Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell'arte italiana del primo Novecento 8874625162, 9788874625161

I rapporti del pittore Carlo Carrà con il mondo degli anarchici e dei socialisti rivoluzionari di Milano e poi, repentin

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Italian Pages 264 [265] Year 2013

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Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell'arte italiana del primo Novecento
 8874625162, 9788874625161

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I rapporti del pittore Carlo Carrà con il mondo degli anarchici e dei socialisti rivoluzionari di Milano e poi, repentino, il suo innamoramento per Giotto. La pedagogia di Ardengo Soffici a favore d’una modernità italiana. Le scelte di Mario Sironi durante e dopo la grande guerra. L’idioma vernacolare di Giorgio Morandi negli anni Venti. Il futurismo che si fa museo. Questo libro scruta nell’anima di una generazione straordinaria, che ha avuto a disposizione gli strumenti per sovvertire le tradizionali categorie artistiche di forma, tempo e spazio, e per portare l’Italia nel cuore del Novecento. Una generazione che però, più di ogni altra in Europa, si è trovata stretta fra le proprie fragili radici internazionali, l’esperienza della guerra e l’integrazione istituzionale in seno alla cultura nazionalista del fascismo. Il modernismo italiano si mostra così come uno snodo cruciale della storia dell’arte, imperniato in una tensione tra la volontà di avviare un progetto di autonomia formale e il recupero di valori sociali e politici, nei modi, anche paradossali, che i decorsi ideologici del Novecento non di rado hanno crudelmente dimostrato.

Alessandro Del Puppo Modernità e nazione

Quodlibet Studio Teoria delle arti e cultura visuale

Alessandro Del Puppo insegna Storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Udine. Tra le sue pubblicazioni, Lacerba 1913-1915. Arte e critica d’arte (2000), e i cataloghi delle mostre Gino Rossi (2004), Scultura in Friuli Venezia Giulia. Figure del Novecento (2005) e Modigliani scultore (con F. Fergonzi e G. Belli, 2010).

ISBN

24,00 euro

978-88-7462-516-1

QS

Alessandro Del Puppo Modernità e nazione Temi di ideologia visiva nell’arte italiana del primo Novecento Quodlibet Studio

Quodlibet Studio Teoria delle arti e cultura visuale

Alessandro Del Puppo Modernità e nazione Temi di ideologia visiva nell’arte italiana del primo Novecento

Quodlibet

Prima edizione: dicembre 2012 © 2012 Quodlibet srl Via Santa Maria della Porta, 43 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa: Litografica Com, Capodarco di Fermo, Fermo isbn 978-88-7462-516-1 © Carlo Carrà by siae, 2012

Teoria delle arti e cultura visuale Collana a cura di Andrea Pinotti Comitato scientifico: Andreas Beyer (Deutsches Forum für Kunstgeschichte, Paris) Michele Cometa (Università degli Studi di Palermo) Georges Didi-Huberman (EHESS, Paris) David Freedberg (Columbia University, New York) Gian Piero Piretto (Università degli Studi di Milano) Antonio Somaini (Université Sorbonne Nouvelle-Paris 3) Sigrid Weigel (Zentrum für Literatur und Kulturforschung, Berlin)

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Storia e Tutela dei Beni Culturali dell’Università di Udine e della Fondazione Ado Furlan

Indice

7 Introduzione

15 I. I funerali dell’anarchico Carrà 20 Scioperi e repressione 25 Rivoluzionari e riformisti 27 Dar forma al mito dell’insurrezione 31 La figura dell’anarchico 36 Il funerale come spettacolo di massa 44 Contraddizioni dell’ideologia 49 Anarchia e nazionalismo 53 Stile della rivoluzione, rivoluzione dello stile 59 II. Cubismo e tradizione italiana 59 Picasso e Braque per gli italiani 62 Oltre il cubismo 69 III. Il cuneo e il cerchio 69 Un modello di concisione grafica 74 Lo slogan politico 76 Interventismo lacerbiano 82 Tra arte pura e propaganda 85 I disastri della guerra 88 Verso la redenzione 93 La propaganda e il suo destinatario 97 IV. Giotto, Rimbaud, Paolo Uccello 98 Nell’orbita de «La Voce» 09 Parlare di Giotto, dipingere come Giotto 1



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indice

14 Paolo Uccello, un costruttore 1 17 Il poeta fanciullo e il gentiluomo ubriaco 1 121

V. «Uno degli imbecilli non esiste»

21 Paesaggi cifrati 1 129 Impressionismo visivo 135 Sul Carso, col mandolino 139

VI. Soffici come educatore

39 Etica ed estetica 1 146 La liquidazione dell’arte pura 153 Un programma di restaurazione culturale 57 VII. Fra i selvaggi della Toscana 1 57 «Salvatico è colui che si salva» 1 65 Figure dell’intransigenza 1 173 Homo rusticus 184 L’esperimento delle esposizioni 189 Il vincolo dell’impaginazione 95 VIII. Classico e italiano. Morandi nel decennio paesano 1 95 Mai a Parigi 1 97 «Cosa dura, pulita e solida» 1 201 Gli italiani sani 207 Letture squadriste e paesane 211 Bianco e nero, colore 215 Mitologie morandiane 19 IX. Stile nazionale e avanguardie di frontiera 2 22 Un museo e una donazione 2 25 Il futurista impresario 2 230 Modernità futurista e culture di confine 240 Il museo come spazio ideologico 247 249 251

Elenco delle illustrazioni Nota al testo Indice dei nomi

Introduzione

Nessuna generazione artistica del Novecento ha posseduto, al pari di quella protagonista di questo libro, i concetti e gli strumenti per avviare la sovversione delle tradizionali categorie artistiche di forma, tempo e spazio. E nessun’altra generazione ha dovuto subire circostanze storiche e politiche che hanno governato, rovesciato e talora stravolto quegli stessi usi e fini. I temi qui discussi abbracciano un arco cronologico di tre decenni, i primi del secolo, lungo una traiettoria che, dalle prime avanguardie artistiche promosse in Italia dalla cultura vociana e futurista, conduce al loro progressivo inverarsi entro le retoriche della tradizione nazionale. Parlare di “ideologia visiva”, per questo periodo, significa affrontare un discorso sulla formazione delle idee a partire dalle impressioni sensibili offerte dalla pratica artistica. Per questa ragione, si è voluto valutare la consistenza dei rapporti tra produzione artistica e forme ideologiche partendo dallo scrutinio di alcuni casi concreti, intrecciando fonti disparate (dipinti, fotografie, illustrazioni popolari, manifesti di propaganda, nonché testi di poetica e di critica d’arte) riferibili ad autori e movimenti afferenti al futurismo, alla pittura metafisica, al «Novecento» e a «Strapaese»: evitando però accuratamente il gioco semplificatorio delle nomenclature. Ciascuno dei casi prescelti presenta, infatti, un rapporto problematico tra l’autonomia della ricerca artistica e i condizionamenti storici e sociali: un rapporto che si è provato ad affrontare nella sua complessità. Si è dunque preferito ricostruire tali vicende cercando di far emergere le sfumature di continuità, anziché i netti chiaroscuri delle infrazioni e delle restaurazioni più o meno



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“epocali”. Le poetiche della modernità, anche nella chiave di istituzione d’una lingua nazionale, non appaiono univoche: sono invece polimorfe, multiple, dispersive. Il primo capitolo del libro parte dallo studio d’un fondamentale dipinto del futurismo italiano – I Funerali dell’anarchico Galli di Carlo Carrà, oggi al MoMA di New York – provando a rispondere ad alcune domande molto semplici: cosa significò davvero dipingere un oscuro episodio della lotta anarchica nell’Italia del 1911? E cosa c’entra, tutto questo, con quello che sappiamo della genesi, prima, e del decorso, poi, del futurismo? In quale modo un pittore come Carrà dovette inventarsi una propria idea di modernità, che tenesse fede al tempo stesso ai principi ideologici confusamente enunciati da Marinetti e alle convinzioni del pittore, un piemontese di rude formazione socialista-rivoluzionaria? Il funerale dell’anarchico divenne così la raffigurazione d’uno spettacolo di massa: un potenziale mito condivisibile che le circostanze della cronaca politica resero, però, pericolosamente ambivalente. Questo episodio viene dunque letto nell’intreccio con la crisi del socialismo riformista, dinanzi alla recrudescenza delle frange rivoluzionarie, e con l’emergere del contradditorio, istrionico, ma ineludibile nazionalismo futurista. Negli articoli e nei libri in cui Ardengo Soffici presentò, in quegli stessi anni, la pittura di Picasso e Braque (argomento del nostro secondo capitolo), si assiste a un fenomeno solo parzialmente diverso. La lettura di Soffici è di grande intelligenza e di altrettanta tendenziosità: merito del cubismo è per lui di porre in rilievo le forme visive quintessenziali – chiaroscuro, massa, linea, volume – che avevano costituito i tratti distintitivi della grande arte italiana, da Giotto a Masaccio a Paolo Uccello. Questa tradizione può dunque essere ripercorsa nei suoi tratti figurativi elementari, istruendo in tal modo la ricerca artistica del presente. Il modello della tradizione non è opposto a quello dell’avanguardia ma anzi la alimenta, offrendo le risorse per un’idea di modernità italiana1. Se la Milano d’inizio secolo aveva offerto a sovversivi d’ogni estrazione (anarchici, futuristi, sindacalisti rivoluzionari) formi1  È questo il tema su cui mi ero soffermato in «Lacerba» 1913-1915. Arte e critica d’arte, Bergamo, Lubrina, 2000, di cui i saggi presenti in questo libro costituiscono la naturale prosecuzione.



introduzione

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dabili energie creative e una reversibile piattaforma ideologica, nella Toscana della «Voce» andava così prendendo forma il primo esperimento di rinnovamento morale della cultura italiana. È lungo questo asse che si avvia la prima vera esperienza di un’arte moderna e italiana a un tempo. Nei quattro-cinque anni a ridosso della Prima guerra mondiale prende così forma (ben al di là della distinzione scolastica fra futuristi e “passatisti”) un problema di stile unitario e moderno, che possa rappresentare il compimento di un’identità nazionale. Per questa generazione, si trattava di un passaggio obbligato per potersi misurare alla pari con la cultura europea. Sia l’iconografia quanto lo stile ambiscono dunque a definire i tratti ideologici della moderna arte italiana: per la via di un’esplicita tensione politica (anarchica prima, nazionalista poi), e attraverso il recupero, parimenti in termini nazionali, della tradizione del Quattrocento. Il lavoro di Carrà intorno al 1916 diviene così un nodo cruciale: i testi da lui dedicati a Giotto e Paolo Uccello si leggono come una nitida metafora dell’artista moderno, mentre i suoi dipinti coevi – che abbiamo studiato nel quarto capitolo – si offrono come un’allegoria di una nuova concezione, saldamente costruttiva, del mestiere artistico. Il problematico rapporto tra lingua poetica e rappresentazione della nazione acquista nuovi significati con la guerra. L’esperienza del conflitto da un lato convalida l’obbligo di tradurre le spinte nazionaliste entro il linguaggio, ben altrimenti persuasivo, della semplificazione grafica finalizzata alla propaganda bellica, come si prova a raccontare nel terzo capitolo, dedicato a due importanti lavori grafici di Mario Sironi. Dall’altro lato, il mito dell’esperienza di guerra (come magistralmente formulato da Eric Leed e John Fussel) obbliga alla ridefinizione di generi consolidati. Il paesaggio, come abbiamo ricostruito nel corso del quinto capitolo su esempi di dipinti e testi di De Chirico, Carrà e Soffici, si contrae in una sorta di crittografia, mentre la natura morta acquista il valore simbolico della coesione sociale d’una comunità di eletti: gli homines novi dell’avanguardia, ora riscattati dal lavacro di sangue. Nel dopoguerra, lo stile unitario s’identifica per Soffici con la lingua del nuovo popolo italiano sorto dalle trincee, contro l’aberrazione del linguaggio modernista di cubismo, futurismo e



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surrealismo. Soffici contrasta inoltre le moderne forme di persuasione di massa e i segni d’una nascente civiltà delle immagini che sembra travalicare, con il cinematografo e la stampa periodica, le componenti elettive della tradizione pittorica. I suoi numerosi interventi nei primi anni Venti (che abbiamo affrontato, nei suoi chiaroscuri, nel corso del sesto capitolo, in contrappunto con le opere di Margherita Sarfatti, Giovanni Papini, Curzio Malaparte), delineano così, con preoccupante perseveranza, le linee di quella poetica “strapaesana” che abbiamo quindi provato a sondare nel settimo capitolo, valutando l’impatto complessivo di questo fenomeno nell’Italia dei secondi anni Venti. A un caso esemplare di questo cortocircuito tra modernismo e ruralismo, ovvero l’opera di Giorgio Morandi, è stato dedicato l’intero ottavo capitolo. Qui si è voluto contrapporre alla tradizione delle letture purovisibiliste proposte nei decenni fino ad oggi (un Morandi pittore puro, artefice di sofisticate indagini formali, del tutto distanti dalle contingenze storiche e sociali), l’immagine offerta sulle pagine della rivista «Il Selvaggio», dove il lavoro di Morandi perde le sue caratteristiche di rarefazione formale, subendo una pesante ridefinizione ideologica proprio per l’implicita etica “rurale” delle sue nature morte. L’ultimo capitolo del libro riprende il tema dell’ideologia futurista, misurando il problema della sua estinzione nel conformismo e nell’ortodossia, a distanza di due decenni, nel contatto con un territorio cruciale per la costituzione dell’identità italiana. Nelle terre del Friuli Venezia Giulia, infatti, il programma di redenzione nazionale e la retorica modernista entrano forzatamente a confronto con le aspettative, i drammi e le speranze di un’area di frontiera dove il confine è mobile come pochi altri, e le distinzioni di lingue, territori e culture assai friabili e ben più complesse. Trieste e Gorizia sono città italiane in modo diverso dalle altre città italiane: qui l’alleanza tra la cultura visiva della modernità e l’ideologia della nazione non tarderà a manifestare i tratti dell’ambivalenza e del paradosso. Questo libro ambisce a descrivere il processo attraverso cui nella pittura italiana del primo Novecento i tratti originariamente moderni di esaltazione romantica dell’io sono giunti, per tappe, fino a quel dominio del linguaggio nelle forme della storia



introduzione

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(gli exempla della grande tradizione) e della geografia (l’elettività di un genius loci ormai manifestamente incompatibile con i gerghi dell’avanguardia internazionale). Ma si trattava, in realtà, di un’idea che faceva della storia non più la depositaria della razionalità, quanto piuttosto la legiferatrice del dogmatismo nazionalista; e di una geografia che assai difficilmente poteva rintracciare, nelle sue molteplici pieghe locali, i segni linguisticamente percepibili di un idioma condiviso2. Ricerca della modernità e costruzione culturale dello Stato non vennero tuttavia intesi come termini opponibili, bensì complementari, corroborati da un effettivo «gergo dell’autenticità»3. Soffici aveva insegnato a parlare di modernità e di tradizione storica a un pubblico (i giovani irrazionalisti lacerbiani e futuristi) che considerava questi termini come alternativi. Ciascuno a loro modo, i protagonisti dell’arte italiana del primo Novecento – Carrà, Sironi, Morandi, De Chirico – applicheranno questa lezione. Ogni ragionamento su forma e stile dell’opera d’arte moderna è il riflesso di determinate condizioni storiche, sociali e politiche: esse stabiliscono, da un lato, una misura tra autore e tradizione – un collocarsi rispetto al passato – e, dall’altro, definiscono i tratti di mediazione tra autore e pubblico, divenendo così il punto di equilibrio – o di rottura – tra la ricerca d’una libera espressione poetica e le aspettative dei destinatari; oppure, non diversamente, tra la sperimentazione individuale e la necessità di pervenire a una lingua nazionale. Quello che autori come Soffici, Carrà, Papini imputarono al «sublime industriale» (la definizione è di Sanguineti) del futurismo non era tanto la negazione del passato, quanto il mancato posizionamento rispetto a esso. Il ruralismo nazionalista del «Selvaggio» confermò un sostanziale anticapitalismo offrendo l’ordine imperturbato e pastorale d’una cultura visiva disponibile al vernacolo, a fronte del caos non più ricomponibile della tecnologia4. Cfr. A.-M. Thiesse, La creazione delle identità nazionali in Europa, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 63. 3  Alludo a T. W. Adorno, Il gergo dell’autenticità, Torino, Bollati Boringhieri, 1989. 4  Sempre valide su questo piano le considerazioni di L. Namier, Nazionalità e libertà, in Id., La Rivoluzione degli intellettuali e altri saggi sull’Ottocento europeo, Torino, Einaudi, 1957, p. 173. 2 



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La modernità di cui qui si parla non è dunque quella, eroica e tutto sommato canonica, che accetta la sfida del dissidio tra io e mondo, risarcendolo nelle forme dell’allegoria. Essa cerca invece di resistere a quella frattura, inseguendo le ragioni d’una possibile ricomposizione nella storia e nella natura. È una posizione certo diametralmente opposta a quel «modernismo reazionario», che ha invece tentato di riconciliare – come ha dimostrato Jeffrey Herf – il pensiero antimoderno e irrazionale con il culto per lo sviluppo tecnologico5. Da parte del ceto intellettuale mancò un’adeguata saldatura tra le rivendicazioni sociali delle masse e le possibilità linguistiche ed espressive del moderno. La tensione antiborghese confluì nelle forme regressive e consolatorie di una poetica paesana, oppure venne neutralizzata dalle lusinghe d’una sofisticazione estetica di massa. Erano due forme di mantenimento d’un consenso prepolitico e di populismo pretelevisivo (oppure, per usare una metafora più attuale, pre-Web)6. È ben difficile, oggi, accettare per quella vicenda italiana la qualifica di antimoderna o reazionaria, come un tempo sembrava potesse bastare per definirla. Né per comprenderla adeguatamente – non si dice riscattarla – può considerarsi oggi sufficiente, come già la storiografia dagli anni Cinquanta in poi, una lettura strenuamente formale dei suoi apici: che sono offerti dalla pittura, tutt’altro che eccellente ma di rara eloquenza, del Carrà intorno al 1916, oppure da quella di Morandi nel suo grande decennio paesano. Concentrandosi sulle apparenze visive dell’opera, questa lettura formalista ha in realtà compiuto due errori. Ha rimosso i vincoli ideologici, che qui invece si è provato a ricostruire; e si è 5  J. Harf, Il modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 27. 6  Cito a questo proposito P. Togliatti, Ai giovani, «Rinascita», 1944 (poi in Per la salvezza del nostro paese, Roma, Einaudi, 1946, pp. 203-206), che indicava come colpevoli della rovina del paese non certo i giovani, ma «quella generazione particolarmente di intellettuali, che ancor prima della precedente guerra mondiale, dopo aver strepitato attorno ad un rinnovamento della cultura e della vita italiana, capitolò di fronte alle correnti reazionarie e corruttrici che allora presero il sopravvento, e non seppe distinguere tra lo spirito nazionale e l’avidità brigantesca delle cricche plutocratiche imperialiste». Fatta la tara ai due ultimi aggettivi, il senso complessivo del discorso resta di grande attualità.



introduzione

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assestata su una ineffabile celebrazione delle autonome qualità visive dell’opera, che qui si è voluta evitare. Quella raccontata in questo libro è dunque una storia che dimostra come non sia mai esistita un’istituzione artistica distinta dalla vita pratica, e quindi politica e sociale. Ed è una storia che, anziché confermare il modernismo nei suoi presupposti scolastici di autonomia e formalismo lo convalida, al contrario, come progetto inteso a ripristinare, nei modi paradossali che i decorsi ideologici del Novecento non di rado hanno crudelmente dimostrato, i valori sociali e politici dell’arte. Nel preparare questi lavori ho potuto beneficiare dei consigli e dei suggerimenti di Mark Antliff, Paola Barocchi, Günter Berghaus, Tommaso Casini, Barbara Cinelli, Neil Cox, Giuseppina Dal Canton, Daniela De Angelis, Massimo De Sabbata, Claudio Griggio, Claudio Giunta, Maria Mimita Lamberti, Giovanni Lista, Maurizio Lorber, Maria Grazia Messina, Marta Nezzo, Andrea Pinotti, Christine Poggi, Federica Rovati. Esprimo a tutti loro la mia gratitudine. Un ringraziamento particolare lo devo a Flavio Fergonzi, con il quale ho condiviso questi anni di lavoro presso l’Università di Udine. La pubblicazione dei documenti inediti nel quarto capitolo è dovuta alla cortesia di Gabriella Belli e di Gloria Manghetti. Mia moglie Caterina ha letto con scrupolo e attenzione ogni parte di questo libro, ed è stata una presenza costante e affettuosa. Per tutto questo, e per molto altro ancora, la dedica è a lei.

I. I funerali dell’anarchico Carrà

Dinanzi ad un caposaldo della pittura futurista come I funerali dell’anarchico Galli di Carlo Carrà (1911, New York, The Museum of Modern Art) apparirebbe naturale porsi alcune questioni. Chi era questo anarchico Galli? Per quali ragioni morì, e per quali altre il suo funerale innescò un tumulto? Quali furono le intenzioni di Carrà nel voler dedicare a questo oscuro episodio il suo più ambizioso dipinto della prima fase futurista, e che cosa rimase di queste intenzioni nel successivo decorso artistico dell’autore? E in quale modo, infine, tale vicenda può aiutare a capire qualcosa dell’impasto ideologico, piuttosto confuso, del primissimo futurismo, in rapporto alle arti visive? Negli anni, il dipinto di Carrà ha raccolto un discreto curriculum espositivo. È noto che proprio esso aprì la sequenza degli undici quadri che l’autore inviò alle mostre europee del 1912. Passato nella collezione berlinese di Wolfgang Borchardt nel maggio 1912 e poi in quella dell’artista olandese Paul Citroen, l’opera guadagnò una crescente fortuna come emblema dei tratti più rivoltosi del futurismo. Complice anche la perdita di molte opere cruciali, il dipinto è senz’altro, insieme al collage Dimostrazione interventista (1914), l’immagine più rappresentativa del Carrà futurista e dell’intero movimento, nel suo complesso. Cataloghi e schede che lo hanno accompagnato, tuttavia, oltre che ribadire alcuni errori ormai sedimentati, appaiono noncuranti nei confronti di simili domande1. Né si è tentato un reale 1  Cfr. come ultimo esempio la scheda del quadro in Futurismo: avanguardiavanguardie, a cura di D. Ottinger, catalogo della mostra (Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou, Paris, 2008-2009; poi Scuderie del Quirinale, Roma, e Tate Modern, London), Milano, 5 Continents Editions, 2009, n. 32, pp. 140-141, a firma



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confronto critico con gli argomenti, i dati e i documenti emersi negli ultimi due decenni di studi, dove si è particolarmente approfondito il rapporto tra le avanguardie storiche e le ideologie politiche del loro tempo2. Per rispondere alla prima domanda bisogna per prima cosa evitare di lasciarsi fuorviare dalle tarde ed erronee memorie dello stesso Carrà, osservando invece quell’elementare scrupolo storiografico che consiglia di prendere sempre con molta cautela i ricordi dei pittori; e poi, naturalmente, provare a recuperare fonti un po’ più attendibili. È sufficiente, per iniziare, aprire il Dizionario biografico degli anarchici italiani3. Qui si può leggere la voce dedicata ad Alessandro Galli. E si può così apprendere la vita, e la morte, del protagonista del quadro, che è il fratello minore di Alessandro, Angelo. Costui venne ucciso – e la differenza non è da poco, come si vedrà – non durante il famoso sciopero generale del 1904 (come affermò Carrà nelle sue memorie, e al suo seguito pressoché tutti i commentatori), bensì due anni dopo, durante un altro sciopero, che tuttavia – come si è potuto ricostruire dalle testimonianze dell’epoca – non ebbe affatto connotati memorabili; anzi. Ecco infatti come un osservatore dell’epoca descrisse i fatti milanesi del 19064: b.m.; sulle controverse mostre del centenario cfr. i giudizi di E. Braun, Futurism: London, «The Burlington Magazine», 151, 2009, n. 1278, pp. 633-634; C. Michaelides, Futurism: Milan and Rovereto, ivi, n. 1274, pp. 340-342 e M. G. Messina, Il futurismo nell’anno 2009: un percorso fra le mostre, «Studiolo», 7, 2009, pp. 253-261. 2  Gli studi sul rapporto tra avanguardie storiche e politica radicale sono numerosi; per la situazione europea si veda: J. Ungersma Halperin, Félix Fénéon. Aesthete & Anarchist in Fin de Siècle Paris, New Haven-London, Yale University Press, 1988; P. Leighten, Re-Ordering the Universe: Picasso and Anarchism, 1897-1914, Princeton University Press, Princeton, 1989; A. Varias, Paris and the Anarchists: Aesthetes and Subversives during the Fin de Siècle, New York, St. Martin’s, 1996; D. Scholz, Pinsel und Dolch: anarchistische Ideen in Kunst und Kunsttheorie 1840-1920, Berlin, Reimer, 1999, pp. 282-288; R. Roslak, Neo-impressionism and anarchism in fin-desiècle France: painting, politics and landscape, Aldershot, Ashgate, 2007. Sugli orientamenti politici nella storiografia del futurismo, cfr. W. L. Adamson, Contexts and Debates Fascinating futurism: The historiographical politics of an historical avantgarde, «Modern Italy», XIII, n. 1, February 2008, pp. 69-85. 3  Dizionario biografico degli anarchici italiani, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, vol. I, 2004, p. 658. 4  Filippo Turati e Anna Kuliscioff: 1900-1909, a cura di A. Schiavi, Torino, Einaudi, 1977, p. 431, 11 maggio 1906.



i. i funerali dell’anarchico carrà

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una buffonata più ridicola e più pietosa dello sciopero d’ieri non si avrebbe potuto nemmeno immaginare. Ragazzaglia dai 12 ai 17 anni si divertiva in piazza a far correre i questurini, alle 11 di sera tutti tranquillamente andarono a casa e la rivoluzione ebbe termine. C’è il fattaccio dell’uccisione dell’anarchico Galli, e per fortuna non dalla forza pubblica, se no, neppur la comm[issione] esec[utiva] della Camera del Lavoro che si comportò benissimo e con gran energia, combattendo fieramente gli anarchici, neppur essa sarebbe stata capace di frenare la pazzia teppistica della ragazzaglia.

A dare questi giudizi era Anna Kuliscioff a Filippo Turati. Il «fattaccio» cui fa riferimento la Kuliscioff era l’uccisione del Galli da parte del custode dello Stabilimento Macchi di via Farini. Durante quei giorni di sciopero, trecento operai metalmeccanici della fabbrica stavano lavorando regolarmente. Un gruppo di giovani anarchici tentò d’imporre un blocco; il custode Giuseppe Beretta cercò di bloccarli, ma venne colpito insieme alla moglie. Spaventato, estrasse un comune coltello, «di quelli che si usano dalla povera gente per tagliare il pane» e provò a menare fendenti un po’ alla cieca; caddero colpiti in due, e a non rialzarsi più fu il ventiquattrenne Angelo Galli, ferito al nono spazio intercostale e morto d’emorragia. Dopo l’accoltellamento di Galli lo stabilimento fu presidiato da due guardie di Pubblica sicurezza. Verso sera un gruppo d’un centinaio di anarchici si portò dinanzi al cancello dello stabilimento e cominciò a vociare minacciosamente, agitando bandiere rosse e nere. Forzate le porte, il gruppo entrò nel cortile, e si mise a infrangere i vetri con bastoni e sassi. Usciti nuovamente in strada, i dimostranti presero a sassate un tram diretto a Giussano. L’annuncio dell’imminente arrivo d’un plotone di carabinieri, mezzo squadrone di cavalleggeri e tre compagnie di fanteria bastò a far allontanare i dimostranti5. Le cronache cittadine definirono il Galli, con una certa esagerazione, «notissimo anarchico militante, assiduo oratore di comizi». Per ordine delle autorità, il suo corpo finì al cimitero di Musocco per l’autopsia. Fu autorizzata una cerimonia funebre dinanzi al piazzale del cimitero periferico, con l’esplicito divieto di confluire lungo la strada per Milano. 5  La serata. Una dimostrazione di anarchici, «Corriere della Sera», 11 maggio 1906, p. 2.



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Tre giorni dopo, circa seicento tra anarchici e sindacalisti si ritrovarono per quello che apparve, ai cronisti, più un comizio che un funerale. La scena descritta non sembra lontana dal funerale di Quinto Pallesi che, mezzo secolo più tardi, si potrà leggere nell’invenzione romanzesca del Metello di Vasco Pratolini. Lo schieramento del reggimento Nizza di Cavalleria sbarrava l’accesso a viale Certosa, per mantenere il gruppo dei dimostranti entro il perimetro del piazzale. La cassa funebre era stata ricoperta da una bandiera rossa e una nera, e da un cuscino di garofani rossi con nastri neri inviato dalla Camera del Lavoro. Il cronista del «Corriere della Sera» annotò che «la maggioranza era una vera raccolta di cappellacci neri, di cravatte rosse o nere svolazzanti: e soprattutto degli immancabili garofani rossi». Quindi si soffermò sui tentativi del corteo di infrangere il cordone di polizia6. Precedevano il feretro quindici bandiere di diverse sezioni della Camera del lavoro e di Associazioni operaie […] Dopo le bandiere venivano alcune corone di garofani rossi seguite dal feretro portato sulle spalle da sei giovanotti volenterosi: infine fu la folla disordinata e chiacchierante. Il corteo così composto uscì dai cancelli e cominciò il giro del piazzale: dopo averne compiuto la metà e giunto all’inizio del viale per Milano che era stato sbarrato dalla cavalleria cambiò improvvisamente direzione e volle passare fra i cavalli e infilare il vialone. Prima ancora che questa idea venisse ai dimostranti, le bandiere che precedevano il feretro – (davanti al quale i soldati abbassarono le lance in segno di saluto) – furono abbassate in atto di sprezzo per la truppa, alla quale furono indirizzate ingiurie triviali. Quando i portatori del feretro tentarono di rompere il cordone, nacque un vero tafferuglio: i soldati sospinti dalla folla si sforzarono di mantenere i ranghi: i dimostranti urlavano quanto più era loro possibile e naturalmente coloro che più urlavano erano i più lontani dalla truppa. Il feretro sballottato qua e là sembrava sulle onde di un mare in tempesta. Era triste il pensiero che in quella cassa ci fosse un corpo umano e che a questa salma col pretesto di un dimostrazione di simpatia si mancasse in tal modo di rispetto: quel rispetto che i dimostranti reclamavano dai soldati affinché lasciassero passare il feretro attraverso il cordone e con esso tutta la folla che lo seguiva. Durante il tafferuglio qualche sassata venne lanciata verso i soldati e qualche piattonata venne data da questi per liberarsi dai dimo6  I funerali dell’anarchico Galli. Una triste cerimonia, «Corriere della Sera», 14 maggio 1906, p. 4.



i. i funerali dell’anarchico carrà

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Figura 1.1. Carlo Carrà, Studio per «Funerale anarchico», 1910.

stranti più accalorati che per passare tra cavallo e cavallo si aggrappavano alle selle. In complesso nulla di grave, nessun ferito. […] Finalmente il corteo – se tale ancora si poteva chiamare – visto che non era riuscito nel suo intento, ritornò nel cimitero. Qui nel piazzale interno il feretro fu deposto a terra: attorno si accalcò la folla e cominciarono i discorsi. Crediamo inutile il riassumerli uno per uno: il frasario delle idee e degli anarchici e dei rivoluzionari sono ormai noti né essi mutarono dinanzi alla solennità della morte: basti dire che invece delle parole di saluto al compagno morto si pronunciarono parole d’odio e le ingiurie più plateali e sozze all’indirizzo della stampa tutta tacciandola di menzognera e di venduta.

Placati gli animi, presero la parola due vecchie conoscenze dell’anarchia milanese come Comunardo Braccialarghe e Paolo Valera. L’emozione spinse loro a istituire paragoni, piuttosto azzardati, con i «grandi combattenti per la libertà, da Mazzini a Garibaldi». Terminata così la cerimonia, la folla si disperse verso Milano senza causare altri incidenti. Insomma, a leggere le cronache né la morte di Galli né i due successivi tumulti (nella fabbrica e al cimitero) paiono memorabili. Se osserviamo il foglio con la prima idea del quadro (fig. 1.1), ci appare, in effetti,



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una situazione più vicina alle cronache di quanto non sia la versione finale del dipinto. La folla è compatta, piuttosto ordinata, per certi versi rassicurante; solo una guardia a cavallo accenna, da destra, una carica. Nulla a che vedere con l’esplicita sedizione nella versione finale del dipinto.

Scioperi e repressione Carrà compose la sua autobiografia ad oltre trent’anni di distanza dai fatti, e quindi è comprensibile che possa essersi confuso con le date. Ma la ragione di questa imprecisione offre un elemento in più per meglio inquadrare il Funerale dell’anarchico Galli7. Lo sciopero generale del 1904 aveva infatti acquisito, nel tempo, un valore quasi mitico, perché era apparso come la prima vera irruzione, nel panorama della lotta politica italiana, di una massa politicizzata. Lo stesso Mussolini riconoscerà di aver aderito proprio in quel momento al sindacalismo rivoluzionario8. Intorno ai fatti del settembre 1904 si era rapidamente diffusa una letteratura apologetica e massimalista. Le cronache dei giornali militanti avevano arrischiato descrizioni epiche9: La massa enorme sfolla e si riversa nella vie […] La piazza è padrona di Milano: ecco la rivoluzione, o conigli della teoria maccheronicamente evoluzionista! […] C’è una forza fino a ieri oscura e silenziosa, che oggi si è rivelata a voi e a noi, possente, la quale ha d’un tratto annientata, sotto questo biondo e chiaro sole d’autunno, la tua vita d’industrie e di traffici, sonante e splendida, e ti ha imposto un veto, o Milano, davanti al quale tutto deve piegare.

Dopo il comizio di quarantamila operai all’Arena, e mentre gruppi della Camera del Lavoro sorvegliavano la città, si propose di prolungare lo sciopero per ottenere le dimissioni di Giolitti. In mancanza d’una guida politica, il conflitto declinò senza 7  C. Carrà, La mia vita, ora in Tutti gli scritti, a cura di M. Carrà, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 633-634. 8  R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 1965, p. 45. 9  Proclamazione, «Avanguardia socialista», II, 15 settembre 1904.



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aver colto reali obiettivi strategici10. Lo stesso Giolitti parlò poi esplicitamente di fallimento per stanchezza e mancanza di vere ragioni. Il vero vincitore restò il capo del governo, che alla scadenza naturale delle Camere convocò i comizi elettorali, e poté raccogliere i voti della borghesia intimorita. La parte rivoluzionaria del partito socialista uscì sconfitta, e il risultato effettivo fu quello d’infrangere il fronte progressista11. Il giudizio sui fatti del 1904 restò quindi assai controverso, e rifletteva l’insanabile divisione tra i socialisti. Per il direttore de «L’Avanti», il socialista rivoluzionario Enrico Leone, lo sciopero era una manifestazione spontanea delle masse operaie, organizzate in piena indipendenza. Il socialismo non era più un sistema di previsioni maturate dall’attività parlamentare, ma un’azione diretta. Lo sciopero appariva così come la prima pagina scritta dal proletariato in quanto classe politica indipendente, protagonista unica di un movimento nazionale12. Per i riformisti, invece, lo sciopero fu il frutto d’una scelta incauta e confusa, un’accelerazione irragionevole che andava così a incrementare il conflitto in corso con la Camera del Lavoro di Milano. Retta dal mese di maggio 1904 dal gruppo «rivoluzionario» di Walter Mocchi e Arturo Labriola, che era prevalso anche nel congresso regionale, la Camera aveva in effetti pilotato gli eventi milanesi, dando libero sfogo alle fazioni più violente e incontrollate. Un organo ufficiale come «La Critica sociale» denunciò, con molta chiarezza, il rischio dell’infiltrazione degli anarchici in seno a quella che era considerata l’aristocrazia operaia italiana, fino a costituire un agguerrito gruppo di minoranza rissosa e irresponsabile, quanto inconcludente13. 10  Sui fatti del 1904 cfr. G. Procacci, La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX, Editori Riuniti, Roma, 1970, pp. 375 sgg. e cfr. R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950, Milano, Edizioni Oriente, 1966, pp. 373-392. 11  G. Giolitti, Memorie della mia vita, Milano, Garzanti, 1945, p. 211. 12  Il giudizio è citato in H. Lagardelle, La grève generale et le socialisme: enquête, Paris, E. Cornely, 1905, pp. 351-353. 13  L’ora delle responsabilità. Lo sciopero generale e la situazione politica, «Critica sociale», XIV, 1904, pp. 273-277: «Alleatisi a qualche anarchico patentato – e gli anarchici erano i soli che dovessero sentirsi a loro agio in quell’avventura – […] inanimiti a facile eroismo dalla latitanza, ordinata dal governo, degli agenti della pubblica forza; iniziarono la loro predicazione ingegnandosi di persuadere alla folla



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La forza proletaria veniva infatti intesa dai socialisti rivoluzionari come «atto risolutivo» della dissoluzione del capitalismo attraverso l’insurrezione spontanea. Ogni mediazione politica sul piano di riforme concordate in seno agli istituti democratici appariva come un’inammissibile deroga a questa intransigenza. Il parlamentarismo veniva tollerato, ma giudicato inessenziale: rifiutando il principio democratico della rappresentatività, la rivoluzione si elaborava nel sindacato e si doveva compiere nelle piazze anziché essere il frutto di un piano di riforme14. «Avanguardia Socialista», l’organo della frazione rivoluzionaria diretto da Labriola e Mocchi commentò i fatti milanesi del 1904, divenuti senz’altro «le cinque giornate del primo esperimento di dittatura proletaria», e la successiva sconfitta dei rivoluzionari alle elezioni politiche di novembre, incoraggiando una recrudescenza delle lotte operaie15. Per quanto in minoranza su scala nazionale, i sindacalisti rivoluzionari mantenevano un grande ascendente nella base del partito e tra i militanti. La politica riformista nel primo decennio del secolo aveva certamente ottenuto importanti vittorie sul piano dei diritti minimi dei lavoratori; trainate dalla crescita economica, le condizioni degli operai erano migliorate. Ma, come è stato osservato, il sindacalismo rivoluzionario, inteso come una revisione da sinistra del marxismo ortodosso, era la conseguenza non già d’una crisi economica, quanto piuttosto d’un relativo benessere16. Ad alimentare l’appeal delle forze radicali concorse anche l’esasperazione nei confronti delle politiche di repressione del governo italiano. Alle timide aperture verso la tutela dei lavoratori scioperante, convenuta ai comizi, esser essa, per un nuovo e peregrino portento, con una piccola anticipazione dell’anno duemila, divenuta, senza sforzo e d’un balzo, la sola ed assoluta signora, non pure di una grande città, ma dell’intera nazione; costituirono una grottesca parodia di Governo provvisorio, emanante ukasi e prescrivente alla Municipalità la forma e il tenore dei manifesti ufficiali; […] tentarono di lanciare una valanga di popolo, sovreccitato e minaccioso, all’assalto notturno delle sedi dei ferrovieri per imporre a essi, renitenti, la solidarietà dello sciopero». 14  I. Bonomi, Il Congresso socialista di Bologna, «Nuova Antologia», V, n. 1, 1904, p. 125. 15  Le cinque giornate del primo esperimento di dittatura proletaria, «Avanguardia socialista», II, 24 settembre 1904, p. 1. 16  Z. Sternhell, Né destra né sinistra: la nascita dell’ideologia fascista, Napoli, Akropolis, 1983, p. 252.



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e all’allargamento dei diritti civili con le riforme elettorali del 1882 e del 1912, non aveva infatti corrisposto una modifica al codice generale e alle leggi di pubblica sicurezza che limitavano le libertà personali e politiche. In occasione degli scioperi del 1904, per fare solo un esempio, vennero comminati venti giorni di reclusione per aver gridato «vigliacchi e lazzaroni» alla polizia. Per quanti intimavano la cessazione delle attività economiche erano previsti fino a venti mesi di reclusione17. Secondo i pubblici ministeri, infatti, in questi casi non ricorreva l’ipotesi di un conflitto tra capitale e lavoro, con finalità economiche (applicando quindi gli articoli 165 e 166 del codice penale) ma, trattandosi di una «degenerazione della protesta popolare con atto di vera e propria violenza teppistica», veniva applicato l’art. 154, che prevedeva la violenza privata. Come osservò Paolo Valera, nel 1904 le organizzazioni si erano adoperate per impedire che si ripetessero i massacri degli scioperanti18. Il partito socialista aveva istituito un efficace servizio d’ordine in grado di allontanare dalle strade le frange più turbolente, gli ubriachi e gli armati. Ma questo non bastava a garantire l’incolumità dei manifestanti, di coloro che Alfredo Oriani chiamerà poi «gli assenti dalla storia». Ci sarebbero voluti anni ed enormi sforzi, chiosò un osservatore dell’epoca non privo d’ottimismo, prima che in Italia si potesse istituire «una forza di polizia onesta e padrona di sé»19. 17  Traggo la notizia dal «Corriere della Sera», 24 settembre 1904. Sulla repressione poliziesca cito alcuni studi: D. Tarantini, La maniera forte. Elogio della polizia: storia del potere politico in Italia, 1860-1975, Verona, Bertani, 1975; R. Vivarelli, La frattura tra «paese legale» e «paese reale», in I. Zanni Rosielo, Gli apparati statali dall’Unità al fascismo, Bologna, Il Mulino, 1976, pp. 317-336; J. A. Davis, Legge e ordine. Autorità e conflitti nell’Italia dell’800, Milano, Franco Angeli, 1989, p. 220 sgg; U. Allegretti, Dissenso, opposizione politica, disordine sociale: le risposte dello Stato liberale, in Storia d’Italia, Annali 12. La criminalità, Torino, Einaudi, 1997, pp. 719-756. 18  P. Valera, Il diario sugli avvenimenti dello sciopero generale, «La Folla», IV, settembre-ottobre 1904, ora in Giornalismo italiano 1901-1939, a cura di F. Contorbia, Milano, Mondadori, 2007, pp. 110-146, p. 119. 19  A. Oriani, Appello, in conclusione a La rivolta ideale (1908), Bologna, Gherardi, 1912, p. 351; O. Olberg, Der italienische Generalstrik, «Die Neue Zeit», XXIII, 1904-1905, pp. 18-24, tr. it. Lo sciopero generale del 1904, in E. Ragionieri, Italia giudicata 1861-1945, vol. II, Torino, Einaudi, 1976, p. 347. E si pensi a quanto scriverà poi G. Fortunato, Il mezzogiorno e lo Stato italiano, Firenze, Vallecchi,



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Così, le sollevazioni si proponevano ciclicamente, in un quadro di sommaria repressione. Anche se la Camera del Lavoro milanese a partire dal 1906 fu retta da un’ampia maggioranza di riformisti, bastava assai poco per avviare un’escalation insurrezionale. O la sua messinscena. Nel maggio 1906 a scatenare gli animi fu l’uccisione, da parte della polizia, di un operaio all’interno della Camera del Lavoro di Torino durante uno sciopero dei tessili. Il giorno seguente, lo sciopero echeggiava anche a Milano; i riformisti osservarono con preoccupazione l’insofferenza di un ceto sostanzialmente antipolitico, o prepolitico. Era una massa di manovra fatta di giovani e di giovanissimi, priva d’inquadramento e facilmente soggiogati dalle scorciatoie nichiliste degli anarchici, che andavano saldandosi con i socialisti rivoluzionari20. L’azione di sponda ai gruppi anarchici da parte di taluni dirigenti socialisti, capeggiati dal nuovo direttore de «L’Avanti!» Enrico Ferri, era giudicata immorale e demagogica. Ed è forse vero che i fatti di Milano del 1906 si potevano leggere, anche, come una sorta di manovra contro la politica socialista riformista nel gabinetto Sonnino. Dopo aver infatti ricevuto la fiducia dai socialisti nel marzo 1906, il governo non aveva mantenuto il profilo riformista promesso; in più, aveva appena affossato la legge sull’ispettorato del lavoro. Un ordine del giorno di Turati esortò i lavoratori a prendere le distanze dai promotori dello sciopero, così da non favorire gli argomenti dei reazionari, in vista delle possibile elezioni politiche, e di non ostacolare la difficile mediazione riformatrice a livello governativo: «cauterizzare così ogni genere di evoluzione democratica nel Ministero e nella Camera», come scrisse. In questo quadro, per Carrà era piuttosto facile confondere i due episodi del 1904 e del 1906: agli occhi del giovane e irruente pittore, affascinato dal mondo dei sovversivi, il primo memorabile sciopero generale nazionale e l’occasionale tumulto degli anarchici apparivano come le due fasi di un unico, vagheggiato, movimento insurrezionale. 1926, vol. I, p. 396: «Noi siamo autoritari nelle ossa; e per eredità, per educazione, per costumi, siamo indotti o a troppo comandare o a troppo obbedire». 20  Filippo Turati e Anna Kuliscioff: 1900-1909 cit., p. 425, 9 e 10 maggio 1904.



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Rivoluzionari e riformisti Nonostante le critiche espresse dai riformisti, il mito dello sciopero generale e dell’insurrezione prese sempre più spazio dopo i fatti del 1904, fino a saldarsi con la crescente fortuna delle tesi di Georges Sorel, che in quegli stessi anni stava pubblicando a puntate, sulla rivista «Il divenire sociale», le tesi poi raccolte nel 1908 in Considerazioni sulla violenza. Dinanzi allo spregiudicato iter dell’autore, i giudizi su Sorel restavano tuttavia assai controversi. I rivoluzionari riconobbero il suo pensiero come l’unico in grado di rendere attuali le teorie di Marx. Più che una teoria politica, Sorel appariva loro come uno «stato d’animo» che sostanziava la mitologia collettiva dello sciopero generale, grazie alla spontanea forza rivoluzionaria delle masse proletarie, senza gli impicci delle mediazioni politiche21. Arturo Labriola riconobbe nelle proposte di Sorel un fenomeno d’intransigenza estraneo alla legalità esistente, di matrice antistatale e sostanzialmente «inventivo» (cioè: «non può battere le vie solite, ma ispirarsi alla profonda coscienza della sua genialità e quindi del suo diritto a tentare l’esperimento»)22. Per Gramsci, memore del giudizio di Lenin sul «ben noto confusionario», si trattava piuttosto di un antigiacobinismo «settario, meschino, antistorico» d’intrinseca irresponsabilità23. L’immagine di Sorel si era così assestata in quella, certo non meno caotica, dell’autore che intendeva operare una sintesi tra il marxismo e il pensiero di Proudhon, Bakunin, Bergson e Nietzsche. Era certo un programma politicamente velleitario, ma che restava seducente agli occhi di molti intellettuali. Una 21  Cfr. per questo le considerazioni di W. Mocchi, Dopo lo sciopero generale, «Avanguardia socialista», 30 settembre 1904; R. Michels, Storia del marxismo in Italia, Roma, Mongini, 1910, p. 117 e E. Leone, La teoria sindalicalista, Palermo, Sandron, 1910; per un quadro complessivo della fortuna è utile la ricostruzione di P. Vita-Finzi, Le delusioni della libertà, Firenze, Vallecchi, 1961, pp. 29-41, da cfr. con G. L. Goisis, Sorel e i soreliani. Le metamorfosi dell’attivismo, Venezia, Helvetia, 1983, p. 377. 22  A. Labriola, Economia, Socialismo, Sindacalismo, Napoli, Società editrice partenopea, 1912, p. 312. 23  A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Roma, Editori Riuniti, 1996, p. 137; il giudizio di Lenin si legge in Materialismo ed empiriocriticismo, Roma, Editori Riuniti, 1953, p. 273.



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parte della cultura vociana riconobbe in Sorel le possibilità d’una sintesi «classica e umanistica» tra vocazione insurrezionale e tradizione del mito, confermando l’idea di una «aristocrazia idealista» e il primato della élite intellettuale. In una memorabile intervista con «La Voce», Sorel confermò che la violenza proletaria era un sintomo del ritorno del «senso eroico». Il proletariato doveva compiere uno sforzo ideologico per scavalcare l’intera ideologia borghese, con il suo bagaglio democratico e politico, e risalire al pensiero classico, foriero di miti agonistici24. La fortuna di Sorel era insomma strettamente legata al diagramma delle contrapposizioni tra rivoluzionari e riformisti, in un arco di anni – quando non di mesi – che si sovrappone pienamente alle prime elaborazioni teoriche del futurismo. L’ondivaga ricezione del pensiero di Sorel era tuttavia strettamente commisurata ai mutamenti che egli stesso andava elaborando, sino ad abbandonare del tutto il sindacalismo, nel momento in cui esso gli apparve neutralizzato dal socialismo parlamentare e mantenuto in vita soltanto dalla velleitaria ritualità delle masse scioperanti25. In una lettera a Mario Missiroli del 1910 Sorel ammetteva di essersi allontanato per tempo dalla violenta deriva del sindacato rivoluzionario, e quindi di non avere responsabilità morali dinanzi ad essa26. Gli osservatori più attenti erano naturalmente a conoscenza di queste distinzioni. Gaetano Salvemini riteneva il socialismo rivoluzionario connaturato alla confusa ideologia del suo Cocò – la figura satirica del giovane meridionale dall’incerta vocazione intel24  Cfr. in particolare l’interpretazione offerta da G. Prezzolini, La teoria sindacalista, Napoli, Perrella, 1909, p. 180 (su cui G. Papini, G. Prezzolini, Carteggio II. 1908-1915. Dalla nascita della «Voce» alla fine di «Lacerba», Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2000, p. X e 158); A. Lanzillo, Colloquio con Georges Sorel, «La Voce», I, n. 52, 9 dicembre 1909, pp. 220-221; di Sorel, Lanzillo tradusse Le illusioni del progresso, Palermo, Sandron, 1910, e La religione d’oggi, Lanciano, Carabba, 1911, che seguivano di poco l’edizione di Considerazioni sulla violenza, promossa da Croce (Bari, Laterza, 1909). 25  G. Sorel, Sindacalismo traditore, «Il Resto del Carlino», 24 maggio 1910. 26  G. Sorel, Da «Proudhon a Lenin» e «L’Europa sotto la tormenta», Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1973, p. 457, G. Sorel a Mario Missiroli, 1 novembre 1910: «D’autre part, les ouvriers écartent les gens qui leur vantent les actes criminels. Je suis enchanté de n’avoir plus aucune relation dans le monde révolutionnaire; je me suis retiré à temps pour ne pas avoir même une responsabilité morale».



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lettuale e dallo spirito irresponsabile, verrebbe da dire prefuturista – «insuperabile nel rompere le vetrate, nel fracassare le panche»27. Come avvertì poco dopo Croce, la causa del socialismo s’identificava ormai nella democrazia parlamentare, nei liberisti antistatali, nella critica degli intellettuali; il sindacalismo rivoluzionario, abbandonato dallo stesso Sorel, appariva ormai dissolto28. Tra il 1904 e il 1909 era sembrato possibile dare vita a un movimento politico operaio, su base sindacalista-soreliana, da contrapporre al partito socialista divenuto un partito costituzionale di riforme democratiche. Questo tipo di sindacalismo proponeva un effettivo sovvertimento della democrazia: ma era ormai chiaro che «l’ora non era prossima». Dopo il voto di fiducia del 1910 al nuovo governo Luzzatti che aveva promesso il suffragio allargato, il Congresso del Partito Socialista confermò infatti la maggioranza riformista; essa però si divise tra il gradualismo di Turati e l’indirizzo sempre più governativo di Bissolati. La prospettiva di una palingenesi sociale avrebbe dovuto attendere, secondo la proverbiale formula di Labriola, che le classi lavoratrici avessero prima vuotato, «sino all’amarissima feccia, il calice democratico»29.

Dar forma al mito dell’insurrezione Nei primi anni del secolo, un artista che avesse voluto agitare ideali progressisti e di socialismo difficilmente sarebbe potuto andare oltre le risorse offerte dal truce realismo «sociale» espresso nel quindicennio precedente, o il rifugio nell’allegoria liberty. Sul piano visivo, il repertorio si era infatti polarizzato tra la rabbiosa iconografia dell’insubordinazione dei salariati (sull’esempio di Emilio Longoni, L’oratore dello sciopero, 1891) e la radiosa prospettiva G. Salvemini, Cocò all’Università di Napoli o la scuola della mala vita, «La Voce», II, n. 3, 3 gennaio 1909, pp. 9-10. 28  La morte del socialismo (Discorrendo con Benedetto Croce), «La Voce», III, n. 3, 9 febbraio 1911, p. 501; sull’impatto di queste pagine si veda E. Garin, Cronache di filosofia italiana, 1900-1943, Bari, Laterza, 1955, p. 221. 29  A. Labriola, L’ora non è prossima, cit. in N. Valeri, La lotta politica in Italia dall’Unità al 1925, Firenze, Le Monnier, 1958, p. 309. 27 



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palingenetica di riscatto sociale. Ancora nel 1909, un pittore come Plinio Nomellini era in grado di realizzare un dipinto come Nuova gente (ora Genova, Galleria d’Arte Moderna): un corteo di figure d’idealizzata nudità, al seguito d’un gran drappo rosso mosso dal vento, in un tripudio di ghirlande e fiori colorati. Presentato alla Biennale di Venezia, suscitò il rude entusiasmo d’un foglio combattivo come «La battaglia proletaria»30.

Il modo in cui le Considerazioni sulla violenza di Sorel fornivano un approdo mitico agli ideali di sovversione sociale poteva essere, come si è detto, politicamente controverso e prestarsi ad opposti usi strumentali. Ma a quanti erano interessati alla traduzione di quegli stessi ideali in codici figurativi, anziché in elaborazioni dottrinali, era il miglior esempio per dimostrare il formidabile impatto della folla, anche sul piano della costruzione delle immagini. Il bozzetto di Carrà presenta, come si è visto, una composizione piuttosto tradizionale, se non statica, impostata con un drammatico controluce. A confronto con il dipinto compiuto, questo foglio appare assai convenzionale, e senza alcuno specifico attributo futurista. Nonostante sia esplicitamente datato al 1910, è però assai difficile considerarlo uno studio preliminare, tanto differisce dal dipinto; anzi, il ricordo di Carrà sembra smentire questa datazione a ridosso del dipinto finale, poiché egli stesso in Vita d’un pittore ricordò di aver realizzato questo disegno appena rientrato a casa dopo la manifestazione. La doppia incongruenza sembra potersi emendare con un confronto stilistico. Il disegno presenta infatti un’impronta schiettamente previatiana, cronologicamente non molto discosta dai fatti narrati. Proprio nel 1906, infatti, Carrà si era iscritto alla scuola di Cesare Tallone all’Accademia di Brera, e aveva avuto modo di conoscere Previati. Nella sua versione definitiva (fig. 1.2), il quadro presenta alcune differenze di rilievo: un più ravvicinato punto di vista, Rolanda, Il Lavoro all’VIII Esposizione veneziana, «La battaglia proletaria», III, n. 133, 7 agosto 1909, dove, con faticosa prosa, il recensore conferma il conformismo estetico dei rivoluzionari politici: «Quella folla di lavoratori che segue una rossa bandiera svolazzante, lasciando sullo sfondo le officine deserte, quei visi che sembra ci guardino e ci si avvicinino seguendo la marcia ascensionale noi li avevamo già visti e prevediamo in quel quadro, un passo della faticosa e pur sempre avanzante marcia del proletariato». 30 



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Figura 1.2 Carlo Carrà, I funerali dell’anarchico Galli, 1911.

un generale infoltimento della composizione, una drammatizzazione del chiaroscuro, i tracciati segmentati di aste, manganelli e bastoni agitati dalla folla e, soprattutto, due nuove figure in primo piano. Quello che si perde in compostezza scenografica è guadagnato in enfasi dinamica. I primi rudimenti del futurismo pittorico vennero così utilizzati per conferire ad un ormai remoto fatto delle cronache milanesi le stigmate di un evento memorabile: la figurazione allegorica della proclamata insurrezione futurista. Per provare allora a capire quali furono le reali intenzioni di Carrà è innanzitutto necessario descrivere con un po’ di precisione il dipinto.



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Figura 1.3 Vignetta pubblicata ne «L’uomo di pietra», 10 settembre 1904.

Il quadro condensa tre temi: la figura dell’anarchico, il funerale, il tumulto della folla durante la carica delle forze dell’ordine. L’apice narrativo è risolto in una serie di contrasti dove si volle rappresentare, anziché la psicologia del dolore (come ad esempio ne Il lutto di Boccioni) la confusa dinamica d’un tafferuglio. La composizione è organizzata in tre gruppi più o meno distinti di figure; ma, a volerle guardare bene e senza preconcetti, è piuttosto difficile attribuire loro un significato chiaro. Il personaggio chiave è naturalmente quello installato quasi al centro del quadro (e assente nel disegno), nell’atto di agitare un bastone verso la propria sinistra, dove appare una guardia a cavallo. Sul margine estremo vi è la figura di un borghese – anch’essa non presente nel bozzetto – desideroso di associarsi alla repressione, menando da par suo il bastone da passeggio. Verosimilmente, per questo personaggio Carrà può aver fatto riferimento all’analoga figura che assiste alla carica di esercito e carabinieri durante l’ultimo giorno del mitico sciopero del 1904, in una vignetta che comparve sul giornale satirico milanese «L’uomo di pietra» (fig. 1.3). Sulla destra, un gruppo di quattro guardie sta fronteggiando



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un manipolo di manifestanti, mentre in secondo piano passa il feretro avvolto in un drappo rosso. Lungo i due lati si agitano le bandiere nere; sullo sfondo spicca un traliccio metallico, a sinistra, e il disco del sole intersecato da falci multicolori di riflessi. Così composto, il quadro di Carrà appare complementare ai temi degli altri importanti quadri futuristi dipinti nel corso del primo anno d’attività seguito alla pubblicazione del Manifesto della pittura futurista. Con la Città che sale Boccioni aveva raffigurato la crescita della metropoli; il loisir cittadino era invece oggetto della Danza del pan-pan à Monico di Severini. In quelli che furono gli unici due dipinti esplicitamente «politici», la Rivolta di Luigi Russolo e il Funerale anarchico, venne descritta la natura agonistica e aggressiva delle folle. È soltanto congetturabile che il dipinto di Carrà sia stato presentato all’Esposizione d’Arte Libera, tenuta presso il Padiglione Ricordi nel giugno 1911. Pur non essendoci prove documentali a riguardo, l’ipotesi è deducibile dalla natura stessa dell’evento. Si trattava infatti d’una mostra aperta ai contributi degli «operai adulti e giovanetti e ragazzi – artisti in erba, e professionisti che si ribellano a norme e regole restrittive della libertà in arte», a beneficio della Camera del Lavoro milanese. Un’occasione che dunque poteva davvero costituire il primo e più efficace banco di prova del Funerale anarchico dinanzi a un pubblico amico31.

La figura dell’anarchico Fra tutti i pittori del gruppo storico futurista Carrà fu certo colui che ebbe sicuri e documentati rapporti con il mondo degli 31  La mostra al Padiglione Ricordi ebbe infatti qualche attenzione dalla stampa politica: cfr. C. Dell’Avalle, Operai, andate all’Esposizione libera, «La battaglia proletaria socialista», n. 227, 3 giugno 1911, p. 4. La fortuna del dipinto di Carrà negli ambienti rivoluzionari è confermata anche da altri episodi: troviamo il dipinto riprodotto insieme alla Rivolta di Russolo in un capitolo dal titolo Anarchy in art all’interno di The Revolutionary Almanach, compilato a New York nel 1914 dall’agitatore boemo Hippolyte Havel (cfr. A. Antliff, Anarchist modernism. Art, Politics, and the Firts American Avant-Garde, Chicago-London, University of Chicago Press, 2001, p. 95). Nel 1916 il dipinto sarà inoltre oggetto di un articolo dello scrittore ungherese Lajos Kassàk: Carlo D. Carrà Anarchistatemetés cimü Képe alà, «A Tett», n. 11, aprile 1916, pp. 174-176.



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Figura 1.4 Carlo Carrà, Nietzsche, «La Rivolta», 10 novembre 1910.

anarchici, al di là delle dichiarazioni di circostanza. Presentando infatti la prima mostra personale di Boccioni, Marinetti gli riconobbe un’«anima avventurosa ed irrequieta di lottatore» e una militanza «negli ambienti anarchici e rivoluzionari»; ma, in realtà, il pittore non era andato molto oltre le inoffensive illustrazioni consegnate alla borghesissima «Illustrazione Italiana» o alla rivista del Touring Club32. 32  F.T. Marinetti, Mostra collettiva di Umberto Boccioni, in Catalogo della mostra d’Estate in Palazzo Pesaro a Venezia, anno MCMX, p. 9, ora in Archivi del Futurismo, a cura di M. Drudi Gambillo, T. Fiori, Roma, De Luca, 1958, vol. I, p. 101.



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Carrà aveva invece frequentato per qualche mese, nel 1900, la comunità londinese degli espatriati italiani, orecchiando le idee di Bakunin e Kropotkin. Negli anni successivi, si era prestato a collaborare con una pletora di riviste e opuscoli d’indole anarchica, stampati malamente e un po’ ovunque nelle tipografie della Valle Padana33. Disegnò le testate del quindicinale anarchico parmense «La Barricata» e del foglio «La sciarpa nera». Per le edizioni della Libreria Editrice Sociale di Milano – che diede alle stampe Calendimaggio di Pietro Gori – Carrà studiò un marchio xilografico, con una prevedibile iconografia del sole dell’avvenire. Eseguì poi un’illustrazione satirica per la copertina de Il cinquantenario di Paolo Valera; con le «note per la ricostruzione della vita pubblica italiana» con cui il fondatore de «La Folla» intendeva infrangere il clima di concordia nazionale un po’ artatamente diffuso con le manifestazioni ufficiali del 1911: «Il proletariato incide i vostri nomi sul frontone nazionale del cinquantenario per additarvi ai posteri come mostri del nostro tempo»34. A Carrà appartiene pure un corrusco ritratto di Nietzsche che apparve nel periodico anarchico «La Rivolta» (fig. 1.4). Il foglio milanese si stava distinguendo per una intensa propaganda delle idee di Stirner e Kropotkin, promossa da una sua collana di opuscoli militanti35. Nei primi mesi del 1910, tuttavia, 33  Sulla militanza anarchica di Carrà cfr. U. Carpi, L’estrema avanguardia del Novecento, Roma, Editori Riuniti, 1985, pp. 15-40; A. Ciampi, Futuristi e anarchici. Quali rapporti?, Pistoia, Archivio famiglia Berneri, 1989; Id., voce Anarchismo, in Dizionario del futurismo, a cura di E. Godoli, Firenze, Vallecchi, 2001, vol. I; Laura Iotti, Frequentazioni anarchiche di Carlo Carrà, «Bollettino Archivio G. Pinelli», n. 29, luglio 2003, pp. 25-29. Sulle riviste del periodo resta fondamentale L. Bettini, Bibliografia dell’anarchismo, vol. I. Periodici unici anarchici in lingua italiana, Firenze, Crescita Politica editrice, 1972. Un quadro generale in G. Lista, Arte e politica: il futurismo di sinistra in Italia, Milano, Mudima, 2009. 34  È noto anche che Carrà strinse amicizia con la scrittrice rivoluzionaria Leda Rafanelli; cfr. A. Ciampi, Leda Rafanelli-Carlo Carrà: un romanzo: arte e politica di un incontro ormai celebre, Venezia, Centro internazionale della grafica, 2005; dell’autrice si veda in particolare Bozzetti sociali, Milano, Società Editrice Milanese, s.d.; le illustrazioni di Luca Fornari richiamano con ogni evidenza la tradizione lombarda del realismo «sociale» (come ad es. p. 129, tav. 17, Un ristorante alla moda, parafrasi di Ricchezza e miseria di Emilio Longoni); cfr. De Felice, Mussolini, cit., p. 136, sul rapporto della Rafanelli con Mussolini. 35  La conoscenza di Stirner e Kropotkin in Italia venne favorita dalle edizioni francesi, come la «Bibliothèque anarchiste» di Stock; già nel luglio 1900 Prezzolini comunicava queste letture agli amici fiorentini Papini e Morselli: cfr. G. Papini, G.



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la posizione della rivista appariva in netto contrasto con le tesi del futurismo. Un anonimo redattore denunciò i toni bizzarri e messianici di Marinetti, cogliendo il risvolto reazionario del proclamato disprezzo per la donna. Si trattava, per l’autore, di una «banda di giovani e giovinetti oziosi», il cui «socialismo molle e addomesticato» era contrapposto al «socialismo dei facchini e dei villani»36. Carrà consegnò infine a «La Rivolta» il ritratto in memoriam di Pietro Gori nell’aprile 1911 (fig. 1.5), quando il Funerale era ormai in via di compimento. Ma cosa poteva ancora rappresentare la figura dell’anarchico verso il 1910? Non molto di più di un residuo romantico del ribellismo antiborghese dell’Ottocento, quando non il cascame di un sovversivismo velleitario: più una metafora letteraria che una minaccia concreta37. Certo, è pur vero che furono gli anarchici italiani a gettare il terrore un po’ in tutta Europa alla fine del secolo, promuovendo sanguinose azioni spettacolari e guadagnando temibile fama. Sante Caserio aveva pugnalato a morte Sadi Carnot nel 1894. Antonio Cánovas del Castillo, primo ministro spagnolo, fu ucciso dal foggiano Michele Angiolillo nel 1897. Un anno dopo, sul lungolago di Ginevra, Luigi Luccheni uccise Elisabetta di Baviera. Il crescendo culminò con il regicidio di Gaetano Bresci nel luglio 1900. I gesti dimostrativi e clamorosi degli anarchici restarono per definizione fatti isolati estranei a ogni spazio politico. Anzi, lo stesso Labriola ammise che la «corsa pazza ad umiliarsi» dopo l’attentato a Umberto I aveva costituito la «liquidazione definitiva del sovversivismo italiano»38. I residui casi appartenevano più alla cronaca che alla politica. Proprio nel febbraio 1910 Giovanni Passannante, l’attentatore di Umberto I nel lontano 1878, Prezzolini, Carteggio I. 1900-1907. Dagli «Uomini Liberi» alla fine del «Leonardo», a cura di S. Gentile e G. Manghetti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, p. 32. Sulla ricezione di Stirner in Italia, attraverso la mediazione di Paolo Orano e di Georges Calogero, v. G. Penzo, Max Stirner. La rivolta esistenziale, Milano, Marietti, 1971. 36  Pirro, Il Futurismo, «La Rivolta», n. 4, 29 gennaio 1910, p. 3. 37  G. Berti, L’anarchia fra realtà e immaginario, in Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, a cura di M. Isnenghi, vol. II: Le «Tre Italie». Dalla presa di Roma alla Settimana Rossa (1870-1914), Torino, Utet, 2008, pp. 119-126. 38  A. Labriola, Storia di dieci anni, Milano, Il viandante, 1910, p. 68.



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Figura 1.5 Carlo Carrà, Piero Gori, «La Rivolta», 10 maggio 1911.

era morto in manicomio a seguito d’una disumana detenzione; ai poveri resti non venne neppure risparmiata un’autopsia volta a dimostrare, alla luce della «scienza» lombrosiana, l’innata attitudine delinquenziale. Un anarchico storico come Gori era ormai perlopiù ricordato come l’autore di Addio Lugano bella. La «Voce» prezzoliniana lo vide «più pedagogo che ribelle» e gli riconobbe i meriti di misura, cautela, misericordia: «non si ricorda nessuno scatto da commediante, nessun vetro fracassato, nessuno scoppio di quelle bombe verbali per mezzo di quali i rivoluzionari da burla cerca-



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no talvolta attirare a sé, nelle assemblee legislative, la benigna attenzione di un governo a cui, invidiosi, aspirano»39. Non era un eroe, Angelo Galli, certo non più di tanti altri poveri sovversivi; non gli si poteva attribuire un clamoroso gesto libertario, ma soltanto un funerale un po’ turbolento. Nel dipinto di Carrà la figura dell’anarchico resta sullo sfondo, semplicemente allusa dal passaggio della bara avvolta nel drappo rosso e accompagnata dal garrire delle bandiere nere. Intestandolo ad un anarchico pressoché anonimo, il quadro sembrava inoltre voler rovesciare deliberatamente il topos del funerale celebrativo dei protagonisti del Risorgimento: da quello di Vittorio Emanuele II, a suo tempo ripreso dalla nota pagina del Cuore di De Amicis, a quello, ben meno ufficiale, di Garibaldi a Caprera oppure, per avvicinarsi alla generazione di Carrà, le esequie di Felice Cavallotti nel 1898.

Il funerale come spettacolo di massa La prima parte di Les dieux s’en vont, d’Annunzio reste di Marinetti, pubblicato nel 1908, è dedicata al racconto dei funerali con cui l’Italia umbertina e giolittiana aveva celebrato due eroi della nazione, come Verdi e Carducci40. Ne Les funerailles d’un dieu, poema dedicato alle esequie di Verdi tenute il 24 gennaio 1901 (fig. 1.6), si descrive un rituale collettivo, non privo di toni orgiastici e irrazionali, reso formidabile dalla calca ingovernata delle folle accecate dalla frenesia della partecipazione: la prima celebrazione spettacolare e «di massa» dell’Italia unita, dove è la nevrosi collettiva dei partecipanti, prima ancora che il passaggio del feretro, a suscitare l’impatto emotivo. Il poeta è colpito dalla folla delirante, «enthousiaste, émue et sanglotante» tenuta a distanza dai cordoni di polizia; una folla R. Michels, Pietro Gori, «La Voce», 3, 19 gennaio 1911, p. 489; P. Brunello, Storie di anarchici e di spie: polizia e politica nell’Italia liberale, Roma, Donzelli, 2009. 40  F. T. Marinetti, Les dieux s’en vont, d’Annunzio reste, Paris, Sansot, 1908, p. 18 e 41; sulla simbologia del funerale, cfr. anche M. Serra, La ferita della modernità. Intellettuali, totalitarismo e immagine del nemico, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 73-74 e cfr. D. Gagliani, Funerali di sovversivi, «Rivista di storia contemporanea», 1984, pp. 119-141. 39 



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Figura 1.6 I funerali di Giuseppe Verdi, «L’Illustrazione Italiana», 3 febbraio 1901.

che sull’onda dell’emozione erompe, si fa largo tra le baionette, «énorme, haletante et émue, inonda la chaussée libre, enveloppant le char funèbre». Il pathos vigoroso della popolazione si contiene a fatica contro l’esercito schierato, in una contrapposizione che si condensa nell’immagine della marea che sale, metafora poi largamente usata nei manifesti: «La vaste marée toujours grandissante vient se briser contre un triple digue de fantassins qui défendait l’accès du cimetière monumental». Temi visivi di sicura presa si trovano poi ne Le tombeau de Severino Ferrari, che si legge ne La ville charnelle41. Qui, tra inquietanti «bois sanglants», spiccano «étendard de lumière aveuglante» e «les lances vermeilles du soleil déclinant»: nel paesaggio poetico risuona lo stato d’animo, e la scrittura procede per immagini vivide. La simbologia cromatica può apparire prevedibile, ma è soluzione assai diffusa nella tradizione tardosimbolista. È lecito ricordare le strofe di Gian Pietro Lucini dedicate a 41 

F. T. Marinetti, La ville charnelle, Paris, Sansot, 1908, p. 186.



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Gaetano Bresci: «Dei fiori rossi sulla rossa aurora; / macchie di sangue, le nuvole in cielo: / macchie di sangue, garofani rossi, / tra l’erba grassa») e l’amara constatazione con cui si aprono nel 1909 le Revolverate: «Per ciò io canto questi fiori plebei e consacrati / Dal martirio plebeo innominato, / in codesto sdegnoso rifiuto di prosodia, / per l’odio e per l’amore, per l’angoscia e la gioja, / e pel ricordo e la maledizione, per la speranza acuta alla vendicazione»42. In queste pagine marinettiane la descrizione degli eventi appare così prossima alle soluzioni adottate da Carrà da far ritenere che il suo grande dipinto o, per meglio dire, la sua definitiva scrittura «futurista», sia stata suggerita da Marinetti stesso, in qualità di indiretto committente del quadro: un modo per spingere il giovane e incerto pittore a percorrere i temi narrativi promessi dall’agonistica futurista, rielaborando con maggiore aggressività di stile e figure gli spunti visivi del primo bozzetto. La figura dell’anarchico condensava la pulsione individuale verso il gesto di violenta redenzione e immediato riscatto (la «vendicazione» di Lucini). L’immagine del funerale associava l’emozione collettiva alla mistica autorappresentazione della folla, partecipe a un rituale d’espiazione di massa43. L’anarchico è l’individuo per eccellenza; il funerale, una delle possibili esperienze della collettività. Per la natura delle rispettive rappresentazioni sociali, tale incontro non poteva che generare un tumulto. Poco importa che, nella realtà dei fatti, ai funerali di Angelo Galli vi fu poco più d’una scherma42  G. P. Lucini, Per un Fantasma, sopra due Cadaveri. Tributo al gesto di Gaetano Bresci, e Per chi?…, in Revolverate, Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1909, e ora in Revolverate e Nuove Revolverate, a cura di E. Sanguineti, Torino, Einaudi, 1975, pp. 319 e 17. 43  Sulle nascenti ideologie di massa si può disporre ora di studi più circostanziati, utili per un confronto con il futurismo: cfr. A. Mucchi Faina, L’abbraccio della folla. Cento anni di psicologia collettiva, Bologna, Il Mulino, 1983; C. Giovannini, La cultura de «La Plebe». Miti, ideologie, linguaggio della sinistra in un giornale d’opposizione dell’Italia liberale (1868-1883), Milano, Franco Angeli, 1984; J. van Ginneken, Crowds, Psichology and Politics 1871-1899, Cambridge, Cambridge University Press, 1992; S. Cavazza, Dimensione massa. Individui, folle, consumi, 18301945, Bologna, Il Mulino, 2004. Un confronto con il pensiero di Gustave Le Bon è stato proposto da C. Poggi, Folla/Follia: Futurism and the Crowd, in Ead., Inventing futurism: the art and politics of artificial optimism, Princeton, Princeton University Press, 2009, pp. 35-64.



