a giochi di tensioni e di scontri come battaglie, arcieri o duelli. Ma il dramma è depurato grazie ad intrecci ed incastri che, attraverso una ripetizione che la pittrice definisce “liberatoria”, hanno la funzione di alludere con serenità al fluire della vita senza raggiungere uno stato di fusione né di unità. Questa frammentazione segnica porterà la Accardi ad utilizzare forme calligrafiche che verso la fine degli anni Cinquanta saranno dipinte con colori vivaci e sensuali e via via sempre più accecanti e fluorescenti, tanto da indurre nello spettatore stati che si potrebbero definire “ipnotici”.

Verso la metà degli anni Sessanta realizza opere in cui il segno diventa scrittura che occupa la tela come fosse una pagina vera e propria (Rosa-azzurro del ’64) oppure che si riduce a delicate ondine, voli di rondini, vermicelli su fogli di plastica trasparenti (sicofoil). L'uso del sicofoil rientra in quella poetica della superficie che Achille Bonito Oliva ha definito lo “splendente superficialismo” della Accardi. Una poetica che esalta l'estrema visibilità della pittura, la sua bellezza, il virtuosismo dei segni, il puro piacere di essere guardata, come una decorazione liberty che si adatta naturalmente a qualsiasi superficie o allo spazio della parete. Tanto è sentita dalla pittrice questa attitudine, che dagli anni Sessanta dipinge direttamente sui fogli di plastica trasparenti senza fare uso della tela ma sovrapponendoli (Due azzurri su oro del ’66) e addirittura creando ombrelli, paraventi, tende a dimensione umana (Triplice tenda del 1969-71), in cui viene espressa l’idea della transitorietà e dello spazio continuo. Sono pellicole luminose che aspirano ad una dimensione ambientale in cui la luce è la vera protagonista dell’opera. Eliminata la separazione tra superficie e applicazione pittorica, spazio autonomo dell’opera e inserimento nell’ambiente, arriva negli anni Settanta a dipingere i telai di legno, sovrapponendoli e ordinandoli uno sull’altro in progressioni geometriche “stellari” come nell’opera Cazasta. Negli anni Ottanta ritorna alla pittura su tela, dove ormai il segno è diventato un’esuberante macrostruttura, che negli anni Novanta dipingerà su tele di cui lascerà in vista il supporto grezzo, confermando ancora una volta le intenzioni di una pittura in trasparenza e senza profondità, priva di “urti, violenze e rimpianti, un libero ritorno ad una specie di paradiso perduto”. Una coerenza narrativa di lunga data che l’artista non vuole sia definita uno stile ma piuttosto un modo per rappresentare la vita e le sue condizioni universali. BIBLIOGRAFIA: Germano Celant, Carla Accardi, Charta, Milano, 1999, fig. 33 p. 246

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Antonio Sanfilippo Metropoli, 1954 olio su tela, cm 115 x 162

Collezione privata

In Sanfilippo le grafie animate, le fitte scritture comunicative ma allo stesso tempo prive di messaggi (tema centrale della sua opera a partire dal 1953-’54) che si distendono felicemente su spazi bianchi, nascono direttamente da un processo di liberazione dal rischio di costrizioni degli schemi costruttivisti e postcubisti. Si tratta di segni scoperti ed estroversi che verranno protratti fino alla morte, con variazioni di addensamenti, colori, spessori e frequenze ma non di significato. Secondo l’artista infatti “un’:dea deve essere portata in profondità. Il vero artista fa una 0 due opere in tutta la vita”. Nel ’51 a Parigi conosce Magnelli e Hartung e già l’anno seguente tenta di fondere l’astrazione geometrica del primo con lo spazio più vivo, nervoso e fluido del secondo, a cui aggiunge un sentimento “atmosferico”, una spazialità non misurabile ma presente, dilagante e corpuscolare. Non a caso Cesare Vivaldi definirà i suoi intrighi di segni come “galassie affondate nello spazio, gomitoli, arruffi di segni in cui ciascuno di essi non vive per sé ma in veramente “infrastellare” relazione con gli altri. Metropoli evidenzia questo particolare tipo di rapporto spaziale presente nelle opere di Sanfilippo, per cui la scrittura non è mai tesa a confermare o ridurre la pittura sulla superficie ma a cercarne una profondità, un rapporto di pieni e di vuoti attraverso il segno ed il colore. Se vogliamo, una pittura tridimensionale, elastica, non piatta, rapida, costruita sul ritmo senza forma del segno, quasi a sottolineare una dimensione di gioia, felicità, ottimismo, seduzione e poesia. Il segno atomizzato nero, dal cui intrigo escono note squillanti di rosso che ne accentuano l'immediatezza comunicativa, si relaziona col vuoto dello spazio bianco, un’area di silenzio ma an-

che origine stessa della vita del dipinto. In qualche modo si ripropone qui attraverso una sorta di psicologia diaristica quel sentimento in difesa della libertà personale e della propria segretezza, avvertita come momento di custodia dell’intimità, così sentito da Sanfilippo tanto da spingerlo a smettere definitivamente di dipingere e fare soltanto disegni per quasi dieci anni, vale a dire dal 1971 all’80, data della sua morte.

Il movimento frenetico ma rilassato e non aggressivo di questa cascata di segni, col tempo verrà addensato via via in forme più compiute anche se non definite da contorni lineari veri e propri, piuttosto accorpate in parvenze di nuvole, cumuli aerei e campi magnetici sempre aperti però a qualsiasi possibilità, urto e cambiamento. Sono quelle particolari forme ovoidale degli anni Sessanta, dapprima caratterizzate da un segno piccolo poi ingrandito a partire dal ’64, a formare costellazioni galattiche attraversate e penetrate da scie lasciate da “/aceranti folgori mentali scaturite dall'intimo del pittore” (Marco Rosci) od organizzate in piramidi rovesciate. Nel segno, per Sanfilippo “elemento essenziale dell'espressione, primordialità innata, senza storia né tradizione”, aveva trovato la possibilità estrema ed incondizionata di aprirsi in maniera sempre nuova e viva al futuro.

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Pietro Consagra Telegramma 1, 1960 bronzo, cm 185 x 143,5 x 5 Colezione dell’artista, Roma

“La frontalità nasce da un giudizio sulla società: correre meno rischi di essere utilizzato per altri scopi, se non quelli fissati da te: la ricerca dell'oggetto libero, immediato”. Questa affermazione di Consagra rende conto di un nodo centrale e fondamentale nella sua scultura, un vero e proprio leitmotiv che l’artista ha perseguito, sviluppato e praticato, senza mai abbandonare, a partire dalla fine degli anni Quaranta. Telegramma 1 già nel titolo si presenta in quella urgenza comunicativa e d’immediatezza tipica della serie di sculture dedicate al tema del colloquio e della conversazione telefonica, in cui chiarezza, sintesi, praticità sono

elementi costitutivi stessi dell’opera e dei suoi significati. Potremmo definirle idee primarie, cariche di ottimismo e prive di nascondigli, di luoghi oscuri o di segreti. Di qui l’idea appunto di una comunicazione urgente, netta, essenziale come un telegramma che deve essere letto e compreso, come dire, con un solo colpo d’occhio,

proprio come una scultura che si risolve frontalmente su di un piano. La riduzione bidimensionale delle sue opere viene interpretata da Consagra stesso come l'eliminazione di qualsiasi ostacolo, frapposizione e mediazione tra spettatore e scultura.

È dal ’64 che inizia a modificare la visione frontale, realizzando dapprima i Piani sospesi, dipinti vivacemente su entrambi i lati, pendenti dall’alto e mobili e poi i Piani appesi alle pareti come fossero dei quadri, che l’artista interpreta come una sorta di ottimistica liberazione esistenziale. Messa in questione, ma non negata del tutto, la frontalità, raddoppiata ed esaltata in una vera e propria bifrontalità, Consagra inizia ad intensificare il suo discorso sul concetto di diminuzione delio spessore della scultura, producendo sottilissimi fogli di acciaio che riunisce in libretti esilissimi di non più di un millimetro di spessore. È significativo che lo stesso anno di queste microsculture, l'artista abbia anche concepito il progetto urbanistico ed architettonico della Città frontale, con tanto di saggio critico da lui redatto, seppur rimasto a livello di progetto plastico. La sua propensione alla monumentalità ambientale lo porterà a realizzare nel corso degli anni diverse commissioni pubbliche come, in primis, la gigantesca Stella del Belice del 1981, di venstisei metri di altezza ed eretta a Gibellina, la città siciliana distrutta da un terremoto nel 1967 e ricostruita con in-

terventi di vari artisti. D’ora in avanti l'interesse per il rapporto tra scultura, città ed architettura damentale per Consagra, che realizzerà vari interventi a scala urbana, come i Ferri di Matera nel cio frontale Meeting dell’83, a cui sono seguite diverse opere bifrontali a dimensione urbana. Un compagnato anche da una continua riflessione teorica iniziata nel ’52 con Necessità della scultura fino al ’92, in polemica con l’architettura contemporanea, nel testo Architetti mai più.

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Giulio Turcato Composizione, 1956 olio su tela, cm 120 x 182 Collezione privata, Roma

Tra il 1948 ed il ’54 Turcato aveva dipinto opere di impegno politico, aventi per tema comizi, rovine di guerra, rivolte, massacri, dove predomina il senso di una pura presenza estetica priva di tragedia e di pathos. Sosteneva a proposito l’artista: “anche i futuristi traducono il dramma in forma e colore”. Questa felicità creativa lo portò a sperimentare materiali assai insoliti per un pittore, come polveri fluorescenti, pastiglie di tranquillanti, banconote fuori corso, gommapiuma, ad ammirare, oltre a Balla, Klee e Prampolini, tanto la metafisica di De Chirico quanto I’oggettualità irriverente di Duchamp, ad utilizzare simultaneamente stili differenti, a non ancorarsi mai soltanto ad una formula od una tecnica. È dunque difficile individuare nelle opere di Turcato una tendenza formale capace di imporsi sulle altre, come anche un contenuto che possa dirsi predominante. “Fiuto raffinato di un gourmet che si limita ad assaggiare, lasciandosi soprattutto condurre dal suo estro fantasioso ed elegante” (Augusta Monferini): ecco una buona sintesi della sua opera, che si presenta con un elegante distacco privo di ce discontinuo ed instabile. Una sorta di relativismo pittorico in cui un ingenuo disincanto determina l’humus biologico e percettivo della pittura. Composizione è un dipinto che rientra in quella serie di opere in cui il riferimento ad un reticolo cellulare, fertile, ancora in via di formazione, si unisce ad un principio di calligrafismo orientale. È un esempio di un interesse per il mondo microorganico, molecolare, sviluppato in modo assolutamente ludico e disimpegnato. Ed è anche segno di quel personale ripensamento della pittura di Matisse (si veda già Ira Surzac del ’52 e poi Pronunciamento del °65) che Turcato reinventerà con un’ironia ed una leggerezza sempre al di là di una poetica specifica. Il fatto che il pittore abbia affiancato a queste opere, dipinte pensando alla get.etica ed al microscopio, altre di iispirazione cosmica e lunare (eseguite verso la fine degli anni Cinquanta) dimostra la verità di una sua affermazione: capire cioè che il quadro non è mai statico ma in continuo movimento, sempre incompiuto e da inventare e che la creazione deve essere tenuta costantemente in stato di grazia.

Negli anni Settanta farà opere informali e segniche, sabbiose e sottilmente materiche e cosmologiche, come appunto Segrico o Astronomica ma anche sculture in alluminio smaltato e colorato e tele sagomate componibili. Lavori tutti caratterizzati da un’estrema leggerezza e fantasia coloristica, che spesso sacrificavano il concetto di quadro compiuto, di composizione, di opera d’arte per quello più spontaneo di ottimismo futurista, per cui solo una ricerca di “un nuovo colore non più nello spettro fisico ma anche al di fuori dell’uomo” poteva render 90 di una creatività oltre gli schemi, sempre giovane ed in fermento, goliardica, come sarà fino alla fine dela sua carriera. ESPOSIZIONI: Giulio Turcato, Galleria Civica, Modena e Musei Civici, Mantova, 1998 (cat. p. 70)

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Il termine “astratto-concreto” fu coniato da Lionello Venturi nel 1952 a proposto di

quanto riteneva potesse accumunare il lavoro di artisti riuniti in quello che è stato indicato come il “Gruppo degli Otto”, vale a dire Afro, Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Turcato, Vedova; tutti già affacciatisi sulla scena artistica fra anni Trenta e primi Quaranta. Dai quali certamente era condivisa un’esplicita avversione per la pittura “neorealista”, impegnata a documentare rivendicazioni sociali, quanto del resto per una pittura di tradizione figurativa, ma altrimenti anche per nudi integralità non-

ficurativa “concretista”. Ma dai quali certo largamente condivisa fu una libertà d'iispirazione dettata da contenuti provenienti in particolare da un ambito di natura, e tuttavia anche da livelli di memoria quanto di conflittualità di vissuto individuale o collettivo. Comune d’altra parte erano, sul piano del linguaggio, premesse in esperienze postcubiste (vissute all’insegna della partecipazione al “Fronte Nuovo delle Arti” animato da Giuseppe Marchiori), che hanno preparato il terreno per le ricerche più autonome e caratterizzanti di ogni singolo artista. Anche se la maturazione del loro linguaggio è avvenuta — avvertiva Venturi - con riferimento ad una “tradizione iniziatasi attorno al 1910”, e che segnatamente “comprende l’esperienza dei cubisti, degli espressionisti e degli aetatti.t”. Parallelamente del resto 4 quanto accaduto, sempre su basi postcubiste, in modi tendenzialmente non- figurativi ma sensorialmente allusivi, con riferimento alla tradizione cromatica impressionista, “nabis”, “fauve”, nelle formulazioni di quelli che si erano autodefiniti come “Peintres de la tradition francaise”

(da Bazaine aManessier, a

Estive, ecc.). Un linguaggio — sottolineava sempre Venturi — usato “secondo un ideale comune, che è

poi quello di valersi di tutte le possibilità che offre loro la pittura senza rinunce preconcette, con l'occhio attento a eseguire quello che la loro sensibilità detta”. E dunque con esiti assai diversi secondo le personali opzioni di prospettive di ricerca, delle quali qui sono esemplificate sia alcune particolarmente significative in relazione alla tesi venturiana, sia altre in relazione anche all'adesione di esponenti di un’ulteriore generazione. Del resto in alcuni anni | “astratto-concreto” ha costituito una contingenza di gusto diffusa,

rappresentando in veste di linguaggio moderno una misura di equilibrio altrimenti sovvertito dal radicalismo “informale”. E così Afro dipinge evocativamente situazioni contemplative connesse allo stato fluido del ricordo, in ritmi lenti, afferrati da galleggiamenti della memoria. Mentre è Vedova ad esprimere un contatto con una realtà energica ed impetuosamente conflittuale, registrata in un dinamismo di stampo futurista. E altrimenti si passa da una pittura naturalistica densa

e corposa come quella di Corpora ad una riflessiva ed architettonicamente strutturata quale quella di un’esponente di affluenze da un'ulteriore generazione quale Brunori. Mentre Birolli adotta un sintetismo narrativo energico che gli viene dall’osservazione di una realtà rude ma anche suggestiva come la vita di pescatori e contadini; e Santomaso prende ispirazione dalle conformazioni asciutte e stilizzate di cantieri e di fabbriche lagunari. In un analogo orientamento Sadun trascolora l'emozione in una leggera e soffice impalcatura lirica di evocativa dinamica emozionale. Fra secondi anni Quaranta e primi anni Cinquanta anche la scultura italiana si apre: nuove prospettive di ricerca della varietà delle quali una buona esemplific azione offrono le differenti posizioni di ricerca, a tale livello cronologico, di Viani o di Mastroianni.

Afro Basaldella Figura distesa, 1952 olio su tela, cm 73,5 x 87,5 Collezione privata, Roma

Nel 1950 Afro soggiorna per otto mesi negli Stati Uniti venendo a contatto, tra gli altri, con l’opera di Gorky. Fu proprio la sua pittura, ricorda Afro, a mostrargli la via, a dargli la consapevolezza di una ricerca da indirizzare all’interno di sé, “dove le immagini sono ancora radicate alle loro origini oscure, alla loro sincerità inconsapevole”. Sulla scia di questa esperienza è dal ’52 che chiarisce l'apporto del filtro della memoria e dell’affioramento in superficie di sostanze ed umori cromatici che possono interpretarsi come apparizioni, impronte, presentimenti, ombre. Il formato, fino a quel momento verticale, si fa orizzontale, allungato sia in senso spaziale che “narrativo”, come raccontasse la storia di una risonanza, di un’evocazione, segno di “una

maggiore libertà interiore nel ripensamento dell'infanzia e del tempo perduto” (Giuseppe Marchiori). Le allusioni ad una Figura distesa vengono quasi del tutto perse, sommerse in un tempo sospeso, in cui il disegno rende la composizione aperta, precaria, irrisolta, come stesse cercando la posizione in un mondo sfumato

fatto di assonanze e di continui adattamenti poetici. Il colore aspira già a quelle trasparenze che caratterizzeranno la pittura di Afro per una dimensione poetica che può essere considerata “un’evocazione memoriale malinconica e irrimediabilmente perduta come un lontano ricordo d'immagine umana” (Enrico Crispolti). Figura distesa è quindi un dipinto cruciale di trapasso, con un tempo pittorico sfalsato ed indipendente rispetto al tempo reale dell’esistenza.

Fino a quel momento Afro aveva seguito un iter di formazione particolare, che lo aveva visto impegnato, negli anni Trenta, in una pittura dai contenuti fabulistici, idilliaci, mitologici, come nella serie di cicli murali di quegli anni (a partire dal Collegio dell’O.N.B e Casa Cavazzini ad Udine, all’ Albergo delle Rose a Rodi). Una pittura ricca quindi di filtri immaginativi che doveva molto alle opere di Signorelli, El Greco, Tintoretto e che negli anni Quaranta si farà intimista, legata al tempo della memoria privata, con ritratti, autoritratti e nature morte. L'interesse per il neo cubismo lo porterà a concepire la pittura come una forma autonoma di immagine interna, stratificata, tenuta lontana da ogni tipo di espressionismo nel senso pieno della parola: le forme totemiche e ancestrali come Occhio di Vetro del ‘48 ne sono un esempio. Attraverso poi la liberazione lirica ed effusiva degli anni Cinquanta, si avvicinerà all’informale a partire dal ‘58, quando identifica la realtà e la pittura non più secondo la poetica dell’allusione e della distanza ma del gesto e dell’immediatezza emotiva, come in Rocca di Susans. Si tratta di accadimenti coloristici istantanei, eccitati, ma senza concitazione né dramma, semmai sedimentazione. Con questa linea, arriverà a produrre configurazioni spaziali sempre più nette, organizza-

te in zonature di elementi ritagliati nel colore, a “toppe” ed incastri dipinti (Fuori tro del ’75), come la sua pittura avesse ripercorso la sua stessa storia e si fosse fatta memoria e sommessa autobiografia di se stessa, “ferritorio aperto alle corse, ai dolori, e alle feste umane” (Afro).

ESPOSIZIONI: Afro, opere 1935-1974, Poleschi Arte, Forte dei Marmi, 1996; Hotel Savoia, Cortina d'Ampezzo, 1996

BIBLIOGRAFIA: Afro, catalogo generale ragionato, Edizioni Dataars, Roma, 1997, p. 108 fig. 261

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Antonio Corpora Paesaggio, 1957 olio su tela, cm 115 x 81

Collezione privata, Roma

I dipinti realizzati da Corpora tra il 1954 ed il ’60 hanno dato vita ad un interessante tentativo critico, da parte soprattutto di Cesare Vivaldi e poi di Pierre Restany e Giulio Carlo Argan, di fare una distinzione tra una pittura “aformale” (in cui rientrerebbe quella di Corpora) ed una “informale”. L'opera Paesaggio aiuta a definire la posizione particolare che ha avuto Corpora all’interno dell’arte astratta italiana ed europea. Già Lionello Venturi aveva individuato nel ’48, nelle opere di Bazaine, Esteve, Manessier, una tendenza “astrat-

to-concreta”, che Corpora così interpretava in quegli anni: “7 linguaggio che adoperiamo oggi per esprimerci, non figurativo e astratto, significa soltanto libertà assoluta”. Ecco, Paesaggio è un esempio di una ricerca pittorica che considera il quadro come evento poetico reale e concreto, in cui la superficie materica ed incisa (aspetto che Fautrier, proprio nel ’58, tanto ammirava in Corpora) si materializza e, appunto, si concre-

tizza esclusivamente nel colore. La sua intera vicenda di pittore dunque può essere definita come un percorso progressivo di liberazione del colore inteso come sedimento e memoria di emozioni, sentimenti e passioni, quasi a costituire, la pittura, un’at-

tività parallela alla poesia (non a caso nella formazione culturale di Corpora si sentivano echi di Croce e Bergson). Su queste superfici invischiate, paludose e germoglianti, Corpora raccontava quella che è stata definita (anche per via del fatto che fosse nato a Tunisi) la sua essenza mediterranea e matissiana con colori simili a “d:stese luminose dove le acque sfociano nel sogno” (Pierre Restany).

È all’esperienza coloristica fauve (Matisse, Marquet ma anche Roualt) che Corpora guard: fino al 1945, quando cioè si interessa ad un tipo di costruzione che lo avvicinerà al neocubismo francese (ed in Italia sarà tra i primi a sperimentarne le premesse). Nel °47 fa il primo dipinto astratto, Ischia, che però si porta ancora dietro ricordi di sensazioni naturalistiche. Nel ‘50 dipinge Molo, un’opera che testimonia, col suo dinamismo guizzante ed acuto, di intuizioni e di influssi futuristi. Da ricordare, per inciso, che Severini aveva definito la sua

pittura munita di un “tocco ardito, elegante, rapido”. E però dal ’57 che si libera di memorie e reminiscenze naturali ed arriva del colore inteso come emozione interiore. Negli anni Sessanta murerà spesse i suoi colori, solidificandone la naturale fluidità per riprenderla a sciolto, libero, arrivando nell’86 a dipingere Orzaggio a Monet, una sorta

direttamente al corpo ed alla materia in architetture e tassellature dense e partire dal ’75 con vigore informale, di moderna ninfea astratta che testi-

monia di una pittura sempre in movimento, fremente, elettrizzata, capace di velocizzare e rendere immateriali, nel tempo, le traiettorie del colore. Quando Nello Ponente nel ’58 scriveva di Corpora: “niente sacchi e nien-

te stagni saldati: pennello e colori ad olio”, era come se stesse già presagendo un attaccamento viscerale al colore che non lo avrebbe mai abbandonato.

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Renato Birolli Leggenda del mare, 1951 olio su tela, cm 82 x 105 Civica Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea, Gallarate

Il mare, la pesca, le reti o le nasse, le ceste cariche di pesci, le ancore, i sugheri, gli scogli, i moli, fanno parte per Birolli di quella che amava definire “percezione submarina” delle cose, una vera e propria immersione dell’anima nelle sue profondità, attraverso lotte e tragedie. La cattura del pesce, il conflitto tra cielo e acqua, così tipico dell'orizzonte marino, sono considerati dal pittore come elementi costitutivi quindi dell’esperienza umana in generale e forme appropriate per esprimere le tensioni della sua pittura. Tra il 1950 ed il ‘52, senza soluzione di continuità, l'artista si era stabilito in località di pescatori, in una soli-

tudine che faceva parte indissolubile dell'economia e della gestione naturale della sua vita: “era molto attivo nella contemporaneità, ma la solitudine era la sostanza vera della sua vita” (Roberto Tassi). I paesaggi marini con la vita dei pescatori a Fosso Sejore, Isola Porto Buso e Bocca di Magra costituiscono dunque l’humus biografico, iconografico e mitologico di Leggenda del mare, come anche quello formale e coloristico. La stessa struttura ricorrente falciforme e curvilinea (nell'opera in questione condensata nella forma-àncora) caratterizza inoltre sia molte delle sue opere figurative, a partire ad esempio dal Contadino della metà degli anni Quaranta alla serie delle Done luna, che astratte degli anni Cinquanta. Le forme a parabola che si vedono in tali opere l’artista le intendeva come attivatrici di spazi e di slanci dinamici. La pittura di Birolli vive di colori che sono essenzialmente nuclei di energia con i quali l'artista vuole sostituire la natura e trasformare il paesaggio in figura ed in composizione pittorica. Tra l'occhio ed il corpo si stabilisce così un patto di sangue, dal quale scaturisce una nuova crescita, quella che Birolli stesso intendeva come il seme, l'embrione e la genesi dell’“2720rfo”, vale a dire di ciò che è inizialmente relegato in una dimensione sconosciuta ma che è gravido di vita, mutamenti, peso specifico e densità. Il suo impegno ermetico, romantico ed espressivo nei confronti del vissuto, ma anche responsabile e attento al sociale (tanto da essere stato definito “marxista visionario”) si è manifestato nelle opere degli anni Trenta ispirate ad una religiosità macerata, travagliata e fremente come in Sar Zeno o nei presagi di forme magmatiche e sconvolte come in Caos del ’36, in dipinti sulla tematica di macchine agricole e uomini al lavoro nei campi degli anni Quaranta, le solitudini delle periferie delle città, fino al cromatismo libero e appassionato dell'ultimo decennio della sua vita. In questa ottica il suo periodo “astratto” (eppure Roberto Tassi lo riteneva dal principio alla fine un figurativo), dagli Incendi alle Cinque Terre della metà degli anni Cinquanta a Ricerca del vero canto del ’58, diventa una trasfigurazione interiore e appunto amorfa di umori che appartengono ad un sentimento del quotidiano messo in continua precarietà esistenziale dalle avventure del colore, che avvengono più per strappi ed incertezze che per racconti squisitamente lirici e/o naturalistici. BIBLIOGRAFIA: Silvio Zanella, Catalogo Civica Galleria d'Arte Moderna, Gallarate, 1966, n. 10; Silvio Zanella, Catalogo Civica Galleria

d'Arte Moderna, Gallarate, 1972, n. 12; Renato Birolli, Feltrinelli, Milano, 1978, fig. 503 p. 266; Silvio Zanella, Catalogo ragionato Civica Galleria d'Arte Moderna di Gallarate, Ask edizioni, Varese, 1983, p. 68; Arte a Milano 1946-1959, a cura di Martina Corgnati, Milano, 1997, p. 81

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Giuseppe Santomaso Composizione, 1953 olio su tela, cm 110 x 70

Collezione privata, Roma

L’idea di fondo che anima la poetica e la pittura di Santomaso è che l’esperienza artistica non ha senso al di fuori di una precisa realtà storica, con cui deve continuamente entrare in relazione con aggiornamenti linguistici e innovazioni formali di posizioni già date. L'artista sosteneva infatti che “l'elaborazione del visibile sottende una esperienza integrale della realtà dell’uomo” e che la percezione è già di per sé una possibilità di giudizio e di rapporto col mondo nella sua interezza. L'opera Composizione semplifica bene questo principio di osmosi tra realtà e soggetto e fa parte di una serie di dipinti in cui il pittore trasporta l'osservazione della realtà esterna in un impianto grafico e di piani colorati. Cantieri, officine, falciatrici, ganci, scale, gru, tralicci, antenne, pescherecci: questi in particolare i temi dipinti tra il 1950 ed il ’54, in cui si osserva come delle strutture figurative, pur conservando la loro tensione, diventino arabeschi, piani colorati, atmosfere, meccanismi emotivi.

La figurazione di Santomaso si era caratterizzata fino ad allora per una sua peculiare compattezza plastica, sfociata nel ’48 nella serie delle Firestre che aveva finalmente organizzato lo spazio percettivo su impalcature post cubiste vicine alla pittura di Braque, seppure visto “attraverso i mzosaici romanici d’influsso bizantino” (Guido Ballo) presenti a Venezia. Gli anni Cinquanta saranno per Santomaso un modo sereno e positivo, privo di drammi e alienazioni, per offrire un’alternativa alla frammentazione solipsistica del linguaggio informale. Opere come il Muro delle lucertole, del 56, sono una prova di una pittura sospesa, rallentata, impalpabile, che negli anni Sessanta lo porterà addirittura ad utilizzare pigmenti colorati in polvere che faceva piovere con un setaccio sulla superficie della tela cosparsa di bianco. E Santomaso stesso a dichiarare che è nel ’64 che avviene il passaggio definitivo da una pittura che conserva ancora dei pretesti visivi ad una del tutto astratta, realizzata con impasti gessosi, sabbiosi, poche linee e superfici colorate ben definite e quasi monocrome. È un senso di mistero, sommesso ed incorporeo come un erzgrza, che non a caso sarà il titolo di un’opera del ’65. Eduard Huttinger parlerà, a proposito delle opere di questo periodo (in particolare di Orzaggio al crocifisso di Cimabue, del °66) di “calma e maestosa rassegnazione”.

Negli anni Settanta l’affioramento di stati di lontananza, memoria, galleggiamento e leggerezza sarà presente in Lettera al Palladio del 77, in cui le immagini, simili appunto a fogli di carta ritagliati sulla tela, sembreranno sfiorare appena la superficie, frutto di commistioni tra le sue passeggiate per Venezia, l’impressionismo e “chissà cos'altro”, come ricorda l’artista stesso. Del resto, come ha scritto Nello Ponente, “per tutti i buoni pit-

tori della stessa generazione di Santomaso, la memoria, come proustiana ricerca del tempo perduto, e quindi delle sensazioni stratificate nella coscienza, è stato un fatto imprescindibile”. ESPOSIZIONI: I mostra internazionale di pittura “Città di Messina”, Messina, 1953 (cat. n. 47 p. 40); Exposiciòn de pintura italiana contemporanea, Palacio de la Virreina, Barcellona, 1955 (cat. n. 154 p. 28); Exposiciòn de pintura italiana contemporanea, Salas Municipales de Arte, San Sebastian, 1955 (cat. n. 54 p. 28); Arte italiano contemporaneo, Palacio del Retiro, Madrid, 1955 (cat. n. 154 p. 42)

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Emilio Vedova L’urto, 1949/50 olio su tela, cm 95 x 130 Civica Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea, Gallarate

La pittura di Vedova è una strategia di protesta e di rivolta, di sovversione e di scontro. Tra il 1946 ed il ’50 l’artista ha dipinto opere contrassegnate da geometrie pungenti e forme minacciose e meccaniche, che lo stesso Vedova definì “tagliole di paura”, a simboleggiare la condizione dell’uomo costretto da forze razionali ma anche disumane, mostruose e violente. In questi dipinti, forte è l’influenza dell’aggressività dinamica della pittura futurista (di cui ammirava la grande forza rivoluzionaria), come nell’opera L’urto del °49, che sembra un’accelerzione simultanea e dispersa su tutta la tela delle acuminate aggressività dinamiche e dei motivi di forme rumore di Balla. Il formalismo futurista permette a Vedova di contenere una catastrofe ed una frammentazione del senso che viene infatti coordinata e concentrata in un'immagine ideale di lotta e di ansia. Si avverte un evidente senso di compattezza nonostante l’esplosività drammatica e schizofrenica delle forme, come se il contenuto umano ed emotivo fosse ben più importante di quello geometrico. L’urto descrive quindi in presa diretta una situazione psicologica fondata su una vera e propria geometria dell'angoscia, serrata e tesa, senza distrazioni cromatiche, dove le variazioni di grigio sembrano aspirare ad una chiarificazione dialettica di una meccanica interna e spietata. ESPOSIZIONI: I/ 1950. Premi ed esposizioni nell'Italia del dopoguerra. XX Premio Arti Visive Città di Gallarate, Gallarate, 2000 (cat. p. 131) BIBLIOGRAFIA: Silvio Zanella, Civica Galleria d'Arte Moderna di Gallarate. Catalogo Ragionato, Ask edizioni, Varese, 1983

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Enzo Brunori Aprile nel bosco, 19594 olio su tela, cm 141 x 110 Museo Brunori, Bertinoro

Alla base di tutta l’opera di Brunori è l’idea di natura intesa come partecipazione totale alle cose e dentro di esse, a tal punto che la sua stessa pittura può dirsi un dialogare ed “un agire secondo natura”. A questo aspetto partecipativo e sensuale, tradotto in opere di impostazione impressionista riveduta con una sensibilità moderna, deve esserne affiancato uno decisamente più ritmico e scandito 0, se vogliamo, architettonico. Aprile nel bosco si presenta infatti come una griglia emotiva di colori caldi, appartenenti alla terra, non attraversati da echi psicologici ma a diretto contatto con la natura, mentre la superficie pittorica si aggancia, come edera al muro, ad una impalcatura cubista. Si tratta evidentemente di una disposizione aperta nei confronti della realtà, ricca di richiami e di atmosfere, di piccoli e controllatissimi eventi di una natura che è anche umana ed appassionata, esempio della tendenza di Brunori a bilancare tra di loro “inzizze esigenze naturalistiche e volontà di ordine formale” (Enrico Crispolti). L'impostazione dell’opera segna il punto di congiunzione tra la sintesi plastica del cubismo che interpreta Mondrian a metà degli anni Dieci e la costruzione dello spazio emotivo e dell'ambiente ottico e coloristico tipica di Cézanne. Ed è infatti da esperienze cubiste e neoplastiche (Fiori secchi del ’47 e Sedia, cappotto e cappello del °50) che Brunori arriva ad Aprile rel bosco, senza peraltro mai nascondere il suo amore per Corot e Mafai. Dalla fine degli anni Cinquanta le sue impalcature si faranno sempre più sfumate ed atmosferiche, tanto da fondersi e dare forma a loro volta a veri e propri ambienti naturalistici ravvicinati, che tra il 1959 ed il ’62 diventano visioni sfaldate, ombre nere, un “naufragio nell’ignoto”, come sosteneva Marcello Venturoli: è il suo periodo più propriamente informale, come è in Nozze d'estate del ’62. L'idea architettonica ed il verticalismo dell’albero (un tema affrontato con particolare intensità tra gli anni Quaranta e Cinquanta) non abbandona mai la sua opera, tanto da costituire tra gli anni Sessanta e Settanta un corpo significativo di dipinti come Cor more e tremore, che sembra sorreggersi letteralmente su architravi e pilastri. E in questi anni che ha peraltro un intenso rapporto con l'architetto Michelucci. Se le forme e gli impasti di gres del 1973-"75 rappresentano quella controparte pesante, reale e corporea dei suoi colori e delle sue partecipazioni elegiache al respiro della natura, opere come Nido di gabbiani del ’77, gli A/beri degli anni 80 e la serie delle Quattro stagioni dell'88 ne sono l’aspetto più avvolgente e trasparente, amniotico ed in certo modo allusivo a forme e presenze vive e distinte, pur se dentro il continuum dell'ambiente naturale. La sua pittura si pone in sintesi come un diario discreto di stagioni serene, di memorie, di incanti, di recuperi di un sentimento della natura colta in diretta e decantata senza apparati concettuali, tanto da tradurre colori e forme in carezze, sussulti, carte veline ed odori.

