Cinema d'autore degli anni Sessanta 8880335669, 9788880335665

Gli anni Sessanta sono stati forse il momento di maggiore gloria del cinema italiano, certo il suo momento più glamour.

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Italian Pages 174 [176] Year 2010

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Cinema d'autore degli anni Sessanta
 8880335669, 9788880335665

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Storie di cinema

italiana

L’autore ringrazia Francesco Pitassio e Veronica Pravadelli per la puntuale lettura del testo, la biblioteca “P. Giuntella” della Rai di Roma, la Cinteteca Nazionale e in particolare Enrico Magrelli e Annamaria Licciardello.

Al circolo L’incontro e al Nazionale dei fratelli Lo Medico

Italiana Comitato scientifico: Silvio Alovisio, David Bruni, Mariapia Comand, Mariagrazia Fanchi, Giacomo Manzoli, Francesco Pitassio, Veronica Pravadelli, Federica Villa

Emiliano Morreale Cinema d’autore degli anni Sessanta

©

2011 Editrice Il Castoro viale Abruzzi 72, 20131 - Milano [email protected] www.castoro-on-line.it In copertina: L’avventura (1960) di Michelangelo Antonioni Nell’impossibilità di rintracciare tutti gli aventi diritto, l’Editore si dichiara disponibile ad assolvere ai propri impegni e a regolare eventuali spettanze per quanto riguarda le immagini e i testi pubblicati nel presente volume.

ISBN 978-88-8033-566-5 Questo libro è stampato su carta certificata, proveniente da foreste e piantagioni tutelate e gestite in maniera corretta e sostenibile. Finito di stampare nel mese di gennaio 2011 presso Abbiati - Milano

Emiliano Morreale

Cinema d’autore degli anni Sessanta

cinema d’autore degli anni Sessanta

Le mutazioni della società e del pubblico

Renato, Renato, Renato, mi porti al cinema e guardi il film!

Nelle rievocazioni giornalistiche e nell’opinione comune, i primi anni Sessanta sono considerati di solito l’età dell’oro della società italiana e del suo cinema. I due ambiti sembrano correre paralleli, anzi saldamente collegati: il miracolo economico viene automaticamente illustrato, quando se ne parla nei giornali o in tv, con le immagini dei film dell’epoca, in un intreccio che non troviamo così forte in nessun momento successivo e nemmeno in momenti precedenti (forse nemmeno nel breve giro d’anni del primo neorealismo). Del resto, è forte e non immotivata la tentazione di fare coincidere quasi esattamente il cosiddetto boom con una stagione peculiare e isolabile del cinema italiano. Il periodo del “miracolo economico” strettamente inteso (1958-1963) è quello in cui esplodono, nel giro di pochi anni, i grandi successi di Fellini, Visconti, e in parte Antonioni, ma è anche il periodo trionfante della “commedia all’italiana”, e vede affacciarsi una nuova generazione coetanea delle nouvelle vague (Rosi, Olmi, Pasolini, Bertolucci, per non citare che i maggiori). Per dare l’idea del mutamento epocale si possono esibire una serie di eventi simbolici. L’anno di confine è per molti storici il 1958: quando, mentre le pubblicità dei frigoriferi appaiono massicciamente sui giornali, nasce Carosello, entra in vigore la legge Merlin che decreta la fine delle “case chiuse”, viene inaugurata 7

l’autostrada del Sole, muore Pio XII e gli succede Angelo Roncalli. Negli anni del “miracolo economico”, si affermano una serie di fenomeni incubati in precedenza e destinati a segnare, nonostante la recessione del 1964-5, tutto il decennio: la sostanziale piena occupazione, le migrazioni interne (che toccano l’apice nel 196163), la crescita dei salari e della combattività operaia, e infine il dato che, per la diffusione dell’immagine di quegli anni, è più appariscente: la nascita di un autentico mercato per l’automobile e gli elettrodomestici. 10.000 sono le lavatrici prodotte nel 1958, 1.263.000 nel 1963, e nello stesso periodo «la fabbricazione di autoveicoli quintuplicò (…), i frigoriferi da 370.000 diventarono un milione e mezzo (…) e i televisori (che non erano più di 88.000 nel 1954) 634.000»1. Nelle campagne si passa da 8 a 5 milioni di occupati dal 1954 al 1964, «segnando la fine (o l’inizio della fine) dei diversi mondi rurali che compongono il Paese. (…)»2, mentre crescono in maniera sensibile i lavoratori dell’industria e del terziario. Il reddito nazionale netto raddoppia dal 1954 al 1964; il reddito pro capite passa da 350.000 a 571.000 lire. Da quel breve giro di anni uscirà un’Italia completamente mutata. Come ha osservato Silvio Lanaro, a rigore il boom non è da intendersi tanto in termini quantitativi, visto che si tratta più che altro di «un’accelerazione, molto sensibile ma non clamorosa, del processo espansivo iniziatosi nel 1951-52»3. Perfino alcuni simboli del miracolo economico erano già presenti prima della fine del decennio: la Fiat Seicento viene commercializzata nel 1955 e la Cinquecento nel 1957 (ma è del 1960 un ribasso decisivo dei costi delle medie cilindrate), il primo supermercato apre nel 1957. Come sintetizza Guido Crainz: «Ciò che balza agli occhi non è semplicemente la rapidità dei processi del 1958-63: è il vero e proprio cortocircuito fra i precedenti orizzonti economici, previsioni, quadri mentali, e quelli indotti dal boom»4. Soprattutto, e qui entriamo nel vivo del nostro discorso, nascono nuovi ceti e nuovi consumi. Uno dei settori più indicativi è la crescita dell’istruzione di massa, specialmente dopo l’istituzione della scuola media unica e obbligatoria. Fra il 1955 e il 1965 gli iscritti alle superiori raddoppiano (da 600.000 a 1.200.000). L’Italia comincia a diventare un luogo conosciuto ai propri abi8

tanti, non solo a causa delle migrazioni interne ma anche delle progressive facilità di spostamento. Si incrementa soprattutto il trasporto privato, anche per brevi periodi, insieme alle vacanze di massa. Le partenze aeree si quadruplicano: da 900.000 nel 1958 a 3.600.000 nel 1965. «Il consumismo, come è noto, esige una disponibilità discrezionale di reddito e un’accentuata omogeneità di gusti»5. Cosa che appunto avviene in Italia, in ritardo rispetto agli Usa ma anche con gli altri Paesi europei avanzati, e soprattutto con caratteri particolarmente marcati: «Nell’Italia degli anni Sessanta il consumo assurge a divinità suprema perché una congiuntura storica assolutamente straordinaria – il fatto che la sua espansione coincida con l’effettiva unificazione sociale e demografica del Paese – lo carica di cifre simboliche addizionali svincolandolo da obbedienze, discipline e cautele di qualsiasi natura: in altri termini, perché lo trasforma in un segnale di riconoscimento che permette agli uomini del nord e del sud, della città e della campagna, delle classi elevate e dei ceti popolari di adattarsi reciprocamente con una naturalezza che chiesa, lingua, partiti, istituzioni pubbliche e servizio militare non erano mai riusciti ad assicurare.»6

L’alfabetizzazione di massa e la pervasività dei media sono fondamentali, almeno al pari dei mutamenti strutturali dell’economia, per capire le tendenze di fondo di quegli anni. E infatti proprio allora si stabilisce nel nostro Paese un moderno sistema dei media, non solo audiovisivi. Nascono quotidiani come «Il Giorno» e settimanali come «L’espresso», e i libri tascabili a cominciare dagli Oscar Mondadori (nella copertina del primo volume, Addio alle armi, c’è Rock Hudson nell’omonimo film di Charles Vidor). Si affermano i primi veri bestseller: Il dottor Živago e Il Gattopardo nel 1957 e 1958, cui seguono nel ’60 La noia e La ragazza di Bube. Ancora: «Il 1958 è il primo vero anno-boom del mercato discografico»7. A cambiare ora sono la struttura e il ruolo della musica: nel 1958, al Festival di Sanremo, vince Nel blu dipinto di blu di Modugno contro L’edera, esempio dei cantanti ancora legati allo stile d’anteguerra. E del 1961 è la prima “canzone per l’estate”, Legata a 9

un granello di sabbia di Nico Fidenco, che si rivolge a un pubblico di giovani “in quanto tali”. Quella del boom sarà infatti “la prima generazione” di giovani percepiti in quanto tali nel discorso pubblico e al proprio interno.8 Dal punto di vista dell’industria del cinema, questo implica anzitutto la nascita di un nuovo pubblico, e di nuove potenzialità di comunicazione per gli artisti. Ma anche la necessità di nuovi temi, di nuovi luoghi, e (come vedremo) di nuove forme del racconto. Come sintetizza Gian Piero Brunetta: «I film in testa alla classifica 1957 sono Belle ma povere di Carlo Ludovico Bragaglia, Arrivederci Roma di Roy Rowland, Vacanze a Ischia di Mario Camerini. Mentre nel 1960, i primi quattro titoli al vertice degli incassi comprendono La dolce vita di Federico Fellini, Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, La ciociara di Vittorio De Sica, Tutti a casa di Luigi Comencini».9 Per definire questo sorprendente cambiamento, Vittorio Spinazzola conia già all’epoca il termine “superspettacolo d’autore”, riferendolo in particolare ai citati film di Fellini e Visconti, ma anche ai loro film successivi fino al ’63 (8 ½, Il Gattopardo) e alla coeva “trilogia dell’incomunicabilità” di Antonioni (L’avventura, La notte, L’eclisse). Si tratta di un mutamento decisivo, ma anche di un unicum. Nella storia del cinema italiano successivo, non si ripeterà più il caso di un cinema “d’autore” che stia al vertice degli incassi. Anzi, a partire dalla metà del decennio si assisterà alla divaricazione tra un cinema “alto” sempre più privo di pubblico, e di un cinema popolare sempre più indirizzato verso generi “bassi”, dal western all’italiana al mondo-movie fino ai generi degli anni Settanta come la commedia sexy, il thriller alla Dario Argento, il “poliziottesco”. Va già notato, per intanto, che se il sistema dei media si amplia a dismisura, al suo interno il cinema rischia di avere un ruolo sempre meno centrale: secondo i dati Siae, se dal 1954 al 1958 la spesa per il cinema era scesa dal 71 al 61% di quella complessiva per gli spettacoli, nel periodo dal 1958 al 1964 scenderà ancora a poco sopra il 50%. E dalla metà degli anni Sessanta, per la prima volta, il cinema non sarà più la forma di spettacolo principale per gli italiani, soppiantato dalla televisione. 10

La televisione, all’epoca del boom, trasmetteva già da qualche anno (l’emissione inaugurale era stata nel 1 gennaio 1954), e nei primi tre anni gli abbonati erano cresciuti da 88.000 a 600.000. Negli anni 1958-1964, invece, si passa da un milione a cinque milioni. È a questo punto che la televisione è ormai centrale nei consumi culturali degli italiani, ma soprattutto è chiaramente definita come forma di spettacolo domestico, a differenza di una prima fase nella quale era assai rilevante il suo ruolo all’interno dei locali pubblici. Il modello estetico televisivo si basa essenzialmente sulla pedagogia, sul varietà di derivazione teatrale-musicale, sul gioco a premi derivato dalla radio, e soprattutto sulla ripresa filmata di pièce teatrali o primi rudimentali esempi di sceneggiati tratti dalla narrativa. Si tratta di modelli esteticamente derivativi, che cercano di acclimatare la novità tecnologica attraverso la ripresa di forme precedenti di spettacolo. Non esistono, come negli Stati Uniti, una produzione industriale di serial o la creazione di originali televisivi,10 e forse la maggiore operazione creativa della televisione dei primi anni è la formula di Carosello, in onda dal febbraio 1957. Il rapporto tra ascesa della televisione e declino dello spettacolo cinematografico è tutt’altro che meccanico o univoco. È indubbio, comunque, che tra il pubblico televisivo e quello cinematografico si crei, già negli anni Sessanta, una certa divaricazione, e che si costituisca dunque un pubblico cinematografico nuovo per composizione sociale, età e genere sessuale. Come osservava il critico Pietro Bianchi all’epoca: «Ricevendo spettacoli mediocri dal video, la gente pretende dal cinema la qualità». In un’inchiesta del 1961,11 i massimi frequentatori del cinema risultano essere i diplomati e i laureati (l’82,8%, con una frequenza mensile di 3,5 volte) e la frequenza scende insieme al titolo di studio (fino al 31,8% con frequenza di 0,8 presenze mensili, di coloro senza titolo di studio). Esattamente lo stesso legame c’è tra frequenza cinematografica e classe sociale: dalla “classe media-superiore e superiore” (82,5% e 3,5 presenze mensili) si scende al 41,8% della categoria “inferiore” (1,2 presenze). Assai significativamente, la fascia di età più fedele è quella 16-35 anni (83,8%; 2,8 presenze mensili), che sarebbe stato interessante scorporare al suo interno, seguita da quella 36-55 (62,1%; ma con una frequenza mensile maggiore, 3,3, che può 11

indicare in questo pubblico di mezza età la persistenza di un tipo di fruizione più “indifferenziata”, rivolta al cinema e non ai film). Alle soglie degli anni Sessanta, la frequenza di chi va al cinema in Italia è ancora molto più elevata che negli altri Paesi europei. Ma questo pubblico comincia a non essere più lo stesso di qualche anno prima: «Dal 1957 al 1960 emergono i segnali di una trasformazione dell’identità del “moviegoer”. Lo spettatore di cinema assume progressivamente un profilo anagrafico preciso. Chi si reca al cinema è il giovane di meno di 35 anni; maschio; che vive nei grandi centri urbani; sia nel nord, sia nel centro-sud d’Italia. È indifferentemente “imprenditore” o “lavoratore manuale”; diplomato alla media inferiore o laureato.»12

L’arrivo della televisione, per questo pubblico, non funge affatto da deterrente, e ha semmai l’effetto di dargli un carattere più omogeneo dal punto di vista culturale e generazionale. Per questo pubblico, che comincia a costruire la propria identità come generazione autonoma, e appoggiandosi più ai media che alle istituzioni sociali o familiari,13 la visione del film, come emerge nelle interviste compiute decenni dopo, è molto più che in passato un momento di cultura: «La visione del “film impegnato” è talmente importante nel processo di costruzione dell’identità collettiva di questa generazione di spettatori da diventare un vero e proprio dovere sociale, spesso subito, mai eluso»14. E i titoli che ricorrono più di tutti, nelle memorie degli spettatori, sono proprio La dolce vita e Rocco e i suoi fratelli, simboli di questa nuova maniera di fare e di vedere il cinema italiano. Si tratta di un nuovo pubblico anche dal punto di vista generazionale. A fare la differenza sono anzitutto i nuovi spettatori. «Mentre si separano e si precisano come generazione diversa, l’intimità con le ambizioni nuove degli adulti insieme all’attrazione verso il mutevole e indecifrabile rimescolamento dei valori della società del boom in realtà aumentano. Lungi dal rifiutarli, rinvengono più ruoli per sé proprio negli spazi imprevisti del benessere incipiente, più opportunità di quante non ne avessero avute in precedenza. In altre 12

parole i giovani abbracciano il boom, gli vanno incontro con istinto confuso ma sicuro, senza riserve mentali, senza moralismi, in modo spontaneo e fiducioso.»15

Eppure, curiosamente è proprio l’universo giovanile a rimanere spesso fuori dal cinema d’autore del periodo. Le poche eccezioni (su tutti I dolci inganni, 1960, di Alberto Lattuada) non modificano l’impressione generale. I “giovani” semmai sono osservati non come nuovo soggetto emergente, ma nell’attimo di inserirsi nella società (giovani impiegati di Il posto, 1961, e I fidanzati, 1963, di Olmi), e i tratti generazionali sono assolutamente secondari, ovviamente, nei sottoproletari di Pasolini, e in fondo anche nei proletari di Rocco e i suoi fratelli. Mentre saranno altri ambiti, come la commedia, a prendere di petto una novità su cui insistono molto i rotocalchi (emblematico il personaggio della Spaak in La voglia matta, 1964, di Luciano Salce) per non parlare di un genere esplicitamente “giovanilista”, forse il primo nella storia del cinema italiano, e cioè il cosiddetto “musicarello”, che celebra i suoi trionfi a partire dalla stagione 1963-4.16 Dunque, se non come oggetto del racconto, è come pubblico che la generazione di nati nel dopoguerra risulta centrale per capire il ruolo e il senso del cinema in quel periodo. Per capire lo sfondo su cui si afferma il gruppo di film che saranno analizzati in questo libro bisogna dunque tenere conto di tutto il quadro d’insieme che abbiamo tracciato. Ossia un Paese in trasformazione culturale oltre (e forse ancora più) che economica; l’affermazione per la prima volta di una generazione di giovani che si percepiscono e sono percepiti come tali in conflitto con le generazioni precedenti; una mutazione dei consumi culturali all’interno dei quali il cinema è avviato su un lento declino ma ancora centrale nella gerarchia dei consumi; una mutazione del pubblico del cinema, meno indifferenziato, più istruito, teso a differenziarsi da quello televisivo; un ruolo contraddittorio, all’interno di questi nuovi consumi culturali, delle donne. Si tratta di una premessa essenziale, per cogliere lo spessore anche stilistico dei film che analizzeremo e delle tendenze di una fase fondamentale della storia del cinema non solo italiano, caratterizzata da un mutamento radicale del linguaggio. Un passaggio alla modernità 13

cinematografica, che cercheremo di considerare insieme all’aspetto culturale complessivo. Come suggeriva Vincenzo Buccheri: «È quasi banale ricordare come il passaggio dallo stile cinematografico classico allo stile della modernità coincida con uno spostamento del pubblico da gusti e stili di vita popolari, di massa, a gusti e stili di vita medio e piccolo-borghesi. Meno scontato, però, è riflettere sul fatto che alcuni stili del cinema d’autore degli anni Sessanta corrispondono ad altrettante opzioni di gusto e di classe. Ad esempio, i film degli anni Sessanta di Antonioni e di Fellini, che una stilistica del testo porterebbe a contrapporre (l’uno asciutto e “vuoto”, l’altro eccessivo e “pieno”), in chiave di stilistica del gusto appaiono invece complementari: entrambi sono contrassegno di una borghesia colta tradizionalista ma moderatamente progressista, che attraverso l’adesione negozia o contesta la sua appartenenza di classe (si pensi alle polemiche di molti intellettuali, in primis Arbasino, contro lo stile di Antonioni). Tale classe, poi (e questo è l’altro punto fondamentale), è del tutto diversa dalla base sociale che adotta come propri i linguaggi della Nouvelle Vague francese, i quali sono invece espressione dell’habitus di nuovi gruppi emergenti, giovanili e politicamente anarcoidi.»17

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Un paese senza nouvelle vague?

