378 23 2MB
Italian Pages 441 [459] Year 2017
Martin Heidegger Concetti fondamentali della filosofia aristotelica A cura di Mark Michalski Edizione italiana a cura di Giovanni Gurisatti
Adelphi eBook
TITOLO ORIGINALE:
Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata Prima edizione digitale 2017 © 2002 VITTORIO KLOSTERMANN GMBH FRANKFURT AM MAIN © 2017 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it ISBN 978-88-459-7867-8
AVVERTENZA DEL CURATORE DELL’EDIZIONE ITALIANA
Il corso sui Concetti fondamentali della filosofia aristotelica – di cui il presente volume riporta le trascrizioni eseguite a lezione dagli studenti e una parte del manoscritto originale di Heidegger –,1 fu tenuto da Heidegger nel semestre estivo del 1924 presso la Philipps-Universität di Marburgo, dal 1° maggio al 31 luglio, e costituisce il vol. XVIII della Gesamtausgabe heideggeriana.2 In un primo momento Heidegger aveva annunciato un corso su Agostino, poi però optò per Aristotele, autore sui cui già dal 1922 progettava di scrivere un libro. Alle lezioni – tenute dalle sette alle otto del mattino – parteciparono, oltre ai «trascrittori» eccellenti (Walter Bröcker, Fritz Schalk, Gerhard Nebel, Helene Weiß, Jacob Klein), anche alcuni tra i più celebri allievi di Heidegger presenti a Marburgo, HansGeorg Gadamer, Hannah Arendt, Hans Jonas, Leo Strauss, Joachim Ritter, Karl Löwith, tutti autori sulla cui opera la figura di Aristotele – probabilmente proprio via Heidegger – lasciò un segno profondo. Nei dieci anni che separano la pubblicazione, nel 1916, della tesi di libera docenza (La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto), dall’uscita, nel 1927, di Essere e tempo,3 Heidegger, dapprima a Friburgo (dal 1919 al 1923), poi a Marburgo (dal 1923 al 1928), si dedica esclusivamente all’insegnamento, confrontandosi, nei suoi corsi e seminari, soprattutto con l’opera di Husserl e, appunto, di Aristotele, di cui egli si appropria in modo – come ebbe a scrivere Franco Volpi – tanto vorace (poiché la assimila) quanto rapace (poiché la riformula pro domo sua in termini ontologici), sicché «la via che porta a Essere e tempo si presenta lastricata dal confronto quasi continuo con Aristotele e lo stesso opus magnum riflette i motivi di quel
confronto al punto che si può dire, con una formulazione provocatoria, che esso sia una “versione” in chiave moderna dell’Etica Nicomachea».4 I fatti sembrano confermare questa idea: già a Friburgo, in qualità di assistente di Husserl, Heidegger dedica ad Aristotele i corsi del semestre invernale 1921/22 (Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica), del semestre estivo 1922 (Interpretazione fenomenologica di scritti scelti di Aristotele su ontologia e logica) e del semestre estivo 1923 (Ontologia. Ermeneutica della effettività),5 ed è in virtù di una brillante sintesi della propria interpretazione di Aristotele (Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Indicazione della situazione ermeneutica), approntata nel 1922 e inviata a Paul Natorp, che egli ottiene la nomina di professore alla Philipps-Universität di Marburgo. In questa sede, tra gli altri corsi che contengono ampi riferimenti e motivi aristotelici, spiccano, oltre al corso sui Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, il corso del semestre invernale 1924/25 sul Sofista di Platone, la cui prima parte è interamente dedicata ad Aristotele, e quello del semestre estivo del 1926 su I concetti fondamentali della filosofia antica, concludentesi con una vera e propria trattazione monografica del pensiero dello Stagirita. Ma è sufficiente ripercorrere l’elenco dei seminari tenuti da Heidegger tra il 1921 e il 1928 per constatare l’insistenza con cui egli ritorna su celebri opere aristoteliche come il De anima, la Fisica e, soprattutto, l’Etica Nicomachea.6 Infine, sappiamo che egli, su invito di Max Scheler, e sotto gli auspici della Società Kantiana, nel dicembre del 1924 tenne in varie città della Ruhr una conferenza dal titolo eloquente: Esserci ed esservero secondo Aristotele. Interpretazione del libro VI dell’«Etica Nicomachea». Del resto, «che proprio Aristotele abbia in genere qualcosa da dire, che cioè proprio Aristotele venga scelto, e non Platone, Kant o Hegel, che dunque a lui spetti una posizione di preminenza all’interno non solo della filosofia greca, ma dell’intera filosofia occidentale»,7 è il
primo indispensabile presupposto del suo insegnamento che Heidegger stesso enuncia in apertura del corso contenuto nel presente volume. Non v’è dubbio quindi che la riflessione sulla concettualità aristotelica costituisca per Heidegger il terreno fecondo per l’elaborazione della propria stessa concettualità poi sviluppata in Essere e tempo, il cui radicamento nel corso del 1924 è profondo e capillare. Basti pensare alla forza con cui egli sottolinea già qui la peculiarità del Da-sein umano, ovvero di quell’esser-ci dell’uomo «nel mondo», che gli consente non solo di conoscerlo in termini teoretici, ma anche di esistere in esso in termini pratici – di essere cioè un ente «che si prende cura del suo essere», ovvero un ente per il quale «l’essere, di cui in ultima analisi ne va, può essere solo il suo essere».8 «Esserci» afferma Heidegger anticipando la Jemeinigkeit di Essere e tempo «è sempre: io sono, non un ente che è, bensì un ente che io sono».9 È noto che per i greci – e per lo stesso Aristotele – la possibilità fondamentale radicale dell’esserci umano come «essere nel mondo», la sua più autentica ἐντελέχεια, sta nel βίος θεωρητικός, cioè nella teoresi, nella contemplazione pura e nel λόγος in quanto parlare con il mondo, del mondo, rivolgendosi a esso tramite un esprimersi eccellente che è ὁρισμός, definizione concettuale, constatativa, descrittiva, oggettivante, che ci pone di fronte il mondo in quanto mondo, in quanto qualcosa di stabilmente presente e identico a se stesso: λέγειν τι κατά τινος. Nondimeno, il mero prendere conoscenza senza alcun genere di scopo pratico è, per Aristotele come per Heidegger, soltanto una delle possibilità dell’esserci, così come il dire concettuale è solo una delle possibilità del discorso. Heidegger, quindi, traendola dal libro VI dell’Etica Nicomachea, sottolinea la definizione di «esserci dell’uomo» in quanto ζωὴ πρακτική τις τοῦ λόγον ἔχοντος,10 «vita, e precisamente πρακτική, di un ente che ha il linguaggio»,11 e in base a ciò tende a sovvertire la gerarchia aristotelica nella
direzione di quel primato (e di quella ulteriorità) della πρᾶξις e della vita sulla θεωρία e sulla conoscenza che costituirà il fulcro ermeneutico di Essere e tempo. Se infatti il modo proprio dell’uomo è la πρᾶξις, e il suo τέλος sta nell’uomo medesimo, in quanto sua possibilità di essere, allora il suo bene e compimento peculiare è la vita stessa, concepita nel senso dell’«essere nel mondo» μετὰ λόγου, in modo tale che in esso si parli. Rispetto a questa prospettiva, ormai consolidata nell’esegesi heideggeriana, la novità e l’interesse rappresentati dai Concetti fondamentali della filosofia aristotelica sta nella svolta che Heidegger, a un certo punto del corso, imprime alle sue lezioni, spostandosi a sorpresa dall’Etica Nicomachea alla Retorica: a suo parere, infatti, il senso ontologico della Retorica aristotelica – non riducibile a un manuale scolastico di tecnica oratoria – è quello di porci di fronte a un’interpretazione dell’esserci nel modo concreto del suo essere nella quotidianità, la quale si presenta, anzitutto, come Miteinandersein, «essere l’uno con l’altro», «essere assieme» degli uomini, κοινωνία ontologicamente costitutiva della vita stessa, e del Dasein al suo interno.12 I celebri parr. 25-27 di Essere e tempo, dedicati a luci e ombre del Mit-sein intersoggettivo, trovano qui il loro senso e la loro origine. Mentre però in Essere e tempo Heidegger sottolinea soprattutto gli elementi difettivi, deiettivi, quindi negativi, del Mit-sein, culminanti in quella «dittatura» del Si (Man) quotidiano (la medietà e il livellamento della dimensione pubblica) che impedisce al Dasein di essere autenticamente («singolarmente») se stesso, nel corso marburghese del 1924 prevalgono gli elementi positivi della κοινωνία politica, il che consente una rilettura critica dello stesso opus magnum heideggeriano. Sempre su base aristotelica, e sempre nell’intenzione di accentuare la via alternativa al βίος θεωρητικός, Heidegger evidenzia la sinergia elettiva, ontologicamente cooriginaria, tra ζῷον πολιτικόν e ζῷον λόγον ἔχον, «essere assieme» (avere-πόλις) ed «essere
parlante» (avere-λόγος) dell’esserci umano, là dove cioè il λόγος non è più un monologo teoretico con il mondo, ma un dialogo pratico tra gli uomini, ovvero espressione, comunicazione, interazione linguistica. Certo la Grecia di Aristotele non è la Germania di Heidegger – nei difficili anni di Weimar –, ma ciò non toglie che la κοινωνία politica e discorsiva costituisca la possibilità ontologica eccellente dell’uomo, la determinazione fondamentale etico-pratica del suo essere nel mondo in quanto avere in comune lo stesso mondo. Ora, tenuto conto che, secondo Heidegger, per Aristotele «la politica, in quanto dimestichezza con l’essere dell’uomo nella sua autenticità – ἡ περὶ τὰ ἤθη πολιτική –13 è etica»,14 e che l’ἦθος, in quanto comportamento eccellente dell’uomo nel mondo, con gli altri e con se stesso, è anzitutto un ἦθος discorsivo e interattivo, non potrà sorprendere la centralità ermeneutica della «retorica», non come competenza tecnica e disciplina formale accessoria – né tantomeno come sofistica –, ma come cerniera etico-ontologica tra essere l’uno con l’altro (politica) e parlare l’uno con l’altro (discorso): «La retorica non è una τέχνη autonoma, ma si colloca in seno alla politica: il modo eccellente di essere nell’essere l’uno con l’altro consiste nel parlare l’uno con l’altro».15 La specificità e la differenza dell’ente umano (il Dasein) rispetto all’ente non umano (ad esempio gli animali) – cruciale in Essere e tempo – sta anzitutto in questo, che mentre anche l’animale possiede ϕωνή, voce, per lanciare segnali e avvertimenti di piacere o di dolore circa il mondo, solo l’uomo, in virtù del λόγος, può non soltanto parlare «del» mondo in quanto mondo, scoprendolo, mostrandolo e constatandolo in termini oggettivi, teoretici, ma può anche valutarlo, giudicarlo, esaminarlo «con altri» in termini dialogici, pratici, discutendone (e decidendone) «l’uno con l’altro» il bene e il male, il giusto e l’ingiusto – la qual cosa è costitutiva dell’umana autenticità dell’esserci stesso. Una comunità e pubblicità di λόγος e mondo, questa, che può degenerare, nella quotidianità, nel «si» pensa, «si» dice,
«si» decide, fondato nella δόξα, ovvero in quella «opinione pubblica» in cui il mondo e l’esserci appaiono sempre già interpretati. Anticipando alla lettera il celebre par. 35 di Essere e tempo con i suoi corollari, Heidegger, negli elementi di pre-disponibilità, pre-visione e pre-cognizione intrinseci al λόγος come δόξα, vede la genesi possibile di quella «chiacchiera» (Gerede) nella quale la comunicazione autentica si ribalta in mero «spargersi di voce», l’essere ridetto ad altri senza riferimento concreto alla cosa di cui si parla finisce per nascondere, occultare, simulare la verità, fuorviando e ingannando gli interlocutori: «I greci vivevano nel discorso [...] se il discorso è la possibilità autentica dell’esserci, nella quale l’esserci stesso ha luogo concretamente e per lo più, allora proprio il parlare costituisce anche la possibilità, in cui l’esserci si impiglia, che l’esserci mostri una peculiare tendenza a disperdersi nell’“innanzitutto”, nella moda e nella chiacchiera, per lasciarsene guidare. Questo processo della vita, di disperdersi nel mondo, in ciò che è abituale, di decadere nel mondo in cui si vive, è diventato per i greci, appunto tramite il linguaggio, il pericolo fondamentale del loro esserci. Ne è la prova l’esistenza della sofistica».16 Questo passo non si limita a stabilire una manifesta connessione tra la riflessione del 1924 sulla Retorica e quella sviluppata in Essere e tempo – così come tra la Grecia di Aristotele e la Germania di Heidegger –, ma consente di cogliere la crucialità etico-ontologica del «parlare assieme» nella κοινωνία in modo addirittura superiore a quanto non accada nell’opera del 1927. Nel corso del 1924, infatti, la retorica sta al parlare autentico come la sofistica a quello inautentico, cioè alla chiacchiera, e il «retore» – ovvero colui che parla e discute nel «Ci» dell’assemblea popolare, del tribunale, della cerimonia solenne ecc. – diventa un prototipo del Dasein stesso, della sua autointerpretazione nella specifica situazione, o situatività della sua πρᾶξις discorsiva, formativa e performativa. In un ambito in cui, diversamente da quello teoretico-scientifico, le cose possono anche «essere
altrimenti», si parla e si dibatte pro et contra qualcosa, ci si forma un’opinione, si assume un ἦθος, si decide un agire, e così via. In questa concettualità nulla è «dimostrabile», quindi tutto può – e deve – essere discusso, nello hic et nunc (ovvero: nel καιρός) della vita stessa: «La vita non ne sa di se stessa al modo della scienza, in termini teoretici, poiché quest’ultima è solo una possibilità eccellente. La δόξα è il modo in cui la vita ne sa di se stessa».17 È questa la verità ontologico-pratica della retorica. Perciò, pur prendendo le mosse da una questione apparentemente astratta e disciplinare come quella della concettualità scientifica e filosofica, i Concetti fondamentali della filosofia aristotelica sfociano in una fenomenologia estremamente concreta e dettagliata – non più ripresa, in questi termini, da Heidegger – della prassi discorsiva e ‘prossemica’ vissuta dell’esserci umano nella sua quotidianità. Ed è qui che possiamo assistere alla nascita, nel lessico e nel pensiero heideggeriani, del concetto «esistenziale» di Befindlichkeit, che, assieme al Verstehen (comprensione) e alla Rede (discorso), in Essere e tempo (parr. 29, 30, 40, 68 b) comparirà come una delle determinazioni esistenziali cooriginarie e costitutive dell’esserci. La sinergia assimilatrice e ontologizzante di Heidegger con il testo di Aristotele è manifesta: Befindlichkeit (un neologismo che non trova riscontro nel vocabolario tedesco, e che Heidegger costruisce in base alle forme riflessive dei verbi finden, sich finden, «trovarsi, situarsi, esserci», e befinden, sich befinden, «trovarsi», ma anche «sentirsi [bene/male]», «stare in un certo modo») traduce infatti sia il concetto fondamentale aristotelico di διάθεσις, «disposizione, situazione (Lage)», «situazionalità (Gelegenheit)», sia quello di πάθος, «stato (Zustand)», sentirsi/trovarsi-situato (Befindlichkeit). Senza anticipare le analisi svolte nel corso, possiamo dire che la Befindlichkeit/διάθεσις evoca l’idea secondo cui l’uomo, nel suo «essere nel mondo», «si trova» e
«si sente» sempre già situato, posto, disposto (anzi esposto, gettato, geworfen) in una situazione o condizione che lo precede, come suo intrascendibile «Ci» (la finitezza del «Da» del Da-sein, in cui emerge il carattere «situato» della vita, la sua «situatività»). Al tempo stesso, questa διάθεσις trova la sua più immediata espressione nella Befindlichkeit come πάθος (passione, affezione, emozione, disposizione, condizione, situazione emotiva, stato emotivo, e in genere qualsiasi stato o condizione di passività), là dove cioè massimamente evidente appare il carattere, ancora, «situato», «pàtico», passivo e ricettivo, opaco e condizionato, dell’esistenza. Si potrebbe dire quindi che la Befindlichkeit come διάθεσις è la quintessenza e condizione ontologica della Befindlichkeit come πάθος (con cui però non si identifica tout court): «Per Heidegger» scrive Franco Volpi con riferimento al corso del 1924 «lo stare in una determinata disposizione emotiva, il sentirvisi situato, [è] costitutivo dell’esserci. Ciò implica una messa in questione del tradizionale privilegio accordato agli atti intellettivi superiori, e suggerisce l’idea che siano costitutivi dell’uomo, allo stesso titolo della ragione, anche gli elementi “inferiori”, quali la sensibilità, le affezioni e le passioni, elementi di cui la Befindlichkeit è, nella struttura dell’esserci, la condizione ontologica di possibilità».18 La situatività ontologica del Dasein si dà (anche) come πάθος, il πάθος è (sempre) espressione di un sentirsi-situati, una situatività. C’è però da osservare che Heidegger, trattando dei πάθη, non rinuncia a ribadire il primato della coscienza pratica (cioè della coscienza come ϕρόνησις) sulle passioni e sugli affetti. È questo il nucleo etico sia della Retorica sia dei Concetti fondamentali, che stenterà a riaffiorare, in questi specifici termini, in Essere e tempo. È ben vero infatti che il πάθος (ad esempio l’ira, l’amore, la paura, l’angoscia, la pietà) è quella situazione, situatività, affectio patico-passiva in cui «perdiamo il controllo», siamo fuori di noi – esposti e gettati nel mondo della nostra corporeità (il σῶμα
psicofisico, altra dimensione praticamente assente in Essere e tempo) –, ma è anche vero che a questa catastrofe psicosomatica l’uomo etico, il saggio (il ϕρόνιμος) deve saper far fronte con la ἕξις προαιρετική, la «capacità di decidere» (la risolutezza, Entschlossenheit)19 con mente lucida, serena, calma e autocontrollata. Per Aristotele come per Heidegger, il Dasein umano – a differenza, anche qui, dall’ente animale, che è ontologicamente sempre «stordito (benommen)» nella cerchia dei suoi istinti e delle sue passioni –20 non deve subire passivamente i πάθη (quindi la Befindlichkeit in senso lato), ma stare all’erta ed essere pronto (ἕξις) nel καιρός del loro scatenarsi. In ciò consiste l’ἀρετή, la virtù eticoontologica, dell’esserci. Si apre qui, celato nel concetto di ἕξις, lo scenario affascinante – latente, in questi termini, in Essere e tempo – di una ϕρόνησις che è anzitutto prendersi cura dell’esserci che si prende cura del mondo, ovvero prendersi cura di se stessi, per formare (bilden, nel senso della Bildung) il proprio ἦθος (carattere e comportamento) nel mondoambiente, nel mondo del Sé e nel mondo degli altri. Il risultato pratico di tale autoetopoiesi – che segue il filo conduttore della virtù della μεσότης delineata nell’Etica Nicomachea («Ciò che importa» afferma Heidegger «è formare l’essere dell’uomo in modo tale che esso acquisisca la capacità di tenere il giusto mezzo») –21 è un uomo posato, moderato, opportuno, saldo e padrone di sé, tanto circospetto e avveduto nel parlare quanto giusto e prudente nell’agire. Un uomo, insomma, che tramite la riflessione e la ripetizione è giunto a porre se stesso nella situazione virtuosa eccellente – cioè autentica – di decidere e decidersi risolutamente nell’attimo, senza farsi condizionare dalle «passioni»: ἀρετή è essere pronto nel potersi decidere in modo giusto, distaccato e oggettivo. Inautentico, invece, è lasciare che siano le passioni a decidere, il che accade, innanzitutto e per lo più, nel mondo del Si, della chiacchiera, dell’animalitas del gregge, dell’indecisione e dell’incuria sui. Se è quindi corretto, dal punto di vista metodologico,
sottolineare – contro ogni eccesso di teoreticismo raziocinante – il carattere costitutivo della Befindlichkeit nell’uomo, va anche detto, con altrettanta chiarezza, che, alla luce dei Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, l’ἦθος del Dasein consiste principalmente nel contrastare, con ragionevole coscienza e risolutezza, tale Befindlichkeit – l’essere cioè preda dei πάθη, sia quando si conosce (si fa scienza) sia quando si agisce (si fa prassi). Se può esservi primato delle affezioni sulla ratio teoretica, non deve esservi primato delle affezioni sulla ragionevolezza pratica, la capacità di decidere e dominare le passioni. Emerge qui il carattere paradigmatico e prototipico del «retore», evocato da Aristotele nella Retorica e ripreso da Heidegger nel corso del 1924, il quale, in contrasto con ogni accezione sofistica della retorica, si presenta tout court con lo habitus del ϕρόνιμος, del saggio, anzi del «parresiaste».22 Mentre infatti nel caso dell’ἐπιστήμη dello scienziato è relativamente indifferente «chi» la possiede, in quello della δόξα del retore hanno una rilevanza determinante sia il πάθος di chi ascolta, sia, tanto più, l’ἦθος (il carattere, l’atteggiamento, il comportamento, il modo di essere, la persona) di chi parla. L’oratore non deve solo dimostrare la giusta ϕρόνησις (circospezione, prudenza, avvedutezza), la giusta ἀρετή (serietà) e la giusta εὔνοια (benevolenza) nel suo λόγος, ma anche mostrare e testimoniare con la sua stessa persona l’ἀλήθεια del suo parlare, e ciò avviene, per l’appunto, nella misura in cui tutto il suo ἦθος psicosomatico rivela aleturgicamente la sua risoluta padronanza di sé, la sua ἕξις e la sua προαίρεσις. Si è detto che Heidegger non evoca qui il concetto di παρρησία, eppure l’idea di fondo – sulla quale si conclude la parte dei Concetti fondamentali dedicata alla Retorica – è la stessa: in una κοινωνία necessariamente dominata dalla δόξα, l’unica possibilità di bene navigare consiste «nel disporre di una genuinità di comportamento nei confronti degli altri e di se stessi. Chi è contraddistinto da questo
genere di ἕξις è definito da Aristotele ἀληθευτικός,23 il che significa: disporre del proprio esserci privilegiandone l’essere-scoperto, condursi in modo tale che il comportarsi e l’essere con gli altri non sia un nascondersi, un occultarsi, mostrarsi per ciò che si è e per ciò che si pensa».24 Ci troviamo qui di fronte, come si vede, a una ἀλήθεια e a un ἀληθεύειν caratteristici non già, com’è preponderante nell’ontologia di Heidegger, del λόγος dell’Essere e dell’Esserci, bensì dell’ἦθος di quest’ultimo, il quale è ἀληθευτικός in quanto non solo parla, ma «ci» è, vive, agisce e si comporta – con saggezza – in modo scoperto, veritiero, franco, non simulato con se stesso e con gli altri: «Il non essere nascosti, lo scoperto essere orientati sia nell’“essere per se stessi” che nell’“essere per altri”, è caratterizzato dall’ἀλήθεια, più precisamente: dall’ἀληθεύειν in quanto ἕξις»,25 dunque dalla franchezza in quanto risolutezza, e viceversa. Una connessione, questa, tra ἕξις προαιρετική e ἀλήθεια, che – assente dall’incuria/deiezione quotidiana dove domina la Befindlichkeit – scaturisce a sua volta dalla cura rigorosa che il Dasein-retore ha di se stesso: «Nel darsi d’attorno nel mondo, nell’avere a che fare con altri uomini e nel dedicarsi a essi, l’esserci che agisce così si prende cura di se stesso, del suo essere. Esserci in quanto prendersi cura è cura di se stessi».26 Che cosa resta di tutto ciò in Essere e tempo? La questione è complessa, e non può essere affrontata qui. A parte, infatti, la rapace «ontologizzazione» cui Heidegger, in Sein und Zeit, sottopone le categorie pratiche aristoteliche analizzate nei Concetti fondamentali, rimane il fatto che in Essere e tempo la Entschlossenheit, la decisione e risolutezza del Dasein, al suo apice – che assume tonalità mistiche – è assai più quella del singolo Sé silenziosamente votato all’«essere per la morte» che quella dell’uomo pubblico, etico, che interloquisce verbalmente e interagisce praticamente con gli «altri». Tant’è che il primo passo del Dasein fuori dalla pubblicità inautentica del Si-stesso verso
l’ipseità autentica del Se-stesso scaturisce da quella Befindlichkeit dell’angoscia che, come primo effetto salutare, ha quello di sottrarre l’esserci al «mondo degli altri», isolandolo nel «mondo del sé» e aprendolo all’«esser-liberoper la libertà di scegliere e possedere se stesso [...] L’angoscia isola e apre l’esserci come solus ipse».27 Il Seinzum-Tode non fa che radicalizzare questa Befindlichkeit solipsistica. Tutto ciò che l’esserci compie di autentico lo compie nel silenzio, nell’isolamento e nella solitudine della sua più intima, gettata singolarità. Non v’è dubbio, quindi, che – complici probabilmente anche le circostanze storiche di accelerato degrado della politica tedesca negli anni Venti –, rispetto ai Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, Essere e tempo accentui assai più la dimensione del distacco che quella del coinvolgimento del Dasein nei confronti della sfera pubblica. Heidegger però – sia pure in termini abbastanza residuali – al cuore della sua ontologia non dimentica la lezione etica della Retorica aristotelica, poiché colui che la coscienza chiama a se stesso e alla cura di sé può, proprio in virtù di ciò, anche avere cura (Fürsorge) degli altri e divenire la loro coscienza, con il suo λόγος e il suo ἦθος, esattamente come accade con il retore-saggio di Aristotele. Insomma, la ἕξις προαιρετική autopoietica del Dasein nella Selbstwelt può avere anche uno sbocco eteropoietico nel Mitsein e nella Mitwelt, in quanto colui che è (già) autenticamente per il proprio essere «aiuta l’altro a divenire trasparente nella propria cura e libero per essa».28 In termini ancora più precisi e «collettivi»: «La decisione, in quanto autentico esser-se-Stesso, non scioglie l’Esserci dal suo mondo, non lo isola in un io ondeggiante nel vuoto [...] La decisione per se stesso pone l’Esserci nella possibilità di far “essere” gli altri che ci-sono-con nel loro poter-essere più proprio [...] L’Esserci che ha deciso può divenire la “coscienza” degli altri. Soltanto dall’esser se-Stesso autentico nella decisione scaturisce l’essere-assieme autentico».29 Il ricorrere, in questi passaggi, del termine
Entschlossenheit (decisione, προαίρεσις), connesso con quello di Gewissen (coscienza, ϕρόνησις) richiama direttamente il contesto dell’Etica, della Politica e della Retorica aristoteliche così come sono affrontate nel corso del 1924. Solo in base a una risoluta e cosciente interattività e intersoggettività etica, infatti – che rievoca il nesso intrinseco tra retorica e politica, ζῷον πολιτικόν e ζῷον λόγον ἔχον, evidenziato nei Concetti fondamentali – può sorgere per Heidegger quell’«impegnarsi in comune per la medesima causa» in cui consiste ogni autentica κοινωνία,30 una κοινωνία che nel celebre par. 74 di Essere e tempo assumerà i tratti marcati di una comunità di popolo vincolata da un destino comune per il quale decidersi.31 Heidegger, come si sa, non volle scrivere un’etica. Essere e tempo è il luogo in cui la estrapolazione dei concetti fondamentali di Aristotele dal contesto della filosofia pratica e la loro trasformazione in altrettante categorie ontologiche si presentano compiute. Non a caso, dopo l’intenso attraversamento della Retorica, nell’ultima parte del corso del 1924, interpretando ora la πρᾶξις come κίνησις τοῦ βίου, «movimento» specifico della vita umana («la κίνησις costituisce l’autentico “carattere di ‘Ci’” dell’essere»),32 Heidegger torna alla Fisica, identificando nel confronto critico con la κίνησις aristotelica il passaggio cruciale per porre il suo problema, quello dell’essere e del suo rapporto con la temporalità: «Un’indagine eccellente, che non si limita ad approfondire l’ente nelle sue determinazioni concrete, ma pone in luce le prospettive di fondo, è guidata dalla domanda: τί τὸ ὄν? “Che cos’è l’ente in quanto ente? Che cos’è l’essere?”».33 La Seinsfrage diventa la questione del pensiero. C’è da chiedersi tuttavia fino a che punto una tale radicale ontologizzazione dell’etica (aristotelica) non finisca per risolversi in una sorta di rimozione dell’etica stessa, con la sua peculiare problematica. I Concetti fondamentali della filosofia aristotelica sono il luogo di soglia (il passage) in cui
il processo di ontologizzazione-rimozione dell’etica in Heidegger è ancora in fieri, e ci consentono quindi – forse più di ogni altro corso similare – di coglierne l’effettiva portata teoretica e pratica per la maturazione del suo straordinario cammino filosofico. La presente edizione riprende in toto i criteri editoriali stabiliti dal Curatore tedesco,34 distaccandosene solo in un punto, per ragioni di uniformità con gli altri volumi dell’edizione adelphiana delle opere di Heidegger: le locuzioni ricorrenti che nel testo tedesco compaiono scritte con trattini (ad esempio In-der-Welt-sein, essere-nel-mondo) sono state sempre poste tra virgolette senza trattini («essere nel mondo»). Nel testo, tra parentesi quadre, compaiono tutte le interpolazioni operate da Heidegger all’interno di citazioni e traduzioni aristoteliche. Gli interventi del Curatore tedesco – che abbiamo in parte semplificato – sono riportati in nota introdotti dalla dicitura Nota del Curatore dell’edizione tedesca, mentre gli interventi del Curatore italiano figurano in nota tra parentesi quadre. Un particolare ringraziamento va a Maddalena Buri che ha seguito con premura ineccepibile ogni fase della messa a punto redazionale del volume.
1. Si veda sotto, la Nota del Curatore dell’edizione tedesca. 2. M. Heidegger, Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie, a cura di M. Michalski, in Gesamtausgabe, Klostermann, Frankfurt a. M., vol. XVIII, 2002. 3. L’inizio tematico della elaborazione di Essere e tempo è collocabile tra il 1921 e il 1923, il manoscritto era pronto nel 1925, mentre la redazione definitiva per la stampa ebbe inizio solo nell’aprile del 1926, e durò un anno. 4. F. Volpi, L’etica rimossa di Heidegger, in «MicroMega», 2, 1996, p. 141.
5. Scrive Heidegger nella Prefazione al volume, riferendosi al corso: «Compagno di ricerca è stato il giovane Lutero e modello Aristotele che quello odiava. Alcune scosse le diede Kierkegaard e gli occhi me li ha aperti Husserl» (M. Heidegger, Ontologie. Hermeneutik der Faktizität, a cura di K. Bröcker-Oltmanns, Klostermann, Frankfurt a. M., 1988, p. 5; ediz. it. Ontologia. Ermeneutica della effettività, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli, 1992, p. 13). 6. L’elenco completo dei seminari è contenuto in Guida a Heidegger, a cura di F. Volpi, nuova ediz., Laterza, RomaBari, 2005, pp. 328-32. 7. Si veda sotto, 2. I presupposti dello scopo filologico. Delimitazione del modo in cui trattiamo la filosofia. 8. Si veda sotto, II. LA DEFINIZIONE ARISTOTELICA DELL’ESSERCI DELL’UOMO IN QUANTO ΖΩΗ ΠΡAΚΤΙΚΗ NEL SENSO DI UNA ΨϒXΗΣ ΕΝΕΡΓΕΙA e 12. Prosecuzione dell’analisi dell’ἀγαθόν. 9. Si veda sotto, 20. Il πάθος in quanto ἡδονή e λύπη 10. Eth. Nic. A 6, 1098 a 3 sg. 11. Si veda sotto, II. LA DEFINIZIONE ARISTOTELICA DELL’ESSERCI DELL’UOMO IN QUANTO ΖΩΗ ΠΡAΚΤΙΚΗ NEL SENSO DI UNA ΨϒXΗΣ ΕΝΕΡΓΕΙA. 12. Il debito nei confronti di Aristotele è esplicitato da Heidegger nel par. 29 di Essere e tempo: «Aristotele analizza i πάθη nel secondo libro della Retorica. L’interpretazione tradizionale presenta la retorica come una sorta di “disciplina”; essa deve invece essere intesa come la prima ermeneutica sistematica dell’essere-assieme quotidiano» (Sein und Zeit, a cura di F.-W. von Herrmann, in Gesamtausgabe, cit., vol. II, 1977, p. 184; trad. it. Essere e tempo, nuova ediz. a cura di F. Volpi sulla vers. di P. Chiodi, Longanesi, Milano, 2005, p. 172). 13. Rhet. A 4, 1359 b 10 sg. 14. Si veda sotto, 10. L’esserci dell’uomo in quanto ἐνέργεια: l’ἀγαθόν. 15. Si veda sotto, 14. La definizione fondamentale della retorica e del λόγος stesso in quanto πίστις.
16. Si veda sotto, 13. L’essere-parlante in quanto poterascoltare e in quanto possibilità del decadimento. Il duplice senso dell’ἄλογον. 17. Si veda sotto, 15. La δόξα. 18. F. Volpi, Glossario, in M. Heidegger, Il concetto di tempo, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1998, s.v. «Befindlichkeit», pp. 62-63. È per questo che Volpi, qui come altrove, per la traduzione di Befindlichkeit si attiene alla formula più ampia di «sentirsi situato» (o «situatività»), rispetto a quella più ristretta, già psichicamente marcata, di «situazione emotiva». Per questa accezione non psichica della Befindlichkeit si veda sotto, in part. 14. La definizione fondamentale della retorica e del λόγος stesso in quanto πίστις, 17. La ἕξις e 18. Il πάθος. I suoi significati generali e il suo ruolo nell’esserci umano). 19. Concetto centrale in Essere e tempo (cfr. in part. i parr. 60 e 62), la Entschlossenheit è un modo d’essere e una possibilità eccelsa dell’esserci in risposta alla «chiamata» della coscienza (Gewissen, che in Heidegger traduce il concetto aristotelico di ϕρόνησις), e che si concretizza sia nel singolo atto di decisione (Entscheidung), sia nello habitus, appunto, della «risolutezza», traducendo a sua volta il concetto aristotelico di προαίρεσις. 20. Su ciò si veda il corso del 1929/30, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, a cura di F.-W. von Herrmann, in Gesamtausgabe, cit., vol. XXIX-XXX, 1983, in part. pp. 344 sgg.; ediz. it. Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, a cura di C. Angelino, trad. it. di P. Coriando, il melangolo, Genova, 1983, in part. pp. 302 sgg. 21. Si veda sotto, 17. La ἕξις. 22. Il concetto di παρρησία (libertà di parola, sincerità di linguaggio, franchezza, apertura di cuore), non tematizzato esplicitamente da Heidegger, compare non nella Retorica, ma nell’Etica Nicomachea: «È necessario che [il magnanimo] mostri apertamente sia la sua inimicizia sia la sua amicizia: tenerle nascoste, infatti, è cosa da paurosi. Ed è necessario
che si preoccupi più della verità (ἀλήθεια) che dell’opinione, e che parli e agisca apertamente (ϕανερῶς): infatti è schietto (παρρησιαστής) perché non guarda in faccia a nessuno. E per lo stesso motivo è anche veritiero (ἀληθευτικός)» (Eth. Nic. Δ 3, 1124 b 26-29). 23. Eth. Nic. Δ 13, 1127 a 24. 24. Si veda sotto, 22. Integrazioni alla spiegazione dell’esserci in quanto «essere nel mondo». 25. Si veda sotto, 22. Integrazioni alla spiegazione dell’esserci in quanto «essere nel mondo». 26. Si veda sotto, 17. La ἕξις. 27. M. Heidegger, Sein und Zeit, cit., par. 40, pp. 249-50; trad. it. cit., pp. 229-30. 28. Ibid., par. 26, p. 163; trad. it. cit., p. 153. 29. Ibid., par. 60, p. 395; trad. it. cit., p. 355. 30. Ibid., par. 26, p. 163; trad. it. cit., p. 154. 31. Cfr. ibid., par. 74, p. 508; trad. it. cit., p. 453. 32. Si veda sotto, 25. La «Fisica» aristotelica in quanto indagine sull’ἀρχή. Indicazioni orientative sui primi due libri. 33. Si veda sotto, 25. La «Fisica» aristotelica in quanto indagine sull’ἀρχή. Indicazioni orientative sui primi due libri. 34. Si veda sotto, Nota del Curatore dell’edizione tedesca.
CONCETTI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ARISTOTELICA
I IL TESTO DEL CORSO IN BASE ALLE TRASCRIZIONI DEGLI STUDENTI
INTRODUZIONE
LO SCOPO FILOLOGICO DEL CORSO E I SUOI PRESUPPOSTI
1. Lo scopo filologico del corso: considerazione di alcuni concetti fondamentali della filosofia aristotelica nella loro concettualità Lo scopo del corso è di pervenire alla comprensione di alcuni concetti fondamentali della filosofia aristotelica, prestando massima attenzione al testo delle opere di Aristotele. Concetti fondamentali – non tutti, bensì alcuni, dunque probabilmente i capisaldi di ciò di cui si occupa l’indagine aristotelica. Preferiamo operare una selezione, dato che dello stesso Aristotele ci è tramandato uno scritto che consiste unicamente di definizioni di tali concetti fondamentali, e che la tradizione chiama libro V della Metafisica. Non potremo tuttavia approfittare di questa favorevole opportunità finché non saremo in grado di comprendere così come hanno compreso gli allievi di Aristotele. Per dare un’idea provvisoria di quali concetti fondamentali si tratta ne fornisco un elenco: il capitolo 1 tratta dell’ἀρχή, 2. αἴτιον, 3. στοιχεῖον, «elemento», 4. ϕύσις, 5. ἀναγκαῖον, la «necessità» in quanto determinazione dell’essere, 6. ἕν, 7. ὄν, 8. οὐσία, «esserci», 9. ταὐτά, l’«identità», 10. ἀντικείμενα, «essere altro», 11. πρότερα e ὕστερα, in senso non solo temporale, ma anche materiale: in senso materiale, πρότερον come ritornare all’«origine» (γένος), ὕστερον come «ciò che sopraggiunge più tardi», συμβεβηκός per esempio, 12. δύναμις, 13. ποσόν, «quanto», categoria della «quantità», 14. ποιόν, «qualità», 15. πρός τι, «in relazione a», 16. τέλειον, ciò che si determina nel suo «essere finito», «finitezza», ente in quanto «ciò che è finito», 17. πέρας, 18. τὸ καθό, «ciò che è in se stesso», 19. διάθεσις, «disposizione», «situazione»,
«situazionalità», 20. ἕξις, l’«avere in sé», l’«essere posti così e così» nei confronti di qualcosa, 21. πάθος, «stato», «sentirsi situato», 22. στέρησις, la determinazione dell’ente che si compie in ciò che esso non ha; la στέρησις, il «non avere», determina un ente in modo del tutto positivo; il fatto che esso non sia questo e quello dischiude il suo essere, 23. ἔχειν, 24. ἐκ τινος εἶναι, «ciò da cui qualcosa nasce o di cui consiste», 25. μέρος, «parte» nel senso dell’elemento, 26. ὅλον, l’«intero», 27. κολοβόν, «ciò che è mutilato», 28. γένος, «origine», «provenienza», 29. ψεῦδος, 30. συμβεβηκός, ciò che «si aggiunge a qualcosa», ciò «che è lì con esso».35 Bisogna esaminare il terreno da cui nascono e si sviluppano questi concetti fondamentali, e il modo in cui ciò avviene, dobbiamo cioè considerarli nella loro specifica concettualità, chiedendoci come sono viste le cose stesse che essi intendono, a qual fine ci si rivolge a esse, in che maniera sono determinate. Se applichiamo questi punti di vista alla questione giungeremo al contesto di ciò che intendiamo con «concetto» e «concettualità». I concetti fondamentali vanno compresi in riferimento alla loro concettualità, e precisamente con lo scopo di gettare uno sguardo sui requisiti fondamentali di qualsiasi indagine scientifica. Non offriamo qui una filosofia, e tantomeno una storia della filosofia. Se filologia significa passione per la conoscenza di ciò che è espresso in parole, allora ciò che facciamo qui è filologia. Su Aristotele, la sua filosofia e il suo sviluppo troverete tutto nel libro del filologo classico Jaeger.36 Egli ha il merito di avere enunciato esplicitamente (in un precedente scritto sulla Metafisica di Aristotele)37 l’idea, peraltro già diffusa assai prima di lui, secondo cui gli scritti di Aristotele non sarebbero libri, bensì riassunti di trattati che egli non ha pubblicato, ma si è limitato a esporre nelle sue lezioni, sicché conviene rinunciare fin da subito allo sforzo di fare un sol fascio delle 14 dissertazioni della Metafisica per vedervi la presentazione unitaria del «sistema» aristotelico. Della
personalità di un filosofo ci interessa soltanto questo: nacque quel tal giorno, lavorò e morì. Non ci soffermeremo dunque sulla figura del filosofo e cose simili.38
2. I presupposti dello scopo filologico. Delimitazione del modo in cui trattiamo la filosofia Il corso non ha nessuna finalità filosofica, si tratta solo di comprendere alcuni concetti fondamentali nella loro concettualità. La finalità è filologica, e intende dare un po’ più di spazio all’esercizio del leggere i filosofi. Ovviamente, un simile intento è soggetto a una quantità di presupposti tali da far sorgere il dubbio: è mai possibile, in un corso universitario, imbarcarsi in un’operazione del genere? Presupposti: 1. che proprio Aristotele abbia in genere qualcosa da dire, che cioè proprio Aristotele venga scelto, e non Platone, Kant o Hegel, che dunque a lui spetti una posizione di preminenza all’interno non solo della filosofia greca, ma dell’intera filosofia occidentale; 2. che noi tutti non siamo ancora talmente progrediti da non lasciarci più dire nulla che, da un qualche punto di vista, non ci torna; 3. che la concettualità costituisca la sostanza di ogni indagine scientifica, che essa non sia una mera questione di perspicacia, vale a dire che colui che ha scelto la scienza si sia assunto la responsabilità del concetto (una cosa oggi caduta in disuso); 4. che la scienza non sia una professione, una forma di guadagno, un piacere, bensì la possibilità dell’esistenza dell’uomo, non sia qualcosa in cui ci si è imbattuti casualmente, ma rechi in sé determinati presupposti di cui però bisogna disporre nella misura in cui ci si muove seriamente nell’ambito di ciò che prende il nome di indagine
scientifica; 5. che la vita umana abbia in sé la possibilità di stabilirsi unicamente su se stessa, di cavarsela senza fede, senza religione e simili. 6. Un presupposto metodico: la fede nella storia nel senso che presupponiamo che la storia e il passato storico, purché sia loro aperta la strada, abbiano la possibilità di imprimere un urto a un presente o, meglio, a un futuro. Questi sei presupposti rappresentano una pretesa ambiziosa, ma alla fine non facciamo che produrre filologia. La filosofia se la passa meglio, oggi, nella misura in cui trae alimento dal presupposto fondamentale che tutto sia perfettamente in ordine. Per delimitare il modo in cui qui trattiamo di filosofia chiamo a testimone Aristotele stesso, giacché noi ci occupiamo, è vero, di filosofia, ma lo facciamo con lo scopo di istillare l’istinto per ciò che è scontato e l’istinto per ciò che è antico. Nel libro IV, capitolo 2, della Metafisica Aristotele opera una distinzione tra διαλεκτική, σοϕιστική e ϕιλοσοϕία,39 e commenta: «Σοϕιστική e διαλεκτική si muovono nell’ambito dei medesimi fatti della ϕιλοσοϕία»,40 però la ϕιλοσοϕία si distingue da entrambe nel modo di trattare, cioè nella maniera in cui affronta il medesimo oggetto – dalla διαλεκτική «nel modo della possibilità»,41 che essa pretende per sé. «La διαλεκτική fa solo il tentativo»42 di portare a conoscenza che cosa potrebbe essere inteso dai λόγοι, un διαπορεύεσθαι τοὺς λόγους, come dice Platone,43 ovvero un «rapido attraversamento» di ciò che potrebbe forse esservi inteso. È questo il senso della dialettica greca. Se confrontata con quella della filosofia, la δύναμις della διαλεκτική è limitata. Mentre però la διαλεκτική ha pur sempre a che fare con la cosa, cioè con la messa in luce di ciò che è inteso, la σοϕιστική parla della medesima cosa, e tuttavia essa «assomiglia soltanto» alla filosofia, «ma non lo è».44 È vero che la διαλεκτική procede seriamente, si tratta però solo della serietà del verificare per tentativi ciò che alla fine potrebbe essere inteso. È in questo senso che trattiamo
qui di filosofia, cioè verificando ciò che alla fine potrebbe essere inteso. Il fatto decisivo è che ci mettiamo provvisoriamente d’accordo su ciò che si intende per filosofia.45
35. Aristotelis Metaphysica, recognovit W. Christ, in aedibus B.G. Teubneri, Lipsiae, 1886, Δ 1-30, 1012 b 34 sgg. 36. W. Jaeger, Aristoteles. Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung, Berlin, 1923. 37. W. Jaeger, Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles, Berlin, 1912, pp. 131 sgg. 38. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 1. 39. Met. Γ 2, 1004 b 17 sgg. 40. Met. Γ 2, 1004 b 22 sg.: περὶ μὲν γὰρ τὸ αὐτὸ γένος στρέϕεται ἡ σοϕιστικὴ καὶ ἡ διαλεκτικὴ τῇ ϕιλοσοϕίᾳ. 41. Met. Γ 2, 1004 b 24: τῷ τρόπῳ τῆς δυνάμεως. 42. Met. Γ 2, 1004 b 25: ἔστι δὲ ἡ διαλεκτικὴ πειραστική. 43. Cfr. Platone, Sofista, 253 b 10. 44. Met. Γ 2, 1004 b 26: ϕαινομένη, οὖσα δ᾽ οὔ. 45. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 2.
PARTE PRIMA
AVVERTENZA PRELIMINARE SULLA FONDATEZZA DELLA CONCETTUALITÀ SULLA VIA DI UN’ESPLICAZIONE DELL’ESSERCI IN QUANTO «ESSERE NEL MONDO» ORIENTATA SUI CONCETTI ARISTOTELICI FONDAMENTALI
I ANALISI DELLA DEFINIZIONE IN QUANTO LUOGO DI ESPRESSIVITÀ DEL CONCETTO E RITORNO AL TERRENO DELLA DEFINIZIONE
3. La determinazione del concetto tramite la dottrina della definizione nella «Logica» di Kant Che cosa si intende per concetto ce lo insegna «la logica». Non esiste tuttavia «la logica», se con ciò vogliamo dire «la» logica. «La logica» è un prodotto della filosofia scolastica ellenistica, che rielaborò in modo pedante le indagini filosofiche del passato. Né Platone né Aristotele conoscevano «la logica». La logica, così come essa domina nel Medioevo, può essere definita un insieme di concetti e di regole assemblati in modo formalmente scolastico. I «problemi logici» traggono origine dall’orizzonte della comunicazione scolastica di questioni, senza alcun interesse per un confronto con le cose: ci si limita a trasmettere determinate possibilità tecniche. In tale logica si chiama definizione quel mezzo in cui il concetto assume la sua determinazione. Considerando la definizione potremo quindi appurare che cosa propriamente si intende con concetto e concettualità. Scegliamo di attenerci alla Logica di Kant per vedere che cosa si dice della definizione nel contesto di una vera indagine, l’unica dopo Aristotele. Kant è il solo a far vivere la logica. Quest’ultima, infatti, continua ad agire in tutta la sua consistenza tradizionale nella dialettica hegeliana, che è totalmente sterile, non essendo nient’altro che una rielaborazione del materiale logico tradizionale da determinati punti di vista. Se quindi andiamo a vedere ciò che Kant chiama «definizione» colpisce il fatto sorprendente che egli tratti
della definizione nel capitolo sulla Dottrina universale del metodo.46 La definizione appare come un’occasione metodica per acquisire la chiarezza della conoscenza. Kant ne parla collocandola tra i mezzi atti a incrementare la «chiarezza dei concetti in considerazione del loro contenuto».47 Tramite la definizione dev’essere aumentata la chiarezza dei concetti. Però anche la definizione è, al tempo stesso, un concetto: «La definizione non è nient’altro [...] che un concetto logicamente compiuto».48 Dunque, in fin dei conti, in base alla definizione non conosciamo che cos’è un concetto, quindi ci limitiamo ad attenerci a ciò che Kant stesso dice del concetto. Ogni intuizione, dice, è una repraesentatio singularis.49 Tuttavia il concetto è, sì, anch’esso una repraesentatio, un «render-si presente», ma a ben vedere è una repraesentatio per notas communes.50 Il concetto si distingue dall’intuizione per il fatto che esso è sì un rendere presente, però rende presente qualcosa che ha il carattere dell’universalità. Si tratta di una «rappresentazione universale».51 Come ciò sia da intendersi in termini più precisi, è detto da Kant con estrema chiarezza nell’Introduzione alla Logica: in ogni conoscenza bisogna distinguere materia e forma, «il modo in cui conosciamo l’oggetto».52 Un selvaggio, che non conosce l’a che di una casa, la vede in modo totalmente diverso da noi, ne ha cioè un «concetto» differente da quello che ne abbiamo noi, che la conosciamo bene. Egli vede lo stesso ente, ma gli manca la conoscenza dell’uso, quindi non sa che cosa farsene. Non si forma alcun concetto di casa.53 Noi invece, che ne conosciamo l’a che, in forza di ciò ci rappresentiamo qualcosa di universale. Conosciamo l’uso che se ne potrebbe fare, abbiamo cioè il concetto della casa. Il concetto mira a rispondere alla domanda su che cosa è l’oggetto. La concettualità e il senso del concetto dipendono quindi da come in generale si intende la domanda riguardante che cosa è qualcosa, da dove questa domanda trae origine. Nel carattere esplicito della definizione il concetto ci dà che cosa
l’oggetto, la res, è. È per questo che la definizione in senso proprio è la cosiddetta «definizione reale»,54 la quale determina che cos’è la res in se stessa. La definitio si compie stabilendo la differenza di genere e di specie. In questo contesto tale regola appare in un primo momento strana, dato che inizialmente non si capisce perché proprio il genere e la specie debbano determinare l’oggetto nel suo che cosa. Sorprendentemente però Kant afferma che è vero che la definizione reale ha il compito di determinare il che cosa della cosa in base al «fondamento primo» della sua «possibilità» – ovvero di determinare la cosa in base alla sua «possibilità interna» –,55 ma che la determinazione della definitio, in quanto realizzantesi tramite genus proximum et differentiam specificam, vale soltanto per le «definizioni nominali», che risultano per comparazione.56 Per la definitio della res questa determinazione non c’entra nulla. La posizione di Kant è caratterizzata da due elementi: 1. il fatto che la definitio viene discussa nella dottrina del metodo; 2. il fatto che egli determina la regola fondamentale della definitio in modo tale che essa non c’entra nulla per la definizione propriamente detta. In risposta, domanderemo a nostra volta ponendo la questione: come accade, di fatto, che la definitio determina l’ente nel suo essere? Com’è che una definitio, che è, in senso proprio, una conoscenza materiale, diventa una questione di compiutezza logica? In questa posizione di Kant nei confronti della definitio sta il destino dell’indagine aristotelica. Domandiamo quindi a nostra volta: la definitio è ὁρισμός, ὁρισμός è un λόγος, un «esprimersi» in merito all’esserci in quanto essere. Ὁρισμός non è una determinazione del cogliere con precisione, al contrario, giacché in definitiva il carattere specifico dello ὁρισμός nasce e si sviluppa dal fatto che l’ente stesso è determinato nel suo essere in quanto delimitato dal πέρας. Essere significa essere-finito.57
4. Gli elementi della concettualità dei concetti aristotelici fondamentali e la questione della loro fondatezza Determinante per il ritorno alla definizione è stato il fatto che, secondo la logica tradizionale, nella definizione viene a espressione il concetto in senso proprio, nel senso che nella definizione il concetto perviene a se stesso. Kant distingue il concetto dall’intuizione. La differenza consiste nel fatto che, mentre l’intuizione si limita a vedere una singola cosa nel suo esserci, il concetto vede il medesimo oggetto, però in certo modo lo comprende. Nella repraesentatio del concetto io so che cosa in essa si dà a comprendere, ma lo sa anche un altro, cioè il concetto rende il rappresentato comprensibile anche per altri, sicché ne deriva una rappresentazione universale. Il concetto di una res repraesentata rende comprensibile la cosa rappresentata anche per altri – esso la rappresenta in un modo in un certo senso vincolante. Nella definizione il concetto deve pervenire a se stesso. La definitio deve offrire una cosa in modo tale che essa sia rappresentata e compresa nel fondamento della sua possibilità, affinché io sappia da dove proviene, che cos’è, perché è ciò che è. La definizione in senso proprio è quella della cosa, la «definizione reale». Nel Medioevo questa è l’autentica definizione: definizione reale e definizione essenziale. È definizione autentica e si attua nella misura in cui viene soddisfatta la regola fondamentale della definizione stessa, ossia che, nel caso di un oggetto, se ne indichino il genere immediatamente superiore e la differenza di specie. Ad esempio: il cerchio è una linea curva chiusa (genere), ogni punto della linea è equidistante dal centro (differenza di specie). Oppure: homo animal (genere) rationale (differenza di specie). Per mostrare che ciò che nella logica tradizionale viene trattato come definitio ha un’origine determinata, e che la definizione è un fenomeno di decadenza, una mera tecnica
mentale che in precedenza era stata la possibilità fondamentale del parlare umano, torniamo ad Aristotele. Nella definizione il concetto viene a espressione. Ma non risulta manifesto ciò che il concetto stesso è nella sua concettualità. Non è certo nostra intenzione limitarci a conoscere alcuni concetti aristotelici fondamentali domandando: che cosa intende Aristotele per movimento? Qual è la sua opinione in proposito, in che cosa si distingue dalla concezione platonica o moderna? A noi il concetto interessa anche nella sua concettualità. 1. Dobbiamo quindi chiederci che cosa si intende con «concetto», in quanto «che cosa» ciò che nel concetto è inteso viene concretamente esperito: che cosa stava davanti agli occhi di Aristotele come movimento, quali fenomeni di movimento ha visto? Quale senso dell’essere ha inteso quando parla di ente-mosso? Non ci poniamo queste domande per conoscere un contenuto concettuale: chiediamo piuttosto come viene esperita la cosa intesa, come cioè 2. primariamente ci si rivolge a ciò che è originariamente visto. Come prende Aristotele il fenomeno del movimento? Lo spiega basandosi su concetti o teorie già esistenti, ad esempio in termini platonici, sostenendo che esso sarebbe il passaggio da un non essente a un essente? Oppure fa proprie alcune determinatezze implicite nel fenomeno stesso? In che modo ci si rivolge a un fenomeno specifico come il movimento in base all’appello primario rivolto alla cosa vista? 3. Inoltre, com’è più precisamente svolto il fenomeno così visto, in seno a quale concettualità viene, per così dire, verbalmente espresso? Quale appello di comprensibilità viene rivolto a ciò che è visto così? Sorge la domanda circa l’originarietà dell’esplicazione: essa viene attribuita al fenomeno dall’esterno oppure gli è adeguata? Sono questi tre elementi che, qui, ci indicano la concettualità – ce la indicano, ma non la esauriscono: 1. l’esperienza fondamentale che mi rende accessibile il
carattere materiale – un’esperienza che primariamente non è teoretica, ma è implicita nel commercio della vita con il suo mondo; 2. l’appello primario; 3. il carattere specifico della comprensibilità, la specifica tendenza alla comprensibilità. In base a questi tre punti di vista interrogheremo di volta in volta i concetti aristotelici fondamentali. Vedremo se in tal modo non ci verrà offerta nel contempo anche una comprensione appropriata delle cose in essi intese. Porre in luce la concettualità ha come scopo il farvi sentire che nella concettualità stessa si mobilita ciò che in ogni indagine scientifica costituisce l’attuazione del domandare e determinare. Qui non si tratta di prendere conoscenza, ma di comprendere. L’autentico lavoro che voi stessi dovete svolgere non è filosofare, ma divenire attenti, di volta in volta nel luogo in cui vi trovate, alla concettualità di una scienza, averla realmente sotto controllo ed esercitarla in modo tale che l’attuazione dell’indagine insita nella concettualità diventi viva. Non dovete studiare tutte le teorie scientifiche che appaiono ogni mese! Ciò che importa, qui, è che, nella corretta attuazione della specifica scienza, badiate ad avere un rapporto corretto, serio e genuino con le cose della vostra scienza. Non dovete quindi utilizzare concetti aristotelici, bensì applicare alla vostra indagine ciò che Aristotele fece nella sua posizione e nell’ambito della sua indagine, vedendo e determinando la cosa nella medesima originarietà e genuinità. Il mio compito è solo quello di offrire ad Aristotele l’opportunità di mostrarvi la cosa. Se quindi ci interroghiamo sui concetti aristotelici fondamentali mirando alla loro concettualità, si rende necessario, a tale scopo, comprendere in che modo gli elementi di questa stessa concettualità siano in relazione reciproca, quale ne sia la collocazione appropriata e dove l’esperienza fondamentale, l’appello e la tendenza alla comprensibilità siano saldamente fondati. Sarà nostro compito indagare la fondatezza della concettualità – ma non una qualsiasi: non vogliamo forse comprendere i concetti fondamentali di Aristotele? Dovremo verificare che aspetto
hanno la concettualità greca e la fondatezza della concettualità greca. Soltanto allora potremo procedere con sicurezza al seguito della spiegazione scientifica condotta da Aristotele.58
5. Ritorno al terreno della definizione Tornando a ciò che la definizione era in origine possiamo forse fare esperienza anche di quello che originariamente era ciò che oggi chiamiamo concetto. a) I predicabili Genere e specie sono dunque elementi caratteristici che contraddistinguono ogni definizione. Ma non sono gli unici. Vi appartengono anche gli elementi ulteriori del proprium e della differentia specifica in quanto tali. Questi elementi, che guidano la formazione del concetto, vengono detti predicabili, ovvero κατηγορήματα. I κατηγορήματα sono sono stati trattati sistematicamente per la prima volta da Porfirio nella sua Introduzione alle Κατηγορίαι di Aristotele. La sua Εἰσαγωγή fu successivamente tradotta in latino da Boezio, diventando così il testo canonico del Medioevo sulle questioni logiche. È in riferimento alla Εἰσαγωγή porfiriana che nel Medioevo si è sviluppata la cosiddetta disputa sugli universali. Si danno cinque predicabili: 1. Genus est unum, quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid est praedicatur. «Linea curva, chiusa» – il genus del cerchio – sono molti coloro che ne asseriscono l’essere differente secondo la specie (ellisse). L’asserzione si riferisce però a ciò che il cerchio è in se stesso. 2. Species est unum, quod de pluribus solo numero differentibus in eo quod quid est praedicatur. I singoli cerchi solo numero differunt.
3. Differentia specifica aut διαϕορά est unum, quod de pluribus praedicatur in quale essentiale, «in riferimento a ciò che si addice a ciò che sono» – dunque la razionalità dell’uomo. 4. Proprium est unum, quod de pluribus praedicatur in quale necessarium, una determinazione «necessaria», che si addice alla cosa anche al di là del nesso essenziale di genere e specie. 5. Accidens est unum, quod de pluribus praedicatur in quale contingens, nella misura in cui «spetta» 59 (συμβεβηκός) a ciò a cui ci si rivolge. Questi praedicabilia vengono detti anche universalia. Più precisamente, la distinzione consiste nel fatto che universale significa: unum quod ‘est’ in pluribus, mentre praedicabile significa: unum quod de pluribus ‘praedicatur’. Ne deriva la questione se l’universale esista realmente nelle cose, oppure se si tratti soltanto di opinioni del pensiero comprendente (realismo-nominalismo). Anche tale questione ha la sua origine in determinati contesti materiali della filosofia greca, per la precisione in fraintendimenti scolastici. b) La determinazione aristotelica dello ὁρισμός in quanto λόγος οὐσίας Affrontiamo ora la questione della concettualità e della sua fondatezza tornando dalla definitio in quanto mezzo tecnico allo ὁρισμός («delimitazione»). Ὁρισμός è un λόγος, un «parlare» di qualcosa, un rivolgersi alla cosa «stessa in ciò che essa è», καθ᾿ αὑτό.60 Un λέγειν καθ᾿ αὑτό: ciò a cui ci si rivolge e ci si deve rivolgere è la cosa «in essa stessa» e solo essa. Lo ὁρισμός viene quindi determinato in quanto οὐσίας τις γνωρισμός.61 Γνωρισμός significa «far prendere conoscenza di...», «far prendere confidenza con...», fare presente una cosa. Ὁρισμός è il far prendere confidenza con un ente nel suo essere. Ma che cosa significa λόγος οὐσίας: 1. λόγος, 2. οὐσία?
Λόγος: «parlare», non nel senso dell’«aprire bocca», ma del parlare di qualcosa in modo tale da mostrare «ciò di cui» si parla, un parlare grazie al quale ciò di cui si parla si mostra. La funzione peculiare del λόγος è l’ἀποϕαίνεσθαι, il «portare alla vista una cosa». Ogni parlare è, soprattutto per i greci, un parlare con qualcuno, o con altri, parlare con se stessi o a se stessi. Il parlare si dà nell’esserci concreto, poiché non si esiste da soli – è un parlare di qualcosa con altri. Parlare di qualcosa con altri è di volta in volta un esprimersi. Nel parlare di qualcosa con altri io mi esprimo, esplicitamente o no. Ma allora che cos’è il λόγος? È la determinazione fondamentale dell’essere dell’uomo in quanto tale. I greci concepiscono l’uomo in quanto ζῷον λόγον ἔχον, non solo in senso filosofico, ma nella vita concreta: «Un vivente che [in quanto vivente] ha il linguaggio». Questa definizione non deve far pensare alla biologia o alla psicologia come scienza dello spirito, e così via: si tratta infatti di una determinazione che precede siffatte distinzioni. Ζωή è un concetto ontologico, «vita» significa un modo dell’essere, e precisamente l’essere in un mondo. Un vivente non è semplicemente lì presente, ma è in un mondo in modo tale da avere il suo mondo. Un animale non è semplicemente posto sulla strada, ma si muove sulla strada spinto da un qualche apparato; esso è nel mondo nel modo dell’«avere il mondo». L’«essere nel mondo» dell’uomo è determinato, nel suo fondamento, dal parlare. Il modo dell’essere fondamentale dell’uomo nel suo mondo è il parlare con il mondo, sul mondo, del mondo. L’uomo, insomma, è determinato proprio dal λόγος. Ma se la definizione è un λόγος, vedete allora dove la questione della definizione ha il suo terreno, nella misura in cui il λόγος è la determinazione fondamentale dell’essere dell’uomo. Il λόγος in quanto ὁρισμός si rivolge all’ente nella sua οὐσία, nel suo esserci. Dobbiamo quindi intenderci sul significato di οὐσία.62
6. Chiarificazione provvisoria del λόγος La concettualità intesa nei concetti fondamentali non è un coglimento teoretico delle cose, ma un’esperienza fondamentale obiettiva. A ciò che in tale esperienza è esperito ci si rivolge mirando a qualcosa. Ciò che è esperito in tal modo, e che è posto in questa prospettiva, viene esplicato e, nel rivolgersi a esso, prende vita. Che cos’è l’esperienza fondamentale obiettiva, in quale prospettiva ci si rivolge a essa? Dobbiamo pervenire alla fondatezza così come essa viveva nella scienza greca. Nella definizione il concetto viene a espressione, viene in luce. Definizione: genere immediatamente superiore e differenza di specie. Vogliamo imparare a comprendere che cosa significa definitio domandando a nostra volta qual era il significato della definizione nei greci e in Aristotele. Ὁρισμός: «limitazione», «esclusione». Ὁρισμός: λόγος οὐσίας. Che cosa si intende per λόγος e per οὐσία, ovvero che cosa si intende per λόγος οὐσίας? Quando avremo chiarito questo, troveremo la fondatezza del concetto. Nel tradizionale gergo scolastico i concetti sono: 1. notio, 2. intentio, 3. conceptus, 4. species. Ad 1. Notio: il concetto implica una determinata «dimestichezza» con la cosa che esso intende, esso cioè ci traspone in una familiarità con la cosa intesa. Ad 2. Intentio: il concetto implica un «mirare» a qualcosa, un intendere qualcosa. L’intendere una cosa è un elemento strutturale essenziale del concetto (il termine «cosa» è usato qui sempre in modo del tutto generale nel senso del semplice qualcosa). Ad 3. Conceptus: il «cogliere». La cosa non è solo intesa, non è solo nota, non ci si limita a sapere di essa, ma è anche intesa e nota nel modo dell’essere colta, in maniera tale cioè che ciò che vi è in essa viene con-preso, raccolto. Ad 4. Species: εἶδος, «aspetto»; riconduce alla notio. Se
ho dimestichezza e familiarità con una cosa, so che aspetto ha, so come si presenta in quanto tale tra le altre cose. Queste designazioni hanno acquisito, nel loro utilizzo scolastico, un significato banale, tanto che le si traduce uniformemente con «concetto». Dobbiamo considerare la definizione guardando alla sua origine: λόγος οὐσίας. Λόγος è il «parlare», e nel contempo – per i greci – «ciò di cui si parla», il parlare nella funzione fondamentale dell’ἀποϕαίνεσθαι, o del δηλοῦν: parlando di qualcosa «portare una cosa a mostrarsi». Secondo la sua tendenza, questo parlare di qualcosa è parlare con altri, esprimere se stessi. Parlando con altri e con me stesso faccio sì che ciò a cui mi rivolgo diventi per me qualcosa di dato, in modo tale che, parlando, esperisco l’aspetto della cosa. Parlare non è un semplice processo che avviene di tanto in tanto. Il parlare di qualcosa con altri è nel contempo un «esprimere se stessi». Si tratta di elementi strutturali ineliminabili del λόγος. In seguito dovremo considerare attentamente questa struttura per mostrare quale sia propriamente il luogo originario di ciò che designiamo con il termine «parlare». Ciò che è stato espresso «rimane stabile», è un κείμενον. I κείμενα ὀνόματα, appunto in quanto κείμενα – in quanto «stabiliti» – sono disponibili agli altri, sono κοινά,63 appartengono a chiunque. Una volta che è stata espressamente pronunciata, una parola non appartiene più a me, ed è per questo che il linguaggio è qualcosa che appartiene a chiunque, in maniera tale che proprio in questo patrimonio comune si dà in modo vivo una possibilità fondamentale della vita stessa. Spesso ci si limita a parlare – ci si disperde in mere parole, senza avere un esplicito rapporto con le cose di cui si parla. Ciò implica una comprensibilità comune a tutti. Crescendo all’interno di un linguaggio, cresco nel contempo all’interno di una comprensibilità del mondo, e del linguaggio, che ho per conto mio, in quanto vivo nel linguaggio. C’è quindi una comprensibilità comune, che ha il carattere peculiare della
medietà: essa non ha più il carattere dell’«appartenere ai singoli», ma è logora, usata, usurata. Ogni parola espressamente pronunciata ha la possibilità di diventare usurata, scivolando nella comprensibilità comune. Ora, questo parlare, che ho definito qui ampliando un po’ la prospettiva, viene utilizzato dai greci – e non solo nella meditazione esplicita sulla vita e l’esistenza dell’uomo, com’è nel caso della filosofia, ma anche nella contingenza naturale – per determinare l’essere dell’uomo nella sua peculiarità. L’uomo viene definito uno ζῷον λόγον ἔχον, un «essere vivente» – che però non è un concetto biologico nella formulazione moderna. «Vita» è un come, una categoria dell’essere, non già qualcosa di selvaggio, profondo e mistico. È sintomatico che la «filosofia della vita» non sia mai arrivata a chiedersi che cosa in definitiva, in senso proprio, si intenda in termini categoriali con il concetto di «vita» in quanto essere. Vivere è un «essere in un mondo», uomini e animali sono lì presenti non accanto ad altri, bensì con altri, e (nel caso dell’uomo) si rivolgono vicendevolmente l’uno all’altro. L’esprimersi in quanto «parlare di...» è il modo fondamentale dell’essere della vita, ovvero dell’«essere in un mondo». Dove non c’è parlare, dove il parlare cessa, dove il vivente non parla più, parliamo di «morte». In ultima analisi è a partire da questa possibilità fondamentale della vita che l’essere della vita va in genere compreso. Il parlare viene ricollocato nel contesto ontologico della vita, come contesto di un essere specifico. Nella definizione ζῷον λόγον ἔχον il termine ἔχον va inteso in un senso fondamentale. Nella Metafisica (Δ 23) ἔχειν viene definito in quanto ἄγειν, «esercitare» una cosa, essere in un modo, seguire un «impulso» che proviene da questo essere.64 Il linguaggio viene avuto, si parla in modo tale che il parlare appartiene all’autentico impulso ontologico dell’uomo. Per l’uomo vivere significa parlare. Questo colloca la nostra provvisoria chiarificazione del λόγος in un contesto ontologico che per adesso può essere designato come «vita dell’uomo».65
7. L’οὐσία in quanto concetto fondamentale per antonomasia della filosofia aristotelica La funzione fondamentale del λόγος è «portare a mostrarsi» l’ente nel suo essere, l’οὐσία in quanto «essere» dell’ente, ovvero in quanto «esseità». Con ciò si intende che l’essere di un ente ha in se stesso ancora elementi di determinazione, e che dunque circa l’ente nel come del suo essere si può stabilire ancora qualcosa. Ora è vero che l’οὐσία, in quanto «ente nel come del suo essere», è in Aristotele stesso ambigua, ha diversi significati, però è anche vero che essa è il titolo per i nessi materiali che costituiscono il tema dell’indagine fondamentale di Aristotele. Oὐσία è l’espressione per il concetto fondamentale per antonomasia della filosofia aristotelica. In base all’οὐσία potremo non solo sperimentare che cos’è lo ὁρισμός, ma anche raggiungere un terreno su cui poter collocare gli altri concetti fondamentali. a) I diversi modi dell’ambiguità dei concetti e del divenire dei termini In Aristotele l’οὐσία è ambigua. A prima vista questo potrebbe compromettere proprio l’utilizzo di tale espressione, dato che un’ambiguità concernente il concetto fondamentale di un’indagine potrebbe essere pericolosa. Ma non ogni ambiguità ha lo stesso carattere. Ecco alcuni casi: 1. C’è un’ambiguità della confusione. Essa deriva dal fatto che, pur avendo una parola un utilizzo determinato, quindi significati diversi, che però sono già chiariti, questi significati, per mancanza di competenza, vengono confusi tra loro. Questa ambiguità della confusione si presenta in un
secondo momento e cancella ciò che in precedenza era stato messo in luce da un’indagine esplicita. 2. L’ambiguità può nascere e svilupparsi da un’incapacità di vedere determinati nessi materiali considerandone le possibili differenze, vale a dire da un’insensibilità per la differenza nella formulazione e determinazione concettuale. 3. L’ambiguità può essere indice del fatto che il campo semantico, nella sua ambiguità, si è sviluppato da un rapporto genuino, da una genuina familiarità con le cose, ovvero che la polisemia è richiesta dalla cosa stessa, una molteplicità articolata del significare separato, insomma che la cosa è tale da esigere da sé la medesima espressione, però con diversi significati. In Aristotele è esattamente così. Ad esempio il libro Δ della Metafisica. Proprio il fatto che Aristotele non si sforzi di eliminare questa ambiguità, appianandola nel senso di una qualche chimerica sistematicità, dimostra il suo istinto per le cose. Egli fa stare il significato faccia a faccia con le cose. La polisemia può quindi essere indice di cose diverse. Si farà bene a non scambiare la propria personale confusione con la polisemia in Aristotele. Bisogna verificare se l’ambiguità derivi effettivamente dalle cose. Uno di questi concetti fondamentali ambigui è l’οὐσία. Dovremo quindi verificare da dove i suoi diversi significati traggono il loro orientamento. Ho già detto che οὐσία è il concetto fondamentale dell’indagine aristotelica. Simili espressioni, contraddistinte dal modo incisivo del loro esprimere, vengono designate anche come «termini», e il significato che viene loro esplicitamente attribuito all’interno di un contesto scientifico problematico costituisce il significato «terminologico» dell’espressione. Vi sono diverse possibilità del divenire dei termini: 1. Viene scoperto un determinato nesso materiale, visto come nuovo per la prima volta – manca la parola, dunque la parola è coniata insieme alla cosa. L’espressione non può essere stata già disponibile, quindi diventa immediatamente
un termine, che in seguito può decadere, dissolvendosi nella generale banalità e usura del parlare quotidiano. 2. In secondo luogo, la formazione può avvenire in virtù del fatto che il termine si associa a una parola già disponibile, in modo tale che un elemento semantico, che era inteso nel significato corrente, ma non in modo esplicito, diventa ora tematico nel significato terminologico.66 b) Il significato corrente di οὐσία L’espressione οὐσία, in quanto termine fondamentale dell’indagine aristotelica, deriva da un’espressione che nel linguaggio naturale ha un significato corrente. Chiamiamo «significato corrente» quello che una parola ha nel parlare naturale. «Parlare naturale» significa a sua volta quel parlare così come esso avviene innanzitutto e per lo più e sempre, anche quando è presente un altro modo di parlare con il mondo, quello scientifico. Infine, l’essere-corrente del significare ed esprimere indica che esso si muove nella medietà della comprensione, ha la proprietà di circolare come ovvio, ed è compreso «senz’altro». «Si» comprende senz’altro un’espressione che ha il carattere dell’essere corrente, essa è presente nel patrimonio comune del linguaggio entro il quale ogni nuovo uomo nasce e cresce. Tuttavia, nel caso dell’οὐσία non è che il significato terminologico sia scaturito da quello corrente, mentre quest’ultimo è scomparso, poiché, al contrario, in Aristotele accanto al significato terminologico è contemporaneamente e costantemente presente anche quello corrente. E per la precisione οὐσία, secondo il suo significato corrente, significa «patrimonio», «stato patrimoniale», «averi», «podere». Ci troviamo di fronte al fatto sorprendente che i greci si rivolgono a un ente determinato, ovvero a cose essenti come lo stato patrimoniale, le suppellettili di casa, ecc., come a un ente autenticamente essente. Proseguendo dunque la nostra verifica del significato corrente
giungeremo forse a scoprire che cosa i greci intendono in genere con «essere». Dobbiamo tuttavia guardarci dal dedurre in qualche modo il significato terminologico da quello corrente; possiamo soltanto comprendere il significato corrente in maniera tale da ricavarne indicazioni relative al significato terminologico. Il significato corrente di οὐσία designa un ente determinato, e non montagne, o altri uomini. In senso terminologico οὐσία significa: «Ente nel come del suo essere». (Altrimenti tradotto con «sostanza». Rimane in sospeso se l’espressione «sostanza» vi risulti maggiormente perspicua dell’espressione «ente nel come del suo essere»). Nel significato corrente questo «nel come del suo essere» resta in secondo piano. Però anche nelle nostre espressioni tedesche abbiamo già determinati significati che non si limitano a intendere un ente, ma lo concepiscono anche nel come del suo essere: Anwesen (podere), Vermögen (patrimonio), Hab und Gut (averi). Oὐσία è un ente tale che «ci» è (da ist) per me in un modo accentuato, così che io possa averne bisogno e utilizzarlo, un ente che è a mia disposizione, con cui ho a che fare tutti i giorni, quell’ente che «ci» è nel mio quotidiano avere a che fare con il mondo, anche quando faccio scienza, un ente privilegiato, fondamentale, in quanto ente nel suo essere, nel come del suo essere. Anche nel significato corrente è implicitamente inteso il come dell’essere. «“Come” dell’essere» significa esserci (Dasein) nel modo dell’essere-disponibile. Ciò ci fornisce un cenno circa il fatto che per i greci essere significa fin da principio esser-ci (Da-sein). L’ulteriore chiarificazione dell’ente nel suo essere deve muoversi in direzione della domanda: che cosa significa «Ci (Da)»? In base alla chiarificazione del «carattere di “Ci” (DaCharakter)» dell’ente diventa visibile il suo essere. Possiamo vedere come il significato terminologico di οὐσία derivi da quello corrente. Nel senso corrente, οὐσία è un ente determinato nel come del suo essere, dove però il come è inteso solo implicitamente. Il significato
terminologico offre invece tematicamente il come dell’essere, che fino a quel momento era soltanto sottinteso, e il come non solo di questo essere qui, ma di ogni ente. Oὐσία può 1. intendere direttamente l’ente (il come è sottinteso), 2. intendere direttamente il come di un ente (l’ente stesso è sottinteso). Oὐσία intende quindi 1. un ente, 2. il come dell’essere, l’essere, l’esseità, l’essere nel senso dell’esser-ci. Oὐσία nel senso dell’esser-ci racchiude in sé un duplice senso: 1. l’ente che «ci» è (das Daseiende), 2. l’essere dell’ente che «ci» è. Non è un caso che la definizione greca per le cose così come ci si fanno incontro innanzitutto sia πράγματα, «gli enti con cui si ha costantemente a che fare», e χρήματα, «gli enti che sono stati assunti in uso». Le due espressioni accennano al significato fondamentale di οὐσία. Nella Metafisica Aristotele afferma che l’antica domanda τί τὸ ὄν;, «che cos’è l’ente?», sarebbe propriamente la domanda sull’essere dell’ente: τίς ἡ οὐσία;67 Egli porta per la prima volta l’indagine scientifica su questo terreno, un terreno di cui Platone stesso non ha avuto nemmeno il presentimento.68 c) Il significato terminologico di οὐσία Oὐσία è il titolo per l’oggetto dell’autentica indagine fondamentale della filosofia aristotelica e della filosofia greca in genere. Quando ci si assume il compito di chiarire il significato di un termine siffatto è necessario tenere presenti i nessi materiali che esso intende. Il termine οὐσία ha una genesi plurima. L’espressione οὐσία, in quanto termine, è derivata da un’espressione che nel linguaggio quotidiano è dominante e che intende un ente determinato, vale a dire l’ente avente il carattere del patrimonio, del possedimento, del podere, ecc. Assumiamo quindi come filo conduttore il significato corrente di οὐσία, chiedendoci se anche nel significato terminologico siano in un qualche senso ancora
contenuti elementi semantici del significato corrente; beninteso, soltanto come filo conduttore, seguendo il quale esamineremo a fondo gli elementi semantici del significato terminologico: quindi nessuna deduzione del significato terminologico da quello corrente! Il fatto caratteristico è che con quest’ultimo non viene espresso soltanto un ente, bensì un ente nel come del suo essere. Con l’espressione «casa»69 intendo un ente che «ci» è in modo esplicito: quell’ente che «ci» è innanzitutto e per lo più nella vita, al cui interno la vita di fatto si muove per lo più, e in base al quale la vita, per così dire, vivacchia la sua esistenza. Il significato corrente di οὐσία implica insomma una duplicità: un ente, però anche, al tempo stesso, nel come del suo essere. Il significato terminologico si distingue per il fatto di considerare direttamente proprio il come dell’ente, per il fatto cioè che il termine οὐσία non designa primariamente un ente, bensì il come dell’essere di questo ente, implicitamente inteso come un ente determinato. Quando si utilizza il termine οὐσία, anche già nel suo significato corrente, è già inteso un determinato concetto di essere. Oὐσία in quanto εἶναι, «essere», ha il suo significato ontologico del tutto determinato, derivato dalla comprensione primaria che i greci hanno dell’ente che si fa loro incontro innanzitutto. Ed è appunto questo senso primario dell’essere che ancora traspare nel significato terminologico. Abbiamo in ogni caso acquisito un orientamento riguardo alla polisemia di questa espressione, che sintetizziamo così: essa significa 1. ente nel come del suo essere, 2. il come dell’essere dell’ente. L’accento viene posto di volta in volta in direzioni diverse. A noi qui interessa solo il significato terminologico. La polisemia terminologica va determinata in modo più preciso. Ci occupiamo dell’οὐσία per vedere che cosa propriamente si intende nel λόγος e nello ὁρισμός, di che cosa in origine propriamente si parla quando si formula una definizione. Anche nel significato terminologico l’οὐσία viene trattata
qui in riferimento alla sua polisemia, giacché anche nel significato terminologico essa significa 1. l’ente, o diversi enti, in modo tale che il come del suo essere non venga direttamente accentuato, 2. proprio l’essere dell’ente. All’interno di queste due direzioni fondamentali del significare del termine οὐσία incontriamo una polisemia da studiarsi in modo più preciso. Qualora dovesse svilupparsi un’indagine avente per tema l’essere, allora tale indagine avente per tema l’essere dell’ente dovrebbe in qualche modo essere impegnata a tenere presente anche l’ente, dato che alla fine solo nell’ente stesso può essere colto il carattere del suo essere, sicché bisogna necessariamente tenere conto anche dell’ente. All’interno di un’indagine così concepita ogni concetto di essere ha uno specifico carattere duplice del suo significare. α) L’οὐσία in quanto ente Delle due direzioni fondamentali del significare del termine οὐσία scegliamo anzitutto quella in cui è inteso l’ente stesso. In questo utilizzo ci si mostra l’espressione stessa. Si parla di οὐσίαι, di «enti» differenti, poiché hanno differenti caratteri ontologici. L’ente in quanto tale è esperito primariamente sempre prima dell’essere. Aristotele, Metafisica, libro VII, capitolo 2: δοκεῖ δ᾽ ἡ οὐσία ὑπάρχειν ϕανερώτατα μὲν τοῖς σώμασιν,70 «l’essere dell’ente si mostra manifestamente nei σώματα». Se traduciamo σῶμα con «corpo» dobbiamo badare al fatto che «corporeità» per i greci non significa matericità o materialità, dato che σῶμα intende piuttosto la peculiare invadenza di un ente, di un ente che «ci» è, ragione per cui in seguito τὸ σὸν σῶμα, «il tuo σῶμα», è immediatamente σύ, e σῶμα significa successivamente «schiavo», «prigioniero», un ente che mi appartiene, che è a mia disposizione, qualcosa che «ci» è per me nella sua invadenza e ovvietà. A questo significato bisogna comunque prestare ascolto. Σώματα siffatti, quindi, non sono nemmeno soltanto cose corporee, ma anche
animali, alberi, terra, acqua, aria, τὰ ϕυσικά, e pure l’οὐρανός,71 e non solo cose morte, ma enti che «ci» sono innanzitutto e per lo più nella quotidianità della vita. Di questi enti Aristotele dice che δοκεῖ ἡ οὐσία ὑπάρχειν ϕανερώτατα, l’οὐσία vi si mostra direttamente e innanzitutto. Resta aperta la questione se vi sia anche un altro essere che soddisfi la medesima esigenza.72 Oὐσίαι [...] ὁμολογούμεναι:73 ciascuno, concordando con l’altro, dice senz’altro la stessa cosa, ossia che questi enti sono. Nell’ovvietà dell’esserci naturale, a questi enti ci si rivolge in senso proprio in quanto essenti. Per Aristotele, quindi, e per qualsiasi indagine che, indagando l’essere, vuole avere del terreno sotto i piedi, appare scontato prendere le mosse dalla considerazione dell’essere (e della struttura ontologica) che esiste innanzitutto in questo modo, partire cioè da un senso dell’essere che la naturalità comprende senz’altro. La vita si muove in una comprensibilità naturale di ciò che essa, nel suo parlare, intende con «essere» ed «ente». Metafisica, libro VII, capitolo 3 (in fine): ὁμολογοῦνται δ᾽ οὐσίαι εἶναι τῶν αἰσθητῶν τινές,74 «si concorda circa il fatto che l’ente in senso proprio è qualcosa che ha a che fare con ciò che viene percepito nell’αἴσθησις». Quando Aristotele parla di αἰσθητόν non intende mai qualcosa di oggettivo avente il carattere dei dati sensibili, che diventa presente tramite «sensazioni». Con αἴσθησις egli intende piuttosto la «percezione» naturale dell’ente, una percezione contrassegnata dal fatto che, nel suo caso, i sensi sono coinvolti, mediando l’accesso. È il modo naturale in cui vediamo gli alberi, la luna, e ne parliamo. Circa il fatto che l’ente che diviene accessibile mediante l’αἴσθησις ha il carattere dell’οὐσία si è generalmente concordi. È quindi nel campo dell’ente così inteso che l’indagine va avviata in prima istanza: l’indagine della struttura dell’οὐσία in quanto tale. β) L’οὐσία in quanto essere. I caratteri ontologici (Met.
Δ 8) Ora, ciò che un’indagine dell’essere dell’ente così intesa mette in luce quanto a caratteri ontologici non lo possiamo per il momento approfondire nel dettaglio. Nondimeno, per fornire un orientamento, teniamo anzitutto presenti alcuni caratteri ontologici, per poi passare alla polisemia del termine οὐσία, dove οὐσία significa essere di un ente. Come base per orientarci circa i caratteri ontologici prendiamo quelli messi in luce dall’indagine ontologica di Aristotele, illustrati nel libro V, capitolo 8, della Metafisica. Consideriamo i caratteri ontologici che vi sono elencati con l’intento di verificare se e come in questi stessi caratteri parli implicitamente, in qualche modo, quel senso dell’essere che abbiamo individuato nel significato corrente di οὐσία: «casa» – se cioè anche nei caratteri ontologici vengano a espressione elementi differenti dell’ente nel senso di un peculiare ente che «ci» è, che, come il podere, o la casa, «ci» è innanzitutto e per lo più nella sua insistenza. Ci chiediamo se i caratteri ontologici non siano anche caratteri nel senso del «Ci». Aristotele introduce il capitolo 8 con l’elenco dei σώματα,75 intendendo così indicare il terreno a partire dal quale egli dà avvio all’intera indagine sull’essere dell’ente. 1. Come primo carattere ontologico egli designa lo ὑποκείμενον.76 Enti come gli animali, le piante, gli uomini, le montagne, il sole sono tali da essere ὑπό, cioè da «star-ci» già «fin da principio». Quando ne parlo, quando asserisco qualcosa di un animale o descrivo una pianta, ciò di cui parlo, l’oggetto del mio parlare, ciò che, parlando, ho lì davanti, che è lì presente, «ci» sta già fin da principio. L’essere di questo ente ha il carattere dell’essere semplicemente presente. 2. Aἴτιον ἐνυπάρχον: «Ciò che è lì semplicemente compresente» in un essere siffatto, nella funzione dell’αἴτιον τοῦ εἶναι.77 Un carattere ontologico così inteso è la ψυχή.78 Dire che l’anima è οὐσία significa che essa è un carattere
dell’essere che è lì presente in un ente inteso nel senso detto sopra: l’anima è lì semplicemente compresente in modo tale da contribuire a costituire l’essere specifico di ciò che chiamiamo vivente. Essa ne è cagione, costituisce l’essere specifico di un vivente, cioè di un essere nel senso dell’«essere in un mondo». I due elementi fondamentali sono il κρίνειν e il κινεῖν.79 Un vivente non è semplicemente lì presente (come accessibile per chiunque), bensì, in modo esplicito, nel suo essere semplicemente presente, per di più «ci» è, può vedere, agire, muoversi. I due elementi di questa οὐσία sono il κρίνειν – il «distinguersi» da qualcos’altro, l’orientarsi in un mondo – e il κινεῖν, il «muoversi al suo interno», l’«avere da fare in esso», l’«andare in giro e l’avere a che fare in esso». Quando ci si occupa di filosofia greca bisogna quindi essere un po’ più prudenti con la celebre «sostanzialità» dell’anima. Oὐσία significa un modo dell’essere, e se l’anima viene chiamata οὐσία, allora ciò indica un modo eccellente dell’essere, vale a dire l’essere del vivente. 3. Μόριον ἐνυπάρχον:80 questo carattere viene rappresentato, ad esempio, dalla superficie di un corpo. Se sottraggo dal «Ci» la superficie di un corpo, il corpo stesso ne risulta soppresso. Esso non «ci» è più. La superficie è dunque ciò che costituisce l’esserci e l’esserci possibile di un corpo, esattamente come la linea costituisce l’esserci possibile di una superficie. Ne consegue che la superficie, in quanto elemento di un corpo, è un carattere ontologico che Aristotele designa anche in quanto ὁρίζον,81 «delimitante». Il carattere ontologico del μόριον ἐνυπάρχον delimita il corpo, cioè l’ente viene determinato nel suo essere. Questo è possibile soltanto perché per i greci il limite è un carattere fondamentale dell’esserci dell’ente. L’essere-limitato è un carattere fondamentale del «Ci». L’elemento dello ὁρίζον è σημαῖνον τόδε τι:82 esso «designa» l’ente, nella misura in cui è lì presente, come «quello lì», in modo tale che questo «essere lì» possa diventare visibile, determinabile e coglibile nella sua esseità. Dato che la limitazione svolge un ruolo
talmente peculiare da determinare addirittura l’ente nel suo essere, alcuni hanno pensato di designare come οὐσία il limite «in genere» e, nel senso più ampio, il «numero».83 Sia i pitagorici che i platonici vedevano nel numero l’autentica οὐσία, i numeri come οὐσίαι. Il numerico, il numerabile delimita l’ente in quanto tale, non vi sono sostanze, demoni, che si aggirano qua e là. 4. Τὸ τί ἦν εἶναι:84 Aristotele non ha creato ex novo questo termine, che gli è stato tramandato. Τὸ τί ἦν εἶναι è un carattere ontologico, mirando al quale il λόγος in quanto ὁρισμός si rivolge all’ente.85 Il τὸ τί ἦν εἶναι è il tema dello ὁρισμός. In questo momento non possiamo pensare di portare alla comprensione in extenso questo carattere ontologico, che forse ci diventerà chiaro alla fine del corso. Mi limito dunque a descriverne in modo del tutto superficiale il significato e il nesso con gli altri caratteri. Esso significa l’«essere», e per la precisione «essere qualcosa, come esso era già»; intende un ente in se stesso, appunto, in riferimento a ciò che esso era già, a da dove esso proviene nel suo essere, dunque riguardo alla sua provenienza, da cui è pervenuto nell’ente che «ci» è. Per questo τὸ τί ἦν εἶναι è l’«essere di un qualcosa che è di volta in volta», οὐσία ἑκάστου.86 Ciò non significa «ciascuno», o addirittura un che di «singolo» e «individuale»: con simili traduzioni si va fuori strada. Ἑκάς significa «lontano», ἕκαστον «ciò che è di volta in volta», nella misura in cui permango presso di esso, vedendolo da una certa distanza. Ciò che è di volta in volta non viene visto immediatamente e direttamente, anzi diventa accessibile solo se mi distacco da esso, e me lo presento così, in questo distacco. Τὰ καθ᾿ ἕκαστα sono gli elementi che costituiscono l’«essere di volta in volta» di un ente, e divengono presenti solo se mi sono staccato da essi. Nell’avere a che fare naturale, gli oggetti familiari, per me, non «ci» sono in senso proprio, non presto loro attenzione, essi non hanno il carattere della presenza, sono troppo quotidiani e, per così dire, scompaiono dalla mia esistenza quotidiana. Solo nel caso di un qualsiasi evento insolito può
capitare che qualcosa con cui ho a che fare tutti i giorni mi diventi improvvisamente presente nella sua presenza. L’essere di volta in volta non è per nulla dato innanzitutto e direttamente: è necessario essersi staccati per vedere la quotidianità nel suo esserci, per averla presente, e i caratteri ontologici che mostrano espressamente l’ente che «ci» è nel suo esserci – che cioè costituiscono il «carattere di “Ci”» dell’essere – sono racchiusi nel τὸ τί ἦν εἶναι di Aristotele. Aristotele, quindi, distingue due τρόποι, due «modi fondamentali» in cui il termine οὐσία viene utilizzato: 1. lo ὑποκείμενον ἔσχατον, che «ci» è già per ogni avere a che fare con esso, 2. l’ente nel carattere del τὸδε τι ὄν, di cui affermo «quello lì», χωριστόν, che sta «al suo proprio posto», l’essere «autonomamente» lì presente.87 5. Tale autonomia viene espressa tramite l’εἶδος,88 «ciò che viene visto, scorto», l’«aspetto», il «sembiante» di un ente. Ciò che io vedo qui, e che constato in quanto essente-ci autonomamente lì davanti, ha l’aspetto di una sedia, quindi – per i greci – è una sedia. γ) L’οὐσία in quanto esserci. I caratteri ontologici in quanto caratteri del «Ci» Ci siamo limitati a elencare alcuni caratteri ontologici. Ciò che importa però è vedere come in questi differenti caratteri dell’essere venga a espressione una determinata concezione del «Ci», come dunque questi differenti caratteri ontologici siano caratteri determinati del senso del «Ci», e come il greco intenda il «Ci». A tale scopo disponiamo già di un filo conduttore costituito dal significato corrente di οὐσία nel senso di ciò che è «disponibile», «presente», ovvero di ciò che è semplicemente presente nel senso del «podere» o dello «stato patrimoniale». Cerchiamo di acquisire un orientamento fondamentale riguardo ai caratteri ontologici verificando, a tale scopo, in che misura tutti questi caratteri dell’essere, un po’ differenti all’apparenza, possano essere indicati come caratteri del
«Ci». Oὐσία significa «esserci», e non ha un senso generico dell’essere – che in ultima analisi comunque non si dà. Oὐσία è la forma contratta di παρουσία, «essere presente». Più frequente è il suo contrario, l’ἀπουσία, l’«assenza», che però non significa semplicemente «niente», bensì: qualcosa c’è, ma c’è in una mancanza. Vederci da un occhio solo è un vedere nell’ἀπουσία. L’ἀπουσία è il fondamento ontologico per la categoria fondamentale della στέρησις. Tentiamo ora di fornire un orientamento fondamentale ai menzionati caratteri del «Ci». 1. ῾ϒποκείμενον,89 «essere semplicemente presente», la «semplice presenza» di qualcosa. Questo carattere ontologico è connesso con l’essere nel senso del significato corrente: esso intende l’ente che «ci» è non solo in quanto essente-ci, bensì, per esempio, anche nel senso di ciò in cui il podere sta – la campagna, la terra, il cielo, la natura, gli alberi –, insomma ciò che è lì presente come l’ente in cui la vita concreta vivacchia la sua esistenza. Oὐσία significa dunque semplice presenza, senza che ci sia bisogno che io stesso faccia qualcosa in più per l’essere di questo ente che «ci» è. 2. Aἴτιον (τοῦ εἶναι) ἐνυπάρχον.90 Esempio: ψυχή.91 L’«anima» è οὐσία nel senso che essa costituisce l’esserci di un ente avente il carattere di un vivente. Un vivente ha un esserci del tutto caratteristico: a) Esso «ci» è nel senso dello ὑποκείμενον, è lì presente, come le pietre e i tavoli. b) Tuttavia l’uomo non sta sul sentiero come una pietra, ma va a passeggio sotto gli alberi. Io lo incontro da qualche parte, ma questo suo esserci in quanto presenza che mi si fa incontro, in quanto «mondo», è caratterizzato dal fatto che esso è nel modo dell’«essere nel mondo», è nella misura in cui ha un orientamento. L’uomo, quindi, «ci» è nel senso che è nel mondo, in modo tale da avere il suo mondo; e ha il suo mondo in virtù del fatto di avere a che fare con esso. In quanto carattere dell’essere, la ψυχή ne è un carattere eccellente, che include l’essere in quanto ὑποκείμενον. 3. Μόριον ἐνυπάρχον,92 che costituisce l’essere possibile
di qualcosa: il punto, per esempio, la linea, il numero in quanto autentico carattere ontologico, giacché il numero è limitazione. Nondimeno, numero e punto, ecc., sono caratteri ontologici solo se si può dimostrare che per i greci il limite e l’essere limitato sono l’autentico carattere dell’essere. 4. Τὸ τί ἦν εἶναι.93 Già la composizione indica che abbiamo a che fare qui con un intero complesso di determinazioni ontologiche che scioglieremo in seguito. L’essere nel carattere del τὸ τί ἦν εἶναι è il tema peculiare di quel λόγος di cui tratteremo ora in quanto ὁρισμός. Questo carattere ontologico è quello dell’ἕκαστον. Ciascun ente che «ci» è, nel suo essere di volta in volta, è determinato dal τὸ τί ἦν εἶναι. Nella ricapitolazione dei caratteri ontologici ne compare ancora un quinto: 5. εἶδος,94 inteso anche da Aristotele già nel significato di «specie». Non si comprende però perché εἶδος significhi «specie», e γένος «genere», se non si sa che εἶδος è un carattere ontologico determinato: vi è inteso anzitutto l’ente che «ci» è nel suo «avere l’aspetto». Quando un capomastro costruisce una casa, egli vive e si muove anzitutto nell’εἶδος della casa, nel come della sua e-videnza. Il τὸ τί ἦν εἶναι implica la determinazione dello ἦν: l’esserci di un ente, e precisamente in riferimento a ciò che esso era, alla sua provenienza. Se l’uomo è definito in quanto ζῷον λόγον ἔχον, allora il parlare pro-viene dal suo «essereζῷον», «essere-“essere vivente”» – è questo il suo γένος. Un ente che «ci» è lo vedo in riferimento al suo essere, a come esso è lì in quanto proveniente da... Un ente che «ci» è lo vedo propriamente nel suo essere se lo colgo nella sua storia: l’ente che «ci» è in questo modo, pervenuto all’essere dalla sua storia. Questo ente, in quanto essente-ci in questo modo, è finito, è pervenuto alla sua fine, alla sua finitezza, esattamente come la casa, nel suo εἶδος in quanto ποιούμενον, è finita. Lo ὑποκείμενον è già finito, non c’è bisogno che anzitutto lo produca. Il corpo ottiene la sua finitezza tramite la superficie. Riassumendo, esserci significa quindi: 1. primariamente
presenza attuale, presente, 2. l’essere finito, la finitezza – i due caratteri del «Ci» presso i greci. In entrambi i casi tutto l’ente va interpretato in riferimento al suo essere.95
8. Lo ὁρισμός in quanto modo determinato dell’«essere nel mondo». Il compito di comprendere i concetti fondamentali nella loro concettualità approfondendo l’esserci in quanto «essere nel mondo» Il λόγος in quanto ὁρισμός è un «parlare» del mondo, un «rivolgersi» al mondo, tale che in esso ci si rivolge all’ente in riferimento alla sua finitezza, considerata in quanto presente. Ὁρισμός è λόγος οὐσίας nel senso che il termine οὐσία designa il τὸ τί ἦν εἶναι. In quanto ὁρισμός il λόγος è dunque un λέγειν eccellente, costituisce cioè una specifica possibilità all’interno del λέγειν. Infatti il λέγειν non viene attuato primariamente come uno ὁρίζειν, giacché primario è piuttosto il mondo dato nell’«innanzitutto», in quanto συγκεχυμένον,96 «confuso», «coperto», «inarticolato». C’è bisogno di una particolare disposizione, di uno sguardo particolarmente aperto, per vedere l’ente che «ci» è nel suo essere. Del fatto che il λόγος in quanto ὁρισμός non è cosa di tutti i giorni Aristotele è esplicitamente consapevole. Ce ne parla nel preambolo alla trattazione dell’οὐσία, in Metafisica Ζ 3: «L’imparare, il rendersi edotti di qualcosa, si compie per tutti così: passando per ciò che è per natura meno familiare si giunge a ciò che è più familiare».97 Quando imparo qualcosa dispongo di qualcosa di già dato, e questo già dato mi è noto soltanto nella medietà dell’esistenza, sono orientato verso di esso in un modo superficiale. Passando per questo già dato procedo – imparando – verso ciò che può propriamente essere conosciuto. «Come in ogni prendersi
cura si evidenzia che, partendo da ciò che a ciascuno appare innanzitutto, di volta in volta, come bene, si procede poi verso il bene autentico, e ci si appropria individualmente di questo bene autentico in quanto bene, così avviene anche con la conoscenza dell’essere che è noto innanzitutto, di volta in volta», il quale è «spesso conosciuto in modo impreciso (ἠρέμα)».98 Non ho né il tempo né il motivo di scrutare in modo più preciso l’ente che «ci» è: questo ente «ha poco o nulla dell’essere».99 Esso esiste in modo talmente ovvio che non me ne accorgo nemmeno, non ci bado. Proprio in questo non essere badato emerge l’ovvietà dell’esserci del mondo. Io però devo partire proprio da ciò che esiste in modo inautentico e procedere verso ciò che ora va autenticamente trasferito nella conoscenza. Queste frasi sono programmatiche e costituiscono il vero contrattacco contro la filosofia platonica. Aristotele dice: per prendermi cura dell’essere devo avere terreno sotto i piedi, un terreno che esiste in una prima ovvietà. Non posso aggrapparmi con la fantasia a un determinato concetto di essere e poi speculare. Questo atteggiamento metodico emerge già, in linea di principio, nel preambolo della Fisica, che costituisce una delle primissime indagini e fu elaborata probabilmente all’epoca in cui Aristotele collaborava ancora con Platone nell’Accademia. Ciò che è noto innanzitutto, ciò da cui parto, è il καθόλου, «qualcosa che ho lì davanti in modo approssimativo».100 Sono orientato superficialmente nel mondo che mi circonda senza che, se mi si chiede apertamente che cosa esso sia, io possa dare una risposta. Quel che importa è però che, attraverso il καθόλου, io veda l’ente autentico.101 Ciò si mostra nel rapporto tra il parlare in quanto parlare corrente e il termine. Quando viene utilizzata nel parlare naturale, la parola rinvia a un ente che «ci» è, chiuso in se stesso, senza che ciò a cui così ci si è rivolti risulti delimitato in modo completo. Se invece il significare e l’utilizzo della parola si compiono in un λόγος che è ὁρισμός, allora questo λόγος scompone l’ente che, in tal modo, «ci» è
in ciò che ora costituisce l’autentico «essere di volta in volta» di un tale oggetto: τὰ καθ᾿ ἕκαστα sono quegli elementi che mi portano ciò che innanzitutto è inteso superficialmente nel distacco necessario affinché possa vederlo autenticamente nella sua articolazione. «I bambini [che in quanto tali vivono in un senso eccellente nel loro mondo, che hanno in modo inarticolato] sono soliti chiamare papà tutti gli uomini, e mamma tutte le donne, e solo in seguito arrivano al διορίζειν».102 «Papà» e «mamma» rappresentano per il bambino la primissima interpretazione media dell’esistenza di uomini, essa è accessibile innanzitutto, e il bambino la applica a ogni uomo e a ogni donna. L’indeterminatezza dell’accadere corrente gli offre la possibilità di orientarsi nell’ambito degli enti che «ci» sono, cioè degli uomini. Da questo, cioè da ciò che è innanzitutto, bisogna partire, ed è necessario vedere espressamente questo terreno. Ma è proprio da questa base dell’essere naturale nella quotidianità che nasce e si sviluppa la possibilità caratteristica di un parlare peculiare che, ora, si rivolge all’esserci nel suo autentico essere-presente, nel carattere del suo πέρας, e gli si rivolge in modo tale che ciò a cui ci si rivolge è l’esserci nella sua limitatezza. Questo rivolgersi all’esserci nella sua limitatezza è un λόγος in quanto ὁρισμός. Parlare attribuendo un limite significa per i greci rivolgersi all’esserci autentico. Il fatto che il limite e la limitatezza costituiscano l’autentico «carattere di “Ci”» si può vedere in Metafisica Δ 17: πέρας è l’ἔσχατον, «il punto estremo di un ente che di volta in volta “ci” è, ossia il punto in quanto Primo al di là del quale non si può trovare più nulla della cosa in questione, e al di qua del quale si può vedere la totalità dell’ente in questione».103 Ora, questo carattere del πέρας viene definito in quanto εἶδος: l’«essere limitato» è l’autentico «aspetto di un ente che possiede una qualche estensione».104 Πέρας tuttavia non è soltanto εἶδος, ma anche τέλος.105 Τέλος significa «fine (Ende)» nel senso della finitezza, non «meta» o addirittura «scopo». La finitezza è per l’appunto un πέρας così inteso,
ciò «verso cui si dirigono il movimento e l’azione»,106 κίνησις e πρᾶξις, l’avere a che fare con qualcosa in cui un movimento o un’azione trovano la loro fine (nessuna idea di scopo!). Vi sono anche enti nel cui caso entrambi hanno questo carattere di limite: ha il carattere del πέρας anche lo οὗ ἕνεκα, ciò «in vista di cui» qualcosa accade.107 L’autentico, ultimo carattere dell’essere nell’εἶδος e nel τέλος è il carattere del πέρας. L’essere-limitato costituisce un limite per la conoscenza soltanto perché è un esserelimitato della cosa, determina cioè il πρᾶγμα nel suo limite.108 Da quanto detto si può dedurre il significato della massima che Aristotele e i greci seguono nell’indagine teoretica: μὴ εἰς ἄπειρον ἰέναι.109 Εἰς ἄπειρον ἰέναι è un dirigersi verso qualcosa che non è assolutamente più, poiché manca il limite. La massima di evitare il regressus ad infinitum ha per i greci un senso e un peso determinati, e non è in nessun caso applicabile alle indagini odierne, che hanno a che fare con un senso dell’esserci completamente diverso. Se se ne ha bisogno più spesso, bisogna rendere ragione di ciò che si chiama con il nome «essere». I caratteri ontologici implicano l’«elemento-“Ci”» del πέρας. L’esserepresente di un ente nella sua finitezza determina un ente nel suo «Ci», cioè lo caratterizza in senso assoluto. Questo senso dell’essere non è stato trovato dai greci da qualche parte, ma è nato e si è sviluppato a partire da un’esperienza dell’essere determinata, in quanto l’uomo vive in un mondo, in quanto questo mondo è coperto dalla volta dell’οὐρανός, il «cielo», e in quanto il mondo è quell’οὐρανός che è in sé conchiuso e in sé finito. I greci interpretano l’essere in base all’esserci – è questa l’unica maniera possibile. Una determinata esperienza del mondo costituisce il filo conduttore per l’esplicazione dell’essere presso i greci. Come vedete, ciò che all’inizio della nostra analisi abbiamo incontrato come una questione tecnica del pensiero e dell’accuratezza di pensiero, si manifesta in quanto ὁρισμός. Lo ὁρισμός è un λόγος, un determinato «essere nel
mondo», che incontra il mondo che «ci» è nel suo autentico «carattere di “Ci”», rivolgendosi a esso nel suo essere autentico. Abbiamo quindi un’indicazione concreta circa la direzione in cui va cercata l’autentica fondatezza del concetto. La concettualità non è una cosa banale, bensì è una faccenda dell’esserci in senso decisivo, nella misura in cui esso si è deciso a parlare radicalmente con il mondo, cioè a domandare e a indagare. Il λόγος, il «parlare», mostrerà l’ente in se stesso solo quando tale parlare avrà il carattere di indicare l’ente nel suo essere-limitato, ovvero di limitare l’ente nel suo essere. Quello specifico λόγος che è ὁρισμός costituisce il modo autentico di accedere all’ente, il parlare in quanto ὁρισμός è il modo autentico di rivolgersi al mondo. Si può definire questo λόγος come il modo autentico di accedere all’ente nella misura in cui πέρας è il carattere fondamentale del «Ci». Ὁρισμός è il parlare con quell’ente che è nel modo dell’essere-presente, e in esso è limitato, nella misura in cui lo concerne in quanto limitato. Se in seguito si è tradotto il termine οὐσία con «essenza» – cosa che oggi si fa con particolare frequenza, richiamandosi a tale traduzione in modo più o meno esplicito –, allora bisogna avere le idee chiare su che cosa si intende quando si utilizzano termini specifici come «essenza», «intuizione essenziale», «nessi essenziali», bisogna sapere cioè se, in tal caso, si intende l’ente che si vuole mostrare nello stesso senso dell’essere dei greci. Se invece non è così, bisogna mostrare che cosa si intende per essere. Finché ciò non avviene, ogni intuizione essenziale se ne sta vagamente sospesa in aria – come poi di fatto accade. Nei greci invece il concetto di essere non è caduto dal cielo, ma ha il suo terreno determinato. Se indaghiamo i concetti fondamentali nella loro concettualità capiamo che lo ὁρισμός è una faccenda dell’esserci, dell’«essere nel mondo». I concetti fondamentali di Aristotele vanno compresi approfondendo l’esserci concreto e le sue possibilità fondamentali di parlare con il suo mondo, in cui l’esserci è.
L’analisi del concetto di οὐσία può dimostrare che, in effetti, ogni chiarificazione di concetti nella loro concettualità procede in questo modo. Che cos’è accaduto quando siamo tornati al significato corrente, al fine di ottenere, a partire da esso, qualche indicazione in merito al significato di οὐσία, «Ci», «esserci»? È evidente che questo ritorno non è altro che un prestare ascolto al parlare dell’esserci naturale con il suo mondo, a come l’intesa dell’esserci con se stesso parli dell’ente che «ci» è, a che cosa significhi «essere» in questa comprensibilità naturale. Se ora ci poniamo in modo più esplicito il compito di capire i concetti fondamentali nella loro concettualità, siamo tenuti a intenderci meglio su ciò che Aristotele comprende come esserci, essere dell’uomo nel mondo, su come egli esperisca l’esserci, su quale sia il senso dell’essere in cui egli si rivolge all’esserci, lo interpreta. Solo una volta raggiunta una sicurezza in merito a tutto ciò avremo la possibilità di comprendere i concetti fondamentali nella loro primitiva spontaneità.110
46. Vorlesungen Kants über Logik, a cura di A. Buchenau, in Immanuel Kants Werke, a cura di E. Cassirer, vol. VIII, Berlin, 1923, II: Allgemeine Methodenlehre, parr. 99-109. 47. Ibid., par. 98. 48. Ibid., par. 99, nota. 49. Ibid., I: Allgemeine Elementarlehre, par. 1. 50. Loc. cit. 51. Loc. cit. 52. Ibid., Einleitung, p. 350. 53. Cfr. ibid., p. 351. 54. Ibid., II: Allgemeine Methodenlehre, par. 106. 55. Ibid., par. 106, nota 2. 56. Ibid., par. 106, nota 1. 57. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 3. 58. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 4.
59. Cfr. Porphyrii Introductio in Aristotelis Categorias a Boethio translata, in Commentaria in Aristotelem Graeca, edita consilio et auctoritate Academiae Litterarum Regiae Borussicae, vol. IV/I, Berolini, 1887. 60. Met. Δ 8, 1017 b 22: οὗ ὁ λόγος ὁρισμός. Η 1, 1042 a 17: τούτου δὲ λόγος ὁ ὁρισμός. 61. Aristotelis Organon Graece, novis codicum auxiliis adiutus recognovit, scholiis ineditis et commentario instruxit Th. Waitz, parte II: Analytica posteriora, Topica, Lipsiae, 1846, An. post. B 3, 90 b 16. 62. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 5. 63. Met. Ζ 15, 1040 a 11: τὰ δὲ κείμενα κοινὰ πᾶσιν. 64. Met. Δ 23, 1023 a 8 sg.: τὸ ἄγειν κατὰ τὴν αὑτοῦ ϕύσιν ἢ κατὰ τὴν αὑτοῦ ὁρμήν. 65. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 6. 66. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 7 a. 67. Met. Ζ 1, 1028 b 2 sgg. 68. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 7 b. 69. [Qui «casa», Hausstand, nel senso dell’espressione «metter su casa», einen Hausstand gründen]. 70. Met. Ζ 2, 1028 b 8 sg. 71. Met. Ζ 2, 1028 b 9 sgg. 72. Cfr. Met. Ζ 2, 1028 b 13 sgg. 73. Met. Η 1, 1042 a 6. 74. Met. Ζ 3, 1029 a 33 sg. 75. Met. Δ 8, 1017 b 10 sgg. 76. Met. Δ 8, 1017 b 13 sg.: καθ᾿ ὑποκειμένου. 77. Met. Δ 8, 1017 b 15: αἴτιον τοῦ εἶναι, ἐνυπάρχον. 78. Met. Δ 8, 1017 b 16. 79. Aristotelis De anima libri III, recognovit G. Biehl. Editio altera curavit O. Apelt, in aedibus B.G. Teubneri, Lipsiae, 1911, Γ 2, 427 a 17 sg.: ἐπεὶ δὲ δύο διαϕοραῖς ὁρίζονται μάλιστα τὴν ψυχὴν, κινήσει τε τῇ κατὰ τόπον καὶ [...] τῷ κρίνειν. 80. Met. Δ 8, 1017 b 17: μόρια ἐνυπάρχοντα. 81. Loc. cit. 82. Met. Δ 8, 1017 b 18.
83. Met. Δ 8, 1017 b 20: καὶ ὅλως ὁ ἀριθμὸς δοκεῖ τισι τοιοῦτος εἶναι. 84. Met. Δ 8, 1017 b 21 sg. 85. Met. Δ 8, 1017 b 22. 86. Met. Δ 8, 1017 b 22 sg. 87. Met. Δ 8, 1017 b 23 sgg. 88. Met. Δ 8, 1017 b 26. 89. Met. Δ 8, 1017 b 13 sg. 90. Met. Δ 8, 1017 b 15. 91. Met. Δ 8, 1017 b 16. 92. Met. Δ 8, 1017 b 17. 93. Met. Δ 8, 1017 b 21 sg. 94. Met. Δ 8, 1017 b 26. 95. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 7 c. 96. Aristotelis Physica, recensuit C. Prantl, in aedibus B.G. Teubneri, Lipsiae, 1879, A 1, 184 a 22: συγκεχυμένα. 97. Met. Ζ 3, 1029 b 3 sgg.: ἡ γὰρ μάθησις οὕτω γίγνεται πᾶσι διὰ τῶν ἧττον γνωρίμων ϕύσει εἰς τὰ γνώριμα μᾶλλον. 98. Met. Ζ 3, 1029 b 5 sgg.: ὥσπερ ἐν ταῖς πράξεσι τὸ ποιῆσαι ἐκ τῶν ἑκάστῳ ἀγαθῶν τὰ ὅλως ἀγαθὰ ἑκάστῳ ἀγαθὰ, οὕτως ἐκ τῶν αὐτῷ γνωριμωτέρων τὰ τῇ ϕύσει γνώριμα αὐτῷ γνώριμα [...] πολλάκις ἠρέμα ἐστὶ γνώριμα. 99. Met. Ζ 3, 1029 b 9 sg.: μικρὸν ἢ οὐδὲν ἔχει τοῦ ὄντος. 100. Phys. A 1, 184 a 23. 101. Phys. A 1, 184 a 23 sg.: διὸ ἐκ τῶν καθόλου ἐπὶ τὰ καθ᾿ ἕκαστα δεῖ προϊέναι. 102. Phys. A 1, 184 b 12 sgg.: τὰ παιδία τὸ μὲν πρῶτον προσαγορεύει πάντας τοὺς ἄνδρας πατέρας καὶ μητέρας τὰς γυναῖκας, ὕστερον δὲ διορίζει τούτων ἑκάτερον. 103. Met. Δ 17, 1022 a 4 sg.: τὸ ἔσχατον ἑκάστου καὶ οὗ ἔξω μηδὲν ἔστι λαβεῖν πρώτου, καὶ οὗ ἔσω πάντα πρώτου. 104. Met. Δ 17, 1022 a 6: εἶδος [...] ἔχοντος μέγεθος. 105. Loc. cit. 106. Met. Δ 17, 1022 a 7: ἐϕ᾿ ὅ ἡ κίνησις καὶ ἡ πρᾶξις. 107. Met. Δ 17, 1022 a 8. 108. Met. Δ 17, 1022 a 9 sg.: τῆς γνώσεως γὰρ τοῦτο πέρας· εἰ δὲ τῆς γνώσεως, καὶ τοῦ πράγματος.
109. Phys. Θ 5, 256 a 29. 110. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 8.
II LA DEFINIZIONE ARISTOTELICA DELL’ESSERCI DELL’UOMO IN QUANTO ΖΩΗ ΠΡAΚΤΙΚΗ NEL SENSO DI UNA ΨϒXΗΣ ΕΝΕΡΓΕΙA
Aristotele definisce l’esserci dell’uomo una ζωὴ πρακτική τις τοῦ λόγον ἔχοντος,111 «una vita, e precisamente πρακτική, di un ente che ha il linguaggio». Per farci un’idea concreta di che cosa Aristotele intende con essere ed esserci dell’uomo dobbiamo tentare un’interpretazione di questa definizione, che deve muoversi in una doppia direzione. Se la ζωὴ πρακτική viene determinata in quanto ψυχῆς ἐνέργεια,112 sarà necessario individuare 1. il significato e il contesto materiale che si intende con ἐνέργεια, 2. il contesto che si intende con ψυχή. Ad 1. ᾿Ενέργεια è forse il carattere ontologico più fondamentale della dottrina aristotelica dell’essere. Il termine contiene la parola originaria ἔργον. Dall’ἐνέργεια torneremo all’ἔργον e domanderemo: che cos’è l’ἔργον dell’uomo, l’«esecuzione autentica» e il «prendersi cura» in cui l’uomo in quanto uomo vive nel suo essere uomo? Ne potremo dedurre il modo del suo essere, nella misura in cui ogni ἔργον, in quanto ἔργον, ha la sua limitazione determinata conforme all’essere. Ciò che costituisce il suo πέρας è l’ἀγαθόν (non valore!). Da questo ἀγαθόν in quanto πέρας saremo condotti al limite eccellente di un essere che è definito in quanto κίνησις. Un limite così inteso di un essere così inteso è τέλος. Saremo condotti alla definizione dell’εὐδαιμονία in quanto τέλος così inteso, ovvero alla definizione di quell’alcunché che l’ente reca in sé del carattere della vita in quanto sua possibilità fondamentale. La vita è 1. un modo dell’essere, caratterizzato dal suo «essere in un mondo»; 2. un ente cui nel suo essere in quanto tale ne va di questo essere in quanto tale, un ente
cioè che si prende cura del suo essere. L’essere proprio della vita è posto in qualche modo nel suo ἔργον in quanto τέλος. All’interno di queste concrete possibilità dell’esserci, in base alle quali ogni esserci concreto si decide, Aristotele cerca le possibilità fondamentali. L’ultima possibilità fondamentale, nella quale l’esserci è in modo autentico, la designiamo come esistenza. L’esistenza in senso radicale è per i greci proprio quel modo dell’«essere nel mondo», del permanere in esso, che motiva lo ὁρισμός in quanto parlare con il mondo. L’esistenza, la possibilità fondamentale radicale dell’esserci, è per i greci il βίος θεωρητικός: la vita permane nella contemplazione pura. Ad 2. La seconda direzione procede – ontologicamente contrapposta – dalla chiarificazione della ψυχή. La ψυχή è un’οὐσία, i cui elementi fondamentali sono per Aristotele il κρίνειν e il κινεῖν,113 il «distinguere e determinare» e il «muoversi» nel mondo, l’«avere a che fare con il mondo». Essi forniscono il terreno per l’ulteriore concreta messa in evidenza dell’«essere nel mondo», con un ulteriore sviluppo per la possibilità dello ἑρμηνεύειν. L’«ascoltare», ἀκούειν, ciò che corrisponde al parlare, è il modo fondamentale del «percepire», l’autentica possibilità dell’αἴσθησις. Nell’ascoltare sono in comunicazione con altri uomini, nella misura in cui essere-uomo significa parlare. L’esplicita accentuazione dell’ἀκούειν è un fatto singolare, dato che solitamente per i greci la possibilità fondamentale in quanto esistenza sta nel θεωρεῖν, nello ὁρᾶν. Discuteremo in seguito come le due cose possano stare assieme.114 In queste due direzioni perseguiamo la chiarificazione della struttura ontologica dell’esserci dell’uomo in Aristotele. Nella sua esplicazione non fa che compiersi esplicitamente ciò che era già vivo nella storia dell’interpretazione greca dell’esserci. Aristotele mira solo a dire ciò che è ἔνδοξον, ciò che è implicito nell’essere naturale dell’esserci stesso, ciò che è ovvio. Spesso però questo è proprio il più difficile a dirsi. A questa disamina del carattere ontologico dell’esserci siamo in certo modo già preparati, giacché ho
intenzionalmente premesso una descrizione provvisoria dei caratteri ontologici. È probabile che tali caratteri svolgeranno un ruolo anche nella definizione dell’uomo. Quindi possediamo già un filo conduttore per la caratterizzazione ontologica dell’esserci, siamo cioè già parzialmente orientati riguardo al λόγον ἔχον.
9. L’esserci dell’uomo in quanto ψυχή: essere parlante (λόγον ἔχειν) ed «essere l’uno con l’altro» (κοινωνία) (Pol. A 2, Rhet. A 6 e 11) Dobbiamo intenderci ora riguardo al λέγειν. Non possediamo ancora chiarezza riguardo a quel «parlare» che costituisce l’autentico essere dell’uomo. a) La definizione dell’uomo in quanto ζῷον λόγον ἔχον. Il compito di distinguere il λόγος dalla ϕωνή Intendiamo considerare nel dettaglio il libro I, capitolo 2, della Politica. La definizione dell’uomo in quanto ζῷον λόγον ἔχον compare qui con una finalità determinata, assieme alla dimostrazione che la πόλις è una possibilità ontologica della vita umana, possibilità che è ϕύσει.115 Il termine ϕύσις non va inteso in questo caso nel senso moderno di quella «natura», contrapposta alla «cultura», con cui poi si polemizza con Aristotele. Si tratta di una prospettiva superficiale. Φύσει ὄν è un ente che è cio che è a partire da se stesso, in base alle sue proprie possibilità. È l’essere dell’uomo stesso che implica la possibilità fondamentale dell’«essere nella πόλις». Nell’«essere nella πόλις» Aristotele vede la vita autentica dell’uomo, e per dimostrarlo egli rinvia al fatto che l’essere dell’uomo è λόγον ἔχειν. Questa definizione racchiude implicitamente in sé un modo
fondamentale e del tutto peculiare dell’essere dell’uomo, caratterizzato in quanto «essere l’uno con l’altro», κοινωνία. Questo ente, che parla con il mondo, è tale da essere nell’«essere con altri». λόγον δὲ μόνον ἄνθρωπος ἔχει τῶν ζῴων· ἡ μὲν οὖν ϕωνὴ τοῦ ἡδέος καὶ λυπηροῦ ἐστι σημεῖον, διὸ καὶ τοῖς ἄλλοις ὑπάρχει ζῴοις (μέχρι γὰρ τούτου ἡ ϕύσις αὐτῶν ἐλήλυθε, τοῦ ἔχειν αἴσθησιν λυπηροῦ καὶ ἡδέος καὶ ταῦτα σημαίνειν ἀλλήλοις), ὁ δὲ λόγος ἐπὶ τῷ δηλοῦν ἐστι τὸ συμϕέρον καὶ τὸ βλαβερὸν, ὥστε καὶ τὸ δίκαιον καὶ τὸ ἄδικον· τοῦτο γὰρ πρὸς τὰ ἄλλα ζῷα τοῖς ἀνθρώποις ἴδιον, τὸ μόνον ἀγαθοῦ καὶ κακοῦ καὶ δικαίου καὶ ἀδίκου καὶ τῶν ἄλλων αἴσθησιν ἔχειν. ἡ δὲ τούτων κοινωνία ποιεῖ οἰκίαν καὶ πόλιν.116 «Tra tutti i viventi solo l’uomo ha il suo esserci nel modo del “parlare di...”. Ora, è ben vero che l’espressione sonora tramite la voce (ϕωνή) è un segnale (σημεῖον) dello ἡδύ e del λυπηρόν, del piacevole e del doloroso, di ciò che solleva e incupisce l’esserci, ed è per questo che essa [la ϕωνή], in quanto modo della vita, è presente anche in altri esseri viventi [anche l’uomo possiede questa espressione sonora, però essa non è l’ἴδιον, il «carattere peculiare» che costituisce l’essere dell’uomo]. La possibilità di essere degli animali è giunta da sé fino a questo modo di essere, ad avere cioè percezione di ciò che costituisce il benessere e il malessere, a essere orientati su di esso e a segnalarselo a vicenda. È anche vero però che il parlare in quanto tale va oltre a ciò, implica cioè la funzione di manifestare (δηλοῦν) [non semplicemente inviare un segnale, ma farlo in modo che l’oggetto della segnalazione venga portato al parlare], di manifestare il giovevole e il nocivo e, con ciò, anche il giusto e l’ingiusto. Ed è appunto questa, rispetto agli altri esseri viventi, l’unica qualità specifica dell’uomo, il fatto cioè di essere l’unico ad avere percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, e di questo genere di cose. L’essere l’uno con l’altro di esseri così essenti [che cioè sono nel mondo in modo tale da parlare con esso] costituisce la famiglia e la πόλις».