ESPOSIZIONI: Brunori, antologica 1944-1988, Palazzo della Penna, Perugia e Palazzo del Podestà, Faenza, 1988 (cat. PIS2Z) BIBLIOGRAFIA: Cesare Vivaldi, Brurori, Società editrice Michelangelo, Roma, 1972

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Trapezi, 1955 olio su tela, cm 100 x 70 Collezione Verdone, Roma

L’opera Trapezi fa parte di una serie di dipinti ispirati al mondo del circo. Si tratta di suggestioni di luci, musiche, strutture e movimenti dati dalle gabbie, i sostegni e le corde dei trapezi o i vari apparati presenti sulla pista. Un interesse che Mario Verdone ha definito “intellettuale”, accostabile cioè alla “geografia astratta” delle tele di Sadun, ed “affettivo”, perché legato alle quinte dell’arena ed al fermento della pista. In termini stilistici si tratta di opere in cui lo spunto proveniente dalla realtà è tradotto in un gioco di piani tesi e dinamici, dove le linee, il colore e la luce danno corpo ad una sostanza sensibile e trasognata, sofferta ed intimista. Dieci anni prima, nel ’45, Scialoja aveva intuito la presenza visionaria nelle opere di Sadun, parlando di spiritelli e protoplasmi, licheni e ossidi, viscere fiorite e farfalle lunari, di un mondo dell’abisso e del naufragio, di una pittura capace di trascrivere “/o scricchiolio triste del terreno che sentiamo sotto i piedi”. Gli oggetti e gli acrobati accennati che si lasciano dietro una scia del loro passaggio, un’assonanza lontana, come sembra accadere in Trapezi, trasmettono il senso di una dimensione pittorica che non si chiama mai fuori e che non si rifugia nell’evacuazione dal reale ma che cerca invece, come affermava lo stesso Sadun, la cosa senza più necessità della cosa stessa. i Fin dal 1945 la pittura di Sadun si caratterizza per il suo morboso espressionismo sulla via di Soutine e Scipione. Una pittura crepuscolare dunque, intrisa ed impregnata di oscuri eventi, organica, fisica. Dei suoi per-

sonaggi esposti nel ‘47 insieme ai “Quattro artisti fuori strada” (Ciarrocchi, Stradone, Scialoja), Brandi scriverà: “chierici allampanati, vecchie incartapecorite, avvolte come in un sudario in quel colure rossigno”. È un ti-

po di espressionismo romantico in cui la luce è soffusamente assorbita nel colore, che già prefigura aspirazioni materiche molto accentuate, come è già in Interro della camera del ’48.

Dagli anni Cinquanta è forte il suo debito verso il tonalismo di Morandi, a cui affianca un cubismo fantasioso e romanzato, creando opere dalla presenza spettrale e fantasmatica, come si vede in particolare nelle nature morte della secondà metà degli anni Cinquanta. Sarà a partire dagli anni Sessanta che, in opere come Discorso interrotto, Sadun equipara definitivamente il colore alla materia, optando per un’astrazione spessa, raggrumata e increspata, come se la pittura, nella sua sostanza più vera e carnale, fosse la continuazione diretta e materiale dell’esistenza fisica. Tanto sarà avvertita questa identità tra pittura, colore, materia e vita che in alcune opere utilizzerà collages di carta e stoffa. Negli anni Settanta, in opere come Resurrezione, la pasta materica del colore steso con la spatola creerà una fitta e densa superficie senza limiti, né inizio né fine, come si trattasse di una sostanza magmatica in sommovimento, da plasmare sul piano, con delle correnti proprie, simili a “colture di microrganismi” in fermento (Luigi Carluccio).

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Alberto Viani Torso, 1948 marmo, em 70 x 140 x 70

Museo d'Arte delle Generazioni Italiane del ‘900 “G. Bargellini”, Pieve di Cento

La scultura di Viani può definirsi il tentativo di trovare la forma ideale ed universale della sintesi tra la scultura classica e quella organica, tipica di una crescita naturale. Un'opera come Torso si presenta infatti come una forma pura, eterna, priva di accidentalità (per questo classica) ma allo stesso tempo frammento biomorfo in via di sviluppo. Il riferimento idealizzato a parti del corpo umano, in questo caso appunto un torso, da cui sembra staccarsi, senza tragedia né dramma, ma in perfetta

simbiosi, un enorme uovo, dà conto di una ricerca che mira ad un processo di purificazione della forma, tanto da dar ragione alla definizione data da Arp dell’opera di Viani, nella poesia Petits poémes è l'intention de Viani, scritta nel 1957: “Sogno d’una pianta nel giardino dell'Eden” La spiccata riflessività paradisiaca di Torso si spiega alla luce della propensione solitaria ed inaccessibile di tutta la scultura di Viani, il quale non si è mai posto il problema della forma astratta se non nel senso dell’invenzione e della scoperta proprio di una forma che non esiste al di fuori di un processo che non ha inizio né fine. La morbidezza canoviana della scultura è quasi una sorta di carezza plastica infinita e continua, in cui il processo della vita viene reso in una sintesi poetica di bellezza assoluta. Quasi niente ci rimane delle sue opere giovanili degli anni Trenta, a parte alcuni torsi virili simili a scavi di reperti archeologici. Ma del resto questa è una caratteristica comune a molte opere di Viani, se si pensa che molti dei gessi degli anni Quaranta e Cinquanta, in tutto una trentina, sono andati distrutti o perduti. Tra questi vi era anche l'originale, disperso, di Torso, che figura esposto alla Biennale di Venezia di quello stesso anno.

All’inizio degli anni Quaranta comunque Viani si interessa alla scultura arcaica, in particolare a quella cicladica, con le sue forme lisce e morbide, che sembrano modellate direttamente da forze ed elementi naturali come

vento o acqua. È nel 46 che realizza figure femminili armoniche che introducono nella contemporaneità una dimensione evocativa e sospesa, il cui stimolo può essergli derivato dalla frequentazione di Martini di cui è stato assistente tra il 1944 ed il 47 presso l'Accademia di Belle Arti di Venezia. La sua scultura può essere accostata certamente a quella di Arp e Brancusi per l’aspetto biologico, sereno e privo di tragedia che gli è tipico. Viani traduce questo riflesso in uno spirito che può definirsi “olimpico”, come è del resto percepibile a partire dalle opere degli anni Cinquanta ispirate a Carsatidi e Torsi virili. Il forte senso plastico durante gli anni Settanta viene magicamente ridotto a volumi di fogli ondulati, in cui il sottile erotismo delle sua scultura diviene più incisivo e disegnato, come fosse la trascrizione diretta di quel suo imperturbabile impulso organico. BIBLIOGRAFIA: Il Fronte Nuovo delle Arti, in XLII Biennale Internazionale d'Arte, Venezia, 1988, p. 37; Pier Carlo Santini, Alberto Via-

ni, Electa, Milano, 1990, p. 89 e 90

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Umberto Mastroianni Maternità, 1949 bronzo, cm 90 x 40 x 40 Collezione privata, Roma

Quando Mastroianni, a partire dagli anni Quaranta, rompe decisamente con la tradizione classica della scultura, detronizzandone la dimensione intimista e descrittiva, si riallaccia alla plastica energica, esuberante ed

emotiva di Boccioni. Prendendo inoltre come orizzonte di riferimento le forme biomorfiche di Arp e quelle più viscerali di Laurens, oppone all’elegia naturalistica e domestica di Moore una scultura generativa ed embrionale, in sommovimento ed in torsione organica. Maternità del 1949 rende conto di questo processo storico inserito in un ambito aggiornato ed aperto alle più originali influenze europee nel campo della scultura. In particolare, in questa opera Mastroianni interpreta la procreazione ed il sentimento interno della vita come manifestazioni che si mostrano in tutta la loro violenta problematica corporale e fisica, come se piuttosto che rappresentarne la continuità con lo spazio del mondo lo scultore ne volesse mettere in luce l’urto, il contrasto, la forza di ribellione: il nascere infatti può essere di per

sé un fatto doloroso, violento, misterioso e tragico. Se di fatto il periodo più propriamente futurista e cubista di Mastroianni risale all’inizio degli anni Quaranta con opere spigolose e decise, tagliate da scatti e tensioni, Maternità conserva ancora una pluralità sensuale e traboccante di punti di vista che ne accentuano la vitalità e l’azione passionale. E uno sforzo muscolare ed interiore l’azione di cui si parla, “ua segreta volontà di potenza” (George Waldemar) dove l'organico si fonde con l’inorganico, che Giulio Carlo Argan crede geneticamente appartenere alla scultura di Mastroianni come “una delle ultime e più decise proposte per un’arte fondata sul binomio resistenza-rivoluzione”.

L’accentuazione di nodi di forze e di impeti irruenti costituisce la peculiarità della scultura di Mastroianni negli anni a venire, quando le sue opere verranno sconvolte e fatte esplodere in frammenti e schegge di grande aggressività e forza d’urto. I suoi monumenti alla Resistenza od ai Caduti sono una testimonianza diretta di una ricerca che vede nella deflagrazione e nel dramma una forma di opposizione che si traduce in un urlo, come è in opere degli anni Sessanta intitolate Hirosbizza, Ordigno, Missile. Il Monumento ai Caduti di Cuneo realizzato tra il 1964 ed il ’69 è una enorme struttura di 350 metri cubi, una

gigantesca onda meccanica travolgente, una macchina da guerra che esprime disperazione e minaccia, instabilità ed imminenza di una lotta. Non a caso Jean Cassou, di fronte a queste esplosioni di pulegge, cunei, aste ed ingranaggi presi direttamente dal mondo dell'industria penserà ad inferni e sepolcri, fucine e caverne. A conti fatti dunque, nella scultura di Mastroianni si può parlare di movimento, ma solo in riferimento ad una lotta, ad una spinta propulsiva per la sopravvivenza e l'affermazione totale della vita, come conferma lo stesso artista: “Sogno ur parco riempito di statue viventi, non un museo ma una palestra viva, un teatro sperimentale popolato di statue: statue smisurate,

apocalittiche, disumane-umane”.

ESPOSIZIONI: Mastroianni, Galleria Civica d’Arte Moderna, Torino, 1974 (cat. fig. 5)

BIBLIOGRAFIA: Giulio Carlo Argan, Mastroianni, Edizioni del Cavallino, Venezia, 1958; Umberto Mastroianni, cat. Galleria Nazionale d'Arte Moderna, De Luca, Roma, 1974, fig. 7; Mastroianni, la dialettica dell'avanguardia, Edizioni Oberon, Roma, 1953 *pA29HIgAL0

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Il movimento dello Spazialismo ha inizio ide:donte con il “Manifi e sottoscritto da allievi ed estimatori di Lucio Fontana a Buenos Aires nel 1946, ma si definisco a Milano con la formulazione, fra la fine del 1947 e l’inizio del 1948 “Manifesto dello Spazialismo” sottoscritto da Fontana e altri, e a cui fino al ID succederanno altre sei dichiarazioni di intenti e di poetica. Il termine allude ad un nuovo concetto di spazio immateriale collegato a presupposti cosmici, interstecari ed atomic. dunque di consapevolezza delle novità della scienza. Il Futurismo costituisce, a livello ideologico, una grande spinta propulsiva per gli Spazialisti, che guardano con interesse alle scoperte tecriologiche e scientifiche, come televisione, vi:iaggi nello spazio, luci al neon e lasec Intendendo assorbirle nell opera per poterla proiettare in una dimensione dinamica ed eterna, in sintonia peraltro con le nuove tecnologie della comunicazione. Malaloro attenzione va anche alle esperienze del Barocco nella loro suggestiva capacità di articolazione spaziale e ambientale. In piena coerenza con il concetto di un’instabilità universale in continua mutazione e è

senza confini, all’interno del movimento ogni artista concepisce la propria nozione di spazio, e non esiste dano un vero e proprio “stile” spazialista. Si registrano piuttosto

degli scatti d'energia e delle propulsioni dinamiche condivise che permettono l'uscita dai limiti codificati dell’opera d’arte, pur se difatto nessuno di loro (a parte il gesto perforante dei “buchi” e le diverse sperimentazioni ambientali di Fontana, a cominciare dal famoso “ambiente nero”, a luce di Wood, realizzato a Milano, nella Galleria del Naviglio, nel

febbraio 1949) è riuscito nell’intento di superare i tradizionali limiti fisici delle arti. Sono tuttavia modi linguisticamente diversi, seppure di prevalenza segnica, nei quali ricorre infatti un interesse per una gestualità che costituisca l'assunzione di ritmiche di dilatazione spaziale; con esiti che riguardano |’area della nuova fenomenologia “informale”.

E Fontana che getta uno sguardo diretto dentro la materia del cosmo saggiandone, dapprima attraverso la scultura, che si fa materia ingaggiata , in processi magmatici, secondo ritmi dinamici di compromissione spaziale; quindi proponendo esempi di fluttuazioni spaziali agravitazionali in dimensione bl e contemporaneamente andando al di là del piano pittorico con i “buchi”, che forano la supeficie aprendo ad un’altra idea di spazio. Mentre (fra gli altri esponenti del gruppo milanese, gravitante appunto attorno alla Galleria del Nav iglio, il cui lavoro sia qui esemplificato) il segno di Crippa definisce con le sue tipiche spirali vere e proprie traiettorie aeree ed atomiche, di suggestiva ed ipnotica energia; e Dova entra in un mondo sotterraneo e subatomico (operando infatti prossimo ad interessi del Nuclearismo). Fra gli esponenti del gruppo veneziano, gravitante attorno alla Galleria del Cavallino, un maestro del “Novecento” come Guidi si rinnova abbandonandosi ad un senso puro del gesto pittorico, dove anche le tensioni ed idrammi diventano una ea per aver visione diretta di un’essenza spirituale dell'universo e dell’ energia che lo anima. Mentre le leggere scalfitture ed incisioni che costituisco il “tessuto” dei dipinti di De Luigi danno vita a impal lpabili rappresentazioni medianiche di presenze misteriose ed angeliche di luce; e il più giovane Finzi indaga “parascientificamente” i processi fotocrosmiatici ed elettronici della luce ispirandosi ai ritmi della musica jazz. A parte si situa il caso estremo di Tancredi, che è spazialista per vitalismo interiore e struggente desiderio di riversare il proprio impeto creativo e trasgressivo nell’evocazione panica della natura, assunta quale spazio psichico.

Lucio Fontana Scultura spaziale, 1947 bronzo, cm 59 x 50 x 30 Fondazione Lucio Fontana, Milano

Nel 1947 anno di Scultura spaziale Fontana ha già chiarito le sue posizioni operative nel Manifesto Blanco pubblicato a Buenos Aires nel ‘46, in cui si afferma che esiste una forza che l’uomo non può manifestare, una so-

stanza luminosa e malleabile, che soltanto una modificazione della natura umana ed un superamento delle arti tradizionali possono rendere esperibile. Scultura spaziale si situa proprio in una posizione di preminenza nei confronti di una ricerca che paga il suo tributo ad un nuovo concetto di vitalismo e di movimento che deve molto al sentimento barocco dello spazio, di cui lo stesso Fontana esalta “/a grandiosità ancora non superata ove st unisce alla plastica la nozione del tempo. Le figure pare abbandonino il piano e continuino nello spazio i movimenti rappresentati”. L'artista chiama anche in causa, contro la regola e la statica del razionalismo, una condizione di subcoscienza in cui l’individuo troverebbbe una nuova dimensione da abitare, secondo forze e for-

me della natura modificate da leggi differenti ed immateriali che agiscono nel cosmo. L'aspetto grumoso di Scultura spaziale, un “anello dipiccoli ammassi di materia elementare” (Enrico Crispolti), in cui la presenza umana sembra come in attesa di entrare in uno spazio differente, è il nuovo punto di osservazione di Fontana, una finestra fatta di materia in via di formazione che preannuncia un’umanità modificata. ESPOSIZIONI: (per le esposizioni prima del 1986 fare riferimento a Enrico Crispolti, catalogo generale, Electa, Milano, 1986); Lucio Fontana, Toyama-Faruizawa-Tokyo-Fukushima-Amagasaki, Giappone, 1986 (cat. p. 40 n. 19); Arte italiana. Presenze 1900-1945, Palazzo Grassi, Venezia, 1989; Un'avventura internazionale. Torino e le arti 1950-1970, Castello di Rivoli, Rivoli, 1993 (cat. p. 210); The Italian

Metamorphosis 1943-68, Guggenheim Museum, New York, 1994-95 (cat. tav. 8); Die Italienische Metamorphose, Wolfsburg, Kunst Museum, 1995 (cat. tav. 8); Lucio Fontana, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1998 (cat. p. 129) BIBLIOGRAFIA: (per la bibliografia precedente al 1986 fare riferimento a Lucio Fontana, catalogo generale, Milano 1986); Enrico Crispolti, Lucio Fontana, catalogo generale, Electa, Milano, 1986, vol I p. 86; “Yio Miuri Shimbun”, Toyana, 18 apr. 1986; Luciano Caramel, L'odissea nello spazio, “Arte in”, n. 34, ottobre 1994

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Lucio Fontana Concetto spaziale, 1951 olio e sabbia su tela; blu e argento, cm 60 x 59 Fondazione Lucio Fontana, Milano

Dopo aver realizzato l'Ambiente spaziale con luce nera nel 1949, Fontana attaversa nel ’51 la soglia di quella nuova dimensione spaziale al di là della materia di cui tanto aveva parlato negli anni precedenti ed esegue le prime opere con buchi sulla superficie della tela. Concetto spaziale, che di per sé presenta l’iconografia di un vortice cosmogonico fatto di polvere stellare e di materia senza peso ed evanescente, mostra dei fori che sembrano creare la costellazione di una galassia. Il ’51 è anche l’anno del Marzfesto tecnico dello spazialismo, di cui naturalmente Fontana è firmatario ed in cui si parla della dissolvenza dello spazio architettonico in un campo privo di gravità e di peso. Così, alla dimensione infinita del cosmo, la presenza dei buchi aggiunge quel processo di smaterializzazione tipico di un distacco effettivo dal peso terrestre. Nei vuoti che sono dietro ai buchi si condensano le forze originarie che animano un orizzonte ulteriore, impalpabile ed impercettibile: è per i buchi neri che infatti passa l’infinito e si rigenera l'universo. Sul piano pittorico, rispetto alle opere di altri spazialisti, a partire dai buchi Fontana è l’unico artista che sia stato in grado di sfondare la bidimensionalità della superficie per dare la sensazione di quella quarta dimensione che avrebbe permesso, nelle sue intenzioni, il superamento della statica del quadro. Il termine “concetto” è la chiave che sfonda le porte della realtà in tre dimensioni ed imitativa ed affianca alla fisicità dell’opera una consistenza cerebrale, mentale e trascendente. (E coi tagli che anche questa discreta materialità verra del tutto disciolta in emanazione di una pura energia cosmica). Fino al ’68, anno della sua morte, Fontana creerà delle efficaci metafore visive del concetto del superamento della dimensione umana, condensandole nelle Nature del 1959-60, nelle Attese o Tagli, nei Teatrini del

°65, tutte opere allusive all’eccitazione di un’epoca in cui viaggi nello spazio, televisione e tecnologia in genere sembravano poter proiettare definitivamente l’uomo in una nuova era e metterlo a diretto contatto con un Dio panico.

ESPOSIZIONI: (per le esposizioni precedenti al 1986 fare riferimento a Enrico Crispolti, Lucio Fontana, catalogo generale, Electa, Milano, 1986); Lucio Fontana, la cultura dell'occhio, Castello di Rivoli, Rivoli, 1986 (cat. p. 44, 121, n. 24); Lucio Fontana, Musée National

d’Art Moderne, Centres Georges Pompidou, Parigi, 1987-88; Lucio Fontana, Amterdam, Stedelijk Museum, 1988 (cat. p. 106 n. 40); Lucio Fontana, Londra, Whitechapel Art Gallery, 1988 (cat. p. 106 n. 40); Lucio Fontana, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1994-95 (cat.

p. 83 tav. 35); Lucio Fontana Retrospektive, Schirm Kunsthalle, Francoforte, 1996; Lucio Fontana Retrospektive, Museum Moderner Kunst Stiffung Ludwig, Vienna, 1996-97 (cat. p. 91, 219, n. 50)

BIBLIOGRAFIA: Enrico Crispolti, Lucio Fontana, catalogo generale, Electa, Milano, 1986, vol I p. 104; “La Stampa”, Torino, 13 luglio 1986, p. 3; 100 Meisterwerke aus den grossen Museen der Welt, V.G.S., Colonia, 1988 p. 141; “Sfera 9”, n. 11-12, novembre-dicembre 1984, p. 7; Lucio Fontana, Images en Manoeuvres éditions, Marsiglia, 1992, p. 80-81

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Roberto Crippa Spirale, 1951 olio su tela, cm 80 x 100 Collezione privata, Bassano del Grappa courtesy Galleria d'Arte Niccoli, Parma

Nel percorso eclettico di Crippa, le “spirali” (realizzate tra il 1947 ed il ’52) si presentano come il momento di massima estroversione e spettacolarità, tanto da essere state interpretate come “assalti contro la verginità dello spazio, espressione folle e senza riguardo dell'esigenza di potenza individuale” (Alain Jouffroy), una vera e propria forma di ambizione di conquista e volontà di possesso della realtà. Crippa le riteneva dei “discorsi nello spazio” (saranno appunto la sua sigla distintiva durante il periodo spazialista), che potrebbero certamente essere messe in rapporto con quel sentimento e quell’eccitazione del volo e la sua passione per le acrobazie aeree, in cui, dopo aver rischiato la vita una prima volta, trovò poi la morte. Questi grovigli, di cui Spirale è un esempio, che ricordano le orbite ellittiche degli elettroni intorno al nucleo dell'atomo, nascono da visioni meccanomorfe della fine degli anni Quaranta, in cui comparivano degli ingranaggi con le scie trasparenti dei loro movimenti gialli immagini di una sorta di meccanica nucleare ma anche di forze originarie e primitive. Crippa si interessò, dopo un breve iniziale passaggio attraverso il post cubismo (più un modo per prendere coscienza che un fatto di linguaggio) e l’astrazione geometrica, all'opera di Ernst, Matta, Lam, Brauner ed al senso di pericolo, terrore, incubo, relitto, giungla, foresta che scaturisce dal loro particolare tipo di surrealismo. Questo aspetto lo ricollegò al concetto di spinta primordiale, tanto da realizzare, a partire dal ‘54, -delle sculture taglienti e minacciose con l'intento di trovare la sintesi di una “nuova immagine totemica ode celli mostruosi, pipistrelli corazzati, meccanici e appuntiti, armati fino ai denti, famelici, caccia interstellari (Contraction de la colére del ’58), sono opere di ibridazioni animali ed umane, tra fantascienza e paura tecno-

logica, che possono essere accostate a quelle geometrie dell’angoscia che Read individuò in una serie di scultori inglesi (Chadwick, Armitage, Adams, Butler, Paolozzi) presenti alla Biennale di Venezia nel ’52, lo stesso

anno in cui Crippa vi esponeva per la prima volta. L’evidente inclinazione per l’eclettismo di stili e di materiali lo porterà, a partire dal ‘57, a produrre dei quadri polimaterici in rilievo, con sughero, amianto, formica, carta di giornale, cera, il cui significato può essere accostato a deserti pietrificati, mura di sbarramento, palizzate notturne di difesa, come l’artista avesse ritirato

all’interno la sua forte carica di aggressività. I titoli di queste opere saranno ispirati a paesaggi lunari, cosmici, meteoriti, teste mitologiche, lune e soli meccanici, che faranno da preludio ad opere multicolori e leggere simili a puzzle, bersagli o aquiloni, navicelle spaziali, fantastici aeroplani (Corcorde del ’69). Una predilezione per il gioco e l’attraversamento mobile e disincantato dell’arte che gli aveva fatto realizzare delle opere collettive insieme a Baj, Fontana, Brauner, Scanavino, Errò, Recalcati.

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Gianni Dova Dipinto nucleare, 1953 olio su tela, cm 50 x 70 Collezione privata

È in una dimensione fantastica e medianica, prima ancora che surreale o inconscia, che vivono le immagini di Dova. Del resto, lo stesso artista era solito dire di credere nella magia e nella superstizione e avvertire la natura fin dentro i suoi processi di trasformazione, organici ed inorganici che fossero. Il termine “nucleare” definisce una dimensione vorticosa e temporalesca della sua ricerca, in cui inquietanti immagini in fase di immersione e volo, violenta germinazione o veloce disfacimento, animano letteralmente lo spazio psichico di forze interne alla materia ed all’inconscio. Franco Russoli ha definito questo particolare stato come “un’allucinata visionarietà di spazi siderei, di esplosioni sottomarine, metafore visive della crisi di conoscenza e coscienza, della ribellione”. La materia pittorica ad emulsioni e la tecnica utilizzata in opere come Dipinto nucleare, caratterizzato da una

morfologia organica fatta di stratificazioni, spessori, incisioni, sembra seguire passo passo lo sviluppo della crescita esplosiva e spermatica di un impatto nucleare che ha trasfigurato del tutto qualsiasi richiamo a quegli aspetti tecnologici citati dagli spazialisti, a cui Dova pure aderì. La macchia, il grumo, l'esplosione atomica a testa di insetto con occhi fuori dalle orbite, sono metafore visive del paesaggio dell'inconscio, costituito da ambiguità, incertezze, angoscia, deliri cosmici, di cui “gli occhi filiformi, i visi rincagniti, i vulcani slabbrati, le apocalissi di iridi© (Alfonso Gatto) del periodo nucleare, compreso tra il 1951 ed il ‘58, sono un esempio. A partire dalla fine degli anni Cinquanta fanno la loro comparsa i Persoraggi, ovvero ibridi mostruosi dalla forme di minerali, vegetali, animali, esseri umani, come fossero emersi dalle profondità del nucleo della materia. Si tratta di opere che assomigliano a quelle minacciose foreste pietrificate, piene di ossa calcificate, tipiche della pittura di Ernst, Matta, Masson e Lam, il cui surrealismo metamorfico Dova ammira fortemente. Seppur appartenenti ad una dimensione terrestre e non sotterranea, questi mostri si presentano come incubi e totem, “crostacei antropomorfi” (Mario De Micheli), un vero e proprio bestiario di complessa iimmaginazione e cru-

deltà. È Dova stesso del resto a sostenere la metaforicità del mostruoso come incarnazione della natura poliedrica e contraddottoria dell’uomo. A partire dalla fine degli anni Sessanta, seguendo un'affermazione della sua poetica, secondo la quale “luni verso è buio. Not speriamo invece che l'infinito sia azzurro, sia questo cielo di luce pulita senza nuvole e senza confini”, Dova inizia a dare forma ad una serie di opere ispirate al paesaggio bretone dei Nabis, al volo degli uccelli, ai giardini, i fiori d’acqua, i fondali marini, la vegetazione non più irta di aculei ma di azzurri, verdi ed atmosfere li esotiche. Sono solarità ed.atmosferei impressioniste che sprigionano luminosità oigro come // sole dell'85, cariche di desiderio per dissolvenze e dolci naufragi verso il suo infinito azzurro. L’abisso profondo che aveva vomitato creature orrende, nel realizzarsi del continuo divenire del cosmo e della natura, si era trasformato in un paese dell’incanto e della meraviglia.

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€) cai

Mario De Luigi Grattage verde-G.V. 031, 1959 olio su tela, cm 95 x 135 Collezione privata, Bassano del Grappa courtesy Galleria d’Arte Niccoli, Parma

La ricerca pittorica di De Luigi è motivata dalla necessità di trovare una nuova forma rappresentativa con la quale poter esprimere il proprio tempo, senza perdere contatto ma sviluppando le premesse fisiologiche del. l’arte del passato. È per questo motivo che l’artista parlava ancora, verso la metà degli anni Quaranta (anni, in Italia, di neocubismo e di interesse per il secondo futurismo), di una tradizione pittorica italiana da dover riattraversare con una nuova sensibilità: “No; non guardiamo, né vediamo le pitture antiche, le sentiamo al punto di poterle rifare nella sensazione plastica contemporanea”. La sua amicizia, fin dai primi anni Quaranta, con Arturo Martini sta a testimoniare un’attenzione particolare per l’idea di classicità contemporanea, una sorta di estenuante e senza fine lotta con l’angelo: “L'angelo mi ha colpito, forse mi salverò; ci vuole tanta fede e tanta forza”, scriveva nel ’48.

È con la scoperta dei grattage che De Luigi trova la luce di questo spazio rinnovato e contemporaneo, animato da una vitalità segreta e mistica. Segni incisi e grattati sulla materia pittorica, animati dall’ansia della ricerca e dell’attraversamento della parete del dipinto, che alleggeriscono la superficie e liberano, dall’ombra, la luce. In questo spazio sospeso e incompiuto, appaiono, come in Graztage verde-G.V. 031, zone di vuoto che sem-

brano prendere consistenza facendosi ombra, come fossero orme di un’assenza, presenze mute, silenziose ed inquietanti come fantasmi (o come angeli, “doppi dell’uomo”, “punti difuga luminosi”, come li definiva l’artista). Un vero e proprio processo di smaterializazione introspettiva e spirituale.

Alla tecnica del grattage, che sostanzialmente lascia inalterata dal 1953 al ’78, De Luigi arriva dopo una prima fase postcubista tra il 1933 ed il ’40, stimolata dalla sua amicizia con Severini, che gli fa da tramite con la pittura di Gris, Picasso e Braque. L'affresco intitolato La scuola, eseguito per l’Università veneziana di Ca’ Foscari nel ’36, rappresenta un po’ la summa di questo periodo. Dal 1941 al ’49 realizza delle opere in quello stile da lui stesso definito “fisiologico”, che nelle sue intenzioni sono forme e racconti plastici in linea con le esigenze spirituali del tempo ma che provengono direttamente dal passato dell’arte italiana, pur nella loro eccentrica dispersione organica ed onirica, come nel Sar Sebastiano del ’45. Molti titoli delle forme fisiologiche si riferiscono appunto a tematiche religiose, con accento di mistica metafisica. Tra il 1951 ed il ’53 esegue gli Azzori, in pieno clima spazialista, forme carnali senza peso, libere, che già aprono la strada per quel definitivo superamento della sensibilità pittorica, proiettata al di là del muro plastico tradizionale, che attuerà finalmente nei grattages.

ESPOSIZIONI: Fontana e lo Spazialismo, Villa Malpensata, Lugano, 1987 (cat. p. 195); Mario De Luigi, Studio D'Arte Barnabò, Venezia, 1989 (cat. p. 26 fig. VI); Mario De Luigi, Palazzo Regazzoni-Flangini-Baglia, Sacile, 1997 (cat. p. 103 fig. 58)

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e

Virgilio Guidi Spazio cosmico, 1957 olio su tela, cm 154 x 182 Collezione Guidi, Venezia

La pittura di Guidi può intendersi come un percorso di chiarimento ed identificazione di uno spazio poetico e soffuso in cui anche l'assenza abbia un suo valore di realtà. È un processo di “scavo e depauperizzazione” (Marco Rosci) quello vissuto da Guidi, in maniera esplicita a partire dal 1945 ma di fatto percepibile fin da quelle opere che per certi versi rientrano nella figurazione metafisica del realismo magico di Massimo Bontempelli, interpretabile negli anni Venti secondo la formula di un’“avventurosa magia del quotidiano”. Spazio cosmico è un’opera vitalistica ed esplosiva, fluttuante ed animato da nuclei spettrali in fermento, in cui dell’uomo non rimane più che il respiro dell’anelito per una condizione indistinta che, secondo Guidi, porterebbe il principio maschile e quello femminile a fondersi in un dato “assoluto, anche spirituale”. L'indistinzione, fantasma di una trasparenza infinita di luce ed energia, unita alla tensione dell’artista per uno stato di innocenza e di incanto, trasforma le masse confuse di Spazio cosrzico in uno spazio altro, astratto in senso proprio ed assoluto. Il valore della luce-colore, fondamentale per opere come questa, che aprono l’'ispirazione su una totalità cosmica, appunto, è stato descritto da Toniato come un’epifania, “segro cosmico del delirio e degli strazi, della vertigine e delle ebbrezze del nostro spazio”. Alcune opere della metà degli anni Settanta, in particolare le Figure agitate, confermeranno questo aspetto medianico, ectoplasmatico ed immateriale della poetica dell’assenza.

È difficile considerare un ciclo di opere di Guidi senza creare una catena squisitamente evocativa ed umorale che rimandi da un’opera all’altra. Così come le Architetture cosmiche nascono dall’umorc angosciato e gestuale delle Presenze, delle Angosce, dei Tumulti, il periodo più propriamente informale, le Teste e Gli occhi degli

anni Sessanta ne sono un’amplificazione universale ed iconica, come se al prodigio si fosse aggiunto lo stupore di una visione, in un rimando tra orizzonte terrestre, marino e celeste che Guidi annullerà del tutto nelle

Marine spaziali dell'inizio degli anni Settanta. Se rispetto ad opere degli anni Venti, come Donra che si leva o Tram, l'atmosfera immobile ed incantata, illuminata da una “luce meridiana”, s'è fatta col tempo più agitata ed inquieta, è perché Guidi è riuscito a materializzare quel sentimento del “confuso” in cui, secondo l’artista, sono immerse e si agitano tutte le forme della natura e dell’arte nella loro aspirazione ad una unità universale. E interessante che nel percorso di una pittura che si presenta come una sorta di premonizione fantastica e di presagio, Guidi abbia realizzato negli anni Settanta una serie energica e voluttuosa di grandi A/beri con lo stesso abbandono, pienezza ed inquieta euforia che ha contraddistinto i casi migliori di certa pittura di alcuni esponenti della Transavanguardia o del Neoespressionismo tedesco tra gli anni Settanta ed Ottanta, pur se Guidi elimina le incrostazioni e le sporcizie della tragedia, della satira o della pulsione patologica. EsPoSIZIONI: Guidi, Palazzo Ducale, Urbino, 1984 (cat. fig. 12 p. 52); Fontana e lo Spazialismo, Villa Malpensata, Lugano, 1987, (cat.

p. 226); Virgilio Guidi, Palazzo Ducale, Urbino, 1989, (cat. fig. 12 p. 52 e p. 79)

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Franca Bizzotto-Dino Marangon-Toni Toniato, Virgilio Guidi, Catalogo generale dei dipinti, Electa, Milano, 1998, p. 612

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Tancredi Parmeggiani Senza titolo (Primavera), 1954 olio su faesite, cm 93 x 128 Collezione privata, Bassano del Grappa courtesy Galleria d’Arte Niccoli, Parma

È a partire dal 1948 che Tancredi comincia a concepire quell'idea di spazio non misurabile e universale che sarà poi dipinto a partire dal ’51 nella serie delle Prizavere, di cui questa opera conclude praticamente il ciclo. Sono equivalenze irrazionali di natura, forma, arte, universo, fantasia, frutto di una gestualità scritturale e

puntiforme che si espande sulla tela o sulla carta, apparendo sotto forma di “paesaggi universali dipinti con delle piccole pennellate scritte in modo quasi incontrollato e mosso, che fanno pensare ad un prato fiorito”, come ha detto lo stesso Tancredi. La vitalità e l'energia di questa opera nascondono e preannunciano però una forma di infantile terrore e di lacerante ebbrezza creativa che illumina l’universale contrasto tra libertà personale e ordine sociale che Tancredi avvertì in tutta la sua tragicità psichica. La Prizavera è perciò sintomo immediato e vitalistico di un paesaggio interiore che non si origina dalla natura ma verso essa si dirige. L’opera di Tancredi è tutta incentrata su una spontaneità assoluta, soprattutto in rapporto alle convenzioni legate allo stile ed alla forma, che nella sua opera non assumono mai direzioni lineari. Una pittura che denuncia l'alienazione dell’artista di fronte alla società ma anche al sistema stesso dell’arte, di cui non accettava regole e conformismi, al punto da dichiarare pubblicamente di non riconoscere come autentica ogni sua opera e che soltanto il metro di giudizio dell’artista poteva determinarne il valore: “stabilirò i prezzi dei miei quadri in termini miei e a proposito di ciascun quadro”, scriveva in occasione della sua personale al Cavallino di Venezia nel °60. Era questo il modo con cui intendeva combattere la commercializzazione della firma, contro i suoi stessi interessi mercantili. Dopo aver partecipato nel ’52 all'esperienza spazialista, a cui era stato portato dal suo amore per le forze naturali e psichiche che si agitano convulsamente nell’universo, si interessa al segno di Masson ed all’automatismo surrealista, alla spontaneità organica di Arp, Mirò, Klee, come testimoniato dalle sue opere simili a steli, fiori, germogli, semi, ripetuti con ossessiva voracità di segno ed incanto coloristico. Sarà dal ’59, con la serie

delle Facezie, che nella sua pittura inizieranno a comparire quelle tipiche presenze figurali con le quali esprimerà convulsamente gli attacchi alle norme della società costituita. E una pittura critica e di dissidio, al limite o già dentro la psicosi (nel 62 verrà dichiarato “schizofrenico-paranoide”), come nei Matti del 1961-62, con

quelle inquietanti figurine di mostri antropomorfi, diavoletti, draghi, spiritelli, larve o scheletri d’uomo, oppure come nella serie di opere intitolate, in maniera alquanto sinistra, Hiroshimza. È l'ebbrezza di un'energia

vitale ma anche dolorosa come le scariche di un elettrochoc, accompagnata da una grande e febbrile attività disegnativa, che traduce immediatamente ed in modo corrosivo la necessità di applicare alla realtà la denuncia della follia sociale, del militarismo, della borghesia, della morale cattolica. Con una sfumatura certamente au-

tobiografica aveva scritto: “la pittura esisterà finché ci sarà un solo bambino che abbia voglia difarla; quel bambino sarà probabilmente il più grande pittore che sia mai esistito”.

