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Italian Pages 120/125 [125] Year 2010
Frida Bertolini
Contrabbandieri di verità La Shoah e la sindrome dei falsi ricordi Prefazione di Nicola Tranfaglia
“Sono ebreo” disse Charles. Lo disse con tutta la forza, l’emozione e il sollievo delle grandi confessioni della vita. […] “Da ieri” disse Charles. “In taxi” Nathan Englander, Il “gilgul” di Park Avenue in Per alleviare insopportabili impulsi Subito, non tanto per ingannare gli altri, che avevano voluto ingannarsi da sé, […] quanto per obbedire alla Fortuna e soddisfare a un mio proprio bisogno, mi posi a far di me un altr’uomo. Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal
Frida Bertolini
Contrabbandieri di verità La Shoah e la sindrome dei falsi ricordi Prefazione di
Nicola Tranfaglia
© 2010 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna
Tutti i diritti sono riservati. Questo volume è protetto da copyright. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in ogni forma e con ogni mezzo, inclusa la fotocopia e la copia su supporti magnetico-ottici senza il consenso scritto dei detentori dei diritti.
Bertolini, Frida Contrabbandieri di verità. La Shoah e la sindrome dei falsi ricordi / Frida Bertolini. Prefazione di Nicola Tranfaglia. – Bologna : CLUEB, 2010 120 p. ; 21 cm ISBN 978-88-491-3462-9
Progetto grafico: Oriano Sportelli (www.studionegativo.com)
CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.clueb.com
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INDICE
Prefazione, di Nicola Tranfaglia ......................................................
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Ringraziamenti..................................................................................
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Introduzione......................................................................................
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I. L’affaire Wilkomirski ................................................................... Premessa...................................................................................... 1 Il presunto testimone ................................................................ 2 I primi dubbi............................................................................. 3 La verità ................................................................................... 4 La reazione degli editori........................................................... 5 Cosa ha reso possibile Frantumi .............................................. 6 I rischi di una pseudo memoria ................................................ 7 Il valore della memoria simulata: il meta-testimone ................ 8 Storia, finzione e rappresentazione .......................................... 9 Memoria e autenticità............................................................... 10 Perché Frantumi può essere considerato una vera testimonianza ......................................................................
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II. Le false notizie e la coscienza collettiva: storia e testimonianza da Bloch a Wieviorka.................................... 1 Il rapporto tra storia e finzione: il ruolo della testimonianza ... 2 L’era del testimone................................................................... 3 L’uso del testimone .................................................................. 4 La parola malgrado tutto .......................................................... 5 Testimoniare il falso.................................................................
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III. Identità rubate ............................................................................. 1 La memoria della Shoah come topos storiografico .................. 2 La sindrome dei falsi ricordi .................................................... 3 Vero o verosimile? ................................................................... 4 Le vere fonti e la falsa fonte..................................................... 5 L’importanza della verità ......................................................... 6 Testimone a ogni costo............................................................. 7 Il ruolo della psicanalisi ...........................................................
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Indice dei nomi .................................................................................
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PREFAZIONE di Nicola Tranfaglia
Con l’arrivo del Ventunesimo secolo è sempre più difficile, per ragioni di età, che testimoni del massacro degli ebrei, e dei nemici della Germania nazista e dei suoi alleati, possano raccontare quel che loro è successo. Il libro di Frida Bertolini racconta tre casi di identità rubate da parte di falsi testimoni della Shoah che hanno inventato storie che li riguardano come bambini deportati, negli anni della Seconda Guerra Mondiale, e più o meno miracolosamente sopravvissuti all’orrore che ha percorso l’Europa occupata dalle SS e dai loro complici della Repubblica Sociale Italiana o di altri alleati dello Stato hitleriano. I lettori sono colpiti non solo dalla verosimiglianza che caratterizza le false testimonianze di Binjamin Wilkomirski (Frantumi), di Misha Defonseca (Misha: A Memoire of the Holocaust Years) e di Bernald Holstein (Stolen Soul), ma anche dal fatto che in un primo tempo le loro opere hanno avuto un notevole successo editoriale e non hanno ricevuto contestazioni e critiche. Ma tutte e tre, in un secondo momento, sono state analizzate più a fondo e sono state identificate come veri e propri falsi per le contraddizioni che contengono o il riferimento a episodi per i quali non esistono prove o altre testimonianze. O meglio ancora per eventi che sicuramente non sono avvenuti negli anni di cui parlano. L’autrice del libro si chiede come questo sia potuto avvenire e ne dà una spiegazione che si riferisce in parte all’elaborazione critica che un grande storico come Marc Bloch diede molti anni fa a proposito della diffusione di false notizie in Europa durante la Prima Guerra
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Mondiale e in parte al peso che le testimonianze individuali avevano avuto nel 1961 durante il processo Eichmann nello Stato di Israele. Ma l’aspetto più interessante del ragionamento di Frida Bertolini sta soprattutto in una considerazione critica che si trova nel saggio di Bloch quando lo storico delle Annales afferma che le false notizie sono come «lo specchio in cui la coscienza collettiva contempla i propri lineamenti». Nel senso che quelle fonti, pur non corrispondenti nei particolari alla realtà effettiva del passato, ci dicono tuttavia cose che avvengono in quel momento e riguardano da vicino la società di cui parlano. Si mette sullo stesso piano, in questo modo, il falso e il vero, possiamo chiederci di fronte a questo libro? Direi proprio di no, giacché resta il fatto – provato – che la storia individuale narrata dai tre autori, cui si è accennato più sopra, non riguarda la loro individualità, ma semmai quella di persone che, per usare la metafora di Primo Levi, non si sono “salvate” ma sono state “sommerse” dal massacro e tuttavia contengono un valore, sia pure parziale, di testimonianza perché riflettono un fenomeno che ha attraversato, senza dubbio alcuno, la società europea di quegli anni. Naturalmente il problema si pone con sempre maggior forza a mano a mano che ci si allontana sempre di più dagli anni in cui nazisti e fascisti europei furono protagonisti del grande massacro degli anni Trenta e Quaranta. Sarà necessario, in questo senso, un’attenzione sempre maggiore a valutare le tracce di un passato che, come rivelò negli anni Novanta l’Historikerstreit, è così difficile da digerire per gli uomini del nostro presente.
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RINGRAZIAMENTI
Desidero innanzitutto ringraziare Valerio Marchetti, relatore della tesi da cui è nato questo libro, per avermi guidato con grande premura e attenzione nell’affrontare un argomento che fin dall’inizio si è rivelato complesso e molto delicato. Ringrazio Benito Bermejo per avermi chiarito alcuni dubbi sul caso di Enric Marco e Giuliana Gagliani per il tempo che mi ha dedicato per approfondire il risvolto psicanalitico dei casi analizzati. Un grazie di cuore a Luciano Casali per aver apprezzato il mio lavoro e avermi sostenuta con affetto e determinazione. Grazie a Clueb per aver creduto in questo progetto. Un ringraziamento speciale a Henry Rousso per avermi incoraggiata a proseguire la ricerca e ad Annette Wieviorka che mi ha messo a conoscenza di nuovi documenti. Infine, vorrei esprimere la mia gratitudine alla mia famiglia cui devo la tenacia e l’onestà intellettuale, agli amici che ho tediato con il racconto delle mie “scoperte”, a Manuela che mi ha insegnato a credere in me stessa e a tutti coloro che mi hanno supportato e sopportato in questi anni.
Frida Bertolini
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INTRODUZIONE
Per comodità, si è soliti comprendere la storia della Shoah, il genocidio ebraico che ha avuto luogo in Europa dopo l’avvento al potere di Hitler, tra il 1939 e il 1945. Oggi, però, sappiamo che la storia della Shoah coincide con la storia del Novecento perché non si può slegare lo sterminio da quanto è accaduto prima del ’39 e, soprattutto per quanto riguarda la sua comprensione, da quanto è avvenuto dopo il ’45. Se la Prima Guerra Mondiale ha dato inizio alla testimonianza di massa, la Shoah ha prodotto un corpus di testimonianze di cui non esiste alcuna bibliografia esaustiva. Le vicende dei falsi testimoni, discusse in questo lavoro, si inseriscono, perciò, nel contesto della storia della testimonianza e, in particolare, nel quadro dell’evoluzione della memoria della Shoah. Ma chi sono i falsi testimoni? Nel 1995, lo svizzero Binjamin Wilkomirski pubblica un libro in cui racconta di essere un ebreo di origine lettone, sopravvissuto allo sterminio della sua famiglia e a due campi di concentramento, tra cui Auschwitz. Solo tre anni dopo, un’inchiesta giornalistica dimostra che Wilkomirski non è nemmeno ebreo. Nel 2004, è la volta dell’australiano Bernard Holstein che pubblica, a sue spese, una terribile testimonianza sugli esperimenti condotti dai nazisti nei campi. Subito dopo l’uscita del libro, una telefonata all’editore, da parte del fratello di Holstein, ha svelato che, anche in questo caso, si trattava solo di un mitomane. L’ultima falsa testimone, in ordine di tempo, è la belga Misha Defonseca il cui libro, scritto nel 1997 e pubblicato contro il parere di eminenti storici della Shoah, si è rivelato, nel 2008, il frutto dell’identificazione della donna con le vittime del genocidio.
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La storia di queste tre identità rubate, il cui comune epilogo, determinato anche dalla pressione del negazionismo, è il pubblico ludibrio, è legata a stretto filo con l’avvento dell’era del testimone, l’epoca, inaugurata dal processo Eichmann, in cui, paradossalmente, la sofferenza dei sopravvissuti è diventata premiante sul piano sociale. Nella premessa al primo capitolo, L’Affaire Wilkomirski, ho cercato di ricostruire la tortuosa traiettoria della storia della testimonianza, il cui perno principale ruota attorno al processo Eichmann, nel 1961. Prima di tale processo, celebrato in Israele, la voce dei testimoni era rimasta per lo più inascoltata. Alle testimonianze, che aprivano vecchie e nuove ferite, si era preferito l’oblio. Il processo Eichmann, invece, portò alla ribalta il testimone cui delegò, non solo la giustizia, ma soprattutto la scrittura della storia. Nell’era del testimone, il sopravvissuto acquistava così un’importante funzione sociale e la memoria della Shoah diventava il paradigma stesso del male. Un’ulteriore evoluzione della memoria della Shoah è legata a due tappe fondamentali: il film Shoah di Claude Lanzmann, negli anni Ottanta, e la creazione della Shoah Visual History Foundation di Steven Spielberg, negli anni Novanta. Mentre Lanzmann, che non si pone l’obiettivo di dare informazioni, cerca di riabilitare la testimonianza dando la parola a chi ormai non può più parlare, Spielberg sostituisce la testimonianza alla storia ponendosi come obiettivo quello di educare i giovani attraverso un meccanismo di empatia e identificazione con le vittime della Shoah. Le conseguenze, determinanti nella storia dei falsi testimoni, non si fanno attendere: la banalizzazione della Shoah e l’emergere di una “memoria protesi” come alternativa per coloro che non hanno vissuto gli eventi. Nel primo paragrafo, Il presunto testimone, ho descritto l’apparizione di Frantumi, il libro di Binjamin Wilkomirski. Wilkomirski racconta di essere stato deportato a Majdanek e ad Auschwitz quando aveva solo tre anni e di essere stato poi adottato da una famiglia svizzera che gli avrebbe imposto una nuova identità. Recuperata grazie alla psicanalisi la vera identità, Wilkomirski, in seguito, sarebbe stato in grado di narrare la sua storia. Il libro ottenne subito un grande successo e ricevette anche numerosi premi dedicati alla memoria della Shoah. Nel secondo paragrafo, I primi dubbi, ho analizzato la postfazione
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a Frantumi. Wilkomirski era stato costretto dal giornalista svizzero Helbling a dichiarare, in una postfazione, la falsità della propria identità che sarebbe dipesa dalla sua condizione di orfano della Shoah. Una volta rassicurato l’editore, Wilkomirski si era facilmente imposto come vero testimone dell’orrore nazista. Nel terzo paragrafo, La verità, ho ricostruito l’inchiesta giornalistica di Ganzfried che ha convinto l’editore Suhrkamp (quarto paragrafo, La reazione degli editori), dopo le ulteriori e definitive ricerche dello storico Maechler, a ritirare Frantumi dalle librerie. La mancata confessione da parte di Wilkomirski impedisce tuttora una riclassificazione di Frantumi il cui valore e ruolo nella letteratura e nella storiografia della Shoah non sono stati ancora approfonditi. Lo scandalo fece, inoltre, emergere la mancanza di un sistema di controllo sulle testimonianze che, unito a un generale timore nell’esprimere dubbi sul racconto dei testimoni (quinto paragrafo, Cosa ha reso possibile Frantumi), avrebbe autenticato le false memorie di Wilkomirski. La memoria di Wilkomirski è una memoria di sostituzione, frutto dell’identificazione con la più grande tragedia del Novecento a causa della mancata accettazione della propria identità di bambino abbandonato. Wilkomirski è il testimone di un trauma che è penetrato nel discorso sociale, dopo che il processo Eichmann, nodo cruciale nell’evoluzione del discorso storico e della memoria collettiva, ha inaugurato l’era del testimone e ha trasformato le vittime della Shoah nelle vittime per eccellenza. Impressionato dalla tragedia ebraica, Wilkomirski si sarebbe perciò convinto di essere ebreo, aiutato in questo dalla psicanalisi e dalle organizzazioni ebraiche impegnate a ridare un’identità agli orfani della Shoah. L’atteggiamento di persone autorevoli nel campo della Shoah come Wiesel e Lanzmann (sesto paragrafo, I rischi di una pseudo memoria) può essere utile per spiegare come mai nessuno si sia preso la libertà di dubitare di Wilkomirski: la Shoah è un fenomeno incomprensibile e il dubbio intacca la sacralità del testimone. La stessa rinuncia a comprendere sarebbe, dunque, l’unica attitudine etica possibile. Lanzmann, inoltre, valorizza a tal punto la testimonianza che l’autorità del testimone si impone sull’autenticità stessa di ciò che ha testimoniato. È proprio questo atteggiamento e la rinuncia a comprendere che facilitano però la mistificazione che, a sua volta, rende sospette tutte le testimonianze. Nel settimo paragrafo, Il valore della memoria simulata: il metatestimone, ho analizzato la posizione degli studiosi favorevoli alla
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memoria simulata come alternativa alla mancanza totale di memoria che potrebbe verificarsi dopo la scomparsa degli ultimi veri testimoni. Attraverso questa prospettiva, Wilkomirski, che dopotutto non propone una memoria finta, ma una memoria simulata, potrebbe essere il meta-testimone dei nostri tempi postmoderni. La pressione del negazionismo, che impone sia al testimone che allo storico l’onere della prova, impedirebbe, però, di valutare l’efficacia della simulazione riproponendo inevitabilmente la problematica dell’autenticità. Ma chi è, allora, il testimone? Per molte figure impegnate nella trasmissione della memoria della Shoah, il testimone è soltanto colui che ha visto con i propri occhi, anche se in realtà, molto spesso, la sua testimonianza non apporta nulla alla conoscenza né alla comprensione del genocidio. Per Levi, il vero testimone è colui che non è tornato dai campi. Ma il caso Wilkomirski suggerisce che, forse, il testimone non è solo colui che vede, ma anche colui che accoglie una visione. La Shoah, in quanto opera umana, può e deve essere compresa (ottavo paragrafo, Storia, finzione e rappresentazione) e alla sua comprensione collaborano sia le testimonianze, caratterizzate spesso dalle distorsioni della memoria, che la letteratura, basata sui documenti e la ricerca d’archivio. Frantumi infrange la frontiera tra storia e finzione creando ai critici un grosso problema di classificazione. Tuttavia, Wilkomirski non confonde volontariamente il confine perché crede veramente in ciò che racconta. Malgrado ciò, il suo testo pone un problema etico e interpretativo. Frantumi, come le memorie di Amerigo Vespucci, sebbene non veicoli informazioni sull’evento di cui testimonia, è uno specchio della società che l’ha prodotto. Una società in cui la sovraesposizione, anche mediatica, dei testimoni, e la relativa richiesta di identificazione con le loro sofferenze, hanno creato innumerevoli “testimoni dei testimoni” la cui memoria-protesi, per alcuni, potrebbe risolvere il problema della scomparsa degli ultimi testimoni. Frantumi, inoltre, è un libro credibile, perché è così che il lettore si aspetta che sia stata l’esperienza di un bambino sopravvissuto ai lager (nono paragrafo, Memoria e autenticità). Il contesto gioca, dunque, un ruolo fondamentale nella coproduzione di una falsa testimonianza e nella sua autenticazione. Se potessimo separare il problema dell’autenticità da quello dell’autorità, potremmo inoltre affermare che Frantumi funziona come testimonianza anche se non è autentico come storia (decimo paragrafo, Perché
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Frantumi è una vera testimonianza). L’autorità di una testimonianza è data infatti non dalla precisione degli eventi narrati, ma dalla capacità di produrre effetti sul lettore. E il libro di Wilkomirski, che non fa progredire la conoscenza della storia, è nondimeno potentemente evocativo. Tuttavia, il rischio di un’operazione simile è che la Shoah diventi una metafora per ciò che è al di fuori della storia e che le false memorie non siano più distinguibili dalle testimonianze autentiche. Nel secondo capitolo, Le false notizie e la coscienza collettiva. Storia e testimonianza da Bloch a Wieviorka, ho affrontato la circolazione delle false notizie, inquadrando il caso Wilkomirski alla luce degli studi di Bloch e Wieviorka che si chiudono entrambi con un appello agli storici perché prendano in considerazione le testimonianze, non per trovarvi chiarimenti sugli eventi di cui riferiscono, ma per avere ragguagli sulla società e l’epoca da cui sono scaturite. La partecipazione alla Prima Guerra Mondiale spinge Bloch a mettersi in discussione come storico (primo paragrafo, Il rapporto tra storia e finzione: il ruolo della testimonianza). Il testimone Bloch analizza allora il valore e la funzione della testimonianza tentando di superare l’opposizione, enunciata successivamente da De Certeau, tra verità ed errore, storia e finzione. L’oggetto della storia, per Bloch, è la società e le false notizie contribuiscono ad approfondirne lo studio, perché la società accetta e diffonde il falso solo se corrisponde alle sue attese. Il falso diventa, perciò, materia di studio per lo storico in quanto testimonianza indiretta sulla mentalità collettiva. Anche la testimonianza di Wilkomirski diventa così una fonte per l’analisi della società che l’ha autenticata, accogliendola e diffondendola. Una società, quella dell’era del testimone, predisposta appunto all’ascolto dei testimoni. L’influenza dell’ambiente spiegherebbe in questo modo la creazione e la diffusione delle false notizie e spiegherebbe anche la mancanza di coraggio nell’affrontare ogni testimonianza con dubbio metodico. Le riflessioni di Bloch ritornano attuali di fronte alla massa ingente di testimonianze della Shoah (secondo paragrafo, L’era del testimone). La testimonianza riferisce, infatti, oltre all’esperienza individuale, anche i discorsi proferiti dalla società. Il testimone si esprime, perciò, con le parole appartenenti all’epoca in cui fa la sua testimonianza e a partire da un’implicita richiesta sociale che le attribuisce delle finalità che dipendono dalla posta in gioco, politica o ideologica. La memoria dell’individuo è, in altre parole, una memoria collettiva.
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La generale svalutazione delle testimonianze, da parte degli storici, ha fatto sì che fossero altre discipline, che non hanno la stessa concezione della verità, a riflettere sulla produzione delle testimonianze, sulla loro evoluzione nel tempo, sul ruolo svolto dalle testimonianze nella costruzione del discorso storico e, soprattutto, sulla comparsa dei falsi testimoni. Il testimone, come figura pubblica, emerge solo con il processo Eichmann e al prezzo di una modificazione del contenuto e del significato della sua memoria. La memoria della Shoah diventa l’elemento costitutivo di una determinata identità ebraica e la sua presenza nello spazio pubblico viene rivendicata con forza. Per la prima volta, appare anche il tema della pedagogia e della trasmissione che avrà, negli anni Novanta, implicazioni complesse e profonde. Il processo Eichmann libera la parola dei testimoni determinando una forte domanda sociale di testimonianze. L’uomo-memoria emerso dal processo Eichmann ha trasformato le condizioni stesse della scrittura del genocidio chiedendo alla società di abbandonare ogni criticità per giungere, non più alla conoscenza dell’evento, ma all’identificazione con le sue vittime. La stessa organizzazione del processo Eichmann (terzo paragrafo, L’uso del testimone) ruota attorno alla convinzione che solo i testimoni possano dare al fantasma del passato un’ulteriore dimensione: quella del reale. Nel 1982, questo criterio impronta anche la progettazione degli archivi Fortunoff. Nella scrittura della storia del genocidio, almeno fino alla comparsa dell’opera di Goldhagen, si è comunque cercato di mantenere alcune regole fondamentali del mestiere dello storico, evitando soprattutto di giocare sull’emozione. Goldhagen, invece, dichiara fin dall’inizio del suo libro di essere contrario a «una descrizione meramente oggettiva» degli eventi e di voler cercare di «comunicare l’orrore». Per l’autore de I volenterosi carnefici di Hitler, dunque, l’enormità del genocidio ebraico imporrebbe dei cambiamenti al metodo storico. La creazione, negli anni Novanta, della Shoah Visual History Foundation di Spielberg ha prodotto una vera e propria rivoluzione storiografica, la scrittura della storia a partire dalle testimonianze, e una rivoluzione culturale, la banalizzazione di un evento capitale per facilitare l’identificazione con le sue vittime. È grazie a questo ulteriore sviluppo della memoria del genocidio ebraico che Wilkomirski può servirsi del linguaggio della Shoah per esprimere il suo trauma personale. Lo storico perciò non dovrebbe allontanare il falso dalla sua ri-
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flessione, come pura finzione, ma indagarlo per scoprirvi informazioni sull’epoca di cui è il frutto. Anche l’esperienza di Wilkomirski, in base a questa prospettiva, acquisisce così una sua dignità storica che non è quella del vero testimone della Shoah quanto piuttosto quella della falsa notizia dell’era del testimone. Nel quarto paragrafo, La parola malgrado tutto, ho analizzato le riflessioni di Marianne Hirsh sulla post-memoria. La post-memoria è, per Hirsh, la memoria delle persone nate dopo la Shoah e rappresenta il legame tra le generazioni che consente la trasmissione della memoria. La post-memoria, infatti, si basa sull’identificazione con la vittima del trauma, ma porta in sé il rischio, dimostrato dal caso Wilkomirski, che l’empatia si trasformi in appropriazione dell’identità altrui, generando falsi testimoni. Ogni testimonianza, anche la più sincera, ha sempre un rapporto problematico con la realtà. La verità, tuttavia, rimane irriducibile cosicché non è sufficiente che una narrazione sia solamente efficace per essere anche autentica, altrimenti finirebbe per diventare relativa. Binjamin Wilkomirski non è il solo a essersi inventato un’esperienza concentrazionaria (quinto paragrafo, Testimoniare il falso). Nel 1978, lo spagnolo Enric Marco raccontò al giornale Por Favor di essere stato arrestato a Marsiglia dai tedeschi a causa della sua militanza antifranchista e di essere stato deportato nel campo di Flossenbürg. Divenuto il simbolo dei repubblicani spagnoli deportati, Marco ha tenuto più di cento conferenze all’anno nelle scuole di tutto il Paese, fino a quando nel 2005, lo storico Bermejo, insospettito dalle numerose incongruenze storiche della sua testimonianza, è riuscito a smascherarlo come impostore. A differenza di Wilkomirski, Marco ha confessato l’imbroglio, ma ancora oggi continua a sostenere di averlo fatto per una buona causa: l’educazione dei giovani all’orrore per vaccinarli contro ogni forma di nuova violenza. Nel terzo capitolo, Identità rubate, ho analizzato la nascita e la diffusione delle false memorie di Misha Defonseca e Bernard Holstein. Nel primo paragrafo, La memoria della Shoah come topos storiografico, ho ipotizzato, per quanto riguarda il libro di Wilkomirski, l’esistenza di un topos storiografico, quello della memoria della Shoah. Le fonti di Wilkomirski sono state, con molta probabilità, le innumerevoli testimonianze e la storiografia della Shoah. L’esistenza di un vero e proprio topos storiografico del genocidio ebraico risulta
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ancora più evidente se si prendono in considerazione anche le opere di Defonseca e Holstein. Non è da escludere che, nel caso di Defonseca, Frantumi abbia funzionato addirittura come fonte. Il libro di Defonseca (secondo paragrafo, La sindrome dei falsi ricordi) appare nel 1997 e narra l’incredibile viaggio della piccola Misha, attraverso le foreste di mezza Europa, per ritrovare i genitori “trasferiti a Est”. Sopravvissuta grazie all’adozione da parte di un branco di lupi, Misha si ritrova, alla fine del conflitto, con una nuova identità in cui non si riconosce. Dall’incontro con l’editore Daniel nacque Misha: A Memoire of the Holocaust Years, un manoscritto che, nonostante il parere sfavorevole degli studiosi interpellati, diventò in poco tempo un bestseller. Lo scarso successo americano del libro costò, però, a Daniel una denuncia per frode. Ridotta sul lastrico, Daniel decise, allora, di aprire un blog su internet per cercare di dimostrare che Defonseca aveva mentito. Grazie al blog e alla successiva inchiesta giornalistica del quotidiano belga Le Soir, Defonseca fu finalmente smascherata. Defonseca, come Wilkomirski, si è inventata un’identità di sopravvissuta per esprimere il dolore di un’infanzia infelice nei termini, più gratificanti e quasi eroici, della Shoah (terzo paragrafo, Vero o verosimile?). Sono molte le affinità tra il libro di Defonseca e quello di Wilkomirski (quarto paragrafo, Le vere fonti e la falsa fonte): entrambi sono narrati attraverso la particolare prospettiva del bambino ed entrambi raccontano avventure inverosimili. È probabile che Defonseca abbia letto il libro di Wilkomirski quando ancora era considerato un capolavoro tra le testimonianze della Shoah. Il falso, creduto vero, sarebbe stato perciò utilizzato come fonte per creare un altro falso. Il libro di Defonseca potrebbe, quindi, rappresentare uno dei possibili effetti della ricezione sociale di una falsa testimonianza. Anche nel caso di Defonseca è possibile ipotizzare l’esistenza del topos storiografico della memoria della Shoah. E, come per Frantumi, il meccanismo di autenticazione delle false memorie di Defonseca è passato attraverso le comuni conoscenze storiche sulla Shoah. Travolta dallo scandalo, Defonseca confessa la verità (quinto paragrafo, L’importanza della verità). Vera Bélmont, regista del film tratto, nel 2007, dal suo libro, difende comunque il valore della testimonianza di Defonseca che, a dispetto della falsità, riuscirebbe a coinvolgere il pubblico facendolo immedesimare nelle sorti della piccola orfana ebrea.
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Ma si può davvero rinunciare alla verità? La diffusione di false testimonianze sembra essere il risultato di un momento storico e culturale in cui il significato della sofferenza, dell’identità e della realtà è pericolosamente incerto. Negli ultimi anni, siamo stati continuamente invitati a identificarci con le sofferenze degli altri, ma non ci siamo fermati a riflettere se, in realtà, fosse una cosa giusta. Il vero problema non è la falsità della testimonianza, ma la confusione tra vero e falso e l’idea che il falso sia altrettanto efficace del vero. Che il fatto non sia determinante quanto l’effetto, con la conseguenza, già ricordata, che la realtà oggettiva diventi pericolosamente relativa. La proliferazione di false autobiografie potrebbe indurre a pensare che stia nascendo un nuovo genere letterario (sesto paragrafo, Testimone a ogni costo). Il caso più sorprendente è quello dell’australiano Bernard Holstein che pagò di tasca propria la pubblicazione del suo libro, Stolen Soul. Nel 2000, Holstein aveva contattato l’editore Judy Shorrock raccontando di essere stato deportato ad Auschwitz all’età di nove anni, di essere stato sottoposto a esperimenti medici, di essere riuscito a scappare, di essere sopravvissuto grazie a un branco di lupi, di aver incontrato un gruppo di partigiani e di essere, infine, immigrato in Australia come orfano. Una telefonata all’editore, da parte del fratello di Holstein, rivelò che, anche in questo caso, si trattava solo di una falsa testimonianza. Come Wilkomirski, anche Holstein continuò, però, a rivendicare l’autenticità dei propri ricordi, impedendo in tal modo qualsiasi tentativo di riclassificazione della sua opera. Nel settimo paragrafo, Il ruolo della psicanalisi, ho analizzato l’influenza della relazione tra paziente e terapeuta nella costruzione dei falsi ricordi. Alla base dei ricordi di Wilkomirski ci sarebbe infatti la “terapia della memoria ritrovata”, un metodo che, partendo dalla nozione di fantasma di Freud, cerca di stabilire un nesso tra sintomo e realtà finendo, spesso, col produrre falsi ricordi. Le false memorie sarebbero allora costruite combinando veri ricordi con suggestioni ricevute da altri. Durante il processo di formazione di tale memorie, il paziente dimenticherebbe la fonte delle suggestioni, così che le fonti di ricordi reali e immaginari si confonderebbero e il ricordo, dissociandosi dalla fonte, verrebbe metabolizzato come autentico. Rimane, però, un paradosso. Mentre, solitamente, la creazione di una nuova identità ha per obiettivo una prospettiva di vita migliore, la mistificazione operata da
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Wilkomirski tende a mascherare un trauma originario con un trauma addirittura peggiore. Perché, allora, una persona pretenderebbe di essere una vittima della Shoah? È possibile ricollegare l’origine di ogni memoria ritrovata al cambiamento, avvenuto nella società contemporanea, della percezione dell’Altro, artefice della sofferenza dell’individuo e unico detentore del vero risarcimento. Ed è proprio nella ricerca di ascolto che Wilkomirski, Defonseca e Holstein si comportano in modo diverso rispetto ai veri sopravvissuti i quali fanno fatica a raccontare la loro storia perché la loro percezione dell’Altro, come spazio simbolico coerente cui chiedere ascolto, è stato distrutto dall’esperienza dei campi. Per i falsi testimoni, invece, il problema non è la sparizione dell’Altro, quanto piuttosto l’ossessione di far ascoltare e risarcire le loro sofferenze. Wilkomirski, Defonseca e Holstein sarebbero, quindi, figli di un’epoca in cui la messa in discussione dell’autorità ha prodotto la sensazione che l’individuo sia necessariamente una vittima e che la verità, nascosta dentro di lui, debba trovare il modo di esprimersi per evitare che la sua identità rimanga menomata. Il furore emblematico del genocidio avrebbe spinto queste persone a un’appropriazione indebita delle sofferenze altrui per esprimere al meglio la propria identità. La sintesi del caso Wilkomirski, che ho utilizzato anche come paradigma per l’analisi delle false testimonianze di Defonseca e Holstein, mi è stata possibile grazie all’esistenza di numerose monografie, a cominciare dagli esaustivi lavori di Philip Gourevitch, The Memory Thief, e Stefan Maechler, The Wilkomirski Affair: A Study in Biographical Truth. La Mémoire saturée di Régine Robin e L’era del testimone di Annette Wieviorka mi hanno, invece, permesso di inquadrare Frantumi nell’ambito della storia della testimonianza e dell’evoluzione della memoria della Shoah. Il testo di Wieviorka, in particolare, mi è servito per collegare il falso sopravvissuto Wilkomirski all’elaborazione della figura del testimone, inaugurata col processo Eichmann e passata attraverso l’americanizzazione della Shoah cui ha dato inizio il film di Spielberg Schindler’s List. Per lo studio dell’origine e della circolazione delle false notizie mi sono avvalsa, soprattutto, del testo di Marc Bloch, La guerra e le false notizie, che mi ha fornito gli strumenti per la comprensione del
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ruolo svolto dalle testimonianze nella costruzione della memoria e dell’identità collettiva. Il testo di Bloch è stato fondamentale, inoltre, per chiarire l’importanza delle false testimonianze quali fonti per l’analisi della società e dell’epoca in cui hanno avuto origine. Alla fine del suo libro, L’era del testimone, Wieviorka si domandava quale sarebbe diventato il paesaggio della testimonianza quando la rivoluzione storiografica e culturale, iniziata con Steven Spielberg, si fosse compiuta e quale visione della Shoah avrebbero avuto i giovani nati tre generazioni dopo l’evento. Il caso Wilkomirski, così come gli studi sulla prosthetic memory sembrano proprio una risposta a questi interrogativi. Può la memoria simulata essere una modalità di racconto possibile dopo la scomparsa degli ultimi testimoni? Quali informazioni veicolano le false testimonianze? È sufficiente, come si è detto per Wilkomirski e Defonseca, separare il messaggio dell’opera dal suo autore? Se è vero che sostenere che non si può comprendere la Shoah è dannoso perché scoraggia chi vuole cercare di capire, è altrettanto vero che l’insistente invito all’identificazione ha prodotto una banalizzazione del genocidio e la conseguente fioritura di false testimonianze. L’efficacia del racconto, diversamente da quanto afferma White, non può e non deve far passare per autentica una falsa testimonianza perché la Shoah è una realtà oggettiva, quanto il tentativo di soppressione di un intero popolo. I libri di Wilkomirski, Defonseca e Holstein non possono, pertanto, sostituirsi al racconto dei veri testimoni come modalità discorsiva alternativa. Ma non possono nemmeno essere considerati semplice letteratura. Sono piuttosto, come le false notizie della guerra, lo specchio in cui, come afferma Bloch, «la coscienza collettiva contempla i propri lineamenti».