Vedete dunque che in questa definizione, λόγον ἔχον, emerge un carattere fondamentale dell’esserci dell’uomo, l’essere l’uno con l’altro. Ovviamente non si tratta di un essere l’uno con l’altro nel senso dell’essere posti l’uno accanto all’altro, bensì nel senso dell’essere-parlanti l’uno con l’altro nel modo della comunicazione, della confutazione e della discussione. Consideriamo attentamente il passo aristotelico. Intendiamo distinguere (cosa che Aristotele ha fatto consapevolmente) il λόγος da altri modi dell’«essere nel mondo», dalla ϕωνή. Che cosa significa propriamente questa «espressione sonora», questo σημαίνειν ἀλλήλοις? Esso costituisce l’essere l’uno con l’altro di questi viventi. Prenderemo quindi in esame una doppia prospettiva, riferita sia alla ϕωνή sia al λόγος. 1. Tanto nella ϕωνή che nel λόγος si mostra una determinatezza dell’«essere nel mondo», un modo determinato dell’incontro tra la vita e il mondo, nel primo caso nel carattere dello ἡδύ e del λυπηρόν, nel secondo nel carattere del «giovevole» (συμϕέρον) e del «nocivo» (βλαβερόν). Si tratta di determinazioni fondamentali: significano infatti che nel suo esserci naturale il mondo non è un dato di fatto di cui prendo conoscenza, non è una realtà fisica o empirica, ma «ci» è per lo più nel modo del giovevole e del nocivo, di ciò che solleva o incupisce l’esserci. E questi caratteri dell’accesso si danno in primo luogo nell’«espressione sonora», poi nel «parlare», nella ϕωνή e nel λόγος. Assistiamo per una volta al modo in cui l’espressione sonora e il parlare si appropriano del mondo che incontrano nel suo «carattere d’esserci» prossimo e originario, per comunicarlo ad altri, in maniera tale che questi enti sono l’uno con l’altro. Il carattere d’esserci del mondo implica per l’appunto l’essere-riferito del suo «Ci» a molti, che sono l’uno con l’altro. Questo mondo essente-ci anzitutto per molti, che vivono l’uno con l’altro, è da noi chiamato mondo circostante, cioè il mondo in cui mi do da fare innanzitutto e per lo più.
2. Osserviamo come queste due possibilità in cui il mondo ci si fa incontro nel suo esserci più prossimo siano, in quanto tali, i modi in cui i viventi sono l’uno con l’altro, in cui cioè si costituisce la κοινωνία. Il nostro prossimo compito sarà dunque quello di renderci conto che, in effetti, con le determinazioni dello ἡδύ e del λυπηρόν si intendono momenti d’incontro con il mondo, indirizzati all’«essere nel mondo» e alla vita in modo che ciò che «ci» è nel carattere dello ἡδύ e del λυπηρόν non viene per nulla colto esplicitamente in quanto tale nella sua realtà. Nel carattere dello ἡδύ e del λυπηρόν il mondo è non-oggettuale, gli animali non hanno lì davanti il mondo in quanto insieme di oggetti. L’incontro con il mondo avviene qui nel modo di ciò che solleva e incupisce, si incontra il mondo in questo carattere in maniera tale che i viventi, parlando, immettono tale carattere direttamente nell’ente che «ci» è. Questo contesto emerge in tutta la sua evidenza se consideriamo con attenzione una definizione fornitaci da Aristotele nel libro I, capitolo 11, della Retorica, ovvero la definizione di ἡδονή, concepita come un modo determinato dell’«essere nel mondo», quello del «sentirsi bene». «È dunque per noi assodato che il sentirsi bene in una situazione è uno specifico movimento dell’essere del vivente nel suo mondo, per la precisione κατάστασις ἁθρόα, “trasporsi completamente tutto d’un colpo”, εἰς τὴν ὑπάρχουσαν ϕύσιν, nella possibilità effettivamente disponibile dell’esserci in questione, in modo tale che, nel far ciò, lo si percepisca».117 Questa κατάστασις altro non significa che il sentirsi bene: essere sollevati tutto d’un colpo, una specifica leggerezza dell’«essere nel mondo», che è implicita nella gioia. «Λύπη è il contrario».118 Data questa definizione del carattere fondamentale della ἡδονή in quanto tale, potete comprendere quanto segue: «Se quindi ἡδονή è qualcosa del genere [un movimento, un mutamento repentino dell’essere della vita], allora è manifestamente lo ἡδύ, “ciò che solleva” [al contrario del λυπηρόν, «ciò che opprime»], il ποιητικόν, ciò che può fare e produrre tutto
questo, ovvero il suddetto “sentirsi-situato” (διάθεσις), la situazione, il modo del sentirsi-situato».119 Lo ἡδύ è quindi una capacità di orientare e organizzare. «Ciò che distrugge la ἡδονή, producendo la situatività opposta, è il λυπηρόν, ciò che incupisce».120 Dobbiamo chiederci in che senso la ἡδονή – che si riferisce a uno ἡδύ che si fa incontro e lo indica ad altri – contribuisca propriamente all’«essere nel mondo» in quanto essere l’uno con l’altro. Le nostre considerazioni al riguardo troveranno poi il loro compimento in riferimento al λόγος. b) Il λόγος dell’uomo e la ϕωνή dell’animale in quanto modi peculiari dell’«essere nel mondo» e dell’essere l’uno con l’altro Stiamo cercando il contesto peculiare della concettualità, ma, nel farlo, siamo ricondotti alla definizione dell’essere dell’uomo – un essere che viene caratterizzato come vita che parla. Dobbiamo quindi esaminare il parlare, per vedere quali determinazioni ontologiche dell’uomo siano contenute nel λόγος. Aristotele ricorre alla determinazione ontologica dell’uomo in quanto ζῷον λόγον ἔχον: egli vuole mostrare che la πόλις, cioè un essere-assieme di tipo caratteristico, non è attribuita all’uomo dall’esterno, poiché, all’opposto, essa è la possibilità ontologica – ϕύσει –121 implicitamente racchiusa e inscritta nel suo proprio essere; la πόλις scaturisce da un determinato essere l’uno con l’altro, che, a sua volta, si fonda in un «avere in comune» qualcosa, e per la precisione, in senso specifico, in una κοινωνία del συμϕέρον e dell’ἀγαθόν. Nell’avere in comune il mondo, in queste determinazioni, si fonda la possibilità determinata e limitata di un essere l’uno con l’altro eccellente, che è espresso dalla πόλις. Ed è appunto la κοινωνία ἀγαθοῦ che Aristotele cerca di rendere comprensibile in base all’essere dell’uomo. Dunque la κοινωνία ἀγαθοῦ va ricondotta all’essere dell’uomo – un’operazione che Aristotele conduce
tornando al fenomeno del λόγος. Emerge così che la κοινωνία, che costituisce la «casa» (οἰκία), è possibile solo sul fondamento del λέγειν, ovvero in base al dato di fatto fondamentale che l’essere dell’uomo è parlare con il mondo, il che significa: esprimersi, parlare con altri. Parlare non è primariamente e anzitutto un processo dato, cui si aggiungono in seguito altri uomini, di modo che soltanto allora esso diventerebbe un parlare con altri, poiché, al contrario, il parlare è in se stesso in quanto tale un esprimersi, un parlare l’uno con l’altro con altri parlanti, ed è quindi il fondamento, conforme all’essere, della κοινωνία. Dobbiamo approfondire la comprensione di questo fatto chiarendoci come possa mai accadere che, in effetti, sia proprio il λόγος ciò che può costituire l’avere in comune l’ἀγαθόν. Aristotele tocca questo argomento nel contesto del tentativo di dimostrare che l’uomo è uno ζῷον πολιτικόν. Egli ricorre qui all’essere degli animali e pone lo ζῷον λόγον ἔχον a confronto con uno ζῷον che ha solo la ϕωνή. Egli tenta di mostrare che già la vita che è costituita dalla ϕωνή, insomma che anche i viventi che vivono in questo modo, hanno un essere che è fondamentalmente determinato in quanto essere l’uno con l’altro, ovvero che anche gli animali sono già in un certo senso ζῷα πολιτικά. L’uomo è solo μᾶλλον ζῷον πολιτικόν, per esempio, delle api.122 In virtù della delimitazione rispetto all’essere degli animali, costituita dalla ϕωνή, dovrebbe risultare caratterizzato in modo più preciso quell’essere peculiare che è determinato dal λόγος. α) Orientamento in merito ai fenomeni che si pongono alla base della distinzione tra λόγος e ϕωνή Per facilitare la comprensione di questo confronto, e per intendere nel contempo in modo corretto la distinzione tra λόγος e ϕωνή, forniamo in sintesi, in termini generali, un orientamento in merito ai fenomeni che si pongono alla base
del confronto stesso. In entrambi i casi, sotto osservazione è il vivente, la vita in quanto «essere in un mondo». Il mondo esiste per questo «essere in esso», non già di tanto in tanto e occasionalmente, poiché esso, al contrario, «ci» è costantemente. La domanda è solo come questo esserci del mondo venga determinato in senso primario. Il mondo «ci» è nella vita in modo tale che esso sempre, in qualche maniera, riguarda la vita, l’«essere nel mondo». Il mondo in cui sono situato mi riguarda. Caratterizziamo questo riguardare, ovvero il fatto che la vita viene riguardata dal mondo in cui è, come un modo determinato del farsi incontro del mondo nella vita. Il mondo, in quanto mondo riguardante un vivente, viene incontrato nella direzione dell’«essere in esso», si fa incontro, cioè concerne l’«essere in esso» del vivente. Se diciamo che il carattere del farsi incontro del mondo è il riguardare, dobbiamo però sottolineare anche che, per lo più, mi si fanno incontro molte cose che non mi riguardano per nulla, ovvero che proprio nella vita quotidiana il mondo esiste in modo tale che esso, per me, per il mio essere in e con esso, è senza importanza, non mi importa: l’essere senza importanza in quanto carattere dell’esserci del mondo circostante. L’essere senza importanza è uno specifico carattere del riguardare. Quando dico: «Questo non mi riguarda», ciò non significa che «questo» non «ci» sia, poiché, al contrario, proprio allora concedo al mondo il fatto di esserci. In ciò consiste il carattere specifico della quotidianità. Se quindi l’essere senza importanza è un carattere della quotidianità della vita che determina il mondo nel suo esserci, e se l’essere senza importanza, come tale, diviene comprensibile come qualcosa che non mi riguarda, allora si evidenzia per l’appunto il fatto che l’esserci interpreta il mondo in quanto (nel carattere di) qualcosa che lo riguarda. La «vita nel mondo» viene riguardata dal mondo. La specifica modalità in cui il mondo «ci» è, la possibilità
dell’esserci del mondo in un vivente, dipendono dalla possibilità fondamentale del vivente stesso: fino a che punto questa vita è chiusa in se stessa, oppure, viceversa, fino a che punto la vita è desta, l’«essere nel mondo» è scoperto, ha il carattere del «Ci» scoperto, fino a che punto insomma il mondo stesso e l’«essere nel mondo» sono svelati. Qui si hanno gradi e livelli diversi. Aristotele coglie proprio questo fenomeno peculiare quando dice: μέχρι γὰρ τούτου ἡ ϕύσις αὐτῶν ἐλήλυθε, τοῦ ἔχειν αἴσθησιν λυπηροῦ καὶ ἡδέος,123 «fin qui il modo del loro [degli animali] essere è pervenuto nella sua possibilità ontologica, l’essere degli animali è aperto, nella misura in cui è un avere la percezione dello ἡδύ e del λυπηρόν, cioè delle determinazioni di ciò che solleva e di ciò che deprime». Il termine αἴσθησις non va tradotto con «sensazione», poiché significa semplicemente la «percezione» del mondo, la modalità dell’«averlo lì davanti». In che misura sia possibile che il mondo riguardi un essere dipende da questo peculiare essere-aperto. L’essere-aperto del vivere degli animali, ovvero il modo in cui si forma, si sviluppa e si annuncia questo essere-aperto, è caratterizzato, negli animali, dalla ϕωνή, nell’uomo dal λόγος. L’essereaperto dell’essere del mondo ha in Aristotele la sua autentica possibilità fondamentale nel λόγος, poiché nel λόγος colui che «vive in un mondo» si dedica al mondo, lo ha lì davanti, e in questo averlo lì davanti egli in senso proprio è e si muove. Analizzando questi due modi fondamentali dobbiamo porci le seguenti domande: 1. Come si fa incontro il mondo nella vita degli animali caratterizzata dalla ϕωνή? Quali sono i caratteri di tale incontro? Come indicano, gli animali, il mondo che si fa incontro, qual è il modo fondamentale del «Ci», dell’«essere nel mondo»? 2. In termini corrispondenti va considerato l’essere dell’uomo nel mondo tramite il λόγος: in che senso, nel caso dell’uomo, il mondo «ci» è? Come viene portato a mostrarsi tramite il λόγος? Come «ci» è il mondo nel carattere d’incontro del συμϕέρον e dell’ἀγαθόν? Il carattere d’incontro del mondo per la vita degli animali
è lo ἡδύ e il λυπηρόν, il carattere d’incontro per l’essere dell’uomo è il giovevole e il nocivo, in sintesi: l’utile e il bene. Fatta questa distinzione, non si deve dimenticare però che (come Aristotele mostra nel De anima nella sua indagine sui caratteri ontologici del vivente) le specifiche possibilità ontologiche cui è pervenuto l’animale non si limitano a stare semplicemente accanto a quelle dell’uomo, poiché – come tutte le possibilità possedute dall’animale – esse «ci» sono implicitamente anche nell’uomo, cioè non se ne stanno lì l’una accanto all’altra, ma sono determinate dall’οὐσία dell’uomo, dal suo modo di essere nel mondo, sicché il carattere della ἡδονή subisce una modificazione determinata, conformemente al modo di essere dell’uomo nel mondo. Qui però Aristotele si serve di una contrapposizione tra i rispettivi livelli della svelatezza in cui la vita, di volta in volta, si muove. β) I caratteri d’incontro del mondo dell’animale: ἡδύ e λυπηρόν. La ϕωνή in quanto segnalare, attirare e avvertire Nella Retorica, libro I, capitolo 11, Aristotele fornisce una definizione di ἡδονή, che è nostro compito comprendere in modo più preciso. ῾Hδύ e λυπηρόν sono ποιητικὰ ἡδονῆς καὶ λύπης.124 «Ciò che può dare forma, in quanto gradevole, a ciò che si fa incontro nel mondo» non necessita di essere direttamente presente, può anche solo annunciarsi, così come il λυπηρόν può solo minacciare. Questo carattere del «può» specifica ulteriormente l’esserci del mondo – un carattere su cui ora non posso soffermarmi di più. Lo ἡδύ, ciò che «solleva», incontra nella direzione della διάθεσις,125 del «sentirsi-situati», in modo tale, quindi, da dare forma a una determinata situatività: εἰς τὴν ὑπάρχουσαν ϕύσιν,126 nella direzione della situatività, che, nella misura in cui «ci» è, è tale da costituire l’ente nella sua possibilità ontologica più propria, presso di sé, presso ciò che è proprio dell’animale conformemente al suo essere. L’esserci è sollevato, è leggero, è autenticamente se stesso.
A tale proposito, per comprendere il contesto specifico, bisogna prestare attenzione a quanto segue: se lo ἡδύ incontra e dà forma a una situatività, allora lo ἡδύ incontra un animale che è già nel modo del trovarsi-situato nel mondo. Una determinata situatività è già data in anticipo, di modo che la formazione di un determinato sentirsi-situato da parte dello ἡδύ significa che un trovarsi, che viene riguardato dallo ἡδύ, si traspone situativamente in un trovarsi nuovo, determinato dallo ἡδύ – κατάστασις: 1. il «trasporsi» in un sentirsi-situato, 2. questo stesso «sentirsi situati» in cui si è portati. Mi ritengo autorizzato a fornire questa doppia traduzione in base a un contesto fondamentale della vita: tutti i modi della vita sono caratterizzati dal fatto che il modo dell’essere, qui, è un sentirsi-situato nel modo del «portare in una situatività ed essere in essa». Io mi sento situato in senso proprio solo in virtù del fatto che «mi ci si porta», ed è dunque per questo che tale doppio carattere va necessariamente esplicitato. «Nella» gioia giungo solo ed esclusivamente in virtù del fatto di gioire. Per quanto io possa essere attorniato da una quantità di cose piacevoli, è tuttavia solo in virtù del fatto di gioire che raggiungo l’autentica gioia. Ciò vale per ogni fenomeno della vita, se la si determina in questo modo. La vita come «essere in un mondo» si trova caratterizzata dalla ἡδονή, nella misura in cui lo ἡδύ «ci» è. Incontrare il mondo nel carattere dello ἡδύ significa per l’animale, ad esempio, un luogo favorevole per nutrirsi, e non una sinfonia, è cioè sempre qualcosa che si trova nel mondoambiente circostante l’animale. Questo ente che «ci» è nel carattere del «riguardare l’animale» viene segnalato, l’animale emette un «segnale», σημεῖον. Esso segnala l’ente che «ci» è avente il carattere dello ἡδύ. L’animale non tiene una relazione sull’essere presente di qualcosa di gradevole lì fuori nella natura, poiché questo segnalare ed emettere grida è piuttosto in se stesso un attirare o un avvertire. La segnalazione dell’ente che «ci» è è attrazione e avvertimento. Attrazione e avvertimento implicano in sé il
carattere dell’indirizzarsi a... Attirare significa: portare un altro animale nel medesimo sentirsi-situato; avvertire significa: indurlo ad allontanarsi da questo stesso sentirsisituato. In quanto allontanare e portare, avvertire e attirare implicano in sé, come proprio fondamento, l’essere l’uno con l’altro. Già nell’attirare e avvertire si evidenzia il fatto che l’animale è con un altro. L’essere l’uno con l’altro diviene manifesto proprio nello specifico carattere ontologico dell’animale in quanto ϕωνή. Non viene mostrato, e nemmeno annunciato, che lì «ci» è qualcosa in quanto tale; gli animali non giungono a constatare qualcosa in quanto presente lì davanti, essi si limitano a segnalarlo nell’ambito del loro «avere da fare» animalesco. Segnalando ciò che minaccia o spaventa, ecc., l’animale, in questa segnalazione dell’esserci del mondo, annuncia nel contempo il suo essere in esso. Il mondo viene segnalato in quanto ἡδύ e, al tempo stesso, ciò costituisce un annuncio del fatto che si è, si è minacciati, si è trovato qualcosa, ecc. γ) I caratteri d’incontro del mondo dell’uomo: συμϕέρον, βλαβερόν e ἀγαθόν. Il λόγος in quanto esprimersi con altri in merito a ciò che è utile alla fine del prendersi cura Dobbiamo ora individuare nel λόγος il medesimo carattere duplice che sorge in virtù del fatto che la segnalazione del mondo che si incontra nella ϕωνή è al tempo stesso annuncio dell’«essere in esso». Va chiarito in che senso nel parlare, in quanto fenomeno fondamentale dell’essere, si evidenzi come anch’esso nasca dal modo fondamentale dell’essere in quanto essere l’uno con l’altro. In che cosa si distingue l’«essere nel mondo» tramite il λόγος dall’«essere nel mondo» tramite la ϕωνή? Abbiamo appurato che la ϕωνή, analogamente al λόγος nell’uomo, è una determinazione ontologica fondamentale dell’animale nella doppia funzione: 1. la segnalazione di qualcosa, segnalazione del mondo in quanto ἡδύ e λυπηρόν,
la quale 2. in quanto annuncio costituisce ciò che si intende come l’essere l’uno con l’altro caratteristico degli animali. In questo «essere nel mondo» degli animali si manifesta l’essere peculiare degli animali in quanto tale, l’essere l’uno con l’altro. Aristotele premette il riferimento alla ϕωνή e agli ζῷα in quanto θηρία per fornire lo sfondo corretto all’ulteriore caratterizzazione dell’essere dell’uomo nel mondo, cioè all’indagine sul λόγος. Dovremo verificare ora in che modo nel λόγος in quanto tale si evidenzi l’essere caratteristico dell’uomo nel suo mondo in quanto essere l’uno con l’altro, in che senso cioè sia proprio il λόγος ciò in cui si costituisce la κοινωνία, l’«avere-lì in comune» il mondo, in cui gli uomini sono. Se il λόγος costituisce l’averelì in comune il mondo, è in esso che si costituisce la determinazione dell’essere l’uno con l’altro. A sua volta, poi, la definizione ζῷον λόγον ἔχον deve contenere in sé anche quella di ζῷον πολιτικόν. Il che significa: l’uomo è un vivente tale da poter essere ϕύσει nel modo della πόλις, vale a dire che questo eccellente essere l’uno con l’altro non è qualcosa che è attribuito all’uomo dall’esterno, ma è la sua possibilità ontologica. Per i greci l’uomo è autenticamente uomo solo nella misura in cui vive nella πόλις. Questo essere l’uno con l’altro in quanto determinazione fondamentale dell’essere dell’uomo deve emergere nell’analisi più precisa del λόγος, inteso come il modo specifico in cui l’uomo ha lì il suo mondo. Per avere ben chiara la questione di cui si tratta bisogna eliminare fin da subito un pregiudizio al quale oggi più che mai l’analisi è soggetta. Si potrebbe infatti concepire tutta la faccenda come se nella ϕωνή e nel λόγος la realtà venisse colta da una determinata prospettiva, come se il mondo «ci» fosse in un determinato «aspetto», un aspetto relativo al «soggetto», il che significherebbe che il mondo ci si fa incontro soltanto in un «aspetto soggettivo», non propriamente in sé, come se si trattasse di un particolare modo di concepire il mondo. Questo orientamento basato su soggetto e oggetto va eliminato alla radice, non solo perché
questi concetti fondamentali, soggetto/oggetto, e ciò che essi intendono, non compaiono nella filosofia greca, ma anche perché l’orientamento basato su soggetto/oggetto è privo di senso in tale filosofia, giacché non si tratta di caratterizzare un modo di concepire il mondo, bensì l’essere in esso. Inoltre, non bisogna avvicinarsi all’intera analisi dei caratteri d’incontro del mondo come se ci fosse un mondo in sé, di cui l’animale e l’uomo possiederebbero una determinata porzione, e che vedrebbero di volta in volta in un (suo) specifico aspetto. Così come non è corretto parlare di un «mondo animale» e di un «mondo umano». Non si tratta di modi di concepire la realtà in riferimento a determinati aspetti, ma dell’essere nel mondo. È appunto l’incontrare il mondo all’interno di un determinato sentirsi-situato del vivente ciò che fa sì che tanto l’animale che l’uomo siano, ciascuno, nel proprio mondo; è appunto l’essere-riferito dell’animale al mondo ciò che porta propriamente nell’esserci l’animale nel suo essere. Se si assume in generale come tema di un’indagine il concepire e cogliere un mondo, bisogna avere la chiara consapevolezza del fatto che il cogliere e concepire un mondo presuppone un «essere nel mondo». Cogliere il mondo è una determinata possibilità dell’essere in esso – solo essendo nel mondo lo si può cogliere. Con la scissione soggetto/oggetto non ci si avvicina agli stati di fatto, e si finisce per trascurare il fenomeno fondamentale dell’«essere nel mondo». Una cosa è certa: per comprendere bisogna scrollarsi di dosso i modi tradizionali di impostare i problemi filosofici. La questione, adesso, è capire in che senso il λόγος sia quella caratteristica dell’«essere nel mondo» nella quale il mondo «ci» è per l’uomo. Domandiamo: in quale carattere il mondo si fa incontro all’uomo per Aristotele? Qual è l’apertura cui è giunto l’uomo? Lo ἴδιον dell’uomo è: τὸ μόνον ἀγαθοῦ καὶ κακοῦ καὶ δικαίου καὶ ἀδίκου καὶ τῶν ἄλλων αἴσθησιν ἔχειν,127 «che egli soltanto [in quanto uomo] ha αἴσθησις, vive nella percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto», del συμϕέρον e del βλαβερόν.128
Domanderemo quindi anzitutto: che cosa significa propriamente che il mondo in cui l’uomo si muove si fa incontro nel carattere dell’«utile», del συμϕέρον?129 I συμϕέροντα, i «caratteri dell’utile», sono: 1. τὰ πρὸς τὸ τέλος,130 «ciò che in se stesso “tende”, tende alla fine»; 2. κατὰ τὰς πράξεις,131 «nell’ambito della prospettiva propria della πρᾶξις»; 3. σκοπὸς πρόκειται τῷ συμβουλεύοντι,132 «per colui che riflette, ciò a cui egli mira giace lì davanti». Su questa base descriveremo il συμϕέρον e, in seguito, l’ἀγαθόν. Si tratta della modalità specifica in cui il mondo – in quanto mondo riguardante l’uomo – «ci» è per lui. Il nesso con l’ἀγαθόν emergerà dalla cosa stessa. Ad 1. Συμϕέρον è «ciò che è utile a...», ciò che tende alla fine. Un utile è in sé un ente tale da implicare un rinvio a qualcosa. Il rinviare a qualcosa non è per l’utile un aspetto occasionale, ma ne costituisce, appunto, l’utilità. Ciò a cui l’utile in quanto tale rinvia lo si designa come τὸ τέλος. Che cosa dobbiamo intendere con τέλος lo apprendiamo nella seconda definizione. Ad 2. Πρᾶξις è «prendersi cura», e, in quanto tale, qui non significa nient’altro che «portare qualcosa alla sua fine». Ciò implica che il prendersi cura ha in se stesso una fine, e per la precisione ha la fine come quel qualcosa cui il prendersi cura, in quanto prendersi cura, tende. Il συμϕέρον è un rinviare alla fine di un prendersi cura, esso è utile al «portare alla fine» qualcosa. Ad 3. Il συμϕέρον è σκοπός. Il συμβουλεύεσθαι ci viene descritto da Aristotele nel libro VI, capitolo 10, dell’Etica Nicomachea in quanto ζητεῖν τι καὶ λογίζεσθαι,133 un «cercare qualcosa nel modo [καί qui è inteso in senso esplicativo] del riflettere» – λογίζεσθαι: in virtù del fatto che «porto al linguaggio» ciò a cui miro mentre rifletto, ossia l’utile alla fine del prendersi cura. Nella πρᾶξις è implicita una fine, l’utile viene portato alla fine, in ogni prendersi cura è stabilita in anticipo una fine. Il λογίζεσθαι costituisce il
modo peculiare di attuazione della riflessione, cioè del «portare al linguaggio» il συμϕέρον. Se quindi l’utile viene portato al linguaggio, ciò significa che in questo «portare al linguaggio» è implicito il τέλος. L’utile implica il rinvio alla fine. Il λόγος, il λογίζεσθαι, si compie nella struttura fondamentale del «se-allora»: se questo e quest’altro sono la fine di un prendersi cura, allora bisogna porre mano a questo e quest’altro, questo e quest’altro debbono essere portati al linguaggio. Il modo di attuazione del «se-allora», la trattazione approfondita del συμϕέρον, è il συλλογισμός: sono λόγοι messi assieme, strettamente intrecciati l’uno con l’altro. Per la precisione, ciò che viene portato al linguaggio in modo più chiaro è τὸ ὠϕέλιμον, che qui significa lo stesso di τὸ συμϕέρον, ovvero: κατὰ τὸ ὠϕέλιμον, καὶ οὗ δεῖ καὶ ὣς καὶ ὅτε,134 si tratta approfonditamente l’utile in riferimento sia a ciò «che è necessario» per «portare alla fine» un prendersi cura, sia a «come» e «quando» tale prendersi cura debba essere attuato. Solo in questo «portare al linguaggio» il συμϕέρον, cioè il mondo così come esso «ci» è concretamente – solo così il mondo viene portato autenticamente nel «Ci». Il qui e ora dell’essere dell’uomo diviene esplicito in una riflessione determinata, sicché, in virtù di questo riflettere, l’uomo – detto in senso moderno – si trova nella situazione concreta, nel vero e proprio καιρός. In questo λόγος, cioè nel λέγειν in quanto λογίζεσθαι, l’essere dell’uomo è un avere-lì il mondo, in modo tale che io sono in esso in una situazione determinata qui e ora. Che cosa significa che il λόγος esprime il συμϕέρον? Rispetto alla ϕωνή, il λόγος è ἐπὶ τῷ δηλοῦν,135 ha cioè il compito di «manifestare» il mondo in un carattere che si compie nel λογίζεσθαι. Il «se» indica che per la riflessione la fine è stabilita: essa non è oggetto di riflessione, è fissata in precedenza. Il «se» costituisce il primo coglimento del τέλος da parte della riflessione: voglio fare un regalo a un amico, procurargli una gioia – e questo è il τέλος: la gioia. Questo τέλος viene anticipato. L’«anticipazione» di un τέλος, di una «fine» della πρᾶξις, è la προαίρεσις. Se voglio questo, se
questo dev’essere portato alla fine, se l’altro deve gioire, che cosa devo fare? Adesso inizia la riflessione: come posso procurare una gioia alla persona in questione? La riflessione mi dice: voglio regalarle un libro. In questa riflessione il mio esserci si orienta, in questo attimo, in questa προαίρεσις. Il guardarsi attorno, in cui si muove la riflessione, ha lì il suo mondo. Vado quindi dal libraio, anzi da quel particolare libraio, per procurarmi rapidamente il libro, in modo da portare alla fine il prendersi cura che ha la gioia come τέλος. Non è che la libreria diventi libreria in virtù della riflessione. Per quell’ente che è nel suo mondo nel modo della πρᾶξις μετὰ λόγου il mondo è lì presente nel carattere del συμϕέρον. L’essere di tale mondo, caratterizzato in quanto esserci, è primariamente così. Il bastone che impugno, il cappello che porto, sono συμϕέροντα. Il bastone non è primariamente un pezzo di legno o qualcosa del genere, bensì è il bastone. In questa riflessione il mondo si attiene espressamente al suo carattere primario dell’in quanto così e così, in quanto utile a..., e precisamente perché il λέγειν, nella sua modalità specifica primaria, si rivolge al mondo in quanto qualcosa: λέγειν τι κατά τινος. Parlando di qualcosa lo rendo attualmente presente, lo porto nel «Ci», qualcosa in quanto questo e quello, nel carattere dell’in quanto. È questa la funzione primaria del λόγος, che a ogni passo ha la capacità, tramite il carattere del «rinviare a...», di porre espressamente in evidenza il mondo portandolo nel «Ci». Appare chiaro quindi che il parlare nel mondo è per l’uomo il δηλοῦν τὸ συμϕέρον.136 Questo «parlare di...» è riflettere, συμβουλεύεσθαι, «portare al linguaggio con se stessi». Consultarsi con se stessi in merito a qualcosa: questa è solo una possibilità specifica di una possibilità assai più originaria, quella del consultarsi con altri. Il «portare al linguaggio in questo modo», in quanto esprimere, è un parlare di qualcosa con un altro, parlarne a fondo. Parlare è un mostrante esprimersi «in merito a...». Non è un parlare che constata, ma un discutere del συμϕέρον. Ciò che si ha di mira è il συμϕέρον.
Il λόγος, che si costituisce nella funzione del mostrare, ha il carattere di uno specifico comunicare: faccio all’altro una comunicazione; nella misura in cui parliamo a fondo di qualcosa, io e l’altro, io con lui e lui con me, abbiamo il mondo lì davanti – κοινωνία del mondo. Parlare è in sé comunicare, e, in quanto comunicazione, non è altro che κοινωνία. Forse nella mia esposizione vi sembra di cogliere un salto, perché non vedete per quale motivo il parlare sia «parlare con altri». I greci però vedono il λόγος in modo originario, mentre noi oggi abbiamo un’idea primitiva, se non addirittura nessuna idea del linguaggio. L’intera Retorica costituisce la prova concreta dell’originarietà del vedere greco. Il parlare è un parlare frutto di riflessione che parla dell’utile, un parlare l’uno con l’altro; il λόγος è il modo dell’essere dell’uomo nel suo mondo, sicché questo essere è in se stesso un «essere con un altro». Tale κοινωνία non è determinata solo dal λόγος, ma anche dal fatto che il λόγος è un riflettere nel guardarsi attorno del prendersi cura. Il prendersi cura è μετὰ λόγου. Μετά significa qui «in mezzo»: il λόγος è implicito nel prendersi cura, il prendersi cura è in se stesso un parlare, un discutere. Finora abbiamo omesso di trattare l’ulteriore carattere dell’incontro con il mondo, l’ἀγαθόν, benché Aristotele, da ultimo, designi il συμϕέρον in quanto ἀγαθόν. Adesso però siamo pronti per comprendere che cosa significa ἀγαθόν. Aristotele ce ne fornisce una disamina nel citato passo della Retorica (libro I, capitolo 6), in diretto collegamento con la definizione di συμϕέρον. ᾿Αγαθόν è: 1. αὐτὸ ἑαυτοῦ ἕνεκα αἱρετόν,137 ciò che è «coglibile in se stesso in vista di se stesso» – qui dunque la definizione di ἀγαθόν in quanto οὗ ἕνεκα, «in vista di», «in vista di cui». 2. καὶ οὗ ἕνεκα ἄλλο.138 Muovendosi in direzione opposta alla precedente, il rinvio va qui dal τέλος al συμϕέρον. Per cogliere questo nesso fondamentale bisogna prestare attenzione al fatto che solo in quanto ha primariamente il carattere della fine l’ἀγαθόν può essere un «in vista di», e
per la precisione un «in vista di un altro». 3. Inoltre, l’ἀγαθόν è definito in quanto οὗ ἐϕίεται πάντα,139 «quel qualcosa a cui tutto si attiene, verso cui tutto è in cammino», e precisamente 4. οὗ παρόντος: questo, «nella misura in cui è presente», εὖ διάκειται.140 Se l’ἀγαθόν «ci» è in quanto tale, se il prendersi cura è portato alla fine, allora εὖ διάκειται colui che si prende cura: egli è in un sentirsi-situato caratterizzato in quanto εὖ. Εὖ è un determinato «come» del sentirsisituato, che ha preso forma nella misura in cui ciò di cui bisognava prendersi cura è stato effettuato. Lo εὖ dipende dalla modalità specifica del procurare la fine. Queste differenti determinazioni dell’ἀγαθόν convergono tutte su un punto, sul fatto cioè che l’ἀγαθόν è primariamente fine, τέλος, più precisamente πέρας. Abbiamo già incontrato il πέρας in quanto determinazione fondamentale dell’essere. c) Il «Si» in quanto «come» della quotidianità dell’essere l’uno con l’altro. La cooriginarietà dell’essere l’uno con l’altro e dell’essere parlanti Come nuovo carattere dell’essere dell’uomo si è posto in luce l’essere l’uno con l’altro. Esso si evidenzia nella struttura concreta del λόγος stesso – λόγος in quanto «parlare», così come vive nella quotidianità, quel parlare che costituisce il modo di attuazione del riflettere, del quotidiano «consultarsi con se stessi», del prendersi cura. Nel riflettere si compie un darsi d’attorno nel mondo, che «ci» è nel carattere dell’ἀγαθόν, ovvero del συμϕέρον. Nel συμϕέρον è implicito il «per che cosa», il τέλος inteso come ciò in e presso cui il prendersi cura giunge alla sua fine. Il συμϕέρον lo si incontra nel λογίζεσθαι, che a sua volta ha la forma di attuazione del συλλογισμός, della deduzione, e precisamente in quanto «se-allora». In ciò il mondo «ci» è in quanto mondo che circonda l’uomo, in cui egli si muove. Nella fattispecie, è
proprio il λόγος a mostrare – cioè a esplicitare – l’utilità in quanto tale e, viceversa, lo οὗ ἕνεκα: λέγειν τι κατά τινος, qualcosa viene inteso «in quanto qualcosa», il mondo viene avuto lì davanti nel carattere dell’«in quanto», posto in una determinata prospettiva. È per questo che Aristotele, nel medesimo passo, può dire anche: αἴσθησιν ἔχειν τοῦ ἀγαθοῦ.141 Definiamo circospezione questa vista del prendersi cura: nel riflettere mi guardo intorno. Al tempo stesso, però, questa circospezione, e ciò che «ci» è in essa, vengono mostrati tramite il λόγος, che è in sé e per sé ἀποϕαίνεσθαι. I caratteri dell’«in quanto così e così» vengono portati espressamente nel «Ci». Vediamo quindi che il λόγος, qui, compie la sua funzione fondamentale: ἐπὶ τῷ δηλοῦν,142 esso «c’è per manifestare» il mondo. Questo manifestare, che si compie tramite il linguaggio, è un comunicare, un «manifestare a un altro», è il modo dell’«avere espressamente lì davanti in comune» il mondo – che è la determinazione fondamentale dell’essere dell’uomo nel mondo. È un modo fondamentale in cui l’essere dell’uomo si manifesta in quanto «l’uno con l’altro». L’uomo è un ente tale da essere uno ζῷον πολιτικόν, che ha nella sua struttura la possibilità di un (compiutamente formato) «essere nella πόλις». Possiamo assumere questa definizione, che è emersa ora in riferimento all’essere dell’uomo, in modo ancora più preciso. Bisogna considerare che con essa non ci siamo limitati, per esempio, a constatare un dato di fatto, come se affermassimo che l’uomo non è solo, ma ce ne sono tanti insieme. L’essere l’uno con l’altro come lo intendiamo noi, infatti, significa un come dell’essere: l’uomo è nel modo dell’essere l’uno con l’altro. L’asserzione fondamentale che io stesso, in quanto uomo vivente nel mio mondo, faccio su me stesso, l’asserzione assolutamente primaria «io sono», è propriamente falsa. Si deve dire piuttosto: «Io sono “Si”». «Si» è, «si» intraprende questo e quello, «si» vedono le cose in questo e quel modo. Questo Si è il vero e proprio «come» della quotidianità, del medio e concreto essere l’uno con
l’altro. Dal Si nasce e si sviluppa la modalità specifica in cui l’uomo vede il mondo innanzitutto e per lo più, in cui il mondo riguarda l’uomo e l’uomo si rivolge al mondo. Il Si è il vero e proprio come dell’essere dell’uomo nella quotidianità, e il vero e proprio portatore di questo Si è il linguaggio. Il Si dimora, ha il suo specifico dominio nel linguaggio. Una comprensione più precisa del Si vi consente di vedere che esso costituisce al tempo stesso la possibilità dalla quale nasce e si sviluppa un essere l’uno con l’altro autentico secondo determinate modalità. La definizione fondamentale dell’essere dell’uomo in quanto ζῷον πολιτικόν va mantenuta, anche nel caso dell’esplicazione successiva, dove si tratta del «rivolgere lo sguardo» (θεωρεῖν) al mondo, ovvero di ciò che, in tale rivolgere lo sguardo, «ci» è, l’εἶδος, l’«aspetto» del mondo come lo si vede abitualmente. Nell’εἶδος è implicita una cosiddetta universalità, una validità universale, una pretesa a una determinata medietà. Sta qui la radice della definizione fondamentale dell’universale, così spesso concepita come definizione fondamentale del concetto greco di scienza. Insomma: questo Si va tenuto primariamente e costantemente presente in quanto definizione fondamentale dell’essere dell’uomo. Questo in un certo modo è il risultato dell’interpretazione del passo del libro I, capitolo 2, della Politica. Si comprende quindi che la determinazione dell’«essere l’uno con l’altro» è cooriginaria alla determinazione dell’«essere parlante». Sarebbe completamente sbagliato dedurre l’una affermazione dall’altra, poiché il fenomeno dell’esserci dell’uomo in quanto tale implica cooriginariamente l’«essere parlante» e l’«essere l’uno con l’altro». Se volete cogliere davvero il fenomeno, questi caratteri della cooriginarietà dell’essere dell’uomo debbono essere tenuti ben fermi nella loro unitarietà.143
10. L’esserci dell’uomo in quanto ἐνέργεια: l’ἀγαθόν (Eth.
Nic. A 1-4) Perché ci interessa l’essere dell’esserci dell’uomo? Perché siamo tornati a questo punto? Risposta: perché in precedenza abbiamo stabilito che la concettualità ci rinvia all’esserci dell’uomo. La concettualità riguarda una determinata possibilità ontologica dell’esserci dell’uomo. Se vogliamo cogliere la concettualità greca dobbiamo renderci comprensibile e accessibile l’esserci nell’interpretazione greca, aristotelica. Impegnati come siamo nel compito di dipanare l’esserci dell’uomo, abbiamo già incontrato alcune determinazioni ontologiche, individuando ad esempio la nuova determinazione ontologica dell’«essere l’uno con l’altro». Nondimeno, proseguiremo finché non avremo incontrato l’autentico carattere dell’essere, il πέρας. Abbiamo già incontrato il πέρας analizzando l’essere l’uno con l’altro. L’essere dell’uomo è definito in quanto prendersi cura, ogni occuparsi di qualcosa in quanto prendersi cura ha una fine determinata, un τέλος. Ora, se l’essere dell’uomo è determinato dalla πρᾶξις, e ogni πρᾶξις ha un τέλος, e se il τέλος di ogni πρᾶξις, in quanto πέρας, è l’ἀγαθόν, allora l’ἀγαθόν è l’autentico carattere ontologico dell’uomo. L’ἀγαθόν è una determinazione dell’essere dell’uomo nel mondo. Con la nostra analisi dell’ἀγαθόν otterremo quindi una nuova chiarificazione dell’esserci dell’uomo, in virtù del fatto che la ricondurremo al πέρας, il che però significa all’autentico carattere dell’essere stesso. In base a ciò che, così, avremo acquisito, indagheremo più nel dettaglio l’ἀγαθόν in quanto determinazione ontologica dell’uomo, carattere ontologico del prendersi cura e, quindi, dell’esserci stesso. Prendiamo dunque in esame l’essere dell’ἀγαθόν greco. A tale scopo ci atteniamo a considerazioni concrete dello stesso Aristotele, svolte per l’esattezza nel libro I dell’Etica Nicomachea. Poniamo quattro domande: 1. Dov’è che l’ἀγαθόν è espressamente visibile in quanto
ἀγαθόν? In quale modo dell’essere riferito al mondo esso è espressamente lì presente? In quale campo lo vediamo originariamente e concretamente? 2. Dov’è l’ἀγαθόν della πρᾶξις, cioè l’ἀγαθόν del prendersi cura in quanto determinazione dell’uomo, l’ἀγαθόν per quel particolare essere definito ζῷον πολιτικόν? Dove si mostra l’ἀνθρώπινον ἀγαθόν? 3. Quali sono le determinazioni fondamentali dell’ἀγαθόν in quanto tale? 4. Qual è quel particolare essere, e quella particolare possibilità di essere dell’uomo, che corrisponde alla struttura (da porre in luce) dell’ἀγαθόν? In sintesi, domandiamo: 1. Dove troviamo qualcosa come l’ἀγαθόν? 2. Come va inteso l’ἀνθρώπινον ἀγαθόν? 3. Quali sono le determinazioni generali dell’ἀγαθόν in quanto tale (quindi, come si evidenzierà, dell’ἀνθρώπινον ἀγαθόν)? 4. Quale essere, quale possibilità di essere dell’uomo corrisponde all’ἀγαθόν? Per la corretta preparazione di questa analisi è importante non scordare le determinazioni dell’essere dell’uomo finora acquisite: 1. Ζωή: l’essere dell’uomo è essere in un mondo. (Immagino che stiate pensando che questo è solo il frutto di una nostra interpretazione proiettiva di Aristotele; forse però in seguito vi renderete conto che l’interpretazione probabilmente non è nient’altro che il porre in luce ciò che non c’è). 2. L’«essere in un mondo» è caratterizzato dal λόγος. 3. Il parlare stesso è il modo di attuazione di un prendersi cura: darsi d’attorno nel mondo prendendosi cura. L’«essere in un mondo» è cooriginariamente un prendersi cura. 4. Il prendersi cura stesso ha sempre una fine prestabilita, mirando alla quale riflette sull’utile: esso possiede in un’anticipazione determinata ciò di cui, per esso, ne va. Aἴσθησιν ἔχει: il prendersi cura è caratterizzato come circospezione. Da ciò nasce e si sviluppa nella quotidianità la possibilità del «mero rivolgere lo sguardo a...», del θεωρεῖν.
5. Questo essere è in se stesso essere l’uno con l’altro, «essere nella πόλις», preso alla lettera. È questa struttura fondamentale che, dunque, va tenuta ferma. Dovete familiarizzarvi con essa, non già imparandola a memoria, bensì dimostrando queste cose nel vostro esserci concreto, chiarendovi in esso. a) L’espressività dell’ἀγαθόν α) L’espressività dell’ἀγαθόν in quanto tale nella τέχνη Dove troviamo espressamente l’ἀγαθόν? Lo chiarisce la prima frase dell’Etica Nicomachea: Πᾶσα τέχνη καὶ πᾶσα μέθοδος, ὁμοίως δὲ πρᾶξίς τε καὶ προαίρεσις ἀγαθοῦ τινος ἐϕίεσθαι δοκεῖ.144 «Sembra che ogni τέχνη [la dimestichezza con qualcosa, con un determinato modo del prendersi cura: il calzolaio sa bene come si fa una scarpa, se ne intende], ogni dimestichezza con un prendersi cura, ogni μέθοδος, ogni “dedizione a una cosa”, ogni “essere sulle tracce” di una cosa [ancora un modo dell’orientarsi, della dimestichezza], così come il prendersi cura di qualcosa e il prefiggersi qualcosa da compiere, di cui occuparsi e da portare alla fine – sembra che tutti questi modi della dimestichezza con qualcosa e del prendersi cura di qualcosa tendano, stiano dietro a un bene». Lo ἐϕίεσθαι, lo «star dietro», appartiene al loro stesso essere. In essi, in quanto dimestichezza con qualcosa e prendersi cura di qualcosa, è presente, «ci» è espressamente un ἀγαθόν. Il prendersi cura non è nient’altro che, e, nel contempo, è talora anche, uno star dietro. Questi caratteri della τέχνη, della πρᾶξις, della μέθοδος e della προαίρεσις sono fenomeni che già conosciamo, e che tornano successivamente nell’Etica Nicomachea negli abbinamenti τέχνῃπρᾶξις,145 προαίρεσις/ γνῶσις:146 una duplicità di determinazioni riguardante l’«essere nel mondo» nella modalità di un prendersi cura che è circospetto, cioè vede qualcosa che ha lì davanti, avendone
in qualche modo dimestichezza. Ora, la τέχνη, la «dimestichezza con il rispettivo prendersi cura», è quel modo dell’«essere nel mondo» in cui diviene espressamente visibile l’ἀγαθόν. La τέχνη rende espressamente visibile il τέλος. Con ciò abbiamo risposto anzitutto, in termini generali, alla prima domanda. β) L’espressività dell’ἀνθρώπινον ἀγαθόν nella πολιτική Ne consegue che, se cerchiamo l’ἀγαθόν dell’essere dell’uomo in quanto ζῷον πολιτικόν, dobbiamo tenere presente quella dimestichezza che è propria dell’essere dell’uomo così definito, ovvero la dimestichezza che rende esplicito nel suo τέλος l’essere dell’uomo in quanto essere l’uno con l’altro – più precisamente: quella dimestichezza che esplicita l’essere l’uno con l’altro in quanto concreto essere nella propria πόλις. La τέχνη, la μέθοδος, che si riferisce all’ente in quanto ζῷον πολιτικόν, è la πολιτική, cioè la dimestichezza con l’essere dell’uomo che è determinato in quanto essere l’uno con l’altro. La politica, in quanto modo determinato della dimestichezza, o della formazione di tale dimestichezza, è ciò in cui verremo a conoscenza di qualcosa riguardo all’essere-τέλος. Se il nostro scopo è comprendere l’ἀνθρώπινον ἀγαθόν, cioè la specifica determinazione ontologica che costituisce l’essere dell’uomo nel suo autentico «essere nel suo mondo», dobbiamo mirare all’essere dell’uomo stesso. Non dobbiamo mai scordare la definizione fondamentale dell’uomo in quanto ζῷον πολιτικόν, esaminandolo nel suo concreto esserci nella πόλις, cioè nel «come» del suo presentarsi nell’essere l’uno con l’altro. L’aspetto che l’uomo ha in questo suo presentarsi, il suo «comportarsi» nel mondo – questo «comportamento» è τὸ ἦθος. La politica, quindi, in quanto dimestichezza con l’essere dell’uomo nella sua autenticità – ἡ περὶ τὰ ἤθη πολιτική –147 è etica. Intendere l’etica come una parte della politica significa fraintenderla. Aristotele dice
espressamente: ἡ μὲν οὖν μέθοδος τούτων ἐϕίεται, πολιτική τις οὖσα,148 «questa indagine [nel libro I dell’Etica Nicomachea] è un’indagine che mira [a formare la dimestichezza con l’essere dell’uomo nella sua autenticità]». Nella misura in cui è πολιτική, questa analisi implica una definizione fondamentale dell’essere in tutte le considerazioni sull’ἀγαθόν. b) Le determinazioni fondamentali dell’ἀγαθόν Ci chiediamo ora quali siano le determinazioni dell’ἀγαθόν in quanto tale. Sappiamo che ἀγαθόν è τέλος. Ci si interrogherà quindi probabilmente circa il carattere dell’essere-fine, della finitezza, della τελειότης, nella misura in cui l’ἀγαθόν è τέλειον, costituisce l’essere-finito. L’ultima questione è: quale essere dell’uomo corrisponde al τέλειον ἀκρότατον? L’ἀγαθόν non è nulla che obiettivamente svolazzi qua e là, bensì è un come dell’esserci stesso. Nella nostra indagine sull’ἀγαθόν, condotta per penetrare con sguardo più preciso nella struttura dell’essere, sono emerse quattro stazioni della discussione dell’ἀγαθόν: 1. Dove diviene visibile in generale qualcosa come l’ἀγαθόν? 2. Dove troviamo, di conseguenza, l’ἀνθρώπινον ἀγαθόν? 3. Quali sono le determinazioni generali dell’ἀγαθόν? 4. Che cosa corrisponde all’ἀγαθόν così caratterizzato? Che cosa costituisce l’esserci dell’uomo nella sua finitezza? Per quanto riguarda l’ambito nel quale l’ἀγαθόν diviene visibile, è necessario tornare alla prima frase dell’Etica Nicomachea, dove si mostra che l’ἀγαθόν è relativo alla τέχνη, alla πρᾶξις, alla προαίρεσις e alla γνῶσις. L’ἀγαθόν lo si trova in una dimestichezza con qualcosa, nel qual caso va tenuto fermo che la τέχνη non accompagna, per esempio, occasionalmente un prendersi cura, anzi: la τέχνη è implicita nel senso del prendersi cura. Quando dico «mi prendo cura di qualcosa», ciò significa che ho dimestichezza con l’ambito
di ciò che mi prefiggo, che il «che cosa» del prendermi cura è nella mia visuale, è espressamente lì davanti, che ho dimestichezza con ciò che è utile. Nella τέχνη in quanto tale ci si fa incontro l’ἀγαθόν, in modo tale da essere espressamente. Ciò indica che nel caso dell’ἀνθρώπινον ἀγαθόν si avrà a che fare con una τέχνη appartenente a un prendersi cura che costituisce l’essere dell’uomo, e che troveremo l’ἀνθρώπινον ἀγαθόν in una caratteristica dimestichezza della vita stessa. Aristotele chiama πολιτική questa τέχνη, e ciò implica che egli intende la dimestichezza della vita riguardo a se stessa in quanto πολιτική, l’esserci in quanto essere l’uno con l’altro. α) Molteplicità e contesto gerarchico dei τέλη, e necessità di un τέλος δι᾿αὑτό Riguardo all’esserci dell’uomo, che viene collocato preventivamente in questo orizzonte, vi sono varie cose da stabilire in modo descrittivo, giacché ci è data qui una molteplicità di modi del prendersi cura. L’essere l’uno con l’altro implica una molteplicità di modi del prendersi cura, non una massa indistinta, ma una pluralità, avente una coesione determinata dal carattere dell’essere l’uno con l’altro. Inoltre, data questa molteplicità di modi del prendersi cura, vi sarà anche una molteplicità dei τέλη, ovvero di ciò in cui il prendersi cura giunge a fine. Riguardo ai τέλη Aristotele opera alcune distinzioni fondamentali. All’inizio dell’Etica Nicomachea dice: διαϕορὰ δέ τις ϕαίνεται τῶν τελῶν· τὰ μὲν γάρ εἰσιν ἐνέργειαι, τὰ δὲ παρ᾿ αὐτὰς ἔργα τινά.149 «Sembra esservi una certa differenza tra i τέλη. Gli uni sono ἐνέργειαι [ἐνέργεια da intendersi in quanto carattere eccellente, forse addirittura fondamentale dell’essere, un «come» dell’essere in un senso assolutamente esemplare, che significa «essere in opera» in quanto tale. Se l’espressione «realtà» non fosse così logora, sarebbe una traduzione perfetta. ᾿Ενέργεια da intendersi quindi in quanto «come» dell’essere, un essere tale da avere
il carattere ontologico della πρᾶξις, dunque il «come» del prendersi cura], gli altri τέλη sono παρ᾿ αὐτάς, accanto al prendersi cura, e precisamente ἔργα, “opere”». Questi τέλη sono tali che, nel caso di un prendersi cura, cadono via. Accanto alla fabbricazione della scarpa, la scarpa cade via. Il παρά allude al fatto che il τέλος del prendersi cura è qualcosa di per sé autonomo, avente per lo più il carattere dell’utile. Una passeggiata, invece – all’opposto della fabbricazione di scarpe, che perviene alla fine presso qualcosa che ha in se stesso il suo proprio essere –, è presso il suo τέλος per il fatto stesso che vado a passeggio; non è che io mi diriga verso questa o quella meta, compiendo un determinato percorso, mi limito a starmene all’aria aperta, vado solo a passeggio. Il τέλος sta nella πρᾶξις. È per il fatto stesso che mi trattengo nel prendermi cura che questa mia occupazione perviene alla fine, al suo τέλος. L’autenticità dell’essere finito, dell’andare a passeggio, si fonda nel modo in cui vado a passeggio. Ci sono due diversi modi del prendersi cura, che si distinguono in base al carattere ontologico di ciò che costituisce il τέλος. πολλῶν δὲ πράξεων οὐσῶν καὶ τεχνῶν καὶ ἐπιστημῶν πολλὰ γίνεται καὶ τὰ τέλη.150 «Ora, poiché vi è una molteplicità di occupazioni, nonché una molteplicità di competenze e di scienze, vi è anche una molteplicità di τέλη». ἰατρικῆς μὲν γὰρ ὑγίεια, ναυπηγικῆς δὲ πλοῖον, στρατηγικῆς δὲ νίκη, οἰκονομικῆς δὲ πλοῦτος.151 «Per la medicina è la salute, per la cantieristica la nave, per la strategia militare la vittoria, per l’attività economica la ricchezza, il patrimonio». Emerge insomma una molteplicità di occupazioni, tanto che ci si chiede in che rapporto stiano l’una con l’altra. L’aspetto concreto dell’esserci dell’uomo in questo essere l’uno con l’altro indica al tempo stesso che si ha a che fare, qui, con una certa gerarchia tra le occupazioni. Un’occupazione fa da guida alle altre. Così, ad esempio, la «cura dei cavalli» per il servizio militare (ἱππική) è determinante per il sellaio che fabbrica i finimenti,152 e quest’ultimo è determinante per la conceria. A sua volta la
ἱππική è guidata dalla strategia bellica, la στρατηγική, che è sottoposta al «comando militare»,153 di modo che quest’ultimo, da un certo punto di vista, è determinante per la conceria. Ne risulta che la στρατηγική è una δύναμις che, con funzione di guida, passa attraverso un’intera molteplicità di occupazioni.154 La στρατηγική è sottoposta a un caratteristico interesse per l’esserci dell’uomo in quanto essere l’uno con l’altro, cioè per la πόλις. Questo esempio mostra che tra la molteplicità delle occupazioni sussiste un rapporto gerarchico, e che quindi si dà un’intera molteplicità di occupazioni che esistono «per via di un’altra», δι᾿ ἕτερον.155 A questo punto Aristotele dice: in questa molteplicità di occupazioni ce ne devono essere alcune, anzi, ce ne deve essere una, ovvero un τέλος tale da essere δι᾿ αὑτό.156 È impossibile che, nell’ambito di tutte le occupazioni possibili nell’essere l’uno per l’altro, «ne afferriamo sempre una per via di un’altra. Così infatti si andrebbe all’infinito, e non si otterrebbe alcun πέρας, sicché la ὄρεξις, la tendenza verso qualcosa, diverrebbe κενὴ καὶ ματαία, vuota e vana».157 Il πέρας determina l’esserci di ciò di cui ci si prende cura. Il prendersi cura di qualcosa implica già il qualcosa di cui ci si prende cura. L’attuazione del prendersi cura è possibile solo in virtù del fatto che ciò di cui ci si prende cura «ci» è, che il prendersi cura non va a tentoni nel vuoto, insomma che il prendersi cura ha il carattere del πέρας. Soltanto per questo è possibile che in genere un prendersi cura pervenga al suo essere. Già in precedenza abbiamo detto di quale senso dell’essere si tratta: esserci è essere-limitato. Afferma infatti Aristotele: la molteplicità delle occupazioni, che costituisce l’esserci dell’uomo in quanto essere l’uno con l’altro, deve avere un πέρας. Ciò però significa: se le occupazioni stanno l’una con l’altra in un rapporto gerarchico, il πέρας è costituito da un τέλος δι᾿ αὑτό, un τέλος di cui ci occupiamo «in vista di esso stesso». Da queste considerazioni generali si può ricavare che l’ἀνθρώπινον ἀγαθόν è ciò che, nella considerazione
dell’esserci dell’uomo, «ci» è in quanto τέλος δι᾿ αὑτό, ovvero ciò che περιέχοι ἂν τὰ τῶν ἄλλων [τέλη]:158 il τέλος che è a tema nella πολιτική dev’essere tale da «comprendere e racchiudere in sé tutti gli altri». Dal genere di questa analisi potete comprendere che in un primo momento essa non fornisce nessuna determinazione di contenuto riguardo a ciò che sarebbe da considerarsi il τέλος dell’uomo. Aristotele si limita a dire che dalla struttura ontologica dell’«essere l’uno con l’altro» deriva che dev’esserci un τέλος δι᾿ αὑτό. Questo τέλος δι᾿ αὑτό è necessariamente il tema della πολιτική. Ci chiediamo quindi: quali sono i caratteri di questo τέλος, ovvero dell’ἀνθρώπινον ἀγαθόν in quanto τέλος δι᾿ αὑτό? Che cosa implica il carattere dell’ἀγαθόν in quanto τέλος δι᾿ αὑτό per l’essere l’uno con l’altro degli uomini? β) I βίοι in quanto τέλη δι᾿ αὑτά. I criteri per il τέλος δι᾿ αὑτό: οἰκεῖον, δυσαϕαίρετον, τέλειον e αὔταρκες Potete notare come Aristotele, in questa analisi apparentemente formale-generale, non perda mai di vista l’esserci concreto, definito «essere l’uno con l’altro». Le ulteriori considerazioni, la messa in luce delle determinazioni fondamentali dell’ἀγαθόν, nonché di ciò che corrisponde a tale ἀγαθόν, si orientano in base all’esperienza concreta stessa, nel senso che a essere oggetto d’indagine non è solo l’esserci presente, poiché nel contempo vengono esaminate anche le opinioni che tale esserci presente ha, di per se stesso, in merito a ciò che, per esso, è l’ἀγαθόν. Aristotele c’è dentro. In effetti, l’esserci concreto non riceve un’interpretazione solo e in primo luogo grazie a lui, poiché nell’esserci stesso è implicita un’interpretazione di se stesso, che esso in una qualche misura porta sempre già con sé. La comprensibilità in cui l’esserci si muove, il Si, si fonda in ultima analisi nella δόξα, ossia in ciò che mediamente si dice delle cose e di se stessi. Questa opinione ovvia che l’esserci ha di se stesso è la fonte
primaria in base alla quale Aristotele si orienta espressamente riguardo a come l’esserci pensa in concreto a ciò presso cui esso ha propriamente la sua finitezza. È per questo che Aristotele, riferendosi al proprio metodo, dice di voler indagare i λόγοι, ἐκ [...] [τῶν κατὰ τὸν βίον πράξεων] καὶ περὶ τούτων:159 ciò che egli stabilisce in merito all’esserci, lo ricava da come l’esserci parla di se stesso, «in riferimento alle condizioni di vita». Bίος: un nuovo concetto di «vita», non lo stesso di ζωή. La moderna biologia non parla del βίος greco. Bίος è «condizione di vita», «cammino di vita», la specifica temporalità di una vita dalla nascita alla morte, il «corso della vita», sicché βίος significa anche «descrizione della vita»: il come di una ζωή è il βίος, la storia di una vita. Ciò che la vita stabilisce riguardo a se stessa, essa lo ricava dalle occupazioni della vita corrente in quanto tale, e questa concezione della vita ricavata dalle occupazioni svolte in una determinata condizione di vita è al tempo stesso, a sua volta, περὶ τῶν πράξεων, interpretazione delle occupazioni da cui è ricavata. È questo il filo conduttore metodico che Aristotele segue nell’analisi dei βίοι, per vedere che cosa la vita stessa ha colto in quanto τέλος καθ᾿ αὑτό. Egli descrive tre di questi βίοι: 1. βίος ἀπολαυστικός, «la vita nel piacere, nel godimento»; 2. βίος πολιτικός, il modo di esperire la vita che si svolge nel prendersi cura all’interno dell’esserci concreto; 3. βίος θεωρητικός, il modo dell’esserci caratterizzato dal contemplare.160 In base a questi βίοι Aristotele mette anzitutto in luce differenti τέλη e, riferendosi a essi, mostra che debbono essere perseguiti δι᾿ αὑτό. Al tempo stesso egli si chiede criticamente se essi corrispondano al senso del δι᾿ αὑτό inteso come τέλος dell’essere l’uno con l’altro. Deve emergere il κριτήριον che questi τέλη debbono soddisfare. Il τέλος dev’essere: 1. οἰκεῖον, 2. δυσαϕαίρετον,161 tale cioè che il τέλος sia «a casa»
nell’esserci stesso, non gli sia attribuito dall’esterno, quindi gli spetti in modo «inalienabile». 3. Tuttavia anche la determinazione del δυσαϕαίρετον non basta, ci dev’essere un τέλειον che «costituisce la finitezza in senso proprio».162 La ἡδονή può anche essere perseguita in vista del mio esserci in quanto tale, e non in vista di se stessa. Ne deriva quindi la necessità di definire il τέλειον. 4. Il τέλος dev’essere αὔταρκες,163 «autosufficiente». Nell’interpretazione dell’αὔταρκες diviene evidente che il τέλος è tale da determinare un esserci in quanto essere l’uno con l’altro. Il τέλος dev’essere autosufficiente nella determinazione dell’essere l’uno con l’altro. Esaminiamo più da vicino queste quattro definizioni. Il τέλος formalmente definito in quanto δι᾿ αὑτό è ciò che solitamente si designa con il termine εὐδαιμονία,164 tradotto abitualmente con «felicità». L’analisi dei βίοι inizia nel libro I, capitolo 3, dell’Etica Nicomachea: «Sembra che ciò che si intende per ἀγαθόν, e per εὐδαιμονία, ovvero ciò che costituisce l’autenticità dell’esserci dell’uomo, lo si sia ricavato οὐκ ἀλόγως dai βίοι [non in modo tale che non ne risultasse nulla di evidente, bensì proprio in modo tale che qualcosa venisse in luce]».165 Oὐκ ἀλόγως significa quindi che la determinazione dell’essere-τέλος del βίος è sulla strada giusta, poiché in effetti si mostra qualcosa di concreto. Del βίος ἀπολαυστικός Aristotele dice che ha il suo τέλος nella ἡδονή, e in modo tale che coloro che si sono decisi per essa τυγχάνουσι δὲ λόγου,166 «entrano nel discorso»: si parla di loro, se ne condivide l’agire, lo si ritiene generalmente giusto, sicché hanno l’approvazione della folla. οἱ δὲ χαρίεντες καὶ πρακτικοὶ τιμήν.167 «Invece le persone colte e coloro che svolgono di fatto una professione pongono il τέλος nella τιμή». Costoro dicono: nell’esserci concreto in quanto essere l’uno con l’altro, ciò di cui ne va in ultima analisi è di guadagnarsi il «rispetto» altrui. A questo proposito Aristotele afferma che nel caso della determinazione del τέλος in quanto τιμή l’ἀγαθόν non sta
presso colui che mira a essere rispettato, ma presso coloro che lo giudicano, poiché sono loro che si sono appropriati dell’ἀγαθόν, mentre gli altri mirano alla τιμή «per assicurare e convincere se stessi che il loro esserci è un ἀγαθόν».168 La τιμή non è quindi qualcosa di implicito nel mio proprio esserci in quanto tale, non è un οἰκεῖον ἀγαθόν – ottengo la τιμή per grazia altrui. Ciò è ancora più evidente nel caso della ἡδονή, tanto che Aristotele non si sofferma nemmeno a mostrare che quest’ultimo ἀγαθόν viene attribuito all’uomo dall’esterno, non è cioè un δυσαϕαίρετον, un «inalienabile». Dunque anche il τέλος concepito come τιμή, per quanto superiore, non è un τέλος che possa essere inteso come possesso ultimo e intimo dell’esserci stesso. Nondimeno, anche l’ulteriore definizione in quanto ἀρετή è κατὰ τούτους.169 «Un uomo può essere virtuoso, e tuttavia può trascorrere la sua esistenza dormendo, può essere sfortunato, oppure non gli riesce nulla»170 – due determinazioni: l’essere desto e il riuscire. Se quindi si mette in conto l’ἀρετή, la «virtù», questo assunto necessita di ulteriori specificazioni. La possibilità che uno passi la vita dormendo, o sia sfortunato, esige che l’ἀρετή sia ἐνέργεια, qualcosa che si mostra nell’azione e ha il suo essere nell’esserci in senso proprio, concreto in ogni situazione. Lo «svolgersi bene» (l’εὐτυχία) è anch’esso una determinazione dell’autenticità di un prendersi cura. L’εὐτυχία è implicita nell’εὐδαιμονία. Si può comprendere perché Aristotele dia per scontato tutto ciò solo se si tiene presente la determinazione dell’essere greco: i greci possiedono il senso pieno e concreto dell’esserci in quanto «essere in un mondo», dell’esserci nella sua concretezza, del fatto cioè che esso viene visto nella vivezza dell’attuazione del prendersi cura. Ciò che la vita ha espresso concretamente su se stessa è qualcosa che reca in sé la propria fondazione. Alla fine del libro I, capitolo 2, dell’Etica Nicomachea Aristotele dice: καὶ εἰ τοῦτο ϕαίνοιτο ἀρκούντως, οὐδὲν προσδεήσει τοῦ διότι,171 «se sono orientato su ciò [che la vita dice di se stessa], non
c’è bisogno di richiamarsi al διότι, perciò, perché, poiché». La vita ha parlato così. Aristotele assume l’interpretazione dell’esserci della vita in termini positivi. Ma appunto dal fatto di parlare in un certo modo di se stesso, e di rivolgersi, così, a se stesso, l’esserci ottiene già la sua fondazione. Se non perdo di vista lo ὅτι, cioè «il fatto che» la vita ha parlato così, e l’ho compreso, allora non c’è più bisogno di un διότι. La vita si è appropriata delle sue possibilità, manifestandole espressamente, e per la precisione da tre punti di vista, i tre βίοι. La discussione del βίος θεωρητικός viene esplicitamente rinviata da Aristotele (cfr. Etica Nicomachea, libro X).172 Egli pone in luce quest’ultimo βίος come la possibilità autentica dell’esistenza umana. Gli altri due βίοι gli offrono invece l’occasione di stabilire due tipi di τέλη: 1. ἡδονή, 2. τιμή. Ad 1. La disamina della ἡδονή è molto breve, poiché è evidente che un ἀγαθόν così inteso sottrae l’esserci a se stesso e lo conduce nel mondo. Nella ἡδονή l’esserci non giunge a se stesso, la vita viene vissuta a partire dal mondo in cui esso si muove, in totale dipendenza dal mondo, non viene vissuto il suo essere proprio. Ad 2. La seconda analisi è già più dettagliata, nella misura in cui emerge che nella τιμή è implicita una possibilità eccellente dell’essere l’uno con l’altro, del «trovarsi situati tra gli altri», dato che proprio quando mi guadagno il rispetto altrui possiedo un posto eccellente nel mondo. L’«essere rispettati tra gli altri» è un’eccellente situatività, che però dipende dagli altri: sta a coloro che mi portano rispetto concedermi o meno il loro rispetto. Sono gli altri, quindi, a possedere l’ἀγαθόν, e sono loro ad avere la facoltà di donarmelo o di negarmelo. Esso non appartiene al mio essere in quanto tale. Dunque la τιμή, se è posseduta dagli altri, non è un ἀγαθόν οἰκεῖον, ovvero un alcunché che è «a casa» presso di me, presso il mio essere e in base al mio essere. Infatti, dato che gli altri possono anche negarmelo, esso è alienabile, cioè non solo non è a casa presso l’esserci, ma non è nemmeno δυσαϕαίρετον. Invece, un ἀγαθόν che è
in senso autentico ἀγαθόν dell’esserci dev’essere a casa in questo essere in quanto tale, e non è alienabile. Ora, un ἀγαθόν dotato di queste caratteristiche sembrerebbe essere l’ἀρετή, quella modalità specifica dell’esserci in base a cui diciamo che uno è virtuoso, dove la «virtù» sarebbe il disporre di volta in volta di una possibilità determinata del proprio essere. L’ἀρετή del suonatore di flauto consiste nel fatto che egli dispone in senso eccellente della possibilità di suonare il flauto. Tuttavia un essere e una vita intesi in questo modo possono per così dire addormentarsi. Si può essere virtuosi e nondimeno passare la vita dormendo. Invece, se il disporre della propria possibilità di essere dev’essere un ἀγαθόν, dev’esserlo nel modo dell’essere desto, e deve portare a compimento la possibilità del disporre stesso, la πρᾶξις. È per questo che, alla fine, l’autentico ἀγαθόν dell’esserci umano è l’εὐπραξία, o εὐζωία.173 Lo εὖ non è qualcosa che si trova al di fuori nel mondo, ma è un come della vita stessa. A partire dalla definizione secondo cui l’ἀγαθόν è un come del prendersi cura, abbiamo fornito una serie di elementi che determinano l’ἀγαθόν e, quindi, un’indicazione preliminare riguardo a ciò che, in termini esclusivi, può corrispondere a un senso dell’ἀγαθόν così specifico. Ciò implica che chi si trova nell’εὐζωία possieda l’εὐτυχία. L’esserci concreto può compiersi in tal senso, ma può anche essere sfortunato. Il fatto che l’εὐτυχία sia indicata come elemento aggiuntivo dell’εὐδαιμονία dell’ἄριστον, che l’εὐζωία sia un «essere in un mondo», con le sue condizioni e possibilità determinate, e che l’εὐτυχία vi sia inclusa, mostra che questa etica non è frutto di fantasia, ma è alla ricerca dell’ἀνθρώπινον ἀγαθόν nella sua possibilità. Nel capitolo 4 Aristotele conclude che non può darsi un bene in sé. In se stesso l’ἀγαθόν è sempre πέρας di una πρᾶξις, dove però tale πρᾶξις è qui e ora, mira all’ente che è qui e ora, è cioè sempre una πρᾶξις περὶ τὰ ἔσχατα καὶ τὰ καθ᾿ ἕκαστα,174 che «mira al caso più estremo, al qui e ora esasperato», καὶ τὰ καθ᾿ ἕκαστα, a ciò «che è di volta in
volta in quanto tale nella sua determinatezza». L’idea di un ἀγαθόν καθόλου175 è quindi priva di senso, poiché disconosce il carattere ontologico dell’ἀγαθόν in quanto tale. Aristotele, invece, per fornire una definizione più precisa dell’ἀγαθόν καθ᾿ αὑτό, prende una nuova strada, conducendo ora un’indagine approfondita sul carattere ontologico dell’ἀγαθόν. Quest’ultimo è πέρας oppure τέλος, «fine» nel senso del «costituire una finitezza». Nel capitolo 5 egli definisce l’ἀγαθόν τέλος, anzi τέλειον.176 Per prepararci a queste considerazioni sulla fine nella sua finitezza interpreto il capitolo 16 del libro V della Metafisica.
11. Il τέλειον (Met. Δ 16) Anche il termine τέλειον, così come ὄν e, analogamente, ἀγαθόν, contiene un’ambiguità.177 Esattamente come οὐσία, ἀγαθόν significa: 1. un bene, un ente che è buono; 2. essere buono, bontà. Allo stesso modo, anche τέλειον significa: 1. un ente-finito; 2. ciò che costituisce l’essere-finito, l’essere determinato in cui un alcunché di finito dev’essere per essere finito, il modo d’essere dell’ente-finito. a) Traduzione del capitolo τέλειον λέγεται ἓν μὲν οὗ μὴ ἔστιν ἔξω τι λαβεῖν μηδὲ ἓν μόριον, οἷον χρόνος τέλειος ἑκάστου οὗτος οὗ μὴ ἔστιν ἔξω λαβεῖν χρόνον τινὰ ὃς τούτου μέρος ἐστὶ τοῦ χρόνου.178 «Si dice finito in primo luogo un ente al di fuori del quale non può essere trovata neppure una sola singola parte [tale che questa parte contribuisca ancora a costituire l’essere in questione], ad esempio, il tempo di un ente di volta in volta dato è finito nel senso che al di fuori di esso non si dà ancora un certo tempo che contribuisca a costituire il primo».
Quando diciamo: «Ogni cosa ha il suo tempo», intendiamo qualcosa di simile a ciò che qui ha in mente Aristotele, ovvero una determinata delimitazione del tempo al di fuori della quale nessun ente è temporale. Quando qualcosa ha avuto il suo tempo, esso è in un modo che costituisce il suo essere-finito, è cioè τέλειον (cfr. l’analisi del tempo nel libro IV della Fisica, capitoli 10-14). καὶ τὸ κατ᾿ ἀρετὴν καὶ τὸ εὖ μὴ ἔχον ὑπερβολὴν πρὸς τὸ γένος, οἷον τέλειος ἰατρὸς καὶ τέλειος αὐλητής, ὅταν κατὰ τὸ εἶδος τῆς οἰκείας ἀρετῆς μηδὲν ἐλλείπωσιν. οὕτω δὲ μεταϕέροντες καὶ ἐπὶ τῶν κακῶν λέγομεν συκοϕάντην τέλειον καὶ κλέπτην τέλειον, ἐπειδὴ καὶ ἀγαθοὺς λέγομεν αὐτούς, οἷον κλέπτην ἀγαθὸν καὶ συκοϕάντην ἀγαθόν. καὶ ἡ ἀρετὴ τελείωσίς τις.179 «In secondo luogo viene detto finito ciò che, nell’ambito del disporre di una specifica possibilità di essere, non ha più nulla che la oltrepassi nella sua origine genuina. Parliamo ad esempio di un medico compiuto e di un flautista compiuto. Un medico, un flautista, sono compiuti quando, considerando il modo in cui è presente il loro specifico disporre del proprio essere, essi non difettano in nulla [quando cioè il suonatore di flauto, nella sua ἀρετή, non difetta in nulla quanto alla sua possibilità]. Tuttavia, in questo stesso senso [quello dato in questa definizione] anche di un sicofante (millantatore) o di un ladro diciamo che sono compiuti, nella misura in cui trasponiamo metaforicamente, μεταϕέροντες, il “come” di ciò che intendiamo [il τέλειον] anche a ciò che è cattivo, poiché è evidente che chiamiamo buoni anche quelli, per esempio diciamo di uno che è un buon ladro oppure un buon millantatore. E non v’è dubbio che il disporre di una possibilità di essere sia un determinato modo del “costituire la finitezza dell’ente in questione” [dello specifico ente che è nell’ἀρετή]». ἕκαστον γὰρ τότε τέλειον καὶ οὐσία πᾶσα τότε τέλεια, ὅταν κατὰ τὸ εἶδος τῆς οἰκείας ἀρετῆς μηδὲν ἐλλείπῃ μόριον τοῦ κατὰ ϕύσιν μεγέθους.180 «Poiché di volta in volta qualcosa è finito, e ogni ente “ci” è nel come del suo essere solo quando, riguardo alla sua ἀρετή, non manca nulla di ciò
che concerne la misura del possibile poter-essere dell’ente in questione». ἔτι οἷς ὑπάρχει τὸ τέλος σπουδαῖον, ταῦτα λέγεται τέλεια· κατὰ γὰρ τὸ ἔχειν τὸ τέλος τέλεια. ὥστ᾿ ἐπεὶ τὸ τέλος τῶν ἐσχάτων τί ἐστι, καὶ ἐπὶ τὰ ϕαῦλα μεταϕέροντες λέγομεν τελείως ἀπολωλέναι καὶ τελείως ἐϕθάρθαι, ὅταν μηδὲν ἐλλείπῃ τῆς ϕθορᾶς καὶ τοῦ κακοῦ ἀλλ᾿ ἐπὶ τοῦ ἐσχάτου ᾖ.181 «Inoltre, il τέλειον è essere nel “come” dell’essere-finito, è l’ente nel quale, in quanto tale, la sua finitezza è davvero effettivamente lì presente. Per essere precisi, un ente siffatto si dice τέλειον qualora lo si consideri in riferimento al suo possedere la fine nel senso della finitezza. È per questo che, appartenendo il τέλος al caso estremo, lo trasponiamo metaforicamente anche a ciò che vi è di cattivo nel “come” dell’oggetto in questione. Parliamo quindi di un “compiuto essere stato distrutto” se non manca più nulla alla distruzione stessa, anzi se essa è giunta al punto estremo, realizzandosi in modo totale e compiuto». διὸ καὶ ἡ τελευτὴ κατὰ μεταϕορὰν λέγεται τέλος, ὅτι ἄμϕω ἔσχατα.182 «È per questo che anche la fine della vita, la morte, viene detta, in termini metaforici, “compimento”, che costituisce un essere-finita della vita». La trasposizione metaforica si basa sul fatto che la fine della vita ha il carattere del punto estremo, τελευτή è τέλος. τέλος δὲ καὶ τὸ οὗ ἕνεκα ἔσχατον.183 «Τέλος, fine in quanto costituente l’essere-finito, vuol dire anche ciò in vista di cui qualcosa è, l’“in vista di cui” in quanto punto estremo». In chiusura del capitolo segue una suddivisione riassuntiva dei significati elencati, una partizione dal punto di vista delle categorie, su cui avremo modo di tornare per vedere come proprio il τέλος sia una categoria fondamentale dell’ente. Bisogna dunque andar cauti con il concetto di «teleologia». Aristotele non aveva una concezione del mondo «teleologica». Già una comprensione fugace mostra infatti che con τέλειον e τέλος non si intende né «meta» né «scopo». Il τέλειον/τέλος è espressamente formulato in
quanto τῶν ἐσχάτων τι, ha cioè il carattere «dell’estremo». La determinazione fondamentale primaria è essere-fine. Il fatto che si traduca τέλος con «scopo» o «meta» ha naturalmente il suo fondamento e non è inventato di sana pianta. È bene chiedersi però se tali traduzioni siano quelle primarie, oppure se a questo livello dell’indagine ontologica i significati primari e secondari possano essere scambiati. Lo scopo è il «per che cosa» qualcosa è, la meta è l’«in vista di che cosa» qualcosa è. Nel carattere dello scopo e della meta può comparire la fine, ma solo perché è fine il τέλος può, talvolta, anche essere meta o scopo. Ed è meta o scopo solo se lo si considera in riferimento a un determinato «mirare a...», «tenere d’occhio». Al livello d’indagine con cui abbiamo a che fare qui, l’idea dell’«agire conformemente a uno scopo» o del «perseguire tenacemente una meta» è del tutto fuorviante, e ci induce a figurarci Aristotele come uno di quei trogloditi che vivevano nel XIX secolo. b) Struttura del capitolo α) I primi due punti della struttura. Il metodo della trasposizione metaforica Articoliamo per punti il capitolo Metafisica Δ 16. 1. ρόνος τέλειος: descrive il τέλειον come ciò oltre cui non c’è nulla, oltre cui non si dà nulla, nulla che contribuisca a costituire l’essere di quell’ente il cui carattere è τέλειον. E per la precisione il τέλειον (πέρας) viene detto qui anzitutto dell’ente nella misura in cui viene compreso nel suo essere semplicemente presente.184 2. Τὸ κατ᾿ ἀρετήν: ci dà l’ente già in un carattere del tutto peculiare, cioè come un ente che dispone della sua possibilità di essere più propria, sicché in tal caso τέλειον significa: ciò oltre cui non c’è nulla che, in quanto possibilità di essere, renda l’ente ancora più proprio. Per il flautista compiuto non c’è alcun «oltre», alcun superamento
(ὑπερβολή) nel senso della possibilità del suo essere più proprio. Per quanto riguarda la sua possibilità di essere più propria – la possibilità di ciò che egli stesso è – non si dà alcun «oltre». In questa determinazione fondamentale si fonda la possibilità di un «trasporre» metaforicamente, un μεταϕέρειν in quanto parlare di un «buon ladro». L’espressione «buon ladro» non implica che egli sia un uomo buono, poiché un «ladro compiuto» significa piuttosto un ladro che, nel suo essere, è pervenuto nella sua giusta possibilità di essere, portando tale possibilità alla sua fine.185 Aristotele menziona espressamente il μεταϕέρειν,186 egli stesso impiega la trasposizione metaforica per uno scopo preciso. Parlare per metafora significa qui: dal «parlare di» più prossimo e originario – in questo caso: dal significato più prossimo e originario di τέλειον – prendere, con (μετά) esso, un altro significato e trasporlo a un nuovo oggetto cui ci si rivolge. In tale trasporre, in cui, con il primo significato, ne prendiamo un altro, diventa evidente proprio quest’ultimo significato. E nel contempo, con questo, diventa evidente anche ciò che abbiamo già inteso nel significato fondamentale, a partire dal quale, poi, abbiamo preso il significato secondario. Nel caso del medico compiuto non ne va della bontà morale, poiché questo τέλειος implica piuttosto il «portare alla fine». Il μεταϕέρειν rende evidente che cosa si intende propriamente con τέλειον, laddove cioè il medico è ἀγαθός, ma anche il ladro è ἀγαθός in quanto ladro, però in un altro senso è κακός. Non è un caso che Aristotele, qui come in tutta una serie di analisi, svolga le sue considerazioni sempre nel modo del μεταϕέρειν. β) Precisazione del contesto della trattazione del τέλειον Il τέλειον è una determinazione dell’ἀγαθόν, sicché anche l’ἀρετή – che impareremo in seguito a conoscere come una determinazione fondamentale dell’essere della vita – ha già un particolare riferimento all’essere-finito. Nel disporre di
qualcosa, di una determinata possibilità del suo essere, questo stesso essere è già trattenuto nella sua fine, il che significa che io domino e possiedo già la mia propria possibilità di essere. Τελείωσις:187 Aristotele giunge a parlare espressamente del peculiare fenomeno dell’ἔχειν τὸ τέλος. Il contesto è il seguente: dopo avere esaminato i singoli βίοι in quanto ἀγαθὰ δι᾿ αὑτά e τέλη, e dopo avere messo in luce gli elementi peculiari dell’ἀγαθόν, Aristotele cerca di chiarire in modo più preciso il carattere dell’ἀγαθόν in quanto τέλειον. Questa considerazione del τέλος in quanto τέλειον è preceduta dalla discussione con Platone, su cui avremo modo di tornare in seguito.188 Che cosa ne risulta per l’ἀνθρώπινον ἀγαθόν se lo si concepisce come τέλος? Si tratta dell’ἀνθρώπινον ἀγαθόν riferito all’essere dell’uomo, che abbiamo imparato a conoscere come «essere l’uno con l’altro». Quest’ultimo è determinato da una molteplicità di πράξεις, che stanno tra loro in un rapporto gerarchico, sicché al di sotto di tutte si può rinvenire un ἀκρότατον ἀγαθόν, un «sommo bene», un ἀγαθόν che è δι᾿ αὑτό. Aristotele ha individuato nei βίοι simili ἀγαθὰ δι᾿ αὑτά. Nel caso del secondo βίος, il βίος πολιτικός, si hanno due possibilità: τιμή e ἀρετή – ἀρετή per fornire un’interpretazione preliminare riguardo a ciò che Aristotele stesso propone come ἀγαθόν. Con la discussione del τέλειον otteniamo un fondamento per la localizzazione del concetto fondamentale della dottrina aristotelica dell’essere, l’ἐντελέχεια. Τέλος non è «meta», bensì ἔσχατον, carattere del limite, «punto estremo». La meta e lo scopo sono modi determinati in cui il τέλος è in quanto «fine», però non sono determinazioni primarie, poiché sono piuttosto la meta e lo scopo a essere fondati nel τέλος in quanto «fine» quale suo significato originario. γ) Nuova impostazione della struttura del capitolo
Articoliamo il capitolo Metafisica Δ 16 in otto punti: 1. Il carattere del τέλειον inteso come ciò oltre cui non c’è nient’altro.189 2. Un «niente oltre a ciò» che, in quanto possibilità determinata di essere di un ente, lo determina propriamente nel suo essere; il «niente oltre a ciò» inteso nel senso che oltre il τέλος non si dà, per un ente, nessuna ulteriore possibilità di essere, ovvero che un ente, riguardo alle sue possibilità di essere, è giunto alla sua fine.190 3. In questa determinazione dell’«essere pervenuto alla fine» di un ente è implicita la possibilità della trasposizione metaforica del τέλειον. Se parliamo di un «buon ladro», in questa trasposizione metaforica si rende evidente che cosa si intende propriamente con τέλειον quando parliamo di un «buon medico». Il predicato «buono» ha il significato secondario di «eccellente», «di valore». Τέλειον però non dice questo, nella misura in cui, appunto, parliamo anche di un «ladro compiuto»; il significato di τέλειον costituisce quindi un carattere dell’essere che non è legato al significato specifico di ἀγαθόν, laddove si tratta di esprimere una proprietà determinata di un ente.191 4. Il τέλειον si riferisce inoltre all’ἀρετή: se con ἀρετή si intende il disporre di qualcosa, di una determinata possibilità di essere, vi è già implicita la determinazione del τέλος o del τέλειον. Il poter disporre di una possibilità di essere significa che un ente, che ha un’ἀρετή, ha già in modo determinato la sua fine in questa ἀρετή. L’ἀρετή è un essere determinato che è già in se stesso orientato in vista del τέλος, è un poter disporre che non ha bisogno di essere espressamente pervenuto presso il suo τέλος.192 5. L’ulteriore determinazione è già contenuta in nuce nel concetto di ἀρετή in quanto τελείωσις, nella misura in cui vi sono enti che possiedono in senso proprio il loro τέλος, sicché questo loro τέλος è «immanente» al loro interno, enti nei quali ὑπάρχει193 τέλος, hanno la loro fine in modo prioritario. Ἔχειν è inteso qui in un senso eccellente. Si parla di «avere» in un doppio senso: a) in quanto ciò che si
presenta in qualcosa, qualcosa è fatto così e così, ha questa e quest’altra determinatezza: «Il tavolo ha crepe» – ciò che qui viene avuto si presenta in un determinato ente; b) «avere» può significare il diretto prendersi cura di qualcosa in modo esplicito, avere presente ciò che si ha, avere a che fare con esso. Vi sono passaggi determinati. «L’albero ha fiori». Questo contesto dell’avere non è identico al contesto ontologico che viene portato a espressione quando si dice: «Il tavolo ha crepe».«Quell’uomo ha noia,194 ha male di denti». Anche questo avere è di altro genere, nella misura in cui diciamo, in modo banale, che questo stesso «avuto» e «avere» è cosciente. «Quell’uomo ha l’idea di fuggire». Questo doppio significato di avere va tenuto ben presente, e in particolare è l’ultimo significato che intendiamo quando parliamo qui di uno ὑπάρχειν τέλος σπουδαῖον:195 il τέλος è presente «in modo serio», è avuto «in modo serio», dove peraltro non dobbiamo pensare al fatto che chiamiamo σπουδαῖος, «serio», qualcuno quando fa un viso corrucciato. Il termine σπουδαῖος designa quel modo dell’esserci nel quale io ho seriamente una cosa, ossia non gioco con essa: essere-presso una cosa, avendola afferrata, puntare tutto su una carta. Non c’è bisogno che la cosa che ho seriamente sia alcunché di straordinario: quanto meno ciò su cui ci si sofferma in modo serio è straordinario, tanto meno abbiamo la possibilità di ingannarci sulla serietà. Σπουδαῖον è una determinazione del «come»: si deve fare sul serio con una possibilità del suo proprio essere.196 6. Nondimeno, solo nella successiva determinazione del τέλειον diviene effettivamente chiaro in che senso il τέλειον è un carattere dell’essere. Si parla di un τελείως ἐϕθάρθαι.197 Poi è la τελευτή, la «morte», a essere designata come τέλος.198 Che cosa si evidenzia in questa trasposizione metaforica? Diciamo di qualcuno: «È completamente finito, esaurito, logoro». Il che in questo caso significa: egli non è più quello che era prima – non «ci» è più in quanto quell’uomo che egli è stato in precedenza. Essere-finito significa essere via dall’esser-ci. Qual è il senso della
trasposizione metaforica, se la τελευτή viene designata come τέλος? Con la morte la vita è alla fine, la morte «finisce» la vita portando via l’essere dal «Ci»: la vita svanisce. Con questa metafora il τέλειον, il τέλος, si mostra come un carattere dell’esserci, nella misura in cui τὸ τέλος, τέλειον, indicano quell’esserci che designiamo come «non esserci più», «essere via». L’essere-via è un modo eccellente dell’esserci. Proprio in questa trasposizione metaforica del τέλος e del τέλειον alla morte si evidenzia la funzione eccellente del τέλειον, il carattere dell’esserci di essere nella possibilità eccellente dello svanire.199 7. La determinazione del τέλειον viene attribuita allo οὗ ἕνεκα, οὗ χάριν, che è τέλειον solo se è ἔσχατον.200 Lo οὗ ἕνεκα è quell’ente che sta in una volontà, ente con cui ho a che fare intenzionalmente, ciò a cui tendo in una qualche modalità della ὄρεξις, caratterizzato come la fine, l’ultimo, qualcosa che, da ultimo, è τέλος. Lo οὗ ἕνεκα riceve il suo carattere di τέλος dalla determinazione dell’ἔσχατον. Oὗ ἕνεκα non è la meta a cui miro – questo sarebbe σκοπός.201 8. Nel riassumere il capitolo Aristotele suddivide i diversi significati in due gruppi distinti: a) il primo, nella misura in cui il τέλος viene propriamente asserito di qualcosa,202 b) il secondo, che raccoglie quei significati che ricevono il loro significato in quanto τέλειον dal fatto di essere riferiti a qualcosa che è stato chiamato τέλειον nel senso del punto a).203 Il τέλειον viene insomma riportato allo schema delle categorie. Questo indica che, nella misura in cui consente una simile suddivisione, il τέλειον è in se stesso un carattere ontologico fondamentale. Il τέλειον viene posto in evidenza come un carattere eccellente dell’essere nel senso dell’esserci (per una delucidazione in merito si veda Etica Nicomachea A 5).204 c) Il τέλειον in quanto limite nel senso del «Ci» proprio di un ente
Riassumendo, bisogna tener fermo anzitutto il fatto che il τέλος ha la determinazione del limite. Questo carattere di limite va inteso come ciò oltre cui non c’è più nulla, fine, ciò presso cui qualcosa finisce. Qui però dobbiamo procedere con cautela. Un sentiero attraverso un prato finisce presso la recinzione di un giardino. Tuttavia la recinzione non è τέλειον. L’essere-sentiero in quanto tale non è determinato dalla recinzione. Ciò presso cui il sentiero finisce è esso stesso un ente, che è nello stesso modo in cui è ciò che finisce presso di esso. Probabilmente il τέλειον non è un ente, un pezzo di ente, la cui fine lo costituisce, bensì è un essere, un modo dell’essere stesso. Τέλειον è limite non come un ente rispetto a un altro ente, di cui è il limite. In questo senso il ladro è finito, laddove il limite non sta al di fuori di esso. Il come del suo essere, il rubare stesso, è pervenuto nella sua possibilità determinata. Egli non è un buon ladro per il solo fatto di fare un colpo milionario. Il τέλειον è una determinazione dell’essere dell’ente, e non una qualsivoglia qualità, come ad esempio bianco o nero. L’«oltre cui nulla» ha il carattere del limite nel senso di una determinazione dell’essere. Questo carattere di limite del τέλειον in quanto determinazione ontologica diviene evidente nella metafora successiva: la morte è un modo dell’esserci, il «non esserci più», l’«essere via», l’ἀπουσία. Il «non più “Ci”» è un carattere del «Ci», nella misura in cui la τελευτή viene chiamata τέλος, dove peraltro si tratta sempre di una metafora. Voglio dire che, rivolgendosi alla morte in quanto τέλος, il significato autentico di τέλος e τέλειον è in un certo senso andato perduto, nella misura in cui con τέλος si intende, appunto, una fine tale che essa non fa semplicemente svanire l’ente in questione, non lo porta via dal «Ci», ma, al contrario, lo trattiene nel «Ci», anzi lo determina nel suo «Ci» autentico. Τέλος, quindi, significa originariamente: essere alla fine in modo tale che questa fine costituisca il «Ci» autentico, determinare autenticamente un ente nella sua presenza attuale. Soltanto perché il significato
fondamentale di τέλος è quello qui descritto si può parlare, metaforicamente, di τέλος nel senso della morte. Qui si ha infatti a che fare con un nesso fondamentale, e cioè che il «non essere» o «non esserci» può essere interpretato solo se si è interpretato positivamente l’esserci stesso. Non si può vedere e rendere comprensibile l’essere dell’ente limitandosi a sostenere che un ente è anche se non è, cioè anche se non lo si coglie. Questa è solo una determinazione negativa, che non significa nulla e alimenta l’erronea convinzione secondo cui, in questo modo, si potrebbe contribuire alla chiarificazione del senso dell’essere. L’«essere via» è il modo più estremo dell’esserci, sicché l’interpretazione dell’essere viene rinviata all’interpretazione del «Ci». Il τέλος, il τέλειον, ha il carattere del limite, e per la precisione del limite nel senso dell’essere, in modo tale che questo limite determina l’ente nel suo «Ci» – «fine», insomma, nel senso che il τέλος si ricollega a ciò di cui esso è fine, determinandolo nel suo «Ci» (carattere del comprendere205 ricollegante). È in virtù del suo essere-compiuto che un citaredo compiuto è nel suo essere autentico. In base a quanto detto fin qui è possibile valutare approssimativamente quale significato abbia per Aristotele il concetto fondamentale di ἐντελέχεια. Un ente, determinato dall’ἐντελέχεια, significa fondamentalmente un ente che trattiene se stesso nella sua autentica possibilità di essere, in modo tale che la possibilità sia compiuta. Se l’ente è tale da poter avere il suo τέλος – il τέλος sta in vista, sicché se ne può parlare. Nel concetto di ἐντελέχεια così inteso viene a espressione il carattere più fondamentale del «Ci». Ora, questa determinazione del τέλος può assumere un significato fondamentale nella misura in cui l’essere dell’ente può divenire esplicito per questo stesso ente, e questa possibilità di essere esplicito dell’essere autentico per un ente si dà per un ente che caratterizziamo come vita, «essere in un mondo». È per questo infatti che secondo Aristotele l’anima è «l’ἐντελέχεια ἡ πρώτη di un corpo che reca in se stesso la possibilità della vita».206 Potete vedere
qui dov’è fondata la discussione dettagliata del concetto fondamentale di τέλειον. Se teniamo ferma questa definizione, siamo adesso nella condizione di comprendere in modo più preciso l’ulteriore discussione dell’ἀνθρώπινον ἀγαθόν in quanto ἀγαθόν δι᾿ αὑτό.
12. Prosecuzione dell’analisi dell’ἀγαθόν (Eth. Nic. A 5-6) Nel libro I, capitolo 5, dell’Etica Nicomachea Aristotele propone anzitutto una breve ricapitolazione del percorso analitico compiuto fino al confronto con Platone. Egli sottolinea che ci troviamo di fronte a una molteplicità di occupazioni, e che questa molteplicità non è da intendersi come una massa confusa, ma come un insieme organizzato secondo una determinata gerarchia, trattandosi di una molteplicità di τέλη, ovvero di ciò presso cui ogni singola occupazione, di volta in volta, giunge alla fine. E dato che per quanto riguarda concretamente l’esserci dell’uomo si evidenzia una molteplicità di τέλη – tali precisamente da essere δι᾿ ἕτερα –, è implicito che non tutti possano essere τέλεια. Se ne deduce che non ogni τέλος è già τέλειον, cioè fine, in senso proprio, per l’ente che si trattiene nell’occuparsi di qualcosa. Benché alcune singole occupazioni siano τέλη, esse non sono fine, in senso proprio, dell’esserci. Strumenti e attrezzi sono τέλη presso cui una determinata πρᾶξις è alla fine, si tratta però di una πρᾶξις nel cui caso l’ἔργον è παρά. La scarpa è il τέλος nel senso che essa, quando è finita, ha in se stessa un proprio esserci nel mondo «accanto» (παρά) all’essere del calzolaio inteso come un modo del prendersi cura. La scarpa ha come τέλος il suo proprio esserci nel mondo. Allo stesso modo uno strumento è un τέλος per il fabbricante di strumenti. Questi τέλη non sono essi stessi τέλεια, ma hanno in sé il carattere dell’utilità. Il martello è appunto in quanto τέλος del fabbro,
nel senso che non si trova lì come una pietra, giacché con esso posso piantare un chiodo. È questa sua utilità, impiegabilità, a costituire il suo esserci. In se stesso, ovvero nella sua finitezza, esso è sì τέλος, ma non è un τέλειον; in se stesso esso rinvia, via da sé, a un altro modo del prendersi cura che è possibile grazie a esso. Insomma, vi è al mondo una molteplicità di τέλη che di per sé non sono, di volta in volta, τέλεια. a) Prosecuzione della discussione delle determinazioni fondamentali dell’ἀγαθόν. L’ ἀνθρώπινον ἀγαθόν in quanto ἁπλῶς τέλειον Dell’ἀνθρώπινον ἀγαθόν si è già detto che è δι᾿ αὑτό, «causa di se stesso», ed è l’ἄριστον, ἀκρότατον ἀγαθόν, ἀγαθόν nel cui caso non si va oltre, sicché, dunque, probabilmente questo ἄριστον è un τέλειον. Ora, l’analisi dei βίοι ha già stabilito che esiste una molteplicità di τέλη δι᾿ αὑτά. Se quindi esiste una molteplicità di τέλη δι᾿ αὑτά, cioè di τέλεια, allora al di sotto di essi dev’esserci un τελειότατον. Ma se c’è quest’ultimo, allora c’è anche un τελειότερον. Questa considerazione mostra come l’interpretazione dell’ἀγαθόν tenda qui, fin da principio, a un’applicazione radicale dell’idea del τέλος, del πέρας. Per la determinazione ontologica dell’esserci dell’uomo si fa ricorso in modo radicale e coerente alla determinazione fondamentale greca dell’essere, mostrando così che l’ἀγαθόν è τέλος nel senso che esso è ἁπλῶς τέλειον, τέλειον in senso assoluto. Non è possibile, per ora, cogliere l’importanza di questa analisi strutturale anzitutto formale. Avremo però modo di vedere come proprio a partire da qui diventi comprensibile la definizione aristotelica della possibilità fondamentale dell’esserci dell’uomo, il θεωρεῖν. Il θεωρεῖν è la possibilità più propria dell’esserci per il fatto che in esso l’esserci giunge alla sua fine in modo tale da essere trasposto nella
sua possibilità più autentica, nel suo «ci» più proprio, dato che il θεωρεῖν costituisce la più autentica ἐντελέχεια dell’essere dell’uomo. Qui Aristotele dà la sua espressione appropriata a ciò che nell’esserci greco era concretamente presente in quanto esistenza-tendenza, e lo fa in modo tale da rendere comprensibile questa esistenza in base al senso autentico dell’essere e dell’esserci e da fondarla in esso. La determinazione più generale e immediata del τέλειον – come ciò oltre cui non c’è nulla – è da intendersi nel senso che in esso viene a espressione un carattere dell’essere. Τέλειον non è ente in quanto ente, ma in quanto essere. Scarpe, strumenti, attrezzi, eccetera, ὑποκείμενα – tutti questi enti sono τέλη soltanto se presso di essi è giunto a espressione il loro carattere ontologico, ovvero se quel qualcosa, presso cui un determinato mestiere giunge a fine, effettivamente è. L’«oltre cui nulla» non è da intendersi, in senso negativo, come un essere-finito nel senso dell’«essere alla fine», ma in senso positivo come ciò che costituisce il «Ci» autentico. Il τέλος è tale da trattenere l’ente nella sua presenza attuale. Il senso dell’essere è determinato da questo essere attualmente presente. In base al concetto, ora chiarito, di τέλειον, seguiamo dunque l’ulteriore sviluppo dell’analisi aristotelica riguardante l’ἀνθρώπινον ἀγαθόν. L’ἀγαθόν dell’esserci umano dev’essere un πέρας, poiché ogni ente è determinato in quanto essere-limite. Si pone quindi la domanda: quale carattere possiede l’ἀνθρώπινον ἀγαθόν in quanto τέλος? Quali determinazioni si addicono a questo τέλος in quanto tale? Questa localizzazione si compie sul terreno concreto dell’esserci dell’uomo, così come esso viene colto nell’esperienza naturale, il che significa: l’esserci umano in quanto essere l’uno con l’altro nella πόλις, essere-assieme nel prendersi cura. Le occupazioni umane si svolgono in un rapporto gerarchico. I τέλη rinviano, in se stessi, l’uno all’altro, sono cioè, di volta in volta, δι᾿ ἕτερα. Questa è una determinazione ontologica dei τέλη. Non è che il τέλος
sarebbe qualcosa di già lì presente, che solo in un secondo momento troverebbe uno specifico impiego: infatti, ciò a cui mira il fabbricante di strumenti ha già in se stesso il carattere della «impiegabilità per...». La particolare occupazione di fabbricare una scarpa è determinata in sé dal fatto che il τέλος è il poter essere portata della scarpa. «Non tutti i τέλη», così come si fanno incontro nell’esserci concreto, «sono τέλεια».207 Non tutto, di ciò presso cui un’occupazione giunge alla fine, è τέλειον. Ora, l’ἀνθρώπινον ἀγαθόν sarà appunto τέλειον in senso autentico.208 Di esso si dice che non va εἰς ἄπειρον,209 cioè che l’ordine gerarchico dei τέλη della πρᾶξις non va all’infinito. La discussione dei βίοι, dei τέλη καθ᾿ αὑτά, ci ha fatto capire che esiste una molteplicità di τέλη καθ᾿ αὑτά, sicché l’ἄριστον dev’essere ciò che, tra i τέλη καθ᾿ αὑτά, è il τελειότατον, ovvero il τελειότερον,210 ciò che ha il carattere della fine in modo superiore e più autentico. Dunque, giacché probabilmente esiste una molteplicità di τέλη καθ᾿ αὑτά, sorge la domanda circa il τελειότερον e il τελειότατον. Quali sono le caratteristiche di uno ἁπλῶς τέλειον?211 Aristotele fornisce in primo luogo la definizione del τελειότερον: τελειότερον δὲ λέγομεν τὸ καθ᾿ αὑτὸ διωκτὸν τοῦ δι᾿ ἕτερον.212 «Il τελειότερον è quel καθ᾿ αὑτό che διωκτὸν τοῦ δι᾿ ἕτερον, che è perseguito, è colto, da uno e che è a causa di un altro [cioè: a causa sua]». Questa definizione del τελειότερον in riferimento a un δι᾿ ἕτερον, «qualcosa che è in vista di un altro», è una definizione, sì, necessaria, però non sufficiente. Riferito al καθ᾿ αὑτό, quel τελειότερον, che μηδέποτε δι᾿ ἄλλο,213 e αἰεί καθ᾿ αὑτὸ αἱρετόν,214 è un δι᾿ αὑτό tale da essere «costantemente» e «sempre» ciò che è. I τέλη καθ᾿ αὑτά: ἡδονή, τιμή, ἀρετή, «possono essere attribuiti, alla fine e per lo più, anche in vista dell’εὐδαιμονία»: τιμὴν δὲ καὶ ἡδονὴν καὶ [...] ἀρετὴν αἱρούμεθα μὲν καὶ δι᾿ αὑτά [...] αἱρούμεθα δὲ καὶ τῆς εὐδαιμονίας χάριν.215 Questi τέλη possono celare in sé anche un altro τέλος, di cui per l’uomo propriamente ne va: alla fine questo τέλος è l’esserci stesso.
Se infatti lo ἁπλῶς τέλειον dev’essere qualcosa che è costantemente e sempre καθ᾿ αὑτό, allora per l’esserci dell’uomo è in questione soltanto qualcosa che si addice a questo esserci in quanto tale. Lo ἀεί non è inteso in senso platonico, ma è riferito all’essere dell’uomo. Per l’esserci, l’essere, di cui in ultima analisi ne va, può essere solo il suo essere. Emerge qui una definizione fondamentale dell’esserci: esso è un ente tale che nel suo essere ne va espressamente o non espressamente del proprio essere, di modo che lo ἁπλῶς τέλειον è ciò che costituisce in senso assoluto l’essere-finito dell’esserci, ovvero la possibilità assoluta di essere dell’esserci stesso. Se l’esserci, in quanto «essere nel mondo», è stato definito, in base ai τέλη (ἡδονή, τιμή), un sentirsi-situato, allora la possibilità di essere designerà una situatività, cioè la modalità dell’esserci in quanto διαγωγή,216 «permanere» in un mondo. Questo esserci nel senso più autentico ha la sua possibilità di attuazione nel θεωρεῖν. Questa definizione, secondo cui, in ultima analisi, l’essere dell’esserci è quello che costituisce in senso assoluto l’esserci nel suo «Ci», risuona nella definizione kantiana dell’uomo: la creatura razionale esiste come scopo a se stessa. Tale definizione rappresenta al tempo stesso la condizione ontologica della possibilità dell’imperativo categorico. Se infatti la creatura razionale è qualcosa che è aperto alla legge nella determinazione fondamentale del rispetto, ma se, al tempo stesso, essa è tale che il suo essere è in certo modo alla fine presso essa stessa – dunque non ha un ulteriore perché –, allora questa legge è l’Ultimo in sé, il dovere è categorico, non ipotetico. Per l’essere dell’uomo non c’è alcun «se», bensì un ultimo «allora». Con l’introduzione dell’idea di legge il fondamento e lo schema di questo nesso acquisiscono un altro aspetto. L’idea di legge è orientata sulla legalità della natura, dove peraltro la legge è concepita in termini più ampi. Qui però la natura è il modo dell’esserci, dunque nel senso della ϕύσις (Aristotele). Il fatto notevole, cui va prestata attenzione, è che Kant intende
il concetto di legge naturale in senso più ampio, quasi aristotelico. «Agisci in modo che la massima del tuo agire possa essere legge naturale universale».217 La massima non deve diventare legge della natura in quanto legge esplicita, bensì modo dell’esserci in senso assoluto. Insomma, ciò che alla fine costituisce lo ἁπλῶς τέλειον di un ente che «ci» è, è l’essere stesso dell’uomo. E questo ἁπλῶς τέλειον è ciò che si intende con l’espressione εὐδαιμονία. Definendo il significato di εὐδαιμονία in base all’esserci stesso, Aristotele attribuisce a questo concetto popolare e corrente un senso specificamente filosofico. Nel contesto di questa chiarificazione dell’εὐδαιμονία in quanto ἁπλῶς τέλειον, egli fornisce inoltre un’integrazione del τέλειον che indica in che senso esso si determini in quanto τέλειον dell’esserci dell’uomo. L’essenziale essere-riferito del τέλειον in quanto costituente l’essere-finito si esprime nella definizione dell’αὔταρκες: «Quel particolare bene che rende finito l’esserci dell’uomo sembra bastare a se stesso, essere autosufficiente. [Poiché però, a dire il vero, l’uomo, secondo la sua propria possibilità di essere, è una creatura che vive nell’«essere l’uno con l’altro», uno ζῷον πολιτικόν], la definizione di τέλειον in quanto “autosufficiente” non può essere riferita al singolo, cioè non può valere primariamente per colui che conduce una vita solitaria, dato che l’esserci stesso racchiude implicitamente in sé l’essere con i genitori, i figli, la moglie, gli amici, e tutti coloro con cui uno convive nella πόλις. Di questo determinato essere l’uno con l’altro – se esso dev’essere un esserci – si deve individuare però uno ὅρος. Se infatti si estende l’essere l’uno con l’altro agli amici degli amici e ai parenti dei parenti, eccetera, ci si perde, si va εἰς ἄπειρον».218 Se è un disordinato «essere con tutti», l’autentico essere l’uno con l’altro si perde; quindi esso è genuino se ha in se stesso il suo limite determinato. In definitiva, l’ulteriore determinazione riguardo a come, fin da principio, è inteso il τέλειον ἀγαθόν, mostra quale ruolo l’«essere l’uno con l’altro» svolga nel τέλειον in quanto αὔταρκες.
Una definizione dell’εὐδαιμονία: essa non è, ad esempio, συναριθμουμένη,219 qualcosa di «sommato», non è una somma. Aristotele vuol dire: anche supposto che, come evidenzia la definizione di αὔταρκες, a costituire l’esserefinito dell’esserci sia una molteplicità di riferimenti, bisogna comunque tenere conto del fatto che qui non si tratta di una somma, di una quantità, poiché né il τέλειον né la molteplicità di riferimenti vanno concepiti come somma, bensì in base all’essere il cui τέλειον è l’εὐδαιμονία, cioè in base alla πρᾶξις; e il τέλειον dell’esserci non è un «che cosa» ottenuto per addizione – qualcosa che si potrebbe sommare (μὴ συναριθμουμένη) –, ma un «come» dell’εὖ, l’εὐζωία, ciò che, appunto, costituisce l’autentico τέλειον dell’esserci. Abbiamo dunque un’intera serie di caratteri dell’ἀγαθόν. Se ricordate, la discussione dei βίοι aveva dato il seguente risultato: 1. l’οἰκεῖον e 2. il δυσαϕαίρετον sono le determinazioni fondamentali dell’ἀγαθόν. 3. L’essere dell’esserci in quanto ἁπλῶς τέλειον è quel qualcosa che nell’esserci è a casa nel senso più autentico. 4. Definizione dell’ἀγαθόν in quanto αὔταρκες. b) La ψυχῆς ἐνέργεια κατ᾿ ἀρετήν in quanto possibilità di essere dell’uomo corrispondente al senso dell’ἀνθρώπινον ἀγαθόν Dopo questa analisi, Aristotele pone l’ulteriore domanda: che cos’è mai, in senso proprio, l’ἀγαθόν – che cos’è mai, in senso proprio, ciò che, nell’essere dell’uomo, corrisponde al senso così specifico dell’ἀνθρώπινον ἀγαθόν? ποθεῖται δ᾽ ἐναργέστερον τί ἐστιν ἔτι λεχθῆναι [ἀγαθόν].220 «Si sente il bisogno di avere adesso una spiegazione più precisa di che cosa sia, in definitiva, l’ἀγαθόν». Aristotele fornisce un filo conduttore generale per l’analisi dell’ἀγαθόν: trovo l’ἀγαθόν di un ente se considero il suo ἔργον.221 In ogni πρᾶξις è sempre presente un ἔργον. Sembra quindi che l’ἀγαθόν in quanto tale possa essere
trovato nell’operare stesso. Se mi interrogo circa l’ἀνθρώπινον ἀγαθόν debbo prestare attenzione a ciò che, nell’esserci dell’uomo, è l’ἀνθρώπινον ἔργον,222 ovvero quel particolare prendersi cura dell’esserci umano che costituisce l’essere dell’uomo in quanto tale. Esiste poi, in generale, un ἔργον ἀνθρώπινον cosiffatto? Se ci guardiamo intorno nell’esserci concreto dell’uomo, vediamo determinate professioni e occupazioni: capomastro, calzolaio, e così via. Si tratta di determinazioni dell’esserci umano che non si addicono, di volta in volta, a ciascun uomo in quanto uomo. Svolgendo queste occupazioni l’uomo si dà da fare con le mani, cammina con i piedi e, ciò facendo, vede, si rende conto che certe parti di questo ente che «ci» è hanno di volta in volta il loro compito specifico, la loro possibilità di essere. Ci si chiede però se, accanto a tutto ciò – accanto all’ἔργον del calzolaio, del carpentiere, accanto al camminare, eccetera –, vi sia anche un ἔργον dell’uomo, qualcosa insomma che sia ἴδιον223 dell’uomo in quanto uomo, «a esso proprio». Aristotele non decide la questione in termini astratti, ma aprendo bene gli occhi. Si tratta di vedere l’ἴδιον. Bisogna quindi ἀϕορίζεσθαι,224 «escludere» ciò che la specifica vita umana, in quanto vita, ha in comune con gli altri viventi. L’indagine passa dunque in rassegna ogni vita possibile, in modo tale da scartare tutto ciò che, tenendo concretamente presente la vita dell’uomo, può essere rintracciato anche negli altri esseri viventi. L’orizzonte dell’indagine è l’ente che «ci» è nel modo della vita. τὸ μὲν γὰρ ζῆν κοινὸν εἶναι ϕαίνεται καὶ τοῖς ϕυτοῖς, ζητεῖται δὲ τὸ ἴδιον. ἀϕοριστέον ἄρα τὴν θρεπτικὴν καὶ αὐξητικὴν ζωήν.225 «La vita sembra essere comune anche alle piante, ma ciò che si cerca è l’ἴδιον. Bisogna quindi escludere che quel modo della vita che designiamo come nutrizione e crescita [possa essere una possibilità eccellente della vita stessa]». Nell’atto del nutrirsi un essere vivente è nel suo mondo in un modo specifico; tale «essere nel mondo» può ricondurre al mettere al mondo, al procreare e al partorire. Abbiamo la specifica espressione
«venire al mondo». Nutrizione e crescita sono solo possibilità determinate di essere della vita, nella quale è sviluppata la possibilità fondamentale del γεννᾶν. Ma non è nulla di specificamente umano. Nell’essere degli animali in quanto «essere nel mondo» osserviamo l’αἴσθησις:226 gli animali percepiscono il mondo entro determinati limiti, sono nel mondo in modo tale da avere lì il mondo circostante, l’ambiente in cui si orientano in modo determinato. Quindi anche l’essere orientato nel mondo, l’«averlo lì esplicitamente in qualche modo», non è qualcosa di proprio dell’uomo in quanto tale. Dobbiamo sempre tenere concretamente presente l’uomo, così da poter cogliere altre modalità della vita. λείπεται δὴ πρακτική τις τοῦ λόγον ἔχοντος.227 Nell’uomo «resta» dunque soltanto un modo dell’«essere nel mondo» tale da potersi prendere cura di qualcosa al suo interno: il «prendersi cura caratteristico di un ente che parla». L’ἴδιον ἔργον, il modo proprio dell’uomo, è la πρᾶξις, definita come modo dell’«essere nel mondo», e precisamente parlando, μετὰ λόγου,228 κατὰ λόγον.229 Da quanto detto in precedenza sappiamo che si tratta di ciò che costituisce l’autentica possibilità di essere. Ora, però, il prendersi cura può riposare, l’uomo può anche trascorrere la sua esistenza dormendo. Ciò di cui ne va è il modo autentico dell’esserci, affinché ciò di cui ci si deve prendere cura sia presente in se stesso, l’ἔργον «ci» sia, in modo tale che l’uomo sia nell’ἔργον, κατ᾿ ἐνέργειαν.230 È in riferimento all’autentico vivere ed essere completamente assorbito nel prendersi cura che l’uomo si definisce. Il κατ᾿ ἐνέργειαν consente un’ulteriore determinazione ontologica. Sappiamo che l’essere dell’uomo è contraddistinto dall’ἀρετή, cioè dal modo dell’essere in cui il τέλος è avuto – τέλος inteso come «ciò oltre cui nulla». L’ἐνέργεια è quindi: προστιθεμένης τῆς κατ᾿ ἀρετὴν ὑπεροχῆς,231 nell’ipotesi (ὑπέροχος da ὑπερέχω) che l’ἔργον sia assunto nella sua possibilità di essere più propria, in quanto compientesi nell’ἀρετή, in quanto effettivamente lì
presente. Per esempio, nel caso di un citaredo distinguiamo tra citaredo e citaredo. Un cattivo citaredo è diverso da un κιθαριστής232 σπουδαῖος, «serio», il quale ha fatto sul serio con la sua possibilità di essere, ponendo autenticamente in opera il poter disporre di ciò che egli è. Si evidenzia così che l’ἔργον dell’uomo è πρακτικὴ ζωή. Dunque, se il τέλος dell’uomo non sta al di fuori dell’uomo medesimo, bensì in esso in quanto sua possibilità di essere, allora l’ἀνθρώπινον ἀγαθόν è la ζωή stessa, la «vita» stessa. L’ἔργον è la vita stessa, concepita nel senso dell’«essere nel mondo» μετὰ λόγου, in modo tale cioè che in essa si parli. L’ἀνθρώπινον ἀγαθόν è quindi ψυχῆς ἐνέργεια κατ᾿ ἀρετήν.233 La ψυχή è definita come ciò che costituisce l’essere del vivente. L’«essere nel mondo» in quanto ἐνέργεια è una possibilità determinata del prendersi cura, della πρᾶξις, in quanto posta in opera, e questo «porre in opera» è concepito seriamente (σπουδαίου) in quanto εὖ, in modo tale che l’ultima possibilità di essere venga colta alla sua fine. Non approfondiamo ulteriormente l’analisi più dettagliata che Aristotele fornisce dell’ἀνθρώπινον ἀγαθόν. Nei capitoli 7-12 dell’Etica Nicomachea, ricollegandosi alla tradizione, egli discute il contesto materiale dell’ἀνθρώπινον ἀγαθόν così definito facendo riferimento alle possibilità dell’esserci nella πόλις. Ciò che a noi importa in merito alla concettualità intesa come faccenda riguardante l’esserci dell’uomo è di vedere in modo più preciso questo terreno, l’esserci stesso. Ricollegandoci alla discussione dell’ἀγαθόν siamo giunti alla definizione dell’esserci, un elemento della quale è la ψυχή, la determinazione ontologica fondamentale della vita, ψυχή in quanto πρακτικὴ ἐνέργεια. L’indagine approda da sé al suo risultato, e Aristotele stesso ce ne fornisce il filo conduttore quando afferma che la competenza specifica che costituisce l’esserci dell’uomo in quanto «essere l’uno con l’altro» dev’essere informata περὶ ψυχῆς.234 Ciò non significa che un politico debba essere anche psicologo, bensì che egli ha a che fare con l’essere autentico del vivente nella sua struttura
fondamentale. La psicologia non ha nulla a che fare con la «coscienza» e le «esperienze vissute», poiché è soltanto una dottrina dell’essere del vivente, un’ontologia di quell’essere che è caratterizzato dalla vita. Essere orientati περὶ ψυχῆς significa semplicemente avere le idee chiare circa le autentiche determinazioni ontologiche della vita. Per il πολιτικός questo compito ha un limite determinato. Aristotele fornisce l’orientamento più preciso in merito alla ψυχή seguendo il filo conduttore delle opinioni medie che la vita ha di se stessa. Un’opinione di questo tipo è la definizione dell’uomo in quanto ζῷον λόγον ἔχον. Le ulteriori definizioni si muovono nella direzione di quest’ultima.