ESPOSIZIONI: Tancredi, Ca’ Vendramin Calergi, Venezia, 1967-68 (cat. fig. 63); Tancredi, Padiglione d'Arte Contemporanea, Milano, 1984 (cat. fig. 4)

BIBLIOGRAFIA: I/ r2i0 vocabolario è l'universo, a cura di Carla Natto, Mazzotta, Milano, 1984, p. 40, fig. 4

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Fnnio Finzi Giallo su nero (Ritmi e vibrazioni), 1954 tempera su faesite, cm 170 x 130

Collezione Marangon, Mirano

Tra il 1951 ed il ’55 Finzi realizza una serie di opere che definisce “diagrammi cromatici”, dove sperimenta, sono sue parole, “una rigorosa analisi strutturale degli elementi della visualità”. Il termine “visualità”? è centrale nella sua opera e si ricollega alla definzione di dipinto come schermo ottico che accoglie su di sé rifrazioni, accelerazioni, incidenze e mutazioni luministiche come si trattasse di flussi di energia visibili alla massima intensità. Il quadro inteso come campo o spettro elettromagnetico in continua ed imprevedibile espansione, che l’opera Giallo su nero sta a testimoniare (il titolo Ritmi vibrazioni è stato aggiunto dall’autore direttamente sul retro della tela), con i suoi pigmenti fosforescenti, che sembrano prodotti da interferenze elettroniche, rientra a pieno nella particolare concezione dello spazio di Finzi. Spazio fatto appunto di durate, eventi cromatici, impulsi vitali, “percorsi folgoranti, su regioni di ascesa e di perdizione nella interminabile diaspora tra luce e tenebre” (Toni Toniato). E lo sfondo nero, niente affatto evocativo né perturbante in senso psicologico, rende gli attraversamenti della luce veloci, instabili ed ancor più evidenti, oggettivi e fenomenici, con un'ispirazione riconducibile ai ritmi della musica jazz. Rispetto agli Arcobaleni o a tutti quei dipinti segnici e più gestuali, privi di punti di riferimento, entropici, pieni di collisioni e disintegrazioni, Giallo su nero, insieme ai dipinti ottico-cromatici parascientifici e tecnologici, come i reticoli degli anni Sessanta, Luce-vibrazione del ’68, i Tensomodulatori o le scale Transcromatiche degli anni Settanta, rappresenta in sintesi l’altra faccia della luna pittorica di Finzi. L’alto grado di sperimentalismo e di vertigine del vuoto, di ansia ed improvvisazione presente in opere come Assonante del ‘55, è il segno di quello che può definirsi l’atonalismo della sua poetica, per usare un parallelo con la dodecafonia, il jazz o le contemporanee avanguardie musicali di Bruno Maderna o Luigi Nono, di cui Finzi è stato, anche per via dei suoi trascorsi da musicista, un attento ascoltatore. E difficile ricondurre l'immaginazione di Finzi in un contenitore linguistico o strutturale che possa, come dire, trovarne una misura interpretativa. Sarebbe come voler analizzare i pensieri e le sensazioni di un insetto, che di fatto vive di percezioni e premonizioni inafferrabili per i sensi umani. L'aleatorietà della sua pittura sembra a volte accordarsi ad irradiazioni di luci artificiali o a timbricità tipicamente pittoriche, oscillando tra il nero ed il rosa shokkhing, tra il pulviscolare ed il siderale. E per questo motivo che forse la miglior definizione della sua opera può essere ricercata in una dimensione mentale e fisica in cui il soggetto sia finalmente diventato tutt'uno con le proprie facoltà sensoriali, senza far distinzione tra inconscio e sistema nervoso. ESPOSIZIONI: Croraca 1947-1967, Galleria Bevilacqua La Masa, Venezia, 1984 (cat. p. 110-111)

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POR dicon

Confluendo nelle ricerche “informali” una particolare caratterizzazione assumono a Roma lungo gli anni Cinquanta ricerche configurate in proposizioni fra segno e materia. A partire, in termini di segno, dalle formulazioni elementari elaborate da Corrado Cagli alla fine degli anni Quaranta, nei suoi “motivi cellulari”. Ricerca segnica basica che Giuseppe Caporossi subito sviluppa in una sorta di alfabeto primario inizialmente di grande intensità di scrittura corsiva; e sulla quale Mirko innesta suggestioni di arcane presenze, rituali e iniziatiche. Ma a partire anche altrimenti dalle radicali proposizioni di apprensione materica operate da Burri, membro con Caporossi, Colla e Mario Ballocco del Gruppo “Origine”, costituitosi nel 1950, d'orientamento decisamente non-figurativo e nel cui manifesto, pubblicato in occasione d’una mostra degli stessi a Roma nel gennaio 1951, si parla di “riproporsi il punto di partenza normalmente più valido delle esigenze ‘non-figurative’ dell'espressione”, riconoscendosi nell’“evocazione dei ‘nuclei grafici’, linearismi e immagini pure ed elementari”. Una prospettiva nella quale opera a Roma, in un esercizio di critica tutta sul campo, Emilio Villa. Tra Cagli e Capogrossi corre un particolare rapporto di influenza e di ispirazione. Il motivo cellulare e microstrutturale di Cagli, importante stimolatore per l'apertura mentale dell'avanguardia del secondo dopoguerra italiano, è direttamente presupponibile nella formulazione dei primi segni arcani e distintivi di Capogrossi, che, seppur variati per ritmi, frequenze, colori, dimensioni e disposizioni sulla tela, hanno caratterizzato la sua carriera per quasi trent'anni. In termini di segno si apre nella situazione romana una traccia di corsività di scrittura (sulla quale s’innesta, per esempio, Sanfilippo), con addirittura implicazioni di gestualità, come nel caso di Scialoja. Il cui fare pittorico dispone di un potere evocativo e umorale delle immagini energico e pulsionale, sottolineato con una gestualità veloce, accentuata e apparentemente libera da qualsiasi schema. Ma l’altro aspetto dominante nella situazione romana è costituito appunto

dall’attenzione materica; ambito nel quale di grande presenza e intensità propositiva è la ricerca sviluppata in ampie superfici pittoriche matericamente differenziate nell’enunciazione delle componenti formali e segniche, a metà degli anni Cinquanta, ultimi di vita, da Prampolini. Figura storica che attraversa tutta la prima metà del secolo con le sue audaci sperimentazioni e un mobile spirito avanguardista che si è posto come un importante riferimento per le generazioni a lui successive. E sul versante della materia Colla, originariamente su posizioni di base “concretista” (come Ballocco) nel Gruppo “Origine”, viene delineando forme aggressive e ascensionali in ferro, di cui non ripulisce la superficie per mostrarne la realtà del materiale e la sua bellezza di scarto industriale. Materico e segnico è il racconto di un ascolto interiore che caratterizza il lavoro pittorico di Bice Lazzari, che opera sul segno come fosse un ricamo della memoria in cui lascia trasparire per emersioni e lontananze un intimo ricordo, elaborando il vissuto in una delicatissima tarsia.

Mentre Lorenzo Guerrini, che propone negli anni Cinquanta monumentali presenze segnico-materiche spaziali, di forte impatto emotivo, lavora direttamente la pietra, identificando il processo della scultura con la pietra stessa, lasciando in vista i segni degli attrezzi con cui lo “scalpellino” sbozza, definisce e appunto scolpisce la materia, portandola alla sua nuda verità e umanità.

Corrado Cagli Invenzione con brio, 1949 tempera su carta intelata, cm 127 x 79

Collezione privata, Roma

La serie dei “motivi cellulari”, di cui Invenzione con brio è un esempio, sono un percorso senza fine, labirintico e mentale. Vengono infatti dai disegni sulla quarta dimensione, in cui l’autore scandagliava le possibilità di altri spazi oltre quelli euclidei. È il periodo tangente alle sue ricerche informali, in cui il significato della cellula dà corpo alla sua idea di intrecci pluridimensionali e molteplici, autogenerativi e sintomatici di quella che l'artista definiva “fantasia dell'infinito”. Lo stesso Ungaretti dirà di queste opere, che Cagli aveva fatto compiere all’arte contemporanea italiana dei “passi da gigante”, se si considerano, prima di tutto, le esperienze segniche e nucleari dell’inizio degli anni Cinquanta, primo fra tutti Capogrossi, la cui prima mostra personale verrà presentata non a caso da Cagli. La cellularità in Cagli fa dunque parte indissolubile del suo linguaggio e del suo pensiero e non solo di un periodo determinato delle sue variegate sperimentazioni. Non è fuor di luogo parlare a proposito di “architetture” di segni e di piccole monadi che tentano di far coesistere, in una stessa dimensione, spazi mentali differenti, che solo all’interno del quadro trovano la loro tenu-

ta fisica e concreta. Invenzione con brio è, come dire, una radiografia al microscopio che osserva il processo di formazione dello stesso atto creativo, che Cagli ritiene primordiale e metamorfico, sostenedo a proposito: “707 è male essere effimeri se il consumarsi è legge della natura: ma fintanto che duriamo conterà essere fecondi”.

Adottare a proposito della pittura di Cagli termini come “primordio”, “nomadismo”, “fantastico”, “metamorfosi”, significa metterne in luce la poetica dello stupore e della meraviglia, del mistero e dell’eclettismo. La sua opera è infatti difficilmente catalogabile entro prospettive stilistiche ben definibili ma piuttos.o erra alla ricerca di un approdo ignoto, di un rinvio infinito della meta verso Itaca, come avviene nel “ritorno di Ulisse” (che è anche il titolo di un disegno del 46).

L'indagine di un mondo inesplorato e lontano è lo sviluppo naturale di una pittura che aveva esordito tra gli anni Venti e Trenta con dipinti murali ispirati alla favola mitologica, al mondo greco, etrusco e pompeiano, a Paolo Uccello e Piero della Francesca, dove il mito è un’energia oscura, simbolo del naufragio della modernità e della necessità di conoscere i primordi di questi archetipi. Dal ‘47 scopre una dimensione a metà tra metafisica e postcubismo organico e surreale, foriero di spazi inconsci e fantastici. E da qui che prende corpo l’idea del pittore come di un individuo capace di ragionare contemporaneamente con due tipi di logica, perché la realtà è così sfaccettata e poliedrica che solo attraverso il brivido della contraddizione se ne può avere un’esperienza completa. Da una parte allora produrrà opere figurative, magiche, enigmatiche, tribali ed esoteriche e maschere fatte di nastri di carta poi fuse in bronzo, dall’altra una serie di evocative sperimentazioni grafiche e materiche in cui la ricerca nelle profondità degli abissi della creatività e della tecnica artistica riemerge portandosi dietro allucinate trasfigurazioni. ESPOSIZIONI: Cagli, Civiva Galleria d'Arte Contemporanea, Milano, 1965-66, (cat. n. 89); La Fondazione Cagli per Firenze, Palazzo Strozzi, Firenze, 1979, (cat. n. 110)

BIBLIOGRAFIA: Enrico Crispolti-Giuseppe Marchiori, Corrado Cagli, Edizioni d'Arte Fratelli Pozzo, Torino, 1964, p. 189; Corrado Cagli, cat. Palazzo Forti-Verona, Edizioni De Luca, Roma, 1989, fig. 87

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Giuseppe Capogrossi Superficie nera, 1950 olio su carta intelata, cm 51 x 71 Collezione privata

Il tipico segno di Capogrossi (accostato spesso da critici e osservatori delle sue opere a pettini, formichieri, elefanti, forchette) può essere considerato il mattone con cui l’artista edificava il suo muro pittorico, la sua superficie dipinta. È lo stesso Capogrossi a darne una definizione di massima: “è un fenomeno puro e senza doppi fondi, ha una esistenza fisica autonoma, ed è anche un elemento della strutturazione del quadro”. Il significa-

to del suo segno perciò non deve essere ricondotto ad un determinato referente allegorico, simbolico o psicologico bensì al processo stesso del farsi quadro, del formarsi, dello strutturarsi e dello svolgersi da parte dell’opera dipinta. Superficie nera è un racconto in forma processionale, ridotto alla sua metrica ed al suo alfabeto universale e genetico. Il mistero evocativo delle grafie di Capogrossi ha fatto chiamare in causa confronti con le pitture rupestri rinvenute nelle grotte preistoriche o con le scritture ideogrammatiche orientali, ma l’osservazione di Sebastian Matta, che vedeva la sua pittura come “anatorzia di un labirinto che cerca l’uscita del labirinto” ne mette in luce gli aspetti più segreti ed interiori, psichici, dove lo spazio è una realtà interna alla coscienza, come nel caso del disegno di un cieco che “sente” la forma dimensionale delle cose senza poterle vedere. Cagli, che presentò le opere di Capogrossi dipinte nel ’50, tra cui proprio Superficie nera, chiamò in causa la psicologia analitica per spiegare queste “cadenze segniche di ostinato automatismo”, dove il bianco e nero ac-

centuano solennità e gravità dei tempi ed i segni primordiali sono elementi che hanno il fascino “della primza immagine scritta dell’alef. dell’alfa, dell'A”.

Di fatto è certo che il concetto di originarietà e primordialità ha sempre interessato l’artista. Misura, ordine, sospensione del tempo e delle cose, chiarezza costruttiva e tonalismo spirituale erano i presupposti del gruppo Primordialismo plastico di cui Capogrossi fece parte nel ’33 insieme a Cagli e Cavalli. L'interesse per l’arcaico atemporale ritrovato nella modernità, le grafie lineari, una visione rigorosa delle cose, erano invece presupposti del gruppo Orzgire, di cui pure fece parte nel ‘50. Ed è proprio tra il 1949 ed il ’50 che si realizza, a seguito di un processo, la sua svolta astratta. Lo stesso Capogrossi non riteneva di essere passato per una fol-

gorazione improvvisa dal figurativo all’astratto ma di aver ridotto lo spazio alla sua essenza, rinunciando alla tridimensionalità per scoprire le relazioni ed i rapporti trasparenti ed autoreferenziali della pittura e del segno. Le sequenze architettoniche o microscopiche dei suoi segni, gli svariati percorsi dei suoi tracciati, le disposizioni campali sempre mutevoli delle sue scritture galleggianti, confermano, nella loro discontinua ripetizione e frammentazione, durata per oltre 20 anni, un’ansia in continuo svolgimento verso il miglioramento e l’evoluzione che ha caratterizzato dall’interno la sua ricerca. ESPOSIZIONI: Capogrossi, Galleria Il Secolo, Roma, 1950 (ripr.); III Biennale d'Arte Contemporanea, Palazzo Vescovile, Rieti, 1985, p. 61 n. 79 ; Capogrossi, Galleria L'Isola, Roma, 1988, (cat. n. 7)

BIBLIOGRAFIA: “Arti Visive”, n. 1, luglio-agosto 1952

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Enrico Prampolini Apparizione cosmica II, 1955 polimaterico e olio su tela, cm 81 x 100 Collezione privata

La radicalità storica e linguistica dell’astrazione di Prampolini viene sanzionata nel ’49 nel saggio da lui stesso scritto Presupposti dell’arte astratta, dove rivendica il ruolo anticipatore (rispetto naturalmente all’astrazione) della sintesi futurista, in contrasto con l'ideologia costruttiva del Neoplasticismo di Mondrian o il supposto arbitrio lirico di Kandinskij. La peculiarità di Prampolini è quella di tenere sempre in vista, anche solo idealmente, nelle sue composizioni più decisamente astratte, un orizzonte materialistico. Convinto che “la natura non è una realtà ma un’astrazione, una formula organica che si concretizza in immagine astratta”, in opere come Apparizione cosmica II viene riaffermata, grazie all'uso di un colore sabbioso, granulare e denso, quella ricerca materica i cui primi esperimenti datavano fin dal 1914, con l’opera Beguznage. È una costante dello sviluppo dell’opera di Prampolini l'aspirazione a sostituire l’uso dell’illusionismo del colore con la realtà della materia, soprattutto se si considerano le opere polimateriche come Intervista con la materia del ’28 o quelle degli anni Trenta e dell’inizio dei Quaranta, dove anche nelle allusioni cosmiche ad interessarlo è la sostanza cocreta dell’universo. 1 L'organizzazione geometrica che tiene unita la materia di Apparizione cosmzica II, controllandone le metamorfosi, il magmatico sfaldamento e la fisicità, rende nel complesso ancor più originale e particolare la sua posizione all’interno dei movimenti di arte astratta come Abstraction-creation e poi MAC e l’omologo Espace, di cui è anche un attivo promotore.

Nel complesso, con la creazione dellArz Club nel ‘45, la sua idea dell’arte astratta e moderna è inquadrabile come gestione di un'attività culturale di ampio respiro, se si considerano poi i suoi rapporti col movimento dadaista proprio nel ‘16 e poi nel ’18 quando firma il manifesto di Huelsenbeck) o con la Bauhaus (unico riconosciuto tra gli italiani). In Prampolini sembra vivere perciò una spontanea e sostanziale mentalità d’avanguardia, la stessa che l’aveva fatto aderire molto giovane al Futurismo. ESPOSIZIONI: Prampolini, Galleria Fiore, Firenze, 1956 (cat. n. 23); Biennale di Venezia, Venezia, 1958 (cat. n. 13 p. 12); Enrico Pram-

polini, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma, 1961 (cat. n. 130 p. 104); Ure retrospective: Enrico Prampolini 1899-1956, Musée Grimaldi, Antibes, 1964 (cat. n. 20 p. 15); Esposizione antologica dell’opera di Enrico Prampolini, Villa Comunale, Napoli, 1966-67 (cat. n. 24); Quadriennale di Roma, Roma, 1973 (cat. p. 214); Prampolini verso la sintesi, Galleria Editalia, Roma, 1980 (cat. n. 15); Enrico Prampolini pittura, disegno, scenografia, Palazzi Comunali, Todi, 1983 (cat. p. 76); Prampolini verso i polimaterici, Galleria Fonte d’Abisso, Milano-Modena, 1989-90 (cat. p. 115 e n. 41 p. 82)

BIBLIOGRAFIA: Filiberto Menna, Orzaggio a Enrico Prampolini 1899-1956, De Luca, Roma, 1967 (n. 290 p. 255); Prampolini futurista. Scritte e manifesti 1913-1917, Arte Centro, Milano, 1982, p. 29; Prampolini. Dal Futurismo all’Informale, cat. Palazzo delle Esposizioni, Roma, Edizioni Carte Segrete, 1992, tav. LVIII e p. 445-456 fig. S/P/3

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Ettore Colla Grande scultura commemorativa,

1952

ferro, h. cm 192 Collezione privata

Nel ’52 si svolse alla Tate Gallery di Londra il concorso di scultura dedicato al Prigioniero Politico Ignoto. La Grande scultura commemorativa, definita anche come Scultura ascensionale, fu l’opera presentata per l’occasione da Colla, che giunse all'ottavo posto. Al limite tra superficie geometrica ed oggetto tridimensionale, è composta di piani di lamiera, secondo l’idea di una scultura antimetafisica per cui la materia (che in Colla è identificabile in maniera assoluta col ferro) non deve nascondersi nell’opera ma porsi nella sua nudità, nel suo essere “un fatto”. I triangoli che formano questa opera non sono semplicemente triangoli ma “triangoli di ferro”: non ci sono quindi intenzioni formalistiche in Colla ma di trasparente realismo senza doppi fondi. Al limite, come pensò Emilio Villa, Grande scultura commemorativa può rientrare in quei lavori in linea con gli interessi archetipici od ideografici del Gruppo Origine, di cui Colla era uno dei fondatori assieme a Ballocco, Burri e Capogrossi. Nella poetica del gruppo, il linguaggio astratto, il nuovo, era inteso infatti come una dimensione “originaria”, senza alcun arcaismo né letterarietà. Il tribalismo di Colla riguarda più l'aspetto totemico dell’era industriale, contemporanea e primitiva allo stesso tempo, che l’età del ferro vera e propria. Poiché la prima scultura astratta di Colla, intitolata Equilibrio dinamico (o Cerchio di Moebius), risale al 51 ed è stata distrutta dall’artista, la Grande scultura commemorativa, insieme a Ferro, chiamata anche Astroforma,

può quasi considerarsi un unicum nella produzione “ascensionale” di quel periodo.

Dal ’54 ci fu un cambiamento radicale nella scultura di Colla, per via dell’utilizzazione diretta di residui dell'industria tecnologica secondo la tecnica dell’assemblaggio e non più della semplice saldatura di superfici geometriche ritagliate da lamiere di ferro, che pure da quell’industria provenivano. Gli assemblaggi fatti con viti, chiodi, molle, ancore, catene, tenaglie, rotaie, pale, provocarono, fin dalle loro

prime apparizioni, reazioni di sdegno al punto che gli fu negata la definizione stessa di “opera d’arte”. E questo è ancor più significativo se si considera che in fondo il lavoro di Colla non vuole presentarsi come una sfida, una critica, un’irrisione dadaista e distruttiva della categoria arte ma che è anzi vero il contrario. L’opera di Colla va infatti considerata in funzione taumaturgica e di riparazione, come se quegli scarti industriali, che l'artista andava raccogliendo nelle discariche, nelle periferie urbane o addirittura tra le macerie di

case bombardate, avessero in sé una vitalità addormentata da risvegliare attraverso la fantasia dell’arte. Lo scultore avrebbe dovuto soltanto disseppellire quei rottami e, grazie alla sua creatività ed alle sue capacità artigianali, farli rivivere di luce propria. Colla era affascinato dai mucchi di materiali dilaniati, aggrovigliati e contorti, che, oltre a dichiarare la regressione dell’uomo contemporaneo ad uno stato di inerzia e di abbandono, sono anche scarti tecnologici contrari alla perversione dello spreco della società consumistica, ma in modo ironico e non evasivo. ESPOSIZIONI: Eztore Colla, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma, 1970 (cat. fig. 6)

BIBLIOGRAFIA: Emilio Villa, Scultura di Ettore Colla, “Arti Visive”, n. 6-7, gennaio 1954, Roma; Giorgio De Marchis-Sandra Pinto, Precisazioni sulla storia di Ettore Colla ad uso della critica, “Qui-arte contemporanea”, n. 6, p. 32-37, 1969, Roma; Giorgio De MarchisSandra Pinto, Co//a, Bulzoni, Roma, 1972

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Lorenzo Guerrini Uomo, 1953 iuloltrossotcme2Di 926540 Collezione privata

Dopo i primi lavori in metallo a sbalzo come cesellatore, dal ‘53 Guerrini inizia a lavorare la pietra. Per l’artista il cambiamento di procedimento tecnico significa di per sé una mutazione del processo creatico in direzione di una “sempre maggiore ricerca della vitalità dell'espressione aderente alla nostra epoca”. È in questo senso che va spiegato il furor michelangiolesco spesso chiamato in causa dalla critica nell'opera di Guerrini. Di fatto si trat ta di una ricerca che va a scavare dentro le leggi della scultura stessa, nella sua natura più interna e per certi versi primordiale. La rudezza, il freddo stesso della cava sono per l’artista parte inerente del significato dell’opera, in cui di fatto il segno dello scalpello ed il taglio diretto diventano espressioni di una tecnica pura e semplice, primitiva, grazie a cui si realizza quell’andare all’osso del reale di cui parlava l'artista. E quindi una manifestazione del genuino, del vitale e della verità il significato pieno della sua scultura. Uomo conferma in pieno in una concezione “umanistica” della scultura: qui l'artista si serve delle naturali frantumazioni, irregolarità ed imperfezioni del tufo, un materiale friabile e morbido, per associare il suo processo creativo ad un atto di unione ed intima e delicata identificazione con la materia stessa. L'uomo, o meglio l’idea essenziale ed archetipica di uomo, diviene perciò l’unità minima di misura a cui arrivare dopo un umile lavoro di scarnificazione, tanto che la cubatura geometrica, rude ed austera dell’opera può definirsi una contemporanea rielaborazione romanica del lavoro dello scultore nell'epoca della macchina e della tecnologia. Uorzo diviene così un simbolo estremo, “povero” e confessionale di una roccaforte di resistenza, di una frontiera lontana, come una sentinella solitaria nel mezzo del Deserto dei Tartari, se si concede un parallelo letterario. Per questo motivo l’astrazione di Guerrini, che nasce da un’ansia arcaica di eliminare qualsiasi virtualità o artificialità estetica, può dirsi profondamente espressiva e drammatica, come del resto testimonia Uozzo e tutte le opere degli anni Cinquanta, che fanno riferimento non tanto all'umanità atemporale di figure enigmatiche quanto alla loro impossibilità di apparire diversamente da come sono. L'esserci, per Guerrini, non ammette finzioni né retoriche letterarie, “è” senza dubbio, magari chiuso nel suo isolamento ma di una presenza innegabile. La brutalità delle sue immagini, lo spigolo vivo ed i volumi squadrati che le contraddistinguono, sono la prova di questa evidenza.

Si può quindi parlare di una radicalità della materia in Guerrini, perché di essa mostra, oltre al lavoro intenzionato dell’artista, l’accidentalità delle scalfitture legate alle vicende strutturali ed organiche della pietra, di cui definisce la cubatura minima della sua “umanità”, come a voler arrivare alla soglia ultima dell’anima delle cose, trasformando in presenza lo stesso atto dello scolpire. Quando negli anni sessanta inizia ad utilizzare vari tipi di marmo che lavora anche con tecniche meccaniche e più evolute, muta di conseguenza anche il suo atteggiamento nei confronti dell’opera. Le sculture si pongono ora come elementi separati ma in rapporti di campo tra di loro, per divenire dei veri percorsi su scala di paesaggio o addirittura urbana, dando ragione, per certi versi, all’intuizione di Ponente che aveva visto, già negli anni Cinquanta, un’inclinazione ambientale della scultura di Guerrini. A conferma di una radicalità della scultura che comunque Guerrini non ha mai abbandonato, ci sono negli anni Settanta quelle opere composte di blocchi sovrapposti e tenuti insieme per la semplice inerzia fisica e materiale del loro peso e della loro consistenza. ESPOSIZIONI: Lorenzo Guerrini, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma, 1985 (cat. fig. 17 p. 49)

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BIBLIOGRAFIA: Sculture inedite di Lorenzo Guerrini, “Domus”, gennaio 1957, p. 35; Nello Ponente-Carlo Bertelli, Lorenzo Guerrini. Sculture 1952-1984, All'insegna del pesce d’oro, Milano, 1985, n. 2; Lorenzo Guerrini Sculture Medaglie Grafica, 1985, p. 49; Pier Carlo Santini, Guerrini, Edizioni Bora, Bologna, 1989, p. 128-129 fig. 76-78, p. 362 fig. 76

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Mirko Basaldella La palma, 1954 legno policromo, h. cm 200 Collezione privata, Roma

A partire dal 1953, Mirko configura la sua scultura su modelli ornamentali e decorativi di matrice orienta-

le e realizza una serie di opere in forma di totem, steli, guerrieri, stregoni, ricche di intarsi, decorazioni e

simboli magico-religiosi. Non a caso scrisse di lui Ungaretti: “l’opera di Mirko fa un lunghissimo viaggio nel tempo, da questo momento che viviamo fino a ere sacre”, cogliendo il suo gusto arcaico per l’esotico di altri tempi. La Pala è una di queste figure fitomorfe benevole che recano impresse su di sé intagli tribali, come totem, canoe 0 pagaie provenienti da un lunghissimo viaggio da terre lontane. La pala è la personificazione del poetico, dell’evasivo e del nostalgico che Mirko intendeva come motivi ed impulsi primordiali ed inconsci, che aveva il potere di portare alla luce come fosse un archeologo dei materiali più vari (uti-

lizzò infatti legni, plastica, carta, radici, fogli di ottone, bronzo, styrofoam) e un attivatore di forze cosmiche extrastoriche, oscure ed irrazionali.

La figura della pianta con poteri magici, una specie di idolo-stregone o di albero scolpito a mo’ di personaggio apotropaico su un’isola selvaggia, si presenta come un vero e proprio artefatto rituale. Un’opera rea-

lizzata nel legno con un’esattezza ed una precisione antica che testimonia la: curiosità dell’artista per culture extraeuropee. Questo aspetto anticlassico (se non addirittura preclassico) è presente nell’opera di Mirko fin dagli anni Trenta, quando realizza Ragazzo che uccide il serpente, caratterizzato da linee vitalistiche, serpentinate ed aggrovigliate, drammatiche e modellate “dal di dentro” piuttosto che seguendo intenti imitativi, immettendosi nella scia di una scultura anticelebrativa ed inquieta rispetto all’arte ufficiale del regime fascista. Dopo il ‘45 attraversa un periodo postcubista in cui fa delle strutture policrome, delle sculture scarnificate, ad intrecci vegetali e minacciose ramificazioni, a cui darà una forma monumentale ed evocativa di stragi e lotte, come nei Cancelli delle Fosse Ardeatine del ‘49. Nel ’52 realizza l’imponente soffitto nel salone delle Assemblee Generali della FAO. Mirko non abbandonerà mai la sua iconografia mitica, che anzi arricchirà di soluzioni creative e di invenzioni decorative, senza peraltro trasfigurare del tutto la presenza dei suoi eroi in vere e proprie astrazioni, qualità che Gillo Dorfles riassume così: “umanizza la plastica astratta e dà valore alla decorazione scultorea”. Tutt'al più rafforzerà il presupposto che il mistero della natura sia racchiuso in quei segni, quei simboli e quelle stilizzazioni tipiche di culture extraeuropee, in cui la vicinanza col divino ed il soprannaturale è sentita ancora viva ed avvertita come una forte tensione di forze misteriose. Le sue capacità manipolatorie di materiali spesso di scarto o di uso quotidiano (persino piatti di plastica e involucri di cartone per uova) riusciranno a dare anche ad oggetti standard, realizzati dall'industria o dal design, aspetto di idoli e di feticci del XX secolo. i ESPOSIZIONI: Biennale di San Paolo, 1955 (cat. n. 26); Alternative Attuali 2. Omaggio a Mirko, retrospettiva antologica, Castello Spa-

gnolo, L'Aquila (cat. n. 10); La Fondazione Mirko per Firenze, Palazzo Strozzi, Firenze, 1979 (cat. tav. VII); Mirko. Sculture, dipinti, di-

segni 1933-1969, ex Convento del Carmine, Marsala, 2000 (cat. p. 49 e fig. 15)

BIBLIOGRAFIA: Enrico Crispolti, La scultura di Mirko, Edizioni Bora, Bologna, 1974, tav. 106; Enrico Crispolti, I Basaldella: Dino Mirko

Afro, Casamassima Editore, Udine, 1984, p. 181

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Bice Lazzari Composizione in verde, 1957 olio su tela, cm 100 x 120 Archivio Lazzari, Roma

La pittura di Bice Lazzari è un percorso sottile, silenzioso, interiore, che Filiberto Menna definì “non una bruciante illuminazione lirica ma pacato racconto e sommessa confessione”. Una pittura mai razionale ma affettuosa, fatta di arresti misteriosi, di possibilità intraviste, segretezza e ritrosia. Composizione in verde è stata dipinta nel periodo più propriamente informale dell’artista. È un’opera che si presenta con delle forme che sembrano incastrarsi ed incontrarsi tra di loro senza dipendere da rapporti di equilibrio ma piuttosto da rotture invisibili, da piccoli disagi e colori contratti che perdono consistenza: il verde diventa perciò una nota di lontananza mentre dei tracciati immaginari percorrono le forme incerte e sovrapposte. La caratteristica della Lazzari è stata proprio quella di attraversare sentieri mai ordinati ma emotivi, minuziosi, sempre aperti, vibranti nella piccolezza delle pieghe di un’astrazione lirica mai abbandonata a se stessa e sempre consapevole delle proprie finalità, tanto da porsi il problema della socialità della pittura, della sua umanità e della sua destinazione in spazi del quotidiano. Sosteneva l’artista: “I/ segno è come un seme aperto che scova il terreno di una conoscenza visiva ancora inespressa”.

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La sua storia di pittrice prende le mosse da progetti decorativi di stoffe, merletti, vetri, mosaici, sciarpe, in piena consapevolezza quindi dei mezzi rappresentativi elementari in due dimensioni ma non isolati nelle loro qualità astratte. Il suo spazio pittorico non è quindi mai generico ma sempre pensato per uno spessore e delle qua-

lità tattili: un’astrazione letteralmente “applicata” fin dall’inizio degli anni venti, una daiazione assai precoce in Italia, anche rispetto agli astrattisti della Galleria del Milione, anche se in ambito differente per via delle finalità delle sue composizioni, in cui solo dal ’50 inizierà a prevalere l’aspetto più puramente pittorico. La pratica decorativa ha costituito una sorta di stato di innocenza nella sua pittura ma anche una poetica della chiarezza e della verifica costante del processo creativo e grafico. Se negli anni trenta erano le trame del tessuto ad essere riportate poeticamente nelle tempere o nei pastelli su carta, di dimensioni spesso di non più di qualche centimetro, nel °46 si misurava con dei mosaici pavimentali (nel ’50 vince il primo premio alla Biennale di Venezia per il mosaico) e grandi pannelli decorativi per pareti di bar. È dal ’50 che fa uso dell’olio su tela, individuando le sue fragili tessiture segniche e i poetici racconti immaginari. Dal ’58 utilizza sabbia, colore e colla per realizzare dipinti dal leggero strato materico, mentre nel ’64 ritrova un ordine formale con Mzsure e segni e Ritmi. Si tratta di opere che rendono cristallino il tema della temporalità, che ripartiscono il campo pittorico senza obbligarlo nello schema della linea o della geometria, tanto che negli anni Settanta realizzerà dipinti che si svolgono come vere e proprie tastiere di pianoforte, pentagrammi o partiture musicali fatte di linee in successione. ESPOSIZIONI: Bice Lazzari, Roma, Galleria Editalia, 1958 (cat. fig. 21) BIBLIOGRAFIA: Brce Lazzari, opere 1925-1981, Electa, Milano, 1984, fig 241

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Toti Scialoja Senza titolo, 1957 vinavil su canapa, cm 83 x 102

Collezione privata

È a partire dal 1957 che l’opera di Scialoja rompe gli argini e trova quella dimensione profonda e “psicogeretica” (Emilio Villa) che lo caratterizzerà nel corso della sua attività. Il Giornale di pittura, in cui Scialoja annotò,

a partire dal 1954, le sue riflessioni sull'arte e sulla propria opera, riporta nel 1957, lo stesso anno di realizzazione dell’opera Senza titolo: “voglia di diffondere, di perdere sangue. Di aggredire, di imprimere con dolcezza. Di fare che tutto intorno somigli a te... perdersi e ritrovarsi in questo magma umano dove sei impastato”.