I primi anni Sessanta, pur dominati dalla triade Fellini-ViscontiAntonioni, sono, anche nel cinema italiano, uno dei periodi più ricchi di nuovi talenti. Nel giro di tre-quattro anni esordiscono, tra gli altri, Pier Paolo Pasolini, Vittorio De Seta, Ermanno Olmi, Tinto Brass, Gianfranco De Bosio, Ugo Gregoretti, i fratelli Taviani, Valentino Orsini, Elio Petri, Damiano Damiani, Florestano Vancini, Bernardo Bertolucci (ma anche Mario Bava e Sergio Leone). Eppure gli storici del cinema hanno notato come l’Italia costituisca, nel panorama mondiale, una sorta di eccezione, essendo tra le cinematografie che hanno risentito meno di una nouvelle vague nazionale. Mentre in Francia Godard, Truffaut, Chabrol, Rohmer, Rivette, Resnais e altri effettuano un autentico ricambio generazionale e rivoluzionano la grammatica cinematografica, lo stesso non si può dire del cinema italiano. I tratti di novità formali e di contenuto, e quelli di rivolta generazionale, apparvero meno evidenti agli osservatori: una spia è forse anche il fatto che il nuovo cinema italiano degli anni Sessanta, così ricco di titoli importanti e di esordi, non ha un nome, qualcosa che chiarisca immediatamente di cosa stiamo parlando, come il Free Cinema inglese, la Nová Vlna cecoslovacca, o il Cinema Nôvo brasiliano. Alcuni elementi di difficoltà appaiono subito evidenti. In Italia la “nuova ondata” si pone, almeno a parole, in decisa continuità con la stagione neorealista, anzi volendo con essa riallacciare idealmente il filo dopo gli anni del centrismo e del neorealismo rosa. Come si vedrà, la nuova generazione di registi fa a suo modo, in maniere diverse, i conti con quella precedente: ma non c’è un conflitto frontale, una uccisione di padri paragonabile ai conflitti scatenati dai “giovani turchi” dei «Cahiers du cinéma» contro il “cinema di 15

papà”. Inoltre, la generazione degli anni Sessanta non è preceduta (né in fondo accompagnata) da un discorso critico-teorico preparatorio e di sostegno, e dunque dalla rifondazione di un canone. In definitiva, si può parlare, e in che termini, di una nouvelle vague italiana? Una risposta negativa pur se articolata era stata data, in varie occasioni, da Lino Micciché.18 Secondo Micciché, il punto decisivo è che il neorealismo era stata la prima nouvelle vague mondiale. Per questo poi non sarebbe esistita una vera e propria nouvelle vague italiana negli anni Sessanta.19 Le sue obiezioni sono poi molteplici. Manca un cenacolo critico paragonabile ai «Cahiers»; manca la riscrittura del canone che escluda la “mitologia realistica”, e si rimane dentro il dibattito sul neorealismo («come in una di quelle pluriennali liti ereditarie» in cui alla fine l’unico a guadagnarci è il notaio);20 infine la situazione politica italiana sarebbe tutto sommato meno vivace di quella che caratterizza la Francia durante la guerra d’Algeria.21 Quella che si vede in Italia, conclude Micciché, è una “politica dei produttori” e non una “politica degli autori”, un’operazione che dura un paio d’anni ed è pilotata soprattutto da Goffredo Lombardo della Titanus. È Lombardo, infatti, a lanciare «l’operazione nouvelle vague» (come la chiama Micciché), ossia il tentativo di sponsorizzare una nuova leva di esordienti con film a basso costo e di qualità. L’idea nasceva anche dal mutamento di pubblico evidente nella stagione 1959-60, quando film come La dolce vita e Rocco e i suoi fratelli si erano trovati al vertice degli incassi. Era forse giunto il momento, pensarono i produttori e Lombardo in particolare, di puntare su un pubblico giovane, colto e urbano. Il “Giovane cinema” dunque è a suo modo, nelle intenzioni produttive, un genere o quantomeno un piccolo filone, che si estingue nel 1964, quando la Titanus viene travolta dai costi di Il Gattopardo e la gran parte degli esordi promossi dalla casa si sono rivelati un fallimento. Tra i titoli prodotti o coprodotti dalla Titanus, Banditi a Orgosolo (1961) di Vittorio De Seta, Giorno per giorno disperatamente (1961) di Alfredo Giannetti e L’assassino (1961) e I giorni contati (1962) di Elio Petri, Le quattro giornate di Napoli (1962) di Nanni Loy, Smog (1962) di Franco Rossi, Il disordine (1962) di Franco Bru16

sati, I nuovi angeli (1962) di Ugo Gregoretti, I fidanzati di Ermanno Olmi. Ma anche altri produttori operano in quel periodo, favorendo tentativi di produzione più diversi: basti pensare alla 22 dicembre che produce Olmi e De Bosio, o ad Alfredo Bini ed Enzo Doria che lanciano rispettivamente Pasolini e Bellocchio. Adriano Aprà, in un intervento a una importante tavola rotonda sulla Nouvelle Vague, fa un’integrazione significativa a questo quadro: «La novità c’è stata, ma proprio su un fronte totalmente opposto a quello della Nouvelle Vague: sul fronte del cinema di qualità. Noi, a differenza dei francesi, non avevamo ancora il cinema di qualità. La direzione di sviluppo del cinema italiano nella seconda metà degli anni Cinquanta era dunque inversa: da un cinema che era stato “nouvelle vague” all’inserimento di questo cinema nell’industria»22. E si può anche sottolineare, al riguardo, la rivendicata continuità anche produttiva, artigianale, del cinema italiano di quegli anni, nel ramo dei tecnici, dei produttori, degli sceneggiatori, con montatori, direttori della fotografia che garantiscono un saldo legame anche figurativo con la stagione precedente. Come sintetizza in maniera provocatoria lo stesso Aprà, basta vedere la differenza tra la luce di Raoul Coutard (direttore della fotografia di Truffaut e Godard) e quella di Gianni Di Venanzo, operatore-simbolo del cinema italiano di quegli anni (Salvatore Giuliano, 1962, 8 ½, L’eclisse).23 Questo per quanto riguarda la Nouvelle Vague intesa come movimento generazionale. Ma con nouvelle vague si intende anche qualcos’altro: un metodo, un bagaglio di elementi stilistici, una svolta nel linguaggio che è qualcosa di più, e di diverso, da un avvicendamento generazionale. Il termine è anche, insomma, un sinonimo di modernità cinematografica.24 Vincenzo Buccheri ha ordinato gli esordi degli anni Sessanta secondo una serie di filoni tematici: 1) coloro che si avvicinano al cinema di argomento resistenziale (Vancini, Montaldo: con grande uso di attori teatrali, riprese spesso in teatro di posa, sfumature mélo e noir) e al giallo psicologico (Damiani, Petri); 2) un filone di neo-neorealismo, che racconta i margini del miracolo economico, nelle periferie o nelle regioni meno sviluppate (Olmi, Pasolini, De Seta, Taviani, Vito Pandolfi); 3) i generi di profondità (Bava, Leone); 4) infine, una serie di 17

titoli che possono entrare più specificamente in un canone Nouvelle Vague: un cinema giovanile (Brass, Eriprando Visconti) che a volte ha tratti regionalistici (Bertolucci, Baldi) o viene più esplicitamente volto in commedia (Wertmüller, Caprioli, Missiroli). E mentre la critica italiana apprezza spesso della Nouvelle Vague il suo versante meno intemperante, magari più esplicitamente “intellettuale” (Resnais),25 i pochi registi che si confrontano direttamente con i modelli francesi sono appunto quelli di questo quarto sottogenere. Inoltre Buccheri identificava due tendenze nella rappresentazione del rapporto tra individuo e collettività: da un lato «i personaggi rappresentati appaiono minacciati dalle istituzioni e dalle pratiche del controllo sociale», mentre «sull’altro versante, i personaggi appaiono ossessionati dalla presenza dei mass media: canzonette, televisione, giornali, quotidiani e persino il cinema, che vengono visti con sospetto e spesso con vero e proprio fastidio»26. Questa tensione tra l’individuale e il collettivo, si può notare, è anche uno dei segnali che differenziano maggiormente il cinema italiano da quello della Nouvelle Vague, avvicinandolo per certi aspetti al Free Cinema inglese. Invano si cercherebbero, comunque, nei film di Eriprando Visconti, di Olmi o di De Seta le celebri infrazioni di montaggio di un Godard, o gli intrecci arditi di immagine, parola, suono di Resnais; e nemmeno le eleganti sprezzature del primo Truffaut (i dialoghi senza controcampi, i jump cut, i fermo immagine). Su questo piano, i punti di massima vicinanza sono, nel 1963, l’esordio di Tinto Brass (montatore, e allievo di Rossellini e Langlois), che precede di poco Prima della rivoluzione (1964) di Bernardo Bertulocci, e nello stesso anno, I fidanzati di Ermanno Olmi. In I giorni contati di Petri, ad esempio, il finale (con la morte in autobus del protagonista, un idraulico interpretato da Salvo Randone che, preda di angosce esistenziali, smette di lavorare) è costruito in maniera molto libera dal punto di vista del linguaggio, ed è attaccato per contrasto a una scena quasi tipicamente neorealista (l’idraulico che visita una famiglia proletaria). Ma questa libertà linguistica è legata all’assunzione di un punto di vista deformato, soggettivo, di un personaggio di outsider anzitutto psicologico.27 Altro esempio: il film di Eriprando Visconti, Una storia milanese (1962), presenta dei temi scabrosi (rapporti prematrimoniali, aborto, 18

una scena con dei voyeur), e ha dei protagonisti giovani narrati in quanto tali. Ma il massimo dell’infrazione linguistica sono alcune immagini riprese con obiettivi a focale lunga, e un inizio con un dialogo ermetico “alla Antonioni”, mentre è significativa anche la scelta della musica di John Lewis, fondatore con il Modern Jazz Quartet di una mediazione tra jazz e musica colta (particolarmente melodica in questo caso). Se si prescinde dal dato generazionale, la questione si fa più curiosa. In Italia si ha sì un ammodernamento del linguaggio, recepito soprattutto dai modelli francesi, ma esso non proviene dal cinema della nuova generazione. Tra gli esempi di film italiani più vicini al cinema francese coevo, molto più che esordienti come Vancini, Damiani, si possono infatti mettere I dolci inganni di Lattuada, che segue con precisione e con libertà narrativa una giornata nella vita di un’adolescente; o La vita agra (1964) di Carlo Lizzani, che intreccia soggettività e osservazione di costume per dar conto dei nuovi ritmi della città industriale. Per compiere il definitivo salto verso la libertà di metodo della Nouvelle Vague, l’ipoteca neorealista deve aver pesato anche come remora a rinunciare a dei contenuti “forti” (l’emarginazione, il recente passato fascista), e soprattutto a considerare “i giovani”, borghesi o piccolo-borghesi, come entità a se stante. In questi film i giovani non sembrano visti da coetanei, ma attraverso lo specchio dei discorsi giornalistici, e comunque senza empatia. Forse è Olmi a osservarli con più costanza, ma studiando il loro rapporto con il mondo del lavoro. Mentre le figure di giovani dei film di Petri, Visconti, non sono in alcun modo raccontate come coetanei. Nell’Italia di quegli anni un film come, mettiamo, Desideri nel sole (Adieu Philippine, 1963) di Jacques Rozier (peraltro co-produzione italofrancese) sarebbe inconcepibile, non tanto sul piano della libertà formale, quanto proprio su quello del costume. D’altro canto, alcune esperienze di cinema italiano di quegli anni, completamente estranee ai confronti con il cinema francese, costituiscono indiscutibilmente una svolta linguistica e tematica, e segnano una riconoscibile via italiana alla modernità cinematografica. Se si dovesse indicare un equivalente, non generazionale ma storico-teorico, delle nouvelle vague internazionali intese come 19

svolta nelle poetiche, i nomi italiani sarebbero quelli di Fellini, Antonioni e Pasolini. Si tratta di tre linee assai diverse, che qui possiamo solo accennare rapidamente. Antonioni si confronta di petto con le novità culturali e artistiche: il nouveau roman, il rapporto tra letteratura e neocapitalismo, i nuovi ceti e i nuovi consumi (e quindi, secondo le parole d’ordine dell’epoca, “l’alienazione”, “l’incomunicabilità”). Fellini si inventa una via opposta, nutrita di materiali “bassi” e barocca quanto quella di Antonioni è ascetica. I suoi modelli sono il fumetto, l’avanspettacolo, il circo. Il risultato è sempre quello di un’esplosione della narrazione classica, ma non, come in Antonioni, attraverso un nuovo rilievo attribuito ai luoghi, bensì in una polifonia che tende al tableau. Pasolini, infine, è portato dalla sua concezione del cinema “di poesia” a evidenziare il lavoro della macchina da presa infrangendo le regole fondamentali del montaggio, secondo una linea che si riallaccia a una frontalità dell’immagine derivata dai pittori prerinascimentali. E tutti e tre i nomi, segnaliamo di sfuggita, partecipano della caratteristica fondamentale della modernità cinematografica come l’hanno descritta i teorici: la combinazione dell’impegno metalinguistico con il recupero dell’aspetto riproduttivo del cinema,28 o il nuovo rapporto col personaggio, che scivola attraverso le situazioni senza una meta, per cui, per lo spettatore, garante dell’identificazione diventa quasi più la figura dell’autore che quella del protagonista.29 I tre autori adempiono la caratteristica centrale del “film moderno” secondo BálintKovács, ossia la presenza di protagonisti che hanno perso i legami con il mondo circostante30 (perché troppo dentro, nel caso di Fellini o Antonioni, o troppo ai margini, nel caso di Pasolini).31 Certo, un segno di forte rottura generazionale, stavolta segnalato anche dalla critica, avviene in Italia in un momento successivo, a metà del decennio, con Prima della rivoluzione e I pugni in tasca (1965). Tra l’altro, si potrebbero idealmente opporre i due film nel segno di una duplice lettura delle nouvelle vague europee: Bertolucci infatti è forse il primo regista a proporsi esplicitamente come referente italiano della Nouvelle Vague francese, mentre per Bellocchio l’influenza diretta sembra essere quella del Free Cinema. Ma si tratta, curiosamente, di film che chiudono un periodo di forte creatività: dalla metà del de20

cennio, le possibilità di un giovane cinema italiano si affievoliscono, mentre i grandi autori vanno variamente in crisi. Da questa analisi emerge anche una proposta di contestualizzare le nouvelle vague internazionali: non solo all’interno della storia del cinema e della cinefilia, ma anche in interazione con i mutamenti sociali e culturali. È sempre più necessario distinguere, nella lettura o costruzione di un canone, i vari piani della nozione di Nouvelle Vague: come stile (sinonimo di modernità cinematografica), come generazione, come base per il discorso critico e la rifondazione di un canone, come espressione dei bisogni culturali di nuovi ceti. Nella prima accezione, si è visto, nouvelle vague possono essere magari considerati titoli di registi non giovanissimi, più che di esordienti; nella seconda, gli elementi di continuità e di comunanza politica superano quelli di frattura generazionale; nel terzo, le posizioni di alcune riviste (come «Schermi» a Milano, «Il nuovo spettatore cinematografico» a Torino o «Filmcritica» a Roma) rimangono poco rilevanti. Sarà solo qualche anno dopo, con gli esordi di Bellocchio e Bertolucci, con la contrapposizione tra «Ombre rosse» e «Cinema & Film», e con l’affermarsi di una generazione più politicizzata, che i piani coincideranno. Ma già nel segno di una prospettiva che appunto vede il cinema quasi in posizione secondaria rispetto alla politica. Ancora più rivelatore del carattere di eccezionalità della nouvelle vague intesa come modernità cinematografica, è la sua sostanziale rimozione dal canone. In Francia la Nouvelle Vague rimane una pietra di paragone, polemica o no, intorno alla quale giudicare le svolte successive del cinema. Non ci riferiamo solo all’opera di registi che interpreteranno in vario modo quella lezione (fino a Eustache e Garrel), ma al discorso critico delle riviste militanti e accademiche, e perfino di molta stampa quotidiana. In Italia, invece, il richiamo che fa scattare la similitudine e l’opposizione non è il cinema “moderno” di prima o di seconda ondata (Fellini-Antonioni o Bellocchio-Bertolucci), ma la commedia all’italiana, ossia un tipo di cinema che non si potrebbe immaginare più distante dalla Nouvelle Vague; mentre per tutti i film drammatici di solito si usa indifferentemente il rimando al neorealismo o al cinema politico italiano, comunque in direzione meramente contenutista, come esempi di “impegno sociale”. 21

“Say Alive”: L’EREDITà NEOREALISTA, De Sica e Rossellini

In una scena di La dolce vita, la diva Sylvia (Anita Ekberg) viene intervistata dai giornalisti italiani. Uno di loro a un certo punto le chiede: «Il neorealismo italiano è vivo o morto?». Al che l’interprete, anziché tradurre come ha fatto con le altre domande, le dice semplicemente: «Say: Alive». Dica che è vivo. La battuta di Fellini ironizzava su un tabù ancora presente in una parte della critica di sinistra, anche se oggi questa persistenza può stupire. Ma è vero che, in certa misura, il cinema d’autore del boom venne recepito anche utilizzando gli strumenti di una lettura “contenutista” del neorealismo. Gli stessi percorsi dei tre “maggiori” prestavano appigli a una lettura di questo tipo. Certo, della triade Antonioni-Fellini-Visconti, il solo proveniente del neorealismo in senso stretto era l’ultimo. Ma Fellini era pur sempre lo sceneggiatore di Rossellini, Antonioni nasceva nel gruppo di «Cinema», ed entrambi avevano esordito nel lungometraggio nel 1950.32 Gli altri registi-simbolo del neorealismo, invece, rimangono sostanzialmente estranei alla grande stagione dei primi anni Sessanta. O meglio, vi aderiscono in maniera epigonale, quasi da artigiani, praticando, più di altri, il “superspettacolo d’autore” come un genere. Vittorio De Sica in sostanza smette di fare “film d’autore” con la fine del neorealismo (ultimo titolo il tardivo Il tetto, 1955), muovendosi insieme a Zavattini tra le varie mutazioni del cinema di genere italiano: e cavalca pienamente l’onda del “superspettacolo d’autore”, realizzando un paio di film di una certa ambizione artistica, ma al riparo di fonti letterarie alte (La ciociara, 1960, e I sequestrati di Altona, 1962) con in mezzo un progetto come Il giudizio universale (1961) che idealmente coniuga Miracolo a Mi22

lano (1951) con la commedia all’italiana. Dopo di allora, diventa appunto uno dei registi della commedia all’italiana, e nemmeno dei più rilevanti; dalla seconda metà del decennio, vaga tra recuperi tardo-nouvelle vague (Un mondo nuovo, 1965) e commedie internazionali. Negli anni Sessanta, a dispetto dei successi internazionali dei suoi vehicles per la Loren (con o senza Mastroianni), De Sica sarebbe da considerarsi senz’altro un “minore” o meglio uno dei registi che in maniera meno “autoriale” attraversano i diversi generi. Rossellini è invece un caso a parte. In uno dei grandi momenti del cinema italiano, uno dei maestri del neorealismo esita fra strade diverse per poi dedicarsi alla didattica televisiva. La cosa è tanto più sorprendente se si pensa che proprio il nome di Rossellini era tra i massimi modelli della Nouvelle Vague che, in quel momento, trionfava. Godard, Rivette, Truffaut hanno nei film del Rossellini anni Cinquanta (Viaggio in Italia anzitutto), poco apprezzato in patria, uno dei progenitori diretti. Il cinema di Rossellini in quegli anni appare ondivago, difficilmente classificabile, nel percorso complessivo e perfino all’interno dei singoli film. Il generale Della Rovere (1959) era una parentesi consapevole per il suo autore, dopo la difficile avventura in India, con un film “tranquillo”, un ritorno a temi forti e a una drammaturgia lontanissima dai suoi interessi in quel momento, e che finisce con l’inaugurare un nuovo filone di cinema resistenziale.33 A questo, segue un altro film che cerca di ripeterne la formula in chiave se possibile ancora più “di genere”, Era notte a Roma (1960), quasi tutto girato in studio; e due film in costume che suscitarono ulteriore sconcerto: Viva l’Italia (1960) e Vanina Vanini (1961). Il primo è un film su commissione, per il centenario dell’unità d’Italia, e se da un lato sembra addirittura accentuare certi caratteri didattici, prefigurando tratti del suo percorso successivo in televisione e rendendo però rigido l’insieme, dall’altro sembra avere il proprio cuore nelle pause del racconto, nei momenti en plein air in cui il regista sembra ripercorrere i luoghi celebri in una specie di scampagnata (si veda anche la maniera antispettacolare di filmare le battaglie). Vanina Vanini, d’altro canto, non può certo passare per un esempio, magari tardivo, dell’auspicato passaggio “dal neorealismo al realismo”, come il Visconti di Senso o di Il Gattopardo. Ogni sospetto di romanzo storico è allontanato 23