111. Aristotelis Ethica Nicomachea, recognovit F. Susemihl, in aedibus B.G. Teubneri, Lipsiae, 1887, A 6, 1098 a 3 sg. 112. Eth. Nic. A 6, 1098 a 7. 113. De an. Γ 2, 427 a 17 sg. 114. Si veda sotto, 13. L’essere-parlante in quanto poterascoltare e in quanto possibilità del decadimento. Il duplice senso dell’ἄλογον. 115. Aristotelis Politica, tertium edidit F. Susemihl, in aedibus B.G. Teubneri, Lipsiae, 1894, A 2, 1252 b 30. 116. Pol. A 2, 1253 a 9 sgg. 117. Aristotelis Ars rhetorica, iterum edidit A. Roemer, in aedibus B.G. Teubneri, Lipsiae, 1914, A 11, 1369 b 33 sgg.: ὑποκείσθω δὴ ἡμῖν εἶναι τὴν ἡδονήν κίνησίν τινα τῆς ψυχῆς καὶ κατάστασιν ἁθρόαν καὶ αἰσθητὴν εἰς τὴν ὑπάρχουσαν ϕύσιν. 118. Rhet. A 11, 1369 b 35: λύπην δὲ τοὐναντίον. 119. Rhet. A 11, 1369 b 35 sgg.: εἰ δή ἐστιν ἡδονὴ τὸ τοιοῦτον, δῆλον ὅτι καὶ ἡδύ ἐστι τὸ ποιητικὸν τῆς εἰρημένης διαθέσεως. 120. Rhet. A 11, 1370 a 2 sg.: τὸ δὲ ϕθαρτικὸν ἢ τῆς
ἐναντίας καταστάσεως ποιητικὸν λυπηρόν. 121. Pol. A 2, 1252 b 30. 122. Pol. A 2, 1253 a 10: διότι δὲ πολιτικὸν ζῷον ὁ ἄνθρωπος πάσης μελίττης καὶ παντὸς ἀγελαίου ζῴου μᾶλλον, δῆλον. 123. Pol. A 2, 1253 a 12 sg. 124. Rhet. A 11, 1370 a 1 sgg. 125. Rhet. A 11, 1370 a 2. 126. Rhet. A 11, 1369 b 34 sg. 127. Pol. A 2, 1253 a 16 sgg. 128. Pol. A 2, 1253 a 14 sg. 129. Rhet. A 6, 1362 a 18. 130. Rhet. A 6, 1362 a 19. 131. Rhet. A 6, 1362 a 19 sg. 132. Rhet. A 6, 1362 a 17 sg. 133. Eth. Nic. Ζ 10, 1142 a 31 sg.: τὸ γὰρ βουλεύεσθαι ζητεῖν τι ἐστίν. Ζ 10, 1142 b 1 sg.: ὁ δὲ βουλευόμενος ζητεῖ καὶ λογίζεται. 134. Eth. Nic. Ζ 10, 1142 b 28. 135. Pol. A 2, 1253 a 14. 136. Loc. cit. 137. Rhet. A 6, 1362 a 22. 138. Loc. cit. 139. Rhet. A 6, 1362 a 23. 140. Rhet. A 6, 1362 a 26 sg. 141. Pol. A 2, 1253 a 14 sgg. 142. Pol. A 2, 1253 a 14. 143. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 9. 144. Eth. Nic. A 1, 1094 a 1 sg. 145. Eth. Nic. A 5, 1097 a 16: πράξει καὶ τέχνῃ. 146. Eth. Nic. A 2, 1095 a 14: γνῶσις καὶ προαίρεσις. 147. Rhet. A 4, 1359 b 10 sg. 148. Eth. Nic. A 1, 1094 b 11. 149. Eth. Nic. A 1, 1094 a 3 sgg. 150. Eth. Nic. A 1, 1094 a 6 sgg. 151. Eth. Nic. A 1, 1094 a 8 sg. 152. Eth. Nic. A 1, 1094 a 10 sg.: ὑπὸ τὴν ἱππικὴν
χαλινοποιητική. 153. Eth. Nic. A 1, 1094 a 12 sg.: αὕτη δὲ [...] ὑπὸ τὴν στρατηγικήν. 154. Eth. Nic. A 1, 1094 a 9 sg.: ὅσαι δ᾽ εἰσὶ τῶν τοιούτων ὑπὸ μίαν τινὰ δύναμιν. 155. Eth. Nic. A 1, 1094 a 20. 156. Eth. Nic. A 1, 1094 a 19. 157. Eth. Nic. A 1, 1094 a 19 sgg.: μὴ πάντα δι᾿ ἕτερον αἱρούμεθα (πρόεισι γὰρ οὕτω γ᾿ εἰς ἄπειρον, ὥστ᾿ εἶναι κενὴν καὶ ματαίαν τὴν ὄρεξιν). 158. Eth. Nic. A 1, 1094 b 6. 159. Eth. Nic. A 1, 1095 a 3 sg. 160. Eth. Nic. A 3, 1095 b 17 sgg. 161. Eth. Nic. A 3, 1095 b 26. 162. Eth. Nic. A 5, 1097 a 33. 163. Eth. Nic. A 5, 1097 b 8. 164. Eth. Nic. A 2, 1095 a 17 sg.: τὴν γὰρ εὐδαιμονίαν καὶ οἱ πολλοὶ καὶ οἱ χαρίεντες λέγουσιν. 165. Eth. Nic. A 3, 1095 b 14 sgg.: τὸ γὰρ ἀγαθὸν καὶ τὴν εὐδαιμονίαν οὐκ ἀλόγως ἐοίκασιν ἐκ τῶν βίων ὑπολαμβάνειν. 166. Eth. Nic. A 3, 1095 b 21. 167. Eth. Nic. A 3, 1095 b 22 sg. 168. Eth. Nic. A 3, 1095 b 27 sg.: ἵνα πιστεύσωσιν ἑαυτοὺς ἀγαθοὺς εἶναι. 169. Eth. Nic. A 3, 1095 b 29 sg. 170. Eth. Nic. A 3, 1095 b 32 sgg.: δοκεῖ γὰρ ἐνδέχεσθαι καὶ καθεύδειν ἔχοντα τὴν ἀρετὴν ἢ ἀπρακτεῖν διὰ βίου, καὶ πρὸς τούτοις κακοπαθεῖν καὶ ἀτυχεῖν τὰ μέγιστα. 171. Eth. Nic. A 2, 1095 b 6 sg. 172. Cfr. Eth. Nic. A 3, 1096 a 4 sg. 173. Eth. Nic. A 8, 1098 b 21 sg. 174. Eth. Nic. Ζ 12, 1143 a 32 sg.: ἔστιν δὲ τῶν καθ᾿ ἕκαστα καὶ τῶν ἐσχάτων ἅπαντα τὰ πρακτά. 175. Eth. Nic. A 4, 1096 a 11. 176. Eth. Nic. A 5, 1097 a 33. 177. Cfr. Met. Ζ 6, 1031 a 28 sgg.
178. Met. Δ 16, 1021 b 12 sgg. 179. Met. Δ 16, 1021 b 15 sgg. 180. Met. Δ 16, 1021 b 21 sgg. 181. Met. Δ 16, 1021 b 23 sgg. 182. Met. Δ 16, 1021 b 28 sg. 183. Met. Δ 16, 1021 b 29 sg. 184. Met. Δ 16, 1021 b 12-14. 185. Met. Δ 16, 1021 b 15-17. 186. Met. Δ 16, 1021 b 17 sg. 187. Met. Δ 16, 1021 b 20 sg. 188. Si veda sotto, 26. Movimento in quanto ἐντελέχεια τοῦ δυνάμει ὄντο. 189. Met. Δ 16, 1021 b 12-14. 190. Met. Δ 16, 1021 b 15-17. 191. Met. Δ 16, 1021 b 17-20. 192. Met. Δ 16, 1021 b 20-23. 193. Met. Δ 16, 1021 b 23. 194. [Per mantenere il verbo «avere» rendiamo così l’espressione tedesca hat Langeweile, che in traduzione più corretta suonerebbe «si annoia». Analogamente, più sotto, l’espressione tedesca eine Sache im Ernst haben viene resa con «avere seriamente una cosa», in luogo del corretto «prendere seriamente una cosa»]. 195. Met. Δ 16, 1021 b 23 sg.: ὑπάρχει τὸ τέλος σπουδαῖον. 196. Met. Δ 16, 1021 b 23-25. 197. Met. Δ 16, 1021 b 27. 198. Met. Δ 16, 1021 b 28 sg. 199. Met. Δ 16, 1021 b 25-29. 200. Met. Δ 16, 1021 b 30. 201. Met. Δ 16, 1021 b 29 sg. 202. Met. Δ 16, 1021 b 30: τὰ μὲν οὖν καθ᾿ αὑτὰ λεγόμενα. 203. Met. Δ 16, 1022 a 1 sgg.: τὰ δ᾽ ἄλλα [...] πρὸς τὰ πρώτως. 204. Met. Δ 16, 1021 b 30-1022 a 3. 205. [Il verbo tedesco umfassen ha sia il significato
generale figurato di «comprendere», «abbracciare», sia quello più concreto di «circondare», «avvolgere», «recingere», «recintare»]. 206. De an. B 1, 412 a 27 sg.: ἐντελέχεια ἡ πρώτη σώματος ϕυσικοῦ δυνάμει ζωὴν ἔχοντος. 207. Eth. Nic. A 5, 1097 a 27 sg.: οὐκ ἔστιν πάντα τέλεια. 208. Eth. Nic. A 5, 1097 a 28: τὸ δ᾽ ἄριστον τέλειόν τι ϕαίνεται. 209. Eth. Nic. A 1, 1094 a 20. 210. Eth. Nic. A 5, 1097 a 30. 211. Eth. Nic. A 5, 1097 a 33. 212. Eth. Nic. A 5, 1097 a 30 sg. 213. Eth. Nic. A 5, 1097 a 31 sg. 214. Eth. Nic. A 5, 1097 a 33: καθ᾿ αὑτὸ αἱρετὸν αἰεί. 215. Eth. Nic. A 5, 1097 b 2 sgg. 216. Eth. Nic. Κ 7, 1177 a 27. 217. Cfr. I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, in Immanuel Kants Werke, a cura di E. Cassirer, vol. IV, Berlin, 1913, p. 279. 218. Eth. Nic. A 5, 1097 b 8 sgg.: τὸ γὰρ τέλειον ἀγαθὸν αὔταρκες εἶναι δοκεῖ. τὸ δὲ αὔταρκες λέγομεν οὐκ αὐτῷ μόνῳ τῷ ζῶντι βίον μονώτην, ἀλλὰ καὶ γονεῦσι καὶ τέκνοις καὶ γυναικὶ καὶ ὅλως τοῖς ϕίλοις καὶ πολίταις, ἐπειδὴ ϕύσει πολιτικὸν ὁ ἄνθρωπος. τούτων δὲ ληπτέος ὅρος τις· ἐπεκτείνοντι γὰρ ἐπὶ τοὺς γονεῖς καὶ τοὺς ἀπογόνους καὶ τῶν ϕίλων τοὺς ϕίλους εἰς ἄπειρον πρόεισιν. 219. Eth. Nic. A 5, 1097 b 17: μὴ συναριθμουμένην. 220. Eth. Nic. A 6, 1097 b 23 sg. 221. Eth. Nic. A 6, 1097 b 26 sg.: ἐν τῷ ἔργῳ δοκεῖ τἀγαθὸν εἶναι. 222. Eth. Nic. A 6, 1097 b 24 sg.: τὸ ἔργον τοῦ ἀνθρώπου. 223. Eth. Nic. A 6, 1097 b 34. 224. Eth. Nic. A 6, 1097 b 34 sg.: ἀϕοριστέον. 225. Eth. Nic. A 6, 1097 b 33 sgg. 226. Eth. Nic. A 6, 1098 a 2: αἰσθητική τις. 227. Eth. Nic. A 6, 1098 a 3 sg. 228. Eth. Nic. A 6, 1098 a 14.
229. Eth. Nic. A 6, 1098 a 7. 230. Eth. Nic. A 6, 1098 a 6. 231. Eth. Nic. A 6, 1098 a 10 sg. 232. Eth. Nic. A 6, 1098 a 11 sg.: κιθαριστοῦ μὲν γὰρ τὸ κιθαρίζειν, σπουδαίου δὲ τὸ εὖ. 233. Eth. Nic. A 6, 1098 a 16. 234. Eth. Nic. A 13, 1102 a 18 sg.: δεῖ τὸν πολιτικὸν εἰδέναι πως τὰ περὶ ψυχήν.
III L’INTERPRETAZIONE DELL’ESSERCI DELL’UOMO IN RIFERIMENTO ALLA POSSIBILITÀ FONDAMENTALE DEL «PARLARE L’UNO CON L’ALTRO» SEGUENDO IL FILO CONDUTTORE DELLA RETORICA
13. L’essere-parlante in quanto poter-ascoltare e in quanto possibilità del decadimento. Il duplice senso dell’ἄλογον (Eth. Nic. A 13, De an. B 4) La nostra analisi è giunta a una conclusione provvisoria nella misura in cui abbiamo posto in luce le determinazioni fondamentali riguardanti l’essere dell’uomo. Siamo pervenuti alla definizione dell’essere della ζωή dell’uomo, che Aristotele definisce appunto ψυχῆς ἐνέργεια κατ᾿ ἀρετὴν τελείαν.235 L’ἐνέργεια è un carattere di quell’ente che è animato e che è nel modo dell’essere in un mondo. La ζωή è una vita tale da esserci in maniera attiva, sicché questo esserci vive propriamente nel prendersi cura: essa ha il suo τέλος così da portare l’esserci dell’uomo alla sua fine autentica. Per una concreta elaborazione dell’essere dell’uomo è necessario trattare ora dell’ἀρετή. Ciò si ricollega anche al libro I dell’Etica Nicomachea, cioè all’analisi dettagliata delle ἀρεταί. In base a quanto abbiamo detto finora si può intuire che cosa, di fatto, significa questo tema, se non si perde di vista lo scopo delle nostre considerazioni. Non seguiremo l’analisi delle ἀρεταί. Qui non ci interessa l’elaborazione concreta dell’interpretazione dell’esserci, ma un altro elemento che vi è implicitamente contenuto, ovvero il fatto che l’essere dell’uomo, ἐνέργεια κατ᾿ ἀρετήν, ha il carattere del parlare: πρᾶξις μετὰ λόγου. Questa analisi
viene in un certo senso a coincidere con l’altra (κατ᾿ ἀρετὴν τελείαν). Poniamo l’accento sul μετὰ λόγου interrogandoci sul λόγος, cioè su quel parlare del mondo e rivolgersi al mondo in cui il concetto e la concettualità sono di casa. Siamo alla ricerca della base, della fondatezza della formazione del concetto nell’esserci stesso. La formazione del concetto non è una faccenda casuale, ma una possibilità fondamentale dell’esserci, nella misura in cui esso si è deciso per la scienza. La definizione provvisoria di ζῷον λόγον ἔχον ci ha già fatto comprendere che vi si manifesta un carattere fondamentale dell’esserci in quanto ζῷον πολιτικόν: l’uomo è nel modo dell’essere l’uno con l’altro, la determinazione fondamentale del suo essere è l’essere l’uno con l’altro. A sua volta, l’essere l’uno con l’altro ha la sua possibilità fondamentale nel parlare, e precisamente nel parlare l’uno con l’altro – parlare inteso in quanto «esprimere se stessi» nel «parlare di qualcosa». Il λόγος entra in funzione non solo in questa determinazione fondamentale, ma anche proprio là dove Aristotele si interroga sulle possibili ἀρεταί. Articoleremo l’analisi di questo argomento seguendo il filo conduttore dell’indagine che Aristotele stesso svolge in merito al λόγον ἔχον. Il λόγον ἔχον è stato chiarito in modo superficiale. Esso contiene implicitamente in sé un’intera serie di determinazioni. L’esserci dell’uomo, caratterizzato in quanto λόγον ἔχον, viene definito da Aristotele precisando che nell’uomo anche il suo essere-parlante svolge un ruolo fondamentale. Nell’essere l’uno con l’altro, l’uno può essere colui che parla, l’altro colui che ascolta. L’ἀκούειν, l’«udire», è l’autentica αἴσθησις. Benché sia la vista, connessa al θεωρεῖν, a manifestare in senso proprio il mondo, in realtà a far ciò è l’udito, poiché esso è la percezione del parlare, è la possibilità dell’essere l’uno con l’altro. L’uomo non è soltanto un parlante e un ascoltante, bensì è di per sé un ente tale da ascoltare se stesso. Il parlare, in quanto «esprimersi su qualcosa», è nel contempo un «parlare a se stessi», sicché la
definizione di λόγον ἔχον racchiude in sé ancora qualcos’altro: l’uomo ha il λόγος anche nel senso che presta ascolto a questo suo proprio parlare. Nell’uomo si dà quindi una possibilità di essere da caratterizzarsi come ὑπακούειν. Aristotele ricava la dimostrazione di questo fenomeno fondamentale dalle concrete circostanze dell’esistenza, da fenomeni peculiari cui egli accenna nel libro I, capitolo 13, dell’Etica Nicomachea: si tratta di ciò che egli designa come παράκλησις, «esortazione», νουθέτησις, «ammonimento», e ἐπιτίμησις, «rimprovero».236 Tutti questi modi del parlare naturale l’uno con l’altro implicano la pretesa che l’altro non si limiti a prendere conoscenza di qualcosa, ma lo recepisca, lo segua, lo ricordi, dunque ripeta ciò di cui si è parlato, in modo che, ripetendolo, gli presta ascolto. Ne consegue che l’essere dell’uomo in quanto prendentesi cura implica la possibilità che egli presti ascolto al suo parlare. Più precisamente, questa possibilità dell’ascoltare, questo ἀκουστικόν,237 convive con il modo dell’essere che è fondamentalmente implicito nella πρᾶξις, cioè la ὄρεξις.238 Ogni prendersi cura implica una tendenza, tende a qualcosa, a un ἀγαθόν, che «ci» è sempre in quanto λεγόμενον, «ciò a cui ci si rivolge». Questo tendere presta ascolto a ciò che si dice, alla direttiva riguardante ciò di cui ci si deve prendere cura e come lo si debba fare. Vediamo con più chiarezza che il vivere prendentesi cura, che implica in sé il parlare, parla in modo tale da prestare ascolto a se stesso. La ζωὴ πρακτικὴ μετὰ λόγου parla in modo da prestare ascolto, essa stessa, a se stessa. Ora, però, questo prestare ascolto – prendentesi cura – al parlare non è, in quanto ὄρεξις, propriamente un parlare, poiché è un parlare solo nella misura in cui presta ascolto al parlare. Non essendo propriamente un parlare, Aristotele lo designa come ἄλογον.239 Il che peraltro non significa che esso sia privo di riferimenti al parlare, ma non lo è κυρίως,240 la ὄρεξις non è primariamente un parlare. Per la compiuta determinazione dell’essere dell’uomo, l’ἄλογον ha un duplice significato:241 1. non essere parlante nel senso del prestare ascolto al
parlare; 2. non avere alcun rapporto con il parlare, come nel caso della θρεπτική, la nutrizione, la riproduzione, che non hanno rapporto con il λόγος in un senso fondamentale. La funzione dei succhi gastrici non ha alcun rapporto con il parlare dell’uomo. L’ἄλογον viene quindi definito, in primo luogo, in riferimento alla θρεπτική, poi però esso è una possibilità di essere, caratterizzata dal poter prestare ascolto al parlare in quanto tale. Il parlare in senso proprio è l’«essere-κυρίως λόγον ἔχον». È questo il filo conduttore per la suddivisione delle possibili ἀρεταί. Vi sono ἀρεταί, modi della possibilità di essere, che si orientano sul parlare, riflettere, concepire in senso proprio. Vi sono poi modi del poter disporre dell’essere nei quali il λόγος è, sì, implicitamente presente, ma l’elemento decisivo sta nella «scelta deliberata», nella προαίρεσις. Nel primo caso si hanno le ἀρεταὶ διανοητικαί, nel secondo le ἀρεταὶ ἠθικαί.242 Διανοεῖσθαι: «pensare», «supporre», «riflettere» in modo approfondito. ᾿Ηθικός non significa «etico»; quando si parla di «virtù etiche» non bisogna prendere superficialmente la cosa troppo alla lettera. Ἦθος significa il «comportamento» dell’uomo, il modo in cui egli «ci» è, come si comporta in quanto uomo, come si presenta nell’essere l’uno con l’altro – come un oratore parla, qual è il suo comportamento in tutte queste circostanze, come si atteggia nei confronti delle cose di cui parla. Non esamineremo in modo più preciso la suddivisione delle ἀρεταί. In seguito prenderemo in considerazione le ἀρεταὶ διανοητικαί,243 poiché nel loro ambito sta la possibilità fondamentale dell’osservazione, dell’indagine scientifica, del βίος θεωρητικός, quindi dell’esistenza umana. Per noi, invece, che consideriamo il λόγος, è importante che questa separazione fondamentale delle possibilità di essere dell’uomo venga vista mantenendo l’orientamento sul λόγος, ossia nella possibilità fondamentale del λόγος. L’uomo è un ente che parla. Questa definizione non è una scoperta di Aristotele. Egli afferma espressamente di riportare un ἔνδοξον, una δόξα dominante nell’esistenza
greca. Già prima di Aristotele i greci vedevano nell’uomo un ente cha parla. Persino la distinzione tra λόγον ἔχον e ἄλογον risale agli ἐξωτερικοὶ λόγοι.244 ᾿Εξωτερικοὶ λόγοι: a lungo ci si è arrovellati per trovare il vero significato di questa espressione. Si è formata e diffusa l’opinione che con essa si intendano i dialoghi di Aristotele, cioè quella parte dei suoi scritti che era stata pubblicata. Si tratta di un’opinione insostenibile. Il vero senso degli ἐξωτερικοὶ λόγοι è stato posto in luce per la prima volta nel 1883 da Diels negli Atti dell’Accademia delle Scienze di Berlino.245 Jaeger ha ripreso questa ipotesi sfruttandola efficacemente per la definizione del carattere letterario degli scritti aristotelici.246 ᾿Εξωτερικὸς λόγος è il modo di parlare al di fuori della scienza, il «così si dice», e ciò che si deposita in discorsi di questo genere. Quando assume l’ἄλογον in quanto determinazione fondamentale dell’uomo, Aristotele si richiama esplicitamente a tale λόγος. Questa circostanza ci offre un’indicazione essenziale circa il fatto che, se la definizione ζῷον λόγον ἔχον è così fondamentale, la relativa indagine di Aristotele deve avere un terreno reale, nella misura in cui non è casuale che i greci, nella loro autointerpretazione naturale dell’esserci, definiscano l’uomo uno ζῷον λόγον ἔχον. Noi non abbiamo una definizione corrispondente. Qualcosa del genere potrebbe suonare al massimo come: «L’uomo è un essere vivente che legge giornali». In un primo momento potrà sembrarvi strano, ma è appunto ciò che corrisponde alla definizione greca. Quando i greci dicono: «L’uomo è un essere vivente che parla», non intendono ciò nel senso fisiologico che egli emette determinati suoni, bensì: «L’uomo è un essere vivente che ha il suo esserci autentico nel colloquio e nel discorso». I greci esistevano nel discorso. Il retore è colui che detiene il potere effettivo sull’esserci: ῥητορικὴ πειθοῦς δημιουργός,247 il saper discorrere è la possibilità che mi dà modo di esercitare il dominio effettivo sulle convinzioni degli uomini nel loro essere l’uno con l’altro. È in questa costituzione
fondamentale dei greci che va cercato il terreno per la definizione dell’uomo. Anche quando legge, il greco, nel farlo, presta ascolto, e non è un caso che tutti i testi di Aristotele che possediamo siano lezioni, parola parlata. Questo fatto – il fatto che i greci vivevano nel discorso – va tenuto sempre ben presente, prestando attenzione a un’ulteriore circostanza: se il discorso è la possibilità autentica dell’esserci, nella quale l’esserci stesso ha luogo concretamente e per lo più, allora proprio il parlare costituisce anche la possibilità, in cui l’esserci si impiglia, che l’esserci mostri una peculiare tendenza a disperdersi nell’«innanzitutto», nella moda e nella chiacchiera, per lasciarsene guidare. Questo processo della vita, di disperdersi nel mondo, in ciò che è abituale, di decadere nel mondo in cui si vive, è diventato per i greci, appunto tramite il linguaggio, il pericolo fondamentale del loro esserci. Ne è la prova l’esistenza della sofistica. Nella sofistica viene messa in pratica questa possibilità prevalente del parlare. La tesi di Protagora: τὸν ἥττω λόγον κρείττω ποιεῖν:248 discutere di geometria con un geometra senza sapere nulla di geometria, condurre il colloquio in modo da superare l’altro pur non avendo nessuna cognizione di causa. La sofistica è la prova del fatto che i greci sono decaduti in quella lingua che Nietzsche, una volta, ha definito «la più parlabile di tutte le lingue».249 E lui doveva ben sapere che cos’è la grecità! Va tenuto presente che nel IV secolo i greci erano completamente assoggettati al dominio del linguaggio. Bisogna comprendere che cosa significa riportare il parlare da questa esteriorizzazione dell’esserci greco, da questo conversare e chiacchierare, al punto in cui Aristotele può dire: il λόγος è λόγος οὐσίας, «parlare della cosa, di ciò che essa è». Aristotele si pone agli antipodi di ciò che viveva intorno a lui, che aveva di fronte nel mondo concreto. Non bisogna pensare che ai greci la scienza sia piovuta dal cielo. Anzi, essi si sono completamente dispersi nell’esteriorità. Al tempo di Platone e Aristotele la chiacchiera aveva talmente impregnato di sé l’esistenza che ci vollero gli sforzi di
entrambi per mettere in pratica quanto possibile le potenzialità della scienza. Il fatto decisivo è che essi non hanno acquisito una nuova possibilità di esistenza traendola da qualche altra parte, per esempio dall’India – quindi dall’esterno –, ma dalla vita greca stessa: misero in pratica le possibilità del linguaggio. È questa l’origine della logica, la dottrina del λόγος. L’interpretazione attuale non è adatta a comprendere la logica. Analogamente, anche il modo corrente di concepire la retorica costituisce un ostacolo alla comprensione della Retorica aristotelica. Nell’edizione delle opere curata dall’Accademia di Berlino la Retorica è stata messa alla fine.250 Non si sapeva bene che farsene, dunque in coda! È la prova della più totale insipienza. Da lungo tempo la tradizione non è più stata in grado di comprendere la retorica, nella misura in cui essa si è ridotta a una disciplina scolastica fin dall’ellenismo e dall’alto Medioevo. Il senso originario della retorica era scomparso da tempo. Ora, se si tralascia di interrogarsi sulla funzione concreta della logica aristotelica, ci si priva della possibilità fondamentale di interpretarla in modo da far emergere con chiarezza il fatto che la retorica non è che la disciplina in cui si compie esplicitamente l’autointerpretazione dell’esserci. La retorica altro non è che l’interpretazione dell’esserci concreto, l’ermeneutica dell’esserci stesso. È questo il senso della retorica perseguito da Aristotele. Il parlare nel modo del «parlare nel discorso» – nell’assemblea popolare, in tribunale, nelle occasioni solenni –, queste possibilità del parlare sono casi particolarmente rilevanti del parlare abituale, come esso parla nell’esserci stesso. Nell’interpretazione della Retorica andrà considerato il modo in cui vi vengono già esplicitate alcune possibilità fondamentali del parlare dell’esserci. Solo se teniamo presente questo terreno dell’esserci greco possiamo comprendere come la definizione dell’uomo in quanto ζῷον λόγον ἔχον non sia né un’invenzione né una casualità, ma rispecchi il modo in cui il greco intende primariamente il suo
esserci. Dobbiamo quindi ripercorrere brevemente le definizioni principali che Aristotele dà del λόγος in quanto discorrere. Non possiamo impegnarci qui in una interpretazione approfondita della Retorica: dobbiamo comprendere più precisamente la definizione di ζῷον λόγον ἔχον, per capire in modo più pertinente – in base a essa – dove ha il suo proprio terreno la definizione come tale, il λόγος οὐσίας, lo ὁρισμός, il parlare teoretico con le cose stesse. L’εὐδαιμονία è un determinato essere-reale della vita come tale: in riferimento all’ἀρετή, cioè al poter disporre della possibilità di essere dell’ente in questione. Ora, però, poiché esiste una molteplicità di possibilità di essere di un vivente, ci si chiede come debba essere articolata questa molteplicità, in riferimento alla quale le diverse ἀρεταί sono possibilità di essere dell’uomo. L’articolazione necessita di un terreno, che viene desunto dall’essere dell’uomo. Anche per la suddivisione delle possibilità fondamentali dell’essere dell’uomo Aristotele ricorre alla definizione fondamentale dell’essere dell’uomo come λόγον ἔχον. Per la precisione, questa definizione deve proporsi nella sua forma ampliata, sicché non intendiamo λόγον ἔχον solo nel suo senso proprio, ma anche così: l’uomo è un ente che dice qualcosa ad altri e, simultaneamente, si lascia dire qualcosa da altri – significato, questo, assolutamente primario del parlare nel senso del lasciarsi dire qualcosa da altri. Nella misura in cui è il parlante, l’uomo può dire qualcosa a se stesso, in quanto parlante ha la possibilità del lasciarsi dire qualcosa da se stesso. Tale possibilità si manifesta nel fatto che gli uomini sono l’uno con l’altro nel modo dell’esortare, persuadere, ammonire. In quanto si lascia dire qualcosa, l’uomo è λόγον ἔχον da un nuovo punto di vista: egli si lascia dire qualcosa nella misura in cui presta ascolto; e non presta ascolto per imparare qualcosa, ma per avere una direttiva in merito al prendersi cura pratico e concreto. Il saper prestare ascolto è una determinazione della ὄρεξις. Il λόγον ἔχον in questo secondo senso è definito da Aristotele anche in quanto
ἄλογον. La ὄρεξις non è parlare, ma udire, prestare ascolto. Aristotele si serve del termine ἄλογον in due sensi: 1. per λόγον ἔχον nel modo del prestare ascolto; 2. per quel modo di essere del vivente che non ha alcuna relazione con il parlare. A questo proposito non bisogna dimenticare che anche le determinazioni di θρεπτικόν e αὐξητικόν sono determinazioni ontologiche fondamentali tanto quanto l’αἴσθησις. Anche la nutrizione sarebbe concepita in modo sbagliato se la si intendesse come processo fisiologico. La riproduzione è «mettere al mondo», la nutrizione è «trattenersi nel mondo». Con quanta forza sia vivo il carattere ontologico dello θρεπτικόν e dell’αὐξητικόν è mostrato dal De anima, libro ΙΙ, capitolo 4: ὥστε πρῶτον περὶ τροϕῆς καὶ γεννήσεως λεκτέον· ἡ γὰρ θρεπτικὴ ψυχὴ καὶ τοῖς ἄλλοις ὑπάρχει, καὶ πρώτη καὶ κοινοτάτη δύναμίς ἐστι ψυχῆς, καθ᾿ ἣν ὑπάρχει τὸ ζῆν ἅπασιν.251 «Il modo del potersi nutrire si dà fin dall’inizio, anche negli altri esseri viventi, ed è la prima maniera, presente in tutti, dell’“essere nel mondo”. Ed è in riferimento a essa che – rispetto a tutte le altre possibilità di essere che vi sono fondate – c’è vita». ἧς ἐστὶν ἔργα γεννῆσαι καὶ τροϕῇ χρῆσθαι.252 «Ciò che questa possibilità implica come prestazione è il generare e il τροϕῇ χρῆσθαι». Nel χρῆσθαι viene a espressione il riferimento al mondo, tant’è vero che i greci chiamano χρήματα anche le cose del mondo. ϕυσικώτατον γὰρ τῶν ἔργων τοῖς ζῶσιν, ὅσα τέλεια καὶ μὴ πηρώματα, ἢ τὴν γένεσιν αὐτομάτην ἔχει, τὸ ποιῆσαι ἕτερον οἷον αὐτὸ, ζῷον μὴν ζῷον, ϕυτὸν δὲ ϕυτόν, ἵνα τοῦ ἀεὶ καὶ τοῦ θείου μετέχωσιν ᾗ δύνανται.253 «La possibilità ontologica del mettere al mondo è quella che appartiene nel senso più proprio al modo di essere del vivente, quello di produrre un altro così come esso stesso è, con i caratteri della propria vita, simile a se stesso, l’animale un animale, la pianta una pianta, onde partecipino all’eterno e al divino, per quanto è loro di volta in volta concesso dalla loro possibilità ontologica». Il mettere al mondo è un determinato modo dell’essere, orientato, per la precisione, sull’idea
fondamentale dell’essere in senso greco. Lo si può vedere nella riproduzione: mettendo al mondo un altro esemplare della sua specie, un essere vivente trattiene se stesso nel suo essere. La riproduzione è il modo dell’«esserci sempre» di un essere vivente, poiché essere, per i greci, significa essere presente, e precisamente essere sempre presente. Ora, da questo passo emerge che μετέχειν τοῦ θείου non significa trovarsi in un rapporto religioso con Dio, cioè θεῖον non ha nulla a che fare con la religione, ma è una perifrasi del concetto di essere, nel modo dell’«essere sempre». Tradurre θεῖον con «religiosità» è pura invenzione. Ho analizzato questo passo per evidenziare come quelli che chiamiamo processi fisiologici siano modi dell’essere, che offrono la possibilità di essere in modo proprio, di esserci sempre. Queste determinazioni ontologiche (θρεπτικόν, γεννητικόν, αἰσθητικόν, νοητικόν, ὀρεκτικόν) vengono suddivise in λόγον ἔχον – ἄλογον. La definizione dell’uomo in quanto ζῷον λόγον ἔχον mostra di avere una portata assai più ampia di quanto non sembrasse in un primo momento: 1. Nella definizione stessa: ζωὴ πρακτικὴ μετὰ λόγου. 2. Le possibilità ontologiche dell’uomo, di cui egli può disporre, vengono suddivise in base a questa definizione. 3. Come λόγος viene designato lo ὁρισμός, il vero e proprio parlare con il mondo. Dobbiamo cercare di mettere maggiormente a fuoco il terreno concreto da cui deriva il carattere del λόγον ἔχον. Il fatto che per i greci il parlare sia stato fondamentale non può restare un’ipotesi, va dimostrato in concreto. Anche il λόγον ἔχον è duplice: 1. ἐπιστημονικόν, 2. λογιστικόν,254 il parlare nel senso del considerare teoretico e il parlare nel senso del λογίζεσθαι, del «riflettere» (discusso nel libro VI, capitoli 1 e 2, dell’Etica Nicomachea).
14. La definizione fondamentale della retorica e del λόγος
stesso in quanto πίστις (Rhet. A 1-3) Come possiamo ricavare da Aristotele un’idea in merito al fatto che per i greci l’essere-parlante sia stato il fenomeno fondamentale della loro esistenza, e come ciò sia stato possibile? Per nostra fortuna, di Aristotele possediamo una Retorica, che abbraccia i fenomeni specifici del parlare. Ma non va dimenticato che la retorica intesa come riflessione sul parlare è più antica della Retorica aristotelica. Tra le opere di Aristotele ci è tramandata anche la Retorica ad Alexandrum, che però non è di suo pugno. L’ipotesi più attendibile è che abbia origini prearistoteliche (Spengel la attribuisce ad Anassimene).255 L’effettiva meditazione sul parlare viene fatta risalire a due oratori siciliani, Tisia e Corace. La prima esposizione sistematica si deve però ad Aristotele. Non si tratta di un caso, ma del fatto che egli disponeva del giusto sguardo obiettivo e della elaborata concettualità adatti al λέγειν e a tutti i fenomeni che giungono al linguaggio. La questione è la seguente: in che senso il λέγειν è la determinazione fondamentale dell’esserci stesso nel modo concreto del suo essere nella sua quotidianità? In base ad alcuni capitoli caratteristici della Retorica domanderemo, a nostra volta, che cosa ne deriva per l’esserci, qualora esso non si trattenga esplicitamente nel discorrere. Infatti è incontestabile che queste modalità rilevanti del discorrere altro non sono che possibilità determinate, già prefigurate nella quotidianità dell’esserci. a) La determinazione fondamentale della retorica in quanto possibilità di vedere ciò che, di volta in volta, parla a favore di una cosa Che cosa significa in generale retorica? In che senso la retorica ha a che fare con il λέγειν? Nel libro I, capitolo 2, Aristotele definisce la retorica una δύναμις.256 Tale
definizione va tenuta presente a fronte del fatto che Aristotele a volte la definisce anche una τέχνη. Quest’ultima designazione è inappropriata, mentre δύναμις è la definizione corretta. «῾Ρητορική è la possibilità di vedere, in ciò che di volta in volta è dato, ciò che parla a favore di una cosa che è a tema nel discorso, di vedere di volta in volta ciò che può parlare a favore di una cosa».257 Una δύναμις: ho appena detto che l’espressione τέχνη, talora utilizzata, non va considerata la definizione fondamentale. La retorica è δύναμις in quanto rappresenta una «possibilità», una possibilità di parlare in determinati modi. In quanto tale, la retorica non ha il compito del πεῖσαι,258 e nemmeno quello di plasmare una determinata convinzione in merito a una cosa, installandola nelle teste altrui, al contrario: essa rappresenta soltanto una possibilità del discorrere per il parlante, nella misura in cui egli è deciso a parlare avendo come scopo il πεῖσαι. Il ῥήτωρ è un δυνάμενος, e precisamente δυνάμενος θεωρεῖν – non πεῖσαι –, «di vedere» περὶ ἕκαστον τὸ πιθανόν. Esattamente come il ladro è capace di λάθρᾳ λαμβάνειν.259 L’essenza propria dell’essere ladro implica però il βούλεσθαι, il fatto che abbia liberamente scelto di rubare. Tuttavia la δύναμις della ῥητορική si differenzia dalla σοϕιστική. Anche quest’ultima è una maniera che ha pratica del discorrere, però non è ἐν τῇ δυνάμει, bensì ἐν τῇ προαιρέσει.260 Invece, la ῥητορική si mantiene ἐν δυνάμει, essa costituisce cioè solo una possibilità per colui che vuole convincere un altro – mentre il senso della σοϕιστική implica che gli altri vadano convinti in ogni caso –, una possibilità, quindi, che in sé costituisce il saper vedere ciò che parla a favore di una cosa. Rispetto alla vecchia definizione di πειθοῦς δεμιουργός, quest’altra è dunque molto più prudente, giacché non implica necessariamente il raggiungimento del τέλος del parlare. «Anche la medicina in quanto tale non guarisce»,261 ma si limita a produrre una certa possibilità per colui che decide di guarire. La possibilità conduce fino a un certo limite. Essa mette nella condizione «di portare avanti la guarigione fino al punto in
cui ciò è compatibile con le possibilità della medicina. Seguendo i precetti della scienza medica si possono infatti curare anche coloro che sono ammalati senza speranza».262 Il confronto tra ῥητορική e ἰατρική offre il terreno per distinguere tutte le possibili τέχναι dalla ῥητορική. La medicina implica una determinata competenza e, quando viene trasmessa ad altri, è una διδασκαλική.263 Essa insegna, fa conoscere, all’interno di un determinato ambito di competenza, ciò che fin dall’inizio le è stato assegnato come tema. La scienza medica tratta dell’uomo sano e malato, l’ἀριθμητική tratta dei numeri, così come ogni competenza tratta di una materia determinata.264 Invece, la ῥητορική non ha uno specifico ambito di competenza che possa in qualche modo essere circoscritto. E poiché non ce l’ha, non va definita una τέχνη. La ῥητορική non è una τέχνη, però è pur sempre τεχνικόν.265 Essa fornisce un orientamento su qualcosa, περὶ ἕκαστον; ha a che fare «con ciò che è immediatamente dato», con l’ente che in ogni caso «ci» è.266 E non ne tratta in termini di descrizione, limitandosi cioè a descrivere le cose date in una determinata situazione; non si riferisce alle cose in quanto tali, ma allo stato delle cose, nella misura in cui se ne può trarre qualcosa, a ciò che parla a favore di qualcosa, che parla cioè a favore della convinzione che l’oratore vuole formare negli altri in merito a ciò che dice; a tema non è la cosa stessa, sono piuttosto le circostanze relative a una determinata utilità, nella misura in cui possono parlare a favore di qualcosa, a favore del πιστεύειν. Per farci un’idea concreta di ciò di cui tratta la retorica dobbiamo chiederci che cosa mai, in generale, possa essere in questione a favore di una cosa. Aristotele distingue tre specie di πίστεις, tra cui si trova anche il λόγος.267 Correttamente inteso, anche il λέγειν è un πιθανόν. L’analisi sviluppata sin qui ha posto in evidenza la funzione fondamentale del λόγος: 1. in quanto determinazione della ζωὴ πρακτική; 2. in quanto carattere delle ἀρεταί; 3. in quanto modo in cui l’ente diviene accessibile nel suo essere: λόγος οὐσίας in quanto ὁρισμός.
La formazione del concetto è caratterizzata dal fatto che l’ente viene definito, evidenziato e reso concepibile nel suo essere. Vogliamo imparare a conoscere questa possibilità come una possibilità che si fonda nell’esserci. Che cos’è ciò che costituisce la concettualità? Qui è il λόγος stesso a indicarci la strada. In quanto modo fondamentale dell’essere dell’uomo nel mondo, il λέγειν rende possibile il fatto che il mondo si mantenga concepibile, determinabile in concetti. Ci imbattiamo così in un fenomeno fondamentale dell’esserci (intendiamo qui l’espressione «fenomeno» nel suo significato corrente: qualcosa che si mostra quando lo vediamo e ci riferiamo a esso in un determinato modo): il λόγος in quanto fenomeno fondamentale dell’esserci, nel senso che in virtù del λόγος, e per suo tramite, diviene evidente un modo della vita dell’uomo ancora più originario. L’analisi del λόγος ci ha permesso inoltre di appurare che per i greci questa definizione fondamentale dell’esserci è un ἔνδοξον; è implicito nella grecità vedere l’esserci primariamente in questo modo. In che senso il λόγος costituisce l’esserci concreto e quotidiano dei greci? Possedere la Retorica aristotelica è per noi assai più utile che disporre di una filosofia del linguaggio. Nella Retorica abbiamo infatti a che fare con qualcosa che tratta del parlare inteso come un modo fondamentale dell’essere in quanto essere l’uno con l’altro degli uomini, sicché una comprensione di tale λέγειν offre nel contempo la costituzione ontologica dell’essere l’uno con l’altro sotto nuovi aspetti. Quindi, poiché la Retorica offre l’accesso a questi fenomeni originari, è importante capire che cosa Aristotele intende per ῥητορική. La ῥητορική è una δύναμις τοῦ θεωρῆσαι, una «possibilità di vedere», e precisamente di vedere περὶ ἕκαστον, di volta in volta in ciò che si offre immediatamente in una determinata situazione dell’essere l’uno con l’altro, quell’alcunché che parla a favore di una cosa direttamente in discussione, in questione nel colloquio.268 Mediante il parlare si deve formare negli altri una determinata opinione. Chi si impadronisce della retorica
si pone con ciò nella possibilità di vedere, di volta in volta, che cosa parla a favore di una cosa. Questa definizione ci fa capire che la retorica offre sì una certa competenza, tuttavia non nel senso che essa tratti di una specifica materia, come ad esempio l’aritmetica; essa non ha alla sua base qualcosa di dato, uno ὑποκείμενον, che sarebbe suo compito portare alla conoscenza; possiede il τεχνικόν,269 la possibilità di fornire una competenza, non però riguardo a un ambito di enti determinato e circoscritto, poiché in essa vengono al linguaggio, a seconda delle circostanze, una quantità di cose di varia natura, allo scopo di formare il πιστεύειν negli ascoltatori. Scopo della retorica: vedere ciò che parla a favore di una cosa; parlando, formare il πιστεύειν in coloro a cui si parla, in merito a una questione di cui si sta dibattendo; formare una δόξα. Il πιστεύειν è una «opinione», una δόξα, di cui ne va nel parlare, e che quindi, probabilmente, nella quotidianità dell’esserci, nell’essere l’uno con l’altro degli uomini, è qualcosa che li conduce, li domina. L’essere l’uno con l’altro si muove all’interno di opinioni determinate e sempre modificabili sulle cose, non è cognizione, ma, appunto, «opinione», δόξα; una δόξα sulle cose da non intendersi nel senso che le cose portate al linguaggio sarebbero indagate tematicamente come tali. Il πιστεύειν, ovvero l’«essere di una certa opinione» all’interno dell’essere l’uno con l’altro, è ciò di cui ne va nel discorso stesso. La retorica deve dunque porre in luce una determinata possibilità che mette nella condizione di vedere il πιθανόν, ciò che contribuisce alla formazione di un πιστεύειν. Aristotele la chiama anche πίστις.270 Qui però πίστις non significa «fede», il «tenere per», bensì ciò che parla a favore di una determinata cosa, riguardo alla quale si può ottenere un πιστεύειν. Il rapporto tra πιστεύειν e πιθανόν è analogo a quello tra ἀληθεύειν e ἀληθές: il «non nascondibile ente che “ci” è», che ha la possibilità di contribuire all’ἀληθεύειν. L’ἀληθεύειν è un modo dell’«essere nel mondo» tale che lo si ha lì davanti non-nascosto, così come esso è. Così inteso,
l’ἀληθεύειν è un fenomeno fondamentale verso cui ci dirigiamo. Ci ritorneremo in un’analisi successiva.271 Ciò costituisce anche la base del λέγειν, nella misura in cui la δόξα è un modo particolare di appropriarsi dell’ente così come esso si mostra. La πίστις è ciò che è utile alla formazione di un πιστεύειν. Il πιθανόν è ciò che dobbiamo imparare a vedere e saper vedere nella retorica. È quindi necessario procurarsi anzitutto un orientamento in merito alla πίστις. b) Le tre πίστεις ἔντεχνοι: ἦθος, πάθος e il λόγος stesso Aristotele offre una suddivisione delle πίστεις: 1. ἄτεχνοι, 2. ἔντεχνοι.272 Consideriamo anzitutto le πίστεις ἔντεχνοι: ciò che parla a favore di una cosa, e di cui noi stessi possiamo disporre, ciò che noi stessi siamo in grado di attuare in proprio. Noi stessi abbiamo la possibilità di essere qualcosa che parla a favore di una cosa. Essere una πίστις per un siffatto essere-parlanti significa: diventare noi stessi πίστεις in quanto ἔντεχνοι, attuati da noi stessi. Πίστεις ἄτεχνοι: ciò che parla a favore di una cosa, e che non può essere procurato da noi, ma è lì già da prima, e di cui dunque ci possiamo servire: «testimonianze (μάρτυρες)», «torture (βάσανοι)», «documenti scritti (συγγραϕαί)».273 Queste πίστεις vengono discusse nel libro I, capitolo 15, in cui troviamo complessivamente cinque πίστεις ἄτεχνοι: νόμοι, μάρτυρες, βάσανοι, συνθῆκαι («convenzioni»), ὄρκος274 – riferite a una particolare specie del discorso, il parlare del δίκαιον nelle udienze in tribunale. Queste πίστεις sono modi di parlare a favore di una cosa che è oggetto di dibattimento, ed è lì davanti a noi. Dall’altra parte ci sono le πίστεις ἔντεχνοι. Di questi modi di «parlare a favore di qualcosa», che possono essere addotti mediante il discorrere, si danno tre specie, conformemente a una triplice possibilità di intendere i λόγοι: 1. ἐν τῷ ἤθει τοῦ λέγοντος,275 «nel comportamento di
colui che parla», nel «come» l’oratore si dà e si comporta nel suo discorso. In ciò vi è qualcosa che può parlare a favore di una cosa. Nel suo ἦθος, nel suo «comportamento», l’oratore è esso stesso una πίστις. 2. ἐν τῷ τὸν ἀκροατὴν διαθεῖναί πως,276 «nel “portare in un sentirsi-situato”», «nel modo in cui l’ascoltatore viene portato in una determinata situatività», quell’ascoltatore la cui presenza è implicita nel λέγειν. Il modo in cui l’ascoltatore, ascoltando, si dispone nei confronti della cosa, in quale disposizione si trova, la specifica modalità del «portare l’ascoltatore in un sentirsi-situato» – tutto ciò implica una πίστις, qualcosa che può parlare a favore della cosa. La διάθεσις dell’ascoltatore determina la sua κρίσις, cioè l’«opinione» che egli, alla fine, si forma, il modo in cui concepisce la cosa. 3. ἐν αὐτῷ τῷ λόγῳ:277 il λέγειν stesso è πίστις in quanto funzione fondamentale dell’esserci. Attraverso il modo in cui si parla di una cosa si forniscono ragguagli su di essa. Διὰ τὸ δεικνύναι:278 il modo specifico in cui si parla, l’obiettività o la mancanza di obiettività dell’oratore in quanto tale. Queste definizioni vanno ulteriormente precisate. Ad 1. Dice Aristotele: il λόγος dev’essere tale, il discorso dev’essere tenuto in modo «da rendere di per sé degno di fede l’oratore»,279 il quale dà quindi l’impressione che la cosa sia proprio così come la dice. Aristotele afferma espressamente: tramite il discorrere, tramite la modalità specifica di parlare dell’oratore, deve divenire visibile l’ἦθος, è dal discorrere come tale che deve nascere e svilupparsi la πίστις. Anche se abbiamo salde opinioni, «nondimeno ci fidiamo comunque di più e più facilmente, περὶ πάντων μὲν ἁπλῶς, delle persone oneste, che ci fanno una buona impressione, e tanto più quando la cosa è controversa, quando se ne può parlare sia in un senso che nell’altro, quando rimane in sospeso, proprio allora è la modalità specifica di comportarsi dell’oratore a dare il colpo decisivo».280 Le trattazioni precedenti ritenevano che l’ἦθος «non contribuisse in nulla al πιθανόν».281 Questo lo si
affermava prima di Aristotele – una frecciatina contro la sofistica. Invece il comportamento, il modo di condursi, è la πίστις «più eccellente»,282 la modalità più eccellente di parlare a favore di una cosa che l’oratore sostiene. Ad 2. Come si sente-situato l’ascoltatore a cui si parla della cosa, qual è il suo stato d’animo, qual è la διάθεσις dell’ascoltatore. Aristotele accenna al fatto che nessun giudizio viene formulato nello stesso modo, per esempio «se siamo tristi oppure contenti».283 Dipende da come ci rapportiamo a ciò che ascoltiamo, se con simpatia o antipatia, ἢ ϕιλοῦντες καὶ μισοῦντες.284 La διάθεσις dell’ascoltatore è decisiva. Nel tenere il suo discorso l’oratore deve mirare a trasporre l’ἀκροατής in un determinato πάθος, entusiasmando gli ascoltatori a favore di una cosa. Di questa πίστις, che sta dalla parte dell’ascoltatore, Aristotele tratta dettagliatamente nei capitoli 2-20 del libro II della Retorica. Dal punto di vista storico la sua indagine sui πάθη ha avuto effetti di grande portata: l’influsso sulla Stoa, l’intera teoria degli affetti così come oggi ci viene tramandata. I πάθη, gli «affetti», non sono stati dell’apparato psichico, si tratta piuttosto di un sentirsi-situato dell’essere vivente nel suo mondo, cioè del modo in cui esso è posto nei confronti di qualcosa, di come lascia che una cosa lo riguardi. Gli affetti svolgono un ruolo fondamentale nella definizione dell’«essere nel mondo», dell’«essere con altri e nei confronti di altri». Ad 3. Πίστις, «ciò che può parlare a favore di una cosa», è il parlare della cosa stessa. Nel parlare dev’essere mostrato l’ἀληθές,285 il «non nascosto», la cosa così come se ne sta lì, libera da tutte le determinazioni. Per la precisione, questo ἀληθές va mostrato «in base agli avvenimenti e alle circostanze che parlano a favore della cosa»286 – un ἀληθές, quindi, che non viene dischiuso da un θεωρεῖν, ma fa emergere piuttosto il vero nel verosimile. Gli ἄτεχνοι hanno il loro senso in quanto πίστεις solo se sono orientati sul τέλος di un determinato λέγειν, il discorso giudiziario. Se ne fa uso a seconda delle circostanze.
Dobbiamo chiarirci le idee circa la definizione che descrive la ῥητορική come una δύναμις. È evidente che la retorica non può spiegare ogni situazione concreta e ogni stato di cose particolare, tanto poco quanto la medicina può spiegare la specifica terapia adatta a Socrate o a Callia.287 La retorica non ha dimestichezza con un caso specifico, ma con casi di questo e quel genere, che hanno questo e quell’aspetto. La retorica che analizza il discorso giudiziario si occupa di questo genere di casi. Di per sé la retorica tratta di ciò di cui si discute abitualmente nella vita, nonché della modalità specifica in cui si affronta tale discussione. Essa si orienta sulle particolari urgenze del quotidiano essere l’uno con l’altro, non contempla ogni caso, ma solo ciò che ha un determinato aspetto: l’udienza in tribunale, l’assemblea popolare, la solenne celebrazione di un eroe e simili. c) Il λόγος in quanto πίστις α) Le tre forme del prestare ascolto e le tre specie di λόγος da definirsi in base a esse: discorso deliberativo (συμβουλευτικός), discorso giudiziario (δικανικός) e discorso epidittico (ἐπιδεικτικός) Nel libro I, capitolo 3, Aristotele perviene alla definizione fondamentale del λόγος che già conosciamo. Egli prende le mosse dall’orientamento generale secondo cui il parlare ha il suo τέλος nell’«ascoltatore», l’ἀκροατής. Ciò implica che il parlare sia comunicazione. Un discorso è pervenuto alla sua fine esclusivamente se è recepito in quanto comunicazione. In base ai diversi modi in cui un ascoltatore può essere tale, Aristotele definisce tre diverse specie di λόγος. La struttura generale del λόγος è tale che il discorso consiste di tre elementi: 1. il «parlante»; 2. «ciò di cui» si parla, ciò che il parlante mostra; 3. il πρὸς ὅν, l’ascoltatore «a cui» egli parla; «il τέλος è presso l’ascoltatore».288 I λόγοι vengono distinti in base ai modi in cui, nel concreto essere l’uno con
l’altro, l’uomo nella πόλις può essere un ascoltatore. Dobbiamo verificare come, tramite le diverse specie del discorrere, può venire formato il πιστεύειν. Che cosa significa il πιστεύειν per l’essere l’uno con l’altro degli uomini? Non dobbiamo perdere di vista il contesto. La definizione fondamentale dell’essere dell’uomo è l’essere l’uno con l’altro, supportato dal λόγος. Ma che posto occupa nell’esserci dell’uomo il λόγος in quanto ὁρισμός, la formazione scientifica del concetto? La Retorica ci offre il filo conduttore per rispondere. Ne terremo presenti alcune parti. Lo scopo della retorica è quello di metterci nella possibilità di vedere ciò che, nel dibattere su qualcosa, parla in suo favore, cioè di poter vedere la πίστις. Aristotele distingue πίστεις ἄτεχνοι e πίστεις ἔντεχνοι. Consideriamo anzitutto quelle ἔντεχνοι: ciò che parla a favore di qualcosa di cui acquisiamo una competenza della quale disponiamo. Queste πίστεις riguardano il λόγος, essendo il λέγειν ciò che si trova presso di noi. La veridicità di questo parlare si determina in base al contesto in cui esso si muove. Le πίστεις ἔντεχνοι possono essere distinte in riferimento al λόγος. Il parlare è: 1. parlare a qualcuno, con qualcuno; 2. parlare di qualcosa, «mostrare», δεικνύναι; 3. parlare attuato da un parlante. Il fatto che uno parli a qualcuno di qualcosa è il dato fenomenico. È da qui che si possono ricavare i tre caratteri presenti nelle πίστεις ἔντεχνοι: 1. πάθος; 2. il parlare per connessioni coerenti viene definito συλλογισμός, cioè, qui, ἐνθύμημα (ἢ παραδείγματα λέγοντες ἢ ἐνθυμήματα);289 3. ἦθος. Queste tre πίστεις sono di volta in volta differenti a seconda del modo di parlare, e il parlare è differente a seconda dell’ascoltatore, cioè del diverso πιστεύειν da ottenersi nell’ascoltatore. Ci devono essere necessariamente tre forme 290 dell’ascoltatore: il θεωρός, terminus technicus per definire colui che assiste a uno spettacolo, lo «spettatore», non però lo spettatore insulso, che si limita a starsene seduto lì, bensì colui che, riguardo a ciò che vede, è κριτής, si forma
un’opinione: κριτὴν δὲ ἢ τῶν γεγενημένων ἢ τῶν μελλόντων,291 questo κριτής può formarsi un’opinione «su ciò che è accaduto o può accadere». ἔστιν δ᾽ ὁ μὲν περὶ τῶν μελλόντων κρίνων οἷον ἐκκλησιαστής, ὁ δὲ περὶ τῶν γεγενημένων οἷον δικαστής.292 «Quello che si forma un giudizio su qualcosa che deve ancora accadere è l’ἐκκλησιαστής, il membro di un’assemblea popolare [dove il «ciò di cui» si parla in termini deliberativi ha il carattere del «non ancora», però anche quello di un «qualcosa che può essere», non nel senso di una pura possibilità, ma di ciò che rientra nell’ambito delle possibilità concrete di coloro che sono riuniti a consiglio e delle circostanze], mentre su ciò che è già accaduto è il giudice a doversi formare un’opinione»; ὁ δὲ περὶ τῆς δυνάμεως ὁ θεωρός,293 «su ciò che sta accadendo adesso [decide] il θεωρός». Ne derivano tre λόγοι differenti: 1. συμβουλευτικός, «discorso deliberativo», discutere i pro et contra nell’assemblea popolare; 2. δικανικός, «discorso giudiziario», discorso dell’imputato e del difensore; 3. ἐπιδεικτικός, «discorso epidittico», un «mostrare» che fa vedere il personaggio nella sua vita, dove non ne va di un giudizio nel senso del giudizio giuridico, bensì il vedere stesso tende a mostrare.294 Ora, tutti e tre questi λόγοι hanno la peculiarità di oscillare in due direzioni: 1. Il discorso deliberativo può essere: a) προτροπή, b) ἀποτροπή,295 può «consigliare» o «sconsigliare», essere pro o contra. ᾿ αεὶ γὰρ οἱ ἰδίᾳ συμβουλεύοντες καὶ οἱ κοινῇ δημηγοροῦντες τούτων θάτερον ποιοῦσιν.296 «Sia coloro che riflettono in privato su ciò che intimamente li riguarda, sia coloro che danno consigli nelle faccende pubbliche, si mantengono entro queste due possibilità». 2. Nel caso del discorso giudiziario: a) κατηγορία, b) ἀπολογία.297 Κατηγορεῖν: «attribuire a qualcuno la colpa di qualcosa», «dire che ce l’ha sulla coscienza», «accusare»; oppure ἀπολογεῖν: «discolparsi da», «difendere». 3. Nel caso del λόγος epidittico: a) ἔπαινος, b) ψόγος,298 «elogio» o «biasimo».
I tre differenti εἴδη, con le loro possibilità di oscillazione, vengono caratterizzati in sintesi con riferimento al χρόνος, si distinguono cioè in base al carattere temporale di ciò di cui parlano: 1. il χρόνος del consigliare è ὁ μέλλων,299 «ciò che è prossimo», «il tempo venturo», «ciò che sarà», tutto ciò a cui il consigliare è indirizzato; 2. il χρόνος del δικαζόμενος è ὁ γενόμενος,300 «ciò che è già accaduto»; 3. ὁ παρών,301 «ciò che è attualmente presente». Gli ambiti in cui si parla si lasciano quindi caratterizzare in sintesi in base agli elementi che abbiamo già preso in considerazione. Ὁ μέλλων χρόνος è qualcosa che contribuisce all’essere dell’essere l’uno con l’altro, all’essere nella πόλις. Il carattere ontologico del «ciò di cui si parla» del συμβουλευτικός è il συμϕέρον, ovvero il βλαβερόν,302 mentre quello del λόγος δικανικός è il δίκαιον, ovvero l’ἄδικον;303 infine il «ciò di cui» del λόγος ἐπιδεικτικός è il καλόν, ovvero l’αἰσχρόν.304 Ogni λόγος possiede, in modo diverso, queste tre πίστεις. Aristotele inizia l’analisi più dettagliata delle πίστεις con l’ἐνθύμημα, il «mostrare qualcosa», sintetizzandone così le caratteristiche: ταύτας ἐστὶν λαβεῖν τοῦ συλλογίσασθαι δυναμένου καὶ τοῦ θεωρῆσαι περὶ τὰ ἤθη καὶ περὶ τὰς ἀρετὰς καὶ τρίτον τοῦ περὶ τὰ πάθη.305 In questi elementi le πίστεις diventano attuali. Un δυνάμενος, che voglia appropriarsi della retorica, deve quindi afferrare queste tre πίστεις. Il συλλογίσασθαι sottolinea esplicitamente anche un’altra possibilità accanto al θεωρῆσαι. Proprio il «poter discorrere per connessioni coerenti» esige un vedere, una comprensione di ciò che parla a favore della cosa. β) Il parlare retorico con il παράδειγμα e l’ἐνθύμημα nel suo parallelismo con il parlare dialettico con l’ἐπαγωγή e il συλλογισμός Poiché i differenti λόγοι sono orientati sull’essere l’uno con l’altro, «si può considerare la retorica come παραϕυές della διαλεκτική, nonché περὶ τὰ ἤθη πραγματεία,
un’indagine che può definirsi adeguata in quanto πολιτική»: ὥστε συμβαίνει τὴν ῥητορικὴν οἷον παραϕυές τι τῆς διαλεκτικῆς εἶναι καὶ τῆς περὶ τὰ ἤθη πραγματείας, ἣν δίκαιόν ἐστι προσαγορεύειν πολιτικήν.306 La retorica è παραϕυές, «qualcosa che nasce, si sviluppa e fa tutt’uno con la trattazione degli ἤθη, propriamente definibile come πολιτική». L’etica rientra nella politica. Qui però dobbiamo lasciare da parte altri moderni concetti di etica e di politica, e intendere la nostra indagine come orientata in primo luogo sull’«essere l’uno accanto all’altro», e attenta in particolare all’essere-posto del singolo nei confronti dell’altro. Con tale indagine «concresce», παραϕυές, il διαλέγεσθαι, giacché l’essere l’uno con l’altro è determinato dal parlare l’uno con l’altro. La definizione dell’essere l’uno con l’altro nella πολιτική coincide con ciò che viene trattato nella retorica. Al tempo stesso, sussiste un nesso con la διαλεκτική, ovvero con la disciplina che costituisce la possibilità del διαλέγεσθαι, del ripercorrere i λόγοι, la possibilità di vedere che cos’è effettivamente inteso in tali discorsi, che aspetto hanno, come debbano essere. La ῥητορική è ἀντίστροϕος τῇ διαλεκτικῇ,307 è «rivolta contro la dialettica»: al contrario della διαλεκτική, la ῥητορική è riferita alla πρᾶξις, al «prendersi cura», però non è una competenza specifica riguardante una materia determinata, tanto poco quanto lo è la διαλεκτική. Né la retorica né la dialettica sono un’ἐπιστήμη, una «scienza oggettiva», sono piuttosto possibilità di «procurare» e «sviluppare» il discorso adeguato di volta in volta necessario.308 Aristotele entra maggiormente nel dettaglio della terza πίστις, il λέγειν, nella misura in cui esso è un mostrare qualcosa. Nel λέγειν egli distingue determinate possibilità: posso mostrare qualcosa adducendo un esempio, oppure motivando una determinata tesi. Il δεικνύναι tramite il λόγος è duplice: 1. παράδειγμα, 2. συλλογισμὸς ρητορικός come ἐνθύμημα.309 Troviamo la stessa distinzione, in termini corrispondenti, nella διαλεκτική, che tratta dei λόγοι in cui non si mira a un prendersi cura, ma a un parlare l’uno con
l’altro di una questione scientifica. Il duplice modo di mostrare qualcosa si dà anche nella διαλεκτική, come segue: 1. ἐπαγωγή, 2. ἀπόδειξις (συλλογισμός).310 Al παράδειγμα corrisponde l’ἐπαγωγή, all’ἐνθύμημα l’ἀπόδειξις. Ma che cosa si intende con ἐνθύμημα? ᾿Ενθυμεῖσθαι significa: «prendersi a cuore qualcosa», «ponderare qualcosa nel proprio intimo», «esaminare a fondo»; ἐνθυμεῖσθαι, μή: «badare a che qualcosa non accada», «prendersi cura che qualcosa non succeda». ᾿Ενθύμημα viene applicato a un determinato λέγειν, che tende in sé a un prendersi cura, un discorrere di qualcosa con gli altri nel quale – per sua propria tendenza – ne va del prendersi cura. ᾿Απόδειξις significa: non discutere semplicemente di stati di cose per ciò che sono, ma parlare in modo tale che, tramite il parlare stesso, nasca e si sviluppi il πιστεύειν. Sono queste le due possibilità implicite nel λόγος, nella misura in cui esso ha il compito di far vedere. Παράδειγμα è il «condurre verso qualcosa», e ciò accade, nel discorso così come lo stiamo tematizzando qui, adducendo un esempio, un caso concreto. Παρά significa ciò che è attualmente presente, che sta lì davanti a noi, ciò che è esibito, direttamente addotto, dimostrato con l’esempio. Aristotele stabilisce la differenza delle forme parallele del λέγειν della dialettica – l’ἀπόδειξις e l’ἐπαγωγή – nei Topici, uno dei suoi primi scritti.311 Esso si occupa di quel peculiare λέγειν che non è ἀπόδειξις nel senso della «trattazione scientifica» di una questione. La differenza tra la trattazione (dimostrazione) scientifica e il συλλογίζεσθαι, come lo studia la διαλεκτική, e, dall’altra parte, la connessione tra il συλλογίζεσθαι della διαλεκτική e quello della ῥητορική, divengono evidenti se si considera il punto di partenza del discorso retorico, ciò a partire da cui si parla. Ciò a partire da cui si parla in un συλλογίζεσθαι è solitamente chiamato «premessa maggiore». Con questa designazione, che orienta tutto sulla proposizione, il senso autentico del parlare va perduto. In una scienza, ciò a partire da cui si parla deve avere il
carattere dell’ἀληθές, deve starsene lì, libero, nel suo esserecosì, in modo tale che non se ne possa domandare ulteriormente il perché; dev’essere univocamente visibile in se stesso, poiché soltanto così può costituire il possibile terreno a partire dal quale posso proseguire e dimostrare qualcosa. Nei Topici Aristotele definisce il συλλογισμός un «λόγος [un ἀποϕαίνεσθαι, un parlante «far vedere»] in cui subentra (si aggiunge insieme anche) qualcos’altro [un altro si aggiunge nel senso del parlare, viene visto, mostrato], un altro da ciò che c’è già fin da principio [qualcosa che è altro da ciò che viene presupposto come noto e da cui si parte nel mostrare]».312 Nel συλλογίζεσθαι subentra qualcosa, diviene visibile un altro da ciò da cui si parte. Proprio «lungo il cammino che passa per ciò da cui si parte» diviene visibile un altro. Nel caso del «parlare scientifico», ἀπόδειξις, l’ὑπόθεσις, ciò da cui si parte, ha il carattere dell’ἀληθές ed è, nel contempo, un πρῶτον:313 non necessita che se ne parli e che lo si mostri ulteriormente. Ciò da cui si parte parla da sé, per sé, ha la πίστις in virtù di sé, sicché al suo riguardo non ha senso addurre una πίστις. Il συλλογίζεσθαι della διαλεκτική si differenzia dal parlare scientifico per il fatto che ciò da cui si parte, ciò che c’è già, ha il carattere dell’ἔνδοξον,314 è «nella δόξα». Aristotele definisce l’ἔνδοξον come ciò «che a tutti, o alla grande maggioranza, si presenta in questo e quel modo, alla grande maggioranza oppure a coloro, tra i molti, che sono i più assennati, i più noti tra la gente, e godono di alta considerazione».315 Il fatto caratteristico è che l’ἐνθύμημα parte da un ἔνδοξον, anzi non solo parte ma vi fa anche ritorno, esattamente come la deduzione scientifica parte da qualcosa che è di per sé perspicuo, per poi ritornare a uno stato di fatto che ora ha la medesima evidenza di ciò da cui si è partiti. Nel caso dell’ἐνθύμημα, ciò che ne risulta ha il medesimo carattere del «ciò da cui» si è partiti: è ἔνδοξον. La ῥητορική mostra un’affinità con il συλλογισμός della διαλεκτική, nella misura in cui nel suo caso gli ἔνδοξα sono determinati. Gli ἔνδοξα della ῥητορική riguardano ciò che è
futuro, ciò che è già accaduto, ciò che è presente, l’utile, il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto. Su tutto ciò si hanno già determinate opinioni, esistono determinate δόξαι, in base alle quali parla colui che prende la parola nell’assemblea – e anch’egli parla offrendo a sua volta una δόξα, mentre una determinata δόξα nasce in coloro che lo ascoltano. Per questo compito – partire dall’ἔνδοξον e raggiungere un ἔνδοξον – si hanno due vie: il παράδειγμα e l’ἐνθύμημα. Dobbiamo essere prudenti con il δεικνύναι: non è una dimostrazione, ma una determinata modalità del parlare, da intendersi come portare in vista la cosa. Per comprendere il modo peculiare in cui il λέγειν è in sé una πίστις, può cioè parlare per sé, è importante considerare l’oggettività con cui il λόγος – in quanto discorso deliberativo, giudiziario, epidittico – ha a che fare. Emergono qui elementi peculiari dell’ente: συμϕέρον, δίκαιον, καλόν,316 tutti e tre in una specifica contrapposizione, giovevole-nocivo, ecc. Il discorso si muove in una situazione ricca di contrasti. Questi elementi sono determinazioni dell’ente così come esso viene quotidianamente portato al linguaggio: nel prendersi cura quotidiano pervengono al linguaggio il συμϕέρον, il δίκαιον e il καλόν – caratteri d’incontro peculiari di ciò che è a tema nel λόγος ῥητορικός. Nel contempo, in questi elementi si mostra, emergendo da essi stessi, un determinato aspetto della temporalità. Chi dà consigli su ciò che accade nel mondo circostante prospetta il μέλλοντα χρόνον, ciò che non c’è ancora – non c’è ancora in riferimento all’oggetto di una determinata preoccupazione –, ma dev’essere reso disponibile nella vita di tutti i giorni. C’è poi il discorso riguardante il passato, il già accaduto: viene portato al linguaggio il fatto che uno ha commesso un torto. Infine si discorre di ciò che è lì presente in questo momento. I caratteri dell’esserci del mondo circostante, così come esso viene al linguaggio nella quotidianità, sono caratterizzati anche in riferimento alla
temporalità. La quotidianità stessa si manifesta in una fondamentale struttura di fondo: la sua temporalità. L’essere in quanto prendersi cura e parlare prendentesi cura è in se stesso temporale, prospetta il non ancora lì presente, parla del già accaduto, considera l’ente che «ci» è in questo momento. Aristotele poi prosegue. Questa peculiare estensione nella temporalità si manifesta nell’ente di cui tratta la retorica. Aristotele collega i caratteri dell’esserci del mondo circostante agli elementi della loro temporalità in modo ontologicamente più preciso, in un certo senso più formale. L’«ente che è così», di cui si parla, ha il carattere del «più o meno», è caratterizzato da un μέγεθος,317 una determinata «estensione», contraddistinta a sua volta dal carattere dell’indeterminatezza. Il «più o meno» è un carattere fondamentale dell’essere dell’ente, che è ora in un modo, ora nell’altro. Con ciò fa tutt’uno l’elemento del δυνατόν e ἀδύνατον.318 Sono determinazioni fondamentali dell’essere che giungono al linguaggio in un λόγος: ciò che è tale, ciò che ha un essere tale da «poter essere», in se stesso, anche «altro», ἐνδεχόμενον ἄλλως ἔχειν,319 ciò che nell’istante successivo è già diverso, non è più com’era prima. Conformemente a questa struttura ontologica della quotidianità, anche il λέγειν è un che di peculiare. Esso non può essere una «dimostrazione scientifica», ἀπόδειξις, poiché l’ente di cui diciamo che accade quotidianamente non soggiace ad assiomi teoretici, essendovi piuttosto opinioni di fondo, pareri, che non sono scaturiti da una considerazione teoretica, ma la stessa vita quotidiana ha plasmato in sé. Si dibatte a partire da questo ἔνδοξον, e sull’ἔνδοξον stesso. Ne derivano determinate condizioni su come il λόγος debba essere in riferimento al suo carattere mostrante, alla sua oggettività. Esso deve poter mostrare la quotidianità, mostrare semplicemente, senza complicazioni, in modo da non richiedere argomentazioni dimostrative dettagliate: 1. tramite un determinato modo del «condurre verso qualcosa», ἐπαγωγή; 2. se si parla di qualcosa, e si deve esprimere una
convinzione, il συλλογισμός dev’essere un modo di dedurre più conciso,320 poiché l’ascoltatore a cui ci si rivolge nell’assemblea popolare è ἁπλοῦς,321 «semplice». Egli «non può operare deduzioni partendo da lontano», possiede un pensiero di corto respiro, non è in grado di abbracciare un ragionamento di ampia portata, «non può abbracciare molte cose»,322 dunque anche il modo di mostrare dev’essere un altro: ἐνθύμημα, tale che la dimostrazione gli vada più al cuore. La differenza tra l’ἐπαγωγή e il συλλογισμός è stata già discussa da Aristotele nei Topici, dove egli mostra anche in che cosa consiste il vantaggio dell’ἐπαγωγή sul συλλογισμός. L’ἐπαγωγή, il «condurre verso qualcosa», è una «via verso...», ἔϕοδος, ἀπὸ τῶν καθ᾿ ἕκαστον,323 una via che, «passando attraverso le cose particolari», ciò che è innanzitutto immediatamente lì presente, «va verso ciò che è “in generale”». Con un esempio voglio appunto esemplificare, chiarire qualcosa, non il caso specifico dell’esempio stesso, bensì il senso dell’«in generale», καθόλου. Καθόλου non significa validità universale, ma semplicemente il «così in generale». Dico per esempio: «Se il nocchiero è colui che se ne intende più di tutti della sua attività, e l’auriga è colui che fa bene il suo lavoro, allora colui che ha, di volta in volta, dimestichezza con la sua materia, sarà il migliore e l’eccellente».324 Il vantaggio dell’ἐπαγωγή: 1. πιθανώτερον, è un modo del mostrare tale che «parla più per se stesso»; 2. σαϕέστερον, non ha particolari pretese quanto al modo in cui si stabiliscono le connessioni; dimostro tramite l’esempio, che parla più a favore dell’ἐπαγωγή, poiché essa è «più evidente» in vista del comprendere; 3. κατὰ τὴν αἴσθησιν γνωριμώτερον, «più familiare, in vista della percezione diretta, della comprensione abituale»; è sempre qualcosa che posso esibire direttamente a me stesso; 4. τοῖς πολλοῖς κοινόν, qualcosa che «è comune alla grande maggioranza, alla gran massa delle persone», ovvero è più accessibile.325 Anche il συλλογισμός ha i suoi vantaggi, in quanto è 1.
βιαστικώτερον, possiede «maggiore forza di persuasione», e in definitiva convince più del semplice riferimento a un caso concreto, che è diverso a seconda dello scopo del discorso; 2. πρὸς τοὺς ἀντιλογικοὺς ἐναργέστερον: proprio il συλλογισμός è più adatto quando si tratta di parlare e di discutere con coloro «che parlano per contraddire», e per i quali non c’è esempio che tenga.326 Sia l’ἐπαγωγή che il συλλογισμός hanno quindi le loro possibilità positive. Nel capitolo 18, 3 dei Problemata, Aristotele tratta in modo più dettagliato le ragioni per cui il συλλογισμός possiede questa peculiare forza di persuasione. Conformemente al carattere ontologico dell’essere della quotidianità, anche il parlare e il mostrare sono di genere peculiare. È per questo che ciò da cui un συλλογισμός parte, e che Aristotele, negli Analitici, chiama πρότασις, «premessa», ha sempre il carattere di un ἔνδοξον – contiene cioè qualcosa su cui si è della stessa opinione. Un ἔνδοξον così inteso deve servire come punto di partenza per ogni συλλογισμός che abbia il carattere dell’ἐνθύμημα. La retorica non è quindi di per sé una disciplina puramente formale: ciò che emerge è invece la sua relazione con l’essere dell’«essere l’uno con l’altro» degli uomini. L’esplicita accentuazione del nesso tra politica e retorica può essere compresa solo tenendo presente il retroscena storico. La retorica non è una τέχνη autonoma, ma si colloca in seno alla politica: il modo eccellente di essere nell’essere l’uno con l’altro consiste nel parlare l’uno con l’altro. L’ἔργον della retorica sta nel porre in luce le possibilità dell’essere l’uno con l’altro, e poiché essa tratta del λέγειν inteso sia come ἐνθύμημα e παράδειγμα, sia come συλλογισμός ed ἐπαγωγή della dialettica, si avvicina alla dialettica. Queste indicazioni ne rivelano, da un lato, il carattere non autonomo, dall’altro il carattere ontologico peculiare in cui si muove. Ci si rende conto di quanto fosse forte, tra i greci, la capacità di vedere lo specifico stato di fatto della quotidianità. Al tempo di Aristotele, e prima di lui, la retorica era tenuta in tutt’altra considerazione all’interno dell’essere l’uno con l’altro degli
uomini: essa «scompare, si riveste dell’abito della politica».327 La retorica avanza la pretesa di essere essa stessa politica, e questo lo fanno anche «coloro che parlano contro la politica», poiché vogliono sostituire la ῥητορική alla πολιτική, «in parte per ignoranza, in parte per millanteria».328 Il lavoro specifico della πολιτική – creare le leggi – non sarebbe necessario. Al contrario Aristotele, nel libro X, capitolo 10, dell’Etica Nicomachea, sottolinea che l’intera faccenda può essere sbrigata solo sul terreno di una concreta esperienza dell’esserci stesso, poiché a tale esserci non ci si può avvicinare spacciando come fattore decisivo la disciplina formale della retorica.329 Coloro che vogliono darsi da fare nell’ambito della πόλις hanno bisogno quindi di una specifica dimestichezza con l’esserci quotidiano. I sofisti, al contrario, che intendono far credere di volere qualcosa come l’accertamento della possibilità del giusto esserci della πόλις, «si mostrano ben lontani dall’insegnare qualcosa del genere. Infatti non sanno neppure che cos’è la politica, altrimenti non identificherebbero la retorica con la politica, né la riterrebbero superiore, né sosterrebbero che si possono creare le leggi limitandosi a sommare ciò che accontenta la grande maggioranza».330 Qui si evidenzia dunque che, in effetti, era ben viva la tendenza ad attribuire alla retorica la funzione fondamentale dell’autentica intesa sull’esserci stesso. Per questo i sofisti sono in rapporto e in polemica con i filosofi, mentre i filosofi sono i veri sofisti – come insegna Platone nel Sofista. La posizione peculiare della retorica nei confronti della politica e della dialettica è indicativa della specificità della materia di cui si occupa, che non può essere concepita come una disciplina o una τέχνη. In essa si ha a che fare con un darsi d’attorno, un «ciò di cui si discute». Il «ciò di cui» della retorica è il «parlare l’uno con l’altro in termini consultivi e deliberativi», di cui non si dà τέχνη. Ciò che accade a ciascuno abitualmente tutti i giorni non si esaurisce nell’esercitare un mestiere o una professione. Chiunque può trovarsi nella situazione di dover intervenire nell’assemblea
popolare, a chiunque capita di essere trascinato in tribunale, tutti hanno l’occasione di ascoltare un discorso celebrativo, per esempio ai giochi olimpici. Questo ambito peculiare, la quotidianità dell’esserci, diviene manifesto tramite la corretta interpretazione della Retorica, e lo diviene in quanto già ampiamente esplicato in termini concettuali.
15. La δόξα (Eth. Nic. Ζ 10 e Γ 4) Per comprendere il fenomeno fondamentale della quotidianità, il fenomeno che sta alla base di questo parlare peculiare, è necessario che ci intendiamo ancora preliminarmente circa il senso dell’ἔνδοξον, della δόξα. Il termine δόξα designa anzitutto l’«opinione su qualcosa», ma significa anche, per lo più, «avere un’opinione». a) Delimitazione della δόξα rispetto alla ricerca (ζήτησις), alla conoscenza (ἐπιστήμη) e all’immaginazione (ϕαντασία) 1. Per Aristotele la δόξα è οὐ ζήτησις, «non una ricerca» bensì ϕάσις τις ἤδη:331 io ho «già un’opinione», non sto ancora cercando, non sono ancora in cammino per verificare la natura di una cosa, ma al suo riguardo la penso in questo e quel modo. Φάσις: un certo λέγειν, un dire-sì a ciò su cui ho un’opinione. Nella misura in cui è caratterizzata dal fatto di essere un certo dire-sì, non un indagare, un riflettere, un «farsi ora un’opinione», la δόξα è in relazione con l’ἐπιστήμη: se cioè possiedo una conoscenza di qualcosa nel senso che ne sono bene informato, che posso dire qualcosa in merito alla cosa in questione anche se non ce l’ho davanti agli occhi. Questa conoscenza in quanto ἐπιστήμη è caratterizzata dal fatto di non essere una ζήτησις, poiché già
si conosce: essa è dunque un sì. Anche la δόξα è in certo modo un sì, un pensarla in una certa maniera sulla cosa, però si distingue dall’ἐπιστήμη in quanto appartiene alla δόξα. 2. L’ὀρθότης.332 Se sono bene informato, in modo definitivo e compiuto, di una cosa, il senso di questa mia conoscenza implica di per sé che il conosciuto non possa essere «falso», ψευδές, altrimenti non si tratterebbe di un’ἐπιστήμη. La δόξα deve avere ὀρθότης, essa implica la «direzione» verso, l’«essere direzionata» verso l’ἀλήθεια.333 L’«avere un’opinione» è infatti solo un’opinione, potrebbe anche essere altrimenti. In sé la δόξα è vera e falsa: potrebbe essere così, ma potrebbe anche essere altrimenti. L’essere direzionata verso l’ἀλήθεια è costitutivo per la δόξα, ed è per questo che essa implica la possibilità dello ψεῦδος. Platone (Teeteto, Sofista, Filebo) non aveva ancora la possibilità di rendersene conto. Il «potrebbe anche essere altrimenti» è implicito nell’opinione stessa – essa implica cioè che io non possa affermare in modo assertorio: «Le cose stanno così», poiché, al contrario, potrebbe anche essere altrimenti: noi supponiamo all’interno di una determinata ϕάσις. 3. La δόξα si distingue quindi anche dalla ϕαντασία. Φαντασία: l’«avere presente» qualcosa senza percepirlo direttamente, il mero «richiamare alla mente, immaginare», può essere vero e falso come la δόξα.334 La ϕαντασία ha entrambe le possibilità, però le ha, per così dire, solo dall’esterno, mentre la δόξα ha la possibilità in se stessa. Il senso stesso dell’opinare implica di per sé il «può» – vero o falso. Δύνατον – ἀδύνατον. L’ἔνδοξον è quella modalità dell’essere orientati in cui si è orientati su quell’ente che può anche essere altrimenti. C’è la possibilità che l’opinione venga rivista. Invece, nel caso dell’ente che è sempre così com’è, e che è sempre ciò che è – nel caso dell’ἐπιστήμη –, non c’è revisione. All’opposto, la δόξα implica di per sé, ammessa da essa stessa, la facoltà di revisione. La δόξα è il modo in cui «ci» è il mondo dell’essere
l’uno con l’altro. Per suo tramite, nell’essere l’uno con l’altro viene apportata la possibilità di essere un essere l’uno contro l’altro, nel senso che l’uno ha un’opinione, l’altro ne ha un’altra, poiché l’ente può anche essere altrimenti: la possibilità fondamentale del parlare l’uno contro l’altro. La δόξα è il modo in cui abbiamo lì la vita nella sua quotidianità. E non v’è dubbio che la vita non ne sa di se stessa al modo della scienza, in termini teoretici, poiché quest’ultima è solo una possibilità eccellente. La δόξα è il modo in cui la vita ne sa di se stessa. Lo scopo dei λόγοι ῥητορικοί, la formazione del πιστεύειν, non è che la formazione di una δόξα, della corretta opinione su una cosa. Infatti la δόξα implica l’elemento peculiare del πιστεύειν, prevede cioè una certa πίστις, una ϕάσις. Gli animali non hanno una δόξα perché non hanno un λόγος; per essi è impossibile una ϕάσις. Per essi l’ente in quanto «Ci» è altrimenti. b) Precisazione del contesto della trattazione della δόξα Per la nostra analisi è importante non perdere di vista il contesto di quanto esposto fin qui, non nel senso che abbiate presente la struttura del corso, bensì nel senso che la direzione del vostro sguardo venga guidata nel giusto modo verso i fenomeni che intendiamo mostrare. L’esserci umano va reso visibile in base alla struttura fondamentale del suo essere, per poterne cogliere la possibilità della formazione del concetto. Definiamo l’esserci, in base al suo carattere ontologico, in quanto «essere in un mondo», più esattamente in quanto «essere l’uno con l’altro», «avere in comune» il mondo in cui si è. Questo avere in comune è un avere a che fare con il mondo in quanto prendersi cura del mondo. Il carattere dell’avere a che fare consiste nel fatto che in questo «essere nel mondo» ne va dell’essere stesso. Ci si prende cura dell’εὐδαιμονία: nel prendersi cura di ciò con cui la vita ha a che fare, la vita stessa si prende cura del suo proprio essere. L’essere l’uno con l’altro nel modo del
prendersi cura ha la determinazione fondamentale del parlare l’uno con l’altro, il λόγος è un fenomeno fondamentale della κοινωνία. Il λόγος ha la funzione fondamentale di rendere manifesto ciò in cui la vita in quanto «essere in un mondo» si trattiene: δηλοῦν. L’«essere nel mondo» è un essere che ha scoperto il mondo; l’essere «in» esso è orientato, il «ciò in cui» è scoperto. L’essere-in si trattiene in una determinata dimestichezza, da cui trae il suo orientamento. In ultima analisi, ciò che vogliamo porre in luce è il fenomeno dell’essere-in, per comprendere, in base a esso, la concettualità come una possibilità fondamentale. L’«essere nel mondo» è il carattere fondamentale dell’esserci in riferimento alla sua svelatezza: il mondo come ciò con cui la vita, parlando e prendendosi cura, ha a che fare con una certa dimestichezza. La dimestichezza con il mondo e, quindi, l’avere a che fare con esso e il vivere in esso sono supportati dal parlare inteso come il modo peculiare di mostrare ciò su cui ci si orienta. Al tempo stesso, la dimestichezza è il modo in cui vengono formati orientamenti e opinioni: è nel parlare che le opinioni vengono plasmate, rinnovate, stabilite, consolidate. Il parlare l’uno con l’altro è quindi il filo conduttore per la scoperta del fenomeno fondamentale della svelatezza dell’esserci in quanto «essere in un mondo». Come filo conduttore concreto assumiamo qui la retorica, nella misura in cui essa è l’interpretazione dell’esserci in riferimento alla possibilità fondamentale del parlare l’uno con l’altro. La retorica ha il compito di porre in luce ciò che parla a favore di una cosa, τὸ ἐνδεχόμενον πιθανόν.335 Vi sono tre elementi che possono essere definiti «parlanti a favore di qualcosa», tre πίστεις, in analogia con la struttura del parlare stesso: 1. il parlare di qualcosa, περί τινος δηλοῦν, δεικνύναι; 2. il parlare a qualcuno, πρός τινα; colui a cui si parla è l’ἀκούων (πάθος); 3. l’essere-parlante stesso, λέγων (ἦθος). In tutti questi casi ciò di cui si parla si mostra nella determinazione fondamentale del poter anche essere altrimenti, dell’essere di volta in volta diverso. L’ente di cui
si discorre nella vita di tutti i giorni non è l’ἀεὶ ὄν, ma l’ἐνδεχόμενον καὶ ἄλλως ἔχειν, definibile anche come quell’ente che può essere più o meno ciò che in effetti è. Aristotele definisce il τέλος della πρᾶξις un τέλος κατὰ τὸν καιρόν:336 il «come, dove, quando, a chi» che fissa l’avere a che fare conforme all’essere è colto «nell’attimo». Ed è in riferimento al καιρός che si evidenzia un carattere del prendersi cura: esso oscilla sempre, non sta mai fermo. È su un ente siffatto che bisogna addurre determinate opinioni, formarle negli altri, portare l’esserci nella δόξα, procurare un ἔνδοξον sul mondo. Perveniamo così al modo fondamentale in cui viene avuto il mondo di cui ci si prende cura: la δόξα, termine tradotto con «avere un’opinione su qualcosa», «la mia opinione in merito è», «sono a favore del fatto che...». Aristotele ha trattato il fenomeno fondamentale della δόξα assai spesso e in molti modi. È lo stesso fenomeno che viene ampiamente discusso nei tardi dialoghi platonici, soprattutto nel Teeteto, nel Filebo e nel Sofista. È una regola ermeneutica ovvia trattare di questi fenomeni discussi da Platone prendendo le mosse da Aristotele, dove essi risultano sviluppati e delucidati più che in Platone. Si apre la prospettiva per ciò che Platone non ha colto, ma che ha un significato fondamentale per un aspetto decisivo della sua filosofia. c) Ricapitolazione e proseguimento della delimitazione della δόξα: δόξα ed «essere risoluto» (προαίρεσις) Mi limito a caratterizzare la δόξα per lo più in termini schematici, senza intraprendere una vera e propria interpretazione del passo (Etica Nicomachea Ζ 10) che andremo a considerare. Delimitandoli rispetto a tre fenomeni affini, si evidenziano tre elementi della δόξα, che viene contrapposta: 1. al βουλεύεσθαι: che è un «cercare», una ζήτησις,337 un tendere verso una determinata opinione che voglio fare mia;
tramite la riflessione voglio pervenire anzitutto al τέλος di una δόξα. Non si tratta di un sì: voglio soltanto appropriarmi di una determinata opinione su un dato di fatto, mentre la δόξα non è più un cercare, ma si colloca alla fine del cercare: è una ϕάσις.338 Nondimeno, benché essa sia un sì, non è comunque una conoscenza; 2. all’ἐπιστήμη: l’«essere bene informato» su qualcosa è caratterizzato dal fatto che colui che conosce pensa la cosa in modo tale da orientarsi su di essa anche se non è lì presente. Essere bene informato su una cosa significa che ne sono sicuro. È per questo che ho ἐπιστήμη solo dell’ente che ha il carattere dell’ἀεί. Il presupposto fondamentale della possibilità della conoscenza riguarda l’ente di cui si dà conoscenza, presume cioè che esso sia sempre così com’è, dunque non possa mutare; invece, di ciò che non è ἀεί qualcosa può mutare. Nell’ἐπιστήμη non ho bisogno di avere la cosa attualmente lì davanti. Ma dell’ἐνδεχόμενον non si dà ἐπιστήμη, bensì solo δόξα. Nondimeno la δόξα mantiene un’affinità con l’ἐπιστήμη in virtù del fatto di essere un «dire sì», una ϕάσις. Viceversa, diversamente dall’ἐπιστήμη essa è determinata dalla ὀρθότης.339 Nella δόξα non ho l’ente in sé, ma solo un orientamento al suo riguardo, indirizzato all’ἀληθές. L’opinione ha la tendenza a concepire l’ente nonnascosto in ciò che esso è. Tuttavia la δόξα implica di per sé il fatto di essere solo una concezione che, in quanto concezione, potrebbe anche essere falsa. Nel caso della δόξα la cosa può anche essere falsa – non si tratta di un’asserzione assoluta. L’essere dell’«essere di un’opinione» implica di per sé l’ammissione: può essere in questo o in quest’altro modo, può essere anche altrimenti. Perciò la δόξα, con la sua ὀρθότης, si distingue dalla 3. ϕαντασία, che costituisce un determinato «richiamare alla mente, immaginare» qualcosa che può essere anch’esso vero o falso, ma in un senso diverso dalla δόξα. Aristotele tratta di questa differenza nel libro III, capitolo 3, del De anima.340 La ϕαντασία può anche essere falsa, e in ciò consiste la sua affinità con la δόξα. Ma in che senso può
essere falsa? Nel senso che, dopo, ci si rende conto che essa era, in effetti, vera o falsa, mentre nel caso della δόξα già la «formazione dell’opinione» implica in sé il «poter essere vero o falso». La ϕαντασία è il mero avere-presente. È per questo che anche gli animali possiedono la ϕαντασία, mentre la δόξα si dà solo dove c’è il λόγος. Ogni «formazione dell’opinione», ogni «avere un’opinione», implica 341 342 (ἀκολουθεῖν e ἕπεσθαι: in quanto implicito nel fenomeno) che qualcosa parli a favore dell’opinione. ἔστι γὰρ ϕαντασία καὶ ψευδής. λείπεται ἄρα ἰδεῖν εἰ δόξα· γίνεται γὰρ δόξα καὶ ἀληθὴς καὶ ψευδής. ἀλλὰ δόξῃ μὲν ἕπεται πίστις (οὐκ ἐνδέχεται γὰρ δοξάζοντα οἷς δοκεῖ μὴ πιστεύειν), τῶν δὲ θηρίων οὐθενὶ ὑπάρχει πίστις, ϕαντασία δ᾽ ἐν πολλοῖς.343 Nella δόξα l’essere orientati mira all’ἀληθές: «potrebbe essere così», «sembra che dovrebbe essere così» – il «parlare a favore di qualcosa» di cui parla la δόξα. L’opinare, l’«avere un’opinione» su qualcosa, implica un «essere convinti» di tale opinione, un πεπεῖσθαι. A sua volta, l’essere convinti di qualcosa implica il λόγος, un «esprimere» ciò su cui si ha un’opinione. ἔτι πάσῃ μὲν δόξῃ ἀκολουθεῖ πίστις, πίστει δὲ τὸ πεπεῖσθαι, πειθοῖ δὲ λόγος· τῶν δὲ θηρίων ἐνίοις ϕαντασία μὲν ὑπάρχει, λόγος δ᾽ οὔ.344 La δόξα è caratterizzata dal fatto che mi è presente qualcosa nel carattere dell’«in quanto così e così», cioè di qualcosa espresso in parole. δῆλον ὅτι οὐκ ἄλλου τινός ἐστιν ἡ δόξα, ἀλλ᾿ ἐκείνου ἐστὶν οὗ καὶ ἡ αἴσθησις.345 Con tale affermazione Aristotele si confronta qui polemicamente con Platone (Sofista e Filebo). La differenza specifica tra ϕαντασία e δόξα sta nel modo in cui sono intesi l’ἀληθές e, nel contempo, implicitamente, lo stesso ψευδές. 4. La differenza decisiva sta quindi nella delimitazione della δόξα rispetto alla προαίρεσις, una differenza di cui Aristotele tratta nel libro IV, capitolo 4, dell’Etica Nicomachea. L’accostamento tra δόξα e προαίρεσις può apparire a prima vista sorprendente. In un primo momento, infatti, non si vede che cosa possano avere a che fare l’uno con l’altro l’«essere risoluto» nei confronti di qualcosa e
l’«avere un’opinione» su qualcosa. Non si deve dimenticare però che la filosofia precedente – Platone – interpretava la προαίρεσις come una certa δόξα. Il fenomeno della προαίρεσις deve quindi contenere determinati elementi che autorizzano tale interpretazione – cosa che diventa evidente se traduciamo correttamente il termine δόξα: «Sono a favore del fatto che la cosa stia in questo e quest’altro modo». Ora, però, essere a favore può significare anche: «Sono a favore del fatto che una cosa venga fatta in questo e quest’altro modo». Se però dico: «Sono risoluto a che una cosa venga fatta in questo e quest’altro modo», allora è προαίρεσις. Aristotele circoscrive la προαίρεσις in quattro direzioni: a) rispetto all’ἐπιθυμία, l’«essere inclini» a qualcosa, l’«avere una propensione» per qualcosa, l’«essere in una disposizione» verso qualcosa; b) rispetto al θυμός, l’«essere in eccitazione», l’«essere agitati» per..., l’«essere in preda alla passione» per...; c) rispetto alla βούλησις, il «desiderio», il «desiderare qualcosa»; d) rispetto alla δόξα.346 I tre fenomeni menzionati per primi vengono descritti brevemente al solo scopo di far comprendere la προαίρεσις,347 poiché non v’è dubbio che essa sia una determinazione dell’ἀρετή. L’ἀρετή, intesa come il disporre di una possibilità di essere, viene ulteriormente esplicata in quanto ἕξις, l’«avere presso di sé» una determinata possibilità di essere in questo e quel modo, ἕξις προαιρετική, «possibilità dell’essere risoluti a...», possibilità di decidersi, in un determinato attimo, in questo e quel modo. ἔστιν ἄρα ἡ ἀρετὴ ἕξις προαιρετική, ἐν μεσότητι οὖσα,348 una ἕξις «che si situa nella μεσότης, che ha lì una medietà», ὡρισμένῃ λόγῳ,349 una medietà «delimitata dal λόγος», «stabilita dalla riflessione che parla e discute». Il μέσον per la πρᾶξις è il καιρός. La definizione diventa essenzialmente più chiara se consideriamo con maggior precisione la προαίρεσις, e cerchiamo contestualmente di spiegare la δόξα, in questa prospettiva, in modo più dettagliato. Perché la προαίρεσις viene confrontata proprio con questi quattro fenomeni? È una domanda che andrebbe posta per
ogni interpretazione di un’analisi aristotelica, poiché risulta illuminante per il carattere fondamentale del fenomeno. Ciò che importa, qui, è raggruppare quei fenomeni che contengono in sé elementi oggettivi tali da mostrare una determinata affinità. I quattro fenomeni devono avere una consistenza oggettiva tale da consentirci di metterli in relazione con la προαίρεσις. Nel complesso i cinque fenomeni vanno caratterizzati come un tendere a qualcosa nel senso dell’averla in anticipo, in modo tale che ciò a cui si tende sia in un certo senso anticipatamente già presente – προαίρεσις. Il «ciò a cui» si tende è presente in anticipo. Il tendere a qualcosa nel senso dell’anticipo è implicito sia nell’ἐπιθυμία che nel θυμός. È del tutto evidente nel caso del desiderio. Anche la δόξα, però, implica un tendere a qualcosa, in direzione dell’ἀληθές. L’opinione implica di per sé l’intendere la cosa in questo e quel modo. Il tendere a qualcosa, che propriamente ancora non possiedo, ma che già mi tiene occupato, è il fenomeno che induce a stabilire una connessione tra questi differenti fenomeni e la προαίρεσις. Operiamo la delimitazione dei primi tre rispetto alla προαίρεσις in modo sintetico. οὐ γὰρ κοινὸν ἡ προαίρεσις καὶ τῶν ἀλόγων, ἐπιθυμία δὲ καὶ θυμός.350 «Una προαίρεσις, un essere risoluti, non si dà nel caso degli esseri viventi che non parlano». La προαίρεσις implica il parlare, il riflettere: solo una decisione vagliata dalla riflessione è un’autentica decisione. Nel libro VI, capitolo 2, la decisione viene definita ὄρεξις διανοητική,351 «tendenza riflessiva», cioè una tendenza determinata dalla riflessione, dalla considerazione approfondita. ᾿Επιθυμία e θυμός ci sono anche nell’animale, ma non si identificano con la προαίρεσις, poiché essa compare solo negli esseri viventi che parlano. καὶ ὁ ἀκρατὴς ἐπιθυμῶν μὲν πράττει, προαιρούμενος δ᾽ οὔ· ὁ ἐγκρατὴς δ᾽ ἀνάπαλιν προαιρούμενος μέν, ἐπιθυμῶν δ᾽ οὔ. καὶ ἡ μὲν ἐπιθυμία ἡδέος καὶ ἐπιλύπου.352 «È vero che l’incontinente agisce ἐπιθυμῶν, gettandosi sulla cosa, ma questo gettarsi non è un agire risoluto. Invece il continente agisce in modo risoluto, ma non ha bisogno di essere ἐπιθυμῶν. L’ἐπιθυμία e
il θυμός tendono a uno ἡδύ e a un λυπηρόν, ovvero a ciò che solleva o deprime la situazione emotiva». La προαίρεσις tende al πρακτόν, ovvero a ciò che nell’attimo presente è decisivo per un prendersi cura, a ciò che è in gioco a suo favore. La decisione si concentra su ciò. La προαίρεσις implica l’orientamento sull’attimo presente nel suo complesso – essa non è un cosiddetto «atto», ma la possibilità autentica di essere nell’attimo. θυμός δ᾽ ἔτι ἧττον· ἥκιστα γὰρ τὰ διὰ θυμὸν κατὰ προαίρεσιν εἶναι δοκεῖ.353 Dice Aristotele del θυμός: «Ciò che si afferra quando si è eccitati, in preda a una cieca passione, non ha nulla a che fare con ciò che si padroneggia tramite la decisione lucida e trasparente». προαίρεσις μὲν γὰρ οὐκ ἔστιν τῶν ἀδυνάτων, καὶ εἴ τις ϕαίη προαιρεῖσθαι, δοκοίη ἂν ἠλίθιος εἶναι· βούλησις δ᾽ ἐστὶν τῶν ἀδυνάτων, οἷον ἀθανασίας.354 Inoltre, per quanto sembri così, la προαίρεσις non è una βούλησις. La differenza sta in ciò a cui ciascuna fa riferimento: «La προαίρεσις non tende mai a qualcosa di impossibile. [Io sono risoluto riguardo a qualcosa di cui è certo che è possibile]. Se uno affermasse di decidersi per un’impossibilità, lo diremmo uno stolto. Invece il desiderio può essere diretto a qualcosa di impossibile». La προαίρεσις tende sempre a un possibile, anzi a un possibile determinato, che possiamo afferrare e attuare ora, nell’attimo presente. La βούλησις, invece, tende anche a qualcosa che è impossibile; può tendere altresì a qualcosa che è possibile, e che però non è a portata nostra, ma di altri – per esempio desideriamo «che questo o quell’attore, oppure questo o quell’atleta, vinca il premio».355 Ciò è possibile ma non ci concerne direttamente. La προαίρεσις tende invece sempre a qualcosa che ci concerne direttamente: essa porta all’ἔσχατον, cioè al punto in cui intervengo in prima persona, mi metto di fatto in azione. Ci avviciniamo alla δόξα delimitandola rispetto a fenomeni affini: ἐπιστήμη, ϕαντασία, βουλεύεσθαι, προαίρεσις. Stiamo tentando di precisare la delimitazione rispetto alla προαίρεσις, che è oggettivamente di
fondamentale importanza. Tale delimitazione si basa sul presupposto che i due fenomeni in questione abbiano un carattere in comune che ne giustifica l’accostamento. Questo carattere è il tendere a qualcosa: ciò a cui si tende viene anticipato. Δόξα: «essere a favore di qualcosa». L’«essere a favore» implica un certo orientamento. Tuttavia il tendere nella δόξα non ha, per esempio, il carattere della ὄρεξις, cioè dell’«aspirare». La δόξα è piuttosto un certo sì, essa è giunta a una fine e si è fermata. Le differenze tra προαίρεσις e δόξα addotte da Aristotele sono sette: 1. Προαίρεσις e δόξα vengono distinte in base a ciò a cui si rivolgono. La προαίρεσις, il «decidersi» per qualcosa, si rivolge solo all’ente in riferimento al quale posso ottenere qualcosa. L’ἀρχὴ πράξεως dev’essere presso di me. Il tema della προαίρεσις è un ente fatto così: un συμϕέρον, ovvero un qualcosa che, per il prendersi cura, entra in gioco come ciò che ci siamo prefissati in quanto «utile», in modo tale da potervi porre mano in prima persona. La δόξα invece non si rivolge solo ai συμϕέροντα – quindi a ciò che può mutare – ma anche a ciò che è ἀεί: anche su ciò che è «sempre» posso avere un’opinione.356 Si tratta di una differenza importante. Resta da osservare che la δόξα si rivolge anche all’ente che è sempre così com’è. Tali δόξαι sono il terreno da cui nasce in genere la scienza. Ciò su cui ho un’opinione e ciò a cui mi sono deciso si distinguono in relazione all’entità degli ambiti ontologici a cui possono rivolgersi. 2. La δόξα tende all’ἀληθές e allo ψευδές.357 Ciò di cui ne va nella δόξα è che ciò su cui sussiste un’opinione venga colto nel suo essere. Invece ciò di cui ne va nella προαίρεσις è come esso debba essere realizzato, che cosa se ne debba fare, su che cosa bisogna prendere una decisione. La προαίρεσις mira sempre a un πρακτὸν ἀγαθόν. Ciò che rientra in una προαίρεσις è per sua essenza πρακτόν. 3. Chi ha un’opinione non è diversamente determinato nel suo ἦθος dal suo «avere una determinata opinione»; l’«avere un’opinione» su una specifica faccenda non costituisce una determinazione etica, non riguarda cioè l’autentico
comportamento ontologico dell’uomo nei confronti degli altri. Viceversa, la specifica modalità in cui mi decido, ciò a cui mi decido, ciò che rientra nella προαίρεσις – tutto questo è decisivo per il mio essere, per il modo peculiare in cui io sono, per il mio ἦθος.358 La δόξα ostenta insomma una certa indifferenza nei confronti dell’essere, ovvero: l’«avere un’opinione» presuppone una certa indifferenza riguardo all’oggetto dell’opinione stessa. Questo è importante per il concetto di scienza dei greci. 4. Conformemente al peculiare carattere ontologico di ciò a cui si rivolgono la δόξα e la προαίρεσις – da un lato l’ἀληθές, dall’altro il πρακτόν –, anche l’«avere opinioni», in quanto comportamento, culmina di per sé in un determinato sguardo rivolto allo specifico modo in cui l’ente «ci» è, e in cui lo si tratta in quanto ente. Mentre la προαίρεσις si rivolge all’«intervenire» su una cosa o al «desistere» da essa, la δόξα si rivolge all’ἀληθεύειν.359 5. Le due si distinguono in ciò che ne costituisce l’autenticità. Nel caso della δόξα ne va della ὀρθότης, cioè dell’avvicinarsi all’ἀληθές, all’ente così come esso è. Nel caso della προαίρεσις, invece, non si tratta di porre in luce un ente nel suo essere; decisivo è piuttosto il fatto che su di esso si sia riflettuto in modo adeguato.360 Ciò che importa nella προαίρεσις non è porre in luce – e descrivere teoreticamente – tutti gli elementi ontologici di una situazione concreta, bensì riflettere nel modo corretto, considerando con la massima attenzione ciò che è in gioco in vista del πρακτόν. In verità anche questo è un ἀληθεύειν, ma essenzialmente diverso da quello della δόξα. Mentre la correttezza della προαίρεσις si orienta sul πρακτόν, la correttezza della δόξα si orienta sull’ἀληθές. 6. Le due si distinguono nel modo di riferirsi alla conoscenza. La δόξα si riferisce a qualcosa che ancora non si conosce con esattezza, cioè a un ente che è ancora nascosto. In estrema sintesi: mentre la δόξα si rivolge a ciò «che propriamente ancora non conosciamo», la προαίρεσις si rivolge a ciò che, nel senso della conoscenza corrente,
«conosciamo più di tutto», ciò su cui abbiamo riflettuto con lucidità, ciò di cui ne va in conformità alle circostanze.361 7. Uno può avere le migliori opinioni eppure compiere un κακόν, decidersi per esso. Δόξα e προαίρεσις sono in sé differenti: il sapersi formare nel modo migliore opinioni su qualcosa e il sapersi decidere in modo corretto non coincidono.362 Ma nonostante tutte queste differenze δόξα e προαίρεσις risultano più che mai vicine proprio se si assume la δόξα nel suo significato più stretto, cioè nel suo essere rivolta a «ciò che può anche essere altrimenti», l’ἐνδεχόμενον ἄλλως, nella misura in cui è un συμϕέρον. Posso avere una determinata opinione su una cosa riguardo alla sua utilità, posso essere a favore del fatto che questo e quello è migliore di quest’altro. d) I caratteri della δόξα in quanto essere-orientato del medio «essere l’uno con l’altro nel mondo» Raccogliamo le fila di tutta l’analisi e orientiamone il contenuto sulla questione che propriamente ci interessa: il fenomeno peculiare dell’essere orientati nel mondo, il modo in cui l’esserci umano ha innanzitutto mediamente lì il suo mondo, il modo in cui si dà l’essere-orientato nell’avere-lì il mondo. In base all’analisi della δόξα, che cosa veniamo a sapere circa il fenomeno dell’essere scoperto? La δόξα è l’autentico essere-scoperto dell’«essere l’uno con l’altro nel mondo». Per noi, in quanto essenti l’uno con l’altro, il mondo «ci» è nell’essere-scoperto in quanto viviamo nella δόξα. Vivere in una δόξα significa: condividerla con altri. L’opinione implica che anche altri ce l’abbiano. C’è da notare anzitutto che l’ambito della δόξα è πάντα. Non v’è dubbio infatti che anche nella quotidianità l’essere orientati nel mondo non è rivolto soltanto ai πρακτά, l’essere-scoperto non riguarda soltanto i πρακτά, io non sono informato soltanto sul mio compito concreto – su ciò che
debbo fare nel mio ambiente più prossimo –, ma ho anche una determinata opinione su com’è il mondo, la natura, in cui si trovano i πρακτά: la luna, le stelle, l’ἀεί dei greci. La δόξα si estende al mondo intero. Infatti, il πρακτόν con cui ho a che fare non è un ambito determinato di enti, poiché gli enti con cui ho a che fare si trovano anch’essi nel mondo, nell’essere della natura. Vi sono quindi specifici rapporti ontologici tra il πρακτόν e la natura, l’ἀεὶ ὄν. Il modo particolare in cui il mondo viene avuto in quanto (fino a un certo grado) scoperto è l’essere a favore del fatto che le cose stanno così. Questo «essere a favore», in quanto carattere della δόξα, implica la determinazione del sentirsi in sintonia con il modo in cui il mondo si mostra innanzitutto, l’elemento del confidare nell’aspetto più immediato. Esattamente questa è l’opinione di Talete, secondo cui lo ὕδωρ, l’«acqua», sarebbe il πρῶτον, l’autentica ἀρχή dell’essere. Una simile definizione risulta comprensibile presupponendo il predominio di una diffusa confidenza con ciò che si mostra innanzitutto. Ciò che si mostra innanzitutto viene inteso come ciò che il mondo è innanzitutto nell’opinione che se ne ha. La definizione di δόξα implica necessariamente colui che ha la δόξα. Nel caso di un’ἐπιστήμη, invece, è indifferente chi ce l’ha; nel caso di una tesi valida è indifferente chi io sia, ciò non contribuisce in nulla al chiarimento e alla verità del conosciuto. Invece, nel caso della δόξα, colui che ha l’opinione è, in quanto tale, implicitamente decisivo per la δόξα stessa. È importante chi ce l’ha. In se stessa, la cosa non può parlare puramente a favore di se stessa – essa è nascosta, ne ho un’opinione. Nel caso della δόξα non è solo la cosa a parlare a favore di se stessa – nella misura in cui è non-nascosta –, ma a suo favore parla anche colui che ha l’opinione, parlano coloro presso i quali sta il sì, la ϕάσις della δόξα. La solidità di una δόξα non si fonda quindi esclusivamente nel contenuto oggettivo che essa comunica, ma anche in coloro che hanno la δόξα. La struttura della δόξα implica la possibilità che essa
possa pervenire a una peculiare forma di dominio e di ostinatezza. Si ripete un’opinione agli altri. Nel ripetere, ciò che importa non è verificare che cosa dice la persona in questione: decisivo non è il detto, bensì il fatto che sia lui ad averlo detto. Ciò che sta dietro il dominio della δόξα sono gli altri, i quali, in un senso peculiare, sono indeterminati, non si possono afferrare – si è dell’opinione: un dominio, un’ostinatezza caratteristici e una costrizione che sono impliciti nella δόξα stessa. La δόξα costituisce lo specifico essere orientato dell’«essere l’uno con l’altro nel mondo», e precisamente del medio essere l’uno con l’altro. Medio: non ci si impegna nel compito di indagare il mondo, ma si vivacchia in esso giorno per giorno avendo a che fare con le cose – si ha a che fare con il mondo nella δόξα e in base alla δόξα. Non si ha alcun bisogno di indagare tutto alla ricerca del suo contenuto oggettivo, ci si attiene a ciò che dicono gli altri. In questo modo la δόξα emerge nel contempo sia come il terreno sia come lo stimolo per il discorrere – e il discutere – l’uno con l’altro. Infatti, benché abbia una certa solidità, la δόξα implica che di ciò su cui si ha un’opinione si possa ancora comunque discutere. Potrebbe anche essere altrimenti. Il suo senso è lasciare aperta la discussione. Il λόγος, il discutere su di esso, è sempre latente; nella δόξα il «portare al linguaggio» è sempre in procinto di realizzarsi. È per l’appunto dalla δόξα che nasce e si sviluppa – ricevendone il suo stimolo – il parlare l’uno con l’altro, ed è sempre dalla δόξα che esso prende ciò di cui si discute. Insomma, la δόξα è il terreno, la sorgente e lo stimolo del discorrere l’uno con l’altro, e lo è in modo tale che ciò che risulta dalla discussione abbia a sua volta il carattere di una δόξα, assumendone la medesima funzione. La δόξα detiene il dominio e il comando dell’essere l’uno con l’altro nel mondo. Ho sottolineato il fatto che l’ambito ontologico della δόξα non si limita a ciò che può anche essere altrimenti, poiché essa è altresì il terreno per quel modo di cogliere l’ente che designiamo in quanto ἐπιστήμη, θεωρεῖν. Anche l’ente di cui
non ci si occupa nel senso del prendersi cura, ma in quello del constatare dati di fatto, così come essi sono, «ci» è anzitutto in una δόξα. È appunto per questo che Aristotele ricorre del tutto consapevolmente alla storia della filosofia. Egli affronta ogni problema fondamentale anzitutto prendendo in considerazione come la si pensava in merito, e lo fa in base alla positiva convinzione che nella δόξα così intesa la cosa dovesse essere stata pur sempre in qualche modo intravista. Non è forse vero che la δόξα consiste nella peculiare fiducia che si nutre nei confronti di ciò che si mostra innanzitutto? E ciò che si mostra innanzitutto è il terreno per l’indagine sulla cosa stessa. e) La δόξα come terreno per l’approccio teoretico α) Pre-messa (πρότασις) e pro-blema (πρόβλημα) in quanto «ciò da cui» e «ciò su cui» dell’approccio teoretico (Top. A 4 e 10-11) La δόξα domina completamente anche il λέγειν teoretico, vale a dire il λόγος nel senso della «trattazione» di qualcosa, cioè dell’esplicare e considerare in ogni dettaglio qualcosa in termini teoretici, non quindi nei termini della discussione pratica, per esempio della discussione giudiziaria – «trattare» nel senso del διαλέγεσθαι, del come si parla di una cosa: lo scopo di conseguire in tal modo un risultato concreto va lasciato cadere, poiché, adesso, ciò di cui ci si prende cura è il λέγειν stesso. Ora, per cogliere questo significato fondamentale della δόξα farò sinteticamente riferimento all’argomento discusso nel libro I dei Topici (che tratta del διαλέγεσθαι), dove Aristotele mostra con assoluta chiarezza quali specie di λόγοι scaturiscono dalla δόξα, e come ciò a cui ci si richiama quando si parla – quando si parla l’uno con l’altro – sia sempre qualcosa che ha il carattere della δόξα. È un fatto importante, poiché è partendo da qui che si può pervenire alla comprensione non
solo del συλλογισμός, ma anche della logica. Il fatto che vi sia una logica non è casuale, anzi va compreso in base a fenomeni fondamentali del tutto determinati dell’esserci stesso. Nel libro I, capitolo 4, dei Topici Aristotele illustra «tutto ciò su cui e da cui, secondo la sua misura e natura», nasce e si sviluppa il discorrere e parlare l’uno con l’altro nel διαλέγεσθαι.363 ἔστι δ᾽ ἀριθμῷ ἴσα καὶ τὰ αὐτά ἐξ ὧν τε οἱ λόγοι καὶ περὶ ὧν οἱ συλλογισμοί. γίνονται μὲν γὰρ οἱ λόγοι ἐκ τῶν προτάσεων· περὶ ὧν δὲ οἱ συλλογισμοί, τὰ προβλήματά ἐστι.364 «Ciò da cui e in base a cui nasce il discorso, e ciò su cui e di cui si discorre, è uguale per numero ed è la stessa cosa. Ciò di cui si parla sono i προβλήματα, ciò da cui nasce il discorso è la πρότασις». In base a quanto abbiamo detto in precedenza dobbiamo mostrare che questi due fenomeni traggono origine anch’essi dalla δόξα e a essa si rapportano. Entrambi si distinguono in base al τρόπος, cioè alla loro specifica «modalità».365 Vedremo mediante qualche esempio che cosa si intende con questa espressione. Πρότασις: «pre-mettere», «pre-messa». Πρόβλημα, da προβάλλω, «gettare innanzi»: il «pro-blema, pro-getto», nella misura in cui si tratta di avanzare un’opinione, di gettarla nella discussione in contrasto con l’opinione dominante, in modo tale che ne emerga l’implicita insicurezza, il carattere «problematico», ovvero il fatto che in merito non si è ancora pervenuti a un risultato definitivo. La πρότασις implica il carattere del διαλέγεσθαι, la premessa nel senso che il διαλέγεσθαι si richiama a un’opinione consolidata, pretendendo per sé un solido terreno, premessa di qualcosa che non dev’essere ulteriormente discusso e che dagli altri viene richiesto come terreno comune. Πρόβλημα il πρό, πρότασις l’ἐξ. Πρόβλημα viene tradotto con «pro-blema, pro-getto». Esempi: 1. Per la πρότασις la questione è: «ἆρά γε τὸ ζῷον πεζὸν δίπουν ὁρισμός ἐστιν ἀνθρώποὺ» καὶ «ἆρά γε τὸ ζῷον γένος τοῦ ἀνθρώπου».366 «Non è forse l’asserzione “l’uomo è un essere vivente bipede” la definizione dell’uomo? Non è forse
“essere vivente” il genere dell’uomo?». ῟Aρά γε: non sei forse anche tu dell’opinione che le cose stiano così? Questo è ciò che vogliamo stabilire! 2. Per il πρόβλημα la questione è: «πότερον τὸ ζῷον πεζὸν δίπουν ὁρισμός ἐστιν ἀνθρώπου ἢ οὔ...».367 La domanda inizia con il πότερον: «La determinazione “l’uomo è un essere vivente bipede” è la definizione dell’uomo? [Domanda:] Lo è o non lo è?». Il πρόβλημα esige una definizione chiara e determinata. Un caso peculiare di πρόβλημα è la θέσις.368 Abbiamo condotto l’analisi della δόξα a una certa conclusione: la δόξα contiene lo specifico orientamento dell’«essere nel mondo», nella δόξα il mondo è presente. Per ora abbiamo tralasciato uno specifico aspetto della δόξα riguardante il fatto che essa è un’opinione su qualcosa, presuppone cioè l’essere dato di un ϕαινόμενον. Affronteremo nel dettaglio questo elemento strutturale della δόξα quando prenderemo in considerazione l’ἀλήθεια.369 Ciò che importa, per ora, è comprendere in che modo dalla δόξα così intesa scaturiscano le singole possibilità in cui si tratta e si discute del mondo. È implicito nel senso della δόξα rendere possibile una discussione. Ciò su cui domina l’opinione è anche qualcosa di cui si può ancora discutere. La δόξα implica di per sé la possibilità del discutere l’uno con l’altro – ed è così che si sviluppa la κοινωνία. Ogni intendersi nell’essere l’uno con l’altro è un intendersi che presuppone un certo terreno di familiarità con qualcosa, terreno per la discussione che però non viene di per sé messo in discussione. È a partire da questa familiarità – e muovendosi al suo interno – che si parla, nella misura in cui il risultato della discussione ha a sua volta, di nuovo, il carattere dell’ἔνδοξον. Ciò a partire da cui si parla non è espressamente presente: trattandosi di qualcosa di esplicito, sorge il fenomeno della πρότασις, cioè della «premessa» di ciò a partire da cui si parla, e di cui però nella discussione non si fa parola. Il «ciò a partire da cui si discorre» lo si definisce stabilito, in termini teoretici, in quanto ἀρχή, nella
misura in cui si tratta di un parlare estremamente preciso nel senso del mostrare e dimostrare teoretici, dove il fenomeno del parlare l’un l’altro è pur sempre presente, benché non in modo esplicito. Anche il trattato, infatti, si rivolge a un contesto di destinatari uniti nel συλλογισμός. Qui la πρότασις viene definita ἀρχή. I princìpi che vengono presupposti, e da cui la dimostrazione prende le mosse, costituiscono un caso del tutto particolare della circostanza originaria secondo cui si parla a partire da un alcunché di noto. Cerchiamo di vedere più nel dettaglio in che modo dall’ἔνδοξον, dalla δόξα, derivi espressamente il fenomeno della «premessa», della πρότασις, e come, sempre dalla δόξα, derivi inoltre ciò di cui si parla, il vero argomento tematico, il πρόβλημα, assumendo entrambi gli elementi anzitutto in riferimento al parlare l’uno con l’altro del διαλέγεσθαι, dov’è in gioco la messa in luce di un determinato contesto disciplinare: discussione filosofica. Solo in seguito avremo modo di trattare del parlare l’uno con l’altro nel senso del discorrere assieme quotidiano, così com’è affrontato dalla Retorica. Aristotele ne parla nel libro I dei Topici, capitolo 10: πρότασις; capitolo 11: πρόβλημα. ἔστι δὲ πρότασις διαλεκτικὴ ἐρώτησις ἔνδοξος.370 La πρότασις διαλεκτική viene descritta come ἐρώτησις ἔνδοξος, «un domandare che si trattiene nell’ambito di ciò su cui sussiste un’opinione consolidata»; μὴ παράδοξος:371 ciò che viene espresso nella πρότασις ha la caratteristica di non essere detto «contro l’opinione generale». ᾿Ερώτησις ἔνδοξος: «Un domandare che si mantiene all’interno di ciò su cui sussiste un’opinione generale». Le domande che sono introdotte dalla formula ἆρά γε, «non è forse...», chiedono implicitamente un consenso. L’ἐρώτησις è ἀποκρίσεως αἴτησις,372 «richiesta di una risposta». Nella πρότασις si richiede il consenso riguardo a ciò che si dice, il riconoscimento nel senso che allora, quanto a ciò che segue, si sta su un terreno comune. L’αἴτησις ἀποκρίσεως, intesa come pre-messa del terreno su cui deve muoversi la
discussione ulteriore, si rivolge a ciò che «a tutti, alla grande maggioranza, ovvero ai più assennati» sembra essere così.373 Il contenuto di una πρότασις διαλεκτική può anche essere ciò che rientra nella δόξα. Inoltre: ha carattere di ἔνδοξον, μὴ παράδοξον,374 ciò che uno, competente nella sua materia, dice in base alla sua esperienza, o che uno scienziato afferma in base al suo ambito disciplinare, senza bisogno di dimostrarlo. Nel caso del πρόβλημα, invece, non si tratta di premettere qualcosa nel senso del terreno, poiché Aristotele definisce piuttosto il πρόβλημα come θεώρημα,375 «qualcosa di cui va verificato» che cosa deve diventare oggetto del parlare. Mentre il carattere interrogativo della πρότασις è tale da richiedere il consenso, il θεώρημα significa qualcosa la cui ulteriore verifica va intrapresa nella discussione, qualcosa che συντεῖνον ἢ πρὸς αἵρεσιν καὶ ϕυγήν, «stimola intensamente alla comprensione, presupponendo che lo si accetti o lo si rifiuti», ἢ πρὸς ἀλήθειαν καὶ γνῶσιν, «che qualcosa sia scoperto e portato alla conoscenza».376 Si avanza una questione, si stimola la discussione, e ciò che viene gettato nella discussione pretende di per sé di essere discusso. Il rapporto del πρόβλημα con l’ἔνδοξον: viene avanzata una questione sulla quale non c’è accordo, περὶ οὗ ἢ οὐδετέρως δοξάζουσιν ἢ ἐναντίως οἱ πολλοὶ τοῖς σοϕοῖς ἢ οἱ σοϕοὶ τοῖς πολλοῖς ἢ ἑκάτεροι αὐτοὶ ἑαυτοῖς,377 «sulla quale in nessun senso si è pervenuti a un’opinione precisa, o perché si tratta di una questione intrinsecamente controversa e aperta, oppure perché essa è tale che al suo riguardo la grande maggioranza la pensa diversamente dai più assennati, o infine perché né tra i molti né tra i pochi c’è accordo su di essa». L’oggetto dell’indagine è intrinsecamente controverso. Una forma particolare del πρόβλημα è la θέσις. Non ogni πρόβλημα è θέσις, ma ogni θέσις è πρόβλημα. θέσις δέ ἐστιν ὑπόληψις παράδοξος τῶν γνωρίμων τινὸς κατὰ ϕιλοσοϕίαν,378 «una presa di posizione a favore [ὑπόληψις è sinonimo di δόξἂ che – παράδοξος – sta accanto, sta fuori accanto alla δόξα»; una ὑπόληψις che però
non è un singolo caso qualsiasi che chiunque può avere escogitato, giacché la δόξα implica, come suo elemento costitutivo, colui che ce l’ha; la θέσις è una δόξα tale che «ce l’ha colui che appartiene a quelli che hanno familiarità con la ϕιλοσοϕία», nel campo in cui si tratta della considerazione autentica dell’ente. Κατὰ ϕιλοσοϕίαν: un’opinione che viene avanzata da colui che si muove effettivamente nell’ambito della ricerca – ϕιλοσοϕία contrapposta alla sofistica. οἷον ὅτι οὐκ ἔστιν ἀντιλέγειν, καθάπερ ἔϕη ᾿Αντισθένης· ἢ ὅτι πάντα κινεῖται καθ᾿ ῾Hράκλειτον, ἢ ὅτι ἓν τὸ ὄν, καθάπερ Μέλισσός ϕησιν.379 «Una simile θέσις è per esempio la δόξα di Antistene, secondo cui non si dà contraddizione [una δόξα παράδοξος: è contraria all’opinione media, però non è sostenuta da uno qualsiasi, ma da un esperto], oppure quella di Eraclito, secondo cui tutto è in movimento, o di Melisso, che dice ἓν τὸ ὄν» – non si tratta qui dell’ἐναντίον τοῦ τυχόντος,380 «di uno qualsiasi», bensì di un uomo stimato, un esperto che sa il fatto suo. La θέσις si distingue dal πρόβλημα per il fatto di parlare espressamente contro l’opinione dominante, mentre vi sono molti προβλήματα che non parlano in forma accentuata contro l’opinione dominante. Sono però controversi, lasciano aperto qualcosa. β) Il «non poter passare» (ἀπορία) come tema della discussione teoretica (Met. B 1) Dall’insieme delle caratteristiche che contrassegnano ciò a partire da cui – e di cui – si parla nel διαλέγεσθαι si può desumere ora ciò che soprattutto può diventare un tema possibile di discussione. Emergerà così in modo ancora più preciso la differenza rispetto al discorso della retorica. Aristotele definisce il discorso, il tema della retorica, τὰ ἤδη βουλεύεσθαι εἰωθότα,381 ciò che nella discussione scientifica viene trattato come τὰ λόγου δεόμενα,382 λόγος inteso qui nel senso del διαλέγεσθαι: nel διαλέγεσθαι ci si occupa di ciò che ancora «ha bisogno» (δέομαι) di quel parlare che non ha alcuno scopo ulteriore, che cioè non nasce dalla funzione
naturale del parlare con un intento pratico. Il λόγος, qui, è separato dal πρακτόν – il λόγος stesso è diventato la πρᾶξις. In questo caso il λόγος, in quanto discussione, svolge la sua pura funzione mostrando ciò di cui si sta discutendo nel suo «come» e nel suo «che cosa», com’è e che cos’è. Si discute di ciò che ha bisogno ancora del λόγος, ossia di ciò che non è chiaro, che non può essere portato alla comprensione in altro modo né può essere procurato altrimenti. Un λόγου δεόμενον non è tale da essere semplicemente oggetto di un «rimprovero» (κολάσεως), o di una «semplice percezione diretta».383 «Coloro che sono in dubbio se si debbano onorare gli dèi, se si debbano amare i genitori, hanno bisogno di un rimprovero»,384 noi diremmo: di uno scappellotto. Su cose del genere non ha senso scrivere un trattato, e nemmeno sul fatto «se la neve sia bianca oppure no»,385 poiché in tal caso si tratta semplicemente di aprire gli occhi.386 Emerge qui chiaramente che il colloquio esige come suo requisito basilare che ci si sia preventivamente messi d’accordo sul tema del colloquio stesso, se cioè esso, secondo il suo senso oggettivo, consente una discussione, oppure si pone, come tema, fuori da ogni discussione possibile. Viceversa, anche di ciò che ha bisogno di una specifica motivazione argomentativa – e che quindi non può essere risolto né con un rimprovero né con la percezione diretta – non qualsiasi oggetto è un λόγου δεόμενον. οὐδὲ δὴ ὧν σύνεγγυς ἡ ἀπόδειξις, οὐδὲ ὧν λίαν πόρρω,387 «né ciò la cui dimostrazione è evidente, e che può essere indicato con facilità, né viceversa ciò la cui dimostrazione è troppo complessa» rientrano nei temi possibili di un simile colloquio. Nemmeno nell’ultimo caso vi è aporia: questo tema presenta difficoltà tali da essere irrisolvibili dalla δύναμις del colloquio. Il tema possibile del διαλέγεσθαι è circoscritto e stabilito – un tema che deve contenere in sé un’aporia. Aristotele tratta dettagliatamente dell’ἀπορία nel libro III, capitolo 1, della Metafisica. Bisogna tenere presente che l’ἀπορία compare nel contesto del λέγειν, del λόγος
autonomo, non di una πρᾶξις, ma là dove il λέγειν stesso è la πρᾶξις. Riguardo all’ἀπορία Aristotele conosce una serie di espressioni caratteristiche: parla di ἀπορεῖν,388 εὐπορεῖν,389 διαπορεῖν,390 προαπορεῖν.391 Πορεῖν significa «andare», «correre» nel senso del λέγειν, cioè del discorrere, λέγειν nella funzione dell’ἀποϕαίνεσθαι. In questo «essere in moto», nel percorrere, lungo la via del mostrare «non passare»: ἀπορεῖν. L’α privativum indica che in ogni caso bisogna πορεῖν: l’ἀπορία implica il πορεῖν, il fatto cioè che comunque ci si è messi in moto, ci si attiene a un mostrare. Il τέλος è l’εὐπορεῖν, il «passare bene». Di per sé l’ἀπορία non è un τέλος, poiché essa si pone piuttosto al servizio di un determinato percorrere: è sempre un «essere in cammino verso...», nel cui caso però in un primo momento non si passa. La funzione dell’ἀπορεῖν è il δηλοῦν, nel senso che nel πρᾶγμα si mostrano i «nodi».392 L’ἀπορεῖν si compie considerando le opinioni dominanti su una cosa.393 Tali opinioni vanno esaminate a fondo per comprendere in che misura la cosa vi si mostri. L’ἀπορία ha il senso positivo di dischiudere anticipatamente la cosa secondo determinate caratteristiche. Infatti, solo quando sono passato attraverso un temporaneo non poter passare, precisamente mostrando dove non sono passato, possiedo propriamente il τέλος dell’indagine, e solo allora posso decidere, alla fine di essa, se ho trovato o meno ciò che cercavo.394 L’ἀπορία ha il senso di dare forma compiuta a una problematica dell’indagine scientifica. Dare forma compiuta a una problematica altro non significa che sottoporre a verifica, in base a definizioni fondamentali, la questione di cui si sta parlando, guidando l’interrogazione in determinate direzioni. L’esempio classico in proposito è il libro I della Fisica, capitoli 2-9, dove Aristotele passa attraverso le aporie dell’ente riguardo al suo essere-mosso. È grazie a questo attraversamento che la questione diventa via via più perspicua. Lo stesso accade nella Metafisica (libro II, capitoli 1-6) circa le aporie dell’essere in quanto essere come
possibile tema di una scienza. Il presupposto di fondo è che, in base a una determinata esperienza fondamentale della cosa in questione, si pervenga a un orientamento. Solo quando possiedo già la cosa in senso genuino posso accingermi ad affrontarne le aporie. Quelle di cui ci si occupa non sono difficoltà e contraddizioni qualsiasi. L’ἀπορία è la via per dare forma compiuta a un domandare realmente positivo nell’intento positivo dell’εὐπορεῖν.
