L'estetica italiana del Novecento. Dal neoidealismo a oggi 9788858117934


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Table of contents :
Prefazione
Parte prima. L’età dell’idealismo
Capitolo primo. L’estetica di Benedetto Croce
1.1. La genesi dell’estetica crociana
1.2. La grande «Estetica»: la parte costruttiva
1.3. La grande «Estetica»: la parte polemica
1.4. Dall’«Estetica» al «Breviario»
1.5. Dal «Breviario» alla «Aesthetica in nuce»
1.6. Ultimo tempo dell’estetica crociana: «La poesia»
1.7. I crociani
Note
Capitolo secondo. L’estetica di Giovanni Gentile
2.1. Il sodalizio con Croce e i primi interventi sull’estetica
2.2. Il sistema gentiliano e l’arte come forma assoluta dello spirito
2.3. Il problema del sentimento e la «Filosofia dell’arte»
2.4. Dottrine particolari della «Filosofia dell’arte»
2.5. La critica letteraria gentiliana
2.6. I gentiliani
Note
Capitolo terzo. Al di fuori dell’idealismo
3.1. Polemiche con Croce. Luigi Pirandello e l’umorismo
3.2. L’estetica futurista
3.3. Lo scetticismo estetico di Giuseppe Rensi
3.4. Un transfuga dal crocianesimo: Giuseppe Antonio Borgese
3.5. Il mondo sensibile di Adelchi Baratono
3.6. L’estetica ‘aperta’ di Antonio Banfi
Note
Parte seconda. Dopo l’idealismo
Capitolo quarto. Le vie del rinnovamento post-crociano
4.1. L’estetica fenomenologica
4.2. L’estetica della formatività di Luigi Pareyson
4.3. L’estetica di Guido Calogero
4.4. I dialoghi sulle arti di Cesare Brandi
4.5. Galvano della Volpe e l’estetica marxista
Note
Capitolo quinto. La crisi dell’estetica filosofica
5.1. Il processo all’estetica
5.2. Il rinnovamento della critica letteraria
5.3. La neoavanguardia e la poetica dell’opera aperta
5.4. L’estetica semiotica
Note
Capitolo sesto. Il ritorno dell’estetica come filosofia
6.1. L’impasse della critica letteraria
6.2. Mutamenti nella filosofia, mutamenti nell’estetica
6.3. Uno sguardo ad alcuni orientamenti
6.4. La ricerca storiografica
6.5. Le estetiche speciali
6.6. Conclusione: dentro e fuori l’Italia
Note
Bibliografia
Capitolo primo
Capitolo secondo
Capitolo terzo
Capitolo quarto
Capitolo quinto
Capitolo sesto
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L'estetica italiana del Novecento. Dal neoidealismo a oggi
 9788858117934

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eBook Laterza

Paolo D’Angelo

L’estetica italiana del Novecento Dal neoidealismo a oggi

© 2007, Gius. Laterza & Figli

Edizione digitale: novembre 2014 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858117934 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata

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Sommario

Prefazione Parte prima. L’età dell’idealismo Capitolo primo. L’estetica di Benedetto Croce 1.1. La genesi dell’estetica crociana 1.2. La grande «Estetica»: la parte costruttiva 1.3. La grande «Estetica»: la parte polemica 1.4. Dall’«Estetica» al «Breviario» 1.5. Dal «Breviario» alla «Aesthetica in nuce» 1.6. Ultimo tempo dell’estetica crociana: «La poesia» 1.7. I crociani Note

Capitolo secondo. L’estetica di Giovanni Gentile 2.1. Il sodalizio con Croce e i primi interventi sull’estetica 2.2. Il sistema gentiliano e l’arte come forma assoluta dello spirito 2.3. Il problema del sentimento e la «Filosofia dell’arte» 2.4. Dottrine particolari della «Filosofia dell’arte» 2.5. La critica letteraria gentiliana 2.6. I gentiliani Note

Capitolo terzo. Al di fuori dell’idealismo 3.1. Polemiche con Croce. Luigi Pirandello e l’umorismo 3.2. L’estetica futurista 3.3. Lo scetticismo estetico di Giuseppe Rensi 3.4. Un transfuga dal crocianesimo: Giuseppe Antonio Borgese 3.5. Il mondo sensibile di Adelchi Baratono 3.6. L’estetica ‘aperta’ di Antonio Banfi Note

Parte seconda. Dopo l’idealismo

Capitolo quarto. Le vie del rinnovamento post-crociano 4.1. L’estetica fenomenologica 4.2. L’estetica della formatività di Luigi Pareyson 4.3. L’estetica di Guido Calogero 4.4. I dialoghi sulle arti di Cesare Brandi 4.5. Galvano della Volpe e l’estetica marxista Note

Capitolo quinto. La crisi dell’estetica filosofica 5.1. Il processo all’estetica 5.2. Il rinnovamento della critica letteraria 5.3. La neoavanguardia e la poetica dell’opera aperta 5.4. L’estetica semiotica Note

Capitolo sesto. Il ritorno dell’estetica come filosofia 6.1. L’impasse della critica letteraria 6.2. Mutamenti nella filosofia, mutamenti nell’estetica 6.3. Uno sguardo ad alcuni orientamenti 6.4. La ricerca storiografica 6.5. Le estetiche speciali 6.6. Conclusione: dentro e fuori l’Italia Note

Bibliografia Capitolo primo Capitolo secondo Capitolo terzo Capitolo quarto Capitolo quinto Capitolo sesto alla memoria dei miei genitori Pia Rey Fiore e Mario D’Angelo

Prefazione

Nel rivedere il testo di questo libro a quasi dieci anni dalla sua prima edizione ho avuto cura non solo di aggiornarlo, ma anche di sfrondarlo grandemente, in modo da non renderne la mole eccessiva. La struttura del libro è rimasta identica, ma molte parti sono state alleggerite, mentre l’ultimo capitolo è stato integrato. Quanto scrivevo nella Prefazione alla prima edizione è rimasto, dunque, sostanzialmente valido. Per esempio, avvertivo il lettore che qui non ha a che fare con una mappa o un inventario ma con una storia, ossia con un libro che tenta di assumersi la responsabilità di indicare un percorso e di emettere dei giudizi sugli autori che tratta, senza trincerarsi dietro presunzioni di imparzialità, che sono sempre insostenibili e spesso anche insincere. L’obiezione corrente, che non si possa fare storia di un passato troppo vicino, che sia indispensabile attendere la necessaria distanza storica, non mi appariva persuasiva allora e non mi appare tale oggi, perché la cosiddetta distanza storica non è a ben vedere che una distanza critica, prodotta non dagli anni che passano ma dai giudizi che su certi argomenti vengono accumulandosi, e dei quali i nostri possono giovarsi: se non si comincia a fare storia, la distanza storica rischia di non crearsi mai. Ma chiarivo anche che nell’ultimo capitolo si trovano precisamente una mappa e un regesto e non una storia, perché qui si ha a che fare non con un passato, sia pure prossimo, ma con un presente, cioè 6

con autori ancora attivi e il cui pensiero è in fieri: e del presente, cioè del non ancora compiuto, non si fa la storia, ma, appunto, una cronaca o un inventario, che è quel che ho cercato di fare, nel modo più completo possibile. Avendo a che fare con l’estetica del Novecento, cioè con un oggetto relativamente definito, e certamente assai più definito di quanto lo sarebbe, per esempio, l’estetica antica, o l’estetica del Seicento, non ho avuto bisogno di rubare tempo al lettore con delimitazioni preliminari di campo. Anche nel tracciare il discrimine tra estetica, poetica, critica letteraria e artistica mi sono lasciato guidare da un criterio di economicità: nel senso che, esistendo alcune buone storie delle poetiche del Novecento, e molte opere parziali sulla critica, non mi è parso opportuno rifare male e in poco spazio il lavoro che altri aveva già fatto bene e più distesamente. Ciò non toglie che ai rapporti tra estetica e critica si sia comunque data molta attenzione: dal divorzio che si è prodotto tra le due negli ultimi decenni, dopo un lungo periodo nel quale il loro sodalizio era stato tanto stretto da apparire una simbiosi, non mi pare possa uscire niente di buono, né per l’una né per l’altra. Nella prima parte del volume, dedicata al primo cinquantennio del secolo, e quindi in larga misura consacrata ai massimi filosofi del Novecento italiano, Croce e Gentile, ho dato parecchio spazio agli autori estranei alla temperie idealistica e molto meno agli epigoni dell’idealismo, anche per dimostrare quanta poca verità ci sia nel luogo comune della ‘dittatura’ di Croce sulla cultura italiana. Se il lettore troverà, poniamo, sei pagine dedicate a Giuseppe Rensi, e otto a Giuseppe Antonio Borgese, mentre Carlo Lodovico Ragghianti ne ha a malapena una, non deve però dedurne che l’ultimo sia ai nostri occhi cinque volte meno importante dei primi due. Del resto, ci auguriamo che nessuno, e a nessun proposito, sia tentato di 7

impiegare un metro di giudizio tanto estrinseco. La Bibliografia è stata ridotta e aggiornata. Pur sapendo bene che nell’era di Internet le bibliografie cartacee sono destinate a invecchiare ancora più rapidamente che in passato, mi è sembrato comunque giusto dare alcune indicazioni per eventuali approfondimenti, senza, è ovvio, nessuna ambizione di completezza. Amici e colleghi mi erano stati d’aiuto nella stesura di questo libro. Emilio Garroni, Luigi Russo, Gabriele Scaramuzza, Stefano Catucci e Giovanni Lombardo avevano letto, del tutto o in parte, il dattiloscritto della prima edizione, dandomi preziosi suggerimenti. Mi è gradito ringraziarli qui come li avevo ringraziati allora, anche se il primo non potrà più leggere queste righe. Ringrazio anche tutti coloro i quali si sono occupati della prima edizione di questo volume, in recensioni e presentazioni. Ho cercato, per quanto mi è stato possibile, di tenere conto delle loro osservazioni. Roma, ottobre 2006

P. D’A.

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Parte prima. L’età dell’idealismo

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Capitolo primo. L’estetica di Benedetto Croce

Quando si comincia a trattare un tema di storia letteraria, culturale o politica seguendo una divisione per secoli si è quasi sempre costretti a iniziare con una serie di precisazioni che servono a mostrare come il periodo scandito dalla successione cronologica corrisponda solo approssimativamente a quello che occorre ricostruire per avere una visione chiara dei fatti. Spesso si è obbligati a spostare all’indietro o in avanti la data di inizio del secolo di cui si vuole fare la storia, perché i problemi di cui ci si vuole occupare affondano le loro radici in un’epoca precedente o perché la svolta del secolo non produsse nessuna reale novità. Una storia politica dell’Ottocento può cominciare con la Rivoluzione francese e terminare con il 1914, e spostamenti analoghi saranno concessi senza difficoltà alle storie delle arti o della filosofia, che sono non meno della storia politica un cammino le cui svolte possono non coincidere, e anzi quasi mai coincidono, con quelle preordinate dal calendario. Ma chi comincia a percorrere la storia dell’estetica italiana del Novecento può evitare una volta tanto queste precisazioni e questi spostamenti di date, perché l’estetica italiana del nostro secolo nasce davvero nell’anno 1900, nel senso che in quell’anno si produce un avvenimento che segna con la massima nettezza una trasformazione profonda, una frattura con il passato e l’avvio di una stagione culturale nuova. 10

Nella primavera del 1900 Benedetto Croce legge all’Accademia Pontaniana di Napoli le sue Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, che vengono stampate nel maggio dello stesso anno. Accompagnate da un’ampia Parte storica, la prima storia generale dell’estetica scritta in lingua italiana, e profondamente rimaneggiate, le Tesi diventeranno due anni dopo l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale pubblicata dall’editore Sandron di Palermo. Il volume andrà incontro a una fortuna rapida e durevole; attraverso di esso passerà, in grandissima parte, la penetrazione della filosofia crociana nella cultura italiana del primo quindicennio del secolo, e anche quando la figura di Croce verrà ad assumere il ruolo di punto di riferimento etico-politico, dopo l’avvento del fascismo, l’estetica continuerà a essere il lato della sua filosofia più familiare al grande pubblico, più seguito nelle scuole, più ripetuto e inevitabilmente anche più banalizzato. L’estetica crociana fu in Italia, per lungo tempo, l’estetica per antonomasia; il volume del 1902, passato nel 1908 a Laterza, conobbe una serie ininterrotta di riedizioni per un cinquantennio; prontamente recensito in Italia e all’estero, tradotto quasi subito in francese e tedesco, poco dopo in inglese e spagnolo, e poi in moltissime altre lingue, ebbe una risonanza internazionale superiore a quella di qualsiasi altra opera della moderna filosofia italiana. Inoltre l’estetica crociana non ha agito, in Italia e all’estero, soltanto sul piano filosofico, nel qual caso la sua diffusione sarebbe stata più circoscritta; essa ha operato anche attraverso la critica letteraria di Croce stesso: la rapida affermazione dell’estetica crociana nei primi anni del secolo fu propiziata più dal consenso che essa incontrò presso i critici letterari che da quello suscitato presso i filosofi, e anche successivamente rimase vero che, nel complesso, la cultura artistico-letteraria fu più crociana di quanto lo fosse, 11

comparativamente, quella filosofica. Qualcosa di simile avvenne del resto anche in campo internazionale, perché è sì vero che l’estetica crociana influì direttamente su filosofi e teorici come Collingwood e Carritt, ma è anche vero che l’azione più costante e duratura, oltre che più immediata, la ebbe attraverso l’opera di critici della letteratura, come Spingarn negli Stati Uniti e Vossler in Germania, o figurativi, come von Schlosser in Austria. Se la rapidità con la quale la prima estetica crociana si diffuse nella cultura italiana di inizio secolo costituisce già da sola un buon motivo per far coincidere l’avvio della nostra esposizione con la prima uscita a stampa delle Tesi, che di lì a poco diventeranno l’Estetica, la fortuna internazionale subito arrisa a quell’opera consente di notare fin da ora qualcosa circa l’altra delimitazione, questa volta non cronologica ma geografica, che la caratterizza: il suo essere, cioè, una storia dell’estetica italiana. È fin troppo ovvio che le partizioni per nazionalità o per lingua hanno, nella cultura filosofica, ancor meno significato di quello, già opinabile, che rivestono in altri campi della cultura; anche perché la circolazione delle idee è così intensa nella filosofia europea che veramente ricercare in essa dei caratteri nazionali è, oltre che sviante, difficile. Nessun dubbio, insomma, che l’estetica italiana non sia più italiana di quanto sia, di volta in volta, tedesca, francese, inglese, e che dunque l’aggettivo ‘italiana’ serva qui come mero indice pratico, atto a segnalare al lettore che in questa storia si parlerà di autori nati o vissuti in Italia, e che in lingua italiana hanno scritto le loro opere, salvo poi mostrare, tutte le volte che sarà necessario, come essi abbiano utilizzato apporti provenienti da altre tradizioni filosofiche. Ma detto questo, non ne segue affatto l’impossibilità di notare che proprio attraverso la circolazione internazionale della filosofia crociana è accaduto che un’estetica elaborata in 12

Italia avesse, caso assai raro nella storia del pensiero moderno, un forte impatto anche fuori dai nostri confini; o che la tradizione degli studi filosofici di estetica si è mantenuta in Italia, dopo Croce, più ricca e più intensamente coltivata rispetto a quanto può essere accaduto in altre tradizioni di ricerca. Da questo punto di vista diventa possibile affermare che una storia dell’estetica italiana del Novecento si annuncia più significativa e più organica di quanto sarebbe un’analoga indagine portata, mettiamo, sul secolo precedente e perfino sul Settecento. Si potrebbe ancora osservare che la scelta di cominciare dall’inizio del secolo rappresenta una presa di posizione troppo secca, che la fortuna travolgente dell’estetica crociana può suggerire ma non giustificare del tutto; di più: si può dire che, così facendo, ci si uniforma proprio al canone storiografico messo in circolazione dalla nuova filosofia dell’idealismo, che svalutando i precedenti del tardo Ottocento, e liquidando la tradizione positivistica, metteva in risalto la propria funzione innovatrice. Ed effettivamente quel canone interpretativo è stato più volte revocato in dubbio, facendo notare come non tutto nella filosofia italiana del secondo Ottocento fosse stanca ripetizione o meccanica applicazione. Senonché, quello che è stato tentato per altri settori della ricerca filosofica si rivela impresa difficile e pressoché disperata nel campo dell’estetica. È molto improbabile che l’hegelismo immaginoso di Antonio Tari (che tenne la cattedra di estetica all’Università di Napoli dopo l’Unità) o quello esangue di Niccolò Gallo (autore del volume La scienza dell’arte, 1887), che il positivismo facile e divulgativo di Paolo Mantegazza (il cui Epicuro. Saggio di una fisiologia del Bello usciva nel 1891) o quello professorale e verboso di Mario Pilo (L’estetica psicologica, 1892; Estetica, 1894) si rivelino anche al più benevolo indagatore per più di quello 13

che sono, ossia episodi epigonali, ripetizioni talora estrose, come in Tari, ma prive di ogni funzione propositiva, o che si possa rintracciare vera serietà speculativa nell’estetismo misticheggiante di Angelo Conti (La Beata Riva, 1900). Perfino l’episodio più rilevante su di un piano europeo, la metodica per la storia dell’arte teorizzata da Giovanni Morelli (Della pittura italiana, 1897), al di là del significato importante che essa riveste nella storia dell’attribuzionismo, non è, sul piano delle tematiche più strettamente teoriche, altro che una ripresa schematica dell’idea, corrente in tutto il positivismo, del condizionamento etnico-geografico delle produzioni artistiche. In ogni caso, e quale che sia il valore intrinseco di questi tentativi, resta il fatto, decisivo nei riguardi presenti, che l’estetica crociana non sentì il bisogno di definirsi rispetto a questi predecessori, e che anche il confronto della nuova filosofia con il positivismo passò per altre strade, che furono, a conferma di quanto abbiamo appena detto circa il significato tutto relativo delle delimitazioni nazionali in questa materia, piuttosto europee (soprattutto tedesche) che italiane. 1.1. La genesi dell’estetica crociana Attraverso gli scritti autobiografici di Croce possiamo ricostruire con molta precisione le date della composizione dell’Estetica. Nel Curriculum Vitae vergato nell’aprile del 1902 si legge: «Da novembre 1898, con pochi intervalli e con lunghi periodi di attività continua, nell’inverno 18981899, dall’autunno 1899 fino all’estate 1900, e poi di nuovo dal giugno 1901 al dicembre dello stesso anno ho lavorato alla mia opera sull’Estetica, ora prossima ad uscire in luce». Gli epistolari crociani, in particolare il carteggio con Giovanni Gentile, offrono ulteriori testimonianze. Il 10 agosto 1899 Croce scriveva: «mi trovo ora tutto immerso nel mettere insieme l’ossatura del mio libro di Estetica»; nel 14

marzo dell’anno seguente comunicava di stare dando «l’ultima mano alla parte teorica» per farne la memoria letta alla Pontaniana; nell’ottobre del 1901 avvertiva di aver redatto quasi tutta la Parte storica: «Ma vedete un po’ cosa vuol dire la vita tranquilla: dal 17 Agosto al 3 Ottobre mi è stato possibile scrivere 700 pagine»1. Esaustive sul piano della genesi materiale dell’opera, le date della stesura non riguardano, va da sé, la formazione del pensiero crociano sull’estetica, per intendere la quale è necessario spostarsi alquanto più indietro, fino a risalire per lo meno alla memoria del 1893 La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte2. Gli inizi di Croce furono, come noto, di erudito cultore di storia locale. Negli anni dal 1886 al 1892, egli compose gran parte dei saggi successivamente raccolti nei volumi sulla Rivoluzione napoletana del 1799, sui Teatri di Napoli, sulle Storie e leggende napoletane, su La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza. È Croce per primo, nel Contributo alla critica di me stesso, a spiegare chiaramente come dall’insoddisfazione per la mera erudizione e dai dubbi nati in seno a quelle ricerche egli fosse spinto a studiare questioni di metodo e di teoria storiografica, e a ricollegarle con l’interesse per la teoria dell’arte, manifestato precocemente ma senza che gli fosse riuscito di svilupparlo in modo organico. Ed è ancora Croce a dirci come la soluzione raggiunta nella memoria del 1893 circa il nesso della storia con l’arte gli si manifestasse quasi come un’illuminazione improvvisa, come la sensazione di aver raggiunto per la prima volta una veduta feconda e carica di implicazioni per la sua futura attività: «Dopo lunghe titubanze e una serie di soluzioni provvisorie […], meditando intensamente un giorno intero, alla sera abbozzai una memoria col titolo: La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, che fu come una rivelazione di me a 15

me stesso»3. Il ricongiungimento del problema della storia a quello dell’arte prendeva la forma, che anche in seguito sarebbe spesso riaffiorata in snodi essenziali del pensiero crociano, della ‘riduzione’ (la Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, del 1907, o la ‘riduzione’ della linguistica generale all’estetica operata nell’Estetica). Croce fissava la forma di un’attività spirituale, l’arte, per mostrare poi come un’attività solitamente considerata diversa e autonoma, la storia, si svelasse, nella sua più intima natura, nei principi che la rendevano possibile, non essenzialmente distinta da quella. Ma – e questo si sarebbe rivelato decisivo per tutti gli sviluppi successivi dell’estetica crociana – la storia veniva ricondotta all’arte, veniva mostrata l’identità dei principi a cui entrambe si riportano, in quanto innanzi tutto l’arte veniva pensata come conoscenza. L’arte è un conoscere: questa consapevolezza, che sarà ribadita proprio nell’incipit dell’Estetica del 1902 – e che resterà ferma lungo tutto l’arco della speculazione crociana, anche se alcuni degli sviluppi successivi tenderanno a metterla in ombra –, va sottolineata subito come uno dei tratti più caratteristici dell’estetica crociana, e questo sia perché è solo tenendola presente che si potranno capire molte delle critiche che verranno rivolte a quell’estetica, sia perché essa è veramente un punto di orientamento decisivo per la nascita della filosofia crociana. Affermando il carattere conoscitivo dell’arte Croce si trovava ad afferrare il bandolo che non solo gli permetteva di riunire l’arte alla storia («l’arte è rappresentazione della realtà»4, e rappresentazione della realtà è anche la storia), ma, quel che più importa, gli consentiva di prendere posizione contro le concezioni del fenomeno artistico dominanti nella seconda metà dell’Ottocento, e di segnare immediatamente la sua distanza dal positivismo. Che l’arte sia conoscenza significa infatti, e anche questo processo di esclusioni successive è un 16

tratto che resterà caratteristico del procedimento crociano, che essa non è mero piacere sensibile, non è riducibile a puri rapporti formali, e non è nemmeno interpretabile come esposizione di verità morali o metafisiche5. Per intendere quest’ultimo punto è necessario tenere presente che il conoscere di cui Croce parla a proposito dell’arte è nettamente diverso, e anche questa distinzione risulterà decisiva nell’Estetica, dal conoscere scientifico. La scienza è elaborazione di concetti, costruzione di classi, ordinamento dei fatti; l’arte – ed ecco aperta la strada per collegarla alla storia – è apprensione del fatto nella sua individualità. Non ogni conoscere è conoscere scientifico: non ogni Wissen, ogni sapere, scriverà Croce sforzandosi di sintetizzare la sua posizione, è Wissenschaft, scienza6. A suo agio nel fissare la coincidenza essenziale della storia e dell’arte, mercé la loro riconduzione alla stessa «forma della mente umana»7, e già per nulla titubante nel segnare confini netti alle singole attività spirituali («O si fa scienza, dunque, o si fa arte. Sempre che si assume il particolare sotto il generale, si fa scienza; sempre che si rappresenta il particolare come tale, si fa arte»8), la memoria giovanile di Croce si mostrava assai meno sicura quando, una volta operata la riduzione sul piano della fondazione filosofica, si trattava di indicare la differenza relativa di storia e arte. Poiché la distinzione non poteva collocarsi sul piano delle forme, diventava necessario recuperarla su quello dei contenuti, opponendo il conoscere di quel che è meramente possibile (l’arte) al conoscere di quel che è realmente accaduto (la storia). Per questa via Croce si imbatteva in un altro dei problemi di fondo dalla cui elaborazione nacque la sua estetica, quello della relazione di forma e contenuto nell’arte, ma né arrivava a una soluzione soddisfacente nel caso dell’arte (sarà questo uno dei punti su cui più dibatteranno, negli anni successivi, Croce e 17

Gentile), né riusciva a spiegare in modo convincente perché la storia avesse a che fare con il reale piuttosto che con il possibile, dato che questa distinzione non poteva prendere corpo nel conoscere puramente rappresentativo dell’arte. Le relazioni tra storia e arte avrebbero occupato a lungo Croce, che ancora nell’Estetica offriva una soluzione provvisoria, e che solo con la Logica del 1909 riterrà di essere giunto a una posizione soddisfacente. I problemi che la memoria del 1893 lasciava aperti, tuttavia, erano certo importanti per l’evoluzione successiva di Croce, ma assai meno per la ricezione immediata del suo scritto, il quale suscitò una certa eco soprattutto per la netta presa di posizione anti-positivistica che implicava la riconduzione della storia all’arte, anziché alla scienza come un positivista si sarebbe aspettato. Croce faceva il suo ingresso sulla scena culturale nazionale presentandosi come avversario della cultura dominante e mostrando subito quel piglio polemico che non sarà una delle minori ragioni della popolarità che egli seppe rapidamente conquistarsi. Lo scritto crociano successivo, però, cioè l’opuscolo su La critica letteraria, ha un andamento insolitamente descrittivo. Croce si pone di fronte ai vari lavori che sono possibili sul testo letterario, con l’intento di registrare i loro differenti compiti, come segnala già la definizione singolarmente ‘aperta’ degli studi letterari che egli utilizzava («la somma o il complesso di lavori che si riferiscono all’opera letteraria»)9. Il saggio prende atto della dilatazione del termine ‘critica’ dal giudizio di valore strettamente inteso all’insieme delle operazioni possibili sul testo letterario; raduna sotto l’etichetta di ‘filologia’ i lavori che si compiono sui testi nella loro materialità, separa la teoria letteraria, qui identificata senz’altro con l’estetica, dai lavori rivolti all’esposizione, alla valutazione, alla storia; riconduce a una di queste tre attività gli altri modi di comportarsi di 18

fronte all’opera letteraria (critica delle fonti, critica comparata, biografia ecc.)10. A causa di questa sua impostazione, lo scritto su La critica letteraria sembrerebbe poco adatto a fornire elementi illuminanti per comprendere l’evoluzione successiva di Croce. Di fronte a esso, il primo impulso è quello di notare le differenze tra le soluzioni adottate da Croce nel 1894 e quelle cui approderà in seguito. Non mancano, però, indicazioni preziose. Quella più significativa è costituita dall’attribuzione di un ruolo di primissimo piano a Francesco De Sanctis, in un momento in cui il predominio della cosiddetta ‘scuola storica’ (D’Ancona, Bartoli e Rajna) e del gruppo di studiosi raccolti a Torino attorno al «Giornale Storico della Letteratura Italiana» (Renier, Novati, Graf) tendeva a mettere in ombra la figura dell’autore della Storia della letteratura italiana. Croce, che di lì a poco si farà editore e curatore di molti scritti di De Sanctis e troverà in lui non solo il modello per la propria critica letteraria, ma anche una serie di risposte a problemi teorici, primo fra tutti quello del rapporto di forma e contenuto nell’opera d’arte, difende De Sanctis da chi lo accusa di insufficiente preparazione filologica e documentaria. La posizione di Croce nei confronti degli esponenti della ‘scuola storica’, e quindi del genere di critica letteraria più accreditato negli ultimi decenni dell’Ottocento, non deve essere tuttavia fraintesa. Se l’opposizione tra una ‘critica storica’ e la ‘critica estetica’ che seguirebbe dalla teoria crociana divenne un vero luogo comune all’inizio del secolo, si deve però precisare che Croce, il quale ebbe con alcuni esponenti della ‘scuola storica’ rapporti assai cordiali, e che per la propria storia personale poteva considerasi un adepto del metodo erudito, tese a respingere la falsa alternativa tra un giudizio storico e un giudizio estetico che potrebbe fare a meno dell’indagine 19

filologica. L’atteggiamento di Croce nei confronti degli studiosi della ‘scuola storica’, insomma, non può essere in alcun modo assimilato a quello manifestato da Croce nei confronti dei teorici del positivismo, come prova tra l’altro un saggio del 1911 (la data è significativa, perché mostra come Croce volesse prendere le distanze dalle interpretazioni corrive della sua ‘critica estetica’) in cui egli si presenta sì come un «ribelle» che ha combattuto per una «critica superiore», ma un ribelle «che è stato un tempo tra i più modesti gregari di quel movimento», e intende ora «riconoscerne l’alto merito e render[gli] il dovuto omaggio»11. Un altro punto nel quale lo scritto su La critica letteraria si mostrava proiettato verso gli sviluppi futuri è costituito dai richiami di Croce alla necessità degli studi teorici nel campo della critica d’arte, e dalle congiunte doléances circa lo stato degli studi di estetica in Italia. Il limite maggiore della critica vigente era individuato nella «trascuranza dei problemi teorici». «Il più completo abbandono regna sempre nel campo dell’estetica»: è in tale campo, dunque, che occorre lavorare, ricollegandosi alla grande tradizione storica di Leibniz, Baumgarten, Kant. Pur non andando ancora al di là di una genealogia, Croce delineava già un programma: «C’è molto da aspettarsi da un lavoro rivolto segnatamente intorno a questi due punti: a sbandire, cioè, dall’estetica una serie di concetti, che vi si sono introdotti, e che all’estetica sono affatto estranei e mantengono con la loro presenza una confusione invincibile; e a trarre il concetto dell’arte e del bello fuori dai confini, in cui l’uso linguistico l’ha arbitrariamente circoscritto, riconoscendo la connessione intima dei cosiddetti fatti estetici e artistici con gli altri della vita dello spirito»12. 1.2. La grande «Estetica»: la parte costruttiva 20

Questo programma, così chiaramente scandito in una parte propositiva, affermativa, e una polemica, negativa, corrisponde in effetti molto da vicino alla struttura che prenderanno prima le Tesi e poi l’Estetica, perché in esse ai capitoli costruttivi se ne alternano altri, più numerosi, il cui compito è quello di eliminare dall’orizzonte dell’estetica problemi che Croce ritiene non rientranti nella giurisdizione di tale scienza. Ancora molti anni dopo, nella Prefazione alla quinta edizione dell’Estetica (1922), sarà proprio a questo doppio movimento che Croce ricorrerà per riassumere il senso del lavoro compiuto in quell’opera: «Il nerbo di questa prima trattazione consisteva nella critica, da una parte, dell’Estetica fisiologica, psicologica e naturalistica in tutte le sue forme, e dall’altra dell’Estetica metafisica, con la conseguente distruzione dei falsi concetti, da esse foggiati o avvalorati, nella teoria e nella critica d’arte, contro i quali faceva trionfare il semplice concetto che l’arte è espressione»13. Croce, tuttavia, non passò subito a svolgere il programma delineato nello scritto del 1894. Negli anni dal 1895 al 1898, infatti, egli fu completamente assorbito da un ordine di studi del tutto diverso, nel quale si gettò quasi all’improvviso, infiammato dalla lettura di uno scritto su Marx di Antonio Labriola: gli studi di scienza economica, e in particolare quelli sull’economia marxiana. In breve tempo, Croce fu in grado di intervenire con autorevolezza nel dibattito sui fondamenti del marxismo che stava agitando l’Europa: le sue critiche alla teoria del materialismo storico, al concetto di plusvalore e alla connessa teoria del valore-lavoro, alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, e più in generale la sua riduzione della portata filosofica del marxismo a vantaggio dei suoi contenuti economici e sociologici, elaborate nei saggi poi riuniti nel volume Materialismo storico ed economia 21

marxistica14, fecero di Croce uno dei protagonisti della cosiddetta ‘revisione del marxismo’. Si sbaglierebbe, tuttavia, a pensare che si sia trattato semplicemente di una parentesi senza alcuna conseguenza sul sorgere dell’estetica crociana. Quando Croce nel 1898 torna agli studi estetici che aveva interrotto egli porta con sé una nuova consapevolezza filosofica, e uno sguardo assai più vasto sui problemi della filosofia. Attraverso gli studi economici, e soprattutto attraverso la riflessione sul problema del valore, Croce è stato indotto a risalire al di là della scienza economica in senso stretto, alla volta di una fondazione filosofica del valore stesso; e nel contempo è stato portato a riflettere sulla relazione tra l’attività economica e le altre attività umane, e a delineare uno schema o sistema di queste ultime. La prima conseguenza di questo stato di cose è che la filosofia crociana, e in primo luogo l’estetica, prende sempre di più la forma di una riflessione di tipo kantiano (nel senso del neo-kantismo tedesco di fine secolo, non più rivolto esclusivamente alle scienze della natura ma anche a quelle dello spirito), nella quale si ha di mira soprattutto la salvaguardia della distinzione tra le diverse sfere di attività umana, attuata attraverso la ‘fondazione’ di ognuna di esse in una categoria o forma della coscienza. Un passo di uno scritto economico del 1899 è in proposito molto eloquente: «Un’Economia,» – scrive Croce – «nella quale si prescinda dal valore, è una Logica in cui si prescinda dal concetto, un’Etica in cui si prescinda dalla obbligazione, un’Estetica in cui si prescinda dall’espressione»15. È un punto, questo, che occorre tenere ben presente, sia perché contrasta con la veduta molto divulgata di un Croce ‘neo-hegeliano’, sia perché fa luce sul contesto europeo nel quale la riflessione crociana si inserisce e dal quale trae ispirazione. Riguardo al primo aspetto, bisogna chiarire subito che l’incontro effettivo con 22

Hegel avverrà solo nel 1905-1906, dunque ben dopo che l’estetica crociana ha preso il suo impianto caratteristico di filosofia trascendentale (si parte da una attività – arte, filosofia, economia, morale – e si cercano le condizioni della sua possibilità): nell’orizzonte dell’Estetica Hegel svolge una funzione ben scarsa se non nulla. Riguardo al secondo, bisogna considerare che la filosofia crociana può essere letta sullo sfondo del ‘ritorno a Kant’ che avviene in Germania nell’ultima parte del secolo scorso, e si lega evidentemente al più generale processo di valorizzazione delle scienze dello spirito, in special modo quelle storiche, che ha tra i suoi protagonisti Dilthey, Rickert, Windelband. La cultura dalla quale Croce assimila gli spunti più vivaci è certamente quella tedesca, ma rispetto a essa egli non si comporta come mero ripetitore: lo sforzo di Croce è quello di offrire risposte personali a problemi avvertiti largamente nel dibattito europeo, e questo può contribuire a spiegare la risonanza internazionale delle sue opere. La seconda conseguenza importante è che Croce torna agli studi estetici, dopo quelli economici, con una visione assai più strutturata dell’insieme dei problemi filosofici. Ha maturato la consapevolezza che è impossibile affrontare la questione dell’estetica al di fuori di una filosofia generale, e che dunque per delineare la propria estetica gli occorre anche esporre le direttrici di un intero sistema filosofico. «Io mi son occupato finora di questioni filosofiche spintovi da un irresistibile bisogno intellettuale, ma un po’ occasionalmente», scrive a Gentile nel novembre 1898, annunciandogli l’intenzione di comporre un trattato per il quale «[gli] occorre di approfondire tutte le questioni filosofiche che hanno relazione con l’estetica, ossia tutta la filosofia»16. «Parlando con rigore» – scriverà poi nell’Estetica – «non vi ha scienze filosofiche particolari, che stiano da sé. La Filosofia è unità: e, quando si tratta di Estetica, o di Logica o di Etica, si tratta 23

sempre di tutta la filosofia»17. Di fatto, se si getta uno sguardo d’assieme sull’Estetica del 1902, utilizzando il sommario che precede l’opera, ci si accorge facilmente che per scrivere la propria estetica Croce ha dovuto tracciare l’intero disegno di quella che sarà la sua Filosofia dello Spirito. Croce inizia con lo stabilire il carattere conoscitivo dell’arte, identificando l’arte con la conoscenza intuitiva (capp. I e II): ma per far questo deve distinguere la conoscenza intuitiva da quella concettuale, e soffermarsi sul rapporto che intercorre tra le due forme della conoscenza, rapporto che in questi anni Croce pensa ancora come un doppio grado di implicazione, nel senso che l’intuizione può stare senza il concetto, mentre l’inverso non è vero, e il concetto elabora sempre intuizioni (cap. III). Segue la disamina degli errori che nascono dalla non chiara distinzione dei due gradi della conoscenza (capp. IV e V). Croce procede poi all’esame delle relazioni tra l’attività teoretica e le altre attività spirituali. Nel cap. VI distingue l’attività teoretica dalla pratica, produttrice di azioni e non di conoscenze, e come nella sfera teoretica aveva distinto due gradi (intuizione e concetto), così nella pratica distingue un primo grado (l’attività meramente utile o economica) da un secondo grado pratico (l’attività morale). Tra le due sfere, teoretica e pratica, esiste dunque una precisa corrispondenza: l’economica è come l’estetica della sfera pratica (cap. VII). Fissate così le quattro sfere dello Spirito (Estetica, Logica, Economia ed Etica, la trattazione delle quali, nel decennio successivo, Croce approfondirà mediante i volumi della Logica come scienza del concetto puro e della Filosofia della Pratica. Economica ed etica), l’Estetica prosegue negando che ve ne possano essere altre, il che significa che le altre attività (per esempio il fatto giuridico, la religione, la metafisica) possono essere riportate nei loro principi fondanti a una delle quattro categorie: il loro 24

principio è identico a uno di quelli appena visti: il diritto è essenzialmente attività economica, la religione o il mito attività conoscitiva, e così via (cap. VIII). I capitoli successivi, tranne il XVIII, dedicato ad argomentare l’identità di estetica e linguistica generale, che esamineremo più avanti, sono destinati o all’eliminazione dal campo dell’estetica di questioni a parere di Croce non pertinenti (capp. da IX a XV), o a corollari delle tesi precedentemente stabilite, quali l’identità dell’attività produttrice e di quella ricettiva dell’arte, di genio e gusto (cap. XVI), o al modo di trattare la storia letteraria e artistica (cap. XVII). Il fatto che la grande Estetica si configuri, anche nella sua materialità di testo, come un abbozzo di sistema, o come una prima formulazione di esso, ha delle ripercussioni molto importanti. Intanto ci permette di notare un aspetto singolare, e quasi paradossale, della ricezione di quest’opera da parte della cultura italiana. Un’opera che si presentava esplicitamente come inserita in una struttura sistematica (al punto da voler essere essa stessa una prima espressione di tale struttura) andò incontro a un’ampia diffusione innanzi tutto come opera singola, nel senso che per molti la conoscenza della filosofia crociana passò essenzialmente per l’Estetica. L’equivoco curioso, in base al quale all’estetica di Croce è stata negata proprio la filosoficità (sarà questo, vedremo, uno dei rimproveri correnti in ambito gentiliano, ma non solo in esso), nasce evidentemente da qui, ossia dallo scambio tra un’utilizzazione relativamente autonoma delle tesi dell’estetica crociana e il significato che esse rivestono quando vengano prese nel luogo dove propriamente si costituiscono, ossia all’interno della complessiva filosofia di Croce. Che Croce, poi, entrasse nella filosofia attraverso l’estetica, dunque seguendo un percorso che non ha quasi riscontro presso i grandi filosofi, se si esclude forse Nietzsche, non deve far pensare che la 25

sua sia una posizione estetizzante. In realtà, per Croce l’estetica ha sì un primato, diciamo così, euristico, nel senso che egli, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, estenderà il procedimento filosofico adottato nell’Estetica anche alle altre parti della sua filosofia, ma niente affatto nel senso che egli tenda a risolvere nell’attività estetica le altre attività spirituali: lo sforzo del sistema filosofico abbozzato nell’Estetica è semmai quello di tracciare nettamente i domini delle varie sfere e impedire che si sovrappongano l’una all’altra. Infine, la natura di sistema in nuce della prima estetica ha delle ripercussioni sul dettato stesso dell’opera, in quanto obbliga l’autore a un procedere schematico e a un tono apodittico. L’opera per certi versi più nota e citata di Croce non rende giustizia, insomma, alle grandi doti stilistiche che l’autore svilupperà in seguito, e che faranno di molti suoi scritti alcuni tra gli esempi più alti di prosa scientifica italiana, e non solo del nostro secolo. Quel che per ora ci interessa, tuttavia, è il significato che la costituzione del libro del 1902 come sistema filosofico riveste per l’articolazione della teoria estetica crociana. Da questo punto di vista è della massima rilevanza notare come la delimitazione o definizione dell’estetico avvenga in Croce per mezzo di una serie di sottrazioni successive: l’arte è altra cosa rispetto all’attività pratica, è altra cosa rispetto al conoscere logico, è altra cosa rispetto alla mera sensazione passiva. Per giungere ad afferrare l’arte Croce procede per viam negationis: ecco un esempio molto evidente del debito kantiano della prima estetica (anche Kant giunge a definire il piacere che dà il bello, nella prima parte della Critica del Giudizio, dicendo che bello è ciò che piace senza interesse, senza concetto, senza la rappresentazione di un fine). È questa, in definitiva, la vera ragione per la quale Croce ha dovuto sbozzare l’intera Filosofia dello Spirito per scrivere l’Estetica: egli doveva percorrere tutto l’arco delle attività 26

spirituali perché la sua concezione dell’attività estetica nasce dalla distinzione di essa dalle altre attività. Le successive esposizioni che Croce darà della propria teoria estetica renderanno più evidente questo procedimento. Nel Breviario di estetica composto nel 1912 e pubblicato nell’anno seguente, ad esempio, Croce metterà subito in chiaro che la sua definizione dell’arte come intuizione «attinge insieme significato e forza da tutto ciò che essa implicitamente nega e da cui distingue l’arte»18, e in modo molto simile il secondo paragrafo della Aesthetica in nuce scritta nel 1928 per la Encyclopaedia Britannica, esordisce dicendo che «con la definizione di intuizione lirica o intuizione pura l’arte viene implicitamente distinta da tutte le altre forme di produzione spirituale»19. Se il procedimento di avvicinamento all’arte attraverso l’accumularsi di distinzioni richiede, per essere afferrato, che si scenda al di sotto, per dir così, della conformazione di superficie del trattato del 1902, il suo effetto è invece sotto gli occhi di qualsiasi lettore: una fortissima affermazione dell’autonomia del fatto estetico, dell’irriducibilità dell’arte a una qualsiasi altra forma di attività. L’autonomia, infatti, si radica per Croce nella stessa struttura delle condizioni di possibilità del nostro agire: ottiene una fondazione sul piano trascendentale. L’arte non è conoscenza logica, non è attività pratica; è impossibile valutarla con il metro del giudizio morale o ridurla a strumento didascalico. Si può dissentire dal modo in cui Croce perviene a stabilire il principio dell’autonomia, e in effetti vedremo che alcune tra le posizioni più significative dell’estetica post-crociana faranno perno proprio su questo punto; ma è difficile negare che uno degli elementi che propiziarono il successo dell’Estetica sta proprio in questa appassionata rivendicazione dell’insostituibilità del momento estetico nell’ambito della nostra esperienza in genere, che veniva a essere sottolineata 27

con un’energia raramente raggiunta nella storia della estetica: tutto il volume finiva per costituirsi come dimostrazione ed esposizione di quell’assunto fondamentale. La tesi dell’autonomia traeva forza, naturalmente, anche dalle prese di posizione in positivo dell’Estetica. L’identificazione dell’attività estetica con un tipo di conoscenza, in linea con l’avvio del pensiero crociano nello scritto sulla Storia del 1893, ne faceva un momento necessario e sempre presente, una funzione non surrogabile e attiva in ognuno. È questo il senso della celebre formula crociana che proclama il carattere intuitivo dell’arte. Intuizione vuol dire apprensione immediata, opposta quindi all’elaborazione discorsiva dell’intelletto. È presenza di un contenuto ai nostri sensi: un’immagine, un colore, un suono, prima che sia intervenuta ogni organizzazione concettuale. Affermando l’identità di intuizione e arte, Croce si riallaccia al senso originario del termine estetica come scienza della sensibilità, che aveva segnato i suoi inizi moderni in Baumgarten, ma si ricollega anche all’Estetica trascendentale che apre la prima critica kantiana. Come l’intuizione kantiana, quella crociana è nettamente separata dal concetto e non distinta da esso meramente per grado di chiarezza, come avveniva invece nella tradizione leibniziana nella quale si muove Baumgarten; ma, a differenza dell’intuizione kantiana che necessita sempre dell’opera del concetto per produrre conoscenza, quella crociana è di per sé sola conoscenza, viva e presente conoscenza. L’intuizione crociana (l’introduzione del termine rappresenta una delle differenze più cospicue tra l’Estetica e le Tesi, che parlavano ancora di impressione) si distingue dalla percezione, che sta in un certo senso al di sopra di lei, perché priva affatto della possibilità di distinguere tra realtà e irrealtà dei suoi contenuti: essa è al di qua della distinzione tra verità e 28

falsità. Dall’altro lato l’intuizione si distingue però anche dalla sensazione, dalla semplice affezione procurataci da qualcosa di esterno. La sensazione, nel quadro fortemente kantiano del trattato del 1902, è un limite, un x che dobbiamo presupporre ma che, a rigore, non conosciamo mai, perché ciò che possiamo conoscere è la sensazione plasmata nell’intuizione: non si afferra mai la materia al di fuori della forma. Questo è un punto decisivo, perché avvia a farci comprendere il senso dell’altra nota formula crociana dell’identità di intuizione ed espressione. Se l’intuizione non è registrazione ma costruzione del dato esterno, se essa è forma e non materia, se è una attività sintetica, ancora in senso kantiano, ne segue che «lo spirito non intuisce se non facendo, formando, esprimendo»20. Intuire è lo stesso che esprimere, perché non si intuisce veramente che quando si forma l’immagine: a torto quindi si ritiene comunemente di avere delle intuizioni profonde e di non saperle esprimere. La differenza tra il grande ritrattista che coglie gli aspetti più segreti di un volto e l’uomo comune non sta nell’abilità tecnica del primo a fissare ciò che ha visto, ma nel fatto che l’artista ha visto di più, e meglio, così come nessuno pensa di possedere un motivo musicale se non è in grado di cantarlo o suonarlo. Non meno radicali sono i corollari che si ricavano da queste premesse. Se l’intuizione è formazione che trasfigura interamente il contenuto – al punto che non ha significato parlare di una sensazione al di fuori dell’intuizione se non come limite negativo –, allora nell’intuizione-espressione, e dunque nell’arte, non c’è passaggio dalle qualità del contenuto a quelle della forma: «L’atto estetico è perciò forma, e nient’altro che forma»21. Tutte le sensazioni o impressioni possono entrare nelle espressioni estetiche, ma non vi entrano più come sensazioni: ne segue che non solo impressioni uditive e visive, ma anche tattili e olfattive 29

possono costituire la materia dell’intuizione-espressione. Ma, soprattutto, tutte le intuizioni sono arte: la differenza tra le intuizioni dell’uomo comune e quelle dell’artista non è una distinzione di natura, di genere, di qualità, ma una distinzione di grado, di quantità, di estensione. Il discrimine tra le espressioni che chiamiamo ‘arte’ in senso eminente e le espressioni ‘comuni’ non è relativo alla funzione che esse compiono nell’economia spirituale: non è un discrimine tracciato sul piano delle condizioni trascendentali, ma su quello empirico. «L’avere staccato l’arte dalla comune vita spirituale, l’averne fatto non si sa qual circolo aristocratico o quale esercizio singolare, è stata fra le principali cagioni che hanno impedito all’Estetica, scienza dell’arte, di attingere la vera natura, le vere radici di questa nell’animo umano»22. Tenendo presenti queste affermazioni, si capisce come l’Estetica crociana si prestasse a essere accolta come definitiva eversione di ogni precettistica, di ogni gerarchia precostituita, di ogni canone tradizionale: «Un epigramma appartiene all’arte: perché no una semplice parola? Una novella appartiene all’arte: perché no una nota di cronaca giornalistica? Un paesaggio appartiene all’arte: perché no uno schizzo topografico?»23. L’estetica crociana agiva, in questo senso, come impulso liberatorio, ma si candidava anche a entrare in conflitto, come vedremo, con la critica effettivamente praticata da Croce e con il gusto di cui egli era portatore: la teoria sembrava autorizzare un’assoluta libertà di forme espressive in accordo con molte tendenze dell’arte contemporanea, delle quali però sul piano critico Croce fu sempre avversario. Cadeva ogni possibilità di stabilire dei criteri oggettivi di bellezza al di fuori del nesso di intuizioneespressione, perché per Croce la bellezza non è altro che espressione riuscita; e cadeva la distinzione di principio o di essenza tra attività produttrice e attività ricettiva, tra genio e 30

gusto. Giudicare un’opera d’arte, per il Croce dell’Estetica, equivale a riprodurla, e questa riproduzione non potrebbe avvenire se le due attività fossero costitutivamente, e non solo quantitativamente, diverse24. Poiché l’indistinzione di realtà e possibilità veniva riconosciuta come uno dei caratteri salienti del conoscere intuitivo, diventava estremamente difficile mantenere ferma la riconduzione della storia sotto il concetto generale dell’arte dalla quale Croce aveva preso le mosse. Le pagine del terzo capitolo dell’Estetica in cui Croce riprende la questione sono, nella redazione del 1902, tra le meno limpide dell’opera, e furono ampiamente rimaneggiate in occasione dell’edizione del 1908, nel tentativo, in sostanza disperato, di adeguarle in qualche modo alla veduta, alla quale Croce era ormai pervenuto, dell’identità di storia e filosofia. Croce inizia ribadendo la tesi del 1893, ma poiché ha stabilito che il giudizio sulla realtà o irrealtà dell’intuizione non può accadere all’interno dell’intuizione stessa, è poi costretto ad ammettere che la storia, la quale adopera i concetti di reale e irreale, si spinge già oltre l’intuizione, e che con essa entriamo «in uno stadio ulteriore»25; è costretto cioè a fare della storia una sorta di attività secondaria o mista, nascente dall’intersezione tra intuizione e concetto, molto poco in accordo con la netta separazione delle sfere spirituali da lui altrimenti propugnata. Queste oscillazioni tornavano, si può dire potenziate, nel capitolo in cui Croce affrontava il problema della storia letteraria e artistica. Non solo questa era vista, analogamente alla storia in genere, come un’attività ulteriore rispetto al giudizio e alla critica estetica, ma egli andava a impelagarsi in una rischiosa discussione circa la possibilità di riconoscere un ‘progresso’ nell’arte. Pur negando che si potesse trattare di un progresso lineare o continuo, quale si può avere nelle scienze, era portato ad 31

ammettere che «del criterio del progresso la storia artistica e letteraria, come ogni altra storia, non può far di meno»26. Poteva però trattarsi di un progresso interno a determinati cicli, e non estensibile al di fuori di essi. L’unità del ciclo era data, in disaccordo con le premesse crociane, dalla materia comune: così rispetto alla materia cavalleresca poteva parlarsi di un progresso dal Pulci all’Ariosto. Si trattava di soluzioni incerte e provvisorie, che in seguito Croce avrebbe radicalmente mutate. Su di un altro punto, invece, le posizioni raggiunte nell’Estetica rimarranno sostanzialmente stabili. Fissato il carattere teoretico dell’attività estetica, e distinta da essa ogni attività pratica, Croce proclamava estraneo al nesso spirituale di intuizione ed espressione ogni processo di fissazione materiale, fisica, delle espressioni. Una volta raggiunta l’espressione adeguata a una data intuizione, la registrazione di essa mediante segni o supporti diventava un’attività aggiuntiva, priva di rilievo che non fosse pratico o utilitario. L’opera d’arte è, sostanzialmente, l’immagine interna prodotta dall’artista e riprodotta dal fruitore, mentre l’oggetto bello (la statua di marmo, la tavola o la tela sulla quale sono fissati i pigmenti) è un semplice ausilio alla comunicazione. A maggior ragione, non è possibile parlare di una bellezza naturale, se non nel senso che un bel paesaggio o una cosa bella di natura possono essere occasione per un’esperienza estetica, che tuttavia nasce dal soggetto e nel soggetto si compie. Il bello naturale è semplice stimolo alla riproduzione estetica27. Alla tecnica artistica viene negato ogni rilievo estetico. Essa attiene all’estrinsecazione, alla registrazione di stimoli esterni indirizzati a permettere la riproduzione dell’esperienza estetica. Si può essere un buon pittore e scegliere colori deperibili, saper modellare una buona creta e non saperla poi fondere bene in bronzo. Croce si muove qui su di un crinale sottile, e la sua 32

posizione si presterà a molti fraintendimenti. Certamente egli non sostiene che si possa essere un buon disegnatore senza saper disegnare, o un buon colorista senza conoscere il chiaroscuro. La tesi dell’identità di intuizione ed espressione dovrebbe sufficientemente garantirlo. Ma altrettanto certamente, Croce tende a far slittare la situazione accertabile nel caso delle arti che si servono di una notazione per segni (poesia, musica) su quella delle arti che non possono farlo (pittura, scultura), ponendo un’eguaglianza troppo stretta fra trascrizione di un’espressione in tutto compiuta e fissazione di un’espressione la cui compiutezza non è mai accertabile al di fuori dell’estrinsecazione. Più in generale, sarà il senso stesso dell’identificazione di intuizione ed espressione a rivelarsi, nella ricezione del pensiero crociano, strutturalmente ancipite: da un lato tale identificazione sembra autorizzare e quasi richiedere una critica interamente risolta nella considerazione del dato espressivo, stilistico, dall’altro invece – e proprio in accordo al modo crociano di fare critica – sembra rendere superflua proprio tale analisi, in virtù dell’asserita indistinguibilità dell’espressione dall’intuizione. 1.3. La grande «Estetica»: la parte polemica Da ognuno dei teoremi che l’Estetica veniva fissando Croce ricavava, secondo un abito cui resterà fedele in tutte le sue opere teoriche, una serie di critiche e polemiche verso dottrine preesistenti. La negazione del «bello fisico», ad esempio, gli offriva l’occasione per confutare le disquisizioni sulla bellezza di piante e animali che poteva trovare in Rosenkranz, Vischer, Tari, ma anche i tentativi di una estetica empirica, dal basso, compiuti in Germania da Fechner, o la pretesa di fissare dei criteri per la bellezza del corpo umano. Ma, come abbiamo visto, la parte 33

negativa e polemica del trattato del 1902 è cosi estesa che non può affatto essere spiegata come semplice dilucidazione per contrasto dei risultati positivi raggiunti, come mera conseguenza dell’abitudine di Croce a non sottrarsi mai alla polemica quando se ne offriva l’opportunità. In realtà il numero e la portata delle eliminazioni crociane nel campo della teoria estetica è tale – ricordiamo solo quelle più importanti, quelle che maggiormente colpirono i contemporanei e che sono rimaste anche in seguito legate al nome di Croce: critica dei generi letterari; delle figure retoriche; delle categorie estetiche quali sublime, tragico, umoristico ecc.; della partizione e della classificazione delle arti – che esse devono per forza essere espressione di un’esigenza profonda della filosofia crociana, legarsi a un suo movimento necessario. Alla radice della posizione crociana non c’è infatti soltanto la volontà di fondare l’attività artistica su di un piano trascendentale, mostrando l’universalità e l’onnipresenza della categoria-principio; c’è anche, altrettanto forte e indissolubilmente legata a quel primo aspetto, una rivendicazione nettissima dell’infinita diversità e varietà dei fatti artistici, dell’irriducibile individualità degli atti espressivi. Per Croce, e anche questo è un tratto che lo apparenta chiaramente alla reazione antipositivistica che percorre l’Europa all’inizio del secolo, quel che veramente importa non è ciò che nella natura e nella cultura si ripete, le leggi, le regolarità; anzi, leggi e regolarità propriamente non vi sono, perché nulla si ripete nel mondo spirituale. La filosofia è chiamata innanzi tutto a salvaguardare ed esprimere l’inesauribile diversità del reale. Il riconoscimento della natura individuale del conoscere estetico dimostra qui una sua ulteriore motivazione, perché attraverso di essa si manifesta quella volontà di non falsificare in nessun modo la peculiarità di ogni singolo accadimento che poi Croce porterà all’interno stesso della 34

sua logica e che sarà la vera matrice dell’identità di filosofia e storia successivamente proclamata. Si comincia a scorgere, da qui, la ratio che sostiene le eliminazioni crociane: per Croce si dà o l’universalità del principio-categoria, o la particolarità del singolo atto; tutto ciò che è intermedio, tutto ciò che generalizza senza universalizzare, tutto ciò che astrae non ha nulla a che fare con la vera conoscenza dei fatti, è al massimo espediente utilitario, ripiego necessario per orientarsi, ma a patto che lo si abbandoni se si vuol veramente penetrare nella realtà. Si tratta di un aspetto decisivo, sul quale bisogna fermare l’attenzione. Da esso infatti scaturisce un lato estremamente caratteristico dell’Estetica del 1902, la quale sulle questioni dei generi letterari, della classificazione delle arti, delle figure retoriche ecc. non tanto mette capo a soluzioni diverse di problemi tradizionali, quanto nega il sussistere stesso di quei problemi, bandendo dalla teoria estetica le discussioni relative. Si trattava non di offrire loro risposte nuove, ma, come Croce si esprimerà molti anni dopo, di strappare dal campo dell’estetica «la gramigna e le erbacce»28. Il risultato era l’uscita dall’orizzonte della teoria di gran parte della materia tradizionale che aveva occupato i trattati di estetica nella forma codificata che essi avevano preso nella Germania del secondo Ottocento, il che spiega come la reazione di molti studiosi professionali di estetica fosse, di fronte all’opera crociana, di sconcerto e anche di irritazione, come se si sentissero defraudati di un patrimonio che ritenevano pacificamente acquisito. Quel che accadeva veramente era però qualcosa di più radicale: l’estetica usciva dal recinto scolastico nel quale viveva o sopravviveva come disciplina speciale, per ricollegarsi nel modo più pieno alla filosofia in quanto tale, per riprendersi come filosofia tout court e riconquistare di colpo il collegamento con la grande tradizione filosofica dalla quale 35

l’estetica moderna era nata. Il senso della Parte storica dell’Estetica, al di là dei limiti che essa evidenziò in seguito, anche agli occhi di Croce, il motivo che spingeva Croce a ripensare l’intero cammino della storia dell’estetica vanno probabilmente ricercati in questi paraggi29. Una riprova di tutto ciò si può avere se si considera la funzione che le critiche ai generi, alla classificazione delle arti, alle categorie estetiche ebbero nella formazione stessa della filosofia crociana, nel costituirsi della sua struttura. Lungi dal trattarsi di un episodio isolato, quelle critiche mostrano infatti il processo lungo il quale prese corpo uno dei motivi centrali della filosofia crociana, la distinzione tra concetto puro o categoria e concetto empirico o pseudoconcetto, vera struttura portante della logica crociana. A torto si ritiene di solito che la nozione di pseudo-concetto nasca in Croce successivamente, attraverso la riflessione da un lato sulla filosofia hegeliana, dall’altro sugli epistemologi convenzionalisti. Questi stimoli agirono senz’altro sul pensiero di Croce, ma proprio perché trovarono il terreno preparato dalle critiche elaborate nel campo dell’estetica. Sarà Croce stesso a riconoscerlo. Nel Contributo alla critica di me stesso scriverà: «Ma fu nell’aspro travaglio che […] mi costò l’Estetica che […] superai la trascendenza naturalistica attraverso la critica che venni irresistibilmente compiendo dei generi letterari, della grammatica, delle arti particolari, delle forme retoriche, toccando quasi con mano come nello schietto mondo spirituale dell’arte si introduca la ‘natura’, costruzione dello spirito stesso dell’uomo; e negata realtà alla natura nell’arte, mi spianai la strada a negargliela dappertutto, scoprendola dappertutto, non come realtà ma come prodotto del pensiero astraente»30. Il metodo che regge le eliminazioni crociane nel trattato del 1902, insomma, è già incamminato sulla strada che di lì a poco passerà per la distinzione tra concetto puro e pseudo36

concetto: si afferma la categorialità del conoscere estetico, ossia lo si fonda in una funzione trascendentale, in una forma spirituale, e correlativamente si pone l’accento sull’infinita varietà dei fatti estetici, dichiarando tutte le teorizzazioni che procedono per astrazioni, che producono concetti di genere, concetti empirici, da un lato incapaci di attingere un piano di universale validità, dall’altro condannate a falsificare la singolarità irripetibile dei fatti. È per questo che a Croce riesce sempre molto agevole la riformulazione delle critiche elaborate nell’Estetica nella nuova terminologia fissata negli scritti sulla logica. Non è solo per questo, tuttavia, che è utile, analizzando la struttura delle eliminazioni crociane, spingere subito lo sguardo anche al di là del trattato del 1902: le radicali negazioni dei generi, della partizione delle arti, della retorica resteranno infatti, anche nelle successive esposizioni che Croce darà della propria teoria, uno degli elementi caratterizzanti, e forse quello che più colpisce il lettore che si accosta all’estetica crociana provenendo da altre tradizioni di pensiero. Inoltre, per i motivi appena visti, le argomentazioni che Croce espone nella prima edizione dell’Estetica vengono quasi sempre messe a fuoco più chiaramente, riformulate e precisate di continuo almeno nell’arco di tempo che giunge fino alla composizione del Breviario, ossia al 1912. Nel caso, per esempio, della critica a quelli che Croce chiama «concetti pseudoestetici», ossia all’uso dei concetti di tragico, comico, umoristico, sublime ecc., si trovano varianti notevoli nelle prime tre edizioni dell’Estetica (1902, 1904, 1908) e nei piccoli scritti intermedi nei quali si torna ad affrontare l’argomento. Evidentemente, la questione rivestiva agli occhi di Croce un’importanza particolare, perché attraverso di essa doveva compiersi la critica a quello che egli considerava l’indirizzo 37

più significativo delle teorie estetiche di fine secolo: l’estetica dell’Einfühlung. I teorici dell’Einfühlung (termine che oggi traduciamo con ‘empatia’, mentre Croce usa piuttosto ‘simpatia’), i tedeschi Lipps, Volkelt, Groos, consideravano l’attività estetica come proiezione di contenuti psichici nelle forme sensibili, attraverso le quali essi potevano essere poi rivissuti, appunto ‘empaticamente’ o ‘simpaticamente’ dal fruitore. Gran parte delle loro opere, quindi, era occupata dall’analisi psicologica di tali contenuti, per esempio il patetico, il grazioso, il toccante, l’attraente e così via. Ora, Croce obietta che né è possibile fissare un numero determinato di concetti da definire, né è possibile giungere nei singoli casi a una definizione rigorosa. Quei concetti «non sono altro che una serie di classi, da potersi plasmare nel modo più vario e moltiplicare a libito, nelle quali si cerca di ripartire le infinite complicazioni e sfumature dei valori e disvalori della vita […]. Complicazioni infinite, perché infinite sono le individuazioni; onde non è possibile costruirne i concetti se non nel modo approssimativo che è proprio delle scienze naturali»31. Prendiamo ad esempio il caso dell’umorismo, al quale Croce dedica un intervento specifico nel 1903. La ricchissima varietà delle definizioni che ne sono state tentate è per Croce la conseguenza del fatto che ogni teorico «ha avuto l’occhio a uno o più scrittori determinati, e ha fissato il concetto dell’umorismo col generalizzare questa o quella qualità dalla quale era stato colpito»; se però si pensasse di ottenere una definizione onnicomprensiva semplicemente allargando la base di osservazione fino a comprendervi tutti gli scrittori umoristici, non resterebbe tra le mani che una determinazione troppo generica perché essa possa fare una qualunque presa sui singoli casi determinati. «Ciò vuol dire» – concludeva Croce – «che le definizioni dell’umorismo e di simili concetti debbono di 38

necessità essere vaghe e fluttuanti, perché, piuttosto che concetti rigorosi, sono aggruppamenti di rappresentazioni che ubbidiscono a fini pratici»32. Per il critico letterario non c’è l’umorismo, ma il singolo scrittore umoristico, con il suo accento inconfondibile. I concetti di umoristico, comico, sublime, tragico non sono per Croce di pertinenza dell’estetica, ma della psicologia, e questo proprio perché egli concepisce la psicologia come una scienza descrittiva, che mette capo non a principi rigorosi, ma a concetti empirici, quelli che Croce denominerà pseudo-concetti insistendo sul loro valore non conoscitivo ma pragmatico. «Come nelle scienze naturali, così nelle definizioni psicologiche entra sempre un alcunché di arbitrario e convenzionale; le loro formule verbali staccano con un taglio netto dei pezzi della realtà, che realmente sono congiunti a tutto il resto per continue finissime sfumature»33. Sono parole che mostrano chiaramente il sorgere dell’idea del carattere pratico dello pseudo-concetto nell’ambito delle riflessioni sull’estetica; al tempo stesso, però, esse dimostrano una notevole continuità con gli obiettivi che avevano guidato Croce negli anni di gestazione dell’Estetica. Già nelle Tesi del 1900, infatti, si poteva leggere che «comico e sublime non sono concetti di scienza estetica, ma di psicologia descrittiva o di antropologia, o come altro si voglia intitolare la disciplina che analizza le azioni e le passioni dell’uomo nei loro miscugli qualitativi e nelle loro variazioni quantitative»34. Croce mirava a presentare la propria estetica come reazione alle dominanti tendenze che chiamava «psicologistiche», e per sottolineare questa circostanza poneva la critica ai «concetti pseudoestetici» e all’Einfühlung esattamente al termine delle Tesi, come se la confutazione di quegli indirizzi rappresentasse, in un certo modo, il culmine della sua ricerca. Sono indicazioni che non vanno perse di vista 39

se si vuole reimmergere l’estetica crociana nel suo orizzonte storico e ridarle quel contesto troppo spesso trascurato da un modo astorico, e dunque antistorico, di criticarla. «Senza la conoscenza dell’estetica psicologica tedesca, molte delle mie proposizioni rischiano di sembrar vacue e di venire fraintese», avvertiva lo stesso Croce nel 1912 recensendo il trattato di estetica di un teorico dell’Einfühlung35. Quando Croce critica le categorie estetiche dicendo che si tratta di costruzioni arbitrarie e pratiche, queste parole vanno intese nel senso che egli preciserà a proposito di quello che nella Logica chiamerà pseudo-concetto, distinto dal concetto puro (la categoria, il principio trascendentale): lo pseudo-concetto è pratico nel senso che esso è un prodotto della prassi e non della conoscenza, e proprio in conseguenza di ciò serve a fini pratici di classificazione e catalogazione, ma non a quelli del giudizio. Come avviene per gli pseudo-concetti di cui secondo Croce sono intessute le scienze naturali, anche gli pseudo-concetti che nascono discorrendo di opere d’arte non sono errori in quanto tali, cioè quando servono a ordinare e catalogare i fatti, e lo diventano solo se intendono trasformarsi in strumenti per il giudizio estetico. I generi letterari e la classificazione delle arti sulla base dei mezzi espressivi da esse usati sono, per Croce, esempi tipici di tali costruzioni, che non possono aspirare a svolgere un ruolo nel giudizio estetico, ma solo catalogare sommariamente le opere. «Giova certamente» – leggiamo in proposito nel Breviario – «contessere una rete di generalia, non per la produzione, che è spontanea, dell’arte, e non pel giudizio, che è filosofico, ma per raccogliere e circoscrivere in qualche modo […] le innumerabili singole opere d’arte. E queste classi si condurranno sempre o secondo l’astratta immagine o secondo l’astratta espressione». Nel primo caso si isoleranno 40

i generi della lirica, del dramma, del romanzo, dell’idillio, della pittura di paesaggio, di storia, ritrattistica ecc.; nel secondo si avranno le arti distinte in poesia, pittura, scultura, giardinaggio, architettura ecc. Si tratta, a parere di Croce, di costruzioni sempre approssimative, perché edificate astraendo una serie di tratti comuni da un determinato numero di opere, e quindi compiendo sempre una semplificazione rispetto alla varietà dei singoli casi. Si può dire che la pittura rappresenta corpi e la poesia rappresenta azioni, come faceva Lessing, solo sorvolando sulla presenza di aspetti temporali nella pittura e spaziali nella poesia, cioè ignorando il fatto che ogni opera d’arte può utilizzare intuizioni sensibili di natura eterogenea. Una pittura, certamente, è più simile a un’altra pittura di quanto sia simile a una poesia; ma si tratta appunto di una differenza meramente quantitativa: in realtà, direbbe Croce, ogni singola opera è differente da ogni altra, se osservata con la dovuta attenzione, ossia in tutta la sua integrale individualità. Il concetto di arte, d’altra parte, non è un semplice concetto di genere di contenuto più ampio rispetto a quelli di pittura, scultura, poesia ecc.: esso si incontra non salendo dalle singole opere a classi via via più ampie (perché in tal caso bisognerebbe già possederlo per poter delimitare la classe di partenza), ma piuttosto come incarnazione di una condizione necessaria del nostro conoscere e agire (la categoria dell’intuizione-espressione). Si potrà continuare a discorrere di odi e di sonetti, di bassorilievo e tutto-tondo, se si vuole agevolare la memoria e l’educazione, ma discuterne quando si tratta di stabilire il valore estetico di un’opera determinata non può produrre che distorsioni, «come si usa quando si vuol determinare che la tragedia debba avere tale o tale argomento, tale o tale qualità di personaggi, tale o tale andamento d’azione, e tale o tale estensione; e dinanzi a un’opera, invece di cercare e 41

giudicare la poesia che le è propria, si pone la domanda se essa sia tragedia o poema, se ubbidisca alle ‘leggi’ dell’uno o dell’altro genere»36. Non è difficile identificare il paradigma tipico delle eliminazioni crociane nella critica radicale alla retorica come teoria dell’elocuzione. Le figure retoriche sono per Croce esempi flagranti di ‘classi’ di espressioni, che falsificano quindi la singolarità di ogni atto espressivo; e la convinzione di poterle definire, in quanto espressioni ‘ornate’, attraverso lo scarto rispetto all’espressione ‘nuda’, poggia sulla premessa inammissibile che vi possano essere espressioni diverse per il medesimo contenuto, così che l’espressione di grado zero e quella figurata possano essere considerate non già, come solamente è possibile all’interno dell’Estetica, due espressioni distinte e come tali incommensurabili, ma due modi diversi di configurare il medesimo contenuto. «I singoli fatti espressivi sono altrettanti individui, l’uno non ragguagliabile con l’altro se non nella comune qualità di espressione. […] Variano le impressioni ossia i contenuti; ogni contenuto è diverso da ogni altro, perché niente si ripete nella vita; e al variare continuo dei contenuti corrisponde la varietà irriducibile delle forme espressive, sintesi estetiche delle impressioni»37. Questa posizione crociana prende forma negli anni 18991900 attraverso la critica alla teoria della stilistica elaborata in Germania da Gröber, il cui allievo Vossler diventerà di lì a poco uno dei più convinti assertori delle posizioni crociane. Gröber identificava lo stile con la deviazione dalla norma, cioè con lo spostamento rispetto a uno standard linguistico causato nel parlante da una pressione affettiva. Ma cosa è, obietta Croce, questa norma? Se è un uso linguistico non connotato affettivamente, un presunto linguaggio intellettuale o sintassi regolare, occorre notare che un’espressione puramente denotativa non si realizza 42

mai: essa è un mito, perché in ogni discorso c’è un ‘tono’ affettivo; se invece è concepito come una ‘lingua media’, Croce osserva che lo ‘standard linguistico’ è un’astrazione: esistono i vari modi di esprimersi, e una media tra di essi non coincide con alcuna espressione reale38. Nel saggio del 1903 Stile, ritmo, rima e altre cose queste argomentazioni sono riformulate in un linguaggio già prossimo a quello della distinzione tra concetto puro e pseudo-concetto. Stile, ritmo, rima sono «concetti empirici», che non devono essere scambiati per «teorie scientifiche». Sono indirizzati «all’uso pratico» e non possono surrogare una «dottrina filosofica», perché incapaci di dar luogo a «concetti rigorosi, speculativamente validi». Si tratta di produzioni «schematiche e naturalistiche»39. Per Croce, lo stile non può che coincidere integralmente con l’artisticità: esso non è altra cosa che la forma letteraria e artistica. Stile e forma sono assolutamente sinonimi. Parlare di una forma senza stile è una contraddizione in termini, a meno che non si voglia dire che una forma è priva di un determinato stile, ossia che una forma non è un’altra. È proprio quello che accade secondo Croce quando si definisce la metafora come parola impropria in luogo della propria: «Un’espressione propria, se propria, è anche bella, non essendo altro la bellezza che la determinatezza dell’immagine, e perciò dell’espressione; e, se col chiamarla nuda si vuol avvertire che manca in essa qualcosa che dovrebbe esserci, in questo caso è impropria e deficiente, ossia non è o non è ancora espressione. Per converso, un’espressione ornata, se è espressiva in ogni parte, non può dirsi ornata, ma nuda quanto l’altra e, quanto l’altra, propria; se contiene elementi inespressivi, aggiunti, estrinseci, non è bella ma brutta, ossia non è o non è ancora espressione»40. È opportuno tenere presente la struttura delle critiche crociane che abbiamo appena esaminate anche 43

nell’accostarsi alla tesi tanto famosa quanto discussa dell’identità di linguistica ed estetica. Sia perché essa si annuncia fin dal titolo delle Tesi e del trattato del 1902, sia perché viene esposta nel capitolo conclusivo della grande Estetica, come se costituisse il coronamento della ricerca, sia, infine, perché appare radicale e paradossale, questa identificazione ha sempre prodotto insieme sconcerto e interesse. Ogni forma espressiva è linguaggio, anche le espressioni figurative o la musica; d’altra parte, ciò che veramente conta anche nel linguaggio verbale è il suo carattere di creazione liberamente espressiva. Le categorie grammaticali, le leggi fonetiche, le stesse lingue storico-naturali sono solo delle costruzioni secondarie che si elevano sul tessuto liberamente creativo dell’attività linguistico-espressiva. Le argomentazioni con le quali questi punti di vista sono introdotti nell’Estetica sono, per la verità, alquanto schematiche, e rischiano di impedire che si colga il significato autentico dell’operazione crociana, poiché si limitano a stabilire il carattere espressivo del linguaggio, a far discendere la coincidenza di linguaggio e arte dal teorema precedentemente stabilito dell’insussistenza di classi di espressione, per concludere che «la scienza dell’arte e quella del linguaggio, l’Estetica e la Linguistica […] non sono già due cose distinte, ma una sola. Non che vi sia una linguistica speciale; ma la ricercata scienza linguistica, Linguistica generale, […] non è se non Estetica»41. Il difetto principale di questo modo di presentare la cosa consiste nel fatto che esso sembra privilegiare le questioni di inquadramento disciplinare (la linguistica è estetica), piuttosto che richiamare l’attenzione sul vero elemento teoricamente rilevante della concezione crociana del linguaggio, che è la sottolineatura del carattere di libera creazione, di produttività infinita del linguaggio stesso. Anche quella del linguaggio all’arte è, insomma, una 44

‘riduzione’ nel senso tipicamente crociano, come quelle della storia all’arte o del diritto alla economia. Non si tratta tanto di sostenere che il linguaggio è ‘artistico’ nella sua materialità, quanto di richiamare l’attenzione sulla creatività e innovatività come condizioni radicali della sua possibilità, come principi indispensabili al suo funzionamento. Non è casuale, insomma, che Croce avverta quasi subito il bisogno di precisare in questo senso la sua posizione. Nella Logica del 1909, ad esempio, chiarirà che «per linguaggio non è da intendere la sequela dei discorsi alla rinfusa e senza analisi, con tutto ciò che portano seco, ma solamente quell’aspetto di essi discorsi, onde sono da dire propriamente linguaggio», e poco prima aveva scritto: «Il linguaggio è arte, non in quanto apofantico [cioè produttore di asserzioni] ma in quanto semantico; di esso importa osservare l’aspetto nel quale è espressivo e nient’altro che espressivo, e cioè nel linguaggio quello solo che lo fa linguaggio»42. Dichiarazioni di questo tipo, che sarebbe facile riscontrare anche nelle opere più tarde di Croce («la poesia è linguaggio nel suo essere genuino, e quando si è procurato di andare a fondo nel problema della natura del linguaggio, […] si è finito col ricorrere al principio esplicativo che la poesia porgeva»43), non mancano del resto fin dalle Tesi e dall’Estetica: «il linguaggio in quanto espressione è il linguaggio nella sua essenza»; l’identità della linguistica generale con l’estetica riguarda ciò che nella prima è «riducibile a filosofia»44. L’identità di linguaggio e arte significa insomma che le due attività sono ricondotte alla medesima ‘categoria’ o forma della coscienza: il linguaggio richiede, per essere spiegato, una condizione di tipo estetico, che dia conto della sua infinita produttività, e non si può spiegarlo solo mediante condizioni logiche. Ne deriva un’accentuazione fortissima, sul piano esplicativo, della non modellizzabilità del linguaggio, della sua non 45

riducibilità a un calcolo. Si potrebbe dire in termini saussuriani che nel linguaggio Croce vede la parole, ma non la langue. O meglio: ciò che saussurianamente è langue, aspetto istituzionale, codificato, sociale del linguaggio, appartiene secondo Croce (e qui si vede in atto, di nuovo, il paradigma che governa le sue eliminazioni) alla sfera pratica, utilitaria dello spirito. Espulso dalla teoresi, viene ricompreso tra i modi della prassi. La parola nella sua viva presenza, nella sua continua produzione è creazione, intuizione; il segno è secondario e derivato, e si installa nella significatività originaria che solo la prima è capace di aprire. «L’immagine significante» – dirà il Breviario – «è l’opera spontanea della fantasia, laddove il segno, nel quale l’uomo conviene con l’uomo, presuppone l’immagine e perciò il linguaggio; e, quando si insista a spiegar mercé il concetto di segno il parlare, si è costretti alfine a ricorrere a Dio, come datore dei primi segni, cioè a presupporre in altro modo il linguaggio, rinviandolo all’inconoscibile»45. Solo la parola nel suo complesso e nel suo contesto ha veramente significato; rompendo la sua unità, isolando i singoli vocaboli, non si ottengono degli organismi significanti, ma solo i loro simulacri vuoti. La considerazione della langue come costruzione pratica, del singolo vocabolo come istituto diverrà sempre più manifesta e visibile nel prosieguo delle riflessioni crociane, e ciò in particolare negli scritti del tardo Croce, come ha sottolineato giustamente uno degli interpreti più acuti della linguistica crociana, Tullio De Mauro46. Nel saggio del 1941 La filosofia del linguaggio e le sue condizioni presenti in Italia, Croce dirà: «Quello che si chiama lingua fuori della produzione, della contemplazione e del giudizio di espressività, ossia di esteticità, la lingua dei linguisti […] deve essere tutt’altra cosa, rientrante nella vita morale dell’uomo tra le sue appetizioni, i suoi desideri, le 46

sue abitudini […] in tutto ciò che diventa bensì materia rispetto alla sintesi della parola e della poesia, ma che per sé non è materia ma un fare pratico», mentre nel saggio di qualche anno successivo Sulla natura e l’ufficio della linguistica, del 1946, si può leggere: «Che cosa sono i singoli vocaboli? ‘Parole’, a dir propriamente, no, [..] perché la parola è quella sola che viene detta, vivente nell’organismo estetico cui appartiene. Ho proposto, e ripropongo di chiamarli ‘segni’: segni fonici, mimici, grafici o combinati tra loro, o come altro si enumerino e si classifichino»47. Croce tese sempre più, col passar del tempo, ad accettare la legittimità, comunque sempre relativa, della considerazione della lingua come segno: tuttavia bisogna osservare che la possibilità di una duplice attitudine nei confronti del linguaggio (quella filosofica che ne sottolinea la creatività e quella scientifica che ne mette in rilievo gli aspetti convenzionali e sociali) è iscritta in una certa misura fin dall’inizio nell’orizzonte categoriale crociano. Già in un piccolo scritto del 1903 sulle leggi fonetiche, ad esempio, Croce ammetteva che esse fossero «legittime e utili, quando servono a presentare in compendio certe diversità che si notano nei linguaggi da un tempo all’altro o da un popolo a un altro», così come, circa venti anni dopo, le dichiarava «utili in quel che possono, come tutte le leggi empiriche»; mentre, recensendo nei primi anni del secolo gli scritti di Vossler su Positivismo e idealismo nella scienza del linguaggio, già considerava la storia dei vocaboli singoli come storia di istituti di natura pratica: «Solo lo studio del linguaggio come fatto estetico si riferisce alla storia del linguaggio in atto; [lo studio dei vocaboli invece] concerne la storia di fatti pratici, di atteggiamenti volitivi o di disposizioni psichiche»48. I saggi crociani sulla lingua che abbiamo citato si può dire esauriscano tutta la produzione del filosofo in materia linguistica: a differenza di quanto accadde in altri campi 47

della cultura, infatti, bisogna notare che Croce non ebbe mai pratica viva della scienza glottologica, e ne seguì gli sviluppi solo saltuariamente e da una certa distanza. È tanto più sorprendente, dunque, notare come anche in questo campo le tesi innovative dell’Estetica riuscirono ad avere, e ancora una volta anche all’estero, una certa influenza sullo sviluppo vivo degli studi linguistici. L’accentuazione dell’elemento creativo e sempre rinnovantesi del linguaggio si inseriva infatti tempestivamente nel clima di reazione alla considerazione positivistica degli atti linguistici propria ad esempio dei neogrammatici tedeschi, e dava voce a esigenze che in altri paesi venivano incarnate da linguisti di professione, come Schuchardt o Gilliéron. Sul piano storico, poi, la linguistica crociana si riallacciava magari non approfonditamente, ma comunque in modo significativo, alla considerazione del linguaggio come attività propria della grande linguistica dell’età idealistica, e in special modo di von Humboldt. Un linguista di solida preparazione storica come Matteo Bartoli aderirà entusiasticamente alle tesi crociane quasi fin dal loro apparire, e su di esse intenderà fondare la propria Neolinguistica; successivamente, linguisti come Devoto, Pagliaro, Nencioni terranno conto delle suggestioni che vengono dalla dottrina crociana, e in tempi più recenti questo varrà ancora, sia pure più mediatamente, per autori come Coseriu e De Mauro. Anche in un settore nel quale nulla sembrava candidare le teorie crociane ad avere un impatto solido e duraturo, l’Estetica era destinata a rivelarsi, insomma, un libro importante. 1.4. Dall’«Estetica» al «Breviario» Pubblicata in volume l’Estetica, Croce iniziò quasi subito, sulle colonne della rivista «La Critica» (1903-1944), da lui fondata, diretta e in gran parte scritta, un ampio esame della letteratura italiana dall’Unità ai primi del secolo, articolato 48

in una serie di saggi indipendenti, che solo successivamente, nel 1914-1915, vennero raccolti nei quattro volumi della Letteratura della nuova Italia (ai quali, molti anni dopo, se ne aggiunsero altri due). Nel 1903 Croce compose i saggi su Verga, Serao, Di Giacomo, De Amicis, Fogazzaro; nel 1904 apparve il saggio su D’Annunzio, e vennero scritti quelli su Boito, Dossi, Camerana, Imbriani, Nievo; negli anni seguenti vennero quelli su Pascoli, Carducci, Oriani, Giacosa, e moltissimi altri autori anche di secondaria importanza49. Nel Contributo Croce dirà che quei saggi avevano «il precipuo valore di esemplificazioni di una dottrina estetica» piuttosto che di studi pensati «col fine principale di penetrare nell’interno spirito della più recente letteratura»50. Si tratta però di un’affermazione troppo netta, che non può stare senza qualche precisazione. Spesso Croce tornò infatti sull’idea che quei saggi volevano avere valore di esempio, e aggiunse che la sua attività di critico letterario (fino ad allora a lui relativamente estranea) fu intrapresa proprio con questa funzione di indirizzo: ma, appunto, esempio e indirizzo non sono la stessa cosa di ‘applicazione’, e l’Estetica del 1902 non viene ‘applicata’ nei saggi della Letteratura della nuova Italia, come del resto una filosofia non si ‘applica’ mai (mai, per lo meno, se deve restare ‘buona’ filosofia). Tanto vero che ad alcuni lettori acuti, e primo fra tutti a Renato Serra, sembrò con molta ragione esattamente il contrario, e cioè che la critica letteraria di Croce non discendesse univocamente dalla teoria, o addirittura non ne discendesse affatto («molti e molti saggi si direbbero scritti da uno che certo non ha letto l’Estetica»)51, e che nel volume di Castellano sul pensiero di Croce, che fu scritto, come è noto, se non direttamente da Croce, almeno sotto la sua costante vigilanza, il filosofo scrisse, o lasciò che si scrivesse, proprio l’inverso di quanto dichiarato nel Contributo, ossia 49

che egli si accostò alla critica letteraria «ascoltando unicamente la voce del buon gusto, abbandonandosi […] alle schiette impressioni, come se non mai egli avesse scritto un’Estetica»52. Certo, nei saggi sulla letteratura contemporanea c’è qualcosa che discende direttamente dal volume del 1902, ed è la esclusione dal terreno proprio della poesia delle parti e degli aspetti riflessivi o retorici nelle opere che Croce viene esaminando, la «cernita dei motivi intellettualistici, edonistici od oratori» di cui ha parlato Contini53, e insomma la componente ‘negativa’ delle disamine crociane; la caratterizzazione in positivo avviene sempre attraverso l’identificazione del contenuto sentimentale dell’opera, dell’atteggiamento passionale dell’autore. Nel saggio su D’Annunzio, si tratta di determinare «la fisionomia del contenuto psicologico» dell’artista, «dilettante di sensazioni»; in quello su Pascoli, di fissarne la «disposizione idilliaca» sia pure dell’«idillio di un animo piagato»; in quello su Fogazzaro, di scoprire sotto la cortina delle sue fumose convinzioni «la ricchezza di vita intima e i contrasti e le sfumature di sentimento»54. Al di là della proclamata identità di intuizione ed espressione, la critica crociana non solo punta decisamente piuttosto sul ‘contenuto’ che sulla ‘forma’ (tanto che, su quest’ultima, si limita a pochi e occasionali rilievi sul lessico di Dossi, sulla forma della narrazione in Verga, su infelici scelte metriche di Pascoli), ma riformula il contenuto stesso nei limiti di una tradizionale gamma sentimentale, identificando nella sostanza la polisensa ‘intuizione’ del trattato con i sentimenti in senso corrente. Lungi dal costituire una semplice traduzione della teoria in concreta prassi critica, insomma, i saggi composti da Croce nel decennio successivo all’Estetica richiederanno piuttosto un’adeguazione nella teoria stessa. Recensendo nel 1907 un volumetto di Levi, nel quale si sottolineava la 50

centralità che aveva preso nella critica crociana il concetto di sentimento, Croce non solo non contestava l’esattezza del rilievo che gli veniva mosso, ma argomentava la necessità che l’intuizione venisse intesa appunto come rappresentazione di un sentimento: «l’intuizione pura è intuizione di uno stato d’animo», e «coincide con la contemplazione del sentimento». Tutta l’arte è, in questo senso, lirica55. La memoria che Croce lesse nel 1908 al congresso filosofico di Heidelberg, la prima importante ‘integrazione’ al volume del 1902, intitolata L’intuizione e il carattere lirico dell’arte, si propone esplicitamente il compito di giustificare la nuova determinazione dell’arte come espressione di sentimento, e si pone inizialmente in un’attitudine di registrazione dei portati del gusto: «Ciò che piace e si cerca nell’arte, ciò che fa balzare il cuore e rapisce di ammirazione è la vita, il movimento, la commozione, il calore, il sentimento dell’artista: questo soltanto dà il criterio supremo per distinguere le opere di arte vera da quelle di arte falsa, le indovinate dalle sbagliate». Il criterio della personalità è la vera pietra di paragone della critica, perché «a un artista non si domanda che istruisca su fatti reali e su pensieri, o che faccia stupire per la ricchezza della sua immaginazione, ma che abbia una personalità, al fuoco della quale l’anima dell’uditore o dello spettatore si accenda». È in virtù della personalità che la mera combinazione di immagini si distingue dalla fantasia artistica vera e propria, che produce l’immagine in quanto è, al contempo, espressione di uno stato d’animo. Croce negava che in questo modo si aprisse una dualità tra la considerazione teoretica dell’arte come intuizione e quella che la riporta piuttosto a sentimento, passionalità, liricità, cioè a qualcosa di appartenente alla sfera pratica dello spirito; e lo negava, perché, a suo parere, era possibile mostrare il carattere lirico della intuizione stessa: mostrare, 51

cioè, che l’intuizione pura non ha altro contenuto che quello che le è offerto dalla sfera pratica. «L’intuizione pura, non producendo concetti, non può rappresentare se non la volontà nelle sue manifestazioni, ossia non può rappresentare se non stati d’animo», e questo perché, al di fuori della logicità, non rimane altro contenuto «che quello che si chiama appetizione, tendenza, sentimento, volontà: fatti i quali sono sostanzialmente tutt’uno e si riportano alla forma pratica dello spirito»56. Queste affermazioni della conferenza del 1908 sono molto importanti, perché indicano con chiarezza come, accanto al problema entro certi limiti contingente del render ragione dell’attitudine crociana nel concreto esercizio critico, si facesse strada, nel concetto di sentimento, un problema invece interno allo stesso edificio sistematico che, abbozzato nell’Estetica, negli anni successivi si veniva compiendo, dapprima con i Lineamenti di Logica del 1905, poi con la Filosofia della Pratica del 1908 e soprattutto con la Logica del 1909, che rifondeva e profondamente modificava i precedenti Lineamenti. La questione del sentimento era infatti connessa, o meglio coincideva pienamente, con quella del contenuto dell’intuizione, che il trattato del 1902 aveva potuto indicare solamente come un limite negativo, come quel confine inferiore delle intuizioni che per un lato, e si trattava certamente di una posizione irta di difficoltà, non era in nessun modo definibile o precisabile, per un altro però era cosa della quale si doveva comunque asserire la presenza e quindi anche, inevitabilmente, la pensabilità. Al di là della sua aporeticità interna, quella concezione poteva adattarsi al modo lineare di concepire le relazioni tra le varie attività umane caratteristico della prima Estetica, ma doveva per forza entrare in crisi quando, con l’apparire dei successivi volumi della Filosofia dello Spirito, tale soluzione 52

venne abbandonata. Ma né la conferenza del 1908, né il pur profondo rimaneggiamento del testo primitivo dell’Estetica compiuto da Croce in occasione della terza edizione del libro, nel 1908, dato che esso non poteva comunque alterarne la struttura essenziale, riuscivano veramente a chiarire il modo nuovo nel quale la questione si poneva, e soprattutto a offrire quella riesposizione dell’estetica che la presenza del sistema, non più in abbozzo ma in forma compiuta e diversa, indubbiamente esigeva. Questo compito fu affrontato da Croce solo nel 1912, quando, essendogli stato richiesto un ciclo di lezioni per l’inaugurazione di una nuova università americana, compose il Breviario di Estetica. Apparso l’anno successivo, questo piccolo volume dalla scrittura nitida ed efficace non costituisce soltanto un’esposizione rinnovata delle dottrine estetiche crociane, ma anche il compimento della stagione sistematica vissuta da Croce nel primo decennio del secolo. Dopo i tre volumi della Filosofia dello Spirito, infatti, e in un certo senso già con il quarto e ultimo, Teoria e storia della storiografia (1916), Croce non affiderà più la sua filosofia alla forma esteriore del sistema (anche se non abbandonerà mai l’esigenza sistematica, che è cosa diversa), ma al saggio storico o metodologico. Il carattere almeno letterariamente antiquato del sistema di filosofia, certo uno degli elementi che hanno fatto guardare in seguito con sospetto alla filosofia crociana (perché nessuna grande filosofia posthegeliana ha avuto forma sistematica), si stempera alquanto se si considera il modo in cui Croce intendeva poi di fatto il ‘sistema’ e la facilità con la quale rinunciò alla sua forma esteriore nel seguito della sua indagine. Non solo letterariamente, comunque, bensì anche nella sostanza vi è parecchio di nuovo nel Breviario. Semplificando, si può dire che solo i primi due dei quattro capitoli riprendono la materia dell’Estetica. Interamente 53

nuovo riesce in particolare il quarto, dedicato alla Critica e alla Storia dell’arte. Si ricorderà che un problema della critica propriamente non c’era nel trattato del 1902, nel quale il giudizio sull’arte è assimilato alla semplice riproduzione dell’opera. Non così nel testo del 1912. Croce, che nella Logica del 1909 ha elaborato la teoria dell’identità di giudizio individuale (storico) e giudizio definitorio (filosofico), ammette ora che l’attività critica è sempre giudizio nel senso pieno, tecnico, del termine: è un giudizio, dunque un’operazione logica, in quanto congiunge il predicato o concetto puro al soggetto o intuizione che le viene sottoposto, ossia che essa riproduce in sé mediante il gusto. La critica non è mera impressione, non serve a orientare la produzione artistica, non si esaurisce nell’interpretazione e nel commento. Essa, piuttosto, presuppone compiuti tutti e tre questi momenti, che dunque ricomprende in sé, per svolgere la propria opera, che non consiste nel ricreare il lavoro dell’artista o nell’aggiungere una nuova opera d’arte a quella presa in esame (il critico non è artifex additus artifici), ma nello stabilire a quale sfera spirituale quest’ultima appartenga. Il critico è philosophus additus artifici, e il tipo del suo giudizio è il riconoscimento «c’è un’opera d’arte a» o «non c’è un’opera d’arte a». E come Croce nella Logica aveva tolto, o almeno si era sforzato di togliere, la differenza tra giudizio storico e giudizio filosofico, in quanto il secondo si risolveva nel primo, così nel Breviario nega la distinguibilità di una critica e di una storia dell’arte. La vera critica d’arte è insieme critica estetica e critica storica, perché «dopo essersi valsa dei dati storici per la riproduzione fantastica (e fin qui non è ancora storia), ottenuta che sia la riproduzione fantastica, si fa storia, determinando che cosa è quel fatto che ha riprodotto nella sua fantasia, e cioè caratterizzando il fatto mercé il concetto, e stabilendo qual è propriamente il 54

fatto che è accaduto». La distinzione tra la critica e la storia dell’arte è meramente empirica: ha un senso nella classificazione pratica dei testi, per orientarsi alla buona, ma non ne ha nessuno da un punto di vista rigorosamente teorico57. Anche relativamente alla questione del sentimento il Breviario porta parecchi schiarimenti. Il terzo capitolo è infatti un’esposizione succinta del diverso modo di intendere la relazione tra le varie attività spirituali che Croce ha sviluppato negli anni successivi all’Estetica. Arte, logica, attività economica e attività pratica non sono più pensate come legate da un processo lineare, ma seriate in un circolo, per cui dall’una all’altra vi è perpetuo passaggio, vi è continuo corso e ricorso. In ogni momento (in ogni ‘distinto’) è insieme l’impulso a trascorrere alla forma successiva, e nessuna forma può fungere da stadio supremo dello sviluppo. Piuttosto, ognuna è insieme condizione della successiva e condizionata dalla precedente. L’esposizione piana e persuasiva di Croce tende a occultare le tensioni e le difficoltà implicite in questa concezione58, ma ha comunque il merito di precisare meglio in che senso il sentimento entri come ‘materia’ nella sintesi intuitiva. Se infatti l’antecedente dell’attività intuitiva è, nel ‘circolo’, la sfera pratica in tutta la sua estensione, se ne ricava che a entrare nella sintesi espressiva non è il ‘sentimento’ nel senso psicologico tradizionale (non a caso escluso dalla Filosofia della Pratica), ma è appunto l’intera sfera pratica, e perfino, se si sta alle esplicite dichiarazioni di Croce («Il sentimento o lo stato d’animo non è un particolare contenuto, ma è l’universo tutto guardato sub specie intuitionis»), la totalità delle attività spirituali59. Le conseguenze di queste precisazioni erano tali da coinvolgere l’intero assetto della filosofia e della critica crociana. Per un verso, infatti, il sentimento e l’attività 55

pratica tendevano a trasformarsi in qualcosa che trascendeva i limiti della forma determinata, e poteva prendere l’aspetto di una base o radice di ogni attività (il che accadde realmente negli sviluppi più tardi della teoria crociana, attraverso le speculazioni sulla ‘vitalità’); per un altro, si veniva ad aprire uno iato tra la prassi critica concreta, per la quale i ‘sentimenti’ erano proprio i sentimenti della psicologia tradizionale, e la fondazione teorica, che non poteva avallare quella identificazione, e anzi riluttava a ridurre il ‘sentimento’ agli affetti e alle passioni. Ma in questo secondo caso, né Croce né i lettori di Croce si sentirono chiamati a trarre le conseguenze dalle difficoltà che la teoria estetica sollevava. Non Croce, per il quale il ricorso, nell’attività critica concreta, ai ‘sentimenti’ in senso tradizionale diventò ben presto uno strumento per condurre la battaglia contro lo spirito del proprio tempo, contro il ‘decadentismo’, il ‘sensualismo’, il ‘misticismo’ della letteratura contemporanea, da lui sempre avversati. Che la critica letteraria crociana sia anche, quasi fin dall’inizio, critica di una cultura e di una civiltà, che da questa essa tragga un suo carattere decisivo, lo dimostra benissimo il saggio del 1907 Di un carattere della più recente letteratura italiana, in cui il contrasto disegnato da Croce tra D’Annunzio, Pascoli, Fogazzaro da un lato e Carducci e il suo tempo dall’altro è innanzi tutto un contrasto tra due modi di concepire la vita, tra due atteggiamenti dello spirito, e insomma tra un modo sano di porsi di fronte alla vita e un modo da «malati di nervi»60. Questo aspetto della critica crociana andrà tenuto presente anche per intendere gli sviluppi futuri di essa: l’effettivo esercizio critico di Croce coinvolge sempre, accanto al teorico dell’estetica, il moralista e il critico del proprio tempo. Neanche i lettori di Croce compirono però quell’opera di approfondimento e i molti critici che già in questa prima 56

fase mossero dall’estetica crociana non si impegnarono in una discussione teorica su di essa. Gli anni che seguono la pubblicazione del trattato del 1902 sono quelli della rapida diffusione del crocianesimo, innanzi tutto nell’ambito della critica letteraria. Certo, non si può dire che l’Estetica non suscitasse affatto un dibattito teorico: a parte le numerose recensioni, ci furono gli scritti del già citato Levi, e soprattutto di Aliotta (poi raccolti nel volume L’estetica di Croce e la crisi dell’idealismo moderno, 1920), mentre da parte cattolica si avvertirà il bisogno di ‘rispondere’ all’estetica crociana (con i saggi di Masnovo, Bizzarri, Sturzo); ma la sua penetrazione sarebbe stata infinitamente meno estesa se non avesse potuto contare sulla diffusione negli ambienti letterari. I primi crociani furono soprattutto critici della letteratura: Giuseppe Antonio Borgese e Alfredo Gargiulo, che più tardi ritroveremo su posizioni eterodosse, esordirono come discepoli fedeli, il primo con la Storia della critica romantica in Italia, edita proprio da Croce, e con lo studio su D’Annunzio, il secondo ancora con un saggio dannunziano61. L’influsso di Croce fu notevole sul gruppo degli scrittori della rivista fiorentina «La Voce», almeno per qualche anno. I fondatori del periodico, Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini, provenivano dal bergsonismo e dal pragmatismo, esperienze filosofiche lontane da quelle crociane, ma, se il secondo manterrà sempre un notevole distacco e presto transiterà su posizioni apertamente anticrociane62, il primo si avvicina a Croce e compone la prima monografia dedicata al suo pensiero63. Sulla «Voce» compaiono, a opera di Ardengo Soffici, Giannotto Bastianelli, Fausto Torrefranca, scritti sulla musica e le arti figurative che risentono della lettura dell’Estetica, ma il confronto con Croce è significativo soprattutto per i critici letterari che collaborano alla rivista, in particolare per Emilio Cecchi e Renato Serra. Cecchi non ha interessi 57

teorici dominanti e, formalmente vicino a Croce, quando i suoi giudizi e le sue letture lo portano al contrasto, solo di rado arriva a mettere in questione i presupposti metodici del filosofo (come accade soprattutto nel saggio del 1913 Intorno a Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio)64; Serra muove da Carducci e dalla critica storica, e dalla sua posizione di lettore appartato mette a confronto lucidamente i nuovi orientamenti critici con la tradizione diversa in cui si sente radicato65. Ben presto, comunque, si fanno strada sulla «Voce» i dissensi più aperti: nel 1912 Giovanni Boine affida a Un ignoto la sua richiesta di avere, in contrasto con quella crociana, un’«estetica dei creatori», e mette in dubbio la capacità della critica di comprendere l’opera d’arte se manca l’affinità maturata nello spirito che si prepara a produrre, non solo a recepire66; e il dissidio si fa aperto con la seconda serie della rivista (1914-1916), diretta da Giuseppe De Robertis. Il «saper leggere» propugnato da De Robertis pensa la critica come collaborazione con la poesia («la critica viene insieme alla poesia. Partecipa della natura della poesia»), punta verso una «critica frammentaria di momenti poetici», come riduzione all’essenzialità, all’esame di «pochi tratti isolati»67. Il nodo del frammentismo rappresenta una prima crisi carica di significato per la ricezione dell’estetica crociana. Se De Robertis ne accentuava l’implicazione anti-crociana, altrove si tendeva, non senza qualche appiglio testuale, a pensare che fosse proprio l’estetica di Croce ad autorizzare una poetica del frammento, tanto che Croce ritenne di dover intervenire contro quella che gli pareva «La deformazione modernistica [della propria] teoria estetica»68. E se gli sviluppi appena visti dell’estetica crociana andavano sempre più verso l’integrazione sistematica, interpretarla come un’apologia del frammentismo non era certo prepararsi a intenderla nel modo migliore. 58