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CAPITOLO I
L’AFFAIRE WILKOMIRSKI
Premessa I sopravvissuti ai campi di concentramento stanno progressivamente scomparendo. La memoria lascia il posto alla storia o, più esattamente, ci stiamo avviando verso una nuova età della memoria. Chi e come parlerà di Auschwitz dopo la scomparsa degli ultimi testimoni? Questi, inevitabilmente, porteranno con loro la propria modalità discorsiva, la singolarità di un’esperienza che non può essere trasmessa. Ma la loro memoria, già da tempo, si sta facendo espropriare da altri discorsi, da altre forme di rappresentazione, forse addirittura da un altro tipo di memoria. Chi saranno i nuovi testimoni? La legittimazione del racconto dei sopravvissuti comincia solamente col processo Eichmann, agli inizi degli anni Sessanta.1 Ripercorrendo le vicissitudini del primo libro di Levi, Se questo è un uomo,2 possiamo facilmente capire come, prima di questa data, ci fosse stato non solo poco interesse nei confronti del racconto dei sopravvissuti, ma anche la volontà di mettere una pietra sopra il passato. Negli anni immediatamente successivi alla guerra, infatti, i testimoni non trovarono ascolto. Pochi, del resto, erano pronti a parlare, 1 Annette Wieviorka, L’Ère du témoin, Plon, Paris, 1998; trad. it. L’era del testimone, Cortina, Milano, 1999. 2 Se Questo è un uomo è stato pubblicato, per la prima volta e in pochi esemplari, nel 1947 dall’editore De Silva. Le poche copie conservate a Firenze furono perdute nell’alluvione del 1966. È solo nel 1958 che, pubblicato da Einaudi, il libro conosce un grande successo.
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sicuri com’erano che la loro incredibile esperienza non sarebbe stata creduta. «Nessuno voleva ascoltarci». – Ricorda Elie Wiesel – «Perché mettevamo l’umanità davanti alla sua vergogna. Si aveva pietà di noi. Mi ci sono voluti dieci anni per cominciare a parlarne. E del resto io parlo poco, ne parlo poco e ne parlo male. È così. Ad ogni modo, non volevano ascoltarci. […] I partigiani piacevano, ma i deportati no. […] Perché era stato toccato il fondo di un abisso, l’abisso dell’Umanità. È stato svelato ciò di cui l’uomo è capace. Nel bene come nel male. Erano i limiti estremi. Davamo fastidio, creavamo imbarazzo».3
Il processo Eichmann segnò, dunque, una svolta: l’inizio dell’era del testimone. Se questo è un uomo diventò in breve tempo un bestseller. Tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, fu la volta della creazione di archivi di testimonianze, foto e documenti relativi alla Shoah.4 Nel 1973, Claude Lanzamann cominciò a lavorare alla realizzazione di Shoah, un lungometraggio fatto solo di testimonianze, che, nelle parole dell’autore, non sarebbe stato possibile se anche lui fosse stato deportato con tutta la famiglia. «Per assumere, infatti, la posizione di testimone dei testimoni occorreva essere allo stesso modo dentro e fuori, o meglio, fuori e dentro».5
Nel 1985, quando Shoah fu presentato al pubblico, si parlò di un capolavoro di cinema e storia. Durante la proiezione del film, a New York, un rabbino chiese di recitare il Kaddish, la preghiera ebraica per i morti. Lanzmann era riuscito a far rivivere concretamente il ricordo di tutti quei morti senza tomba.6 Shoah non aveva, infatti, come scopo quello di dare informazioni, ma quello di riabilitare la testimonianza, dando la parola a chi ormai non poteva più parlare.7 3
Semprún-Wiesel, Tacere è impossibile, Dialogo sull’Olocausto, Guanda, Parma, 1996, p. 17. 4 Régine Robin, La mémoire saturée, Stock, Paris, 2003. 5 Introduzione di Frediano Sessi a Claude Lanzmann, Shoah, Bompiani, Milano, 2000, p. 1. 6 Ibid. 7 Claude Lanzmann, Parler pour les morts, «Le Monde des débats», Maggio 2000.
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Una breve storia della testimonianza non può, infine, non tener conto della nascita, negli anni Novanta, della Shoah Visual History Foundation di Steven Spielberg. Le circa 52.000 testimonianze raccolte dal regista americano, tra il 1994 e il 1999, furono inserite in un database elettronico insieme ad altre informazioni connesse: archivio familiare del testimone, foto, carte del campo o del ghetto in questione. Obiettivo della Fondazione, l’educazione dei giovani alla Shoah attraverso un meccanismo di empatia e di identificazione con le vittime.8 Per Wieviorka si tratta di un’operazione che sostituisce la testimonianza alla storia con tutti i rischi che comporta la scrittura della storia a partire dalle sole testimonianze.9 La video testimonianza trasforma inoltre la rimemorazione, annullando l’oscillazione del testimone tra la memoria profonda, quella dei campi, e la memoria ordinaria, con uno sbilanciamento verso la sola memoria ordinaria che tende ad appiattire tutto. Anche l’orrore. È la nascita, da una parte, di una Shoah “politicamente corretta” che, però, rischia di cancellare quei morti cui, invece, si vorrebbe dare la parola e, dall’altra, l’emergere, nella cultura della società di massa, di una “memoria protesi”, a disposizione di quanti non hanno vissuto determinati eventi.10 Questa politica dell’empatia rischia però, a mio avviso, di non favorire l’approfondimento della conoscenza storica dei fatti, quanto piuttosto il soddisfacimento del senso di colpa collettivo attraverso letture o immagini potentemente evocative. Ma l’era del testimone è anche il momento in cui i testimoni, per ovvie questioni anagrafiche, cominciano a scomparire. Tra la fine degli anni Ottanta e il 2000, la traiettoria giudiziaria dei processi ai negazionisti sembra, inoltre, completare la definitiva liquidazione dei testimoni. Se il processo Eichmann coincide con la sacralizzazione delle vittime, i processi ai negazionisti, invece, sono dei veri e propri processi 8
Robin, La mémoire saturée, cit. Wieviorka, L’era del testimone, cit. 10 Alison Landsberg in America, The Holocaust and the Mass Culture of Memory: Toward a Radical Politics of Empathy, «New German Critique: An Interdisciplinary Journal of German Studies», Primavera/Estate 1997 (71). 9
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alla storia in cui le vittime sono costrette a portare le prove di ciò che è stato. Nel 1988, il negazionista Ernst Zundel fu scagionato perché la Corte Suprema del Canada trovava che l’opposizione tra fatto e interpretazione, nel contesto della storia, fosse impossibile da stabilire.11 Così, la parola dei testimoni, rimasta senza ascolto dopo la liberazione dei campi e legittimata al processo Eichmann, è stata ridicolizzata, delegittimata e posta sotto silenzio nei processi contro i negazionisti. Il caso di Binjamin Wilkomirski, l’uomo che, dal 1995 al 1998, ha colpito e commosso il mondo intero con il racconto di un’infanzia violata dal lager, si inserisce a pieno titolo nella storia della testimonianza. L’origine e il successo di Frantumi, il libro di Wilkomirski, furono senza dubbio legati all’emergere di un nuovo atteggiamento nei confronti della Shoah che portò all’identificazione con le vittime dei campi. La successiva sparizione del libro, dopo la scoperta di una verità diversa da quella testimoniata da Wilkomirski, fu invece determinata dalla pressione del negazionismo che, ancora oggi, impedisce agli studiosi della Shoah di valutare l’efficacia di una testimonianza simulata per identificazione al dramma, riproponendo, invece, la problematica dell’autenticità.
1. Il presunto testimone Dai tempi del Diario di Anne Frank,12 nessun’altra testimonianza di una giovane vittima della Shoah ha colpito maggiormente l’opinione pubblica di Frantumi. Un’infanzia. 1939-1948 di Binjamin Wilkomirski.13 11
Robin, La mémoire saturée, cit. Anna Frank, Diario, Einaudi, Torino, 1954. 13 Binjamin Wilkomirski, Frantumi. Un’infanzia. 1939-1948, trad. it. Mondadori, Milano, 1996. L’originale è stato pubblicato in tedesco, Bruchstücke, Suhrkamp, Francoforte, 1996. La maggior parte degli autori citati in questo lavoro fa, invece, riferimento all’edizione americana, Fragments: Memories of a Wartime Childhood, 1939-1948, Schoken Books, New York, 1996, tradotto da Carol Brown Janeway. 12
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Il libro racconta, infatti, la terribile esperienza concentrazionaria di un bambino che, a soli tre anni, si ritrova a essere l’unico sopravvissuto di una numerosa famiglia ebraica lettone, sterminata dalla ferocia nazista. In Frantumi, Wilkomirski ricostruisce i suoi ricordi attraverso il particolare punto di vista di un bambino che, ignaro di qualsiasi logica adulta, può rievocare i fatti attraverso le toccanti e potenti immagini di una memoria esclusivamente fotografica.14 Frantumi, pubblicato in tedesco nel 1995 dall’editore Suhrkamp, ebbe immediatamente un incredibile successo e fu tradotto, in seguito, in tredici lingue.15 Nell’edizione tedesca, un grande storico come Daniel Goldhagen, autore del libro I volenterosi carnefici di Hitler, offrì nella quarta di copertina un giudizio molto positivo. In Israele, due scrittici affermate come Batya Gur e Ruth Almog celebrarono l’autenticità delle memorie frammentate del piccolo Binjamin.16 In Italia, Erri De Luca, sul Corriere della Sera, definì Wilkomirski «più che il fratellino, la premessa di Anna Frank: di dieci anni più piccolo, di mille più duro».17 Mary Salony, sul Library Journal, e Susannah Heschel, su Tikkun, lodarono la mancanza di artificio del libro che, secondo Henschel, era profondo quanto gli scritti di Primo Levi e Jean Améry.18 Anche i curatori dell’edizione italiana non mancarono di sottolineare nel risvolto di copertina: «Tra i moltissimi – forse troppi – libri sulla persecuzione nazista degli ebrei, questo di Wilkomirski è assolutamente unico e merita di stare 14 «I miei ricordi più antichi assomigliano a un campo di macerie: immagini isolate e materiali di scarto. Schegge di memoria dai contorni duri, affilati come lame, che ancora oggi a stento riesco a toccare senza ferirmi. Disseminate spesso in maniera caotica, queste schegge solo di rado si lasciano disporre nel tempo e seguitano a resistere con ostinazione alla volontà ordinatrice dell’adulto e a sottrarsi alle leggi della logica». Wilkomirski, Frantumi. Un’infanzia. 1939-1948, cit., p. 4. 15 Martin Arnold, In Fact, It’s Fiction, «New York Times», 12 Novembre 1998. 16 Alon Altaras, Quel lager inventato, «La Repubblica», 13 Marzo 2006. 17 Erri De Luca, Cartoline da un lager, «Corriere della Sera», 22 Febbraio 1996. 18 Mary Salony, Review of Wilkomirski, Fragments: Memories of a childhood, 1939-1948, «Library Journal», Agosto 1996 (121, 13); Susannah Heschel, Review of Wilkomirski, Fragments, «Tikkun», Marzo/Aprile 1997.
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accanto a quelli di Anne Frank, Primo Levi ed Elie Wiesel: ci aiuta a capire e a ricordare uno degli aspetti più mostruosi dell’Olocausto, lo sterminio dei bambini».19
Wilkomirski ricevette anche importanti premi dedicati alla memoria della Shoah, nella categoria autobiografia/testimonianza: il Jewish Quarterly a Londra, il premio Mémoire de la Shoah a Parigi e il National Jewish Book Award a New York.20 Quest’ultimo premio, in particolare, avvicinò Wilkomirski a Elie Wiesel nella lista dei finalisti per la sezione non-fiction.21 Nel discorso di consegna del prestigioso premio francese, Simone Veil si rivolgeva così a Binjamin Wilkomirski: «Emozione… ecco ciò che si prova leggendola […]. Perché in questo breve testo […] il lettore non viene risparmiato. E suppongo che questo libro lei non l’abbia scritto, o almeno non l’abbia concepito in origine, per altri se non lei stesso o per coloro che, come lei, hanno vissuto non soltanto la Shoah, ma anche il trauma ulteriore di un’implacabile richiamo al dovere di dimenticare. […] E tuttavia, né il silenzio, né l’imposizione dell’oblio hanno avuto ragione della memoria. […] Con questo libro, con la sua stessa persona, lei ha risposto alla domanda più angosciante che mi sono posta, a più riprese, nel campo: cosa sarebbero diventati i bambini che erano con noi, dispersi in un mondo di adulti, un mondo senza leggi e senza pietà. […] Se si può ancora credere, dopo Auschwitz, è anche grazie a lei».22
2. I primi dubbi Come tutte le testimonianze, Frantumi è scritto alla prima persona. Eppure nella postfazione, Wilkomirski dichiara la falsità della propria identità, sostenendo di aver ricevuto, alla fine del conflitto, 19
Wilkomirski, Frantumi. Un’infanzia. 1939-1948, cit. Robin, La mémoire saturée, cit. 21 Elena Lappin, The Man with Two Heads, «Granta», Estate 1999 (66). 22 Discorso per l’assegnazione del premio Mémoire de la Shoah à Binjamin Wilkomirski pronunciato da Simone Veil il 17 novembre 1997. Traduzione mia. 20
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come molti altri orfani della Shoah, un nuovo nome, una nuova data di nascita, una nuova religione, di essere cresciuto in una famiglia che gli ha imposto di dimenticare il passato e in un’epoca in cui nessuno voleva ascoltare i bambini, quasi non potessero avere memoria. Per questo motivo, l’autore avrebbe deciso di narrare la sua storia di sopravvissuto a due campi di concentramento soltanto in età adulta23 e dopo molti anni di psicanalisi. Ma soprattutto, dopo aver recuperato la propria identità ebraica. Incontri decisivi, a Varsavia e negli Stati Uniti,24 nell’ambito della Children of Holocaust Society, e la conoscenza di altri bambini che come lui avevano subito la cancellazione dell’identità, lo spinsero a far chiarezza nella sua vita e nei suoi ricordi frammentari. Scrive Wilkomirski: «Il documento che ho tra le mani – un estratto provvisorio, non l’atto di nascita – indica come mia data di nascita il 12 febbraio 1941. Ma questa data risulta sbagliata sia dalla storia della mia vita, sia dai ricordi che ne conservo. Ho intrapreso un’azione legale per dimostrare la falsità di questa identità che mi è stata imposta. La verità giuridicamente attestata è una cosa, quella della vita un’altra».25
Tuttavia, la postfazione non era stata prevista dall’autore, ma si era resa necessaria quando, poco prima della pubblicazione dell’edizione tedesca, il giornalista svizzero Hanno Helbling aveva segnalato all’editore alcune incongruenze sull’identità di Wilkomirski, conosciuto, in Svizzera, come clarinettista, figlio adottivo di un’agiata famiglia cristiana.26 Suhrkamp aveva però accolto, senza ulteriori indagini, la spiegazione fornita da Wilkomirski che imputa23
«Volevo essere certo delle mie memorie – rivela Wilkomirski – e le ho messe alla prova. Avevo bisogno di potermi fidare davvero dei miei ricordi». E per verificare tali ricordi, Wilkomirski si reca anche a Riga e a Lublino; si confronta con altri sopravvissuti e a chi lo contesta risponde «io ero lì, non tu». Cfr. Martin De Agostino, He accepts memories of Holocaust, South Bend Tribune, 29 aprile 1998, traduzione mia. 24 Robin, La mémoire saturée, cit. 25 Wilkomirski, Frantumi. Un’infanzia. 1939-1948, cit., p. 132. 26 Stefan Maechler, The Wilkomirski Affair: A Study in Biographical Truth, Schocken, New York, 2001.
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va le incongruenze alle drammatiche circostanze in cui si era venuto a trovare dopo la perdita della famiglia originaria, l’esperienza dei campi e quella dell’orfanotrofio di Cracovia. L’editore era stato, inoltre, rassicurato da Lea Balint, direttrice del Bureau of Jewish Children Without Identity di Gerusalemme. Wilkomirski l’aveva convinta a tal punto che, poco prima della consegna del manoscritto, Balint lo aveva invitato a unirsi a un’equipe televisiva che avrebbe girato in Polonia un documentario sui bambini che avevano perduto la loro identità durante la Shoah. Dopo l’apparizione televisiva, una spettatrice aveva creduto di riconoscere in Binjamin Wilkomirski un membro della famiglia di suo suocero, Yacov Maroko, creduto morto in seguito alla deportazione. Maroko si illuse di aver ritrovato suo figlio e Wilkomirski, che nel libro racconta di aver assistito alla morte di suo padre,27 si rivelò ben felice di aver trovato finalmente un padre ebreo. Il rapporto tra i due uomini si fece molto stretto tanto che nonostante il test del DNA risultasse negativo, Maroko, dopo aver consultato alcuni rabbini, continuò a considerare Wilkomirski come suo figlio e Wilkomirski continuò a crederci.28 Nel frattempo, Wilkomirski, diventato una celebrità, veniva invitato ai convegni sulla Shoah, teneva conferenze in tutto il mondo e si presentava come un “ambasciatore” di tutti i bambini a cui la tragedia ebraica dei lager aveva rubato l’infanzia.29
3. La verità Nell’estate del 1998, Daniel Ganzfried, un giornalista svizzero figlio di un sopravvissuto, pubblicò su Weltwoche tre articoli30 in cui denuncia27 «Nella penombra, in un angolo, la sagoma di un uomo con cappotto e cappello, e un volto molto amato che mi sorride./ Forse mio padre./ Uomini in uniforme, uomini con stivali gli urlano, lo colpiscono, lo conducono fuori dalla porta. […]/ Hanno messo l’uomo al muro, accanto al portone. […] improvvisamente fa una smorfia […]./ Di colpo capisco./ D’ora in poi devo cavarmela senza di te, sono solo». Wilkomirski, Frantumi. Un’infanzia. 1939-1948, cit., pp. 5-6. 28 Philip Gourevicth, The Memory Thief, «The New Yorker», 14 Giugno 1999. 29 Altaras, Quel lager inventato, cit. 30 Daniel Ganzfried, Die geliehene Holocaust-Biographie, «Die Weltwoche», 27
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va Frantumi come opera di pura finzione.31 Secondo Ganzfried, che aveva condotto un’accurata ricerca,32 Binjamin Wilkomirski non era altro che Bruno Grosjean, nato in Svizzera e adottato nel 1945 dalla famiglia Dössekker. In base alla ricerca di Ganzfried, WilkomirskiDössekker aveva conosciuto Auschwitz e Majdanek «solo come turista» e, per di più, non sarebbe stato nemmeno ebreo.33 Come ulteriore prova a sostegno della sua tesi, il giornalista rivelava che, nel 1981, in occasione del decesso della madre biologica, Yvonne Grosjean, Bruno avrebbe anche accettato una piccola eredità.34 Wilkomirski rispose immediatamente, attraverso il giornale di Zurigo Tages-Anzeiger, dicendo di non contestare l’autenticità dei documenti ufficiali consultati da Ganzfried, ma ribadendo che, come per molti altri bambini orfani della Shoah, anche a lui era stata imposta una nuova identità.35 Del resto, continuava Wilkomirski, aveva già spiegato il problema nella postfazione e, comunque, il lettore era libero di leggere Frantumi come testimonianza oppure considerarlo semplice letteratura.36 Poco dopo, però, sconvolto dalle rivelazioni di Ganzfried, Wilkomirski entrò in una depressione acuta.37 Un suo amico, lo psicologo israeliano Elitsur Bernstein, confidò a Philp Gourevitch, che stava facendo ricerche su Wilkomirski per il New Yorker, che l’uomo era totalmente incapace di distinguere il vero dal falso. Naturalmente, le accuse di Ganzfried fecero scorrere molto inchiostro in Svizzera, in Germania e in Inghilterra. In Francia, con Agosto 1998; Fakten gegen Erinnerung, «Die Weltwoche», 3 Settembre 1998; Bruchstücke und Scherbenhaufen, «Die Weltwoche», 24 Settembre 1998. 31 Ganzfried è anche l’autore di Der Absender, un romanzo che ha per tema la difficile memoria dei bambini vittime della Shoah. Cfr. Daniel Ganzfried, Der Absender, Rotpunktverlag, Zurigo, 1995. 32 Ganzfried era stato incaricato dalla Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia a realizzare una biografia di Binjamin Wilkomirski, ma scioccato dalla violenza di alcune descrizioni di Frantumi non aveva tardato a trasformare l’incarico in una vera e propria inchiesta che Pro Helvetia rinunciò a finanziare. Cfr. Nicolas Weil, La mémoire suspectée de Binjamin Wilkomirski, «Le Monde», 23 ottobre 1998. 33 Ganzfried, Die geliehene Holocaust-Biographie, cit. 34 Weil, La mémoire suspectée de Binjamin Wilkomirski, cit. 35 Intervista di Peer Teuwsen, Niemand muss mir Glauben schenken, «TagesAnzeiger», 1 Settembre 1998. 36 Ibid. 37 Robin, La mémoire saturée, cit.
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l’eccezione di un articolo di Nicolas Weil su Le Monde,38 poco fu scritto sull’affaire. Negli Stati Uniti, l’ebraico Forward riportò la notizia immediatamente,39 ma ci volle molto tempo prima che lo scandalo raggiungesse il New York Times.40 Intanto, due specialisti della Shoah, lo storico americano Raul Hilberg e lo storico israeliano Yehuda Bauer, dello Yad Vashem, confermarono i sospetti sulla veridicità del libro. Secondo Hilberg, non ci sarebbe stato nessun trasporto di bambini ebrei provenienti dal lager di Majdanek e diretto ad Auschwitz, come, invece, aveva scritto Wilkomirski in Frantumi. Bauer, inoltre, disse di non conoscere nessun caso di bambini con meno di cinque anni che sarebbero sopravvissuti ad Auschwitz.41 Non mancarono, tuttavia, i sostenitori e il dibattito si fece acceso. Harvey Peskin, professore all’Università di San Francisco e presidente del Psychoanalytic Institute of Northern California, affermò, infatti, che l’impossibilità di Wilkomirski di provare la sua vera identità non faceva altro che rinnovare il dolore e la tragedia di molti bambini sopravvissuti che non riuscivano a ottenere risarcimento e giustizia proprio perché impossibilitati a offrire prove incontrovertibili della loro deportazione.42 Proprio questa difficoltà, avrebbe spinto molti bambini sopravvissuti a scegliere il silenzio piuttosto che rischiare «l’ingente costo di non essere creduti».43 In questo modo, però, secondo Peskin, il piano di Hitler di non lasciare testimoni della Shoah sarebbe stato portato a compimento proprio grazie a chi si ostinava ancora a separare i bambini dalla loro esperienza. Per Peskin, memoria e storiografia della Shoah possono essere in conflitto e posizioni come quella di Hilberg non farebbero altro che alimentare un nuovo tipo di revisionismo che non attaccherebbe più la verità della Shoah, ma soltanto la testimonianza di singoli individui. 38
Nicolas Weil, La mémoire suspectée de Binjamin Wilkomirski, «Le Monde», 23 Ottobre 1998. 39 Blake Eskin, Wilkomirski’s New Identity Crisis, «The Forward», 18 Settembre 1998. 40 Doreen Carjaval, A Holocaust Memoir in Doubt, «New York Times», 3 Novembre 1998. 41 Frediano Sessi, Suhrkamp: ritiriamo le memorie del presunto testimone, «Corriere della Sera», 16 Ottobre 1999. 42 Harvey Peskin, Holocaust Denial: A Sequel, «The Nation», 19 Aprile 1999. 43 Harvey Peskin, ibid.
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Qualche anno dopo, nel 2002, anche Norman Geras espresse un’opinione simile. Secondo Geras, chiunque fosse stato Wilkomirski, Frantumi rimaneva un libro credibile. Chiedersi, a posteriori, come mai la storia incredibile del piccolo Binjamin fosse stata accolta senza riserve equivaleva a mettere in discussione le testimonianze, altrettanto incredibili, dei veri sopravvissuti e negare la cifra stessa della Shoah: un evento al di là di ogni umana comprensione. Frantumi, per Geras, doveva essere letto come romanzo che racconta qualcosa che a qualcuno è successo davvero. Il fatto che Wilkomirski avesse compiuto un cattivo gesto non significava che anche il suo libro fosse una cattiva opera. Anzi, si doveva, secondo lui, separare l’autore dall’opera che, comunque, continuava ad avere un valore letterario. L’ironia della sorte aveva fatto in modo che mentre Wilkomirski non era chi pretendeva di essere, il vero Wilkomirski era proprio il suo libro.44 Frantumi ricevette anche, a dispetto del dubbio, l’Hayman Award for Holocaust and Genocide Study dall’American Ortho-psychiatric Association, un’associazione impegnata nello studio della memoria dei bambini traumatizzati. Il premio lodava Wilkomirski, in quanto storico, per il metodo innovativo adottato, insieme allo psicanalista israeliano Elitsur Bernstein, nell’aiutare i bambini sopravissuti a ritrovare la loro identità attraverso la verifica storica delle loro memorie frammentarie.45 Wilkomirski diventava, così, anche il rappresentante del metodo terapeutico grazie al quale egli aveva potuto ritrovare i resti della sua memoria. L’idea di Wilkomirski era che la terapia, unita alla ricerca storica, fosse in grado di ricollegare i ricordi più frammentari agli eventi reali. Sulla base della sua esperienza, pretendeva di offrire addirittura una teoria della storia.46 Molti, perciò, considerarono Wilkomirski un esperto di memorie di bambini sopravvissuti e del metodo per ricostruire la memoria offesa di queste giovani vittime della Shoah. 44
Norman Geras, The True Wilkomirski, «Res Publica», 2002 (8). Marouf Hasian, Authenticity, Public Memories and the Problematics of PostHolocaust Remembrances: A Rhetorical Analysis of the Wilkomirski Affair, «Quarterly Journal of Speech», Agosto 2005 (91, 3). 46 Paul Maliszewski, A Holocaust Fantasy, «The Wilson Quarterly», Estate 2002 (26, 3). 45
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L’opinione pubblica, a sua volta, si ritrovò divisa tra coloro che credevano sufficiente una riclassificazione di Frantumi come opera letteraria e coloro che ne pretendevano l’annovero tra quelle opere che offendono la memoria dei sopravvissuti. Il 23 novembre 1999, con un comunicato stampa, la Fondation du judaïsme français chiariva la propria posizione: se l’impostura fosse stata confermata, Wilkomirski avrebbe dovuto avere la decenza di rinunciare lui stesso al premio Mémoire de la Shoah.47
4. La reazione degli editori Dopo aver a lungo sostenuto Wilkomirski, l’editore tedesco Suhrkamp si decise, nel 1999, a ritirare Frantumi dalle librerie, seguito a ruota dagli altri editori.48 Suhrkamp si disse profondamente dispiaciuto e vicino a Wilkomirski che nel frattempo continuava a rivendicare l’autenticità della propria testimonianza.49 La decisione di Suhrkamp, resa pubblica durante la Fiera del Libro di Francoforte, il 13 ottobre 1999, indusse Wilkomirski a scrivere a tutti i suoi editori denunciando il clima avvelenato che circondava le sue memorie. Wilkomirski ribadiva ancora che le contraddizioni tra la sua vera identità e quella emersa dopo l’indagine di Ganzfried erano imputabili a una cospirazione antisemita che avrebbe coinvolto, non solo i genitori adottivi, ma anche le autorità svizzere. Agli storici che avevano negato l’autenticità di Frantumi, Wilkomirski contestava la loro mancanza di preparazione sul tema dei bambini sopravvissuti ai campi.50 Wilkomirski citava anche Deborah Dwork, direttore del Center for Holocaust Studies alla Clark University. Ma non ricevette alcun sostegno da Dwork che, come gli altri storici, si diceva scettica circa la possibilità che un bambino di tre o quattro anni potesse sopravvi47
Fondation du judaïsme français, Note recapitulative sur “l’affaire Wilkomirski”, Paris, 23 Novembre 1999. 48 Édition: Olivier Nora, PDG de Calmann-Lévy, a annoncé à son tour, le 14 octobre… «Le Monde», 24-25 ottobre 1999. 49 Doreen Carvajal, Disputed Holocaust Memoir Withdrawn, «New York Times», 14 Ottobre 1999. 50 Ibid.
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vere a ben due campi di sterminio, dal momento che i bambini al di sotto dei sette anni finivano immediatamente nei forni crematori. Tuttavia, Dwork esprimeva simpatia nei confronti di Wilkomirski. Lo aveva incontrato quando entrambi furono premiati dal Jewish Book Council e lo aveva trovato un uomo profondamente sofferente. Secondo lei, il biasimo non spettava a Wilkomirski, che credeva veramente nella sua identità, ma agli editori che lo avevano senz’altro sfruttato.51 Intervistato da Lappin, Hilberg aveva posto alcune domande: come mai diverse case editrici avevano accolto Frantumi come testimonianza senza fare ulteriori ricerche? Perché non esisteva un sistema di controllo decente quando si trattava di pubblicare materiale sulla Shoah? Hilberg ribadiva anche che se gli editori di Frantumi lo avessero interpellato si sarebbero risparmiati una brutta figura. Ma come ricorda ancora Lappin, nessun editore aveva fatto verificare da uno storico l’autenticità del libro di Wilkomirski prima della pubblicazione.52 Forse perché, comunque, le memorie vendono di più della fiction?53 Di certo, l’idea di ritirare il libro servì a porre gli editori al riparo dal biasimo sollevato da più parti. Il rimedio fu forse eccessivo, ma è anche vero che i detrattori di Wilkomirski non si sarebbero accontentati di una semplice riclassificazione dell’opera. Inoltre, come fece notare Suhrkamp, Wilkomirski non aveva mai ammesso che le sue memorie fossero solo letteratura.54 Il persistere dell’incertezza circa l’identità di Wilkomirski spinse, comunque, il suo agente letterario, Eva Koralnik, d’accordo con Suhrkamp, a chiedere allo storico svizzero Stefan Maechler di confermare o smentire la storia di Wilkomirski. Il lavoro di Maechler confermò i dubbi sollevati da Ganzfried, ma non poté comunque liquidare l’affaire Wilkomirski.55 Numerosi sono 51
Ibid. Lappin, The Man with Two Heads, cit. 53 Doreen Carvajal, A Holocaust Memoir in Doubt, «New York Times», 3 Novembre 1998. 54 Ibid. 55 Perché l’affaire si sviluppi è necessario che coloro che lo denunciano si scontrino con degli ostacoli, con uno spazio pubblico preso a testimone, con delle vittime di fronte a un’ingiustizia, con il sentimento di indignazione, con la presenza dei media per aumentare la risonanza del caso e con l'assenza di una censura troppo pesante. 52
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tuttora gli interrogativi sul valore da attribuire a Frantumi, al suo ruolo nella letteratura e nella storiografia della Shoah. Israel Gutman, sopravvissuto al ghetto di Varsavia e ai campi di Majdanek, Auschwitz e Mauthausen, suggerì che, sebbene non avesse mai creduto all’autenticità del libro di Wilkomirski, c’era qualcosa di più urgente della sua esattezza storica. Wilkomirski, secondo Gutman, avrebbe scritto una storia che egli avrebbe comunque profondamente vissuto. Perciò, se anche l’autore di Frantumi non era ebreo, il fatto che fosse stato così profondamente colpito dalla Shoah era di fondamentale importanza.56 Più dura, invece, la reazione dei lettori. Nel novembre del 1999, l’avvocato svizzero Manfred Kuhn denunciò Wilkomirski per aver frodato lui e circa dodicimila lettori del costo del libro.57 Nel maggio del 2000, Wilkomirski perse anche il Jewish Quarterly Prize.58
5. Cosa ha reso possibile Frantumi Wilkomirski ha trovato nell’amico e psicanalista Bernstein, in Lea Balint e nel contesto psicanalitico frequentato persone pronte ad accordare forma alle sue visioni, dando loro lo statuto di ricordi.59 Inoltre, chiunque sia Wilkomirski, tutti coloro, singoli o istituzioni, che si sono adoperati per trasformare il ricordo della Shoah in una forma di religione secolare, hanno collaborato ad autenticare la sua storia trasformandola quasi in un articolo di fede.60 Dall’indagine di Gourevitch è anche emerso che Wilkomirski possiede una solida cultura della Shoah. Due stanze della sua casa sono interamente consacrate a un imponente archivio composto da una ricca biblioteca e da un database di storia della Shoah con testiL'argomento, oggetto dell’affaire, deve essere portatore di valori contraddittori. Anche la notorietà è un elemento fondamentale. Cfr. Luc Boltanski (a cura di), Affaires, scandales et grandes causes. De socrate à Pinochet, Stock, Parigi, 2007. 56 Lappin, The Man with Two Heads, cit. 57 Peter Capella, Holocaust book fraud inquiry, «The Observer», 23 Aprile 2000. 58 «The Guardian», Awards are gained and lost, 6 Maggio 2000. 59 Robin, La mémoire saturée, cit. 60 Gourevitch, The Memory Thief, cit.