16. L’ἦθος e il πάθος in quanto πίστεις (Rhet. B 1, Eth. Nic. B 4) a) Discussione teoretica e discussione pratica Viceversa, il tema del discorso quotidiano nell’assemblea, in tribunale, eccetera, è tale per cui «si è già sempre abituati a considerarlo oggetto di deliberazione»,395 è un tema su cui fin dai tempi antichi ci si intrattiene nell’essere l’uno con l’altro nella πόλις. In questo modo è dato uno specifico orientamento oggettivo circa il tema della conversazione. Finché si tratta del βουλεύεσθαι, del πρακτόν e dell’ἔνδοξον, cioè nella misura in cui si discorre su opinioni generali contrapponendole a convinzioni altrettanto generali con l’intenzione di formare un’opinione determinata, il discorrere non rientra nell’ambito del διαλέγεσθαι. Nel caso di questo discorrere, dove si tratta di oggetti di tal genere, sia il parlante sia colui al quale si parla hanno un’importanza fondamentale. Invece, nel caso del διαλέγεσθαι è fino a un certo grado indifferente a chi si parla, ed è indifferente chi io sia e come mi muova in tale circostanza. Nel caso del parlare nel primo senso hanno rilevanza sia l’ἦθος del parlante sia il πάθος di colui al quale si parla. Entrambe queste determinazioni, infatti, stanno alla base della modalità specifica in cui viene recepita la δόξα, ovvero del modo in
cui colui al quale l’opinione va proposta si pone di per sé nei confronti dell’opinione. Prendendo le mosse dal contesto del parlare l’uno con l’altro, dobbiamo intenderci brevemente circa l’ἦθος dell’oratore e il πάθος dell’ascoltatore, precisamente riguardo a come l’oratore, e colui al quale egli si rivolge, si relazionano alla δόξα di cui si sta parlando, nonché alle δόξαι a partire dalle quali si parla. Nel far questo avremo modo di porre in particolare evidenza il πάθος della «paura», del ϕόβος, di cui tratta il libro II, capitolo 5, della Retorica. Una condizione fondamentale del tema per un colloquio avente lo scopo di localizzare, discutendo, un problema del quale è data l’evidenza – ponendo in luce determinati nessi oggettivi presenti nell’argomento in discussione – è risultata essere la determinazione fondamentale che si tratti di ἀπορίαν ἔχον. L’elemento dell’aporia si riferisce in sé a un πορεῖν, «percorrere»: parlare nel senso del mostrare, essere in cammino nel mostrare. Il πορεῖν ha come meta l’εὐπορεῖν, il «passare nel modo corretto» pervenendo a ciò che si sta cercando. Il πορεῖν/ἀπορεῖν è quindi un προαπορεῖν che precede un εὐπορεῖν. Riferito al λέγειν si tratta di un δηλοῦν, un «manifestare» ciò che si sta cercando. Riferito al domandare stesso, è un modo di dare forma in maniera corretta alla domanda in quanto tale. Ponendo in evidenza determinati caratteri effettivi della cosa oggetto d’indagine diviene manifesta la fine dell’indagine stessa, e viene così fornita la possibilità di darle il corretto indirizzo e di decidere – alla fine della ricerca – se il cercato è stato trovato, se cioè ciò che viene in luce alla fine dell’indagine è un risultato effettivo. In Aristotele l’aporia è relativa e limitata. L’oggetto delle indagini scientifiche deve avere il carattere dell’ἀπορίαν ἔχον, deve cioè presentare difficoltà. È questa la condizione fondamentale perché qualcosa sia un λόγου δεόμενον – poi πρότασις e πρόβλημα. Il secondo modo di darsi di ciò di cui si parla è tale che si è abituati a deliberare intorno a esso, qualcosa che viene portato al linguaggio in un determinato contesto ontologico
della vita e non può essere sbrigato una volta per tutte mediante una riflessione oggettiva, poiché torna sempre di nuovo a proporsi a seconda delle circostanze e della situazione. Qui il tema non è un identico stato di cose oggettivo che verrebbe trasmesso all’interno di una scienza; ma è piuttosto qualcosa che cambia a seconda delle circostanze dell’esserci: faccende che emergono, di volta in volta, a seconda delle condizioni dell’esserci stesso, mutamenti dello stato d’animo e, quindi, dell’opinione. È ciò che viene trattato nella retorica: non un tematico stato di cose oggettivo, bensì qualcosa che cambia a seconda delle opinioni. C’entra la situazione contingente delle cose e degli uomini. È per questo che qui l’«assunzione delle premesse», il λαμβάνειν τὰς προτάσεις,396 avviene altrimenti. Nel caso della premessa bisogna prendere in considerazione altri fattori, è necessario tenere conto dello stato d’animo di coloro a cui si parla, della situazione contingente delle cose e del modo specifico in cui ci si atteggia personalmente nei confronti della faccenda. Perciò è doveroso considerare concretamente: 1. l’ἦθος, l’«atteggiamento» del parlante; 2. il πάθος, la «situazione emotiva» dell’ascoltatore. Nel libro II, capitolo 1, della Retorica Aristotele riassume il contenuto del libro I e illustra il tema del libro II. L’approccio di questo parlare in quanto retorica assume il colloquio mirando di per sé alla formazione di un’opinione: bisogna dare forma compiuta a una δόξα. «Dal momento che in definitiva la retorica esiste in vista di una κρίσις, della formazione di un’opinione e di una decisione determinata nel senso della δόξα, è necessario non badare soltanto al discorso in quanto tale, cioè alla funzione del discorrere in quanto δεικνύναι, δηλοῦν, piuttosto l’oratore deve portare sia se stesso, sia coloro che debbono prendere la decisione, in una disposizione d’animo adatta [per la precisione portare in una disposizione tramite il discorso stesso]. Infatti, soprattutto nelle deliberazioni, ma anche nei discorsi giudiziari, quando si propone ciò che parla a favore di qualcosa, fa una grande differenza sia il modo in cui, nel
farlo, l’oratore si mostra, sia di conseguenza il modo in cui gli ascoltatori, dentro di sé, la pensano della sua situazione emotiva, sia infine il fatto che anch’essi [gli ascoltatori] raggiungano di volta in volta la giusta situazione emotiva [cioè la disposizione d’animo nei confronti della faccenda in discussione]. Il modo specifico in cui l’oratore si mostra è più utile nel caso della deliberazione, mentre la relativa situatività dell’ascoltatore è utile soprattutto nel caso dell’orazione giudiziaria. La cosa di volta in volta in questione non appare la stessa per coloro che – ϕιλοῦσιν – hanno una predilezione per essa, e coloro che – μισοῦσιν – le sono avversi. Il fatto che la questione si mostri in modi differenti vale anche per l’ὀργιζόμενος, colui che è in collera nei confronti di qualcosa, e viceversa per il πράως ἔχων, colui che invece la prende con calma».397 ἀλλ᾿ ἢ τὸ παράπαν ἕτερα ἢ κατὰ μέγεθος ἕτερα [ϕαίνεται].398 «In questi casi la faccenda appare o del tutto diversa o in gran parte diversa». τῷ μὲν γὰρ ϕιλοῦντι, περὶ οὗ ποιεῖται τὴν κρίσιν, ἢ οὐκ ἀδικεῖν ἢ μικρὰ δοκεῖ ἀδικεῖν, τῷ δὲ μισοῦντι τοὐναντίον.399 «A colui che fin dall’inizio è ben disposto nei confronti di un altro, questi apparirà come uno che non ha commesso una mancanza o la cui mancanza è di scarso rilievo; se invece uno ce l’ha con un altro, questi gli apparirà nel modo opposto». Costui riterrà palese che la persona in questione ha di fatto agito male. καὶ τῷ μὲν ἐπιθυμοῦντι καὶ εὐέλπιδι ὄντι, ἐὰν ᾖ τὸ ἐσόμενον ἡδύ, καὶ ἔσεσθαι καὶ ἀγαθὸν ἔσεσθαι ϕαίνεται, τῷ δ᾽ ἀπαθεῖ καὶ δυσχεραίνοντι τοὐναντίον.400 «E colui che fin dall’inizio aspira a una cosa che è in discussione, e che simpatizza con essa, accoglierà ciò che deve avvenire come qualcosa che di fatto avverrà e nel contempo sarà utile [l’ottimista, come diciamo noi]. A colui che è indifferente, invece, e al pessimista di malumore, le cose appaiono fin dall’inizio in un’altra luce», sicché egli avrà anche un atteggiamento diverso sia durante lo svolgimento della deliberazione, sia nei confronti del suo esito.
b) L’ἦθος in quanto πίστις L’ἦθος e i πάθη sono costitutivi per il λέγειν stesso. Consideriamo anzitutto l’ἦθος, cioè l’«atteggiamento» dell’oratore: in che modo l’oratore, nel tenere il suo discorso, si offre ai suoi ascoltatori, come questo offrirsi contribuisce alla formazione del πιθανόν, come l’ἦθος ottiene la possibilità di concorrere all’esito, di far valere il suo peso. Che cos’è che, nel parlare, fa sì che noi, in quanto ascoltatori, prendiamo l’oratore come uomo tale da testimoniare egli stesso a favore di ciò che sostiene? Dov’è che, nell’oratore, emerge che egli parla con la sua persona a favore della cosa, anche a prescindere da ciò che dice, cioè dagli argomenti oggettivi che è in grado di addurre in proposito? Alla formazione dell’ἦθος concorrono tre elementi: 1. la ϕρόνησις, la «circospezione» – nel suo stesso modo di discorrere l’oratore deve mostrarsi circospetto; 2. l’ἀρετή, la «serietà», definita in precedenza con il termine σπουδαίως; 3. l’εὔνοια, la «buona disposizione», «benevolenza».401 Per illustrare il significato concreto di questi tre elementi dell’ἦθος Aristotele prende il cammino inverso, partendo dal contrario e domandando: da che cosa dipende, nel modo specifico di offrirsi dell’oratore, il fatto che abbiamo l’impressione che egli ci imbrogli, ci tragga in inganno? Aristotele si interroga sulle condizioni di possibilità dell’apparire come uno che inganna. Che cosa manca al suo modo specifico di offrirsi da non farcelo prendere per uno che di fatto ha il giusto ἦθος? 1. Nel suo discorso l’oratore può apparire come uno οὐκ ὀρθῶς δοξάζων,402 uno «che non si forma nel modo corretto la propria opinione». Nel procedere del discorso l’oratore appare come uno che non possiede il corretto orizzonte per la cosa di cui parla, non ha una visione completa della cosa stessa. L’opinione da lui esposta non è orientata su ciò che la cosa propriamente è: manca l’ὀρθότης. Non appena
l’ascoltatore rileva questa carenza, l’oratore vede sminuita la sua πίστις, non viene più preso in seria considerazione riguardo alla faccenda di cui sta parlando. 2. L’oratore può in verità possedere il primo elemento, può in effetti avere la giusta ϕρόνησις – può insomma mostrarsi circospetto –, ma nello stesso tempo può apparire tale da non voler dire ciò che gli risulta stare in questo e quel modo, e su cui ha questa e quell’opinione.403 Durante il discorso l’ascoltatore può notare che l’oratore conosce, sì, il fatto suo, è competente, però non dice tutto, dissimula la sua posizione e opinione personale in merito alla questione, non prende davvero sul serio ciò che dice ai suoi ascoltatori, ne sa molto di più. Non appena l’ascoltatore se ne accorge, nega all’oratore la sua fiducia, a sua volta non lo prende più sul serio proprio perché l’oratore stesso mostra di non prendere seriamente posizione a favore di ciò che dice. 3. L’oratore può apparire circospetto e mostrarsi come uno che prende seriamente ciò che dice, e tuttavia l’ascoltatore può notare che gli manca la necessaria benevolenza. L’oratore può consigliare qualcosa, raccomandare come συμϕέρον ciò che egli stesso ritiene essere συμϕέρον, eppure, nonostante soddisfi queste due condizioni, l’ascoltatore, nel procedere del discorso, può notare che egli non si decide a dire il meglio, per mancanza di benevolenza si trattiene dal dare il consiglio migliore perché gli astanti non lo interessano. Pur disponendo, in virtù della sua ϕρόνησις, della possibilità positiva più decisiva, nel suo discorso deliberativo può anche tenerla per sé. Si accontenta di fare all’assemblea una proposta seria, ma non la migliore.404 Anche in questo caso l’ascoltatore perde la giusta fiducia. Viceversa, è chiaro che un oratore che mostra di parlare a favore della cosa con circospezione, serietà e benevolenza otterrà la giusta fiducia, cioè sarà egli stesso una πίστις nel suo λόγος.405 Aristotele ha già trattato i due elementi della ϕρόνησις e dell’ἀρετή nel libro I, capitolo 9, della Retorica.406 Egli
considera il terzo elemento, l’εὔνοια, in connessione con l’analisi dei πάθη. c) Il πάθος in quanto πίστις Il πάθος, il secondo elemento da prendersi in considerazione per la πίστις, viene esaminato nel dettaglio da Aristotele nei capitoli successivi del libro II. L’espressione πάθος è un’espressione polisemica, che ha nel contempo un’importanza fondamentale all’interno della filosofia aristotelica. Si può parlare di tre significati fondamentali dell’espressione e, quindi, di tre contesti oggettivi che essa designa: 1. il significato medio, più immediato, dice «stato mutevole»; 2. un significato specificamente ontologico, importante per la comprensione della κίνησις, intende il πάθος in rapporto al πάσχειν, che si traduce per lo più con «patire»; 3. un significato accentuato: stato mutevole in relazione a un determinato contesto oggettivo, stato mutevole in un determinato ambito ontologico della vita: «passione». È in quest’ultimo significato che il πάθος è a tema nella Retorica e nella Poetica. Teniamo presente anzitutto l’ultimo significato e, nel contempo, il giusto contesto in cui viene discusso il fenomeno contrassegnato con il termine πάθος. Tale contesto emerge nel libro II, capitolo 4, dell’Etica Nicomachea, là dove Aristotele dà avvio all’indagine su che cosa sia propriamente l’ἀρετή. Il compito più immediato di un’indagine avente come meta il carattere ontologico dell’ἀρετή è mettere in luce che cosa in genere si debba intendere per ἀρετή, cioè da quali contesti ontologici essa derivi: γένεσις dell’ἀρετή. Aristotele introduce tale indagine con una localizzazione per noi importante: ἐπεὶ οὖν τὰ ἐν τῇ ψυχῇ γινόμενα τρία ἐστίν, πάθη δυνάμεις ἕξεις, τούτων ἄν τι εἴη ἡ ἀρετή.407 Il πάθος rientra quindi in ciò che «avviene nell’anima». La ψυχή è l’οὐσία di uno ζῷον, essa costituisce l’essere di quell’ente che è caratterizzato in quanto «essere
nel suo mondo». L’essere ha dunque tre differenti modi del suo divenire: πάθη, δυνάμεις, ἕξεις. λέγω δὲ πάθη μὲν ἐπιθυμίαν ὀργὴν ϕόβον θάρσος, ecc., «insomma tutto ciò che implica ἡδονή e λύπη»,408 ovvero un determinato sentirsi-situato: «essere sollevato», «essere depresso». Invece la ἕξις è anzitutto qualcosa che caratterizza il nostro modo peculiare di essere in un tale πάθος.409 La ἕξις è quell’alcunché in riferimento a cui veniamo lodati o biasimati. Al contrario, in riferimento alle passioni – dunque, per esempio, in riferimento al fatto che siamo in collera – «non veniamo né lodati né biasimati».410 Il modo peculiare in cui sono in collera, in quale situazione, in quale circostanza, contro chi – tutto ciò è oggetto di lode o di biasimo, il «come», il πῶς. La ἕξις riguarda il πῶς ἔχομεν πρὸς τὰ πάθη, il «come ci comportiamo», «come manteniamo il controllo» nel caso di un πάθος così inteso. Il πάθος è un determinato «perdere il controllo». Le δυνάμεις riguardano le determinazioni ontologiche dell’essere vivente che Aristotele caratterizza anche come ϕύσει ὄν: la possibilità del nostro esserci effettivo implica la possibilità di essere adirato, triste, di gioire, odiare, ecc.411 Anche queste δυνάμεις sono γινόμενα ἐν τῇ ψυχῇ. È importante l’essere implicitamente dati dei πάθη in quanto γινόμενα, modi dell’essere stesso, nella misura in cui viviamo, modi del divenire, riguardanti l’«essere in un mondo», così com’è importante che i πάθη abbiano una possibile relazione con la ἕξις. In base alla comprensione più precisa di ciò che si intende con ἕξις comprenderemo anche l’analisi dei πάθη, vedremo in che senso ciò che designiamo con πάθος determini in un senso fondamentale l’«essere nel mondo», e come esso – in quanto determinazione fondamentale dell’«essere nel mondo» – venga preso in considerazione nella formazione della κρίσις, cioè del «prendere posizione» e del «decidere» in merito a una questione decisiva. Con la dimostrazione del ruolo fondamentale dei πάθη nello stesso κρίνειν otteniamo nel
contempo la possibilità di cogliere in modo più concreto il terreno del λόγος in quanto tale. L’ἦθος dell’oratore deve avere caratteristiche del tutto particolari, in modo tale che colui che parla stia di fronte all’ascoltatore come uno che di fatto si esprime come persona a favore della cosa che sostiene. L’ἦθος deve soddisfare le determinazioni dell’ἀρετή, della ϕρόνησις e dell’εὔνοια. L’ἦθος altro non è che il modo peculiare in cui si manifesta ciò che l’oratore vuole, il volere nel senso della προαίρεσις nei confronti di qualcosa. Aristotele definisce così anche il ruolo dell’ἦθος nella Poetica: l’ἦθος «svela l’essere di volta in volta risoluto del parlante».412 Nei discorsi in cui, in base al loro senso, non ne va né di essere risoluti nei confronti di qualcosa né di portare gli altri a una determinata decisione, non vi è alcun ἦθος. Piuttosto, ciò di cui ne va, qui, è la διάνοια: ciò che è necessario per poter mostrare qualcosa in riferimento al suo carattere oggettivo. Questa fissazione delle relative condizioni del discorrere non può dirsi fino a oggi analizzata in modo esauriente, nella misura in cui ci si può ancora chiedere fino a che punto, nell’esposizione orale scientifica e filosofica, il λόγος sia da intendersi come semplice δεικνύναι, e fino a che punto esso implichi un προαιρεῖσθαι. Non è questa la sede per trattare nel dettaglio tali aspetti. Mi limito ad accennare che sarebbe forse opportuno se i filosofi si decidessero a riflettere su che cosa significhi, in genere, parlare ad altri. La seconda condizione è la relativa «situatività» dell’ascoltatore, ciò che Aristotele fissa come πάθος. Sarà quindi compito della retorica porre in luce le possibili situazioni in cui l’ascoltatore può sentirsi situato secondo il suo stato d’animo, le sue condizioni di spirito, considerando tali determinazioni in riferimento ai loro diversi elementi, allo scopo di fornire a colui che parla una direttiva in merito a ciò di cui deve tenere conto se sceglie la προαίρεσις. L’analisi dei πάθη nella Retorica si colloca nella prospettiva di analizzare le differenti possibilità del sentirsi-situato da parte dell’ascoltatore, per fornire così fili conduttori per ciò
che va formato nell’ascoltatore stesso. La prima definizione: ἔστι δὲ τὰ πάθη δι᾿ ὅσα μεταβάλλοντες διαϕέρουσι πρὸς τὰς κρίσεις.413 1. Μεταβάλλοντες: qualcosa che avviene facendo sì che in noi si determini un «mutamento repentino», ciò a causa di cui «passiamo repentinamente» da una situatività all’altra. 2. Unitamente a questo mutamento repentino διαϕέρουσι πρὸς τὰς κρίσεις: «ci differenziamo» da ciò che noi stessi eravamo prima del mutamento, in ciò che concerne il compito dell’ascoltatore: «prendere posizione», «formarsi un’opinione». La «formazione dell’opinione» dipende dal modo peculiare in cui mutiamo. 3. οἷς ἕπεται λύπη καὶ ἡδονή:414 non come ciò che «consegue» ai πάθη, ma come ciò che è «dato simultaneamente» in uno con essi, è il «sentirsi sollevato o depresso» dell’esserci in questione. Questi sono gli elementi costitutivi, così come Aristotele li fissa in riferimento ai πάθη nella particolare prospettiva dell’analisi sviluppata nella Retorica. Il modo specifico in cui si dà la disposizione d’animo nella quale ci troviamo determina anche il modo in cui ci atteggiamo nei confronti delle cose, come le vediamo, fino a che punto e da quali prospettive. Il «passare da una determinata disposizione d’animo a un’altra» riguarda primariamente il modo in cui prendiamo posizione nei confronti del mondo, cioè «siamo nel mondo». Ciò implica la possibilità e il pericolo del mutamento delle circostanze. La giusta disposizione d’animo altro non è che il giusto «essere nel mondo» inteso come disporre di esso. Il mondo «ci» è innanzitutto e per lo più nella πρᾶξις, nel carattere dell’ἐνδεχόμενον ἄλλως, e, insieme, nelle determinazioni del «più o meno». Il mondo «ci» è in quanto ἀγαθόν oppure συμϕέρον, e ciò nel «più o meno». Quindi anche il nostro comportamento al suo riguardo è «più o meno», all’interno di queste oscillazioni ci comportiamo «più o meno», muovendoci nel mondo in un modo medio. La modalità stessa della perspicuità del mondo è «più o meno». Se ne deduce che «pervenire alla disposizione d’animo autentica»
significa pervenire al mezzo, passare dagli estremi delle oscillazioni al mezzo. Il mezzo altro non è che il καιρός, l’insieme delle circostanze, il come e il quando, l’«a che» e il «di che». Non resta quindi che domandarsi come vada inteso più precisamente, secondo la sua struttura, il πάθος. Basandoci sulla definizione aristotelica di πάθος, dobbiamo prendere in esame le determinazioni ontologiche del πάθος stesso. In termini del tutto generali, il πάθος può essere caratterizzato come γινόμενον τῆς ψυχῆς,415 dove l’«anima» è intesa come οὐσία. Μεταβολή e γένεσις vengono utilizzate nel medesimo significato: πάθος è un «mutamento repentino» e quindi un determinato «divenire qualcos’altro» a partire da una situazione precedente – non però un mutare che avrebbe di per sé un suo proprio decorso, ma un modo del sentirsisituati nel mondo che sta nel contempo in un possibile rapporto con la ἕξις. Il passare repentinamente a una diversa disposizione d’animo, e l’essere nella nuova disposizione a partire da quella vecchia, implicano in sé la possibilità del venire afferrati e colti di sorpresa. Il modo peculiare in cui «perdiamo il controllo», «ci viene fatto perdere il controllo», è da intendersi nel senso che il controllo può essere ripreso: posso riprendere il controllo, dominarmi – in un determinato momento, nel pericolo, in un attimo di spavento, mantengo il controllo, mi domino. Sono in grado di riferire il sentirmi-situato caratterizzato dallo spavento a un possibile essere-pronto per esso. Il πάθος implica quindi già di per sé il riferimento alla ἕξις. Sulla scorta di Aristotele, entrambi i concetti possono essere definiti concetti fondamentali dell’essere. Il πάθος può essere indicato come concetto ontologico già per il fatto che il πάσχειν, nella sua contrapposizione al ποιεῖν, rappresenta un elemento fondamentale per l’analisi della κίνησις, cioè dell’essere nel senso dell’essere-mosso. Ἕξις rinvia a ἔχειν, «avere». Aristotele riconosce nell’ἔχειν un modo dell’essere, e non è poi così incomprensibile che tra le sue dieci categorie compaia anche l’ἔχειν. Bisogna illustrare ora la
struttura ontologica nei due fenomeni πάθος e ἕξις così caratterizzati.
17. La ἕξις (Met. Δ 23 e 20, Eth. Nic. B 1-5) a) L’ἔχειν e la ἕξις Iniziamo con ἕξις ed ἔχειν. Aristotele ne parla nel libro V, capitolo 23, della Metafisica. Egli esordisce affermando: τὸ ἔχειν λέγεται πολλαχῶς,416 il che significa: con la medesima espressione ci si rivolge a enti differenti, intesi in senso differente, ma in modo che non ne risulta una confusione arbitraria, poiché essa si riferisce a un significato fondamentale che può essere fatto emergere presentando i singoli significati. Dobbiamo vedere dove converge la polisemia dell’ἔχειν, e fino a che punto l’ἔχειν esprime l’essere. 1. τὸ ἄγειν κατὰ τὴν αὑτοῦ ϕύσιν ἢ κατὰ τὴν αὑτοῦ ὁρμήν, διὸ λέγεται πυρετός τε ἔχειν τὸν ἄνθρωπον καὶ οἱ τύραννοι τὰς πόλεις καὶ τὴν ἐσθῆτα οἱ ἀμπεχόμενοι.417 Ἔχειν nel senso dell’ἄγειν, cioè in quanto «agire conformemente alle possibilità proprie, compiutamente determinate, dell’esserci – ϕύσις –, ovvero seguendo l’impulso implicito nell’ente in questione come tale. Si dice infatti: la febbre ha l’uomo [la malattia ha l’uomo, si è scagliata contro di lui, «l’ha preso», «l’ha assalito»], i tiranni hanno le città [le dominano], inoltre: coloro che sono vestiti hanno (indossano) i vestiti». Ἔχειν nel senso dell’ἄγειν. 2. ἐν ᾧ ἄν τι ὑπάρχῃ ὡς δεκτικῷ, οἷον ὁ χαλκὸς ἔχει τὸ εἶδος τοῦ ἀνδριάντος καὶ τὴν νόσον τὸ σῶμα.418 «Il bronzo ha l’aspetto di una statua [ha l’aspetto, è una statua], il corpo ha la malattia [è malato]». La definizione più precisa di questo avere è: essere un ente in modo tale che «in esso è presente qualcosa alla cui presenza l’ente in questione ha di
per sé la predisposizione ricettiva (δεκτικόν)». È in virtù del δεκτικόν che il bronzo è determinato in quanto bronzo. Nel suo essere, il bronzo è determinato in modo tale da poter diventare una statua. Il bronzo è determinato in quanto ὕλη. In tale contesto ὕλη non significa una «materia» indeterminata, ma un carattere positivo di un modo dell’esserci. L’«essere ricettivamente predisposto a...» costituisce una determinazione positiva di un ente. Qui «avere» non significa nient’altro che: in base alla propria predisposizione ricettiva, essere il «ciò in cui» di un essere lì presente di qualcosa. 3. ὡς τὸ περιέχον τὰ περιεχόμενα· ἐν ᾧ γὰρ ἐστι περιεχόμενόν τι, ἔχεσθαι ὑπὸ τούτου λέγεται, οἷον τὸ ἀγγεῖον ἔχειν τὸ ὑγρόν ϕαμεν καὶ τὴν πόλιν ἀνθρώπους καὶ τὴν ναῦν ναύτας· οὕτω δὲ καὶ τὸ ὅλον ἔχειν τὰ μέρη.419 «Il contenente ha ciò che è contenuto [nel modo del racchiudere, dell’essere tutt’intorno]; ciò in cui qualcosa è in quanto in esso contenuto, e di cui diciamo che viene avuto dal primo; come il vaso ha, contiene, l’acqua, la città gli abitanti, la nave i marinai, così come il tutto ha le parti». «Essere parte» significa sempre «essere parte di qualcosa», parte di un tutto, appartenere a qualcosa. Il tutto è il «ciò in cui» del determinato essere-appartenente della parte. 4. ἔτι τὸ κωλῦον κατὰ τὴν αὑτοῦ ὁρμήν τι κινεῖσθαι ἢ πράττειν ἔχειν λέγεται τοῦτο αὐτό, οἷον καὶ οἱ κίονες τὰ ἐπικείμενα βάρη, καὶ ὡς οἱ ποιηταὶ τὸν Ἄτλαντα ποιοῦσι τὸν οὐρανὸν ἔχειν ὡς συμπεσόντ᾿ ἂν ἐπὶ τὴν γῆν, ὥσπερ καὶ τῶν ϕυσιολόγων τινές ϕασιν.420 «Le colonne sostengono, hanno i pesi sovrastanti, e – come dicono i poeti – Atlante sostiene la volta celeste»: avere nel senso del sostenere, e precisamente in quanto κωλύειν, «trattenere» un altro ente, «impedire» che esso sia come vorrebbe essere secondo il suo proprio essere, «secondo la sua propria ὁρμή»; sostenere e trattenere nel senso di non lasciare che un altro ente sia così come vuole essere. La ὁρμή del peso è «voler cadere» verso il basso; la volta celeste «ha la tendenza a cadere giù sulla terra». Inteso in questo specifico senso del sostenere in
quanto trattenere un qualcos’altro dalla sua specifica possibilità di essere, implicita nella sua ὁρμή, l’avere è il συνέχον, il «tenere insieme». τοῦτον δὲ τὸν τρόπον καὶ τὸ συνέχον λέγεται ἃ συνέχει ἔχειν, ὡς διαχωρισθέντα ἂν κατὰ τὴν αὑτοῦ ὁρμὴν ἕκαστον.421 Questo concetto, costitutivo per la comprensione del concetto di movimento, va compreso anch’esso a partire dall’ἔχειν. Συνεχές, «continuità», «costanza», è l’elemento fondamentale dell’essere di ciò che è mosso (libro V della Fisica).422 Queste quattro specie di ἔχειν contrassegnano l’ente sempre nel carattere ontologico del tendere a una determinata possibilità di essere o alla sua negazione, il che però, nel senso della negazione, è la stessa cosa: trattenere qualcosa dall’essere propriamente come vuole essere. Non è un caso che alla fine Aristotele dica: καὶ τὸ ἔν τινι δὲ εἶναι ὁμοτρόπως λέγεται καὶ ἑπομένως τῷ ἔχειν.423 «Il termine “avere” viene usato come equivalente dell’espressione “essere in qualcosa”». Ἑπομένως: nel termine «avere» è già contenuto implicitamente il significato dell’«essere in qualcosa», tanto il carattere dell’avere e dell’essere-avuto quanto il carattere dell’«essere in qualcosa». Si giustifica così il fatto che, tra le categorie, l’ἔχειν compare accanto al κεῖσθαι. Ed è a questo ἔχειν – inteso come un modo dell’esserci – che, per parte sua, è riferita la ἕξις (capitolo 20): ἕξις δὲ λέγεται ἕνα μὴν τρόπον οἷον ἐνέργειά τις τοῦ ἔχοντος καὶ ἐχομένου, ὥσπερ πρᾶξίς τις ἢ κίνησις.424 Ἕξις è l’ἐνέργεια, «il vero e proprio “Ci”, l’essere attualmente presente tanto dell’avente che dell’avuto». Il «Ci» è riferito all’avere – avere inteso in quanto avere dell’avente e dell’avuto. In questo contesto ontologico ἕξις significa il vero e proprio essere attualmente presente dell’avere in quanto tale. ὅταν γὰρ τὸ μὲν ποιῇ τὸ δὲ ποιῆται, ἔστι ποίησις μεταξύ· οὕτω καὶ τοῦ ἔχοντος ἐσθῆτα καὶ τῆς ἐχομένης ἐσθῆτος ἔστι μεταξὺ ἕξις. ταύτην μὲν οὖν ϕανερὸν ὅτι οὐκ ἐνδέχεται ἔχειν τὴν ἕξιν· εἰς ἄπειρον γὰρ βαδιεῖται, εἰ τοῦ ἐχομένου ἔσται ἔχειν τὴν ἕξιν.425 «Se l’uno fa qualcosa, e l’altro viene
fatto, allora il fare in quanto tale è il μεταξύ, l’intermedio. Infatti, anche quando si ha addosso un vestito c’è uno stato intermedio, l’avere addosso da una parte, il vestito indossato dall’altra». L’avere addosso in quanto tale è la ἕξις. Questo avere è un che di ultimo, che a sua volta non può più essere avuto. L’avere di questo avere non è una nuova determinazione ontologica, ma solo e semplicemente il «Ci», l’essere attualmente presente. Nell’avere addosso il vestito in quanto indossato, esso «ci» è propriamente in quanto indossato. Lo stesso vale per l’esserci del vestito. Un vestito non «ci» è quando è appeso nell’armadio, bensì quando è indossato – allora esso è presso il suo τέλος. Il vestito è quando lo si ha addosso, il che costituisce il «Ci» autentico sia del vestito indossato sia del vestito portato: la ἕξις. Tale ἕξις viene caratterizzata inoltre da Aristotele come διάθεσις καθ᾿ ἣν ἢ εὖ ἢ κακῶς διάκειται τὸ διακείμενον, καὶ ἢ καθ᾿ αὑτὸ ἢ πρὸς ἄλλο, οἷον ἡ ὑγίεια ἕξις τις· διάθεσις γὰρ ἐστι τοιαύτη.426 Riferimento ai nessi ontologici di cui ci stiamo occupando: al διακεῖσθαι è riferito il μεταβάλλειν, che avviene attraverso i πάθη. Διακεῖσθαι nel capitolo 19: l’avere è una τάξις,427 una ripartizione delle parti da punti di vista diversi, ripartizione avente il carattere della θέσις,428 dunque una ripartizione tetica, che non è un mero insieme raccogliticcio e casuale, ma un essere-posto. La ἕξις in quanto διάθεσις e τάξις scaturisce dalla προαίρεσις: il giusto sentirsi-situato nell’essere ripartito dell’attimo. La ἕξις è la determinazione dell’autenticità dell’esserci in un momento dell’essere-pronto per qualcosa: le diverse ἕξεις in quanto differenti modi del poter essere-pronto. La ἕξις è in modo fondamentale la determinazione ontologica dell’essere autentico, qui riferito all’uomo. La πρᾶξις è caratterizzata dall’ἀρετή, e l’ἀρετή è caratterizzata come ἕξις προαιρετική. La πρᾶξις, in quanto «come» dell’«essere nel mondo», emerge qui come quel contesto ontologico che in un altro senso possiamo chiamare anche esistenza. L’essere-pronto non è né generico né indeterminato, la ἕξις contiene implicitamente in sé l’orientamento primario nei
confronti del καιρός: «Succeda quel che succeda, io ci sono!». Questo esser-ci, questo «stare all’erta» nella propria situazione rispetto alla questione che ci riguarda, caratterizza la ἕξις. La ἕξις è quindi una possibilità di essere che si riferisce in sé a un’altra possibilità, cioè alla possibilità del mio essere – possibilità che, all’interno del mio essere, mi assalga qualcosa che mi fa perdere il controllo. b) Precisazione del contesto della trattazione della ἕξις Nell’ultima lezione abbiamo illustrato uno dei concetti ontologici fondamentali di Aristotele, la ἕξις, che svolge un ruolo decisivo nell’analisi aristotelica dell’essere dell’uomo, ma che diventa importante anche per un’altra definizione fondamentale, giacché nella controanalisi riferita alla ἕξις Aristotele discute la στέρησις, in particolare nel caso della κίνησις. Adesso ne sappiamo già abbastanza circa il fatto che anche il concetto di στέρησις ha una relazione fondamentale con l’essere. Non dobbiamo perdere di vista il contesto nel quale siamo giunti alla ἕξις, dobbiamo cioè comprendere i πάθη come determinazioni che caratterizzano l’ascoltatore. Rispetto al parlante l’ascoltatore si trova in una determinata situazione, sicché la situazione stessa contribuisce implicitamente a determinare il modo in cui l’ascoltatore comprende. Partecipando alla discussione, e ripetendone le argomentazioni, l’ascoltatore si appropria di ciò che l’oratore, parlando, intende mostrare. I πάθη sono a tema nella misura in cui contribuiscono implicitamente a decidere la specifica modalità del λέγειν, avendo il λόγος stesso il proprio terreno nei πάθη. Per cogliere correttamente ciò che si intende con πάθη scegliamo la via traversa che passa per la ἕξις, seguendo il filo conduttore ermeneutico generale secondo cui ciò che, in base alla sua struttura, è maggiormente perspicuo contribuisce a chiarire ciò che non lo è. I πάθη possono essere avuti, e l’avere implica una
relazione all’essere. Orientando i πάθη sulla ἕξις, i πάθη stessi vengono orientati sull’esserci in quanto essere. Questo orientamento fondamentale, che viene indicato con il riferimento alla ἕξις, è importante per la comprensione a fronte della concezione tradizionale degli affetti, che si è soliti definire «stati psichici», eventualmente connessi con «fenomeni corporei concomitanti». Si è suddiviso il fenomeno in stati psichici e stati fisici, fra cui sussiste un nesso. A fronte di ciò bisogna tenere conto del fatto che Aristotele – coerentemente con l’orientamento che lo induce a trattare lo psichico come un modo dell’essere del vivente – sottolinea che i πάθη esprimono l’essere dell’uomo, sicché qui si ha a che fare sin dall’inizio con un terreno del tutto diverso. L’unità originaria del fenomeno dei πάθη è implicita nell’essere dell’uomo in quanto tale. La dottrina aristotelica dei πάθη, sia per il suo orientamento e la sua fondazione di principio, sia per la scelta dei fenomeni, ha esercitato un forte influsso sui filosofi e i teologi successivi (la dottrina degli affetti di Tommaso d’Aquino). I πάθη sono una questione fondamentale soprattutto della teologia. Ne faccio menzione perché all’interno delle questioni fondamentali della teologia e della filosofia medioevale la dottrina degli affetti fu rilevante anche per Lutero. Nel Medioevo è soprattutto la paura a svolgere un ruolo particolare, giacché il fenomeno della paura è strettamente connesso con il peccato, dove il peccato è il concetto opposto alla fede. Anche Lutero si è occupato della paura nei suoi primi scritti, in particolare nel Sermo de poenitentia. La discussione del ϕόβος, del timor, si ricollega al timor servilis e al timor castus, poi al pentimento, dove vengono distinte attritio e intritio. Il timor castus è il «timore puro» al cospetto di Dio, il timor servilis è la paura della punizione, dell’inferno, così come, nel caso del pentimento, attritio e intritio. Queste distinzioni risalgono ad Agostino, che se ne occupa nel dettaglio nel De diversis quaestionibus octoginta tribus, quaestio 33, nel De civitate Dei, XIV, 5 sgg., e negli scritti pelagiani. Anche in altri casi
questi fenomeni vengono affrontati in modo approfondito. La trattazione medioevale dei πάθη risale ancora più indietro, al De fide orthodoxa, libro II, di Giovanni Damasceno, e anche Gregorio di Nissa costituisce una fonte. Per la precisione, il Medioevo ne cita uno scritto, Περὶ ϕύσεως ἀνθρώπου, che però è un’opera di Nemesio (Gregorio ne aveva scritta una con un titolo simile: Περὶ κατασκευῆς ἀνθρώπου). Quest’ultimo deriva la sua dottrina dei πάθη dalla Stoà, e rappresenta una delle principali fonti per il Medioevo. Non va dimenticato infine il De divinis nominibus di Dionigi Areopagita. A tutt’oggi l’intero sviluppo della dottrina degli affetti non è stato ancora analizzato filosoficamente. Solo Dilthey, in Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaissance und Reformation, ha preso ampiamente in considerazione i πάθη, sottolineandone il significato ulteriore rispetto agli stati psichici.429 In termini del tutto generali, i πάθη caratterizzano un sentirsi-situato dell’uomo, un «come» dell’«essere nel mondo». Ne deriva quindi anche il filo conduttore fornitoci da Aristotele per l’analisi sviluppata nel libro II della Retorica. Egli considera l’affectus da tre punti di vista: 1. Riguardo a ogni πάθος ci si può chiedere πῶς διακείμενοι εἰσί:430 come ci sentiamo propriamente situati, qual è il nostro «essere nel mondo» quando siamo in collera, quando siamo in preda alla paura, quando proviamo compassione? 2. Ποῖα:431 che cos’è ciò che ci fa andare in collera, facendoci perdere il controllo? 3. ’Επὶ ποίοις:432 contro chi andiamo in collera, contro quali uomini che incontriamo (e «come» li incontriamo) e che sono lì con noi? Già la struttura fondamentale dei πάθη torna a proporre l’orientamento sull’«essere l’uno con l’altro» dell’esserci in quanto «essere nel mondo». Probabilmente sono proprio queste molteplici relazioni espresse dai πάθη a essere poi afferrate dalla ἕξις, ed è rispetto a esse che la ἕξις esprime un essere-pronto. Per cogliere il contesto dei πάθη in quanto possibilità del sentirsi
situati e possibilità dell’essere afferrati, dobbiamo comprendere meglio la ἕξις stessa, nella misura in cui è una determinazione fondamentale dell’esserci dell’uomo. c) La ἕξις e l’ἀρετή Consideriamo la ἕξις nel suo essere riferita alla ζωὴ ἀνθρώπου, alla πρᾶξις μετὰ λόγου – ἕξις in quanto γένος dell’ἀρετή:433 la πρᾶξις ha il suo autentico «come» nello σπουδαίως, ciò che è serio è espresso dall’ἀρετή. In base al nesso tra ἕξις e ἀρετή potremo cogliere l’orientamento della ἕξις sull’esserci dell’uomo nelle sue concrete possibilità. Etica Nicomachea, libro II, capitoli 1-5: solo le cose più importanti per dimostrarvi la ἕξις e per chiarirvi nel contempo un concetto fondamentale dell’Etica Nicomachea, la μεσότης. Μεσότης non significa «mediocrità», non è una determinazione dell’agire umano, dove ne andrebbe, appunto, della modestia del vivere, non è una cosiddetta «morale borghese», un principio di «gerarchie di valori»; al contrario, essa è fondamentalmente riferita alla ἕξις, quindi all’esserci dell’uomo, alla πρᾶξις, dunque al καιρός. L’Etica Nicomachea è tutt’altro che l’etica di una medietà mediocre e del vivere convenzionale. Dalla comprensione del nesso tra ἕξις e ἀρετή emergono quattro elementi fondamentali dell’esserci: 1. Che l’«agire», la πρᾶξις, il prendersi cura, è in se stesso prendersi cura dell’esserci che si prende cura. Nel darsi d’attorno nel mondo, nell’avere a che fare con altri uomini e nel dedicarsi a essi, l’esserci che agisce così si prende cura di se stesso, del suo essere. Esserci in quanto prendersi cura è cura di se stessi, per lo più in modo implicito. Questo fenomeno fondamentale è celato nel concetto della ἕξις – ἕξις intesa come avere qualcosa –, quindi nell’avere in quanto modo dell’essere, dell’essereposto nei confronti dell’avuto. 2. Nella ἕξις l’esserci si mostra in modo più preciso nel
suo essere di volta in volta. L’essere dell’uomo, la vita umana in quanto esserci, è di volta in volta, nell’attimo: la ἕξις è un essere-pronto dell’esserci, orientato sull’attimo. 3. Questo stesso essere-pronto, l’essere-orientato sull’attimo, è una possibilità tale che l’esserci stesso ha afferrato dalla sua situazione di volta in volta data. L’esserci si trattiene mediamente e per lo più in oscillazioni, nel «più o meno», nel troppo o troppo poco. 4. Da questa terza struttura fondamentale emerge nel contempo anche il fatto che la ἕξις è una determinazione fondamentale dell’esserci, e che la γένεσις di tale ἕξις, ovvero il modo peculiare in cui l’esserci perviene a un essere-pronto nei confronti di se stesso, le circostanze e la modalità della sua formazione, possono aversi a loro volta soltanto nell’esserci stesso. È da se stesso che l’esserci deve trarre l’occasione per formare per sé l’essere-pronto come una sua possibilità. α) La γένεσις dell’ἀρετή Nesso tra la ἕξις e l’ἀρετή: cominciamo con la γένεσις dell’ἀρετή. Ci occupiamo della ἕξις al solo scopo di mettere meglio a fuoco i πάθη. L’ἀρετή in quanto ἕξις non è una proprietà, un possesso arrecato all’esserci dall’esterno, ma un modo dell’esserci stesso. Ci imbattiamo sempre di nuovo nella peculiare categoria del «come». L’ἀρετή è un come dell’esserci, non però in quanto proprietà stabile, bensì in quanto come dell’esserci determinato dal suo essere, caratterizzato dalla temporalità, dall’estensione nel tempo. È per questo che l’ἀρετή è, e diviene, δι᾿ ἔθους,434 «attraverso l’abitudine». Le possibilità dell’essere-pronto nei confronti delle diverse situatività, caratterizzate dal fatto che sono fuori di me (cioè ho perso il controllo), possono essere afferrate solo perché differenti situazioni, circostanze pericolose, vengono sopportate. Solo perché la vita non arretra di fronte alle sue possibilità e ai suoi pericoli si offre l’occasione di formare il «come» dell’esserci stesso. È nel
modo peculiare in cui, corrispondendo al nostro essere, siamo presenti nella compiuta attualità di una specifica situazione, che afferriamo la ἕξις. Solo e anzitutto se facciamo uso delle possibilità dell’agire, del prenderci cura nella modalità specifica del sentirci-situati – solo allora ci appropriamo della ἕξις: non è che prima la possediamo e poi la utilizziamo, bensì al contrario χρησάμενοι ἔσχομεν.435 Questo sopportare, «cogliere – o cercare – l’occasione», è un avere a che fare: solo perché abbiamo a che fare, l’uno con l’altro, con altri uomini, diventiamo posati e avveduti; solo perché ci mettiamo in situazioni pericolose abbiamo la possibilità di imparare il coraggio e di perdere la viltà, non già, quindi, in una riflessione immaginaria sull’esserci, ma nell’arrischiarci nell’esserci a seconda delle possibilità della nostra specifica esistenza. Questa determinazione, infatti, non può essere intesa come se, per cogliere l’occasione e arrischiarsi nei δεινά della vita, si desse una τέχνη. οὔτε γὰρ ὑπὸ τέχνην οὔθ᾿ ὑπὸ παραγγελίαν οὐδεμίαν πίπτει, δεῖ δ᾽ αὐτοὺς ἀεὶ τοὺς πράττοντας τὰ πρὸς τὸν καιρὸν σκοπεῖν.436 Per questo non vi è nemmeno una παραγγελία, qualcosa come un ordine militare universale, un’etica aprioristica, in base alla quale l’umanità diventerebbe eo ipso migliore. Ciascuno, di volta in volta da sé, deve avere rivolto lo sguardo a ciò che accade nell’attimo e lo riguarda. È dunque a partire da tutto ciò che va formato il come dell’essere-pronto nei confronti dell’esserci, ed è questo che orienta la ἕξις. Tale concezione della γένεσις della ἕξις presenta però una difficoltà, nella misura in cui sorge la domanda: che cosa può mai voler dire «diventare giusti agendo giustamente»? Non devo forse già essere giusto per agire giustamente?437 Aristotele discute questa difficoltà nel libro II, capitolo 3, dell’Etica Nicomachea, e la risolve facendo riferimento ai diversi rapporti impliciti nella τέχνη.438 Ciò che importa, nella τέχνη, è che i γιγνόμενα si comportino nel modo giusto. Nel mestiere del calzolaio ciò che importa è che la scarpa, il τέλος, l’ἔργον, si comporti nel modo giusto, cioè sia una buona, comoda scarpa. Non c’è
bisogno di altro. Invece, sappiamo che l’essere dell’uomo nel suo ἔργον è determinato in quanto πρᾶξις. Esso ha il suo τέλος in se stesso, è alla fine presso se stesso. È per questo che per l’ἔργον dell’uomo sono determinanti condizioni fondamentali del tutto diverse che per una τέχνη. Ciò che importa, nel caso della πρᾶξις, è come l’agente stesso si comporta in quanto tale, ciò di cui ne va è la ἕξις, l’esserepronto, e il πῶς ἔχων del πράττων,439 il «come» dell’«agente», si determina secondo tre elementi. 1. Εἰδώς440 – ϕρόνησις: dev’essere «consapevole», deve agire con la giusta «circospezione», che, riguardo alla materia in questione, si orienta sul καιρός. 2. Προαιρούμενος,441 deve agire «in base a un effettivo essere deciso per...», a partire da se stesso. 3. Deve agire in modo tale che, così facendo, è βεβαίως καὶ ἀμετακινήτως ἔχων,442 «saldo e padrone di se stesso». Questo rinvia alla definizione di πάθος in quanto δι᾿ ὅσα μεταβάλλοντες,443 passiamo da uno stato d’animo all’altro. Caratteristico non è il risultato – l’«essere passati a un altro stato d’animo» – quanto piuttosto l’«essere fuori di sé», l’essere in cammino da uno stato all’altro, la peculiare irrequietezza che è implicita nel πάθος stesso, caratterizzata, in riferimento al ϕόβος, in quanto ταραχή,444 «turbamento», «confusione». Di queste determinazioni, in particolare dell’ultima, che è la προαίρεσις βεβαίως, «non si tiene conto» nel caso di una τέχνη,445 giacché nella τέχνη conta solo la corretta competenza. Per l’attività di calzolaio non ha alcuna importanza che tipo di persona io sia. Pur rilevando una certa affinità tra la τέχνη e la πρᾶξις, dovuta alla determinazione dell’εἰδέναι,446 Aristotele accentua piuttosto il significato prioritario della προαίρεσις e del βεβαίως. «Si dicono πράγματα [per questo non abbiamo la categoria: Aristotele chiama πράγματα la nuova situazione di fatto che ho creato tramite la mia πρᾶξις – fenomeno della situazione di fatto – il nuovo essere-posto nei confronti di qualcosa] opportuni e moderati quei πράγματα che avrebbe potuto
compiere un σώϕρων o δίκαιος. Tuttavia, opportuno e σώϕρων non è colui che [per un qualche motivo casuale] fa ciò che è giusto e opportuno, bensì colui che si prende cura della situazione di fatto nello stesso modo dell’uomo giusto e moderato».447 Questa è una frecciata contro i sofisti e la maggioranza di coloro che credono che intrattenendosi sui conflitti etici, moraleggiando a parole, si possa ricavare qualcosa per l’agire etico. ἀλλ᾿ οἱ πολλοὶ ταῦτα μὲν οὐ πράττουσιν, ἐπὶ δὲ τὸν λόγον καταϕεύγοντες οἴονται ϕιλοσοϕεῖν καὶ οὕτως ἔσεσθαι σπουδαῖοι, ὅμοιόν τι ποιοῦντες τοῖς κάμνουσιν, οἳ τῶν ἰατρῶν ἀκούουσι μὲν ἐπιμελῶς, ποιοῦσι δ᾽ οὐδὲν τῶν προσταττομένων. ὥσπερ οὖν οὐδὲ ἐκεῖνοι εὖ ἕξουσιν τὸ σῶμα οὕτω θεραπευόμενοι, οὐδ᾽ οὗτοι τὴν ψυχὴν οὕτω ϕιλοσοϕοῦντες.448 «Gli uomini, per la maggior parte, non si prendono cura di ciò [dell’«essere προαιρούμενος-βεβαίως»], ma si rifugiano nella chiacchiera, credendo con ciò di filosofare e di essere seri nel giusto modo. Essi assomigliano a coloro che ascoltano invero attentamente il medico [e ne discutono], ma non ne mettono in pratica i consigli. E così, proprio come costoro che, prendendosi cura di sé in questo modo, non guariscono, anche coloro che si limitano a moraleggiare non possiederanno mai l’esistenza autentica [ma ce l’avranno solo a parole]». È significativa, qui, la netta contrapposizione tra il λέγειν su problemi etici e l’autentico filosofare – una mossa che Aristotele compie contro l’abuso del metodo socratico, che cela la sua pretesa di avere compreso correttamente Socrate, cosa che non gli si può certo contestare. β) L’ἀρετή in quanto μεσότης Dobbiamo mettere meglio a fuoco la relazione tra la ἕξις e l’ἀρετή per comprendere, a partire da ciò, il modo in cui la ἕξις stessa può costituire il «come» del nostro atteggiamento nei confronti dei πάθη in quanto tali. Come può la ἕξις essere il πῶς ἔχομεν? La ἕξις non è nient’altro che un come
del πάθος, l’«essere fuori di sé» ovvero «essere-pronto per...». Se saremo in grado di determinare la ἕξις nella sua struttura fondamentale, chiariremo simultaneamente la possibile struttura dei πάθη. Ora, la ἕξις è di per sé una determinazione fondamentale dell’ἀρετή. Dice Aristotele nel libro II, capitolo 5, dell’Etica Nicomachea: «Secondo la sua origine ontologica» l’ἀρετή è una ἕξις, un essere-pronto per...449 La ἕξις va compresa in riferimento al concreto essere dell’uomo. Il termine ἕξις, infatti, ha anche un ulteriore significato, identico alla δύναμις di un ente qualsiasi. È qui che la ἕξις ha il suo specifico orientamento sull’essere dell’uomo. In se stessa la ἕξις è riferita alla ζωὴ πρακτικὴ μετὰ λόγου, ovvero a un «essere nel mondo» in cui il mondo ci si fa incontro nel carattere del συμϕέρον, βλαβερόν, ἡδύ e λυπηρόν. Il nostro «essere nel mondo» è sempre caratterizzato dalla situatività dell’essere sollevati o depressi, nel senso che oscilliamo tra l’essere afferrati ora dal malumore ora dal buonumore. All’interno dell’essere così caratterizzato la ἕξις costituisce lo specifico essere-pronto. Con ciò l’ἀρετή è definita nel suo carattere ontologico. Per cogliere in modo ancora più preciso la determinazione ontologica dell’ἀρετή, Aristotele la intende come μεσότης, l’οὐσία dell’ἀρετή in quanto μεσότης. L’espressione μεσότης, μέσον, proviene dalla medicina, che tendeva a concepire lo stato di salute dell’uomo come un μέσον, orientando in tal senso la concettualità medica. Aristotele ha applicato questo concetto fondamentale della medicina all’etica, senza mai perdere concretamente di vista la diversità del senso fondamentale dell’essere di cui si tratta. Prima di lui, nelle questioni etiche il concetto di μεσότης non compare. Aristotele cerca di mettere meglio a fuoco il fenomeno della μεσότης, del «tenere il giusto mezzo», partendo dalla definizione del μέσον in un qualsiasi πρᾶγμα: ἐν παντὶ δὴ συνεχεῖ καὶ διαιρετῷ ἔστιν λαβεῖν τὸ μὲν πλεῖον τὸ δ᾽ ἔλαττον τὸ δ᾽ ἴσον.450 «In ogni cosa in sé coerente e costante si possono distinguere il più, il meno e quindi l’uguale». E
queste differenze: 1. κατ᾿ αὐτὸ τὸ πρᾶγμα, 2. πρὸς ἡμᾶς,451 «in riferimento alla cosa stessa» e πρὸς ἡμᾶς. τὸ δὲ ἴσον μέσον τι ὑπερβολῆς καὶ ἐλλείψεως.452 Μέσον è quell’uguale che concepiamo come l’«essere ugualmente distante» dagli estremi. «Chiamo μέσον della cosa stessa ciò che è ugualmente distante da ciascuno dei due estremi».453 È così che si può determinare – geometricamente – il punto mediano di una cosa. Tuttavia, nella misura in cui deve presentare un’affinità con l’interpretazione dell’essere dell’uomo, il μέσον non riguarda un πρᾶγμα in sé, ma solo in quanto esso è πρὸς ἡμᾶς, cioè in quanto ci poniamo nei suoi confronti, in quanto il suo riguardarci è tale che la cosa non «agisce su di noi né per eccesso né per difetto».454 Invero, nel caso della μεσότης si ha a che fare anche con il mondo, non però solo con esso, poiché tramite la μεσότης si determina piuttosto il modo dell’«essere nel mondo» in quanto tale. Non bisogna quindi dimenticare che conformemente a tale essere non può darsi μέσον che sia ἕν e ταὐτὸν πᾶσιν,455 mentre nel caso di un πρᾶγμα καθ᾿ αὑτό – una linea, per esempio, o due numeri – il μέσον è sempre l’unico e il medesimo, così come il 4 è sempre il doppio di 2 ed è sempre ugualmente distante dal 2 e dal 6. Invece per l’essere dell’uomo non vi è μέσον in questo senso, poiché ogni μέσον umano è πρὸς ἡμᾶς. Per il nostro essere, caratterizzato dall’«essere di volta in volta», non si dà alcuna norma unica e assoluta. Ciò che importa è formare l’essere dell’uomo in modo tale che esso acquisisca la capacità di tenere il giusto mezzo. Questo però non significa altro che cogliere l’attimo. Si tratta di ὅτε [δεῖ] καὶ ἐϕ᾿ οἷς καὶ πρὸς οὓς καὶ οὗ ἕνεκα καὶ ὡς δεῖ.456 Di fronte a questa molteplicità di determinazioni ontologiche, ciò che importa è tenere il giusto mezzo, non un punto intermedio aritmetico o geometrico, bensì un mezzo da intendersi qui nel senso della ἕξις in quanto τάξις: l’essere «ripartito» di ciò che è in questione per una decisione. La ripartizione è qualcosa che scaturisce dalla decisione stessa, il che significa che qui il mezzo non è una proprietà stabilita e fissata, ma un modo di
comportarsi nel mondo. Aristotele definisce l’ἀρετή τοῦ μέσου στοχαστική:457 essa «ha come scopo» tenere il giusto mezzo, essere orientati sulla giusta ripartizione, sul giusto coglimento dell’attimo. Μεσότης: ἕξις βλέπουσα,458 l’«esserepronto che vede» la situazione ed è aperto nei suoi confronti. In tal senso il mezzo va inteso in base al carattere ontologico di ciò per cui esso è in questione in quanto mezzo: nel nostro senso esso è riferito all’essere dell’uomo in quanto essere orientato su qualcosa. Nel libro II, capitolo 11, del De anima, Aristotele, nella sua interpretazione dell’αἴσθησις, la definisce una μεσότης. Per essere precisi, la percezione sarebbe un μέσον avente il carattere del κριτικόν, del «saper distinguere» l’una cosa dall’altra.459 Tale concezione deriva dall’essere Aristotele consapevole del fatto che vedere i colori è sempre un distinguere un determinato colore da un altro. Il poter vedere dev’essere una possibilità che non sia riferita a un solo oggetto del campo visivo, ma che possa vedere, appunto, le due estremità, chiaro-scuro, e quindi l’intera estensione della molteplicità cromatica – un essere-posto nei confronti dei possibili oggetti che è una δύναμις nel senso della κριτική. Nei confronti degli oggetti la percezione si trova nella peculiare situazione dell’essere libera per essi, un essere libera che implica a sua volta un determinato essere orientata a partire dalle due estremità. In base a questo utilizzo del μέσον appare evidente che non si tratta di una proprietà esattamente circoscritta, ma di qualcosa che si riferisce primariamente all’essere orientati nel mondo. γ) L’orientamento dell’ἀρετή sull’attimo (καιρός) ἔστιν ἄρα ἡ ἀρετὴ ἕξις προαιρετική, ἐν μεσότητι οὖσα τῇ πρὸς ἡμᾶς, ὡρισμένῃ λόγῳ.460 In questo senso l’ἀρετή, in quanto μεσότης, è tale da essere «delimitata», cioè da delimitare se stessa «mediante il parlare» con il mondo riflettendo in anticipo sull’attimo, ovvero mediante la discussione approfondita delle circostanze – adesso, in
quest’attimo, a questo specifico uomo si pone questa specifica questione –, in modo tale che in questa delimitazione emerge il giusto essere-ripartito dell’attimo. Ed è in base alla μεσότης e all’ἀρετή così intese che, ora, si può chiarire perché sarebbe sbagliato concepire l’ἀρετή come capacità: ciò contraddirebbe il senso dell’ἀρετή. Che cosa significa, propriamente, pervenire a una determinata ἕξις? Le ἕξεις non sono proprietà che possediamo per natura, poiché hanno piuttosto una γένεσις determinata: δι᾿ ἔθους. L’«abitudine» è la via che ci conduce alla ἕξις, all’ἀρετή. In apertura del libro II Aristotele opera una distinzione essenziale entro la molteplicità delle ἀρεταί: ἡ μὲν διανοητικὴ [ἀρετὴ] τὸ πλεῖον ἐκ διδασκαλίας ἔχει [...] διόπερ ἐμπειρίας δεῖται καὶ χρόνου.461 «Le possibilità del comportamento, che formano anche il διανοεῖν, derivano per la maggior parte dalla comunicazione, quindi necessitano di esperienza e di tempo». ἡ δὲ ἠθικὴ ἐξ ἔθους περιγίγνεται.462 «Invece, l’essere-pronti nei confronti di una determinata passione ci è fornito dall’abitudine». È importante avere le idee chiare circa il carattere della γένεσις dell’ἀρετή dall’abitudine. ᾿Εθίζειν: il portarsi in una determinata possibilità mediante la frequente sopportazione. Dove peraltro la possibilità è di volta in volta una possibilità determinata, ad esempio per una ποίησις: l’appropriazione della possibilità di una fabbricazione, una tecnica; possibilità per la πρᾶξις, quest’ultima intesa non nel significato ampio di «azione» in quanto tale, ma in quanto determinazione dell’essere dell’uomo. Ποίησις e πρᾶξις come due possibilità che, forse, indicano solo due differenti modalità di appropriazione. Aristotele parla del γραμματικός:463 si può scrivere correttamente – afferma – o per caso o con l’aiuto altrui. Tuttavia, chi scrive per caso non può limitarsi a scrivere, ma deve scrivere come richiede la τέχνη. Deve poter scrivere non a caso, ma seguendo le norme, e non con l’aiuto altrui, ma da solo. Tramite l’esercizio, la frequente sopportazione, ciò che importa è eliminare via via proprio l’essere
consapevolmente orientati sulla norma: l’esercitarsi ha il senso di disattivare la riflessione consapevole, nella misura in cui ciò che importa nell’esercitare la propria capacità è di ottenere un risultato. Nel caso della τέχνη, decisivo è l’ἔργον. Il prendersi cura di questo ἔργον mira a far sì che esso si realizzi in modo corretto, che cioè la realizzazione del prodotto proceda senza intoppi. Invece nel caso di un’azione – in senso più ristretto rispetto alla ποίησις – ciò che importa, secondo il suo senso, non è che essa si svolga senza intoppi, e ne derivi un risultato, poiché decisiva è piuttosto la προαίρεσις, la modalità specifica in cui «ci si decide». L’azione implica il suo scaturire di volta in volta da una decisione. Come tale, l’azione ha il suo τέλος nel καιρός. L’azione implica il suo passare attraverso la riflessione e il suo compiersi in quanto riflessione. Essa trova il suo compimento nella ὀρθότης, nella «correttezza» della riflessione. Nel caso dell’esercitarsi, invece, viene eliminata la possibilità dell’agire, cadono il riflettere e il decidere, cioè il «come» dell’agire – proprio ciò di cui, qui, ne va. Quindi, portarsi nella possibilità del giusto agire non può voler dire «appropriarsi di una capacità». Nel caso dell’agire, la modalità specifica dell’abitudine non consiste nell’esercizio, ma nella ripetizione. E ripetizione non significa «mettere in gioco» una capacità consolidata, bensì agire in ogni attimo in modo nuovo in base alla decisione corrispondente. Nella formazione della ἕξις non ne va mai di un automatismo, una routine. Ogni automatismo distrugge l’attimo. Ogni capacità intesa come routine consolidata fallisce di fronte all’attimo. Appropriazione e formazione della ἕξις tramite l’abitudine non significa altro che corretta ripetizione. È per questo che anche Aristotele, nel capitolo 3, distingue nettamente l’ἀρετή e l’agire da ogni τέχνη, benché in un primo momento li abbia accostati nella loro comune diversità rispetto all’ἐπιστήμη. L’appropriazione ἐκ 464 διδασκαλίας implica ἐμπειρία e χρόνος. Per Aristotele la «scienza», l’ἐπιστήμη, è una determinata ἕξις, un
determinato essere-posto nei confronti delle cose essenti-ci in quanto tali, nel senso che ne sono informato. La ἕξις implica una quantità di conoscenza concreta, una conoscenza che, in base al suo contenuto, può essere acquisita solo gradualmente. Tutto dipende dalla dimensione della conoscenza, la cui acquisizione richiede una durata temporale determinata. Invece, nel caso del πράττειν, dell’«agire», e già pure in quello del ποιεῖν, del «fabbricare» una cosa, ciò che importa è formarla come tale nella πρᾶξις e nella τέχνη; non nel senso dell’assumere un determinato materiale, ma nel senso del dare forma compiuta al «come» dell’avere a che fare in quanto tale. La differenza sta nel fatto che nel caso della πρᾶξις ciò di cui ne va è appunto il come. Del come ci si può appropriare solo se l’uomo si pone nella condizione di essere-pronto per ogni attimo; non routine, ma tenersi liberi, δύναμις nella μεσότης. La vita umana non può essere tutta costantemente presente. Le possibilità di cui dispone un’esistenza umana non sono costantemente presenti nell’estensione dell’esserci, esso si perde. La possibilità decade e necessita di un’appropriazione sempre nuova e costantemente ripetuta. La peculiarità di ciò di cui ne va nella ripetizione intesa come esercizio particolare può essere descritta anche così: ogni azione, ma anche ogni non agire, si orienta sulla μεσότης. Aristotele sottolinea sempre di nuovo che il μέσον è difficile a trovarsi e facilissimo a mancarsi, e che le oscillazioni sono inevitabili. Cadere in preda all’ira è facile, essere adirato nell’attimo giusto è difficile. Necessita della possibilità di poter cogliere l’attimo nella sua totalità. È per questo che l’agire in base alla μεσότης, permanendo in essa, è raro.465 L’intera questione dell’abituarsi va considerata a partire da come si presenta la possibilità che è in gioco nell’appropriazione. Ciò di cui ne va sono l’essere di volta in volta risoluti e il cogliere l’attimo. Ed è appunto così che va intesa la formulazione aristotelica «dal compiere più spesso le azioni».466 Questo «compiere più spesso le azioni» non significa «spesso» nel senso di una durata – nel senso che,
dopo un determinato lasso di tempo, si sarebbe definitivamente raggiunta la routine –, ma è riferito alla πρᾶξις in quanto προαίρεσις: la continua ripetizione della προαίρεσις. Il «più spesso» è proprio ciò che caratterizza la temporalità dell’esserci. Aristotele non può dire ἀεί, dato che l’esserci umano non si comporta sempre e costantemente così – anzi può essere costantemente diverso. Il sempre sia di un ente siffatto sia dell’esserci è il più spesso della ripetizione. Nell’esserci dell’uomo, in quanto determinato dalla storicità, possono essere colti nessi temporali del tutto diversi, che sfuggono alle restanti determinazioni temporali.
18. Il πάθος. I suoi significati generali e il suo ruolo nell’esserci umano (Met. Δ 21, De an. A 1) a) La ἕξις in quanto filo conduttore per comprendere la struttura ontologica del πάθος Per comprendere la ἕξις stessa, e la sua γένεσις, teniamo conto del fatto che non la si può intendere come una capacità nel senso della routine. Da questa prospettiva possiamo vedere già in termini un po’ più precisi che cos’è in questione nel caso dei πάθη. Anche i πάθη, infatti, sono caratteri che determinano più da vicino, nella loro modalità, sia l’«essere nel mondo» sia l’«essere nell’attimo». Non si tratta di «stati psichici» connessi a «fenomeni corporei concomitanti». I πάθη caratterizzano piuttosto l’uomo intero nel suo sentirsi-situato nel mondo. È l’uomo nella sua totalità l’oggetto primario della psicologia aristotelica nel libro I del De anima. La totalità dell’uomo va compresa in riferimento al suo essere in quanto ζωή, «essere in un mondo» – una concezione che, propriamente, è tema non della psicologia ma della localizzazione dell’essere di questo ente. Πάθη: assumeremo a titolo di esempio l’analisi della paura. Presso i
greci la paura, in quanto angoscia, è intrinsecamente costitutiva del modo peculiare di cogliere ciò che è e ciò che non è. Aristotele peraltro considera il fenomeno della paura con tale perspicacia da tenere conto anche del fatto che si ha paura pure quando non c’è nulla che possa essere motivo immediato di paura – paura del nulla. Se ne può dedurre che il greco vede l’essere propriamente nel presente, si prende cura dell’essere in quanto presenza attuale. Nella misura in cui la definizione del concetto di ἀρετή si basa sul concetto fondamentale dell’essere, all’inizio del libro II, capitolo 6, dell’Etica Nicomachea, Aristotele definisce l’ἀρετή in quanto ἕξις προαιρετική, ἐν μεσότητι οὖσα τῇ πρὸς ἡμᾶς, ὡρισμένῃ λόγῳ καὶ ὡς ἂν ὁ ϕρόνιμος ὁρίσειε.467 L’ἀρετή è un «essere pronto nel potersi decidere». Nella sua determinazione relativa alla προαίρεσις, all’attimo, la ἕξις viene interpretata in modo più preciso in quanto μεσότης. Il «mezzo» in quanto determinazione della ἕξις, μεσότης in quanto πρὸς ἡμᾶς: come il mondo stesso si pone nei nostri confronti, come noi siamo in esso, come possiamo tenere il giusto mezzo nel deciderci, nell’«avere lì attualmente presente» l’attimo decisivo. Approfondendo la discussione, questa medesima situazione torna a delimitarsi secondo varie prospettive. Anche nell’ἀρετή, intesa come essere-pronto, emerge la determinazione del λέγειν. Lo ὁρίζεσθαι λόγῳ viene determinato in modo più preciso per evitare di confonderlo con la definizione teoretica di una questione. Un tale ὁρίζεσθαι, così come lo attuerebbe un ϕρόνιμος, è λέγειν in quanto λέγειν del ϕρόνιμος, è un vedere non solo in quanto rivolgere lo sguardo – un rivolgere lo sguardo che porta a distinguere gli stati di fatto –, bensì un vedere il mondo che è circospezione, un guardarsi intorno al suo interno, da intendersi primariamente come circospezione nel prendere una decisione. Il «darsi cura» per l’esserci ha nella ϕρόνησις la modalità della sua visione. È per questo che il λέγειν è tale da corrispondere alla ϕρόνησις, ed è μετά in riferimento a essa. Se si considera così l’ἀρετή la si caratterizza in quanto οὐσία, nella misura
in cui il suo essere costituisce l’esserci dell’uomo. In riferimento alla possibilità dell’agire, del comportarsi, che trova espressione nell’ἀρετή, l’ἀρετή non è una μεσότης, ma un culmine, la vetta suprema, ἀκρότης. Intesa in termini puramente ontologici, cioè nell’οὐσία, l’ἀρετή è μεσότης se riferita alla sua intrinseca possibilità, mentre è ἀκρότης se riferita all’εὖ.468 Conformemente al suo carattere ontologico, l’ἀρετή tendente all’ἦθος, l’ἀρετὴ ἠθική, ha una sua γένεσις specifica, che Aristotele, all’inizio del libro II dell’Etica Nicomachea, descrive distinguendola dall’ἀρετὴ διανοητική, dal «poter essere pronto» nel mondo in quanto avente le idee chiare circa il guardarsi intorno in esso. L’ἀρετή è riferita alla πρᾶξις, l’ἀρετὴ ἠθική all’ἦθος: la sua γένεσις è l’«abituarsi» nel senso del sopportare più spesso.469 Se si considera, con riferimento alla sua γένεσις, l’altra ἀρετή, l’ἀρετὴ διανοητική – per esempio la scienza in quanto dominio su una determinata materia di studio –, dobbiamo dire che l’ἀρετή «necessita di esperienza e di tempo».470 Ciò non significa che la formazione dell’ἀρετὴ ἠθική non necessiterebbe di tempo, però qui χρόνος è inteso come durata. In quanto tale, la durata in cui mi approprio di determinate competenze contribuisce a costituire la formazione dell’essere-pronto inteso come essere informato su qualcosa. Il carattere temporale della ἠθική sta nel πολλάκις. Aristotele stabilisce una connessione etimologica tra ἀρετὴ ἠθική ed ἔθος.471 Qui dunque ἔθος esprime insieme la γένεσις. Che il tempo come durata non sia costitutivo per l’ἀρετή in quanto ἠθική emerge dalla sottolineatura, da parte di Aristotele, del fatto che l’autentico essere-pronto all’interno dell’esserci viene conquistato dall’uomo nella maturità, quindi non nella giovinezza o nella vecchiaia, dove la maggior parte del tempo è già trascorsa. Egli affronta nel dettaglio le età della vita nel libro II, capitoli 12-15, della Retorica. Va osservato che non sono i più vecchi, in virtù della loro estensione temporale, ad avere la possibilità di essere autenticamente nella ἕξις, mentre ciò è possibile nel
caso dell’ἐπιστήμη. La ἕξις, riferita ai πάθη, ci farà dunque da filo conduttore per mettere meglio a fuoco la struttura ontologica dei πάθη stessi. b) I quattro significati generali di πάθος Per la definizione di πάθος ripercorriamo attentamente le definizioni di Metafisica Δ 21: 1. πάθος λέγεται ἕνα μὲν τρόπον ποιότης καθ᾿ ἣν ἀλλοιοῦσθαι ἐνδέχεται, οἷον τὸ λευκὸν καὶ τὸ μέλαν, καὶ γλυκὺ καὶ πικρόν, καὶ βαρύτης καὶ κουϕότης, καὶ ὅσα ἄλλα τοιαῦτα.472 La prima e più ovvia definizione di πάθος è «condizione, ποιότης, in relazione alla quale qualcosa può subire un’alterazione [quindi non una qualsiasi dotazione in quanto tale, ma una dotazione così caratterizzata, una condizione tale da offrire di per se stessa, a ciò che ne è costituito, la possibilità di mutare repentinamente], bianconero, dolce-amaro...». Questa definizione caratterizza l’ente come qualcosa che in certo qual modo può essere colpito da qualcosa. A un ente così inteso qualcosa può accadere, passieren.473 Passieren, «accadere», coglie in senso proprio ciò che si intende con πάσχειν e πάθος. Nel πάθος Aristotele coglie al tempo stesso il dato di fatto del movimento, meno l’aspetto passivo, quanto piuttosto il fatto che qualcosa mi accade. Qui il πάθος è inteso nel suo significato più ampio e superficiale: possibilità dell’ἀλλοίωσις, del «divenire altro»; πάθος come determinazione dell’ente avente il carattere della mutevolezza. 2. ἕνα δὲ αἱ τούτων ἐνέργειαι καὶ ἀλλοιώσεις ἤδη:474 un ente caratterizzato dal fatto di recare in sé la possibilità che gli accada qualcosa nell’ambito della sua condizione, per esempio riguardo a un colore; assunto adesso nella misura in cui l’accadere stesso viene inteso come πάθος nel suo stesso esserci. L’ἐνέργεια: l’«esserci» di un siffatto «accadere a qualcuno» tale da mutarlo repentinamente. 3. ἔτι τούτων μᾶλλον αἱ βλαβεραὶ ἀλλοιώσεις καὶ
κινήσεις, καὶ μάλιστα αἱ λυπηραὶ βλάβαι.475 La definizione di πάθος va via via restringendosi: il πάθος è ciò che «accade a qualcuno» tale da avere il carattere dello spiacevole, del βλαβερόν. Ciò che mi accade, nel suo accadere mi è nocivo: non è forse così che utilizziamo il verbo passieren? Ma il πάθος viene definito in modo ancora più preciso: si tratta per lo più di un essere nocivo che fa riferimento alla λύπη, nel senso che ciò che mi accade colpisce il mio stato d’animo; un essere riguardato da qualcosa che mira al mio stato d’animo, un mutare nel senso del diventare depresso. 4. ἔτι τὰ μεγέθη τῶν συμϕορῶν καὶ λυπηρῶν πάθη λέγεται.476 Infine, in un senso ancora più specifico, πάθος sta a indicare la «grandezza», la «dimensione» di ciò che mi accade, che patisco per mia sventura. Anche per questo abbiamo l’espressione corrispondente: «Questo e quello è un colpo per me». Da questi quattro significati emerge ciò a cui è essenzialmente e propriamente riferito il πάθος: è riferito all’essere del vivente, caratterizzato da un sentirsi di volta in volta situato in un dato modo. Ciò che accade a qualcuno lo riguarda e lo colpisce in questo sentirsi-situato. Questo accadere implica di per sé il carattere del nocivo. Ma l’accadere stesso, in quanto passieren, non deve avere per forza il carattere della nocività, della ϕθορά: Aristotele conosce infatti una μεταβολή, κίνησις, ἀλλοίωσις dove il πάσχειν ha il carattere della σωτηρία.477 Mi accade qualcosa tale che questa esperienza, o questo patimento, ha il carattere del σῴζειν. Dal fatto che qualcosa mi si faccia incontro, mi accada, non vengo annientato, anzi, solo in virtù di tale accadere pervengo al mio vero e proprio stato, cioè solo adesso diviene effettivamente reale la possibilità che era in me. Con l’espressione Aufhebung Hegel non ha fatto che riprendere da Aristotele il fenomeno del σῴζειν. Sottolineo già adesso questi aspetti affinché emerga chiaramente il nesso con il fenomeno del movimento. Aristotele coglie la differenza in un contesto caratteristico: se uno, che è bene informato su una determinata cosa, che
possiede una conoscenza, in base a tale conoscenza – in base cioè all’essere-pronto nei confronti del poter vedere – tiene davvero presente l’ambito di competenza che lo riguarda, dunque lo vede veramente dinanzi a sé, allora si può constatare una certa κίνησις, una μεταβολή, un «mutamento repentino», che però non possiamo designare adeguatamente con la formula «divenire altro», ovvero, se proprio lo vogliamo definire un «divenire altro», dobbiamo introdurre un nuovo γένος della ἀλλοίωσις; infatti, non si potrebbe certo dire che un capomastro, quando costruisce una casa, tramite il costruire diviene un altro – anzi, egli diviene proprio ciò che è.478 Rispetto a questa μεταβολή, in cui la ἕξις viene salvata, poiché viene portata proprio a ciò che dev’essere, c’è però anche un πάσχειν tale da avere il carattere dello στερητικόν: mi accade qualcosa che mi fa perdere la ἕξις, ad esempio invecchio. Il πάθος è quindi ciò che mi priva di qualcosa, e nel contempo è un aufheben, un salvare – aufheben nel senso del conservare-innalzare al superiore essere autentico dell’ἐνέργεια.479 c) Il πάθος in quanto essere-coinvolto dell’esserci umano nel suo pieno «essere nel mondo» corporeo Il πάθος, riferito alla ζωὴ πρακτικὴ μετὰ λόγου, è quindi un essere-coinvolto dell’esserci. L’esserci è coinvolto da ciò che «ci» è nel mondo insieme all’esserci stesso – cioè dall’esterno, ma dall’esterno inteso come quel mondo che è l’«in cui» del mio essere. È dunque dall’esserci stesso che traggono origine le possibilità e i modi del suo esserecoinvolto. L’essere-coinvolto dell’esserci in quanto «essere nel suo mondo» non concerne quindi qualcosa che potremmo designare come lo «psichico» – cosa a cui siamo indotti dalla concezione del πάθος in quanto affetto –, bensì riguarda un essere-coinvolto dell’esserci come vivente in quanto tale. Detto in termini più precisi: non posso dire «l’anima spera, ha paura, prova compassione», ma sempre solo «l’uomo
spera, è coraggioso». τὸ δὴ λέγειν ὀργίζεσθαι τὴν ψυχὴν ὅμοιον κἂν εἴ τις λέγοι τὴν ψυχὴν ὑϕαίνειν ἢ οἰκοδομεῖν· βέλτιον γὰρ ἴσως μὴ λέγειν τὴν ψυχὴν ἐλεεῖν ἢ μανθάνειν ἢ διανοεῖσθαι, ἀλλὰ τὸν ἄνθρωπον τῇ ψυχῇ.480 «Affermare che l’anima va in collera sarebbe come dire che l’anima costruisce una casa. Sarebbe meglio dire non che l’anima prova compassione, apprende, pensa, ma che è l’uomo τῇ ψυχῇ» – «anima» concepita qui come οὐσία, nella misura in cui nei πάθη si esprime l’essere-coinvolto dell’ente in quanto vivente. Il tema di ciò che Aristotele designa con Περὶ ψυχῆς, ontologia dell’ente, è l’uomo. I πάθη non sono quindi «vissuti psichici», non si collocano «nella coscienza», ma costituiscono un essere-coinvolto dell’uomo nel suo pieno «essere nel mondo». Ciò si esprime nel fatto che i πάθη implicano la totalità, il contesto completo di ciò che accade ed è presente nell’accadere, nel passieren, nell’esserecoinvolti. I cosiddetti «stati corporei» in caso di angoscia, gioia, e così via, non sono fenomeni concomitanti, ma sono impliciti nel caratteristico essere dell’ente, dell’uomo. Nel libro I, capitolo 1, del De anima Aristotele discute quale sia propriamente l’oggetto di un’indagine Περὶ ψυχῆς, e quale sia il ruolo che vi svolgono i πάθη. Egli discute al tempo stesso i πάθη, i modi in cui un vivente è coinvolto: ἀπορίαν δ᾽ ἔχει καὶ τὰ πάθη τῆς ψυχῆς, πότερόν ἐστι πάντα κοινὰ καὶ τοῦ ἔχοντος ἢ ἐστί τι καὶ τῆς ψυχῆς ἴδιον αὐτῆς· τοῦτο γὰρ λαβεῖν μὲν ἀναγκαῖον, οὐ ῥᾴδιον δέ. ϕαίνεται δὲ τῶν μὲν πλείστων οὐθὲν ἄνευ τοῦ σώματος πάσχειν οὐδὲ ποιεῖν, οἷον ὀργίζεσθαι, θαρρεῖν, ἐπιθυμεῖν, ὅλως αἰσθάνεσθαι. μάλιστα δ᾽ ἔοικεν ἴδιον τὸ νοεῖν· εἰ δ᾽ ἐστὶ καὶ τοῦτο ϕαντασία τις ἢ μὴ ἄνευ ϕαντασίας, οὐκ ἐνδέχοιτ᾿ ἂν οὐδὲ τοῦτ᾿ ἄνευ σώματος εἶναι.481 Riguardo ai πάθη Aristotele si chiede «se essi siano tutti comuni per colui che li ha [per l’ἄνθρωπος: κοινά significa qui l’uomo nella sua totalità], o se vi siano certi πάθη che si attagliano espressamente all’anima. Tale questione va necessariamente chiarita [singolare utilizzo di λαβεῖν], cosa però non facile. La grande maggioranza [richiamo all’esperienza media che
l’uomo ha dell’esserci stesso] è dell’opinione che in ogni avere coraggio, ecc., e in genere nel caso di ogni percezione, il corpo sia in qualche modo compartecipe. [L’espressione αἰσθάνεσθαι – «avere coraggio per...», «essere inclini a...», ecc. – non è utilizzata nel senso stretto della percezione sensibile, ma nel senso dell’avere-lì il mondo; non si tratta quindi di un considerare teoretico, ma di un essere aperto per qualcosa che mi sta intorno]. Per lo più sembra che anche il νοεῖν sia un ἴδιον dell’anima. [Per lo più sembra che il puro considerare – la considerazione puramente matematica per esempio – sia qualcosa cui il corpo in quanto tale non partecipa]. Se però anche il νοεῖν [il riflettere a fondo su una cosa anche se non ce l’ho presente in termini di percezione sensibile] è qualcosa come una ϕαντασία, ovvero non può sussistere senza ϕαντασία, allora nemmeno il pensiero potrebbe esistere senza essere connesso con l’intera vita dell’uomo». Pensare: non si fa ricorso qui a un processo cerebrale, ma alla ϕαντασία, cioè a quella capacità di «immaginare» il mondo nel cui caso ciò che è stato reso presente con l’immaginazione non è attualmente lì presente, ma lo è, per esempio, nel ricordo oppure nel mero sbiadito richiamare alla mente. Anche nel pensare a qualcosa le cose sono presenti nell’immaginazione. La ϕαντασία è il terreno per il νοεῖν. Nella misura in cui la νόησις costituisce la possibilità suprema per l’essere dell’uomo, l’intero essere dell’uomo è determinato in modo tale da dover essere concepito come il corporeo «essere nel mondo» dell’uomo. Fino a oggi non si è approfittato di quanto Aristotele offre qui. Solo nella fenomenologia si è fatto qualche passo in tal senso. Nessuna separazione tra atti «psichici» e atti «fisici»! Questo lo si può vedere praticamente, per esempio, nel modo in cui muovo la mia mano, compio un movimento con essa. Bisogna convincersi del fatto che la primaria funzione d’esserci della corporeità si assicura il terreno per il compiuto essere dell’uomo. In Aristotele compaiono anche già i primi accenni di quell’errato orientamento verso il biologico che caratterizza l’intera tradizione (Descartes: res
cogitans – res extensa). Aristotele prende le mosse da quattro significati generali di πάθος: 1. condizione mutevole; 2. da qui a un significato specifico; 3. in quanto capace di deprimere la vita; 4. πάθος, in particolare, in quanto nocivo: disgrazia, colpo. Dobbiamo mostrare in che misura fenomeni come la paura, la collera, e così via, corrispondono a ciò che abbiamo rilevato nelle definizioni generali di πάθος, nonché in che senso anche i πάθη debbano perciò essere considerati quali γινόμενα τῆς ψυχῆς. Aristotele inizia il De anima chiedendosi come vada compreso e determinato ciò che si intende con ψυχή, al fine di ottenere le giuste προτάσεις a partire dalle quali poter stabilire gli ulteriori elementi caratterizzanti i contesti ontologici del vivente. Con ψυχή si intende tutto ciò che costituisce l’essere di un vivente, ciò che, in quanto costituente l’essere, è esso stesso qualcosa. La molteplicità di contesti ontologici sottostà quindi a una molteplicità determinata di categorie oggettuali stabilite. La domanda in base alla quale Aristotele discute i πάθη è la seguente: come può accadere qualcosa a un vivente, riguardo al suo essere? Inoltre: tutto ciò che può accadere a un vivente va inteso come appartenente a questo essere in quanto tale, o vi sono anche determinazioni del poter-accadere al vivente che si addicono in senso particolare a un essere del vivente stesso – cioè alla ψυχή e non all’ἄνθρωπος? Al fondo di questa domanda generale si pone il fenomeno che Aristotele designa con νοῦς. La questione concreta (Aristotele la imposta nel libro III, capitoli 4-5, del De anima, ma non giunge ad alcuna decisione in merito) è la seguente: da che cosa è determinato, in senso proprio, l’essere dell’uomo in quanto «essere nel mondo»? L’essere dell’uomo, inteso come «avere-lì aperto il mondo», esserescoperto, essere-aperto dell’«essere nel mondo», tutto ciò è determinato dal νοῦς? E come lo è? Il fatto che questo essere-aperto sia determinato dal νοῦς è da intendersi nel senso che il νοῦς apparterrebbe in quanto tale
implicitamente all’essere dell’uomo, tanto da identificarsi completamente con l’essere dell’uomo? Oppure, viceversa, l’essere dell’uomo, il suo essere-aperto, sarebbe sì determinato dal νοῦς, ma in modo tale che il νοῦς penetrerebbe nell’uomo dall’esterno, sicché l’essere dell’uomo sarebbe solo una possibilità determinata dell’essere-aperto, garantita dal νοῦς in quanto tale? In definitiva, la domanda è: vi sono πάθη che, al di là del concreto essere dell’uomo, possiedono anche un essere caratteristico in se stessi? Tutti questi interrogativi diventano comprensibili se si pongono in luce alcune determinazioni fondamentali del νοῦς. Aristotele paragona νοῦς e ϕῶς.482 Come un colore perviene al suo esser-ci solo grazie alla luce, è nel suo «Ci» solo in quanto sta nella luce – esser-ci in quanto illuminazione caratteristica –, così ogni ente che «ci» è, in quanto ente, necessita, per esserci, di un’illuminazione di fondo. L’ente stesso, in quanto ente che «ci» è, deve avere la possibilità dell’essere-aperto. Questa possibilità altro non è che il νοῦς. La determinazione fondamentale del νοῦς, il «pensare» qualcosa, è il δυνατόν,483 la «possibilità» tout court dell’essere-aperto, del «Ci» di qualcosa – in esso si muove e si trattiene ogni cogliere concreto. In quanto tale, il νοῦς è ἀπαθές,484 «non gli può capitare nulla»: piuttosto, esso è la condizione della possibilità che al vivente capiti qualcosa, che per la vita qualcosa «ci» sia. Di conseguenza, in riferimento all’essere-aperto dell’essere-in, il νοῦς è più di quanto l’uomo possa essere, poiché il modo in cui l’uomo afferra questa possibilità, il νοῦς, è il διανοεῖσθαι.485 Nella misura in cui costituisce l’essere-aperto dell’uomo, il νοῦς è un διά, essendo la vita determinata da λύπη e ἡδονή. Il νοῦς è la condizione fondamentale della possibilità dell’«essere nel mondo», che, come tale, sovrasta l’essere di volta in volta concreto del singolo uomo. Va tenuto presente che Aristotele, nella spiegazione condotta dal capitolo 3 al 5, mantiene un approccio totalmente descrittivo: la sua dottrina del νοῦς non è un
qualche genere di teoria, ma nasce dall’esperienza concreta; egli l’ha sviluppata solo entro i limiti del modo in cui vedeva di fatto la questione. Ha lasciato cadere l’indagine del νοῦς perché oggettivamente non era in grado di proseguire. In quanto δυνατόν, il νοῦς è definito in modo più preciso δεκτικὸν τοῦ εἴδους,486 «capacità di accogliere» il relativo εἶδος, l’«aspetto» di un ente. Il νοῦς è la luce in cui si vede l’aspetto di qualcosa. Ciò che viene detto della luce in riferimento al colore (αἴσθησις) viene detto in linea di principio del νοῦς in riferimento alle determinazioni ontologiche di ogni ente in quanto tale. La domanda concreta che Aristotele, introducendo l’argomento, pone è la seguente: fino a che punto il νοῦς appartiene o meno al concreto essere dell’uomo? Esiste un ἴδιον πάθος τῆς ψυχῆς? Il modo in cui il νοῦς costituisce l’essere del vivente è tale che questa determinazione caratterizza l’essere del vivente facendone un ente proprio? Il νοῦς è da intendersi come μέρος ψυχῆς χωριστόν?487 Aristotele decide la questione badando a ciò che ha sotto gli occhi – e ciò che ha sotto gli occhi gli dice che un vivente, in quanto essente nel mondo, nella misura in cui viene riguardato dal mondo, viene riguardato anche nella sua corporeità: dunque, tutto mira al vivente nella pienezza del suo esserci. Egli lo mostra facendo riferimento all’essere dell’uomo, che è determinato dal νοῦς. Il νοεῖν dell’uomo non è puro. Il pensare a qualcosa che non ho attualmente lì davanti si basa sulla ϕαντασία, è possibile soltanto grazie all’immaginazione che richiama alla mente, e il richiamare alla mente, in quanto tale, altro non è che la ripetizione di ciò che era già stato presente una volta, ripetizione di un presente passato. La ϕαντασία non è necessariamente un ricordo – il ricordo è un particolare richiamare alla mente; il ricordare è un richiamare alla mente tale da implicare il sapere circa l’«avere a quel tempo fatto esperienza» di ciò che viene ripetuto. Insomma: il νοῦς dell’uomo è riferito alla ϕαντασία, quindi all’αἴσθησις e al πάσχειν del σῶμα. Ciò che ci interessa è il modo in cui Aristotele caratterizza
il peculiare intreccio tra l’essere dell’uomo nella pienezza del suo esserci e il σῶμα. Tale questione determina il modo in cui vengono trattati i πάθη in quanto tali. L’analisi dei πάθη sviluppata nella Retorica è tale da porre in evidenza – senza occuparsi della loro specifica peculiarità – l’εἶδος dei πάθη, il fatto cioè che essi, in quanto così evidenti, sono κινήσεις τοῦ σώματος, qualcosa che accade in un vivente e che, accadendo, ne richiede nel contempo anche la corporeità. In un primo momento Aristotele lascia aperta la questione se esista un ἴδιον πάθος dell’anima come tale; egli preferisce piuttosto mostrare che tutti i πάθη sono μετὰ σώματος,488 e lo fa in modo duplice: in ogni «essere in collera con...», «essere benevolo nei confronti di...», «avere paura di...», ecc., è coinvolto in un certo modo anche il corpo.489 Emerge il fatto peculiare che a volte, anche quando siamo riguardati da παθήματα, cioè da accadimenti e circostanze molto forti provenienti dal mondo, ciò nonostante non cadiamo in preda alla paura; altre volte, invece, avviene che siano motivi assai esili a metterci in agitazione.490 Quindi, il fatto di cadere in preda a questo o a quel πάθος non dipende esclusivamente da ciò che ci capita, poiché la γένεσις dei πάθη si dà anche tramite la corporeità. Tale γένεσις si mostra in modo ancora più chiaro nel fatto che qualche volta cadiamo in preda alla paura senza che nulla di pauroso ci capiti direttamente,491 sicché in un certo senso l’avere paura nasce dentro di noi, il nostro essere reca implicitamente in sé la possibilità della paura e dell’angoscia. Ciò indica però che, in effetti, la corporeità concorre alla γένεσις dei πάθη. «Se le cose stanno così, è chiaro che i πάθη sono λόγοι ἔνυλοι».492 d) Il duplice modo di considerare i πάθη in base all’εἶδος o alla ὕλη, e la questione del compito del ϕυσικός Se vuole cogliere i πάθη in ciò che sono, l’analisi del fenomeno deve considerare ciò da cui i πάθη nascono e ciò in
cui si situano. La loro ὕλη altro non è che il σῶμα, la corporeità dell’uomo. Se è questa la via prescelta per l’indagine sui πάθη, a ciò debbono corrispondere gli ὅροι,493 atti a delimitare il relativo fenomeno in sé. Questo è lo ὅρος dell’ὀργή: «L’essere in collera è qualcosa come un “essere in movimento” del corpo fatto così e così, cioè di una corporeità (o di una parte del corpo) situata in un modo determinato, un movimento determinato conseguente alla pressione esercitata da questa e quella cosa, da determinate circostanze causate da questa e quella faccenda».494 Da un lato si considera la ὕλη, che sta nel τοιουδὶ σώματος, dall’altro l’εἶδος, l’essere-così dell’essere-riguardati: ὑπὸ τοῦδε ἕνεκα τοῦδε.495 In tal modo viene chiamato in causa anche il λόγος. Aristotele ne deriva una fondamentale definizione teoretico-scientifica: «Perciò spetta al ϕυσικός prendere in esame ciò che rientra nell’ambito del tema dell’essere di un vivente».496 Φυσικός: colui che indaga la natura nel senso più ampio. Nel fenomeno del πάθος è cocostitutivo il σῶμα, come qualcosa che implica la possibilità dell’«essere in un mondo»; σῶμα inteso come una ὕλη del tutto determinata, caratterizzata dal fatto di rendere possibile la vita. Per Aristotele ne risulta che il ϕυσικός considera i πάθη in modo diverso dal διαλεκτικός: costoro «delimitano i πάθη di volta in volta in modo differente, ad esempio la collera: mentre il primo [il διαλεκτικός, che pratica la retorica] considera la collera come ὄρεξις ἀντιλυπήσεως, tendenza a vendicarsi [un certo accanimento come modo di «essere verso gli altri»], il ϕυσικός definisce la collera come un determinato ribollire del sangue nel cuore e del calore».497 Il primo λόγος fornisce il vero e proprio εἶδος,498 dice che cosa la collera propriamente è. Quest’ultima però, in quanto determinazione dell’essere dell’uomo nel mondo, è necessariamente codeterminata dal fatto di essere una ζέσις, cioè un «ribollire» del sangue. Vi è quindi un duplice modo di considerare, e sorge la domanda: qual è propriamente il compito del ϕυσικός in riferimento alla ψυχή? Esempio: il λόγος οἰκίας.499 Che
aspetto ha una «casa»? «Possiamo considerarla in quanto riparo, copertura, che impedisce l’essere colpiti in modo nocivo e danneggiati da vento, pioggia e calura [un ricovero in cui cerchiamo e troviamo protezione]. Un altro dirà: pietre, mattoni, legno. Un terzo invece: l’aspetto, l’εἶδος, di questa casa in legno, pietre e mattoni ha per scopo la creazione della necessaria protezione, del riparo [un costruire che viene attuato affinché ci sia lo σκέπασμἂ. Chi è dunque il ϕυσικός? È forse colui che si limita a parlare del materiale [che dice: quello che abbiamo davanti è pietra e legno], senza badare a che aspetto abbia propriamente il materiale in questione? Oppure colui che parla solo dell’εἶδος? O infine colui che parla ἐξ ἀμϕοῖν?».500 Il vero ϕυσικός è colui che considera la casa rivolgendosi al suo aspetto, che implica di per sé il riferimento a ciò di cui la casa è fatta – colui quindi che prende primariamente in esame che cos’è la casa che ha lì di fronte, come essa è fatta in se stessa. Questa decisione dimostra la superiorità di principio di cui Aristotele gode nei confronti di tutto il naturalismo precedente. L’essere della natura è determinato, nel suo aspetto, non solo dalla ὕλη, ma primariamente dall’essere-mosso. Solo l’ente così determinato è il tema autentico e sicuro del ϕυσικός. Egli indaga i σώματα considerandone gli ἔργα e i πάθη,501 questi ultimi intesi in senso assai ampio, cioè nel primo senso del capitolo 21 di Metafisica Δ. Il ϕυσικός assume i σώματα come fatti così e così. Per esempio, egli considera il legno nella misura in cui esso entra in questione in quanto determinazione ontologica dell’albero, codeterminando l’essere della pianta. Il τεχνίτης,502 invece, non considera il legno – ad esempio un timone – in quanto codeterminante per l’albero, ma in quanto possiede una certa durezza, con particolare riguardo alla sua idoneità a fornire un buon timone. Il medico considera i σώματα in modo diverso dal ϕυσικός, secondo ciò che, nella sua τέχνη, intende fare del corpo nel suo modo specifico di avere a che fare con esso. Un modo ulteriore di considerare i σώματα: il legno, non in
quanto è fatto in questo e quel modo, non in quanto tronco dell’albero, elemento costitutivo della pianta, non in quanto materiale, bensì semplicemente in quanto è esteso. Quando viene considerato così, il legno è un possibile oggetto del μαθηματικός.503 Oltre a questi modi di considerare l’ente ve n’è, infine, un altro che intende ogni ente in riferimento alle sue determinazioni ontologiche, non però solo in relazione, per esempio, al suo essere esteso, poiché esso riunisce piuttosto ogni possibile ente nella domanda fondamentale circa l’essere in quanto tale. È questo l’oggetto del πρῶτος ϕιλόσοϕος.504 Per la definizione ontologica dei πάθη è importante ribadire che essi vengono compresi in se stessi soltanto se sono intesi in quanto πάθη del σῶμα; il loro εἶδος si definisce primariamente in quanto determinazione del vivente in riferimento all’«essere in» nel mondo. Θυμός e ϕόβος sono qualcosa che accade a un corpo fatto in un modo determinato – le due cose «non sono separabili».505 Non esiste qualcosa come una paura pura, da intendersi come un comportarsi astratto nei confronti di qualcosa. Si tratta piuttosto, in sé, di un comportamento dell’uomo nella sua globalità, con la sua corporeità. Ma questo «non poter essere astratto e detratto» è diverso da quello delle oggettualità matematiche. I πάθη non possono essere identificati con la linea e la superficie del corpo in senso matematico.506 Il greco vede una linea non primariamente in sé: γραμμή è sempre piuttosto il limite di una superficie, la superficie è il limite del corpo, la superficie non ha alcun essere senza il corpo – dunque anche qui si ha un «non poter essere separati». Anche l’εἶδος dell’avere paura, insomma, è primariamente riferito a un sentirsi-situato del corpo. La differenza sta in ciò, che, mentre nel caso della non separabilità matematica la specifica costituzione dei σώματα non svolge alcun ruolo – per esempio l’essere bruno o graffiato del corpo fisico –, nel caso dei πάθη il fatto che l’essere sia costituito in questo e in quel modo è essenziale. Entrambi sono λόγοι ἔνυλοι, ma in un senso completamente
diverso. È questo il terreno per il modo in cui la Retorica considera i πάθη in riferimento all’εἶδος. Ciò che importa è che Aristotele non perviene alla definizione fondamentale del vivente basandosi su considerazioni fisiologiche. L’εἶδος dei πάθη è un comportarsi nei confronti degli altri uomini, un «essere nel mondo». Soltanto a partire da questo assunto può essere correttamente indagata la ὕλη dei πάθη. Nel libro I, capitolo 1, del De anima si tratta di verificare fino a che punto il νοῦς, in quanto determinazione fondamentale dell’essere dell’uomo, costituisca una caratteristica fondamentale di questo essere, e in che misura l’uomo rappresenti solo una possibilità determinata dell’essere del νοῦς. La base per tale verifica consiste nel fatto che Aristotele nota che il νοῦς, il «pensare», contrariamente a tutte le altre modalità di coglimento, è una possibilità di cogliere che non è limitata a un ambito ontologico determinato, come l’udire, il vedere, ecc., bensì – in quanto νοῦς – mira a τὰ πάντα, è insomma una possibilità di cogliere che coglie ogni possibile ente in modo tale che l’ente in questione non deve nemmeno essere necessariamente presente. Questa universalità della possibilità di coglimento è qualcosa che non va fatto coincidere con il concreto essere dell’uomo che sempre, di volta in volta, è. Ma, allora, su che cosa si fonda questa possibilità di cogliere tutto, che cresce e si sviluppa al di là dell’uomo e del suo essere concreto? Nel contesto di tale questione Aristotele tratta dei πάθη come di quei fenomeni grazie ai quali si può mostrare che il concreto essere dell’uomo può essere inteso solo se lo si assume nella sua pienezza, in base a una varietà di considerazioni. Decisivo è soprattutto il fatto che possiamo perdere il controllo provando paura, senza che nel mondo intorno a noi ci si faccia incontro nulla che possa essere motivo diretto di paura. In questo essere colti dai πάθη la corporeità viene in certo modo coinvolta. Se le cose stanno così, sorge la domanda: in quale campo
d’indagine rientra l’ente che ha il carattere del vivente? Il ϕυσικός non deve avere, come tema, anche la ψυχή? In effetti è così, dato che in linea di principio per il ϕυσικός ogni σῶμα è un τοιοῦτον, è determinato in questo e quel modo. Ne consegue che egli è tenuto a definire dall’inizio questo τοιοῦτον, la ὕλη nel suo senso positivo. Ed è appunto il compito di fornire questa definizione fondamentale dell’ente a essere sempre stato disatteso dagli antichi ϕυσιολόγοι. Dobbiamo quindi mettere a fuoco questo stato di cose dalla prospettiva opposta, mostrando fino a che punto il ϕυσικός deve prendere in considerazione, entro certi limiti, la ψυχή. Un motivo per questa digressione è la connessione con l’analisi del movimento svolta nel libro III, capitoli 1-3, della Fisica.
19. Il ϕυσικός e il suo modo di trattare la ψυχή (De part. an. A 1) Come la ψυχή venga generalmente presa in considerazione appare evidente nel libro I, capitolo 1, dell’indagine Περὶ ζῴων μορίων, che costituisce nel contempo un esempio concreto del modo peculiare in cui Aristotele sviluppa il λόγος teoretico. Il trattato si intitola Sulle parti degli animali. A prima vista non sembra che se ne possa ricavare molto. C’è però da osservare che qui lo ζῷον viene inteso nel senso più ampio di «essere vivente». Μόριον e μέρος hanno un significato assai più ampio di «parte» nell’unico senso di pezzo quantitativo: μόριον è da intendersi infatti anche come «funzione», «prestazione», «elemento strutturale». I μέρη sono tutto ciò che costituisce l’articolazione coerente, l’«essere coerentemente articolato» di un determinato ente. Περὶ ζῴων μορίων significa: «Sul nesso di articolazione e prestazione del vivente in quanto ente determinato».
a) Le due specie della ἕξις θεωρίας: competenza (ἐπιστήμη) e sicurezza della trattazione (παιδεία) Aristotele inizia la sua analisi con una riflessione di principio sulle condizioni dell’indagine scientifica. Ciò che incontreremo qui corrisponde a ciò che abbiamo conosciuto nella discussione dell’ἀρετή. Lì avevamo la definizione di ἀρετή in quanto ἕξις προαιρετικὴ μετὰ λόγου, così come la realizza il ϕρόνιμος. Qui invece Aristotele fa riferimento alla ἕξις θεωρίας, cioè al «poter disporre dell’indagare scientifico». Egli definisce tale ἕξις da due lati: 1. ἐπιστήμη, 2. παιδεία τις. Ad 1. Il primo elemento è la competenza: la giusta possibilità di uno scienziato implica la competenza nel suo ambito di studio. Ad 2. Assai più decisiva ed essenziale per Aristotele è la παιδεία, la sicurezza della trattazione. περὶ πᾶσαν θεωρίαν τε καὶ μέθοδον, ὁμοίως ταπεινοτέραν τε καὶ τιμιοτέραν, δύο ϕαίνονται τρόποι τῆς ἕξεως εἶναι, ὧν τὴν μὲν ἐπιστήμην τοῦ πράγματος καλῶς ἔχει προσαγορεύειν, τὴν δ᾽ οἷον παιδείαν τινά. πεπαιδευμένου γάρ ἐστι κατὰ τρόπον τὸ δύνασθαι κρῖναι εὐστόχως τί καλῶς ἢ μὴ καλῶς ἀποδίδωσιν ὁ λέγων.507 Con λέγων si intende qui colui che tiene una lezione in un corso. Rispetto a chi parla, colui che possiede la ἕξις della παιδεία deve «decidere» ed è in grado di «giudicare» – con «sicurezza» – che cosa l’oratore «riferisce correttamente oppure no» della materia di cui parla. Egli è in grado di giudicare come l’oratore tratta la questione in oggetto. Al πεπαιδευμένος compete il «come» della trattazione, egli giudica se è stata pronunciata in base al corretto rapporto di fondo nei confronti della questione. La παιδεία può decidere se l’approccio è originale oppure se l’oratore ce l’ha solo per sentito dire o l’ha appreso macchinalmente da altri. Viceversa, l’approccio teoretico che dispone della παιδεία è
in grado di procedere, in tutte o in determinate possibilità dell’indagine, con il giusto istinto metodico. Con ciò non si intende l’essere esperti di un dato metodo già disponibile come tecnica, bensì la ἕξις, l’essere liberi, il peculiare ponderato essere aperti nei confronti di un determinato contenuto oggettivo e di un determinato ambito oggettivo. Chi possiede il giusto istinto, la giusta παιδεία, sarà subito in grado di decidere se ha un senso che uno tratti la logica matematicamente, o la storia del cristianesimo con le categorie della storia dell’arte, stabilendo in tal modo le tipologie della devozione. Questa ἕξις è oggi del tutto trascurata: difficile è acquisirla e ancora più difficile trasmetterla. Ed è esattamente questa determinazione della ἕξις della παιδεία che si coglie nell’assoluta sicurezza con cui Aristotele espone le sue indagini e si schiera contro la tradizione. b) La παιδεία decisiva nell’indagine sui ϕύσει γινόμενα. Lo οὗ ἕνεκα in quanto λόγος come prospettiva primaria Qual è la παιδεία decisiva nell’indagine sulla ϕύσις? τοιοῦτον γὰρ δή τινα καὶ τὸν ὅλως πεπαιδευμένον οἰόμεθ᾿ εἶναι, καὶ τὸ πεπαιδεῦσθαι τὸ δύνασθαι ποιεῖν τὸ εἰρημένον.508 Nel caso del πεπαιδευμένος va operata la seguente distinzione: da un lato c’è lo ὅλως πεπαιδευμένος, che possiede «semplicemente» istinto, ed è talmente addentro nella παιδεία da accorgersi, anche senza una specifica cognizione di causa, se l’oratore si limita a ripetere macchinalmente qualcosa oppure se ne intende veramente; dall’altro, accanto allo ὅλως, c’è quello la cui competenza è limitata a un ambito specifico e che dimostra, nella sua materia, la dovuta sicurezza.509 Aristotele discute anzitutto la definizione della παιδεία riferita alla ἱστορία περὶ ϕύσιν.510 Ἱστορία significa: orientarsi, il primario guardarsi intorno per vedere che aspetto abbia propriamente la ϕύσις. A proposito di questa ἕξις, essendo essa improntata sui
processi naturali, sorgono una quantità di domande. Noi ci occupiamo solo delle principali. La prima questione: nell’indagine relativa a un ambito specifico bisogna, anzitutto, per così dire registrare, dedicarsi in primo luogo ai ϕαινόμενα, badare a che aspetto hanno le cose di cui si parla, a come esse ci si offrono primariamente quanto al loro contenuto, e solo in un secondo momento chiedersi perché esse siano proprio così e così, si comportino in questo e quel modo, oppure l’ordine delle domande dev’essere diverso?511 Bisogna procedere come gli antichi, che speculavano sulle ἀρχαί del mondo senza sapere che cosa intendevano per «mondo» – si deve cioè iniziare con la teoria, con ciò che ci è passato per la mente così, di sfuggita, riguardo a una faccenda, oppure è meglio concentrarsi dapprima sulla cosa stessa? La seconda questione da decidersi: nella misura in cui ogni indagine implica la messa in luce del διὰ τί, non bisogna dimenticare che riguardo all’ente che chiamiamo «natura» si danno due possibilità del διὰ τί: 1. lo οὗ ἕνεκα e 2. l’ὅθεν ἡ ἀρχὴ τῆς κινήσεως,512 «il “per che cosa” e il “da che cosa” è il movimento». Sono queste le due cause, cioè le due prospettive in cui può essere inteso un ente chiarito anzitutto nel suo esserci. Due domande quindi: 1. Bisogna in genere studiare in primo luogo il fenomeno, e poi chiedersi il perché? 2. Quale delle cause è primaria nel perché? Concentrando la mia attenzione sulla cosa stessa posso decidere in che modo, e da quale angolatura problematica, avvicinarmi a essa. A partire dalla cosa stessa devo decidere anche la seconda questione, cioè quale sia la prospettiva prioritaria, in base al suo senso per l’ente di cui qui si parla, il ϕύσει ὄν. Aristotele illustra la sua decisione considerando i ϕύσει ὄντα in quanto ζῷα. A partire dalla cosa stessa emerge che il primo διὰ τί è il per che cosa, dunque che, sul terreno della messa in luce dell’aspetto dell’essere del vivente, la prima domanda che devo pormi riguarda lo οὗ ἕνεκα. La motivazione di tale priorità suona: lo οὗ ἕνεκα è un
λόγος, λόγος γὰρ οὗτος, ἀρχὴ δ᾽ ὁ λόγος ὁμοίως ἔν τε τοῖς κατὰ τέχνην καὶ ἐν τοῖς ϕύσει συνεστηκόσιν.513 «Infatti il λόγος è l’ἀρχή nel campo dell’ente che sussiste, che “ci” è, e lo è nello stesso modo nell’ambito sia dell’ente prodotto sia dell’ente che “ci” è in quanto ϕύσει ὄν». La questione «in base a che cosa» l’ente si determini, nonché «da quale prospettiva» esso vada anzitutto inteso, viene decisa ricorrendo al λόγος. Λόγος significa sia il «parlare» sia «ciò che parlando è espresso» – definizione fondamentale dell’ἀποϕαίνεσθαι: ciò che è espresso è ciò che è mostrato a partire da ciò a cui, parlando, ci si rivolge, il che significa che nel λόγος ciò a cui ci si rivolge, questo specifico ente che è lì davanti, viene mostrato nel suo esserescoperto. Per ragioni precise l’espressione λόγος è intesa nella sua duplicità: 1. λόγος, λέγειν nel senso del «dirigersi verso qualcosa» e mostrarlo, λόγος nel senso dell’accesso; 2. λόγος nel senso di ciò che è espresso in quanto tale, che implica di per sé l’ente a cui ci si rivolge. È in questo secondo senso che noi tedeschi traduciamo λόγος con Anspruch, la «chiamata», il «rivolgersi a». Anche in tedesco l’espressione ansprechen, «chiamare», «rivolgersi a», viene utilizzata con un significato particolare: di un telefono diciamo che «chiama», «risponde», così come diciamo «rispondi» nel senso di replicare qualcosa a una chiamata telefonica. Λόγος nel senso dell’accesso: mostrare una cosa così e così, rivolgersi a una cosa in questo e quel modo. Nel rivolgersi a una cosa, la cosa che, così, è stata interpellata si rivolge – nel mostrare, essa si mostra così com’è. Ciò che importa è come una cosa viene interpellata, in modo tale che essa possa rivolgersi nel modo giusto a partire da se stessa. Inteso in questo secondo significato, il λόγος è la chiamata, il contenuto oggettivo che una cosa che abbiamo interpellato ci rivolge e ci offre. È per questo che il λόγος si presenta molto spesso come identico all’εἶδος: λόγος significa chiamata, ciò che la cosa offre, e nella giusta chiamata essa offre il «come» del suo aspetto e il «che cosa» del suo essere.