1.5. Dal «Breviario» alla «Aesthetica in nuce» A conclusione dei saggi sulla Letteratura della nuova Italia Croce scrisse nel 1913 un breve intervento, il quale poi fu pubblicato come congedo al termine del quarto volume (ultimo della prima serie) con il titolo Licenza. Croce vi ribadiva il carattere occasionale e ‘militante’ di molti degli scritti che andavano a comporre la raccolta, e sottolineava come essi non servissero a costituire una «Storia della letteratura dell’Italia Unita», e restassero, appunto, una raccolta di saggi. Ma Croce aggiungeva che, se una revisione più profonda degli scritti originali e l’eliminazione di quelli su autori marginali avrebbero potuto dare un affresco storico più equilibrato, non ci si sarebbe in nessun caso potuto aspettare da lui una «Storia della letteratura» nel senso tradizionale del termine, ossia un lavoro che mettesse in connessione lo svolgimento letterario con quello storicosociale, e rappresentasse i rapporti tra le varie figure artistiche come un dramma comune in cui ogni autore recita la sua parte. L’attacco alla concezione corrente della storia letteraria era qui annunciato, ma ancora in sordina. Qualche anno dopo sarebbe stato argomentato compiutamente nel saggio La riforma della storia artistica e letteraria, scritto nel 191769. Il saggio inizia proprio proclamando la necessità di una «larga riforma» del modo di fare storia della letteratura e dell’arte in genere. Il tipo di storia che va ‘riformato’, o meglio cancellato e sostituito da quello nuovo, è quello delle storie che Croce denomina «sociologiche», ossia quelle che vengono costruite sulla base del legame che si crede di stabilire tra la serie delle opere d’arte e quella dei fatti storico-sociali. Ci sono naturalmente altre forme di storiografia artistica che Croce ritiene improprie (quella erudita, quella retorica, quella biografica ecc.), ma polemizzare con esse è inutile, perché sono morte e sepolte, 59

mentre la storia ‘sociologica’ è ben viva: essa infatti è il modello di storiografia artistica che si è affermato con il romanticismo (infatti è romantica l’idea della littérature comme expression de la société), che ha avuto i suoi capostipiti nelle opere di Chateaubriand, degli Schlegel, di Madame de Staël e la sua espressione più perfetta nella Storia della letteratura italiana del De Sanctis. Si tratta di un genere di storia della quale Croce non disconosce i meriti rispetto ai canoni storiografici precedenti, come non nega che abbia prodotto opere decisive per la cultura europea. Ma essa ha ai suoi occhi un difetto fondamentale, quello di essere bensì storia, ma non storia dell’arte. Quando si collocano le opere negli schemi di svolgimento, quando le si mettono in relazione con i fatti della storia culturale o politica, si estraggono dalle opere stesse i loro caratteri generali (costituendo, per esempio, le classi della poesia ‘cristiana’ in opposizione a quella antica ecc.), e in questo modo «si fa subito trapasso dalla storia letteraria e artistica ad altre parti della storiografia». La stessa cosa vale per Croce quando si tenta di fare storia sulla base di certi caratteri formali propri a gruppi di opere, per esempio la storia degli stili nelle arti figurative o quella delle forme letterarie in poesia. Anche qui, l’individualità dell’opera viene abbandonata a vantaggio di caratteri estrinseci – perché per Croce «ogni carattere comune, riferendosi alle materie delle opere artistiche (e materia è anche la loro forma quando presa astrattamente e perciò materializzata, il cosiddetto ‘stile’), non ha più valore estetico, e non vale a congiungere fatti di natura estetica». Questa materializzazione si evita solo rinunziando all’idea di una storia letteraria tradizionale e accettando come unica storia valida quella fornita dalla serie di monografie critiche sui singoli autori, dunque dalla «caratteristica del singolo artista, cioè della sua personalità e dell’opera sua, le quali formano tutt’uno». Il giudizio estetico è sempre insieme 60

giudizio storico; ma domandare oltre a questa storicità intrinseca quella estrinseca della «storia unitaria» è chiedere l’impossibile, perché l’unità della storia è intesa in questo caso «in modo fantastico e falso». La forma «spontanea e legittima» della storiografia letteraria e artistica è quella individualizzante, non la storia astratta e generale, ordinata per lingua, nazionalità, epoca e quant’altro. Simili storie generali sono ammesse solo come sussidi didattici, come opere di consultazione: «L’ideale romantico della storia generale, nazionale o universale sopravvive ormai come ideale astratto […] e i più famosi critici dell’ultimo secolo sono stati, quasi tutti, scrittori di saggi»70. Se si vuole capire il senso dell’influenza crociana sulla cultura italiana del nostro secolo è utile pensare, piuttosto che al confronto teorico con l’estetica, che è stato saltuario e spesso è mancato del tutto, all’impatto che hanno avuto prese di posizione come questa, «una vera pietra tombale su qualsiasi ipotesi di storia letteraria complessiva»71. Gran parte della critica letteraria della prima metà del secolo è stata ‘monografica’ e ‘saggistica’ in senso crociano; la questione della storia letteraria fu al centro di un ampio dibattito ancora negli anni Cinquanta, quando, soprattutto da parte marxista, si è avanzata la richiesta di un maggiore collegamento tra fatti sociali e artistici e si è proposto, in chiave anti-crociana, un ritorno al De Sanctis; infine anche tra i crociani – come vedremo poi meglio, per esempio nel caso di Luigi Russo – è proprio su questo tipo di questioni che si è avuto un confronto interessante e vivace. Alla penetrazione della tesi crociana contribuì, oltre alla perentorietà della soluzione proposta, e alla serietà delle obiezioni sollevate nei confronti della storiografia ottocentesca, certamente anche l’esempio concreto della critica letteraria crociana, la quale, negli anni a partire dal primo conflitto mondiale, si venne orientando verso la 61

monografia caratterizzante consacrata al singolo artista. E se nel primo decennio Croce si era dedicato a ricostruire il quadro della letteratura italiana post-unitaria, prendendo in esame anche molti autori minori e minimi, gli anni tra il 1917 e il 1921 egli si concentra sui massimi poeti delle letterature europee, Ariosto, Shakespeare, Corneille, Goethe, Dante. A contatto con la grande poesia la critica crociana acquista una maturità, un’ampiezza di sguardo e anche un’eleganza di forma che mancavano nelle sue prose critiche del primo periodo: sono questi i suoi saggi letterari più celebri e più letti, che consacrano la sua fama di critico anche all’estero. Seguirà a breve distanza la raccolta degli interventi sulla letteratura europea dell’Ottocento, da Alfieri e Monti a Baudelaire, Maupassant e Flaubert, sotto il titolo Poesia e non poesia (1923). E quando Croce tornerà a occuparsi non più di singole personalità ma della cultura letteraria di un intero periodo, il secolo diciassettesimo, egli sceglierà coerentemente di intitolare il suo lavoro Storia dell’età barocca in Italia e non già «Storia della letteratura italiana del Seicento». Il dato che innanzi tutto colpisce nei grandi saggi crociani è l’energia con la quale essi si adoperano a sgombrare il campo da problemi mal posti, interferenze con aspetti diversi da quello del valore estetico, questioni invalse nella tradizione interpretativa ma delle quali viene mostrata l’estraneità al vero problema critico e anzi il carattere di ostacolo che esse presentano all’intelligenza della poesia. Così nel saggio su Goethe è rigettata tutta la problematica, che occupava tanta parte della Goethe-Literatur precedente, delle relazioni tra biografia e opera; in quello su Shakespeare, mercé la distinzione tra «persona pratica e persona poetica», si toglie ogni peso alla ricerca dell’identità storica dell’autore, e alle «ingentissime e in buona parte sterili fatiche che costituiscono il gran corpo della filologia 62

shakespeariana»; in quello su Dante, e in modo tanto radicale che suscitò proteste a non finire, vengono ignorate tutte le questioni care alla ‘dantologia’, sull’ordinamento dei tre regni, ma anche quelle relative alla cultura filosofica di Dante, alle spiegazioni delle allegorie, alle informazioni storiche sui personaggi, insomma tutto quello che riguarda l’interpretazione morale, filosofica, politica, che Croce denomina «allotria», illegittima non in sé, ma in quanto si congiunge indebitamente con l’interpretazione della poesia, con la quale «non ha alcuna connessione»72. Strumento di questa operazione – il cui valore liberatorio può essere apprezzato anche quando non se ne condivida la motivazione – è il confronto con la critica precedente, e insomma la «critica della critica», condotta da Croce con una larghezza di informazione e una perspicuità di vedute che rimangono esemplari. Così nel caso di Ariosto e di Corneille all’inizio dei rispettivi saggi, in quello di Shakespeare a conclusione di esso, in quello di Dante sotto forma di appendice: ma il confronto serrato con la tradizione resterà anche in molte prove critiche successive uno degli aspetti più istruttivi della critica crociana. Effettuata questa preliminare apertura di campo, lo sforzo della critica vera e propria va sempre, in Croce, verso una fortissima riduzione all’unità della personalità poetica considerata, che mette capo a una «caratteristica» del poeta, o meglio del suo ‘mondo sentimentale’. Nel caso di Ariosto, è il suo «sommo amore», l’Armonia; per Corneille sarà la «tragedia della volontà deliberante»; per Shakespeare l’insieme dei motivi della sua arte, ordinati non con riguardo allo svolgimento storico, ma alle fonti di ispirazione, in uno «svolgimento ideale»: la «commedia dell’amore», il «vagheggiamento del romanzesco», l’«interesse per il pratico operare», e via attraverso la tragedia del bene e del male e quella della volontà, fino al «canto 63

dell’indulgenza», la Tempesta73. Al centro dell’interesse crociano è insomma sempre la «personalità» dell’artista, colta con categorie psicologiche: la sintesi finale può sì mettere capo a formule significative e fortunate, come quelle appena ricordate, ma anche a formule astratte e generiche, che non serbano quasi alcun nesso con la poesia che dovrebbero caratterizzare (si pensi alla caratteristica dello «spirito dantesco» come «un sentimento del mondo, fondato sopra una ferma fede e un sicuro giudizio, e animato da una robusta volontà»)74. Nella lettura diretta dei testi, Croce non scende mai o quasi mai a considerazioni sulla forma, la lingua, lo stile; segnala e mette in evidenza i passi poetici, citando o riformulando, spesso con grande maestria. Porta il discrimine tra poesia e non poesia all’interno delle opere, sempre convinto che la vera poesia si realizzi di rado, aduggiata com’è anche nelle opere più grandi dalle parti strutturali, didascaliche, oratorie. Di qui un altro effetto liberatorio e discusso della critica crociana, la rottura dell’unità materiale delle opere e l’invito, si tratti del Faust di Goethe o della Commedia di Dante, a gustarle come serie di liriche, senza lasciarsi condizionare da una macchina che, se non è di ostacolo, certo è indifferente al valore poetico. La cernita del non-poetico assume un peso preponderante nell’esame delle personalità della letteratura ottocentesca di Poesia e non poesia, in cui abbondano i ridimensionamenti e le esclusioni dal territorio della vera arte, di cui fanno le spese, tra gli altri, Schiller, Kleist, il Manzoni dei Promessi sposi e Leopardi (in uno dei saggi più opachi che a Croce sia accaduto di scrivere). Il libro del ’23 mette in luce anche un altro dato saliente della critica crociana, la chiusura verso l’arte contemporanea: gli ultimi artisti europei di cui Croce sia in grado di apprezzare la grandezza sono Baudelaire e Flaubert. Altrove, e in particolare in Mallarmé, egli vede soltanto velleitarismo, 64

impotenza artistica e decadimento morale. Si comprende da qui che la scelta di misurarsi con la grande letteratura del passato è anche, per Croce, un modo per proseguire la battaglia contro quelle che gli paiono sempre di più le degenerazioni dello spirito moderno, il decadentismo e tutta la letteratura che, in luogo di riportarsi verso una misura ‘classica’, dà spazio a un romanticismo esasperato e peggiorato rispetto ai suoi modelli storici. Se ci si colloca in questo punto di osservazione si coglie meglio il legame tra la critica crociana di questo periodo, con la sua insistenza sull’universalità della grande poesia, e le ‘integrazioni’ teoriche alla sua estetica che si situano rispettivamente all’inizio e al termine del periodo che consideriamo in questo paragrafo: il saggio del 1917 Il carattere di totalità dell’espressione artistica e quello intitolato, sulle orme di Hamann, Aesthetica in nuce, del 192875. Tutta la seconda parte del saggio del ’17 è un atto di accusa alla letteratura contemporanea, dal romanticismo in poi, rea di avere sostituito all’espressione estetica, dunque alla teoresi del sentimento, il sentimento come tale, l’espressione immediata della passione. La letteratura a partire dalla fine del Settecento appare a Croce dominata dalla tendenza alla confessione: è una letteratura di natura affettiva e pratica, nella quale lo sfogo diretto predomina sulla catarsi. Ciò che colpisce Croce nei contemporanei «è la scarsezza di pudore onde sciorinano tutte le loro miserie, e quella frenesia di sincerità la quale, per essere frenesia, non è sincerità»76. È proprio contro questo «infemminimento» (la parola è crociana) della letteratura, i cui esiti estremi si possono cogliere nel futurismo e nella ‘poesia pura’, che Croce si propone di far valere quello che prende a chiamare «il carattere di totalità» dell’espressione artistica. Dopo un secolo e mezzo di romanticismo, pare a Croce sia venuto il momento di riaffermare i diritti non del 65

classicismo, ma della classicità, ossia dare «maggiore risalto alla dottrina del carattere cosmico o integrale della verità artistica, alla purificazione che questa richiede di tendenze particolari e forme immediate del sentimento e della passione». Si deve insomma tenere presente che l’intuizione artistica possiede una propria universalità, sia pure essa «una universalità affatto intuitiva, formalmente diversa dall’universalità in qualsiasi modo pensata e adoperata come categoria di giudizio». La particolarità, la finitezza non sono caratteri del sentimento, «individuale e universale insieme come ogni forma ed atto del reale», lo diventano solo quando il sentimento è assunto dall’artista nella sua immediatezza, sì che allora il sentimento non è più semplicemente sentimento, e la rappresentazione di esso non è ancora intuizione. Il sentimento in quanto tale non è invece «qualcosa che possa distaccarsi dall’universo e svolgersi per sé», e l’arte, se ne dà vera espressione, mostra insieme «che la parte e il tutto, l’individuo e il cosmo, il finito e l’infinito [non] hanno realtà l’uno lungi dall’altro, l’uno fuori dell’altro». «In ogni accento di poeta» – scrive Croce con parole che enunciano assai più di quanto non dimostrino – «in ogni creatura della fantasia, c’è tutto l’umano destino, tutte le speranze, le illusioni, i dolori e le gioie, le grandezze e le miserie umane, il dramma intero del reale»77. Anche nell’Aesthetica in nuce il problema è contrastare lo «squilibrio dell’arte verso l’immediata espressione delle passioni e delle impressioni», che ha trasformato la poesia moderna, secondo il motto riferito da Goethe ai romantici, in una «poesia da lazzaretto», e ha sostituito la «torbida passionalità, indocile e recalcitrante alla purificazione» alla «serenità e infinità dell’immagine artistica»78. Queste tendenze erronee e pericolose si possono vincere solo se si rinsaldano i legami dell’arte con il complesso della spiritualità umana, e in particolare con la 66

sfera morale. Ciò significa comprendere che il sentimento a cui l’arte dà espressione, come già accadeva nel saggio precedente, è in realtà «tutto lo spirito, che ha pensato, ha voluto, ha agito, e pensa e desidera e soffre e gioisce, e si travaglia in sé stesso». Ne deriva una conseguenza importante, che certo è piuttosto lontana dalla forte affermazione dell’autonomia della sfera intuitiva che aveva marcato gli esordi estetici di Croce: «fondamento di ogni poesia è la personalità umana, e, poiché la personalità umana si compie nella moralità, fondamento di ogni poesia è la coscienza morale»79. Il legame, che Croce non dissimula, tra questi approfondimenti teorici della teoria estetica e le posizioni del suo gusto personale non ha soltanto la conseguenza di gettare un sospetto di strumentalità su tali ‘integrazioni’, ma ha quella, assai più grave, di rendere molto difficile cogliere le autentiche motivazioni speculative che pure si muovono al fondo di esse. Il vero problema teorico che sta alla radice di questi nuovi sviluppi dell’estetica crociana è infatti ancora quello che si era manifestato nel Breviario, ossia la questione della relazione dell’arte-intuizione con le altre forme spirituali, e insomma il problema del ‘sistema’ e del ‘circolo’ tra i distinti, ma è difficile coglierlo nella sua purezza in questi saggi se non si ha presente tutta la complessa elaborazione cui va incontro nel tardo Croce il tema della pratica e del sentimento. Si può però notare, anche solo dalle ultime frasi citate dalla Aesthetica in nuce, come il sentimento finisca qui per coincidere con la totalità delle forme spirituali nella loro indistinzione, una posizione che, se ha il pregio di chiarire cosa significhi da un punto di vista sistematico il carattere di totalità, e perché esso venga affidato da Croce alla ‘materia’ piuttosto che alla ‘forma’ dell’arte, apre poi tutta una serie di difficoltà filosofiche spinosissime, sulle quali Croce si travaglierà, si può dire, 67

fino al termine della vita. Ma queste difficoltà, si è già detto, difficilmente possono essere percepite dal lettore che si limiti ai due scritti crociani del ’17 e del ’28: sì che essi, nella loro ricezione, così come accadeva, nello stesso arco di anni, alla dibattutissima questione del rapporto tra ‘struttura’ e ‘poesia’, furono piuttosto occasione di molti ricami retorici e di molte discussioni sfocate, piuttosto che di una considerazione attenta alle loro effettive implicazioni filosofiche80. 1.6. Ultimo tempo dell’estetica crociana: «La poesia» Chiuso il ciclo dei saggi dedicati ai grandi autori della letteratura europea, sul piano della critica letteraria Croce tornò a occuparsi prevalentemente di letteratura italiana dal Trecento al Settecento, in un’opera di scavo paziente che portò alla riconsiderazione di moltissimi poeti anche minori e dimenticati. Nacquero così le raccolte Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1931), Poesia popolare e poesia d’arte (1933) – aperta da un saggio importante dal punto di vista teorico, nel quale Croce negava la possibilità di istituire una differenza di principio tra la poesia dotta e quella cosiddetta popolare, e criticava le teorie del secondo romanticismo che avevano invece irrigidito tale distinzione –, i volumi sui Poeti e scrittori del pieno e tardo Rinascimento (1945; 1952) e le «note critiche» della Letteratura italiana del Settecento. Croce riprese poi a interessarsi di autori italiani contemporanei, riunendo i suoi interventi in due volumi aggiuntivi della serie La letteratura della nuova Italia (il quinto e il sesto, 1939-1940); parallelamente, continuava la lettura, spesso occasionale, di autori classici o stranieri moderni (Poesia antica e moderna, 1941; Letture di poeti, 1950). Si trattava spesso di rapide note di lettura, di puntualizzazioni su alcuni problemi critici, di impressioni di un lettore onnivoro e inquieto. Croce sorprende sempre per la vastità 68

dei suoi interessi e la capacità di spaziare su territori sterminati, ma mentre i suoi saggi italiani vengono a costituire un tessuto di analisi preziose, dalle quali la ricerca successiva non potrà prescindere, per i saggi sugli autori antichi o stranieri (da Terenzio a Walther von der Vogelweide, da Catullo a Rétif de la Bretonne a Gerard Manley Hopkins) non sembra talora possibile evitare il sospetto di una certa estemporaneità. Gli anni successivi al 1930 vedono anche un ritorno intenso ai problemi della storia dell’estetica, con lo scritto assai significativo Le due scienze mondane: estetica ed economia, del 1931, l’ampia Iniziazione all’estetica del Settecento, la conferenza di Oxford sulla Defence of Poetry di Shelley, e i saggi particolari su Baumgarten, Schleiermacher, l’estetico ungherese Szerdahelyi, i teorici dell’Einfühlung, la questione della morte dell’arte in Hegel81. E come già negli anni Dieci le integrazioni teoriche erano state precedute da un saggio di storiografia estetica nel quale Croce prendeva le distanze dal metodo seguito nella Parte storica dell’Estetica 82, così a questi saggi di storia tien dietro lo scritto di estetica più ampio e importante composto da Croce dopo il trattato di inizio secolo, il volume La poesia, pubblicato da un Croce ormai settantenne nel 1936. Non deve indurre ad affrettate considerazioni il fatto che il volume prenda il titolo da un’arte particolare, appunto la poesia. Croce non negava affatto la tesi iniziale dell’insussistenza di arti particolari, e nell’ultima parte dell’opera riconfermava che comporre libri teorici sulle singole arti è bensì opportuno, ma «non perché in ciascuna siano da ragionare particolari concetti estetici», anzi, al contrario, «per far valere in ciascuna i concetti medesimi dell’Estetica […] attraverso la diversità delle terminologie, delle abitudini mentali, della varia importanza ed urgenza, e del materiale esemplificativo»83. Con La poesia, Croce 69

intendeva far questo per l’arte da lui più assiduamente coltivata in qualità di critico e storico, quasi a suggello della sua «lunga dimestichezza» con l’arte della parola. Anche il secondo e il terzo capitolo dell’opera non giungevano, sostanzialmente, a conclusioni innovative, quanto piuttosto ordinavano ed esponevano in un’ampia sintesi, avvivata da un tono espositivo volutamente molto ‘alto’, a tratti nobilmente magniloquente, quanto Croce era venuto fissando, in campo estetico, dal Breviario in poi. Così il secondo capitolo confermava la necessità degli studi filologici, linguistici e storici in campo letterario, ma solo come sussidi e condizioni necessarie, non però sufficienti all’interpretazione, ribadiva l’inscindibilità, nel concreto esercizio ermeneutico, di giudizio estetico e di giudizio storico, aggiungeva osservazioni sulle inevitabili imperfezioni che si annidano anche nelle opere dei poeti più alti, e verso le quali invocava «indulgenza», così come l’«indifferenza» era l’atteggiamento raccomandato verso le altrettanto inevitabili «parti strutturali» dei poemi. Il terzo capitolo riprendeva la tesi della critica letteraria come sintesi di momento intuitivo e momento logico, di sensibilità e pensiero. Il critico letterario è un filosofo, che non si limita a rivivere in sé l’impressione della bellezza, ma la giudica, ossia la proclama esistente inserendola in un giudizio categoriale, e la caratterizza tramutandosi in psicologo empirico. Mai forse come in queste pagine è forte in Croce l’insistenza sull’«unicità» della poesia, che non soffre qualificazioni e divisioni. Il brutto, l’imperfezione, il difetto sono molteplici, ma la bellezza è «unica e indivisibile, e identica in tutti i poeti»: il brutto ha mille forme, il bello ne ha una. Se il giudizio estetico è sempre anche giudizio storico, nel giudizio dell’opera e dell’artista si compie anche l’ufficio della storia letteraria, e richiedere una storia che metta in contatto le personalità artistiche con gli 70

avvenimenti storico-politici o le leghi tra loro secondo qualche schema di successione significa cadere, come già sappiamo, nelle «false storie della poesia». Le opere letterarie non sono documenti, sui quali costruire una storia; o, per meglio dire, quando vengono assunte come documenti cessano di essere opere d’arte. Le vere novità si affollano tutte nel primo capitolo, nel quale Croce ammette la possibilità di considerare, accanto all’espressione poetica vera e propria, alla poesia, anche l’espressione che si è convenuto di chiamare letteraria: la letteratura, un termine che negli scritti crociani del primo periodo ha quasi sempre un’accezione negativa, e serve a indicare le opere ripetitive, non ispirate, impoetiche, retoriche84, prende posto accanto alla poesia, per indicare qualcosa di positivo. La letteratura aggiunge la forma elegante, curata, aggraziata, e insomma artistica, a contenuti svariati, di effusione immediata, di parenesi religiosa o di incitamento politico, a opere di scienza o di filosofia, o a semplici lavori di intrattenimento, e consiste «nell’attuata armonia tra le espressioni non poetiche, cioè le passionali, prosastiche e oratorie o eccitanti, e quelle poetiche, in modo che le prime, nel loro corso, pur senza rinnegare se stesse, non offendano la coscienza poetica ed artistica»85. Rientrano nella letteratura nella sua forma ‘passionale’ le opere di Byron o Lamartine, ma anche il De imitatione Christi; in quella ‘prosastica’, ad esempio, le prose galileiane e volterriane, in quella ‘oratoria’ i romanzi popolari di Sue o di Ohnet. La letteratura è dunque una mescolanza, un’unione nella quale permangono le componenti dell’unione, «l’elemento sia intellettuale sia sentimentale sia oratorio da una parte, e dall’altra la forma che è bella; il che rende possibile un duplice giudizio […], secondo la forma letteraria e secondo il contenuto reale»: la dualità di contenuto e forma, radicalmente negata dall’Estetica nel 71

campo della poesia, riacquista cittadinanza in quello della letteratura, e con essa, almeno in parte, anche la tanto vituperata retorica86. Era certamente abbastanza perché si parlasse, sia da parte degli anti-crociani che da parte dei crociani, di una revisione radicale dei principi da cui Croce era partito, di una ‘terza’ o di una ‘quarta’ estetica, che si allontanava dalla prima assai più di quanto avessero fatto le successive ‘integrazioni’. Un crociano défroqué come Alfredo Gargiulo vide nella Poesia la bancarotta, la «crisi» definitiva di un’estetica nella quale «i principali nodi della dottrina estetica crociana vengono al pettine», mentre da parte dei fedeli si preferì insistere sulla pieghevolezza e l’elasticità che acquistavano le rigide categorizzazioni originarie, e Luigi Russo parlò di un Croce disposto ormai a distinzioni «non più categoriali ma di carattere più duttilmente storico», scorgendo nel libro «non un volume di filosofia dello Spirito, ma metodologia dictante mescolata a critica letteraria in atto»87. Entrambe queste posizioni potevano richiamarsi a motivi realmente presenti nel testo. Le seconde, in particolare, potevano sembrare avallate dalla tendenza di Croce a presentare la Poesia come un’attenuazione del suo «giovanile radicalismo»88, e dal peso indubbiamente notevole che nella economia dell’opera finiva per prendere il riconoscimento del carattere civilizzatore, educativo, dell’espressione letteraria. La quale è per Croce «una delle parti della civiltà e del galateo», tanto che si può affermare che «se la poesia è la lingua materna del genere umano, la letteratura è la sua istitutrice nella civiltà»89. La letteratura, insomma, come fonte di incivilimento, come ciò che rende gentili gli animi e alligna nelle epoche di cultura: motivo che certo era alimentato in Croce anche dalla volontà di opporre la funzione educatrice della letteratura alla violenza e alla barbarie che tornavano in quegli anni a minacciare l’Europa. 72

Se tuttavia gli interpreti, oltre a sottolineare l’indubbia presenza di questi tratti, avessero fissato con maggiore precisione lo statuto teorico del nuovo oggetto, la letteratura, sarebbero stati ricondotti a una situazione per un verso persino più complessa di quella da loro delineata, per un altro assai meno distante, nel suo impianto fondamentale, da quella che era emersa dai volumi della Filosofia dello Spirito. A ben guardare, infatti, Croce introduceva il discorso sull’espressione letteraria, proprio ad apertura del volume, mediante un esame di quattro forme diverse di espressione: l’espressione sentimentale o immediata, l’espressione poetica, l’espressione prosastica e l’espressione oratoria. Il termine ‘espressione’, usato in tutti e quattro i casi, non deve indurre in equivoco: come Croce aveva cura di puntualizzare già in una della Postille che accompagnano il volume, e come poi avrebbe esplicitato ripubblicando le stesse pagine nella antologia Filosofia Poesia Storia del 195190, le quattro classi di espressioni non sono affatto quattro tipi o forme dell’unica intuizioneespressione, che è e rimane l’arte, e che nello schema appare al secondo posto. Le quattro ‘espressioni’ non sono altro che i celebri ‘distinti’, le categorie o forme dello spirito. Esse sono viste bensì sotto la specie del loro riflesso o della loro vita nel linguaggio (donde la scelta di chiamarle ‘espressione’), ma sono appunto ancora la forma pratica come sentimentalità, l’arte, la filosofia, e di nuovo la forma pratica come azione (la prassi non è più sdoppiata in economia ed etica, ma piuttosto in passività e attività). Ed è tanto vero che le quattro espressioni sono in realtà le categorie o concetti puri, che il loro rapporto è spiegato nel paragrafo quinto con il termine ‘ ricorso’, con il quale già in precedenza Croce aveva designato il ‘circolo’ delle forme spirituali. Croce è molto netto nell’affermare che la letteratura non appartiene al novero delle quattro forme 73

fondamentali, che nel nesso dei distinti non la si incontra né la si può incontrare, «perché l’espressione letteraria appartiene a un altro piano e non a quelle forme fondamentali». Se essa appartenesse al piano delle strutture trascendentali, allora veramente si aprirebbe uno iato e opererebbe una rottura radicale nell’edificio filosofico crociano, e ciò non tanto, come verrebbe naturale pensare, per l’inserzione di una nuova e aggiuntiva categoria, quanto perché a un’attività che si costituisce come incontro e intersezione di categorie diverse si ascriverebbe, in modo del tutto inconseguente per quella filosofia, lo statuto di principio fondante. Croce si guardava bene dal farlo, scegliendo piuttosto l’unica soluzione possibile all’interno del suo sistema: un’attività che si attua come mescolanza di principi diversi non può essere, se viene riguardata nella sua essenza, che frutto di attività pratica e di pratica costruzione: l’espressione letteraria, nella sua positività, non può che appartenere alla forma pratica dello spirito. Essa nasce «da un particolare atto di economia spirituale, che si configura in una particolare disposizione e istituzione». Che sia istituzione, vuol dire che si costituisce all’interno della storia e non è condizione della storia stessa, come le categorie: ha natura di «pratica combinazione», che sorge dalla fusione dell’espressione poetica con le forme extrapoetiche91. Questa riconduzione della letteratura alla forma pratica dello spirito, che nella Poesia era bensì presente, ma non argomentata in extenso, Croce la illustrò a più riprese in seguito, spinto proprio dalla volontà di dissipare i fraintendimenti che il nuovo concetto aveva suscitato. Così in uno scritto del ’46 sulla dottrina della distinzione e delle quattro categorie, Croce scrisse che l’espressione letteraria, nella sua teoria, si rivelava appieno «un geniale prodotto dello spirito pratico, del ‘tatto’ pratico», e specificava che 74

«chi qui tiene le carte del gioco è sempre uno solo: il senso del conveniente, del sermo opportunus qui est optimus, il bisogno pratico, il fine da raggiungere di una bellezza che si pieghi a servire alla verità e che in questo ufficio rinunzi alla sua indipendenza e perciò non sia più la pura bellezza ma mezzo e parte di un’opera pratica», mentre nel saggio successivo sulla letteratura come opera di civiltà, domandatosi da quale forma dello spirito la letteratura fosse lavorata, rispondeva che nel suo caso «il demiurgo è l’ingegno pratico, identico in ogni lavoro pratico», giacché pratico e solo pratico può essere «l’adottamento della forma poetica (o estetica che si chiami), astratta dalla poesia, a uso di ciò che in sé e per se stesso non è poetico»92. Con queste precisazioni Croce veniva bensì a rispondere a quegli interpreti che avevano creduto di superare le difficoltà della nuova teoria crociana indebolendo, per dire così, il quadro categoriale in cui essa si muoveva, e facendo della letteratura una sottocategoria o una forma di transizione tra categorie93, ma non evitava di suscitare altre, e altrettanto ardue, difficoltà. Come accadeva nel caso dei tardi saggi sulla filosofia del linguaggio ai quali ci siamo riferiti in precedenza, Croce era spinto ad ampliare il ruolo delle costruzioni pratiche in campo conoscitivo ed estetico, mostrandosi assai più incline di un tempo a riconoscere loro una relativa legittimità, ma urtava per questa via in nuove aporie. Tali difficoltà venivano in primo piano, in entrambi i saggi citati, mediante l’accostamento della letteratura come opera pratica alle scienze naturali in quanto operanti tramite pseudo-concetti (ossia mediante forme pratiche che surrogano la teoria, secondo la nota dottrina crociana) e alla logica formalistica in quanto rivestimento della verità al fine di una sua migliore comunicazione. Come infatti lo pseudo-concetto crociano rivela un nesso strettissimo con quel che nella sua filosofia è 75

a rigore l’errore (una prassi che vuole sostituire la teoresi)94, così la struttura della letteratura finiva per manifestarsi omologa a quella che, nell’estetica crociana, dovrebbe essere propria del brutto (che è anch’esso opera pratica che presume di incarnare un valore estetico). La difficoltà radicale, che pensata a fondo rischiava, essa sì, di scuotere le fondamenta dell’edificio crociano, era quella di capire come fosse possibile continuare a parlare di attuazione della bellezza senza che il discorso venisse riportato alla categoria fondativa della bellezza stessa, ossia l’esteticità. Ma, come in molte altre circostanze, la ripresa e la circolazione del concetto di letteratura da parte degli interpreti avvenne senza che venissero fissati e discussi i nessi più ardui della sua collocazione sistematica. Anche nel caso della tarda speculazione estetica crociana, insomma, si ripeteva il destino che sembrava aver accompagnato la larga diffusione di quell’estetica fin dai suoi esordi, e per tanti decenni: di venire utilizzata come risultato, piuttosto che problematizzata: di trapassare in applicazione, piuttosto che di venire ripensata sul terreno che era il suo proprio, quello della filosofia dalla quale era nata o meglio che aveva fatto nascere, e che sempre aveva continuato ad alimentare. 1.7. I crociani L’enorme influenza esercitata da Croce nella prima metà del secolo si manifestò soprattutto attraverso l’orientamento della critica letteraria e artistica. Moltissimi critici trovarono nell’estetica crociana un retroterra al quale fare riferimento, e nel modo crociano di fare critica un esempio e un modello da seguire, talora discostandosene sulla base della propria sensibilità e delle proprie particolari esigenze, senza però giungere mai, o quasi mai, a mettere in discussione l’impianto filosofico che gli forniva alimento. Pochissimi furono invece gli autori che svilupparono, nell’orizzonte 76

crociano, un proprio discorso teorico, e anche quei pochi furono piuttosto interpreti e divulgatori che continuatori, se continuare il pensiero di un filosofo significa discuterlo, e non semplicemente ripeterlo. L’estetica di Croce ebbe numerosissimi adepti e applicatori, e numerosi avversari; prosecutori, pochi o nessuno. Fu, in fondo, lo stesso Croce a scoraggiare sviluppi in tal senso, sia perché, con la sua continua attività di approfondimento e schiarimento, rendeva difficile e superfluo che qualcuno gli si affiancasse su quel terreno, sia perché fu sempre il primo a consigliare, agli amici e agli studiosi più giovani a lui vicini, di volgersi a concreti lavori di critica e di storiografia. Quando si è trattato di offrire qualche ragguaglio sulla situazione nei primi vent’anni del secolo abbiamo segnalato la presenza di alcuni contraddittori e dei primi critici di orientamento crociano, ma nessun teorico vero e proprio; e la situazione non muta, sostanzialmente, se si estende lo sguardo ai decenni successivi. Certo, qui c’è almeno qualche nome da fare: ma si tratta appunto, per quanto riguarda l’estetica, di epigoni. Di Caramella (1902-1972) andranno menzionati i primi lavori, non immuni per altro da influenze gentiliane (Storia del pensiero estetico e del gusto, 1925); Attisani scrisse nel 1924 un volume su L’estetica di B. Croce; successivamente rivolse qualche obiezione a Croce, salvo poi ritirarla dopo le precisazioni dell’interessato, a proposito del concetto di letteratura95. Antoni (1896-1959) diede, nel 1924, un’esposizione molto piana e divulgativa del pensiero del maestro (Il problema estetico), e successivamente un Commento a Croce (1955), mentre postume sarebbero uscite le sue Chiose all’estetica e la lettura dell’estetica hegeliana96. Parente (1905-1985), di cui più avanti vedremo il contributo specifico all’estetica musicale, nel secondo dopoguerra ha insistito in particolare sul problema del sentimento e della sua dialettica in arte97. 77

Non fu crociano, ma semplicemente amico di Croce, Sarno (1887-1932), figura appartata e singolare. Sarno si suicidò a quarantacinque anni e Croce ne raccolse in un volumetto, Pensiero e poesia, i pochi scritti, caratterizzati, per quanto riguarda la forma, da un tono aforistico e sognante, e per quanto riguarda i contenuti da un curioso recupero dell’idea campanelliana del conoscere come «farsi altro»98. Crociano solo nei primissimi anni, e poi invece apertamente anti-crociano è stato Tilgher (1887-1941). Critico teatrale battagliero e acuto, tra i primi estimatori del teatro pirandelliano (Studi sul teatro contemporaneo, 1923; La scena e la vita, 1925), teorico significativo della ‘crisi’ del dopoguerra (La crisi mondiale, 1920), autore di un notevole saggio sulla Filosofia di Leopardi (1940), avversario acerrimo anche di Gentile (Lo spaccio del bestione trionfante, 1925), Tilgher è un personaggio interessante, che andrebbe meglio conosciuto: il giudizio molto duro che su di lui ha dato Garin («un aneddoto della confusione mentale da cui uscirono insieme vittime e persecutori» del fascismo) è polemico e riduttivo99. In estetica, campo del quale si occupò costantemente (Arte, conoscenza e realtà, 1911; Estetica, 1931; Studi di poetica, 1934), propose un’idea dell’arte come «esperienza autosufficiente e assoluta». La vita vissuta è sempre tensione verso qualcosa che le manca, e in cui spera di raggiungere la completezza, mentre l’arte è «vita innamorata di se stessa, autosufficiente, chiusa, delineata, circoscritta in se stessa». Più che in questa tesi di fondo, gli spunti interessanti dell’estetica di Tilgher stanno però altrove, per esempio nelle osservazioni sulla necessaria presenza dell’attività critica nella creazione artistica e sulla natura della critica stessa. In luogo di svilupparle, però, Tilgher si piccò di voler «superare» l’estetica di Croce, opponendogliene una propria, per la quale gli mancava la materia e anche la lena, e per costruirla si ridusse spesso 78

semplicemente a ribattere punto per punto le tesi crociane. La sua vicenda ha qualcosa di prossimo a quella di Borgese, di cui ci occuperemo nel terzo capitolo, e al quale in effetti è stato spesso accostato; registrarlo nel paragrafo dedicato ai crociani non è comunque solo esercitare nei suoi confronti una sorta di contrappasso, ma riconoscere quanto di vero c’è in un giudizio che su di lui ebbe a dare Russo: «ci sono due modi di farsi imitatori di un maestro, o nell’esserne pedissequo ortodosso ripetitore o ancora peggio nel farsene rivoltoso e facinoroso deformatore»100. Molto vario e ricco, per le ragioni che si dicevano, è invece il panorama della critica letteraria di orientamento crociano. Se i primi crociani, quelli che esordirono all’inizio del secolo, come Borgese o Gargiulo, erano destinati a rinnegare presto il maestro e a seguire strade proprie, assai più fedeli discepoli si rivelarono i crociani delle generazioni successive. Qui i nomi da fare sarebbero veramente tanti, da Flora a Bosco, da Sansone a Getto, da Russo a Fubini, da Momigliano a Petrini per la letteratura italiana, da Valgimigli a Perrotta a Rostagni per le letterature antiche, da Farinelli a Santoli, da Trompeo a Neri per le letterature straniere moderne; si dovrebbe poi ricordare come l’influsso di Croce sia stato notevole su tutta una serie di critici che in seguito si avvicinarono al marxismo, temperando in senso latamente sociologico il loro crocianesimo di partenza (Sapegno, Petronio, Salinari, Muscetta), o su altri che presero vie sempre più autonome, come Binni. Tuttavia questa non è una storia della critica letteraria, è una storia dell’estetica, ragione per cui importa soffermarsi solo su quei critici che diedero spazio a una riflessione ulteriore sulla loro attività. A questo proposito, lasciati da parte i casi dei crocio-marxisti o di Binni, nei quali l’elaborazione teorica riguarda soprattutto la ricerca di un distacco, almeno parziale, da Croce, tra i crociani più 79

ortodossi si segnalano soprattutto Flora, Russo e Fubini. Flora (1891-1962) fu molto vicino a Croce (negli anni del fascismo fu lui ad assumere, dal punto di vista legale, la direzione della «Critica»), e se ne professò sempre seguace: abbracciare posizioni diverse da quelle crociane, ebbe a dire una volta, «è come tornare al petrolio dopo la luce elettrica». Ma la lettura che egli dà dell’identità di linguaggio e arte, e che è il nucleo della sua estetica, non sembra in linea con le posizioni del maestro. Flora interpreta quell’identità nel senso di un primato del linguaggio verbale, di un’originarietà della parola, alla quale si riducono, in ultima analisi, tutte le forme espressive. Ogni segno, sia esso figurativo o musicale, si riporta al discorso mentale, vive nella parola che «implica tutti i segni […] giacché li nomina». In tutte le arti, come nel pensiero, la sintassi è sempre verbale101. Piuttosto che in questi conati di teoria quel che è interessante in Flora è il suo porre l’estetica crociana al servizio di una sensibilità e di un gusto molto diversi da quelli di Croce, e assai più aperti verso l’arte contemporanea (Dal romanticismo al futurismo, 1921; Saggi di poetica moderna, 1949). Russo (1892-1961) aderì alla metodologia crociana fin dai suoi primi lavori, il saggio su Metastasio (1915) e la monografia su Verga (1919); solo nel secondo dopoguerra, e per ragioni strettamente politiche, entrò in contrasto con Croce. Ma l’innegabile prossimità all’impianto crociano non deve far passare in seconda linea il fatto che Russo manifestò, almeno a partire dagli anni Venti, una certa insofferenza verso il modo crociano di intendere il legame tra arte e storia, e andò in cerca di uno «storicismo integrale», nella definizione del quale si aprì alle suggestioni che potevano venirgli da Gentile (come vedremo nel prossimo capitolo), e soprattutto da De Sanctis (Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, 1928), cosicché la più tarda adesione al marxismo e l’influenza gramsciana 80

trovarono un terreno già disposto ad accoglierle. Sul piano, diciamo così, tecnico, il momento di massimo distacco da Croce, prima del dissidio ideologico, è rappresentato dalla discussione sul concetto di struttura nella Commedia. Nel saggio La genesi e l’unità della Divina Commedia, del 1927, Russo leggeva la distinzione crociana di poesia e struttura come «preesistenza della struttura alla poesia», e le opponeva la convinzione che «la struttura è nient’altro che lo stesso mondo storico dell’artista in cui la poesia si riconosce e si attua», anche se egli stesso, a dir la verità, aveva prima parlato della poesia come «generazione lirica» (e non, crocianamente, «lirica» tout court), dunque come un «fiore che sorge su un’ecatombe di storia»102. Polemista instancabile, scrittore pieno di temperamento, Russo è critico che bada più al mondo delle idee degli autori che legge che alle loro qualità stilistiche e alla forma verbale. Essa è invece al centro delle preoccupazioni di Fubini (1900-1977), lettore acuto e sensibile di de Vigny, Racine, Foscolo, Alfieri, studioso di Vico da un punto di vista stilistico (Stile e umanità di Giambattista Vico, 1946), storico della cultura letteraria dell’illuminismo e del romanticismo italiani103. Anche come teorico, tuttavia, Fubini è interessante. Egli tende a dissimulare il proprio impegno in tal senso («Io non sono che un critico», afferma come Iago in Shakespeare), ma specie nell’ultima parte della sua vita, negli scritti poi raccolti nel volume Critica e poesia, le sue riflessioni metodologiche si fanno frequenti ed estese. Apparentemente, il suo presentarsi come un semplice discepolo ed esegeta dell’estetica crociana è del tutto giustificato. Quando, nel 1947, viene pubblicato un volume di Calogero in cui si rifiutano molte tesi dell’estetica del filosofo (cfr. più avanti, 4.3.), Fubini scrive un lungo articolo in cui ribatte, punto per punto, alle conclusioni di Calogero, ristabilendo il punto di vista 81

crociano. L’indagine storico-teorica su Genesi e storia dei generi letterari (1948) conferma appieno la tesi crociana del carattere pratico dei generi, mentre il saggio su Critica e poesia aderisce all’idea crociana della critica come giudizio, ulteriore alla semplice lettura. Ma altrove Fubini è assai più indipendente. Ciò accade non solo a proposito dell’interpretazione del concetto crociano di letteratura, ma anche, e la cosa si rivela molto significativa in prospettiva storica, nella difesa che Fubini intraprende dell’approccio stilistico-formale all’opera letteraria: nei saggi sulla critica stilistica, infatti, pur cercando di salvaguardare sempre il punto di vista crociano, Fubini teorizza in sostanza un tipo di critica che è parecchio distante da quella praticata e auspicata da Croce104. Se la diffusione delle idee crociane nell’ambito della critica letteraria poteva rifarsi alla concreta attività di Croce come critico letterario e ai suoi numerosissimi lavori in tale campo, nulla di tutto questo accadeva per la musica, arte della quale Croce non ebbe nessuna pratica e alla quale manca pressoché ogni riferimento nelle sue opere. Eppure, specie tra il Venti e il Quaranta anche nella critica musicale l’influsso di Croce fu diffuso e condizionante. È stato osservato che tra le due guerre «quasi tutta la cultura musicale, la critica, la storiografia» sono state caratterizzate dal tentativo di «applicare anche alla musica l’estetica crociana»105. Anche qui si nota una differenza rispetto alla penetrazione di Croce nei primi anni del secolo, perché in autori come Torrefranca il condizionamento esercitato dall’estetica crociana è assai meno forte di quanto accade nei crociani dei decenni seguenti, i ‘bassi crociani’ opposti agli ‘alti crociani’, secondo la dizione di Russo. Parente, autore nel 1936 del volume teorico La musica e le arti, è il prototipo stesso del crociano sempre disposto a giurare in verba magistri. Il libro si conclude con un Elogio dell’estetica crociana, 82

in cui l’autore si professa «pago e giocondo di aver colto […] qualche piccolo frutto da un grande albero annoso», mentre nell’esordio aveva indicato il proprio compito in quello di «portare anche nel torpido campo della cultura musicale un po’ della chiarezza che ha così vividamente illuminato nei nostri tempi la concezione dell’arte»106. Di fatto, Parente adotta sempre le soluzioni crociane, a proposito del sentimento nella musica, della tecnica, dei generi; ma le meccanizza quanto può anche fuori del solco stretto della opinione crociana, per esempio quando riduce l’interpretazione musicale a mera tecnica, funzione pratica «del tutto passiva rispetto all’attività dell’artista»107. Per fortuna, non in tutti i casi l’estensione delle teorie crociane alla musica è così bornée. Negli anni Trenta si sviluppa intorno alla «Rassegna musicale» un vivace dibattito proprio sull’interpretazione musicale, al quale prendono parte, oltre a Parente, altri teorici di orientamento crociano, ma con posizioni più duttili, come Gatti (1892-1973) e Graziosi (1911-1966), il quale più tardi raccoglierà i suoi interventi in un volume apposito (L’interpretazione musicale, 1952), e, su posizioni che diremmo piuttosto gentiliane, Pugliatti. La discussione sui generi in musica è ripresa, sempre rispettando le indicazioni crociane, ma con maggiore apertura, da Ronga (1901-1983; L’esperienza estetica della musica, 1960). E se Pannain (1891-1977) è ancora molto aderente ai dettami crociani (La vita del linguaggio musicale, 1947), un rapporto assai più libero con la lezione crociana, mai abbandonata, manifesta il più giovane Mila (19101988), autore, oltre che di una fortunatissima Breve storia della Musica in cui è evidente l’accettazione di alcuni principi della storiografia artistica crociana, anche di saggi teorici. In particolare, in quelli raccolti in L’esperienza musicale e l’estetica (1950) prende un partito non del tutto anti-formalistico, riabilita in parte Hanslick, castigato da 83

Parente ben oltre quel che avveniva nella Parte storica dell’Estetica di Croce, e riflette soprattutto sul concetto di espressione in arte, insistendo sul suo carattere involontario e inconsapevole, allo scopo di mettere in guardia contro «l’accezione spicciola, pluralistica e psicologica» che il termine ‘sentimento’ prende spesso nella critica dei crociani108. Ancora diverso è il quadro che presenta la critica delle arti figurative, e non tanto perché qui, se non gli esempi di critica in atto da parte di Croce, potevano contare almeno i numerosi interventi relativi alla metodologia della critica d’arte, quanto perché in questo ambito, più che non accadesse negli altri, le teorie crociane interagiscono con impostazioni parzialmente diverse (soprattutto con la lezione che proviene dal purovisibilismo) dando luogo a posizioni più articolate, più libere. Il primo Longhi (18901970) si professa esplicitamente crociano e ancora molti decenni più tardi egli chiamerà Croce «il grande liberatore delle nostre menti giovanili»109. Ma il suo metodo risente di altri influssi, primi fra tutti quelli berensoniani. Un accenno a Longhi in una storia dell’estetica deve prescindere da ogni richiamo alla funzione della sua critica, e sottolineare piuttosto come Longhi venisse via via accentuando la diffidenza verso la teoria pura, fino a parlare di «difficoltose comunicazioni» con l’idealismo crociano e soprattutto della propria volontà di tenersi lontano «dalle nevi eterne del pensiero»: nel che andrà visto, probabilmente, un portato della sua attitudine di formidabile connaisseur110. Sotto questi rispetti, l’atteggiamento di Venturi (1885-1961) può ben essere detto antitetico a quello longhiano, se per Venturi il momento teoretico è sempre essenziale alla critica: la Storia della critica d’arte da lui pubblicata in America (Venturi, oppositore del fascismo, vi era andato in esilio) è in realtà, in gran parte, una storia delle idee estetiche. Venturi aveva 84

assimilato la grande tradizione filologica in famiglia (era figlio dello storico dell’arte Adolfo), ma ben presto si era aperto all’influsso dell’idealismo (La critica e l’arte di Leonardo, 1919); negli anni Venti egli ebbe a discutere con Croce, che pure ammirava, per rispondere alle critiche radicali che il filosofo rivolgeva in quegli anni al Wölfflin e, in generale, alla pura visibilità, e, nel farlo, Venturi poteva basarsi sul fatto che la lettura formale dell’opera d’arte, per quanto anatemizzata da Croce nelle prese di posizione esplicite, tuttavia continuava ad apparire in qualche modo autorizzata dalla sua teoria, e in specie dalla prima Estetica: si prospettava qui un’oscillazione assai significativa per la critica d’arte del Novecento, e destinata a ripresentarsi in modo sostanzialmente omologo in ambito letterario a proposito della critica stilistica. Sul piano della teorizzazione autonoma il punto di massimo allontanamento da Croce è rappresentato dall’impiego della nozione di gusto, inteso come «l’insieme delle preferenze nel mondo dell’arte da parte di un artista o di un gruppo di artisti»111. Dissociando il binomio crociano genio-gusto, Venturi cercava di dotarsi degli strumenti per legare l’opera d’arte alla storia, e alla storia della cultura in specie; e per questa via finiva per precorrere le richieste che di lì a poco si sarebbero catalizzate, in ambito letterario non-crociano, attorno alla nozione di ‘poetica’112. L’incontro tra crocianesimo e purovisibilismo non è verificabile solo in questi autori, ma è costante in molti altri, sia pure con accentuazioni ora dell’uno ora dell’altro ingrediente: in Marangoni (1876-1958) è forte il richiamo verso la lettura formale dell’opera e l’utilizzo di Croce in chiave soprattutto liberatoria, in negativo (Saper Vedere, 1933), mentre in Bottari (1907-1967) predomina l’esigenza opposta di temperare il formalismo (La critica figurativa e l’estetica moderna, 1935); crocianesimo e pura visibilità 85

convivono con sensibilità e ascendenze diverse in Ortolani (1896-1949) e in Salvini (1912-1985). Un’applicazione dell’estetica crociana all’architettura è stata tentata da Vitale (1887-1964) (Estetica dell’architettura, 1928), mentre, con ben altri risultati, Bianchi Bandinelli (1900-1975) mise una formazione crociana e venturiana al servizio dello studio dell’arte antica. Usciamo invece dal fronte crociano, ed entriamo in quello opposto, anti-crociano, con gli scritti dedicati alle arti figurative da Gargiulo. Avevamo incontrato Gargiulo tra i primi crociani; ma successivamente egli si allontana dal maestro, è tra i protagonisti dell’esperienza della «Ronda», sviluppa un tipo di critica letteraria parecchio discosta, per sensibilità e procedimenti, da quella di Croce. Negli scritti teorici, elaborati faticosamente fin dai primi anni del secolo, ma pubblicati postumi nel 1952, Gargiulo comunque non si occupa quasi mai di letteratura, ma pressoché esclusivamente di arti figurative. Il problema intorno al quale si tormentò, si può dire, tutta la vita, è quello dei «mezzi espressivi» delle varie arti, insomma quello della «tecnica» tanto fastidito da Croce; e per riabilitare la tecnica Gargiulo cercò appoggi dove poteva, per esempio anche nell’estetica di Gentile. Ma il suo sforzo di distinzione si arena, spesso, nella restaurazione di vecchie precettistiche: in uno degli scritti più ambiziosi, l’Avviamento all’estetica della scultura, del 1938-1940, Gargiulo costruisce, a partire dal postulato che la scultura non possa rappresentare azioni ma fatti, una gerarchia delle forme scultoree che va dai gruppi di più figure agenti fino alla statua singola, la sola in fondo che risulti pienamente autorizzata113. Torniamo invece alla convinta accettazione dei principi del crocianesimo con Ragghianti (1910-1987). Critico attivissimo, capace di spaziare dall’arte preistorica a quella contemporanea, e autore di importanti monografie su 86

numerosi artisti, da Michelangelo a Mondrian, Ragghianti ha sempre riservato un’attenzione particolare ai problemi metodologici, come testimoniano, oltre al Profilo della critica d’arte in Italia, le raccolte di scritti Il pungolo dell’arte (1956), Diario Critico (1957), e i tre volumi Arti della Visione (I Cinema, 1975; II Spettacolo, 1976; III Il linguaggio artistico, 1979). Ma il nucleo della sua posizione, nonostante le numerose opere successive, è ancora ricavabile dallo scritto metodologico L’arte e la critica, la cui prima edizione è del 1951. L’intento fondamentale di Ragghianti è quello di liberare la pura visibilità dalle sue radici naturalistiche e positivistiche, in modo da renderne finalmente possibile una felice convivenza, o, diciamo meglio, fusione, con l’estetica idealistica, in una considerazione interamente linguistica (in senso crociano) dell’opera d’arte114. Più scolasticamente crociani sono i corollari negativi della critica di Ragghianti, ossia la teorizzata avversione per la sociologia, la psicoanalisi, l’iconologia, e discutibile è la sua ‘riduzione’ del cinema ad arte figurativa115. Ma con Ragghianti, come un semplice sguardo alle date basta a ricordare, siamo ormai al dopo-Croce: quasi tutti i suoi scritti teorici appaiono dopo la morte del filosofo, ed egli è uno dei protagonisti della critica d’arte del secondo dopoguerra. Ragghianti si è mantenuto fedele alla impostazione crociana anche quando la fortuna di Croce sembrava tramontata per sempre. Note 1

B. Croce, Curriculum Vitae, in Id., Memorie della mia vita, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 1966, p. 22; Id., Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A. Croce, Mondadori, Milano 1981, pp. 57, 79. 2 Letta alla Pontaniana il 5 marzo 1893 e pubblicata nello stesso anno, essa si legge ora in B. Croce, Primi saggi, Laterza, Bari 19513. 3 B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, Adelphi, Milano 1989, p. 31. 4 B. Croce, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, in Id., Primi saggi cit.,

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p. 15. 5 Croce, Primi saggi cit., pp. 8-16. 6 B. Croce, Noterelle polemiche (1894), in Id., Primi saggi cit., p. 50. 7 Croce, Primi saggi cit., p. 46. 8 Croce, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, in Id., Primi saggi cit., p. 23. 9 B. Croce, La critica letteraria. Questioni teoriche (1894), in Id., Primi saggi cit., p. 76. 10 Ivi, pp. 83-96. 11 B. Croce, La critica erudita e i suoi avversari (1911), in Id., La letteratura della nuova Italia, vol. III (1915), Laterza, Roma-Bari 19737, pp. 353 sgg.; si veda pure il saggio Le antinomie della critica d’arte (1906), in Id., Problemi di estetica, Laterza, Bari 19666, pp. 42-45. 12 Croce, La critica letteraria, in Id., Primi saggi cit., p. 164. 13 B. Croce, Estetica, Laterza, Bari 196511, p. VII. 14 Laterza, Roma-Bari 197312; la prima edizione è del 1900. 15 B. Croce, Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore, in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, Laterza, Roma-Bari 197312, p. 135. 16 B. Croce, lettera del novembre 1898, in Croce, Lettere a Giovanni Gentile cit., p. 37. 17 Croce, Estetica cit., pp. III, IV. 18 B. Croce, Breviario di estetica, in Id., Nuovi saggi di estetica, Bibliopolis, Napoli 1991, p. 16. 19 B. Croce, Aesthetica in nuce, Laterza, Bari 19728, p. 10. 20 Croce, Estetica cit., p. 11. 21 Ivi, p. 19. 22 Ivi, p. 17. 23 Ibidem. 24 Ivi, pp. 130-140. 25 Ivi, pp. 31-36. Nella redazione del 1902 in luogo di ‘ulteriore’ si leggeva ‘posteriore’. 26 Ivi, p. 149. 27 Ivi, capp. XIII e XV. 28 B. Croce, Prefazione del 1919 a Nuovi saggi di estetica, Laterza, Bari 1920. 29 Sulla Parte storica dell’Estetica, spesso trascurata, si veda L. Russo Una storia per l’estetica, in «Aesthetica Pre-print», n. 19, marzo 1988. 30 Croce, Contributo cit., p. 55. 31 Croce, Estetica cit., p. 98 (il testo, in questa formulazione, risale al 1908). 32 B. Croce, L’umorismo, in Id., Problemi di estetica cit., pp. 279-289. 33 B. Croce, Estetica, Sandron, Palermo 1904, p. 93.

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B. Croce, Tesi fondamentali di un’estetica, ristampa anastatica dell’ed. del 1900, a cura di F. Audisio, Bibliopolis, Napoli 2002, p. 52. 35 B. Croce, recensione a S. Witasek, Principi di estetica generale, in Id., Conversazioni critiche, serie I, Laterza, Bari 19242, pp. 15-17. 36 Croce, Aesthetica in nuce cit., p. 40. 37 Croce, Estetica (ed. Laterza) cit., p. 76. 38 B. Croce, Di alcuni principi di sintassi e stilistica psicologiche del Gröber (1899); Id., Le categorie rettoriche e il prof. Gröber (1900), entrambi ora in Id., Problemi di estetica cit. 39 B. Croce, Stile, ritmo, rima e altre cose (1903), ora in Id., Problemi di estetica cit., pp. 164-171. 40 Croce, Breviario di estetica cit., p. 46. 41 Croce, Estetica (ed. Laterza) cit., pp. 155-156. 42 B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Laterza, Bari 197111, p. 6; Id., L’intuizione e il carattere lirico dell’arte (1908), in Id., Problemi di estetica cit., p. 16. 43 B. Croce, La poesia (1936), Laterza, Bari 19698, p. 20. 44 Croce, Estetica (ed. Laterza) cit., p. 156; Id., Tesi cit., p. 74. 45 Croce, Breviario di estetica cit., p. 49. 46 Cfr. T. De Mauro, Introduzione alla semantica, Laterza, Roma-Bari 19753, pp. 176-180. 47 B. Croce, La filosofia del linguaggio e le sue condizioni presenti in Italia, ora in Id., Discorsi di varia filosofia, vol. I, Laterza, Bari 1945, pp. 241-242; Id., Sulla natura e l’ufficio della linguistica, ora in Id., Letture di poeti, Laterza, Bari 19662, p. 233. 48 B. Croce, Le leggi fonetiche (1903), ora in Id., Problemi di estetica cit., p. 177; Id., La crisi della linguistica (1922), ivi, p. 207; Id., recensione a K.Vossler, Positivismo e idealismo nella scienza del linguaggio (1908), ora in Id., Conversazioni critiche cit., serie I, p. 93. 49 Croce, La letteratura della nuova Italia, voll. I (1914) e II (1916), Laterza, Roma-Bari 19738; voll. III e IV (1915), Laterza, Roma-Bari 19737-8; tutti i saggi vennero da Croce rimaneggiati per la pubblicazione in volume. Cfr. E. Giammattei, Retorica e idealismo. Croce nel primo Novecento, Il Mulino, Bologna 1987. 50 Croce, Contributo cit. p. 41. 51 R. Serra, Scritti letterari, morali e politici, a cura di M. Isnenghi, Einaudi, Torino 1974, p. 457. 52 G. Castellano, Benedetto Croce. Il filosofo. Il critico. Lo storico, Laterza, Bari 19362, p. 33. 53 G. Contini, L’influenza culturale di Benedetto Croce, in Id., Altri esercizi, Einaudi, Torino 1972, p. 43. 54 Croce, La letteratura della nuova Italia, vol. IV cit., pp. 46, 106, 127-128. 55 B. Croce, Intuizione, sentimento, liricità, ora in Id., Pagine sparse, vol. I, Laterza,

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Bari 19603, pp. 212-217. 56 B. Croce, L’intuizione e il carattere lirico dell’arte (1908), ora in Id., Problemi di estetica cit., pp. 3-30. 57 Croce, Breviario di estetica cit., cap. IV. La citazione è a p. 84. 58 Per un’analisi di esse, non possiamo che rimandare al volume di G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Morano, Napoli 1975, pp. 139 sgg. 59 Croce, Breviario di estetica cit., pp. 27-35, 59-76. La citazione è a p. 42. 60 B. Croce, Di un carattere della più recente letteratura italiana, in Id., La letteratura della nuova Italia vol. IV cit., pp. 177-193. 61 G.A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia, Edizioni della ‘Critica’, Napoli 1905; Id., Gabriele D’Annunzio, Perrella, Napoli 1909; A. Gargiulo, Gabriele D’Annunzio. Studio critico, Perrella, Napoli 1912. 62 Di G. Papini si vedano gli scritti (1905-1914) su Croce raccolti in Stroncature, Vallecchi, Firenze 1978, pp. 7-43. 63 G. Prezzolini, Benedetto Croce, Ricciardi, Napoli 1909. 64 Si può leggere ora in E. Cecchi, Ricordi crociani, Ricciardi, Milano-Napoli 1965. 65 Si veda soprattutto il saggio Per un catalogo, ora in Serra, Scritti letterari, morali e politici cit. 66 G. Boine, Un ignoto e L’estetica dell’ignoto, in «La Voce», n. 6, 1912; la replica di Croce, Amori con le nuvole si legge ora in Id., Cultura e vita morale, Laterza, Bari 19553, pp. 127-132. 67 G. De Robertis, Saper leggere, in «La Voce», n. 9, 1915, poi in Id., Scritti vociani, Le Monnier, Firenze 1967, pp. 143-156. 68 Lo scritto si legge ora in Id., Pagine sparse cit., vol. I, pp. 510-515. 69 Il saggio di Croce La riforma della storia artistica e letteraria si legge ora in Id., Nuovi saggi di estetica (ed. Bibliopolis) cit., La Licenza in Id., La letteratura della nuova Italia, vol. IV cit., pp. 241-244. Sull’argomento della storia letteraria un altro testo importante di questi anni è il capitolo Analogia e anomalia delle storie speciali del volume Teoria e storia della storiografia, Laterza, Roma-Bari 197611 (prima ed. italiana 1917, ed. tedesca 1915). 70 Croce, Nuovi saggi di estetica cit., pp. 149-167. 71 U. Carpi, La critica storicistica, in Sette modi di fare critica, a cura di O. Cecchi ed E. Ghidetti, Editori Riuniti, Roma 1985, pp. 13-61. 72 B. Croce, Goethe (1919), Laterza, Bari 19595; Id., Ariosto, Shakespeare e Corneille (1920), Laterza, Bari 19686, p. 73; Id., La poesia di Dante (1920), Laterza, Bari 196611, pp. 2-11. 73 Croce, Ariosto, Shakespeare e Corneille cit., pp. 23, 211, 97 sgg. 74 Croce, La poesia di Dante cit., p. 163. 75 Il primo si legge ora in Nuovi saggi di estetica cit., mentre il secondo è confluito negli Ultimi saggi, Laterza, Bari 1935.

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B. Croce, Il carattere di totalità della espressione artistica, in Id., Nuovi saggi di estetica cit., p. 123. 77 Ivi, pp. 115-116. 78 Croce, Aesthetica in nuce cit., pp. 48-49. 79 Ivi, p. 18. 80 Si veda, per la questione poesia-struttura posta dal volume dantesco, del 1921, il saggio di G. Sasso Croce e Dante. Considerazioni filosofiche su ‘struttura’ e ‘poesia’, in Id., Filosofia e idealismo, vol. I, Bibliopolis, Napoli 1994, pp. 273-368, che ricostruisce anche la lunga discussione suscitata dalla distinzione crociana. 81 Molti di questi saggi sono raccolti in Ultimi saggi cit. 82 Si trattava del saggio Inizio, periodi e caratteri della storia dell’estetica (1916), poi confluito nei Nuovi saggi di estetica cit. 83 B. Croce, La poesia (1936), Laterza, Bari 19698, p. 170. 84 Si veda ad esempio il saggio del 1905 Poeti, letterati, produttori di letteratura, ora in Id., Problemi di estetica cit., pp. 104-112. 85 Croce, La poesia cit., p. 33. 86 Si veda in particolare il saggio La dualità di ‘contenuto’ e ‘forma’, estranea all’estetica e propria della teoria della letteratura, ora in Id., Discorsi di varia filosofia cit., vol. I, pp. 251-260. La citazione che precede è a p. 258. 87 A. Gargiulo, Crisi di un’estetica (1936), ora in Id., Scritti di Estetica, a cura di M. Castiglioni, Le Monnier, Firenze 1952, pp. 302-313; L. Russo, La critica letteraria contemporanea, vol. II, Laterza, Bari 1942, p. 42. 88 Croce, La poesia cit., p. 35. 89 Ivi, p. 33. 90 Si veda La poesia cit., p. 175; nel volume Filosofia Poesia Storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’autore, Ricciardi, Milano-Napoli 1951, il capitolo iniziale della Poesia viene antologizzato sotto il titolo L’espressione pura e le altre cosiddette espressioni (pp. 248-267). 91 Croce, La poesia cit., pp. 32, 47. 92 B. Croce, Sulla teoria della distinzione e delle quattro categorie spirituali, in Id., Filosofia e storiografia, Laterza, Bari 1949; Id., La poesia come opera di verità, la letteratura come opera di civiltà, in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Laterza, Bari 1952. 93 Si veda M. Fubini, Arte, linguaggio, letteratura, in «Belfagor», n. 3, 1948, poi in Critica e poesia, Bonacci, Roma 19732. 94 Cfr. Sasso, Benedetto Croce cit., pp. 57 sgg. 95 A. Attisani, Cosmicità ed eticità dell’arte, Principato, Milano-Messina 1946. 96 C. Antoni, Chiose all’estetica, Editoriale Opere Nuove, Roma 1960; Id., Scritti di estetica, Giannini, Napoli 1968, in cui è ristampato anche lo scritto del ’24. 97 A. Parente, La terza scoperta dell’estetica crociana. Dialettica delle passioni e suo

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superamento nell’arte, in Id., Croce per lumi sparsi, La Nuova Italia, Firenze 1975. 98 A. Sarno, Pensiero e poesia, Laterza, Bari 1943. Gli scritti di Sarno, su cui ha richiamato l’attenzione M. Perniola, sono stati riediti a cura di A. Marroni: A. Sarno, Filosofia del sentire, Tracce, Pescara 1995. 99 E. Garin, Cronache di filosofia italiana, vol. I, Laterza, Roma-Bari 19752, p. 290. Si veda ora, sul ruolo di Tilgher, G. Sasso, Tramonto di un mito, Il Mulino, Bologna 1984, pp. 31 sgg. 100 L. Russo, La critica letteraria contemporanea, vol. II, Laterza, Bari 1942, p. 310. 101 F. Flora, La mia prospettiva estetica, nel volume omonimo a cura di L. Stefanini, Morcelliana, Padova 1953. 102 L. Russo, Problemi di metodo critico, Laterza, Bari 1929, pp. 39-79. 103 Per una ricostruzione complessiva, ma idealmente centrata sull’estetica, dell’opera di Fubini, rimandiamo a V. Stella, Estetica, poesia e storia in Mario Fubini, in Id., L’intelligenza della poesia, Bonacci, Roma 1990, pp. 87-179. 104 Si veda Critica e Poesia cit., pp. 71 sgg. Anche i saggi prima citati sono ristampati in questo volume. 105 E. Fubini, L’estetica crociana e la critica musicale, in Id., Musica e linguaggio nell’estetica contemporanea, Einaudi, Torino 1973, p. 6. 106 A. Parente, La musica e le arti, Laterza, Bari 19462, p. 267 e p. 4. 107 Ivi, p. 229. Di Parente si veda anche Castità della Musica, Einaudi, Torino 1961. 108 M. Mila, L’esperienza musicale e l’estetica, Einaudi, Torino 19784, p. 114. 109 R. Longhi, Omaggio a Benedetto Croce, in «Paragone-Arte», n. 35, 1952, pp. 3 sgg. 110 Ivi, p. 5; R. Longhi, Proposte per una critica d’arte, in «Paragone-Arte», n. 1, 1950. 111 L. Venturi, Il gusto dei primitivi (1926), Einaudi, Torino 1972, p. 15. 112 Si veda V. Stella, Arte come rivelazione ed estetica del gusto in Lionello Venturi, in Id., Forma e Memoria, Ianua, Roma 1985, in particolare p. 165. 113 A. Gargiulo, Scritti di Estetica, a cura di M. Castiglioni, Le Monnier, Firenze 1952. 114 C.L. Ragghianti, L’arte e la critica, Vallecchi, Firenze 1951; seconda ed. ampliata con nuovi saggi, 1980. 115 C.L. Ragghianti, Cinema, arte figurativa, Einaudi, Torino 1952; rifuso in Arti della visione I, Einaudi, Torino 1975.

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Capitolo secondo. L’estetica di Giovanni Gentile

2.1. Il sodalizio con Croce e i primi interventi sull’estetica Gli anni della gestazione dell’Estetica di Croce sono anche gli anni che videro dapprima il sorgere e poi il consolidarsi dell’amicizia tra i due grandi protagonisti della rinascita dell’idealismo, ossia appunto Croce e Giovanni Gentile. Gentile, di qualche anno più giovane di Croce (era nato a Castelvetrano, in Sicilia, nel 1875), entrò in contatto con lo studioso napoletano già qualche mese prima di conseguire la laurea in filosofia presso la Scuola Normale di Pisa. Sotto la guida di uno dei maestri della ‘scuola storica’, D’Ancona, Gentile aveva infatti composto un saggio di storia letteraria, del tutto in linea con i dettami della critica erudita e, inviatolo a Croce, ne aveva ottenuto una risposta cortese e incoraggiante1. Ma gli interessi di Gentile, proprio in quei mesi, si erano volti più decisamente dagli studi storicoletterari a quelli filosofici, ed egli stava attendendo alla stesura della propria dissertazione di laurea su Rosmini e Gioberti, seguito dal filosofo Jaja. I motivi di contatto tra i due studiosi, quindi, si andavano infittendo, e lo scambio epistolare divenne ben presto regolare e intenso. Molte delle lettere dei primi anni vertono sull’interpretazione del marxismo: se infatti Croce proprio in quel periodo acquistava fama intervenendo nel dibattito europeo sull’economia marxiana, il giovane Gentile saggiava la 93

consistenza filosofica delle dottrine di Marx – proprio quell’aspetto di cui Croce tendeva a limitare l’importanza, privilegiando nel marxismo l’analisi economica e l’azione politica – nel volume La filosofia di Marx, uscito a Pisa nel 1899. Ma, accanto al dibattito sul marxismo, altre questioni univano i due studiosi. Gli interessi per la filosofia italiana dell’Ottocento portano Gentile a occuparsi di Bertrando Spaventa, e Croce, che di Spaventa era nipote, è lieto di mettergli a disposizione il materiale in suo possesso e di farsi editore del volume curato dall’amico2; le osservazioni sulla critica letteraria che Croce viene sviluppando, e insieme la ripubblicazione degli scritti di De Sanctis cui egli attende, stimolano il confronto e cominciano a trasformare il dibattito in attiva collaborazione. È in particolare sul terreno della concezione della storia che i due si trovano a dibattere ed è a proposito dei rapporti tra storia e arte che Gentile è tratto alle prime riflessioni sull’estetica. Nel 1897 Gentile recensisce il volume nel quale Croce ha raccolto la memoria sulla storia del 1893 e alcuni scritti degli anni successivi sull’argomento. Pur condividendo la tesi crociana di fondo circa la natura estetica dell’attività storiografica, sottopone gli snodi del ragionamento dell’amico a un’analisi rigorosa e non certo velata da malintesi riguardi, sia a proposito della negazione crociana della filosofia della storia, che non accetta, sia soprattutto al modo di concepire il rapporto tra storia e arte3. Infatti la riduzione prospettata nella prima memoria lascia credere che Croce intenda tale rapporto come rapporto della parte al tutto (la storiografia è una parte dell’attività artistica); ma la maniera nella quale il problema viene ripreso nel saggio successivo L’arte, la storia e la classificazione generale dello scibile sembra forzare Croce ad assumere piuttosto la tesi dell’identità della storia e dell’arte, facendo così venir meno il senso stesso della ‘riduzione’, perché se la relazione è di identità, risulta indifferente 94

affermare che la storia è arte o, viceversa, che l’arte è storia. Per salvare il senso della riduzione, che neanche per Croce può essere intesa come identificazione, occorre a parere di Gentile interrogarsi più a fondo circa quel che distingue comunque la storia dall’arte, ossia indagare meglio le due definizioni della storia come «rappresentazione del realmente accaduto» e dell’arte come «rappresentazione del possibile», sulle quali Croce tende a sorvolare nella convinzione che quel che veramente importa sia soltanto il «genere di elaborazione» cui la rappresentazione viene sottoposta, il fatto cioè che in entrambi i casi si abbia a che fare con la rappresentazione dell’individuale e non con l’elaborazione di concetti. E se si prende a esaminare la relazione del possibile e del reale tra loro e nei rispetti di quel particolare o individuale che è (tanto per Croce quanto per Gentile) l’oggetto dell’arte e della storia, si vede secondo Gentile che reale e possibile sono bensì coordinati fra loro, ma non subordinati il primo al secondo. Il particolare reale che è oggetto della storia non è una parte del particolare possibile che è oggetto dell’arte: entrambi, piuttosto, sono coordinati fra loro in quanto subordinati al particolare. E sarà questa, allora, la vera relazione che corre tra la storia e l’arte, dunque l’unico senso possibile della riduzione: non l’identità, ma la coordinazione dell’una e dell’altra come rientranti in una medesima attività che non coincide né con l’una né con l’altra delle attività distinte. Lo stesso Croce, a parere di Gentile, lo riconosce quando dà alla sua raccolta di saggi un nuovo titolo, Il concetto della storia nelle sue relazioni col concetto dell’arte: il senso dell’operazione crociana è stato quello di avere «coordinato strettamente la natura dell’arte a quella della storia, in quanto l’una e l’altra […] si riferiscono al fatto, al particolare e non al concetto»4. Anche nell’assai più ampio intervento Il concetto della storia, apparso nel 1899, la preoccupazione fondamentale di 95

Gentile sembra quella di evitare che la tesi crociana della storia come conoscenza particolare porti a risolvere il nesso di storia e arte in un’identità: il problema è ancora quello di trovare cosa renda impossibile la dissoluzione delle due attività l’una nell’altra. Esteriormente il saggio si presenta come una sorta di bilancio di un decennio di discussioni sulla natura della storia: nei confronti dei positivisti che ne vogliono riaffermare il carattere scientifico fondandola come fisica sociale, Gentile ha buon gioco nel ribattere che quando lui e Croce parlano di natura artistica della storia non si riferiscono affatto a un abbellimento formale della narrazione storica, non caldeggiano in nessun modo una poetizzazione della storia: la loro è un’indagine schiettamente filosofica, volta a determinare il ruolo della storia nella «costituzione dello spirito umano». E se lo spirito «è il creatore come di tutte le scienze speciali, così della scienza in genere, e della storia e dell’arte», è chiaro che «fra tutte queste produzioni d’una medesima attività, appunto perché l’attività produttiva è una sola, debbano pur correre intrinseche relazioni, che bisogna discoprire, a fine di intender meglio l’attività stessa del nostro spirito e i suoi stessi prodotti»5. Ora, è indubitabile per Gentile che l’arte, che si muove tra individui, non sia riducibile alla scienza, che si adopera sempre attorno a universali, e così che la forma della storia e quella dell’arte coincidano. Ma Croce, che ha fermato solo le somiglianze tra arte e storia, non ha fissato altrettanto efficacemente, nel seno dell’identità tra le due, la differenza che pure giace in quell’identità. Gentile cerca ora di determinarla ricorrendo alla distinzione tra fine regolativo e fine costitutivo: costitutivamente, la storia è arte, ma regolativamente la storia ha il fine di discriminare il reale dal possibile, laddove nell’arte fine regolativo e costitutivo coincidono nel fine estetico. Non era una posizione priva di difficoltà; ma a Gentile pareva così di aver fissato quel 96

che gli premeva fin dalla precedente recensione, «la ragione differenziale della storia e dell’arte»6. Più convincente riusciva Gentile nelle analisi particolari: a chi gli chiede se il fatto storico può essere materia di rappresentazione bella, risponde che una simile domanda suppone che la bellezza sia una proprietà del contenuto e non della forma, suppone cioè che si possa parlare del contenuto astratto, antecedente del fatto artistico, così come si parla del contenuto che solo è concreto, ossia del contenuto che è già entrato nella sintesi artistica: «L’atto artistico, come l’atto conoscitivo, è una vera sintesi a priori, i cui elementi non possono essere separatamente presi se non per un’analisi trascendentale, poiché la realtà sta nella loro sintesi necessaria»7. Questa netta risoluzione a favore della forma del conflitto tra forma e contenuto nell’arte non era del resto cosa nuova per Gentile, era anzi la convinzione con la quale egli aveva fatto il suo ingresso nel dibattito estetico, prima ancora dell’incontro con Croce, nell’articolo del 1896 intitolato Arte sociale. Anche qui, lo spunto è occasionale, un articolo di Ojetti nel quale ci si interrogava circa la possibilità che la ‘questione sociale’ potesse entrare nella rappresentazione artistica, e si disquisiva sulla differenza tra un’«arte sociale» e un’«arte socialistica». Gentile interviene troncando la discussione alla radice. Quando si argomentano distinzioni del genere si scambia il precedente dell’arte con l’arte concreta, e si cade nell’astratto. Si discorre di cose che hanno attinenza col contenuto e non con la forma dell’arte, «quasi un dato contenuto potesse divenire oggetto d’elaborazione artistica, e un altro ne rifuggisse per la natura sua», mentre invece tutto dipende, come ha insegnato De Sanctis, non dal contenuto più o meno interessante, ma dalla bellezza della forma. Né potrebbe essere altrimenti, se il contenuto concreto nasce solo dall’incontro con la forma, e «non c’è contenuto di cui si possa disputare prima che sia 97

divenuto effettivamente contenuto, cioè prima che sia innalzato ad opera d’arte»8. Sulla questione del contenuto interessante, anzi, si sviluppò di lì a poco una discussione epistolare con Croce, il quale, in relazione a certi suoi studi sul seicentismo, era ancora incline, nel 1898, a riconoscere una qualche possibilità di indicare dei contenuti di per sé non adatti all’elaborazione artistica perché privi di interesse: posizione che, sulla spinta delle obiezioni gentiliane, Croce rivide di lì a poco, nel corso della riflessione che portò alla nascita dell’Estetica9. Queste discussioni, come tutte le precedenti, mostrano che il giovane Gentile seguiva bensì la posizione dei problemi che Croce introduceva, ma con molta indipendenza di giudizio e in un dibattito fruttuoso per entrambi. Con l’apparizione dei primi grossi lavori crociani di estetica, le Tesi e il volume del 1902, tuttavia, il tono da parte di Gentile cambia sensibilmente, e sembra, almeno a prima vista, che il più giovane dei due interlocutori si restringa, dal 1900 al 1908, al ruolo di espositore e di presentatore dei lavori dell’amico. Sono gli anni di più stretta e compatta collaborazione tra i due filosofi, che sulle colonne della «Critica» si dividono i compiti: Croce ripercorrendo la storia letteraria, Gentile quella filosofica dell’Italia unita. Se si osservano più dettagliatamente i numerosi interventi con i quali Gentile accompagna l’affermazione delle idee estetiche di Croce, nel periodo che va dal primo anno del secolo all’intervento sulla Storia della grammatica di Trabalza, che è del 1910, si può notare tuttavia qualche significativa discrepanza. Ciò accade già nel caso della lunga recensione al primo abbozzo della Parte storica dell’Estetica, pubblicato da Croce con il titolo G.B. Vico primo scopritore della scienza estetica, nella quale Gentile avanza dubbi sia sull’eccessiva sottolineatura del momento estetico nella filosofia vichiana, sia sulla critica rivolta da 98

Croce a Vico di aver trasferito sul piano della storia concreta i momenti ideali dello spirito. In realtà, osserva Gentile, né è pensabile «che la storia prodotta dallo spirito umano possa essere disforme dalla natura di questo», né si può dire che Vico ponga un periodo storico retto esclusivamente dalla fantasia o esteticità, perché, nella storia temporale come in quella ideale, i momenti sono sempre compresenti e solo si può dire che l’uno accentui il suo ruolo rispetto all’altro: nel poeta predomina la fantasia, senza che cessi in lui, cosa impossibile, «ogni funzione intellettiva»10. Anche la lunga recensione alla prima edizione dell’Estetica lascia affiorare due obiezioni significative, soprattutto se viste in relazione alle posizioni cui Gentile approderà: da un lato, egli critica il rifiuto crociano di ogni metafisica (se lo spirito è l’unica realtà, la dottrina dello spirito sarà anche l’unica metafisica possibile), dall’altro, egli formula, forse per la prima volta, quello che diventerà uno dei Leitmotive della sua filosofia, la critica alla distinzione delle attività spirituali. «Se lo spirito» – scrive – «è un’attività unica, e l’attività estetica e la logica sono momenti e gradi di essa, come ammettere tra fatto estetico e fatto logico, tra intuizione e concetto, quell’abisso con cui Croce intende di tenerli assolutamente divisi? Non deve tenersi presente che l’una e l’altra sono in fondo quello stesso reale, che è lo spirito, sebbene in due forme differenti?»11. La recensione alla terza edizione dell’Estetica, quella del 1908, è ancora più sintomatica, perché quel che Gentile vuole mettere in luce, nella rielaborazione cui Croce ha sottoposto il suo primo trattato, è il progressivo liberarsi della filosofia crociana dai presupposti naturalistici che ancora la condizionavano al suo sorgere, il suo assumere un carattere «sempre più rigorosamente idealistico»; e, sebbene Gentile non lo scriva, tutto lascia intendere che egli veda in questa evoluzione un 99

avvicinamento, del resto non interamente compiuto, alle proprie convinzioni. In questo senso andava anche l’accenno che Gentile faceva in chiusura di quello stesso scritto alla conferenza sul carattere lirico dell’arte, perché essa, a suo parere, accenna «a un nuovo e più profondo modo d’intendere l’individualità dell’intuizione, di contro all’universalità del concetto: ossia come soggettività, o presenza del soggetto determinato nell’atto spirituale: presenza che, essendo essenziale a ogni atto reale dello spirito, importa l’inerenza del momento estetico in ogni fatto della vita dello spirito, e viene quindi a confermare il carattere trascendentale dell’arte e l’empiricità della distinzione storica tra prodotti spirituali artistici e prodotti spirituali non artistici»12. È un passo su cui non può non cadere l’attenzione, perché in esso, come verificheremo tra poco, Gentile parla ormai non il linguaggio dell’amico, ma il proprio, espone una veduta sulla natura dell’arte che non è più conciliabile con quella di Croce. Qualcosa dunque sta cambiando o è già cambiato: del resto, non è casuale che questa recensione segua nel tempo quello che è forse il primo documento pubblico di un’autonoma filosofia gentiliana, la prolusione palermitana Il concetto della storia della filosofia, del 1907. Che proprio in questi paraggi passi una linea discriminante decisiva è confermato d’altronde da un breve scritto sempre del 1907, rimasto (certo pour cause) inedito sul momento e pubblicato da Gentile nella prima raccolta dei suoi scritti di argomento estetico, nel 1921: La teoria dell’errore come momento dialettico e il rapporto tra arte e filosofia. Anche qui si parte da un testo di Croce, questa volta il volume hegeliano del 1906 Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel, e Gentile va subito al nocciolo della questione, alla proposta crociana di riconoscere una duplice legge dello spirito: da un lato il rapporto dialettico degli opposti (errore/verità, 100

male/bene, brutto/bello), dall’altro quello per gradi dei distinti (arte, filosofia, economia, etica). Il nesso tra arte e filosofia, per Croce, non può essere dialettico, perché ciò implicherebbe la dissoluzione della prima nella seconda, e l’errore di Hegel consiste proprio nell’aver scambiato il nesso dei distinti con l’opposizione dialettica, e aver fatto dell’arte una philosophia inferior. Ma, osserva Gentile, supporre due leggi dello spirito significa rimandare l’esigenza dell’unità, che sarà soddisfatta solo da una superiore identificazione, la cui natura non potrà che essere dialettica; e poi se si pone il nesso dei distinti come rapporto per gradi, non si riesce più a pensare che cosa renda possibile il passaggio da una forma all’altra. Ne seguiva, a parere di Gentile, l’inevitabilità di pensare il rapporto tra le forme spirituali (e quindi anche di arte e filosofia) come rapporto dialettico: come il rapporto di errore e verità, di male e bene. Croce aveva costruito la sua separazione tra distinti e opposti anche per evitare la tesi hegeliana della necessaria risoluzione dell’arte nella filosofia. Ma questa tesi non è affatto inaccettabile, secondo Gentile, se soltanto si tiene separato, come si deve, il piano degli accadimenti empirici da quello delle condizioni trascendentali. L’arte muore, come voleva Hegel, ma muore sul piano trascendentale: «storicamente, dal punto di vista empirico, non muore, non trapassa niente […]. Sicché, se è vero che l’arte muore nella filosofia, essa non deve morire di fatto, cioè una volta sola, e restare morta: ma deve morire eternamente, per non esser morta mai»13. 2.2. Il sistema gentiliano e l’arte come forma assoluta dello spirito In realtà Gentile sta già elaborando una propria filosofia, e il confronto diretto con quella crociana si renderà presto inevitabile. Dopo un decennio consacrato agli studi storiografici, Gentile è ormai maturo per dare espressione 101

alle convinzioni i cui germi risalgono fino agli anni del discepolato universitario, e il secondo decennio del secolo vedrà il filosofo intento a esporre le linee del proprio sistema in lavori che si susseguono quasi senza intervalli e in forma sempre più compiuta, in un periodo di straordinaria produttività. Dall’insegnamento palermitano nasce nel 1911 quella sorta di manifesto della nuova filosofia che è L’atto del pensare come atto puro; nel 1913 esce il volume La riforma della dialettica hegeliana, che espone la critica alla dialettica di Hegel destinata a diventare uno degli aspetti più noti dell’attualismo: ponendo il movimento dialettico non nell’atto del pensare, ma nel pensiero pensato (nel logo che, come la natura, precede lo spirito), Hegel si è precluso la strada per intendere la vera dialettica, che è appunto del pensante e non del pensato, e si è condannato a non riuscire a cogliere la vera scaturigine del divenire, che non può mai consistere nel rapporto di due astratti come l’essere e il non essere che stanno all’inizio della Logica, ma solo nel soggetto pensante che è svolgimento, attività. Nel 1912 Gentile scrive di getto la prima parte del Sommario di Pedagogia, che, a onta del titolo, è in realtà la prima esposizione compiuta del sistema gentiliano: la sua sezione iniziale, L’uomo, è un’analisi della distinzione tradizionale dei momenti successivi della sensazione, della percezione, del concetto, della volontà, volta a dissolvere le differenze e a mostrare l’identità dei vari momenti (i quali non saranno dunque più successivi) nell’unicità dell’atto spirituale. La lontananza di questo impianto filosofico da quello crociano è a questo punto manifesta e, dopo una serie di lettere in cui serpeggia l’imbarazzo e il disagio, Croce sceglie correttamente di portare in pubblico il dissidio, attraverso un articolo su «La Voce», cui Gentile risponderà di lì a poco14. La collaborazione tra i due filosofi non si interromperà, anche se la diversità delle posizioni filosofiche si farà sempre più 102

netta: la rottura dell’amicizia avverrà invece dieci anni dopo, quando al conflitto teorico si aggiungerà quello politico, motivato dal diverso atteggiamento nei confronti del fascismo, e sarà come sanzionata dalla stesura dei due manifesti, quello gentiliano degli intellettuali fascisti e quello crociano degli antifascisti. Nel 1916 compare la Teoria generale dello spirito come atto puro, che si offre fin dal titolo come compendio e introduzione alla nuova filosofia, e che infatti fu inteso e continua spesso a essere presentato come una sorta di bibbia dell’attualismo; laddove, occorre dire, si tratta di un’opera per più versi unilaterale rispetto alla complessità dell’autentico pensiero gentiliano, e, specie nei capitoli finali, non riesce a celare una certa frettolosità; ben diverso è il caso del Sistema di logica come teoria del conoscere, il cui primo volume, del 1917, fu affiancato dal secondo e più ampio solo quattro anni più tardi. Il Sistema è certamente il vero capolavoro di Gentile, un libro tanto arduo nella sua rigorosa tessitura teorica, quanto il solo veramente capace di obbligare il lettore a una lettura adeguatamente approfondita del pensiero gentiliano. Un pensiero che vuole presentarsi come lo svolgimento rigoroso del processo di pensiero inaugurato da Kant e proseguito nell’idealismo tedesco. Di contro alla filosofia antica, che concepisce la verità come compiuta e indipendente dal pensiero, per così dire pronta innanzi all’apprendimento che il pensiero ne fa (e che quindi non può concepire il conoscere altrimenti che come un intuito che apprende le cose senza nulla aggiungervi), il pensiero moderno vede la verità come prodotto del pensiero, come sua costruzione o elaborazione. Senonché, come Kant ammette un residuo realistico indipendente dal pensiero nel noumeno, così Hegel continua a presupporre, nonostante tutto, lo spirito come prodotto di un logo e di una natura che lo 103

antecedono. Si tratta invece di affermare l’identità di essere e pensare: se si concepisce l’essere come diverso dal pensiero – questo il grande argomento gentiliano – risulta impossibile spiegare come il pensiero possa entrare in contatto con l’essere; e d’altra parte, se si ammette qualcosa di materiale bell’e fatto prima del pensiero, il pensiero si riduce a nulla. Aut Caesar aut nihil: o il pensiero è qualcosa, cioè c’è qualcosa nelle cose che dipende dal pensiero, e allora tutto è pensiero; o il pensiero non aggiunge nulla alle cose, e allora esso è nulla. Se si ammette qualcosa di materiale, è giocoforza che il pensiero si materializzi, laddove «posto il pensiero complemento del reale, questo si idealizza in funzione del pensiero, e perciò si risolve nel pensiero»15. Ma se tutto è pensiero, donde viene la convinzione in cui viviamo continuamente che vi sia una natura che limita il pensiero? Qui interviene la relazione tra pensiero pensante e pensiero pensato: quel che lo spirito stacca dall’attuale pensare, in cui soltanto realmente esiste, e proietta nel passato del pensato, è avvertito come l’altro dallo spirito, la natura, l’oggetto: l’unità di reale e ideale, propria del pensiero pensante, si tramuta in opposizione non appena si guardi all’oggetto astratto dal pensiero. Essere è la categoria adeguata a concepire tutto quel che non è spirito; ma lo spirito, per suo conto, non è, ma diviene: è il continuo inarrestabile porre l’oggetto di contro a sé, salvo poi riconoscerlo come se stesso. Che il soggetto si oggettivi, ossia ponga l’oggetto: questa la «ferrata necessità» dello spirito, la sola necessità che vi sia; «il soggetto del conoscere si fa tale conoscendo: e in quanto conosce non è soggetto di sé, ma soggetto oggettivatosi a sé medesimo»16. Io; non-io; sintesi dell’io e del non-io; o, in altre parole: astratto soggetto; astratto oggetto; concreta sintesi del soggetto e dell’oggetto. Questo è il ritmo triadico della dialettica spirituale, che occorre fissare per intendere il ruolo che 104