e decantato da una forma che punta all’eliminazione dei legami romanzeschi e drammaturgici, e di ogni tipicità dei personaggi. La presenza di Rossellini in quegli anni è dunque secondaria non solo nell’apporto diretto, ma anche nell’influenza sulla nuova generazione. In fondo, la nuova generazione di registi degli anni Sessanta non nasce rosselliniana. L’unico ideale discepolo di Rossellini è forse Olmi, e già un regista come De Seta tende, nei suoi documentari e in Banditi a Orgosolo, a una monumentalità plastica debitrice piuttosto del Visconti di La terra trema (1948). In effetti, più ricca è l’influenza di altri due nomi centrali del neorealismo, Luchino Visconti e Cesare Zavattini. Il primo rimane comunque il simbolo più ufficiale del cinema italiano di sinistra (ed è il maestro diretto di Maselli, oltre ad avere una forte influenza sui film di Vancini e Zurlini), mentre il secondo (proprio mentre la sua opera di sceneggiatore si fa sempre più corriva) continua senza sosta a promuovere iniziative e idee che oggi si direbbero multimediali.34 Come nota Brunetta, nell’«esigenza di raccontare direttamente l’Italia» tipica di questi anni, è anche «il sogno zavattiniano di Italia mia che sembra avverarsi».35 Zavattini in quegli anni organizza alcune iniziative “pedagogiche” significative come Le italiane e l’amore (1962) o I misteri di Roma (1961), da lui coordinato, e diretto da dodici registi, la maggior parte dei quali al loro esordio. E sceneggia anche i primi due film di Damiano Damiani, Il rossetto e Il sicario (entrambi del 1960). In realtà, il superamento più radicale (seppure implicito) del neorealismo viene tentato in quegli anni dai registi che affrontano non la rilettura della resistenza, ma quella di eventi più recenti legati al dopoguerra. È questo il caso del Salvatore Giuliano (1961) di Francesco Rosi (film di importanza capitale ma che richiederebbe un discorso a parte sul cinema “politico” e che dunque per motivi di compattezza lasciamo del tutto fuori dal nostro discorso), e dell’esordio di Valentino Orsini e dei fratelli Taviani: Un uomo da bruciare (1962). A rivederlo oggi, colpisce di quest’ultimo film, più ancora che il coraggio del tema, la esplicita frizione tra vecchio e nuovo, che produce un personaggio centrale il quale, pur muovendosi nell’ambiente della mafia rurale, urta continuamente contro 24

luoghi tipici della società di massa. Esemplare il sogno della sua morte, rifatto dai registi in uno stile da film di serie B dell’epoca, e chiarissima la scelta della recitazione survoltata di Gian Maria Volonté. Il sindacalista Salvatore è un personaggio pienamente degli anni Sessanta, lontanissimo dagli eroi neorealisti, mettiamo, di un De Santis, e corrisponde in molti tratti proprio agli eroi del “cinema d’autore moderno”, i quali «tendono a diventare entità astratte distaccate dal loro ambiente. (…) La concentrazione sui personaggi nel cinema moderno non implica una caratterizzazione psicologica. È la “condizione umana” dei personaggi che diventa il centro di interesse del moderno film artistico piuttosto che l’incontro tra un particolare personaggio e un particolare ambiente»36. Per l’eroe del cinema moderno, il problema non è raggiungere uno scopo attraverso o contro un ambiente: il problema è anzitutto il proprio posto in questo ambiente. La nevrotica sconnessione tra individuo e comunità, il suo rapporto ambiguo con la cultura di massa, mescolate però a una battaglia indiscutibilmente giusta ed eroica, fungono allora anche da metafora istintiva, e quasi del tutto involontaria, di una difficoltà di collocamento e di prospettiva dei registi di sinistra. Il film, nella sua tumultuosa vocazione sperimentale, costituisce un esempio e contrario del mancato appuntamento del cinema italiano, ai suoi inizi, con la modernità cinematografica, ma soprattutto (insieme a film coevi come il citato Salvatore Giuliano o Il terrorista, 1963, di De Bosio) di una linea diversa di cinema politico, moderna e autoriflessiva, che non avrà seguito nelle successive evoluzioni di questo “genere”.

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Il cinema d’autore come genere (mancato)

Leggere il cinema italiano dei primi anni Sessanta attraverso gli autori è una scelta che, per quanto quasi automatica, non è affatto scontata. Raggruppare insieme i film di alcuni registi del periodo estraendoli dalla produzione corrente, implica il riconoscere in loro delle “somiglianze di famiglia”, che non sono semplicemente legate ai risultati estetici. “Film d’autore” non significa evidentemente opera artisticamente riuscita, ma anzitutto film che chiede di essere riconosciuto, attraverso una serie di strategie comunicative precise, come opera di una individualità creatrice, il regista.37 Se ha senso parlare di qualcosa come di un cinema d’autore, ossia di una preminenza del lavoro del regista, autopercepita e riconosciuta come tale, di una scelta dei temi e di una riconoscibilità immediata dello stile, è proprio su quel giro d’anni che, per il cinema italiano, occorre concentrarsi. Anzi, il cinema di Antonioni e Fellini rimarrà un paradigma per definire (e imitare e parodiare) il “cinema d’autore” tout court, specialmente nei Paesi anglosassoni. Si può dire, ad esempio, che per i cinefili e i registi americani 8 ½ sia molto spesso il prototipo del film d’autore, intendendo il genitivo anche come film dell’autore, film sull’autore (l’autore del film stesso).38 Si può portare il gioco fino in fondo, e chiedersi quali siano le somiglianze di famiglia, le regole che trasformano un film in un “film d’autore”. È quello che proponeva, proprio per il cinema italiano di quegli anni, Veronica Pravadelli: «Si può pensare al cinema d’autore teoricamente, considerandolo una sorta di genere. Il denominatore comune è l’interesse a narrare l’io, la soggettività».39 Ovviamente sarebbe necessario, per fare questo, costituire «un corpus concettuale capace di andare oltre la personalità del singolo autore», mostrando quello che ha in comune con altri.40 Un pro26

getto del genere offrirebbe molti spunti per rileggere “contropelo” le opere di quegli anni. La più completa teorizzazione dei generi cinematografici è probabilmente quella elaborata da Rick Altman, con un metodo “sintattico-semantico-pragmatico”, che cioè integra «le definizioni che si basano su un elenco di tratti comuni, atteggiamenti, personaggi, riprese, ambienti, set e così via» e quelli «che giocano, invece, sulle relazioni costitutive tra varianti non prestabilite»41 (e dunque sulle meccaniche di funzionamento e di combinazione di questi elementi, sulle forme di narrazione e messa in scena). All’inizio del suo libro Film/Genere, Altman sottolinea la molteplicità del concetto: genere come progetto (che organizza le strategie industriali della produzione); come struttura formale su cui si costruiscono i singoli film; come etichetta utile per la comunicazione e la promozione; come contratto, patto di visione tra opera e spettatore.42 A questi elementi l’autore ha aggiunto poi un particolare interesse per gli elementi culturali, verso il contesto nel quale i generi agiscono, maturano e sono riconosciuti. Nella definizione di genere dunque andrebbe tenuta in conto non solo la forma interna dei testi, ma anche il rapporto col pubblico, il ruolo della critica, il carattere retrospettivo e spesso dapprincipio denigratorio delle definizioni e la possibilità di aggiornamenti e di intrecci con altri generi. Proviamo allora a “giocare ai generi” con il cinema d’autore italiano degli anni Sessanta, estrapolando dal corpus dei film considerati “d’autore” alcuni tratti comuni. L’idealtipo del “film d’autore” sarà, in questi termini, caratterizzato da uno stile che mette in primo piano la soggettività di un regista-artista; un film di ambientazione contemporanea (o nel quale, al limite, la lettura del passato appaia immediatamente attuale, metaforica, e polemica nei confronti della storiografia ufficiale); quasi sempre dramma e non commedia; con una riconoscibilità stilistica e comunque una visibilità della macchina da presa, cui è subordinato il lavoro degli sceneggiatori; con un occhio rivolto ai “grandi temi” del mondo contemporaneo, ma con uno sguardo più morale che direttamente politico (e senza esplicite intenzioni di denuncia). Esso tenderà, di conseguenza, alle ambientazioni borghesi o alto-borghesi, e sarà quasi tassativamente girato in bianco e nero.43 27

Ovviamente, in questa chiave appaiono fondamentali, per il suo riconoscimento, il rimando al neorealismo, primo vero esempio di cinema d’autore in Italia e non solo, e i premi in festival internazionali (tantissimi in quel periodo, da Cannes a Venezia agli Oscar). Non va sottovalutata infine la sua capacità di attivare dibattiti al di fuori delle pagine specialistiche, essenziale per definire un pubblico ampio (cfr. infra, “Maggiori e minori”). Dapprima, il cinema d’autore viene offerto al pubblico come marchio proprio nei titoli decisivi del “superspettacolo d’autore”, La dolce vita, Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, 8 ½ (e secondariamente L’avventura, La notte, L’eclisse). Sono alcuni produttori a concepirlo come tale, e quindi come prosecuzione di un proprio cinema ad alto costo, come fascia alta per un pubblico emergente, come cinema antitelevisivo. Ma è ovviamente la critica a promuovere e autorizzare la lettura di un film come “film d’autore”, basandosi su una lunga tradizione. E qui il discorso si complica: perché per la critica dell’epoca il cinema d’autore si caratterizza soprattutto per alcuni elementi di contenuto, ossia per l’altezza dei temi. Il “cinema d’autore” dovrà anche definirsi per somiglianza e differenza da altri tipi di film. Ad esempio, temi troppo “politici” possono far deviare verso un interesse immediato di denuncia, verso un genere che in quegli anni comincia appena a formarsi e che ha il proprio campione quasi unico in Francesco Rosi. Il “cinema politico” definirà peraltro un tipo di film assai più codificato del “cinema d’autore”, e da esso nettamente distinto.44 Ma i rapporti più complessi il cinema d’autore li intrattiene da un lato con il genere mainstream di quegli anni, ossia la commedia all’italiana, e dall’altro con il melodramma del decennio precedente. La violenza con cui molta critica d’epoca respinge la commedia all’italiana45 si spiega forse anche con una sua fastidiosa prossimità al cinema d’autore. I temi e i ceti messi in scena dal cinema di Antonioni, Fellini, Visconti non sono troppo distanti da quelli dei film di Monicelli, Risi, Age e Scarpelli, Vincenzoni, Sonego. E spesso ne abbassano, ridimensionano la tragicità e la serietà, oltre a renderli più ambiguamente vicini allo spettatore. Ma, come vedremo, in alcuni casi (l’uso di Tognazzi in Ferreri, quello di Mastroianni in 28

Fellini) i registi entrano in scambio dialettico con alcuni luoghi tipici della commedia. Rimane il fatto che, con la parziale eccezione di Fellini e Ferreri, il “film d’autore” è un genere drammatico. Anzi, se ne possono agevolmente rinvenire i legami con il mélo del decennio precedente, da un punto di vista delle strutture visive e narrative come da quello dei temi. Intanto, era stato proprio il mélo (magari alleato al noir, con delle strutture a indagine che permettevano una condanna morale) a interessarsi alla nuova borghesia negli anni della crisi del neorealismo: da Persiane chiuse (1950) e La tratta delle bianche (1952) di Comencini a Le infedeli (1952) di Steno e Monicelli, da Febbre di vivere (1953) di Claudio Gora a La spiaggia (1954) di Lattuada. Ma è soprattutto sul piano della modernità delle forme che certo melodramma ha costituito un autentico laboratorio del cinema d’autore successivo. Film come quelli di Vittorio Cottafavi (Una donna ha ucciso, 1954; Traviata 53, 1953; Una donna libera, 1956; melodrammi autoriflessivi e raffreddati che sono stati definiti “brechtiani”), Soldati (La provinciale, 1953, con l’incrocio di flashback da punti di vista differenti), Antonioni (Cronaca di un amore, 1950; La signora senza camelie, 1953) propongono la sperimentazione estetica forse più avanzata del cinema italiano dell’epoca.46 E c’è un altro elemento da tenere presente. Nella mutazione del pubblico cinematografico che abbiamo descritto all’inizio del libro, va notato che, per tutto il decennio, i grandi generi cinematografici (con l’eccezione parziale del musicarello) sono eminentemente maschili: non solo la commedia all’italiana, ma anche il mitologico, il western all’italiana, il comico di Franchi e Ingrassia e generi minori come l’horror o lo spionistico. Il cinema d’autore sembra riempire anche un vuoto di cinema “drammatico” lasciato dalla fine del genere melodrammatico in senso stretto. Il processo di affermazione della soggettività dell’auteur, degli elementi di autoriflessività e dell’allentamento dei nessi narrativi forti ha però una controparte nel nell’attutirsi del confronto diretto con il genere del mélo (ad esempio, da parte di Antonioni), nello spostamento di interesse verso i personaggi maschili (in Visconti). Ma se, come ricorda Brunetta, «la riaffermazione del potere registi29

co avviene, in questo periodo, a spese dei personaggi femminili»,47 il confronto continuo tra i sessi è il tema centrale dei film di Antonioni e di Fellini, attraverso una serie di strategie non lineari che vedremo più avanti. Entrambi, anticipiamo, mantengono una certa distanza dalla figura femminile principale. Ma il primo la pone al centro di una serie di relazioni figurative tra oggetti, facendone il vettore di forme di affettività che rendono possibile la comprensione e la partecipazione dello spettatore, mentre Fellini moltiplica le figure femminili intorno a un osservatore sempre più autobiografico, e proprio in quel periodo crea i suoi personaggi femminili più complessi, avventurandosi fino al suo unico film in cui assume una prospettiva femminile (Giulietta degli spiriti, 1965). Negli anni successivi, poi, da Prima delle rivoluzione ai film di Ferreri, il rapporto tra i generi sessuali diventerà sempre più centrale. Il “cinema d’autore”, infine, finisce per definirsi in quegli anni anche attraverso la censura. Tutti i grandi registi italiani dei primi anni Sessanta incorrono in censure politiche o per blasfemia o per oscenità; e questo li colloca tacitamente nell’ambito di una cultura progressiva ma non necessariamente di area social-comunista: piuttosto, li rende parte di una “battaglia di modernizzazione” che è grossomodo quella di testate come «Il Giorno» o «L’espresso». Ad attaccarli infatti si trovano, oltre a elementi di una corporazione tra le più arretrate come era la magistratura, anche diverse testate di destra e, in qualche occasione, settori più o meno ampi della Chiesa. Tra i film più violentemente colpiti dalla censura c’è ovviamente Rocco e i suoi fratelli,48 tra i più attaccati dalla stampa conservatrice La dolce vita: ossia i due film fondativi del “superspettacolo d’autore”. In un paio d’anni (tra il 1960 e il 1962) vengono censurati pesantemente anche La giornata balorda di Bolognini, L’avventura e La notte di Antonioni, Il gobbo di Lizzani, Accattone di Pasolini, Chi lavora è perduto di Brass (che viene ritirato e rititolato In capo al mondo),49 Laura nuda di Niccolò Ferrari, Odissea nuda di Franco Rossi. Alcuni di questi film vengono anche sequestrati dopo l’uscita nelle sale. Ancora: «Tra settembre e la prima metà di ottobre (1960), interventi censori vieppiù grevi e opprimenti colpiscono, tra gli altri, La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini, Adua e le compagne di Antonio Pietrangeli, Kapò di Gillo Pontecorvo, I 30

delfini di Francesco Maselli, I dolci inganni di Alberto Lattuada».50 Negli anni successivi la foga diminuirà, anche se nella censura incapperanno ad esempio, in maniera clamorosa, La ricotta (1963) di Pasolini e L’ape regina (1963) di Ferreri (a cui il regista antepone un cartello quasi parodistico di giustificazione, e il sopratitolo Una storia moderna).51 Infine, va ricordato che pressoché tutti i film d’autore degli anni Sessanta vanno in sala con un divieto ai minori di sedici anni, e questo è a ben vedere uno dei primi “segnali” peritestuali che li distingue dalla commedia all’italiana. C’è chi ha addirittura ipotizzato, nella disponibilità dei produttori alla realizzazione di film in certo modo “provocatori”, anche una volontà di suscitare e sfruttare dei succès de scandale, che però si sarebbe rivelata un errore almeno parziale di valutazione storica: le forze retrive all’interno delle istituzioni avevano infatti ancora un considerevole potere nel bloccare le modernizzazioni del costume della società italiana, e la censura, anziché funzionare da detonatore, mostrò una forza residua nel reprimere le istanze più trasgressive.52 Per verificare la posizione del cinema d’autore nelle battaglie per l’emancipazione dei costumi, è utile anche dare uno sguardo ad alcune parodie che ne vengono fatte: a cominciare dal celebre Totò, Peppino e... la dolce vita (1961) di Sergio Corbucci e da Walter e i suoi cugini (1961) di Marino Girolami, che come ha mostrato Roy Menarini svolgono una funzione tecnicamente “reazionaria”, di irrisione e resistenza alle novità culturali e di costume: «Si ha la sensazione che siano i modelli – e non le parodie – a ricoprire un ruolo trasgressivo per il cinema italiano degli anni Sessanta. (…) Questo cinema, in definitiva, sembra candidarsi alla “difesa”, attraverso la derisione del cinema d’autore, del pubblico popolare, e al rigetto del riformismo cinematografico dettato dai grandi protagonisti/autori dei primi anni Sessanta. Non è un attacco proditorio, bensì una recinzione, come a dire: abbiamo digerito ogni spinta esterna grazie alla grande macchina della parodia e della farsa, ce la faremo anche questa volta.»53