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monianze, lettere, manoscritti, fotografie e altri documenti fornitigli, negli anni, da numerosi sopravvissuti.61 Archivio che Ganzfried non ha esitato a descrivere come un vero e proprio laboratorio per inventare la memoria.62 Dunque, la memoria di Wilkomirski sembra essere essenzialmente una memoria di sostituzione, ricordi autentici di altri sopravvissuti. Una memoria inconsciamente simulata, per effetto dell’identificazione con la più grande tragedia del Novecento, a causa della mancata accettazione della propria identità di bambino abbandonato.63 La sostituzione del bambino abbandonato con il bambino ebreo sopravvissuto gli avrebbe così offerto la garanzia di ascolto e di riconoscimento sociale tanto agognata. Quella di Wilkomirski non è una memoria potenziale, o probabile, come quella di Ellis Island di Georges Perec perché Wilkomirski non è stato coinvolto minimamente nel secondo conflitto mondiale, avendo sempre vissuto nella neutrale Svizzera. E non è nemmeno un esempio di autofiction64 alla maniera di Doubrovsky,65 perché Wilkomirski non utilizza la propria reale biografia come materiale per la scrittura. Wilkomirski inventa la sua storia e inventa una storia così drammatica per una sorta di eroismo inverso che dà senso alla sua vita. Wilkomirski è il testimone di un trauma che è penetrato nel discorso sociale,66 dopo che il processo Eichmann ha inaugurato quella che la storica Wiewiorka ha definito l’era del testimone.67 Da allora, la memoria della Shoah è divenuta l’emblema della cultura occidentale, il paradigma stesso del male. Nel suo studio, Wieviorka spiega quan61
Ibid. Daniel Ganzfried, …alias Wilkomirski. Die Holocaust-Travestie. Enthüllung und Dokumentation eines literarischen Skandals, Jüdische Verlagsanstalt, Berlin, 2002. 63 Lappin, The Man with Two Heads, cit. 64 L’autofiction è un tipo di autobiografia che tiene conto dell’apporto della psicanalisi, della scrittura come indice di finzione, ma che rispetta, tuttavia, la realtà del soggetto. Per Alain Robbe-Grillet, si tratta di una Nouvelle Autobiographie, un’autobiografia cosciente della propria impossibilità costitutiva, delle finzioni e delle mancanze che necessariamente l’attraversano. Cfr. Alain Robbe-Grillet, Les Derniers Jours de Corinthe, Éditions de Minuit, Paris 1994, p. 17. 65 Robin, La mémoire saturée, cit. 66 Ibid. 67 Wieviorka, L’era del testimone, cit. 62
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to il processo Eichmann abbia plasmato la nostra comprensione del male, imponendosi come nodo cruciale nell’evoluzione del discorso storico e della memoria collettiva. La figura del sopravvissuto, ancora in ombra e non ascoltata nel 1947, quando Levi pubblica per la prima volta Se questo è un uomo, sarebbe, dunque, diventata premiante sul piano sociale. La nuova parola d’ordine, “empatia”, avrebbe stimolato, d’allora in poi, l’identificazione delle vittime di ogni male con le vittime della Shoah. Wilkomirski si è così trovato ad articolare i suoi problemi personali sugli eventi universali, eventi che la frequentazione di un contesto psicanalitico ha trasferito su di lui offrendogli ricordi più veri del vero. La particolare congettura storica attraversata allora dalla psicanalisi, che in questa vicenda gioca un ruolo fondamentale, era quella della messa in discussione della nozione di “fantasma” di Freud. Discussione che aveva portato al superamento dei limiti nella costruzione di un passato immaginario che irrompe nel reale.68 E Wilkomirski e il suo libro si muovono proprio sulla linea sottile che separa il vero dal verosimile. Nel saggio Qui dit je en nous?, lo scrittore e critico letterario Claude Arnaud69 affronta il problema della costruzione dell’identità e della fragilità delle frontiere tra realtà e immaginazione, soffermandosi anche sul caso Wilkomirski. Per Arnaud, l’identità è una costruzione non sempre definitiva, un assemblaggio fatto dal soggetto senza alcun rispetto per i fattori ereditari. La mistificazione operata da Wilkomirski non ha per obiettivo, come spesso accade, una prospettiva di vita migliore, anzi si basa sull’appropriazione delle sofferenze altrui. Va ricordato, inoltre, che, trattandosi dell’appropriazione di un dramma che, nel tempo, ha assunto i contorni di una religione secolare, il comportamento di Wilkomirski, se non condannabile giuridicamente, ha, comunque, scatenato uno scandalo teologico. Wilkomirski, secondo Arnaud, abusa del diritto dei nostri giorni di diventare ciò che sentiamo di essere e non quello che gli altri, la famiglia, l’anagrafe, dicono di noi. Impressionato dalla tragedia ebraica, attorno ai vent’anni, Wil68
Robin, La mémoire saturée, cit. Claude Arnaud, Qui dit je en nous. Nous sommes tous des imposteurs, Grasset & Fasquelle, Paris, 2006.
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komirski si sarebbe convinto di essere ebreo e, ad aiutarlo a venire a capo del suo dramma identitario avrebbero collaborato la psicanalisi e le organizzazioni ebraiche impegnate a ridare un’identità agli orfani della Shoah. Tutti contribuirono a fare di lui un ebreo. Fino al momento della verità. Ma anche dopo di allora, Wilkomirski continuò a ribadire la sua verità. Per Arnaud, Wilkomirski non sarebbe un volgare impostore, come invece sostiene Ganzfried,70 ma un mitomane con un profondo problema di identità. Wilkomirski è perciò testimone di quest’epoca di cancellazione delle frontiere tra reale e immaginario, un’epoca in cui, per di più, i testimoni della Shoah stanno poco a poco scomparendo.
6. I rischi di una pseudo memoria Ciò che maggiormente turbò Ganzfried fu che, appunto, Wilkomirski avrebbe potuto ottenere lo statuto di testimone e la sua testimonianza sarebbe potuta finire tra le fonti storiche. Wilkomirski, sottolineò Ganzfried, ha tenuto lezioni nelle scuole; i ragazzi hanno creduto che si trattasse di qualcuno che era riuscito a tornare dall’inferno dei lager. Ora che la menzogna è stata svelata, c’è il rischio, per Ganzfried, che quando questi ragazzi sentiranno parlare di Shoah avranno dei dubbi e potranno persino credere a coloro che raccontano che i campi di sterminio erano semplici campi di lavoro dove sono morte solo poche persone. Sorprendente, inoltre, per Ganzfried, che nessuno si sia preso la libertà di dubitare di Wilkomirski e il coraggio di giudicare Frantumi. Proprio quest’incapacità di giudizio, determinata dal timore di intaccare la sacralità del testimone, avrebbe reso possibile il successo del libro.71 Ganzfried non si sbaglia. Primo Levi racconta, in Se questo è un uomo, di aver chiesto a una guardia del lager il “perché” di tutto quell’orrore sentendosi rispondere «Qui non c’è nessun perché».72 Negli ultimi quarant’anni, per alcuni dei più importanti esperti della 70
Ganzfried, …alias Wilkomirski. Die Holocaust-Travestie. Enthüllung und Dokumentation eines literarischen Skandals, cit. 71 Ganzfried, Die geliehene Holocaust-Biographie, cit. 72 Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1975 (ed. or. 1958), p. 32.
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Shoah non ci sarebbe dovuto essere nessun “perché” nemmeno negli studi sulla Shoah, di cui si sarebbe dovuta accettare l’incommensurabile incomprensibilità. Elie Wiesel, come pure Claude Lanzmann, hanno affermato che la domanda Perché la Shoah? è a dir poco oscena perché presupporrebbe l’esistenza di una giustificazione.73 Lo stesso Levi aveva scritto nell’appendice dell’edizione tedesca di Se questo è un uomo: «Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare».74
Nel saggio Qui non c’è nessun perché, Lanzmann utilizza le parole di Levi per spiegare come il rifiuto a capire sia l’unica attitudine etica possibile anche per chi si assume il compito di trasmettere la Shoah.75 Lanzmann valorizza inoltre la trasmissione, ossia la testimonianza, come l’unica fonte di vera conoscenza. In questo modo, l’autorità del testimone si impone, però, sull’autenticità della testimonianza e la mancanza di una risposta etica alla domanda “perché” fa tacere qualsiasi interrogativo. Anche quelli sull’autenticità di una testimonianza, permettendo di fatto la mistificazione.76 L’autorità del testo di Wilkomirski, così potentemente evocativo, avrebbe dato scacco all’autenticità. L’empatia creata dal libro avrebbe, inoltre, suscitato nel lettore un atteggiamento di simpatia e identificazione annullando qualsiasi criticità. Ganzfried non fu il solo a temere che l’opera di Wilkomirski prestasse il fianco al discorso revisionista. Gary Mokotoff, membro del Jewish Book Council, dichiarò nel 1999, in quanto esperto di genealogia ebraica e studioso della Shoah, di aver sempre avuto dei dubbi sull’autenticità di Frantumi. Il libro di Wilkomirski gli ricordava un altro falso storico, In nome
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Andrew Gross and Michael Hoffman, Memory, Authority and Identity: Holocaust Studies in Light of the Wilkomirski Debate, «Biography», 2004 (27, 1). 74 Pier Vincenzo Mengaldo, La vendetta è il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoah, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 16. 75 Claude Lanzmann, “Hier Ist Kein Warum“, in Ron Rosenbaum, Explaining Hitler, Random House, New York, 1998. 76 Gross and Hoffman, Memory, Authority and Identity: Holocaust Studies in Light of the Wilkomirski Debate, cit.
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dei miei di Martin Gray77 di cui, oggi, si possono trovare notizie sui siti web dei revisionisti. Queste pseudo memorie, secondo Mokotoff, sono dannose perché rendono sospette tutte le testimonianze sulla Shoah.78 Il confronto tra il libro di Wilkomirski e quello di Gray permette di problematizzare ulteriormente l’argomento. Gray pubblica In nome dei miei nei primi anni Settanta. Il libro fu subito un successo, ma fu più tardi sospettato di essere un falso, perché nel capitolo sull’insurrezione del ghetto di Treblinka Gray racconta, in prima persona, un’esperienza che, in realtà, non ha vissuto. Intervistato nel 1979 dalla storica e giornalista Gitta Sereny, Gray chiede se sia davvero importante il fatto che lui non abbia vissuto quei fatti. La realtà storica di Treblinka giustificherebbe da sola, per Gray, il tentativo di dare voce a tutti gli ebrei che vi hanno perso la vita in modo eroico. Ma per Sereny, qualsiasi falsificazione deve essere condannata affinché non sia strumentalizzata dai negazionisti.79 Com’è avvenuto anche nel caso di Wilkomirski. Tom Segev, lo storico e giornalista israeliano di Haaretz, nell’autunno del 2000, incontrò Irving a Londra, quando si svolse il processo che vide protagonisti la storica americana Deborah Lipstadt, che lo aveva accusato di negazionismo, e Irving stesso, il quale l’aveva querelata per tale accusa. Irving raccontò a Segev che il figlio di Rudolph Hesse gli mandò una lettera di incoraggiamento e un articolo sulla vicenda di Wilkomirski. Il figlio del criminale nazista scrisse che Frantumi era «un altro esempio del modo di operare dell’industria della Shoah». Irving, naturalmente, non esitò a mettere questa lettera sul suo sito web dedicato al negazionismo.80
77 Martin Gray, Au nom de tous les miens, testimonianza raccolta da Max Gallo, Laffont, Paris, 1971; trad. it. In nome dei miei, Rizzoli, Milano, 1972. 78 Lappin, The Man with Two Heads, cit. 79 Donald Bloxham and Tony Kushner, The Holocaust. Critical Historical Approaches, Manchester University Press, 2005. 80 Altaras, Quel lager inventato, cit.
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7. Il valore della memoria simulata: il meta-testimone Ma cosa succede quando la verità viene dalla bocca di un bugiardo che racconta cose realmente accadute contribuendo a diffondere, anche se attraverso bugie, la conoscenza di una realtà terribile?81 Con Wilkomirski, la falsificazione si è insinuata nella verità della Shoah, senza però alterarne il significato. Falso non è il testo, ma l’autore. E da questo bugiardo, riprendendo le parole di Claudio Magris a proposito di un altro “falsificatore”, lo spagnolo Enric Marco, si potrebbe probabilmente imparare la forza con la quale ha ribadito la verità di quello che è successo ai bambini nei lager. Sotto questo profilo, Wilkomirski è molto meno bugiardo di chi nega la Shoah. Forse, il caso Wilkomirski non sarebbe stato così terribile senza la pressione del negazionismo che impone, sia al testimone che allo storico, l’onere della prova. Ma, come suggerisce Robin, la ricerca stessa della prova pone gli storici sullo stesso terreno dei negazionisti, obbligandoli a riconoscerli come interlocutori.82 Dello stesso avviso anche Suleiman che invita gli studiosi a resistere al ragionamento per associazioni tipico di chi nega la Shoah: se una testimonianza è falsa, allora tutte le testimonianze sono sospette.83 «L’esistenza del genocidio ebraico come evento» – secondo quanto sostiene van Alphen – «non dipende certo da costruzioni individuali. La questione ontologica della realtà dell’evento dovrebbe sempre essere distinta da quella epistemologica sulla possibilità di avervi accesso».84
Frantumi sarebbe, perciò, la dimostrazione del potere di suggestione di un evento come la Shoah e in quanto tale non getterebbe alcuna ombra sul genocidio ebraico, ma, al contrario, testimonierebbe sia per la sua realtà storica nel passato che per i suoi effetti sul presente.85 81
Magris, Claudio, Il bugiardo che dice la verità, «Corriere della Sera», 21 Gennaio 2007. 82 Robin, La mémoire saturée, cit. 83 Susan Suleiman, Facts and Writing: Memory in Memoir, «Poetics Today», (21,2). 84 Ernst van Alphen, Caught by History: Holocaust Effects in Contemporary Art, Literature and Theory, Stanford University Press, Stanford, 1997, p. 64, traduzione mia. 85 Suleiman, Facts and Writing: Memory in Memoir, cit.
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Il negazionismo sembra funzionare oggi, in una fase matura e sempre più consapevole dell’“era del testimone”, come l’incredulità che ha accolto i sopravvissuti al ritorno dai campi: l’ennesimo ostacolo al racconto della Shoah. Un ostacolo che rischia di portare a sviluppare una memoria senza trasmissione.86 Frantumi è un testo credibile al di là della saturazione del pubblico e della memoria perché è in grado di creare quello spazio di transfer nel quale può costituirsi un nuovo tipo di memoria. Una memoria pseudo, per alcuni; protesi, per altri.87 Non importa se Wilkomirski è pazzo, potrebbe comunque essere un vero testimone, «il meta-testimone dei nostri tempi postmoderni».88 Wilkomirski, dopotutto, non propone una memoria finta, ma una memoria simulata. Dopo la scomparsa dei testimoni, la memoria simulata potrebbe diventare una modalità di racconto possibile. Ma anche una sfida al limite imposto da chi sostiene che solo chi è stato ad Auschwitz può raccontare Auschwitz.89 Segno dei tempi o caso fortuito se questo tipo di simulazione lambisce il racconto della Shoah? Per Robin, è piuttosto il sintomo di ciò che si muove nelle profondità del tessuto sociale: l’impossibilità di una memoria “giusta”90 e il fallimento dell’elaborazione del lutto in questa materia.91 86
Robin, La mémoire saturée, cit. Landsberg, America, The Holocaust and the Mass Culture of Memory: Toward a Radical Politics of Empathy, cit. 88 Robin, La mémoire saturée, cit., pp. 241-242. 89 «Quelli che non hanno vissuto quell’esperienza non sapranno mai che cosa sia stata; quelli che l’hanno vissuta non la diranno mai; non veramente, non fino in fondo». Elie Wiesel citato da Mengaldo, La vendetta è il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoah, cit., p. 17. 90 Paul Ricoeur scrive nella premessa al suo studio sulla memoria: «resto sconcertato dall’inquietante spettacolo cui danno luogo qui l’eccesso di memoria, là l’eccesso di oblio, per tacere dell’influenza delle commemorazioni e degli abusi di memoria – e di oblio. L’idea di una politica della giusta memoria è, in proposito, uno dei miei temi civici confessati». Cfr. Paul Ricoeur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Éditions du Seuil, Paris, 2000; trad. it. La memoria, la storia, l’oblio, Cortina, Milano, 2003, p. 7. 91 Gli accesi dibattiti sollevati dalla costruzione dell’Holocaust Mahnmal di Berlino illustrano al meglio la situazione. Il progetto per la costruzione di un memoriale dedicato agli ebrei europei assassinati risale alla fine degli anni Ottanta. Nel 1994, fu indetto il primo concorso al quale parteciparono 528 architetti. L’accumulazione di progetti, del tutto inadeguati al 87
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Ma la pressione del negazionismo impedisce di valutare l’efficacia della simulazione di una testimonianza per identificazione al dramma, riproponendo, invece, la problematica dell’autenticità. Con le dovute differenze, col processo Eichmann prima, e l’operazione cinematografica e mediatica del regista Steven Spielberg dopo, la testimonianza ha sostituito la storia e l’immenso bisogno di tracce ha dato inizio a un’incessante costituzione di archivi delle testimonianze. L’archivio di testimonianze visive prodotto da Spielberg non lascia spazio, però, nella sua stessa organizzazione, all’articolazione della memoria profonda e della memoria ordinaria caratteristica nella rimemorazione del testimone, così che il racconto, archiviato, del testimone si muove nel quadro della sola memoria ordinaria. È la polisoggetto, fece osservare che si sarebbe dovuto considerare tutto quel materiale come una miniera in cui antropologi, psicologi e comportamentisti avrebbero potuto studiare lo stato di una nazione che cercava di erigere un monumento alle sue vittime al fine di purificarsi. Al termine dei lavori, nel 1997, fu scelto, il progetto degli architetti Peter Eisenman e Richard Serra. Si trattava di un complesso di 4000 steli di diversa altezza che, nelle intenzioni degli autori, avrebbe delineato un ampio campo funebre, evocativo della distesa di pietre tombali del cimitero ebraico di Praga. Il progetto ottenne il sostegno immediato e convinto del cancelliere Kohl. Tuttavia, nel gennaio 1998, gli artisti furono invitati a rivedere alcuni aspetti della loro opera e Serra si ritirò dal progetto. La Commissione riteneva che l’altezza eccessiva dei pilastri e le dimensioni troppo vaste avrebbero creato un luogo dove la contemplazione e il ricordo che qui si volevano indurre sarebbero stati sostituiti in maniera brutale dall’angoscia e dallo smarrimento. Anche così, però, il progetto non ebbe vita facile e, nel 1998, divenne addirittura oggetto di contesa elettorale. L’allora sindaco di Berlino, Eberhard Diepgen (CDU), dichiarò, infatti, che non avrebbe permesso che la città divenisse la “capitale del rimorso”. Nel 1999, si giunse a un compromesso: l’architetto avrebbe rivisto ulteriormente il progetto del memoriale riducendo le steli. Da quando il memoriale è stato inaugurato, il 10 maggio 2005, dopo una gestazione di 17 anni, i giornali tedeschi non hanno smesso di esprimere perplessità e inquietudine. Lo spazio destinato a diventare un luogo di raccoglimento e di meditazione si è trasformato, infatti, in un luogo di socialità per la gioventù berlinese. Inoltre, come ha notato il presidente del Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania, Paul Spiegel, in occasione dell’inaugurazione, al di là delle intenzioni artistiche, il monumento, non affronta il tema della colpa e dei colpevoli, risparmiando all'osservatore il confronto con la domanda sulla responsabilità.
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tica della correttezza, in cui anche l’orrore si appiattisce e il pubblico giunge facilmente alla saturazione. Contro il “politicamente corretto” e l’onere di offrire prove certe al racconto dei sopravvissuti, Gérard Wajcman suggerisce che i ricordi non sono la memoria, sono soltanto ciò che qualcuno ricorda. La memoria deve portare al di là dei ricordi, al di là di ciò che forse è persino umanamente possibile ricordare.92 La memoria deve, dunque, portare oltre il singolo ricordo, al ricordo di tutti. Se anche il testimone, come insegna Primo Levi, non può testimoniare in nome dei morti, che sono poi i veri testimoni,93 l’obiettivo della trasmissione della memoria della Shoah non consiste unicamente a parlare di sé, ma a «rendere presenti coloro che non ci sono più per ricordare».94 Claude Lanzmann, nella preparazione di Shoah, ha intervistato un delegato della Croce Rossa che era stato a Theresienstadt e ad Auschwitz, ma che riferiva di non aver visto praticamente nulla.95 Poco importa che si trattasse di cecità programmata in seno alla logica di ciò che si è pronti o meno vedere, oppure di perfetta malafede. Questo testimone oculare non apporta nulla né alla conoscenza né alla comprensione della Shoah. Ma allora, chi è il testimone? Solo colui che ha visto con i propri occhi o anche chi non ha visto, ma porta in sé quel sapere dell’indicibile e, a volte, dell’invisibile? Un operatore dell’Holocaust Memorial Museum di Washington, che registrò un intervista con Wilkomirski al tempo in cui nessuno ancora dubitava di lui, ha raccontato, in seguito, che se anche la storia di Wilkomirski fosse stata solo una creazione della sua fantasia, era comunque riuscito a offrire una nuova prospettiva della Shoah.96 In altre parole, il valore del racconto assicurava il valore della testimonianza, sostituendosi a quello dell’autenticità. Il testimone, allora, non sarebbe più soltanto colui che vede, ma anche colui che accoglie una visione. E poco importa se questo metatestimone è sopravvissuto o no, se è ebreo o no. 92
Gérard Wajcman, “Oh les derniers jours”, «Les Temps Modernes», Marzo/Aprile/Maggio 2000 (608). 93 Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986. 94 Wajcman, “Oh les derniers jours”, cit., p. 11. 95 Claude Lanzman, Shoah, Bompiani, Milano 2000. 96 Jonathan Lear, The Man Who Never Was, «New York Times», 24 Febbraio 2002.
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8. Storia, finzione e rappresentazione «Se si continua a ripetere che coloro che non hanno vissuto le persecuzioni e lo sterminio non possono comprendere le sofferenze delle vittime, il risultato non si farà attendere: quelli che cercavano di capire finiranno per convincersi dell’inutilità dei loro sforzi e scivoleranno poco a poco verso l’indifferenza. Forse, arriveranno persino a negare lo sterminio».97
Questo il rischio che, secondo Dresden, si correrebbe nel voler continuare a porre l’accento sull’incomprensibilità e la mancanza di un linguaggio adatto per esprimere la Shoah. Se è vero che la Shoah trascende la storia98 ed eccede la parola, è altrettanto vero, come ricorda Bauer, che, essendo un’opera umana, la Shoah può e deve essere compresa.99 E a questa comprensione collaborano, oggi, non solo le testimonianze, ma anche la letteratura. È ormai riconosciuto che mentre la letteratura della Shoah si basa spesso sui documenti e sulla ricerca storica, le testimonianze sono, invece, soggette all’imprecisione e alle distorsioni della memoria. Thomas Keneally, autore di Schindler’s List, affermò che il suo romanzo, basato sulle interviste ai sopravvissuti e su un’intensa ricerca d’archivio, è il risultato di una forma ibrida, sospesa tra storia e finzione, che egli definì “non-fiction fiction”. Anche Maus di Art Spiegelman è basato sulla ricerca storica e sulla testimonianza del padre dell’autore. Spiegelman impiegò quasi tredici anni a completare il suo lavoro e quando il New York Times inserì Maus nella categoria fiction della sua classifica dei best seller, Spiegelman protestò e il giornale passò immediatamente Maus dalla categoria della fiction a quella della testimonianza.100 Frantumi infrange la frontiera tra storia e finzione creando ai critici un grande problema di classificazione. Il libro di Wilkomirski non può certo essere collocato nella categorie delle memorie, ma, per molti critici, non ha nemmeno valore letterario, anche se Deborah 97 Sem Dresden, Extermination et Littérature. Les récits de la shoah, Nathan, Paris, 1997, p. 198, traduzione mia. 98 Mengaldo, La vendetta è il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoah, cit. 99 Ibid. 100 Anne Whitehead, Telling Tales: Trauma and Testimony in Binjamin Wilkomirski’s Fragments, «Discourse», 2003 (25).
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Lipstadt riconosce che se Wilkomirski avesse scritto la stessa storia con una prosa terribile non avrebbe avuto lo stesso successo.101 Proponendo il suo testo come una memoria, Wilkomirski, infrange il “patto autobiografico” di Lejeune. Così che, se come, in seguito vedremo, Frantumi può comunque essere definito una testimonianza, non può però rientrare nella categoria dell’autobiografia perché autore, narratore e protagonista non coincidono.102 Chi dice “io” non è mai stato in un campo di concentramento, se non come turista.103 Tuttavia, Frantumi non confonde volontariamente il confine tra storia e finzione: Wilkomirski crede davvero in ciò che racconta. Il suo libro, perciò, non può essere classificato nemmeno come romanzo.104 Frantumi è piuttosto una perfetta simulazione che rispetta le convezioni di quello che, negli ultimi anni, si è imposto come il genere letterario della testimonianza della Shoah.105 Ma si può davvero trattare la Shoah in modo letterario? Il tema è molto dibattuto. Alla ferma opposizione di Wiesel fa da contrappunto la voce di Semprún che, in vista della scomparsa dei testimoni, si interroga sulla possibilità di lasciare in eredità la memoria: «Siamo arrivati alla fine dell’età della memoria. Se si continuerà a scrivere dei campi, si potrà farlo sempre più solo sotto una veste letteraria. Il requisito sarà, come altrove, la verosimiglianza».106 101
Blake Eskin, A Life in Pieces: The Making and Unmaking of Binjamin Wilkomirski, Norton, New York, 2002. 102 I narratologi, seguendo il principio de Le pacte autobiographique (Seuil, Paris, 1975) di Philippe Lejeune, hanno stabilito, come criterio testuale, che nell’autobiografia il nome del narratore corrisponda a quello dell’autore. Molti testi, però, non precisano il nome del narratore e, inoltre, alcuni autori contemporanei hanno giocato con il criterio stesso. Basti pensare al genere che Serge Doubrovsky ha definito autofiction in cui il nome del protagonista è identico a quello dell’autore, ma l’opera viene presentata come romanzo. Cfr. Dorrit Cohn, The Distinction of Fiction, Johns Hopkins U.P., Baltimore, 1998. 103 Whitehead, Telling Tales: Trauma and Testimony in Binjamin Wilkomirski’s Fragments, cit. 104 Susan Suleiman, Problems of Memory and Factuality in Recent Holocaust Memoirs: Wilkomirski/ Wiesel, «Poetics Today», Autunno 2000 (21, 3). 105 Whitehead, Telling Tales: Trauma and Testimony in Binjamin Wilkomirski’s Fragments, cit. 106 Jorge Semprún, L’Écriture ravive la mémoire, «Le Monde des débats», Mai 2002, traduzione mia.
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Per Semprún, persino il vero ha bisogno dell’artificio per essere comprensibile. Lo stesso Levi, ricorda ancora Semprún, quando racconta come è riuscito a ricordare il canto di Ulisse fa un vero e proprio tour de force letterario. La via indicata da Semprún? Rifiutare qualunque a priori, nulla può essere interdetto, ma ci deve essere, comunque, un limite: non bisogna mai inventare per non dar voce ai negazionisti.107 Il libro di Wilkomirski non è certamente il primo falso della storia. Molto prima che Manzoni fingesse di aver trovato il manoscritto che è poi diventato il nucleo dei Promessi Sposi, Dante Alighieri raccontava nella Divina Commedia il suo mirabolante viaggio attraverso Inferno, Purgatorio e Paradiso. I lettori di Defoe, possono addirittura essere indotti a ripercorrere su una cartina stradale di Londra gli itinerari della giovane Moll Flanders, salvo poi scoprire che l’intera toponomastica del libro è completamente inventata. Naturalmente, trattandosi in questi casi, come in molti altri, di semplice letteratura, nessuno si sente ingannato. Il libro di Wilkomirski pone, invece, un problema etico e interpretativo. Anche le memorie di Amerigo Vespucci sono, in realtà, una costruzione. Tuttavia, anche se non possono offrire uno sguardo sincero sulla realtà americana, sono comunque efficaci nel dare un’idea dell’immaginario europeo dell’epoca. Allo stesso modo, la storia di Wilkomirski può essere considerata uno specchio degli effetti della Shoah sull’immaginario contemporaneo.108 Lo storico James Young, riflettendo sull’identificazione poetica di Sylvia Plath con le vittime della Shoah, ha riconosciuto che l’abuso della memoria, che può sempre essere criticato, è preferibile all’assenza di qualsiasi memoria.109 In altre parole, chi cerca di sottrarre la Shoah all’immaginazione collettiva corre il rischio di escluderla anche dalla riflessione pubblica. Il fatto, quindi, che Frantumi sollevi dubbi e domande sulla memoria e sulla sua trasmissione dovrebbe essere sufficiente a garantirne la circolazione nel nostro panorama letterario, se non come testimonianza e nemmeno come romanzo, almeno come “caso”. 107
Ibid. Suleiman, Problems of Memory and Factuality in Recent Holocaust Memoirs: Wilkomirski/ Wiesel, cit. 109 James Young, Writing and Rewriting the Holocaust: Narratives and the Consequences of Interpretation, Indiana University Press, Bloomington, 1988. 108
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Del resto, nel momento in cui Frantumi è stato pubblicato, la memoria individuale di Wilkomirski è diventata una memoria pubblica: la pubblicazione del libro e la sua attività di testimone hanno trasformano il privato cittadino Dössekker nella figura pubblica di Wilkomirski. Wilkomirski ha sempre ribadito di non aver mai avuto intenzione di rendere pubblica la sua storia.110 Eppure, nel 1994, mostrò il manoscritto del libro a Eva Koralnik, un prestigioso agente letterario di Zurigo che aveva già fatto pubblicare numerose testimonianze. Koralnik, anche lei sopravvissuta alla Shoah, rimase molto impressionata dal manoscritto e, senza chiedere ulteriore documentazione sull’identità dell’autore, passò le memorie di Wilkomirski all’editore Suhrkamp che, in breve tempo, pubblicò Frantumi nella collana “Judischer Verlag” del suo catalogo.111 Wilkomirski è diventato così un testimone dell’orrore nazista, al pari di Primo Levi e Elie Wiesel. Lo scandalo, che successivamente lo ha colpito ha prodotto un acceso dibattito sui temi della memoria e dell’autenticità. Se da un lato, si temono gli effetti della scomparsa degli ultimi veri testimoni sulla possibilità di continuare a parlare della Shoah, dall’altro non tutti sono disposti ad accogliere con favore l’avvento di quelle che Alison Landsberg ha definito prosthetic memories.112 Secondo Landsberg, le nuove concezioni tecnologiche della cultura di massa avrebbero dotato la nostra società di questa forma di memoria alternativa che può facilmente diventare la memoria di coloro che non hanno vissuto determinati eventi. Il modo tradizionale di studiare la storia, che Landsberg definisce “modo cognitivo”, non sarebbe, per lei, sufficiente a sostituire l’esperienza diretta garantita dall’ascolto di chi l’evento lo ha vissuto o subito. L’empatia, prodotta dall’ascolto/visione del testimone, trasformerebbe perciò il freddo e “clinico” discorso storico in una forma di esperienza diretta, sebbene non vissuta, risolvendo il problema della scomparsa dei testimoni. L’effetto si imporrebbe in questo modo sul fatto. 110
Lappin, The Man with Two Heads, cit. Gourevitch, The Memory Thief, cit. 112 Landsberg, America, The Holocaust and the Mass Culture of Memory: Toward a Radical Politics of Empathy, cit. 111
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Per molti critici, questo tipo di memorie di “seconda mano” sono solo deboli sostituti della memoria “reale”, vissuta, degli ultimi veri testimoni, cui si potrebbe aggiungere il racconto, spesso affetto da mancanze e vuoti di memoria, dei molti bambini, oggi adulti, sopravvissuti alla Shoah.113 Queste riflessioni si inseriscono, naturalmente, nel contesto del dibattito storico sorto attorno al postmodernismo e alla messa in discussione della storia durante i processi ai negazionisti. Già ai tempi del processo contro Irving, lo storico Richard Evans scrisse un libro in cui difendeva la disciplina storica contro i postmodernisti, attaccando la loro pretesa di trasformare tutto in discorso.114 Auschwitz non è un discorso, affermava contro Derrida e i decostruzionisti, che mettono in dubbio il senso da dare a un testo, contro Barthes e i “testualisti”, che fanno vacillare il referente, contro tutti coloro che accomunano il testo storico e la finzione sostenendo che la ricerca storica non è altro che semplice interpretazione, senza possibilità di distinguere il vero dal falso. Se gli scritti negazionisti si sono potuti sviluppare è anche, secondo Evans, a causa dell’estremo relativismo dei postmodernisti che hanno abituato a pensare che tutti gli approcci, compreso il narrativismo, siano validi. Questa però, secondo Robin, è una falsa pista che conduce a un’eccessiva semplificazione dei problemi in nome della vigilanza sul reale. Certo, i narrativisti possono prestare il fianco ai negazionisti, ma se è vero che Auschwitz non è un discorso, è altrettanto vero che Auschwitz passa anche attraverso il discorso. In che modo, allora, può essere rappresentata la Shoah? Anche la stesura del Libro Nero, nell’Unione Sovietica dei primi anni Quaranta, aveva visto le divergenze degli scrittori Il’ja Erenburg e Vasilij S. Grossman sul trattamento della storia. Il Libro Nero aveva lo scopo di documentare le atrocità naziste sugli ebrei e servire come atto d’accusa contro i tedeschi da utilizzare in sede giudiziaria. Erenburg, convinto che “le aride cifre” avessero smesso di fare impressione, cominciò a raccogliere diari e lettere che 113 Hasian, Authenticity, Public Memories and the Problematics of Post-Holocaust Remembrances: A Rhetorical Analysis of the Wilkomirski Affair, cit. 114 Richard Evans, In defense of history, «Granta Books», London, 1997.