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glia. Quel che interessava a Carrà novizio pittore futurista era ben altro: trovare un’efficace soluzione iconografica alla folla tumultuosa, da contrapporre esplicitamente alla retorica della folla disciplinata. Sul piano della strategia visiva, questa scelta appare la più importante, poiché era polemicamente volta a rovesciare il rassicurante e paternalistico topos della folla quieta e ordinata che si trova in tanta poesia sociale di Cavacchioli, Cardile, dello stesso Lucini. Si prenda la composta immagine dell’avanzata del proletariato nel Primo maggio di Lorenzo Stecchetti:44 «Passano lenti. Un lampeggiar febbrile / arde a ciascun il ciglio. / Passan solenni e da le dense file / non si leva un bisbiglio». Quella di Stecchetti è la folla disciplinata che, in un’immota purezza compositiva di discendenza raffaellesca, era stata raffigurata da Pellizza da Volpedo nel Quarto Stato, un dipinto che ovviamente Carrà conosceva molto bene. Carrà volle rovesciare il punto di vista della scena di Pellizza, adottando la soluzione, tanto patetica quanto spettacolare, che Pellizza stesso aveva utilizzato ne Il morticino, un quadro altrettanto ben noto a Carrà, dove si anticipa anche quel melodrammatico controluce intorno a cui è impostato il Funerale45. In tal modo, lo spettatore non fronteggia la massa che avanza con tranquillità ma si trova davvero dentro essa; è al tempo stesso protagonista e antagonista, partecipe alla zuffa, «nel centro del quadro», come promesso nel Manifesto della pittura futurista. Scene di folla erano state studiate da Boccioni ne La retata, 1910 e in due studi a china del 191146. Modelli visivi erano offerti dalla grafica di Jan Toorop e Félix Vallotton, divulgati da 44  P. C. Masini, Poeti della rivolta: da Carducci a Lucini, Milano, Rizzoli, 1978, p. 153; lo storico repertorio di Masini è da aggiornare con Petrolio e assenzio. La ribellione in versi (1870-1900), a cura di G. Iannaccone, Roma, Salerno Editrice, 2010; un inquadramento di questi temi si legge in E. Franzina, Canzoniere anarchico e socialista, in Gli italiani in guerra, cit., pp. 286-299. 45  Il morticino di Pellizza da Volpedo (ora Musée d’Orsay, Parigi) fu esposto a Milano nel 1906 e nella sala personale retrospettiva alla Biennale di Venezia del 1909; su queste opere cfr. Carrà, La mia vita, cit., p. 76. Sulla vicenda di Pellizza, dalla disillusione del Quarto Stato fino al suicidio, utile il cfr. con M. Onofri, Il suicidio del socialismo. Inchiesta su Pellizza da Volpedo, Roma, Donzelli, 2009. 46  M. Calvesi, E. Coen, Boccioni. L’opera completa, Milano, Electa, 1983, nn. 660, 688-689.



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Vittorio Pica su «Emporium» (fig. 1.7), oltre naturalmente alla pletora di quadri di orientamento socialista e progressista che, dal 1880 in avanti (anno in cui il pittore accademico francese Alfred Roll ottenne un clamoroso successo con La Grève des mineurs), tentavano di rinnovare la tradizione realista alla luce delle sensazionali rivendicazioni proletarie47. Nessuno di questi esempi, tuttavia, aveva l’aggressiva pregnanza dell’immagine di Carrà, il suo senso di diretta e ficcante partecipazione, anziché l’osservazione distaccata dentro il campo lungo della veduta. Questo aspetto è senz’altro il primo e più importante elemento dovuto all’influenza delle teorie marinettiane, cui s’aggiunge la trascrizione vigorosa, per quanto piuttosto caotica, della dinamica di figure e oggetti. Per la soluzione grafica del movimento dei bastoni, è verosimile che Carrà abbia tratto insegnamento dalle cronofotografie di Marey48. Desideroso tuttavia di condurre il semplice fatto di cronaca alla magniloquenza della pittura storica, Carrà era in grado di ricollegarsi anche a una tradizione colta. Nel loro insieme, infatti, le aste delle bandiere possono apparire come un’allusione alla Battaglia di San Romano di Paolo Uccello. Si tratta, in effetti, di un espediente compositivo, e di un colto richiamo alla grande pittura, che mirava a emancipare la descrizione da semplice e caotico tumulto a respiro quasi epico della battaglia. Proviamo, a questo punto, a rispondere alla domanda circa le intenzioni di Carrà. Mescolando la retorica visiva di tre distinti Il dipinto di Alfred Roll (un tableau-drapeau di oltre quattro metri di larghezza), esposto al Salon del 1880 e ora al Musée des Beaux Arts di Valenciennes è da considerarsi a tutti gli effetti il capostipite del genere. F. Vallotton, Dimostrazione in strada, in Vittorio Pica, I moderni incisori su legno: Félix Vallotton, «Emporium», XXI, 1905, n. 124, p. 316; J. Toorop, Proletariato minaccioso, in V. Pica, Artisti contemporanei: Jan Toorop, ibid., XXII, n. 127, p. 101; in quello stesso volume si legge anche (pp. 439-456) A. Ghisleri, Pagine di storia contemporanea: i processi di Mantova e i martiri di Belfiore, dove si recensisce A. Luzio, I martiri di Belfiore ed i loro processi, Milano, Cogliati, 1905, 2 voll., fornendo una probabile fonte per l’elaborazione del perduto dipinto di Carrà I martiri di Belfiore. 48  G. Lista, Futurist Photography, «Art Journal», vol. 41, n. 4, 1981, pp. 358-364; ma sarebbe opportuno ricordare anche la zuffa par excellence: quella tra i tavolini delle Giubbe Rosse a Firenze nel luglio 1911, iniziata come vera rissa e finita come allegra farsa; ma con Carrà che, a detta di Balilla Pratella, «col suo bastone sembrava un mulino a vento»: cfr. Umberto Boccioni. Lettere futuriste, a cura di F. Rovati, Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Rovereto, Egon, 2009, p. 216. 47 



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Figura 1.7 Felix Vallotton, La dimostrazione, «Emporium», aprile 1905.

elementi (l’individuo anarchico, il funerale, la folla tumultuosa) Carrà proponeva un quadro dove l’urgenza della cronaca ambiva ad assumere la coloritura epica del quadro di storia, a partire dalle dimensioni stesse del dipinto. L’intensità dell’espressione visiva e della struttura compositiva incoraggiava una sorta di proiezione fisica dell’osservatore, immerso nello spazio, esplicitamente antagonista e «politico», del quadro49. Trainata dalla circolazione europea del dipinto dopo il 1912, questa soluzione riscosse un certo successo: per il quadro che rappresenta i funerali dello scrittore anarchico Oskar Panizza (Staatsgalerie, Stuttgart), George Grosz sceglierà di operare nel 1918 una sintesi tra le suggestioni del quadro di Carrà e gli accesi cromatismi della tradizione espressionista. Quale poi fosse la chiave di lettura offerta allo spettatore 49  Il dato fornito dal Museum of Modern Art di New York è di cm. 198,7x259,1: il che ne fa, a mia conoscenza, la tela più grande mai dipinta da Carrà. Sul quadro come spazio “ideologico” cfr. M. Antliff, The Fourth Dimension and Futurism: A Politicized Space, «Art Bullettin», LXXXII, n. 4, December 2000, pp. 720-733.



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Figura 1.8 Elaborazione grafica dei Funerali dell’anarchico Galli di Carlo Carrà, 1911.

«messo al centro del quadro», è altra questione: doveva davvero identificarsi con il ribelle?50 Se guardiamo con un po’ d’attenzione il quadro, al centro del gruppo in primo piano appare, pur con una certa difficoltà, una figura finora sempre sfuggita (fig. 1.8). Si tratta di un dimostrante che, proprio come raccontano le cronache, sta cercando di strattonare la guardia a cavallo. È a lui che sono rivolte le «attenzioni», se vogliamo chiamarle così, del terzetto che lo circonda agitando i bastoni. Propongo tre elementi per rovesciare la consueta interpretazione della figura principale: 1) il suo agire con il bastone verso la figura di sinistra, che sicuramente raffigura un anarchico nell’atto di far disarcionare la guardia a cavallo; 50  L’interpretazione della figura principale che dà le spalle all’osservatore come un anarchico con bastone e una pietra si trova da ultimo in L. Rainey, C. Poggi, L. Withman, Futurism: An Anthology, New Haven, Yale University Press, 2009, p. 312 e n. 55.



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Figura 1.9 Achille Beltrame, La rivolta a Milano. Al Palazzo Saporiti sul corso Venezia, «L’Illustrazione Italiana», 15 maggio 1898.

2) l’obiettiva difficoltà nel considerare come una pietra raccolta dal selciato (seguendo un topos visivo del ribelle, come si può vedere nelle immagini dei moti del 1898 [fig. 1.9]), l’oggetto rossiccio che tiene nella mano sinistra; 3) gli alti stivali di cuoio, rilucenti, che troviamo anche nelle altre figure delle guardie che stanno assestando i colpi di manganello ai dimostranti (riconoscibili dai copricapi calati in testa), e che sembrano appartenere ad una dotazione militare. Insomma, se vogliamo prestare fede a questa lettura, Carrà mise lo spettatore al centro del quadro: attribuendogli però il ruolo di repressore. D’altra parte, ci teneva a essere lui, militante anarchico e pittore futurista, il rivoluzionario.



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Contraddizioni dell’ideologia Per quanto ambiguamente espressa, l’indole anarchica e libertaria di Carrà appariva salda nei propositi; presto però si dovette misurare con l’attitudine, ben altrimenti orchestrata, di Marinetti. Prima ancora del lancio del futurismo, Gian Pietro Lucini aveva riconosciuto Marinetti tra gli «anarchici di pensiero e di forma», elogiandolo per essere fuoriuscito dalle consuetudini della borghesia e «di venire tra noi, tra gli artisti e i sovversivi»51. L’anarchismo che si poteva riconoscere in Marinetti era, per prima cosa, la forma di un individualismo estetico, l’antipedagogia d’una pratica creativa diretta, capace di scatenare libere forze espressive, al di là delle gabbie degli stili. Già nel manifesto di fondazione, lo sappiamo tutti, Marinetti aveva però disinvoltamente allineato i valori del militarismo e del patriottismo con quelli, ben diversamente eversivi, del «gesto distruttore dei libertarî». Marinetti provò a risolvere questa esplicita contraddizione ammettendo che lo sviluppo della collettività era un prodotto degli sforzi e delle iniziative individuali. Rispondendo alle obiezioni di un giornalista francese, il poeta si chiedeva, retoricamente: «Le geste destructeur de l’anarchiste n’est-il pas un rappel absurde et beau vers l’idéal d’impossible justice, une barrière à l’outrecuidance envahissante des classes dominatrices et victorieuses?»52. Ma è chiaro che questa «anarchia» era da intendersi in senso lato e metaforico, come attitudine al rovesciamento clamoroso di consuetudini, aspettative, conformismi. Nei pensieri e nelle parole di giovani non meno esasperati che frustrati, un linguaggio rorido e aggressivo era il minimo che ci si potesse attendere. «Io piglio 51  G. Lucini, Filippo Tommaso Marinetti, «La Ragione», 27 agosto 1908, cit. in Id., Marinetti Futurismo futurismi. Saggi e interventi, a cura di M. Artioli, Bologna, Boni Editore, 1975, pp. 72-79: G. Lista, Marinetti et les anarcho-syndacalistes, in Présence de Marinetti, a cura di J.C. Carcadé, Lausanne, L’Age d’homme, 1982, pp. 67-85; per una panoramica sul pensiero politico di Marinetti dal 1898 alla morte cfr. E. Gentile, La politica di Marinetti, in Id., Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1982, pp. 139-170 e cfr. G. Berghaus, Violence, War, Revolution: Marinetti’s Concept of a Futurist Cleanser for the World, «Annali d’Italianistica», 27, 2009, pp. 23-71. 52  F.T. Marinetti, intervista concessa a «Comedia», 26 mars 1909, e pubblicata poi su Poupées électriques, Paris, Sansot, 1909, p. 29.



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certe rabbie quasi omicide – scriveva in quegli stessi giorni Ardengo Soffici a Giovanni Papini – e sento sempre più come questo nostro vigliacco e disgustoso paese abbia bisogno di una sacrosanta rivoluzione; ma rivoluzione sul serio: con fucilate, legnate, sgozzature, incendi e sangue a riganoli […] Veramente ho l’intenzione di mettermi a far l’anarchico almeno nel campo spirituale»53. Anche il tono, solitamente moderato, della cultura vociana non di rado poteva riconoscere nei disordini sociali non tanto un irresponsabile avventurismo, bensì una salutare insofferenza contro il malgoverno: «quante volte – ammise Prezzolini – una santa sassata, una veneranda rivolta, un divino colpo di fucile sono rivelazioni d’una volontà d’ordine!» Il caso più eloquente, confermò il direttore de «La Voce», era il Risorgimento italiano, sorto da un atto di ribellione contro Stati disordinati54. Ben altrimenti proclamate, invece, e con una ben più ampia screziatura antropologica, le prospettive «sociali» di Marinetti. Già egli aveva potuto dedicare la tragedia satirica del Re Baldoria «ai Grandi cuochi della Felicità Universale»: Filippo Turati, Enrico Ferri, Arturo Labriola. Una commistione un po’ troppo disinvolta di nomi, dietro la quale si poteva leggere una viscerale caricatura dell’intero arco delle politiche socialiste. Ciò non impedì allo stesso Labriola un’encomiastica recensione sull’«Avanti» che resta una delle pochissime pagine che il quotidiano volle riservare ai prodotti del futurismo55. L’antisocialismo di Marinetti, tuttavia, era connaturato al fervente patriottismo e al nazionalismo. Le masse erano certo riconosciute come le protagoniste della moderna civiltà metropolitana, ma era da lui avversato ogni principio egualitario. L’individualismo aristocratico s’accompagnava allo scetticismo per ogni modello d’emancipazione sociale e per gli ideali di progresso. Tale pessimismo antropologico sfociava nel culto estetizzante per il gesto poetico liberatorio e astratto, nell’artificio G. Papini, A. Soffici, Carteggio II. 1908-1915, a cura di M. Richter, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1999, p. 84 (Poggio a Caiano, 9 aprile 1909). 54  g.pr., Gli anarchici nell’Argentina, «La Voce», 8 settembre 1910, p. 389. 55  L. De Maria, La chiave dei simboli in «Re Baldoria», in Id., La nascita dell’avanguardia, Saggi sul futurismo italiano, Venezia, Marsilio, 1986, pp. 201-204; altra segnalazione positiva si legge in Il poeta Marinetti e Re Baldoria, «La battaglia proletaria», II, n. 59, 29 febbraio 1908, p. 3. 53 



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dell’allegoria meccanica. Dinanzi alle plastiche esibizioni di tale fideismo tecnologico, la folla non era vista come massa di manovra politica, e meno ancora come oggetto di persuasione o di manipolazione collettiva. Diveniva, invece, il prediletto fondale per una teatralità esagitata e scomposta. Persa ogni fiducia nei confronti d’una sua possibile emancipazione sociale, al pubblico restava affidato il ruolo di astante attonito dinanzi al gesto esemplare del giocoliere dell’avanguardia. L’ambizione di estendere l’eccellente azione dimostrativa all’intero «proletariato dei geniali» restava una enunciazione velleitaria e illogica. Lungi dal dichiararne la nullità in seno a una società rivoluzionata, si manteneva intatta l’opera d’arte come oggetto d’una simbologia sensazionale. Il mito della modernità come pervasiva infrazione stilistica aveva bisogno d’una cornice spettacolare di borghesi ammirati e stupiti; in questo esasperato dualismo si esauriva buona parte del residuo dannunziano di Marinetti. Cosa rimase, poi, dei propositi bellicosi una volta deposta la maschera dell’agitatore, dinanzi al vuoto della pagina o della tela? Nel Manifesto dei pittori futuristi si tentò un elenco: le «figure febbrili del viveur, della cocotte, dell’apache e dell’alcolizzato». Era un repertorio di nuovi luoghi (i cafés chantants e i bal tabarin che nella Parigi dell’epoca erano assimilati a sedi d’adunate sediziose)56 e di soggetti metropolitani, che nella sua eccitante stravaganza – e nella sua franca prevedibilità – non sembra ammettere ruoli meno disimpegnati. Inesistente, in questo testo, la tensione realmente «politica». Anche la clausola di voler «rendere e magnificare la vita odierna, incessantemente e tumultuosamente trasformata nella scienza vittoriosa» restò un’affermazione ornamentale, tesa più ad una restituzione spettacolare e incondizionata dell’industria capitalista trionfante che alla sua negazione luddista57. Non meno frivole, da questo punto di vista – a parte forse il cenno alla «vivificante corrente di libertà spirituale» – le risolu56  G. Berghaus, Futurism and politics. Between Anarchist Rebellion and Fascist Reaction, 1909-1944, New York-Oxford, Berghahan Books, 1996, p. 34. 57  Da questo punto di vista, si conferma l’incontro tra il futurismo e lo sviluppo industriale, sullo sfondo del crescente nazionalismo imperialista: cfr. per questo R. Webster, L’imperialismo industriale italiano. Studio del prefascismo 1908-1915, Torino, Einaudi, 1974.



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zioni del Manifesto tecnico della pittura di un paio di mesi dopo, tutte orientate al disbrigo di questioni di forme e stili. I luoghi del futurismo (non solo pittorico) divennero tosto il cabaret e il cinematografo, le stazioni ferroviarie e il postribolo: non certo le sedi della politica, mediata o cospirativa che fosse. Che il movimento si dibattesse in un simbolismo arbitrario e futile, era opinione di molti; che restassero solari contraddizioni tra gli orgogliosi proclami di supremazia nazionale e le forme atte a perseguirla, era evidente agli occhi di tutti. In un lungo resoconto tempestivamente consegnato all’insospettabile «Oxford and Cambridge Review» nel luglio 191258, un osservatore assai tendenzioso come Anthony Ludovici – custode di sprezzanti ideali superomistici, bardo del wagnerismo, e traduttore inglese di Nietzsche – riservò ai dipinti d’un movimento «too catholic» appena osservati a Londra, un aspro giudizio. A suo dire, infatti, nonostante i promettenti quanto facondi proclami, il futurismo non raggiungeva quello «higher realism» tipico di un’arte aristocratica, guidata da un’idea suprema capace di controllare e dominare la realtà. I dipinti agitavano caotici ideali democratici e restavano volgarmente mimetici: «Every abuse of the proletariat of art was elevated by them to the dignity of a supreme law. It was the aspiration to arrive at greater truth to nature, rather than at greater art». Se il giudizio di Ludovici appare oggi davvero dissonante e ingeneroso, nelle intenzioni pateticamente vitaliste («they are the last offspring of a senile race of artists who are utterly bankrupt and devoid of all love, ideas, vigour or promise of life»), nondimeno l’allusione alla questione dei generi pittorici, come vedremo, è di sicuro interesse. Resta però un fatto. La sovversione del futurismo pittorico dopo il 1911 era del tutto metaforica, traslata in attitudini di stile, quando non in forme decorative: un’infatuazione superficiale che non tarderà a prendere i colori del disimpegno, o a rovesciarsi in retorica nazionalista. Non si compirà un grosso errore di valutazione, insomma, nel A. Ludovici, The Italian Futurists and their Traditionalism, «Oxford and Cambridge Review», luglio 1912, pp. 94-122; si cita dai «Libroni» (gli album con le raccolte della rassegna stampa) di Marinetti nell’edizione digitale: Filippo Tommaso Marinetti Papers, General Collection, Beinecke Rare Book and Manuscript Library (beinecke.library.yale.edu/digitallibrary/libroni.html). 58 



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ridimensionare le immagini dei tumulti nei quadri e nei poemi. Si prenda l’Enrico Cardile dell’Ode alla violenza, scritta in occasione dell’assassinio dell’anarchico Francisco Ferrer in Spagna e pubblicata nell’antologia marinettiana Poeti futuristi. Qui la pur ostentata quanto frusta fraseologia ribellistica («Violenza vendicatrice, / tu, chiamata dal cuore / di tutta l’umanità, / sorgi tu, Violenza, dall’abisso ove t’incatena il sonno, / ove t’incatena la servitù e la vecchiezza […]»)59 non cela l’allegoria liberty, quando non la restituzione simbolista e occulta. Il proclama liberatorio assumeva tratti sanguinosamente insurrezionali e truculenti nel momento stesso in cui si annullava nella costruzione poetica o visiva. Chi poteva davvero intendere la Rivoluzione di Enrico Cavacchioli, come qualcosa di più d’una metafora, tanto truce quanto scombinata? («Oceano di popolo, / marea disordinata del terrore, / Maelstorm d’ogni libidine»; «poltiglia liquida di sangue / che prende forma fuori dal frantoio dello sciopero»)60. Certo, ci fu un momento in cui sembrò possibile una ricomposizione del rapporto tra cultura e politica. Il gruppo dei vociani, in effetti, stava lavorando a un’ipotesi di rigenerazione della cultura come religione secolare, incardinata sul pieno riconoscimento del valore creativo dell’arte e della cultura come fondamento etico di un nuovo Risorgimento nazionale, oltre che sulle virtù programmatiche di abnegazione e studio. Proprio per questo (si pensi al Soffici del 1909-11) il futurismo appariva loro come una gesticolazione chiassosa, una costruzione letteraria e pretestuosa di miti artificiali e di logore allegorie: dalla meccanizzazione del mondo all’annullamento della mediazione politica nell’anarchia61. Una sintesi di questi contrapposti motivi fu possibile, quanto fragile; e fu la stagione, assai breve (i diciotto mesi che vanno dal gennaio 1913 al giugno 1914), della rivista «Lacerba». Il cui esito, come si vedrà nei capitoli seguenti, non fu quell’irradiazione internazionale del futurismo, raccontata e promossa dalle tante odier59  F. T. Marinetti, I poeti futuristi, Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1912, p. 179. 60  E. Cavacchioli, Cavalcando il sole, Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1914, VII, pp. 8-9 e 20-21. 61  A. Soffici, La ricetta di Ribi buffone, «La Voce», I, n. 16, 1 aprile 1909, p. 63 e Arte libera e pittura futurista, «La Voce», III, n. 25, 22 giugno 1911, p. 597.



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ne mostre a vocazione modernista62, bensì la flessione di moderna classicità che caratterizza il lavoro di Carrà e Soffici dopo il 1919 e che giunse fino alla rustica estetica del «Selvaggio». Anarchia e nazionalismo Già con lo scoppio della questione libica, i toni e i proclami d’un tempo iniziarono ad apparire sempre più discordanti63. Dopo aver accompagnato i futuristi a Parigi, Marinetti si recò a Tripoli per raccontare la guerra, in quelli che furono, come confessò a Palazzeschi, «i due mesi più belli della mia vita»64. I pittori restarono chiusi in studio a preparare la mostra del debutto parigino del febbraio 1912, cercando di adeguarsi il più in fretta – e il più mimeticamente possibile – allo stile cubista testé appreso nel viaggio d’istruzione. Quella dell’ottobre 1911, con Il funerale anarchico ancora fresco di vernice, appare davvero come una divaricazione decisiva. Due argomenti possono essere invocati al riguardo. Il primo è un quadro storico che, naturalmente, qui si può dare solo in scorcio. I mesi cruciali, che coincidono con la genesi e la prima circolazione dei Funerali, furono quelli tra primavera e autunno 1911. In marzo i socialisti votarono la fiducia al quarto gabinetto Giolitti. Ma nel mese di settembre si opposero alla guerra in Libia. Turati accolse la proposta di sciopero generale il 27 settembre, raccomandando «brevità d’azione». Il riposizionamento delle forze politiche e dell’idea stessa di lotta sociale, all’indomani della guerra libica, colpì due soggetti cui il futurismo era assai sensibile: il proletariato e i giovani. Per la 62  Questa interpretazione, scaturita dalla fortunata mostra Futurismo e futurismi, a cura di P. Hulten (Venezia, Palazzo Grassi, 1986) è restata intatta fino alle recenti mostre del centenario, massime in Illuminazioni. Avanguardie a confronto. Italia, Germania, Russia, a cura di E. Coen, Rovereto, Museo d’Arte Contemporanea di Trento e Rovereto, 2009. 63  Seguo in questo il giudizio di W. Adamson, Modernism and Fascism: The Politics of Culture in Italy, 1903-1922, «American Review of History», April 1990, pp. 359-390, p. 384. 64  Carteggio Marinetti-Palazzeschi, a cura di P. Prestigiacomo, Milano, Mondadori, 1978, p. 61.



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prima volta la classe lavoratrice, anziché essere respinta dalla vita della nazione, era intesa come pascoliana «grande proletaria» e resa solidale con le sue fortune. I giovani, dopo anni d’insofferenza per il grigio parlamentarismo e delusi dal socialismo, potevano abbracciare ideali imperiali di dominazione, attraverso i travestimenti dannunziani delle Canzoni delle gesta d’oltremare. La prevalenza della ragionevolezza riformista alimentò le frange più estreme. Ripresero i moti popolari e le repressioni sanguinose (il 30 settembre, a Langhirano, vennero uccisi cinque contadini nel corso di una manifestazione contro l’intervento in Libia) e, quasi di pari passo, le dimostrazioni anarchiche. Il 14 marzo l’anarchico Antonio d’Alba attentò alla vita del re e della regina. La solidarietà ai sovrani, espressa dai riformisti Bonomi, Bissolati e Cabrini suscitò lo sdegno dei socialisti rivoluzionari. Il Congresso di Modena dell’ottobre 1911 confermò tuttavia la maggioranza riformista. A dicembre fu ritirata la fiducia al governo Giolitti e nel febbraio successivo ci fu il voto contrario all’annessione della Libia. Per molti spiriti progressisti, tuttavia, la lotta di classe pareva sciogliersi in un nazionalismo concorde: «lotta d’emulazione tra fratelli, ufficiali o soldati, a chi più ami la madre comune», scriveva dolciastramente Pascoli. Nella finzione del poeta, il popolo lottava con la nobiltà e la borghesia; «così là muore, in questa lotta, l’artigiano e il campagnolo vicino al conte, al marchese, al duca». Al Congresso di Reggio Emilia del luglio 1912 un socialista come Bissolati, desideroso di non lasciare alle frange dei nazionalisti il monopolio del sentimento patrio, giunse a compiacersi della «virtù di una disciplina nazionale, e soprattutto la forza di farsi ammazzare, per la disciplina di oggi, come domani per le proprie idee». Come è noto, s’imposero i rivoluzionari con l’ordine del giorno di Mussolini; i socialisti solidali col re furono espulsi; Turati pronunciò un’autocritica e ammise la deriva a destra del partito. La convergenza tra il socialismo rivoluzionario e l’idealismo militante della «Voce» stava conducendo a una revisione dei vecchi concetti di palingenesi sociale, sempre più orientati in un senso che si volle continuare a chiamare «idealista» o utopico, ma che, nella sostanza, confermava la natura irrazionale, quan-



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do non mistica, dell’insubordinazione popolare e l’attrazione per una prassi immediata e bruciante, senza più fiducia nelle capacità della cultura di organizzare la realtà riconducendola nella sfera dell’etica65. A farne le spese fu la componente «ragionevole» della tradizione socialista, fondata sulla conoscenza delle basi materiali della società come leva rivoluzionaria. Dinanzi al mito irrazionale dell’insubordinazione anarchica e rivoluzionaria non si esaurì soltanto la parabola del ragionevole socialismo riformista. Si compì, anche, la più classica eterogenesi dei fini. Nel secondo manifesto politico, opportunamente intitolato Tripoli italiana e tempestivamente composto nell’ottobre 1911, Marinetti dichiarò: «Sia proclamato che la parola Italia deve dominare sulla parola libertà»66. Subito dopo, il poeta partì, come si è visto, per il fronte libico come corrispondente di guerra per «L’Intransigeant». La sua memoria, «veçue et chantée», fu prontamente raccolta nel volume La bataille de Tripoli, uscito dapprima in edizione francese e poi nella traduzione italiana di Decio Cinti nel 1912. Ma veramente è in un altro testo, Le monoplane du Pape, che si assiste a una compiuta revisione politica del sindacalismo riformista e delle politiche di pacificazione sociale67. Definire «analisi» le pagine politiche del settimo capitolo, dedicato ai «Sindacati pacifisti», è ovviamente eccessivo. Tuttavia, la narrazione di Marinetti, pur se racchiusa in una delle sue consuete macchinose allegorie, è assai eloquente. Dapprima il poeta si figura di contestare un gruppo di operai riuniti ad ascoltare il comizio d’un anarchico «cieco» che invitava tutti a un pacifismo solidale di classe. Spalleggiato da un gruppo di studenti dai vigorosi intenti bellicosi, Marinetti incoraggia un’azione diretta e G. Prezzolini, Sciopero giolittiano, «La Voce», VI, n. 12, 28 giugno 1914, p. 2. Si cita dall’edizione in F. T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano, Mondadori, 1968, p. 339. 67  Le Monoplane du pape, Roman politique en vers libres, Paris, Sansot, 1912. La traduzione italiana (L’aeroplano del Papa. Romanzo profetico in versi liberi, Edizioni futuriste di «Poesia», Milano, 1914) sostituendo deliberatamente nel sottotitolo l’aggettivo «politique» con «profetico», mirava con ogni evidenza a mettere in luce la prefigurazione ideologica del movimento nel mutato panorama del 1914. Sul poema, v. anche lo studio di Z. Beke, Il poema L’aeroplano del papa di Marinetti come fonte dei motivi della visione dall’alto nell’Aeropittura futurista italiana, «Acta historiae artium Academiae scientiarum hungaricae», 1998, vol. 40, n. 1-2, pp. 55-98. 65  66 



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immediata, evitando ogni discussione («l’eloquenza, stasera, potrebbe solo mentire. Si deve soltanto agire!»). Solo un prepotente ideale bellicoso era capace di dare esito concreto alle rivendicazioni sociali: «Cessate di tremare. Sappiate che la guerra / è un modo qualunque di far sciopero!». Nel suo dichiarato disprezzo per la folla cenciosa e distratta, Marinetti confondeva rovinosamente la glorificazione della guerra con la parificazione salariale: «La guerra è la rovina del padrone, / che mentre essa dura non può continuare / ad arricchirsi!… / Vittoria o sconfitta, il padrone sarà povero / come voi!». E avvertì gli agitatori del sindacato: «Non li seccate, dunque, con la stupida Pace! / A che serve offrir loro quel piatto immondo / che dà la nausea? / Non domandano di meglio che di saltare in aria! / I loro occhi attendono lo scoppio delle fortezze, / il barcollare delle corazzate briache fradicie, / e sverginate dagli obici». A modo suo, attraverso metafore sguaiate, una sostanziale ignoranza delle leggi economiche e un’imbarazzante versificazione, Marinetti aggirava il clima di concordia nazionale ma non certo i sogni di gloria imperiale. Ed è inoltre assai probabile che l’orientamento sempre più apertamente politico in senso nazionalista e interventista dell’azione di Marinetti sia stato stabilito anche per compensare l’impasse della poesia futurista. Dinanzi insomma alle perplessità, quando non agli aperti dileggi, cui andavano incontro i temerari performer del paroliberismo e degli «intonarumori», la chiave del riscatto nazionalista era giocata con sempre maggiore enfasi e convinzione. Essa poteva apparire una dignitosa via di fuga dalle troppe debolezze e mediocrità di poesia e prosa futurista. La maggior parte dei resoconti delle serate futuriste si possono leggere in questa dialettica tra sovversione e ordine. Per citare uno degli esempi più celebri, in occasione della grande serata futurista presso il teatro Verdi di Firenze, nel dicembre 1913, Marinetti declamò le opere di alcuni poeti futuristi e quindi passò a illustrare il programma politico. Dopo aver contestato violentemente i poemi paroliberi, il pubblico sembrò accettare il programma politico, compiacendosi di frasi a effetto come: «La parola libertà che aveva il suo valore assoluto di violenza e di rigenerazione nella bocca di Garibaldi e di Mazzini è diventata



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una parola imbecille e sciupata nella bocca d’un Turati o di un Bissolati antilibici»68. Eccitata prima e irritata poi dalla chiassosa declamazione astratta, la platea veniva infine rassicurata, quando non sedata, dai toni della propaganda nazionalista69. Marinetti si sentiva autorizzato a forzare confronti politicamente insipienti, vivificando la propaganda bellica con la mescolanza del registro poetico, più o meno alto, e di accostamenti grotteschi, quando non popolareschi o triviali. Quanto, ad esempio, il celebre titolo Zang Tumb Tuum è stato debitore, prima ancora delle fiorite e libere onomatopee, della canzonetta Cin Cin bum bum? Con il sottotitolo Canzone del Generale Turco il brano prese a circolare nel dicembre 1911, e la nazione intera venne rese familiare a un refrain che richiama, e sembra poter anticipare, il noto testo marinettiano70. Le speranze di ribellione anarchica vennero così sopravanzate, nel giro d’un paio d’anni, dal mito della rigenerazione sociale attraverso l’escalation militarista d’impianto coloniale e irredentista. La tensione sovversiva non resistette al riallineamento nazionale e allo spirito di riunificazione spirituale catalizzati dall’ingresso in guerra nel 1911. Stile della rivoluzione, rivoluzione dello stile Abbiamo sin qui osservato una parte del quadro politico entro cui si muoveva confusamente, tra mimetismi e opportunismi, la militanza dei futuristi. Queste circostanze contribuirono allo slittamento dagli ideali anarchici verso uno spirito nazioGrande serata futurista, «Lacerba», n. 24, 15 dicembre 1913, p. 289. E. Gentile, La politica di Marinetti, in Id., Il mito dello Stato nuovo, cit., p. 149, cita un resoconto del 15 gennaio 1911 in cui si afferma che Marinetti aveva tentato una dimostrazione antiaustriaca al teatro lirico di Milano, «quasi per far dimenticare al pubblico il fiasco solenne che […] avevano fatto le poesie declamate da lui». 70  L. Goglia, F. Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’impero, Roma-Bari, Laterza, 1981 (2004), p. 167: «Da Sciarasciat – a Bir, ad Ain Zara / fu il turco general / all’italian fatal… / I bersaglier – del colonnello Fara / non fanno impallidir / il prode Gran Visir / Cin cin bum bum… / per Allah! / o turca mezzaluna! / Se i nemici han del valor / corriamo più di lor». 68  69 



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nalista. La seconda occasione di discontinuità non fu offerta dalla cronaca politica, quanto dalle vicende stesse del gruppo futurista. In effetti, la tournée europea organizzata da Marinetti nel corso del 1912, con i dipinti realizzati nel biennio precedente (fra cui proprio il Funerale), sortì almeno due effetti di rilievo. Il primo fu quello di assorbire i pittori nella preparazione dei quadri, facendo loro accantonare ogni elaborazione teorica dopo i due manifesti del 1910. Il secondo effetto fu quello di spingere i pittori a misurarsi apertamente con i dispositivi e le regole del mercato. Nel presentare a Londra Funerale anarchico Carrà inserì in catalogo una didascalia persuasiva: «Dramatic interpretation of the scuffle between cavalry and the revolutionary proletariat». Poco dopo, il dipinto fu acquistato dal collezionista berlinese Borchardt, che speculò sull’acquisto in blocco della prima tranche di opere futuriste organizzando una parallela mostra itinerante. Nato come genuina testimonianza d’un ideale, il capolavoro di Carrà era così precipitato nella logica delle leggi economiche. Da oggetto ideologico, innervato di una brutale simbologia e di un vissuto provocatorio, il dipinto era divenuto un manufatto merceologico, subordinato all’eteronomia dello scambio mercantile71. Per dieci anni decoratore e illustratore vissuto ai margini del mercato, Carrà ottenne il primo vero successo della sua carriera subendo la più classica (e punitiva) legge dell’industria culturale. E, in modo non dissimile, il meccanismo agì su Boccioni: nei carteggi di questo periodo, il mutamento di tono (dalle trepide speranze a uno smaliziato resoconto mercantile) si nota pressoché ovunque72. Non era difficile insomma rendersi conto che, nel corso di pochi mesi, il potenziale sovversivo del Funerale anarchico era stato sostanzialmente disinnescato dalle circostanze della vita politica e delle regole del mercato: tanto valeva, allora, farne M. M. Lamberti, I mutamenti del mercato e le ricerche degli artisti, in Storia dell’Arte Italiana, vol. 7, Torino, Einaudi, 1982, p. 152, n. 33; A. Giuliani, Povero futurismo antagonista, in Autunno del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 10. 72  Cfr. Umberto Boccioni. Lettere futuriste, a cura di F. Rovati, Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Rovereto, Egon, 2009, pp. 45 sgg. 71 



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valere le ragioni di sola «rivoluzione» visiva. Ma anche questo era un problema, stavolta di carattere squisitamente pittorico. Ed ecco perché. Nel testo di presentazione dei quadri futuristi per la prima esposizione a Parigi nel 1912 ci si imbatte in quella che sembra essere la descrizione dei Funerali. Il passo è assai noto, ma non sarà inopportuno riprenderlo per intero: «Si nous peignons le phases d’une émeute, la foule hérissée de poings et les bruyants assauts de la cavalerie se traduisent sur la toile par des faisceaux de lignes correspondant à toutes les forces en conflit, en suivant la loi de la violence générale du tableau. Ces lignes-forces doivent envelopper et entraîner le spectateur qui sera en quelque sorte obligé de lutter lui aussi avec les personnages du tableau»73. Un conto era però raccontare il tumulto della folla per iscritto, confidando nella presa, più emotiva che logica, di locuzioni astratte come «linee-forza»; altra cosa saper dipingere questa folla sulla tela. Nessun pittore tra i cinque firmatari aveva le capacità tecniche né la formazione accademica per poter affrontare una complessa composizione con figure. Alla prova dei fatti, Boccioni si dimostrò incapace di realizzare più di tre figure e, se lo fece, fu costretto a mantenersi nel registro del ritratto, quando non della vignetta. I quadri di figura di Carrà, che pure è l’autore con maggiore capacità di mestiere, sono pochissimi, e quasi tutti risalenti alla successiva stagione metafisica; dopo la quale avvierà, sino alla morte, una carriera dedita pressoché esclusivamente al paesaggio. Non diversamente Severini, che almeno nella fase futurista si accontentò di scene affollate sì, ma con i personaggi ridotti a silhouettes colorate. Da un punto di vista strettamente stilistico, i Funerali dell’anarchico Galli appare agli osservatori d’oggi come un quadro poco risolto, quando non francamente infelice. Il problema era quindi di carattere tecnico: ancora nella primavera del 1910, un autore come Carrà non aveva a disposizione un linguaggio pittorico, né una sufficiente padronanza delle più recenti fonti visive, in grado di tradurre efficacemente il veemente dinamismo dei protagonisti. 73  Les exposants au public, in Les peintres futuristes italiens, Paris, Bernheim Jeune, 1912, pp. 1-14.



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Le forme del violento conflitto visivo restavano così imprigionate in una stesura densa e tormentata. Quando Apollinaire vide il quadro lo giudicò, non senza perfidia, un’opera ispirata alla maniera corrusca di Georges Rouault; un altro osservatore parigino si spinse a un confronto derisorio con édouard Detaille, il celebre pittore accademico di battaglie74. Il suo aspetto ritorto e cupo e la retorica velleitaria lo avvicinano molto, in questo senso, all’altro grande quadro a teorema, parimenti mancato e in pari grado stilisticamente sopravvalutato, che è naturalmente Materia di Boccioni. Insomma, bastarono alcuni mesi e un po’ di circolazione delle opere per rendersi conto che il potenziale sovversivo non poteva certo risiedere nel naturalismo descrittivo di un mito romantico. Era necessario rimuovere gli ultimi residui illustrativi e compiere il passaggio dalla poetica delle «linee forza» e del dinamismo a una più efficace trascrizione astratta. Ma sul piano dei contenuti, intanto, il tema dell’insubordinazione sociale sembrava far posto a un disimpegnato intrattenimento. In un testo del 1913 il pittore scrisse di voler dare forma a «i colori della velocità, della gioia, della baldoria, del carnevale più fantastico, dei fuochi d’artifizio, dei café chantants e dei musichalls»: quegli stessi luoghi che il sitibondo pittore piemontese nella sua giovinezza con ogni probabilità doveva aver adocchiato, con rassegnata invidia, alla stregua del miserevole protagonista delle Riflessioni di un affamato di Emilio Longoni. La sincera inclinazione anarchica del pittore stava assumendo le forme d’una rissosità goliardica. La rivoluzione non era più l’insurrezione armata dei proletari, il radioso evento della classe salariata, ma un saturnale di massa. Carrà ebbe modo di menzionare qui per un’ultima volta il Funerale anarchico e lo spiegò come «una grande emozione e quasi un delirio dell’artista», «un vortice di sensazione, una «Sorte de Rouault plus vulgaire que le notre», è il giudizio che si legge in G. Apollinaire, Les peintres futuristes italiens, «L’Intransigeant», 7 février 1912, ora in Oeuvres en prose complétes, vol. II, Paris, Gallimard 1991, p. 407. O.(livier) H.(ourcade), Les Futuristes, «La Revue de France et des Pays Français», 1912, pp. 135-136, sulle opere «présentées si bourgeoisement» alla Galerie Berheim, che disconoscono i propositi bellicosi, scrive: «Mais voici, dans les teintes de Carrà, l’influence de Signorelli; là, voici l’influence de Van Dongen; ici, celle de … Detaille». 74 



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forza pittorica e non un freddo intelletto logico»75. Emozione, sensazione, delirio: come molti futuristi, Carrà restava un eroe in calzoni corti. E come aveva già osservato Hermann Broch ne I sonnambuli (il cui secondo episodio, Esch o l’anarchia, è del 1903), l’anarchia poteva essere una forma d’accomodamento piccolo borghese dinanzi a una redenzione fallita. Poco dopo, nella primavera del 1914, grazie a un secondo cruciale soggiorno parigino e alle risorse grafiche e visive sperimentate in quattro anni di militanza futurista, Carrà si sentì nuovamente in grado di rappresentare un moto di piazza. Il collage oggi noto come Dimostrazione interventista raffigura, in realtà, una ben più rassicurante folla radunata per la festa dello Statuto: Festa patriottica è infatti il titolo originario con cui il foglio venne pubblicato per la prima volta76. Qui Carrà dimostrò di avere ormai a disposizione tutti gli elementi formali – collage, parole in libertà, onomatopee – per una traduzione ben più sintetica ed efficace delle forze tumultuose. Ma quello che aveva così guadagnato il pittore futurista, perdeva per sempre, e irrimediabilmente, il vecchio sovversivo piemontese. Pochi mesi dopo Carrà ammise la sua ammirazione per lo strappo di Mussolini: «In lui vi è il dramma di tutta la nostra generazione. Ammiriamolo se non altro per il coraggio che va dimostrando»; al direttore della «Voce» il pittore anarchico confidò di voler riporre tutte le sue forze pittoriche al servizio di Mussolini77. Il Funerale dell’anarchico Galli divenne così, e per sempre, il funerale dell’anarchico Carrà, e dell’intera prima stagione del futurismo italiano. Come si vedrà nel prossimo capitolo, mentre Papini avocava a sé il ruolo di teorico della sovversione futurista78, Soffici 75  C. Carrà, La pittura dei suoni, rumori, odori, «Lacerba», I, n. 17, 1 settembre 1913, p. 185. 76  L. Kachur, Carlo Carrà. Manifestazione interventista, in F. Fergonzi, La collezione Mattioli. Capolavori dell’avanguardia italiana, Ginevra-Milano, Skira, 2003, p. 208. 77  Lettera di Carrà a Prezzolini, 15 novembre 1914, cit. da Gentile, Papini, Prezzolini, cit., pp. 131-132. 78  G. Papini, La necessità della rivoluzione, «Lacerba», I, n. 8, 15 aprile 1913, p. 73: «L’italiano può essere indisciplinato, individualista, turbolento, ma è raramente nel fondo dell’anima, rivoluzionario […] Lo spirito d’indisciplina individuale teorizzato e ingigantito può portare all’attentato anarchico ma non già alla rivoluzione. L’Italia, difatti, ha dato più anarchici isolati che non veri rivoluzionari».



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stava insegnando che la vera modernità (e, di conseguenza, il vero primato artistico nazionale) non poteva risiedere in un naturalismo aggiornato al panorama industriale, bensì nel primato dei puri valori pittorici, slegati da ogni estetica contenutistica o illustrativa, in una dialettica tra severità costruttiva «cubista» ed exempla della grande tradizione toscana del Quattrocento. Questo programma consentì il confluire delle teorie pittoriche del futurismo, e delle sue rabbiose iconografie insurrezionali, entro le ben più composte forme d’uno stile moderno e nazionale.

II. Cubismo e tradizione italiana

Picasso e Braque per gli italiani La maggior parte di quel poco che in Italia si conobbe e si capì della prima pittura cubista, per almeno i quattro decenni iniziali del Novecento, si deve a due testi di Ardengo Soffici, che a Parigi ebbe modo di vivere dal 1900 al 1907. Il primo di questi testi è Picasso e Braque, un articolo apparso su «La Voce» nell’agosto 1911. Il secondo testo, dal titolo Cubismo e oltre, comparve dapprima in tre puntate sulla rivista «Lacerba» nel 1913, poi in un opuscolo che uscì quello stesso anno, e infine in un’edizione del 1914 che comprendeva Picasso e Braque, un paio d’altri articoli e un più ampio repertorio d’immagini sotto il titolo complessivo di Cubismo e futurismo1. Questa fu la prima e unica monografia sull’argomento in Italia e una delle poche documentazioni visive in assoluto, insieme agli smilzi album fotografici dedicati a Pablo Picasso, Paul Cézanne e Henri Rousseau che le edizioni de «La Voce» offrirono al loro ristretto pubblico d’amatori sempre nel 1914. Quando Soffici pubblicò Picasso e Braque era tra i pochi a disporre, in Italia, d’informazioni di prima mano. Egli aveva potuto osservare presso lo studio di Picasso nel 1907 le Demoiselles d’Avignon ancora in fase di elaborazione. Da quella prima impressione aveva ricavato una serie di figure non immemori 1  A. Soffici, Picasso e Braque, «La Voce», III (1911), n. 34, p. 635; A. Soffici, Cubismo e oltre (Abbecedario), «Lacerba», I, n. 2, 15 gennaio 1913, pp. 10-11; n. 3, 1 febbraio 1913, pp. 18-19; n. 4, 15 febbraio 1913, pp. 30-32, poi in Id., Cubismo e futurismo, Firenze 1914; per una più ampia discussione di questo tema cfr. il mio «Lacerba» 1913-1915. Arte e critica d’arte, Bergamo, Lubrina, 2000, pp. 60 sgg.



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delle pose picassiane, ma con un’indubbia flessione vernacolare. L’articolo vociano era invece maturato dopo un soggiorno parigino che gli aveva consentito, nella primavera del 1911, un aggiornamento sulla più recente produzione pittorica disponibile presso la galleria di Daniel-Henri Kahnweiler. In quella occasione Soffici osservò i dipinti in cui Picasso e Georges Braque, dopo aver compiuto l’infrazione della forma omogenea degli oggetti in figurazioni sfaccettate, si avviavano ad esplorare la discontinuità spaziale, attraverso la moltiplicazione delle sorgenti luminose e l’uso arbitrario del chiaroscuro. La presentazione al pubblico italiano di queste opere confluiva in un programma di accurati interventi in cui, assolvendo a una funzione etica e civile della critica, e nel desiderio comune a tutti i redattori vociani di colmare un effettivo ritardo culturale, Soffici aveva già discusso i principi costitutivi dell’arte moderna, in un arco che dal solido realismo di Gustave Courbet giungeva alla felicità visiva dell’occhio «naturale» degli impressionisti. La sensibilità di questi pittori aveva secondo Soffici consentito di liberare le illusioni tattili dal disegno e dal contorno, realizzando un’arte priva di gerarchie e al di fuori della riduzione dogmatica al bello ideale. Il reperimento della bellezza diventava così un processo effimero, anarchico, incosciente, che assecondava un’estetica disinteressata e discreta, governata dalla vita e non dalle norme. Rovesciando però uno dei più felici assunti di Jules Laforgue, sua fonte prediletta per la valutazione dell’impressionismo, Soffici denunciava i limiti di una pittura che, volendo opporsi al primato del disegno, era però giunta a ridurre il mondo dei fenomeni naturali ad una sorta d’indefinito brulichio di vibrazioni luminose colorate. Privilegiando l’immediatezza a spese della volontà, la sensibilità impressionista aveva a suo giudizio smarrito il senso di larghezza e di universalità, finendo con l’immiserirsi nella traduzione degli aspetti transitori e illustrativi, spingendosi fino all’inconsistenza e alla disgregazione2. L’evoluzione di Picasso trovava così spazio all’interno di un processo storico in cui essa costituiva al tempo stesso il punto 2  J. Laforgue, L’impressionnisme, in Mélanges Posthumes, Paris, Mercure de France, 1904, pp. 133-45; cfr. D. Vanden Berge, Ardengo Soffici: dal romanzo al “puro lirismo”, Firenze, Olschki, 1997, vol. I, p. 109.



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culminante e il principio di una sapiente reazione. La pittura di Picasso, secondo Soffici, era infatti governata dal desiderio di voler riaffermare, con maggiore sistematicità rispetto a un precursore come Cézanne, quei valori di solidità e di volumetria che l’esperienza dell’impressionismo aveva vanificato. Lo strumento privilegiato per questa indagine era offerto dalle sculture e dai manufatti delle tradizioni non occidentali, come l’arte degli antichi egizi e l’arte africana. Il merito di Picasso consisteva quindi nell’aver accolto e compreso in esse due potenzialità essenziali: la condensazione delle forme naturali in essenziali nuclei visivi, e la deformazione delle apparenze reali, al fine di assecondare una necessità «lirica»; ovvero, un’espressione libera e fluida. Soffici si limitò a poche parole, che sono però tra le più lucide, rigorose e conseguenti fra quante si erano fino a quel punto scritte sull’argomento: «i piani, le masse, i contorni delle cose […] possono insomma esser considerati come semplici elementi pittorici, trasformabili, spostabili, deformabili, in vista di un’armonia puramente artistica, dove il vero riviva liberato da ogni logica sperimentale, e solo quale pretesto, quale geroglifico di cui l’artista si serve per operare una suggestione sul riguardante»3. Tutte le parole di questa frase sono importanti, ma due lo sono ancor di più: «suggestione» e «geroglifico». Il lettore de «La Voce» poteva anche non capirlo (ma quanti potevano, nell’estate 1911?), ma con queste parole si condensava la parabola che, dalle prime intuizioni primitivizzanti delle Demoiselles, era giunta alla rigorosa scrittura «analitica» dell’inverno 1910-11 e al relativo primato di una traduzione integralmente tattile della realtà. Affrontato così il problema dei volumi, quello del disegno e della luce si risolveva di conseguenza. La linea difatti si affrancava dai compiti di descrizione e delimitazione naturalistica, ponendosi come strumento di deformazione audace. Tutto così era disposto alla traduzione integrale degli oggetti. Le singole impressioni scaturite dalle sequenze d’osservazione cadenzate nel tempo si trovavano unificate nella discontinua spazialità della tela. Il momento e il punto di vista unico dell’impressionismo 3 

Soffici, Picasso e Braque, cit., p. 635.



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venivano superati nel momento stesso in cui si salvaguardava la «perpetuità emotiva» e la «verità liricamente intuita». Come si vede, questi ultimi argomenti conservano tracce evidenti del pensiero crociano. Lungi però dal costituire un ostacolo, il ragionamento intorno alla trasformazione poetica della materia consentì a Soffici di chiudere il suo articolo indicando con chiarezza due potenziali pericoli. Il primo era la possibile degenerazione verso quella che egli definì «una sorta di metafisica pittorica». Noi associamo un simile concetto a quell’estremo e radicale momento di scomposizione, sul filo dell’astrazione assoluta, raggiunto da Picasso e Braque proprio alla fine del 1911, e contro il quale verranno adoperate le risorse del papier collé e del collage. Ma è anche possibile, ritengo, identificare in quella locuzione un’allusione alle crescenti esegesi che del fenomeno cubismo tenderanno a offrire una lettura idealistica, che sospingeva l’indagine formale verso un assoluto esprit de synthèse, equivalente plastico di un platonico «bello in sé».4 Il secondo pericolo era invece rappresentato dalla possibile regressione verso un compiaciuto arcaismo delle forme: ovvero, la mera subordinazione delle risorse pittoriche alle spettacolari suggestioni dell’art négre senza una sorvegliata elaborazione visiva. Oltre il cubismo Alla risoluzione di questi problemi, e al proseguimento del cubismo con la sua iscrizione entro un’agenda culturale di deliberato confronto con la tradizione italiana, Soffici dedicò una seconda riflessione, due anni e mezzo dopo. In questo lasso di tempo egli s’era impegnato in un diretto confronto con la pittura dei futuristi, che del cubismo, nell’ottica agonista a loro propria, ambivano a divenire al tempo stesso eredi e vincitori. È importante tenere a mente che Soffici scrisse Cubismo e oltre durante il breve e tormentato momento d’intesa strategica con 4  M. Raynal, Conception e vision, «Gil Blas», 29 août 1913, p. 3; Id., Anthologie de la peinture en France de 1906 à nos jours, Paris, Montaigne, 1927, p. 25; L. Rosenberg, Le cubisme et la tradition, in Id., La jeune peinture française. Les Cubistes, Genève, Galerie Moos, 1920, p. 7.



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il gruppo futurista milanese. Due aspetti, in particolare, giustificano questo secondo intervento e ne offrono la coloritura specifica. Il primo fenomeno è di carattere squisitamente pittorico. Dopo il soggiorno parigino dell’autunno 1911 i pittori futuristi si erano dedicati a un aggiornamento superficiale, in cui la grammatica cubista veniva percepita meno come uno strumento da apprendere che come una patina per un adeguamento dernier cri. È il caso, ben noto, delle riscritture «cubiste» di opere come La Risata o la seconda serie degli Stati d’animo di Umberto Boccioni, dove si citavano, in maniera piuttosto frettolosa, le schematiche linee di suddivisione dei volumi e le lettere stampigliate dei quadri cubisti. Nel corso del 1912 aveva preso forma un più maturo e consapevole stile pittorico, che prevedeva esercizi di scomposizione delle forme, realizzati con la moltiplicazione delle sorgenti luminose, un intenso chiaroscuro e l’incremento dei punti di vista. Le segmentazioni monocromatiche di Carrà ne La Galleria di Milano (Venezia, Fondazione Peggy Guggenheim, Collezione Mattioli) e le architetture boccioniane leggibili sullo sfondo di Dimensioni orizzontali (Monaco, Bayerische Staatsgemaldegalerie) erano soluzioni più compiute e in grado di mantenere caratteri originali e distintivi, come una più forte densità dell’impasto e una specifica iconografia dedicata ai temi della contemporaneità urbana. Soffici stesso fece seguire alle sue osservazioni alcuni dipinti, come Linee e volumi di una strada, dove egli elaborava, in una chiara contaminazione cubo-futurista, una sorta di dimostrazione dipinta delle teorie da lui proposte. Il secondo fenomeno, di portata assai maggiore, fu prodotto dal necessario adeguamento ideologico del discorso che, fino a quel punto, Soffici aveva limitato a questioni tecniche e pittoriche. Ora, egli doveva misurarsi con i forti accenti nazionalisti sostenuti dal futurismo e con l’urgenza di discutere le procedure per l’edificazione di una moderna arte italiana. La sua proposta si fondava sull’intelligenza, non sul ripudio, della tradizione nazionale e sull’adozione di un linguaggio né provinciale né emulativo, ma solidamente radicato nella coscienza storica degli stili. Un lin-



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guaggio che potesse riflettere, anche, quel «culte de la méthode» verso cui sembrava convergere la giovane critica francese5. La trilogia di Cubismo e oltre era dunque rivolta a un destinatario più specifico e venne sostanziata da un denso spessore ideologico. L’argomento fu ordinato in temi strettamente correlati tra loro, a partire da una lettura formale dei quadri cubisti distinta in tre punti, ognuno dei quali venne approfondito con un ragionamento di carattere storico. Nel cubismo di Picasso e Braque agiva per Soffici un’organizzazione visiva fondata sulla dialettica tra la superficie del supporto e la profondità fittizia dei volumi architettonici. Soffici designò con il termine di «arabesco pittorico» quell’insieme di linee e forme che veniva tracciato sulla tela; la notazione delle masse volumetriche era invece generata dagli effetti del chiaroscuro. Questi due elementi concorrevano all’insieme armonioso del dipinto, e la loro funzione era avvertibile anche nella percezione d’un singola porzione d’immagine, come peraltro era ravvisabile, a suo giudizio, nelle opere degli antichi maestri. L’esempio, per nulla casuale, proposto da Soffici fu infatti quello della spazialità vertiginosa di un quadro strutturalmente complesso come Susanna e i vecchioni di Tintoretto del Louvre. L’accordo di questi due elementi, l’arabesco e il chiaroscuro, consentiva di dar vita a una pittura pura, ossia una pittura che, disancorata da ogni contenuto letterario o psicologico, s’addentrava esclusivamente nell’interpretazione delle forme per un fine disinteressato. Essa trovava quindi in se stessa (e non nel rispecchiamento più o meno mimetico della realtà esterna) la propria ragione e la propria armonia. Questo sistema di lettura del fatto visivo costituiva una rielaborazione di quelle teorie letterarie che avevano guidato Soffici ad apprezzare nella poesia di Arthur Rimbaud (presentato nella monografia del 1911 come un «descrittore imbevuto di latinità» e un «campagnolo e di schiatta plebea»), il «bagliore delle immagini e la sfrenatezza e deformazione del colore e del disegno».6 A. Salmon, La jeune peinture française, Paris, Société des trente, 1912, p. 61. A. Soffici, Arthur Rimbaud, Firenze, Casa Editrice Quattrini, 1911 (si cita da Id., Opere, vol. I, Firenze, Vallecchi, 1959, pp. 109, 126 e 193). Questa interpretazione di Soffici ebbe come probabile spunto di partenza lo studio di A. Cassagne, 5  6 



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Il secondo aspetto su cui si soffermò Soffici fu la nozione di sodezza e di gravità, vale a dire il recupero della concretezza tangibile e della solidità degli oggetti, in analogia a quanto già letto in Picasso e Braque. Con «realtà integrale» Soffici intendeva, infine, la restituzione di una più completa esperienza di realtà, che trascendeva il mero naturalismo, e che avrebbe dovuto costituire una sorta di sintesi delle due precedenti esperienze. È abbastanza facile trarre le conclusioni circa questo gioco di parallelismi. Soffici lesse la pittura cubista scomponendo tre elementi essenziali (pittura pura; sodezza e gravità, realtà integrale) associandoli ad altrettanti sviluppi storici: rispettivamente, quello dell’impressionismo francese, del cubismo che ad esso reagiva, e di una postulata sintesi tra questi due. Restava così da compiere l’assimilazione del colore impressionista nella forma analitica del cubismo. Questa iniziativa doveva essere assunta da Boccioni, Carrà, Soffici stesso: i protagonisti dell’unica possibile arte moderna italiana, al di là delle pastoie contenutistiche del futurismo. La ragione di questo incarico era molto semplice. Tutti gli strumenti per questo oltrepassamento sembravano infatti già disponibili nella pittura di Masaccio, Michelangelo, Tintoretto. L’attento scrutinio di dettagli come le rigorose partizioni architettoniche degli affreschi della Cappella Brancacci consentiva a Soffici di concludere che «la migliore arte italiana, il cui merito precipuo consiste appunto in questa sobrietà, sodezza, pesantezza, equilibrio, è d’essenza precisamente cubistica – e il cubismo, perciò, specialmente consono alla nostra tradizione»7. Diversamente da Soffici, però, gli argomenti di Carrà e Boccioni in quel periodo erano maggiormente orientati a dimostrare il primato del movimento futurista in merito ad aspetti di poetica pittorica contesi con la Francia. Ne è un esempio la polemica rivolta contro Apollinaire in merito ai caratteri dell’orphisme di Fernand Léger e Robert Delaunay e a difesa della nozione futurista di «simultaneità». Boccioni accusò da parte sua Picasso di «formalismo aprioristico», di «ideografia a priori» e di «impassibile misurazione scientifica»; i cubisti di «freddo buon gusto La théorie de l’art pour l’art en France chez les derniers romantiques et les premiers réalistes, Paris, Hachette, 1906. 7  Soffici, Cubismo e oltre, cit., p. 10.



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accademico francese», denunciando il «fondo gotico della loro razza».8 Carrà, che pure nel 1916, come vedremo, leggerà in Giotto la «terribilità serrata in legge cubica», trovava in Picasso un «puro cifrario delle forme» e un «monotono chiaroscuro grigiastro e melmoso», osservando nei ricorsi ai manufatti etnici null’altro che i detriti di un vituperato arcaismo9. Soffici parlò invece di Rembrandt e del Greco per dimostrare le congruenze storiche del cubismo ma anche le ragioni di un primato nazionale. Alla voce evanescente e musicale di Mallarmé volle contrapporre la solida lingua di Dante. Dimostrò di essere preoccupato non tanto di copiare le forme esterne in una logica puramente competitiva, ma di voler comprendere il modello operativo, vale a dire le radici storiche, della specifica modernità del cubismo e di volerlo ricollocare nella storia e nella geografia nazionali. Il rigore di questa analisi di Soffici in effetti non ebbe eguali in Italia e neppure in Francia. La reale portata del coevo opuscolo di Guillaume Apollinaire Les peintres cubistes non andrebbe da questo punto di vista sopravvalutata. Il poeta francese impiegò infatti una prosa evocativa, dai toni spesso oscuri quando non esoterici, per far confluire osservazioni vecchie e nuove in merito a proposte differenti e irriducibili tra loro, come la pittura di Picasso e Delaunay, Marcel Duchamp e Francis Picabia, nell’alveo di quello che altro non era che un diseguale orientamento comune a un’intera generazione10. Soffici avvertì in diverse occasioni la distanza che separava le ricerche di Picasso e Braque dall’attività di pittori come Jean Metzinger, Albert Gleizes, e di quanti si organizzavano per esporre al Salon degli Indépendants o con il gruppo della Section d’Or11. L’attenzione esclusiva verso il nucleo essenziale promosso da Kahnweiler (cioè Picasso, 8  U. Boccioni, I futuristi plagiati in Francia, «Lacerba», I, n. 7, 1 aprile 1913, pp. 66-68; Id., Pittura e scultura futuriste (Dinamismo plastico), Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1914. 9  C. Carrà, Parlata su Giotto, «La Voce», VIII, 1916, p. 167; Id., Piani plastici come espansione sferica nello spazio, «Lacerba», I, n. 6, 15 marzo 1913, pp. 53-55; Id., Vita moderna e arte popolare, «Lacerba», II, n. 11, 1 giugno 1914, pp. 167-168. 10  G. Apollinaire, Les Peintres Cubistes, Paris, Figuière, 1913. 11  J. Nigro Covre e M. G. Messina, Il cubismo dei cubisti: ortodossi/eretici a Parigi intorno al 1912, Roma, Officina, 1986.



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Braque, Gris e Léger) si riflette in effetti nelle consonanze tra la lettura formalistica di Soffici e quella che Kahnweiler stesso presenterà in Der weg zum Kubismus. Le analogie però si fermano qui, dal momento che il gallerista tedesco fu un appassionato quanto sfortunato sostenitore di una vocazione transnazionale ed europea del movimento12. Come si è visto, il più importante snodo teorico di Soffici fu invece quello di innestare la sua analisi nel terreno della grande arte italiana, ricostruendo così una tradizione della pittura nazionale spinta fino al presente. Il discorso di Soffici in tal modo si collocava all’interno di un fitto panorama di contrapposte rivendicazioni nazionalistiche dell’esperienza moderna, costituendo una risposta alle pretese origini «celtiche» del cubismo elaborate da Gleizes13. Quando Soffici parlò di pittura pura non desiderò in alcun modo svolgere l’apologia di una disinteressata art pour l’art. Elaborando le possibili forme di una moderna classicità italiana, egli era invece desideroso di riscattare sia il materialismo «positivo» sia il degenerato intellettualismo simbolista della precedente generazione e della sua stessa formazione giovanile. Risolta in clausola «politica», la sua interpretazione della pittura cubista si andava così allineando alle posizioni di quella giovane e agguerrita generazione che stava facendo della fede patriottica, del rinnovamento morale e del culto della tradizione l’asse portante di un possibile rinascimento spirituale14. Offrendo al pubblico italiano una lettura formale di rara chiarezza e altrettanta tendenziosità, Soffici fece confluire un ragionamento pittorico all’interno di un’ipoteca ideologica. Il successivo decorso della critica italiana, dalle pagine di Roberto Longhi sui futuristi al polemico bilancio sull’eredità delle avanguardie svolto in «Valori Plastici», non fece che avvalorare 12  D.H. Kahnweiler, Der Weg zur Kubismus, München, Delphin-Verlag 1920 (trad. it. La via al cubismo, a cura di L. Fabiani, Milano, Mimesis, 2001). 13  A. Gleizes, Cubisme et tradition, «Montjoie!», 1 (1913), n. 1, p. 4; n. 2, pp. 2-3 e cfr. Id., Tradition et Cubisme, Paris, Aux éditions «La Cible», J. Povolozky, 1927. 14  Il più eloquente esempio è l’inchiesta di Agathon (Henri Massis e Alfred de Tarde), Les jeunes gens d’aujourd’hui: le goût de l’action. La foi patriotique. Une renaissance catholique. Le réalisme politique, Paris, Plon-Nourrit, 1913.



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questi giudizi. Il fatto stesso che i maggiori maestri della pittura italiana fra le due guerre, da Giorgio Morandi a Filippo De Pisis, da Carlo Carrà a Mario Sironi, passarono attraverso l’esperienza futurista al vaglio dei testi di Soffici, sembra costituire una sufficiente convalida.

III. Il cuneo e il cerchio

Un modello di concisione grafica Il manifesto Sintesi futurista della guerra fu redatto da Marinetti insieme a Boccioni, Carrà, Luigi Russolo e Ugo Piatti il 20 settembre 1914, nel carcere di Milano. I cinque erano reclusi dal 16 settembre a causa d’una dimostrazione politica conclusasi con l’incendio delle bandiere austriache in Piazza Duomo, all’apice dei moti che in quei giorni videro allineati, sotto le insegne dell’intervento contro Austria e Germania, futuristi, sindacalisti e socialisti rivoluzionari (fig. 3.1)1. Primo manifesto futurista concepito e realizzato seguendo un’intuizione grafica, Sintesi futurista della guerra è un’immagine pubblicata negli studi come naturale complemento illustrativo dei concitati mesi di propaganda interventista. Oltre che essere ammirevole per la soluzione tipografica, questo manifesto si può leggere come un vero e proprio documento, da analizzare con un po’ di cura. Il foglio è diviso da una porzione di semicerchio, che separa il «genio creatore» (compendiato nei suoi tratti caratteristici, dall’«elasticità» all’«ordine invisibile») dalla «cultura tedesca» (caratterizzata da «rigidezza», «analisi», «plagio metodico», eccetera). Un blocco di testo, quasi un “catenaccio” posto sotto il titolo, riassume le motivazioni in tre punti. Dapprima viene richiamata, dal manifesto del 1909, la glorificazione della guerra. 1  Cfr. le lettere di Boccioni ai familiari in Umberto Boccioni. Lettere futuriste, cit., nn. 158-160 e pp. 306 sgg. La dimostrazione antiaustriaca si era tenuta a Milano la sera del 16 settembre, e portò all’arresto di dieci manifestanti, che furono messi in libertà provvisoria il 21 settembre.



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Figura 3.1 Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Ugo Piatti, Sintesi futurista della guerra, manifesto, 20 settembre 1914.