Gentile assegna all’arte negli scritti che abbiamo enumerato. Infatti, con una costanza che sfiora la monotonia, in tutto il periodo dell’esposizione del sistema Gentile non si stanca di identificare l’arte con il primo momento della dialettica spirituale, il momento della soggettività, ovvero dell’astratta posizione di sé; e correlativamente identifica il momento dell’oggettività nella religione e quello della sintesi concreta nella filosofia. La triade arte religione filosofia è presente in tutte le esposizioni sistematiche del pensiero gentiliano, ma la sua prima enunciazione precede tutte quelle esposizioni, e quindi non solo quella vetta suprema della teoresi gentiliana che è il Sistema, ma le stesse prime e non del tutto soddisfacenti formulazioni della filosofia di Gentile. La si trova infatti già interamente dispiegata in uno scritto del 1909, che chiude con un approfondimento teorico il volume di taglio piuttosto storico-polemico Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia. Le tre forme sono qui indicate già nel titolo del capitolo come Le forme assolute dello spirito: e sono assolute non nel senso che ve ne siano altre di relative, che determinino ulteriormente lo spirito, ma nel senso che sono le sole che l’analisi portata sulla auto-sintesi dell’Io possa distinguere nella vita dello spirito. Se il pensiero non è sintesi di due opposti nati già divisi, ma di due opposti (soggetto astratto e oggetto) che nascono entrambi dall’unità del soggetto concreto, le forme non potranno essere che tre, «secondo i momenti essenziali dello spirito: posizione del soggetto, posizione dell’oggetto, e posizione della loro sintesi»17. Sono momenti che trascendono l’atto concreto dello spirito, perché veramente reale e originaria è la sintesi di soggetto e oggetto: se dunque si parla di due momenti anteriori, tale anteriorità non può essere cronologica, ma solo logica, ossia frutto dell’analisi alla quale viene sottoposta la sintesi originaria. I momenti non 105

sono giustapposti ma retrospettivamente assimilati. A questi momenti corrispondono arte religione e filosofia. «L’arte è coscienza del soggetto, la religione coscienza dell’oggetto, la filosofia la coscienza della sintesi del soggetto e dell’oggetto. Donde il corollario, che l’arte è in sé contraddittoria e ha bisogno di essere integrata nella religione: questa per sé è contraddittoria e ha bisogno d’essere integrata nell’arte: integrazione, che vien a essere integrazione dell’una e dell’altra, nella filosofia». Che l’arte sia coscienza del soggetto significa che il poeta non dice mai cosa è il mondo, ma sempre solo cosa è il suo mondo; egli non vede altro che se stesso: l’arte è lirica. L’intuire se stesso dell’artista non è un intuire diverso da quello del filosofo, ma un intuire un mondo diverso: il soggetto in quanto mero soggetto, la propria personalità. Il poeta canta sempre se stesso. La religione è l’opposto dell’arte, è annichilire del soggetto di contro all’oggetto, che vale da solo, senza la coscienza della sua relazione col soggetto, perché religione è reverenza e timore di fronte a quel che è concepito come l’assolutamente altro, l’ignoto; la religione è il misticismo. Ma questo oggetto senza soggetto, questo ignoto che vale come ignoto entra pur esso nella relazione col soggetto, e rendersi conto di ciò è passare dalla religione al momento successivo, alla coscienza della sintesi di soggetto e oggetto. La filosofia è questa coscienza «della necessaria progressiva oggettivazione del soggetto come della necessaria progressiva soggettivazione dell’oggetto. È coscienza dell’unità dell’essere e del pensiero». Ora, se realmente concreta è appunto solo la sintesi, ne segue che «l’elemento religioso e l’elemento artistico, per ciò che hanno di unilaterale, astratto e falso, non sono se non in quanto superati nella coscienza sempre trionfante delle contraddizioni risolute»18. L’arte, di fatto, non vive che come filosofia, né ci può essere arte che non 106

sia anche religione e filosofia. Non ci sono tre categorie del giudizio, ma una sola categoria che si riferisce ai tre momenti dello spirito. È significativo che il Sommario di Pedagogia incontri l’arte quasi esclusivamente nel suo secondo volume, dedicato alla didattica, e quindi né nella parte sull’antropologia filosofica cui nel Sommario è affidata l’esposizione del sistema né – tranne qualche breve accenno – nella parte sull’educazione; è significativo, perché la tripartizione delle forme serve a Gentile bensì per poter continuare a parlare di una «Didattica speciale», ma solo una volta che si sia ammesso che una didattica speciale propriamente non c’è, e che anche le forme assolute che l’articolano ci sono solo in quanto superate. Lo spirito non è unità vuota scevra di differenze, e il diversificarsi dello spirito crea forme distinte all’interno dell’unità spirituale; sì che Gentile potrà anche parlare del ritmo triadico di reale, ideale, unità di reale e ideale come di un dramma a tre personaggi, purché però si intenda che le differenze «nascono morte», ossia che ciascuna delle due prime forme si vede solo quando si è andati oltre di essa. E allora, da capo: l’arte è espressione dell’atteggiamento dell’artista verso il mondo, anzi, meglio, non è espressione della soggettività, ma è la soggettività stessa; «ogni posizione dell’io come tale è opera d’arte». Ma «il difetto dell’io nell’arte nasce dalla mancanza del suo contrappeso nel mondo; e viceversa manca alla pienezza del mondo religioso il compimento essenziale dell’io. […] E però l’uno e l’altro sono orientati verso l’astratto, e uno spirito educato soltanto esteticamente, o soltanto religiosamente, deve riuscire di necessità uno spirito astratto e falso»19. Anche la Teoria generale dello Spirito si imbatte nell’arte non tematicamente, ma di scorcio. Una volta stabilita l’identità di filosofia e storia della filosofia, tesi capitale e culminante di quel volume, Gentile si chiede se 107

essa non possa essere inficiata dalla presenza di storie distinte, diverse da quella della filosofia; intendendo dire ovviamente che, se storie distinte non vi fossero, allora l’identità di storia della filosofia e filosofia sarebbe l’identità stessa della storia tout court e della filosofia, l’identità di storia nel tempo e storia ideale eterna. Ecco allora Gentile chiedersi se l’arte abbia una storia indipendente dalla filosofia, e solo entro questa cornice problematica domandarsi che cosa sia arte, per rispondere al modo consueto: che essa «è libera creazione del soggetto che si stacca dal reale […] e si pone nella sua astratta, immediata soggettività»; l’artista non rappresenta la materia, ma «l’io nella sua immediata posizione soggettiva». Una storia dell’arte in quanto arte, conclude Gentile, non è dunque concepibile, perché ogni opera d’arte è un’individualità chiusa in sé, una monade, un atomo. Per vedere la storia, debbo disciogliere l’arte nel concreto in cui essa vive, debbo guardare oltre di essa, verso la filosofia: «dove si guarda all’arte, non si vede la storia; e dove si guarda alla storia, non si vede l’arte»20. Si potrebbe continuare con citazioni analoghe sia dal Sistema di Logica sia dallo scritto del 1920 su Arte e religione (per quanto, come vedremo, qui cominci probabilmente ad avvertirsi l’esigenza di una diversa posizione del problema, che annuncia gli sviluppi successivi, e innovativi, dell’estetica gentiliana)21, ma è chiaro che, giunti a questo punto, è più interessante soffermarsi sulle difficoltà della posizione gentiliana fin qui delineata. Le quali sono molteplici, e vanno al di là di quella quasi subito sollevata dalla critica, e poi tante volte ripetuta, circa il ‘panlogismo’ della filosofia gentiliana, ossia il suo risolvere tutto nell’atto (logico) del pensare, con conseguente svalutazione delle altre attività spirituali. Difficoltà che si appaia a quella subito rilevata da Croce, che se il passato del pensato non è un 108

passato cronologico, nonostante ogni dichiarazione contro il nesso dei distinti si viene a reintrodurre la distinzione stessa. Obiezioni come questa saranno poi il pane quotidiano delle polemiche tra gentiliani e crociani. Inoltre, queste forme che dovrebbero discendere dalla pura dialettica dello spirito sono forme storicamente condizionate, e assegnate da una tradizione. Il celebre rimprovero che Gentile rivolge alla tavola kantiana delle categorie, che Kant avrebbe semplicemente ‘trovato’, assumendo la classificazione dei giudizi come un ‘dato’, in qualche modo potrebbe essere ribaltato sulle forme assolute gentiliane, magari osservando per di più che mentre Kant aveva dietro di sé secoli di elaborazione logica, i tre momenti gentiliani sembrano declinare una genealogia più ristretta e riconoscibile. La triade arte religione filosofia è talmente simile alla scansione hegeliana dello spirito assoluto (così come simile sembra la connessa tematica della morte dell’arte) da far dimenticare anche le pur cospicue differenze, prima fra tutte l’assenza, in Gentile, di quel collegamento delle forme alla storia concreta che è il vero motore della costruzione hegeliana. E poi: quel tanto o poco di arte che Gentile trova, intanto la trova in quanto da un lato muove dallo spunto provvidenziale che sembra offrirgli la dottrina crociana della liricità, dall’altro si riconnette, in misura ancora più massiccia di quanto la stessa tesi crociana implicasse, a un modo romantico o ultraromantico di intendere la soggettività dell’artista. Il fatto è che quel che Gentile tende a presentare come la ‘corrispondenza’ dei momenti sistematici con le attività tradizionali (arte, religione, filosofia) non è qualcosa che va da sé, come se non ci fossero altre scelte: tanto è vero che, non appena ci si allontani solo un poco dalle corrispondenze più assicurate dalla tradizione, sembrano emergere oscillazioni imbarazzanti, prima fra tutte quella 109

sulla collocazione delle scienze, che il saggio del 1909, facendo fulcro sulle scienze matematico-formali, mette con l’arte nel fascio delle attività meramente soggettive, mentre il Sommario, privilegiando stavolta le scienze naturali, unisce alla religione come pura oggettività, e la Teoria forse troppo salomonicamente presenta come un oscillare tra l’arte e la religione. Tutte queste difficoltà particolari, che non mancheranno di condizionare la ricezione dell’estetica gentiliana, si stagliano tuttavia sullo sfondo di una questione più radicale, che attiene al nesso tra pensiero pensante e pensiero pensato, che è certo il nesso decisivo della filosofia gentiliana, ma anche il suo luogo più problematico, quello in cui si concentrano le maggiori tensioni del sistema (e sul quale, infatti, Gentile continua ad arrovellarsi). Per un verso, infatti, Gentile tende a presentare l’arte, negli scritti che abbiamo visto fin qui, come un astratto e un passato rispetto all’attualità del pensiero; per un altro, però, insiste nel considerare le forme che non a caso chiama ‘assolute’ dello spirito come situate su di un piano del tutto diverso da quello del pensato in senso proprio. Ma è sostenibile questa divaricazione? Non pare, perché nel sistema gentiliano non ci sono strade per graduare, per dir così, le distanze del pensato dal pensare. Se l’arte è un astratto, se essa non è l’unica categoria trascendentale, non potrà essere che una delle innumerevoli categorie dell’empirico. Non c’è un passato che sia meno passato di un altro. Gentile, nel secondo volume del Sistema di logica, lo riconoscerà22: ma si tratta appunto di un volume in cui si problematizza e si comincia a superare un modo troppo semplice di pensare il rapporto tra pensato e pensante, tra empirico e trascendentale, quel modo che porta talvolta Gentile a presentare nel Sommario e nella Teoria Generale il pensato come «il nemico» del pensare, e il trascendentale come 110

assolutamente separato dall’empirico. Il fatto è che la filosofia di Gentile, che nel lungo periodo di oblio di cui è stata coperta dalla fine della guerra all’inizio degli anni ’90 era considerata, a torto, un monolito tanto ingombrante quanto compatto, ci si rivela oggi sempre più come una filosofia non solo ancipite, ma quasi intimamente scissa in due anime. Per un verso, non c’è dubbio, essa è una metafisica dell’io, una costruzione di sapore fichtiano che sembra dimenticare i salutari avvertimenti kantiani sui paralogismi che la ragione costruisce a partire dall’«unico testo» dell’io penso; ma per un altro (e, non meno esplicitamente, anche nella lettera stessa del pensiero gentiliano) essa si configura come una critica dell’esperienza pura, come una filosofia dell’esperienza nella quale il soggetto non è affatto più originario dell’esperienza stessa e, anzi, «esclude tanto la posizione di un oggetto determinato quanto quella di un determinato soggetto, come presupposti dell’esperienza»23. Il senso di questa filosofia dell’esperienza è quello espresso tante volte da Gentile con il richiamo al proprio metodo come metodo dell’immanenza: una dizione che vuole sottolineare come sia impossibile trascendere l’esperienza stessa, e come sia necessario intenderla dal suo interno. Lo stesso ‘inoggettivabile’ atto puro è, da questo punto di vista, un salutare richiamo all’impossibilità di considerare l’esperienza come uno ‘spettacolo’ al quale semplicemente si assiste. Ora, mentre la metafisica dell’io può concepire il pensato come una forma di deiezione rispetto al pensante, altrettanto non può fare la filosofia che considera «lo stesso logo come esperienza». Molta parte della speculazione gentiliana, dal Sistema di logica fino a quell’opera estrema e per tanti versi singolare che è Genesi e struttura della società, sembra impegnata proprio a pensare in modo diverso il rapporto tra pensato e pensante. In questo tragitto, la 111

riflessione sull’estetica assume un ruolo rilevante, decisivo: anche nel senso che viene a mutare non superficialmente l’immagine dell’estetica gentiliana che si era delineata nelle opere del grande periodo sistematico. 2.3. Il problema del sentimento e la «Filosofia dell’arte» C’è un saggio del 1932 nel quale Gentile torna a impostare, e ancor più rigorosamente di quanto avvenisse nella prolusione del 1914, il problema filosofico come problema dell’esperienza. Lo fa, questa volta, con uno di quegli straordinari excursus di storia della filosofia nei quali egli dimostra una capacità veramente sovrana, e comparabile, nel Novecento, forse solo a quella di Heidegger, di filosofare ripensando la storia del pensiero. Il problema dell’esperienza è un problema moderno. Nella filosofia antica e medioevale un problema dell’esperienza non c’è, anche se c’è un problema gnoseologico, perché la conoscenza è concepita come adeguazione a qualcosa che, sia esso idea o natura, è già completo prima dell’intervento del pensiero, il cui ruolo dunque, a rigore, è nullo. Ma vera esperienza non può esistere finché il rapporto tra verità e pensiero è concepito come inessenziale alla verità; l’esperienza nasce quando ci si comincia a interrogare proprio su tale rapporto, quando si inizia a comprendere che esiste un problema della certezza oltre al problema della verità, che la verità deve essere contenuto di una certezza. Il problema dell’esperienza nasce insieme alla moderna posizione critica nei confronti del conoscere. Nasce con Cartesio, per il quale l’essere del soggetto è risultato del suo pensare, è un essere sperimentato; con il nuovo concetto della sensazione sviluppato dagli empiristi, per i quali la sensazione non è più un fatto naturale da guardare dall’esterno, ma «la sensazione quale può vedersi dall’interno del soggetto che vuole affacciarsi sulla realtà»; e, 112

soprattutto, nasce con Kant, con il criticismo consapevole, che finalmente concepisce il conoscere come costruzione dell’esperienza. Non si tratta più di intendere il conoscere come un rispecchiamento che lascerebbe intatto ciò che suppone di rispecchiare, ma di concepirlo come «processo produttivo che il soggetto fa del proprio sapere». Tutto è costruzione, anche la stessa intuizione sensibile: l’esperienza è un processo, che può essere indagato solo dal suo interno. E se il positivismo «ha avuto il merito di tener fermo al concetto dell’esperienza come sorgente unica di un conoscere che abbia valore scientifico», esso è scivolato nuovamente assai al di sotto delle conquiste kantiane quando ha preteso di poter parlare di corpi e di natura indipendentemente dal processo con il quale li costruiamo. E invece, «per definire il corpo e la natura di cui parlano i positivisti un certo pensiero ci vuole, e poiché il pensiero conosce sempre tutto solo mediante l’esperienza, è ovvio che per definire […] questi termini dell’esperienza, di cui ci si vuole render conto, bisogna pur presupporre un certo processo di esperienza». Quel che si può fare, allora, è ripercorrere questo processo, seguirne lo sviluppo o risalire verso il suo principio. Ma questo principio Gentile non lo indica più, qui, come ci aspetteremmo, nel soggetto o nell’Io, ma piuttosto in un sentimento: «A principio si sentirà semplicemente, senza sentire nulla di determinato: un sentire, da cui pur dovrà scaturire tutto quello che, sentendo, più tardi si distinguerà nello spazio, nel tempo, e in tutti i modi onde, sentendo e pensando, si costruisce tutto questo mondo fisico in cui il nostro corpo è allogato». La certezza, la presenza dell’io nella verità, è innanzi tutto questo sentirsi nell’esperienza; perché non basta vedere o toccare, «bisogna che si sia dentro al nostro vedere e toccare; e cioè che si sia noi quel sentire»24. Il termine sentimento non emergeva nel saggio 113

sull’esperienza per la prima volta; anzi già qualche anno prima, nel 1928, Gentile gli aveva dedicato uno studio specifico, il saggio Il sentimento. Anche allora egli aveva scelto un’impostazione storiografica, prendendo le mosse dall’impossibilità per la filosofia greca di riconoscere il ruolo del sentimento. Se infatti esso consiste nell’«elemento subbiettivo che si accompagna con la conoscenza delle cose», nessuno spazio può essergli concesso in una gnoseologia che ritiene attingibile la verità da parte dell’uomo solo in quanto egli si spogli della sua soggettività, e apprenda le cose come sono. Dall’ostracismo decretato al sentimento dal pensiero antico sono derivate, lungo il corso del pensiero occidentale, la concezione del sentimento come perturbatore della conoscenza, l’antitesi tra sentimento e ragione, la difficoltà a collocare il sentimento tra le facoltà dell’anima, le quali per lunghissimo tempo sono state due e due soltanto: intelletto e volontà. Questo contrasto ha cominciato a vacillare ed è caduto nel corso del Settecento. Vico, per il quale gli uomini dapprima sentono senza avvertire, e solo in ultimo riflettono con mente pura; Leibniz, con le sue petites perceptions e la continuità tra cognizioni confuse e distinte; Kant, con il ruolo riconosciuto al sentimento nella terza critica e con il suo averlo introdotto negli stessi giudizi empirici di esperienza, sono tutte tappe di questo processo. Il quale coincide, come lasciano capire i nomi che sono stati fatti, con il sorgere stesso dell’estetica moderna, che per Gentile è l’estetica tout court. Questa coincidenza tra scoperta del sentimento, posizione del problema critico dell’esperienza e nascita dell’estetica non è affatto casuale agli occhi di Gentile, anzi si può dire che il suo discorso tenda proprio a mostrare come non si tratti neppure di una coincidenza, ma di tre facce dello stesso fenomeno. Infatti il «sentire originario» che si vuole introdurre ripercorrendo la storia del concetto 114

di sentimento ha per Gentile una natura eminentemente estetica: «questa soggettività del sentire e della passionalità, che è alla base della vita spirituale, […] giova a spiegare i caratteri essenziali della forma più elementare della vita dello spirito, l’arte», scrive nel saggio del 1928. E in quello del 1932, citando proprio Vico e Baumgarten: «la certezza del conoscere è la stessa esteticità dell’arte»25. Quel sentire che è alla base dell’esperienza perché è la radice stessa dell’autocoscienza, quel senso che ci assicura già da sempre che siamo nel mondo, non è conoscere (in quanto è immediato, e la conoscenza per Gentile è sempre mediata), ma precisamente la condizione estetica del nostro conoscere26. Perché se il sentire è alla base dell’esperienza, e l’esperienza si costruisce nel pensiero, allora «il carattere artistico non si può negare al concetto», e «il pensiero non può stare senza l’arte». Il pensiero è l’incarnazione e la realizzazione del sentire, dunque di un principio che non è logico, ma estetico27. Quel che Gentile chiama sentimento è quindi qualcosa di profondamente diverso dai ‘sentimenti’ di cui discorriamo nel linguaggio comune; egli insiste a più riprese nel ricordare che il termine va preso «in senso rigorosamente gnoseologico o filosofico». Non è uno stato, una passività dello spirito, «come per solito si descrive», non è un oscuro tumulto passionale, «come fantasticamente vien rappresentato». Il sentimento «è il momento soggettivo, immediato dello spirito: ma, lungi dall’essere qualcosa di passivo, è la stessa attività del soggetto nel suo prorompere, nel suo essere immediato, ossia nella ricchezza infinita di tutte le energie». Gentile lo avvicina al «sentimento fondamentale» di Rosmini (un concetto che già lo aveva colpito quando, giovanissimo, aveva dedicato la sua tesi di laurea al pensatore roveretano), al senso che l’anima ha del corpo indipendentemente dalle sensazioni 115

determinate, alla «radice» in cui il pensiero si innesta nella realtà, perché «non c’è pensiero che non sia atto di un soggetto, colorato della sua soggettività, retto dal suo interesse»; e lo accosta, dall’altro, allo stesso Io trascendentale kantiano, con questa differenza, che «il nostro soggetto o sentimento non è autocoscienza o unità trascendentale della coscienza, ma il principio onde essa trae origine nel suo dialettico processo. L’io è pensiero; l’io trascendentale è pensiero puro o trascendentale; ma il sentimento, il soggetto, non è pensiero bensì condizione dello stesso pensiero trascendentale»28. Una condizione estetica per l’attività logica, una radice ‘sensibile’ per il soggetto assoluto: era, per Gentile, un linguaggio nuovo e, per molti versi, sorprendente. E per quanto egli continuasse a parlare del sentimento anche in termini di ‘soggettività pura’, ricostruendo in qualche modo un legame con i discorsi fatti in precedenza a proposito delle forme assolute dello spirito, molti videro nel nuovo modo di esprimersi una svolta in senso irrazionalistico, un approdo mistico per una filosofia che fino ad allora si era piuttosto connotata per il suo onnivoro panlogismo. A questi critici, Gentile rispondeva ribadendo che veramente attuale può essere soltanto la coscienza, il pensiero, e che esso è superamento del sentimento, per cui di sentimento si parla sempre a partire da un atto del pensiero che lo contiene, ma avendo proceduto oltre; e avrebbe potuto aggiungere, con replica meno prevedibilmente iscritta nella topica più collaudata dell’attualismo, che porre alla radice il senso o sentimento significa ribadire il primato della esperienza anche rispetto a quel soggetto che non è affatto più originario della relazione che lo lega all’oggetto, ma al quale anzi si può risalire solo a patto che sia già avvertita quella relazione stessa. Occorre tenere ben presente questo sfondo problematico 116

quando ci si accosta alla Filosofia dell’arte che Gentile pubblicò nel 1931, se si vuole comprendere il ‘taglio’ del tutto particolare di questo volume, l’unica trattazione sistematica di ampio respiro da Gentile dedicata all’estetica. Infatti la Filosofia dell’arte è tutta concentrata nello sforzo di mostrare come il luogo nel quale si può cogliere la necessità dell’estetica sia la dimostrazione del suo radicarsi nel più generale problema dell’esperienza. È possibile incontrare l’esteticità, secondo Gentile, se ci rendiamo conto che una condizione estetica sotto forma di sentimento è necessaria per la costituzione di qualsiasi attività umana, e quindi anche del pensiero logico-conoscitivo. Naturalmente, possiamo anche limitarci a prendere l’arte come un fatto in cui semplicemente ci imbattiamo, come un dato, e riflettervi sopra: ma questo è l’atteggiamento empirico, criticato nella parte introduttiva (tutta giocata sul contrasto tra l’approccio empirico e quello filosofico ai problemi dell’estetica), un atteggiamento che potrà al massimo portarci a chiarire che cos’è quello che chiamiamo comunemente arte, ma non perché esiste qualcosa come l’arte. L’atteggiamento empirico suppone che sia possibile ‘andare a vedere’ che cosa sono le opere d’arte, e non si chiede come sia possibile delimitare ciò che chiamiamo arte prima di riflettervi sopra; se lo facesse, si accorgerebbe di muoversi in un circolo, dal quale non si può uscire se non collocandosi su di un piano totalmente diverso, quello che indaga il posto dell’attività estetica tra le attività umane, e scopre in essa una condizione generale di tutta l’esperienza. Ma se l’arte non consiste in una classe delimitata di oggetti, bensì in una condizione che si può ritrovare anche nel conoscere o nell’agire, in cui il principio estetico è sempre accompagnato da altro, ne consegue la tesi che apparve subito come la più impegnativa dell’opera: l’inattualità dell’arte. Il sentimento si esprime; esprimendosi, esce 117

dall’immediatezza e diventa coscienza, pensiero; la condizione estetica si attua, ma, attuandosi, esce dall’oscuro sentire e si fonde sempre con altro: «L’arte pura è inattuale. Non è attuale vita dello spirito, ma entra nell’attualità spirituale, e lì si fa sentire e concorre con la sua presenza alla realizzazione della vita dello spirito». L’arte è «principio trascendentale dell’esperienza artistica», e dunque l’esperienza artistica concreta è sempre più che arte: «Se per distinguere l’arte dal resto, si vuole un pezzo di realtà spirituale che sia tutto arte e nient’altro che arte e un altro pezzo in cui non ci sia più arte […] una tale distinzione è impossibile». Non si può separare l’arte dalla non arte, come se si trattasse di una distinzione spaziale, qui un’opera poetica, lì un’opera filosofica: «Un’opera d’arte, come comunemente si concepisce, storicamente individuata, e che sia tutta arte e nient’altro, è un assurdo. L’arte vive morendo, ossia integrandosi negli altri momenti della vita dello spirito»29. Potevano sembrare poco più che variazioni su vecchi pensieri: le funzioni dello spirito distinte dalla filosofia non hanno vera attualità, vengono ricostruite retrospettivamente dal pensiero; poteva sembrare una ripresa di quanto Gentile aveva già affermato a proposito delle forme assolute dello spirito, che non si possono (tranne ovviamente la filosofia) cogliere in atto, perché realmente attuale è solo la sintesi di soggetto e oggetto, e tesi e antitesi hanno solo un’esistenza putativa. Ora, certamente questo restava vero, ma era ormai solo un lato della questione. Parlando di inattualità dell’arte, Gentile non metteva infatti più in rilievo l’aspetto per cui essa è cosa del passato, quanto il fatto che essa è presente in ogni processo dell’esperienza. L’inattualità dell’arte andava ora intesa nel senso dell’onnipresenza dell’arte: l’arte è ovunque, e proprio perché è ovunque, come condizione, non è mai esclusivamente arte, come potrebbe se fosse un dato, una 118

materia. L’inattualità dell’arte non è la sua inesistenza, ma la sua inseparabilità dagli altri momenti dell’attività spirituale. Così nella voce Arte scritta da Gentile per l’Enciclopedia Italiana: «L’arte è un momento ideale dello spirito, non è un’attualità storica. Il che non significa che non abbia il suo posto nella realtà. Anzi, significa che non c’è realtà in cui non sia presente l’arte», e così in tanti luoghi della Filosofia dell’arte, nella quale si parla di un «inattuale e pur presente principio della vita di ogni opera dello spirito», e della distinzione tra arte e filosofia come una distinzione che non può mai essere verticale (qua l’arte, lì il pensiero), ma sempre trasversale (una condizione estetica che, sviluppandosi, diventa pensiero)30. Quella che poteva sembrare una riedizione della dottrina hegeliana della morte dell’arte si rivela ora, al contrario, come una dilatazione illimitata del ruolo dell’estetico: perché è vero che noi apprendiamo l’arte sempre solo nel pensiero, come qualcosa dunque che non esiste più attualmente, ma è anche vero che il pensiero stesso ingloba e fa vivere una condizione estetica: «l’arte è quella stessa attività, in cui consiste il pensiero»31. 2.4. Dottrine particolari della «Filosofia dell’arte» Si trattava, come si vede, di riflessioni ardue, che mal si prestavano a essere assunte come semplici risultati, e piuttosto avrebbero richiesto, da parte degli interpreti, un ripensamento complessivo del sistema nel quale si inquadravano, e che si mostrava, ancora una volta, aperto verso esiti diversi. E ciò non tanto nel senso che il precedente ‘panlogismo’ si convertisse, come parve ad alcuni, in una forma di ‘panestetismo’32, quanto perché, da un lato, il richiamo operato da Gentile alla scoperta del sentimento nell’estetica del Settecento, con la connessa esigenza di una comunicabilità degli aspetti soggettivi della conoscenza, non poteva non assumere un aspetto 119

problematico in una filosofia che continuava ad avere uno dei suoi nodi più difficili a sciogliersi nel rapporto istituito tra soggettività empirica e soggettività trascendentale; e perché, dall’altro, se il sentimento poteva apparire come rigoroso sviluppo dell’esigenza immanentistica, certe formulazioni non troppo felici della Filosofia dell’arte, e in particolare alcune pagine che sembravano sfumare verso un generico spiritualismo, lasciavano aperta la possibilità di vedere nel nuovo concetto non un presupposto critico dell’esperienza, ma un’estrema sorgente metafisica dei valori propugnati dall’attualismo. Era logico quindi attendersi che la ricezione immediata dell’opera puntasse verso altri e più facili temi. Uno, in particolare, sembrò calamitare l’attenzione, perché era quello non solo più semplice a cogliersi, ma anche più facilmente sfruttabile: quello del contrasto aperto con l’estetica crociana, della Filosofia dell’arte come riscontro polemico di quell’Estetica che da trent’anni dominava incontrastata il campo. Gentile non aveva fatto nulla per evitare questo approccio alla sua opera: anzi, sembra invocarlo quasi in ogni pagina, prendendo nei confronti dell’amico di un tempo un tono acrimonioso, di sfida sarcastica, e proponendo la propria riflessione come alternativa a quella di Croce. Da allora, alla filosofia dell’arte di Gentile si è continuato a guardare molto spesso nella prospettiva della sua opposizione a Croce: se quella crociana fu per lungo tempo l’estetica per antonomasia, questa di Gentile apparve come l’‘altra’ estetica del nostro Novecento, da esaltare o da abbassare a seconda, ovviamente, del campo nel quale si militava33. La Filosofia dell’arte apriva le ostilità fin dalla Prefazione. «Questo vuol essere un libro di filosofia. L’ho detto anche nel frontespizio per avvertire i rispettabili critici della terza pagina, che questo libro non è per loro»34, scriveva Gentile, lasciando intendere che l’estetica crociana fosse appunto 120

un’estetica buona al massimo per i critici dei giornali, ma incapace di un serio approfondimento filosofico. Il ragguaglio di storia dell’estetica che chiudeva il volume era ancora più pesante: la filosofia di Croce è una philosophia pigrorum che ha incontrato il favore del pubblico per la sua facilità di esposizione, per la nettezza «delle poche idee elementari che propugna». Questa estetica fortunatissima, tradotta in tutte le lingue, «è stata opera di decadentismo e di dilettantismo letterario», e a torto si è presentata come inveramento della critica desanctisiana, che invece ha disatteso, e alla quale occorre finalmente tornare35. Tra quell’incipit e questo explicit, un profluvio di attacchi a dottrine particolari, da quello, immancabile, alla «filosofia delle quattro parole», a quello all’identificazione di genio e gusto e di arte e linguaggio, al fraintendimento della liricità; e, ancor più ghiotte per chi seguiva la disputa come spettatore, una serie di invettive e di insulti contro la «pseudofilosofia» di Croce, il suo «verbo», il suo essere un «filosofo della bella letteratura», il suo latinorum degno di don Abbondio. Pur di provare l’incompetenza di Croce, Gentile andava a riscavare persino il libro hegeliano del 1906, persino il saggio crociano del 1908 su Leonardo filosofo. La polemica, a dieci anni dalla rottura, passava ormai il segno del confronto di idee, e debordava sul piano personale36. Tutto questo non giovava alla Filosofia dell’arte. Non giovava, non tanto perché legittimava il sospetto che la molla neppur tanto segreta dell’opposizione gentiliana fosse l’invidia per il successo straordinario delle dottrine dell’ex amico, ma perché finiva per distorcere la prospettiva nella quale le tesi stesse di Gentile avrebbero potuto ottenere il giusto risalto. Il loro peso polemico finiva per diventare più evidente delle loro ragioni intrinseche, anzi per occultarle. Un primo esempio di queste distorsioni era in fondo la 121

stessa scelta del titolo, poiché era chiaro che il libro di Gentile era tutto, fuorché una filosofia dell’arte. Dell’arte in quanto tale si parlava pochissimo, e quasi sempre per dire che essa non può essere colta in quanto arte. Il termine ‘estetica’, evitato per distinguersi subito da Croce, sarebbe stato infinitamente più appropriato se, come scriveva Gentile stesso, «la filosofia moderna entra nel problema dell’arte a mano a mano che rivendica il valore del sentire. E ne ferma il principio nello stesso nome con cui battezza questa scienza filosofica»37. Ma anche tutta l’Introduzione al volume, giocata sulla distinzione tra problema empirico e problema filosofico dell’arte, che aveva, come abbiamo visto, ragioni profonde, intrinseche al filosofare gentiliano, rischiava in questo contesto di essere scambiata con la solita polemica sull’‘empiricità’ delle distinzioni crociane. I veri pericoli dell’impostazione scelta da Gentile erano, tuttavia, altrove. Involontariamente, egli finiva per distogliere l’attenzione dalla parte più innovativa della sua riflessione, nella quale la polemica con Croce era bensì presente, ma meno facilmente isolabile in formule di effetto, perché qui non era in gioco una vera e propria opposizione tra i due pensatori, ma una diversa accentuazione di problemi largamente comuni, e spostava invece l’interesse dei lettori su quella parte dell’opera nella quale dovevano essere fissate le vedute particolari, suscettibili, esse sì, di essere spese subito in funzione anti-crociana. Con una complicazione imprevista, però: che quelle tesi a cui doveva mettere capo l’anti-Croce, guardate da vicino, finivano per non distinguersi più tanto bene da quelle con le quali dovevano confliggere. Chi lesse l’estetica di Gentile alla ricerca di qualche arma di pronto impiego contro le più ripetute dottrine crociane, molto spesso se ne ritrasse con la sensazione che sarebbero state armi spuntate. In tutta la seconda parte della Filosofia dell’arte, si ha 122

l’impressione che Gentile voglia tallonare l’estetica crociana, ribattendo punto su punto. Croce aveva ridotto la bellezza naturale a mero riflesso della bellezza artistica? Conclusione inaccettabile, attacca subito Gentile: bisogna concepire correttamente il bello di natura, «che gli estetici possono negare, ma che si continua a sentire e a esaltare dagli estetici stessi, nonché dal comune degli uomini». E allora: «nella sua inattualità, come sentimento, lungi dall’essere priva di bellezza, [la natura] è la stessa bellezza; perché è la natura dello spirito». Senonché, da capo: bella non è la natura nella sua determinatezza particolare, una pianta, un lago, una montagna, bella è la natura infinita, non quella che il poeta descrive veristicamente, ma quella che egli «sente dentro di sé»38. Esempio perfetto delle contorsioni cui va incontro l’argomentare gentiliano. Si vuole opporre un risultato a quello codificato dal crocianesimo, ma la comune base idealistica e la vicinanza dei presupposti non rendono agevole l’auspicata divaricazione: ecco allora Gentile costretto o a semplici variazioni sul tema o a sottilissimi distinguo, che tentano di far apparire antitetica una conclusione che all’osservatore non preconcetto sembra piuttosto omologa. È quello che accade anche in questioni importanti, per esempio quelle della tecnica, della distinzione delle arti e della teoria dei generi letterari. Sulla tecnica, Gentile esordisce in termini di pura ortodossia crociana: la tecnica è semplicemente un «antecedente» dell’arte, e antecedente «deve considerarsi ogni mezzo fisico (suono, colore, pietra, marmo ecc.)». L’obiezione circa il termine «esteriorizzamento» impiegato da Croce per indicare la fissazione a fini pratici dell’intuizione artistica sembra andare nel senso di una ancor più netta svalutazione del lato materiale, fisico dell’opera, perché «non si esteriorizza mai nulla dello spirito, perché non c’é nulla di concepibile fuori dello 123

spirito». Ma poi, attraverso l’assimilazione della tecnica al contenuto dell’arte, si tenta un recupero della legittimità della distinzione delle arti: «È ineccepibile, dal punto di vista della tecnica, la tesi di quegli estetici (Lessing) che assegnano a ciascuna arte limiti non valicabili». E tuttavia, attenzione: è ineccepibile, ma solo nel senso che «ogni opera d’arte ha la sua tecnica, e ognuna può ritenersi perciò un’arte a sé. Di guisa che le arti non sono cinque […] né sei, né cento: sono di numero infinito, perché infinite sono le opere d’arte». Cosa che Croce avrebbe potuto dire – anzi aveva detto – esattamente negli stessi termini. Ancora: per Gentile non c’è «nulla di peculiarmente illegittimo nella teoria dei generi letterari», ed è sbagliato svalutarli come pseudo-concetti come faceva Croce. Ma quando si tratta di argomentare questa difesa, le diversità sfumano di nuovo. I generi sono nell’ambito dell’arte letteraria «l’analogo delle diverse arti», e per quanto nel loro caso il criterio di distinzione «non sia così estrinseco e materiale come in quello delle arti», bisogna riconoscere che «il criterio è identico, e la differenza che si intende mettere in rilievo non riguarda l’essenza dell’arte, ma la tecnica», sicché si va pur sempre a concludere che «il genere letterario è sulla soglia dell’arte; e certo, chi voglia conoscerla come è fatta, bisogna che entri dentro»39. Leggendo oggi queste pagine gentiliane, si stenta a capire come potesse accadere che molti ex o anti-crociani (per esempio Gargiulo) potessero salutarle come la legittimazione teorica, tanto attesa, delle loro insofferenze nei confronti delle dottrine di Croce. Si stenta a capire, o piuttosto si capisce benissimo. L’insofferenza nei confronti di Croce si catalizzava dove poteva, appigliandosi al molto anti-crocianesimo esplicito della Filosofia dell’arte, e sorvolando sul fatto che l’idealismo di Gentile, che criticava quello crociano perché troppo poco radicale e conseguente, difficilmente era nella 124

condizione giusta per offrire argomenti a una battaglia che voleva essere, nel fondo, anti-idealistica40. 2.5. La critica letteraria gentiliana C’era tuttavia un tema rispetto al quale la distanza, in sede teorica, fra Gentile e Croce prometteva effettivamente di tradursi, sul piano applicativo, in un orientamento critico diverso, capace di contrapporsi in modo fecondo a certa unilateralità del crocianesimo. Se infatti per Gentile realmente attuale può essere soltanto la filosofia, se l’arte pura è inattuale, se la distinzione tra sentimento e pensiero non può essere una distinzione che separa materialmente opere di poesia e opere di pensiero, sembra derivarne l’esigenza, nell’esercizio concreto della critica letteraria, di non operare tagli netti tra le due attività, e di prestare piuttosto attenzione al modo in cui pensiero e poesia convivono nei prodotti spirituali concreti. Questo orientamento sembrava permettere un approccio più flessibile e più aperto a quelle opere e a quegli artisti nei quali è presente un ricco contenuto di pensiero. Certo, anche per Croce, a rigore, la distinzione tra intuizione e concetto è una distinzione trascendentale e non materiale; ma indubbiamente la prassi critica crociana tendeva in qualche modo a spazializzare la distinzione, a localizzarla nella discriminazione, anche all’interno delle singole opere e dei singoli autori, di quel che è poesia e di quel che invece va riportato a una diversa forma spirituale. E come, almeno idealmente, la preferenza di Croce andava sempre ad artisti ‘puri’, così la critica letteraria gentiliana predilesse sempre poeti-filosofi. Gli interventi critici di Gentile, non numerosi e assai più saltuari di quelli crociani, vertono infatti su artisti la cui poesia fiorisce a partire da una profonda riflessione filosofica: Dante e Leopardi, innanzi tutto, indagati a più riprese, a partire dagli anni giovanili, 125

fino a quelli della tarda maturità; e poi Manzoni, Iacopone, e Tommaso Campanella: ossia, in quest’ultimo caso, le poesie di un autore che era innanzi tutto un filosofo. In questi saggi, o almeno in quelli successivi alla rottura con Croce, Gentile non lesinava i richiami espliciti a quanto nel suo modo di leggere configurava un’antitesi all’attitudine crociana alla separazione; e negli scritti a partire dagli anni Venti sono numerosi i riferimenti polemici ai «critici del frammento»41, ossia a coloro i quali «a furia di analisi smontano l’organismo poetico, e finiscono col trovarsi in mano tanti pezzi eterogenei». Lungi dal voler separare gli elementi intellettuali o riflessivi, occorreva ribadire piuttosto che «nulla è per sé impoetico e refrattario al soffio animatore dell’arte»42. Gentile segnalava così un problema reale, avvertito anche da molti critici di parte crociana. Luigi Russo, ad esempio, nel suo volume sulla Critica letteraria contemporanea dedicava alla critica gentiliana una disamina assai più estesa di quella riservata a molti critici professionali, e questo perché vedeva nel modo di leggere l’opera d’arte proprio di Gentile un correttivo non solo a certi eccessi distinzionistici tra pensiero e poesia, ma anche all’eccessivo ‘ascetismo’ dello storicismo crociano. Era insomma uno storicismo più integrale, più aperto ai raccordi col mondo del pensiero e della prassi, quello di cui Russo andava in cerca in Gentile, mosso da una certa insoddisfazione verso gli esiti singolari che quello crociano, col suo rigoroso monografismo, produceva almeno in campo artistico-letterario. E così, più in generale, la critica gentiliana finì per assumere, negli anni Trenta, un’importanza metodologica maggiore di quella a cui la candidava la sua consistenza effettiva, e la sua stessa qualità intrinseca. Eppure, chi consideri oggi le prove concrete di quella critica non può sottrarsi all’impressione che esse cadano al 126

di sotto delle aspettative di cui furono fatte oggetto, anche rispetto al punto specifico del nesso pensiero-poesia. Lasciando da parte le poche osservazioni su Iacopone «poeta del movimento francescano», del 1904, il saggio premesso all’edizione delle Poesie di Campanella del 1915 verte esclusivamente su questioni testuali, senza avanzare alcuna interpretazione; la commemorazione manzoniana letta alla Scala nel 1923 è un pistolotto retorico-patriottico sulla lezione morale e politica che ci viene dal Manzoni, «grande liberatore del popolo italiano dal secolare servaggio della letteratura», troppo poco critico, anche come commemorazione, per essere critica letteraria43. Restano, naturalmente, i molti saggi dedicati ai due soli veri autori del Gentile critico della letteratura, Dante e Leopardi: ma essi, per quanto molto più penetranti, non tanto offrono strumenti per maneggiare il difficile nesso di pensiero e poesia quanto mostrano come fosse difficile per la teoria gentiliana soddisfare le aspettative nella concreta applicazione. Il confronto con l’Alighieri si apre già nel 1905 con il capitolo Dante nella storia del pensiero italiano che Gentile scrisse per il volume dedicato a La Filosofia nella Storia dei generi letterari italiani dell’editore Vallardi. La sede è importante, perché fa capire che siamo di fronte a un capitolo di storia della filosofia e non a un saggio di critica letteraria: Gentile incontra qui il problema della poesia dantesca solo di scorcio, e potrebbe addirittura non incontrarlo. La sua ricostruzione tende a presentare un Dante «più gran poeta che filosofo, ma [che] intendeva riuscire più grande filosofo che poeta», il quale conclude l’epoca medioevale ma non inizia la filosofia moderna. Dante è essenzialmente uno scolastico, che accetta su tutti i punti principali le soluzioni tomistiche; solo in un campo egli si distacca nettamente da Tommaso e va verso la 127

modernità, e ciò accade nella teoria politica: rivendicando nella Monarchia la libertà dell’impero di fronte alla chiesa, Dante afferma l’indipendenza della ragione rispetto alla fede, nelle cose terrene. Era un’interpretazione significativa, che in qualche misura sembra offrire un punto di avvio per le indagini che in seguito tenderanno a staccare Dante dal tomismo; sul piano strettamente letterario, Gentile segnalava bensì che, anche in una storia della filosofia, non si può trascurare la forma poetica della Commedia, «questa specie di sistema filosofico», ma poi non traduceva questo principio in un’analisi concreta. Dell’arte di Dante occorre certamente tener conto, ma si tratta, per cogliere la sua filosofia, di «oltrepassarla» per giungere al pensiero; d’altro canto però non bisogna mai dimenticare che Dante era «per natura» poeta, e che egli non riuscì mai «ad essere un puro filosofo, spogliandosi della sua poesia e della sua umanità». Così, se l’idea dell’oltrepassamento fa pensare a un legame necessario delle due attività, altri luoghi accennano a una relazione assai meno intrinseca, e addirittura a una possibile estraneità dell’una all’altra: la poesia di Dante «erompe, non dalla concezione che Dante ha presente, ma dall’anima sua». Tanto che Gentile può uscirsene in un’affermazione neppure crociana, ma ultracrociana: «In Dante la filosofia non è il particolare e l’accessorio; ma il generale, l’insieme, il principale. E la poesia è piuttosto nei particolari»44. Molte questioni metodologiche sono discusse nelle tre recensioni che tra il 1907 e il 1912 Gentile dedicò ai volumi di Vossler sulla Divina Commedia. La prima, apparsa sulla «Critica» di Croce, fa leva soprattutto sull’eccessiva divaricazione che Vossler opererebbe tra genesi religiosa, filosofica e poetica del poema. Infatti, né è possibile separare e tantomeno opporre religione e filosofia in Dante, né è pensabile distinguere troppo «tra Dante poeta e Dante filosofo». Dante, artista sommo, assorbe «la sua stessa filosofia nella sua 128

arte»: sviluppo religioso e sviluppo filosofico sono lo stesso sviluppo artistico della Commedia, ma ciò accade perché «nell’anima di Dante, nella sua coscienza, tutto è fuso, tutto è uno: la religione è filosofia, e la filosofia è arte: cioè, a rigore, non c’è né religione, né filosofia, ma arte». Un problema che riemergeva nelle varie recensioni era quello dell’allegoria, il cui valore artistico era stato fortemente limitato da Vossler, il quale, dice Gentile, ha buoni occhi per cogliere quanto «erompe dalla personalità immediata di Dante» ma riduce la costruzione allegorico-filosofica del poema a una «scena cartacea». A parere di Gentile è però sbagliato staccare «il centro passionale della personalità dantesca dal mondo della sua cultura scolastica che è pure la sua anima». Opinione che sembra annunciare una polemica anticipata con le tesi crociane sull’allegorismo dantesco, ma che non deve far dimenticare come le opinioni di Gentile sull’allegoria fossero, a questa altezza cronologica, tutt’altro che univoche, tanto che egli, nella prima recensione, tendeva a presentare l’allegoria come «antecedente astratto dell’arte»45. La conferenza dantesca del 1918 La profezia di Dante è una ricerca sulla collocazione storico-politica dell’Alighieri. Dante fu «profeta del rinnovamento della civiltà mediante la riforma della chiesa»; la profezia è la forma propria della sua poesia e della sua filosofia, e Dante è poeta in quanto profeta. Affermazione rischiosa, da un punto di vista teorico, e complicata dal fatto che Gentile argomentava in quella sede, per Dante, «un’universalità superiore a quella propria d’ogni poeta»: mentre infatti per i poeti ‘comuni’ l’universalità concerne la forma, la poesia, in Dante e solo in Dante quell’universalità non si limiterebbe alla forma, ma investirebbe anche il contenuto46. Come poi fosse possibile pensare nel quadro dell’estetica gentiliana una distinguibilità dell’astratto contenuto, non si diceva. E le difficoltà non venivano sciolte, anzi semmai aumentate, 129

nel saggio più organico scritto tre anni dopo, per il centenario dantesco, e che, per quanto si intitoli ancora La filosofia di Dante, è tutto dedicato al problema della relazione tra filosofia e poesia. Si comincia con l’osservare che «ogni filosofo ha la sua poesia, come ogni poeta ha la sua filosofia». Ma qual è la vera filosofia di Dante? Se si risponde che essa è la scolastica, un sostanziale tomismo, si risponde in modo astratto e falso, perché la scolastica è la filosofia di Dante solo come contenuto preso a sé, laddove «questo contenuto è poesia in quanto trasfigurato nella vita concreta che esso vive nello spirito del poeta». Così considerando, si deve concludere che «la filosofia di un poeta [non] può essere altro che la stessa sua poesia, dove è pure la sua politica, la sua religione, e in generale tutto il suo mondo». C’è in Dante una filosofia, ma «una filosofia non definibile in astratto, bensì conoscibile soltanto come vita di quest’uomo, del suo cuore, della passione del suo cuore». Dante trasfigura la filosofia in poesia «imprimendovi sopra il suggello della sua personalità». Ma chiamato a definire cosa fosse questa filosofia trasfigurata, Gentile rischiava di cadere nella più incontrollata delle attualizzazioni, giacché non la scolastica sarebbe il pensiero che infiamma Dante, ma una sorta di anticipazione dell’attivismo e dell’idealismo moderni, il concetto «che lo spirito umano non ha fuori di sé, già attuato, il suo mondo, ma deve produrlo egli stesso, faticando, durando nelle battaglie, con cui è destinato a vincer tutto»47. Ma questo non era più Dante: era, come si vede, Gentile. Anche i primi saggi leopardiani risalgono all’inizio del secolo. Nel 1907 Gentile recensisce un volume di Gatti intitolato Esposizione del sistema filosofico di G. Leopardi. Titolo non solo goffo, a parere di Gentile, ma anche sviante, perché nato dalla supposizione che nello Zibaldone si nasconda un compiuto sistema filosofico. Ma Leopardi 130

«fu un poeta, un divino poeta, ma non fu un vero e proprio filosofo». Certo, «in fondo a ogni mente umana, sopra tutto a quella dei grandi poeti, è incontestabile l’esistenza di una filosofia», ma questa «filosofia dei poeti» non è quella dei filosofi e bisogna trattarla, per non snaturarla e distruggerla, con molta delicatezza». Essere coerente è il primo dovere di un filosofo, mentre la filosofia di un poeta può mutare in ogni poesia, e muta in effetto, per esempio in Leopardi, proprio perché «il poeta […] non espone propriamente una filosofia, ma esprime soltanto uno stato d’animo». Si può studiare la filosofia di Leopardi, ma solo per intender meglio la sua poesia, come materia di essa: lo Zibaldone non ci dà i motivi e men che meno le sorgenti della poesia leopardiana, ma solo i suoi «detriti». Fuori della poesia, il pensiero di Leopardi è «molto mediocre»; il suo sistema, semplicemente, «non c’è»48. Il tono sembra molto diverso in un’altra recensione, questa volta del 1911, al libro di Levi Storia del pensiero di Giacomo Leopardi. Gentile si dichiara disposto a riconoscere che «tutta la poesia del Leopardi non ha altro contenuto che il problema speculativo», e soprattutto osserva, riprendendo le sue posizioni teoriche, che «poesia e filosofia, come funzioni dello spirito, trascendono la storia, che è la concretezza stessa della realtà spirituale. E soltanto alla poesia e alla filosofia come funzioni trascendentali dello spirito si possono assegnare caratteri distinti». Tuttavia, pur riconoscendo che i limiti concreti di filosofia e poesia non possono tracciarsi, Gentile continua a credere che Leopardi va preso in considerazione come poeta e non come filosofo, perché la di lui filosofia è «chiusa, compressa, fusa e assorbita nella poesia»49. Se fin qui Gentile era intervenuto su Leopardi per così dire di scorcio, correggendo e integrando affermazioni altrui, l’Introduzione che egli prepose nel 1916 a un’edizione delle Operette morali è invece un saggio ampio e ambizioso, 131

probabilmente il più compiuto tra i saggi letterari gentiliani: e infatti da esso emergono bene i caratteri e limiti della critica letteraria del filosofo. Nessuna osservazione stilistica; il valore poetico delle Operette affermato con molta decisione (e questa fu una novità positiva, dopo il giudizio limitativo del De Sanctis), ma senza alcun tentativo di dimostrazione o indicazione; fortissimo accento anzi sull’«unità» delle Operette. Questa unità si ricava da uno schema di lettura che, tutto desunto dal ‘pensiero’ leopardiano, non sa tuttavia celare un qualche sospetto di meccanicità: ci sono tre momenti, uno di negazione teoretica, in cui l’animo del poeta è posto di fronte alla morte e al nulla, uno di negazione pratica, in cui egli è tentato di ricusare la natura e negare l’umanità, e finalmente un momento di affermazione che nasce dalla ribellione del «senso dell’animo» contro le conclusioni della ragione. Perché Leopardi, questa l’idea di fondo che Gentile vuole stabilire, se è «pessimista di filosofia», è però «ottimista di cuore». Ne derivano conseguenze importanti per la ricostruzione della vera filosofia leopardiana, che non è, ancora una volta, quella materialistico-sensistica dello Zibaldone, ma quella ‘positiva’, ricavabile dalle Operette e dagli Idillii: «bisogna pur dire che in Leopardi non si deve cercare e non c’è il filosofo, ma c’ è un’anima […]. C’è insomma il poeta»50. Questa idea della doppia filosofia di Leopardi torna spesso nei saggi più tardi. L’Introduzione a Leopardi del 1927 parla di una filosofia «che è molto più complessa del semplicismo materialistico», una «filosofia fatta sentimento e persona». Che Leopardi sia stato filosofo, e non solo poeta, significa che egli è stato filosofo «in un senso più largo e fondamentale» di quello che si ha in mente quando si parla dei professionisti della filosofia; ma, da capo, questo vuol dire che egli fu «filosofo in senso lato, e poeta in senso stretto». Il pensiero disindividua, laddove la 132

poesia immerge l’individuo in sé medesimo: «il poeta non cerca e non trova se non se stesso»51. E nel saggio estremo dedicato da Gentile a Leopardi nel 1938, la distinzione tra filosofia negativa e filosofia positiva è assimilata a quella, ricavata dallo Zibaldone, tra filosofia e ultrafilosofia. La prima, come si può intuire, è la filosofia dell’«empirismo assoluto» che Leopardi trova negli autori del Settecento; la seconda è quella che nasce in Leopardi appunto dal bisogno di «respingere come antiumana e contraddittoria all’incoercibile natura dell’uomo codesta filosofia negativa e soffocante». Ma se questo è vero, l’«ultrafilosofia» non è che la personalità di Leopardi, «il suo modo di vedere e di sentire la vita». I pensieri del poeta sono spie del suo animo, e la filosofia di Leopardi, ancora una volta, «è la sua stessa poesia»52. Conclusione apparentemente risolutiva, in realtà altamente aporetica, perché difficile a pensarsi nel sistema categoriale gentiliano. Quando infatti Gentile scrive, poche pagine prima, che «l’essenza della poesia non è nel pensiero del poeta, ma nel sentimento che il poeta ha del suo pensiero […] fuori dal quale ogni realtà, sensibile o ideale, è semplice astrattezza inafferrabile», apparentemente sta sulla linea della Filosofia dell’arte, ma in realtà la sta rovesciando perché è evidente che a essere ‘astratta’ e ‘inafferrabile’, nel sistema gentiliano, non può certo essere la filosofia, ma piuttosto il sentimento e la poesia. È questa la difficoltà radicale della critica gentiliana in rapporto alla sua estetica: che laddove quest’ultima sembra lasciar pensare soltanto una poesia che si riprende nella filosofia, le letture concrete di Gentile presentano sempre, sia nel caso di Dante sia in quello di Leopardi, l’opposta vicenda di un pensiero che si riprende nella poesia. Così, nel saggio del ’27, le idee di Leopardi «si fusero e colarono ardenti sulla stessa fiamma della sua passione viva, e quindi fiammeggiarono in accenti e 133

fantasmi di poesia»53: che è proprio quel che risulta difficile a pensarsi nella filosofia di Gentile. Ma, al di là di queste difficoltà sistematiche, altri sono i limiti che il lettore di oggi scorge in questa critica letteraria. Avvezzo a ben altre letture filosofiche di poeti, egli non potrà trovare che impacciata la tematizzazione gentiliana del nesso pensiero-poesia. E con ragione, perché la critica gentiliana è una critica molto tradizionale. Tutta la grande ripresa di studi leopardiani che, a partire dal secondo dopoguerra, lungo un percorso non ancora concluso, esplorerà l’opera di Leopardi con costante attenzione alla sua dimensione filosofica non avrà affatto in Gentile un antecedente necessario54. Quando Gentile individua la grande critica come quella che «attraverso le forme storiche e letterarie e i conseguenti atteggiamenti dell’espressione artistica sa scoprire il principio profondo dell’ispirazione, che è l’anima del poeta»55, è impossibile non andare mentalmente al procedimento crociano della caratterizzazione del sentimento, e vien spontaneo pensare che la filosofia gentiliana dell’arte sembrava promettere qualcosa di diverso da quanto la sua critica ha saputo realizzare. 2.6. I gentiliani Per i gentiliani vale il discorso opposto a quello che abbiamo fatto per i crociani: l’influsso dell’estetica gentiliana sulla critica letteraria e artistica è stato assai limitato, mentre più numerose sono state le riprese su di un piano strettamente teorico. Degli allievi di Gentile alcuni, come De Ruggiero e La Via, presero presto strade diverse dall’attualismo e non mostrarono particolari interessi, nella loro opera più matura, per i problemi dell’arte. Di altri autori inizialmente cresciuti in ambito attualistico, come 134

Spirito e della Volpe, ci occuperemo in seguito (cfr. 5.1. e 4.5.). Non ci resta quindi che volgerci verso alcune figure nelle quali l’influsso di Gentile si mescola con istanze di natura diversa. Carlini (1878-1959), inizialmente fedele discepolo, negli anni Trenta si sposta verso una forma di spiritualismo cattolico che vuole mettere l’accento sull’aspetto mistico dell’esperienza estetica, quell’aspetto secondo Carlini lasciato in ombra dalle filosofie ‘atee’ di Croce e Gentile. Nello scritto La religiosità dell’arte e della filosofia (1934), Carlini vuole dimostrare che «nel problema dell’arte non si può prescindere dal problema religioso» e che «l’introduzione del problema religioso in quello dell’arte porta la necessità di un generale ripensamento delle correnti dottrine di estetica». Croce, con la sua dialettica dei distinti «smorza e impoverisce il senso d’interiorità del principio spirituale», quello stesso «senso d’interiorità» che genera «la necessità di un principio teologico»; in Gentile la dialettica di soggetto e oggetto costringe «il principio della spiritualità in una forma d’idealismo che ne disperde il senso d’interiorità»56. Il sospetto è che dietro queste formule fumose ci sia poco altro che il tentativo del filosofo di porsi come teorico organico degli sviluppi del fascismo conseguenti alla sottoscrizione dei Patti Lateranensi: sospetto che diventa una certezza quando si constata che nello stesso anno Carlini pubblica un volume su Filosofia e religione nel pensiero di Mussolini. La polemica di Carlini contro la «religiosità pagana» di Gentile e i numerosi attacchi che gli rivolge negli anni Trenta appartengono evidentemente alla storia politica, e non sembra abbiano molto a che vedere con quella della filosofia. In altri autori, invece, il problema sembra piuttosto quello, scolastico sì, ma almeno sinceramente sentito, di trovare una sorta di conciliazione tra Croce e Gentile, ovvero di accogliere, a partire dalle posizioni gentiliane, gli 135

acquisti dell’estetica crociana, troppo riconosciuti perché si possa semplicemente rifiutarli, a meno che non si voglia scegliere la via della rottura, che è poi quella seguita dai due capiscuola. Così Albeggiani, che in un saggio del 1921 (Arte e Vita), ponendosi il problema dell’educazione estetica, coniuga ecletticamente Gentile e Cesareo, Croce e Fraccaroli, ma sempre con una punta di diffidenza verso Croce, mentre in seguito si orienterà piuttosto verso soluzioni crociane, come rivela il titolo di un suo scritto del 1945, L’arte come conoscenza e liricità. Albeggiani riprende in parte le posizioni di Fazio-Allmayer (1885-1958), ma lo scritto più importante dedicato da Fazio-Allmayer all’estetica è un libro molto più tardo (Moralità dell’arte, 1953), e in esso, riprendendo la solita diatriba sulla collocazione dell’arte tra le attività spirituali (forma distinta o momento inattuale dell’unico atto del pensare?), egli sembra piuttosto voler mediare tra le due posizioni. FazioAllmayer rifiuta la tesi gentiliana dell’inattualità dell’arte: non si deve pensare che l’arte sia inattuale, «cioè che essa si realizzi in un atto che non è quello dell’arte, ma il generico Atto spirituale che è insieme arte e morale e logica e economia, altrimenti l’arte sarebbe solo un aspetto dell’atto unico che non dovrebbe mancare in nessun momento (cioè non dovrebbe mai esserci un’opera che non fosse anche un’opera d’arte) il che sarebbe molto comodo per gli imbrattatele e i poetastri»57. Quello che sta a cuore a FazioAllmayer, comunque, è soprattutto il problema della relazione dell’arte con la morale. L’arte è espressione del singolare; ma la moralità è ricerca della compossibilità dei singolari, ragione per cui l’arte diventa la condizione della moralità: «poiché ogni ricerca della compossibilità implica la rappresentazione della persona altrui nella sua singolarità, i valori logici ed etici implicano il valore estetico che anzi ne sta a fondamento»58. 136

Arangio-Ruiz e Chiavacci sono due pensatori appartati. Quel che li accomuna, oltre a una posizione più libera nei confronti di entrambi i padri dell’idealismo italiano, è la circostanza della loro amicizia giovanile con Michelstaedter (su cui vedi 3.1.), che ha influito sul pensiero di tutti e due. In Arangio-Ruiz (1887-1952) si può avvertire l’influenza gentiliana, ma egli, saggista più che teorico, sente soprattutto il bisogno di dialogare con Croce. Nell’Introduzione al volume Umanità dell’arte (1951), Arangio-Ruiz discute quasi esclusivamente le posizioni di Croce e di alcuni crociani, come Flora. Il suo intento è «combattere la separazione dell’arte e dell’uomo, di arte e vita», e i suoi obiettivi polemici sono l’intellettualismo, l’estetismo, il formalismo. Nella sua costante preoccupazione di legare l’arte alla moralità, egli ritiene che se vi è un limite nell’estetica crociana, esso è rappresentato da una condanna troppo blanda del formalismo, e si adopera a confutare le metodologie purovisibilistiche nel campo delle arti figurative, appunto perché gli sembra l’ambito nel quale le teorie critiche che negano «l’umana realtà dell’arte» sono più radicate59. Il confronto con Gentile è più intenso in Chiavacci (1886-1969): ancora nel 1947, egli sente il bisogno di dedicare a Gentile il suo ultimo e più impegnativo volume, La ragione poetica. Il titolo non deve far pensare a un’opera dedicata unicamente a questioni di estetica; si tratta, di una complessa esposizione sistematica, nella quale tuttavia al problema estetico è riservata sempre una notevole attenzione. Non è possibile esporre in breve le linee del sistema di Chiavacci, alquanto macchinoso60. Uno sguardo al complicato prospetto che chiude il libro del 1936 Saggio sulla natura dell’uomo – con la sua distinzione tra Coscienza implicita e Coscienza esplicita, la prima (Intelletto) coi tre momenti della Percezione, della Concezione, dell’Analisi, la seconda 137

(Ragione) con quelli della Logica, dell’Eticità, dell’Intuizione Pura – consente però di afferrare subito, se si pensa che a questi momenti della coscienza esplicita corrispondono la Filosofia, la Storia, l’Arte, il dato più notevole della costruzione di Chiavacci: l’arte non è all’inizio della vita spirituale (contro l’«auroralità» dell’arte in Croce), ne è al sommo, al culmine. L’arte è sì intuizione, ma come «autocoscienza intuitiva»; non è ingenua, non è sogno. È intuizione pura, nel senso che è «processo di purificazione, è immediata in quanto è una superiore mediazione poietica, che supera l’inadeguata mediazione intellettiva»61. Volle sempre presentarsi come debitore dell’attualismo Carbonara (1904-1979), che però non viene dalla scuola gentiliana, essendo stato allievo di Aliotta, come Abbagnano, autore nel 1926 di un volume su Il problema dell’arte: ai saggi più maturi di quest’ultimo, inquadrabili nel suo ‘esistenzialismo positivo’, accenneremo più avanti. Nella prima trattazione estesa dedicata ai problemi dell’estetica (Del Bello e dell’Arte, 1944), Carbonara arriva alla propria proposta attraverso una lunga discussione con le tesi di Croce e di Gentile. Partendo dalla «premessa attualistica» egli si prefigge di «trovare la formula che esprima concettualmente la dignità dell’arte, come un momento della vita spirituale che non ha nessuna nota di incompiutezza rispetto agli altri». L’intento è quello di rivendicare l’«attualità e pienezza» dell’arte contro chi la considera una fase primitiva della vita mentale, come Croce, o non le riconosce «l’autosufficienza dell’atto spirituale concreto», come Gentile. Contro il primo, Carbonara argomenta che non può esistere una conoscenza dell’individuale che non implichi in sé quella dell’universale, un intuire che non sia anche pensare; contro il secondo, che la tesi dell’inattualità dell’arte torna a 138

fare di essa un momento aurorale, primitivo, incompiuto. Al contrario, l’essenza dell’arte è pensiero. Ma pensiero può essere o discorso o intuizione. L’arte è pensiero nel senso della sopradiscorsività dell’intuizione, la quale dunque non è al di qua del pensiero come voleva Croce, ma ulteriore a esso: l’atto estetico è «il momento della sopradiscorsività del pensiero, in cui la mente si salva dalla dispersione e si raccoglie nell’unità del proprio atto»62. Lo stesso nome di ‘estetica’ sembra inadatto, perché con esso si rischia di falsare «il concetto di arte, riportandolo al sentire anziché a un atto della mente denso di significato e non certo primordiale nello spirito»63. Successivamente, Carbonara si accosterà su queste basi all’estetica del marxismo (L’estetica del particolare di G. Lukács; Ricerche per un’estetica del contenuto, entrambi del 1960), e accentuerà il lato empiristico della propria impostazione (Discorso empirico delle arti, 1972). Completamente diverso da questi pensatori accademici è Emo (1901-1983), un patrizio veneto che ha raccolto, lungo tutta la sua vita, una sterminata messe di riflessioni il cui punto di avvio è costituito dalla filosofia attualistica, e nel quale il problema dell’arte si lega strettamente a quello dell’immagine e della rappresentazione. Le tormentate meditazioni di Emo, migliaia di pagine delle quali solo una minima parte è stata pubblicata, e postuma64, possono perfino apparire più fresche e attraenti di tante pagine degli autori di cui ci siamo occupati in questo paragrafo. Troppo spesso, infatti, leggendo questi autori si ha l’impressione che essi non tanto rispondano a problemi reali da loro avvertiti, quanto sviluppino una combinatoria delle posizioni astrattamente ricavabili dalle filosofie crociana e gentiliana. Può darsi, naturalmente, che un lettore volonteroso ne ricavi più di quanto ne abbiamo ricavato noi; ma a chi non conosca Croce e Gentile sconsiglieremmo di accostarsi all’idealismo italiano 139

attraverso l’opera di questi epigoni: rischia di farsi un’idea del tutto inadeguata di quelle filosofie. Si tratta, del resto, di una raccomandazione pleonastica: nessuno, potendo andare a scuola dai maestri, sceglierebbe di andare a scuola dagli allievi. Note 1

Il saggio gentiliano fu pubblicato negli «Annali della R. Scuola Normale superiore di Pisa» del 1896. La lettera di Croce del 27 giugno 1896 si legge in B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A. Croce, Mondadori, Milano 1981, p. 1. 2 Si tratta di B. Spaventa, Scritti filosofici, a cura di G. Gentile, Morano, Napoli 1900. 3 La recensione si legge ora in G. Gentile, Frammenti di estetica e di teoria della storia (Opere complete, voll. XLVII-XLVIII), vol. II, Le Lettere, Firenze 1992, pp. 121-135. 4 G. Gentile, Frammenti di estetica e di teoria della storia cit., vol. II, p. 128; si veda pure la lettera di Croce del 23 maggio 1897 in Croce, Lettere a Giovanni Gentile cit., pp. 8-9. 5 G. Gentile, Il concetto della storia, ora in Id., Frammenti di estetica e di teoria della storia cit., vol. I, pp. 3-52. Le citazioni sono tutte a p. 11. 6 Ivi, p. 52. 7 Ivi, p. 35. 8 G. Gentile, Arte sociale, in Id., Frammenti di estetica e di teoria della storia cit., vol. I, pp. 251-259. 9 Si vedano le lettere di Croce dell’8 ottobre 1898 e del 2 giugno 1899, in Lettere a Giovanni Gentile cit., e la lettera di Gentile del 1° ottobre 1898 in G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, vol. I, Sansoni, Firenze 1973, pp. 101 sgg.; e, sull’argomento, F. Audisio, La genesi dell’Estetica nel carteggio Croce-Gentile, in Scrivere lettere. Tipologie di epistolari nell’Ottocento italiano, a cura di G. Tellini, Bulzoni, Roma 2002, pp. 279-339. 10 G. Gentile, I primi studi sull’estetica del Vico, in Id., Frammenti di estetica e di teoria della storia cit., vol. I, pp. 60-72. La citazione è a p. 72. 11 G. Gentile, La prima edizione dell’Estetica, in Id., Frammenti di estetica e di teoria della storia cit., vol. I, pp. 72-86. La citazione è a p. 84. 12 G. Gentile, La terza edizione dell’Estetica, in Id., Frammenti di estetica e di teoria della storia cit., vol. I, pp. 94-103. Le citazioni sono alle pp. 97 e 103. 13 G. Gentile, La teoria dell’errore come momento dialettico e il rapporto tra arte e filosofia, in Id., Frammenti di estetica e di teoria della storia cit., vol. I, pp. 86-94. La citazione è a p. 93.

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B. Croce, Una discussione tra filosofi amici, in Id., Conversazioni critiche, serie II, Laterza, Bari 19242; G. Gentile, Intorno all’idealismo attuale, in Id., Frammenti di filosofia (Opere complete, vol. LI), Le Lettere, Firenze 1994, pp. 33 sgg. 15 G. Gentile, Sistema di logica (Opere complete, voll. V-VI), vol. I, Sansoni, Firenze 19644, p. 14. 16 Ivi, vol. I, p. 112. 17 G. Gentile, Le forme assolute dello spirito, in Id., Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, Sansoni, Firenze 19623, p. 262. 18 Ivi, nell’ordine: pp. 264, 266, 271, 274. 19 G. Gentile, Sommario di Pedagogia, Sansoni, Firenze 19825, vol. II, pp. 133145, 147-148; vol. I, p. 252; vol. II, p. 203. 20 G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, Laterza, Bari 19244, pp. 189-194. 21 Per il Sistema di logica cit., cfr. in particolare vol. II, pp. 31, 53, 142-147, 301. Lo scritto Arte e religione si legge ora in G. Gentile, Introduzione alla filosofia, Sansoni, Firenze 19582, pp. 135-156. 22 Cfr. Gentile, Sistema di logica cit., vol. II, p. 145. 23 G. Gentile, L’esperienza pura e la realtà storica, in Id., La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze 19754, p. 248. 24 G. Gentile, L’esperienza, in Id., Introduzione alla filosofia cit., pp. 79 sgg. 25 G. Gentile, Il sentimento, in Id., Introduzione alla filosofia cit., p. 51; Id., L’esperienza, ivi, p. 101. 26 Cfr. G. Gentile, articolo Arte in Enciclopedia Italiana (1929), ora in Id., Introduzione alla filosofia cit., p. 130. 27 Gentile, Il sentimento, in Id., Introduzione alla filosofia cit., pp. 51, 55. 28 G. Gentile, Filosofia dell’arte, Sansoni, Firenze 19753, pp. 161-168. 29 Ivi, pp. 175, 110, 189, 132. 30 G. Gentile, L’arte, ora in Id., Introduzione alla filosofia cit., p. 131; Id., Filosofia dell’arte cit., pp. 124, 134, 115. 31 Gentile, Filosofia dell’arte cit., p. 185. 32 Il rimprovero di ‘panestetismo’ fu poi più volte mosso alla tarda filosofia gentiliana: cfr. ad esempio S. Banchetti, Profilo dell’estetica gentiliana, in «Giornale di Metafisica», n. 6, 1961. 33 Su questo aspetto, cfr. F. Fanizza, L’‘altra estetica’ di Giovanni Gentile, in L’estetica italiana del Novecento, a cura di G. Marchianò, Tempi Moderni, Napoli 1993, pp. 25-46. 34 Gentile, Filosofia dell’arte cit., p. V. 35 Ivi, pp. 310-320. 36 Croce rispose per le rime a più riprese, per esempio anche nella chiusa al saggio L’Aesthetica del Baumgarten, in Id., Storia dell’estetica per saggi, Laterza, Bari 19672.

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Gentile, Filosofia dell’arte cit., p. 314. Ivi, pp. 125-126, 224-228. 39 Ivi, pp. 203-223. 40 Ciò non toglie che in seguito la riflessione gentiliana abbia offerto spunti interessanti, anche ad autori che si muovevano in prospettiva dichiaratamente anti-idealistica. Si veda per esempio D. Formaggio, Fenomenologia della tecnica artistica, a cura di G. Scaramuzza, Pratiche, Parma 1978 (prima ed. Milano 1953), Parte I, cap. IV. 41 G. Gentile, Manzoni e Leopardi, Sansoni, Firenze 1960, pp. 185, 198. 42 G. Gentile, Studi su Dante, Sansoni, Firenze 1960, pp. 224, 231. 43 Le pagine su Iacopone si leggono ora in G. Gentile, Storia della filosofia italiana, vol. I, Sansoni, Firenze 1969, pp. 74 sgg.; quelle su Manzoni in Manzoni e Leopardi cit., pp. 3-27. Per Campanella: Prefazione a T. Campanella, Poesie, a cura di G. Gentile, Sansoni, Firenze 19392, pp. 1-15. 44 G. Gentile, Dante nella storia del pensiero italiano, in Id., Studi su Dante cit., pp. 3-52. 45 Le recensioni a Vossler si leggono ora in Gentile, Studi su Dante cit., pp. 55124. 46 G. Gentile, La profezia di Dante (1918), in Id., Studi su Dante cit., pp. 133175. 47 G. Gentile, La filosofia di Dante (1921), in Id., Studi su Dante cit., pp. 179211. 48 La recensione si legge ora in Gentile, Manzoni e Leopardi cit., pp. 31-44. 49 Ancora in ivi, pp. 44-67. 50 G. Gentile, Le «Operette morali», in Id., Manzoni e Leopardi cit., pp. 103-157. 51 G. Gentile, Introduzione a Leopardi (1927), in Id., Manzoni e Leopardi cit., pp. 79-101. 52 G. Gentile, Poesia e filosofia del Leopardi, in Id., Manzoni e Leopardi cit., pp. 225-242. 53 Gentile, Introduzione a Leopardi, in Id., Manzoni e Leopardi cit., p. 89. 54 Pensiamo ovviamente agli studi di C. Luporini, A. Caracciolo, W. Binni, A. Negri e S. Timpanaro e, in tempi più recenti, di A. Prete e C. Ferrucci. 55 G. Gentile, Nel centenario della morte del Leopardi, in Id., Manzoni e Leopardi cit., p. 207. 56 A. Carlini, La religiosità dell’arte e della filosofia, Sansoni, Firenze 1934, pp. 6063. 57 V. Fazio-Allmayer, Moralità dell’arte, Sansoni, Firenze 1953, p. 118. 58 Ivi, p. 48. 59 V. Arangio-Ruiz, Umanità dell’arte, Sansoni, Firenze 1951, pp. 35 sgg. 60 Rimandiamo al saggio di V. Stella, L’arte nella ragione poetica di Gaetano Chiavacci, in L’estetica italiana del Novecento cit., pp. 113-133. 38

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G. Chiavacci, La ragione poetica, Sansoni, Firenze 1947, p. 292. C. Carbonara, La mia prospettiva estetica, nel volume omonimo a cura di L. Stefanini, Morcelliana, Padova 1953. 63 C. Carbonara, del Bello e dell’Arte, ESI, Napoli 19532, Prefazione. 64 A. Emo, Il dio negativo, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Prefazione di M. Cacciari, Marsilio, Venezia 1989, in particolare alle pp. 221-249. 62

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Capitolo terzo. Al di fuori dell’idealismo

3.1. Polemiche con Croce. Luigi Pirandello e l’umorismo Un’interpretazione tenace, diffusa in Italia a partire dal secondo dopoguerra, tende a considerare l’indubbia prevalenza della cultura idealistica nella prima metà del nostro secolo come un predominio assoluto, che si esercita su tutti gli ambiti del sapere, esautorando di fatto qualsiasi voce discorde. La tesi che gli anni dall’inizio del secolo al 1945 siano stati quelli della dittatura dell’idealismo, secondo la formula messa in circolazione da Remo Cantoni sul «Politecnico» del 1947, e poi tante volte ripetuta, è una di quelle tesi semplificatrici e tendenziose che debbono il loro successo proprio al fatto che permettono di evitare ogni analisi circostanziata, riassumendo un intero periodo storico in uno schema rigido e dispensando dall’esaminare quanto nello schema non rientra. La tendenziosità dell’assunto è palese già nella scelta di un termine, ‘dittatura’, che insinua una corrispondenza tra la vicenda politica italiana e quella culturale, suggerendo l’ipotesi che il predominio idealistico non sia che il corrispettivo sul piano delle idee della dittatura del Ventennio, con un accostamento che tuttavia fa acqua da tutte le parti, dato che, se ha una certa plausibilità per Gentile, non ne ha alcuna per Croce, e induce a una visione mitica e alquanto astratta dei modi in cui si esercita un’egemonia culturale. Croce godette certamente di un’autorità enorme, ma questo non significa affatto che la sua azione culturale si 144

svolgesse senza contrasti, o che egli esercitasse un controllo assoluto: un’espressione, quest’ultima, quasi priva di senso e comunque destinata a essere smentita ogni volta che si osservi la concreta azione di Croce in campo, ad esempio, editoriale o politico1. Ma il vero limite della tesi della ‘dittatura idealistica’, anzi, meglio, il pericolo che in essa si nasconde, sta nella duplice distorsione che induce nella prospettiva storiografica. Per un verso, infatti, quella convinzione porta a considerare il periodo nel quale si ebbe il primato dell’idealismo come un blocco monolitico, e dunque a sorvolare sulle differenze interne all’idealismo e agli stessi protagonisti di quella stagione (laddove, come abbiamo visto, né il percorso crociano né quello gentiliano, e a maggior ragione quello dei loro discepoli, ebbero una tale impossibile graniticità); per un altro, essa rischia di mettere in ombra proprio quelle voci non allineate con l’orientamento dominante, proprio quei pensatori autonomi o defilati, sui quali invece si dovrebbe aver cura di non stendere il velo della dimenticanza, finendo così, paradossalmente, per causare quella situazione che si depreca. E questo vale, direi in modo particolare, per le teorie estetiche, nelle quali certamente l’influsso di Croce (assai meno, lo si è visto, quello di Gentile) fu profondo e diffuso, ma nelle quali neppure si può dire che il primo cinquantennio del secolo sia stato esclusivamente l’età dell’idealismo. Ci furono anche pensatori di orientamento diverso, non riducibile e talora assai lontano da quello predominante, e sui quali occorre fermare l’attenzione, e non solo perché vollero, in alcuni casi quasi programmaticamente, esibire posizioni indipendenti, ma perché diedero espressione a esigenze autentiche di ricerca, e, nei casi migliori, prepararono gli sviluppi nuovi che si sarebbero avuti nel secondo cinquantennio. 145