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trasmettessero le sofferenze provate dalle singole persone. Erenburg era persuaso che la sola inclusione delle testimonianze, senza ulteriori rimaneggiamenti, fosse sufficiente a produrre un forte impatto emotivo. Il collega Grossman non era, invece, d’accordo sul metodo di trattamento del materiale selezionato per la pubblicazione. Grossman riteneva necessaria una rielaborazione letteraria dei manoscritti nella convinzione che l’obiettivo del Libro Nero fosse dar voce a chi non poteva più testimoniare anziché quello di far parlare i superstiti.115 La storia non smette, quindi, di interrogarsi sulla sua scrittura, sul modo in cui si situa nel testo e fa parlare gli altri, i testimoni e i morti, nemmeno quando gli altri sono i testimoni e i morti della Shoah. Ma la storia non può neanche fare a meno di interrogarsi sul processo di autenticazione di una narrazione, perché da questo processo dipendono le modalità di rappresentazione della Shoah.
9. Memoria e autenticità Frantumi è un libro credibile perché è così che il lettore si aspetta che sia stata l’esperienza di un bambino sopravvissuto. Il racconto di Wilkomirski è in linea con le conoscenze comuni sulla Shoah116 e questo, in qualche modo, ne garantisce l’autenticità. In particolare, i critici letterari furono molto colpiti dalla forma innovativa della narrazione di Wilkomirski, perché corrispondeva, più di qualsiasi altra cosa letta in precedenza, al modo in cui si aspettavano che l’indicibile dovesse essere raccontato.117 Un altro sopravvissuto, Norman Manea, che aveva solo cinque anni quando la sua famiglia è stata deportata, spiegò a Gourevitch che l’incoerenza di Frantumi gli era sembrata la garanzia di uno 115
Antonella Salomoni, L’Unione Sovietica e la Shoah. Genocidio, resistenza, rimozione, Il Mulino, Bologna, 2007. 116 Sue Vice, Binjamin Wilkomirski’s Fragments and Holocaust Envy: “Why Wasn’t I There, Too?”, «Immigrants & Minorities», 2002. 117 Stefan Maechler, Wilkomirski the Victim. Individual Remembering as Social Interaction and Public Event, «History and Memory», Autunno 2001 (13, 2).
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scritto autentico. Solo così un bambino di quell’età poteva ricordare il trauma.118 Il falso appariva, dunque, più vero delle testimonianze autentiche. Frantumi colpì proprio per la familiarità di esperti e semplici lettori con la materia trattata. La natura politica della testimonianza, sancita dal processo Eichmann,119 ne assicurò inoltre la circolazione. Il contesto sociale gioca allora un ruolo fondamentale nella coproduzione di qualunque memoria “autentica”.120 L’assemblaggio metonimico dei presunti ricordi di Wilkomirski è stato universalmente accettato come l’unica forma di racconto possibile dell’esperienza traumatica di un bambino sopravvissuto alla Shoah che non solo deve far fronte all’indicibile, ma anche ai contorni sfumati dei ricordi dei bambini. Fino ai primi anni Novanta si era data poca attenzione all’esperienza traumatica dei bambini sopravvissuti alla Shoah e ai figli dei sopravvissuti, la seconda generazione. Ed è proprio in questo contesto di rinnovato interesse per la memoria dei più giovani che si inserisce il successo di un libro come Frantumi che pareva dar voce a quanti, fino a quel momento, non l’avevano avuta. Di conseguenza, il processo di autenticazione va al di là della sola “autocertificazione” del trauma per coinvolgere tutti coloro che definiscono lo standard valutativo di un’autentica memoria della Shoah: storici, critici, studiosi e semplici lettori. Sotto questo aspetto, Frantumi è una coproduzione la cui responsabilità non dovrebbe ricadere solo su Wilkomirski, perché molti hanno contribuito a creare la sua icona. Sembra assurdo continuare a discutere di Frantumi nell’ambito della memoria individuale. Wilkomirski, seppur inconsciamente, ha scritto un testo pubblico, pieno di cliché, argomenti e topoi del racconto della Shoah. Il libro si spiega perciò meglio alla luce della memoria collettiva e culturale contemporanea.121 118
Gourevicth, The Memory Thief, cit. Wieviorka, L’era del testimone, cit. 120 Hasian, Authenticity, Public Memories and the Problematics of Post-Holocaust Remembrances: A Rhetorical Analysis of the Wilkomirski Affair, cit. 121 Per una definizione di memoria collettiva e culturale cfr. Maurice Halbwachs, La mémoire collective, Presses universitaires de France, Paris, 1967; trad. it. La memoria collectiva, Unicopli, Milano, 1996, e Les cadres sociaux de la mémoire, Mouton, 119
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Frantumi non è solo l’effetto della politica dell’empatia, ma per alcuni studiosi rifletterebbe anche il particolare momento di crisi culturale della Svizzera, alla metà degli anni Novanta, quando l’opinione pubblica si ritrovò divisa tra chi difendeva l’immagine tradizionale di un Paese neutrale e chi pensava che la Svizzera fosse stata complice del nazionalsocialismo. In Frantumi emergerebbe, quindi, il dibattito sulle colpe e le mancanze della Svizzera, sia durante la guerra che nell’immediato dopoguerra.122 Dannoso o meno, per la memoria della Shoah, il caso Wilkomirski non è affatto chiuso. Frantumi potrebbe, forse, essere riabilitato come specchio della sua epoca ed effetto di una determinata cultura.
10. Perché Frantumi può essere considerato una vera testimonianza Nell’articolo Beyond the Question of Authenticity: Witness and Testimony in the Fragments Controversy, Michael Bernard-Donals separa il problema dell’autenticità da quello dell’autorità, sostenendo che Frantumi ha autorità come testimonianza anche se non è autentico come storia.123 Secondo Bernard-Donals, la testimonianza, in generale, non è una finestra sul passato. Tutto ciò che il testimone riferisce è solo l’assenza dell’evento originario, così che al centro di ogni memoria ci sarebbe solo l’oblio di ciò che è stato. Siamo abituati a pensare la storia come ciò che può essere ricordato, mentre in realtà l’evento, oggetto della storia, dopo essersi svolto, non apparterrebbe più alla storia.124 Muovendosi su un terreno affine, quello della scritParis, 1975; trad. it. I quadri sociali della memoria, Ipermedium, Napoli, 1997; Aleida Assmann, Erinnerungsräume. Formen und Wandlungen des kulturellen Gedächtnisses, C.H. Beck, München 1999; trad. it. Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Il Mulino, Bologna, 2002. 122 Whitehead, Telling Tales: Trauma and Testimony in Binjamin Wilkomirski’s Fragments, cit. 123 Michael Bernard-Donals, Beyond the Question of Authenticity: Witness and Testimony in the Fragments Controversy, «The Journal of the Midwest Modern Language Association», Ottobre 2001 (116, 5). 124 Michael Bernard-Donals, Blot out the Name of Amalek: Memory and Forgetting in the Fragments Controversy, «The Journal of the Midwest Modern Language Association», Autunno/Inverno 2000/2001 (33, 3).
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tura, Maurice Blanchot arriva a conclusioni analoghe: una volta accaduto, l’evento è perduto per sempre ed è solo a questo punto, dopo aver perduto ciò che si aveva da dire, che può iniziare la scrittura o, nel nostro caso, la testimonianza.125 Una testimonianza che porterà sempre il segno dell’assenza dell’evento, indicativa pertanto del trauma legato all’evento, ma non del suo contenuto. In altre parole, la testimonianza non comunicherebbe i fatti, ma gli effetti e questo sarebbe il motivo per cui, secondo Bernard-Donals, le testimonianze fittizie sono altrettanto efficaci delle testimonianze vere. L’autorità di una testimonianza non sarebbe, perciò, data dalla precisione degli eventi narrati quanto piuttosto dalla capacità di produrre effetti sul lettore. Ed è questo che spiegherebbe il successo di Frantumi, un libro che non fa progredire la conoscenza della storia, ma che fa sperimentare l’essenza drammatica del trauma subito. Il pericolo però è che, in questo modo, la Shoah diventi una metafora per ciò che è al di fuori della storia (l’esperienza, la memoria, il trauma) e che false memorie, come quella di Wilkomirski, non siano più distinguibili dalle testimonianze autentiche, dal momento che la Shoah, in quanto evento passato, non si potrebbe conoscere in alcun modo.126 Comunque sia, fabbricato o no, il linguaggio di Frantumi funziona come testimonianza. Come suggerisce Lappin, che confessa di non credere che Frantumi sia solo finzione, Wilkomirski ha subito di sicuro un trauma durante l’infanzia. Forse l’abbandono della madre naturale oppure l’esperienza dell’orfanotrofio. Non possiamo sapere di preciso di quale trauma si tratti, ma qualunque esso sia ha prodotto un vuoto che è stato riempito con la rappresentazione di un altro evento drammatico, il più drammatico in assoluto: la Shoah.127 Wilkomirski avrebbe cioè raccontato il suo trauma attraverso un altro linguaggio e la scelta di questo linguaggio sarebbe dipesa dal contesto sociale e culturale nel quale si trovava immerso, un’epoca in cui la ricezione 125
Maurice Blanchot, L’Écriture du Désastre, Gallimard, Paris, 1980; trad. it. La scrittura del disastro, Se, Milano, 1990. 126 Gross and Hoffman, Memory, Authority and Identity: Holocaust Studies in Light of the Wilkomirski Debate, cit. 127 Bernard-Donals, Blot out the Name of Amalek: Memory and Forgetting in the Fragments Controversy, cit.
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pubblica della Shoah non era più un vergognoso tabù, ma lo stimolo per la creazione di icone.128 La vittima, infatti, emerge nella comunità in ragione della violenza che ha subito, trovandovi spazio e rispetto. Parallelamente, nello spazio pubblico, si afferma la convinzione che solo presentandosi come vittime si avrà diritto alla giustizia. «È un meccanismo che lentamente dimentica il presupposto da cui era partito, legato all’eccezionalità, alla condizione estrema del sopravvissuto, ed estende così all’infinito la realtà traumatica. Trasforma una condizione fisica, oggettiva, in una psicologica».129
La riflessione di David Bidussa sulla centralità della vittima offre una spiegazione al comportamento di Wilkomirski: il più grande orrore del Ventesimo Secolo, il cui nome è oggi ripetuto in continuazione, avrebbe preso il posto degli eventi personali a cui l’uomo non aveva più accesso per poterli esprimere. Frantumi potrebbe, allora, inserirsi nel discorso storico come fonte per la descrizione della società che ha ascoltato i testimoni e del suo modo di metabolizzare la Shoah. Il libro di Wilkomirski è l’esempio perfetto di come l’utilizzo della retorica del trauma può produrre una forte reazione di empatia da parte del lettore: sia che il lettore sia lo stesso Wilkomirski oppure che si tratti del lettore di Frantumi. Ciò accade perché, come ricorda Amy Hungerford, la storia del trauma non può essere semplicemente letta, ma deve essere invece sperimentata.130 La teoria del trauma può essere molto utile per spiegare come il cittadino svizzero Dössekker si sia trasformato, nei primi anni Ottanta, nel sopravvissuto Binjamin Wilkomirski. Hungerford cita, a questo proposito, l’esperimento condotto da Shoshana Felman sui suoi studenti di Yale e che è diventato il modello teoretico per l’analisi della relazione esistente tra letteratura ed esperienza traumatica.131 Wilkomirski racconta in Frantumi, ma anche in molte interviste, di aver iniziato a capire meglio sé stesso dopo aver studiato la storia della 128
Gourevicth, The Memory Thief, cit. David Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Einaudi, Torino, 2009, p. 15. 130 Amy Hungerford, Memorizing Memory, «The Yale Journal of Criticism», 2001 (14,1). 131 Shoshana Felman and Dori Laub, Testimony: The Crisis of Witnessing in Literature, Psychoanalysis and History, Routledge, New York, 1992. 129
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Shoah alle scuole superiori.132 La trasformazione dell’identità di Dössekker in Wilkomirski sarebbe, dunque, iniziata in questo periodo, per definirsi meglio solo dopo la morte della madre naturale e dei genitori adottivi, ultimo legame con l’identità originale.133 Questo episodio rispecchia il racconto della risposta data alla visione delle testimonianze sulla Shoah da parte degli studenti di Yale. Felman dichiarò, infatti, che gli studenti entrarono in crisi: l’ascolto delle testimonianze produsse su di loro sintomi traumatici equivalenti a quelli dei sopravvissuti. Certo, Felman non arrivò a dire che i suoi studenti si trasformarono in sopravvissuti, ma nella sua interpretazione divennero, comunque, dei “testimoni”.134 Attraverso le testimonianze ascoltate, gli studenti avrebbero interiorizzato l’esperienza dei sopravvissuti trasformandola in esperienza personale. Wilkomirski si è, ovviamente, spinto oltre, fino a vestire i panni del sopravvissuto. Il lavoro di Felman spiegherebbe, dunque, sia perché Wilkomirski ha scritto Frantumi sia perché il libro ha riscosso subito grande successo. Questo studio, però, conduce la nostra riflessione sulla trasmissione della memoria addirittura più avanti: se Auschwitz può essere raccontato solo da chi l’ha vissuto, allora colui che, attraverso le testimonianze dei veri testimoni, ha sperimentato la drammaticità della Shoah può, a buona ragione, essere considerato a sua volta un “testimone”. In questo modo, chi trasmette la memoria non deve più necessariamente aver vissuto il trauma, ma deve solo averlo in qualche modo sperimentato. Questa, forse, potrebbe essere una via per continuare a raccontare la Shoah dopo che tutti i veri testimoni saranno scomparsi, a patto però che il trauma dei sopravvissuti non vada confuso con quello, infinitamente inferiore, indotto dal loro racconto. Ma anche così, oltre al pericolo rappresentato dal discorso negazionista, permane un’importante implicazione etica: quella che la drammatica unicità della Shoah assuma i contorni di un trauma comune.
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Gourevitch, The Memory Thief, cit. Maechler, Wilkomirski the Victim. Individual Remembering as Social Interaction and Public Event, cit. 134 Hungerford, Memorizing Memory, cit. 133
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CAPITOLO II
LE FALSE NOTIZIE E LA COSCIENZA COLLETTIVA: STORIA E TESTIMONIANZA DA BLOCH A WIEVIORKA
1. Il rapporto tra storia e finzione: il ruolo della testimonianza «Finzione è una parola pericolosa, come il suo opposto scienza. […] La storiografia occidentale è in perenne lotta contro la finzione. Questa guerra intestina tra storia e storie affonda le radici lontano. […] In virtù della sua stessa lotta contro i miti e le leggende della memoria collettiva o contro le derive della tradizione orale, la storiografia produce uno scarto rispetto al dire e alle credenze comuni e si situa esattamente all’interno di questa differenza che la accredita come “colta”, distinguendola dal discorso comune. […] Da questo punto di vista, la finzione è ciò che la storiografia riconosce come errore, definendo con ciò stesso il proprio ambito di indagine».1
All’analisi del difficile e ambiguo rapporto tra storia e finzione fatta da De Certeau nel libro Storia e psicanalisi fanno eco le riflessioni di Halbwachs sul funzionamento della memoria: il passato non sopravvive tale e quale nell’inconscio, ma si ricrea grazie alle indicazioni fornite dalla società. Piuttosto che come luogo della persistenza del passato, la memoria è colta come quello di una sua ricostruzione selettiva che ne fa dipendere l’immagine dagli interessi e dai bisogni del presente.2 1
Michel De Certeau, Histoire et psychanalyse entre science et fiction, Gallimard, Paris, 1987; trad. it. Storia e psicanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, pp. 51-52. 2 Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, cit.
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Di nuovo la storia, che è sempre una scrittura “a posteriori”, si colloca in posizione antitetica rispetto alla memoria e alle sue principali manifestazioni: il ricordo e la testimonianza. Storia e testimonianza sono anche i due perni attorno a cui ruota la riflessione di Marc Bloch. L’esperienza della Prima Guerra Mondiale fu per Bloch l’occasione per pensare in termini nuovi il problema della testimonianza come fonte della storia e di superare il punto di vista positivistico che era ancora il suo nel luglio del 1914 quando, nel discorso Critica storica e critica della testimonianza,3 affermava la possibilità per lo storico di stabilire almeno in linea di principio, attraverso il metodo critico, la verità o meno di un fatto storico. Già allora, convinto che una testimonianza non costituisse un tutto indivisibile da dover dichiarare veridico o falso,4 Bloch suggeriva che il lavoro dello storico fosse quello di ricostruire la comunicazione di un evento per ricostruirne anche l’origine e la circolazione. Soprattutto nel caso di un falso evento, che lo storico, con gli strumenti a sua disposizione, sarebbe riuscito facilmente a svelare. La partecipazione alla guerra lo spinse, però, a rimettersi in discussione come storico e a tentare di ridefinire sia il proprio rapporto con la storia, sia le regole che devono orientare il lavoro storico. Il risultato furono le Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra,5 uno scritto in cui la testimonianza dell’esperienza vissuta in prima persona dallo studioso non è semplice registrazione dei fatti, ma riflessione su di essi, sforzo per interpretarli e metterne in evidenza la logica nascosta. Il testimone Bloch analizza il valore e la funzione della testimonianza tentando di superare l’antica opposizione tra verità ed errore, tra realtà e interpretazione. Bloch invita gli storici a fare propri i risultati della psicologia della testimonianza e a dare una dimensione collettiva ad analisi a cui gli psicologi, fino ad allora, avevano riservato solo l’ambito individuale. L’oggetto della storia, per Bloch, non è infatti l’individuo isolato, ma la società di cui la guerra ha contribuito a mettere in luce 3
Marc Bloch, Critique historique et critique du témoignage, dans Histoire et historiens, Colin, Paris, 1995; trad. it. Critica storica e critica della testimonianza, in Storici e storia, Einaudi, Torino, 1997. 4 Ibid. 5 Marc Bloch, Écrits de guerre 1914-1918, Colin, Paris, 1997; trad. it. La guerra e le false notizie, Donzelli, Roma, 1994.
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la psicologia. Le “false notizie” avrebbero, perciò, dovuto essere analizzate come altrettante realtà identificabili che, al di là della loro falsità, avrebbero rivelato, in modo indiretto, qualcosa sulla società. La società, infatti, accetta e diffonde il falso solo se corrisponde alle sue attese. Con Bloch, il falso diventa oggetto di studio per lo storico in quanto testimonianza indiretta sulla mentalità collettiva. «Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; questa, solo apparentemente è fortuita, o, più precisamente, tutto ciò che in essa vi è di fortuito è l’incidente iniziale, assolutamente insignificante, che fa scattare il lavoro dell’immaginazione; ma questa messa in moto ha luogo soltanto perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento. […] una cattiva percezione che non andasse nella direzione verso cui già tendono le menti di tutti, potrebbe al massimo costituire l’origine di un errore individuale, ma non di una falsa notizia popolare e largamente diffusa. […] la falsa notizia è lo specchio in cui “la coscienza collettiva” contempla i propri lineamenti».6
Sono, dunque, le rappresentazioni collettive, non il falso da esse generato, che contano per chi vuole capire una società. La testimonianza può, perciò, essere utilizzata come fonte per la storia purché sia interpretata per capire di che cosa è davvero fonte. Nel caso di Wilkomirski, allora, la sua testimonianza, che è falsa rispetto alla sua autobiografia, è comunque una fonte per l’analisi della società che l’ha prodotta. Se Wilkomirski non apporta niente di nuovo sul piano della conoscenza della Shoah ed è, anzi, addirittura dannoso, il suo racconto è però il frutto di quella stessa società che ha dato origine all’era del testimone creando l’indispensabile attesa che ha consentito la circolazione di Frantumi. Come racconta Bloch, la psicosi collettiva, durante la guerra, è stata all’origine di molte false notizie. Era sufficiente, per esempio, una «percezione sostanzialmente giusta, ma male interpretata, unanimemente deformata per accordarsi agli ardenti desideri di tutti»,7 per iniziare a credere che la guerra sarebbe presto finita. 6 7
Bloch, La guerra e le false notizie, cit., p. 100. Bloch, La guerra e le false notizie, cit., p. 91.
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Allo stesso modo, l’emergere di un nuovo interesse per il racconto del sopravvissuto alla Shoah e la successiva “americanizzazione dell’Olocausto”8 hanno reso possibile la circolazione della falsa testimonianza di Wilkomirski. Non solo. Nel caso di Frantumi ha pesato anche il generale «ardente desiderio» di una storia a lieto fine: l’epopea di un bambino che si conclude con il ritorno alla normalità.9 Per non fraintendere Bloch, occorre precisare che, nelle sue riflessioni, egli prendeva in considerazione solo le «false notizie sincere», quelle nate senza malizia e circolate altrettanto spontaneamente, mentre «l’impostura consapevole», la semplice menzogna, non era, per lui, particolarmente interessante. 10 Ora, se Wilkomirski avesse deliberatamente mentito, anche il suo libro potrebbe non essere particolarmente interessante. Ma Wilkomirski è sinceramente convinto dell’identità che dice di aver ritrovato e non è per niente disposto a perderla di nuovo. Wilkomirski crede in ciò che racconta ed è stato creduto perché la società era predisposta a credergli. Frantumi partecipa, infatti, di quella verosimiglianza culturale indispensabile al suo riconoscimento, perché si fonda mimeticamente su una realtà che ne condiziona la ricezione. Il libro colma, dunque, le attese del pubblico riflettendone l’immagine. La finzione della testimonianza diventa così l’autoritratto di un’epoca.11 Attento all’azione del contesto sulla narrazione, Bloch invita gli storici a studiare l’influenza dei diversi ambienti, nei diversi periodi, sulla nascita, la diffusione e la trasformazione dei racconti per comprendere i meccanismi della psicologia collettiva. Per Bloch, la creazione delle false notizie, nel periodo della guerra, era infatti connessa alla frammentazione della società e all’isolamento di interi gruppi sociali. La mancanza di comunicazione avrebbe, dunque, influito sulla nascita e la proliferazione di notizie ingannevoli.12
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Wieviorka, L’era del testimone, cit. Maliszewski, A Holocaust fantasy, cit. 10 Bloch, La guerra e le false notizie, cit., p. 93. 11 Alexandre Prstojevic, Faux en miroir: fiction du témoignage et sa réception, «Témoigner entre Histoire et Mémoire», Janvier-Mars 2010 (106). 12 Bloch, La guerra e le false notizie, cit. 9
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La società che ha legittimato il racconto di Wilkomirski è, invece, diametralmente opposta. Si tratta, infatti, di una società in cui è proprio una comunicazione ricca e continua a favorire la nascita della falsa testimonianza di Wilkomirski. Una società che valorizza l’esibizione13 e in cui la Shoah ha decretato la crisi della storicità14 e reso inadeguata, se non addirittura obsoleta, la vecchia nozione di rappresentazione.15 Nel caso della guerra, il dubbio metodico, che Bloch proponeva come antidoto infallibile contro il falso, non ha funzionato e le false notizie hanno proliferato perché l’emozione e la fatica avevano distrutto il senso critico. Per quanto riguarda Wilkomirski, non è stata la pigrizia degli storici a far accreditare Frantumi, ma soprattutto la mancanza di coraggio nell’affrontare la testimonianza di un presunto sopravvissuto con dubbio metodico. Una mancanza di coraggio la cui spiegazione, ancora una volta, è da ricercarsi in quella società dell’era del testimone che denuncia il dubbio come oltraggio alla sacralità di chi testimonia. Un altro fenomeno curioso, per Bloch, è la menzogna che prende come punto di partenza un errore spontaneo. «L’immaginazione» – scrive Bloch – «è una qualità meno diffusa di quanto si creda talvolta; molti mentitori ne hanno poca, e probabilmente la menzogna consiste abbastanza spesso nel ripetere, pur sapendo che è falso, un racconto erroneo, ma sincero».16
È ancora molto diffusa, per esempio, nell’opinione pubblica, non solo iberica, la convinzione che il regime di Franco si sia intensamente e coraggiosamente impegnato a salvare gli ebrei perseguitati dai nazisti.17 Numerosi sono gli studi e i saggi che sottolineano come la Spagna, sebbene fosse politicamente a fianco della Germania, non
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Wieviorka, L’era del testimone, cit. Per una definizione di storicità cfr. Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, cit., pp. 527-547. 15 Robin, La mémoire saturée, cit. 16 Bloch, La guerra e le false notizie, cit. 17 Luciano Casali, Esame e demolizione di un mito franchista: la Spagna come terra di rifugio per gli ebrei, «Spagna Contemporanea», 2006 (29). 14
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abbia anteposto il suo schieramento ideologico al senso di umanità e di carità che le derivavano dall’antica coscienza cattolica.18 Ma come è nata e come si è diffusa tale convinzione? Quando, nel 1942, la Germania mise a punto la Soluzione Finale, stabilì che i Paesi neutrali e alleati potessero rimpatriare tutti quegli ebrei per i quali erano in grado di dimostrare che godevano della loro cittadinanza. Anche la Spagna avrebbe potuto salvare dalla deportazione tutti gli ebrei che desiderava. Ma gli ebrei che potevano rivendicare un passaporto spagnolo erano troppi e la Spagna non aveva la minima intenzione di far entrare all’interno dei suoi confini, compreso il Marocco, tutti quegli «elementi poco desiderabili», gente, come si legge nei carteggi spagnoli, la cui «razza, denaro, rapporti con l’Inghilterra e la massoneria, trasformavano in potenziali spie».19 Si decise perciò, tranne qualche eccezione, di accettare solo quegli ebrei che fossero forniti di un visto di transito, cioè coloro che avrebbero attraversato la Spagna per recarsi in un altro Paese, come il Portogallo o l’America Latina. Naturalmente, coloro che dovevano “transitare”, assistiti dalla Croce Rossa, venivano ammessi in piccoli gruppi e nuovi ebrei non potevano entrare in Spagna fintanto che gli altri non se ne fossero andati. Quelli in attesa, nel frattempo, rimanevano esposti all’arbitrio tedesco. Non era, dunque, la Germania che aveva tolto alla Spagna il diritto di proteggere i “suoi” ebrei. Tanto più, che era a tutti ormai noto che cosa significasse per gli ebrei essere “trasferiti nell’Europa Orientale”.20 Ma, alla fine del 1942, iniziarono a circolare vaghe notizie sul fatto che Franco dava asilo agli ebrei. Del resto, la guerra rendeva particolarmente difficile una verifica. Così, il rabbino Maurice Perlzweig, presidente del Comitato politico del Congresso mondiale ebraico, ricevuta la notizia che la Spagna aveva concesso il transito agli ebrei, si trasformò in un vero e proprio propagandista dell’immagine di 18
Cfr. Quando Franco difendeva gli ebrei, «Sette», inserto del «Corriere della sera», 17 gennaio 2002, e l’articolo di Giovanni Tassani, Madrid 1943: tre colloqui col Caudillo, «Nuova Storia Contemporanea», Gennaio/Febbraio 2002 (1). 19 Casali, Esame e demolizione di un mito franchista: la Spagna come terra di rifugio per gli ebrei, cit. 20 Ibid.
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Franco come amico degli ebrei. Naturalmente, il solo rapporto con Perlzweig conquistò alla Spagna la gratitudine dei più importanti centri ebraici. L’immagine di una Spagna fortemente impegnata a favore degli ebrei crebbe a dismisura tra gli ebrei americani che attribuivano a Franco un’infinità di interventi per soccorrere gli ebrei perseguitati dalla Germania. Finita la guerra, quando la Spagna si trovò condannata dalle Nazioni Unite e isolata diplomaticamente, quella menzogna, elaborata a partire da un errore spontaneo, tornò utile per differenziare al massimo la Spagna dai vecchi amici nazisti. L’offensiva mediatica non riuscì a far annullare i provvedimenti delle Nazioni Unite, ma consolidò e diffuse la leggenda di un regime che aveva fatto l’impossibile per aiutare gli ebrei.
2. L’era del testimone Già negli anni Cinquanta, le testimonianze della Shoah erano numerose, ma a partire dal processo Eichmann, nel 1961, il loro numero ha continuato a crescere fino a comporre una massa di cui non esiste, secondo Wieviorka, nessuna bibliografia esaustiva. Nessun altro evento storico, nemmeno la Prima Guerra Mondiale che segnò l’inizio delle testimonianze di massa, ha suscitato un movimento così consistente e di così lunga durata come la Shoah.21 Si tratta di testimonianze di vario genere, prodotte in periodi e con mezzi diversi e che rispondono a esigenze o domande diverse. Ritornano così estremamente attuali le riflessioni di Bloch sul racconto del testimone e sull’importanza del lavoro dello storico per l’utilizzo delle testimonianze come fonti per la storia. La testimonianza, soprattutto quando si trova a essere inserita in un movimento di massa, esprime, oltre all’esperienza individuale, il o i discorsi proferiti dalla società.22 Come suggeriva Halbwachs, infatti, la contrapposizione tra memoria autobiografica e memoria storica è solo apparente. In realtà, la seconda comprende anche la prima 21 22
Wieviorka, L’era del testimone, cit. Ibid.