Alludendo ai bombardamenti di Lovanio e di Reims («Le vecchie cattedrali non c’interessano»), si conferma il diritto alla distruzione delle opere d’arte, riservando però questa possibilità al solo «genio» futurista e italiano: l’unico capace di creare, grazie a questa palingenesi, nuove forme di bellezza dalle rovine. A sinistra, incolonnati entro un triangolo acuto orientato verso destra che spezza il semicerchio, si elencano i paesi alleati (Russia, Francia, Belgio, Inghilterra) e quelli che ancora si devono schierare. Ogni nazione è qualificata da svariati attributi che non di rado cedono al luogo comune: la «disinvoltura» francese, il «rispetto dell’individualità» britannico, l’«indipendenza» di Serbia e Montenegro. L’Italia («tutte le forze / tutte le debolezze del genio») è collocata in questo gruppo, interamente sussunto dal Futurismo. Le qualifiche astratte dei singoli spiriti nazionali sono personificate nelle figure degli otto «poeti», graficamente inscritti sul cuneo che sovrasta e penetra il mondo del passatismo. Qui sono collocati i loro «critici pedanti»: una Germania ingolfata dalla tediosa



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kultur e un’Austria gretta e violenta. Le loro attribuzioni sono interamente derisorie e grottesche; altrettanto fantasiose, ma non per questo meno prevedibili2. La frattura tra artista moderno (i «poeti») e società borghese (i «critici») viene così traslata al conflitto tra le nazioni, attraverso le loro ipostasi di avanguardia e di reazione. L’individuo eroico si fa così tutt’uno con la massa, ideologicamente congruente, della nazione intera. Il manifesto compendia in efficace sintesi i principali punti ideologici e alcune fondamentali soluzioni visive della poetica futurista. È infatti probabile che l’organizzazione grafica e la disposizione sulla pagina siano state perfezionate grazie all’intervento dei tre pittori firmatari Boccioni, Carrà, Russolo. La composizione circolare con innesti radiali aveva avuto, in effetti, grande fortuna nella letteratura e nella pittura futurista. Conosciamo numerosi esempi relativi alle «tavole parolibere», cioè a quelle composizioni a calligramma che seguivano le indicazioni dei testi teorici di Marinetti e che trovarono una prima sistemazione nel volume Zang Tumb Tuum, del 1914. La diffusione di questo schema visivo ebbe un importante modello nel poema Zone, dalla raccolta Alcools, 1913, di Guillaume Apollinaire. Sempre ad Apollinaire si doveva inoltre un precedente per il sistema delle opposizioni concettuali (oltre che per il titolo di «Manifeste=Synthèse») ne L’Antitradition futuriste. Pubblicato il 20 giugno 1913, questo testo riservava polemicamente «merde» ad autori e argomenti del passato, e consegnava «rose» ai protagonisti dell’avant-garde europea. Carrà aveva adottato soluzioni simili in alcuni componimenti pubblicati su «Lacerba», e poi in Esplorazione aeroplano, un collage comparso nel volume Guerrapittura, pubblicato nel 1915 – nei cui allegati si ripubblicava Sintesi futurista della guerra – e nella copertina dell’opuscolo «antineutrale» di Francesco Penazzo Per la coscienza della nuova Italia. Per un primo inquadramento sulla storica contrapposizione tra latinità e germanesimo, si rinvia ai classici studi di R. Romeo, La Germania e la vita intellettuale italiana dall’Unità alla Prima guerra mondiale, in Id., L’Italia unita e la Prima guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 1978, pp. 109-141 e L. Mangoni, Una crisi di fine secolo. La cultura italiana e la Francia tra Ottocento e Novecento, Torino, Einaudi, 1985. Il quadro italiano va integrato con S. Dunn, T.G. Fraser, Europe and Ethnicity. The First World War and Contemporary Ethnic Conflict, London-New York, Routledge, 1996. 2 



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Un altro poeta futurista, Paolo Buzzi, impiegò lo stesso schema per due componimenti, sempre nel 19153. In pittura, il modulo grafico che identificava il moto nella metafora visiva del cuneo era già stato impiegato da Luigi Russolo per dipinti come La Rivolta (1911; Gemeentemuseum, Den Haag) o Dinamismo di un’automobile (1912-13; Musée National d’Art Moderne, Parigi) e soprattutto da Giacomo Balla nella variegata serie intitolata Velocità d’automobile o Velocità astratta, del 1913. In questi dipinti Balla aveva impiegato una porzione di cerchio o di ellisse per indicare la ruota d’automobile deformata dalla velocità, mentre la scomposizione in triangoli acuti designava il movimento. L’associazione di questi due elementi condusse Balla a sviluppare il tema della spirale come sintesi di luce, rumore e moto, fino a produrre una linea schematica astratta che trovò compimento nella scultura costruttivista dei «complessi plastici» del 1914 e nelle serie di dipinti – di assai difficile riordino, nel catalogo di Balla – di argomento interventista realizzati dal 1915. Soluzioni formali consimili sono inoltre rintracciabili nei disegni che accompagnarono il manifesto di Balla Il vestito antineutrale, uscito anch’esso nel settembre 1914 con il doppio scopo di aprire nel movimento futurista un nuovo spazio di azione (la moda) e, al tempo stesso, di proporre un gadget di grande visibilità (anche se di dubbio gusto) per la causa interventista. Le tonalità scure dell’abito borghese corrispondevano a un’indole pacifista e neutrale; le forme dinamiche e i colori vivaci del modello disegnato da Balla intendevano invece esprimere aggressività e bellicismo4. Condensando in un elementare tratto grafico soluzioni visive sperimentate dai pittori futuristi, Sintesi futurista della guer3  C. Carrà, Café d’Harcourt, «Lacerba», II, n. 13, 1 luglio 1914, p. 199; Id., Guerrapittura, Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1915; P. Buzzi, Bombardamento aereo, in Parole, consonanti, vocali, numeri in libertà, Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1915; Id., L’ellisse e la spirale, Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1915. 4  L’operazione di Balla suscitò i sarcasmi del gruppo fiorentino; un avviso della pubblicazione del manifesto, comparso anonimo su «La Voce» il 13 ottobre 1914 (ma dovuto, con ogni evidenza, alla penna di Soffici), così commentava: «Non ci pare sia il momento per lanciare nuove mode. Le buffonate intelligenti in tempo di pace e di quiete possono avere la loro ragione d’essere. Oggi il momento è troppo serio per poterle accettare. Questa buffonata qui, poi, non ha nemmeno la scusa di essere nuova. È una scopiazzatura dei vestiti cubisti che già il pittore francese Delaunay e i suoi portarono qualche sera al Bullier. Ma su questo non insistiamo: insistiamo sulla inopportunità, ora, di quest’ultima buffonata».



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Figure 3.2, 3.3 Fortunato Depero, Necessità di auto-réclame e Manifesto agli industriali, in Id., Depero futurista, Milano, Dinamo Azari, 1927.

ra poteva riassumere i principali temi del dibattito interventista, predisponendo un sistema grafico capace di rappresentare simbolicamente in forme geometriche non solo l’idea di una radicale contrapposizione, ma anche la sensazione uditiva di un così stridente contrasto. L’efficacia di questa soluzione e la sua fortuna editoriale fu tale da trascendere i confini nazionali e gli immediati scopi di propaganda, fino a divenire modello per il celeberrimo manifesto di El Lissitzky Combatti i bianchi con il cuneo rosso, del 1919. Ma si può seguire anche in altre e non meno numerose declinazioni grafiche del futurismo degli anni Venti, come ad esempio in certe impaginazioni di Fortunato Depero (Necessità di auto-réclame, e Manifesto agli industriali, 1927; figg. 3.2, 3.3)5. 5  La suggestione dello schema è tale che da poterla ritrovare ancora in certe consuetudini grafiche della comunicazione politica d’ambo gli schieramenti: per le sinistre, a partire dalla riproposizione del manifesto di El Lissitzky da parte di Abe Steiner sul «Politecnico» (n. 6, 3 novembre 1945, p. 8); dalla parte opposta, cito per tutti il manifesto del Movimento Sociale Italiano per le elezioni politiche nazionali del 1972: Ancora avanti a destra se non vuoi tornare indietro a sinistra, Saipem, Cassino-Roma.



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Lo slogan politico Se lo schema generale del manifesto è riconducibile a forme grafiche ampiamente percorse dai pittori futuristi, le scelte lessicali si possono rintracciare nella poesia e nella prosa di Marinetti. Un Primo manifesto politico futurista era stato infatti pubblicato nel 1909 in occasione delle elezioni politiche nazionali: paventando la vittoria delle forze conservatrici e clericali, si dichiarava come «unico programma politico l’orgoglio, l’energia e l’espansione nazionale». Nel successivo proclama, intitolato Uccidiamo il chiaro di luna!, il poeta traduceva i temi politici in una prosa di ricca invenzione simbolica. Dinanzi agli abitanti della città immaginaria di «Paralisi» Marinetti dichiarava la guerra come unica forma d’espressione artistica. Alla testa d’un plotone di poeti, si recava così a liberare i reclusi d’un manicomio e, insieme ad essi, raggiungeva la città di «Podagra». Qui l’orda dei folli liberava un serraglio di belve feroci e compiva un saccheggio. I metalli preziosi depredati venivano fusi in un grande «Binario militare» sospinto fino ad un’immaginifica Asia, conquistata dall’orda dei pazzi e delle belve. Da qui partiva una spedizione aerea. Nella descrizione dell’assalto si esibiva una cruda metafora sessuale: «Ecco la furibonda copula della battaglia, vulva gigantesca irritata dalla foia del coraggio, vulva informe che si squarcia per offrirsi meglio al terrifico spasimo della vittoria imminente!»6. Il conflitto diveniva così una festosa forma di agonismo erotico. L’immagine della macchina era tradotta in metafora dell’amante, mentre le armi da fuoco soggiacevano ad interpretazioni falliche. La compenetrazione del cuneo e del cerchio poi adottata nella Sintesi futurista della guerra rifletteva, con ogni evidenza, analoghe simbologie7. Come si è visto nel primo capitolo, Marinetti aveva abbracciato con entusiasmo la politica coloniale del governo italiano, sfociata nell’attacco libico che suggerì al poeta il manifesto Tripoli italiana. Dinanzi allo spettacolo della guerra pittori e poeti erano esortati F. T. Marinetti, Uccidiamo il chiaro di luna!, Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1911. 7  M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 173183 e cfr. M. Serra, Al di là della decadenza. La rivolta dei moderni contro l’idea della fine, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 61. 6 



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ad accantonare le creazioni artistiche: «nulla possiamo ammirare, oggi, se non le formidabili sinfonie degli shrapnels e le folli sculture che la nostra ispirata artiglieria foggia nelle masse nemiche»8. Naturalmente, il suo scopo era quello di infondere un tale vitalismo estetizzante nelle forme della poesia. Nel Supplemento al Manifesto tecnico della Letteratura futurista Marinetti offrì dunque un saggio di «parole in libertà» (Battaglia peso+odore) dove una sintassi integralmente nominale fu per la prima volta applicata al resoconto di una battaglia sul teatro di guerra libico. L’argomentazione politica trovò compimento nel Programma politico futurista, diffuso l’11 ottobre 1913 in occasione delle elezioni politiche. Il manifesto rilanciava i principali snodi politici del movimento, con il solito stravagante elenco: «una più grande flotta e un più grande esercito; un popolo orgoglioso di essere italiano, per la Guerra, sola igiene del mondo […] Politica estera cinica, astuta e aggressiva – Espansionismo coloniale – Liberismo – Irredentismo – Panitalismo – Primato dell’Italia». La prolissa elencazione di slogan, opposti al programma clerico-moderato e a quello repubblicano-socialista, difettava tuttavia di un’efficiente impaginazione grafica. Cosicché, la retorica della comunicazione politica non sembrava ancora capace di integrarsi con l’essenzialità visiva dell’affiche. La Sintesi futurista della guerra colmò questo scarto, polarizzando due fronti cruciali: l’appello ad un rinnovato spirito nazionale e, di conseguenza, la disumanizzazione del nemico. Ben più delle dispute intorno a pseudoconcetti formalistici, quali «dinamismo» o «simultaneità», che pure avevano qualificato la discussione dei circoli futuristi fino al 1914 inoltrato, fu l’accesa campagna interventista a modificare l’orientamento dell’estetica del movimento, secondo un modello visivo di cui il manifesto da cui siamo partiti è uno dei migliori esempi. Interventismo lacerbiano Sin dal principio del conflitto, Soffici e Papini avevano indicato con estrema chiarezza, dalle pagine di «Lacerba», quelle che rite8  F.T. Marinetti, Tripoli italiana, 11 ottobre 1911, ora in Teoria e invenzione futurista, cit., p. 339.



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nevano essere le ragioni dei contendenti: «La presente guerra non è soltanto d’interessi e di razze ma di civiltà. C’è un tipo di civiltà contro un altro. O meglio alcuni tipi di civiltà contro un tipo solo che ha dominato per quaranta anni l’Europa; il tedesco»9. Era in atto qualcosa più di una vicenda politica: si trattava, confermò Soffici, dello scontro di due civiltà e due modelli di cultura: una dei «buoni europei», l’altra delle razze teutoniche. Semplificando, pose anch’egli da un lato la civilità «latina-britannicaslava», dall’altro quella tedesca. Questa distinzione per Soffici era valida per la pittura, la poesia, la letteratura in qualche termine riferibile alla civilizzazione «gotica» e tedesca10. Già in precedenza, commentando i moti del giugno 1914, Papini aveva ammonito che quelle ormai non erano più «ore da letteratura». Era invece necessario porsi nuovamente a diretto contatto con un’Italia che il già sprezzante e aristocratico polemista fiorentino dichiarava, ora, di amare. Un engagement dai toni non nuovi, per il nazionalista redattore de «Il Regno»: ma si trattava anche, ora, di disinnescare la pericolosa equivalenza tra il formalismo della pura ricerca artistica lacerbiana e il deprecato disimpegno, come già aveva malignato «La Voce»11. L’invasione del Belgio neutrale colpì anche il fronte dei neutralisti, e fece parlare apertamente a tutti di «barbarie»12. Il conflitto 9  G. Papini, Il dovere dell’Italia, «Lacerba», II, n. 16, 15 agosto 1914, p. 243; sull’interventismo lacerbiano si veda A. D’Orsi, Il futurismo tra cultura e politica, Roma, Salerno Editrice, 2009, pp. 87 sgg.; ma è opportuno il richiamo alle fondamentali pagine di E. Garin, Cronache di filosofia italiana, cit., p. 339. 10  Soffici a Papini, Poggio a Caiano, agosto 1914, cit. da Futurismo a Firenze (1910-1920), catalogo della mostra, a cura di G. Manghetti, Firenze, Sansoni, 1984, p. 119. 11  G. Papini, I fatti di giugno, «Lacerba», II, n. 12, 15 giugno 1914, p. 178; cfr. Partiti e gruppi italiani davanti alla guerra, «La Voce», VI, n. 17, 28 settembre 1914, pp. 4-10: «La civiltà e l’Italia sono degli ideali, ai quali un egoista che sia convinto delle predicazioni di “Lacerba” non può dare retta. Ma un paese che ha avuto il buon senso o la fortuna di non dar retta totalmente a quei pacifisti e a quei futuristi, e che perciò si ritrova un poco armato e organizzato, oggi che si tratta di affari seri e non di sogni sentimentali o di letteratura e di estetismo, va per la sua strada senza badar né a questi né a quelli». 12  R. Rolland, Protesta per la distruzione di Lovanio, «La Voce», VI, n. 17, 13 settembre 1914, pp. 1-4. Ben più delle parole del promulgatore dell’au-dessous de la mêlée valsero però i proclami d’un Charles Maurras: «Le Français se réconciliant, l’esprit français reprend de ses devoirs», «L’Action Française», 3 aôut 1914, p. 11 (poi in Id., Heures immortelles, 1914-1919, Paris, Nouvelle Librairie Française, 1932, p. 11).



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aveva preso la forma di uno scontro tra civiltà irriducibilmente diverse. Si posero in risalto le differenze storiche, culturali e filosofiche, fino a far emergere una linea discriminatoria priva di compromessi e tesa a separare nettamente il campo della civiltà da quello dei suoi nemici. Questa rabbiosa antitesi rispecchiava gli schieramenti interni: la cultura germanica era infatti apertamente ammirata da quei settori politici, come la Destra, e da quegli orientamenti culturali, come la tradizione filologica-erudita o il pensiero crociano, contro cui il futurismo era naturalmente contrapposto. Le voci dissenzienti, come ad esempio quelle del Borgese della Nuova Germania, che auspicava una comprensione effettiva dell’eredità del Romanticismo tedesco contro la «nevrosi artistica francese», apparivano minoritarie; d’altra parte, i suoi moderati e piuttosto farraginosi articoli parevano fatti apposta per sobillare la risposta degli estremisti13. L’urgenza del momento dettò infatti al nucleo futurista e lacerbiano pagine istigatrici e certamente frettolose. In una lunga lettera a Papini, Prezzolini lamentò la confusione tra ciò che s’intendeva per «civiltà» e «i propri gusti contemporanei». Una rivista come «Lacerba» a suo giudizio stava dando prova d’un semplicismo ripugnante: invocando la difesa dell’Italia e dell’italianità, Papini cadeva in contraddizione con quanto aveva espresso per anni. Lo scambio epistolare che ne seguì costituisce, ancora oggi, uno dei migliori capi d’accusa all’irresponsabilità e alla mancanza di senso civico di quegli intellettuali che vollero scambiare la libertà di pensiero con l’arbitrio, l’individualismo con l’egocrazia, l’esercizio critico con un compiaciuto scetticismo immorale14. In effetti, nelle pagine della rivista la polemica artistica fu stravolta a oratoria tribunizia; la forma aforistica e il frammento, sin 13  G. A. Borgese, Nuova Germania, Torino, Bocca, 1909; Id., Civiltà latina e civiltà teutonica nella storia del mondo. Avversari, non odiatori della Germania, «Il Resto del Carlino», 28 agosto 1914; Id., Italia e Germania, Milano, Treves, 1915 e cfr. Id., La guerra delle idee, Milano, Treves, 1916, p. 208: «Diverrà ogni giorno più manifesto che la lunga nevrosi artistica francese e le nostre stracche imitazioni di essa erano sforzi cui noi assoggettavamo la nostra natura per applicare fino alle estreme conseguenze i principi della rivoluzione romantica tedesca, per renderci degni della nazione che in tutto primeggiava. Tornare alla nostra natura significherà in primo luogo tornare al desiderio di un’arte nettamente espressiva, ferma e chiara nei contorni, totalmente realizzata». 14  G. Papini, G. Prezzolini, Carteggio II, cit., pp. 476 sgg.



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lì adoperati come esercizi di stile, generarono parole d’ordine e slogan apocalittici. Gli eroi della cultura tedesca furono ridicolizzati; l’intelligenza pareva sussistere solo nella raison illuminista; il pragmatismo di William James, impugnato come una clava, consentiva di liquidare le più complesse questioni della filosofia germanica semplicemente come indegne dell’attenzione di cui erano state oggetto15. La Francia, chiosò Papini convertendo i precetti di Soffici in schema politico, aveva insegnato allo spirito contemporaneo il «puro lirismo»16. Al risentimento per un Risorgimento incompiuto si sommarono i perenni motivi antiborghesi, il dichiarato odio per la barbarie tedesca, mozioni d’ordine e giustizia, discrimini estetici e comportamentali prima ancora che ideologici17. «Una delle grandi nazioni civili – osserverà qualche tempo dopo Sigmund Freud – è diventata tanto odiosa agli altri popoli che si tenta di escluderla come ‘barbara’ dalla comunità civile, e ciò benché essa abbia da gran tempo dimostrato con contributi egregi, le sue prerogative di civiltà»18. La tradizione rivoluzionaria francese venne contrapposta al socialismo tedesco. Nella Francia s’identificava la patria del pensiero laico e delle libertà civili, laddove Austria e Germania incarnavano feudalesimo, militarismo e stato di repressione. Si volle dimenticare che Gugliemo Ferrero, uno degli autori più letti e discussi dell’epoca, aveva invece saputo cogliere nella società tedesca i segni di un’effettiva riforma sociale, in grado di avviare la piena rappresentanza dei ceti produttivi. A suo giudizio, i popoli latini restavano piegati su tentativi astratti di riforme morali, scatenati dagli impulsi dell’anarchismo naturalista di Kropotkin, dal cristianesimo di Tolstoj e dall’individualismo di Nietzsche. Invece, il socialismo tedesco combatteva contro «l’agonia del cesarismo», opponendosi al governo parassitario e re15  G. Papini, L’eroe tedesco, «Lacerba», III, n. 3, 17 gennaio 1915, pp. 17-19; Id., L’intelligenza francese, ivi, n. 13, 27 marzo 1915, pp. 97-98. Su tale uso del pragmatismo di James, cfr. H. Stuart Hughes, Coscienza e società. Storia delle idee in Europa dal 1890 al 1930, Torino, Einaudi, 1967, p. 115. 16  Ciò che dobbiamo alla Francia, «Lacerba», II, n. 17, 1 settembre 1914, p. 251. 17  A. Soffici, Sulla barbarie tedesca, «Lacerba», II, n. 22, 1 novembre 1914, p. 291. 18  S. Freud, Zeitgemässes über krieg und tod, «Imago», vol. 4, n. 1, pp. 1-21, 1915, cit. da Id., Opere, vol. VIII, Torino, Boringhieri, 1976, pp. 123-148, 127.



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pressivo, sfidando un capitalismo ancora grossolano e imperfetto a contribuire all’equilibrio e alla giustizia attraverso il lavoro. La società dell’avvenire si sarebbe basata sull’etica del lavoro delle masse: «Nelle società germaniche va succedendo quella che è la più grande trasformazione del nostro secolo: l’intelligenza perde la sua antica dominazione assoluta del mondo e deve dividerla col senso morale; il valore sociale del genio scema innanzi alla crescente forza ceativa delle masse». Un’affermazione che l’egocrazia delle avanguardie italiane non poteva certo sottoscrivere, anche se Ferrero, correttamente, aveva compreso la natura collettiva della costruzione sociale: «La civiltà diventa sempre più un’opera collettiva; e questa opera cresce di grandiosità e perfezione, quanto più si affina non l’intelligenza, ma il senso morale degli individui che compongono la massa»19. È esattamente il significato da attribuire a questo invocato «senso morale» che distinse l’interventismo futurista e lacerbiano e, in prospettiva, i suoi sviluppi postbellici. Con maggiore lucidità politica, la contrapposizione tra latinità e germanesimo era da tempo argomento prediletto dei nazionalisti20. Per Papini, tuttavia, le motivazioni particolaristiche del partito nazionalista erano ormai obsolete. Al centro della guerra stava un motivo «ideale» strenuamente antitedesco: «Secondo me l’Italia doveva entrare in guerra per motivi generali, quasi metafisici, di necessaria difesa contro una certa cultura, una certa civiltà, una certa grandezza ostile e ripugnante che s’è fatta carne e ferro nella Germania». Papini delineava una netta opposizione fra culture latine e «kultur» tedesca, questa identificabile nello «spirito conservatore, nello spirito di casta, nel clericalismo cattolico, luterano e filosofico». A esso andava opposta una «guerra ideale» 19  G. Ferrero, L’Europa giovane. Studi e viaggi nei paesi del Nord, Milano, Treves, 1897, pp. 417-422. 20  E. Corradini, Il nazionalismo italiano, Milano, Treves, 1914, p. 40: «Il cerchio delle nazioni conquistatrici, cerchio economico e cerchio morale, è stretto intorno a noi che ci nutrimmo di rinunzie per utopismo filosofico, per cecità popolare e per viltà borghese. Possiamo romperlo, questo cerchio?». Un altro leader nazionalista di spicco come Alfredo Rocco rilanciava: «la razza italiana si espande, rompe i freni, che la legano al territorio della patria, ed avanza»(A. Rocco, Che cosa è il nazionalismo e che cosa vogliono i nazionalisti, Roma, Associazione nazionalista, 1914, cit. da N. Tranfaglia, La Prima guerra mondiale e il fascismo, Torino, Utet, 1990, p. 25).



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che doveva vedere affiancata l’Italia alla Francia «geniale», all’Inghilterra «liberale», alla Russia «pazza», per dominare la Germania21. Questo radicale contrasto si dotava anche d’argomenti assai più concreti, paventando la penetrazione economica tedesca in Italia: la critica al pangermanesimo diveniva lotta all’indiscriminata espansione politico-affaristica22. Il processo d’elaborazione dell’immagine del nemico venne così a identificare il tedesco con il borghese, il capitalista e l’imperialista. La stampa interventista attribuì al fronte dell’Intesa un’intera costellazione di valori stereotipati. L’immagine dei paesi alleati era composta da motivi di fratellanza e condivisione di valori ideali: la comune matrice latina, il retroterra storico, la tradizione culturale. Il più celebre sostenitore di questa posizione fu senz’altro Gabriele d’Annunzio, che dall’«esilio» parigino pubblicò su «Le Figaro» del 18 agosto 1914 una Ode pour la Résurrection latine. Fino alle cosiddette «radiose giornate di maggio» il poeta fu l’instancabile bardo della «civiltà latina», non senza una pesante vena retorica. Nell’estate del 1914 l’escalation dell’interventismo lacerbiano non conobbe soste. Nonostante il progressivo allontanamento tra il gruppo toscano e Marinetti, l’attività della rivista impose una radicale svolta all’agenda di tutti i futuristi. Anzi, fu proprio Papini a rimproverare a Marinetti l’imperdonabile silenzio, dinanzi ai primi moti, in una lettera assai esplicita: «Quest’inazione futurista fa cattivissima impressione. A Roma socialisti e nazionalisti hanno saputo fare un po’ di rumore – e voialtri a Milano niente […] Il futurismo ha in testa al suo programma l’adorazione della guerra e ora che la guerra c’è – e quale guerra! tu stai zitto e fermo?»23. Buona parte dell’immediata efficacia del manifesto fu nella sua tempestività. In quel momento, dopo il ritiro tedesco dalla Marna, era sfumata l’ipotesi di una rapida vittoria della Triplice alleanza. La guerra era entrata in stasi; all’opinione dei più accesi interventisti, il governo appariva smarrito, e al tempo stesso G. Papini, La paga del soldato, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1915; Id. L’Europa occidentale contro la Mittel-Europa, Firenze, Libreria della Voce, 1918. 22  G. Preziosi, La Germania alla conquista dell’Europa, Firenze, Libreria della Voce, 1915; sulle contraddizioni di questo modello interpretativo, cfr. F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Torino, Einaudi, 1985. 23  Cfr. Papini a Marinetti, 17 settembre 1914, cit. da C. Salaris, Marinetti editore, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 151. 21 



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preoccupato per l’irresponsabilità di chi sobillava i moti di piazza; tra attendismo e contrasti, s’era intanto deciso il rinvio della decisione all’intervento, mentre la posizione ufficiale dei socialisti riformisti s’irrigidiva nella formula della neutralità assoluta24. È presumibile dunque che la divulgazione di Sintesi futurista della guerra sia stata un’operazione varata per agire su almeno tre fronti. Il primo era quello aperto da «La Voce», che con un articolo di Prezzolini comparso alla fine di agosto considerava chiusa la fase attendista della neutralità, e apriva alla doverosa necessità del conflitto, con argomenti non dissimili a un’idea di palingenesi sociale («La civiltà non muore! Indietreggia per prendere un nuovo slancio. Si tuffa nella barbarie per rinvigorirsi»)25. Il secondo fronte era rivolto verso i nazionalisti, che stavano consolidando la campagna interventista a fianco dell’Intesa, promossa con particolare evidenza da l’«Idea nazionale» nelle prime settimane di settembre, con gli articoli di Luigi Federzoni e Francesco Coppola. Il terzo fronte, infine, era destinato a dare una risposta alle sollecitazioni di Papini, per non trovarsi superati dal fronte interventista lacerbiano. D’altra parte, la stessa «Lacerba» proprio in occasione di quel simbolico 20 settembre, che è anche la data del volantino di Marinetti, uscì con un’edizione straordinaria aperta da un perentorio, per quanto ingenuo, ultimatum redazionale26. Non è privo d’interesse il fatto che, a seguito dei fatti milanesi, Mussolini convocò il gruppo parlamentare socialista a Roma il 21 e il 22 settembre, avviando quelle manovre che porteranno, 24  B. Vigezzi, L’Italia di fronte alla Prima guerra mondiale, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, 2 voll.; per la specifica situazione milanese v. Milano in guerra 19141918. Opinione pubblica e immagini delle nazioni nel primo conflitto mondiale, a cura di A. Riosa, Milano, Unicopli, 1997; G. E. Rusconi, L’azzardo del 1915. Come l’Italia decise la sua guerra, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 103. 25  G. Prezzolini, Facciamo la guerra, «La Voce», VI, n. 16, 28 agosto 1914, p. 1. Prezzolini fu però tra coloro che rifiutarono i toni di guerra tra civiltà: «Noi non rinunceremo mai ad avvicinarci, con quello spirito d’indipendenza che anche prima avevamo, alla nutriente fonte di sapere e all’eccitamento suggestivo del pensiero classico tedesco […] noi dobbiamo invece contro i degeneri tedeschi d’oggi risollevare i valori umani della Germania di ieri, e non dare retta a un patriottismo cieco» (G. Prezzolini, La guerra e la coltura, «Nuova Antologia», CLXXX, 1 agosto 1916, pp. 305-313. Sulla posizione di Prezzolini dinanzi alla guerra v. R. De Felice, Prezzolini, la guerra e il fascismo, «Storia Contemporanea», XIII, n. 3, giugno 1982, pp. 363 sgg. 26  Dichiarazione, «Lacerba», II, n. 19, 20 settembre 1914, p. 265.



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esattamente un mese dopo, alla conversione del direttore de «L’Avanti», alla causa di guerra: il memorabile articolo dal titolo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante notoriamente gli costò l’espulsione dal partito27. Sintesi futurista della guerra si può dunque leggere anche come riflesso di un’opposizione tutta interna allo schieramento politico italiano. Essa vedeva contrapporre l’interventismo dei socialisti rivoluzionari, non a caso assai prossimi alle tensioni politiche del futurismo, all’esasperato neutralismo tattico della frazione riformista del partito socialista. Gli aggettivi riservati nel manifesto ad Austria e Germania erano gli stessi impiegati nella pubblicistica futurista contro il governo borghese del «mestatore di Dronero» Giolitti, contro la tattica del «sacro egoismo» di Salandra, contro i timori dei leader socialisti come Turati e Treves. Tra arte pura e propaganda Si può ben dire che con la pubblicazione della Sintesi futurista Marinetti aveva colmato il colpevole ritardo. Inoltre, grazie all’invenzione dello schema grafico, il poeta aveva tempestivamente scovato una formula comunicativa laconica quanto efficace, funzionale agli scopi immediati di propaganda. In una bella lettera a Severini, che stava vivendo la mobilitazione a Parigi, Marinetti spiegò che il futurismo doveva diventare «l’espressione plastica di questa ora futurista». Esso avrebbe spinto i pittori a una «semplificazione brutale di linee chiarissime»28. Partito in relativo ritardo, Marinetti aveva trovato, grazie al lavoro con i pittori, il modo per sostituire alla retorica dell’argomentazione in prosa la concisione grafica di una vera réclame ideologica. La contrapposizione manichea tra latinità e germanesimo e il tono apodittico della comunicazione politica favorivano, per loro stessa natura, soluzioni di sintesi grafica e di R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 1965, pp. 257 sgg. Archivi del Futurismo, cit., vol. I, p. 349, Marinetti a Severini, 20 novembre 1914. Il pittore raccolse il suggerimento, e verosimilmente iniziò in quel momento l’importante serie di quadri di guerra presentati poi a Londra: cfr. Gino Severini, Ière Exposition Futuriste d’art plastique de la guerre et d’autres oeuvres anterieures, Paris, Galerie Boutet de Monvel, 15 gennaio-1 febbraio 1916. 27  28 



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massima economia di testo, parificandole al linguaggio pubblicitario. Da questo punto di vista, Sintesi futurista si distaccava da tutte le tradizionali forme argomentative29. Nel complicato mosaico dell’interventismo degli intellettuali, non erano infatti in questione soltanto le posizioni ideologiche, ma anche le formule retoriche attraverso cui esse potevano essere argomentate, difese e combattute. È importante sottolineare questo aspetto, perché dietro questa infaticabile attività di propaganda restava in gioco, come sempre, la definizione, la posizione e il ruolo degli intellettuali italiani dinanzi alla società moderna. Insofferente a ogni retorica che non fosse la sua, Papini condannò infatti nelle pagine interventiste di d’Annunzio la «processione plagiaria delle litanie» e l’«afosità dei richiami storici, antichi e letterari», opponendovi il «grido del poeta convulso» nella «concretezza del momento presente»30. La natura trasversale del fronte interventista stava creando un clima eccitato e corale, dove era facile ritrovare al proprio fianco i bardi dell’Italia umbertina e giolittiana che si erano sempre combattuti. In effetti, una rivista assai cauta e tradizionale come il «Marzocco» stava avvertendo che tutto ormai sembrava parificarsi «in una emozione unica e indistinta soggiogante e livellante»31. Il puntuale risentimento papiniano verso d’Annunzio manife29  Per un panorama sul rapporto tra interventismo e arti visive, si v. almeno J. M. Winter, Nationalism, the visual arts, and the myth of war enthusiasm in 1914, «History of European Ideas», 1992, n. 15, pp. 357-362; M. Hanna, The Mobilization of Intellect. French Scholars and Writers during the Great War, Cambridge, Harvard University Press, 1996; più nello specifico, perlomeno per la Francia, gli studi ormai classici di K. Silver, Esprit de corps. The Art of Parisian Avant-Garde and the First World War, 1914-1925, London, Thames and Hudson, 1989 e R. Cork, A Bitter Truth. Avant-garde Art and the Great War, New Haven-London, Yale University Press, 1994. 30  G. Papini, I Mille e lo Zero, «Lacerba»; III, n. 19, 8 maggio 1915, p. 146. Sul «Mercure de France» Papini fu ancora più esplicito, due anni dopo: «On est convaincu, à l’étranger, qu’on lui doit l’entrée en guerre de l’Italie […] Son rôle a été à fait semblable à celui de la mouche du coche. Mais d’Annunzio était déjà connu à l’étranger et ne s’est plu à imaginer le Barde qui revenait exprès de l’exil pour conduire son peuple à la victoire. Hélas! Si tout n’avait pas été fait, ses discours seraient tombé dans le vide. D’Annunzio avait beaucoup perdu de son ancienne popularité (qui n’a jamais été cordiale) et il a accompli son geste pour conquérir sa place de “poéte national” qu’il ambitionne depuis longtemps» (Lettres italiennes, 17 mars 1917, p. 328). 31  G. Rabizzani, Il pensiero dominante, «Il Marzocco», XIX, n. 36, 6 settembre 1914, p. 3.



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stava con chiarezza l’insofferenza di chi assisteva alla cerimoniosa consegna, dalla parte più retorica e paludata della società borghese, di un mandato morale e politico al Vate che suonava doppiamente falso. L’oratoria a occhi sgranati e braccia distese non celava, a suo dire, l’incapacità di sentimento di patria; di per sé, quella poesia non poteva incardinare i valori della politica, né porsi come sua sussidiaria. Difficile dire quanto in questa doppia condanna della poesia e della retorica come funzione politica e civile ci fosse l’effettiva coscienza della sconsacrazione dell’arte, la sua riduzione al grado zero dell’incidenza nel sociale; e quanto, invece, fosse più semplicemente in Papini l’acrimonia verso colui che meglio di altri aveva saputo plasmare il proprio ruolo, adattandosi abilmente alla cronaca per innestarvi un mito di già logora scrittura32. L’ossessione per quel che sarebbe avvenuto dopo gli eventi era presente ancor prima della sua dichiarazione effettiva: il problema, ammise Papini nell’ultimo fascicolo di «Lacerba», pubblicato a ridosso della dichiarazione di guerra, sarebbe stato quello di non soccombere ai retori dell’ultim’ora. In quel momento era ben difficile distinguere le proprie posizioni da quella di un Ojetti o di un d’Annunzio. Il rischio era quello di investire nella guerra l’impegno degli uomini nuovi, e trovarsi alla fine delle ostilità divisi tra le legittime richieste dei ceti così emersi e le sopravvivenze dell’ancien régime glorificate dal bagno di sangue: un tema, come vedremo, che sarà l’asse portante delle rivendicazioni de «Il Selvaggio». Due autori vociani si comunicarono timori simili: «Il primo risultato ideale di questa guerra è una insopportabile miseria. Io non so più come torcermi. […] Il secondo sarà che per ventanni la patria empirà di sé tutte le rettoriche. Sono i soliti trabocchetti della storia e della società»33. Per Marinetti e i futuristi si doveva produrre una letteratura che fosse tutt’uno con la realtà, accettando il fine mimetico e pedagogico dell’arte e della poesia. Indisponibile a un simile esito, Soffici dovette comunque accettare il destino d’insularità dell’ePapini, I mille e lo Zero, cit., p. 145. G. Papini, Abbiamo vinto!, «Lacerba», III, n. 22, 22 maggio 1915, p. 161; Carteggio Giovanni Boine-Emilio Cecchi (1911-1917), a cura di M. Marchione e S. Scalia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1983, p. 159 (Boine a Cecchi, 4 luglio 1915). 32  33 



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sperienza artistica: essa non poteva apparir altro che un diletto innocuo, escluso a priori dalla politica. Il modello di una via italiana alla modernità nazionale, che la storia sembrava porgere alle avanguardie – come si è visto nel capitolo precedente – non poteva reggere, ora, alla prova della cronaca. La parabola della pittura pura si arrestò, dinanzi alla domanda d’immagini al servizio della propaganda, alla creazione di un mito visibile e condivisibile che divorava la forma pura, l’arabesco, l’armonia di colori e linee, restituendo figure, eventi, azioni di immediata riconoscibilità sociale. Dentro questo spazio, l’immagine riacquistava quella chiara densità ideologica che le ricerche formalistiche del futurismo, dopo i quadri del 1911 come il Funerale anarchico, avevano smarrito. I disastri della guerra È certo, per tornare a Sintesi futurista della guerra, che il manifesto venne solamente ideato e abbozzato in carcere; e anzi, così come venne raccontato dai protagonisti, l’episodio sembra far parte della vasta mitografia futurista. La stampa e la diffusione avvennero nelle settimane seguenti. Nella loro condizione di libertà provvisoria, ai futuristi era impedito di partecipare alle manifestazioni pubbliche. Marinetti però ebbe modo di scendere a Roma per organizzare la protesta con il gruppo locale di pittori futuristi, fra cui Balla e Mario Sironi, il quale con ogni probabilità in questa occasione venne a conoscenza del volantino. Qualche tempo dopo la loro pubblicazione, le tesi di Sintesi futurista della guerra furono rielaborate e trovarono spazio in un ampio manifesto (In quest’anno futurista) all’indirizzo degli studenti d’Italia, il 29 novembre 1914. Questo manifesto recupera la forma convenzionale dell’impaginazione tipografica lineare, a conferma di un doppio registro d’intervento. Le prosa era riservata al pubblico colto, alle élites intellettuali che frequentavano le riviste. La sintesi grafica e le sinossi erano invece destinate a un pubblico più vasto, talvolta poco o male alfabetizzato. I testi di Marinetti sembrano dunque oscillare tra due forme di base. Da un lato il manifesto vero e proprio, dove prevale l’ar-



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gomentazione e la leggibilità di un testo ordinato per nessi logici e sintattici, come ancora in Per la guerra, sola igiene del mondo, dato alle stampe all’inizio del 1915, con ampi reimpieghi di argomenti e slogan diffusi a partire da Uccidiamo il chiaro di luna! Dall’altro lato, si venivano sperimentando soluzioni visive d’impatto immediato. Coerenti con le loro posizioni, tutti gli esponenti del movimento futurista si arruolarono volontari. Marinetti riepilogherà le vicende dei primi mesi di guerra nel manifesto L’orgoglio italiano, che uscì nel dicembre 1915 anche con la firma di Sironi. Altri due firmatari, Umberto Boccioni e l’architetto Antonio Sant’Elia, caddero poco tempo dopo al fronte. Il movimento futurista si era reso protagonista delle più intense fasi dell’azione e della propaganda interventista; si può anzi dire che abbia fornito a essa un patrimonio di soluzioni ideologiche, letterarie, visuali, grafiche e tipografiche tali da giustificare l’esistenza di uno specifico interventismo futurista34. Questa predominanza scomparve nel corso della guerra. I motivi di questa rimozione appaiono piuttosto chiari: il futurismo era dominato da un’esplicita conflittualità, laddove invece nei giornali di trincea dominava un ideale di pacificazione tra le classi. Come ha osservato Mario Isnenghi, l’immaginario futurista, fondato su un agonismo polemico e sull’antagonismo della distruzione, era fortemente sfasato rispetto alla logica rassicurante e alla banale pedagogia dei giornali per le truppe35. L’esperienza di guerra costituì una radicale discontinuità ad ogni livello della coscienza. Indusse un forte mutamento antropologico e psicologico, aprendo un nuovo paesaggio mentale che, come hanno dimostrato i fondamentali studi di Paul Leed e Eric Fussell, comprendeva la crisi dell’identità, la dissociazione tra l’io e il mondo e una rinnovata percezione della corporeità nell’esperienza della morte e del dolore36. Si veda A. D’Orsi, Interventismo, in Il Dizionario del futurismo, Firenze, Vallecchi, 2001, vol. I, ad vocem. 35  M. Isnenghi, Giornali di trincea, Torino, Einaudi, 1977, p. 71. 36  Rinvio ai classici studi di E. J. Leed, No Man’s Land. Combat & Identity in World War I, Cambridge, Cambridge University Press, 1979; P. Fussell, The Great War and Modern Memory, Oxford, Oxford University Press, 1975; per la situazione in Italia, v. A. Gibelli, L’officina della guerra. La Grande guerra e le trasformazioni del mon34 



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Secondo Agostino Gemelli, tra i primi a studiare sistematicamente la psicologia dei combattenti, la logorante guerra di posizione aveva stabilito un «restringimento del campo della coscienza», un «impoverimento del bagaglio individuale d’immagini», spingendo a un’esclusiva attenzione alle condizioni materiali e allo svanire delle motivazioni ideali37. Fino al 1917 vi furono solo modesti tentativi d’educazione collettiva; dopo Caporetto, si avviò una strategia sistematica e consapevole per incidere sulla psicologia delle truppe. L’azione di propaganda fu curata da una struttura che, a pieno regime, produceva cinquanta giornali per i soldati con tirature stimate fino a 200.000 copie38. I primi giornali per i soldati seguivano una linea d’intrattenimento grossolano e umoristico, senza nascondere un’indole antipolitica. Erano realizzati da gruppi d’ufficiali borghesi di complemento, provenienti dalle fila dell’interventismo democratico. Avevano basse tirature e diffusione locale, all’insegna di un volenteroso spontaneismo. Il linguaggio impiegato era perlopiù ordinario, burlesco e remissivo39. Secondo il comando italiano, il soldato italiano era alieno dalla violenza, incapace di reagire apertamente al nemico e orientato invece a svolgere azioni spontanee di solidarietà e fraternità. La propaganda doveva quindi agire seguendo una strenua riconversione ideologica ed emotiva del soldato, per renderlo aggressivo e guerriero. È in questo contesto che Sintesi futurista della guerra subì una metamorfosi, ripresentandosi a un pubblico del tutto nuovo.

do mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1991 e cfr. M. Isnenghi, Il caso italiano: tra incanti e disincanti, in Gli intellettuali e la Grande Guerra, Atti del convegno (Trento, 4-6 novembre 1998), a cura di V. Cali, G. Corni, G. Ferrandi, Bologna, Il Mulino, 2000, («Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», Quaderni, 54), pp. 247-262. 37  A. Gemelli, Il nostro soldato, Milano, Treves, 1917. 38  N. Della Volpe, Esercito e propaganda nella Grande Guerra (1915-1918), Roma, Ufficio Storico dell’Esercito, 1989; G. L. Gatti, Dopo Caporetto. Gli ufficiali P nella Grande Guerra: propaganda, assistenza, vigilanza, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2002. 39  Isnenghi, Giornali, cit., p. 45; sul tema dell’infantilismo di questi codici comunicativi, cfr. ora A. Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Torino, Einaudi, 2005.



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Verso la redenzione A quattro anni di distanza dal manifesto Sintesi futurista della guerra, e a poche settimane dalla vittoriosa conclusione del conflitto, sul giornale per soldati «Il Montello» comparve un’illustrazione intitolata Sintesi della Guerra mondiale. Questa illustrazione riprende lo schema compositivo del primo manifesto, operando alcune modifiche nel testo e nei colori. La tavola non reca la firma, ma è attribuita concordemente a Mario Sironi, che fu tra i più assidui collaboratori alla testata. In quale modo questa variante del manifesto interventista cercò d’interpretare i mutamenti sin lì avvenuti? Una prima considerazione su Sintesi della Guerra mondiale si deve svolgere a partire dalla sede della sua pubblicazione. Il primo numero della rivista «Il Montello», forse il vertice dell’illustrazione italiana di trincea, era uscito con la data del 20 settembre 1918. Il titolo della rivista alludeva all’omonimo altipiano, in provincia di Treviso, fronteggiante il teatro di guerra; il sottotitolo recitava «Quindicinale dei soldati del Medio Piave». Si tratta di un foglio quindicinale, di dimensioni apprezzabili (50 x 35 cm.), scritto e illustrato dai soldati, e per il quale Sironi realizzò una ventina d’illustrazioni di vario tipo: copertine a colori, disegni a tempera, silhouette al nero, vignette al tratto40. La rivista uscì per soli tre numeri, più un numero straordinario pubblicato in occasione della vittoria. Per il primo numero Sironi disegnò la copertina e alcune immagini interne, e rimpaginò il manifesto del 1914, collocandolo nella metà superiore della terza pagina (figg. 3.4, 3.5). A questa data, Sironi aveva già alle spalle un notevole curriculum di grafico e illustratore, come dimostrato dalla collaborazione al settimanale «Gli Avvenimenti» tra 1915 e 1916. Qui Sironi ebbe modo di sperimentare un linguaggio essenziale, che prediligeva la linea spezzata, i bruschi contrasti chiaroscurali e gli innesti dinamici di matrice cubofuturista. Boccioni, che aveva F. Benzi, A. Sironi, Sironi illustratore, Roma, De Luca, 1988, nn. 100-119; Dizionario del futurismo, cit., vol. II, ad vocem, «Il Montello». Una fitta cronologia sironiana di questo periodo è stata prodotta da F. Rovati in Sironi metafisico. L’atelier della meraviglia, a cura di S. Tosini Pizzetti (Fondazione Magnani Rocca, Mariano di Traversetolo, 2007), Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2007, pp. 37 sgg. 40 



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Figura 3.4 «Il Montello», 20 settembre 1918, copertina di Mario Sironi.

partecipato con Sironi ad un’azione di guerra nell’autunno 1915, elogiò la potenza plastica e drammatica di questi disegni41. Rispetto alla maggior parte delle immagini di propaganda, Sintesi della Guerra mondiale è lontano da ogni forma di populismo semplificato. Il registro caricaturale presente in molte illustrazioni giocava sulla piena riconoscibilità dei tipi, esagerandone le caratteristiche, e favorendo in tal modo una completa osmosi fra i tratti 41  U. Boccioni, Gli scritti editi e inediti, a cura di Z. Birolli, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 396, e cfr. la scheda di F. Fergonzi d’una di queste tavole, in Sironi metafisico, cit., pp. 42-45.



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Figura 3.5 Mario Sironi, Sintesi della Guerra mondiale, «Il Montello», 20 settembre 1918.

visivi e il messaggio ideologico. Sironi preferì invece accentuare la drammatizzazione dei contrasti cromatici e geometrici, ponendo in risalto il segno grafico e conferendo ad esso la massima espressività. Sul piano tipografico, il manifesto è composto con un carattere diverso, tutto in maiuscolo, rispettando sostanzialmente le variazioni di corpo dell’originale. La prima e più importante differenza si trova nel titolo: l’aggettivo «futurista» applicato alla «sintesi» venne qui sostituito da «mondiale», in riferimento alla guerra. Questo cambiamento naturalmente rifletteva l’effettiva natura che aveva preso il conflitto; la pretesa di attribuire ad esso una qualsivoglia natura «futurista» non poteva che apparire obsoleta, se non dannosa. Anche la variante del sottotitolo, che riprendeva solo la prima riga dell’originale, confermava la presa di distanza dal movimento: la parte espunta, infatti, si richiamava al «diritto futurista di distruggere». Fra gli stati dell’Intesa fu naturalmente eliminata la Russia sovietica: ma due caratteristiche attribuite ad essa nel 1914 (potenza e solidità) furono trasferite agli Stati Uniti, nuovi protagonisti del



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conflitto42. Serbia e Montenegro furono unificati sotto la dizione generica di «slavi», mantenendo intatte le loro qualifiche. Nella sezione «Barbarie» si mantenne intatta l’intera nomenclatura relativa a Austria, Germania e alla cultura tedesca; a esse vennero aggiunte Turchia e Bulgaria con l’ingiuriosa qualifica di «zero». Le modifiche più vistose furono date dalla colorazione rossa del cuneo e verde del semicerchio. Questo contrasto cromatico appariva funzionale alla ridefinizione dei due principali termini del conflitto. Al «Futurismo» infatti si sostituiva ora la «Libertà»; al «Passatismo» la «Barbarie». Quello che nella prima formulazione di Marinetti era dunque un discorso sostanzialmente incentrato sulla rappresentazione del conflitto in chiave futurista, diveniva qui un contrasto assoluto di civiltà. Gli «otto poeti» – cioè gli otto paesi dell’Intesa – mutarono in «tutti i popoli-poeti», in opposizione alla barbarie. Schematicamente, l’organizzazione ideologica del manifesto Sintesi futurista della guerra si può così rappresentare: Triangolo (dinamismo) / futurismo / 8 poeti / Alleati / Genio creatore vs Cerchio (stasi) / passatismo / critici pedanti / Triplice / Cultura tedesca

E per Sintesi della Guerra mondiale: Triangolo (dinamismo) / rosso / libertà / Alleati / Tutti i Popoli-poeti / Genio creatore vs Cerchio (stasi) / verde / barbarie / Triplice / Critici pedanti / Cultura tedesca

La bicromia rosso/verde di Sintesi della Guerra mondiale non aveva solo un’ovvia assonanza con i colori della bandiera italiana, ma era in rapporto all’immagine di copertina della stessa rivista, anch’essa opera di Sironi. In questa illustrazione si possono osservare alcune bombarde lanciate contro il nemico, con un effetto di intrusione analogo al cuneo nel cerchio. Il soldato che sfogliava la rivista era destinatario di due messaggi visivi così calibrati: 1) la copertina narrava in forme figura42  Sull’impatto dell’intervento statunitense, cfr. D. Rossini, Il mito americano nell’Italia della grande guerra, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 18.



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tive gli ordigni tricolori esplosi contro l’esercito nemico; 2) nella pagina successiva, questo messaggio era tradotto in forme geometriche: attraverso la mediazione di forme astratte lo stile descrittivo si condensava in un’icona. L’impaginazione seguiva così un ordine progressivo di argomentazione e di visualizzazione, procedendo dal generale al particolare, dal narrativo all’iconico, dal descrittivo all’allusivo. In tal modo, la copertina illustrata offriva quel primo grado di lettura che guidava alla comprensione del secondo livello, dichiaratamente ideologico e politico; quest’ultimo, s’incaricava di tradurre il fatto concreto (il bombardamento) in un perdurante conflitto di civiltà. La rielaborazione grafica operata da Sironi era quindi funzionale a una diversa forma di comunicazione. Dalla descrizione d’un fatto si passava all’istituzione di un mito: la struttura narrativa dell’agonismo futurista diveniva una asseverativa forma iconica. La vera novità del manifesto, nella variante del 1918, non stava tanto nella rimozione delle qualifiche «futuriste» del messaggio, quanto piuttosto nella consapevolezza di un nuovo pubblico e di un più ampio orizzonte di attese. Sironi era cosciente di rivolgersi a un destinatario collettivo, di alfabetizzazione precaria, la cui massa aveva pressoché interamente sovrastato gli studenti e gli intellettuali interventisti del 1914. Il suo codice visivo era interamente funzionale al discorso propagandistico. Espunta dalle inattuali componenti futuriste, l’essenzialità grafica del vecchio manifesto del 1914 si confermava come la scelta più efficace per una comunicazione politica che ambisse a sostituire le forme di retorica persuasiva con strenue affermazioni apodittiche43. L’astrazione geometrica offriva modelli didascalici di grande impatto: la semplicità degli schemi riduceva il messaggio a slogan, sfruttando la continua oscillazione tra l’immagine percepita e il testo in lettura. La resa astratta dell’immagine si emancipava così dalla descrizione cronachistica della guerra; eliminando ogni possibile narrazione didascalica, ci si affidò alla sintassi abbreviata e ad una curata aggettivazione. In tale modo si predisponeva il potenziale lettore a oltrepassare la realtà percepita – la realtà della 43 

F. Rigotti, Il potere e le sue metafore, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 31.



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trincea – approdando a una mistica del conflitto, alla palingenesi dei «popoli-poeti». La propaganda e il suo destinatario Fino a qui, si sono seguite le intenzioni implicite di Sintesi della Guerra mondiale; ma quale poteva essere l’impatto reale di questo testo? Cosa rimaneva del suo messaggio, una volta pervenuto ai suoi destinatari naturali? È opinione condivisa da tutti gli storici la scarsa o nulla ricezione dei giornali di trincea da parte del popolo e dei soldati semplici di truppa. La prima e più importante causa era l’analfabetismo: secondo i rilevamenti statistici, la classe del 1872 registrava il 39% di analfabeti, che scendevano al 23% per la classe del 1900, ultima a essere mobilitata. Aggiungendo i semianalfabeti, è verosimile supporre un 50% delle truppe pressoché aliene alla propaganda scritta: donde la necessità, e lo sviluppo di un’adeguata comunicazione orale e visiva di semplice e immediato impatto. Nella sua struttura argomentativa Sintesi della Guerra mondiale ricorda i cosiddetti «Spunti di conversazione ai soldati», ossia quegli schemi di ragionamento e di argomentazione predisposti dall’Ufficio Propaganda per le conversazioni informali44. Una seconda ragione che può spiegare queste difficoltà è la forte ostilità che le truppe nutrivano verso i giornalisti e i redattori delle riviste di guerra, considerati degli imboscati nelle retrovie. Per queste ragioni, i giornali andavano a disciplinare i ceti intermedi senza risaldare i legami tra i superiori e i subordinati. Alcuni fogli si orientarono esplicitamente non verso le truppe, ma verso gli ufficiali di origini borghese. I giornali di trincea non erano d’altra parte semplici strumenti di propaganda immediata, ma avevano il compito di raccordare il presente al futuro, convertendo l’esperienza di guerra in criteri e modelli per un rinnovamento della vita civile e dei rapporti di classe45. Al di fuori di queste élites consapevoli, buona parte degli italiani rimanevano estranei ai valori nazionali, né possedevano gli 44  P. Melograni, Storia politica della grande Guerra 1915-1918, Bari, Laterza, 1969, p. 505. 45  Isnenghi, Giornali, cit., pp. 79-81 e 250.



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strumenti elementari per conoscere chi erano, cosa facevano e dove abitavano i tedeschi o i francesi; per non parlare poi delle varie etnie e religioni dell’Impero Austro-Ungarico o dei popoli extra-europei. Il dato che emerge dalla memorialistica di guerra è quello di un sostanziale disincanto nei confronti di questo tipo di propaganda, a tutti i livelli: dal fante analfabeta all’intellettuale interventista46. Nel diario dello scrittore triestino Giani Stuparich si avverte con chiarezza l’estraneità di ogni forma di letteratura dinanzi all’esperienza di guerra47. Le due varianti del manifesto sembrano così rispecchiare due momenti della propaganda. Quello del 1914 è il segno d’una prima adesione, che riflette il chiassoso e spontaneo entusiasmo dei futuristi e individua il manifesto come strumento per l’agitazione politica di piazza. Quello del 1918 dimostra una più cosciente elaborazione, in ragione d’una possibile nazionalizzazione della masse. La campagna dell’ultimo anno di guerra restituì agli intellettuali interventisti quella centralità d’azione che, dopo la fase interventista del 191415, era stata posta a margine dalla sopravvenienza di una guerra di massa. L’impegno nella redazione di giornali, testi e manifesti ripristinò i privilegi del ruolo, conferendo un nuovo mandato sociale e una presenza organica. Al tempo stesso, l’intellettuale borghese si sentì responsabile di valori storici collettivi, istituendosi a coscienza collettiva, e operando come organizzatore ideologico. In questo quadro si possono valutare appieno i tratti specifici dell’esperienza futurista e la sua parabola, riassumibile nella sparizione dell’aggettivo qualificativo nel secondo manifesto. Nel lavoro di Carrà, Balla e di molti altri pittori futuristi si era raggiunto fra 1914 e 1915 il più convincente e maturo esito comunicativo. Il loro linguaggio era adeguato a celebrare la volontà interventista e motivare un acceso nazionalismo. Il movimento futurista sembrò tuttavia soccombere dinanzi all’accelerazione improvvisa Cfr. ad esempio G. Prezzolini, Tutta la guerra. Antologia del popolo italiano sul fronte e nel paese, Firenze, Bemporad, 1918. 47  G. Stuparich, Guerra del ’15, Torino, Einaudi, 1978, p. 113 (20 luglio 1915): «Mi sveglio all’arrivo della posta. Un nuovo numero de “La Voce”: un mese fa l’arrivo della “Voce” mi faceva ancora piacere, sentivo questa rivista come l’espressione di qualche cosa che m’era vicina, ora invece la sento estranea, una rivista letteraria d’una città lontana; tutto mi par troppo lontano e inutile». 46 



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della storia, dimostrandosi nei fatti incapace di seguirne il rapido processo, dopo essere stato, con la sua violenza verbale e visiva, una delle più efficaci levatrici. I pochi dipinti realizzati in diretta relazione con la guerra, come Carica di lancieri di Boccioni, apparivano obsoleti, oppure, come nel caso di Severini, piuttosto didascalici. Il declino di Boccioni come pittore e anche come teorico dopo il 1914 è perfino spettacolare. Sironi, pittore fin qui ai margini dell’esperienza futurista, s’incaricherà di imprimere un nuovo orientamento al modernismo italiano; orientamento al quale non fu estraneo il lessico visivo e l’economia del segno grafico che abbiamo sin qui seguito. Rielaborando l’originario schema di Marinetti, Sironi rinnovò un simbolo collettivo fondato sul pregiudizio della diversità e di un antagonismo di natura, che si rispecchiava nel tono delle affermazioni propagandistiche della stessa rivista: «Quasi tutte le nazioni d’Europa, la Francia, la Spagna, il Belgio, L’Inghilterra, debbono alla penetrazione romana la loro civiltà e gentilezza, e soltanto quelle che i romani non poterono raggiungere, come Germania e i suoi alleati, soffrono ancora oggi dei resti dell’antica barbarie»48. L’apologia dell’imperialismo romano giustificava qui il primato della civiltà italiana nei modi di una formulazione che anticipa gli argomenti persuasivi della propaganda fascista. Presi nel loro insieme, i due manifesti non costituirono un caso di liberazione psicologica nell’immaginario e nel fantastico, né favorirono una qualunque evasione dalla realtà: piuttosto la riformularono nei termini ideali di un dogma. L’elegia della cronaca e della memoria lasciava così spazio all’ideologia della storia. Questa attitudine motiverà la successiva attività illustrativa di Sironi, determinando le soluzioni formali e ideologiche della sua pittura. Un’osservatrice come Margherita Sarfatti riconoscerà che in lui «la stilizzazione, rude e squadrata, procede per masse apodittiche, quasi tipografiche, di bianco e nero». Un altro commentatore dell’epoca parlerà di «linguaggio che assurge a declamazione epica», creando «una nuova via al disegno politico»49. Attraverso l’esperienza delle immagini di guerra, Sironi maturò L’italiano, «Il Montello», n. 1, novembre 1918. M. G. Sarfatti, Storia della pittura moderna, Roma, Cremonese, 1930; P. Sighinolfi, I disegni politici di Mario Sironi, «Augustea», 5 gennaio 1933. 48 

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la più chiara vocazione a una funzione di rinnovato adeguamento alla società mutata. Non più avanguardia antagonista delle strutture politiche e civili, bensì protagonista della riedificazione nazionale, attraverso la creazione dei miti visivi per l’ordine autoritario del nuovo governo50. A partire dal primo numero di «Gerarchia», la rivista politica di Mussolini, Sironi inizierà a impiegare un repertorio di classicità romana e di iconografia imperiale, contribuendo ad offrire al fascismo gli elementi simbolici per l’edificazione del proprio mito51.

Cfr. per questo l’eccellente quadro d’insieme di C. Maier, Recasting Bourgeois Europe. Stabilization in French, Germany and Italy in the Decade After World War I, Princeton, Princeton University Press, 1975 e cfr. G. Mosse, Il fascismo e l’avanguardia, in L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 233-251. 51  Benzi, Sironi illustratore, cit., nn. 1267 sgg; E. Braun, Mario Sironi: arte e politica in Italia sotto il fascismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 46 sgg. 50 

IV. Giotto, Rimbaud, Paolo Uccello

Il biennio tra 1915 e 1916 rivestì per Carlo Carrà un significato particolare. In quest’arco cronologico egli compì il definitivo distacco dallo stile futurista, o per meglio dire dai più stanchi postulati marinettiani. Ben presto la sua pittura approdò a una particolare stilizzazione primitivista. Il periodo è detto anche «antigrazioso», dal titolo di un dipinto del 1916. In questa fase si distinsero alcune pubblicazioni. La prima è Guerrapittura, promossa da Marinetti e diffusa nel 1915 dalle Edizioni futuriste di «Poesia». Questo volume costituì l’apice della militanza avanguardista di Carrà. Saggi brevi e componimenti poetici a sostegno della nuova poetica figurativa furono invece consegnati alla serie «bianca» de «La Voce», diretta da Giuseppe De Robertis. All’intensità di scrittura di questo periodo corrispondono tuttavia pochi quadri e dati documentari piuttosto lacunosi o imprecisi. Il catalogo di Carrà conta non più di cinque dipinti attribuiti o datati 1915 (Il fanciullo prodigio; Composizione femminile Pushkin; La ballerina del «San Martino» Tosi; Il fiasco Mazzotta; Figura femminile di collezione privata e Pagliaccio Jucker), con qualche disegno da ritenersi più spesso d’aprés e un’aggiunta di recente dimostrazione1. Al 1916 sembrano risalire sette altri dipinti: La carrozzella, I romantici, Il Gentiluomo ubriaco, l’Antigrazioso, La stella, La Carrozzella, Ricordi d’infanzia, accompagnati talora da studi o d’aprés su carta, più altri due (Mio figlio e Composizione TA) di datazione controversa, ma il cui compimento è da ascrivere con ogni probabilità al primo periodo ferrarese. 1  Si tratta del collage Inseguimento, collocato al 1915 da F. Fergonzi, in La Collezione Mattioli. Capolavori dell’avanguardia italiana, Milano, Skira, 2003, p. 217; cfr. F. Rovati, Carrà 1916, «Prospettiva», n. 129, 2008, pp. 57-66.



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Per una comprensione più precisa dell’itinerario pittorico di Carrà tra futurismo e metafisica, nonché per meglio cogliere le ragioni del medesimo, sembra utile procedere a un parziale riordino della cronologia interna per questa serie d’opere. Un tale riassetto deve per forza di cose operare in relazione alla produzione scritta dell’autore, segnatamene gli articoli a stampa. Nell’orbita de «La Voce» Nel gennaio 1914 Giuseppe Prezzolini pubblicò su «La Voce» un lungo resoconto sul primo anno d’attività lacerbiana. Egli spese parole d’elogio affettuoso ma non risparmiò puntuali accuse alla retorica marinettiana e alla mancata selezione di valori, motivo di un’inflazione di contributi mediocri. In tal modo, secondo l’autore, una difforme proposta estetica, priva di adeguati criteri distintivi, si trovava a prevalere sulla coscienza morale2. A giudizio di Prezzolini la polemica che era appena intercorsa tra Boccioni e Papini in merito all’impiego mimetico d’oggetti reali, onomatopee e scritture parolibere segnava con chiarezza un invalicabile solco tra i redattori fiorentini di «Lacerba» e il futurismo milanese3. Nell’aprile 1914 «La Voce» pubblicò la laconica dichiarazione di fuoriuscita dal futurismo da parte di Palazzeschi4. Carrà fu tra coloro che più espressero timore verso questa prima incrinatura del fronte futurista. Al pittore sembrava spettare la più convinta difesa del movimento marinettiano presso gli interlocutori toscani. E in tal modo egli aveva operato, sostenendo una reiterata polemica con Prezzolini e, di riflesso, con il giovane re2  G. Prezzolini, Un anno di «Lacerba», «La Voce», VI, 1914, n. 2, pp. 3-16; n. 4, pp. 33-38; n. 6, pp. 2-5. 3  Cfr. per questo quanto ho scritto in Realtà bruta. Una polemica tra Boccioni e Papini, «Prospettiva», 97, 2000, pp. 82-94. 4  Nel movimento futurista, «La Voce», VI, 1914, p. 43; cfr. G. Tellini, Lo scrittore e il suo interprete. Il carteggio di Palazzeschi con Giuseppe de Robertis, «Studi Italiani», XI, 1999, n. 1-2, pp. 31-80. Sulla figura cruciale di De Robertis si veda G. De Robertis, Della Voce letteraria, «Il libro italiano», II, 1938, pp. 264-266 e cfr. Giuseppe De Robertis, a cura di M.C. Chiesi e M. Marchi (catalogo della mostra, Firenze, Accademia La Colombaria, 14-28 ottobre 1983), Firenze, Gabinetto G.B. Vieusseux, 1983; Giuseppe De Robertis, a cura di L. Caretti, Firenze, Olschki, 1985.



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dattore Giuseppe De Robertis. Avendo il direttore negato a Carrà lo spazio per un’ennesima replica fu apostrofato come «professore d’impostazione teutonica»5. Ma si trattava di animosità piuttosto superficiali e realmente prive d’argomenti per noi significativi. L’unica materia di contesa apprezzabile, sul piano delle questioni artistiche, era quella relativa all’impiego o meno delle «parolibere». In effetti, i precetti letterari fatti pubblicare sulle pagine di «Lacerba» erano fra le più controverse innovazioni marinettiane. Di certo, quegli esempi spingevano una quantità d’emuli a prove di poesia parolibera dagli esiti spesso mediocri6. Il libro di Carrà Guerrapittura, dato alle stampe nel marzo 1915, è un episodio importante di questa tensione. Il volume comprendeva dodici «disegni guerreschi» con vasto reimpiego di modelli propri e altrui (da Picasso a Severini allo stesso Boccioni). Gli esiti non sempre si affrancavano da una scolastica scomposizione cubista, talvolta appena complicata dall’espediente del collage o della scrittura parolibera a rivelare moti d’animo (fig. 4.1)7. Alle immagini seguiva una più lunga sezione di testi, allestita con poche modifiche a brani lacerbiani già editi, qualche frammento polemico e sei «divagazioni medianiche». Di queste almeno una, la quarta, riprendeva con chiarezza lo schema radiale sperimentato da Apollinaire nel già citato poema Zone8. Nel complesso il libro era privo di sistematicità, né l’ambizione a rispondere a Pittura e scultura futurista di Boccioni, edito solo pochi mesi prima, sembrava essere riuscito. La stessa vis polemica si era adagiata, a questa data, sulla ripetizione rituale di un formulario normalizzato. Più che di polifonia è lecito parlare di un imbarazzato frammentismo. Il dato più rilevante sembra essere un altro. Il libro manifestava in pieno l’oscillazione fra la ricerca visuale e quella graficotestuale, seguendo la commistione, fortemente voluta da Marinetti, tra leggibilità della scrittura e visibilità iconica. Questo C. Carrà, A. Soffici, Lettere 1913/1929, a cura di M. Carrà e V. Fagone, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 73 (Carrà a Soffici, Milano, 4 gennaio 1915). 6  F.T. Marinetti, L’immaginazione senza fili e le parole in libertà, «Lacerba», I, n. 12, 15 giugno 1913, p. 121. 7  Cfr. Fergonzi, La Collezione Mattioli, cit., p. 221. 8  F. Rovati, Guerrapittura di Carlo Carrà, «Prospettiva», n. 115-116, 2004, pp. 66-95. 5 



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Figura 4.1 Carlo Carrà, Divagazione medianica n. 4, in Id. Guerrapittura, Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1915.

problema non era però unicamente pertinente all’uso congiunto di differenti forme linguistiche. In realtà, con l’adesione alle teorie delle parole in libertà e ai modi delle tavole tipografiche marinettiane veniva a configurarsi un’immagine nuova, e piuttosto ambigua, d’artista. La specificità della pittura, con la tecnica e la storicità del proprio operare, era deposta, e con essa l’immagine stessa del pittore come detentore di un mestiere. Avanzava invece una figura anfibia e una personalità bipolare, nel migliore dei casi abile a sfrenate, ma infantili, sperimentazioni e sostanzialmente incapace di legare il divenire della propria ricerca a una



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salda coscienza storica. «Non sono uno specialista», enunciava con grande enfasi Carrà in apertura di volume. Condensando i principali aspetti dottrinari del movimento futurista, il pittore reclamava per sé la polisemia delle sensazioni e la negazione di categorie e specialità. In tal modo, però, ogni carattere distintivo e ogni criterio di giudizio s’indebolivano fino a invalidare ogni possibile attestazione di valore9. La lunga lettera con cui Soffici rese a Carrà il proprio giudizio di lettura convalida questo argomento. Soffici dichiarò di apprezzare per sobrietà e qualità plastiche un paio di tavole, fra le quali Inseguimento, elogiata negli stessi termini anche da Papini. In maniera ben più profonda della sommaria stroncatura vociana di De Robertis, la recensione confidenziale di Soffici fu una densa esortazione a incrementare tecnica e prassi pittorica, ricusando ogni avvitamento teorico e l’infantilismo dei facili scavalcamenti ortografici e lessicali. In realtà, anche Carrà desiderava mantenere salde distinzioni fra lavoro pittorico ed esercizio poetico10. In gioco, insomma, non era tanto la persistenza o la violazione dello statuto del pittore – né la pratica del paroliberismo, almeno per Carrà, erodeva un ruolo in lui ben più consolidato, rispetto a un Soffici sempre in oscillazione tra scrittura poetica, teorica e pittura. Al punto che le avvertenze di Soffici sembrano un monito indirizzato, più che a Carrà, a se stesso. Finanziando la pubblicazione di Guerrapittura Marinetti poteva garantire la presenza di Carrà al proprio fianco, nel momento in cui più chiara si stava manifestando la scissione dei fiorentini. Ma questa presenza non poteva durare ancora per molto. A settembre Giuseppe De Robertis ricevette la proposta di dirigere la nuova serie della «Voce», con il mandato di stabilire un’intesa con Palazzeschi, Soffici e Papini. De Robertis fornì subito le proprie assicurazioni sulla linea editoriale, garantendo l’estromissione di Marinetti come di Italo Tavolato, lo scandaloso autore dell’Elogio della prostituzione11. 9  Carrrrà futurista, Guerrapittura. Futurismo politico. Dinamismo plastico. Disegni guerreschi. Parole in libertà, Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1915. 10  Carrà, Soffici, Lettere 1913/1929 cit., pp. 80-85; la recensione di G. De Robertis a Guerrapittura, in g.d.r., Deh, Pietà, «La Voce», VII, 1915, p. 655. 11  Cfr. M. C. Chiesi, 1914: «La Voce» a De Robertis, «il Vieusseux», 1988, n. 3, pp. 55-96.