Un’altra semplificazione dalla quale occorre guardarsi è quella di considerare uniformemente i primi cinquant’anni del secolo, quasi che il predominio dell’estetica crociana assuma lo stesso significato nel primo trentennio di esso e nei vent’anni successivi, mentre tra i due periodi si delinea una significativa differenza. Se a partire dagli anni Trenta emergono infatti sempre più nettamente indirizzi teorici autonomi, capaci di contrapporsi con qualche forza alla cospicua presenza crociana, è vero invece che nei primi tre decenni del secolo risulta difficile indicare, almeno sul piano strettamente filosofico, qualcosa che riesca a configurarsi con effettivo spessore come un’alternativa a quel pensiero. Le ragioni di questo stato di cose sono molteplici. C’è, innanzi tutto, la fortissima capacità dell’Estetica crociana di agire come innovazione radicale rispetto alla tradizione precedente, al punto da dare l’impressione di creare un ramo di studi più ancora che di trasformarlo. L’energia centripeta del testo crociano fa sì che molta parte delle discussioni estetiche dei primi anni del secolo siano un confronto diretto, inevitabilmente subalterno, con l’opera di Croce, e d’altro canto relega le per altro esigue sopravvivenze degli orientamenti antecedenti nel ruolo di residui di una tradizione ormai superata: è il caso, ad esempio, dei testi del positivista Pilo che appaiono nel nuovo secolo, quali i tre volumi dell’Estetica (Lezioni sul bello, Lezioni sul gusto, Lezioni sull’arte) pubblicati dal 1905 al 1907. Accade poi che le opere che aspirano a contrapporsi a quelle di Croce, pur presentandosi come testi di estetica, siano prodotti di autori la cui preparazione è pressoché esclusivamente storicoletteraria o retorico-stilistica, e che quindi finiscono per restare su di un piano assai diverso da quello su cui Croce ha ormai portato il discorso, come nel caso dell’Irrazionale nell’arte di Fraccaroli (1903), dei due volumi di Porena, Che 146

cos’è il bello e Dello stile (1905 e 1907), e, anche se con qualche ambizione in più, in quello di Cesareo (18601937). Quest’ultimo, formatosi a contatto con la ‘scuola storica’, autore di numerosi studi nel campo della storia letteraria italiana, propone nel suo Saggio sull’arte creatrice (1919) un’estetica che vorrebbe essere alternativa a quella crociana ma finisce per stemperarsi in un generico spiritualismo. L’arte, per Cesareo, è essenzialmente creazione: pura creazione, produzione di una nuova realtà. Lo spirito, «d’origine divina, anela all’assoluto e all’eterno», e, non pago del finito, si crea con la fantasia un mondo assolutamente indipendente. Ne deriva un’esaltazione alquanto acritica e generica della funzione dell’arte, «esperienza immediata del divino che è in noi», e capace, creando, di «esprimere la vita ideale dell’umanità»2. Infine, ed è certo questo il dato culturalmente più significativo, le tendenze più vive della filosofia italiana di inizio secolo di orientamento non idealistico si tengono lontane dalle problematiche estetiche, e, se in altri campi riescono ad additare percorsi alternativi a quello crociano, evitano il confronto con l’estetica, che proprio perciò appare per un buon lasso di tempo appannaggio quasi esclusivo di quanti si muovono in un’orbita crociana. Si pensi al caso del pragmatismo italiano di inizio secolo, non tanto nella versione ibrida e ambigua della rivista fiorentina «Il Leonardo», cioè nelle deformazioni papiniane, quanto in quella assai più coerente e austera di Vailati e di Calderoni, interessati alla filosofia della scienza e alle problematiche economiche e morali, e capaci di sollevare importanti obiezioni a Croce su questi terreni specifici. Qualcosa di simile vale anche per un pensatore che, nel suo isolamento, rappresenta certamente una delle figure più interessanti del primo Novecento, Carlo Michelstaedter (1887-1910). Né nella sua opera maggiore, lo scritto, 147

concepito come tesi di laurea, La persuasione e la rettorica (che l’autore inviò da Gorizia, sua città natale, all’Università di Firenze, ove aveva seguito studi filosofici, poco prima di uccidersi), né nelle altre sue opere (particolarmente notevole il Dialogo sulla salute) è dato trovare un’estetica compiuta, mentre alcuni scritti giovanili su argomenti di critica letteraria sono troppo precoci per permettere di parlare di una riflessione autonoma. Ma dal suo pensiero, profondamente estraneo alla tradizione idealistica e nutrito soprattutto di cultura mitteleuropea, emergono suggestioni molto intense anche per i problemi di cui ci occupiamo. Gli ‘autori’ di Michelstaedter sono i pre-socratici, i tragici greci, Leopardi; tra i filosofi, Schopenhauer e probabilmente Nietzsche; tra i contemporanei, Tolstoj e Ibsen; la tensione della sua filosofia è stata avvicinata con ragione agli orizzonti del primo Lukács, di Wittgenstein, di Weininger3; la tematica della morte ‘autentica’, e più in profondità la polemica anti-platonica che fonda le sue pagine hanno fatto scorgere un’affinità con Heidegger. I termini ‘persuasione’ e ‘rettorica’ sono presi da Michelstaedter in un senso completamente estraneo a quello corrente: non sono affatto concetti correlati, ma indicano anzi due direzioni radicalmente divergenti dell’esistenza. Persuaso è colui che ha in sé la propria vita, non dipende da altro finendo per porre in altro il senso che può avere solo presso di sé. «L’Assoluto non l’ho finché non sono assoluto […] la Libertà, il Possesso, la Ragione e il Fine non li ho finché non sono libero e finito in me stesso e non manco di niente, che mi si finga a fine nel futuro, ma ho il fine ragionevole ora qui tutto nel presente, non aspetto, non cerco, non temo, ma sono persuaso»4. La Rettorica è invece «l’inadeguata affermazione d’individualità», tutto il mondo dell’esteriore, del finalizzato, del convenzionale: la società, la scienza, 148

l’educazione. La persuasione è personale, intrasferibile, incomunicabile. E come il linguaggio oscilla per Michelstaedter tra la cristallizzazione del parlare comune, sempre inesorabilmente deietto (perché il linguaggio è la Rettorica), e l’impossibile e pur necessaria espressione della persuasione, alla quale sembra possa giungere solo, e paradossalmente, col silenzio, così anche l’arte appare essenzialmente ancipite. Da un lato, essa appartiene alla Rettorica, è il processo dell’acquisto e del consumo insaziabile, della dipendenza e dunque del possesso da parte di altro, costantemente intenta a trasformarsi in tecnica imitativa e in accademia; dall’altro, esiste un nesso tra arte e persuasione, deve darsi e si dà l’artista persuaso: accanto all’arte che maschera, occulta, svilisce, deve esserci un’arte autentica che rivela, impegna la vita dell’artista, supera necessariamente se stessa per divenire forma dell’esistenza. In un breve scritto degli ultimissimi anni, Michelstaedter oppone lo scrittore debole allo scrittore, anzi all’uomo, forte: «Lo scrittore forte sente che o la cosa la dice sempre in ogni punto tutta o non la dice mai affatto […]. Gli artisti deboli ‘si sfruttano’, si adagiano nelle loro impressioni, ricercano le contingenze che possono produrle, temono pel proprio organismo ‘creatore’ e si svuotano. L’artista forte non vuol essere artista, ma ‘vuol essere’, e dalla lotta e dal dolore trae la salute e la gioia»5. Al di là della frammentarietà, gli scritti di Michelstaedter hanno avuto scarsa eco immediata, e solo lentamente hanno suscitato attenzione nel dibattito filosofico, soprattutto per merito di Gaetano Chiavacci. La fortuna di Michelstaedter, e la valorizzazione delle sue idee in estetica sono fatti recenti, e sarebbe una sfasatura prospettica accentuare il loro ruolo negli anni a ridosso di quelli in cui furono composti. Per trovare nei primi tre decenni del secolo teorie che si contrappongano a quella crociana con una qualche visibilità 149

e spessore ci si deve trasferire piuttosto sul piano delle poetiche, che abbiamo però escluso programmaticamente dalla nostra indagine. Ma prendere in considerazione almeno il caso rappresentato dagli scritti teorici di Luigi Pirandello (1867-1936) non è una scelta motivata solo dalla esiguità delle proposte filosofiche anti-crociane. Essi infatti si proposero non come semplice riflessione di un artista sul proprio fare ma come indagine teorica autonoma, e diedero luogo a uno dei più significativi confronti di inizio secolo con l’autore dell’Estetica. Né l’una né l’altra cosa accadde invece alla poetica di Giovanni Pascoli (1855-1912), consegnata del resto a uno scritto, il celebre Fanciullino, la cui prima pubblicazione cade sia pure di poco al di fuori del nostro termine di avvio, vale a dire nel 1897. Certo, ci sono nel testo pascoliano molte idee importanti, a cominciare da quella cui accenna il titolo, del poeta che non vede direttamente ma attraverso gli occhi del fanciullo che continua a vivere in lui, che non ha voce propria ma raccoglie ciò che il fanciullo «detta dentro», che si rivolge «non agli uomini proprio, ma ai fanciulli, che sono negli uomini». Nelle pagine pascoliane, come è stato notato, una poetica delle cose si intreccia con una poetica della visione, in forza della quale il poeta è «il fanciullo eterno, che vede tutto con maraviglia, tutto come per la prima volta», la poesia «consiste nella visione d’un particolare inavvertito, fuori e dentro di noi», e il poeta deve cercare il nome per le singole, piccole cose; ed è presente la contrapposizione forte tra la poesia vera, la poesia «senza aggettivo», e la parola piegata al servizio di altro, la parola di coloro i quali, con un «linguaggio artifiziato», vogliono che non si veda più, mentre il fanciullo dice sempre quello che vede, come lo vede, con il corollario della rarità e intermittenza della vera poesia. Ma Pascoli stesso scrive che «questi pensieri sulla poesia, più che una confessione, che a volte sarebbe 150

orgogliosa e vanitosa, sono veri e propri moniti a me stesso, che sono tanto lontano dal fare ciò che pur credo sia da fare»6, e, sistematizzandoli in teoria, si rischiava di perderne, prima ancora che la suggestione, il significato genuino. Invece l’Umorismo e Arte e scienza di Pirandello, entrambi pubblicati nel 1908, si presentano nella forma rispettivamente del trattato e della raccolta di saggi, accademici l’uno e l’altro: quando li scrive, Pirandello è già autore del Fu Mattia Pascal, ma è anche docente di stilistica al Magistero di Roma. Tutta la prima e più ampia parte dell’Umorismo prende dunque la forma di un’indagine sulla storia della letteratura italiana. Pirandello esordisce con alcune notizie sull’origine della parola ‘umorismo’ e sul modo in cui essa è stata impiegata nella critica letteraria, e passa poi a verificare se vi siano nella nostra letteratura degli autori che meritino la qualifica di ‘umoristi’, soffermandosi in particolare sulla poesia cavalleresca, che sembra offrire il terreno più promettente alla ricerca. Ma a torto, secondo Pirandello, perché né Boiardo o Ariosto sono veramente umoristi, né vi è nella nostra letteratura una vera tradizione di letteratura umoristica. Questo non significa però che l’umorismo alligni maggiormente in altre letterature, specie, come si crede di solito, in quella inglese o in quella tedesca del romanticismo. Il senso del discorso pirandelliano è esattamente l’opposto: l’umorismo è raro nella nostra come in tutte le letterature, se si ha cura di non confonderlo con fenomeni del comico, dell’ironia, dello humour. «Una letteratura umoristica vera e propria non è possibile, presso nessun popolo», al massimo si avranno pochi e rari scrittori degni di essere qualificati umoristi7. La seconda parte del saggio, più breve ma anche assai più interessante, tenta di definire l’umorismo basandosi sul ruolo particolare che assume nell’arte umoristica la riflessione. Un’attività riflessa è presente in ogni tipo di arte, 151

ma nascosta, invisibile, rifusa nel sentimento. Nell’arte umoristica, invece, la riflessione si stacca dal sentimento, se lo pone dinanzi, lo analizza, lo scompone, e fa sorgere dal sentimento iniziale un altro sentimento, che potrebbe chiamarsi il sentimento del contrario. L’umorismo è dunque una sorta di arresto e superamento dell’attitudine comica provocato da una riflessione che ribalta il sentimento di partenza nel suo opposto. Don Chisciotte è semplicemente comico se lo guardo solo come un folle; se capisco le ragioni della sua follia smetto però di considerarlo esclusivamente ridicolo e inizio a commuovermi per la sorte di questo campione della fedeltà ai propri ideali: egli non è più comico, è umoristico. L’umorismo trae alimento dalla perplessità, è un riso turbato dalla presenza del sentimento del contrario, frutto della riflessione. Le molte interruzioni e digressioni che caratterizzano le opere umoristiche hanno qui la loro origine. La riflessione non va intesa tuttavia come un momento di consapevolezza contrapposto all’ingenuità o alla spontaneità del sentimento, è legata alla stessa attività fantastica come sua proiezione o sua ombra, e dunque è altrettanto ingenua del sentimento su cui si esercita, per cui l’umorismo rappresenta «un fenomeno di sdoppiamento nell’atto della concezione»8. È a partire da qui che Pirandello sviluppa, nelle ultime pagine del saggio, le sue idee più originali e personali: anche stilisticamente, vi è in questa parte finale come uno scatto, un’ energia che manca alle precedenti. «Ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è che una parte, forse una piccolissima parte di quello che noi siamo»; la personalità di ognuno di noi non è mai unica, mai identica a se stessa; la vita è un flusso continuo che idee, concetti, istituzioni tentano di fissare, di imprigionare in forme stabili e determinate. Ma «in certi momenti tempestosi, investite dal 152

flusso, tutte quelle forme fittizie crollano miseramente»: sono i momenti in cui ci vediamo vivere, in cui un silenzio spettrale sembra calare sulle finzioni abituali, staccarle da noi, rivelarne l’insensatezza. «La prima radice del nostro male è appunto in questo sentimento che noi abbiamo della vita», nel triste privilegio di sentirsi vivere. Anche l’arte fa parte del mondo delle finzioni, anch’essa erige barriere contro il flusso della vita, razionalizza, ordina, rende coerente. L’umorismo è chiamato a smontare queste costruzioni tranquillizzanti, a portare disordine, svelare incoerenze, scoprire irrazionalità. L’artista compone un carattere, l’umorista smonta il personaggio nei suoi elementi contraddittori, e porta alla luce «la vita nuda», quella vita «senz’ordine almeno apparente […] lontanissima dal congegno ideale delle comuni concezioni artistiche, in cui tutti gli elementi, visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano»9. Non si può dire però che fossero queste pagine, nelle quali Pirandello si fa più evidentemente teorico dell’arte propria (non bisogna dimenticare che l’Umorismo portava nella prima edizione una dedica «alla buon’anima di Mattia Pascal, bibliotecario»), quelle che attrassero l’attenzione al momento dell’uscita del saggio. Croce, che puntualmente lo recensì sulla «Critica», vi vide soprattutto un’occasione per ribadire la propria tesi dell’indefinibilità filosofica dell’umorismo, e si accanì su quelle che gli parevano inconseguenze o approssimazioni teoriche: la contrapposizione tra arte e umorismo, alla quale la teoria di Pirandello sembra condurre, la scarsa capacità di fissare il ruolo esatto della riflessione (che naturalmente, per Croce non ne aveva alcuno), l’ipostatizzazione in tratto definitorio dell’umorismo di quella «rappresentazione dialettica della vita» che si trova sempre nell’arte. Croce insisteva sull’inesperienza filosofica e dottrinale di Pirandello, «al 153

quale i concetti si sformano tra mano quando li prende per porgerli altrui»10, sul suo non esser filosofo; Pirandello avrebbe fatto bene a ignorare queste critiche, e a seguire il filo dei problemi che gli stavano realmente a cuore, e che erano altrove. Invece, volle seguire Croce sul suo terreno, e nelle edizioni successive dell’Umorismo inserì alcune pagine di diretta polemica anti-crociana11, con considerazioni sarcastiche su di un’estetica che, dinanzi al problema particolare dell’umorismo, sa solo calare «un formidabile cancello di ferro, che è vano scrollare». Dietro quel cancello, però, non c’è nulla, se non la formula vuota della intuizione-espressione. «Ah, va bene! Non vi pare che si possa passar davanti a questo cancello chiuso, senza neanche voltarci a guardarlo?». La contrapposizione all’Estetica serpeggiava già nei saggi di Arte e scienza, e in particolare in quello che dava il nome al volume. Qui Pirandello si richiamava all’Essai sur le génie dans l’art del filosofo Séailles e al saggio sulle alterazioni della personalità dello psicologo Binet per protestare contro la netta demarcazione tra scienza e arte introdotta da Croce, che ha significato un impoverimento della critica. Il peccato originale dell’Estetica consiste nell’avere «staccato con un taglio netto le varie attività e funzioni dello spirito, che sono in intimo inscindibile legame e in continua azione reciproca; nell’avere scisso la compagine della coscienza, considerandone solo una parte, che soltanto per astrazione può immaginarsi disgiunta dalle altre, e nell’aver fondato l’arte su questa»12. Era un’osservazione che poteva portare lontano, ma non si può dire che Pirandello riuscisse veramente a metterla a fuoco nel resto del saggio. Di fatto, egli si limitava a contestare l’affermazione crociana del carattere conoscitivo dell’arte, rimproverandole, non del tutto coerentemente, di aver reso ‘intellettualistica’ la concezione dell’arte, e di averne escluso il sentimento e la 154

volontà (Pirandello poteva aver presente solo la prima estetica crociana). E quando si trattava di opporsi al teoreticismo crociano, Pirandello non sapeva andare oltre qualche formula vaga («perché il fatto estetico avvenga […] bisogna che l’intuizione non sia l’impressione formata astrattamente […] ma la forma concreta, libera e soggettiva d’una impressione»13), qualche rinvio alle concezioni estetiche del Cesareo, il recupero di una distinzione delle arti di marca lessinghiana, come nel saggio Illustratori, attori, traduttori sempre nello stesso volume. Scegliendo di porsi sul piano della speculazione astratta, staccata dai problemi d’arte che più gli stavano a cuore, Pirandello non rendeva un buon servigio a se stesso, e finiva per non distinguersi più, a differenza di quanto accadeva con l’Umorismo, dai tanti critici di primo Novecento che vedevano nell’Estetica crociana un bersaglio, ma finivano così per confermarne il ruolo di punto di riferimento obbligato. 3.2. L’estetica futurista Se fosse valido il semplicistico criterio in forza del quale appartiene all’estetica ciò che riguarda tutte le arti e alla poetica quel che riguarda un’arte sola, allora non vi sarebbe bisogno di spendere parole sull’inclusione del futurismo in una storia dell’estetica del Novecento. Raramente si vide una teoria nata in riferimento a un’arte particolare estendersi tanto rapidamente a tutte le sfere artistiche, nessuna esclusa: dalla letteratura, il futurismo si diffuse alle arti figurative, all’architettura, alla musica, al teatro, al cinema. Certo, gli scritti programmatici futuristi rimangono delle poetiche nel senso pieno del termine, ossia delle indicazioni pratiche sull’arte da fare, tant’è vero che spesso assumono la veste del manifesto; ma, a parte che la capacità espansiva del futurismo attraverso le singole arti (e anche oltre la sfera artistica stessa) resta un fatto 155

significativo, ci sono motivi più sostanziali che portano a riservare al futurismo un trattamento diverso rispetto all’esclusione dal nostro orizzonte delle poetiche di altri movimenti. Il peso che la riflessione teorica assume nel futurismo è infatti del tutto particolare, e non si coglie la natura di quel movimento se non ci si dispone innanzi tutto a comprendere appunto la differenza tra le teorizzazioni funzionali ad altri movimenti artistici e la teoria futurista. Carlo Bo ha osservato che al futurismo sono mancate le opere, e dunque che la teoria (Bo diceva: la protesta) è molto più importante delle realizzazioni artistiche14. Ma questo, per l’appunto, è caratteristico dell’avanguardia, anzi è ciò che identifica l’avanguardia come avanguardia: i principi sono sempre per definizione più importanti delle opere, a prescindere dal valore effettivo di esse. Ecco allora l’altro notevole motivo di interesse: il futurismo fu il primo grande movimento dell’avanguardia novecentesca, destinato quindi a inaugurare un atteggiamento nei confronti dell’arte sempre ripreso (talora pateticamente) dalle avanguardie che si sono succedute nel corso del nostro secolo; fu il solo grande movimento di avanguardia nato in Italia; e fu all’origine di molti degli sviluppi successivi dell’arte europea, dalla Francia alla Russia. Insomma, il futurismo è stato uno dei pochissimi episodi europei della nostra storia culturale recente: che le sue energie siano state orientate dalla parte dell’interventismo, dell’imperialismo, del fascismo è cosa che spiega bensì la lunga reticenza della critica sul futurismo, ma non la giustifica15. Gli incunaboli del movimento, si è detto, sono tutti letterari, e vanno ricercati nell’attività parigina dell’animatore del gruppo, Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), che nel 1905 fonda la rivista «Poesia», alla quale collaborano Sem Benelli e Gian Pietro Lucini. Il battesimo ufficiale è celebrato con il Manifesto del futurismo 156

pubblicato da Marinetti sul «Figaro» nel 1909. Seguono, in rapida successione, le prese di posizione teoriche relative alla pittura (Manifesto dei pittori futuristi, 1910) con Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini; al teatro (La voluttà d’esser fischiati, di Marinetti, del 1911); alla musica (Pratella, Manifesto dei musicisti futuristi, 1911); alla scultura (Boccioni, La scultura futurista, 1912), all’architettura (Sant’Elia, L’architettura futurista, 1914). Questi manifesti sono accompagnati da altri più specifici, i manifesti ‘tecnici’ della pittura, scultura, musica, letteratura, che escono nello stesso periodo di tempo, spesso indicato come il ‘periodo eroico’ del movimento. Il primo futurismo è un fenomeno prevalentemente milanese; a partire dal 1911-1912 si affiancano al gruppo originario alcuni toscani, come Papini, Palazzeschi, Soffici. Il futurismo fiorentino fa riferimento soprattutto alla rivista «Lacerba»; si tratta di autori con una fisionomia in gran parte diversa da quella del gruppo milanese, e che presto transitano su posizioni indipendenti. I Primi principi di un’estetica futurista che Soffici scrive sulla «Voce» nel 1916 e poi pubblica nel 1920 in volume sono solo in minima parte d’ispirazione marinettiana. Ma dopo quella data, con una vicenda anch’essa tipica di molte avanguardie, è tutto il movimento a istituzionalizzarsi e a perdere forza: Marinetti continua la propria attività fino alla morte, in parte ripetendosi stancamente, in parte però dimostrando una notevole capacità di recuperare linguaggi diversi, magari più tradizionali16. L’aspetto probabilmente più noto della teoria futurista è l’esaltazione della modernità, della bellezza delle macchine, della velocità. «Noi vogliamo sostituire alle vecchie emozioni statiche e nostalgiche le violente emozioni del moto e della velocità», scriveva Boccioni nel 1914, riprendendo un motivo che fin dal primo Manifesto aveva assunto un ruolo centrale: «La letteratura esaltò fino ad oggi 157

l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa […]. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia»17. I futuristi vogliono ispirarsi «ai tangibili miracoli della vita contemporanea, alla ferrea rete di velocità che avvolge la Terra, ai transatlantici, alle Dreadnought, ai voli meravigliosi che solcano i cieli, alle audacie tenebrose dei navigatori subacquei, alla lotta spasmodica per la conquista dell’ignoto», vogliono «rendere e magnificare la vita odierna, incessantemente e tumultuosamente trasformata dalla scienza vittoriosa», esaltano l’idea di una «bellezza meccanica» e l’«amore per la macchina», vedono nelle locomotive, nei tramvai, nelle automobili e nelle biciclette «le prime linee della grande estetica futurista», aspirano a rendere «l’anima musicale delle folle, delle corazzate, degli automobili e degli aeroplani», ad «aggiungere ai motivi centrali del poema musicale il dominio della macchina ed il regno vittorioso della elettricità». Le idee del Manifesto tecnico della letteratura futurista vengono a Marinetti «in aeroplano, seduto sul cilindro della benzina»18. In questa esaltazione della macchina e della velocità i futuristi avevano avuto un anticipatore, e in parte un ispiratore, in Mario Morasso (1871-1938), che nelle sue opere del primo decennio del secolo – L’imperialismo artistico, La nuova arma (la macchina), L’aspetto meccanico del mondo – aveva svolto motivi in gran parte simili. L’estetica della velocità e della macchina è però solo un tratto particolarmente vistoso di una più generale esaltazione, che sarà poi caratteristica di ogni avanguardia 158

novecentesca, della innovazione come principio estetico basilare: si fa arte in quanto si rompe con la tradizione precedente, si rivoluzionano le tecniche, si cerca l’originalità a tutti i costi, si provoca il pubblico spiazzando le sue attese. Donde il tono aggressivo: «Non c’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro». Bisogna «esaltare ogni forma di originalità, anche se temeraria, anche se violentissima […]; spazzar via dal campo ideale dell’arte tutti i motivi, tutti i soggetti già sfruttati»; in mancanza di determinazioni più precise, si ricorre alla pura asserzione dell’innovatività: la musica futurista è la musica «assolutamente diversa da quella fatta finora». Il teatro, nel quale la provocazione immediata è più facile e vistosa, è terra di elezione per la pratica futurista, e Marinetti esalta «la voluttà d’esser fischiati», il disprezzo del pubblico, l’orrore del successo immediato, e insomma «l’assoluta originalità novatrice». Naturalmente, con dialettica insita nei principi stessi dell’avanguardia, la volontà di provocazione e il disprezzo del successo sono posti al servizio della ricerca della sensazione, del far parlare di sé: si disprezza il successo per ottenerlo, e, come è stato tante volte notato, i futuristi organizzano e pianificano la pubblicizzazione delle loro attività, attraverso la distribuzione massiccia degli scritti, lo scandalo programmato delle serate futuriste. L’arretratezza del pubblico è il migliore alleato di ogni succès de scandale. Parallela all’apoteosi dell’arte di rottura scorre negli scritti futuristi la polemica contro la tradizione e i suoi luoghi deputati, come il museo: «Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie»; «Noi vogliamo combattere accanitamente la religione fanatica, incosciente e snobistica del passato, alimentata dall’esistenza nefasta dei musei»; bisogna convincere i giovani compositori «a disertare licei, conservatorii e accademie 159

musicali»19. Nasce da qui uno degli aspetti più significativi del futurismo, la critica alla ‘sublimità’ dell’arte, all’arte ‘alta’, la volontà di togliere all’arte l’‘aureola’: «solo nelle manifestazioni più semplici e più spontaneamente necessarie della vita moderna, da quelle più spoglie di sublime e di cultura, noi possiamo scoprire e seguire il filo misterioso che conduce alla sorgente dell’estetica futura». Gli scultori futuristi vogliono abolire «il sublime dei soggetti», il nudo, la statua, il monumento, vogliono «distruggere la nobiltà tutta tradizionale del marmo e del bronzo»; «facciamo il ‘brutto’ in letteratura, e uccidiamo ovunque la solennità», proclama il Manifesto tecnico della letteratura futurista. Anche l’architettura vuole essere «brutta nella sua meccanica semplicità», rifiuta la decorazione e l’ornamento. Bisogna «sputare sull’altare dell’arte», distruggere «le ghirlande, le palme, e le aureole, e le cornici preziose, le stole e i paludamenti, tutto il vestiario storico e il bric-à-brac romantico». Donde l’esaltazione delle arti ‘basse’, come il Teatro di Varietà, ove si trova «la scomposizione ironica di tutti prototipi sciupati del Bello, del Grande, del Solenne, del Religioso, del Feroce, del Seducente e dello Spaventevole»20. Mentre disprezza la bellezza naturale e incita alla distruzione del paesaggio, il futurismo apprezza la pubblicità, e in generale tende a sfondare la barriera tra ciò che è estetico e ciò che sta ‘sotto’ l’estetico: vuole recuperare all’estetica la sfera tattile, quella olfattiva e quella culinaria, predica una musica che sia «arte dei rumori». Come ogni movimento anti-classico, è del tutto contrario a rispettare i limiti delle forme espressive tradizionali e si muove verso la poliespressività, i rapporti e le mescolanze tra le arti, e, al limite, l’«opera d’arte totale»; per i futuristi «nessuna paura è più stupida di quella che ci fa temere di uscire dall’arte che esercitiamo». In letteratura, il poeta «lancerà su parecchie linee parallele parecchie catene 160

di colori, suoni, odori, rumori, pesi, spessori, analogie. Una di queste linee potrà essere per esempio odorosa, l’altra musicale, l’altra pittorica»; in pittura, Carlo Carrà parlerà nel 1913 di una «Pittura dei suoni, rumori, odori», alla volta di una «pittura totale, che esige la cooperazione attiva di tutti i sensi»; in musica bisogna attrarre «nell’orbita dell’ispirazione e dell’estetica musicale tutti i riflessi delle altre arti». Sintomatica di queste tendenze è l’attenzione che i futuristi dedicano al cinema, letto come una «sinfonia poliespressiva» nella quale entrano come mezzi di espressione gli elementi più svariati. Il cinema è somma e caos delle varie arti21. Sul piano delle singole arti questi orientamenti generali vengono messi in opera attraverso una serie di innovazioni, riassunte in quei «Manifesti tecnici» nei quali si va a sedimentare quella che con giusto ossimoro è stata chiamata la «precettistica eversiva» del futurismo. In campo poetico il futurismo inizia come alfiere del verso libero, ripreso da esperienze francesi, e che viene teorizzato da un ‘compagno di strada’ del futurismo, Gian Pietro Lucini (Il verso libero, 1908), che poi si allontanerà dal movimento, non condividendone soprattutto l’impostazione politica. Successivamente Marinetti lancia le «parole in libertà»: abolizione della punteggiatura e sua sostituzione con segni matematici e musicali, distruzione della sintassi, uso del verbo all’infinito, abolizione di aggettivi e avverbi. È una poetica che, al di là dell’apparenza dirompente, si richiama alla prevalenza dell’immagine e predica l’assoluto dominio dell’analogia («Lo stile analogico è padrone assoluto di tutta la materia e della sua intensa vita»22), mentre accetta la teatralizzazione e la declamazione, esaltata dalle attitudini sceniche di Marinetti. C’è quindi una continuità, nonostante le dichiarazioni in contrario, tra il futurismo e i precedenti di fine Ottocento, specie simbolistici, così come 161

c’è, questa volta riconosciuto (e foriero di risultati senz’altro superiori sul piano artistico concreto), un legame tra le tendenze più avanzate della pittura europea (cubismo, Fauves) e le arti figurative futuriste. In pittura, il gruppo propugna la simultaneità, il movimento, il complementarismo, il coinvolgimento dello spettatore, le linee-forze; in scultura, la compenetrazione dei piani, la completa abolizione della linea finita e della statua chiusa, l’abbandono dei materiali tradizionali e l’uso di quelli nuovi e poveri (stoffe, legno, carta) o effimeri (luci al neon ecc.), così come in architettura i futuristi vogliono il cemento armato, il ferro, il vetro, il cartone, esposti a vista e non mascherati da ornamenti, ma, casomai, dipinti con colori violenti. Molte di queste intuizioni diventeranno patrimonio comune dell’avanguardia novecentesca, e saranno spesso riprese in forma più o meno variata e mascherata. Quel che va sottolineato è piuttosto il fatto che il futurismo si rivelerà profetico e precorritore anche su di un altro terreno, quello della dilatazione dell’esteticità dal terreno tradizionale delle arti e dei fenomeni connessi (incluse le arti ‘basse’ del decorativo, della pubblicità ecc.) alla vita in generale e alla politica in particolare. Non solo, e anche questo accadrà spesso alle avanguardie successive, il movimento futurista si propone sia come movimento artistico sia come movimento politico, lanciando proclami agli studenti, manifesti politici, e addirittura un vero e proprio Partito futurista italiano, ma il futurismo cerca, giustifica e produce la sovrapposizione di atteggiamenti e richiami di natura estetica sui fenomeni politici. L’estetizzazione della violenza, il richiamo alla «bellezza» della guerra, la sublimazione estetica della lotta e della sopraffazione, che poi saranno variamente utilizzate dalle dittature novecentesche, hanno nel futurismo una prima, cospicua 162

manifestazione. Già nel Manifesto del 1909 si leggeva: «Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna»23, e più tardi Marinetti dirà: «abbiamo sempre considerata la Guerra come unica ispirazione dell’arte, unica morale purificatrice, unico lievito della pasta umana», e vedrà la poesia nuova, la poesia che seppellisce quella «pacifista» del passato nei bombardamenti, nei treni blindati, nelle trincee, nei duelli di artiglieria, nelle cariche, nei reticolati elettrizzati. La Guerra è futurismo intensificato. Non tutto, comunque, orienta il futurismo verso la futura adesione al fascismo, vissuta per esempio da Marinetti (ma anche in lui ci sono componenti che riluttano fortemente all’omologazione con l’ideologia fascista, almeno con quella del fascismo al potere). Il gruppo fiorentino, ad esempio, non a caso sempre critico nei confronti dell’equazione tra futurismo e marinettismo, accentua in Aldo Palazzeschi l’elemento giocoso, ludico, ironico (Il controdolore, 1913). Anche la parabola di Ardengo Soffici, apparentemente sistematore del movimento sul piano estetico generale coi suoi Primi principi di un’estetica futurista, va considerata separatamente. I Primi principi sono solo in parte un’estetica futurista, e in ogni caso non sono la teoria del movimento marinettiano (semmai risentono delle esperienze del gruppo fiorentino e della contrapposizione papiniana tra ‘futurismo’ e ‘marinettismo’). Soffici stesso li presenta come «un tentativo mio personale di ridurre a teoria i diversi postulati estetici» del futurismo, e anche sul loro carattere ‘teorico’ occorre andare cauti, se l’autore per primo li considera «note ed appunti» volti non a preparare «materiali per un trattato di estetica» ma piuttosto a «registrare un certo numero di argomenti in favore di una possibilità estetica»24. Ci sono certamente nel testo di Soffici 163

alcuni elementi di continuità con l’orientamento originario del futurismo: l’esigenza di rottura, il bisogno dichiarato per l’arte di essere assolutamente moderna, l’esaltazione dell’originalità, la ricerca dello scandalo e della réclame, e poi la poetica della velocità e della simultaneità, la volontà di procedere a colpi di immagini e di analogie, il disprezzo per la comprensibilità. Ma né sono questi i principi ai quali Soffici aderisce nel modo più convinto, né essi armonizzano fino in fondo con la sua più personale poetica. Quando li si esamina a distanza più ravvicinata, si vede che egli tende a piegarli in una direzione diversa da quella consueta. Ad esempio il tema importante della non-serietà dell’arte, della contrapposizione alla solennità dell’arte ‘alta’ non è sviluppato nel senso della dissacrazione violenta e propagandistica propria di Marinetti ma in quello dello scherzo, del gioco, del parodico; il fine dell’arte è il divertimento, l’artista non è apostolo, educatore, eroe, ma acrobata, saltimbanco, giocoliere (già Papini aveva contrapposto al «goliardismo propagandista» di Marinetti il «clownismo e funambolismo» del vero futurismo). L’arte è moda, variazione continua, perché ogni artista vale per la maniera nuova che gli è propria, e l’arte grande è solo «quella che torna regolarmente di moda»25. Soprattutto, Soffici inquadra questi argomenti in una cornice teorica generale che, sottolineando l’autonomia assoluta del fenomeno artistico e l’impossibilità di finalizzarlo a qualcosa di esterno, dà loro un colorito del tutto particolare. L’arte deve avere un fine unicamente artistico, e l’estetica va «purgata di ogni residuo utilitario, civile, politico» in modo da adeguarla «alle espressioni di un’arte purificata, fatta senz’altro fine che il proprio splendore». La stessa appartenenza dell’estetica alla filosofia appare a Soffici uno snaturamento dell’indipendenza che le spetta, per cui egli auspica «che quest’estetica sia autonoma: che non possa 164

cioè riferirsi ad alcun sistema, ma rampolli unicamente dal fatto artistico». L’arte presuppone l’indipendenza dalla natura e dal sentimento: ogni arte dovrebbe prendere esempio dalla musica e dovrebbe anzi essere musica pura, un fenomeno «fatale e inconcludente» o «una bagattella completamente inutile». Non erano richieste nuove, e anzi riportavano verso le concezioni dell’art pour l’art che Soffici infatti cita e mostra di condividere. Piuttosto che il loro valore in sé, conta dunque l’accento che esse conferiscono al discorso di Soffici, che si trova riportato verso un’idea dell’opera d’arte come smalto o cammeo, e da futurista sembra fatto parnassiano: caratteri dell’arte sono la freddezza, la radiosità, la calma divina. Il magma futurista si raffredda nella ricerca della forma pura, e in luogo della chiassosa affermazione sul pubblico si ricerca il bisbiglio della conventicola di iniziati. L’arte è essenzialmente cosa per artisti, linguaggio per eletti (l’arte per i «Compari» opposta a quella per i «Semplici»), una sorta di cifrario ermetico per collaboratori. E anche se Soffici tenta di imprimere una spinta utopica al suo discorso, vagheggiando una morte dell’arte che coinciderebbe in realtà con la trasformazione di tutti gli uomini in artisti, il senso del suo discorso sembra piuttosto andare verso una mistica della poesia pura, nella quale il saltimbanco e il clown cedono di nuovo di fronte al poeta come santo ed eroe, «taumaturgo della pura Poesia»26. Anche per questo, l’estetica futurista di Soffici è piuttosto un congedo dal futurismo; appare a cose fatte, e ha il senso della conclusione di un percorso. Quando leggiamo «L’arte che questi scritti volevano annunziare o spiegare non s’è forse mostrata in atto nel supposto splendore», capiamo che non si sta annunciando una rivoluzione ma cantando un’elegia su una rivoluzione mancata. Del resto la Prefazione da cui sono tratte queste parole è del 1920, e l’età eroica e produttiva il futurismo 165

l’ha ormai tutta alle spalle. 3.3. Lo scetticismo estetico di Giuseppe Rensi La posizione rigorosamente scettica (non c’è alcun criterio del giudizio di gusto; tutti i gusti sono egualmente validi) nella teoria estetica è molto rara: infinitamente più rara di quanto accada in campo conoscitivo o morale. La ragione è evidente: a differenza di quanto si verifica in gnoseologia o in filosofia pratica, in estetica lo scetticismo coincide con l’opinione più corrente e ovvia che tutti i gusti sono gusti e che del gusto non si discute. Lo scetticismo estetico non si scontra con alcuna certezza acquisita e rischia anzi di sfondare una porta già aperta, portando acqua al mulino del più trito senso comune. Per questo anche filosofi di orientamento scettico hanno abbandonato lo scetticismo quando si è trattato di affrontare il problema estetico, e Hume, per fare un esempio celebre, dopo aver riconosciuto che la grande varietà dei gusti è troppo evidente per non essere stata osservata da tutti, riteneva possibile fissare uno standard of taste. Invece in Giuseppe Rensi (1871-1941) lo scetticismo estetico è rigido e conseguente, anche perché in lui l’applicazione della soluzione scettica all’estetica vuole essere la riprova in un settore particolare (e particolarmente adatto a fornirla) del suo più generale orientamento scettico. Le date lo confermano. Rensi non era partito dallo scetticismo; fu la grande guerra, che gli mise sotto gli occhi (sono parole sue) lo spettacolo di parti avverse ognuna incrollabilmente convinta di avere ragione, senza che fosse in alcun modo possibile dimostrare la superiorità o la maggiore fondatezza di una ragione sull’altra, a convertirlo allo scetticismo, i cui principi egli espose in quella che resta la sua opera teoreticamente più significativa, i Lineamenti di filosofia scettica del 1919. Una volta elaborate le proprie convinzioni, 166

Rensi si volse a confermarle attraverso l’analisi di quel che avviene in campo politico e in campo artistico, e vennero così fuori la Filosofia dell’autorità e La scepsi estetica, apparse entrambe nel 1920. Nella prima, Rensi faceva discendere dall’impossibilità di decidere razionalmente tra tesi diverse la necessità di affidarsi alla forza e all’autorità, tesi della quale non sapremmo saggiare in questa sede la tenuta logica, ma di cui è sicuro invece il carattere pernicioso, specie se si pensa al momento storico in cui venne espressa. Ma naturalmente è l’altro volume a interessarci. La scepsi estetica è la sola opera organica di estetica composta da Rensi, e in essa si trovano tutte le idee centrali del suo scetticismo estetico; le opere in cui egli successivamente riprese queste tematiche (lo scritto La mia filosofia, e i Paradossi d’estetica e dialoghi dei morti) non aggiungono nulla alle argomentazioni fissate nell’opera maggiore, e anzi, se la sezione sul bello della Mia filosofia ha almeno il merito di offrire un’esposizione stringata ed efficace, i Paradossi di estetica sono spesso una ripetizione stracca, talora quasi letterale, delle tesi precedenti. La scepsi estetica esordisce affermando l’indefinibilità del bello e dell’arte. Che del bello si continuino ad avanzare definizioni sempre diverse e discordi è la prova migliore che esso non è in realtà definibile, e la stessa cosa si può dire dell’arte, che a taluno è parsa rappresentazione del bello ma che altrettanto legittimamente può essere definita rappresentazione del brutto, del deforme, dello sgradevole; che è stata a lungo considerata imitazione ma che è, altrettanto, creazione; che è passibile di apparire un gioco, ma al tempo stesso è un’occupazione serissima. Il ‘circolo’ estetico, ossia il fatto che per sapere che cosa è l’arte debbo aver presente delle opere d’arte, ma d’altra parte per riunire le opere che considero d’arte debbo già sapere che cosa è arte e che cosa non lo è, dimostra, a parere di Rensi, che 167

l’arte è indefinibile, ossia che ognuno la può definire a modo proprio, come più gli aggrada. Sono enunciati nel primo capitolo i due problemi centrali di cui si occupa l’estetica rensiana, i due soli che le stiano a cuore e sui quali essa abbia qualcosa da dire: la questione della relatività del gusto, dell’impossibilità di ritenere un giudizio di gusto più fondato di un altro (proprio il fatto che ognuno ha diritto a considerare arte ciò che più gli aggrada spiega l’impossibilità di stabilire che cosa l’arte oggettivamente sia: oggettivamente, l’arte è niente); e la tesi che l’arte e la filosofia non si possono distinguere, che metafisica e lirica coincidono (l’arte è espressione personale, ma anche la filosofia per lo scettico è effusione soggettiva: dunque, esse sono indisgiungibili). Si tratta di due idee distinte, che hanno una natura e una storia diverse: la seconda appare, almeno potenzialmente, più interessante e certo più originale della prima. Ma è proprio la prima, l’idea della relatività del gusto, quella che Rensi tratta più analiticamente e per esteso. Egli comincia con il confutare l’idea che il bello possa essere una qualità oggettiva delle cose, ossia una proprietà dell’essere che sussisterebbe anche se nessun soggetto la percepisse, e sbarazzarsi di questa idea gli riesce naturalmente piuttosto facile, dato che nel considerare la bellezza una qualità soggettiva concordano tanto la gran parte dell’estetica moderna quanto l’opinione popolare che la bellezza è nell’occhio di chi guarda. Dunque, il giudizio di gusto è soggettivo. Ma di che tipo di soggettività? Una soggettività assoluta, tale che ogni giudizio sia ragguagliabile a qualsiasi altro, così che cessi ogni possibilità di confrontare gusti diversi e argomentare pareri discordi, oppure una soggettività tale da non escludere in linea di principio una comunicabilità del gusto e quindi una universalizzabilità del giudizio? L’alternativa è chiarissima agli occhi di Rensi, così come sembra essergli 168

piuttosto chiaro che scegliere il secondo corno del dilemma significa porsi sulla via regia dell’estetica moderna, quella che accoglie la soluzione kantiana dell’antinomia del gusto. Quando Rensi osserva che la soluzione crociana al problema della relatività del gusto nell’Estetica è, sostanzialmente, ancora quella di Kant, egli è nel giusto; ma non ne è affatto indotto a guardarla più benevolmente. Semmai, è portato a condannarla con ancora maggiore veemenza, giacché per Rensi l’estetica kantiana è «una delle più singolari e temerarie costruzioni che mai si potessero escogitare»27. Ecco allora Rensi accumulare una serie di argomentazioni che dovrebbero valere come tropi scettici in materia di gusto. Innanzi tutto, egli si fa forte del contrasto tra arte colta e arte popolare: sarà nel giusto il gusto di chi ama Mozart e Beethoven o quello di chi si commuove ascoltando un organetto di barberia e una romanza volgare? Nel giudizio estetico, si dice, si deve badare non al gusto dei più, ma a quello di coloro i quali sono autenticamente competenti. Ma chi sono i competenti? Quelli appunto ai quali piacciono le opere migliori e più elevate. Ma chi stabilisce quali sono le opere migliori e più elevate? I competenti. È un circolo da cui non si esce, a parere di Rensi, se non con l’appello dogmatico al gusto di alcuni contro quello di altri28. Un’aporia analoga si presenta quando si pone mente a quel che avviene nell’educazione del gusto. Se qualcuno non trova belli Dante, Petrarca, Ariosto, noi giudichiamo ineducato il suo gusto e lo invitiamo ad affinarlo. Ma come dovrebbe educarsi? Leggendo e studiando Ariosto, Petrarca, Dante. Quando lo avrà fatto, questi autori gli parranno belli: ma poteva forse accadere il contrario? Ancora: per capire un autore del passato, si dice, io debbo sforzarmi di pormi nelle condizioni della sua sensibilità e della sua cultura. Ma questo, lungi dal rendere possibile il 169

giudizio estetico, lo annulla, perché se io veramente riuscissi a pormi interamente nelle condizioni dell’autore dell’opera del passato, non potrei che sentire come egli ha sentito, e ogni opera mi parrebbe bella e significativa. Quest’ultimo ragionamento vale per ogni divergenza di gusto. Se qualcuno dissente da me, io lo invito a considerare con più attenzione, a leggere meglio, a emendarsi dai preconcetti che gli impediscono di vedere bene. Ma l’altro potrebbe fare esattamente la stessa cosa con me, né mai qualcuno potrebbe decidere chi ha ragione o chi ha torto: tutti i giudizi di gusto sono egualmente validi, perché fondati sulla costituzione particolare del soggetto giudicante e sul suo insindacabile sentimento di approvazione29. Le diversità di gusto si spiegano col fatto che il gusto altro non è se non, come aveva detto Leopardi, assuefazione: donde l’estrema variabilità nei pareri circa il bello, così come in quelli circa i sapori o gli odori. Insomma: «o idee platoniche o relativismo: non c’è via di mezzo», o si crede che il bello esista oggettivamente nelle cose, oppure si deve concludere in favore dello scetticismo più radicale30. Veramente, la via di mezzo ci sarebbe, ed è quella appunto che il giudizio sia non universale ma universalizzabile, non decidibile per concetti ma tuttavia argomentabile, non equivalente al giudizio logico ma nemmeno agguagliabile al capriccio individuale, cioè appunto la soluzione kantiana. Ma Rensi, che pure sembra comprendere la differenza tra l’universalità del giudizio logico e l’aspirazione alla condivisione che è propria di quello estetico, si libera della questione sostenendo che la kantiana esigenza di universalità del giudizio estetico è la manifestazione dell’«imperialismo estetico kantiano», cioè della sua volontà di prevaricare gli altri. «In questa teoria sta la spiegazione filosofica della delittuosa condotta seguita in questi anni dalla Germania», perché l’imperialismo tedesco 170

«non è se non la trasposizione sul terreno politico dell’assolutismo e veramente imperialismo etico-estetico kantiano»31. Il che è qualcosa di più di un fraintendimento: è un’autentica stupidaggine. Questo giudizio rensiano è tanto più stravagante in quanto Rensi stesso sembra propenso a recuperare proprio la distinzione kantiana quando affronta l’altro tema che gli è caro, ossia quello della indistinguibilità di arte e filosofia, o della coincidenza di metafisica e lirica. Che tutte le nostre interpretazioni, tutte le nostre filosofie, tutti i nostri convincimenti speculativi non siano che «intuizioni come quelle che hanno luogo nel campo del bello e dell’arte» è provato per Rensi dal fatto che in filosofia, non meno che in arte, è impossibile decidere mediante prove. I principi filosofici non si dimostrano, perché se si dimostrassero non vi sarebbe più varietà di idee: ma le discussioni sono infinite, dunque non esiste la possibilità di stabilire una volta per tutte la verità. «La filosofia, quindi non si dimostra più dell’arte. Però: circa il bello, e anche qui precisamente come intorno ai problemi filosofici, si può ragionare, si possono addurre argomenti concettuali e razionali. Essi non sono tali da decidere, da espungere dal campo della ragione chi la pensa diversamente. Ma lo stesso avviene relativamente a materie non più estetiche, ma concettuali, come l’io, Dio, la libertà»32. Non sono però solo queste contraddizioni interne a toglier forza all’argomentare rensiano. I suoi richiami alla variabilità dei gusti, ai contrasti dei giudizi estetici, i suoi tentativi di mostrare in atto, relativamente a certe opere d’arte famose, come la Commedia, il conflitto insanabile delle opinioni hanno sempre un che di facile e approssimativo, di sforzato e insincero. La trivialità del punto di vista del più piatto senso comune gli prende spesso la mano, e gli impedisce di vedere nell’esperienza estetica 171

altro che il superficiale divergere dei pareri. Che l’esperienza estetica sia non solo il campo dell’isolamento del singolo, ma anche quello della convergenza di una comunità, gli sfugge completamente, quasi che il puntiglio del gusto che vuole aver ragione annulli il dato incontrovertibile che proprio l’esperienza estetica è creatrice di tradizioni, è tramite di identità culturali, è strumento di riconoscimento per gruppi più o meno ampi. Contro le facili obiezioni dello scetticismo estetico varrà sempre il saggio avvertimento di Nietzsche, che dei gusti, certamente, non si discute, e tuttavia non facciamo altro. Rensi, tuttavia, è stata una figura più complessa di quanto appaia dalla sua estetica, un uomo che si è sempre voluto collocare in una posizione defilata e autonoma rispetto alle correnti dominanti. Il motto che volle sulla sua tomba, etsi omnes non ego, può anche essere la divisa del suo impegno di pensiero. La sua inquietudine fu profonda e lo portò a non sostare a lungo sulle stesse posizioni. Socialista in gioventù, sembrò con la sua Filosofia dell’autorità voler prendere posizione a favore del fascismo nascente, ma questo non gli impedì, in seguito, di schierarsi contro il regime, di abbandonare la cattedra universitaria e di affrontare coraggiosamente la persecuzione politica. Altrettanto mobile fu la sua filosofia, che non si quietò nello scetticismo degli anni Venti ma si spostò verso una forma di spiritualismo e di recupero della fede (ne danno conferma le Lettere spirituali pubblicate postume). Basta un titolo come quello della sua opera del 1937, Frammenti d’una filosofia dell’errore e del dolore, del male e della morte per testimoniare della sua lontananza da certi toni ottimistici dell’idealismo trionfante, e certo è giusto che si torni a leggere le sue opere filosofiche e a interessarsi della sua personalità. Ma la sua estetica non ha conosciuto il travaglio positivo cui sono andate incontro altre parti della sua 172

filosofia. Non c’è controcanto alla Scepsi estetica, nulla capace di dialettizzare il suo contenuto. Fissato, nonostante la continua e invadente polemica con l’estetica crociana e gentiliana, in un’immobilità alquanto astorica, lo scetticismo estetico di Rensi sembra condannato a restare quello che parve al suo apparire: poco più di una semplice curiosità. 3.4. Un transfuga dal crocianesimo: Giuseppe Antonio Borgese G.A. Borgese (1882-1952) è noto oggi soprattutto per il romanzo Rubè, apparso all’indomani del primo conflitto mondiale: un’opera notevole, per molti versi anticipatrice, anche se, specie nella parte finale, si lascia prendere la mano da un eccesso di teatralità. Come critico letterario, nonostante qualche tentativo recente di rivalutazione, non si può dire invece che Borgese sia molto apprezzato, e il ruolo che gli si riconosce resta molto lontano da quello che siamo disposti ad accordare ad autori come Serra o Cecchi33. Eppure, specie nei primi due decenni del secolo, il prestigio e l’influsso della critica di Borgese fu assai grande, e secondo soltanto a quello della critica crociana. Vi fu un momento, a cavallo degli anni Dieci, in cui egli sembrò incarnare il tipo stesso dell’intellettuale di grido, del grande giudice dei fatti culturali, che sapeva ottenere dalle terze pagine dei giornali un prestigio maggiore di quello che poteva giungere da una cattedra universitaria. La raccolta La vita e il libro, in tre volumi usciti tra il 1910 e il 1913, spazia dalla critica delle letterature europee a quella italiana, dai problemi storico-politici alle questioni filosofiche. I saggi su Pascoli, quelli su Moretti, Martini, Chiaves (i ‘crepuscolari’, un nome inventato da lui), quelli su D’Annunzio orientarono per diverso tempo la critica successiva. I giudizi molto severi che su di lui diedero, a caldo, Renato Serra («Sappiamo bene che Borgese non è un 173

critico, nel senso sincero»), e, qualche anno più tardi, Luigi Russo («avventuroso, sofistico, approssimativo») possono costituire la prova indiretta dell’influenza culturale che Borgese aveva saputo esercitare, dato che sono troppo acidi perché non vi si scorga, in filigrana, il colore non bello dell’invidia. Russo, in particolare, pare ascrivere il successo giornalistico di Borgese a principale capo di accusa contro di lui, gli rimprovera di aver «fuso e biscazzato il suo ingegno in un vano esercizio giornalistico», e di essere così giunto alla «gloria banausica della vita», che tradotto in gergo meno aulico non può significare altro che rimproverare Borgese di aver ricavato più danaro dalla sua attività pubblicistica di quello che gli avrebbe fruttato il rivolgersi alla platea ristrettissima degli studiosi34. Quelli del critico letterario e del narratore non furono comunque che due dei campi d’azione di un ingegno eclettico, e di una personalità ingombrante, con indubbi tratti di genialità che rischiano però, sovente, di venire soffocati da una tendenza incoercibile alla magniloquenza e da un egocentrismo a momenti veramente imbarazzante. Il soggiorno in Germania, come corrispondente, fruttò il volume La nuova Germania (1909), il primo di una lunga serie di saggi storico-politici il più importante dei quali è senza dubbio Golia. La marcia del Fascismo, scritto durante l’esilio americano – Borgese, in opposizione al regime, aveva abbandonato l’Italia nel 1931, e non vi farà ritorno che nel 1945 –, pubblicato a New York nel 1937. Ma Borgese scrisse anche opere teatrali, poesie, libri di viaggio, e persino un Disegno preliminare di una costituzione mondiale (1949), pur senza trascurare gli studi letterari in senso stretto. A lungo docente di letteratura tedesca, continuò a occuparsi di letterature straniere, pubblicando un Mefistofele. Con un discorso sulla personalità di Goethe (1911), Studi di letterature moderne (1915), Ottocento europeo (1927), 174

mentre raccoglieva i suoi saggi di argomento italiano in Resurrezioni e Tempo di edificare, e scriveva nel 1929, pubblicandolo due anni dopo, un saggio dall’ambizioso titolo Il senso della letteratura italiana. Un discorso su Borgese critico, insomma, potrebbe anche in una qualche misura prescindere dalla valutazione diretta del suo modo di fare critica e richiamarsi al dato di fatto del prestigio e dell’influenza che egli seppe guadagnarsi. Si può non amare il modo che Borgese aveva di accostarsi all’opera letteraria, si può lamentare che dai giudizi magari sommari ma penetranti dei primi saggi egli trascorresse a sermoni infarciti di genericità come l’appena ricordata conferenza sul Senso della letteratura italiana, ma non si può disconoscere a Borgese un posto cospicuo tra i critici del primo Novecento. Per il teorico dell’estetica, tuttavia, questo criterio è del tutto inapplicabile, perché gli scritti di estetica di Borgese rimasero sostanzialmente senza effetto, e l’eco da essi suscitata fu veramente scarsa. Quando nel 1934 Borgese raccolse nel volume Poetica dell’unità praticamente tutto quel che di significativo aveva scritto in questo campo, premise un’Introduzione, intitolata Precursioni estetiche, nella quale dichiarava di aver raccolto «i più ampi e i più significativi scritti con cui aveva precorso e contribuito a quell’idea della poesia e dell’arte che oggi […] ha preso il sopravvento, senza eccezioni ragguardevoli, in Italia e dovunque»35; e leggendo queste parole non si sa bene se irritarsi per l’evidente presunzione che esse dimostrano o sorridere per il singolare abbaglio di giudizio che manifestano: resta il fatto che esse, come è stato detto, «hanno dell’incredibile»36. Commemorando Borgese, poco dopo la sua scomparsa, dunque in una circostanza in cui si è per solito prodighi di riconoscimenti, Morpurgo-Tagliabue si poneva la domanda «quale fu l’efficacia di questi scritti?», e rispondeva: «la loro efficacia immediata fu nulla, fuori da 175

vaghi echi giornalistici»37. Risposta che si potrebbe estendere senza errore, togliendo gli echi giornalistici, anche ai quarant’anni successivi. Abbiamo già accennato (1.4.) agli esordi di Borgese. I brevi saggi teorici Parola e immagine e Metodo storico e critica estetica, apparsi originariamente sul «Leonardo» del 1903, sono evidentemente il frutto della lettura recente dell’Estetica di Croce. Ma quando Borgese si reca al congresso filosofico di Heidelberg del 1908, quello stesso nel quale Croce legge la memoria L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte, presenta un intervento che batte strade in gran parte proprie, e vorrebbe giungere a conclusioni lontane da quelle crociane. Mentre Croce con la memoria di Heidelberg si propone, almeno nelle intenzioni, di riallacciare il nesso tra la propria estetica e quella del romanticismo, e integra l’estetica dell’intuizioneespressione con la richiesta della personalità dell’artista, Borgese intende denunziare quello della personalità nell’arte come un «dogma della civiltà contemporanea», e come un «pregiudizio romantico». Ma quella che a posteriori potrebbe parere una contrapposizione ricercata dovette essere, in gran parte, casuale, perché certo Borgese non poteva conoscere in anticipo il contenuto della relazione crociana, e non può avere costruito la propria in antitesi a quella. Resta il fatto che egli esordisce attaccando frontalmente il principio dell’originalità come criterio di valore artistico (la memoria, che in Poetica dell’unità reca il titolo Personalità e stile, portava inizialmente quello di Critica del concetto di originalità nell’arte). «Noi crediamo o crediamo di credere che l’opera d’arte sia bella in quanto vi si riveli un temperamento originale di artista», ma quest’assunzione che ci appare del tutto pacifica è in realtà una convinzione affatto moderna, e intere epoche ne hanno fatto a meno. Fino a tutto il Settecento, non l’originalità fu il principio 176

della produzione artistica, ma l’imitazione, intesa nel senso dell’imitazione dei modelli artistici precedenti. È solo con il romanticismo che si liberò l’individuo anche nel campo estetico, e il critico cominciò a chiedere all’artista «personalità, originalità, novità». Contro il «cardine della mentalità romantica» va tentata dunque una «moderata apologia della retorica». L’argomento posto in campo da Borgese è in sintesi questo: l’originalità è un dato ineliminabile sempre presente in qualunque produzione, e quindi non può incarnare la ricercata differenza del prodotto estetico. Da Leibniz sappiamo che non si danno due individui simili, che tutte le foglie di un albero differiscono tra di loro; a maggior ragione ciò varrà nel campo della produzione artistica. Dire che un’opera è bella perché originale è incappare in un non sequitur, perché o si sta parlando dell’originalità che è comune a tutte le cose, e allora non si vede come questo possa fondare l’eccellenza di una cosa su di un’altra, oppure ci si sta riferendo all’originalità particolare che si riscontra nelle vere opere d’arte, ma questo presuppone per già effettuata la distinzione tra opere d’arte e non d’arte che invece si dichiara di voler raggiungere. Il brutto è spesso assai più originale del bello. Ragionamenti per gran parte analoghi svolge Borgese in relazione al concetto di stile. Se si intende lo stile come ciò che è comune alle varie opere di uno stesso artista (lo stile di Mantegna), oppure come ciò che è comune alle opere di una determinata epoca o nazione (lo stile barocco), si rimane all’interno dell’antinomia dell’originalità, perché ci si scontra col fatto che sia l’originalità sia l’imitazione sono sempre presenti in ogni opera; dall’aporia si esce solo facendo valere un terzo significato del termine stile, che è quello di stilizzazione, intesa come tentativo di adeguare la produzione artistica a un tipo, a un modello. La 177

stilizzazione riguarda tutto quel campo di fenomeni che l’estetica moderna, ‘romantica’, respinge nel limbo della tecnica, volendosene sbarazzare; ma sono invece le strade che portano all’arte, perché l’arte «aspira verso l’unità dell’idea», e vi tende appunto attraverso il simbolo e lo stile. L’arte, si dice nella chiusa del saggio, nella quale l’argomentazione fino a questo punto abbastanza serrata si stempera in formule alquanto vaghe, tende a esprimere le idee, ma non vi giunge: si arresta «nel punto critico, dove l’ansia verso il simbolo non distrugge la realtà né soggiace alla realtà». Lo stile non consiste nell’originalità, ma nella tendenza all’universale, «la bellezza non è data dalla personalità e dalle altre contingenze ma dallo sforzo che l’artista compie per superarle»38. C’erano in questo primo tentativo teorico di Borgese indubbiamente degli spunti interessanti; ma la cosa sorprendente è che essi non vennero minimamente raccolti dall’autore, il quale si mosse piuttosto sulla falsariga delle confuse affermazioni finali che su quella degli spunti critici della prima parte del saggio. Anche la rottura con Croce non avvenne, come si potrebbe credere, sulla base delle divergenze che abbiamo accennate, ma maturò per altre strade. Nel 1911 Croce pubblica sulla «Voce» un articolo intitolato Il superamento, dove, senza nominarlo, criticava certi atteggiamenti di Borgese. Questi non reagì subito, ma certo si ricordò di quell’articolo quando recensì La filosofia di Giambattista Vico. Al di là di alcuni apprezzamenti formali, del resto difficilmente evitabili, era un attacco severo al volume, e più ancora al modo crociano di fare storia della filosofia. Croce replicò ancora più duramente, e fu il dissidio aperto39. Da allora in poi, tutto quel che Borgese scrisse in ambito estetico fu interamente concepito e presentato in funzione anti-crociana (Borgese la chiamò, con la solita enfasi, «la guerra estetica dei trent’anni»). Con 178

questa oscillazione e contraddizione di fondo, tuttavia: che, per un verso, Borgese intese lavorare a un’estetica la quale, di contro al ‘frammentismo’, reale o presunto, di quella crociana, cioè alla tendenza di quest’ultima a isolare singoli momenti lirici in opposizione a quelli strutturali, si presentasse come una rivendicazione dell’unità dell’opera (come lascia intendere il titolo Poetica dell’unità); per un altro, egli tese sempre a presentare le proprie posizioni come anticipazioni di quelle cui Croce sarebbe giunto rivedendo, via via, le concezioni da lui in precedenza elaborate (donde il titolo di Precursioni estetiche al quale egli aveva pensato in un primo tempo). Ancora nel tardo discorso di Padova, dove pure il tono usato nei confronti di Croce è diverso da quello consueto, giacché la conferenza fu tenuta una settimana dopo la scomparsa del filosofo, Borgese non rinunzia a questo doppio modulo autointerpretativo, e come sempre non pare accorgersi che la contraddittorietà dei due assunti toglie plausibilità all’uno e all’altro. Nettamente anti-crociano è il lungo saggio pubblicato nel 1914, L’unità nella storia della poesia e delle arti40, in cui Borgese mette a confronto le diverse tesi sostenute da Croce in merito alla possibilità di fare storia dell’arte, dall’Estetica al Breviario alla Licenza nella Letteratura della nuova Italia, mostrando quanto differiscano le une dalle altre e quanto si siano modificate le convinzioni di Croce in materia, senza che egli giungesse a conclusioni accettabili. È un saggio nel quale l’ansia di confutare non lascia quasi spazio alla volontà di capire, e la cui stessa «affliggente minuziosità» (sono parole di Borgese) impedisce ogni proposta in positivo: non emerge alcuna soluzione per i problemi che Borgese tratta. Ben diversa è l’intenzione che sorregge lo scritto del 1926 Figurazione e trasfigurazione. Qui Borgese espone i lineamenti di quell’estetica anti-romantica che altrove ha solo 179

auspicato, sforzandosi di mostrare come sia possibile giungere a una rinnovata classicità di contro alla riduzione dell’arte a espressione, sfogo, interiezione. È qui, se mai ciò gli accadde veramente, che egli cercò di dare alle proprie idee estetiche una veste coerente e sistematica. Il punto di avvio è quanto di più lontano dalle premesse poste con la critica al concetto di originalità. Ora Borgese vuole guardare all’arte non dal punto di vista dell’opera, ma da quello dell’autore, e ripercorrere, forte anche della propria esperienza di scrittore creativo, il processo genetico della produzione artistica. All’inizio di esso trova senza alcun dubbio l’ispirazione, l’emozione che «colma interamente il cuore» del poeta. Ed è difficile capire che cosa, al di fuori della a parole tanto fastidita mentalità romantica, fornisse a Borgese questa sicurezza: l’unica precisazione che egli aggiunge è che l’ispirazione è una «visione», «un’intima figurazione commossa». L’arte si differenzia dalla scienza perché in lei l’universale è sempre dipendente dall’individuo che lo genera, dal «sentimento dell’individuo ispirato». L’ispirazione confina con l’estasi mistica: quel che la differenzia da essa è solo il fatto che l’estasi è paga di sé, mentre l’ispirazione artistica tende a esprimersi, a cercare l’esecuzione, l’attuazione. Così si dovrebbe aprire la strada al riconoscimento della positività della tecnica, ma una volta separate tanto decisamente l’ispirazione e l’estrinsecazione, sembra vano ogni sforzo di recuperare un’influenza della seconda sulla prima. Borgese si limita a dire che «il lavoro è nello stesso tempo conseguenza e fomite dell’ispirazione», e passa a un altro ordine di problemi, quello del rapporto che intercorre tra la «figurazione» dell’artista e la realtà. Respinta prevedibilmente la teoria tradizionale dell’imitazione, egli si dimostra però disposto ad accettare l’idea che l’arte manifesti una certa somiglianza con la realtà. Tale similarità 180

viene tuttavia corretta dall’intervento di una seconda somiglianza, «non più alla realtà di fatto ma a una verità soprareale», non più al mondo ma al sopramondo (ecco la ragione del sottotitolo del saggio, Teoria della doppia somiglianza e del modello poetico). In virtù della doppia somiglianza, l’arte «si affisa al meraviglioso e sovrumano e sovrannaturale», da figurazione si fa trasfigurazione. Sembra una riedizione della teoria settecentesca del bello ideale, ma il prosieguo del saggio mostra che Borgese guarda altrove. Veramente, è difficile capire esattamente di che stoffa sia fatta la realtà sopramondana cui l’artista dovrebbe guardare. Non è nell’artista, ma nemmeno è un’altra natura: «non è in nessun tempo e in nessun luogo, è Utopia e Ucronia; non vi si approda da nessun navicello né vi si atterra da alcun cavallo alato». Vi si perviene per via simbolica, attraverso il ritmo, la metafora, la rima; ma se si chiede che cosa sia il simbolo, si ottiene di nuovo la risposta che esso è «una trasfigurazione del reale, ispirata da un intimo e universale modello affine alla rivelazione religiosa». L’artista vuole simboleggiare un mondo che, attuato, sarebbe sottratto alla caducità e alla corruzione. La sovrannatura di Borgese assomiglia sempre di più a un iperuranio di idee incorruttibili, e infatti poche pagine dopo questo mondo da cui l’artista trae la sua «seconda somiglianza» è descritto come «una natura purificata, redenta, affrancata dalla corruzione e dalla morte, una natura graziata come se fosse risorta in gloria»41. Sopraffatti da tanta vaghezza, si cercano dei nomi per orientarsi, e Borgese ne fa parecchi: Platone, Kant, Schelling, Nietzsche. Kant e Nietzsche c’entrano poco (di più vi sarebbe entrato forse Schopenhauer); e anche per Platone è difficile pensare a un legame profondo e motivato. Il riferimento a Schelling, dunque, è l’unico che sembri indicare la direzione in cui guardare. L’arte, per 181

Borgese, è attuazione dell’assoluto, è rivelazione di esso per mýthoi e non per lògoi. L’arte mira alla creazione di un sopramondo, è «collaboratrice alla creazione e redenzione dell’universo»42. È metafisica e religione. Così, un’estetica che si voleva classica finisce per ritornare a un’idea schiettamente romantica dell’arte come conoscenza dell’assoluto, senza nessuna traccia della ricchezza e della profondità filosofica delle grandi estetiche del romanticismo storico. E le conclamate ambizioni di Borgese nel campo dell’estetica si rivelano, proprio nel suo saggio più impegnativo, per quello che non avevano mai cessato di essere: delle pure velleità. 3.5. Il mondo sensibile di Adelchi Baratono Antonio Gramsci lo definì un ‘coniglio’, capace di teorizzare «solo la propria impotenza estetica e filosofica e la propria coniglieria»43. Questo sprezzante giudizio si spiega pensando alle vicende politiche che videro coinvolti Gramsci e Baratono, il quale, come membro della direzione del Partito socialista, aveva presentato al Congresso di Livorno del 1921 la mozione unitaria che ebbe la maggioranza e determinò la scissione dei comunisti, guidati appunto da Gramsci. Sul piano filosofico e culturale, tuttavia, esso non sembra avere valide motivazioni, anche se potrebbe essere stato provocato dagli scritti nei quali Baratono esprimeva la necessità di una revisione del marxismo44. Ma al lettore di oggi la filosofia di Baratono è destinata a fare un’impressione molto diversa. Se, percorrendo il cammino dell’estetica italiana dall’inizio del secolo, non abbiamo incontrato fino a ora, al di fuori dell’idealismo, che prese di posizione di poetica e confutazioni ambiziose ma filosoficamente poco fondate, la riflessione di Baratono ci offre per la prima volta l’esempio di una meditazione sull’estetica che si muova in un quadro 182

di riferimento veramente autonomo da quello dell’idealismo, e ponga capo a risultati che meritano di essere considerati per sé, e non solo in relazione a quelli raggiunti in ambito crociano e gentiliano. All’estetica, infatti, Baratono giunse con un cammino indipendente, a partire da problemi filosofici di carattere generale, scegliendosi un quadro teorico di riferimento sensibilmente diverso da quello consueto alla tradizione idealistica. L’estetica di Baratono nasce infatti in dialogo con la filosofia kantiana: ma si tratta non più di un Kant filtrato attraverso la più generale problematica neo-kantiana, come nel primo Croce, bensì di un Kant recuperato nella tensione interna del suo filosofare, attraverso una lettura serrata della Critica del Giudizio, e anzi della prima e della terza critica insieme. È vero bensì che Baratono (1875-1946) proveniva da strade diverse. In gioventù era stato positivista e si era occupato prevalentemente di psicologia. In uno scritto autobiografico del 1946, Il mio paradosso, Baratono distingue una sua prima fase ‘humeana’ da quella successiva, ‘kantiana’, che prende corpo a partire dagli anni successivi alla prima guerra mondiale45. Ma l’estetica di Baratono cade tutta nell’ultima fase della sua vita e del suo pensiero, e coincide pienamente con il suo ripensamento della filosofia kantiana. Lo dimostra il fatto che il suo atto di nascita si può trovare in uno scritto dedicato all’esegesi della Critica del Giudizio, che già dal titolo si dimostra ben lontano dal tono dominante nelle letture di marca idealistica: Il pensiero come attività estetica, apparso nel 1927. In effetti, se Croce aveva potuto rintracciare il merito precipuo della terza critica kantiana nella scoperta di un «nuovo continente, di una nuova cerchia dell’attività umana»46, l’estetica, Baratono punta l’attenzione sul legame che si istituisce, in Kant, tra problema gnoseologico e problema estetico. Il giudizio estetico kantiano è «la forma comune del pensiero 183

stesso nel suo atto riflessivo», ma per arrivare a comprenderlo è necessario «capovolgere il nostro punto di vista sui due problemi, quello conoscitivo e quello estetico»47. Il fulcro su cui fare leva per capire la terza critica, coerentemente, non era più l’Analitica del giudizio estetico, ma piuttosto l’Introduzione, e in particolare i tre paragrafi centrali di essa. Il senso dell’estetica kantiana si poteva recuperare solo se si intendeva come il principio estetico rispondesse in primo luogo a un problema che era tutto gnoseologico, quello dei giudizi conoscitivi determinati, concreti, particolari. Il molteplice di questi giudizi non è riconducibile esclusivamente alle leggi trascendentali universali dell’intelletto, e richiede, per essere organizzato, delle condizioni ulteriori, che tuttavia ci si palesano non sotto la specie di principi conoscitivi, ma sotto quella di una finalità formale, estetica: noi non abbiamo altra garanzia della possibilità che la natura nella sua infinita varietà si accordi con le nostre esigenze di ordine razionale, se non attraverso quel senso di soddisfazione che accompagna l’accordo sensibile fra esperienza e conoscenza, e che è appunto di natura estetica. L’interpretazione di Baratono rovesciava molti luoghi comuni, rintracciava il forte legame che stringe la Critica della ragion pura a quella del Giudizio e imponeva una riconsiderazione della gnoseologia kantiana, ridisegnando la differenza tra giudizi determinanti e riflettenti e giungendo ad affermare che l’esteticità del giudizio non crea un nuovo valore ma piuttosto vive all’interno del giudizio stesso di conoscenza. Più tardi, questa lettura acuta e innovativa, del tutto isolata negli anni in cui prese forma, riceverà un riconoscimento, per lo meno implicito, negli importanti studi di matrice ‘epistemologica’ dedicati alla terza Critica da interpreti italiani48; certamente, essa fu alla radice della speculazione baratoniana successiva, e in particolare della 184

sua opera di maggiore impegno, Il mondo sensibile. Introduzione all’estetica, del 1934. Nel saggio kantiano, infatti, Baratono ricavava come conclusione del proprio discorso la tesi che il bello «non è che sensibilità estetica nel significato originario della parola. Il bello non è né l’oggetto in sé, né il soggetto in sé, ma per così dire il loro incontro, o, come dice Kant, il loro ‘accordo’ nella sensibilità»49. L’opera principale di Baratono, in effetti, non è un’estetica più di quanto non sia una gnoseologia, o meglio arriva all’estetica nel senso usuale di teoria del bello e dell’arte soltanto attraverso l’esame del problema gnoseologico. Anche esteriormente, nell’ordinamento dell’indice, sono proprio e solo gli ultimi due capitoli a intitolarsi rispettivamente al Bello e all’Arte, mentre i precedenti portano titoli come Il soggetto e l’esperienza, o Il senso come problema psicologico. La filosofia di Baratono potrebbe essere definita una «critica dell’esperienza pura» e la sua posizione, se ciò non implicasse una contraddizione in termini, un fenomenismo assoluto: reale è soltanto la sensazione, il sensibile; è a partire dal sensibile che si costruiscono i valori (conoscitivi, pratici), i quali poi si presentano come ciò che esiste realmente, condannando il sensibile a essere considerato mera parvenza. Se ci liberiamo di questa distorsione, arriviamo a riconoscere che «il sensibile è illusorio solo quando crediamo reale l’oggetto in sé», e che dunque, se pensiamo coerentemente, i sensibili sono il dato presente e immediato, l’assoluto rispetto al quale si realizza il sapere. Esistere vuol dire essere sensibile, e gli stessi valori conoscitivi ed etici esistono soltanto se si realizzano, mediatamente, nel sensibile. Senonché, la morale non può esistere concretamente che nel sensibile, e un concetto non sarebbe minimamente afferrabile se non conservasse una sia pur tenue manifestazione sensibile (come parola, come segno grafico): del sensibile non si può 185

mai fare a meno. Se si abbandona il sensibile, e si costruiscono le impalcature della soggettività e dell’oggettività, ci si avvolge in contraddizioni gravi, perché supporre un io puro al di là del particolare empirico io, anzi dell’oggettivarsi di quest’io nel contingente, è altrettanto insostenibile che continuare a supporre un oggetto in sé, fuori dell’esperienza. Se la sensazione è il concreto di tutti i valori, e se ci troviamo già sempre nell’esperienza sensibile, bisognerà piuttosto mostrare come sia possibile, da un lato, che il sensibile si faccia portatore dei valori che sembrano trascenderlo e annullarlo, dall’altro come avvenga, per così dire, l’intellettualizzazione del sensibile, ossia come si colmi l’abisso tra senso e ragione. Ed è questo il gran compito dell’estetico. Infatti, se i valori trascendessero sempre il sensibile, non potremmo mai arrivare a comprendere come il sensibile possa rappresentare il valore trascendente. «Deve dunque essere presente un valore nel sensibile come tale»50, e questo valore è appunto il valore estetico, che noi avvertiamo nel sensibile ut sic, indipendentemente dai valori logici e dai fini pratici. Al tempo stesso «nel valore estetico si ritrova la prova dell’unità e della distinzione tra sensibile e intelligibile», perché il bello, «trovato in natura o cercato nell’arte», altro non è che l’accordo tra la forma dell’oggetto e i fini o valori che il soggetto, come finalità determinante delle forme del pensiero, trova nella forma quando l’oltrepassa alla volta della conoscenza. Nel valore estetico si sente quell’accordo tra mondo sensibile e intelligibile che non si potrebbe pensare: «il valore della forma sensibile non è che l’aspetto intuitivo del valore conoscitivo»51. L’analisi di Baratono è complessa e tormentata: è difficile coglierne il senso fondamentale e ancor più i singoli passaggi, anche perché la sua linea argomentativa, specie nel Mondo sensibile, è contorta e involuta fino all’oscurità. In compenso, però, a risaltare relativamente in chiaro sono le 186

conseguenze della posizione tanto faticosamente delineata. Per intendere il fenomeno estetico non bisogna affatto trascenderlo alla volta dei suoi contenuti conoscitivi, sentimentali o morali, ma bisogna aderire pienamente alla sua dimensione sensibile, concreta, ossia bisogna imparare a valutare il sensibile in sé e per sé. La valorizzazione del sensibile, quando è compiuta dall’artista, si chiama stile, «e in quanto raggiunge una forma definitiva, senza residuo rappresentativo […] si chiama bello artistico. Il problema artistico è pertanto sempre il problema dell’immanenza del valore nei rapporti sensibili, della risoluzione di tutti i contenuti nella forma estetica». La ricerca del sensibile, dunque del suono, del colore, dell’immagine, diventa il vero fine dell’arte; ma, coerentemente, Baratono non esclude neanche i sensi tradizionalmente inferiori, perché non teoretici, come il gusto o l’olfatto. Ne risulta che l’arte non vive che nell’elaborazione e formazione del sensibile, è sempre tecnica e fare concreto: «la tecnica è l’atto stesso artistico, l’attuarsi del valore, prima di cui non c’è valore»52. Ispirazione, fantasia come libera creazione interiore sono miti romantici, e Baratono vuole costruire un’estetica antiromantica: «anche il tentativo, l’abbozzo, lo ‘studio’ sono arte, ma incominciano a esserlo sulla carta, sulla tela, nella creta, e, breve, in quella ‘materia’ di cui l’arte è formata»53. Baratono sembra avviato così verso un rigoroso formalismo, pronto ad apprezzare la vita delle forme artistiche come immagini svincolate dalla rappresentazione di contenuti psicologici, morali, storici, e diffidente tanto nei confronti di chi vuole risolvere l’estetico in un’oggettività teoretica (facendone imitazione dell’esistente) quanto di chi lo vuole esaurire nella soggettività pratica (intendendo l’arte come manifestazione del sentimento). E in effetti ci sono degli accenni in questa direzione nel Mondo sensibile, dove, a tratti, può apparire che le vere arti siano quelle, come 187

l’architettura o la musica, che si risolvono interamente in un puro rapporto di forme, e non lasciano sussistere nemmeno la possibilità di parlare di un contenuto distinto da una forma. In realtà, però, Baratono non nega affatto che il sensibile, pur dotato di un valore proprio e irriducibile, possa tornare a farlo portatore di un valore diverso. L’ultimo libro da lui scritto, Arte e poesia, è dedicato appunto a questo problema, e infatti prende a tema proprio quell’arte nella quale è più massiccia e innegabile la presenza di valori ulteriori rispetto a quelli della sensibilità. La letteratura è certo sempre qualcosa di più di un’arte, in quanto agisce non su di un materiale sensibile, ma sul linguaggio, che è sempre concettuale. E tuttavia l’arte verbale non può agire che come ogni altra arte, ovvero puntando sul lato sensibile del suo mezzo. Il fine artistico della letteratura è la sensibilizzazione dell’immagine, e la poesia consiste proprio in questo processo che Baratono vorrebbe chiamare «similazione», e che non si traduce semplicemente nel giocare con la scorza fonica delle parole, come accade nell’onomatopea, ma nello sviluppare una profonda interazione fra significato e suono. L’arte letteraria si compie in quanto la parola si sensibilizza, non in quanto si spiritualizza, e Baratono ne cerca una prova seguendo il lavoro correttorio di romanzieri e poeti, per esempio di Manzoni e Leopardi, nei quali vede all’opera lo sforzo «di sostituire ad un linguaggio più logico e rappresentativo una forma più sensibile e presentativa»54. Arte e poesia è un libro assai più leggibile di quanto non fosse Il mondo sensibile: concede al lettore quegli esempi che mancano completamente nel volume precedente, punta alle conseguenze del proprio discorso piuttosto che ricostruirne faticosamente la genesi a partire dal tema gnoseologico. Ma anche nel libro del ’34 quel che si prestava ad agire più direttamente sulla situazione del tempo era il concreto 188

richiamo al momento sensibile dell’arte, all’irriducibile fisicità dell’oggetto estetico, alla differenziazione dei linguaggi artistici. Letta a partire dal suo intricato presupposto teorico, l’estetica di Baratono si svelerebbe non troppo distante, in fondo, da certe esigenze, se non pure da certe soluzioni, crociane e gentiliane; ma il suo effetto storico fu, e in fondo ciò è giustificato e in qualche misura salutare, del tutto diverso. Il fenomenismo baratoniano andò piuttosto ad alimentare la nascente estetica fenomenologica italiana, e il suo richiamo al sensibile fu accolto da chi aveva a cuore il riscatto della componente corporea, fisica dell’arte: suggestioni baratoniane si possono avvertire in Anceschi, Formaggio, Morpurgo-Tagliabue. Diciamo suggestioni perché, anche per questi autori, non si deve pensare a un influsso capillare: a conti fatti, Baratono fu, e restò, un isolato. 3.6. L’estetica ‘aperta’ di Antonio Banfi L’osservazione fatta per Baratono si potrebbe ripetere per tutti i filosofi di cui abbiamo parlato in questo capitolo. Anche Michelstaedter e Rensi furono degli isolati, le cui teorie ebbero scarsa eco immediata e tanto meno diedero vita a orientamenti di ricerca che potessero contrapporsi alle estetiche dell’idealismo. Al contrario, passando a occuparci di Antonio Banfi (1886-1957), la prima cosa significativa da segnalare è che con lui siamo di fronte a un pensatore che costituì, a partire dagli anni Trenta, un punto di riferimento importante per numerosi intellettuali, così che non è eccessivo indicare nella sua filosofia la più influente tra quelle elaborate nella prima metà del secolo al di fuori degli ambiti crociano e gentiliano. E un’altra notazione si impone subito: mentre le altre correnti fino a ora analizzate ebbero poco o nessun peso nel rinnovamento dell’estetica italiana del secondo dopoguerra, quella di Banfi agì invece 189

in profondità negli anni Cinquanta e Sessanta. Banfi diede infatti vita a una scuola nutrita e attiva, e furono suoi allievi all’Università di Milano alcuni dei maggiori protagonisti del dibattito estetico nel secondo dopoguerra: Anceschi, Formaggio, Paci, Preti. Ma anche autori delle generazioni successive (Trione, Fanizza, Scaramuzza) si sono richiamati al suo insegnamento, almeno in alcune fasi della loro attività, sì che il ‘razionalismo critico’ banfiano e la sua estetica fenomenologica hanno rappresentato una delle correnti più vitali dell’estetica italiana della seconda metà del secolo. Infine, Banfi volle sempre riconnettersi, al di là della tradizione autoctona del neoidealismo, alle grandi correnti del pensiero europeo, mantenendo aperto un dialogo con la filosofia straniera. Trasferitosi a Berlino subito dopo la laurea, nel 1910, egli fu influenzato dalla «filosofia della vita» di Simmel, e conobbe da vicino il neokantismo marburghese, la filosofia dei valori di Windelband e Rickert, e successivamente la fenomenologia di Husserl: tutti orientamenti che si trovano ampiamente discussi nella Seconda parte della sua opera teoretica più organica, i Principi di una teoria della ragione, apparsi nel 1926. La volontà di «aprire le finestre» su quanto avveniva all’estero, in modo da rinnovare l’aria troppo chiusa della filosofia italiana, è una delle preoccupazioni costanti in Banfi. «L’estetica italiana è malata del male melanconico dei provinciali dell’800. È malata di anemia», scriveva nel 193655. Il primo scritto di estetica pubblicato da Banfi è il saggio del 1924 Il principio trascendentale dell’autonomia dell’arte; esso fu preceduto, a partire dagli anni Dieci, da parecchi abbozzi rimasti inediti fino alla morte56. Negli anni Trenta appaiono i saggi più organici e di maggiore impegno: I problemi di un’estetica filosofica, edito in «La Cultura» nel ’32 e nel ’33; Motivi dell’estetica contemporanea e L’esperienza estetica e la vita dell’arte, rispettivamente del ’38 e del ’40. Questi saggi – 190

particolarmente importanti il primo e il terzo – furono riuniti nel 1947 nel volume Vita dell’arte, accompagnati da un intervento che riesponeva e riordinava i motivi salienti dell’estetica banfiana. Successivamente, Banfi scrisse, oltre a una serie di interventi polemici e occasionali, tre ampi saggi (Arte e socialità; I generi artistici; Arte funzionale), nessuno dei quali però fu stampato integralmente lui vivente. La riflessione estetica banfiana si lascia quindi abbastanza naturalmente suddividere in tre periodi distinti: un periodo iniziale di preparazione, che va dagli anni Dieci ai Venti, un periodo che vede l’esposizione compiuta delle linee metodiche dell’estetica banfiana, gli anni Trenta, del quale Vita dell’arte può essere considerato il bilancio, e in terzo luogo un periodo in cui predomina un’attitudine applicativa o estensiva dei principi stabiliti, quello che arriva fino alla morte57. I saggi dell’ultimo periodo hanno una marcata intonazione sociologica, a testimonianza dell’adesione di Banfi al marxismo, a partire dagli anni di guerra, e perciò torneremo su di essi parlando degli sviluppi dell’estetica marxista negli anni Cinquanta; del resto, il lettore che voglia introdursi nelle linee portanti dell’estetica banfiana è portato quasi obbligatoriamente a far perno sugli scritti del secondo periodo. È stato varie volte notato che il tema di pensiero più caratteristico dell’estetica banfiana è rappresentato dalla viva coscienza della diversità che passa tra l’estetica filosofica e le varie forme di riflessione sull’arte. Questa coscienza presuppone innanzi tutto una netta consapevolezza della varietà e della ricchezza delle forme nelle quali il mondo dell’arte elabora la propria vita e organizza la propria autocomprensione. «Nel campo estetico» – scrive Banfi – «come in ogni campo spirituale, la riflessione sorge come un momento essenziale della vita, rispondendo all’intensificarsi di questa secondo una sempre più ricca 191

problematica, per indicare le vie della sua soluzione»58. La prima forma di riflessione, dunque, non si propone un fine teoretico, di comprensione, ma ha di mira piuttosto un fine pratico: è riflessione pragmatica. Ne fanno parte innanzi tutto la precettistica, intesa come insieme di indicazioni concrete per l’operare artistico (si pensi al cosiddetto canone di Policleto per l’arte figurativa antica, o al trattato di Cennini per la pittura medioevale), e poi la riflessione più propriamente normativa che germoglia a partire da essa, volgendosi alla fissazione di regole generali (si pensi alle poetiche normative, da Orazio a Boileau), non più fondata su di un canone, ma su di un gusto. Da questi due piani si evolve un’esigenza già più comprensiva, che Banfi indica come riflessione idealizzante, la quale tende a svincolarsi dal riferimento a un gusto particolare e vorrebbe, almeno intenzionalmente, fissare un ideale universale dell’arte (poniamo, la dottrina dell’imitazione della natura). Ma l’attitudine pragmatica non esaurisce affatto il campo della riflessione sull’arte, giacché da essa sorge sempre un orientamento più direttamente teoretico, che Banfi indica come momento analitico-descrittivo, e che ha a che fare, ad esempio, con il rilievo della struttura dell’oggetto estetico, o con l’analisi della soggettività dell’artista. Le stesse due grandi forme della conoscenza dell’arte nel mondo moderno, la critica e la storia dell’arte, si legano per molteplici nessi a questo piano analitico-descrittivo, pur senza recidere mai completamente il rapporto con il piano pragmatico. Infine, dall’interazione dei due piani pragmatico e teoretico si sviluppa l’esigenza di fissare un concetto dell’arte come rappresentativo della sua essenza universale, in modo tale che il transito verso la riflessione estetica porta con sé il rischio di darsi come momento dogmatico, che dimentica la condizionatezza storica del concetto di arte che fa valere come criterio di giudizio59. 192

Si comprende subito come questo atteggiamento banfiano fosse destinato a segnare un primo, decisivo punto di frizione con l’estetica neoidealistica. Sebbene infatti all’estetica crociana fosse tutt’altro che estranea l’esigenza metodologica, non vi è dubbio che essa si tradusse spesso, già nel suo autore e poi sempre di più nelle applicazioni degli adepti, in un sostanziale riassorbimento di tutti i piani del discorso sull’arte nell’unico legittimo dell’estetica come filosofia. È presente in Croce un’innegabile aspirazione a far occupare dall’estetica filosofica ogni spazio abitabile del discorso sull’arte, togliendo legittimità e interesse alle altre forme in cui esso si elabora e si struttura. Sicché, quando Banfi invocava la fecondità di una storia, ad esempio, della trattatistica d’arte o delle poetiche, egli non solo richiamava l’attenzione sulle chiusure manifestate su questo versante dal crocianesimo, ma tracciava un concreto e produttivo indirizzo di ricerca, destinato a essere svolto in gran parte non da lui quanto dagli studiosi che a lui si sarebbero richiamati. Di fronte alla ricchezza di forme e di motivi nei quali si traducono le tante vie della riflessione sull’arte, infatti, l’estetica banfiana reagisce in maniera antitetica rispetto a quella della scolastica neoidealistica: non si tratta affatto di negare innanzi tutto la legittimità di tali approcci e di dissolverli con il reagente filosofico, ma piuttosto di impiegare quest’ultimo per una migliore comprensione di essi. Precetti, norme, ideali, programmi non sono il nemico di cui sbarazzarsi ma l’oggetto da comprendere, anche nella sua unilateralità: «lasciar valere l’esperienza estetica in tutta la sua varietà, complessità, senza limitazione alcuna, è dunque la prima condizione di un’estetica filosofica»60. L’irrigidimento dogmatico dell’esperienza estetica in un concetto che ne determini l’essenza universale non è per nulla l’unico percorso possibile; è anzi, a ben vedere, proprio il solo che vada evitato. Posta dinanzi alla 193

complessità della riflessione estetica, la teoria filosofica deve innanzi tutto conoscerla, ossia assorbirne la varietà e la ricchezza: è questo il momento empirico della ricerca. Ma il dato empirico, l’esperienza immediata, è sempre parziale e pregiudicato; occorre dunque procedere oltre, alla volta di una connessione dialettica dei risultati particolari, nella quale neppure, tuttavia, è dato arrestarsi: perché il principio estetico che da tale connessione sorge «come legge unitaria della struttura estetica dell’esperienza» deve essere coordinato con le leggi delle altre sfere culturali, il che è compito del terzo momento o criterio, quello sistematico61. L’estetica filosofica, insomma, ha come referente la multiforme riflessione estetica, e rispetto alle singole posizioni pragmatiche o analitiche agisce giustificandole, coordinandole e integrandole con le altre, disassolutizzandole. Il terzo momento, quello sistematico, è, come è stato notato62, il più significativo. La ragione non si limita a comprendere i motivi che portano a determinate assunzioni pragmatiche ma opera su di essi «togliendoli dal loro isolamento dogmatico», mettendo insomma in guardia contro i pericoli di irrigidimento della ricerca su dati parziali dell’esperienza. La filosofia è la pura riflessione teoretica in cui tutte le posizioni unilaterali trovano «la risoluzione della loro parzialità e quindi la loro verità», e l’estetica filosofica non impone ideali né fissa criteri di valutazione, ma «mira a porre in luce i rapporti tutti determinanti la struttura del mondo estetico […] sino a risalire, per un processo di sempre crescente integrazione, alla legge che esprime la continuità dinamica di tale struttura». Non si tratta di trascendere l’esperienza, ma di risolvere le sue «sintesi chiuse e limitate» nella «legge di un’universale correlazione»63. La legge, il principio, l’idea di esteticità è il vero oggettolimite a cui tende l’estetica filosofica. Ma come andrà intesa 194

questa legge? L’estetica banfiana modifica alquanto, negli anni, la propria posizione circa il suo statuto, senza tuttavia che le coordinate generali del discorso vengano a loro volta rinnovate, e questo non può non creare un problema per l’interprete. Resta ferma, certamente, la convinzione che la legge, o principio, non può essere intesa come un’essenza, una definizione statica e fissata per sempre, un concettosostanza, per usare la terminologia cassireriana. Ma, una volta ammessa senz’altro la sua natura funzionale, rimane da decidere se si tratti di una legge meramente empirica, collocata sullo stesso piano delle esperienze che ordina, oppure se essa abbia la natura di un principio trascendentale. Ora, tanto il contesto culturale nel quale Banfi inserisce la sua riflessione negli anni Venti e Trenta, quanto le esplicite affermazioni dei suoi scritti in quel lasso di tempo, sembrano non autorizzare altra conclusione che quest’ultima. Non solo, infatti, Banfi si muove in un’ottica di filosofia della cultura vicina, anche se non identica, a quella del neo-kantismo tedesco, in particolare marburghese, ma egli continuamente richiama le strutture fondamentali di tale orientamento di pensiero. «La cultura» – scrive Banfi – «può definirsi solo in funzione della legge che governa il complesso intreccio dei suoi rapporti interiori […]; l’idea di tale legge, che è il limite di una filosofia della cultura, è l’idea dello spirito». Il mondo della vita si rivela al Banfi di questi anni come un mondo di sfere spirituali (etica, teoretica, estetica, giuridica, religiosa: non siamo di fronte a una serie chiusa come quella crociana), ognuna riconducibile a un principio che, come si è visto per l’estetica, è un principio organizzatore dell’esperienza. «Ciascuno di questi organismi […] ha la sua vita unitaria nel principio autonomo di sintesi e di sviluppo che il pensiero filosofico astrae nell’idea di quel momento dello spirito, ossia nella pura legge a priori di quel campo, 195

indipendente dalla determinatezza d’ogni suo contenuto»64. Nel saggio del 1940, l’«idea trascendentale di esteticità» è «il problema essenziale secondo cui si costituisce e si muove l’esperienza estetica», e vi si afferma che «la coscienza del carattere trascendentale del principio estetico dissolve il concetto dogmatico di ‘valore’»65. In generale, il principio è sempre indicato, nel saggio pubblicato su «La Cultura», come «l’a priori estetico»; la legge, in quello del 1940, sempre come «legge trascendentale»; il limite delle ricerche della Kunstwissenschaft tedesca «rimane sempre nel fatto che esse rimandano come a loro presupposto, che non possono in sé giustificare, proprio all’idea dell’arte, in quanto tale»66. La distanza da Croce, sia per quanto riguarda l’orizzonte neo-kantiano di riferimento, sia per quel che riguarda il senso del discorso banfiano, non è, come si vede, incolmabile, anche se Croce tende a irrigidire le condizioni in realtà effettive, mentre Banfi è sempre attento a sottolinearne il carattere metodologico: quella di Croce, del resto, è una filosofia dello spirito, mentre quella di Banfi è, fin da subito, una filosofia della cultura. Il principio a priori, la legge hanno comunque, anche per il Banfi degli anni Trenta, un qualche contenuto specificabile, non sono unità interamente vuote e riempibili di volta in volta dalle determinazioni empiriche. Già il saggio del 1924 sull’autonomia dell’arte aveva indicato che, se «ogni forma di spiritualità implica sempre un rapporto tra il soggetto e la sfera corrispondente di oggettività», l’esteticità si caratterizza per il fatto che essa non si determina secondo l’uno o l’altro dei due poli, ma solo nella loro relazione. Il che vuol dire che nel mondo estetico l’oggettività perde la sua determinazione naturalistica, e la soggettività si dimentica nella sua determinatezza, motivando «l’assoluta superiorità della sfera estetica all’opposizione del soggetto e dell’oggetto, dell’io e del 196

mondo», nel che sta anche il «valore catartico» dell’arte. Non erano affermazioni impregiudicate, e davano anzi un sapore neanche troppo recondito di tradizione: erano, comunque, destinate a tornare. «La formula che esprime l’idea trascendentale dell’esteticità» – leggiamo nel saggio del ’40 – è quella di un’immanente sintesi antinomica delle due polarità essenziali dell’esperienza: l’io e il mondo»67. Queste determinazioni dell’esteticità verranno fortemente ridimensionate in seguito da Banfi, a partire dalla pubblicazione dei saggi nel volume Vita dell’arte, del 1947. Non nel senso che esse vengano sostituite da altre e diverse, ma nel senso che Banfi tende a svuotare la portata della «formula», a lasciarla sussistere piuttosto solo come contenitore vuoto via via riempibile, a elidere la differenza di statuto tra essa e le determinazioni empiriche. Le Note di estetica, scritte appunto per il volume del dopoguerra, insistono sull’«assurdità» della volontà di «fissare la riflessione estetica in una formula univoca», specificano che la «formula» non vuole definire l’arte ma solo «la problematica estetica». In generale, Banfi apporta ai testi precedentemente pubblicati, all’atto di stamparli in volume, una serie di varianti che non ne alterano il disegno e neppure il dettato, ma operano delle sostituzioni nei nodi terminologici più delicati. L’«idea trascendentale di esteticità» diventa semplicemente, sempre, «l’idea di esteticità»; l’«a priori» del «principio a priori» del saggio del 1932-1933 viene sempre espunto, anzi del principio si dice che «non è né un dato né una forma a priori, ma un criterio di metodo, originato a posteriori»68. Nello scritto del dopoguerra sui Generi artistici, Banfi dirà che di estetica filosofica è possibile parlare «come teoria dei principi di unità strutturale e di sviluppo della realtà artistica, fondata sull’espansione fenomenologica di un problema via via rivelantesi nella storia umana»69. 197

La mutata intonazione del pensiero banfiano suscita certamente più di un problema. Al di là della difficoltà di principio, di come una struttura filosofica nata con impianto trascendentale possa, rimanendo immutata, sopportare la conversione a una forma di totale apertura, resta il problema di cosa, a questo punto, renderà possibile l’identificazione del campo, se non l’accettazione di una tradizione che tuttavia viene assunta per così dire di soppiatto, senza che sia posto il problema critico della sua provenienza, dato che di essa non si ammette nemmeno l’esistenza. Ma anche restando all’interno del discorso banfiano, è probabile che la rimozione dell’impianto trascendentale renda più difficile la comprensione e l’apprezzamento di alcuni tra i risultati maggiori della sua estetica. Primo fra essi è la decisa, rigorosa affermazione dell’irriducibilità dell’estetico all’artistico. Sappiamo che l’identificazione crociana di arte ed esteticità era solo apparente, perché di fatto la prima Estetica dilatava l’artistico ben oltre la sfera delle «belle arti»; ma certo la formula era equivoca, e si prestò molto spesso a una lettura semplificata, per cui, da un lato, tutta l’esteticità confluiva nell’arte in senso corrente, e dall’altro l’arte, così come essa si dà empiricamente, sembrava risolversi in pura esteticità. Banfi vede con grande chiarezza i pericoli di entrambi i corollari. «Confondere la sfera estetica in generale con la sfera artistica od assorbire l’una nell’altra con un gioco di parole […] semplifica bensì i problemi, ma perciò riduce e oscura il campo dell’esperienza estetica». Infatti, «come la giuridicità, la religiosità, la teoreticità vivono e si diffondono in una sfera amplissima di rapporti e di significati […] così il momento estetico dello spirito, che affiora in mille esperienze e in esse si rinnova, trova la sua attualità concreta, la sua realtà culturale nell’arte»70. Il che significa 198

due cose: innanzi tutto, che la sfera dell’esteticità è assai più larga di quella che siamo abituati a identificare con il campo delle arti, estendendosi a comportamenti pratici, atteggiamenti teoretici (di qui l’attenzione banfiana per la bellezza naturale, per le cerimonie, le feste, per tutti quei fenomeni che sono senza dubbio esperienze anche estetiche, se pure non esclusivamente tali); di qui, soprattutto, l’acuta consapevolezza che l’arte in senso estetico moderno, la ‘bella arte’ come la conosciamo dal Settecento in poi, è un’incarnazione storicamente condizionata del principio estetico, cosicché quest’ultimo è, esso sì, necessario, mentre la ‘forma arte’ presenta un’ineliminabile traccia di contingenza. «Il formarsi di un concetto unitario dell’arte o della letteratura è il prodotto di una lenta e complessa elaborazione culturale». L’arte è greca, è rinascimentale, è moderna, ma ci sono intere epoche e civilizzazioni nelle quali nulla viene percepito come ‘arte’ nella nostra accezione, e nelle quali pure l’esteticità è ben presente. «L’arte è la forma in cui l’esteticità si è affermata nella cultura», ossia «il campo in cui l’esperienza estetica si organizza in un aspetto autonomo della vita culturale». Ragione per cui le arti in senso estetico moderno rappresentano sì «le direzioni secondo cui l’artisticità si pone e si sviluppa in funzione del suo puro principio estetico», ma proprio perciò sono sempre più che pura esteticità: «l’arte è la concreta obiettività spirituale in cui si esprime l’autonomia dell’esteticità: ma, s’intende, non che l’opera d’arte sia pura esteticità, ma il suo momento dominante è l’esteticità»71. Queste ultime parole ci avviano a comprendere il senso dell’altro grande acquisto dell’estetica banfiana, ossia il riconoscimento della presenza, nell’arte, di componenti eteronome, espresso nella tematica, cara a Banfi fin dagli inizi della sua riflessione, del nesso tra autonomia ed eteronomia 199

dell’arte. Che l’arte sia autonoma, indipendente da altre attività spirituali e irriducibile a esse, significa infatti per Banfi che «il concetto universale dell’arte si giustifica solo in rapporto all’unità ossia all’autonomia ideale di tale sfera». Dunque, dell’arte occorre affermare «l’indipendenza di principio dalle altre sfere della cultura», ma ciò non vuol dire affatto che i concreti prodotti artistici siano tutti e solo autonomi. Ipostatizzare l’autonomia nella datità empirica dell’opera, come il crocianesimo tende a fare, è tradirne il senso autentico sulla base di presupposizioni di gusto: «Il principio dell’autonomia estetica dell’arte esprime dunque l’indipendenza della legge di costituzione e di sviluppo della realtà artistica, non, come vuole un’ingenua interpretazione dogmatica a sfondo metafisico, la risoluzione di questa in pura esteticità». La vita effettiva dell’arte è un continuo oscillare tra avvicinamento e allontanamento dall’autonomia, perché nessuna esperienza estetica, come nessuna esperienza spirituale, è mai pura; e di nuovo, ciò vuol dire da un lato che l’arte non deve sempre «esser riconosciuta nella cultura come esteticamente autonoma», dall’altro che «in un’opera d’arte pura rientrano sempre elementi non secondari che l’inquadrano e la significano in una particolare funzionalità»72. Da qui germoglia la grande attenzione di Banfi verso i fenomeni dell’arte applicata, verso l’effettivo svolgimento della vita artistica; e da qui, come vedremo nel prossimo capitolo, germogliano gli approfondimenti precoci di Anceschi, il cui volume Autonomia ed eteronomia dell’arte è del 1936. Ma da qui, nuovamente, sorge il problema della possibilità di accogliere la riformulazione banfiana del proprio pensiero al di fuori di ogni riferimento alla struttura trascendentale. Al di là infatti delle numerose prese di posizione del Banfi degli anni Trenta sulla natura «trascendentale» dell’autonomia73, si deve rilevare che, mentre è del tutto 200

legittimo parlare di autonomia ed eteronomia dell’arte in concreto (in quanto l’autonomia è piuttosto del principio che in essa vive che della sua esistenza storica), supporre una compresenza di autonomia ed eteronomia nel principio è curioso, non per la contraddizione tra i due termini, ma per quella più originaria per cui un principio eteronomo è un assurdo: un principio eteronomo semplicemente non è un principio, e allora non resterebbe che dichiarare eteronoma tutta l’arte, o meglio di non parlare affatto di arte, giacché essa non sarebbe più identificabile. Si è già detto, e lo si vedrà meglio fra poco, come l’estetica banfiana agisse positivamente nel quadro del pensiero italiano, facendo scorgere problemi che una troppo pigra acquiescenza alle soluzioni crociane aveva portato a occultare, liberando energie e stimolando nuove direttrici di ricerca. Chi la consideri oggi non potrà non notare una paradossale astuzia della ragione: quella per cui un’estetica che si volle, e che fu, effettivamente, aperta, pronta ad accogliere, perfino troppo irenicamente e con qualche ingenuità neo-illuministica, le voci anche disparate che nascevano dalla ricerca concreta in campo artistico agì innanzi tutto per l’unica chiusura che non poteva non manifestare, quella verso le estetiche ‘forti’ di Croce e Gentile. Del resto, resi sospettosi dalle acribie decostruzioniste, è probabile che noi oggi siamo portati, di fronte al razionalismo critico banfiano, non a dolerci della sua eccessiva apertura, ma a scorgere quanto quella apertura continuava a non mettere in discussione: l’idea della spiritualità, delle sfere di cultura, della possibilità di una sistemazione comunque totalizzante. Al di là delle difficoltà ‘tecniche’ sulle quali ci siamo soffermati, è indubbio che Banfi abbia creduto che la criticità significhi porsi all’esterno di tutti i presupposti, mentre oggi sappiamo che questo sogno è stato sognato, e che critica è innanzi tutto la 201

consapevolezza di muoversi sempre all’interno di un orizzonte che possiamo risalire, appunto criticamente, ma al di là del quale non possiamo saltare, come non si può saltare lontano dalla propria ombra. Note 1

Due libri istruttivi, in proposito, sono quelli di D. Coli, Croce, Laterza e la cultura europea, Il Mulino, Bologna 1983, e G. Tognon, Benedetto Croce alla Minerva, La Scuola, Brescia 1990. 2 G. Cesareo, Storia delle teorie estetiche in Italia dal Medioevo ai nostri giorni, Zanichelli, Bologna 1924, pp. 134 sgg. 3 M. Cacciari, Interprétation de Michelstaedter, in ΔΡΑΝ, Éditions de l’Éclat, Paris 1992. 4 C. Michelstaedter, La Persuasione e la Rettorica, a cura di S. Campailla, Adelphi, Milano 1982, p. 96. 5 C. Michelstaedter, Opere, a cura di G. Chiavacci, Sansoni, Firenze 1958, pp. 706-707. 6 G. Pascoli, Il fanciullino, a cura e con un saggio di G. Agamben, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 35, 48, 59, 63, 71. 7 L. Pirandello, L’Umorismo, Mondadori, Milano 1986, p. 125. 8 Ivi, p. 143. 9 Ivi, pp. 165-167. 10 B. Croce, L’umorismo, ora in Id., Conversazioni critiche, serie I, Laterza, Bari 19242, pp. 45-48. 11 Si vedano, nella ed. cit., le pp. 57-58, 133-134. 12 L. Pirandello, Arte e Scienza, Modes, Roma 1908; citiamo dalla ed. parziale Mondadori, Milano 1994, p. 26. 13 Ivi, p. 38. 14 C. Bo, La rivoluzione mancata del Futurismo, in E. Cecchi e N. Sapegno, Storia della letteratura italiana, vol. IX, Il Novecento, Garzanti, Milano 1969, p. 275. 15 È solo a partire dagli anni Sessanta che si è cominciato a dare una valutazione meno sfavorevole del futurismo, con gli studi di M. Calvesi per le arti figurative e di L. De Maria per la letteratura. 16 Per la fase successiva del movimento, rimandiamo a M. Rocca, L’oasi della memoria. Estetica e poetica del secondo Marinetti, Tempi Moderni, Napoli 1989. 17 U. Boccioni, Contro il paesaggio e la vecchia estetica (1914), p. 216; F.T. Marinetti, Manifesto del futurismo (1909), pp. 5-6; in L. De Maria, Marinetti e il Futurismo, Garzanti, Milano 1994. 18 U. Boccioni, C. Carrà, L. Russolo, G. Balla e G. Severini, Manifesto dei

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pittori futuristi (1910), p. 21; F.T. Marinetti, U. Boccioni, C. Carrà e L. Russolo, Contro Venezia passatista (1910), p. 28; L’uomo moltiplicato e il regno della macchina (1911), p. 39; B. Pratella, La musica futurista (1911), p. 58; F.T. Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista (1912), p. 77; tutti in De Maria, Marinetti e il Futurismo cit. 19 Le citazioni sono tratte, nell’ordine, da Manifesto del futurismo, p. 6; Manifesto dei pittori futuristi, p. 22; B. Pratella, Manifesto dei musicisti futuristi (1911), p. 51; F.T. Marinetti, La voluttà d’esser fischiati (1911), p. 31; Manifesto del futurismo, p. 6; Manifesto dei pittori futuristi, p. 20; Manifesto dei musicisti futuristi, p. 51; tutti in De Maria, Marinetti e il Futurismo cit. 20 U. Boccioni, Contro il paesaggio e la vecchia estetica (1914), p. 214; La scultura futurista (1912), pp. 72-73; A. Sant’Elia, L’architettura futurista (1914), p. 151; F.T. Marinetti, Distruzione della sintassi. Immaginazione senza fili. Parole in libertà (1913), pp. 107-108; Il Teatro di Varietà (1913), p. 115; sempre in De Maria, Marinetti e il Futurismo cit. 21 Nell’ordine: La scultura futurista, p. 68; Distruzione della sintassi. Immaginazione senza fili. Parole in libertà, p. 110; C. Carrà, La pittura di suoni rumori odori (1913), p. 125; La musica futurista, p. 56; F.T. Marinetti, B. Corra, E. Settimelli, A. Ginna, G. Balla e R. Chiti, La cinematografia futurista (1916), p. 191; tutti in De Maria, Marinetti e il Futurismo cit. 22 Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista cit., p. 79. 23 Marinetti, Manifesto del futurismo cit., p. 6. 24 A. Soffici, Primi principi di un’estetica futurista, Vallecchi, Firenze 1920, Prefazione. 25 Ivi, pp. 48-54, 75-77. 26 Ivi, pp. 93-94. 27 G. Rensi, La scepsi estetica, Zanichelli, Bologna 1920, p. 43. 28 G. Rensi, Paradossi di estetica, Corbaccio, Milano 1937, pp. 11-30. 29 Rensi, La scepsi estetica cit., capp. X, XII, XIII. 30 Ivi, cap. XI, p. 170. 31 Ivi, p. 47. 32 Ivi, p. 106. 33 M. Onofri, Ingrati maestri, Theoria, Roma 1995, pp. 27-54. 34 R. Serra, Le lettere (1914), ora in Id., Scritti letterari, morali e politici, a cura di M. Isnenghi, Einaudi, Torino 1974, pp. 466-469; L. Russo, La critica letteraria contemporanea, vol. II, Laterza, Bari 1942, pp. 212-216. 35 G.A. Borgese, Poetica dell’Unità, Treves, Milano 1934, pp. V-VI. 36 G. Sasso, Variazioni sulla storia di una rivista italiana: la Cultura, Il Mulino, Bologna 1991, p. 25. 37 G. Morpurgo-Tagliabue, G.A. Borgese e i problemi dell’arte, in «Acme», n. 1, 1953, p. 88.