Il «per che cosa» è il λόγος, e poiché è così, e il λόγος è l’ἀρχή, il «per che cosa» è il primo perché. Dicendo che il «per che cosa» è il λόγος di una cosa, lo si intende in base a una specifica prospettiva: il τέλος. Il τέλος è l’autentico λόγος. Τέλος non significa «scopo», ma «essere finito», «fine». Il συνεστηκός, ciò che «sta lì» in quanto è finito, costituisce il senso autentico dell’esserci di un ente. Quando ci si rivolge a qualcosa nel suo essere-finito si ha la giusta chiamata. Il τέλος in quanto essere-finito è ciò presso cui la produzione ha la sua fine. L’essere-finito in quanto tale è ciò presso cui la produzione, l’approntamento, perviene alla fine. In quanto «finito» della produzione, il τέλος è il «per che cosa», ciò per cui la produzione, appunto, è così e così. Visto dalla prospettiva del «pervenire nel suo essere» di un ente, il τέλος è lo οὗ ἕνεκα. Aristotele compie questi passaggi in modo concreto. Seguiamolo nel suo operato, procurandoci nel contempo la base per capire come, in questa analisi ontologica, si renda comprensibile in che senso il τέλος è il λόγος di un ente, quindi in che senso l’indagine degli antichi fisiologi fosse fuorviante. Da ciò prende il suo indirizzo l’intera trattazione dei ϕύσει ὄντα. Al tempo stesso vediamo in che senso proprio il τέλος inteso come λόγος autentico dei ϕύσει ὄντα – e precisamente degli ζῷα – altro non sia che ψυχή, sicché il fisico deve trattare πρῶτον il τέλος. Τέλος non significa «tensione alla meta», τέλος è un ϕαινόμενον: non è un apparato, è piuttosto l’«esserci finito», così come l’animale si muove. Riguardo al τέλος, ciò di cui si fa primariamente esperienza è il fatto che esso perviene al suo essere nell’esserci stesso. Lo scopo dell’analisi condotta nel libro I, capitolo 1, del Περὶ ζῴων μορίων è plurimo: 1. Localizzazione della ϕύσις. 2. Perché la ψυχή rientra nel campo d’indagine del ϕυσικός? 3. Un orientamento circa la concreta attuazione del λόγος θεωρητικός – ἀλήθεια. 4. Possibilità di dare uno sguardo allo scopo dell’intero corso: che cosa significano οὐσία e ὄν? Oὐσία: all’inizio siamo partiti dal significato corrente e
abbiamo inteso l’οὐσία come l’«ente che è attualmente presente nel suo “Ci”», «ciò che è disponibile», gli «averi» – l’οὐσία come sta alla base delle localizzazioni fondamentali. Significato di essere come essere attualmente presente. Essere: esser-ci nel presente. In connessione con la localizzazione fondamentale, il significato di essere in quanto essere attualmente presente ottiene una spiegazione più precisa se riusciamo a mostrare che cosa significa il «Ci» per i greci: l’essere pervenuto nel «Ci», precisamente tramite la pro-duzione,m; «pro»: «Ci»; il «pro» è un determinato «Ci»; pro-durre: portare nel «Ci», nel presente. È il senso proprio della ποίησις. Esser-ci è in senso proprio essere pro-dotto, vale a dire esserci-pronto, essere pervenuto alla fine. Τέλος = πέρας. Sono questi i fili conduttori per il senso fondamentale dell’ontologia greca, così come esso agì poi più tardi nei successori dei greci, in modo tale che il senso originario dell’essere ne fu nascosto trasformandosi in un mero significato verbale. Il significato primario di οὐσία, essere, da cui siamo partiti, è «averi»: ciò che viene prodotto in legno, pietra, e posto sul terreno (che è anch’esso ϕύσει ὄν), è τέχνῃ ὄν: 1. quindi πράγματα e χρήματα: ciò con cui ho a che fare, che è a mia disposizione, che uso correntemente nella vita pratica; 2. i ϕύσει ὄντα in quanto γινόμενα; 3. i ϕύσει ὄντα in quanto ἀεί. I caratteri ontologici possono essere resi comprensibili solo in base al senso dell’esserci in quanto essere-prodotto. I πράγματα «ci» sono nella misura in cui sono prodotti dalla τέχνη. Invece i ϕύσει ὄντα sono qualcosa che «ci» è nel «prodursi da sé», qualcosa che non ha bisogno di essere prodotto da altri. Essi «ci» sono esattamente come i πράγματα; però la loro γένεσις ha a sua volta nuovamente il carattere del «Ci»: una pianta cresce e ne produce altre. Da ultimo si dà l’ente che «ci» è, il ϕύσει ὄν è in quanto ἀεί, ciò che non necessita di produzione, ciò che «ci» è in modo tale da non avere bisogno di essere prodotto. Esso «ci» è in senso autentico, però è comprensibile solo a partire dalla produzione. Il terreno dell’ente è il produrre. Si può notare in che modo il λόγος sia
la possibilità di conquistare l’accesso all’essere inteso nel senso specifico dell’«esserci pronto», dell’«essere pervenuto alla fine». L’analisi di Aristotele inizia con una distinzione in seno alla ἕξις: 1. competenza, 2. sicurezza quanto alla trattazione metodica di un determinato ente da parte dell’indagine: παιδεία. Si tratta qui di svolgere alcune riflessioni che non riguardano la competenza, essendo autonome e separate dalla questione πῶς ἔχει τ᾿ ἀληθές, «come l’ente si comporti nel suo essere-scoperto». Prescindendo da tale questione, va discusso quale sia la giusta modalità di accesso a un ente di cui l’indagine deve di fatto iniziare a occuparsi, e in quale ordine vadano compiuti i suoi singoli passi. Aristotele fissa la sua riflessione anzitutto schematicamente in due domande: 1. Debbono essere presi in considerazione prima di tutto i ϕαινόμενα e poi il διὰ τί? 2. Se il διὰ τί, allora quale perché? Da quale punto di vista debbo porre primariamente l’ente così presentificato? Ne conosciamo due: lo οὗ ἕνεκα e l’ἀρχὴ κινήσεως. La questione di quale delle due prospettive sia la più originaria può essere decisa solo a partire dall’ente stesso. È una questione che non posso concepire in modo sistematico: la posso decidere solo a partire dalla cosa stessa. La discussione e la dimostrazione del fatto che lo οὗ ἕνεκα costituisce il punto di vista primario, la prospettiva prioritaria, possono essere compiute solo se faccio ritorno all’essere stesso, ai ϕαινόμενα. La correttezza della prospettiva può essere ricavata solo dalla cosa stessa. Tuttavia, poiché gli enti di cui ci occupiamo sono i ϕύσει ὄντα, cioè enti caratterizzati dal «pervenire nel “Ci”», dalla γένεσις, ci chiediamo: il Primo è lo οὗ ἕνεκα oppure lo ὅθεν ἡ ἀρχὴ τῆς κινήσεως? Dobbiamo considerare la materia di studio di cui stiamo discutendo nel suo «che cosa»? Dobbiamo prenderci cura dell’ente occupandoci di ciò che esso è, di ciò che esso è in quanto ente che «ci» è – oppure considerando come esso diviene in riferimento alla sua γένεσις? Ora, poiché è già stato deciso che la domanda sul τί è la
questione primaria, sarà a partire da essa che comprenderemo l’οὐσία, quindi la γένεσις. Probabilmente sarà lo οὗ ἕνεκα a dare risposta al τί. Bisogna dunque chiarire perché lo οὗ ἕνεκα è l’elemento primario. È su questa base che possiamo proporci di determinare l’ente nel suo essere autentico. È nostra intenzione stabilire, per la materia di cui ci stiamo occupando, la prospettiva di fondo, cioè porre in luce l’essere degli ζῷα – dobbiamo insomma far emergere nella sua evidenza la determinazione fondamentale dell’ente che vive, la ψυχή. Nel contesto della nostra indagine è necessario prestare attenzione a come Aristotele pone fenomenicamente in luce, in base al modo in cui l’ente si mostra, il carattere dell’ἔμψυχον. Ne ricaviamo anche il terreno per la nostra ipotesi secondo cui ζωή, ovvero ψυχή, significa: un ente in quanto «essere nel mondo». Mostrerò che il passo sta nel testo e non è una mia invenzione. La risposta di Aristotele alla questione posta dalla παιδεία di questa disciplina è che la prospettiva primaria richiesta dall’ente è lo οὗ ἕνεκα. Nel «per che cosa», in ciò che viene indagato da questo punto di vista – lungo questa prospettiva – l’ente deve mostrarsi così come esso stesso è. Si tratta qui dei ϕύσει ὄντα, e precisamente dei γινόμενα, non degli ἀεὶ ὄντα, dell’οὐρανός, che peraltro è anch’esso ϕύσει ὄν. Per essere ancora più chiari, si tratta di quei γινόμενα che sono ἔμψυχα. Una questione ulteriore è come ora questo senso dell’essere – come esposto all’inizio – divenga decisivo per l’interpretazione dell’essere dell’uomo inteso in quanto πρᾶξις. La direzione dell’interpretazione ontologica porta alla categoria della ἕξις, all’essere concepito come un determinato «avere», «disporre di qualcosa». Per motivare il fatto che lo οὗ ἕνεκα è la prospettiva primaria, Aristotele afferma anzitutto che lo οὗ ἕνεκα è il λόγος. Perché è per questo motivo che esso è la prospettiva primaria? Che cosa mai significa λόγος in questo contesto? 1. Λόγος nel senso dell’accesso, ἀποϕαίνεσθαι dell’ente in quanto ϕαινόμενον. 2. Λόγος nel senso della risposta, in
quanto «rivolgersi a», come l’ente si rivolge a ciò che lo interpella; questo λόγος rispecchia l’ente nel suo aspetto. Nel primo senso, nel rivolgersi all’ente l’ente stesso viene posto in una prospettiva in quanto qualcosa, questo ente qui in quanto questo e quello, in quanto sedia. Il λόγος pone in risalto τὶ κατά τινος, qualcosa in quanto qualcosa. Da questo elemento del λόγος scaturisce l’ulteriore possibilità del λόγος stesso in quanto porre in risalto, articolare, λόγος in quanto τὶ κατά τινος. Ne deriva la possibilità del λόγος qua relazione, per esempio ἀνάλογον. Il λόγος è la possibilità per la scoperta di una relazione, mentre in sé esso non è una relazione. A questo duplice significato di λόγος se ne aggiunge un terzo, quello propriamente medio, 3. nel qual caso λόγος significa entrambe le cose – il mostrare e ciò che è espresso, ciò che è espresso in questo specifico modo –, nel senso però che nell’esprimere non porto a compimento in modo autentico l’espressione, ma mi limito a parlare come capita. Nondimeno, anche ciò che è detto a caso, senza pensarci, contiene latente in sé la possibilità dell’appropriazione originaria, nel senso che posso fare sul serio anche con ciò che ho detto in modo superficiale. Questo λόγος è il parlare medio di questioni con cui si ha una certa familiarità, pur senza averle effettivamente presenti. Da esso nasce e si sviluppa la possibilità della pura attuazione, ed esso implica la possibilità di mostrare nel modo giusto. c) La definizione del λόγος autonomo riferito ai ϕύσει γινόμενα Il λόγος è proprio questo: il modo di mostrare l’ente, la possibilità dove si decide qual è l’accesso primario e che cosa deve primariamente mostrarsi. Perciò l’intera discussione ruota intorno alla domanda: πῶς λεκτέον?514 Il λεκτέον accoglie l’ipotesi di partenza secondo cui lo οὗ ἕνεκα è il πρῶτον perché è il λόγος. Ne va qui di un λόγος autentico, il λόγος della θεωρία. Da quanto detto in
precedenza515 sappiamo già che il λόγος ha un significato fondamentale nell’essere dell’uomo: ζωὴ πρακτικὴ μετὰ λόγου. Il λόγος si compie nel rivolgersi al mondo e nel discutere di esso. Nel λέγειν l’esserci del mondo e l’esserci in quanto vita pervengono all’interpretazione, di volta in volta a seconda della misura in cui l’ente si muove nel mondo. Il parlare è la modalità costitutiva di attuazione dell’avere a che fare che si prende cura. Per l’esserci dell’uomo sussiste la possibilità che questo determinato λέγειν, nel suo avere a che fare prendentesi cura, desista dal prendersi cura nel senso della ποίησις, cioè dell’avere a che fare che mira a realizzare qualcosa di concreto. La πρᾶξις, insomma, può perdere il carattere della ποίησις, e non deve nemmeno avere per forza il carattere dell’agire: può assumere infatti il carattere del semplice occuparsi di qualcosa nel senso di trattarne. Il λόγος si autonomizza, diventa esso stesso la πρᾶξις. Questo modo dell’avere a che fare è la θεωρία, e non più il guardarsi attorno con lo scopo di... Al contrario, qui si tratta di rivolgere lo sguardo alle cose stesse, per coglierle nel loro essere ed esserci. È così che il teoretico, la scienza come possibilità, nasce e si sviluppa dall’esserci stesso. Questo stato di fatto fondamentale non va mai perso di vista. Domandiamo: che aspetto ha il λόγος quando diventa autonomo, quando cioè lo intendiamo nel senso del trattare un argomento (il termine λόγοι utilizzato nel senso della «trattazione»), con particolare attenzione all’ambito ontologico dei ϕύσει ὄντα in quanto γινόμενα? Aristotele procede con prudenza e individua non il modo del λέγειν, bensì il fenomeno più prossimo a esso conosciuto. Ed è su questa base che egli tenta di chiarire il λόγος peculiare della θεωρία. Si tratterà dunque di indicare un contesto che abbia una determinata affinità con il λόγος della θεωρία. Questa modalità familiare dell’avere a che fare con le cose, affine alla θεωρία, è la τέχνη, una ποίησις, una «produzione» di qualcosa guidata e diretta da una competenza. La costruzione di una casa viene guidata dalla direzione dei
lavori. E perché mai proprio questo ente, ovvero questo avere a che fare? Che sia la ποίησις il fenomeno più prossimo è senza dubbio evidente. Si deve spiegare però in che senso l’ente della ποίησις abbia una peculiare affinità con i ϕύσει ὄντα in quanto γινόμενα. Ora, i ϕύσει ὄντα non sono forse enti che non siamo noi a produrre, ma che per noi «ci» sono già, sono già lì nel mondo, e tuttavia in maniera tale da avere a che fare con il produrre inteso come un «produrre se stessi», dunque «ci» sono nel «produrre se stessi»? Si tratta di un risultato basilare. Aristotele si chiede quindi: che aspetto ha il λόγος nella τέχνη, e che aspetto avrà, di conseguenza, il λόγος come disamina pura? Bisogna considerare: 1. Come Aristotele caratterizza la τέχνη, ovvero gli ἔργα τέχνης, l’ente che specificamente «ci» è per la τέχνη, nonché il λόγος τέχνης. 2. In quanto «che cosa» si mostrano primariamente, come ϕαινόμενα, i ϕύσει ὄντα intesi come γινόμενα? 3. Come hanno visto gli antichi i ϕύσει ὄντα, ovvero che cosa non hanno colto in essi, che cosa hanno trascurato di quanto andava invece posto in luce? In base a ciò che Aristotele sottolinea come omissione risulta chiaro che cosa egli ritiene importante. α) Gli ἔργα τέχνης e il λόγος della τέχνη Che aspetto hanno la τέχνη, gli ἔργα τέχνης e il λόγος della τέχνη?516 ἥ γὰρ τῇ διανοίᾳ ἢ τῇ αἰσθήσει ὁρισάμενος ὁ μὲν ἰατρὸς τὴν ὑγίειαν, ὁ δ᾽ οἰκοδόμος τὴν οἰκίαν, ἀποδιδόασι τοὺς λόγους καὶ τὰς αἰτίας οὗ ποιοῦσιν ἑκάστου, καὶ διότι ποιητέον οὕτως.517 «Ammesso che il medico, o il capomastro dimostrino, tramite la riflessione [tramite il ponderato richiamare alla mente l’ente con cui hanno a che fare], o tramite l’αἴσθησις [tramite l’esempio concreto in virtù del fatto di avere già visto una casa], di saperci fare nel loro mestiere, in entrambi i casi essi offrono il λόγος [come la cosa ci si rivolge, che aspetto ha], il λόγος
di ciò che stanno facendo, che devono fare, e con ciò [nella misura in cui offrono il λόγος] anche il perché la cosa in questione debba essere realizzata in questo e quel modo». La casa che mi voglio costruire: se il suo aspetto è questo, la devo costruire così, devo procurarmi questo materiale. La casa è messa in risalto in base al λόγος, il perché, cioè il λόγος, è il «per che cosa»: poiché il λόγος è così e così, la casa dev’essere realizzata così e così, il che significa che la γένεσις può essere compresa solo in base al τέλος. Ciò che importa è comprendere i ϕύσει ὄντα in base al loro λόγος. In questo contesto trae origine la ψυχή, com’è tema del ϕυσικός. Essere attualmente presente ed essere prodotto sono le due determinazioni che rendono comprensibile il concetto di essere dei greci. Entrambi questi elementi debbono essere indagati con maggior precisione all’interno della stessa esistenza greca. Si deve cioè chiarire in che senso l’esistere dei greci è tale che il mondo e la vita vengono esperiti in questa finitezza, e perché proprio questa esperienza dell’essere venga esplicata con questi mezzi concettuali. Non poniamo qui quest’ultima questione relativa all’ontologia greca. Ci preme piuttosto rendere comprensibili alcune determinazioni fondamentali dell’ente in quanto essere in movimento, quindi essereprodotto, essere-divenuto. Detto in modo più concreto, Aristotele tenta di far emergere i caratteri dell’esserci, il modo dell’essere-presente e il modo dell’essere-prodotto; egli pone in luce i caratteristici elementi ontologici dell’essere in quanto vivente nella natura. Per ottenere un simile chiarimento deve evidenziarsi lo stato di fatto fenomenico che i greci designano con ψυχή, se l’anima appartiene all’ente, cioè è essente nel mondo: ϕαινόμενον ψυχῆς. La costruzione dell’analisi si orienta sulla questione: che cosa rientra nella giusta trattazione metodica dei ϕύσει ὄντα? Articoliamo la nostra disamina in tre punti: 1. Consideriamo il terreno a partire dal quale Aristotele conduce la sua indagine sui caratteri ontologici e di presenza attuale dei ϕύσει ὄντα, il campo del noto a partire dal quale
si rende comprensibile l’ignoto. Questo campo è costituito dagli ἔργα τέχνης, ciò che è lì, disponibile, in uso, utilizzabile, prodotto per l’azione e la lavorazione determinata di qualcos’altro. 2. Che aspetto hanno i ϕύσει γινόμενα, la natura vivente? 3. Come hanno inteso l’essere dei ϕύσει γινόμενα gli antichi fisiologi? La disamina critica dei predecessori ha lo scopo di porre in luce gli errori caratteristici, la ricerca mal condotta. Ad 1. Abbiamo iniziato con il primo punto, per richiamare alla mente gli ἔργα τέχνης. Nella sua riflessione primaria la τέχνη offre l’aspetto che deve avere ciò che va prodotto, il ποιητέον, nonché il procedimento della produzione stessa. Nel secondo passo citato,518 è Aristotele stesso a esplicitare il nesso tra l’aspetto, cui ci si rivolge parlando, della produzione e la produzione stessa. Tale nesso viene costituito tramite un determinato modo del parlare – il λόγος è caratterizzato dalla formula «se-allora»: se questo e quest’altro dev’essere finito, allora deve avvenire questo e quest’altro. Il «se-allora» implica che in base all’aspetto di ciò che va prodotto sia richiesto un determinato «di che cosa» del produrre, una determinata ὕλη. Per produrre una scarpa ho bisogno di questo e di quest’altro cuoio – il «di che cosa» di un essere fatto e di un sussistere. È necessario che una ὕλη fatta così e così, un determinato «di che cosa», sia dapprima lì presente sottomano, lì a disposizione. Il «di che cosa» del produrre è presente di per sé in questa determinata disponibilità. Tale disponibilità è prefigurata in base a ciò che dev’essere presente in quanto finito. ἀνάγκη δὲ τοιάνδε τὴν ὕλην ὑπάρξαι, εἰ ἔσται οἰκία ἢ ἄλλο τι τέλος· καὶ γενέσθαι τε καὶ κινηθῆναι δεῖ τόδε πρῶτον, εἶτα τόδε, καὶ τοῦτον δὴ τὸν τρόπον ἐϕεξῆς μέχρι τοῦ τέλους καὶ οὗ ἕνεκα γίνεται ἕκαστον καὶ ἔστιν.519 «Se una casa, o un altro ente, deve pervenire nel suo essere-finito, è necessario che sia lì presente sottomano una ὕλη fatta così e così. E il divenire, e il divenire-mosso [cioè il procedimento del produrre], dev’essere quindi in primo luogo questo, il primo
passo della lavorazione dev’essere questo e quello, poi quell’altro, e così via fino alla fine, μέχρι τοῦ τέλους». In base al «come», colto in anticipo, dell’aspetto dell’ente finito, vengono prefigurati il procedimento, la sequenza e la direzione della produzione. Ciò significa, al tempo stesso, che la γένεσις si fonda in sé nel τέλος. Essa ha in sé – così com’è di volta in volta – la sua possibilità di essere nell’essere-finita, sicché il «come» della τέχνη viene colto in anticipo in modo peculiare tramite il λόγος. ἐπεὶ τοιόνδ᾿ ἐστὶ τὸ εἶδος τῆς οἰκίας, ἢ τοιόνδ᾽ ἐστὶν ἡ οἰκία, ὅτι γίνεται οὕτως. ἡ γὰρ γένεσις ἕνεκα τῆς οὐσίας ἐστίν, ἀλλ᾿ οὐχ ἡ οὐσία ἕνεκα τῆς γενέσεως.520 «Poiché l’aspetto della casa [che, nella riflessione anticipante del capomastro, dev’essere edificata in un certo punto e in un certo modo] è di un certo tipo, anche la produzione dev’essere di un certo tipo. Infatti è il divenire che avviene in vista dell’essere lì presente [in vista del presente in quanto essere-finito di ciò che va prodotto], e non viceversa il presente in vista della produzione». Breve riassunto, che chiarisce che aspetto ha il λόγος della τέχνη: ἡ δὲ τέχνη λόγος τοῦ ἔργου ὃ ἄνευ τῆς ὕλης ἐστίν.521 «La τέχνη [non il produrre in quanto tale, ma una modalità dell’ἐπιστήμη in quanto competenza in ciò che va prodotto] è un λόγος di ciò che dev’essere fatto, dell’ἔργον, un “rivolgersi a” che sussiste senza la ὕλη, la materia»,522 ad esempio, nel caso della casa, un «rivolgersi a» che sussiste senza pietre, mattoni, legno. Si è visto in precedenza che ciò che risponde alla chiamata è proprio l’εἶδος, e che è l’εἶδος stesso, a partire da sé, a prefigurare che si prenda in considerazione un materiale fatto in un determinato modo. L’espressione λόγος ἄνευ τῆς ὕλης non può quindi significare che non ci si rivolge per nulla alla ὕλη. Il λόγος implica anzi proprio il simultaneo rivolgersi alla ὕλη intesa come qualcosa di determinato. Il produrre stesso si realizza in riferimento a ciò rispetto a cui la τέχνη è ἄνευ τῆς ὕλης. ςAνευ τῆς ὕλης qui significa: c’è un riflettere che in se stesso non implica quel particolare avere a che fare che
corrisponde alla ὕλη. Il comportamento primario nei confronti del «di che cosa» del produrre è il produrre stesso nel suo attivarsi. Il λόγος non implica di per sé un tale produrre. Ciò significa che il λόγος, per così dire, balza in avanti anticipando il produrre, e solo in virtù di questo balzo anticipatore esso può prefigurare il procedimento stesso e la sua direzione, portando così la produzione nella sua giusta possibilità. Proprio perché esser-ci significa essere-finito, essereprodotto, ogni produzione dev’essere fondata dall’εἶδος. L’«avere l’aspetto», che è colto in anticipo nella τέχνη, è ciò che determina nel suo esserci l’ente finito che «ci» è, ciò che lo caratterizza nel suo «esserci in quanto casa». Questo significa che l’esserci di un ente è in se stesso codeterminato da che cosa esso è. Per i greci l’essere nel senso dell’esserci è fondamentalmente codeterminato dall’essere qualcosa; essi quindi lo determinano non come un essere per sé, ma come Aristotele, che assume l’essere qualcosa come costitutivo per l’ente stesso che «ci» è. Finché si vede la casa nel suo aspetto, non la si vede isolata, in quei particolari momenti, in quella particolare ora del giorno, con quella luce, abitata da quelle persone particolari, poiché ciò che vediamo è piuttosto questo ente che «ci» è, così come lo si vede mediamente in quanto casa, come lo si vive giorno per giorno nella quotidianità, quell’ente che, nell’averci a che fare, ci appare come questo qualcosa nella medietà del presente. Ciò che si fa incontro, mediamente, nel suo aspetto, costituisce l’esserci. È inutile chiedersi in che senso i greci avrebbero concepito l’essere «individuale» in quanto concreta determinazione dell’esserci. Al greco non passa nemmeno per la mente di vedere in questo hic et nunc l’autentico «Ci». β) I caratteri ontologici dei ϕύσει γινόμενα Seguendo il filo conduttore degli ἔργα τέχνης, come definisce e come vede Aristotele i ϕύσει ὄντα, identificati
con il vivente?523 La prima questione è: come si mostra il ϕύσει ὄν? Qual è l’aspetto primario in cui questi enti si mostrano? πανταχοῦ δὲ λέγομεν τόδε τοῦδε ἕνεκα, ὅπου ἂν ϕαίνηται τέλος τι πρὸς ὃ ἡ κίνησις περαίνει μηδενὸς ἐμποδίζοντος. ὥστε εἶναι ϕανερὸν ὅτι ἔστι τι τοιοῦτον, ὃ δὴ καὶ καλοῦμεν ϕύσιν.524 «Ovunque ci rivolgiamo a ciò che ci si fa incontro intendendolo come τὸδε τοῦδε ἕνεκα, questo qui per quest’altro». A uno stato di fatto, che ci si fa incontro, e che ha questo e quell’aspetto, ci rivolgiamo nella prospettiva dello ἕνεκα τοῦδε. Dove si compie questa modalità dell’interpellare, e come deve farcisi incontro qualcosa per essere interpellato in questo modo? Quand’è che abbiamo la condizione primaria dei dati di fatto fenomenici, dell’ente che ci si fa incontro, che ci consente di rivolgerci a esso in questo modo? Risposta: ovunque «e ogni volta che si mostra qualcosa come un “essere finito”, un “alla fine”, qualcosa a cui il movimento perviene come alla sua fine, e per la precisione in modo tale che niente lo ostacola, dunque liberamente». L’esperienza primaria è il vedere qualcosa che si muove da sé in quanto essente-finito. L’elemento costitutivo è: qualcosa è in movimento, e precisamente in modo tale da pervenire a una fine. «È chiaro quindi che questo qualcosa è ciò che chiamiamo ϕύσις». Ovunque vediamo qualcosa che ha queste caratteristiche ci rivolgiamo a esso nel modo del τὸδε τοῦδε ἕνεκα. Quando ci si fa incontro qualcosa che è un qualcosa di questo genere, è a esso che ci rivolgiamo manifestamente in quanto ϕύσις. Il dato di fatto fondamentale che caratterizza il senso della ϕύσις come un modo dell’esserci è un essente-finito, nel quale essere-finito, essere-divenuto, esso è tolto-econservato, nel suo «provenire da...», in quanto producente se stesso. È questo il dato di fatto che fonda il rivolgersi all’ἕνεκα. μᾶλλον δ᾽ ἐστὶ τὸ οὗ ἕνεκα καὶ τὸ καλὸν ἐν τοῖς τῆς ϕύσεως ἔργοις ἢ ἐν τοῖς τῆς τέχνης. τὸ δ᾽ ἐξ ἀνάγκης οὐ πᾶσιν ὑπάρχει τοῖς κατὰ ϕύσιν ὁμοίως, εἰς ὃ πειρῶνται πάντες σχεδὸν τοὺς λόγους ἀνάγειν οὐ διελόμενοι ποσαχῶς
λέγεται τὸ ἀναγκαῖον. ὑπάρχει δὲ τὸ μὲν ἁπλῶς τοῖς ἀϊδίοις, τὸ δ᾽ ἐξ ὑποθέσεως καὶ τοῖς ἐν γενέσει πᾶσιν.525 «Ora, questo dato di fatto si trova più nel campo dell’ente che designiamo come natura che nell’ambito degli oggetti presenti nel campo dell’essere prodotti, che ha lo specifico carattere del fare nel senso di una τέχνη: lo οὗ ἕνεκα e il καλόν». Il senso del καλόν è riferito al μηδενὸς ἐμποδίζοντος – καλόν: il «bello», ciò che è riuscito, e che in questo essere-riuscito «ci» è in modo tale che, nel suo caso, non può essere individuato nessun difetto. Infatti, mentre la τέχνη intesa nel senso del fare artigianale è caratterizzata dal fatto che qualcosa dev’essere collaudato, che il materiale può essere inadatto e che per riuscire essa necessita di particolari circostanze e coincidenze, l’ente che ha il carattere dei ϕύσει ὄντα procede senza intoppi, e «ci» è in questo suo «essere proceduto senza intoppi»: καλόν. È stata l’esperienza del καλόν a indurre gli antichi a chiamare ἀναγκαῖον questo ϕύσει ὄν che «riesce» sempre, ed è tale che per principio non gli può capitare nulla di avverso. Riguardo alla necessità vi è però una differenza, un duplice ἀναγκαῖον: 1. ἀναγκαῖον ἁπλῶς, 2. ἀναγκαῖον ἐξ ὑποθέσεως.526 1. «Assolutamente necessario» è ciò «che è eterno» e che esclude di per sé di essere mai divenuto. Ciò che è eterno esclude l’essere divenuto. Si tratta di un esserci che non ha bisogno dell’essere divenuto ed è incompatibile con esso. Dunque, questo «ente che “ci” è sempre nello stesso modo» è l’assolutamente necessario. 2. Nell’ente c’è però anche una necessità che è tale proprio in virtù dell’essere divenuto. Questo nesso necessario si evidenzia nella struttura del «se-allora», ἐξ ὑποθέσεως: se questa e quest’altra cosa debbono divenire, allora, dato questo presupposto, deve necessariamente accadere questo e quest’altro. Aristotele sintetizza così questo concetto: ἡ ϕύσις ἕνεκά του ποιεῖ πάντα.527 «Quell’ente che “ci” è, che è caratterizzato in quanto natura, fa tutto ciò, che esso stesso è, per qualcosa» – sempre in linea con il tipo di esegesi che
abbiamo illustrato in precedenza. Infatti, dire che qualcosa è finito passando attraverso un movimento non significa riferirsi a una qualche oscura «teleologia»! È per questo che Aristotele può definire il ϕύσει ὄν un ἐσόμενον, un ente che ha il suo essere nel «divenire un essere-così», in modo tale, per così dire, da anticipare se stesso. γ) Critica dell’approccio degli antichi fisiologi Sono proprio queste determinazioni fondamentali del ϕύσει ὄν, così come sono emerse dalla discussione dei passi citati, a essere state all’inizio trascurate dagli antichi nella loro indagine sulla natura. Di conseguenza essi non furono nemmeno in grado di cogliere nel giusto modo il particolare essere della natura come un che di vivente. La loro visione primaria – ciò che essi videro in primo luogo – fu: l’ente che «ci» è si muove. Tuttavia il fatto che io veda un alcunché di mosso, e mi rivolga a esso in quanto mosso, non significa ancora che io colga il movimento; con ciò infatti non è ancora data la possibilità di porre in luce il movimento di questo mosso in quanto determinazione ontologica. οἱ μὲν οὖν ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι ϕιλοσοϕήσαντες περὶ ϕύσεως περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς καὶ τῆς τοιαύτης αἰτίας ἐσκόπουν.528 «Gli antichi che hanno indagato filosoficamente la natura si sono interrogati sulle determinazioni fondamentali del suo essere rivolgendosi alla ὑλικὴ ἀρχή, al “di che cosa – da che cosa”, inteso come uno ὑλικόν, determinato dalla ὕλη». Proviamo a farcene un’idea perspicua nel campo della τέχνη: a un tavolo lì presente gli antichi – interrogandosi sul suo esserci – si rivolgono in quanto legno: questo ente che «ci» è, questo tavolo qui, è essere-legno. Il che significa: essi vedono l’ente che «ci» è considerando in primo luogo «di che cosa» è fatto, e impostano il metodo della loro ulteriore interrogazione in termini corrispondenti a questo loro modo di rivolgersi all’ente. Definizione del carattere dell’αἰτία: se si chiedono «da che cosa» ha inizio il movimento, pongono la questione:
che cosa mette in movimento? Risposta: questo essere-legno. Essi credevano di avere dato così una risposta alla questione: che cos’è l’esserci? Invece, in questo modo non avrebbero mai potuto rispondere alla domanda sull’esserci e sui caratteri ontologici del tavolo. Non diversamente stanno le cose nel caso della natura. Gli antichi non si sono ancora interrogati sull’essere del tavolo, dato che l’essere-legno contraddistingue, per esempio, anche la sedia o l’armadio. Discutendo in modo approfondito l’approccio degli antichi, Aristotele si avvicina sempre più alla giusta prospettiva in cui va considerato il ϕύσει ὄν. In tale prospettiva, e in ciò che ne risulta, incontriamo la ψυχή. Ne possiamo dedurre che il ϕυσικός, se è un vero ϕυσικός – se cioè vuole cogliere il vivente in quanto vivente –, non può non prendere in considerazione, nello stesso tempo, anche la ψυχή. Se il vivente implica l’essere in un σῶμα, allora anche il corretto coglimento del fenomeno fondamentale dei πάθη implica il σῶμα, e il ϕυσικός partecipa attivamente a questa scoperta. Nell’ultima lezione, per una svista, ho commesso un errore su cui desidero richiamare la vostra attenzione. Partendo dalla definizione della τέχνη in quanto λόγος τοῦ ἔργου intendevo mostrare che tale λόγος in quanto τέχνη è un λόγος in tutto e per tutto determinato dalla mancanza di riferimento alla ὕλη, a ciò di cui è fatto l’ἔργον in quanto tale. Il riferimento genuino alla ὕλη è il produrre. L’ἄνευ ὕλης è stato quindi chiarito in base al λόγος. Ho dimenticato però di dire che nel testo sta scritto: ὃ ἄνευ ὕλης.529 Dunque nel testo ἄνευ ὕλης si riferisce propriamente all’ἔργον. L’ἔργον viene visto in anticipo, e in quanto viene visto in anticipo non è ancora stato prodotto. Qui bisogna tenere conto del fatto che il λόγος è λόγος ἔργου, ovvero che ciò di cui qui si parla è l’opera nel suo essere assunta in anticipo in quanto finita. Ciò implica che qui si sta parlando dell’intero contesto del produrre, il che significa che in questo λόγος si parla anche, e in modo determinato, della ὕλη. L’espressione ἄνευ ὕλης non deve indurci, in modo fuorviante, a
considerare l’εἶδος come qualcosa di non sensibile. Nell’ἔργον è presente la ὕλη, ma non nel senso genuino. Nell’εἶδος, che è l’anticipazione dell’ἔργον, è assunto in anticipo ciò che – detto in termini grossolani – può definirsi lo scopo di qualcosa che va prodotto, o di qualcosa di finito. La casa in quanto σκέπασμα è assunta in anticipo per viverci, il viverci è assunto in anticipo nell’εἶδος della casa. Nello specifico aspetto della casa è racchiuso il suo «a che». L’εἶδος è quindi ciò che costituisce l’autentico esserci di un ente nel suo essere finito, sicché l’essere prodotto, in quanto modo dell’esserci fondato dall’εἶδος, appartiene implicitamente alla compiuta determinatezza dell’esserci inteso come essere semplicemente presente. In base a questa connessione dell’ἔργον con la ὕλη, ovvero con il λόγος e la ποίησις, è possibile cogliere il modo peculiare in cui la ὕλη stessa viene determinata. La ὕλη non è mero non-essere, μὴ ὄν, materia indeterminata o limite della forma, non è cioè l’indeterminato tout court. Anzi, la ὕλη è proprio ciò che è determinato: questo legno ha esattamente queste qualità, in base alle quali soltanto esso è lì, in quanto ὕλη, per essere utilizzato e preso in considerazione. ῞ϒλη è δύναμις, è la «possibilità» positiva per questo e quest’altro, che può essere colta solo a partire dall’εἶδος. È per questo che Aristotele dice: λεκτέον γὰρ τὸ εἶδος καὶ ᾗ εἶδος ἔχει ἕκαστον, τὸ δ᾽ ὑλικὸν οὐδέποτε καθ᾿ αὑτὸ λεκτέον.530 «Bisogna rivolgersi anzitutto all’aspetto di un ente che “ci” è di volta in volta, e ciò nella misura in cui esso ha un aspetto, il suo aspetto. Invece, all’elemento materiale, a ciò di cui tale ente è fatto, non ci si può mai rivolgere considerandolo in se stesso». In riferimento al λόγος, quindi, la ὕλη non è autonoma, e può essere dischiusa solo a partire dall’εἶδος. Questo λεκτέον è determinante anche per l’indagine in corso. Si tratta infatti di mostrare che, quando si indaga la natura, ci si deve chiedere anzitutto quale ne sia l’aspetto. Solo quando si è posto in evidenza l’εἶδος si ha la possibilità di indagare «di che cosa» sia fatta una cosa, ovvero «da che cosa» essa provenga, dunque la
γένεσις. L’εἶδος, l’οὐσία, fa dunque da fondazione alla γένεσις. Seguendo il filo conduttore della tesi secondo cui l’εἶδος è l’elemento primario, Aristotele discute gli antichi nella precisa prospettiva di comprendere fino a che punto anch’essi abbiano preso in considerazione i ϕύσει ὄντα, l’essere della natura in quanto vivente, l’ente che avevano – e che noi abbiamo – sott’occhio, e lo fa in termini critici con la domanda: come ci si deve propriamente rivolgere all’ente? Come giungono al loro corretto adempimento le tendenze che già in passato impegnavano gli sforzi degli antichi? Dove peraltro bisogna tenere concretamente presente il fatto che gli antichi concepivano in movimento anche la natura. Se Parmenide dice che tutto l’ente è ἕν, senza movimento, allora deve pur conoscere il movimento. Ciò che importa è mettere allo scoperto la natura nel suo esserci, in modo tale che il cammino che porta a essa non ci venga sbarrato da teorie e pregiudizi. Gli antichi vedevano la natura, nel suo esserci, anche nel suo mutamento, nel suo apparire e scomparire, ed è per questo che si interrogavano sul suo «da che cosa». Nei capitoli 1 e 2 del libro I della Metafisica Aristotele discute la radice del διότι.531 Nella vita pratica di tutti i giorni e nel quotidiano prendersi cura l’uomo si muove in modo solo implicito nel «perché» e «poiché». Ciò viene esplicato nel λόγος, che è il modo fondamentale dell’«essere nel mondo». La prospettiva dominante presso gli antichi era l’ente che «ci» è, l’ente concepito in quanto «fatto di...». È questo il modo più immediato di rispondere alla domanda sul «che cosa» dell’esserci di una sedia o di un tavolo: basta dire che sono fatti di legno. Questa è una risposta, però essa non risponde all’autentico esserci dell’ente in quanto tavolo. Finché l’avere l’aspetto, l’apparire in quanto tavolo non viene anch’esso assunto come terreno della discussione, la questione del «da che cosa» dell’ente non può essere risolta. Solo esaminando a fondo tale questione e studiando la natura nella sua prospettiva si può apprendere la risposta
alla domanda sull’essere dell’ente che «ci» è in quanto tavolo. Quindi, poiché i ϕύσει ὄντα debbono essere indagati in modo da prendere in considerazione anche l’εἶδος, non basta chiedersi «di che cosa» sono fatti, τὸ ἐκ τίνων,532 fuoco, acqua, terra, aria; non basta cogliere una materia, poiché qui dobbiamo indagare anche l’εἶδος, proprio come nel caso della τέχνη: quando si produce qualcosa non ci si può limitare a cogliere la materia, ma si ha bisogno della prefigurazione della materia a partire dall’εἶδος. La tal cosa ha questo particolare aspetto ed è fatta di questa particolare materia. κλίνη γὰρ τὸδε ἐν τῷδε, ἢ τὸδε τοιόνδε, ὥστε κἄν περὶ τοῦ σχήματος εἴη λεκτέον, καὶ ποῖον τὴν ἰδέαν.533 «Infatti, una cosa come un letto è un qualcosa che ha questo specifico aspetto ἐν τῷδε, in un ente siffatto». Lo σχῆμα è il «contorno», la «figura». Per la precisione bisogna dire: ποῖον τὴν ἰδέαν, «lo σχῆμα è da definirsi come quel genere di cosa che esso è». ᾿Ιδέα: l’unico utilizzo di questo termine che ricorre in Aristotele è quello di ἰδέα ed εἶδος. ᾿Ιδέα qui altro non significa che «aspetto» (contro Platone): «La figura di un ente così come esso è fatto in riferimento al suo aspetto» – la figura di un ente che «ci» è, e non solo una massa di legno e pietra; non una figura che esiste soprasensibilmente da qualche parte, ma una figura così come essa si mostra. «Poiché la ϕύσις, l’esserci delle cose naturali assunto secondo la μορϕή [lo stesso di σχῆμἂ, è superiore all’essere delle cose naturali assunto secondo il “di che cosa” del loro essere-fatte, τῆς ὑλικῆς ϕύσεως».534 Con la μορϕή (lo σχῆμα) ottengo l’essere delle cose naturali in senso proprio. Aristotele accenna al fatto che, tra gli antichi, Democrito ha in effetti posto la questione, studiando a fondo per la prima volta lo σχῆμα, la «figura» delle cose: egli sottolinea che σχῆμα e χρῶμα (la determinazione ottica dell’essere) sono ciò che determina un ente in quanto ϕύσει ὄν nel suo essere. «Potrebbe dunque essere corretto quanto sostiene Democrito quando mette in evidenza la figura e il colore
dell’essere vivente. Dice infatti: è manifesto per chiunque che ciò che l’uomo è, lo è riguardo al suo aspetto, poiché non v’è alcun dubbio che egli ci sia noto e familiare in base al suo colore e alla sua figura».535 Aristotele però commenta che «anche il cadavere di un uomo ha pur sempre lo stesso aspetto e la stessa figura, e nondimeno non è un uomo».536 È chiaro quindi che la determinazione dell’aspetto, intesa in questi termini, non è ancora sufficiente, e che l’aspetto, concepito come σχῆμα e χρῶμα, non è ancora colto in modo compiuto. «Inoltre, è impossibile che una mano sia ciò che è, se è fatta di un materiale qualsiasi, ad esempio se è di bronzo o di legno».537 Una mano di legno non è una mano: essa ha esattamente lo stesso aspetto e, secondo la concezione ontologica di Democrito, potrebbe anche essere una mano, però non può svolgere la sua specifica funzione – così come un flauto di pietra non è un flauto, dato che non lo si può suonare.538 Una mano di legno non vive, non «ci» è in quanto mano. All’εἶδος appartengono quindi anche la δύναμις e l’ἔργον. Un ente che ha questo specifico aspetto, che si mostra in quanto così e così – l’elemento costitutivo per il «carattere di “Ci”» del vivente è la prestazione, l’ἔργον, la quale prestazione determina il «di che cosa» dell’essere fatto. Una mano non può essere fatta di legno, essa necessita di un σῶμα τοιοῦτον. La ὕλη deve soddisfare la prestazione caratteristica della mano in quanto μόριον dello ζῷον. Perciò Aristotele conclude: λίαν οὖν ἁπλῶς εἴρηται.539 «È detto in modo troppo semplicistico», proprio come fecero Democrito e gli antichi. Insomma: gli antichi che hanno parlato della natura hanno orientato l’essere esclusivamente sullo σχῆμα (Democrito), e Democrito credeva di avere fornito così la giusta definizione dell’essere. Ma di fatto egli non comprende per nulla l’esser-ci del vivente. È esattamente «come se un τέκτων, un falegname, parlasse di una mano di legno», cioè trattasse di qualcosa che ha sì l’aspetto di una mano, ma che non lo è. λίαν οὖν ἁπλῶς εἴρηται, καὶ τὸν αὐτὸν τρόπον ὥσπερ ἂν εἰ τέκτων λέγοι
περὶ χειρὸς ξυλίνης. οὕτως γὰρ καὶ οἱ ϕυσιολόγοι τὰς γενέσεις καὶ τὰς αἰτίας τοῦ σχήματος λέγουσιν· ὑπὸ τίνων γὰρ ἐδημιουργήθησαν δυνάμεων. ἀλλ᾿ ἴσως ὁ μὲν τέκτων ἐρεῖ πέλεκυν ἢ τρύπανον, ὁ δ᾽ ἀέρα καὶ γῆν, πλὴν βέλτιον ὁ τέκτων. οὐ γὰρ ἱκανὸν ἔσται αὐτῷ τὸ τοσοῦτον εἰπεῖν, ὅτι ἐμπεσόντος τοῦ ὀργάνου τὸ μὲν κοῖλον ἐγένετο τὸ δὲ ἐπίπεδον, ἀλλὰ διότι τὴν πληγὴν ἐποιήσατο τοιαύτην, καὶ τίνος ἕνεκα, ἐρεῖ τὴν αἰτίαν, ὅπως τοιόνδε ἢ τοιόνδε ποτὲ τὴν μορϕὴν γένηται.540 Se si chiede a un falegname quale sia la γένεσις di ciò che ha prodotto, «a partire da quali possibilità» e con quali mezzi l’ente fatto così e così sia stato fabbricato, «non gli basterà rispondere: ha assunto questo e questo aspetto a causa del fatto che uno strumento [un martello] vi è caduto sopra». È appunto così che gli antichi parlano della natura: quell’ente è diventato così a causa del fatto che certe cose aventi un determinato aspetto sono venute a scontrarsi. Ma il τέκτων intende il suo ente assai meglio, e direbbe piuttosto «perché ha dato il colpo in un certo modo, e per che cosa [con quale intenzione ha maneggiato il martello proprio così], parlerebbe della causa in ragione della quale la μορϕή ha assunto un determinato aspetto». La τέχνη determina la sua ποίησις, e la τέχνη ha il suo terreno nell’assunzione anticipata dell’εἶδος. Anche nel caso del vivente ci si deve chiedere, nel modo giusto, quale ne sia il τέλος. A tal fine bisogna considerare la δύναμις e l’ἔργον. Quindi è vero che gli antichi non si rivolgevano al vivente nel modo giusto. «Se dunque ciò [ciò che determina propriamente l’aspetto di un vivente, ciò che determina l’aspetto in modo tale che la mano sia in quanto mano], se ciò, in definitiva, è quanto definiamo anima, allora il ϕυσικός [se vuole trattare il vivente in quanto ente che «ci» è] deve necessariamente trattare dell’anima».541 Resta solo da chiedersi se bisogna trattare di tutta l’anima oppure solo di sue determinate parti. Perveniamo a una conclusione e torniamo ai πάθη. Se infatti i πάθη debbono diventare oggetto d’indagine, è evidente che anche nel loro caso – i πάθη intesi come
sentirsi-situato del vivente, nel quale viene al tempo stesso coinvolta la corporeità – bisogna anzitutto avere colto visivamente l’εἶδος. Per poterne eventualmente studiare anche l’aspetto «fisiologico», gli «stati corporei», l’esserci autentico deve anzitutto essere posto in luce. È per questo che l’orientamento nella considerazione dell’aspetto somatico è fornito dall’εἶδος della vita umana, caratterizzata come ζωὴ πρακτικὴ μετὰ λόγου. d) La duplice dimostrazione per l’ambito limitato del ϕυσικός Abbiamo visto in che modo Aristotele, mediante la critica della precedente filosofia naturale, elabori le definizioni fondamentali decisive per gli enti naturali aventi il carattere della vita. Per essere precisi, egli afferma che non basta pervenire, passando per la ὕλη e oltre essa, al coglimento dello σχῆμα – ciò che, in un certo senso, è già l’ἰδέα –, dal momento che finché ci si ferma qui in realtà ci si sbaglia. Nell’ἰδέα la vita è caratterizzata in quanto δύναμις, cioè dal fatto che essa può qualcosa, e solo da ciò la ὕλη – in quanto codeterminante l’essere – ottiene la determinazione e la caratterizzazione corrispondenti. La mano è mano solo in quanto vivente, nella misura in cui può afferrare e tastare, e una mano siffatta esige che la sua ὕλη sia una determinata ὕλη, che sia cioè organizzata, caratterizzata dal determinato essere del «potere». La ὕλη è la «carne», σάρξ. Insomma, ciò che finora gli antichi non hanno colto si evidenzia come il potere, che determina l’essere della ὕλη, ciò che chiamiamo anima. Sorge ora la domanda: il ϕυσικός deve indagare l’essere della vita in tutte le sue possibilità e nella sua intera estensione, oppure il tema del fisico è solo una determinata sezione del vivente in riferimento al suo essere?542 Aristotele dirime la questione in due modi: 1. indirettamente; 2. in base al modo effettivo in cui si mostra l’ente naturale in quanto
vivente. In entrambi i casi egli ricorre al medesimo dato di fatto del mostrarsi dell’ente in questione. α) Dimostrazione indiretta Aristotele conduce la dimostrazione indiretta dell’ambito limitato in questo modo: se il ϕυσικός dovesse indagare, in riferimento al suo essere vivente, ogni tipo di vivente che in genere gli capita di incontrare, «allora, accanto alla ϕυσική, accanto a questa scienza, non vi sarebbe alcuna filosofia».543 A tutta prima ciò è incomprensibile. Il ragionamento si basa infatti su un preciso presupposto. «Invero l’opinare e comprendere [in termini grossolani: il pensare] tende al pensabile»,544 a ciò che è un possibile oggetto del pensare e dell’opinare. Questo pensabile, il campo complessivo del possibile percepire, è πάντα. Tutto ciò che in un qualche senso è, è νοητόν. «Oggetto della ϕυσικὴ ἐπιστήμη sarebbe quindi tutto l’ente in genere».545 Domandiamo: in base a quale presupposto questo ragionamento è convincente? Lo è soltanto se per Aristotele la considerazione di un ente avente il carattere del vivente implica necessariamente la considerazione anche di quell’ ente, nel suo essere, presso cui il vivente in questione sta in base alla sua possibilità di essere, e a cui esso è riferito in quanto «con cui» conforme all’«avere a che fare». Solo se «vita» significa originariamente «essere in un mondo», essere nel modo dell’«essere presso qualcosa», dell’«essere presso», e solo se questo «presso» è il mondo, in cui l’ente che «è presso» è in quanto vivente – solo allora tale considerazione è convincente. Se venisse considerato, nel contempo, anche il νοῦς, se cioè il νοῦς fosse oggetto, allora anche tutti i νοητά dovrebbero essere oggetto della ϕυσικὴ ἐπιστήμη. «È compito della medesima scienza trattare dell’essere sia nel senso del percepire, pensare, ponderare, ecc., sia nel senso del pensabile, supposto che il pensare e il pensabile si volgano l’uno all’altro, πρὸς ἄλληλα».546 (Πρός con l’accusativo: «a» qualcosa, «verso» qualcosa). Il pensiero
altro non è che questo πρός: in base al suo essere, il pensiero esige di essere aperto «a» altro, il suo essere non può essere né compreso né primariamente colto se non si dà l’a che, ciò a cui tale essere, in quanto percepire, avere paura, ecc., tende in se stesso. La determinazione fondamentale dell’ente in quanto vivente si evidenzia qui in quanto πρὸς ἄλληλα, l’essere «l’uno di fronte all’altro», l’essere «reciprocamente» aperti. «Si ha sempre la stessa e medesima indagine in tutti i casi in cui si tratta di determinare il carattere del πρὸς ἄλληλα».547 Il vivente nel suo essere può essere definito solo se l’ente con cui esso è viene compreso nel suo essere. «Vita» è «essere presso». Solo in base a questo presupposto il ragionamento è convincente. Aristotele non approfondisce ulteriormente le conseguenze della dimostrazione indiretta. Avrebbe dovuto procedere così: il ϕυσικός si occupa solo di quell’ente, ϕύσει ὄν, che è κινούμενον; tuttavia vi sono anche «enti in movimento» il cui modo di essere, nella misura in cui il νοῦς è la possibilità decisiva, non è la vita. Ora, poiché tramite la dimostrazione indiretta il νοῦς e i νοητά vengono esclusi, nel caso dei ϕύσει ὄντα il cui modo di essere è la vita può trattarsi solo di quel vivente che è ἀνόητον, il cui modo di essere non è il pensare, nel senso che il suo essere sia guidato dal pensare e dal ponderare. Ne risulta che a essere preso in considerazione è solo il vivente che ha il carattere dell’ἀνόητον. Aristotele contrappone gli ἀνόητα all’ente che ha la ϕρόνησις – ϕρόνησις intesa come διανοεῖσθαι: ἀνόηταϕρόνιμα, ἄλογα-ἔλλογα.548 Ἔλλογα: l’ente in cui il λόγος è presente nel modo del λόγον ἔχον in senso primario. Aristotele utilizza queste espressioni promiscue: all’occasione, sviluppando la scienza, sostiene che anche gli animali hanno, in un certo senso, una ϕρόνησις – da intendersi qui come capacità di orientarsi, αἴσθησις, vale a dire ϕρόνησις non determinata dal νοῦς, non in senso proprio. Riguardo al suo essere, il vivente è contraddistinto dall’essere-presso. Aristotele ha talmente chiara questa
determinazione fondamentale da poter delineare, in base a questo senso dell’essere e a questa definizione basilare, sia l’andatura sia la struttura dei singoli passi di ogni indagine sulla vita.549 Dal punto di vista metodico ciò è importante per vedere da dove deve iniziare l’indagine sul cosiddetto «psichico». Ci si deve chiedere: un vivente, nella misura in cui vive, ha differenti possibilità di essere?550 Infatti, esso può percepire (αἴσθησις) qualcosa, può tendere (ὄρεξις) a qualcosa, può muoversi nella sua direzione e simili, oppure ha il mondo in modo da farne oggetto di riflessione. «È difficile sia distinguere le singole possibilità di essere di un vivente, nel loro reciproco rapporto, sia stabilire quale di tali possibilità vada indagata per prima. Le possibilità di essere della vita sono da studiarsi in se stesse o nella loro attuazione? Oppure bisogna studiare anzitutto il poter percepire? E ammesso che in effetti si debbano studiare in primo luogo gli ἔργα, ci si potrebbe poi chiedere se, prima ancora, non vadano considerati invece gli ἀντικείμενα, ciò che, per una determinata possibilità di essere di uno specifico vivente, è di volta in volta presente, correlato – correlato all’αἴσθησις, per esempio, al percepire in quanto tale [per la ὄψις il mondo nel carattere dell’essere colorato]».551 In effetti, bisogna partire dagli ἀντικείμενα, giacché solo in intima connessione con essi si può cogliere l’ἔργον. «Va detto anzitutto che cos’è il pensare stesso nella sua attuazione».552 πρότεραι γάρ εἰσι τῶν δυνάμεων αἱ ἐνέργειαι καὶ αἱ πράξεις κατὰ τὸν λόγον.553 «Giacché, prima che alle possibilità, ci si deve rivolgere all’ente che “ci” è realmente, a ciò che è attualmente presente». Una possibilità la posso cogliere, la posso vedere, solo se me la pongo di fronte, per così dire, nel suo «Ci», in quanto ἐνέργεια. «Se le cose stanno così, bisogna considerare, prima ancora, gli ἀντικείμενα».554 Ed è così anche nel caso della possibilità più elementare dell’essere di un vivente, la αὔξησις, la «crescita», cui Aristotele accosta la γέννησις, la «generazione». Bisogna studiare anzitutto l’atto di nutrirsi, e, in relazione a esso, l’atto di generare un altro – un altro
simile al vivente che lo genera. Γέννησις: questo divenire altro non significa che «venire al mondo»; non si tratta semplicemente del fatto che qualcosa – un feto morto – giace lì davanti, ma del fatto che l’ente «ci» è in modo tale da essere nel suo mondo. Ne potete dedurre che la definizione fondamentale da cui sono partito nelle prime lezioni, cioè che «vita» significa «essere nel mondo», e di volta in volta secondo una determinata possibilità, ha il suo fondamento. β) Dimostrazione in base al carattere dell’essere-mosso in quanto tale La seconda dimostrazione si basa direttamente sull’indagine del divenire, cioè del carattere dell’esseremosso in quanto tale. La dimostrazione indiretta, sviluppata nella sua completezza, ci ha fatto capire che solo gli ἀνόητα vengono presi in considerazione. Il tema primario del ϕυσικός sarà quindi l’ente-mosso in riferimento alla determinazione fondamentale del suo essere in quanto «essere nel mondo». Tre modalità del muoversi nel mondo: 1. αὔξησις, 2. ἀλλοίωσις, 3. ϕορά.555 Queste tre possibilità dell’«essere nel mondo», caratterizzate dal movimento, vanno indagate in riferimento all’ἀρχή, bisogna studiare il «da che cosa» di questo essere, il carattere ontologico della possibilità autentica dell’«essere nel mondo». Per la precisione, la αὔξησις si adatta particolarmente alla pianta, e l’essere della pianta è caratterizzato solo da essa.556 Le piante non hanno αἴσθησις, esse sono nel mondo in modo tale da non percepire il mondo in cui sono: ne traggono nutrimento, ed è nell’atto del nutrimento che si muovono in una loro peculiare maniera. Il modo in cui Aristotele vede, in termini essenziali – si potrebbe quasi dire fenomenologici –, lo specifico essere-mosso della pianta ce lo mostra il De anima, 413 a 26 sgg. Le piante di cui si parla qui possiedono la peculiare possibilità ontologica di «essere nel mondo» nel senso di crescere «verso luoghi e direzioni opposti»: ϕαίνεται γὰρ ἐν αὑτοῖς ἔχοντα δύναμιν καὶ ἀρχὴν
τοιαύτην, δι᾿ ἧς αὔξησίν τε καὶ ϕθίσιν λαμβάνουσι κατὰ τοὺς ἐναντίους τόπους.557 Nella loro crescita le piante si muovono in tutte le direzioni e traggono nutrimento da tutte le direzioni – ed è così che vivono. La αὔξησις è l’unica e primaria determinazione per la vita della pianta. È caratteristico che Aristotele concepisca l’αἴσθησις come ἀλλοίωσις.558 Infatti, se un ente che è nel mondo «percependo il mondo» diventa esso stesso un altro, è proprio perché per esso, a partire dal mondo, è sempre presente qualcos’altro, si fa sempre incontro qualcos’altro, sicché la vita è un essere l’uno con l’altro. Ciò può avere un senso soltanto se l’ente stesso è determinato, nel suo essere, in modo tale che questo essere significhi «essere nel mondo». Nella maggior parte degli animali a ciò si aggiunge l’ulteriore possibilità della ϕορά, il «potersi muovere da un luogo all’altro».559 Non si tratta di un’immagine astratta, ma di un fatto concreto. Proprio nel De partibus animalium Aristotele tratta delle varie possibilità del «potersi muovere», la ϕορά: πτῆσις, «volare», νεῦσις, «nuotare», ἕρψις, «strisciare», βάδισις, «camminare». Diventa ora comprensibile la tesi, avanzata da Aristotele in modo apparentemente dogmatico, secondo cui il λόγος dello οὗ ἕνεκα è quello primario. Nello οὗ ἕνεκα emerge l’autentico carattere ontologico dell’essere del vivente. La vita è sempre riferita al «per che cosa», al τέλος, all’«esserci finito» nel senso dell’«essere nel mondo». Tutte le determinazioni ontologiche del vivente vanno primariamente orientate sull’essere in quanto essere-presso, poiché è da esso che ogni ente riceve anzitutto il suo carattere determinato nel suo aspetto. Possiamo cogliere così anche la ὕλη nel suo essere caratteristico. Il σῶμα, la ὕλη di un vivente, non è semplicemente materia che appare diversamente nel suo contorno, poiché il σῶμα del vivente è piuttosto ὄργανον. La materia del vivente ha il carattere primario dell’essere-per..., essere-presso, essere-in. Il termine ὄργανον intende
significare: un ente che ha il carattere della prestazione, che è orientato in se stesso sull’«essere per la fine». Poiché ogni momento dell’essere compiuto del vivente in riferimento alla ὕλη ha questo carattere di compiutezza, l’interpretazione di questo stesso ente deve prendere le mosse dal carattere primario dell’essere-in: nel caso della pianta dall’αὔξησις, in quello dell’animale dall’αἴσθησις e dalla ϕορά, in quello dell’uomo dal νοῦς. Solo a partire dal νοῦς le altre possibilità di essere possono essere comprese nel loro essere. Aristotele rinvia nuovamente all’analogia con la τέχνη, dove la faccenda si pone in questi termini: se è necessario spezzare qualcosa, e se però questo qualcosa è duro – se, ad esempio, è di bronzo –, allora questa necessità, questa prestazione, prefigura il carattere ontologico della ὕλη. Nel caso del vivente ogni ὕλη è ὄργανον, determinato dalla possibilità del vivente, prefigurato dalla prestazione. La possibilità di essere dei ϕύσει ὄντα incontra i suoi limiti nell’αἴσθησις e nella ϕορά. Queste due cause, lo οὗ ἕνεκα e la seconda questione in esso fondata: ὅθεν ἡ ἀρχὴ τῆς κινήσεως, mostrano in quale contesto ontologico si collocano i πάθη. Essi sono codeterminati dal σῶμα. I πάθη sono determinazioni della possibilità ontologica dell’uomo. Aristotele affronta il movimento nel De motu animalium. Per lungo tempo questo scritto fu ritenuto non aristotelico, e solo Werner Jaeger poté dimostrare, in base allo studio dei manoscritti conservati a Roma, che si tratta a tutti gli effetti di un’opera di Aristotele. Jaeger stesso ne ha dunque curato la nuova edizione.560 Si tratta di uno scritto di fondamentale importanza per la questione di principio relativa al movimento del vivente. Un suo passaggio essenziale è quello in cui Aristotele mostra in che senso il movimento in quanto tale è possibile solo se qualcosa è in quiete. e) La determinatezza della storia dell’indagine sulla natura tramite la verità stessa
L’analisi critica dell’indagine sulla natura fino ad Aristotele ci offre un colpo d’occhio particolare sul cammino storico che questa specifica disciplina può intraprendere. Ne risulta che una scienza può essere attiva già da lungo tempo, può avere già accumulato materiali e scoperto princìpi e teorie, e ciò nondimeno non essere ancora minimamente in chiaro quanto al suo oggetto, e che lo sviluppo di una scienza non dipende dalla quantità di acume e di tecnica dimostrativa che essa di per sé implica. La scienza è infatti una questione che riguarda il giusto rapporto con le cose. Questo non lo si può ottenere con la forza, poiché si tratta di qualcosa che dipende da noi al massimo per ciò che concerne i preparativi, ma che in fondo dipende dal destino, ovvero dalla misura in cui giungono ed esistono coloro che danno vita a tale rapporto fondamentale. A dispetto di ogni teoria precedente, gli uomini di scienza sono stati a poco a poco costretti dalla verità stessa a vedere l’ente. Nel medesimo contesto Aristotele utilizza due espressioni caratteristiche importanti per ciò che egli intende come verità. Dice di Empedocle: ἐνιαχοῦ δέ που αὐτῇ καὶ ᾿Εμπεδοκλῆς περιπίπτει, ἀγόμενος ὑπ᾿ αὐτῆς τῆς 561 ἀληθείας. Egli fu «guidato dalla verità stessa», che in un certo senso fece crollare la sua teoria. E di Democrito: ἀλλ᾿ ἥψατο μὲν Δημόκριτος πρῶτος, ὡς οὐκ ἀναγκαίου δὲ τῇ ϕυσικῇ θεωρίᾳ, ἀλλ᾿ ἐκϕερόμενος ὑπ᾿ αὐτοῦ τοῦ πράγματος.562 Egli fu «spinto dalla cosa stessa» e ne fu condotto alla scoperta che l’ente dovrebbe essere concepito in riferimento non solo alla ὕλη, ma anche al suo σχῆμα. I termini ἀλήθεια e πρᾶγμα sono usati qui nel medesimo senso: ἀλήθεια non significa «validità», conformità a una tesi, o qualcosa del genere (come insegna una logica fuorviante), bensì nient’altro che l’ente nel suo essere scoperto, è πρᾶγμα, nella misura in cui l’ente con cui ho a che fare «ci» è in una certa svelatezza. L’accesso alle cose era sbarrato poiché si negava la domanda sul τὸ τί ἦν εἶναι, nella misura in cui in ogni indagine in senso stretto a essere in questione sarebbero il «che cosa» e il «come»: ἐπὶ
Σωκράτους δὲ τοῦτο μὲν ηὐξήθη, τὸ δὲ ζητεῖν τὰ περὶ ϕύσεως ἔληξε, πρὸς δὲ τὴν χρήσιμον ἀρετὴν καὶ τὴν πολιτικὴν ἀπέκλιναν οἱ ϕιλοσοϕοῦντες.563 Socrate ha invitato a occuparsi delle cose stesse, benché al suo tempo lo ζητεῖν περὶ ϕύσεως fosse un po’ in ribasso, dato che si preferiva rivolgersi alla πολιτική, mentre i ϕύσει ὄντα passavano in secondo piano. Non fu una dimenticanza qualsiasi, come se si badasse più alle scienze dello spirito che a quelle della natura, fu invece un errore fondamentale, dato che anche i concetti dell’«essere nella πόλις» si basano sui concetti naturalistici. Aristotele se ne rendeva conto e concentrò il suo lavoro dapprima sull’indagine della ϕύσις in quanto essere. Da qui egli ha guadagnato terreno per l’indagine ontologica in quanto tale.
20. Il πάθος in quanto ἡδονή e λύπη (Eth. Nic. Κ 1-5) La precedente analisi del carattere ontologico del vivente ha dato il seguente risultato: vivere significa essere in un mondo. Questa definizione acquista ora un duplice senso: 1. L’essere della natura vivente è definito nel suo εἶδος in quanto δύναμις dell’«essere nel mondo» – dunque anzitutto in quanto εἶδος, determinazione ontologica dell’ente. 2. In quanto incontro a partire dal mondo: il vivente è nel mondo anche in un secondo senso, nel senso dell’appartenenza al mondo. Il mio essere è «essere nel mondo» e, al tempo stesso, nel secondo senso, essere nel mondo in quanto appartenente a esso, e precisamente in modo tale che io, nel mondo, posso farmi incontro per qualcun altro, come una sedia. Per i greci sono entrambi εἶδος, il greco non conosce la differenza tra osservazione esterna e osservazione interna. Ne derivano connessioni fondamentali dell’essere della vita in senso ampio. Faccio notare che l’essere l’uno con l’altro
ha ricevuto ora una definizione più precisa: 1. Nell’«essere l’uno con l’altro», a essere l’uno con l’altro sono quegli enti che sono «essere nel mondo» ciascuno per sé. L’incontrarsi l’un l’altro è esserci l’uno per l’altro, in modo tale che ogni ente, che è per l’altro, è nel mondo. Ciò che si fa incontro è nel mondo di ciò che esso incontra, «ci» è per un altro essere. 2. Nell’essere l’uno con l’altro abbiamo in comune lo stesso mondo. Essere l’uno con l’altro è nel contempo avere in comune lo stesso mondo. Quando si scrive un libro sulla teoria della conoscenza, questo è il presupposto. Se poi si possano ancora porre le domande nel modo consueto, è cosa la cui decisione può essere lasciata ai teorici stessi della conoscenza. Infatti, come sappiamo, oggi tra i filosofi divampa una grande polemica circa l’opportunità che la filosofia debba essere «filosofia della vita». Gli uni sostengono che la filosofia non può essere filosofia della vita, gli altri che in fondo deve pur sempre esserlo. Ma dire «filosofia della vita» è come dire «botanica delle piante»! Sostenere enfaticamente che la botanica ha a che fare con le piante è altrettanto ridicolo e insensato che sostenere il contrario. Riassumiamo i risultati dell’intera analisi dei πάθη: i πάθη sono qualcosa che accade nell’anima, che è nell’esserevivente, e significano l’essere coinvolti, il perdere il controllo, κινεῖσθαι, che mira all’essere autentico del vivente, l’«essere in un mondo». I πάθη sono modi dell’essere coinvolti in riferimento all’«essere nel mondo», attraverso di essi vengono determinate in modo essenziale le possibilità di orientarsi nel mondo. In se stesso, l’«essere fuori di sé» è riferito all’essere-pronto, alla ἕξις. Mediamente e quotidianamente siamo coinvolti, ci muoviamo oscillando fra tensioni opposte. In riferimento a ciò si dà un esserepronti. Poiché, quindi, i πάθη si caratterizzano come un modo di essere del vivente la cui struttura fondamentale è l’«essere nel mondo», l’avere a che fare in esso, l’avere a che fare con altri, ne risulta prefigurata l’analisi dei singoli πάθη
in quanto tali, nella misura in cui sono da considerarsi: 1. in riferimento al mondo in cui il vivente in questione si trovasituato, cioè al mondo-ambiente che circonda il vivente stesso; 2. in riferimento al modo del sentirsi-situato, del comportarsi nei confronti del mondo degli altri; 3. in riferimento a come si debba essere noi stessi, a quale debba essere la nostra stessa disposizione d’animo per essere afferrati dai vari πάθη. Una caratteristica determinazione dei πάθη, che finora non abbiamo discusso, è che a ciascun πάθος, a ciascun essere coinvolti, «segue», ἕπεται, una determinata situazione emotiva, benché non in senso temporale: con il relativo πάθος fa tutt’uno una ἡδονή o una λύπη. La determinazione della compresenza simultanea della relativa situazione emotiva è talmente fondamentale da indurre Aristotele a sostenere che il πάθος stesso sarebbe una ἡδονή o una λύπη. Dobbiamo mettere maggiormente a fuoco questo aspetto. Aristotele tratta della ἡδονή nell’Etica Nicomachea (libro VII [Η], capitoli 12-15; libro X [Κ], capitoli 1-5). Inoltre nella Retorica (libro I [A], capitolo 11). Nella mia interpretazione mi limito al brano del libro X, fornendo qui di seguito solo le tesi principali dell’analisi della ἡδονή. La determinazione fondamentale della ἡδονή emerge nel libro X, capitolo 2, dell’Etica Nicomachea: ἴσως δὲ καὶ ἐν τοῖς ϕαύλοις ἔστιν τι ϕυσικὸν ἀγαθὸν κρεῖττον ἢ καθ᾿ αὑτά, ὃ ἐϕίεται τοῦ οἰκείου ἀγαθοῦ.564 «Forse anche nel cattivo ente, nell’ente inferiore, τι ϕυσικόν, c’è una possibilità ontologica, implicita nel suo essere, che è migliore di quanto essi [appunto i ϕαῦλοι] non siano in sé, una possibilità cui questi enti tendono come all’οἰκεῖον ἀγαθόν, all’ente presso cui trovano propriamente la loro fine». Ciò altro non significa che ogni ente che vive reca implicitamente in sé la determinazione in base a cui esso tende alla vera e propria finitezza dell’esserci. Ogni vivente è per così dire tendenzioso, ha la tendenza a essere in quanto essere-finito. ἀλλ᾿ ἐπεὶ οὐχ ἡ αὐτὴ οὔτε ϕύσις οὔθ᾿ ἕξις ἡ ἀρίστη οὔτ᾿
ἔστιν οὔτε δοκεῖ, οὐδ᾽ ἡδονὴν διώκουσιν τὴν αὐτὴν πάντες, ἡδονὴν μέντοι πάντες. ἴσως δὲ καὶ διώκουσιν οὐχ ἣν οἴονται οὐδ᾽ ἣν ἂν ϕαῖεν, ἀλλὰ τὴν αὐτήν· πάντα γὰρ ϕύσει ἔχει τι θεῖον.565 «Tutti perseguono una ἡδονή», una situatività, e per lo più «non quella cui credono di aspirare, né quella di cui comunemente si dice che importi agli uomini, bensì tutti la medesima». Agli uomini importa di vivere. L’ente, in quanto vivente, è un essere tale cui, nel suo essere, ne va dell’esserci. In Aristotele il θεῖον non è nulla di religioso: θεῖον in quanto essere autentico dell’essere-sempre, dell’eterno. Se ne può già dedurre che la ἡδονή è una determinazione del vivente che coappartiene all’essere-vivente come tale. In termini più precisi: la ἡδονή è una determinazione fondamentale dell’«essere nel mondo», nella misura in cui l’«essere nel mondo» è un essere che, al tempo stesso, io ho – «avere» da intendersi qui come una debole espressione per «averne notizia». La ἡδονή, il sentirsi-situato, è la situazione in cui ho notizia del mio «essere nel mondo»: io ho il mio «essere nel mondo». Al tempo stesso, io ho una determinazione del mio essere, un modo del mio essere. Questo fenomeno è appunto ciò che intendiamo quando diciamo o chiediamo a qualcuno: «Come va?». La ἡδονή non è il cosiddetto «piacere», ma una determinazione dell’essere in se stesso in quanto vita. Solo in questo quadro è possibile sviluppare l’analisi della ἡδονή in quanto determinazione fondamentale. Aristotele approfondisce la sua spiegazione della ἡδονή nel libro X, capitolo 3, tramite il paragone con l’αἴσθησις: δοκεῖ γὰρ ἡ μὲν ὅρασις καθ᾿ ὁντινοῦν χρόνον τελεία εἶναι (οὐ γὰρ ἐστιν ἐνδεὴς οὐδενὸς ὃ εἰς ὕστερον γενόμενον τελειώσει αὐτῆς τὸ εἶδος).566 L’atto del «vedere», l’«avere sott’occhio», il «guardare attivo» è in se stesso «finito», τέλειον, il che significa: non vi è nulla «che possa ancora aggiungersi per rendere più compiuto il vedere in ciò che è», poiché ogni volta che vedo, il vedere «ci» è, in se stesso, sempre tutto d’un colpo. Questo perché il vedere non è indubbiamente nient’altro che un modo, attuato in questo
momento, dell’«essere attualmente presenti nel mondo» nel modo dell’«aver-lo». τοιούτῳ δ᾽ ἔοικεν καὶ ἡ ἡδονή. ὅλον γάρ τι ἐστίν, καὶ κατ᾿ οὐδένα χρόνον λάβοι τις ἂν ἡδονὴν ἧς ἐπὶ πλείω χρόνον γινομένης τελειωθήσεται τὸ εἶδος. διόπερ οὐδὲ κίνησις ἐστίν. ἐν χρόνῳ γὰρ πᾶσα κίνησις καὶ τέλους τινός, οἷον ἡ οἰκοδομική. τελεία ὅταν ποιήσῃ οὗ ἐϕίεται.567 La ἡδονή è qualcosa di finito in se stesso, che non si muove: il suo essere non è tale da diventare finito solo nel corso di un determinato tempo. Una casa è finita in virtù del fatto che, nel suo «essere e venire prodotta», abbisogna di un determinato tempo, è finita in virtù del fatto di passare attraverso un movimento, giacché non era ancora alla fine – era ἀτελής.568 Invece la ἡδονή, esattamente come l’αἴσθησις, è ciò che è ἐν τῷ νῦν,569 «nell’attimo», μὴ ἐν χρόνῳ,570 «non nel tempo» inteso nel senso di una determinata estensione – essa non perviene all’essere-finita solo nel corso del tempo. Questo carattere, il fatto di non essere una κίνησις, la contrassegna come una determinazione della presenza attuale dell’esserci in quanto tale. È vero che Aristotele, nel libro Ι, capitolo 11, della Retorica dice che la ἡδονή è una κίνησις, κίνησίς τις571 (similmente alla ϕρόνησις – lo si è visto in precedenza – nel caso degli animali),572 nella misura in cui essa ha anche la determinazione del πάθος, determinazione dell’«essere di volta in volta coinvolti». Ciò implica la determinazione del «mutamento repentino da... a...». In relazione a ciò anche la ἡδονή è in un certo senso una κίνησις, una μεταβολή. Tuttavia è anche vero che la ἡδονή non è un modo di essere che si presenta ogni tanto, che potrebbe comparire in concomitanza con un altro modo di comportarsi: la ἡδονή è in se stessa già compresente con l’essere in quanto vivente. Non si può dire che essa, per esempio, sia presente in quanto possibilità nel relativo avere a che fare in quanto tale, non è una ἕξις dell’αἴσθησις – come se per il fatto che vedo correttamente, e vedo l’oggetto adatto, tramite il compimento del vedere subentrasse la ἡδονή –, non va intesa come un risultato di queste
circostanze, bensì, al contrario: la possibilità del «sentirmi situato in questo e quel modo» si fonda nel mio essere in quanto «essere nel mondo». Non è un risultato di determinate circostanze, tanto che Aristotele, nella sua definizione della ἡδονή, può identificarla tout court con la ζωή, la «vita». La frase: πάντες ἐϕίενται ἡδονῆς altro non significa che πάντες ἐϕίενται τοῦ ζῆν,573 sicché nell’essere ne va dell’esserci. Ci si può chiedere, in conclusione, «se scegliamo la vita per il sentirci-situati, o il sentirci-situati, la ἡδονή, per la vita; accantoniamo per il momento tale questione».574 Aristotele la dirime nei capitoli successivi del libro X. L’essere autentico dell’uomo, la sua suprema possibilità di essere, consiste nel θεωρεῖν, che è la possibilità di esser-ci nel modo più radicale.575 In sintesi, la ἡδονή altro non è che la determinazione della presenza attuale dell’«essere nel mondo», che «ci» è nel sentirsi-situati in quanto tale. Facendo seguito a questa definizione della ἡδονή esporrò brevemente come va inteso ciò che è stato detto del θεωρεῖν. Bisogna quindi sbarazzarsi del modo in cui la psicologia tradizionale concepisce λύπη e ἡδονή come annessi dei processi psichici. Qui, quando si parla di ἡδονή, si mira sempre alla vita in quanto «essere nel mondo». Soltanto così si può comprendere il modo in cui Aristotele caratterizza i vari πάθη. Con quale diritto il ϕόβος è concepito come λύπη, ossia come un determinato sentirsi-situato caratterizzato dall’essere-depresso? Abbiamo una struttura fondamentale peculiare: l’esserci, nella misura in cui è vita, è sempre un esserci di volta in volta, non si dà un esserci in generale. Esserci è sempre: io sono, non un ente che è, bensì un ente che io sono, e che però ha nel contempo la possibilità di essere un ente che si è. Conformemente all’essere di volta in volta dell’esserci, ogni situatività è sempre determinata, non si dà un sentirsi-situato in generale, ogni sentirsi-situato è così e così. Ogni ἡδονή è una determinata ἡδονή, così come ogni λύπη. La ἡδονή si dà in un nesso, quel nesso cui si fa cenno
nella definizione dei πάθη: si dice che essa «“ci” è con», ἕπεται.576 Una considerazione più precisa mostra che il conesserci della ἡδονή altro non significa che il con-esserci dell’esserci stesso, che è colto da un determinato πάθος. La ἡδονή in quanto sentirsi-situato è il modo dell’aver-si di un esserci. Già con ciò la vita è caratterizzata in quanto «essere nel mondo», vita in quanto essere-in. È data così la possibilità che l’ente che è in questo modo, in quanto orientato, in un certo senso abbia con sé se stesso. Dobbiamo però rinunciare all’idea che l’«avere se stesso» sia orientato alla riflessione. La riflessione è solo una forma per così dire esagerata in cui l’esserci è cosciente di se stesso. Ma in base a ciò non si potrà mai pervenire alla comprensione del modo primitivo del sentirsi-situato. L’affettivo in quanto tale ha già il carattere dell’«avere se stesso». La ἡδονή penetra in modo talmente originario nell’essere dell’esserci da poter essere identificata con lo ζῆν. La ἡδονή appartiene all’esserci stesso. Ora, la situatività che trova espressione nella ἡδονή presenta una duplice possibilità, in quanto il sentirsi-situato può avere il carattere 1. della αἵρεσις, 2. della ϕυγή.577 Il sentirsi-situato si caratterizza infatti, da un lato, come «avvicinarsi», «assalire», dirigersi verso l’esserci, dall’altro, come ciò che «si allontana» dall’esserci, per così dire «fugge» da esso. Ciò si dà nella ἡδονή o nella λύπη. Aἵρεσις e ϕυγή sono i caratteri che contraddistinguono la possibilità fondamentale della vita come possibilità di essere presso se stessi. Aἵρεσις e ϕυγή sono le motilità fondamentali dell’esserci. Non è un caso che αἵρεσις e ϕυγή facciano la loro comparsa dove si tratta dell’interpretazione ontologica ultima dell’esserci.578 La ἡδονή (o la λύπη), si è detto, è originariamente inseparabile dall’esserci del vivente e ne costituisce la situatività fondamentale, cioè il modo in cui l’esserci, per così dire, coinvolge se stesso; ora, è proprio per questo che la ἡδονή può essere caratterizzata in quanto πάθος, un πάθος che Aristotele descrive come 579 ἐγκεχρωσμένον, «completamente impregnato di colori»,
un πάθος, insomma, che colora e impregna completamente il βίος, l’«esserci» – βίος, non ζωή: βίος in quanto «esistenza», «vita» intesa, in senso accentuato, come vita dell’uomo, che afferra se stessa nella προαίρεσις. Aristotele fornisce una formulazione diversa, più precisa, ripetendo costantemente: in ogni prendersi cura sono compresenti sia la ἡδονή che la λύπη, in ogni πάθος, ma anche, analogamente, in ogni percepire, pensare, ponderare, nonché nella θεωρία. Tutti questi casi, nella misura in cui si tratta di modi fondamentali della vita, sono inseparabilmente accompagnati dalla ἡδονή.580 Riassumo in sintesi le determinazioni del πάθος. La nostra digressione (soffermandoci sul De partibus animalium) ha mostrato che il πάθος, se lo si caratterizza in base al suo εἶδος, è determinato in quanto «essere nel mondo»: determinazione del πρὸς ἄλληλα. Nella misura in cui a ogni πάθος coappartiene la ἡδονή, l’essere-in stesso è avuto, avuto nelle due possibilità della αἵρεσις e della ϕυγή. L’essere del vivente in quanto πάθος è un essere che ha il carattere del «venire coinvolto» e dell’«essere coinvolto». Esso implica l’elemento della μεταβολή, del «perdere il controllo» e dell’«essere fuori di sé», dunque del «mutamento repentino da... a...». Per la determinazione del πάθος è inoltre rilevante (nel libro II, capitolo 1, della Retorica) l’elemento del mutamento repentino del κρίνειν: infatti nel «perdere il controllo» è coinvolto nel contempo anche il κρίνειν,581 il «distinguere», il «prendere posizione». Infine, nel venire colti da un πάθος è implicitamente chiamata in causa la modalità specifica dell’essere orientati riguardo al mondo, ovvero nel mondo. Con ciò si è messa in luce l’intima connessione tra πάθος e λόγος – λόγος inteso qui come modo di attuazione del κρίνειν.
21. Il ϕόβος (Rhet. B 5)
Passiamo alla descrizione della paura, di cui Aristotele parla nel libro II, capitolo 5, della Retorica, da due punti di vista: 1. Φόβος in quanto πάθος: in che senso l’«avere paura» rappresenta una concretizzazione del tutto determinata dell’«essere fuori di sé». 2. Φόβος in quanto πίστις – vero e proprio filo conduttore per l’interpretazione della Retorica: fino a che punto l’«avere paura», inteso come una determinazione fondamentale dell’esserci dell’altro, dell’ascoltatore, entra in gioco nel deliberare, nel decidersi in merito a una questione da sbrigare. a) Riepilogo schematico della descrizione della paura Fornisco qui un riepilogo assai schematico del modo in cui la paura viene descritta nel capitolo. 1382 a 20-27: Aristotele indica 1. il tema, 2. la definizione, 3. le determinazioni fondamentali così come si danno a un primo approccio. 1382 a 27-b 2: Aristotele descrive il ϕοβερόν (più precisamente i ϕοβερά),582 il «pauroso», «ciò che fa paura», nel senso in cui tale termine designa ciò che, facendomisi incontro, mi fa paura. L’analisi dei ϕοβερά include quella dei σημεῖα,583 dei caratteri d’incontro del pauroso che lo annunciano. Φοβερά sono oggetti, circostanze e simili. 1382 b 2-22: Aristotele tratta i ϕοβεροί,584 ϕοβερά aventi il carattere del vivente, gli altri uomini: in che misura gli altri uomini, assieme ai quali vivo, mi si presentano con il carattere del ϕοβερόν. 1382 b 22-27: Aristotele fornisce la determinazione corrente del ϕοβερόν, che riguarda entrambi, ϕοβερά e ϕοβεροί – l’elemento che costituisce la peculiarità di ciò che fa paura. 1382 b 28-1383 a 8: la situatività nell’avere paura, il
modo specifico in cui debbo sentirmi-situato per poter essere colto dalla paura, per poter essere in preda alla paura. Solo a questo punto l’interpretazione vera e propria perviene alla sua fine. Soltanto ora il fenomeno della paura acquista la sua effettiva perspicuità. 1383 a 8-12: in base al fenomeno della paura così definito, Aristotele descrive il filo conduttore per la formazione della πίστις. Il ϕόβος e gli altri πάθη sono situatività determinate in cui l’ascoltatore si sente, o deve sentirsi, situato. L’oratore deve mirare, ove possibile, a suscitare la paura in coloro che lo ascoltano; deve possedere un orientamento riguardo a tale fenomeno, in modo tale da avvincere gli altri nel modo giusto, cioè per poterli impaurire. b) Il tema, determinazioni
la
prima
definizione
e
le
prime
Aristotele fornisce anzitutto il tema e le prime determinazioni: ποῖα δὲ ϕοβοῦνται καὶ τίνας καὶ πῶς ἔχοντες,585 «com’è fatto ciò di cui si ha paura, quali uomini, e il come dell’“avere se stessi”», il sentirsi-situati quando si ha paura. Vedete l’orientamento di fondo sul senso del πάθος in quanto «essere nel mondo», «porsi in relazione agli altri» e, nel fare ciò, sentirsi-situati. Ogni πάθος presenta tutti questi aspetti. Su questa base Aristotele cerca di fornire la prima definizione. Nondimeno, la paura diviene comprensibile in senso proprio solo quando egli indica il πῶς ἔχοντες. Nella prima definizione ci viene data solo una struttura formale della paura, non emerge chiaramente che un siffatto sentirsisituati è un avere paura. Aristotele descrive il ϕόβος come λύπη τις ἢ ταραχὴ ἐκ ϕαντασίας μέλλοντος κακοῦ ϕθαρτικοῦ ἢ λυπηροῦ.586 Nemmeno ἕπεται, bensì direttamente ϕόβος λύπη τις: «Avere paura è qualcosa come un essere depresso», un sentirsi-situato che si caratterizza
come ϕυγή, che mi induce, per così dire, a «fuggire» dal mio esserci, non è una αἵρεσις, un esserci sollevato, anzi è un fuggire dall’esserci stesso, ἢ ταραχή, una «confusione»: λύπη, caratterizzata in termini più precisi come «andare in confusione», «essere confusi». Questo essere confuso si determina in modo più pertinente nella misura in cui mi rapporto a me stesso fuggendo da me stesso, dal mio esserci... ἐκ ϕαντασίας, «a causa di qualcosa che si mostra»; ϕαντασία (in senso originario): «ciò che si mostra», «il mostrarsi»; ἐκ ϕαντασίας = ἐκ τοῦ ϕαίνεσθαι. Il che significa: ciò che si mostra non «ci» è ancora in senso proprio, non è presente nel senso dell’αἴσθησις, ma c’è, e nel contempo, in certo modo, non c’è ancora. Si ha a che fare dunque con un andare in confusione a causa del «vedersi di fronte» un ente che non c’è ancora, e non c’è poiché ha il carattere di ciò che deve o può ancora giungere... μέλλοντος, «non esserci ancora» nel senso dell’essere imminente, dell’«incombere su di me»; μέλλον da intendersi come κακόν, ϕθαρτικόν: ciò che incombe su di me «nella sua nocività», nel senso di ciò che potrebbe essere «nocivo» per il mio esserci e «arrecarmi danno», qualcosa, insomma, di «dannoso» per me. In sintesi: un sentirmi-situato rispetto a una possibilità che mi riguarda, che incombe su di me e che, annunciandosi come tale, proprio in virtù di tale annuncio si fa sempre più vicina. Bisogna prestare attenzione anzitutto al fatto che ciò di cui ho paura, ciò che mi caratterizza nel mio «essere in preda alla paura», si determina come ciò che mi riguarda in questo e quel modo, un λυπερόν che può farmi perdere il controllo. Non ogni κακόν è oggetto di paura:587 il κακόν dev’essere tale da avere preso di mira il mio esserci tanto da farmi andare in confusione. Nel capitolo precedente Aristotele dice: i λυπερά, ciò che mi porta nella peculiare situatività del fuggire da me stesso, sono αἰσθητά – percepisco questo essere-riguardato al punto da andare in confusione a causa sua, mentre nell’incombere di un’ingiustizia che mi colpisce, o di fronte alla possibilità di
perdere il senno, non ho propriamente paura, ma al massimo provo un senso di odio.588 In questi casi non vado in confusione, anzi queste possibilità incombenti mi lasciano freddo – freddo nella freddezza dell’odio. Invece, il modo peculiare in cui la paura ci si fa incontro implica che essa metta in agitazione colui che cade in preda alla paura. Inoltre, ciò che mi si fa incontro dev’essere determinato in quanto σύνεγγυς,589 dev’essere cioè qualcosa che non si trova molto lontano, anzi è «prossimo». «Infatti, di ciò che è lontano non abbiamo paura. In verità tutti sanno che moriranno, che la morte li aspetta, ma poiché essa non è prossima non se ne preoccupano con la loro ϕρόνησις, non se ne curano, non sono circospetti al suo riguardo».590 Ciò che mi incute paura deve avere invece il carattere della prossimità: qualcosa di incombente che, in quanto tale, incalza nella prossimità. Per la possibilità dell’avere paura questa specifica modalità d’incontro con il mondo circostante è costitutiva. Ciò che mi si fa incontro nel mondo intorno a me deve avere il carattere della minaccia: l’«essere nel mondo in questo modo» è un essere minacciato. Dove tuttavia non bisogna dimenticare che l’essere minacciato non è già di per sé un avere paura. Ogni avere paura implica un essere minacciato, ma non vale l’inverso. L’avere paura è appunto un determinato sentirsi-situato, un comportarsi nei confronti di se stesso nell’essere minacciato. c) Il minaccioso (ϕοβερά) e i caratteri d’incontro (σημεῖα) che lo annunciano Prendendo le mosse da quanto detto, Aristotele passa alla descrizione dei ϕοβερά e dei σημεῖα. Riassumiamo brevemente il «minaccioso» in tre punti, sotto il titolo minacciosità: 1. Φαίνεται:591 esso deve «mostrarsi» in quanto fatto in questo e quel modo, e tuttavia non in quanto propriamente lì presente. Ciò che fa paura è contraddistinto dalla possibilità,
dall’essere possibile, però nel senso dell’indeterminato. L’elemento dell’indeterminatezza intensifica proprio la possibilità che qualcosa possa verificarsi, in riferimento alla possibile situazione emotiva dell’avere paura. L’indeterminato aumenta anche la minacciosità. 2. La determinazione del δύναμιν ἔχειν μεγάλην:592 mi può danneggiare qualcosa nei cui confronti mi sento impotente, che incombe su di me nel carattere della «potenza». Essa è costitutiva per la minaccia. Invece, qualcosa a cui fin dall’inizio sono superiore, e che non mi può recare alcun danno, non è in grado di minacciarmi, per quanto possa essere indeterminato, che mi colpisca oppure no. 3. Questo alcunché di potente, che è tale nella possibilità del poter sopraggiungere, una volta «portato nella prossimità», il πλησιασμός, trasforma la minaccia in «pericolo».593 Qualcosa di minaccioso, a debita distanza, non è un pericolo. La minaccia diventa un pericolo quando essa, in quanto tale, mi stringe da vicino. Si capisce così quell’elemento peculiare della paura che ci è noto per via somatica, il sentirsi messi con le spalle al muro. Il minaccioso si costituisce come la possibilità indeterminata di qualcosa che mi può colpire, mi è superiore, si concentra su di me, non di fatto, ma nel carattere peculiare dell’«incalzare nella mia prossimità» in modo tale che il ϕοβερόν venga annunciato, ovvero che il ϕοβερόν stesso risulti per così dire rappresentato dai σημεῖα.594 I σημεῖα svolgono il compito di dare forma al peculiare «carattere di “Ci”» del ϕοβερόν: assunzione della funzione del «Ci», cioè di essere un «non esserci nell’approssimarsi». Tre σημεῖα: 1. ἔχθρα, ὀργή,595 «ostilità», «ira»; 2. ἀδικία,596 «ingiustizia»; 3. ἀρετὴ ὑβριζομένη,597 «serietà che è stata schernita, provocatoriamente sfidata». Avremo modo di considerare in che senso questi σημεῖα sono, per l’appunto, σημεῖα proprio in quanto danno di per sé forma alla possibilità nella sua indeterminatezza. Per comprendere la spiegazione della paura è istruttivo
prendere atto di come, in effetti, in base a ciò che può far paura non si può determinare ancora compiutamente il «cadere in preda alla paura», il fatto cioè che ciò che fa paura non racchiude ancora in sé tutti gli elementi – non sussiste insomma alcun parallelismo tra ciò che fa paura e l’avere paura. È una supposizione della fenomenologia, che però non corrisponde ai fatti. L’elemento caratteristico di ciò con cui ha a che fare chi ha paura va inteso come il possibile. Vi è prefigurato il modo in cui ciò che fa paura diventa propriamente ciò che può essere, cioè l’intensificazione di questo possibile come qualcosa che sopraggiungerà, che capiterà a me con il carattere del nocivo. Il possibile stesso viene intensificato nella sua possibilità dal fatto che c’è e non c’è nel medesimo tempo, dal fatto che, nel suo esserci, in un certo modo si annuncia. L’annuncio implica però che esso, di per sé, non ci sia ancora. Il modo in cui ciò che fa paura diviene presente come tale è la ϕαντασία, non l’αἴσθησις. L’elemento costituente la prossimità è il πλησιασμός. Tramite il πλησιασμός il trovarsi situati faccia a faccia con un che di minaccioso si trasforma nella situazione del pericolo. La funzione dell’approssimarsi, dell’annunciarsi, la caratteristica intensificazione della possibilità implicita in ciò che fa paura, è assunta dai σημεῖα: 1. ἔχθρα, ὀργή; 2. ἀδικία, «ingiustizia», e precisamente da parte di un δύναμιν ἔχοντος,598 «di uno che ha il potere», il potere di fare ciò che eventualmente ha deciso di fare; 3. ἀρετὴ ὑβριζομένη. Ad 1. In che senso, tramite ἔχθρα e ὀργή, «ostilità» e «ira», il minaccioso può essere reso talmente prossimo da costituire un pericolo? Ostilità e ira sono caratterizzate dalla προαίρεσις. Ostilità e ira ci si fanno incontro come modi dell’esserci di uno che può esplodere da un momento all’altro. Che lo faccia o meno è incerto, però lo può fare. L’ira porta all’estremo proprio questo «può». Ad 2. ᾿Αδικία: uno che ha la propensione a danneggiare gli altri, e ne ha il potere. Anche in questo caso è la determinazione della προαίρεσις a trasformare la possibilità
in un pericolo concreto. Abbiamo qui a che fare con un duplice «può»: a) se uno ha il potere di realizzare ciò che trama – egli «può»; b) se questo avere il potere consiste nella προαίρεσις, fa la sua comparsa un secondo «può», sicché dietro il primo «può» (nel senso ora indicato) si inserisce il secondo «può» della προαίρεσις, del «potersi decidere». Tramite il senso dell’ἀδικία la δύναμις viene collocata nella giusta possibilità. Il minaccioso si trasforma nel pericoloso. La reciproca implicazione dei «può» non fa che intensificare l’insicurezza di ciò che incombe su di me. Ad 3. ᾿Αρετὴ ὑβριζομένη, la «serietà provocatoriamente sfidata». Colui che è stato provocatoriamente sfidato è sempre sul punto di scattare, può diventare improvvisamente un pericolo per me, mi può danneggiare – e nella misura in cui mi può improvvisamente danneggiare, è pericoloso. Tutti questi elementi, in quanto σημεῖα, assumono essi stessi il carattere di ciò che indicano. Essi sono ciò che annuncia il minaccioso e, annunciandolo, diventano anch’essi paurosi. Il referente del significare si trasmette, nel suo carattere ontologico di essere-minaccioso, al significante stesso. Ciò che viene annunciato tramite i σημεῖα attribuisce di per sé ai σημεῖα stessi il carattere del minaccioso. Mediante l’annuncio, il minaccioso si trasforma nel pericoloso. I σημεῖα danno forma alla pericolosità di colui che minaccia, diventando così essi stessi pericolosi. d) Gli uomini stessi, nella misura in cui hanno e fanno paura (ϕοβεροί) Dopo avere considerato i ϕοβερά e il loro peculiare carattere di annuncio, in virtù del quale giungono nella mia prossimità, Aristotele discute i ϕοβεροί, cioè gli uomini stessi, nella misura in cui hanno e fanno paura. Egli introduce la sua analisi con una constatazione generale. La possibilità che gli uomini abbiano paura l’uno dell’altro e
facciano paura l’uno all’altro è dovuta al fatto che 1. hanno «un animo cattivo», tendono al male; 2. mirano «al proprio vantaggio e profitto»; 3. sono per lo più «vili», non si sacrificano e non sono minimamente affidabili.599 Uomini così definiti compaiono tuttavia come caratterizzati dalla ζωὴ πρακτική, cioè dalla προαίρεσις. Tutti gli elementi sopra indicati sono presenti nella προαίρεσις, nella possibilità che sulla loro scorta, e in base a essi, l’uomo possa decidersi in questo e quel modo. Aristotele enumera nove differenti caratteri che identificano differenti situazioni in cui gli uomini si incontrano avendo o facendo paura: 1. Ho paura di colui del quale sono in balia; per esempio «colui che ha compiuto un misfatto ha paura di coloro che ne sono a conoscenza, dei suoi complici»; dato che costoro sono per lo più avidi di guadagno e godono nel recare danno agli altri, c’è sempre da temere che lo tradiscano.600 L’essere in balia di determinati uomini rappresenta una possibilità determinata di avere a che fare con qualcosa che mi fa paura. 2. Fanno paura «i potenti» a coloro che sono loro sottoposti.601 I potenti dispongono di quella duplice possibilità del «può» che abbiamo già illustrato. 3. «Coloro che sono stati danneggiati, o credono di essere stati danneggiati», oppure di essere stati offesi, fanno paura nella misura in cui aspirano a far pagare il danno o l’offesa. Da costoro ci si può aspettare qualcosa.602 4. «Coloro che hanno essi stessi danneggiato un altro, e adesso hanno a loro volta paura della vendetta»,603 prendono contromisure per non essere nuovamente danneggiati da colui al quale hanno recato danno. 5. Hanno paura gli uni degli altri «coloro che concorrono allo stesso e medesimo obiettivo»,604 nella misura in cui l’antagonista è capace di tutto pur di ottenere un vantaggio. Questo «essere capace di tutto» implica la possibilità della minaccia. 6. Ci fanno paura «coloro che costituiscono una minaccia
anche per quelli che possono difendersi assai meglio di noi; infatti, se già quelli che sono più potenti di noi ne vengono colpiti, ciò varrà tanto più nel nostro caso».605 Riemerge qui la possibilità del «trovarsi in pericolo» per via indiretta, cioè, in senso peculiare, attraverso gli altri, il che costituisce una caratteristica intensificazione della possibilità per via indiretta. 7. Ci fanno paura «coloro che hanno già sgominato persone più potenti di noi».606 8. Ci fanno paura «coloro che hanno avuto la meglio su persone più deboli di noi», giacché da essi ci si può aspettare che un giorno si scaglino contro di noi.607 9. «Tra i nemici e gli avversari non dobbiamo avere paura tanto di coloro che attaccano subito, che parlano d’impulso, col cuore, e dicono subito tutto quello che hanno in mente, giacché assai più temibili sono i πρᾶοι, i riservati, gli εἴρωνες, gli ironici [che si comportano come se la faccenda di cui si tratta non fosse poi così importante come sembra], i πανοῦργοι, i furbi. [Non si sa mai che cosa hanno in mente – insicurezza tipica: non si sa mai se per loro è davvero tutto a posto, o se fanno solo finta che sia così]. In tutti questi casi non è chiaro se la minaccia sia prossima [se costoro hanno in mente di fare qualcosa], sicché non è mai chiaro se, in effetti, non c’è alcun pericolo».608 Intensificazione dell’insicurezza a causa dell’indeterminatezza della prossimità. In base agli esempi addotti da Aristotele per caratterizzare i ϕοβεροί avete potuto constatare che qui, come si evince dall’intero contesto, si tratta sia delle relazioni tra le πόλις sia di quelle tra i singoli all’interno di una πόλις: i ϕοβεροί concepiti nella prospettiva dell’essere l’uno con l’altro. e) Il ϕοβερόν (ciò che fa paura) in senso autentico Ricollegandosi al ragionamento svolto sin qui, Aristotele
ci offre una caratterizzazione autentica del ϕοβερόν. Ciò che ci fa paura in sommo grado è l’errore commesso che non siamo più in grado di riparare, ciò che avremmo potuto evitare e che adesso è inevitabile – inevitabile non già in termini assoluti, ma per noi, mentre il nostro avversario ha ancora la possibilità di evitarlo.609 Questa situazione presenta il «pauroso» per eccellenza: l’inevitabile, non però in termini assoluti, ma solo per noi. La possibilità di evitare ce l’ha l’altro, che ci è ostile. Poiché l’inevitabilità non è assoluta, e poiché la possibilità di evitare ce l’ha l’altro – il quale ha la προαίρεσις –, essa assume il carattere della minaccia. L’essere minacciato è contraddistinto dalla ἐλπίς di colui che subisce la minaccia. Anche ciò che è massimamente minaccioso deve offrire in qualche modo la prospettiva di esserne risparmiato. Ciò che fa paura diventa tanto più autentico quanto più svanisce la prospettiva di un aiuto, quando non c’è via di scampo e ciò nondimeno il minacciato spera ancora che sussista la prospettiva di uscirne indenne. f) Il «sentirsi situato» nell’avere paura L’avere paura va caratterizzato come un οἴεσθαι: chi potrebbe cadere in preda alla paura deve anzitutto «credere» che quel determinato qualcosa di minaccioso minacci proprio lui; inoltre, deve ritenere che la minaccia provenga da quest’uomo determinato, e che egli lo minacci adesso.610 Ciò che mi minaccia non dev’essere presente solo nel senso che so che prima o poi mi potrebbe capitare, non dev’esserci cioè solo un orientamento, da parte mia, circa la possibilità dell’essere minacciato: piuttosto, devo essere propenso, devo credere al fatto che mi posso aspettare questo e quest’altro, che adesso, a causa di quest’uomo, mi può accadere (passieren)611 qualcosa. Lo οἴεσθαι è dunque caratteristico per il modo specifico in cui i ϕοβερά «ci» sono per me. Se viene a mancare questo peculiare οἴεσθαι si può
certo essere a conoscenza di una minaccia, ma essa non può farci paura. Tale propensione non compare in coloro cui tutto va per il meglio, che si ritengono al sicuro da ogni minaccia, poiché sono ricchi, vigorosi, stimati e influenti. Costoro non cadono mai in preda alla paura, anzi ostentano una presunzione, una sfrontatezza, un disprezzo 612 caratteristici. Inoltre, non hanno paura coloro che hanno un altro οἴεσθαι, che credono cioè che non possa accadere loro più nulla, poiché hanno già sofferto tutto. Per gli «indifferenti» non si dà la possibilità della paura.613 Quest’ultimo modo di appropriarsi del proprio esserci opinando sulla paura deve mutare, si deve cioè pervenire a un determinato οἴεσθαι, affinché ciò che fa paura possa giungere in nostra prossimità. Il credere di essere in pericolo è al tempo stesso tale da coltivare una ἐλπίς: appropriarsi del minaccioso come ciò che ci riguarda e sperare nel contempo di riuscire a cavarsela. Per l’avere paura la ἐλπὶς σωτηρίας è altrettanto costitutiva del credere di essere minacciati.614 Nella «speranza di essere salvato» si manifesta la peculiare situazione emotiva per cui mi preoccupo – mi prendo cura – di ciò che temo: la cosa mi deve riguardare, non mi può essere indifferente. Solo a questo punto, quindi, diviene comprensibile la caratteristica ταραχή, «inquietudine». Tale inquietudine altro non è che la contrapposizione tra οἴεσθαι ed ἐλπίς: credere di essere perduto, e tuttavia sperare. La possibilità della salvezza non va esclusa, e in questo speranzoso tener fermo alla possibilità di «non essere annientato» è implicito il caratteristico «fuggire» da ciò che mi minaccia – λύπη come ϕυγή. La possibilità di essere salvato – in breve: di essere – è data, ma ciò nonostante fuggo dall’essere. È questo il senso fondamentale della ταραχή. L’esserci non si allontana da se stesso, anzi conserva saldamente la speranza che la salvezza sia possibile. Nella ταραχή emergono i due elementi della δίωξις e della ϕυγή: entrambe determinazioni fondamentali della motilità autentica dell’esserci.
g) La paura in quanto πίστις. Il coraggio in quanto possibilità dell’essere-pronto nei suoi confronti. I πάθη in quanto terreno del λόγος Aristotele sostiene che quando si viene colti dall’inquietudine, determinata dallo οἴεσθαι e dalla ἐλπίς, si diventa pronti per deliberare.615 Coloro che sono assaliti dalla paura corrono dagli altri per consultarsi, per farsi consigliare. Quando faccio paura ai miei ascoltatori, affinché il timore li colga, quando presento loro come pericolosi gli eventi politici, li rendo pronti e propensi a consultarsi e a deliberare: li trasformo in attori che contribuiscono di per sé a prendere una decisione cui si tende, faccio sì che diventino essi stessi πίστις. In relazione al parlare l’uno con l’altro nella quotidianità, la paura si mostra come il sentirsi-situati che induce a parlare. Quello che emerge qui nell’ambito della quotidianità è un fenomeno che ha un fondamento assai più originario, nella misura in cui, quanto all’esserci dell’uomo, si può avere a che fare con la paura anche in un altro senso, che chiamiamo angoscia o orrore: il che avviene quando ci sentiamo spaesati, quando non sappiamo di che cosa abbiamo paura. Quando ci sentiamo spaesati, cominciamo a parlare. È un accenno, questo, alla γένεσις ontologica del parlare, cioè al fatto che il parlare è strettamente connesso con la determinazione fondamentale dell’esserci caratterizzata dallo spaesamento. Ora, la paura qui descritta da Aristotele implica di per sé la possibilità di essere risolutamente afferrata dall’uomo. In quanto πάθος determinato, la paura implica la possibilità di una ἕξις. Una tale possibilità è il coraggio. È evidente tuttavia che posso essere coraggioso in senso proprio solo se ho paura: la paura è la condizione di possibilità del coraggio. Chi non ha paura, ovvero chi – come avviene per lo più – si intesta a credere di non avere paura, non giunge in senso
proprio a decidersi e a essere coraggioso. Ciò che importa è prendere coraggio, afferrarlo – è avere paura nel giusto modo, pervenendo così alla risolutezza. È questo il senso della tesi di Agostino: initium sapientiae timor domini,616 che sottolinea la rilevanza fondamentale della paura per l’esserci. Possibilità dell’essere-pronti nei confronti della paura: Retorica B 5, in modo più dettagliato Etica Nicomachea Γ 9-10.617 La ἐλπὶς σωτηρίας indica nello stesso tempo che fra l’avere paura connesso alla σωτηρία e l’esserci sussiste un rapporto peculiare. Della ἕξις – anzi, per essere più precisi, del poter disporre dell’attimo nel giusto modo – Aristotele dice una volta che σῴζει μεσότητα,618 «salva il giusto mezzo», mi porta in quell’essere autentico che corrisponde alle circostanze. Il termine σῴζειν viene utilizzato inoltre in senso metaforico: ὁ θεὸς σῴζει τὸν οὐρανόν, «il dio salva il cielo» – «salvare» inteso nel senso del «non lasciar morire», «mantenere nell’esserci». Σῴζειν, σωτηρία: concetti contrapposti alla ϕθορά, allo «svanire dall’esserci». In seguito dovremo chiarire ancora brevemente in che rapporto la paura e i πάθη stanno con il λόγος, inteso come quel parlare l’uno con l’altro avente la funzione di attuare l’interpretazione dell’esserci nella sua quotidianità. Se i πάθη non sono soltanto un annesso dei processi psichici, ma costituiscono il terreno da cui nasce e si sviluppa il parlare e al cui interno cresce a sua volta ciò che parlando è stato espresso, allora essi sono le possibilità fondamentali in cui l’esserci si orienta primariamente riguardo a se stesso, si trova situato. Tale primario essere orientato, la chiarificazione del proprio «essere nel mondo», non è un sapere, ma un sentirsi-situato, che può essere determinato in modo diverso a seconda del modo di esserci di un ente. Solo all’interno di un sentirsi-situato ed «essere nel mondo» così caratterizzato è data la possibilità di parlare delle cose spogliate dell’aspetto che hanno nella pratica più quotidiana. Nasce così la possibilità di pervenire a una determinata oggettività, che in un certo senso fa passare in secondo
piano il modo di vedere il mondo prefigurato dai πάθη. Solo se si vede l’esserci in questo modo si possono mettere da parte i πάθη. Solo in base a quanto detto fin qui si può comprendere quanto fosse difficile per i greci – che erano per così dire innamorati del λόγος – sottrarsi al dialogo e alla chiacchiera per pervenire a un’oggettività, e che è ingannevole ritenere in genere la Grecia un paese della cuccagna dove ogni giorno si scopriva qualcosa di nuovo, come se a questi grandi uomini le cose piovessero dal cielo.
22. Integrazioni alla spiegazione dell’esserci in quanto «essere nel mondo» a) La ἕξις dell’ἀληθεύειν (Eth. Nic. Δ 12-13) Siamo riusciti a portare a una certa conclusione la nostra analisi della paura. Non bisogna dimenticare che nella Retorica i πάθη sono concepiti come πίστεις, nella misura in cui parlano a favore di un’opinione che guida la vita in comune dei cittadini della πόλις. Le πίστεις così intese sono ciò ἐξ ὧν ἡ πρότασις, ciò «da cui e in base a cui viene di volta in volta assunta la premessa di ciò che è noto». Ogni argomentazione parla a partire da un dato ritenuto ovvio. I πάθη sono caratterizzati dalla ἡδονή, contrassegnano il trovarsi di volta in volta situato dell’esserci nel suo mondo. L’analisi del ϕόβος, nonché dei πάθη in generale, li considera in quanto determinazioni di colui che ascolta. Tuttavia ciascuno, nel suo esserci con altri, è sia ascoltatore che oratore. La δόξα quindi – alla cui formazione contribuiscono i πάθη – contraddistingue l’«essere già interpretato» dell’esserci nella quotidianità. Nell’«avere-lì in comune il mondo», la κοινωνία, l’«essere l’uno con l’altro», è un condividere determinate δόξαι che riceve il proprio orientamento in base al modo in cui l’esserci in quanto tale
parla di volta in volta di se stesso. Tale κοινωνία implica inoltre la particolare possibilità dell’essere l’uno con l’altro degli uomini in compagnia e in società – la possibilità della ὁμιλία o del συζῆν.619 Il «vivere l’uno con l’altro» è però caratterizzato mediamente e quotidianamente dalla δόξα. L’esserci nella quotidianità si trattiene nel «più o meno», è oscillante, non si prende nemmeno troppo sul serio, è in gran parte non oggettivo. L’uomo non è oggettivo nei confronti di se stesso. Nella misura in cui non lo è, ma conserva nel contempo la possibilità di decidersi per qualcosa di autentico – cioè finché si mantiene nella possibilità della προαίρεσις –, egli possiede una ἕξις anche riguardo all’essere-scoperto del suo essere. Anche riguardo alla ὁμιλία e al συζῆν si dà una ἕξις, che consiste nel disporre di una genuinità di comportamento nei confronti degli altri e di se stessi. Chi è contraddistinto da questo genere di ἕξις è definito da Aristotele ἀληθευτικός,620 il che significa: disporre del proprio esserci privilegiandone l’essere-scoperto, condursi in modo tale che il comportarsi e l’essere con gli altri non sia un nascondersi, un occultarsi, mostrarsi per ciò che si è e per ciò che si pensa. Lo συζῆν è caratterizzato dalla ζωὴ πρακτικὴ μετὰ λόγου. Questa particolare ἕξις avviene ἐν λόγοις καὶ πράξεσιν καὶ τῷ προσποιήματι.621 Προσποίημα: l’asserire qualcosa di sé nel senso dell’attribuire a se stessi ciò che si asserisce di sé, ciò che si dà a intendere di sé, nel senso che lo si dice di se stessi, un asserire che riguarda se stessi. Il προσποίημα, la προσποίησις, sono per lo più oscillanti. Di solito e per lo più gli uomini si trovano – implicitamente o esplicitamente – nella ὁμιλία, che può avere il carattere 1. dell’ἀλαζών, o 2. dell’εἴρων. ᾿Αλαζών è colui che si dà un sacco di arie, il millantatore: δοκεῖ δὴ ὁ μὲν ἀλαζὼν προσποιητικὸς τῶν ἐνδόξων εἶναι καὶ μὴ ὑπαρχόντων καὶ μειζόνων ἢ ὑπάρχει,622 «colui che parla di sé attribuendosi ciò che suscita generalmente grande considerazione». Si tratta di una ἕξις: innanzitutto e per lo più l’uomo si comporta come
ἀλαζών, è propenso a dire ciò che stimola l’ammirazione di tutti, ad attribuire a se stesso ciò «di cui non dispone affatto», o «cose più grandi e importanti di quelle che sono alla sua portata» – insomma a millantare se stesso in modo da nascondere il suo essere autentico: non è un uomo tale da mostrare apertamente ciò che veramente è. L’altra possibilità è caratterizzata dall’εἴρων: ἀρνεῖσθαι [δοκεῖ] τὰ ὑπάρχοντα ἢ ἐλάττω ποιεῖν,623 «colui che nega ciò che è, che non ammette il proprio essere così come lo si vede direttamente, anzi lo sminuisce» – Socrate, che faceva mostra di non sapere nulla, mentre ne sapeva più degli altri. L’εἴρων ha possibilità buone e cattive. Il giusto mezzo è l’ἀληθευτικός: l’essere «veritiero», «non simulato» – ciascuno parla e agisce così com’è.624 Vedete come opera il λόγος nell’«essere nel mondo», l’intima connessione sussistente tra il λόγος e l’essere nel mondo; al tempo stesso, è chiaro che il non essere nascosti, lo scoperto essere orientati sia nell’«essere per se stessi» che nell’«essere per altri», è caratterizzato dall’ἀλήθεια, più precisamente: dall’ἀληθεύειν in quanto ἕξις – ἀληθεύειν da intendersi come un «poter esser-ci non-nascosto». Aristotele affronta tematicamente le diverse possibilità dell’ἀληθεύειν nel libro VI dell’Etica Nicomachea: data una molteplicità di ἕξεις, le due supreme sono: 1. la σοϕία, 2. la ϕρόνησις, la «circospezione» nell’attimo, e il θεωρεῖν, quel dischiudere il mondo, aprire l’essere, nel cui caso non può entrare in gioco alcun secondo fine – un ἀληθεύειν, questo, che, in quanto βίος θεωρητικός, rappresenta la possibilità autentica e suprema dell’esistenza greca. b) Il mondo in quanto mondo naturale Finora abbiamo caratterizzato l’esserci dell’uomo come «essere nel mondo», determinando anzitutto il mondo stesso tramite gli elementi d’incontro dell’ἀγαθόν. Il carattere ontologico del mondo con cui abbiamo a che fare si
determina in quanto ἐνδεχόμενον ἄλλως, ed è quindi da intendersi come più o meno sottoposto al mutamento. In questo mondo-ambiente, cioè nel mondo in cui ci diamo da fare nel nostro prenderci cura, si mostra nel contempo il mondo in quanto natura. La natura non è un ambito ontologico che starebbe accanto a questo mondo, ma è il mondo stesso, così come esso si mostra, in un modo determinato, nel mondo-ambiente, caratterizzato dal fatto che il mondo in quanto natura è quell’essere che, per il nostro «essere nel mondo» nell’avere a che fare quotidiano, si mostra in quanto esserci già sempre: sui mari si naviga, nei fiumi si pesca. La quotidianità del produrre è sempre un produrre in base a qualcosa presso cui ci si rifornisce, per esempio la miniera, il bosco, e così via. Tutto ciò di cui la vita quotidiana necessita, essa ce l’ha ed esiste nella natura. È importante rendersi conto che la natura non è primariamente qualcosa come un oggetto d’indagine scientifica. La natura è l’esserci già sempre del mondo. Visto in termini originari, il mondo è un aspetto dell’ambiente stesso. L’alternarsi di giorno e notte torna sempre a ripetersi, e lo stesso accade per il corso del sole e delle stelle. Nel mondo che mi circonda c’è il terreno su cui cammino, c’è l’aria, la cui presenza, per così dire, mi aspetta. È così che il mondo va inteso, se si determina l’essere nel mondo come un avere a che fare con esso. In questa esperienza dell’esserci il mondo viene visto come ciò che è sempre, e ciò che può anche essere altrimenti. Ciò che, propriamente, è «sempre essente», e che non necessita di essere prima cercato a lungo per orientarsi naturalmente nel mondo, è il cielo. Il cielo greco, e il mondo, debbono essere intesi come una volta in cui il sole sorge e tramonta. Le occupazioni pratiche dell’uomo si svolgono nel luogo intermedio, nel μέσον. La terra è il centro di orientamento per orientarsi nel mondo, un orientarsi che non necessita di essere teoretico, nulla che abbia a che fare con le scienze naturali. Questo sistema di orientamento è assoluto. Non vi è nulla rispetto a cui il mio esserci sarebbe
relativo. C’è solo un esserci, l’esserci sulla terra in quanto centro assoluto di orientamento. Per Aristotele si danno tre movimenti fondamentali: 1. centrifugo, ἄνὼ 2. centripeto, κάτὼ 3. circolare, κύκλος – tre movimenti in cui l’esserci si trova in quanto essere nel mondo. Tutto ciò che è nel mondo è il κόσμος. L’ente in quanto κόσμος è caratterizzato dalla presenza attuale di ciò che «ci» è già sempre, παρουσία. Ogni ente nel suo essere è determinato dal fatto di essere πέρας, «ciò che è diventato finito», che ha i suoi limiti – dove il «limite» non è determinato, per esempio, dalla relazione tra un ente e l’altro, al contrario: il «limite», qui, è in sé un elemento ontologico implicito nell’ente, πέρας è il suo luogo, il suo posto, il suo essere-prodotto, l’essere al suo posto. L’ente che si muove nel κόσμος ha di volta in volta determinati limiti peculiari del suo movimento, ha cioè il suo luogo. Il luogo è una determinazione positiva dell’essere. Il luogo appartiene all’ente in quanto tale. Con il concetto di «campo» la fisica odierna non fa che tornare a questo punto. Questo per quanto riguarda il carattere del mondo, se lo si considera come mondo naturale. La natura così intesa non se ne sta lì accanto, non è prima natura e poi, in più, qualsiasi altra cosa, al contrario: se si vogliono cogliere le cose naturali in riferimento al loro esserci, le si devono vedere passando attraverso il mondo-ambiente, bisogna insomma vedere la natura così come essa «ci» è in quanto mondo-ambiente. Soltanto allora si dispone del giusto terreno per cogliere in modo originario il modo di esserci dell’ente della natura.
235. Eth. Nic. A 13, 1102 a 5 sg. 236. Eth. Nic. A 13, 1102 b 34 sg. 237. Eth. Nic. A 13, 1103 a 3. 238. Eth. Nic. A 13, 1102 b 30 sg.: τὸ δ᾽ ἐπιθυμητικὸν καὶ ὅλως ὀρεκτικὸν μετέχει πως [λόγου]. 239. Eth. Nic. A 13, 1102 b 29, 34.
240. Eth. Nic. A 13, 1103 a 2. 241. Eth. Nic. A 13, 1102 b 28 sg.: ϕαίνεται δὴ καὶ τὸ ἄλογον διττόν. 242. Eth. Nic. A 13, 1103 a 4 sg.: λέγομεν γὰρ αὐτῶν τὰς μὲν διανοητικὰς τὰς δὲ ἠθικάς. 243. Nota del Curatore dell’edizione tedesca: In questo corso Heidegger non svilupperà un’interpretazione dettagliata delle ἀρεταὶ διανοητικαί. Si veda però l’accenno alla ἕξις dell’ἀληθεύειν, sotto, pp. 290 sgg. 244. Eth. Nic. A 13, 1102 a 26 sg.: λέγεται δὲ περὶ αὐτῆς καὶ ἐν τοῖς ἐξωτερικοῖς λόγοις. 245. H. Diels, Über die exoterischen Reden des Aristoteles, in «Sitzungsberichte der Königlich Preussischen Akademie der Wissenschaften zu Berlin», Berlin, 1883, 1. 246. W. Jaeger, Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles, cit., pp. 134 sgg. 247. Cfr. Platone, Gorgia, 453 a 2. 248. Rhet. B 24, 1402 a 23 sg. 249. F. Nietzsche, Geschichte der griechischen Beredsamkeit, in Nietzsche’s Werke, vol. XVIII, sez. III: Philologica, vol. II: Unveröffentlichtes zur Litteraturgeschichte, Rhetorik und Rhythmik, a cura di O. Crusius, Leipzig, 1912, p. 202: «Das Volk, das sich an solcher Sprache, der sprechbarsten aller, ausbildete, hat unersättlich viel gesprochen...» [«Il popolo, che formò se stesso in seno a una lingua siffatta, la più parlabile di tutte le lingue, fu insaziabilmente avido di parole...»]. 250. Aristotelis Opera, edidit Academia Regia Borussica, vol. II: Aristoteles Graece, ex recognitione I. Bekkeri volumen posterius, Berolini, 1831. 251. De an. B 4, 415 a 22 sgg. 252. De an. B 4, 415 a 25 sg. 253. De an. B 4, 415 a 26 sgg. 254. Eth. Nic. Ζ 2, 1139 a 12. 255. Anaximenis Ars rhetorica quae vulgo fertur Aristotelis ad Alexandrum, recensuit et illustravit L. Spengel, Turici et Vitoduri, 1844; L. Spengel, Die rhetorica (des
Anaximenes) ad Alexandrum kein machwerk der spätesten zeit, in «Philologus», 18, 1862. 256. Rhet. A 2, 1355 b 25. 257. Rhet. A 2, 1355 b 25 sg.: ἔστω δὴ ῥητορικὴ δύναμις περὶ ἕκαστον τοῦ θεωρῆσαι τὸ ἐνδεχόμενον πιθανόν. 258. Rhet. A 1, 1355 b 10: οὐ τὸ πεῖσαι ἔργον αὐτῆς. 259. Aristotelis Topica cum libro de sophisticis elenchis, e schedis Ioannis Strache edidit M. Wallies, in aedibus B.G. Teubneri, Lipsiae, 1923, Ζ 12, 149 b 26 sgg.: ἐστὶ ῥήτωρ μὲν ὁ δυνάμενος τὸ ἐν ἑκάστῳ πιθανὸν θεωρεῖν [...] κλέπτης δ᾽ ὁ λάθρᾳ λαμβάνων. 260. Rhet. A 1, 1355 b 18. 261. Rhet. A 1, 1355 b 12: οὐδὲ γὰρ ἰατρικῆς τὸ ὑγιᾶ ποιῆσαι. 262. Rhet. A 1, 1355 b 13 sg.: μέχρι οὗ ἐνδέχεται, μέχρι τούτου προαγαγεῖν. ἔστιν γὰρ καὶ τοὺς ἀδυνάτους μεταλαβεῖν ὑγιείας ὅμως θεραπεῦσαι καλῶς. 263. Rhet. A 2, 1355 b 28. 264. Rhet. A 2, 1355 b 28 sgg. 265. Rhet. A 2, 1355 b 33 sg.: διὸ καί ϕαμεν αὐτὴν οὐ περὶ τι γένος ἴδιον ἀϕωρισμένον ἔχειν τὸ τεχνικόν. 266. Rhet. A 2, 1355 b 32: περὶ τοῦ δοθέντος. 267. Rhet. A 2, 1356 a 1 sgg. 268. Rhet. A 2, 1355 b 25 sg. 269. Rhet. A 2, 1355 b 34. 270. Rhet. A 2, 1355 b 35. 271. Si veda sotto, 22. Integrazioni alla spiegazione dell’esserci in quanto «essere nel mondo». 272. Rhet. A 2, 1355 b 35. 273. Rhet. A 1, 1355 b 37. 274. Rhet. A 15, 1375 a 24 sg. 275. Rhet. A 2, 1356 a 2. 276. Rhet. A 2, 1356 a 3. 277. Rhet. A 2, 1356 a 3 sg. 278. Rhet. A 2, 1356 a 4. 279. Rhet. A 2, 1356 a 5 sg.: ὥστε ἀξιόπιστον ποιῆσαι τὸν λέγοντα.