Senza titolo rappresenta il momento esatto in cui Scialoja riesce a far coincidere il tempo interiore dell’esistenza con quello esterno della pittura. Già i materiali stessi con cui è realizzato il dipinto, vinavil e canapa, rappresentano per l’artista una superficie densa, granulosa, fortemente materica ed opaca come uno strato di intonaco su cui poter lasciare le tracce della propria vita e dare sostanza concreta allo spazio ed al tempo della coscienza. Sarà il primo soggiorno americano nel 1956 ed il contatto diretto con la pittura di De Kooning, Rothko, Gorky, Guston, Hofmann, a dare a Scialoja la coscienza di sé e a fornire l’immagine e la tecnica pittorica adat-

ta per esprimere il senso di liberazione dagli anni della sua formazione “parigina” ed in particolare picassiana. L’uso del dripping e della pennellata gestuale ne sono qui un esempio. Scialoja, poeta, inizia a dipingere all’età di ventisei anni, in seguito ad una crisi esistenziale. Ai “testi” pittorici di Mafai, Soutine, Kokoschka, Ensor, accosterà la lettura dapprima di Croce, Brandi, e poi Bergson, Hus-

serl, Heidegger. Attraverso l’espressionismo, in particolare quello generatosi con la Scuola romana, una prossimità al surrealismo e poi il cubismo analitico di Braque che scopre nel ’54, metterà a punto un sistema grammaticale conoscitivo ed estetico che gli sarà utile per poter sprigionare a partire dal ‘55 con la serie delle Caccie, in cui userà per la prima volta stracci al posto del pennello, tutta la sua dolorosa carica di energia interiore e di farla rivivere direttamente nell'opera, come fosse la continuazione concreta dello spazio della psiche. Scriverà a proposito Arturo Carlo Quintavalle: “Da questo momento, Scialoja punta su una specie di autorappresentazione, un'esperienza che si determina proprio nella costruzione dell’esperienza stessa”. Il 1957 è anche Panno in cui fanno la comparsa le Impronte, che almeno fino alla fine degli anni ‘70, seppur via via sempre più organizzate e geometrizzate, costituiscono l'ossatura mentale e fisica della sua opera. Si tratta di tracce realizzate prima con carta di giornale imbevuta di colore e poi, dal ’65, con ritagli di carta colorata, in cui è la fatalità dell’esistere ad essere rappresentata in tempo reale, grazie a delle successioni e delle ripetizioni, simbolo più o meno cosciente dell’intenzione del pittore di annullarsi nella durata del tempo della sua stessa vita psichica e biologica. Nel 1983, in opere come Sar Isidro tornerà ad una pittura libera da qualsiasi costrizione concettuale, ripartendo proprio da una sorta di espressionismo astratto rivitalizzato e gestuale, energico, sfrenato, corporale. Se per Pollock la tela distesa sul pavimento era come un’arena, per Scialoja (che dipingeva spesso su tele poggiate a terra) la sensazione avvertita era quella di fluttuare e “muoversi come all’interno di una zattera”, come lui stesso sosteneva. BIBLIOGRAFIA: Tot Scialoja, cat. Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Edizioni della Cometa, Roma, 1991, fig. 28 p. 50

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Con l’affermazione dell’Informale (alla quale concorrono le ricerche sviluppatesi nell’area dello Spazialismo, fra Milano e Venezia, quanto le proposizioni Segno e materia a Roma, attorno a “Origine”), si apre la terza grande stagione delle ricerche non-figurative in Italia nella prima metà del XX secolo, nella partecipazione ad una vicenda d’ampio respiro sviluppatasi di qua e di là dell'Atlantico. Ma le ricerche informali non comportano soltanto soluzioni non-figurative, giacché vi si confrontano esiti non-figurativi, gestuali, segnici o materici, ed esiti di ricorso figurativo, in una determinante configurazione attraverso gestualità e matericità. Profondamente risentendo della tragedia bellica, in Europa l’Informale segna un radicale richiamo alla dimensione dell’ “esserci” esistenziale, annulla la dimensione della storia

quanto l’ipotecabilità del futuro. Ciò che conta è la testimonianza del proprio esistere, di un'esperienza del sentirsi vivi. Il segno, la materia, la gestualità che li sommuove, sono i mezzi attraverso i quali questa testimonianza si realizza. Si potrebbe definire la poetica informale come una ricerca solitaria, pulsionale ed irrazionale, fatta di tempi interni, di vicoli ciechi, di stratificazioni e di sedimentazioni. Burri utilizza esclusivamente materiali empirici, come sacchi (e poi anche legni e plastiche bruciati, ferri, cretti), identificando il processo umano con quello inorganico. E nel confronto con il muro invalicabile della materia bruta si chiude ogni orizzonte, oltre il quale è il nulla. Anche Scarpitta innalza violente tamponature occludenti e costrittive. E Rotella utilizza manifesti pubblicitari al contrario come memoria di muri cittadini. Mentre Mannucci in una materia antica, fra archeologica e agraria, rivela un’interna natura

energetica, trasformando gli sconvolgenti processi atomici in reperti di archeologia del futuro. Franchina issa simulacri di disagio psichico, lavorando direttamente il metallo. Per Vedova la gestualità segnica più nervosa è mezzo di una manifestazione d’intima conflittualità, di lotta contro costrizioni e insidie sociali quanto individuali del tempo. Scanavino utilizza il segno come punto di sutura delle sue ferite e di testimonianza di una sofferenza, di una difficoltà psichica e depressiva. Mentre Somaini sommuove la materia con gesto energetico, tragicamente vitalistico, in una situazione organica e convulsa, in cui

trauma e paura sono occasioni di resistenza e di scatto liberatorio, sviluppando suggestioni di scultura barocca e dinamismo futurista. La materia è infatti anche organismo, organicità primaria, è corpo, natura vegetale. A

livello di riflessione critica lo sottolinea Francesco Arcangeli. Moreni affronta d’impatto il momento violento della caduta esistenziale e della lacerazione, come fosse uno

squartamento disumano, un grido straziante. Per Leoncillo la creta stessa è metafora del proprio corpo e di un lento tormento naturalistico che diviene un intimo diario personale ed umano. Vacchi esprime la propria trasgressiva dichiarazione di deprivata condizione d’esistenza dipingendo in un’organicità viscerale la corruzione e il decadimento dell’uomo moderno. Manifestatosi attraverso una vicenda che va dalla prospettiva della costruzione di un'immagine intimamente progressista fino alla testimonianza di crisi e scacco esistenziali, il percorso delle ricerche “astratte” lungo la prima metà del XX secolo si conclude dunque in un confronto fra posizioni assai differenziate, attraverso modi diversi costituendo comunque l’ossatura della tradizione d’avanguardia. Altre esperienze e altre motivazioni riguardano la seconda metà del secolo, oltre ormai il tempo delle avanguardie “storiche”.

Alberto Burri SA1600:SPIAI9D6 sacco e olio su tela, cm 102 x 75

Collezione privata, Milano

All’interno della poetica burriana della materia, la serie dei Sacchi occupa la posizione più emblematica ed “umana” per una contraddittoria compostezza classica ed aristocratica, da molti critici accostata ad una vera e propria artigianalità medievale, nonostante la povertà e l'evidente degradazione del materiale. Francesco Arcangeli si è addirittura rifatto, a proposito di queste opere, alle immagini di stimmate, sudari e paliotti popolari della tradizione umbra e francescana. Se il sacco di juta bucato, rattoppato e ricucito è decisamente una materia di scarto e deteriorata, risultato di una pura e semplice accettazione incondizionata del reale, l'utilizzo del colore nero sposta la rappresentazione in uno spazio “al limite quasi del percettibile sul baratro dell’annientamento” (Carlo Pirovano), a metà tra il lutto, la litania funebre, la desolazione e la morte. Del resto tra il 1956 ed il ’58 Burri realizzò diversi Sacchi su sfondi dipinti di nero e nere saranno poi le tracce di bruciature e combustioni che, con la fiamma ossidrica,

comporrà sulle Plastiche e i Legni realizzati tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Il passaggio dai Sacchi alle Combustioni segnò uno spostamento dall’allusione del fatto esistenziale alla sua effettiva collocazione dentro una situazione concreta e reale. Non dunque un colore simbolico di una sofferenza è il nero ma sostanza stessa della materia violentata e aggredita: una constatazione di una condizione inevitabile che Burri attualizza direttamente attraverso la materia ed all’interno di essa. A sottolineare la crudezza e l’assenza di mediazioni artificiali tra arte e realtà nell’opera di Burri, scriverà Giulio Carlo Argan: “Nor è la pittura a fingere la realtà ma la realtà a fingere la pittura”. Il primo uso di tela di sacco data al ‘49 con l’opera SZI (si trattava dei sacchi di granaglie inviate dagli americani durante gli aiuti del Piano Marschall), seguita dai Catrazzi, i Gobbi, le Muffe, i Sacchi, i Ferri, opere con

spiccata tendenza a confondere il piano “finto” (ma vero rispetto al materiale impiegato) ed autonomo del quadro con quello esterno dello spettatore, rafforzando l'equivalenza “materia=pittura” senza assecondare ulteriori associazioni di sorta. Negli anni Settanta la parabola non più materica di Burri assume una connotazione sempre più monumentale, quasi autocelebrativa, epica e letteralmente ambientale, se si pensa alle quinte di acciaio del Teatro Continuo del ‘73, al grande ciclo de I/ Viaggio del ’79-80, composto da dieci enormi opere riassuntive del suo percorso, al Cretto di Gibellina dell'81, che si estende nella vallata della città siciliana o agli insiemi ciclici degli Orti (1981), i Sestanti (1983) e i tetri ed oscuri Anzottarsi (1987). In particolare nella serie dei Sestarti si evidenzia, come in un lungo processo di sedimentazione, la tematica più esplicitamente erotica che Burri aveva prima brutalizzato nelle ferite, nelle piaghe e nei buchi-orifizi dei sacchi (per Sweeney già suggestione di carne viva e sangue) o delle plastiche combuste e che adesso, nelle tarsie equilibrate e colorate dei Sestanzi, rende, in maniera imitativa e semplificata, simili ad enormi, onnipresenti e ossessionanti sessi femminili. Del resto l'affermazione secondo cui “da una ferita è scaturita la bellezza” (Jonas Johnson Sweeney) non può trovare migliore conferma che nel caso di Burri. ESPOSIZIONI: A/berto Burri, Galleria Niccoli, Parma, 1993-94 (cat. p. 51); Burri & Palazzoli. La santa alleanza, Galleria Blu, Milano, 2001 (cat. p. 83)

BIBLIOGRAFIA: Cesare Brandi, Burr;, Editalia, Roma, 1963, p. 204 fig. 191

Edgardo Mannucci Idea n. 18, 1954 scorie di bronzo fuso, lamina di bronzo, filo e piattina di ottone, saldati, cm 116 x 75 x 100 Collezione privata, Roma

Spirali, nastri zigzaganti (“una specie di fulmine” li chiamava l’artista), incrostazioni materiche, sculture che si muovono su dei bilichi, sono gli elementi essenziali che caratterizzano l’opera rivoluzionaria ed innovativa di Mannucci. Convinto del fatto che la bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki avesse completamente sconvolto i tradizionali parametri di esperienza del mondo, cercò di trovare le immagini che corrispondessero a quel nuovo tipo di energia, a quella dimensione interna alla materia ed al cosmo: per questo l’immagine della figura umana in senso tradizionale non poteva più servire a connotare la sua epoca.

Idea n. 18 rappresenta questo tipo di forma contemporanea capace di trasmettere le forze invisibili, veloci, instabili che animano la materia. Sensibile perfino agli spostamenti d’aria che mettono in agitazione le sue forme zigzaganti, è composta da un nucleo vuoto, che altro non è che un elemento alare in forma di relitto, un simulacro di materia generato e attraversato da forze atomiche. Una scultura che tiene in bilico, o meglio in oscillazione, la condizione terrestre, archeologica, artigianale e quella atomica, avveniristica, ap-

partenente agli spazi ed ai tempi di galassie lontane, un antico segreto della materia disvelato attraverso effetti sconvolgenti e distruttivi. L'inizio figurativo della scultura di Mannucci si era caratterizzato per una severità egizia, una rigidità primitiva, come si vede ne I/ pensatore del 1932, poi ammorbidita alla metà degli anni Quaranta in forme più naturalistiche e vivaci. Ma importanti erano i suoi contatti post futuristi con casa Balla ed il suo rapporto di collaborazione con Prampolini, col quale realizzò degli allestimenti plastici, come quello in occasione della Mostra del Minerale a Roma nel ’39. Fu intorno al ‘48 che Mannucci abbandonò la figurazione per costruzioni geometriche fatte inizialmente di compenetrazioni di piani e di sottili tramature, ma ancora contenute in volumi e linee pure. Tra il 1951 ed il 55 avvenne la scoperta definitiva di una nuova concezione della scultura, che col tempo rese sempre più vorticosa ed aerea, al punto da ingigantirla a scala monumentale e ambientale, anche se in senso soprattutto psicologico e di coinvolgimento emotivo. Idea n. 4 del 72 è un esempio di espansione a spirale di energia attorno ad un alto simulacro sottile ed in torsione come un'elica. A questa accentuazione energetica e cosmica, ne seppe affiancare una per la concentrazione di materia in forma di placche e lamine, fatte con scorie di fusioni in bronzo saldate con un minuzioso lavoro di artigianato, al limite tra la scultura e l’oreficeria. Ma nel bilico di queste due attività, tra il macro ed il microcosmo, è del resto custodito il fascino dell’opera di Mannucci. | Esposizioni: Scultura italiana del XX secolo, Villa Mazzini, Messina, 1957 (cat. n. 65, col titolo Mazeria ed energia), Edgardo Mannucci, Villa E., Galleria dell’Obelisco, Roma, 1957 (cat. n. 3, col titolo Bronzo); Italian sculptors of today, The Dallas Museum for Contempo-

rary Arts, Dallas, 1960 (cat. n. 38, col titolo Mazeria ed energia); Edgardo Mannucci, Galleria Odyssia, Roma, 1960 (cat. n. 38, col titolo Materia ed energia), Mannucci, Palazzo Braschi, Roma, 1991 (cat. p. 32 e p. 103 fig. II/a/17)

BIBLIOGRAFIA: Enrico Crispolti, “Il Taccuino delle Arti”, 1960, p. 12 (col titolo Bronzo); Enrico Crispolti, Materia, energia, spazio: Edgardo Mannucci uno scultore postatomico, L’artindustria editrice, Macerata, 1981, p. 71; Valerio Volpini, Marnucci, Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana, Fabriano, 1982

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Nino Franchina Senza titolo, 1960 ferro, cm 84 x 27 Collezione privata, Roma

All’inizio degli anni Cinquanta Franchina aggredisce lo spazio con forme che nascono da una personale sintesi di futurismo e postcubismo. Dotate di spigoli e di punte, queste nuove opere sono fatte con materiali dell’industria automobilistica

e realizzate direttamente

dentro officine e autocarrozzerie,

con lamiere verniciate e saldate,

paraurti, sportelli.

Dal 1958 però la politezza del materiale industriale riflettente e verniciato di nuovo si lacera e si spacca come avesse subito un incidente e di esso non rimanessero che lamiere di ferro contorte, grezze, destinate allo scarto. Sono immagini somiglianti ad alberi scheletrici, radici assetate e sofferenti, piante carnivore meccaniche, di cui un esempio è questa opera Senza titolo, a testimoniare che sotto le sembianze eleganti delle lamiere policrome il problema dell’istinto primigenio dell’uomo e della natura non è eliminato ma custodito come dentro una scintillante corazza. Il periodo informale di Franchina si presenta così come il cuore oscuro ed espressivo della sua scultura, come dimostreranno anche le opere in stucco e ferro del ’65 come Astra (in cui i tondini di ferro fanno la parte di arterie e vene dentro l'involucro in stucco) o i cilindri spaccati e dipinti sulla superficie interna negli anni Settanta. La scultura, secondo Franchina, è legata alle esigenze di particolari momenti della civiltà umana e quindi soggetta ai cambiamenti linguistici che le novità dei tempi richiedono, ma accanto alle forme della contemporaneità, conserva e continua, senza mai staccarsene, quel gesto e quel moto primordiale che la qualifica come espressione primaria dell’arte. E per questo che l’artista diceva di guardare a Zadkine, Laurens, Lipchitz e Moore, ma anche alle metope di Selinunte e ai telamoni tra le rovine dei templi di Agrigento. Il suo passaggio dal figurativo all’astratto consiste in un cambiamento di orizzonte culturale. Fino al ’48 infatti, le sue Immagini dell’uomo, delle pietre di fiume sovrapposte, provenienti da forme arcaiche e geometriche, pur nella loro essenzialità, sanno ancora di anatomia umana e di naturalismo.

La politezza delle sue opere “industriali” rassomiglia invece ad un prodotto di design avveniristico, tanto che il lavoro dell’artista non è in questo caso perfettamente separabile da quello dell’artigiano industriale o dell’operaio di una fonderia. Questa fenomenologia dei materiali dell’industria e delle forme appuntite verrà convogliata in una caratteristica verticalità, “dote regina delle sue forme” (Bruno Corà), simbolo di crescita e di aspirazione verso

l’alto, tipica di un po’ tutta la sua scultura. ESPOSIZIONI: Franchina, disegni, sculture 1935-1987, Museo d’Arte Moderna, Bolzano, 1990 (cat. p. 113 fig.110)

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ciato; LL l

Emilio Vedova Immagine del tempo-"57-3,T°, 1957 olio su tela, cm 200 x 90 Collezione privata, Bassano del Grappa courtesy Galleria d'Arte Niccoli, Parma

Quando a partire dal 1951 realizzò la serie intitolata Imagine del tempo, la rivolta di Vedova, il suo riscatto e la sua crisi di coscienza scaturita dalla paura erano finalmente dilagati. L'opera Immagine del tempo-"57-3,T° registra il dissolvimento ormai quasi completo di quei profili netti e di quelle angolature che avevano preso avvio dal Ciclo della protesta, come se l’artista fosse riuscito a realizzare sulla superficie della tela tutta urgenza dello scontro e della ribellione. Le pennellate fluide e gestuali sono assimilabili a quel “gettito incandescente della fisicità” secondo le parole dello stesso Vedova che altro non è che la forma più alta della liberazione dell’uomo dalle costrizioni del mondo. La messa in atto attraverso l’opera di questo “scontro di situazioni” controverse corrisponde per Vedova, in maniera fisiologica, alla protesta praticata nella vita reale. Da questo periodo in poi per Vedova non si trattò che di estremizzare il senso di coinvolgimento e di responsabilità dell’arte, grazie a fascinazioni, a partire dal ’36, per la mobilità, l'instabilità ed il dissolvimento dei pia-

ni dell’architettura barocca, della pittura allucinata di Tintoretto o di Goya.

Dagli anni Sessanta pratica la sua strategia di espansione ed immissione della pittura nel mondo circostante, come se l’opera potesse essere sentita come un’azione vera e propria, senza però mai mettendone in dubbio l'essenza pittorica. I Plurirzi sono simili a baracche di legno dipinte, corpi aggressivi, barricate, sopra i quali ci si può camminare, che attivano un dialogo fisico od uno scontro con lo spettatore, al punto da circondarlo o da essere circondati. E questo suo forzare le frontiere della pittura senza mai scavalcarle che lo porterà a realizzare le scenografie di Intolleranza ’60, opera musicale e teatrale di Luigi Nono, o le proiezioni luminose sulle pareti del Padiglione italiano nel ’67 in occasione dell’Expo di Montreal: non un'attività parallela alla sua pittura, ma in continuità fisiologica con essa. In questo senso si spiegano quelle opere mobili come i Plurizzi binari del 1977-78 (dinamicità della vita obbligata su dei binari), o la serie dei Dischi e dei Tondi del 1985-88, pitture dipinte su entrambi i lati di grandi sagome di legno che vengono messe a terra, sulla parete, pendenti dal soffitto. Nello spazio sociale la pittura di Vedova trova il suo necessario fluire tra le molteplici relazioni della nostra epoca, caratterizzata “dallo scadere di tutti gli a-priori classici, da una perenne mobilità”. ESPOSIZIONI: L’informale italiano, Galleria Niccoli, Parma, 1997-1998 (cat. 157); Omaggio a Emilio Vedova, Galleria Dante Vecchiato, Padova, 1998 (cat. p. 24 fig. 4)

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II9

Mattia Moreni La caduta, 1956 olio su tela, cm

150 x 150 Galleria Morone, Milano

È dal 1954 che inizia il periodo “informale” di Moreni, un vero e proprio ritorno agli istinti primari, in cui preponderante è una specie di corpo a corpo con la natura (sterpi, rovi, incendi, nuvole, alberi colpiti da fulmini) tradotto in una vigorosa gestualità pittorica che tanto piaceva in quegli anni a Michel Tapié. La caduta è un’opera esplosiva, violenta, selvaggia, una visione ravvicinata ed “intestinale” di un uomo in volo a testa in giù, con le braccia spalancate. È la traduzione immediata di un urlo di disperazione e di dolore, molto simile non a caso a Una vacca squartata del ’57. Il tema della caduta ha trovato in Moreni ampio spazio, sia a livello iconografico in singole opere del ’57 che a livello tematico generale rispetto alla sua intera produzione. Di fatto si tratta del crollo del “dinosauro dell’umanesimo” (per usare un'espressione dell’artista) e dell’ottimismo modernista, come anche del concetto stesso di natura umana immodificabile, che il pittore metterà più criticamente a fuoco negli anni a venire. La brutalità espressiva di questa opera, col suo colore rosso (sangue e viscere) su sfondo verde (allusioni di un contesto naturale), fatta di “brandelli calcinati o combusti” (Claudio Spadoni) denuncia una condizione di degradazione profonda e accelerata dell’uomo, di una fine per malattia interna dell'organismo e del paesaggio naturale.

Dopo inizi postcubisti e geometrici, con particolare attenzione al mito della macchina e dei rumori industriali e delle officine del secondo futurismo, come si vede nel dipinto La fucina del ‘49, tra il ‘52 ed il 54 Moreni rientrò in qualche modo nella tendenza definita da Francesco Arcangeli “ultimo naturalismo”. E dagli anni Sessanta che ricompaiono oggetti reali come cartelli con scritte, baracche di legno, seppur visibilmente violentati da spatolate di colore che ne rendevano non chiara la leggibilità, finché dal ’64 iniziò quella che può dirsi epica “realista-visionaria” della sua pittura. Compaiono infatti le fette di Argurze, che si trasformeranno in lune, navi morte, pesci marci e nel ’68 in vulve femminili, dilatate ed in primissimo piano, adagiate su lascive e decadenti pellicce, in cui la sfrontatezza ginecologica si univa ad un processo di disfacimento e di malattia genetica, come nell’agghiacciante opera in stile realistico Urla l’atrofica del 79. E il tema ossessivo della regressione della specie umana, dell’alienazione erotica, della ricerca attraverso gli errori

e le deformazioni della natura, degli esperimenti genetici, dei mutanti tecnologici, degli esseri transgenici, che Moreni rappresenta come denuncia e avvertimento di pericolo. Nella sua opera capitale, La Mistura, realizzata tra il "76 e 184, materializza e raccoglie quella che chiamava la gran “patturziera totale” del mondo in un enorme ammasso di rifiuti organici e inorganici (vetro, organi animali, peli pubici, colori) compattati da una resina artificiale, l’araldite, che sembrano destinati alla putrefazione come unica e sublime speranza di vita: ma è anche la constatazione che qualsiasi stato emotivo, naturale, biologico, artistico si basa essenzialmente su dei processi chimici. Le varie sculture d’uso e oggetti d’arredamento (specchi, camini, tavoli, ciclette erotiche) realizzate negli anni Ottanta e Novanta, testimoniano dell’irregolarità, del realismo e della trasgressività estetica e sociale della sua poetica. ESPOSIZIONI: Documenta II, Museum Fridericianum, Kassel, 1959 (cat. p. 278 fig. 3); Mattia Moreni, Rive Droite, Parigi, 1957; Mattia

Moreni, Kunstverein, Amburgo, 1964 (cat. tav. 10); Museo Civico, Bologna, 1965 (cat. tav. 22); Mattia Moreni, opere 1954-1964, Galleria Civica d'Arte Moderna, Palazzo dei Giardini, Modena, 1987 (cat. tav. II, p. 38)

BIBLIOGRAFIA: Fabio Cavallucci, Mattia Moreni, Clueb, Bologna, 1992, fig. 12; Roberto Pasini, L'Informale, Clueb, Bologna, 1996, fig. 172

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Sersio Vacchi (©.

Affondamento della carne, 1959 olio su tela, cm 200 x 140 Collezione privata

Tumescenze, feti, viscere, polmoni, “carne scorticata e sanguigna, dolce e repellente” (Francesco Arcangeli): sono solo alcune delle definizioni utilizzate dalla critica nel cercare di entrare in relazione con le impietose e raccapriccianti immagini del periodo informale di Sergio Vacchi. Una visionarietà interiore che avrebbe costantemente risentito dei fatti della realtà esterna e, soprattutto, della storia del presente. Ed è appunto in questo spazio di tempo (compreso tra il 1956 ed il ’62) che si consuma la vicenda informale di Vacchi. Affondamento della carne, che si situa nel mezzo di questi sommovimenti, essendo del ’59, mostra quella su-

blime oscenità, tipica del periodo informale, in tutto il suo conturbante splendore. Partito dal postcubismo picassiano, infiltrato il virus del disfacimento nelle sue impalcature strutturali e mentali, interiorizzata fino ad una tragica consunzione la pittura dell’“ultimo naturalismo” del critico Arcangeli, Affondamento della carne propone il tema della putrefazione, della decadenza, della fioritura marciscente e della rinascita. L’informale di Vacchi segna perciò il momento della dichiarazione e scoperta di un'identità autonoma e scandalosa, votata, come ama sottolineare lo stesso artista, ad un lento processo di “autodivoramento”

che ha accompagnato l’intero arco della sua opera.

A partire dalla serie di opere del Concilio, l'uscita dall’informale di Vacchi si carica di allusioni figurali alla simbologia della storia (in questo caso l'oggetto emblematico sarà il potere) ed all’angoscia del corpo mentre dal °63 questi grumi informi si trasformeranno dapprima in paesaggi di allucinata e perversa metafisica, spesso carica di desolazioni erotiche, poi nelle quattro grandiose visioni apocalittiche del 1974-75 (Intorno al Buonarroti, Della perdita o del ritrovamento, Della melanconia, Perché il pianeta), pet approdare ad una serie di ritratti, di interni e di “gruppi di famiglia” (Goya, Beckett, Dix, Morandi, De Chirico, Picasso, Bacon) convocati tra la fine del secolo e l’alba del nuovo millennio, che costituiscono tutt'oggi la carne ultima e destinale della sua opera. Si tratta di esuberanti e complesse visioni in cui il confine tra maschera e realtà, sogno e allucinazione, presagio e quotidianità sono del tutto annullati. I presentimenti di una catastrofe (intesa come condizione inconscia e poi anche attuale) hanno da sempre abitato i paesaggi e le stanze della sua pittura, premonizioni tanto più terribili quanto più le sue ambientazioni appaiono sontuose e fantastiche. Vacchi sente che la sua opera s'è, come dire, “avverata” e che quel sentore di muffa e di decomposizione da sempre avvertito altro non sarebbe che il segnale che il sepolcro della storia, intorno e dentro al quale s’era aggirato l’artista, s'è finalmente aperto. Ricorda allora parole di Eliot: “son Lazzaro tornato dal sepolcro, tornato a dirvi tutto e dirò tutto”. ESPOSIZIONI: L'immagine e la parola. Piero Santi e l’arte a Firenze dal 1950 al 1975, Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea Raffaele De Grada, San Gimignano, 2001 (cat. ripr.) BIBLIOGRAFIA: Giorgio Di Genova, Vacchi e l’Informale, Edizioni d’arte Fratelli Pozzo, Torino, 1972, fig. 57-58-59; Sergio Vacchi. Itinerario dei suoi miti 1948-1993, Fabbri editori, Milano, 1994, p. 96

N°)

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Leoncillo Leonardi Piccolo bianco, 1960 ars, Gin DI > 20

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Collezione privata, Bassano del Grappa courtesy Galleria d'Arte Niccoli, Parma

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La creta per Leoncillo è qualcosa di più che un semplice mezzo da utilizzare per produrre una scultura. È a partire dal ‘55 che inizia il suo vero e proprio racconto della materia, fatto di grumi naturalistici, definiti da Emilio Villa “monumenti ibridi, striati dal disordine dalla paura dalla tortura, fiamme mortuarie, impronte come

foglie che tremano, slanci di risurrezione”. In questo periodo si delinea il particolare tipo di rapporto di interiore immedesimazione tra materia ed artista, una sorta di identità tragica e dolorosa, oscura, notturna, di cui Taglio bianco mostra la ferita, la spaccatura in-

tima e vitale. La figura umana è ridotta ad una forma d’albero amputata direttamente col filo, una metafora di una partecipazione sofferta al dramma della vita e della morte. Lo stesso Leoncillo dichiara, a proposito del suo procedimento: “Tagliare la creta col filo è realizzare un atto decisivo, crudele e liberatore. La creta è come carne mia, un processo d’identificazione assoluto”. L'aspetto frammentario e fossilizzato di questo sviluppo in chiave informale di un tema caro all’artista, quello del San Sebastiano, qui oramai pietrificato, di cui rimangono le spoglie martirizzate, la materia presentata come malattia e dolore, apparizione miracolosa e resistenza ad oltranza, sono caratteristiche tipiche di tutta la scultura di Leoncillo a partire dal suo periodo informale. Longhi aveva definito col termine “barocchetto decadentistico” lo stile di Leoncillo compreso tra la fine degli anni Trenta e gli anni Quaranta, in riferimento ad un Sar Sebastiano in maiolica policroma, che ha in Taglio bianco subito un processo di scarnificazione all'osso, per affermarsi nella sua spietata solitudine di resto vegetale ed umano, come se l'individuo si sviluppasse in una maniera simile ad un evento naturale. Taglio bianco riprende in questa linea l'emblema stesso dell’albero come allegoria non letteraria né culturale ma piuttosto esistenziale del periodo che può definirsi “naturalistico” di Leoncillo, di cui lo stesso artista dirà: “bo fatto foglie, cespugli e fiori, perché non mi è facile vedere le cose...dopo ne farò altre meno naturali, quelle che mi premono di più: perché noi non siamo naturali”. Taglio bianco rappresenta ormai questo superamento in senso umanistico della naturalità di Leoncillo.

Se negli anni Trenta la sua opera sposa a pieno una sensualità mitologica mista a fervente sacralità espressionista, tipica della Scuola Romana (si vedano ad esempio le Quaztro stagioni o i vari busti, candelieri e tazze in

ceramica della prima metà degli anni Quaranta), sarà a partire dal °45 che darà vita a nature morte e soggetti spigolosi, psicologicamente dinamici e fusi con l’ambiente che li circonda, come la Centralinista della fine degli anni Quaranta, di ascendenza postcubista. E un periodo carico di passione e agitazione, che del cubismo rifuta qualsiasi norma formalistica e che lo stesso artista disconoscerà definendolo “dieci anni e dei migliori buttati dalla finestra”.

ESPOSIZIONI: “Arte del XX secolo” Basilica Palladiana, Vicenza, 1998 (cat. p. 161 fug. 92)

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Francesco Somaini Verticale, 1959 bronzo, cm 96 x 60 x 70

Collezione privata

La precarietà tragica e non remissiva di Verticale è tipica di tutta la produzione di Somaini, non solo di quella che rientra più da vicino nel periodo informale. In questa scultura si avverte ancora l’ascendente futurista che ha caratterizzato le opere prodotte tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta e che si è manifestato in avvitamenti di efficace dinamismo. La torsione espressionista e deformante, il senso del frammento e della scheggia, evidenziano quelli che sono gli elementi più vitali ed organici della scultura di questi anni, che grazie alle sue vedute spiraliformi e appuntite e nell’essere girata in tondo non produce visioni rassicuranti ma procura sensazioni di allarme e di trauma. Di fronte alla catastrofe relittuale e sghemba di opere come Verticale, con la sua ambiguità e convulsione che la tengono sospesa tra un’apparente disintegrazione ed un’imminente deflagrazione, si giustifica V’interrogativo di Giulio Carlo Argan: “sono le ultime contrazioni della vita o sono il gesto vago di un’umanità offesa e mutilata, ma, insomma, ancora viva?” Insomma una scultura di lacerazione e di vitalità organica.

Verticale si pone inoltre nel periodo compreso tra il 1955 ed il ’63 in cui lo scultore mette a punto ed inventa tutta una serie di attrezzi per scavare la materia e lasciare solchi, sperimentando anche l’uso di getti di sabbia o corrosioni con acidi. La tematica di una macabra anatomia ossea, sperimentata in forme di crani animali o tensioni muscolari,

del periodo tra il 1948 ed il ’54, che Somaini stesso definisce “cubismo vivacemente violato”, unita al dinamismo organico, darà come risultato, nel corso degli anni, una scultura antropomorfa © barocca, ossessiva

ed erotica (si veda a proposito Carre saturnina). Sculture monumentali pensate e proiettate in ambienti reali o rimaste allo stato di progetto, daranno vita a giganteschi dinosauri o fossili umani che emergono dalle viscere del sottosuolo metropolitano o naturale, come fossero segnali di spaccature non soltanto ambientali ma sociali e psichiche. Si tratta di una visionarietà notturna e sotterranea, con un corpo proprio sul quale Somaini a partire dalla metà degli anni Sessanta lascerà impronte e tracce ed inciderà tagli, come a voler scavare ed arare per portare alla luce uno strato fecondo e perturbante. Di questi solchi riterrà altrettanto importanti le cause germinali, le cosiddette matrici, che realizzerà in insiemi organici di impronte negli anni Settanta (ne farà spesso delle azioni vere e proprie), come ad esempio la Grande traccia e matrice del ’78. La realizzazione di numerose commissioni pubbliche che inserisce, con effetti schoccanti e dirompenti, in contesti urbanistici europeri e nordamericani, è il segno di una necessità di intervento nel sociale che è molto vicina ad essere una protesta che mira a recuperare, di qui il senso dello scavo e della memoria antologica e primaria, l'essenza partecipativa e collettivistiva della scultura di cui il testo e i disegni Urgerza della città, del 1972, ne sono un esempio. Anamorfosi o affioramenti carnali degli anni Novanta, come Leucotea 0 Fortunia, ne rappresentano forse un manierismo che denuncia la fine dell’utopia ed il fallimento di un intento rivoluzionario. BIBLIOGRAFIA: Apollonio Umbro e Michel Tapié, Francesco Somaini, Éditions du Griffon, Neuchatel, 1960, fig. 43-44-45

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Mimmo

Rotella

Senza titolo, 1955 c. decollage su faesite, cm 109 x 69 Galleria Spazio Tempo, Firenze

Il decollage di Rotella, che nasce dalle opere materiche della fine degli anni Quaranta, è l'esatto contrario del collage: anziché essere incollati su una superficie, dei manifesti pubblicitari vengono strappati da essa. Si tratta di una tecnica che Rotella iniziò a praticare nel ’53, esponendone i risultati partire dal ‘54. Presi direttamente dalle affissioni sui muri delle città, già rovinate dagli strappi dei passanti o da quelli dello stesso artista che li preleva dai loro supporti “naturali”, Rotella li avrebbe lasciati così come erano o lacerati una seconda volta a studio, cercando di dirigere ed intenzionare il gesto. Così l'artista motiva il suo atteggiamento vandalistico: “strappare i manifesti dai muri è la sola compensazione, l’unico mezzo per protestare contro una società che ha perso il gusto delle trasformazioni favolose”. In realtà quindi si tratterebbe di un’azione di ri-attivazione della creatività. C'è una forte presenza pittorica informale nei decollage della metà degli anni Cinquanta come questo Serza titolo, per quanto il decollage di Rotella nasca da un atteggiamento di rinuncia, disgusto e abbandono della pittura da cavalletto, considerata pur sempre una tecnica artiginanale (anche nei casi più estremi come quello di Burri) che secondo l’artista non avrebbe in sé le stesse potenzialità di imprevisto e di novità dello strappo. Il decollage sancisce così per Rotella la fine della pittura e si presenta come il diretto sviluppo del linguaggio “epistaltico”, un termine da lui inventato, che consisteva nel produrre suoni vocali inarticolati o presi direttamente dai rumori del traffico cittadino. Per via di questo intervento nella sfera pubblica Restany ha definito l’artista uno “storico della strada e della vita quotidiana che si appropria del reale nella sua totalità oggettiva e sociologica”. I decollage (de)composti tra il 1953 ed il °60 hanno la caratteristica di essere astratti, cioè di non mostrare alcun tipo di riferimento a fatti, luoghi o persone: sono sintomi di nausea per la purezza che comunque non rinunciano all’inquadratura tradizionale della cornice, che continua così a conservare la sua funzione artificiosa e di normale accettazione ed integrazione estetica in un sistema consolidato. A conti fatti quindi anche il degrado in Rotella sembra aver trovato la sua riparazione.