Ugualmente significativo, per altri versi, il filone di film ”alla Antonioni”, che costituisce in fondo il grosso del cinema arty del 31

decennio: Antonioni è molto più imitabile di Fellini, e immediatamente più “moderno” e allettante nei confronti degli intellettuali che si rivolgono al cinema. Nel filone possiamo inserire tra gli altri gli esordi di Giuseppe Patroni Griffi (Il mare, 1962), Enzo Battaglia (Gli arcangeli, 1963), Massimo Franciosa e Pasquale Festa Campanile (Un tentativo sentimentale, 1963), Marco Vicario (Le ore nude, 1964), o anche Il vuoto (1964) di Piero Vivarelli. Se è vero che il genere si coglie spesso meglio negli epigoni, allora è anche nei film del genere “autoriale” girati da non-autori, o da registi occasionali, che emergeranno meglio alcuni tratti della percezione comune, e dell’autopercezione, del “cinema d’autore”. Il mare, ad esempio, è in molte parti un esplicito calco di L’avventura, fin dall’ambientazione in un’isola fuori stagione (Capri) con pochi personaggi misteriosi e laconici. Anche lo stile, con varie inquadrature di oggetti che soverchiano i personaggi, o di spazi e oggetti privi di presenze umane, è ricalcato su quello di Antonioni. A questo si aggiunge però un ricordo preciso di L’anno scorso a Marienbad (1961) di Alain Resnais (i personaggi misteriosi, gli alberghi) e soprattutto una deviazione verso certe forme teatrali tradizionali (il protagonista Umberto Orsini è un attore, e di questa professione parla più volte, recitando anche una parte dell’Otello shakespeariano). Nel complesso, lo stile di Antonioni subisce una torsione verso un estetismo e un artificio più pronunciati, nell’evidente idea che il cinema d’autore passi anzitutto attraverso il rifiuto del realismo nei dialoghi e nei personaggi, e nel ruolo autonomo dato alle location. I protagonisti di Gli arcangeli sono invece dei giovani ricchi e annoiati, pur se tra loro c’è l’inevitabile comunista in crisi. Anche in questo caso i loro dilemmi sono sentimentali, e abbondano le scene sessualmente un po’ spinte (come sempre in apparenza atone, prive di tensione erotica). Il debito verso Antonioni si spinge in questo caso fino a un “Arcangeli Twist” messo in colonna sonora, e gli stessi protagonisti esclamano beffardi: «L’incomunicabilità!». Ma in realtà lo stile è piuttosto tradizionale, e ogni velleità “modernista” viene confinata quasi negli “stacchi” tra le scene, con i consueti edifici senza presenze umane (l’EUR, ovviamente), le serie di foto fisse. Anche qui come in Una storia milanese, la “modernità” è af32

fidata alla presenza di un jazz morbido (le canzoni originali sono cantate da Helen Merrill). Caso estremo quello di Il vuoto, in cui lo spregiudicato Vivarelli (autore di canzoni per Celentano e futuro specialista in B-movie) sposta l’ambientazione a Buenos Aires per descrivere la storia d’amore, assai “metaforica”, tra un’interprete e un fisico nucleare. Vivarelli accentua il lato erotico della storia d’amore, piegandolo nel finale verso sviluppi tranquillamente melodrammatici, e condendolo di dialoghi che sembrano ideati dall’Arbasino dell’epoca: «Come è livellatrice la spiaggia»; «Cupido ha perso le ali, da quando l’alfabeto Morse ha tolto ogni intimità alle parole d’amore» e così via. E le trasferte esotiche fanno anche di questo bizzarro film, sul filo della parodia involontaria, una specie di ideale ponte tra L’avventura e Bora Bora (1968) di Ugo Liberatore. Tutti questi film hanno inoltre cura di eliminare ogni forma di ironia e ogni personaggio che possa ricordare la commedia, di mettere al centro dei personaggi alto-borghesi o privi di tratti sociali definiti, e dei temi non direttamente sociali, psicologico-erotici, indulgendo in sequenze o situazioni più o meno osé, alludendo nello stesso tempo a una dimensione politica che si vuole importante (dalla baia dei Porci all’imborghesimento del Pci). Complessivamente, se seguiamo le teorizzazioni più rigorose della nozione di genere cinematografico, è assai difficile farvi rientrare completamente il cinema d’autore italiano degli anni Sessanta. Eppure, usare gli strumenti dell’analisi dei generi rimane qui assai utile. Sarà allora il caso, magari, di parlare di un genere mancato. Dal punto di vista cronologico (la stagione d’oro dura al massimo 3-4 anni, quelli del boom), dal punto di vista degli intenti dei produttori, e dal punto di vista della ricezione critica e giornalistica e dell’autopercezione dei protagonisti. Ritorna assai utile a questo punto una curiosa nozione, quella di autore “impari”, coniata alcuni anni fa da Alberto Pezzotta.54 Autori impari sarebbero alcuni registi italiani che esordiscono negli anni Sessanta con opere ambiziose, per poi conoscere una rapida decadenza all’interno dei generi e scomparire con l’avvento delle tv private: Brunello Rondi, Eriprando Visconti, Alberto Cavallo33

ne, Romano Scavolini, Cesare Canepari, Massimo Pirri, Gianni Vernuccio, Nello Rossati, in parte Mino Guerrini, Giulio Petroni, Giuseppe Bennati.55 Le loro carriere hanno esiti sconcertanti, quasi vertiginosi. Rondi passa da Una vita violenta (1962) e dalla sceneggiatura di 8 ½ (1963) a Racconti proibiti… di niente vestiti (1972) e Velluto nero (1976); Eriprando Visconti quindici anni dopo Una storia milanese farà soft-core come Oedipus Orca (1977), e Romano Scavolini passerà da La prova generale (1968) a Un vestito bianco per Marialè (1972). Pezzotta riassume così i loro tratti comuni: «1) L’autore impari inizia con ambizioni alte, è salutato dalla critica come una promessa, e poi man mano decade. (…) 2) Possiede una poetica, anche se spesso non può (o non sa) esprimerla in modo adeguato. (…) 3) Possiede un elemento di follia. Non ama le mezze misure, ignora il buon gusto, sceglie i temi più controversi. 4) Lo stile dell’autore impari è all’insegna dello spreco. Ossia della sproporzione tra mezzi e risultati. Nel senso, attenzione, che raffinatezze formali vengono utilizzate in contesti che non lo richiedono. (…) 5) L’autore impari si impossessa con sicurezza e disinvoltura della cultura alta, in un contesto basso. La sua formazione di rado è artigianale. L’autore impari ha fatto buone letture, cita con sicurezza i maestri della cultura. (…) 6) è spesso in anticipo sui tempi, anche se non se ne accorge nessuno. (…) 7) Si autodistrugge con cognizione di causa.»56

Le caratteristiche comuni a questi registi permettono di costruire una specie di “ombra dell’autore”, che integra e accompagna in maniera tragicomica il trionfo del cinema d’autore del decennio. In questo ritratto si intravede anche la confusione di un periodo, e vediamo quasi incarnata in singole figure quella lacerazione tra film d’autore e cinema popolare sempre più trash che sarà alla base del cinema italiano successivo.

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Maggiori e minori

Interrogare la nozione storica di cinema d’autore significa anche riproporre il problema di un canone, anzi della mutazione dei canoni negli anni. Se negli ultimi decenni la nozione di genere, pur vaga, è servita (secondo la lontana lezione della politique des auteurs) a rivendicare la statura di alcuni autori (il melodramma di Raffaello Matarazzo, l’horror di Mario Bava o il poliziesco di Fernando Di Leo, ma anche l’eclettismo di un Sergio Corbucci), valorizzando le varianti personali e gli scarti rispetto a dei codici, il pecorso inverso che dall’autore cerca di scoprire gli incroci con mode, generi e filoni si fa più difficile. La tacita idea che la modernità cinematografica riguardi quasi esclusivamente il cinema d’autore, infatti, è un errore prospettico. Esiste anche un cinema moderno di genere e un cinema d’autore classico.57 La questione, poi, si può complicare ulteriormente. Se si assume il cinema d’autore come forte riconoscibilità di stile e contenuti, e la modernità con la presenza di personaggi senza coordinate, la predominanza di quella che Deleuze ha definito “immagine-tempo”58 o la spiccata autoriflessività dei testi, appare chiaro che registi come Bava o come Sergio Leone possono essere considerati esempi di cineasti moderni. La riflessività propria del cinema moderno, oltretutto, è anche confronto con il cinema precedente, e certi autori che giungono in un genere in una fase decadente o postuma, con la piena coscienza di esso, possono perciò incarnare una forma particolare di modernità, a confronto con delle regole di genere che appaiono sempre più “a nudo”. Se dunque è possibile definire la stagione del cinema moderno anche come una forma di sua accentuazione “manierista”,59 proprio in questi termini Serge Daney aveva letto il cinema di Sergio Leone: «I manieristi sono co35

loro che hanno posto la propria firma sul divenire anamorfizzato di ciò che avevano intravisto i moderni. Ma prima di divenire un puro effetto del mercato, l’“effetto di firma” non risulta del tutto indolore. La firma è come un dettaglio che sostituisce l’insieme che non riesce a dimenticare. E questo è il manierismo».60 L’idea di cinema “manierista” potrebbe servire anche a rendere chiara la distinzione tra cinema moderno e cinema d’autore, cogliendo ad esempio le somiglianze di famiglia tra soggettivismo autoriale e semplice “stile pop” (presente in molto cinema di genere, dallo spionistico all’horror), per favorire una loro successiva distinzione. Tra le personalità “autoriali” degli anni Sessanta, peraltro, quella di Leone sarà forse la più influente sulle generazioni future: e proprio come stile registico, non come rilettura e ricombinazione di elementi del genere. Morto il western all’italiana, infatti, non è difficile vedere il “manierismo” leoniano incarnarsi nel cinema di Dario Argento, ma anche nei colossi degli anni Ottanta di Bernardo Bertolucci (che, come Argento, nel 1968 aveva collaborato a C’era una volta il West), e più avanti, esplicitamente, nel cinema di Giuseppe Tornatore. Per tacere delle influenze, più o meno accertabili o rivendicate, su autori come John Woo o Tarantino. Smontando la nozione di modernità e quella di autore, se si compie una epochè dalle stratificazioni storico-critiche e si torna ai testi, possono risultare sorprendenti certe somiglianze tra i differenti “manierismi” di Fellini e di Mario Bava. I primi film a colori di Fellini (Giulietta degli spiriti, 1965, Toby Dammit, 1967) sono figurativamente più vicini ai film coevi di Bava che a quelli di Antonioni o di Visconti: a parte la ricorrenza della misteriosa “bambina con la palla” di Operazione terrore in Toby Dammit, li accomunano l’onirismo di fondo e l’imagerie gotica, l’uso di materiali “bassi” e l’impianto visivo fumettistico (mentre Bava nel 1967 gira Diabolik Fellini fa quello che lui stesso considera il suo Flash Gordon, ossia il Satyricon, uscito nel 1969), con uso particolarmente irrealistico del colore.61 Ma non è solo questione di rileggere gli autori di genere, operazione in fondo largamente praticata negli ultimi decenni. Il rilievo della triade Fellini-Visconti-Antonioni ha soprattutto messo 36

in secondo piano, negli anni, la ricchezza e le articolazioni di un periodo complesso, favorendo una tacita gerarchia tra “maggiori” e “minori”. Tra i nomi sacrificati e difficilmente classificabili una volta accettata la prospettiva che pone al centro gli autori “maggiori”, ricordiamo Alberto Lattuada, Valerio Zurlini, Antonio Pietrangeli, Mauro Bolognini e in parte Luigi Comencini. Inserirli pienamente nel canone significherebbe forse anche ricostruire una mappa rinnovata di quegli anni. I primi due si pongono in dialogo più preciso con la commedia all’italiana, ma senza coincidervi come fanno Monicelli, Risi e (in quel periodo) Germi. Se gli anni Sessanta poi sono in fondo un momento di transizione per Comencini (che conoscerà una nuova straordinaria stagione dalla fine del decennio) i film di Lattuada, Zurlini e Pietrangeli sono indubbiamente tra i più significativi del periodo. E un discorso nuovo meriterebbero gli adattamenti letterari di Bolognini, che declina l’idea di film d’autore in una variante apparentemente “debole”, in un confronto con testi letterari soprattutto nazionali, da Il bell’Antonio (1960) a La viaccia (1961), da Senilità (1962) ad Agostino (1962), ma compiendo una riflessione tutt’altro che banale sulle mutazioni delle identità di genere e sui rapporti di potere tra le classi e i sessi, che sarebbe magari da leggere in parallelo con quella di Lattuada.62 Lattuada è uno dei frutti estremi del cinema “calligrafico” d’anteguerra, ma è proprio negli anni Sessanta che trova una delle sue stagioni più felici, lambendo la commedia all’italiana con alcuni titoli eccentrici e sperimentali (Mafioso, 1962; La mandragola, 1965; Don Giovanni in Sicilia, 1967, Venga a prendere il caffè… da noi, 1970), e soprattutto realizzando, come abbiamo già ricordato, uno dei pochi film “giovanilisti” vagamente nouvelle vague del nostro cinema (I dolci inganni): il suo è un cinema nel quale la presenza dei corpi (fanciulle in fiore o maschi grotteschi) si risolve anche in una continua lotta tra sguardo e narrazione, sostituendo alla ba(l)ade deleuziana63 un distratto e sornione voyeurismo, come nelle scene di spiaggia di Don Giovanni in Sicilia o nel folgorante inizio di I dolci inganni con il risveglio della Spaak tra le lenzuola. È possibile che alcuni di questi registi (Pietrangeli e Lattuada) 37

scontino la loro prossimità alla commedia in certe situazioni (e nella scelta degli attori), e soprattutto, non tanto paradossalmente, al mélo. Inoltre, se ad esempio Antonioni compie il salto bruciando le scorie dei suoi grandi melodrammi anni Cinquanta (da Cronaca di un amore, 1950, fin quasi a Il grido, 1957), film come I dolci inganni, La ragazza di Bube (1963), La ragazza con la valigia (1961) hanno al loro interno donne troppo poco “problematiche” in senso moderno, anzi sostanzialmente figure di transizione, oggi peraltro molto più credibili dal punto di vista psicologico e sociologico dei personaggi di Antonioni, che sono più che altro elementi funzionali alle sue costruzioni spazio-temporali (e che infine, in Deserto rosso, 1964, devieranno esplicitamente verso la patologia). A interpretarle sono spesso due fra le attrici più moderne del cinema italiano del decennio: Catherine Spaak e Claudia Cardinale. Il maggior rilievo oggi assunto da registi come quelli citati rispecchia un interesse mutato per l’Italia degli anni Sessanta e per il suo cinema. Non più e non tanto, dunque, la ricerca di elementi di aggiornamento culturale, e forse nemmeno di segni forti di modernità stilistica, ma un interesse per le variegate strategie con le quali i registi entrano in relazione con i generi e l’orizzonte di attesa del pubblico, con la società e con gli altri media. E un’attenzione per le linee minoritarie della storia del nostro cinema, per esperimenti eccentrici e non destinati a una eco immediata, ma che anche per questo giungono a noi meno logorati dalle interpretazioni. Non che questo debba per forza condurre a facili rivalutazioni o frettolose liquidazioni (la triade Fellini-Visconti-Antonioni aveva ovviamente ottimi motivi per essere considerata il fulcro del nostro cinema). Se occorre un revisionismo, esso dovrebbe essere, alla lettera, una passione del rivedere e la scoperta, che continua ogni giorno, dell’incredibile ricchezza del nostro cinema fino agli anni Settanta.

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gli Intellettuali al cinema, il cinema agli intellettuali

Per la definizione del cinema d’autore è essenziale il suo rapporto con il contesto culturale. È il cinema d’autore, soprattutto in alcuni momenti, a costituire la faccia con cui la produzione cinematografica di un Paese si presenta al “mondo esterno”, agli altri ambiti della cultura. Da questo punto di vista, la stagione d’oro del cinema d’autore, gli anni Sessanta, è (non certo solo in Italia) il momento in cui il cinema sembra rispondere meglio di ogni altra forma espressiva alla efficace presentazione dei grandi temi contemporanei. In Italia il fenomeno è particolarmente evidente, specialmente se lo si paragona con i decenni successivi. In nessun momento forse il cinema è stato così al centro della riflessione culturale come nei primi anni Sessanta. A ciò cooperano vari fattori, a cominciare dall’interesse per i “mass media” e per le mutazioni dell’industria (il celebre numero 4 del «Menabò» di Vittorini e Calvino dedicato a “Industria e letteratura” esce nel 1961), e il predominio di una generazione per la quale il cinema era tranquillamente parte della formazione etica ed estetica. Certo, la storia del rapporto tra letterati italiani e cinema è molto antica, e già negli anni Cinquanta una delle caratteristiche delle rubriche di critica cinematografica è la massiccia e stabile presenza di letterati, che aiutano questo settore a trovare una collocazione di rilievo all’interno dei periodici. Nel dopoguerra hanno rubriche fisse Alberto Moravia, Ercole Patti, Giuseppe Marotta, Anna Banti ed Ennio Flaiano, ma anche, per fasi più brevi, Corrado Alvaro, Aldo Palazzeschi, Vasco Pratolini, Tommaso Landolfi. Si nota però una mutazione significativa: se negli anni Cinquanta era magari «Cinema Nuovo», con periodiche inchieste, a chiedere l’intervento dei letterati su questioni 39

cinematografiche, cercando di accreditare il cinema nella cultura del proprio tempo, adesso sono invece le riviste letterarie a sentirsi in dovere di confrontarsi con il cinema (d’autore). Il cinema non è più soltanto una sponda “alimentare”, con cui guadagnarsi da vivere (come critici o come sceneggiatori), ma una sirena culturale. Diventa allettante, per il letterato, la figura del regista, sancita definitivamente da Fellini con 8 ½. E se al cinema arrivano scrittori-sceneggiatori di nuova leva (Goffredo Parise e Raffaele La Capria, ad esempio), sono numerosi gli scrittori e i letterati che puntano alla regia con ambizioni pienamente artistiche o spinti da curiosità. Oltre al caso eclatante di Pasolini, si ricordano alcuni tentativi variamente falliti o isolati: Giuseppe Patroni Griffi (Il mare, 1961), Pasquale Festa Campanile (Un tentativo sentimentale, 1963), Alberto Arbasino (La bella di Lodi, 1963, con Mario Missiroli), Nelo Risi (Andremo in città, 1966), Enzo Siciliano (La coppia, 1968). La gran parte di questi registi esordisce, come abbiamo visto, con film “alla maniera di Antonioni”, e in effetti il regista di Ferrara è il nome più citato e analizzato dagli intellettuali dell’epoca. Subito dopo, nell’interesse dei letterati, c’è Fellini: La dolce vita era stato il primo film a suscitare un dibattito extracinematografico di vasta portata (ricordiamo gli interventi celebri di Arbasino, Berto, Calvino, Pasolini, Moravia), e anche 8 ½ susciterà grandi discussioni. Ma Antonioni rimane l’autore che più si presta al confronto (e all’equivoco) da parte degli intellettuali, anche perché tende a presentarsi come un’operazione rivolta anche a loro, un’operazione di modernizzazione della cultura italiana. A colpire è oggi il tono di serietà con cui le opere del regista vengono smontate e interrogate in ambito non cinematografico. Si pensi alla tavola rotonda che su «Il Contemporaneo», rivista culturale vicina al Partito comunista, vede discutere di L’eclisse due nomi di punta della cultura marxista dell’epoca, il filosofo Galvano Della Volpe e lo storico della letteratura Carlo Salinari, insieme ad Alberto Carocci e a Luigi Chiarini.64 Ma come esempio più probante si può scegliere la rivista di cultura forse più “generalista” del periodo, ossia «L’Europa letteraria», nata nel 1960 e diretta da Giancarlo Vigorelli, che proprio per il suo non essere in nessun modo una rivista “di tendenza” costitu40