280. Rhet. A 2, 1356 a 6 sgg.: τοῖς γὰρ ἐπιεικέσι πιστεύομεν μᾶλλον καὶ θᾶττον, περὶ πάντων μὲν ἁπλῶς, ἐν οἷς δὲ τὸ ἀκριβὲς μή ἐστιν ἀλλὰ τὸ ἀμϕιδοξεῖν, καὶ παντελῶς. 281. Rhet. A 2, 1356 a 12: τὴν ἐπιείκειαν τοῦ λέγοντος ὡς οὐδὲν συμβαλλομένην πρὸς τὸ πιθανόν. 282. Rhet. A 2, 1356 a 13: κυριωτάτην ἔχει πίστιν τὸ ἦθος. 283. Rhet. A 2, 1356 a 15 sg.: οὐ γὰρ ὁμοίως ἀποδίδομεν τὰς κρίσεις λυπούμενοι καὶ χαίροντες. 284. Rhet. A 2, 1356 a 16. Nota del Curatore dell’edizione tedesca: Le trascrizioni di Bröcker e Schalk citano qui: ἢ ϕιλοῦντος ἢ μεσοῦντος, e la trascrizione di Bröcker aggiunge tra parentesi: «Restare neutrale, μεσεύω». Questa variante, che nella versione grammaticalmente più corretta ἢ ϕιλοῦντες ἢ μεσοῦντες, potrebbe essere implicitamente sottintesa dalla precedente parafrasi di Heidegger, non trova conferma nella sua copia di lavoro. In seguito Aristotele, nella sua analisi più dettagliata dei πάθη, alla quale Heidegger rinvia qui in margine alla sua copia di lavoro, tratta il ϕιλεῖν assieme al μισεῖν. 285. Rhet. A 2, 1356 a 19. 286. Rhet. A 2, 1356 a 20: ἐκ τῶν περὶ ἕκαστα πιθανῶν. 287. Rhet. A 2, 1356 b 30 sgg.: οὐδεμία δὲ τέχνη σκοπεῖ τὸ καθ᾿ ἕκαστον, οἷον ἡ ἰατρικὴ τί Σωκράτει τὸ ὑγιεινόν ἐστιν ἢ Καλλίᾳ [...] οὐδὲ ἡ ῥητορικὴ τὸ καθ᾿ ἕκαστον ἔνδοξον θεωρήσει. 288. Rhet. A 3, 1358 a 37 sgg.: σύγκειται μὲν γὰρ ἐκ τριῶν ὁ λόγος, ἔκ τε τοῦ λέγοντος καὶ περὶ οὗ λέγει καὶ πρὸς ὅν, καὶ τὸ τέλος πρὸς τοῦτόν ἐστιν, λέγω δὲ τὸν ἀκροατήν. 289. Rhet. A 2, 1356 b 1 sgg. 290. Rhet. A 3, 1358 b 2. 291. Rhet. A 3, 1358 b 3. 292. Rhet. A 3, 1358 b 4 sg. 293. Rhet. A 3, 1358 b 5 sg. 294. Rhet. A 3, 1358 b 7 sg. 295. Rhet. A 3, 1358 b 8 sg.
296. Rhet. A 3, 1358 b 9 sg. 297. Rhet. A 3, 1358 b 11. 298. Rhet. A 3, 1358 b 12 sg. 299. Rhet. A 3, 1358 b 14. 300. Rhet. A 3, 1358 b 15 sg. 301. Rhet. A 3, 1358 b 17 sg. 302. Rhet. A 3, 1358 b 22. 303. Rhet. A 3, 1358 b 25. 304. Loc. cit. 305. Rhet. A 2, 1356 a 20 sgg. 306. Rhet. A 2, 1356 a 25 sgg. 307. Rhet. A 1, 1354 a 1. 308. Rhet. A 2, 1356 a 32 sg.: περὶ οὐδενὸς γὰρ ὡρισμένου οὐδετέρα αὐτῶν ἐστιν ἐπιστήμη, πῶς ἔχει, ἀλλὰ δυνάμεις τινὲς τοῦ πορίσαι λόγους. 309. Rhet. A 2, 1356 b 3 sgg. 310. Rhet. A 2, 1356 b 1 sg.; 1355 a 5 sg. 311. Cfr. Top. A 1, 100 a 25-b 23. 312. Top. A 1, 100 a 25 sgg.: ἔστι δὴ συλλογισμὸς λόγος ἐν ᾧ τεθέντων τινῶν ἕτερόν τι τῶν κειμένων ἐξ ἀνάγκης συμβαίνει διὰ τῶν κειμένων. 313. Top. A 1, 100 a 27 sg.: ἀπόδειξις μὲν οὖν ἐστιν, ὅταν ἐξ ἀληθῶν καὶ πρώτων ὁ συλλογισμὸς ᾖ. 314. Top. A 1, 100 a 29 sg.: διαλεκτικὸς δὲ συλλογισμὸς ὁ ἐξ ἐνδόξων συλλογιζόμενος. 315. Top. A 1, 100 b 21 sgg.: ἔνδοξα δὲ τὰ δοκοῦντα πᾶσιν ἢ τοῖς πλείστοις ἢ τοῖς σοϕοῖς, καὶ τούτοις ἢ πᾶσιν ἢ τοῖς πλείστοις ἢ τοῖς μάλιστα γνωρίμοις καὶ ἐνδόξοις. 316. Rhet. A 3, 1358 22 sgg. 317. Rhet. A 3, 1359 a 22 sg.: δῆλον ὅτι δέοι ἂν καὶ περὶ μεγέθους καὶ μικρότητος καὶ τοῦ μείζονος καὶ τοῦ ἐλάττονος προτάσεις ἔχειν. 318. Rhet. A 3, 1359 a 14 sg.: ἀναγκαῖον [...] ἔχειν προτάσεις περὶ δυνατοῦ καὶ ἀδυνάτου. 319. Rhet. A 2, 1357 a 13 sgg.: ἀναγκαῖον τό τε ἐνθύμημα εἶναι καὶ τὸ παράδειγμα περὶ τε τῶν ἐνδεχομένων ὡς τὰ πολλὰ ἔχειν ἄλλως.
320. Rhet. A 2, 1357 a 15 sgg.: τὸ μὲν παράδειγμα ἐπαγωγὴν τὸ δ᾽ ἐνθύμημα συλλογισμόν, καὶ ἐξ ὀλίγων τε καὶ πολλάκις ἐλαττόνων ἢ ἐξ ὧν ὁ πρῶτος συλλογισμός. 321. Rhet. A 2, 1357 a 12. 322. Rhet. A 2, 1357 a 3 sg.: οὐ δύνανται διὰ πολλῶν συνορᾶν οὐδὲ λογίζεσθαι πόρρωθεν. 323. Top. A 12, 105 a 12 sg.: ἐπαγωγὴ δὲ ἡ διὰ τῶν καθ᾿ ἕκαστα ἐπὶ τὸ καθόλου ἔϕοδος. 324. Top. A 12, 105 a 14 sgg.: οἷον εἰ ἔστι κυβερνήτης ὁ ἐπιστάμενος κράτιστος καὶ ἡνίοχος, καὶ ὅλως ἐστὶν ὁ ἐπιστάμενος περὶ ἕκαστον ἄριστος. 325. Top. A 12, 105 a 16 sgg. 326. Top. A 12, 105 a 18 sg. 327. Rhet. A 2, 1356 a 27 sg.: ὑποδύεται ὑπὸ τὸ σχῆμα τὸ τῆς πολιτικῆς. 328. Rhet. A 2, 1356 a 28 sgg.: καὶ οἱ ἀντιποιούμενοι ταύτης τὰ μὲν δι᾿ ἀπαιδευσίαν τὰ δὲ δι᾿ ἀλαζονείαν. 329. Eth. Nic. Κ 10, 1180 b 35 sgg. 330. Eth. Nic. Κ 10, 1181 a 13 sgg.: λίαν ϕαίνονται πόρρω εἶναι τοῦ διδάξαι· ὅλως γὰρ οὐδὲ ποῖόν τί ἐστιν ἢ περὶ ποῖα ἴσασιν· οὐ γὰρ ἂν τὴν αὐτὴν τῇ ῥητορικῇ οὐδὲ χείρω ἐτίθεσαν, οὐδ᾽ ἂν ᾤοντο ρᾴδιον εἶναι τὸ νομοθετῆσαι συναγαγόντι τοὺς εὐδοκιμοῦντας τῶν νόμων. 331. Eth. Nic. Ζ 10, 1142 b 14. 332. Eth. Nic. Ζ 10, 1142 b 11. 333. Loc. cit. 334. De an. Γ 3, 428 a 18 sg. 335. Rhet. A 1, 1355 b 26. 336. Eth. Nic. Γ 1, 1110 a 13 sg. 337. Eth. Nic. Ζ 10, 1142 a 31 sg.: τὸ γὰρ βουλεύεσθαι ζητεῖν τι ἐστίν. 338. Eth. Nic. Ζ 10, 1142 b 13 sg. 339. Eth. Nic. Ζ 10, 1142 b 10 sg.: ἐπιστήμης μὲν γὰρ οὐκ ἔστιν ὀρθότης [...] δόξης δ᾽ ὀρθότης. 340. De an. Γ 3, 428 a 1 sgg. 341. De an. Γ 3, 428 a 22: δόξῃ ἀκολουθεῖ πίστις. 342. De an. Γ 3, 428 a 20: δόξῃ μὲν ἕπεται πίστις.
343. De an. Γ 3, 428 a 18 sgg. 344. De an. Γ 3, 428 a 22 sgg. 345. De an. Γ 3, 428 a 27 sg. 346. Eth. Nic. Γ 4, 1111 b 10 sgg.: οἱ δὲ λέγοντες αὐτὴν ἐπιθυμίαν ἢ θυμὸν ἢ βούλησιν ἢ τινα δόξαν οὐκ ἐοίκασιν ὀρθῶς λέγειν. 347. Cfr. Eth. Nic. Γ 4, 1111 b 12 sgg. 348. Eth. Nic. B 6, 1106 b 36. 349. Eth. Nic. B 6, 1107 a 1. 350. Eth. Nic. Γ 4, 1111 b 12 sgg. 351. Eth. Nic. Ζ 2, 1139 b 5. 352. Eth. Nic. Γ 4, 1111 b 13 sgg. 353. Eth. Nic. Γ 4, 1111 b 18 sg. 354. Eth. Nic. Γ 4, 1111 b 20 sgg. 355. Eth. Nic. Γ 4, 1111 b 24: οἷον ὑποκριτήν τινα νικᾶν ἢ ἀθλητήν. 356. Eth. Nic. Γ 4, 1111 b 31 sgg.: ἡ μὲν γὰρ δόξα δοκεῖ περὶ πάντα εἶναι, καὶ οὐδὲν ἧττον περὶ τὰ ἀίδια καὶ τὰ ἀδύνατα ἢ τὰ ἐϕ᾿ ἡμῖν. 357. Eth. Nic. Γ 4, 1111 b 33: καὶ τῷ ψευδεῖ καὶ ἀληθεῖ διαιρεῖται. 358. Eth. Nic. Γ 4, 1112 a 1 sgg.: τῷ γὰρ προαιρεῖσθαι τἀγαθά ἢ τὰ κακὰ ποιοί τινές ἐσμεν, τῷ δὲ δοξάζειν οὔ. 359. Eth. Nic. Γ 4, 1112 a 3 sgg.: καὶ προαιρούμεθα μὲν λαβεῖν ἢ ϕυγεῖν ἢ τι τῶν τοιούτων, δοξάζομεν δὲ τί ἐστιν ἢ τίνι συμϕέρει ἢ πῶς· λαβεῖν δὲ ἢ ϕυγεῖν οὐ πάνυ δοξάζομεν. 360. Eth. Nic. Γ 4, 1112 a 5 sgg.: καὶ ἡ μὲν προαίρεσις ἐπαινεῖται τῷ εἶναι οὗ δεῖ μᾶλλον ἢ τῷ ὀρθῶς, ἡ δὲ δόξα τῷ ὡς ἀληθῶς. 361. Eth. Nic. Γ 4, 1112 a 7 sg.: καὶ προαιρούμεθα μὲν ἃ μάλιστα ἴσμεν ἀγαθὰ ὄντα, δοξάζομεν δὲ ἃ οὐ πάνυ ἴσμεν. 362. Eth. Nic. Γ 4, 1112 a 8 sgg.: δοκοῦσί τε οὐχ οἱ αὐτοὶ προαιρεῖσθαί τε ἄριστα καὶ δοξάζειν, ἀλλ᾿ ἔνιοι δοξάζειν μὲν ἄμεινον, διὰ κακίαν δ᾽ αἱρεῖσθαι οὐχ ἃ δεῖ. 363. Top. A 4, 101 b 12: πρὸς πόσα καὶ ποῖα καὶ ἐκ τίνων οἱ λόγοι. 364. Top. A 4, 101 b 13 sgg.
365. Top. A 4, 101 b 29: τῷ τρόπῳ. 366. Top. A 4, 101 b 30 sg. 367. Top. A 4, 101 b 32 sg. 368. Cfr. Top. A 11, 104 b 19 sg. 369. Nota del Curatore dell’edizione tedesca: In questo corso Heidegger non arriverà a trattare dell’ἀλήθεια. 370. Top. A 10, 104 a 8 sg. 371. Top. A 10, 104 a 10 sg. 372. Aristotelis Organon Graece, novis codicum auxiliis adiutus recognovit, scholiis ineditis et commentario instruxit Th. Waitz, parte I: Categoriae, Hermeneutica, Analytica priora, Lipsiae, 1844; De int. 11, 20 b 22 sg. 373. Top. A 10, 104 a 9: ἢ πᾶσιν ἢ τοῖς πλείστοις ἢ τοῖς σοϕοῖς. 374. Cfr. Top. A 10, 104 a 33 sgg. 375. Top. A 11, 104 b 1. 376. Top. A 11, 104 b 1 sg. 377. Top. A 11, 104 b 3 sgg. 378. Top. A 11, 104 b 19 sg. 379. Top. A 11, 104 b 21 sg. 380. Top. A 11, 104 b 23 sg. 381. Rhet. A 2, 1356 b 37 sg.: ἡ δὲ ῥητορικὴ ἐκ τῶν ἤδη βουλεύεσθαι εἰωθότων. 382. Rhet. A 2, 1356 b 37: ἐκείνη μὲν ἐκ τῶν λόγου δεομένων. 383. Top. A 11, 105 a 4 sg.: μὴ κολάσεως ἢ αἰσθήσεως. 384. Top. A 11, 105 a 5 sgg.: οἱ μὲν γὰρ ἀποροῦντες «πότερον δεῖ τοὺς θεοὺς τιμᾶν καὶ τοὺς γονεῖς ἀγαπᾶν ἢ οὔ» κολάσεως δέονται. 385. Top. A 11, 105 a 7: «πότερον ἡ χιὼν λευκὴ ἢ οὔ». 386. Loc. cit.: [δέονται] αἰσθήσεως. 387. Top. A 11, 105 a 7 sg. 388. Met. B 1, 995 a 25. 389. Met. B 1, 995 a 27. 390. Met. B 1, 995 a 28. 391. Met. B 1, 995 b 2. 392. Met. B 1, 995 a 29 sgg.: λύειν δ᾽ οὐκ ἔστιν
ἀγνοοῦντας τὸν δεσμόν. ἀλλ᾿ ἡ τῆς διανοίας ἀπορία δηλοῖ τοῦτο περὶ τοῦ πράγματος. 393. Met. B 1, 995 a 25 sg.: ταῦτα δ᾽ ἐστὶν ὅσα τε περὶ αὐτῶν ἄλλως ὑπειλήϕασί τινες. 394. Met. B 1, 995 a 33 sgg.: διὸ δεῖ τὰς δυσχερείας τεθεωρηκέναι πάσας πρότερον, τούτων τε χάριν καὶ διὰ τὸ τοὺς ζητοῦντας ἄνευ τοῦ διαπορῆσαι πρῶτον ὁμοίους εἶναι τοῖς ποῖ δεῖ βαδίζειν ἀγνοοῦσι, καὶ πρὸς τούτοις οὐδ᾽ εἴ ποτε τὸ ζητούμενον εὕρηκεν ἢ μὴ γιγνώσκειν· τὸ γὰρ τέλος τούτῳ μὲν οὐ δῆλον, τῷ δὲ προηπορηκότι δῆλον. 395. Rhet. A 2, 1356 b 37 sg.: ἡ δὲ ῥητορικὴ ἐκ τῶν ἤδη βουλεύεσθαι εἰωθότων. 396. Cfr. Top. A 13, 105 a 22 sg.: ἓν μὲν τὸ προτάσεις λαβεῖν. 397. Rhet. B 1, 1377 b 21 sgg.: ἐπεὶ δὲ ἕνεκα κρίσεώς ἐστιν ἡ ῥητορική [...] ἀνάγκη μὴ μόνον πρὸς τὸν λὸγον ὁρᾶν, ὅπως ἀποδεικτικὸς ἔσται καὶ πιστός, ἀλλὰ καὶ αὑτὸν ποιόν τινα καὶ τὸν κριτὴν κατασκευάζειν· πολὺ γὰρ διαϕέρει πρὸς πίστιν, μάλιστα μὲν ἐν ταῖς συμβουλαῖς, εἶτα καὶ ἐν ταῖς δίκαις, τό τε ποιόν τινα ϕαίνεσθαι τὸν λέγοντα καὶ τὸ πρὸς αὑτοὺς ὑπολαμβάνειν πως διακεῖσθαι αὐτόν, πρὸς δὲ τούτοις ἐὰν καὶ αὐτοὶ διακείμενοί πως τυγάνωσιν. τὸ μὲν οὖν ποιόν τινα ϕαίνεσθαι τὸν λέγοντα χρησιμώτερον εἰς τὰς συμβουλάς ἐστιν, τὸ δὲ διακεῖσθαί πως τὸν ἀκροατὴν εἰς τὰς δίκας· οὐ γὰρ ταὐτὰ ϕαίνεται ϕιλοῦσι καὶ μισοῦσιν, οὐδ᾽ ὀργιζομένοις καὶ πράως ἔχουσιν. 398. Rhet. B 1, 1378 a 1. 399. Rhet. B 1, 1378 a 1 sgg. 400. Rhet. B 1, 1378 a 3 sgg. 401. Rhet. B 1, 1378 a 9. 402. Rhet. B 1, 1378 a 11 sgg.: οὐκ ὀρθῶς δοξάζουσιν. 403. Rhet. B 1, 1378 a 12 sg.: ἢ δοξάζοντες ὀρθῶς διὰ μοχθηρίαν οὐ τὰ δοκοῦντα λέγουσιν. 404. Rhet. B 1, 1378 a 13 sg.: ἢ ϕρόνιμοι μὲν καὶ ἐπιεικεῖς εἰσὶν ἀλλ᾿ οὐκ εὖνοι, διόπερ ἐνδέχεται μὴ τὰ βέλτιστα συμβουλεύειν γιγνώσκοντας. 405. Rhet. B 1, 1378 a 15 sg.: ἀνάγκη ἄρα τὸν ἅπαντα
δοκοῦντα ταῦτ᾿ ἔχειν εἶναι τοῖς ἀκροωμένοις πιστόν. 406. Cfr. Rhet. A 9, 1366 a 23 sgg. 407. Eth. Nic. B 4, 1105 b 19 sgg. 408. Eth. Nic. B 4, 1105 b 21 sgg.: ὅλως οἷς ἕπεται ἡδονὴ ἢ λύπη. 409. Eth. Nic. B 4, 1105 b 25 sg.: ἕξεις δὲ καθ᾿ ἃς πρὸς τὰ πάθη ἔχομεν εὖ ἢ κακῶς. 410. Eth. Nic. B 4, 1105 b 31 sgg.: κατὰ μὲν τὰ πάθη οὔτε ἐπαινούμεθα οὔτε ψεγόμεθα [...] κατὰ δὲ τὰς ἀρετὰς καὶ τὰς κακίας ἐπαινούμεθα ἢ ψεγόμεθα. 411. Eth. Nic. B 4, 1105 b 23 sgg.: δυνάμεις δὲ καθ᾿ ἃς παθητικοὶ τούτων λεγόμεθα, οἷον καθ᾿ ἃς δυνατοὶ ὀργισθῆναι ἢ λυπηθῆναι ἢ ἐλεῆσαι. 412. Aristotele, Über die Dichtkunst, a cura di F. Susemihl, seconda ediz., Leipzig, 1874, 1450 b 8 sg.: ἔστιν δὲ ἦθος μὲν τὸ τοιοῦτον ὃ δηλοῖ τὴν προαίρεσιν, ὁποία τις. 413. Rhet. B 1, 1378 a 20 sg. 414. Rhet. B 1, 1378 a 21 sg. 415. Cfr. Eth. Nic. B 4, 1105 b 20. 416. Met. Δ 23, 1023 a 8. 417. Met. Δ 23, 1023 a 8 sgg. 418. Met. Δ 23, 1023 a 11 sgg. 419. Met. Δ 23, 1023 a 13 sgg. 420. Met. Δ 23, 1023 a 17 sgg. 421. Met. Δ 23, 1023 a 21 sgg. 422. Cfr. Phys. Ε 3, 226 b 18 sgg. 423. Met. Δ 23, 1023 a 23 sgg. 424. Met. Δ 20, 1022 b 4 sg. 425. Met. Δ 20, 1022 b 5 sgg. 426. Met. Δ 20, 1022 b 10 sgg. 427. Met. Δ 19, 1022 b 1. 428. Met. Δ 19, 1022 b 2. 429. W. Dilthey, Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaissance und Reformation, in Wilhelm Diltheys Gesammelte Schriften, a cura di G. Misch, vol. II, Leipzig-Berlin, 1914, pp. 416 sgg. (Die Funktion der Anthropologie in der Kultur des 16. und 17. Jahrhunderts).
430. Rhet. B 1, 1378 a 24 sg.: πῶς τε διακείμενοι ὀργίλοι εἰσί. 431. Rhet. B 1, 1378 a 25: τίσιν εἰώθασιν ὀργίζεσθαι. 432. Loc. cit. 433. Eth. Nic. B 5, 1105 b 19 sgg. 434. Eth. Nic. B 1, 1103 a 25 sg.: διὰ τοῦ ἔθους. 435. Eth. Nic. B 1, 1103 a 30 sg. 436. Eth. Nic. B 2, 1104 a 7 sgg. 437. Eth. Nic. B 3, 1105 a 17 sgg.: ἀπορήσειε δ᾽ ἄν τις πῶς λέγομεν ὅτι δεῖ τὰ μὲν δίκαια πράττοντας δικαίους γίνεσθαι [...] εἰ γὰρ πράττουσιν τὰ δίκαια [...] ἤδη εἰσὶν δίκαιοι. 438. Cfr. Eth. Nic. B 3, 1105 a 26 sgg. 439. Eth. Nic. B 3, 1105 a 30 sg. 440. Eth. Nic. B 3, 1105 a 31. 441. Eth. Nic. B 3, 1105 a 31 sg. 442. Eth. Nic. B 3, 1105 a 33. 443. Rhet. B 1, 1378 a 20 sg. 444. Rhet. B 5, 1382 a 21. 445. Eth. Nic. B 3, 1105 b 1: οὐ συναριθμεῖται. 446. Eth. Nic. B 3, 1105 b 1 sg. 447. Eth. Nic. B 3, 1105 b 5 sgg.: τὰ μὲν οὖν πράγματα δίκαια καὶ σώϕρονα λέγεται, ὅταν ᾖ τοιαῦτα οἷα ἂν ὁ δίκαιος ἢ ὁ σώϕρων πράξειεν· δίκαιος δὲ καὶ σώϕρων ἐστὶν οὐχ ὁ ταῦτα πράττων, ἀλλὰ καὶ ὁ οὕτως πράττων ὡς οἱ δίκαιοι καὶ σώϕρονες πράττουσιν. 448. Eth. Nic. B 3, 1105 b 12 sgg. 449. Eth. Nic. B 5, 1106 a 13: τῷ γένει. 450. Eth. Nic. B 5, 1106 a 26 sg. 451. Eth. Nic. B 5, 1106 a 28. 452. Eth. Nic. B 5, 1106 a 28 sg. 453. Eth. Nic. B 5, 1106 a 29 sg.: λέγω δὲ τοῦ μὲν πράγματος μέσον τὸ ἴσον ἀπέχον ἀϕ᾿ ἑκατέρου τῶν ἄκρων. 454. Eth. Nic. B 5, 1106 a 31 sg.: πρὸς ἡμᾶς δὲ ὃ μήτε πλεονάζει μήτε ἐλλείπει. 455. Eth. Nic. B 5, 1106 a 32. 456. Eth. Nic. B 5, 1106 b 21 sg.
457. Eth. Nic. B 5, 1106 b 28: στοχαστική γε οὖσα τοῦ μέσου. 458. Eth. Nic. B 5, 1106 b 9. 459. De an. B 11, 424 a 4 sgg. 460. Eth. Nic. B 6, 1106 b 36 sg. 461. Eth. Nic. B 1, 1103 a 15 sgg. 462. Eth. Nic. B 1, 1103 a 17. 463. Cfr. Eth. Nic. B 3, 1105 a 22 sgg. 464. Eth. Nic. B 1, 1103 a 15 sgg. 465. Eth. Nic. B 9, 1109 a 26 sgg.: οὕτως δὲ καὶ τὸ μὲν ὀργισθῆναι παντὸς καὶ ῥᾴδιον [...] τὸ δ᾽ ᾧ καὶ ὅσον καὶ ὅτε καὶ οὗ ἕνεκα καὶ ὥς, οὐκέτι παντὸς οὐδὲ ρᾴδιον· διόπερ τὸ εὖ καὶ σπάνιον καὶ ἐπαινετὸν καὶ καλόν. 466. Eth. Nic. B 3, 1105 b 4: ἐκ τοῦ πολλάκις πράττειν. 467. Eth. Nic. B 6, 1106 b 36 sgg. 468. Eth. Nic. B 6, 1107 a 6 sgg.: κατὰ μὲν τὴν οὐσίαν καὶ τὸν λόγον τὸν τὸ τί ἦν εἶναι λέγοντα μεσότης ἐστὶν ἡ ἀρετή, κατὰ δὲ τὸ ἄριστον καὶ τὸ εὖ ἀκρότης. 469. Eth. Nic. B 1, 1103 a 17: ἐξ ἔθους περιγίγνεται. 470. Eth. Nic. B 1, 1103 a 16 sg.: ἐμπειρίας δεῖται καὶ χρόνου. 471. Cfr. Eth. Nic. B 1, 1103 a 17 sg. 472. Met. Δ 21, 1022 b 15 sgg. 473. [Il termine italiano «accadere» traduce qui il verbo tedesco passieren]. 474. Met. Δ 21, 1022 b 18. 475. Met. Δ 21, 1022 b 18 sgg. 476. Met. Δ 21, 1022 b 20 sg. 477. De an. B 5, 417 b 2 sgg.: οὐκ ἔστι δ᾽ ἁπλοῦν οὐδὲ τὸ πάσχειν, ἀλλὰ τὸ μὲν ϕθορά τις ὑπὸ τοῦ ἐναντίου, τὸ δὲ σωτηρία μᾶλλον τοῦ δυνάμει ὄντος ὑπὸ τοῦ ἐντελεχείᾳ ὄντος. 478. De an. B 5, 417 b 5 sgg.: θεωροῦν γὰρ γίγνεται τὸ ἔχον τὴν ἐπιστήμην, ὅπερ ἢ οὐκ ἔστιν ἀλλοιοῦσθαι [...] ἢ ἕτερον γένος ἀλλοιώσεως. διὸ οὐ καλῶς ἔχει λέγειν τὸ ϕρονοῦν, ὅταν ϕρονῇ, ἀλλοιοῦσθαι, ὥσπερ οὐδὲ τὸν οἰκοδόμον ὅταν οἰκοδομῇ.
479. De an. B 5, 417 b 14 sgg.: δύο τρόπους εἶναι ἀλλοιώσεως, τήν τε ἐπὶ τὰς στερητικὰς διαθέσεις μεταβολὴν καὶ τὴν ἐπὶ τὰς ἕξεις καὶ τὴν ϕύσιν. 480. De an. A 4, 408 b 11 sgg. 481. De an. A 1, 403 a 3 sgg. 482. De an. Γ 5, 430 a 14 sgg. 483. De an. Γ 4, 429 a 22. 484. De an. Γ 4, 429 a 15. 485. De an. Γ 4, 429 a 23: νοῦν ᾧ διανοεῖται [...] ἡ ψυχή. 486. De an. Γ 4, 429 a 15 sg. 487. De an. A 1, 403 a 8 sgg. 488. De an. A 1, 403 a 16 sg.: ἔοικε δὲ καὶ τὰ τῆς ψυχῆς πάθη πάντα εἶναι μετὰ σώματος. 489. De an. A 1, 403 a 18 sg.: ἅμα γὰρ τούτοις πάσχει τὸ σῶμα. 490. De an. A 1, 403 a 19 sgg.: σημεῖον δὲ τὸ ποτὲ μὲν ἰσχυρῶν καὶ ἐναργῶν παθημάτων συμβαινόντων μηδὲν παροξύνεσθαι ἢ ϕοβεῖσθαι, ἐνίοτε δ᾽ ὑπὸ μικρῶν καὶ ἀμαυρῶν κινεῖσθαι. 491. De an. A 1, 403 a 22 sgg.: ἔτι δὲ τοῦτο μᾶλλον ϕανερόν· μηθενὸς γὰρ ϕοβεροῦ συμβαίνοντος ἐν τοῖς πάθεσι γίγνονται τοῖς τοῦ ϕοβουμένου. 492. De an. A 1, 403 a 24 sg.: εἰ δ᾽ οὕτως ἔχει, δῆλον ὅτι τὰ πάθη λόγοι ἔνυλοί εἰσιν. 493. De an. A 1, 403 a 25. 494. De an. A 1, 403 a 26 sg.: τὸ ὀργίζεσθαι κίνησίς τις τοῦ τοιουδὶ σώματος ἢ μέρους ἢ δυνάμεως ὑπὸ τοῦδε ἕνεκα τοῦδε. 495. Loc. cit. 496. De an. A 1, 403 a 27 sg.: διὰ ταῦτα ἤδη ϕυσικοῦ τὸ θεωρῆσαι περὶ ψυχῆς. 497. De an. A 1, 403 a 29 sgg.: διαϕερόντως δ᾽ ἂν ὁρίσαιντο ϕυσικός τε καὶ διαλεκτικὸς ἕκαστον αὐτῶν, οἷον ὀργὴ τί ἐστιν· ὁ μὲν γὰρ ὄρεξιν ἀντιλυπήσεως ἤ τι τοιοῦτον, ὁ δὲ ζέσιν τοῦ περὶ καρδίαν αἵματος καὶ θερμοῦ. 498. De an. A 1, 403 b 2. 499. De an. A 1, 403 b 3 sg.
500. De an. A 1, 403 b 4 sg.: ὁ μὲν λόγος τοιοῦτος, ὅτι σκέπασμα κωλυτικὸν ϕθορᾶς ὑπ᾿ ἀνέμων καὶ ὄμβρων καὶ καυμάτων· ὁ δὲ ϕήσει λίθους καὶ πλίνθους καὶ ξύλα, ἕτερος δ᾽ ἐν τούτοις τὸ εἶδος ἕνεκα τωνδί. τίς οὖν ὁ ϕυσικὸς τούτων; πότερον ὁ περὶ τὴν ὕλην, τὸν δὲ λόγον ἀγνοῶν, ἢ ὁ περὶ τὸν λόγον μόνον; ἢ μᾶλλον ὁ ἐξ ἀμϕοῖν. 501. De an. A 1, 403 b 11 sg.: ὁ ϕυσικὸς περὶ ἅπανθ᾿ ὅσα τοῦ τοιουδὶ σώματος καὶ τοιαύτης ὕλης ἔργα καὶ πάθη. 502. De an. A 1, 403 b 13. 503. De an. A 1, 403 b 15. 504. De an. A 1, 403 b 16. 505. De an. A 1, 403 b 17 sg.: τὰ πάθη τῆς ψυχῆς οὔ πως χωριστὰ τῆς ϕυσικῆς ὕλης τῶν ζῴων, ᾗ δὴ τοιαῦθ᾿ ὑπάρχει, θυμὸς καὶ ϕόβος. 506. De an. A 1, 403 b 19: οὐχ ὥσπερ γραμμὴ καὶ ἐπίπεδον. 507. Aristotelis opera, edidit Academia Regia Borussica, vol. I: Aristoteles Graece, ex recognitione I. Bekkeri volumen prius, Berolini, 1831; De part. an. A 1, 639 a 1 sgg. 508. De part. an. A 1, 639 a 6 sgg. 509. Cfr. De part. an. A 1, 639 a 8 sgg. 510. De part. an. A 1, 639 a 12: τῆς περὶ ϕύσιν ἱστορίας. 511. Cfr. De part. an. A 1, 639 b 14 sgg. 512. De part. an. A 1, 639 b 10 sgg. 513. De part. an. A 1, 639 b 14 sgg. 514. Cfr. De part. an. A 1, 640 a 33; 641 a 15; 641 a 29. 515. Si veda sopra, 9. L’esserci dell’uomo in quanto ψυχή: essere parlante (λόγον ἔχειν) ed «essere l’uno con l’altro» (κοινωνία). 516. Cfr. De part. an. A 1, 639 b 26 sgg.; 640 a 16 sgg.; 640 a 31 sgg. 517. De part. an. A 1, 639 b 16 sgg. 518. De part. an. A 1, 639 b 26 sgg. 519. Loc. cit. 520. De part. an. A 1, 640 a 16 sgg. 521. De part. an. A 1, 640 a 31 sg. 522. Nota del Curatore dell’edizione tedesca: Nella sua
traduzione qui Heidegger, per una svista, riferisce il neutro ὃ al λόγος. Nella lezione successiva si corregge: si veda sotto. 523. Cfr. De part. an. A 1, 641 b 23 sgg.; 639 b 19 sgg.; 641 b 12; 639 b 30 sgg. 524. De part. an. A 1, 641 b 23 sgg. 525. De part. an. A 1, 639 b 19 sgg. 526. De part. an. A 1, 639 b 24. 527. De part. an. A 1, 641 b 12. 528. De part. an. A 1, 640 b 4 sgg. 529. De part. an. A 1, 640 a 31 sg. Si veda sopra. 530. Met. Ζ 10, 1035 a 7 sgg. 531. Cfr. Met. A 1, 981 a 28 sgg. 532. De part. an. A 1, 640 b 22. 533. De part. an. A 1, 640 b 26 sgg. 534. De part. an. A 1, 640 b 28: ἡ γὰρ κατὰ τὴν μορϕὴν ϕύσις κυριωτέρα τῆς ὑλικῆς ϕύσεως. 535. De part. an. A 1, 640 b 29 sgg.: εἰ μὲν οὖν τῷ σχήματι καὶ τῷ χρώματι ἕκαστόν ἐστι τῶν τε ζῴων καὶ τῶν μορίων, ὀρθῶς ἂν Δημόκριτος λέγοι [...] ϕησὶ γοῦν παντὶ δῆλον εἶναι οἷόν τι τὴν μορϕήν ἐστιν ὁ ἄνθρωπος, ὡς ὄντος αὐτοῦ τῷ τε σχήματι καὶ τῷ χρώματι γνωρίμου. 536. De part. an. A 1, 640 b 34 sg.: καὶ ὁ τεθνεὼς ἔχει τὴν αὐτὴν τοῦ σχήματι μορϕήν, ἀλλ᾿ ὅμως οὐκ ἔστιν ἄνθρωπος. 537. De part. an. A 1, 640 b 35 sg.: ἔτι δ᾽ ἀδύνατον εἶναι χεῖρα ὁπωσοῦν διακειμένην, οἷον χαλκῆν ἢ ξυλίνην. 538. Cfr. De part. an. A 1, 641 a 2 sg. 539. De part. an. A 1, 641 a 5. 540. De part. an. A 1, 641 a 5 sgg. 541. De part. an. A 1, 641 a 17 sgg.: εἰ δὴ τοῦτό ἐστι ψυχὴ [...] τοῦ ϕυσικοῦ περὶ ψυχῆς ἂν εἴη λέγειν. 542. De part. an. A 1, 641 a 32 sgg. 543. De part. an. A 1, 641 a 34 sgg.: εἰ γὰρ περὶ πάσης, οὐδεμία λείπεται παρὰ τὴν ϕυσικὴν ἐπιστήμην ϕιλοσοϕία. 544. De part. an. A 1, 641 a 36: ὁ γὰρ νοῦς τῶν νοητῶν. 545. De part. an. A 1, 641 a 36 sg.: ὥστε περὶ πάντων ἡ ϕυσικὴ γνῶσις ἂν εἴη.
546. De part. an. A 1, 641 b 1 sg.: τῆς γὰρ αὐτῆς περὶ νοῦ καὶ τοῦ νοητοῦ θεωρῆσαι, εἴπερ πρὸς ἄλληλα. 547. De part. an. A 1, 641 b 2 sg.: ἡ αὐτὴ θεωρία τῶν πρὸς ἄλληλα πάντων. 548. Eth. Nic. Κ 2, 1172 b 10; 1173 a 2 sg. 549. De an. A 1, 402 b 9 sgg., e, in termini corrispondenti, B 4, 415 a 16 sgg. 550. De an. A 1, 402 b 9: εἰ [...] μόρια. 551. De an. A 1, 402 b 10 sgg.: χαλεπὸν δὲ καὶ τούτων διορίσαι ποῖα πέϕυκεν ἕτερα ἀλλήλων, καὶ πότερον τὰ μόρια χρὴ ζητεῖν πρότερον ἢ τὰ ἔργα αὐτῶν, οἷον [...] τὸ αἰσθητικόν [...] εἰ δὲ τὰ ἔργα πρότερον, πάλιν ἄν τις ἀπορήσειεν εἰ τὰ ἀντικείμενα πρότερα τούτων ζητητέον, οἷον τὸ αἰσθητὸν [...] καὶ τὸ νοητόν. 552. De an. B 4, 415 a 18: πρότερον ἔτι λεκτέον τί τὸ νοεῖν. 553. De an. B 4, 415 a 19 sgg. 554. De an. B 4, 415 a 20 sg.: εἰ δ᾽ οὕτως, τούτων δ᾽ ἔτι πρότερα τὰ ἀντικείμενα δεῖ τεθεωρηκέναι. 555. Cfr. De part. an. A 1, 641 b 5 sgg. 556. De part. an. A 1, 641 b 5 sg.: αὐξήσεως μὲν ὅπερ καὶ ἐν τοῖς ϕυτοῖς. 557. De an. B 2, 413 a 26 sgg. 558. De part. an. A 1, 641 b 6: ἀλλοιώσεως δὲ τὸ αἰσθητικόν. 559. De part. an. A 1, 641 b 7 sg.: ὑπάρχει γὰρ ἡ ϕορὰ καὶ ἐν ἑτέροις τῶν ζῴων. 560. Aristotelis De animalium motione et De animalium incessu, Ps.-Aristotelis De spiritu libellus, edidit V.G. Jaeger, in aedibus B.G. Teubneri, Lipsiae, 1913. 561. De part. an. A 1, 642 a 18 sg. 562. De part. an. A 1, 642 a 26 sgg. 563. De part. an. A 1, 642 a 28 sgg. 564. Eth. Nic. Κ 2, 1173 a 4 sg. 565. Eth. Nic. Η 14, 1153 b 29 sgg. 566. Eth. Nic. Κ 3, 1174 a 13 sgg. 567. Eth. Nic. Κ 3, 1174 a 16 sgg.
568. Eth. Nic. Κ 3, 1174 a 26. 569. Eth. Nic. Κ 3, 1174 b 9. 570. Eth. Nic. Κ 3, 1174 b 8. 571. Rhet. A 11, 1369 b 33: εἶναι τὴν ἡδονὴν κίνησίν τινα. 572. Si veda sopra, 19. Il ϕυσικός e il suo modo di trattare la ψυχή. 573. Eth. Nic. Κ 4, 1175 a 10 sgg.: ὀρέγεσθαι δὲ τῆς ἡδονῆς οἰηθείη τις ἂν ἅπαντας, ὅτι καὶ τοῦ ζῆν ἅπαντες ἐϕίενται [...] εὐλόγως οὖν καὶ τῆς ἡδονῆς ἐϕίενται. 574. Eth. Nic. Κ 4, 1175 a 18 sg.: πότερον δὲ διὰ τὴν ἡδονὴν τὸ ζῆν αἱρούμεθα ἢ διὰ τὸ ζῆν τὴν ἡδονήν, ἀϕείσθω ἐν τῷ παρόντι. 575. Cfr. Eth. Nic. Κ 7, 1177 a 12 sgg. 576. Rhet. B 1, 1378 a 20 sgg. 577. Eth. Nic. B 2, 1104 b 30 sg.: τριῶν γὰρ ὄντων τῶν εἰς τὰς αἱρέσεις καὶ τριῶν τῶν εἰς τὰς ϕυγάς. Κ 2, 1172 b 19 sgg.: τὴν γὰρ λύπην καθ᾿ αὑτὸ πᾶσιν ϕευκτὸν εἶναι, ὁμοίως δὴ τὸ ἐναντίον αἱρετόν [...] τοιοῦτο δ᾽ ὁμολογουμένως εἶναι τὴν ἡδονήν. 578. De an. Γ 7, 431 a 9 sgg. 579. Eth. Nic. B 2, 1105 a 3. 580. Eth. Nic. Κ 4, 1174 b 20 sgg. 581. Rhet. B 1, 1378 a 20 sg.: ἔστι δὲ τὰ πάθη δι᾿ ὅσα μεταβάλλοντες διαϕέρουσι πρὸς τὰς κρίσεις. 582. Rhet. B 5, 1382 a 28. 583. Rhet. B 5, 1382 a 30 sg. 584. Rhet. B 5, 1382 b 7. 585. Rhet. B 5, 1382 a 20. 586. Rhet. B 5, 1382 a 21 sg. 587. Rhet. B 5, 1382 a 22 sg.: οὐ γὰρ πάντα τὰ κακὰ ϕοβοῦνται. 588. Rhet. B 4, 1382 a 9 sgg.: ἔστι δὲ τὰ μὲν λυπηρὰ αἰσθητὰ πάντα, τὰ δὲ μάλιστα κακὰ ἥκιστα αἰσθητά, ἀδικία καὶ ἀϕροσύνη· οὐδὲν γὰρ λυπεῖ ἡ παρουσία τῆς κακίας. καὶ τὸ μὲν μετὰ λύπης, τὸ δ᾽ οὐ μετὰ λύπης· ὁ μὲν γὰρ ὀργιζόμενος λυπεῖται, ὁ δὲ μισῶν οὔ.
589. Rhet. B 5, 1382 a 25. 590. Rhet. B 5, 1382 a 25 sgg.: τὰ γὰρ πόρρω σπόδρα οὐ ϕοβοῦνται· ἴσασι γὰρ πάντες ὅτι ἀποθανοῦνται, ἀλλ᾿ ὅτι ἐγγύς, οὐδὲν ϕροντίζουσιν. 591. Rhet. B 5, 1382 a 29. 592. Loc. cit. 593. Rhet. B 5, 1382 a 32: τοῦτο γάρ ἐστι κίνδυνος, ϕοβεροῦ πλησιασμός. 594. Rhet. B 5, 1382 a 30 sg. 595. Rhet. B 5, 1382 a 33. 596. Rhet. B 5, 1382 a 34. 597. Rhet. B 5, 1382 a 35 sg. 598. Rhet. B 5, 1382 a 34 sg.: ἀδικία δύναμιν ἔχουσα. 599. Rhet. B 5, 1382 b 4 sg.: ἐπεὶ δ᾽ οἱ πολλοὶ χείρους καὶ ἥττους τοῦ κερδαίνειν καὶ δειλοὶ ἐν τοῖς κινδύνοις. 600. Rhet. B 5, 1382 b 6 sg.: οἱ συνειδότες πεποιηκότι δεινὸν ϕοβεροὶ ἢ κατειπεῖν ἢ ἐγκαταλιπεῖν. 601. Rhet. B 5, 1382 b 8: οἱ δυνάμενοι ἀδικεῖν τοῖς δυναμένοις ἀδικεῖσθαι. 602. Rhet. B 5, 1382 b 10 sg.: οἱ ἠδικημένοι ἢ νομίζοντες ἀδικεῖσθαι· ἀεὶ γὰρ τηροῦσι καιρόν. 603. Rhet. B 5, 1382 b 11 sg.: οἱ ἠδικηκότες [...] δεδιότες τὸ ἀντιπαθεῖν. 604. Rhet. B 5, 1382 b 13: οἱ τῶν αὐτῶν ἀνταγωνισταί. 605. Rhet. B 5, 1382 b 15: οἱ τοῖς κρείττοσιν αὐτῶν ϕοβεροί· μᾶλλον γὰρ ἂν δύναιντο βλάπτειν αὐτούς, εἰ καὶ τοὺς κρείττους. 606. Rhet. B 5, 1382 b 17 sg.: οἱ τοὺς κρείττους αὐτῶν ἀνῃρηκότες. 607. Rhet. B 5, 1382 b 18 sg.: οἱ τοῖς ἥττοσιν αὐτῶν ἐπιτιθέμενοι· ἢ γὰρ ἤδη ϕοβεροὶ ἢ αὐξηθέντες. 608. Rhet. B 5, 1382 b 19 sgg.: τῶν [...] ἐχθρῶν ἢ ἀντιπάλων οὐχ οἱ ὀξύθυμοι καὶ παρρησιαστικοί, ἀλλὰ οἱ πρᾶοι καὶ εἴρωνες καὶ πανοῦργοι· ἄδηλοι γὰρ εἰ ἐγγύς, ὥστε οὐδέποτε ϕανεροὶ ὅτι πόρρω. 609. Rhet. B 5, 1382 b 22 sgg.: πάντα δὲ τὰ ϕοβερὰ ϕοβερώτατα ὅσα ἁμαρτάνουσιν ἐπανορθώσασθαι μὴ
ἐνδέχεται, ἀλλ᾿ ἢ ὅλως ἀδύνατα, ἢ μὴ ἐπ᾿ αὐτοῖς ἀλλ᾿ ἐπὶ τοῖς ἐναντίοις. 610. Rhet. B 5, 1382 b 34 sg.: ἀνάγκη τοίνυν ϕοβεῖσθαι τοὺς οἰομένους τι παθεῖν ἄν, καὶ τοὺς ὑπὸ τούτων καὶ ταῦτα καὶ τότε. 611. [Si veda sopra, 18. Il πάθος. I suoi significati generali e il suo ruolo nell’esserci umano]. 612. Rhet. B 5, 1382 a 35 sgg.: οὐκ οἴονται δὲ παθεῖν ἂν οὔτε οἱ ἐν εὐτυχίαις μεγάλαις ὄντες καὶ δοκοῦντες, διὸ ὑβρισταὶ καὶ ὀλίγωροι καὶ θρασεῖς (ποιεῖ δὲ τοιούτους πλοῦτος ἰσχὺς πολυϕιλία δύναμις). 613. Rhet. B 5, 1383 a 3 sg.: οὔτε οἱ ἤδη πεπονθέναι πάντα νομίζοντες τὰ δεινὰ καὶ ἀπεψυγμένοι πρὸς τὸ μέλλον. 614. Rhet. B 5, 1383 a 5 sg.: ἀλλὰ δεῖ τινὰ ἐλπίδα ὑπεῖναι σωτηρίας. 615. Rhet. B 5, 1383 a 6 sg.: ὁ γὰρ ϕόβος βουλευτικοὺς ποιεῖ. 616. Agostino, De diversis quaestionibus octoginta tribus, q. 36. 617. Cfr. Rhet. B 5, 1383 a 13 sgg.; Eth. Nic. Γ 9-10, 1115 a 6 sgg. 618. Nota del Curatore dell’edizione tedesca: Cfr. Eth. Nic. 1104 a 25 sgg., oppure 1106 b 11 sg., dove effettivamente la μεσότης salva, vale a dire la σωϕροσύνη e l’ἀνδρεία, ovvero l’εὖ. 619. Eth. Nic. Δ 12, 1126 b 11: ἐν δὲ ταῖς ὁμιλίαις καὶ τῷ συζῆν. Δ 13, 1127 a 18 sg.: ἐν δὴ τῷ συζῆν οἱ μὲν πρὸς ἡδονὴν καὶ λύπην ὁμιλοῦντες εἴρηνται. 620. Eth. Nic. Δ 13, 1127 a 24. 621. Eth. Nic. Δ 13, 1127 a 20. 622. Eth. Nic. Δ 13, 1127 a 21 sg. 623. Eth. Nic. Δ 13, 1127 a 23. 624. Eth. Nic. Δ 13, 1127 a 23 sg.: ὁ δὲ μέσος αὐθέκαστός τις ὢν ἀληθευτικὸς καὶ τῷ βίῳ καὶ τῷ λόγῳ.
PARTE SECONDA
RIPETIZIONE DELL’INTERPRETAZIONE DEI CONCETTI ARISTOTELICI FONDAMENTALI IN BASE ALLA COMPRENSIONE DELLA FONDATEZZA DELLA CONCETTUALITÀ
I L’ESSERCI DELL’UOMO IN QUANTO FONDATEZZA DELLA CONCETTUALITÀ
23. Dimostrazione della possibilità della concettualità nell’esserci in base all’esperienza fondamentale obiettiva, all’appello primario e alla comprensibilità dominante L’analisi dell’esserci dell’uomo in quanto «essere nel mondo» è stata condotta a una certa conclusione. L’essere nel mondo ha il carattere fondamentale del suo essere nel λόγος. Il λόγος domina incontrastato l’essere-in. Nel λόγος è custodita la modalità peculiare in cui il mondo, e l’esserci nel mondo, sono scoperti, dischiusi. Il λόγος dispone dell’essere di volta in volta scoperto e dischiuso del mondo. È esso a offrirci le direzioni in cui l’esserci può interrogare il mondo e se stesso. Con quale intento ci siamo posti il problema del modo in cui il mondo, e l’esserci dell’uomo al suo interno, vengono interrogati? Ci siamo chiesti quale sia la fondatezza della concettualità, con l’intenzione di comprendere la concettualità in quanto tale. Questo perché solo nella concettualità ogni concetto può essere compreso in ciò che è. Se è compresa la concettualità, si dà anche il filo conduttore per cogliere concetti concreti. Perseguendo l’intento di porre in luce alcuni concetti fondamentali è risultato importante, per la loro comprensione, evidenziare la concettualità e appropriarsi di essa. Bisognava cercare la concettualità là dove essa, in quanto tale, è di casa, là da dove nasce e si sviluppa – cercare quel particolare ente in cui qualcosa come la concettualità ha la possibilità di essere. Evidenziando la fondatezza della concettualità – in particolare greca – abbiamo soddisfatto un compito di fronte
al quale si trova ogni interpretazione, nella misura in cui un’interpretazione necessita dell’orientamento riguardo a ciò di cui parla. Abbiamo descritto la concettualità in base a tre elementi: 1. l’esperienza fondamentale obiettiva, 2. determinata dall’appello primario, 3. tramite la comprensibilità dominante. La questione relativa alla fondatezza della concettualità si concentra nella domanda: dove e come i tre caratteri or ora nominati hanno il loro essere, in modo tale da essere possibili in questo stesso ente, da scaturire e svilupparsi da esso, costituendo di per sé una sua specifica possibilità? La risposta alla domanda circa la fondatezza della concettualità deve individuare un ente che abbia la peculiarità ontologica di rappresentare in sé tutti e tre questi caratteri. Con questo scopo si è spiegato l’esserci, l’esserci in riferimento al suo essere. La spiegazione è stata impostata in modo tale da farne già pervenire al linguaggio alcuni concetti fondamentali. Tali concetti sono pervenuti al linguaggio per servire anzitutto a rendere visibile e comprensibile l’esserci in quanto possibile terreno dei concetti fondamentali stessi. L’interpretazione autentica si dà nel giusto modo solo se si compie sul terreno della concettualità esplicita, se l’interpretazione viene ripetuta dopo che il terreno è stato compreso. Emerge così un principio ermeneutico generale, secondo cui ogni interpretazione è autentica solo nella ripetizione. Solo allora essa giunge a porre in luce ciò che non c’è più. Per mettere in evidenza la fondatezza della concettualità, si è caratterizzato l’esserci: 1. L’ente così caratterizzato è, nel suo essere, la possibilità del concettuale? 2. Come l’esserci dell’uomo in quanto «essere nel mondo» è questa possibilità? Ad 1. Qui il termine «possibilità» va inteso come l’esserepossibile nel senso del carattere ontologico dell’ente di cui si parla, non in quello della vuota possibilità che si attribuisce
all’esserci dall’esterno, tanto che ci si può chiedere se esso ne sia davvero capace. Se infatti la concettualità è radicata nell’esserci, questo stesso esserci dev’essere, in un certo senso, la concettualità, dove peraltro non è necessario che la concettualità in quanto tale sia già esplicitata nei suoi elementi: essa può essere data implicitamente. Passiamo quindi a dimostrare anzitutto che la concettualità è di fatto implicita nell’esserci. a) Per quanto riguarda l’esperienza fondamentale obiettiva: essa è l’esperienza nella quale un ente viene determinato in riferimento al suo aspetto primario, in modo tale che tutto il resto viene creato e caratterizzato nel suo essere in base a questa visione fondamentale. Ogni ente in quanto esserci è un ente che si mostra come lì presente. «Essere nel mondo» significa in certo modo avere-lì il mondo. Non solo il mondo viene avuto, ma anche l’esserci ha se stesso nel sentirsi-situato. L’essere nel mondo è caratterizzato dalla situatività. L’esserci ha se stesso: non riflesso, nel sentirsi-situato si dà la modalità primaria dell’«aversi lì». Questo avere-lì rappresenta la possibilità di avere un ente determinato in anticipo nel suo aspetto in quanto fatto così e così, il che implica la possibilità di osservare ora in senso proprio ciò con cui si ha a che fare nella prassi naturale, prendendo le distanze dall’avere a che fare che si prende cura, per soffermarsi piuttosto nella mera contemplazione della cosa. Nella misura in cui l’esserci è caratterizzato in quanto essere-in, «essere nel mondo», e questo essere nel mondo è caratterizzato in quanto sentirsisituato, il mondo e la vita per così dire ci sono già, sicché l’esperienza fondamentale obiettiva in quanto esserci-già ha essa stessa la possibilità di un dar-si. b) L’appello primario: con questo si intende ciò in vista di cui ci si rivolge a un ente. In ultima analisi, all’ente ci si rivolge sempre in vista del suo essere. In ogni interpretazione naturale dell’ente è primario un determinato senso dell’essere, che non ha bisogno di essere esplicitato in termini categoriali, anzi, esso ha il suo essere effettivo e il
suo dominio proprio quando rimane implicito. In questa interpretazione dell’esserci, essere significa: essere attualmente presente, essere finito. L’ente non si limita a esser-ci nel suo aspetto, giacché il carattere ontologico è anch’esso esplicito nel senso dell’essere esplicito del vedere, considerare, discutere quotidiani. c) La comprensibilità dominante. L’«essere l’uno con l’altro» è completamente dominato dalla δόξα: ogni parlare è orientato in vista della possibilità di portare in una determinata notorietà ciò che è problematico e incomprensibile. L’esserci implica di per sé una determinata pretesa nei confronti di ciò che in senso proprio è noto: nella sua interpretazione esso è completamente dominato da una determinata idea di evidenza, che è sufficiente per l’esserci in quanto tale, un’evidenza in base alla quale si normalizza il senso scientifico dell’evidenza – le varie dimostrazioni, il rigore della dimostrazione. La notorietà costituisce il criterio della comprensibilità che ha il λόγος, il quale parte dall’ἔνδοξον e vi fa ritorno. Ad 2. In modo più preciso dobbiamo chiederci come questo ente caratterizzato in quanto esserci possa dare a se stesso una forma compiuta tale che ne emerga la concettualità. Sappiamo già che l’esserci dell’uomo è caratterizzato dalla προαίρεσις. Un «decidersi» è sempre determinato dal fatto di decidersi contro qualcosa, sicché probabilmente anche la formazione della concettualità scaturisce da un essere dell’esserci tale da contrapporsi proprio alla concettualità stessa: l’essere dell’esserepossibile della concettualità può venire quindi caratterizzato in un duplice senso come possibilità: nel senso della possibilità 1. di ciò da cui la concettualità può formarsi come dalla sua opposizione, 2. di ciò per cui e in vista di cui l’esserci può formarsi nel concepire la concettualità. In base a questo orientamento dovremo descrivere il movimento, poiché avremo modo di conoscerlo come una determinazione dell’ente, e per la precisione dell’esserevivente, a partire dalla quale deve prendere le mosse ogni
ulteriore considerazione ontologica. Κίνησις: filo conduttore per la spiegazione dell’essere dell’esserci dell’uomo.625
24. Il duplice senso della possibilità della concettualità nell’esserci Ho tentato di stabilire la seguente connessione: rendere comprensibile la concettualità stessa in base all’esserci in quanto tale, rappresentare l’esserci secondo una possibilità fondamentale del suo essere. Questo particolare ente ha la possibilità di recare in sé le determinazioni fondamentali della concettualità. Lo stato di fatto: nella vita umana è possibile qualcosa come la scienza e la ricerca scientifica. Tre elementi: esperienza fondamentale obiettiva, appello primario, comprensibilità dominante. 1. Esperienza fondamentale obiettiva: dobbiamo intenderci circa il fatto che questo ente, chiamato esserci umano, ha la possibilità di recare in sé il concettuale. Com’è possibile, nell’esserci, la concettualità stessa? Esserci è «essere nel mondo». Nella misura in cui è, l’esserci fa esperienza di se stesso, ha se stesso, si trova-situato nei confronti di se stesso, spesso anche nel senso di avere se stesso nel mondo, nel cammino attraverso il mondo in cui vive. Io sono in certe possibilità: la mia professione, il mio mestiere. 2. L’appello primario: l’esserci così inteso implica di per sé un determinato senso dell’essere e, quindi, di ciò che esso non è. 3. L’esserci, così come esso parla da sé di se stesso e del modo peculiare del suo avere a che fare, ha una misura determinata di comprensibilità. Ora, in un esserci così caratterizzato, come è possibile la concettualità stessa? Dobbiamo distinguere due possibilità. Se la scienza è qualcosa per cui l’esserci può decidersi, ἕξις,
allora questa ἕξις è caratterizzata dal fatto di essere πῶς ἔχομεν πρὸς ἄλλων: πῶς, ciò che è; πρός, «contro», «in relazione a» qualcosa da cui si ricava. In primo luogo, quindi, possibilità nel senso della situazione contro cui la ἕξις si forma, in secondo luogo, poi, in senso positivo. a) La possibilità della concettualità nel senso negativo della possibilità di ciò contro cui la concettualità si forma α) L’«essere già interpretato» dell’esserci predisponibilità, previsione, precognizione
in
Anzitutto, la concettualità non è originariamente presente, dato che le possibilità stesse del concettuale vengono disposte in primo luogo dall’esserci. L’esserci in quanto «essere nel mondo» è dominato completamente e primariamente dal λόγος, si muove nel pensiero verbale, nel sentito dire, in ciò che legge. In riferimento ai tre elementi ciò significa: l’esserci in quanto «essere nel mondo» è sempre un essere in un contesto già noto, già interpretato così e così – l’esserci è già concepito in questo e quel modo. Quando si viene al mondo si cresce radicati in una determinata tradizione del parlare, del vedere e dell’interpretare. L’«essere nel mondo» è un «avere il mondo già così e così». Il fatto peculiare che il mondo in cui nasco e cresco «ci» è per me in quanto già interpretato in un modo determinato lo definisco terminologicamente predisponibilità. Il mondo «ci» è già così e così, e con esso anche il mio esserci in quel mondo che «ci» è già così e così, mentre nell’avere a che fare con esso è già dominante e prioritario un determinato modo del rivolgersi al mondo in cui ci si prende cura di esso e se ne discute. Ciò delimita una determinata possibilità del concepire, porre domande e problemi, il che significa che le prospettive in relazione alle quali ci si prende cura del mondo sono già date. A sua volta,
la predisponibilità è già collocata in anticipo in una determinata pre-visione. L’ente che «ci» è già si pone in una determinata prospettiva – ogni vedere, ogni presa di posizione prospettica è determinata in senso concreto. Dell’ente, vale a dire del mondo e della vita, ci si prende cura sotto la guida di un determinato senso dell’essere: «essere prodotto», «essere attualmente presente», dove proprio questo senso dell’essere non ha bisogno di essere esplicito. Anzi, proprio l’essere implicito gli attribuisce una peculiare tenacia nella guida e nella conduzione della presa di posizione prospettica. Ora, ciò che, in questi termini, si ha già in anticipo – il mondo e la vita, e, nel contempo, ciò che è già posto in questa determinata previsione ed è spiegato sotto la sua guida – viene al tempo stesso mediamente e per lo più espresso in parole – ἀποϕαίνεσθαι –, «mostrato», articolato. Sotto la guida della prospettiva l’aspetto viene poi spiegato in modo più preciso, nella misura in cui domina l’appello alla comprensibilità, cioè finché a essere prioritaria è una determinata idea di dimostrazione e di dimostrabilità. Se torniamo con il pensiero ai secoli XVI e XVII sappiamo che erano le discipline matematiche a guidare la modalità specifica del concettuale, l’appello al rigore scientifico. Determinate possibilità del concepire possono assumere il potere, mentre tutte le altre devono adattarsi alle concezioni dominanti. Proprio come nel XIX secolo la tendenza era: poiché le scienze naturali sono le scienze rigorose, anche nella scienza storica ciò che importa è procedere esattamente nel loro stesso modo. Come in tutti questi casi, si trattava di un fraintendimento. Definisco pre-cognizione la comprensibilità dominante, che implica l’espressione verbale in quanto articolazione. Questi tre elementi costituiscono di per sé una costellazione di disponibilità, visione e cognizione. Ogni disponibilità si colloca in una determinata prospettiva di visione e viene articolata da ciò che è espresso in parole – cognizione –, e il tutto è caratterizzato in quanto «pre-»: già
pre-dominante in anticipo nell’esserci al cui interno io cresco. Nella loro unitarietà questi tre elementi caratterizzano ciò che definisco l’«essere già interpretato» dell’esserci, l’essere trasparente. β) Il λόγος in quanto possibilità di errore e simulazione Il dominio dell’«essere già interpretato» lo ha il λόγος, che è l’autentico portatore dell’essere già interpretato – il λόγος in quanto dominio dell’essere già interpretato. Ora, se è in tale λόγος che si svolge tutto il concettuale, allora è proprio esso che, nel contempo – nell’esserci così come lo abbiamo caratterizzato –, costituisce la possibilità dell’errore. Ciò che vediamo e di cui facciamo esperienza «ci» è per lo più in quanto espresso in parole, nell’espressione verbale esso viene comunicato agli altri ed entra in circolazione in virtù di tale comunicazione: ciò che è ripetuto verbalmente. In questo spargersi di voce, nella chiacchiera, il verbalmente espresso perde a poco a poco il suo terreno. Tramite la chiacchiera, cioè l’essere ridetto ad altri senza riferimento concreto alla cosa di cui si parla, la chiacchiera stessa finisce per nascondere e occultare ciò che propriamente si intende. L’espressione verbale implica la possibilità della simulazione in senso letterale. Già il comunicare è in un certo senso un fuorviare, benché in modo implicito e involontario. Se tale fuorviare viene perpetrato intenzionalmente si dà la possibilità dell’inganno e dell’essere ingannati – dominio del falso, dello ψεῦδος. Da questo punto di vista possiamo cogliere anche il nesso tra λόγος ed εἶδος. Εἶδος: aspetto, così com’è. Λόγος: ciò a cui ci si rivolge, il rivolgersi-a, l’appello. Nella misura in cui il λόγος è ciò che domina, e io in certo modo acquisto la mia conoscenza per sentito dire, in virtù di tale λόγος l’εἶδος perviene sì a una e-videnza, però nel come: appare come se fosse... ma non lo è; qualcosa appare come oro, ma non lo è – qualcosa che viene scambiato per oro: la parvenza, l’εἶδος, come aspetto nel senso dell’«averne solo l’aspetto».
Tutto ciò non si riferisce soltanto alla vita di tutti i giorni e all’esserci con cui si ha quotidianamente a che fare, ma riguarda proprio – e in misura assai più precisa – quell’interpretazione dell’esserci che viene concepita come compito esplicito dell’esserci stesso, l’indagine e la filosofia. Può accadere che determinati λόγοι, una volta enunciati, assumano, proprio in epoche in cui le indagini sono giovani e vive, un predominio tale da rendere per lungo tempo inaccessibile l’ente cui si riferiscono. Un dominio siffatto nell’interpretazione dell’esserci ce l’ha il λόγος di Parmenide, secondo cui «l’ente è uno», ἓν τὸ ὄν.626 Questo λόγος costituì anche un impulso positivo a porre in senso autentico la questione dell’essere, nonché a risolverla entro i limiti delle possibilità greche. Quanto fosse acuta la comprensione aristotelica del dominio del λόγος appare nell’Etica Nicomachea (Η 14): κληρονομία ὀνόματος, l’«eredità della parola», del significato verbale – il fatto che questa κληρονομία ὀνόματος, nello specifico della parola ἡδονή, fu assunta precocemente da una determinata interpretazione dell’esserci: ἀλλ᾿ εἰλήϕασι τὴν τοῦ ὀνόματος κληρονομίαν αἱ σωματικαὶ ἡδοναὶ διὰ τὸ πλειστάκις τε παραβάλλειν εἰς αὐτὰς καὶ πάντας μετέχειν αὐτῶν.627 Quella particolare situazione che è in assoluto la più ovvia, il piacere sensibile, il godimento, questo sentirsi-situati, interpretato nell’orizzonte della situazione media della moltitudine assunse l’eredità della parola ἡδονή. Non è detto che la parola ἡδονή significhi in origine ciò che essa dice nell’interpretazione dell’esserci della maggioranza: il quotidiano si impadronisce dell’interpretazione. Proprio perché il quotidiano può impadronirsi dell’eredità, l’esserci ha a sua volta la possibilità di strappare tale eredità alla quotidianità portandola in un «essere già interpretato» originario, ovvero, in base alla quotidianità e contro di essa nella ἕξις, può appropriarsi in senso autentico del concettuale. Predisponibilità, previsione e precognizione sono anche possibilità di qualcosa di autentico: appropriarsi esplicitamente della predisponibilità,
dare forma compiuta alla previsione, portare a termine la precognizione in base a ciò che è stato assicurato. Il concettuale non è nulla che emerga dall’esserci e che in qualche modo sia, per di più, escogitato: al contrario, la giusta possibilità del concettuale è solo il concettuale stesso in quanto interpretazione attuata dell’esserci in quanto tale. b) La possibilità della concettualità nel senso positivo della possibilità di ciò per cui la concettualità si forma. Il νοῦς in quanto διανοεῖσθαι Dobbiamo fornire ancora qualche breve chiarimento circa la possibilità in senso positivo. L’esserci si muove all’interno di un «essere già interpretato» dominante, che Aristotele designa come ὑπολήψεις: la vita, l’essere l’uno con l’altro, «suppone», e precisamente in riferimento a determinati stati di fatto fondamentali, ha cioè determinate «ipotesi». Le ὑπολήψεις sono dati primari dell’interpretazione dell’esserci, ed è il loro inteso che va fatto oggetto d’indagine. Esse debbono essere liberate dalle incrostazioni con cui sono state ricoperte dalla chiacchiera e dalla discussione arbitraria. Se si impegna in un simile compito l’esserci non esercita più un’attività specificamente pratica, poiché il λόγος, in questo caso, fornisce una prestazione autonoma in quanto ἀποϕαίνεσθαι: l’avere a che fare con il mondo e con la vita adesso non è più un agire, un trattare nel senso del prendersi cura pratico, bensì un trattare nel senso dell’esporre, un mettere in chiaro ciò che si evidenzia in ciò che è stato verbalmente espresso, a prescindere da ogni utilizzo concreto. Nella misura in cui il λόγος è autonomo, e quindi ne va esclusivamente del parlare nel senso del mostrare, sorge la domanda: dove si muove il parlare autonomo? Se il λόγος non è più μετά per la πρᾶξις, per che cosa mai, allora, è μετά? Se adesso la πρᾶξις viene abbandonata, e se il λόγος diventa autonomo, ci si può chiedere: a che cosa si riferisce il μετά? Non è che adesso il
λόγος non sia più μετά, dato che la prestazione del λόγος è l’ἀποϕαίνεσθαι: anche qui, nella sua funzione pura, esso è riferito al «porre in evidenza» in quanto modo di attuazione del rivolgere lo sguardo in quanto tale. Abbiamo ora il διανοεῖσθαι, l’ἐπιστήμη μετὰ λόγου. Autonomia del λόγος significa: esso è μετά per il νοεῖν e il διανοεῖσθαι. L’«opinare», il «percepire» sono caratteri che determinano con maggiore precisione l’«essere nel mondo» in riferimento all’essere orientato. Aristotele, De anima Γ 4: il νοῦς è ciò ᾧ γινώσκει τε ἡ ψυχὴ καὶ ϕρονεῖ.628 L’«opinare» è l’autentica possibilità di essere dell’«essere nel mondo», sia dell’«avere dimestichezza con...» sia del ϕρονεῖν, del «guardarsi intorno» con circospezione. Le due possibilità dell’essere orientato sono: 1. il mero «prendere conoscenza» senza alcun genere di scopo pratico, 2. il guardarsi intorno con circospezione. Dunque: 1. l’essere orientato su qualcosa, 2. l’essere orientato per qualcosa. Nella misura in cui è una determinazione fondamentale dell’«essere nel mondo», il νοῦς caratterizza l’essere dell’esserci in quanto essere orientato. Il νοῦς, l’orientamento, ha nell’esserci umano un proprio carattere: ὁ καλούμενος τῆς ψυχῆς νοῦς.629 Aristotele parla del «cosiddetto» νοῦς, mai del νοῦς in senso assoluto, ma di quello noto nella quotidianità, come se ne parla, e solo se ne può parlare, innanzitutto. Questo καλούμενος νοῦς, non il νοῦς autentico, è descritto come διανοεῖσθαι.630 Dobbiamo chiedere: come ci arriva Aristotele? Perché mai l’opinare, realizzandosi nell’esserci umano, è un διανοεῖσθαι? Riepilogo nel libro III del De anima: origine del διά, cioè del fatto che il νοῦς dell’uomo è un δια-νοεῖσθαι. «Il percepire e l’opinare sono simili al semplice chiamare qualcosa».631 Percepire qualcosa: vederlo lì presente d’un sol colpo. Opinare qualcosa: nominare, chiamare qualcosa per nome, nominare nel semplice avere-lì. Stretto rapporto tra parlare e vedere, αἴσθησις e ϕάσις, senza strutture ulteriori – il νοεῖν, che ha la struttura del semplice avere-lì. Com’è
che questo opinare è un δια-νοεῖσθαι? Lo è nella misura in cui il νοῦς è νοῦς τῆς ψυχῆς – ψυχή, che costituisce l’autentico «essere nel mondo». Lo ζῆν, la ζωή viene da Aristotele identificata con la ἡδονή, il sentirsi-situati. Ogni trovarsi è un sentirsi-situati presso e relativamente a uno ἡδύ e a un λυπηρόν, in breve: συμϕέρον. Il sentirsi-situati, ἡδονή, implica le due possibilità della δίωξις e della ϕυγή, «dirigersi verso» il συμϕέρον e «fuggire» da esso. Δίωξις e ϕυγή sono motilità fondamentali della ψυχή, dell’esserci. Nella misura in cui costituisce la possibilità di orientamento dell’esserci così definito, il νοῦς è un διά. In quanto δίωξις, ogni «dirigersi verso...» è un dirigersi verso qualcosa in quanto qualcosa. Il mondo, che si fa incontro primariamente per la situatività della gioia e dell’afflizione, «ci» è in quanto utile o nocivo, essendo l’αἰσθάνεσθαι caratterizzato in quanto «percepire» nella situatività. ὅταν δὲ ἡδὺ ἢ λυπηρόν, οἷον καταϕᾶσα ἢ ἀποϕᾶσα, διώκει ἢ ϕεύγει.632 Il semplice nominare non è il modo in cui si compie il percepire medio e quotidiano: il percepire inteso come modo della situatività è un percepire qualcosa in quanto qualcosa – il «rivolgersi a» non è un semplice nominare, ma un rivolgersi a qualcosa in quanto qualcosa, κατά e ἀπό. Ogni λόγος è caratterizzato dal κατά e dall’ἀπό, il che significa: ogni λόγος è σύνθεσις o διαίρεσις, ogni λέγειν è λέγειν τι κατά τινος. È per questo che il λόγος è nel contempo anche la possibilità positiva dell’errore: solo perché il parlare è un rivolgersi a qualcosa in quanto qualcosa sussiste la possibilità di vedere ciò a cui ci si rivolge diversamente da com’è. L’«in quanto qualcosa», σύνθεσις e διαίρεσις, costituisce la possibilità dello ψεῦδος.633 Se l’orientarsi altro non fosse che un mero averelì e «ripetere così», nell’esserci dell’uomo non vi sarebbe ψεῦδος. Invece, rivolgersi a qualcosa in quanto qualcosa, διά, dividere ciò che semplicemente si ha davanti nelle sue possibili determinazioni in quanto questo e quello – questo stato di fatto è originariamente coessenziale alla determinazione fondamentale dell’essere, ἡδονή, e ciò significa che l’esserci, nella sua quotidianità, è in se stesso
concretamente esposto all’errore e alla possibilità di sbagliarsi. Poiché sussiste la possibilità dell’errore, ovvero del decadimento dalla possibilità autentica del mostrare e averelì l’ente, e poiché la vita è determinata a sua volta dalla προαίρεσις, la vita stessa può attuare positivamente la possibilità di definire l’ente che «ci» è così come esso è. Il διανοεῖσθαι in quanto λέγειν τι κατά τινος può essere attuato in modo tale da divenire – conformemente a ciò che è stato fatto presente in senso proprio ed è stato posto nella giusta prospettiva – un λέγειν καθ᾿ αὑτό, facendone scaturire così quel particolare λόγος che ci offre non nascosto l’ente nel suo essere, il concetto. La struttura del nostro ragionamento è questa: il concettuale, il λόγος, è implicito nell’esserci stesso in quanto possibile «contro» e «per». Intendiamo appurare in che senso la formazione del concetto di κίνησις si compie in quanto coglimento radicale dell’«essere già interpretato» dell’esserci in base a questi tre momenti.634
625. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 23. 626. Parmenide, fr. 8, 3 sgg., in Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di H. Diels, vol. I, quarta ediz., Berlin, 1922, 18 B: ἐὸν [...] ἕν. Aristotele, Met. A 5, 986 b 29: ἓν οἴεται εἶναι τὸ ὄν. 627. Eth. Nic. Η 14, 1153 b 33 sgg. 628. De an. Γ 4, 429 a 10 sg. 629. De an. Γ 4, 429 a 22. 630. De an. Γ 4, 429 a 23: λέγω δὲ νοῦν ᾧ διανοεῖται [...] ἡ ψυχή. 631. De an. Γ 7, 431 a 8: τὸ μὲν οὖν αἰσθάνεσθαι ὅμοιον τῷ ϕάναι μόνον καὶ νοεῖν. 632. De an. Γ 7, 431 a 9 sg. 633. De an. Γ 6, 430 b 1 sg.: τὸ γὰρ ψεῦδος ἐν συνθέσει ἀεί.
634. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 24.
II INTERPRETAZIONE DELLA FORMAZIONE DEL CONCETTO DI ΚΙΝΗΣΙΣ IN QUANTO COGLIMENTO RADICALE DELL’«ESSERE GIÀ INTERPRETATO» DELL’ESSERCI
25. La «Fisica» aristotelica in quanto indagine sull’ἀρχή. Indicazioni orientative sui primi due libri L’«essere già interpretato» stesso, che domina nell’esserci determinato dalla προαίρεσις, è caratterizzato dalla possibilità di essere colto nel senso che il mondo viene considerato, in modo proprio, nel suo esserci, e l’«essere nel mondo» può essere indagato riguardo a ciò che è. Circa l’«essere già interpretato» dell’esserci stesso si dà una ἕξις dell’ἀληθεύειν, cioè una possibilità di esistere in modo veritiero – una veridicità, questa, che include sia l’«essere già interpretato» sia la trasparenza dell’esserci in quanto tale. L’«essere già interpretato» dell’esserci è retto dal λόγος: la chiacchiera, il «come si parla in genere delle cose», è determinante per la concezione del mondo. Abbiamo cercato di capire perché il parlare è caratterizzato in quanto διανοεῖσθαι, διαλέγεσθαι; e lo è perché l’esserci è determinato dalla ἡδονή, tutto viene compreso in quanto questo e quello, in quanto «utile a...», συμϕέρον, e compreso, per la precisione, primariamente in termini non teoretici. Il modo medio di parlare e di comprendere è il διανοεῖσθαι. Solo contro questo parlare medio (λέγειν τι κατά τινος) la ἕξις può affermarsi in quanto ἀληθεύειν. Il λόγος καθ᾿ αὑτό si rivolge all’ente «in esso stesso», non pone cioè l’ente che «ci» è in una prospettiva a esso estranea, ma attinge dall’ente stesso le prospettive in cui esso va considerato. Questo λόγος, che si rivolge all’ente nel suo essere a partire da esso stesso, è lo ὁρισμός.
Conformemente alle determinazioni fondamentali dell’essere in quanto essere-prodotto e aspetto, lo ὁρισμός ha la struttura seguente: esso si rivolge all’ente in quanto tale chiedendosi quale ne sia l’origine, γένος, e, data tale origine, che cosa esso sia, εἶδος. Il contesto ontologico del γένος e dell’εἶδος, preso nel suo complesso, è il τὸ τί ἦν εἶναι: τί ἦν = γένος, τὸ εἶναι = εἶδος. Nella misura in cui l’ente si trova posto entro certe prospettive da cui risulta determinato, l’indagine è tenuta a porre in luce l’«a partire da». Questo «a partire da» sono le ἀρχαί. Tali ἀρχαί sono le prospettive fondamentali in cui l’esserci concreto viene visto e spiegato in se stesso. Quando si pratica la ἕξις dell’ἀληθεύειν il λόγος diventa tale da avanzare verso le ἀρχαί. La concreta attuazione della ἕξις è l’ἐπιστήμη, e la specifica «scienza» che ha a che fare con le ἀρχαί è la πρώτη ϕιλοσοϕία, in breve: σοϕία. Un’indagine eccellente, che non si limita ad approfondire l’ente nelle sue determinazioni concrete, ma pone in luce le prospettive di fondo, è guidata dalla domanda: τί τὸ ὄν? «Che cos’è l’ente in quanto ente? Che cos’è l’essere?». In ciò che conosciamo come Fisica aristotelica abbiamo a che fare con un’indagine siffatta sull’ἀρχή in quanto possibilità nell’esserci stesso. Nel libro III Aristotele definisce tale indagine μέθοδος περὶ ϕύσεως.635 La ricerca è περὶ ϕύσεως, quindi non περὶ τῶν ϕύσει ὄντων, «sugli enti che sono determinati dall’essere della ϕύσις», ma sulla ϕύσις stessa, sull’essere di questi enti. Per comprendere il nesso tra la Fisica e l’ontologia aristotelica bisogna tenere presente fin da principio che l’indagine che tratta della ϕύσις altro non è che l’identificazione delle categorie primarie che Aristotele applicherà poi nella sua ontologia. La ϕύσις viene definita ἀρχὴ κινήσεως καὶ μεταβολῆς.636 È opportuno usare qui l’espressione più precisa μεταβολή. Se infatti si deve chiarire la ϕύσις, è necessario chiarire anche ciò di cui essa è l’ἀρχή: «Non ci deve rimanere nascosto che cos’è il movimento stesso».637 Aristotele parla qui ricordando quanto già detto nei due precedenti libri della Fisica, sui
quali – e sul cui nesso – è bene fornire alcune sintetiche indicazioni orientative. Quando intraprese l’indagine sulla ϕύσις, Aristotele si muoveva già all’interno di una determinata interpretazione della natura. Nei suoi anni di apprendistato e di studio egli era venuto a conoscenza di specifiche concezioni della natura, che però non riteneva in grado di cogliere proprio l’ente che interpretavano. Quindi, dovendo interpretare quest’ultimo, si rendeva necessario decostruirne quell’«essere già interpretato» che finiva per occultarlo, liberando così l’ente stesso, come esso era inteso anche nelle concezioni precedenti. In altre parole: il primo passo di un’indagine sull’ἀρχή così concepita era la critica, nel senso che ciò che era stato già sempre interpretato, ciò che era già stato colto nelle concezioni precedenti, andava dapprima esaminato nelle sue proprie ragioni e portato a trasparenza. La critica altro non è che il «portare a se stesso» il passato. In tal modo l’indagine sull’ἀρχή diventa nel contempo indagine sull’accesso: essa libera la strada che porta a ciò che si intende. Aristotele svolge l’indagine sull’ἀρχή nel libro I della Fisica. La sua critica appare in un primo momento limitata in una forma del tutto peculiare, giacché egli discute la questione se, in riferimento a questo ente, vi sono molte ἀρχαί o una sola ἀρχή. Dobbiamo intenderci bene sul significato specifico di tale questione, e la cosa ci appare più chiara se teniamo presente il primo livello della critica, la polemica con gli eleati. La critica aristotelica degli eleati ha già attirato spesso l’attenzione; si è detto che Aristotele li chiama in causa solo per avere un facile obiettivo da criticare, dato che egli per primo ammette: propriamente non c’entrano con la nostra questione.638 Egli lo dice perché si rende conto che Parmenide, con la definizione ἓν τὸ ὄν, «l’essere è uno», ha sì colto una determinazione fondamentale dell’essere, ma si è fermato qui. E poiché da questo punto di vista l’essere della κίνησις risulta negato, Aristotele non può che far rientrare gli eleati nell’ambito
della sua critica. Non si può definire l’ente nel suo essere se ci si impunta a sostenere che c’è una sola ἀρχή. Questa affermazione disconosce il senso dell’ἀρχή in quanto tale, dato che già nell’articolazione di un ente in una determinata prospettiva si danno πολλά. Quando articolo qualcosa mirando a un’ἀρχή ho già un raddoppiamento.639 Ho qualcosa di già dato e devo porlo in una prospettiva: qualcosa in quanto qualcosa. Non si può articolare l’ente in riferimento al suo essere se fin da principio non si ammette la possibilità di una molteplicità delle ἀρχαί. Nel corso della sua critica Aristotele mostra che ci dev’essere più di un’ἀρχή, ma non più di tre. L’essere della natura, i ϕύσει ὄντα, spingono di per sé a questo numero delle ἀρχαί.640 Vedremo nel corso dell’interpretazione in che senso le cose stanno così. La critica svolta nel libro I della Fisica non fa che riproporre la questione della struttura formale fondamentale di quell’ente il cui essere va determinato in quanto esseremosso. Nella misura in cui i ϕύσει ὄντα sono κινούμενα,641 e quindi l’«ente in movimento» va determinato in riferimento alle sue ἀρχαί, il numero di queste ἀρχαί dev’essere tale che la κίνησις possa essere resa comprensibile come un modo dell’essere. Se la κίνησις viene determinata dalla δύναμις e dall’ἐνέργεια, sono queste ultime a costituire due ἀρχαί.642 La terza è una particolare unificazione delle prime due. La questione del numero delle ἀρχαί implica già uno sguardo anticipatore rivolto alla κίνησις. Il κινούμενον non si lascia dimostrare nel senso dell’ἀπόδειξις. Questo carattere fondamentale dell’ente è raggiungibile nell’ἐπαγωγή.643 Ciò che importa, qui, è vedere, attraverso e oltre la chiacchiera e la teoria che nascondono l’essere della natura, per così dire l’ente stesso. Il primo passo consiste nell’aprire gli occhi, cogliendo lo stato di fatto in sé, e in base a questa predisponibilità spiegare ciò che si mostra, la κίνησις stessa. Nel libro II nuovo approccio: Aristotele assicura le prospettive formali in base alle quali ci si può interrogare
sulla natura – egli discute cioè le cause. Solo sul terreno di queste due analisi prende piede l’indagine vera e propria finalizzata a porre in luce la κίνησις. Un primo passo è che la κίνησις costituisce l’autentico «carattere di “Ci”» dell’essere. L’«essere già interpretato» dell’essere si determina già in una specifica concezione fondamentale dell’essere – probabilmente anche il carattere ontologico del movimento va interpretato in base a questo senso fondamentale dell’essere.644
26. Movimento in quanto ἐντελέχεια τοῦ δυνάμει ὄντος (Phys. Γ 1) a) Schema del capitolo Passiamo al libro III. Schema del capitolo 1: 200 b 12-25: tema fondamentale della μέθοδος,645 nel contempo ciò che è connesso con tale tema. 200 b 25-32: accenno ai diversi modi dell’essere di cui il movimento è qui da concepirsi per così dire come una specie determinata: 1. ὂν δυνάμει – ὂν ἐντελεχείᾳ,646 2. ὄν delle categorie,647 3. discussione di una determinata categoria, il πρός τι,648 giacché apparentemente questa categoria include il movimento. 200 b 32-201 a 3: dimostrazione del fatto che la κίνησις non è qualcosa παρὰ τὰ πράγματα,649 «accanto all’ente che “ci” è» del mondo, della natura. Il «non παρά» significa, in positivo: la κίνησις è un modo dell’essere dell’ente stesso che «ci» è. Questa definizione è rivolta contro Platone, che, ancora nel Sofista, dice: un alcunché di mosso è caratterizzato, nel suo essere, dal fatto che lo cogliamo come partecipe della κίνησις; la κίνησις è un’idea come tutte le altre: essa è παρά, ed è tramite la μέθεξις a essa che non solo accade il movimento dell’ente-mosso, ma l’ente-mosso
stesso va reso comprensibile nel suo essere.650 201 a 3-9: riferendosi alle categorie, Aristotele mostra come ve ne siano di determinate che ammettono un διχῶς,651 una «duplicità». Il «poter essere in questo e quel modo» è la condizione ontologica della possibilità che l’ente che è determinato da tali categorie sia ente in movimento. Διχῶς: rinvio alla pluralità delle ἀρχαί. 201 a 9-15: definizione vera e propria del movimento. 201 a 15-19: illustrazione concreta di tale definizione in base a determinate specie di movimento. 201 a 19-27: accenno al fatto peculiare che lo stesso e medesimo ente può essere definito sia in quanto δυνάμει ὄν, sia in quanto ἐνεργείᾳ ὄν:652 un determinato ente è nel contempo un ente attualmente presente «freddo», e solo in quanto ente così attualmente presente esso è la possibilità del «caldo». Solo ciò che è freddo ha la possibilità del caldo, non ciò che è duro o rosso. Solo una particolare e distinta presenza di un ente ha nel contempo la possibilità del caldo. La possibilità non è una possibilità qualsiasi, ma una possibilità tale da avere una determinata direzione. Questo stato di fatto è la condizione della possibilità che vi sia qualcosa come il movimento, l’interdipendenza nella natura, l’azione reciproca. Resta peraltro problematico se ogni ente che muove sia esso stesso in movimento, se ogni ente sia in sé anche δυνάμει, o se vi sia un essere che esclude qualsiasi possibilità, che sia cioè semplicemente ἐνεργείᾳ: πρῶτον κινοῦν ἀκίνητον,653 sì «movente», ma «senza possibilità di essere mosso». 201 a 27-b 15: discussione più approfondita della definizione di movimento – questa sezione è la più importante.654 b) Il ruolo della paura nell’indagine sull’ἀρχή L’ἀπορῆσαι delle ἀρχαί, il ripercorrimento delle difficoltà incontrate dagli antichi nell’analisi dell’ambito che,
inconsapevolmente, avevano costantemente sotto gli occhi. Nel libro IX, capitolo 8, della Metafisica Aristotele compie un’osservazione singolare, secondo cui la discussione degli antichi era guidata in fondo dalla paura: διὸ αἰεὶ ἐνεργεῖ ἥλιος καὶ ἄστρα καὶ ὅλος ὁ οὐρανός, καὶ οὐ ϕοβερὸν μή ποτε στῇ, ὃ ϕοβοῦνται οἱ περὶ ϕύσεως.655 Coloro che in passato discutevano dell’essere della natura e dell’esserci del mondo, pervenendo poi a una definizione del mondo stesso, nel loro modo di porre la questione erano guidati e condotti propriamente dal ϕόβος, dalla «paura» che l’«ente che “ci” è sempre così», il costante moto circolare dei corpi celesti, potesse «un giorno arrestarsi» – una discussione dell’essere dell’ente basata sulla paura che un giorno esso potesse non esserci più. Ora, abbiamo avuto modo di renderci conto che la paura, in quanto tale, è possibile solo nella misura in cui vive in essa la ἐλπὶς σωτηρίας, il che significa: si può avere paura solo se ci si attiene ancora a un’altra possibilità – la possibilità che ciò che incombe possa non accadere. La paura che, in questo caso, guida l’analisi dell’essere vive della speranza, o della convinzione, che l’ente potrebbe e dovrebbe essere di fatto «sempre lì presente». Infatti, la paura dello «svanire un giorno dal “Ci”» presuppone che ci si attenga a un senso dell’essere in quanto «essere sempre attualmente presente». È questo senso dell’essere che sta implicitamente alla base di tutte le discussioni degli antichi, discussioni che miravano a porre in luce a ogni costo determinate ἀρχαί. L’interpretazione delle ἀρχαί e, quindi, dell’ente si traduce in una determinata familiarità con l’esserci del mondo. La paura che esso possa svanire viene dissipata dal fatto che l’esserci è tradotto in una determinata familiarità, il che comporta l’eliminazione del suo elemento propriamente minaccioso. È per questo che la possibilità autentica è costituita dalla διαγωγή,656 dal «soggiorno» nella pura contemplazione del mondo, cui non può accadere più nulla: la διαγωγή è una ἡδονή. L’interpretazione dell’essere tende a dissipare la paura dell’esserci tramite la traduzione del misterioso nel noto. Titolo della διαγωγή: questa
determinazione fondamentale concerne anche l’interpretazione dell’essere dell’uomo, sicché anche l’autointerpretazione dell’esserci mira a rendere trasparente l’interpretazione dell’esserci in quanto esistenza. La possibilità suprema dell’esistenza, quella che fa sì che non vi sia più alcuna minaccia, è il puro θεωρεῖν e quindi l’autentica ἡδονή, la scienza – un’interpretazione, questa, che noi oggi non adottiamo più, dato che ai nostri giorni non si interpreta né in base alla ἡδονή, né alla λύπη, ma tutto in base al sistema. Nel libro I della Fisica Aristotele, prendendo le mosse dal modo tradizionale di trattare la questione di che cos’è l’ente, si occupa di stabilire il terreno su cui deve muoversi ogni ulteriore discussione: ὄν κινούμενον. In effetti è vero che la definizione dell’ὄν in quanto κινούμενον è stata sempre presente, non però nel senso di essere presa in considerazione per caratterizzare in modo più preciso l’essere stesso. La possibilità di discutere il movimento non era concepita in modo che il movimento fosse riconosciuto come la modalità eccellente dell’esserci di un determinato ente. È opportuno illustrare qui le prospettive fondamentali in cui l’ente può in genere essere posto. La discussione delle quattro cause altro non è che la discussione circa le prospettive in cui l’essere può essere posto, circa la possibilità all’interno della quale l’ente può essere interrogato riguardo al suo essere. Tali prospettive sono motivate dal concetto dominante di essere in quanto essereprodotto. Di queste quattro prospettive, che, come tali, non entrarono certo tutto d’un tratto nella coscienza del tempo, Aristotele fornisce la preistoria nel libro I della Metafisica: gli antichi fisiologi hanno preso in considerazione una dopo l’altra, per gradi, ciascuna delle quattro cause e, da ultimo, la più difficile: prima di porre ogni ulteriore questione, bisogna sapere che cos’è l’ente, τί τὸ ὄν. Platone per primo ha visto questa causa,657 solo che non ne ha compreso il senso ontologico.658
c) Il tema e le sue implicazioni Il libro III e i successivi costituiscono la solida base per discutere lo ὄν κινούμενον seguendo il filo conduttore delle ἀρχαί, in modo tale che l’ente venga liberato e sia possibile porne in evidenza gli specifici caratteri ontologici. Questi caratteri vengono attinti dall’ente in quanto tale: περὶ ϕύσεως, non περὶ τῶν ϕύσει ὄντων; indagine sull’essere, non sull’ente; non un’indagine ontica, che bada ai dettagli dell’ente, ma un’indagine ontologica, nella misura in cui ci si rivolge all’ente nel suo essere. «Una volta che abbiamo spiegato, circoscritto e definito il movimento dobbiamo cercare, con lo stesso atteggiamento metodico, di passare a ciò che ne consegue. [Bisogna trattare anche di ciò che accompagna necessariamente un ente in quanto «ente in movimento», ovvero di ciò che il fenomeno del movimento implica di per sé]. Il movimento sembra essere qualcosa che appartiene a ciò che ha la caratteristica di tenersi unito in se stesso – il continuo; l’illimitato si mostra anzitutto nel continuo [nella misura in cui il continuo si mostra come ciò nel cui caso una διαίρεσις non giunge a nessuna fine; la determinazione positiva del συνεχές è il fatto di essere ἄπειρον]. Quando si vuole definire il continuo può capitare di adoperare, di intendere anche il λόγος dell’ἄπειρον [quando si parla del continuo ci si rivolge nel contempo a una determinata assenza di limiti], come se il συνεχές altro non fosse che lo εἰς ἄπειρον διαιρετόν. Inoltre è impossibile rivolgersi all’ente-mosso senza il luogo, il vuoto e il tempo. [Essi sono impliciti, con l’ἄπειρον stesso, nel fenomeno del movimento]».659 L’enumerazione degli ultimi tre caratteri offre la sequenza in cui Aristotele discute tali determinazioni: τόπος, κενόν e χρόνος. Τόπος: Fisica Δ 1-5; κενόν: Δ 6-9; χρόνος: Δ 10-14. ςAπειρον: libro III, capitoli 4-8. L’analisi di Aristotele è impostata in modo tale che egli, tramite la discussione del
tempo, fa poi ritorno al movimento. Xρόνος è «ἀριθμὸς κινήσεως secondo il prima e il poi».660 Di queste determinazioni Aristotele dice che sono κοινά: κοινὰ πάντων ϕυσικῶν σωμάτων.661 Questi caratteri sono κοινά per tutto l’ente che è κινούμενον, e per ogni ente essi sono καθόλου,662 il che altro non significa che «generalmente intesi»: nella misura in cui un ente è «generalmente inteso» tali caratteri vi sono sempre inclusi in quanto μέρη. Aristotele concepisce infatti così il καθόλου: uno ὅλον i cui μέρη si limitano a non essere espliciti. «Bisogna operare una verifica ponendo mano a ciascuno e considerandolo a fondo singolarmente. L’analisi dell’ente di volta in volta in quanto ente specifico [nella misura in cui rientra in un determinato ambito ontologico: i ϕύσει ὄντα in quanto ζῴα, o nel senso che sono ἄψυχἂ va compiuta successivamente».663 Quando ci si appresta a una simile discussione, e si divide in parti l’ente in quanto ϕύσει ὄν, il κοινόν va anzitutto sottoposto al θεωρεῖν. d) I modi dell’essere a partire dai quali va concepito il movimento Per comprendere le successive considerazioni in merito alla κίνησις bisogna avere chiari i seguenti punti: 1. Il fatto che finora le categorie decisive non ci erano ancora note. Per noi i concetti di δύναμις, ἐνέργεια, ἐντελέχεια sono talmente banali che non siamo più in grado di capire quale sia l’importanza del loro significato fondamentale. Dobbiamo riportarci all’epoca in cui i concetti di δύναμις ed ἐνέργεια furono plasmati. 2. Ciò che realmente importa, qui, è fissare e rendere visibile nel suo esserci l’ente in quanto mosso, non già definire il movimento in un senso qualsiasi. A chi sostiene che le considerazioni di principio condotte dalla fisica moderna sono molto più precise, si può obiettare che la definizione di movimento (movimento inteso come velocità
uniforme): v = s/t presuppone già di per sé tutto ciò che Aristotele ha detto sul movimento. Tutte le analisi successive non si interrogano più, in nessun caso, su queste dimensioni. In senso proprio, ciò che di fondamentale è stato formulato nella fisica moderna (Galilei, Copernico) è la questione del sistema di riferimento del movimento, ma non ci si è interrogati sul movimento stesso: anch’esso è stato inteso in relazione al sistema di riferimento, in base al quale dev’essere misurabile; più precisamente, ci si è chiesti se esiste un sistema di riferimento assoluto, o solo uno relativo. In tal caso il movimento è già presupposto, non viene discusso, ed è assunto in un senso ben determinato: mutamento di luogo, mutamento della posizione – ϕορά. Qui però si tratta per Aristotele di un κοινόν dell’ente, nella misura in cui esso è ϕύσει e vive, sicché il movimento comprende in sé tutto ciò che rientra nell’ambito del mutamento: κίνησις da intendersi come μεταβολή. Il procedere, il percorrere uno spazio, è solo un mutamento particolare: cambiamento continuo di posto. Questo concetto di movimento è già implicito nella formula fondamentale del movimento: s = v ⨯ t, v = s/t; la velocità in sé non viene discussa. Il fenomeno della velocità era già noto ad Aristotele, là dove egli discute del tempo e dell’essere più accelerato o più lento di un movimento, dimostrando che, se è vero che un movimento può essere più accelerato o più lento, è anche vero che non può esserlo il tempo stesso. Non sono state discusse proprio le definizioni fondamentali che provengono da Aristotele. Esse consentono di guardare avanti in direzione dell’autentica analisi ontologica: il mutamento come un modo dell’essere dell’esserci stesso. «La considerazione dell’ente dei singoli ambiti è posteriore a quella dei κοινά».664 Ciò non significa che caratteri come la κίνησις, il τόπος, il χρόνος e le ἀρχαί sarebbero presenti anche già da prima; anzi, proprio le ἀρχαί, ciò in base a cui un ente viene visto, sono nascoste, occultate. Il δεῖ μὴ λανθάνειν τί ἐστι κίνησις665 ha senso solo perché in effetti è velato. Il motivo di questo fatto è che la
considerazione del mondo e dell’ente si mantiene entro una certa generalità. La considerazione naturale prescientifica implica già un καθόλου, seguendo il cui filo conduttore mi oriento sul mondo. Nel libro I, capitolo 1, Aristotele accenna al fatto che i bambini chiamano «papà» tutti gli uomini e «mamma» tutte le donne.666 Per il bambino il papà e la mamma sono ciò che gli è maggiormente noto. Eppure, benché sia così, essi vengono mediamente assunti dal bambino entro un καθόλου, cosicché gli altri uomini sono solo altri papà. Contro questo essere «innanzitutto» del καθόλου bisogna procedere in direzione di ciò che è ἀρχή in senso proprio – cioè verso la determinazione primaria di un ente in ciò che esso è. Da tale specifica ἀρχή bisogna poi tornare all’esserci concreto stesso (metodica dell’indagine sull’ἀρχή, Metafisica, libro III). È evidente quindi che l’ente si dà in primo luogo 1. ἐντελεχείᾳ μόνον,667 «in quanto pura presenza attuale», in secondo luogo 2. «in quanto possibilità e presenza attuale».668 Si tratta dell’entità dei ϕύσει ὄντα, che in se stessa è sempre già, e che non sarebbe mai soltanto δυνάμει. Un ente, che è attualmente presente, in questo suo essere attualmente presente è anche δυνάμει. Nell’ambito di ciò di cui si sta discutendo, δύναμις significa sempre δύναμις di un ἐντελεχείᾳ ὄν. Dunque l’ipotizzato terzo membro δυνάμει è superfluo.669 L’ente, che «ci» è, è caratterizzato da entrambe le possibilità: in primo luogo in quanto pura presenza attuale, in secondo luogo in quanto ἐντελεχείᾳ e inoltre δυνάμει ὄν. α) L’ἐντελέχεια e l’ἐνέργεια Anzitutto, indagando l’ἐντελέχεια: 1. chiarificazione del significato implicito in ciò che essa intende; 2. il costrutto verbale stesso nel suo aspetto in assoluto più appariscente. Per chiarire il significato è istruttivo un passo della Metafisica Θ 3: ἐλήλυθε δ᾽ ἡ ἐνέργεια τοὔνομα, ἡ πρὸς τὴν ἐντελέχειαν συντιθεμένη, καὶ ἐπὶ τὰ ἄλλα ἐκ τῶν κινήσεων
μάλιστα· δοκεῖ γὰρ ἡ ἐνέργεια μάλιστα ἡ κίνησις εἶναι.670 «Il termine ἐνέργεια è stato infatti applicato anche alle altre cose le cui determinazioni si confanno al movimento; infatti l’ἐνέργεια, di per se stessa, è πρὸς τὴν ἐντελέχειαν» (συντιθεμένη da sostituire con συντεινομένη, cfr. διὸ καὶ τοὔνομα ἐνέργεια λέγεται κατὰ τὸ ἔργον, καὶ συντείνει πρὸς τὴν ἐντελέχειαν).671 Qui si distingue tra ἐνέργεια ed ἐντελέχεια: 1. ᾿Εντελέχεια: «presenza attuale, essere attualmente presente di un ente in quanto fine», nel senso dell’ultimo punto che è finito, che ha se stesso in se stesso nella sua «fine» – τέλος in quanto carattere dell’esserci, costituente l’essere-finito; ἐντελέχεια: ciò che si trattiene nel suo esserefinito, ciò che «ci» è in senso proprio. 2. L’ἐνέργεια, al contrario, συντείνει πρὸς τὴν ἐντελέχειαν, «è in tensione verso la fine» – anch’essa è un carattere dell’esserci, ma in modo tale da determinare l’ente nel suo esserci nel senso che esso non «ci» è nel suo esserefinito; ἐνέργεια: il carattere ontologico dell’essere concepito nel divenire finito. L’«essere divenuto prodotto» nell’atto del produrre è un determinato modo dell’esserci – solo se ci si rende conto di questo si è in grado di capire che cos’è il movimento: l’esserci di un ente che è nel suo divenire finito, ma che non è ancora finito. L’ἐνέργεια è la κίνησις, ma non è ἐντελέχεια. La κίνησις è un modo dell’esserci, interpretato in relazione all’ἐνέργεια. L’espressione ἐντελέχεια può essere scomposta in ἐντελές ed ἔχειν (cfr. νουνέχεια, νουνεχής, νοῦν ἔχειν). ᾿Εντελὲς ἔχειν – la finale originaria -ες è venuta a cadere: ἐντελ(ες)έχεια. Il fatto caratteristico è la scomparsa della finale originaria. Diels ha richiamato l’attenzione su un significato verbale analogo che ricorre in Demostene: ἐντελόμισθος, «colui che percepisce la paga completa»; ἐντελέχεια tradotto con «possesso della completezza».672 Si tratta di ricondurre il significato dell’espressione nel contesto in cui esso svolge la funzione di chiarire l’ente riguardo al suo essere. ᾿Εντελέχεια in quanto modo
dell’esser-ci inteso come «trattenersi nell’essere-finito». ᾿Εντελεχείᾳ μόνον: ciò che si trattiene soltanto nell’esserefinito è qualcosa che esclude ogni δύναμις, un ente che «ci» è in modo tale da essere-finito, nel senso che è sempre già finito, qualcosa cioè che non è mai stato dapprima prodotto, né mai potrebbe non essere, ma è attualmente presente in senso assoluto. Ciò che esclude la possibilità di non essere stato in passato, esclude anche la possibilità di trapassare in futuro. La presenza di un ente siffatto non è frutto di immaginazione, ma è vista nel movimento del cielo, certamente vista, tuttavia non solo nella mera contemplazione, bensì sperimentata in base alla paura che alla fine questo «ente che “ci” è sempre» un giorno si arresti, svanendo dal «Ci». β) La στέρησις Aristotele ha già nominato questi due caratteri nel libro I, capitolo 8, della Fisica.673 Al tempo stesso può essere colto qui il nesso che unisce le due determinazioni δύναμις ed ἐνέργεια con la questione del numero delle ἀρχαί. Svolgendo la sua discussione, Aristotele giunge alla conclusione che debbono esserci tre ἀρχαί, poi passa subito a considerare il movimento e dice che la definizione del movimento, senza la δύναμις e l’ἐνέργεια, può avvenire solo tramite le ἀρχαί, come aveva fatto Platone. Tuttavia egli elabora tale definizione con l’ausilio della στέρησις,674 segnando così una radicale differenza da Platone. Considerando il passo in questione intendiamo vedere in che senso la categoria della στέρησις, secondo l’origine del suo significato, è implicitamente contenuta nelle categorie fondamentali del movimento, δύναμις ed ἐνέργεια. (Etica Nicomachea, libro I, capitolo 4: discussione dell’ἀγαθόν e delle categorie). Aristotele introduce la presentazione dei caratteri ontologici con queste parole: ἔστι δή τι τὸ μὲν ἐντελεχείᾳ μόνον.675 «C’è un essere di una cosa nel senso del puro essere attualmente presente» – qui bisogna tradurre: «Tale
cosa è nel suo essere proprio». Ciò che non ha mai una possibilità, ciò che non ha avuto un’origine, «ci» è già in un senso eccellente, ed è finito in quanto non ha bisogno di essere prodotto. Dobbiamo intenderci bene circa l’essere che è caratterizzato in quanto δυνάμει καὶ ἐντελεχείᾳ.676 In Fisica A 8 Aristotele indica i caratteri ontologici della δύναμις e dell’ἐντελέχεια,677 senza entrare nei particolari. Egli osserva qui che il fenomeno del movimento potrebbe essere spiegato anche facendo riferimento alla δύναμις e all’ἐνέργεια, mentre in precedenza ha cercato di chiarirlo in base ad altri caratteri ontologici, in primo luogo ricollegandosi alla critica a Platone (essere e non essere). Egli richiama ora l’attenzione su un nuovo fenomeno dell’essere, la στέρησις,678 ricavandolo dall’ente caratterizzato in quanto «essere assente» e da ciò che «in se stesso» è «non essere»: questo non-essere è un essere καθ᾿ αὑτό μὴ ὄν.679 La negazione è una posizione. Se diciamo che il non-essere è un essere, ciò suona formalmente-dialettico. Bisogna però tenere conto del fatto che qui si interpreta in base al senso dell’essere: non-essere nel senso di un determinato «Ci», il «Ci» dell’assenza. Da questo «ente che non è», che «ci» è nel carattere di un determinato essereassente, «può divenire qualcosa»,680 vale a dire che con l’ausilio di questo peculiare non-essere si può comprendere il «divenire», la μεταβολή. Aristotele si rende perfettamente conto che, rispetto a quanto detto finora, ciò costituisce un’ipotesi sorprendente. Dice infatti: «Ci si stupisce di ciò e si ritiene impossibile che qualcosa divenga dal nonessere»,681 nella misura in cui, a prima vista, si afferma: il non-essere è il niente, e dal niente non può divenire niente. «Questo è un modo»682 di rendere comprensibile la γένεσις, cioè la μεταβολή. ἄλλος δ᾽ ὅτι ἐνδέχεται ταὐτὰ λέγειν κατὰ τὴν δύναμιν καὶ τὴν ἐνέργειαν· τοῦτο δ᾽ ἐν ἄλλοις διώρισται δι᾿ ἀκριβείας μᾶλλον.683 «Un altro modo [di spiegare la μεταβολή] può dire la stessa cosa facendo riferimento a δύναμις ed ἐνέργεια. Questo aspetto è già stato definito con precisione in un altro contesto». In un
primo momento non è chiaro a che cosa si riferiscono queste parole di Aristotele. Si è portati a collegare questo passo con il libro IX della Metafisica, anche se vi è la possibilità che il riferimento sia invece Fisica Γ 1-3. Non lo si può stabilire con certezza. In ogni caso non si possono chiamare in causa simili vaghe supposizioni ai fini di una datazione, o per scrivere, in base ai rapporti tra i trattati, una ontogenesi dell’opera aristotelica. Personalmente sono convinto che si tratti di un tentativo disperato. Nella Fisica compaiono affermazioni riguardanti l’ὄν e l’ἕν la cui formulazione raggiunge un livello tale da non distinguersi in nessun modo da quello della Metafisica. L’osservazione aggiunta qui da Aristotele sottolinea il significato che egli attribuisce a questa specifica indagine: «In questo modo [cioè facendo riferimento alla στέρησις, ovvero alla δύναμις e all’ἐνέργειἂ si risolvono le difficoltà che avevano costretto gli antichi a sopprimere alcune cose di ciò che abbiamo detto. [Poiché non potevano venire a capo dell’essere, finirono per dire semplicemente: il movimento non esiste]. È per questo [poiché non considerarono minimamente questa possibilità di spiegazione] che essi furono portati lontano dalla via che conduce al divenire e al trapassare, alla μεταβολή, [talmente lontano da elaborare teorie sull’essere, senza pervenire invece a cogliere la μεταβολή in quanto tale]. Se infatti questa modalità dell’essere fosse loro balzata agli occhi, ogni oscurità in merito a tale ente si sarebbe per loro dissolta».684 Da queste parole emerge chiaramente sia la lucidità con cui Aristotele giudica la sua personale scoperta, sia quanto sono fondamentali i caratteri ontologici della δύναμις, dell’ἐνέργεια e della στέρησις. γ) La δύναμις Per comprendere l’ente nel suo duplice carattere dobbiamo cercare di chiarire in modo ancora più preciso la seconda determinazione. Ciò che Aristotele dice sulla στέρησις rappresenta la condizione del fatto che, nel caso
del δυνάμει, si ha a che fare con un carattere ontologico che si addice a un ente che «ci» è già. Il termine δύναμις non ha il senso del «possibile», ossia di ciò che, in genere, prima o poi ci può essere. La δύναμις è già la determinazione di un ἐντελεχείᾳ ὄν, di un ente che «ci» è già. Un albero che sta nel bosco è ἐντελεχείᾳ, è per me lì attualmente presente in quanto albero. Oppure può esserci anche come albero abbattuto, tronco, che a sua volta può farmisi incontro nel carattere dell’«utilizzabilità per...», della disponibilità per la costruzione di una nave. Il tronco ha il carattere dell’essere utile a..., dell’essere utilizzabile per..., non perché io lo concepisca anzitutto così, ma perché è questo il modo del suo essere. Il tronco mi si fa incontro in questo modo: non è mero legno, non è soltanto una cosa chiamata legno. L’ente che «ci» è nel mondo circostante ha il carattere del συμϕέρον, rinvia a qualcosa. Tale carattere dell’«essere rinviante» nel senso dell’«essere utile a...» determina questo ente che «ci» è, questo tronco che è lì davanti, in quanto ἐντελεχείᾳ e, simultaneamente, in quanto δυνάμει. L’essereδυνάμει è una determinazione positiva del modo del suo «Ci». Da molto tempo sono solito definire «significatività» questo carattere ontologico dell’esserci. Tale carattere ontologico è il carattere primario in cui il mondo mi si fa incontro. Il fatto che il δυνάμει non sia un alcunché di vuoto e formale, ma di determinato, implicante determinate condizioni, che caratterizza l’ente solo di tanto in tanto e a seconda delle circostanze, appare evidente in base a Metafisica Θ 7. All’inizio del capitolo si pone la questione: πότε δὲ δυνάμει ἐστὶν ἕκαστον καὶ πότε οὔ, διοριστέον.685 «Bisogna distinguere quando, di volta in volta, un ente che “ci” è, è δυνάμει, e quando no. Esso non è δυνάμει in qualsiasi momento [nonostante ci sia già]. Ad esempio, la terra, nel suo poter essere, è forse qualcosa come un uomo? Lo è solo quando essa è diventata qualcosa come uno σπέρμα, ma forse nemmeno allora»;686 infatti, quando un ente ha il carattere dello σπέρμα è già δυνάμει ἄνθρωπος,
«poiché il seme deve anzitutto ancora passare in un altro e là mutarsi»:687 solo allora lo σπέρμα è, secondo possibilità, uomo. Per Aristotele emerge ora la questione: come va inteso ciò che abbiamo chiamato δυνάμει, ciò a partire da cui qualcosa muta repentinamente in qualcos’altro – come lo si può concepire in quanto contribuente a costituire l’essere di ciò che ne deriva? Quando il legno muta repentinamente nell’esserci del cofanetto, in che modo il legno, l’esserelegno, contribuisce a costituire l’essere dell’esserci del cofanetto? A questa domanda né Platone né alcuno degli antichi era in grado di dare risposta, poiché il terreno non era sicuro. Aristotele si chiede che cos’è ciò di cui diciamo che «ci» è. Il cofanetto non è il legno, la statua non è il bronzo. Il cofanetto non è il legno nel senso del τόδε τι. Platone dice: il cofanetto ha legno; legno è un’idea, dunque il cofanetto ha parte al legno. Il cofanetto non è legno, nella misura in cui al suo essere-qualcosa ci si rivolge come a un «essere attualmente presente», un «avere questo e quell’aspetto». Il cofanetto non è τόδε, cioè il legno, οὐ τόδε ἀλλ᾿ ἐκείνινον:688 il cofanetto è cor-relativo al legno. Il cofanetto non è legno, τόδε τι, non è legno e inoltre un cofanetto. In relazione al legno il cofanetto non è ἐκεῖνο, bensì ἐκείνινον. Con ἐκείνινον si intende rinviare a qualcosa di più lontano: ἐκείνινον, «fatto di quello» – primariamente, nell’attualità più immediata, il cofanetto non è legno. «Il cofanetto non è legno, bensì è di legno»,689 è «fatto di quello». L’«essere di legno» è un modo dell’esserci differente dall’«essere legno». Il «di che cosa» dell’esserefatto di un cofanetto, il «di che cosa» del suo consistere, non è lì presente esso stesso in se stesso, ἐνεργείᾳ. L’attualità della sua presenza viene determinata dal suo essere presente sottomano, dal suo essere-cofanetto, in cui il «di che cosa» del suo consistere in questo modo peculiare è soppresso. Queste considerazioni sono fondamentali poiché forniscono una chiave importante per la concezione di un
ente di cui diciamo che è un κινούμενον: κινούμενον, ὡς τὸ ἐκείνινον.690 Il modo dell’esserci che fissiamo con l’asserzione del κινούμενον va sempre ontologicamente concepito in quanto ἐκείνινον. In ciò che è mosso è sempre anzitutto presente l’essente-mosso stesso; in termini corrispondenti, nell’esserci del cofanetto, non il legno, bensì il cofanetto stesso. Una pietra che cade, una pianta che cresce: nell’avere questo aspetto è in certo qual modo presente la κίνησις. Il cofanetto non è cofanetto e, oltre a ciò, legno; la pietra non è pietra e, oltre a ciò, movimento. La pietra non ha parte al movimento, che è esso stesso un essere (Platone), poiché il movimento è nell’ente che «ci» è, nel senso che tale ente è caratterizzato in quanto ἐκείνινον: la pietra è mobile così come il cofanetto è ligneo. Invece la κίνησις non è, come il legno, un ente, non «ci» è nella modalità della ὕλη. Ciò fornisce il filo conduttore fondamentale per il fatto che il fenomeno del movimento può essere messo a fuoco solo considerando l’essente-mosso. δ) L’essere nel senso delle categorie Di questo ente, quindi, che può trovarsi in entrambe le condizioni, nella stabilità e nella δύναμις – «caratteri dell’esserci» della significatività –, Aristotele dice a questo punto: «Ora, a sua volta, d’altra parte, questo ente è un “questo qui”, o un “quanto”, o un “tale”, oppure, parimenti, un qualcosa d’altro relativo alle categorie dell’essere».691 Τοιόνδε, τοσόνδε, ecc.: -δε derivante da δή, «manifestamente presente», «attualmente presente» – modi dell’essere attualmente presente, nel qual caso la presenza attuale si determina a partire dall’ente stesso secondo le possibilità del suo aspetto. Questi caratteri, τόδε τι, ecc., sono definiti «categorie». Colpisce peraltro il fatto che qui le categorie vengano introdotte semplicemente come ovvie. Nessuna discussione circa un sistema delle categorie! Ovunque negli scritti che ci sono stati tramandati il discorso cada su di esse, se ne parla in questo modo. Perciò le categorie di
Aristotele sono state criticate come vuote: si è detto che egli non ha stabilito alcun principio della loro deduzione, che non ne possiede un numero preciso, che non svolge un lavoro impeccabile. Si è però evitato di chiedere che cosa siano, in senso proprio, le categorie stesse. Nelle considerazioni precedenti non è stato casuale, ovviamente, il fatto che, nell’interpretazione dell’esserci e del concettuale, si sia posto fin da principio l’accento sul λόγος: λόγος inteso come il modo dell’«essere nel mondo», nel senso che tale modo costituisce l’«essere svelato», l’«essere scoperto», l’«essere attualmente presente» del mondo. Ciò che qui viene definito con il termine «categoria» è definito tale mediante un’espressione legata da una profonda affinità con il λόγος, giacché tra κατηγορεῖν e λέγειν sussiste un’intima connessione. ᾿Αγορεύειν non significa semplicemente «parlare di qualcosa», «asserire», bensì «parlare al mercato», «parlare in pubblico», là dove cioè si svolge l’«essere l’uno con l’altro», dove chiunque lo capisce. Κατηγορεῖν significa: «Dire pubblicamente in faccia qualcosa a qualcuno», dirgli che è questo e quest’altro, «accusarlo», «incolparlo» di una determinata azione. La κατηγορία – da intendersi qui come κατηγορία τοῦ ὄντος – è un parlare che, per così dire, si rivolge all’ente guardandolo in faccia, nel senso che dice di esso che è questo e quest’altro, ossia che esso è. Κατηγορίαι: modi di rivolgersi all’ente nel suo essere. Le categorie sono quindi i modi fondamentali in cui l’«ente che “ci” è» è lì scoperto in riferimento a determinate possibilità e modalità di esserci. Ciò non significa che le categorie siano già esplicite per il parlare naturale, il λόγος della quotidianità; al contrario, ogni λέγειν, di fatto, si muove ed è guidato già entro determinate categorie. Esse non rappresentano un qualche genere di forma che posso far rientrare in un sistema, e non sono nemmeno princìpi di classificazione delle proposizioni: coerentemente con il significato del loro nome, esse vanno intese invece in base a ciò che il λόγος stesso è nel suo modo eccellente: ciò che costituisce l’essere-scoperto del mondo in
modo tale che questo essere-scoperto mostri il mondo nelle sue prospettive fondamentali. Chiunque abbia una comprensione in certo modo viva dell’esserci del mondo prenderà con cautela l’idea di fissarsi su un numero preciso di categorie. In base alla preparazione della definizione, tramite il riferimento a diversi elementi dell’ente riguardo al suo essere, risulta già evidente che il movimento è un modo dell’esserci del mondo. Se è così, il movimento diventerà il mezzo con il cui ausilio l’essere del mondo risulterà comprensibile in un senso definitivo. In effetti, poiché il movimento è un modo dell’esserci dell’ente, ne deriva la possibilità di determinare compiutamente ciò che, in un senso totalmente usurato, intendiamo per «realtà». A dire il vero, ciò che viene designato con la parola «movimento» dovrebbe terminologicamente suonare κινησία. In effetti anche Aristotele utilizza l’espressione ἀκινησία = ἠρεμία,692 «quiete». Invece il termine κινησία non risulta attestato nella sua opera, benché nella raccolta di frammenti si dica che egli suddivide la κινησία in questo e quel modo.693 Ai fini della comprensione oggettiva non bisogna dimenticare che con κίνησις si intende l’essere-mosso in quanto modo dell’essere. Probabilmente dovremo riuscire a cogliere la spiegazione dell’essere dell’essere-mosso nel contesto dell’essere di cui finora abbiamo ripetutamente trattato. Le prime e fondamentali determinazioni – quelle su cui si basa la scoperta di Aristotele – sono le determinazioni ἐντελέχεια e δύναμις. Invece, l’ente che «ci» è in quanto attualmente presente viene spiegato in una diversa direzione, e questi modi dell’esserci del mondo vengono definiti da Aristotele «categorie». Abbiamo iniziato a mettere maggiormente a fuoco tali caratteri ontologici. Κατηγορία: una particolare specie del parlare. Le categorie sono modi del parlare mostrante implicitamente presenti in ogni λόγος concreto. Λόγος in quanto λέγειν – λόγος in quanto λεγόμενον. Anche la κατηγορία va intesa in questo duplice significato. Per κατηγορίαι c’è anche l’espressione
κατηγορήματα, dove l’altro lato del significato è esplicito. Per la precisione, le categorie sono modi del mostrare che si rivolge all’ente inteso come l’ente del mondo circostante: il mondo così com’è nella ζωὴ πρακτική. La ζωὴ πρακτική è μετὰ λόγου: in questo μετὰ λόγου sono contenuti i λόγοι eccellenti, le categorie. La ζωὴ πρακτική è, in quanto πρᾶξις, un ente tale da avere di volta in volta la sua fine nel πρακτόν: ἐϕίεται all’ἀγαθόν,694 l’ἀγαθόν è πέρας della πρᾶξις, l’ἀγαθόν κατὰ τὸν καιρόν,695 «di volta in volta nella situazione particolare». I λόγοι delle categorie sono quindi tali da rivolgersi all’ente del mondo circostante in riferimento alla possibilità del suo esserci, nella misura in cui questo esserci viene inteso in quanto mondo del prendersi cura. In altre parole: le categorie sono anzitutto i modi dell’esserci del mondo in quanto συμϕέρον. In precedenza abbiamo detto che le cose del mondo ci sono nel carattere dell’«essere utili per...». Avremo modo di vedere che, in effetti, l’elemento dell’«utilizzabile per...» – in base al quale le categorie rinviano a qualcosa, l’«a... per...» riferito all’ente il cui essere è espresso dalle categorie – è costitutivo, e lo è perché nell’esserci del mondo è implicita la determinazione ontologica del «da... a...». Questo ente implica cioè la possibilità di subire una trasformazione, di passare da questo a quello, di mutare repentinamente.696 e) Il movimento in quanto essere dell’ente del mondo. Critica del discorso platonico circa l’ἀγαθὸν καθόλου (Eth. Nic. A 4) Poiché, quindi, è l’ἀγαθόν stesso, in quanto πέρας della πρᾶξις, a caratterizzare l’essere del mondo in quanto di volta in volta essente-ci in questo e quel modo, parlare di un ἀγαθὸν καθόλου – un «bene assoluto» – non ha alcun senso. Non solo il termine ἀγαθόν non significa qualcosa come «valore» (se se ne è compreso il senso autentico, non lo si può intendere come un essere ideale di valori e rapporti di
valore), ma indica anzi un modo particolare dell’esserci di quell’ente con cui abbiamo a che fare direttamente nella πρᾶξις, orientato sul καιρός. Perciò è del tutto ovvio che Aristotele, nella discussione dell’ἀγαθὸν καθόλου svolta nell’Etica Nicomachea (critica a Platone), si richiami alle categorie.697 Dato che l’ἀγαθόν è una determinazione ontologica del mondo-ambiente, se davvero si vuole chiarire il carattere ontologico dell’ἀγαθόν bisogna necessariamente chiamare in causa, nelle categorie, il modo dell’essere del mondo che caratterizza primariamente il mondo come tale. Richiamandosi alle categorie, Aristotele dice: non v’è alcun ἀγαθὸν καθόλου, l’ἀγαθόν è ciò che è sempre in quanto πρακτόν.698 Il πρακτόν è contraddistinto dalle categorie del τόδε τι, del ποσόν, del πρός τι in quanto χρήσιμον,699 in riferimento al tempo come καιρός.700 Non vi è alcun bene che si libra sull’essere, nella misura in cui «bene» è la determinazione dell’esserci del mondo – del mondo con cui ho a che fare. L’ἀγαθὸν καθόλου sarebbe quindi un bene che non ha assolutamente alcun essere. Il ragionamento svolto da Aristotele nel libro I, capitolo 4, dell’Etica Nicomachea è il seguente: non v’è alcun bene in assoluto, dato che l’ἀγαθόν è πέρας, il πέρας è πέρας della πρᾶξις, e la πρᾶξις è sempre «questa qui» in quanto essente di volta in volta. Nemmeno l’ἀγαθὸν καθ᾿ αὑτό, che non ha il carattere dell’utilità, il «bene in sé» presso cui ci soffermiamo, può essere inteso in quanto ἀγαθὸν καθόλου.701 Aristotele solleva qui un’obiezione a se stesso. Si potrebbe dire infatti: non vi è un ἀγαθὸν καθόλου finché a essere presi in considerazione sono i συμϕέροντα. Forse però le cose stanno diversamente nel caso degli ἀγαθὰ καθ᾿ αὑτά, ad esempio il ϕρονεῖν, lo ὁρᾶν, ἡδοναί τινες, τιμαί,702 ciò di cui ci preoccupiamo in vista di esso stesso. Aristotele si chiede: se questi sono in effetti ἀγαθὰ καθ᾿ αὑτά, ciò significa già che non vi è contenuto nient’altro che un’idea? 703 Καθ᾿ αὑτά significa già καθόλου? Se così fosse, ὥστε μάταιον ἔσται τὸ εἶδος,704 «l’aspetto sarebbe vuoto». Se infatti l’ἀγαθὸν καθ᾿ αὑτό fosse un essere in sé nel senso
dell’idea, un γένος, un «universale», allora per la πρᾶξις non vi sarebbe nulla di cui prendersi cura, mentre lo sguardo della πρᾶξις si dirige proprio verso l’«estremo», l’ἔσχατον, il καιρός, il «qui e ora», in queste e quest’altre circostanze: la πρᾶξις ha bisogno di qualcosa di determinato. Il carattere ontologico dell’ἀγαθόν è orientato sul καιρός, determinato dalla sua posizione. L’ἀγαθὸν καθ᾿ αὑτό in quanto idea sarebbe vuoto, non avrebbe alcun εἶδος. Aristotele, come si vede, contrappone in modo nettissimo ἰδέα ed εἶδος. Con εἶδος egli intende il «presentarsi» di un ente del mondo qui e ora in quanto πρακτόν. Se dunque l’ἀγαθόν è un’idea, allora il senso del suo essere è inadeguato proprio a quella πρᾶξις che ce l’ha come τέλος. È inoltre evidente che i differenti ἀγαθά – la ϕρόνησις è ἀγαθόν in un senso differente dalla ἡδονή – non si lasciano collocare in un γένος universale.705 È vero che il linguaggio possiede un certo κοινόν, nel senso che si rivolge a enti differenti con lo stesso contenuto semantico, tuttavia il carattere semantico del κοινόν non è universale, non è γένος, bensì κατὰ ἀναλογίαν.706 Oltre a ciò Aristotele non ci ha lasciato nulla sull’analogia. Nello stesso modo in cui descrive l’ἀγαθόν come una determinazione ontologica del mondo-ambiente, Aristotele determina dall’inizio anche l’essere dell’ente-mosso in riferimento al suo carattere ontologico. Anche la κίνησις non è un γένος, «non è παρὰ τὰ πράγματα».707 La κίνησις non è un essere che sia accanto all’«ente in movimento». Come l’ἀγαθόν determina espressamente per la πρᾶξις l’ente del mondo-ambiente nel suo esserci, così anche la κίνησις è una determinazione ontologica dell’ente del mondo, nella misura in cui esso è sempre questo determinato mondo. Se dunque i movimenti, i diversi possibili movimenti, vengono suddivisi seguendo il filo conduttore di categorie determinate, tale possibilità di suddivisione del movimento significa: le possibilità dell’essere-mosso sono determinate primariamente dall’esserci caratteristico del mondo. È questo il ruolo svolto dalle categorie nella preparazione della definizione della κίνησις.