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All’inizio di dicembre Prezzolini comunicò il passaggio della direzione de «La Voce» a De Robertis. Subito uscì su «Lacerba» un editoriale che ratificò il congedo dal futurismo, secondo un’ideale continuità con le ragioni della cautissima adesione al movimento di Soffici e Papini. L’articolo manteneva una clausola di garanzia per i contributi validi che fossero provenuti dal gruppo futurista. Questa era un’assicurazione verso Carrà, il quale rimaneva diviso tra una forte intesa con Soffici e una fedeltà sia ideale che assai pratica al gruppo marinettiano12. Tale è la ragione per cui il pittore ingaggiò nella primavera del 1915 un’altra polemica con Prezzolini, in seguito a un pesante atto d’accusa contro il suo più generoso mecenate13. Carrà avrebbe avuto bisogno di un altro anno di riflessioni e di lavoro per sancire il suo definitivo distacco. Uno stretto scambio epistolare a fine maggio 1915 consentì a Soffici e Carrà il chiarimento delle reciproche posizioni. Soffici spinse Carrà a un impegno esclusivo nella pittura, apprezzandone il disegno vivo e sostanzioso. Costui sembrò cogliere prontamente le indicazioni, dal momento che poco dopo, siamo a giugno, scriveva a Papini: «In questo momento che ogni azione artistica è annientata io lavoro calmamente a costruire e a rivedere forme». E di seguito, poco dopo, in un passo assai noto: «Non ho più pregiudizi di sorta. Faccio ritorno a forme primitive, concrete, mi sento un Giotto dei miei tempi»14. Siamo nel momento esatto in cui Carrà ricusa ogni tentazione di scomposizione dinamica e d’impiego di parolibere. Egli ripristinò la corretta grafia della propria firma, con le due erre in luogo di quell’effetto onomatopeico così sgradito a Soffici. Il quale, da parte sua, andava recuperando una «pittura infinitamente semplice e gradevole», assecondando un’indole di «dilettantismo scelto», come scriverà in novembre15. 12  G. P., Congedo, «La Voce», VI, n. 22, 1914, pp. 2-3; G. Papini, A. Soffici, «Lacerba» il futurismo e «Lacerba», «Lacerba», II, n. 24, 1 dicembre 1914, p. 323. 13  G. Prezzolini, F.T. Marinetti disorganizzatore, «La Voce», VII, n. 8, 30 marzo 1915, pp. 510-517. La polemica su «Lacerba» tra Carrà e Prezzolini si può seguire in C. Carrà, A proposito di Futurismo, III, n. 2, 10 gennaio 1915, p. 14; G. Prezzolini, Risposta a Carrà futurista, III, n. 3, 17 gennaio 1915, p. 23; C. Carrà, Sul passatista Prezzolini, III, n. 4, 24 gennaio 1915, p. 31. 14  Il carteggio Carrà-Papini, a cura di M. Carrà, Milano, Skira, 2001, p. 61. 15  Carrà, Soffici, Lettere 1913/1929 cit., p. 91.



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La mobilitazione di guerra non consentì in questo periodo un confronto diretto. Per vie autonome, le opere di Soffici e quelle di Carrà sembravano però avviarsi verso un esito sostanzialmente omogeneo. Le forme elementari di Soffici recuperavano l’essenzialità iconica di una imagerie popolare non esente da fonti colte (il Rimbaud dell’Alchimie du verb: «J’amais les peintures idiotes…») e dal precoce impiego già nei dipinti del 1911. Carrà si avviava a ricognizioni pittoriche su volumi assai scabri e semplificati, «forme concrete poste nello spazio», memori delle geometrie ingenue del Quattrocento toscano come delle rudimentali composizioni di Henri Rousseau: esempi di stile, questi, del tutto assenti nella sua precedente produzione16. Ecco perché Carrà insisteva nel confronto con Giotto. Al contrario di Soffici, sapeva di non poter contare su un adeguato retroterra. Il suo unico passato era un presente futurista sempre più imbarazzante. A questa data, Soffici operava entro una continuità d’intenti che solo l’arruolamento interruppe. Carrà stava invece vivendo una drammatica rottura. Il poemetto in prosa La rosa delle volontà, del dicembre del 1915, ne è testimonianza17: Chi fu a precipitare il mio destino nel profondo pozzo di tufo Giotto Paolo Uccello Povero palombaro tra opachi vapori di sogni A quando il volo A quando il volo

Giotto e Paolo Uccello divennero per Carrà le personificazioni dell’artista pronto a partire da una condizione di tabula rasa. Le tappe di una così rinnovata cognizione del mestiere pittorico, anticipate dal poema vociano, s’intrecciarono per tutto il 1916 in una densa vicenda artistica e editoriale. Il 3 gennaio 1916 Giuseppe De Robertis ricevette da Soffici il manoscritto dei Primi principi di un’estetica futurista e da Carrà 16  Cfr. M. Fagiolo Dell’Arco, «Lo stupore del primordiale»: vita e opere di Carrà dal 1916 al 1920, in Carlo Carrà: il primitivismo 1915-1919, a cura di M. Fagiolo Dell’Arco (catalogo della mostra, Venezia, Chiesa di San Bartolomeo, 1988-1989), Milano, Mazzotta, 1988. 17  C. Carrà, La rosa delle volontà, «La Voce», VII, n. 18, 15 dicembre 1915, pp. 1119-1120.



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una lettera che informava dell’avvenuta rottura con Marinetti18. Più che differenti opinioni in merito al «futurismo teorico e pratico» la scelta di Carrà sembrava avvalorare un mutamento strategico: adottare in pieno il patronage di Soffici e de «La Voce». Non tanto per ragioni d’opportunità economica, in quel 1916 del tutto improbabile, quanto piuttosto per non rinunciare a quell’attività editoriale verso cui tutti i pittori sembravano aver delegato le proprie risorse ed energie. In mancanza d’esposizioni e di mercato, la visibilità presso una rivista di ormai consolidata tradizione culturale sembrava l’unica strada realisticamente percorribile, nell’attesa di tempi migliori. Dal punto di vista di Carrà, Marinetti non aveva a quel punto nulla di meglio da offrire. Né la cinica promessa di destinare a Carrà una parte d’eredità, in caso di morte al fronte, in cambio della rinuncia all’amicizia con Soffici e Papini poteva costituire un’apprezzabile avance. Insieme alla notizia dell’avvenuta rottura con Marinetti, Carrà inviò un poemetto che fu pubblicato con il titolo di Notte cristiana nel fascicolo del 31 gennaio 1916. Più che dedicarsi alle composizioni poetiche, Carrà stava però cercando di redigere una propria estetica, in una sorta di dialogo a distanza con Soffici. Il 5 febbraio Carrà spedì il manoscritto delle Parentesi dell’io, promettendo l’invio della documentazione fotografica di nuove opere. «È vergognoso il dirlo ma io non ho che l’arte e gli amici, quei pochi che ho trovato a Firenze. Nelle “parentesi dell’io” che ti mando c’è qua e là riflesso questo stato d’animo»19. De Robertis era sollecitato anche per ragioni economiche («Ho bisogno di danari! Prendi di mira qualcuno danaroso: sai che per una terza persona ci si riesce meglio a fare sborsare un po’ di soldi a chi ne ha tanti»). Carrà esortava i suoi nuovi sponsor a un’adeguata promozione delle proprie opere. Nel poscritto, si coglieva l’occasione per marcare ulteriormente le distanze da Boccioni. Ma la vera notizia di questa lettera è che Carrà aveva pronti tre nuovi quadri e un disegno indicato col titolo Il poeta mondano: 18  Archivio Contemporaneo «Alessandro Bonsanti», Gabinetto G.B. Vieusseux di Firenze. Fondo Giuseppe De Robertis [d’ora in poi FDR], C. Carrà a G. De Robertis, 3 gennaio 1916. 19  FDR, C. Carrà a G. De Robertis, 5 febbraio 1916.



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«Ho fatto un disegno (il poeta mondano) che ti sembrerebbe Ingres, per le dolcezze lineari. Ma si vede però il post-impressionismo». A quale opera può fare riferimento il disegno? Forse a uno degli studi per il Fanciullo prodigio (fig. 4.2) alla cui finestra compaiono penna e calamaio, peraltro assenti da altri disegni. Un’allusione comunque neutralizzata dalla presenza della piccola tromba. D’altra parte, il papier collée ancora impiegato per questa tela (lunghe fettucce ritagliate dal manifesto-réclame del libello interventista di Francesco Penazzo Per la coscienza della nuova Italia), richiama soluzioni dell’anno precedente, oltre alla conoscenza dei primi «trofeini» di Soffici. La datazione al 1915 va confermata e spinta fino al termine ante quem del mese novembre, quando uscì l’opuscolo di Penazzo. Come si è visto, nel frattempo Carrà aveva portato a conclusione Le parentesi dell’io, testo che verrà pubblicato più tardi, in aprile, dopo la Parlata su Giotto20. Nelle Parentesi si può leggere un passo riferibile al cosiddetto Antigrazioso, il cui titolo originario è Bambina (fig. 4.3). Non vi era in effetti alcuna ragione perché Carrà utilizzasse il medesimo titolo di una scultura che Boccioni aveva realizzato tre anni prima e che era stata già più volte pubblicata e commentata. Inoltre, un dipinto dal medesimo titolo Antigrazioso figurava nel libro di Boccioni Pittura e scultura futurista. Credo sia importante sottolineare il titolo originale, anche alla luce di quanto scritto da Carrà21: Da bambini gli oggetti e le cose ci sorprendono per la loro novità formale. L’organo visivo è nel bambino il primo fattore che eccita la nativa curiosità. […] Il bambino per natura è un plastico […] Ma, dallo stupore infantile davanti alle cose, al fatto plastico cosciente e volontario, vi è più distanza di quella che intercorre dal grido caotico al canto. In noi, che pure ci sentiamo ancora bambini, di fronte al mistero plastico dell’universo, il fatto artistico, dalla forma gelatinosa ed embrionale si precisa nell’opera.

Siamo a marzo e Carrà inizia a stendere i paragrafi del Giotto. È convinto che il testo in lavorazione meriti la priorità, come scrive a De Robertis, il 10 marzo: «Lavoro a preparare il saggio sulla pittura. Lo pubblicherai nel numero di aprile. È una cosa un po’ 20  21 

FDR, C. Carrà a G. De Robertis, 19 febbraio 1916. C. Carrà, Le parentesi dell’io, «La Voce», VIII, n. 4, 30 aprile 1916, pp. 215-217.



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Figura 4.2 Carlo Carrà, Il fanciullo prodigio, 1916.

complessa e, credo, non ti dispiacerà. […] Se credi nel numero in corso di formazione pubblicherai le mie parentesi che ti ho inviate il mese scorso»22. Il numero della «Voce» era in chiusura, quindi le Parentesi slittarono ad aprile. Intanto, Carrà concluse la vendita della Bambina a Papini, mentre il Giotto era ormai pronto, come si legge in data 16 marzo: «Carissimo, ti manderò fra tre o quattro giorni una “parlata su Giotto”, dunque resta inteso che la “parentesi dell’Io” la pubblicherai sul numero d’aprile»23. Pochi giorni dopo Carrà comunicò l’avvenuto invio del mano22  23 

FDR, C. Carrà a G. De Robertis, 10 marzo 1916. FDR, C. Carrà a G. De Robertis, 16 marzo 1916.



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Figura 4.3 Carlo Carrà, Bambina, 1916.

scritto, contestualmente alla spedizione della Bambina a Papini24. Carrà giudicava la Parlata «la cosa più viva che ho fatto, di teorico», assicurando De Robertis con queste parole: «Come vedi ti ho accontentato. E ho fatto di tutto per costruirlo il meglio possibile». Testimonianza sia di una redazione assai problematica, sia di una specifica richiesta da parte del direttore. Aver «accontentato» De Robertis non può significare altro che la Parlata nacque come precisa committenza da parte della redazione vociana: un evidente invito ad approfondire temi e ragioni dei nomi buttati giù ne La rosa delle volontà. 24 

FDR, C. Carrà a G. De Robertis, 20 marzo 1916.



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E in effetti, la risposta di De Robertis e di Papini era per Carrà lusinghiera, sia per le parole spese che per il concreto sostegno. I documenti confermano inoltre che a guidare l’attività critica e teorica di Carrà erano i redattori de «La Voce». Così infatti scriveva De Robertis recapitando a Carrà un vaglia di cinquanta lire come compenso per le pubblicazioni: «Vedi di prepararmi qualche altra cosa intanto, su Paolo Uccello, o, per esempio, sul modo di procedere in certe tue ricerche pittoriche, o sulla tua cura di essenzializzazione»25. Carrà ringraziava De Robertis con queste parole: «Grande gioia mi ha preso l’animo, e vuoi per i conquibus, e vuoi, più ancora, per le parole di lode tue, e quelle di Papini. Lavoro molto alla pittura – e di questa ho risolto problemi importantissimi: se avrò tempo e voglia ne parlerò»26. Alle poche lire garantite dall’editore de «La Voce» si sommavano le cinquecento rateizzate da Papini, che consentirono a Carrà di riprendere con maggiore convinzione il lavoro. Papini, che stava cercando di convincere Soffici all’acquisto de La Carrozzella (per quanto il potenziale acquirente fosse in quel momento al fronte), venne informato della «costruzione» di un nuovo dipinto, La casa dell’amore27. Se Carrà si riferisce qui al dipinto oggi conosciuto sotto questo titolo e datato 1922, è dunque opportuno farne risalire la prima stesura alla primavera del 1916 e postulare una lunga sospensione del lavoro (una pratica peraltro non inusuale, nel pittore), fino alla rielaborazione in vista della presentazione dell’opera alla Biennale di Venezia del 1922. Segno insomma che il progetto pittorico del 1916 agirà, per motivi di varia natura, in un arco cronologico assai più ampio, le cui conseguenze saranno presenti almeno fino alla svolta stilistica dei paesaggi di Camogli del 192328.

FDR, C. Carrà a G. De Robertis, 24 marzo 1916. FDR, C. Carrà a G. De Robertis, 26 marzo 1916. 27  Il carteggio Carrà-Papini, cit., p. 72. 28  Cfr. per questo la scheda di C. Casali in Da Renoir a De Stael. Roberto Longhi e il moderno, a cura di C. Spadoni (catalogo della mostra, Ravenna 2003), Milano, Mazzotta, 2003, p. 296. 25  26 



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Parlare di Giotto, dipingere come Giotto C’è qualcosa di fortemente simbolico, in questo scambio epistolare. Nel giro di poche settimane Carrà si affrancava da Marinetti e spediva in Toscana un saggio su Giotto e un dipinto apprezzato proprio per il suo voluto primitivismo. Se ne può trarre conferma da una lettura di questo periodo: in due missive Carrà richiese a De Robertis copia di Maschilità di Papini. Il volume, ventiseiesimo quaderno de «La Voce», era stato pubblicato nello scorcio del 1915. Si trattava di una silloge di quindici articoli editi tra il 1909 e il 1914, con un solo capitolo inedito conclusivo (Il genio inconoscibile), riordinati nell’intento di offrire un profilo morale alla figura dell’intellettuale contemporaneo29. In particolare, Papini riproponeva La tradizione italiana, un articolo del 1911 che ci sembra assai utile per valutare il ragionamento di Carrà30. Scriveva difatti in quell’occasione Papini: Ci s’accorge di esserci troppo gettati nel presente straniero e d’esserci troppo scordati del passato paesano; si sente che l’intermezzo internazionale necessario non deve mutarsi in tradizione secolare e che un riaffondamento ingenuo e pacato nel suolo della patria potrebbe renderci non già la verginità […] ma una parte di quella forza nativa che fece più volte degli italiani «colla penna e colla spada» i reggitori e gl’ispiratori dell’occidente.

Il problema, come si vede, era quello di valutare l’esistenza stessa di una tradizione univoca: «prima di ricercare qual’è la tradizione nostra occorre esser certi che una tradizione nostra ci sia, una tradizione veramente italiana e inconfondibile con altre». L’intento di Papini era assai preciso: con il volumetto desiderava rilanciare un’agenda di lavoro orientata alla revisione dell’«intermezzo internazionale», che a quest’altezza cronologica altro non poteva essere che l’esperienza lacerbiana di confronto con le avan29  Cfr. G. Papini, Diario, Firenze, Vallecchi, 1962, p. 4, 11 giugno 1916: «Penso che si potrebbe far davvero quell’antologia completa – ma non scolastica – di quel che c’è di veramente vivo e resistente nella letteratura italiana (vista come arte, lirica soltanto). Si cominciò io e Soffici a farla nel 1908. Idea simile ha De Robertis. In questa estate ricomincio da solo. La intitolo Libro di Lettura dello Scrittore Italiano». 30  G. Papini, Maschilità, Firenze, Libreria della Voce, 1915, pp. 71-78.



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guardie europee. Un impegno non privo d’aspetti problematici, se è vero che Papini scriveva: «Qual’è la tradizione italiana nell’arte? Il sintetismo sobrio e toscano di Giotto e Masaccio, la decorosa irregolarità di Michelangelo, l’equivoca mollezza di Leonardo, la sublimità nel mediocre di Raffaello?»31. Il nodo andava affrontato nell’analisi dei fatti, prima ancora che negli argomenti pregiudiziali; e così Papini si permetteva di stabilire, in maniera piuttosto rudimentale, due tradizioni letterarie, avocando per sé la «stirpe dantesca»: con «tutto quello che di rozzo, di pietroso, di duro, di atroce, di franco, di solido, di concreto, di plebeo c’è nella letteratura italiana», contro la linea petrarchesca e quanto essa aveva «di molle, di elegante, di musicale». Non sarà inutile ricordare che un’allusione «dantesca» alle asprezze del cubismo più rigoroso fu espressa due anni dopo da Soffici, con Cubismo e oltre, perseguendo (come si è visto nel secondo capitolo) una linea d’austero primitivismo che saldava l’esperienza del Quattrocento pittorico toscano con la lingua dei padri32. Certo, quella di Papini era un’argomentazione piuttosto avventata, che l’autore aveva fin troppo facile gioco nel concretare, seguendo il Weininger di Sesso e carattere, in tipologie maschili e femminili: «miele e pietra», nelle parole di una sua esemplare invettiva; da qui, le virili ragioni del titolo del volume. L’adesione al programma di Soffici, attraverso la nuova fascicolazione de «La Voce» e i contatti con De Robertis e Papini, giungeva al suo compimento. Più che di abiura, però, è lecito parlare d’una continuità con le opere e, per quanto parzialmente, con le teorie svolte su «Lacerba». L’intera Parlata su Giotto sembra in effetti riverberare alcuni fra i più validi aspetti della dottrina futurista. Si prenda come esempio questo passo33: Un murmure solenne e pacato passa dal centro alla periferia della terribilità serrata in legge cubica. Questo flusso centrifugo tramuta le sue origini musicali e diviene forma e architettura che di forme è tutto un insieme. Sotto le espansioni, dei dorsi delle figure, accovacciate o inclinate Ivi, p. 76. A. Soffici, Cubismo e oltre, cit.; cfr. quanto ho scritto in Un dialogo inedito di Ardengo Soffici e il dibattito di «Lacerba» sulla pittura pura, «Ricerche di Storia dell’Arte», 2001, n. 73, pp. 81-88. 33  C. Carrà, Parlata su Giotto, «La Voce», VIII, n. 3, 31 marzo 1916, p. 166. 31  32 



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in atto amoroso, e sotto quelle dei ventri e dei vasti pettorali, le masse circostanti urtano, si dilatano, e si estendono per far balzare il dramma plastico che si serra oltre le psicologie particolari.

Un simile esercizio di ekphrasis dedicato agli affreschi giotteschi tradisce la più netta fedeltà al campo lessicale futurista. Nel vortice delle similitudini emergono soluzioni riferibili, prima ancora che al «massiccio visionario trecentesco», allo stesso autore del collage Festa patriottica, poi noto col titolo di Manifestazione interventista. Per Carrà fu un momento cruciale, che si rispecchiò con ogni evidenza sulla pagina scritta. Locuzioni quali «arabesco sensibilizzato», «insieme plastico», «moto trasversale» sono indubbiamente memori dei suoi articoli lacerbiani. In altri luoghi affiorano però soluzioni come la «costruzione di valori puri», l’«ossatura cubistica», la «austerità e semplicità di chiaroscuro», la «conchiusa terribilità plastica» derivate dalla didattica formalistica di Soffici. Allo stesso modo, gli accenni alla «virilità plebea e barbara» come alla «verginità plebea» sembravano ammettere alla configurazione dell’artista nuovo così ricercato gli argomenti già proposti da Soffici nei più lontani, e mai disattesi, articoli vociani su Henri Rousseau, nella Lettera al giovane pittore, come nella monografia su Arthur Rimbaud34. Nella ristrutturazione stilistica di Carrà pittore si andavano compiendo anche le sorti del Carrà prosatore. A fine aprile uscì infine Le parentesi dell’io, mentre veniva intavolata con Papini una trattativa per il dipinto La carrozzella, che sarà però acquistato nello stesso mese d’aprile dal Penazzo. Riassumiamo i dati fin qui raccolti. A febbraio Carrà aveva pronti tre quadri nuovi. In aprile vendette Bambina e Carrozzella. Il terzo dipinto è il Gentiluomo briaco (fig. 4.4), che venne però rimaneggiato fino a maggio, quando fu spedito a De Robertis il manoscritto di Orientalismo. La lettera di accompagnamento non si è conservata; abbiamo però un sollecito alla pubblicazione datato a giugno35. 34  Cfr. A. Soffici, Lettera a un giovane pittore, «La Voce», II, n. 7, 27 gennaio 1910, p. 251; Henri Rousseau, ibid., n. 40, 15 settembre 1910, p. 395; Arthur Rimbaud, Firenze, Casa Editrice Italiana Quattrini, 1911 («Quaderni della Voce», XIII). 35  FDR, C. Carrà a G. De Robertis, 6 giugno 1916.



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I tre dipinti, nell’ordine Bambina, Carrozzella e Gentiluomo briaco, corrispondono ad altrettante pubblicazioni: Le parentesi dell’io (scritto in gennaio e pubblicato in aprile), Parlata su Giotto (prime settimane di marzo, a stampa a fine mese) e Orientalismo (scritto all’inizio di maggio e pubblicato a giugno). Quest’ultimo testo, l’unico del periodo a menzionare esplicitamente il dipinto di riferimento, offriva una descrizione dell’opera ancora in itinere, illustrando alcune significative varianti poi oggetto di pentimento36: Nelle magie delle agre porosità la maschia sembianza umana s’incide la bottiglia appesantita nella forma conica include sfumature sinuose e austerità insolcata nelle linee definitive della deformazione lirica. La mano femminile biancoguantata nelle reali convessità spicca sul fondo variorosato e col bianco del globo oculare del giovane ebbro raccorda il primo piano del parallelogrammo vivente con le profondità spaziali della costruzione.

Qui gli stilismi futuristi si riducono all’espunzione della punteggiatura e a un paio di costrutti come l’agglutinazione «biancoguantata» e la paronomasia di «variorosato». Nella versione definitiva del quadro scomparve il guanto, sostituito dal bicchiere bianco. Il fondo rosa venne infine a essere inquadrato entro una scatola posta in prospettiva, compiuta con maggiore probabilità nei mesi successivi, con la conoscenza diretta delle opere di De Chirico37. Madreperla primaverile è un componimento poetico steso da Carrà a maggio e pubblicato a luglio. La sintassi nominale lasciò il passo a un verso liberamente espresso, che trovava spazio su una pagina sgombra d’interpunzioni e fitta d’immagini vivide («trasparente fresca oziosità»; «Orti aromati»). La realtà caotica iniziava ad assumere forme chiare e saporose. La mediazione del linguaggio poetico e pittorico era un fatto di ragione intuitiva: «Se le giunture male assecondano il movimento del mio cuore in ombra lo spirito esperto conosce meglio il linguaggio mutolo delle piante e delle pietre il mutolo parlare»38. C. Carrà, Orientalismo, «La Voce», VIII, n. 6, 30 giugno 1916, pp. 269-271. Cfr. D. Guzzi, I tempi lunghi della pittura carraiana, ovvero, analisi delle cronologie, in Carlo Carrà, a cura di A. Monferini (catalogo della mostra, Roma, 19941995), Milano, Electa, 1994, pp. 125-166, 156. 38  C. Carrà, Madreperla primaverile, «La Voce», VIII, n. 7, 31 luglio 1916, pp. 312-314. 36  37 



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Figura 4.4 Carlo Carrà, Il gentiluomo briaco, 1916.

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Paolo Uccello, un costruttore La notizia della morte di Umberto Boccioni raggiunse Carrà mentre lo scritto Paolo Uccello costruttore era appena compiuto39. Con questo saggio Carrà ambiva a dare una più compiuta sistemazione teorica al mutamento stilistico in atto. Nel giudicare il proprio testo «anche migliore della parlata su Giotto», egli aggiornava il suo corrispondente sull’interessamento da parte di Soffici e, per la prima volta, anche di Cardarelli («Non so se agiva per pura diplomazia», aggiunse Carrà)40. De Robertis rispose con un po’ di ritardo, promettendo una pronta pubblicazione pur ammettendo serie difficoltà per i pagamenti41. Certo, l’autore stesso riteneva il Paolo Uccello migliore della Parlata, nella misura in cui egli era qui pervenuto a soluzione più organica e coerente. Nel suo «puerile orgoglio fanciullesco» Carrà si permise ridurre ancor più le persistenze di lessicalità futuriste. Produsse una prosa fitta di toscanismi e arcaismi compiaciuti, suggestionata e immaginifica quanto lontana dallo smarrimento in «stregonerie di un gergo intellettuale fuori stagione». Inutile dire a quale gergo Carrà qui si riferisse. Naturalmente, nella valutazione delle «cubicità racchiuse» come dei «piani pietrificati», nel «navigare sonnambulo» come nelle «valutazioni corporali» entrava in gioco il più chiaro meccanismo di riflesso fra l’antico ed austero artefice toscano e il perplesso pittore milanese, disposto ora – giusta una considerazione de Le parentesi dell’Io – «allo stupore infantile davanti alle cose, al fatto plastico cosciente e volontario»42. Questa revisione del fatto artistico si riverberava nella pagina scritta. Le varianti di stesura assumevano così il valore di una più ravvicinata comprensione del fenomeno pittorico e di una progressiva cognizione su ruoli, tecniche, poetiche. È assai eloquente il confronto tra la versione a stampa del Paolo Uccello costruttore e quella che, con ogni evidenza, è una prima redazione manoscritta conservata tra le carte di CarFDR, C. Carrà a G. De Robertis, 29 agosto 1916. FDR, C. Carrà a G. De Robertis, 30 agosto 1916. 41  Archivi del 900, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto. Fondo Carlo Carrà [d’ora in poi FCC]. G. De Robertis a C. Carrà, 14 settembre 1916. 42  C. Carrà, Paolo Uccello costruttore, «La Voce», VIII, n. 9, 30 settembre 1916, pp. 375-379. 39  40 



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rà43. Rispetto all’articolo vociano, questa versione presenta una serie di differenze sostanziali, che vanno dall’ostentato arcaismo (a partire dalla denominazione di «Paulo»), ai recuperi pascoliani dai Poemi italici, sino alle trame aneddotiche tratte dall’historia altera vasariana44. Rimane tuttavia aperta la questione delle fonti visive: se è vero che il manoscritto pubblicato dimostra la conoscenza delle Vite di Vasari e del Paulo Ucello pascoliano, altra cosa è dimostrare la scelta e la disposizione dell’ideale apparato figurativo, per il quale il primo e più diretto riferimento (il settimo volume della Storia dell’Arte di Adolfo Venturi, uscito nel 1911) non risulta esaustivo45. D’altra parte a quel tempo la fortuna specifica di Paolo Uccello era assai relativa. John Ruskin aveva fatto passare per almeno due volte i lettori delle Mattinate fiorentine nel Chiostro verde di Santa Maria Novella senza però spendere una sola parola sugli affreschi dell’Uccello che tanto colpiranno Carrà e, qualche anno dopo, Sironi. Non molto di più potevano offrire le pagine di Bernard Berenson. Nei Central Painters egli aveva restituito l’immagine di uno zelante prospettico, colpevole di aver sacrificato il senso dei valori tattili all’ostentazione virtuosa d’abilità e all’esibizione di maestria. Berenson consegnava in tal modo un giudizio di laconica inappellabilità: «Paolo Uccello guastò quasi completamente l’intuito del significato plastico che aveva potuto aver da principio, per la smania di far pompa della sua scienza e della sua abilità»46. FCC, Paulo Uccello. Manoscritto a china su 17 fogli, s.d. ma 1916. Questo primo testo è stato da me pubblicato in «Lettere Italiane», 2004, n. 2, pp. 254-262. Per la fortuna letteraria di Paolo Uccello cfr. C. Chiummo, Il Paulo Ucello tra ritratti immaginari e francescanesimo fin de siècle, «Rivista Pascoliana», IX, 1997, pp. 9-31; E. Salibra, Parola e immagine in Paulo Ucello di Pascoli, in I segni incrociati.Letteratura italiana del ’900 e arti figurative, a cura di M. Ciccuto e A. Zingone, Lucca, Mauro Baroni Editore, 1998, pp. 7-31; e R. Ludovico, «Dal granito all’arcobaleno». Cinque secoli di «Vite» di Paolo Uccello, pittore fiorentino, «Quaderni d’Italianistica», XXI, 2000, pp. 121-142. 45  Le Vite vasariane erano disponibili anche in edizioni minori, ad esempio le Narrazioni scelte delle vite di Giorgio Vasari, a cura di G. Signorini, Firenze, Barbera, 1902, oppure la collana «Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti scritte da Giorgio Vasari», diretta da Pier Luigi Occhini ed Ettore Cozzani per Bemporad, dal 1911: erano volumi in sedicesimo, con otto-dieci tavole ciascuno e un’introduzione storica (Fiocco, Sapori, De Rinaldis); Carrà (Parlata su Giotto, cit.) collocava Adolfo Venturi tra i «poveri sgobboni privi di sensibilità». 46  J. Ruskin, Mornings in Florence (1875-1877), trad. di O. G. Giglioli, Mattinate fiorentine con spigolature da «Val d’Arno», Firenze, Barbera, 1908 (e cfr., per questa 43 

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È chiaro che, dinanzi a simili precedenti, il Paolo Uccello di Carrà andava reinventato su un doppio piano: quello del giudizio estetico, che doveva rovesciare una tradizione tutto sommato sfavorevole, e quello linguistico, obbligato a misurarsi con un precedente letterario di difficile elusione, in particolar modo per il Quattrocento toscano. Questo precedente era naturalmente dato dalla poetica dannunziana dell’artifex additus artifici e dalla retorica estetizzante di Angelo Conti, il «periegeta» che nel 1907 aveva dedicato a Benedetto Croce una silloge d’ispezioni poetiche lungo un territorio che andava dalla Venezia di Carpaccio alla Toscana dei giotteschi fino all’Umbria dei primitivi47. Le varianti delle due redazioni permettono così di stimare la graduale messa a punto di un’originale rivalutazione delle qualità pittoriche e il perfezionamento di un linguaggio specifico e coerente. Rispetto all’abbozzo iniziale la versione vociana recuperò non più di quattro intere pericopi. Gli altri argomenti sembravano sciogliersi entro una prosa meno ellittica e maggiormente strutturata sul piano della progressione logica. Essa viene rifinita mediante la generosa inserzione di costrutti lessicali come «ossei-sbiancati», «verdi-freddi» o «marroni-ferrigni» indisponibili a primo getto. Un’elaborata ekphrasis, non senza recuperi dal campo lessicale futurista, o per meglio dire marinettiano (così le «correnti delle sensazioni», il «navigare sonnambulo»), rivestiva la delicata funzione di saldare il ragionamento prosastico con il riferimento visivo, evitando i più vieti stilismi estetizzanti.

ricezione di Ruskin, A. Del Puppo, Aspetti della ricezione di Ruskin nella stagione delle riviste, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini, 2006, pp. 119-135); B. Berenson, The Florentine Painters of Renaissance, New York-London, G.P. Putnam’s Sons, 1896 (si cita dalla trad. di E. Cecchi, I pittori italiani del Rinascimento, Milano, Hoepli, 1936, p. 72). 47  A. Conti, Sul fiume del tempo, Napoli, Ricciardi, 1907, con seconda edizione nel 1913; è utile tenere in considerazione anche La Beata Riva, 1900 (ora nell’edizione annotata da P. Gibellini, Venezia, Marsilio, 2000), specie per la comunanza con il tema pascoliano del fanciullino («L’artista è come un fanciullo a cui tutte le cose producono un senso di meraviglia», qui p. 19).



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Il poeta fanciullo e il gentiluomo ubriaco Contestualmente alla stesura del Paolo Uccello, Carrà aveva recuperato una vecchia tela coprendola con una prima versione de I Romantici (fig. 4.5). Come si vede, anche per il quarto dipinto del 1916 emerge un chiaro parallelismo fra pratica della pittura e teoria dello stile. Il titolo dell’opera era Romanticismo, e prevedeva tre figure maschili stanti, un cane e un uccello. Quando Carrà spedì l’ultima lettera citata aveva con ogni probabilità già modificato il dipinto. Al posto del cane si ripresentava la figura infantile dai caratteri marcatamente grotteschi de La bambina. Essa compariva in uno schizzo inviato a Soffici all’inizio di settembre, senza però la coroncina d’oro. Carrà dichiarò noncuranza nei confronti del titolo. Ma cosa vuol dire «Romanticismo», o «I romantici», come l’opera verrà definitivamente battezzata? E perché quelle modifiche? L’infante, con la sua palla di gomma, sta nel mezzo di tre figure professorali che sembrano richiamare, per attributi e ieratica frontalità, i santi dei polittici trecenteschi. Certo vi sono anche lampanti deduzioni dalla pittura di André Derain, appresa a Parigi come sulle tavole fotografiche de «Les Soirées de Paris»: i nasi a quart de brie, il tendaggio sulla sinistra, la fettuccia di pavimento sotto i piedi. «Romanticismo» è da intendere come risoluzione verso un operare pittorico in assenza di grammatica normativa o teorie precostituite. Un simile ragionamento pittorico poteva trovare riscontro efficace nel poeta adolescente: nella figura cioè di Arthur Rimbaud, oggetto dell’onesta plaquette sofficiana del 191148. In alcune opere di questo 1916 non mancano in effetti allusioni ai testi del simbolismo francese, in buona parte dovute alla mediazione di Soffici. Il gravido e attonito Gentiluomo sembra smaltire un’ivresse di origine rimbaudiana, laddove il poeta scopre, nella figura allegorica della navigazione senza pilota, lo scavalcamento del limite fisico del reale. Così agisce anche il pittore, avviato a una metafisica degli oggetti comuni: il bastone 48  Cfr. M. Richter, La formazione francese di Ardengo Soffici, 1900-1914, Milano, Vita e Pensiero, 1969, p. 154; sul significato del dipinto si vedano però le considerazioni di Rovati, Carrà 1916 cit.



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Figura 4.5 Carlo Carrà, I romantici, 1916.

colorato, la bottiglia gessosa. Elementi partecipi alla poetica di quella visione sensibile e «pagana» che aveva governato l’autore del Rimbaud, che qui sembra richiamato visivamente in quello che appare, a tutti gli effetti, come un criptoritratto a chiave. La trilogia Fanciullo prodigio, Bambina e Romanticismo scavalca la presunzione dell’originalità futurista con la deliberata inattualità di molteplici fonti. Il tono medio di questo sincretismo venne stabilito da un gusto retrospettivo capace di infilare le più differenti suggestioni primitiviste mediate dal fecondo contatto con l’avantgarde pittorica «all’antica». Attraverso queste vie, l’autore poteva pervenire a un personale adeguamento dell’estetica del «fanciullino». Ancora una volta la pittura mise



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in opera la figura traslata dell’artefice, disposto a identificarsi nel candore ingenuo dell’infante. Che, non a caso, in Romanticismo viene coronato poeta dal «crieur du devoir»: il corvo «notre funèbre oiseau noir»49. Il fanciullo – il poeta di sedici anni – è l’unico credibile detentore di una verità lirica nel mondo dei professionisti della parola. Questi dipinti erano autoritratti, a modo loro. Gli unici possibili, per il loro autore.

49  A. Rimbaud, Les corbeaux, in Opere, a cura di D. Grange Fiori, Milano, Mondadori, 1992, p. 152.

V. «Uno degli imbecilli non esiste»

Come si è visto, la guerra generò una narrazione mitica, in grado di riformulare in termini accettabili e comprensibili un’esperienza radicalmente conflittuale. Quando però l’esperienza vissuta travalicò ogni possibile orizzonte di previsione, azzerando le soglie della morale, della dignità e del sentimento umani, subentrò l’afasia e l’indicibilità. Dinanzi alla disumanità della guerra moderna e tecnologica, le possibilità discorsive esenti dalla retorica restavano due: la gelida nitidezza del referto imperturbabile – ad esempio In Stahlgewittern di Ernst Jünger, dove solo chi ha avuto gli occhi per assistere alla carneficina può sopportare l’idea di doverla raccontare; oppure, all’opposto, la contrazione nel registro solipsistico, in un idioletto esasperato, a pari grado non condivisibile – o comunicabile solo attraverso la decrittazione di un serrato codice1. Anche per Soffici e Carrà la conoscenza del territorio del Friuli e della Venezia Giulia fu intrinsecamente legata all’esperienza di guerra. Ciò che ne sortì sono alcuni dipinti e qualche scritto che, tra 1917 e 1919, testimoniano a modo loro questa vicenda. Paesaggi cifrati Il primo dipinto, assai noto, è di Carrà; s’intitola La musa metafisica e oggi sta alla Pinacoteca di Brera, fra le opere della collezione Jesi (fig. 5.1). 1  Oltre ai già citati studi di Leed, Fussel e Gibelli, si veda per questo anche D. Pick, La guerra nella cultura contemporanea, Roma-Bari, Laterza 1994, pp. 271 sgg. e P. Dagen, Le silence des peintres. Les artistes face à la Grande Guerre, Paris, Fayard 1996, pp. 81 sgg.



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Figura 5.1 Carlo Carrà, La musa metafisica, 1917.

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Figura 5.2 «La Voce», 8 dicembre 1910.

Il quadro è comunemente considerato uno dei primi e più alti esempi della maniera cui Carrà giunse nel corso del 1917, quando ebbe modo d’incontrare De Chirico e apprendere – ma è più corretto dire a plagiare – i rudimenti della pittura metafisica. Siamo all’interno di una stanza con due aperture cieche. Sulla sinistra, a ridosso di quello che appare come lo spigolo di un tavolo sproporzionato (o è la stanza ed essere angusta?), si erige un misterioso manichino, poggiato sopra una base quadrata, con una racchetta adagiata su un fianco e una palla nell’altra mano. Gli abiti sono quelli d’una giocatrice di tennis. È probabile che Carrà abbia tratto ispirazione, come già in altri casi, da qualche foto tratta dalle cronache sportive. Ma la figura gommosa e biancastra del manichino può anche riferirsi a quella che a mia conoscenza è una delle prime attestazioni iconografiche del gioco del volano: si tratta de La partenza di Pulcinella, un episodio degli affreschi che Giandomenico Tie-



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polo aveva realizzato nel 1797 a Zianigo (staccati, oggi stanno a Ca’ Rezzonico)2. Il manichino non è tuttavia l’unico elemento misterioso del quadro, che anzi non lesina altri particolari stranianti. Un solido trapezioidale, campito a vivaci colori, si slancia dal pavimento fino al soffitto. Una croce è incisa sulla parete di fondo, e sembra richiamare il misterioso decoro che corre sul petto del manichino, sopra la giubba aperta. In basso a destra appare una carta geografica che riporta l’Istria e il Friuli orientale. La mappa è incorniciata entro una sorta di scatola poggiata per terra; in un angolo è inserito un foglio bianco che riporta tra cerchi concentrici rosso, bianco e nero. Dietro questa mappa, fa capolino una tela dipinta, che riprende l’impiantito ligneo traguardandolo verso alcuni edifici, all’apparenza officine o case popolari. Per ciascuno di questi elementi si può puntualmente risalire a una delle opere che De Chirico aveva appena dipinto a Ferrara; ma non sarà questo esercizio sulle fonti visive a chiarire il significato del quadro. Lasciando da parte, almeno per ora, il manichino-tennista, il cui studio ci allontanerebbe da quanto qui in discussione, è chiaro che uno degli elementi centrali del dipinto è la mappa. È certo vero che anche questo oggetto deriva da note composizioni dechirichiane: usi di mappe si trovano in almeno quattro dipinti del 1916. Due di questi presentano porzioni della costa istriana, facilmente riconoscibili nonostante il taglio compositivo e la rotazione dell’immagine; uno, di più ridotte dimensioni, porta l’eloquente titolo di Politique; tutti risalgono al periodo immediatamente a ridosso del rientro in Italia per l’arruolamento, e sembrano così alludere alle vicende biografiche del loro autore3. Per capire meglio quale significato potesse invece avere la carta geografica nella Musa metafisica – e non volersi quindi limitare a denunciarne il prelievo – è bene allora ripercorrere le circostanze, e provare a collocare il quadro con la massima P. Molmenti, La villa di Zianigo e gli affreschi di Giandomenico Tiepolo, «Emporium», vol. 26, 1907, pp. 184-198. 3  P. Baldacci, De Chirico 1888-1919. La metafisica, Milano, Leonardo arte, 1997: n. 111 (La politique); n. 112 (Mélancolie du départ); n. 113 (Natura morta evangelica) e n. 115 (Le corsair). 2 



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precisione possibile. Il soldato Carrà era giunto a Ferrara l’8 gennaio 1917. Nelle settimane successive incontrò De Chirico, che stava lavorando alacremente ed era ancora in grado d’inviare in un mese tre quadri al suo gallerista parigino Paul Guillaume4. Pur apprezzandone il lavoro, Carrà confessò all’amico Soffici di avvertirne la «fredda razionalizzazione letteraria»5. Dall’aprile 1917 De Chirico e Carrà furono ricoverati presso il neurocomio di Ferrara, trovando così il modo di lavorare con una certa tranquillità. Carrà ora ammise: «con de Chirico si discute e si dipinge a nuove realtà»6. Grazie ad una licenza bimensile Carrà rientrò a Milano il 17 agosto. Ottenne una licenza annuale, per il disbrigo della quale tornò un’altra volta a Ferrara il 20 novembre. Nel frattempo De Chirico s’era incaricato di organizzare una mostra a Bologna insieme a Soffici. Di nuovo a Milano, Carrà iniziò a preparare il lavoro in vista di una mostra che aprì l’11 dicembre presso la Galleria Chini. A causa dei ritardi nelle spedizioni, De Chirico si lamentò di non aver potuto esporre i suoi quadri insieme a quelli di Carrà. Nel frattempo Carrà curava i suoi interessi, intessendo rapporti con Giovanni Papini, appena insediato a capo della redazione culturale de «Il Tempo» di Filippo Naldi. Avvisò inoltre Soffici che dipinti recenti come La musa metafisica manifestavano «senso ironico» e saldezza di forme, proprio secondo quanto Soffici stesso aveva suggerito nei suoi Primi principî di estetica futurista: una serie di fondamentali riflessioni che, nonostante il titolo, costituivano uno strategico posizionamento antimarinettiano (e antiboccioniano). Pubblicate su «La Voce» nel corso del 1916 e raccolte in volume qualche anno dopo, queste note si erano naturalmente intrecciate al particolare revisionismo carraiano, orientandone per molti versi il percorso7. Un po’ ingenuamente, solo nel marzo 1918 De Chirico confessò a Soffici d’essersi accorto di quello che era chiaro a tutti: G. De Chirico, Penso alla pittura, solo scopo della vita mia. 51 lettere e cartoline ad Ardengo Soffici, 1914-1942, a cura di L. Cavallo, Milano, Scheiwiller, 1987, p. 63. 5  Carrà, Soffici, Lettere 1913/1929, cit., p. 105, Carrà a Soffici, 18 febbraio 1917. 6  Ivi, p. 107, Carrà a Soffici 5 giugno 1917. 7  Ivi, p. 108, Carrà a Soffici, 2 febbraio 1918; cfr. A. Soffici, Primi principî di estetica futurista, Firenze, Vallecchi, 1920. 4 



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«tu devi aver già osservato il modo spudorato con il quale plagia le mie pitture; ho poi saputo che a Milano va a spifferare a destra e a sinistra che sono io che lo plagio!»8. Soffici, ad ogni modo, rimproverava a entrambi un eccesso di compiaciuto intellettualismo; la pittura di Carrà gli pareva ingolfata in «astrazioni teoriche pericolose ed ingenue»9. Sette opere di Carrà, fra cui La musa metafisica, vennero inviate a Roma per una mostra insieme a Soffici e a De Chirico che si aprì il 20 maggio 1918. Soffici si recò a Roma, ma per conto proprio; De Chirico, che vi espose opere cruciali come Il trovatore, Ettore e Andromaca, Il Grande Metafisico, Il Ritornante, lamentò una manifesta ostilità. Il quadro di Carrà fu invece acquistato, grazie probabilmente ai buoni uffici di Soffici, dal pittore Armando Spadini. Le circostanze intorno a genesi e circolazione dell’opera sono quindi piuttosto chiare, ma non abbastanza da dirimere una questione centrale: quando cioè, nel corso del 1917, il quadro venne dipinto. C’è un evento infatti che cadde in quei mesi istituendo una drammatica cesura: la disfatta di Caporetto. Le possibilità si riducono a due: che l’opera sia stata dipinta prima oppure dopo l’ottobre 1917. Le conseguenze non sono irrilevanti, proprio per il possibile significato della mappa all’interno del quadro. Per quanto infatti l’orografia dipinta sia piuttosto fantasiosa, la carta raffigura, delineato con sufficiente chiarezza in rosso, il vecchio confine del 1866, che scende lungo lo Judrio e s’inoltra nell’Adriatico. Anche le rappresentazioni delle linee ferroviarie, come la Transalpina e la Udine-Venezia via Cervignano, sono piuttosto fedeli10. Il modello poteva essere stato una qualunque carta commerciale in uso fino al 1915. Se ne vede una anche nel leggendario numero de «La Voce» dedicato all’irredentismo (fig. 5.2). Perché allora mantenere così evidente il confine ormai travolto dagli eventi? De Chirico, cit., p. 79. G. Papini, A. Soffici, Carteggio III. 1916-1918. La Grande Guerra, a cura di M. Richter, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002, p. 170, Soffici a Papini, 27 agosto 1918. 10  Fondamentale per questi aspetti il repertorio raccolto in N. Biondi, F. Cerotti, Il confine mobile. Atlante storico dell’Alto Adriatico 1866-1992. Austria, Croazia, Italia, Slovenia, Monfalcone, Edizioni della Laguna, 1996. 8  9 



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Se il quadro di Carrà fosse stato dipinto durante l’estate del 1917 si potrebbe attribuire alla cartina un valore ben preciso: il riscatto delle terre irredente. In quei mesi infatti giornali e riviste andavano magnificando gli esiti della grande offensiva avviata sul fronte giuliano in maggio, e culminata con la spinta in agosto «da Tolmino al mare». Gazzette e riviste diffondevano i diagrammi d’avanzata tracciati sulle mappe del Friuli, del Carso e dell’Istria, contribuendo così a rendere familiare come mai prima il lembo del nordest geografico della nazione. L’editoria aveva allestito sontuose collane dedicate ai paesaggi di guerra, come i volumi stampati dal 1916 da Treves in quarto grande, che raccoglievano un centinaio d’incisioni e una carta geografica a colori dei principali teatri di combattimento. Il secondo volume era stato dedicato al Carso, il quarto alla battaglia di Gorizia, il successivo all’alto Isonzo, l’ottavo alla Carnia. In quei mesi di battaglia, pochi altri paesaggi e territori vennero così a lungo e quotidianamente seguiti con trepidazione e ossessivamente ispezionati come questi. Tale topografia non aveva affatto un significato di mera designazione territoriale: essa traeva il suo significato da pochi nomi evocativi di valori simbolici. Più che dall’esatta visualizzazione d’un tracciato di linee, la geografia di guerra, almeno nella rappresentazione trasmessa all’intero paese, era stabilita dall’impatto emotivo dei toponimi, filtrati dall’accorta fiction delle comunicazioni ufficiali11. Valgano, per questo, le osservazioni che Angelo Gatti, direttore dell’Ufficio storico del Comando supremo, redigeva a Udine durante le concitate fasi dell’agosto 1917: «Alla sera, sul Castello si innalza la bandiera: è annunziato al popolo che il M. Santo è preso. […] Gli austriaci l’hanno ceduto. Per manovra è vero, ma l’hanno ceduto. E, per noi, la presa del M. Santo rappresenta il fatto massimo di questa battaglia: esso, che è l’episodio minimo. Chi parlerà del Fratta, del Semmer, dell’Ossoinka, che hanno coA. Mattelhart, La communication-monde. Histoire des idées et des strategies, Paris, éditions La Découverte, 1991 (tr. it. La comunicazione mondo, Milano, Il Saggiatore, 1994, pp. 83-95): secondo l’autore, la Prima guerra mondiale costituì il battesimo della «gestione invisibile della grande società» e una prima verifica globale delle conseguenze dello sviluppo delle comunicazioni e della loro estensione planetaria. 11 



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stato tante vittime? Nessuno, Ma tutti del M. Santo […] Abbiamo preso il M. Santo. Questo vuol dire, che si sono fatte grandi cose». E a pari grado, durante la rotta di ottobre il generale osservava: «Il paese è tranquillo perché non sa altri nomi (e non suppone) se non Cividale in mano al nemico: ma quando saprà Udine, Codroipo, Palmanova, Pordenone, cioè nomi di città, resisterà?»12. Cosa diceva Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale? «Solo i fatti sono veri e importano». Invece la geografia dei nomi, al tempo stesso concreta ed evocativa, rettificava la natura oggettiva dei tracciati attribuendovi valore ideologico e di propaganda. Prive di tali indicazioni, le carte geografiche restavano “mute” e, come anche quella dipinta da Carrà, mantenevano un aspetto inerte e ambiguo. Può darsi, anche, che questo mutamento si possa o si debba leggere come segno della disillusione subentrata dopo che alle radiose giornate del maggio 1915 era seguito il crudo e spietato rovesciamento dell’esperienza di guerra. Il passaggio tra la prosa gridata, la precisione onomastica e l’accurata topografia del pamphlet interventista Guerrapittura e il nitore astratto della Musa metafisica di due anni dopo si può leggere, in effetti, sotto questa luce. La mappa è un’astrazione del territorio reale, almeno quanto il manichino è la rappresentazione, disumanizzata, dell’individuo. Tuttavia, anche questo fatto non è abbastanza significativo da poter sciogliere il dilemma della presenza della mappa. Tracciare il confine austroungarico nella mappa de La musa metafisica poteva significare, prima di Caporetto, un’esortazione a risarcire i territori patrî. Tanto più che il “bersaglio” in basso a destra richiamava in realtà la coccarda dell’aviazione italiana, con la sola licenza del disco nero anziché verde. Se, invece, come non è improbabile, il quadro venne concluso più tardi, fra ottobre e dicembre 1917, ecco allora che la rappresentazione grafica poteva esser letta in un altro modo: il pericolo di regredire verso i confini dell’anteguerra e un monito patriottico a scongiurare un simile, infausto, esito. In un caso e nell’altro, come si vede, è piuttosto difficile attribuire alla carta geografica un significato preciso. D’altra parte, più che sciogliere il rebus implicito della sua presenza nel quadro, è 12  A. Gatti, Caporetto. Diario di guerra, a cura di A. Monticone, Bologna, Il Mulino, 1977, pp. 147 e 214.



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utile innanzitutto porre in rilievo la sua presenza, in qualità d’immagine simbolica e crittografata. Il paesaggio della regione, come figura condensata e immaginaria del teatro di guerra, si contrae ad una cartografia sommaria. Essa è partecipe all’artificio multiprospettico del «quadro nel quadro» e delle misteriose scatole degli interni carraiani (e dechirichiani) del tempo. Questo escamotage è un tratto distintivo del Carrà di questo periodo, e solo di questo. Siamo abituati infatti a leggere i paesaggi degli anni Venti di Varallo, del Cinquale, della Valsesia, come motivi pittoreschi, disponibili all’elegia dei sentimenti. Precisamente quanto, insomma, l’esperienza della guerra dichiarava come impossibile. Su questo piano, la cartografia di Carrà offre una conferma a un dato emerso da tutti gli studi in materia: l’indisponibilità dell’esperienza di guerra a una qualsiasi traduzione pittorica. Impressionismo visivo Soffici era stato mobilitato nel 1915. A differenza di Carrà e De Chirico il fronte friulano e giuliano lo conobbe direttamente. Partì da Udine verso il fronte nel maggio del 1916, non prima di aver dipinto un piccolo Paesaggio a Chiavris che resterà il suo unico quadro documentato negli anni di guerra13. La sua esperienza al fronte venne consegnata a due memorabili libri, Kobilek e La ritirata del Friuli. Kobilek è il diario che Soffici tenne durante la battaglia per la conquista dell’omonimo colle sulla Bainsizza, nell’agosto del 1917. Rimasto ferito ad un occhio, Soffici approfittò del ricovero nell’ospedale di Cormons per mettere in ordine le note sparse. Il testo venne pubblicato dapprima in quattro puntate sulla «Nazione» nel settembre 1917, amputato dalla censura e col titolo Al fronte con la brigata «Firenze» (Giornale di guerra di Ardengo Soffici). Venne immediatamente composto nella tipografia di Val13  G. Raimondi, L. Cavallo, Ardengo Soffici, Firenze, Vallecchi, 1967, n. 229, con una scheda in Ardengo Soffici. Arte e storia, catalogo della mostra, a cura di O. Casazza e L. Cavallo, Milano, Mazzotta, 1994, n. 54; di altri quadri vi è solo notizia, cfr. A. Soffici, Lettere a Prezzolini, 1908-1920, Firenze, Vallecchi, 1988, p. 116, da Udine, 25 aprile 1917: «Ho ricominciato a lavorare: ho già fatto altri due quadri ed ho la testa piena di molti altri».



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lecchi per la pubblicazione in dicembre, ma la stampa del volume slittò alla fine di marzo del 1918. La prima tiratura si esaurì in un mese. Soffici confermò a Papini che Kobilek era inteso come un vero libro di storia, più che un semplice memoriale. Già nelle settimane successive alla disfatta di Caporetto Soffici maturò l’idea e il titolo della Ritirata del Friuli. Nell’inverno successivo iniziò il lavoro di riordino degli appunti, che si prolungò per tutto il 1918. Il memoriale venne pubblicato nel 1919. Nel loro insieme, i volumi costituirono due fra le più notevoli testimonianze di letteratura prodotta al fronte, insieme al Porto sepolto di Ungaretti e a Nostro purgatorio di Antonio Baldini14. Un tratto caratteristico delle pagine di Soffici sulla Grande Guerra in Friuli è il conflitto con la realtà brutale del combattimento. Più che mettere in crisi il proverbiale impressionismo visivo dell’autore, l’esperienza di guerra costituiva una sfida da condurre sul piano di uno stilismo sublimato, che poteva rasentare l’ironia, come l’autore stesso confidò a Papini: «La terribilità di tutto quello che si può vedere è talmente grande che rasenta il comico. Volevo anzi scrivere qualcosa intitolato L’umorismo del Podgora»15. Ma ecco cosa restituirà la pagina scritta a seguito dell’esperienza, un anno dopo, con la battaglia sul Kobilek:16 Sopra un mucchio di membra maciullate, un uomo giaceva, scontorto, le cosce trebbiate, il petto squarciato e livido tra i brandelli della giubba arsa. Non aveva più faccia, ma, dalla gola alla fronte, una specie di piaga sanguinolenta, una poltiglia di carne nericcia e d’ossi infranti, dove non si riconosceva che il gorguzzole ritto, simile a un saltaleone rosso in quella fanghiglia, e l’arco biancheggiante delle orbite vuote.

È un catalogo lugubre, non dissimile a quello redatto dallo sguardo spietato d’uno Jünger, ma con una fedeltà impressionante, nel suo cinismo, a un compiaciuto registro pittoresco: si direbbe una macabra natura morta. 14  E. Bellini, Soffici, Ungaretti e la guerra, in Studi su Ardengo Soffici, Milano, Vita e Pensiero, 1987, pp. 123 sgg. 15  Papini, Soffici, Carteggio III, cit., p. 76, Soffici a Papini, 21 novembre 1916. 16  A. Soffici, Kobilek. Giornale di battaglia (Firenze, Vallecchi, 1918); cito, con riscontro sugli originali, dall’edizione moderna congiunta a La ritirata in Friuli: A. Soffici, I diari della grande guerra, a cura di M. Bartoletti Poggi e M. Biondi, Firenze, Vallecchi, 1986, p. 142.



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Toni analoghi si ritrovano nella Ritirata del Friuli. Ma il paesaggio, devastato dalle rovine od oltraggiato dal freddo e dalle intemperie, sembra riflettere l’umore nero e fiaccato della truppa. Porto come esempio lo spettacolo di pena e d’incuria offerto a Soffici da un reggimento di stanza a Ipplis:17 La pioggia era cessata e siamo dunque discesi a piedi per le stesse terribili viottole, divenute ormai come fossi di melma. Da un lato e dall’altro, nei campi a terrazza, vedo le file di tende piantate lungo i filari, e fra quelle molti soldati che si muovono scioperati e torvi affondando i piedi penosamente in un meticcio giallo, una broda che quell’andare e venire rende sempre più liquida e abbondante.

Non è dissimile l’immagine d’un acquartieramento lungo la strada di Prepotto. I soldati erano abbrutiti dalle ripetute corvée in una natura resa ostile dal maltempo incessante18: Siamo entrati in un largo cortile allagato di meticcio nero, nel quale parecchi soldati del plotone del collega, vestiti di panni umidi e logori, stavano lavorando, chi a spaccar legna chi a mondar patate, chi a trasportar tronchi d’albero e bandoni da trincea per la riparazione delle cucine mezze distrutte dall’acquazzone. Consistono, quelle cucine, in una tettoia sbilenca formata di latta di bombole disfatte, di assicelle, di frasche e di cartone incatramato, e sotto la quale, in fornelli di sassi e di terra sono allineate in bilico le marmitte ammaccate e fuligginose. Il vento e la pioggia, che penetravano da ogni parte da fessure enormi, soffocavano il misero fuoco di legna bagnata, ricacciando per il cortile l’acre massa del fumo entro cui si movevano rabbiosamente i cucinieri scamiciati e luridi.

La parola scritta non rivaleggia più con la pittura: ne è, ora, l’unica possibile sostituta, il solo strumento in grado di fissare e restituire la dimensione visiva di una simile esperienza. Tali, allora, le ragioni della singolare persistenza di sonorità stilistiche di sorprendente freschezza. Esse emergono come una sorta di misurato controcanto delle pagine più fosche e torve, alternando squarci radiosi e giungendo non di rado al paradosso dell’idillio. Come esempio, ecco la tersa descrizione di un’altura: «Mi rallegra invece la bellezza di questi siti, la frescura verdeggiante della valletta che traversiamo, rigata di acquitrini, di vivi 17  18 

A. Soffici, La ritirata del Friuli (Firenze, Vallecchi 1919), ivi, pp. 222-223. Ivi, p. 226.



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ruscelli che corrono fra l’erba e i sassi lungo boschetti intricati di noccioli, di acacie, di pioppi palpitanti nella luce dorata»19. Oppure, come pausa nel delirio di folla e carri durante la rotta, si apre un brano di paesaggio appena fuori Spilimbergo:20 Pace di paese e d’uomini. Era presso al tramonto, e sulle facciate delle ultime case, sugli alberi e sulle viti in ghirlanda, che l’autunno imbiondiva, una languida luce di sole color di rosa si riposava, s’indugiava in trasparenze ariose e dolci, svariate d’ombre tenui che ne aumentavano lo splendore. Sulle erbe tenere, sulle zolle rossigne delle prode, larghe chiazze di sole si distendevano immote, con quel mesto abbandono che intenerisce soavemente l’anima nelle ore e nelle stagioni estreme.

In tutte le pagine de La ritirata del Friuli il paesaggio vive nella costante polarità tra elegia della natura e dramma umano, e sembra rispecchiare l’intera struttura della contrapposizione fra ambiente e tecnica, vita e morte. Essa raggiunge il suo apice nel disperato referto della rotta, tanto nella comunicazione epistolare quanto nella pagina stampata21: Uno scoramento atroce, una specie d’ebetudine s’è impossessata di me. Non sento che il dolore quasi carnale di doverci staccare da quest’altro lembo di questo paese delizioso. Ho l’ossessione di tutto quello che abbiamo perso; vedo le città, i paesi, i monti, le campagne, le strade, di là, tutto il meraviglioso, diletto Friuli come immerso in una luce d’oro; il fiume, una lucente zona di sogno. Questi campi, poi, sono come una parte del mio corpo che stiamo dilaniando.

Nel brusco rovesciamento delle sorti di guerra, l’elegia del paesaggio perduto è contrapposta al senso della tragedia. Questo è quanto Soffici osserva nei dintorni del Castello di Domanins22: Dolce e malinconica immagine di questo paese divino. La sua bellezza è tanta che fa pena. Il cielo e la terra splendono in una luce bionda, fresca, leggera che conferirebbe ai più felici pensieri, e contrasta invece crudelmente col buio e la tristezza dei fatti di quest’ora. I campi abbandonati si distendono alla carezza del sole, quasi voluttuosamente, le stoppie brillano, Ivi, p. 228. Ivi, p. 296. 21  Ivi, p. 328. 22  Ivi, p. 330. 19  20 



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i pampini, le foglie, le erbe, i fiori autunnali sfoggiano a gara i loro colori ardenti, vari, doviziosi.

Da regesto visivo la descrizione del paesaggio diviene traccia di un’esperienza personale: «Ho errato per le viottole, lungo i filari smaglianti, vicino ai muri chiari e tepenti. Mi son disteso su una proda d’erba secca e profumata. Sopra di me il cielo si approfondiva e si allargava come un gurgite infinito di luce bianca. Vi ho fissato gli occhi per dimenticare il mio pensiero»23. E ancora, in un ultimo sguardo struggente dal Castello di Conegliano verso la pianura orientale, prima di riparare oltre il Piave24: Sotto di noi, dalla parte opposta del paese, collinette, poggioli, piccole valli, fra altura e altura, coperte di viti, di olivi, di boschetti, popolate di case e ville bianche, splendenti, intersecate di strade e stradette apparenti e sparenti fra luci e ombre, svariate di terre lavorate, d’orti e di freschi prati si spiegavano nel sole, fino ai monti lontani tutte vestite nei più gloriosi colori della stagione estrema. Falde scarlatte, porporine, vermiglie scendevano dalle cime giù per i fianchi delle pendici; cumuli d’oro si ammassavano nelle insenature, traboccavano da’ muri e dalle siepi; zone e chiazze di viola, più o meno chiare a seconda dell’ondulazione de’ terreni e il folto delle piantagioni, rigavano e maculavano il largo prospetto. E alternate con quelle nell’infinita armonia delle mille e mille sfumature che ne resultavano, gruppi cupi e immobili di lecci e di cipressi.

Se abbiamo citato a lungo queste pagine non è soltanto per allestire un repertorio di geografia letteraria, né per voler insistere più del dovuto sulle evidenze di una polarità tra idillio e tragedia, esperienza della morte (Kobilek) e poesia della memoria (Ritirata del Friuli). La scrittura di Soffici adempie qui a una funzione sostitutiva. Il codice descrittivo della realtà vissuta, come esperienza vitale nel paesaggio, sembra intraducibile nelle forme della pittura e vive soltanto nell’annotazione del diario. Questa polarità non è tratto tipico soltanto dell’elaborazione letteraria, ma appare ugualmente nella scrittura epistolare, Ibid. Ivi, p. 338; Papini, Soffici, Carteggio III, cit., p. 133, Soffici a Papini, 7 novembre 1917. 23  24 



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quando ad esempio Soffici, ritornato nella Udine liberata, tratteggia a Papini la più netta contrapposizione tra il pittoresco mercato di San Giacomo, brulicante di folla che ha ripreso a vivere, e il «cafarnaum impressionante lugubre ed eroico» del vallone di Doberdò25: Figurati una gola tetra fra montagne di sasso […] nelle quali sono incastonate capanne di legno, di sassi, di stipa, di ferro simili ad abitazioni trogloditiche in ruina e piene di oscuri misteri. Il fondo del vallone è pieno di cimiteri con migliaia di croci in fila fra i quali qualche contadino rimasto ha già ricominciato a tracciare i suoi solchi nella terra rossa e grassa. Poveri e neri campicelli più tristi ancora dei cimiteri.

Una traduzione nella stilistica letteraria era ancora possibile, nella misura in cui la descrizione nitida e oggettiva emendava, come si è visto, i tratti dell’ormai consunta retorica interventista, ricomponendo il dissidio tra arte e realtà. Per questa via, che è poi quella d’una composta sofisticazione iperletteraria, Soffici sfidò l’impraticabilità pittorica del paesaggio friulano come topos visivo. Nel caso del dipinto di Carrà, l’immagine riconoscibile si riduceva a crittografia e simbolo, sfidando al tempo stesso la visibilità dei luoghi e la nominabilità dei toponimi. È noto che la corrispondenza personale prevedeva l’obbligo di indicare, semplicemente, «zona di guerra». Per poter comunicare a Papini la città da cui inviava le sue missive, aggirando i divieti del regolamento, Soffici escogitò il trucco d’inserire nel poscritto di alcune lettere un acronimo. «Uno degli imbecilli non esiste» indicava Udine, per l’appunto26. Indisponibile a una traduzione visiva, incapace di istituire simbologie pittoriche condivisibili, l’esperienza di guerra abbandonava le indicazioni «fatali» della retorica nazionalista (Gorizia, Trieste, il Carso, l’Isonzo). La geografia del teatro bellico venne tradotta in crittografia, e così anche, quando fu il momento, l’esperienza di guerra: «il mio diario di guerra è una cosa impossibile», annotò Gadda27. Ivi, p. 187, Soffici a Papini, 2 dicembre 1918. Ivi, p. 47, Soffici a Papini, 9 maggio 1916. 27  C.E. Gadda, Il Castello di Udine (1934), Milano, Garzanti, 1999, p. 41. 25  26 



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Sul Carso, col mandolino Nella lettera di Soffici a Papini testé citata, la descrizione del Carso martoriato è seguita da un episodio che vale la pena di seguire: «In una di quelle doline di martirio glorioso trovai un mandolino sfasciato dal sole e dalle intemperie […] il mandolino dovrebbe essere nello stemma italiano. Avere il coraggio di suonare il mandolino sul Carso è un segno di grande civiltà imperitura»28. Soffici serbò lo strumento e nel 1919 ci fece un quadro: Il mandolino del Carso. Alla luce di quanto detto, desidero leggere questa natura morta, che altrove si interpreta come esempio del risarcimento sofficiano di pienezze e volumetrie tradizionali, come «paesaggio simbolico» del Friuli e degli attori che vi hanno agito. È necessario però richiamare un dato biografico: il matrimonio di Soffici con Maria Sdrigotti, celebrato il 28 giugno 1919. A Papini parlò della moglie come di una «simpatica ed eccellente figliola. Udinese, figlia di operai, sorella di un soldato morto e di uno mutilato. C’è qualcosa di sacro in lei per me per tutte queste ragioni. In essa io sposo la parte più pura e dolorosa della mia patria. Il Friuli che mi è tanto caro perché ci ho passato le più commoventi e gravi ore della mia vita d’Italiano»29. In quelle stesse settimane uscì la Ritirata del Friuli, che ebbe subito pari successo del Kobilek. Una volta smobilitato, con due raccolte accuratamente selezionate di scritti del decennio precedente, Scoperte e massacri e Statue e fantocci, Soffici completò il suo strategico riposizionamento postbellico30. La parte restante dell’anno la dedicò a preparare la prima mostra antologica della sua pittura. Il mandolino del Carso (fig. 5.3) fu tra le opere più recenti ad essere esposte nella grande mostra personale che si aprì a Firenze tra maggio e giugno 1920. Raccogliendo opere dal 1903 fino al presente agiva nell’autore il desiderio di sancire un’indefessa continuità, certo non contraddetta dall’approdo episodico e perPapini, Soffici, Carteggio III, cit., p. 187. G. Papini, A. Soffici, Carteggio, IV. 1919-1956. Dal primo al secondo dopoguerra, a cura di M. Richter, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002, p. 58, Soffici a Papini, 8 aprile 1919. 30  Cfr. A. Martini, Storia di un libro. «Scoperte e massacri» di Ardengo Soffici, Firenze, Le Lettere, 2000. 28  29 



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sonalissimo al futurismo, del quale peraltro tutti i recensori non faticarono a notare l’intenzionale oscuramento31. E così infatti Matteo Marangoni osservava, in catalogo (e in un testo rilanciato sul fascicolo contemporaneo di «Valori Plastici»): «Guardando queste nature morte ci vien fatto anche di pensare se certe immediatezze d’espressione pur contenute in uno schema di un rigore addirittura ortodosso, non possano essere frutto, piuttosto che di reazione, di vera libertà acquisita in quella prova del fuoco che fu per i migliori spiriti la ormai lontana discendenza futurista»32. Non è tuttavia come emblema del ritorno sofficiano a forme solide e semplici, all’amoroso studio del vero, alla rimozione delle aberrazioni moderniste – come sancì Ugo Ojetti in una nota sul «Corriere della Sera» del 12 maggio – che il dipinto va letto. Il significato di questo quadro poggia su tre elementi: 1. La bottiglia e bicchiere di vino. Con il loro implacabile e becero realismo si prestano al rovesciamento del topos della natura morta di sapore e d’impianto moderno – quelle di Picasso e Braque, ad esempio, di cui Soffici era stato come si è visto il primo indiscusso esegeta – dichiarando il compiuto mutamento stilistico dell’autore. 2. Il mandolino. È strumento popolare del Mezzogiorno d’Italia. Fu portato da un soldato meridionale fin sul Carso e lì ritrovato da Soffici, conservato e dipinto come segno tangibile e simbolo di un’Italia unificata nelle trincee. In Kobilek Soffici aveva menzionato le serate e le veglie notturne in bivacco, allietate da canzoni ardite e stornelli volgari, quando i soldati accompagnavano canti e battute col suono d’una chitarra o d’un mandolino33. In una struggente lettera Giuseppe Ungaretti aveva così descritto la scena d’una tradotta: «sugli argini della strada c’erano accoccolate le due file di un reggimento che faceva il suo quarto 31  L. Dami, Il pittore Ardengo Soffici, «Dedalo», I, 1920, p. 214; G. Ballerini, Ardengo Soffici. La grande mostra del 1920, Prato, Pentalinea, 2007 («Quaderni Sofficiani», 13). 32  M. Marangoni, Mostra Ardengo Soffici, «Valori Plastici», II, n. V-VI, maggiogiugno 1920, pp. 64-67. 33  A. Soffici, Kobilek, cit., pp. 63 e 80.



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Figura 5.3 Ardengo Soffici, Il mandolino del Carso, 1919.

d’ora di tappa prima di riproseguire verso lassù; uno cercava degli accordi su un mandolino, e delle voci a poco a poco s’erano levate in sordina, sotto a un gran cielo stellato; era una cosa che portava via il cuore di compassione e di fierezza»34. Nel quadro di Soffici, il mandolino è chiamato a rappresentare l’idillio came34  G. Ungaretti, Lettere a Giovanni Papini, 1915-1948, a cura di M. A. Tersoli, Milano, Mondadori, 1988, p. 143, 10 settembre 1917. Che però la convivialità fra le truppe e la popolazione fosse ben altra cosa rispetto all’idillio raccontato da Soffici, ne diede prova Mario Piccini, che ricordò come, per farsi capire, era necessario parlare staccando bene le sillabe: v. Come ho visto il Friuli, Firenze, Edizioni de «La Voce», 1919, p. 221.