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sia perché la società influenza l’uomo e lo fa essere ciò che è, sia perché i fatti trasformano il gruppo e si risolvono in immagini che attraversano la coscienza individuale. 23 Così che il testimone si esprime con le parole appartenenti all’epoca in cui fa la sua testimonianza, a partire da una richiesta e da un’attesa implicite, esse stesse contemporanee alla sua testimonianza, e che attribuiscono a quest’ultima delle finalità che dipendono dalla posta in gioco politica o ideologica. Per riprendere Halbwachs, «Il ricordo è in grandissima parte una ricostruzione del passato operata con l’aiuto di dati presi dal presente».24 Perciò, risulta difficile distinguere tra ricordi di cose reali e ricordi di cose immaginate o semplicemente “assorbite” dalla società. Ma tutto ciò compone la memoria dell’individuo che, in definitiva, non è altro che una memoria collettiva. Così, posto dinanzi all’abbondanza delle testimonianze della Shoah e alla loro attuale onnipresenza nello spazio pubblico, lo storico si trova oggi ad affrontare vecchie e nuove problematiche. Vecchie perché lo storico sa che «non esiste buon testimone, né deposizione esatta in ogni sua parte».25 Nonostante ciò, in linea di massima, dovrebbe possedere gli strumenti per far passare le testimonianze al vaglio della critica storica. Tuttavia, rispetto alle testimonianze della Shoah, lo storico si trova in una situazione inedita. Prima di tutto, egli è immerso nella stessa atmosfera degli altri e la sua memoria, benché sia dotato di uno spirito critico, codifica le stesse immagini. Inoltre, il suo lavoro rimane sempre sotto il fuoco di un’attualità in cui i problemi si mescolano e le finalità etiche e scientifiche sono spesso intrappolate in quelle politiche.26 La diffidenza degli storici nei confronti delle testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah può essere riassunta con le parole di Lucy Dawidowicz: «Le trascrizioni delle testimonianze da me esaminate sono piene di errori per quanto concerne le date, i nomi delle persone, i luoghi, e mostrano con tutta evidenza una scorretta comprensione degli eventi 23
Halbwachs, La memoria collettiva, cit. Ibid, p. 80. 25 Bloch, La guerra e le false notizie, cit., p. 78. 26 Wieviorka, L’era del testimone, cit. 24
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stessi. Più che essere utili allo studioso, alcune di tali deposizioni possono piuttosto fuorviarlo».27
Questa svalutazione generale delle testimonianze ha condotto gli storici a lasciare ai letterati, agli psicanalisti e ai sociologi il compito di riflettere sull’enorme quantità di racconti dei sopravvissuti. Lo storico avrebbe cioè abdicato al ruolo cui Bloch lo chiamava e lasciato ad altri la riflessione sulla produzione delle testimonianze, sulla loro evoluzione nel tempo, sul ruolo svolto dalle testimonianze nella costruzione del racconto storico e della memoria collettiva e, soprattutto, sulla comparsa dei falsi testimoni. Le false notizie, così come il falso testimone, sono trasversali alle diverse fasi di evoluzione della storiografia della Shoah. Nei bollettini della Cronaca del ghetto di àodz, redatta in polacco e tedesco tra il 12 gennaio 1941 e il 30 luglio 1944, compariva la rubrica “Voci”. Le voci e le dicerie, infatti, pullulavano nel ghetto e tutte le testimonianze risentono della loro eco.28 Alcune voci furono diffuse espressamente dai tedeschi, ma altre nacquero spontaneamente. La situazione nei ghetti era pertanto simile a quella descritta da Bloch nelle sue Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra: «Non si sottolineerà mai abbastanza fino a che punto l’emozione e la falsa notizia distruggano il senso critico. […] Il dubbio metodico è in genere segno di una buona salute mentale; perciò soldati sfiniti, con la mente annebbiata, non potevano praticarlo».29
Inoltre, come i soldati al fronte, anche gli ebrei dei ghetti erano isolati rispetto al resto del mondo e privi delle informazioni necessarie per far tacere le false notizie. Molti cronisti hanno perciò messo in moto un meccanismo analogo a quello descritto da Bloch, anche come reazione alla situazione estrema in cui si sono trovati a vivere. Non è un caso, che le false notizie siano centrali anche nel romanzo Badenheim 1939, di Aharon Appelfeld, per spiegare come 27
Citata in Wieviorka, L’era del testimone, cit., p. 15. Wieviorka, L’era del testimone, cit. 29 Bloch, La guerra e le false notizie, cit., pp. 100-101. 28
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un gruppo di ebrei, in villeggiatura nella rinomata stazione termale di Badenheim, accetti docilmente il “trasferimento” in Polonia. Certo, alcuni si risentono del fastidio, altri protestano, ma nessuno riconosce appieno la minaccia, anzi tutti sembrano decisi a ignorare il pericolo, rassicurati e illusi dalla prospettiva di una nuova vita in Polonia che, per alcuni, rappresenta quasi un ritorno alle proprie origini yiddish.30 Anche di fronte all’apparizione degli squallidi vagoni merci, destinati al loro “trasferimento”, questa piccola comunità di Badenheim continuerà a non capire che, di lì a poco, avrebbe fatto la stessa fine dei pesci dell’acquario del loro albergo, scomparsi improvvisamente quando un “naturalista” vi inserì dei terribili pesci blu. Tragica metafora di un popolo destinato a sparire senza fare rumore. Tuttavia, nel periodo immediatamente successivo alla fine del conflitto, i sopravvissuti non sono emersi come gruppo in nessuna parte del corpo sociale, nemmeno tra le comunità ebraiche. Le stesse associazioni dei sopravvissuti non sono riuscite a far emergere il ricordo nello spazio pubblico. La Shoah rimaneva così circoscritta alla memoria di un gruppo chiuso. È soltanto con il processo Eichmann, e al prezzo di una modificazione del contenuto e del significato di tale memoria, che la testimonianza assume un peso che va al di là dell’esperienza personale, tale da spingere alcuni settori della società a farsene carico.31 Il processo Eichmann segna una vera e propria svolta rispetto all’emergere della memoria del genocidio.32 Con tale processo, inizia una nuova epoca, quella in cui la memoria della Shoah diviene l’elemento costitutivo di una determinata identità ebraica e la sua presenza nello spazio pubblico viene rivendicata con forza.33 Per la prima volta, appare anche il tema della pedagogia e della trasmis-
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Aharon Appelfeld, Badenheim 1939, trad. it. Guanda, Parma, 2007 (ed. or. 1978). Wieviorka, L’era del testimone, cit. 32 Il processo all’ufficiale nazista Adolf Eichmann si era aperto a Gerusalemme nell’aprile del 1961 e si era chiuso quattro mesi più tardi con la condanna a morte dell’imputato. Per le vicende del processo cfr. Tom Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, Mondadori, Milano, 2001 (traduzione dell’edizione in lingua inglese, New York, 1993). 33 Wieviorka, L’era del testimone, cit. 31
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sione,34 un tema che avrà, in seguito, implicazioni complesse e profonde. Con il processo Eichmann si vuole molto di più di un semplice verdetto: si desidera, secondo le intenzioni del Primo Ministro Ben Gurion, toccare il cuore degli uomini e offrire al mondo una lezione di storia.35 Un simile proposito non poteva essere realizzato se non rendendo pubblica la figura del testimone. Se a Norimberga lo scritto aveva trionfato sull’orale, dimostrando che potevano bastare i documenti a decretare la colpevolezza della Germania nazista, il processo di Gerusalemme si propone, invece, di scrivere la storia facendo appello all’emozione. Infatti, nonostante i sopravvissuti, contrariamente a quanto si crede, non testimonino al processo Eichmann per la prima volta, le loro parole, amplificate dall’aula del tribunale e dai media, acquistano una risonanza che non avevano mai avuto in precedenza. Anche se il racconto rimane sempre lo stesso, sono cambiate le circostanze in cui avviene la testimonianza, così che la narrazione viene a collocarsi in una costruzione collettiva diversa, rispetto al passato, se non addirittura inedita. Con il processo Eichmann, il sopravvissuto acquisisce un’identità sociale di sopravvissuto, che gli viene riconosciuta dalla società stessa. Prima di questo processo, il sopravvissuto che voleva conservare la propria identità di sopravvissuto lo poteva fare solo in una vita associativa chiusa che non riusciva a far emergere nello spazio pubblico il ricordo del genocidio. Il processo Eichmann, invece, libera la parola dei testimoni, determinando una forte domanda sociale di testimonianze. 36 In precedenza, questa domanda non era presente in nessun settore della società, ma nel momento in cui questo settore esiste, è possibile che persino un falso testimone, come Wilkomirski, possa essere accreditato come vero. Nessuno, ormai, oserebbe mettere in discussione il testimone di una tale atrocità, perché l’uomomemoria, emerso dal processo Eichmann, ha trasformato le condi34
Gli intenti pedagogici del processo si ponevano il duplice fine di offrire un’educazione nazionale al giovane stato ebraico e una lezione per l’umanità intera. Il discorso del procuratore Hausner fu, dunque, un atto politico concordato con il governo israeliano. Cfr Introduzione di Simon Levis Sullam a Gideon Hausner, Sei milioni di accusatori. La relazione introduttiva del procuratore generale al processo Eichmann, Einaudi, Torino, 2010. 35 Wieviorka, L’era del testimone, cit. 36 Ibid.
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zioni stesse della scrittura del genocidio chiedendo al pubblico di abbandonare ogni criticità per giungere non più alla conoscenza di un evento, ma all’identificazione con le sue vittime. Ecco perché, la latitanza degli storici, in materia di testimonianza, mi sembra non solo colpevole, ma anche pericolosa. Perché, se è vero che qualunque negazionista può attaccarsi a un falso testimone per sconfessare tutti i testimoni, è anche vero che lo storico, con gli strumenti a sua disposizione, potrebbe, in ogni momento, mettere a tacere qualsiasi discorso pseudo-scientifico. Non a caso, Richard Evans dopo aver riletto per il processo l’opera completa di Irving vi ha scoperto una lettura distorta dei documenti, molte manipolazioni, errori volontari e involontari, prove della sua cattiva fede, riuscendo così a fare a pezzi le convinzioni di Irving e la sua reputazione.37
3. L’uso del testimone Gideon Hausner, il procuratore attorno a cui ruota l’organizzazione del processo Eichmann, aveva distinto, sia all’inizio che alla fine della sua relazione processuale, il proprio ruolo da quello degli storici,38 benché avesse preparato il suo discorso consultando la storiografia sulla Shoah disponibile all’epoca (Reitlinger,39 Poliakov40 e il libro di Hilberg,41 pubblicato, per la prima volta, mentre il processo era anco37
Robin, La mémoire saturée, cit. «Come mai è potuta accadere una cosa simile? […] Già al processo di Norimberga I giudici se lo erano chiesto […] temo che anche in questo processo non si scopriranno fino in fondo le radici del male. Sarà compito degli storici, dei sociologi, degli scrittori, degli psicologi, trovarne le ragioni». Cfr. Gideon Hausner, Sei milioni di accusatori. La relazione introduttiva del procuratore generale al processo Eichmann, cit., p. 6. A p. 29 si legge ancora: «Ma questo tribunale non è il luogo dove un problema tanto tragico [quello dell’atteggiamento dei capi dei Consigli ebraici dei ghetti] possa esser chiarito: è un compito che spetterà agli storici di quegli anni terribili» (corsivo mio). 39 Gerard Reitlinger, The Final Solution: The Attempt to Exterminate the Jews of Europe, 1939-1945, Beechhurst Press, New York, 1953; trad. it. La soluzione finale. Il tentativo di sterminio degli ebrei, Il Saggiatore, Milano, 1962. 40 Léon Poliakov, Bréviaire de la haine, Calmann Lévy, Paris, 1951; trad. it. Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Einaudi, Torino, 1955. 41 Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, Quadrangle Books, Chicago, 1961; trad. it. La distruzione degli ebrei d’Europa, Einaudi, Torino, 1995. 38
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ra in corso) e avesse dichiarato ai giudici di voler trasformare il processo in una “storia dell’Olocausto”.42 Hausner era, infatti, convinto che, nonostante l’importanza fondamentale dei documenti, solo i testimoni potevano dare al fantasma del passato un’ulteriore dimensione: quella del reale.43 Trent’anni dopo, Geoffrey Hartman, uno dei fondatori, nel 1982, degli archivi di videoregistrazioni Fortunoff, che raccolgono le registrazioni delle testimonianze di numerosi sopravvissuti, giustificò il proprio lavoro ricorrendo agli stessi termini usati da Hausner. Anche per lui, i documenti erano fondamentali, ma le testimonianze offrivano ciò che, secondo lui, rimaneva fuori dal racconto storico fondato sull’analisi degli archivi. Contrapponendo l’emozione al carattere freddo della storia scritta a partire dai documenti, Hartman poneva, perciò, l’accento sugli effetti dell’immediatezza della testimonianza e del suo potenziale evocativo.44 Nella scrittura della storia del genocidio, si è comunque tentato, almeno fino all’apparizione del libro di Goldhagen,45 di mantenere alcune regole fondamentali del mestiere dello storico, qualsiasi fosse la prospettiva storica scelta. Le due correnti storiografiche che si sono venute a delineare, sin dal dopoguerra, una storiografia della “Soluzione Finale”, cioè della macchina di produzione di morte nazista, da una parte, e una storia dello Hurbn,46 cioè una storia scritta dal punto di vista delle vittime, dall’altra, hanno accuratamente evitato di giocare sull’emozione. 47 Léon Poliakov spiegò così i problemi che incontrò nello scrivere il suo Bréviaire de la haine: 42 Introduzione di Simon Levis Sullam a Gideon Hausner, Sei milioni di accusatori. La relazione introduttiva del procuratore generale al processo Eichmann, cit. 43 Gideon Hausner, Justice à Jerusalem. Eichmann devant ses juges, Flammarion, Paris, 1966. 44 Wieviorka, L’era del testimone, cit. 45 Daniel Jonah Goldhagen, Hitler's Willing Executioners: Ordinary Germans and the Holocaust, Knopf, New York, 1996; trad. it. I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Mondadori, Milano, 1998. 46 Termine yiddish che indica la catastrofe, l’annientamento degli ebrei. È possibile ripercorrere le diverse tappe della storiografia della Shoah anche attraverso la scelta del termine utilizzato per designarla. Sull’argomento cfr. Anna Vera Sullam Calimani, I nomi dello sterminio, Einaudi, Torino, 2001. 47 Dan Michman, Pour une historiographie de la Shoah, In Press Éditions, Paris, 2001 (traduzione dell’edizione in lingua ebraica, Tel-Aviv, 1998).
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«Come trovare il tono giusto, come esprimere un’indignazione che tuttavia doveva rimanere implicita? È stato questo l’aspetto più importante. Evitare le invettive e lasciare che fossero i documenti a parlare: erano sufficientemente eloquenti».48
Per Poliakov, la storia scritta in questo modo non è affatto fredda e il distanziamento, deliberatamente operato dallo storico, non impedisce di provare empatia per le vittime né orrore per un sistema complesso che ha prodotto la morte di massa. Anzi, precisa Wieviorka, la storia scritta a partire dai documenti restituisce dignità all’uomo pensante, quella dignità che il nazismo aveva cercato di distruggere giocando proprio sulle emozioni e, in particolare, sull’odio.49 Da questo punto di vista, I volenterosi carnefici di Hitler, di Goldhagen, infrange i criteri universalmente stabiliti della scrittura accademica della storia.50 Fin dall’inizio del suo libro, Goldhagen dichiara di essere contrario a «una descrizione meramente oggettiva» degli eventi e di volere, invece, cercare di «comunicare l’orrore»: «Una descrizione meramente oggettiva delle operazioni omicide inquadra in una prospettiva sbagliata la fenomenologia della strage, svuotando le azioni delle loro componenti emotive e impedendone la comprensione. In qualsiasi interpretazione dei fatti è tuttavia indispensabile una descrizione adeguata, capace di ricreare la realtà fenomenologica degli assassini. Per questo motivo, rifiuto l’approccio meramente oggettivo e tento di comunicare l’orrore, il raccapriccio per i realizzatori».51
La concezione della storia di Goldhagen è affine a quella di Hausner e Hartman: la storia ideale, per loro, è una giustapposizione di
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Citato in Wieviorka, L’era del testimone, cit., p. 103. Wieviorka, L’era del testimone, cit. 50 Raul Hilberg, deplorando “il fenomeno Goldhagen”, denunciò il libro come «carente di fatti a sostegno e di rigore logico» e tale da «stendere una nube… sul panorama accademico». Cfr. Raul Hilberg, Le phénomène Goldhagen, «Les Temps Modernes», febbraio-marzo 1997 (592), pp. 1-10. 51 Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, cit., p. 24. 49
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racconti dell’orrore o, meglio ancora, il racconto individuale di sei milioni di vittime. «Scrivendo o leggendo a proposito di quelle operazioni omicide, è fin troppo facile divenire insensibili al vero significato delle cifre: diecimila morti qui, quattrocento lì, quindici da un’altra parte. Ciascuno di noi dovrebbe soffermarsi a pensare che se ci furono diecimila morti vuol dire che i tedeschi ammazzarono diecimila persone – uomini disarmati, donne, bambini, vecchi, giovani, ammalati –, che per diecimila volte privarono un essere umano della vita».52
Ma questa volontà di non pensare in termini collettivi rappresenta, forse, la negazione stessa della storia, ossia quell’operazione intellettuale che, nelle intenzioni di Bloch, cerca di stabilire i fatti dando loro, contemporaneamente, un senso. L’esaltazione dell’emozione, a scapito dell’intelligenza e del pensiero, spinge Goldhagen a soccombere dinanzi «al diabolico nemico della vera storia: la mania del giudizio».53 Se per Bloch, l’imperativo categorico dello storico doveva essere quello di comprendere e di spiegare non quello di esprimere giudizi, per quanto concerne Goldhagen sembra che tale ingiunzione abbia perduto senso e che lo storico abbia rinunciato al difficile compito di cercare di comprendere. Didi-Huberman, nel volume scritto in seguito al dibattito sorto attorno all’utilizzo di alcune foto strappate all’inferno di Auschwitz e che lo vide contrapposto a Claude Lanzmann, sottolinea l’assurdità della contrapposizione tra archivio e testimonianza, «immagine senza immaginazione» e «parola dell’inimmaginabile», riconoscendo che sebbene Shoah di Claude Lanzmann porti la testimonianza «a un livello di autentica incandescenza, all’intensità – dotata di sconvolgente precisione – di una parola viva che lo storico non può più, a questo punto, relegare in secondo piano rispetto agli archivi scritti della Shoah», tutto ciò non è un buon motivo né per assolutizzare la testimonianza né tanto meno per squalificare l’archivio.54 52
Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, cit., p. 23. Marc Bloch, Apologie pour l’histoire ou Métier d’historien, in Marc Bloch, L’histoire, la Guerre et la Résistence, Gallimard, Paris, 2006, p. 871; trad. it. Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino, 1998. 54 Georges Didi-Huberman, Images malgré tout, Éditions de Minuit, Paris, 2003; trad. it. Immagini malgrado tutto, Cortina, Milano, 2005, pp. 117-151. 53
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E continua: «La storia e la parola non sanno che farsene delle grandi maiuscole ontologiche, degli “assoluti” o delle “verità universali”: non è con la parola “assoluto” che si renderà giustizia a una storia così estrema».55
È significativo, per Didi-Huberman, che una delle più belle opere di testimonianza mai scritte su Auschwitz, Se questo è un uomo di Primo Levi, inizi con una proposizione d’ordine documentario e psicologico, dunque essenzialmente relativa: «[Questo libro] non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi d’accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano».56
Ma la concezione della storia di Goldhagen risente anche di un fenomeno sconosciuto all’epoca di Bloch: il potere dei media. «Il grande silenzio delle cose» – afferma De Certeau – «si tramuta nel suo contrario attraverso i media. Fino a ieri segreto, il reale ormai straparla. […] Mai nella storia si è tanto parlato e mostrato. […] I racconti di ciò che accade costituiscono la nostra ortodossia. […] Il reale raccontato detta interminabilmente ciò che bisogna credere e ciò che bisogna fare. […] La fabbricazione di simulacri fornisce così il mezzo per produrre dei credenti e dunque dei praticanti. Questa istituzione del reale è la forma più visibile della nostra dogmatica contemporanea».57
De Certeau ricorda come, ogni giorno, l’uomo si inoltri in una foresta di narrazioni e come queste organizzino la sua vita, suggerendogli cosa deve credere.
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Ibid. Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 7. 57 Michel De Certeau, L'Invention du quotidien, Gallimard, Paris, 1990; trad. it. L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2001, pp. 261-262. 56
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«Questi racconti hanno il duplice e curioso potere di tramutare il vedere in un credere e di fabbricare una realtà con dei simulacri. […] la modernità, nata un tempo da una volontà di osservazione che lottava contro la credulità e si fondava su un contratto fra la vista e il reale, trasforma ormai questo rapporto e dà a vedere precisamente ciò che bisogna credere. […] Così i destinatari non sono più obbligati a credere ciò che non vedono (posizione tradizionale), ma a credere ciò che vedono (posizione contemporanea)».58
Anche lo storico, come suggeriva Wieviorka, è immerso nella stessa atmosfera culturale degli altri e, benché dotato di spirito critico, codifica le stesse immagini. La massa di testimonianze della Prima Guerra Mondiale poneva lo storico di fronte alla necessità di prenderle in considerazione come fonti per l’analisi della psicologia e della memoria collettiva, analisi che pertanto non poteva fare a meno di indagare anche la formazione e la circolazione delle false notizie. Ma l’esposizione, anche mediatica, del testimone, cui dà inizio il processo Eichmann, non poteva non riflettersi nella concezione stessa della storia rischiando di travolgerne i criteri tradizionali. Se la via tracciata da Bloch rimane ancora valida, è altrettanto vero che lo storico si trova a fronteggiare problematiche più complesse e, vista la funzione sociale e politica del testimone, molto più delicate. Il quadro tracciato da De Certeau è anche quello in cui viene a collocarsi la nuova figura del testimone. Quando, nel 1982, gli archivi delle video testimonianze della Shoah aprono i loro battenti a Yale, alla testimonianza viene subito attribuita la funzione di terapia sociale. Uno dei promotori del progetto, lo psichiatra e psicanalista Dori Laub, lo stesso che, negli anni Novanta, coadiuverà Shoshana Felman nel suo esperimento con gli studenti di Yale, affermò: «Ogni sopravvissuto ha un imperioso bisogno di raccontare la propria storia per riuscire a metterne insieme i frammenti; il bisogno di liberarsi dai fantasmi del passato, di conoscere la verità di quest’ultimo per poter ritrovare il cammino della propria vita».59
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Ibid, pp. 262-263. Annick Cojean, Les voix de l’indicible, «Le Monde», 25 aprile 1995.
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Una decina di anni dopo, la Shoah Visual History Foundation di Steven Spielberg sposterà l’attenzione dal sopravvissuto a un concetto chiave: quello di trasmissione. La testimonianza continuerà ad avere la sua funzione di terapia sociale, ma andrà oltre il sopravvissuto per spingersi fino a una vera e propria rivoluzione storiografica: la scrittura della storia a partire unicamente dalle testimonianze. Al prezzo, ovviamente, di una banalizzazione della storia “vera”. Il sopravvissuto non è più colui che, nella raccolta di Yale, sembrava reduce da “un altro pianeta”,60 ma una persona, piuttosto comune, sopravvissuta al naufragio della guerra. Alla rivoluzione storiografica si affianca, dunque, una rivoluzione culturale che, attraverso la banalizzazione di un evento capitale, facilita l’identificazione con la vittima della Shoah. È anche grazie a questo ulteriore sviluppo dell’immagine del testimone che Wilkomirski può travestire un trauma comune, quello suo personale, con un trauma eccezionale, ma banalizzato e/o sacralizzato61 a tal punto da divenire premiante sul piano sociale. Alla fine del suo libro, L’era del testimone, Wieviorka si domandava quale sarebbe diventato il paesaggio della testimonianza quando la rivoluzione storiografica e culturale, iniziata con Steven Spielberg, si fosse compiuta e quale visione della Shoah avrebbero avuto i giovani nati tre generazioni dopo l’evento. Il caso Wilkomirski, così come gli studi sulla prosthetic memory che dovrebbe oltrepassare i limiti della storia accademica, troppo fredda e cerebrale, sembrano proprio una risposta a questi interrogativi, il risultato dello scenario fino a qui delineato. Wieviorka non contesta la testimonianza in quanto tale, ma un certo modo di scrivere la storia e, soprattutto, un certo modo di determinare la percezione della Shoah, che è, poi, quella da cui emer60
L’espressione è di Ka-Tzetnik 135633 che, nella sua deposizione al processo Eichmann, si definisce «uno storico del pianeta Auschwitz». Cfr. Wieviorka, L’era del testimone, cit. 61 Todorov spiega gli abusi della memoria nei termini di due rischi simmetrici: la sacralizzazione e la banalizzazione. «La sacralizzazione impedisce di trarre dal caso particolare una lezione generale, di stabilire una comunicazione tra passato e presente. […] La banalizzazione consiste nel sovrapporre al passato il presente, attraverso una pura e semplice omologazione, con il risultato di distorcere sia il primo che il secondo». Cfr Tzvetan Todorov, Du bon et du mauvais usage de la mémoire, «Le Monde diplomatique», 20 Aprile 2001.
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ge l’opera di Wilkomirski. La testimonianza, infatti, non ristabilisce solo l’identità dei sopravvissuti, ma anche quella dei discendenti dei morti senza sepoltura, permettendo loro di immaginare le circostanze della morte dei loro cari e di iniziare così il lavoro del lutto. È, invece, a causa della mancanza di una memoria “giusta” e degli abusi della memoria che l’elaborazione del lutto non può aver luogo favorendo, al contrario, la creazione di una memoria-protesi collettiva.62 Anche Wieviorka conclude il suo lavoro con un appello agli storici. Invece, di prendere le distanze dalle testimonianze abbandonandole ad altre discipline, che non hanno la stessa concezione della verità, gli storici dovrebbero leggere le testimonianze senza cercarvi ciò che sanno di non poter trovare, cioè dei chiarimenti sugli eventi, ma «sapendo che esse racchiudono una straordinaria ricchezza: l’incontro con una voce umana che ha attraversato la storia e, indirettamente, non la verità dei fatti, ma quella più sottile eppure altrettanto indispensabile di un’epoca e di un’esperienza».63 Lo storico, quindi, non dovrebbe allontanare il falso dalla sua riflessione come pura finzione, ma indagarlo per scoprirvi ragguagli sulla società che lo ha prodotto. Anche l’esperienza di Wilkomirski, in base a questa prospettiva, acquisisce una sua dignità storica che non è quella del vero testimone della Shoah quanto piuttosto quella della falsa notizia dell’era del testimone.
4. La parola malgrado tutto La nostra capacità di provare compassione è dunque limitata e già esaurita? A chiederlo, preoccupato, è Geoffrey Hartman nel suo libro The Longest Shadow.64 Sono passati quindici anni dalla fondazione degli archivi delle video-testimonianze di Yale e Hartmant teme che l’eccessiva violenza dell’immaginario della nostra attuale cultura vi62
Robin, La mémoire saturée, cit. Wieviorka, L’era del testimone, cit., p. 143. 64 Geoffrey Hartman, The Longest Shadow. In the Aftermath of the Holocaust, Indiana University Press, Bloomington, 1996. 63
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siva ci abbia resi insensibili di fronte all’orrore. Hartman, che a Yale aveva contrapposto l’immediatezza della testimonianza alla freddezza della storia, comincia a preoccuparsi ora che l’eccesso della rappresentazione abbia trasformato l’immagine della Shoah in un mero elemento evocativo, privo di contesto, frutto di una memoria ormai codificata e incapace di attivare il ricordo. A distanza di tempo, non sfuggono allo studioso le implicazioni di un’impresa che si è rivelata più complessa di quanto avesse previsto: «Il progetto era istintivamente giusto nel tentare di estendere la tradizione orale con l’ausilio della video-testimonianza e nel permettere di ascoltare le voci dei testimoni direttamente in una forma audiovisiva concreta. Solo gradualmente abbiamo compreso le implicazioni comunitarie di tale impresa e il suo potenziale impatto sulla memoria e sull’ambito comunicativo».65
Spostando l’attenzione dai sopravvissuti a coloro che guardano le testimonianze, Hartman è spinto a osservare l’effetto della traumatizzazione secondaria: nel sentire la testimonianza l’ascoltatore diventa partner in un atto di rimembranza proiettata verso il futuro. Gli eventi passati tornano così a ossessionare il presente offrendo alle generazioni future una possibilità di rielaborazione.66 La nostra memoria si compone in ugual misura di ricordi diretti e indiretti, ricordi reali e immagini che assorbiamo dalla società.67 Di conseguenza, per le generazioni successive alla Shoah, la cui memoria non è costituita da eventi, ma da rappresentazioni, l’esposizione alla riproposizione dell’evento ha creato un legame tra le generazioni, «riproducendo e non evitando quell’effetto traumatico vissuto, invece, in maniera diretta, da parte dei sopravvissuti».68 65
Geoffrey Hartman, Scars of the Spirits. The struggle against inauthenticity, Palgrave Macmillan, New York, 2002; trad. it. Cicatrici dello spirito. La lotta contro l’inautenticità, Ombre Corte, Verona, 2006, p. 88. 66 Hartman, Cicatrici dello spirito. La lotta contro l’inautenticità, cit., pp. 92-93. 67 Halbwachs, La memoria collettiva, cit. 68 Marianne Hirsch, Immagini che sopravvivono: le fotografie dell’Olocausto e la post-memoria, in Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, a cura di Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Enzo Traverso, UTET, Torino, 2006, p. 301.
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Marianne Hirsch definisce post-memoria la memoria delle generazioni nate dopo la Shoah: «La post-memoria descrive il rapporto dei figli di coloro che sono sopravvissuti a un evento traumatico (sia culturale che collettivo) con le esperienze provate dai loro genitori, esperienze di cui “hanno memoria” solo grazie alle storie e alle immagini con cui sono cresciuti e che possiedono una forza talmente potente e colossale da trasformarsi in ricordi veri e propri».69
È con la post-memoria che le famiglie ereditano e trasmettono il proprio trauma. Il termine post-memoria serve a Hirsch per sottolineare la differenza temporale e qualitativa rispetto alla memoria di chi ha vissuto il trauma in modo diretto, a evidenziarne il carattere secondario, o di seconda generazione, a ricordare che è una memoria sostitutiva e successiva. Questa particolare forma del ricordo, che non deve necessariamente essere limitata all’ambito familiare, ma attraverso forme di identificazione o assorbimento può raggiungere un pubblico più ampio, è una memoria estremamente potente «proprio perché i suoi legami con l’oggetto, con la fonte, non sono mediati dalla rievocazione, ma dalla rappresentazione, dalla proiezione, dalla creazione».70 Per questo motivo, sebbene l’eredità familiare ne costituisca il modello più riconoscibile, la post-memoria può andare anche al di là di una posizione identitaria. Hirsch preferisce, infatti, considerarla una dimensione del ricordo intersoggettiva e trasversale alle generazioni. La post-memoria si baserebbe così sull’identificazione con la vittima del trauma, sul tentativo di colmare la distanza tra chi ha vissuto un evento e chi è nato dopo, assumendo le esperienze traumatiche di altre persone per iscriverle nella storia della propria vita. Hirsch, muovendosi su un terreno affine a quello di Edith Stein,71 secondo la quale se non c’è empatia non c’è atto morale, parla dell’instaurarsi di un rapporto etico con il prossimo, ma non nega la possibilità che l’identificazione con l’altro possa trasformarsi in ap69
Ibid. Ibid. 71 Edith Stein, Zum Problem der Einfühlung, Buchdruckerei des Waisenhauses, Halle, 1917; trad. it. Il problema dell’empatia, a cura di E. Costantini, Studium, Roma, 1985. 70
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propriazione e, di conseguenza, possa annullare la distanza tra sé e gli altri, tra sé e la diversità dell’altro. Anche la definizione di Intellectual Witness di Hartman si fonda sugli stessi presupposti. Non si tratta più, infatti, della seconda generazione di testimoni, ossia i figli delle vittime, ma di persone che possono definirsi testimoni perché sono ancora in contatto con i testimoni diretti o perché non considerano la Shoah un evento definitivamente sepolto nel passato.72 Per Hartman, la parola testimone rimane valida anche per chi non è stato un testimone diretto perché la Shoah ha creato una sorta di campo magnetico più forte di quello della Prima Guerra Mondiale (Wyndham Lewis, nel 1930, definiva «la Grande Guerra un magnete e il tempo postbellico un campo magnetico»).73 Alla base della trasmissione della memoria rimane, anche per Hartman, un aspetto etico, una solidarietà etica che permette al ricordo di sopravvivere alla scomparsa dei testimoni. Basandosi sugli studi di Dominick LaCapra,74 Hartman suggerisce che è impossibile sperimentare un trauma come quello della Shoah senza soffrire un trauma di ritorno. Ecco perché l’Intellectual Witness dovrebbe basarsi sull’empatia, ma mantenere quella distanza necessaria per non sfociare nell’identificazione. Persino Lanzmann, secondo Hartman, si identifica a tal punto con i testimoni che sta filmando che il suo lavoro non può che essere «anti-intellettuale».75 Al contrario, l’identificazione dovrebbe essere parziale, razionale, e l’empatia non dovrebbe condurre alla perdita di se stessi, ma essere funzionale allo scopo proposto: trasmettere una memoria che può anche non essere diretta, ma che sicuramente, in questo modo, diventa condivisa. Meglio dunque essere testimoni-mediatori e non meta-testimoni.