A partire dagli anni Sessanta Rotella si interessa di mantenere nei decollage brandelli figurativi, facilmente riconoscibili a partire dalle fisionomie di attori e dive del cinema stampati sui manifesti cinematografici. Una star lacerata e strappata, ridotta a brandelli come Marylin Monroe, secondo Rotella, “è infinitamente meno star ma infinitamente più donna”. Si tratta quindi di una narrazione isterica e decostruita, di una cronaca di strada che dirige lo sguardo sulle stratificazioni del sociale, di cui sceglie come metafora il cartellone pubblicitario che deve persuadere della bellezza dell'oggetto rappresentato. Rotella arriva però alla fine del processo comunicativo, al suo scadimento, alla perdita della sua funzione originaria nel flusso degli avvenimenti metropolitani. Senza trattarsi di un'operazione demistificatoria e decostruttiva, in realtà il decollage prelevato direttamente dalla strada rimane un semplice reperto popolare al negativo. Le opere di Rotella danno così un quadro completo dell'ambiente sociale, dei suoi meccanismi di convincimento pubblicitario (questi sì mistificatori ed ingannatori) senza mettere in gioco una strategia ma opporre la brutalità di enunciati di cronaca senza commento. EsPosIZIONI: Mimmo Rotella, Palazzo Lanfanchi, Pisa, 2001 (cat. p. 22)

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Salvatore Scarpitta Cocoa Dust, 1958 bende e tecnica mista su tavola, cm 79 x 84 Galleria d'Arte Niccoli, Parma

L’idea di utilizzare fasce e bende incrociate venne a Scarpitta intorno al 1954. Si trattava di una sorta di esorcismo, di rituale per la sopravvivenza, di tensioni reali che dovevano dare un senso pieno e concreto dell’ansia

e del nervosismo dell’età moderna, di cui Scarpitta, secondo Turcato, rendeva in maniera rude stridori e cigo-

lii. Sporcizia, fisicità delle cose, costrizione, ricerca di protezione, tutto questo anima la sfrontata oggettualità di Cocoa Dust, che presenta tra l’altro un taglio sulla superficie della tela, una slabbratura provocata dalla tensione reale delle bende. Di questo taglio che Scarpitta aveva introdotto nelle sue opere già nel ’56 dirà l’artista: “il taglio per me era sempre dovuto a questa specie di claustrofobia per cui l’aprire un quadro non era un fatto di eleganza ma un modo per aprire delle finestre, quasi una forma di salvezza”. Questa funzione taumaturgica dell’opera è uno degli atteggiamenti primari di Scarpitta nei confronti dell’arte e della vita stessa, se vogliamo è la testimonianza più viva di una ricerca protettiva e risanatrice, una sorta di forma scaramantica verso i

rischi della contemporaneità, che ha alla base una fascinazione per l’istinto di morte e il gioco pericoloso, il gesto estremo, “suicidale” e sacrificale che Scarpitta aveva appreso dai futuristi verso la fine degli anni trenta.

La prima vera passione di Scarpitta furono le corse automobilistiche che si svolgevano sulle piste polverose della California, dove era nato. Quando infatti nel °64 realizzò la Rayo Jack, un facsimile di una di quelle automobili, considerò il suo gesto come un reincontro con uno stato infantile e innocente, il superamento di un periodo di travaglio e sadismo, come sta a testimoniare la serie delle X Frazzes, le opere con cinghie, cinture di sicurezza, tubi di scappamento e quelle dedicate al tema della repressione violenta e del razzismo. Di auto da corsa ne realizzò di vere e funzionanti con cui prense parte a delle gare, come se la corsa automobilistica fosse una performance con cui mettere in pratica ed in azione la sua poetica, inserendola direttamente dentro il circuito delle cose e della vita. Era questo che l'artista intendeva con il termine coinvolgimento totale nell’opera d’arte a tal punto che nel ‘74 (ri)costruì un autoblindo italiano della seconda guerra mondiale (Lince) annullando il confine tra processo inventivo, opera d’arte e prodotto industriale: un relitto del passato era stato riportato in vita e trasformato in un oggetto vero a funzinamento magico e sorprendente. Alla tematica della gara e della violenza, Scarpitta affiancò una serie di insoliti manufatti di ispirazione fetici-

stica che rientrano in quelle “allegorie nomadi” (Gillette) riferibili anche a processi emanativi, ritualistici e sacrali simili a simulacri e totem, tipici delle popolazioni di pellerossa che ammirava con grande passione. Sci, slitte, scale, lance (Hi// Canoe del ’90), maschere tribali costruite con gruccie e trappole a molla (Face Trap negli anni ’90), fanno parte di un particolare armamentario da viaggio e da preghiera, maneggevole, artigianale, utile per chi è alla ricerca di una frontiera e di un territorio privo di sovrastrutture ed in continua transizione. ESPOSIZIONI: Scarpitta, Galleria Niccoli, Parma, 1990-91 (cat. p. 25); Scarpitta, Niccoli Arte Cultura, Pescara, 1992 (cat. n. 1); Tensioni

di superficie, Galleria Niccoli, Parma, 1992 (cat. p. 5); Roma 1950-54: il rinnovamento della pittura in Italia, Palazzo dei Diamanti, Ferrara, 1995 (cat. p. 95); Salvatore Scarpitta opere 1957-1991, ex Convento della Purificazione, Arona, 1998 (cat. p. 52 n. 17); Scarpiîta, Centro Arbur d'Arte, Milano, 2000-2001 (cat. p. 32) BIBLIOGRAFIA: “Artforum”, dicembre 1990, p. 75; “Tema celeste””, n. 29, gennaio-febbraio, 1991, p. 57; “AD”, febbraio 1991; “Tema

celeste”, n. 31, maggio-giugno, 1991, p. 80;

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“Next”, estate 1991, copertina

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Emilio Scanavino Al limite della conoscenza, 1958 olio su tela, cm 130 x 162 Collezione privata, Bassano del Grappa courtesy Galleria d'Arte Niccoli, Parma

Il tema della ricerca della morte percepita come traguardo di ogni aspirazione a vivere è il nodo centrale della pittura di Scanavino. La sua opera diventa perciò quasi una forma di unione con una dimensione dell’esistenza depressiva, buia, triste. L'uso stesso del colore grigio, un po’ in tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, è sintomatico di una sorta di assenza di vita, di un sentirsi murati vivi. È in questa situazione di asfissia psichica che si situa A/ limite della conoscenza, che rappresenta la soglia di uno spazio inviolabile e simboleggia l’incombenza di una minaccia e di un peso che gravano dall’alto e che imprigionano il soggetto, come una pietra tombale. Le tipiche tramature onnipresenti nella pittura di Scanavino, sono in realtà grovigli di filo spinato, punti di sutura, cuciture di ferite, gomitoli di solitudine ma funzionano anche come vere e proprie radiografie psichiche. Siamo in pratica di fronte a quello che è stato definito “simbolismo esistenziale”, in cui tutta la difficoltà del vivere viene oggettivata in un segno mai del tutto informe ma intenzionale che di volta in volta sarà traccia di un accadimento diverso, di una frattura, di un incidente, di una

violazione, di una malattia. In queste reti di segni vivono conflitti e tensioni di PERI sessuali, aggressive, masochiste, invischiate come scheletri. Scanavino è rimasto affascinato dal surrealismo organico ed in particolare da Mare fin dal ‘48 mentre dal °51 rimane impressionato dall’angoscia e dai vuoti di Bacon, dalle forme spinate di Sutherland, dai disegni nevrotici di Giacometti. Proprio tra il 1958 ed il ’60 annoterà: “Tutte le forze ci sovrastano, paura, paura,

ecco to ho paura”

Negli anni sessanta la sua pittura si fa più veloce, quasi gestuale, sporca (si veda Trionfo della morte del 61), prima che il segno ricorrente del groviglio venga definito “chirurgicamente” ed inquadrato in vere e proprie forme di ingressi di templi e di sacre e silenziose architetture, incasellamenti, loculi, come per esempio nel dipinto Ad un amico del ’74, spazio di rifugio, di solitudine e di dolore. È negli anni Settanta che fa uso dell’iconografia della gabbia sospesa nel vuoto (uno stilema baconiano), in cui o attorno a cui cuce e sospende i suoi gomitoli. La comparsa di aloni di luce e di apparizioni nelle sue opere a partire dal ’77 sembra introdurre un’insolita sensazione di calore, come se Scanavino avesse finalmente trovato quella luce che affermava di cercare come un pazzo ma di non riuscire a trovare. In realtà si tratterà di una manifestazione altrettanto tragica di necessità di comunicare, di mettere in collegamento morte e vita, una sorta di preghiera e di luminosa aspirazione a quel morire che il pittore non poteva scindere dalla sua opera, come ne fosse parte imprescindibile. Dirà a proposito: “Io sono ilpittore che dipinge l’altra faccia della luna, quella che non riusciamo a vedere perché c’è nascosta per sempre”. ESPOSIZIONI: Scazavino, Galerie Aujourd’hui, Palais des Beaux Arts, Bruxelles, 1960 (cat. n. 4)

BIBLIOGRAFIA: Scanavino, catalogo generale, a cura di Giorgina Graglia Scanavino e Carlo Pirovano, Electa, Milano, 2000, p. 125 fig. 41

DIZIONARIETTO BIOBIBLIOGRAFICO . a cura di Marco Tonelli

Carla Accardi Nasce a Trapani il 9 ottobre del 1924. Nel 1944 frequenta a Palermo l'Accademia di Belle Arti per trasferirsi a Roma l’anno seguente, dove frequenta l'Art Club ed entra nel gruppo di Forma 1, con cui prende parte a diverse collettive, tra cui la Biennale di Venezia nel 1948. Nel 1949 si sposa con Antonio Sanfilippo. La prima personale la tiene nel 1950 alla Galleria Numero di Firenze, seguita da quella alla Libreria Age d'Or di Roma e, tra le altre, al Cavallino di Venezia nel 1952. Tapié la inserisce in numerose collettive internazionali e la presenta in mostre perso-

nali tra cui una alla Galleria Stadler a Parigi, Notizie

a Torino e La Salita a Roma.

Nel 1961 ha una personale presso la Parma Gallery di New York e al New Vision Centre di Londra, mentre nel 1964 espone in una sala personale alla Biennale di Venezia. Negli anni ’60 avrà importanti personali alla Galerie Thelen di Essen, presenze alla Biennale di Venezia nel 1976 e nel 1978 e diverse mostre su Forma 1 e l’arte d’avanguardia italiana. Nel 1982 ha una personale alla Galleria Sprovieri di Roma e nel corso degli anni ’80 diverse retrospettive, tra cui una al PAC di Milano e all’Istituto di Cultura di Madrid nel 1988. Nel 1988 ha una sala personale alla Biennale di Venezia e nel 1989 una retrospettiva alle Galleria Civica di Modena, mentre ancora lo stesso anno è inserita in Italian Art in the 20!” Century alla Royal Accademy of Arts di Londra. Del 1990 è la retrospettiva alla Galleria Civica di Gibellina, seguita da importanti personali negli anni °90, tra cui quella tenuta al Castello di Rivoli di Torino del 1994.

Bioliografia essenziale: Vanni Bramanti, Accardi, Essegi, Ravenna, 1983; M. BrowerFlaminio Gualdoni, Carla Accardi, cat. Palazzina dei Giardini, Modena, 1989; Germano Celant, Carla Accardi, Charta, Milano, 1999

Giacomo Balla Nasce a Torino il 18 luglio del 1871. Tra il 1900 ed il 1901 è a Parigi e nel 1903 è alla sua prima Biennale di Venezia. Nel 1910 firma il Manifesto dei pittori futuristi ed inizia ad esporre nelle mostre del gruppo, a partire da quelle del 1910 e del 1912 in occasione dell'Esposizione Interna-

zionale di Buenos Aires, seguite da quelle in Italia ed in Europa nel 1913. Nel 1915 pubblica con Depero Ricostrazione futurista dell'Universo ed Il vestito antineutrale, per collaborare nel 1916 al periodico “L'Italia futurista” e realizzare il film Vita futurista, firmando inoltre sempre nel 1915 il Manifesto della Cinematografia Futurista. Nel 1917 realizza le scene per il balletto di Stravinskij Fe d’artifice al Teatro Costanzi di Roma e nel 1918 tiene una personale alla Casa d’Arte Bragaglia di Roma Negli anni ‘20 è in tutte le più prestigiose mostre futuriste: a Parigi, Praga, alla Biennale di Venezia nel 1926 e nel 1930 ed anche a New York, oltre ad avere numerose personali in Italia. Realizza le decorazioni del locale Bal Tic Tac nel 1921 ed è nel 1925 nell’Esposzzione Internazionale di Arti Decorative a Parigi. Nel 1929 firma il Manifesto dell’aeropittu-

ra e nel 1936 è a New York nella mostra Cubism and abstract art. Si allontana dal movimento futurista nel 1937. Ha nel 1951 una personale all’interno della Quadriennale di Roma, una a New York nel 1954, a Roma nel 1956, poi a Parigi e Milano. Muore a Roma il 1 marzo del 1958. Bibliografia essenziale: Giacomo Balla, cat. Galleria Civica d'Arte Moderna, Torino, 1963; Giacomo Balla, cat. Galleria Nazio-

nale d’Arte Moderna, Roma, 1971; Maurizio Fagiolo Dell’Arco, Futur-Balla, Charta, Milano, 1992 Renato Barisani

Nasce a Napoli nel 1918. Si diploma nel 1938 presso l’Istituto d’Arte di Napoli e poi presso l’I.S.I.A. di Monza, per frequentare, a Napoli, l Accademia di Belle Arti ed insegnare tra il 1946 ed il 1956 al Liceo Artistico di Napoli. Nel 1948 è alla Quadriennale di Roma e nel 1949 fa parte del Gruppo Sud, formando nel 1950, insieme a De Fusco, Tatafiore e Ven-

ditti il Gruppo Napoletano di Arte Concreta, il cui manifesto sarà pubblicato nel 1954. Nel 1951 è alla mostra Arte astratta e concreta in Italia presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma e tra il 1953 ed il 1957 espone nelle mostre del MAC Nel 1952 decora un Caffè di Piazza Dante e nel 1954 un bar in Piazza Municipio a Napoli, eseguendo anche disegni per gonne e, dal 1957, per gioielli. Nel 1955 è nel Gruppo Espace e partecipa

alla mostra Le arti plastiche e civiltà delle macchine alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Nel 1958 è nella mostra Nuove tendenze dell’arte italiana della Fondazione Roma-New York di Roma ed ha delle personali alla Galleria Minerva a Napoli e all’Attico di Roma. Nel 1962 è alla Biennale di Venezia (vi tornerà

nel 1972), ottenendo

premi alla

Biennale d'Arte Contemporanea di San Benedetto del Tronto nel 1963 e alla Biennale del metallo di Gubbio nel 1969. Nel 1975 è nel gruppo Geometria e Ricerca e nel 1977 gli viene fatta la prima antologica al Museo di Villa Pignatelli di Napoli. Tra il 1978 ed il 1984 insegna design all’ Accademia di Belle Arti di Napoli e nel 1993 è premiato dalla Krasner Foundation di New York.

Bibliografia essenziale: Enrico Crispolti, Barisani, opere 1940-1975, Magma Edizioni, Napoli, 1976; Barisani, sculture 1950-90, Napoli, 1990; Rerato Barisani, opere 1950-

2000, cat. Castel dell'Ovo, Editoriale Mo-

do, Napoli, 2000 Afro Basaldella Nasce a Udine il 4 marzo del 1912. Nel 1928 con i fratelli Dino e Mirko forma la Scuola Friulana d’Avanguardia e nel 1931 si diploma al Liceo Artistico di Venezia. La sua prima Quadriennale di Roma è del 1934 mentre nel 1936 è alla sua prima Biennale di Venezia. Nel 1938 realizza murali ed affreschi in case private ed alberghi ed ha la prima personale alla Galleria La Cometa di Roma nel 1937. Nel 1942 è ancora alla Biennale di Venezia e dal 1945 si trasferisce a Roma dove ha varie personali e nel 1949 è a New York per la personale presso la Galleria Viviano, cui ne seguiranno molte altre nel corso degli anni. Si trasferisce in questo periodo in America per parecchi mesi. Nel 1952 fa parte del Gruppo degli otto e nel 1955 ottiene prestigiose personali negli Stati Uniti, partecipando a Documenta di Kassel (dove sarà anche nel 1959 ed in altre edizioni), alla Biennale di San Paolo ed alla Quadriennale di Roma. Nel 1956 ottiene il primo premio alla Biennale di Venezia, dove avrà una personale nel 1960 e nel 1957 va ad insegnare negli Stati Uniti. All’inizio degli anni 60 è in numerose mostre internazionali ed ha personali alla Galleria Blu di Milano ed alla Galerie de France di Parigi. Dal 1967 al 1977 insegna all’Accademia di Belle Arti di Firenze e tra gli anni ’60 e ‘70

ha personali a Darmstadt (antologica nel 1969), alla Galleria Editalia di Roma, alla galleria Il Milione di Milano. Muore a Zurigo il 24 luglio del 1976.

denone, 1993; Mirko. Sculture, dipinti, disegni, 1933-69, cat. ex Convento del Carmine, Marsala, Electa, Napoli, 2000

Bibliografia essenziale: Cesare Brandi, Afro,

Vinicio Berti

Editalia, Roma, 1977; Bruno Mantura, Afro,

di cui è assistente all'Accademia di Milano dal ’32 al ’34. Nel 1934 si trasferisce a

Nasce a Firenze nel 1921. Dopo le iniziali esperienze nel campo del fumetto (che non abbandonerà mai nel corso della sua attività artistica), dell’illustrazione e della cartellonistica pubblicitaria, comincia a dipingere le prime opere espressioniste intorno al 1942. Il suo impegno realistico lo porterà a fare diversi manifesti elettorali, disegni per la Resistenza o satirici, esposti negli anni in varie mostre. Nel 1945 fonda a Firenze il gruppo Torrente con Brunetti, Caverni, Manetti, Nativi e Ducceschi, affiancato da una rivista di arte e letteratura e nel 1947 è nel gruppo Arte d’Oggi, col quale partecipa a diverse mostre fiorentine.

Roma dove conosce Cagli, col quale farà

Nel 1950 fonda insieme a Brunetti, Nativi,

cat. Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, 1991; Afro, catalogo generale ragionato, Dataars, Roma, 1997

Mirko Basaldella Nasce ad Udine il 28 settembre del 1910. Fratello di Afro e Dino, frequenta l’Accademia di Belle Arti di Venezia e di Firenze e tiene la sua prima mostra proprio insie-

me ai fratelli coi quali aveva costituito la Scuola friulana d'avanguardia. All’inizio degli anni ‘30 conosce Martini,

diverse mostre, partecipando nel 1935 alla Quadriennale di Roma ed avendo la prima personale alla Galleria La Cometa di Roma nel 1936. Dopo la seconda guerra mondiale è nel Fronte Nuovo delle Arti e poi dall’inizio degli anni ‘50 nel Gruppo degli Otto e tra gli anni ‘40 e ’50 tiene alcune personali a New York. Nel 1953 prende parte al concorso svoltosi alla Tate Gallery di Londra intitolato il Prigioniero politico ignoto, di cui ottiene il secondo premio. Nel 1952 e nel 1953 compie dei viaggi in Siria ed in Giordania. Nel 1954 ha la sua prima personale alla Biennale di Venezia, seguita da quelle del 1960 e del 1968, oltre a varie presenze in altre edizioni, mentre nel 1955 è alla Biennale di San Paolo dove viene premiato e nella mostra the New Decade. 22 European Painters and Sculptors. Dal 1957 insegna presso la Harvard University a Cambridge, nel Massachussets ed

è in varie esposizioni collettive internazionali, tra cui quella al Carnegie Institute di Pittsburgh nel 1958-59, Documenta di Kassel nel 1959, in Centro America nel 1967, nella Mostra itinerante d'arte italiana dal 1920 al 1950

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Monnini e Nuti il movimento dell’ Astrattà sm0 Classico, la cui prima mostra è alla Galleria Vigna Nuova di Firenze. Nel corso degli anni farà varie conferenze sul tema dell’arte astratta come forma di espressione nella realtà moderna mentre con gli astrattisti classici espone nel 1955 in diverse gallerie della Toscana (tra cui l’'Indiano di Firenze) e nel 1958 alla Galleria La Salita di Roma. Nel 1959 è alla sua prima Quadriennale di Roma e nel 1960 ha una personale nella Sala d’arte comunale Pascucci di Grosseto. Nel 1965 ha un’antologica alla casa della Cultura di Livorno ed è alla Biennale dell’incisione presso l'Opera Bevilacqua La Masa a Venezia, mentre nel 1971 è nella mostra itinerante Arze corcreta in Germania.

Presente a varie edizioni della Biernale Internazionale della grafica a Palazzo Strozzi di Firenze negli anni ‘70, nel 1987 si tiene la mostra, a lui dedicata, intitolata Espansione dell’astrattismo classico nella Galleria La Strozzina di Palazzo Strozzi. Muore a Firenze nel 1991.

Bibliografia essenziale: Vinicio Berti, dipinti e disegni 1941-1981, cat. Limonaia di Vil-

Renato Birolli Nasce a Verona il 10 dicembre del 1905. Nel 1927 è espulso dall'Accademia di Verona e va a Milano dove conosce Edoardo Persico, realizza le prime mostre collettive e gravita intorno alla Galleria Il Milione, per partecipare nel 1930 alla Biennale di Venezia. Nel 1936 inizia a scrivere i Taccuini e va a Parigi dove incontra Lionello Venturi e viene arrestato per motivi politici. Nel 1938 è nel gruppo di Correte (Cassinari, Cherchi, Guttuso, Migneco, Morlotti, Tomea, Treccani, Pizzinato, Vedova) nel quale rimane per due anni. Nel 1940 e nel 1942 tiene due personali alla Galleria Corrente-Bottega degli Artisti e nel 1942 è alla Biennale di Venezia con diverse opere. Nel 1943 prende parte alla Resistenza e si trasferisce nei pressi di Milano. E nel 1946 che firma il manifesto della Nuova Secesstone Artistica con Cassinari, Levi, Leoncillo, Morlotti, Pizzinato, Santomaso e Ve-

dova mentre nel 1947-49 è a Parigi, poi in Bretagna ed alla Biennale di Venezia nel 1948 col gruppo Fronte Nuovo delle Arti, per esporre nel 1949 nella personale alla Galleria Il Milione ed essere ancora presente alla Biennale di Venezia nel 1950. Sempre nel 1950 inizia uno dei suoi periodi di studio ed isolamento in località di pesca e di mare, andando a Fossa Majore e nel 1951 tiene la personale alla Galleria Viviano di New York. Nel 1951 (l’anno della sua presenza alla Biennale di San Paolo) è ancora in una delle località marine, quella di Porto Buso, nel 1952 a Bocca di Magra, nel 1955 a Manarola e nelle Cinque Terre. Nel 1953 col Gruppo degli Otto lo troviamo a Documenta di Kassel. Pochi mesi prima di inaugurare la sua sala personale alla Biennale di Venezia e di veder pubblicati i Taccuzzi, muore a Milano il 3 maggio del 1959. Bibliografia essenziale: Marco Valsecchi, Renato Birolli, Milano, 1966; Renato Birolli, Feltrinelli, Milano, 1978; Pia Vivarelli, Birolli, cat. Palazzo Reale, Milano, 1990

Nel 1965 gli viene allestita la retrospettiva antologica in occasione di Alternative Attuali 2 a L'Aquila Muore a Cambridge il 24 novembre del

Berti “Espansione dell’astrattismo classico”.

renze, 1987; Vinicio Berti, dipinti e disegni

1882.

1969.

1940-1991, Giunti, Firenze, 2000

Nel 1901 è a Roma dove conosce Severini e Balla, nel 1906 va a Parigi e poi a Pietroburgo. Nel 1907 si trasferisce a Milano e si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Brera. Nel 1910 è tra i firmatari del Ma-

Bibliografia essenziale: Enrico Crispolti, La scultura di Mirko, Edizioni Bora, Bologna, 1974; T. Maniacco, Mirko Basaldella, Por-

la Vittoria, Giunti, Firenze, 1984; Vinicio Dipinti 1951-87, cat. Palazzo Strozzi, Fi-

Umberto Boccioni Nasce a Reggio Calabria il 19 ottobre del

nifesto dei pittori futuristi ed è presentato da Marinetti nella Mostra estate a Ca’ Pesaro a Venezia. Nel 1911 è nella mostra Esposizione d'Arte Libera a Milano e nel 1912 è in Les peintres futuristes italiens alla Galleria Bernheim Jeune di Parigi ed alla Sackville Gallery di Londra in Exhibitions of Works by the Ita-

lian Futurist Painters. È questo stesso anno che scrive il Manifesto tecnico della scultura futurista, esponendo alcune sculture al Salon d’Automne di Parigi. Nel 1913 prende parte alle serate futuriste e mostra tutta la sua produzione scultorea nella I Esposizione di scultura futurista alla Galleria La Boetie di Parigi. E presso la Galleria Futurista Permanente di Sprovieri a Roma che tiene una personale di sculture tra il 1913 ed il 1914. Nel 1914 è nella I Esposizione di Pittura Fu-

tografico di Cannes, il primo premio per il film La chiave di Calandrino, mentre nel 1956 esegue varie scenografie teatrali, tra cui quelle per Panchina di Liberovici. A testimonianza della sua innata propensione al silenzio ed alla riservatezza, è solo nel 1959 che fa la sua seconda personale alla Galleria Lorenzelli di Bergamo, a distanza di ben trentadue anni dalla prima. Nel 1968 ha una sala personale alla XXTV Biennale di Venezia e l’anno successivo partecipa alla Biennale di San Paolo del Brasile. Muore a Bergamo nel 1978.

Bibliografia essenziale: Vanni Scheiwiller, Arturo Bonfanti, Piacenza, 1990; Mathias Haldemann-Haus Peter Wittwer, Bonfanti,

Berenice, Milano, 1991; Arturo Bonfanti, Intime

astrazioni

1926-75,

cat.

Institute

Mathildenh6he, Darmstadt, 2001

turista a Napoli, firma il Manifesto futuri

sta della guerra e si arruola nel 1915, proprio l’anno della sua presenza alla manifestazione The Italian Painters and Sculptors a San Francisco. Muore il 17 agosto del 1916 nei pressi di Verona, in un’esercitazione a cavallo. Pochi mesi dopo si terrà la Grande Esposizione: Boccioni, pittore e scultore futurista alla Galleria Centrale di Milano. Scrive di lui Gino Agnese che “fu una persona difficile, spigolosa, travagliata” e che questo travaglio gli era procurato proprio dal suo slancio verso il nuovo.

Bibliografia essenziale: Maurizio CalvesiEster Cohen, Boccioni, l’opera completa, Electa, Milano, 1983; Boccioni prefuturista, cat. Reggio Emilia, Electa, Milano, 1983; Gino Agnese,

Vita di Boccioni, Camunia,

Milano, 1996 Arturo Bonfanti Nasce a Bergamo nel 1905. Dopo il servizio militare si trasferisce a Milano nel 1925, dove inizia l’attività di designer grafico, decoratore di interni ed illu-

stratore di copertine di libri e riviste. È nel 1927 che tiene la sua prima personale alla Galleria Permanente di Bergamo, città in cui passa gli anni di guerra tra il 1940 ed il 1945

Dopo la guerra fa numerosi viaggi all’estero, in particolare a Parigi, dove conosce Ma-

gnelli ed Arp o in Svizzera dove incontra Max Bill ed in Germania Baumeister. Dal 1952 ritorna a Milano e realizza dei pupazzi per film d’animazione e cortometraggi, ottenendo nel 1954, al Festival Cinema-

Enzo Brunori

Nasce a Perugia il 14 luglio del 1924. Si diploma all'Istituto d'Arte di Perugia e frequenta i corsi di Gerardo Dottori presso l Accademia di Belle Arti. Nel 1947 esegue un grande affresco per lo Stabilimento Luisa Spagnoli di Perugia, andato poi distrutto

Dal 1949 è a Roma dove tiene la sua prima personale alla Galleria del Pincio tramite l'appoggio dell’Art Club. Sempre a Roma realizza vetrate, affreschi e scenografie. Nel 1950 soggiorna a Parigi grazie al conseguimento di una borsa di studio e nel 1956 tiene la sua personale alla Galleria Il Milione di Milano e sempre lo stesso anno fa la prima comparsa alla Biennale di Venezia, seguita da una presenza nel 1958 e da un rifiuto a prendervi parte, nonostante fosse stato invitato, nel 1960. E del 1955 la sua prima comparsa alla Quadriennale di Roma mentre nel 1957 è in numerose ed importanti collettive internazionali come Between space and Earth presso la Galleria Marlborough di Londra, Italienische in XX Jabrbundert all’Akademie der kunste di Berlino o Painting in Post War Italy a New York. Nel 1959 è nella mostra itinerante in Francia dal titolo Du futurisme à nos jours e nel 1963 in quella, anch'essa itinerante, in Australia Contemporary Italian Painting, par-

tecipando nel 1965 alla Biennale di Tokyo. Ha una spiccata propensione all’insegnamento, che esercita per tanti anni negli istituiti d’arte di Cortina e Civitavecchia ed anche presso l'Accademia di Belle Arti de L'Aquila e di Roma, di cui diventa titolare della cattedra di Pittura.

Nel 1988 gli viene dedicata una retrospettiva a Perugia. Muore a Roma il 7 maggio del 1993. Bibliografia essenziale: N. Ponente, Enzo Brunori, cat. Gall. La Saletta, Modena, 1955; Enzo Brunori, cat. antologica Perugia, Electa editori umbri, Perugia, 1988; Exzo Brunori, pittura e natura, Allemandi, Torino, 1992

Alberto Burri Nasce a Città di Castello il 12 marzo del TO1DE

Laureato in medicina, inizia a dipingere da autodidatta durante la prigionia nel campo di Hereford in Texas. Nel 1946 torna in Italia e si dedica a tempo pieno alla pittura, stabilendosi a Roma, dove tiene le prime

personali presso la Galleria La Margherita. È nel 1951 che firma il manifesto del gruppo Origine insieme a Ballocco, Capogrossi e Colla, contro l’estraniameto e il distacco cerebrale di certa astrazione. L’uso diretto e non letterario di materiali poveri a partire dagli anni 50 provoca inizialmente scandalo nel mondo dell’arte, tanto che i suoi primi estimatori sono soprattutto poeti. Ma gli anni ‘50 lo vedono comunque impegnato in numerose mostre personali, in parti-

colare negli Stati Uniti, dove è presente, oltre che nella collettiva tenuta nel 1953 al Guggenheim di New York Younger European Painters, anche con una mostra personale itinerante nel 1957-58. Nel 1955 è alla Quadriennale di Roma e nel 1958 alla Biennale di Venezia, mentre la prima retrospettiva viene tenuta a Bruxelles nel 1959, lo stesso anno della sua partecipazione a Documenta di Kassel. È negli anni ’60 che si scrivono diversi approfondimenti critici sulla sua opera accompagnati da importanti mostre personali, come quella alla Biennale di Venezia nel 1960, e antologiche come Alternative Attuali a L'Aquila nel 1962 e a Roma nel 1963. Nel 1965 vince inoltre il primo premio alla Biennale di San Paolo. Da questo momento in poi tiene prestigiose retrospettive nelle più importanti città europee ed ame-

ricane. Nel 1990 si apre nella sua città natale la Fondazione Burri ricavata negli ex seccatoi del tabacco. Muore a Nizza nel 1995. Bibliografia essenziale: Cesare Brandi, Burrt, Editalia, Roma 1963; Flavio Caroli, Laforma

e l’informe, Mazzotta, Milano, 1979; Burri, opere 1944-1995, Electa, Milano, 1996

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Corrado Cagli

Nel 1934 è ancora alla Biennale di Venezia

Nasce ad Ancona il 23 febbraio del 1910. Nel 1925 frequenta a Roma l’Accademia di Belle Arti e nel 1929 è ad Umbertide dove avora presso la ditta di ceramiche Romet-

(in cui comparirà spesso, ricevendo una sala personale nel 1962) e l’anno seguente alla Quadriennale di Roma, dove anche qui regi-

ti, di cui diventa direttore artistico nel 1930.

La sua prima personale è nel 1932 presso la Galleria di Roma e lo stesso anno fonda con Capogrossi e Cavalli il Gruppo dei nuovi pittori romani, mentre nel 1935 ha una

sala personale alla Quadriennale di Roma e l’anno seguente è alla Biennale di Venezia. Nel 1939 a causa delle leggi razziali ed antisemite emigra prima a Parigi e poi, nel 1940, negli Stati Uniti dove tiene perso-

nali a New York (qui nel 1946 è tra i fondatori del Ballet Society), San Francisco,

Los Angeles, Hartford, per tornare in Italia verso il 1946 dove gli vengono dedicate diverse mostre personali, in particolare a Roma durante la fine degli anni ‘40 e per i decenni a venire, incluse numerose mo-

stre di disegni. Nel dopoguerra è motivo di stimolo e punto di riferimento per un gran numero di artisti italiani che, in particolare, lavorano a Roma. E del 1963 la retrospettiva Orzaggio a Cagli tenuta all’ Aquila e l’anno seguente la sua terza presenza alla Biennale di Venezia. Nel 1970 progetta e realizza a Gottinga il monumento intitolata la Notte dei cristalli, in commemorazione dello sterminio nazista

degli ebrei.

strerà negli anni diverse presenze. Nel 1949 passa alcuni mesi in Austria e fonda poi a Roma nel 1951, insieme a Ballocco, Burri e Colla il Gruppo Origine e prendere parte alle mostre spazialiste del 1952. Il 1955 è un anno importante che lo vede presente contemporaneamente a prestigiose mostre internazionali come Documenta di Kassel e la Biennale di San Paolo, men-

tre nel 1957 ha una personale all’I.C.A. di Londra, l’anno seguente una a New York e nel 1959 al Palazzo des Beaux Arts di Bruxelles. Negli anni ‘60 tiene mostre personali a Tokyo, St. Gallen, in Germania, esponendo anche nella collettiva della Tate Gallery di Londra Painting and Sculpture of decade 1954-1964.