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ratesco, l’elegia della redenzione nazionale collettiva, l’etica della solidarietà interclassista, secondo quanto l’autore confidava a Prezzolini: «Qui si sta veramente formando l’Italia». (Gli rispose indirettamente con un sogghigno Gadda, qualche anno dopo: «L’umile fante, come il poverello d’Assisi e i marrons glacés, sono adattissimi per il boudoir di certe signore»)35. 3. Il pugnale dell’ardito (e non, come è stato scritto, un coltello qualunque). È uno degli oggetti più cari all’immaginario postbellico della trincea. Derivò dalla riconversione di giacenze di vecchie baionette, opportunamente modificate e spesso personalizzate dagli arditi stessi, che godevano di una certa libertà nell’armamento. Il pugnale richiama la figura mitica del combattente per eccellenza, colui che sottratto alla rigida disciplina di truppa, aveva rovesciato l’esito del conflitto a favore della nazione, grazie all’intraprendenza e al coraggio. Nel simbolo del pugnale si riconosce la figura del giovanissimo teppista, ormai convinto «diciannovista», di lì a poco fervente squadrista. È infatti appena il caso di ricordare che una parte degli arditi confluirono nel movimento dei Fasci di combattimento fondati da Mussolini nel marzo 1919 a Milano. Pochi mesi dopo, il 10 d’agosto, Mussolini pubblicò sulla prima pagina de «Il Popolo d’Italia» una lettera in difesa dei generali Graziani, Cadorna e Capello, accusati dall’«Avanti!» per i fatti di Caporetto. Anche La ritirata del Friuli venne da Soffici dedicata a Capello. Ne Il mandolino del Carso la geografia del Friuli s’intrecciò alla biografia del pittore. L’accuratezza dei dispositivi simbolici e l’austerità dei toni impiegati non costituirono un mero stratagemma pittorico. Uniformando bensì lo stile alle forme embrionali della nuova ideologia, il dipinto presagiva un cupo riallineamento verso un’estetica di tradizione nazionale e di risarcimento antimodernista dell’ordine pittorico.

35  A. Soffici, Lettere a Prezzolini, cit., p. 119, Povia di Cormons, 16 maggio 1917; Gadda, Il castello di Udine, cit., p. 42.

VI. Soffici come educatore

Etica ed estetica Con i fascicoli di «Rete Mediterranea» – una rivista personale, uscita in tre numeri da lui interamente redatti nel corso del 1920 – Soffici avviò la propria abiura dell’esperienza dell’avanguardia. Nel clima della «restaurazione poetica» – così il titolo programmatico di un intervento sulla «Rete» – Soffici fece un mazzo unico di tutti i giochi lirici volti a restituire le qualità effimere della realtà apparente. E condannò in blocco ogni genere di «depravazione intellettuale ed artistica» che sorgeva dai pensieri torbidi e dalla disonestà degli spiriti. Per l’autore dei Chimismi lirici e di Arlecchino era il colpo definitivo a ogni tentativo d’impressionismo, di immediatezza percettiva, di rimescolamento di sensazioni e immagini. Ora, tutto questo appariva soltanto come il «bamboleggiamento nevrotico» promosso da una fazione di degenerati1. La nuova professione di fede idealista – erano i mesi del rinnovato rapporto con Croce, dopo i fieri attacchi lacerbiani – s’innestava su una ossessiva mozione alla misura e al dominio intellettivo, fondati su una «struttura profonda concettuale». «In altri termini – chiariva Soffici – non si dà poesia vera grande e imperitura se sotto l’immagine non si senta un sustrato filosofico, metafisico; se al ritmo delle parole non si accorda quello di un pensiero palpitante ed in moto; se il dato primo emotivo non è sublimato e spiritualizzato da una luminosa coscienza fissa alle 1  A. Soffici, Restaurazione poetica, «Rete Mediterranea», I, marzo 1920, p. 74. Fondamentali, per l’inquadramento del revisionismo di Soffici, i documenti in A. Soffici, Miei rapporti con Mussolini, a cura di G. Parlato, «Storia Contemporanea», XXV, n. 5, ottobre 1994, pp. 731-858.



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leggi incrollabili dell’universale». Ma quali erano queste leggi universali? Questa fu la risposta di Soffici2: È quanto dire che il poeta non potrà essere né vero né grande ove prima non abbia dominato in sé l’istinto primordiale, e a forza di studio e di meditazione penetrato il mistero dell’infinito e dell’universo, creatosi dentro un mondo ideale vivo ed agente; non abbia insomma risolto l’alto problema dell’essere, o almeno se lo sia posto — sia pure per riconoscerne dolorosamente o ironicamente l’insolubilità.

Il pericolo più immediato, per un artista, era d’ingolfarsi nelle «ricerche figurativo-letterarie», ovvero di smarrirsi nell’intellettualismo. Il primario dato intuitivo ed emotivo, desunto dal contatto con la natura, doveva evitare di prendere quelle forme cristallizzate e freddamente combinatorie prodotte dall’astrazione. Parimenti, ogni linguaggio espressivo di matrice arcaica appariva, ai suoi occhi, solo un’attitudine intellettualistica, spinta all’emulazione cieca e passiva. Nel ripudio d’ogni forma di primitivismo e arcaismo, Soffici fece un mazzo unico di tutta l’esperienza moderna della pittura, dal sintetismo di Paul Gauguin al neotradizionalismo di Maurice Denis, fino a se stesso:3 Gran parte del cubismo, quasi tutto il Fauvismo, l’Orfismo, il Sintetismo, un certo Futurismo, e la più recente pittura di alcuni artisti italiani – tra i quali io stesso non sono sempre stato senza peccato – non sono altro che tentativi intenzionalmente ultramoderni, ma in realtà di tale natura da non potersi considerare che come strascichi, postumi, per così dire, del preraffaellismo.

Locuzione, quella di «preraffaellismo», che riassumeva per Soffici non solo tutte le logore vicende tardosimboliste, «ideiste», pagane ed estetizzanti, compresa l’ormai lontana esperienza fiorentina del «Leonardo», ma anche molte fra le tendenze più attuali. Ricusando infatti ogni tentativo di pittura che poggiasse su basi letterarie, Soffici si contrapponeva nettamente a quella fatale presenza di «littérature» – ossia di densità narrativa, celata nella profondità delle risonanze simboliche – che andava invocando ne2  Soffici, Restaurazione poetica, cit., pp. 75 e 79-81. Su questi aspetti del Soffici postbellico cfr. anche V. Trione, Dentro le cose. Ardengo Soffici critico d’arte, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, pp. 320 sgg. 3  A. Soffici, Preraffaellismo, «Rete Mediterranea», I, 1920, p. 71.



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gli stessi mesi Giorgio De Chirico, come fondamento poetico della sua pittura metafisica4. Per Soffici esisteva piuttosto una morale dell’arte, una «virtù di natura etica inerente e indissolubile da quella puramente estetica». Essa era la «rivelazione, attraverso i segni apparenti, il colorito e il tono della rappresentazione artistica, lo stile, e persino attraverso i modi tecnici, di una personalità creativa nativamente energica, proba, schietta e dotata di forte volontà». Ogni volontà di ritorno a forme di classicismo tradizionale implicava per Soffici la riammissione di quegli principi d’ordine spirituale, morale e sociale che la moderna esperienza della pittura aveva per sempre oltrepassato, favorendo una rinnovata epifania di senso. E così Soffici motivò la sua convinzione5: Ond’è che mentre l’artista antico, celebratore degli dei e dei fatti religiosi ed eroici, e dei riti, o almeno delle storie e dei fasti degli uomini nobili o illustri, riteneva bisogno inferiore raffigurare le scene volgari e minute che pur si vedeva continuamente d’intorno, e sconveniente al suo grande stile avrebbe stimato insistere in particolari e precisioni di luoghi e di effetti, l’artista moderno considera pregiudizi tutte quelle restrizioni dogmatiche, fa della vita ordinaria del suo tempo e dei suoi simili materia precipua delle proprie osservazioni e della propria opera, e amorosamente s’indugia su quei particolari ed effetti. Né l’umanità che lo circonda è la sola che ispiri il suo genio; ma i paesi e le cose e gli oggetti tutti, nei quali trova egualmente racchiuso un secreto vitale di armonia, di bellezza e di divinità.

«Meglio è attenersi allo studio puro e semplice della realtà contemporanea», aveva allo stesso modo constatato Carrà, criticando la tendenza neoclassica della pittura accolta alle esposizioni biennali di Venezia e di Roma6. Carrà si era visto in precedenza rimproverare da Soffici l’arcaismo di un ambizioso dipinto come Figlie di Loth («ottimo dipinto, ma arcaico»), ancora legato a freddi schemi neogiotteschi e metafisici, con una locuzione che, G. De Chirico, Considerazioni sulla pittura moderna, «Il Primato», maggio 1920, ora in Il meccanismo del pensiero, Torino, Einaudi, 1985, p. 135. 5  A. Soffici, Pensieri sull’arte. La morale nell’arte, «L’Esame», I, 1, aprile 1922, ora in Id., Estetica e politica. Scritti critici 1920-1940, Chieti, Solfanelli, 1994, pp. 140-146 (i corsivi sono miei). 6  C. Carrà, L’occhiobàgliolo degli artisti, «L’Ambrosiano», dicembre 1922, ora in Tutti gli scritti, cit., p. 249. 4 



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come si è visto, per il toscano indicava nient’altro che uno sterile espediente letterario della pittura moderna7. Adesione alla semplicità contemporanea delle cose e della vita ordinaria, personalità «nativamente energica» che muove alla loro ricognizione nei modi d’un «realismo sintetico»: se davvero è esistita una poetica della reazione antimodernista, tesa a rimuovere i fardelli dello psicologismo e dell’intellettualismo, in favore d’una populistica persuasione in sbrigativi termini di chiarezza e sobrietà – poi si dirà «strapaesana» – essa trae la sua origine da queste pagine. Ed è proprio intorno al concetto della natività del genio poetico, al suo essere intrinsecamente legato alle componenti innate nella genuinità ancestrale, che ruoteranno due importanti interventi di Soffici relativi a figure chiave come Morandi e Carrà8. Queste affermazioni non tarderanno ad armarsi di motivazioni ideologiche. La moralità dell’arte ambiva infatti a rispecchiare l’etica della nuova vita pubblica. Su questo piano, erano già state avviate le grandi manovre per accreditarsi come gli interpreti del nuovo tempo. A Milano, nel marzo 1923, Margherita Sarfatti riuscì a far presentare dal nuovo capo del governo la prima mostra del gruppo del «Novecento». Il discorso, a soli cinque mesi dalla marcia su Roma, era piuttosto evasivo, ma almeno ebbe il merito di incrinare la notoria noncuranza di Mussolini in merito arti figurative9. Sin dal febbraio 1920 Soffici aveva tuttavia considerato compromessa la causa della Sarfatti, a cagione dei nomi sostenuti: autori come Achille Funi o Leonardo Dudreville gli apparivano ancora invischiati in un vituperato modernismo10. Sironi a parte, i successivi orientamenti stilistici del gruppo milanese verso un Carrà, Soffici, Lettere, cit., p. 132. A. Soffici, Carlo Carrà, Milano, 1928, p. 5; Id., Giorgio Morandi, «L’Italiano», VII, 10, marzo 1932. 9  B. Mussolini, Discorso alla mostra del Novecento, Galleria Pesaro, Milano, 26 marzo 1923, in Id., Opera Omnia, a cura di E. e D. Susmel, Firenze, 1956, XIX, pp. 187-188 e cfr. ora S. Urso, Margherita Sarfatti. Dal mito del Dux al mito americano, Venezia, Marsilio, 2003, p. 159. 10  Questo anche il senso del manifesto Contro tutti i ritorni in pittura (Milano, Direzione del Movimento Futurista, 11 gennaio 1920), firmato da Dudreville, Funi, Sironi e Russolo, che patrocinava il recupero di un «costruzionismo fermo e sicuro» criticando però il recupero didascalico degli exempla antichi («È assurdo e vile ritornare al museo, plagiando la pittura»); v. Carrà, Soffici, Lettere, cit., p. 134 per le riserve di Soffici e cfr. per questo P. Fossati, La «pittura metafisica», Torino, Einaudi, 1988, p. 167. 7  8 



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rassicurante neocinquecentismo di maniera non fecero mutare il giudizio riguardo ciò che ai suoi occhi appariva come un gruppo di potere, che sfruttava il regime per meri interessi mercantili11. Le stesse elusive formule con cui la Sarfatti stava presentando il «Novecento» sembravano banalizzare il lavoro critico svolto da Soffici sin dai tempi de «La Voce», e bastino, per questo, le anodine pagine di critica d’arte propalate su «L’Avanti!» e sul «Popolo d’Italia». Per fare solo un esempio, anche per la Sarfatti la latinità d’un Cézanne era modello per un’arte desiderosa di rappresentare la nazione, rifondando l’ethos nazionale nella sintesi di cultura e di politica. Ma era difficile poi sostanziare questo schema sofficiano attraverso la mediocre pittura di Anselmo Bucci o di Emilio Malerba. Inoltre, definizioni a effetto come «rivoluzionari della moderna restaurazione» potevano certo suscitare l’ammirazione dei gerarchi, ma sembravano svilire in slogan banali un ben più intenso percorso di ricostruzione della tradizione nazionale12. Soffici manifestò la propria delusione a Carrà riguardo i risultati effettivi della grande mobilitazione del gruppo «Novecento italiano» per accreditarsi come garanti dello stile nazionale: «Da Ojetti all’ultimo scalzacane della critica tutti diguazzano nella pacchianeria e nella carogneria più insigne col resultato di aumentare una confusione divenuta ormai disgustosa e scoraggiante»13. Dinanzi a queste manovre Soffici rispose nel 1924 con un articolo – dal titolo Spirito ed estetica del Fascismo – dove dimostrava l’inattualità delle proposte correnti, postulando differenti sviluppi14: Noi tutti abbiamo visto, per esempio, come organi responsabili o intonati al Fascismo, si siano dati a patrocinare forme d’arte prive di qualsiasi sostrato morale, di un vero suggello nazionale, frivole, distruttive, e con tendenza anarchica e rivoluzionaria. E ciò mentre si accordava d’altra parte Il conflittuale rapporto tra la Sarfatti e Mussolini è stato ricostruito da S. Salvagnini, Margherita Sarfatti, critico irriducibile: dalla Biennale del 1928 alle mostre in Scandinavia del 1931-1932, in Quaderni della donazione Eugenio Da Venezia, n. 4, Venezia, Fondazione Querini Stampalia, 1998, pp. 48-55. 12  Seconda Mostra del Novecento italiano. Catalogo (Palazzo della Permanente, Milano, 2 marzo-30 aprile 1929), Milano, Gualdoni, 1929, p. 15; C. Maltese, Storia dell’arte in Italia 1785-1943, Torino, Einaudi, 1960, p. 334. 13  Carrà, Soffici, Lettere 1913/1929 cit., p. 163, Soffici a Carrà, 7 luglio 1925. 14  A. Soffici, Spirito ed estetica del Fascismo, «Lo Spettatore Italiano», n. 1, 1 maggio 1924, in Id., Estetica e politica, cit., pp. 156-161. 11 



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diritto di cittadinanza a forme del tutto opposte, a forme cioè di accademismo retorico, di pedante conservatorismo, magari di reazionarismo estetico e filosofico, implicante la negazione di tutti i valori nuovi e che lo spirito e la sensibilità moderna hanno portato nella cultura e nell’arte. Pure esercitazioni dilettantesche, verbali od ornamentali, derivate non da uno studio o da un’accorta assimilazione, ma da una pedissequa infatuazione di consunte forme del passato o di periodi di decadenza che dovrebbero ritenersi definitivamente superati, si sono date per letteratura e per arte della nuova Italia.

Il fascismo, «moto fatale di palingenesi storica italiana», doveva riparare questa confusione iniziale. Soffici suggerì di dare vita a un organismo per definire la linea da seguirsi nel pensiero, nella letteratura e nell’arte italiana: «Ed oggi non v’è chi non senta la necessità di formulare in modo chiaro un programma di vero assestamento intellettuale, morale ed estetico, senza il quale apparirebbe vano lo sforzo fatto in tutti i campi per la rinnovazione spirituale italiana». Un tale programma, che con ogni evidenza ambiva a difendere e consolidare il lavoro vociano e lacerbiano, doveva poggiarsi su pochi punti. Alla «vanità di qualsiasi ritorno o scolastico attaccamento al passato» e all’«assurdità e l’innaturalità antitaliana di un precipitarsi nelle licenze avveniristiche» andava contrapposta la ripresa dei valori tradizionali, «intendendo questa parola nel suo vero senso di congiunzione tra quello che è stato e sarà tramandato». Dunque, un’arte e una letteratura realmente moderne, cioè aderenti «allo stato attuale della vita italiana»; e realistiche, «cioè, che interpretino, che seguano e che in qualche modo plasmino le forme e gli spiriti della vita presente della nostra Nazione». L’obiettivo finale sarebbe così stata un’espressione classica, da intendersi come forma tipica d’un movimento spirituale che escludeva ogni reazione retorica o la riabilitazione di esperienze trascorse. Vera poesia e vera arte non sgorgavano più dall’esperienza ineffabile, al limite del solipsismo, dell’art pour l’art, ma erano generate da quella schiatta di homines novi che partecipavano attivamente alla vita della società attuale. Un classicismo normativo, certo non aderente alle forme d’una restaurazione neoclassica, erudita o antiquaria; una poetica che invece si doveva dotare di chiare idealità, sottoposte a ordinati principi e a una solidarietà interclassista nazionale: «Classicismo, infine, in quanto sosteni-



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tore di alcune norme fondamentali, rispettoso di un certo ordine politico e morale, di certi principi che uniscono saggiamente anziché dividere con modi anarchici, gli uomini viventi di una stessa comunità nazionale». Il «classico» era in tal modo inteso come forma espressiva contemporanea, cioè partecipe all’ordine politico e morale e ai valori della comunità. La lingua pittorica, antecedente all’opera, si risolveva in essa; allo stesso titolo l’artista apparteneva alla nazione, non solo per l’antecedente linguistico, ma anche per il contributo essenziale che dava alla formazione della coscienza nazionale. L’esigenza della moralità, come impegno serio e innervato d’una tensione religiosa, faceva rifluire l’espressione originale dell’artista in quella del popolo intero. Difficile non intravedere qui, una chiara – ancorché, con ogni probabilità, indiretta – convergenza con il pensiero di Giovanni Gentile15. Gli argomenti ideologici che la critica d’arte antimodernista d’orientamento strapaesano impiegherà durante la seconda metà del decennio furono qui interamente stabiliti. Temi analoghi si possono leggere nei testi con cui Soffici presentò le più giovani leve fiorentine, quando costoro presero a esporre dopo la guerra. In Ottone Rosai egli celebrò il «popolano fiorentino» e la passione pura e incontaminata per la realtà poetica del mondo; nei paesi e nelle figure di Achille Lega trovò la dimostrazione della sincerità di sentimento davanti alla natura16. Come ai tempi vociani e lacerbiani, Soffici stava agendo da educatore. E il primo ad apprenderne la lezione, per molti aspetti, fu lo stesso Mussolini. Nelle poche pagine da lui dedicate ai problemi dell’arte risuonano, quasi intatte, le parole di Soffici17. 15  In particolare, le lezioni tenute proprio nell’anno accademico 1927-1928, dove Gentile riprendeva le tesi enunciate in Forme assolute delle spirito (1909), estendendole alle arti visive: cfr. G. Gentile, Il carattere nazionale dell’arte, in Id., La filosofia dell’arte, Firenze, Sansoni, 1937, pp. 326-329. 16  A. Soffici, Presentazione in Ottone Rosai, Firenze, marzo 1922, e cfr. Ottone Rosai, Ardengo Soffici, Carteggio (1914-1951), a cura di E. Pontiggia, Milano, Abscondita, 2010; A. Soffici, Lettera-prefazione in Achille Lega, Firenze, novembre 1922, cit. da L. Cavallo, Soffici. Immagini e documenti, Firenze, Vallecchi, 1986, pp. 312 e 315. 17  Il quale, è bene ricordarlo, già nel 1919 aveva inviato a Mussolini il suo personale memorandum: In guardia! Una lettera di Ardengo Soffici, «Il Popolo d’Italia», 10 agosto 1919; v. S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2000, p. 51.



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In occasione del Congresso nazionale delle associazioni artistiche, nell’aprile del 1924, il capo del governo pronunciò infatti un discorso che, oggi, appare assai più interessante rispetto alle osservazioni, di sconcertante genericità, espresse nelle occasioni in cui fu persuaso a occuparsi delle mostre sarfattiane. Nel rinnovamento politico vi era, a suo dire, un riflesso estetico e artistico che mirava a restituire al popolo italiano, «non per infeconda brama di potere», il suo stile. «Stile» divenne presto la parola magica, il passepartout dell’epoca: lo scopo dell’arte, sottratta alle speculazioni mercantili e portata a contatto con le moltitudini, era quello di mettere in scena le fonti perenni di vita del popolo italiano, rappresentando i codici normativi d’una ritrovata concordanza e una legislazione pacificatoria: «lo stile, che è caratteristica eterna e luminosa della stirpe […] non soltanto darà agli uomini le norme per edificare la città futura, ma le savie e giuste leggi necessarie alla civile armonia»18. La liquidazione dell’arte pura Si capisce molto di questa fase di Soffici leggendo l’articolo pubblicato nel settembre 1922 sulla rivista mussoliniana «Gerarchia». Il valore strategico di questo testo venne confermato dalla sua triplice pubblicazione: lo si legge infatti anche in Battaglia fra due vittorie, il volumetto che raccolse gli interventi di politica culturale scritti tra la fine della guerra e la Marcia su Roma, e poi, pressoché immutato – come a voler confermare la tetragona certezza di queste sue conclusioni – in occasione dell’inchiesta di «Critica fascista» sull’arte ai tempi del regime19. Soffici affermava l’inscindibile unità dei valori artistici e letterari, nei loro differenti stili, con quelli etici e politici. Il fascismo, sorto per rigenerare la nazione, poneva tale problema come B. Mussolini, Per le Associazioni artistiche, in Id., Scritti e discorsi, vol. IV, Il 1924, Milano, Hoepli, 1934, pp. 131-133. Fra i pochi interventi extra-politici di Mussolini, è opportuno segnalare l’elogio a A. Soffici, Elegia dell’ambra, ripreso dalla stampa italiana nel gennaio 1927: v. Cavallo, Soffici, cit., p. 343. 19  A. Soffici, Il fascismo e l’arte, «Gerarchia», n. 9, 25 settembre 1922, poi in Id., Battaglia tra due vittorie, Firenze, Vallecchi, 1923 e infine in «Critica Fascista», 15 ottobre 1926, pp. 169-177. 18 



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prioritario, e non poteva certo restare indifferente all’imposizione di un valore o l’altro. In nome della nazione, quindi, il fascismo doveva adoperarsi per stabilire un «paradigma». Ciò non significava imporre un controllo politico sulla «libera manifestazione del genio creatore di bellezza» e nemmeno un’arte di partito, o di Stato, assicurava Soffici («nessuna idea potrebbe farmi maggior orrore di questa»). Questa sua posizione trovò una precisa eco nel primo intervento noto di Mussolini sulle arti, che cadde solo pochi mesi dopo, con il citato discorso di presentazione alla mostra del gruppo Novecento a Milano, nel marzo 1923. In quell’occasione il capo del Governo confermò che non si poteva governare ignorando l’arte e gli artisti, precisando però anche di non voler incoraggiare qualsiasi forma di arte di Stato; l’arte rientrava cioè nella sfera dell’individuo20. Lo scritto di Soffici anticipò non solo le prime enunciazioni mussoliniane (che, come noto, furono poi nella pratica ampiamente disattese), ma molti altri temi che troveremo ripetuti nei successivi vent’anni. Il concetto più importante era quello dell’ideale sovrano di un’arte fascista perché italiana. Il fascismo non doveva sostenere le forme artistiche filistee, lo «stato d’animo volgare e materialistico», il «sentimentalismo da piccolo borghesi e da socialisti», così come le forme di derivazione esotica e comunque straniera, senza che esse fossero state assimilate e ricondotte alla matrice dello stile nazionale. Diversamente, si conduceva lo spirito «verso la prosaicità, il sensualismo grossolano, o la vigliaccheria democratica». Il fascismo doveva così scegliere fra la reazione (che rifiutava il presente, risalendo mimeticamente alla glorie del passato) e la rivoluzione (che, tanto nell’estetica quanto nella politica bolscevica, rovesciava i valori per una libertà che sfociava nell’arbitrio e nell’anarchia). A un tale convincimento corrispose, nel complesso, un’idea d’arte che appariva di sconcertante approssimazione, provenendo dalla stessa penna che dieci anni prima aveva redatto Picasso e Braque. Soffici si limitò infatti a istituire una mera precettistica d’interdizioni, anziché di prescrizioni. Muovendo da una puntuale elencazione dei principi e caratteri del fascismo, desunti dalle 20 

Mussolini, Discorso alla mostra del Novecento, cit.



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«norme fondamentali del Duce» e dalla dottrina riposta nei suoi discorsi, Soffici considerò «del pari sufficiente tradurli in principi estetici per avere l’immagine chiarissima di quel che può e deve essere un’arte fascista». Si ottenne così una teoria che si sviluppava per via d’esclusione da quanto non assimilabile col fascismo genuino e operante. Arte non fascista era quella che s’ispirava a forme straniere, mancando delle peculiarità dello spirito nazionale; non fascista era l’arte che negava la tradizione, e che si sottraeva anche al presente e al futuro rifugiandosi in arcaismi e primitivismi; non fascista, insomma, era l’arte per intero discordante dalle linee portanti del regime e dallo Stato, le stesse che contenevano implicitamente i presupposti estetici e formali, o perlomeno ne stabilivano i divieti21. Se la storia e gli esempi del passato avevano consentito, ai tempi della «Voce», d’indicare la via per costruire una modernità italiana non epigonica, ora quella stessa tradizione veniva invocata come baluardo contro le insorgenze dell’internazionalismo antifascista. I nomi e le opere dell’arte e della letteratura, da Dante a Giotto, che avevano guidato alla comprensione della modernità europea non apparivano più dei modelli di composizione o di stile, da tradurre nel presente della viva creazione artistica: dal loro esempio era invece necessario trarre ora dei valori assoluti, da far valere entro uno scontro di civiltà. Soffici aveva rinviato a lungo i conti con se stesso: come far convivere il parnassiano disimpegno della «pittura pura» proclamato nel 1911 con le fatali mozioni culturali del nascente regime, dieci anni dopo? Il solo modo possibile era quello di riconoscere i valori figurativi di chiarezza, solidità e plasticità non più come tratti di un ragionamento puramente visivo, o come l’erompere di una creativa spontaneità popolare, bensì come elementi ideologici di un primato nazionale. A modo suo, anche dinanzi alla critiche mossegli da molti suoi vecchi sodali, questa poteva sembragli come una decorosa forma di coerenza. Creare delle ipostasi politiche a partire dalla critica figurativa pura apparve come lo stratagemma più comodo per riposizionarsi nel presente e, al tempo stesso, tracciare le linee di continuità con 21  A. Soffici, Arte Fascista, in Id., Periplo dell’arte, Firenze, Vallecchi, 1928, ora in Opere, V, Firenze, Vallecchi, 1963, pp. 137-141.



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il proprio passato. Questo non significava infatti sostituire i generi prediletti della pittura pura – la natura morta e il paesaggio – con altri generi, descrittivi o narrativi, come peraltro poi si fece, con un goffo tentativo di riabilitare la pittura di storia22. Si trattava, invece, di difendere la specifica modernità di quegli stessi generi «puri», e attribuire allo stile della tradizione nazionale un valore ideologico assoluto. La grande intuizione di Sironi, ciò che col tempo ne fece il più importante interprete della pittura nell’Italia fascista e il persuasivo regista delle grandi operazioni espositive degli anni Trenta, fu di portare a sintesi, in una scala monumentale che fino a quel punto era naturalmente estromessa dal decorso del modernismo, quello che Soffici volle sempre tenere ben distinto: lo stile austero della solida tradizione tre e quattrocentesca e la vocazione pedagogica della pittura narrativa. Il grande limite di Soffici e, in prospettiva, come si vedrà nel capitolo successivo, dell’intera declinazione strapaesana del suo progetto, fu la mancata valutazione d’una nuova categoria di destinatari e delle più efficaci forme di comunicazione. Il suo programma di redenzione nazionale restava vincolato a una tormentata risoluzione individuale, non priva dei tratti eroici d’una resistenza ai moti progressisti, ma intollerante verso i processi collettivi di persuasione delle masse, attraverso cui il regime ambiva a identificare l’intera nazione: tanto dal punto di vista del generale consolidamento del consenso popolare (comprensivo, fatalmente, delle forme pedagogiche più didascaliche e banali), quanto da quello, opposto nella forma e complementare negli effetti, dell’innocua evasione prodotta da un’industria culturale accuratamente sorvegliata23. Non si poteva proporre un riscatto nazionale confinandosi entro le pagine livide d’un bollettino provinciale, credendo di parlare così all’intera nazione – o all’élite cui s’era desiderosi rivolgersi24. 22  I principali interventi al Referendum sul «quadro storico» promosso dal periodico «Le Arti Plastiche» si legge ora in P. Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia, vol. III. 1, Torino, Einaudi, 1990, pp. 89-97. 23  P. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Bari, Laterza, 1975; V. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista, Bari, Laterza, 1981; A. Leone De Castris, Egemonia e fascismo, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 57-79. 24  I limiti della diffusione editoriale, e quindi anche dell’efficacia, del «Selvaggio» vennero messi in luce da Papini a Soffici: G. Papini, A. Soffici, Carteggio IV. 1919-



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Né si poteva ambire a persuadere (o a combattere) la complessa e stratificata geografia culturale espressa dai fiancheggiatori del regime – che naturalmente era assai più ampia, ricca e coltivata rispetto a quanto credeva o diceva Soffici stesso – attraverso il becero richiamo alle origini, senza adeguate forme di trasmissione, abbarbicandosi a un ossimorico e sussiegoso populismo di élite. Allo stesso modo, nel quadro della normalizzazione del regime che si avviò dal 1925, le forme retoriche, le figure allegoriche e le immagini del mito non dovevano essere abolite come residui inattuali dell’Italia giolittiana: al pari delle risorse economiche, istituzionali e sociali ugualmente espresse dai fiancheggiatori, esse dovevano essere assimilate con scaltrezza, fatte proprie e aggiornate da parte dei fascisti «veri»25. Il governo di Mussolini si era assunto il compito d’inserire nello Stato il partito fascista, smorzando ogni tendenza autonoma ed eversiva; allo stesso modo, gli intellettuali rivoluzionari del 1914 dovevano deporre le tendenze individualiste e «orfiche», misurandosi con gusti, stili, istituzioni e linguaggi sopravvissuti all’ancien régime. In tutti i casi, era necessario trovare una forma di sviluppo entro il vecchio ordine costituito, senza stravolgerne i caratteri fondativi ma adeguandoli alle necessità d’una pedagogia popolare. Se la pretesa di Marinetti di porre se stesso e il futurismo alla testa del «proletario dei geniali» poteva far sorridere, essa almeno aveva il pregio di identificare con chiarezza la necessità di convertire la pedagogia del modernismo in suggestione di massa26. Quando Sironi, dimostrandosi ancora una volta il più lucido interprete delle esigenze di autorappresentazione del regime, presentò il suo programma di recupero della pittura murale, «sociale per eccellenza», riuscì a trovare una sintesi tra le diverse, e talora opposte, possibilità di un’arte fascista27. Egli non poteva che condividere, con Soffici, il superamento della concezione individualista dell’arte per l’arte. Ma nel mura1956: dal primo al secondo dopoguerra, a cura di M. Richter, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002, p. 129. 25  R. De Felice, Mussolini il fascista. L’organizzazione dello Stato fascista (19251929), Torino, Einaudi, 1968, pp. 38 sgg. 26  F. T. Marinetti, Democrazia futurista. Dinamismo politico (1919), in Teoria e invenzione futurista, cit., p. 404. 27  Braun, Mario Sironi, cit., p. 155.



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lismo Sironi indicava la possibilità di creare un’arte che fosse, al tempo stesso, nitida nella forma, lontana dal kitsch della propaganda di massa, e chiaramente allusiva all’austera tradizione «primitiva» dei trecenteschi lombardi e toscani. È ovvio – scriveva Sironi – che l’ideale mediterraneo, solare, del risorgimento dell’affresco, del mosaico, della grande arte decorativa non possa raggiungersi sotto certi aspetti che in Italia […] E il ritorno alla pittura murale significa ritorno agli esempi italiani ed alla tradizione nostra, alla quale oggi è impossibile effettivamente collegarsi, nonostante che tanto spesso se ne senta la modernità affascinante e si intuisca la spinta possente che potrebbe venire all’arte moderna dal suo esempio e dalla sua disciplina28.

Lo stile, ossessivamente invocato da Soffici, non era più per Sironi un momento di resa individualistica e soggettiva, bensì il frutto dell’oggettivazione della creatività in funzione educativa. L’azione pittorica permutava la logica della rappresentazione nella percezione collettiva di valori condivisi. Il rifiuto della pittura da cavalletto annullava l’intimismo borghese del «quadro» incoraggiando lo sviluppo, su vaste dimensioni, d’immagini chiare, ordinate, di rigorosa esemplarità. La fusione tra la pittura e l’architettura definiva nuovi valori, non comprimibili nella logica mercantile; l’attenzione al nuovo spazio di lettura conduceva a una scenografia monumentale che incarnava la funzione pedagogica ed educativa, a monito di valori assoluti. La convergenza tra l’arte d’avanguardia e la destinazione sociale ambiva a ricomporre la separazione tra la ricerca artistica di élite e le masse popolari. E questo, credo, Sironi lo aveva imparato proprio dalla sua militanza come futurista: dalla necessità di scovare, come già nel 1918, efficaci forme di mediazione visiva tra un’ideologia e il suo naturale destinatario collettivo. Chiudendosi in un orgoglioso distacco, Soffici confermò l’insofferenza dell’intellettuale tradizionale che fronteggiava con alM. Sironi, Pittura murale, «Il Popolo d’Italia», 1 gennaio 1932, in Scritti e pensieri, a cura di E. Pontiggia, Milano, Abscondita, 2000, pp. 21-22; cfr. G. Ginex, Il dibattito critico e istituzionale sul muralismo in Italia, in Muri ai pittori. Pittura murale e decorazione in Italia 1930-1950, catalogo della mostra, a cura di V. Fagone, G. Ginex, T. Sparagli, Milano, Mazzotta, 1999, pp. 25-43; un ampio repertorio di pitture murali è documentato in Sironi. La grande decorazione, a cura di A. Sironi, Milano, Electa, 2004. 28 



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terigia la società del suo tempo. Nella nuova situazione politica e sociale italiana non bastava avere (o credere di avere) delle buone idee; era ancor più necessario saperle tradurre in miti condivisibili. Incapace di accettare le nuove forme di mediazione sociale, incapace di subordinare il proprio egocentrismo all’opera collettiva per un’idea morale, Soffici rimase impaniato in un’aristocratica e tutto sommato compiaciuta reclusione, osservando con disprezzo quello che appariva ai suoi occhi, con colpevole semplificazione, null’altro che il volgare agitarsi degli arricchiti, degli approfittatori e degli arrivisti piccolo borghesi. Lo spirito, sprezzante e superbamente individualista, dell’artista d’eccezione che dalle colonne della «Voce» aveva fustigato il gusto dei filistei, poteva certo essere mantenuto, nel panorama del dopoguerra; ma con il rischio di perdere, e per sempre, il reale contatto con una realtà mutevole. Soffici parlava e agiva con malcelato paternalismo, per conto di un popolo che in lui appariva, alla fine, come un’invenzione letteraria. Non più legislatore, egli si fece interprete di un’idiosincrasia che, al netto del rustico populismo e della retorica della toscanità, altro non era che una rabbiosa variante della frattura tra intellettuali e società. Quello che esorbitava dallo schema di Soffici era racchiuso in una preoccupante elencazione, che il tempo trascorso non rende meno sinistra: non solo l’arte straniera, che pure era stato il faro del Soffici vociano, ma sic et simpliciter ogni forma espressiva «barbarica, antitaliana; liberale, giudaica, massonica, democratica, antifascista per eccellenza, in una parola». Le vituperate forme stilistiche delle avanguardie internazionali erano così equiparate alle forme della democrazia liberale. La mancanza d’una rigorosa guida culturale incoraggiava quindi non solo la tolleranza delle più viete espressioni artistiche della vecchia Italia, ma anche la compromissione del regime con le ambizioni e l’arrivismo di raggruppamenti annaspanti «tra la bassa volgarità accademica, il dilettantismo primitivistico o arcaicheggiante, l’avvenirismo romantico, anarchico, tedeschizzante o americanizzante»29.

29 

Soffici, Arte fascista, cit.



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Un programma di restaurazione culturale Dal dicembre 1922 Soffici si trasferì a Roma, per curare la terza pagina del quotidiano romano «Il Nuovo Paese», rapidamente allineato al nuovo governo dopo una stagione di socialismo e antifascismo. Lo abbandonò poco dopo per collaborare al «Corriere Italiano» e dirigere l’allegata rivista mensile «Galleria»30. Solo cinque numeri, da gennaio a maggio 1924, ma con precise scelte. Il foglio si rivolgeva a un pubblico borghese e inurbato; aveva ricche illustrazioni, curiosità bibliografiche, divagazioni sulla moda e una rubrica sul cinematografo affidata a Alberto Savinio. Soffici dovette concedere spazio a un ufficioso côté romano, con le opere di Armando Spadini, Amerigo Bartoli, Cipriano Efisio Oppo; ma riuscì a offrire ospitalità anche ai toscani Rosai e Viani. Tra una sezione consacrata al «Bel mondo» e un’immagine edulcorata della campagna, percorsa in rassegna didascalica a uso del pubblico romano, Soffici propose un Lunario con ricette, almanacchi, arcani, motti, cure per i campi e per i corpi, enigmi e scongiuri. Il tutto, era chiuso da un finalino in xilografia. La linea eclettica della rivista poteva ammettere tale rubrica come divertita stravaganza. Una simile offerta appariva tuttavia come il tentativo d’infiltrare negli indolenti palazzi romani il gusto rustico e intransigente d’una poetica strapaesana. Oltre alla rinomanza personale, all’incarico di «triumviro» per gli erigendi Sindacati artistici, Soffici era detentore di uno dei più ampi indirizzari del periodo e proprietario di un discreto archivio di immagini (fogli, tele, collages) accumulati in vent’anni di militanza nelle riviste. L’influenza che egli mantenne lungo gli anni Venti fu assai profonda, ben più del suo effettivo potere (e, per dirla tutta, della sua qualità come pittore). Dopo «Rete mediterranea» Soffici non ebbe più una sua rivista, ma riversò per intero il suo programma e la sua pedagogia entro la rivista «Il Selvaggio» di Mino Maccari. Valorizzare l’estremismo dell’intelligenza delle cose, accordare alla rivoluzione politica una stabilizzazione sul piano estetico: questo lo sforzo di quanti si proclamavano, come scrisse Soffici 30  Galleria. Una rivista di Soffici e Baldini sotto il fascismo, a cura di A. Paoletti, Firenze, Le Monnier, 1992.



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stesso, «non indifferenti ai rapporti fatali che esistono tra fatti politico-sociali e fatti intellettuali ed estetici»31. Il senso dell’intera operazione di Soffici non era quindi soltanto quello dell’invenzione di una linea di rustico populismo. In gioco vi era ben di più: per Soffici, si trattava infatti di difendere l’eredità del programma vociano e lacerbiano, stingere la giovanile insofferenza anarcoide che ancora trapelava dai suoi Massacri, e confermare – operazione ben più difficile – una rassicurante continuità tra passato e presente. Se ne trae conferma da una polemica suscitata un paio d’anni dopo, quando comparve sul «Popolo d’Italia» del 19 novembre 1927 un articolo che indicò nella Firenze contemporanea una città incapace di un compito all’altezza del suo passato, priva di linfa vitale e sede di «sinedri partigiani» che tradivano più la faziosità che una «concezione originale e creativa». Che questo fosse un attacco alla vasta famiglia dei giovani sofficiani, o un semplice richiamo all’omologazione, è secondario rispetto all’autorità di chi mise la firma (era Arnaldo Mussolini). Maccari rispose che non vi erano mai stati sinedri; o almeno in essi non andavano contati «Il Regno» e «Lacerba». Il foglio di Soffici e Papini aveva provocato piuttosto «una vera e propria rivoluzione spirituale aprendo nuovi orizzonti artistici alla giovinezza italiana imborghesita e avvilita, e come se tutto questo non bastasse, integrò il movimento letterario e artistico col più bello e audace interventismo nel 1914». Non vi era in quei giorni a Firenze altro «movimento spirituale notevole» se non «Il Selvaggio», «squisitamente fascista», di cui, almeno indirettamente, rispondendo alle accuse, si era rivendicata continuità con «Lacerba»32. L’articolo con cui Soffici intervenne nella polemica appare come un riepilogo, cautamente emendato, della «stagione delle riviste»: le vicende dal «Regno» alla «Voce» erano depotenziate d’ogni esperienza che potesse risultare a quel punto sospetta. Pur non sapendo, o non volendo, render conto delle molte contraddizioni che così si aprivano, Soffici ambiva a essere accreditato come A. Soffici, Spirito ed estetica del Fascismo, «Lo Spettatore Italiano», 1 maggio 1924, ora in Id., Estetica e politica, cit., pp. 156-161. 32  M. Maccari, L’omino di bronzo, «Il Selvaggio», IV, 23, 15 dicembre 1927, p. 90. Sulla sostanziale continuità fra determinate istanze lacerbiane e «selvagge» v. P. Jahier, Contromemorie vociane, «Paragone», V, n. 56, 1954, pp. 25-48. 31 



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garante di continuità tra l’azione del gruppo lacerbiano e quello del «Selvaggio»33. L’eredità vociana, che era stata messa in discussione come esempio di liberismo democratico e rinunciatario, venne invece difesa da Alessandro Pavolini, che vi riconobbe un’anima letteraria e artistica che aveva dato vita a «Lacerba» e, in prospettiva, a elaborazioni e sviluppi fascisti; e un’anima politica, sostanziata soprattutto nella casa editrice, fra il cui ampio e variegato catalogo si andava a citare, con un eccesso di zelo, il Trentino veduto da un socialista di Mussolini e il protosquadrista Lemmonio Boreo di Soffici34. In quello stesso 1926 in cui iniziò la collaborazione con Maccari, Soffici ebbe una sala personale alla Biennale di Venezia. Le sue pitture, una sequenza di paesaggi toscani dai morbidi toni tardo-impressionisti, potevano accontentare tanto il gusto filofrancese di Lionello Venturi quanto quello classicheggiante di Antonio Maraini. Ungaretti lanciò dal «Mattino» di Napoli in data 22 agosto 1926 un forte messaggio: «Gli artisti chiedono un capo: Soffici», in cui auspicò un incarico diretto come organizzatore e garante della situazione artistica italiana. Su «La conquista dello Stato», la rivista di Curzio Malaparte, Maccari riconobbe in Soffici «il primo artista e il maestro del secolo fascista» e, in un crescendo di magnificazioni, «il nostro breviario, la rivelazione della modernità classica»35. Lo stesso Malaparte lo aveva collocato tra i rivoluzionari realmente moderni, «cioè barbari, eretici, settentrionali e occidentali, pochissimo italiani», stravolgendo in realtà, e non poco, i suoi stessi presupposti critici36. Ma il punto, in realtà, 33  A. Soffici, Firenze, «Il Selvaggio», 29 febbraio 1928, p. 15. Quando, due anni dopo, furono nuovamente mosse accuse al «mito fiorentino» delle riviste, costruito sul «regime dell’anarchia» e fiorito sugl’«inebrianti nichilismi», altri dovettero replicare rivendicando lo spirito interventista, speculando, piuttosto meschinamente, sui caduti in guerra e pregiandosi, infine, dell’attività squadrista come «titolo» esigibile: L. Giusso, Il mito fiorentino, «Epoca Nuova», 6, giugno 1929; A. Luchini, Il mito antifiorentino, «Il Selvaggio», 15 giugno 1929, p. 31; E. Settimelli, Precisare, «L’Impero», 27 giugno 1929; A. Luchini, Precisiamo, «Il Selvaggio», 30 giugno 1929, p. 33. 34  A. Pavolini, «La Voce» nuova, «La conquista dello Stato», III, n. 6, 15 aprile 1926. 35  M. Maccari, Il nostro Soffici, «La conquista dello Stato», III, n. 3, 1 marzo 1926. 36  C. Suckert, Ragguaglio sullo stato degli intellettuali rispetto al fascismo, in Soffici, Battaglia tra due vittorie, cit., p. XXVIII; cfr. L. Cavallo, Soffici e Malaparte. Vento d’Europa a Strapaese, Comune di Poggio a Caiano, 1999, p. 41.



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era un altro. L’etica diveniva fondamento dell’estetica; nel pittore si apprezzava l’immediata forza descrittiva che estingueva ogni residuo allegorico: «non sono complicate fusioni di sensi; sono sempre sensazioni elementari elaborate alla maniera antica»37. Due testimonianze, a un decennio di distanza tra loro, valgono a stabilire i punti estremi di questa traiettoria. A Carrà nel novembre 1921 Soffici confidò di aver ammirato, nella pittura di Cézanne, Renoir e Degas quanto essi «avevano d’italiano» – senza avere il bisogno di specificare, ormai, di cosa potesse significare italiano, per lui, se non «toscano»: «Ho ritrovato in loro ciò che la buona scuola francese ha preso dall’Italia pittorica del passato […] Credo anch’io di essere sempre stato toscano. Toscanamente realista, realista secondo la tradizione nostra del 3-4-500. Oggi più che mai»38. A modo suo, era una rassicurante forma di coerenza: l’equivalenza tra toscanità e italianità era stata tracciata sin dal 190839. Si trattava, ora, di recidere e cauterizzare ogni legame con le più vive correnti europee, e inoculare un disciplinato spirito di militanza sociale: ora, scriveva nel 1932, «una letteratura che non ha un ufficio preciso, serio, trascendente la sua perfezione tecnica ed il suo valore espressivo dell’individuale, non rappresenta che un gioco dello spirito, una voluttà, un otium cum dignitate, un superiore sollazzo da buongustai dilettanti ed antisociali»40. Italianità dello stile e valore etico dell’espressione artistica: il percorso di Soffici critico d’arte si assestò, nel corso degli anni Venti, su questi due presidî.

F. Flora, Ardengo Soffici, «Costruire», n. 1, gennaio 1924, p. 7. Soffici, Carrà, Lettere 1913-1929 cit., 24 novembre 1921, p. 148; cfr. Trione, Dentro le cose, cit., p. 332. 39  G. Papini, G. Prezzolini, Storia di un’amicizia 1900-1924, Firenze, Vallecchi, 1966, pp. 206-207; G. Papini, A. Soffici, Carteggio I. 1903-1908. Dal «Leonardo» a «La Voce», a cura di M. Richter, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1991, p. 225. 40  A. Soffici, Banalità, «La Gazzetta del Popolo», 29 gennaio 1932, in Id., Estetica e politica, cit., pp. 306-309. 37  38 

VII. Fra i selvaggi della Toscana

Salvatico è colui che si salva Il primo e miglior segnale lo aveva offerto, ancora una volta, Giovanni Papini. Eravamo nel 1919: molto era già successo, ma non tutto. Il «pilota cieco» del ribellismo strillato dell’anteguerra non era ancora diventato il terziario Fra Bonaventura: pubblicò però una Storia di Cristo che rapidamente divenne un bestseller europeo1. Seguì, pochi anni dopo, il Dizionario dell’Omo Salvatico, reale incunabolo di questo genere, aggressivamente redatto da Papini insieme al cattolico ultra Domenico Giuliotti nel 1923. Emergeva una brutalità campagnola e incontaminata, aderente a un’idea umanistica purificata da ogni intellettualismo: una richiesta d’ordine e d’intervento militante corroborata da un’attitudine volitiva. Soffici poteva condividere queste linee generali; non però il fervore confessionale dell’amico, né il gretto livore del Dizionario. Lo scrisse, con ammirevole sincerità a Papini; i loro rapporti tacquero così per quasi tre anni2. Nel frattempo, era nata la rivista «Il Selvaggio». Per i primi anni della fascicolazione, quella con redazione a Colle Val d’Elsa e direzione dello sbrigativo Angiolo Bencini, di professione vinaio, l’orientamento fu quello dello scarno bollettino informativo, dedito alla cronaca locale e alla vigilanza sull’ortodossia diciannovista e squadrista. Quattro pagine fitte di cronache, echi e resoconti, nel tentativo di tirare le fila di un fascismo regionale tra 1  Il fervore postbellico entro cui avvenne la pubblicazione del libro, «come un bestseller costruito a tavolino», è ricostruito da S. Luzzatto, Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento, Torino, Einaudi, 2009, p. 84. 2  Papini, Soffici, Carteggio IV, cit., p. 123.



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i più esagitati e violenti, tristemente celebre in tutta Italia3. Una vignetta graffiata sul linoleum, in taglio basso di prima pagina, a modo di fogliettone offriva un commento visivo, una battutaccia o un avvertimento sinistro, nella maggior parte dei casi. Una linea artistica non esisteva affatto, o era al traino del notiziario: come commento, editoriale, vignetta satirica. Fino a tutto il 1925, l’unica menzione di un pittore fu quella, incidentale, di Ottone Rosai, senza altre immagini oltre quelle eseguite da Mino Maccari, giovane redattore factotum. Maccari si adoperò a incidere legni senza troppi fronzoli, ben lontano dal complicato stile floreale della tradizione simbolista, come da quello, oltraggioso e sperimentale, degli «scarabocchi sensibili» lacerbiani. Egli guardava, piuttosto, l’attività grafica di Sironi sul «Popolo d’Italia», un modello obbligatorio per chiunque avesse voluto adoperarsi nel commento visivo alla cronaca. La linea politica della rivista era invece ben chiara. Le immagini in linoleografia integravano la politica filosquadrista intransigente nel segno della visibilità ostentata e della contrapposizione manichea tra diciannovisti e borghesi, arditi e politici. Uscito a ridosso del delitto Matteotti e della secessione aventiniana, il foglio si fece feroce sostenitore della seconda ondata rivoluzionaria e volle divenire il baluardo contro la normalizzazione nei modi del fascismo toscano4. Ecco qualche esempio, tratto dalle pagine tra l’agosto del 1924 e la prima metà dell’anno seguente: squadristi che smascherano gli incappucciati massoni, ridicolizzano l’Aventino e i giornali liberali, osservano scettici i propositi parlamentari, senza togliere il moschetto dalla spalla. Talora, sono camicie nere che s’inginocchiano dinanzi ai camerati uccisi, lamentando la persecuzione dello Stato. Se ne vedono alcuni riversi al suolo con un coltello conficcato nel costato («La perfetta normalizzazione»). L’anniversario del 28 ottobre, Marcia su Roma, venne ricordato con la triste effigie del militante incatenato e portato via dalla coppia di carabinieri infagottata e anonima. 3  R. De Felice, Mussolini il fascista. L’organizzazione dello stato fascista (1968), Einaudi, Torino 1995, p. 131 e cfr. D. Forgacs, Fascism, violence and modernity, in The violent muse. Violence and the artistic imagination in Europe, 1910-1939, a cura di J. Hewlett e R. Mengham, Manchester-New York, Manchester University Press, 1994, pp. 5-21. 4  M. Maccari, Fascismo toscano, «Il Selvaggio», 10 novembre 1925.



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Tra repressione borghese e tentativi di normalizzazione, la gioventù del 1919 cercava tanto sul «Selvaggio», con sinistri avvertimenti, quanto per le strade, a colpi di bastone, d’imporre i propri «valori». Ne è un esempio lo Strano dialogo fra il santo manganello e l’onorevole Salandra del gennaio 1925, o Un pensiero gentile riservato ad Amendola: ancora una volta, un ramo nodoso e impugnato. Anche il lettore del foglio era sollecitato a rinnovare l’abbonamento sotto minaccia di manganello. Democrazia parlamentare e massoneria, queste le ossessioni visive dei primi fascicoli del «Selvaggio». La contrapposizione non poteva essere più netta: noi (diciannovisti, squadristi, arditi, fascisti) e loro (democratici, socialisti, pacifisti, «borghesi»): «tipi di liberali» col codino rivoluzionario o il ramoscello di pace; il ventre dilatato dagli «immortali principi» o sbracati (fig. 7.1). Veniva così offerta un’identità ferrea: parole nette, modi brutali, aperta rivendicazione della violenza squadrista. Le parole con cui si commentò, con sarcasmo sanguinario, la brutale aggressione ad Amendola restano ancor oggi semplicemente inqualificabili. La maggiore preoccupazione era data dal nemico interno: l’omologazione e il ripudio del programma massimalista e sovversivo. Si rispose con l’ostentazione della propria alterità, tratteggiando un tipo fisico irriducibile al bolso opportunista. Nella semplicistica visione del «Selvaggio» di questi primi giorni, «la sola legge efficace contro la Massoneria», male congenito d’una società italiana non ancora redenta, restava la figura dell’ardito, ingombro dei suoi lugubri attributi: bomba a mano, rivoltella, bastone, pugnale tra i denti, sguardo spiritato (fig. 7.2). Il codice di questo tipo di rappresentazione fu quello di un’aggressiva retorica dell’eccesso e della volontà. La figura ostentata dell’ardito e del teppista si esasperava in una teatralità agonistica. Se non ci si sbaglia (il catalogo delle incisioni di Maccari è sterminato e pericoloso) questa fu l’ultima rappresentazione di un personaggio legato alla cronaca politica per gli anni del «Selvaggio» toscano. Siamo nel settembre 1925. Un mese dopo troviamo una vignetta con due personaggi. Quello di destra è, nel codice della riconoscibilità che il lettore del «Selvaggio» ha ormai assimilato, il borghese che si compiace della normalizzazione. A sinistra, l’interlocutore non è più il fascista



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Figura 7.1 Mino Maccari, Con un piede nella fossa, «Il Selvaggio», 19 luglio 1925.

esibito. Segno effettivo di una marginalità sociale, egli si è tramutato in un indiano: «sciolto», è specificato sullo scudo che regge. All’ostentazione orgogliosa del proprio ruolo di combattente e di fascista della prim’ora si sostituisce ora il contrassegno della subalternità. L’indiano è la figura dell’apache, eroe del feuilleton maledetto di una certa Parigi sotterranea, rilanciata dai futuristi come soggetto di alterità, protagonista dell’eversione contro le belle arti e il quieto vivere. La battaglia era stata però perduta. Per ordine del Partito, le «tribù» del «Selvaggio» erano state sciolte: «È mancato sempre il coraggio di un dissidio supremo, violento, insanabile: che mo-



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Figura 7.2 Mino Maccari, La sola legge efficace contro la Massoneria, «Il Selvaggio», 30 settembre 1925.

Figura 7.3 Mino Maccari, Noli me tangere, «Il Selvaggio», 30 settembre 1925.

strasse una buona volta la faccia di questa nostra vecchissima Italia»5. «Noli me tangere», era ormai l’epigrafe di un fascismo su cui la borghesia aveva messo il suo cappello (fig. 7.3). Maccari non volle però desistere: un anno e mezzo di redazione e cura del giornale gli avevano insegnato il valore di un’azione giornalistica incisiva. Vista l’impercorribilità di una linea politicamente coerente all’intransigenza, si trattava ora di capitalizzare 5  Appello ai Selvaggi, «Il Selvaggio», 13 ottobre 1925 e Cronaca dell’agonia, ibid., 23 ottobre 1925. Lo scioglimento delle squadre dei «Selvaggi» s’inquadrava nella politica mussoliniana che portò, pochi mesi dopo, alla liquidazione di Farinacci dal partito: De Felice, Mussolini il fascista, cit., p. 170.



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questa prima esperienza e di riconvertirla su un differente piano, quello culturale. Nel dicembre 1925 i «selvaggi» si recarono così a rapporto da Mussolini, presentando le loro credenziali e ricapitolando le proprie vicende di precursori e fascisti della prim’ora. Essi rammentarono dinanzi al Capo il «singolare movimento» di dieci anni addietro, che aveva il suo fulcro negli artisti e letterati del «Leonardo», della «Voce», «dell’indimenticabile Lacerba». Lo stesso Soffici li aveva affettuosamente ricevuti a Poggio a Caiano, patria di Lemmonio Boreo «primo fascista»6. «Lacerba» aveva insegnato ai giovani futuristi toscani (vi aveva scritto anche il diciottenne Rosai) a divenire fascisti. La retorica agonistica dell’offensiva papiniana era divenuta modello di argomentazione. All’«arzigogolo parigino» si opponeva il «cazzotto paesano», detentore delle sincere motivazioni poetiche contro la persuasione purificata. La letteratura stava dalla parte degli uomini della campagna (gli «oppidani» di Leopardi, annotò Malaparte); mentre i cittadini tentavano invano di contrapporre ragioni filosofiche7. L’abolizione di ogni estetica preordinata in favore di una rinnovata comunicazione attraverso la semplice consistenza delle «cose» si traslitterava nel conflitto fra campagna e città e si armava di tensioni ideologiche. I termini di continuità tra la rivista di Maccari e la storica figura di Soffici fondatore di «Lacerba» furono sempre rivendicati con chiarezza. La contrapposizione tra «strapaese» e «stracittà», abilmente giocata dai rispettivi protagonisti, ricalcava in realtà un dualismo già emerso, in ben altre forme, nella cultura vociana. Questo dualismo era stato poi ampiamente sfruttato sulle pagine di «Lacerba», prendendo forma di conflitto tra campagna e città, Firenze e Milano, futurismo «vero» e marinettismo fasullo. Maccari invocò questa esperienza come eredità politica sua e della rivista, e decise così di rivolgersi a Soffici. Nel febbraio 1926 inviò a Poggio a Caiano una lettera in cui esponeva l’idea di un Sugo-di-Bosco, A rapporto con Mussolini, «Il Selvaggio», 13 dicembre 1925; sulla riscrittura nel «Selvaggio» dell’identità arcaica e rurale delineata dal Lemmonio, attraverso la mitizzazione di Piero della Francesca, v. M. M. Lamberti, Le campagne di Piero: Longhi, Soffici, Morandi, in Piero della Francesca e il Novecento. Prospettiva, spazio, luce, geometria, pittura murale, tonalismo, 1920/1938, catalogo della mostra (Sansepolcro, 1991), Venezia, Marsilio, 1991, pp. 21-29. 7  C. Malaparte, Strapaese e stracittà, «Il Selvaggio», 10 novembre 1927, p. 79. 6 



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foglio per giovani artisti, sulla falsariga delle vecchie operazioni lacerbiane come L’Almanacco purgativo8. La metamorfosi in «giornale buffo, fiorentino e senese, bizzarro e talvolta misterioso» venne resa pubblica in Addio al passato, l’editoriale che segnò nel marzo 1926 la conclusione del primo tempo del «Selvaggio» annunciandone al tempo stesso la nuova fase9: Salvatico è colui che si salva. Occorre salvarsi dalla grettezza, dalla banalità, dalle miserie, dal ridicolo d’una politica spicciola […] Ci siamo già salvati dai pericoli del dubbio, del rammollimento; ora occorre salvarsi dalla politica. Non c’è che l’arte. L’arte è l’espressione suprema d’una stirpe. Una rivoluzione è innanzitutto e soprattutto un atteggiamento e un orientamento all’intelligenza. Dunque dalla produzione artistica noi avremo l’indice del valore di una rivoluzione. Il discorso del Duce alla Mostra del Novecento conferma tale concetto: esso ha pesato in modo decisivo nella crisi del Selvaggio, il cui atteggiamento aveva più di tutti i caratteri d’una manifestazione artistica; sicché nessuno potrà meravigliarsi dell’avere Il Selvaggio chiuso il suo periodo squadrista ed eletto a compito d’una sua nuova vita la coltivazione dell’arte.

Inaugurando nel febbraio 1926 la Prima Mostra del Novecento Italiano, Mussolini si era compiaciuto per quello che gli appariva – o che la Sarfatti gli aveva fatto credere, data invece la natura confusamente eterogenea del raggruppamento – come il frutto di una forte e decisa selezione dei valori. La pittura, aveva argomentato il capo del governo, doveva avere un valore educativo; la critica, il compito didascalico di «indirizzare e talvolta correggere» il gusto del pubblico10. È chiaro allora che la conversione del «Selvaggio» da bollettino politico a rassegna d’arte era dunque motivata da almeno tre buone ragioni: la disillusione per l’epilogo della battaglia per l’intransigenza e l’estremismo; l’adeguamento alla normalizzazione della stampa operata dal regime; la necessità di rispondere alle grandi manovre milanesi (Sarfatti) e romane (Oppo, Maraini) per Lettera di Maccari a Soffici, Colle Val d’Elsa, 9 febbraio 1926, in Caro Soffici. Lettere dall’archivio di Ardengo Soffici, Firenze, Polistampa, 1994, s. p. 9  M. Maccari, Addio al passato, «Il Selvaggio», 1 marzo 1926, p. 1. 10  B. Mussolini, Il Novecento, in Scritti e discorsi di Benito Mussolini, vol. V, Dal 1925 al 1926, Milano, Hoepli, 1934, pp. 279-282. Sull’intervento di Mussolini e sullo «spettacolo di ripugnante improntitudine e servilità» del gruppo milanese, cfr. Soffici, Miei rapporti con Mussolini, cit., p. 820. 8 



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un’arte nazionale, e per accreditarsi come migliori interpreti del nuovo tempo e della nuova Italia. «Noi non siamo contro la cultura — si specificò — noi siamo per la cultura fascista»11. La politica venne messa in disparte: non però il primato di un’arte che incarnasse i valori consacrati dalla rivoluzione. In maniera assai esplicita, Maccari impaginò il faccione tondo di uno schiavo nero: «Il Selvaggio ha l’onore di far presente alla propria clientela – si legge nella didascalia che parodizza il tono dell’avviso reclamistico – che a partire dal prossimo numero la politica verrà relegata nella quarta colonna della quarta pagina»12. Non tanto perché essa veniva rimossa in quanto «testo»: ma perché ora il veicolo privilegiato di intervento politico passava alle immagini. Un tale impegno spinse così una nuova generazione, di cui il ventottenne Maccari era interprete e il quarantenne Soffici il mallevadore, al recupero dei primi segni d’una modernità nazionale. Di «Lacerba» ovviamente interessava quella dell’agosto 1914 e numeri seguenti, dove la militanza interventista s’intrecciava a scelte grafiche più semplici ed essenziali. Per quanto apparizioni episodiche, infatti, immagini come la Venere di Mikhail Larionov o i paesaggi di Anna Gerebzova, non erano soltanto le prove di forza con cui Soffici confermava la propria familiarità con la scena parigina, ma erano anche il segno esibito d’una netta contrapposizione alle scomposizioni dinamiche di Boccioni e Carrà (fig. 7.4). Dalla sede fiorentina di via dei Servi, che «Il Selvaggio» condivise dal 1926 con le nuove edizioni vociane, allo stampatore Vallecchi, tutto ruotava intorno a quella che poi Rosai, in un ingeneroso volume, chiamerà la «premiata ditta» Soffici e Papini (quest’ultimo, per la verità, rimase assai più distanziato). Il tono con cui da Poggio a Caiano, proclamata «capitale d’Italia»13 partivano le missive destinate agli artisti da ospitare sulle pagine del «Selvaggio», sta a confermare chi fu il regista nemmeno occulto di questa impresa «nobilissima, veramente italiana, fascista e precorritrice»14, e ora, anche, dalla tiratura felice e dalla fisionomia ben delineata. Da questo punto di vista, più che ridimensionare il ruolo esecuMaccari, Idee selvagge e parole a muso duro, cit. «Il Selvaggio», 15-30 giugno 1926, p. 1. 13  13 Pilastri, «Il Selvaggio», 1 aprile 1926, p. 3. 14  Carrà, Soffici, Lettere, cit., p. 177, Soffici a Carrà, 27 gennaio 1927. 11  12 



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Figura 7.4 Mikhail Larionov, Venere, «Lacerba», 1915.

tivo di Maccari, è necessario restituirgli il merito di aver operato un’intelligente delega a chi, meglio di chiunque altro, avrebbe potuto innervare di contenuti e far guadagnare in pubblico il foglio colligiano, accreditandolo come episodio di una tradizione di intervento culturale che poteva risalire fino alla più gloriosa stagione delle riviste. L’emancipazione del «Selvaggio» da provinciale foglio «battagliero fascista» a rivista di arte e critica era così iniziata. Figure dell’intransigenza L’opposizione al conformismo della borghesia cittadina, che era segno del tradimento delle origini rivoluzionarie del fascismo, divenne così il rifiuto della letteratura e della pittura d’evasione o di reclusione intimista, o quanto ritenuto tale, e la dissimulazione dei falsi miti piccolo borghesi. «Perché bastonare un bolscevico quando poi si legge Mario Mariani o Pitigrilli?», si chiese Maccari. Già, perché? «I veri



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selvaggi l’hanno di più contro De Amicis che contro Lenin», assicurò poi il direttore15. La nota politica, sotto forma discorsiva o di vignetta, ritornerà ancora sul «Selvaggio»; ma venne data priorità a un’operazione culturale in reazione al deprecato gusto medio. Quel gusto che premiava ancora l’esotismo in sedicesimi d’un Salgari, la magniloquenza fiorita e ufficiale di Leonardo Bistolfi, la facile evasione di Carolina Invernizio, e naturalmente l’imperialismo estetico d’un Ugo Ojetti, decennale arbitro del gusto ufficiale italiano. «Sembra di vivere nel 1903», fu l’amara constatazione di Maccari. Con Mimì bluette, fiore del mio giardino (1922), Guido Da Verona aveva raggiunto trecentomila copie di tiratura e altrettante case della nazione; e così le opere di Pitigrilli, al secolo Dino Segre, autore dell’esplicito romanzo Cocaina e direttore de «La Grandi Firme», la rivista torinese che dal 1924 al 1947 pubblicò Matilde Serao, lo stesso Da Verona, Amalia Guglielminetti. Letteratura di massa destinata ad alimentare i sogni della borghesia cittadina; romanzo d’appendice e finzione estetizzante di una modernità effimera, da un lato; facilità, stilismo, superfetazione cerebrale dall’altro, quello dell’arte «alta». La risposta da offrire costituiva un problema tecnico, non retorico né di eloquenza; non certo quel «bovarysmo insurrezionale» denunciato da Malaparte16, quanto piuttosto una soluzione individuale per la quale non servivano miti condivisibili o di massa, ma — per tornare alla rivista — l’azione di un artista-eroe capace di dare risposte pratiche al quesito: come si conquista un linguaggio tradizionale e autoctono? Come lo si difende dall’internazionalismo, dal cattivo gusto, dalla fiacchezza europea, contribuendo così alla reintegrazione conservatrice in atto? In realtà, le proposte oscillarono tra cinismo e moralismo, fede libertaria e cooptazione, metafisica e politica. «Una mostra personale intima, diretta, di artisti, di scrittori», auspicò Maccari, cogliendo quell’idea di petit comité che il Soffici post-futurista seguiva da tempo17: ma quale arte? E con quali soggetti? «Il Selvaggio», 16 aprile 1926, p. 2 e 7 settembre 1926, p. 1. C. Malaparte, Tecnica del colpo di Stato (1931), Firenze, Vallecchi, 1973, p. 145. 17  Maccari, Addio al passato, cit.; Carrà, Soffici, Lettere, cit., p. 127, Soffici a Carrà, 30 novembre 1919. 15  16 



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Nei primi numeri sotto il nuovo indirizzo sono sparpagliate piccole immagini di Ottone Rosai, dello stesso Maccari, di Achille Lega. Il nucleo forte del «Selvaggio» venne naturalmente dato dalle opere di Morandi, Carrà, Spadini, Soffici stesso; ma una valutazione complessiva del programma editoriale deve necessariamente misurarsi con i nomi di provenienza regionale: Arrigo Del Rigo, Quinto Martini, Oscar Gallo, Leonetto Tintori, Antonio Balduini, Giuseppe Gorni, oltre a qualche apporto da fuori Toscana: il veneto Pio Semeghini, il torinese Nicola Galante. La scelta di questi autori rispondeva più a motivi occasionali, interni a una ristretta cerchia di conoscenti, anziché a ragioni programmatiche. Se è difficile poter parlare di uno specifico e rigoroso progetto iconografico, è pur vero che una scansione, per quanto sommaria, di questo corpus d’illustrazioni consente intanto di distinguerle in almeno tre grandi rubriche, cui è da aggiungere uno specifico genere, quello della parodia. Il paesaggio. Recensendo la Mostra del Novecento Italiano nel 1926, Lionello Venturi aveva rintracciato l’origine del paesaggio nel sentimento cristiano che guidava la percezione diretta ed emotiva del reale, attraverso un’effettiva «rivelazione» agli occhi del pittore. Pur condividendo l’idea del paesaggio come genere privilegiato per verificare la tenuta della sincerità d’ispirazione e come baluardo alle retoriche novecentiste, nel «Selvaggio» la presenza di questo tema si legò, di preferenza, alla narrazione d’una identificabile geografia rurale. Il paesaggio è immediatamente riconoscibile nei contrassegni della sua tipicità senza ulteriori qualifiche: è un invito all’esperienza prima ancora che una descrizione. Non si tratta della rappresentazione astratta d’un «ideale» strapaesano, e ancor meno di un’iconografia al traino di intenzioni didascaliche: la toponomastica qualifica un ambiente nella sua concretezza di luogo vissuto, come spazio dell’unica pedagogia possibile. Ma il paesaggio è anche il luogo dell’assenza: le molte tavole raffigurano l’ambiente in cui si vive, si lavora e si condivide l’esistenza con il consorzio umano, senza però che di queste figure vi sia traccia. Sono infatti più spesso luoghi disabitati: motivi di case, colline, declivi e marine dove la presenza umana è accuratamente respinta



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Figura 7.5 Ottone Rosai, Disegno, «Il Selvaggio», 31 maggio 1926.

per non turbare l’autonomia degli spazi che si offrono alla visione. Il codice implicito della riconoscibilità del paesaggio si fonda così su un patto d’intesa tra autore e spettatore. Il paesaggio si offre alla percezione lenta e scandita. Si legge poco a poco, valutandolo nei suoi elementi formali, riconoscendo progressivamente gli aspetti del territorio vissuti e condivisi, anche se non conosciuti direttamente, poiché il paesaggio attinge alla memoria visiva e a un patrimonio di suggestioni secolari, esemplificate ad arte nella storia, nella letteratura, nella tradizione delle immagini (fig. 7.5). Molti disegni consegnati a Maccari tra 1926 e 1927 (a opera di Morandi, Rosai, Soffici, Lega) confermano l’attitudine a voler sostituire alla descrizione puntuale del motivo la forza intatta della sua suggestione attraverso una registrazione sensibile, pressoché impressionistica del disegno: che non sarà mai delineatura minuziosa ma piuttosto una traccia della sensazione alle sue



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scaturigini. Un disegno a matita di Rosai fu pubblicato nel luglio del 1926 specificando che «potrebbe servire a dare un’idea di come i selvaggi sentono, intendono e vogliono italiana e paesana l’Italia» (fig. 7.6). Le figure. È lo stesso Rosai che più di ogni altro si incarica di tradurre, tra maggio 1926 e settembre 1927 (gli estremi cronologici della sua intensa ma breve partecipazione al foglio), un repertorio che spazia dal lavoro artigianale all’ozio in osteria, dal musico malinconico all’ubriaco riverso al suolo. Queste tavole offrono una campionatura di mendicanti, ciechi, sterratori; un falciatore, un uomo sdraiato sopra la panchina, un briaco. In Rosai agisce un’umanità fiacca e supina, seduta sui legni delle osterie, poggiata oziosamente sulle spallette dell’Arno, a passeggio solitario e mesto – come unica flânerie consentita. Sono ragazzacci tabaccosi, vecchi avvinazzati, perditempo e suonatori e giocatori: di carte, di biliardo. All’epica lavorativa d’un Sironi, alla borghesia milanese ritratta da Achille Funi si rispose con la commedia dei diseredati e dei perdigiorno che cercano ispirazione in osteria. Il regesto dei bifolchi e dei rurali sembrava incarnare, più che la risposta dell’eterna Toscana degli ulivi e dei cipressi alla facile modernità dell’internazionalismo delle avanguardie, la sostanza spontaneamente rivoluzionaria di proletari, miserabili, primitivi e intuitivi: la vera «rivolta dei santi maledetti» descritta da Malaparte. Osterie, biliardi, teatrini e minuscoli circhi di paese popolano così i fogli del «Selvaggio»: con la sottrazione al loisir di massa si accusava la degenerazione “americana” del cinematografo e si le contrapponevano le forme tratte dal ridotto catalogo dei passatempi innocui e provinciali. Pochi casi come quello della rappresentazione della figura umana dimostrano, inoltre, il repentino passaggio dalla prima fase essenzialmente politica del «Selvaggio» a quella artistica in una chiave, per così dire, antropologica. Cosa fece infatti il “selvaggio”, smessa l’uniforme squadrista e gl’intenti bellicosi ostentati nella prima annata? Si sposò e mise al mondo dei figli, che ritrarrà poi amorosamente, assopiti o a passeggio o ammalati. È un «riflusso» dal pubblico al privato, che nei soggetti familiari non



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vede solo un pretesto per esercitazioni di pittura o disegno, bensì un’esplicita conferma agli auspici mussoliniani formulati con il famoso Discorso dell’Ascensione: una seria vigilanza sul destino della razza, «a cominciare dalla maternità e dall’infanzia», e un invito a combattere l’urbanesimo industriale, «che isterilisce il popolo»18. Prese così forma il vero programma iconografico della rivista: una parata rappresentativa di donne, bambini, lavoratori, perlopiù a mezza figura o in primo piano del volto, a conferma della tipizzazione di una toscanità – id est, per i redattori, d’una italianità – che è appartenenza a quel territorio narrato sulle stesse pagine del «Selvaggio» nei tanti episodi paesistici. Nella «mostra permanente» curata e messa in stampa da Maccari, l’esterno (il paesaggio) convive dunque con l’interno (gli abitanti, le poche suppellettili che fanno da natura morta). La rivista divenne così un effettivo percorso nel territorio, attraverso la determinazione dei luoghi e dei suoi abitanti, restituiti a una leggibilità immediata grazie alla reciproca separazione. Al paesaggio disabitato si affianca così il volto effigiato nella sua isolata icasticità. I tipi sociali detengono attributi propri e non necessitano di connotazioni ambientali; né gli ambienti, o i paesaggi, richiedono la loro presenza per qualificarsi. Al lettore del «Selvaggio» degli anni toscani si offre un repertorio visivo che ambisce alla massima leggibilità di luoghi e funzioni morali con il minimo degli accidenti. La natura morta. «Un ritorno alla tradizione in fatto di pittura non può effettuarsi che mediante un ritorno alla grammatica delle arti plastiche, cioè alla figura umana. Pigliando come base le mele, i bicchieri pieni o vuoti, le bottiglie, le scatole di cartone, ecc., non si risolve il problema d’un ritorno alla tradizione». Così Giorgio De Chirico nel recensire l’esposizione fiorentina di Soffici del 192019. Un’opinione rilanciata con maggiore aggressività da Mario Sironi a distanza di un decennio: «Dovremo dunque 18  B. Mussolini, Il discorso dell’Ascensione (26 maggio 1927), in Scritti e discorsi di Benito Mussolini, vol. VI, Dal 1927 al 1928, Milano, Hoepli, 1934, pp. 41 e 45. 19  G. De Chirico, La mostra personale di Ardengo Soffici a Firenze, «Il Convegno», 1920, n. 6, ora in Il meccanismo del pensiero, cit., p. 174.