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Geoffrey Hartman, Shoah and Intellectual Witness, Partisan Review, Boston University, (1) 1998. 73 Ibid, p. 38. 74 Dominick LaCapra, Representing the Holocaust: History, Theory, Trauma, Cornell University Press, New York, 1994; History and Memory after Auschwitz, Cornell University Press, New York, 1998; Writing History, Writing Trauma, Johns Hopkins University Press, Baltimore, 2001; History in Transit: Experience, Identity, Critical Theory, Cornell University Press, New York, 2004. 75 Ibid, p. 42.
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Binjamin Wilkomirski, con la sua ostinata pretesa di dichiararsi ebreo e sopravvissuto, nonostante i fatti dimostrino il contrario, è, senza dubbio, andato oltre l’identificazione appropriandosi del destino tragico di coloro che hanno vissuto l’esperienza dei campi. Wilkomirski ha annullato la distanza tra sé e la diversità dell’altro, è diventato l’altro per essere così accolto nella comunità dei sopravvissuti, la quale, dopo una simile metamorfosi, non avrebbe mai potuto riconoscere in lui degli elementi di diversità. Wilkomirski ha infranto la frontiera tra sé e gli altri da sé ed è questo che, come vedremo più avanti, lo distingue da altri autori di false testimonianze che quel confine lo avevano, invece, ben presente. Elie Wiesel ha parlato di Auschwitz come di un nuovo Sinai, come il luogo di una nuova alleanza in cui il silenzio di Dio sarebbe ricompensato dalla nascita dell’eterna memoria del testimone. 76 In termini psicanalitici, la Shoah sarebbe, dunque, una nuova scena primaria, un secondo mito delle origini, che annullerebbe passato e futuro del testimone per cristallizzarlo nell’eterno presente dell’esperienza concentrazionaria. Ora, mentre alcuni sopravvissuti protestano contro questa riduzione del deportato a semplice “cittadino” di Auschwitz,77 Wilkomirski cambia, addirittura, la propria identità per assumere la più tragica delle scene primarie e rivendicare appieno la propria cittadinanza di Auschwitz. Perché, «il paradosso dell’era del testimone risiede nel fatto che, volendo far uscire l’individuo dalla massa, si finisce, nella nostra epoca di globalizzazione, per unificare, uniformare, i destini individuali in un grande tutto in cui le sofferenze riecheggiano e si confondono».78 Ma è anche l’epoca che rifiuta di pensare Auschwitz nei 76
Wieviorka, L’era del testimone, cit. Scrive Ruth Klüger: «Auschwitz viene attribuita come una sorta di luogo di origine a chiunque ne sia sopravvissuto. […] Accade anche a me: chi vuole dire qualcosa di importante su di me, dice che sono stata ad Auschwitz. Ma non è così semplice; pensate quel che volete, ma io non sono originaria di Auschwitz, sono originaria di Vienna. […] Vienna è una parte della struttura del mio cervello ed emana da me, mentre Auschwitz è il luogo più sbagliato in cui io sia mai stata, e il suo ricordo resta un corpo estraneo nell’anima». Cfr. Ruth Klüger, Vivere ancora, trad. it. Einaudi, Torino, 1995 (ed. or. 1992), p. 134. 78 Annette Wieviorka, L’avvento del testimone, in Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, a cura di Marina Cattaruzza, Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Enzo Traverso, UTET, Torino, 2006, p. 245. 77
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termini assoluti dell’indicibile e dell’inimmaginabile, portando a una tensione estrema la connessione tra verità e storia..79 La scrittura della storia,80 pubblicato da De Certeau nel 1975, è stato, secondo Vidal-Naquet, un libro che ha contribuito a scalfire l’orgogliosa innocenza degli storici: «Da allora siamo diventati consapevoli del fatto che lo storico scrive, che produce uno spazio e un tempo, pur essendo egli stesso inserito in uno spazio e in un tempo».81
Tuttavia, per Vidal-Naquet, lo storico non può disfarsi della vecchia nozione di “realtà” nel senso di “ciò che è propriamente stato”. Nel confutare la tesi di Faurisson, in base alla quale, i campi di sterminio nazisti non sarebbero mai esistiti, Vidal-Naquet arriva alla conclusione che nonostante la Shoah debba passare attraverso le parole, farsi discorso, la realtà rimane irriducibile. Come si potrebbe, altrimenti, distinguere tra romanzo e storia? E, soprattutto, come potrebbe il vero imporsi sul falso? Nel 1989, lo storico Friedlander e venti studiosi riuniti a convegno sondano, per la prima volta, i limiti morali, epistemologici ed estetici delle narrazioni e rappresentazioni dell’orrore nazista domandandosi se la Shoah possa essere convincentemente descritta o rappresentata o se, al contrario, esista qualche aspetto centrale dello sterminio degli ebrei d'Europa che resiste alla nostra capacità di rappresentazione, di teoria, di narrativa. In questione furono posti anche i problemi legati alla rappresentazione artistica e all'inadeguatezza delle parole di fronte al genocidio.82 La conferenza, che ha portato alla stesura del volume Probing the limits of Representation, seguì il dibattito che vide contrapposti Carlo Ginzburg e Hayden White circa la natura della verità storica. Tra le questioni affrontate dagli studiosi convocati figurava, infatti, il problema dell'interpretazione obbligando a riflettere se la registrazione 79
Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, cit. Michel De Certeau, L'Écriture de l'histoire, Gallimard, Paris, 1975; trad. it. La scrittura della storia, Jaca Book, Milano, 2006. 81 Citato da Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 210. 82 Saul Friedlander, Probing the limits of Representation. Nazism and the “final solution”, Harvard University Press, 1992. 80
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di una vicenda storica potesse essere stabilita oggettivamente attraverso documenti e testimonianze, oppure se ogni interpretazione storica fosse gravata dalla prospettiva del suo narratore. La tesi sostenuta da White è che una narrazione può essere sufficientemente vera se risulta efficace.83 La conseguenza più ovvia è che la realtà, “ciò che è propriamente stato”, diventa relativa. È possibile che esistano più realtà, tutte ugualmente valide, dello stesso evento? Nel saggio Unus testis. Lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà, Carlo Ginzburg propone la lettura del breve saggio di Renato Serra dal titolo Partenza di un gruppo di soldati per la Libia,84 scritto nel 1912 in risposta all’opera Storia, cronaca e false notizie85 in cui l’amico Benedetto Croce aveva menzionato lo scarto tra un evento reale e i ricordi frammentari e distorti su di esso che forniscono la base per i resoconti degli storici.86 Serra affermava: «C’è della gente che si immagina in buona fede che un documento possa essere un’espressione della realtà […]. Come se un documento potesse esprimere qualche cosa di diverso da se stesso […]. Un documento è un fatto. La battaglia un altro fatto (un’infinità di altri fatti). I due non possono essere uno. […] L’uomo che opera è un fatto. E l’uomo che racconta è un altro fatto. […] Ogni testimonianza testimonia soltanto di se stessa; del proprio momento, della propria origine, del proprio fine, e di nient’altro».87
Serra era, infatti, consapevole che qualunque documento, indipendentemente dal suo carattere più o meno diretto, ha sempre un rapporto problematico con la realtà. Ma la realtà esiste ed è una sola, mentre le testimonianze su di essa possono essere molteplici. Pertanto, conclude Ginzburg, «un atteggiamento totalmente scettico nei confronti delle narrazioni storiche non ha fondamento».88 83
Hayden White, The Content of the Form. Narrative Discourse and Historical Representation, The Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1990. 84 Renato Serra, Scritti letterari, morali e politici, a cura di Mario Isnenghi, Einaudi, Torino, 1974. 85 Benedetto Croce, Storia, cronaca e false notizie in Teoria e storia della storiografia, Laterza, Bari, 1927. 86 Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, cit. 87 Citato da Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, cit., p. 223. 88 Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, cit., p. 223.
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Tra gli eccessi del positivismo, ossia una ricerca storica positiva basata sulla decifrazione letterale dei documenti, e quelli dello scetticismo, ossia narrazioni storiche basate su interpretazioni figurali e inconfrontabili, bisogna dunque, secondo Ginzburg, imparare a leggere le testimonianze, senza aver paura di sperimentare delle tensioni tra narrazione e documentazione, senza scorgere nelle fonti «né finestre spalancate, come credono i positivisti, né muri che ostruiscono lo sguardo, come credono gli scettici».89
5. Testimoniare il falso Binjamin Wilkomirski non è certo il primo a fabbricarsi un’identità di testimone e purtroppo non sarà nemmeno l’ultimo. Nella primavera del 2005, pochi giorni prima che iniziassero, in Austria, le celebrazioni del sessantesimo anniversario della liberazione del campo di Mauthausen, avvenimento che vedeva la partecipazione, per la prima volta, di un Primo Ministro spagnolo, il socialista José Luis Zapatero, lo storico Benito Bermejo denunciava come impostore Enric Marco,90 simbolo dei repubblicani spagnoli deportati.91 Marco era appena arrivato in Austria, per guidare la delegazione spagnola a Mauthausen, ma i colleghi della associazione Amical Mauthausen l'avevano costretto a tornarsene precipitosamente a casa. Un’indagine interna, avviata solo poche settimane prima, aveva infatti consentito di scoprire che non era mai stato internato in nessun campo di sterminio.92 Nessuno, in precedenza, aveva mai messo in dubbio la buona fede di un uomo che aveva un curriculum di tutto rispetto: antifranchista legato al movimento anarchico, segretario generale del sindacato Cnt e poi, per anni, vice-presidente della Federazione genitori degli alunni della Catalogna. Un cittadino modello al quale il presidente del 89
Citato da Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, cit., p. 131. Benito Bermejo y Sandra Checa, La construcción de una impostura, «Migraciones & Exilios», nº 5, 2005. 91 «El Mundo», Enric Marco reconoce que fingió ser preso de los nazis para “difundir mejor el sufrimiento de las víctimas”, 12 Maggio 2005. 92 Alessandro Oppes, Spagna, era un impostore il simbolo dei deportati, «La Repubblica», 12 maggio 2005. 90
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governo catalano, Jordi Pujol, aveva pensato di concedere la più alta onorificenza catalana, la croce di Sant Jordi. Marco inizia la sua “carriera” di testimone, nel 1978, rilasciando una lunga intervista al periodico Por Favor in cui racconta di essere stato arrestato a Marsiglia dai nazisti e deportato nel lager di Flossenbürg con il numero 6448.93 Il racconto compare, lo stesso anno, nel libro Los cerdos del comandante, una raccolta di testimonianze curata da Eduardo Pons Prades,94 e nel 2002 in Memòria de l’infern del giornalista David Bassa e del fotografo Jordi Ribó.95 Marco sostiene che, allo scoppio della Guerra Civile, si sarebbe subito schierato, sebbene molto giovane, con gli antifranchisti e a Barcellona avrebbe partecipato all’organizzazione dell’Unión de Juventudes Antifascistas. Nel 1942, si sarebbe imbarcato di nascosto su una nave diretta in Francia e sarebbe sbarcato a Marsiglia dove avrebbe preso contatti con altri militanti dell’Organizzazione in esilio. Arrestato da falangisti francesi, Marco sarebbe stato in seguito consegnato alla Gestapo che, dopo un mese, lo avrebbe inviato a Metz. Il passaggio da Metz a Flossenbürg è brusco; Marco non descrive come sia giunto a Flossenbürg, ma dice di esserci rimasto poco e di non aver avuto contatti con nessuno. Più a lungo sarebbe invece rimasto, secondo il suo racconto, nel campo annesso di Neumünster, vicino ad Amburgo, dove avrebbe incontrato altri spagnoli; troppo pochi, tuttavia, per creare un’organizzazione di resistenti. Trasferito a Kiel, Marco racconta di aver subito un processo sommario e di essere stato condannato a dieci anni di lavori forzati come cospiratore contro il Terzo Reich. Infine, nel 1945, la liberazione grazie all’esercito nordamericano e, nel 1946, dopo un viaggio attraverso la Francia, il rientro in Spagna e il reinserimento nella lotta clandestina. A poco a poco, Marco diventa un personaggio ufficiale. Ma nelle più di cento conferenze che tiene ogni anno nelle scuole di tutto il Paese, racconta come propria un'esperienza vissuta tragicamente da 93
Magris, Il bugiardo che dice la verità, cit. Eduardo Pons Prades y Mariano Constante, Los cerdos del comandante, Editorial Argos Vergara, Barcelona, 1978. 95 David Bassa y Jordi Ribó, Memòria de l’infern. Els supervivents catalans els camps Nazis, Edicions 62, Barcelona, 2002. 94
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altri. 96 Diventa addirittura il presidente dell’Amical Mauthausen, l’associazione dei repubblicani spagnoli deportati per la quale si prodiga con dedizione ed efficienza.97 Bermejo, però, ha dei dubbi e informa l’Amical che il nome di Marco non compare negli archivi di Flossenbürg. Oltre al comportamento non consono a un sopravvissuto, un eloquio spigliato e troppo entusiasta, Bermejo si accorge che ciò che Marco racconta non corrisponde sempre alla realtà degli eventi storici. Dice, per esempio, di essere stato arrestato a Marsiglia quando la Francia non era stata ancora occupata dai tedeschi.98 Inoltre, Marco è estremamente evasivo quando parla con altri sopravvissuti. In compenso, però, pone loro molte domande e utilizza pubblicamente i loro racconti.99 I sospetti di Bermejo vengono confermati, nel febbraio del 2005, dai documenti contenuti negli archivi del Ministero degli Affari Esteri di Madrid che dimostrano come Marco sia in realtà partito volontariamente per la Germania, nel 1941, come lavoratore, per ritornare in Spagna nel 1943 (molto prima della liberazione dei campi!), dopo aver trascorso un anno in un penitenziario tedesco, dove avrebbe sperimentato le torture della Gestapo.100 Marco approfitta a lungo dell’amnesia collettiva. Nessuno pensa nemmeno di ricordagli che Marsiglia, nel 1941, era ancora una zona libera. «Non so cosa dire», si è difesa la storica Rosa Toran, vicepresidente dell’Amical, «ho creduto a ciò che diceva oppure che facesse confusione con la polizia francese».101 Se Marco ha potuto mentire così spudoratamente è perché il suo racconto andava a colmare un vuoto storico. In una Spagna che ha iniziato da poco ad affrontare il suo passato franchista, la sorte dei deportati era passata in secondo piano e la Shoah rimane, ancora oggi, un evento poco conosciuto. «Il nostro deficit di memoria è assolu96
Oppes, Spagna, era un impostore il simbolo dei deportati, cit. Elsa Guiol, Le mensonge qui stupéfie l'Espagne, «Le Journal du Dimanche», 22 Maggio 2005. 98 «El Mundo», Enric Marco reconoce que fingió ser preso de los nazis para “difundir mejor el sufrimiento de las víctimas”. 99 Guiol, Le mensonge qui stupéfie l'Espagne, cit. 100 Estrella Israel Garzón, Marilda Azulay Tapiero, Le cas Enric Marco dans l’espace public. Réaction et opinions médiatique à propos d’un faux déporté, «Témoigner entre Histoire et Mémoire», Janvier- Mars 2010 (106). 101 Guiol, Le mensonge qui stupéfie l'Espagne, cit. 97
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to», riconosce Montserrat Armengou della televisione pubblica catalana, «e Marco ha saputo esprimere brillantemente ciò che era stato a lungo taciuto».102 Durante gli anni della dittatura franchista, infatti, la Spagna ha negato l’ascolto ai connazionali sopravvissuti ai campi. Il Paese era costretto a dimenticare. Così la storia degli spagnoli internati in Germania è stata accantonata, non trovando spazio nel discorso pubblico e, di conseguenza, nella storia spagnola.103 Dopo la morte di Franco, il lento cammino della transizione alla democrazia non ha certo facilitato il recupero della memoria.104 Marco, secondo Bermejo, avrebbe approfittato della mancanza di rigore negli studi sulla deportazione. «Non esistono opere serie sull’argomento», insiste lo storico spagnolo, «ci sono solo resoconti fatti a partire da testimonianze, spesso non verificate».105 Anche la scelta del campo Flossenbürg, da parte di Marco, non sarebbe casuale: il numero degli spagnoli sopravvissuti a quel campo è infatti molto esiguo.106 Chi, allora, avrebbe potuto contestare il suo racconto? Le rivelazioni di Bermejo inducono Marco alla confessione, ma non al pentimento: «Ho detto la verità su ciò che è essenziale, la realtà del lager». Dice di averlo fatto per una buona causa; la sua testimonianza è vera e non importa che ciò che racconta non sia successo a lui. Come nel caso di Wilkomirski, sarebbe falso l’autore, ma non il testo, tanto che il discorso scritto da Marco per il sessantesimo anniversario della liberazione di Mauthausen viene letto da un vero deportato, Eusebi Pérez.107 Qualcuno che aveva davvero vissuto ciò che Marco aveva solamente scritto. L’Amical espelle il suo presidente, il governo catalano ritira con imbarazzo la medaglia di Sant Jordi, ma tutto ciò non placa la polemica. Perché, ancora una volta, l’irresponsabilità del falsario appare 102
François Musseau, Dans le camp du mensonge, «Libération», 17 Giugno 2005. Guiol, Le mensonge qui stupéfie l'Espagne, cit. 104 Sull’argomento cfr. Carmelo Adagio e Alfonso Botti, Storia della Spagna democratica. Da Franco a Zapatero, Mondadori, Milano, 2006. 105 Musseau, Dans le camp du mensonge, cit. 106 «El Mundo», Enric Marco reconoce que fingió ser preso de los nazis para “difundir mejor el sufrimiento de las víctimas”, cit. 107 Magris, Il bugiardo che dice la verità, cit. 103
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criminosa. Non solo perché porta acqua al mulino di revisionisti e negazionisti, ma anche perché offende la coscienza collettiva del popolo spagnolo. Come infatti sottolinea El País, Marco ha contribuito a forgiare la coscienza collettiva degli spagnoli offrendo loro una memoria che, in precedenza, non avevano.108 In un articolo molto contestato, Mario Vargas Llosa definisce Marco «geniale contrabbandiere di realtà cui dare il benvenuto nella bugiarda confraternita dei romanzieri». La vicenda di Marco dovrebbe indurre, secondo Vargas Llosa, a riflettere «sulla delicata frontiera tra finzione e realtà e sui prestiti e interscambi che esistono da sempre tra letteratura e storia. Marco tiene i piedi in entrambe le discipline e sarà molto difficile separare ciò che nella sua biografia appartiene all’uno o altro ambito. Come nei migliori romanzi, Marco ha fuso nella sua vita realtà e finzione in modo inestricabile».109 Fa riflettere che, al contrario di Wilkomirski, Marco non si sia inventato un’identità di testimone sull’onda emotiva del ritrovato interesse per i sopravvissuti alla Shoah. Certo, anche a lui deve essere sembrato premiante sul piano sociale imporsi all’attenzione pubblica come il detentore di un sapere dei campi. Non credo sia un caso che Marco rivendichi il suo passato di repubblicano deportato solo dopo due anni dalla morte di Franco. Inutile dire che prima gli sarebbe stato impossibile. Eppure, Marco deve aver pensato che la fine della dittatura avrebbe fatto emergere la sofferenza delle vittime così come stava accadendo in Europa e in America. Tuttavia, in Spagna, la parola del testimone tarda ad affermarsi e Marco non ottiene la stessa attenzione di Wilkomirski.110 L’amnesia collettiva spagnola sul proprio passato recente, che pure ha contribuito alla costruzione della falsa testimonianza di Marco, ha fatto sì che il simbolo dei repubblicani spagnoli deportati non emergesse sulla scena internazionale. 108
«El País», Enric Marco, el fraude, 14 Maggio 2005. Mario Vargas Llosa, Espantoso y genial, «Diario El País», 15 Maggio 2005. 110 Come spiega Alejandro Baer, l’interpretazione spagnola ufficiale identifica la Shoah come un argomento che riguarda «gli ebrei e i tedeschi», almeno fino all’instaurarsi della democrazia. Cfr. Estrella Israel Garzón, Marilda Azulay Tapiero, Le cas Enric Marco dans l’espace public. Réaction et opinions médiatique à propos d’un faux déporté, cit. 109
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Del resto, la Spagna che esce dalla dittatura di Franco è un Paese cui il regime ha impedito di avere una memoria condivisa, impegnato com’era a tenere vinti e vincitori ben separati.111 Oggi possiamo dire, come scrisse Ganzfried di Wilkomirski, 112 che Marco è stato a Flossenbürg «solo come turista».113 Anche lui ha cercato di costruirsi, nel tempo, una discreta cultura storica, ma alcune lacune, a quanto pare, gli sono state fatali. A differenza di Wilkomirski, Marco ha confessato l’imbroglio. Il passaggio della sua opera nella letteratura non è però scontato perché Marco ribadisce l’onestà e la verità di quanto ha scritto e, più volte, dichiarato. Qualche mese prima di essere smascherato parlava così davanti alle Cortes di Madrid, durante un atto in memoria delle vittime della Shoah: «Quando arrivavamo ai campi di concentramento su quei treni infetti, vagoni per il bestiame, venivamo denudati, i loro cani ci mordevano, ci abbagliavano i loro fari. Ci gridavano in tedesco linksrechts, sinistra-destra. Noi non capivamo niente, e non capire un ordine ti poteva costare la vita. Spero che tutti apprendano la lezione. Ai giovani, che non sanno nulla della storia, manca qualcuno che gliela racconti».114
Solo che per raccontare la storia, Marco ha deciso di cambiare la propria identità e adesso che per tutti è un falso testimone, la sua storia non ha più niente da dire. Non sembrano essere d’accordo i registi argentini Lucas Vermal e Santiago Fillol che, nel 2009, hanno realizzano Ich bin Enric Marco, un documentario in cui Marco ricostruisce e cerca di spiegare la menzogna di cui è stato protagonista.115 111
Sull’argomento cfr. Javier Rodrigo, Vencidos. Violenza e repressione politica nella Spagna di Franco (1936-1948), Ombre Corte, Verona, 2006. 112 Ganzfried, Die geliehene Holocaust-Biographie, cit. 113 È nel campo di Flossenbürg che Marco si “imbatte” in Enrique Moner (E. M. le sue stesse iniziali), un catalano di Figueras di cui si appropria del numero 6448. Intervista mia con Benito Bermejo. 114 Oppes, Spagna, era un impostore il simbolo dei deportati, cit. 115 Lucas Vermal y Santiago Fillol, Ich bin Enric Marco, Corte y Conféccion de Películas, Barcelona, 2009.
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Marco, secondo Vermal, ha accettato di girare il documentario per il bisogno di ritrovare il ruolo pubblico che ha perso e per far conoscere la sua vera storia.116 Il regista descrive Marco come un uomo ferito e pieno d’orgoglio, che vuole recuperare il posto nella Storia che gli è stato “rubato”. Marco, del resto, ha conosciuto davvero la crudeltà dei nazisti e, a vent’anni, era probabilmente un antifascista sincero. Il documentario non mira, infatti, a ricostruire la verità storica mistificata da Marco, ma di capirne di più sulla sua banalizzazione e sui meccanismi della memoria personale. Ai due registi interessa, soprattutto, vedere come emerge la realtà man mano che Marco si trova a confronto con le sue contraddizioni. Ecco allora che il film conduce Marco in un viaggio demistificatore verso il passato. Un viaggio in macchina in Germania che ripercorre lo stesso tragitto che, nel 1941, portò Marco, a bordo di un convoglio di lavoratori volontari, alla fabbrica di Kiel. Come nelle previsione dei registi, il viaggio reale incrocia a più riprese quello immaginario tante volte raccontato da Marco prima di essere smascherato, per terminare inevitabilmente al campo di Flossenbürg che l’anziano catalano percorre ormai in silenzio.
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Intervista contenuta nella cartella stampa realizzata per la presentazione del documentario al Festival del film di Locarno (5-15 Agosto 2009).
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CAPITOLO III
IDENTITÀ RUBATE
1. La memoria della shoah come topos storiografico Nel 1348, l’accusa di diffondere la peste, lanciata contro gli ebrei, ricalcava lo stesso schema emerso una generazione prima: i lebbrosi o, secondo altre versioni, i lebbrosi sobillati dagli ebrei, oppure i lebbrosi sobillati dagli ebrei sobillati dai re mussulmani di Granada e di Tunisi, avevano ordito un complotto per avvelenare i cristiani.1 In una cronaca latina, scritta da un monaco anonimo, il cronista riferisce che, vicino a Vitry-le-François, circa quaranta ebrei furono imprigionati in una torre. Per evitare di essere messi a morte dai cristiani, gli ebrei decisero, dopo lunghe discussioni, di uccidersi vicendevolmente. Il compito fu assunto da un vecchio e da un giovane. Alla fine, il vecchio chiese al giovane di ucciderlo. Il giovane accettò con riluttanza, ma poi, invece di suicidarsi, si appropriò dei beni di suoi sfortunati compagni e cercò di fuggire dalla torre. Non riuscendo nel suo intento, il giovane fu messo a morte.2 Per Carlo Ginzburg, l’episodio, benché plausibile, presenta alcune rilevanti affinità con due passi della Guerra giudaica di Flavio Giuseppe.3 Nel primo passo, si racconta di quaranta persone che, dopo essersi nascoste in una grotta vicino a Jotapata, in Galilea, scelsero di suicidarsi tutte tranne due. Il secondo passo descrive, invece, il celebre assedio di Masada, la disperata resistenza degli ebrei riuniti dentro la fortezza, seguita da un suicidio collettivo, anche qui con due eccezioni. 1
Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, cit. Ibid. 3 Flavio Giuseppe, La guerra giudaica, a cura di V. Vitucci, Mondadori, Milano, 1982. 2
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Pur mancando una prova diretta della lettura, da parte del monaco anonimo, della Guerra giudaica, Ginzburg ipotizza la presenza di un topos storiografico4 e afferma che, se anche l’anonimo si fosse solo limitato a riecheggiare l’opera di Flavio Giuseppe e il presunto suicidio collettivo degli ebrei di Vitry-le-François finisse col dissolversi in quanto fatto, la sua descrizione costituirebbe comunque un documento importante sulla diffusione dell’opera di Flavio Giuseppe, che è anch’essa un fatto.5 Per quanto riguarda il libro di Wilkomirski, mi pare altrettanto plausibile ipotizzare l’esistenza di un topos storiografico, in questo caso la memoria della Shoah. Le fonti di Wilkomirski potrebbero infatti essere state le innumerevoli testimonianze e la stessa storiografia della Shoah. Secondo Stefan Maechler, Wilkomirski, già molto colpito ai tempi del ginnasio dalla storia del genocidio degli ebrei, avrebbe senza dubbio seguito, nel 1961, il processo Eichmann che, riconoscendo ai testimoni un ruolo speciale nella storia, ebbe inevitabili conseguenze sul trattamento della memoria della Shoah. Wilkomirski, afferma Maechler, non ha mai menzionato l’influenza avuta su di lui dal processo, ma fu tuttavia poco tempo dopo che lo svizzero Dössekker si trasformò nell’ebreo Wilkomirski. Per Maechler, anche la visione di Shoah di Lanzmann, attorno alla metà degli anni Ottanta, avrebbe avuto un peso decisivo nella costruzione della nuova identità ebraica di Wilkomirski. Ma sarebbe stata soprattutto la lettura di Anni d’infanzia di Jona Oberski,6 pubblicato ad Amsterdam nel 1978, a fornirgli la struttura del suo Frantumi.7 Il libro di Oberski narra la terribile esperienza del piccolo Jona, deportato con i genitori prima a Westerburg e poi a Bergen Belsen, dove vide il padre morire, attraverso il particolare punto di vista del bambino e senza il supporto del commento esplicativo di un narrato4 L’analisi dei passi portò alle stesse conclusioni anche Pierre Vidal-Naquet. Cfr. Pierre Vidal-Naquet, Flavius Josèphe et Masada, in Les Juifs, la mémoire, le présent, Le Seuil, Parigi, 1981. 5 Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, cit. 6 Jona Oberski, Anni d’infanzia. Un bambino nei lager, trad. it. Giuntina, Firenze, 1989 (ed. or. 1978). 7 Maechler, Wilkomirski the Victim. Individual Remembering as Social Interaction and Public Event, cit.
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re adulto. Anche Wilkomirski ricorda di aver assistito, in circostanze diverse, alla morte del padre e, come Oberski, racconta la sua storia con le parole e con lo sguardo, sugli eventi traumatici vissuti, che solo un bambino può avere.8 Nel 1993, inoltre, mentre Wilkomirski stava lavorando al manoscritto di Frantumi, nelle sale cinematografiche usciva il film di Roberto Faenza, Jona che visse nella balena, tratto dal libro di Oberski.9 Anne Whitehead sostiene invece che Wilkomirski si sarebbe ispirato a The Painted Bird, il controverso libro scritto, nel 1965, da Jerzy Kosinski.10 Per la studiosa, l’adozione da parte di Wilkomirski del punto di vista del bambino deve molto a Kosinski, soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo di una memoria che riflette non tanto i fatti, quanto piuttosto la verità interiore del soggetto.11 Anche per quanto riguarda la traiettoria dell’identità dei bambini sopravvissuti alla Shoah, Wilkomirski ha senz’altro potuto contare su diverse fonti. È vero che, nel 1995, quando apparve Frantumi, Wilkomirski sembrava essere stato il primo ad aver dato voce alla delicata situazione di molti bambini sopravvissuti alla Shoah, la cui condizione di orfani aveva favorito la cancellazione del passato ebraico.12 Ma è anche vero che numerose organizzazioni ebraiche, come il Bureau of Jewish Children Without Identity, diretto da Lea Balint, erano impegnate, già dalla fine del conflitto, nel ritrovamento degli orfani della Shoah. Non mancavano, inoltre, testimonianze autorevoli come quella dello storico Friedlander che, nel 1978, aveva raccontato il travaglio della sua identità nel libro A poco a poco il ricordo.13 8
«Io non sono un poeta, né uno scrittore. Non posso che tentare di descrivere con le parole, il più esattamente possibile, quello che ho vissuto, quello che mi è accaduto; con la stessa precisione con cui la mia memoria di bambino l’ha conservato: senza ancora saper nulla di prospettiva e punti di fuga». Cfr. Wilkomirski, Frantumi. Un’infanzia. 1939-1948, cit., p. 4. 9 Roberto Faenza, Jona che visse nella balena, Jean Vigo International, Italia, 1993. 10 Jerzy Kosinski, The painted bird, Bantam, New York 1965. 11 Whitehead, Telling Tales: Trauma and Testimony in Binjamin Wilkomirski’s Fragments, cit. 12 Hasian, Authenticity, Public Memories and the Problematics of Post-Holocaust Remembrances: A Rhetorical Analysis of the Wilkomirski Affair, cit. 13 Saul Friedlander, A poco a poco il ricordo, trad. it. Einaudi, Torino, 1990 (ed. or. 1979).