Nel 1971, dopo esser stato premiato alla XI Biennale di San Paolo, il Ministero della Pubblica Istruzione gli assegna una medaglia d’oro per meriti culturali. Muore a Roma il 9 ottobre del 1972. Bibliografia essenziale: Michel Tapié, Capogrossi,

Edizioni

del Cavallino,

Venezia,

1962; Giulio Carlo Argan, Capogrossi, Editalia, Roma,

1967; Palma Bucarelli-Bruno

Mantura, Capogrossi, cat. Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, 1974

Nel 1972 a Firenze, Palazzo Strozzi, si tie-

ne l’imponente antologica di 700 opere, tra pitture, disegni, sculture ed arazzi L'opera di Corrado Cagli. Muore a Roma nel 1976. Bibliografia essenziale: Enrico CrispoltiGiuseppe Marchiori, Corrado Cagli, Edizioni d’arte Fratelli Pozzo, Torino, 1964; Carlo Ludovico Ragghianti, Cagli, C.I.D.A., Roma, 1972; Il Cagli romano, cat. Palazzo Pubblico-Magazzini del Sale, Siena, Electa, Milano, 1985

Giuseppe Capogrossi Nasce a Roma il 7 marzo del 1900. Laureato in giurisprudenza, inizia il suo apprendistato artistico col pittore Felice Carena. Dopo aver partecipato alla sua prima

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Biennale di Venezia nel 1930, inizia la sua frequentazione con Cavalli e, in particolare, Cagli, insieme ai quali espone a Parigi nel 1933 presso la Galleria Bojan sotto la comune etichetta, data da Waldemar, di Ecole de Rome.

Ettore Colla Nasce a Parma il 16 aprile del 1896. Tra il 1922 ed il 1923 è a Parigi dove lavora presso l'atelier di Laurens e fino al 1925 fa viaggi a Bruxelles, Monaco, Vienna e Budapest. Di fatto della sua vita fino al 1926 si sa ben poco e spesso l’artista era solito inventarsi la propria autobiografia. In una versione pubblicata risulta che nel 1925 era minatore in Belgio, fotografo ambulante a Parigi e assistente di un istruttore di elefanti a Vienna. Nel 1926 comunque si trasferisce definitivamente a Roma dove lavora come abbozzatore all’ Altare della Patria. Nel 1930 è alla sua prima Biennale di Venezia e tra il 1942 ed il 1946 è consulente culturale ed organizzatore di mostre presso la Galleria Lo Zodiaco e la Galleria del Secolo di Roma. Nel 1946 è alla Quadriennale di Roma e nel 1950 è tra i fondatori del Gruppo Origine. Nel 1952 fonda la rivista “Arti visive” con Villa, nel 1955 espone alla Quadriennale di

Roma e nel 1957 alla Roma-New York Art Foundation. Ha la prima personale nel 1957 alla Galleria La Tartaruga di Roma, seguita da quella all’I.C.A. di Londra e da quella presso l’Hatton Gallery Durham dell’Università di Newcastle. Nel 1961 è in The Art of Assemblage al MOMA di New York e nel 1964 ha una sala personale alla Biennale di Venezia mentre nel 1966 è presente in varie rassegne di scultura contemporanea e di arte moderna, tra cui al Museo Rodin di Parigi, all’ Arts Council di Edimburgo o a Dortmund. Muore a Roma nel 1968. Bibliografia essenziale: Lawrence Alloway, Ettore Colla. Iron sculpture, Grafica, Roma,

1960; Giorgio De Marchis-Sandra

Pinto,

Colla, Roma, 1972; Ettore Colla: opere 195068, Milano, 1995

Pietro Consagra Nasce a Mazara del Vallo nel 1920. Dopo aver studiato presso l'Accademia di Belle Arti di Palermo, nel 1944 si trasferisce a Roma e nel 1946 fa un importante viaggio a Parigi, dove vede dal vivo le sculture di Picasso e in particolare Gonzales. Nel 1947 è tra i firmatari del manifesto di Forma 1, per cui espone nel 1947 alla Galleria dell’Art Club. Partecipa alle Biennali di Venezia nel 1954 e nel 1956 e tiene mostre personali a Bruxelles (Palais de Beaux Arts), New York (World House Gallery), Parigi (Galerie de France) e, di nuovo, alla Biennale di Venezia nel 1960.

Nel 1967 è in America (vi rimane fino al 1968) dove insegna alla School of Arts di Minneapolis e partecipa alla mostra Scu/pture from Twenty Centuries al Guggenheim di New York. All’inizio degli anni ’70 utilizza vari tipi di marmo e legno in opere che espone nella sala personale alla Biennale di Venezia del IS72,,

Il suo interesse per la scultura su scala urbana e ambientale lo porta a realizzare a Gibellina, ricostruita dopo il terremoto del 1967, imponenti opere come la Stella di Gibellina nel 1981 ed un vero e proprio edificio frontale, il Meeting, nel 1983. Oltre al suo testo teorico sulla scultura scritto nel 1952 ed intitolato Necessità della scultura — scritto in contrapposizione a quello di Martini Scultura lingua morta — alla sua autobiografia artistica del 1980 Viza r254, nel 1992 manifesta con vivacità polemica il suo pensiero sul rapporto tra arte ed architettura moderna in Architetti mai più.

Bibliografia essenziale: Giulio Carlo Argan, Pietro Consagra, Editions du Griffon, Neuchàtel, 1962; Marisa Volpi Orlandini, Cownsagra, Milano,

1977; Pietro Consagra, cat.

Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma, 1989

Michelangelo Conte Nasce a Spalato nel 1913. Trascorre l’infanzia a Napoli dove inizia a dedicarsi alla pittura. Nel 1936 è alla sua prima Biennale di Venezia e nel 1939 alla Quadriennale di Roma, dove si trasferisce lo stesso anno. Dal 1949 prende parte attiva nell’Art Club, nella Fondazione Origine, nella rivista “Arti Visive” con Colla e nel Movimento d’Arte Concreta. E nel 1950 che tiene a Roma la sua prima personale proprio nella sede dell'Art Club e nel 1957 prende parte all'esposizione Ar/ of20 Century in Australia, seguita da sue partecipazioni a mostre in Germania e dall'esposizione itinerante in Inghilterra Five painters of Rome del 1959. Espone inoltre all’Age d’Or di Roma, presso la Galleria La Salita di Roma nel 1959 e nel 1960 a Londra alla New Vision Centre Gallery. Nel 1965 è alla Quadriennale, nel 1966 vie-

ne inserito in XX

Century Italian Art, con

varie sedi per gli Stati Uniti. La sua prima antologica ha luogo nel 1968 presso lo Studio SM 13 di Roma ed un’altra si tiene nel 1971 alla Galleria Giorgi di Palazzo Gaddi a Firenze. Nel 1975 è nella mostra \sperimentale sul plexiglas Luce materia presso il Centro Industria di Milano. Nel 1989 tiene una conferenza con proie-

zioni di 100 diapositive sulla poetica dello spazio e della luce a Palazzo Borghese di Roma. Muore a Roma il 12 settembre del 1996. Bibliografia essenziale: Giuseppe Gatt, Michelangelo Conte, opere 1968-1971, La Nuova Foglio editrice, Macerata, 1972; Enrico Crispolti, Michelangelo Conte, ricerche dal 1950 al 1981, Modena, 1981; Enrico Crispolti-Luciano Caramel, Michelangelo e Bruno Conte, Electa editori umbri, Perugia, 1992

Parigi e nel 1934 ha contatti con la Galleria Il Milione a Milano, dove terrà la sua prima personale nel 1939. A Roma conosce Guttuso nel 1945 col quale forma un gruppo di ispirazione neocubista ed espone alla Galleria del Secolo di Roma. Inizia la sua attività di polemista, alimentata da scritti e conferenze come quella presso la Casa della Cultura intitolata Caratteri essenziali della pittura moderna. Nel 1947 è in Fronte Nuove delle Arti e nel 1952, col Gruppo degli Otto pittori italiani, è alla Biennale di Venezia Nel 1955 è a Documenta di Kassel,(dove torna nel 1959), vince il primo premio alla Quadriennale di Roma ed ha una sala personale alla Biennale di Venezia nel 1956, la prima di tante altre (1958, 1969 e 1966). Nel 1957 tiene una personale alla Galleria della Rue Dragon a Parigi e nel 1958 e nel 1960 una alla Kleeman Galleries. Gli anni ‘60 lo vedono presente in varie mostre di carattere internazionale tra cui una collettiva al Grand Palais di Parigi. Nel 1973 ha una personale alla Galerie Gunther Franke e nel 1981 ottiene una mostra antologica alla Staatsgalerie Moderner Kunst di Monaco di Baviera. Nel 1987 si tiene alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma un’altra importante antologica. Nel 1992 ha una personale alla Quadriennale di Roma e del 1997 è l’antologica presso il Museo d'Arte Moderna di Bolzano.

Bibliografia essenziale: Guido Ballo, Corpora. Opere 1951-56, Edizioni Mediterranee, Roma, 1956; Corpora. La frontiera dell'infi-

nito, Edizioni Mediterranee, Roma, 1973; Corpora, cat. Galleria Nazionale d'Arte Moderna, De Luca, Roma, 1988

Nasce a Tunisi nel 1909. Nel 1929 è a Firenze dove tiene una mostra

a Palazzo Bardi. Fino al 1939 va a vivere a

la Galleria Iolas di New

York, (dove avrà

negli anni varie personali), alla Stable Gallery in Modern Italian painting ed al Museum ot Art di Dallas in The Contemporary Arts. Nel 1952 è alla Biennale di Venezia (poi anche nel 1954, 1956, 1958, 1964, 1968) ed ha varie personali al Cavallino di Venezia, al Naviglio di Milano ed alla Galleria d’Arte Contemporanea di Firenze, oltre alle esposizioni tenute con gli spazialisti. Tra il 1953 ed il 1954 decora edifici milanesi con mosaici. Nel 1957 è premiato alla Biennale Internazionale di Scultura a Carrara, vince

la Triennale di Milano nel 1960 ed ha numerose personali a New York, in Australia ed in tutta Europa durante gli anni ’60. Nel 1962 ha un incidente aereo in cui rimane ferito alle gambe. Chiamato a rappresentare l’Italia nei campionati mondiali di acrobazia aerea ad Hullington, nel 1972 muore all'aeroporto di Bresso durante un'esercitazione di volo. Bibliografia essenziale: Alain Jouffroy, pa, Schwarz, Galleria Milano, Milano, Roberto Crippa, cat. Palazzo Reale, delle Cariatidi, Milano, 1971; AA.VV.,

Crip1962; Sala Crip-

pa, Firenze, 1990

Mario De Luigi Nasce a Treviso il 21 giugno del 1901. Dopo aver abbandonato gli studi classici, si dedica alla musica, “a sua vera ed unica passtone”, secondo le parole del figlio, passione che non gli fu permesso di portare a compimento dalla famiglia. Iscrittosi così, per ripiego, al liceo artistico

ed entrato all’ Accademia di Belle Arti di Venezia, dove ha per maestro prima Ettore Ti-

Roberto Crippa Nasce a Monza il 17 maggio del 1921. Appassionato di aviazione è pilota durante la seconda guerra mondiale. Nel 1947 si diploma all’Accademia di Belle Arti di Brera e tiene la sua prima personale alla Galleria Bergamini di Milano, partecipando nel 1948 alla Triennale di Milano ed alla Biennale di Venezia. Nel 1950 è tra i protagonisti dello Spazzalism20 (di cui firmerà il manifesto nel 1951 insieme

Antonio Corpora

lia presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma ed espone lo stesso anno al-

a Ambrosini, Carozzi, De Luigi, Do-

va, Fontana, Joppolo, Milani, Morucchio, Peverelli e Vianello) ed è ancora alla Biennale di Venezia, oltre ad avere una personale alla Galleria San Fedele di Milano. Nel 1951 è in Arte astratta e concreta in Ita-

to e poi Virgilio Guidi, stringe una profonda amicizia con Severini e Carlo Scarpa, grazie al quale realizza l'affresco La Scuola nel 1936. Tiene le sue prime personali al Cavallino di Venezia nel 1944 ed al Naviglio di Milano nel 1947 (gallerie dirette da Carlo Cardazzo, presso cui ripeterà negli anni altre personali), mentre è alla sua prima Biennale di

Venezia nel 1948. Sono di questi anni le sue importanti amicizie con musicisti e com-

positori come Benedetti Michelangeli, Malipiero e Nono e con architetti come Zevi.

Nel 1951 partecipa al IV mzarzfesto della Spazialismo e nel 1962 è alla Biennale di Venezia.

Dal

1963

insegna,

oltre

che

all’I.U.A.V di Venezia anche alla Scuola di Industrial Design, fondata con Mazzariol (che ottenne per lui la personale alla Que-

249

rini Stampalia nel 1966) e Scarpa (che allestì la sua personale alla Biennale di Venezia nel 1968) mentre dal 1968 tiene la cattedra di scenografia presso l'Accademia di Belle Arti di Venezia e dal 1971 insegna all’Università Internazionale dell'Arte, anch’essa a Venezia, da cui si muoveva assai di rado. Muore a Venezia il 27 maggio del 1978.

trentina, Trento, 1940; Bruno Passamani, Depero, Comune di Rovereto, 1981; Maurizio Scudiero-David Leiber, Depero futurista a New York, Longo editore, Rovereto, 1986

Nicolay Diulgheroff

a Rovereto la Casa d’arte futurista, una ve-

ra e propria industria d’arte di costumi, gio-

decorando nel 1931 la Taverna Futurista del

cattoli, arazzi, vetrate, saloni, arredamenti.

Santopalato a Torino. Nel 1934 realizza Casa Mazzotti ad Albisola ed è in mostre dedicate alla moda, oltre che su riviste di arredamenti ed architettura pubblicitaria. Nel 1937 è premiato all’Exposition Internationale des Arts et des Techniques di Parigi. Ne 1951 è in Arge astratta italiana alla Gal-

lano, 1975; Luca Massimo Barbero, Marzo

De Luigi, Studio d’Arte Barnabò, Venezia, 1989; Mario De Luigi, 1901-1978, cat. Ca Pesaro, Arnoldo Mondadori, Milano, 1991

Fortunato Depero Nasce a Fondo il 30 marzo del 1892. Dal 1915 è nel movimento futurista e nel 1916 fa le prime mostre a Rovereto e presso la Galleria Sprovieri a Roma. Sempre a Roma tiene la sua prima grande esposizione in Corso Umberto. Nel 1917 è a Capri con lo stravagante studioso di misteri egizi Gilbert Clavel, di cui realizza le illustrazioni per il libro Ur zsttuto per suicidi. Nel 1918 fa le scene di Ba/l; plastici su musica di Casella e Malipiero e nel 1919 apre

Nel 1922 decora il Cabaret del Diavolo a Roma e nel 1923 partecipa con l’allestimento della sua sala alla I Mostra d'Arte Decorativa a Monza. Lavorerà nel corso degli anni ‘20 e ‘30 per Campari, Strega, Lane Rossi, Verzocchi, San Pellegrino e per riviste americane di moda, cinema e teatro come Vogue o The New Yorker. Tra il 1928 ed il 1930 è a New York dove ha diverse personali, come alla Galleria Guarino e all’Advertising Club. Nel 1932 è alla Biennale di Venezia (altre importanti presenze sono del 1926, 1932, 1936) e l’anno seguente fonda la rivista “Dinamismo futurista”. Nel 1947 torna a New York ed espone alla

leria Bompiani di Milano e, nel corso degli anni ‘50 in varie altre manifestazioni retrospettive sul Futurismo, tra cui Aspezti del secondo futurismo torinese a Torino. Nel 1967 è in Arte moderna in Italia 19151935 a palazzo Strozzi a Firenze e nel 1972 ha una personale alla Galleria Viotti a Torino. Muore a Torino nel 1982.

New School for Social Research, per stabi-

250)

di Cinematografia. Insieme a Perilli, grazie alla diretta conoscenza di Severini, riscopre

Nasce a Kiustendil, in Bulgaria, il 20 dicembre del 1901. Nel 1920 partecipa all’Esposizione di Arte Moderna di Vienna, dove ha frequentato la Kunstgewerbeschule. Nel 1922 ha una personale presso la Kunstfreundschaft di Dresda ed è presente alla Neve Austellung di Berlino, mentre nel 1923 frequenta la Bauhaus a Weimar. Nel 1924 ha una personale alla Galleria Nazionale di Sofia. È nel 1926 che viene in Italia e studia all'Accademia Albertina di Torino, entrando in contatto con gli esponenti del Futurismo, con cui inizia ad esporre in varie manifestazioni, collaborando con riviste come “La Città Futurista”. Ha importanti personali alla Galleria Pesaro di Milano e alla Galleria Codebò di Torino nel 1929. Negli anni ‘30 prende parte alle più importanti mostre di aoeropittura e di pittura futurista, oltre che alla Biennale di Venezia, anche in campo internazionale e ad esposizioni di architettura razionale alla Galleria Bardi, alla Permanente di Milano,

Bibliografia essenziale: Guido Ballo-B. Levi, Mario De Luigi, cat. Palazzo Reale, Mi-

Piero Dorazio Nasce a Roma il 29 giugno del 1927. A Roma frequenta corsi alla facoltà di Architettura e presso il Centro Sperimentale

testi futuristi. Nel 1947 è uno dei più attivi promotori di Forma Uno ed a Parigi, dove andrà più volte nel corso della sua attività, prende contatti con Magnelli, oltre che con Arp, Picabia, Tzara, Breton...

Nel 1949 si stacca da Forzza Uno e costituisce il Gruppo Arte Concreta, fondando nel 1950 la Galleria del L'Age d’Or e riscoprendo a Roma, del tutto dimenticato, Balla.

Nel 1951 tiene una conferenza sull’arte astratta in occasione della Quadriennale e nel 1954 ha la sua prima personale a New York. Tornato a Roma realizza le decorazioni, in-

sieme a Perilli, del Night Club Sheherazade e nel 1956, oltre alla sua presenza alla Biennale di Venezia, espone nella sua prima personale italiana alla Galleria La Tartaruga di Roma. Nel 1960 diviene direttore del Dipartimento di Belle Arti di Filadelfia e registra un’altra presenza alla Biennale di Venezia. Sempre negli Stati Uniti tiene numerose conferenze, nel 1965 vince il premio Lissone e nel 1966 ha una sala personale alla Biennale di Venezia. È dal 1974 che va a vivere in un ex convento restaurato a Todi, collaborando vivacemente al dibattito artistico italiano scrivendo articoli sul “Corriere della sera” dal 1984. Bibliografia essenziale: Marisa Volpi Orlandini, Dorazio, Alfieri, Venezia, 1977; Adachiara Zevi, Dorazio, Essegi, Ravenna, 1985; Piero Dorazio, cat. Museo di Grenoble-Gal-

leria Comunale d'Arte Moderna, Bologna, Electa, Milano, 1990

Gerardo Dottori Nasce a Perugia 11 novembre del 1884. Frequenta l’Accademia di Belle Arti e dal 1912 prende parte al movimento futurista,

lirsi a Rovereto ed essere inserito nel 1952 nella mostra I privi astrattisti in Italia alla Galleria Bompiani di Milano. Nel 1957 gli viene dedicato il Museo Depero a Rovereto, dove muore il 29 novembre dello stesso anno.

Bibliografia essenziale: Enrico Crispolti, I/

di cui organizza serate e scrive poemi se-

secondo futurismo: 5 pittori + 1 scultore. Torino 1923-1938, Fratelli Pozzo, Torino, 1962; Marzio Pinottini, Diu/gheroff futurista. Collages e polimaterici 1927-1977, All’insegna del pesce d’oro, Milano, 1977; Enrico Crispolti, Ricostruzione futurista

Bibliografia essenziale: AA.VV., Fortunato Depero nelle opere e nella vita, Legione

dell'Universo, Mole Antonelliana, Torino,

condo lo stile delle “parole in libertà”, con lo pseudonimo di G. Voglio. Nel 1920 fonda il periodico “Griffa” ed ha la sua prima personale alla Casa d'Arte Bragaglia, per essere presente, a partire dal 1921, a varie manifestazioni futuriste, tra cui l’Esposizione Internazionale d'Arte Moderna a Ginevra. Nel 1924 è alla Biennale di

1980

Venezia indipendentemente però dal movimento

futurista, con

cui invece sarà pre-

sente a partire dall’edizione del 1926. Nel 1929 firma il Manifesto dell’Aeropittura con Balla, Benedetta, Depero, Fillia, Marinetti, Prampolini, Rosso, Somenzi, Tato e nel 1931 è alla Quadriennale di Roma. A Roma, tra il 1926 ed il 1939, collabora a “Il Giornale d’Italia”, “L'Impero” e “Oggi e domani”. Nel 1940 ritorna a Perugia dove sarà direttore dell’Accademia di Belle Arti. Nel 1942 ha una sala personale alla Biennale di Venezia e scrive il Manifesto umbro dell’Aeropittura, mentre nel 1968 si svolge l’antologica alla Sala dei Notari di Perugia, seguita da quelle di Todi nel 1971 e Trieste nel 1974. Muore a Perugia il 13 giugno del 1977. Bibliografia essenziale: Massimo Duranti, Gerardo Dottori, cat. Galleria d'Arte di Perugia, Edizioni Ghelfi, Perugia, 1988; Do tori, cat. Galleria Marescalchi, Edizioni Marescalchi, Bologna, 1993; Gerardo Dottori, opere 1898-1977, cat. Rocca Paolina, Perugia, 1997-98 Gianni Dova

Nasce a Roma l°8 gennaio del 1925. Nel 1939 si trasferisce a Milano con la famiglia, dove incontra gli artisti che gravitavano nei caffè intorno all’ Accademia di Brera, dove si iscrive alla fine del liceo artistico. Nel 1946 firma il manifesto Oltre Guernica (insieme ad Ajmone, Bergoli, Bonfante, Morlotti, Paganin, Peverelli, Tavernari, Te-

stori, Vedova) e nel 1951 è nel movimento spazialista, lo stesso anno della sua personale alla Galleria Il Milione di Milano. Negli anni ‘50 Tapié segue con interesse il suo lavoro, tanto da inserirlo nel volume Ur Ait autre e conosce inoltre artisti consanguinei alla sua poetica di ascendenza surrealista come Lam e Sebastian Matta. Gli anni ‘50 lo vedono presente in diverse esposizioni internazionali a Bruxelles, Parigi, Amsterdam, Tokyo, alla Biennale di San Paolo ed alla Galleria Marlborough di Lon-

dra. Oltre alle rassegne tenute col gruppo Phases alla fine degli anni ‘50, all’inizio dei °60 ha importanti personali, tra cui una alla Biennale di Venezia nel 1962. Importante per il suo immaginario pittori. co il soggiorno in Bretagna nel 1968, per le sue suggestioni acquatiche e vegetali, tanto

da essere stato definito da Sergio Dangelo “grande signore dell'acqua e della roccia”. Muore a Pisa nel 1991.

Bibliografia essenziale: Franco Russoli, Dova, Prearo editore, Milano, 1975; Dova. La memoria del tempo, Puntoelinea, Milano, 1986; Claudio Spadoni, Gianni Dova, 1991

e nel 1921 alla Galleria Der Sturm di Berlino, in ambito dadaista, collaborando anche alla rivista dadaista “Bleu” nel 1920-21, oltre che a “Noi” nel 1918-20. Negli anni ’20 scrive diversi saggi sull’arte astratta e la filosofia idealista, come Teorza

Leonardo Dudreville

dell'individuo assoluto del 1927, occupan-

Nasce a Venezia il 4 aprile del 1885. Frequenta l'Accademia di Belle Arti di Brera ed è a Parigi nel 1910. Al Futurismo vi partecipa senza firmare alcun manifesto. Nel 1912 è alla Permanente di Milano ed ha una mostra antologica a Parigi alla Galleria Grubicy. Nel 1913 scrive il saggio I/ ritmz0 e il colore (nella sua vita scriverà la propria autobiografia intitolata Quello che ha sempre torto o il mondo alla rovescia con lo pseudonimo di Leone De Martini e si occuperà anche di composizione musicale). Nel 1914 forma il gruppo Nuove Tendenze (tra cui ci sono il critico Nebbia, Funi e gli architetti Sant'Elia e Chiattone) col quale espone alla Famiglia Artistica di Milano e nel 1920 firma il manifesto Corzro tuttiivitorni in pittura assieme a Funi, Rus-

solo e Sironi e nel 1922 è tra i fondatori del gruppo dei Sezze Pittori Italiani (Bucci, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi), coi quali espone nel 1926 alla Biennale di Venezia. Nel 1924, dopo aver aderito inizialmente al movimento di Novecento, ne esce.

Nel 1936 ha una personale alla Galleria Dedalo e nel 1940 alla Galleria Gian Ferrari di Milano. Dal 1942 si ritira in isolamento volontario a Griffa. Dirà di se stesso: “7 uomo buttato via, una grossa

moneta

male spesa; una

natura d'eccezione brutalmente offesa dal destino”. Perderà due figli rispettivamente nel 1939 e nel 1944 durante un'esercitazione di

volo ed in un campo di concentramento. Muore a Ghiffa il 13 gennaio del 1975. Bibliografia essenziale: Dudreville. Opere su carta 1905-1967, Mazzotta, Milano, 1987; I/ romanzo di una vita: Leonardo Dudreville, Charta, Milano, 1994; Dudreville. Tendenze futuriste 1910-1917, Charta, Milano, 1996

Julius Evola Nasce a Roma il 19 maggio del 1898. La sua formazione pittorica è affiancata da uno studio di tipo filosofico molto profondo. Alla pittura si dedica soprattutto tra il 1915 ed il 1921, tenendo la sua prima personale nel 1920 alla Casa d'Arte Bragaglia

dosi anche di dottrine orientali e di religiosità mistica, come ne I/ libro della Via e della Virtà del 1923, oltre che di critica politica nei confronti del fascismo, dell’americanismo e del bolscevismo. Partecipa nel 1919 alla Grande esposizione nazionale futurista, all’Exposition Internationale d’Art Moderne di Ginevra nel 192021 ed al Salon dada di Parigi nel 1922. Negli anni 30 si interessa di alchimia, di esoterismo e di spiritualismo, di cui è testimonianza, tra gli altri saggi, lo scritto Maschera e volto dello spiritualismo contermporaneo del 1932. Fondamentale per il suo pensiero antimodernista è Rivolta contro il mondo moderno scritto nel 1934. Tra anni ‘30 e ’40 si interessa di problemi razziali

e di buddhismo e nel 1944, dopo

viaggi e soggiorni nella Germania nazista, lascia l’Italia, dove rientra nel 1948 in seguito ad una grave lesione al midollo spinale subita durante un bombardamento nella città di Vienna. Dal 1951 è nuovamente a Roma, dove rie-

labora le dottrine degli anni precedenti, ampliandole con testi come Gt vorzini e le rovine del 1953 e l'autobiografia Il camzzzino del cinabro del 1963. Muore a Roma l’11 giugno del 1974. Bibliografia essenziale: Julius Evola, Cavalcare la tigre, All’insegna del pesce d’oro, Milano, 1961; Antimo Negri, Julius Evola e la filosofia, Spirali, Milano, 1988; Julius Evola e l’arte delle avanguardie, Museo Bagatti Valsecchi, Milano, Fondazione Julius Evola, Roma,1998

Fillia (Luigi Colombo) Nasce a Revello il 3 ottobre del 1904. Autodidatta, tiene la sua prima personale al Gran Salon di Torino nel 1922 e l’anno seguente fonda il Movizento futurista torinese con Bracci e Pozzo, pubblicando il numero unico della rivista “Futurismo”. Espone così coi futuristi alle Biennali di Venezia dal 1926 al 1934. Nel 1927 fonda “Vetrina Futurista” e nel 1928 organizza il Padiglione di Architettura Futurista all Esposizione Internazionale di Torino, per fondare nel 1929 il periodico “La Città Fururista” e nel 1931ILa Città

Nuova”, che danno ampio spazio a questioni di architettura e di arredamento futurista. Ancora nel 1929 è nel Marzfesto dell’Aeropittura e nel 1931 nel Manifesto del-

L'Arte Sacra Futurista. Nel 1930 espone in Circle et carré alla Galerie 23 di Parigi e ancora negli anni ‘30 è in varie manifestazioni futuriste, anche di carattere internazionale.

Nel 1934 fonda con Prampolini la rivista “Stile Futurista”, che fa un’ampia propaganda al movimento. Nel 1935 è alla Quadriennale di Roma ed alla mostra Les Futuristes Italiens alla Galerie Bernheim Jeune di Parigi. Numerose sono le sue pubblicazioni su periodici, giornali e riviste, a cui si aggiungono le fondazioni di “Stile Futurista”, “La Forza” e “La terra dei vivi”. Muore a Torino il 10 febbraio del 1936.

lacqua La Masa e nella Biennale di Venezia di quell’anno, dedicata allo stesso tema. Sempre nel 1986 tiene un seminario sulla propria opera presso il Dipartimento di Storia e Critica delle Arti all’Università di Venezia. Nel 1987 gli viene dedicata un’antologica a Palazzo Forti di Verona. Nel 1988 ha una vasta personale presso la Galleria Civica d'Arte Moderna di Palazzo dei Diamanti a Ferrara e negli anni ‘90 terrà diverse personali in occasione dell’ Arte Fiera di Bologna. Bibliografia essenziale: Umbro ApollonioToni Toniato, Fi2z7, Galleria del Cavallino, Venezia, 1969; Finzi, cat. antologica Fondazione Bevilacqua la Masa, Venezia, 1980; Luciano Caramel-Dino Marangon, Finzi. Opere 1951-1958, Mestre-Venezia, Fidesarie, 1995

delijk Museum di Amsterdam nel 1965 ed al Guggenheim di New York nel 1967. Nel 1966 ha una retrospettiva al Walker Art Center di Minneapolis Muore a Comabbio il 7 settembre del 1968. Bibliografia essenziale: Jan Van Der MarckEnrico Crispolti, Lucio Fontana, MilanoBruxelles, 1974; Enrico Crispolti, Forzara, catalogo generale, Electa, Milano, 1986; Jole De Sanna, Fontana. Materia, spazio, concetto, Mursia, Milano, 1993

Nino Franchina Nasce a Palmanova nel 1912. Si diploma all'Accademia di Belle Arti di Palermo. Partecipa a diverse mostre sindacali negli anni ‘30 e dal 1936 a quelle del gruppo Corrente. Stringe amicizia con Severini di cui sposa

Bibliografia essenziale: Marzio Pinottini, Fil lia, All’insegna del pesce d’oro, Milano, 1976: Paolo Baldacci-Silvia Evangelsiti, F7/lia e l'avanguardia futurista negli anni del fascismo, Mondadori, Milano, 1986; Fila, cat. mostra San Francesco di Cuneo, Mazzotta, Milano, 1988 Ennio Finzi

Nasce a Venezia il 16 marzo del 1931. Nel 1942 si iscrive all'Istituto d'Arte Statale di Venezia, interrompendone la frequenza nel 1948 ed iscrivendosi nel 1949 all'Accademia di Belle Arti. Sempre da questanno inizia a partecipare alle collettive della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia ed è assistente di Emilio Vedova. E sempre presso l’Opera Bevilacqua La Masa che tiene la sua prima personale di rilievo nel 1956 (poi ancora nel 1958) e nel 1957 una alla Galleria Schneider di Roma. Nel 1959 è alla sua prima Quadriennale di Roma e nel 1960 è a Madrid nella mostra itinerante per la Spagna e la Germania Of to pittori veneziani.

21 DO

Nel 1962 si trasferisce a Milano e poi a Sanremo per tornare a Venezia nel 1968. L’anno successivo ha delle personali alla Galleria Il Traghetto di Venezia e Schreiber di Brescia, rifiutando prima nel 1971 poi nel 1972 offerte di insegnamento presso il Liceo Artistico di Venezia, per entrare nel 1978 all'Accademia di Belle Arti come assistente. E nel 1980 che la Fondazione Bevilacqua La Masa gli organizza una antologica. Nel 1986 è presente nella mostra La scienza nell'arte sempre presso la Fondazione Bevi-

Lucio Fontana Nasce a Santa Fé, in Argentina, il 19 febbraio del 1899. Nel 1905 è per la prima volta in Italia a Milano per tornare di nuovo in Argentina nel 1922, dove si dedica all'impresa commerciale del padre ed alla scultura. Nel 1928 è ancora a Milano all’ Accademia di Belle Arti di Brera e nel 1930 tiene una personale alla Galleria Il Milione ed è presente alla Biennale di Venezia. Nel 1934 fonda con Bogliardi, Ghiringhelli, Licini, Melotti, Reggiani, Soldati e Veronesi il gruppo degli astrattisti italiani e nel 1935 aderisce ad Abstraction Creation. Nel 1939 torna in Argentina dove nel 1946 organizza l'Accademia privata d’Altamira a Buenos Aires e firma il Manifesto blanco con Arias, Cozeneuve, Fridman, Burgos, Benito, Bernal, Call, Hansen, Rocamonte, per ri-

tornare definitivamente in Italia fel 1947 e prendere parte al I Manifesto spaziale con Kaisserlian, Joppolo e Milani (sarà anche negli altri manifesti del movimento). Nel 1952 vince ex equo con Minguzzi il concorso per la Quinta porta del Duomo di Milano e tiene delle personali nel 1957, prima di quella alla Biennale di Venezia nel 1958. Nel 1960 ha le prime importanti mostre personali all’estero alla Galleria Schmela di Dusseldorf e presso Mc Roberts & Funnand a Londra, senza contare le innumerevoli altre che si susseguiranno negli anni ‘60, da Martha Jackson a New York nel 1961 ad Iris Clert a Parigi nel 1964 od alla Marlborough di Londra e Roma nel 1967, dalla Biennale di Tokyo alle collettive all’I.CA. di Londra, alla Tate Gallery nel 1964, allo Ste-

la figlia nel 1939 e nel 1943 tiene la prima personale alla Galleria Minima di Roma, partecipando alle esposizioni del Frorze Nuovo delle Arti. La sua prima Biennale di Venezia è nel 1948; mentre tra gli anni ‘40 ed i ’50 tiene personali e collettive a Parigi, tra cui una al Museo Rodin (un’altra sarà nel 1960) e al Salon des Réalités Nouvelles. Del 1952 è la personale alla Galleria Il Naviglio di Milano e negli anni ‘50 espone all'Art Club di Roma; mentre nel 1950 inizia a lavorare a Bolzano presso l’autocarrozzeria dell'amico Piero Siena. Importanti riconoscimenti critici gli vengono dati nel 1954, a cui seguono collettive internazionali ed una sala personale alla Biennale di San Paolo nel 1957 e di Venezia nel 1958. Nel 1959 realizza a Genova l’opera pubblica La Corzzessa, alta 15 metri ed alla fine degli anni ’50 il Monumento a Paisiello a Taranto. Nel 1961 è a Tokyo nella mostra Italian Contemporary Art e nel 1964 in Scultura Italiana presso il Walker Art Gallery di Liverpool. Nel 1966 e nel 1972 ha sale personali alla Biennale di Venezia e nel 1975 è a Gubbio nell’esposizione 30 anzi di scultura 1945-75 mentre all’inizio degli anni ‘770 ha diverse mostre: a Milano nel 1971, a Tokyo nel 1972 e ad Hong Kong nel 1974. La Galleria Giulia di Roma gli organizza una retrospettiva nel 1979.