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Borgese, Poetica dell’unità cit., pp. 1-19. I testi della polemica sono: G.A. Borgese, G.B. Vico in un libro di Croce, ora in Id., La Vita e il Libro, vol. III, Bocca, Torino 1913; B. Croce, Pretese di bella letteratura nella storia della filosofia, ora in Id., Pagine sparse, vol. I, Laterza, Bari 19603, pp. 435-447; ancora G.A. Borgese, Apologia, sempre in Id., La Vita e il Libro cit., vol. III. 40 Lo si legge in Borgese, Poetica dell’unità cit., pp. 73-141. 41 Tutte le citazioni sono tratte da Borgese, Poetica dell’unità cit., pp. 142-176. 42 Ivi, pp. XVIII-XIX. 43 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 219. 44 La nota di Gramsci era ispirata da un articolo di critica letteraria sul Novecentismo, che tuttavia Gramsci, in carcere, non aveva potuto leggere direttamente. Lo scritto di Baratono su Marx, apparso nel 1924, si legge in A. Baratono, Filosofia in margine, Dante Alighieri, Milano 1930, pp. 201-239. 45 Cfr. A. Baratono, Il mio paradosso, in Filosofi italiani contemporanei, a cura di M.F. Sciacca, Marzorati, Milano 1946. 46 B. Croce, A proposito di un’edizione italiana della Critica del Giudizio (1907), ora in Id., Saggio sullo Hegel, Laterza, Bari 19484, pp. 326-333. 47 A. Baratono, Il pensiero come attività estetica e l’Introduzione kantiana alla Critica del Giudizio (1927), ora in Id., Filosofia in margine cit., pp. 127-200. 48 Si veda in proposito E. Garroni, Schema di lettura dell’Introduzione alla Critica del Giudizio e alcuni rilevanti studi italiani, in AA.VV., La tradizione kantiana in Italia, G.B.M., Messina 1986; e, per l’indicazione di questi studi, cfr. 6.4. 49 Baratono, Il pensiero come attività estetica cit., p. 185. 50 A. Baratono, Il mondo sensibile. Introduzione all’estetica, Principato, Messina 1934, p. 234. 51 Ivi, pp. 216-217; 209. 52 Ivi, p. 280. 53 Ivi, p. 277. 54 A. Baratono, Arte e poesia, Bompiani, Milano 1945, pp. 52 sgg.; 82 sgg. 55 A. Banfi, Vita dell’arte. Scritti di estetica e filosofia dell’arte, a cura di E. Mattioli e G. Scaramuzza, con la collaborazione di L. Anceschi e D. Formaggio, in A. Banfi, Opere, vol. V, Istituto Antonio Banfi, Reggio Emilia 1988, p. 340. 56 Molti di essi sono stati ristampati nelle due raccolte: I problemi di un’estetica filosofica, a cura di L. Anceschi, Parenti, Firenze 1961 e Filosofia dell’arte, a cura di D. Formaggio, Editori Riuniti, Roma 1962. 57 Cfr. C. Gentili, Lineamenti dell’estetica banfiana, in Id., Nuova Fenomenologia Critica, Paravia, Torino 1981, pp. 79-129. 58 In Banfi, Vita dell’arte cit., p. 124. 59 Si veda Banfi, Vita dell’arte cit., pp. 124 sgg., ma anche 5 sgg., 77 sgg. 60 Ivi, pp. 9-10. 39

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Ivi, pp. 9-10, pp. 11-14. G. Scaramuzza, A. Banfi. La ragione e l’autonomia dell’estetico, in «Studi di estetica», n. 2, 1983, pp. 135-161. Di Scaramuzza è anche la monografia più completa sull’estetica banfiana: Antonio Banfi. La ragione e l’estetica, CLEUP, Padova 1984. 63 Banfi, Vita dell’arte cit., pp. 184-185, 193, 13-17. 64 Ivi, pp. 15-16. 65 Ivi, p. 85, p. 210. 66 Ivi, p. 60. 67 Ivi, p. 86; e, per determinazioni analoghe, cfr. ad esempio pp. 101, 114 o Filosofia dell’arte cit., p. 428. Si veda A.Trione, Estetica e filosofia dell’arte in Banfi, in «Logos», 1969, pp. 135-179. 68 Banfi, Vita dell’arte cit., p. 17. Ciò non impedisce che nel testo rimangano passi in cui si parla di «pura legge a priori» (cfr. pp. 20, 27, 36), o che si continui a rivolgere a Croce il rimprovero di empirismo (p. 44). 69 Banfi, Osservazioni sui generi artistici, in Id., Vita dell’arte cit., p. 283. 70 Ivi, pp. 97-98. 71 Ivi, pp. 273, 176, 20, 102-103; Inedito E/7, in I problemi di un’estetica filosofica cit., p. 309. 72 Banfi, Vita dell’arte cit., pp. 24, 66, 65, 66, 23, 311-312. 73 Ivi, pp. 36, 40, 76, 119. 62

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Parte seconda. Dopo l’idealismo

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Capitolo quarto. Le vie del rinnovamento post-crociano

Alla fine del secondo conflitto mondiale, mentre l’estetica gentiliana esce rapidamente di scena, quella crociana sembra ancora occupare saldamente il campo. Nella critica letteraria e artistica l’influenza di Croce continua a essere assai forte, e anche se si cominciano ad affacciare orientamenti nuovi, come la stilistica di Schiaffini e Terracini, la variantistica di Contini, la critica semantica di Pagliaro – tendenze su cui torneremo nel prossimo capitolo – essi non produrranno un sostanziale spostamento che a partire dai primi anni Sessanta. Croce è ancora attivo, pronto come sempre a difendere le proprie posizioni. Ma, proprio per la ricchezza e la profondità che gli studi di estetica hanno acquistato grazie all’impulso crociano, il panorama complessivo, solo che lo si osservi più attentamente, manifesta una grande vivacità. Il quindicennio che va dal ’45 al ’60 è un periodo di profondo rinnovamento degli studi estetici, che vede la proposta di nuovi indirizzi e l’elaborazione di progetti teorici di grande spessore. L’agenda che Croce lascia in eredità a chi viene dopo di lui è carica di compiti, già solo per il fatto che si tratta finalmente di esperire nuove vie, ma restando all’altezza di una riflessione che è stata tra le massime del pensiero europeo. È possibile dunque riassumere per punti problematici le questioni che stanno di fronte agli autori del dopo-Croce, perché esse sono comuni a più di uno fra di 207

loro: 1) C’è innanzi tutto la questione della natura dell’arte, della quale Croce ha sempre, anche se con accentuazioni diverse, ribadito il carattere conoscitivo e non pratico. Se l’estetica di Croce è una tra le più classiche formulazioni dell’idea dell’arte come conoscere, si tratta ora di esplorare l’alternativa concezione dell’arte come fare. L’avversione al teoreticismo crociano è comune ad alcune tra le tendenze salienti del dopoguerra: chiarissima in Pareyson, essa non è meno attiva in Morpurgo-Tagliabue o Anceschi, e muove anche un autore per altro prossimo a Croce, come Calogero. 2) Se Croce, negando il carattere pratico dell’arte, ha coerentemente declassato a fatto empirico e accessorio la tecnica artistica, e la diversità delle arti e dei generi, si tratterà di trovare le vie per un recupero di queste nozioni. Anche questa è una preoccupazione largamente condivisa, sia all’interno dell’estetica fenomenologica, da Formaggio a Dorfles a Diano, sia all’esterno di essa, per esempio nell’estetica di della Volpe, o anche nei saggi di estetica di Abbagnano o di Battaglia1. E accanto alla rivalutazione in chiave polemica anti-crociana, il tema della diversità dei mezzi espressivi viene ripreso con maggiore comprensione per le motivazioni crociane, per esempio in Brandi e nello stesso Pareyson, ma anche nella proposta di una «estetica della memoria» da parte di Russi2. 3) Se per Croce l’estetica aspira tendenzialmente a occupare tutto lo spazio del discorso sull’arte (anche la critica è filosofia), ora si vuol dare peso a quei tipi di riflessione sull’arte che non giungono alla teoria filosofica, ma rispecchiano il coinvolgimento diretto nella pratica artistica. Di qui l’attenzione per le poetiche, intese non come insiemi di regole normative ma come riflessioni degli artisti sul proprio lavoro. Questa rivalutazione delle poetiche 208

nasce nel seno stesso del crocianesimo, presso quei critici che sono alla ricerca di un rapporto più profondo tra storia e poesia, come Russo o Binni, ma ha uno sviluppo teorico soprattutto al di fuori di esso, in Anceschi3. 4) Più in generale, molte delle estetiche degli anni Cinquanta si pongono dalla parte del produttore piuttosto che da quella del fruitore o dell’opera. È un dato interessante anche fuori contesto, perché questa attitudine è relativamente rara nella storia dell’estetica. La troviamo, assai marcata, ancora in Pareyson e Brandi e nell’interesse fortissimo di Anceschi per i critici che sono anche artisti, oltre che, sul piano della critica, nella variantistica di Contini. 5) Dal punto precedente discendono due corollari più strettamente tecnici: il primo è l’esigenza di articolare l’identità di intuizione ed espressione, teorema basilare dell’estetica crociana. Esplicitamente posta a tema da Brandi, tale esigenza non è meno viva in Pareyson o in Calogero. 6) L’altro corollario è l’interesse per una concezione dinamica del processo artistico. Se quella di Croce era un’estetica dell’opera fatta, dell’opera come riuscita, ora abbiamo un deciso spostamento verso l’opera in fieri, l’opera come ricerca: esemplarmente nel caso di Pareyson, ma anche nella contrapposizione di Diano tra arte come forma e arte come evento e nell’estetica di Brandi, o nel Ragghianti di Arte: fare e vedere. 7) Di contro alla netta sottolineatura crociana del carattere a-logico e pre-logico dell’arte, della sua natura di immagine, assistiamo a una rivalutazione delle componenti intellettuali del fare artistico. Ciò è palmare in della Volpe, che afferma la natura discorsiva della poesia e la sua non distinguibilità categoriale dalla scienza, ma, almeno sotto certi aspetti, si tratta di una richiesta che anima anche la 209

critica semantica di Pagliaro e che in Anceschi si traduce nel richiamo alla consapevolezza dell’artista all’interno del processo creativo. 8) Anche più diffusa è l’insofferenza verso la concezione della critica come caratterizzazione del sentimento dell’artista, sia collegata alla rivendicazione precedente (ancora della Volpe), sia indipendentemente da essa (la negazione pareysoniana del sentimento come contenuto dell’arte, la critica brandiana alla liricità dell’immagine). 9) Infine, l’insoddisfazione verso i limiti dello storicismo crociano e verso la sua concezione monadologica della storia letteraria mette a tema la ricerca di un legame organico tra sfondo storico-sociale e opera artistica. Molto presente nella critica letteraria degli anni Cinquanta, e punto capitale dei tentativi di un’estetica marxista, questa insoddisfazione non sembra condivisa dagli altri teorici, ma almeno in della Volpe troveremo uno sforzo originale di darle fondazione speculativa. Come si vede, si tratta nella maggior parte dei casi di orientamenti divergenti da quelli dell’estetica crociana, ma che difficilmente sarebbero comprensibili se non venissero assunti come momenti di un confronto critico con la teoria estetica dominante nella prima metà del secolo. Spesso si fa risalire il rinnovamento filosofico post-crociano all’immissione nel dibattito italiano di tendenze filosofiche nate altrove, dalla fenomenologia all’esistenzialismo al pragmatismo. Senza nulla togliere all’importanza che la diffusione di orientamenti prima poco noti ha avuto per il dibattito italiano, almeno nel caso dell’estetica si può constatare come la funzione di questi nuovi apporti si sia esplicata non tanto nel rendere possibile una brusca frattura, quanto nel loro costituire l’alimento per un nuovo modo di impostare problemi la sensibilità verso i quali era però lascito della tradizione autoctona. 210

Il panorama dell’estetica italiana del dopoguerra è dunque assai variegato. Passando a esaminare le opere in cui si sostanziarono gli orientamenti che abbiamo schematicamente indicato, noi non potremo seguire tutti i protagonisti del dibattito, e neanche tutti quelli appena menzionati: ci limiteremo ad alcuni indirizzi fondamentali. 4.1. L’estetica fenomenologica Abbiamo visto alla fine del precedente capitolo come l’aspetto più innovativo dell’estetica banfiana fosse costituito dall’acuta consapevolezza della pluralità delle forme che la riflessione sull’arte può assumere; dobbiamo ora aggiungere, però, che Banfi si limitò quasi soltanto a indicare i nuovi terreni di ricerca che così si aprivano, e non li percorse. Quando invece il suo allievo Luciano Anceschi (1911-1995) pubblica nel 1936 lo studio su Autonomia ed eteronomia dell’arte si colloca subito, con un’autorità e una sicurezza sorprendenti in un venticinquenne, nel punto vivo dei nuovi orizzonti additati dall’estetica banfiana. Anceschi, infatti, non tanto dibatte in astratto il problema dell’autonomia dell’arte, quanto mira a ricostruire come, nella storia della riflessione sull’arte almeno dal Settecento in poi, i due momenti dell’autonomia e dell’eteronomia si siano presentati continuamente intrecciati, sì che ogni soluzione che abbracci l’una o l’altra non può che apparire una forzatura del modo in cui la questione si presenta nella vita vera della poesia. Se Banfi aveva cercato innanzi tutto di chiarire i rapporti tra autonomia ed eteronomia sul piano dei principi, Anceschi non solo integra le analisi banfiane, dando loro tutto quel contenuto di rapporti reali che in Banfi rimaneva un’esigenza, ma egli per così dire rovescia, applicandolo, l’ordine di ricerca: occorre innanzi tutto ricostruire il vario disporsi della riflessione interna alla poesia, delle poetiche, e le conclusioni teoriche 211

scaturiranno per così dire da sé sole, come riepilogo e coordinamento della ricerca. Ecco dunque Anceschi muovere dal campo delle estetiche inglesi da Sidney a Burke, e seguirvi la costante dialettica tra purezza e ‘impurità’ del campo estetico; passare alla Germania di Kant e Novalis, per trovarvi la prima, decisa affermazione della valenza filosofica dell’autonomia, ma solo per tornare subito ai poeti inglesi, a Coleridge e a Wordsworth, alfieri quasi paradigmatici il primo dell’autonomia, il secondo dell’eteronomia; per giungere poi finalmente al nodo PoeBaudelaire e alla poesia pura, e veder sorgere così «la legge fondamentale del rapporto autonomia-eteronomia […] non già all’esterno, ma proprio all’interno di una figura estrema dell’autonomia dell’arte: la nozione, appunto, di poesia pura»4. Autonomia ed eteronomia agì in profondità, e a lungo, sulla cultura italiana; ne fa fede il riconoscimento di Pasolini, secondo il quale il volume anceschiano ebbe a contare, nella formazione della sua generazione, assai più dell’Estetica crociana. Se si cercano le ragioni di questo effetto liberatorio, il metodo seguito da Anceschi e il suo terreno di elezione vengono subito in primo piano. «C’era un’estetica dominante; e, d’altro canto, c’erano alcune poetiche autorevoli ed attive, e tra estetica e poetiche nascevano tensioni paralizzanti, s’aprivano conflitti per niente fertili»5: di qui l’esigenza di riallacciare i legami interrotti tra i vari piani di riflessione sull’arte; e di qui, soprattutto, il richiamo al territorio della poesia moderna forse più fastidito dal Croce critico e teorico. Il primo a far valere il carattere programmatico dell’Autonomia fu l’autore stesso, che ne vide emergere quasi spontaneamente i principali filoni di ricerca della sua successiva attività. Innanzi tutto, la ricognizione delle poetiche (Saggi di poetica e di poesia, 1942; Poetica americana, 1953; Le poetiche del Novecento in Italia, 212

1962; Da Ungaretti a D’Annunzio, 1976); questa ricognizione non si è esercitata solo sulla contemporaneità, ma si è estesa ad ampie indagini storiche, per esempio sulle poetiche barocche (Del Barocco e altre prove, 1953; Le poetiche del Barocco, 1959; Idea del Barocco, 1984). In secondo luogo, gli studi di storia dell’estetica, su Kant (1953), sull’estetica dell’empirismo inglese (1958) e quelli poi raccolti in Tre studi di estetica (1966) e in Da Bacone a Kant (1972); infine quelli più strettamente teorici, dei quali ci occuperemo in maniera più diffusa. Questi tre filoni non esauriscono tuttavia il panorama dell’attività di Anceschi, perché accanto a essi c’è l’impegno costante di Anceschi non solo come critico militante, ma anche come promotore e organizzatore di cultura. La fine degli anni Trenta vede l’elaborazione dell’antologia della poesia ermetica Lirici nuovi che, stampata nel 1942, sarà destinata a segnare una pietra miliare nel cammino della poesia novecentesca. In quella «antologia fenomenologica» Anceschi si immergeva «nell’esperienza di una poesia che si avverte strettamente legata alla poetica e alla critica […] e che considera se stessa comprensibile solo nell’esibizione più consapevole di questo rapporto»6. Dopo la guerra sarebbero venute la proposta, per la verità meno incisiva, di una Linea lombarda (1952) e soprattutto il laboratorio, tuttora in funzione, del «Verri», che sarà la palestra e il terreno di coltura per la neoavanguardia del Gruppo 63. Nessun errore sarebbe più pregiudizievole alla comprensione di Anceschi del considerare questo impegno militante come un’applicazione delle sue teorie, mentre si andrebbe assai più vicini alla verità se si considerassero queste ultime come l’elaborazione di quelle vive esperienze. Così, del resto, Anceschi ha sempre pensato se stesso, fino a indicare in quella sorta di ultima sistemazione della propria estetica che è il volume Gli specchi della poesia (1989) il 213

proprio personale problema filosofico nella «convivenza tra la critica letteraria (anche militante) e la volontà di uno sguardo teorico generale sulla poesia stessa»7. E forse nulla è in grado di introdurci più direttamente nell’atmosfera della riflessione anceschiana del suo sincero stupore, più volte espresso, di fronte al fatto che possano esistere trattati di estetica che sembrano «non aver bisogno di citare una sola poesia»8. Conosce qualcosa chi la fa; a conoscere la poesia sono innanzi tutto i poeti, che la poesia la fanno; e poi coloro che, critici o teorici, sanno seguire quel processo creativo, possibilmente partecipandovi col loro stimolo e consiglio, coloro i quali sanno «entrare nel segreto del laboratorio in cui le difficoltà del poeta nel proprio fare si dichiarano». Se «non possiamo parlare di essenza della poesia», possiamo però «entrare nella sua officina». È in questo primato del fare la cifra più caratteristica della riflessione anceschiana; e qui è anche riconducibile, come al suo germe, l’opposizione all’idealismo, se è vero che «l’estetica idealistica […] rifiuta tutta la problematica che nasce dal poiein»9. Occorre tenere ben presente questo orientamento quando si passa a ricostruire le strutture fondamentali dell’estetica della «nuova fenomenologia critica» (così Anceschi ha denominato il proprio orientamento); e se lo si fa, si comprenderà anche perché non sia anacronistico inserire a questo punto tale ricostruzione. Sebbene infatti quasi tutti gli scritti più strettamente teorici di Anceschi appaiano a partire dagli anni Sessanta10, essi si configurano però sempre come il bilancio di una direzione di ricerca che è attiva ben avanti il secondo dopoguerra, e che negli anni Cinquanta è già un punto di riferimento; si aggiunga poi la forte continuità del pensiero anceschiano, e si potrà concludere, certo forzando un poco, che a variare dagli anni del dopoguerra agli Ottanta non è tanto la sistemazione offerta dall’autore, 214

quanto il significato che essa assume, come vedremo, nella mutata situazione in cui si inserisce. L’attenzione per quello che Banfi aveva chiamato il piano pragmatico della riflessione sull’arte si catalizza in Anceschi per il tramite della nozione di poetica, che assume un ruolo centrale nella sua sistemazione teorica, tanto che, retrospettivamente, l’autore stesso indicherà nella «nuova attenzione data alle poetiche» il «primo esito delle [sue] ricerche», e nel loro campo «un territorio vastissimo che è stato riconquistato dopo lunga dimenticanza e occultamento»11. Dei due significati principali del termine – poetica come «ricerca delle leggi e delle regole di composizione e formazione di diversi tipi di strutture artistico-letterarie» e poetica come «riflessione che i poeti e gli artisti esercitano continuamente sul loro fare delineandone precetti, norme, ideali» – Anceschi, senza dimenticare il primo, privilegia nettamente il secondo. «Da Omero in poi […] la poesia è stata sempre accompagnata da una riflessione su se stessa», ma è soprattutto nella modernità, da Baudelaire in avanti, che la nozione di poetica come riflessione del poeta sul proprio fare diventa un «connotato della vita interna della poesia». Le poetiche «nascono dal riflettere sul proprio fare da parte di chi l’arte la fa», ragione per cui la poetica andrà cercata non solo nei luoghi deputati, ma ovunque i poeti «indugiano a parlare di ciò che essi, come poeti, fanno». Di qui la distinzione tra poetica esplicita e poetica implicita, tra la poetica dichiarata in precise formulazioni dottrinali, in scritti ad hoc (programmi, manifesti, ‘arti poetiche’) e quella che può essere ricavata dai testi poetici stessi, «dal modo in cui il poeta si destreggia con i propri strumenti». È chiaro che questa nozione di poetica presuppone il riconoscimento del carattere sempre relativamente consapevole del procedere poetico: per Anceschi, non meno che per Paul Valéry, non esistono poeti 215

ingenui: la poesia rivela sempre, se adeguatamente interrogata, l’incidenza della riflessione del poeta sul proprio lavoro. La ricerca sulle poetiche tende a trasformare la domanda ‘metafisica’ sull’essenza della poesia in quella funzionale «come si fa la poesia?»12. Alla nozione di poetica è strettamente legato un altro concetto decisivo della teoria anceschiana, quello di istituzione. Il termine indica «quelle norme, quel complesso organico di norme o quel sistema di norme che riguardano il fare letterario […] e che han per scopo un buon risultato letterario». Come la sua origine giuridica e retorica lascia intravedere, l’istituzione fa riferimento a un tratto sociale dell’attività letteraria, e richiama per esempio la relativa insegnabilità di certi suoi aspetti. Se dal punto di vista dell’origine le istituzioni sono «norme ricavate dall’esperienza dell’arte in vista di una buona esecuzione», funzionalmente esse sono «nozioni tecniche disposte a favorire la nascita della poesia». Nell’identificazione delle istituzioni Anceschi si avvale di quelli che distingue in rilievi di struttura e rilievi di situazione: i primi riguardanti soltanto il testo, e non procedenti oltre di esso, i secondi invece aperti verso la situazione logica e storica, alla volta dei nessi che legano il testo a tutto un sistema di riferimenti esterno. Passando a determinare quali siano, in concreto, le istituzioni della poesia, Anceschi coerentemente rifiuta ogni elenco chiuso, ogni fissazione rigida: potranno essere istituzioni, perciò, certi modelli di stile, certe figure retoriche (qualcosa, dunque, che si situa sul piano della forma), ma anche certe costanti generiche (il ‘delitto della camera chiusa’ nel poliziesco). Nelle poetiche del Novecento italiano saranno istituzioni centrali l’analogia (nella poetica di Ungaretti) e il correlativo oggettivo (in quella di Montale)13. L’atteggiamento di Anceschi di fronte a quelle particolari istituzioni che sono i generi letterari 216

esemplifica bene, poi, il movimento che la sua teoria compie di fronte all’estetica dell’idealismo. Se quest’ultima aveva condannato i generi in quanto empirici, non si tratta per Anceschi di riabilitarne la natura classificatoria o tecnica, quanto di prendere atto di come, respinti dalla teoria, i generi continuino ad agire nelle scelte concrete dell’artista, intervenendo «nel momento attivo della gestazione poetica», e indichino quindi «una zona di intersezione tra cultura e invenzione poetica, un intimo compenetrarsi di cui l’arte vive»14. Se dal piano pragmatico passiamo alla critica della letteratura, l’attitudine non muta: si tratta in primo luogo di rendersi conto della complessità e della varietà di quel che si raccoglie sotto tale nome, in modo da delineare una fenomenologia della critica. Incontriamo così in primo luogo la critica che i poeti esercitano all’interno del loro fare, sulle loro stesse creazioni, e poi la critica che essi portano sulle creazioni altrui (la critica dei poeti su altri poeti); e se da essa passiamo alla critica dei critici, di nuovo abbiamo davanti un ventaglio di posizioni e di metodi diversi. C’è il critico scrittore, c’è il critico saggista, c’è il critico scienziato (ad esempio linguista, psicoanalista) e quello filosofo15. Dinanzi a questi differenti orientamenti, come pure davanti all’infinità delle assunzioni pragmatiche delle poetiche, la fenomenologia critica si propone, spinozianamente, non di ridere atque detestari ma di intelligere. Se ognuna delle posizioni esaminate aspira a valere come l’unica valida, ad assolutizzarsi, allora la prima ‘mossa’ fenomenologica sarà quella di mettere tra parentesi le assunzioni dogmatiche, ossia non cancellarle, ma revocarne in dubbio le pretese di validità universale, e andare in cerca di un piano integrativo, di un orizzonte di comprensione che trovi un senso alla disparità di posizioni, e coordini tutte le manifestazioni della riflessione sull’arte senza far loro subire 217

riduzioni. La definizione fenomenologica «è il risultato conclusivo […] che comprende la globalità di tutti i rilievi», l’organizzazione sistematica, ma non il sistema, «di tutte le relazioni, nessuna esclusa». L’immagine che si confà a questa «legalità aperta» è quella della rete, anzi di una «rete sempre aperta, che non ha nulla di obbligante»16. Il fenomenologo, si potrebbe dire (ma il lettore sia avvertito che si tratta di un paragone velenoso, che Anceschi respingerebbe), agisce come un bravo storico, che non giudica e respinge ma piuttosto si sforza di capire il senso degli accadimenti. Come già di fronte alla prospettiva banfiana, ci si può domandare se l’unità che il metodo raggiunge sia un’unità vuota, che lascia intatto il fenomeno, oppure se essa apporti qualcosa, e, in questo secondo caso, donde provenga questo di più; ma il forte impegno di Anceschi nella vita concreta dell’arte induce piuttosto a riformulare la domanda chiedendosi fino a che punto questa coordinazione teorica riesca a porsi equidistante dalle assunzioni parziali, e insomma quanta assiologia ci sia ancora nella fenomenologia anceschiana. C’è almeno un’assunzione ‘forte’ nel pensiero della nuova fenomenologia: quella della separabilità del piano pragmatico (nel senso lato per cui esso ricomprende la critica e anche la filosofia curvata pragmaticamente) e del piano fenomenologico inteso come «riflessione pura». Altro è il piano della comprensione, altro quello delle scelte. È vero che Anceschi sembra talora riconoscere la loro inscindibilità, ma egli è pur sempre costretto a tornare all’idea che si dia un «puro intendimento teorico», che la fenomenologia «esclude ogni forma di curvatura prammatica»17. Se si guarda poi in concreto al modo in cui Anceschi delinea lo svolgersi della riflessione sull’arte, si vede bene però (e questo per noi non è un limite, perché se è vero, come dice Anceschi, che per agire occorre scegliere, 218

scegliere si deve anche per pensare) che egli si accosta ai fenomeni con un preciso ordine di valori, come balza agli occhi già nell’asimmetria che egli riscontra fra la dogmaticità delle poetiche e quella degli approcci scientifico-filosofici. Se infatti il dogmatismo delle poetiche è giustificato ed è una condizione positiva, quello delle filosofie configura piuttosto un limite, un difetto congenito. È difficile, insomma, trattenersi dal pensare che quando Anceschi oppone una riflessione che sta dentro alla poesia a una che ne resta fuori, quel ‘dentro’ e quel ‘fuori’ non siano anche un giudizio di valore. Quando chiama anamorfosi quella a cui i filosofi sottopongono il testo poetico18, come dimenticare, al di là della eleganza del grecismo, che anamorfosi è sinonimo di deformazione? In realtà, Anceschi è sempre rimasto fedele a un’idea ben precisa della critica, quella derobertisiana della «collaborazione alla poesia», e questo ha contato moltissimo per la sua estetica. Ma, ancora una volta, di fronte a quest’estetica ‘aperta’ lo storico è chiamato a registrare un’eterogenesi dei fini. Nata dal ceppo banfiano per fronteggiare il neoidealismo, essa si trovò ben presto, tra la fine dei Cinquanta e i primi Sessanta, a fronteggiare le obiezioni radicali all’estetica filosofica provenienti prima dal problematicismo, poi dallo scientismo strutturalista e semiologico. Chi legge l’Anceschi degli anni Sessanta, in cui è forte l’esigenza della ‘filosoficità’ dell’estetica, non deve dimenticarlo se vuole poi intendere come, in un contesto assai mutato, negli anni Ottanta Anceschi accentuasse piuttosto la polemica contro la troppa filosofia19. Ma non è tanto questo che ci fa apparire oggi Anceschi, che pure è stato attivissimo fino alla soglia degli anni Novanta, relativamente lontano, ben al centro del nostro Novecento. La sua idea di ‘collaborazione alla poesia’, di impegno militante, è legata a filo doppio a 219

quella di un’epoca in cui il progetto e le idee, in letteratura, contavano moltissimo, in cui l’«idea della forma», per dirla con le sue calzanti parole, faceva aggio sulla «forma dell’idea». Il legame di Anceschi con l’avanguardia non è contingente, è organico. Egli, in fondo, è stato l’ultimo critico letterario capace di agire sulla letteratura, di dirigerla e indirizzarla. Con la sua eleganza misurata, Anceschi ci richiama a un’epoca in cui parlare di literary aristocracy poteva avere un senso, in cui la critica poteva orientare la ricerca letteraria. Dopo di lui, questo legame si è rotto, e la critica militante non è stata più in grado di costituirsi in progetto; è stata altre cose, meno importanti; qualche volta, anche solo pubblicità. Un aspetto essenziale dell’estetica banfiana rimane in Anceschi sullo sfondo: si tratta della distinzione di esteticità e artisticità. Questo aspetto è invece centrale nella riflessione di un altro fenomenologo formatosi alla scuola di Banfi, Dino Formaggio (n. 1914). Se Banfi aveva posto l’artisticità come attualizzazione concreta dell’estetico, Formaggio, nel suo volume Fenomenologia della tecnica artistica (1953), accentua la separazione dei due termini fino a ipotizzare una loro opposizione: divaricando l’estetico e l’artistico diventa possibile sostenere «che non l’esteticità costituisce ‘il principio fondamentale dell’arte’ […] ma che l’arte essenzialmente consista in un’attività distinta dall’estetico»20. Il senso di questa opposizione si fa chiaro se si pensa che l’esteticità si traduce in un atteggiamento contemplativo di certe forme o eventi (dunque è connessa a un giudizio soggettivo di piacevolezza o bellezza), laddove l’artisticità è innanzi tutto un agire, un progettare. Porre l’arte sotto l’egida dell’esteticità significherebbe per Formaggio dare subito partita vinta al teoreticismo crociano; al contrario, rivendicare l’autonomia dell’artistico dall’estetico vuol dire sottolineare polemicamente che l’arte 220

è innanzi tutto qualcosa che si produce trasformando la materia: l’idea di artisticità si connette con quella di tecnica che dà il titolo al volume. L’espressione è più che intuizione, e la comunicazione è più che espressione, e questo di più sta tutto, per Formaggio, dalla parte dell’oggetto, della tecnica: il segreto dell’arte non lo si coglie fermandola nella sua immagine interna, ma seguendola nel suo articolarsi nei mezzi espressivi. Il libro del ’53 muoveva quindi da un esame della svalutazione della tecnica nell’idealismo italiano, soprattutto crociano, per andare poi in cerca di tradizioni di pensiero dalle quali recuperare un atteggiamento positivo nei confronti di essa, e le trovava da un lato nell’estetica francese del ’900 (Alain, Souriau), dall’altro nella proposta di una allgemeine Kunstwissenschaft di Utitz e Dessoir. L’idea di tecnica proposta da Formaggio ambiva però a essere più ampia e comprensiva; in particolare, egli riluttava a far coincidere la tecnica col momento della strumentalità esterna, e proponeva quindi un esame della tecnica su vari piani, quello del rapporto tra tecnica e natura, quello psicologico, quello sociologico, per sbocciare in un piano generale di cultura, in cui finalmente si mostrava, da un lato, come il momento tecnico sia proprio di ogni attività umana e, dall’altro, come l’artisticità costituisca il compimento e la conferma interna del ‘successo’ di ogni agire. Qui Formaggio sembra incontrarsi con i temi del Dewey di Art as Experience, perché arte è «ogni processo di compimento», e quello artistico è un agire che «non differisce dal comune agire se non come il compimento differisce dall’incompiuto»21, e si capisce allora perché la parte finale del volume, nel delineare il «ciclo fenomenologico della tecnica artistica», estendesse la tecnicità a tutto il processo artistico, parlando di una tecnica ‘interna’ accanto a quella ‘esterna’. Non si trattava soltanto 221

di riabilitare quella che Croce aveva definito «estrinsecazione», ma di portare il momento pratico nel cuore stesso dell’attività artistica: l’arte è una prassi, e ciò è confermato dal fatto che ogni prassi ha bisogno, come sua garanzia interna di riuscita, di un momento artistico. Più tardi, Formaggio avrebbe parlato di «tecnica artistica come specificazione di tipo qualitativo della generale prassi tecnica»22. Tutto ciò imponeva di tornare sul rapporto prima fissato di esteticità e artisticità, ed è quello che Formaggio fa in L’idea di artisticità, che viene pubblicato nel 1962 ma elabora materiali del decennio precedente. La prima parte del volume tende a mostrare, attraverso un riesame della tesi hegeliana della morte dell’arte, come la distinzione dell’artisticità dall’esteticità sia un portato di tutto lo sviluppo artistico moderno. L’arte che muore, di cui Hegel dichiara la morte, è l’arte ‘bella’, che riconosce la propria stella polare nell’ipostatizzazione di un valore ‘estetico’; l’arte che continua a vivere, anzi che si dimostra sempre più viva, è quella che rifiuta il bello e rivendica l’autonomia dell’artisticità, cioè si assume deliberatamente come momento instaurativo, come «progettualità significativa»: il significato, ancora una volta, nasce dal fare. Formaggio si sforza di mostrare come la funzionalità sia già contenuta nell’idea di artisticità, ossia che «l’idea di artisticità è risolvibile in quella di funzionalità tecnica e significativa». La storia dell’estetica «ha commesso l’errore di identificare l’estetico con l’arte senz’altro e di considerare l’arte, in conseguenza, come un puro momento di conoscenza». Ma l’arte è soprattutto un fare, quel fare per cui «l’essere esterno, ineffabile nel suo esser altro, si scioglie nel significato e nella comunicazione». A questo punto, però, l’iniziale opposizione di estetico e artistico diventava suscettibile di una riformulazione in termini diversi, grazie ai concetti, 222

che Formaggio rilevava da Husserl, di intenzionalità e subintenzionalità. Non è possibile riportare l’arte a un unico processo intenzionale: in essa, al contrario, è sempre presente una pluralità di direzioni, per cui un’intenzionalità dominante convive con una serie di intenzionalità secondarie. Quella estetica, allora, può essere non tanto una direzione alternativa alla tendenza artistica, quanto un’intenzionalità subordinata: nel processo instaurativo dell’arte, è possibile accentuare «la pura formalità immanente del sensibile», farne «una pura ed autonoma essenza autopresentativa»23, ma è anche possibile rovesciare il rapporto, e mettere in primo piano i valori comunicativi, d’uso, o, come avveniva in altre culture, quelli magicoreligiosi. L’idea di artisticità assume sempre più chiaramente, in questo nuovo orizzonte, il valore di «legge aperta universale di ogni possibile campo dell’esperienza artistica», di principio integrativo che si sottrae ai condizionamenti pragmatici24, con ciò riproponendoci non solo una struttura tipica della riflessione banfiana (già ritrovata in Anceschi), ma anche le sue difficoltà: o la forma è vuota, e allora non può neppure delimitare un campo, oppure ha un contenuto, e allora non è strutturalmente diversa dai presupposti filosofici che svaluta come dogmatici25. Un problema che riemerge nel volume successivo di Formaggio, Arte, del 1973, con il suo incipit – «arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte» – e l’esplicazione che segue poco dopo: «l’idea di artisticità […] si distende avanti a noi nei secoli come una semplice legge storica di raccolta e di connessione, di volta in volta diversa col variare del tempo e delle situazioni, ma diversa proprio per la diversità variabile dei contenuti. Come forma è vuota»26. Non è questo, del resto, il solo elemento di continuità tra la riflessione elaborata da Formaggio negli anni Cinquanta e quella dei decenni successivi. Il tema della correlazione 223

artisticità-esteticità resta sempre al centro della sua teoria, evolvendo nel progetto, da un lato, di una teoria generale della sensibilità che ponga al centro della sua attenzione il problema della corporeità, dall’altro di una scienza generale dell’arte, in modo tale da fare dell’estetica una sorta di «introduzione alle scienze umane». Ma è soprattutto al tema della tecnica che Formaggio rimane fedele, come testimonia, tra l’altro, l’importante saggio L’arte, il lavoro, le tecniche, della fine degli anni Settanta, in cui si ribadisce sia il carattere essenzialmente tecnico dell’arte sia il valore esemplare dell’artisticità per la tecnica in genere. Negli ultimi scritti viene sempre più chiaramente in luce quello che fin dall’inizio era stato un aspetto caratteristico della personalità prima ancora che della teoria di Formaggio, e che non può essere trascurato se si vuole cogliere l’intonazione complessiva della sua riflessione: ci riferiamo alla sua fiducia profonda nell’arte come possibilità di un riscatto umanistico della tecnica e come guida per una trasformazione complessiva delle condizioni sociali e lavorative dell’uomo. L’arte, come piena razionalità della tecnica, si oppone all’irrigidimento meccanico della tecnica scientifico-industriale, fa segno verso una possibile disalienazione dell’operare meccanico in cui sempre più ci sentiamo ristretti. A partire da un retroterra che recupera certi accenti utopici del marxismo, era questo, in fondo, il credo che aveva guidato Formaggio anche nelle sue prime assunzioni teoriche: la richiesta, e la speranza, che l’artisticità, come compiutezza interna della tecnica, potesse far crescere «tempi di organica armonia a tutti livelli dell’agire umano»27. Il problema della tecnica artistica, intesa in un’accezione più stretta di quanto accade in Formaggio, ossia come analisi specifica dei diversi mezzi espressivi, era al centro anche di un altro volume pubblicato agli inizi degli anni 224

Cinquanta da uno studioso che, pur non utilizzando una strumentazione husserliana, presenta molti punti di contatto con l’attitudine ‘fenomenologica’ che stiamo analizzando. L’autore è Gillo Dorfles (n. 1910) e il libro è il Discorso tecnico delle arti, apparso nel 1952, e che si proponeva di studiare i diversi linguaggi artistici appunto ‘tecnicamente’, «prescindendo dalle questioni che mirino a definire o unificare le diverse arti»28. Dorfles, insomma, si teneva lontano da una confutazione diretta di Croce (il libro apparve con una Prefazione di Flora), e non azzardava un nuovo Laocoonte, come poi farà della Volpe: egli ritiene altrettanto improponibile una riaffermazione dello ‘specifico’ delle varie arti – per esempio, una distinzione in arti dello spazio e arti del tempo – quanto il continuare a eludere il confronto con le particolarità espressive legate al mezzo in cui i concreti prodotti artistici prendono forma. Il Discorso si volgeva piuttosto allo studio di certe costanti formative che attraversano diversi linguaggi (ritmo, proporzione, prospettiva ecc.), ed esplicitando il «valore maieutico» che il mezzo espressivo riveste per l’artista finiva per occuparsi soprattutto dei rapporti, delle interferenze, delle sovrapposizioni fra le varie arti: pittura e musica, proporzioni armoniche, colore in architettura, valori fonico-musicali del linguaggio. Del resto Dorfles si dichiarava, con molte ragioni, convinto che tali interferenze sono tipiche dei periodi di crisi delle arti, e traeva gran parte del suo materiale proprio dall’analisi delle arti del Novecento. In seguito, Dorfles avrebbe fornito una quantità notevolissima di studi sia sulle tendenze artistiche contemporanee, sia su temi teorici (per esempio, alla fine degli anni Cinquanta, con Il divenire delle arti), sempre con il taglio ‘tecnico’ dell’indagatore acuto dei nuovi mezzi espressivi messi in campo dalla ricerca artistica. Ancora all’inizio dei Cinquanta, una fenomenologia 225

dell’arte fu abbozzata da un non-fenomenologo, lo studioso di letteratura greca Carlo Diano (1902-1974), nel saggio Forma ed evento (1952), e poi sviluppata nelle Linee per una fenomenologia dell’arte (1956). Ma in Diano il problema da cui muovere non era più quello della tecnica, quanto quello della processualità dell’arte di contro alla relativa immobilità dell’intuizione-immagine crociana. Le due categorie che reggono il discorso di Diano, la forma e l’evento (che per certi versi riprendono le polarità nietzschiane dell’apollineo e del dionisiaco), si oppongono anche come la spazialità e la temporalità. Ma a differenziarle è soprattutto l’origine, perché l’evento nasce in Oriente nella religione e nel mito, mentre la forma nasce, di colpo, con l’arte greca. E se la statuaria greca è come il paradigma della forma, l’arte non è mai solo forma, ma sempre anche evento: «L’arte non è cosa, è ‘opera’, e cioè cosa fatta, ed essa non è tale se non nell’atto in cui vien fatta»29. Il referente polemico era, ancora una volta, Croce, il Croce per il quale l’arte è «forma e nient’altro che forma». Al contrario, Diano ricordava che, se come forma l’arte tende all’intelletto e alla scienza (pura forma), come evento essa è sempre legata all’anima e alla religione (puro evento). Se Diano muove contro l’immagine crociana in nome della temporalità dell’evento, Guido Morpurgo-Tagliabue (1907-1997) nel volume Il concetto dello stile (1951) lo fa nel segno della figura. L’intuizione pura di Croce, che ha condizionato tutta l’estetica idealistica successiva, pretende di tenere assieme individualità e idealità, che sono invece antitetiche, e vi riesce solo perché identifica l’arte con l’immagine interna, non formulata, che è sempre vaga e tende a trapassare in un’emozione. Ma tale immagine non è l’arte, e non è nemmeno anteriore all’arte, anzi le è successiva. L’intuizione, per essere effettivamente determinata, individuale, deve estrinsecarsi, deve tradursi in 226

materia, deve farsi cosa, ma allora diventa oggetto di percezione, di apprensione sensibile: si fa figura. È la figura, ossia l’espressione esteriore, materiale, che tenderà poi a costituirsi in immagine, con ciò tuttavia superando l’aspetto strettamente estetico (in senso etimologico, come sensibilità), verso un significato culturale, emotivo, che Morpurgo denomina aspetto poetico o artistico. Dunque l’errore capitale dell’estetica crociana è quello di ridurre tutta l’arte a teoresi, mentre né l’arte è intuizione, né l’intuizione è teoretica. Non averlo riconosciuto ha comportato la svalutazione dell’aspetto tecnico dell’arte, che invece Morpurgo vuole recuperare, anche se preferisce parlare non di tecnica (che può essere anche puramente meccanica) ma di stile. Lo stile infatti riguarda bensì i modi della coscienza percettiva, ma non si esaurisce nella considerazione degli aspetti che noi chiamiamo formali dell’opera, anzi tende nell’accezione di Morpurgo a ricomprendere gli aspetti contenutistici30. Lo sforzo di Morpurgo, che in seguito sarà autore di molti importanti studi di taglio storiografico, nella sua opera teoreticamente più impegnata è quello di mostrare come tra l’aspetto estetico, tecnico e quello emotivo, culturale ci sia un passaggio ricostruibile, come gli schemi figurativi dalla parte dell’autore diventino dalla parte del fruitore emozioni, sentimenti: tuttavia, pur ribadendo che un’emozione estetica non è che un’emozione stilistica, e che con il momento patetico-ideale si è già al di là dell’arte, nella psicologia e nella cultura, la sua stilistica si traduce in un’analisi delle emozioni che l’arte suscita, finendo per risolvere il problema dell’arte in un problema di passioni. Con Enzo Paci (1911-1976) incontriamo un filosofo che non solo fu allievo di Banfi, ma accentuò molto, rispetto al maestro, il debito husserliano. Paci, con il suo esistenzialismo positivo e il suo ‘relazionismo’, è stato una 227

presenza importante nel discorso filosofico del dopoguerra, tra l’altro contribuendo, specie con la rivista «Aut-Aut», da lui fondata, a introdurre nel dibattito culturale italiano temi e autori della filosofia europea; in una storia dell’estetica, tuttavia, il suo ruolo rischia di apparire meno significativo, perché Paci, pur dimostrando una notevole attenzione per i problemi dell’arte, non l’ha mai tradotta «in una filosofia dell’arte per sé perseguita»31. Per intendere il carattere più proprio del metodo di Paci, allora, è utile richiamare, più che le non molte pagine da lui dedicate a temi di stretta teoria, i numerosi interventi su fenomeni artistici. Paci dimostra infatti una singolare capacità di evidenziare gli aspetti ‘filosofici’ insiti in molte esperienze dell’arte moderna, assieme a una notevole inclinazione a utilizzare nel discorso filosofico esempi e modelli tratti dal mondo dell’arte. Nascono così le pagine su fenomenologia, narrativa, romanzo, le analisi del teatro sulla base delle categorie del processo, della possibilità, della relazione, gli interventi sull’architettura contemporanea e suoi rapporti con il «mondo della vita», ma anche le belle letture di Rilke, di Eliot, di Mann. È soprattutto attraverso queste ultime che Paci fissa i temi centrali della sua estetica: il ruolo della fantasia; il carattere costruttivo, poietico dell’arte (a proposito di Valéry), e insieme il suo valore di verità, di ‘scoperta’ dell’essere autentico (Rilke, Proust). Gli scritti di Paci sulla musica, poi, troveranno subito un’eco nei lavori di Luigi Rognoni, un musicologo che utilizza metodi fenomenologici (Fenomenologia della musica radicale, 1965)32. Qualcosa di simile a quanto si è detto per Paci vale anche per l’antropologia filosofica di Remo Cantoni (1914-1978) che, se non si sviluppa in un’estetica organica, pure consente importanti osservazioni sul tema del tragico (Tragico e senso comune, 1963; Il senso del tragico e il piacere, 1978), e interessanti letture di scrittori come Dostoevskij e 228

Kafka. Infine, tra gli studiosi di provenienza banfiana andrà ricordato Giulio Preti (1911-1972), i cui interessi furono prevalentemente logico-epistemologici, ma che negli anni Sessanta, in alcuni scritti d’occasione, affrontò i temi della critica all’estetica in una prospettiva empiristica, da noi piuttosto inusuale, e destinata a essere sviluppata, con riferimento soprattutto alle arti contemporanee, da Migliorini (1924-1999). 4.2. L’estetica della formatività di Luigi Pareyson Tra i lavori che segnarono il rinnovamento postcrociano, l’Estetica di Luigi Pareyson (1918-1991), apparsa in volume nel 1954, è senz’altro il più sistematico. Si presenta anche esteriormente nella forma del trattato, che articola un’estetica compiuta, ma su presupposti decisamente diversi da quelli crociani, e nel quadro di una filosofia, un personalismo cristiano, ben consapevole della propria distanza dalla temperie idealistica della prima metà del secolo. Pareyson proveniva da studi sull’esistenzialismo e in particolare su Jaspers, e aveva pubblicato nel 1950 da un lato Esistenza e persona, dall’altro un’ampia indagine storica, ma fortemente impegnata teoreticamente, su L’estetica dell’idealismo tedesco, e lungo tutti gli anni Cinquanta e nella prima metà del decennio successivo avrebbe poi fornito una serie di importanti studi di storia dell’estetica. Lo scritto I problemi dell’estetica, edito in volume a sé del 1966 ma composto nel 1958, è una riesposizione della teoria dell’autore, meno comprensiva del trattato, ma che offre importanti approfondimenti su alcuni temi specifici. Teoria dell’arte, del 1965, raccoglie nella prima parte saggi precedenti o coevi alla stesura dell’Estetica, assai utili per precisare il rapporto con Croce, che non è affatto, pur nella diversità di fondo, un rifiuto pregiudiziale, e nella seconda parte alcune integrazioni che vanno dal 1955 al 229

1963. Le Conversazioni di estetica, pubblicate nel 1966, discutono alcuni punti particolari della teoria e rispondono ad alcune obiezioni, mentre il volume L’esperienza artistica (1974) raccoglie altri saggi storiografici su Aristotele, Vico, Goethe, Valéry. A partire dalla metà degli anni Sessanta Pareyson si volge sempre di più verso tematiche etiche e religiose, e sviluppa la propria teoria dell’interpretazione non più in direzione prevalentemente estetica, ma nel senso di una ‘ontologia ermeneutica’ e di una filosofia della libertà: anche i numerosi lavori su Dostoevskij, in parte raccolti postumi, hanno al centro non l’artista ma il pensatore che riflette sul male, sulla libertà, su Dio. Certo, sarebbe possibile mostrare che la filosofia del ‘secondo’ Pareyson non potrebbe svilupparsi senza la base della riflessione sull’arte del ‘primo’, e che anche dalle opere tarde si può ricavare materia per l’estetica, ma un’esposizione sommaria della teoria pareysoniana non può che basarsi sull’Estetica. Al centro di essa sta, fin dal titolo, la nozione di formatività. Questo termine vuole indicare ogni agire che non si limita a mettere in pratica regole prefissate, ad applicare procedure già predisposte, ma inventa la regola che deve applicare, trova da solo il modo di procedere. Formatività è un agire innovativo e costruttivo, un produrre che è invenzione, onde la formula nota coniata da Pareyson: «un fare che, mentre fa, inventa il modo di fare». Ora, una componente di formatività (potremmo dire di creatività, se Pareyson non evitasse accuratamente questo termine) è insita in ogni attività umana. Sulla scia di alcune considerazioni di Guzzo33, Pareyson vede tutta l’operosità umana come una produzione di forme: e la forma per lui è sempre individua e irripetibile. Ogni agire si compie in forme, anche l’agire morale, anche la conoscenza, perché in esse non si tratta mai di applicare meccanicamente un 230

procedimento, ma sempre di costruire, con una componente inventiva, il modo di procedere. Nella sottolineatura del carattere costruttivo della conoscenza, e quindi anche dell’intuizione, andrà ritrovato il punto di massima prossimità con il Croce dell’Estetica, assertore della natura espressiva, costruttiva, dell’intuire; ma da quel punto le strade divergono poi sensibilmente. A Pareyson, infatti, non è sufficiente notare la componente estetica del conoscere, perché non meno necessario gli sembra trovare la spiegazione della trascendenza dell’arte rispetto alla conoscenza. Se ovunque c’è formatività, ovvero esteticità, l’attività artistica andrà spiegata come una specificazione, una concentrazione, un’esibizione del tutto particolare dell’onnipresente formatività. Certamente, «l’arte […] non giungerebbe mai a definirsi come operazione specifica se l’intera vita spirituale non la contenesse e preparasse in qualche maniera, se l’intera esperienza non avesse essa stessa un carattere di esteticità», e «dalle tecniche più umili sino alle invenzioni più grandi, ovunque c’è esercizio di formatività»34, ma nell’arte la formatività è resa prevalente e intenzionale. Questo significa che l’arte come attività specifica e come operazione determinata è insieme identica e ulteriore rispetto alla formatività che inerisce a tutta la vita spirituale, perché «è quella stessa formatività, ma resa pura, intenzionale, fine a sé stessa»35. Nelle altre attività, nella conoscenza e nella moralità, la persona deve formare per poter pensare e agire, perché non si dà conoscenza e azione come semplice meccanicità e applicazione, mentre nell’arte il pensare e l’agire entrano bensì, ma solo per rendere possibile la formazione: l’invenzione e la produzione vengono esercitate «non per realizzare opere speculative o pratiche, ma solo per se stesse». L’arte si specifica così in un’operazione autonoma, assumendo «carattere esemplare e normativo»36. 231

Con queste determinazioni Pareyson segna subito la distanza che lo separa da Croce. Intanto, l’arte è sottratta alla teoresi, anche se con essa mantiene un legame essenziale, e riportata verso il fare, il produrre: «l’aver accentuato il carattere conoscitivo dell’arte […] ha contribuito a metterne in secondo piano l’aspetto più essenziale e fondamentale, ch’è quello esecutivo e realizzativo»37. L’arte ha carattere operativo e poietico. In secondo luogo, Pareyson è in grado di ripensare, a partire da questi presupposti, da un lato il problema cruciale in tante estetiche otto-novecentesche del rapporto di forma e contenuto nell’arte, dall’altro di rivendicare l’assoluta centralità della materia fisica nel processo artistico. Questi due aspetti sono strettamente connessi, tanto che si può partire utilmente dall’ultimo e da esso risalire al precedente. Se nell’arte la formatività deve esibirsi in modo puro, deve formare solo per formare, ne segue che essa non può essere che formazione di una materia esterna, plasmando la quale la formatività si svincola da ogni altra operazione specifica e si dà a vedere nella sua indipendenza. La bellezza artistica è sempre sensibile, perché è appunto la presenza di un elemento sensibile che rende possibile la specificazione dell’arte38. Ma allora l’arte è formazione di una materia, non formazione di un contenuto, ossia della personalità dell’artista, della sua spiritualità. Pareyson non vuole affatto negare che nell’arte spiritualità e materialità coincidano, che la fisicità si faccia portatrice di significati; vuole dire però che il mondo spirituale dell’artista non è presente nell’opera nella funzione di oggetto dell’espressione (il sentimento crociano), ma come soggetto formante. Il cosiddetto contenuto (il ‘mondo spirituale’) non è altro che il modo di formare una determinata materia. La personalità di un artista si esprime nella maniera che quell’artista ha di dar forma alla sua materia, è identica al suo stile. Considerare contenuto da 232

formare la personalità dell’artista significa vedere un «materiale da combustione» in quel che è piuttosto «il principio stesso della fiamma», l’energia formante, e significa porsi a considerare l’inseparabilità di forma e contenuto, così cara all’estetica idealistica, dal punto di vista del contenuto, non della forma, col risultato non solo di non riuscire più a comprendere la funzione della fisicità dell’opera, ma anche di non ottenere veramente quell’inseparabilità che si presume di fondare39. Identificare invece, con Pareyson, lo stile nella maniera di formare apre la strada a due corollari anti-crociani della massima importanza: da un lato non è più necessario ridurre la spiritualità che può entrare nell’arte al solo sentimento, potendo benissimo anche le componenti intellettuali esprimersi nell’attitudine formativa, dall’altro non è più obbligatorio considerare la fisicità materiale come estranea al vero processo artistico, mera comunicazione, perché al contrario è solo attraverso di essa che si manifesta quell’identità di forma e contenuto che è lo stile. Il principio della formatività porta con sé altre conseguenze importanti. Abbiamo visto che formatività è costruttività, significa porsi dinanzi a un compito che non può essere risolto semplicemente sussumendolo sotto una regola data, ma esige che la regola venga prodotta e inventata. Ma se questo è vero, allora il processo di rinvenimento della regola diventa essenziale: nell’opera conta bensì il risultato, ma il risultato non si coglie se lo si guarda solo come tale, facendo astrazione dalla via che si è percorsa per trovarlo: «Un fare che insieme inventi il modo di fare implica che si proceda per tentativi, e il buon esito di un’operazione di questo genere è, propriamente, una riuscita»40. Il formare è essenzialmente un tentare, dato che io non posso sapere a priori quale è la regola da applicare, ma devo costruirmela man mano che procedo. L’artista non 233

immagina compiutamente la sua opera, e poi procede a realizzarla, ma anzi «la delinea proprio mentre la fa», perché l’unica legge dell’arte è la regola individuale dell’opera. Le due ipotesi contrapposte, quella crociana per la quale l’invenzione precede in tutto l’esecuzione, sì che la forma è preesistente all’operare, e quella del filosofo francese Alain per cui l’invenzione si risolve interamente nell’esecuzione, sì che la forma non esiste che a operazione ultimata, rendono semplicemente impossibile comprendere il processo artistico, dato che per la prima l’esecuzione diventa superflua, per la seconda l’invenzione diventa inspiegabile. Occorre dunque vincere il pregiudizio in forza del quale nell’opera la forma c’è soltanto come formata, e prepararsi a comprendere come nell’arte agisca una vera e propria «anticipazione della forma futura»41. Di qui l’attenzione di Pareyson per i momenti del processo artistico, dallo spunto all’abbozzo all’opera, il suo interesse per gli antecedenti della forma compiuta; di qui, soprattutto, la costante raccomandazione a «rimettere in movimento l’apparente staticità della forma definitiva» mediante una considerazione dinamica dell’opera d’arte: la quale può giovarsi di una considerazione genetica, ossia di una ricostruzione della nascita dell’opera (come accade nella critica delle varianti), ma non coincide con essa, perché è sempre possibile in linea di principio, atteso che «la forma è il processo stesso giunto alla sua propria conclusione» e «si vieta di intender la forma chi la considera solo nella sua compiutezza, come se fosse creazione istantanea e improvvisa»42. La perfezione dell’opera d’arte è un perficere, ha una natura operativa e poietica. Certo, questa forma che nasce attraverso un cammino accidentato appare anche, una volta compiuta, come fatta nell’unico modo in cui poteva e doveva esser fatta, e sembra assumere la necessità interna del prodotto organico. L’artista agisce consapevolmente, la 234

vicenda della sua produzione esige un continuo intervento critico e dunque intellettuale (non per nulla tra i numi dell’estetica pareysoniana c’è Valéry). E tuttavia l’opera sembra anche svilupparsi come da un germe, crescere per vita propria, essa è «un organismo vivente […] dotato di una legalità interna»43. La preoccupazione che guida Pareyson in questi sviluppi è quella di chiarire come l’opera singola e irripetibile possa anche costituirsi in una funzione esemplare, darsi come generatrice di soluzioni stilistiche imitabili; ma certo tocchiamo qui uno dei punti di tensione del suo pensiero, giacché, se il rimprovero che egli muove al romanticismo è quello di compromettere la comprensione del carattere «tentativo» della formazione, è difficile negare proprio la provenienza romantica (e dunque la potenziale conflittualità con l’altro tema del carattere tentativo) della concezione organica dell’opera d’arte che gli è altrettanto cara, soprattutto attraverso la mediazione goethiana. Che tipo di conoscenza sarà adatta al processo costruttivo della forma, quale attività corrisponderà, dal lato della fruizione, all’incedere tentativo della produzione? La risposta di Pareyson apre la strada agli sviluppi non solo più interessanti, ma anche più originali e fecondi della sua filosofia, allorché egli afferma che la forma conoscitiva adeguata ai processi che sono in gioco nell’arte è l’interpretazione. Infatti l’interpretazione ha appunto carattere «produttivo e formativo». La corrispondenza e come specularità dei due lati è un punto centrale e decisivo della filosofia pareysoniana. L’interpretazione riprende il lavoro formativo che ha compiuto l’artista, e il suo processo è il rovescio di quello che abbiamo esaminato. Essa è attiva e personale, e, come nell’operare umano in genere, in essa recettività e attività sono indisgiungibili; non c’è mai pura passività, ma nemmeno pura creazione (ecco perché 235

Pareyson non parlerebbe di creatività a proposito della formatività), il dato è sempre elaborato, ma è sempre necessario. Nell’opinione comune si accentua il carattere soggettivo dell’interpretazione (la mia, la tua interpretazione), ma Pareyson invita a parlare non tanto di soggettività, quanto di personalità dell’interpretazione. Interpretazione è conoscenza di forme da parte di persone: «poiché l’uomo è persona e il suo operare è sempre diretto a forme, l’unica conoscenza di cui egli può disporre è precisamente l’interpretazione»44. Come la formatività non ha garanzie esterne, ma è ricerca costruttiva di una regola individuale, così l’interpretazione non può poggiare su regole oggettive, ma consiste in un processo di adeguazione sempre fallibile; e come la forma aveva carattere dinamico, mobile, così «solo con un movimento si può sperare di coglierla, solo rimettendola in movimento si può costringerla a rivelare la propria perfezione»45. Le opere d’arte si interpretano, cioè si eseguono: e questo vale per ogni tipo di opera, non solo per quelle nelle quali siamo abituati a parlare di esecuzione o interpretazione, come le arti musicali o il teatro. Leggere un’opera significa eseguirla, e tutte le opere si leggono, anche quelle figurative. Ed è sbagliato identificare l’esecuzione con la sola opera di mediazione dell’attore o dell’esecutore musicale, perché l’esecuzione è piuttosto decifrazione, mediazione e realizzazione insieme; e anche un’opera mediata da un esecutore deve essere in un certo senso rieseguita dal fruitore. Ora, se ci chiediamo perché ogni opera richieda esecuzione, la risposta non potrà a questo punto essere altra da questa: che l’opera deve essere eseguita perché è nata eseguita, nasce come realtà fisica plasmata attraverso un processo. Ma se l’esecuzione è congenita all’opera, eseguire non potrà voler dire aggiungere qualcosa all’opera, quasi che essa fosse incompiuta, anzi al contrario vorrà dire farla 236

vivere nella sua compiutezza. Tuttavia la coincidenza di opera e interpretazione va intesa come normativa e finale, non esclude la trascendenza dell’opera rispetto alle sue interpretazioni: la posizione di Pareyson è equidistante tra il dogmatismo di chi ritiene che esista un’unica interpretazione valida e l’estremismo di chi (come faceva Gentile o come fanno certi decostruzionisti) ritiene che l’opera si riduca alle sue interpretazioni. L’opera è norma della propria esecuzione, ma ciò nel senso che si deve vedere l’opera nell’atto di regolare la propria formazione: «La fedeltà è dovuta più all’opera in quanto formante che all’opera in quanto formata». L’interpretazione è infinita, sia dal lato dell’oggetto, perché l’opera è una realtà inesauribile, sia, il che è più ovvio, dal lato dell’interprete, perché essa è sempre personale. È parimenti assurdo richiedere all’interprete una chimerica fedeltà, quanto ricercare in lui soltanto l’originalità, posto che il dovere dell’interprete è invece la congenialità, e che l’opera parla a chi sa interrogarla entrando con essa in sintonia: «Non per il fatto d’essere personale l’interpretazione fallisce al suo scopo […]; perché anzi, quando si raggiunga la congenialità, non c’è nessun organo di conoscenza così acuto, penetrante e infallibile come la persona». All’interpretazione va anche ricondotto il giudizio sull’opera, poiché esso è presente già nella stessa lettura, e la valutazione è interna alla stessa esecuzione: il giudizio coincide con la rievocazione, non è successivo a essa: lettura, esecuzione e giudizio finiscono, in Pareyson, sostanzialmente per coincidere, e il giudizio critico consiste ancora una volta nel confronto tra l’opera e la sua intenzione, che già era di guida nell’attività dell’esecutore46. La teoria pareysoniana dell’interpretazione travalica dunque, già nella sua prima formulazione nell’Estetica, il campo specifico dell’arte, a ulteriore conferma della corrispondenza con la teoria della formatività, che riguarda 237

anch’essa l’intera esperienza e non solo il campo specifico dell’arte: si capisce dunque come essa potesse svilupparsi in seguito in una teoria compiuta dell’interpretazione, fino a proporsi come ontologia ermeneutica. Ma nel registrare questa circostanza, e nel verificare l’antecedenza delle proposte pareysoniane rispetto ad altre teorie ermeneutiche, per esempio a quella assai fortunata di Gadamer, non giova tanto insistere su questioni in fondo futili di precedenza cronologica, quanto semmai segnalare alcune cospicue diversità di orientamento. In primo luogo, e questo segna una lontananza marcata con la totalità delle altre estetiche di orientamento ermeneutico, inclini a declinarsi tutte sul lato della ricezione, l’estetica di Pareyson è una rigorosa estetica della produzione, specie tutto sommato rara nella storia dell’estetica (anche il lettore deve trovarsi, per Pareyson, in posizione analoga all’artista); in secondo luogo, a fronte dell’insistenza di altre teorie sulla produttività della distanza storica e di certi esiti irenici che reputano sempre possibile l’interpretazione, Pareyson accentua «il rischio permanente della incomprensione»47, se l’interpretazione è sempre minacciata dal fallimento e dallo scacco, sempre affidata al filo sottile della congenialità. È dunque in questi aspetti che si coglie meglio il legame profondo dell’estetica pareysoniana con l’esistenzialismo. Non bisogna dimenticare però che Pareyson volle rispondere ai problemi aperti dall’esistenzialismo con un personalismo cristiano; sotto questo aspetto la sua opera presenta alcuni punti di contatto con quella di un altro filosofo cattolico, Luigi Stefanini (1891-1956), che, soprattutto nell’ultima parte della sua vita, ha elaborato una compiuta estetica spiritualistica, consegnata ai volumi Problemi attuali dell’arte (1939), Metafisica dell’arte (1948), e alle trattazioni sistematiche dell’Estetica (1952) e del Trattato di Estetica (1955). Anche Stefanini critica le soluzioni 238

idealistiche a partire dal concetto di persona, ma in lui è ancora molto forte l’esigenza di affermare l’autonomia totale dell’opera d’arte, al punto che egli è spinto a teorizzare la poesia come «parola assoluta», nel senso che «in essa si chiude prestigiosamente il ciclo espressivo ed essa non attende alcunché di eccedente la sua definita consistenza e nulla significa oltre il significarsi in essa di un’anima»48, con ciò riapprossimandosi alle soluzioni dalle quali intendeva distanziarsi. Altri due pensatori nei quali l’esistenzialismo reagisce con lo spiritualismo cristiano, e la cui opera è significativa per l’estetica, sono Enrico Castelli Gattinara di Zubiena (1900-1977), autore di studi su Il demoniaco nell’arte e sulla filosofia dell’arte sacra, e Alberto Caracciolo (1918-1990), in cui, tuttavia, è nettamente avvertibile anche l’influenza crociana, e al quale si devono, oltre a importanti studi sull’estetica di Croce e di Kant, il volume Arte e linguaggio (1970) e quello, postumo, su Leopardi e il nichilismo (1994). Sul fronte della filosofia cattolica, infine, dovremo registrare l’Estetica di Oberti (1920-1975) e una Estetica pia (1966) di Teodorico Moretti-Costanzi (1912-1995). 4.3. L’estetica di Guido Calogero L’Estetica. Semantica. Istorica di Guido Calogero (19041986) apparve nel 1947 come terzo tomo delle sue Lezioni di Filosofia, ma era stata scritta diversi anni prima, e in condizioni difficili. L’autore stesso informa nell’Avvertenza di averla composta nel carcere fiorentino delle Murate, dove era stato rinchiuso per attività antifascista, tra il marzo e il giugno del 1942. Delle circostanze di elaborazione il testo conserva più di una traccia nell’assenza di note e discussioni particolareggiate di teorie, e nell’affidarsi spesso alle reminiscenze di opere di varie letterature, talora ampiamente discusse: cose che non sono affatto difetti ma 239

contribuiscono, assieme alla nitidezza dell’argomentazione, una costante degli scritti di Calogero, a fare di queste lezioni una lettura che non presuppone particolari attitudini specialistiche. Il gusto di Calogero ci può apparire oggi un po’ datato e ristretto: è un solido gusto classico e antidecadente, alimentato dalle letture degli amatissimi greci, pronto ad apprezzare Carducci e Maupassant ma sospettoso nei confronti di Proust e Kafka. Ma numerosissime altre notazioni critiche manifestano sobrietà, misura, eleganza. Le lezioni del 1947 costituiscono praticamente tutto quel che Calogero abbia composto su temi di estetica. I suoi esordi, infatti, furono di storico del pensiero greco e soprattutto della logica antica: e furono inizi straordinari per precocità e penetrazione (I fondamenti della logica aristotelica, 1927; Studi sull’eleatismo, 1932). Calogero proveniva da un orizzonte gentiliano, e, specie in campo gnoseologico, aveva sviluppato tematiche attualistiche. Quando affronta i problemi dell’estetica, tuttavia, queste sue origini sono ormai remote, e Gentile non compare mai come referente delle sue argomentazioni (la Filosofia dell’arte non è neppure citata), mentre il quadro di riferimento appare fornito, piuttosto, dall’estetica crociana, in accordo del resto con l’evoluzione complessiva del pensiero di Calogero, che già dalla fine degli anni Venti (e non solo per le intuibili motivazioni politiche) avverte sempre più necessario il confronto e il dialogo con Croce, pur nella diversità delle rispettive posizioni. Un punto capitale dell’Estetica calogeriana, tuttavia, sembra discendere direttamente dalle posizioni da lui elaborate in precedenza, il rifiuto netto di quello che abbiamo chiamato il teoreticismo dell’estetica crociana, ossia della tesi che l’arte sia un conoscere: Calogero respinge seccamente l’identificazione crociana di intuizione ed espressione, «madre di non pochi mali»49, e nega in ogni 240

modo che il rapporto tra immagine e sentimento possa essere inteso come un rapporto tra conoscente e conosciuto. Laddove per Croce l’intuizione, ogni intuizione, era arte, e l’arte diventava un’attività necessaria e presente in ognuno, per Calogero l’arte torna a essere un’evenienza contingente e saltuaria, riservata a pochi momenti eccezionali. L’arte, egli scrive riecheggiando una celebre espressione hegeliana, è «la domenica nella settimana della vita: e chi la scambia con i giorni feriali pecca contro lo spirito»50; il genio e il gusto, che Croce aveva identificati, tornano a essere due facoltà distinte. Ne deriva, per Calogero, la necessità di tenere separata l’arte da quella che egli denomina «esperienza estetica fondamentale». Quest’ultima viene descritta in termini che ricordano la concezione corrente del ‘disinteresse estetico’ kantiano, in quanto si ha esperienza estetica fondamentale quando dinanzi a un’immagine e al suo contenuto passionale non aderisco col desiderio e con il coinvolgimento diretto, ma attuo una sospensione del desiderio stesso; agli occhi di Calogero, tuttavia, quello che importa è però il fatto che tale distacco non basta ancora perché vi sia esperienza artistica. L’esperienza estetica fondamentale non consente né stabile obbiettivazione né vero e proprio giudizio: con l’arte si entra in un territorio diverso e separato. Calogero si rende conto che l’estetica è stata, in stagioni decisive della sua storia, per esempio nei suoi grandi inizi sei-settecenteschi, piuttosto una teoria dell’esperienza estetica fondamentale che una filosofia dell’arte; ma proprio perciò ritiene che in futuro l’estetica debba sempre più risolutamente puntare a essere teoria dell’esperienza artistica51. Ciò accade perché Calogero vuole soprattutto criticare la concezione crociana secondo la quale ciò che fa di un’opera d’arte un’opera d’arte è il suo essere «un complesso d’immagini e un sentimento che lo 241

anima»52: e da questo più particolare punto di vista quello che gli preme mettere in luce è che la semplice presenza di un contenuto passionale in un’immagine non è ancora sufficiente perché si possa parlare di esperienza artistica. Perché vi sia opera d’arte non basta un sentimentoimmagine: occorre piuttosto che un complesso di sentimenti-immagini entri in rapporto con un altro complesso di sentimenti-immagini, in modo che il peso patetico dell’uno risulti contenuto e indirizzato dal peso patetico dell’altro, e la sospensione del coinvolgimento passionale necessaria al costituirsi dell’esperienza estetica fondamentale possa diventare comunicabile e riproducibile: è necessario, insomma, che si attui quello che Calogero denomina equilibrio lirico. Prendiamo l’esempio che Calogero stesso fa utilizzando il notissimo Pianto antico di Carducci: né il dolore per la perdita del figlio bambino, con le sue immagini, né la sensazione del rifiorire della natura, con le altre immagini che essa porta con sé, danno l’opera d’arte, che è data invece dalla funzione di equilibramento che i due mondi di immagini-sentimenti esercitano reciprocamente l’uno sull’altro. Tutte le opere d’arte, per Calogero, sono casi di un raggiunto equilibrio lirico. Tutti gli esempi che Calogero cita sono tratti da poesie o da opere letterarie, ma egli non sarebbe disposto ad ammettere che la sua idea dell’equilibrio lirico riguardi solo le arti verbali. Essa concerne, a suo avviso, tutti i generi di espressione artistica, e le arti figurative non meno di quelle della parola. Tuttavia Calogero non condivide la tesi crociana dell’impossibilità di distinguere se non tecnicamente le varie arti: tutto al contrario, anzi, Calogero si mostra convinto assertore della distinguibilità delle arti, o per lo meno della loro suddivisione nelle tre grandi ripartizioni della poesia, della musica, e dell’arte figurativa. Alla base dell’articolazione calogeriana c’è il rifiuto di un 242

altro presupposto crociano, quello del carattere estetico del linguaggio. Si ricorderà che per Croce il linguaggio è, almeno categorialmente, riducibile al nesso intuitivoespressivo, mentre l’istituzione dei segni appartiene piuttosto a un’attività pratica che si esercita soltanto a partire dall’espressività originaria; per Calogero, invece, il linguaggio è essenzialmente comunicazione, eloquenza, oratoria, e viene prima della poesia: prima il linguaggiosegno, poi l’intuizione-sentimento e l’equilibrio lirico. Dunque l’arte non può essere considerata indistintamente come intuizione-espressione, ma va piuttosto compresa a partire dal gioco reciproco di tre elementi in luogo di due: accanto all’intuizione e all’espressione (per Calogero: commozione e raffigurazione), occorre tenere conto della significazione. Avremo così un’arte in cui si danno tutti e tre gli elementi (significazione, commozione, raffigurazione), quella verbale; una in cui si danno solo commozione e raffigurazione (l’arte figurativa), e una in cui si dà solo commozione e significazione (la musica). Dunque Calogero sostiene l’asemanticità dell’arte figurativa. Le immagini pittoriche non sono segni, perché il segno comporta inevitabilmente che il significante stia per qualcosa d’altro. Ma una mela dipinta non è un segno che stia per ‘mela’, è una mela, seppure dipinta. Per stabilire se un’arte è semantica o no, Calogero consiglia quella che chiama la «Prova di Pigmalione». Supponiamo di rendere reale quel che è raffigurato: se in questo modo diventa possibile una fruizione attiva e non più ‘disinteressata’ di quel che era rappresentato, allora saremo sicuri che l’arte in questione era asemantica53. In questo modo, l’estetica calogeriana provava troppo, cioè escludeva non solo, giustamente, che le arti figurative siano codici e utilizzino segni discreti come nel linguaggio verbale, ma anche che esse siano linguaggi simbolici, nei quali sono comunque 243

presenti convenzioni e stilizzazioni che richiedono in una certa misura di essere appresi, e così si toglieva la possibilità di agire proficuamente come antidoto preventivo nei confronti delle semiotiche delle arti figurative che avrebbero invaso il campo a partire dagli anni Sessanta. Difficoltà non minori Calogero incontrava nel caso della letteratura e della musica, che finivano per essere considerate pura espressione di sentimenti; ma più che saggiare l’accettabilità delle singole posizioni di Calogero, quello che interessa è il ruolo che egli ebbe nel rinnovamento post-crociano dell’estetica. E, da questo punto di vista, è necessario correggere subito un errore di prospettiva che potrebbe aver prodotto quello che abbiamo detto fin qui. Si è visto infatti come su molti punti fondamentali le posizioni calogeriane tendano a presentarsi come nettamente distinte e a volte antitetiche a quelle crociane. Calogero nega il carattere conoscitivo dell’arte, nega l’identità di intuizione-espressione, nega la riduzione della linguistica all’estetica, nega l’unità fondamentale delle arti. I teoremi basilari del crocianesimo sono tutti rovesciati. Molti dei temi intorno ai quali si coagulò il rinnovamento post-crociano sono dunque presenti in Calogero. Ma è sufficiente che dall’astratta considerazione delle soluzioni calogeriane si passi a valutare l’orizzonte problematico in cui esse prendono forma per comprendere come la distanza da Croce sia assai meno notevole di quello che pare a prima vista, e che di tutte le estetiche che stiamo esaminando in questo capitolo la calogeriana è quella che rimane più interna all’orizzonte crociano. In questo senso, avrà pure il suo peso il fatto che nessun teorico dell’estetica diverso da Croce (a parte la sortita aristotelica finale) sia mai discusso da Calogero e che, quando egli deve indicare una tradizione di pensiero a cui riallacciarsi, venga a citare Baumgarten, Vico, Kant, De Sanctis: ossia, precisamente, la 244

genealogia rivendicata da Croce. Le domande che Calogero si pone sono tutte e sempre domande crociane. È vero che egli respinge la teoria crociana dell’intuizione-espressione, ma questo ha per conseguenza una sostanziale accentuazione dell’altro polo dell’estetica di Croce, la tematica della liricità. Il rifiuto del carattere conoscitivo dell’arte e la concentrazione sul tema dell’equilibro lirico trasformano in definitiva l’estetica calogeriana in una glossa al problema tutto crociano del nesso immagine-sentimento. Calogero accetta in pieno il canone poesia-non poesia, la critica della retorica; il rifiuto della bellezza naturale, l’esclusione della tecnica artistica: sono i punti caratteristici del pensiero crociano più divulgato, che ritornano. È difficile sottrarsi all’impressione che Calogero riesca a marcare una qualche distanza soltanto rispetto alla prima forma dell’estetica crociana, mentre il suo dissenso da Croce si riduce a poca cosa se si misura lo scarto non sull’Estetica come scienza dell’espressione, ma su La poesia del 1936. Non è affatto un caso, insomma, che le discussioni suscitate dal volume calogeriano siano state soprattutto risposte da parte di teorici di orientamento crociano, i quali reagivano alle apostasie calogeriane difendendo le soluzioni ortodosse. Così l’esame delle teorie di Calogero tornava a essere un episodio tutto interno al crocianesimo; e si confermava una verità ricorrente nella storia del pensiero filosofico: che in esso, cioè, si dà vera novità non quando si offrono risposte nuove a vecchie domande, ma piuttosto quando nuove sono soprattutto le questioni alle quali si cerca una risposta. 4.4. I dialoghi sulle arti di Cesare Brandi Quando nel 1945 uscì la prima edizione del Carmine o della pittura di Cesare Brandi (1906-1988) il quasi ottantenne Croce fu il primo a recensirla, e non fu parco di 245

elogi, riconoscendo in essa un’opera «da raccomandare agli studiosi di teoria dell’arte così per le molte cose giuste e calzanti che dice come per lo spirito che l’anima». Queste lodi, tuttavia, erano funzionali a un’interpretazione che si sforzava di ridurre la teoria di Brandi a una semplice variazione sui temi consueti del crocianesimo: Croce metteva in luce i meriti dell’autore, ma al contempo cercava di ricondurlo nell’orbita dei propri pensieri, di farne un discepolo e un continuatore54. L’annessione crociana ci appare oggi certamente spiegabile, ma non condivisibile. Di fatto, anche se Brandi parla sempre con molto rispetto di Croce, ed evita di criticarlo esplicitamente, l’estetica brandiana non è affatto appiattita su quella del grande predecessore, e si configura piuttosto come la prima estetica post-crociana che sia apparsa in Italia, se con questo termine si indica non tanto una relazione cronologica, ma un atteggiamento mentale che, senza rifiutare di giovarsi di alcuni risultati crociani, pure si muove su linee proprie e si avvale di nuovi strumenti di ricerca. Anche se all’epoca della pubblicazione del primo testo brandiano di estetica non era facile avvedersene, mentre lo sarebbe stato sempre di più man mano che uscivano i saggi successivi del ciclo sulle arti (Arcadio o della scultura ed Eliante o dell’architettura apparvero in un unico volume nel 1956, il Celso o della poesia fu stampato l’anno seguente), gli autori ai quali Brandi faceva riferimento non erano nomi ovvi nel panorama italiano di quegli anni: in primo luogo Sartre, Husserl e Heidegger, ma poi soprattutto Kant, sottoposto a una rilettura destinata a rivelarsi tra le più originali e produttive. In seguito, nel descrivere la natura delle proprie ricerche, Brandi utilizzerà il termine ‘fenomenologia’, parlerà della sua prima opera come di una «fenomenologia della creazione artistica»55. Brandi giungeva però alla fenomenologia per vie totalmente diverse da quelle 246

percorse da Banfi e dai suoi allievi. La sua era una fenomenologia della creazione, dunque orientata verso la genesi, almeno ideale, dell’opera. Se Croce, come si è detto, vedeva nell’opera essenzialmente una riuscita, e non una ricerca, e dunque muoveva dall’espressione compiuta, Brandi scioglie l’identità di intuizione ed espressione e scandisce le tappe del processo artistico nelle due fasi della costituzione d’oggetto e della formulazione d’immagine (la prima antecedente alla seconda) con ciò rimettendo in movimento, dalla parte della produzione dell’opera, la fissità crociana. Così gli riusciva anche di recuperare il problema del rapporto tra immagine artistica e realtà esterna, troppo frettolosamente accantonato da Croce, senza imbattersi nella vieta soluzione mimetica. L’artista opera sull’immagine dell’oggetto una scelta, un’accentuazione di alcuni aspetti a danno di altri. Dove noi vediamo degli oggetti d’uso, definiti dalla loro funzione, egli percepirà dei rapporti spaziali (la profondità di un paiolo, la sporgenza di una tavola), o luminosi (il brillare diverso del metallo e della terracotta, il colore spento del legno); il rapporto con l’esistenza rimane nell’immagine solo come residua sostanza conoscitiva, ma non impedisce la calamitazione simbolica operata dalla selezione dell’artista. È sempre all’opera, in questa fase della creazione artistica, una dialettica tra positività e negatività, nel senso che si può andare da un’arte in cui è massima la presenza di dati conoscitivi, a una che riduce e cancella quasi del tutto questi dati stessi, pur senza arrivare mai ad annullarli. Se nel discorrere di costituzione d’oggetto Brandi muoveva da un ripensamento di alcuni snodi decisivi della pittura moderna, dal simbolismo al cubismo, come è confermato del resto dal fatto che la messa a punto della nuova terminologia avvenne nel transito tra due successive 247

stesure di un saggio dedicato a Morandi, la distinzione di una fase di formulazione d’immagine, quella in cui l’opera si fa esterna e si traduce in linee, volumi, colori, serviva all’autore per prendere le distanze da una teoria, quella purovisibilista, dalla quale pure aveva tratto per certi versi alimento. Brandi si rifiutava infatti di identificare lo stile con una serie di procedimenti astraibili esclusivamente dal secondo momento della genesi artistica, e mirava a sottolineare come costituzione e formulazione entrino del pari a definire quello che chiamiamo stile di un artista. Brandi si apparecchiava gli strumenti per una lettura rigorosamente formale, ma non formalistica dell’opera, scoprendo nello stile un modo di conoscere le cose, non un semplice ricettario desumibile dai caratteri dell’opera formulata56. Illustrando il cammino che l’artista percorre, Brandi ha sempre cura di mettere in luce come egli agisca estraendo l’immagine dal contesto pratico e affettivo in cui essa si trova, rescindendo i legami che l’avvincono agli altri aspetti dell’esperienza. L’oggetto è come retrocesso dalla vita. ‘Costituirlo’ vuol dire isolarlo dalla serie temporale in cui si iscrive, dallo spazio di cui fa parte, ridurlo ad apparenza, considerarlo al di fuori della connessione diretta con l’esistente. Per questo processo Brandi utilizza il termine fenomenologico di ‘riduzione’ o ‘neutralizzazione’, che trae da Husserl e che fa transitare, in accordo del resto con alcuni accenni husserliani in materia di estetica, dalla sfera teoretica a quella estetica. Costituire l’oggetto significa sottoporlo a un’epochè: «la realtà o, se preferisci, l’esistenza dell’oggetto è come messa fra parentesi»57. Di fronte a una natura morta di Caravaggio, o a un mostro dipinto da Bosch, si ha un senso vivissimo di realtà, non però di esistenza, e l’arte potrà essere designata come realtà pura. «La coscienza, che è intuizione e intelletto, può andare anche 248

oltre e depurare interamente la realtà dall’esistenza, porre cioè una realtà che non sia, come nell’incubo, una realtà che ha ancora carattere esistenziale, ma sia realtà solo se sicuramente, ineccepibilmente priva di esistenza»58. In questa determinazione dell’arte come realtà pura agiscono certamente delle componenti di gusto, che vanno nel senso di una sacralizzazione dell’arte; ma si sbaglierebbe ad accentuarne la portata sul piano teorico generale, ove sarà meglio attenersi al significato funzionale della nozione di realtà pura. Brandi non vuole fondare una religione dell’arte, quanto piuttosto sorprendere il luogo proprio dell’arte nel cammino della coscienza, e questo si vedrà sempre più chiaramente negli sviluppi successivi. Già il Carmine non può essere interpretato, nonostante le apparenze, come la teoria di un’arte determinata, la pittura; sebbene da essa tragga i suoi esempi, e sebbene nell’edizione inaugurale fosse accompagnato da due saggi applicativi su Duccio e Picasso, esso è in realtà un’estetica filosofica, che non si dirige a questo o quel territorio artistico ma piuttosto si sforza di comprendere la funzione dell’attività artistica in genere. Ma se questo è vero, i dialoghi successivi, intitolati alla scultura, all’architettura, alla poesia (Brandi ne progettò anche altri due, rispettivamente per la musica e il teatro, che però non scrisse) non andranno interpretati come estensioni o applicazioni della teorica prima stabilita. Brandi non applica la teoria del Carmine alle altre arti, ma piuttosto ripensa l’intera sua teoria in occasione di problemi determinati, risalendo da ogni nuovo contesto all’orizzonte teorico generale. Lo sforzo di approfondimento e riorganizzazione è massimo nel dialogo più esoterico di Brandi, quello dedicato alla poesia, il Celso. Qui la distanza da Croce è già prima facie notevole, perché Brandi rifiuta l’identificazione 249

di linguaggio e arte («La sintesi estetica? La sintesi estetica per chiamare un taxi?»59), riconosce la sua natura comunicativa, ed è pronto ad ammettere la preponderanza, in esso, di elementi schiettamente intellettuali. La parola è restia a produrre l’immagine, e perché questo avvenga è necessario «un urto, uno scarto, onde [la coscienza] si stacchi dal corso pacifico della banalità quotidiana, dall’attitudine pratica e intellettiva, per risalire alla sede prima della conoscenza»60. Che nella parola possa darsi la possibilità di evolvere da un lato verso il concetto empirico, privilegiando la sostanza conoscitiva, oppure dall’altro verso la pura figuratività dell’immagine, è spiegato da Brandi attraverso una riconsiderazione della dottrina kantiana dello schematismo (della quale colse acutamente, e tra i primi, la portata anche linguistica), in quanto lo schema è la radice di entrambi e al tempo stesso la mediazione tra i due. Lo schema è aperto da un lato verso l’immagine, dall’altro verso il concetto, e spiega il motivo per cui nella concettualità sviluppata, nel segno, permane pur sempre una traccia o un residuo della figuratività originaria, mentre nell’immagine alla quale giunge l’arte non è interamente abolito ogni legame col contenuto di conoscenza61. Il ripensamento della dottrina kantiana dello schematismo era messo a frutto anche nel dialogo sull’architettura (la stesura del Celso è anteriore a quella dell’Eliante), ove serviva a superare la difficoltà rappresentata dal fatto che l’architettura non sembra partire da un antecedente naturale sul quale possa operarsi la ‘riduzione’ o la ‘costituzione d’oggetto’. L’architettura, rispondeva Brandi, non muove dall’oggetto, ma dallo schema in cui si è fissato un bisogno pratico (quello di ripararsi, ad esempio), e come le altre arti evolve lo schema verso la figuratività. Queste messe a punto, che implicano poi una profonda riorganizzazione di tutto l’impianto teorico originario, 250

contribuiscono ad allontanare quei sospetti di estetismo e di religione dell’arte che alcune formule del Carmine, soprattutto se assunte isolatamente, sembravano autorizzare. L’arte non si configura più tanto come un dominio irriducibile, splendido nel suo isolamento, al quale si giunge con un salto, quanto piuttosto come l’esito possibile di un cammino che può portare anche, se mutano certe condizioni, alla conoscenza. Qualche anno più tardi, Brandi avrebbe poi impiegato la dottrina della «biforcazione originaria dell’immagine e del segno dal ceppo primo dello schema trascendentale» in uno dei suoi scritti più originali, il volume Segno e immagine, dove le usurpazioni dell’uno sull’altro vengono utilizzate come indici di valutazione di concreti fenomeni culturali e storici (il disegno infantile, la pittura bizantina, il manierismo), nella convinzione che «ogni qualvolta la distinzione strutturale fra segno e immagine si offusca, è sintomo di una grave alterazione, che, per così dire, minaccia e inceppa gli ingranaggi della civiltà»62. Nel corso degli anni Sessanta queste idee saranno utilizzate da Brandi, come vedremo, nel dibattito con le nuove teorie semiotiche, e il confronto porterà a una riesposizione della teoria, con una terminologia in parte diversa. Piuttosto che di realtà pura, Brandi parlerà di astanza per indicare la particolare forma di presenza realizzata dall’opera d’arte, distinta sia dalla flagranza dell’esistenza comune, sia dalla natura del segno, che viene attraversato alla volta di altro. Inoltre, egli affiancherà alla considerazione genetica dell’opera d’arte quella della ricezione dell’opera stessa, indicando in quest’ultima una delle polarità fondamentali dell’approccio all’arte, la seconda delle Due vie cui si intitolava un importante volume teorico del 1966. In esso, e nel successivo Teoria generale della critica (1974), nel quale riorganizzava l’esposizione di tutta la sua 251

teoria delle arti facendo i conti con la strumentazione semiotica, e offrendo quelle estensioni al teatro, alla danza e alla musica che erano mancate in precedenza, Brandi abbandona la forma dialogica per abbracciare quella consueta del saggio e del trattato. In effetti, la scelta di affidare ai dialoghi del ciclo Elicona la prima forma della sua estetica aveva contribuito a creare intorno a quelle opere brandiane un’aura di spaesamento, un’impressione di ricercatezza e di eleganza un po’ fuori moda, laddove il Brandi dei due decenni successivi sarà sempre vivamente coinvolto nel dibattito culturale. Ma anche l’isolamento, per certi versi innegabile, in cui versarono a lungo le sue prime opere di estetica non va enfatizzato, perché Brandi, a partire almeno dagli anni Quaranta, ebbe un ruolo di primo piano nel dibattito artistico. Non bisogna dimenticare infatti che egli fu soprattutto un critico e uno storico dell’arte. Mentre componeva i suoi dialoghi, Brandi pubblicava importanti lavori sulla pittura del Tre e Quattrocento, seguiva gli sviluppi dell’arte contemporanea e fondava l’Istituto Centrale del Restauro a Roma, che dirigerà per molti anni. E su queste direttrici dei suoi interessi si sarebbero poi addensate, nel corso degli anni, moltissime altre opere, dai lavori su Giotto fino al Disegno della pittura italiana, dagli studi su Manzù fino agli Scritti sull’arte contemporanea, dagli interventi sui problemi teorici e pratici del restauro fino al fondamentale Teoria del restauro del 1962. Anche nel campo della storia dell’architettura Brandi darà alcuni contributi straordinari, come i saggi di Struttura e architettura o il volume sulla Prima architettura barocca. Quest’attività di critico e storico dell’arte non va mai dimenticata quando si studia la sua teoria estetica, perché il tratto più inconfondibile di Brandi è proprio lo strettissimo legame che si crea in lui tra teoria ed esperienza dell’arte63. Proprio qui troviamo raccolti insieme i motivi 252