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Rifugiatosi in Francia con i genitori, dopo l’occupazione nazista della Cecoslovacchia, Friedlander fu in seguito affidato a un istituto cattolico dove dovette rinunciare alla sua identità per poter sopravvivere: «Paul-Henri. Non riuscivo ad abituarmi a questo nome. A casa, ero stato Pavel, o piuttosto Pavliþek, o ancora Gangl, senza contare una sequela di vezzeggiativi affettuosi. […] Del resto non finirono qui i miei cambiamenti di nome: in seguito, diventai Shaul, sbarcando in Israele, poi Saul, un compromesso tra il Saül che esige il francese e il Paul che ero stato. In breve, mi è impossibile orientarmi, e questo, tutto sommato, mi sembra essere l’espressione adeguata d’una confusione reale e profonda».14
Wilkomirski, nelle prime pagine di Frantumi, sembra anche mettere le mani avanti contro possibili obiezioni sul fatto che un bambino così piccolo possa essere sopravvissuto persino ad Auschwitz, rivelando una discreta cultura storica: «Io sono sopravvissuto, come tanti altri bambini. Però era stata programmata la nostra morte, non la nostra sopravvivenza! Secondo la logica del programma e secondo le disposizioni ideate per la sua realizzazione, noi dovremmo essere morti. E invece siamo vivi! Siamo vivi in contrasto con la logica e con le disposizioni».15
Wilkomirski, come il monaco anonimo che descrive un suicidio collettivo affine ai due episodi narrati da Flavio Giuseppe, avrebbe costruito la sua opera su quello che, negli anni Novanta, stava assumendo sempre più i contorni di un topos storiografico: la memoria della Shoah. E, così come la narrazione dell’anonimo non offre informazioni sicure sugli eventi del Trecento, ma costituisce un documento importante sulla diffusione dell’opera di Flavio Giuseppe, anche Frantumi, da un punto di vista narrativo, parla non solo del suo autore, ma soprattutto della società che ne ha visto e favorito la nascita. L’esistenza di un vero e proprio topos storiografico del genocidio 14 15
Ibid, p. 98. Wilkomirski, Frantumi. Un’infanzia. 1939-1948, cit., p. 4.
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ebraico risulta ancora più evidente se si prendono in considerazione le opere di altri due falsi testimoni della Shoah, la belga Misha Defonseca e l’australiano Bernard Holstein. Non è da escludere che, nel caso di Defonseca, Frantumi abbia funzionato addirittura come fonte.
2. La sindrome dei falsi ricordi Nel 1997 una piccola casa editrice americana, la Mt. Ivy Press, pubblica l’incredibile storia di Misha Levy Defonseca, Misha: A Memoire of the Holocaust Years.16 Nel libro, Defonseca racconta che, nella primavera del 1941, all’età di sette anni, viene affidata a una famiglia cattolica, i DeWael, perché i suoi genitori, essendo ebrei, erano stati arrestati dai nazisti. I membri della famiglia DeWael però, con l’unica eccezione del nonno, si rivelano subito molto crudeli con la piccola tanto che, una volta finiti i soldi ricevuti dai genitori di Misha, decidono che sia più prudente denunciare la bambina ai tedeschi. Misha, accortasi del pericolo, decide allora di scappare. Inizia così il suo straordinario viaggio, tremila chilometri a piedi, attraverso Belgio, Germania, Polonia, Ucraina, Romania, Jugoslavia, Italia, Francia per ritornare infine, dopo quattro anni, in Belgio.17 Alla costante ricerca dei genitori, portati a Est, come le aveva detto il nonno, Misha sopravvive nelle foreste grazie all’“adozione” da parte di un branco di lupi, ma assiste allo stupro di una giovane donna, uccide il tedesco che ha commesso la violenza, entra ed esce dal ghetto di Varsavia, trascorre del tempo con un gruppo di partigiani russi, assiste impotente alla fucilazione di un gruppo di bambini ebrei e raccoglie le ultime volontà di un giovane ebreo che le chiede di ricordare ciò che ha visto e sentito, che le affida, in altre parole, il compito di testimoniare. Ignara del suo vero nome, che i genitori le avrebbero imposto di dimenticare per non correre il pericolo di essere identificata come ebrea, Defonseca dice subito di non poter offrire prove del suo raccon16
Misha Defonseca, Misha: A Memoire of the Holocaust Years, Mt. Ivy Press, Boston, 1997. 17 Misha Defonseca, Sopravvivere coi lupi, trad. it. Ponte alle Grazie, Milano, 2008.
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to. Sostiene che dopo il conflitto, come moltissimi altri orfani ebrei, ha ricevuto una nuova identità.18 Sa che la sua storia è incredibile, ma, del resto, non sono tutte incredibili le storie della Shoah?19 Inoltre, pensa che qualcuno, leggendo il libro, possa ricordare e mettersi in contatto con lei.20 «Come molti sopravvissuti, non volevo raccontare la mia storia», dichiara al Times, «preferivo dimenticare. Nessuno ci può capire. Ho deciso di scrivere per me stessa e per mio figlio, poi le parole sono uscite e mi sono convinta a pubblicare».21
Durante le interviste, come Wilkomirski, 22 Defonseca piange spesso.23 Ma questo non è l’unico indizio che porta a dubitare di lei. Nel 2001, David Mehegan ricostruisce, per il Boston Globe, la genesi del libro mettendo in discussione l’autenticità della testimonianza. Jane Daniel, l’editore di Mt. Ivy Press, incontrò Misha Defonseca all’inizio degli anni Novanta. Daniel rimase molto impressionata dalla storia di Defonseca e le propose di farne un libro. Sebbene riluttante, Defonseca alla fine accettò, ma essendosi trasferita da poco in America dal Belgio e non parlando bene l’inglese ebbe bisogno dell’aiuto di Vera Lee, amica di Jane Daniel, professoressa di letterature romanze al Boston College e direttrice della Boston’s French Library. Lee e Defonseca iniziarono a lavorare al libro nel 1995. Lee registrava la testimonianza di Defonseca, la trascriveva cercando di dare un ordine logico al discorso e la consegnava infine a Daniel per ulteriori correzioni.24 Daniel spedì il manoscritto a diversi esperti della Shoah sperando che qualcuno offrisse un giudizio positivo per la quarta di copertina. 18
Ibid. Amy Scherzer, A Journey with Wolves, «Tampa Tribune», 20 Luglio 1997. 20 Doug Riggs, Holocaust Orphan Tells of Futile, 4-Year search for parents, «Seattle Times», 8 Giugno 1997. 21 Barry Wigmore, I was brought up by wolves, «The Times», 21 Luglio 1998, traduzione mia. 22 Gourevitch, The Memory Thief, cit. 23 Raimondo Bultrini, La bimba che visse coi lupi, «La Repubblica», 11 Gennaio 1998. 24 David Mehegan, Incredible Journey, «Boston Globe», 31 Ottobre 2001. 19
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Wiesel rispose che la testimonianza di Defonseca era molto commovente. Leonard Zakim, l’allora presidente della New England Anti-Defamation League, disse che Misha: A Memoire of the Holocaust Years doveva assolutamente essere letto da chiunque fosse interessato alla storia della Shoah. Anche un esperto di lupi, come Joni Soffron, presidente della North American Wolf Foundation, disse che, nonostante le storie di lupi che allevano bambini fossero poco documentate, il racconto di Defonseca corrispondeva a quanto gli esperti conoscevano del comportamento dei lupi. Ma non ci furono solo commenti entusiastici. Deborah Dwork rispose a Daniel che la storia di Defonseca era un racconto fantastico pieno di errori storici e geografici. Lawrence Langer la definì assolutamente impossibile.25 Langer si era anche consultato con Hilberg il quale ribadiva che la storia non poteva essere vera.26 Ma Daniel decise di andare avanti lo stesso. Dopotutto si trattava delle memorie di una bambina ed era inevitabile che non fossero esatte. Il libro fu subito un best seller in Canada e in Europa. I diritti furono venduti anche all’editore tedesco Suhrkamp che, però, non stampò mai il libro.27 Anche in Europa, tuttavia, non mancarono i dubbi. Maxime Steinberg, uno storico della Shoah in Belgio, disse che era impossibile che i genitori di Defonseca fossero stati deportati nel 1941, perché le deportazioni in Belgio sarebbero iniziate solo nell’estate del 1942.28 In un articolo apparso su Le Monde, Serge Aroles, esperto di storie di bambini allevati da lupi, si dichiarò molto scettico: «L’esuberante finzione di Misha Defonseca riprende tutti i cliché che la scienza e gli archivi hanno distrutto tutte le volte che ho analizzato un caso di bambino allevato dai lupi».29
Un secondo articolo, in cui evidenziava i numerosi errori di De25
Barbara Taormina, Bad moon rising: the truth behind a Holocaust hoax, «The Daily News Tribune», 7 Marzo 2008. 26 Mehegan, Incredible Journey, cit. 27 Ibid. 28 Blake Eskin, Crying Wolf. Why did it take so long for a far-fetched Holocaust memoir to be debunked?, «Slate Magazine», 29 Febbraio 2008. 29 Serge Aroles, L’énigme des enfants-Loups, «Le Monde», 10 Gennaio 2008, traduzione mia.
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fonseca, fu però utilizzato da diversi siti antisemiti e le persone che sostenevano Defonseca lo accusarono di antisemitismo.30 La stampa francese, nel frattempo, rimaneva in silenzio.31 Le scarse vendite americane procurarono invece seri guai a Daniel che, denunciata per non aver saputo pubblicizzare il libro in America e per aver truffato Defonseca e Lee delle royalty dovute, si ritrovò sul lastrico.32 Fu così che Daniel decise di aprire un blog su internet per dar corpo ai dubbi sollevati da più parti, dimostrare che Defonseca aveva mentito e ribaltare la sentenza che la condannava a risarcire la frode con 33 milioni di dollari.33 Dopo aver letto il blog, la genealogista forense Sharon Sergeant si impegnò nella ricerca della vera identità di Misha Levy Defonseca trovando alcuni documenti, come il certificato di battesimo, che permisero al giornalista belga di Le Soir, Marc Metdepenningen, di scoprire finalmente la verità.34 Ma erano passati ormai undici anni dalla prima pubblicazione e il libro, da cui la regista francese Vera Bélmont, nel 2007, aveva tratto un film, era stato tradotto in diciotto lingue.35
3. Vero o verosimile? Misha Levy Defonseca è, in realtà, Monique DeWael, nata cattolica, sposata Levy, risposata Defonseca. Suo padre, Robert DeWael, era stato un partigiano del gruppo Grenadiers 36 che, dopo essere stato catturato dai tedeschi, aveva denunciato alla Gestapo una decina di compagni. DeWael non si era salvato lo stesso perché era stato deportato, insieme alla moglie, nel campo di Sonnenburg dove era morto di stenti.37 30
David Mehegan, Faked Holocaust memoir: Den of lies, «Boston Globe», 1 Marzo 2008. Ibid. 32 «The Independent Publisher of New England», A publisher’s Dream turned to Nightmare, 9 Settembre 2007. 33 Jane Daniel, Bestseller! A shocking look inside the wildcat world of independent publishing, «www.bestsellerthebook.blogspot.com», scaricato il 30 Maggio 2008. 34 Judith Rosen, “Misha” Publisher Files to Overturn $33 Million Judgment, «Publishers Weekly», 4 Aprile 2008. 35 «Messaggero Veneto», Misha: “Un film pieno di mie bugie”, 23 Aprile 2008. 36 Un’organizzazione patriottica fondata nel 1941. 37 Marc Metdepenningen, Le sombre passé du père de Misha, «Le Soir», 2 Marzo 2008. 31
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In seguito alle rivelazioni dell’inchiesta giornalistica di Le Soir, Misha Defonseca ha confessato di essersi inventata tutto: «Dopo l’arresto dei miei genitori, fui affidata a mio nonno. In famiglia, mi chiamavano “la figlia del traditore” perché si pensava che mio padre avesse parlato sotto tortura. A parte mio nonno, odiavo gli altri miei parenti adottivi … Così mi sono raccontata una vita, un’altra vita, che mi tagliasse fuori da quella famiglia, lontano dalle persone che detestavo. Anche per questo mi sono appassionata ai lupi, sono entrata nel loro universo. E poi ho mescolato tutto. Ci sono dei momenti in cui non riesco a distinguere tra la realtà e il mio universo interiore. Chiedo perdono a tutti coloro che si sentono traditi, ma li supplico di mettersi nei panni di una bambina di quattro anni che ha perso tutto, che deve sopravvivere. Questa storia è sì la mia, però, non la vera realtà, ma piuttosto la mia realtà, la mia maniera di sopravvivere. Anche se è vero che, da sempre, io mi sono sentita ebrea e più avanti nella mia vita ho potuto riconciliarmi con me stessa solo dopo essere stata accolta da questa comunità».38
Come Dössekker/Wikomirski, anche DeWael/Defonseca avrebbe, quindi utilizzato il linguaggio della Shoah per esprimere un trauma personale. E anche per lei, la trasformazione in vittima della Shoah sarebbe stata una sorta di risarcimento per un’infanzia minata dal dolore e dal mancato riconoscimento della sua sofferenza. Defonseca racconta nel libro di aver parlato, per la prima volta, della sua storia, dopo il trasferimento in America. In precedenza, si era rivolta a una comunità ebraica belga, ma il rabbino l’aveva scoraggiata chiedendole se era certa di essere ebrea. In America, invece, Defonseca ha trovato l’ascolto e il riconoscimento cercato per anni ed è stata invitata a raccontare la sua storia in occasione del Giorno della Memoria. In seguito, è entrata in terapia con una psicanalista che, a poco a poco, l’avrebbe aiutata a ritrovare i suoi ricordi.39 In questo modo, Defonseca è diventata una testimone della Shoah, una sopravvissuta molto richiesta in parecchie università americane.40 38
Luigi Offeddu, Il mio libro è menzogna, «Corriere della Sera», 1 Marzo 2008. Defonseca, Sopravvivere coi lupi, cit. 40 Valérie Sasportas, “Survirvre avec les loups”: la supercherie, «Le Figaro», 29 Febbraio 2008. 39
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La comunità ebraica americana, che l’aveva accolta, la spinse poco dopo a mettere nero su bianco le sue memorie «per aiutare gli altri a capire», per debellare l’odio e il pregiudizio ancora presenti.41 A determinare la scrittura sarebbe stato dunque un imperativo morale, l’idea, o meglio il luogo comune come sostiene Wieviorka, secondo cui il racconto dell’orrore vaccini contro l’orrore.42 Idea, quella della testimonianza come catarsi, o come antidoto contro la violenza, che rispecchia a pieno l’obiettivo del programma educativo realizzato da Spielberg. Non a caso, l’esperienza narrata da Defonseca è stata a lungo considerata una delle testimonianze più toccanti raccolte da Steven Spielberg nel suo archivio della Memoria.43
4. Le vere fonti e la falsa fonte Ci sono molte affinità tra Frantumi e Sopravvivere coi lupi. I due libri sono narrati attraverso la particolare prospettiva del bambino e raccontano avventure inverosimili. Sia Wilkomirski che Defonseca sono stati prelevati da un adulto che li ha condotti in famiglie dove non hanno ricevuto amore; a entrambi è stata imposta un’identità che non coinciderebbe con la loro e che avrebbe cancellato il vero nome, la vera data di nascita, la vera religione: «I bambini non hanno memoria, i bambini dimenticano presto, devi dimenticare tutto, è stato solo un brutto sogno: queste le parole, ripetute di continuo, con le quali si è tentato di cancellare i miei ricordi, di mettermi a tacere fin dai tempi della scuola» (Wilkomirski); «Non c’era nulla da fare: gli uffici del comune avevano fornito delle informazioni su un’orfanella che ero certamente io, e in più ero bionda: per loro non potevo essere che belga e cattolica!» (Defonseca).44 41
Riggs, Holocaust Orphan Tells of Futile, 4-Year search for parents, cit., p. 92. Wieviorka, L’era del testimone, cit. 43 Maria Pia Fusco, Misha, la piccola ebrea salvata da una lupa, «La Repubblica», 30 Gennaio 2008. 44 Wilkomirski, Frantumi. Un’infanzia. 1939-1948, cit., p. 131; Defonseca, Sopravvivere coi lupi, cit., p. 229. 42
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A entrambi è stato imposto di dimenticare: «I miei genitori adottivi avevano continuato a dire, semplicemente: Adesso devi dimenticare tutto! Devi dimenticare come si dimentica un brutto sogno: non pensarci più! È stato solo un sogno!» (Wilkomirski); «Forse in base ai loro criteri sono una cattiva ragazza, ma malgrado tutto il bene che dicono di volermi, so perfettamente che cosa cercano di uccidere in me. Come sempre, bisogna non essere ebrei. Bisogna dimenticare Mishke, e i lupi e tutto il resto» (Defonseca).45
Tutti e due recuperano i ricordi del passato solo dopo aver iniziato un percorso psicanalitico. Molto interessanti a questo proposito le parole di Defonseca che, su consiglio del marito, decide di rivolgersi a una psichiatra: «una donna è riuscita a sciogliere quel nodo di sofferenza invisibile. Aveva letto la mia storia, circostanza che ha facilitato le cose, non ho dovuto raccontargliela io. A lei ho potuto parlare di tutti i miei tentativi di vivere dopo quell’incubo cui ero sopravvissuta. Ho intrapreso una vera terapia, e ho capito che […] Cambiavo nome come gli altri cambiano un paio di scarpe. […] Cercavo un’identità d’oblio, senza mai trovarla. Fino al giorno in cui ho scelto Misha, in ricordo di quell’uomo così buono incontrato in Ucraina, poi Myriam per il rabbino, poiché Mishke ne era la forma yiddish. […] Ho trovato in America lo spazio necessario a un’altra sopravvivenza. Quella dei ricordi».46
Uno spazio che non è quello della realtà, ma un luogo in cui Defonseca può facilmente darsi l’identità che più desidera, non quella della bambina che ha avuto un’infanzia difficile, ma quella della vittima cui la Shoah ha distrutto la famiglia e negato la vera identità. È probabile che Defonseca abbia letto il libro di Wilkomirski quando ancora era considerato un capolavoro tra le testimonianze della Shoah. 45
Wilkomirski, Frantumi. Un’infanzia. 1939-1948, cit., p. 126; Defonseca, Sopravvivere coi lupi, cit., pp. 16-17. 46 Defonseca, Sopravvivere coi lupi, cit., pp. 254-255, il corsivo è mio.
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Il falso, creduto vero, potrebbe essere stato perciò utilizzato come fonte per creare un altro falso. Se persino le false testimonianze possono produrre effetti sul lettore e indurlo a sua volta a testimoniare,47 Sopravvivere coi lupi potrebbe, allora, rappresentare uno di questi effetti. Dal punto di vista del discorso storico le cose si complicano ulteriormente. Una delle preoccupazioni maggiori riguardo a Frantumi era il pericolo che prestasse il fianco ai negazionisti legittimandoli a pensare che se Wilkomirski aveva mentito, tutti i testimoni mentono. Con Defonseca si potrebbe andare addirittura oltre: se il falso genera falso, allora tutta la letteratura sulla Shoah è falsa. Il rischio è grande e da solo giustifica l’inquietudine circa l’uso strumentale che di queste opere può fare il negazionismo. Affrontare il problema del falso è, perciò, indispensabile per sottrarne la riflessione a chi nega o ridimensiona la portata dello sterminio. Sopravvivere coi lupi rappresenta forse uno dei possibili effetti della ricezione sociale di una falsa testimonianza. Ma il libro di Defonseca è anche, come quello di Wilkomirski, il prodotto di un’epoca che ha trasformato la memoria della Shoah nel paradigma del male assoluto e le sue vittime nelle vittime per eccellenza. Così che i traumi personali di Defonseca e Wilkomirski hanno trovato espressione in un modello di sofferenza riconosciuto e premiante sul piano sociale. Anche nel caso di Defonseca è possibile ipotizzare l’influenza di fonti autentiche. Le testimonianze di bambini affidati a famiglie cattoliche in cambio di denaro sono numerose. Esther Fogiel, che ha testimoniato al processo Papon, ha raccontato di essere stata accolta da una famiglia il cui comportamento nei suoi confronti è cambiato dopo che i suoi genitori erano stati deportati e non avevano più pagato la quota stabilita per nascondere la bambina.48 Gli stessi argomenti si ritrovano nel racconto dei tanti bambini che furono nascosti per sfuggire alla persecuzione e che hanno lasciato la loro testimonianza nei bollettini delle associazioni create negli Stati Uniti, in Israele e in Europa.49 47
Bernard-Donals, Beyond the Question of Authenticity: Witness and Testimony in the Fragments Controversy, cit. 48 Wieviorka, L’era del testimone, cit. 49 Ibid.
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In Sopravvivere coi lupi, così come in Frantumi, si trovano perciò i grandi temi della letteratura della Shoah degli anni Sessanta e Settanta. Temi che offrono un codice per la scrittura di una falsa memoria che viene così a costruirsi su un sapere autentico del genocidio degli ebrei, ma che si prestano anche come codice di lettura e di interpretazione.50 La storia di Defonseca è falsa non perché è inverosimile, ma perché non corrisponde al vissuto della sua autrice. Nel 1999, Aharon Appelfeld scrive in un libro l’incredibile avventura di cui è stato protagonista durante l’infanzia. In Storia di una vita,51 racconta che nel 1941 fu deportato in un campo di concentramento insieme a suo padre, dopo che i nazisti avevano ucciso sua madre. Anche se molto piccolo, riuscì a fuggire e a nascondersi nei boschi dell’Ucraina dove visse per tre anni, mangiando quel che gli offriva la natura fino a quando, nel 1944, fu raccolto dall’Armata Rossa. Nel libro, Appelfeld descrive se stesso come un animale che vive nascosto nella foresta, sempre alla ricerca del giusto percorso per raggiungere i genitori. Appelfeld, inoltre, ha la sensazione di non essere stato salvato dagli uomini, ma dagli animali che ha incontrato nel proprio cammino. Quando racconta la sua storia, sa di doversi scontrare con l’incredulità della gente e cerca di fornire una spiegazione per le strane dinamiche della memoria dei bambini: «Tutto ciò che è accaduto si è impresso nelle cellule del corpo, non nella memoria. A quanto pare le cellule del corpo ricordano più della memoria il cui compito è ricordare. […] Nel caso dei bambini, non furono i nomi ad imprimersi nella memoria, ma qualcosa di completamente differente. La loro memoria è un serbatoio che non si svuota: con il passare degli anni si rinnova e si precisa. Una memoria non cronologica, ma abbondante e mutevole».52
Anche nel caso di Defonseca, così come per Wilkomirski, il meccanismo di autenticazione è passato attraverso le comuni conoscenze storiche sulla Shoah. 50
Prstojevic, Faux en miroir: fiction du témoignage et sa reception, cit. Aharon Appelfed, Storia di una vita, trad. it. Giuntina, Firenze, 2001 (ed. or. 1999). 52 Ibid, pp. 84-86. 51
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Tanto più che, come Frantumi, anche Sopravvivere coi lupi può essere considerato una coproduzione i cui principali agenti sono stati la comunità ebraica americana che per prima ha accolto senza riserve la storia di Defonseca, l’ambiente psicanalitico che ha trasformato in ricordi le sue visioni, la società dell’era del testimone che ha applaudito senza alcuna criticità una storia talmente inverosimile da sembrare verosimile.
5. L’importanza della verità Ora che il libro si è rivelato un falso, molti si chiedono perché Jane Daniel non abbia fatto ricerche più approfondite sull’identità incerta di Misha Defonseca. Daniel si è difesa affermando che molte organizzazioni ebraiche, per le quali Defonseca era diventata un simbolo, le avrebbero assicurato l’autenticità della testimonianza della donna. Daniel ricorda anche il clima che circonda le testimonianze dei sopravvissuti e l’impossibilità di esprimere dubbi sulla loro autenticità. Ma soprattutto ribadisce che, in assenza di dati importanti (come nome e data di nascita) per verificare la storia di Defonseca, non aveva potuto fare a meno di crederle. Inoltre, secondo Daniel, l’editore non sarebbe responsabile dell’autenticità di un libro e Defonseca aveva firmato un contratto in cui affermava che il contenuto del libro corrispondeva alla verità.53 Per Daniel, il fatto che la storia non sia vera non inficia il valore del libro che rimane comunque una bella storia in cui bisogna separare il messaggio (il trionfo del bene) dal suo autore.54 La recente confessione di Defonseca ha colto di sorpresa, invece, Vera Bélmont, regista del film Survivre avec les loups 55 tratto dall’omonimo libro. Bélmont, realmente di fede ebraica, non aveva mai dubitato dell’autenticità del racconto di Defonseca. «Sono figlia di deportati» – aveva dichiarato, nel 2008, in occasione dell’uscita del film in Italia – «e ho ritrovato un po’ la mia storia, ho 53
Taormina, Bad moon rising: the truth behind a Holocaust hoax, cit. Ibid. 55 Vera Bélmont, Survivre avec les loups, Warner, Francia, 2007. 54
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vissuto tra i bambini nascosti nelle famiglie cristiane dalle organizzazioni progressiste, ma certo non avevo la forza e la volontà di Misha, che i genitori avevano abituato a non avere paura degli animali. Tutti gli episodi del film, anche i più duri sono veri, come i bambini polacchi che insultano i deportati sui treni o Misha che si nutre di carogne».56
Le rivelazioni di Defonseca sono state uno shock per lei che ha cercato tuttavia di dare una giustificazione al comportamento di Defonseca: «Durante la guerra ha vissuto un’esperienza forse anche più tragica di quella del libro. Suo padre, che faceva parte della Resistenza, è stato arrestato dalla Gestapo e sotto tortura ha confessato i nomi dei suoi compagni. Lei ha rifiutato questo tradimento e si è costruita un mondo di fantasia».57
La regista, che aveva già eliminato dalla pellicola gli elementi che le sembravano chiaramente poco attendibili, spiega di aver voluto mantenere invece la parte con i lupi: «perché rappresenta la favola, qui utilizzata per raccontare un tema drammatico e reale come quello dell'Olocausto, un po’ come ha fatto Roberto Benigni con La vita è bella. Ho parlato del mio film con Simone Veil e lei mi ha detto che non conta se la storia sia vera o finta, l’importante è il messaggio che trasmette, il valore che dà alla memoria. La cosa più importante è che il pubblico riesca a identificarsi nella storia».58
Dello stesso avviso pare essere anche l’editore italiano, Ponte alle Grazie, che ha deciso di continuare a pubblicare Sopravvivere coi lupi aggiungendo un avvertimento nella bandella di copertina: «Noi questo libro lo abbiamo pubblicato nel 1998 per la prima volta credendo nel suo valore di testimonianza, e lo ripubblichiamo nel 2008 in una nuova versione perché crediamo a tutti i lettori che lo hanno amato in questi anni, si sono emozionati e hanno partecipato al dolore di questa bambina: crediamo che questa storia, benché frutto di fantasia, valga la pena di essere letta».59 56
Fusco, Misha, la piccola ebrea salvata da una lupa, cit. «Messaggero Veneto», Misha: “Un film pieno di mie bugie”, cit. 58 Ibid. 59 Defonseca, Sopravvivere coi lupi, cit. 57
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Parole che rispecchiano la linea difensiva assunta dall’avvocato di Defonseca: «Non importa se il racconto è vero o parzialmente allegorico, è il frutto di un’assoluta buona fede, un grido di sofferenza e un atto di coraggio».60
Ma si può davvero rinunciare alla verità, banalizzando un evento che è stato tutt’altro che un’allegoria? Secondo Langer, che fu il primo a studiare l’archivio di Yale in Holocaust Testimonies. The Ruins of Memory, 61 a settant’anni di distanza dai fatti, quando gli ultimi sopravvissuti cominciano a scomparire e i negazionisti riprendono fiato, la verità è fondamentale: «Quello che è accaduto agli ebrei è la peggiore atrocità della storia e le persone che sfruttano la Shoah per soldi, dichiarando di essere ebrei o di aver sperimentato i campi, insultano coloro che l’orrore lo hanno davvero vissuto. Tutto ciò è sbagliato quanto affermare che la Shoah non è accaduta. Ho interrogato, per anni, i sopravvissuti. Le false testimonianze rischiano di farli dubitare dei loro ricordi e offrono spunti ai negazionisti».62
Daniel Mendelsohn, autore del libro The Lost. A search for six of six million,63 è convinto che la diffusione di false testimonianze, un trend in ascesa, sia il risultato di un momento storico e culturale in cui il significato della sofferenza, dell’identità e della realtà è pericolosamente incerto.64 La giustificazione di Defonseca «mi sentivo ebrea», rispecchierebbe, per Mendelsohn, non un ammirevole desiderio di empatia, quanto piuttosto l’infrazione dei confini che determinano l’identità e la sofferenza.
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Justin Stares, Lying with wolves, «Daily Mail», 1 Marzo 2008, traduzione mia. Lawrence Langer, Holocaust Testimonies. The Ruins of Memory, Yale University Press, 1991. 62 Mehegan, Faked Holocaust memoir: Den of lies, traduzione mia. 63 Daniel Mendelsohn, The Lost. A search for six of six million, Harper Collins, 2006. 64 Daniel Mendelsohn, Stolen Suffering, «New York Times», 9 Marzo 2008. 61
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«Negli ultimi anni» – afferma Mendelsohn – «siamo stati continuamente invitati a identificarci con le sofferenze degli altri, ma non ci siamo fermati a riflettere se, in realtà, fosse una cosa giusta».65
Per Mendelsohn, empatia e pietà sono emozioni necessarie che ci permettono di entrare più profondamente in contatto con gli altri, ma dipendono da un’immaginazione metaforica di ciò che gli altri hanno vissuto. La facile affermazione che si può, letteralmente, «sentire la sofferenza degli altri» potrebbe, quindi, dissolvere la naturale e indispensabile differenza che esiste tra noi e gli altri. «Un museo che offre ai visitatori la possibilità di entrare in un carro bestiame, per far sperimentare che cosa si provi, può incoraggiare non una sincera simpatia o una vera conoscenza, ma una mera identificazione che svaluta la reale sofferenza delle persone che hanno davvero vissuto quel particolare orrore».66
Con la differenza che quando i visitatori escono dalla simulazione possono riprendere tranquillamente la loro vita, mentre i deportati uscivano dai treni per entrare direttamente nelle camere a gas. «In un’era ossessionata dall’identità» – suggerisce Mendelsohn – «è utile ricordare che l’identità è quel tratto della persona, o di un gruppo, di cui gli altri non possono appropriarsi; in un mondo in cui i simulacri sono disponibili al prezzo di un biglietto, la linea che separa l’autentico dal falso dovrebbe essere evidenziata invece che cancellata. Defonseca ha chiaramente cancellato ogni demarcazione.[…] La frode è sempre esistita, è vero; ciò che, in realtà, preoccupa è che, forse per la prima volta, non ci si domanda se una storia è vera o falsa, ma se è importante o meno che sia falsa».67
Ecco che il vero problema non è la falsità della testimonianza, che analizzata dagli storici potrebbe anche risultare utile per lo studio di una determinata epoca, quanto piuttosto la confusione tra vero e falso e l’idea che il falso sia altrettanto efficace del vero. Che la verità, in altre parole, non sia determinante, con la conseguenza, già ricordata da Ginzburg, che la realtà oggettiva diventi relativa.68 65
Ibid, traduzione mia. Ibid. 67 Ibid. 68 Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, cit. 66
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Blake Eskin ricorda di essersi imbattuto nel libro di Defonseca mentre faceva delle ricerche sull’identità di Wilkomirski. Eskin, scettico sull’autenticità di Misha: A Memoir of the Holocaust Years, aveva pensato di discuterne nel contesto dello scandalo di Frantumi, ma era stato, poi, contattato dall’avvocato di Defonseca che gli aveva ingiunto di lasciar perdere. In assenza di prove concrete, era stato costretto a desistere.69 Anche per Eskin, non è possibile rinunciare alla verità. Pur riconoscendo Defonseca colpevole della frode, Eskin è convinto che, come nel caso di Wilkomirski, la falsa testimone non ne sia la sola responsabile. Daniel, sostiene Eskin, ha pubblicato il libro a dispetto del parere contrario di eminenti storici della Shoah e Bélmont ne ha tratto un film dichiarando a Haaretz che gli storici che dubitavano di Defonseca erano paragonabili a coloro che negano l’esistenza dei campi.70 L’opera di Defonseca avrebbe così acquisito lo statuto di testimonianza e una patente di autenticità. Defonseca, spingendosi oltre l’empatia, si sarebbe appropriata dell’identità e della sofferenza altrui e, per Eskin, continuare a parlare della sua storia è, forse, un ulteriore oltraggio ai veri sopravvissuti, a coloro che non sono sopravvissuti e a chi affronta con serietà lo studio della storia.71 Sui falsi testimoni dovrebbe, allora, scendere il silenzio.