isce un ottimo osservatorio delle mode culturali. Intanto, è significativo che una rivista squisitamente letteraria si appoggi, fin dal primo numero, alla pubblicità del listino Titanus, esposto in quarta di copertina: esempio eloquente del tentativo di legittimazione highbrow che la casa di Lombardo cercava di compiere (di lì a poco arriveranno le pubblicità di molte altre distribuzioni, a cominciare da De Laurentiis). Ben presto, poi, la rivista apre al proprio interno una sottorivista, «L’Europa cinematografica», a partire dal n. 9-10 dell’estate 1961, aperta da un articolo di Pietro Bianchi su Cinema e letteratura che prende spunto, inevitabilmente, da Antonioni. Il numero ospita addirittura la relazione di Goffredo Lombardo a un convegno milanese, ovviamente un ampio dossier su Antonioni, e un “contraddittorio francese” con frammenti e testimonianze sulla Nouvelle Vague e dintorni. Anche se si fa sentire il legame con il gruppo di «Cinema Nuovo», saranno molti gli scrittori che affronteranno il cinema su quelle pagine, da Piovene a Gianna Manzini (con una curiosa difesa del cinema di Bolognini in parallelo a una “spiegazione” di Antonioni in termini di narrativa quasi ottocentesca), da Sciascia (che stronca Sedotta e abbandonata) a Nelo Risi. Gli speciali, oltre a quello inaugurale su Antonioni, saranno due: uno sul cinema spagnolo (con una nuova tavola rotonda su Antonioni, cui partecipano Juan Antonio Bardem, Luis García Berlanga e altri) e uno su 8 ½, con gli interventi di Fernaldo Di Giammatteo, Giuseppe Berto, del filosofo Armando Plebe, dello psicanalista Emilio Servadio, e di Elizabeth Mann Borgese. Questo aspetto non è certo secondario nella costruzione culturale del cinema d’autore: non solo a vario titolo vi partecipano gli intellettuali, ma esso è riconosciuto, descritto e promosso nelle sedi canoniche del dibattito estetico, politico e culturale nazionale come pieno fatto di cultura, non eccezione (come era nel caso del neorealismo) né divertissement (come era nel rapporto col cinema di una rivista degli anni Venti come «Solaria»), ma fenomeno equiparato in tutto alla letteratura. Il “caso Antonioni” è dunque il banco di prova degli intellettuali dell’epoca, anche se oggi la parte più caduca del suo cinema è proprio quella che era più discussa, i temi dell’alienazione e dell’incomunicabilità. È ovvio oggi dire che l’importanza di Antonioni e i motivi della sua grandezza stanno altrove, e che la storia della ricezione del 41

suo cinema da parte dei letterati è soprattutto la storia di un equivoco, per quanto istruttivo. Già all’epoca, le esilaranti stroncature di Alberto Arbasino su «Il Mondo» di Pannunzio (che colpiscono prima L’avventura e poi La notte, L’eclisse e Deserto rosso) tendevano a colpire, attraverso i film, una moda culturale nazionale.65 Arbasino in ogni modo si concentrava soprattutto sulla descrizione dei personaggi, cogliendo implicitamente nella loro mutazione uno degli elementi centrali del cinema di Antonioni. E proprio questo è il punto d’arrivo (e costituisce probabilmente la scintilla prima) di uno dei più celebri saggi letterari del decennio, la Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo di Giacomo Debenedetti (1965),66 che ricostruisce la lunga crisi del personaggio del romanzo ottocentesco, attraverso un parallelo con l’evoluzione delle scienze fisiche (e tenendo sullo sfondo gli eventi tragici della Seconda guerra mondiale). L’obiettivo polemico di Debenedetti sono i teorici del nouveau roman, che sostengono la necessità di una obiettività assoluta nel descrivere il mondo alienato, e fanno derivare le loro scelte anche dalla lezione del cinema. Ma il cinema, obietta Debenedetti, non insegna affatto le cose che imparano i teorici del nouveau roman. Non è affatto obiettivo e imperturbabile, non conosce affatto, come unico tempo, l’indicativo presente.67 E soprattutto, al grande critico appare pernicioso l’effetto di retroazione dell’antipersonaggio nel cinema, tentando di fare arte «su un dato di cultura, eterogeneo, che difficilmente si presta come materiale».68 L’esperimento di Antonioni, osserva Debenedetti, funziona anche perché lo stile di Antonioni è giunto all’antiromanzo, «ammesso che vi sia giunto, senza essere clamorosamente passato per le scapigliature della Nouvelle Vague»,69 e maneggia i materiali con accortezza comunicativa; e perché il momento in cui i film di Antonioni arrivano è proprio quello giusto, in cui l’antipersonaggio è divenuto di moda, e quindi i suoi film si collocano a mezza strada tra cultura e divulgazione.70 Beninteso, per Debenedetti Antonioni è un regista di prima grandezza, ma semplicemente la sua grandezza non deriva dal cimentarsi con la forma dell’antiromanzo e specialmente dell’antipersonaggio. E il critico nota anche un altro momento in cui la creazione di antipersonaggi al cinema finisce in aporia: la presenza fisica del corpo degli attori. «Il nostro vero intento è di liberare l’eroina dalla sua sorte, o l’attrice dalle sofferenze della sua parte? Se in queste 42

prove di Antonioni si poteva, fino a un certo punto, ammettere l’antipersonaggio, è certo che l’attrice lo confuta nella misura in cui gli dà vita.»71 L’ipotesi di Debenedetti è che la morte del personaggio-uomo sia appunto provvisoria, e rispecchi piuttosto una situazione tipica del periodo: anche per lui il cinema (di Antonioni) è il luogo privilegiato per osservare le tendenze artistiche in atto. Ma, diversamente da altri osservatori, Debenedetti era un vecchio frequentatore dei film: e la sua confutazione di quel che la cultura dell’epoca voleva vedere nel cinema proviene, nei passi decisivi, dall’interno di un’analisi delle poetiche e anzi della grammatica del cinema (attraverso l’analisi della ricchezza degli strumenti retorici del cinema, Debenedetti confuta l’idea di una “imperturbabilità” della macchina da presa, condannata a un eterno presente). Mentre i letterati italiani si volgono al cinema come mai fino allora, specularmente è anche il cinema di quegli anni a sentirsi in dovere di mettere in scena la crisi degli intellettuali come tema rilevante. Anzi, si potrebbe ipotizzare che la presenza di figure di intellettuali, raccontate in quanto tali, sia uno dei topoi del cinema d’autore. Si ha, nel complesso, il senso di una circolarità di richiami tra dibattito intellettuale e film: dagli uni agli altri, e viceversa. Ancora una volta, i due esempi fondamentali sono Fellini e Antonioni. L’esempio più eclatante è lo scrittore Giovanni Pontano in La notte, circondato dall’industria editoriale, tra critici agonizzanti e “cumenda” editori. Ma ad affrontare per primo il tema era stato Fellini, con il celebre episodio di Steiner, il suicida di La dolce vita. Trattato malissimo dalla critica all’epoca, l’episodio appare invece, come si vedrà nell’analisi dedicata al film, uno snodo fondamentale dell’opera e altamente significativo del cinema italiano di quegli anni. Lo stesso 8 ½, a farlo nascere idealmente dal tronco di La dolce vita, partirebbe proprio dall’episodio di Steiner. In 8 ½, potremmo dire, il protagonista centrale è una specie di Steiner incrociato con Marcello: sempre testimone, ma stavolta della propria interiorità. Ed è ben inquietante che la prima figura di intellettuale, e una delle più importanti, del cinema italiano di quel periodo, compia rapidamente la propria parabola in un suicidio e in una piccola strage di innocenti. 43

Autori nella crisi: la seconda metà del decennio

La periodizzazione che si è adottata in questo libro presenta al proprio interno una vistosa cesura cronologica, tanto da giustificare quasi una doppia trattazione. Si tratta di un mutamento che riguarda l’intera società italiana, ma che trova una drammatica consonanza nella storia del cinema, sia dal punto di vista economico che artistico. Con la “congiuntura” economica del 1964 e il consolidamento politico del centro-sinistra (ma anche il definitivo affossamento dei suoi progetti più radicali di riforme, a cominciare da quella urbanistica) comincia la storia di quello che Guido Crainz ha definito “il Paese mancato”, accompagnato dal “rumore di sciabole” dei primi progetti eversivi di destra. E comincia anche il lungo declino, e poi l’agonia, del cinema italiano. Ecco come, alcuni anni dopo, Adelio Ferrero rievocava l’importanza di quest’anno per il cinema e la cultura italiane: «Il 1964, anno della morte di Togliatti, è anche l’anno in cui, ripubblicando il suo primo romanzo apparso nel 1947, Italo Calvino, nel rievocare la stagione “neorealistica”, ne parla come di “una potenzialità diffusa nell’aria. E presto spenta”. E il 1963 vedrà le violente polemiche intorno al libro di Asor Rosa, l’appassionato discorso di Vittorini sul “populismo”, la penetrante “verifica” di Fortini. Se la “delusione storica” induce questi e pochi altri intellettuali a una coraggiosa e tuttora aperta “verifica dei poteri”, nel cinema essa tende invece a contrarsi e a chiudersi nel ripiegamento elegiaco, nella nostalgia delle rivoluzioni mancate o tradite, nel lamento infine sulle “grandi speranze” eluse e frustrate. È sufficiente ricordare alcuni titoli e nomi dei primi anni ’60 (Estate violenta di Zurlini, La lunga notte del ’43 e Le 44

stagioni del nostro amore di Vancini, Il Gattopardo di Visconti, ecc.) per circoscrivere il respiro e la misura, corti ed esigui, di ripensamenti più patetici che critici. Lo stesso Uccellacci e uccellini, con tutta la sua disponibilità intellettuale alle più spericolate contaminazioni, non si sottrae, infine, alla dimensione dell’idillio commemorativo, di specie funerea se non elegiaca.»72

Già alla metà del decennio tutti i grossi nomi del cinema italiano conoscono delle svolte radicali, verso il mito, il passato, l’incubo, o l’evasione in luoghi esotici. A Rocco e i suoi fratelli, La notte, La dolce vita, Salvatore Giuliano, Banditi a Orgosolo, Accattone, Prima della rivoluzione, seguono da parte degli stessi autori Giulietta degli spiriti, Toby Dammit, Satyricon, Vaghe stelle dell’orsa…, Lo straniero, La caduta degli dei, Teorema, Medea, Edipo Re, Blow Up, Zabriskie Point, Un uomo a metà, Partner. Mentre si avvicina quel filone mito-politico che in grandi e grevi allegorie tenta da lontano la riflessione sull’attualità (I cannibali, 1969, di Liliana Cavani; Sotto il segno dello scorpione, 1969, di Paolo e Vittorio Taviani) Nel suo studio su Cinema e pubblico, Vittorio Spinazzola individuava la novità del boom nella creazione di un cinema “medio” maggioritario per una borghesia più ampia, e dunque nella fine di un cinema “popolare” in senso stretto verso un cinema “di massa”, secondo la logica delle analisi gramsciane: «Al cinema popolare appartengono le opere destinate al consumo esclusivo delle classi subalterne; il cinema di massa è invece programmato in vista di una unificazione del pubblico, borghese e proletario, e appare perciò dotato di una valenza interclassista. (…) L’antinomia ci rimanda a due fasi storico-culturali distinte. Nella prima, il film dichiaratamente di serie B si contrappone in modo netto alle pellicole che ambiscono a una qualifica di nobiltà espressiva; in seguito, l’avanzata dei prodotti per una fruizione tendenzialmente universale determina un restringimento dell’area d’influenza dei film nati per incontrare il consenso delle élite intellettuali: da ciò le fughe in avanti dello sperimentalismo avanguardistico, portato a rinserrarsi in zone franche, fuori e contro il mercato industrialmente strutturato. In parallelo, anche il film popolare è confinato entro margini più ristretti, dove può ancora conservare qualche 45

tratto di autonomia specialistica ma perde il suo carattere separato e si qualifica prevalentemente nel senso di una ripetizione immediata, a infimo livello, dei modelli offerti dal consumo corrente. Lo sviluppo complessivo del nostro cinema tra il 1945 e il ’65 ha seguito questa linea.»73

Ma le cose sono ancora più complesse. Certo, a metà del decennio si costituisce un robusto filone mainstream, che coincide sostanzialmente con la commedia (ormai molto diversa da quella dei primi anni Sessanta: meno direttamente critica nei confronti dell’italiano del boom, e sempre più indulgente e ripetitiva), e il cinema d’autore perde l’occasione di poter guidare l’evoluzione del pubblico italiano (come accade invece, per certi aspetti, in Francia). Il cinema d’autore non conoscerà mai più incassi e un interesse del pubblico paragonabili ai primi anni Sessanta, e d’altro canto sarà sempre meno interessato a un dialogo diretto con la società. In questo quadro si ha, come accennato, il paradosso dei due filmsimbolo di una nouvelle vague italiana, Prima della rivoluzione e I pugni in tasca, che arrivano alla fine di una stagione di innovazione, e subito prima di un tracollo economico e artistico (dal 1965 la qualità degli esordi italiani crolla). Ma oltre a questi due poli va ricordato come il cinema “popolare”, che avrebbe dovuto avere a questo punto un carattere residuale, conosce invece per quasi una ventina d’anni un avvicendarsi di generi e filoni di qualità sempre più bassa, fino all’avvento delle tv private: dal mitologico a Franco e Ciccio, dallo spaghetti western al giallo argentiano, dal poliziottesco alla commedia sexy, la maggior parte degli incassi del cinema italiano saranno assicurati dai “generi di profondità”, creando una situazione caotica, vitale e forse anche patologica.74 In questo gioco a tre il cinema d’autore rimarrà legato sostanzialmente ai nomi dei tre registi del “superspettacolo d’autore”, e poi a quelli del solo Fellini, affiancato dai nomi di volta in volta più spendibili in chiave di cronaca politica o scandalistica (Pasolini, Ferreri, poi Bertolucci). Unici nomi in grado di catalizzare un discorso non confinato alle pagine dei periodici specializzati, e in grado anche di raccogliere qualche consenso all’estero. Spesso per motivi contingenti, polemici o scandalistici, 46

più che per una reale attenzione alle opere, alle novità artistiche che il cinema porta. Nella seconda metà degli anni Sessanta non solo non c’è nessun film che attivi un dibattito paragonabile a quello dei film di Antonioni, Visconti e Fellini negli anni precedenti, ma spesso alcuni dei film più rilevanti sono sostanzialmente ignorati dal pubblico: era già il caso di Prima della rivoluzione (29 milioni di lire di incasso), e lo sarà anche per l’esordio più folgorante di fine decennio, Nostra signora dei turchi (1968) di Carmelo Bene, che incassa 30 milioni nella stagione 1968-69. Da un punto di vista più generale, aumenta la forbice tra pochissimi titoli che rastrellano molti incassi e una moltitudine di invisibili (spesso film d’autore senza mercato). A fine decennio, nel 1969, quindici film incassano insieme 13 miliardi, mentre gli ultimi cinquanta non ne mettono insieme complessivamente nemmeno uno.75 Dal 1966 il calo delle presenze comincia a farsi avvertibile, soprattutto al Nord, che aveva sancito il trionfo dei film di Fellini e Visconti. E ciò a dispetto di una nuova legge sul cinema, la cosiddetta legge Corona (frutto anch’essa, tra vari compromessi, dei primi governi di centro-sinistra) che entra in vigore nel novembre 1965:76 essa estende la composizione della commissione ministeriale ai rappresentanti delle varie categorie, e istituisce un fondo speciale per i film con particolari scopi artistici. L’anno dopo verrà istituito l’Italnoleggio, istituzione pubblica destinata a operare nel campo della distribuzione cinematografica, e che poi passerà anche alla produzione. Ma già dai primi anni i contrasti tra democristiani e socialisti all’interno della sua gestione ne determinarono la vita tormentata.77 Quel che ci preme sottolineare è che i successivi interventi dello stato e della televisione italiana nel cinema segneranno, nel bene e nel male, la storia del cinema “d’autore” per decenni, separandolo anche economicamente dal resto del cinema italiano, fosse esso quello dei generi “bassi” o dei vecchi attori della commedia all’italiana, sulla breccia fino agli anni Ottanta. Nel frattempo, il cinema d’autore va incontro, più che a una riconoscibilità, a una vera e propria sclerotizzazione in alcuni stilemi più o meno “moderni”, derivati dalle nouvelle vague internazionali o da modelli autoctoni. Sono gli anni in cui trionfano il teleobiet47

tivo, il grandangolo, lo zoom, la luce in macchina, talvolta il flou e i fermo-immagine, e, dal punto di vista della narrazione, le storie narrate in flashback o con piani temporali incastrati. In qualche modo, il cinema d’autore è diventato un bagaglio di attrezzi che però può di volta in volta servire a nutrire anche degli esempi di cinema di genere che lo imitino in maniera smaccata: sarà questo, pochi anni dopo, il caso del filone neomelodrammatico alla Anonimo veneziano (1970). Mentre anche registi di generazioni precedenti, in un’ansia di modernità, si appropriano con entusiasmo di questi stilemi e ne fanno uso spesso abusandone: si pensi a tutto l’ultimo cinema di De Sica, o a La caduta degli dei (1969) di Visconti.78 Nello stesso periodo Bolognini, con la collaborazione del direttore della fotografia Ennio Guarnieri, del musicista Ennio Morricone e del costumista Piero Tosi, porterà all’estremo questo stile, col quale trova una intima consonanza, specialmente nella rievocazione del passato sospesa tra fascino nostalgico e ripulsa morale. Di conseguenza, per le nuove generazioni, che si preparano a vivere il ’68, il cinema d’autore non sarà affatto così importante come lo era stato per “la prima generazione”: «Il dato davvero sintomatico che si rileva a partire dagli anni Sessanta è una crescente distonia fra la storia dei fenomeni di consumo culturale e la vicenda del Paese in termini storici (…). Fa indubbiamente riflettere che la generazione studentesca sia cresciuta consumando (accanto a una cultura scolastica che faceva perno sul liceo classico come matrice della classe dirigente futura) il fumetto nero e il cinema mitologico-seriale o quello spaghetti western».79

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Note

1. Valerio Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri, Einaudi, Torino, 1995, p. 417. 2. Guido Crainz, Storia del miracolo economico, Donzelli, Roma, p. 87, il quale specifica che «una diminuzione così rapida del peso dell’agricoltura avvicina semplicemente l’Italia ad altri paesi europei» come Francia e Germania. 3. Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia, 1992, p. 239. 4. Guido Crainz, Storia del miracolo economico, cit., 1996 (2003 II ed.), p. 56. 5. Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, cit., p. 271. 6. Ivi, p. 276. 7. L’aumento delle vendite in quell’anno è del 30%: «dai 5 milioni di dischi del 1953 siamo ora a poco meno di 18 milioni, che saranno 22 nel ’52, 44 nel ’64» (Stephen Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca, Giunti, Firenze, 1995, p. 77). 8. Simonetta Piccone Stella, La prima generazione. Ragazze e ragazzi nel miracolo economico italiano, Franco Angeli, Milano, 1993. 9. Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Vol. IV: Dal miracolo economico agli anni novanta 1960-1993, Editori Riuniti, Roma, 1993, p. 5. 10. Cfr. Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, Marsilio, Venezia, 1992, p. 307. 11. Il cinema e il suo pubblico. Indagine statistica e motivazionale sulla validità pubblicitaria del mezzo cinematografico, a cura di CODIS italiana, 1961, cit. in Francesco Casetti - Mariagrazia Fanchi, “Le funzioni sociali del cinema e dei media: dati statistici, ricerche sull’ audience e storie di consumo”, in Mariagrazia Fanchi ed Elena Mosconi (a cura di), Spettatori, Edizioni di Bianco e Nero - Marsilio, Roma-Venezia, 2002, p. 146. 12. Francesco Casetti - Mariagrazia Fanchi, “Le funzioni sociali del cinema e dei media”, cit., p. 141. 13. «Il punto metaforico di raccolta della gioventù in questi anni, il luogo simbo-