della sua inattualità e della sua importanza nella situazione presente. In tempi in cui la critica d’arte sembra stretta nell’alternativa tra la supponenza dei puri conoscitori e l’erudizione talora estrinseca degli iconologi, l’altissima capacità brandiana di lettura dell’opera d’arte incarna il modello stesso del critico-filosofo, la specie più rara nel panorama odierno, e dunque quella della quale, nell’attuale congiuntura culturale, massimamente si avverte il bisogno. 4.5. Galvano della Volpe e l’estetica marxista Prima del 1945 l’estetica di orientamento marxista in Italia semplicemente non è esistita. Il ricco dibattito teorico sul marxismo che si sviluppò nell’ultimo decennio dell’Ottocento, e al quale presero viva parte Gentile e Croce, verteva sull’economia e la filosofia del marxismo, non certo sulla sua estetica (che del resto, anche sul piano europeo, non si saprebbe bene in cosa far consistere a questa altezza cronologica, a parte qualche saggio di Mehring e Plechanov); il più acuto marxista italiano, Labriola, non aveva alcun interesse per le questioni estetiche, che abbandonava tutte, con scetticismo e dunque senza rimpianti, all’amico Croce. E quando, negli anni Venti del Novecento, qualcosa come un’estetica marxista cominciò a prendere forma all’estero, soprattutto nella Russia sovietica e in Germania, nulla ne trapelò in Italia, per ovvi motivi. Per motivi altrettanto intuibili, la situazione mutò radicalmente con la fine della guerra, quando da parte di molti intellettuali che avevano aderito al marxismo si cominciò ad avanzare l’esigenza che anche gli studi artistico-letterari tenessero conto degli orientamenti complessivi delle teorie marxiste. Al problema fu data una risposta innanzi tutto da quei critici della ‘sinistra crociana’, come Russo o Sapegno, che già in precedenza avevano manifestato insofferenza verso il ‘purismo’ dello storicismo 253

crociano in ambito letterario; si sviluppò così un orientamento di critica, per il quale andranno fatti innanzi tutto i nomi di Alicata, di Salinari e di Muscetta, nel quale una sostanziale adesione a un certo modo crociano di intendere la critica si univa alla ricerca di un legame più stretto tra i fenomeni letterari e quelli sociali, propiziato da un richiamo a De Sanctis in funzione di correttivo dello storicismo crociano. È su questa base che si innestò, a partire dal 1948, l’azione prodotta dalla pubblicazione dei Quaderni del carcere di Gramsci. Si trattava di un’amplissima serie di note, scritte durante la detenzione, tra il 1929 e il 1935, su vari aspetti della vita culturale, politica, sociale dell’Italia, che dopo la guerra furono riunite per temi e pubblicate in sei volumi. I criteri filologici dell’edizione non erano impeccabili, ma l’organizzazione per argomenti favorì la diffusione delle idee gramsciane, le quali si incontravano in molti punti con le tendenze cui abbiamo accennato. Gramsci non rompeva con la tradizione idealistica crociana, che si proponeva piuttosto di correggere e integrare con una maggiore attenzione verso la funzione e i condizionamenti sociali della letteratura, proponendo un ideale di arte «nazionale-popolare» e richiamandosi, anch’egli, a De Sanctis, la cui critica veniva definita «il tipo di critica letteraria propria della filosofia della prassi»64. Di lì a poco, un altro autore sarebbe intervenuto massicciamente nella discussione dei critici marxisti. Si trattava di Lukács, del quale furono tradotte in rapida successione, tra il 1949 e il 1955, molte opere del ‘secondo’ periodo, nella cui diffusione ebbe un ruolo di primo piano Cesare Cases. Chi riconsideri oggi quel periodo e quelle certezze, destinate a incrinarsi solo a partire dal 1956, non fatica certo molto a vederne i limiti e le distorsioni. Il dibattito restò a lungo impaniato in pochi temi obbligati, dall’impegno del 254

letterato alla questione del ‘realismo’, affrontati a partire da un’immagine della società italiana che le trasformazioni in corso nell’economia si sarebbero incaricate di rendere di lì a poco obsoleta. Un mediocre romanzo di Pratolini poteva suscitare una discussione senza fine, mentre la prospettiva gramsciana e quella lukacsiana si alleavano nel perpetuare la diffidenza verso la grande arte ‘borghese’ del Novecento europeo e il sospetto verso tutto quel che fosse in odore di ‘decadentismo’. Né è difficile scorgere come le voci più interessanti in questo ambito siano state quelle dei marxisti ‘eretici’, dagli scritti di Fortini degli anni Cinquanta alla durissima requisitoria contro il ‘populismo’ nella letteratura italiana che sarà pronunziata da Asor Rosa con Scrittori e popolo, che nel 1965 indicava proprio in Gramsci colui che aveva fornito un’«ideologia unitaria» all’atteggiamento provinciale costante nella nostra letteratura. Ma, se insistere sui limiti della critica di orientamento marxista nel secondo dopoguerra sarebbe oggi sfondare una porta già aperta65, più necessario risulta notare che, a fronte di una discussione metodologica persino ipertrofica, le acquisizioni propriamente teoriche sono rimaste ben scarse. C’è stato, negli ultimi anni, un imprevedibile ritorno di interesse per le teorie di Gramsci sulla letteratura e le arti. Tale ritorno non è avvenuto in Italia, ma piuttosto negli Stati Uniti, dove gli orientamenti riassumibili sotto l’etichetta dei Cultural Studies hanno visto nelle analisi di Gramsci sui concetti di ‘egemonia’, di cultura ‘nazionalpopolare’ degli strumenti assai utili per comprendere la funzione sociale e ideologica delle arti66. Ma questa riutilizzazione di Gramsci (passata quasi inosservata da noi) si spiega con l’orientamento prevalentemente sociologico dei Cultural Studies. Senza nulla togliere all’importanza delle idee di Gramsci in questo campo, bisogna però dire che di estetica teorica, in lui, ce n’è ben poca, e quasi tutta 255

dipendente da quella crociana. Non c’è in Gramsci, come non vi fu nei critici del crocio-marxismo, che intesero correggere la critica crociana, magari accentuando gli aspetti più discutibili delle due tradizioni; e la ricezione di Lukács non diede frutti autonomi sul piano dei principi. Chi va in cerca di un’autentica estetica marxista negli anni Cinquanta non trova quasi nulla, se si escludono alcuni tentativi riguardanti l’estetica cinematografica (gli scritti di Barbaro e in particolare il volume Il film e il risarcimento marxista dell’arte) e gli ultimi saggi di Banfi. La possibilità di parlare di un’autentica estetica marxista rimane affidata, insomma, all’esame dell’opera del più originale tra i filosofi marxisti italiani, ossia Galvano della Volpe (1896-1968), ed è a lui che dobbiamo rivolgerci. Della Volpe aveva esordito nell’ambito dell’attualismo; la sua adesione al marxismo avvenne negli ultimi anni della guerra, e si tradusse poi in un profondo ripensamento delle basi filosofiche delle teorie marxiane, che fa di lui una delle figure più innovative del marxismo novecentesco anche sul piano europeo. Contro la tradizione storicista da Labriola a Gramsci, da un lato, e contro il ‘materialismo dialettico’, dall’altro, della Volpe leggeva Marx come ‘scienziato sociale’, «Galilei del mondo morale», staccandolo fortemente da Hegel e sforzandosi di enucleare in lui una «dialettica scientifica». Già nella fase pre-marxista della Volpe si era occupato di estetica, con i Fondamenti di una teoria dell’espressione del 1936 e la Crisi critica dell’estetica romantica del 1941. Ma la problematica caratteristica dell’estetica di della Volpe comincia a essere istituita solo negli scritti del dopoguerra, con la nota sui Problemi di un’estetica scientifica contenuta nella Logica del 1950, con gli interventi raccolti nel ’54 nel Verosimile filmico, e soprattutto con l’Introduzione a una poetica aristotelica che apre la Poetica del Cinquecento, dello stesso anno, e il saggio Discorso poetico e 256

discorso scientifico, del 1956. Anche la portata di questi interventi, tuttavia, si coglie appieno solo nella sistematizzazione degli spunti in essi contenuti, che della Volpe compie nella formulazione più organica della sua estetica, il volume Critica del gusto che, apparso nel 1960, ampliato nel ’64 e ancora nel ’66, è non solo lo scritto di estetica più significativo di della Volpe, ma anche uno dei più letti e discussi del dibattito post-crociano. Il punto di avvio della Critica del gusto è l’attacco alla concezione crociana dell’arte come intuizione pura, immagine priva di elementi intellettuali. Contro di essa della Volpe non si limita a rivendicare la possibilità che nell’arte entri anche l’intelletto, ma, ribaltando una certezza condivisa ben oltre Croce, e divenuta quasi luogo comune, sostiene che tra arte e scienza non c’è alcuna differenza categoriale, alcuna diversità negli ‘ingredienti’ costituitivi, che sono, per la prima come per la seconda, il molteplice sensibile e il concetto che lo unifica: «la poesia, e l’arte in genere, è ragione (concreta), come la storia o la scienza e in questo non differisce affatto dalla storia e scienza in genere»67. Come si parla di immaginazione in uno storico, così si può parlare tranquillamente di razionalità o discorsività della poesia, se è vero che quel che dà forma alle immagini è sempre il pensiero e l’intelletto. Anche il poeta deve ragionare «nel senso letterale del termine». La poesia è discorso, e, come ogni discorso, fa capo sempre a complessi logico-intuitivi, a immagini-concetti: «l’intelletto […] è a casa sua nel mondo poetico come nel mondo prosaico di tutti i giorni»68. Chiarezza intellettuale e icasticità dell’immagine vanno di conserva, come della Volpe cerca di dimostrare sia con una serie di analisi di opere letterarie antiche e moderne, che occupa gran parte del primo capitolo, sia riprendendo le osservazioni sulla metafora già avanzate nella Poetica del Cinquecento. La metafora non è 257

affatto un nesso fantastico, come vollero Vico e Croce, ma è frutto sempre del lavoro dell’intelletto che trova nessi, somiglianze di dissimili, generi, e insomma ragionamenti. Parlare di ‘universali fantastici’, come faceva Vico, è contraddittorio, perché solo il concetto può dare l’universalità. Al di là di queste argomentazioni, comunque, la natura intellettuale della poesia discende in della Volpe quasi automaticamente dall’assioma, ritenuto indubitabile, dell’identità di pensiero e linguaggio, questa «scoperta romantica», che i romantici hanno frainteso scambiando l’immediatezza semantica con quella dell’immagine pura. Ma se tra la scienza e l’arte non si può operare alcuna differenziazione categoriale, se le loro componenti sono le medesime, come potremo continuare a distinguerle? La risposta di della Volpe è che la differenza tra poesia e scienza non è una differenza di forme spirituali, ma una differenza puramente tecnica, una differenza relativa al modo in cui si organizzano i rispettivi discorsi. La verità che ci viene data dalla poesia è «un processo interno ai testi», laddove il testo filosofico o scientifico «deve essere assunto in relazione di interdipendenza per lo meno con molti altri testi-contesti precedenti». Il ‘discorso’ poetico risulta consegnato e imprigionato in se stesso, è semanticità organica, autonoma; il testo scientifico forma un’ininterrotta catena e trapassa continuamente in altri testi: è eteronomo. Della Volpe distingue la contestualità organica dell’opera d’arte dalla onnicontestualità dell’opera di scienza, ed entrambe dalla onnitestualità del discorso comune, che sta loro alla base. E se quest’ultima è il luogo dell’equivoco, del termine non fissato e rigorosamente definito, la scienza è il luogo dell’univoco, in cui i generi devono avere un nome solo, mentre la poesia sarà il luogo del polisenso, cioè di quel «di più di senso», di quella «pluralità aggiuntiva di significati», che un contesto organico, chiuso, apporta rispetto ai valori 258

onnitestuali, la cui testualità è puramente casuale. Ne derivavano alcune conseguenze impegnative, che contrastano convinzioni largamente condivise. Intanto, l’aspetto ‘musicale’ della poesia viene completamente svalutato: sono i valori semantici a fare la poesia, non l’immagine-suono, questa «dissipazione sensuale del rigore razionale-critico della poesia come discorso polisenso». Coerentemente, la poesia si può sempre tradurre, intraducibile risultando soltanto l’eufonia, priva di valore. Non solo: le traduzioni migliori sono quelle in prosa, perché l’importante è restare fedeli al polisenso dell’originale. E, soprattutto, il compito e lo strumento della critica letteraria veniva additato nella parafrasi critica che riformulando il testo poetico nei termini del discorso comune scandaglia lo scarto che separa i due. Compito del critico di poesia è capire a quale tipo appartengano i valori semantici di un testo, per passare poi a ricostruire la genesi dell’eventuale polisemia da e oltre il discorso comune, esercizio di cui la parafrasi incarna il procedimento69. Nell’impianto della propria estetica «semantica», e nell’argomentazione di questi corollari, della Volpe si appoggiava esplicitamente, di contro alla «linguistica romantica e idealistica», da Humboldt a Croce, alla nuova «linguistica scientifica», e in particolare al Cours de linguistique générale di de Saussure e alla glossematica di Hjelmslev. Si trattava di autori che di lì a poco avrebbero attratto grandissima attenzione in campo critico-letterario e semiotico, ma, negli anni in cui della Volpe elaborava le proprie idee, ancora poco conosciuti in Italia persino in ambito specialistico. Anticipando l’orientamento linguistico della critica degli anni Sessanta, e mettendo in circolazione ampia gli autori più significativi della glottologia europea, della Volpe dava mano indubbiamente a un’opera propulsiva; ma qui, al tempo stesso, 259

cominciavano a evidenziarsi i limiti della sua operazione. Della Volpe, come è stato mostrato70, fraintendeva in più punti il pensiero di Hjelmslev e Saussure, per esempio proprio a proposito del teorema capitale dell’arbitrarietà del segno, da lui intesa come mera convenzionalità (solo così si può spiegare la persuasione che, una volta ignorata la scorza fonica, i valori semantici siano sempre traducibili). I problemi più grossi si annidavano però altrove. Anche senza spingersi a osservare che, tolta ogni distinzione di natura o essenza tra arte e scienza, resta da comprendere perché continuiamo ad aver bisogno della prima accanto alla seconda, si potrà dire, mantenendosi sul piano ‘tecnico’, che l’opera d’arte non appare meno intertestuale dell’onnitestuale, e che si può continuare a proclamarne l’«autonomia» e l’«aseità» solo sorvolando sui legami intensissimi che le opere d’arte intrecciano tra di loro. E si potrà dire che lo strumento della parafrasi servirà nel migliore dei casi a segnalare lo scarto tra equivoco e polisenso, salvo cedere quando si tratti di argomentare ed esprimere questo scarto stesso. Più in generale, era nella pietra angolare della costruzione dellavolpiana, nell’idea dell’organicità semantica come vero distintivo tra scienza e arte che si concentravano le tensioni. Come si vide quasi subito, privilegiare la ‘chiusura’ sull’‘apertura’ dei testi era ancora una scelta prescrittiva, correlabile a un orientamento di poetica71; e questa scelta si inscriveva in un quadro di riferimento il cui lessico, fatto di «natura», «organismi», «crescite» e addirittura di «membra» che hanno il loro «cuore» nell’indissolubile compagine del testo, evocava una mitologia ben lontana da quella tutta ‘scientifica’ cara all’autore, e prossima piuttosto alle aborrite scaturigini dell’estetica ‘metafisica’. Al fondo di una polemica tanto lunga quanto aspra, era ancora uno strumento, o almeno un linguaggio, romantico (l’arte come organismo!), quello che 260

della Volpe puntava, come arma, contro il romanticismo medesimo. I limiti della costruzione della Critica del gusto si facevano sentire soprattutto nella terza parte, il Laocoonte 1960, un ambizioso tentativo di estendere i risultati raggiunti in sede di analisi del discorso poetico a tutte le arti. Della Volpe, qui, dava per scontato che la pittura, la poesia, la musica ecc. si servissero di segni che, per quanto privi di alcuni caratteri di quello linguistico, appunto segni rimanevano, consentendo di parlare di organicità e soprattutto di intellettualità anche per le arti figurativo-musicali. Della Volpe concedeva che «il pensiero è costretto ad adeguare se stesso alla specifica natura e relativi limiti del segno», ma usava questa ammissione per riproporre una curiosa riedizione del tema lessinghiano, che non solo riabilitava l’idea di uno specifico delle arti, ma finiva per dar corpo a un’inaccettabile graduatoria dei mezzi espressivi. La Critica del gusto riteneva possibile una «gerarchia dei valori espressivi che ha la sua ragione, difficilmente contestabile, nell’uso più o meno integrale dei caratteri strutturali» del singolo linguaggio artistico. Ecco allora il bassorilievo come ibrido di pittura e scultura, e quindi manchevole; ecco la danza come «arte minore», e perfino la musica vocale come «genere impuro», fino al cinema che non è più vero cinema se punta sul parlato e sul colore72. Fino a che punto tutto questo aveva a che fare con l’estetica marxista, che l’autore prometteva e annunciava nella Prefazione? Della Volpe era del parere che proprio il riconoscimento del carattere intellettuale dell’arte aprisse la strada a una sua lettura sociologica corretta e dunque a un’estetica in accordo con i principi marxiani73. Ma nel corso dell’opera questa sicurezza sembra incrinarsi alquanto, e altri sono i temi che vengono in primo piano, a cominciare da quelli della strumentazione tecnico261

linguistica. L’estetica di della Volpe non è un’estetica marxista, perché gli strumenti che impiega non sono né esclusivi né propri del marxismo. Il suo contributo all’‘estetica marxista’ italiana è, paradossalmente, tutto distruttivo: consiste, cioè, nell’aver mostrato quanto di insostenibile, di tradizionale, di poco pensato c’era nelle problematiche correnti dell’impegno, del realismo, del rispecchiamento; nell’avere tolto terreno ai progetti del crocio-marxismo e dei lukacsiani: da questo punto di vista non ha errato chi ha avvicinato gli effetti dell’opera teorica di della Volpe a quelli di Scrittori e popolo di Asor Rosa. Che poi noi ascriviamo qui a merito di della Volpe l’aver mostrato l’inconsistenza di tendenze e orientamenti ai quali in apertura di paragrafo avevamo riconosciuto ben scarso spessore non sembri contraddittorio, essendo chiaro che la nostra valutazione retrospettiva è stata resa possibile proprio, tra l’altro, dalla riflessione dellavolpiana. Appartiene all’infelicità del filosofo, in fondo, il fatto che spesso il solo frutto che egli possa rivendicare alla sua opera sia quello di aver dimostrato che quanto fedi e ideologie trattavano come cosa salda erano soltanto ombre evanescenti. Note 1

Per N. Abbagnano (1901-1990) sono importanti i saggi di argomento estetico raccolti in Possibilità e libertà, Taylor, Torino 1956; nel volume di F. Battaglia (1902-1977) Il valore estetico, Morcelliana, Brescia 1963, il cap. IV, sulla classificazione delle arti. 2 A. Russi, L’arte e le arti, Nistri-Lischi, Pisa 1960 (ma la prima ed. del saggio che dà il nome al volume è del ’47). 3 Per W. Binni cfr. La poetica del decadentismo italiano, Sansoni, Firenze 1936; Poetica, critica e storia letteraria, Laterza, Bari 1963. 4 Sono parole tratte dalla Annotazione premessa da Anceschi alla riedizione del 1959 di Autonomia ed eteronomia dell’arte; nella ed. Garzanti, Milano 1976, p. XIX. 5 L. Anceschi, Intenzioni, 1976, premesso alla riedizione citata, p. VI. 6 L. Anceschi, Prefazione alla seconda ed. dei Lirici Nuovi, Mursia, Milano 1964.

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L. Anceschi, Gli specchi della poesia, Einaudi, Torino 1989, p. 6. L. Anceschi, Il caos, il metodo. Primi lineamenti di una nuova estetica fenomenologica, Tempi Moderni, Napoli 1981, p. 23. 9 L. Anceschi, Che cos’è la poesia?, CLUEB, Bologna 1982, pp. 87, 124; Id., Gli specchi cit., pp. 176, 144, 166-167. 10 L. Anceschi, Progetto di una sistematica dell’arte, Mursia, Milano 1962; Id., Fenomenologia della critica, Patron, Bologna 1966; Id., Le istituzioni della poesia, Bompiani, Milano 1968; Id., Il caos, il metodo cit.; Id., Che cos’è la poesia? cit.; Id., Cinque lezioni sulle istituzioni letterarie, Guerini e Associati, Milano 1988; Id., Gli specchi e la poesia cit. 11 Anceschi, Che cos’è la poesia? cit., pp. 85, 89. 12 Per la nozione di poetica si vedano di Anceschi Progetto cit., pp. 49-64; Il caos, il metodo cit., pp. 33-93; Che cos’è la poesia? cit., passim; Gli specchi cit., pp. 24-66. 13 Anceschi, Le istituzioni della poesia cit., pp. 20, 47, 28 sgg. Sulle istituzioni, oltre al volume che da esse prende il nome, si vedano: L. Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia, Paravia, Torino 1973, pp. 232 sgg.; Id., Gli specchi cit., pp. 6797. 14 L. Anceschi, Dei generi letterari, in Id., Progetto cit., pp. 65 sgg. 15 Cfr. Anceschi, Fenomenologia della critica cit., passim, e Id., Gli specchi cit., pp. 96-184. 16 Si vedano in particolare: Anceschi, Progetto cit., pp. 161-185; Id., Gli specchi cit., pp. 58 sgg., 85-94, 188. 17 Anceschi, Progetto cit., p. 182. Si vedano anche Id., Fenomenologia della critica cit., pp. 147-152; Id., Il caos, il metodo cit., pp. 152-153. 18 Cfr. Anceschi Gli specchi cit., p. 194. 19 Si veda, sempre negli Specchi, la discussione con E. Garroni alle pp. 161-162. 20 D. Formaggio, Fenomenologia della tecnica artistica (1953), Pratiche, Parma 19782, p. 151. 21 Ivi, pp. 270, 275. 22 D. Formaggio, L’arte, il lavoro, le tecniche, in D. Formaggio e M. Dufrenne, Trattato di estetica, Mondadori, Milano 1981, p. 150. 23 D. Formaggio, L’idea di artisticità, Ceschina, Milano 1962, pp. 223, 334, 224-226. 24 Particolarmente indicativo in questo senso è lo scritto del 1967 D. Formaggio, Introduzione all’estetica come scienza filosofica, ora in Id., Problemi di estetica, Aesthetica, Palermo 1991, pp. 129-151. 25 Cfr. U. Eco, Il problema della definizione generale dell’arte, ora in Id., La definizione dell’arte, Garzanti, Milano 1978, pp. 129-159. 26 D. Formaggio, Arte, Mondadori, Milano 19813, pp. 11-12. 27 Formaggio, Fenomenologia della tecnica artistica cit., p. 136. Questi aspetti 8

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‘utopici’ e ‘politici’ dell’estetica di Formaggio sono ben sottolineati da G. Scaramuzza nella sua Prefazione (1978) al volume. 28 G. Dorfles, Discorso tecnico delle arti, Nistri-Lischi, Pisa 1952, p. 18. 29 C. Diano, Linee per una fenomenologia dell’arte, Neri Pozza, Vicenza 1952, p. 51. 30 G. Morpurgo-Tagliabue, Il concetto dello stile, Bocca, Milano 1951, p. 331. 31 G. Scaramuzza, Arte e filosofia nel pensiero di E. Paci, in L’estetica italiana del Novecento, a cura di G. Marchianò, Tempi Moderni, Napoli 1993, pp. 595-616. 32 Gli scritti di Paci cui si fa riferimento sono quasi tutti ricompresi in E. Paci, Relazioni e significati, 3 voll., Lampugnani Nigri, Milano 1966. 33 Augusto Guzzo (1894-1986) si è occupato di critica letteraria e musicale nel suo primo periodo (Studi di arte religiosa, 1932); il rapporto con Pareyson è complesso, perché se Pareyson fu influenzato dalle precedenti opere teoretiche ed etiche di Guzzo, è vero però che il volume pubblicato da Guzzo su L’arte (Edizioni di Filosofia, Torino 1962) mostra più di un debito con l’estetica di Pareyson. 34 L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Sansoni, Firenze 1974, pp. 1819. 35 L. Pareyson, Teoria dell’arte, Marzorati, Milano 1965, p. 86. 36 Ivi, p. 86; L. Pareyson, Conversazioni di estetica, Mursia, Milano 1966, p. 10. 37 L. Pareyson, I problemi dell’estetica, Marzorati, Milano 1966, p. 28. 38 Ivi, pp. 145-146. 39 Pareyson, Estetica cit., pp. 28-40; Id., Teoria dell’arte cit., pp. 55-79. 40 Pareyson, Estetica cit., p. 60. 41 Ivi, p. 75. 42 Ivi, pp. 102, 108, 255; Pareyson, Teoria dell’arte cit., p. 72. 43 Pareyson, Teoria dell’arte cit., p. 66. 44 Pareyson, Estetica cit, p. 186. 45 Pareyson, Teoria dell’arte cit., p. 128. 46 Pareyson, Estetica cit., pp. 226-272; Id., Teoria dell’arte cit., pp. 189-231. 47 Pareyson, Teoria dell’arte cit., p. 213. 48 L. Stefanini, Trattato di Estetica, Morcelliana, Brescia 1955, p. 89. 49 G. Calogero, Estetica. Semantica. Istorica, vol. III, Lezioni di Filosofia, Einaudi, Torino 19602, p. 242. Ma si vedano soprattutto le pp. 5-7. 50 Ivi, p. 12; cfr. pure p. 384. 51 Ivi, pp. 32-33. 52 Croce, Aesthetica in nuce cit., p. 5. 53 Ivi, pp. 125-126. 54 La recensione di Croce si legge nei Quaderni della critica, n. 4, 1946, p. 81; sull’interpretazione crociana sono da vedere le osservazioni di L. Russo,

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Prefazione a C. Brandi, Carmine o della Pittura, Editori Riuniti, Roma 19924. 55 C. Brandi, Nota Introduttiva alla terza edizione del Carmine, Einaudi, Torino 1962. 56 Ivi, pp. 39-41. 57 Ivi, p. 7. 58 Ivi, pp. 33-34. 59 C. Brandi, Celso o della poesia, Editori Riuniti, Roma 19912, p. 27. 60 Ivi, p. 95. 61 Per l’approfondimento della teoria dello schematismo rimandiamo al saggio di E. Garroni La definizione dell’arte e lo statuto trascendentale dell’estetica: immagine, segno, schema nel volume a cura di L. Russo, Brandi e l’Estetica, Università degli Studi, Palermo 1986. 62 C. Brandi, Segno e immagine (1960), Aesthetica, Palermo 1986, pp. 31, 99. 63 M. Carboni, Cesare Brandi. Teoria ed esperienza dell’arte, Jaca Book, Milano 2004; P. D’Angelo, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia, Quodlibet, Macerata 2006. 64 A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale (1950), Editori Riuniti, Roma 1976, p. 22. 65 Si veda il quadro, fortemente negativo ma sostanzialmente esatto, che di questa critica fa G. Leonelli nel cap. I del suo La critica letteraria in Italia (19451994), Garzanti, Milano 1994. 66 Si pensi a testi come R. Dombrowski, Antonio Gramsci, Twayne Publishers, Boston 1989 o M. Landy, Film, Politics, and Gramsci, University of Minnesota Press, Minneapolis 1994. 67 G. della Volpe, Critica del gusto, Feltrinelli, Milano 19764, p. 6. 68 G. della Volpe, Il verosimile filmico, in Id., Opere, vol. V, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 24. 69 Ivi, pp. 95 sgg., 100-103, 82 sgg. 70 M. Modica, L’estetica di G. della Volpe, Officina, Roma 1978: il lavoro migliore sull’estetica ‘matura’ di della Volpe. 71 E. Garroni, La crisi semantica delle arti, Officina, Roma 1964, pp. 265-266. 72 Della Volpe, Critica del gusto cit., pp. 135 sgg. 73 Ivi, p. 7.

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Capitolo quinto. La crisi dell’estetica filosofica

5.1. Il processo all’estetica Il panorama dell’estetica italiana degli anni Cinquanta che abbiamo tracciato nel capitolo precedente ha mostrato come il tramonto del primato crociano non abbia affatto coinciso con una crisi dell’estetica filosofica, ma si sia anzi tradotto in un notevole fervore di nuove proposte teoriche, che vennero a comporre un quadro assai animato e vario. Il venir meno del predominio di Croce, del tutto naturale dopo che la sua estetica aveva occupato per mezzo secolo il centro della scena, non avveniva per stanchezza verso la considerazione teorica dei problemi dell’arte, ma presupponeva anzi un impegno rafforzato proprio in questa direzione, si manifestava innanzi tutto in una pluralità di orientamenti filosofici. Eppure verso la fine del decennio cominciarono ad apparire segnali diversamente orientati, che manifestavano insofferenza non verso questa o quella filosofia, ma verso l’estetica filosofica in genere. Un libro, in particolare, sembrò dare voce a questa sfiducia, proclamandola con irruenza e determinazione. Un libro, e, vorremmo dire, prima ancora un titolo: il Processo all’estetica che Armando Plebe (n. 1927) dava alle stampe proprio allo spirare del decennio, nel 1959. Le obiezioni alla possibilità di un discorso filosofico sull’arte sono frequenti nella letteratura estetica, e 266

costituiscono quasi un luogo comune argomentativo, che si ritrova anche all’avvio di opere capitali, dalla Aesthetica di Baumgarten alle Lezioni di estetica di Hegel. Ma nel caso di Plebe il lettore capisce subito che non siamo di fronte a un topos di esordio, e che le accuse all’estetica filosofica formulate già in sede di Prefazione (l’insoddisfazione verso l’estetica teorica è sfociata in una «crisi istituzionale» della disciplina, nella quale si è giunti a invalidare «la stessa legittimità dell’estetica come scienza filosofica», sì che il «processo all’estetica» è ormai una realtà di fatto, di cui solo in Italia non ci si è accorti perché «la mentalità filosofica tradizionale è per sua natura restia ad ammettere le cose come stanno realmente»)1 non sono affatto destinate a essere rovesciate nel prosieguo della trattazione, ma semmai a uscirne rafforzate. Fin dalla prima udienza, insomma, si capisce che aria tiri in questo processo, e quale sarà il verdetto; la condanna è già certa, come in ogni processo sommario, prima ancora che l’imputato sia esaminato. L’estetica filosofica non trova giustificazione né da un punto di vista empirico, né da un punto di vista speculativo: dal punto di vista empirico, infatti, non c’é alcuna possibilità di andare oltre le singole teorizzazioni che gli esperti delle singole arti di volta in volta elaborano; da quello speculativo, posto che il compito di un’estetica filosofica può essere solo quello di stabilire la categoria alla quale l’arte vada ricondotta, l’estetica non ha alcuna autonomia rispetto alle metafisiche da cui è generata, e cade con l’impossibilità di salvaguardare queste ultime. Nello svolgere con molta verve polemica queste argomentazioni, Plebe non nascondeva, e anzi ampiamente riconosceva, il debito con le posizioni di un filosofo il cui nome è già stato citato quando si è discorso degli sviluppi dell’attualismo, ossia con Ugo Spirito (1896-1979). In effetti, Spirito era andato sviluppando i temi di una critica 267

all’estetica filosofica per lo meno a partire dal suo volume del 1941 La vita come arte, e nel corso degli anni Cinquanta li aveva esposti in una serie di saggi che solo successivamente alla pubblicazione del libro di Plebe, nel 1964, sarebbero stati riuniti nel volume Critica dell’estetica. In essi gli argomenti della requisitoria contro l’estetica sono già tutti presenti. Nel saggio del 1953 La mia prospettiva estetica, Spirito prende avvio proprio dalla distinzione tra estetica empirica ed estetica filosofica per affermare che la prima è semplicemente una scienza particolare come ogni altra, e che dunque in essa è competente solo il critico o l’artista, insomma chi vive nel mondo dell’arte: «Si lasci l’estetica ai competenti, e si neghi al filosofo, in quanto tale, ogni diritto di intervento». D’altro canto, il punto di vista filosofico nasce quando «si ha una visione metafisica della realtà e in essa [si] può riconoscere e individuare il posto dell’arte». Il problema dell’estetica si riduce a quello della definizione dell’arte, rispetto al quale tutti gli altri scadono al rango di semplici corollari. L’estetica si costituisce o no a seconda che sia possibile riconoscere all’arte il carattere di categoria. Ma proprio questo è divenuto impossibile alla luce degli ultimi sviluppi della filosofia, che hanno mostrato come ogni distinzione tra categoria e categoria sia in ultima analisi empirica. È vero che a Spirito non sfuggivano le difficoltà cui va incontro anche una riduzione dell’estetica all’empiricità, e che egli si rifiutava di muoversi esclusivamente nell’alternativa appena tracciata. Un aspetto filosofico gli appariva indisgiungibile dall’estetica come da qualsiasi altra scienza empirica, ma tale filosoficità poteva tradursi soltanto in un compito negativo: quella che ancora poteva sopravvivere era «un’estetica in cui l’istanza filosofica si affermi soltanto come critica alla categoricità dell’arte». Il carattere filosofico di un’estetica poteva manifestarsi unicamente attraverso due compiti, ossia quello di 268

riconoscere il carattere empirico dell’estetica stessa (e questo non sembri un controsenso: Spirito era filosofo troppo scaltrito per non sapere che l’affermazione dell’empiricità dell’estetica non è a sua volta un’affermazione empirica), e quello di mostrare la non-filosoficità dei principi introdotti nell’estetica da chi pretende di sottrarla al carattere empirico. «Sollevare l’estetica al piano filosofico significa liberarla dai limiti in cui la rinchiude ogni filosofia che presuma di definire l’arte trascendendola»2. Quel che occorreva, insomma, era «liberare l’estetica dal peso delle categorie filosofiche più comunemente accettate», e questo era il compito a cui si consacravano molti dei saggi che sarebbero poi confluiti nella Critica dell’estetica. In Arte e linguaggio, del 1955, si polemizzava contro l’identificazione di linguistica ed estetica, consueta in ambito crociano, mostrando che essa significava soltanto l’identità della categoria alla quale venivano ridotti l’arte e il linguaggio; e, una volta negata la possibilità di una definizione dell’arte attraverso la categoria filosofica, e confutata la diversità del piano empirico e di quello speculativo, veniva meno non solo ogni ragione di affermare l’identità di arte e linguaggio, ma anche di unificare i differenti linguaggi artistici, il cui studio restava appannaggio dei competenti delle singole forme espressive3. Nel saggio sulla Impersonalità dell’arte, contro l’assunto che l’arte sia espressione personale, così diffuso nell’estetica e nell’arte moderna, si faceva valere la natura ‘impersonale’ di molte creazioni artistiche di epoche diverse dalla nostra, con il risultato di relativizzare la nozione di personalità. In quello sulla critica d’arte, del 1956, si metteva sotto accusa la pretesa idealistica di unificare critica e filosofia, assegnando al critico il compito di distinguere categoria da categoria, al fine di «liberare» la critica «dalla prigione di un concetto limitativo». Tornare all’empiria voleva dire in questo caso ridare alla critica la sua 269

libertà, e in questo proposito riemergeva la convinzione che il discorso sull’arte dovesse essere lasciato agli esperti, ribadita in uno scritto sull’architettura del 1961: «Il filosofo, in quanto tale, non ha nulla da dire al competente. L’estetica filosofica è sotto accusa»4. Se in questi propositi (non a caso esposti in uno scritto che è successivo al volume di Plebe) sembra massima la vicinanza con le tematiche del Processo all’estetica, chi torna a quest’ultimo dalla lettura dei saggi di Spirito è portato a rimarcare, piuttosto che i motivi di continuità, una notevole differenza di orientamenti, che si fa strada al di là delle dichiarazioni dello stesso autore. Infatti Spirito, se ben si guarda, era assai diffidente nei confronti dell’autosufficienza del discorso empiristico sull’arte, laddove in Plebe il ‘processo’ si attuava, in sostanza, mediante la rivendicazione dell’approccio empirico all’estetica. Ciò è subito chiaro se si fa attenzione agli autori di riferimento. La polemica di Spirito era un frutto estremo, ma non esterno, alla tradizione attualistica, di cui sviluppava alcune note tipiche, dal riconoscimento dell’infinità delle categorie alla critica della separazione tra fare e conoscere all’unificazione di arte e critica d’arte; gli ‘autori’ di Plebe non erano Gentile e i gentiliani, ma piuttosto i filosofi analitici del linguaggio, gli ‘estetici semantici’ americani, i pragmatisti: Ogden e Richards, Ayer, Stevenson, Dewey. Plebe stesso riconosce che tra i due ‘processi’ all’estetica, quello del problematicismo di Spirito e quello dei filosofi anglosassoni, «non v’è alcun rapporto», che il «ponte» tra le due concezioni «non esiste», che l’unico legame è dato «dalla medesimezza dell’oggetto di accusa»5. Tuttavia egli assumeva che «i due processi [sono] complementari», e, ancor più, che «il processo empirico all’estetica finisce per trovare la sua fondazione filosofica in quello speculativo». In realtà, questo passaggio 270

non sembra interessare in profondità Plebe, cui sta a cuore soprattutto l’autosufficienza di un discorso empirico sull’estetica, e ciò viene a emergere proprio nel momento finale del volume, quando si tratta di tirare le somme. Quello che Plebe propone è infatti, sostanzialmente, un passaggio «dall’estetica alle estetiche», e accanto al compito negativo dell’estetica egli ne vede anche uno positivo, purché alla domanda metafisica «che cos’è l’arte» si sostituisca quella «perché l’arte?» (quasi che le risposte alla prima domanda offerte dalle grandi estetiche filosofiche non siano sempre anche risposte alla seconda, e viceversa); l’estetica empirica può tranquillamente svolgere la sua opera, purché, ignorando i presunti problemi filosofici, «voglia rendersi conto dei singoli problemi artistici nella loro concretezza», e riconosca la propria congenita molteplicità. Sul piano puramente empirico sorgeranno «una serie di estetiche tutte valide […] ma nessuna filosofica»6. Queste conclusioni imporrebbero di riconsiderare anche la stessa parte documentaria del processo. Gli autori che Plebe presentava come ‘critici’ dell’estetica filosofica spesso non svolgevano affatto un compito così severo nei confronti dei loro predecessori ‘filosofi’. Se si esclude qualche esponente dell’analisi del linguaggio, si trattava spesso della normale dialettica tra posizioni filosofiche diverse: fa una certa impressione, ad esempio, ritrovare tra i critici dell’estetica un Dewey, autore di una tra le più importanti estetiche (filosofiche) del Novecento. D’altro canto, se si esclude qualche riferimento, fortemente polemico, a Croce, Plebe non si occupava dei possibili difensori dell’estetica filosofica, e per esempio non faceva quasi parola delle molte estetiche post-crociane: per restare nelle metafore giudiziarie, il suo processo si faceva, in sostanza, inaudita altera parte, e il verdetto arrivava senza 271

contraddittorio. Ma in tutto il libro di Plebe la polemica faceva aggio sulla ricognizione critica. Né è detto che ciò fosse un danno, giacché contribuisce a dare, retrospettivamente, una singolare coloritura a quel pamphlet che appare quasi premonitore di una vicenda che tuttavia non poteva divinare. Il processo all’estetica si fece poi effettivamente in Italia, e l’estetica filosofica entrò davvero in crisi, ma per altre vie da quelle che Plebe percorreva. A compierlo non fu la tradizione filosofica anglosassone, sostanzialmente rimasta sempre marginale in Italia, né a celebrarlo furono, come del resto si conviene, dei filosofi. La crisi dell’estetica filosofica nacque da altro: a porla in atto furono le nuove tendenze della critica letteraria e artistica, che cercarono la loro legittimazione e fondazione in altro che non fosse l’estetica, ossia nella direzione della linguistica e della semiotica, che parve a un certo punto risolvere in sé i compiti tradizionali dell’estetica. Essa sembrò tradursi nella volontà di stabilire la scientificità della critica: perché, se la critica è una scienza, il ruolo dell’estetica può al massimo ridursi a quello di un’ancillare epistemologia, ma perde le sue tradizionali ragioni di esistenza. A questo moto di rinnovamento occorre dunque rivolgersi, per passare poi al più presto ai suoi portati teorici, o almeno a quelli che storicamente parvero tali. 5.2. Il rinnovamento della critica letteraria Nel 1949, in un intervento intitolato Probabile autobiografia di una generazione, uno dei massimi critici letterari del Novecento, Giacomo Debenedetti, aveva tracciato un bilancio tutt’altro che trionfalistico dei tentativi di abbandonare l’impostazione crociana esperiti nei decenni precedenti. Nonostante le molte velleità di superamento, la svolta non c’era stata; le strade battute, troppo prossime a quelle indicate da Croce stesso, non avevano portato 272

lontano. «Non riuscire a dirci la parola ‘rottura’, pur facendone ogni tanto la mimica, fu il grande lapsus della nostra generazione»7. C’era forse troppo pessimismo in questa conclusione, ma non si può dire che essa non cogliesse sostanzialmente nel segno: la critica, lo si è già detto, restava alle soglie degli anni Cinquanta sostanzialmente tributaria dei moduli crociani, il che vuol dire che era una critica largamente rivolta alla «caratterizzazione del sentimento», al mondo spirituale dell’artista, al «contenuto» dell’opera. Qualcosa, certamente, si stava muovendo, e da più versanti, in particolare, cominciava a manifestarsi una nuova esigenza di attenzione verso gli aspetti formali dell’opera letteraria, una tendenza ad analizzarne quella natura linguistica sulla quale l’identità di intuizione ed espressione aveva consentito troppo spesso di sorvolare. Era il caso della cosiddetta ‘critica stilistica’, la cui diffusione poteva contare da un lato sull’atteggiamento di non pregiudiziale chiusura che nei suoi confronti aveva manifestato Croce, dall’altro sul lavoro di alcuni critici filologi della prima metà del secolo, come De Lollis o Parodi. Si ebbero così le traduzioni di alcuni saggi di Spitzer, quella di Mimesis di Auerbach (quasi un ponte gettato tra la critica stilistica e quella sociologica), mentre cominciavano ad apparire gli studi, collocabili sotto la medesima etichetta di ‘stilistica’, di autori italiani di solida preparazione storico-linguistica, come Schiaffini e poi Devoto e Terracini8. Già in alcuni saggi che precedono la fine della guerra, poi, Contini aveva contrapposto al modo «statico» di considerare la poesia proprio di Croce un modo «dinamico», che, facendo leva sul confronto tra le diverse redazioni di un testo, lo restituisce nella sua natura di «perenne approssimazione al valore»9; e nel 1947, con le Implicazioni leopardiane, avrebbe dato una sorta di manifesto della nuova critica variantistica. Sdegnosamente bollata da 273

Croce come «critica degli scartafacci», e in seguito forse troppo precipitosamente assimilata alle esigenze di sistematicità della critica strutturale, la variantistica continiana non era estranea a quel tentativo di articolare dalla parte dell’autore la staticità crociana, di cui si è rintracciato più di un esempio nel capitolo precedente; in ogni caso, essa era un modello cospicuo di lettura fondata su di una competenza filologica di primissimo ordine, di cui Contini avrebbe poi dato, anche al di fuori del registro variantistico, prove numerose10. Sempre negli stessi anni, all’incirca, un glottologo come Pagliaro proponeva, con la sua critica semantica, una via d’uscita «scientifica» all’impressionismo autorizzato da Croce, alla volta di un modo di leggere «che segua un metodo consapevole di dimostrazione razionale, fondato su valori di fatto», accertabili a patto di riconoscere che la realtà dell’opera «è un segno che vuol essere inteso per quello che significa»11. Queste tendenze, accomunate, al di là delle differenze anche notevoli di orientamento, dall’attenzione portata sulla forma linguistica dell’opera, erano però rimaste, negli anni Cinquanta, un fatto riguardante sostanzialmente solo gli studi specialistici, mentre il dibattito più largo, i giornali e la scuola erano ancora occupati dagli approcci di tipo sociologico, dalla discussione sull’impegno politico, dalle ibridazioni di crocianesimo e marxismo: la considerazione tecnico-linguistica dell’opera d’arte era ristretta a pochi esperti, mentre dominava un modo di accostarsi alla letteratura che facilmente privilegiava una considerazione ideologica, i ‘contenuti’ piuttosto che le ‘forme’. Si aggiunga che né la stilistica nelle sue applicazioni italiane, sempre rivolte allo stile individuale ed espressivo, né la variantistica di Contini ambivano a presentarsi come eradicatrici dell’estetica crociana, e si sforzavano piuttosto di accreditare i loro procedimenti come percorsi diversi per 274

giungere a un risultato non dissimile. Contini, anche in seguito, ha rifiutato di ritenere indispensabile al suo modo di fare critica un abbandono dei presupposti crociani. La situazione cambiò radicalmente a partire dai primi anni Sessanta, inizialmente con qualche attrito, poi, in corrispondenza con la metà del decennio, in modo sempre più travolgente. Per quindici o vent’anni la critica letteraria fu egemonizzata dall’orientamento verso la linguistica, dai metodi cosiddetti ‘formali’, dall’epistemologia strutturalista, dal quadro di riferimento semiotico; per quindici o vent’anni, a seconda che si prenda come terminus ad quem il periodo – la metà dei Settanta – in cui cominciarono ad affacciarsi le prime perplessità e ripensamenti sui nuovi metodi, o quello – i primi anni Ottanta – in cui essi entrarono più generalmente in crisi e manifestarono segni inequivocabili di senescenza. La vecchia critica, e con essa la vecchia estetica, furono messe rapidamente da parte; nuove parole d’ordine occuparono il campo: studio ‘intrinseco’ della letteratura e dell’arte, ricerca delle strutture invarianti soggiacenti ai fenomeni artistici, fissazione dello ‘specifico’ letterario, costruzione dei ‘codici’ delle singole arti. Si manifestarono grandi entusiasmi e grandi speranze si accesero: la critica sembrò incamminata a diventare, finalmente, una scienza, a lasciare per sempre dietro di sé i compromessi con il gusto soggettivo, l’approssimazione, l’artigianalità; la linguistica e la semiotica parvero offrire questa fondazione scientifica e rendere così obsoleta ogni riflessione di tipo tradizionalmente filosofico. Le nuove metodologie ispirarono una saggistica molto ascoltata, conquistarono le università e poi anche la scuola. La cultura letteraria italiana si aprì, come mai era accaduto in precedenza nel corso del secolo, a quella internazionale, sospinta dalla foga di recuperare il tempo perduto e di mettersi al passo con 275

quanto si era fatto all’estero. Si tradusse moltissimo, sia attingendo a opere di parecchi decenni prima sia facendo di alcuni protagonisti di quanto avveniva all’estero in quegli anni dei punti di riferimento molto ascoltati anche da noi. In pochi anni, con una rapidità inusitata, che sembrava autorizzare il riferimento polemico a una ‘moda’, subito invocato dai recalcitranti, il cambiamento di scena fu compiuto. Inizialmente, l’attenzione per il metodo che si disse ‘strutturale’ fu fatta propria da un gruppo di filologi e storici della lingua (Segre, Avalle, Rossi), i quali per un verso si richiamavano ai precedenti italiani che abbiamo visto in apertura di paragrafo, ma per un altro propugnavano un impiego sui testi letterari delle metodologie messe a punto dalla moderna linguistica di derivazione saussuriana. Le traduzioni di alcuni classici della linguistica del Novecento assunsero in questo contesto un’importanza decisiva: se nel 1963 Segre aveva tradotto Bally, nel 1966 Heilmann curava i Saggi di linguistica generale di Jakobson, e Garroni (con Pautasso) le Tesi del ’29 del circolo linguistico di Praga, mentre l’anno seguente De Mauro forniva la traduzione del Corso di linguistica generale di de Saussure e quello successivo uscivano i Fondamenti della teoria del linguaggio di Hjelmslev. L’inchiesta Strutturalismo e critica curata da Segre offriva nel 1966 un primo bilancio dell’impatto delle nuove idee sulla cultura italiana, mentre un modello di analisi critica era stato dato l’anno precedente da Avalle con la sua lettura di una poesia montaliana. Nel ’67 era apparso Struttura letteraria e metodo critico di Pagnini, nel ’69 uscivano I segni e la critica di Segre e Metodi e fantasmi di Corti. Contemporaneamente, si venivano scoprendo gli autori che avevano dato il via alla grande stagione del formalismo russo, tra il 1915 e il 1930, prima attraverso la monografia di Erlich tradotta nel ’66, poi tramite l’antologia curata da Todorov (1968) e gli studi 276

di Ambrogio, infine direttamente con traduzioni dei testi originali, e prendeva piede un tipo di critica ‘formale’, sia in un senso prossimo a quello teorizzato dai russi, sia nel senso più generico di una critica rivolta «non a quel che il testo dice ma al come lo dice», centrata sulle figure fonicoritmiche, lo studio dei metri e della sintassi. Il titolo di una raccolta di saggi di Beccaria, L’autonomia del significante, divenne quasi uno slogan. Ma, mentre ci si dedicava alle forme linguistiche delle opere, si avvertiva sempre di più il bisogno di estendere il tipo di analisi volta a stabilire le strutture soggiacenti ai fenomeni letterari anche agli altri piani dell’opera, per esempio alle categorie narrative e ai rapporti tra i personaggi. Qui la guida era fornita dalle analisi che Propp aveva condotto sul corpus delle antiche fiabe russe (Morfologia della fiaba, tradotta nel 1966) e dagli studi di Lévi-Strauss (l’Antropologia strutturale, in italiano nel medesimo anno), cui si aggiunse quasi subito una serie di testi curati da Barthes (L’analisi del racconto, 1969). Eco e Caprettini diedero contributi in questo ambito, ma anche i già citati Avalle (Modelli semiologici nella Commedia di Dante) e Segre (Le strutture e il tempo), laddove Corti rivolgeva la sua attenzione ai generi letterari e alle strutture degli intrecci. Mentre si cominciava a parlare di semiologia per indicare il terreno di raccordo di questi studi, si traducevano gli Elementi di semiologia di Barthes, la Semantica strutturale di Greimas, i lavori di Prieto; si scoprivano i protagonisti della nouvelle critique francese e si recuperavano gli autori del New Criticism americano; si traducevano Lotman e altri semiotici della scuola di Tartu (I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, 1969). Se la rivista «Strumenti critici» costituì uno dei principali laboratori della nuova critica, la raccolta di interventi I metodi attuali della critica letteraria in Italia curata da Segre e da Corti ne fu un primo bilancio, cui sarebbero seguiti parecchi altri, fino ai tardi Letteratura e semiologia in 277

Italia di Caprettini e Corno e la serie di interviste La semiotica letteraria italiana di Mincu. Le segnalazioni di libri tradotti non servono tanto per ribadire un fatto evidente, e cioè che le tendenze in esame non furono di matrice italiana, quanto per far comprendere subito che non è minimamente possibile analizzare le idee che stavano alle spalle della nuova critica: si dovrebbe riconsiderare una parte cospicua della teoria letteraria del nostro secolo. D’altronde, se mancò quasi sempre un autonomo approfondimento teorico dei principi che si facevano valere, ci fu anche, e specie agli inizi in misura assai notevole, una tendenza ad assimilare e confondere cose fra loro non coincidenti, per esempio le analisi funzionali dei formalisti russi e dei praghesi con l’approccio strutturale più recente nelle sue versioni francesi12, il che renderebbe ancora più complessa una valutazione seria della consistenza originaria di tali idee. Ma nemmeno ci si può aspettare qui un bilancio dei risultati applicativi, concreti, della nuova critica. Passate le infatuazioni di chi vedeva in essa una rivoluzione senza ritorno, oggi abbiamo buon gioco piuttosto a scorgerne i limiti, e non ci costerebbe troppa fatica irridere gli schemi e i diagrammi perfettamente inutili che chiudono certi saggi di Avalle, le formule di Rossi, irte di frecce e simboli che dovrebbero sostituire gli equivalenti verbali e che sono inintelligibili senza di essi, le ambizioni di ridurre le infinite complicazioni della narrativa a uno scheletrico traliccio di funzioni; non ci peserebbe troppo riconoscere che agli entusiasmi per alcuni autori importanti se ne accompagnarono altri per figure più modeste, né constatare quanto poco si fece nel campo della storia letteraria propriamente detta. Proprio perché i tempi sembrano propizi a una liquidazione sommaria della nuova critica13, può legittimamente venire il dubbio che sia cosa 278

storiograficamente più utile ricordare come l’impatto iniziale di essa, con il suo sforzo di rinnovamento, sia stato tutt’altro che dannoso; che il richiamo all’autonomia del testo e alla sua struttura interna sia stato una salutare reazione agli eccessi opposti della sociologia e dell’ideologia; che la dialettica tra formalismo e contenutismo appartiene alla fisiologia, non alla patologia delle idee estetiche. Più in generale, sarebbe inconseguente, per chi rifiuta il primato del metodo nella critica, condannare una critica in base ai suoi metodi. Come in tutte, anche nella nuova critica ci sono state letture buone, mediocri e pessime. Pensare altrimenti sarebbe applicare alla nuova critica il suo errore, che fu quello di ritenersi l’unica, e scientifica. Ma questo ci porta al punto veramente decisivo: che i limiti di tale critica non si intendono se si resta ai suoi dati applicativi, senza porre in questione il rapporto che essa ebbe con la teoria: e ciò perché in quel rapporto viziato sta la radice di molte distorsioni di principi che in sé potevano anche essere validi. Muovendo in questa direzione, un primo aspetto che balza agli occhi è il fatto che la nuova critica si volle porre come metalinguaggio nettamente distinto dal suo oggetto, la letteratura. Di quest’ultima si poteva non negare l’indole costruttiva o, come pure si diceva con parola ancora crociana, ‘intuitiva’; ma restava inteso che la critica aveva tutto da guadagnare nel recidere i legami che potevano unire la sua natura a quella del materiale di indagine. Se Contini, non si sa quanto intimamente condividendola, poteva registrare la «morte» della «critica come genere letterario», altri proclamava il «superamento definitivo della critica […] come costruzione parallela di equivalenti letterari ai mondi poetici»14. E ancora nel 1982 Segre poteva continuare a computare tra gli acquisti for ever della nuova critica proprio questo impoverimento e questa rinuncia a 279

tutti i legami molteplici che l’alimentano, opponendo alla critica ‘scientifica’ tutte le altre «attività di fiancheggiamento dell’opera d’arte», le quali sono forme ambigue di «simbiosi tra discorso letterario e metadiscorso» e «non possono rientrare in quel disegno di costruzione di modelli descrittivi e storici che la critica deve proporsi»15. A questo critico che si illude di vestire i panni dello scienziato e dello sperimentatore, l’oggetto sta dunque dinanzi presuntivamente distaccato, pronto a essere aggredito con gli strumenti disponibili in laboratorio, nei confronti dei quali egli si riserva la scelta. Scrive Corti: «Il critico […] cercherà di volta in volta gli strumenti più funzionali e pertinenti, cioè quelli che meglio si confanno a interpretare col massimo di approssimazione un determinato esemplare di opera d’arte»16. Di qui il proliferare del discorso sui metodi, sempre rigorosamente al plurale per ostentare un’apertura che, non appena si controllino le cose un po’ più da vicino, appare assai poco ecumenica. Sintomatico, in questo senso, è proprio il volume del 1970 I metodi attuali della critica letteraria in Italia, che sembra sancire ‘finalmente’ la possibilità di un approccio plurimo ai testi, ma poi inscena un gioco delle parti fra cinque ‘metodi’ diversi (strutturalistico, formalistico, stilistico, semiologico, storico-linguistico) che sono poi sempre lo stesso, tanto vero che tutti si potrebbero ritrovare nelle caratteristiche che stiamo delineando. Ai nuovi critici scappa detta talvolta la verità, che cioè di tutti i metodi uno solo è buono, il loro: così Avalle dichiara imperturbabile che «la stilistica è l’unica forma corretta di critica letteraria»17. Per trovare un’apertura metodica non fittizia bisogna andare, in questi anni, non a caso, a critici non del tutto allineati al nuovo verbo, per esempio Raimondi (Tecniche della critica letteraria è del 1967). Resta inteso che il metodo deve essenzialmente servire a 280

mettere in luce quello che costituisce lo specifico letterario del testo. Non si cerca la letteratura, ma la letterarietà, ciò che fa di un’opera letteraria un’opera letteraria, col proposito di dare vita a una scienza autonoma fondata sulle qualità peculiari dei testi poetici. In tale ricerca, a far da guida viene sempre invocato il principio dell’auto-riflessività del segno poetico, ossia il fatto che nella poesia l’intenzione non è rivolta verso il significato ma verso il segno stesso. Si trattava di un principio importante, già teorizzato ampiamente dai linguisti praghesi, e che aveva trovato nel saggio di Jakobson Linguistica e poetica una formulazione particolarmente efficace e fortunata. Ed era un principio che, se da un lato poteva richiamare alcuni problemi classici dibattuti dall’estetica filosofica, dall’altro, proprio nelle riflessioni canoniche alle quali si faceva riferimento, ne suscitava altri di non facile soluzione (per esempio, una volta che si riconosca con Jakobson che tutte le funzioni appartengono sempre al linguaggio, quella di stabilire la dominanza della funzione poetica nel messaggio estetico). Ma, nell’accoglierlo e nel ripeterlo infinite volte con pochissime variazioni, la nuova critica si guardò bene dall’approfondirlo nell’una o l’altra direzione, e anzi trascurò gli spunti di natura filosofica che i testi ispiratori pure contenevano18. Così, privato di una riflessione che si sforzasse di cogliere il senso e la portata del principio di auto-riflessività in un orizzonte gnoseologico e filosoficolinguistico più ampio, quel principio finì per fissarsi e ridursi piuttosto a una poetica dell’oggetto interamente pianificato, dell’opera come artificio, cosa ‘fatta’, ossia composta e costruita, frutto di pura attività combinatoria. Non interessava capire perché è necessario che si diano prodotti linguistici in cui il linguaggio «pensa solo a se stesso», ma tradurre subito il principio teorico in formula operativa, che consentisse di individuare indizi registrabili 281

di ‘poeticità’. Così ci si lanciò sul criterio ‘empirico’ per riconoscere la funzione poetica proposto da Jakobson stesso, la «proiezione del principio di equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione», senza chiedersi né come le equivalenze ‘rilevanti’ potessero distinguersi da quelle presenti in qualsiasi tipo di produzione linguistica, né che cosa sarebbe accaduto di quei testi indubbiamente dotati di valore poetico ma scarsamente caratterizzati da ricorsività (la ‘prosa’ rispetto al ‘metro’). In modo per certi versi analogo, si sfruttò e banalizzò la distinzione tra connotazione e denotazione formulata da Hjelmslev trasformandola nella lectio facilior in base alla quale la letteratura si distingue, in quanto connotativa, dal linguaggio comune, denotativo. Questa idea, che, come è stato notato19, trascurava il fatto capitale che ogni linguaggio, anche quello che si vuole più univoco, presenta sempre anche degli elementi di connotazione, spianava infatti la strada per identificare lo stile, e più in generale tutti i fenomeni artistici, come deviazioni rispetto a uno standard. «La struttura dell’opera d’arte» – scriveva ad esempio Segre – «è una violazione o una deviazione rispetto a una norma»20. Anche in tale caso, daccapo: numerosissime riprese del criterio, proprio perché esso sembrava fornire un indizio verificabile di artisticità; pochissimi tentativi di chiedersi rispetto a che cosa lo scarto o la deviazione potesse essere calcolata (se non per produrre risposte deboli, che non facevano che spostare il problema, come quella consistente nel dire che lo scarto non va calcolato rispetto alla lingua comune ma a quella letteraria, che è a sua volta una deviazione) o come potesse spiegarsi il dato di fatto che la deviazione può produrre anche messaggi privi di qualsiasi attrattiva estetica. Tutti questi criteri avevano un ulteriore tratto comune, quello di privilegiare l’orientamento sull’opera piuttosto 282

che quello sull’autore o il lettore. Se l’estetica degli anni Cinquanta aveva mostrato in molti casi una tendenza a porsi dal lato del produttore, ora sembrava fruttuoso soltanto mettersi dalla parte del prodotto. I metodi ‘buoni’ sono quelli ‘intrinseci’; quelli ‘estrinseci’ sono irrimediabilmente ‘cattivi’. Il «principio di immanenza» spadroneggia. Si ritiene possibile, e auspicabile, «ricavare ogni indicazione dall’interno dell’opera stessa, senza ausilio di strumenti estranei». Si vuole «staccare l’oggetto poetico dal suo autore, dal suo mondo socio-culturale e anche dalle risposte emozionali e psicologiche del lettore, per contemplarlo nella sua autonomia», in nome del contrasto tra «una concezione immanente, endogena (analisi dell’opera iuxta propria principia) e una concezione che tenga in conto fattori sociologici, psicologici, estetici, e così via»21. L’avversione per quella che i new critics avevano chiamato affective fallacy, il fastidio per tutte le interpretazioni che fanno leva sugli effetti di un testo, per non parlare di quelle che risalgono verso la persona dell’autore, diventano patrimonio comune. «Fra l’autore e la sua opera» – scrive Avalle – «la ragione, di norma, sta dalla parte della seconda»; «l’opera deve essere concepita come un fine in sé, e non come un mero pretesto per condurvi sopra discorsi allotri», fa eco un importante manuale per le scuole22. Questi principi, da un punto di vista strettamente applicativo, e maneggiati da filologi esperti come spesso sono stati, da noi, i nuovi critici, possono anche incoraggiare abitudini in sé non deprecabili, qualcosa di simile a un close reading la cui pratica non era inutile in un paese come il nostro che non vantava grandi tradizioni in tale senso. Solo che, come già notammo a proposito della questione dell’auto-riflessività, l’esaltazione del testo come oggetto auto-referenziale, compiuto in sé, mostrava tutti i suoi limiti quando, in sede teorica, non 283

cercava alcuna giustificazione, non si chiedeva per qual motivo debbano esistere oggetti di tale tipo, limitandosi a registrarne la natura di «manufatto, anche se sublime», col rischio che l’unica cosa sublime nell’opera d’arte apparisse appunto l’inconcludenza. Il nostro insistere sui limiti teorici della nuova critica può apparire strano se lo si pone a confronto con la quantità, indubbiamente imponente, di riflessioni teoriche prodotte in seno alle nuove tendenze. In effetti, forse mai si era vista una simile proliferazione di teorie della letteratura, di saggi metodologici, di approcci teorici. Quasi ogni critico, in quegli anni, è anche teorico della letteratura: la saggistica di questo tipo, specie nel decennio tra il 1965 e il 1975, conosce un’espansione inusitata e viene a occupare, anche nel curriculum dei tradizionali studi letterari, un posto che in precedenza era ben lontana dall’avere. E se la traduzione del solido manuale di Wellek e Warren, nel 1956, sembrò precorrere l’espansione futura, la pubblicazione di un volume omonimo, ma antologico, nel 197523, ne sancisce la crisi per deflagrazione: un coacervo di scritti metodologici viene imbandito senza alcun filo conduttore, trasformando il volume in un oggetto utile al massimo come strumento di tortura per malcapitati studenti. Il fatto è però che la volontà di fondazione teorica si mosse fin dall’inizio entro binari rigidamente stabiliti, nella convinzione che occorresse sì giustificare la serie di assunzioni messa in campo nelle applicazioni, ma non sottoporre a un’analisi spregiudicata la pertinenza delle assunzioni medesime. Proprio in apertura del volume più volte citato sui Metodi attuali della critica, Corti stabiliva una distinzione rivelatrice: «si rivela proficuo attuare una chiara distinzione fra i problemi di natura epistemologica, filosofico-estetica e quelli di natura strettamente metodologica, riguardanti le scelte operative all’interno dei singoli indirizzi critici»24. Il 284

programma fu realizzato fin troppo alla lettera: furono quasi esclusivamente teorie del secondo tipo quelle che vennero tentate, col risultato che esse non potevano che venire continuamente confermate, giacché si cercava nei testi solo quello che autorizzavano a trovare. Della scientificità si fece non un impulso a mettere in questione le certezze, ma una trincea da cui respingere ogni attacco. Si cantavano le lodi di una trasformazione che finalmente colmava lo iato tra le due culture, avvicinando gli studi umanistici all’esattezza scientifica; si celebrava l’avvento di una «prassi di tipo sperimentale», «al di sopra delle acquisizioni dell’istinto e dell’intuizione»25; lo strutturalismo fu visto come la possibilità di «una conoscenza veramente obiettiva e demistificante dei fatti», alla volta della «integrazione interdisciplinare di tutte le attività scientifiche in un’unica dimensione di pensiero»26. In una prima fase parve che tale integrazione potesse avvenire semplicemente estendendo il metodo della moderna linguistica alla critica letteraria, ossia facendo della critica letteraria una branca di quest’ultima. «[La] definizione dell’opera letteraria come funzione tecnico-linguistica è la sola possibilità di fondare una teoria letteraria al riparo di ogni equivoco di carattere metafisico», proclamava Rosiello nell’inchiesta del ’65; altri dicevano che «la letteratura consiste […] in un particolare trattamento della materia linguistica», che «l’opera letteraria è in prima istanza un modo di espressione attraverso il linguaggio». Perfino studiosi più cauti di altri nel dar fiato alle trombe della ‘scientificità’, come Segre, non dubitavano di questo primato. Ed è sintomatico che ancora alla fine della parabola semiotica Segre parlasse dell’estetica di Croce come di un tentativo «di sostituire la filosofia alla linguistica», che è storicamente un bell’anacronismo, ma rivela e contrario il progetto di partenza dei nuovi critici, sostituire la linguistica all’estetica. Agiva in tutto questo un 285

presupposto molto materiale, e assai poco critico: essendo pacifico che la letteratura è un fatto di linguaggio, se ne faceva derivare che solo la linguistica ne potesse dare adeguatamente conto. Ma anche le leggi sono un fatto linguistico, e non perciò la dottrina giuridica è appannaggio della scienza del linguaggio. Dall’assunzione materiale si scivolava facilmente nella sanzione prescrittiva, come avveniva quando sempre Segre cercava di impostare i rapporti nel senso della condizione necessaria ma non sufficiente («un buon critico deve effettivamente essere un buon linguista, però un buon linguista non è necessariamente un buon critico»27): che è sempre dire troppo, come un rapido sguardo alla grande critica del passato e del presente dimostra subito. Presto si vide però che la linguistica, arrestandosi sostanzialmente alla frase, lasciava fuori molti piani che costituiscono l’opera letteraria, e che occorreva un metodo unitario che collegasse i vari livelli comunicativi, intesi sempre come sistemi di significazione. La linguistica da sola non bastava a fissare il ‘codice’ della letteratura, ed era aperta la strada per il riassorbimento dell’estetica non più nella linguistica, ma nella semiotica, intendendo questa volta la letteratura come ‘fenomeno comunicativo’, appannaggio di una scienza generale dei processi di comunicazione. Ancora una presupposizione materiale, insomma, che si sposava con la volontà di estendere l’identificazione di un sistema di segni dall’arte ove tale sistema si offriva immediatamente sotto forma di lingua storico-naturale, la poesia, alle arti apparentemente prive di ‘linguaggio’, per esempio quelle figurative. Era pronto lo spazio per l’estetica semiotica: ma prima di rivolgersi a essa, è necessario sostare per esaminare un altro episodio che, ancor prima dell’avvento della nuova critica, aveva contribuito a mettere in movimento l’aria ferma degli anni 286

Cinquanta. 5.3. La neoavanguardia e la poetica dell’opera aperta Nel 1956 Anceschi fondava «Il Verri», rivista attorno alla quale ben presto si raccolsero un gruppo di poeti alla ricerca di nuove strade espressive (Giuliani, Pagliarani, Sanguineti, Porta, Balestrini e altri) e un manipolo di giovani critici e teorici, in parte provenienti dalla scuola anceschiana, e quindi dal retroterra della fenomenologia e del razionalismo critico (Barilli), in parte da altre esperienze, come Eco, che era stato allievo di Pareyson. E se i poeti si fecero conoscere a un pubblico più vasto di quello della rivista con l’antologia I novissimi, apparsa nel 1961, il dibattito teorico interno al gruppo, al quale partecipavano i poeti stessi, acquistò ampia visibilità con l’incontro che si tenne a Palermo nell’ottobre del 1963. Si parlò da allora di Gruppo 63, o più latamente di ‘neoavanguardia’. Nel 1964 usciva un’antologia corredata da un resoconto del dibattito palermitano, a cura di Balestrini e Giuliani, due anni dopo sarebbero stati raccolti i testi di un altro convegno palermitano sul Romanzo sperimentale. Più tardi Barilli e Guglielmi avrebbero fornito una raccolta dei principali interventi teorici del Gruppo, articolata in tre sezioni consacrate agli scritti sulla poesia, sul ‘nuovo romanzo’, e a quelli più strettamente teorici28. Seguirono altre riunioni del gruppo, il dibattito si estese ad altre riviste, si segnalarono nuovi autori (Manganelli, Spatola, Celati). Nel 1967 venne fondata una nuova rivista, «Quindici», che continuò le pubblicazioni per circa due anni, finché non si chiuse per i contrasti tra i membri del gruppo circa il ruolo da assumere nei riguardi del movimento del ’68, contrasti che già in precedenza avevano portato a una spaccatura e alle dimissioni di Giuliani da direttore: e questa chiusura può segnare la fine della vita del Gruppo29. 287

Accade talvolta che le sue teorie vengano messe in relazione con l’affermarsi delle nuove tendenze critiche che abbiamo visto nel paragrafo precedente; ma i punti di contatto espliciti sono esigui («Il Verri» pubblicò nel ’67 un numero sullo Strutturalismo, cui però non intervennero i collaboratori usuali), il che naturalmente non toglie che alcuni membri del gruppo (in particolare Eco) abbiano avuto poi un ruolo di primo piano nel diffondersi della nuova critica e della semiotica. È vero però che l’attività del Gruppo fu importante per l’allontanamento dal clima degli anni Cinquanta e dai problemi critici dominanti in quel decennio. Uno dei caratteri comuni ai protagonisti della neoavanguardia, all’interno della quale albergavano per altro tendenze non del tutto convergenti, fu infatti il deciso orientamento verso il momento formale delle tecniche e delle strutture del prodotto artistico. Si privilegiò sopra ogni altro il problema del linguaggio e della rottura delle convenzioni poetiche e narrative. «Il nuovo sperimentalismo» – scrisse Guglielmi – «è dominato da un interesse essenzialmente formale»30; il nocciolo della poetica del Gruppo, dirà più tardi Eco, fu l’imperativo di «rompere i modi stessi della comunicazione»31. Complementare a questo orientamento sulle forme fu la polemica violenta contro i modi tradizionali della narrativa, contro il romanzo ‘impegnato’, attaccato come ‘populista’ e ‘naturalista’. Cassola, Bassani e Pasolini divennero le teste di turco del Gruppo, mentre Barilli polemizzava contro il realismo e il sociologismo di matrice lukacsiana. Si noti che il Gruppo non rifiutava affatto la nozione di impegno: tendeva piuttosto a negare che la via giusta per impegnarsi passasse per i ‘contenuti’ delle opere e sosteneva che una protesta espressa in forme tradizionali, accettate da tutti, non aveva nessuna possibilità di incidere sulle cose. «Noi pensiamo che l’artista svolge la propria contestazione nelle strutture 288

stesse della propria opera e non descrivendo minatori sofferenti»32. Questa fiducia in un’arte di rottura, i modi di intervento e la convinzione di compiere un’azione eversiva (sia pure a livello delle ‘forme’) sono tipici dell’avanguardia: una denominazione che infatti il Gruppo sostanzialmente accettò, anche se non mancarono i tentativi di mettere meglio a fuoco la questione. Barilli parlò di ‘normalizzazione’ rispetto alle effervescenze delle avanguardie del primo Novecento (e più tardi, certo con molto senno di poi, tenterà di accreditare un senso postmoderno all’azione del Gruppo); Eco di una ‘generazione di Nettuno’ contrapposta ai vulcanismi di inizio secolo; Guglielmi elaborò la nozione di sperimentalismo, in opposizione a quella di avanguardia, riassumendone i due poli nelle figure di Gadda e Marinetti; Sanguineti si mostrava consapevole del transito inevitabile dalle avanguardie al museo. Cautele e precisazioni che solo in minima parte permearono le effettive produzioni artistiche del Gruppo, troppo compiaciute del loro carattere ‘dirompente’ e ‘rivoluzionario’ per rendersi veramente conto che stavano giocando un gioco ormai invecchiato. È in questo clima neoavanguardistico, nelle riunioni del «Verri» e nella preparazione all’uscita palermitana del Gruppo, che prende forma il primo scritto di grosso impatto di Eco, il volume di saggi Opera aperta, pubblicato nel 1962. Eco (n. 1932) proveniva da studi di filosofia medioevale (Il problema estetico in San Tommaso, 1956; Sviluppo dell’estetica medioevale, 1959), ma da vari anni seguiva con attenzione i nuovi fenomeni artistici in campo musicale e visivo. E l’Opera aperta si presenta innanzi tutto come una riflessione sulle poetiche che stanno alla base di fenomeni come la musica seriale, la pittura informale, l’arte cinetica. Carattere comune a tutte queste tendenze artistiche è, secondo Eco, la particolare autonomia 289

esecutiva concessa all’interprete: queste opere non solo tollerano, ma esigono un intervento organizzativo da parte del fruitore. Mentre l’opera tradizionale è costruita dall’autore in modo definito e conchiuso, le nuove tendenze assegnano un ruolo essenziale all’iniziativa del lettore o dell’ascoltatore, creano opere aperte che «vengono portate a termine dall’interprete nello stesso momento in cui le fruisce esteticamente»33. L’autore offre al fruitore un’opera da finire, la rende disponibile a vari complementi produttivi: in una composizione musicale «il fruitore organizza e struttura […] il discorso musicale. Collabora a fare l’opera». Certamente, Eco sa bene che tutte le opere, anche quelle di epoche e artisti remoti, sono ‘aperte’ all’interpretazione: l’estetica di Pareyson, che costituisce il retroterra teorico di queste sue indagini, è sempre pronta a ricordarglielo; e, anche se talora può sembrare che Eco tenda a stemperare la specifica ‘apertura’ moderna con la più generica ‘ambiguità’ (e Kafka, a questo punto, diventa, sorprendentemente, ‘aperto’ come Stockhausen), non c’è dubbio che egli in realtà intenda l’apertura dei contemporanei come una forma aggiuntiva e successiva rispetto all’apertura che appartiene alla fisiologia di ogni arte: l’apertura delle odierne correnti artistiche è un’apertura programmatica, qualcosa di ulteriore rispetto all’apertura che è caratteristica di qualsiasi opera d’arte. Se ogni opera è implicitamente aperta, nelle poetiche contemporanee si dà una apertura «di secondo grado», un’apertura esplicitamente ricercata e trasferita già «sugli elementi che entrano a comporsi in risultato estetico»34. Oltre che nei fenomeni della nuova musica e nelle tendenze della ricerca visiva, Eco trovava conferme anche negli orientamenti espressivi dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, dedicando un saggio ai problemi posti dalla ripresa diretta caratteristica del mezzo televisivo e 290

inaugurando un filone di ricerca che subito dopo, con un po’ di scandalo e molto successo, avrebbe esteso al fumetto, alle canzoni di consumo, alla letteratura di massa, pubblicando nel 1964 un volume il cui titolo, Apocalittici e integrati, scelto a indicare due tendenze opposte di reazione al predominio massmediale dalle quali Eco si sforzava di rimanere egualmente distante, sarebbe presto diventato uno slogan35. Nella sua ricerca sulle forme dell’apertura Eco si faceva guidare ampiamente dall’idea che le tendenze artistiche fossero espressione di un clima e di un atteggiamento propiziato dai risultati della ricerca scientifica novecentesca. Eco non diceva apertamente che al principio di indeterminazione della fisica moderna, alle teorie della discontinuità, alla nuova concezione dello spazio-tempo o alle logiche a più valori corrispondessero sul piano artistico le poetiche dell’indeterminazione e dell’apertura, ma sosteneva che fosse possibile scorgere un legame per lo meno analogico tra le une e le altre. Sorgeva così l’idea dell’apertura come «metafora epistemologica», che tendeva ad assumere un valore predominante almeno dal punto di vista euristico: libertà dell’interprete e discontinuità, fisica quantistica e relatività einsteiniana erano evocate con una certa disinvoltura: «mentre apertura e dinamicità di un’opera richiamano le nozioni di indeterminazione e discontinuità, proprie della fisica quantistica, al tempo stesso i medesimi fenomeni appaiono come immagini suggestive di alcune situazioni della fisica einsteiniana»36. Questi accenni, di per sé abbastanza vaghi, rischiavano tuttavia di incunearsi anche là dove Eco tentava un discorso più serrato e più ambizioso, come nel suo sforzo di spiegare il funzionamento del linguaggio poetico (che egli leggeva sostanzialmente sulla base dell’opposizione tra uso referenziale e uso emotivo della lingua) con gli strumenti 291

della teoria matematica dell’informazione. L’idea che si voleva suffragare era che messaggi ricchi di significato ma prevedibili, come quelli della comunicazione ordinaria, potessero essere opposti a messaggi ad alto tasso di disordine programmato, quelli artistici, nei quali una diminuzione di significato si accompagnava a un parallelo accrescimento del potere informativo. Ma per far questo, come fu notato tempestivamente37, Eco era costretto a opporre radicalmente due nozioni, quelle appunto di significato e informazione, che non erano affatto antitetiche nelle teorie matematiche di Wiener, Shannon e Weaver, e soprattutto a considerare l’informazione, al contrario di quanto accadeva in queste ultime, una proprietà dei singoli messaggi e non della fonte della comunicazione. La cosa è importante, nel nostro contesto, soprattutto perché Eco nelle successive edizioni dell’Opera aperta (che presto avrebbe avuto un notevolissimo successo anche internazionale, con numerose traduzioni) riconosce la fondatezza delle critiche ma tende ad accreditare l’idea che le intuizioni così argomentate possano ricevere una fondazione più adeguata con i nuovi strumenti semiologici, così come, in altro contesto, modifica l’originaria opposizione referenziale-emotivo in accordo con lo schema a più funzioni del linguaggio ricavato da Jakobson e con l’opposizione tra denotazione e connotazione desunta, provvisoriamente, da Barthes38. I temi dell’‘impegno’ e della funzione critica delle operazioni sulle forme sembrano relativamente poco presenti nella prima edizione del volume di Eco, ma egli li svolge parallelamente, in quegli anni, sia in due interventi successivi su «Rinascita» del 1963, sia nel lungo saggio intitolato sintomaticamente Del modo di formare come impegno sulla realtà, non a caso incluso nelle successive edizioni dell’Opera aperta. Eco attacca i ritardi vetero-umanistici 292

della cultura dominante, i sospetti elitari contro le comunicazioni di massa, la diffidenza nei confronti di un’arte che si impegni sulle strutture piuttosto che sui contenuti, nella convinzione che «il discorso che l’arte fa, lo fa attraverso il modo di formare», onde, ad esempio, «il musicista è progressista nella misura in cui promuove a livello delle forme una nuova maniera di vedere il mondo». Convinzioni ragionevoli, dietro le quali si intravede però una fiducia per nulla incrinata nelle capacità autenticamente eversive dei nuovi linguaggi, nella reale portata innovativa delle sperimentazioni in corso: il confine tra le due avanguardie, quella storica e quella replicata, svanisce («ed ecco che allora assume significato definitivo la funzione di una ‘avanguardia’»), magari per salvare «l’ansia della rivolta»39. Forse non è un caso, allora, che il teorico della fredda ‘generazione di Nettuno’ recuperasse in epigrafe all’Opera aperta i versi infiammati di uno dei massimi protagonisti dell’avanguardia storica, Guillaume Apollinaire. 5.4. L’estetica semiotica Una scienza generale dei segni, una semiotica generale, non ha tra i propri oggetti costitutivi le opere d’arte o i fenomeni estetici in genere. Essa, cioè, può certamente occuparsene, come se ne occupano la sociologia o la psicologia, ma non deve farlo obbligatoriamente, né se ne occupa al fine di riflettere sulla loro natura estetica: caso mai, assume questi oggetti come ‘dati’, senza ulteriormente problematizzarli, e li sottopone ad analisi dal proprio punto di vista. Questa posizione, che non individua un rapporto privilegiato tra estetica e semiotica, anche se non esclude contatti tra le due discipline, pare oggi abbastanza largamente accettata, sia da parte semiotica che da parte estetica, tanto che non sembra porsi un problema specifico 293

circa la convivenza dei due tipi di analisi. Ma nel periodo di cui adesso ci occupiamo, e dunque negli anni 1965-1980 (o 1965-1975, se ci si riferisce alle prese di posizione teoriche più avanzate), le cose erano viste sotto una luce alquanto diversa. Non solo infatti la semiologia o semiotica si diffuse in Italia prevalentemente attraverso lavori che si muovevano nel campo che per tradizione era appannaggio degli studi estetici (critica letteraria, figurativa, architettonica), il che poteva sembrare e in parte era anche un portato contingente legato all’affermazione di una ‘scienza’ che, se per un verso poteva vantare una lunga storia, per un altro era giovane o giovanissima; ma tale diffondersi fu accompagnato dalla convinzione che il nuovo approccio semiotico fosse destinato a soppiantare quello estetico, nel senso che, si pensava, la semiotica avrebbe fornito quella cornice complessiva agli studi estetici e quella fondazione rigorosa dei loro concetti-chiave che la filosofia non pareva più in grado di assicurare. Tale convinzione fu condivisa da una sorta di ‘sentire diffuso’ o di ‘orientamento teorico medio’, cui partecipavano moltissimi operatori del settore delle arti e della critica; vogliamo dire che essa fu, prima ancora che un argomentato principio teorico, un orizzonte comune a molte ricerche. Se cerchiamo di raccogliere i tratti salienti che accomunano questi studi, ci ritroviamo dinanzi a tre aspetti fondamentali: 1) L’idea che l’arte sia essenzialmente un fenomeno comunicativo, ossia che il suo essere comunicazione sia un aspetto costitutivo e identificante, che getta luce su tutti gli altri. Questa convinzione era spesso accompagnata dalla richiesta che non si considerasse l’arte come un fenomeno capace di comunicare immediatamente e come che sia, ma solo a patto che si conoscano alcune regole e convenzioni. In ciò era presente una significativa istanza analitica, il rifiuto di considerare l’arte come un dato immediato, 294

intuitivo, e la necessità di conoscerne le leggi e i meccanismi: un’istanza in cui si esprimeva, nel senso migliore, la richiesta di ‘scientificità’ che era un altro dei caratteri salienti di questi studi. 2) La persuasione che il compito della semiotica (a questo punto coincidente con l’estetica) fosse quello di identificare e fissare, per tutte le forme d’arte, una regola o un insieme di regole per la produzione e la decifrazione dei messaggi artistici, in analogia con quel che avviene, nei rispetti del linguaggio verbale, con la langue dei linguisti: insomma che l’ufficio principale della semiotica-estetica fosse quello di costruire i codici delle varie arti. Questo compito fu interpretato spesso in modo alquanto materiale, assumendo cioè acriticamente la partizione tradizionale delle arti e cercando di stabilire il codice del cinema, della pittura, dell’architettura ecc. 3) La supposizione che attraverso la strumentazione semiotica fosse possibile dimostrare la consistenza di quei criteri di artisticità o poeticità che abbiamo visti condivisi dalla critica di orientamento strutturale, ossia essenzialmente il carattere ambiguo del testo estetico, la sua auto-riflessività e l’individuazione della esteticità come scarto o deviazione dalla norma. Questo terzo aspetto può sembrare contingente, e lo è da un punto di vista strettamente teorico (quei principi, magari in forma diversa, non coincidono affatto con la poetica strutturale, sono stati elaborati anche al di fuori di essa ecc.), ma non lo è da un punto di vista storico: nel senso che, presentandosi come capace di fondare rigorosamente quei criteri di artisticità, la semiotica di quegli anni fece valere, in un’accezione più ristretta e condizionante, la propria istanza scientifica, dichiarandosi in grado di riformulare, appunto in termini scientifici, quello che fino ad allora aveva vagato nel limbo del gusto soggettivo. 295

L’idea di una scienza semiotica (ma all’inizio prevalse il termine saussuriano semiologia) cominciò a circolare in Italia verso la metà degli anni Sessanta, dapprima senza che la si distinguesse bene da quella di una poetica strutturale: ancora alla fine del decennio, Eco doveva spiegare che le due cose non coincidevano affatto, cosa che evidentemente ancora molti pensavano40. Essa era stata solo in parte anticipata e propiziata dalla discussione sulla cosiddetta ‘estetica semantica’ che si era svolta attorno alla rivista «Nuova Corrente» e che aveva visto come protagonisti Raffa, Garroni, Menna, Rosiello e, da posizioni esterne, Fanizza. Non solo infatti l’estetica semantica, al di là dell’assunzione del carattere ‘significante’ dell’arte, muoveva da presupposti diversi da quelli della successiva semiotica, ma sotto l’etichetta comune raccoglieva orientamenti molto diversi: Raffa, ad esempio, proponeva un’estetica scientifica, in polemica contro la tradizione speculativa, in un senso non lontano da quello del processo all’estetica di Plebe, mentre il volume di Garroni La crisi semantica delle arti (1964) tematizzava il concetto di ‘crisi’, quello di ‘pluralità delle arti’, e infine quello di ‘semanticità’, insistendo in particolare sul problema della dialettica tra istituzionalizzazione del segno e segno istituzionalizzato: un problema, come si vede, di natura schiettamente filosofica41. In ogni caso, a partire dalla fine degli anni Sessanta si assisté a una proliferazione di studi semiotici, un po’ in tutti i campi artistici (ma soprattutto nell’ambito della letteratura, dell’architettura e del cinema): la semiotica comparve nei titoli delle opere più disparate, e si fece semiologia un po’ di tutto, dalla moda al paesaggio. Ora, se si prendono in considerazione questi studi, allo sguardo retrospettivo emerge subito un fatto che, per essere relativamente esterno, non cessa però di apparire estremamente indicativo: e cioè la circostanza che, a fronte 296

di una mole imponente di lavori che dava per scontata l’esistenza di una ‘estetica semiotica’ come quadro generale in cui si inserivano le ricerche particolari, e che sostanzialmente si reggeva sul presupposto di una fondazione semiotica dell’estetica, gli studi che tematizzassero effettivamente questo problema, cioè che riflettessero veramente sul nesso di semiotica ed estetica, furono pochissimi. E, cosa ancor più sorprendente, quei pochi che affrontavano questo nodo teorico giungevano, presto o tardi, a conclusioni assai più restrittive di quelle supposte dalla koinè semiotica. Prendiamo il caso di Eco, cioè di uno degli studiosi che maggiormente contribuirono alla diffusione della nuova scienza, e che, specie agli inizi, sposò appieno la vocazione imperialistica della semiotica, ossia l’ambizione che essa nutriva a occuparsi di tutto il campo della cultura42. Il primo libro di Eco con netta impostazione semiotica, ossia La struttura assente, del 1968, assegna indubbiamente ai problemi estetici una collocazione privilegiata: non si occupa solo di essi, ma si può dire che si occupi in larga parte di essi. Il capitolo sul messaggio estetico, non lungo, è però collocato in un luogo saliente, proprio a ridosso della parte introduttiva dedicata alle condizioni della comunicazione. Larghe sezioni sono consacrate ai codici visivi e soprattutto all’architettura: a questa altezza cronologica Eco ritiene che «il problema del segno iconico diventa il banco di prova della semiologia proprio per il fatto che tradizionalmente non si presta alla codificazione in termini strutturali»43, e tenta di risolverlo battendo strade che saranno poi da lui quasi tutte abbandonate (il segno iconico come del tutto convenzionato, il codice cinematografico come codice a tre articolazioni, il significato del segno architettonico come la funzione che esso rende possibile). È convinto che il punto di vista semiologico possa fondare la poetica come 297

disciplina specifica, e nella sezione sul messaggio estetico accoglie tutti quei criteri che ormai conosciamo, l’ambiguità, l’auto-riflessività, la violazione della norma, osservando che «nel momento in cui il messaggio estetico viene sottoposto a indagine semiologica occorre tradurre gli artifici detti ‘espressivi’ in artifici di comunicazione sulla base di codici»44. Già nel volume successivo Le forme del contenuto (1971), però, il campo della semiotica e quello dell’estetica appaiono assai meno convergenti. Il saggio sulla metafora «non spiega come la metafora possa avere anche una funzione estetica», quello sull’architettura prende nettamente le distanze dai tentativi che partono dalla funzione artistica dell’architettura e si rivolge piuttosto «alla edificazione in genere»45. Il solo contributo strettamente in argomento è il saggio Generazione di messaggi estetici in una lingua edenica, un divertissement nel quale Eco vuole mostrare come sia possibile produrre messaggi estetici anche con un codice semplicissimo, che prevede l’uso dei soli segni A e B, e che Eco finge utilizzato da Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre. Anche qui, ciò che garantisce che i messaggi siano estetici sono i soliti caratteri dell’ambiguità, dell’autoriflessività, dell’analogia tra il piano dell’espressione e il piano del contenuto, ossia nient’altro che i tratti definitori in cui Eco ha preliminarmente asserito consistere l’esteticità. A questo punto, il fatto che col supposto codice edenico si possano generare messaggi ambigui, autoriflessivi ecc., dobbiamo osservare, non dimostra nulla circa la loro esteticità, a meno che non si accetti una petizione di principio: dimostro che un messaggio auto-riflessivo è un messaggio estetico solo perché ho già deciso che l’esteticità consista nell’auto-riflessività. Anzi, poiché a differenza dei nostri progenitori difficilmente siamo pronti a provare qualche emozione di fronte a un messaggio come ABBBBBBA (che nel codice inventato da Eco è un 298

messaggio ‘deviante’, e quindi ‘estetico’), il saggio rischia di apparire come la reductio ad absurdum della teoria, non dimostrando altro che l’auto-riflessività, l’ambiguità ecc. non sono condizioni né necessarie né sufficienti a costituire l’esteticità46. Quando poi Eco passa a quella che dovrebbe essere la summa del suo pensiero semiotico, il Trattato di semiotica generale del 1975, le intersezioni con le tematiche estetiche si riducono ulteriormente, fino a divenire evanescenti. Di codici visivi non si parla più, dato che il progetto non può più essere una tipologia dei segni, ma un inventario dei modi di produzione segnica; il capitolo sul messaggio estetico della Struttura assente viene sì ripreso, ma dislocato in modo tale che, per ammissione dello stesso Eco, «si presenta come verifica periferica del discorso teorico centrale»; la semiotica non esaurisce i problemi dell’estetica, anzi li sfiora appena. È vero che Eco continua a far consistere l’esteticità nei soliti caratteri dell’ambiguità ecc., ma, lasciando da parte il fatto che sembra implicitamente confutarli riproponendo la nozione di idioletto estetico come «codice che governa un solo testo», e al quale ci si può solo avvicinare in una «approssimazione infinita», è legittimo osservare che questo è il retaggio della fedeltà che Eco continua a mantenere nei confronti del progetto di una fondazione ‘scientifica’ della poetica, che a questo punto coinvolge solo marginalmente la sua semiotica47. Se le difficoltà di un’estetica semiotica e dell’identificazione dei codici della comunicazione artistica non-verbale finivano per emergere nel notevole impegno di sistemazione della nuova disciplina svolto da Eco, esse erano fin dall’inizio al centro del lavoro di un altro dei pochi studiosi mossi da un interesse teorico generale e non volti soltanto a indagini settoriali, applicative. I due libri semiotici di Garroni (1925-2005), Semiotica ed estetica, del 299

1968, e Progetto di semiotica, del 1972, si muovono bensì nella convinzione che un’analisi semiotica dei fenomeni estetici sia possibile e fruttuosa (soprattutto sulla base di quell’istanza analitica che abbiamo ricordato come uno dei tratti importanti della linea semiotica), ma, appunto, si guardano bene dal considerare come fatti quelli che erano ancora problemi. E, interrogandosi soprattutto sulle condizioni di possibilità di una semiotica, erano destinati a gettare molta acqua sul fuoco degli entusiasmi correnti. Il volume del ’68, ad esempio, parte dalla convinzione che «un esame del messaggio in generale costituisce già una chiave analiticamente adeguata per intender meglio ciò che chiamiamo messaggio artistico», ma proprio perciò si sforza di non considerare affatto pacifica la nozione di ‘linguaggio artistico’: «nello studio dei cosiddetti linguaggi non-verbali […] troppo spesso si tenta di esibire gli specifici modelli di riferimento, materialmente determinati nella loro presunta adeguatezza ai presunti specifici linguaggi considerati»48. Garroni muove da una forte sottolineatura del carattere eterogeneo di tutti i messaggi, e ricorda che anche la langue non spiega tutti gli aspetti del linguaggio verbale, ma costituisce un modello relativamente a lati determinati delle realizzazioni concrete; a più forte ragione, è assurdo pensare di costruire la ‘lingua’ delle singole arti, e, per esempio, bisogna abbandonare «ogni illusione residua circa l’idea di un ‘linguaggio cinematografico’ come alcunché di specifico-semplice, cioè come lingua cinematografica»49. La semiotica non può cercare di far rivivere il vecchio système des beaux arts in forza di un riferimento materiale alle arti consuete: semmai, deve creare dei modelli semiotici formali che non saranno «né pittorici, né cinematografici» ecc. È ingenuo pensare di andare in cerca dei ‘segni’ propri dei singoli linguaggi artistici semplicemente ritagliando il loro continuum espressivo, come spesso si fa nei confronti 300

del cinema, fermandosi arbitrariamente a un certo punto50. Questa ricerca sulle condizioni alle quali si può parlare rigorosamente di un sistema semiotico proseguiva nel Progetto di semiotica, nel quale la consapevolezza delle ingenuità dei tentativi per lo più esperiti in questo campo spingeva Garroni a un’accurata ricerca di un criterio non materiale ma formale di ciò che è linguaggio, attraverso una rilettura e un tentativo di estensione della teoria forse più rigorosa che sia stata prodotta in ambito linguistico, i Fondamenti della teoria del linguaggio di Hjelmslev. Garroni tentava di sfruttare la notevole formalità del modello del linguista danese per costruire un modello formale per l’analisi di ogni processo semiotico; rifletteva sullo statuto epistemologico della nuova disciplina, per verificare in qual senso potesse dare risultati nuovi: erano dei prolegomena a una semiotica futura che mostravano, persino oltre le intenzioni dell’autore, quanto poco di solido si fosse fino ad allora costruito. Ben poche di queste remore e di queste cautele passarono negli studi di taglio semiotico dedicati alle singole arti. E ciò è comprensibile, se è vero che questi lavori erano nati e si muovevano nella convinzione che un’estetica semiotica fosse non solo possibile, ma in qualche modo già data, e che si trattasse di verificarla e applicarla in un ambito specifico. Nacque così un’ampia fioritura di interventi, non egualmente distribuita sulle varie arti, ma comunque quantitativamente cospicua e in certi settori sovrabbondante. Anche in questo caso, molte furono le opere straniere tradotte o conosciute in Italia, dagli scritti di semiotica del cinema di Metz a quelli di Todorov, Barthes, Lotman, Bremond, Greimas sulla semiotica letteraria, da quelli di Damisch e Uspenskij sulla semiotica della pittura a quelli di Nattiez e Ruwet sulla semiotica musicale, ma moltissimi anche i volumi di studiosi italiani. Numerose 301

furono soprattutto le semiotiche dell’architettura, probabilmente per via del fatto che, almeno per l’architettura classica, esisteva un repertorio relativamente codificato di forme, un ‘linguaggio classico’ che invitava a ulteriori estensioni: oltre ai contributi di Eco, i saggi di König (Analisi del linguaggio architettonico, 1970; Architettura e comunicazione, 1974); quelli di De Fusco (Architettura come mass medium, 1967; Segni, storia e progetto dell’architettura, 1973), Scalvini (L’architettura come semiotica connotativa, 1975). Parecchi anche i lavori sul cinema: a parte Garroni, Pasolini (La lingua scritta dell’azione, su «Nuovi Argomenti» del 1966), Bettetini (Cinema: lingua e scrittura, 1968; Produzione del senso e messa in scena, 1975) e poi Casetti, Brunetta, Cappabianca, Grande e molti altri. Sulla scultura, la pittura e le arti figurative in genere gli interventi furono assai di meno, e i frutti in tutti i sensi ben più scarsi; ma vanno ricordati almeno i lavori di Calabrese (Arti figurative e linguaggio, 1975, il più tardo Il linguaggio dell’arte, 1985) e di Menna (La linea analitica dell’arte moderna, 1975), mentre Maltese (Semiologia del messaggio oggettuale, 1970) e Raffa (Semiologia delle arti visive, 1976) includevano anche l’architettura nel loro esame. Ancora: sul teatro, oltre agli interventi di Bettetini e Pagnini, il volume di De Marinis (Semiotica del teatro, 1982); sulla musica, quelli di Stefani e ancora di Pagnini (Lingua e musica, 1974), mentre tornano a essere numerosi i lavori di matrice semiotica sulle comunicazioni di massa, dove si segnalano nuovamente Eco, Bettetini e Fabbri. Intendiamoci: in questa letteratura c’è molto di buono. Solo che quel che c’è di buono spesso non è semiotico, e quel che c’è di semiotico raramente è buono. Di solito si presentano come risultati ottenuti attraverso la semiotica cose che erano raggiunte o raggiungibili per altre vie (per esempio, nel caso della pittura, la psicologia della 302

percezione o l’iconologia); nei casi peggiori la veste semiotica è solo la faticosa riformulazione di cose altrimenti note, e talora banali (è il caso di Maltese per le arti figurative o di De Marinis per il teatro), in quelli migliori si presenta come semiotica quella che spesso è soltanto un buon approccio analitico, che sfrutta possibilità diverse51. Ciò è particolarmente evidente nei lavori di taglio semiologico applicati alla letteratura, dove, sia per la formazione prevalentemente filologica dei critici conquistati ai nuovi metodi, sia per la presenza di una tradizione stratificata, emerge una preoccupazione di salvaguardia della dimensione storica della letteratura e una maggiore elasticità nell’applicazione dei portati linguisticosemiologici. Un testo come Principi della comunicazione letteraria di Corti, del 1975, è quasi paradigmatico in tal senso: fa professione di ortodossia («si è tentato di indagare il tutto da una prospettiva semiologica»), ma lascia posto alla sociologia della letteratura, all’attenzione per il ruolo del ricevente, ossia del lettore (rompendo già l’orientamento univoco sul testo), a una concezione ‘dinamica’ del testo improntata alla variantistica continiana. In compenso, i luoghi comuni dell’approccio linguistico-semiotico sono qui irrigiditi e si manifestano in pieno per quello che ormai sono: pura zavorra. Ci si inchina sempre allo ‘specifico letterario’, spiegando che esso «dipende dai rapporti particolari e insostituibili, spesso laboriosi, dei fenomeni letterari tra di loro» (bella specificità, senza dubbio); si intona la solita solfa della deviazione dalla norma, solo che, siccome ci si rende conto che essa non spiega nulla, si aggiunge che la poesia devia non solo rispetto alla lingua comune, ma anche alla lingua letteraria, che a sua volta devia da quella comune, cioè si spiega obscurum per obscurius; si dice che la lingua letteraria è un «sistema connotativo ad accumulazione diacronica», come se ciò non si potesse 303

ripetere esattamente per la lingua comune. Quando si giunge ad affermare che «nella pratica testuale non risulta possibile porre un confine tra testi poetici e no […] anche se si sa che un criterio distintivo sul piano teorico esiste»52, si capisce che siamo di fronte a un curioso ribaltamento dello stato delle cose, frutto di una perversione teorica: essendo chiaro che il confine si può invece sempre tracciare in re, mai stabilire a priori. E quando Corti parla di «un testo che, come la vita, ha la qualità superlativa di fondere in sé gli opposti», vien da chiedersi se per una banalità del genere serva davvero un semiologo. Che atteggiamento presero i filosofi nei confronti dell’orientamento semiotico dominante? Degli autori esaminati nel capitolo precedente, alcuni, come Dorfles, si avvicinarono con interesse ai nuovi strumenti, pur senza accoglierli in pieno (Comunicazione e struttura nell’analisi di alcuni linguaggi artistici, 1970; Dal significato alle scelte, 1973; Il divenire della critica, 1976); altri, come Morpurgo, criticarono le nuove impostazioni, in nome del carattere innanzi tutto presentativi dell’arte53. L’ermeneutica di derivazione pareysoniana si sviluppò seguendo linee proprie, con pochi contatti con le tendenze ricordate, mentre assumerà un ruolo di primo piano negli sviluppi successivi, laddove l’estetica fenomenologica mantenne un salutare sospetto verso le ambizioni scientifiche della nuova critica, anche se ne accolse e fece fruttare le indicazioni per alcuni campi particolari, come lo studio della retorica (per esempio nei lavori di Barilli e Mattioli)54. Una critica forte, argomentata e non pregiudiziale venne elaborata negli scritti di Brandi che abbiamo già ricordato in precedenza (Le due vie; Struttura e architettura). Ma la crisi dell’estetica semiotica, a partire dalla metà degli anni Settanta, fu il frutto dell’azione di più fattori: l’affermarsi di nuove tendenze filosofiche e l’elaborazione di una notevole critica interna dei suoi 304

presupposti e dei suoi limiti, come vedremo nel prossimo capitolo; e anche una sempre maggiore insoddisfazione per i risultati applicativi che, a lungo sperati, tardavano a venire. Un volume sulla Semiotica letteraria italiana, del 1982, è, pur nel suo taglio divulgativo (una silloge di interviste, a cura di Mincu), sintomatico: concepito per celebrare i successi della ‘scienza del secolo’, esso si trova di fronte al fatto che quasi tutti gli intervistati – ed erano i protagonisti della stagione semiotica – tendono a dire che fanno anzitutto altro che semiologia: filologia, sociologia, critica della cultura, filosofia. Da allora, la presenza della semiotica nel dibattito estetico si è fortemente ridimensionata, nel senso che si diceva all’inizio del paragrafo: la semiotica come disciplina autonoma (i cui risultati, naturalmente, non sono qui in discussione) non presume più di sostituire o risolvere in sé l’estetica55. Dei tre punti qualificanti del progetto semiotico indicati in apertura di paragrafo, due, quello della costruzione dei codici artistici e quello della fondazione scientifica della critica, sono irrimediabilmente tramontati. Quanto al primo, ossia alla concezione dell’arte come fenomeno comunicativo, esso ci appare oggi come una tesi generalissima: dire che l’arte è comunicazione non è diverso dal dire che l’arte è imitazione, o che è espressione; quel che conta, allora, è la filosofia che sta dietro a questa affermazione e l’articola. Perché non è vero che l’estetica semiotica abbia posto la scienza là dove era la filosofia. Dal punto di vista dell’estetica, ha sostituito le filosofie precedenti con un’altra filosofia: una filosofia spesso ingenua, e dunque, spesso, una cattiva filosofia. Note 1

A. Plebe, Processo all’estetica, La Nuova Italia, Firenze 1959, pp. V-VII. U. Spirito, La mia prospettiva estetica, in Id., Critica dell’estetica, Sansoni, Firenze 1964, pp. 5-27. 2

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U. Spirito, Arte e linguaggio, in Id., Critica dell’estetica cit., p. 56. U. Spirito, La critica d’arte, in Id., Critica dell’estetica cit., pp. 133 sgg.; Id., Architettura ed estetica filosofica, ivi, p. 194. 5 Plebe, Processo all’estetica cit., p. 116. 6 Ivi, pp. 210-214. 7 G. Debenedetti, Probabile autobiografia di una generazione, in Saggi, a cura di F. Contorbia, Mondadori, Milano 1982, p. 39. 8 Per un quadro d’assieme sono da vedere la prima parte di B. Terracini, Analisi stilistica, Feltrinelli, Milano 1966, e il primo capitolo di D’A.S. Avalle, L’analisi letteraria in Italia. Formalismo, strutturalismo, semiologia, Ricciardi, MilanoNapoli 1970. 9 G. Contini, Come lavorava l’Ariosto, in Id., Esercizi di lettura, Einaudi, Torino 1974, p. 23. 10 I saggi variantistici sono ora raccolti in G. Contini, Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970. 11 Lo scritto metodico è il saggio La critica semantica, in A. Pagliaro, Nuovi Saggi di critica semantica, D’Anna, Messina-Firenze 1956; le citazioni sono alle pp. 398 e 400. 12 Si veda in proposito il bilancio di E. Garroni, Estetica e Semiotica, in Trattato di Estetica, vol. I, a cura di M. Dufrenne e D. Formaggio, Mondadori, Milano 1981, pp. 479-520. 13 Si vedano G. Leonelli, La critica letteraria in Italia (1945-1994), Garzanti, Milano 1994, pp. 173-196, e M. Onofri, Ingrati maestri, Theoria, Roma 1995, pp. 93-109. 14 G. Contini, I ferri vecchi e quelli nuovi, in «Prisma», n. 1-2, 1968; G.L. Beccaria, La critica e la storia della lingua italiana, in I metodi attuali della critica letteraria in Italia, a cura di M. Corti e C. Segre, Eri, Torino 1970, p. 226. 15 C. Segre, in La semiotica letteraria in Italia, a cura di M. Mincu, Feltrinelli, Milano 1982, p. 44. 16 M. Corti, Le vie del rinnovamento critico in Italia, in I metodi attuali cit., p. 13. 17 In M. Mincu (a cura di), La semiotica letteraria in Italia cit., p. 21. 18 Si veda a questo proposito P. Montani, Il debito del linguaggio. Il problema dell’autoriflessività estetica nel segno, nel testo e nel discorso, Marsilio, Venezia 1985. 19 Si veda C. Di Girolamo, Critica della letterarietà, Il Saggiatore, Milano 1978, cap. I. 20 I metodi attuali cit., p. 337. 21 Ivi, pp. 228, 280, 227 (rispettivamente Beccaria, Pagnini, ancora Beccaria). 22 D’A.S. Avalle, Tre saggi su Montale, Einaudi, Torino 1970, p. 26; C. Ossola e P.M. Bertinetto, La pratica della scrittura, Paravia, Torino 1976. 23 E. Raimondi e L. Bottoni, Teoria della letteratura, Il Mulino, Bologna 1975. 24 I metodi attuali cit., p. 11. 4

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D. Corno in G.P. Caprettini e D. Corno, Letteratura e semiologia in Italia, Rosenberg & Sellier, Torino 1979, p. 14. 26 L. Rosiello, in Strutturalismo e critica, a cura di C. Segre, Il Saggiatore, Milano 19852, pp. 82, 74. 27 C. Segre, Semiotica Storia e Cultura, Liviana, Padova 1977, p. 91. 28 R. Barilli e A. Guglielmi, Gruppo 63. Critica e teoria, Feltrinelli, Milano 1976. 29 Per la storia del Gruppo rimandiamo a R. Barilli, La neoavanguardia italiana, Il Mulino, Bologna 1995. 30 A. Guglielmi in Barilli e Guglielmi, Gruppo 63 cit., p. 332. 31 U. Eco, Il costume di casa, Bompiani, Milano 1973, p. 320. 32 U. Eco, Dal Gruppo 63 a «Quindici», ora in Id., Il costume di casa cit., p. 301. 33 U. Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani, Milano 19764, p.33. 34 Ivi, citazioni alle pp. 45, 89, 93. 35 U. Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano 1964. 36 Eco, Opera aperta cit., p. 57. 37 E. Garroni, La crisi semantica delle arti, Officina, Roma 1964, pp. 233-262. 38 Eco, Opera aperta cit., pp. 125-130, 72-73. 39 Ivi, pp. 266-267 e 282. 40 U. Eco, La critica semiologica, in I metodi attuali cit. 41 P. Raffa, Per una fondazione dell’estetica semantica, in «Nuova Corrente», n. 2829, 1963; E. Garroni, La crisi semantica delle arti cit.; F. Fanizza, Estetica problematica, Lacaita, Manduria 1963. 42 Ancora nel Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975, il progetto di Eco è quello di «rendere i fenomeni semiotici coestensivi ai fenomeni culturali in genere» (p. 17). 43 U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 1980, p. 74. 44 Ivi, p. 71. 45 U. Eco, Le forme del contenuto, Bompiani, Milano 1971, pp. 98, 162. 46 Il saggio apparve anche nel volume a cura di U. Volli La scienza e l’arte, Mazzotta, Milano 1972, che incarna bene le ambizioni più ingenuamente scientiste della semiotica di allora. 47 Eco, Trattato di semiotica generale cit., pp. 328-343. 48 E. Garroni, Semiotica ed estetica, Laterza, Bari 1968, pp. VII, VIII. 49 Ivi, p. 48. 50 Ivi, p. 73. Questo argomento è ripreso e approfondito da Garroni, in relazione soprattutto all’architettura, nelle pp. 83 sgg. del Progetto di semiotica, Laterza, Bari 1972.