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in eterno continuare a dipingere nature morte o scene di barche sulla spiaggia? Da questa impotenza immaginativa della pittura contemporanea bisognerà pur uscire. Una bottiglia impolverata e quattro mele, o una veduta del giardino qui di faccia, sono dunque sufficienti al nostro amore per la pittura?» La risposta di Soffici, Morandi, De Pisis e del «Selvaggio» per intero sembra esser stata: sì, è possibile. Alla geografia dei paesaggi, da percorrere come la Toscana di Lemmonio Boreo, e alla riconoscibilità sociale delle fisionomie e dei volti, si aggiunse nel «Selvaggio» la natura morta. Sono anche qui disegni, appunti, acqueforti e guazzi, che propongono tavolate minime d’oggetti, pochi frutti, qualche bottiglia. Il lavoro di Morandi si apparta in una ricerca di tonalità e volumetrie essenziali, con le quali ripercorrere l’intera esperienza della natura morta moderna da Chardin fino a Cézanne. «Il Selvaggio», come vedremo nel prossimo capitolo, presentò con regolarità l’opera del bolognese, chiamato a documentare la natura morta come genere per eccellenza consacrato all’esercizio della pittura pura. Letta però nelle sue componenti di contenuto (oggetti umili, riferibili alla vita quotidiana), la natura morta diverrà il naturale complemento del paesaggio e delle figure, il loro raccordo simbolico. Nel loro insieme, questi tre generi s’intrecciano con i testi e le modalità d’impaginazione. Prima di studiare alcuni di questi casi, però, è necessario spendere qualche parola intorno alla presenza – tutt’altro che scontata, nell’economia d’un ruvido giornale ostentatamente paesano – d’una forma retorica che offre a questo intreccio una sorprendente colorazione. La parodia. Per demistificare i falsi miti borghesi e denunziarne il cattivo gusto, sul «Selvaggio» s’impiegarono infatti i modi parodistici della citazione e del pastiche, secondo il modello affinato da Leo Longanesi per «L’Italiano». Una parte importante di questo stile si trova, naturalmente, nelle vignette di Maccari, nelle didascalie derisorie, nel sovvertimento straniante fra testo e immagine. Ma uno dei tratti di maggiore interesse è sicuramente il recupero stilistico della grafica popolare ottocentesca. Mentre infatti il mercato d’arte milanese e romano stava promuovendo il revival



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pittorico ottocentesco20, ci si rivolse alla tradizione paraletteraria delle stampe povere e degli annuari agricoli. Ritornò in voga il Sesto Caio Baccelli e il Barbanera, almanacchi campagnoli riscoperti da Papini al tempo di «Lacerba». Maccari compiva così un gran balzo all’indietro, e andava a pescare nei lunarî, nei calendari e negli almanacchi da pochi soldi. Si pose alla ricerca dell’espressione ingenua e popolare sul viatico del Soffici dei «trofeini». Così, la volontà didascalica ed egemonica veniva ricondotta nella bonarietà del recupero giocoso di sentenze fitte di buonsenso, non esenti da toni superstiziosi; comunque edificanti, sempre antimoderne. La costruzione di questo stratificato codice visivo poté beneficiare di quanto venne offerto dalla Mostra storica del libro illustrato, che si tenne in Palazzo Vecchio a Firenze nella primavera del 1927. Erano state messe in vetrina seicento opere provenienti da collezioni pubbliche e private (Bertarelli, Olschki, Ricciardi, Gonnelli): libri illustrati dal Quattrocento all’Ottocento; una sezione di teatro, scenografie, maschere, danza; una di stampe popolari cinque e seicentesche; e poi feste, entrate, giostre e tornei, libri scolastici e per fanciulli; una sezione sulla «Rinascita dell’incisione in legno», con edizioni ottocentesche illustrate di Manzoni, Sacchi, Porta, Tasso; una sala di litografie, con almanacchi, repertori di costumi napoletani, mascherate e il mirifico «Poliorama Pittoresco», primo giornale illustrato con litografie distribuito a Napoli dal 1836. Un recupero non esente dai toni nazionalistici, dove si stigmatizzava il «disgraziatissimo secolo XIX» del cedimento romantico e neogotico, salvato solo dalla primordialità innata delle incisioni in legno21. Il patrimonio grafico e tipografico così riscattato venne posto a confronto con la sapiente composizione dei «magnifici e italianissimi» aldini e bodoniani, fonte di equilibrio e armonia della pagina. L’eleganza classica della tipografia si mescolava al gusto popolare dell’illustrazione; la bibliofilia si distaccava dall’antiquaria e diveIn particolare grazie agli studi di E. Cecchi, Pittura italiana dell’Ottocento, Roma-Milano, Società Editrice d’Arte Illustrata, 1925; E. Somaré, Storia dei pittori italiani dell’Ottocento, Milano, «L’Esame», 1928; U. Ojetti, La pittura italiana dell’Ottocento, Milano, Bestetti e Tuminelli, 1929. 21  N. Tarchiani, Il libro italiano illustrato, Catalogo della mostra storica del libro illustrato in Palazzo Vecchio a Firenze, Firenze, Istituto Italiano del libro, 1927, p. xiii. 20 



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niva una prassi attualizzata nella coscienza del mestiere. La virtuosa mescolanza delle risorse del «paratesto» – per riprendere il concetto estensivo di Genette – innescava un registro parodistico che prendeva la forma dell’iperbole, dell’allusione compiaciuta, della dilettazione artificiosa e della satira. Quella per la regia di Maccari fu la tentazione di una commedia umana, non poco contrastata dal temperamento di Soffici, che nel frattempo, riavvicinatosi a Papini, stava invece vivendo un profondo dramma interiore. Homo rusticus Segno concreto della continuità del lavoro di Soffici, «Il Selvaggio» ospitò l’ultimo articolo della serie Roma-Napoli-Pompei, resoconto del viaggio di Soffici con il pittore Armando Spadini, pubblicato inizialmente su «Galleria». Ancora una volta, il confronto con l’arte antica suggeriva un paragone con la situazione attuale. L’arte cristiana e bizantina, pur nelle sue scorrettezze di disegno e di colore, di sproporzione delle forme, e nonostante lo smarrimento della tecnica classica, emanava per Soffici una forza di comunione, «un senso di verginità primaverile, con qualcosa di popolaresco e di appassionato». In questa voluta assenza di perfezione si poteva così ravvisare «l’elemento doloroso, tragico del cristianesimo, quello che apre ed approfondisce l’anima umana, nello stesso tempo che vi ripone i germi dell’amore e della carità fraterni, i germi dell’Humanitas». Soffici cercava, ora, di riformulare il proprio canone estetico alla luce di un ritrovato senso di religiosità. Secondo lo sperimentato modello di critica che diveniva determinazione di poetica, egli notava così che i volumi e le masse si rassodavano nella «chiarificazione aerea», nella «casta attenuazione del colorito», nella «drammatizzazione del colore», confermando, ancora una volta, quell’ampio paradigma di continuità – già storicizzato, da parte sua, nel Longhi delle lezioni romane del 191422 – che correva da Masaccio a Piero, Tiziano, Tintoretto 22  R. Longhi, Breve ma veridica storia della pittura italiana (1914), Milano, Rizzoli, 1994; Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana, «L’Arte», XVII, 1914, pp. 198-222. L’impatto della monografia di Longhi su Piero della Francesca



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e poi s’irradiava in Rembrandt, Goya, Delacroix, Cézanne: «Così, se di barbarie si deve parlare, barbara dovrebbe essere tutta la modernità, barbari noi stessi». A confronto di quella greca e pagana, la bellezza moderna, cioè cristiana, vinceva sull’equilibrata serenità dell’arte classica per un elemento sostanziale: la «terribile profondità dell’anima che ha vissuto il dramma del dolore e del sacrificio, ed è umana ed atrocemente religiosa». Da risorsa squisitamente formale, la gaucherie di Cézanne diveniva, insomma, un’attestazione di fede. Rimuovendo il mito della classicità pagana, e riavvicinandosi così agli orientamenti confessionali di Papini, Soffici sposava il dramma della modernità cattolica, della «realtà nostra, di occidentali, di cattolici e d’italiani». Parole che erano chiuse da un disegno a matita di Rosai raffigurante la fiorentina Piazza del Carmine (fig. 7.5): un’immagine desolata e silenziosa che sembrava testimoniare la natura, popolana ma tormentata, del suo autore23. Testi e immagini del «Selvaggio» s’intrecciavano così in una pluralità di referenze; la disputa culturale si alimentava col riscatto della tradizione, resa attuale nei suoi essenziali valori di modernità: «E se vi sembra oscura questa qualifica di selvaggi, sappiate che per noi essa esprime quanto vi è di più schiettamente italiano, di antico, di caratteristico, di paesano, in perpetua incompatibilità con quanto è liberalesco, democratico, americano, dozzinale, macchinale, “turistico”, enfatico e retorico»24. Tutt’intorno a queste pagine comparivano, come dimostrazioni imperiture, i paesaggi rurali e i volti contadini ritratti da Rosai, Maccari, Lega. «Arte o trucco: ecco il nostro dilemma», affermò Rosai: la difesa delle «piccole cose» attraverso il recupero dell’Ottocento più intimista, della tradizione macchiaiola impressionista (da Fattori, oggetto d’una cruciale monografia sofficiana nel 1921, a Lega, Signorini, fino a Corot, Millet, Cézanne) contrapposto al colto (Roma, Valori Plastici, 1927) è ampiamente acquisito dalla storiografia: si rinvia pertanto ai saggi di F. Fergonzi e G. Agosti nel catalogo della mostra Piero della Francesca e il Novecento, cit. 23  A. Soffici, Roma-Napoli-Pompei, «Il Selvaggio», 31 maggio 1926, p. 1; Rosai si fa vivo con alcune becerate, ibid., 15 giugno 1926; A. Lega, Ottone Rosai pittore fiorentino, ibid., 15 febbraio 1927. 24  M. Maccari, Idee selvagge e parole a muso duro, «Il Selvaggio», 15 luglio 1926, p. 1.



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e sorvegliato classicismo del gruppo toscano del «Novecento» che si stava richiamando, esplicitamente, allo «stile di intelligente modernità» promosso a Milano25. La rivalutazione mercantile dell’Ottocento più deteriore, la facilità della materia pittorica, il modernismo come cifra, apparivano nel loro insieme come insidiose scorciatoie, che conducevano infine a un mero tecnicismo e alla disumanizzazione dell’immagine26. Ecco dunque spiegata la centralità riconosciuta al disegno: la «sincerità» (termine che ha una ricorrenza quasi ossessiva) di un rapporto immediato con le cose e la necessità di riconoscimento del reale implicava un linguaggio autonomo, che permettesse la trasmissione emotiva al di fuori del cifrario preconcetto. Le immagini andavano condotte dalla sensibilità dell’autore alla percezione condivisibile senza il filtro di stili e linguaggi predeterminati. Se c’era un modo per annullare tutta la didattica modernista di Soffici, il suo insistere intorno al 1913 sulla trasparenza del «geroglifico espressivo» e dell’arabesco pittorico, era questo27. Né appunto né abbozzo, il disegno venne qualificato come genere proprio e compiuto: una tecnica che determinava uno stile; un testo specifico, offerto nell’esemplarità di temi e soggetti (come si è visto, paesaggi, nature morte, figure) sottratti a ogni altra determinazione, al punto da lasciare alla didascalia la sola menzione della tecnica e dell’autore («Disegno di Ottone Rosai», «Incisione di Giorgio Morandi»). La semplicità, e non la povertà, venne accreditata come la più grande audacia dell’epoca. Il disegno fu celebrato come arte capace di rendere il massimo delle impressioni e delle intenzioni con il minimo dei mezzi sensibili (fig. 7.6). Fu rigettato l’uso eccessivo e sensuale della materia pittorica: essa appariva come il frutto d’una destrezza inventiva, destinata a sci25  R. Franchi, I toscani del Novecento, «L’Illustrazione toscana», IV, 1926, n. 4, p. 29; Id. Mostre fiorentine, «La Fiera Letteraria», 1 aprile 1928, p. 4; per l’intera polemica di questo gruppo (che si identificava nelle posizioni di «Solaria») e «Il Selvaggio», v. G. Uzzani, Artisti e letterati fra il Novecento toscano e Solaria, «Bollettino d’Arte», LXXI, n. 39-40, settembre-dicembre 1986, pp. 65-102. 26  O. Rosai, Canagliate fiorentine, «Il Selvaggio», 15 luglio 1926, p. 3, e 1 ottobre 1926, p. 2. 27  Cfr. P. Fossati, Paragrafi per il disegno fra le due guerre, in Disegno italiano fra le due guerre, catalogo della mostra (Modena, Galleria Civica, 1983), Modena, Panini, pp. 11-59.



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Figura 7.6 Ottone Rosai, Disegno, «Il Selvaggio», 15-30 luglio 1926.

volare inesorabilmente in un traboccante manierismo. La visione poetica del mondo riposava, invece, su mezzi tali da rimuovere ogni forma estrinseca e inessenziale. Questi mezzi erano per Soffici l’affresco, il mosaico, la tempera; il disegno era il loro naturale esercizio primo. Si trattava di tecniche antiche, che permettevano di fissare in modo evidente e duraturo concetti e sentimenti dell’autore, e lasciare affiorare in pieno lo spirito che, per essi, si manifestava nell’opera. Ogni residuo di materialità andava occultato come realtà grezza e reso inosservabile28. Tratteggiati gli intenti della nuova rivista e delimitati gli schieramenti, nell’ottobre del 1926 si avviò la «Mostra permanente del disegno italiano», nello sforzo di rivalutare un’arte fino a quel punto negletta, «troppo aristocratica, troppo sdegnosa e aborrente dal chiasso reclamistico». Ma quali sono i temi addotti, nella pagina di presentazione? Un ragazzetto, due lattanti, un vecchio dal naso rincagnato, una donna paziente, un paesaggio primitivo; 28 

A. Soffici, Periplo dell’arte, «Il Selvaggio», 15 dicembre 1927, p. 1.



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Figura 7.7 Ardengo Soffici, Carrà sur le motif, «Il Selvaggio», 1 ottobre 1926.

uno schizzo di Soffici che sorprende Carrà en plein air e una lunga didascalia esplicativa (fig. 7.7). Al sublime recupero del classico e alle seduzioni dell’immagine moderna si opponeva l’eternità del popolo e delle sue leggi. La pittura e il disegno di figura dovevano assecondare questi valori, senza adoperarsi a un recupero figurativo che mantenesse il sapore, tra l’archeologico e l’estetizzante, del corpo nudo, così come stava riemergendo dalle tante estetiche neoclassiche o neorinascimentali promosse dalle Biennali veneziane e romane. «Ritorna il nudo; e con il nudo la bellezza: gli dei ritornano, tenendosi per la mano», aveva notato la Sarfatti in una distesa pagina; «ci preme la decadenza del bel nudo umano, come prima espressione estetica delle stirpi millenarie, prima estrinsecazione artistica della gioia di vivere», constatò Bragaglia, preoccupato dal panorama di fanciulle dai seni avvizziti e di uomini filiformi che masticavano hashish29. Sulla 29  M. Sarfatti, Segni colori luci, Bologna, Zanichelli, 1925, p. 44; A. G. Bragaglia, Scultura vivente, Milano, L’Eroica, 1928, p. 243.



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ruvida carta stampata da Maccari mai vi fu traccia del maschio vigore dei nudi corpi atletici; solo la fisionomia spietata e familiare, il contrassegno genuino, la garanzia dei valori incarnati. Soffici s’incaricò ancora un volta di chiarire la questione: Tornare al segno fu l’articolo di apertura di un fascicolo successivo (Maccari, perché s’intendesse, vi impaginò anche una sua incisione con una madre che pulisce il bambino). L’arte veniva intesa come baluardo contro la dissoluzione della morale e dei valori, come moto di ripristino delle virtù italiane. «È ormai troppo tempo — scrisse infatti Soffici — che al rigore fascista, alla austerità, alla religiosità, alla fattività, all’eroismo […] vanno parallele sotto veste di principi estetici, di poesia e d’arte le aberrazioni più contrastanti con tali virtù». Vi era dunque la necessità di attuare «un ristabilimento totale di certi valori, che sono poi valori italiani, cioè intimamente connaturati all’essenza del popolo italiano, ma per troppo tempo e troppo bestialmente barattati con valori falsi ed opposti, indicabili con vari termini come: europei, protestanti, rivoluzionari nel senso anarchico, idealistici alla tedesca, e simili»; diversamente, sarebbe stata solo la caduta inevitabile verso il «nullismo internazionale», fase estrema della degenerazione romantica, antitaliana per eccellenza. E che contrastava apertamente, per l’arbitrio creativo e l’anarchia sovversiva, con la misura d’ordine, di cultura e di gusto della tradizione italiana. La necessità, ossessivamente ripetuta, era quella di rendere attuali i valori eterni della storia contro la «sbracata originalità»: la consapevolezza della memoria contro il rispecchiamento meschino e superficiale sulla grandezza del passato. In questi termini si inquadrò anche una polemica lettera rivolta da Maccari a Marinetti, partecipe al dibattito di «Critica fascista» con una presuntuosa equazione tra arte italiana, futurismo e fascismo30. Certo, dietro a questa linea intransigente del primo «Selvaggio» artistico vi erano motivazioni contingenti e ineludibili: cosa altro potevano scrivere, gli artisti, una volta interpellati nelle inchieste ufficiali? Essi risposero come non altrimenti potevano fare dei tesserati di partito sulla rivista di Bottai: 30  Sull’inchiesta del 1926-1927 dedicata alla cultura fascista, v. C. Bordoni, Fascismo e politica culturale: arte, letteratura e ideologia in Critica fascista, Bologna, Brechtiana, 1981.



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rilasciare delle rassicuranti dichiarazioni di fedeltà, e poi tornare a lavorare come prima. Così, dichiarandolo «assolutamente incompatibile con il regime fascista», Maccari denunciò il futurismo come artificioso prolungamento ricco di «internazionalismo, manierato, convenzionale, democratizzato, adatto al bolscevismo»: lontano da un effettivo contributo alla restaurazione dei valori secolari e al raggiungimento di quella che invocò, scrivendola tutta in corsivo, come «modernità nostra, italiana»31. E per farlo comprendere, Maccari e Soffici riempirono la pagina di quello stesso numero del «Selvaggio» con acqueforti di Morandi (la Natura morta con il cestino di pane, Vitali 14) e Carrà (la Testa di ragazzo 1924) e poi Rosai, Lega, Soffici. Tutti autori che avevano a loro particolare modo attraversato il futurismo e che si ritrovavano ora, per impiegare le parole con cui Lega presentò Carrà, «sui piani immutabili della verità in cerca della struttura e dell’intimità poetica delle cose». Parole che sembrano, e forse erano davvero, suggerite da Soffici. L’accurata mescolanza di testo e immagini fu uno stratagemma ripreso qualche tempo dopo, allorché Maccari scrisse una lettera aperta a Marinetti dove, pur rispettando il movente politico futurista, non si taceva la netta divergenza verso la sua componente «anticlericale e antirurale».32 Argomenti che sembravano trarre conforto dal paesaggio di Rosai e dall’asciutta natura morta con pani tazza e bottiglie tracciata a matita da Morandi nel 1920 (fig. 7.8). E ancora sulla figura di un pittore futurista che si era lamentato di essere stato messo sul piano del «luteranesimo» e del «protestantesimo» si aprirono i Semplicismi con cui Soffici recuperò il titolo di una rubrichetta ai suoi bei tempi stilata con Carrà su «Lacerba». Soffici confermò l’esistenza di una vera e propria estetica di derivazione protestante, ravvisando in essa un principio di libero esame, che non ammetteva per l’arte «altre norme all’infuori di quelle che intuitivamente stabilisce, col fatto stesso della propria espressione, il cosiddetto genio individuale dell’artista». Donde lo «sfrenato individualismo creativo e ne«Il Selvaggio», 15 gennaio 1927, p. 2. M. Maccari, Lettera aperta a Filippo Tommaso Marinetti, «Il Selvaggio», 31 maggio 1927, p. 38. 31  32 



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gazione implicita di ogni tradizione, di ogni regola di giudizio, come di qualsiasi funzione sociale dell’arte, nel senso che questa possa avere una qualche funzione connettiva fra gli uomini di una medesima comunità». La pagina di Soffici paventava l’oscurità e l’incomprensione della libera creazione individuale: l’autonomia della fantasia conduceva per forza all’astrattismo e all’arbitrio delle forme invece che alla rappresentazione poetica del mondo reale33. Assai presto, si arrivò alla contrapposizione tra uno spirito «gotico», caratterizzato da spontaneità, indisciplina, libertà – una sensualità dionisiaca che sfociava nell’orrido, nel deforme e nel mostruoso – e uno spirito «latino», mediterraneo, greco-romano: retto da ordine, misura, equilibrio, sobrietà, squisitezza virile. La contrapposizione grafica che abbiamo incontrato in Sintesi della guerra mondiale (cfr. cap. 3) si sostanziava con argomenti attuali: «esigenze italiane» opposte ai «tentativi aberranti di operatori bastardi», così volle concludere Soffici. Tali argomenti, rilanciati nella cultura italiana a partire dalla coeva diffusione delle tesi di Spengler, sembravano confermare quello «sciovinismo romanogermanico» denunciato da Trubeckoj già nel 1920. La contrapposizione tra esprit e geist, che nondimeno ebbe definitiva confutazione da parte di Croce, facilitava la preoccupante schematicità delle opposizioni34. Mentre questi «semplicismi» si avviavano a prendere la forma di estenuanti variazioni intorno a un’ossessiva idea di italianità, Soffici tollerò, anzi sembrò per certi versi incoraggiare, la revisione delle sue stesse scoperte. Carrà liquidò così l’opera di Henri Rousseau: la sua purezza e ingenuità primitiva appariva ora, all’epoca del «Selvaggio», come frutto di un’invenzione intellettuale da parte dei fumistes millantatori dell’avanguardia parigina. E pazienza se era stato proprio attraverso costoro che Soffici e Carrà stesso lo avevano conosciuto, ammirato e imitato. Carrà dichiarò la chiusura del caso Henri Rousseau decretandoA. Soffici, Semplicismi, «Il Selvaggio», 30 gennaio 1927, p. 1. A partire da questo fascicolo la rivista adottò la numerazione progressiva per annata. 34  A. Soffici, Semplicismi, «Il Selvaggio», 15 marzo 1927, p. 16 e cfr. V. BeonioBrocchieri, Spengler. La dottrina politica del pangermanesimo postbellico, Milano, Athena, 1928; N. Trubeckoj, L’Europa e l’umanità (1920), Torino, Einaudi, 1982, p. 13; B. Croce, recensione a E. Wechssler, Esprit und Geist, «La Critica», XXV, 1927, pp. 389-392. 33 



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Figura 7.8 Giorgio Morandi, Disegno, 1920, «Il Selvaggio», 31 maggio 1927.

ne l’inattualità e invocando la subordinazione al vero immutabile principio italiano35. Un successivo intervento di Carrà contro De Chirico dimostrò quanto la loro distanza, dopo la breve intesa del periodo metafisico, si andasse incrementando per analoghi motivi ideologici. De Chirico aveva infatti rilasciato alla rivista parigina «Comoedia» 35  C. Carrà, Revisioni critiche: Henri Rousseau, «Il Selvaggio», 15 febbraio 1927, p. 11. Sulla «invenzione» di Rousseau da parte del clan Apollinaire, cfr. R. Shattuck, Gli anni del banchetto. Le origini dell’avanguardia in Francia (1885-1918), Bologna, Il Mulino, 1990,



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un’intervista impietosa verso lo stato della pittura italiana, che giudicava completamente aliena a tutti i movimenti d’arte moderna («ni marchands, ni galeries») e dichiarandola in blocco pressoché nulla, salvando solo Modigliani e lui stesso («mais nous sommes presque Français», aggiunse). Nella sua replica, sentenziando che le basi naturali dell’arte europea stavano nello spirito italiano, Carrà tratteggiò in De Chirico una figura di pittore ricco di servilismo e piaggeria allo straniero, plagiario degli antichi maestri, critico incapace e pittore principiante. E fece seguire un ritratto altrettanto ostile di Savinio, sospetto ebreo [sic], internazionalista degenere e illetterato raté («Considera l’arte come se nulla avesse a che fare con la morale e con la vita politica»)36. Segno dei tempi: Carrà aveva infatti in precedenza ammesso la difficoltà a imporre la pittura italiana in mancanza di un mercato d’arte moderna, con un’insofferenza non dissimile dai toni usati da De Chirico («da noi non esiste un mercato d’arte moderna e il mercato straniero ci è completamente chiuso»)37. Bastarono però pochi anni per osservare una netta inversione di giudizio e la condanna del mercato artistico parigino, reo di sostenere l’artificiosa école de Paris (Sandro Volta la osservò alla Biennale di Venezia del 1928 come un’accolita di fuoriusciti che avevano snaturato il «divino spirito della più nobile tradizione francese»)38. Ancora nel 1931, parlando della pittura di Massimo Campigli, Carrà sostenne che l’accusa di «stilolatria» e di citazionismo era giustificata da una «legge di necessità», secondo la quale non si poteva trascendere il fatto contingente e negare il carattere umano e fenomenico: altrimenti era solo 36  M. De Chirico, peintre, prédit et souhaite le triomphe du modernisme, «Comoedia», 12 dicembre 1927, in Id., Il meccanismo del pensiero, cit., pp. 281-282; C. Carrà, L’italianismo artistico e i suoi denigratori, «Il Selvaggio», 30 dicembre 1927, p. 95 (una ulteriore menzione in B.M. Bacci, L’Ottocento italiano e la «Scuola di Parigi» alla XVI Biennale veneziana, «Solaria», III, 7-8, luglio-agosto 1928, p. 38). Non mi sembra inutile ricordare che l’intera partecipazione del Carrà articolista sul «Selvaggio» venne rimossa dall’autore stesso (in tutti i volumi del secondo dopoguerra, autobiografia compresa), dai suoi esegeti, e dall’antologia dei suoi testi inopinatamente intitolata Tutti gli scritti. 37  C. Carrà, Della nuova coscienza artistica, «Il Convegno», 30 ottobre 1925, in Id., Tutti gli scritti, cit., p. 259; Id., Del Surrealismo, «L’Ambrosiano», 26 novembre 1930, ibid., p. 270. 38  S. Volta, Scuola di Parigi, «Il Selvaggio», 30 aprile 1928, p. 29.



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l’estetismo decadente del fallace intellettualismo picassiano39. Quello stesso anno avvenne però la riammissione di De Chirico: accolto da Carrà come pittore moderno, «da non confondersi con gli anarcoidi dell’avanguardismo internazionale», e accolto ancor prima sul «Selvaggio» con un bel disegno40. Dopo aver realizzato la Hall des Gladiators nella residenza parigina di Léonce Rosenberg, episodio che aveva segnato nel 1929 il culmine della stagione dell’«Effort Moderne», la galleria istituzione primaria del modernismo parigino, De Chirico aveva in effetti ripreso a esporre in Italia. Ma non fu questo il principale motivo dell’inversione di giudizio che condusse alla riabilitazione di De Chirico. Negli stessi mesi in cui il commercio di Rosenberg si avviava al fallimento, a causa del crack finanziario del 1929, le decorazioni della sua dimora erano state oggetto di un articolo di Waldemar George (autore di cui Soffici tradurrà l’influente Profitti e perdite dell’arte contemporanea) che vi riscontrò riferimenti stilistici ai sarcofagi romani del tardo impero41. Lo stesso George alla Biennale del 1930 aveva presentato gli «Appels d’Italie», gruppo franco-italiano di artisti «umanisti e classici» i quali, nel segno di un nuovo «ordine politico e sociale», promulgavano una «revisione totale dei valori dello spirito» a dimostrazione dello spostamento del centro di gravità dell’arte contemporanea, che ritrovava ora la sua fede a Roma e nell’Italia «una visione del mondo e della vita»42. Fu la consonanza di questi toni con quelli della radicale italianità artistica a consentire, ora, il riscatto italiano di De Chirico. È certo vero che, dietro queste polemiche si celava un timore ben più vasto. Sollecitati da una parte dalle esigenze ideologiche 39  C. Carrà, Massimo Campigli, «L’Ambrosiano», 20 maggio 1931, ora in Id., Tutti gli scritti, cit., pp. 517-518. 40  C. Carrà, Giorgio De Chirico, «L’Ambrosiano», 6 maggio 1931, in Id.,Tutti gli scritti, cit., p. 514. 41  W. George, Profitti e perdite dell’arte contemporanea, Firenze, Vallecchi, 1933. M. Affron, Waldemar George: A Parisian Art Critic on Modernism and Fascism, in Fascist Visions. Art and Ideology in France and Italy, a cura di M. Affron, M. Antliff, Princeton, Princeton University Press, 1997, pp. 171-204, 186. 42  W. George, Appels du Bas-Empire: Giorgio De Chirico, «Formes», 1930, n. 1, p. 13; il disegno di De Chirico venne pubblicato su «Il Selvaggio» in data 28 febbraio 1931; W. George, Appels d’Italie, in XVII Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia, Ferrari, 1930, pp. 92-94 e cfr. W. George, Profitti e perdite dell’arte contemporanea, Firenze, Vallecchi, 1933.



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e di ruolo, all’interno di una società avviata a candidare le figure professionali e artistiche in rappresentanze politiche (sono anni, tra il 1926 e il 1928, in cui praticamente tutti i maggiori protagonisti di questa storia sentono il dovere, o sono chiamati, a misurarsi con le questioni sindacali e corporative); e sollecitati, dall’altra parte, a fare i conti con un’esigenza di espressività pura e malcelata dietro le retoriche delle volontà «nazionali», il timore fu quello, anche, di veder cedere il proprio ruolo di pittore e di artifex a mero produttore. L’ossessione contro il materialismo, la modernizzazione, la meccanizzazione dell’arte (che prese in questi anni le forme metaforizzabili del cinema, della letteratura triviale, dell’automobile «americana») nacque dalla paura e dall’incapacità di accettare le vesti nuove del prestatore d’opera. Fu l’impossibilità di affrontare con ironia e cinismo una società che chiedeva agli artisti una partecipazione mercantile, una «chose littéraire», e al tempo stesso l’insofferenza di esserne esclusi43. Si comprendono dunque le parole con cui Soffici, certo il più «apocalittico» di questi intellettuali, commentò il suo distacco dal «Selvaggio» a causa di un Maccari convocato a Torino dal nuovo direttore de «La Stampa» Malaparte: «Nel Selvaggio non scrivo più perché Maccari ha girato il manico cascando nel giornalismo a rimorchio di Suckert»44. L’esperimento delle esposizioni Passare dalle pagine della rivista ai muri dell’esposizione era un gesto dei più naturali. «Il Selvaggio» fece quello che tutti i gruppi di pittori dovevano fare: trovò una sede e allestì una mostra collettiva; partecipò a un pugno di esposizioni garantendo al tempo stesso che non si aveva a che fare con un cenacolo. Ormai non era più tempo di presentare «movimenti» bensì – per utilizzare una vecchia clausola di Carrà – verificare l’esistenza di «temperamenti», di personalità artistiche realizzate45. Ma questa, ancora una Alludo a Saint Beuve, La littérature industrielle, «La Revue des Deux Mondes», XIX, 1839, p. 675. 44  G. Prezzolini, A. Soffici, Carteggio, vol. II, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977; Soffici a Prezzolini, 21 giugno 1929. 45  Carrà, L’occhiobàgliolo degli artisti, cit., p. 251. 43 



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volta, fu un’azione intempestiva, proprio come l’intransigenza squadrista del primo «Selvaggio» durante i mesi della normalizzazione. A che scopo creare e promuovere un gruppo ristretto e selezionato, nel momento stesso in cui si iniziavano a porre le basi all’ordinamento corporativo? La breve parabola del gruppo del «Selvaggio» sembra legata all’ingenuo desiderio di poter proseguire un’esperienza di petit comité, nella convinzione che un selezionato raggruppamento informale poteva, in forme disinteressate e volontaristiche, meglio corrispondere con la qualità delle opere alle esigenze di un’arte fascista46. Per la prima esposizione alla Stanza del Selvaggio, un piccolo ambiente in via San Zanobi a Firenze, Soffici sfruttò sue conoscenze (Carrà, Semeghini, Galante), cui s’aggiunsero i toscani e i bolognesi (Morandi, Longanesi). Quando non erano le grafiche già pubblicate sulla rivista o patrimonio personale di Soffici, si trattò di traduzioni recenti degli stessi temi. Prevalse nettamente il paesaggio, e non mancarono esiti assai alti, come l’Autoritratto di Morandi o Campi e colline di Soffici. Bottai pronunciò un discorso che il «Selvaggio» impaginò con gran cura; il gerarca notò nelle sale un incontro tra arte, politica e lavoro concordi «per instaurare in Italia una comune e fondamentale coscienza di italianità». Le quattromila lire di acquisti stanziati dal Partito soddisfecero tutti gli espositori47. Fu di questi tempi il maggiore affondo politico di Soffici, che in Ufficio e fini della corporazione delle arti tracciò le coordinate per l’intervento statale48. Allo scopo di «ricostruire l’ordine» e ripristinare un forte criterio distintivo Soffici progettò una struttura di «carattere religioso e gerarchico» retta con «senso realistico e moderno» da manovratori «investiti di potere in un certo senso illimitato e dittatoriale». L’obiettivo era di censire e classificare gli 46  Un primo bilancio venne redatto da A. Maraini, Un anno di mostre dei sindacati regionali, «Dedalo», X, 1929-1930, pp. 679-720; A. Lualdi, Arte e regime. Con prefazione di Giuseppe Bottai, Milano-Roma, Augustea, 1929; B. Biagi, Il sindacato, l’arte, i giovani, «Gerarchia», XIII, febbraio 1933, pp. 89 sgg.; A. Nasti, Intellettuali ed artisti nella corporazione, «Critica Fascista», 15 febbraio 1934; Cannistraro, L’industria, cit., pp. 30-34. 47  Carrà, Soffici, Lettere, cit., pp. 174-179. 48  A. Soffici, Ufficio e fini della corporazione delle arti, «Il Selvaggio», 3 marzo 1927, p. 14 (anche in «Critica Fascista», V, 1927, pp. 87-89).



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artisti secondo una minuziosa rubrica di temi, generi, tecniche. Era la proposta di una reale militarizzazione dell’attività artistica, che Soffici assicurò essere relativa alle sole opere promosse e sostenute dallo Stato. Quanti avessero voluto affrontare i rischi della libera attività sottratta al collettivismo avevano piena libertà, per quanto questo non giovasse all’interesse comune. È inutile aggiungere che gli artisti del «Selvaggio» si mantennero assai prossimi a quest’ultima scelta; e valgano ancora una volta le vicende espositive. Nell’aprile 1927, alla Terza Esposizione del Sindacato Regionale Toscano delle Arti del Disegno (formatosi nel 1922 per iniziativa di Mario Tinti come Corporazione delle arti decorative e poi confluito nell’organizzazione sindacale) parteciparono ancora Lega, Maccari, Soffici e Rosai. Distribuiti tra le sale del bianco e nero e quelle dei dipinti, essi non furono certo avvantaggiati dalle scelte della Commissione, che non fece mistero della sua predilezione per una rassicurante linea di novecentismo toscano. Parimenti, la Prima mostra regionale d’arte toscana, organizzata dal Sindacato fascista di belle arti nell’aprile del 1928 sotto la presidenza onoraria di Bottai e quella effettiva di Oppo, registrò la «spontanea adesione di tutta la regione» secondo una «fraterna larghezza di ammissione» (così Maraini, segretario del sodalizio, nella presentazione); ma la commissione, composta da autori accademici, predilesse ancora una volta i pittori di area solariana. L’aspetto complessivo della mostra era sconsolante, e la partecipazione dei «selvaggi» assai più defilata. Nelle sale prevalse la misura aneddotica, l’Ottocento bozzettistico e rischiarato; una ruralità ripulita e accettabile; l’espediente capzioso, il ritratto col vestito buono. Rosai si lamentò con Maraini di essersi visto restituire i quadri uno «sputacchiato» e l’altro «segnato da un ignobile tipo con una figurazione oscena», ricordando che non era con siffatti mezzi che le battaglie artistiche potevano progredire. Con Bottai il pittore aveva alzato il tiro: «La corporazione del disegno fiorentina non marcia, il Segretario Maraini si presta a delle basse camorre morali con tre-quattro suoi amici e tira a fregare noi del gruppo Selvaggio»49. Quella stessa estate del 1928 solo alcuni si ritrovarono nella trentaquattresima sala della Biennale veneziana, la prima della 49  Rosai, Nient’altro che un artista, cit., n. 221, Rosai a Maraini, 3 luglio 1928 e n. 198, Rosai a Bottai, 7 gennaio 1927.



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gestione «governativa» di Antonio Maraini50. Maccari vi appese cinque silografie e una puntasecca, Morandi fu invitato con quattro acqueforti e sugli stessi muri esponevano Bartolini e Romanelli; Rosai partecipò con due tele, ma ammise di essere passato pressoché inosservato. Anche la Stanza del Selvaggio languiva. Si era tentato, nella primavera del ’27, il recupero d’uno scultore come Evaristo Boncinelli, premiato da Soffici come campione di «toscano rurale», indurito da una vita di lotte e dolori, ma dal destino di plasticatore di genio, grazie a una «fatalità ispiratrice» scaturita dalla verginità spirituale di vero etrusco. Gli otto bronzi superstiti furono dapprima pubblicati in un numero monografico della rivista, quindi accolti in un’esposizione personale. Lo scopo, candidamente dichiarato, era di dimostrarne il talento, superiore a Rodin, Bourdelle, Degas, e pari solo a Rosso51. Nel programma della Stanza seguì Soffici con una personale di opere precedenti il 1914, con accurata espunzione di ogni deviazione futurista. La sede espositiva venne poi «chiusa per miseria». Maccari manifestò il timore che per tutto il 1928 «Il Selvaggio» avrebbe potuto non uscire52. Come ai tempi di «Lacerba», le rivendicazioni di ordine artistico si accompagnarono a una richiesta di riconoscimento e di gratificazione economica. L’effettiva partecipazione delle arti visive a un’etica pubblica implicava un reciproco scambio e un meccanismo di sovvenzione per gli artisti. Senza mezzi termini, «Il Selvaggio» si proponeva anche come foglio che richiedeva un esplicito intervento pubblico: fedeltà e operosità andavano ricambiate con un ampio sforzo di sostegno all’arte e agli artisti. La rivista era un’impresa a più voci che si desiderava offrire come regesto della propria continuativa operosità d’artista. Rosai inviò il foglio a Bottai, inoltrando richieste di commissioni per il laboratorio di stipettaio ereditato dal padre. Soffici invitò a una più intelligente risposta politica alla valorizzazione delle arti, invoCfr. per questo la ricostruzione di M. De Sabbata, Tra diplomazia e arte: le Biennali di Antonio Maraini (1928-1942), Udine, Forum, 2006. 51  M. Maccari, Evaristo Boncinelli, «Il Selvaggio», 30 marzo 1927, p. 23; A. Soffici, Verità dura, ibid., 15 aprile 1927, p. 27; M. Tinti, Evaristo Boncinelli, ibid., 15 maggio 1927, p. 35. 52  F. Benzi, Materiali inediti dall’archivio di Cipriano Efisio Oppo, «Bollettino d’Arte», LXXI, maggio-agosto 1986, p. 183, Maccari a Oppo, 26 agosto 1927. 50 



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cando una precisa richiesta di aiuto pubblico («la politica è anche l’arte di interpretare i sintomi», scrisse)53. Sotto il titolo ben chiaro di Morti di fame si fece impaginare un piccolo bronzo del grande e sfortunato Boncinelli e Soffici riepilogò l’intero canone dell’Ottocento italiano più valido, tracciandone tanto il positivo bilancio artistico quanto il meschino risvolto pecuniario54. Ancora una volta, l’insofferenza dell’intellettuale tradizionale che attendeva con fiducia la restituzione del mandato da parte della società che lo aveva ritirato, o affidato a quanti essi stessi avevano combattuto, prese forme contraddittorie e paradossali. S’invocò il corporativismo, ma si volle difendere una sfera d’azione individuale; si auspicò un intervento pubblico di sovvenzione, salvo poi farsi censurare il giornale a causa dei corsivi al vetriolo contro le ingerenze profittatrici e personalistiche delle gerarchie negli affari dell’arte55. Era ormai chiaro che tali operazioni di lobbying fossero però meglio manovrate nelle grandi città e che, anzi, l’arroccamento orgoglioso nelle mura paesane alla lunga non pagasse, generando un sentimento di esclusione dal grande giro delle esposizioni nazionali. Quando gli artisti del Novecento milanese si presentarono alla fine del 1928 in una collettiva a Firenze, vennero qualificati di facilità, «secessionismo» e decorativismo, ma ormai questo appariva più come un gioco delle parti56. Dopo le ritorsioni contro Rosai e Maccari, esclusi da certe mostre sarfattiane all’estero per le frecciate al «Novecento», la mostra favorì un momento di concordia57. Stilisticamente, il chiaroscuro velato e crepuscolare dei lombardi appariva l’esatto contrario della «nitida chiarezza toscana», ma 53  O. Rosai, Nient’altro che un artista, a cura di V. Corti, Piombino, Traccedizioni, 1987, n. 213, Rosai a Bottai, 7 ottobre 1927; s.a., Arte e fascismo, «Il Selvaggio», 7 settembre 1926. 54  A. Soffici, Morti di fame, «Il Selvaggio», 15 maggio 1927, p. 33; Id., Semplicismi, ibid., 31 maggio 1927, p. 37. 55  A. Soffici, Moralizzare l’Italia, «Il Selvaggio», 15 luglio 1927, p. 49. L’articolo venne colpito dalla censura; una nuova edizione del fascicolo lo sostituì con una ben più ortodossa Commemorazione della spedizione di Sarzana. L’articolo di Soffici si legge nella meritoria ristampa anastatica procurata da Spes, Firenze, vol. II, p. 81. 56  Carrà Funi Marussig Salietti Sironi Tosi, Galleria Bellenghi, Firenze, 1928; «Il Selvaggio», 15 dicembre 1928, p. 81. 57  Carrà, Soffici, Lettere, cit., pp. 180-181, Soffici a Carrà, 28 aprile 1927.



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ormai non era su questi argomenti che si discriminavano autori e opere. La circolare di iscrizione alla seconda mostra del Novecento italiano – il tentativo sarfattiano più vasto e ambizioso di radunare ecumenicamente tutte le energie artistiche nazionali – era già nelle mani di Rosai, che auspicava una partecipazione del gruppo toscano compatto e ordinato. Alla mostra, poche settimane più tardi, furono presenti Carrà, Soffici, Lega, Rosai, Morandi. La rivista diede notizia dell’evento con un affettuoso corsivo, ravvisandovi segni di coerenza con lo spirito di rinascita nazionale58. Assai rilevante, per l’intreccio contraddittorio di vincoli ideologici e vani auspici di libera creatività, sarà infine lo schema d’ordinamento corporativo tracciato da Soffici. Egli affermò che l’arte era manifestazione dello spirito individuale sottratta a ogni controllo politico e sociale; per poi ammonire subito che una tale arte pura era in realtà formula decadente che avviliva il genio. Vera arte «classica» era invece quella che partecipava all’ordinamento sociale e pratico, alla vita collettiva. Arte per la quale era necessaria una organizzazione corporativa. Nell’atto insomma di separare l’intervento pubblico dal privilegio dell’arte pura, ancora una volta questa veniva da Soffici svuotata di ogni funzione e valore: sottintendendo che la libertà dal controllo statale era, anche, libertà di cedimento edonistico59. Il vincolo dell’impaginazione Ciascuno a loro modo, Soffici e Maccari conoscevano bene il proprio mestiere. Uno offriva il ragionamento del pittore e l’autorità carismatica dell’iniziatore; l’altro (sulla scorta di Longanesi, è bene non scordarlo) era detentore d’una tecnica altrettanto specifica, non meno utile: quella dell’impaginatore, che sul tavolo di redazione accostava le immagini ai testi, li scontornava, ci metteva i titoli sopra, le figure dentro, altri articoli intorno. Rosai, Nient’altro che un artista, cit., n. 225, Rosai a Soffici, 24 ottobre 1928; Seconda mostra del Novecento Italiano, «Il Selvaggio», 28 febbraio 1929, p. 9. 59  A. Soffici, Per un ordinamento artistico. Schema, «Il Selvaggio», 30 novembre 1928, p. 77; sulla stessa linea M. Maccari, Arte e ordine artistico, ibid., 30 giugno 1929, p. 32. 58 



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Nel «Selvaggio» di questi anni Maccari pubblicò solo qualche xilografia; seguì la redazione del Gazzettino Ufficiale che apriva ogni numero; si celò dietro noms de plume pittoreschi; curò la micrologia della quarta pagina. Il resto sembrava passare per le mani di Soffici. Di sua proprietà i fogli di Spadini, autore restituito nell’immediatezza del disegno alla dimensione meno compromessa dalle clausole con cui Ojetti lo andava divulgando; suoi gli interventi racchiusi nella rubrica Periplo dell’arte, che qualificarono l’autore come «dittatore per l’ordine artistico»60. Identità tra cronaca e storia, tradizione e modernità, mito e realtà, quotidiano ed eterno; annullamento d’ogni nesso tra espressione artistica e spirito di modernità materialistica; un riconoscimento al «retaggio inalienabile» del futurismo seguito da una sentenza come la seguente: «Chi dice che l’arte è una cosa a sè perché non ha altro fine che se stessa, non è artista e non è fascista»; la «musicalità» accolta come stimolo allo spirito creativo, da connaturare a forme e modi concreti, rigorosi e chiari, ma rigettata come principio di subordinazione; la concordia tra la fantasia del pittore e il dato naturale della forma visibile e sensibile del fenomeno; l’identità di un impegno civile profuso come missione sovranazionale di un popolo che si identificava in un’Italia cattolica, monarchica e classica; la sapienza del puro artista a rivelarsi nell’ingenuità della rappresentazione e accostarsi a una rinnovata espressività primitiva, per una pienezza di visione religiosa del mondo e per la ricusazione di ogni dottrina di evoluzione formale, di metafisica astratta delle cose, di rimozione del reale fisico nella sua sostanza: questi, in sintesi, furono gli argomenti cadenzati con insistenza ossessiva da Soffici sulle pagine del «Selvaggio» e così posti in gioco tra disegni, silografie e acquaforti61. Se fin qui si è insistito anche troppo su questa incessante liturgia, che di lì a qualche anno apparirà insopportabile per i più giovani62, è perchè credo che la sua presenza, per gli anni che stiaOrco Bisorco, Gazzettino Ufficiale di Strapaese, «Il Selvaggio», 15 agosto 1927, p. 56. 61  A. Soffici, Semplicismi, «Il Selvaggio», 30 aprile 1927, p. 29; Periplo dell’arte, 15 giugno, 30 luglio e 30 novembre 1927; Intorno alla questione romana, 10 novembre 1927, p. 77. 62  Cfr. per questo l’esemplare critica all’«atteggiamento, cieco ed incerto di reazionario» di Periplo dell’arte, il libro che raccoglie i menzionati interventi di 60 



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mo seguendo – gli anni cruciali per l’organizzazione dello stato fascista, tra 1926 e 1928 – influisca in maniera determinante sulle condizioni di lettura delle immagini, di tutte quelle immagini: nonostante le intenzioni degli autori, certo meno fastidiosamente ossessionati dalla politica di quanto non lo fosse Soffici, e nonostante l’effettivo, straordinario sforzo di Maccari e del «Selvaggio» di configurare le pagine della rivista come sede per la più ricca e felice produzione artistica di disegno e incisione del periodo. Ecco allora qualche esempio dell’orchestrazione tra cliché e colonne di testo che non mi sembra privo di interesse. Ancora Soffici, dunque, che in una puntata del Periplo così si chiedeva: 63 Che cosa è avvenuto verso il millenovecento di tanto catastrofico da far perdere al disegno la sua funzione di delineare le forme, al colore quella di accusarle e farle trionfare, al chiaroscuro quella di dar risalito ai corpi, agli oggetti, alle cose dell’universo osservato ed amato? Che cosa è accaduto perché la figura umana, gli animali, la piante, i cieli non potessero essere più considerati come elementi rappresentativi di un mondo interiore poetico ma tutt’al più come pretesti di schematizzazione astratta, di scomposizione meccanica, di ornamentazione coloristica e lineare, vuota, arbitraria, inumana; spesso comica o ridicola?

Certo, dal Soffici che aveva vissuto a Parigi tra 1900 e 1907 sarebbe stato lecito aspettarsi qualcosa di più; ma la laconica risposta sembrava essere affidata, lì a fianco, allo sguardo malinconico d’una anziana contadina ritratta in silografia da Quinto Martini: no, non era accaduto nulla. Anche la proposta di incisioni e disegni di Giorgio Morandi appare ideologicamente ben orientata, come avremo modo di discutere nel capitolo successivo. Per tutto il 1926 le incisioni di Morandi vennero pubblicate, senza troppi favoritismi, nel modulo a una o due colonne. Il piccolo formato non permetteva più che una funzione meramente illustrativa; la qualità del segno incisorio implodeva a cagione dei limiti di impaginazione e, come per Carrà, fu il disperdersi di tali opere lungo tutte Soffici (Firenze, Vallecchi, 1929), nella recensione del crociano Alberto Consiglio, «Solaria», IV, n. 2, febbraio 1929, pp. 112-116, e il perfido accostamento all’Ojetti di Cose viste dei suoi Ricordi di vita artistica e letteraria, da parte di R. Franchi («Solaria», VI, n. 3, marzo 1931, pp. 51-53). 63  A. Soffici, Periplo dell’arte, «Il Selvaggio», 30 giugno 1927, p. 45.



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le pagine, senza troppe gerarchie né un risalto opportuno alla qualità dell’immagine nella sua autonomia, che si mescolò alle altre di qualità diseguale, tra riempitivi, finalini, stratagemmi per far quadrare le giustezze del foglio. Presto Maccari capì di dover estendere, per quanto possibile, lo spazio riservato alle tavole: nella grande dimensione del foglio l’opera guadagnava, al tempo stesso, pregnanza visiva e valore ideologicamente emblematico. L’intera larghezza di pagina interna venne conquistata nel giugno del 1927 da un inchiostro di Spadini sopra il titolo «Mussolini tra i rurali», per una scelta che sarà unica fino all’anno successivo. Nei numeri seguenti, un’acquaforte di Achille Lega venne posta sotto il perentorio titolo Moralizzare l’Italia, nel citato fascicolo colpito dalla censura; poco oltre, una natura morta con bottiglie di Rosai si legò all’epigrafe Inferiorità anglosassone; dentro, paesaggi elegiaci di Lega, declivi rassicuranti, le strade di casa. In quarta pagina, come chiusura, si trovò sempre spazio per un omaccio di Maccari, una trecciaiola di Tintori, una spigolatrice di Gorni. Finalmente, emancipate le immagini dal ruolo illustrativo a cui erano fin lì confinate, gli spazi della rivista diedero respiro a grandi cliché: le marine a puntasecca di Soffici e Carrà, i paesaggi e le case di Morandi del ’27 che troviamo impaginati dopo l’estate del 1928. Come su «L’Italiano», la polifonia del montaggio tra testo e immagine costituì, in questi anni, la migliore elaborazione di un concreto vocabolario ideologico, venato dall’ambigua reversibilità della satira. Dal 1929 il misurato eclettismo del «Frontespizio» accolse una parte delle proposte strapaesane mettendole a dimora nel solco di un cattolicesimo severo e disposto, in forza di Concordato, a un’effettiva partecipazione alla vita culturale del paese. Fra Torino e Milano, attraverso il lavoro di Edoardo Persico, stava emergendo una nuova generazione. Nutrita del cattolicesimo militante promosso dalla Primauté du spirituel di Jacques Maritain, essa era impegnata a far cadere l’inconciliabilità del cattolicesimo con la modernità, e a elaborare un programma di rivoluzione conservatrice con armi meno spuntate rispetto ai



vii. fra i selvaggi della toscana

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grossolani slogan strapaesani64. I destinatari della polemica antieuropea – ed antifrancese – erano ora autori come Julien Benda e Henri Massis65. Da più parti, nelle lettere e nelle testimonianze dei giovani, il programma di restaurazione sofficiana era osservato come la palinodia d’una stagione d’avanguardia ormai lontana, di cui sfuggivano i presupposti. Il «Selvaggio» si liberò progressivamente dalle regole di un’operazione ideologica: la linea fin qui impressa alla rivista venne ridefinendosi. Con il trasferimento del «Selvaggio» a Torino prima (1931-32, quando la rivista ospiterà una delle più lungimiranti analisi sulle condizioni morali dei giovani)66 e a Roma poi (dal 1931 al 1943) si frantumerà la dimensione rurale affermata dall’autorità di Soffici. A questo punto, esaurito l’impiego strumentale delle immagini come determinanti di una iconografia regionale e paesana, compariranno le opere di Luigi Bartolini, Renato Guttuso, Orfeo Tamburi, e i gran disegni con cui Maccari aprirà i numeri dall’edizione romana67. Negli interstizi del grande foglio riuscirà a trovare spazio un autore come Filippo De Pisis, per il quale, giusto quanto scriveva Carrà presentando una sua mostra milanese nel 1926, «non è mai esistita la necessità di fare dell’arte regionalistica per essere sincero». Non ancora «l’incantatore di sergenti» – la corrosiva definizione sarà di Amerigo Bartoli – egli fu attivo sul «Selvaggio» a partire dal 1929 con fogli che consegnavano le fattezze efebiche di giovinetti semisvestiti, sorridenti e disarmanti. Rovesciando il motto di Cocteau, potremmo dire che l’itinerario del fiume iniziò a quel punto a disapprovare la sua sorgente. 64  Cfr. J. L. Loubet Del Bayle, Les non-conformistes des années 30. Un tentative de renouvellement de la pensée politique française, Paris, Seuil, 1969; La politica ne la «Primauté du spirituel» di Jacques Maritain, a cura di G. G. Curcio, Rubbettino 2009 e cfr. L. Mangoni, In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1989, pp. 82 sgg. 65  Gian Capo, Antieuropa letteraria e artistica, «Antieuropa», n. 8, 15 novembre 1929, p. 640. 66  Un’analisi delle quattro lettere di Camillo Pellizzi a Maccari che costituirono il cospicuo dossier sulle nuove generazioni è in R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso (1929-1936), Torino, Einaudi, 1996, pp. 239 sgg. 67  Cfr. M. Nezzo, 1932-1943: «Il Selvaggio» romano tra immagini e scritti d’artista, in Mino Maccari. L’avventura de «Il Selvaggio». Artisti da Colle a Roma, 19251943, catalogo della mostra, a cura di B. Cinelli, D. Capresi (Colle Val d’Elsa, 19981999), Siena, Musolino e Maschietto, 1998, pp. 169-204.

VIII. Classico e italiano. Morandi nel decennio paesano

Mai a Parigi «Ha viaggiato poco e non è mai stato a Parigi». Forse fu per un sussulto d’italianità, non disgiunto dalle imposizioni dell’epoca (si era nel 1939) che Cesare Brandi sentì il dovere di informare il lettore del quaderno morandiano curato da Arnaldo Beccaria sull’irriducibile indole stanziale del pittore bolognese. Caso singolare di compresenza di intenzioni opposte, il rassicurante profilo biografico di Brandi stava a conclusione di un testo critico tra i più ermetici e opachi. Con ogni evidenza, l’autore ambiva a oltrepassare le strette di un’interpretazione vernacolare o paesana, quella ancora che trapelava nella voce dell’Enciclopedia Italiana (dove si poteva leggere, sin dal 1935: «Fuori dell’impressionismo come nel decorativismo astratto, l’arte sua appartiene al nuovo gusto […] Sintesi plastica, rigore compositivo e armonia coloristica animano un mondo nostalgico e rarefatto di cose dimesse, vecchi lumi, scatole vuote, fiori appassiti, fruttiere, conchiglie. Personificazione di oggetti; superamento, in virtù di un ingenuo e schietto sentimento lirico, della polemica della pittura pura»). Ma veramente, lo sforzo di Beccaria non andò oltre una riscrittura in bello stile di caratteri assai logori; in quanto a un ragionamento sulla pittura, il lettore del 1939 poteva con maggior profitto rivolgersi al più meditato studio dello stesso Brandi. Nell’anno in cui le opere offerte al pubblico della terza Quadriennale apriranno al «caso Morandi», sembrava entrare in crisi un modello di valutazione che aveva accompagnato il pittore da almeno quindici anni. Le sofisticate analisi formalistiche di Brandi, Gnudi, Ragghianti diventeranno preziosi criteri per comprendere il percorso stilistico



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di Morandi; ma il prezzo che hanno dovuto pagare è stato quello, in varia misura, di una rimozione. Non era facile sostenere un’ipotesi purovisibilista e rendere al tempo stesso ragione di un’intensa partecipazione sul «Selvaggio» o su «L’Italiano». Soprattutto in anni di aspre contese, operate non solo sul piano della pittura1. Preziose indicazioni le fornirà un testo fondamentale come quello di Francesco Arcangeli, che apriva sul «grande decennio paesano» traguardando però la pittura di Morandi verso gli esiti informel d’un Wols o di un Fautrier. Ogni critico sembra aver avuto o aver voluto un proprio Morandi, e colpisce questa dissonanza di giudizi fondata sulla condivisione pressoché totale di alcuni luoghi. Credo sia interessante allora raccogliere qualche primo indizio su come e quando nacque questa fisionomia di Morandi. Tre sembrano essere gli aspetti principali e distintivi del lavoro di Morandi negli anni Venti. Il primo e più evidente è il mutamento stilistico. Dal rigore adamantino delle nitide stereometrie nelle nature morte di «Valori Plastici» si passa a quella che Brandi definì «distensione plastica»: una sintesi tra la costruzione prospettica e la struttura cromatica. Senza dimenticare che, allo scorcio degli anni Venti, «l’attacco dissolvente all’oggetto» sarà all’origine di un altro sommovimento, anch’esso squisitamente pittorico e latore di un’ulteriore ridefinizione dell’immagine2. Le tecniche parimenti si estendono, in maniera più sistematica rispetto alle prime sperimentazioni degli anni Dieci. L’intreccio tra 1  A. Trombadori, Serietà e limiti di Morandi, «Rinascita», maggio-giugno 1945, pp. 156 sgg.; la difesa della «socialità» di Morandi di C. Gnudi, Morandi, Firenze, Edizioni U, 1946, pp. 32-33, offre anche un’importante chiave di lettura per il periodo in esame: «Fino al 1936 circa vediamo nell’opera sua una prevalenza di immagini che sorgevano da un sentimento profondamente malinconico, talvolta anche doloroso e drammatico; che emergevano dall’ombra affiorando verso una loro realtà dura ed amara. Gli oggetti apparivano fra ombre fonde e vive, labili come fantasmi, e si facevano essi mobili e incerte ombre di fronte alla luce. Ombre e luci ugualmente corrodevano la reale consistenza degli oggetti, in un’atmosfera tendente a una drammaticità repressa e silenziosa o invasa da calda patetica tristezza. È questa l’ispirazione prevalente degli anni centrali dell’attività di Morandi (1920-1936 circa), giacché per il suo costante abbandono al variare degli stati d’animo, è continua, in tutti i periodi, l’oscillazione fra le corde più chiare ed acute e quelle più severe e gravi del suo canto». 2  C. Brandi, Cammino di Morandi, «Le Arti», 1939, n. 3, ora compreso, con le varianti del volume Morandi, Firenze, Le Monnier, 1942, in Id., Scritti sull’arte contemporanea, Torino, Einaudi, 1976, pp. 15, 19.



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pittura, incisione, acquerello e disegno consente lo studio e l’elaborazione di quel paio di temi che, tra paesaggio e natura morta, diverranno modelli definitivi. Per questi aspetti, la bibliografia è assai ampia ed esaustiva. Sono infine da considerare le vicende della fortuna (o della sfortuna) critica: quale immagine è stata in quegli anni inoltrata. A chi, e per quali scopi, si parla della pittura di Morandi? Cosa dura, pulita e solida L’esperienza con il gruppo di «Valori Plastici» aveva garantito al pittore una buona visibilità e l’opportunità di partecipare alla tournée tedesca che dall’aprile al giugno del 1921 si mosse tra Berlino e Hannover. Certo la pittura di Morandi difficilmente si poteva comprimere nelle categorie formali dei pittori adunati da Mario Broglio (nonostante l’indulgenza alle «teorie» che sin dal 1918 Riccardo Bacchelli notava nelle nature morte coeve). È stato giustamente osservato che le stesse riproduzioni dei dipinti, sulla rivista, ponevano con maggiore enfasi le strutture lineari, «di un rigore un poco gelido, che viene letto fatalmente come principio d’autorità»3. Fino al 1924 sarà confermato il contratto con Broglio4. Giorgio De Chirico presentò Morandi alla Fiorentina Primaverile del 1922 come artefice di un’arte che è «cosa dura, pulita e solida», guidata da uno «spirito casto, asciutto e di prim’ordine». In uno studiato equilibrio tra partecipazione al «grande lirismo» che è la «metafisica degli oggetti più comuni» e una definita «italianità», De Chirico non rinuncia a delineare i tratti del suo Morandi: buon artefice d’Europa che persegue con purezza e in povertà il 3  R. Bacchelli, Giorgio Morandi, «Il Tempo», 29 marzo 1918; P. Fossati, «Valori Plastici» 1918-22, Torino, Einaudi, 1981, p. 26; A. Lepik, Un nuovo Rinascimento per l’arte italiana? «Valori Plastici» e il dialogo artistico Italia-Germania, in «Valori Plastici», catalogo della mostra, a cura di P. Fossati, P. Rosazza Ferraris, L. Velani (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 1998-1999), Milano, Skira, pp. 158-161. 4  F. Fergonzi, Un contratto inedito tra Giorgio Morandi e Mario Broglio: identificazioni nelle opere, storia collezionistica e novità cronologiche del Morandi metafisico e postmetafisico, «Saggi e Memorie di Storia dell’Arte», 2004, vol. 26, pp. 459-515.



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proprio lavoro, vivendo con l’insegnamento delle «eterne leggi del disegno geometrico, base d’ogni grande bellezza e d’ogni profonda malinconia»5. A prestare ascolto alle memorie di Giuseppe Raimondi, Morandi aveva una frenetica curiosità. I rapporti con «La Ronda», Vincenzo Cardarelli e Raffaello Franchi lo avevano portato a lambire i precetti del classicismo pittorico (ci sono notizie di studi agli Uffizi, davanti a Ingres, Raffaello, Hayez). Poté curare l’aggiornamento su Cézanne visitando la mostra retrospettiva alla Biennale 1920, una delle ultime occasioni per una verifica dal vivo in Italia6. Volle infine esplorare le tangenze con il Seicento, rilanciato con la celebre mostra fiorentina del 1922 e dagli studi di Roberto Longhi7. Gentileschi, Borgianni, Caravaggio sono nomi che trapelano dai carteggi e non trascurabili chiavi di lettura per le successive nature morte a densi panni8. Arcangeli fu tra i primi a notare quanto la personalità di Morandi risultasse aliena alle correnti che nella prima metà degli anni Venti operarono un ripristino della tradizione per via di revival, emulazioni, recuperi. Sono anni in cui Morandi dipinge poco ed espone ancora meno. E di alcune opere che si possono dedurre dai documenti, non è rimasta traccia. Qui è opportuna una prima considerazione. Per gli anni in esame, si segnala una singolare sfasatura tra i tempi della produzione morandiana e quelli della presentazione pubblica. A Firenze Morandi aveva infatti esposto nature morte risalenti a un paio di anni prima, e in quel momento oltrepassate in favore di una più elaborata superficie pittorica. Nel biennio 1920-21 si assiste alla progressiva rimozione delle dislocazioni e degli straniamenti «letterari» della stagione metafisica. L’estraneità enigmatica 5  G. De Chirico, Giorgio Morandi, in La Fiorentina Primaverile, catalogo della mostra, Firenze, 8 aprile-31 luglio 1922, pp. 153-154, ora in Id., Il meccanismo del pensiero, cit., pp. 236-237. 6  F. Fergonzi, Sfide visive per l’esordiente Morandi, «Arte in Friuli. Arte a Trieste», 21-22, 2003, pp. 189-200. 7  Mostra della pittura italiana del Seicento e del Settecento (Firenze, 1922), Roma, Bestetti e Tumminelli, 1922; la polemica sul Seicento si legge, ben annotata, in P. Barocchi, Testimonianze e polemiche figurative in Italia, vol. 2: Dal Divisionismo al Novecento, Messina-Firenze, G. D’Anna, 1974, pp. 412-429. 8  G. Raimondi, Anni con Giorgio Morandi, Milano, Mondadori, 1970, pp. 185210.



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delle cose, nei loro accostamenti eccezionali, si traduceva nel colloquio familiare con gli oggetti comuni e nella loro più piana (ma non banale) disposizione. Di qui l’intensificazione di un problema squisitamente formale, un compiuto mutamento stilistico9. Alla celebre natura morta 51 del 192010, da più parti segnalata come apertura alla nuova maniera, è opportuno affiancare un’altra prova, che sembra condividere con la precedente l’anno di produzione e poco altro. Poiché su questo tavolino rettangolare con vaso, scatola aperta, bricco, un paio di bottiglie e orologio da tavolo prende forma con ancora più convinzione la ricerca morandiana. Di quest’opera, Natura morta 42, esiste infatti una ripresa in controparte con poche varianti nell’incisione Vitali 132, di cui rimane un solo esemplare, poco felice, ma che anticipa la più nitida e studiata acquaforte con cestino di pane, ripartita in due episodi (su lastra piccola e grande), dell’anno successivo. Intorno a questo triplo esercizio sembra giocarsi buona parte del destino delle nature morte coeve. Tenuta stabile la sorgente luminosa da destra, si opera su scarti minimi d’altezze e punti di vista, oltre a valutare la possibilità di una riduzione totale del supporto a favore di uno spazio neutro e indeterminato. Indicativa del valore di quest’elaborazione è la presenza delle due incisioni (Vitali 14 e 15) sul «Selvaggio» di Mino Maccari: tra gennaio e luglio 1927, vale a dire sei anni dopo la loro realizzazione (fig. 8.1). Morandi insisterà non poco, mi sembra, nel proporre la deliberata inattualità di certe sue prove, in questo torno d’anni. I temi d’altra parte incalzano e partecipano a riprese, d’après, variazioni, anche a lunga distanza. Se non è un ragionamento compiutamente seriale, è almeno la possibilità, o la scoperta, di un procedere attraverso la più vasta disponibilità delle tecniche e il serrato paragone tra soggetti omogenei. Ne è un esempio tra gli altri il Paesaggio 1922 a inchiostro su carta, impiegato come immagine di copertina per il volume Stagioni 9  W. Haftmann, Giorgio Morandi. La vita esemplare di un pittore, in Giorgio Morandi 1890-1990, catalogo della mostra (Bologna, Galleria Comunale d’Arte Moderna, 1990), a cura di M. Pasquali, Milano, Electa, 1990, p. 24. 10  Il riferimento numerico di dipinti e incisioni rinvia ai cataloghi, curati da L. Vitali, Morandi. Catalogo generale, Milano, Electa, 1977, e L’opera grafica di Giorgio Morandi, Torino, Einaudi, 1964.