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lico del loro incontro corrispondono al cinema e alle immagini fotografiche. I ventenni non si riconoscono ancora un “noi” sul piano nazionale (...) attraverso le immagini. Il James Dean di Gioventù bruciata, il Marlon Brando di Il selvaggio, l’impudica Pascale Petit di Peccatori in blue-jeans, le immagini e i film di Brigitte Bardot, l’esistenzialista Juliette Gréco, la protagonista più ritratta del processo Montesi, Anna Maria Moneta Caglio, inducono l’autoriconoscimento silenzioso di una generazione per adesione spontanea, con quell’inclinazione che James Coleman riassume nell’espressione “inward lookingness”: il guardarsi reciproco, l’imitazione, il prendersi a modello l’un l’altro.» (Simonetta Piccone Stella, La prima generazione, cit., pp. 11-12) 14. Casetti - Fanchi, “Le funzioni sociali”, cit., p. 156. 15. Simonetta Piccone Stella, La prima generazione, cit., p. 13. 16. Sul tema cfr. Claudio Bisoni, “Cinema a 45 giri”, in Giacomo Manzoli e Guglielmo Pescatore (a cura di), L’arte del risparmio: stile e tecnologia. Il cinema a basso costo in Italia negli anni Sessanta, Carocci, Roma, 2005, pp. 53 - 61. 17. Vincenzo Buccheri, Lo stile cinematografico, Carocci, Roma, 2010, p. 55. 18. Già presente nelle varie edizioni di Il cinema italiano degli anni ’60 (ultima edizione Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Marsilio, Venezia, 2002), questa ricostruzione è sintetizzata e aggiornata nel saggio “La nuova ondata e la politica dei debutti: percorsi cinematografici”, in Giorgio De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. X: 1960-64, Edizioni di Bianco e Nero - Marsilio, Roma-Venezia 2001, pp. 136-159. 19. Lino Micciché, La nuova ondata e la politica dei debutti: percorsi cinematografici, cit. 20. Lino Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, cit., p. 61. 21. Ivi, pp. 59-61. 22. Roberto Turigliatto (a cura di), Nouvelle vague, Festival Cinema Giovani, Torino, 1985, pp. 104-5. 23. «Quella del cinema italiano di quel periodo è una luce da produttore.» (Ivi, 104-5) 24. Cfr. la classica discussione, già all’epoca, della difficoltà di definire il nucleo portante del “nuovo cinema”, compiuta da Christian Metz nel saggio “Il cinema moderno e la narratività”, («Cahiers du cinéma», n. 185, 1966) raccolto in Id., Semiologia del cinema, Garzanti, Milano, 1972, pp. 253-303. 25. Curiosamente, come notava all’epoca uno dei critici giovani estimatori della Nouvelle Vague (specialmente rive gauche), Morando Morandini, gli exploit del nuovo cinema francese erano stati accolti piuttosto male dalla critica italiana: «Gli oppositori italiani della “nouvelle vague” sono coloro stessi che crebbero

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euforici all’ombra del neorealismo, poi subirono il peso degli avvenimenti reagendo in qualche caso con una tale sopravvalutazione delle proprie sventure da diventare eroi dell’arte di arrangiarsi». («Schermi», n. 20, gennaio-febbraio, 1960) 26. Vincenzo Buccheri, “Mappe per un debutto: profili e tendenze nel cinema degli esordienti”, in Giorgio De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. X: 1960-64, cit., p. 168. 27. È lo stesso Petri a chiarire e giustificare i limiti di uno sperimentalismo possibile in Italia: «La mescolanza di forme nuove di montaggio, con (…) tagli rivoluzionari, nei Giorni contati esprime una mia cautela. Le rivoluzioni non possono essere attuate senza premesse rivoluzionarie, come fatto intellettualistico. Nessuno in Italia ha scritto come Dos Passos, nemmeno Pavese e Vittorini, e lo stesso Svevo non è supinamente joyciano, Guttuso, che è il più grande pittore italiano di oggi, deve molto a Picasso, ma non al cubismo.» (Intervista in «La fiera del cinema», febbraio 1962, raccolta in Patrizia Pistagnesi, a cura di, Poetiche delle nouvelles vagues. 2: Italia, Marsilio, Venezia, 1991, p. 16). 28. Giorgio De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche, Parma, 1993. 29. David Bordwell, “The Art Cinema as a Mode of Film Practice” (1979), raccolto in Leo Braudy e Marshall Cohen (a cura di), Film Theory and Criticism, Oxford University Press, New York, 1999, pp. 716-20; Id., Narration in the Fiction Film, University of Wisconsin Press, Madison, 1985. 30. András Bálint-Kovács, Screening Modernism. European Art Cinema 1960-1980, University of Chicago Press, Chicago, 2007, specialmente pp. 63-6: «Le caratteristiche della narrazione moderna sono conseguenze del fatto che esse raccontano storie di una persona estraniata che ha perso tutti i suoi contatti essenziali con gli altri, con il mondo, con il passato e con il futuro o addirittura perso le fondamenta della propria personalità. Più radicale è l’estraniamento di questa persona, più radicale il carattere moderno della narrazione. Più una persona è radicata nelle tradizionali relazioni umane e sociali, più classica sarà la narrazione» (p. 66). 31. Sul rapporto autore/personaggio nei film italiani dell’epoca cfr. Veronica Pravadelli, “Moderno/Postmoderno: elementi per una teoria”, in Bruno Torri (a cura di), Nuovo cinema (1965-2005). Scritti in onore di Lino Micciché, Marsilio, Venezia, 2005, pp. 66-78, cit., pp. 72-3. 32. L’idea che il richiamo al neorealismo sia ciò che distingue esplicitamente il cinema d’autore italiano da quello commerciale dello stesso periodo è stata di

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recente articolata anche da Angelo Restivo, The Cinema of Economic Miracles: Visuality and Modernitazion in the Italian Art Film, Duke University Press, Durham, 2002. 33. Cfr. nota 21. 34. Le iniziative di Zavattini in quegli anni, realizzate e no, sono come al solito le più diverse: tra le altre il documentario televisivo Chi legge? (1960) in collaborazione con Mario Soldati, l’attività di docente e supervisore per la scuola di cinema dell’Avana, il progetto dei «Cinegiornali della pace» (ne verrà realizzato solo un numero), l’idea abortita di film-inchiesta autobiografici (su De Laurentiis, Danilo Dolci e Maurizio Arena) ecc. (cfr. la Cronologia in Cesare Zavattini, Opere 1931-1986, Bompiani, Milano, 1991, pp. XXXVII- XXXIX). 35. Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, cit., p. 183. 36. András Bálint-Kovács, Screening modernism, cit., p. 65. 37. Fondamentale, per l’identificazione di un “cinema d’autore” come pratica storicamente definita, che possiede «una serie di convenzioni formali e delle procedure spettatori ali implicite», il saggio citato di Bordwell del 1979 su The Art Cinema (la citazione è a p. 717). 38. Su questo aspetto del film di Fellini cfr. András Bálint-Kovács, Screening Modernism, cit., pp. 316-22. Da notare che l’espressione anglosassone per indicare quello che noi chiamiamo “cinema d’autore” sia art cinema: in Francia e in Italia, l’idea che il cinema d’arte si definisca in base alla preminenza dell’autore è implicita nel nome stesso. 39. Veronica Pravadelli, Moderno/Postmoderno, cit. 40. Ivi, p. 73. 41. Rick Altman, Film/Genere, V&P. Milano, 2004, p. 333. 42. Ivi, p. 25. 43. Dopo Senso (1954), Visconti fa di nuovo eccezione con Il Gattopardo (1963) ma passerà definitivamente al colore solo nel 1967; Fellini e Antonioni nel 1965; Comencini nel 1966; Lattuada e Zurlini nel 1968. Ed esordiscono in bianco e nero quasi tutti i nuovi autori del decennio, da Olmi a Pasolini a Bertolucci, fino a Bellocchio (1965), Cavani (1966, ma è un film per la tv), Samperi e Agosti (1967). 44. Oltretutto esso si articolerà nell’innesto sullo spaghetti western anche come genere esotico, specialmente nei film di Pontecorvo o in certi mafia-movie. 45. Cfr. quanto dice Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico, Bompiani, Milano, 1974: «I più agguerriti specialisti del filone (comico-brillante) diedero il segnale di abbandono del campo, passando a impadronirsi di tutti i più impegnativi

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motivi della nuova ondata neorealista: l’antifascismo, la questione meridionale, gli umori esistenziali, i turbamenti erotici.» 46. Al riguardo, Vincenzo Buccheri (Lo stile cinematografico, cit., p. 131) ha lanciato l’ipotesi che, a fronte di un cinema degli anni Sessanta “imperfettamente” moderno, si potessero rintracciare invece elementi di modernità stilistica nel cinema degli anni Cinquanta, superando il meccanico legame tra modernità degli stili ed epoche storiche. 47. Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, Vol. IV, cit., p. 180. 48. Per la cronistoria delle vicissitudini del film, cfr. G. Gerosa, La censura balorda, «Schermi», 28 dicembre 1960, ora in Giorgio De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. X: 1960-64, cit., pp. 583-588. 49. Basti pensare che il primo annuario di cinema curato da Vittorio Spinazzola (Film 1961, Feltrinelli, Milano) presenta come inserto fotografico esclusivamente una scelta di titoli di grande valore artistico che in quell’anno sono stati colpiti dai tagli della censura. Da ricordare anche il numero della rivista «Il Ponte» diretta da Piero Calamandrei (n. 11, novembre 1961): alcuni interventi sono riprodotti in Giorgio De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. X: 1960-64, cit., pp. 588-591. 50. Franco Vigni, “La censura”, in Giorgio De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. X: 1960-1964, cit., p. 518. I dati dei tagli sono contenuti in Alfredo Baldi, Schermi proibiti. La censura in Italia 1947-1948, Marsilio-Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 2002. Da essi si evincono anche tagli di piccola entità imposti anche a Il carro armato dell’8 settembre, La ciociara, Vanina Vanini, La viaccia. 51. Si tratta quasi sempre di tagli riguardanti scene a sfondo erotico o sessuale, mentre sono molto minori che nel decennio precedente i tagli “politici” (con qualche eccezione, ovviamente, come i tagli imposti a Salvatore Giuliano di Rosi). 52. Lino Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, cit. 53. Roy Menarini, La parodia nel cinema italiano, Hybris, Bologna, 2001, pp. 38-9. 54. Alberto Pezzotta, Alla scoperta dell’autore impari, «Segnocinema», n. 110, luglio- agosto 2001, pp. 4-8. 55. Ivi, p. 4. 56. Ivi, pp. 4-7. 57. La differenza tra cinema d’autore classico, ad esempio, sarebbe quella tra il Bergman degli anni Cinquanta e quello del decennio successivo (András BálintKovács, Screening Modernism, cit., p. 63); la stessa distinzione può valere grossomodo anche per Antonioni e Fellini.

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58. Il concetto di “immagine-tempo”, che mostra la durata, la “situazione ottica pura”, in contrapposizione con “l’immagine-movimento” legata a un’azione, a un percorso tra due situazioni, è una nozione molto complessa che coincide solo in parte con l’opposizione tra cinema classico e cinema moderno (cfr. Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989, pp. 11-16). Da notare come Deleuze veda una continuità tra neorealismo e cinema italiano degli anni Sessanta, dal punto di vista dell’invenzione di un cinema moderno: «In tal senso, Visconti, Antonioni, Fellini appartengono pienamente al neorealismo, malgrado tutte le loro differenze». (p. 14) 59. Goffredo Fofi, “Ieri e oggi”, prefazione a La politica degli autori, Le grandi interviste dei “Cahiers du cinéma”, minimum fax, Roma, 2000, p. 7. 60. Serge Daney, Devant la recrudescence des voleurs de sac à main (1991), trad. it. Cinema televisione informazione, e/o, Roma, 1999, p. 95. 61. Bernardino Zapponi, del resto, il nuovo sceneggiatore di Fellini di questo periodo, era uno scrittore con forte propensione al fantastico, che negli anni successivi collaborerà a vari film horror, a cominciare da Profondo rosso. 62. Una rilettura di Bolognini in questa chiave è stata proposta di recente da Pier Maria Bocchi e Alberto Pezzotta, Mauro Bolognini, Il Castoro, Milano, 2007. 63. Il termine bal(l)ade è un gioco di parole tra “ballade” (ballata) e “balade” (passeggiata), usato da Deleuze per indicare una delle forme della crisi dell’“immagine-movimento”, caratterizzata proprio dal vagabondaggio dei personaggi in contrapposizione a una struttura più chiaramente orientata al raggiungimento di uno scopo. Il termine, nel volume precedente L’immagine-movimento (Ubulibri, Milano, 1984) era stato tradotto anche come “forma-andare a zonzo”. 64. «Il Contemporaneo», V, n. 9, giugno 1962 (parzialmente raccolto in Gian Piero Brunetta, Spari nel buio. La letteratura contro il cinema italiano: settant’anni di stroncature memorabili, Marsilio, Venezia, 1994, pp. 189-198). 65. Al di là del fuoco di fila di sberleffi e parodie, l’obiezione di Arbasino a tratti sembra battere stranamente sul tema della verosimiglianza (il concetto è: Antonioni racconta cose che non conosce, questi personaggi nella realtà non sono così o non sono raffigurati in maniera verosimile) e poi adombra un nucleo assai serio: «Trovo artisticamente manchevole un film che invece di rappresentare l’alienazione, è l’alienazione stessa». «Il Mondo», 3 luglio 1962, poi in Gian Piero Brunetta, Spari nel buio. La letteratura contro il cinema italiano: settant’anni di stroncature memorabili, cit., p. 210. 66. In «Paragone-letteratura», XVI, n. 190 (10 dicembre 1965), poi in Giacomo Debenedetti, Saggi, Mondadori, Milano, 1999, pp. 1283-1322.

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67. Ivi, pp. 1309-11. 68. Ivi, p. 1312. 69. Ivi, p. 1313. 70. Ivi, p. 1314. 71. Ivi, p. 1316. 72. Adelio Ferrero, Recensioni e saggi 1956-1977, Alessandria, Falsopiano, 2005. 73. Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico, cit., pp. 348-9. 74. Cfr. Emanuela Martini, “L’omologazione verso il basso del cinema italiano”, in Enrico Magrelli (a cura di), Sull’industria cinematografica italiana, Marsilio, Venezia 1986. 75. Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, Vol. IV, cit., pp. 21-22. 76. Flavio De Bernardinis, “1965: la legge sul cinema”, in Storia del cinema italiano. Vol. XI: 1965-1969, Edizioni di Bianco e Nero-Marsilio, Venezia-Roma 2002, pp. 379-396. Da notare come sull’articolo 5 della legge si sia scatenata una polemica che arrivò fino a minacce di dimissioni e di porre il voto di fiducia sulla legge, a causa delle richieste di alcuni settori della Dc di inserire come requisiti per il finanziamento, oltre a quelli artistici, anche altri di natura “morale”. 77. Bruno Torri, “La nascita dell’Italnoleggio”, in Gianni Canova (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol XI: 1965-1969, cit., pp. 419-426. 78. Barbara Grespi, “Modi e mode della rappresentazione”, in Gianni Canova (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. XI: 1964-69, cit., pp. 233-251. 79. Fausto Colombo, La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’Ottocento agli anni Novanta, Bompiani, Milano, 1998, pp. 246-7.

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i film

affresco in rotocalco: La dolce vita (1960) di federico fellini

1.

La dolce vita è forse il film che più incarna la nozione di “superspettacolo d’autore” coniata da Spinazzola. Più di Antonioni, ma in fondo anche più di Rocco e i suoi fratelli. Perché, a suo modo, risultano in esso più evidenti i tratti di modernità insieme linguistica e di costume, di confronto con una nuova dimensione della cultura di massa, fino alla codifica di modi di dire (appunto “dolcevita”, “paparazzo”), e di un vero e proprio glamour all’italiana, simboleggiato idealmente dalla scena-simbolo del bagno nella Fontana di Trevi. Inoltre, La dolce vita è il film che in misura maggiore punta sulle proprie dimensioni, di superspettacolo, di “kolossal all’italiana”, come di solito è lecito essere solo ai film in costume. Non a caso, le ricerche degli ultimi tempi si sono soffermate spesso sul carattere multimediale dell’opera di Fellini, sul suo essere anche un’enciclopedia dei media contemporanei. Il rapporto del film La dolce vita con il proprio tempo è a due direzioni: utilizza gli spunti di cronaca, e diventa esso stesso oggetto di cronaca fin dai primi annunci delle riprese, con una serie di notizie che filtrano, in maniera insieme sapiente e istintiva, sulla stampa “alta” e bassa, i cinegiornali, la televisione. La cosa significativa è però che questo tragitto in doppia direzione non è dal film alla cronaca e dalla cronaca al film, ma dal cinema agli altri media e viceversa. In questo senso, il progetto di La dolce vita presuppone (anche nella sua struttura formale) una realtà italiana già mediatizzata. Lo aveva dichiarato lo stesso regista: «Se dovessi cercare un precedente a questo film (...) sarebbe stampato in rotocalco. (…) Il rotocalco è già una forma di rappresentazione del mondo contemporaneo. Il film non ne costituisce che un prolungamento, un’interpretazione personale».1 58

Di recente, più di un libro ha addirittura collazionato i materiali che, nella stampa popolare, sono da considerare i diretti ispiratori dell’opera felliniana.2 Il mito di via Veneto, la “Hollywood sul Tevere”, i paparazzi: tutto questo è il materiale su cui vivono rotocalchi come «Le ore» (che ha in via Veneto la propria sede), «Gente», ma non si sottraggono nemmeno «La settimana Incom illustrata», «Epoca», «Tempo» e addirittura «L’espresso». I giornali pullulano di divi sorpresi all’uscita da night, più o meno ubriachi, a volte vestiti da antichi romani per motivi promozionali. Roma è un centro della mondanità cinematografica per tutti gli anni Cinquanta. Il primo a sbarcare, nel 1949, era stato Tyrone Power, che qui si era sposato con Linda Christian; mentre la grande stagione dei supercolossi americani comincia con le riprese, nel 1950, del Quo vadis? di Mervyn Le Roy. Numerosi sono inoltre i singoli casi in cui si è voluto vedere, nell’opera di Fellini, la trasfigurazione di celebri eventi di cronaca. A sfogliare i rotocalchi degli anni Cinquanta si ritrovano infatti un bagno della Ekberg nella Fontana di Trevi (durante le riprese del film di Guido Brignone Nel segno di Roma, settembre 1958), il marito della Ekberg che aggredisce i paparazzi, e su «Settimo Giorno» il re dei paparazzi, Tazio Secchiaroli, pubblica le foto di due bambini che nella campagna romana affermano di aver visto la Madonna. E come ricorda Kezich, una statua del Cristo venne effettivamente portata in elicottero sui cieli di Roma il 1 maggio del 1956. A questi eventi si può aggiungere il celebre spogliarello della ballerina turca Aiché Nanà al ristorante Rugantino (6 novembre 1958), le cui foto apparse sui giornali causano uno scandalo (e a movimentare la festa, poco prima dello strip-tease, in pista c’era stata ancora una volta la Ekberg).3 Ma soprattutto, il confine tra “la dolce vita” (non ancora tale) e La dolce vita (non più Via Veneto, come sperava il primo produttore Peppino Amato) si fa labilissimo nel periodo delle riprese. Su tutti i giornali arrivano, a mano a mano, le foto delle riprese nella Fontana di Trevi (fot. 1) e quelle della Ekberg con l’abito prelatizio di Piero Gherardi. Si susseguono reportage dal set e interviste dopo la scandalosa e trionfale uscita del film (non mancano, ovviamente, gli articoli scandalistici sulla presunta “coppia in crisi” Federico59

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Giulietta, fot. 2).4 Non stupisce che, quando va a fuoco l’albergo Ambasciatori di via Veneto, tra le maestranze si sparga subito la voce che l’episodio finirà immediatamente nel film.5 Questo effetto di sovrapposizione durerà fino a oggi, ma si può dire che per tutto il periodo del boom quasi non conosca flessioni. Nel 1962-3 le dieci puntate su via Veneto del settimanale scandalistico «Le ore» sembrano chiudere un’epoca, ma il mito di via Veneto si trasferisce dalla cronaca presente all’idealizzazione passata. Già nel 1962 «L’Europeo» pubblica una storia di via Veneto in quattro puntate, con testi di Fellini e Flaiano.6 La costruzione del mito di via Veneto è parallelo alla nascita del film di Fellini come macchina mitopoietica parahollywoodiana, produttrice di icone dello spettacolo e di glamour internazionale. E il cinema stesso se ne farà portatore: se già durante il montaggio del film una parte degli attori viene convocata da Mario Camerini per girare Via Margutta (1960), le immagini del film rimbalzeranno nel grande e nel piccolo schermo in mille versioni, tra cui quella “filologica” di Ettore Scola in C’eravamo tanto amati (1974), nel quale lo stesso Fellini interpreta se stesso sul set della Fontana di Trevi.