Prenderò ora in considerazione alcuni aspetti delle categorie. Aristotele una volta le identifica tout court come διαιρέσεις.708 Διαιρεῖν in quanto determinazione del λέγειν: parlare di qualcosa operando una scomposizione. Parlare è sempre un parlare avendo-lì qualcosa, è sempre un parlare di un ente che «ci» è. Questo modo del «parlare di» è caratterizzato dalla διαίρεσις. Ogni parlare di qualcosa è anzitutto un parlarne in quanto questo e quello, λέγειν τι κατά τινος, «rivolgersi a qualcosa in quanto qualcosa». In questo «in quanto qualcosa» l’ente che «ci» è passa dal non essere esplicato all’essere esplicato in una determinata prospettiva. Identificando tout court le categorie come διαιρέσεις, Aristotele le intende come quel parlare che rende visibile l’esserci del mondo nelle possibilità fondamentali in cui esso può mostrarsi «in quanto» qualcosa. «In quanto che cosa» l’ente del mondo primariamente si mostra: questo «in quanto che cosa», nel suo senso originario, non è in se stesso ciò che si intende, se vivo in un λόγος concreto. Il λόγος concreto intende sempre, per esempio, l’essere rosso di questo vestito, e solo quando mi interrogo, di rimando, sul come dell’esserci dell’essere rosso, pervengo al ποιόν. Visto così il ποιόν è il ceppo, per così dire il genere da cui ogni caratteristica proviene riguardo al suo essere. Per questo le categorie sono anche γένη,709 i «ceppi» per qualsiasi cosa io asserisca circa un ente concreto in quanto essente secondo le varie possibilità. Altrove Aristotele definisce le categorie ἔσχατα κατηγορούμενα,710 ciò che è «estremo» nel senso di «ultimo». Se indago un ente fino all’ultimo, fino al suo essere, a ciò che esso propriamente è, allora pervengo alle categorie – categorie che, per la precisione, sono ἐπὶ τῶν ἀτόμων ἔἰδῶν]:711 l’εἶδος inteso come ciò su cui non si può passare sopra, ciò che non è risolvibile in parole, l’εἶδος contro cui il λόγος in quanto διαίρεσις va a cozzare, dove il parlare naturale con il mondo è primario, sicché l’εἶδος stesso non si dissolve più in un «in quanto», in definitiva l’εἶδος che, per così dire, oppone resistenza alla διαίρεσις. Il
presentarsi con un determinato aspetto non può dissolversi nel λόγος, se quest’ultimo vuole in genere avere-lì ancora qualcosa. L’ἄτομον εἶδος così concepito altro non significa che il «Ci» più immediato dell’aspetto del mondo, le cose di cui mi servo, οὐσίαι. Se, per così dire, desidero dissolvere ulteriormente il presentarsi con un determinato aspetto di una sedia o di un tavolo, allora non ho più l’ente che primariamente «ci» è, la sedia, ma un pezzo di legno. Per comprendere queste categorie ontologiche bisogna quindi porsi fin dall’inizio nella condizione di capire che l’ente, di cui qui si parla, è l’ente del mondo-ambiente. Aristotele definisce inoltre le categorie πτώσεις,712 il casus latino, che però ha un significato ristretto. Πτῶσις, invece, significa in termini più ampi ogni modificazione linguistica e ogni mutamento semantico. Le κατηγορίαι sono le πτώσεις in senso assoluto, le variazioni primarie del parlare nel mondo. Dal De anima (A 1) emerge che per Aristotele le categorie non sono semplicemente schemi fissi, che di per sé sarebbero già esentati da qualsiasi indagine, poiché esse si limitano a indicare, per così dire, uno dei caratteri più immediati dell’essere dell’ente che «ci» è.713 Riguardo al tema del De anima, la ψυχή: per rispondere alla domanda che la concerne ci si potrebbe semplicemente richiamare alle categorie, approfondendo l’interrogazione in base al loro filo conduttore. Ma questo non porta a nulla. Qui si tratta piuttosto di intendere le categorie stesse come un indicare, cogliendo il fenomeno indicato a partire da esso stesso nell’autenticità del suo essere. Enti come il tavolo e la sedia sottostanno alla categoria del τόδε τι. Con ciò tuttavia non è ancora detto che l’essere della ψυχή e l’essere del tavolo siano la stessa cosa. Ora, queste categorie dovrebbero fornire un filo conduttore per la successiva caratterizzazione della κίνησις, nel senso più specifico che sono quattro di esse a determinare il numero dei possibili movimenti. Ciò significa: vi sono solo movimenti che si riferiscono al τόδε τι, al ποιόν,
al ποσόν e al κατὰ τόπον. Dice infatti Aristotele: μεταβάλλει γὰρ τὸ μεταβάλλον ἀεὶ ἢ κατ᾿ οὐσίαν ἢ κατὰ ποσὸν ἢ ποιὸν ἢ κατὰ τόπον.714 Questa definizione non è arbitraria, giacché egli giustifica il numero delle diverse modalità di movimento in Fisica Ε 1,715 rinviando, in tale giustificazione, all’ἐπαγωγή.716 Le diverse modalità dell’essere-mosso non si possono dedurre tramite l’ἀπόδειξις, ma bisogna attenersi piuttosto all’esserci del mondo. Passo subito all’ulteriore definizione: ὥστ᾿ οὐδὲ κίνησις οὐδὲ μεταβολὴ οὐθενὸς ἔσται παρὰ τὰ εἰρημένα, μηδενός γε ὄντος παρὰ τὰ εἰρημένα.717 Nel prossimo semestre cercheremo di vedere quale giustificato motivo sussistesse per Platone in questa determinazione dell’essere dell’idea e a che cosa egli mirasse con ciò.718 Lo si può comprendere nell’insieme solo guardando all’indietro a partire da Aristotele. Platone si interroga su ciò a cui Aristotele ha dato risposta.719 f) Il διχῶς delle categorie Ciascuna delle categorie ὑπάρχει διχῶς,720 «sussiste in duplice modo»: l’essere delle categorie, ogni categoria in quanto modo dell’esserci del mondo, dell’incontro con il mondo, intende, implica in sé un διχῶς: τὸ μὲν γὰρ μορϕὴ αὐτοῦ, τὸ δὲ στέρησις.721 Un ente che «ci» è, che caratterizzo nel suo essere in quanto «questo qui», e che mi si fa incontro in se stesso – questo ente ha in sé un διχῶς. In quanto così essente-ci, esso è determinato in quanto εἶδος, si presenta con questo e quell’aspetto. Esso tuttavia può anche essere, ed è al tempo stesso, caratterizzato dalla στέρησις, da un’«assenza»: un essere attualmente presente di qualcosa per il cui essere presente è costitutiva un’assenza – assenza nel senso della privazione, del mancare. Questo esserci nel senso del mancare è del tutto peculiare e positivo. Se di qualcuno dico: «Mi manca molto, non c’è», con ciò non intendo affermare che egli non è presente lì davanti, bensì
esprimo un modo del tutto determinato del suo esserci per me. Ora, la maggior parte delle cose, nella misura in cui ci sono, non ci sono mai pienamente per me, poiché sono sempre caratterizzate al tempo stesso dall’assenza, dal fatto di «non essere così» come propriamente potrebbero e dovrebbero. L’essere dell’esserci del mondo si trattiene nel «più o meno», le cose sono più o meno in questo o in quel modo. Per quanto riguarda il ποιόν: λευκόν e μέλαν.722 Le cose, in quanto colorate, non sono puramente bianche o puramente nere: ciò che contraddistingue il vero e proprio «Ci» è piuttosto l’essere chiaro e scuro, la medietà, che non sta nei punti estremi dell’oscillazione, ma si trattiene nel mezzo dell’oscillazione stessa. La determinazione del διχῶς rientra nelle categorie fondamentali. Questa stessa possibilità è basilare per il movimento. Ne possiamo dedurre che non debbono venire comprese soltanto le categorie basate sull’essere del mondo-ambiente, ma che, al tempo stesso, un ente, nella misura in cui è determinato in quanto διχῶς così inteso, mostra in sé la possibilità ontologica di essere qualcosa che è nel «da... a...». Solo perché è la possibilità del «da... a...», qualcosa come un mutamento repentino, tale ente può essere in movimento. Il fatto che in questo importante passaggio della preparazione della definizione del movimento Aristotele sottolinei che nelle categorie stesse, conformemente alla loro struttura, è intesa una duplicità ci fa vedere che l’ente stesso viene concepito, nel suo poter essere, in quanto «da... a...», e ciò secondo le quattro possibilità del τόδε τι, del ποιόν, del ποσόν e del κατὰ τόπον. Nel libro V, capitolo 1, egli spiega il «da... a...»: l’essere dello ὑποκείμενον, non nel senso di un’ontologia metafisica, poiché lo ὑποκείμενον è, piuttosto, ciò che diviene visibile nell’asserzione, non è la «sostanza»; l’essere dello ὑποκείμενον è attinto dal λόγος: il δηλούμενον nella κατάϕασις.723 Uno ὑποκείμενον può mutare repentinamente in un non-ὑποκείμενον e 724 viceversa.
g) La prima definizione del movimento e la sua illustrazione In 201 a 9 Aristotele si appresta a un’analisi riassuntiva della determinazione ontologica fondamentale per la preparazione della definizione della κίνησις. Egli si riallaccia alla prima definizione secondo cui un ente, in quanto ente che «ci» è, è presente in modo tale da poter essere qualcosa. Un pezzo di legno può anche essere un cofanetto. Aristotele riprende questa definizione quando dice: διῃ-ρημένου δὲ καθ᾿ ἕκαστον γένος τοῦ μὲν ἐντελεχείᾳ, τοῦ δὲ δυνάμει, ἡ τοῦ δυνάμει ὄντος ἐντελέχεια, ᾗ τοιοῦτον, κίνησίς ἐστιν.725 In questo modo egli porta l’analisi nella giusta posizione, richiamando alla mente un ente che è lì presente, caratterizzato in quanto «poter essere qualcosa», un essere concepito in quanto esser-ci del mondo. Esser-ci: 1. in quanto attualmente lì presente, 2. nel senso dell’essere proveniente da... La determinazione del τέλειον include entrambi i momenti dell’essere: essere lì ed essere proveniente da... Questo stesso esserci, in quanto presente, implica un elemento che finora abbiamo omesso, ma che balza agli occhi: esserci significa esserci-ora. Noi utilizziamo il termine «presente» con una particolare indifferenza, in quanto praesens, il che significa sia «presenza spaziale» sia «ora», nella misura in cui l’αἴσθησις è sempre nell’ora. Un siffatto «essente nel mondo» «ci» è, e, in quanto δύναμις, può essere anche qualcosa di utilizzabile. Δύναμις, «non ancora», può significare: «è utilizzabile per...», «trasformabile per...». Questo ente che «ci» è in quanto finito e «utilizzabile per...» è caratterizzato, in quanto ente, dal διχῶς. Per lo più e mediamente esso non è assolutamente bianco o nero, poiché le cose, in quanto lì presenti colorate, ci si fanno invece incontro in quanto più o meno nere o più o meno bianche. Anche una casa, nella quotidianità, «ci» è per lo più in modo tale che le manca
qualcosa, è caratterizzata dalla στέρησις. È dunque a partire da qui che Aristotele determina il movimento. Bisogna tenere presente un ente così concepito: un pezzo di legno, che è lì presente, «ci» è nella bottega di un falegname; se ne sta lì in quanto legno nella determinazione dell’«utilizzabilità per...». «Il movimento è l’ἐντελέχεια, il presente dell’ente che “ci” è in quanto presente del “potente-esserci”, e precisamente il presente nella misura in cui tale “potente-esserci” ci può essere».726 Il movimento è il presente del poter-esserci in quanto tale. Il legno può essere un cofanetto, ora anzitutto semplicemente opinato. Il poteressere del legno opina il poter-essere cofanetto. Nella misura in cui «ci» è, il legno è in movimento. Nella misura in cui il legno in senso proprio «ci» è in quanto potente-essere cofanetto, c’è il movimento. Quando il falegname ce l’ha in lavorazione, il legno «ci» è nel suo poter-essere. Il poteressere è attualmente presente nell’«essere in lavorazione», nella misura in cui il falegname ce l’ha sottomano. È per questo che Aristotele, in ciò che segue, può definire il movimento anche in quanto ἐνέργεια. Intesa come un modo dell’esserci, l’ἐνέργεια altro non significa che l’«essere in lavorazione» di qualcosa. In quanto cosa essente giacentedavanti, il legno «ci» è, ed è nel contempo utilizzabile per un cofanetto. Esser-ci in quanto legno ed «essere utilizzabile per...» non sono la stessa cosa. Inoltre, l’utilizzabilità stessa, in quanto carattere ontologico dell’ente che «ci» è, non lo caratterizza ancora in quanto trovantesi in movimento. Se ne potrebbe dedurre che la definizione dell’esserci dell’essere del mondo in quanto significatività qui propriamente non funziona, nella misura in cui, a ben vedere, l’utilizzabilità «ci» è solo se e quando il legno è in lavorazione. Si tratta però di un errore. Un’analisi più approfondita ci consente di comprendere che ci imbattiamo qui in un elemento del carattere ontologico dell’esserci cui non si presta attenzione: quando il falegname ha lasciato la sua bottega e il cofanetto iniziato se ne sta lì, è vero che il legno non è lì presente in movimento,
però non se ne sta nemmeno lì come prima della lavorazione, non è cioè meramente δυνάμει nel primo senso, bensì è lì presente in quiete. La quiete è solo un caso limite del movimento. Può essere in quiete soltanto qualcosa che implica di per sé la determinazione ontologica di essere – o di poter essere – in movimento. Molte cose del mondo – la maggior parte di quelle con cui abbiamo a che fare – ci si fanno incontro per lo più in stato di quiete. Non mi sembra che questo elemento della quiete sia mai stato tenuto nella dovuta considerazione. Invece, non si può assolutamente comprendere l’essere dell’ente se non si tiene conto 1. della medietà dell’esserci del mondo, e 2. del carattere dell’essere per lo più lì presente in stato di quiete. La quiete è un carattere fondamentale dell’esserci del mondo in cui mi muovo – essa è solo una determinata ἀκινησία. Non ogni ἀκινησία è già ἠρεμία. Una figura geometrica, il cui essere è caratterizzato dall’ἀκινησία, non è in quiete, poiché non può muoversi. La quiete è un’ἀκινησία del tutto particolare. Asserire la quiete ha senso solo nel caso di un ente che si può muovere. Questi fenomeni sono stati trascurati nell’interpretazione corrente, cioè nell’interpretazione di ciò che qui Aristotele interpreta come movimento: movimento da intendersi in quanto modalità eccellente dell’«essere attualmente presente» di un ente che compare nel mondo. Con semplici concetti verbali come «realtà» e «irrealtà» non si ha alcuna possibilità di accedere al movimento. Nei passi successivi del capitolo 1 Aristotele chiarisce ulteriormente il movimento. «Se di ciò che può essere costruito, nella misura in cui è costruibile, diciamo che è attualmente presente in quanto tale, allora è in costruzione»,727 – i tronchi d’albero lì presenti, e così via. Se ci rivolgiamo al medesimo, in se stesso, in quanto costruito (οἰκοδομητόν), diciamo: «Viene costruito». L’«essere in costruzione» è la κίνησις in quanto οἰκοδόμησις.728 Nella misura in cui la κίνησις è il presente di questo «essere da... a...» è importante stabilire la concezione categoriale dell’ente in riferimento al suo διχῶς. Nella misura in cui il
movimento si determina in quanto presente, questo stesso presente non è la realtà dell’irreale in un senso determinato.729
27. Movimento in quanto ἀόριστον (Phys. Γ 2) Passiamo al capitolo 2: distinzione per la chiarificazione dell’ἐντελέχεια e della δύναμις. De anima B 7: definizione del colore semplicemente come ὁρατόν,730 «ciò che diviene accessibile mediante la vista». Il colore è ciò che ha in sé la costituzione ontologica di essere percepito solo tramite lo sguardo. Come il colore può essere attualmente presente in quanto colore solo tramite il διαϕανές,731 così la luce – la luce del sole – è definita in quanto ἐνέργεια τοῦ διαϕανοῦς ᾗ διαϕανές.732 L’ἐνέργεια è definita παρουσία, l’oscurità è definita στέρησις,733 assenza di luce, che può essere compresa anch’essa soltanto in base alla presenza del trasparente. Benché il χρῶμα vada concepito come ὁρατόν, «essere colore» e «poter essere visto» non sono la stessa cosa. a) Schema del capitolo Nel capitolo 2 Aristotele offre in un certo senso una conferma di ciò che ha proposto come definizione nel capitolo 1. Suddivisione: 201 b 16-18: tema: analisi di ciò che i filosofi precedenti hanno stabilito riguardo al movimento e del modo in cui lo hanno definito; critica volta a dimostrare che il movimento non può essere definito come hanno fatto gli antichi, e che il fenomeno del movimento non può divenire accessibile
altrimenti che nel modo indicato da Aristotele. 201 b 18-24: discussione più dettagliata delle antiche teorie: in quale γένος gli antichi hanno posto il movimento, in quale «discendenza» ontologica? L’essere in base a cui gli antichi volevano definire il movimento è la ἑτερότης, l’«essere altro», l’ἀνισότης, l’«essere ineguale», il μὴ ὄν, il «non essere» – formalizzazione determinata e crescente. 201 b 24-27: ci si chiede perché gli antichi abbiano postulato proprio questa definizione del movimento. Il movimento stesso si mostra come qualcosa che «non è determinabile, delimitabile»: è ἀόριστον. Si domanda: perché? Che cosa hanno visto nel movimento per risolversi a spiegarlo in questo modo? 201 b 27-202 a 3: in risposta, si pone l’ulteriore questione: da che cosa dipende, propriamente, che il movimento si mostri in quanto ἀόριστον? 202 a 3-12: Aristotele tratta del fatto che per lo più ciò che muove è anch’esso in movimento. La conclusione non è chiara: cfr. i libri V e VI.734 b) Critica della precedente definizione del movimento tramite la ἑτερότης, l’ἀνισότης e il μὴ ὄν Precisiamo più nel dettaglio l’analisi svolta nel capitolo 2. Ciò che è stato spiegato tramite le precedenti determinazioni categoriali di ἑτερότης, ἀνισότης, μὴ ὄν735 definisce un ente che, in base a tali determinazioni, in senso proprio non è necessariamente in movimento: un ente definito tramite l’essere-altro può in verità essere un ente-mosso, però le asserzioni ἕτερον, ἄνισον, μὴ ὄν, in quanto tali, non determinano l’ente dal punto di vista del suo essere in movimento.736 Nella definizione bisogna mettere in risalto quei caratteri ontologici che sono in grado di determinare l’ente che intendono come un ente che deve necessariamente essere colto in tali caratteri in quanto trovantesi in movimento. Ἑτερότης e ἀνισότης non
soddisfano questa definizione. Molti enti che ci si fanno incontro nel mondo ci sono dati come altri, ma non per questo sono in movimento. Io stesso sono uno ἕτερον, un «altro» rispetto a un cane – ma tramite questo essere-ἕτερον non sono necessariamente in movimento. Inoltre, il numero 10 è ineguale al numero 5 – tuttavia questo essere-ineguali non significa che essi siano in movimento o che tra di essi sussista un movimento. Ora, si potrebbe dire: la ἑτερότης non è intesa così, anzi viene concepita come una determinazione dell’ente stesso, sicché l’essere-altro è implicito nell’ente come tale, nel senso che un ente ha in sé la possibilità di essere «da... a...», cioè di essere caratterizzato in riferimento a una determinazione tramite l’assenza di questa stessa determinazione. In tal caso la ἑτερότης non determinerebbe forse pur sempre l’essere in quanto «essere in movimento»? In un ente che possiede diverse determinazioni, queste ultime sono differenti le une dalle altre, ma ciò non comporta di per sé che tale ente sia in movimento. Nel senso di Aristotele, si può dire: un ente è determinato, da un lato, in quanto ἐντελέχεια – il legno è attualmente presente in quanto legno –, dall’altro lato è ancora qualcos’altro, nella misura in cui è δυνάμει – il legno può essere un cofanetto. Ciò costituisce una determinazione positiva dell’ente in quanto tale, eppure, benché l’alterità sia implicita nel legno stesso, esso non è necessariamente in movimento, ma è mosso solo quando questo δυνάμει ὄν è attualmente presente. La ἑτερότης non basta. E si può addirittura interpretare la ἑτερότης nel senso dell’attivo: forse gli antichi hanno inteso l’essere-altro in quanto ἑτεροίωσις, «divenire altro». In tal caso non v’è dubbio che la κίνησις sia definita tramite un movimento determinato, la ἑτεροίωσις, l’ἀλλοίωσις, ma allora il movimento risulta già presupposto. Insomma: in nessun senso la ἑτερότης assolve il compito di definire propriamente l’«ente in movimento». La determinazione della ἑτερότης non pone in evidenza la fondamentale prospettiva ontologica del presente,
dell’essere attualmente presente e dello svanire dal presente. Questo non potersi avvicinare al fenomeno del movimento significa però nel contempo che tale teoria, per così dire, occulta la possibilità di vedere il movimento. Formalmente si può sempre dire: il divenire-altro implica un movimento, μεταβολή, e tale elemento costituisce il terreno per definire ἑτερότης questo modo di essere del movimento. Si tratta però di una definizione affrettata, che non tiene conto proprio del senso fondamentale.737 c) Il motivo di questa definizione: l’ἀόριστον del movimento Gli antichi sono pervenuti solo a questa definizione particolare poiché dicevano: il movimento è un ἀόριστον.738 Posso determinare in modo adeguato una «indeterminatezza» solo se la definisco tramite una categoria che coglie l’indeterminatezza stessa. «Quando determino, ὁρίζω, il movimento, il movimento stesso cessa».739 Esserci è esserci-finito nel proprio posto, limite. Se esso è mosso, allora è qualcosa che cambia il suo luogo, qualcosa che non è in nessun posto determinato. Se però definisco questo qualcosa che cambia costantemente luogo e, quindi, non rimane nel suo πέρας, allora esso sta fermo, cioè non è più quell’indeterminato che non è al suo posto. Non lo posso definire tramite un πέρας, poiché a tale scopo devo prendere piuttosto le categorie dalla serie di quelle che definiscono l’indeterminato. Com’è noto, Platone e i pitagorici hanno stabilito un siffatto gruppo (διάγραμμα) di categorie, caratterizzato da due serie, nella prima delle quali si colloca la συστοιχία dell’εἶδος: 1. περιττόν ἄρτιον 2. πέρας ἄπειρον 3. δεξιόν ἀριστερόν 4. ἄρρεν θῆλυ
5. ἠρεμοῦν κινούμενον 6. εὐθύ καμπύλον 7. τετράγωνον ἑτερόμηκες 8. νοῦς δόξα 9. ἕν πολλά 10. ϕῶς σκότος.740 Nota al punto 1: non bisogna dimenticare che la determinazione peculiare dell’ente è lo ἕν. Il due segue in quanto «il diritto», sicché il diritto, rispetto allo ἕν, è un indeterminato. Non è un caso che emerga qui anche la determinazione ϕῶς – σκότος. L’intero elenco delle categorie è perspicuo in se stesso, un’ontologia greca in nuce, a partire dalla quale anche Aristotele ha lavorato e che acquista vita nel suo complesso tramite la scoperta fondamentale dell’essere in quanto essere attualmente presente, dell’ἐντελέχεια, dell’essere-prodotto. Il capitolo 2 ha il compito di mostrare in che modo i tentativi di padroneggiare la κίνησις attuati fino a quel momento siano falliti, nella misura in cui coglievano sì determinati aspetti ontologici dell’ente-mosso, ma non il carattere fondamentale dell’ente in quanto mosso. Perché gli antichi cercarono di cogliere il movimento nel modo suddetto? Risposta: se il movimento si mostra come qualcosa di indeterminato, allora, se ciò che va colto è questo ente indeterminato, per definire tale ente in modo adeguato è necessario scegliere una categoria dell’indeterminatezza. In base a questa riflessione si pervenne a concepire il movimento tramite categorie come la ἑτερότης, l’ἀνισότης, il μὴ ὄν. Ora, non v’è alcun dubbio che il μὴ ὄν, che a prima vista sembra il più lontano, in un certo senso torni a essere vicinissimo al movimento – sempre che si intenda il μὴ ὄν non come non esserci in assoluto, ma nel senso di un nonessere determinato. Un passo avanti nella direzione di questo carattere dell’ente, se riferito a un altro ente presente nel mondo circostante, è stato compiuto da Platone
nel Sofista, quando dice: anche il μὴ ὄν è in un certo senso un essere.741 Ma la determinazione del μὴ ὄν così intesa – concepita anche in quanto στέρησις – non è comunque sufficiente, perché, se si volesse definire il movimento, allora bisognerebbe dire: tutto è in movimento, dal momento che ogni ente, in un senso particolare, non è, vale a dire non è l’altro ente con cui si trova a essere. Il movimento si mostra per i greci in quanto ἀόριστον. In base al carattere peculiare dell’indeterminatezza del movimento si può comprendere che le categorie non si possono ἁπλῶς θεῖναι: δυνατὸν ποσόν – in base a questo poter-essere in quanto μὴ ὄν, στέρησις – non si dà ancora necessariamente movimento.742 Non si può dire semplicemente: la κίνησις è tout court l’ἐνέργεια di un potente-essere. Un potente-essere non è mosso.743 d) Il movimento in quanto ἀτελής in riferimento all’ἔργον La κίνησις viene definita un «essere attualmente presente» che ha il carattere dell’ἀτελής,744 del «non alla fine». Il potente-essere (il legno che giace lì davanti nella bottega del falegname), che è in lavorazione, «ci» è in quanto potente-essere proprio se e quando è messo in lavorazione. In tal senso si può dire che il «tenere in lavorazione» è il τέλος del δυνάμει ὂν ᾗ τοιοῦτον. Nell’«essere in lavorazione» l’«essere nella possibilità» perviene alla sua fine, ed è allora propriamente ciò che è, appunto poter-essere. Tuttavia, in riferimento all’ἔργον della ποίησις esso non è finito. Nella misura in cui «essere», in ultima analisi, significa «essere nella propria fine», «trattenersi nella propria fine» in un senso definitivo (ἐντελέχεια) Aristotele – parlando con la dovuta cautela – deve designare l’esserci dell’«ente in movimento» in quanto ἐνέργεια.745 Il δυνατόν in quanto tale non è ἀτελής alla fine, ma vi è proprio tramite l’ἐνέργεια. Aristotele sottolinea che
questo peculiare stato di fatto ontologico «è difficile da cogliersi, ma può essere»,746 e in effetti è, nella misura in cui vediamo qualcosa di mosso (richiamo primario alla ἐπαγωγή!).747
28. Movimento in quanto ἐντελέχεια τοῦ δυνάμει ποιητικοῦ καὶ παθητικοῦ (Phys. Γ 3) a) Schema del capitolo Solo nel capitolo 3 l’autentica definizione e determinazione del movimento giunge alla meta. Fornisco anzitutto il contenuto del capitolo, la cui struttura non è del tutto perspicua. 202 a 13-21: tema: richiamo al carattere del muovere, cioè al presente di ciò che può essere mosso e di ciò che muove.748 Finora questa distinzione non era stata trattata tematicamente in modo esplicito. Si pone la domanda: ἐν τίνι ἡ κίνησις, «dov’è il movimento»? Il movimento è la determinazione di ciò che muove o di ciò che è mosso? La risposta suona: μία ἀμϕοῖν, ovvero μία ἐνέργεια,749 «l’uno e medesimo modo dell’essere attualmente presenti di entrambi». 202 a 21-b 5: qui viene affrontata la difficoltà che emerge dalla seguente constatazione: il movimento è sempre movimento di un qualcosa di mosso, che viene mosso da un qualcos’altro che muove. Il nesso ontologico di cui dico: «L’ente è in movimento» è determinato dalla categoria del πρός τι, cioè dell’«essere in relazione a un altro», appunto ciò che muove, che è caratterizzato dalla ποίησις, mentre ciò che è mosso è caratterizzato dalla πάθησις.750 Si danno quindi due modi dell’essere attualmente presente riferito al movimento: ποίησις e πάθησις. Nondimeno parliamo in sostanza sempre di «un» movimento,751 benché sussista
comunque la possibilità di parlare secondo ciascuna delle due eventualità. Ne deriva un’ἀπορία λογική,752 un «non poter passare nel rivolgersi a ciò che si intende». Ciò di cui si fa esperienza è un movimento, eppure al tempo stesso posso rivolgermi sia alla ποίησις che alla πάθησις. Aristotele discute a fondo questa aporia in 202 a 21-28, analizzando nel dettaglio tre possibilità: si chiede 1. se ποίησις e πάθησις siano presenti entrambe, assieme, nel πάσχον e κινούμενον;753 2. se la ποίησις sia la determinazione del κινοῦν, e la πάθησις la determinazione del κινούμενον;754 3. se sussista viceversa la possibilità che la ποίησις sia la determinazione del κινούμενον, e la πάθησις la 755 determinazione del κινοῦν. 202 a 28 sgg.: discussione di queste possibilità. a 28-31: discussione della terzultima nominata – Aristotele critica a posteriori. a 31-b 5: egli discute la prima possibilità, se cioè ποίησις e πάθησις siano entrambe nel κινούμενον. La seconda possibilità – ποίησις nel κινοῦν, πάθησις nel κινούμενον – viene assunta come positiva e discussa. 202 b 5-22: risoluzione della difficoltà. In questo passo Aristotele fa notare che in effetti vi è un raddoppiamento della prospettiva, ma che permane l’identità dell’unico stato di fatto: «ente in movimento». 202 b 22-29: ricapitolazione dell’analisi e degli elementi secondari; nuova definizione del movimento, concepita in modo da includere le due precedentemente indicate.756 b) Il πρός τι in quanto carattere dell’«essere nel mondo» Apprestiamoci a discutere i passaggi essenziali di questo capitolo. Ciò che importa è che riusciate a cogliere il contesto complessivo. Per preparare la definizione del movimento, Aristotele, nel capitolo 1, aveva richiamato l’attenzione 1. sull’«essere attualmente presente» e sul «poter essere», δύναμις – ἐντελέχεια; 2. sui modi d’incontro
del mondo, le categorie. Tali categorie rendono manifesto l’ente stesso in quanto caratterizzato dal διχῶς: esso «ci» è nel poter-essere «da... a...», ci si fa incontro in oscillazioni. Finora abbiamo omesso una determinazione, e precisamente quella che Aristotele fornisce a partire da 200 b 28. Egli elenca anzitutto le categorie. (In Metafisica Κ 9, dove viene ripreso per intero il medesimo passo di Fisica Γ 1, manca proprio la parte da b 28 a b 32. Com’è noto, la paternità e il carattere aristotelici del libro Κ della Metafisica sono controversi, e Jaeger tenta di salvarlo contro Natorp).757 Dunque, all’atto di fornire la preparazione ontologica del movimento, dopo avere elencato le categorie, Aristotele riprende ancora una volta una categoria particolare, il πρός τι. Questa accentuazione del πρός τι costituisce la preparazione ontologica per la discussione nel capitolo 3. La categoria del πρός τι significa che l’ente è determinato in quanto essere in relazione a un altro. Tuttavia, in quanto essente in relazione a un altro, tale ente non può fornire la base per una nuova specie di movimento, dato che le quattro specie di movimento sono incluse nelle già elencate quattro categorie: all’οὐσία corrisponde la modalità di movimento della γένεσις e della ϕθορά, al τόπος la ϕορά, al ποσόν la ϕθίσις, al ποιόν l’ἀλλοίωσις.758 Non vi sono altre specie di movimento: per una dimostrazione più dettagliata si veda il libro V della Fisica.759 L’esplicita adduzione del πρός τι deve avere quindi un altro senso: non la prefigurazione della modalità d’incontro del mondo in un determinato movimento, bensì il carattere di ogni ente che è in movimento. Il πρός τι caratterizza l’esserci del mondo nella sua molteplicità – molteplicità di enti in quanto essenti «in relazione l’uno all’altro», πρὸς ἄλληλα. Nelle Categorie il πρός τι è definito come segue: «Viene detto πρός τι, nel suo essere, tutto ciò che, essendo di volta in volta, è soltanto in relazione a qualcos’altro».760 Così, ogni ἕξις è una ἕξις τινός, per esempio ogni ἐπιστήμη, in quanto ente, è sempre ἐπιστήμη τινός,761 ἐπιστήμη «di qualcosa»; non comprendo il carattere ontologico dell’ἐπιστήμη se non
prendo in considerazione il «di che cosa». Quindi: ogni μεῖζον è μεῖζον τινός, ogni «essere maggiore» è «essere maggiore di qualcosa».762 Ogni μᾶλλον e ἧττον, ogni «più» e «meno» che abbiamo avuto modo di conoscere in quanto determinazione del mondo, è caratterizzato ontologicamente in quanto πρός τι – l’esserci del mondo in quanto essente in relazioni. Nel capitolo 7 delle Categorie Aristotele fornisce un’analisi dettagliata del πρός τι, mostrando anche le condizioni che debbono essere soddisfatte per cogliere propriamente il πρός τι. Πρός τι in quanto determinazione dell’essere del mondo: πρὸς ἄλληλα. Come caratteri del πρός τι Aristotele elenca i seguenti: τοῦ δὲ πρός τι τὸ μὲν καθ᾿ ὑπεροχὴν λέγεται καὶ κατ᾿ ἔλλειψιν [una formulazione alternativa per «più o meno»], τὸ δὲ κατὰ τὸ ποιητικὸν καὶ παθητικὸν, καὶ ὅλως κινητικόν τε καὶ κινητόν.763 «All’uno ci si rivolge in riferimento all’eccesso e al difetto, all’altro in quanto ποιητικόν e παθητικόν [il ποιεῖν è un ποιεῖν τι], l’ente nel senso del “darsi da fare attorno a qualcosa” e ciò con cui “uno che si dà da fare” si dà da fare [che è in se stesso un παθητικόν]». Se un ente nel suo esserci è caratterizzato dalla ποίησις, ciò implica la compresenza di un ente che ha la determinazione di essere πάθησις. In precedenza abbiamo richiamato l’attenzione sul fatto che nel mondo vi sono enti con cui abbiamo a che fare, ma anche uomini, nel senso che facciamo esperienza diretta della circostanza che gli enti, che così si presentano, vivono in un mondo.764 L’essere lì presente di un vivente è un «essere nel mondo» del vivente. Io stesso sono qualcosa che si presenta nel mondo, che si dà da fare con qualcosa – il che vale anche per l’animale che fugge da una minaccia, e così via. L’ente che ha il carattere della vita è lì presente nel mondo, e questo è nel contempo un «essere essente nel mondo». Un animale «ci» è, una formica si arrampica lentamente lungo il tronco di un albero, in modo tale da averlo, per così dire, come ciò che le oppone resistenza: essa «ci» è con il tronco, però a sua volta il tronco «ci» è per essa in quanto διακείμενον, ἀντικείμενον per l’animale tramite la
ἁϕή, il «contatto». Questo ente, in quanto animale, ha ciò con cui è ancora lì davanti, il πρός τι è caratterizzato dall’ἀντί..., nel senso che ciò, in relazione a cui il vivente è, «ci» è lì davanti in quanto scoperto, percepito, visto o opinato. Il πρὸς ἄλληλα ha una possibilità eccellente, caratterizzata dal δέχεσθαι, dal «poter accogliere», dall’«avere-lì esplicitamente nell’essere-scoperto». Un ente siffatto è il vivente, che è caratterizzato da questa determinabilità, un trovarsi-situato: non limitarsi a essere lì presente con l’altro, bensì trattenersi presso l’altro, in virtù del trattenersi essere aperto per il mondo a partire da se stesso in quanto vivente. Il primario essere-aperto dell’uomo si fonda nel νοῦς. Il νοεῖν, l’«opinare», non è limitato, come l’αἴσθησις, a determinati ambiti ontologici, essendo infatti possibile anche per ciò che non è presente in carne e ossa. Nel «pensare a qualcosa» sono già presso di esso. L’opinare può opinare tutto, è il modo dell’essere-aperto per tutto. L’esserescoperto dell’essere dell’uomo in quanto «essere nel mondo» è caratterizzato dal νοῦς. Il νοῦς è sempre un νοῦς τῆς ψυχῆς, un διανοεῖσθαι, un opinare qualcosa in quanto qualcosa. Come l’αἴσθησις, per i greci, è un venireriguardati dal mondo – qualcosa si dirige verso di me –, così anche il διανοεῖσθαι è un δέχεσθαι, un «percepire» – il mondo mi si fa incontro. Il νοεῖν è in un certo senso un πάθος, un venire-riguardati dal mondo. L’«essere-così nel mondo», caratterizzato dall’essere-scoperto del νοῦς, è possibile solo in virtù del fatto che il mondo è in genere aperto, e che il νοῦς è determinato da un νοῦς che in genere scopre il mondo. Io posso opinare solo se il pensabile è in genere aperto. Il νοῦς παθητικός è possibile soltanto tramite il νοῦς ποιητικός,765 tramite un νοεῖν che scopre il mondo. Le determinazioni della ποίησις e della πάθησις affondano le proprie radici nel centro autentico della concezione greca del mondo e della vita. Ciò implica che qualsiasi comprensione di come i greci abbiano concepito l’essere dipende da come si comprende la κίνησις.766
c) La definizione autentica del movimento tramite la ποίησις e la πάθησις Sulla κίνησις e sulla sua interpretazione si basa la possibilità di comprendere alla radice la portata dell’indagine svolta dai greci. La vita, intesa come un modo determinato dell’«essere nel mondo», è caratterizzata dal πρός τι. Ne deriva che l’analisi svolta finora nei capitoli 1 e 2 era incompleta, nella misura in cui prendeva in considerazione solo l’ente in quanto mosso, però non diceva che ogni ente che è mosso «ci» è soltanto nell’esserci-con un ente che muove. A che cosa si riferisce la determinazione della κίνησις intesa come una specifica modalità dell’essere attualmente presente – la κίνησις in quanto ἐνέργεια? L’intero contesto ontologico: ogni ente che muove è il motore di un ente che è mosso, e ogni ente che è mosso è il mosso di un ente che muove. Queste due determinazioni non vanno strappate l’una dall’altra, οὐκ ἀποτετμημένη,767 come se avessi dapprima due movimenti e poi mi chiedessi: come li metto assieme? L’ente che muove è un ente caratterizzato dalla ποίησις – l’ente che è mosso è caratterizzato dalla πάθησις. Ciò diviene evidente trattando dell’insegnare e dell’imparare.768 Già secondo il suo senso, insegnare significa parlare a un altro, rivolgersi all’altro nel modo del comunicare. L’essere proprio di un insegnante è: stare davanti a un altro e parlargli, per la precisione in modo tale che l’altro, ascoltando, lo segua. Si tratta di un nesso ontologico unitario determinato dalla κίνησις. È per questo che Aristotele, anche alla fine del capitolo 3, riassume la definizione del movimento con queste parole: la κίνησις è ἐντελέχεια [...] τοῦ δυνάμει ποιητικοῦ καὶ παθητικοῦ, ᾗ τοιοῦτον.769 Qui dunque, nella definizione stessa del movimento, compare improvvisamente la determinazione del ποιητικόν e del παθητικόν, senza che Aristotele corra il pericolo di definire il movimento tramite il
movimento, dato che la ποίησις non è ancora movimento, e tantomeno la πάθησις. Ποίησις e πάθησις sono determinazioni di un ente unitario che «ci» è nel modo dell’«essere in movimento». È vero che, rispetto a quest’ultima definizione, la prima suona: «La κίνησις è il presente di un “potente-essere”»;770 e la seconda: «La κίνησις è ἐντελέχεια di un ente mobile, nella misura in cui è mobile».771 Qui, con il κινητόν, già si presta attenzione al κινητικόν. A sua volta, il κινητικόν viene spiegato in quanto ποιητικόν in riferimento al παθητικόν. È falso sostenere che qui Aristotele avrebbe definito il movimento tramite il movimento. Come vada concepita la connessione riguardante la duplice prospettiva di ποίησις e πάθησις, e il fatto che, ciò nonostante, si dà un solo movimento, viene dimostrato da Aristotele chiamando in causa la διάστασις: essa, in quanto «distanza», come tale è la stessa da Tebe ad Atene e da Atene a Tebe.772 L’essere-distante, determinato in quanto tale, si può però intendere in una duplice prospettiva: posso andare da Tebe ad Atene e da Atene a Tebe. Alla base di entrambe le prospettive si pone già l’«essere egualmente distante»: διάστασις μία –773 διάστασις duplice. Il dato primario è la κίνησις in quanto una, che posso concepire nella duplice prospettiva della ποίησις e della πάθησις. L’indagine di Aristotele sul movimento ha un significato fondamentale per l’intera ontologia: definizione fondamentale dell’ente in quanto ἐνέργεια, ἐντελέχεια e δύναμις. Ciò che importa, nella formazione del concetto, è caratterizzare determinati concetti. Il compito primario è quello di determinare le varie prospettive in base ai caratteri fondamentali. Ogni formazione del concetto, se è autentica, è contraddistinta dal fatto che, nella formazione del concetto, apre nuovamente l’ambito di studio nel carattere fondamentale del suo essere. La formazione del concetto effettivamente produttiva consiste nell’aprire l’ambito di studio in base al suo carattere oggettivo, in modo tale che
l’intera concettualità di tale ambito divenga evidente, non limitandosi a cogliere la cosa, ma anche il suo come. La questione del τί τὸ ὄν è tratta dalle determinazioni della ποίησις e dell’esserci attualmente presente – ποίησις intesa in quanto primario «essere nel mondo», πρᾶξις. Essa offre l’occasione e la prospettiva più immediata per l’ontologia greca – che non è un’ontologia della natura! Nella successiva storia della filosofia si è trascurato di prestare attenzione all’«essere nel mondo». La scoperta dell’ἐνέργεια e dell’ἐντελέχεια significa mettere in pratica ciò che volevano Platone e Parmenide. Non si tratta di dire qualcosa di nuovo, ma di dire ciò che gli antichi già avevano inteso.774
635. Phys. Γ 1, 200 b 13. 636. Phys. Γ 1, 200 b 12 sg. 637. Phys. Γ 1, 200 b 13 sg.: δεῖ μὴ λανθάνειν τί ἐστι κίνησις. 638. Cfr. Phys. A 2, 184 b 25 sgg.: τὸ μὲν οὖν εἰ ἓν καὶ ἀκίνητον τὸ ὂν σκοπεῖν οὐ περὶ ϕύσεώς ἐστι σκοπεῖν. 639. Phys. A 2, 185 a 4 sg.: ἡ γὰρ ἀρχὴ τινὸς ἢ τινῶν. 640. Phys. A 6, 189 b 27 sg.: ὅτι μὲν οὖν οὔτε ἓν τὸ στοιχεῖον οὔτε πλείω δυοῖν ἢ τριῶν, ϕανερόν. 641. Phys. A 2, 185 a 13: τὰ ϕύσει [...] κινούμενα. 642. Phys. A 8, 191 b 28: ἐνδέχεται ταὐτὰ λέγειν κατὰ τὴν δύναμιν καὶ τὴν ἐνέργειαν. 643. Phys. A 2, 185 a 13 sg.: δῆλον δ᾽ ἐκ τῆς ἐπαγωγῆς. 644. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 25. 645. Phys. Γ 1, 200 b 13. 646. Phys. Γ 1, 200 b 26 sg.: τὸ μὲν ἐντελεχείᾳ μόνον [...] τὸ δὲ δυνάμει καὶ ἐντελεχείᾳ. 647. Phys. Γ 1, 200 b 28: τῶν τοῦ ὄντος κατηγοριῶν. 648. Phys. Γ 1, 200 b 28 sg. 649. Phys. Γ 1, 200 b 32 sg. 650. Cfr. Platone, Sofista, 248 sgg. 651. Phys. Γ 1, 201 a 3.
652. Phys. Γ 1, 201 a 19 sg.: ἔνια ταὐτὰ καὶ δυνάμει καὶ ἐντελεχείᾳ ἐστίν. 653. Phys. Γ 1, 201 a 27: ἔστι γάρ τι κινοῦν καὶ ἀκίνητον. 654. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 26 a. 655. Met. Θ 8, 1050 b 22 sgg. 656. Eth. Nic. Κ 7, 1177 a 26 sg.: εὔλογον δὲ τοῖς εἰδόσι τῶν ζητούντων ἡδίω τὴν διαγωγὴν εἶναι. 657. Cfr. Met. A 6, 987 a 29 sgg. 658. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 26 a. 659. Phys. Γ 1, 200 b 15 sgg.: διορισαμένοις δὲ περὶ κινήσεως πειρατέον τὸν αὐτὸν ἐπελθεῖν τρόπον περὶ τῶν ἐϕεξῆς. δοκεῖ δ᾽ ἡ κίνησις εἶναι τῶν συνεχῶν, τὸ δ᾽ ἄπειρον ἐμϕαίνεται πρῶτον ἐν τῷ συνεχεῖ· διὸ καὶ τοῖς ὁριζομένοις τὸ συνεχὲς συμβαίνει προσχρήσασθαι πολλάκις τῷ λόγῳ τῷ τοῦ ἀπείρου, ὡς τὸ εἰς ἄπειρον διαιρετὸν συνεχὲς ὄν. πρὸς δὲ τούτοις ἄνευ τόπου καὶ κενοῦ καὶ χρόνου κίνησις ἀδύνατον εἶναι. 660. Phys. Δ 11, 219 b 2: ἀριθμὸς κινήσεως κατὰ τὸ πρότερον καὶ ὕστερον. 661. Phys. Γ 1, 200 b 22: διὰ τὸ πάντων εἶναι κοινά. 662. Phys. Γ 1, 200 b 22 sg. 663. Phys. Γ 1, 200 b 23 sgg.: σκεπτέον προχειρισαμένοις περὶ ἑκάστου τούτων· ὑστέρα γὰρ ἡ περὶ τῶν ἰδίων θεωρία [...] ἐστίν. 664. Phys. Γ 1, 200 b 24 sg. 665. Phys. Γ 1, 200 b 13 sg. 666. Phys. A 1, 184 b 3 sgg. 667. Phys. Γ 1, 200 b 26. 668. Phys. Γ 1, 200 b 26 sg.: δυνάμει καὶ ἐντελεχείᾳ. 669. Phys. Γ 1, 200 b 26. Nota del Curatore dell’edizione tedesca: L’inserimento di un «terzo membro», τὸ δὲ δυνάμει, tra ἐντελεχείᾳ μόνον e τὸ δὲ δυνάμει καὶ ἐντελεχείᾳ è una congettura avanzata da Spengel e Bonitz, che Prantl ha accolto nel testo della sua edizione. 670. Met. Θ 3, 1047 a 30 sgg. 671. Met. Θ 8, 1050 a 22 sg. 672. H. Diels, Etymologica, in «Zeitschrift für
vergleichende Sprachforschung», 47, 1916, p. 203. 673. Phys. A 8, 191 b 27 sgg. 674. Phys. A 8, 191 a 12 sgg. 675. Phys. Γ 1, 200 b 26. 676. Phys. Γ 1, 200 b 26 sg. 677. Phys. A 8, 191 b 28 sg. 678. Phys. A 8, 191 b 15. 679. Phys. A 8, 191 b 15 sg. 680. Phys. A 8, 191 b 16: γίγνεταί τι. 681. Phys. A 8, 191 b 16 sg.: θαυμάζεται δὲ τοῦτο καὶ ἀδύνατον οὕτω δοκεῖ, γίγνεσθαί τι ἐκ μὴ ὄντος. 682. Phys. A 8, 191 b 27: εἷς μὲν δὴ τρόπος οὗτος. 683. Phys. A 8, 191 b 27 sgg. 684. Phys. A 8, 191 b 30 sgg.: ὥσθ᾿ [...] αἱ ἀπορίαι λύονται δι᾿ ἃς ἀναγκαζόμενοι ἀναιροῦσι τῶν εἰρημένων ἔνια· διὰ γὰρ τοῦτο τοσοῦτον καὶ οἱ πρότερον ἐξετράπησαν τῆς ὁδοῦ τῆς ἐπὶ γένεσιν καὶ ϕθορὰν καὶ ὅλως μεταβολήν· αὕτη γὰρ ἂν ὀϕθεῖσα ἡ ϕύσις ἔλυσεν πᾶσαν τὴν ἄγνοιαν. 685. Met. Θ 7, 1048 b 36 sg. 686. Met. Θ 7, 1048 b 37 sgg.: [...] οὐ γὰρ ὁποτεοῦν. οἷον ἡ γῆ ἆρ᾿ ἐστὶν ἄνθρωπος δυνάμει; ἢ οὔ, ἀλλὰ μᾶλλον ὅταν ἤδη γένηται σπέρμα, καὶ οὐδὲ τότε ἴσως. 687. Met. Θ 7, 1049 a 14 sg.: δεῖ γὰρ ἐν ἄλλῳ καὶ μεταβάλλειν. 688. Met. Θ 7, 1049 a 18. 689. Met. Θ 7, 1049 a 19: τὸ κιβώτιον οὐ ξύλον ἀλλὰ ξύλινον. 690. Met. Θ 7, 1049 a 33. 691. Phys. Γ 1, 200 b 27 sg.: τὸ μὲν τόδε τι, τὸ δὲ τοσόνδε, τὸ δὲ τοιόνδε, καὶ ἐπὶ τῶν ἄλλων τῶν τοῦ ὄντος κατηγοριῶν ὁμοίως. 692. Phys. Γ 2, 202 a 4. 693. Aristotelis Opera, edidit Academia Regia Borussica, vol. V: Aristoteles qui ferebantur librorum fragmenta, collegit V. Rose, Berolini, 1870, fr. 586, 1573 b 28 sg.: ὁ δὲ ᾿Αριστοτέλης ἐν ταῖς διδασκαλίαις δύο ϕησὶ γεγονέναι [κινησίας].
694. Eth. Nic. A 1, 1094 a 1 sg.: πρᾶξις [...] ἀγαθοῦ τινὸς ἐϕίεσθαι δοκεῖ. 695. Eth. Nic. Γ 1, 1110 a 13 sg. 696. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 26 d. 697. Cfr. Eth. Nic. A 4, 1096 a 11 sgg. 698. Eth. Nic. A 4, 1096 b 34. 699. Eth. Nic. A 4, 1096 a 26. 700. Eth. Nic. A 4, 1096 a 26 sg. 701. Cfr. Eth. Nic. A 4, 1096 b 8 sgg. 702. Eth. Nic. A 4, 1096 b 17 sg. 703. Eth. Nic. A 4, 1096 b 19 sg.: οὐδ᾽ ἄλλο οὐδὲν πλὴν τῆς ἰδέας. 704. Eth. Nic. A 4, 1096 b 20. 705. Eth. Nic. A 4, 1096 b 23 sgg.: τιμῆς δὲ καὶ ϕρονήσεως καὶ ἡδονῆς ἕτεροι καὶ διαϕέροντες οἱ λόγοι ταύτῃ ᾗ ἀγαθά. 706. Eth. Nic. A 4, 1096 b 28. 707. Phys. Γ 1, 200 b 32 sg.: οὐκ ἔστι δὲ κίνησις παρὰ τὰ πράγματα. 708. Cfr. Top. Δ 1, 120 b 36. 709. Met. B 3, 998 b 28. 710. Met. B 3, 998 b 16. 711. Loc. cit. 712. Met. Ν 2, 1089 a 26. 713. Cfr. De an. A 1, 402 a 11 sgg. 714. Phys. Γ 1, 200 b 33 sg. 715. Phys. Ε 1, 224 b 35 sgg. 716. Phys. Ε 1, 224 b 30. 717. Phys. Γ 1, 201 a 1 sgg. 718. [Si veda M. Heidegger, Platon: Sophistes, a cura di I. Schüßler, in Gesamtausgabe, cit., vol. XIX, 1992; ediz. it. Il «Sofista» di Platone, a cura di N. Curcio, Adelphi, Milano, 2013]. 719. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 26 e. 720. Phys. Γ 1, 201 a 3 sg.: ἕκαστον δὲ διχῶς ὑπάρχει πᾶσιν. 721. Phys. Γ 1, 201 a 4 sg.
722. Phys. Γ 1, 201 a 5 sg. 723. Phys. Ε 1, 225 a 6 sg.: λέγω δὲ ὑποκείμενον τὸ καταϕάσει δηλούμενον. 724. Phys. Ε 1, 225 a 3 sgg. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 26 f. 725. Phys. Γ 1, 201 a 9 sgg. 726. Phys. Γ 1, 201 a 10 sg.: ἡ τοῦ δυνάμει ὄντος ἐντελέχεια, ᾗ τοιοῦτον, κίνησίς ἐστιν. 727. Phys. Γ 1, 200 b 16 sg.: ὅταν γὰρ τὸ οἰκοδομητόν, ᾗ τοιοῦτον αὐτὸ λέλομεν εἶναι, ἐντελεχείᾳ ᾖ, οἰκοδομεῖται. 728. Phys. Γ 1, 200 b 18. 729. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 26 g. 730. De an. B 7, 418 b 29. 731. De an. B 7, 418 a 31 sg.: πᾶν δὲ χρῶμα κινητικόν ἐστι τοῦ κατ᾿ ἐνέργειαν διαϕανοῦς. 732. De an. B 7, 418 b 9 sg. 733. De an. B 7, 418 b 19 sg. 734. Si veda sotto, Manoscritto, pp. 406 sg. 735. Phys. Γ 2, 201 b 20 sg.: ἑτερότητα καὶ ἀνισότητα καὶ τὸ μὴ ὂν ϕάσκοντες εἶναι τὴν κίνησιν. 736. Phys. Γ 2, 201 b 21 sg. 737. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 27 a. 738. Phys. Γ 2, 201 b 24. 739. Themistii in Aristotelis Physica paraphrasis, in Commentaria in Aristotelem Graeca, edita consilio et auctoritate Academiae Litterarum Regiae Borussicae, ed. H. Schenkl, vol. V/II, Berolini, 1900, 211, 12: ὅταν γὰρ ὁρισθῇ, παύεται. 740. Ibid., 211, 19 sg., e l’apparato critico riferito a 211, 17. 741. Platone, Sofista, 256 d sgg. 742. Phys. Γ 2, 201 b 29 sgg. 743. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 27 c. 744. Phys. Γ 2, 201 b 32. 745. Phys. Γ 2, 201 b 31. 746. Phys. Γ 2, 202 a 2 sg.: χαλεπὴν μὲν ἰδεῖν, ἐνδεχομένην δ᾽ εἶναι.
747. Phys. A 2, 185 a 13 sg.: δῆλον δ᾽ ἐκ τῆς ἐπαγωγῆς. 748. Phys. Γ 3, 202 a 14: ἐντελέχεια γάρ ἐστι τούτου [τοῦ κινητοῦ] ὑπὸ τοῦ κινητικοῦ. 749. Phys. Γ 3, 202 a 18: μία ἡ ἀμϕοῖν ἐνέργεια. 750. Phys. Γ 3, 202 a 23 sg. 751. Phys. Γ 3, 202 a 36: ἀλλὰ μία ἔσται ἡ ἐνέργεια. 752. Phys. Γ 3, 202 a 21 sg.: ἔχει δ᾽ ἀπορίαν λογικήν. 753. Phys. Γ 3, 202 a 25 sg.: ἢ γὰρ ἄμϕω ἐν τῷ πάσχοντι καὶ κινουμένῳ. 754. Phys. Γ 3, 202 a 26 sg.: ἢ ἡ μὲν ποίησις ἐν τῷ ποιοῦντι, ἡ δὲ πάθησις ἐν τῷ πάσχοντι. 755. Phys. Γ 3, 202 a 27 sg.: εἰ δὲ δεῖ καὶ ταύτην [τὴν πάθησιν] ποίησιν καλεῖν. 756. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 28 a. 757. W. Jaeger, Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles, cit., pp. 63 sgg. 758. Phys. Γ 1, 201 a 12 sgg. 759. Cfr. Phys. Ε 1, 225 a 1 sgg. 760. Cat. 7, 6 a 36 sg.: πρός τι δὲ τὰ τοιαῦτα λέγεται, ὅσα αὐτὰ ἅπερ ἐστὶν ἑτέρων εἶναι λέγεται ἢ ὁπωσοῦν ἄλλως πρὸς ἕτερον. 761. Cat. 7, 6 b 5. 762. Cat. 7, 6 a 38 sg.: τὸ μεῖζον [...] τινός γὰρ λέγεται μεῖζον. 763. Phys. Γ 1, 200 b 28 sgg. 764. Si veda sopra, 20. Il πάθος in quanto ἡδονή e λύπη. 765. Cfr. De an. Γ 5, 430 a 10 sgg. 766. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 28 b. 767. Phys. Γ 3, 202 b 7 sg. 768. Cfr. Phys. Γ 3, 202 b 4 sgg. 769. Phys. Γ 3, 202 b 25 sgg. 770. Phys. Γ 1, 201 a 10 sg.: ἡ τοῦ δυνάμει ὄντος ἐντελέχεια [...] κίνησίς ἐστιν. 771. Phys. Γ 2, 202 a 7 sg.: ἡ κίνησις ἐντελέχεια τοῦ κινητοῦ, ᾗ κινητόν. 772. Cfr. Phys. Γ 3, 202 a 18 sgg., b 13 sg. 773. Phys. Γ 3, 202 b 17 sg.
774. Si veda sotto, Manoscritto relativo al par. 28 c.
II IL TESTO DEL CORSO IN BASE ALLE PARTI CONSERVATE DEL MANOSCRITTO
Manoscritto relativo al par. 1 Lo scopo del corso è pervenire alla comprensione di alcuni concetti fondamentali tratti dall’ambito dell’indagine aristotelica. Più precisamente dobbiamo fornire un’indicazione per prestare ascolto a ciò che Aristotele ha da dire. E tale indicazione dev’essere trasmessa per la via che ci consente di cimentarci con il prestare ascolto in base a esempi concreti. Concetti fondamentali: alcuni. Scelta operata in modo appropriato: Metafisica Δ: esempi. Alcuni di questi e altri: vita, movimento, conoscenza, verità. Verificare quali cose sono intese in questi concetti, come tali cose vengono esperite, a quale scopo ci si rivolge a esse e, di conseguenza, come vengono (semanticamente) espresse. Insomma: la piena concettualità in quanto tale: le cose nel loro «come» e il «come» stesso. Con la comprensione della concettualità debbono nascere e svilupparsi la conoscenza e la familiarità con le esigenze e le possibilità dell’indagine scientifica. Non si tratta né di insegnare né di imparare una filosofia. Lo scopo non è tracciare un quadro del sistema di Aristotele o descrivere la personalità e la figura del filosofo. Nessuna storia della filosofia o storia del problema. Solo ed esclusivamente un prestare ascolto a ciò che Aristotele, forse, ha da dire. Se filologia significa: passione per la conoscenza di ciò che è stato espresso in parole e del modo di esprimersi in parole, allora il nostro scopo e il nostro metodo sono puramente filologici. Letteratura – mezzo ausiliario. Manoscritto relativo al par. 2
Scopo: esercitare un po’ il leggere corretto, in modo tale che, nel farlo, si presti attenzione alla concettualità. La provvisorietà dell’impresa emerge dal fatto che essa soggiace a presupposti che non vanno discussi: 1. che proprio Aristotele (e non Platone, Kant o Hegel) abbia qualcosa da dire riguardo allo scopo del corso; 2. che ammettiamo di non essere ancora progrediti al punto che non ci possa essere detto più nulla riguardo a questa particolare questione; 3. che la concettualità, se rettamente intesa, costituisca l’autentica sostanza di ogni possibile indagine scientifica (e non sia solo una faccenda di tecnica mentale formale). Chi ha scelto la scienza si è assunto la responsabilità per il concetto; 4. che l’indagine scientifica, la scienza, non sia una professione, ma una possibilità dell’esistenza umana, e, quindi, sia scelta e decisione; 5. che nell’esserci ci sia una possibilità in cui esso, in riferimento alle possibilità della propria interpretazione e determinazione, si basa unicamente su se stesso. 6. Presupposto metodico: che la storia e il passato possano avere forza d’urto, nella misura in cui si libera loro la strada – oggi la più ardita delle pretese, che è tuttavia l’aria in cui la filologia respira e vive. I presupposti sono molti, ma si tratta solo di filologia. La filosofia invece, in particolare oggi, non ne ha bisogno, poiché vive nel presupposto fondamentale che tutto sia in perfetto ordine. È ben vero che la nostra analisi affronta questioni che vengono definite appartenenti alla filosofia, però il nostro modo di trattarle non è filosofico, i risultati non sono filosofia. Riguardo a questa delimitazione, Aristotele può offrirci un cenno: ϕιλοσοϕία e διαλεκτική e σοϕιστική.775 Manoscritto relativo al par. 3
Scopo: comprendere alcuni concetti fondamentali, prestare attenzione alla concettualità. Come va inteso tutto ciò? Deve derivarne quale posizione dobbiamo assumere per perseguire la formazione del concetto e per poter comprendere di volta in volta concretamente la concettualità. Indicazioni preliminari: 1. Dove ci si fa incontro il concetto in modo eccellente? 2. Che cosa significa questo, perché proprio qui è così determinato, perché, conformemente all’esperienza decisiva, la definizione? 3. Il radicamento del concettuale – in che cosa? 4. Ne deriva il passo successivo dell’analisi. Secondo la tradizione è «la logica» a trattare del concetto. «La logica» in quanto disciplina – un determinato modo di trattare un ambito delimitato di oggetti – è nata solo quando l’indagine logica era scomparsa. Platone e Aristotele non conoscono «la logica» – una propaggine della filosofia scolastica ellenistica. Ciò che qui è stato pedantemente raccolto è passato poi, come patrimonio consolidato, nella logica medioevale e moderna, tramandando al tempo stesso, come «la logica», un patrimonio consolidato di questioni e problemi. La logica – richiamandosi ad Aristotele – conosce qualcosa come la definizione: definitio fit per genus proximum et differentiam specificam. In questa regola si rispecchia il destino delle indagini aristoteliche. Definizioni: a) Homo animal rationale. b) Il cerchio è una linea curva, chiusa, tutti i punti della quale sono egualmente distanti da un punto posto al suo centro. c) L’orologio è un meccanismo composto di diversi ingranaggi il cui movimento ordinato segna le ore. Ad 1. Il concetto ci si fa incontro in modo eccellente nella definizione. Ciò che la logica scolastica afferma in proposito va mostrato sulla scorta di Kant. Ne risulta come la
tradizione sia relativamente viva e condizioni l’indagine, ma anche come, al tempo stesso, l’antico patrimonio, per così dire, continui a sussistere solo in posizione accessoria (cfr. Hegel, Scienza della logica, libro III, sezione III, capitolo 2). Dove viene trattata la definizione? Nella Dottrina universale del metodo.776 La definizione serve a 777 «incrementare la compiutezza logica» dei concetti. Concetto: repraesentatio per notas communes778 – par. 98.779 Materia e forma: semplice intuizione – intuizione e concetto.780 Determinatezza dell’intuizione – in quest’ultima un universale: in base all’a che, questo nell’avere a che fare. Determinatezza: «Che cosa». Il che cosa: a) ciò in cui vedo, esigo, il «che cosa»; b) che cosa significa «che cosa»; c) la sua origine. La definizione è la risposta corretta e vincolante alla domanda: «Che cos’è?». Evidente e storicamente rilevante: 1. Definizione: mezzo – metodico – della compiutezza logica: a) mezzo, b) «logico». 2. Regola fondamentale della definizione non per la definizione reale. Ad 2.781 Dove ci si fa incontro il concetto? Nel chiaro coglimento di ciò che è da conoscere e di ciò che è conosciuto. Questione della chiarezza? Perché è sufficiente proprio la definizione così determinata? Perché proprio genere e specie, che cosa c’entrano i predicabili, Kategoremata? Abbiamo una visione più perspicua se torniamo all’origine storica: ὁρισμός, un λόγος οὐσίας: 1. rivolgersi a un ente nel suo esserci; 2. l’ente in se stesso; 3. ὁρισμός, poiché l’ente stesso è caratterizzato nel πέρας. Quindi, ad 3:782 radicamento: 1. nel rivolgersi a, nell’esprimere, nell’esprimersi; 2. avere a che fare nell’ente, essere con l’ente nel carattere del «Ci» – esserci. Aristotele non ha alcuna parola per «concetto».
Λόγος = «concetto»: come si discorre di qualcosa, come viene mostrato e discusso, com’è divenuto visibile in quanto questo e quest’altro, quindi «ci» è, disponibile, scoperto. È necessario acquisire una familiarità con l’ambito in cui il concetto si radica. Duplice preparazione: 1. l’avere a che fare con l’ente, l’«essere nel mondo»: ζωὴ πρακτική, ψυχή, ἀλήθεια – essere ed essere-vero, esserci; 2. parlare, rivolgersi a, discutere, esprimersi: λόγος, κατηγορίαι; 3. contesto: molteplicità dell’ὄν – ricondurre all’esserci! Questa preparazione indirizzata a un orientamento espositivo. Tema: essere in quanto esserci, «Ci», essere origine dell’essere – né logica né ontologia, ermeneutica? Individuare concretamente: che cosa significa ente nel suo essere; come ciò viene espresso, in quale concettualità. Ποίησις, κίνησις, δύναμις, ἐνέργεια: essere-prodotto. Εἶδος, οὐσία: esserci. Cfr. pp. 361sgg. Manoscritto relativo al par. 4 Alcuni concetti aristotelici fondamentali nella loro concettualità: perché non semplicemente «concetti fondamentali»? Perché l’aggiunta «nella loro concettualità»? Concetto: notio, intentio, conceptus, species. In termini grossolani, il concetto dice che cos’è una cosa, che cosa si intende per essa, quale opinione si ha su qualcosa. Per esempio il concetto di κίνησις, «movimento», μεταβολή, «mutamento»: se prestiamo ascolto al testo potremo conoscere in che modo Aristotele concepisca il movimento, che cosa sia il movimento dal suo punto di vista. Tuttavia, non vogliamo cercare di sapere da Aristotele quale sia la sua concezione di determinati oggetti, per delimitarla rispetto alle concezioni successive e moderne, e acquisire così una conoscenza della filosofia aristotelica. Concettualità:
È nostra intenzione comprendere questi concetti nella loro concettualità, il che significa: 1. Ci chiediamo: «in quanto che cosa» la cosa indicata nel concetto è stata originariamente esperita? A che tipo di entemosso si riferisce Aristotele quando cerca di cogliere in esso il fenomeno del movimento? Quale senso dell’essere è inteso nell’esperienza di un ente-mosso? Quale ente offre il suo aspetto? 2. Ci chiediamo: che cosa percepisce Aristotele nel fenomeno del movimento così come egli lo presenta? A che scopo si rivolge a esso? Cerca forse di spiegarlo in base a concetti consolidati già disponibili – passaggio dal non essere all’essere –, oppure ricava ciò che intende per movimento dal fenomeno presentato stesso, dalla cosa originariamente compresa in quanto tale? Lo libera per l’appello? [3. Quale appello viene rivolto alla determinazione di ciò che è stato così assicurato? Ovvero: quale appello, comunque inteso, deve soddisfare la comprensibilità? L’appello di comprensibilità è corrispondentemente adeguato alla cosa e all’avere a che fare con essa, oppure le viene rivolto come un alcunché di estraneo e immaginario? (Definizione matematica di concetti etici)].783 3. Che tipo di comprensibilità e determinatezza deve soddisfare l’esplicazione del fenomeno? La comprensibilità perseguita è conforme e consustanziale al carattere oggettivo della cosa e al genuino avere a che fare (utilizzo!) con essa? Oppure a far da guida è un’idea chimerica di comprensibilità e determinatezza? In quale contesto interpretativo si discute di ciò che si vede e a cui ci si rivolge? (Definizione matematica di concetti etici, definizione scientifico-naturalistica di concetti storici, definizione filosofica di concetti teologici). Questi tre elementi non esauriscono, però indicano, ciò che si intende con concettualità: 1. esperienza fondamentale obiettiva; 2. l’appello primario (a che scopo) che precede;
3. carattere della comprensibilità dominante, tendenza e determinatezza. Concetti fondamentali nella loro concettualità significa: in base a questi tre elementi, trarre informazioni dai relativi concetti. Solo l’applicazione può mostrare se non sia proprio e solamente in questo modo che, di fatto, anche le cose intese vengono comprese nel giusto senso. La concettualità viene espressamente accentuata poiché ne va di essa, ed è a essa che va rivolta la vostra attenzione. E questo non perché ne prendiate conoscenza e siate informati, oltre che del contenuto concettuale, anche della sua concettualità, ma perché possiate, per così dire, sentire in che senso in ciò che – secondo alcuni elementi – è stato grossolanamente indicato come concettualità, e che va concretamente individuato, non è avviata nient’altro che l’attuazione dell’indagine scientifica nella sua sostanza. Ciò significa però che siete voi stessi a dover fare il lavoro decisivo: divenire attenti, di volta in volta nel settore e nel luogo in cui per libera scelta vi siete collocati in una scienza, a come stanno le cose riguardo alla relativa concettualità. La condizione preliminare per il «poter divenire attenti» è che ci si collochi al centro della questione. Il che peraltro non significa che voi adesso, per un intero semestre, dobbiate speculare sul concetto, dicendo a voi stessi: sì, prima devo sapere che cos’è la filologia, poi posso iniziare. Chi lo facesse non giungerebbe mai all’inizio, poiché non arriverebbe mai a sapere che cos’è la filologia. E per carità, che nessuno pensi di adottare e applicare concetti aristotelici! Non si tratta di ridire le stesse cose, ma di fare altrettanto! Io stesso devo solo adoperarmi per offrire ad Aristotele la giusta occasione per illustrarvi la sua questione. Concetti aristotelici fondamentali nella loro concettualità: κίνησις, δύναμις, ἐνέργεια, ἀλήθεια, λόγος, ecc. – dobbiamo interrogarli in base ai tre elementi suddetti, il che richiede un duplice accorgimento: 1. dobbiamo comprendere quale sia la collocazione di quegli elementi della concettualità, ovvero dove la concettualità sia saldamente fondata, quindi «che cosa» e
«come» essa sia in quanto tale; 2. dobbiamo comprendere i concetti aristotelici nella loro – cioè aristotelica, greca – concettualità, prendendo in considerazione la fondatezza greca della concettualità. Manoscritto relativo al par. 5 Per tornare alla concettualità greca e alla sua fondatezza siamo partiti da qualcosa di ovvio, da ciò in cui, oggi come da lungo tempo, il concetto diviene esplicito: la definizione. Nella definizione il concetto è concetto in senso proprio. Torniamo quindi a domandare: che cosa intende Aristotele per definizione? Che cosa significa per lui? Che cosa ne possiamo ricavare per la comprensione preliminare della concettualità? Secondo fine: dimostrare il cambiamento subìto da una forma così innocua come la definizione, il cambiamento in quanto decadimento a regola di tecnica mentale di una possibilità e modalità fondamentale del parlare autentico con il mondo. Lasciamo ad Aristotele stesso la risposta alle due domande: «dov’è saldamente fondata la concettualità?» e «come va definita la concettualità greca?». Ὁρισμός in quanto λόγος: τὸ τί ἦν εἶναι οὗ ὁ λόγος ὁρισμός, καὶ τοῦτο οὐσία λέγεται ἑκάστου.784 – τὸ τί ἦν εἶναι οὐσία, τούτου δὲ λόγος ὁ ὁρισμός.785 – ὁ ὁρισμός οὐσίας τις γνωρισμός.786 Ὁρισμός: λόγος οὐσίας, de-limitare l’ente nel suo essere, mostrare il suo essere-limitato, la sua finitezza in quanto tale. Esser-ci finito = «essente pro-dotto da...» (circa il rapporto οὐσία-λόγος cfr. questo corso alle pp. 237 sgg.: interpretazione del De partibus animalium A 1). Ὁρισμός in quanto λόγος οὐσίας: I. che cos’è il λόγος, II. che cos’è l’οὐσία, III. quando il λόγος è ὁρισμός, IV. che aspetto ha la fondatezza? Ovvero: dove avviene?
In che modo? Il fenomeno della cooriginarietà (solo in termini negativi!). Cfr. sotto. Manoscritto relativo al par. 6 I. Λόγος, λέγειν: A. a) Parlare di qualcosa nel modo dell’ἀποϕαίνεσθαι (δηλοῦν), averci a che fare (in-essere) in modo tale che ciò di cui si parla si mostri nel parlare (cfr. c): mostrare nel «Ci» qualcosa per se stessi, chiarire nel contempo se stessi, se stessi in quanto in-essere! b) Parlare (di qualcosa) ad altri (ovvero a me stesso – al «si») in modo tale che nel «parlare di...» si mostri il «ciò di cui» di coloro ai quali si parla. c) «Parlare di...», «parlare a...», anche nel senso dell’esprimere se stessi, o dell’esprimer-«si» in genere (parlare da me stesso, dal «si», dall’in-essere) (su ciò cfr. la dimensione pubblica: il venire-vissuti dal linguaggio in quanto «come» fondamentale, essere attraverso di esso, cfr. ψεῦδος, semestre invernale 1923/1924).787 B. Al tempo stesso sempre ciò che così è stato espresso in quanto tale, la comprensibilità divenuta pubblica, a disposizione di tutti, appropriabile, cancellabile: τὰ δὲ κείμενα [ὀνόματα] κοινὰ πᾶσιν,788 «le parole stabilite [disponibili, una volta pronunciate] appartengono a tutti» – sono asservite al «si» – comprensibilità. Il λόγος così inteso è la caratteristica fondamentale dell’uomo, proprio in riferimento al modo del suo essere. Uomo: ζῷον, «vivente» (ζῷον indifferente, prima della moderna oggettività biologica e della psicologia rientrante nelle scienze dello spirito o nelle scienze della natura). Ζωή, «vita»: modo dell’essere in quanto in-essere, in-essere nel senso del parlare mostrante-interpretante. Ἔχον, ἔχειν nel senso di: τὸ ἄγειν κατὰ τὴν αὑτοῦ ϕύσιν ἢ κατὰ τὴν αὑτοῦ ὁρμήν,789 atteggiarsi, comportarsi nella modalità dell’«esercitare», del «compiere», dedicarsi
completamente a ciò «in base al proprio più intimo impulso». L’esserci, in quanto uomo, è a partire da se stesso «parlare» in senso particolare, compiuto! Manoscritto relativo al par. 7 a II. Ὁρισμός in quanto λόγος οὐσίας: Lo ὁρισμός è λόγος οὐσίας, «rivolgersi all’ente mostrandolo nel come del suo essere». Ci si rivolge all’ente, in esso stesso, mirando al suo essere. Traducendo οὐσία con «ente nel come del suo essere autentico» si assegna alla parola un significato determinato – benché in verità determinato in modo molteplice. Se si riuscisse a individuare un orientamento fondato nella polisemia della parola οὐσία, dovrebbe essere possibile chiarire in modo corretto anche il λόγος οὐσίας. Inoltre, tale parola rappresenta il titolo per l’indagine fondamentale di Aristotele, meglio: per l’indagine greca come tale – il concetto fondamentale per antonomasia, il terminus. La questione del τί τὸ ὄν è la questione del τίς ἡ οὐσία.790 Solo così la questione dell’essere trova la sua attuazione. Il fatto che proprio una parola fondamentale come οὐσία (e altre analoghe) sia contraddistinta da un’ambiguità non può andare a detrimento della sua idoneità in quanto titolo dell’indagine. Al contrario. Tutto dipende dal fatto di comprendere la polisemia in quanto tale. L’ambiguità delle parole – e delle parole fondamentali – può essere dovuta a confusione: il fatto che esse vengano utilizzate indiscriminatamente per cose diverse, senza alcuna competenza e familiarità con l’uso semantico. Essa può quindi dominare proprio dove non ce ne sarebbe bisogno, dove cioè l’ambiguità è già regolata in base alle cose, ma, in mancanza di una familiarità con le cose stesse, ha perduto la regolatezza. Questa ambiguità deriva quindi dalla confusione prodotta da un uso sregolato e privo di familiarità con le cose. L’ambiguità può nascere e svilupparsi da un’incapacità
dominante di appropriarsi delle cose e di interpretarle, ovvero da una specifica insensibilità per la differenza. L’ambiguità può essere però anche una polisemia, nel senso che essa nasce proprio dall’avere a che fare con le cose, che non riesce a padroneggiarle. Le oscillazioni del significare scaturiscono dalla corretta comprensione delle cose. Se le oscillazioni semantiche sono determinate e mantenute, di volta in volta nella loro origine, in base alle cose esperite e interpretate in questo e quel modo, l’ambiguità è oggettivamente orientata e, in quanto tale, fissata. È una pluralità. E se questa pluralità viene mantenuta come tale, anziché essere camuffata e appiattita in un’artificiosa univocità in base a tendenze sistematiche estranee alle cose, in quanto polisemia possiede la giusta idoneità a comunicare una comprensione della concretezza delle cose. In tal caso la polisemia è l’espressione adeguata delle cose. Tale adeguatezza cresce quanto più originaria è la comprensione del motivo della pluralità e della sua necessità. Aristotele possedeva un’esplicita consapevolezza positiva della polisemia proprio nel campo dei concetti fondamentali. Metafisica Δ ne tratta in quanto πολλαχῶς λεγόμενα (cfr. il titolo tramandato del libro), non per eliminarli, ma per lasciarli sussistere e farli vedere in quanto tali. Forse proprio la concettualità può guadagnarne in perspicuità. L’istinto per la concretezza di Aristotele lo trattiene in questo atteggiamento. Sull’origine e la necessità della pluralità egli non dice nulla: la si scopre solo in base alla comprensione dei λεγόμενα in quanto tali, cioè in quanto λόγος – con la conseguenza che la pluralità determinata si fonda proprio nel «parlare»! Per di più ciò avviene proprio ora, in fase di preparazione. Probabilmente quindi l’ambiguità dell’οὐσία non è l’ambiguità della confusione e dell’incompetenza. Ma se è così, allora il nostro unico compito è quello di procurarci la giusta base per l’orientamento. In questo modo, trattandosi qui del concetto fondamentale per antonomasia, non si
acquista solo la possibilità di una comprensione più precisa dello ὁρισμός inteso come il λόγος riferito all’οὐσία, ma si prefigura anche il terreno per gli altri concetti fondamentali. Nel nostro caso la polisemia del termine οὐσία non viene trattata come fine a se stessa, ma sempre solo con l’intenzione di pervenire a una corretta assimilazione della questione, cioè alla comprensione di ciò a cui, nello ὁρισμός in quanto λόγος, ci si rivolge. Abbiamo tradotto οὐσία con la formula: «Ente nel come del suo essere (autentico)». L’espressione essere dell’ente, ovvero esseità dell’ente, significa che sull’essere stesso c’è qualcosa da dire, il fatto che ha «elementi», e così via. In quanto parola fondamentale per l’indagine, οὐσία è un termine. Una parola è un termine quando funge da espressione il cui uso e significato nasce da e per l’indagine scientifica, sviluppandosi al suo interno. Una parola può essere appositamente e direttamente coniata in quanto termine simultaneamente alla scoperta e alla concezione di una questione da intendersi in questo e quel modo. Tuttavia, in base a un’indagine scientifica della questione, si può anche attribuire un significato specifico a una parola già di uso corrente, in modo tale che il significato aggiuntivo stia in un qualche rapporto di derivazione con il significato consueto, sì che un elemento semantico, che nel significato corrente viene implicitamente cointeso, acquisti nel significato terminologico un ruolo tematico – che diventa oggetto di interrogazione specifica quando la parola viene pronunciata come termine. Manoscritto relativo al par. 7 b Il significato corrente: è quello dell’uso corrente della parola nel linguaggio pre- ed extra-scientifico. Il parlare naturale, corrente in base a ciò che è tramandato, il modo dell’essere naturale, corrente di un vivente, dell’uomo nel
suo mondo. Il significato corrente come filo conduttore. Attenzione! Può essere scomparso. Solo se è possibile una verifica completa di tale indizio. Altrimenti si scade facilmente nel dilettantismo! Meticolosità apparente. Proprio in questo caso bisogna rendere giustizia al destino e alla storicità di ogni lingua. «Parlare di...», esprimersi: Naturale: cioè un modo di parlare che è prevalente, che domina innanzitutto e per lo più, quindi non rientra in un’interrogazione autonoma e compiutamente formata, e anche qualora questa fosse presente, sarebbe comunque quella naturale a esserci già da prima e a svolgere il ruolo di guida. L’essere corrente: ciascuno parla così con gli altri e ci si comprende senz’altro. Il «senz’altro» e il «si». Il modo di muoversi in una comprensibilità media e a disposizione di tutti. Nell’essere corrente la parola si logora: consumata, senza suono. La parola οὐσία in quanto termine deriva da un uso verbale corrente così inteso.791 Più ancora: in Aristotele (e successivamente) il significato terminologico e quello corrente stanno saldamente l’uno accanto all’altro. Tenere ben presente questo fatto! Evitare però ogni tendenza a deduzioni fuorvianti! Limitarsi a indicare il senso dell’essere che era costantemente esperito in modo implicito dai greci, ecc. Il significato corrente: «patrimonio», «averi», «casa», «podere» (cfr. l’ampio utilizzo nella Politica e nell’Etica Nicomachea; Bonitz, Index: [fr. 401, 1545 a 8 sgg.]792). A un ente determinato ci si rivolge qui intendendolo in quanto essere in senso autentico, l’ente autentico: incontrato in ciò che è stato nominato, che è un ente nel cui caso, con esso stesso, viene nel contempo esperito il suo essere. Dell’ente viene quindi accentuato il carattere ontologico. Con ciò non si intende soltanto ciò che, in genere, è lì presente, bensì qualcosa che sta lì in modo tale da essere disponibile e, in
quanto disponibile, è attualmente presente, utilizzabile, e nella sua utilizzabilità è il «Ci» – tutto ciò in quanto avente «carattere di “Ci”»: πράγματα, χρήματα,793 «ciò con cui si ha a che fare tutti i giorni», «ciò che è in uso». L’essere di questo ente significa: essere un «Ci». Dunque il termine οὐσία non è anzitutto esplicito-indifferente, poiché già in origine si dà un’interpretazione dell’esperienza dell’essere in quanto esser-«Ci». Mentre il significato corrente pone l’accento sull’ente – benché nel come del «Ci» autentico –, il significato terminologico coglie (nel caso di Aristotele) il come dell’ente, l’essere, in quanto «Ci», nel senso che l’ente di tale essere viene cointeso e, talora, singolarmente inteso. (Che cosa significa «cogliere»?). Dunque con il termine non si ha l’essere in un qualche significato semantico-sovrastorico [?], ma un’interpretazione determinata. Ne consegue: 1. orientamento nella polisemia (τίς ἡ οὐσία), 2. indicazione per la comprensione dell’essere in quanto esser-ci. Corrente: «Ci» nell’avere a che fare e per l’avere a che fare – la specifica esperienza del «Ci». Manoscritto relativo al par. 7 c Abbiamo acquisito così un orientamento di fondo nella polisemia del termine οὐσία. Ora però si tratta di esporre solo il significato terminologico nella sua pluralità. 1. Oὐσία significa essere (dell’ente), esseità, esser-ci; 2. οὐσία significa ente, ente che «ci» è. All’interno di queste due possibilità ci sono ancora, di volta in volta, significati differenti. Riguardo al punto 1. ciò vuol dire: caratteri differenti dell’essere, caratteri che costituiscono il «ci» come tale, ciascuno indicato di volta in volta in quanto οὐσία. Riguardo al punto 2.: enti differenti, molteplicità di enti che soddisfa i caratteri dell’essere, e che quindi va chiamata ente. Se vi fosse un’indagine avente per tema l’essere dell’ente,
l’οὐσία, ci sarebbe da aspettarsi di doversi occupare, in essa, anche in un certo modo dell’ente e di enti differenti. Infatti, probabilmente solo prendendo in considerazione l’ente stesso si può scoprire il come del suo essere. Non è quindi un caso se in un’indagine così intesa compaiono le due oscillazioni principali del significato di οὐσία. Alla fine, ogni concetto ontologico genuino implica necessariamente questa duplice oscillazione semantica. Conformemente all’ordine d’incontro e di accesso, apprestiamoci a discutere anzitutto il secondo significato di οὐσία. Ad 2. δοκεῖ δ᾽ ἡ οὐσία ὑπάρχειν ϕανερώτατα μὲν τοῖς σώμασιν,794 la ὁμολογούμεναι οὐσίαι (!).795 «Sembra che l’essere si mostri nel modo più evidente negli enti che chiamiamo σώματα»: ζῷα, ϕυτά, τὰ ϕυσικά σώματα, οὐρανός, ἄστρα, σελήνη, ἥλιος – «i corpi fisici». Tuttavia, per i greci la corporeità non significa primariamente matericità, materialità, bensì uno specifico, invadente «carattere di “Ci”». Perciò in seguito: τὸ σὸν σῶμα = σύ, «tu» lì presente, con cui ho a che fare in questo momento; σῶμα: lo «schiavo», il «prigioniero», qualcosa che è direttamente a mia (o di qualcun altro) disposizione, che è lì davanti. Gli enti che abbiamo nominato sono un ente di cui ciascuno, rivolgendosi a un altro, dice concordemente che «è», di cui si dice senz’altro che «è», cioè soddisfa quel senso dell’essere che guida il rivolgersi all’ente in quanto essere. Il «si... senz’altro» costituisce una determinata comprensibilità di ciò che si intende con essere! Qui si tratta però di un ente che «ci» è nel mondo e in base al mondo innanzitutto e per lo più, qualcosa che ci si fa incontro nella quotidianità, ciò in cui la vita di tutti i giorni si muove e si mantiene costantemente. Oὐσίαι al plurale! Un’indagine che si interroga sull’essere dell’ente, se le importa di muoversi su un terreno solido e di non parlare a vanvera, si atterrà innanzitutto a un ente siffatto: ὁμολογοῦνται δ᾽ οὐσίαι εἶναι τῶν αἰσθητῶν τινές, ὥστ᾿ ἐν ταύταις ζητητέον πρῶτον.796 Apprensione lungo la via, il senso di una molteplicità di
concetti contiene... [?].797 Ad 1. Quale aspetto abbia un’indagine così intesa avremo modo di vederlo concretamente in seguito seguendone i singoli passi. Per ora ci limitiamo a domandare, in termini più schematici, che cosa in essa venga in luce in fatto di caratteri ontologici, ci interroghiamo cioè sulla polisemia del termine οὐσία nella prima delle sue direzioni semantiche: l’esseità. Domandiamo più esattamente: i caratteri ontologici sono «caratteri del “Ci”», e precisamente tali da provenire in qualche modo da quel senso del «Ci» che abbiamo incontrato nel significato corrente di οὐσία? Ricaviamo l’orientamento provvisorio in merito ai caratteri ontologici sulla scorta di Metafisica Δ 8. All’inizio del capitolo vengono addotti significativamente gli enti nominati in precedenza, e precisamente in modo tale da poterne mettere nel contempo in evidenza un carattere ontologico. Essi sono ὑποκείμενα,798 enti già esistenti prima di ogni altro ente. Il loro essere significa essere lì presenti, ed essi sono ciò che si incontra e a cui ci si rivolge già sempre in quanto qualcosa che è presente sottomano, nella misura in cui debbono essere discussi in modo più preciso. 1. Emerge così il «carattere di “Ci”» della semplice presenza, della presenza attuale. Ora però non nel senso accentuato di ciò che è lì presente nel modo in assoluto più immediato e invadente – nel senso della «casa» –, bensì semplice presenza di ciò su cui l’essere presente sta, fondo e terreno, terra, animali, piante, montagne, cielo, Terra. Tutto ciò ha il carattere dell’essere più manifesto, della semplice presenza (nella quotidianità). 2. Da un altro punto di vista viene chiamato carattere ontologico ciò che nell’ente essente nel modo menzionato «ci» è «con», è «lì con-presente», in modo tale che proprio questa semplice presenza è «cagione» del, costituisce τὸ εἶναι, «l’essere» dell’ente in questione.799 L’οὐσία intesa in questo senso è ἡ ψυχή.800 L’«anima» è ciò che costituisce la specifica mera presenza di un ente in quanto vivente, l’esseità dell’«essere in un mondo». Di nuovo un «carattere
di “Ci”» di genere particolare (confronta sotto 801 l’interpretazione della ζωή). 3. Viene inoltre chiamato οὐσία ciò che, in un «ente che “ci” è», è «lì con-presente» in quanto parte co-costitutiva, elemento, in modo tale che la sua sottrazione, il suo «non esser-ci», toglie per così dire l’ente in questione dal suo «Ci», cioè dal suo essere: ad esempio, la sottrazione della superficie da un corpo fa sì che esso non «ci» sia più – linea, non superficie.802 Questi elementi sono ὁρίζοντα,803 «delimitano», «costituiscono il limite» e «designano» l’ente in quanto «questo qui», lo «de-marcano» come un «questo qui».804 Alcuni (i platonici) dicono addirittura che questa funzione del «carattere di “Ci”» ce l’avrebbe «soprattutto» e per tutto il «numero» (limite).805 4. Funge inoltre da οὐσία il τί ἦν εἶναι οὗ ὁ λόγος ὁρισμός [...] οὐσία [...] ἑκάστου,806 ciò «che qualcosa è nel suo “ciò che era già”», ovvero quel carattere ontologico dell’ente che lo determina nella sua provenienza, nel suo «essere pervenuto da...» nel «Ci». L’ente, il cui essere costituisce il τί ἦν εἶναι, viene chiamato ἕκαστον, ciò che «è di volta in volta», il che significa che il τί ἦν εἶναι costituisce l’«essere di volta in volta» dell’ente. 5. Aristotele riassume i caratteri ontologici menzionati in due accezioni dell’esseità, che definisce 1. la «semplice presenza ultima»,807 2. il «che cosa» dell’esser-ci, nel senso dell’esser-ci al proprio posto, «per se stesso».808 Il «carattere di “Ci”» di un essere così concepito viene definito εἶδος, «aspetto», «avere questo e quell’aspetto».809 I cinque caratteri ontologici posti in evidenza: ὑποκείμενον, αἴτιον ἐνυπάρχον, μόριον ἐνυπάρχον ὁρίζον, τὸ τί ἦν εἶναι (τὸ καθ᾿ ἕκαστον), εἶδος, significano in modo più o meno perspicuo un «Ci» dell’ente. Per comprenderli in quanto «caratteri del “Ci”» e per cogliere, quindi, il significato del termine οὐσία nella sua motivata polisemia, sarà necessaria una comprensione del «Ci» che penetri maggiormente alla radice. A sua volta, la chiarificazione del fenomeno fondamentale del «Ci» può riuscire solo se lo
prendiamo in esame nel suo «Ci». Il significato corrente di οὐσία ha fatto da filo conduttore: οὐσία in quanto ente che «ci» è in senso eccellente, ed è essente non in un’indifferente semplice presenza, ma nel «Ci» dell’insistente «innanzitutto» della quotidianità, della quotidianità della vita – quel «Ci» nel e in base al quale la vita viene «vivacchiata». La chiarificazione del «Ci» viene ricondotta così a un’esplicazione della vita in quanto inessere (osservazione sul termine «soggettivo»!). Benché così in effetti l’analisi dimostrativa ne risulti anticipata, si è già fornita una prefigurazione del carattere fondamentale del senso del «Ci», quindi dell’essere, sulla scorta dei caratteri elencati. Manoscritto relativo al par. 8 Su Metafisica Ζ-Θ – considerazioni generali: «Dai λόγοι stessi [analisi,810 ovvero λόγος in quanto fenomeno] risulta che qualcos’altro è οὐσία – ἄλλαι οὐσίαι [una pluralità!] –, τὸ τί ἦν εἶναι e ὑποκείμενον».811 La priorità metodica (soltanto metodica) fondamentale dell’οὐσία αἰσθητή.812 Σύνολον: ὑστέρα riguardo all’ordine dell’originarietà categoriale, δηλή,813 «chiari», «trasparenti», il che significa: riguardo a ciò che abbiamo di volta in volta qui davanti non si può, dal punto di vista ontologico (greco), stabilire null’altro. I princìpi metodici in quanto tali (cfr. Jaeger sulle massime dell’indagine).814 Interpretazione relativa al «si»: ciò che si incontra, ciò con cui si ha a che fare: «Ciò che è familiare mediamente, innanzitutto e per lo più, è spesso impreciso, indistinto, confuso, privo di caratteristiche rilevanti, e ha solo poco o nulla dell’esserci autentico».815 Il «carattere di “Ci”», la presenzialità: cancellata, svanita. L’«in genere», il «per lo più», l’«innanzitutto», non «ci» sono autenticamente. Ciò che «è di volta in volta»: il medesimo nell’«essere di volta in volta», τὰ καθ᾿ ἕκαστα, nei caratteri dell’«essere di volta in
volta», nel carattere del «lontano», «distante». A che scopo dapprima arrivare lì esplicitamente – con che passo? – e vedere? Costituisce l’essere dell’ente. L’universale e il particolare sono infatti del tutto differenti. Τόδε τι: il «che cosa», l’essere-prodotto nel suo «Ci». Nondimeno, iniziare da tutto questo, in modo che, in base a una scienza autenticamente ermeneutica e ontologica, possa essere reso comprensibile – proprio a noi – proprio questo «Ci». Appunto per questo, prendere le mosse da ciò che ci è familiare, da questo ente che «ci» è, e che si mostra così, in quanto essente-ci, e studiare a fondo – in esso stesso – il «carattere di “Ci”». L’interpretazione dell’ente viene quindi riportata all’essere nell’ambito dell’«innanzitutto», in modo esplicito, sicché ne deriva un’indagine visiva radicale dell’essere, mentre Platone, pur con uno sguardo (di traverso) gettato sull’ente che «ci» è, si irretisce fantasiosamente nel λόγος e di conseguenza si infila – alla greca – in un vicolo cieco. Cfr. Fisica A 1. Già chiaro riguardo a ciò che è fondamentale: τὰ συγκεχυμένα,816 τὰ καθόλου,817 l’«in generale», πατέρες.818 Il più vicino, ciò che è noto, è il medio e, quindi, il generale. Al suo interno tutto viene visto, a tutto ci si rivolge – tutto viene interpretato in base a esso. Questa introduzione alla Fisica, cioè all’opera ontologica di Aristotele, è programmatica (un termine migliore e più incisivo!). Proprio ciò che si è detto vale per τὰ περὶ τὰς ἀρχάς.819 Cfr. Topici Ζ 4.820 Concetti fondamentali nella loro concettualità, per esempio οὐσία. Che cosa significa, in sostanza, il ritorno al significato corrente, all’espressione dell’ente – e al rivolgersi a esso – in quanto essere nella banalità della vita quotidiana? La quotidianità dell’essere della vita, dell’uomo, la vita umana in quanto modo dell’essere. Il parlare quindi in quanto fenomeno fondamentale in senso particolare. Concettualità, dunque, in quanto «essere già interpretato» e possibilità di questo essere, ovvero dell’essere nel senso del «Ci», del «Ci» colto di volta in volta, essere-scoperto.
Illustrare l’esplicazione aristotelica dell’essere così inteso, in modo tale che la comprensione del λέγειν e del λόγος diventi più precisa e concreta. A tale scopo bisogna prestare attenzione al modo in cui i caratteri ontologici già menzionati – ψυχή, πέρας, ἀρχή, τέλος – partecipano alla caratterizzazione ontologica dell’ente (in quanto vita). Manoscritto relativo al par. 9 L’essere dell’uomo: Ζωή, «carattere di “Ci”» del suo essere – ζῷον πολιτικόν 821 –, ζωὴ πρακτικὴ (μετὰ λόγου),822 possibilità, πέρας, ἀγαθά, ἀνθρώπινον ἀγαθόν.823 υχῆς ἐνέργεια:824 ψυχή: κρίνειν, κινεῖν825 (ὄρεξις, ποίησις), ἀκούειν, ἑρμηνεύειν (nel mondo, οὐρανός, giorno e notte) – ἀληθεύειν: modi dell’esserci nell’essere di volta in volta scoperto, θεωρεῖν: una possibilità, διαγωγή. Cura:826 angoscia per l’ἀπουσία, μή ποτε στῇ!827 Spaesatezza ed essere-scoperto. Angoscia per il dileguarsi del «Ci» autentico. «Ci»: essere attualmente presente, «non cadere nella dimenticanza»,828 quindi εὐδαιμονία, il «come» del «Ci». Ovunque λόγος – κατηγορία. Ζωὴ πρακτική – due indagini. Prestare attenzione a: 1. Ψυχῆς ἐνέργεια (μετὰ λόγου): τέλος, ἀγαθόν, τέλειον, πέρας, εὐδαιμονία, ἀνθρώπινον ἀγαθόν: definire l’essere dell’uomo, il bene, ma non come una chimera! 2. Ψυχή: λόγον ἔχον – ἄλογον, e così via (mostrare due volte!), κρίνειν, κινεῖν, ἀκούειν, ἑρμηνεύειν (ricondurre all’insieme dei fenomeni, essere concreto: οὐρανός, giorno e notte) – ἀληθεύειν, διαγωγή, εὐδαιμονία! Πρακτική: non «pratico» contrapposto a «teoretico», bensì prendersi cura: ἀγαθόν, «Ci» – «come» dell’esserci. Decisivo il «parlare con...». Aἴσθησις e, quindi, νοεῖν, già decisivi per ζῷα. Passaggio dalla Politica (vi compare una determinazione
fondamentale: πολιτικόν) all’Etica Nicomachea A 6: λόγον ἔχον, πολιτικόν – αἴσθησιν ἀγαθοῦ ἔχον. La medietà e la quotidianità sono il «si», l’uno con l’altro. ᾽Αγαθόν: dov’è visibile? Ἔργον, τέχνη, προαίρεσις, inizio [?] che costituisce la fine. Ἔργον ἀνθρώπου? Terreno, appello, predisponibilità, esperienza fondamentale per questa interpretazione. L’essere-scoperto dell’ἔργον: ἀρετή, τέλος, e così via, ἄριστον. Tenere sempre fermo il πολιτικόν! Manoscritto relativo al par. 23 La fondatezza della concettualità Nelle considerazioni precedenti è stato esplicato l’esserci dell’uomo in quanto «essere nel mondo», in modo tale che il λόγος è emerso in quanto carattere fondamentale di questo essere, determinato in quanto «essere-in»: il «come» del «Ci» dell’essere-scoperto. Con quale intento abbiamo concentrato la nostra analisi sull’esserci? Su che cosa ci siamo interrogati? Sulla fondatezza della concettualità. E perché? Per comprendere la concettualità. Ma perché proprio essa? Perché solo in essa un concetto può essere compreso in modo autentico. «In essa» significa che con ciò che costituisce la concettualità ci è dato anche il filo conduttore per comprendere i concetti in quanto tali. Bisognava raggiungere la concettualità? Essa doveva essere cercata là dove ha il suo essere, dov’è a casa, da dove nasce e si sviluppa, dove unicamente può essere se vuole essere ciò che può essere. Evidenziando la fondatezza della concettualità, e precisamente di quella greca, la questione di un’interpretazione dei concetti fondamentali risulta orientata. Abbiamo caratterizzato la concettualità in base a tre elementi: 1. l’esperienza fondamentale obiettiva, 2. l’appello primario, 3. la comprensibilità dominante. La questione
relativa alla fondatezza della concettualità si concentra dunque nella domanda: dove e come i caratteri or ora nominati hanno il loro essere, in modo tale da essere possibili in questo essere, da svilupparsi da esso, sì che anch’essi, in quanto essenti-ci, hanno lì la loro casa, vi appartengono, costituendo cioè essi stessi una possibilità di tale ente? L’intento di dare una risposta alla domanda circa la fondatezza della concettualità deve mostrare un ente del tipo di cui si è parlato. Si è spiegato l’esserci. Questa spiegazione è stata impostata in modo tale che, nel suo svolgimento, sono stati trattati (nel senso della scienza greca) e portati a comprensione alcuni concetti fondamentali: λόγος, ζωή, ψυχή, τέλος, ἀγαθόν, ἀρετή, πάθος, ἡδονή, δόξα, ecc. Cfr. l’interpretazione in quanto ripetuta: riferita dunque anzitutto a ciò che non c’è – interpretazione autentica. 1. L’ente così caratterizzato è, nel suo essere, la possibilità, il terreno della concettualità? 2. Come l’esserci è questa possibilità? La risposta in due stazioni: a), b). Ad 1. Dimostrazione del fatto che la concettualità, secondo i tre elementi, è implicita nell’esserci in quanto possibilità. «Possibilità», quindi, nel senso del carattere ontologico dell’ente in cui essa è possibile – non una possibilità vuota che potrebbe, per così dire, essere prospettata dall’esterno all’esserci, poiché l’esserci stesso dev’essere, in un certo senso, la concettualità. Dove peraltro non è necessario che essa vi abbia già fatto la sua comparsa. a) L’esperienza fondamentale obiettiva implica: un ente che può mostrarsi, e un ente in quanto aprente dirigersi verso di esso. Esserci è «essere nel mondo»: mondo che «ci» è, scoperto nel suo «avere questo e quell’aspetto». L’«essere-in» stesso, che «ci» è in un certo possibile modo: situatività. Essere-in in quanto avere a che fare, prendersi cura – la possibilità della permanenza: «permanere presso...», «contemplare», «avere...», astenendosi dal realizzare e organizzare qualcosa – come diviene evidente in
senso proprio in quanto possibilità solo in base al punto 2. b) L’appello primario: ciò in vista di cui ci si rivolge all’ente. In ultima analisi: in vista del suo essere. In modo inesplicito è primario un determinato senso dell’essere: οὐσία nel significato corrente. «Ci»: presente ed essereprodotto. Tutte le asserzioni sull’ente, che dicono come e in che misura esso «è», nell’«essere» che è detto hanno, tra gli altri, un significato fondamentale: pronto. c) La comprensibilità dominante: l’essere l’uno con l’altro è completamente dominato dagli ἔνδοξα, in relazione ai quali tutto viene interpretato, e in base ai quali – unitamente agli altri elementi – possono venire formulate determinate pretese di comprensibilità (idea di evidenza e di validità, «rigore»): notorietà, all’interno della quale si comprende e si conosce, il tipo e la modalità di formazione scolastica, la pretesa alla notorietà. Ad 2. Il come dell’essere della possibilità si determina in base al carattere ontologico dell’esserci. È questo l’aspetto che la contraddistingue: questo ente è determinato nel suo essere proprio in quanto essere-possibile. Ciò concerne ogni ente che ha il carattere ontologico della vita (cfr. ὄργανον – δύναμις) ed è di volta in volta differente quanto all’autenticità della vita stessa. Nel caso dell’esserci umano: ζωὴ πρακτικὴ μετὰ λόγου, è l’essere determinato dalla πρᾶξις, cioè, in termini ontologici, dalla προαίρεσις, ἕξις προαιρετική, ἀρετή (nel caso del θρεπτικόν: essere-alimento, prescrizioni riguardanti l’alimentazione e i pasti), il poterdisporre delle possibilità di essere. La concettualità in quanto possibilità genuina della vita (esistenza – indagine scientifica!). L’essere-possibile in quanto essere-possibile, avere la possibilità di..., in quanto possibilità, e secondo il senso ontologico di quest’ultima, è riferito a un anchealtrimenti, un contro di essa: solo in base al contro l’esserepossibile è in quanto per... E il contro che cosa è sempre al tempo stesso l’«in base a che cosa» dell’«essere-possibile per...», in modo tale che nell’uno si dispone dell’altro. L’esserci, in quanto essere-possibile, è tale in questo duplice
senso. Il «contro che cosa» non è qualcos’altro, bensì proprio esso medesimo, e precisamente nel senso che l’esserepossibile – inteso come ciò da cui scaturisce la ἕξις (ἕξις in quanto πῶς ἔχομεν πρός) – è ciò che costituisce l’essere medio e quotidiano dell’esserci. In base ai tre elementi, la concettualità è un determinato essere-possibile dell’esserci in una duplice maniera. Manoscritto relativo al par. 24 α) L’«in base a», a partire da cui, in quanto «contro», la concettualità può formarsi Con la determinazione dell’«in base a» otteniamo la caratteristica del modo di esserci – modo medio – di ciò che è stato posto in luce al punto 1. Ci si offre così anche l’occasione di comprendere in modo ontologicamente più preciso i tre elementi della concettualità in base al carattere ontologico dell’esserci, riportandoli a un fenomeno fondamentale dell’esserci («carattere di “pre”») e rendendo al tempo stesso evidente l’unitarietà dei tre elementi (l’«essere già interpretato»). In quanto essere-in, l’esserci è determinato dal λόγος, ma ciò significa che la quotidianità è completamente dominata e protetta [?] dal colloquio, da ciò che, parlando, si esprime: il pensare a parole, il sentir dire, il ripetere ciò che è stato detto, ciò che si è letto, «il giornale». Riguardo ai tre elementi della concettualità ciò significa: 1) L’ente nel suo «Ci», il mondo dell’avere a che fare e del conoscere, è di volta in volta già determinato così e così, ci si fa incontro con questo e quell’aspetto, e parimenti l’esserein. La concezione stessa della vita «ci» è già. Quando si viene al mondo si cresce radicati in una tradizione del parlare, del vedere e dell’interpretare, cioè di un mondo incontrato, concepito e interpretato in un determinato modo. L’«essere nel mondo» è di volta in volta un «avere così e così l’ente (il
mondo e la vita)». L’«avere già così», il mondo e la vita in quanto «già avuti così», può essere definito terminologicamente pre-disponibilità. 2) L’appello primario: allo stesso modo, a far da guida c’è già un determinato senso corrente dell’essere (essere – non essere: modi di appropriazione della predisponibilità, formazione scolastica al suo interno), nella cui prospettiva l’ente avuto nella predisponibilità viene considerato e indagato. L’esserci si trattiene di volta in volta già in una tale prospettiva, si muove già implicitamente in una determinata «visuale»: aspetto, essere-prodotto (avere a che fare, prendendosi cura – aspetto con cui si ha a che fare). La predisponibilità si trova già collocata entro una determinata pre-visione. 3) La comprensibilità dominante. La predisponibilità che «ci» è già in questo modo – in quanto collocata nella previsione che la riguarda – viene spiegata conformemente a una modalità dominante di porre in risalto le determinazioni ontologiche dell’ente che così si evidenziano, le concrete «determinatezze “in quanto che cosa”». La predisponibilità e la previsione rientrano a loro volta in un determinato appello all’interpretazione, in una determinata misura di evidenza, in una determinata modalità di presentazione e dimostrazione (rigore): pre-cognizione. Pre-disponibilità, pre-visione e pre-cognizione costituiscono l’«essere già interpretato» dell’esserci, che domina completamente l’esserci di volta in volta, l’essere l’uno con l’altro, regolando in media le interpretazioni. La concettualità «ci» è innanzitutto in quanto siffatto «essere già interpretato». In riferimento all’esserci, il pre, il «già lì in anticipo», significa: «ontologicamente dominato da...». Essere-in significa: essere determinato dal carattere di «pre» della disponibilità, della visione e della cognizione. Esserci: essere all’interno di un «essere già interpretato» dominante. L’essere di questo dominio sta nel λόγος, ed è nel λόγος che l’esserci, per così dire, si presenta di per sé nel suo essere innanzitutto e abitualmente. Con ciò è già dato un
fenomeno che in seguito diverrà ancora più evidente. Ciò che è espresso verbalmente: frasi, parole, pronunciate e comunicate, in circolazione, ripetute. Nell’opinione, nel riparlare di ciò di cui si parla, senza riferimento a ciò che si dice, nel ridire ad altri, il λόγος può nascondere e occultare proprio l’ente. Ciò significa: il parlare, inteso come un comunicare che si muove entro l’«essere già interpretato», è un occultare implicito e involontario, un comunicare, un asserire occultante su..., un fuor-viare. Ciò implica la possibilità dell’inganno, dell’ingannare e dell’essere ingannati, e inoltre il falso. L’esserci così determinato dal λόγος, e nel «carattere di “pre”» del suo «essere già interpretato», è esso stesso la possibilità ontologica sia dell’errore e dell’errato, sia del falso e della menzogna (cfr. semestre invernale 1923/24: essere-errato).829 Il medesimo nesso λόγος –εἶδος costituisce il terreno per il discorso che parla di «oro falso» – «falso» detto di un ente nel mondo. Falso: implica l’aspetto: «avere l’aspetto di...», eppure non esserlo, aspetto in quanto parvenza. Dominio del λόγος: cfr. Parmenide. La curiosità: lanciarsi in questo dominio, il suo sostegno. Dominio del λόγος con riferimento alla tradizione delle parole, dei significati verbali. Κληρονομία ὀνόματος, detto della ἡδονή – concetto fondamentale dell’interpretazione dell’esserci: ciò che esso intende, che reca originariamente in sé, «eredità», impadronirsi, e per la precisione σωματικαὶ ἡδοναὶ εἰλήϕασιν.830 Ciò che vi è di più banale e abituale nella quotidianità si impadronisce dell’interpretazione e la prefigura. Qui parola, linguaggio in quanto patrimonio, eredità – possibilità dell’abuso, decadimento. Riprendere quanto detto finora «salvandolo»; formare in senso proprio la possibilità. Il «pre» in quanto «già lì» (tempo): la possibilità formabile in un «contro di essa». Il «pre» in quanto non ancora, l’in-anticipo. L’avere, o l’assumere, il «primato» – ἕξις.
᾿Αρχή – λόγος, διάνοια – σοϕία, ἐπιστήμη. Balzare al di là e poi tornare indietro, però nelle stesse possibilità e nell’esserci stesso. Assumere la tradizione, porre domande in base al giusto «cammino che pre-cede»! β) Il «come» autentico positivo. Il «come» positivo: la possibilità di... Esserci: essere-in nell’«essere già interpretato», dominio del λόγος, δόξα. Da questa «visuale», dominante nel suo essere data in anticipo, la possibilità positiva contro ciò che ci viene tramandato. Non limitarsi semplicemente ad abbandonarlo – assurdità. L’«essere già interpretato» in se stesso, ὑπολήψεις, riferite a ciò che traspare grossolanamente, l’inteso in senso proprio. Il coglimento della pre-disponibilità, della pre-visione e della precognizione, colte nell’«essere già interpretato», formazione della concettualità. Πρᾶξις: agire, maneggiare, discutere, trattare. Λόγος autonomamente ἀποϕαίνεσθαι. Λόγος adesso μετὰ λόγου per? – αἴσθησις, νοεῖν, percepire, rivolgere lo sguardo e offrire ciò che si è visto, qualcosa in quanto qualcosa, nel suo aspetto, in quanto che cosa, l’«in quanto che cosa» primario. Ciò significa: 1. Formare la pre-disponibilità: l’ente stesso, che va determinato in quanto questo e quest’altro, «ci» è già, va solo colto – appropriazione, primaria. 2. La formazione dell’«in quanto che cosa» primario, ἀρχή, assicura il Primo. 3. Metodo di esposizione e di spiegazione: λόγος τοῦ τί ἦν εἶναι, εἶδος, «aspetto», «esser-ci nel suo provenire da...», γένος, «essere attualmente presente» ed «essere prodotto», «essere proveniente da...». Mescolanza [?] dell’ambito di competenza, l’«in quanto che cosa» prioritario, a partire da esso determinare gli enti dell’ambito in questione, nel senso del senso dominante dell’essere e delle esigenze dell’esposizione. 1. Il λόγος autonomo nell’opinare. 2. L’opinare stesso, ἀληθεύειν, in quanto διά.
3. Interpretazione della possibilità del διά, la sua medietà. 4. La possibilità del λόγος καθ᾿ αὑτό e, in ciò (nella predisponibilità, nella pre-visione e nella pre-cognizione), del διανοεῖσθαι genuino in se stesso, tuttavia in modo tale che ne emerga – e possa essere mostrato – quell’«in quanto che cosa» originario che esso stesso è. Il λόγος nel νοεῖν, modo fondamentale dell’esserescoperto, percepire opinante. Νοῦς e καλούμενος νοῦς,831 noto nella quotidianità. Νοῦς in quanto διάνοια: διά, opinare diviso, l’ente che «ci» è rispetto a qualcosa, in quanto qualcosa. Questo modo, così praticato, del percepire ha in un certo senso anche l’opinato in quanto uno. Essere-scoperto Finora il λόγος: ἀποϕαίνεσθαι – ἀποϕαίνεσθαι a partire da qualcosa, che nell’afferrare è tenuto aperto e chiuso; il modo della possibilità: essere-in in quanto avere-lì; dirigersi verso e sostare nel λόγος stesso, ma, nell’esperire, ancora di più: percepire. Nella misura in cui si tratta, di volta in volta, di un esprimere in parole: non solo attuazione in quanto modalità di movimento, bensì appropriazione, modo di avere e di comunicare. Cfr. ψεῦδος. Nel percepire: non in modo teoretico, αἴσθησις. Il percepire in quanto percepire: νοῦς; in quanto determinazione dell’essere-in – ἡδονή: διάνοια. Agire, maneggiare, discutere, trattare. Cfr. «ricapitolazione». Λόγος: scoprire, interpretare – λόγος in quanto fenomeno fondamentale, la sua struttura fondamentale in quanto interpretazione. Λόγος innanzitutto e per lo più: τὶ κατά τινος – è questo l’essere dell’asserzione, della comunicazione. Perché? ᾿Αποϕαίνεσθαι, νοεῖν in quanto διανοεῖσθαι. Dunque collegato con il vedere, il percepire. L’ἀληθεύειν nel νοῦς significa?832 Qualcosa in quanto qualcosa: cognizione;
εἶδος, genus, l’essere-prodotto: visuale (già data implicitamente nell’esserci). Perché? ῾Hδονή, essere allegro – essere triste, δίωξις – ϕυγή = ζῆν. Essere-situato = esserci = essere-in e avere l’essere-in = cioè sentir-«si» situato – in quanto essente nel mondo, in questo essere andare insieme, preoccupazione, cura. Riguardo al suo essere-scoperto, il nostro essere è innanzitutto e per lo più διάνοια. Φύσει οὖσα ζωή, essere-in, vita, disponibilità. «Essere già interpretato» (pre-disponibilità, pre-visione, pre-cognizione) e ἕξις dell’ἀληθεύειν – ἐπιστήμη, σοϕία. Νοεῖν in quanto διανοεῖσθαι – ἡδονή – λέγειν τι κατά τινος – καὶ ἀληθὲς καὶ ψεῦδος – δόξα, medietà. ᾿Αληθεύειν, ἀληθές: ἀδιαίρετα θιγγάνειν. Λόγος καθ᾿ αὑτό: τὸ τί ἦν εἶναι, γένος, «essere proveniente da», εἶδος, «aspetto» – lì nel presente. Ζ 4: λόγος eccellente.833 Ἕξις dell’indagine: «in quanto che cosa» nell’ente stesso, prospettive di fondo. A partire da che cosa e dove l’ente è visibile: ἀρχαί. Νοῦς – descrizione generale: νοεῖν, ἐπιστήμη, δυνατόν, νοῦς ποιητικός – παθητικός, ὕλη – μορϕή, κίνησις, ζωή. Indagine sull’ἀρχή, la più originaria: ὂν ἧ ὄν. Τί τὸ ὄν? «Che cos’è l’ente» in quanto essente, cioè che cos’è l’essere dell’ente? νοῦς – διάνοια – ἡδονή Πῶς ποτὲ γίνεται τὸ νοεῖν.834 Νοῦς: ᾧ γινώσκει τε ἡ ψυχὴ καὶ ϕρονεῖ835 (βελτίστη ἕξις) – la possibilità di essere dell’«essere nel mondo» nel modo sia dell’avere (o acquisire) dimestichezza con..., sia del guardarsi intorno con circospezione, in senso più ampio «essere orientato su...», «essere orientato per...», orientamento in quanto «può», πρὸς ἄλληλα, essere-in. L’«orientarsi così».