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Figura 8.1 Giorgio Morandi, Natura morta con il cestino del pane (lastra piccola), 1921, «Il Selvaggio», 15 gennaio 1927.

di Giuseppe Raimondi11. Il confronto è proponibile tanto con il Paesaggio 108, 1922, quanto con il celeberrimo Paesaggio 1925 Jesi, qui ripreso in controparte. Fra le poche segnalazioni del periodo, è utile ricordare quella di Carrà. Il quale spese buona parte dell’articolo a ricordare i trascorsi futuristi, le «durezze» e le «ineguaglianze» di quel primo periodo, seguito dai «getti di una ispirazione ineguale» nella 11  M. Pasquali, E. Tavoni. Morandi. Disegni. Catalogo generale, Milano, Electa, 1994, Appendice, n. XXXI; G. Raimondi, Stagioni. Seguite da Orfeo all’Inferno e altre favole, Milano, Il Convegno Editoriale, 1922.



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stagione dei «Valori Plastici», fino ad acquisire una «potenza ingenita e feconda» e, quel che a Carrà stava più a cuore, una solidità d’intenti che porta l’«alta figura morale» del pittore a scavalcare ogni possibile gusto retrospettivo o accademico. (Carrà parlò proprio di una «procella pseudo-tradizionalistica» cui è doveroso opporsi)12. Siamo nel 1925. L’anno successivo cadde la prima partecipazione alla mostra del Novecento Italiano. Solo tre opere, accuratamente ripartite tra figura (l’Autoritratto con cappello 1924), paesaggio (Vitali 108) e natura morta. Un Arlecchino ad acquerello venne destinato a «Solaria» per una fugace apparizione, e quindi nel volume di Raimondi Dialogo, dello stesso anno. Quando Morandi giunse a uno dei momenti più alti, densi e conseguenti della sua pittura, negli anni 1927-28, era pienamente nell’orbita del «Selvaggio». Qui si compì la maturità stilistica di Morandi e, nello stesso tempo, presero forma i caratteri della sua fortuna critica. «Il Selvaggio» e «L’Italiano», Soffici Maccari e Longanesi furono i protagonisti di questa fase. Gli italiani sani Nel giugno 1926 Morandi venne reclutato a fianco degli «italiani sani» richiamati da Longanesi sull’«Italiano» e fra gli artisti e poeti incaricati della riedificazione artistica del regime: insieme a Soffici, Rosai, Maccari, Oppo, Bartoli13. Per almeno un quinquennio, la figura di Morandi fu pienamente organica alle posizioni del «Selvaggio» di Maccari. Non voglio con questo ratificare le conclusioni eccessive che ne sono state tratte14, strumentalizzando la partecipazione a una rivista che, in realtà, fu assai meno ossessionata dalla politica di quanto non sembri. Vi sono però almeno due punti utili per confermare una piena affinità con l’estetica strapaesana. E sono, per primo, la 12  C. Carrà, Giorgio Morandi, «L’Ambrosiano», 25 giugno 1925, ora in Id., Tutti gli scritti, cit., pp. 489-491. 13  L. Cavallo, «A Prato per vedere i Corot», corrispondenza Morandi-Soffici per un’antologica di Morandi, Milano, Galleria d’Arte Farsetti, 1989, p. 20. 14  Cfr. E. Braun, Speaking Volumes: Giorgio Morandi’s Still Lifes and the Cultural Politics of Strapaese, «Modernism/Modernity», II, 1995, n. 3, pp. 89-116.



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densità di presenze: quattordici fra disegni e incisioni nel triennio 1926-28 sul «Selvaggio», e poi certo a diminuire, ma per un totale non disprezzabile di ventotto acqueforti fino al gennaio 1940. Il culmine dell’attività grafica di Morandi corrispose agli anni di più intensa collaborazione con il «Selvaggio». Non è esistito alcuno spazio più rappresentativo del lavoro di Morandi almeno fino alla metà degli anni Trenta. Inoltre – e questo è il secondo punto – va considerato che una lettura contenutistica, fosse anche limitata alle fruste categorie strapaesane, era a quella data l’unica percorribile a fronte di una pittura che, a lungo, si rese indisponibile a indagini formalistiche o a scandagli storicistici, in ragione della sofisticata elaborazione delle proprie fonti visive. Il denso filtro dello stile, insomma, rimaneva una forma di opacità e forse, anche, di autodifesa. L’opera di Morandi si poneva volutamente al di fuori della storia e della retorica di un’arte nazionale. Rimaneva la cronaca, e quella caparbia e meschina del «Selvaggio» fu l’unica possibile. Come si è visto in precedenza, Soffici cercava ossessivamente un artista: il tipo d’artista italiano, classico, equilibrato, in grado di confortare i modelli della tradizione figurativa con un’espressività sorvegliata e non epigonica, abile a ricusare tanto le lusinghe della più superficiale «modernità» quanto di sposare una misura definitiva, moderna ma non retorica; capace di un affondo nella tradizione delle forme. Lo trovò in Morandi, ed esortò il pittore a fornire d’incisioni e disegni il foglio di Maccari. A partire dal settembre 1926 «Il Selvaggio» informò con puntualità sull’opera incisa di Morandi. Il bolognese fu proclamato da «Strapaese» vincitore del premio di pittura per il 1928, senza aver mai pubblicato un dipinto, ma solo grafica: un aspetto che condizionò alquanto la sua ricezione15. I primi fogli d’incisioni (il Paesaggio bolognese del 1921 e il Paesaggio con la ciminiera, fig. 8.2) furono pubblicati in un formato ridotto. La scelta editoriale vincolava queste opere a un valore essenzialmente illustrativo. Un caso singolare è la pubblicazione, nel maggio 1927, di un foglio morandiano di sette anni 15  F. Fergonzi, Giorgio Morandi, in Dizionario del fascismo, a cura di V. De Grazia e S. Luzzatto, Torino, Einaudi, 2003, ad vocem.



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Figura 8.2 Giorgio Morandi, Paesaggio con la ciminiera, 1926, «Il Selvaggio», 1 ottobre 1926.

prima, unico indizio della precedente maniera metafisica, e prima riproduzione in assoluto di un suo disegno16. Ma la presenza di Morandi si comprende ancor meglio in una valutazione complessiva della rivista, nell’orchestrazione di testi e immagini. Si prenda come esempio il numero del settembre 1926. Troviamo fogli di Ensor, Rosai, Maccari, Soffici e la minuscola acquaforte Natura morta con pane e limone. Sotto quest’immagine, venne impaginata una satira di Salvator Rosa «contro Giorgio Morandi»: un testo si faceva leggere come l’assoluzione alla presunzione dei pittori di dipingere solo nature morte e oggetti meschini. L’autoritratto morandiano a matita che Maccari pubblicò il 15 marzo 1927 è un foglio di carta che venne piegato in quattro per renderne agevole la spedizione (se ne indovinano le pieghe anche nella riproduzione fotografica). Impaginato in prima pagina, al 16 

Pasquali, Tavoni, Morandi. Disegni, cit., n. 1920/7.



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centro, su due colonne, per l’intera larghezza ebbe in calce il titolo di un brano di Soffici, Semplicismi. Il disegno (che è una variante degli autoritratti a olio del 1924) offriva un tipo di artista giovane, la camicia ben chiusa, senza il gilet che aveva indossato durante le sedute per gli oli, ma con una giacca. Lo sguardo è diritto verso lo spettatore, la bocca appena socchiusa, le mani non stringono pennelli e si capisce perché: questo è un autoritratto a disegno, e a nulla servono gli attrezzi del pittore; ma per chiarire il ruolo, il mestiere che è in effigie, compare la tavolozza. Una gran curva nell’angolo basso a sinistra del foglio, ed ecco un oggetto a memoria (nelle varianti a olio la tavolozza è rettangolare), che qualifica il pittore nel suo offrirsi ingenuo, immediato, gli occhi spalancati a corrugare la fronte con effetto di meraviglia. Morandi ritrovò il suo disegno scontornato dall’ennesimo feroce monito di Soffici, contro il deforme spirito gotico contrapposto a quello, sobrio ed equilibrato, delle civiltà latine17. È fra il profluvio delle pagine di Maccari e Soffici reiterate di moniti a italianità e antimodernismo, e di un’iconografia al loro traino, che il lettore del «Selvaggio» giungeva alle acqueforti morandiane. Incontrarle sulle colonne della rivista non era come coglierle nella delibazione puramente formale del foglio scontornato. Ed ecco qualche altro esempio. La figura femminile assopita (Vitali 29) si trovò vis-à-vis con un legno di Leonetto Tintori a segni bruschi e rapidi e, accanto, la recensione di Soffici al volume apologetico di Carlo Delcroix Un uomo e un popolo. Il nitido Ritratto femminile 1928 (Vitali 49) fu accompagnato da Fedeltà di Piero Bargellini, prosa d’antimodernismo reazionario, fitto di richiami austeri alla consapevolezza del vivere cristiano. Una campagna con cascine covoni e prati declivi, disegno morandiano del 1926 che Arcangeli menzionò come un «ristagno» di una stagione debole, fu presentato a fianco di una spigolatrice di Giuseppe Gorni che sembrava essere la naturale abitante di quel paesaggio. Episodio dirimente fu la pubblicazione, nell’aprile del 1928, del Paesaggio (Casa a Grizzana), fig. 8.3. Per la prima volta, l’acquaforte fu presentata in un formato ampio, che dava ancora più enfasi alla monumentalità del soggetto. Questa tavola divenne 17 

A. Soffici, Semplicismi, «Il Selvaggio», 15 marzo 1927, p. 1.



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Figura 8.3 Giorgio Morandi, Paesaggio (Casa a Grizzana), 1927, «Il Selvaggio», 15 aprile 1928.



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Figura 8.4 Giorgio Morandi, Natura morta con panneggio a sinistra, 1927, «Il Selvaggio», agosto 1928.

l’archetipo di una serie d’opere testimoniate sul «Selvaggio» dalle varianti di Soffici e di Tintori, che ripresero il tema della dimora isolata in un paesaggio severo e spoglio, in formato verticale. La monumentale Natura morta con panneggio a sinistra guadagnò la prima pagina del «Selvaggio» nell’agosto 1928 (fig. 8.4). Solo a partire da questa data, la grafica di Morandi iniziò a ottenere un’autonomia e uno spazio propri, e dunque una ricezione meno vincolata alla linea ideologica della rivista. Senza andar troppo oltre gli anni Venti, è infine opportuno segnalare un paio di disegni proposti nell’estate del 192918. Sono due paesaggi: il primo con punto di vista dall’alto, quasi a volo d’uccello, assai sgranato, con edificio rurale nel piano intermedio e vege18 

Pasquali, Tavoni, Morandi. Disegni, cit., nn. 1926/5, 1926/6.



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tazione che si sfrangia fino alla sgranatura totale dell’immagine, nei bordi superiori e inferiori del foglio. I volumi architettonici sono appena delineati e poi ombreggiati a sfumino. Sulla rivista, ne sortisce un effetto di grana fotografica, di fuori fuoco; la nitida immagine al centro si rilascia progressivamente agli estremi. L’altro foglio propone un edificio chiuso in primo piano da un muretto che lambisce l’estremità inferiore della carta; la casa emerge dalla vegetazione nel nitore della parete calcinata, con un’ombra portata dallo sporto del tetto. Intorno sono fronde a tratti sommari, angolati, più volte ribaditi negli incroci diagonali, che si spengono progressivamente lasciando il vuoto del foglio a chiudere la composizione. Sono apparizioni del paesaggio, più che descrizioni vere e proprie. Nessuna geografia immediatamente riconoscibile, solo la possibilità di un affondo visivo, di un lento scrutinio. I tempi della percezione sono rallentati; l’enigma della realtà può trasferirsi nella natura. Se mai è esistito un paesaggio puro ed estraneo alla retorica rurale, non è dissimile da questo. Il problema, per Morandi, è che sul «Selvaggio» si scriveva, anche, su di lui. Ecco però come. Letture squadriste e paesane L’articolo su Morandi che Achille Lega pubblicò sul «Selvaggio» nel luglio del 1927 chiederebbe quel minimo di rispetto dovuto all’intelligenza mimetica degli emuli. Lega offrì in effetti un ragionamento di piena ortodossia sofficiana; e qui iniziarono a prendere estensione quei caratteri del Morandi «selvaggio» che non sarà difficile riscontrare fino almeno al 1932. Lega assicurò che il pittore si muoveva lungo la linea della buona tradizione (e a modo d’esempio Maccari impaginò la lastra grande della Natura morta con cestino di pane). Il carattere sobrio e modesto dell’autore era all’origine di un lavoro lento e coscienzioso, che sottoponeva all’osservatore la familiarità delle cose nei loro aspetti più umani. La poesia degli oggetti comuni si offriva senza inganni e lenocini, confidando nel senso moderno della composizione19. L’ar19 

A. Lega, Giorgio Morandi, «Il Selvaggio», 30 luglio 1927, p. 3.



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ticolo fu accompagnato un profilo severo e sgraziato di Morandi tracciato da Maccari. È una testa espressiva, che male si concilia con la candida immagine dell’autoritratto a matita pubblicato poche settimane prima. Il discorso di Lega non spiccava certo per lungimiranza o sottigliezza critica. Egli però altro non fece che riprendere le «note caratteriali», già ben presenti nel testo di Carrà, e innestarle in quella linea di modernità classica cui Soffici faceva da garante. Certo, era ben difficile comprendere da queste poche righe che Morandi stava in realtà perseguendo, con impressionante continuità, un’elaborazione che proprio dalle lastre del 1921 aveva condotto agli esiti della Natura morta con panno giallo (1924, poi in collezione Longhi) e al successivo acquerello conservato a Berna. Né maggiori indicazioni sul percorso propriamente pittorico poterono giungere dalle altre partecipazioni insieme ai «selvaggi», come la presenza, sempre in quel 1927, alla seconda Esposizione internazionale dell’incisione moderna a Firenze. Da qui, molte opere si travasarono nell’Atlante dell’incisione moderna curato da Vittorio Pica e Aniceto Del Massa. Fra le tavole raccolte nel volume, spiccava un altro ritratto di Morandi fatto da Maccari. La figura questa volta venne colta in una posa scomposta, seduta a terra con il busto flesso sulle gambe arcuate, le mani giunte in un nodo unico che pende tra le ginocchia. In questa puntasecca non vi era alcun attributo che qualificasse l’attività del pittore. Maccari scelse lo sguardo scostato, l’espressione corrugata e scettica. L’immagine piacque talmente da essere riproposta nella pagina autobiografica pubblicata sulla rivista del fascismo bolognese «L’Assalto». Che il quieto Morandi abbia consegnato alla redazione e alle bibliografie una così zelante dichiarazione non deve stupire. Egli era stato invitato da Giorgio Pini con una lettera circolare, all’indirizzo dei «giovani intellettuali fascisti», dove si richiedeva un’autobiografia «da cui risulti la formazione della vostra fede fascista, le sue concordanze con la vostra opera intellettuale e con gli eventi degli ultimi anni, oltre i motivi della vostra adesione al tempo mussoliniano e gli eventuali propositi per il futuro». Insomma, il testo era già ben messo per iscritto da Pini. Morandi preferì allora ricordare i suoi insoddisfacenti studi accademici, il



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passaggio e la disillusione del futurismo, la necessità di recuperare i valori prodotti dall’arte dei secoli passati:20 Questi studi, che non nascondo mi fecero pure cadere in nuovi errori, mi furono sopratutto benefici perché mi portarono a considerare con quanta sincerità e semplicità operarono i vecchi maestri […] Questo mi fece comprendere la necessità di abbandonarmi interamente al mio istinto, fidando nelle mie forze e dimenticando nell’operare ogni concetto stilistico preformato.

Morandi ricordò come maestri Corot, Courbet, Fattori e Cézanne, e Giotto e Masaccio su tutti; e gli rimase ancora dello spazio per rendere omaggio a Soffici e Carrà. Chiuse rammentando l’invito come acquafortista alla Biennale del 1928 e assicurando la sua fedeltà al regime. «Soltanto un giornale squadrista, anzi il primo e più glorioso giornale squadrista – commentò nell’occasione “Il Selvaggio” – poteva dare quest’esempio di coraggio»21. Poco tempo dopo, Maccari dedicò al pittore un corsivo. Si soffermò su bellezza e poesia delle cose umili, osservando la rimozione d’ogni carattere pittoresco e la volontà di una pittura senza eccessi: «il miracolo morandiano — scrisse sul “Carlino” — consiste nello scoprire e nel fare intendere la poesia che si nasconde negli oggetti più miseri, o negli aspetti più semplici del paesaggio»22. Il lungo articolo che Longanesi consacrò al pittore «strapaesano di razza», alla fine dell’anno, è assai conosciuto; pertanto, risulta forse più utile andare a rintracciare un paio di passaggi precedenti meno noti. Nell’aprile 1928 Longanesi pubblicò il proprio scherzoso Taccuino programma del nostro futuro deputato. Si promise, tra l’altro, di non parlare più per dieci anni «di primitivi, di sintesi e di sensazioni». Ancor più impegnativo il decretare l’«Obbligo dell’uso del carattere bodoniano a tutte le tipografie del Regno». Com’è noto, su questa proposta si giocò buona parte dello straordinario rinnovamento tipografico promosso da Longanesi. Le Sei mele in un piatto (Vitali, 37) furono riprodotte sottoponendole a una Lettera alla figlia del tipografo. È una lunga 20  G. Morandi, Autobiografie di scrittori e di artisti del tempo fascista, «L’Assalto», Bologna, 18 febbraio 1928, p. 3. 21  «Il Selvaggio», 15 febbraio 1928, p. 9. 22  M. Maccari, Giorgio Morandi, «Il Resto del Carlino», 8 giugno 1928.



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digressione didattico-estetica sulle virtù dei caratteri tipografici. Secondo Longanesi, gli scrittori si dividevano in due schiere: quelli da pubblicare in bodoni e quelli da elzeviro: col Bodoni, ad esempio, che è un carattere austero, regolare, classico, e un po’ freddo, non è ben fatto stampare opere che non conservino quel tono sostenuto e composto ch’è naturale ai nostri massimi scrittori. Il Bodoni è un abito tipografico a doppio petto da grande parata, quando non è addirittura da cerimonia funebre, e mal si confà a quelli che son soliti scrivere in maniche di camicia smaniando e abbandonandosi alla foga delle passioni.

Insomma il bodoni era classico, rigoroso e severo; l’elzeviro romantico, francese e futile. Morandi, garantì poi Longanesi, è «uomo casalingo e modesto, pittore tradizionale e sincero, sfuggito alla retorica di Montparnasse». Certo difficilmente oggi si è disposti ad accettare pacificamente che nessuna traccia del «costruttivismo ultramoderno», delle «fredde astrazioni» sorrette «da certa letteratura ebraica» fosse rimasta nella pittura del bolognese. Al di là delle forzature, certo infelici, di Longanesi, colpisce non tanto l’articolo in sé, quanto la pagina nella sua interezza, l’impaginazione epigrafica, la salda coerenza dell’insieme. Essa parla d’un Morandi certo strapaesano, ma indubbiamente legato a una dimensione classica ed austera, confermata dal nitore di un’impeccabile presentazione tipografica23. Un anno dopo, Longanesi fu alle prese con l’impaginazione de Il sole a picco di Vincenzo Cardarelli. In apertura di ciascun capitolo – naturalmente composto in bodoni – sta un’immagine di Morandi. Sono semplici ricalchi su carta lucida di precedenti incisioni24. Il lavoro di Cardarelli è stato proposto come esempio di restaurazione neoclassica d’impronta leopardiana. Ma i toni della narrazione appaiono differenti, e forse giova rileggerne alcuni passi. Santi del mio paese, brano d’apertura, insisteva sull’operosità bonaria dei santi, secondo una sentenziosità popolare 23  L. Longanesi, Lettera alla figlia del tipografo, «L’Italiano», 24 luglio 1928, p. 2; Id., Giorgio Morandi, ibid., 31 dicembre 1928, p. 3. 24  V. Cardarelli, Il sole a picco. Ventidue disegni di G. Morandi, Bologna, L’Italiano Editore, 1929. Delle mille copie di tiratura, cinque furono allestite su carta a mano con un’acquaforte originale di Morandi e firma dell’autore. Cfr. Pasquali, Tavoni, Morandi. Disegni, cit., Appendice, nn. IX-XXX.



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non disgiunta dal buon senso edificante. Il mio paese aprì con il disegno dedotto da Case a Grizzana: quel che seguiva era una descrizione del paesaggio etrusco di Tarquinia, fitto di cornioli, popolato di cinghiali e solcato da banditi, «fieramente turrito e murato». Cardarelli utilizzò un registro descrittivo di vivido impressionismo. Il suo sguardo percorreva l’intero orizzonte del paesaggio, ne saggiava alcuni aspetti in profondità, ricorrendo a retoriche visive e uditive. Ma ancor più, era chiara l’identità tra paesaggio e biografia, tra storia e geografie regionali. Lo scrittore percorreva il paesaggio per decodificarlo nella sua stratificazione, per leggere attraverso i luoghi del quotidiano i segni del tempo, della classicità, della storia. L’impostazione era tutt’altro che strapaesana: mancava il voluto senso dell’eccesso, la dimensione sardonica, parodistica anche; qui, l’intenzione era di riconciliare il vernacolo con il classico, infondere l’immagine della campagna in un lessico ricercato e finito. E rispetto alla sospensione temporale di Morandi, Cardarelli lasciava volentieri spazio all’elegia. C’è però una dimensione morale, in questi apologhi, che vale la pena di ricordare. È dove si parla dell’estraneità del colono alla dimensione utilitaristica: egli lavora la terra che non possiede. Il dominio delle cose reali senza il loro possesso: la purezza morale del contadino descritto da Cardarelli sembrava voler richiamare quella del suo illustratore. Bianco e nero, colore Non sorprende la scarsità dei referti critici intorno alla partecipazione di Morandi alla Biennale veneziana del 1928. Invitato a partecipare in qualità d’acquafortista, Morandi condivise con Maccari, Bartolini e Romanelli la stipatissima trentaquattresima sala, dedicata al bianco e nero. Qui trovarono spazio non meno di un centinaio di opere tra grafica, medaglie, mobili e sculture. Dall’unica immagine rintracciata sull’allestimento, si deduce un ordinamento delle stampe su doppia fila, ammassate senza troppe distinzioni lungo le pareti, non di rado ostacolate da poltroncine, tavoli ed espositori di cartelle grafiche. Un criterio assai



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punitivo, che non aiutò certo gli invii di Morandi ad acquisire una dignitosa visibilità25. Le poche menzioni provennero da coloro che già conoscevano Morandi ed erano in grado di rintracciarlo nell’affollata sala. Ancora una volta, fu tempestiva la segnalazione di Carrà, che all’interno di una veloce recensione volle ricordare fra i pittori anche Maccari e Morandi, qui in veste di «ottimi bianconeristi»26. In una pagina più ampia, Mario Tinti pose in evidenza l’effetto dirompente del clan Maccari: «Il gusto della borghesia italiana, malvezzato da vent’anni di estetismo e di critica profumiera, si trova sconcertato di fronte alle immagini irsute e scarnite degli artisti “selvaggi”». Passò così a menzionare l’opera dipinta di Lega, Galante, Soffici, Rosai e Maccari, soffermandosi infine su Morandi27: col suo gruppo di acqueforti, il cui tessuto chiaroscurale ha la ricchezza e la profondità d’una voce di violoncello, raggiunge quel grado di efficienza e di maturità «tecniche» che costituisce l’estremo raffinamento eticomeditativo del talento naturale. Morandi su queste incisioni non è soltanto un artista di acuta, intensa — ed attualissima — sensibilità, ma è, nell’antico senso della parola, un maestro; del maestro italiano ha il contegno e la sicurezza del «mestiere» senza tuttavia cadere in virtuosismi tecnici e in raggelamenti formali. Equilibrio stupendo fra virtù e istinto, nel quale, semmai, qualche volta l’arte prevale sull’impulso emotivo, avvolgendolo in una classica quietitudine.

Di straordinaria «unità lirica» parlò un altro quotidiano attento ai bolognesi, mentre sul romano «Tevere» Corrado Pavolini spinse con più coraggio Morandi entro una triade d’autori (gli altri erano Tosi e Carrà) accomunati dalla devozione a tradizioni regionali e da un’indole di sobria dedizione al mestiere28: «In quella canicola tutto esiste come puro suggerimento architettonico, in un’immobile esaltazione di forme abbagliate. Il paese italiano ha 25  Archivio Storico delle Arti Contemporanee, Venezia. Foto Giacomelli, 1928, n. 275. Nell’immagine sono distinguibili, sull’estrema sinistra, il Paesaggio con il grande pioppo, 1927 (Vitali 34) e la Grande natura morta con lampada a destra, 1928 (Vitali 46). 26  C. Carrà, La nuova pittura italiana, «L’Ambrosiano», 26 maggio 1928. 27  M. Tinti, Commenti all’arte italiana d’oggi, «Il Resto del Carlino», 19 luglio 1928. 28  G. Galassi, «Corriere Padano», 30 giugno 1928; C. Pavolini, La XVI Biennale veneziana. Tosi, Carrà, Morandi, «Il Tevere», 31 maggio 1928, p. 3.



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in Morandi un descrittore schietto e doloroso, dotato di facoltà primitive». È difficile leggere queste righe senza avvertire l’autorità morale e il lessico imposto da Soffici. D’altra parte, il giovane autore di Cubismo, futurismo, espressionismo aveva avuto modo di istruirsi direttamente con Soffici29. E non è escluso che l’importante segnalazione fosse frutto di un ben preciso suggerimento. Resta indubbio che il Morandi paesista, ancorché solo incisore, poté almeno beneficiare della rinnovata fortuna critica del paesaggio, decretata già nella prima mostra del Novecento Italiano e nell’appassionata recensione di Lionello Venturi30. Dipinti di Lega, Tosi e Pratelli furono allocati, come esempio di «profonda e schietta italianità», dall’ancora influente Margherita Sarfatti sulle colonne de «Il Popolo d’Italia». Ma davanti alla povertà della critica, quello che spicca è il commento che Maccari affidò a un’immagine e a un testo. L’immagine è l’incisione de Il Poggio al mattino; il testo è un memorabile passo di Leopardi, «alla XVI Biennale», che il direttore del «Selvaggio» sembra voler offrire come omaggio all’autore31. 29  C. Pavolini, Cubismo, futurismo, espressionismo, Bologna, Zanichelli, 1926; Fondazione Primo Conti, Fiesole. Centro di Documentazione e ricerche sulle avanguardie storiche, Fondo. Corrado Pavolini. Lettere di A. Soffici e Pavolini, 30 settembre 1920 e 8 aprile 1922. 30  L. Venturi, Il paesaggio. Un problema della Mostra del Novecento (1926), in Pretesti di critica, Milano, Hoepli, 1929, pp. 192-196. 31  M. G. Sarfatti, Posizioni e problemi fondamentali alla XVI Biennale di Venezia, «Il Popolo d’Italia», 19 maggio 1928; «Il Selvaggio», 30 maggio 1928, p. 28, Leopardi alla XVI Biennale; sia consentita un’ampia citazione (Zibaldone, 3047): «La forza, l’originalità, l’abbondanza, la sublimità ed anche la nobiltà dello stile, possono, certo in gran parte, venire dalla natura, dall’ingegno, dall’educazione, o col favore di queste acquistarsene in breve l’abito, ed acquistato, senza grandissima fatica metterlo in opera. La chiarezza e (massime a’ dì nostri) la semplicità (intendo quella ch’è quasi uno colla naturalezza e il contrario dell’affettazione “sensibile” di un qualunque genere ella sua ed in qualsivoglia materia e stile e composizione, come ho spiegato altrove), la chiarezza e la semplicità (e quindi eziandio la grazia che senza di queste non può stare, e che in esse per gran parte e ben sovente consiste), la chiarezza, dico, e la semplicità, quei pregi fondamentali d’ogni qualunque pittura, quelle qualità indispensabili, anzi di primissima necessità, senza cui gli altri pregi a nulla valgono e colle quali niuna pittura, benché niun’altra dote abbia, è mai dispregevole, sono tutta e per tutto opera, sono ad effetto dell’arte. Le qualità dove l’arte deve meno apparire, che paiono le più naturali, che debbono infatti parere le più spontanee, che paiono le più facili, che debbono altresì parer conseguite con somma facilità l’una delle quali si può dir che appunto consiste nel nascondere intieramente l’arte, e nella niuna apparenza d’artifizioso e di



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Alla prima mostra sindacale emiliana Morandi raccolse un pugno di segnalazioni, che dimostrano però come l’attenzione nei suoi confronti fosse assai cresciuta nel volgere di poco tempo. Nino Bertocchi pose il pittore nel mucchio dei partecipanti, osservando la «casta ed intellettuale espressione di un pensiero e di un sentimento poetico generati dalla contemplazione di oggetti apparentemente poveri d’interesse pittorico. L’arte di Morandi è argomento di studi e di polemiche attualissime, in cui non è il caso d’intervenire in maniera affrettata, pigliando lo spunto dalle tre acqueforti che il pittore ha mandate a questa mostra»32. Con ogni evidenza, a questa data le «polemiche attualissime» altro non potevano essere che quelle sollevate dal «Selvaggio» e dall’«Italiano». Grazie a esse, il nome di Morandi prese ancor più a circolare. La partecipazione alla seconda mostra del Novecento Italiano nel 1929 dovette cogliere l’attenzione della Sarfatti, che ricordò le «sobrie iridature cromatiche» nella cronaca d’apertura alla Biennale del 1930. Qui Morandi espose per la prima volta tre pitture in una sala condivisa con i torinesi promossi da Venturi (Chessa, Galante, Levi, Paulucci, Menzio). Ojetti dichiarò di preferire le acqueforti alle «caste nature morte su polverosi toni bigi e giallastri». Assai più lungimirante il raffronto fotografico che su «La Casa Bella» accostò al Cardinal Decano di Scipione la Natura morta 141, presente anche in catalogo e più volte riprodotta dalla stampa. Una vera «oasi d’intelligenza», confermò Carrà, offerta dal «maggiore e più squisito dei pittori bolognesi», «notissimo in tutta Italia specialmente per certe nature morte di una finezza penetrata»; «un caso che non si liquida, e nemmeno si spiega – aggiunse Raffaello Franchi – con un commento frettoloso a tre o quattro tele»33. travagliato; esse sono appunto, le figlie dell’arte sola, quelle che non si conseguono mai se non collo studio, le più difficili ad acquistarne l’abito, le ultime che si conseguiscano, e tali che acquistatone l’abito, non si può tuttavia mai senza grandissima fatica metterlo in atto. Ogni minima negligenza del pittore nel dipingere, in quanto ella si estende, la semplicità e la chiarezza, perché queste non sono mai altro che il frutto dell’arte, siccome abituale, così ancora attuale». 32  Nino Bertocchi, La prima mostra del Sindacato Emiliano-Romagnolo, «L’Italia Letteraria», 1 dicembre 1929, p. 4; G. Marescalchi, Artisti emiliani, «Corriere Padano», 16 novembre 1929, p. 4: «L’attenzione che ha saputo richiamare su se stesso è pienamente giustificata e meritata». 33  M. Sarfatti, Spiriti e forme nuove a Venezia, «Il Popolo d’Italia», 4 maggio



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Certo, favorivano quest’immagine d’autorevole e tranquilla supremazia accostamenti come quelli operati nell’anonimo resoconto (dovuto con ogni probabilità alla Sarfatti) comparso sul «Popolo d’Italia», dove la natura morta morandiana già menzionata si accompagna a un paio di quadroni celebrativi del regime e al severo ritratto di Soffici modellato da Romano Romanelli34. Come poteva sfuggire questa pittura dimessa e silenziosa, a fronte dell’accademismo goffo e retorico? Grazie alla promozione delle riviste e a pochi selezionati invii a mirate esposizioni, grazie all’irriducibile «alterità» dei dipinti – indotta anzitutto dall’indiscutibile qualità della pittura – inizia a emergere un «caso» Morandi. Mitologie morandiane Proviamo ora a riassumere. Tra 1928 e 1930 Morandi assurse per la prima volta a una certa notorietà. A distanza di un decennio da «Valori Plastici» tornarono in circolazione le foto dei suoi dipinti, mentre l’opera grafica venne puntualmente proposta (secondo quegli scarti temporali e interpretativi che si sono visti) dal «Selvaggio». Gli interventi di Soffici, Carrà, Maccari, Longanesi, offrirono gli ingredienti principali per la costruzione della sua immagine di pittore. Una critica esclusivamente formalistica non era possibile: troppe le condizioni restrittive, e basti come esempio l’esemplare incomprensione della strepitosa pittura tedesca albergata ai Giardini nel 1930 (Max Beckmann, Otto Dix, Max Ernst). Si temeva l’abuso d’intellettualismo, l’assuefazione a schematismi e formule «parigine», la frenesia idiota di certo modernismo. Il discorso critico su Morandi si assestò allora intorno a un paio di snodi. Il primo e più importante fu la totale insepa1930; U. Ojetti, La XVII Biennale veneziana. Pittori e scultori italiani, «Corriere della Sera», 4 maggio 1930; P. Torriano, Note alla Biennale veneziana, «La Casa Bella», giugno 1930, p. 69; C. Carrà, Altri pittori a Venezia, «L’Ambrosiano», 18 giugno 1930; R. Franchi, Arcipelago, «Corriere Padano», 26 luglio 1930. Il catalogo dell’esposizione veneziana elenca quattro opere, ma tutti i commentatori parlano di tre opere effettivamente presenti. 34  All’Esposizione di Venezia. L’interesse del pubblico nelle note statistiche della Direzione, «Il Popolo d’Italia», 26 settembre 1930.



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rabilità tra la biografia e la poetica: tra gli spazi dello studio, dell’intérieur bolognese e quelli predisposti sulla tela e sulla carta. Iniziarono i pellegrinaggi dei giovani critici in via Fondazza o a Grizzana. L’atelier polveroso di Morandi divenne il luogo retorico per la comprensione delle tele, insieme alle pendici dell’Appennino. In modo non dissimile dalla geografia fiorentina d’un Rosai, ancora indisponibile a una comprensione che non partisse dalla frequentazione dei borghi d’Oltrarno. Questa stretta identificazione tra individuo e paesaggio, artefice e officina, era il frutto meno retorico e meno scontato dell’attenzione critica del «Selvaggio». Né risulta essere aspetto tra i minori dell’effettiva modernità del pittore. L’altro aspetto fu la singolare e, mi sembra, unica, dimensione religiosa. Dove non arrivò, o non volle arrivare, la razionalità critica che operava per paragoni, confronti, deduzioni storiche (l’incomparabilità di Morandi è un altro topos che si forma a questa data), subentrò una fede. Quando Sandro Volta passò a scrivere dal «Selvaggio» al più vasto pubblico de «L’Italia Letteraria», ricordò che «tutti conoscono ormai la famosa camera di via Fondazza» e assicurò di esser stato il primo a salire fino a Grizzana per scrutare dal vero il prodigio di quella pittura. Davanti alle opere parlò di «candida preghiera», di «miracolo incomparabile» (anche Maccari, si è visto, parlò di «miracolo»), di «valore profondamente religioso». Cipriano Efisio Oppo rimase colpito dalla «bella rassegnazione alla solitudine, alla povertà». Alberto Spaini fornì ai lettori del «Carlino» l’immagine di un pittore ascetico, capace di attraversare il «moderno astrattismo» per riparare infine in una contemplazione premurosa e tenera, che restituiva l’«idea divina» degli oggetti: «Sono queste visioni che rimangono però perfettamente aderenti alle cose della terra, e le circondano d’un alone di perfezione nelle tele di Morandi, nelle sue acqueforti. Misticamente egli si annulla di fronte ad esse, le contempla in francescana dedizione»35. Si dovette arrivare S. Volta, Il viaggiatore di pittura. Morandi, «L’Italia Letteraria», 28 settembre 1929; C. E. Oppo, Pittura di Morandi, «L’Italia Letteraria», 10 aprile 1932; A. Spaini, Bolognesi e novecentisti, «Il Resto del Carlino», 17 giugno 1930; sulla doppia immagine dell’atelier e del paesaggio bolognese, v. anche V. Montebugnoli, Diario bolognese. Morandi, «Il Selvaggio», 31 dicembre 1934, p. 79. 35 



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alla querelle della Terza Quadriennale per disincagliare Morandi da tale fervore confessionale. Ma ancora nel 1941 Roberto Longhi vorrà, in ben altro modo, ricordare che il pittore «sembra la regola monastica e pur liberamente cantata dell’eterno spirito formale italiano»36. Con l’articolo di Soffici su «L’Italiano», l’immagine di Morandi canonizzata nella seconda metà degli anni Venti sembrò raggiungere nel 1932 il suo apice37. Ma da qui in poi, grazie al lavoro di una nuova generazione di critici e commentatori, le vie per una differente valutazione furono aperte. È del 1934 un importante contributo di Lamberto Vitali sull’incisione. L’anno successivo Roberto Longhi s’installerà sulla cattedra bolognese di storia dell’arte pronunciando un lungo memorabile excursus culminato nel ricordo affettuoso del pittore, «nuovo incamminato» non lontano dal mondo «soavemente empirico, intimamente poetico» della tradizione locale. Pochi anni dopo, in una pagina tra le più straordinariamente vivide dell’autore, Longhi vorrà ricordare i meriti dell’«uncino solidamente ritorto» con cui Maccari, e il suo foglio, pescarono nel flusso torrenziale delle ricche suggestioni d’oltralpe38. La rassicurante iconografia iniziò a dissolversi davanti all’enigma della pura pittura. Era un nuovo modo di osservare, comune a molti giovani pittori. Scriveva Renato Birolli, nell’agosto 1936: «Io non so se Morandi adoperi dei diagrammi, delle carte dove segnare l’invariabile posizione di due bottiglie. Non so se il suo occhio tema la minima perturbazione della disposizione geometrica. Sono propenso a credere che questa stupenda atonia distributiva degli oggetti sia insita nel suo modo d’essere e di vedere»39.

36  R. Longhi, Arte italiana e arte tedesca, in Romanità e Germanesimo, a cura di J. De Blasi, Firenze, Sansoni, 1941, p. 239. 37  A. Soffici, Giorgio Morandi, «L’Italiano», VII, n. 10, marzo 1932. 38  R. Longhi, Momenti della pittura bolognese, «L’Archiginnasio», 1935, n. 1-3, p. 135; Id., Maccari all’«Arcobaleno», «Arcobaleno», 1938, n. 7-8. 39  R. Birolli, Taccuini 1936-1959, Torino, Einaudi, 1960, pp. 46-47.



IX. Stile nazionale e avanguardie di frontiera

Il proverbiale rifiuto del museo da parte dei futuristi rispose alla ragionevole necessità di privilegiare, nell’opera d’arte moderna, il flusso vitale e le costanti energie rinnovatrici d’uno stile sperimentale. L’iconografia futurista ambiva a un radicale mimetismo della società contemporanea; più che la composta stasi di forme prestabilite, contarono per essi le forme liberate della materia in incessante mutazione («Il gesto per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale», così nel Manifesto tecnico del 1910). La critica al museo non rispose solo al più superficiale e vieto «passatismo»; era anche la forma allegorica più compiuta di questa attitudine. Ripudiare la tassonomia storica del museo e il suo implicito discorso di autorità fu il gesto più naturale per difendere l’autenticità espressiva e coltivare un’attitudine libertaria. Negare le possibilità della critica come forma di mediazione letteraria tra oggetto e pubblico divenne il necessario corollario. L’opera doveva comprendere in sé la propria storia, da intendersi come prodigioso rispecchiamento d’una clamorosa e inedita attualità poetica, e la propria critica, da prodursi come effetto integrativo previsto dell’autore stesso. La merce estetica era incoraggiata a fluire entro lo schema produttivo e distributivo, al pari delle altre merci. La legge della parola-come-réclame prevedeva infine il punto di vista esterno del giudicante solo in quanto figura di antagonista, da affrontare con l’agonismo verbale d’una prestazione apodittica. Non molto altro, altrimenti, si capirebbe dell’egocentrismo d’un Boccioni, o di Papini al netto delle esibizioni da poseur. Giunse però il momento, nell’arco d’una generazione o anche meno, in cui opere e parole così amministrate vennero disposte al



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vaglio della storia e della critica, con i loro strumenti. Venne anche per il futurismo il momento in cui il flusso espressivo spontaneo si trovò regolato da interventi pianificati; l’eteronomia ricondotta a norma; l’arbitrio delle logomachia riportato al vaglio della critica. Nell’arco di poco tempo, nel corso degli anni Venti, la normalizzazione del futurismo seguì quella del diciannovismo, in politica. Unico personaggio di rilievo nazionale presente alla fondazione dei Fasci di combattimento nel 1919, Marinetti se n’era presto allontanato, ravvisandovi tratti reazionari; i pamphlet Democrazia futurista (1919) e Al di là del comunismo (1920) portarono stravaganti argomenti al suo ragionamento «politico». L’incontro del futurismo con il fascismo non era destinato a durare a lungo, a causa del conflitto tra il realismo di Mussolini e la spinta utopica dei futuristi che, come è stato osservato, «sfociò, nelle ultime manifestazioni del futurismo politico, in una vera e propria professione di fede anarchica e di totale disprezzo per la politica»1. Per qualche anno Marinetti tornò a elucubrazioni liriche e teoriche, la cui portata rimane evidente sin dai titoli (il Tattilismo, il Teatro della sorpresa, L’Alcova elettrica). Mussolini saldo al potere, Marinetti nel 1925 prese casa a Roma, e qui s’industriò a promuovere il movimento futurista. In qualità di precursore ideologico della rinascita del genio italiano, il poeta non aveva avuto remore a pubblicare all’inizio del 1923 un Manifesto in difesa dell’italianità, dove richiedeva il riconoscimento e il finanziamento ai futuristi, in quanto garanti della rinascita e della supremazia culturale italiana. Infaticabile, cercò il consenso del nuovo governo; motivi per negarlo, al querulo e ormai inoffensivo poeta, non ve n’erano. Lo spazio dell’eversione diviene istituzionale; ai pittori futuristi vennero riservate le quote «d’avanguardia» negli spazi espositivi di Sindacali, Biennali e Quadriennali governative. Con il Manifesto dell’Aeropittura Marinetti intuì le potenzialità insite nella mitologia dell’aviazione, che andava a sostituire quella, ormai obsoleta, dell’automobile. Nel 1932 comparve pure un Manifesto dell’arte sacra futurista; Marinetti chiarì che il suo movimento restava «nettamente antimassonico e anticlericale», 1  E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Bologna, Il Mulino, 1996, p. 187; un quadro generale della situazione postbellica del futurismo si legge ora in D’Orsi, Il futurismo, cit., pp. 145 sgg.



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ma ai suoi accoliti non andava impedita la presenza all’interno delle chiese: per creare capolavori d’arte sacra, a suo dire, non era necessario praticare la religione cattolica. Quel che il manifesto sottaceva era, naturalmente, la ricca posta in gioco d’investimenti e appalti per l’edilizia e la decorazione sacra dopo il Concordato. Il poeta giunse così a varcare le soglie dell’Accademia d’Italia, nel marzo 1929, accumulando dietro sé un panorama di macerie; man mano, se n’erano andate le pregiudiziali antimonarchiche, l’esplicito ribellismo anarcoide, la vocazione libertaria e l’antiborghesismo di facciata che, come sappiamo, aveva illuso anche uno spirito fino come Gramsci, convinto ancora nel 1921 d’avere a che fare con un rivoluzionario2. Bastarono i pochi studi d’una generazione un po’ meno sprovveduta della precedente per rettificare giudizi e collocare il tutto in una più sobria prospettiva, a partire naturalmente da quell’estraneità alle cose d’arte imputata dal Croce3. Il giovane Francesco Flora se n’era occupato con uno studio, uscito in sordina nel 1921 (ma segnalato prontamente su «La Critica»), quindi ristampato cinque anni dopo, dove si ravvisava nel movimento «l’esasperazione della crisi ultraromantica»4. Un prete modernista e di sentimenti carducciani, Vincenzo Schilirò, diede alle stampe nel 1932 un pamphlet singolarmente chiarificatore: Dall’anarchia all’accademia. La parabola trovò il suo compimento nella voce che l’Enciclopedia Italiana dedicò nel 1933 al movimento. La redazione fu dello stesso Marinetti. Il futurismo venne definito «movimento artistico-politico svecchiatore, novatore, velocizzatore», ove «la propaganda artistica si alternava a quella politica». Poi l’autore ricordò il tributo di sangue nella Grande Guerra, la precoce presenza dei futuristi a fianco di Mussolini nei primi Fasci e alle elezioni del 1919, la partecipazione all’impresa di Fiume e alla marcia su Roma. Episodi non privi di rimozioni di comodo e di memorie selettive, certo; ma ancor più evidenti erano i punti su A. Gramsci, Marinetti rivoluzionario?, «L’Ordine Nuovo», I, n. 5, 5 gennaio 1921, ora in Socialismo e fascismo. L’ordine nuovo 1921-1922, Torino, Einaudi, 1978, pp. 20-22. 3  B. Croce, Il futurismo come cosa estranea all’arte, «La Critica», XVI, 1918, pp. 383-384. 4  F. Flora, Dal Romanticismo al Futurismo, Piacenza, Porta, 1921 (poi Milano, Mondadori, 1925); cfr. la recensione di G. Catania, «La Critica», XX, 1922, p. 171. 2 



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cui Marinetti desiderava ora porre l’accento. Tra gli elementi basilari di estetica si menzionarono caratteri di «ordine, disciplina e metodo». Anche la selezione di tavole illustrate rispose a un criterio revisionista; si accolsero immagini addolcite nelle forme, ordinate, plasticamente salde, d’impianto decorativo, di facile e garbata lettura, facilmente convertibile in grafica pubblicitaria. I nomi erano ormai quelli di Enrico Prampolini, Gerardo Dottori, Fortunato Depero. La pretesa del primato artistico sfociava in confuse mitologie italiche di regime; l’eversione estetica asserviva la produzione industriale; l’internazionalismo modernista svaniva ormai in un lontano ricordo. Poco per volta, quadri e sculture entrarono nello spazio del museo. Quello che accadde nel 1935 a Gorizia, quando venne istituita ex novo una raccolta d’arte per rendere omaggio a Sofronio Pocarini, fiduciario del futurismo giuliano, è una vicenda per molti aspetti secondaria, ma da questo punto di vista piuttosto istruttiva. Un museo e una donazione Più che ai sommovimenti rivoluzionari o ai fenomeni di nazionalizzazione di patrimoni privati, all’origine di un museo d’arte vi è spesso il gesto d’un individuo. Si suole infatti definire «evergetico» quel collezionismo privato finalizzato a istituire ex novo una raccolta museale, ovvero a far confluire quanto posseduto nel novero di un museo esistente5. Il fenomeno ha conosciuto molte importanti congiunture, anche per l’arte contemporanea. Si potrebbe anzi dimostrare come all’origine del museo d’arte moderna e contemporanea vi sia anzitutto l’azione lungimirante di un privato cittadino. Per restare nel territorio del Triveneto, si possono menzionare i casi del lascito di Pasquale Revoltella a Trieste, quello di Antonio Marangoni per i Civici Musei di Udine e, a Venezia, la donazione con cui Alberto Giovanelli diede vita alle collezioni d’arte moderna ospitate a Ca’ 5  Il termine è stato discusso da K. Pomian in Collezionisti, amatori e curiosi, Milano, Il Saggiatore, 1989; cfr. dello stesso autore Des saintes reliques à l’art moderne, Paris, Gallimard, 2003, pp. 301 sgg.



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Pesaro. Il barone, il borghese, il principe: tre figure assai disuguali per censo, cultura e collocazione sociale, dietro cui agì l’eguale desiderio di emancipare le testimonianze di un gusto privato istituendolo come patrimonio pubblico. Dietro simili gesti di generosità agivano motivazioni spesso assai diverse, talora inconfessabili, non di rado strumentali. È una ricchezza d’azioni e intenzioni intorno a cui la storia del collezionismo si è accresciuta come disciplina autonoma, che detiene una rispettabile mole di casi di studio. Il nucleo d’opere confluite nel 1935 presso i Musei Provinciali di Gorizia per commemorare la figura dello scrittore e giornalista goriziano Sofronio Pocarini (1898-1934) non rientra a pieno titolo fra i casi summenzionati. Non è infatti la collezione di un privato, governata dal gusto individuale e da un programma più o meno ordinato d’acquisti. Si tratta invece di un gruppo eterogeneo d’una quarantina d’opere conferite ai Musei pressoché in un’unica soluzione, nel corso del 1935, a seguito di un appello rivolto agli artisti della Venezia Giulia da alcuni amici dello scomparso. Le opere donate avrebbero contribuito ad avviare una sezione d’arte moderna in seno al Museo della Redenzione. Questi quadri e sculture si possono leggere oggi in vari modi, a partire naturalmente dal loro valore di primaria testimonianza dei risultati cui pervennero i singoli autori, e dalle varie articolazioni di stile che si possono così dedurre. È lecito tuttavia tentare una lettura delle opere nel loro insieme, partendo dall’occasione specifica grazie alla quale esse giunsero a destinazione. I dipinti e le sculture non furono oggetto di una selezione da parte di un collezionista privato, e nemmeno di un’autorità preposta allo scopo, come il direttore di un museo o un curatore. Le opere furono invece prescelte e donate dagli stessi autori, secondo una prassi per quell’epoca piuttosto inconsueta, e per noi di qualche interesse. Il collezionismo del singolo appassionato, infatti, si forma in un decorso temporale di norma piuttosto esteso, anche se non mancano clamorosi episodi di raccolte messe insieme in pochi anni, se non mesi, come nel caso ormai scolastico dell’investimento in beni rifugio nei periodi di crisi economica. Inoltre, la raccolta



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privata è ordinata secondo un criterio di coerenza, più o meno intelligibile, che chiamiamo per comodità «gusto». Ciò a cui si giunge è solitamente la conclusione di un percorso omogeneo che testimonia l’itinerario intellettuale – e talora anche economico – del possessore. Lo scambio così formalizzato si può studiare come rappresentazione simbolica dell’immagine sociale che il collezionista vuol offrire di sé. Nei casi migliori, questa rappresentazione si offre anche come criterio privilegiato per la lettura dei fenomeni culturali secondo un’angolazione soggettiva che ambisce a divenire canonica, e a volte ci riesce. Il gusto d’un individuo diviene porzione del patrimonio comune; l’immagine simbolica dell’élite (almeno quella culturale) viene associata alla rappresentazione collettiva della società6. La donazione da parte di un variegato gruppo d’artisti risponde con ogni evidenza a ragioni differenti. Per prima cosa, essa si sottrae ai meccanismi di selezione del mercato e del gusto dei collezionisti, se e quando essi esistono, nel merito. Inoltre, collocandosi entro l’orizzonte assai limitato di pochi mesi, sostituisce al decorso della storia l’urgenza della cronaca. Il collezionismo privato si legge come un diagramma nel tempo, lungo uno svolgimento diacronico. La donazione in blocco offre una campionatura sincronica, non meno interessante, che seleziona nello spazio (quello degli artisti della Venezia Giulia) anziché nel tempo. Demandata la scelta agli autori stessi, svanisce ogni possibile omogeneità di criterio selettivo: discontinuità, episodicità e frammentazione divengono giocoforza i tratti costituitivi della raccolta. Che cosa sovrintende allora la scelta delle opere? È chiaro: la coscienza della loro collocazione istituzionale. Nel caso delle Sale Pocarini, l’identificazione del collezionista (o per meglio dire, del possessore) con l’artista stesso inverte il rapporto di forza con il museo. Il patrimonio raccolto in tutta una vita dal collezionista è offerta che si accetta in blocco, difficilmente si negozia. Per molti artisti, quello del 1935 era il primo ingresso in un museo; per alcuni, sarà anche l’unico. Ecco allora una prima questione di rilievo: quanti 6  Cfr. almeno R. Moulin, L’artiste, l’institution et le marché, Paris, Flammarion, 1992; P. Bourdieu, Les règles de l’art: genèse et structure du champ littéraire, Paris, Seuil, 1992; R. Jensen, Marketing Modernism in Fin-de-Siècle Europe, Princeton, Princeton University Press, 1994.



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di costoro vollero donare la propria opera in conformità allo spirito dello scomparso, e quanti invece assecondarono le aspettative di un museo? E quali potevano essere le aspettative di un museo, in una Gorizia italiana e «redenta»? E che cosa rimase, infine, dello spirito e delle intenzioni futuriste dell’intestatario? Nelle pagine che seguono proveremo allora a seguire l’azione di Pocarini nel decennio o poco più della sua attività; cercando di capire se, e in che modo, essa si è riflettuta nelle opere donate alla sua memoria. Il futurista impresario Sofronio Pocarini morì affogato nel mare di Grado un pomeriggio dell’agosto 1934. Biagio Marin ricordò l’episodio con parole ispirate: «Intanto il vento soffiava duro da libeccio sul mare; le acque erano torbide e schiumose d’onde sempre più pesanti. Chiamavano l’onde con risa bianche, chiamava il vento con voce alta d’organo immane». In realtà, la tragica morte sembrava ironicamente smembrare quel vitalismo giovanile che era trascorso in molta letteratura. Non era forse Slataper ad aver scritto, ne Il mio Carso: «Il mare schizza di gioia, e spuma. Ché il mare non ama il lento arranchio asmatico dei vecchi, lo sbatacchio affannoso degli inesperti. Ama il mare d’esser tagliato, battuto, disfatto da gambe muscolose e braccia bronzine»? Più che un presagio, non è difficile iscrivere il drammatico episodio nella più vasta sorte di un’intera generazione, in una stagione assai critica7. Ammise lo stesso Marin che Pocarini «era sempre troppo distratto per veramente concludere, per veramente creare»8. Come giornalista aveva collaborato con varie testate giuliane, giungendo a dirigerne due. La prima fu «La Voce di Gorizia» che resse dal 1923 al 1927. La seconda rivista fu «L’Eco dell’Isonzo» diretta dal 1930 alla morte. Si trattava di un’onesta rassegna turistica trimestrale: un contenitore sufficientemente eclettico e malleabile 7  Il brano di Slataper è discusso in A. Brambilla, Riflessioni su sport e scritture: una scheda giuliana, «Otto/Novecento», XVIII, n. 2, 1994, pp. 245-251. 8  B. Marin, Ricordo di Pocarini, «L’Eco dell’Isonzo», 1934 (poi in «Studi Goriziani», XXV, 1959, pp. 169-171).



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per gli interessi, variegati e piuttosto dispersivi, del Pocarini. Egli si cimentò infatti anche nella poesia, nella drammaturgia e nella pittura, aderendo a un modernismo piuttosto blando. Raramente i risultati andarono oltre la mediocrità. Silvio Benco riconobbe in lui «uno spirito animatore, un elemento di coesione nella vita artistica friulana»9. Altri furono i suoi meriti. Fu un infaticabile ed estroso promotore d’arte e letteratura. Compilò il giornalino satirico «El réfolo gorizian» e quindi, nel 1923, L’indispensabile, un almanacco dove fra le altre cose spiccava la réclame della «Rivoluzione liberale» di Gobetti. Promosse una «Compagnia del Teatro Semifuturista» che fece il giro del Triveneto10. Fu insomma una figura come la provincia italiana partoriva non di rado a quei tempi. Con la rivista «Aurora», sette numeri nel corso del 1924, Pocarini ebbe modo di organizzare una trama di rapporti regionali, utili a tirare le fila del modernismo locale e a indicare qualche priorità nell’affannosa ricerca del nuovo. Nel foglio, abbellito dalla grafica tra il costruttivista e il déco di Giorgio Carmelich, l’originale produzione degli artisti giuliani era alternata a un ricco notiziario internazionale. La vocazione europea era confermata non solo dalla presenza centrale di autori come Enrico Prampolini e Ruggero Vasari, ma anche dal pingue carnet di contatti, secondo una convergenza operata non tanto sulla piattaforma teorica futurista, quanto su un generico modernismo inteso come forza di reazione all’arte tradizionale11. I segnali della normalizzazione erano ormai chiari. Proprio nel 1923, dalla soppressione dei tre musei fondati dal governo austriaco, era stato aperto a Palazzo Attems il Museo della Re9  Il passo di Silvio Benco, tratto da «L’Eco dell’Isonzo» del 20 gennaio 1934, è citato in E. Pocar, Mio fratello Sofronio, Gorizia, Cassa di Risparmio, 1976, p. 269. 10  W. Bohm, The Other Futurism. Futurist Activity in Venice, Padua and Verona, Toronto University Press, 2004, p. 64. 11  B. Passamani, Dall’alcova d’acciaio al Tank ai Macchi 202, in Frontiere d’avanguardia. Gli anni del Futurismo nella Venezia Giulia, catalogo della mostra, a cura di M. Masau Dan (Gorizia, Palazzo Attems, 1985), Gorizia, Arti Grafiche Campestrini, 1985, pp. 18-61. È opportuno osservare che intorno a un giornale dal titolo «L’Aurora» ruotavano le vicende narrate da Bruno Corra nel romanzo Bevitori di sangue, Milano, Sonzogno, 1922, dove sono riconoscibili allusioni a personaggi reali dell’editoria e del mondo culturale italiano, non senza espliciti riferimenti a Mussolini.



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denzione. La soppressione delle tre collezioni del Museo Provinciale della Contea di Gorizia e Gradisca, del Museo Diocesano e del Museo Civico di Gorizia era un atto squisitamente politico. A misurarne il tono basterebbero alcune parole di un osservatore dell’epoca, tratte da una fonte relativamente ufficiale quale poteva essere il Bollettino dei Civici Musei di Udine: «Il Nuovo museo provinciale – si legge – fu allogato nelle belle sale del palazzo Attems dopo che un non breve lavoro di restauro e di purificazione vi ebbe fatto sparire le luride tracce che i tedeschi lurchi vi avevano lasciate». L’auspicata, definitiva collocazione presso il Castello sarebbe giunta allorché l’edificio fosse ripristinato dai «danni antichi cagionati dall’Austria che vi avea fatto un tristo arnese d’oppressione e di minaccia per tenere in freno i nobili spiriti patriottici della città»12. Svuotando di significato il materiale ereditato dal passato della città, si andava avviando una mistificazione ideologica e una manipolazione culturale. A farne le spese fu l’equilibrio che aveva retto l’attiva presenza di culture italiane, tedesche e slave. Non che Pocarini fosse esente da intenzioni nazionalistiche: lo dimostra senza equivoco la clausola finale del documento di Fondazione del Movimento futurista giuliano, sottoscritto da Mario Vucetich, «Architetto e pittore futurista» e Sofronio Pocarini «Poeta e pittore futurista». Il testo era comparso su «La Voce dell’Isonzo» già nell’ottobre 1919. Vi si poteva leggere: «Vivere e far vivere la nostra vera vita moderna dinamicamente italiana. Amare l’Italia sopra ogni altra cosa. Agire futuristicamente da italiani per il bene dell’Italia. Combattere unicamente per l’italianità di tutto ciò che è italiano». Il manifesto non incrinò più di tanto la compassata riunione del locale Circolo artistico, frequentato nell’immediato dopoguerra da tutti gli artisti goriziani e, a credere alle parole del pittore Veno Pilon, in piena amicizia tra italiani e sloveni13. Dalle testimonianze sembra insomma emergere un’esigenza di convivenza civile. Il nazionalismo era temperato dal desiderio di stabilire un legame di fraternità con le popolazioni conviven12  A. Battistella, Il nuovo museo provinciale di Gorizia, «Bollettino del Museo Civico di Udine», I, n. 3, novembre 1923, pp. 3-6. 13  Pocar, Mio fratello Sofronio, cit., p. 182.



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ti nell’estremo lembo della nazione. Il principio venne tra l’altro affermato in una nota dell’Associazione della stampa goriziana diramata nel 1924 per protestare contro la chiusura di un giornale in lingua slovena14. Nei quattro anni di direzione de «La Voce di Gorizia», Pocarini proiettò i propri ideali di difesa dell’identità italiana, rivendicando l’autonomia della provincia, in una mobilitazione che non fu certo solo politica. Com’è noto, infatti, nel disegno dei confini postbellici, la vecchia Contea di Gorizia era stata sacrificata in modo tale da avere una minoranza slovena di circa centocinquantamila abitanti, concentrati tra Isonzo, Idria e Vipacco, all’interno dell’amministrazione provinciale udinese di oltre un milione d’abitanti. Come scrisse senza mezzi termini il giornale, gli alloglotti «hanno avuto la sensazione concreta che l’unica cosa che resta loro fare è di divenire buoni italiani e profittare di tutti i vantaggi, morali e materiali, che offre la grande Patria Italiana in confronto della piccola patria slovena, ieri ancella dell’Austria, oggi cenerentola della triade jugoslava»15. Molte attività culturali goriziane, compresa l’effimera casa editoriale di Pocarini (che risulta aver pubblicato un pugno di libri)16 si inquadravano in questo processo. La forzata italianizzazione della provincia goriziana lasciava aperti degli spazi per sperimentare, più che una polarizzazione estrema, una fruttuosa convivenza; per Pocarini il futurismo marinettiano fu uno di questi spazi17. Sfruttare il disinvolto annessionismo futurista come strumento di costruzione di un’identità artistica moderna e italiana: dietro l’operazione di Pocarini, come di tanti fogli e foglietti giuliani più o meno effimeri, trapela il programma di ricostituzione – o, se si preferisce, d’invenzione – di una lignée dignitosamente italiana, verso cui potevano convergere le più fresche energie Ivi, p. 285. Gorizia e gli slavi, «La Voce di Gorizia», 24 agosto 1924. 16  Dei sei titoli prodotti dalla Casa editrice S. Pocarini, Gorizia, ne menziono due: P. Menghi, Idea e azione coloniale italiana, 1926 e C. L. Bozzi, Giorgio Bombig e l’italianità di Gorizia, 1927. 17  L. Čermelj, Sloveni e Croati in Italia fra le due guerre, Trieste, Stampa Triestina 1974, p. 119; G. Sluga, Identità nazionale italiana e fascismo: alieni, allogeni e assimilazione sul confine nord-orientale italiano, in Nazionalismi di frontiera. Identità contrapposte sull’Adriatico nord-orientale, 1850-1950, a cura di M. Cattaruzza, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 171-202. 14  15 



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giovanili18. Il nazionalismo dei futuristi, insomma, non era inteso, entro quest’area di frontiera, semplicemente come baluardo dell’italianità. In anni in cui Marinetti era tacciato come «il peggior nemico dell’Italia rurale», il fondatore del futurismo appariva invece loro come il miglior amico delle differenze culturali; e poteva qui essere celebrato dinanzi «agli italiani tutti, al di sopra di ogni preconcetto artistico o politico»19. Nel 1927, anno in cui la provincia di Gorizia si staccherà da Udine, subendo un cruento processo di italianizzazione forzata, «La Voce di Gorizia» fu colpita da una sospensione prefettizia; dovette infine soccombere dinanzi alla ristrutturazione fascista della stampa20. In una pagina del marzo 1926 Pocarini tentò di mediare le non sopite rivendicazioni avanguardiste con l’indole nazionalistica21: Per concretare un avvenire radioso all’arte nostra è necessario abbandonare l’attuale sistema di noncuranza tra un dato gruppo avanguardista e l’altro e di addivenire finalmente a quella che io chiamo l’internazionale degli artisti geniali che permetterà a tutti gli avanguardisti del mondo di essere in continua relazione tra di loro, aiutandosi vicendevolmente nella conoscenza delle loro opere […] L’internazionale tra gli artisti geniali, da me auspicata, non prevede assolutamente l’abbandono da parte di qualcuno di quella che è la sua essenza nazionale; nessuno più degli artisti italiani sente tanto fortemente e con orgoglio di razza il più intenso amore per la sua nazionalità, e d’altro canto nessun artista italiano permetterà mai che si faccia azione antinazionale.

Le tesi, squisitamente politiche, circa il «proletariato dei geniali» espresse da Marinetti acquisivano qui un nuovo, più intenso, e cogente significato. 18  Un regesto di questi materiali in Il Novecento a Gorizia: ricerca di una identità. Arti figurative, catalogo della mostra (Gorizia, Musei Provinciali, 2000), a cura di A. Delneri, Venezia, Marsilio, 2000 e in Futurismo. Filippo Tommaso Marinetti, l’avangurdia giuliana e i rapporti internazionali, catalogo della mostra (Gorizia, Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, 2009-2010), a cura di M. De Grassi, Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, 2009. 19  «Il Selvaggio», 15 luglio 1927, cfr. S. Pocarini, Le onoranze nazionali a Marinetti, «La Voce di Gorizia», 22 novembre 1924. 20  Sulla radicalizzazione del conflitto tra sloveni e governo fascista tra 1927 e 1929 cfr. A. Vinci, Sentinelle della patria. Il fascismo al confine orientale 1918-1941, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 191 sgg. 21  Cit. in Pocar, Mio fratello Sofronio, Gorizia, Cassa di Risparmio, 1976, p. 182.



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Modernità futurista e culture di confine Nell’aprile 1924 si era aperta la Prima mostra goriziana di Belle Arti, ordinata da Antonio Morassi, all’epoca ispettore all’Ufficio di Belle Arti della Venezia Giulia, a Trieste, che volle Pocarini con sé come segretario. Già nel titolo, con quella insistenza sulle «Belle Arti», era significativa l’adesione a una cautissima idea di modernità. Tuttavia, secondo gli ordinatori, la mostra rappresentava «il primo sforzo compiuto dal Friuli unito per passare in rassegna le proprie energie artistiche contemporanee […] Per Gorizia, questa Esposizione ha il vanto di essere fra tutte le antecedenti la più importante manifestazione dell’arte figurativa moderna». Già parlare di «Friuli unito» era un segnale ben chiaro della volontà di armonizzare le diverse voci delle culture locali in un poderoso inno nazionale. Di certo fu una selezione eclettica, priva di eccessi avanguardisti. Le schede compilate da Morassi per il catalogo e i medaglioni pubblicati a puntate su «La Voce di Gorizia» costituirono uno dei primi e più interessanti tentativi d’analizzare la situazione contemporanea giuliana, per quanto apparissero piuttosto arretrate e pienamente aderenti a una pacata retorica tradizionale. Tuttavia, era importante la difesa delle punte più avanzate della ricerca artistica locale, che s’identificava nell’attività dei cosiddetti futuristi: Giovanni Ciargo, Luigi Spazzapan, Veno Pilon e Giorgio Carmelich. Questi autori, è bene notarlo, comparvero nelle pagine in cui «L’Aurora» celebrò i futuristi dell’esposizione giuliana22. E si ritrovano fra le sporadiche pagine che Pocarini volle contemporaneamente dedicare agli esponenti del futurismo locale su «La Voce di Gorizia». Nel loro insieme, queste presenze documentavano piuttosto bene un attivismo, certo portato con tutta l’ingenua approssimazione dei neofiti, che trovava nel loro stile apertamente modernista un possibile punto d’aggregazione e di sintesi delle differenti spinte culturali di artisti di lingua (italiana, slovena, austriaca) e formazione artistica (Venezia, Vienna, Praga) diversa23. 22 

Alla prima esposizione Goriziana di Belle Arti, «L’Aurora», II, n. 7, luglio

1924. 23  Cito come esempi: Veno Pilon, «La Voce di Gorizia», 26 aprile 1924; E. F.(urlani), Giovanni Ciargo, ivi, 21 aprile 1925; G. Carmelich, Augusto Cernigoj, 22



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Il modernismo pacato, tutto sommato benpensante, di pittori goriziani e triestini come Italico Brass, Gino De Finetti e Vittorio Bolaffio era interessante per valutare la declinazione di modelli autorevoli, dai francesi dell’Ottocento al colorismo più fermentato di scuola tedesca, da Max Liebermann a Heinrich Zügel. Si trattava di un’indubbia apertura europea, tanto più se si confrontano questi esiti con le proposte assai anodine degli autori udinesi. Costoro furono aggregati agli espositori quasi obtorto collo, per rispetto di quella che era ancora la provincia in comune, e in un chiaro intento di contrapporre un sano bastione d’italianità a possibili derive barbariche. Certo, il confronto con l’attardato paesismo dei pittori di area friulana pendeva tutto a favore dei giuliani; né questo impedì alla rivista udinese «La Panarie» di stilare un regesto provincialmente del tutto sbilanciato verso gli artefici locali, ed esplicitamente insofferente verso l’«avanguardismo» della triade Ciargo, Spazzapan e Pilon24. Sulle ragioni di questa esplicita idiosincrasia è bene spendere qualche parola. Va peraltro detto che il presunto «futurismo» di costoro era quanto di più cauto e temperato, a questa data. Il segno di Spazzapan era quello di un’elegante stilizzazione non priva d’accenti puristi, quando non déco, come si osserva nel disegno Riflessi, bottiglia e bicchiere, presentato proprio a Gorizia (fig. 9.1). Avgust Cernigoj, ne fa fede tra l’altro la natura morta 1923 dei Musei Provinciali (fig. 9.2), era legato a un impianto non tanto picassiano, quanto piuttosto del Soffici che aveva guardato (ma dieci anni prima, ai tempi della «Voce») a Picasso. Giovanni Ciargo (Ivan Čiargo) sembrava studiare certi esiti di Boccioni, anche quello dei gessi del 1913, spingendosi a prismatiche composizioni che ponevano in evidenza le doti notevoli del disegnatore dicembre 1925. I tre autori menzionati erano tutti di origine slovena e avevano parzialmente modificato il cognome. Giudizi non dissimili provennero della recensioni alle mostre triestine: cfr. L’esposizione d’arte al Giardino Pubblico, «Il Piccolo della Sera», 20 ottobre 1927; La mostra regionale d’arte al Giardino. Pittori d’avanguardia ed altri, «Il Piccolo», 18 ottobre 1928. 24  C. Ermacora, Alla mostra goriziana di Belle Arti, «La Panarie», n. 11, 1924, pp. 161-166; su questi temi, rinvio a quanto ho scritto in Figure e paesaggi del primo Novecento: il conflitto tra le intenzioni della forma e i sistemi dell’arte, in Le arti a Udine nel Novecento, catalogo della mostra (Udine, Chiesa di San Francesco, 20002001), a cura di I. Reale, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 61-73.



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Figura 9.1 Luigi Spazzapan, Riflessi, bottiglia e bicchiere, 1923.

(fig. 9.3). Veno Pilon (Venceslav Pillon) esibiva i segni d’una formazione espressionista mitteleuropea presso l’Accademia di Praga (fig. 9.4)25. Ma quello che infastidiva i recensori udinesi non era tanto la vocazione, avanguardista o futurista che dir si voglia, degli autori; era, invece, la presenza di uno stile radicale associato alla sonorità esplicitamente alloglotta dei loro cognomi. Per una rivista che si erigeva a baluardo di un’orgogliosa identità regionale (il titolo stesso della testata, «La Panarie», in friulano indica la madia), e al tempo stesso ambiva a essere espressione della città di Udine come 25  Componenti slovene della pittura giuliana negli anni 20-30: Pilon, Cernigoj, Cargo, catalogo della mostra (Galleria Sagittaria, Pordenone, 1983), a cura di T. Reggente e P. Krečič, Pordenone, Centro Iniziative Culturali Pordenone, 1983; P. Krečič, Avgust Černigoj, Ljubljana, Nova Revija, 1999; Veno Pilon: un cittadino europeo, catalogo della mostra (Galleria Regionale d’Arte Contemporanea «Luigi Spazzapan», Gradisca d’Isonzo), a cura di F. Marri, Gradisca d’Isonzo, 2003.



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Figura 9.2 Avgust Cernigoj, Natura morta, 1923.