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Anche se alcuni elementi, atmosfere e perfino sequenze del film ricordano in maniera evidente i titoli immediatamente antecedenti del regista (Il bidone e Le notti di Cabiria, rispettivamente del ’55 e del ’57), i segni di novità sono evidenti. Fin dall’ampiezza dell’opera, che supera di almeno un’ora la durata di qualunque suo film precedente. E, per limitarci al piano dei contenuti, La dolce vita curiosamente mostra uno spostamento dal mondo degli “umili” o dei personaggi piccolo-borghesi (Gelsomine e Cabirie, ma anche sposine di provincia e “vitelloni”) fino allora prediletti dal regista, verso il cuore di una nascente società dello spettacolo. Il passaggio dai fotoromanzi di Lo sceicco bianco (1952) al jet-set di via Veneto mette in evidenza come Fellini, sempre interessato allo spettacolo (o più precisamente, ai modi in cui una società si rivela antropologicamente attraverso lo spettacolo) segua con assoluta e ironica fedeltà l’esplosione dell’industria dei media. Al momento di riprendere il vecchio progetto di Moraldo va in città, il regista si trova dinanzi un mondo mutato; a questo cambiamento risponde un “salto” formale, compiuto consapevolmente.

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«Oggi la bohème, nel senso di allora, è scomparsa. Non c’è una comunità di artistoidi che vivono alla giornata saltando i pasti tutti insieme. Oggi ci sono il giornalismo, i fotoreporter, la motorizzazione, l’ala della café-society. Un altro mondo. (...) Così ci dicemmo: teniamo lo schema e facciamo un copione nuovo, Moraldo ’58. Trovammo quasi subito una chiave che mi parve buona: la moda a sacco, le donne che sembrano uccelli, canguri, abitatrici di un mondo irreale. Poi dissi: inventiamo episodi, non preoccupiamoci per ora della logica e del racconto. Dobbiamo fare una statua, romperla e ricomporne i pezzi. Oppure tentare una scomposizione picassiana. Il cinema è narrativa nel senso ottocentesco: ora cerchiamo di fare qualcosa di diverso.»7

Inscindibile da quanto detto sopra è l’originalità linguistica del film, e non solo nell’ambito del cinema di Fellini, ma nella storia del cinema italiano tutto. Un’originalità che non poteva fare scuola, per un film concepito da subito come un unicum, un “evento” si direbbe oggi. È stato notato «come la forma stessa del film si definisca attraverso il suo stesso processo di produzione e insieme di promozione»8. 62

“Opera mondo”, come la definisce Costa,9 o “film-rotocalco”, La dolce vita è un film che esibisce la propria struttura, a cominciare dalle dimensioni, rendendole immediatamente visibili allo spettatore. Fellini gonfia l’insieme e separa le sue parti, rendendo visibili le “stazioni” della storia. Non a caso una definizione più ricorrente del film sarà quella dell’affresco (per le dimensioni e per la quantità di personaggi), oltre al paragone con la La Divina Commedia.10 Il film è costruito per ampi blocchi distinti. Dopo una specie di prologo, con l’arrivo della statua di Cristo su Roma, seguiamo le peregrinazioni di Marcello, che ha abbandonato le ambizioni letterarie per fare il giornalista di rotocalchi scandalistici. Il primo episodio è l’incontro con Maddalena, ricca annoiata, che si conclude in casa di una prostituta, in periferia. Al ritorno, Marcello trova Emma, la sua nevrotica fidanzata, semisvenuta per aver ingerito troppi barbiturici: è la seconda figura femminile di rilievo. Il terzo incontro, subito dopo, è con Sylvia, diva americana di passaggio a Roma: altro vagabondaggio notturno che si conclude col celebre bagno nella Fontana di Trevi. A contrasto, l’incontro successivo (in due tempi) è con l’amico Steiner, intellettuale dolente che chiede conto a Marcello delle sue ambizioni di un tempo; in mezzo, la scena del “falso miracolo” cui Marcello partecipa come osservatore disincantato. La seconda parte del film si articola intorno a tre macro-scene: una festa dell’aristocrazia in un castello a Bassano di Sutri (dove Marcello incontra di nuovo Maddalena, alla quale si confida da stanza a stanza, mentre, senza che lui se ne accorga, la donna ha un rapporto occasionale con uno sconosciuto); il ritorno a casa di Steiner, dove scopre sgomento che l’amico ha ucciso i propri figli e si è suicidato; e infine la festa nella villa che si conclude all’alba, con l’apparizione, sulla spiaggia di Passo Oscuro, di un misterioso pesce, e di una fanciulla che dice qualcosa di inudibile a Marcello. Come si vede da questo sommario, il film è articolato secondo uno schema non tanto di anti-racconto, quanto di blocchi relativamente compiuti, e separati in maniera visibile. Chi ha provato a smontare la composizione narrativa dell’opera, ha potuto dimostrare che Fellini bilancia la spinta caotica e centrifuga del suo mondo con una spinta inversa centripeta e quasi classica a cui àncora l’in63

sieme, rispettando addirittura gli elementi tipici dello “stile classico hollywoodiano” descritto da David Bordwell.11 3.

Ma la forza registica di Fellini risalta ed è più riconoscibile non tanto nell’organizzazione complessiva del materiale narrativo, quanto nella sua disposizione dentro la singola sequenza o addirittura la singola inquadratura. Il piano della sintassi, dell’organizzazione del profilmico, del découpage e dell’impianto figurativo. Lo stesso sceneggiatore Tullio Pinelli lo riconosceva in una lettera a Fellini: «La responsabilità di questo film sarà tutta registica (...). Altre sceneggiature ti hanno dato il sostegno preciso di una vicenda, di una costruzione logica. Qui non avrai niente. Dovrai dare sostanza attraverso la forma. Il film sarà bello e importante solo se scavalcherai la sceneggiatura inventando un linguaggio nuovo».12 La peculiarità dello stile della messa in scena felliniana è stata spesso sottolineata dagli stessi collaboratori del regista, come il direttore della fotografia Otello Martelli: «Fellini è un regista moderno, si è ambientato subito con il cinemascope. (…) In questo film ha voluto applicare l’ottica come ha voluto. Forse contro i principi secondo i quali si devono usare certi obiettivi. Che cosa dovevo fare? Trincerarmi dietro la consuetudine, le regole, le tabelle? Farne una questione di buon senso? (…) Questa volta è stata una specie di scommessa. Federico ha voluto adoperare sempre obiettivi a fuoco lungo. Il 75 millimetri, il 100 e perfino il 150: obiettivi da ritratto, da primissimo piano. Ha voluto usarli nei movimenti, nei carrelli. Gli premeva di avere il personaggio molto a fuoco e non si curava, invece, della profondità focale. Il 50, che è l’obiettivo normale per il cinemascope, l’ha adoperato pochissimo. (...) Con il 175 le panoramiche e i movimenti lunghi possono dare fastidio, creare uno sfarfallamento. Da principio l’ho fatto notare a Fellini, ma lui mi rispondeva: che cosa ce ne importa? Come spesso succede, aveva perfettamente ragione. Ha dato uno stile al film, una visione stretta, un quadro raccolto, delle figure incise, una deformazione dei personaggi e degli ambienti.»13

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La struttura del film alterna improvvisi rallentamenti e accelerazioni, scene intime “a due” o immagini postume all’alba (otto, ne ha contate Kezich)14 a vertiginose e affollate composizioni collettive, quasi senza centro. Tra le sequenze più “piene” e febbrili del film ci sono l’arrivo di Anita a Roma, con la conferenza stampa e la visita al night; la scena del miracolo, la visita al castello dei nobili e la festa finale con lo spogliarello. Per vedere più da vicino lo stile di Fellini, soffermiamoci sulla parte iniziale di quest’ultima sequenza, dall’irruzione nella villa all’inizio dello spogliarello di Nadia sulle note di Patricia. Si tratta di quattro minuti, divisi in una trentina di inquadrature, con un montaggio quindi piuttosto veloce, ma alternando inquadrature brevi e altre più lunghe, quasi sempre con complessi movimenti di macchina. Si notano poi dei falsi raccordi, per cui dei normali tagli interni alla scena non collimano del tutto (come quando si passa dalla proposta di Nadia a un piano ravvicinato di lei e del marito che cerca di dissuaderla – 28’55” del Dvd Medusa Home Video). La musica in sottofondo cambia continuamente, e spesso in un’inquadratura si sentono voci e rumori di incerta attribuzione, che provengono magari dall’inquadratura precedente, o da quella successiva. L’effetto è quello di uno stordimento complessivo, aumentato dal fatto che ogni personaggio, in una prima fase, sembra compiere azioni indipendenti dagli altri, e i movimenti di macchina seguono dei personaggi-guida che non sono gli effettivi protagonisti, ma piuttosto dei vettori che permettono di esplorare altre porzioni della scena (mentre sta guardando il biondo effeminato Giò Stajano, la macchina da presa passa alla discesa dei due travestiti dalla scala, e poi l’incedere dei due apre, a mo’ di sipario, sul gruppo che comprende Laura Betti), perché alle loro spalle ci sono sempre altri personaggi più o meno con lo stesso statuto all’interno della scena e della storia. Il protagonista, Marcello, è invece immobile, e dialoga in un campocontrocampo piuttosto funzionale: egli è ancora, flebilmente, pur sempre il baricentro della scena, un ancoraggio per lo spettatore. Se si prende una scena tipica del Fellini successivo, ad esempio quella della “festa de noantri” in Roma (ma si potrebbe scegliere quasi ogni altra sequenza di questo film), vedremo che tale procedimento rimane, ma spinto al virtuosismo. Il quadro complessivo 65

è ancora più pieno e frastornante: i personaggi che intervengono sono (in circa otto minuti) almeno una trentina, in scena si arriva fino a quattro-cinque azioni che si svolgono contemporaneamente (a volte nella stessa inquadratura) come i rumori e le musiche, che in più sono marcate da forti accenti e timbri esasperati, in puro stile “radiofonico”. I personaggi sono ridotti a semplici apparizioni caricaturali, l’insieme non costituisce nessuno sviluppo drammaturgico ma procede in un’ideale, unica inquadratura gigantesca con immagini simultanee, mentre lo stesso protagonista-osservatore è inghiottito dalla scena, scompare; e in effetti il film, nel suo complesso, di protagonista è privo. 4.

L’impianto visivo di La dolce vita, la costruzione delle sequenze, è indicativo della peculiare via felliniana alla modernità, che appare caratterizzata dal ricorso alle pratiche “basse”, a una impostazione dell’inquadratura e delle sequenze debitrice verso vecchie forme di teatralità comica (il circo e l’avanspettacolo, che però sono anche un elenco di suggestioni tematiche e di immagini) ma più ancora a forme di spettacolo tipicamente moderne come la radio (i film di Fellini, così carichi dal punto di vista visivo, sono anche dei radiodrammi, sempre più “reinventati” in sala di doppiaggio) e il fumetto.15 Il confronto con Antonioni è ancora una volta inevitabile: se quest’ultimo sceglie di affrontare i grandi temi al centro del dibattito culturale (la psicanalisi, il romanzo sperimentale, il dibattito su letteratura e industria) attraverso una forma narrativa moderna, Fellini sceglie una via più obliqua, “dal basso”: per lui la crisi delle forme narrative tradizionali apre la via al recupero delle forme di spettacolo e di comunicazione di massa della prima modernità, e al cortocircuito con altri media. Quella di Fellini è anzitutto una narrazione per caricature, per frammenti che continuamente minacciano l’armonia dell’insieme, il che è ben lungi dal costituire un limite. Come ricorda il regista: «La caricatura ha in sé una forza essenziale, cioè di sintesi, che mi sembra che sia uno degli aspetti fondamentali dell’arte, e quindi non sono affatto seccato che qualche volta la critica definisca certi aspetti 66

deformanti o deformati dei miei personaggi o dei miei arredamenti “caricaturali”. No, è una visione che ha in sé, che presume in sé già un giudizio morale sulle cose.»16

L’uso della caricatura e del fumetto comincia ad affacciarsi in La dolce vita in forma appena embrionale, ma diventerà un elemento fondamentale della poetica del regista. 5.

Lo stile della messa in scena felliniana si àncora, come visto, a un’osservazione precisa di un mondo rappresentato e insieme inventato. In questo senso La dolce vita è, tra i film di Fellini, quello in cui si può leggere in maniera più forte l’apporto di Ennio Flaiano, sceneggiatore che del mondo di via Veneto, nella sua fase anteriore, era stato uno dei cronisti più precisi. Le somiglianze tra i due sono anche un compendio di culture peculiari, di tradizioni profondamente, criticamente italiane: «L’origine provinciale e il rapporto con Roma, il senso dell’humour e della satira sociale, il ripudio della volgarità anche nel raccontare la volgarità, l’attenzione agli umili senza la loro idealizzazione, un certo scetticismo politico, che aveva però in Fellini una matrice più decisamente cattolica, ma che collimava con la coscienza “esistenzialistica” di Flaiano (...) e trovava omogeneità e senso del limite, nella sfiducia verso le possibilità dell’uomo di farcela da solo a risolvere i suoi problemi e a combattere il suo male.»17

Come sintetizzava lo scrittore, rispondendo a una lettera di Tullio Kezich, «il terreno d’incontro tra me e Fellini non so quale sia. Forse l’attenzione e la tolleranza verso le azioni degli uomini, comprese le nostre, o la pietà per il nostro destino. (...) Il furto, in certi casi, è un tentativo di mettere ordine nel caos».18 Con La dolce vita il rapporto tra i due è più forte e insieme più conflittuale, e forse proprio perché in certo modo si trattava del film che Flaiano sentiva più “suo”. Qualcosa che Flaiano aggiunge a Fellini è lo spirito di autocritica degli emergenti ceti intellettuali. Certo, non si tratta soltanto di un tema di Flaiano. Il ruolo degli in67

tellettuali era fin troppo centrale nel dibattito dell’epoca, e Flaiano era il dolente osservatore satirico di questa centralità. Di questo mondo, però, viene ora mostrata la vicinanza, anche fisica, con il mondo dei paparazzi e delle attricette. In Fellini, l’intellettuale del neocapitalismo alle prese con alienazione e rapporto con l’industria, è semplicemente l’altra faccia dell’attore di peplum, del fotografo scandalistico. La convivenza fisica dei due mondi nella via Veneto di quegli anni, con Cardarelli e Steve Reeves fianco a fianco, assume per Flaiano e Fellini il carattere di una rivelazione del mutamento dell’industria culturale. Marcello è una figura di tramite, punto di confluenza (tra alto e basso, vecchio e nuovo, sacro e profano). L’idea di un protagonista “anfibio”, a cavallo dei due mondi, che dev’essere un giornalista, è presente in Flaiano (per esempio nel racconto lungo Una e una notte, antecedente diretto di La dolce vita), mentre non lo troveremo né prima né dopo in Fellini, che verrà sempre più avvicinandosi a una figura di vittimademiurgo più che di testimone. Due anni dopo l’uscita del film, Flaiano ci tornerà su, in una serie di reportage che vanno avanti e indietro dal presente agli appunti durante la stesura del copione: i “Fogli di via Veneto”. La scelta di non ordinare i piani temporali nel racconto, confondendoli in un andirivieni, si rivela felicissima. Il destino del film si intreccia a quello di una città e di una società. Regista e sceneggiatore vagabondano tra reperti di città in procinto di diventare immagine. Il percorso culmina in un sogno in cui tutti gli intellettuali dell’epoca ritornano in una notte sospesa, agitandosi senza scopo in un corteo. E quando infine, nell’ultima pagina, questo mondo trova corpo nel film che pareva non si dovesse fare, il risultato assume una consistenza spettrale, da museo delle cere. «Fellini quaresimalista?», si chiede Flaiano, «è un’ipotesi tentatrice».19 6.