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Questa scarsa specificità degli studi che pure si pongono sotto l’etichetta semiotica non è venuta meno neanche in anni più recenti. Si veda ad esempio Semiotiche della pittura, a cura di L. Corrain, Meltemi, Roma 2004. 52 M. Corti, Principi della comunicazione letteraria, Bompiani, Milano 1975, p. 97. Le altre citazioni sono a pp. 183, 14, 84. 53 G. Morpurgo-Tagliabue, L’arte è linguaggio? (1968); Id., La chiave semiologica dell’architettura (1969); ora entrambi in Id., Geologia letteraria, Garzanti, Milano 1986. 54 R. Barilli, Poetica e retorica, Mursia, Milano 1969; E. Mattioli, Studi di poetica e retorica, Mucchi, Modena 1983. Barilli ha poi elaborato anche una critica all’approccio semiotico all’opera d’arte, per esempio in Tra presenza e assenza, Il Mulino, Bologna 1974. 55 Per una bibliografia degli scritti di semiotica in relazione ai problemi estetici si veda Sensi e discorso, a cura di G. Marrone, Progetto Leonardo, Bologna 1995, che porta il significativo sottotitolo L’estetica nella semiotica; si vedano anche: P. Fabbri, La svolta semiotica, Laterza, Roma-Bari 1998; Semiotica in nuce, a cura di P. Fabbri e G. Marrone, Meltemi, Roma 2001.

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Capitolo sesto. Il ritorno dell’estetica come filosofia

6.1. L’impasse della critica letteraria Nel 1993 Cesare Segre pubblica un volume dal titolo Notizie dalla crisi. La crisi della quale o dalla quale si danno notizie è quella della critica letteraria, e l’autore spiega subito che si tratta, in sostanza, della critica «di stampo strutturalistico-semiologico, la più combattiva e ricca di risultati tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta». Che essa sia in crisi appare indubitabile anche a Segre il quale ne è stato, come si è visto, uno dei protagonisti insieme più attivi e consapevoli: «la crisi c’è, e si avverte». Si tratta però, a suo parere, di una «crisi anomala». Nella normale vita della cultura, viene infatti spiegato, la crisi di una tendenza teorica è causata di solito dall’avvento di una tendenza diversa, che ne confuta le premesse o i risultati, sostituendo il proprio punto di vista a quelli precedenti. Un movimento critico, un orientamento estetico viene soppiantato da un altro. Ma nulla di tutto questo sarebbe accaduto in Italia, dove nessun orientamento critico nuovo ha preso il posto di quello formale-semiotico, il quale è ancora ben saldo nei suoi principi e nei suoi metodi. Certamente, Segre sa bene che le cose, all’estero, sono andate in maniera molto diversa. In Francia, già dall’inizio degli anni Settanta, si è parlato di post-strutturalismo, che era poi in larga parte un anti309

strutturalismo; molti autori schierati nel decennio precedente su posizioni strutturalistiche hanno modificato la loro posizione, dando luogo talora a vere e proprie palinodie (l’ultimo Barthes, Todorov, la Kristeva, o, nel campo della semiotica del cinema, l’ultimo Metz); la filosofia di Derrida ha messo in crisi molte delle certezze dell’orientamento strutturale; trapiantato in America, il decostruzionismo derridiano ha permeato di sé buona parte delle Humanities dando vita a un plesso di tendenze (testualismo, distruzionismo, critica ‘genealogica’) magari lontane tra loro ma tutte accomunate dal radicale rifiuto del ‘principio di immanenza’ che reggeva la critica precedente; in Germania, l’estetica della ricezione ha spostato il fuoco dell’interesse critico dal testo alla risposta del fruitore, come pure è avvenuto, nel nostro continente e in America, con il reader-oriented criticism. Autori la cui prima diffusione è avvenuta in ambiente semiotico, come Bachtin, si sono dimostrati portatori di istanze in gran parte diverse; la filosofia ermeneutica, sempre più affermatasi a partire dalla fine degli anni Settanta, ha spostato l’interesse dallo studio delle presunte strutture oggettive dei testi all’interpretazione. Segre, naturalmente, queste cose le conosce, e ne parla. Ritiene però che nessuna delle nuove posizioni emerse sia accettabile, e nel complesso è incline a presentarle come una liquidazione della vera critica; d’altro canto, è convinto che in Italia l’orientamento semioticostrutturale sia stato in grado di evitare le rigidezze che lo hanno caratterizzato all’estero (il che è in parte vero), e che proprio perciò sia stato capace di far proprie in anticipo le poche istanze positive che potevano venirgli dagli ultimi sviluppi (il che è molto meno vero). In nessun caso gli pare sia necessaria una revisione profonda dei principi su cui si reggeva la critica strutturale: «C’è forse qualche tendenza che abbia soppiantato la critica di cui stiamo parlando?». 310

Tutte le nuove teorie «sono ben note e discusse da noi, ma nessuna è riuscita a soppiantare la critica elaborata in precedenza». È chiaro che su questi fondamenti la crisi, che pure viene registrata e denunciata, diventa incomprensibile. Come il Polifemo omerico, la critica strutturale muore gridando che ‘nessuno’ la uccide. Il paragone non paia irriverente, perché Segre stesso ne usa uno assai più irriguardoso. La critica semiologica avrebbe vinto su tutte le altre, ma «il vincitore si aggira rintronato sul ring e pare che stia per cadere»1. Se pone capo a questi controsensi, l’eziologia della crisi tracciata da Segre non può essere attendibile. In particolare colpisce che venga del tutto passato sotto silenzio il fatto che già nella seconda metà degli anni Settanta si erano manifestati da noi segni notevoli di cedimento dell’edificio teorico della critica strutturale, mentre venivano elaborate le prime critiche alla semiotica dei codici e la semiotica stessa prendeva strade diverse da quelle battute in precedenza. Nel 1978 un critico letterario, Di Girolamo, pubblicava un breve studio che si proponeva di «intervenire polemicamente contro l’acquiescenza a ipotesi che si vuol far credere universali, a opinioni che vengono passate per verità scientifiche». Il titolo stesso, Critica della letterarietà, chiariva che i referenti polemici erano i capisaldi stessi della critica strutturale. A essere revocata in dubbio era l’idea che sia possibile definire il carattere letterario di un testo «in base a qualità o proprietà intrinseche», che esista una «letterarietà» interna ai testi la cui identificazione costituirebbe il vero oggetto della critica letteraria; e su questo fulcro si faceva leva per confutare tutta una serie di assunzioni che per molto tempo erano state vissute come pacifiche. Innanzi tutto, la tesi che il testo letterario si distingua da quello non letterario come testo connotativo di contro a un testo denotativo, tesi rispetto alla quale si 311

osservava che «ogni testo è, per certi aspetti inespungibili, connotativo»; poi, quella che la dominanza della funzione poetica, questione cruciale una volta che si sia ammessa la compresenza di tutte le funzioni in ogni messaggio, sia decidibile sulla base di indizi esattamente individuabili; infine, la convinzione che la letterarietà sia identificabile mediante lo scarto dalla norma linguistica, contro la quale si argomentava giustamente che né ogni scarto produce valore né è mai possibile fissare, se non per atto di arbitrio, un linguaggio di grado zero rispetto al quale calcolare omogeneamente la deviazione2. Qualche anno più tardi, nel 1983, un volume di Brioschi, La mappa dell’impero, raccoglieva una serie di saggi nei quali si ritrovavano molte delle argomentazioni di Di Girolamo, inquadrate in forma più sistematica. Brioschi batteva in breccia i principi su cui si incardinava la poetica strutturale: la presenza di proprietà linguistiche e semiologiche che distinguono i testi letterari da quelli non letterari, il primato del testo su tutti gli altri fattori della comunicazione, la superiorità dello studio ‘intrinseco’ o ‘immanente’ dei fatti letterari, la possibilità di costituire in scienza la critica. Riferendosi a questi assunti, si chiedeva se l’immagine della letteratura che veniva proposta dalla teoria letteraria corrente non fosse «un po’ troppo inutile e vuota», notava giustamente che le opere letterarie non costituiscono una ‘classe’ identificata da marche rigorose ma piuttosto un ‘campo’ mobile e aperto, affermava la natura «costitutivamente impura» dell’esperienza letteraria, ricordava che la letteratura non è semplicemente un corpus di testi, ma anche «un comportamento in cui i soggetti osservano certe regole», e soprattutto negava che la critica letteraria dovesse regolarsi sui parametri di una presunta scientificità, essendo essa, ineliminabilmente, piuttosto argomentazione persuasiva che non dimostrazione logica3. Certamente, se dalla parte 312

polemica si passa a quella propositiva, tanto nel libro di Di Girolamo che in quello di Brioschi emergono delle difficoltà: il primo sembra puntare verso la riabilitazione di un approccio sociologico (la funzione poetica di un testo dipende dal suo «funzionamento sociale», è sempre il pubblico a decidere se un testo è letterario); il secondo lo segue su questo terreno («un testo non è letterario ma lo diventa in rapporto a un dato comportamento sociale»4), accentuando un criterio pragmatico, quello di un tipo particolare di ri-uso che fa di un testo un’opera, nella convinzione che sono le condizioni comunicative a decidere, in ultima analisi, dell’artisticità. Ma la pars destruens di entrambi era netta, argomentata, e costituiva una sfida ai dogmi della critica strutturale. Se questo accadeva nel campo della critica letteraria, in quello semiotico la seconda metà degli anni Settanta vedeva in atto una revisione ancora più profonda, anche sul versante propositivo. Un libro come Ricognizione della semiotica, pubblicato da Garroni nel 1977, invertiva radicalmente le tendenze fino ad allora in atto nella ‘scienza dei segni’: in luogo di preoccuparsi di estenderne sempre più il dominio, annettendole nuovi territori, quel libro invitava a sottoporla finalmente a un esame critico, che ne chiarisse lo statuto e le competenze. Mossosi in questa direzione, Garroni non solo mostrava la natura semplicemente descrittiva e classificatoria di tanti procedimenti semiotici, ma denunciava le carenze di approfondimento rispetto a questioni teoriche centrali, come quella del significato e del referente. Un ripensamento di tale problema implicava un coinvolgimento profondo della filosofia, e un’apertura della semiotica verso il non-segnico. Su tale strada ci si imbatteva, in luogo della riduzione dell’operazione alla semiosi, che ci si sarebbe potuta aspettare, in una netta 313

affermazione della differenza tra operazione e linguaggio e insieme della loro inevitabile correlazione. L’interdipendenza di operazione e linguaggio, e la presenza nell’agire umano di una componente metaoperativa, analoga a quella metalinguistica, servivano a Garroni per riesaminare tutta la tematica dei linguaggi artistici, dei ‘codici’ delle varie arti. Essi non apparivano più come fenomeni intrinsecamente linguistici, quanto piuttosto come ‘comportamenti operativi’ suscettibili di correlarsi a una semiosi, di simbolizzarsi, e la cui ‘artisticità’ dipendeva dall’accentuazione del carattere metaoperativo. Cadeva così uno dei presupposti più radicati dell’estetica semiotica, quello dell’esistenza dei codici artistici, e si poteva passare a un riesame, su questa nuova base, degli altri principi di quell’estetica: l’idea dello stile come violazione della norma, l’orientamento sul messaggio come marca della poeticità, la ricerca degli invarianti della narrazione5. Anche se il libro di Garroni fu, sulle prime, più attaccato che condiviso, in esso indubbiamente facevano la loro apparizione alcune tendenze che di lì a poco sarebbero divenute palesi in quasi tutta la semiotica italiana. La semiotica dei codici fu rapidamente abbandonata; in luogo della ricerca di strutture venne in luce un approccio pragmatico alla semiotica, ossia tale da mettere in primo piano le condizioni effettive della comunicazione; De Mauro mostrava che persino le lingue storico-naturali non sono calcoli, e richiedono una condizione di creatività6; lo iato fra semiotica e filosofia divenne meno netto, sia perché da parte di studiosi di formazione filosofica, ad esempio Sini, si cominciò a interessarsi di autori ‘semiotici’7, sia perché venne a cadere presso i semiotici la diffidenza verso la filosofia. Il caso di Eco, ancora una volta, è esemplare: egli intitola una raccolta di saggi, nel 1984, Semiotica e filosofia del linguaggio, e, modificando sostanzialmente l’impostazione del Trattato, 314

insiste in accordo con tale titolo sulla natura filosofica di una semiotica generale; non solo: egli parla sì della critica letteraria come di una ‘semiotica applicata’, ma la presenta come una «zona dai confini imprecisi […] per la quale non credo occorra porsi dei problemi di scientificità quanto di persuasività retorica». Nel successivo Kant e l’ornitorinco, del 1997, il problema del riferimento a una realtà extrasemiotica assume un peso imprevedibile rispetto al Trattato di semiotica generale, e viene trattato con strumenti attinti alla filosofia e alle scienze cognitive8. Ce n’era abbastanza per rendere una riconsiderazione della critica semiotico-strutturale non solo augurabile, ma imprescindibile. E tuttavia occorre dire che tale confronto è mancato del tutto. Da questo punto di vista, il quadro tracciato da Segre recupera una sua paradossale veridicità. È vero, cioè, che la critica strutturale-semiologica non si è sentita chiamata al confronto con i nuovi orientamenti, e ha sostanzialmente lasciato cadere la dimensione teorica. Di Girolamo e Brioschi, riprendendo nel 1986 le tesi che abbiamo visto, constatavano malinconicamente: «quel che colpisce è il ristagno della discussione e soprattutto l’incapacità di raccogliere provocazioni»9. Da allora, un fatto nuovo si è aggiunto, che però non ha mutato il segno della situazione. È accaduto, cioè, che la crescente insofferenza verso i metodi strutturali, presso i giovani critici, si sia tradotta non tanto nella ricerca di nuovi presupposti teorici, ma in un rifiuto della teoria tout court. Questo rifiuto può prendere modi molto diversi: un saggismo acuto e impegnato in Berardinelli; un intimismo talora imbarazzante o un’enfatica sacralizzazione della letteratura in Trevi, ma comunque lo caratterizza la convinzione che la riflessione teorica apra la strada all’isterilimento tecnico, dissecchi i veri motivi che possono fare della lettura un’esperienza decisiva per il singolo10. Forse nulla incarna 315

meglio questo disimpegno teorico dell’insistenza con la quale, negli ultimi anni, si è riproposta la figura del criticoscrittore. In questo modo, infatti, non ci si limita ad auspicare ragionevolmente che il critico sia anche buon scrittore, ma si insinua l’idea che il critico sia critico perché scrittore, implicitamente negando ogni utilità della riflessione sull’arte e dimenticando che esistono tanti grandi scrittori che sono poco o punto buoni critici11. Il panorama della teoria letteraria mostra dunque una situazione curiosa. Se si escludono singole aree in cui la consapevolezza teorica si è mantenuta forte (per esempio, nel caso della critica psicoanalitica, con gli studi di Orlando e di Lavagetto), e singoli autori che hanno conservato l’interesse per il nuovo (come Raimondi), alla massa imponente di studi di natura teorica degli anni Sessanta e Settanta è succeduto, sostanzialmente, un vuoto. La discussione sul ‘canone’, endemica per un decennio in America, da noi raramente è stata ripensata sulla base della nostra storia letteraria; la critica tematica (evidente reazione al precedente formalismo) è stata molto praticata ma poco teorizzata; si è preferito aggrapparsi a una generica dimensione ‘etica’ della letteratura (così Segre ha pensato, per suo conto, di uscire dalla crisi), mentre Benedetti ha puntato sul ritorno dell’autore e di una (peraltro più auspicata che reale) rinascita dell’impegno sociale politico, e Moretti ha tentato ibridazioni ‘scientifiche’ che ricordano il più sgraziato positivismo12. All’apertura verso quanto proveniva dall’estero, così marcata nei decenni precedenti, ha fatto seguito, in campo letterario, la fin de non recevoir opposta a quasi tutti gli stimoli provenienti da fuori: anche in questa convinzione di non aver bisogno di nulla si sono ritrovate unite, paradossalmente, quello che resta della critica strutturale e gli antagonisti anche più aspri di essa. Non stupisce allora 316

che l’estetica abbia svolto in questo campo una sorta di ruolo di supplenza, nel senso che il dibattito che altrove ha avuto il suo centro in ambito letterario o teorico-letterario da noi ha avuto innanzi tutto un’eco e una dimensione filosofica. Qualche esempio, senza nessuna ambizione di completezza. Per quel che riguarda il privilegiamento del ruolo del lettore, che è forse la marca più largamente condivisa dalla critica degli anni Ottanta, non si può non ricordare il volume Lector in fabula di Eco, come al solito assolutamente tempestivo su scala internazionale e anticipatore per quella nazionale (il libro è del 1979). Certo, va sottolineato che l’orientamento verso il lettore che emerge nel lavoro di Eco è ancora inquadrato in una prospettiva semiotica, sia pure di netta impostazione pragmatica, ed è ben distinto da quello che poi sarà, per lo più, il reader-oriented criticism. Il lettore di Eco continua a essere, sostanzialmente, una funzione del testo. Ma è notevole che Eco possa già individuare l’orientamento esclusivo sull’opera come uno dei limiti maggiori della critica strutturale, e d’altra parte ricollegare la propria ‘riabilitazione’ del lettore al proprio esordio in sede di estetica, ossia all’attenzione che l’Opera aperta prestava all’intervento attivo del fruitore13. Per quel che concerne invece l’estetica della ricezione, bisognerà fare riferimento alle traduzioni dei lavori di Jauss e Iser, e notare come il maggiore interesse verso queste tendenze (che presentano del resto notevoli intersezioni con quella precedente) sia venuto da studiosi di orientamento neo-fenomenologico14. Infine, la riprova più convincente di quanto stiamo dicendo può venire dalla ricezione del decostruzionismo e delle tendenze limitrofe. Mentre infatti in America questi orientamenti sono stati a lungo al centro del dibattito critico-letterario, in Italia la loro penetrazione è stata pressoché esclusivamente filosofica. Se si eccettuano gli 317

interessi di pochi anglisti e francesisti, e l’attenzione di qualche sporadico critico15, a confrontarsi non solo con Derrida, ma anche con gli esiti del decostruzionismo in America, sono stati i filosofi: Vattimo, già dalla fin degli anni Settanta (Le avventure della differenza, 1979), e quindi in un dialogo, spesso critico, ma comunque costante16; e poi Rovatti, Sini e molti altri, mentre Ferraris seguiva da vicino gli sviluppi francesi e americani, informandone e discutendoli ampiamente17. La natura filosofica del dibattito italiano sulla decostruzione e l’assenza pressoché totale di letture di testi di tipo decostruttivo fanno sì che i due volumi che Eco ha dedicato a combattere la deriva interpretativa che gli sembra l’esito del decostruzionismo, opponendo l’interpretazione all’uso dei testi, e ancora l’interpretazione alla sovrainterpretazione, si siano trovati in una situazione curiosa: i problemi che sollevano e il dibattito a cui fanno riferimento stanno, come è del tutto evidente già nella genesi del secondo dei due volumi a cui si fa riferimento, molto più in America che in Italia18. Ma non è soltanto come tramite di cultura che l’estetica, a partire dagli anni Ottanta, si è trovata a estendersi occupando gli spazi che per altri versi la critica lasciava liberi. In quegli stessi anni, infatti, si è assistito a una dilatazione del campo dell’estetica, che, dalla situazione di marginalità e di virtuale cancellazione cui sembrava relegarla la critica strutturale e semiotica, è tornata ad acquistare legittimità. Anche senza accogliere le tesi estreme di un critico letterario che ha posto in stretta correlazione la «dissoluzione della critica» e la «diffusione dell’estetica», come dato centrale degli anni Ottanta («l’estetica si svincola dalla critica […] la morte tendenziale della critica segna ora l’emergere di un veicolo estetico più labile e plurale»19), bisognerà notare come gli ultimi due decenni abbiano fatto registrare un ritorno del discorso 318

estetico come discorso filosofico. Se questo è vero, ci si può chiedere però perché, ad esempio, critici letterari di orientamento diversissimo continuino a segnalare la mancanza di un rapporto con l’estetica e a invocare la sua ricostituzione come una richiesta impellente (Segre: «fra le necessità più urgenti della critica va posta quella di far riferimento ad un’estetica»; Brioschi: «un confronto con l’estetica filosofica è forse ciò di cui si sente maggiormente la mancanza nella teoria della letteratura»; Asor Rosa: «dietro la critica letteraria c’è stato per alcuni decenni un vero e proprio vuoto di riflessione estetica»20). Il fatto è che il recupero di legittimità dell’estetica non è avvenuto rinsaldando quei legami con la critica che si erano interrotti negli anni Sessanta, e il cui ristabilimento rimane, in effetti, una questione in gran parte aperta, ma attraverso una ripresa della funzione filosofica dell’estetica. Con questa precisazione essenziale: che a riproporsi non è stata però un’‘estetica filosofica’ in senso tradizionale, quello, per intenderci, ancora valido per le tendenze degli anni Cinquanta (di essa, anzi, se n’è fatta pochissima), quanto piuttosto un’accentuazione dell’aspetto estetico della filosofia in genere. Se c’è un tratto comune alle tendenze emerse nell’estetica degli ultimi anni, pur così distanti fra loro, esso sembra stare proprio in una ‘eccedenza’ dell’estetica rispetto al suo carattere di ‘disciplina filosofica’ tradizionale21, un’eccedenza attraverso la quale essa assume un ruolo centrale nel discorso filosofico. Il titolo che abbiamo dato a questo capitolo, «il ritorno dell’estetica come filosofia», non va inteso insomma come sostanzialmente analogo alla formula apparentemente identica «il ritorno dell’estetica filosofica», ma accentuando la sua letteralità: l’estetica torna, innanzi tutto, come filosofia in genere. Il che impone, più ancora di quanto sarebbe necessario in altri casi, un accenno al clima filosofico degli ultimi anni. 319

6.2. Mutamenti nella filosofia, mutamenti nell’estetica La filosofia non sembra soffrire di quel fenomeno che Harold Bloom ha chiamato, in poesia, l’«angoscia dell’influenza». Sarà forse vero per i poeti che essi cercano in ogni modo di liberarsi del rapporto con i loro predecessori e lo avvertono come un peso, ma certo non è vero per i filosofi, i quali vengono a definirsi soprattutto in forza della loro appartenenza a una tradizione, a una costellazione di pensiero. Gli ‘autori’ di riferimento sono insomma essenziali, e non solo in una prospettiva storiografica, ma anche teoretica. Ecco perché diventa subito importante segnalare che, intorno alla metà degli anni Settanta, cominciano ad assumere un ruolo centrale nel dibattito filosofico italiano autori prima guardati con un certo sospetto, o conosciuti solo sotto una luce particolare. Heidegger, Nietzsche, Wittgenstein e Benjamin diventano i protagonisti del dibattito filosofico, i loro testi sono tradotti, letti, interpretati, utilizzati per sostanziare i nuovi orientamenti. Naturalmente, trattandosi di figure eminenti, nessuna di esse era sconosciuta nei decenni precedenti; esse però erano tenute ai margini dalle correnti dominanti (la fenomenologia, il razionalismo critico, il marxismo): Nietzsche e Heidegger erano spesso bollati con un termine, ‘irrazionalismo’, non a caso destinato a diventare vieux jeu proprio negli anni di cui stiamo parlando; Wittgenstein era letto solo da specialisti (logici ed epistemologi); Benjamin, indubbiamente l’autore più prossimo al marxismo, anche se i suoi rapporti con la teologia e il pensiero ebraico ne fanno comunque un eterodosso, era poco o nulla conosciuto, e non solo in Italia. Alcuni testi che già negli anni Sessanta affrontavano questi autori in una prospettiva nuova, per esempio gli studi di Vattimo su Heidegger e Nietzsche22, erano destinati a mostrare la loro produttività soprattutto in seguito: l’ingresso massiccio degli autori indicati nel 320

dibattito italiano avviene dopo il 1975. Un volume come Krisis di Cacciari (n. 1944), pubblicato nel 1976, è estremamente indicativo di questo passaggio: autori come Nietzsche e Wittgenstein, quelli in cui si incarna la critica al pensiero dialettico, sono valutati sulla base della funzione positiva che la loro azione svolge nella crisi del pensiero classico, e in quanto mostrano l’impossibilità di risolvere tale crisi «in senso sintetico»23. Wittgenstein, fino ad allora letto prevalentemente come filosofo analitico del linguaggio, viene proiettato sullo sfondo della cultura viennese di inizio secolo, sulla quale si concentra l’attenzione, come accadrà nel successivo volume di Cacciari Dallo Steinhof (1980) e, parallelamente, nei lavori di Rella24. A questa lettura di un Wittgenstein mitteleuropeo contribuisce anche uno dei suoi massimi specialisti italiani, Gargani25. E mentre l’interesse per Benjamin tocca il suo culmine tra l’80 e l’85 – anni in cui Agamben avvia l’edizione delle opere complete in italiano e si moltiplicano i convegni, i numeri monografici di riviste, i saggi –26, quello per Nietzsche e Heidegger non sembra conoscere soste, se non forse negli ultimissimi anni. Anche qui, molte le traduzioni, numerosissimi i saggi e i volumi, ma soprattutto decisiva la funzione che il riferimento a Heidegger o Nietzsche, e spesso a entrambi, assume in autori come Vattimo, Sini, Natoli, Mazzarella, Givone, Perniola, e ancora Agamben, Amoroso, Gentili, Volpi, Ferraris; mentre, se non Nietzsche, certo Heidegger e Wittgenstein hanno un ruolo importante nelle opere postsemiotiche di Garroni. Ma la presenza di Heidegger, Nietzsche e Wittgenstein nel dibattito degli anni Ottanta e Novanta è così capillare che risulta impossibile darne conto se non in modo puramente indicativo. Piuttosto, ai fini del nostro discorso è importante notare come si tratti di autori che non offrono un’estetica in senso tradizionale, e che 321

pure appaiono centrali proprio in riferimento alle tematiche estetiche, come è provato dal fatto che molti degli studiosi italiani appena citati hanno interessi forti, e spesso dominanti, proprio in questo campo. Nel caso di Wittgenstein la cosa è diremmo anche esteriormente palese, perché non c’è in lui, se non del tutto marginalmente, una riflessione sui referenti tradizionali del discorso estetico, l’arte o il bello, sì che la sua estetica fa corpo semmai con l’intero suo pensiero, adeguatamente reinterpretato27. Ma è vera anche nel caso di Nietzsche e Heidegger, che sono piuttosto critici dell’estetica come disciplina filosofica assestata, col suo dominio specifico. Non c’è in Heidegger la possibilità di isolare un’estetica rispetto alla sua ‘filosofia’, e il saggio sull’Origine dell’opera d’arte non è una risposta alla domanda «che cosa è l’arte», ma piuttosto a quella, che infatti risuona nel testo, «in qual misura l’essenza della verità porta con sé un’aspirazione verso qualcosa come un’opera?». Un discorso analogo può essere fatto anche per l’orientamento filosofico probabilmente più diffuso e influente negli anni Ottanta e Novanta, l’ermeneutica, che da uno dei suoi protagonisti, Vattimo, è stata presentata appunto in termini di koinè culturale tipica di quei decenni, ossia come l’indirizzo di pensiero che avrebbe svolto, in tale periodo, quella funzione di raccordo e di ‘clima generale’ in precedenza realizzato dal marxismo (anni Cinquanta) e dallo strutturalismo (anni Sessanta-Settanta). Ora, tra gli autori che hanno ispirato il dibattito ermeneutico italiano c’è, oltre a Heidegger, Gadamer: e in Gadamer (basti pensare alla prima parte di Verità e metodo) la rivendicazione dell’esperienza estetica come esperienza di verità assume la forma di una polemica contro la «coscienza estetica» e culmina nell’invito o nell’imperativo: «l’estetica deve risolversi nell’ermeneutica». Così, da parte degli 322

ermeneutici italiani, fare estetica ha significato soprattutto cercare una filosofia che consentisse di dare spazio alla questione della portata veritativa dell’arte, e coerentemente si è potuto parlare di un «tramonto» dell’estetica28, il che però non significa che la filosofia smetta di occuparsi dei problemi di cui si è occupata l’estetica, e può anzi voler significare, al contrario, che a essi viene conferita un’importanza centrale all’interno del costituirsi stesso del problema filosofico. Uno dei primi episodi dai quali ebbe a trasparire il mutamento di orizzonti legato anche alla lettura dei ‘nuovi’ autori fu la pubblicazione del volume di Gargani (n. 1933) Crisi della ragione, del 1979. Il volume, organizzato come silloge di interventi di studiosi di diverso orientamento (tra gli altri Rella, Bodei, Veca e Ginzburg), voleva mostrare come la razionalità classica, cartesiano-newtoniana, fosse entrata in crisi con il dibattito epistemologico dell’inizio del secolo, con la discussione sui fondamenti della matematica ecc., sì che era necessario procedere verso un nuovo ordine conoscitivo, capace di accogliere i paradigmi emergenti, ad esempio, dalla psicoanalisi o dalla storiografia. I referenti polemici sembravano, dunque, piuttosto remoti. Ma rileggendo oggi il volume è difficile sottrarsi all’impressione che dietro all’oggetto polemico esplicito, e lontano, ce ne fosse un altro implicito e assai più prossimo. La ‘ragione classica’ di cui si discorreva presenta infatti notevolissime somiglianze – e questo spiega probabilmente l’ampiezza del dibattito suscitato dal libro – con la ‘ragione’ strutturalista, o meglio con l’ideale di ‘scientificità’ che spesso allo strutturalismo si era accompagnato. Quando Gargani indicava i caratteri della ‘vecchia’ ragione nella «estraneità dei suoi costrutti concettuali alle strutture che essi dovrebbero interpretare», nell’«ambizione di esaustività», nella «tendenza ad assumere il processo della ricerca come 323

se fosse garantito nelle strutture della realtà», quando invitava ad abbandonare la fede inconcussa nell’astratto, nel necessitante, nell’apriorico, a favore di ciò che è «semplicemente individuale e specifico»29, è chiaro che a essere chiamata in causa era l’immagine della scienza che lo strutturalismo aveva nutrito: la ‘scienza’ alla quale aveva guardato la nuova critica era un modello invecchiato già prima che esso venisse adottato. La volontà di prendere congedo dalle pretese totalizzanti dello strutturalismo era esplicita nel volume di qualche hanno successivo, intitolato, con formula destinata a rivelarsi molto fortunata, al Pensiero debole. Anche in questo caso siamo in presenza di una silloge di cui entrano a far parte autori diversi (oltre ai curatori, Vattimo e Rovatti, ad Amoroso, Carchia e Ferraris, troviamo anche Eco: a conferma di quanto si diceva circa l’orientamento ‘filosofico’ che egli tende ora a dare al proprio discorso semiotico); e in questo caso, ancor più che nel precedente, si rivela decisivo il richiamo agli ‘autori’ menzionati all’inizio di questo paragrafo. La consapevolezza che non si dà una fondazione unica, ultima, normativa si sostanzia, nell’intervento di Rovatti, col riferimento a Nietzsche, e in Vattimo con quello a Heidegger. Proprio partendo da un’interpretazione di quest’ultimo, Vattimo propone una «ontologia debole», che non pensa l’essere come stabilità, presenza, ma piuttosto come evento, accadere. Non c’è alcuna possibilità di una fondazione purificata dai condizionamenti storico-culturali, piuttosto siamo già sempre all’interno di un orizzonte storico: il nostro rapporto con la metafisica non può essere pensato come critica o superamento, ma piuttosto come congedo, remissione, invio. L’essere è ciò che si tramanda, sta sotto il segno della caducità e della mortalità. Nessuno dei saggi proposti affrontava direttamente tematiche estetiche; ma, 324

date queste premesse, è chiaro che il rapporto con l’estetica doveva darsi, se mai, su un piano diverso, e più intrinseco, come appare quando Vattimo parla della funzione di ‘modello’ che il procedere della critica letteraria e artistica può avere per quello filosofico, o quando presenta l’orizzonte ermeneutico nei termini del sensus communis che assicura, in Kant, la comunicabilità del giudizio di gusto30. Qualcosa di analogo si può forse osservare anche a proposito del dibattito che si sviluppa, negli anni Ottanta, tra ‘moderni’ e ‘post-moderni’ (dove il secondo termine può, con qualche approssimazione, rinviare appunto ai sostenitori del ‘pensiero debole’): è vero infatti che la discussione verte, visti gli interessi prevalenti soprattutto fra i partigiani del ‘moderno’, su questioni storicoepistemologiche, ma è vero anche che il termine postmoderno ha senso anche – o, come è stato giustamente osservato, soprattutto31 – in riferimento alla sfera estetica, dove indica il venir meno della necessità del superamento, della novità a ogni costo: il post-moderno, in questo senso, segna la fine dell’avanguardia. Tanto il saggio di Ferraris che quello di Rovatti, nel volume sul pensiero debole, si chiudono con un riferimento alla letteratura e alla filosofia come scrittura. Non è una coincidenza casuale. L’apertura della filosofia verso la scrittura letteraria, o, più semplicemente, il caso di filosofi che scelgono di esprimersi attraverso forme diverse dal saggio, poetico-narrative, già allora attestato, si farà sempre più frequente, da Eco a Garroni, da Gargani a Givone a Rella a Zecchi, sino a diventare uno dei caratteri salienti dell’attuale scena filosofica. Se il nostro discorso sul ritorno dell’estetica come filosofia significasse semplicemente che la filosofia si estetizza, sarebbe facile premere indiscriminatamente su questo pedale, e insistere sulla sempre maggiore esilità del confine tra filosofia e 325

letteratura32. Poiché però intendiamo qualcosa di profondamente diverso, è più utile osservare che ciò che accade non è riducibile a un denominatore comune: men che meno al punto di vista ingenuo, e inconsapevolmente metafisico, in base al quale diventerebbe possibile esprimere letterariamente quel che la filosofia non può più dire. Il caso tutto sommato più tradizionale è anche quello più universalmente noto. Dal Nome della rosa (1980) alla Misteriosa fiamma della regina Loana (2005), Eco sembra ancora rientrare, infatti, nella categoria del filosofo che è anche scrittore («Di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare»33). È vero che il fatto che il suo esordio narrativo coincida con la crisi del progetto semiotico come progetto universalistico, e l’evidente continuità tra le convinzioni del filosofo e quelle del narratore (l’atteggiamento ‘illuministico’ del Nome della rosa, la polemica contro la deriva ermeneutica nel Pendolo di Foucault) potrebbero incrinare questo assunto, ma è ancor più vero che risulta decisiva, in Eco, la circostanza che non si dia transito dalla scrittura narrativa a quella filosofica (caso mai, è l’inverso ad accadere), laddove questo transito è invece il proprio della ricerca che si muove su crinali meno sperimentati. In Rella (e in certi lavori di Agamben, come Idea della Prosa, 1985) si tratta di ‘ibridare’ discorso letterario e discorso filosofico, di recuperare a quest’ultimo non solo in senso stilistico il potenziale conoscitivo della forma letteraria34. In un testo come Sguardo e destino di Gargani (1988) si mette in scena una storia che può a buon diritto valere come esemplare: partito per scrivere un saggio filosofico tradizionale, il protagonista si trova a scrivere un’altra storia, perché «appena ci mettiamo a costruire una teoria diventiamo i personaggi di una seconda storia»35. E se «è indecente parlare della verità e non parlare di noi di fronte al suo problema», i libri di Gargani saranno autobiografici, ma come anti326

autobiografie filosofiche: narrando non la storia di una vocazione (la filosofia), ma la necessità di superare la vocazione teorica, dato che non c’è (più) un mondo da descrivere ma un’esistenza da raccontare36. Si potrebbe dire dunque che, in un’ideale topologia, il proprio discorso letterario sta per Gargani alla fine del discorso filosofico, mentre per Garroni esso si situa in una zona che precede sia la letteratura che la filosofia strettamente dette. Gli ultimi testi ‘narrativi’ di Garroni, «quasi-romanzi» e «quasi-saggi» (Dissonanzen-Quartett, Racconti morali, Sulla morte e sull’arte), mettono in scena una sorta di discorso interno in cui è il pensiero a venir narrativizzato, ma che appunto perciò non nega, anzi in un certo senso esige, che si continui a distinguere tra filosofia e letteratura, tanto che il loro motto potrebbe essere il rovesciamento di quello echiano: si deve teorizzare e si deve narrare, teoria e narrazione essendo sempre distinguibili nella loro necessaria e ineliminabile correlazione. Una sorta di necessario contro-movimento rispetto all’ingresso della letteratura nella filosofia è rappresentato dalla circostanza che i filosofi si accostano sempre più spesso ai testi letterari, e questo non nel senso che il filosofo si trova a fare, occasionalmente, critica letteraria in quanto critico (che è cosa spesso accaduta), ma in quello, assai più impegnativo, che l’interpretazione letteraria assume il valore di esperienza essenziale nella riflessione filosofica. La filosofia, insomma, si sente impegnata a corrispondere alla natura intimamente filosofica di molta grande poesia e arte antica e soprattutto moderna. Anche in questo caso, non sono mancate le denunzie allarmate37, ma il fenomeno è così diffuso che sarebbe assolutamente superficiale non cogliervi uno dei caratteri portanti dell’attuale situazione culturale: oltre al caso già ricordato di Pareyson lettore di Dostoevskij, si pensi (e si tratta di un elenco sicuramente difettivo) a 327

Cacciari che legge Kafka o Hofmannsthal, a Bodei che legge Hölderlin, a Severino che legge Eschilo o Leopardi, a Vitiello che legge Celan o Jabès, a Gargani che legge Musil o Bachmann, a Garroni che legge Bernhard, a Trione che legge Mallarmé o Valéry, a Zecchi che legge Baudelaire o Goethe, a Ferraris che legge Proust, a Givone che discute i rapporti tra filosofia, storia e romanzo, a Di Giacomo che interpreta la parabola del grande romanzo novecentesco. La caduta dei confini prestabiliti tra filosofia, letteratura, e critica rappresenta indubbiamente una netta inversione di rotta rispetto alla fiducia strutturalista nella separazione dei ‘generi’, e segni altrettanto netti di un mutamento di tendenza si possono registrare anche tornando sui terreni di più tradizionale spettanza dell’estetica. Per esempio, la voga del concetto di sublime, che è un fenomeno notevolmente diffuso lungo tutti gli anni Ottanta, assume una chiara valenza anti-strutturalista, marca un distacco, quantitativamente e qualitativamente notevole, rispetto agli indirizzi dei due decenni precedenti. Il sublime, infatti, guarda all’opera come enèrgheia piuttosto che come ergon; la interpreta in termini di forza piuttosto che di forma; mette l’accento sull’attività del lettore, che deve porsi nell’attitudine energetica dell’autore. Esattamente il contrario di quanto faceva lo strutturalismo, che è anche un predominio delle categorie spaziali su quelle temporali, laddove il sublime è la categoria dinamica per eccellenza. Se lo strutturalismo è stato, si può dire, aristotelico, il poststrutturalismo è stato longiniano. Il che è vero anche letteralmente, dato che il trattato antico Del Sublime, convenzionalmente attribuito a Longino, e la nozione di sublime in genere sono state al centro dell’interesse del post-strutturalismo americano e hanno trovato molta eco anche in Francia. In Italia, dunque, l’attenzione al sublime ha significato, tra l’altro, una forma di contatto con quelle 328

tendenze critiche con le quali, come si è visto, la critica letteraria in senso stretto ha dialogato poco38; essa, tuttavia, si è anche sviluppata autonomamente lungo due direttrici principali. Da un lato, è stata indagata l’evoluzione della nozione di sublime attraverso la retorica, dall’altro si è puntato sulla complessa genealogia filosofica del concetto, da Burke a Kant e oltre, sempre però in vista di fissare meglio il carattere innovativo del ricorso al sublime nella cultura contemporanea39. Un libro come Retorica del sublime, di Carchia (1947-2000), si muove su di un crinale intermedio: non punta a riassorbire la valenza filosofica del sublime nella sua origine retorica, quanto a indagare una condizione più originaria, arcaica, che precede il sacrificio consumato ai danni del sublime dalla retorica aristotelica, e ad aprirsi così la via per vedere nel comico moderno una sorta di sublime rovesciato40. Se il sublime indica, tra l’altro, lo sforzo paradossale di dare forma all’informe, di rappresentare ciò che si sottrae a ogni rappresentazione, è possibile vedere nel dibattito sullo statuto dell’immagine, da un lato, e nel tema dell’irrappresentabile o inattestabile dall’altro, una sorta di prosecuzione della questione del sublime. Sono entrambe tematiche molto vive sulla scena italiana almeno dai tardi anni Novanta. Per la prima, si pensi a testi come Fenomenologia dell’invisibile (2001) o Verità dell’immagine (2004) di Franzini, alle riflessioni di Di Giacomo sull’icona (Icona e arte astratta, 1998) ma anche, ad esempio, all’ultimo libro di Garroni, Immagine, linguaggio, figura (2005). La seconda si origina da alcuni scritti di Agamben orientati in senso filosofico-politico più che estetico (Homo sacer, 1995 e L’archivio e il testimone. Quel che resta di Auschwitz, 1998), ma trova poi uno sviluppo anche relativamente alla situazione dell’arte contemporanea e alla possibilità (già messa in questione da Adorno) di fare arte dopo 329

l’esperienza dello sterminio di massa (Montani, L’estetica contemporanea, 2004). Il sublime è, tra l’altro, una categoria romantica, almeno quanto la ‘forma’ è classica; e l’interesse per il sublime può, sotto certi aspetti, essere considerato un caso particolare di un altro dei fenomeni salienti dell’estetica degli anni Ottanta, ossia il ritorno del romanticismo. ‘Romantico’ è stato per parecchi decenni percepito come una cattiva parola, quasi un insulto. Della Volpe se ne serviva per liquidare le estetiche idealistiche; per gli strutturalisti era sinonimo di vaghezza, deteriore intuizionismo, mancanza di rigore. Con la crisi dell’estetica ‘scientifica’, tutto questo non è stato più vero. Il post-strutturalismo è consistito anche in un recupero del romanticismo, come si vede chiaramente nelle predilezioni degli Yale critics in America, nelle tendenze della più recente filosofia tedesca (Frank) o nella rivalutazione della teoria letteraria del romanticismo proposta in Francia da Nancy. In Italia, va sottolineato che il richiamo alla grande esperienza romantica è stato in gran parte un richiamo alla portata filosofica del romanticismo, ovviamente soprattutto tedesco: il medesimo superamento dei confini rigidi tra pensiero e poesia si è spesso (anche se non in tutti gli autori che abbiamo citato) fondato sull’esempio che in tal senso giunge dalla Romantik. Anche in questo caso, come in quello del sublime, il fenomeno si coglie innanzi tutto nell’infittirsi dei convegni, dei numeri monografici di riviste, degli studi e delle traduzioni dedicate ad autori del romanticismo, a opera di storici della filosofia come Verra o Bodei, di germanisti come Masini o Zagari, ma anche di molti studiosi più giovani (cfr. 6.4.). Il rapporto con il romanticismo è esplicito e centrale, in particolare in Givone e Zecchi, i quali, sia pure in differenti prospettive, privilegiano soprattutto l’anima miticoreligiosa del romanticismo tedesco, in opposizione a quella 330

critica o nichilistica (diciamo: Novalis piuttosto che Schlegel) e recuperano la funzione mitopoietica dell’arte. In questa direzione, la riabilitazione del romanticismo si connette con la ripresa del discorso sul mito, come è avvenuto anche in Germania nella cosiddetta MythosDebatte. Nel 1980 Russo si chiedeva, e chiedeva polemicamente a un gruppo di artisti e studiosi: «Oggi l’arte è un carcere?»41. L’arte è divenuta una prigione da cui tutti, e innanzi tutto gli artisti, cercano di evadere? Questa domanda provocatoria può servirci a introdurre l’ultimo fenomeno sul quale è necessario soffermarsi, e cioè il fatto che l’estetica negli ultimi due decenni si è sempre meno pensata come filosofia dell’arte. Ancora una volta, va registrato per prima cosa lo stacco che così si è introdotto rispetto alle poetiche formalistiche e strutturali, per le quali le opere d’arte costituivano non solo una ‘classe’ identificabile sulla base di certi tratti pertinenti, ma una premessa in qualche modo indiscutibile, non ulteriormente problematizzata (l’arte c’è e si deve solo analizzarla dal suo interno). Da allora, è entrata in crisi l’idea che l’arte sia un presupposto pacifico e il referente unico e naturale del discorso estetico. Certo, si dirà che il discorso sulla ‘morte dell’arte’ è ben più antico, rimonta a Hegel ed è stato riattualizzato già negli anni Sessanta, per esempio da Formaggio e Argan. Tuttavia, rispetto al grande precedente hegeliano, ma anche alle riattualizzazioni più recenti, accade oggi qualcosa di diverso. L’arte non perde terreno di contro alla razionalità, al discorso scientifico o filosofico, come voleva Hegel, quanto piuttosto lo perde nei rispetti della disseminazione ed espansione della stessa esperienza estetica. L’arte, in altre parole, non è più avvertita come il veicolo esclusivo dell’esteticità, si avanza l’idea della sua radicale contingenza da un punto di vista sia storico sia teorico, come vedremo 331

nel prossimo paragrafo a proposito di Garroni. Il termine ‘morte’ appare allora inadeguato non solo perché troppo carico di pathos, ma perché l’arte non scompare affatto: a scomparire è soltanto, nella realtà e nella teoria, la sua natura di tramite elettivo e indiscusso dell’esperienza estetica. La contrazione dell’estetico nell’artistico può essere contestata da un doppio versante: dal lato della storia, si può osservare come la nozione di ‘opera d’arte’, quale oggi la conosciamo, è un frutto relativamente recente della cultura occidentale, non è affatto un dato ‘eterno’, ed è strettamente intrecciata con il sorgere della ‘coscienza’ (e della scienza) estetica. Dal lato dell’attualità, è possibile rimarcare come l’esperienza estetica si dislochi in una molteplicità di sedi e di eventi (si pensi al predominio della comunicazione per immagine, all’intrattenimento di massa, all’estetizzazione della politica, all’infinita riproducibilità dell’opera d’arte ‘alta’, all’espansione delle pratiche artistiche). La correlazione tra i due fenomeni è al centro dei lavori di Fanizza (n. 1935), che muove «dall’attuale, estrema difficoltà […] di conservare o recuperare l’antico, tradizionale ambito di significazione del discorso estetico come discorso circoscritto al problema delle arti» per criticare la «restrizione della coscienza estetica moderna alla coscienza artistica» e far agire contro di essa «l’evidente avviarci verso un’‘estetica totale’, un’estetica senza più, necessariamente, la mediazione delle arti»42. Si noti che il discorso sulla perdita di centralità dell’arte non entra obbligatoriamente in conflitto con quello sull’arte come esperienza di verità, almeno in alcune sue versioni: lo dimostra il fatto che di ‘tramonto’ dell’arte si può parlare anche muovendo da una prospettiva heideggeriana, come accade in Vattimo, e che per Givone l’estetica dovrebbe «uscire dai propri confini e trasformarsi in ermeneutica di 332

quell’esperienza di verità che ha luogo non soltanto nell’arte ma nel mito e in tutte le forme della mitopoiesi»43. Un autore nel quale, fin dai suoi primi lavori, la «critica radicale dell’arte», l’attacco alla «chiusura dell’arte in se stessa» si sono accompagnati con l’esigenza di rivendicare all’estetica un territorio di riflessione più ampio è Perniola (n. 1941). Nel volume del 1971 L’alienazione artistica, l’arte è considerata come una categoria storica, non naturale né eterna, e come tale superabile: non a caso Perniola in quegli anni è vicino alle posizioni del movimento situazionista. Successivamente, egli avvia una ricognizione delle trasformazioni che le nuove forme della vita quotidiana e i nuovi media producono nella nostra esperienza, sia in relazione al problema dell’immagine e del suo rapporto con la realtà (La società dei simulacri, 1980), sia in rapporto al modo di pensare il rapporto con la tradizione (Transiti, 1985). Perniola propone «il passaggio da un’estetica ristretta che si occupa del bello artistico a un’estetica generale nella quale i problemi tradizionali dell’arte, del piacere estetico e dell’immaginazione vengono sviluppati al di là dei loro limiti abituali»44; ma all’«estetizzazione globale della vita» non si può rispondere soltanto estendendo il campo di osservazione dell’estetica, bensì mirando a «mettere in luce il carattere essenzialmente estetico della religiosità e della filosofia occidentale». Su questa strada, Perniola può accettare e proporre una riflessione che può dirsi estetica solo se il termine viene preso nel pieno senso etimologico, come una ‘filosofia del sentire’, giacché, se la nostra epoca è un’epoca ‘estetica’, ciò accade «non perché essa ha una relazione privilegiata e diretta con le arti, ma più essenzialmente perché il suo campo strategico non è quello conoscitivo, né quello pratico, ma quello del sentire, dell’aisthesis»45. Questi presupposti non vengono meno anche quando Perniola, in scritti più recenti, torna a 333

confrontarsi con i fenomeni artistici in senso stretto (L’arte e la sua ombra, 2000), perché i motivi conduttori restano quelli del rapporto estremo tra arte e realtà, arte e godimento, arte e disgusto, ossia si tratta sempre di analizzare le forme che la sensibilità prende nella scena contemporanea. Nel paragrafo precedente parlavamo della scarsità di rapporti e di scambi tra la riflessione estetica e l’attività critica come di uno dei problemi che la situazione attuale pone all’ordine del giorno. E proprio rispetto alla questione della perdita di centralità ed esemplarità dell’arte se ne può dare una riprova. Infatti, nei ricorrenti discorsi sulla crisi della critica, soprattutto letteraria, sembra spesso mancare la consapevolezza che la crisi non si situa solo a parte subjecti, dalla parte della critica, ma anche a parte objecti, dalla parte della letteratura e dell’arte che vedono messo in questione il loro ruolo privilegiato ed eminente, anche come terreno di elezione dell’esperienza estetica, e che forse pongono esse stesse per prime in dubbio tale ruolo. Ed è probabile che, se la critica intenderà veramente tematizzare questi aspetti, come sembra che si voglia cominciare a fare46, non potrà più eludere un confronto più approfondito con l’estetica. 6.3. Uno sguardo ad alcuni orientamenti Nel corso di questo lavoro abbiamo cercato di presentare unitariamente il pensiero dei singoli autori, senza suddividerne materialmente l’esposizione in quadri successivi. Si è preferito insomma seguire il medesimo autore nell’evolversi delle sue posizioni piuttosto che giustapporre una serie di tagli sincronici, nei quali si sarebbero per forza di cose intrecciati gli stessi autori in momenti diversi del loro sviluppo. Ci auguriamo che questa scelta vada a vantaggio della chiarezza; ma siamo 334

consapevoli che essa esige dal lettore un certo sforzo, perché gli richiede, spesso, di ricomporre l’intreccio cui prendono parte gli attori dei quali apprende partitamente la storia. Così Croce, che trova collocato all’inizio, tiene la scena per oltre mezzo secolo; Banfi, che ha conosciuto tra i protagonisti dell’entre-deux-guerres, in realtà è un punto di riferimento essenziale anche per il decennio ’45-’55, e così via. Lo stesso avvertimento vale anche per gli autori che sono stati presentati nel capitolo dedicato al rinnovamento post-crociano, perché se il quadro che in quel capitolo si andava a comporre era quello degli anni Cinquanta, è altrettanto vero che quegli stessi autori, e gli orientamenti da loro avviati, hanno tenuto campo per i decenni successivi, giungendo fino al presente. È il caso, innanzi tutto, dell’indirizzo fenomenologico. Non solo infatti Anceschi, scomparso nel 1995, è stato attivo fin nei suoi ultimi anni, ma, come si è già detto, molti dei suoi scritti teorici si collocano nei decenni Sessanta e Settanta, in un dialogo aperto alle proposte della nuova critica, e tuttavia mai appiattito su di esse. Inoltre, il metodo da lui proposto, la «nuova fenomenologia critica», ha costituito la base e il raccordo di numerose ricerche particolari, esperite da studiosi tra loro anche molto diversi. È caratteristico della «nuova fenomenologia», infatti, non proporre soluzioni obbliganti, ma piuttosto suggerire un atteggiamento metodico, i cui rilievi possono trovare alimento in campi anche lontani tra loro. Nascono così le applicazioni, o diremmo meglio le specificazioni del metodo fenomenologico in riferimento alla storiografia estetica da parte di Rossi (n. 1930: Studi di estetica, 1979; Fenomenologia critica e storiografia estetica, 1983), da parte di Barilli (n. 1935) ai problemi della narrativa e delle arti visive (La barriera del naturalismo, 1964; Scienza della cultura e fenomenologia degli stili, 19912), da parte di Mattioli (n. 1933) ai problemi 335

teorici della traduzione (Studi di poetica e retorica, 1983; Contributi alla teoria della traduzione letteraria, 1993), da parte di molti studiosi più giovani nel campo delle poetiche, dei generi letterari, della psicologia dell’arte, delle istituzioni retoriche. Un autore che non proviene direttamente dalla lignée anceschiana, ma che è molto prossimo agli orientamenti neo-fenomenologici è Trione (n. 1940). Questa prossimità è già manifesta nell’adesione, da parte di Trione, al principio caratteristicamente anceschiano del primato del fare: la ricerca estetica «deve porsi innanzi tutto come analisi delle condizioni del fare», occorre che essa si approssimi «al segreto degli artisti»47. Questa approssimazione avverrà innanzi tutto concependo l’attività artistica stessa come attività e produzione, come un pouvoir de construction, qualcosa di più ampio del semplice esercizio poetico: una pòiesis in senso pieno. Dunque, poesia come fabbricazione lucida, progetto, ars combinatoria, come garantito dalla tradizione della grande estetica simbolista da Poe a Mallarmé a Valéry, che è il terreno di elezione di Trione, e dal quale egli muove verso quella che, con consapevole ossimoro, viene denominata una estetica della mente: una concezione dell’arte come calcolo e progetto coerente, che dal simbolismo può rimontare fino al barocco e al manierismo. Ciò che vale per l’orientamento neo-fenomenologico vale anche per le altre tendenze della fenomenologia che si erano delineate negli anni Cinquanta, e in modi del tutto simili. Anche qui, cioè, sono ancora attivi i protagonisti di quegli anni: Dorfles, sempre assiduo osservatore dei nuovi sviluppi delle arti, delle loro implicazioni estetiche (L’intervallo perduto, 1980; Elogio della disarmonia, 1986; Il feticcio quotidiano, 1990) e Morpurgo-Tagliabue, con le sue ricerche sul romanzo e la letteratura in genere (La nevrosi austriaca, 1983; Geologia letteraria, 1986). Nel caso di 336

Formaggio, oltre ai suoi interventi degli ultimi anni, andrà segnalata la presenza di autori che, ricollegandosi al suo insegnamento, si sono mossi, come Scaramuzza, soprattutto verso una ricognizione delle origini storiche dell’estetica fenomenologica e una sottolineatura della impossibilità di ridurre l’estetica a mera teoria dell’arte (Le origini dell’estetica fenomenologica, 1976; Sapere estetico e arte, 1981), mentre altri studiosi di provenienza fenomenologica si sono venuti avvicinando a tematiche estetiche (Papi, La parola incantata e altri saggi di filosofia dell’arte, 1992). Anche Luigi Pareyson è stato attivo fino alla soglia degli anni Novanta, e sebbene nell’ultimo ventennio della sua vita egli abbia sviluppato soprattutto i suoi interessi in campo teoretico e morale (Verità e interpretazione, 1971; Ontologia della libertà, 1995) non si può dire che sia venuto meno il suo influsso sugli studi di estetica, sia perché, come si è accennato, anche dalle ultime opere si possono ricavare suggestioni per il discorso estetico, sia soprattutto perché le sue idee hanno agito attraverso l’opera di studiosi formatisi al suo insegnamento: da Eco a Perniola, da Vattimo a Givone a Carchia. Se quest’ultimo si è venuto progressivamente allontanando dall’ermeneutica attraverso la lettura di Platone (La favola dell’essere, 1997) e poi soprattutto di Plotino, Schelling e Bergson (L’amore del pensiero, 2000), Vattimo e Givone hanno continuato a muoversi nel filone ermeneutico inaugurato in Italia da Pareyson, anche se sulla sua diffusione a partire dalla fine degli anni Settanta ha molto influito la presenza di autori stranieri come Heidegger e Gadamer. Ed è interessante rimarcare come la notevole fortuna dell’ermeneutica negli ultimi due decenni del Novecento sia stata preceduta da un periodo nel quale proprio la netta accentuazione del carattere filosofico del discorso ermeneutico sull’arte sembrava relegarlo sullo sfondo di un panorama che poneva 337

in primo piano l’approccio linguistico-formale. Un titolo come Poesia e ontologia di Vattimo dovette suonare piuttosto spaesato quando il libro apparve per la prima volta, nel 1967, e ancor più controcorrente doveva apparire il progetto che lo animava di far valere in estetica le esigenze ontologiche, giacché esso implicava «un salto dall’ambito limitato dell’estetica alla filosofia generale». Si trattava di parlare dell’arte senza dimenticare la «differenza ontologica», ossia quella tra essere ed ente, che è al centro del pensiero di Heidegger: «l’arte è una delle vie di approccio all’essere, e tocca all’estetica ontologica evidenziarla in questo suo carattere»48. Il che significava vedere nell’arte una delle ‘aperture’ storiche nelle quali l’essere avviene, riconoscere il rapporto dell’arte con l’essere e con ciò prendere posizione contro la svalutazione dell’arte a mero gioco, attività disinteressata (come finiva per accadere, volens nolens, a molta nuova critica). Con qualche approssimazione, si può dire che i successivi interventi di Vattimo in questo campo hanno insistito in particolare su quel che dalla concezione dell’arte come messa in opera della verità si può ricavare innanzi tutto per la nozione stessa della verità; guardare all’arte vuol dire per lui, allora, «capire che ne è dell’essere nella condizione tardo moderna»49. Il che significa poi, anche contro certe interpretazioni di Heidegger che intendono la messa in opera della verità enfaticamente, come fondazione di mondi storici, pensare piuttosto il carattere inaugurale dell’opera sullo sfondo del nesso tra linguaggio e mortalità, insistendo su quel che è per Heidegger la ‘terrestrità’ dell’opera. I poeti, come suona il verso hölderliniano commentato da Heidegger50, «fondano» bensì «quel che rimane», ma quel che rimane non è tanto quello che «dura», quanto quel che resta, e l’opera d’arte è traccia e memoria, e anche monumento, purché si intenda l’ultimo termine non come ciò che si 338

impone nella sua piena presenza, ma quel che solo ricorda e anche sempre si cancella, e quindi, in ultima analisi, non è antitetico a quanto nell’esperienza estetica sembra darsi come decorativo e periferico. Se Vattimo esorta a leggere la vicenda dell’arte sullo sfondo del processo di secolarizzazione che caratterizza la modernità, e dell’ermeneutica intende sviluppare la vocazione nichilistica, Givone contrappone agli esiti secolarizzanti dell’ermeneutica, alle sue tendenze nichilistiche o estetizzanti, in forte contiguità con gli sviluppi dell’ultimo Pareyson, un pensiero tragico che tenga fermo «quel carattere irriducibilmente enigmatico dell’essere che è espresso dal mito». Non è possibile, infatti, per Givone, pensare di riconciliarsi con la verità all’interno della pratica demistificante, se il processo di demitizzazione non è affatto irreversibile, come crede l’illuminismo, e mostra alla fine la propria crisi, quando scopre che la stessa scelta per la razionalità è mitica. Se «la verità non può essere negata che in nome della verità stessa», occorre un pensiero che non eluda la contraddizione ma la prenda su si sé, come accade al mito nella tragedia. «Tragicamente, la verità non è che memoria di un’originaria contraddizione», e non c’è esperienza della verità che non passi attraverso la sua negazione. La via percorsa da Givone muove dunque dal dibattito contemporaneo sul mito verso la riflessione mitologico-poetica che dal primo romanticismo giunge al tardo Schelling, là dove viene rovesciata l’idea che quel che la poesia compie sia una chiarificazione e purificazione del mito, e a questo è riconosciuto originariamente il carattere di poesia. Da qui, cioè dalla proposta romantica di una «paradossale ontologia», che estende il modello dell’esperienza artistica alla realtà intera, si torna verso Heidegger, letto però come ontologo della libertà, che può aiutarci a pensare la verità «sul modello di un’esperienza 339

che, come quella artistica, prevede la coesistenza o addirittura la coincidenza degli opposti», l’originaria convertibilità dell’essere e del nulla che è la libertà51. Negli scritti post-semiotici di Garroni i due aspetti caratteristici della situazione che si delinea a partire dagli anni Ottanta, ossia il forte ritorno dell’interrogazione filosofica nell’estetica, senza che ciò si traduca in una riproposizione dell’estetica come filosofia dell’arte, sono centrali e programmatici. Ciò non avviene però all’interno di un orizzonte ermeneutico, dove pure è possibile riscontrare orientamenti non del tutto dissimili52, quanto piuttosto nel quadro di una rinnovata filosofia critica, che a partire da un ripensamento complessivo della filosofia kantiana riesce, facendo leva soprattutto sulla Critica del Giudizio, a evitare le difficoltà del trascendentalismo classico, e neo-kantiano in specie. Si è visto come Garroni avesse elaborato, nel 1977, una radicale messa in questione dei presupposti della semiotica strutturale. Ora, una delle difficoltà centrali di quella semiotica era costituita dalla presunzione di poter descrivere interamente i codici, e i linguaggi storico-naturali, come se si potesse disporre di un metalinguaggio interamente separato dall’oggetto cui esso si dovrebbe applicare, mentre ogni discorso sul linguaggio non può che muovere già sempre dall’interno del linguaggio stesso. Sviluppando questo problema, Garroni giunge a vedervi non un’aporia isolata, quanto piuttosto un aspetto di una condizione ineliminabile che riguarda ogni conoscere e ogni domandare filosofico. La filosofia si interroga sull’esperienza, ma non può farlo presumendo di separarsene collocandosi in un luogo altro da essa: si interroga sull’esperienza sempre dall’interno dell’esperienza stessa, e lo fa necessariamente, se è vero che ogni esperienza determinata suppone sempre, per essere pensabile, un riferimento all’esperienza in genere. Per indicare questa 340

situazione Garroni ha parlato di paradosso fondante (occorre essere, insieme, dentro e fuori un’esperienza determinata) o di un guardare-attraverso (noi guardiamo all’esperienza sempre dall’interno dell’esperienza stessa)53. Ma di questo essere-già-da-sempre-immersi nell’esperienza noi siamo consapevoli non sotto la forma di un principio intellettuale, bensì di un sentimento, di un sentire estetico: «nell’esperienza estetica […] non semplicemente facciamo esperienze, ma lì sentiamo di essere-nell’esperienza, che ha senso fare esperienze e che da queste può sorgere una conoscenza effettiva»54. Il «paradosso fondante» si converte in una «condizione di senso», e il problema centrale di una filosofia critica si mostra indissolubilmente legato a quello dell’estetica: il che è accaduto anche storicamente, se è vero che il sorgere dell’estetica in senso moderno va di pari passo con l’emergere del «problema interno» della filosofia, della consapevolezza che la filosofia non può essere un supersapere, non può essere fondazione, ma solo risalimento dell’esperienza nelle sue condizioni interne. L’estetica si configura allora per Garroni non come una filosofia dell’arte, ma come una «filosofia non speciale della condizione estetica dell’esperienza in genere», e suo oggetto è il senso come apertura e instaurazione dei possibili significati determinati. Ne derivano conseguenze notevoli anche sullo statuto di ciò che chiamiamo ‘opera d’arte’. Non solo non risulta possibile parlare delle opere d’arte come di una classe di oggetti contrassegnata da certe proprietà, non solo l’estetica non ha ciò che comunemente chiamiamo ‘arte’ come proprio oggetto epistemico, bensì solo come referente, ovvero come occasione – sia pure ‘esemplare’ – per porre il problema del senso, ma, se è vero che l’arte nell’accezione estetica moderna è un prodotto culturale relativamente recente, nulla garantisce che essa debba continuare a essere il luogo privilegiato per cui 341

transita l’esperienza estetica: nella sua radicale contingenza, essa potrebbe perdere – come forse già sta accadendo – proprio quell’esemplarità che le è stata riconosciuta, in fondo, solo da qualche secolo. Questo passaggio per cui l’estetica viene vista come filosofia in genere e non come riflessione legata alle arti si compie anche, sia pure in direzioni assai diverse, nei lavori più recenti di Ferraris (n. 1956). Abbandonando polemicamente le prospettive ermeneutiche precedentemente seguite, Ferraris abbraccia una prospettiva ‘realista’, e ritiene che pensare l’estetica come filosofia dell’arte significa condannarla a essere solo un vago e inutile ricamo sulla storia della poesia e delle arti. Bisogna invece restituire all’estetica il campo indicato dal suo nome, quello della teoria della sensibilità, tornando a Baumgarten e prendendo atto che il rifiuto kantiano e hegeliano dell’estetica come scientia cognitionis sensitivae ci ha condotto in un vicolo cieco. L’estetica deve tornare a essere una teoria della sensazione, una percettologia. Postisi su questa via, si riscopre, contro Kant, il valore della sensazione come fonte autonoma di conoscenza, anche indipendentemente dall’intervento in essa di costrutti intellettuali, e si rivendica per l’estetica un campo, quello della conoscenza ingenua e ordinaria, precedente ogni elaborazione scientifica della nostra immagine del mondo, in cui essa finisce per apparire sostanzialmente coincidente con la psicologia. E infatti a un’Estetica razionale (1997) si deve affiancare, nel progetto ferrarisiano, un’estetica sperimentale che ha tra i suoi principali modelli ispiratori gli studi sulla fisica ingenua di Bozzi e quelli sulla grammatica del vedere di Kanizsa. Ma il grosso degli approfondimenti riguarda per ora il versante teorico, dove Ferraris può far valere la lezione di Derrida. Infatti la sensazione non è mai puntuale, ma sempre condizionata dalla capacità di ritenere la sensazione stessa. La 342

ritenzione interviene sulla percezione e la rende possibile, cosicché la struttura del trascendentale è la traccia, e l’estetica è propriamente una scienza della sensazione iscritta o ritenuta. Rispetto al lato decostruttivo di Derrida, insomma, Ferraris ne accentua quello trascendentale (la traccia come condizione di possibilità della sensazione) e ‘positivo’55. Di fronte a questo progetto, sarà sempre possibile osservare che, al di là della percorribilità della sua pars costruens, è la pars destruens a risultare troppo sbrigativa. Essa regge solo a patto di annullare ogni differenza tra giudizi percettivi («questo è rosso, quadrato, lungo 5 m ecc.») e giudizi estetici («questo è grazioso, equilibrato, commovente ecc.»). Una volta ammessa l’irriducibilità dei secondi ai primi, non si può più sostenere che tentarne la teoria (come sono possibili? che relazione hanno con giudizi percettivi?) sia un’operazione insensata. E così pure non pare possibile sostenere che i discorsi sensati sull’arte li facciano solo la filologia o la connoisseurship, quando sono proprio esse per prime a confessare di non saper maneggiare assolutamente la nozione di valore, che pure risulta una sorta di fenomeno elementare di ogni esperienza estetica. In apertura di questo paragrafo abbiamo segnalato la possibile sfasatura tra la collocazione nello sviluppo della nostra esposizione di alcuni autori e l’effettiva cronologia che ne fa, con ogni buon diritto, dei protagonisti anche di questo capitolo conclusivo. Una piccola violenza alle leggi della cronologia, ma di segno opposto, la compiamo invece parlando solo ora di uno studioso il cui lavoro non appartiene unicamente agli anni recenti; anche in questo caso, tuttavia, non senza ragione. Essendo nato nel 1915 e scomparso nel 1994, Assunto appartiene alla generazione di Pareyson e Anceschi; tuttavia, i suoi primi studi impegnativi non rimontano oltre la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. In questo periodo 343

Assunto è vicino alle posizioni di Argan, e soprattutto del gruppo di «Comunità», dal quale gli giungono le principali sollecitazioni per i temi di cui si occupa. In scritti come Forma e destino (1957) e L’integrazione estetica (1959), ma anche in quelli successivi (Teoremi e problemi di estetica contemporanea, 1960; L’automobile di Mallarmé e altri scritti intorno alla vocazione odierna delle arti, 1968), il problema di Assunto è infatti essenzialmente quello della possibilità del riscatto estetico della tecnologia e dell’industria, della «parificazione e cooperazione fra il punto di vista dell’arte e quello della scienza», sulla base delle «possibilità liberatrici che la scienza e la tecnica mettono a disposizione dell’uomo»56. Il mondo della modernità, il mondo dell’industria non sono solo il regno dell’alienazione e della spersonalizzazione, se da questi rischi, indubbiamente presenti, è possibile riscattarsi introducendo in quei mondi, in funzione correttiva, la componente estetica del nostro agire. È proprio la partecipazione al punto di vista estetico che ci apre la prospettiva di una riabilitazione del mondo tecnico, ci consente di armonizzare il lato meccanico e quello personale del lavoro, superando la dicotomia tra impegno e svago: l’arte è appunto questa sintesi, questa compresenza di necessità e libertà. Si tratta però, per afferrare queste possibilità di riscatto, da un lato di comprendere come la tecnica medesima esiga dal suo interno l’integrazione estetica, dall’altro di smettere di pensare all’arte come pura creatività e pura contemplazione, accentuandone gli aspetti pratici e fattivi. Intorno al 1968, inteso non soltanto come data del calendario, ma con tutto quel che connota, visto che le ragioni della svolta sono anche, lato sensu, politiche57, Assunto muta atteggiamento. La conciliazione delle esigenze del progresso tecnico con quelle della bellezza e dell’arte non gli sembra più possibile; la sua precedente 344

visione tutto sommato ottimistica delle prospettive aperte dalla modernità si muta in una radicale opposizione alla contemporaneità come tale. Non esiste cammino, per quanto difficile, che possa condurre a riconciliare bellezza e industria, esteticità e tecnica: esse sono ormai antitetiche. Gli scritti di Assunto prendono un tono amaro, risentito: egli si sente un isolato, un pensatore controcorrente. Fortunatamente, non è solo questione di tono, ma anche di argomenti e di terreni di ricerca. Il primo lavoro importante in cui si materializzano i nuovi orientamenti di Assunto è Il paesaggio e l’estetica, apparso nel 1973 in due tomi: un’amplissima ricerca che coniuga l’indagine storiografica sulle concezioni del paesaggio con una riconsiderazione teorica del problema della bellezza naturale, sospinta ai margini o negata dall’estetica post-romantica, e invece riportata da Assunto in una posizione di assoluta centralità per l’esperienza estetica in genere58. Da allora, i temi della bellezza naturale, del paesaggio e del giardino (quest’ultimo proposto da Assunto come ideale autentico del paesaggio e insieme paradigma del possibile incontro tra arte e natura) saranno al centro del pensiero dell’autore (Filosofia del giardino e filosofia nel giardino, 1981; Il parterre e i ghiacciai, 1984; La natura le arti la storia, 1990)59, che li sostanzierà con ricognizioni storiografiche sull’estetica barocca, neoclassica e soprattutto romantica. Romanticismo e centralità della bellezza naturale si saldano, nell’ultimo Assunto, nella proposta di un estetismo speculativo, per il quale la bellezza trascende l’esperienza, dandosi come modalità dell’essere: romanticamente (e ancor più platonicamente, almeno nel senso di quel platonismo di cui scorre una larga vena nel primo romanticismo tedesco), l’estetica è parte dell’ontologia, e la bellezza è presenza assoluta, garanzia di verità, anzi tutt’uno con la verità stessa60. L’estetismo filosofico di Assunto non ci appare oggi 345

altrettanto isolato di quanto accadeva qualche anno fa. I lavori più recenti di Zecchi (n. 1945), ma anche di un poeta e teorico di poesia come Conte (n. 1945), sono infatti anch’essi, sebbene su basi diverse da quelle di Assunto, una forte riproposizione del primato filosofico della bellezza e del valore conoscitivo dell’arte e del mito. Si tratta, ancora una volta, di un richiamo al significato filosofico dell’estetica e insieme di un superamento dei limiti tradizionali dell’arte, che però si presenta ben distinto, e anzi programmaticamente antitetico rispetto a quello ricavabile dall’ermeneutica o dal pensiero critico. Questa diversità è palmare già nel fatto che Zecchi (il cui retroterra teorico è la fenomenologia, e in particolare il pensiero di Paci) fa leva sul concetto di bellezza, la grande esclusa dall’arte e dall’estetica del secolo che si è appena chiuso. Il Novecento ha scacciato la bellezza dall’arte: l’arte moderna ha cercato il disarmonico, il disgregato, il brutto: mai il bello61. Ora, bellezza è per noi un termine, oltre che desueto, pregiudicato: evoca la frigidità di un calco, la politezza esangue del neoclassico. Per fuggire lo stereotipo algido della bellezza, Zecchi ne accentua invece i tratti metamorfici, mitici, ‘caldi’: propone un’idea della bellezza come energia e trasformazione, e ne trova l’alimento in una rilettura, ancora una volta, del romanticismo, del quale questa volta sono evidenziati soprattutto i tratti della visione organica del mondo, dell’indistinzione di forma estetica e forma scientifica, della centralità dell’educazione estetica. Tutto ciò pone capo, in Zecchi, alla proclamazione del valore utopico, progettuale della grande arte. I suoi numi tutelari sono i grandi creatori di miti e mondi poetici, i campioni dell’estetismo militante, da Wagner a D’Annunzio a Stefan George. L’arte e il mito si fondono quando entrambi sono intesi come forza creativa e visione simbolica, e allora si può dire che «nell’arte è nascosto il 346

significato del mondo», che l’arte è il luogo che costruisce e tramanda «il significato di una civiltà»62. L’autonomia dell’arte è un sortilegio da vincere, perché l’arte possa finalmente andare oltre di sé. Ma non come avviene nella diffusione dell’estetico quale si dà nella nostra società, e che assume le forme del depotenziamento, della dispersione, dell’abbassamento; quel che Zecchi auspica è piuttosto l’«estetizzazione del mondo», ossia l’affermazione della superiore verità dell’arte in tutti i campi dell’esperienza. 6.4. La ricerca storiografica Nella tradizione filosofica ‘continentale’, a differenza di quanto avviene in quella ‘analitica’, la ricerca storica appare quantitativamente predominante rispetto a quella strettamente ‘teorica’. Se si guarda agli ultimi decenni, gli studi di estetica prodotti in Italia non sfuggono a questa regola. Ma ciò non è stato vero per gran parte del Novecento. Si potrebbe anzi osservare che la ricerca teorica per lungo tempo ha fatto premio, nell’estetica del nostro secolo, su quella storiografica. Naturalmente, un rilievo di questo genere va sempre preso con qualche discrezionalità. Per esempio, è ovvio che il caso di Croce fa, anche a questo proposito, eccezione. La grande Estetica con la quale si è aperta la nostra ricostruzione conteneva accanto alla Parte teorica un’ampia Parte storica, la quale era sì strettamente tributaria di quella teorica, in quanto si poneva dal punto di vista del ‘problema unico’ del costituirsi di una scienza dell’attività intuitivo-espressiva, e dunque soffriva della rigidità e dell’unilateralità di ogni storia ‘a disegno’, ma costituiva insieme, per l’accuratezza dell’informazione, per la sicurezza dei giudizi, per l’ampiezza di sguardo critico, un risultato storiografico di notevolissimo valore, tanto che essa rimane una delle opere più significative in questo campo. Non solo: Croce non smise mai, nel corso della sua 347

lunghissima carriera di studioso, di tornare sui problemi della storia dell’estetica, modificando grandemente la prospettiva di quella prima storia. In una serie ininterrotta di saggi particolari, tra i quali spiccano quelli sulla teoria poetica del Cinquecento (1944-1947), su Baumgarten (1932), su Schleiermacher (1933), sulle teorie artistiche dell’età barocca (1929), Croce abbandonava la forma, divenutagli frattanto in ogni campo ingrata, della ‘storia complessiva’, per abbracciare quella del saggio, ed esplicitamente criticava l’idea di una storia concepita come risposta a un unico problema, riconoscendo piuttosto l’irriducibile varietà e pluralità dei ‘problemi particolari’. La storia dell’estetica prendeva dunque un andamento assi più aperto e duttile, pronto a cogliere la positività, nel loro contesto, di teorie che una storia pensata come raggiungimento dell’unica prospettiva valida condannava invece a considerare solamente come deviazioni o errori: e questa seconda forma della storiografia estetica crociana veniva teorizzata nel saggio del 1916 su Inizio, periodi e carattere della storia dell’estetica63. È vero però che il grande esempio crociano non fece scuola nell’ambito degli studi di storia dell’estetica, che restarono non troppo frequentati nella prima metà del secolo. Fu Croce stesso a notarlo, nel saggio sulla Aesthetica di Baumgarten: «procurai con ogni zelo e industria di richiamare le menti alla storia dell’Estetica; ma in questa parte gli effetti sono stati scarsi. Le mie teorie, certamente, hanno avuto fortuna […] ma al mio cenno di guardare indietro, di legare conoscenza e conversazione con la lunga schiera dei pensatori che nelle meditazioni e indagini sull’arte mi hanno preceduto […] a quel mio cenno nessuno si è voltato, nessuno ha obbedito»64. D’altro canto il grande impegno storiografico di Gentile non si esercitò che in modo marginale sull’estetica, cosicché, se a partire già dalla prolusione 348

palermitana del 1907 sul Concetto della storia della filosofia, una delle maggiori vie di penetrazione dell’attualismo nella cultura italiana fu proprio l’orientamento degli studi di storia della filosofia, tale penetrazione lasciò sostanzialmente da parte gli studi di storia dell’estetica; né i pochi cenni storici che chiudono la Filosofia dell’arte, né quelli assai più profondi ricavabili dai saggi, anch’essi tardi, sul Sentimento e sull’Esperienza valsero a modificare la situazione. Si aggiunga che di tutti gli autori estranei all’idealismo, trattati nel terzo capitolo, il solo (con l’esclusione degli studi kantiani di Baratono) che manifestasse interessi spiccati in campo storiografico fu Banfi, al quale si devono importanti saggi sul Sublime dello Pseudo-Longino, su Fiedler, su Simmel, e si avrà un quadro, sia pure approssimativo, dello stato di cose del primo cinquantennio. Nel quale, tuttavia, bisognerà segnalare almeno gli studi sull’estetica antica di Rostagni, Cataudella e, in una prospettiva più strettamente crociana, di Valgimigli; la Storia della critica d’arte di Venturi, con spiccata attenzione per la filosofia; le traduzioni e interpretazioni di testi di estetica dell’età di Goethe fornite negli anni Trenta da germanisti come Santoli, Tecchi e Lupi; i lavori sull’estetica dell’idealismo e del romanticismo di Aliotta e del suo allievo Petruzzellis, certo oggi alquanto invecchiati, e infine l’ampia ricognizione dell’Estetica dell’empirismo inglese fornita da Rossi (1944), documento al tempo stesso della volontà di allontanarsi dai canoni di Croce, nella scelta del campo di studio, e della difficoltà di staccarsi dalla sua metodologia, nelle oscillazioni della Introduzione al volume65. Il rinnovamento post-crociano portò con sé anche l’esigenza di una trasformazione della storiografia, di cui gli autori studiati nel quarto capitolo diedero esempi significativi. Gli studi di orientamento fenomenologico 349

intesero soprattutto recuperare all’indagine storica il campo delle poetiche, e alla storia dell’estetica come storia delle teorie filosofiche sull’arte contrapposero un tipo di storia più attento ai legami del piano speculativo con quello della concreta attività letteraria e artistica. Già il volume anceschiano su Autonomia ed eteronomia dell’arte andava in questa direzione, rafforzata in seguito dalle ricerche sulle teorie estetiche del Barocco, negli anni Cinquanta, e su quelle dell’empirismo inglese, nel decennio seguente, e accompagnata da una specifica riflessione metodologica, mentre la fenomenologia di Formaggio precisava il proprio progetto soprattutto attraverso un confronto con il tema della ‘morte dell’arte’ in Hegel e dopo Hegel66. Proprio all’inizio degli anni Cinquanta Pareyson pubblicava un ampio studio sull’Estetica dell’idealismo tedesco, al quale si sarebbero aggiunte, negli anni successivi, le indagini sull’estetica di Goethe, di Schiller, di Schelling; la Critica del gusto di della Volpe nasceva anche sulla base di una riconsiderazione delle poetiche aristoteliche del Cinquecento, dell’estetica del classicismo francese, e naturalmente della critica alle estetiche ‘romantiche’ in quanto anticipatrici delle distorsioni cui sarebbe andata incontro l’estetica idealistica del Novecento (Schizzo di una storia del gusto, 1971), mentre Spirito portava i temi della sua critica dell’estetica anche all’interno del discorso storiografico67. Al termine del decennio, due grosse opere possono essere considerate una sorta di bilancio della storiografia estetica del dopoguerra: il volume di Morpurgo-Tagliabue L’esthétique contemporaine, del 1960, un’ampia ricostruzione dell’estetica post-kantiana e novecentesca in particolare, che rifiutava (in evidente polemica con la prima storia di Croce) l’idea di una ‘storia filosofica’ come ricostruzione della genealogia di un’unica teoria considerata ‘vera’, e l’opera collettiva Momenti e 350

problemi di storia dell’estetica, apparsa tra il 1959 e il 1961. Quest’ultima era concepita come una storia complessiva dell’estetica, dall’antichità a oggi, di vastissime dimensioni; ma, nonostante la presenza di molti contributi di notevole valore, finiva per soffrire proprio della mancanza di un criterio metodico unitario. Al di là delle difficoltà di armonizzazione tra le singole sezioni, sempre presenti in ogni opera a più mani, il dato che balza agli occhi è la separazione, che percorre trasversalmente tutta l’opera, tra contributi ancora retti da una visione sostanzialmente crociana della storia dell’estetica, e saggi che invece a quella prospettiva esplicitamente si contrappongono, tra i saggi di Cataudella, Alfieri, Caramella, Puppo, Attisani, da un lato, e quelli di Plebe, Eco, Anceschi, Pareyson dall’altro68. In queste discrepanze si rifletteva, probabilmente, il fatto che l’esigenza di prendere le distanze dal modello storiografico crociano non si era ancora tradotta in una vera revisione metodica. È significativo, infatti, che, mentre lungo tutto l’arco degli anni Cinquanta la volontà di confronto e di rottura con l’impianto idealistico passò tra l’altro attraverso un serrato dibattito sulla storiografia filosofica, in cui emersero le argomentazioni di Banfi, Dal Pra, Rossi, e soprattutto di Garin col volume del 1959 La filosofia come sapere storico, solo molto parzialmente questo dibattito si ripercosse sulla considerazione della storia dell’estetica, a proposito della quale mancò quel riesame dello statuto e dei metodi che venne intrapreso per la storia della filosofia in genere. La situazione è mutata veramente solo nei decenni a noi più vicini, quelli in cui si registra il notevole incremento, e non solo quantitativo, degli studi dedicati alla storia dell’estetica. Ciò vale anche nel campo dell’estetica antica e medioevale, che resta quello meno frequentato. Per la prima, si possono registrare i contributi di Morpurgo351