6. Testimone a ogni costo La proliferazione di false autobiografie potrebbe indurre a pensare che stia nascendo un nuovo genere letterario. Misha Defonseca pare infatti essere l’ultima, in ordine di tempo, di una lunga serie di contraffazioni. Dopo Binjamin Wilkomirski e Enric Marco, nel 2006 furono contestate anche le memorie del regista austriaco Conny Hannes Meyer che raccontava di essere stato a Mauthausen.72 69
Eskin, Crying Wolf. Why did it take so long for a far-fetched Holocaust memoir to be debunked?, cit. 70 Ibid. 71 Ibid. 72 Stefano Bucci, Quando la fantasia corre troppo, «Corriere della Sera», 1 Marzo 2008.
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Il caso più sorprendente però è quello dell’australiano Bernard Holstein che pagò di tasca propria la pubblicazione del suo libro, Stolen Soul.73 Traumatizzato per sessant’anni dal ricordo dell’esperienza vissuta, Holstein aveva deciso, come altri sopravvissuti, di scrivere la sua storia prima che fosse troppo tardi. Nel 2000, Holstein aveva contattato l’editore Judy Shorrock raccontando di essere stato deportato ad Auschwitz all’età di nove anni, di essere stato sottoposto a esperimenti medici, di essere riuscito a scappare, di essere sopravvissuto grazie a un branco di lupi, di aver incontrato un gruppo di partigiani e di essere infine immigrato in Australia come orfano.74 Come molti altri bambini sopravvissuti alla Shoah, Holstein non ha i mezzi per provare la verità del suo racconto. All’epoca dei fatti era troppo piccolo e, come spiega nel libro, alla fine del conflitto non ha avuto una famiglia che potesse rendere conto della sua identità. Tuttavia nella sua mente affiorano diversi ricordi del passato, schegge di episodi vissuti in cui rivede i genitori e i luoghi della sua prima infanzia. L’ultima volta che Holstein vede i suoi cari è nell’estate del 1943 quando furono tutti condotti ad Auschwitz. Il piccolo Bernard, che all’epoca sembra più grande dei suoi nove anni, è l’unico sopravvissuto dell’intera famiglia. Ad Auschwitz, Holstein riesce a sopravvivere grazie all’amicizia di Erhard e Mikhail, due ragazzi che lo istruiscono sulla vita del campo, ma della cui identità conosce molto poco. I tre bambini vengono, un giorno, notati da alcuni soldati inglesi, prigionieri nel campo. I soldati li mettono in contatto con un gruppo di resistenti che li aiuteranno a fuggire, ma la fuga si concluderà con il ritorno ad Auschwitz e la morte di Erhard e Mikhail. Nonostante Holstein non fornisse prove certe, l’editore non ebbe dubbi sull’autenticità delle sue memorie. Del resto, l’uomo aveva inciso sul braccio sinistro il numero 111404.75 Holstein fu addirittura disposto a spendere 75.000 dollari per 73
Bernard Holstein, Stolen Soul, University of Western Australia Press, Crawley, 2004. 74 «The Sunday Morning Herald», Auschwitz tale is not all that it seems, 17 Dicembre 2004. 75 Catherine Madden and Jim Kelly, Holocaust man’s claims queried, «The Sunday Times», 31 Ottobre 2004.
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pubblicare 500 copie del suo libro che fu distribuito, con notevole vantaggio per la sua credibilità, dalla University of Western Australia Press.76 Subito, l’uomo fu invitato a parlare all’Holocaust Institute di Yokine.77 Poco dopo la pubblicazione, Shorrock ricevette una telefonata dal fratello di Holstein che rivelava la vera identità dell’uomo. L’editore ingaggiò, allora, un investigatore e scoprì che Bernard Holstein era in realtà Bernard Brougham, membro di una famiglia cattolica australiana. Holstein/Brougham, come Wilkomirski, continuò a proclamarsi ebreo e rifiutò di fare il test del DNA.78 Disse che era stato cresciuto da una famiglia cattolica che gli aveva imposto di dimenticare la sua vera identità ebraica, ma questo non gli era mai stato possibile perché alcuni membri della Resistenza, con cui era entrato in contatto ad Auschwitz, gli avevano affidato il compito di raccontare ciò che era accaduto.79 Shorrock preferì comunque ritirare Stolen Soul dalle librerie. Holstein reagì male denunciando forti pregiudizi nei suoi confronti. Secondo lui, non esistevano prove che contraddicessero la sua versione dei fatti e anche il certificato di nascita australiano non era sufficiente a stabilire con certezza che lui non fosse nato in Germania come aveva dichiarato nel libro. «Non mi pento di aver scritto la mia storia» – affermò – «Ho fatto la mia parte per preservare la memoria di due milioni di bambini morti nei campi».80
Shorrock dichiarò di aver agito in buona fede, di non aver avuto elementi per dubitare di Holstein. Molti però, soprattutto nella comunità ebraica australiana, pensano che avrebbe dovuto e potuto accertare la verità prima di pubblicare il libro. 76
«The Sunday Morning Herald», Auschwitz tale is not all that it seems, cit. Madden and Kelly, Holocaust man’s claims queried, cit. 78 «The Sunday Morning Herald», Auschwitz tale is not all that it seems, cit. 79 Madden and Kelly, Holocaust man’s claims queried, cit. 80 Melissa Singer, Literary Hoaxes and the Holocaust, «The Australian Jewish News», 19 Novembre 2004, traduzione mia. 77
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Tuttavia, come spiega George Halasz, psichiatra ed esperto di traumi, nel caso dei falsi testimoni, gli editori non sono in grado di distinguere il vero dal falso. Halasz, figlio di sopravvissuti e impegnato, fin dai primi anni Novanta nel gruppo di supporto del Child Survivors of the Holocaust, è convinto che i falsi testimoni sono persone talmente disturbate da credere veramente di essere i personaggi che hanno inventato. L’editore si trova, perciò, di fronte a veri e propri casi clinici senza avere gli strumenti per poter verificare l’attendibilità delle loro affermazioni. Per quanto le false testimonianze possano nuocere e mancare di rispetto ai veri sopravvissuti, Halasz è convinto che il fenomeno continuerà a esistere finché la memoria della Shoah continuerà a essere “appetibile”: «Gli autori delle frodi, persone con un’identità fragile, prendono a prestito l’identità dei sopravvissuti per trovarvi conforto a traumi personali, potere e autorità. La Shoah offre una quantità enorme di spunti di identificazione. Negli ultimi trent’anni, per chi vuole identificarsi con una vittima, non esiste figura migliore di quella del sopravvissuto, e se si tratta di un bambino, la compassione e la simpatia del grande pubblico è assicurata. Ma l’atteggiamento dei falsi testimoni non è calcolato».81
Si tratta, appunto, di psicosi. Anche per Halasz, i falsi testimoni fanno perdere fiducia nelle testimonianze autentiche e sarebbe perciò meglio che, una volta svelato l’inganno, scendesse su di loro il silenzio. Sue Vice, invece, autrice di Holocaust Fiction: From William Styron to Binjamin Wilkomirski,82 crede che la riclassificazione dei falsi nella categoria della finzione letteraria potrebbe prevenire ulteriori danni.83 Ma anche nel caso di Holstein, così come in quello di Wilkomir81
Ibid. Sue Vice, Holocaust Fiction: From William Styron to Binjamin Wilkomirski, Routledge, New York, 2000. 83 Singer, Literary Hoaxes and the Holocaust, cit. 82
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ski, la mancata ammissione del falso ostacolerebbe qualsiasi tentativo di spostare i loro libri dalla categoria della testimonianza a quella della finzione letteraria. La disapprovazione che circonda la decisione di Ponte alle Grazie di ristampare il libro di Defonseca84 dimostra inoltre che il passaggio alla letteratura di opere che si sono imposte in quanto testimonianze non placa le polemiche, anzi rafforza l’opinione che non si possa fare letteratura con la Shoah.
7. Il ruolo della psicanalisi All’inizio degli anni Novanta, Wilkomirski e Elitsur Bernstein, lo psicanalista israeliano che gli aveva suggerito di entrare in analisi, mettono a punto una contestata terapia per bambini sopravvissuti senza identità, di cui il caso di Wilkomirski avrebbe dovuto costituire il paradigma. Il lavoro dei due uomini fu premiato, il 10 Aprile 1999, con l’Hayman Award for Holocaust and Genocide Study dall’American Ortho-psychiatric Association, un’associazione impegnata nello studio della memoria dei bambini traumatizzati.85 Wilkomirski era diventato il rappresentante della “terapia della memoria ritrovata”, grazie alla quale egli aveva potuto dar voce ai suoi ricordi d’infanzia.86 Nelle conferenze tenute in diverse parti del mondo, Wilkomirski sosteneva che la terapia, unita alla ricerca storica, fosse in grado di ricollegare i ricordi più frammentari agli eventi reali.87 Fin dal 1982, però, lo studio di Donald P. Spence sulla verità narrativa e la verità storica nella psicanalisi 88 ha chiarito che l’interscambio tra paziente e terapista può influenzare la memoria così che, durante la terapia, può emergere solo la verità narrativa. La 84
Dino Messina, Sopravvivere con l’impostura. Nuova edizione per la Defonseca, «Corriere della Sera», 16 Aprile 2008. 85 Peskin, Holocaust Denial: A Sequel, cit. 86 Hasian, Authenticity, Public Memories and the Problematics of Post-Holocaust Remembrances: A Rhetorical Analysis of the Wilkomirski Affair, cit. 87 Maliszewski, A Holocaust Fantasy, cit. 88 Donald P. Spence, Narrative Truth and Historical Truth: Meaning and Interpretation in Psychoanalysis, Norton, New York, 1982.
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verità storica invece, caratterizzata da legami referenziali con il passato, rimarrebbe elusiva.89 Spence ha dimostrato anche che il terapista, per comprendere il paziente, è costretto a costruire un contesto in cui inserire il racconto. Se Wilkomirski, come ha potuto rilevare Maechler, si è presentato al suo terapista come un sopravvissuto della Shoah, questi ha immediatamente utilizzato le sue conoscenze sull’evento e sulle conseguenze per le vittime di tale evento.90 L’interazione tra paziente e terapista avrebbe dato corpo alle fumose visioni di Wilkomirski consentendogli di proporsi come vittima della Shoah. La “terapia della memoria ritrovata” ha creato negli Stati Uniti una situazione esplosiva perché è stata persino utilizzata per istruire dei processi.91 Il punto di partenza di questa terapia è la nozione di fantasma di Freud. Quando Freud si accorse che il racconto dei pazienti includeva spesso episodi di incesto, capì subito che si trattava di “verità psichiche”, rappresentazioni, fantasmi. Ciò non significava che alcuni pazienti non avessero davvero subito delle violenze, ma Freud si rese conto di avere a che fare con un problema strutturale e non, salvo eccezioni, con un passato reale. Molti psicanalisti invece hanno cercato di stabilire una connessione tra il sintomo e la realtà costruendo, insieme al paziente, un passato immaginario e dei falsi ricordi che irrompono nella realtà.92 Frantumi sarebbe, dunque, il frutto della “terapia della memoria ritrovata”. Lo stesso Wilkomirski ha ammesso che senza tale terapia non avrebbe potuto ritrovare le sue “origini”.93 Le false memorie sono infatti costruite combinando veri ricordi con suggestioni ricevute da altri. Durante il processo di formazione di tali memorie, il paziente può dimenticare la fonte delle suggestioni, così che le fonti di ricordi reali e immaginari si confondono e il ricordo, dissociandosi dalla fonte, viene metabolizzato come autentico.94 89 Maechler, Wilkomirski the Victim. Individual Remembering as Social Interaction and Public Event, cit. 90 Ibid. 91 Robin, La mémoire saturée, cit. 92 Ibid. 93 Gourevitch, The Memory Thief, cit. 94 Elizabeth Loftus, Creating False Memories, «Scientific American», Settembre 1997.
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Rimane però un paradosso. Mentre, come sostiene Arnaud, solitamente la creazione di una nuova identità ha per obiettivo una prospettiva di vita migliore,95 la mistificazione operata da Wilkomirski tende a mascherare un trauma originario con un trauma ben peggiore. Occorre ora comprendere perché una persona dovrebbe pretendere di essere una vittima della Shoah. Negli ultimi anni, sociologi e psicologi stanno conducendo ricerche sulla ricezione delle testimonianze della Shoah, sull’impatto del racconto della sofferenza dei sopravvissuti sull’intera società. Renata Salecl sostiene che il tentativo di inscrivere la propria narrazione nella memoria pubblica corrisponda al desiderio di far riconoscere all’Altro le proprie sofferenze. Lo scopo della “terapia della memoria ritrovata” è infatti quello di recuperare un trauma dimenticato per poterne chiedere risarcimento.96 L’odierna ossessione per la memoria e il trauma, secondo Salecl, avrebbe creato un costante bisogno di ascolto, mentre in realtà non ci sarebbe nessuno ad ascoltare perché, come affermava Lacan, l’Altro non esiste. All’origine di ogni memoria ritrovata ci sarebbe perciò il cambiamento, avvenuto nella società contemporanea, della percezione dell’Altro, verso il quale l’individuo prova attrazione e repulsione allo stesso tempo. L’Altro infatti rappresenta l’autorità, l’istituzione che crea la sofferenza del soggetto, ma che sola la può riconoscere e risarcire. Assistiamo, sostiene Salecl, all’emergere di una nuova forma di individualismo. L’individuo è diventato artefice della propria identità ed è sempre meno legato alle istituzioni (famiglia, comunità, stato) dalle quali, in passato, dipendeva qualsiasi identità. Con l’emergere di questo nuovo individualismo sarebbe sopraggiunta la percezione che in ogni individuo c’è una verità che ha bisogno di essere scoperta per far sì che l’individuo possa essere pienamente sé stesso.97 Molte volte si è sottolineato come i sopravvissuti abbiano grosse difficoltà a parlare della loro esperienza. Spesso, come racconta Friedlander, hanno la sensazione di essere scissi in due identità parallele: quella che vive il presente e quella che ha vissuto un avveni95
Arnaud, Qui dit je en nous. Nous sommes tous des imposteurs, cit. Renata Salecl, Why One Would Pretend to be a Victim of the Holocaust, «Other Voices», Febbraio 2000 (2, 1). 97 Ibid. 96
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mento capitale.98 Wilkomirski, invece, non riferisce alcun sintomo di alienazione.99 E lo stesso possiamo dire di Defonseca e Holstein. È soprattutto nella ricerca di ascolto che Wilkomirski, Defonseca e Holstein si comportano in modo diverso rispetto ai veri sopravvissuti. Dori Laub sottolinea come il loro essere dentro all’evento abbia impedito ai sopravvissuti persino di pensare di testimoniare. L’universo concentrazionario, organizzato per non lasciare testimoni, ha distrutto qualsiasi nozione dell’Altro e, di conseguenza, qualsiasi possibilità di ascolto.100 I veri sopravvissuti fanno fatica a raccontare la loro storia perché la loro percezione dell’Altro, come spazio simbolico coerente cui chiedere ascolto, è stato distrutto dall’esperienza dei campi. Per i falsi testimoni, al contrario, il problema non è la sparizione dell’Altro, quanto piuttosto l’ossessione di far ascoltare e risarcire le loro sofferenze. E questa ossessione presuppone che ci sia un Altro ad ascoltare, mentre per i sopravvissuti tale presupposto ha cessato di esistere.101 Wilkomirski, Defonseca e Holstein sarebbero, quindi, figli di un’epoca in cui la messa in discussione dell’autorità ha prodotto la sensazione che l’individuo sia necessariamente una vittima e che la verità, nascosta dentro di lui, debba trovare il modo di esprimersi per evitare che la sua identità rimanga menomata. Wilkomirski sarebbe stato costretto a inventare il suo passato, a costruirsi un’identità narrativa, perché aveva a disposizione solo pochi ricordi della sua infanzia e sarebbe stato spinto proprio dalla sua sofferenza a scegliere d’identificarsi con le vittime della Shoah. Grazie a questa scelta infatti avrebbe recuperato un posto nella società.102 «C’è in gioco un’invidia profonda, soprattutto in coloro che non hanno proprie memorie forti – “forti” anche nel senso che le memorie conferiscono un riconoscimento sociale. Si viene spinti a ciò dalla pressione di possedere un’identità distinta, per quanto dolorosa: meglio recuperare memorie false che nessuna memoria o memorie deboli».103 98
Friedlander, A poco a poco il ricordo, cit. Salecl, Why One Would Pretend to be a Victim of the Holocaust, cit. 100 Ibid. 101 Ibid. 102 Natalie Levisalles, Boris Cyrulnik, «la tragédie est un destin merveilleux», Libération, 2/3/2000. 103 Hartman, Cicatrici dello spirito. La lotta contro l’inautenticità, cit., p. 94. 99
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Non sorprende, allora, che i primi dubbi sui falsi testimoni siano sempre legati alla percezione di una diversità rispetto ai veri sopravvissuti: Bermejo inizia a indagare su Marco perché trova il suo comportamento, in particolare un eloquio troppo spigliato, non consono a quello di altri sopravvissuti con cui era venuto in contatto; 104 l’editore americano di Wilkomirski si stupisce che l’uomo pianga tutte le volte che racconta la sua storia perché, avendo già pubblicato numerose testimonianze, conosce il doloroso contegno dei sopravvissuti; Defonseca e Holstein, al pari di Wilkomirski, accompagnano sempre la loro testimonianza con crisi di pianto.105 Sorprende, invece, la perfetta adesione all’evento Shoah di tutti i falsi testimoni, la capacità di un’identificazione che finisce col confondere il vero col falso creando degli “onesti” falsi testimoni, convinti di essere veramente i protagonisti delle loro opere. Sorprende, soprattutto, quando questa adesione viene confrontata con l’incapacità di identificazione di un vero testimone, Friedlander, che, scampato alla deportazione, avverte chiaramente la distanza che lo separa da chi non è tornato dai campi: «Ero vissuto al margine della catastrofe: una distanza forse invalicabile mi separava da coloro che erano stati travolti nel corso delle cose; e nonostante ogni mio sforzo, restavo, ai miei propri occhi, non una vittima – uno spettatore. Sarei dunque andato errando fra mondi molteplici, conoscendoli, comprendendoli, meglio forse di molti altri, ma tuttavia sempre incapace di sentire un’identificazione senza reticenze, incapace di vedere, di appropriarmi e di appartenere con un moto unico, immediato e assoluto».106
Eppure Friedlander ha vissuto gli eventi e la sua incapacità di identificazione sembra accordarsi all’idea, espressa da Levi, che il vero testimone non è il sopravvissuto, ma colui che è stato sommerso.107 «Il furore emblematico del genocidio» – scrive Piperno – «ha spinto molta gente a un’appropriazione indebita di tragedia altrui. Forse 104
Guiol, Le mensonge qui stupéfie l'Espagne, cit. Bultrini, La bimba che visse coi lupi, cit.; Singer, Literary Hoaxes and the Holocaust, cit. 106 Friedlander, A poco a poco il ricordo, cit., pp. 161-162. 107 Levi, I sommersi e i salvati, cit. 105
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perché il martirio nobilita, ti fa sentire un essere umano migliore. D’altra parte la santificazione delle vittime ha reso la Shoah astratta e sentimentale».108
Tuttavia, continua Piperno, la Shoah non spiega tutto. In un singolare paradosso, tutto ciò che in passato è stato rimproverato agli ebrei è diventato, nella nostra epoca, segno di qualità spirituale, spia di una complessità interiore: «Fin dai tempi dello Shylock shakespeariano non c’è grande scrittore (Voltaire, Stendhal, Balzac, Dickens) che, per dare mordente alla narrazione, non si sia avvalso della figura emblematicamente bieca dell’ebreo. Ebbene, anche in questo senso le cose sono cambiate: se oggi un narratore ha bisogno di conferire un respiro spirituale alla propria opera non gli resta che inventarsi un paio di ebrei deportati nei campi».109
È curioso come una religione, quella ebraica, che non ha mai fatto proselitismo faccia ora i conti con un desiderio di identificazione così diffuso. Certo, il lungo e complesso lavoro della memoria della Shoah ha contribuito a questo cambiamento epocale, ma dov’erano tutti questi simpatizzanti ogni volta che il popolo ebraico è stato perseguitato? Forse, come dice Mendelsohn, dovremmo fermarci a riflettere sull’opportunità di insistere sull’identificazione con le sofferenze degli altri.110 Appurato che l’identificazione con le vittime del genocidio non apporta nulla alla conoscenza degli eventi passati, ci si dovrebbe chiedere se sia davvero la via giusta per trasmettere la memoria della Shoah dato che, in parte, è stata determinante nella produzione di false testimonianze. L’epilogo della vicenda Wilkomirski mi pare a questo proposito abbastanza emblematico. Nel Giugno del 2001, Wilkomirski scrive una lettera al Berner Zeitung in cui prende le difese dei palestinesi nel conflitto con gli 108
Alessandro Piperno, Falsi figli dell’Olocausto per sentirsi più nobili, «Corriere della Sera», 1 Marzo 2008. 109 Ibid. 110 Mendelsohn, Stolen Suffering, cit.
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israeliani. Gli ebrei, scrive Wilkomirski, stanno rubando in Palestina tutto ciò che può essere rubato e utilizzano la Shoah per mettere a tacere qualsiasi critica nei loro confronti. Raccomanda, inoltre, la lettura del libro di Finkelstein, L’industria dell’Olocausto, 111 del quale tuttavia non deve aver letto molto visto che Finkelstein è molto critico nei suoi confronti. Secondo Wilkomirski, gli ebrei sono più nazionalisti degli altri popoli, ma quando vengono criticati si nascondono dietro il loro ruolo di vittime. Se il mondo li odia è perché si comportano come fossero il popolo eletto. Le vere vittime sono gli ebrei morti nei campi, mentre gli israeliani sono solo egoisti, nazionalisti e criminali. La sua simpatia va, perciò, ai palestinesi.112 Si tratta, forse, di una reazione a quello che lui ha vissuto come un tradimento da parte del mondo ebraico? O dell’ennesima, anche se paradossale, forma di identificazione? Per Maechler, Wilkomirski sarebbe stato soprafatto di nuovo dal seducente potere delle immagini e, per la seconda volta, avrebbe usato un linguaggio collaudato, ma di segno opposto: quello dell’antisemitismo.113 Il bizzarro voltafaccia di Wilkomirski seguirebbe pertanto lo stesso meccanismo dell’identificazione con le vittime della Shoah. È cambiato il linguaggio, i cliché sono rimasti gli stessi.
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Norman Finkelstein, L’industria dell’Olocausto, Rizzoli, Milano, 2004. Maechler, Wilkomirski the Victim. Individual Remembering as Social Interaction and Public Event, cit. 113 Ibid. 112
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INDICE DEI NOMI
Adagio, Carmelo, 85 Alighieri, Dante, 48 Almog, Ruth, 27 Altaras, Alon, 27, 30, 41 Améry, Jean, 27 Appelfeld, Aharon, 65-66, 101 Armengou, Montserrat, 85 Arnaud, Claude, 38-39, 112 Arnold, Martin, 27 Aroles, Serge, 95 Assmann, Aleida, 53 Azulay Tapiero, Marilda, 84, 86 Baer, Alejandro, 86 Balint, Lea, 30, 36, 91 Balzac, Honoré de, 115 Barthes, Roland, 50 Bassa, David, 83 Bauer, Yehuda, 32, 46 Bélmont, Vera, 18, 96, 102, 106 Ben Gurion, David, 67 Benigni, Roberto, 103 Bermejo, Benito, 17, 82, 84-85, 87, 114 Bernard-Donals, Michael, 53-54, 100 Bernstein, Elitsur, 31, 33, 36, 110 Bidussa, David, 55 Blanchot, Maurice, 54 Bloch, Marc, 8, 15, 20-21, 58-61, 63-65, 71-73 Bloxham, Donald, 41
Boltanski, Luc, 36 Botti, Alfonso, 85 Brougham, Bernard, 108 Bucci, Stefano, 106 Bultrini, Raimondo, 94, 114 Capella, Peter, 36 Carjaval, Doreen, 32, 34-35 Casali, Luciano, 61-62 Cattaruzza, Marina, 76, 79 Checa, Sandra, 82 Cohn, Dorrit, 47 Cojean, Annick, 73 Constante, Mariano, 83 Croce, Benedetto, 81 Cyrulnik, Boris, 113 Daniel, Jane, 18, 94-96, 102, 106 Dawidowicz, Lucy, 64 De Agostino, Martin, 29 De Certeau, Michel, 15, 57, 7273, 80 De Luca, Erri, 27 Defoe, Daniel, 48 Derrida, Jacques, 50 DeWael famiglia, 93 DeWael, Monique, 96-97 DeWael, Robert, 96 Dickens, Charles, 115 Didi-Huberman, Georges, 71-72, 80, 82 Diepgen, Eberhard, 44
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Dössekker famiglia, 31 Dössekker, Bruno, 31, 49, 55-56, 90, 97 Doubrovsky, Serge, 37, 47 Dresden, Sem, 46 Dwork, Deborah, 34-35, 95 Eichmann, Adolf, processo, 1213, 16, 20, 23-26, 37-38, 44, 52, 63, 66-69, 73, 90 Eisenman, Peter, 44 Englander, Nathan, 1 Erenburg, Il’ja, 50-51 Eskin, Blake, 32, 47, 95, 106 Evans, Richard, 50, 68 Faenza, Roberto, 91 Faurisson, Robert, 80 Felman, Shoshana, 55-56, 73 Fillol, Santiago, 87 Finkelstein, Norman, 116 Flavio, Giuseppe, 89-90, 92 Flores, Marcello, 76, 79 Fogiel, Esther, 100 Franco, Francisco Bahamonde, 61-63, 85-87 Frank, Anne, 26-28 Freud, Sigmund, 19, 38, 111 Friedlander, Saul, 80, 91-92, 113114 Fusco, Maria Pia, 98, 103 Ganzfried, Daniel, 13, 30-31, 3435, 37, 39-40, 87 Geras, Norman, 33 Ginzburg, Carlo, 80-82, 89-90, 105 Goldhagen, Daniel, 16, 27, 69-72 Gourevitch, Philip, 20, 30-31, 36, 49, 51, 54-56, 94, 111
Gray, Martin, 41 Grosjean, Bruno, 31 Grosjean, Yvonne, 31 Gross, Andrew, 40, 54 Grossman, Vasilij, 50-51 Guiol, Elsa, 84-85, 114 Gur, Batya, 27 Gutman, Israel, 36 Halasz, George, 109 Halbwachs, Maurice, 52, 57, 6364, 76 Hannes Meyer, Conny, 106 Hartman, Geoffrey, 69-70, 75-76, 78, 113 Hasian, Marouf, 33, 50, 52, 91, 110 Hausner, Gideon, 67-70 Helbling, Hanno, 29 Heschel, Susannah, 27 Hesse, Rudolph, 41 Hilberg, Raul, 32, 35, 68, 70, 95 Hirsh, Marianne, 17, 76-77 Hitler, Adolf, 32 Hoffman, Michael, 40, 54 Holstein, Bernard, 7, 11, 17-21, 93, 107-109, 113-114 Hungerford, Amy, 55-56 Irving, David, 41, 50, 68 Isnenghi, Mario, 81 Israel Garzón, Estrella, 84, 86 Ka-Tzetnik 135633, 74 Kelly, Jim, 107, 109 Keneally, Thomas, 46 Klüger, Ruth, 79 Kohl, Helmut, 44 Koralnik, Eva, 35, 49
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Kosinski, Jerzy, 91 Kuhn, Manfred, 36 Kushner, Tony, 41 Lacan, Jacques, 112 LaCapra, Dominick, 78 Landsberg, Alison, 25, 43, 49 Langer, Lawrence, 95, 104 Lanzmann, Claude, 12-13, 24, 40, 45, 71, 78, 90 Lappin, Elena, 28, 35-37, 41, 49, 54 Laub, Dori, 55, 73, 113 Lear, Jonathan, 45 Lee, Vera, 94, 96 Lejeune, Philippe, 47 Levi, Primo, 8, 14, 23, 27-28, 3840, 45, 48-49, 72, 114 Levis Sullam, Simon, 67, 69, 76, 79 Levisalles, Natalie, 113 Levy Defonseca, Misha, 7, 11, 1718, 20-21, 93-106, 110, 113-114 Lewis, Wyndham, 78 Lipstadt, Deborah, 41, 47 Loftus, Elizabeth, 111 Madden, Catherine, 107-108 Maechler, Stefan, 13, 20, 29, 35, 51, 56 Magris, Claudio, 42, 83, 85 Maliszewski, Paul, 33, 60, 110 Manea, Norman, 51 Manzoni, Alessandro, 48 Marco, Enric, 17, 42, 82-88, 106, 114 Maroko, Yacov, 30 Mehegan, David, 94-96, 104 Mendelsohn, Daniel, 104-105, 115
Mengaldo, Pier Vincenzo, 40, 43, 46 Messina, Dino, 110 Metdepenningen, Marc, 96 Michman, Dan, 69 Mokotoff, Gary, 40-41 Moner, Enrique, 87 Musseau, François, 85 Nora, Olivier, 34 Oberski, Jona, 90-91 Offeddu, Luigi, 97 Oppes, Alessandro, 82, 84, 87 Papon, Maurice, processo, 100 Perec, Georges, 37 Pérez, Eusebi, 85 Perlzweig, Maurice, 62 Peskin, Harvey, 32, 110 Piperno, Alessandro, 114-115 Pirandello, Luigi, 1 Plath, Sylvia, 48 Poliakov, Léon, 68-70 Pons Prades, Eduardo, 83 Prstojevic, Alexandre, 60, 101 Pujol, Jordi, 83 Reitlinger, Gerard, 68 Ribó, Jordi, 83 Ricoeur, Paul, 43, 61 Riggs, Doug, 94, 98 Robbe-Grillet, Alain, 37 Robin, Régine, 20, 24-26, 28-29, 31, 36-38, 42-43, 50, 61, 68, 75, 111 Rodrigo, Javier, 87 Rosen, Judith, 96 Salecl, Renata, 112-113 Salomoni, Antonella, 51
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Salony, Mary, 27 Sasportas, Valérie, 97 Scherzer, Amy, 94 Segev, Tom, 41, 66 Semprún, Jorge, 24, 47-48 Sereny, Gitta, 41 Sergeant, Sharon, 96 Serra, Richard, 44 Serra, Renato, 81 Sessi, Frediano, 24, 32 Shorrock, Judy, 107-108 Singer, Melissa, 108-109 Soffron, Joni, 95 Spence, Donald, 110-111 Spiegel, Paul, 44 Spiegelman, Art, 46 Spielberg, Steven, 12, 16, 20-21, 25, 44, 73, 98 Stares, Justin, 104 Stein, Edith, 77 Steinberg, Maxime, 95 Stendhal, 115 Suleiman, Susan, 42, 47-48 Sullam Calimani, Anna Vera, 69
van Alphen, Ernst, 42 Vargas Llosa, Mario, 86 Veil, Simone, 28 Vermal, Lucas, 87-88 Vespucci, Amerigo, 14, 48 Vice, Sue, 51, 109 Vidal-Naquet, Pierre, 80, 90 Voltaire, 115
Taormina, Barbara, 95, 102 Tassani, Giovanni, 62 Teuwsen, Peer, 31 Todorov, Tzvetan, 74 Toran, Rosa, 84 Traverso, Enzo, 76, 79
Young, James, 48
Wajcman, Gérard, 45 Weil, Nicolas, 31-32 White, Hayden, 21, 80-81 Whitehead, Anne, 46-47, 53, 91 Wiesel, Elie, 13, 24, 28, 40, 43, 47, 49, 79, 95 Wieviorka, Annette, 15, 20-21, 23, 25, 37, 52, 60-61, 63-67, 69-70, 73-75, 79, 98, 100 Wigmore, Barry, 94 Wilkomirski, Binjamin, 7, 1121, 23, 26-43, 45-49, 51-56, 59-61, 67, 74-75, 79, 82, 85-87, 90-92, 94, 97-101, 106, 108116
Zakim, Leonard, 95 Zapatero, José Luis, 82, 85 Zundel, Ernst, processo, 26
Finito di stampare da Legoprint - Lavis (TN) Dicembre 2010