«capitale della Guerra», non era difficile stabilire un’equazione tra il deprecato slavismo dell’onomastica e i biasimati, «antitaliani» stili del moderno. Coloro tra i futuristi giuliani che colsero le ragioni di questa ostilità, risposero con rapidità. Alla fine del 1924 si distaccarono dalla redazione de «L’Aurora» Carmelich ed Emilio Mario Dolfi, che si uniranno a Cernigoj per dar vita al gruppo costruttivista triestino e alla rivista «25», in quello che sarà uno degli esperimenti più avanzati del modernismo regionale. A parte la situazione di Trieste, dove Bruno Sanzin aderiva in maniera totale e subalterna all’ortodossia marinettiana (suo l’apologetico volumetto Marinetti e il futurismo, 1924), è infatti vero che a questa data il programma di Marinetti non era in grado di stabilire un’egemonia sul futurismo d’area giuliana. Dopo la guerra, i confini del movimento erano divenuti al tempo stesso politicamente più dogmati-



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Figura 9.3 Ivan Čiargo, Linee di forza (Autoritratto), 1928.

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Figura 9.4 Veno Pilon, Paula, 1923.

ci e culturalmente frastagliati. Se il profilo ideologico ben presto s’inquadrava entro le linee guida delle nascenti istituzioni fasciste, quello letterario e artistico era assai più malleabile. L’intento di Pocarini era infatti d’aprire, con le pagine de «L’Aurora», uno spazio privilegiato all’incontro e al confronto delle varie energie moderniste, al di là dei singoli schieramenti e delle contrapposizioni, spesso puerili e oggi francamente poco comprensibili. Carte e libri che sopravvissero alla morte precoce di Pocarini narrano un orizzonte di contatti piuttosto vasti, che coincideva per intero con la geografia interna del futurismo e con quella esterna delle irradiazioni dell’internazionalismo astratto e costruttivista, da Zagabria a Brno ad Anversa; tavole e fogli presentavano il lavoro di Moholy Nagy, Schlemmer, Baumeister, Tatlin, El Lissitzky. Non erano poi molti, a questa



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altezza cronologica e a questa latitudine, ad avere a disposizione simili documenti (lo stesso gruppo milanese del «Milione» ci arriverà qualche anno dopo, e perlopiù attraverso la mediazione francese dei «Cahiers d’Art»)26. Lo sforzo venne però vanificato da due fronti opposti. Da un lato l’inerzia e il tradizionalismo della situazione udinese, sfruttati in chiave di revanche nazionalista da parte di quegli stessi intellettuali che accetteranno la normalizzazione ideologica della Società Filologica Friulana. Questo istituto iscrisse nel suo statuto di fondazione, redatto nel 1919, il compito di preservare «l’individualità etnica e linguistica» dell’intero territorio friulano, paventando che siffatto «storico compimento» potesse coincidere con il pericoloso «uguagliarsi di ogni individualità regionale di fronte al progresso livellatore». Anche le comunità ladine erano invitate, senza troppi scrupoli, a ricongiungersi alla patria e alla cultura italiana, «alla quale naturalmente dovrebbero portarli le comuni origini latine, e si tolgano da quel piegarsi verso il mondo germanico, tanto disforme da tutto ciò che nella latinità v’è di più intimo e schietto». L’assemblea costitutiva che sottoscrisse questo verbale era stata riunita a Gorizia: che era sì la città natale di Graziadio Isaia Ascoli, a nome del quale venne intitolata l’istituenda società; ma soprattutto città riconquistata e redenta; un territorio «alle porte della Slavia» da riscattare con uno sforzo congiunto, politico e letterario, per inoculare l’italianità27. Questo programma poggiava, come si è visto, sull’accurata rimozione del «progresso livellatore» e, di conseguenza, sul recupero del substrato popolare, per loro incarnato nella rustica e paternalistica poesia campestre di Pietro Zorutti. Il poeta friulano, morto nel 1867, era stato ricordato proprio da Soffici in una pagina di «Rete Mediterranea» tempestivamente ripresa dal bollettino della Società. Il programma sofficiano di restaurazione poetica intercettava quello di italianizzazione delle frontieLe riviste possedute da Pocarini, perlopiù ottenute come scambio con «L’Aurora», sono custodite presso l’Archivio Pocarini, Musei Provinciali di Gorizia, busta 35. 27  Assemblea costitutiva della Società Filologica Friulana (Gorizia, 23 novembre 1919), «Bollettino della Società Filologica Friulana», I, n. 1, 20 febbraio 1920, pp. 2-7. Tra i fondatori della Società vi era anche il fratello di Pocarini, Ervino Pocar, che aveva scelto di mantenere il cognome originale; trasferito a Milano, divenne poi il più importante traduttore dal tedesco della sua generazione. 26 



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re; non esisteva migliore avallo, da questo punto di vista, della schietta friulanità rispecchiata dalla toscanità più militante28. D’altra parte, nei giorni convulsi delle trattative a Versailles, era stato lo stesso Soffici ad argomentare, sulla rivista papiniana dal programmatico titolo «La Vraie Italie» (scritta interamente in francese, per favorirne la circolazione all’estero), la necessità di risolvere la questione delle rivendicazioni territoriali invocando il criterio della storia e della cultura in questi termini: «Là où il y a mélange de peuples et rivalité d’intérêts, et donc difficulté d’un exact partage, le droit à être favorisé appartient à celui des deus pays qui est arrivé à un plus haut degré de civilisation et de splendeur intellectuelle»29. Una concezione che appare piuttosto discutibile, poiché francamente imperialista, del diritto internazionale. All’interno di un simile quadro politico e culturale, non sorprendono allora le difficoltà in cui versarono le proposte culturali che, invece di rispettare l’ortodossia d’un presunto vernacolo locale, percorrevano la china, piuttosto ambigua, del meticciato modernista. In un’area geografica priva d’una tradizione moderna e italiana, il richiamo al futurismo da parte delle più giovani generazioni appariva il gesto più naturale: un’avanguardia che sembrava offrire le stigmate dell’eversione estetica, il carisma del nazionalismo e, al tempo stesso, una radiosa prospettiva di scambi europei. Anche se nel territorio giuliano le vestigia di romanità non tardarono a essere oggetto di un’accurata ridefinizione simbolica, che piegava filologia e storia agli interessi contingenti, non potevano certo sussistere, al di là di questi recuperi «imperiali», sistemi interpretativi analoghi alla modernità «toscana» istituita da Soffici. Il futurismo di Marinetti, o almeno ciò che di volta in volta si poteva ricavare da esso, fu il linguaggio più prontamente dispo28  A. Soffici, La casa di Zorutti, «Rivista della Società Filologica Friulana», II, n. 1, 31 marzo 1921, pp. 56-58; e cfr. A.M. Vinci, Immagini della provincia fascista. Culto e reinvenzione delle tradizioni popolari in Friuli, «Italia Contemporanea», n. 184, settembre 1991, pp. 419-441. È opportuno ricordare che proprio dalla figura di Zorutti muoverà la critica di Pasolini alla tradizione vernacolare del friulano: cfr. P. P. Pasolini, Lettera dal Friuli, «La Fiera Letteraria», 29 agosto 1946; Tranquilla polemica sullo Zorutti, «Libertà», 16 ottobre 1946, ora in Un paese di temporali e di primule, a cura di N. Naldini, Parma, Guanda, 1993, pp. 211 e 214. 29  A. S.(offici), La question italo-yougoslave, «La Vraie Italie», n. 1, maggio 1919, p. 107; cfr. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 119.



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nibile – e l’unico possibile – per sostenere un’ipotesi di modernità svincolata da ogni possibile genius loci che non fosse, appunto, un imprecisato (e imprecisabile) «genio» nazionale. In presenza d’un substrato storico-culturale dai contorni pericolosamente ambigui, il futurismo, nella misura in cui poteva essere invocato come tabula rasa, e indipendentemente dalla sua effettiva esistenza come tale, appariva come il migliore strumento per generare una modernità nazionale. In realtà, come si è visto, la maggior parte degli osservatori e la totalità delle istituzioni guardavano con sospetto, quando non con aperta ostilità, le azioni dei giovani futuristi. Per evitare pressioni politiche, gli artisti sloveni preferirono stabilirsi a Lubiana. Qui vareranno la rivista «Tank», il corrispettivo sloveno di «25», alla quale collaboreranno anche Spazzapan e Pilon. Ma gli ultimi fuochi di questa avanguardia sembrarono esaurirsi in fretta30. La seconda esposizione goriziana di Belle Arti, curata da Pocarini in qualità di fiduciario del Sindacato fascista, aprì nel 1929 presso la casa del Balilla progettata in forme razionali da Umberto Cuzzi. Agli espositori del 1924 se ne aggiunsero di nuovi, senza che il profilo dell’offerta venisse sostanzialmente modificato, ma in un momento in cui il movimento irredentista slavo stava suscitando a Roma molte preoccupazioni31. Al compimento della forzata italianità, molte riviste regionali volsero dall’idioma locale, quando non vernacolo, a improvvise mozioni di romanità «imperiale», con il risultato di chiudere i residui spazi d’azione. Intanto, quel poco di modernismo futurista che non era espatriato di là dal confine, stava subendo un processo di normalizzazione coatta. Alla mostra del 1929 debuttò il pittore goriziano Tullio Crali, che diede il via a un’importante vicenda in seno alla nascente aeropittura futurista. Il manifesto di Marinetti fornì infatti al movimento una nuova piattaforma, in grado di combinare l’estetica della macchina con la celebrazione dell’ardimento aviatorio, operando così una sintesi tra mito tecnologico e militanza politica. È 30  Cfr. U. Carpi, 1923-1925: giornali dell’avanguardismo giuliano, in Intellettuali di frontiera. Triestini a Firenze (1900-1950), a cura di R. Pertici, Firenze, Olschki, 1983, vol. I, pp. 97-138, 109. 31  Cfr. per questo De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso, cit., p. 123.



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abbastanza chiaro che il successo di Crali, autore in sé piuttosto mediocre, sia stato adeguatamente pilotato da Marinetti per far valere la figura di un «aeropittore» genuinamente italiano e schietto interprete dei fascistissimi miti aviatori32. È in questi stessi anni che pare compiersi un’incursione di Pocarini nel campo della pittura. Sono poche cose e tutte realizzate, a prestar fede alle date, tra il 1926 e il 1930. Talora le opere furono premiate dall’accoglienza, sempre piuttosto generosa, delle mostre provinciali futuriste, e in un caso l’autore transitò pure per la Biennale veneziana, proprio quella del 1930. Tuttavia, le geometrie scolastiche e le colorazioni vivaci dei dipinti non erano certo memorabili. Più che d’opere d’arte, si dovrebbe parlare di modelli per così dire esemplari: furono tentativi, di chiaro sapore emulativo e cadenza discontinua, per tenere in piedi un’idea di modernità in tempi sempre più difficili e nel vuoto di migliori possibilità che non fossero la timida intrusione all’interno delle faglie, sempre più ridotte, dell’organizzazione sindacale fascista. Allo stesso modo vanno giudicati i componimenti raccolti nei volumi Carnevale (1923), Lollina (1925) e Oscillazioni (1931). La parte rimanente dell’attività giornalistica e culturale di Pocarini si legge e s’inquadra entro questo processo di normalizzazione del modernismo futurista nel doppio senso di italianità e di ortodossia fascista. È difficile capire con quanta buona fede Pocarini tentò di tenere in vita un’idea di modernità che potesse apparire, al tempo stesso, italiana nella forma e internazionale per la vocazione. Il decorso del giornale che Pocarini diresse fino alla morte, «L’Eco dell’Isonzo», racconta molto bene questa vicenda. Di per sé, era un foglio assai modesto: una compilazione di fatti locali, senza politica interna né fatti esteri, composto con l’ampio impiego di veline ministeriali e notizie d’agenzia, nel tentativo di tirare 32  Futurismo giuliano: gli anni Trenta. Omaggio a Tullio Crali, catalogo della mostra (Gorizia, Civico Museo del Castello, 2009-2010) a cura di M. De Grassi, Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, 2009. Più d’ogni altra emanazione del futurismo, l’aeropittura sembra attrarre oggi il giudizio pseudostorico di nostalgici e revisionisti; più della troppo ampia bibliografia italiana, è utile riferirsi a Futurism in flight: «aeropittura» paintings and sculptures of Man’s conquest of space (19131945), catalogo della mostra (Londra, Accademia Italiana delle Arti e delle Arti Applicate, 1990), a cura di B. Mantura, Roma, De Luca, 1990.



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le fila del fascismo giuliano, con qualche saggio, ambiziosamente «storiografico», per riscattare dalla tradizione e dalla toponomastica locale un’idea d’italianità della Venezia Giulia. Come già ai tempi de «La Voce di Gorizia», lo spazio che Pocarini dedicò alle cronache del futurismo era assai notevole, per un foglio locale: ma a differenza di dieci anni prima, i nomi erano quelli d’un movimento dai tratti ministeriali e dal suono irrimediabilmente «romano», da Balla a Prampolini. Quando si volle parlare di cubismo, si prese l’omonima voce redatta da Antonio Maraini per l’Enciclopedia italiana; le tournées trivenete di Marinetti erano puntualmente salutate con entusiasmo e gratificate di lunghe interviste; ma osservare colui che nel 1910 aveva pronunciato il Discorso ai triestini portare in scena al Teatro Verdi Simultanina, commedia «in sedici sintesi» dedicata alla «quintessenza della donna amata da sette uomini», dice tutto sulla parabola del futurismo, del suo fondatore e, a questo punto, anche dei suoi giovani accoliti. Allo stesso modo, l’assorbimento d’ogni spontanea organizzazione espositiva, sul modello diffuso dopo il rientro in Italia dei futuristi dalla tournée europea del 1912, entro la rigida struttura delle mostre sindacali non faceva altro che «orientare, e talora correggere» – come aveva auspicato il «genio futurista» di Mussolini – l’originaria pulsione eversiva33. Il panorama nazionale era quello d’una modernità dai toni rassicurati e dai tratti spesso farseschi e inoffensivi. L’eversione del primo futurismo, nutrito di sindacalismo rivoluzionario, anarchismo e mito dello sciopero generale, era svilito a pochade erotica. Le «linee forza» e le tensioni dinamiche che nelle opere di Boccioni, Russolo e Balla ambivano a tradurre l’energia dell’élan vital di Bergson in aggressivi conflitti visivi, assumevano le inoffensive forme decorative del gusto geometrico che si era imposto all’Esposizione parigina del 1925. Il trionfo dell’art déco poteva essere salutato, in Italia, come un successo del futurismo; ma in realtà, esso invece era soltanto il primo passo della sua neutralizzazione a piacevole vocabolo di moda34. 33  «L’Eco dell’Isonzo», 19 maggio 1931, 12 gennaio 1932 e 3 novembre 1932, rispettivamente. 34  A. G. Bragaglia, L’Italia rivoluzionaria e lo stile geometrico, «Antieuropa», n. 5, 25 agosto 1929, pp. 402-407.



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Pocarini aderì al futurismo attratto prima ancora dal modello organizzativo che dalla proposta di linguaggi e stili. Egli mantenne un nazionalismo temperato dal riconoscimento delle autonomie culturali e linguistiche, e riconobbe i talenti artistici, ben lontano da chiusure sciovinistiche. Per lui fu centrale il problema dell’accordo, e non dello scontro, con le culture alloglotte. Il futurismo abbracciato come prassi eclettica, al di là dei generi e delle retoriche, poteva raccogliere la vasta e generosa attività di scrittura, giornalismo, teatro, pittura. Un lavoro non privo d’aspetti velleitari, ma di portata politica, che si scontrò inevitabilmente con la gestione del regime in fase di consolidamento. Tutte le possibili forme di mediazione apparvero, in questa recrudescenza, come una deliberata concessione alle intenzioni espressive, e quindi politiche, degli alloglotti. Il disegno culturale di Pocarini per un’avanguardia giuliana poté sopravvivere, ma solo come decoro fastoso della vita nazionale: e dunque, al prezzo del suo stesso svuotamento di senso. Il museo come spazio ideologico In questo quadro s’inserì, nel corso del 1935, la donazione delle opere in memoria del giornalista scomparso. Già tra agosto e settembre i registri del museo documentavano le opere donate dalla madre e dal fratello, che comprendevano sia i quadri di Pocarini sia quelli della sua collezione, con lavori di Crali e Pilon. Fra gennaio e marzo vennero trascritti la maggior parte degli ingressi d’autori triestini. A settembre confluirono le opere degli artisti residenti fuori regione. Infine, alla data del 6 ottobre, in coincidenza con il giorno d’apertura delle sale, il profilo della donazione trovò compimento con l’ingresso de Il mattino di Giannino Marchig (fig. 9.5): un quadro giunto da Firenze, dove il pittore triestino insegnava nella più gloriosa delle Accademie nazionali: il simbolo stesso d’una rinnovata concordia nazionale35. 35  Giannino Marchig: un artista triestino a Firenze, catalogo della mostra (Trieste, Museo Revoltella, 2000), a cura di M. Masau Dan, S. Gregorat, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2000; F. Fergonzi, Nota a margine di due mostre antologiche di Giannino Marchig, «Arte in Friuli, Arte a Trieste», n. 20, 2000, pp. 151-158.



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Figura 9.5 Giannino Marchig, Il mattino, 1928.

Dal novembre 1935 in poi si ripresero a registrare i soli ingressi dal deposito del Museo. Erano perlopiù documenti cartacei e reperti della Grande Guerra. L’infiltrazione dell’arte contemporanea, che tale dovette apparire, poteva dirsi così conclusa. I più ambiziosi casi, come Statua solitaria di Arturo Nathan ed Elisabetta e Maria di Carlo Sbisà (fig. 9.6), sorgevano dalla riformulazione di schemi e iconografie diffusi da De Chirico e Casorati dei secondi anni Venti, e assecondavano un generico gusto per la pittura di figura36. Se i tanti paesaggi e nature morte erano perlopiù attribuibili alle figure di comprimari, talvolta di scarsa dignità artistica, un discorso più articolato si può invece svolgere in merito ai ritratti. Essi vivevano nella tipologia scultorea della testa classica, talora di più realistico e quasi brutale ve-

36  E. Lucchese, Arturo Nathan, Trieste, Fondazione CRT, 2009; Carlo Sbisà, catalogo della mostra (Trieste, Museo Revoltella, 1996), a cura di R. Barilli, M. Masau Dan, Milano, Electa, 1996.



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rismo, stemperato da soluzioni pittoriche e antinaturalistiche37. L’autoritratto di Mario Lannes era un quadro d’un’eleganza austera e cerebrale, di voluta ambiguità spaziale nella soluzione del retrostante dipinto-finestra che inquadra il volto d’un nitore iperrealistico, con palese richiamo allo stile della Nuova oggettività tedesca. Il Ritratto di Veno Pilon di Luigi Spazzapan, dipinto inopinatamente definito «caricatura», rinviava ancora una volta a modelli importanti e di non scontata frequentazione, come l’espressionismo d’area tedesca e danubiana. Questi sono soltanto alcuni esempi del pacato modernismo «riformista» documentato dalle donazioni del 1935. Per valutarne appieno la presenza nel tessuto della cultura giuliana, sarà bene provare ad affrontare, infine, la questione centrale: a quale ipotesi di contemporaneità ambivano gli exempla così raccolti, e quali invece furono le condizioni oggettive della loro inserzione nel contesto museale. La donazione del blocco d’opere presentate nelle Sale Pocarini sovvertì la pratica di fondazione e incremento museale sin lì seguita. Il processo, istituzionale e ideologico, che aveva dato vita al Museo della Redenzione era chiaro e lineare nella tendenziosa strumentalizzazione del valore politico degli oggetti così raccolti e riordinati. Se il moderno allestimento era funzione diretta di una pesante riscrittura storica e politica, ora l’innesto massiccio delle sale Pocarini minacciava di sovvertire ogni controllo. Le opere erano state scelte non da un comitato né dalla direzione, ma direttamente dagli artisti. Gli artisti a loro volta vennero cooptati, per quanto si può capire dai documenti, senza seguire un programma prestabilito, ma dal semplice allargamento della cerchia dei diretti conoscenti. Le opere così raccolte confluivano tuttavia in un programma politico e ideologico ben articolato e dalle radici ormai decennali. L’«idealità borghese» di Trieste non aveva avuto difficoltà a identificare l’espansionismo economico, militare e culturale celebrato da Ruggero Fauro Timeus con la cultura nazionalista del futurismo. Allo stesso modo, il «cosmopolitismo furbo» additato 37  Cfr. Scultura in Friuli Venezia Giulia. Figure del Novecento, catalogo della mostra, a cura di A. Del Puppo (Pordenone, Spazio Espositivo di Corso Garibaldi, 2005-2006), Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2005, pp. 130 e 142.



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Figura 9.6 Carlo Sbisà, Elisabetta e Maria, 1926.

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da Scipio Slataper come difesa di autonomia e interessi commerciali aveva tuttavia consentito un invidiabile profilo di scambi e raffronti europei38. Furbo, ma pur sempre cosmopolitismo era: una sintesi, o almeno un accordo con le più nette riformulazioni del nazionalismo, sembrava ora difficilmente praticabile. Come Trieste, Gorizia era una città italiana in modo diverso dalle altre città italiane. Le sue istituzioni culturali, collocate in una zona di confine dove i margini d’ambiguità politica erano assai ridotti, consentirono alla comunità locale di celebrare il proprio culto. Questo culto nel 1935 era però quello del nazionalismo, non del modernismo. Tantomeno del futurismo, e di quel futurismo giuliano, cui Pocarini aveva rivolto così tante energie: non semplicemente in nome di una redenzione e di un riscatto nazionali, quanto della possibile convergenza tra le forze creative italiane e forestiere, su una piattaforma debole soltanto nella misura in cui ambiva a essere inclusiva. È quindi vero che la saldatura tra modernismo e nazionalismo, che altrove stava reggendo il rilancio delle culture europee tra anni Venti e Trenta, operò qui solo parzialmente. Il gusto del Novecento, cui si rifaceva una buona parte delle opere donate nel 1935, non era certo frutto del libero gioco delle differenze culturali dei singoli autori. L’ordinamento artistico degli anni Trenta aveva provveduto a infrangere, nella accurata struttura gerarchica delle esposizioni gestite dal Sindacato, il diaframma che separava l’immagine dal suo valore politico. Ed è questo valore che il museo intendeva in pari grado ripristinare e governare. Il discorso che il presidente della Provincia di Gorizia pronunciò all’apertura delle Sale Pocarini esprimeva un sentimento forse comune, di sicuro difficilmente eludibile: «in questa sala, circondati dai cimeli tangibili e dalle effigi di tanti Eroi immolatisi per la grandezza della Patria e per la Redenzione di queste terre troppo a lungo avulse dall’abbraccio della Madre comune, il nostro sentimento d’italianità si esalta come in un sacro tem38  R. Timeus (Ruggero Fauro), Scritti politici (1911-1915), Trieste, Tipografia del Lloyd Triestino, 1929; cfr. E. Guagnini, Uno studio «sul vivo». La Trieste di Slataper e gli autoritratti di una città emergente nei primi del Novecento, «Otto/ Novecento», XII, n. 5, 1988, pp. 31-47.



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pio e in queste storiche giornate si sublima nella fede sicura di più alti e più radiosi destini dell’Italia risorta»39. La lotta artistica era tutt’uno con la lotta politica. Nel racconto della biografia di Pocarini, irredentismo e italianità divennero le componenti di un percorso ideologico e culturale entro cui trovava sintesi e ragione l’intera operosità dello scomparso. A farne le spese, furono i residui del futurismo così speso. Esso venne relegato a fenomeno episodico, mera forza di reazione per le aree avulse dallo stato centrale, in nome di una sensibilità nazionale. È chiara allora la parabola che prese il futurismo giuliano: da forza in grado di raccogliere e rendere scambievoli le energie creative dei giovani artisti affacciatisi nei primi anni Venti, a strumento di controllo di un’ortodossa italianità. Laddove prima vi era un sommovimento anarchico, di disinvolto annessionismo, comprensivo di un’eclettica indole modernista, ora agiva una forza di reazione, in nome di una normalizzazione. La libera sperimentazione stingeva in un rivendicato, «fatale», e non di meno confuso, stile nazionale. Non sorprendono allora i toni di pressoché unanime compiacimento per l’evento, e di rassicurazione circa l’esito così raggiunto. Promulgare ufficialmente e in tal modo una collezione d’arte contemporanea significava anche, nella Venezia Giulia del 1935, portare a compimento l’opera di governo e di «riordino» indotta dalle Sindacali fasciste. Assorbire, in nome e per conto dell’attività di Pocarini, quel poco o quel tanto di futurismo e modernismo che si era fino a quel punto discusso e prodotto significava farne confluire le componenti più irrequiete e meno controllabili entro una salda cornice istituzionale, in grado di accogliere le tensioni e ammorbidirle entro il prevedibile decorso di un’eredità artistica nazionale. Il senso dei tanti resoconti comparsi all’epoca sembra essere questo40. E in ogni caso, la sostanziale estraneità dell’addizione pocariniana al percorso del Museo della Redenzione era sotto gli occhi di tutti. Un osservatore lamentò «l’invadenza di una mostra d’arte moderL’apertura al Museo della redenzione delle Sale «Sofronio Pocarini», «Il Giornale di Gorizia», 9 ottobre 1935, p. 3. 40  Cfr. ad esempio R. Marini, Tre sale di arte giuliana contemporanea, «La Panarie», XI, 1935, pp. 299-302; Le sale «Sofronio Pocarini» al Museo della Redenzione, «Il Gazzettino», 13 ottobre 1935. 39 



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na, troppo povera per essere degna di tal nome, troppo grande per trovare posto in un museo dedicato ai ricordi di Gorizia ai quali essa è completamente estranea»41. Tale fu la premessa dello scorporo della donazione Pocarini e del suo esilio a Borgo Castello, nel frattempo risarcito dagli scempi di guerra. Il Museo della Guerra e della Redenzione trovò una nuova sede, inaugurata nel maggio 1938. Soltanto pochi mesi più tardi il museo costituì una delle tappe della lunga visita che Mussolini svolse lungo i territori delle battaglie, in occasione del ventennale della vittoria. Il duce volle toccare tutti i luoghi simbolici del conflitto. Da Caporetto a Vittorio Veneto, inaugurò sacrari, musei, templi, ossari e case del balilla42. L’esperienza della guerra mondiale non era più affidata, come un tempo, all’inventiva grafica dei pittori. La memoria del conflitto e la sua rappresentazione politica erano affidate, ora, agli strumenti persuasivi rodati in quindici anni di regime.

Museo Provinciale della Redenzione, «Vita isontina», X, n. 11, 1937, p. 16; cito da R. M. Cossar, Storia dell’arte e dell’artigianato in Gorizia, Pordenone, Arti Grafiche Cosarini, 1948, p. 401. 42  Il duce nelle Venezie, numero monografico, «Le Tre Venezie», XIII, 10, ottobre 1938; cfr. P. Nicoloso, Mussolini nella Venezia Giulia: indirizzi totalitari e architetture per il fascismo, in Torviscosa: esemplarità di un progetto, Udine, Forum, 2003, pp. 13-26. 41 

Elenco delle illustrazioni



I. I funerali dell’anarchico Carrà



1.1 Carlo Carrà, Studio per «Funerale anarchico», 1910. Pastello e grafite su cartoncino, 57 × 78 cm. Collezione privata. 1.2 Carlo Carrà, I funerali dell’anarchico Galli, 1911. Olio su tela, 198,7 × 259,1 cm. The Museum of Modern Art, New York. Lillie P. Bliss Bequest. digital image © 2012 The Museum of Modern Art / Scala, Florence. 1.3 La quinta giornata. Prima niente e poi troppo, «L’uomo di pietra», 10 settembre 1904. 1.4 Carlo Carrà, Nietzsche, «La Rivolta», 10 novembre 1910. 1.5 Carlo Carrà, Piero Gori, «La Rivolta», 10 maggio 1911. Copertina. 1.6 I funerali di Giuseppe Verdi, «L’Illustrazione Italiana», 3 febbraio 1901. 1.7 Félix Vallotton, La dimostrazione, «Emporium», aprile 1905. 1.8 Elaborazione grafica dei Funerali dell’anarchico Galli, di Carlo Carrà, 1911. 1.9 Achille Beltrame, La rivolta a Milano. Al Palazzo Saporiti sul corso Venezia, «L’Illustrazione Italiana», 15 maggio 1898.

III. Il cuneo e il cerchio



3.1 Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Ugo Piatti, Sintesi futurista della guerra, manifesto, 20 settembre 1914. 3.2 Fortunato Depero, Necessità di auto-réclame, in Id., Depero Futurista, Milano, Dinamo Azari, 1927. 3.3 Fortunato Depero, Manifesto agli industriali, in Id., Depero Futurista, Milano, Dinamo Azari, 1927. 3.4 «Il Montello», 20 settembre 1918, copertina di Mario Sironi. 3.5 Mario Sironi, Sintesi della Guerra mondiale, «Il Montello», 20 settembre 1918.





IV. Giotto, Rimbaud, Paolo Uccello

4.1 Carlo Carrà, Divagazione medianica n. 4, in Id., Guerrapittura, Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1915. 4.2 Carlo Carrà, Il fanciullo prodigio, 1916. Tempera e collage su cartone, 92 × 82 cm. Collezione privata. 4.3 Carlo Carrà, Bambina, 1916. Olio su tela, 67 × 52 cm. Collezione privata. 4.4 Carlo Carrà, Il gentiluomo briaco, 1916. Olio su tela, 60 × 45 cm. Collezione privata.



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4.5 Carlo Carrà, I romantici, 1916. Olio su tela, 150 × 162 cm. Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Rovereto. V. «Uno degli imbecilli non esiste» 5.1 Carlo Carrà, La musa metafisica, 1917. Olio su tela, 90 × 66 cm. Accademia di Brera, Collezione Jesi, Milano. 5.2 «La Voce», 8 dicembre 1910. 5.3 Ardengo Soffici, Il mandolino del Carso, 1919. Olio su tela. Collocazione sconosciuta.

VII. Iconografia e ideologia nei «selvaggi» di Toscana

7.1 Mino Maccari, Con un piede nella fossa, «Il Selvaggio», 19 luglio 1925. 7.2 Mino Maccari, La sola legge efficace contro la Massoneria, «Il Selvaggio», 30 settembre 1925. 7.3 Mino Maccari, Noli me tangere, «Il Selvaggio», 30 settembre 1925. 7.4 Michail Larionov, Venere, «Lacerba», 17 aprile 1915. 7.5 Ottone Rosai, Disegno, «Il Selvaggio», 31 maggio 1926. 7.6 Ottone Rosai, Disegno, «Il Selvaggio», 15-30 luglio 1926. 7.7 Ardengo Soffici, Carrà sur le motif, «Il Selvaggio», 1 ottobre 1926. 7.8 Giorgio Morandi, Disegno, 1920, «Il Selvaggio», 31 maggio 1927.

VIII. Classico e italiano 8.1 Giorgio Morandi, Natura morta con il cestino del pane (lastra piccola), 1921, «Il Selvaggio», 15 gennaio 1927. 8.2 Giorgio Morandi, Paesaggio con la ciminiera, 1926, «Il Selvaggio», 1 ottobre 1926. 8.3 Giorgio Morandi, Paesaggio (Casa a Grizzana), 1927, «Il Selvaggio», 15 aprile 1928. 8.4 Giorgio Morandi, Natura morta con panneggio a sinistra, 1927, «Il Selvaggio», agosto 1928.

IX. Stile nazionale, avanguardie di frontiera

9.1 Luigi Spazzapan, Riflessi, bottiglia e bicchiere, 1923. Carboncino su carta, 28 × 36 cm. Collezione privata. 9.2 Avgust Cernigoj, Natura morta, 1923. Olio su cartone, 49,3 × 38,5 cm. Musei Provinciali, Gorizia. 9.3 Ivan Čiargo, Linee di forza (Autoritratto), 1928. Grafite su carta, 21,4 × 16,8 cm. Goriski Muzej, Nova Gorica. 9.4 Veno Pilon, Paula, 1923. Olio su tela, 90,5 × 61,2 cm. Pilonova Galerija, Aidussina. 9.5 Giannino Marchig, Il mattino, 1928. Olio su tela, 105,5 × 190,5 cm. Musei Provinciali, Gorizia. 9.6 Carlo Sbisà, Elisabetta e Maria, 1926. Olio su tela, 106 × 82 cm. Musei Provinciali, Gorizia.

Nota al testo

Una versione ridotta del primo capitolo è stata presentata al convegno «Il Futurismo nelle avanguardie» (Milano, 4-6 febbraio 2010) e pubblicata nei relativi atti (Roma, Edizioni Ponte Sisto, 2010, pp. 383-396). Cubismo e tradizione italiana è il testo scritto per il catalogo della mostra Il cubismo. Rivoluzione e tradizione, a cura di M. McCully (Palazzo dei Diamanti, Ferrara, Ferrara Arte, 2004, pp. 56-63). Il quarto capitolo è stato pubblicato con il titolo Giotto, Rimbaud, Paolo Uccello: il 1916 di Carlo Carrà, «Lettere Italiane», 2, 2004, pp. 225-262; viene qui riproposto senza le appendici documentarie. Uno degli imbecilli non esiste è stato presentato in prima stesura al convegno Artisti in viaggio. Presenze foreste in Friuli Venezia Giulia (Udine, 2006) e nei successivi atti (a cura di M. P. Frattolin, Venezia, Cafoscarina, 2011, pp. 369-386). I capitoli sesto e settimo derivano, con un’ampia rielaborazione e varie integrazioni, dal saggio Ideologia e iconografia dei “selvaggi” di Toscana, 19251929, scritto per la mostra Mino Maccari. L’avventura de “Il Selvaggio”. Artisti da Colle a Roma, 1925-1943 (Colle Val d’Elsa, 1998-1999, catalogo, Siena, Musolino e Maschietto, 1998, pp. 139-168). L’ottavo capitolo è stato pubblicato nel catalogo della mostra Giorgio Morandi (Galleria d’Arte Moderna di Torino, 2000; Torino, Allemandi, 2000, pp. 31-42). L’ultimo capitolo, infine, riprende con molte integrazioni il testo introduttivo al catalogo La pinacoteca dei Musei Provinciali di Gorizia (Vicenza, Terra Ferma, 2007, pp. 31-37).

Indice dei nomi

«L’Action Française» 76n Adamson, Walter 16n, 49n Adorno, Theodor W. 11n Affron, Matthew 183n Agosti, Giacomo 174n Allegretti, Umberto 23n «L’Ambrosiano» 182n, 183n Amendola, Giovanni 159 Angiolillo, Michele 34 «Antieuropa» 193n, 239n Antliff, Allan 31n Antliff, Mark 41n, 183 Apollinaire, Guillaume 56, 65, 66, 71, 99, 181n Arcangeli, Francesco 196 «Le Arti Plastiche» 149 Ascoli, Graziadio Isaia 235 «L’Assalto» 208 «L’Aurora» 227, 230, 233-234 «Avanguardia socialista» 22, 25n «L’Avanti!» 21, 24, 45, 143 «Gli Avvenimenti» 88 Bacchelli, Riccardo 197 Bacci, Baccio Maria 182n Bakunin, Michail 25, 33 Baldacci, Paolo 124n Baldini, Antonio 130 Balduini, Antonio 167 Balilla Pratella, Francesco 40n Balla, Giacomo 72, 85, 94, 239 Bargellini, Piero 204 Barilli, Renato 241 Barocchi, Paola 149n, 198n «La barricata» 33 Bartoletti Poggi, Maria 130n

Bartoli, Amerigo 153, 193, 201 Bartolini, Luigi 187, 193, 211 «La battaglia proletaria» 28, 31n Baumeister, Willi 234 Beccaria, Arnaldo 195 Beckmann, Max 215 Bellini, Eraldo 130n Beltrame, Achille 43 Bencini, Angiolo 157 Benco, Silvio 226 Benda, Julien 193 Benzi, Fabio 88n, 96n, 187 Beonio Brocchieri, Vittorio 180n Berenson, Bernard 115, 116n Berghaus, Günter 44n, 46n Bergson, Henri 25, 239 Berti, Giampietro 34n Bertocchi, Nino 214 Bettini, Leonardo 33n Biagi, Bruno 185n Biondi, Marino 130n Birolli, Renato 217 Birolli, Zeno 89n Bissolati, Leonida 27, 50, 53 Bistolfi, Leonardo 166 Boccioni, Umberto 30-32, 39, 54-56, 63, 65-66, 69-71, 86, 88-89, 95, 9899, 104-105, 114, 164, 219, 231, 239, 247 Bohn, Willard 226n Bolaffio, Vittorio 231 Boncinelli, Evaristo 187-188 Bonomi, Ivanoe 22n, 50 Borchardt, Wolfgang 15, 54 Bordoni, Carlo 178 Borgese, Giuseppe Antonio 77



252 Borgianni, Orazio 198 Bottai, Giuseppe 186, 187 Bourdelle, Émile Antoine 187 Bourdieu, Pierre 224n Braccialarghe, Comunardo 19 Bragaglia, Anton Giulio 177, 239n Brandi, Cesare 195, 196n Braque, Georges 8, 59-60, 62, 64, 6667, 136 Brass, Italico 231 Braun, Emily 16n, 96n, 150n, 201n Bresci, Gaetano 34, 38 Broch, Hermann 57 Broglio, Mario 197 Brunello, Piero 36n Bucci, Anselmo 143 Buzzi, Paolo 72 Cabrini, Angiolo 50 Cadorna, Luigi 138 «Cahiers d’Art» 235 Calogero, Georges 34n Calvesi, Maurizio 39n Campigli, Massimo 182, 183n Cannistraro, Philip V. 149n Cánovas del Castillo, Antonio 30 Capello, Luigi 138 Caravaggio (Michelangelo Merisi) 198 Cardarelli, Vincenzo 114, 198, 210, 211 Cardile, Emilio 39, 48 Carducci, Giosuè 36 Caretti, Lanfranco 98n Carmelich, Giorgio 226, 230, 233 Carnot, Sadi 34 Carpaccio, Vittore 116 Carpi, Umberto 33n, 237n Carrà, Carlo 8-9, 11-12, 15-20, 24, 2831, 33, 36, 38-41, 43-44, 49, 54-57, 63-72, 94, 97-119, 121-129, 134, 141-143, 156, 164, 167, 179-185, 188-193, 200-201, 208-209, 212, 214-215, 247-249 «La Casa Bella» 214 Casali, Claudia 108n Caserio, Sante 34 Casorati, Felice 241 Cassagne, Jean 64n Cattaruzza, Marina 228n, 236n

modernità e nazione Cavacchioli, Enrico 39, 48 Cavallo, Luigi 125n, 129n, 145n, 155, 201n Cavallotti, Felice 36 Cavazza, Stefano 38n Cecchi, Emilio 116n, 172n Čermelj, Lavo 228n Cernigoj, Avgust 231-233 Cézanne, Paul 59, 61, 143, 156, 171, 174, 198, 209 Chardin, Jean-Baptiste-Siméon 171 Chessa, Gigi 214 Chiesi, Maria Cristina 98n, 101n Chiummo, Carla 115n Ciampi, Alberto 33n Čiargo, Ivan (Giovanni Ciargo) 230-234 Ciccuto, Marcello 115n Cinelli, Barbara 193n Cinti, Decio 51 Citroen, Paul 15 Cocteau, Jean 193 Coen, Ester 39n, 49n «Comoedia» 181, 182n «La Conquista dello Stato» 155 Consiglio, Alberto 191 Conti, Angelo 116 «Il Convegno» 170, 182n Coppola, Francesco 81 Cork, Richard 83n Corot, Camille 174, 209 Corra, Bruno 226n Corradini, Enrico 79n «Corriere della Sera» 18, 23n, 136 «Corriere Italiano» 153 Corti, Vittoria 188n Cossar, Ranieri Mario 246n «Costruire» 156n Courbet, Gustave 60, 209 Cozzani, Ettore 115n Crali, Tullio 237-238, 240 «La Critica» 221 «Critica Fascista» 146n, 178, 185n «La Critica Sociale» 21 Croce, Benedetto 26n, 27, 116, 139, 180, 221 Curcio, Gennaro Giuseppe 193 Cuzzi, Umberto 237 d’Alba, Antonio 50



indice dei nomi D’Annunzio, Gabriele 80, 83-84 D’Orsi, Angelo 76n, 86n, 220 Da Verona, Guido 166 Dami, Luigi 136n Dante Alighieri 66, 148 Davis, John 23n De Amicis, Edmondo 36, 166 De Chirico, Giorgio 9, 11, 112, 123-126, 129, 141, 170, 181-183, 197-198, 241 «Dedalo» 185 De Felice, Renzo 20n, 33n, 81n, 82n, 150n, 158n, 161n, 193n, 237n De Finetti, Gino 231 De Grassi, Marino 229, 238n De Grazia, Victoria 149n, 202n De Maria, Luciano 45n De Pisis, Filippo 68, 171, 193 De Robertis, Giuseppe 97-99, 101-111, 114 De Sabbata, Massimo 187n Degas, Edgar 156, 187 Del Carria, Renzo 21n Del Massa, Aniceto 208 Del Rigo, Arrigo 167 Delacroix, Eugène 174 Delaunay, Robert 65-66, 72n Delcroix, Carlo 204 Della Volpe, Nicola 87n Delneri, Annalia 229n Denis, Maurice 140 Depero, Fortunato 73, 222 Derain, André 117 Detaille, Édouard 56 Dix, Otto 215 Dolfi, Emilio Mario 233 Dottori, Gerardo 222 Duchamp, Marcel 66 Dudreville, Leonardo 142 Dunn, Seamus 71n «L’Eco dell’Isonzo» 225, 226, 238, 239 Elisabetta di Baviera 34 «Emporium» 40 Ensor, James 203 Ermacora, Chino 231n Ernst, Max 215 Fagiolo dell’Arco, Maurizio 103n Fagone, Vittorio 99n, 151n

253 Farinacci, Roberto 161n Fattori, Giovanni 174, 209 Fautrier, Jean 196 Federzoni, Luigi 81 Fergonzi, Flavio 13, 57n, 89n, 97n, 99n, 174n, 197n, 198n, 202n, 240n Ferrari, Severino 37 Ferrer, Francisco 48 Ferrero, Guglielmo 78-79 Ferri, Enrico 24, 45 «Le Figaro» 80 Fischer, Fritz 80n Flora, Francesco 156n, 221 «La folla» 23, 33 Forgacs, David 158n Fornari, Luca 33n Fortunato, Giustino 23n Fossati, Paolo 142n, 175n, 197n Franchi, Raffaello 175n, 191n, 198, 214, 215n Franzina, Emilio 39n Fraser, Thomas G. 71n Freud, Sigmund 78 Funi, Achille 142, 169, 188 Fussell, Paul 9, 86 Gadda, Carlo Emilio 134, 138 Gagliani, Dianella 36n Galante, Nicola 167, 185, 212 «Galleria» 153, 173 Galli, Alessandro 16 Galli, Angelo 15-17, 19, 29, 36, 38 Gallo, Oscar 167 Garibaldi, Giuseppe 19, 52 Garin, Eugenio 27n, 76n Gatti, Angelo 127, 128n Gatti, Luigi 87n Gauguin, Paul 140 Gemelli, Agostino 87 Genette, Gérard 173 Gentile, Emilio 220n Gentile, Giovanni 44n, 53n, 57n, 145 Gentileschi, Orazio 198 George, Waldemar 183 «Gerarchia» 96, 146, 185n Gerebzova, Anna 164 Gibelli, Antonio 86n, 87n Gibellini, Pietro 116n Giglioli, Odoardo Hillyer 115n



254 «Gil Blas» 62n Ginex, Giovanna 151n Giolitti, Giovanni 20-21, 49, 50, 82 Giotto di Bondone 8-9, 66, 102-103, 106, 109-110, 114, 148, 209 Giovannelli, Alberto 222 Giovannini, Claudio 38n Giuliani, Alfredo 54n Giuliotti, Domenico 157 Gleizes, Albert 66-67 Gnudi, Cesare 195, 196n Gobetti, Piero 226 Godoli, Ezio 33n Goisis, Giuseppe Ludovico 25n Gori, Pietro 33-35, 36n Gorni, Giuseppe 167, 192, 204 Goya y Lucientes, Francisco José 174 Gramsci, Antonio 25, 221 Graziani, Rodolfo 138n El Greco (Dominikos Theotokopoulos) 66 Gris, Juan 67 Grosz, Georg 41 Guagnini, Elvio 244n Guglielminetti, Amalia 166 Guillaume, Paul 125 Guttuso, Renato 193 Guzzi, Domenico 112n Haftmann, Werner 199n Halperlin, Joan H. 16n Hanna, Martha 83n Havel, Hippolyte 31n Hayez, Francesco 198 Herf, Jeffrey 12 Hourcade, Olivier 56n Hughes, Henry Stuart 78n Hultén, Pontus 49n Iannaccone, Giuseppe 39n «L’Illustrazione Italiana» 32, 37 «Imago» 78n Ingres, Jean-Auguste-Dominique 198 «L’Intransigeant» 51 Invernizio, Carolina 166 Isnenghi, Mario 34n, 74, 86, 87n, 93n «L’Italia Letteraria» 216 «L’Italiano» 142n, 171, 201, 214, 217

modernità e nazione Jahier, Piero 154 James, William 78 Jensen, Robert 224n Jünger, Ernst 121 Kachur, Lewis 57n Kahnweiler, Daniel-Henry 60, 66-67 Kassàk, Lajos 31 Kropotkin, Pëtr Alekseevič 33, 78 Kuliscioff, Anna 17 Labriola, Antonio 21-22, 25, 27, 34, 45 «Lacerba» 48, 53n, 57n, 59, 66, 71, 72n, 75, 75-78, 81, 83-84, 98-99, 102, 110, 154, 162, 164, 172, 179, 187 Laforgue, Jules 60 Lagardelle, Hubert 21n Lamberti, Maria Mimita 54n, 162n Lannes, Mario 242 Lanzillo, Agostino 26n Larionov, Mikhail 164-165 Le Bon, Gustave 38n Leed, Eric 9, 86 Lega, Achille 145, 167-168, 174, 179, 186, 189, 192, 207, 212, 213 Lega, Silvestro 174 Léger, Fernand 65, 67 Leighten, Patricia 16n Lenin (Vladimir Il’ič Ul’janov) 25, 166 «Leonardo» 140, 162 Leonardo da Vinci 110 Leone De Castris, Arcangelo 149n Leone, Enrico 21, 25n Leopardi, Giacomo 162, 213 Levi, Carlo 214 Liebermann Max 231 Lissitzky, El (Eliezer Markovič Lisickij) 73, 234 Lista, Giovanni 33n, 40n, 44 Longanesi, Leo 171, 185, 189, 201, 209-210, 215 Longhi, Roberto 67, 173, 198, 217 Longoni, Emilio 27, 33n, 56 Loubet del Bayle, Jean-Louis 193n Lualdi, Adriano 185n Luccheni, Luigi 34 Lucchese, Enrico 241n



255

indice dei nomi Luchini, Alberto 155n Lucini, Gian Pietro 37-39, 44 Ludovici, Anthony 47 Ludovico, Roberto 115n Lupo, Salvatore 145n Luzzatti, Luigi 27 Luzzatto, Sergio 157n, 202n Maccari, Mino 153-155, 158-174, 178-179, 184, 186-193, 199, 201204, 207-217, 248, 249 Maier, Charles S. 96n Malaparte, Curzio 10, 155, 162, 166, 169, 184 Malerba, Emilio 143 Mallarmé, Stéphane 66 Maltese, Corrado 143n Manghetti, Gloria 34n, 76n Mangoni, Luisa 71n, 193n Mantura, Bruno 238 Manzoni, Alessandro 172 Maraini, Antonio 155, 163, 185n, 186187, 239 Marangoni, Antonio 222 Marangoni, Matteo 136 Marchig, Giannino 240-241 Marey, Étienne-Jules 40 Mariani, Mario 165 Marin Biagio 225 Marinetti, Filippo Tommaso 8, 32, 34, 36-38, 40, 44-49, 51-54, 70-71, 7475, 80-86, 91, 95, 97-99, 101-104, 109, 116, 150, 178-179, 220-222, 228-229, 233, 236-239, 247 Maritain, Jacques 192 Martini, Alessio 135n Martini, Quinto 167, 191 Marx, Karl 25 «Il Marzocco» 83 Masaccio (Tommaso di ser Giovanni) 8, 65, 173, 209 Masini, Pier Carlo 39n Massis, Henri 67n, 193 Mattelhart, Armand 127n «Il Mattino» 155 Maurras, Charles 76n Mazzini, Giuseppe 19, 52 Melograni Piero 93n Menzio, Francesco 214

«Mercure de France» 83n Messina, Maria Grazia 16n, 66n Metzinger, Jean 66 Micaelides, Chris 16n Michelangelo Buonarroti 65, 110 Michels, Roberto 25n, 36n Millet, Jean-François 174 Missiroli, Mario 26 Mocchi, Walter 21-22, 25 Modigliani, Amedeo 182 Moholy-Nagy, László 234 Molmenti, Pompeo 124n «Il Montello» 88-90, 95n Morandi, Giorgio 10-12, 68, 142, 182, 167, 168, 171, 175, 179, 181, 185, 187, 189, 191-192, 195-217, 248, 249 Morassi, Antonio 230 Mosse, Georg 96n Moulin, Raymond 224n Mucchi Faina, Angelica 38n Mussolini, Arnaldo 154 Mussolini, Benito 20, 33n, 50, 57, 81, 96, 138, 142, 145-147, 150, 155, 162, 163, 170n, 192, 220, 221, 226n, 239, 246 Naldi, Filippo 125 Naldini, Nico 236n Namier, Christophe 11 Nathan, Arturo 241 Nezzo, Marta 193n Nicoloso, Paolo 246n Nietzsche, Friedrich 25, 32-33, 47 Nigro Covre, Iolanda 66n Nomellini, Plinio 28 «La Nuova Antologia» 22n, 81n «Il Nuovo Paese» 153 Occhini, Pier Luigi 115n Ojetti, Ugo 84, 136, 143, 172n, 190, 191n, 214, 215n Olberg, Oda 23n Onofri, Arturo 39n Oppo, Cipriano Efisio 153, 163, 186, 187, 201, 216 Orano, Paolo 34n Oriani, Alfredo 23 Ottinger, Didier 15n



256 «Oxford and Cambridge Review» 47 Palazzeschi, Aldo 49, 98, 101 «La Panarie» 231-232 Panizza, Oskar 41 Paoletti, Aglaia 153n Paolo Uccello (Paolo di Dono, detto) 8, 40, 103, 108, 115-116 Papini, Giovanni 10-11 26n, 33n, 45, 57, 75-81, 83-84, 98, 101-102, 104111, 125-126, 130, 133-135, 101102, 104, 106-111, 125-126, 130, 133-135, 149n, 156n, 157, 172, 174, 219 Parlato, Giuseppe 139n Pascoli, Giovanni 50 Pasolini, Pier Paolo 236n Pasquali, Marilena 199n, 200n, 203n, 206n, 210n Passamani, Bruno 226n Passannante, Giovanni 34 Paulucci, Enrico 214 Pavolini, Alessandro 155 Pavolini, Corrado 212, 213n Pellizza da Volpedo, Giuseppe 39 Pellizzi, Camillo 193n Penazzo, Francesco 71, 105 Persico, Edoardo 192 Pertici, Roberto 237n Piatti, Ugo 69-70 Pica, Vittorio 40, 208 Picabia, Francis 66 Picasso, Pablo 8-9, 59, 60-62, 64-66, 99, 136, 231 Piccini, Mario 137n Pick, Donald 121n Piero della Francesca 162, 173-174 Pilon, Veno (Venceslav Pillon) 227, 230-234, 237, 240, 242 Pini, Giorgio 208 Pitigrilli (Dino Segre) 165-166 Pocar, Ervino 226n, 227n, 229, 235n Pocarini, Sofronio 222-230, 234-246 Poggi, Christine 38n, 42n Pomian, Krzysztof 222n Pontiggia, Elena 145n, 151n «Il Popolo d’Italia» 138, 143, 145, 151n, 154, 158, 213, 215 Prampolini, Enrico 222

modernità e nazione Pratelli, Esodo 213 Pratolini, Vasco 18 Preziosi, Donald 80n Prezzolini, Giuseppe 26n, 33n, 34n, 45, 51n, 77, 81, 94n, 98, 102, 138, 156n, 184n Procacci, Giuliano 21n Proudhon, Pierre-Joseph 25 Rabizzani, Giovanni 83n Rafanelli, Leda 33n Raffaello Sanzio 110, 198 Ragghianti, Carlo Ludovico 195 Ragionieri, Ernesto 23n Raimondi, Giuseppe 129n, 198, 200, 201 Rainey, Laurence 42n Raynal, Maurice 62n «Il Regno» 76, 154 Remarque, Erich Maria 128 Rembrandt van Rijn 66, 174 Renoir, Pierre Auguste 156 «Il Resto del Carlino» 26n, 77n, 209, 216 «Rete Mediterranea» 139, 140n, 153, 235 Revoltella, Pasquale 222 «La Revue des Deux Mondes» 184n Richter, Mario 117n, 126n, 135n, 150n, 156n Rigotti, Francesca 92n Rimbaud, Arthur 64, 103, 111, 17, 119n «Rinascita» 12, 196 Riosa, Alceo 81n «La rivolta» 33-34 «La rivoluzione liberale» 226 Rocco, Alfredo 79n Rodin, Auguste 187 Roll, Alfred 40 Rolland, Romain 76n Romanelli, Romano 187, 211, 215 Romeo, Rosario 71n Rosa, Salvator 203 Rosai, Ottone 145, 153, 158, 164, 167, 168, 169, 174-176, 179, 186, 188, 189, 192, 201, 203, 212, 216 Rosenberg, Léonce 183 Rosenberg, Pierre 62n



indice dei nomi Roslak, Robyn 16n Rossi, Daniela 91n Rosso, Medardo 187 Rouault, Georges 56 Rousseau, Henri 59, 103, 111, 180, 181n Rovati, Federica 40n, 54n, 88n, 97, 99n, 117n Rusconi, Gian Enrico 81n Ruskin, John 115, 116n Russolo, Luigi 31, 69-72, 142n, 239 Saint-Beuve, Charles Augustin 184n Salandra, Antonio 82, 159 Salaris, Claudia 80n Salgari, Emilio 166 Salmon, André 64n Salvagnini, Sileno 143n Salvemini, Gaetano 26, 27n Sanguineti, Edoardo 11, 38n Sant’Elia, Antonio 86 Sanzin, Bruno 233 Sarfatti, Margherita 10, 95, 142-143, 163, 177, 213-215 Savinio, Alberto 153, 182 Sbisà, Carlo 241, 243 Schiavi, Alessandro 16n Schilirò, Vincenzo 221 Schlemmer, Oskar 234 Scholz, Dieter 16n «La sciarpa nera» 33 Scipione (Gino Bonichi) 214 Sdrigotti, Maria 135 «Il Selvaggio» 10-11, 49, 84, 149, 153155, 157-193, 196, 199, 200-207, 209, 213-216, 229, 248, 249 Semeghini, Pio 167, 185 Serao, Matilde 166 Serra, Maurizio 36n, 74 Settimelli, Emilio 155n Severini, Gino 31, 55, 82, 95, 99 Shattuck, Roger 181n Signorini, Telemaco 174 Silver, Kenneth 83n Sironi, Andrea 88n, 151n Sironi, Mario 9, 11, 68, 85-92, 95-96, 115, 142n, 149-151, 158, 169 Slataper, Scipio 225, 244 Sluga, Glenda 228n

257 Soffici, Ardengo 8-9, 11, 45, 48-49, 57, 59-68, 75-76, 78, 84, 99n, 101-105, 110-111, 114, 117, 121, 125-126, 129-138, 139-156, 162-168, 170180, 183-193, 201-209, 212-213, 215, 217, 231, 235-236, 248 «Les Soirées de Paris» 118 «Solaria» 182 Somaré, Enrico 172n Sonnino, Sydney 24 Sorel, Georges 25-28 Spadini, Armando 126, 153, 167, 173, 190, 192 Spadoni, Claudio 108n Spaini, Alberto 216 Spazzapan, Luigi 230, 231, 237, 242 Spengler, Osvald 180 «La Stampa» 184 Stecchetti, Lorenzo 39 Steiner, Rudolf 73 Sternhell, Zeev 22n Stirner, Max (Johann Kaspar Schmidt) 33 Stuparich, Giani 94 Tallone, Cesare 28 Tamburi, Orfeo 193 «Tank» 237 Tarantini, Domenico 23n Tarchiani, Nello 172n Tarde, Gabriel 67n Tasso, Torquato 172 Tatlin, Vladimir 234 Tavolato, Italo 101 Tavoni, Efrem 200n, 203n, 206n, 210n Tellini, Gino 98n «Il Tempo» 125 Tersoli, Maria Antonietta 137n «Il Tevere» 212 Thiesse, Anne-Marie 11n Tiepolo, Giandomenico 123, 124n Timeus, Ruggero Fauro 242, 244n Tinti, Mario 186, 187n, 212 Tintoretto (Jacopo Robusti) 64-65, 173 Tintori, Leonetto 167, 204, 206 Tiziano Vecellio 173 Togliatti, Palmiro 12 Tolstòj, Lev Nikolàevič 78 Toorop, Jan 39, 40n



258 Torriano, Pietro 215 Tosi, Arturo 212, 213 Tranfaglia, Nicola 79n Treves, Claudio 82 Trione, Vincenzo 140n, 156 Trubeckoj, Nikolaj 180 Turati, Filippo 17, 24, 27, 45, 49-50, 53, 92 Umberto I 34 Ungaretti, Giuseppe 130, 136, 137n, 155 «L’uomo di pietra» 30 Urso, Simona 142n Uzzani, Giovanna 175 Valera, Paolo 19, 23, 33 Valeri, Nino 27n «Valori Plastici» 67, 136, 196-197, 201, 215 Van Dongen, Kees 56n Vanden Berge, Dirk 60n Varias, Alexander 16n Vasari, Giorgio 115 Vasari, Ruggero 226 Venturi, Adolfo 115 Venturi, Lionello 155, 167, 213-214 Verdi, Giuseppe 36-37 Viani, Lorenzo 153 Vigezzi, Brunello 81n Vinci, Annamaria 229n, 236n Vita-Finzi, Paolo 25n Vitali, Lamberto 199, 217 Vittorio Emanuele II 36 Vivarelli, Roberto 23n «La Voce» 9, 26-27, 35-36, 45, 48n, 50, 57, 59, 61, 66n, 72n, 76, 81, 94n, 98, 101-114, 123, 125, 143, 148, 154, 162, 231 «La Voce di Gorizia» 225, 228-231, 239 Volta, Sandro 182, 216 «La Vraie Italie» 236 Vucetich, Mario 227 Webster, Richard 46n Weininger, Otto 110 Whitman, Walt 42n Winter, Jay 83n

modernità e nazione Wittman, Laura 42n Wols (Alfred Otto Wolfgang Schulze) 196 Zanni Rosielo, Isabella 23n Zingone, Alexandra 115n Zorutti, Pietro 235 Zügel, Heinrich 231



Quodlibet Studio



analisi filosofiche

Massimo Dell’Utri (a cura di), Olismo Rosaria Egidi, Massimo Dell’Utri e Mario De Caro (a cura di), Normatività, fatti, valori Massimo Dell’Utri, L’inganno assurdo. Linguaggio e conoscenza tra realismo e fallibilismo Giacomo Romano, Essere per. Il concetto di “funzione” tra scienze, filosofia e senso comune Sandro Nannini, Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente Giancarlo Zanet, Le radici del naturalismo. W.V. Quine tra eredità empirista e pragmatismo Rosa M. Calcaterra (a cura di), Pragmatismo e filosofia analitica. Differenze e interazioni Georg Henrik von Wright, Mente, azione, libertà. Saggi 1983-2003 Elio Franzini, Marcello La Matina (a cura di), Nelson Goodman, la filosofia e i linguaggi Erica Cosentino, Il tempo della mente. Linguaggio, evoluzione e identità personale Francesca Ervas, Uguale ma diverso. Il mito dell’equivalenza nella traduzione Jlenia Quartarone, Causazione e intenzionalità. Modelli di spiegazione causale nella filosofia dell’azione contemporanea Arianna Bernardi, Intenzionalità e semantica logica in Edmund Husserl e Anton Marty Maria Primo, Alle radici della parola. L’origine del linguaggio tra evoluzione e scienze cognitive



campi della psiche

Francesco Napolitano, Sete. Appunti di filosofia e psicoanalisi sulla passione di conoscere Felice Cimatti, Il volto e la parola. Psicologia dell’apparenza Stefania Napolitano, Dal rapport al transfert. Il femminile alle origini della psicoanalisi Luca Zendri, La fabbrica delle psicosi



campi della psiche. lacaniana

Jacques-Alain Miller, L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan Éric Laurent, Lost in cognition. Psicoanalisi e scienze cognitive Jacques-Alain Miller (a cura di), L’anti-libro nero della psicoanalisi Antonio Di Ciaccia (a cura di), Scilicet. Gli oggetti a nell’esperienza psico-analitica Lucilla Albano e Veronica Pravadelli (a cura di), Cinema e psicoanalisi. Tra cinema classico e nuove tecnologie Céline Menghi, Chiara Mangiarotti, Martin Egge, Invenzioni nella psicosi. Unica Zürn, Vaslav Nijinsky, Glenn Gould Noëlle De Smet, In classe come al fronte. Un piccolo, nuovo sentiero nell’impossibile dell’insegnare Yves Depelsenaire, Un’analisi con Dio. L’appuntamento di Lacan con Kierkegaard François Regnault, Conferenze di estetica lacaniana e lezioni romane Luisella Mambrini, Lacan e il femminismo contemporaneo Rosamaria Salvatore, La distanza amorosa. Il cinema interroga la psico-analisi Jacques-Alain Miller, Commento al caso clinico dell’Uomo dei lupi Nicolas Floury, Il reale insensato. Introduzione al pensiero di Jacques-Alain Miller



discipline filosofiche

Riccardo Martinelli, Misurare l’anima. Filosofia e psicofisica da Kant a Carnap Luca Guidetti, La realtà e la coscienza. Studio sulla “Metafisica della conoscenza” di Nicolai Hartmann Michele Carenini e Maurizio Matteuzzi (a cura di), Percezione linguaggio coscienza. Saggi di filosofia della mente Stefano Besoli e Luca Guidetti (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei Circoli di Monaco e Gottinga Roberto Brigati, Le ragioni e le cause. Wittgenstein e la filosofia della psico-analisi Girolamo De Michele, Felicità e storia Annalisa Coliva and Elisabetta Sacchi, Singular Thoughts. Perceptual Demonstrative Thoughts and I-Thoughts Vittorio De Palma, Il soggetto e l’esperienza. La critica di Husserl a Kant e il problema fenomenologico del trascendentale Carmelo Colangelo, Il richiamo delle apparenze. Saggio su Jean Starobinski Giovanni Matteucci (a cura di), Studi sul De antiquissima Italorum sapientia di Vico Massimo De Carolis e Arturo Martone (a cura di), Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein Stefano Besoli, Massimo Ferrari e Luca Guidetti (a cura di), Neokantismo e fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza Stefano Besoli, Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della conoscenza Barnaba Maj, Idea del tragico e coscienza storica nelle “fratture” del Moderno Tamara Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin Paolo Di Lucia, Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive Michele Gardini e Giovanni Matteucci (a cura di), Gadamer: bilanci e prospettive Luca Guidetti, L’ontologia del pensiero. Il “nuovo neokantismo” di Richard Hönigswald e Wolfgang Cramer Michele Gardini, Filosofia dell’enunciazione. Studio su Martin Heidegger

Giulio Raio, L’io, il tu e l’Es. Saggio sulla Metafisica delle forme simboliche di Ernst Cassirer Marco Mazzeo, Storia naturale della sinestesia. Dal caso Molyneux a Jakobson Lorenzo Passerini Glazel, La forza normativa del tipo. Pragmatica dell’atto giuridico e teoria della catogorizzazione Felice Ciro Papparo, Per più farvi amici. Di alcuni motivi in Georges Bataille Marina Manotta, La fondazione dell’oggettività. Studio su Alexius Meinong Silvia Rodeschini, Costituzione e popolo. Lo Stato moderno nella filosofia della storia di Hegel (1818-1831) Bruno Moroncini, Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz Stefano Besoli (a cura di), Ludwig Binswanger. Esperienza della soggettività e trascendenza dell’altro Luca Guidetti, La materia vivente. Un confronto con Hans Jonas Barnaba Maj, Il volto e l’allegoria della storia. L’angolo d’inclinazione del creaturale Mariannina Failla, Microscopia. Gadamer: la musica nel commento al Filebo Luca Guidetti, La costruzione della materia. Paul Lorenzen e la «Scuola di Erlangen» Mariateresa Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia Daniele Cozzoli, Il metodo di Descartes Francesco Bianchini, Concetti analogici. L’approccio subcognitivo allo studio della mente Marco Mazzeo, Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza Vincenzo Costa, I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica Aldo Trucchio (a cura di), Anatomia del corpo, anatomia dell’anima. Mecca-nismo, senso e linguaggio Roberto Frega, Le voci della ragione. Teorie della razionalità nella filosofia americana contemporanea Carmen Metta, Forma e figura. Una riflessione sul problema della rappresentazione tra Ernst Cassirer e Paul Klee Felice Masi, Emil Lask. Il pathos della forma Stefano Besoli, Claudio La Rocca, Riccardo Martinelli (a cura di), L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere Adriano Ardovino, Interpretazioni fenomenologiche di Eraclito



estetica e critica

Silvia Vizzardelli (a cura di), La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea Daniela Angelucci (a cura di), Arte e daimon Silvia Vizzardelli, Battere il Tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch Alberto Gessani, Dante, Guido Cavalcanti e l’“amoroso regno” Daniela Angelucci, L’oggetto poetico. Waldemar Conrad, Roman Ingarden, Nicolai Hartmann Hansmichael Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla Critica della facoltà di giudizio Samuel Lublinski, Saggi sul Moderno (a cura di Maurizio Pirro) Mauro Carbone, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili

Raffaele Bruno e Silvia Vizzardelli (a cura di), Forma e memoria. Scritti in onore di Vittorio Stella Paolo D’Angelo, Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp Camilla Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan Clemens-Carl Härle (a cura di), Ai limiti dell’immagine Vittorio Stella, Il giudizio dell’arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani Giovanni Lombardo, La pietra di Eraclea. Tre saggi sulla poetica antica Giovanni Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione Paolo D’Angelo, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia Pietro D’Oriano (a cura di), Per una fenomenologia del melodramma Paolo D’Angelo (a cura di), Le arti nell’estetica analitica Miriam Iacomini, Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault Giovanni Gurisatti, Costellazioni. Storia, arte e tecnica in Walter Benjamin Clemens-Carl Härle (a cura di), Confini del racconto Paolo D’Angelo, Filosofia del paesaggio Francesca Iannelli, Dissonanze contemporanee. Arte e vita in un tempo inconciliato Aldo Marroni, Estetiche dell’eccesso. Quando il sentire estremo diventa «grande stile» Daniela Angelucci, Deleuze e i concetti del cinema Marco Gatto, Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente



filosofia e politica

Massimiliano Tomba, La «vera politica». Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia Alberto Burgio (a cura di), Dialettica. Tradizioni, problemi, sviluppi Patrizia Caporossi, Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile Adalgiso Amendola, Laura Bazzicalupo, Federico Chicchi, Antonio Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione Paolo B. Vernaglione, Dopo l’umanesimo. Sfera pubblica e natura umananel ventunesimo secolo Dario Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida Mauro Farnesi Camellone, La politica e l’immagine.Saggio su Ernst Bloch Le vie della distruzione. A partire da «Il carattere distruttivo» di Walter Benjamin, a cura del Seminario di studi benjaminiani Ferdinando G. Menga, L’appuntamento mancato. Il giovane Heidegger e i sentieri interrotti della democrazia Paolo Vignola, La lingua animale. Deleuze attraverso la letteratura Laboratorio Verlan (a cura di), Dire, fare, pensare il presente



filosofia e psicoanalisi

Silvia Vizzardelli e Felice Cimatti (a cura di), Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno passi



letterature omeoglotte

Silvia Albertazzi e Roberto Vecchi (a cura di), Abbecedario postcoloniale I-II. Venti voci per un lessico della postcolonialità Matteo Baraldi e Maria Chiara Gnocchi (a cura di), Scrivere = Incontrare. Mi-grazione, multiculturalità, scrittura Silvia Albertazzi, Barnaba Maj e Roberto Vecchi (a cura di), Periferie della storia. Il passato come rappresentazione nelle culture omeoglotte Beatriz Sarlo, Una modernità periferica. Buenos Aires 1920-1930 François Paré, Letterature dell’esiguità Matteo Baraldi, I bambini perduti. Il mito del ragazzo selvaggio da Kipling a Malouf

lettere Andrea Landolfi (a cura di), Memoria e disincanto. Attraverso la vita e l’opera di Gregor von Rezzori Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini, Gadda, Pagliarani, Vittorini, Zanzotto Felice Ciro Papparo (a cura di), Di là dalla storia. Paul Valéry: tempo, mondo, opera, individuo Carlo A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno Francesco Spandri, Stendhal. Stile e dialogismo Antonietta Sanna, La parola solitaria. Il monologo nel teatro francese del Seicento Marco Rispoli, Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica Giancarlo Bertoncini, Narrazione breve e personaggio. Tozzi, Pirandello, Bilenchi, Calvino Luca Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano Wilson Saba, Il punto fosforoso. Antonin Artaud e la cultura eterna Paolo Petruzzi, Leopardi e il Cristianesimo. Dall’Apologetica al Nichilismo Guido Garufi (a cura di), In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi Christoph König, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura Vito Santoro, L’odore della vita. Studi su Goffredo Parise Antonio Tricomi, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea Claudia Pozzana, La poesia pensante. Inchieste sulla poesia cinese contemporanea Vito Santoro (a cura di), Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto Francesco Fiorentino (a cura di), Figure e forme della memoria culturale Maurizio Pirro, Come corda troppo tesa. Stile e ideologia in Stefan George Vito Santoro, Calvino e il cinema Giulio Iacoli, La dignità di un mondo buffo. Intorno all’opera di Gianni Celati Massimo Rizzante (a cura di), Scuola del mondo. Nove saggi sul romanzo del xx secolo Alessio Baldini, Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno Andrea Rondini, Anche il cielo brucia. Primo Levi e il giornalismo



lettere. ultracontemporanea

Matteo Majorano (a cura di), Nuove solitudini. Mutamenti delle relazioni nell’ultima narrativa francese



lingua, didattica, società

Alejandro Patat e Andrea Villarini (a cura di), Gli italianismi in Argentina Alejandro Patat (a cura di), Vida nueva. La lingua e la cultura italiana in America Latina



scienze del linguaggio

John R. Taylor, La categorizzazione linguistica. I prototipi nella teoria del linguaggio



scienze della cultura

Francesco Fiorentino (a cura di), Icone culturali d’Europa Giovanni Sampaolo (a cura di), Kafka: ibridismi. Multilinguismo, trasposizioni, trasgressioni Flavio Cuniberto, La foresta incantata. Patologia della Germania moderna Francesco Fiorentino (a cura di), Al di là del testo. Critica letteraria e studio della cultura



teoria delle arti e cultura visuale

Laura Iamurri, Lionelli Venturi e la modernità dell’impressionismo Andrea Pinotti e Maria Luisa Roli (a cura di), La formazione del vedere. Lo sguardo di Jacob Burckhardt Giovanni Gurisatti, Scacco alla realtà. Dialettica ed estetica della derealizzazione mediatica Alessandro Del Puppo, Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell’arte italiana del primo Novecento