Tagliabue su Demetrio e su Aristotele, quello di Vattimo ancora su Aristotele, quelli di Mattioli sulla poetica di Luciano, e le storie complessive dell’estetica antica di Grassi, Lombardo e Carchia69. Per la seconda, vanno ricordati, oltre ai lavori già segnalati del primo Eco, il volume di Assunto La critica d’arte nel pensiero medioevale, del 1961, e quello, pubblicato in tedesco, Die Theorie des Schönen im Mittelalter (1963), oltre allo studio di Bagni (1943-2005) sulle arti poetiche medioevali. Ma è soprattutto venendo all’estetica moderna che il panorama si fa ricco, tanto che si possono dare soltanto accenni esemplificativi. Per l’estetica del Cinque e Seicento, abbiamo gli studi di Vasoli, ancora quelli di MorpurgoTagliabue e di Grassi, Conte, Benassi, Diodato. Per il Settecento, si segnalano gli studi d’assieme di Migliorini, Formigari, Assunto, Franzini, quelli di studiosi come Bollino, Modica, Ferraris, i lavori su Vico di Amoroso, Patella e Velotti, e quelli su Baumgarten di Piselli e Tedesco. L’estetica di Kant ha trovato interpreti particolarmente attenti in Garroni, Marcucci, Amoroso, che, riallacciandosi alla lettura ‘epistemologica’ che ne aveva dato Scaravelli negli anni Cinquanta, hanno sviluppato un filone interpretativo con notevoli tratti di originalità. E mentre per l’estetica hegeliana bisogna segnalare almeno i saggi di Verra, Scaramuzza, Bodei, numerosissimi, in accordo con quanto dicevamo in precedenza circa l’interesse presente per il romanticismo, sono i lavori consacrati negli ultimi anni all’estetica della Romantik: oltre a quelli di Givone e Zecchi, anche in questo caso vanno registrati molti nomi, da Cometa a Vercellone, da Moretti a Griffero. Anche l’estetica del positivismo europeo, tanto poco considerata dal nostro idealismo, ha trovato interpreti attenti soprattutto nell’ambito dell’estetica fenomenologica, con gli studi di Scolari e Bagni. Parallela a questo sviluppo 352

della ricerca storiografica è stata l’intensa attività di edizioni e traduzioni dei classici: anche qui si va dall’antico (il Sublime riproposto da Lombardo, i testi di poetica indiana curati da Mazzarino) al moderno, con Baumgarten, Batteux, Burke, Lessing, Diderot, Du Bos, Winckelmann, Moritz, Solger, le nuove traduzioni di Kant, le edizioni dell’estetica di Schelling, Schleiermacher, Rosenkranz. Accanto agli studi storiografici andranno poi posti quelli di estetica comparata, tra i quali si segnalano quelli di Pasqualotto per l’estetica orientale e quelli di Salizzoni per l’estetica del mondo slavo, dato che anch’essi contribuiscono notevolmente all’ampliamento dell’orizzonte non solo geografico, ma anche storico dell’estetica. La ricchezza di studi particolari sulla storia dell’estetica è stata certamente tra i motivi che hanno portato, negli ultimi anni, a proporre esplicitamente proprio quella riflessione sui metodi della storia dell’estetica che non era riuscita a prendere corpo in occasione del rinnovamento teorico e storiografico degli anni Cinquanta. E altrettanto certamente l’emergere di tale riflessione è stato propiziato anche dalla pubblicazione di nuove storie generali della estetica: quella contenuta nella prima parte del Trattato di estetica di Dufrenne e Formaggio, quella in più volumi della collana Lessico dell’Estetica diretta da Bodei, anch’esse storie collettive, e dunque aperte a orientamenti metodici diversi; quelle di Givone (1988) e di Vercellone (2003), limitate all’estetica moderna da Kant e dai romantici in poi, quella di Restaino (1991), anch’essa rivolta all’estetica moderna, ma di impianto più tradizionale; quella di Franzini e Mazzocut-Mis, organizzata per temi (1996); quella di Montani, articolata per percorsi teorici (2002), infine, la traduzione italiana di due grandi opere dello storico polacco dell’estetica, Tatarkiewicz, la Storia dell’estetica (1979-1980) 353

e la Storia di sei idee (1993). Tuttavia, queste circostanze non spiegano da sole l’attenzione prestata al problema metodologico di una storia dell’estetica; a evidenza, essa è legata strettamente proprio a quel fenomeno di più vasta portata che abbiamo seguito in quest’ultimo capitolo, e cioè, insieme, al ritorno di interesse per l’estetica filosofica e al suo manifestarsi come spostamento e messa in discussione dei confini tradizionali, disciplinari, della materia. Se l’estetica tende a eccedere dalla sua immagine tradizionale di filosofia dell’arte, è ovvio che la riconsiderazione del suo statuto teorico si accompagni a una revisione dei modi consueti di scriverne la storia: «La questione di cosa e come sia l’estetica e quella di cosa e come sia la sua storia» – scrive Garroni – «sono una e una sola questione»70. Così, già nel suo precedente Senso e paradosso Garroni sottolineava l’impossibilità di scrivere una storia dell’estetica sulla base di un criterio puramente materiale, che ci permetta di identificare preliminarmente i suoi oggetti, e notava come ogni storia in senso proprio, dunque non come mero centone di argomenti disparati, si configuri come un risalimento, sempre parziale, della prospettiva aperta da una forma di comprensione: che sarà, nel suo caso, il legame tra problema critico dell’esperienza in genere e condizione estetica71. Al problema della storia dell’estetica è dedicata molta attenzione negli scritti di Russo (n. 1943): muovendo da una riconsiderazione dei criteri che guidano la storia dell’estetica crociana e quella, per molti versi antitetica, di Tatarkiewicz, Russo si chiede in particolare che cosa permetta alla storia della filosofia di afferrare pienamente la propria storicità, che sembra messa in discussione da tutte le teorie che, come quella del primo Croce, non consentono di identificare, al di là del delinearsi della ricercata soluzione teorica, altro che errori e fallacie. 354

Di qui l’apertura di Russo verso forme di storiografia che, utilizzando ad esempio i metodi della storia delle idee, come avviene nel secondo dei volumi citati di Tatarkiewicz, consentano il raccordo delle teorie, altrimenti destinate a inanellarsi in una successione astratta, con lo sfondo concreto in cui vivono, in modo da recuperare la loro effettiva collocazione e funzione storica. Di qui, anche, l’interesse verso questioni annose, ma sempre attuali, come quella dell’antichità o modernità dell’estetica, della possibilità di parlare di una sua nascita moderna, e della connessa necessità di respingere in una sorta di ‘preistoria’ tutti gli sviluppi precedenti72. Questioni di tutt’altro che facile soluzione, se, come è stato notato, da un lato l’opposizione tra ‘antichità’ e ‘modernità’ dell’estetica tende a favorire indebite semplificazioni (per esempio quella che identifica la nascita moderna dell’estetica con il suo proporsi come disciplina specifica rivolta alle ‘belle arti’), dall’altro la sua negazione, e il discorrere pacificamente di estetica antica, porta a sottostimare il significato della trasformazione filosofica che rende possibile il discorso moderno sull’estetica, e a compiere un non avvertito anacronismo estendendo il termine settecentesco, che non è etichetta neutra, a vicende collocate in tutt’altro contesto73. 6.5. Le estetiche speciali Un fenomeno che, almeno potenzialmente, sembra contrastare la prevalente natura filosofica sotto la quale l’estetica ritorna nel dibattito degli ultimi decenni è la presenza di numerosi studi orientati verso ambiti specifici dell’esperienza estetica o verso arti particolari. È un fenomeno che non si era mai dato nel corso del nostro Novecento, dove, se si esclude la parentesi semiotica, l’estetica è stata sempre intesa come disciplina filosofica, dai 355

forti contenuti teoretici, e relativamente poco interessata agli aspetti tecnici, o comunque ai tratti differenziali, delle arti. Al punto che, in un contesto dominato dalla critica crociana ai limiti delle arti, ci è risultato addirittura impossibile collocare riflessioni teoriche dedicate ad arti specifiche, come, per esempio, l’estetica cinematografica di Ricciotto Canudo (1879-1923; L’Officina delle immagini, 1927) o quella musicale di Ferdinando Liuzzi (1884-1940; Estetica della musica, 1924). Ma anche l’estetica degli anni Quaranta e Cinquanta è stata un’estetica scritta in primo luogo da filosofi (Pareyson, della Volpe), ed è stata estetica generale persino quando era opera di studiosi professionalmente rivolti ad arti particolari, come Brandi o Ragghianti. Sono solo gli anni a noi più vicini a portare una diffusa attenzione verso settori specifici, non necessariamente in continuità con il progetto semiotico di costruzione dei codici delle singole arti, e non obbligatoriamente in polemica con la filosoficità dell’estetica. Le ragioni di questa attenzione sono infatti da ricercare piuttosto nel peso che nuove forme di espressione artistica o aspetti particolari dell’esperienza estetica prendono nella cultura contemporanea. Un caso significativo è rappresentato ad esempio dal riapparire, a partire dagli anni Novanta, di contributi dedicati al problema della bellezza naturale e del paesaggio. L’interesse manifestato da Assunto per questi temi costituiva, negli anni Settanta, un unicum, e del resto il problema della bellezza naturale è quasi del tutto assente dall’estetica della prima metà del secolo, in Italia e all’estero. Il diffondersi delle tematiche ecologiche e della sensibilità verso il paesaggio, sempre più minacciato, lo riportano in auge, e non solo a opera di filosofi. Il primo a parlare di estetica della natura, da noi, è uno scienziato come Tiezzi, mentre la dimensione culturale del paesaggio torna a essere 356

considerata dai geografi (Farinelli, Turri). È in questo contesto che vanno a inserirsi le riflessioni dei filosofi, anche di chi mantiene qualche continuità con Assunto, come Venturi Ferriolo, che dalla storia del giardino e delle idee sul giardino (Giardino e filosofia, 1992; Giardino e paesaggio dei romantici, 1998) è passato a trattare il problema del paesaggio in una prospettiva che coniuga estetica, etica e filosofia della storia (Etiche del paesaggio, 2002). Anche gli studi di orientamento geofilosofico manifestano spesso uno spiccato interesse per gli aspetti paesaggistici, come in Bonesio (Geofilosofia del paesaggio, 1997; Oltre il paesaggio, 2002), nel quale il rapporto con i luoghi è concepito nel senso di un heideggeriano ‘averne cura’, che rispetti le tradizioni locali e ne impedisca lo snaturamento turistico. Se in Milani il valore estetico del paesaggio sembra rimanere legato ai suoi aspetti sentimentali, ai riflessi emotivi (L’arte del paesaggio, 2002), chi proviene invece da una formazione diversa, da storico del design e dell’architettura, come Vitta (Il paesaggio, 2005), tenderà a mettere in luce piuttosto la dimensione progettuale che sempre accompagna il nostro rapporto con i luoghi. Quel che accomuna e caratterizza questi studi, al di là delle differenze di prospettiva, è comunque la rivendicazione del paesaggio all’estetica, la netta sottolineatura della differenza che passa tra l’ambiente fisico-biologico e la dimensione ineliminabilmente estetica connessa al paesaggio. Tornando alle arti, è ovvio che la parte del leone venga svolta da quelle (cinema, architettura, musica) che di solito non costituiscono il referente più diretto delle tradizionali estetiche filosofiche. In forza di radicati automatismi, infatti, non riteniamo strano che un’estetica si appoggi in via esclusiva o quasi esclusiva sulla poesia o la letteratura (è il caso di moltissime tra quelle che abbiamo esaminato, dallo stesso Croce a Calogero ad Anceschi), o anche alla 357

pittura o alle arti figurative in genere, mentre se il medesimo accade con il cinema o la musica siamo piuttosto inclini a considerarlo frutto di un interesse specifico per quell’arte. Ma sarebbe sbagliato se ciò inducesse a trascurare una ricca messe di contributi importanti anche su di un piano strettamente teorico. Così accade con la teoria del cinema, un settore in forte espansione e in cui convivono approcci molto diversi. Studiosi di formazione semiotica si sono poi aperti verso tematiche di più ampia portata filosofica: così è per le ricerche di Bettetini sulla temporalità nei testi audiovisivi (Tempo del senso, 2000) e per quelle di Casetti sul ruolo dello spettatore nel film e su cinema e modernità (Dentro lo sguardo, 1986; L’occhio del Novecento, 2005); altri sono arrivati alla teoria del cinema a partire da premesse sociologiche (Abruzzese, L’occhio di Joker. Cinema e modernità, 2006) o psicoanalitiche (Albano, Lo schermo dei sogni, 2004). In molti casi, comunque, le radici filosofiche sono ancora più evidenti, come in Bruno (Del Gusto. Percorsi per un’estetica del film, 2005), Montani (Fuori campo, 1993; L’immaginazione narrativa, 1999), Grande (Il cinema in profondità di campo, 2003, postumo), De Gaetano (Il visibile cinematografico, 2002). Non stupirà infine che un pensatore come Garroni, che del rifiuto dell’estetica come filosofia speciale ha fatto uno dei propri capisaldi teorici, abbia dedicato continua attenzione al film (Scritti sul cinema, 2006, postumo). In Garroni, infatti, la critica non si rivolge tanto alle estetiche delle singole arti, quanto alla scelta di considerare l’arte l’oggetto privilegiato o esclusivo della riflessione estetica. Nel campo dell’estetica musicale Piana ha portato un solido impianto fenomenologico (Filosofia della musica, 1991), mentre Fubini si è avvicinato ai problemi teorici a partire da un vastissima ricognizione delle teorie musicali (Estetica della musica, 1995; La musica: natura e storia, 2004), e 358

Cavarero ha tentato una ‘filosofia della voce’ in antitesi al logocentrismo della tradizione occidentale (A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, 2003). Ma accanto a questi studi generali gli ultimi anni vedono, oltre a importanti sistemazioni storiografiche (Guanti, Estetica musicale, 1999), un infittirsi di contributi su argomenti determinati, come quelli di Mathieu sulla musica e il demoniaco e sull’interpretazione musicale (La voce, la musica, il demoniaco, 1983), di Matassi su Bloch, Benjamin e Adorno (Musica, 2004), di Arbo sull’estetica del Settecento (La traccia del suono, 2001), di Garda sul sublime in musica (Musica sublime, 1995), di Lisciani Petrini e Vizzardelli sulla musica del Novecento e su Jankélévitch (Il suono incrinato, 2001; Battere il tempo, 2003). Il dibattito teorico sull’architettura vede impegnati in primo luogo gli stessi architetti, e tra di essi segnaliamo in particolare gli scritti di Gregotti, da Il territorio dell’architettura (1966) ad Architettura, tecnica, finalità (2002). Non mancano tuttavia contributi più direttamente filosofici anche in questo campo, come testimoniano gli interventi di Cacciari da Metropolis del 1973 a Wohnen. Denken. Essays über Baukunst im Zeitalter der völligen Mobilmachung del 2002, o il saggio di Severino Tecnica e Architettura (2003), mentre per il design bisogna ricordare, oltre ai testi di Dorfles già segnalati, i più recenti interventi di Vitta (Il progetto della bellezza, 2001) e di Carmagnola (Il consumo delle immagini, 2006). Un ulteriore indizio dell’espandersi delle tematiche estetiche anche in ambiti prima poco frequentati è rappresentato dal consolidarsi di discipline connesse all’estetica come la psicologia dell’arte (Pizzo Russo, Le arti e la psicologia, 2005; Ferrari, Lo specchio dell’io. Autoritratto e psicologia, 2002) o l’educazione estetica (Gennari, Educazione estetica, 1994; Dallari, La dimensione estetica della paideia, 359

2005). In relazione alla prima vanno ricordati anche i lavori che uno studioso della percezione acustica e visiva come Pierantoni ha dedicato a tematiche artistiche (Forma fluens, 1986; Vortici, atomi e sirene, 2003). 6.6. Conclusione: dentro e fuori l’Italia Questa storia aveva un presupposto, che era insieme la sua condizione di possibilità: che avesse un senso parlare di un’estetica italiana. Un senso, vogliamo dire, che trascendesse la mera circostanza che si parli di autori italiani, o che scrivono nella nostra lingua, e facesse riferimento a una tradizione di pensiero riconoscibile non solo all’interno ma anche, anzi soprattutto, al di fuori del nostro paese. Crediamo di aver dimostrato che questo è stato vero non soltanto nella prima metà del secolo, ma anche fino agli anni Sessanta. Non c’è dubbio però che dopo di allora sia stato sempre meno vero, e forse oggi non è più vero affatto. I movimenti culturali che hanno attraversato l’estetica italiana degli ultimi trenta, quarant’anni non hanno nulla di specificamente ‘italiano’, ed è ovvio che sia così, perché difficilmente si potrebbe immaginare, nell’orizzonte di cultura attuale, una specificità nazionale che non sia segno di chiusura o di ritardo. Tuttavia l’apertura verso l’esterno ha continuato a manifestare delle selettività molto marcate, orientandosi prevalentemente verso la tradizione filosofica ‘continentale’ (in sostanza, francese e tedesca), mentre la cultura anglosassone è rimasta sullo sfondo. Si tratta di una consuetudine molto radicata nel nostro paese, che però, se aveva un senso nella prima metà del Novecento, ne ha molto meno in un mondo in cui la cultura di lingua inglese è largamente dominante e trainante. Qualche segnale di cambiamento, comunque, si comincia a cogliere anche su questo versante, ed è probabile che vada a costituire il 360

lievito delle discussioni che occuperanno i prossimi anni. Dei due grandi orientamenti che tengono il campo degli studi riconducibili all’estetica nel mondo anglofono, ossia i Cultural Studies e le filosofie di tipo analitico, sono indubbiamente i primi ad aver consentito finora le maggiori aperture della nostra cultura umanistica verso nuovi orientamenti. Essi infatti stanno penetrando in modo piuttosto massiccio negli studi letterari, soprattutto, come è prevedibile, quelli di anglistica, ma anche quelli relativi ad altre lingue. Le applicazioni letterarie sono comunque soltanto una piccola parte di un complesso di studi che riguardano l’antropologia, la cultura visuale (e quindi gli studi sul cinema, il teatro, le arti della performance), la musica, in generale i fenomeni della cultura di massa, i cosiddetti Gender Studies (studi sulle implicazioni culturali delle differenze sessuali), la sociologia. Gli studi culturali sembrano avere ereditato gran parte del dibattito precedentemente orientato intorno al concetto di postmoderno, che del resto da noi non ha mai goduto di particolare fortuna e ha avuto per sé solo una breve stagione, all’inizio degli anni Ottanta, e se i loro aspetti più direttamente politici (dibattito sul post-colonialismo, sulla interculturalità, sulle culture subalterne) non sempre possono essere legati alle nostre esperienze, senza dubbio il loro confrontarsi con fenomeni artistici (con particolare attenzione verso le arti popolari e di massa) li rende particolarmente attraenti per chi è interessato alle tematiche estetiche. Si aggiunga inoltre che, se l’elaborazione dei Cultural Studies è avvenuta in aree geograficamente e in parte anche culturalmente remote dalla nostra (Stati Uniti, paesi post-coloniali), molti degli autori di riferimento di questa costellazione di studi sono ancora quelli della tradizione franco-tedesca, e insomma europea: Benjamin, Adorno, Foucault, Derrida, Bourdieu, ma anche Gramsci, 361

e questo può facilitare la loro diffusione. Del resto, come è noto, gli studi culturali hanno avuto il loro avvio nell’ambito della tradizione marxista inglese. A sostenere l’apertura dell’estetica verso i temi e i metodi dei Cultural Studies è stato soprattutto Perniola, attraverso la rivista «Agalma», attiva dal 2000 (nel 2005 è nata un’altra rivista di «Studi culturali», nella quale le tematiche estetiche convivono con quelle più latamente antropologico-sociali), che ha ospitato diversi suoi contributi su questo argomento. Un altro studioso impegnato in questa direzione è Salizzoni (Cultural Studies, estetica, scienze umane, 2003). Un primo bilancio dell’inserzione dei Cultural Studies nei territori tradizionalmente deputati alla riflessione estetica è stato tentato da Patella (Estetica culturale. Oltre il multiculturalismo, 2005), mentre per un primo orientamento sulla diffusione dell’approccio ‘culturale’ alla critica letteraria e visuale è utile il Dizionario degli studi culturali di Cometa (2004). Gli orientamenti analitici sembrano al momento ancora piuttosto estranei alla nostra estetica. Il confronto tra Analitici e Continentali ha certamente svolto un ruolo importante nella scena filosofica degli ultimi anni, a partire almeno dalla pubblicazione del volume Analitici e continentali di D’Agostini (1997), ma questo dibattito ha lasciato sostanzialmente ai margini l’estetica. Mentre le metodologie analitiche conquistavano ampia diffusione in altri settori della filosofia (filosofia del linguaggio, ontologia, epistemologia ecc.), i lavori di impostazione analitica da parte di studiosi italiani di estetica sono quasi inesistenti. Persino la conoscenza dei testi fondamentali di questo orientamento prodotti all’estero è molto limitata, anche per l’assenza quasi completa di traduzioni dei contributi più rilevanti e ormai canonici. Eppure non solo l’estetica analitica appare largamente dominante nel panorama filosofico internazionale, ma essa si è anche aperta negli 362

ultimi decenni a influssi diversi da quelli originari, perdendo certe rigidità che rendevano obbiettivamente difficile il confronto con altre tradizioni. Lo dimostra il fatto che in molti paesi di tradizione ‘continentale’ l’estetica analitica è ormai penetrata stabilmente, non solo attraverso la traduzione di lavori provenienti dai paesi anglofoni (nei quali l’estetica analitica è dominante da decenni), ma anche suscitando un dibattito interno e contributi originali, come nel caso della Francia, dove il confronto con la tradizione analitica è diventato consueto a partire dagli anni Novanta, e, in misura minore, della Germania. Qualche segno di un clima mutato si comincia a cogliere anche da noi: numeri di riviste con traduzioni di testi stranieri («Discipline filosofiche», n. 2, 2005, a cura di Matteucci; «Studi di estetica», n. 27-28, 2003-2004, a cura di Bollino); diffusione di tematiche legate all’approccio analitico, per esempio quelle sui modi di esistenza dell’opera d’arte (Kobau, Ontologie analitiche dell’arte, 2005; «Rivista di estetica», n. 2, 2003, dedicato alle Ontologie dell’arte); discussione di orientamenti analitici all’interno di studi italiani di estetica, per esempio nei lavori recenti di Desideri (Forme dell’esperienza estetica, 2004). Sono segnali di interesse destinati a infittirsi, sia perché propiziano una maggiore interazione con la ricerca fatta all’estero, sia perché favoriscono il diffondersi di un abito di discussione rigorosa e di attenzione verso problemi determinati che non può che essere salutare. E non credo ci sia bisogno di aggiungere che chiudere una storia dell’estetica italiana con qualcosa di mezzo tra l’auspicio e la constatazione della sua crescente internazionalizzazione non è necessariamente un paradosso. Note 1

C. Segre, Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?, Einaudi, Torino 1993, pp. 3-19.

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2

C. Di Girolamo, Critica della letterarietà, Il Saggiatore, Milano 1978, pp. 8, 23, 19, 31 sgg. 3 F. Brioschi, La mappa dell’impero. Problemi di teoria della letteratura, Il Saggiatore, Milano 1983, pp. 34, 214, 215 sgg. 4 Di Girolamo, Critica della letterarietà cit., p. 23; Brioschi, La mappa dell’impero cit., p. 67. 5 E. Garroni, Ricognizione della semiotica, Officina, Roma 1977. 6 T. De Mauro, Minisemantica dei linguaggi non verbali e delle lingue, Laterza, Roma-Bari 1982. 7 C. Sini, Semiotica e Filosofia, Il Mulino, Bologna 1978; Id., Passare il segno, Il Saggiatore, Milano 1981. 8 U. Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino 1984, pp. XI-XII; Id., Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 1997. 9 C. Di Girolamo, A. Berardinelli e F. Brioschi, La ragion critica, Il Saggiatore, Milano 1986, p. 33. 10 Di Berardinelli cfr. ad esempio Il critico senza mestiere, Einaudi, Torino 1983; Id., L’esteta e il politico, Einaudi, Torino 1986; di E. Trevi, Istruzioni per l’uso del lupo. Lettera sulla critica, Castelvecchi, Roma 1994; Id., Musica distante, Mondadori, Milano 1997. 11 Per l’elogio del critico-scrittore si veda in particolare G. Leonelli, La critica letteraria in Italia (1945-1994), Garzanti, Milano 1994. 12 M. Onofri, Il canone letterario, Laterza, Roma-Bari 2001; C. Segre, Ritorno alla critica, Einaudi, Torino 2001; C. Benedetti, L’ombra lunga dell’autore, Feltrinelli, Milano 1999; C. Benedetti, Il tradimento dei critici, Bollati Boringhieri, Torino 2002; F. Moretti, La letteratura vista da lontano, Einaudi, Torino 2005. 13 U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979, Introduzione. 14 Si vedano i due numeri monografici della rivista «Studi di Estetica» dedicati alla lettura (1991-1992, a cura di P. Bagni, E. Mattioli e F. Bollino). 15 Si veda ad esempio R. Ceserani, Breve viaggio nella critica americana, ETS, Pisa 1984. 16 Si vedano ancora, di Vattimo, Etica dell’interpretazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, e l’Introduzione a J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990. 17 M. Ferraris, Differenze. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Multhipla, Milano 1981; Id., La svolta testuale, Unicopli, Milano 19862; Id., Postille a Derrida, Rosenberg & Sellier, Torino 1990. 18 U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1990; Id., Interpretazione e sovraintepretazione, Bompiani, Milano 1995. Sulla ricezione italiana del decostruzionismo (per la quale andrebbero prese in esame anche le riviste «Alfabeta», «Studi di estetica», «Nuova Corrente», «Rivista di estetica») si può vedere la nota di S. Cavicchioli a J. Culler, Sulla decostruzione, Bompiani, Milano 1988.

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A. Leone de Castris, La critica letteraria in Italia dal dopoguerra a oggi, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 109 sgg. 20 Segre, Notizie dalla crisi cit., p. 18; F. Brioschi, La questione della storia letteraria, in Di Girolamo, Berardinelli e Brioschi La ragion critica cit., p. 132; A. Asor Rosa, Estetica e critica letteraria, in Senso e storia dell’estetica, a cura di P. Montani, Pratiche, Parma 1995, p. 741. 21 Di «eccedenza» ha parlato S. Givone (articolo Estetica in La Filosofia, diretta da P. Rossi, vol. III, UTET, Torino 1995, p. 510). 22 G. Vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Edizioni di Filosofia, Torino 1963; Id., Ipotesi su Nietzsche, Giappichelli, Torino 1967. 23 M. Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1976. 24 F. Rella, Miti e figure del moderno, Pratiche, Parma 1981; M. Cacciari, Dallo Steinhof, Adelphi, Milano 1980. In generale, tutti gli autori indicati resteranno centrali nel percorso di Cacciari, da Icone della legge, Adelphi, Milano 1985, a Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004, anche se esso sarà sempre più autonomamente orientato in senso teorico. 25 A.G. Gargani, Wittgenstein tra Austria e Inghilterra, Stampatori, Torino 1979; Id., Lo stupore e il caso, Laterza, Roma-Bari 1985. 26 Oltre ai nomi già fatti di Cacciari, Agamben e Rella, si dovranno aggiungere, almeno per le tematiche di più immediata rilevanza estetica, quelli di F. Desideri, G. Schiavoni, G. Pasqualotto. 27 Si veda in proposito G. Di Giacomo, Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a Wittgenstein, Pratiche, Parma 1989. 28 Cfr. G. Vattimo, Estetica ed ermeneutica, in «Rivista di estetica», n. 1, 1979; S. Givone, Storia dell’estetica, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 169-172. 29 A.G. Gargani, Introduzione, in Crisi della ragione, a cura di A.G. Gargani, Einaudi, Torino 1979. 30 G. Vattimo, P.A. Rovatti e altri, Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983. Per questi ultimi riferimenti si veda il saggio di Vattimo, Dialettica, differenza, pensiero debole, alle pp. 13, 26. 31 G. Carchia, Glossa sulla post-modernità, in Id., La legittimazione dell’arte, Guida, Napoli 1982. Per il dibattito sul post-moderno rinviamo a: M. Ferraris, Tracce. Nichilismo Moderno Postmoderno, Multhipla, Milano 1983; G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985; P. Rossi, Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, Il Mulino, Bologna 1989; R. Barilli, Il ciclo del postmoderno, Feltrinelli, Milano 1987. 32 È ciò che fa, in accezione nettamente critica, Leone de Castris in La critica letteraria in Italia dal dopoguerra a oggi cit., p. 227. 33 La frase si legge nel risvolto di copertina del primo romanzo di Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1980. 34 F. Rella, Il silenzio e le parole, Feltrinelli, Milano 1981; Id., Asterischi,

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Feltrinelli, Milano 1989; Id., Pensare per figure, Fazi, Roma 2004; G. Agamben, Idea della Prosa, Feltrinelli, Milano 1985. Sull’intreccio tra filosofia, narrazione e biografia: A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 1997. Si veda anche S. Givone, Il bibliotecario di Leibniz. Filosofia e romanzo, Einaudi, Torino 2005. 35 L’altra storia, Garzanti, Milano 1990, è appunto il titolo del secondo lavoro narrativo-filosofico di Gargani. 36 A.G. Gargani, Sguardo e destino, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 30. 37 Cfr. ad esempio R. Luperini, La mediazione è saltata, in «Alfabeta», n. 33, 1982. 38 Si veda per esempio La via al sublime, a cura di G. Franci e V. Fortunati, Alinea, Firenze 1987. 39 E. Mattioli, Interpretazioni dello Pseudo-Longino, Mucchi, Modena 1988; Da Longino a Longino. I luoghi del sublime, a cura di L. Russo, Aesthetica, Palermo 1987; L. Bonesio, La ragione estetica, Guerini e Associati, Milano 1990. 40 G. Carchia, Retorica del sublime, Laterza, Roma-Bari 1990. 41 Oggi l’arte è un carcere?, a cura di L. Russo, Il Mulino, Bologna 1980. 42 F. Fanizza, Variazioni dell’estetico, Tempi Moderni, Napoli 1982, pp. 78, 108, 39. Si veda pure il saggio introduttivo a Modernità e coscienza estetica, ivi, 1986. 43 G. Vattimo, Morte o tramonto dell’arte?, ora in Id., La fine della modernità cit.; Givone, Estetica cit., p. 510. 44 M. Perniola, Dall’estetico al superestetico, in «Rivista di estetica», n. 14-15, 1983, p. 61. 45 M. Perniola, Del sentire, Einaudi, Torino 1991, p. 3; Id., Del sentire cattolico, Il Mulino, Bologna 2001. 46 Oltre al volume di G. Ferroni Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Einaudi, Torino 1996, si vedano i più recenti M. Lavagetto, Eutanasia della critica, Einaudi, Torino 2005; e, ancora di Ferroni, I confini della critica, Guida, Napoli 2005. 47 A. Trione, L’estetica della mente, Cappelli, Bologna 1987, p. 98; Id., Estetica e Novecento, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 93; Id., L’ordine necessario, Il Melangolo, Genova 2001. 48 G. Vattimo, Poesia e ontologia, Mursia, Milano 19852, p. 28. 49 Si vedano in particolare i saggi raccolti nella sezione centrale di La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985, intitolata La verità dell’arte. 50 Il verso di Hölderlin «Ma ciò che resta, sono i poeti a fondarlo» è commentato da Heidegger nel saggio Hölderlin e l’essenza della poesia del 1936. 51 S. Givone, La questione romantica, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. VI, 42-43; Id., Disincanto del mondo e pensiero tragico, Il Saggiatore, Milano 1988, pp. 16-17. 52 Si veda, in proposito, P. Montani, Estetica ed ermeneutica. Senso, contingenza, verità, Laterza, Roma-Bari 1996.

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E. Garroni, Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale, Laterza, RomaBari 1986, ed Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992. 54 Garroni, Estetica cit., p. 197. 55 M. Ferraris, Estetica razionale, Cortina, Milano 1997; Id., Introduzione a Derrida, Laterza, Roma-Bari 2003; L’altra estetica, a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Einaudi, Torino 2001. 56 R. Assunto, L’integrazione estetica, Edizioni di Comunità, Milano 1959, p. 7. 57 Sull’evoluzione delle posizioni di Assunto si veda V. Stella, L’apparizione sensibile, Bulzoni, Roma 1979, pp. 209-234. La testimonianza di V. Stella (n. 1924) è particolarmente significativa, trattandosi di uno studioso prossimo alle posizioni di Assunto, da lui sviluppate soprattutto nelle ricognizioni storiografiche dedicate all’estetica italiana e a quella della Romantik. Tra gli studiosi contemporanei di estetica, Stella è anche quello che si è mantenuto più vicino alla prospettiva crociana. 58 R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, Giannini, Napoli 1973; seconda ed. modificata, Novecento, Palermo 1994. 59 Il volume Ontologia e teleologia del giardino, Guerini e Associati, Milano 1988, comprende, con aggiunte e rielaborazioni, i capitoli sul giardino di Il paesaggio e l’estetica. 60 R. Assunto, La bellezza come assoluto, Novecento, Palermo 1993. 61 S. Zecchi, La bellezza, Bollati-Boringhieri, Torino 1990; Id., L’artista armato. Contro i crimini della modernità, Mondadori, Milano 1998. 62 S. Zecchi, Verso dove?, Tema Celeste, Siracusa 1991, p. 49. 63 Il saggio si può leggere ora, assieme agli altri sulla storia dell’estetica, in B. Croce, Storia dell’estetica per saggi, Laterza, Bari 19672. 64 Ivi, pp. 136-137. 65 M.M. Rossi, L’estetica dell’empirismo inglese, 2 voll., Sansoni, Firenze 1944. 66 L. Anceschi, Modelli di metodo per una storiografia estetica, in Id., Da Bacone a Kant, Il Mulino, Bologna 1972; D. Formaggio, L’idea di artisticità, Ceschina, Milano 1962, Sezione Prima. 67 U. Spirito, Lineamenti di una storia dell’estetica, ora in Id., Critica dell’estetica, Sansoni, Firenze 1964, pp. 223 sgg. Per un più ampio bilancio della storiografia estetica del dopoguerra rimandiamo a L. Russo, La storia dell’estetica in Italia nel secondo dopoguerra (1951-1981), in AA.VV., Il canto di Seikilos, Guerini e Associati, Milano 1995. 68 Si veda in proposito E. Scolari, Per una storia dell’estetica, ora in Id., Quattro studi sull’estetica del positivismo e altri scritti, Mucchi, Modena 1984, pp. 197-209. 69 E. Grassi (1902-1991) è vissuto in Germania e ha pubblicato molti dei suoi lavori in tedesco. Oltre a quella cui si allude nel testo (Arte come antiarte, Paravia, Torino 1972), ha scritto opere su Arte e mito, sulla metafora, sulla filosofia dell’umanesimo. 70 Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso cit., p. 63.

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Garroni, Senso e paradosso cit., pp. 200 sgg. L. Russo, Una storia per l’estetica, in «Aesthetica Pre-print», n. 19, marzo 1988; Id., Postfazione, in W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Aesthetica, Palermo 1993, pp. 423-437. 73 Si veda M. Modica, Che cos’è l’estetica, Editori Riuniti, Roma 1987; L. Amoroso, Sul problema di una storia dell’estetica, in Le grandi correnti dell’estetica novecentesca, a cura di G. Marchianò, Guerini e Associati, Milano 1991, pp. 93108. Per la discussione sulla storia dell’estetica si veda pure AA.VV., Antico e Moderno. L’estetica e la sua storia, in «Aesthetica Pre-print», n. 25, 1989. 72

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Bibliografia

Capitolo primo 1.1. – 1.6. B. Croce. Una bibliografia completa delle opere di Croce è nel volume di S. Borsari, L’opera di Benedetto Croce, Napoli 1964. Il corpus delle opere di Croce è stato edito da Laterza. A partire dal 1989 alcune opere crociane sono state ristampate da Adelphi, mentre è in corso presso Bibliopolis l’Edizione Nazionale. Nel volume di P. Bonetti, Introduzione a Croce, Roma-Bari 1984, il lettore troverà una bibliografia delle opere di e su Croce. Sul pensiero di Croce in generale, segnaliamo: G. Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, Torino 1988; G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975; G. Sasso, Filosofia e idealismo, vol. I, Benedetto Croce, Napoli 1994; G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Milano 1990; M. Maggi, La filosofia di Benedetto Croce, Napoli 1998; G. Cotroneo, Questioni crociane e post-crociane, Napoli 1994; M. Capati, Il maestro abnorme. Benedetto Croce e l’Italia del Novecento, Firenze 2000; S. Cingari, Benedetto Croce e la crisi della civiltà europea, Soveria Mannelli 2003; G. Cacciatore, G. Cotroneo e R.Viti Cavaliere, Croce filosofo, Atti del convegno per il cinquantenario della morte, Soveria Mannelli 2003; M. Agrimi, R. Ciafardone e B. Razzotti, Croce all’aprirsi del XXI secolo, Lanciano 2006. Studi sull’estetica: B. Bosanquet, Croce’s Aesthetics, in «Proceedings of the British Academy», IX, 1919; E. Colorni, L’estetica di Benedetto Croce, Milano 1932; R. Garbari, Genesi e svolgimento delle prime tesi estetiche di B. Croce, Firenze 1949; V. Sainati, L’estetica di Benedetto Croce. Dall’intuizione visiva all’intuizione catartica, Firenze 1953; G.N.G. Orsini, Benedetto Croce Philosopher of Art and Literary Critic, Carbondale 1961 (trad. it. Milano 1976); A. Caracciolo, L’estetica e la religione di Benedetto Croce, Brescia 1958; M.E. Brown, Neoidealistic Aesthetics: Croce, Gentile, Collingwood, Detroit 1966; A. Leone de Castris, Croce, Lukács, Della Volpe. Estetica ed egemonia nella cultura del Novecento, Bari 1978; M. Boncompagni, Ermeneutica dell’arte in Benedetto Croce, Napoli 1980; P. D’Angelo, L’Estetica di Benedetto Croce, Roma-Bari 1982; P. Colonnello, Croce e i vociani, Napoli 1984; R. Zimmer, Einheit und Entwicklung in Benedetto Croces Aesthetik, Frankfurt a.M. 1985; V. Stella, Le arti figurative nel pensiero di Croce, in Id., Forma e memoria, Roma 1985; M.E. Moss, Benedetto Croce Reconsidered. Truth and Error in Theories of Art, Literature and History, London 1987; L. Russo, Una storia per

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l’estetica, Palermo 1988; A. Leone de Castris, Estetica e politica. Croce e Gramsci, Milano 1989; R. Bruno (a cura di), Per Croce. Estetica Etica Storia, Napoli 1995; M. Verdicchio, Naming Things. Aesthetics, Philosophy and History in Benedetto Croce, Napoli 2000; A.Trione, Estetica e Novecento, Roma-Bari 1996, in particolare cap. I; A. Trione, Sopralluoghi. Croce, Gentile e oltre, Genova 2005. Sulla filosofia del linguaggio: G. Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio, Firenze 1946; M. Leroy, B. Croce et les études linguistiques, in «Revue internationale de philosophie», n. 4, 1953; C. De Simone, Die Sprachphilosophie von B. Croce, in «Kratylos», 1967; T. De Mauro, Introduzione alla semantica, Roma-Bari 19753; M. Deneckere, Benedetto Croce et la linguistique, 2 voll., Bruxelles 1983; L. Dondoli, Genesi e sviluppi della teoria linguistica di Benedetto Croce, Roma 1988; F. Giuliani, Espressione ed «ethos». Il linguaggio nella filosofia di Benedetto Croce, Napoli 2002. Sulla critica letteraria in genere (escludiamo gli studi che trattano il giudizio di Croce su singoli autori): L. Russo, La critica letteraria contemporanea, vol. I, Bari 1942; M. Puppo, Il metodo e la critica di Benedetto Croce, Milano 1964; M. Sansone, La critica letteraria, in AA.VV., Interpretazioni crociane, Bari 1965, pp. 197-220; R. Scrivano, Benedetto Croce critico letterario e i fondamenti della cultura letteraria del Novecento, Roma 1968; G. Cattaneo, Benedetto Croce e la critica letteraria, in Storia della letteratura italiana, vol. IX, Il Novecento, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, Milano 1969; R. Wellek, La teoria letteraria e la critica di Benedetto Croce, in Letteratura Italiana, vol. IV, a cura di A. Asor Rosa, Torino 1985; E. Giammattei, Retorica e idealismo. Croce nel primo Novecento, Bologna 1987; Ead., La Biblioteca e il Dragone. Croce, Gentile e la letteratura, Napoli 2001. 1.7. I crociani. Per un inquadramento generale è indispensabile E. Garin, Cronache di filosofia italiana, Roma-Bari 19752. Per l’influsso di Croce sull’estetica italiana del Novecento, si può vedere: A. Attisani, L’estetica di F. De Sanctis e dell’idealismo italiano, in AA.VV., Momenti e problemi di storia dell’estetica, vol. IV, Milano 19832, pp. 1524-1574; Id., Gli studi di estetica, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana (1896-1946), 2 voll., a cura di C. Antoni e R. Mattioli, Napoli 1950; in quest’ultima opera vanno poi tenute presenti le rassegne di L. Ronga, Storia della musica; di L. Venturi, Storia dell’arte; di G. Devoto, Gli studi di linguistica. Sull’estetica dei crociani è da vedere S. Coppolino, Dopo Croce, Reggio Calabria 1993. Su Antoni: G. Sasso, L’illusione della dialettica. Profilo di Carlo Antoni, Roma 1982. Su Sarno: M. Perniola, Enigmi, Genova 1990, pp. 163-165; Sui critici letterari ha pagine penetranti L. Baldacci, I critici italiani del Novecento, Milano 1969. Sulla figura di Tilgher: G.F. Lami, Introduzione ad Adriano Tilgher, Roma 2000; Su Tilgher come estetico: L. Russo, La critica letteraria contemporanea, vol. II, Bari 1942, pp. 300 sgg. Di L. Russo importanti in particolare: Problemi di metodo critico, Bari 1929; Storia della critica letteraria, Bari 1942; di F. Flora: La mia prospettiva estetica, nel volume omonimo a cura di L. Stefanini, Padova 1953; I Miti della parola, Trani 1931; Orfismo della parola, Bologna 1953; di M. Fubini: Critica e poesia, Roma 19733; su Fubini: V. Stella, L’intelligenza della poesia, Roma 1990, pp. 87-179.

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Per la critica musicale, E. Fubini, L’estetica crociana e la critica musicale, in Id. Musica e linguaggio nell’estetica contemporanea, Torino 1973. Di A. Parente: La musica e le arti, Bari 1936; Castità della musica, Torino 1961. Di M. Mila: L’esperienza musicale e l’estetica, Torino 1950. Per la critica delle arti figurative: C.L. Ragghianti, Profilo della critica d’arte in Italia, Firenze 1973; V. Stella, Il giudizio dell’arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani, Macerata 2005. Per la bibliografia di e su Longhi, Venturi, Marangoni, Bottari, Ragghianti rimandiamo a quelle contenute in G.C. Sciolla, La critica d’arte del Novecento, Torino 1995. Su Longhi segnaliamo in particolare il saggio di C. Garboli, Breve storia del giovane Longhi, in Id., Scritti servili, Torino 1989. Su Venturi: M. Cardelli, La prospettiva estetica di Lionello Venturi, Firenze 2004. Su Ragghianti: R. Bruno (a cura di), Ragghianti critico e politico, Milano 2004. Gli scritti di A. Gargiulo sono raccolti in M. Castiglioni (a cura di), Scritti di estetica, Firenze 1952. Per una bibliografia degli scritti di e su Gargiulo rimandiamo a C. Pacini, Esteticità e formalismo. L’analisi letteraria di Alfredo Gargiulo, Pisa 1982.

Capitolo secondo 2.1. – 2.5. G. Gentile. Per la bibliografia delle opere di Gentile rimandiamo a V.A. Bellezza, Bibliografia degli scritti di Giovanni Gentile, Firenze 1950. Le Opere complete sono state edite da Sansoni e poi da Le Lettere. Nel volume di A. Lo Schiavo, Introduzione a Gentile, Roma-Bari 1974, il lettore troverà una bibliografia delle opere di e su Gentile. Sul pensiero di Gentile in generale, segnaliamo, oltre alla già citata Introduzione di A. Lo Schiavo, A. Negri, Giovanni Gentile, vol. I, Costruzione e senso dell’attualismo; vol. II, Sviluppi e incidenza dell’attualismo, Firenze 1975; Id., L’inquietudine del divenire. Giovanni Gentile, Firenze 1988; S. Natoli, Gentile filosofo europeo, Torino 1989; E. Garin, Introduzione, in G. Gentile, Opere filosofiche, Milano 1991; A. Negri, L’inquietudine del divenire. Giovanni Gentile, Firenze 1992; G. Sasso, Filosofia e idealismo, vol. II, Giovanni Gentile, Napoli 1995. Studi sull’estetica: R. Assunto, Su alcune difficoltà dell’estetica gentiliana, in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici, vol. V, Firenze 1951, pp. 3-51; D. Faucci, La funzione del sentimento nel pensiero di Giovanni Gentile, ivi, pp. 85-145; S. Banchetti, Profilo dell’estetica gentiliana, in «Giornale di Metafisica», n. 6, 1961; A. Plebe, Importanza del concetto gentiliano di inattualità dell’arte, in «Giornale critico della filosofia italiana», n. 6, 1964; V. Stella, La formazione del pensiero di Gentile sull’arte, in Id., L’apparizione sensibile, Roma 1979; V. Mathieu, L’attualismo di Gentile e la morte dell’arte, in «Filosofia», n. 2, 1992; M. Pinottini, L’immagine svelata. L’arte in Gentile e Heidegger, Padova 1992; F. Fanizza, L’‘altra estetica’ di Giovanni Gentile, in AA.VV., L’estetica italiana del Novecento, Napoli 1993; E. Garroni, Estetica e problema critico. La filosofia italiana, Gentile e il caso Croce, ivi, pp. 61-76; gli studi sull’estetica gentiliana di A. Negri sono ora raccolti nel volume L’estetica di

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Gentile, Palermo 1994. Sulla critica letteraria di Gentile resta di grande importanza L. Russo, La critica letteraria contemporanea, vol. II, Bari 1942, pp. 58-211; i saggi di A. Negri sulla critica letteraria gentiliana sono compresi nel volume L’estetica di Gentile, Palermo 1994; il saggio di G. Sasso, Gentile e Dante. Note e appunti, ora in Id., Filosofia e idealismo, vol. II, Giovanni Gentile, Napoli 1995, è importante anche per l’estetica gentiliana in genere. 2.6. I gentiliani. Per un quadro complessivo si veda sempre E. Garin, Cronache di filosofia italiana, Roma-Bari 19752. Sono importanti per l’estetica: A. Carlini, La religiosità dell’arte e della poesia, Firenze 1934; V. Fazio-Allmayer, Moralità dell’arte, Firenze 1953 (su V. Fazio-Allmayer: B. Fazio-Allmayer, Vita e pensiero di Vito Fazio-Allmayer, Firenze 1960); di F. Albeggiani, Arte e vita, Firenze 1921; L’arte come conoscenza e liricità, Palermo 1945; di V. Arangio-Ruiz, Arte e filosofia, Genova 1935; Umanità dell’arte, Firenze 1951; di G. Chiavacci, Saggio sulla natura dell’uomo, Firenze 1936; La ragione poetica, Firenze 1947; Quid est veritas? Saggi filosofici, Firenze 1986 (con una bibliografia degli scritti di Chiavacci); di C. Carbonara, Del Bello e dell’arte, Napoli 1953; L’estetica del particolare in G. Lukács, Napoli 1960; Discorso empirico delle arti, Napoli 1973; su Carbonara: V. Stella, L’estetica della sopradiscorsività, in Id., L’apparizione sensibile, Roma 1979, pp. 187208; A. Negri, La filosofia dell’arte di C. Carbonara, in «Studi Urbinati», n. 38, 1958, pp. 230-275; di A. Emo, Il dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Prefazione di M. Cacciari, Venezia 1989.

Capitolo terzo 3.1. Sull’estetica del primo trentennio del secolo: C. Sgroi, Gli studi estetici in Italia nel primo trentennio del ’900, Firenze 1932. Sulle poetiche sono fondamentali i due studi di L. Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia, Torino 1973 e di E. Raimondi, Le poetiche della modernità in Italia, Milano 1990; si possono vedere anche A. Noferi, Le poetiche critiche novecentesche, Firenze 1970 e P. Cataldi, Le idee della Letteratura. Storia delle poetiche italiane del Novecento, Firenze 1994. G. Fraccaroli, L’irrazionale nell’arte, Torino 1903; M. Porena, Che cos’ è il bello?, Milano 1905; Id., Dello Stile, Torino 1907; G.A. Cesareo, Saggio sull’arte creatrice, Bologna 1919; su Cesareo: A. Aliotta, L’estetica di Kant e degli idealisti romantici, Roma 1950, pp. 251-271; C. Michelstaedter, Opere, a cura di G. Chiavacci, Firenze 1958; in generale sulla filosofia di Michelstaedter: C. La Rocca, Nichilismo e Rettorica. Il pensiero di Carlo Michelstaedter, Pisa 1983; A. Carrera e altri, Carlo Michelstaedter. Un’introduzione, Milano 2005, al quale rimandiamo anche per la bibliografia; sull’estetica di Michelstaedter: V. Stella, Carlo Michelstaedter, Roma 2002; M. Cacciari, ΔΡΑΝ, Paris 1992, pp. 63 sgg.; M. Perniola, Il ‘forte sentire’ di Carlo Michelstaedter, in «Alfabeta», n. 102, novembre 1987; G. Carchia, Linguaggio e mistica in Carlo Michelstaedter, in «Rivista di estetica», n. 9, 1981, pp. 126-132. L. Pirandello: L’umorismo, Introduzione di N. Borsellino, Prefazione di P. Milone, Milano 1996; Arte e scienza, Roma 1908 (solo alcuni saggi sono compresi nella

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scelta Arte e scienza, Milano 1994). Sull’estetica di Pirandello, oltre ai saggi segnalati nella bibliografia della ed. cit. dell’Umorismo e ai capitoli sulla poetica delle monografie su Pirandello (in particolare si vedano A. Leone de Castris, Storia di Pirandello, Bari 1962; R. Luperini, Introduzione a Pirandello, Roma-Bari 1992), si vedano: G. Andersson, Arte e teoria. Studi sulla poetica del giovane Pirandello, Stockholm 1966 e C. Vicentini, L’estetica di Pirandello, Milano 19852; E. Ferrario, L’occhio di Mattia Pascal. Poetica e estetica in Pirandello, Roma 1978; L. Russo, Pirandello e la psicoanalisi, in Pirandello e la cultura del suo tempo, a cura di S. Milioto ed E. Scrivano, Milano 1984; M. Cometa, Pirandello e Lipps. Due letture psicologiche dell’umorismo, ivi; P. Casella, L’Umorismo di Pirandello. Ragioni intra- e intertestuali, Roma 2002; per la polemica con Croce a proposito dell’Umorismo: B. Alfonzetti, Il fantasma e la tecnica. Croce e Pirandello, in «Le forme e la storia», n. 1-2, 1981. Di M. Morasso va visto specialmente L’imperialismo artistico, Torino 1903; sull’estetica di Morasso: G. Gentile, in Frammenti di estetica e di teoria della storia (Opere complete, vol. XLVIII), vol. I, Firenze 1992, pp. 226-230; C. Gentili, A proposito di F.T. Marinetti e di M. Morasso, in «Atti e memorie dell’Accademia Clementina di Bologna», 1974; P. Pullega, Preliminari alla teoria estetica di M. Morasso, in AA.VV., L’estetica italiana del Novecento, Napoli 1993, pp. 557-563. 3.2. Sul futurismo esiste ormai un’imponente bibliografia. Rimandiamo perciò agli orientamenti bibliografici contenuti in L. De Maria, Marinetti e il Futurismo, Milano 1994, e a C. Salaris, Bibliografia del Futurismo 1909-1944, Roma 1988. Per i testi: L. De Maria, Marinetti e il Futurismo, Milano 1994; A. Soffici, Primi principi di un’estetica futurista, Firenze 1920; sul futurismo: M. Calvesi, Le due avanguardie. Dal Futurismo alla Pop Art, Roma-Bari 19913; C. Salaris, Storia del Futurismo, Napoli 1985; L. De Maria, La nascita dell’Avanguardia. Saggi sul Futurismo italiano, Venezia 1986; S. Briosi, Marinetti e il Futurismo, Lecce 1986; F. Curi, Perdita d’aureola, Torino 1977; Id., Tra mimesi e metafora. Studi su Marinetti e il futurismo, Bologna 1995; R. De Felice (a cura di) Futurismo: Cultura e Politica, Torino 1988. Sull’estetica futurista in particolare: S. Givone, Hybris e Melancholia, Milano 1974, pp. 89-118; M. Pinottini, L’estetica del futurismo. Revisioni storiografiche, Roma 1979. Su Papini e il futurismo fiorentino: L. Rossi, L’ideologia estetica di Papini, in Id., Studi di Estetica, Bologna 1979; su Soffici V. Trione, Dentro le cose. Ardengo Soffici critico d’arte, Torino 2001. 3.3. Su G. Rensi in generale: E. Buonaiuti e G. Rensi, Lo scettico credente, Roma 1945; R. Chiarenza e altri, L’inquieto esistere, Atti del convegno su Giuseppe Rensi nel cinquantenario della morte, Genova 1991; N. Emery, Lo sguardo di Sisifo. Giuseppe Rensi e la via italiana alla filosofia della crisi, Milano 1997; Id., Giuseppe Rensi, l’eloquenza del nichilismo, Formello 2001. Sull’estetica di Rensi: B. Maj, Metafisica e lirica. Leopardi nel pensiero filosofico di Rensi, in G. Rensi, Lo scetticismo estetico del Leopardi, Ferrara 1990, pp. 77-132; M. Rocca, Il pathei mathos nell’estetica di Rensi, Napoli 1990. 3.4. Su G.A. Borgese: G.A. Peritore, G.A. Borgese, in «Belfagor», n. 4, 1955, pp. 537-553; V. Licata, L’invenzione critica. Giuseppe Antonio Borgese, Palermo

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1982; N. Borsellino, Critica e storia, Roma 1993, pp. 153-161. Scarsi i contributi sull’estetica: G. Morpurgo-Tagliabue, G.A. Borgese e i problemi dell’arte, in «Acme», n. 1, 1953, pp. 81-95 (fascicolo interamente dedicato a Borgese); V. Stella, Borgese, Croce e l’estetica, in Id., Forma e Memoria, Roma 1985, pp. 211-243. Si veda anche: G. Sasso, Variazioni sulla storia di una rivista italiana: «La Cultura», Bologna 1992, pp. 9-35. 3.5. Su A. Baratono: G. Morpurgo-Tagliabue, Il concetto dello stile cit., pp. 6275; G. Faggin, Il formalismo sensista di A. Baratono, in «Rivista di Storia della Filosofia», n. 1946, pp. 189-196; D. Formaggio, Arte e poesia in A. Baratono, ora in Id., Problemi di estetica, Palermo 1991; L. Rossi, Situazione dell’estetica in Italia, Torino 1976, pp. LXXXI-LXXXVIII; R. Tumino, A. Baratono maestro, pedagogista, esteta, Catania 2001. 3.6. Su A. Banfi: R. Salemi (a cura di), Bibliografia banfiana, Parma 1982. Sulla filosofia di Banfi in genere si possono vedere: il numero speciale di «Aut-Aut» del 1958; il volume di F. Papi, Il pensiero di Antonio Banfi, Firenze 1961, gli Atti del convegno banfiano del 1967, Antonio Banfi e il pensiero contemporaneo, Firenze 1969 (con interventi sull’estetica di Barilli, Scaramuzza, Assunto, Curi, Formaggio, Mattioli, Rognoni); S. Zecchi, La fenomenologia dopo Husserl nella cultura contemporanea, vol. I, Firenze 1978, pp. 39-47; il n. 3, 1986, di «Fenomenologia e scienza dell’uomo», dedicato a Banfi; M. Dal Pra, D. Formaggio e P. Rossi, Antonio Banfi, Milano 1984; G.D. Neri, Crisi e costruzione della storia. Sviluppi del pensiero di Antonio Banfi, Napoli 1988. Sull’estetica: G. Scaramuzza, Antonio Banfi. La ragione e l’estetico, Padova 1984. Sono poi da vedere le due Introduzioni di Anceschi e Formaggio alle raccolte di scritti banfiani citate; L. Rossi, Situazione dell’estetica in Italia, Torino 1976, pp. XII-XXX; C. Gentili, Nuova fenomenologia critica, Torino 1981, pp. 79-129; F. Fanizza, Il principio trascendentale dell’autonomia estetica in A. Banfi, ora in Id., Letteratura come filosofia, Manduria 1963; A.Trione, Estetica e filosofia dell’arte in Banfi, ora in Id., Struttura e istituzioni dell’arte, Lecce 1974; C. Cordié, Introduzione ad A. Banfi, Scritti letterari, Roma 1970; G. Scaramuzza, Il tema della crisi dell’arte nel pensiero di Antonio Banfi, in «Rivista critica di storia della filosofia», n. 2, 1994.

Capitolo quarto 4.1. Per un orientamento generale sulla filosofia di questo periodo: AA.VV., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari 1985. Sull’estetica del dopoguerra si possono vedere in particolare: D. Pesce, L’estetica dopo Croce, Firenze 1962; A. Plebe, L’estetica italiana dopo Croce, Padova 1968; il volume La mia prospettiva estetica, a cura di L. Stefanini, Padova 1953; gli Atti del III congresso internazionale di Estetica, Torino 1957; una bibliografia dell’estetica italiana è in V. Stella, L’estetica dalla seconda metà dell’Ottocento a oggi, in Grande Antologia Filosofica, vol. XXXIV, Aggiornamento Bibliografico, Milano 1985, pp. 1056 sgg. Sulla critica letteraria: A. Leone de Castris, La critica letteraria in Italia dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari 1991; G. Leonelli, La critica letteraria in Italia (1945-

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1994), Milano 1994. Sull’estetica di Abbagnano: L. Rossi, L’atteggiamento fenomenologico nello sviluppo dell’estetica di Abbagnano, in Id., Fenomenologia critica e storiografia estetica, Bologna 1983; A. Trione, Estetica e Novecento, Roma-Bari 1996, pp. 53-65. L. Anceschi: una bibliografia degli scritti di Anceschi a cura di A. Serra è in Studi in onore di Luciano Anceschi, Modena 1982. Su Anceschi: A. Trione, Strutture e istituzioni dell’arte, Lecce 1973, pp. 71-120; L. Rossi, Situazione dell’estetica in Italia, Torino 1976, pp. XXX-LXXX; Id., Luciano Anceschi o del metodo, Bologna 2004; C. Gentili, Nuova fenomenologia critica, Torino 1981, pp. 130-161; V. De Angelis, L’estetica di Luciano Anceschi, Bologna 1983; S. Verdino, Luciano Anceschi: esperienza della poesia e metodo, Genova 1987; L. Vetri, La questione della critica in Luciano Anceschi, Bologna 1994; Luciano Anceschi, numero speciale di «Studi di estetica», a cura di F. Bollino, 2006. D. Formaggio. Una bibliografia degli scritti di Formaggio, a cura di C. Terruzzi, è nel volume di AA.VV., Il canto di Seikilos. Studi per Dino Formaggio, Milano 1995. Su Formaggio: U. Eco, La definizione dell’arte, Milano 1978, pp. 129-159; L. Rossi, Situazione dell’estetica in Italia, Torino 1976, pp. CCLXV sgg.; Dino Formaggio e l’estetica. Scritti offerti da autori vari con uno studio di Dino Formaggio, Milano 1985; G. Scaramuzza, Prefazione a D. Formaggio, Fenomenologia della tecnica artistica, Parma 19782. Una bibliografia degli scritti (1930-1986) di e su G. Dorfles, a cura di C. Bietoletti, è nel volume G. Dorfles, Itinerario estetico, Pordenone 1987. Su C. Diano: AA.VV., Il segno della forma. Atti del convegno di studi su C. Diano, Padova 1986; O. Longo (a cura di), L’esilio del sapiente. Carlo Diano a cent’anni dalla nascita, Padova 2003; su G. Morpurgo-Tagliabue: L. Rossi, Situazione dell’estetica in Italia, Torino 1976, pp. CLXVI-CLXXXIII. Per gli scritti di E. Paci rinviamo ad A. Civita, Bibliografia degli scritti di Enzo Paci, Firenze 1983; su Paci: S. Zecchi (a cura di), Vita e verità. Interpretazione del pensiero di Enzo Paci, Milano 1991; G. Scaramuzza, Arte e filosofia nel pensiero di Enzo Paci, in AA.VV., L’estetica italiana del Novecento, Napoli 1993; gli scritti di estetica di G. Preti sono stati raccolti da E. Migliorini in Umanismo e strutturalismo, Padova 1973; su G. Preti, oltre all’Introduzione di Migliorini al volume citato, E. Franzini, La carne e il dialogo dell’origine. Nota sull’estetica di Giulio Preti, in AA.VV., L’estetica italiana del Novecento, Napoli 1993; C. Gentili, Giulio Preti e la possibilità scientifica dell’estetica, in «Studi di Estetica», n. 5, 1978-1980. Su R. Cantoni: C. Gily-Reda, L’antropologia filosofica di Remo Cantoni, Roma 1995; su questi autori si può vedere F. Papi, Vita e filosofia. La scuola di Milano, Milano 1990. In generale su questi autori: G. Scaramuzza, Crisi come rinnovamento. Scritti sull’estetica della scuola di Milano, Milano 2000. Su E. Migliorini: L. Russo e altri, Ermanno Migliorini e la rosa di Kant, in «Aesthetica Pre-print», n. 59, agosto 2000. 4.2. L. Pareyson. Una bibliografia degli scritti di Pareyson è in F. Russo, Esistenza e libertà. Il pensiero di Luigi Pareyson, Roma 1993. Sul pensiero di Pareyson in genere: A. Rosso, Ermeneutica come ontologia della libertà, Milano 1980; M. Gensabella Furnari, I sentieri della libertà. Saggio su Luigi Pareyson, Milano 1994; F. Tomatis, Ontologia del male. L’ermeneutica di Luigi Pareyson, Assisi 1995. Studi

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sull’estetica: V. Stella, Persona e arte nella teoria della formatività di Pareyson, in «Giornale di Metafisica», XII, 1957, pp. 74-100; V. Sainati, Discorso critico sulla teoria della formatività, in «Giornale critico della filosofia italiana», n. 3, 1961; E. Pera Genzone, L’estetica di Luigi Pareyson, Torino 1963; H.T. Bredin, The Aesthetics of Luigi Pareyson, in «The British Journal of Aesthetics», 1966, pp. 193202; S. Coppolino, Estetica ed ermeneutica di Luigi Pareyson, Roma 1976; L. Rossi, Situazione dell’estetica in Italia, Torino 1976, pp. CXVIII-CXXXII; H. Zander, Aesthetische Universalität und künstlerische Autonomie. Eine Untersuchung der ästhetischen Grundbegriffe Luigi Pareysons, in «Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft», n. 1, 1972; Luigi Pareyson. Estetica e ontologia della libertà, numero speciale della «Rivista di estetica», n. 40-41, 1993, con interventi di Vattimo, Eco, Perniola, Vicentini, Givone, Carchia, Ferraris, Salizzoni. Sull’estetica di Luigi Stefanini: U. Eco, Il concetto di Gestalt nell’estetica di Luigi Stefanini, ora in Id., La definizione dell’arte, Milano 1968; C. Campanelli, Immagine e parola nell’estetica di Luigi Stefanini, Napoli 1991. Gli scritti di estetica di A. Caracciolo sono ora raccolti in Opere, vol. I, Brescia 2004. Su E. Oberti: F. Solitario, L’estetica di Elisa Oberti tra metafisica e fenomenologia, Milano 1997. Su Guzzo, Castelli, Moretti-Costanzi rimandiamo alle indicazioni, anche bibliografiche, contenute in P. Prini, La filosofia cattolica italiana del Novecento, Roma-Bari 1996. 4.3. Sull’estetica di G. Calogero: M. Fubini, Arte, Linguaggio, Poesia. Sull’estetica di Guido Calogero, ora in Id., Critica e poesia, Roma 19732; C.L. Ragghianti, Arte «asemantica», ora in Id., Il pungolo dell’arte, Venezia 1956; A. Caracciolo, L’estetica di Guido Calogero, ora in Id., Scritti di Estetica, Brescia 1948; sulle teorie del linguaggio: R. Raggiunti, La relazione arte-linguaggio nel pensiero in Calogero, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1948, pp. 324-335; T. De Mauro, Introduzione alla semantica, Roma-Bari 19753; «La Cultura», n. 2 del 1976 interamente dedicato a G. Calogero; G. Sasso, Filosofia e Idealismo, vol. IV, Napoli 1997. 4.4. Una bibliografia completa delle opere di C. Brandi è in appendice al volume di M. Carboni Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte, Milano 2004. Sull’opera di Brandi, oltre al volume citato di Carboni, andranno visti: M. Andaloro e altri (a cura di), Per Cesare Brandi, Roma 1988; sull’estetica in particolare: V. Rubiu (a cura di), L’estetica di Cesare Brandi. Antologia critica, in «Storia dell’arte», n. 43, 1981; L. Russo (a cura di), Brandi e l’estetica, Palermo 1986; L. Russo, E. Garroni e P. D’Angelo, I Dialoghi sulle arti di C. Brandi, in «Aesthetica Pre-print», n. 51, dicembre 1997; P. D’Angelo, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia, Macerata 2006. 4.5. Per l’estetica marxista in Italia si possono vedere, da un punto di vista ‘interno’ alla prospettiva: R. Musolino, Marxismo ed estetica in Italia, Roma 1963, G. Prestipino, La controversia estetica nel marxismo, Palermo 1974, e R. Luperini, voce Realismo nella problematica marxista, in Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, Letteratura, a cura di G. Scaramuzza, Milano 1976; A. Leone de Castris, Estetica e marxismo, Roma 1976. Un rapido quadro della critica è M. Spinella, La critica

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marxista, in Sette modi di fare critica, a cura di O. Cecchi ed E. Ghidetti, Roma 1983, che si può confrontare con C. Cases, La critica sociologica, in I metodi attuali della critica letteraria in Italia, a cura di M. Corti e C. Segre, Torino 1970. G. della Volpe: per la bibliografia degli scritti di e su della Volpe rimandiamo a C. Violi, Galvano della Volpe. Testi e studi (1922-1977), Messina 1978. Sullo sviluppo dell’estetica si possono vedere: F. Fanizza, La fenomenologia dell’‘estetico’ in Galvano della Volpe, in Id., Ragione filosofica e ragione scientifica, Bari 1970; G. Colombo, Della Volpe premarxista. L’attualismo e l’estetica, Roma 1979; E. Romagna, Sistema e ricerca in Galvano della Volpe, Napoli 1983; R.S. Bufalo, La forma del sentimento. L’estetica pre-marxista di Galvano della Volpe, Roma 1984. Sulla Critica del gusto: R. Simone, Parafrasi critica e traducibilità della poesia nella estetica di Galvano della Volpe, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1966, pp. 258-273; M. Modica, L’estetica di Galvano della Volpe, Roma 1978; C. Violi (a cura di), Studi dedicati a Galvano della Volpe, Roma 1989; A. Leone de Castris, Croce, Lukács, Della Volpe. Estetica ed egemonia nella cultura del Novecento, Bari 1978; L. Rossi, Galvano della Volpe. La prospettiva estetica, Bologna 2004.

Capitolo quinto 5.1. Per la bibliografia di U. Spirito rimandiamo a F. Tamassia, L’opera di U. Spirito, Roma 1986; C. Gily-Reda, Ugo Spirito e la razionalità di Dioniso, Napoli 1987. Sull’estetica di Spirito: V. Stella, L’aspetto dell’arte. Vita come arte e critica dell’estetica nel pensiero di Ugo Spirito, Roma 1976; C. Gily-Reda, Cinquant’anni dalla «Vita come arte» di Ugo Spirito, in «Annali della fondazione U. Spirito», 1991; Ead., La prima forma dell’onnicentrismo spiritiano: la «Vita come arte», ivi, 1992; E. Mattioli, Ugo Spirito e la critica dell’estetica, in L. Di Stefano, Ugo Spirito filosofo, giurista, economista, Roma 1997. 5.2. Sul rinnovamento della critica letteraria non è possibile dare qui una bibliografia, neppure indicativa. Nel volume di G. Caprettini e D. Corno, Letteratura e semiologia in Italia, Torino 1979, c’è un’ampia bibliografia di opere della nuova critica. Oltre a questo volume, sono utili i bilanci, condotti da un punto di vista ‘interno’ alle nuove tendenze, di D’A.S. Avalle, L’analisi letteraria in Italia. Formalismo, strutturalismo, semiologia, Milano-Napoli 1970; ancora di Caprettini Le strutture e i segni. Dal formalismo alla semiotica letteraria, in Letteratura italiana Einaudi, vol. IV, Torino 1985, pp. 495-548; le interviste raccolte da M. Mincu, La semiotica letteraria italiana, Milano 1982 (con bibliografia). Le riviste «Strumenti critici» e «Lingua e stile» hanno ospitato numerosi interventi della nuova critica. Da vedere poi: A. Guiducci, Dallo Zdanovismo allo Strutturalismo, Milano 1967; M. Corti e C. Segre (a cura di), I metodi attuali della critica letteraria in Italia, Torino 1970. L’inchiesta, a cura di C. Segre, Strutturalismo e critica, Milano 1965, è stata ripubblicata nel 1985. Sempre di Segre andranno visti I Segni e la critica, Torino 1969; Le strutture e il tempo, Torino 1974, di M. Corti soprattutto Metodi e fantasmi, Milano 1969; di D’A.S. Avalle, Tre saggi su Montale, Torino 1970; Modelli semiologici nella commedia di Dante, Milano 1975; di M. Pagnini,

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Struttura letteraria e metodo critico, Messina-Firenze 1967; di G.L. Beccaria, L’autonomia del significante, Torino 1975: ma si tratta solo della segnalazione di alcune opere particolarmente significative. Di E. Raimondi, Tecniche della critica letteraria, Torino 1967; Scienza e letteratura, Torino 1978. Per una valutazione non interna alle prospettive citate: F. Rella, Semiotica letteraria, in Letteratura (Enciclopedia Feltrinelli-Fischer), vol. II, a cura di G. Scaramuzza, Milano 1976; M. Guglielminetti e G. Zaccaria, La critica letteraria dallo storicismo alla semiologia, Brescia 1980; A. Leone de Castris, La critica letteraria in Italia dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari 1991; G. Leonelli, La critica letteraria in Italia, Milano 1994; M. Onofri, Ingrati maestri, Roma 1995. Un utile panorama della situazione della critica all’inizio degli anni Ottanta è il volume a cura di O. Cecchi ed E. Ghidetti, Sette modi di fare critica, Roma 1983, con un’amplissima bibliografia a cura di A. Gnisci; N. Merola, La critica al tempo della teoria, Vibo Valentia 1999; AA.VV., Quando eravamo strutturalisti, Alessandria 1999. 5.3. Per i testi teorici della neoavanguardia è da vedere R. Barilli e A. Guglielmi (a cura di), Gruppo 63. Critica e teoria, Torino 2003; altri testi in N. Balestrini (a cura di), Il romanzo sperimentale, Milano 1966. Per la storia del Gruppo: R. Barilli, La neoavanguardia italiana, Bologna 1995; U. Eco, Dal Gruppo 63 a Quindici, in Id., Il costume di casa, Milano 1973. L. Vetri ha curato un Indice generale del «Verri», apparso nel n. 9 del 1988 della stessa rivista; di Vetri andrà anche visto Poetiche della neo-avanguardia italiana, Milano 1992. Altri testi: N. Lorenzini e altri, Il Gruppo 63 quarant’anni dopo, Bologna 2005; G.C. Ferretti, La letteratura del rifiuto e altri scritti, Milano 1981; W. Siti, Il realismo dell’avanguardia, Torino 1975. L’Opera aperta di Eco, Milano 1962, ha avuto numerose riedizioni con modifiche e aggiunte; altri testi di Eco relativi alla stessa tematica sono raccolti in Id., La definizione dell’arte, Milano 1968; U. Eco, Apocalittici e integrati, Milano 1964, ha avuto anch’esso varie riedizioni. Il dibattito suscitato da Opera aperta è ricostruito da Eco stesso nella Prefazione alla quarta edizione del libro; per una bibliografia più ampia rimandiamo a T. De Lauretis, Umberto Eco, Firenze 1981, e cfr. bibliografia di 5.4.; molto importanti le osservazioni contenute in E. Garroni, La crisi semantica delle arti, Roma 1964, pp. 233-262. 5.4. Anche sull’estetica semiotica possiamo dare solo qualche indicazione, da integrare con quelle già date per 5.2. In «VS. Quaderni di studi semiotici», 1974 e 1975, c’è una bibliografia della semiotica, e in generale la rivista ospita contributi semiotici, italiani e stranieri; A. Eschenbach e W. Rader, SemiotikBibliographie, Frankfurt a.M. 1976, scheda numerosissimi contributi di autori italiani. Opere generali sulla semiotica: A. Ponzio, La semiotica in Italia, Bari 1976; F. Casetti, Semiotica, Milano 1977; O. Calabrese e F.E. Mucci, Guida alla semiotica, Firenze 1975; O. Calabrese, Arti figurative e linguaggio, Firenze 1977; Id., Il linguaggio dell’arte, Milano 1985; G.P. Caprettini, Aspetti della semiotica, Torino 1980. U. Eco: una bibliografia di e su Eco è nel volume di AA.VV., Semiotica: Storia Teoria Interpretazione. Saggi intorno a Umberto Eco, Milano 1992; M. Caesar, U. Eco. Philosophy, Semiotics and the Work of Fiction, Cambridge 1999; T. Kindt e H.H. Müller (a cura di), Ecos Echos, Frankfurt a.M. 2000; e cfr. anche la

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bibliografia in 6.1. E. Garroni. Una bibliografia degli scritti di Garroni è in P. Montani (a cura di), Senso e storia dell’estetica. Studi offerti a Emilio Garroni in occasione del suo 70° compleanno, Parma 1995. Lavori di estetica semiotica: G. Bettetini, Cinema: lingua e scrittura, Milano 1968; L’indice del realismo, Milano 1971; Produzione del senso e messa in scena, Milano 1975; Tempo del senso, Milano 1979; G.P. Brunetta, I segni cinematografici: proposta di analisi linguistico-strutturale, Pordenone 1970; A. Cappabianca, Film: segni e strutture, in «Filmcritica», n. 201, 1969; F. Casetti Dentro lo sguardo, Milano 1986; M. Corti, Principi della comunicazione letteraria, Milano 1975; R. De Fusco, Architettura come mass medium, Bari 1967; Segni, storia e progetto dell’architettura, Roma-Bari 1973; P. Fabbri, Le comunicazioni di massa in Italia: sguardo semiotico e malocchio della sociologia, in «VS. Quaderni di studi semiotici», n. 5, 1973; M. Grande, Semiotica e cinema: dal processo al sistema, in «Filmcritica», n. 249-250, 1974; G.K. König, Analisi del linguaggio architettonico, Firenze 1964; Architettura e comunicazione, Firenze 1970; F. Menna, La linea analitica dell’arte moderna, Torino 1975; C. Maltese, Semiologia del messaggio oggettuale, Milano 1970; M. de Marinis, Semiotica del teatro, Milano 1982; M.L. Scalvini, L’architettura come semiotica connotativa, Milano 1975; G. Stefani, I segni della musica: saggi di semiotica musicale, Palermo 1987; U. Volli (a cura di), La scienza e l’arte, Milano 1972. Per la bibliografia dell’estetica semiotica del decennio ’85-’95 rimandiamo a G.F. Marrone (a cura di), Sensi e discorso, Bologna 1995.

Capitolo sesto 6.1. Per il dibattito sulla critica, oltre alle storie della critica già segnalate in 5.2., si può vedere il bilancio di N. Borsellino, Dallo storicismo al poststrutturalismo. Un trentennio di critica letteraria italiana, in E. Cecchi e N. Sapegno, Storia della letteratura italiana, vol. IX, Il Novecento, nuova ed. Milano 1987, pp. 667-682; G. Patrizi, La critica letteraria del secondo Novecento, in Storia generale della letteratura italiana, vol. IX, a cura di N. Borsellino e W. Pedullà, Milano 1999. Per il dibattito sulla critica semiotica: C. Di Girolamo, Critica della letterarietà, Milano 1978; F. Brioschi, La mappa dell’impero, Milano 1983; F. Brioschi e C. Di Girolamo, Elementi di teoria della letteratura, Milano 1984; C. Di Girolamo, A. Berardinelli e F. Brioschi, La ragion critica, Milano 1986; A. Berardinelli, Il critico senza mestiere, Torino 1983; L’esteta e il politico, Torino 1986; E. Trevi, Istruzioni per l’uso del lupo. Lettera sulla critica, Roma 1994; Musica distante, Milano 1997. Testi importanti per il dibattito teorico sulla letteratura: E. Raimondi, Ermeneutica e commento. Teoria e pratica dell’interpretazione del testo letterario, Firenze 1990; M. Lavagetto, Freud, la letteratura e altro, Torino 1985; La cicatrice di Montaigne, Torino 1992; F. Orlando, Gli oggetti desueti in letteratura, Torino 1994; A. Asor Rosa (a cura di), La scrittura e la storia. Problemi di storiografia letteraria, Firenze 1995; A. Casadei, La critica letteraria del Novecento, Bologna 2001; C. Benedetti, Il tradimento dei critici, Torino 2002. Gli scritti teorici più recenti di U. Eco sono: Lector in fabula, Milano 1979;

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Sugli specchi e altri saggi, Milano 1985; I limiti dell’interpretazione, Milano 1990; Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano 1994. Interpretazione e sovrainterpretazione, Milano 1995; Sulla letteratura, Milano 2002; Dire quasi la stessa cosa, Milano 2003. Gli scritti in cui E. Garroni ha svolto la sua critica alla semiotica strutturale sono: Introduzione a Id., Pinocchio uno e bino, Roma-Bari 1975; Ricognizione della semiotica, Roma 1977; voce Creatività, in Enciclopedia Einaudi, vol. IV, Torino 1978; Semiotica ed estetica, in M. Dufrenne e D. Formaggio, Trattato di estetica, vol. I, Milano 1981, pp. 479-520; Temporalità dell’arte ‘versus’ spazialità della semiosi, in «Documenti di lavoro e pre-pubblicazioni del Centro internazionale di semiotica di Urbino», 1981, oltre naturalmente ai testi citati nella bibliografia di 6.3. Di C. Sini interessano in questo contesto specialmente Semiotica e filosofia, Bologna 1978; Passare il segno, Milano 1981; Immagini di verità. Dal segno al simbolo, Milano 1985. Per la ricezione delle tendenze del post-strutturalismo in Italia si possono vedere S. Cavicchioli, Nota a J. Culler, Sulla decostruzione, Milano 1988; R. Ceserani, Breve viaggio nella critica americana, Pisa 1984; M. Ferraris, Differenze. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Milano 1981; Tracce. Nichilismo moderno postmoderno, Milano 1983; Postille a Derrida, Torino 1990. 6.2. Per un primo orientamento sulla situazione della filosofia italiana a partire dagli anni Ottanta, si può vedere F. Restaino, Il dibattito filosofico in Italia (19251990), in N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. IV, tomo II, a cura di G. Fornero, F. Restaino e D. Antiseri; AA.VV., Che cosa fanno oggi i filosofi?, Milano 1982; J. Jacobelli (a cura di), Dove va la filosofia italiana?, Roma-Bari 1986; dal 1986 al 1998 G. Vattimo ha curato presso Laterza un Annuario Filosofico; anche presso Mursia si pubblica un Annuario Filosofico. La «Rivista di Filosofia» ha pubblicato nel 1988 un numero monografico su Filosofia italiana e filosofia straniera nel dopoguerra; mentre «Critique» nel 1985 ha ospitato un fascicolo su Les philosophes italiens par eux-mêmes. Il volume di G. Borradori, Recoding Metaphysics. The New Italian Philosophy, Evanston 1988, contiene una serie di testi di filosofi italiani contemporanei preceduta da un’ampia introduzione; N. Cantarano, Immagini del nulla. La filosofia italiana contemporanea, Milano 1998. Sulla narrativa di Eco esiste ormai un’imponente bibliografia. Segnaliamo: R. Cotroneo, Eco: due o tre cose che so di lui, Milano 2001; F. Forchetti, Il segno e la rosa, Roma 2005. I testi narrativi cui si fa riferimeno nel testo sono: A.G. Gargani, Sguardo e destino, Roma-Bari 1988; L’altra storia, Milano 1990; Il testo del tempo, Roma-Bari 1992; Una donna a Milano, Venezia 1996; E. Garroni, Dissonanzen-Quartett, Parma 1990; Racconti morali o Della vicinanza e della lontananza, Roma 1992; Sulla morte e sull’arte, Parma 1994; G. Agamben, Idea della Prosa, Milano 1985; F. Rella, Attraverso l’ombra, Milano 1986; L’ultimo uomo, Milano 1996; S. Zecchi, Estasi, Milano 1993; S. Givone, Favola delle cose ultime, Torino 1998; Nel nome di un dio barbaro, Torino 2002. Quelli ricordati a proposito dell’impegno a interpretare filosoficamente la letteratura: M. Cacciari, Icone della legge, Milano 1985; Intramontabili utopie, in H. Hofmannsthal, La torre, Milano 1982; R. Bodei, Hölderlin, la filosofia e il tragico, in F. Hölderlin, Sul tragico, Milano

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1980; E. Severino, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Milano 1989; Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano 1990; V. Vitiello, Non dividere il sì dal no. Tra filosofia e letteratura, Roma-Bari 1996; A.G. Gargani, Il pensiero raccontato. Saggio su Ingeborg Bachmann, Roma-Bari 1995; E. Garroni, Un esempio di interpretazione testuale: «Korrektur» di Thomas Bernhard, in Il testo letterario, a cura di M. Lavagetto, Roma-Bari 1996; A. Trione, L’ostinata armonia, RomaBari 1991; S. Zecchi, La magia dei saggi, Milano 1984; M. Ferraris, Ermeneutica di Proust, Milano 1987; S. Givone, Dostoevskij e la filosofia, Roma-Bari 1984. Per l’importanza assunta dal concetto di sublime negli anni Ottanta si può rinviare alla bibliografia di G. Lombardo e F. Finocchiaro, Sublime antico e moderno, Palermo 1993, e alla rassegna di F. Solitario, La parabola del sublime in Italia negli ultimi vent’anni, in Id., Itinerari del sublime, Milano 1994. Si veda poi: Il sublime: creazione e catastrofe nella poesia, n. 4-5 degli «Studi di estetica», 1984; V. Fortunati e G. Franci (a cura di), La via al sublime, Firenze 1987; L. Russo (a cura di), Da Longino a Longino. I luoghi del sublime, Palermo 1987; Sul Sublime, n. 26-27 della «Rivista di estetica», 1987; n. 231 di «Aut-Aut», 1989; T. Kemeny ed E. Cotta, Dicibilità del sublime, Udine 1990; E. Mattioli, Interpretazioni dello PseudoLongino, Modena 1988; G. Carchia, Retorica del sublime, Roma-Bari 1990; L. Bonesio, La ragione estetica, Milano 1990; G. Lombardo, Hypsegoria. Studi sulla retorica del sublime, Modena 1988; M. Carboni, Il sublime è ora, Roma 1993. Per il ritorno dell’interesse per il romanticismo: AA.VV., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Milano 1979; U. Cardinale (a cura di), Problemi del romanticismo, Milano 1984; S. Zecchi, Romanticismo. Mito, simbolo, interpretazione, Milano 1987; M. Cottone (a cura di), Figure del romanticismo, Venezia 1987; Romanticismo e poesia, Romanticismo e filosofia, numeri monografici della «Rivista di estetica», n. 31, 1989 e 34-35, 1990, a cura di G. Carchia e F. Vercellone. Di F. Fanizza, i lavori a cui si fa riferimento nel testo sono: Variazioni dell’estetico, Napoli 1982; Modernità e coscienza estetica, Napoli 1986; si veda inoltre: Libertà e servitù dell’arte, Bari 1972; Ritorno a Narciso. Estetica e modernità, Bari 1993; di M. Perniola, L’alienazione artistica, Milano 1971; La società dei simulacri, Bologna 1980; Transiti. Come si va dallo stesso allo stesso, Bologna 1985; Del sentire, Torino 1991; si vedano inoltre dello stesso autore: Enigmi. Il momento egizio nella società e nell’arte, Genova 1990; L’arte e la sua ombra, Torino 2000. 6.3. Per le tendenze dell’estetica a partire dagli anni Ottanta occorre tenere presenti: AA.VV., Orizzonte e progetti dell’estetica, Atti del colloquio Situazioni e intenzioni della ricerca estetica oggi in Italia, Reggio Emilia 1979, Parma 1980; «Studi di estetica», n. 1, 1983 (Atti del convegno Autonomia ed eteronomia dell’arte, Reggio Emilia 1981); AA.VV., Statuto dell’estetica, Atti del convegno Lo statuto dell’estetica, Reggio Emilia 1982, Modena 1986; AA.VV., Lo stile della ragione e le ragioni dello stile, Atti del congresso di Estetica, Napoli 1988; G. Marchianò (a cura di), Le grandi correnti dell’estetica novecentesca, Milano 1991; AA.VV., L’estetica italiana del Novecento, Napoli 1993. Dal 1991 al 1996 si è pubblicato presso le edizioni del Mulino un Annuario di Estetica, a cura di S. Zecchi; M. Perniola, Le ultime correnti dell’estetica in Italia, in E. Cecchi e N. Sapegno, Storia della letteratura

381

italiana, Milano 2001, vol. X, Il Novecento. Scenari di fine secolo, pp. 39-74. I lavori di indirizzo fenomenologico cui si fa riferimento nel testo sono: L. Rossi, Studi di estetica, Bologna 1979; Fenomenologia critica e storiografia estetica, Bologna 1983; R. Barilli, La barriera del naturalismo, Milano 19782; Scienza della cultura e fenomenologia degli stili, Bologna 19912; si vedano pure, di R. Barilli, Poetica e retorica, Milano 19842; Corso di estetica, Bologna 1989; E. Mattioli, Studi di poetica e retorica, Modena 1983; Contributi alla teoria della traduzione letteraria, Palermo 1993; A. Trione, L’estetica della mente, Bologna 1987; Estetica e Novecento, Roma-Bari 1996; L’ordine necessario, Genova 2001. Per G. Dorfles e G. Morpurgo-Tagliabue si veda la bibliografia relativa a 4.1. G. Scaramuzza, Le origini dell’estetica fenomenologica, Padova 1976; Sapere estetico e arte, Padova 1981; F. Papi, La parola incantata e altri saggi di filosofia dell’arte, Milano 1992. Una bibliografia di G. Vattimo, a cura di B. Boostels, è nel volume a cura di G. Carchia e M. Ferraris, Interpretazione ed emancipazione. Studi in onore di G. Vattimo, Milano 1996. Oltre ai lavori citati nel testo, sono da vedere, di Vattimo, Le avventure della differenza, Milano 1980; La società trasparente, Milano 1989. Di S. Givone Il bibliotecario di Leibniz. Filosofia e romanzo, Torino 2005; di E. Garroni: L’arte e l’altro dell’arte, Roma-Bari 2003, di S. Zecchi La fondazione utopica dell’arte, Milano 1983. Una bibliografia degli scritti di R. Assunto è in A Rosario Assunto in memoriam, in «Aesthetica Pre-print», n. 41, agosto 1995. Principali scritti di estetica di R. Assunto: Forma e destino, Milano 1957; L’integrazione estetica, Milano 1959; Teoremi e problemi di estetica contemporanea, Milano 1960; Giudizio estetico, critica e censura, Firenze 1963; L’automobile di Mallarmé e altri ragionamenti intorno alla vocazione odierna delle arti, Roma 1961; Il paesaggio e l’estetica, Palermo 19942; Ontologia e teleologia del giardino, Milano 19942; La parola anteriore come parola ulteriore, Bologna 1984; La bellezza come assoluto, Palermo 1993. Su Assunto si può vedere, oltre al volume citato, V. Stella, L’apparizione sensibile, Roma 1979, pp. 209-234. 6.4. Per il dibattito sulla storia dell’estetica sono da vedere: M. Modica, Che cos’è l’estetica, Roma 1987; L. Russo, Una storia per l’estetica, Palermo 1988; Id., La storia dell’estetica in Italia nel secondo dopoguerra, in AA.VV., Il canto di Seikilos, Milano 1995; Id., Postfazione, in W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee, Palermo 1993; AA.VV., Antico e moderno: l’estetica e la sua storia, Palermo 1989; L. Amoroso, Sul problema di una storia dell’estetica, in Le grandi correnti dell’estetica novecentesca, a cura di G. Marchianò, Milano 1991. I lavori citati nel testo sono: AA.VV., Momenti e problemi di storia dell’estetica, Milano 19832; G. Morpurgo-Tagliabue, L’esthétique contemporaine, Milano 1960; G. della Volpe, Schizzo di una storia del gusto, in Id., Opere, Roma 1973; R. Assunto, La critica d’arte nel pensiero medioevale, Milano 1961; Id., Die Theorie des Schönen im Mittelalter, Köln 1963; F. Piselli, Alle origini dell’estetica moderna. Il pensiero di A.G. Baumgarten, Milano 1991. Le storie generali dell’estetica ricordate sono: M. Dufrenne e D. Formaggio (a cura di), Trattato di estetica, vol. I, Milano 1981; W. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, Torino 19791980; S. Givone, Storia dell’estetica, Roma-Bari 1988; F. Restaino, Storia

382

dell’estetica, Torino 1991; E. Franzini e M. Mazzocut-Mis, Estetica, Milano 1996; P. Montani, Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea, Roma-Bari 2002; F. Vercellone, A. Bertinetto e A. Garelli, Storia dell’estetica moderna e contemporanea, Bologna 2003. 6.5. – 6.6. Sull’estetica della natura e del paesaggio: P. D’Angelo, Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale, Roma-Bari 2001; Id., Il dibattito sull’estetica del paesaggio in alcuni scritti recenti, in Forma e Memoria. Scritti in onore di Vittorio Stella, a cura di R. Bruno e S. Vizzardelli, Macerata 2005; sull’estetica del cinema: R. De Gaetano, Le teorie del cinema in Italia, Soveria Mannelli 2005; sull’educazione estetica F. Carmagnola e M. Senaldi, Synopsis. Introduzione all’educazione estetica, Milano 2005; sui Cultural Studies in rapporto all’estetica: M. Perniola, Chi ha paura degli studi culturali?, in «Agalma», n. 1, 2000; R. Salizzoni (a cura di), Cultural studies, estetica, scienze umane, Torino 2003; G. Patella, Estetica culturale, Roma 2005; sulla mancata diffusione dell’estetica analitica: P. D’Angelo, Analitici e continentali, in estetica, in «Discipline filosofiche», n. 2, 2005.

383

Índice Prefazione 6 Parte prima. L’età dell’idealismo 9 Capitolo primo. L’estetica di Benedetto Croce 10 1.1. La genesi dell’estetica crociana 1.2. La grande «Estetica»: la parte costruttiva 1.3. La grande «Estetica»: la parte polemica 1.4. Dall’«Estetica» al «Breviario» 1.5. Dal «Breviario» alla «Aesthetica in nuce» 1.6. Ultimo tempo dell’estetica crociana: «La poesia» 1.7. I crociani Note

Capitolo secondo. L’estetica di Giovanni Gentile 2.1. Il sodalizio con Croce e i primi interventi sull’estetica 2.2. Il sistema gentiliano e l’arte come forma assoluta dello spirito 2.3. Il problema del sentimento e la «Filosofia dell’arte» 2.4. Dottrine particolari della «Filosofia dell’arte» 2.5. La critica letteraria gentiliana 2.6. I gentiliani Note

14 20 33 48 59 68 76 87

93 93 101 112 119 125 134 140

Capitolo terzo. Al di fuori dell’idealismo

144

3.1. Polemiche con Croce. Luigi Pirandello e l’umorismo

144

384

3.2. L’estetica futurista 3.3. Lo scetticismo estetico di Giuseppe Rensi 3.4. Un transfuga dal crocianesimo: Giuseppe Antonio Borgese 3.5. Il mondo sensibile di Adelchi Baratono 3.6. L’estetica ‘aperta’ di Antonio Banfi Note

155 166

Parte seconda. Dopo l’idealismo Capitolo quarto. Le vie del rinnovamento post-crociano

206

4.1. L’estetica fenomenologica 4.2. L’estetica della formatività di Luigi Pareyson 4.3. L’estetica di Guido Calogero 4.4. I dialoghi sulle arti di Cesare Brandi 4.5. Galvano della Volpe e l’estetica marxista Note

Capitolo quinto. La crisi dell’estetica filosofica 5.1. Il processo all’estetica 5.2. Il rinnovamento della critica letteraria 5.3. La neoavanguardia e la poetica dell’opera aperta 5.4. L’estetica semiotica Note

Capitolo sesto. Il ritorno dell’estetica come filosofia 6.1. L’impasse della critica letteraria 6.2. Mutamenti nella filosofia, mutamenti nell’estetica 385

173 182 189 202

207 211 229 239 245 253 262

266 266 272 287 293 305

309 309 320

6.3. Uno sguardo ad alcuni orientamenti 6.4. La ricerca storiografica 6.5. Le estetiche speciali 6.6. Conclusione: dentro e fuori l’Italia Note

Bibliografia

334 347 355 360 363

369

Capitolo primo Capitolo secondo Capitolo terzo Capitolo quarto Capitolo quinto Capitolo sesto

369 371 372 374 377 379

386