Nel 1981 realizza per la città di Gibellina l’opera monumentale Labirinto. Muore a Roma il 2 aprile del 1987. Bibliografia essenziale: Giuseppe Marchiori, Nino Franchina, De Luca, Roma,

1954:

Giovanni Carandente, Niro Franchina, Officina edizioni, Roma, 1968; Franchina, di-

segni, sculture 1935-1987, cat. Palazzo Comunale, Todi, Museo d'Arte Moderna, Bolzano,

1989

Lorenzo Guerrini

Nasce a Milano il 3 marzo del 1914. Come cesellatore lavora tra il 1926 ed il 1930 con Saronni a Milano e Gerardi a Ro-

ma, dove va a vivere dal 1930 al 1938, per diplomarsi nel 1944 all'Accademia di Belle Arti. E tra il 1938 ed il 1942 che compie una serie di viaggi attraverso l'Europa mittleuropea, ottenendo a Breslavia il diploma di cesellatore e studiando per tre anni alla Hochschule fur Bildende Kunst di Berlino. Tiene la sua prima personale alla Galleria Barnaroux di Parigi, seguita da quella alla Galleria L’Obelisco di Roma nel 1948, lo stesso anno della sua comparsa alla Quadriennale di Roma. Dal 1949 prende parte alle mostre organizzate dall'Art Club e tra il 1950 ed il 1952 ha i primi contatti col Gruppo Origine. Nel 1952 è alla Biennale di Venezia, nel 1955 ha una personale al Museo d'Arte Moderna di San Paolo, seguita da altre numerose personali tra cui alla Galleria Schneider di Roma nel 1958, al Cavallino di Venezia nel 1959, alla Galleria Springen di Berlino ed alla Galleria New Vision Centre di Londra nel 1961. Importanti le presenze alle collettive di Giovane scultura italiana al Kunstverein di Dusseldorf nel 1958, alla V Brennale Internazionale di Scultura all’Aperto ad Anversa nel 1959 od al Museo del XX secolo in Messterwerke der Plastik a Vienna nel 1964. Nel 1968 ha una sala personale alla Biennale di Venezia e nel 1975 è in mostra a Palazzo Reale a Milano, occasione in cui donerà diverse opere alla Galleria Civica d’Arte Moderna della città. Nel 1982 dona invece alla città di Monaco l’opera Nzobe. Del 1985 è la bella antologica presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma. Bibliografia essenziale: Lorenzo Guerrini, cat. Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma, 1985: Carlo Santini, Guerrini, Bologna, 1989; Luciano Caramel, Guerrini, Edizioni Bora, Bologna, 2001

Esposizione Internazionale d'Arte delle Secessione.

Nel 1920 prende parte alla Biennale di Venezia, la prima partecipazione di una lunga serie. E agli inizi degli anni ‘20 che conosce Cardarelli e frequenta il Caffè Aragno di Firenze. Nel 1925 si separa dal gruppo di Valor: Plastici e nel 1926 e nel 1928 prende parte alle mostre del Novecento Italiano. Dal 1927 va ad insegnare all’ Accademia di Belle Arti di Venezia e nel 1931 è alla Quadriennale di Roma. Ha la sua prima personale presso la Sala d’Arte di Firenze nel 1932, seguita da quelle alla Galleria Il Milione, nel 1936 e nel 1941, e dalla personale alla Quadriennale di Roma nel 1935. E nel 1940 che ha una sala personale alla Biennale di Venezia e durante gli anni ‘40 è in numerose rassegne internazionali di arte italiana

a New

York, Buenos

Aires, in

Svizzera e a Madrid. Nel 1953 è nella mostra spazialista al Cavallino di Venezia. Nel 1962 viene tenuta la sua prima antologica a Venezia, seguita nel 1964 dalla sala personale alla Biennale, dall’antologica a Palazzo Archiginnasio di Bologna nel 1971 e dalla personale al Museo d'Arte Moderna alla Galleria Ca” Pesaro di Venezia nel 1973. Sempre negli anni ‘70 è molto intensa la sua attività poetica, accompagnata da

varie pubblicazioni. Dopo la mostra antologica a Villa Malpensata di Lugano nel 1976, ne ha una alla Casa da Noal di Treviso nel 1980 e, sempre lo stesso anno, si inaugura a Venezia il Museo Guidi a Palazzo Fortuny. Muore a Venezia il 7 gennaio del 1984, anno della sua ultima presenza alla Biennale. Bibliografia essenziale: Toni Toniato, Guidi, Bologna, 1964; Enrico Crispolti, Guzdi, la

luce, La Gradiva, Roma, 1983; Franca Bizzotto-Dino Marangon-Toni Toniato, Virgzlio Guidi, catalogo generale dei dipinti, Electa, Milano, 1998 Bice Lazzari

Nasce a Venezia il 15 novembre del 1900. A Venezia frequenta l Accademia di Belle Arti e si dedica all’arte applicata, ritagliandosi un campo particolare di sperimentazioni creative al di fuori degli schemi correnti.

Virgilio Guidi Nasce a Roma nel 1891. Nel 1911 si iscrive all’Accademia di Belle

Arti di Roma ed espone nel 1915 alla III

Dopo le prime collettive alla Galleria Ca’ Pesaro di Venezia, partecipa dal 1927 al 1961 a tutte le edizioni della Triennale di Milano. È nel 1929 la sua personale alla Galleria San Moisé di Venezia. Dal 1935

si trasferisce definitivamente a Roma, dove inizialmente prende parte alla Mostra del Minerale nel 1938 ed esegue diverse opere parietali in case private e palazzi aziendali o decorazioni pavimentali come quella del Cinema Fiammetta nel 1949, Nel 1950 vince il primo premio per il mosaico alla Biennale di Venezia ed è alla Quadriennale di Roma alla quale parteciperà

nel'1935te ta cl9753: Negli anni ’50 e ’60 espone più volte, in varie città d’Italia, con l'Art Club; si occupa dell’allestimento delle sale di audizione della RAI e nel 1954 tiene una personale alla Galleria Schneider di Roma. Nel 1958 fa una personale al Cavallino di Venezia ed una alla Galleria La Salita di Roma. Nel 1964 realizza degli arazzi e delle decorazioni varie per la turbonave Raffaello. Nel 1970 si tiene la mostra antologica al museo Civico di Bassano del Grappa e la personale alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia. Dal 1978 non può quasi più lavorare per una malattia agli occhi ed avrà diverse antologiche al Museo Comunale nel 1979 ed al Palazzo Reale di Milano nel 1980. Muore a Roma il 13 novembre del 1981. Bibliografia essenziale: Emilio Garroni, 11

dipinti di Bice Lazzari, Quaderni “d’arte 0ggi”, Roma, 1964; Guido Montana, Bice Lazzari. I valori del tempo, Galleria Weber, Torino, 1980; Bzice Lazzari, Opere 1925-1981, Electa, Milano, 1984

Leoncillo Leonardi Nasce a Spoleto il 18 novembre del 1915. Nel 1934 si trasferisce a Roma dove incontra Libero De Libero che gli fa conoscere Cagli, Capogrossi, Mirko, Pirandello. Nel 1938 è ad Umbertide realizzando presso la ditta di ceramiche Rometti, una delle più importanti in Italia, numerose

opere.

Nel 1940 espone alla Triennale di Milano,

ritornando a Roma nel 1942 e prendendo parte attiva alla Resistenza nel 1943. Nel 1944 vince il primo premio alla mostra L'arte contro la barbarie. Nel 1946 firma il manifesto della Nuova Secessione Artistica Italiana di Marchiori, poi Fronte Nuovo delle Arti, di cui prende parte a numerose mostre. Il 1948 è l’anno della sua prima Biennale di Venezia ed il 1949 quello della sua prima personale alla Galleria del Fiore di Firenze. Negli anni ‘50 è in varie mostre internazionali e Biennali di Venezia, dove nel 1954 ha una sala personale, realizzando lo stesso anno due monu-

menti sul tema della Resistenza (rimane soltanto quello ai Caduti di Albissola del 1958). Fondamentale per la comprensione della sua poetica è il Piccolo diario artistico che inizia a scrivere a partire dal 1957. Gli anni ’60 lo vedono presente in mostre collettive negli Stati Uniti ed in Inghilterra, oltre alle personali alla Galleria Odyssia di Roma e New York nel 1965 e presso la Modern Art Agency a Napoli del 1968. È proprio nel 1968 che muore a Roma, quando era stato invitato con una sala per-

vincendo il Gran Premio Internazionale di Pittura.

Muore a Monte Vidon Corrado l’11 ottobre del 1958.

Paul Swiridotf, Kunzelsau, 2000

Bibliografia essenziale: Osvaldo Licini, cat. Galleria Comunale d'Arte Moderna, Torino, 1969; Licini, cat. Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia, 1988; Quaderni lici-

Edgardo Mannucci

niani, a cura di Elena Pontiggia-Enrica Torelli Landini, Centro Studi Liciniani, Monte Vidan Corrado, 1994-97

sonale alla Biennale di Venezia. Bibliografia essenziale: Claudio Spadoni,

Alberto Magnelli

Leoncillo, l Attico Esse Arte, Roma 1983; Giorgio Cortenova, Leoncillo: la metafora

Nasce a Firenze il 1° luglio del 1888. Inizia a dipingere nel 1907 e nel 1909 prende parte alla sua prima Biennale di Venezia, tornandovi l'edizione seguente. Nel 1912 frequenta il caffè delle Giubbe Rosse e nel 1914 si reca per la prima volta a Parigi. Nel 1921 è nell’Esposizione Internazionale d'Arte Moderna di Ginevra ed ha la prima personale presso la Galleria Materassi di Firenze. Nel 1925 ritorna a Parigi, dove frequenta Picasso. Nel 1928 tiene una personale alla Galleria Bellenghi di Viareggio ed una alla Galleria Pesaro di Milano nel 1929. Dal 1932 inizia una serie di

della materia, Mazzotta, Milano, 1985; E. Mascelloni, Leorncillo, cat. Galleria Niccoli, Parma, 1991

Osvaldo Licini Nasce a Monte Vidon Corrado il 22 marzo del 1894. È tra il 1908 ed il 1914 che frequenta l'Accademia di Belle Arti di Bologna e nel 1913, appassionato della poesia di Mallarmé, Rimbaud, Valery, Campana, scrive il racconto rabelasiano, dadaista, eretico ed antiborghese intitolato Racconti di Bruto, prendendo parte negli anni ‘10 a numerose mostre futuriste. Tra il 1914 ed il 1920 studia all’ Accademia di Firenze e, durante la guerra, nel 1916, rimane ferito alla gamba, rimanendo claudicante a vita. Nel 1917 va a Parigi dove strin-

ge una forte amicizia con Modigliani, di cui ammira carattere e pittura.

Dal 1926 è nelle mostre del Novecento italiano e nel 1931 è alla Quadriennale di Roma, dove torna nel 1935, lo stesso anno del-

la sua personale alla Galleria Il Milione di Milano. E ancora alla Quadriennale di Roma nel 1935, ritornando lo stesso anno a Parigi e confessando a Marchiori di essere guarito da una tremenda ed acuta nevrastenia che gli aveva impedito di scrivere e di dipingere. Firma nel 1941 il manifesto dei Valori primordiali. Nel 1946 è fatto sindaco di Monte Vidon Corrado (sarà eletto poi per la seconda volta nel 1954) ed espone nelle edizioni della Biennale di Venezia nel 1948 e nel 1950, oltre che nella Biennale di San Paolo nel 1951. Nel 1958 gli viene organizzata presso il Centro Culturale Olivetti di Ivrea una retrospettiva ed è presente alla Biennale di Venezia con un nutrito numero di opere,

nista editore, Roma, 1973; Alberto Magnelli 1888-1971, cat. Museo Wiirth, Verlag

viaggi tra Firenze e Parigi. Nel 1934 tiene la prima personale a Parigi alla Galleria Pierre, lo stesso anno della sua presenza alla Quadriennale di Roma. Nel 1939 tie-

ne una personale alla Boyers Gallery di New York ed è in Abstract Concrete Art alla Galleria Guggenheim Jeune a Londra, oltre che in Realités Nouvelles alla Galleria Charpentier a Parigi. Nel 1941 emigra negli Stati Uniti per rientrare clandestinamente a Parigi nel 1944. Nel 1945 è in Art Concret alla Galleria René Drouin di Parigi ed ha una personale alla Galleria d'Arte Moderna di Basilea. Nel 1947 si inaugura la sua prima retrospettiva alla Galleria René Drouin, nel 1950 ha una sala alla Biennale di Venezia e nel 1951 è premiato una prima volta alla Biennale di San Paolo (poi anche nel 1955). Del 1954 è la grande retrospettiva al Palais des Beaux Arts di Bruxelles e nel 1955 ne ha una al Musée Chateau Grimaldi di Antibes. Nel 1963 si tiene la retrospettiva alla Kunsthaus di Zurigo (poi a Firenze) e nel 1968 al Kunstforeiningen di Copenaghen. Muore a Roma il 20 aprile del 1971.

Bibliografia essenziale: Murillo Mendes, A/berto Magnelli, Edizioni dell'Ateneo, Roma, 1964; Nello Ponente, Magrelli, Il Collezio-

Nasce a Fabriano il 14 giugno del 1904. Nel 1927 va a vivere a Roma dove abita presso lo scultore Quirino Ruggeri e frequenta il Museo Artistico Industriale e, solo per qualche mese, l'Accademia di Belle Arti. Nell’ambiente romano instaura una salda amicizia con Cagli, formando insieme a quest’ultimo il gruppo Gli Orzentalisti. Negli anni ‘30 partecipa a varie mostre del Partito Nazionale Fascista e fa diversi allestimenti come quello alla Mostra del Tessile, del Dopolavoro e, insieme a Prampolini, del Minerale. Interrotta l’attività di scultore tra il 1940 ed il 1945 per via della guerra, il suo studio romano, nel corso degli anni, si trasformerà in una vera e propria “succursale della scuola d’arte”, come dirà lo scultore Trubbiani. Insegna ininterrottamente al Liceo Artistico di Roma dal 1946 al 1962 e nel 1958 realizza il Monumento alla Croce Rossa Internazionale a Solferino. Fa nel corso degli anni ‘50 numerose statue per films, tra cui I Mzserabili, Elena di Trota, Fabiola, Quo Vadis?, Gli ultimi giorni di Pompei, per esporre per la prima volta in una sala personale nella sezione scultura alla Biennale di Venezia nel 1962 (ne avrà un’altra nel 1972), dal momento

che nelle

edizioni del 1954 e del 1956 era stato inserito in quella delle Medaglie. Alla fine degli anni '50 espone in personali alla Galleria l’Attico e L’Obelisco di Roma. La pratica dell’oreficeria e dell’arredo sacro, con la quale realizza numerose commissioni per chiese negli anni ’80, avrà fondamentale importanza per lo scultore. Muore ad Arcevia il 21 novembre del 1986. Bibliografia essenziale: Emilia Villa, Edgardo Mannucci, sculture 1950-78, Cegna Editore Macerata, 1979; Enrico Crispolti, Materia, energia, spazio: Edgardo Mannucci, uno scultore “post atomico”, L’artindustria edizioni,

Pollenza-Macerata,

1981; Maw-

nucci, Palazzo Braschi, Roma, Edizioni Latium, Roma, 1991

Antonio Marasco

Nasce a Nicastro l’11 maggio del 1896. A Firenze dal 1906 si iscrive all'Accademia di Belle Arti e nel 1915 entra a far parte del

movimento futurista, aderendo nel 1918 ai Fasci politici futuristi. Nel 1919 è espulso da tutte le Accademie d’Italia e tra il 1920 ed il 1921 frequenta a Berlino l'ambito futurista e la galleria Der Sturm di Walden. Nel 1922 espone al Teatro della Sorpresa di Firenze e ad altre manifestazioni futuriste a Bologna, Torino, Berlino e Dusseldorf, collaborando nel 1923 alla rivista “Noi” e realizzando scenografie teatrali per Bragaglia e Berti. Nel 1924 è autore del balletto Amore al selz con musiche di Mix e per tutti gli anni ’20 è sempre presente in esposizioni futuriste, tra cui la sala della Biennale di Venezia nel 1928. Nel 1932 fonda i Gruppi futuristi d’Iniziative ed è ancora alla Biennale di Venezia, mentre nel 1933 pubblica il manifesto dei Gruppi Futuristi Indipendenti, continuando la sua polemica con Marinetti, iniziata l’anno precedente. Tra il 1942 ed il 1943 è nella mostra Soczété Anonyme a New Haven e nel 1945, dopo la caduta del Fascismo, viene arrestato. Nel 1949 va a vivere Roma, dove tiene una per-

sonale alla Galleria Giraffa e, nel 1951 è alla Quadriennale di Roma. Nel 1959 ha una antologica al Palazzo delle Esposizioni di Roma e nel 1964 alla Galleria Minima di Milano e alla Galleria Scorpio di Roma. E presente in numerose collettive storiche sul Futurismo tra gli anni ‘60 e ‘70 ed ha alcune personali tra cui alla Galleria Canova di Roma o la Bussola di Cosenza nel TON25

Muore a Firenze l°8 aprile del 1975. Bibliografia essenziale: Enrico Crispoti, Antonio Marasco, opere dal 1917 al 1974, Roma, 1981; Tonino Sicoli, Antonio Marasco futurista, “La provincia di Catanzaro”, n. 1, 1989; Marasco, catalogo mostra Museo Civico

di Rende,

Mazzotta,

Milano,

1995

Umberto Mastroianni Nasce il 21 settembre del 1910 a Fontana Liri. È a Roma nel 1924 e nel 1926 a Torino: in queste sedi inizia la sua attività di studio e pratica della scultura. Nel 1931 ha la prima personale alla Galleria Genova di Genova, nel 1935 è alla Quadriennale di Roma e nel 1936 alla Biennale di Venezia. La partecipazione attiva alla Resistenza è così importante e sentita che Argan definì la sua scultura essere sorretta da tutta una “poetica della resistenza”. Dal 1945 è presente nelle mostre periodi-

che dell'Art Club e vince il concorso per il Monumento ai Caduti per la Libertà. Nel 1951 ha una personale alla Galerie de France di Parigi (dove sarà anche nel 1961) e nel 1955 è per la prima volta nell’Espostzione Internazionale di scultura contemporanea al Museo Rodin di Parigi. Nel 1957 è alla Biennale di San Paolo e vince il Gran Premio Internazionale per la Scultura alla Biennale di Venezia. Nel 1959 è presente a Documenta di Kassel, nel 1960 al Dallas Museum for Contemporary Arts in Italian Sculptors of Today e nel 1963 è nella rassegna Testimonianze della paura nell'arte moderna a Darmstadt ed al Rijkrmuseum Kroller-Muller di Otterlo. Tra il 1961 ed il 1969 dirige la cattedra di scultura all Accademia di Belle Arti di Bologna e nel 1967 termina il ciclopico Monumento alla Resistenza Italiana a Cuneo. Nel 1974 si tiene la prima antologica alla Galleria Civica d'Arte moderna di Torino ed alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma e nel 1976 quella al Musée d’art moderne de La Ville di Parigi, mentre nel 1985 ha numerose personali all’estero, tra cui quelle di Nagano e Shizuoka in Giappone Muore a Marino nel 1998.

nel 1943 una statua per l’E 42, collocata

in una sala del Palazzo degli Uffici di Roma. La sua prima partecipazione alla Biennale di Venezia risale al 1948 e negli anni

°50 farà lavori di arredamento per hotel, palazzi pubblici e ville, partecipando a diverse manifestazioni o concorsi di ceramica, come quello del 1957 Cinquanta cera-

misti italiani 1952-57 a Palazzo Serbelloni di Milano. Dirà anni dopodi “#07 arzare molto la ceramica”. Dal 1971 prende parte a importanti collettive; Italo Calvino gli dedica uno scritto ed ha la sua prima retrospettiva al Museum am Ostwaall

di Dortmund,

mentre

nel 1973

tiene personali alla Galleria Marlborough nelle sedi di Zurigo e Roma e alla Galleria Schmela di Dusseldorf nel 1975. Importanti retrospettive antologiche saranno quelle di Parma nel 1975, di Trento nel 1977, di Milano nel 1979 e di Firenze, La Chaux de Fonds e Viggiù nel 1981, oltre alle partecipazioni a Forza senza forma alla Galleria Civica di Modena o Fragile Skulpturen allo Skulptur Museum Glaskasten di Marl. Muore il 22 giugno del 1986 a Milano. Bibliografia essenziale: Sculture recenti di Fausto

Melotti

1934/35-1962,

Milano,

Bibliografia essenziale: Giulio Carlo Argan,

1967; Germano Celant, Melotti, catalogo ge-

Mastroianni,

nerale, Electa, Milano, 1994; Fauso Melotti, Mazzotta, Milano, 2000

Edizioni

della Cassa di Ri-

sparmio di Cuneo, Cuneo, 1971; Umberto Mastroianni, a cara di Francesco Moschini, Electa, Firenze, 1981; Floriano De Santi, Mastroianni, Edizioni Oberon, Roma,

Mattia Moreni

1983

Nasce a Pavia il 12 novembre del 1920. Tra il 1939 ed il 1956 vive tra la Romagna,

Fausto Melotti Nasce l'8 giugno a Rovereto del 1901. Nel 1919 è a Milano dove studia al Politecnico, laureandosi nel 1924 in ingegneria elettrotecnica. Tra il 1919 ed il 1922 frequenta a Rovereto Depero e prende parte alla Veglia Futurista del 1923. Dal 1925 si dedica completamente alla scultura, iscrivendosi all’Accademia di Belle Arti di Bre-

gna e tiene la prima personale alla Galleria la Bussola di Torino. Nel 1948 partecipa alla Biennale di Vene-

ra nel 1928, dove conosce Fontana.

Dagli anni ’30 inizia a realizzare decorazioni in ceramica per Richard Ginori, case private insieme a Figini e Pollini e locali pubblici tra cui il Bar Craja a Milano, luogo d'incontro degli architetti razionalisti. Prenderà parte a numerose edizioni della Triennale di Milano e dal 1935 inizia ad esporre con la prima personale, alla Galleria Il Milione. Nel 1939 esegue dei bassorilievi per il Palazzo di Giustizia di Milano, realizzando

Antibes, l’isola di Grado, Frascati e Bolo-

zia, dove terrà in seguito tre personali (1959,

1960, 1972) mentre nel 1952 è nel Gruppo degli Otto. Tra le mostre più importanti tenute nel corso degli anni ‘50 vanno segnalate le partecipazioni a due Biennali di San Paolo e le presenze a Documenta di Kassel nel 1955 e nel 1959, oltre la personale alla Galleria Rive Droite di Parigi nel 1957. Gli anni ‘60 li passa alternando inverno ed estate tra Parigi, dove abita nel vecchio edificio dello storico Moulin Rouge, e San Giacomo dei Russi, dove risiede in un palazzo abbandonato del XIII secolo. Dal 1960 si trasferisce nel podere delle Calbane Vecchie presso Brisighella e nello stesso anno è presente al Guggenheim di New York in occasione del Guggenbeim Inter-

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national Award ed ha una personale alIRMGIARd nda! Oltre a varie mostre internazionali di carattere collettivo o tematico, tra cui la Biennale di Tokyo (1963), ha una personale al Kunstverein di Amburgo nel 1964 ed una antologica al Museo Civico di Bologna nel 1965. Nel 1988 si tiene l’antologica presso la Gal. leria Comunale di Arte Contemporanea di Arezzo ed è inoltre presente nelle mostre di Palazzo Forti a Verona Da Cézanne a l’arte astratta e del Castello di Rivoli a Torino Un'avventura internazionale: Torino e le Ar-

to la sua straordinaria purezza di stile e purezza etica”. Muore a Greve in Chianti nel 1999.

ti 1950-70 nel 1993.

Nasce a Pistoia il 28 giugno del 1917. Inizialmente studia pianoforte e violino, per trasferirsi a Livorno nel 1929. E nel 1932 che inizia a dipingere e nel 1940 si laurea presso la Facoltà di Chimica dell’Università di Pisa, divenendo assistente di Mineralogia per perdere poi il posto a causa delle sue opinioni antifasciste. Nel 1947 si laurea in Farmacia a Livorno, divenendo Direttore della farmacia degli Spedali Riuniti della città. Nel 1949 aderisce al MAC e ha la prima personale presso la Galleria Libreria del Salto di Milano e nel 1951 è al VI Salon des Réalités Nouvelles di Parigi e nella Mostra Arte astratta e concreta in Italia presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, mentre nel 1952 è presente nella esposizione itinerante del MAC in Austria e Sud America. E nel 1954 che pubblica il suo testo Spazio totale, in cui esplicita la poetica della sua pittura e l’anno seguente ottiene una personale alla Galleria Numero di Firenze. Nel 1957 è nella mostra 50 ars di pittura astratta a Parigi e nel 1958, lasciato il posto di Direttore degli Spedali Riuniti si trasferisce a Milano. Nel 1959 gli vengono allestite personali alla Galleria Kasper di Losanna, al Cavallino di Venezia e al Salone Annunciata di Milano. Tra il 1960 ed il 1961 interrompe in seguito ad un incidente stradale la sua attività pittorica per partecipare all'esposizione O/tre l’Informale a San Marino nel 1963 ed alla Biennale di Venezia nel 1964 (dove tornerà nel 1986). Nel 1965 ha una retrospettiva alla Casa della Cultura di Livorno e prende parte alla Quadriennale di Roma, ottenendo nel 1968 una sala personale alla Biennale di Venezia, delle mostre personali in Germania nel 1971 e la retrospettiva al PAC di Milano nel 1979. Muore l11 agosto del 1992 a Livorno.

Dal 1988 va a vivere a Santa Sofia sulle pendici appenniniche. Muore il 29 maggio del 1999 a Ravenna. Bibliografia essenziale: Mattia Moreni, L'assurdo razionale perché necessario, Edizioni Santa Sofia di Romagna, Santa Sofia, 1989; Mattia Moreni. Mostra mista. Oggetti e pitture, cat. Galleria d'Arte Contemporanea, Santa Sofia, Arnoldo Mondadori, Milano, 1991; Fabio Cavallucci, Mattia Moreni, Clueb, Bologna, 1992

Gualtiero Nativi Nasce a Pistoia nel 1921. Nel 1945 partecipa al gruppo Torrente, di cui è fondatore insieme a Berti, Brunetti e Farulli, caratterizzato da un’aperta avversione per ogni forma di espressione er-

metica ed intimista e nel 1947 è nel gruppo Arte d’Oggi, dedito ad una ricostruzione, in chiave modernista, della società e dell’arte. È nel 1950 che firma, insieme a Berti, Brunetti, Monnini e Nuti il manifesto del-

l’Astrattismo Classico, che rappresenta la punta più alta della tendenza astratta in ambito fiorentino e che propugna un deciso intervento nella realtà attraverso un linguaggio universale, razionale e funzionale. L'azione del gruppo incontrerà diverse difficoltà a Firenze. Non sono numerose le esposizioni personali realizzate nell’intero arco della sua attività, mentre invece importanti sono le sue partecipazioni a rassegne di arte contemporanea in Italia e all’estero, come le varie mostre di arte astratta all’inizio degli anni ‘50 presso Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, le Quadriennali romane e la Biennale di Venezia nel 1952, oltre a mostre nei musei di Vienna, Belgrado, Zagabria o la Biennale Internazionale di San Paolo del Brasile. Scriverà Cagli: “Di Nativi mi aveva colpi-

st, Aachen, 1971; Mario Nigro, opere 19481958, cat. Palazzo Municipale, Morterone, 1989; Mario Nigro, cat. Institut Mathil-

denhohe, Darmstadt, 2000 Bibliografia essenziale: Nativi, cat. Galleria Comunale d'Arte Contemporanea, Arezzo, 1974; Enrico Crispolti, Navi, Edizioni del Comune di Pistoia, Pistoia, 1982; Ronaldo Bellini, Gualtiero Nativi. Oltre l’astrattismo, Galleria Corbelli editore, Brescia, 1993

Mario Nigro

Bibliografia essenziale: Klaus Honnef, Mario Nigro, cat. Zentrum fur Aktuelle Kun-

Pippo Oriani Nasce a Torino il 25 giugno del 1909. Inizia dapprima studi di architettura per poi dedicarsi alla pittura. È dalla fine degli anni ’20 che prende parte alle esposizioni futuriste del gruppo torinese, insieme a Fillia, Rosso e Diulgheroff. Nel 1929 è a Parigi dove prende parte alle rassegne del 1929 Exposition des Peinters Futuristes Italiens alla Galerie 23 e alla mostra Errico Prampolini et les aeropeintres italiens alla Galerie de la Renaissance. Nel 1930 partecipa alla sua prima Biennale di Venezia ed ha una sezione personale nella Mostra Futurista Architetto Sant Elia e 23 pittori futuristi alla Galleria Pesaro a Milano. Tra il 1930 ed il 1931 realizza il film Vitesse, dirige nel 1932 la rivista “La Città Nuova” e nel 1933 “Stile Futurista”, collaborando anche ad “Artecrazia”, “Sant'Elia”, “Comoedia”, “La Terra dei Vivi” e “La Forza”. Negli anni ’30 è in numerose rassegne futuriste in Italia ed all'estero, tra cui Orzaggio futurista ad Umberto Boccioni alla Galleria Pesaro. Sempre nel 1933 è presente inoltre nella mostra Cercle et Carré a Parigi. Nel 1935 è alla Quadriennale di Roma ed ha una sala personale alla galleria Bernheim di Parigi in Les Futuristes Italiens mentre V’anno seguente, ancora a Parigi, è nella Esposizione Universale. Nel 1939 tiene delle personali alla Galleria Gianferrari di Milano e a Palazzo Lascaris di Torino. Rivalutato nell’ambito della ripresa degli studi sul Futurismo tra anni ‘50 e ‘60, nel -

1962 è in Aspetti del Secondo Futurismo Torinese alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino e nel 1964 tiene la sua prima antologica alla Galleria La Medusa di Roma ed è in Arte Moderna in Italia 19101935 a Palazzo

Pitti, Firenze, nel 1967.

Muore a Roma l’8 dicembre del 1972. Bibliografia essenziale: Enrico Crispolti, 5 pittori + 1 scultore, Fratelli Pozzo Editori, Torino, 1962; Enrico Crispolti, Ricostruzione futurista dell'universo, Mole Antonel-

liana, Torino, 1980; Enrico Crispolti, Pippo Oriani, Edizioni Centro d'Arte Mercurio, Milano 1992

Achille Perilli Nasce a Roma il 28 gennaio del 1927. Si iscrive nel 1945 all’Università di Roma seguendo i corsi di Lionello Venturi, fonda il gruppo Arte sociale e partecipa alla nascita della rivista “Ariele”. Nel 1947 frequenta l'Art Club, partecipa alla fondazione di Forma Uno, va a Parigi, Praga e tiene conferenze all'Art Club. Nel 1948 è presente al III Salon de Réalités Nouvelles di Parigi. Nel 1949 frequenta seminari sul teatro a Salisburgo ed organizza nel 1951 la mostra Arte astratta e concreta tn Italia alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma. Nel 1952 è alla sua prima Biennale di Venezia e fonda la rivista “Arti Visive” mentre dal 1954 si comincia ad interessare al dadaismo (conoscerà Tzara e Anna Hoch) e ha la sua prima personale alla Galleria Strozzina di Firenze nel 1956. Con Novelli fonda la rivista “L'esperienza moderna” ed ha alla Galleria La Tartaruga di Roma una personale nel 1957. Nel 1959 è alla Biennale di San Paolo ed ha un anno dopo una personale a Città del Messico, una nel 1962 alla Biennale di Venezia ed un’altra alla Galleria Bonino di New York. Inizia a realizzare scenografie e costumi per balletti ed ha alla Galleria Marlborough di Roma una personale nel 1967 (la prima di tante). Nel 1968 chiude per contestazione la sua sala personale alla Biennale di Vene.:ia e nel 1969-70 partecipa a mostre a Varsavia, Praga e Pittsburgh, costituendo nel 1972 il gruppo teatrale A/tro col quale fa numerosi spettacoli, tra cui il Dies Irae al teatro dell'Opera di Roma, con musiche di Clementi. La sua prima retrospettiva è a Trissino, poi nel 1982 a San Marino, nel 1984 a Parigi e nel 1988 alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma.

Bibliografia essenziale: Francesco Vincitorio, Achille Perilli. Continuum 1947-1982, Electa, Milano, 1982; Pia Vivarelli, Achille Perilli, cat. Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma, 1988; Achille Perilli. Le carte

e i libri 1946-1992, Edizioni Carte Segrete, Roma, 1992

varie mostre futuriste, in particolare di scenografie, architetture e sculture di colori. Nel 1916 è nella Mostra Internazionale dadaista a Zurigo e forma la rivista “Avanscoperta” facendo anche scenografie per film come Perfido Incanto e La vita dell’uomo. Nel 1918 fonda la casa d'Arte Italiana e grazie ad essa organizza nel 1920 la I Esposizione del November-Gruppe (con cui esporrà nel 1921) a Berlino, dove tiene anche una personale lo stesso anno. Nel 1922 espone anche nella Galleria di Berlino Der Sturm ed organizza a Praga e Berlino l’Esposizione d'Arte Italiana d’Avanquardia. Nel 1923 ha una grande personale a Venezia e viene nominato in varie commis-

Nel 1912 si iscrive, senza terminarla, all'Accademia di Belle Arti di Roma ed ini-

zia le sue frequentazioni del movimento futurista, conoscendo Balla ed esponendo in

si allestimenti di negozi di Como, mentre

con Terragni e Giliberti partecipa alla fondazione del gruppo e della rivista “Valori Primordiali” nel 1935. Nel 1940 è alla sua prima Biennale di Venezia, dove tornerà varie volte negli anni

sioni internazionali d’arte moderna, pren-

°40 e ‘50, per avere nel 1958 una sala per-

dendo parte a diverse mostre. Nel 1925 va a Parigi dove rimane per 13 anni. Nel 1928 allestisce il Padiglione del Futurismo a Torino e rappresenta l’Italia in vari congressi ed esposizioni di cinema e teatro. Nel 1930 è nel gruppo Circle et carré, nel 1931 vince il primo premio alla Quadriennale di Roma e nel 1935 espone a Parigi col gruppo Abstraction-creation, partecipando a varie Biennali di Venezia tra il 1938 ed il 1956. Nel 1945 fonda l'Art Club e dal 1946 realizza numerose scene e costumi per opere teatrali come Edipo Re, Orfeo di Cocteau, I/ Processo di Kafka, Otello di Shakespeare e nel 1950 pubblica Lineamenti di scenografia italiana dalla rinascenza ad oggi, per divenire ordinario di scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano nel 1955 Muore a Roma il 17 giugno del 1956.

sonale. Negli anni ’50 esegue numerosi affreschi e mosaici per case private allestendo alcune sale della IX Triennale di Milano. Nel 1960 viene ricostruita a Como la Fontana di Camerlata progettata originariamente assieme all’architetto Cattaneo. Nel 1971 ha una personale alla Galleria Marlborough di Roma. Muore a Como nel 1987.