Νοῦς – νοεῖν: ἀπαθές, δεκτικὸν τοῦ εἴδους,836 poter percepire l’aspetto, esserlo secondo la possibilità (determinazione ontologica fondamentale della δύναμις!). Μηδεμία ϕύσις ἀλλ᾿ ἢ ταύτην, ὅτι δυνατόν:837 la possibilità del «Ci» dell’ente, del suo esser-ci, poiché è l’essere e l’essere-possibile dell’essere-scoperto. ῾H ψυχὴ τὰ ὄντα πώς ἐστιν:838 l’«essere nel mondo e presso se stesso» dell’esserci «è l’ente», la sua possibilità nella prospettiva di appropriarsi del «Ci», dell’essere-scoperto. Δυνάμει τὰ εἴδη:839 l’ente «ci» «è» di volta in volta nel suo «aspetto». ὁ ἄρα καλούμενος [nell’autointerpretazione quotidiana dell’esserci, ciò che del νοῦς è noto «innanzitutto e per lo più»] τῆς ψυχῆς νοῦς [...] οὐθέν ἐστιν ἐνεργείᾳ τῶν ὄντων πρὶν νοεῖν:840 il νοῦς non è il presente dell’ente, la possibilità si realizza propriamente ed effettivamente tramite l’attuazione e lo σϕόδρα νοητόν,841 il che significa che è l’essere dell’ente stesso (di volta in volta originariamente determinato nelle ἀρχαί) a offrire nel giusto modo l’ente nelle sue ulteriori determinatezze non originarie. Anche ὁ κατ᾿ ἐνέργειαν [τῆς ψυχῆς νοῦς] [...] καὶ τότε δυνάμει πως,842 anche allora non è mai ovunque (cioè non si mescola, soltanto δεκτικόν, μηθενὶ μηθὲν ἔχει κοινόν, ἀπαθές),843 ma anche in tal caso è sempre possibilità, essere dell’essere-in. καὶ αὐτὸς δὲ αὑτὸν τότε δύναται νοεῖν:844 esso è di per sé rimasto possibilità, quindi νοητός,845 esso stesso un alcunché di accessibile per sé, in base al suo carattere ontologico dell’accesso a se stesso (non «riflessione» e «io»). ἐν δὲ τοῖς ἔχουσιν ὕλην δυνάμει ἕκαστόν ἐστι τῶν νοητῶν [...] ἐκείνῳ δὲ [τὸ οὕτως ἐπιστητόν] τὸ νοητὸν ὑπάρχει.846 L’essere del νοῦς in quanto «come» dell’essere dell’esserci nella pre-disponibilità di ὕλη – ποίησις. ὁ μὲν τοιοῦτος [ἐν τῇ ψυχῇ νοῦς] è τῷ πάντα γίνεσθαι.847 E come è? In quanto percipiente opinare ciò che è attualmente presente, appropriazione del presente –
γίνεσθαι –, ἐπιστήμη nel senso dell’essere come definito qui sopra. ὁ δὲ τῷ πάντα ποιεῖν, ὡς ἕξις τις, οἷον τὸ ϕῶς:848 essere: esser-ci, presente, presente in quanto prodotto, produzione del presente. τιμιώτερον τὸ ποιοῦν τοῦ πάσχοντος καὶ ἡ ἀρχὴ τῆς ὕλης.849 Opinare e αἴσθησις – ϕάναι. σύνθεσίς τις ἤδη νοημάτων ὥσπερ ἓν ὄντων:850 esserefinito, ἕν, lì; sempre già l’uno con l’altro, cioè qualcosa nel suo aspetto, in questa prospettiva, τὶ κατά τινος – qui καὶ τὸ ψεῦδος καὶ τὸ ἀληθές.851 Dove non vi è τὸ ψεῦδος, cioè nessuna σύνθεσις, vi è νόησις riferita agli ἀδιαίρετα:852 opinare ciò che non può comunque essere scoperto nell’«in quanto questo qui». In questo caso per lo scoprire non vi è alcuna possibilità dell’occultare, del fuor-viare. La priorità va solo all’ente stesso: τὶ καθ᾿ αὑτό, non κατά τινος – nessuna prospettiva e nessuna tra le altre. ᾿Αληθεύειν è σύνθεσις in quanto possibilità autentica in termini non originari, ma derivati: la medietà dell’ἀληθεύειν in quanto determinata dall’esserci – διάνοια. Il διά si muove e si trattiene in un determinato modo nell’ἀληθεύειν autentico, e ciò anzitutto nel λόγος – esteriormente –, ma già l’ἀποϕαίνεσθαι, il δηλοῦν, mostrano la funzione fondamentale. I giudizi «vero» e «falso» – a partire da ciò, localizzazione del concetto di verità. All’opposto! Aἴσθησις e νοεῖν: τῷ ϕάναι μόνον ὅμοιον.853 «Nominare»: semplicemente chiamare per nome, chiamare qualcosa in esso stesso e averlo-lì. Se però esso ci si fa incontro in quanto ἡδύ e λυπηρόν, allora è κατα- e ἀποϕάναι.854 Il mondo «ci» è nel συμϕέρον, nell’«utilità», in quanto così e così. L’essere-in determinato dalla ἡδονή, sentirsi-situato nell’essere con l’«in quanto così e così». Il sentirsi-situato è δίωξις, «dirigersi verso» qualcosa in quanto questo, e ϕυγή, «fuggire da» qualcosa in quanto quello. Prestazione
interpretativa primaria! Qualcosa in quanto qualcosa, con lo ψεῦδος che ne consegue, occultare. Σύνθεσις, διαίρεσις: «verso...», «via da...» – non presso se stesso. Se questa è, in media, la situazione dominante, si dà un compito, ma un compito possibile, nella misura in cui, di volta in volta, il νοεῖν e l’ἀληθεύειν sono un avere-lì, sono in se stessi un semplice chiamare. Il compito: riguardo all’«in quanto che cosa» primario, questo stesso non più in qualcos’altro. Qui soltanto nella misura in cui il percepire viene afferrato oppure no. Concetto: qualcosa in quanto qualcosa – «carattere dell’“in quanto”». Ente in quanto che cosa? Nel suo essere (ἀρχή, la decisiva – «in quanto che cosa» – Phys. A 1, Met. Ζ 3). Esperire, avere-lì, comprendere, interpretare qualcosa in quanto qualcosa. Λόγος: τὶ κατά τινος – λόγος καθ᾿ αὑτό. Λόγος nel νοῦς. Νοῦς in quanto «come» dell’essere-in determinato dalla ἡδονή. ῾Hδονή ed essere-in in quanto avere-lì. Φόβος: gli antichi – scacciare la paura. Fare luce, comprendere l’ente in quanto essere! Δίωξις – ϕυγή, ὄρεξις, νοεῖν, διανοεῖσθαι, προαίρεσις. Manoscritto relativo al par. 25 Nell’essere-in così inteso, nel «parlare di...», la possibilità di compiti ulteriori. Cfr. l’inizio del corso – riprendere: in che senso la fondatezza della concettualità? Formazione della predisponibilità, della previsione e della precognizione. Il «pre»: essere-in e cura, situatività. Cfr. Eth. Nic. A 12: come l’uomo è, così egli parla, per quanto lontano possa portare l’essere riguardati dall’esserci dell’ente, in modo tale che egli si decida. Balzare al di là della quotidianità e poi tornare in essa, non uscire filosoficamente da essa. Formazione del concetto in quanto ἕξις – esistenza,
indagine, conoscenza scientifica. Aristotele – tradizione, Platone. Predisponibilità, formazione. Ciò che del mondo è il più vicino, in quanto è ciò che è sempre – l’essere in senso proprio! Esperienza fondamentale, però in modo tale che si mostri nel giusto modo in se stessa. In quanto fatto fondamentale così inteso, posto nella predisponibilità e originariamente elaborato – la κίνησις. Manoscritto relativo al par. 26 a Fisica Γ 1: disposizione 200 b 12-25: tema fondamentale della μέθοδος περὶ ϕύσεως: κίνησις e ciò che vi è connesso (ἕπεται, τὰ ἐϕεξῆς).855 b 25-32: premessa dei modi fondamentali dell’essere: ὂν δυνάμει ed ἐντελεχείᾳ,856 ὄν delle categorie,857 quindi πρός τι,858 l’«in riferimento a...». b 32-201 a 3: κίνησις non παρὰ τὰ πράγματα,859 il «come» dell’essere dell’ente che «ci» è, determinato nella forma ontologica delle categorie. a 3-9: certe categorie (quelle appena addotte) ammettono un διχῶς:860 l’ente che «ci» è, in quanto così e così; possibilità del «da... a...» del medesimo ente. Aspetto corrispondente al movimento. a 9-15: definizione della κίνησις – λόγος κινήσεως. a 15-19: illustrazione concreta e chiarimento di movimenti. a 19-27: l’essere determinato del medesimo ente dalla δύναμις e dall’ἐνέργεια, e la possibilità delle connessioni di movimento nell’ente. Ciò che muove può esso stesso essere mosso – se questo vale per tutti gli enti, è problematico. a 27-b 15: definizione più precisa del movimento e della sua esplicazione.
Manoscritto relativo al par. 26 b Nella quotidianità, e proprio in essa, esperienza fondamentale del «“Ci”-sempre», nascita del senso dell’essere in quanto essere autentico. Autentico nella misura in cui l’esserci stesso è tale che, per esso, ne va dell’essere: σωτηρία, non svanire dall’esserci. Questo senso dell’essere fa più o meno esplicitamente da guida a ogni «parlare con...», «parlare di...», che porta di volta in volta diversamente all’espressione l’ente nel suo essere, mantenendolo in tale espressività. Il parlare però è il dominio e la guida, quindi nasconde, sposta l’essere-in, il «parlare di...»: ἀληθές – ψεῦδος, il mezzo è δόξα, cioè tramite il λόγος «ci» è lo ψεῦδος, comunicare è fuorviare. E proprio questo «Ci» travolgente sarà il primo a essere nascosto dal λόγος (Parmenide) – meno libero che mai per l’incontro! ῾Hδονή – ϕόβος degli antichi: la «paura» del poter svanire, mutamento, corso, possibile cessazione; ciò che si teme è il finito dell’essere svanito, ciò che si spera – e a cui si tien fermo – è il finito del «Ci», il presente. La credenza nell’essere e, in seno a essa, nel contempo, un’interpretazione, e un «essere già interpretato», dell’essere stesso. Il familiare in quanto noto: portare, mettere al sicuro, salvaguardare nel noto, scacciare la paura, διαγωγή. Quotidianità, tradizione, ἔνδοξα. Manoscritto relativo al par. 26 d ᾿Εντελέχεια Cfr. H. Diels, Etymologica, in «Zeitschrift für vergleichende Sprachforschung», 47, 1916, pp. 200-203. Per il chiarimento del significato cfr. Met. Θ 3, 1047 a 30. ᾿Εντελέχεια: «trattenersi nell’essere-finito», «giaceredavanti in quanto finito», presente («disponibilità assoluta
per...»). Etimologia: il termine ἐντελέχεια presuppone il termine (documentabile solo in epoca tarda) ἐντελεχές (cfr. νουνέχεια, νουνεχής, «ragionevole», «circospetto», «prudente», νοῦν ἔχειν), ἐντελές ed ἔχειν: l’ente nel finito – avere questo essere, costituirlo. La finale originaria -ες è stata abbandonata. ᾿Εντελόμισθοι, Demostene, Contra Polyclem, 18: καὶ ἑτέρους ναύτας ἐντελομίσθους προσέλαβον. οἳ ἐντελῆ τὸν μισθὸν λαμβάνουσιν.861 Diels, Etymologica, p. 203: «Possesso della completezza» non rende il senso ontologico fondamentale: il «trattenersi nell’essere-finito», essere «l’essere-finito», esser-ci in senso autentico! Τέλος: «la fine», non ciò che si aggiunge da ultimo, ma il «come» del «Ci» di un ente che è in quanto è stato prodotto. Lì presente in senso autentico: ciò che è soltanto così, cioè ciò che non è mai stato prodotto, che non ha mai avuto la possibilità di non essere, ma è sempre già lì. Ciò che, in questo senso, è sempre già finito, finito poiché non è mai stato fatto, non ha alcuna possibilità, non ha nemmeno il «può» del trapassare. Comprendere la portata di queste determinazioni del movimento. Λόγος κινήσεως: aspetto del movimento in quanto movimento, un modo dell’esserci di un ente, implicito nella ϕύσις. Movimenti in quanto mutanti-si, il «Ci» di un mutante-si. E mutamento nel senso più ampio, non solo in quanto mutamento di posto, di luogo, spostamento. «s = v ⨯ t» non perviene a spiegare il movimento, ma si limita ad applicare la relazione fondamentale degli ordini di misura; in «v» il movimento locale è già presupposto, «s/t». Ciò che importa, invece, è chiarire l’essere-mutamento, il mutamento in quanto «come» dell’essere dell’ente. In seguito non si considera il movimento stesso in quanto «come» dell’esserci di un ente, ma il sistema di riferimento della misurazione del movimento. La velocità è già stata definita da Aristotele nella determinazione di ciò che è più veloce o più lento. Ciò significa: mettere in luce quei caratteri ontologici che, nella misura in cui determinano l’ente nel suo essere, lo
caratterizzano come un ente che dev’essere inteso in quanto trovantesi in movimento – gli ἐμϕαινόμενα nel λόγος κινήσεως. Parimenti, come la κίνησις τῷ λόγῳ τῆς ϕύσεως ἐμπεριέχεται.862 1. Con il movimento si dà, implicitamente, una serie di determinazioni dell’ente che vanno anch’esse indagate affinché ci si possa rivolgere al «Ci» compiuto di ogni entemosso nel suo essere. Esse sono πάντων κοινά,863 «comuni a ogni ente [della menzionata determinatezza]». ὑστέρα [...] ἡ περὶ τῶν ἰδίων θεωρία,864 «in seguito l’indagine su ciò che rientra di volta in volta in un determinato ambito ontologico». Dapprima la messa in luce di ciò che a esso si addice in quanto tale – ἀρχαί. Con ciò tuttavia non è detto che queste ultime sarebbero anche già ciò che è immediatamente noto, al contrario (cfr. δεῖ μὴ λανθάνειν).865 2. ἔστι δή τι,866 «qualcosa è quindi manifestamente lì»: 1. in quanto «puro presente», «fermarsi nel puro essere finito»; 2. lì – nell’albero, nel legno, nel tronco d’albero, in quanto chiglia della nave – συμϕέρον, «utile», «utilizzabile», «impiegabile»; quindi: ci si fa incontro, nell’avere a che fare, in quanto «utile a...», «ci» è in questo modo, si fa incontro così al maestro d’ascia che esamina il bosco, mentre il tronco dell’albero «ci» è in questo «può». Vediamo ciò che giace comunque e fin da prima nel bosco, o sta lì come albero. «Ci»: «rinviare a...», circospezione, τέχνη – il mondo nel suo essere-attorno ed essere-così. Πρακτόν e λεγόμενον: l’ente che «ci» è in senso assoluto, e l’ente che è nel suo «Ci» e in quanto «Ci». Nell’esser-ci esso «può»: ci si può rivolgere a esso secondo diversi modi dell’esser-ci. Delimitazione per la comprensione delle categorie! Predisponibilità nel «come» dei concetti ontologici fondamentali, prospettive che conducono il rivolgersi al κινούμενον al suo «esserci-così (κινησία)» in quanto tale, l’«essere-“Ci”» in quanto tale. L’ente che «ci» è in questo modo, e a cui ci si rivolge nelle categorie – quell’essere nel cui «come», così messo allo scoperto, emerge un διχῶς: l’ἐντελέχεια e il «Ci» della
δύναμις – si pone nelle condizioni ontologiche di comprensibilità della mutevolezza, è mutevole, in quanto esser-ci mutevole – «caratteri di “Ci”» del mutevole, mutamento repentino! Categorie: πρός τι, «in relazione a...». Produrre, conseguire, riunire qualcosa è in se stesso un «verso un altro». Definizione fondamentale della κίνησις: non un παρά,867 non un καθ᾿ αὑτό, non un χωριστόν, non un ente in se stesso, autonomo, bensì in ciò che muove e nell’ente in movimento. Movimento in quanto «in movimento», un «“come” del “Ci”» dell’ente, dunque un come secondo le possibilità ontologiche, così come sono espresse nelle categorie. Queste ultime non hanno un κοινόν, non vi è un essere da intendersi come genere, un essere che sarebbe ciò che è senza essere tale di volta in volta in un determinato «come», cioè senza esser-ci; non vi è insomma qualcosa come il movimento in sé. ᾿Ενεργείᾳ καὶ δυνάμει: quale ente? ᾿Ενεργείᾳ καὶ δυνάμει: «fermarsi in un essere-finito», «Ci», presente. Δυνάμει – significatività. Questo ente che è così, contraddistinto dall’ἐνέργεια: questo ente qui, che costituisce il proprio «Ci» puramente a partire da se stesso – sedia, casa, questo schiavo, Socrate, albero, tronco d’albero. Mondo: cielo – mondo circostante, la posizione più vicina (situazione). Il «carattere di “verso”», «Ci» positivo: proprio nel «Ci» e al suo interno, cioè, in particolare, «verso», «per» («essere rinviante a...»), evidenziato nell’essere-scoperto della πρᾶξις, e λεγόμενον in base a ἡδονή, συμϕέρον, ἀγαθόν. Ovviamente anzitutto più da vicino l’ἀκινησία. Questo ente «nelle categorie». Corollarium, non παρά. L’ente nel «come» delle categorie, διχῶς. Τὸ δυνάμει (Met. Θ 7) Quando un ente è, di volta in volta, δυνάμει? Non sempre, talora sì talora no, «non in qualsiasi momento»,868 solo di
quando in quando. L’essere-possibile, in quanto «può», è un esserci-così eccellente di un ente, vale a dire un come del suo «Ci», nella misura in cui esso è già – «già», cioè ἐνεργείᾳ. «Il “poter”-essere della terra è forse quello dell’essere-uomo? Lo è solo quando γῆ è già σπέρμα, ma forse nemmeno allora».869 Lo σπέρμα deve mutarsi in un altro «può». «Γῆ non è ancora ἀνδριάς, essa dovrebbe anzitutto mutare repentinamente in essere-bronzo».870 Ora, come va inteso il «ciò a partire da cui» qualcosa «muta repentinamente in...», ciò da cui esso si trasforma in questo e quest’altro, in quanto contribuente a costituire l’essere di ciò di cui diciamo: εἶναι – ὃ λέγομεν εἶναι,871 ciò a cui di volta in volta ci rivolgiamo in quanto ente che «ci» è? Il «di che cosa» del suo consistere, il «da dove» del mutamento repentino, non ci offre la risposta. La statua non è il bronzo, non è nell’esserci dell’essere-bronzo, il cofanetto non è nell’esserci dell’essere-legno, non è τόδε τι. In se stesso il legno non «ci» è nel cofanetto, poiché ciò che «ci» è è piuttosto il cofanetto stesso, πρακτόν – e il cofanetto, nel suo esserci, è «di legno».872 Il cofanetto non è quell’altra cosa in quanto τόδε τι, il legno, bensì è «fatto di quello»,873 non è l’altra cosa, bensì è «fatto di quell’altro»; nell’aspetto, il presentarsi del cofanetto: non il legno, bensì l’«essere di legno». Il «di che cosa» dell’essere-fatto di un ente che «ci» è, il «di che cosa» del suo consistere, non è esso stesso lì presente, ἐνεργείᾳ, poiché il presente si determina per noi in base all’aspetto primario: cofanetto. κινούμενον, ὡς τὸ ἐκείνινον:874 il movimento non è un ente, ma un «come» dell’esserci, e in modo tale che questo «Ci» è il «come» di un alcunché di già attualmente presente: aspetto. ᾿Εκείνινον – ἐκεῖνο: ciò che è lontano, non il «Ci» più vicino (sempre il «questo qui», aspetto), con e in questo «quello», cosicché questo è «fatto di quello». Nel caso di ciò che è mosso: trovare in movimento; il più vicino, il presente autentico: ciò, che si muove, «è mobile». Il movimento non «ci» è – non «ci» è mai! Nemmeno δυνάμει! Cfr. Ε 2: οὐ γὰρ τῶν ὑποκειμένων τι ἡ μεταβολή.875 Certamente il legno, il
tronco dell’albero? Neanche ciò che è mosso è fatto di movimento! Che cos’è dunque il movimento? Non è un ente, ma un come dell’essere – che va dunque definito a partire da ciò! Preparazione della determinazione della definizione di movimento. Nel suo contesto si mostra in quanto «come» del «Ci», dell’essere attualmente presente del mondo. Se è così, allora proprio il movimento, in quanto «come», è anch’esso fondamentale per comprendere correttamente il «Ci» del mondo nel suo essere. 1. Presenza attuale: ἐντελεχείᾳ, δυνάμει – ἐνεργείᾳ. 2. Modo d’incontro: mostrarsi in quanto mondo, λόγος, ogni avere a che fare μετὰ λόγου. 3. Non παρά. 4. Διχῶς. Dal punto 4. concepire l’esplicazione dell’essere come i possibili «esseri attualmente presenti», mentre il movimento viene compreso come uno in base a essi. Κινησία: cfr. frammento 586: κινησίας δύο λέγει ᾿Αριστοτέλης γεγονέναι.876 Per inciso: l’ὀνομάζεσθαι τὴν μεταβολήν. Come considerare e designare la μεταβολή μᾶλλον γὰρ εἰς ὃ ἢ ἐξ οὗ κινεῖται, ὀνομάζεται ἡ μεταβολή.877 Vale a dire: considerato in vista di che cosa? In vista di ciò «in cui» ciò che è mosso si muta.878 – οὔτε γὰρ κινεῖ οὔτε κινεῖται τὸ εἶδος ἢ ὁ τόπος ἢ τὸ τοσόνδε, ἀλλ᾿ ἔστι κινοῦν καὶ κινούμενον καὶ εἰς ὃ κινεῖται.879 – ἡ κίνησις οὐκ ἐν τῷ εἴδει.880 Il movimento è un come dell’essere, non l’essere della presenza attuale. Non è il presente a essere mosso, ma è la κίνησις a essere un «come» del presente, la κίνησις è una determinazione ontologica. L’essere-mossi è un modo dell’essere attualmente presenti di determinati enti. ᾿Αγορεύειν: al mercato, dove l’«essere l’uno con l’altro» si svolge quotidianamente, «parlare in pubblico» in modo che
chiunque può ascoltare – un parlare percepibile da chiunque. La modalità di fondo è qualcosa di ovvio. La κατηγορία, il κατηγορεῖν sono un λόγος, un mostrare, anzi un mostrare particolare: «Dire in faccia a qualcuno» che è questo e quest’altro, «accusarlo». Κατηγορίαι τῶν ὄντων: modi del «dire in faccia» all’ente. Che cosa? Che esso è così e così, il che significa mettere allo scoperto l’ente nel «come» del suo articolato «essere in se stesso». Λόγος, λεγόμενον: il «come» dell’ente, come esso è – o può essere – in se stesso. Essente: l’ente presente che «ci» è attualmente. Oὐσία: «avere», «casa», ciò con cui sono affaccendato e che nell’affaccendarmi produco nuovamente, mirando all’uso. Modi dell’esserci in sé di ciò che è attualmente presente nel mondo circostante. Ζωὴ πρακτική: ciò che nell’essere-in è messo allo scoperto in quanto ζωὴ πρακτική – συμϕέροντα, ἀγαθά. Solo perché le categorie, in quanto modi dell’esserci dell’ente del mondo circostante, sono lì presenti nel mondo e in quanto mondo, e l’ἀγαθόν è πέρας della πρᾶξις, πρακτὸν κατὰ τὸν καιρόν,881 tali modi dell’esserci sono quelli dell’essere-utile, che è determinato in quanto costituente l’essere-finito. Poiché le cose stanno così, un ἀγαθὸν καθόλου non ha alcun senso, anzi elimina proprio la determinazione ontologica che è costitutiva per l’ente (ἀγαθόν): sempre questo. Non solo l’ἀγαθόν non è qualcosa come un «valore», ma non è assolutamente un a priori, un essere ideale; esso è ciò che è, sempre in quanto questo – il καιρός. Le categorie in quanto filo conduttore;882 da non intendersi in termini schematici, al contrario: appropriarsi dapprima proprio della relativa concretezza dello specifico «come» dell’esserci! Non limitarsi a mettere sotto forma a piacimento in modo formalistico, ma da considerare solo come una prima indicazione che rende necessaria, essa per prima, ogni ulteriore indagine. Modo fondamentale dell’«essere nel mondo»: ogni avere a che fare è μετὰ λόγου, cioè è guidato implicitamente dalla
χατηγορία, che è διχῶς (il medio); implicito, nascosto, segue vie traverse, anzitutto nel mondo – σχῆμα. Διαιρέσεις tout court per λέγειν τι κατά τινος. In quanto che cosa? Il «come» dell’ἐντελεχείᾳ ὄν: λόγος – κατηγορία, ψυχή – ἐντελέχεια, modi del «-Ci», «essere attualmente presente», «essente il presente», «avente il mondo». Κατηγορεῖν: significato corrente Rhet. A 3, 1359 a 18.883 Cfr. il contesto e ciò che esigono la comprensibilità e l’attuabilità del κατηγορεῖν. In particolare 1358 b 11.884 In vista di che cosa posso svelare l’ente che «ci» è? In vista del suo essere. «Lamentarsi» di qualcosa, «imputare» qualcosa a qualcuno, «provarne la colpevolezza». Con quale atteggiamento verbale? Nell’inessere, concreta ζωὴ πρακτική. Cfr. Retorica A 10. Manoscritto relativo al par. 26 e Etica Nicomachea A 4: 1. Non vi è alcun bene in assoluto. 2. Anche ciò che vi è in esso di buono in senso assoluto (non πρὸς ἄλλο) non è un bene in assoluto. 3. E se pure qualcosa del genere vi fosse, non porterebbe a nulla. Inutile! In precedenza: πέρας – πρακτόν, ciò presso cui un prendersi cura giunge di volta in volta a fine. Origine delle categorie in base a ciò che, non senza intenzione, è stato stabilito riguardo alla domanda attuale sul λόγος, in modo già più perspicuo. Λόγος: parlare l’uno con l’altro del mondo, portarlo nell’essere-scoperto. In questo parlare implicitamente nell’«innanzitutto», non messo in risalto in quanto tale, però già in grado di guidare i modi fondamentali dell’interpretazione dell’ente nel suo esser-ci. Ciò che in esso è messo allo scoperto è sempre un «come» del «Ci» dell’ente che «ci» è.
Numero: principio e sistema? Non è un caso che Aristotele sia indeciso: 10, 8, 4, 2. Il nominare (che rinvia al λόγος), e ciò che con esso è inteso, costituiscono, per l’«essere nel mondo» nell’avere a che fare più immediato e consueto, le guide prioritarie per il parlare che a esso si riferisce. Il mondo «ci» è primariamente nel λόγος, mostrato nel suo presente. Modi in cui l’ente che «ci» è si mostra, e in riferimento ai quali si muove ogni discorrere. Esse quindi non articolano e «suddividono» né l’ente, né le asserzioni, né i concetti, bensì l’essere nel senso delle possibilità dell’essere attualmente presente. 1. τὰ πρῶτα τῶν γενῶν:885 «in quanto che cosa», «proveniente da...». La κατηγορία è ciò che è nel λόγος, sempre in questo. Se interrogato riguardo al suo essere, ciò che è definito in quanto questo e quest’altro ha la sua provenienza dalle categorie, trae origine da esse. Ciò che esso è riconduce a questa genesi. 2. τὰ ἔσχατα κατηγορούμενα ἐπὶ τῶν ἀτόμων:886 dove l’ente nel suo «Ci» non offre più alcun possibile «in quanto che cosa» si perviene all’ultimo «in quanto che cosa» dell’incontro con il mondo. «Ci»: essere sempre, di volta in volta, qui e ora nel presente, e non ovunque e in nessun luogo! 3. τὰ γένη.887 4. αἱ διαιρέσεις:888 in senso assoluto; divisione dell’ente in senso assoluto nel suo possibile «Ci», ottenendone i possibili «in quanto che cosa», i primi, il «ciò da cui». Ogni genere obiettivo è ciò che è (colore), quale.889 5. πτώσεις,890 casus, variazioni del λέγειν (dell’esserci dell’ente). Κατηγορία – κατηγορήματα: «avente l’aspetto di», «come» dell’essere. Σχήματα τῆς κατηγορίας: ἡ κατηγορία, il rivolgersi all’ente semplicemente nel suo essere. Γένη τῶν κατηγοριῶν: ciascuna ha sempre un’origine propria, non derivano l’una dall’altra. L’«essere» stesso, l’ὄν,
non è γένος (ὕλη, ὑποκείμενον).891 Manoscritto relativo al par. 26 f Διχῶς: il rivolgersi «in riferimento a...», il «ciò a cui» è duplice, ἀϕ᾿ ἑκατέρου τῶν ἀντικειμένων εἰς τὸ 892 ἀντικείμενον. Oὐσία: γένεσις – ϕθορά. Un ente che «ci» è, che è attualmente presente e giace lì davanti, dev’essere δυνάμει in se stesso: δυνάμει, vale a dire in riferimento al «come» del suo esserci, al suo essere «da... a...». La possibilità del «da... a...» deve fondarsi nel «come» del suo essere. Infatti il δυνάμει ὄν dev’essere ἐνεργείᾳ, entrare in lavorazione, poiché l’ἐνέργεια è il «come» del «Ci» di un ente. Svolgere da qui la spiegazione. La κίνησις è il «Ci» del «da... a...» in quanto tale. Un ente deve poter essere così a partire da se stesso. E il fatto che lo possa – la possibilità più propria di un ente in quanto tale – è mostrato in termini categoriali, il che significa che la κίνησις, a maggior ragione, non è παρά. Il «da... a...» inteso in termini categoriali: l’ente che «ci» è nel come del suo essere è un essere un possibile «da... a...». Dunque l’εἶδος, il presentarsi con un determinato aspetto in quanto presenza, presenza nell’aspetto, è al tempo stesso possibile assenza – modo dell’essere attualmente presente, nel senso della presenza di qualcosa di cui dico: «Però manca qualcosa». Il mancare = «sentire la mancanza». Prendersi cura e «sentire la mancanza»: «Mi manca molto». Non «sentire la mancanza», ma avere lì attualmente presente: poterne disporre. Il restante διχῶς: ἀναλογήσει τῷ εἴδει καὶ τῇ στερήσει.893 Κρεῖττον – χεῖρον: più o meno. La medietà è costitutiva. Medietà e quiete. Le κατηγορίαι, in effetti, ma in quanto tali non in modo esplicito: non esplicitamente date, eppure presenti nell’«innanzitutto» della medietà, del più o meno. «Presenti e assenti».
Il mondo circostante del prendersi cura: solo con la κίνησις, con la scoperta dell’articolazione categoriale dell’esserci, il mondo diviene visibile, benché il mondo circostante più prossimo non venga espressamente e genuinamente messo a tema in quanto «Ci» dell’avere a che fare. Διχῶς: ἡ μὲν οὖν κατὰ συμβεβηκὸς μεταβολὴ ἀϕείσθω· ἐν ἅπασί τε γάρ ἐστι καὶ ἀεὶ καὶ πάντων.894 L’autentica μεταβολή: ἐν τοῖς ἐναντίοις καὶ τοῖς μεταξὺ καὶ ἐν ἀντιϕάσει895 − μεταβολή. λέγω δὲ ὑποκείμενον τὸ καταϕάσει δηλούμενον,896 qualcosa in quanto qualcosa, ciò che è visibile nell’«in quanto questo e quest’altro». Perché «logicamente» fenomenologico! Ciò significa il «rivolgersi in anticipo» a partire dal quale qualcosa viene mostrato – a partire dal quale qualcosa è visibile in quanto in se stesso, dunque in quanto se stesso. Essere in quanto esser-ci del mondo. Esser-ci: 1. attualmente lì presente, 2. lì a partire da. Finito: «Ci», presente, tempo! Ente che è così, e che nel contempo è qualcosa che non è ancora, ma che può essere. Essere utilizzabile per...: l’ente che «ci» è così, essente-utilizzabile, cioè potente-essere questo e quello, e ciò in se stesso, essendo un «da... a...». Ente nel «come» delle categorie, διχῶς. Esso è un poteressere: «questo e poi quello», «da... a...», mezzo «Ci» nel «più o meno» – può essere anche altrimenti. Il legno, questo legno, giace lì davanti nella sua utilizzabilità, giace lì per il «Ci», in quanto «di che cosa essere stato fatto», nel cofanetto. Giacere-lì, essere lì presente – quiete. Questo ente che «ci» è, nella misura in cui è attualmente presente in riferimento al suo essere utilizzabile in quanto tale, è in movimento, ovvero in quiete. La quiete è solo un caso limite del movimento. «Ci» del mondo circostante: 1. medietà – διχῶς, 2. quiete.
Manoscritto relativo al par. 26 g Κίνησις: ἐντελέχεια, «presente», τοῦ δυνάμει ὄντος, «di un determinato ente che “ci” è per..., nella misura in cui esso è l’ente che è», ᾗ τοιοῦτον.897 Κίνησις: presente del «poter essere cofanetto» di questo legno in quanto tale (riferito al «poter essere cofanetto»). Il poter-essere in quanto essente-ci, non pensato, pianificato, opinato, bensì come ci si fa incontro nel mondo circostante. In quanto essente è l’essere-fatto nella bottega. L’esseremosso: un ente in movimento. Ciò che «ci» è non è il cofanetto, o il legno, o il deposito del legno, bensì qualcosa in lavorazione, che il falegname ha, appunto, sottomano! Κίνησις in quanto «come» del «Ci». Questa κίνησις è ἐνέργεια: il «come» dell’esserci in quanto essere in lavorazione. Il movimento, l’ἐνέργεια, non distrugge la possibilità, anzi la mantiene, costituisce il suo «Ci» – la possibilità attiva. Detto per inciso: rendere comprensibile solo in base all’essere-essente della presenza attuale e ai suoi modi – significatività, utilizzabilità, e così via. Queste determinazioni debbono essere viste. Fenomeno del «Ci», presente (il presente si concentra in quanto essere del «Ci»): davanti a me, nel luogo dove mi trovo, presente, ora. Presente e «Ci»: temporalità locale. Essere nel mondo – essere il tempo, essere il presente. Dunque la quiete non ha nessuna significatività? Costitutiva per il fenomeno del reale del mondo. Esserelegno non è la stessa cosa che l’esserci in questa determinata utilizzabilità. Esso «ci» è così solo in quanto «essente in opera», in movimento. Κινούμενα sono però gli enti così come li incontriamo nel mondo, e con cui abbiamo a che fare. È nel lavoro che si ha il mondo circostante (inoltre anche ciò a cui si è interessati, e simili). Ci prendiamo cura del mondo circostante avendolo sottomano. Anche ciò che è in quiete «ci» è in questo modo. Ciò che ho sottomano può essere in quiete, e in quiete può essere solo ciò che è
nell’«essere sottomano». Non ogni «non essere mosso» è quiete, l’ἠρεμία è solo una determinata ἀκινησία: durante la pausa di mezzogiorno nell’officina regna la quiete. Ma il mondo si trova assai spesso e innanzitutto proprio in questo stato, il che significa, nel contempo, il κινούμενον. L’esser-ci del mondo circostante implica il «carattere di “Ci”» della quiete. La quiete, anzi, meglio, il presente, al punto che dimentichiamo, non ci rendiamo conto, che essa è un’ἀκινησία di genere particolare: permanere ora, prima e dopo. Quiete in quanto «modo del “Ci”» dell’ente in movimento, ovvero di ciò di cui ci si è presi cura nel mondo. Soltanto così la significatività risulta pienamente determinata. Di solito: un ente – «cosa reale»; esso è, indipendentemente dal fatto di essere colto e pensato. Ci si occupa della «realtà» senza mai essersi seriamente interrogati su di essa e avere posto in luce quale senso ontologico essa abbia, o se in genere ne abbia uno – un senso tramandato oppure espressamente esperito. Inoltre, la «cosa»: ciò che è così come lo si intende con questa espressione non «ci» è affatto. Per altra via non si perviene né a comprendere, né tanto meno a prendere seriamente l’indagine aristotelica. E ciò per lo stesso motivo: un concetto indistinto di realtà, richiamantesi al buon senso. Reale – possibile; il possibile è il non reale. Con questo equipaggiamento ci si occupa della definizione del movimento di Aristotele. Quindi: Aristotele dice che il movimento è realtà, ma realtà del δυνάμει, della possibilità, della non realtà – realtà della non realtà: una contraddizione – che addirittura lascia così com’è –, antinomia, dialettica! Tutto ciò suona molto acuto, ma dietro non c’è che mancanza di riflessione, e forse anche qualcos’altro: mancanza di senso di responsabilità nei confronti della storia. La κίνησις non è παρά, bensì nel menzionato «come» del «Ci». «In»: cfr. ἐκείνινον. Il movimento «ci» è come il legno nel cofanetto; il movimento, però, non può essere come il
legno rispetto alla terra e all’acqua – è un «carattere del “Ci”», un modo dell’essere lì presente. In quanto «come» del «Ci» è legato a «quelle», in termini ontologici si può dire addirittura che esse stesse sono διχῶς: κίνησις – δυνάμει καὶ ἐντελεχείᾳ.898 Nella misura in cui un ente «ci» è nel «come» dell’essere-mosso, l’ente assume il carattere delle categorie, più precisamente delle quattro menzionate, e queste sono διχῶς. Se un ente «ci» è in quanto δυνάμει, se è attualmente presente, lì presente, lì ora in questo essere-così, allora diciamo: «viene costruito»,899 «ci» è in mutamento. Già dal tipo di spiegazione si comprende che qui il movimento è inteso come un determinato essere presente. E questo stesso mutare, il venire mutato nel mutare, è οἰκοδόμησις.900 «Ciò che muta qualcosa», ποιοῦν – «ciò che è esso stesso in mutamento», πάσχον. Comprendere in base al terreno della spiegazione? Essere presente: mutando sempre se stesso, essendo se stesso ma anche un altro, accade però a me – essere riguardato da se stesso. Un alcunché di caldo muta un alcunché di freddo, «ci» è, mutando, nel modo del mutare se stesso, del divenire freddo. Non una ἐντελέχεια qualsiasi, presenza anche del nonmosso, bensì τότε – ὅταν, αὕτη, «non prima e non dopo»,901 bensì, quindi, nell’ora. ὁτὲ μὲν ἐνεργεῖν ὁτὲ δὲ μή:902 «Essere in lavorazione», essere presente ora del δυνάμει. Questo «essere presente ora» del δυνάμει è un caso limite: «Essere presente ora» del δυνάμει in quanto quiete (quiete e ora, presenza e tempo). Solo su ciò si fonda la quiete, poiché ciò che è in quiete è un «come» del «Ci» di un ente in lavorazione, messo in lavorazione. Ogni ente divenuto finito «ci» è in quiete, può essere in quiete. La quiete è costitutiva per questo «Ci», vale a dire: significatività. ᾿Ενέργεια, l’«essere in lavorazione», esser-ci nel venireprodotto. Lo stato di fatto ermeneutico: tu e io, non siamo noi a procurarlo, eppure «ci» è, compare, si procura da sé, «ci» è crescendo, e così via – pervenire al presente a partire da sé e, per esempio, trovarvi quiete – «realtà». La ϕύσις
caratterizza un ente che è essere in se stesso il produttore di se stesso. Oἰκία: per la «casa», esserci in quanto essere-finito – οἰκοδόμησις, che è ἐνέργεια. ᾿Ενέργεια è propriamente esserci in quanto essere-non-finito, un «come» del «Ci» dell’ἐντελέχεια. «Come» del «Ci» di qualcosa: perché l’«essere in lavorazione» perviene a questa priorità ermeneuticoontologica? Perché «essere» = essere-prodotto. «Ci» = essere-presente, essere-finito, essere-pervenuto nell’ora, in un presente; nell’«essere attualmente presente», «essere avendo-lì», «trattenersi presso...». Soggiorno, essere-in, propriamente il «Ci» della vita. Una pietra non si trattiene, compare. Un animale, invece: «Essi si trattengono» al seno! Θιγεῖν e ἁϕή: essere-in primario e primitivo. «Abitare»! Oὐσία, «casa»! «In» = «trattenersi presso...», in particolare «a casa presso...», cfr. Grimm!903 Si tratta primariamente di una categoria ermeneutica, e non spaziale in quanto «essere contenuto», «contenuto in...». Il «presso che cosa» del trattenersi! Finora non considerato dal punto di vista ermeneutico: essere-in, soggiorno, presente, «essere in attesa», sentirsisituato (cfr. Eth. Nic. Κ 3), attendere qualcosa, «non-“Ci”», «fuggire da...», «dirigersi verso...», cura. Attuazione dell’attesa: prendersi cura. Revocare l’eccesso di chiarezza! Κίνησις, ὄν dalla ποίησις, l’avere a che fare, e ciò significa primariamente il mondo – solo in seguito diventato categoria naturale. Qui innanzitutto l’indifferenza dell’«innanzitutto». Παρουσία, οὐσία (cfr. ϕῶς) – gli elementi fondamentali che sono stati spiegati: ἐντελέχεια, δύναμις, ἐνέργεια. Solo così l’ontologia greca perviene a se stessa. Questo però significa: come siamo noi, quale esserci, che cosa siamo sempre, quale ente? Tutto si sposta nella direzione verso cui conduce questa domanda. Esperire soprattutto l’esserci in quanto compito ontologico. Si dice che si avrebbe a che fare con la coscienza, la persona e la vita. Ma così si sbaglia tutto. Cfr. Jaspers.
La κίνησις è un «come» del «Ci», il σῷζει τὴν δύναμιν,904 il δυνάμει ὄν, lo ottiene nel «Ci» – trattenerlo nell’«essere non finito», lasciar esser-ci. Il δυνατόν è ἀτελές,905 perciò il suo «come» del «Ci» – appunto in quanto ἀτελές – è tale che questo «come» del «Ci» salva, e questa è la κίνησις. Finito: è già finito. ᾿Ενέργεια: il Ci», il «non ancora finito». Oἰκία: il finito, ma non il finito che presso la sua fine è il δυνάμει. Τελειότης riferito al «come» del «Ci». La cui autenticità per il δυνάμει è l’ἐνέργεια. Durata del movimento: se questo «come» del «Ci» cessa, allora la casa è lì pronta – non c’è più movimento, non più in movimento. Manoscritto relativo al par. 27 a Fisica Γ 2 Conferma. I. 201 b 16-18: Tema: considerato unitariamente 1. «in base a ciò che gli interpreti precedenti hanno stabilito nella discussione»,906 nel senso che 2. «non facile da spiegare altrimenti».907 II. 201 b 18-24: In quale γένος lo hanno posto? Che nome ontologico hanno adottato? Caratteri ontologici: «essere altro», «essere ineguale», «non essere».908 III. 201 b 24-27: ςAιτιον nel fenomeno della κίνησις per questa provenienza ontologica: ἀόριστον,909 dunque, conformemente a ciò, le ἀρχαί (ἑτέρα συστοιχία).910 IV. 201 b 27-202 a 3: L’αἴτιον per l’ἀόριστιον εἶναι,911 quindi tiene conto di tutto ed è l’autentica determinazione della κίνησις. V. 202 a 3-12: «Anche ciò che muove è in movimento», però soltanto ciò che è esso stesso un alcunché di «mobile»,912 qualcosa che può essere mosso. «Mobile»: ciò che talvolta non è in movimento e la cui ἀκινησία è «quiete»;913 il che significa: il «non essere in movimento» è determinato, non è cioè uno stare assolutamente al di fuori del «poter essere mosso».
Manoscritto relativo al par. 27 b Con le precedenti definizioni categoriali abbiamo spiegato che un ente, visto così, non va necessariamente inteso in quanto mosso. Esso può essere un ente-mosso, in merito al quale posso formulare le asserzioni menzionate, che però non sono, in quanto tali, quelle peculiari a un ente in movimento. Ci viene indicata così l’esigenza cui deve soddisfare la definizione del movimento, ciò che essa deve fare: fornire i caratteri ontologici che pongono in evidenza il «Ci» di un ente in quanto trovantesi in movimento. Conseguenze: se questi caratteri ontologici non colgono il movimento, ciò significa non solo che l’ontologia, che conosce come autentici e unici i menzionati caratteri fondamentali dell’essere, non è in grado di cogliere il movimento, ma anche che, quando essa si esprime, al tempo stesso occulta; si ha solo l’impressione che il movimento sia concepito categorialmente, mentre in realtà la tradizione di siffatta ontologia sbarra l’accesso al movimento, rendendo nel contempo possibile una sistematica formale. Ἑτερότης, ἀνισότης, μὴ ὄν. Molti enti sono differenti da un altro (determinato dall’«essere altro»), ma non per questo, cioè in quanto tali, ci si fanno incontro in movimento. Un uomo è determinato dalla ἑτερότης rispetto al bue, ma non per questo è mosso. 10 «non è uguale» a 5, ἄνισα, ma non per questo è in movimento. Certamente, chi è di questa opinione potrebbe dire che, invero, non è proprio così che si intende la ἑτερότης, poiché l’«essere altro» andrebbe concepito piuttosto in quanto determinazione dell’ente stesso che è in movimento; l’essere-altro non è riferito a qualcos’altro, ma è nell’ente stesso. Tuttavia, ciò che è caratterizzato da una molteplicità di elementi – o che addirittura è sia δυνάμει che ἐνεργείᾳ – non è in movimento. Il legno può essere cofanetto, e nel
contempo essere lì presente in quanto legno – ed è quindi determinato in se stesso dalla ἑτερότης –, eppure non lo si può definire «mosso». Forse però la ἑτερότης è intesa in quanto ἑτεροίωσις, «divenire-altro». In tal caso tuttavia è evidente che il movimento viene definito tramite il movimento stesso (ἑτεροίωσις è ἀλλοίωσις, ἕτερον – ἄλλο). Finché la κίνησις non viene compresa, in base all’essere attualmente presente, in quanto modo di tale esserepresente, non può essere colta ontologicamente. Già più vicino giunge la descrizione che prende le mosse dal μὴ ὄν, nella misura in cui quest’ultimo non viene assunto in quanto «mero non esserci in senso assoluto», bensì in quanto qualcosa di non ancora determinato, di cui sussiste la possibilità. Anche questo però non basta, poiché si tratta di una definizione κατὰ συμβεβηκός, che non coglie ciò che l’ente-mosso è sempre, di volta in volta, in se stesso – il «come» del suo «Ci», l’essere attualmente presente –, ma si basa sul riferimento a un altro: ogni ente è qualcosa, e non è molte altre cose. A causa di questo non-essere tutto dovrebbe essere in movimento. Manoscritto relativo al par. 27 c Ciò che nel suo essere è determinato dall’«essere altro», dall’«essere ineguale» e dal «non essere», non è determinato in quanto «essente in movimento». Non c’è quindi motivo che lo si definisca ente-mosso. Viceversa, il movimento va spiegato in modo tale da determinarlo in quanto «come» di un ente – un ente che, visto in questa determinazione, è colto in quanto ente-mosso. Perché queste ἀρχαί? Qual è il motivo (statico) di questa concezione categoriale? Movimento in quanto alcunché di immobile! Che cos’è, fenomenicamente inteso, il συνεχές? Lo statico di quella determinazione sembra cogliere questo dato fenomenico. Nessuna di tali ἀρχαί determina un ente nel
senso delle categorie (si tratta soltanto di determinazioni ontologico-formali), e la κίνησις non è un ente obiettivamente determinato (obiezione fondamentale contro Platone). Ci si può dunque rivolgere all’essere-mosso in quanto mosso, «avente parte al movimento» – si può cioè voler definire il movimento in base a una κοινωνία, eppure sbagliare tutto! In Aristotele, al contrario, le categorie costituiscono il filo conduttore dell’analisi ontologica dell’ente-mosso, il che significa: esperire concretamente l’ente che «ci» è in quanto tale. La spiegazione dei movimenti non in antitesi [?], bensì una questione del corretto «vedere»914 originario. εἶδος οἴσεται:915 avere per conseguenza un «aspetto», un «presentarsi con un determinato aspetto», a seconda delle categorie – chiaramente la predisponibilità del movimento. οἴσεται εἶδος τὸ κινοῦν:916 un «aspetto», un «comportarsi», un «presentarsi» – lì, nel «Ci»: «presentarsi così e così». Capitolo 3: κίνησις e κινεῖσθαι, κίνησις: ποίησις – πάθησις,917 come διάστασις e διίστασθαι.918 τὸ ἐνέργειαν εἶναι919 per κίνησις. Pervenire nel «Ci» e svanire da esso in quanto «come» dell’esserci stesso (presente, essere-prodotto): γένεσις – ϕθορά, dal «non-“Ci”» nel «Ci»; αὔξησις – ϕθίσις, crescere, più «Ci» – meno, diminuire; ἀλλοίωσις, diventare altro nell’essere-procurato, non aumentare o diminuire, non andare via; ϕορά, da un luogo all’altro.920 Movimento, ἀόριστον: ὅταν γὰρ ὁρισθῇ, παύεται (Temistio 211, 12).921 «Esserci»: essere nel proprio luogo, stabilmente finito nei limiti. Se stabilisco dei limiti, il movimento si arresta, non ce l’ho più. Per poter essere concepito nel suo «non essere stabilmente nel suo luogo», in quanto cambiamento di luogo, mutamento, esso dev’essere descritto nelle categorie dell’indeterminatezza. θεῖναι ἐν ἄλλῳ γένει922 – εἰς ταῦτα: ἑτερότης, ἀνισότης,
μὴ ὄν. Provenienza, questo «come» dell’esserci non può essere determinato altrimenti. Ciò che è determinato nel suo esserci dai caratteri proposti non dev’essere necessariamente un ente che si muove. Tali caratteri sono sufficienti per determinare un ente nel suo «Ci» in quanto essente in movimento? Se non è così, allora un’ontologia che si basa unicamente su ciò non è in grado di cogliere l’ente, anzi – ciò che qui, in quanto λογία, si limita a dire –, in quanto esprimersi essa nasconde, occulta. In tale occultamento del λόγος essa impedisce l’interpretazione dell’esserci, il movimento si trasforma in un «qualcosa» – tradizione! E nei suoi tentativi di essere radicale ottiene risultati insufficienti e superficiali. Se invece un ente è determinato nel suo «Ci» nel senso in cui Aristotele definisce la κίνησις, allora esso è in movimento. Su che cosa si fonda questo τιθέναι?923 La κίνησις è un ἀόριστον.924 Perché? Perché non è né ἁπλῶς θεῖναι εἰς δύναμιν né εἰς ἐνέργειαν.925 Non ἁπλῶς, ma σύνθεσις dei caratteri ontologici. Come va inteso l’ἕν in quanto «Ci», l’essere attualmente presente di ciò che muta repentinamente? Dunque: 1. soprattutto δύναμις ed ἐνέργεια (a partire dall’«essere esser-ci» in quanto costitutivo dell’esser-ci dell’ente in movimento); 2. non in senso assoluto, in se stesso: l’ente, l’ente-mosso, è un altro, è qualcosa del genere, ma come? Passaggio – il «da... a...». Κίνησις: ἐνέργεια, però τοιαύτη,926 cioè δυνάμει ὄντος, e in quanto tale ἀτελής,927 ἐνδεχομένη δὲ εἶναι, «però qualcosa che può essere rinvenuto», benché sia «difficile da vedere».928 Quiete: un «come» dell’esserci, il «Ci» di un esserci che può essere in movimento. ᾿Ακινησία (cfr. οὐσία!) inoltre: «Immobilità». a) «Non essere ora in movimento», b) non suscettibile di «essere in movimento». L’ἐνεργεῖν πρὸς τὸ δυνάμει ὄν, ᾗ τοιοῦτον, αὐτὸ τὸ κινεῖν ἐστιν.929 «Il muovere è il “portare nel ‘Ci’ questo ente
possibile in questo modo”». Ciò che muove tramite θίξις – il semplice, diretto avere, avere influsso – il che significa: con il suo contributo accade qualcosa (cfr. Prantl, note).930 Portare-lì: il venire portato e il portare; cfr. ποίησις, πάθησις. L’«essere in movimento»: un «come» del «Ci». Κίνησις, un «come» del «Ci» Presenza, e precisamente una presenza determinata. In quanto presenza – e questa presenza determinata –, essa fa tempo, l’ora, espressamente: ora lì. Κινησία e ἀκινησία. Con la κίνησις proprio le possibilità del «come» dell’essere in movimento. Cfr. significatività – quiete. La quiete dà piuttosto l’impressione del presente, al punto da farci dimenticare che essa è ἀκινησία, movimento improprio, cioè πρότερον – ὕστερον mascherato da «ora», e precisamente in quanto durata, vale a dire πρότερον-ὕστερον lì, però posto nell’ora. Non ho bisogno di balzare nell’ora espressamente, palesemente, bensì nascostamente. Aristotele si chiede in che senso. Come vi sono arrivati? Essi vedevano pur sempre, in un certo modo, l’ente-mosso. Che cosa, in questo ente, nel come del suo mostrarsi, esigeva che ci si rivolgesse a esso? Questo domandare è una critica positiva, rende nuovamente visibile un’insufficienza. Xαλεπὴν ἰδεῖν, «però qualcosa che può essere!».931 L’elemento primario è ciò che si mostra: l’ente-mosso «ci» è. Come me lo porto in vista? Non nel modo precedente. Quindi: visione del «Ci», presenza del non ancora prodotto. Possibile solo se la presenza è vista, cioè se la problematica ontologica viene esplicitata, in riferimento al suo specifico terreno: presente (soggiorno – presente). L’esserci visto in quanto essere-in e considerato secondo le sue possibilità fondamentali.
Manoscritto relativo al par. 28 a Fisica Γ 3 – Disposizione 202 a 13-21: Presente di ciò che può essere mosso e di ciò che muove. ᾿Εν τίνι ἡ κίνησις; – μία ἀμϕοῖν.932 Ritorno al πρός τι. 202 a 21-202 b 5: Proprio allora però, dal πρός τι (ποίησις – πάθησις),933 ἐνέργειαι ἕτεραι,934 due movimenti. Dunque propriamente due movimenti da considerare e da esprimere, ma si parla di uno – ἀπορία λογική:935 ἐν τίνι936 i due? a 22-28: Triplice possibilità: 1. ποίησις – πάθησις entrambe ἐν κινουμένῳ; 2. ποίησις nel ποιοῦν, πάθησις ἐν κινουμένῳ; 3. ποίησις nel κινούμενον, πάθησις nel κινοῦν. a 28-31: Ad 3. a 31-b 5: Ad 1. Ad 2: Ciò che segue, solo correttamente inteso. 202 b 5-22: Risoluzione della difficoltà. Raddoppiamento della prospettiva stante l’identità dello stato di fatto. 202 b 22-29: Ricapitolazione e nuova formulazione della definizione del movimento sulla base del capitolo 3. Manoscritto relativo al par. 28 b Per preparare la definizione del movimento, Aristotele aveva richiamato l’attenzione 1. sull’«esserci attualmente presente» e sul «poter esserci», 2. sui modi d’incontro del mondo in quanto «attualmente presente» e «potente essere». 3. Questi modi rendono manifesto l’ente in quanto tale, che, in se stesso, è sempre, di volta in volta, in un «da... a...», un avere un determinato aspetto e, nel contempo, non averlo, «non apparire così», l’«essere assente» di qualcosa, il carattere del medio. Finora non abbiamo discusso un’ulteriore determinazione dell’ente, anch’essa preliminare, che si ricollega 937 all’illustrazione delle categorie, il πρός τι. Il πρός τι è
anch’esso una categoria, rende manifesto il mondo che «ci» è nel carattere d’incontro dell’«essere in relazione a...», dell’uno rispetto all’altro. Alle quattro categorie οὐσία, ποιόν, ποσόν, τόπος corrispondono quattro εἴδη della κίνησις: γένεσις – ϕθορά, ἀλλοίωσις, αὔξησις – ϕθίσις, ϕορά.938 Non vi sono altre specie di movimento. L’esplicita adduzione del πρός τι nella preparazione ontologica della definizione del movimento deve avere quindi un altro senso: la prefigurazione della modalità d’incontro del mondo non già riferita a un determinato modo del movimento, bensì a ogni ente in movimento. L’adduzione di questa categoria deve rendere manifesto il seguente stato di fatto fondamentale: gli enti del mondo ci si fanno incontro come una molteplicità di enti che sono come sono in quanto «in relazione l’uno all’altro», πρὸς ἄλληλα. Nella misura in cui è sempre, di volta in volta, nel διχῶς, ogni ente, in se stesso, è da intendersi nel contempo in quanto in relazione a qualcos’altro: «Più di questo e meno di quello». Tali oscillazioni sono presenti in quanto «come» dell’«essere in relazioni» dell’ente. Cfr. Categorie 7. ῾ϒπεροχή ed ἔλλειψις sono possibili determinazioni del πρός τι:939 esso ne costituisce il fondamento. In quanto concetti fondamentali così intesi, Aristotele, accanto a ὑπεροχή ed ἔλλειψις, menziona ποίησις e πάθησις,940 «avere a che fare con...», «essere riguardati da...» («azione reciproca»). Nel mondo si ritrova questa relazione, più precisamente: in essa ci si fa incontro l’ente in quanto sempre, di volta in volta, questo ente qui e ora – l’ente in quanto essente lì presente, ente facente la sua comparsa –, però nella specifica modalità ontologica della «semplice presenza nel mondo» – l’«innanzitutto», l’indifferenza. In precedenza abbiamo richiamato l’attenzione su questo aspetto: nel mondo sono presenti uomini che incontriamo – e noi stessi siamo lì presenti –, uomini che sono affaccendati, «si danno da fare con...», esseri viventi, animali. Tuttavia il «darsi da fare con...», l’essere in relazioni di questo tipo, ci è noto sia in quanto qualcosa che avviene nel mondo, sia in quanto
modo del nostro esserci, che non è soltanto un «essere semplicemente presenti», ma un essere presenti nel modo fondamentale dell’«essere nel mondo». Il πρὸς ἄλληλα (cfr. De partibus animalium e De anima) ha ancora la possibilità eccellente del πρός τι: nel senso dell’ἀντικείμενον,941 in modo tale che quest’ultimo sia un autentico ἀντί: avere lì di fronte l’«a che» dell’«essere in relazione», cioè il mostrarsi, il mostrantesi nel modo dell’essere-scoperto, l’essere-lì nella svelatezza, ovvero «lì per...» e, nello stesso tempo, percepirlo, πάσχειν, essere riguardato dall’ente in quanto mondo; πάσχειν in quanto δέχεσθαι, «percepire», e ciò primariamente in quanto πάθος, «essere riguardato», «sentirsi-situato», essere in relazione al mondo in quanto essere in esso, essere avendo a che fare con esso. Esserci in quanto vita, un ente in quanto «essere per il mondo». L’esserci umano è determinato dal νοῦς: l’esserescoperto si dà nell’essere-opinante. In quanto modalità fondamentale dell’umano «essere nel mondo», tale opinare è, in ultima analisi, anche un «percepire il mondo», un «averlo-lì in questo e quest’altro modo», un venire riguardati (cfr. ἡδονή – καταϕάναι, ἀποϕάναι – διά) dal mondo, e non solo da un ente determinato in determinate modalità d’incontro, bensì da ogni possibile ente del mondo. Il νοεῖν così inteso ha il carattere ontologico del venire riguardato da ciò che è scoperto, che a sua volta è possibile soltanto nel senso che il venire riguardato da ciò che è scoperto si fonda di per sé in un avere-ed-essere in genere scoperto, cioè in uno scoprire, visualizzare in quanto tale. Il νοῦς τῆς ψυχῆς è παθητικός942 (come si è detto in seguito; in Aristotele questo termine non ricorre), e lo è in quanto νοῦς essente sulla base del ποιητικός, che rende in genere possibile l’esserepercepibile e l’essere-scoperto, ovvero lascia vedere – fa vedere – ciò che è scoperto: νοῦς ποιητικός.943 È così che ποίησις e πάθησις, in quanto modi di spiegazione dell’ente, rinviano fin dentro l’essere dell’esserci in quanto tale – il che però significa: esse dominano
incontrastate, come il filo conduttore, l’interpretazione dell’ente. Questo chiarisce ciò che si è sempre sostenuto nelle ipotesi didattiche: «essere» significa essere-prodotto – senso dell’essere in quanto ποίησις, e, al tempo stesso, interpretato in base all’essere attualmente presente, essere presente qui e ora. Perché il νοῦς è l’essere per antonomasia? Perché è la ποίησις in un senso eccellente, e precisamente nel senso che il νοῦς ἀμιγής,944 in quanto scoprente, offrente visuale, rende esso stesso in genere possibile l’essere attualmente presente. Ciò che è in questo modo è l’«ente in quanto tale» (cfr. ὂν ᾗ ὄν)! Aristotele conclude la trattazione del πρός τι, l’accenno alla modalità di relazione, con καὶ ὅλως, «e nel complesso ciò che può muovere e ciò che può essere mosso».945 Risulta così evidente che l’ente che è in movimento «ci» è, in quanto ente, nell’esserci-con qualcos’altro, ovvero che il «ci-con» è determinato dalla relazione dell’uno all’altro, e dell’altro all’uno. Manoscritto relativo al par. 28 c La κίνησις è già spiegata in quanto modo determinato dell’essere attualmente presente del δυνάμει ὄν in quanto tale. La κίνησις è la modalità del presente di quell’ente che è nel menzionato esserci-con dell’uno in relazione all’altro. Se però questo carattere ontologico si estende all’ente nella sua universalità, allora la κίνησις diventa un modo eccellente dell’esser-ci dell’ente. Riferito al compito dell’interpretazione dell’ontologia greca ciò significa: la messa in luce del senso dell’essere dominante sia nell’ontologia greca, sia, nel suo vero e proprio culmine, in Aristotele – dominante poiché egli è già pratico dell’esperienza implicita dell’esserci del mondo e della vita –, la messa in luce centrata sull’interpretazione del movimento! Nella misura in cui però la κίνησις viene identificata con i nomi ἐνέργεια ed ἐντελέχεια, queste sono
le categorie ontologiche primarie dell’ontologia greca! L’ente in movimento è stato definito «essere attualmente presente» dell’ente nel suo poter-essere. La κίνησις costituisce quindi il «Ci» dell’ente in movimento, dell’entemosso. Tuttavia, l’ente che è mosso è (cfr. il πρός τι) «essere» in relazione all’ente che muove, nell’esserci-con di un κινοῦν, ovvero di un κινητικόν. Come va definito il «Ci» di questo «essente-ci con» che è-con l’ente in movimento in quanto ente che è mosso? Questo «Ci» viene forse anch’esso definito dall’essere attualmente presente nel senso del presente del δυνάμει ὄν, ᾗ τοιοῦτον, dunque dell’ἐνέργεια? Oppure questo presente è un altro, di modo che il κινοῦν e il κινούμενον sarebbero sempre, di volta in volta, determinati da ἐνέργειαι differenti? Oppure questo presente è l’uno e il medesimo, e solo in quanto così concepito costituisce il «Ci» rettamente inteso dell’ente in movimento, dell’ente che si muove (ϕύσει ὄντα, ciò che si muove a partire da se stesso)? Sono queste le domande che Aristotele pone nel capitolo 3. Solo dando loro risposta la spiegazione del movimento può dirsi conclusa. Κίνησις ἕν in ciò che è mobile: essere attualmente presente nel «Ci» – portare nel «Ci», muovere. Ciò che muove e ciò che è mosso sono nello stesso «Ci». ᾿Ενεργεῖν: mettere in lavorazione, portare nell’«essere in cammino», l’«essere in cammino» del «Ci», la presenza determinata del δυνάμει in quanto tale. Ciò che può portare è il «potente portare nell’essere in cammino» un κινητόν. Portare nell’«essere in cammino», mettersi esso stesso in cammino – essere nello stesso «Ci». Lo stesso «Ci»: come διάστημα. Essere-mosso è essere nell’esserci-con di ciò che muove: «ci-con» = ἐνέργεια. Κινοῦν – κινούμενον: il loro esser-ci è lo stesso essere attualmente presenti. Lo stesso – però il λόγος, il punto di vista, è diverso. L’ἀπορία λογική946 concerne il «rivolgersi a... in quanto...»: si può concepire l’ἐνέργεια ἀποτετμημένη,947 «di per sé scissa», invece di essere primariamente «ciò che è in relazione reciproca». Il «come» dell’esserci dell’ente (l’ente
inteso come un alcunché di mosso che viene mosso), colto prima dal lato del muovere, poi dal lato dell’essere mosso – sempre, di volta in volta, lo stesso: ente in movimento. ᾿Ενέργεια del κινοῦν, non un’altra. La stessità rende evidente un «come» del «Ci»: non «forze» e cose del genere, «effetto», «energia», il che significa: nessuna mistica questione di influxus, ecc., bensì nel campo del «Ci» – ci si interroga sull’«essere attualmente presente» di quell’ente che «ci» è con altri enti, e che in se stesso è δυνατόν. In «ciò che è mobile», nel κινητόν, c’è ἐνέργεια. Il movimento è il «Ci» del δυνάμει. Esso però diviene tramite ciò che muove. Diviene il presente? L’essere attualmente presente? Il muovere di ciò che muove, e il venire mosso di ciò che è mosso, sono lo stesso «Ci», e ciò significa che il movimento non è un ente, ma un «come» dell’essere del mondo: molte cose in movimento, che si muovono, quiete nel caso del non-muovere. La triplice definizione del movimento L’esserci dell’insegnante – l’essere sempre, di volta in volta, concretamente di fronte a uno rivolgendogli la parola – è l’imparare dell’altro. δίδαξις μὲν ἐπιστήμης δόσις, μάθησις δὲ ἐπιστήμης λῆψις [...] ἓν δὲ τὸ ἐν ἀμϕοῖν τὸ θεώρημα.948 Due definizioni del movimento: 1. ἐντελέχεια τοῦ δυνάμει, ᾗ τοιοῦτον,949 l’«essere attualmente presente» di un ente in una relazione determinata a un altro ente, e precisamente in modo tale che il primo sia in quanto «potente essere» «tramite» il secondo. 2. ἐντελέχεια τοῦ κινητοῦ, ᾗ κινητόν,950 nell’«esserci-con» di ciò che muove, «ci» è «con» il movente del movibile; l’essere attualmente presente – la pienezza del δυνάμει – è in se stesso esser-ci di ciò che muove. ἐντελέχεια [...] ἡ τοῦ δυνάμει ποιητικοῦ καὶ παθητικοῦ, ᾗ τοιοῦτον.951 Addurre quest’ultima solo dopo che si è chiarito: non sono due diversi movimenti, che ne costituiscono un terzo (dunque il movimento sarebbe già presupposto!), ma si
tratta di determinazioni dell’uno e medesimo. Concettualità e movimento – ontologia Predisponibilità: τί τὸ ὄν; ϕύσει ὄντα, κινούμενα – tenere saldamente il terreno. Previsione: l’essere di questo ente: esserci in quanto mondo, presente, «Ci», senso dell’essere in quanto tale, al cui interno va compresa la κίνησις in quanto «come» dell’esserci – γένος, provenienza, «da dove» (si veda sotto). Precognizione: ente nel suo essere: quindi quei «caratteri di “Ci”» che consentono all’ente di mostrarsi in quanto entemosso. ᾿Ενέργεια, ἐντελέχεια, δύναμις sono le categorie primarie riferite al mondo, solo a partire da esse si comprendono la realtà e l’essere attualmente presente del mondo: cose in quiete, trapassare, e così via. Ma porre in luce anche il prendersi cura, l’avere a che fare, l’esserepresente, il soggiornare. L’essere-scoperto – νοῦς. Metodo della formazione del concetto chiarito per contrasto. Tendenza alla fondatezza (cfr. αἴτιον) e alla conformità, ἀποϕαίνεσθαι, in modo tale che ciò che viene mostrato altro non sia che εἶδος: ha questo aspetto. Su ciò A e B. Assicurazione. Su che cosa ci si interroga? Come? Ciò pone, in ultima analisi, di fronte a nuovi compiti. L’analisi del movimento di per sé non è altro che la scoperta dell’essere in quanto essere attualmente presente. Questo γένος, infatti, non è di per sé pronto, ma nasce nel e con il movimento. Tale ente (κινούμενον), interrogato riguardo al suo essere, rende espliciti questi caratteri. Rettamente intesa, la formazione del concetto lavora sempre nell’ἀρχή, il τί ἦν. I concetti: non il «che cosa», ma il «da che cosa», il «da dove» del punto di partenza. La formazione del concetto è produttiva quando consente la riproduzione. Λόγος: «riguardo a...», in precedenza invece καθό «essere-in», il suo primario «essere già interpretato» – quest’ultimo καθό oppure καταλλήλως.
775. Cfr. Met. Γ 2, 1004 b 17 sgg. 776. Vorlesungen Kants über Logik, cit., II: Allgemeine Methodenlehre, parr. 99-109. 777. Ibid., p. 444. 778. Ibid., I: Allgemeine Elementarlehre, par. 1. 779. Ibid., II: Allgemeine Methodenlehre, par. 98. 780. Cfr. ibid., Einleitung, pp. 350 sg. 781. Nota del Curatore dell’edizione tedesca: Si riferisce allo schema di p. 359. 782. Nota del Curatore dell’edizione tedesca: Si riferisce allo schema di p. 359. 783. Nota del Curatore dell’edizione tedesca: Cancellato nel manoscritto. 784. Met. Δ 8, 1017 b 21 sgg. 785. Met. Η 1, 1042 a 17. 786. An. post. B 3, 90 b 16. 787. Cfr. M. Heidegger, Einführung in die phänomenologische Forschung, a cura di F.-W. v. Herrmann, in Gesamtausgabe, cit., vol. XVII, 1994, pp. 31 sgg. 788. Met. Ζ 15, 1040 a 11. 789. Met. Δ 23, 1023 a 8 sg. 790. Met. Ζ 1, 1028 b 2 sgg. 791. Cfr. Rhet. B 13, 1389 b 28 sg.: ἓν γάρ τι τῶν ἀναγκαίων ἡ οὐσία. 792. Nota del Curatore dell’edizione tedesca: Nel manoscritto, dopo Index si trova: «544 a 6-25». Poiché questo passo (che ricorre nel De animalium historia) non ha nulla a che fare con l’οὐσία, e poiché H. Bonitz (Index Aristotelicus, Akademieausgabe, vol. V) riguardo all’οὐσία nel senso di res familiaris, opes, divitiae, registra tra l’altro, come passo citato, il frammento 401, 1545 a 18, sembra trattarsi qui di una svista di Heidegger. 793. Cfr. Eth. Nic. Δ 1, 1120 b 34 sgg. 794. Met. Ζ 2, 1028 b 8 sg. 795. Met. Η 1, 1042 a 6 sgg.: οὐσίαι [...] ὁμολογούμεναι.
796. Met. Ζ 3, 1029 a 33 sg. 797. Nota del Curatore dell’edizione tedesca: La lettura di queste parole stenografate nel manoscritto è incerta. 798. Met. Δ 8, 1017 b 13 sg.: οὐ καθ᾿ ὑποκειμένου λέγεται, ἀλλὰ κατὰ τούτων τἆλλα. 799. Met. Δ 8, 1017 b 15: αἴτιον τοῦ εἶναι, ἐνυπάρχον ἐν τοῖς τοιούτοις. 800. Met. Δ 8, 1017 b 16. 801. Nota del Curatore dell’edizione tedesca: Si veda pp. 79 sgg. e pp. 376 sg. 802. Met. Δ 8, 1017 b 17 sgg.: μόρια ἐνυπάρχοντα [...] ὧν ἀναιρουμένων ἀναιρεῖται τὸ ὅλον, οἷον ἐπιπέδου σῶμα [...] καὶ ἐπίπεδον γραμμῆς. 803. Met. Δ 8, 1017 b 17. 804. Met. Δ 8, 1017 b 18: τόδε τι σημαίνοντα. 805. Met. Δ 8, 1017 b 20: καὶ ὅλως ὁ ἀριθμὸς δοκεῖ τισι τοιοῦτος εἶναι. 806. Met. Δ 8, 1017 b 22 sg. 807. Met. Δ 8, 1017 b 24: ὑποκείμενον ἔσχατον. 808. Met. Δ 8, 1017 b 25: ὃ ἂν τόδε τι ὂν καὶ χωριστὸν ᾖ. 809. Met. Δ 8, 1017 b 26. 810. Cfr. Met. Ζ 3-4. 811. Met. Η 1, 1042 a 12 sg.: ἄλλας δὲ δὴ συμβαίνει ἐκ τῶν λόγων οὐσίας εἶναι τὸ τί ἦν εἶναι καὶ τὸ ὑποκείμενον. 812. Cfr. Met. Ζ 3, 1029 a 33 sg. 813. Met. Ζ 3, 1029 b 31 sg. 814. W. Jaeger, Studien zur Entstehungsgeschichte der Metaphysik des Aristoteles, cit., p. 95, nota. 815. Met. Ζ 3, 1029 b 8 sgg.: τὰ δ᾽ ἑκάστοις γνώριμα καὶ πρῶτα πολλάκις ἠρέμα ἐστὶ γνώριμα, καὶ μικρὸν ἢ οὐδὲν ἔχει τοῦ ὄντος. 816. Phys. A 1, 184 a 21 sg. 817. Phys. A 1, 184 a 23 sg.: ἐκ τῶν καθόλου. 818. Phys. A 1, 184 b 13. 819. Phys. A 1, 184 a 15 sg. 820. Top. Ζ 4, 141 a 26 sgg. 821. Pol. A 2, 1253 a 2 sg.
822. Eth. Nic. A 6, 1098 a 3: [ζωὴ] πρακτική τις τοῦ λόγον ἔχοντος. 823. Eth. Nic. A 1, 1094 b 7. 824. Eth. Nic. A 6, 1098 a 7. 825. De an. Γ 2, 427 a 17 sg. 826. [In latino nel testo]. 827. Met. Θ 8, 1050 b 23. 828. Eth. Nic. A 11, 1100 b 17: μὴ γίνεσθαι περὶ αὐτὰς λήθην. 829. M. Heidegger, Einführung in die phänomenologische Forschung, cit., pp. 31 sgg. 830. Eth. Nic. Η 14, 1153 b 33 sg.: εἰλήϕασι τὴν τοῦ ὀνόματος κληρονομίαν αἱ σωματικαὶ ἡδοναί. 831. De an. Γ 4, 429 a 22. 832. Cfr. Eth. Nic. Ζ 6, 1140 b 31 sgg. 833. Met. Ζ 4, 1030 a 6 sg.: τὸ τί ἦν εἶναί ἐστιν ὅσων ὁ λόγος ἐστὶν ὁρισμός. 834. De an. Γ 4, 429 a 13. 835. De an. Γ 4, 429 a 10 sg. 836. De an. Γ 4, 429 a 15 sg. 837. De an. Γ 4, 429 a 21 sg.: ὥστε μηδ᾽ αὐτοῦ εἶναι ϕύσιν μηδεμίαν ἀλλ᾿ ἢ ταύτην, ὅτι δυνατόν. 838. De an. Γ 8, 431 b 21. 839. De an. Γ 4, 429 a 29. 840. De an. Γ 4, 429 a 22 sgg. 841. De an. Γ 4, 429 b 3 sg. 842. De an. Γ 4, 429 b 6 sg. 843. De an. Γ 4, 429 b 23 sg. 844. De an. Γ 4, 429 b 9. 845. De an. Γ 4, 429 b 26. 846. De an. Γ 4, 430 a 4 sgg. 847. De an. Γ 5, 430 a 14 sg. 848. De an. Γ 5, 430 a 15. 849. De an. Γ 5, 430 a 18 sg. 850. De an. Γ 6, 430 a 27 sg. 851. De an. Γ 6, 430 a 27. 852. De an. Γ 6, 430 a 26 sg.: ἡ μὲν οὖν τῶν ἀδιαιρέτων
νόησις ἐν τούτοις, περὶ ἃ οὐκ ἔστι τὸ ψεῦδος. 853. De an. Γ 7, 431 a 8: τὸ μὲν οὖν αἰσθάνεσθαι ὅμοιον τῷ ϕάναι μόνον καὶ νοεῖν. 854. De an. Γ 7, 431 a 9: ὅταν δὲ ἡδύ ἢ λυπηρόν, οἷον καταϕᾶσα ἢ ἀποϕᾶσα. 855. Phys. Γ 1, 200 b 16: περὶ τῶν ἐϕεξῆς. 856. Phys. Γ 1, 200 b 26 sg. 857. Phys. Γ 1, 200 b 28. 858. Phys. Γ 1, 200 b 28 sg. 859. Phys. Γ 1, 200 b 32 sg. 860. Phys. Γ 1, 201 a 3. 861. H. Diels, Etymologica, cit., p. 203. 862. Themistii in Aristotelis Physica paraphrasis, 202, 7 sg. 863. Phys. Γ 1, 200 b 22. 864. Phys. Γ 1, 200 b 24 sg. 865. Phys. Γ 1, 200 b 13 sg. 866. Phys. Γ 1, 200 b 26: ἔστι δή τι τὸ μὲν ἐντελεχείᾳ μόνον. 867. Phys. Γ 1, 200 b 32. 868. Met. Θ 7, 1048 b 37: οὐ γὰρ ὁποτεοῦν. 869. Met. Θ 7, 1048 b 37 sgg. 870. Met. Θ 7, 1049 a 17 sg.: ἡ γῆ οὔπω ἀνδριὰς δυνάμει· μεταβαλοῦσα γὰρ ἔσται χαλκός. 871. Met. Θ 7, 1049 a 18. 872. Met. Θ 7, 1049 a 19: ξύλινον. 873. Met. Θ 7, 1049 a 20: ἐκείνινον. 874. Met. Θ 7, 1049 a 33. 875. Phys. Ε 2, 225 b 20 sg. 876. Fr. 586, 1573 b 28 sg.: ὁ δὲ ᾿Αριστοτέλης ἐν ταῖς διδασκαλίαις δύο ϕησὶ γεγονέναι [κινησίας]. 877. Phys. Ε 1, 224 b 7 sg. 878. Cfr. Phys. Ε 1, 225 a 1 sg.: πᾶσα μεταβολή ἐστιν ἔκ τινος εἴς τι (δηλοῖ δὲ καὶ τοὔνομα· μετ᾿ ἄλλο γάρ τι καὶ τὸ μὲν πρότερον δηλοῖ, τὸ δ᾽ ὕστερον). 879. Phys. Ε 1, 224 b 5 sgg. 880. Phys. Ε 1, 224 b 25.
881. Eth. Nic. Γ 1, 1110 a 13 sg. 882. Cfr. De an. A 1, 402 a 11 sgg. 883. Rhet. A 3, 1359 a 16 sgg.: ἅπαντες [...] κατηγοροῦντες [...] οὐ μόνον τὰ εἰρημένα δεικνύναι πειρῶνται. 884. Rhet. A 3, 1358 b 10 sg.: δίκης δὲ τὸ μὲν κατηγορία τὸ δ᾽ ἀπολογία. 885. Met. B 3, 998 b 15. 886. Met. B 3, 998 b 16. Cfr. Met. A 2, 994 b 21 sg.; B 3, 999 a 15 sg. 887. Met. B 3, 998 b 28. 888. An. post. B 13, 96 b 25. 889. [In latino nel testo]. 890. Met. Ν 2, 1089 a 26. 891. Nota del Curatore dell’edizione tedesca: Sul tema delle categorie si vedano anche i supplementi in appendice. 892. Simplicii in Aristotelis Physicorum libros quattuor priores commentarii, in Commentaria in Aristotelem Graeca, edita consilio et auctoritate Academiae Litterarum Regiae Borussicae, ed. H. Diels, Berolini, 1882, 92v 41. 893. Ibid., 92v 44 sg.: πανταχοῦ δὲ ἡ μὲν ἐπὶ τὸ κρεῖττον τῶν ἀντικειμένων ὁδὸς τὸ εἴδους ἔχον λόγον εἴδει καὶ αὐτὸ ἀναλογήσει, ἡ δὲ ἐπὶ τὸ χεῖρον καὶ στερητικὸν στερήσει. 894. Phys. Ε 1, 224 b 26 sgg. 895. Phys. Ε 1, 224 b 29. 896. Phys. Ε 1, 225 a 6 sg. 897. Phys. Γ 1, 201 a 10 sg.: ἡ τοῦ δυνάμει ὄντος ἐντελέχεια, ᾗ τοιοῦτον. 898. Phys. Γ 1, 201 a 20. 899. Phys. Γ 1, 201 a 17: οἰκοδομεῖται. 900. Phys. Γ 1, 201 a 18. 901. Phys. Γ 1, 201 b 5 sgg.: ὅτι μὲν οὖν ἐστιν αὕτη, καὶ ὅτι συμβαίνει τότε κινεῖσθαι ὅταν ἡ ἐντελέχεια ᾖ αὕτη, καὶ οὔτε πρότερον οὔτε ὕστερον, δῆλον. 902. Phys. Γ 1, 201 b 8. 903. Deutsches Wörterbuch von Jacob Grimm und Wilhelm Grimm, vol. IV, sez. II, Leipzig,1877, s.v. «in», col.
2081 sgg. 904. Themistii in Aristotelis Physica paraphrasis, 205, 22 sg.: κίνησιν λέγω καὶ τελειότητα τῆς δυνάμεως. πᾶσα γὰρ τελειότης σῷζει ὃ τελειοῖ. 213, 1 sg.: ἄλλη δέ ἐστιν ἐνέργεια ἡ τοῦ δυνάμει ὄντος ἐν τῷ πράγματι σῴζουσα αὐτοῦ τὸ δυνάμει. 905. Phys. Γ 1, 201 b 32. 906. Phys. Γ 2, 201 b 16 sg.: ἐξ ὧν οἱ ἄλλοι περὶ αὐτῆς λέγουσι. 907. Phys. Γ 2, 201 b 17 sg.: μὴ ῥᾴδιον εἶναι διορίσαι ἄλλως αὐτήν. 908. Phys. Γ 2, 201 b 20: ἑτερότητα καὶ ἀνισότητα καὶ τὸ μὴ ὄν. 909. Phys. Γ 2, 201 b 24. 910. Phys. Γ 2, 201 b 25: τῆς δὲ ἑτέρας συστοιχίας αἱ ἀρχαί. 911. Phys. Γ 2, 201 b 28. 912. Phys. Γ 2, 202 a 3 sg.: κινεῖται δὲ καὶ τὸ κινοῦν [...] τὸ δυνάμει ὂν κινητόν. 913. Phys. Γ 2, 202 a 5: τούτῳ ἡ ἀκινησία ἠρεμία. 914. Phys. Γ 2, 202 a 2: ἰδεῖν. 915. Phys. Γ 2, 202 a 9: εἶδος δὲ ἀεὶ οἴσεται τὸ κινοῦν. 916. Loc. cit. 917. Phys. Γ 3, 202 a 22 sg. 918. Phys. Γ 3, 202 b 17 sg. 919. Phys. Γ 3, 202 b 21 sg. 920. Phys. Γ 1, 201 a 12 sgg. 921. Themistii in Aristotelis Physica paraphrasis, 211, 12. 922. Phys. Γ 2, 201 b 18 sg.: οὔτε γὰρ τὴν κίνησιν καὶ τὴν μεταβολὴν ἐν ἄλλῳ γένει θεῖναι δύναιτ᾿ ἄν τις. 923. Phys. Γ 2, 201 b 24. 924. Loc. cit. 925. Phys. Γ 2, 201 b 28 sg.: οὔτε εἰς δύναμιν τῶν ὄντων οὔτε εἰς ἐνέργειαν ἔστι θεῖναι αὐτήν. 926. Phys. Γ 2, 202 a 1 sg.: ἐνέργειαν μέν τινα εἶναι, τοιαύτην δ᾽ ἐνέργειαν οἴαν εἴπομεν. 927. Phys. Γ 2, 201 b 32.
928. Phys. Γ 2, 202 a 2 sg.: χαλεπὴν μὲν ἰδεῖν, ἐνδεχομένην δ᾽ εἶναι. 929. Phys. Γ 2, 202 a 5 sg.: τὸ γὰρ πρὸς τοῦτο [τὸ δυνάμει ὄν] ἐνεργεῖν, ᾗ τοιοῦτον, αὐτὸ τὸ κινεῖν ἐστί. 930. Phys. Γ 2, 202 a 8 sg.: συμβαίνει δὲ τοῦτο θίξει τοῦ κινητικοῦ, ὥσθ᾿ ἅμα καὶ πάσχει. Nota del Curatore dell’edizione tedesca: Queste parole sono state poste da Prantl entro parentesi uncinate in quanto eiicienda. 931. Phys. Γ 2, 202 a 2 sg.: χαλεπὴν μὲν ἰδεῖν, ἐνδεχομένην δ᾽ εἶναι. 932. Phys. Γ 3, 202 a 18: μία ἡ ἀμϕοῖν ἐνέργεια. 933. Phys. Γ 3, 202 a 23 sg. 934. Phys. Γ 3, 202 a 25. 935. Phys. Γ 3, 202 a 21 sg.: ἔχει δ᾽ ἀπορίαν λογικήν. 936. Phys. Γ 3, 202 a 25. 937. Cfr. Phys. Γ 1, 200 b 28-32. 938. Cfr. Phys. Γ 1, 201 a 12 sgg. 939. Phys. Γ 1, 200 b 28 sg.: τοῦ δὲ πρός τι τὸ μὲν καθ᾿ ὑπεροχὴν λέγεται καὶ κατ᾿ ἔλλειψιν. 940. Phys. Γ 1, 200 b 29 sg.: τὸ δὲ κατὰ τὸ ποιητικὸν καὶ παθητικόν. 941. Cat. 10, 11 b 32 sgg.: ὅσα οὖν ἀντίκειται ὡς τὰ πρός τι, αὐτὰ ἅπερ ἐστὶν ἑτέρων λέγεται ἢ ὁπωσδήποτε πρὸς ἄλληλα λέγεται. 942. De an. Γ 5, 430 a 24 sg. 943. Cfr. De an. Γ 5, 430 a 10 sgg. 944. Cfr. De an. Γ 5, 430 a 18. 945. Phys. Γ 1, 200 b 30 sg.: καὶ ὅλως κινητικόν τε καὶ κινητόν. 946. Phys. Γ 3, 202 a 21 sg.: ἔχει δ᾽ ἀπορίαν λογικήν. 947. Phys. Γ 3, 202 b 8. 948. Themistii in Aristotelis Physica paraphrasis, 218, 21 sgg. 949. Phys. Γ 1, 201 a 10 sg.: ἡ τοῦ δυνάμει ὄντος ἐντελέχεια, ᾗ τοιοῦτον. 950. Phys. Γ 2, 202 a 7 sg. Cfr. 201 a 27 sgg.: ἡ δὲ τοῦ δυνάμει ὄντος ἐντελέχεια [...] ᾗ κινητόν.
951. Phys. Γ 3, 202 b 25 sgg.
APPENDICE
SUPPLEMENTI MANOSCRITTI RELATIVI AL TEMA «CATEGORIE» NON UTILIZZATI NEL CORSO
Supplemento 1 Categorie Le categorie si collocano nell’orizzonte delle ἀρχαί. Che cosa significano in genere le ἀρχαί? Il «da dove» dell’ente (in quanto tale), cioè il «come» dell’essere. Quale funzione hanno le categorie in quanto ἀρχαί? Che cosa può e deve essere ἀρχή/ἀρχαί dell’ente? ᾿Αρχή del carattere di «Ci»: ente in quanto οὐσία, cioè riguardante il «carattere di “Ci”» – ᾗ ὄν rinvia a un determinato senso dell’essere! O 1. τὰ πρῶτα τῶν γενῶν, oppure 2. τὰ ἔσχατα κατηγορούμενα ἐπὶ τῶν ἀτόμων952 (κατὰ μή). Ad 1. Possono in genere γένη essere ἀρχαί? Πρῶτα γένη, τὰ ἀνωτάτω τῶν γενῶν sono τὸ ὄν e τὸ ἕν.953 L’essere in quanto tale non può essere genere, nella misura in cui i predicati sono generi. Ma non può essere ἀρχή? Ne consegue che le ἀρχαί non sono γένη? Nella misura in cui l’«essere» è il μάλιστα κατὰ πάντων.954 Ma come? Categorie ed essere-scoperto «Parlare di...»: «esprimentesi rivolgersi a...» in quanto inessere, ovvero esser-ci del mondo. Cfr. i punti controversi: 1. determinazioni dell’ente; 2. determinazioni del λόγος: a) linguaggio, grammatica, b) proposizione, giudizio, predicazione – e variazioni. (Essere delle categorie, cfr. in particolare Eth. Nic. A!). Entrambi concepiti in modo non chiaro: non dell’ente, bensì dell’essere – «come» del «Ci» (e dello specifico mondoambiente – ζωὴ πρακτική, Eth. Nic. A 4); non del parlare, in quanto «soggettivo» o cose simili, bensì «essere interpretante in relazione a...»: le previsioni, le predisponibilità dell’avere a che fare, cioè i caratteri del
«come» dell’essere-in nel mondo, dell’essersi confrontati con esso – non aspetti, ma modi dell’essere-scoperto. Concentrarsi direttamente sul λόγον ἔχον! Accentuata espressività del λόγος consumato nel κατηγορεῖν. La formazione terminologica di Aristotele! Supplemento 2 Categorie di Aristotele (le Categorie) Τὰ κατὰ μηδεμίαν συμπλοκὴν λεγόμενα – ἕκαστον σημαίνει.955 Dunque 1. λεγόμενα: che vengono detti, mediante i quali, e nei quali, viene mostrato, quindi mostranti – mostrati. 2. κατὰ μηδεμίαν συνπλοκήν: in nessun modo mostranti altro (μὴ καταλλήλως)956 nel «come» dell’uno, non ἕτερον καθ᾿ ἑτέρου (capitolo 3).957 Modi del «lasciar semplicemente vedere», «poter semplicemente offrire l’ente», possibilità dell’offrire, cioè nel «come» del suo esser-ci; nell’avere a che fare così inteso, modi dell’essere-scoperto (di uno specifico essere-scoperto greco!), «come» dell’esser-ci dell’ente, «come» dell’essere! Non solo ἄνευ958 (cfr. nel capitolo 2 e nel capitolo 4 i medesimi esempi), spremere fuori in genere dal λόγος corrente! ᾿Εν οὐδεμιᾷ καταϕάσει – αὐτὸ καθ᾿ αὑτό.959 Qui già l’opposizione più netta e autentica contro ogni «ontologia» e «logica» platonica. I modi dell’essere-scoperto non offrono di per sé l’ente, ma sono possibilità di articolazione del «Ci». A essere suddiviso non è l’ente, e nemmeno le asserzioni, le parole e i concetti, bensì l’essere, la possibilità del «Ci», l’essere-scoperto, l’in-essere, l’avere a che fare (in termini greci certamente già interpretato e stabilito). Esse non sono mai ἀληθές, non scoprono, non implicano la tendenza a scoprire un ente, a rivolgersi a esso. Solo tramite συμπλοκὴ πρὸς ἄλληλα τούτων.960 Le categorie in quanto tali? No, bensì il fatto che qualcosa (stante in questa prospettiva) viene mostrato «in riferimento
a...», anzitutto in «qualcosa (prospettiva) con riguardo a...». Supplemento 3 Categorie Θ 1, all’inizio: οὕτω λεγόμενα, cioè πρὸς οὐσίαν.961 Λεγόμενα = οὕτω κατηγορούμενα.962 Λόγος: ἀποϕαίνεσθαι, questo però essere-in, dunque ἀποϕαινόμενα, «come» del (certamente) autentico «carattere di “Ci”». 1. Λεγόμενα: contesti interpretativi, 2. e precisamente mantenuti in riferimento all’ente nel «come» dell’οὐσία. Interpretare tutto il resto a partire dalla chiarificazione di ciò che è fatto così, cioè del carattere di «Ci»! Καθ᾿ αὑτὸ λεγόμενον ὄν (cfr. Met. Δ 7):963 è articolato in essi secondo le sue possibilità. Oὐσία è πρώτως (da dove? Originarietà e graduazione) καθ᾿ αὑτὸ λεγόμενον. Cfr. Η, il συμβαίνει ἐκ τῶν λόγων:964 le strutture proprie dell’οὐσία, ὑποκείμενον e τί ἦν εἶναι.965 Vuol dire χωριστόν e τόδε τι, «in se stesso» («Ci»), «il “Ci”». Gli autentici criteri del «carattere di “Ci”»: facendosi incontro e presentandosi così con un determinato aspetto. «Come» del nesso con l’ὂν ὡς ἀληθές: un particolare «come» dell’essere-scoperto riferito a un determinato λέγειν, λόγος. Con maggiore precisione Eth. Nic. Ζ! È proprio del «greco» il fatto che questo stesso «“come” dell’essere» divenga ancora esplicito nel particolare. Solo a partire da esso si dà accesso al «Ci». Cfr. Ζ 3 (delucidazione relativa alla p. 66):966 οἷς ὥρισται τὸ ὄν.967 Proprio qui appare chiaro come esse «scaturiscano» dal λόγος, come siano in esso in quanto «come» dell’esserescoperto, ma proprio questo in senso pieno. La ὕλη le ignora!968 Cfr. Ζ 4 (delucidazione relativa alle pp. 65-66): il fatto che i «caratteri di “Ci”», le possibilità dell’essere-in, rechino il nome (cfr. foglio «Categorie»: πτώσεις, διαιρέσεις)969 dell’assegnare-a, dell’ascrivere-a, in quanto trovantesi già lì
in esso, costituendo di volta in volta il «trovarsi già lì» (il trovare in anticipo), il «carattere di “Ci”», il che significa: formare la visuale! Supplemento 4 Categorie Λόγος in quanto campo decisivo della genuina problematica ontologica. Platone e gli antichi non videro il λέγειν τι κατά τινος nella sua differenza dal καθ᾿ αὑτό λέγειν, e nemmeno quest’ultimo nella sua struttura fondamentale. Tale struttura giunge tuttavia a espressione nelle categorie. Quindi il fatto che già in passato, e in modo fondamentale, le categorie abbiano svolto una funzione di guida dell’indagine ontologica significa che si è raggiunta una nuova e autentica comprensione della problematica dell’essere – ottenuta in base 1. all’essere-prodotto (in cui il punto 2. è di fatto inconcepibile!), 2. all’εἶδος in quanto «presentarsi con un determinato aspetto». Cfr. la stretta connessione per la comprensione dell’ontologia del divenire, cioè della fisica. Già il nome delle categorie accentua l’esplicita importanza di ciò che ha il carattere di λόγος, e dà importanza all’assegnare-a, all’ascrivere-a, καθ᾿ αὑτά, unitariamente all’articolazione primaria del contesto delle categorie – οὐσία in quanto πρῶτον. Ciò significa che dal punto di vista ermeneutico tutto il resto viene determinato dall’esperienza dell’esserci racchiusa nell’οὐσία. Deduzione, numero, ecc., sono per Aristotele elementi secondari, apportati dall’esterno in base alle tendenze del tutto estranee di una sistematica – elementi cercati in modo esteriore e, quindi, introvabili! Ciò che gli interessa è la possibilità concreta dell’indagine, non una «dottrina delle categorie», che è comunque fisicalista. Aristotele non tratta
delle categorie in quanto sistematica, ma le interpreta (οὐσία) nel senso dell’indagine ontologica! Supplemento 5 Κατηγορικόν Τὸ δὲ τί ἐστιν ἅπαν καθόλου καὶ κατηγορικόν.970 Supplemento 6 Κατηγορία Met. Λ 1, all’inizio: sono chiari la messa tra parentesi dell’οὐσία in quanto esseità dell’ente e il πρὸς ἕν delle categorie – il duplice πρῶτον.971 1069 b; 1070 a 31, 35; 1070 b. Met. Ν 1. Supplemento 7 Il πρὸς ἕν delle categorie Cfr. Met. Λ 4: cfr. testo di Christ, p. 251 sopra, letteratura e [...]: οὐσία non στοιχεῖον – nessuno [στοιχεῖον] per gli altri – e le categorie nessun κοινόν.972 Che cosa significa ciò dal punto di vista ontologico? Supplemento 8 Categorie Τόδε τι: l’«essere il “Ci”», «essere il “Ci”», «essereincontrante in se stesso».
Presente e ora. Oὐσία: «disponibilità», l’«avere», il «“Ci” più vicino», il «più vicino» nell’ambito di ciò che è scoperto, il più vicino essere attualmente presente e essere attualmente presente ora. Avente il carattere del «più vicino» e del «contro»: sentirsi-situato, soggiorno, eccetera.
952. Met. B 3, 998 b 15 sg. Cfr. Met. A 2, 994 b 22; Met. B 3, 999 a 14 sgg. 953. Met. B 3, 998 b 18 sgg. 954. Met. B 3, 998 b 21: κατὰ πάντων μάλιστα. 955. Cat. 4, 1 b 25 sg.: τῶν κατὰ μηδεμίαν συμπλοκὴν λεγομένων ἕκαστον [...] σημαίνει. 956. Met. Ζ 17, 1041 a 33. 957. Cat. 3, 1 b 10. 958. Cat. 2, 1 a 17: ἄνευ συμπλοκῆς. 959. Cat. 4, 2 a 5 sg. 960. Cat. 4, 2 a 6 sg.: τῇ δὲ πρὸς ἄλληλα τούτων συμπλοκῇ κατάϕασις γίγνεται. 961. Met. Θ 1, 1045 b 27 sgg. 962. Met. Ζ 1, 1028 a 13. 963. Met. Δ 7, 1017 a 7 sg.: τὸ ὂν λέγεται [...] καθ᾿ αὑτό. 964. Met. Η 1, 1042 a 12. 965. Met. Η 1, 1042 a 13. 966. Nota del Curatore dell’edizione tedesca: Questo e il seguente numero di pagina si riferiscono all’edizione della Metafisica curata da W. Christ: p. 66 = Γ 2, 1004 b 28-1005 a 18; p. 65 = Γ 2, 1004 b 1-27. 967. Met. Ζ 3, 1029 a 21. 968. Cfr. Met. Ζ 3, 1029 a 20 sg. 969. Si veda sopra, Manoscritto relativo al par. 26 e. 970. An. post. B 3, 90 b 4. 971. Met. Λ 1, 1069 a 18 sgg. 972. Met. Λ 4, 1070 b 2 sg.
NOTA DEL CURATORE DELL’EDIZIONE TEDESCA
Il presente volume XVIII della Gesamtausgabe contiene il testo, qui apparso per la prima volta, del corso di quattro ore settimanali che Heidegger tenne nel semestre estivo del 1924 presso la Philipps-Universität di Marburgo. Nel calendario delle lezioni Heidegger aveva annunciato un corso su Agostino, ma lo sostituì poi con un corso su Aristotele in vista della pubblicazione, progettata dal 1922, di un libro sullo Stagirita. Come testimoniano il manoscritto di Heidegger e una parte delle trascrizioni dei partecipanti, il titolo del corso era Concetti fondamentali della filosofia aristotelica. Il titolo provvisorio «Aristotele: Retorica», annunciato fino al novembre 1991 nel piano editoriale della Gesamtausgabe, era stato tratto dall’«Elenco dei corsi e delle esercitazioni di Martin Heidegger» stilato per William J. Richardson (W.J. Richardson, Heidegger. Through Phenomenology to Thought, Nijhoff, The Hague, 1963, p. 665). Il titolo del manoscritto sembra anche quello più attinente al contenuto del corso. È vero, infatti, che l’interpretazione dell’esserci dell’uomo riguardo alla possibilità fondamentale del parlare l’uno con l’altro, che occupa il centro del corso, si snoda in base al filo conduttore della Retorica aristotelica, ma è anche vero che, nello sviluppo di tale interpretazione, vengono considerati una serie di altri testi aristotelici, e inoltre il corso – secondo la sua concezione complessiva – si orienta sui concetti aristotelici fondamentali in quanto tali, senza fissarsi su un ambito particolare o uno specifico testo. Nel manoscritto, al titolo del corso segue l’annotazione: «Sem. est. 24. Dal 1° maggio (lun., mar., gio., ven., 7.008.00)». Heidegger tenne lezione il lunedì, martedì, giovedì e venerdì dalle 7.00 alle 8.00 (e non, come risulta dal
calendario delle lezioni, dalle 15.00 alle 16.00), dal 1° maggio – come riportano alcune trascrizioni dei partecipanti – fino al 31 luglio. Oltre che per la pausa di Pentecoste, dal 9 al 16 giugno, le lezioni si interruppero soltanto dal 5 all’8 maggio, quando Heidegger trascorse qualche giorno a Meßkirch in occasione del funerale del padre, morto il 2 maggio per un colpo apoplettico. A p. 7 degli appunti manoscritti compare l’annotazione orlata di nero «† P. 2 maggio 1924». Il corso comprese 43 ore complessive di lezione. Per quanto riguarda i materiali disponibili per l’edizione, il presente corso rappresenta un caso particolare, giacché non ci sono pervenuti né un manoscritto completo redatto da Heidegger, né una sua eventuale trascrizione: possediamo solo la parte iniziale e conclusiva degli appunti manoscritti, che, assieme, costituiscono all’incirca un terzo del tutto. Forse il manoscritto originale è stato smembrato in concomitanza con il lavoro al menzionato libro su Aristotele, e poi è andato in parte perduto. Heidegger stesso, durante i lavori preparatori per l’edizione della Gesamtausgabe, non seppe spiegarsi che fine avesse fatto il manoscritto mancante. Su suo incarico Cristina Klostermann approntò una copia dattiloscritta della trascrizione completa del corso realizzata da Fritz Schalk, che Heidegger ebbe modo di vedere, ma non di esaminare nel dettaglio e di correggere. Poiché tutti i tentativi di rintracciare la parte mancante del manoscritto da parte del Curatore del lascito non avevano dato esito, ed erano comunque disponibili, oltre alla trascrizione di Fritz Schalk, anche altre due trascrizioni complete (o parziali) eseguite da partecipanti alle lezioni, si decise di pubblicare il corso sulla base delle trascrizioni e di quanto restava del manoscritto di Heidegger. Il plico manoscritto si compone di due plichi. Il primo comprende le pp. 1-14 e 9 supplementi; il secondo le pp. 5971 e 28 supplementi. Alcuni numeri di pagina del secondo plico comprendono più pagine, contrassegnate a loro volta
con una numerazione secondaria, consistente di numeri arabi, romani, o di lettere latine minuscole. Anche alla numerazione principale vengono in parte sovrapposte numerazioni parziali alternative costituite da numeri arabi o romani. Alcune pagine appartenenti allo sviluppo del manoscritto non recano un numero, oppure solo quello di una numerazione parziale alternativa, ma in base al loro contenuto possono essere inserite con certezza al loro posto. Il secondo plico, quindi, eccetto i supplementi, conta 29 pagine. Sul margine destro compaiono spesso integrazioni, la cui attinenza al testo principale viene talora evidenziata mediante segni di interpolazione. In due punti Heidegger ha stenografato una breve frase. Il Curatore ha avuto a disposizione sia una copia dell’originale conservato presso il Deutscher Literaturarchiv di Marbach, sia una trascrizione dattiloscritta dello stesso approntata da Hartmut Tietjen. Le trascrizioni del corso di cui si dispone sono costituite in parte da copie complete dattiloscritte o manoscritte, basate sugli stenogrammi originali, in parte da annotazioni – o loro copie trascritte – meno dettagliate realizzate a lezione. Le prime si debbono a Walter Bröcker, Fritz Schalk e Gerhard Nebel. Come per altri corsi e conferenze di Heidegger, Walter Bröcker eseguì una trascrizione stenografica del corso, e quindi una sua copia manoscritta che affidò poi a Herbert Marcuse, il quale ne fece una duplice copia dattiloscritta. Sono rimaste solo le due copie dattiloscritte, l’una conservata presso lo Herbert MarcuseArchiv della Stadt- und Universitätsbibliothek di Francoforte sul Meno, l’altra in possesso di Otto Friedrich Bollnow, che ne ha fatto dono alla Dilthey-Forschungsstelle dell’Università di Bochum. La nostra edizione si basa su una copia di quest’ultimo esemplare, che comprende 134 pagine e un frontespizio con il titolo: «Martin Heidegger / Concetti fondamentali della filosofia aristotelica / Semestre estivo 1924 / Marburgo», ripetuto in forma abbreviata sulla prima pagina. Nel dattiloscritto sono state inserite in forma manoscritta, probabilmente da Marcuse e Bollnow, alcune
correzioni e integrazioni, ma soprattutto le numerose citazioni in greco. Poiché nell’esemplare di Bochum le citazioni in greco arrivavano solo fino a p. 85, Guy van Kerckhoven – collaboratore della Dilthey-Forschungsstelle – ha inserito le citazioni mancanti sulla scorta dell’esemplare gemello conservato presso lo Herbert Marcuse-Archiv. La trascrizione di Fritz Schalk, eseguita (eccetto alcuni sintetici stenogrammi) in caratteri latini, comprende tre quaderni per complessive 361 pagine. Per l’edizione ci si è potuti servire degli originali dei primi due quaderni (pp. numerate 1-30 e 155-308; le pp. 131-54 lasciate in bianco non costituiscono una lacuna nel testo) – che si trovavano in possesso di Klaus Reich † –, mentre del terzo quaderno (pp. numerate 309-85), contenente anche una parte del corso sul Sofista del semestre invernale 1924/25, si è utilizzata una copia dell’originale conservato a Marbach. La prima pagina reca il titolo: «Marburgo sem. est. 24 Heidegger, Concetti fondamentali della filosofia aristotelica». Talvolta si trovano come note in calce aggiunte in seguito citazioni greche più ampie e indicazioni bibliografiche. Vi sono poi interventi in inchiostro rosso e a matita realizzati da una mano diversa. La trascrizione di Gerhard Nebel, realizzata in caratteri latini, era disponibile in una copia dell’originale custodito a Marbach, di cui sono conservati solo tre quaderni per un totale di 129 pagine (in origine si trattava di sette o otto quaderni): quaderno I (pp. numerate 1-54); quaderno IV (pp. numerate 1-38); quaderno V (pp. numerate 1-37). Questa trascrizione copre solo le pp. 37-89 e 161-235 della presente edizione. Talora compaiono integrazioni apportate in un’altra grafia. Un confronto fra queste tre trascrizioni mostra che quelle di Bröcker e Nebel – se si prescinde dai quaderni mancanti di quest’ultimo – in massima parte coincidono, pur contenendo anche varie piccole divergenze non ascrivibili a errori di stesura, e perciò riconducibili quasi certamente a trascrizioni stenografiche dirette delle lezioni che gli autori realizzarono indipendentemente l’uno dall’altro. La
trascrizione di Schalk, invece, fino a p. 200 è talmente identica a quella di Nebel (a parte, sempre, i quaderni mancanti), e fino a p. 360 talmente identica a quella di Bröcker – le differenze sono per lo più interpretabili come errori di copiatura –, da potersi considerare una copia delle trascrizioni di Nebel e Bröcker. In conclusione, per la maggior parte del corso disponiamo di due basi testuali quasi complete e indipendenti l’una dall’altra – cioè Bröcker e Nebel/Schalk, ovvero Bröcker/Schalk e Nebel – in base alle quali si può ricostruire con sufficiente precisione il testo esposto da Heidegger. Trascrizioni meno complete del corso sono state realizzate da Helene Weiß, Jacob Klein, Hans Jonas e Karl Löwith. La trascrizione di Helene Weiß, redatta in caratteri latini, e talvolta tedeschi, comprende 87 pagine non numerate raccolte in tre quaderni, il primo dei quali reca in copertina l’intestazione: «Sem. est. 1924 / Heidegger: Su alcuni concetti fondamentali della filosofia aristotelica». Sulla prima pagina, sotto il titolo del corso, compare l’annotazione: «Copia Bondi». Evidentemente – come già nell’ultima ora del corso del semestre invernale 1923/24 (Gesamtausgabe, vol. XVII, Nota del Curatore, p. 323) – Helene Weiß ebbe a disposizione come base la trascrizione della collega Elli Bondi. Il Curatore ha potuto disporre di una copia della copia dell’originale proveniente dal lascito di Helene Weiß, che fu fatta pervenire a Marbach dal nipote, Ernst Tugendhat. La trascrizione di Jacob Klein, di 58 pagine, realizzata in caratteri latini e interrotta a p. 220 della presente edizione, riporta sulla prima pagina: «Estate 1924 / Marburgo / Heidegger / Concetti fondamentali della filosofia aristotelica». Per l’edizione il Curatore ha potuto disporre di una copia dell’originale in possesso di Elze Klein, vedova di Jacob Klein. La trascrizione di Hans Jonas, realizzata in caratteri latini con il titolo «Heidegger su προαίρεσις e ἀρετή / sem. est. 1924», comprende solo 22 pagine di un quaderno contenente
anche annotazioni relative ad altri corsi. Essa copre le pp. 173-225 della presente edizione. La trascrizione di Karl Löwith, in parte realizzata in caratteri latini, in parte stenografata, comprendeva originariamente 47 pagine (le pp. 2-3 sono andate perdute). Sia della trascrizione di Jonas che di quella di Löwith il Curatore ha potuto disporre di una copia del rispettivo originale conservato a Marbach. Un confronto tra queste quattro trascrizioni meno complete e le trascrizioni di Bröcker, Nebel e Schalk ha stabilito che solo le trascrizioni di Jacob Klein e Helene Weiß – in misura ancora maggiore – raggiungono parzialmente lo stesso livello di completezza di quelle basate sulle trascrizioni stenografiche dirette, sicché per la ricostruzione del testo esposto da Heidegger a lezione si è tenuto conto solo di esse, tralasciando le trascrizioni di Hans Jonas e di Karl Löwith, che mantengono il carattere di brevi annotazioni cursorie più o meno elaborate. La pubblicazione del corso dipendeva dalla possibilità di rimpiazzare con il testo delle trascrizioni la parte centrale mancante del manoscritto di Heidegger, costituente più o meno i due terzi del tutto. In questo modo si procedeva nella direzione di un’autonomizzazione del testo delle trascrizioni, che Heidegger non aveva previsto per l’edizione dei suoi corsi. Appariva quindi più che coerente chiedersi se, anche nel caso delle parti di corso supportate dal manoscritto di Heidegger, non fosse più opportuno evitare un’integrazione diretta tra manoscritto e trascrizioni, per non occultare così parzialmente la manifesta autonomia del testo delle trascrizioni rispetto al testo del manoscritto. La procedura della rielaborazione integrativa prevista da Heidegger per l’edizione dei corsi si basa peraltro su precisi presupposti: anzitutto l’esistenza di un manoscritto completo che funga da correttivo adeguato delle trascrizioni; il secondo presupposto è che, nel caso del manoscritto e delle trascrizioni (complete), non si abbia a che fare con testi differenti, ma con versioni diverse dello stesso testo, cioè
che le due basi testuali siano talmente simili da poter essere reciprocamente integrate in una versione finale. Nel caso del presente corso entrambi questi presupposti non sussistono. Infatti un confronto tra il manoscritto e le corrispondenti parti delle trascrizioni complete mostra chiaramente che a lezione Heidegger non si limitava a proporre integrazioni e ampliamenti, formulando in modo compiuto i passaggi tratteggiati per lemmi, ma sostituiva quasi sempre con nuove formulazioni anche i passaggi già compiutamente formulati. Il tentativo di una rielaborazione integrativa avrebbe dunque valorizzato le formulazioni manoscritte in misura assai ridotta. Ma proprio la frammentarietà della base testuale manoscritta dell’edizione suggeriva di tenere conto nella loro completezza per lo meno delle parti conservate degli appunti di Heidegger. Ciò sembrava poter avvenire solo se nel presente volume – per la particolare situazione delle fonti – in via eccezionale si fossero pubblicati integralmente e separatamente, l’uno di seguito all’altro, entrambi i testi, quello delle trascrizioni e il manoscritto di Heidegger. La suddivisione del volume in una prima parte, contenente le trascrizioni, e in una seconda, contenente il manoscritto, intende dunque evidenziare il fatto che quest’ultimo, benché collocato al secondo posto, non va considerato alla stregua di una semplice «appendice», bensì – a dispetto del suo carattere frammentario –, esattamente come le trascrizioni quale testimonianza pienamente valida della base testuale del corso. Al riguardo il lettore tenga presente che alcuni aspetti importanti, come l’analisi del concetto fondamentale di οὐσία o la dimostrazione della possibilità della concettualità nell’esserci dell’uomo, nel manoscritto vengono sviluppati con una completezza identica e a tratti superiore a quella delle trascrizioni. L’ordine dei testi ha quindi solo uno scopo didattico, perché leggere prima il testo delle trascrizioni – completo e compiutamente formulato – può facilitare la comprensione del testo del manoscritto, spesso incompleto e formulato solo
per lemmi. Le corrispondenze di contenuto sono state evidenziate in duplice modo: nel testo delle trascrizioni, alla fine dei paragrafi o dei sottoparagrafi, note a piè di pagina rinviano alle parti corrispondenti – ove presenti – del manoscritto; nel testo del manoscritto sono stati inseriti titoletti che rinviano ai relativi paragrafi, o sottoparagrafi, delle trascrizioni. Per quanto riguarda in particolare l’elaborazione editoriale delle fonti disponibili, indichiamo anzitutto le misure comuni adottate sia per il manoscritto sia per le trascrizioni. Sono state corrette l’ortografia e la punteggiatura. Le molte locuzioni che consentono una grafia separata, unita, o con trattini, sono state uniformate dal Curatore tenendo conto delle abitudini generali di Heidegger. Ci si riferisce qui in particolare a due concetti centrali. Nel manoscritto ricorrono le formule di scrittura «Dasein» (esserci), «Da-sein» (esser-ci), «“Da”-sein» (esser-“ci”), che nell’intenzione originaria dovevano evidentemente rispecchiare il grado in cui il «carattere di “Ci”» dell’esserci viene di volta in volta tematizzato. Il Curatore ha mantenuto la grafia di questo concetto nel testo sia del manoscritto che delle trascrizioni, dove peraltro il massimo grado di tematicità non corrisponde alla formula «“Da”-sein», bensì a «Da-sein» (esser-ci). Analogamente, la locuzione «In-der-Welt-sein» (essere nel mondo), con tutte le varianti che emergono nel corso: «Sein-in-der-Welt» (esserenel-mondo), «In-einer-Welt-Sein» (essere-in-un-mondo), «Inseiner-Welt-Sein» (essere-nel-proprio-mondo), ecc., è stata coerentemente scritta con i trattini, e uniformata alla grafia adottata in Essere e tempo, allo scopo di evidenziare il significato unitario che tutte queste espressioni mantengono nel corso. Sono state sciolte abbreviazioni inconsuete, e modificate formulazioni verbali proprie dell’esposizione orale, nella misura in cui non corrispondevano a un’intenzione retorica, ma a una rigidità linguistica. Manifeste sviste scritturali, grammaticali o lessicali sono state tacitamente corrette. Ove
necessario, per ragioni grammaticali o di comprensione, si è provveduto a integrare singole parole, o (nelle articolazioni per punti) a inserire numeri. Tutte le citazioni sono state controllate e se necessario emendate sulla base delle edizioni adoperate da Heidegger – per Metafisica, Retorica e De anima utilizzando le copie di lavoro di Heidegger stesso. Tuttavia, nel testo principale si sono di regola mantenute citazioni libere o ellittiche di singole espressioni o parti di frasi – spesso preferite da Heidegger per motivi didattici –, affidando a una nota il compito di integrare la versione letterale originale. Solo nel caso di citazioni brevi – e abbreviate fino all’incomprensibilità – si è provveduto a completarle direttamente nel testo principale. In nota sono state riportate le fonti – ove necessario corrette o integrate dal Curatore – di tutte le citazioni, anche quelle che in origine si trovavano nel testo. Tenuto conto della precaria punteggiatura delle trascrizioni, un compito particolare è consistito nel riconoscere come tali le numerose traduzioni tedesche dal greco e nell’evidenziarle tra virgolette. Spesso Heidegger traduce in modo talmente libero, ovvero interpretando, che non è facile decidere se si tratti ancora di una traduzione o già di una parafrasi. Il Curatore ha quindi optato consapevolmente per un uso piuttosto generoso delle virgolette, considerando traduzione anche ciò che forse oltrepassava già il limite della parafrasi, nella convinzione che il lettore deve poter verificare in seguito dove Heidegger, nella sua esposizione – sia traducendo che parafrasando –, si attiene rigorosamente al testo aristotelico, e dove invece sviluppa autonomamente i propri pensieri. Nel caso di tutti i passaggi contraddistinti come traduzioni – il cui originale tradotto non si trova però citato nel testo – il Curatore ha provveduto a riportare in nota l’originale stesso. Spesso tuttavia passi contenenti una citazione greca – o anche privi di citazioni – sono stati completati in nota, anche nel caso in cui il testo tedesco non poteva più valere come citazione, ma manteneva le caratteristiche della parafrasi.
Quando Heidegger cita in greco, ma la sua traduzione si amplia al di là del citato stesso, si è completata la citazione nel testo. Qualora, in via eccezionale, una citazione più consistente seguiva la propria traduzione, anziché precederla, di regola si è provveduto a invertire la disposizione. Le delucidazioni e le osservazioni di Heidegger all’interno delle citazioni e delle traduzioni sono state poste tra parentesi quadre. Le parti di testo cancellate – con una sola eccezione, cui si fa riferimento in nota – non sono state considerate. L’intero testo è stato articolato in capoversi in base al senso, evidenziando in corsivo singole parole, espressioni e parti di frasi. Riguardo all’elaborazione editoriale delle trascrizioni, va osservato anzitutto che, dalle trascrizioni di Bröcker, Nebel e Schalk – e la considerazione supplementare delle trascrizioni di Helene Weiß e Jacob Klein – si rendeva necessario ottenere un solo testo in grado di ricostruire nel modo più esatto possibile il testo esposto da Heidegger, soddisfacendo le oggettive esigenze di correttezza, completezza e comprensibilità. A questo scopo spettava al Curatore sviluppare – e applicare nel modo più coerente possibile – precisi criteri per decidere in merito alle numerose piccole varianti testuali presenti nelle diverse trascrizioni. A prescindere da quanto già detto circa la scarsa rilevanza delle varianti ricorrenti nella trascrizione di Schalk, i criteri adottati sono stati i seguenti: si sono privilegiate le eccedenze testuali di una o due trascrizioni rispetto all’altra – o alle altre –, adottando le varianti più complete, quelle formalmente, linguisticamente o contenutisticamente più coerenti, nonché quelle stilisticamente migliori, e, infine, quelle che trovavano una conferma supplementare nelle trascrizioni di Helene Weiß o di Jacob Klein, oppure negli appunti di Heidegger. In tutti i casi di varianti di valore analogo, è stata privilegiata la trascrizione di Bröcker, che si presenta nel complesso come la migliore. Una volta allestito, il testo andava articolato in parti, capitoli, paragrafi e, talora, sottoparagrafi che, sia sulla
scorta di formulazioni di Heidegger, sia per consentire un orientamento più semplice possibile circa l’intreccio sistematico del testo, sono stati forniti di titoli. Nella formulazione dei titoli dei paragrafi si è tenuto conto, caso per caso, dei concetti greci fondamentali a tema e dei testi aristotelici di volta in volta posti a fondamento dell’analisi. Per quanto riguarda l’elaborazione editoriale del manoscritto di Heidegger, la trascrizione eseguita da Hartmut Tietjen è stata più volte confrontata con l’originale, sono state corrette alcune sviste e completate ove possibile parole omesse o non decifrate. Le lacune dovute a parole rimaste indecifrate sono state segnalate nel testo mediante tre puntini tra parentesi quadra, con il corrispondente riferimento in nota, mentre le decifrazioni dubbie sono state segnalate da un punto di domanda tra parentesi quadre. La maggior parte delle integrazioni che compaiono sul margine destro del manoscritto sono state inserite nel testo principale sia seguendo i segni di interpolazione tracciati da Heidegger, sia in base al senso. I numerosi supplementi sono stati inseriti – prendendo come base di orientamento il testo delle trascrizioni – direttamente nel testo a pagine numerate del manoscritto, ma separati, nel volume a stampa, da una riga vuota, giacché di regola tra di essi non sussiste un nesso linguistico espositivo diretto. In Appendice sono stati raccolti otto supplementi sul tema «Categorie», non utilizzati da Heidegger a lezione. Non sono invece stati inseriti nell’edizione due supplementi cancellati e una piccola aggiunta sul tema «divisio» che non ha un rapporto individuabile con il tema del corso. Per il testo del manoscritto si è seguita l’articolazione in paragrafi e sottoparagrafi corrispondenti a quelli del testo delle trascrizioni, senza però dotarli di titoli, ma solo del riferimento ai relativi numeri di paragrafo del testo delle trascrizioni. Il corso di Heidegger sui Concetti fondamentali della filosofia aristotelica va inteso almeno da due punti di vista.
Anzitutto da quello dell’interesse di Heidegger per Aristotele, che nel 1924 durava già da vari anni – un interesse assai intenso e sempre strettamente legato a un lavoro meticoloso sul testo greco. In secondo luogo, dal punto di vista dell’elaborazione, iniziata non molto tempo prima, dell’analitica ontologico-fondamentale dell’esserci di Essere e tempo. Da un lato si mostra quindi la passione con cui Heidegger si immerge qui nei testi di Aristotele e nel loro linguaggio, lasciandosene sempre di nuovo – si potrebbe quasi dire – trasportare, tanto che alcune sue singole analisi sembrano talvolta sviluppare una propria dinamica eccessivamente forte; dall’altro lato emerge però anche l’impeto sistematico con cui Heidegger è in grado di connettere il tutto in una sorta di doppio passo ermeneutico, che dapprima pone in evidenza l’esserci umano nel senso dell’«essere nel mondo» parlando l’uno con l’altro come terreno per ogni concettualità, e poi, a partire da questo stesso terreno, in forma di ripetizione, interpreta determinati concetti fondamentali in quanto coglimento radicale dell’«essere già interpretato» dell’esserci come un «essere nel mondo» parlando l’uno con l’altro. Il corso consente inoltre di comprendere fino a che punto Heidegger abbia ricavato molti concetti del suo pensiero ontologicoesistenziale nell’indagine sulla concettualità aristotelica, o quantomeno ne abbia trovato conferma in essa. Sono particolarmente grato a Hartmut Tietjen sia per la sua trascrizione del manoscritto, che è stata per me di inestimabile aiuto, sia per il paziente ausilio prestatomi nella decifrazione di alcuni termini, sia infine per l’ulteriore collazione del testo del manoscritto da me approntato con l’originale. Ringrazio inoltre Friedrich-Wilhelm von Herrmann per i suoi importanti consigli nella fase finale dell’edizione, e Hermann Heidegger per la fiducia dimostratami. Ai tre va un rigraziamento supplementare per la supervisione complessiva del dattiloscritto, per i preziosi suggerimenti e per la soluzione definitiva di alcuni punti problematici. Ringrazio Guy van Kerckhoven per il già
menzionato inserimento delle citazioni greche nell’esemplare di Bochum della trascrizione di Bröcker, Isolde Burr per il cortese aiuto fornitomi nella ricerca riguardante la trascrizione di Schalk, Ingeborg Schüssler e Manfred Baum per il rinvenimento e la messa a disposizione dei quaderni (in un primo momento andati dispersi) di questa trascrizione, dal lascito di Klaus Reich †. Ringrazio i collaboratori dello Husserl-Archiv dell’Università di Friburgo, Thomas Vongehr, Robin D. Rollinger e Regula Giuliani, per la decifrazione, condotta con sforzo comune, dei due stenogrammi presenti nel manoscritto, Thomas Baier per la premurosa assistenza prestatami nella individuazione di alcune citazioni aristoteliche. Sono grato anche a Peter von Ruckteschell, a Paola-Ludovika Coriando e, di nuovo, a Hartmut Tietjen, per l’accurata rilettura delle bozze. Infine ringrazio Dimitra Stavrou, che mi ha confermato anche per il presente la frase pronunciata da Heidegger a lezione: «I greci esistevano nel discorso». Atene, autunno 2001 MARK MICHALSKI
.
Frontespizio Avvertenza del Curatore dell’edizione italiana CONCETTI FONDAMENTALI DELLA FILOSOFIA ARISTOTELICA I. IL TESTO DEL CORSO IN BASE ALLE TRASCRIZIONI DEGLI STUDENTI
2 4 21 22
INTRODUZIONE. LO SCOPO FILOLOGICO DEL CORSO E I SUOI PRESUPPOSTI 23 PARTE PRIMA 29 I. Analisi della definizione in quanto luogo di espressività del concetto e ritorno al terreno della 30 definizione II. La definizione aristotelica dell’esserci dell’uomo in quanto ζωη πρακτικη nel senso di una ψυxης 65 ενεργειa III. L’interpretazione dell’esserci dell’uomo in riferimento alla possibilità fondamentale del «parlare 128 l’uno con l’altro» seguendo il filo conduttore della retorica PARTE SECONDA 303 I. L’esserci dell’uomo in quanto fondatezza della concettualità 304 II. Interpretazione della formazione del concetto di κινησις in quanto coglimento radicale dell’«essere 318 già interpretato» dell’esserci
II. IL TESTO DEL CORSO IN BASE ALLE PARTI CONSERVATE DEL MANOSCRITTO APPENDICE
Nota del Curatore dell’edizione tedesca
369 439
446