Bibliografia essenziale: Filiberto Menna, Enrico Prampolini, De Luca, Roma, 1967; Continuità dell'avanguardia in Italia: Enrico Prampolini 1898-1956, cat. Galleria Civica, Modena, 1978; Prampolini dal futurismo all'informale, cat. Palazzo delle

Esposizioni, Roma, Edizioni Carte Segrete, Roma, 1992 Mario Radice Nasce a Como il 1° agosto del 1900. Autodidatta, durante la guerra è a Parigi,

Vienna e Varsavia. Dopo aver lasciato gli

Enrico Prampolini Nasce a Modena il 20 aprile del 1894.

geri, Cattaneo e Terragni, realizzando per quest’ultimo decorazioni, affreschi e lampadari nella Casa del Fascio a Como tra il 1934 ed il 1936 e progettando con Cattaneo una Fontana esposta alla VI Triennale di Milano, oltre a progetti di chiese moderne a cavallo tra gli anni ‘30 e ’40. Dal 1934 partecipa al movimento di arte astratta gravitante intorno alla Galleria Il Milione a Milano (in cui espone solo una volta nel 1934) ed esegue nel 1935 diver-

studi di veterinaria

nel 1922, si dedica

esclusivamente alla pittura nel 1930 e frequenta a Parigi la scuola di Legér. Partecipando alla formazione del gruppo Quadrante nel 1932 (Bottoni, Figini, Ghiringhelli, Lingeri, Pollini, Terragni), stringe amicizia con gli architetti Sartoris, Lin-

Bibliografia essenziale: Guido Ballo, Mario Radice, Ilte, Torino, 1973; L'arte Vi

deale. La tradizione cristiana nell'opera di Radice e Cattaneo, Mazzotta, Milano, 1988; Luciano Caramel, Radice, catalogo

generale, Electa, Milano, 2002

Mauro Reggiani Nasce l°11 agosto del 1897 a Nonantola. Nel 1920 è a Firenze dove segue dei corsi all’ Accademia di Belle Arti e nel 1924 si trasferisce a Milano, dove espone alla Permanente. Nel 1926 è alla sua prima Biennale di Venezia e nel 1929 espone col movimento di Novecento al Salon della Société des BeauxArts di Nizza. Nel 1932 espone alla Galleria Il Milione di Milano, dove terrà altre mostre d’arte astratta. Con gli astrattisti del Milione sarà invitato anche alle edizioni della Biennale di Venezia nel 1932 e nel 1936 (altre ne farà nel corso degli anni). Nel 1938 termina gli affreschi nella chiesa di Santa Teresa del Bambin Gesù dei Carmelitani a Legnano e nel 1939 espone nella mostra di Corrente. Tra il 1946 ed il 1955 è assistente presso la cattedra di Pittura all Accademia di Brera a Milano e nel 1948, oltre alle presenze al-

la Quadriennale di Roma ed alla Biennale di Venezia, è inserito nella mostra Arte

presso la Galleria Nazionale d'Arte Mo-

astratta in Italia alla Galleria di Roma. Nel 1951è nell'esposizione presso la Galleria Bompiani di Milano Concretisti italia-

strattismo Italiano alla Galleria Bompiani di Milano ed all'Esposizione Internazionale d'Arte Astratta di Monaco. Negli anni ‘50 cura la sezione tessile della ae di Milano e le mostre di Villa d’Olmo a Como. Muore a Como il 7 settembre del 1959.

ni. Arte astratta italiana. I primi astrattisti

italiani 1913-40 e sempre lo stesso anno è alla sua prima Biennale di San Paolo ed entra nel MAC, di cui diverrà presidente nel 1954. Nel 1952 ha la prima personale alla Biennale di Venezia, cui seguiranno quelle del 1956e nel 1962. Una grande retrospettiva antologica è a bili in Alternative Attuali nel 1968 ed un’altra gli sarà dedicata a Torino, presso la Galleria d’Arte Moderna, nel 1973. Muore a Milano il 20 maggio del 1980. Bibliografia essenziale: Nello Ponente, Mauro Reggiani, La Rosa e Baralis editori, Torino, 1977; Luciano Caramel, Reggiani, catalogo generale delle pitture,Electa, Milano, 1990; Luciano Caramel, Reggzari, Fabbri Editori, Milano, 1991

Manlio Rho Nasce a Como nel 1901. Tra il 1919 ed il 1922 frequenta diversi corsi di disegno, realizzando tra il 1922 ed il 1923 dei cartelloni pubblicitari, tra il 1924 ed il 1929 copertine di edizioni musicali e nel 1931 manifesti per il Teatro Sociale di Como.

Nel 1929è capo reparto della Tessitura serica Aliverti e Stecchini a Como, dove resterà fino al 1942. Negli anni ‘30 espone in varie mostre sindacali. Nel 1932 espone nella Biennale di Brera nel Palazzo della Permanente e nel 1935 alla Galleria del Milione in una personale e nel 1935 è nella redazione della rivista “Broletto” di Alberto Savinio e Carlo Perone. Nel 1938 è tra i fondatori del gruppo Valori Primordiali con Ciliberti, Ghiron, Lingeri, Terragni (nel 1940 firmerà anche i Manifesti del

derna di Roma, alla Mostra Storica dell’a-

Bibliografia essenziale: Manlio Rbo, cat. retrospettiva Villa Olmo,

Como,

1966; Lu-

ciano Caramel, Rbo, catalogo generale, La Provincia, Milano, 1990; Luciano Caramel, L'astrattismo di Manlio Rho, Lucarini, Roma, 1991

Romolo Romani Nasce a Milano il 29 maggio del 1884. Passa la giovinezza a Brescia, dove dimo-

stra di possedere una spiccata dote per il disegno e la caricatura, esponendo appunto nel 1903 in una mostra della caricatura a Varese, dove sarà premiato e potrà permettersi di studiare a Milano in un locale del Castello Sforzesco. Nel 1905 è alla Biennale di Venezia e tra il 1906 ed il 1907 collabora con la rivista “Poesia”. Nel 1907 è al Salo des Humoristes di Parigi ed in una conferenza dal titolo Sersazzoni e Simboli spiega la poetica ed il senso della sua arte all’Università Popolare di Milano. Espone nel 1909 alla Permanente di Milano e il suo nome compare nell’edizione del Manifesto dei pittori futuristi stampata su dei volantini, insieme alle firme di Bonzagni, Boccioni, Carrà, Dalmazzo e Russolo: non sarà invece nella stesura “ufficiale”, conosciuta e definitiva del manifesto. Nel 1910 è comunque presente alla Biennale di Venezia nella sala dedicata alla pittura futurista. Tra il 1911 ed il 1912 collabora con la rivista “Cronaca d'Oro” realizzando dei disegni, espone al teatro della Scala di Milano

Gruppo Primordiali Futuristi Sant'Elia) e nel 1939 è alla sua prima Quadriennale di Ro-

dei pannelli umoristici per il Carnevale e nel

ma. Nel 1940 è alla Biennale di Venezia, dove sarà presente anche nel 1942, nel 1948, nel

che non viene curata. Nicodemi dirà di lui: “la sua mente divagava în sogni anarchici e sublimi”. Muore a Brescia il 10 agosto del 1916.

1950, nel 1954, nel 1956.

Nel 1943 fonda la Galleria Como ed espone ancora alla Quadriennale di Roma. Nel 1946 lavora come consulente di alta moda per la Tintoria Comense ed è anche consulente di altre ditte di tessuti di Como e Milano. Nel 1947 espone in Réalités Nouvelles a Parigi, dove tornerà nel 1950 e nel 1951 è nella mostra Arte astratta e concreta in Italia

1912 torna a Brescia. E malato di un’etisia

Mimmo Rotella Nasce a Catanzaro il 7 ottobre del 1918. Nel 1941 è a Roma dove lavora presso il Ministero delle Poste e Telecomunicazioni. Nel 1944 si diploma al Liceo Artistico di Napoli. Dal 1945 è di nuovo a Roma, dove prende parte alla mostre dell'Art Club fino al 1951. Nel 1949 scrive il Manzfesto della poesia epistaltica, simile per certi versi alla Kurtsonate

di Schwitters,

manifesto

che

pubblica grazie all’interessamento di Sinisgalli nel 1955. Nel 1951 ha la prima personale alla Galleria Chiurazzi di Roma ed espone al Salon des Réalistes Nouvelles a Parigi, per recarsi tra il 1951 ed il 1952 negli Stati Uniti, dove tiene la sua seconda personale alla Rockhill Nelson Gallery di Kansas City. Nel 1955 torna a Roma e nel 1958 è in Nuove tendenze dell’arte italiana presso al Roma-New York Art Foundation. Nel 1960 entra a far parte del gruppo francese del Noveau Réalisme, fondato da Restany, i cui componenti principali sono Arman, Christo, César, De Saint-Phalle, Dufrene, Hains,

Klein, Spoerri, Tinguely, Villeglé. Nel 1961 prende parte alla mostra A 40° au-dessus-de Dada e nel 1964 è alla sua prima Biennale di Venezia. Nel 1965 tiene una personale alla Galleria J: a Parigi, nel 1972 pubblica l’autobiografia Autorotella e nel.1975 incide un disco di poesie fonetiche. Nel 1980 da Parigi si trasferisce a Milano, nel 1990 è nella mostra Art et Pub al Centre Pompidou di Parigi ed in Hzgh and Low al MOMA di New York. Nel 1992 viene insignito del titolo Officie/ des Arts ed des Lettres dal Ministero della Cultura francese e partecipa ad importanti rassegne internazionali come Italian Metamorphosis a New York nel 1994, Face à l’Histoire al Centre Pompidou nel 1996 e, sempre lo stesso anno, a Ha//s of

Mirrors al Museum of Contemporary Art di Los Angeles. Bibliografia essenziale: Mimmo Rotella, Axtorotella, Sugar editore, Milano 1972; Tommaso Trini, Rotella, Prearo editore, Milano, 1974; Mimmo Rotella, cat. antologica Palazzo Lanfranchi, Pisa, Gli Ori, Prato, 2001

Bibliografia essenziale: Giorgio Nicodemi, Romolo Romani, Pietro Cairoli, Como, 1967; AA.VV., Romolo Romani, Milano, 1982; Romolo Romani, Al di là del visibile, Civici Musei d'Arte e Storia, Brescia, 1998

Giuseppe Santomaso Nasce a Venezia il 26 settembre del 1907. Studia all’Accademia di Belle Arti nel 1932 ed è alla Biennale di Venezia nel 1934, La prima personale la tiene a Parigi pres-

so la Galleria Rive Gauche nel 1939 e affresca lo stesso anno le sale dell’Università di Padova. Nel 1943 è alla Quadriennale di Roma e nel 1946 prende parte alla Nuova Secessione Artistica in qualità di uno dei suoi promotori. Tra gli anni ‘40 e ’50 è a diverse Biennali di Venezia ed a quella di San Paolo nel 1951 (nel 1953 riceverà il secondo premio), mentre nel 1952 è nella mostra Pittsburgh International Exhibition of Contemporary Painting and Sculptures al Carnegie Institute. È nel 1954 che ottiene il primo premio alla Biennale di Venezia. Il 1955 è un anno ricco di presenze in campo internazionale, come in Documenta

di

Kassel (vi tornerà nel 1959 e nel 1964), ancora al Carnegie Institute, alla Quadriennale ed alla Esposizione Internazionale della Grafica a Lubiana, dove è premiato nel 1956 e dove tornerà nel 1963 e nel 1965. Nel 1960 ha una retrospettiva allo Stedelijk Museum di Amsterdam ed al Palais des Beaux Arts di Bruxelles e nel 1964 esegue un grande murale nella Nuova Scuola Superiore di Scienze Economiche Sociali a St. Gallen. In Germania, tra il 1966 ed il 1967, si svolgerà la grande retrospettiva itinerante che andrà ad Amburgo, Berlino e Dortmund. Muore a Venezia il 23 maggio del 1990.

la personale alla Biennale di Venezia e va a vivere nel 1962 a Calice Ligure, dove passerà gran parte del tempo a venire, al-

ternando soggiorni a Milano. Un’altra personale alla Biennale di Venezia la ottiene nel 1966. Nel 1972 viene operato per una grave for-

ma di malattia circolatoria che si aggraverà col tempo e che lo porterà alla morte. Nel 1973 si svolge presso la Kunsthalle di Darmstadt un’ampia antologica che andrà poi a Palazzo Grassi a Venezia e a Palazzo Reale a Milano nel 1974, mentre negli anni ‘80 è inserito in numerose esposizioni prestigiose sull’Informale. Muore a Milano il 29 novembre del 1986. Bibliografia essenziale: Francesco De Bartolomeis, I/ progetto dell'irrazionale di Scanavino, Edizioni del Naviglio, Milano, 1972; Scanavino, evocazione e presenza, cat. Museo di Villa Croce, Genova, Mazzotta, Milano, 1987; Giorgina Gragna Scanavino e Carlo Pirovano, Scanavino, catalogo generale, Electa, Milano, 2000

Salvatore Scarpitta Nasce a New York il 23 marzo del 1919. Negli anni ’20 si trasferisce in California (“venivo dall’ovest e ciò è parte fondamen-

tale della mia vita”, dirà l’artista) e nel 1936

Bibliografia essenziale: Santomaso, catalogo

è a Roma, dove studia all’ Accademia di Bel-

ragionato 1931-74, Alfieri, Venezia, 1975; Santomaso. Opere 1939-86, cat. Palazzo Rea-

le Arti e dove terrà la sua prima personale alla Galleria Chiurazzi nel 1948-49, esponendo poi negli anni ‘50 in altre importanti gallerie di Roma (La Tartaruga) e di Milano (Galleria del Naviglio). La sua prima presenza alla Biennale di Venezia data al 1952 (dove sarà ancora nel 1956 e nel 1958) e nel corso degli anni ‘50 è al County Museum di Los Angeles; nel 1968 nell’esposizione Cento opere d’arte italiana dal Futurismo ad oggi, presso la Galleria Nazionale d’ Arte Moderna di Roma ed alla Quadriennale di Roma nel 1972.

le, Milano, Electa, Milano, 1986; Giorgio Cortenova, Saztoraso. Il paesaggio della visione, Fidia edizioni d'Arte, Locarno, 1991

Emilio Scanavino Nasce a Genova il 28 febbraio del 1922. Nel 1938 è al Liceo Artistico di Genova e nel 1942 si iscrive alla facoltà di Architettura a Milano. La sua prima personale è nel 1948 alla Galleria Isola di Genova e nel 1950 partecipa alla sua prima Biennale di Venezia (la seconda sarà nel 1954). Nel 1951 è a Parigi dove ha una personale presso la Galleria Apollinaire di Londra e nel 1951-52 lavora nella fabbrica di ceramiche di Albissola Mazzotti.

Nel 1952 insegna al Liceo Artistico di Genova. A Milano, dove si trasferisce nel 1958, terrà numerose mostre personali alla Galleria del Naviglio, la prima delle quali è del 1955. Nel 1958 vince il Premio Lissone e un anno dopo è a Documenta di Kassel. Nel 1960 riceve vari premi ed ha una sa-

te a diverse gare, realizzando inoltre alcuni video sul mondo delle macchine da corsa. Nel 1993 ha una sala personale alla Biennale di Venezia e mostre antologiche ad Arona nel 1998 e nella Civica Galleria Renato Guttuso di Bagheria nel 1999.

Nel 1959 si trasferisce a New York, dove terrà

continuativamente alla Galleria di Leo Castelli numerose personali fino agli anni ‘90. Nel 1977 si tiene la prima mostra antologica presso il Contemporary Arts Museum di Houston e nel 1985 un’altra grande retrospettiva al PAC di Milano. Seguendo una passione che coltiva fin dall’infanzia, quando assisteva alle gare automobilistiche nel Maryland, nell’Ohio e nella Pennsylvania, ricostruisce negli anni 70 modelli di quelle macchine da corsa con le quali, dopo averle rese funzionanti, nel corso degli anni ‘80 prende par-

Bibliografia essenziale: Germano Celant, Sal vatore Scarpitta, cat. Galleria Notizie, Torino e Studio C, Brescia, 1972; Salvatore Scarpitta 1958-85, cat. P.A.C., Milano, 1985;

Luigi Sansone, Scarpitta, Milano, 1999

Toti Scialoja Nasce a Roma il 16 dicembre del 1914. Fin dagli anni giovanili si interessa di poesia, letteratura e musica, oltre che di arte.

E attraverso De Libero che frequenta il circolo artistico e culturale che gravita attorno alla Galleria La Cometa di Roma e che conosce Cagli e Mirko. Verso la metà degli anni ‘30 inizia la sua attività disegnativa e poi anche pittorica: del 1940 è la sua prima personale di disegni presso la Galleria Genova a Genova e del 1941 quella di pittura alla Società degli Amici dell'Arte a Torino. Nel 1943 realizza scenografie e costumi per

L'opera dello straccione al Teatro Argentina di Roma, la prima di una lunga serie di interventi nell’ambito del teatro e del balletto. È da quest'anno che inizia a scrivere pagine intense e appassionanti sull’arte, la poesia e il teatro in varie riviste.

Nel 1947 espone nella mostra Quattro artisti fuori strada (Ciarrocchi, Sadun, Strado-

ne) alla Galleria del Secolo di Roma ed ha una personale alla Galleria del Naviglio di Milano. Nel 1948 è alla Biennale di Venezia e nel 1956 inizia a fare i suoi primi viaggi negli

Stati Uniti, in occasione della personale alla Galleria Viviano di New York. Nel 1966 e nel 1983 ha una sala personale alla Biennale di Venezia e nel 1966 la prima antologica alla Marlborough di Roma oltre a personali in America. Tra gli anni 70 e ‘80 scrive numerosi racconti e poesie per

l’infanzia. Importanti

retrospettive si susseguono

a

partire dal 1977, presso l’Università di Parma, nel 1985 a Gibellina, nel 1987 nel Museo Civico di Modena e nel 1988 nella Villa Reale di Monza. Muore a Roma il 1° marzo del 1998, Bibliografia essenziale: Scialoja, cat. Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Edizioni della Cometa, Roma, 1991; Fabrizio D'A-

mico, Toti Scialoja, Leonardo De Luca editori, Roma, 1991; Toti Scialoja, Giornale di pittura (1954-1983), Editori Riuniti, Roma,

ligiosi e privati e che coltiverà negli anni a venire. È nell’ambito del Concorso Nazionale Rizzardi Pollini, indetto nel 1922 per

1991

la costruzione di un campo

Gino Severini Nasce a Cortona il 7 aprile del 1883. È a Roma che inizia l’attività di pittore, praticamente da autodidatta. Conosciuti nel 1901 Balla e Boccioni, nel 1906 è a Parigi dove vi si trasferisce. Nel 1910 firma il Manifesto dei pittori futuristi, coi quali intrec-

cia forti relazioni in occasione di mostre a Parigi, in altre città europee e negli Stati Uniti nel 1915. Nel 1913 ha una personale alla Galleria Marlborough di Londra, poi spostata a Berlino e nel 1913 è nella Priza esposizione di Pittura Futurista al Teatro Costanzi di Roma. Nel 1917 espone alla Stieglitz Gallery di New York e collabora alla rivista “De Stijl”, pubblicando in varie occasioni articoli e saggi sulla pittura d'avanguardia, cubista e su Manet. Nel 1919 ha una personale alla Galerie L'Effort Moderne. È del 1933 il grande mosaico realizzato per la Triennale di Milano e del 1934 l'affresco per la chiesa di Notre Dame du Valentin a Losanna, mentre nel 1937 fa mosaici e affreschi anche per l’Università di Padova ed il palazzo delle Poste di Alessandria. Nel 1935 è premiato alla Quadriennale di Roma e nel 1942 ritorna in Italia, pubblicando nel 1946 Tutta la vita di un pittore. Nel 1954 e nel 1956 presenta opere futuriste a New York presso la Rose Fried Galeery ed a Parigi alla Galerie Berggruen & C. Nel 1957 è alla Biennale di San Paolo, nel 1961 si svolge la mostra antologica a Palazzo Venezia a Roma, nel 1963 la personale alla Galleria Blu di Milano e nel 1964 riceve il Premio Nazionale di Pittura all'Accademia di San Luca di Roma. Muore a Parigi il 26 febbraio del 1966.

Bibliografia essenziale: Lionello Venturi, Severini, De Luca, Roma, 1961; Giro Severini prima e dopo l’opera, cat. Palazzi Casali, Cortona, Electa, 1984; Giro Severini, catalogo ragionato, Daniela Fonti, MondadoriDaverio, Milano, 1988

Atanasio Soldati

260)

Nasce a Parma nel 1896. Nel 1921 ottiene il diploma in disegno architettonico, una passione di cui rimangono numerosi progetti e disegni di edifici re-

sportivo, che

espone per la prima volta delle sue opere. Nel 1923 insegna disegno alla scuola professionale di Langhirano e nel 1925 si trasferisce a Milano, dove conosce Persico e tiene, a partire dal 1930, mostre personali e collettive presso la Galleria Il Milione, presentato in particolare da Carlo Belli. Nel 1935 è per la prima volta a Parigi (vi tornerà spesso e vi esporrà al Ler salon des

Réalités Nouvelles) e partecipa alla II Quadriennale di Roma. Dopo la guerra insegna scenografia presso l'Accademia di Brera e nel 1948 fonda il Movimento d'Arte Concreta (MAC) insieme a Dorfles, Monnet e Munari. Nel 1950 è alla XXV Biennale di Venezia (che gli dedicherà una personale nel 1952 e dove insegnerà disegno ornamentale fino al 1953), nel 1951 è presente nell’importante mostra or-

ganizzata dall'Art Club presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma Arze Astratta e Concreta in Italia. Nel 1953 espone alla Biennale di San Paolo del Brasile ed al Premio Lissone. Muore il 27 agosto.

Bibliografia essenziale: Lionello Venturi, Sol dati, Galleria Bergamini, Milano, 1954; Sol dati, cat. Galleria Civica d'Arte Moderna, Torino, 1970; Luciano Caramel, Soldati, cat. Gall. Niccoli, Parma, 1997 Francesco Somaini Nasce a Lomazzo nel 1926. Laureato in Giurisprudenza a Pavia, frequenta l Accademia di Belle Arti di Brera. Nel 1948 è alla Quadriennale di Roma e nel 1949

ha la sua prima personale alla Galleria Il Grattacielo di Gallarate. Nel 1956 partecipa alla Biennale di Venezia (dove avrà una sala personale nel 1960 e nel 1978) e nel 1959 ottiene il primo premio a quella di San Paolo. Nel 1961 è premiato alla Biennale de Paris. Negli anni ‘60 ha diverse personali tra cui quelle alla Galleria Odyssia di New York e di Roma ed alla Galleria Blu di Milano. È nel 1972 che scrive Urgenza nella città, un saggio sulla necessità dell’intervento della scultura in ambito urbano e architettonico. Vari saranno nel corso degli anni i suoi interventi ambientali e i monumenti cittadini, come quello ai Marinai d'Italia a Milano del 1967, l’Anarzorfosi Bargellini a Pieve di Cento del 1984 o la Porta d'Europa a Como del 1995. Nel 1968 si tiene a L'Aquila

la sua prima retrospettiva antologica nella rassegna Alternative attuali 3 e numerose saranno negli anni ‘70 le presenze in manifestazioni di scultura urbana come quella di Volterra 73 del 1973. Nel 1979 si tiene l’antologica al WilhelmLehmbruck-Museum di Duisburg, nel 1980 ha una personale all’Orto Botanico di Lucca, nel 1988 la mostra antologica alla Civica Galleria d'Arte Moderna di Gallarate e nel 1990 la retrospettiva alla Rotonda della Besana di Milano. Nel 1997 si svolge l’antologica Le grandi opere. Realizzazioni, progetti, utopie nel Palazzo di Brera a Milano, nel 1999 alla Quadriennale di Roma, nel 1998 alla Brenzale di Carrara e nel 2000 al Castello di Pergine.

Bibliografia essenziale: Francesco SomainiEnrico Crispolti, Urgenza nella città, Mazzotta, Milano, 1972; Enrico Crispolti, Somaini, cat. Civica Galleria d'Arte Moderna,

Gallarate, 1988; Sorzazni, le grandi opere, Electa, Milano, 1997

Tancredi (Parmeggiani) Nasce a Feltre il 25 settembre del 1927. Nel 1946 è all'Accademia di Belle Arti di Venezia e l’anno dopo fa un soggiorno a Parigi. La sua prima personale la tiene alla Galleria Sandri di Venezia nel 1949 e nel 1950 va a vivere per un anno a Roma, do-

ve espone presso l’Age d’Or. Dalla capitale è costretto dalla polizia a far ritorno a Venezia per vagabondaggio. Nel 1951 espone nella Mostra d’arte concreta e astratta alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. A Venezia conosce Peggy Guggenheim con

la quale inizia una relazione (conclusasi nel 1955) ed ottiene uno studio sul Canal Grande e nel 1952 prende parte al Manifesto dello spazialismo televisivo. Peggy Guggenheim lo promuove nel mercato americano, tanto che girano voci che Tennessee Williams abbia comprato un suo quadro per un milione di lire. Nel 1953 tiene personali alla Galleria il Cavallino di Venezia ed al Naviglio di Milano, nel 1955 espone a Parigi e nel 1958 a New York e Londra. Nel 1959 è alla Quadriennale di Roma mentre a Parigi conosce Dubuffet, il Gruppo Cobra e Giacometti. Anticonformista, contro il sistema mercantile dell’arte, nel 1962 è ricoverato nella casa di cura Villa Tigli di Monza per “schizofrenia paranoide” e poi nell’ospedale psichiatrico di San Servolo.

Si suicida a Roma il 27 settembre del 1964

gettandosi nel Tevere. Bibliografia essenziale: Marisa Dalai Emiliani, Tancredi, cat. Rotonda della Besana, Milano, 1973; Dino Marangon, Tancredi, cat. Palazzo Crepadonna, Belluno, 1990; Tancredi. I dipinti e gli scritti, a cura di Marisa Dalai Emiliani, Allemandi, Torino, 1997

Giulio Turcato Nasce a Mantova il 16 marzo del 1912. Nel 1920 è a Venezia dove frequenta con saltuarietà l'Accademia. Per una forma di malattia polmonare è costretto a girare per vari ospedali tra il 1936 ed il 1940. Nel 1937 ha la sua prima personale a Milano, dove si era stabilito quello stesso anno e nel 1943 è alla Quadriennale di Roma. Nel 1945 è nella Libera Associazione Arti Figurative di Severini e Mafai e nell’Art Club di Prampolini e Jarema e nel 1946 e nel 1948 espone in Polonia. Nel 1947 firma il Manifesto del neocubismo

con Corpora, Guttuso e Monachesi, è nel gruppo Forzza 1 e nel Fronte Nuovo delle Arti, mentre nel 1948 è alla Biennale di Venezia, alla Quadriennale di Roma

e tiene

delle personali nel 1949 alla Galleria il Naviglio di Milano e nel 1950 a Parigi. Nel 1952 è nel Cruppo degli Otto. Dopo il viaggio a Mosca ed in Cina nel 1956 e le Biennali di Venezia nel 1954 e nel 1956, il successo critico vero e proprio arriva nel 1957, quando compare per la prima volta nella Biennale di San Paolo. Tiene così nel 1962 personali a New York e Venezia, nel 1963 a Roma e si ritira nel 1966 dal P.C.I., l’anno della sua personale alla Biennale di Venezia (ne avrà un’alia melo 72). La prima antologia è a Spoleto nel 1973, poi ne terrà una nel 1974 al Palazzo delle Esposizioni di Roma poi a Bucarest e nel 1985 alla Staatsgalerie Moderner Kunst di Monaco ed alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, oltre che a L'Aquila e Venezia nel 1990. Nel 1992 tiene una personale alla Galleria Editalia ed è presente alla Biennale di Venezia. Muore a Roma il 22 gennaio del 1995.

Bibliografia

essenziale:

Giovanna

Dalla

Chiesa-Italo Mussa, Giulio Turcato, cat. Pa-

lazzo delle Esposizioni, Roma, 1974; Turcato, cat. Galleria Nazionale d'Arte Moderna, De Luca, Roma, 1986; Flaminio

Gualdoni-Giulio le, Milano, 2001

Turcato, Silvana editoria-

Sergio Vacchi Nasce a Castenaso di Bologna il 1° aprile del 1925.

Senza seguire regolari studi artistici ma ri-

sentendo della presenza di Morandi e Longhi, è apprezzato e seguito dal critico Arcangeli. Nel 1951 tiene la sua prima personale alla Galleria Il Milione di Milano mentre nel 1956 è alla sua prima Biennale di Venezia, dove torna nel 1958 ed ha nel 1964 una sala personale che farà scandalo negli ambienti ecclesiastici, tanto da essere interdetta al clero dal cardinale Urbani. È sempre nel 1958 che tiene una personale alla Contemporaries Gallery di New York. Dal 1959 si trasferisce a Roma e nel 1968, oltre alla sua presenza in Alternative Attuali 3 al’Aquila; ha una mostra antologica al Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Nel 1974 espone alla Galleria Ca’ d'Oro insieme ad opere di Boecklin, De Chirico e Savinio mentre nel 1976 ottiene una perso-

nale al Real Colegio de Espana a Bologna. Gli anni ‘90 sono ricchi di sue mostre antologiche, come quella del 1990 organizzata nel paese natale di Castenaso, del 1991 presso la Galleria d'Arte Moderna di Paternò, del 1994 presso il Museo della Permanente di Milano, curata da Testori e del 1996 al Boca Raton Museum di Miami. Dando corpo ad un segreto ed innato desiderio, dalla fine degli anni ‘90 è andato a vivere nel suggestivo Castello medievale di Grotti, vicino Siena, dove è anche la Fondazione a lui intitolata. Nel 2001 la città di Firenze gli ha reso omaggio con l’antologica tenuta nell’Andito degli Angiolini di Palazzo Pitti. Bibliografia essenziale: Sergio Vacchi. Alchimia del vissuto 1948-90, Silvana editoriale, Milano, 1990; Sergio Vacchi, itinerario nei suoi nziti, cat. Palazzo della Permanente, Mi-

lano, Fabbri editori, Milano, 1994; Sergio lacchi, la sua arte la sua collezione, cat. Palazzo Pitti, Firenze, Bandecchi Pontedera, 2001

e Vivaldi,

Emilio Vedova Nasce a Venezia il 9 agosto del 1919. Dopo brevi soggiorni sul finire degli anni 30 a Roma, Firenze e le valli di Bolzano, ritorna a Venezia dove tiene le prime espo-

sizioni, aderendo al clima antifascista e partecipando al Premio Bergamo nel 1942. Nel 1943 è a Milano per poi prendere parte attiva alla Resistenza. Nel 1946 firma il manifesto di Oltre Guernica e del Fronte Nuovo delle Arti, partecipando in seno al gruppo, nel 1948, alla Biennale di Venezia. E del 1951 la personale alla Galleria Viviano di New York e del 1952 la sua inclusione nel Gruppo degli Otto, da cui si ritira nel 1953. Nel 1954 soggiorna in Brasile dopo aver partecipato alla Biennale di San Paolo ed è alla prima presenza a Documenta di Kassel; nel 1956 ha una sala personale alla Biennale di Venezia, dove è premiato nell’edizione del 1960 e verrà invitato in svariate altre edizioni. Gli anni ’60 lo vedono impegnato in sperimentazioni e ricerche confinanti con la musica, il suono, la scenografia e la pittura ambientale dei Plurizzi, che presenta alla personale presso la Marlborough di Roma nel 1963 e che gli danno notevole fama in Germania, negli Stati Uniti, dove è chiamato da diverse università e dove tornerà più di una volta, ed in Austria, a Salisburgo, dove insegna cinque anni a partire dal 1965. Tra il 1975 ed il 1985 insegna all’ Accademia di Belle Arti di Venezia. La prima grande antologica è a San Marino nel 1981, a cui ne seguiranno presto altre a Venezia nel 1984, a Monaco nel 1985, a

Vienna nel 1989. Bibliografia essenziale: Germano Celant, Vedova,1933-1984, cat. Museo Correr-Magazzino del Sale, Venezia, Electa, Milano, 1984; Emilio Vedova, cat. Museo d’Arte Moderna, Lugano, Electa, 1993; Erzilio Vedova, Charta, Milano, 1998

Luigi Veronesi Nasce a Milano nel 1908. Nel 1932 tiene la prima personale di incisioni alla Galleria del Milione e nel 1935 è nella Prinza collettiva d’arte astratta italiana presso lo studio di Casorati e Paolucci. Nel 1934 inizia a fare scenografie e studi di illuminazioni teatrali, aderendo al gruppo Abstraction-Creation, facendo ricerche sulla fotografia ed esponendo alla Mostra Internazionale di Scenografia promossa da Bragaglia. Nel 1936 rompe col Milione e tiene la prima personale di pittura alla Galerie |Equipe di Parigi, mentre nel 1939 inizia a realizzare i primi films astratti e ad avere rap-

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porti con musicisti come Malipiero. Nel 1943 si iscrive al P.C.I. e nel 1947 è nel gruppo fotografico La Bussola. Nel 1949 entra a far parte del MAC ed è premiato al Festival del Cinema a Knokke Le Zoute, mentre nel 1954 è alla Biennale di Venezia, nel 1955 a quella di San Paolo e nel 1956 ha una personale alla Galerie de l’Institut di Parigi. Nel 1957 a Parigi espone in una personale alla Galerie Apollinaire, è ancora alla Biennale di Venezia e nella Prizza rassegna di Arte Concreta alla Galleria Schettini (altre simili ne avrà nel corso degli anni). Tra il 1965 ed il 1971 insegna grafica all’Istituto di industrial design di Venezia; tra il 1972 ed il 1977 Cromotologia a Brera e tra il 1980 ed il 1987 alla Nuova Accademia di Milano. Oltre alle personali del 1965 alla Galleria Lorenzelli di Milano e Narciso di Torino, ha la prima antologica alla Galleria Martano di Torino, una retrospettiva allo Stadtisches Museum di Leverkusen nel 1974 ed altre antologiche negli anni ”70. Nel 1986 ha una personale alla Biennale di Venezia e nel 1989 una antologica a Palazzo Reale a Milano. Muore a Milano il 24 febbraio 1998.

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Bibliografia essenziale: stimonianza

su Veronesi,

Franco Passoni, TeMacerata,

1977;

Piero Quaglino, Veroresi, Ravenna, 1983; Luciano Caramel-Claudio Cerritelli, Veronesi. Razionalismo lirico 1927-1997, Mila10, ISS

Alberto Viani Nasce a Quistello il 26 marzo del 1906. Inizia la sua attività di scultore (opere di cui

si hanno soltanto fotografie), nel 1931-33, ma già tra il 1934 ed il 1939 si deve registrare un periodo di inattività. Tra il 1944 ed il 1947 è assistente di Arturo Martini presso l'Accademia di Belle Arti di Venezia, dove gli succede nella cattedra di Scultura. Perviene tardi alla scultura ma con un grande bagaglio culturale, che lo porterà ad interessarsi di teologia, filosofia e letteratura e a vivere un'esistenza discreta, appartata, assai riflessiva, al punto che Marchiori lo definiva “tanto difeso da sem-

brare irraggiungibile”. La sua prima personale la tiene nel 1944 alla Piccola Galleria di Venezia e nel 1946

espone col Fronte Nuove delle Arti. Gli anni ’40 rappresentano

un decennio impor-

tante per l’artista — di cui viene acquistato un Torso dal MOMA di New York — e che nel 1948 è presente alla sua prima Biennale di Venezia, che nel 1952 gli dedica un’antologica e che lo vedrà esporre in numerose edizioni le sue opere più importanti. Nel 1955 è a Documenta di Kassel ed alla Biennale di San Paolo del Brasile, manifestazioni in cui sarà presente anche nelle edizioni del 1959 (Kassel) e del 1965 (San Paolo). È nel 1966 che riceve il primo premio per la scultura alla XXXIII Biennale di Venezia. Importante è la sua amicizia con Ragghianti, di cui si hanno testimonianze nel suo epistolario ed in particolare, per la loro comunanza teorica ed ideologica, con Sergio Bettini. Muore a Mestre nell’ottobre 1989. Bibliografia essenziale: Sergio Bettini, L'ultima metafora di Alberto Viani, Neri Pozza, Venezia, 1966; Sergio Bettini, A/berto Viani, Alfieri, Venezia, 1976; Carlo Santini, Alberto Viani, cat. Palazzo Te, Mantova, OlivettiElecta, Milano, 1990

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Finito di stampare nel mese di aprile 2002 da Tipograf - Roma Stampato in Italia - Printed in Italy

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ISBN 88-8016-490-2

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