Quest’ultima riflessione di Flaiano ci conduce al culmine tragico del film, a quello che è probabilmente il suo centro morale, ma anche il momento più rimproverato a Fellini dai critici: l’episodio di Steiner, lo scrittore amico di Marcello che uccide i propri figli e poi si suicida. Le prime perplessità sulla sequenza vennero dagli stessi 68

sceneggiatori e ovviamente dal produttore Rizzoli. «Alzò lo sguardo dal copione e disse: “Caro artista, dimmi ti prego che questa cosa non l’hai pensata tu... Con quella faccia buona, non è possibile”. E nessuno gli ha più levato dalla testa che si tratta di un’idea di “quel Flaiano là”».20 Anche lo spettatore di oggi, per la verità, potrebbe nutrire qualche sospetto simile a quello di Rizzoli, conoscendo il cupo umor nero di Flaiano sugli intellettuali («…giurare sull’arte impegnata, ripetere che l’industria è bella/e chiudere la giornata con un colpo di rivoltella» finisce uno dei suoi epigrammi più noti). Ma in realtà Steiner è da subito, per Fellini, il baricentro morale dell’opera. Non solo resisterà alle varie opposizioni, ma lavorerà in varie fasi sulla struttura dell’episodio, depurandolo e rendendolo un nocciolo figurativo-ideologico compatto. La prima apparizione di Steiner arriva subito dopo la notte trascorsa con Sylvia, con forte effetto di contrasto. L’intellettuale si trova in una chiesa moderna dallo straniante aspetto gotico. La figura di Alain Cuny vi si trova visivamente rispecchiata, anzi, come ha ipotizzato lo scenografo Gherardi: «Si tratta di uno dei pochi casi nei quali una scenografia ha determinato la scelta di un attore».21 Steiner è un laico, ma è una figura di coscienza di Marcello, quasi religiosa: «Di spalle, con il colletto alto e bianco, fa pensare ad un pastore»22, e ricorda al protagonista la sua vocazione artistica perduta. Il secondo incontro è in casa di Steiner stesso, durante una riunione di intellettuali e artisti, alcuni nella parte di loro stessi (Anna Salvatore e Leonida Rèpaci). Steiner è quasi estraneo a questa consorteria che pure ospita: «Sei così alto che non puoi più sentire nessuna voce da lassù», gli dicono a un certo punto. La serata è interrotta dall’apparizione dei figli di Steiner, svegliati dagli ospiti: il padre li rimette affettuosamente a letto, e riflette ad alta voce: «Voi non potete sapere che dolcezza sia addormentarsi con una piccola creatura accanto». Per questo, l’effetto di shock è enorme quando, qualche giorno dopo, Marcello, al termine di una delle sue solite nottate, viene svegliato da una telefonata che gli annuncia la strage e il suicidio compiuti dall’amico. Marcello visita nuovamente la casa che abbiamo visto nell’episodio precedente. La scena è caratterizzata da uno sgomento atono, sciolto in parte solo 69

all’arrivo della moglie dello scrittore, che ignara viene assediata dai paparazzi. L’episodio era stato lavorato con particolare cura dal regista, avvalendosi di vari apporti. Agli sceneggiatori, si era aggiunto in una fase Pier Paolo Pasolini, che proponeva una serie di idee gran parte delle quali poi non accolte, tranne due, importanti:23 l’eliminazione del riferimento, troppo esplicito, all’intellettuale cattolico Thomas Merton, e l’inserimento di un quadro di Morandi. Intorno a questo quadro si svolge anche un piccolo dialogo, nel quale sommessamente Steiner espone, incarnato nello stile del pittore, un ideale di ascetismo laico: «Gli oggetti sono immersi in una luce da sogno. Eh? Eppure sono dipinti con uno stacco, con una precisione, con un rigore che li rendono quasi intangibili. Si può dire che è un’arte in cui niente accade per caso.»24 Il quadro apre una specie di finestra dentro il film, un’immagine di ascesi oggettivata che sembra l’esatto contrario del film stesso (compresa anche la sequenza nella quale il quadro appare). Ma soprattutto, alcune delle più rilevanti modifiche complessive alla sceneggiatura sono tese a far risaltare l’episodio di Steiner come picco emotivo. E dunque, dopo vari ripensamenti, vengono eliminati l’episodio della gara sui motoscafi, con una ragazza che brucia viva («scaricava nella prima metà del film l’emozione e il tono tragico della fine di Steiner»)25, e l’intero personaggio della poetessa Dolores (che avrebbe dovuto essere interpretato da Luise Rainer): la quale, “San Francesco in gonnella”26 ma anche donna decadente e senza sbocco, rischiava di essere una specie di “doppione” dello scrittore. Dal punto di vista della costruzione d’assieme, l’effetto della strage posta come penultima sequenza del film è non solo di separare due scene di festa-orgia abbastanza simili (la visita al castello dei nobili e quella nella villa al mare di Riccardino), ma soprattutto di inserire per la prima volta, in una narrazione ostentatamente “orizzontale”, un elemento traumatico di crisi del protagonista e un senso di decadenza all’intero percorso. L’ultima festa appare dunque tinta di una tonalità emotiva diversa da tutti gli episodi precedenti, mentre per la prima volta si avverte un percorso di degradazione di Marcello, pennivendolo che si crogiola nella propria corruzione. 70

La serata in casa Steiner ha degli evidenti tratti onirici, spettrali,27 ma all’opposto della successiva festa nella villa non mostra la vertigine dell’abiezione, bensì l’impotenza (tragica, per il momento) degli intellettuali, della dimensione estetica ed etica: «Costruimmo la “serata in casa Steiner” come una specie di ansiosa veglia e vigilia d’un mondo nuovo, intuita però da gente che non ha armi e mani concrete per costruirlo; gente, inoltre, che partecipa almeno per metà alla faccia esangue del Decadentismo. È questa doppia presenza – decadentismo e mondo nuovo – che abbiamo sentito e voluto esprimere in quel convegno dolce e un po’ spettrale che è la serata. (…) La fine di Steiner è quella dei profeti disarmati. È quella dei protomartiri, degli annunciatori di epoche nuove, che non hanno altro che un cuore e un occhio aperti sul futuro, e nessuna forza di lavoro concreto per realizzarlo. In un certo senso quindi Steiner, che è forse il solo personaggio al di là della “dolce vita”, vi è travolto e implicato perché si accampa in idee sincerissime e astratte.»28

Steiner è una figura centrale del film, e uno dei momenti nei quali esso si distacca dalla cronaca tendendo alla riflessione morale esplicita. Ma è anche l’ultima volta (forse l’unica) in cui i personaggi di Fellini si trovano davanti un “doppio” esplicitamente etico e tragico. Il successivo intellettuale messo in scena da Fellini, in 8 ½, sarà un critico petulante che finisce anche lui ucciso, ma in maniera farsesca, appeso come un pupazzo. E viene la tentazione di leggere in questa chiave anche l’altra apparizione di Alain Cuny nel cinema di Fellini. Pochi anni dopo, nel ’69, nel film che realizza dopo una violenta crisi personale, il Satyricon, Fellini utilizza di nuovo l’attore che era stato Steiner, la “cattedrale gotica”, il protomartire, il protestante, e lo trasforma in un pirata con un occhio di vetro, cacciatore di cose e uomini per conto di Cesare, nevrotico e crudele. Le ultime immagini lo mostrano grottescamente vestito da donna congiungersi in matrimonio al “figlio dei fiori” Encolpio.

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1. Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, pp. 61, 197. 2. Si vedano la ricca raccolta di immagini dai rotocalchi curata da Aurelio Magistà, Dolce vita Gossip, Bruno Mondadori, Milano 2007 e il recentissimo Domenico Monetti e Giuseppe Ricci (a cura di), La dolce vita raccontato dagli archivi Rizzoli, Rizzoli, Milano, 2010. 3. L’elenco dei “fatti di cronaca” si trova in Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, cit., pp. 248-50, le foto degli eventi citati sono raccolte in Aurelio Magistà, Dolce vita gossip, cit. 4. Riprodotti in Aurelio Magistà, Dolce vita gossip, cit. p. 181. 5. Tullio Kezich, Noi che abbiamo…, cit., p. 135 6. Riprodotte tutte in Aurelio Magistà, Dolce vita gossip, cit., pp. 78-81. 7. Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, cit., pp. 48-9. 8. Antonio Costa, Federico Fellini: La dolce vita, Lindau, Torino, 2010, p. 91. 9. Ivi, p. 90. Ma, aggiunge Costa, «il modello (o se si preferisce il pattern, la gestalt) attraverso cui formalizzare l’invenzione figurativa di La dolce vita è il provino, modello sul quale Fellini ha del resto più volte fatto ritorno» (p. 91). 10. Gian Piero Brunetta definisce La dolce vita e 8 1/2 «i film più danteschi della storia del cinema» (“Padre dante che sei nel cinema”, in Gianfranco Casadio, a cura di, Dante nel cinema, Longo, Ravenna, 1991). Il paragone con Dante risale alla prima apparizione del film, ma cfr. John P. Welle, Fellini’s Use of Dante in La dolce vita, «Studies in Medievalism», II, n. 3, estate 1983: questo saggio e il precedente sono raccolti in parte in Antonio Costa, Federico Fellini: La dolce vita, cit., pp. 202-5). 11. Antonio Costa, Federico Fellini: La dolce vita, cit., pp. 93-4. Inoltre Costa ha studiato le modifiche fondamentali che Fellini compie dal soggetto alla sceneggiatura al film finito, tra cui l’eliminazione di un picnic al Circeo nella villa del padre di Maddalena, e la scena di un incidente nautico con un morto, e l’eliminazione dell’intero personaggio di Dolores, amante/maestra di Marcello. 12. Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, cit., p. 79. 13. Testimonianza di Otello Martelli, in Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, cit., p. 115. Nello stesso volume (p. 104) cfr. anche la testimonianza della segretaria di edizione Isa Mari: «Lascio perdere i raccordi, non hanno nessuna importanza per un regista come lui. Con Fellini la grammatica del cinema sembra banale, passa in seconda linea». 14. Ivi, p. 244. 15. Su questo tema cfr. Emiliano Morreale, Slumberland/Cinecittà: l’influenza del fumetto sul cinema di Federico Fellini, in Leonardo Quaresima, Laura Ester San-

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galli, Federico Zecca (a cura di), Cinema e fumetto/Cinema and Comics, atti del XV convegno internazionale di studi sul cinema, Udine, 2009, pp. 327337. 16. Intervista inedita dal documentario Fellini (1961) di André Delvaux, «Fellini Amarcord» II, n. 1-2, giugno 2002, p. 13. 17. Goffredo Fofi, Strade maestre, Donzelli, Roma, 1996, pp. 58-59. 18. Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, cit., p. 90. 19. “Fogli di via Veneto”, in Ennio Flaiano, La solitudine del satiro, ora in Id., Opere. Scritti postumi, Bompiani, Milano, 2001, pp. 650-2, 654. 20. Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, cit., p. 52. 21. Ivi, pp. 162-3. 22. Ivi, p. 163. 23. Il contributo di Pasolini al film è analizzato da Antonio Costa, Federico Fellini: La dolce vita, cit., pp. 80-3. 24. A partire dal quadro di Morandi è stata addirittura riproposta una lettura complessiva del film: Mauro Aprile Zanetti, La Natura Morta de La dolce vita, Istituto Italiano di cultura, New York, 2009. 25. Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, p. 175. 26. Ivi., p. 110. 27. Costa avanza anche l’ipotesi che l’intero episodio sia un sogno, parto della fantasia di Marcello (Noi che abbiamo fatto La dolce vita, pp. 138-40) 28. Testimonianza di Brunello Rondi in Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita, p. 154 e 153.

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I borghesi e il sublime: L’avventura (1960) di Michelangelo Antonioni

1.

Come si è detto nella Prima parte, i film di Michelangelo Antonioni sono, nella prima metà degli anni Sessanta, quelli su cui la cultura “alta”, non solo italiana, si confronta con più impegno. A stimolare gli interventi è anche il fatto che Antonioni affronta i “temi” al centro del dibattito letterario e filosofico dell’epoca confrontandosi anche con alcune mode estetiche del periodo: il nouveau roman francese, con la scelta di una supremazia dell’occhio sulla narrazione e le psicologie; le nuove correnti artistiche come la pop art e l’informale; i rapporti tra cultura e industria. I primi anni Sessanta sono un periodo di particolare vivacità culturale anche per l’Italia: il confronto con le novità intellettuali europee e il conflitto generazionale innescato dai giovani del “gruppo 63” che propongono una nuova avanguardia al passo con il neocapitalismo; il tentativo di aggiornamento della cultura di area comunista davanti al primo centro-sinistra e alle aperture chrusceviane;1 il ruolo sempre più centrale dei mezzi di comunicazione di massa.2 Intanto il paesaggio urbano e quello domestico dell’Italia mutano in maniera vertiginosa, con le grandi speculazioni edilizie e la stagione d’oro del design industriale. Su questo sfondo, i film di Antonioni offrono agli intellettuali l’occasione per mostrarsi aggiornati discutendo di film anziché di libri, e suscitano una serie di riflessioni e dibattiti senza precedenti.3 Sui film fioriscono interpretazioni diverse, ma spesso imperniate sui temi dell’incomunicabilità (i personaggi di Antonioni non riescono a comunicare e a manifestare i propri sentimenti) e dell’alienazione (essi sono privi di punti di riferimento e al posto di relazioni interpersonali vivono immersi in luoghi senz’anima, tra oggetti che li dominano anziché servirli). 74

I tre film che lanciano Antonioni a livello internazionale sono L’avventura (1960), La notte (1961) e L’eclisse (1962), visti all’epoca come una “trilogia dell’incomunicabilità”, anzi talvolta come uno stesso film in tre movimenti. Già all’epoca di L’eclisse, Guido Aristarco sosteneva che i tre titoli erano «i “tempi”, i momenti solo apparentemente staccati, di un’unica opera»: «Possiamo così dire che all’inizio di L’eclisse, ritroviamo i coniugi Pontano, qualche anno dopo da come li avevamo lasciati nell’ultima inquadratura di La notte. (…) Parimenti possiamo dire (…) che i coniugi Pontano non erano che Claudia e Sandro sposati, dopo che la prima aveva compreso, nella chiusa di L’avventura, il dramma del secondo».4 2.

La trama del film è semplice e nota: un gruppo di coppie borghesi è in gita in barca alle Eolie. Una delle ragazze, Anna (Lea Massari), scompare, e gli altri, tra cui il suo amante Sandro (Gabriele Ferzetti), la cercano invano. Sandro, il cui rapporto con Anna era in crisi, durante la ricerca di avvicina a un’altra ragazza, Claudia (Monica Vitti). I due vagano, seguendo labili indizi, attraverso vari luoghi della Sicilia: un commissariato, una stazione mineraria, una cittadina dove passa una divetta assediata dalla folla. Sandro e Claudia si innamorano, e la loro ricerca diventa ambigua: pur seguendo le tracce di Anna, in qualche modo si augurano di non ritrovarla. Il percorso di Sandro

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e Claudia si conclude in un albergo di Taormina, dove l’uomo, di notte, ha un rapporto occasionale con l’attricetta vista in precedenza. Claudia lo scopre, e scappa. Ma all’alba, sulla terrazza dell’albergo, gli si avvicina di nuovo, e mentre lui scoppia in lacrime gli poggia una mano sulla spalla, in segno muto di affetto e di perdono (fot. 4).5 Il tema del film, della sua prima parte almeno, è dunque una sparizione. Ma tutto il resto del film abbandona e contraddice la premessa, mostrando la vanità dell’indagine. Forse il primo a utilizzare sistematicamente la definizione di “giallo alla rovescia” per L’avventura era stato lo stesso regista, in un’intervista del marzo del ’60 a Vittorio Bonicelli.6 In effetti è proprio la premessa da detection a potenziare il percorso ondivago del film.7 Ma il tema della sparizione, che tornerà anche in Blow Up (1966), è qualcosa di più, connesso con il «processo di riflessione sullo sguardo».8 In molti lo hanno notato: protagonista del cinema di Antonioni è proprio lo sguardo, e il metodo del regista suscita insieme la domanda «che cosa stiamo guardando?» (la figura, lo sfondo?) e quella, collegata «chi siamo noi che stiamo guardando un film?».9 In L’avventura appare per la prima volta tutta la forza del fuori campo, dello spazio tra le inquadrature, cui poi si aggiungerà, nei film successivi, la forza delle inquadrature “vuote”, o meglio popolate di oggetti e manufatti ma senza figure umane. (In questo senso, il finale di Professione: reporter, 1974, sarà un’esposizione perfino didattica del tema fondamentale del cinema di Antonioni, della liberazione dello sguardo dall’oggetto, e del suo poter continuare a esistere nel confronto con un reale pesante, contaminato, in cui sembra abolita la distanza tra esteriorità e interiorità.) L’inverosimiglianza dei dialoghi, tante volte rimproverata a ragione ad Antonioni, ha però anche questo effetto: che i sentimenti vengono esposti come oggetti tra gli altri. L’avventura inoltre mostra in maniera forte e consapevole il legame del progetto di Antonioni negli anni Sessanta con il cinema di Rossellini, che fino a quel momento era stato piuttosto lontano dalla sua pratica registica. Già la scelta del set eoliano e il suo uso rimandano a Stromboli, terra di Dio (1950). Ma se in Rossellini si aveva l’assunzione, almeno parziale, di un punto di vista “straniero” (quello della protagonista Ingrid) cui a poco a poco si svelava il miracolo dell’apparizione della realtà, in L’avventura il rapporto tra personaggi e spazio non può recuperare alcun equilibrio, esso è improntato a un sentimento letterale di panico 76

e (come vedremo) di sublime. La dismisura degli spazi e lo spaesamento dei fuori campo di L’avventura è in fondo inscindibile da una situazione che ha le proprie radici nella città e nel mondo contemporaneo, come dimostreranno i film successivi del regista. Il prologo, tra i cantieri del boom in mezzo ai quali si aggira Anna, è essenziale per capire il senso del viaggio. E il finale è una precaria e incerta tregua, post morale, che nulla garantisce della posizione dei personaggi nel mondo.10 3.

Con L’avventura, aprendo la sua stagione più famosa, paradossalmente Antonioni abbandona uno stile che era già riconoscibile, fatto di piani-sequenza, movimenti di macchina elaborati, «a una distanza che diffida della troppo facile catarsi del primo piano».11 Ora, mentre «i primi piani esplodono con una violenza lirica» (ma si tratta di piani sempre piuttosto larghi, tranne in un paio di occasioni come il primo amplesso tra Sandro e Claudia), «il montaggio, più frammentato, accorcia la lunghezza dei piani».12 Dunque, uno dei mezzi tipici della modernità cinematografica di quegli anni e di quelli seguenti (si pensi agli interminabili piani-sequenza di Miklós Jancsó) viene rifiutato da Antonioni, a favore di un découpage dall’apparenza classica, che però valorizza la composizione dell’inquadratura.13 Ma L’avventura fa anche tesoro del lavoro precedente del regista.14 A cominciare dal fatto che si tratta di un mélo raffreddato, che si snoda tra sparizioni, tradimenti, mancati appuntamenti: figure ben note al repertorio del melodramma. 15 Le si può osservare, riportate alla loro forma-base, nel cineromanzo tratto dal film («Cineintimità», n. 1, maggio 1961, fot. 5).Il gioco di Antonioni sul genere si nota fin dalla scelta degli attori. Ferzetti era quasi l’attore-simbolo di un certo tipo di melodramma “intellettuale”. Il suo personaggio in L’avventura è in fondo una variazione di quelli interpretati in La provinciale (1952) di Mario Soldati, Nata di marzo (1957) e Il sole negli occhi (1955) di Antonio Pietrangeli, Le amiche (1955) dello stesso Antonioni. Nel film non bisogna sottovalutare il gioco di casting che mette a confronto un attore riconoscibile, che recita un personaggio già rodato, con due personaggi femminili moderni e relativamente inconsueti, anche fisicamente poco classificabili, interpretati da Lea Massari e da una sconosciuta Monica Vitti, ben poco in linea con i canoni di bellezza dell’epoca. 77

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Antonioni era un women’s director, che nel decennio precedente aveva lavorato sulla costruzione/decostruzione della diva Lucia Bosè, e finché in Italia esiste un genere con una sua rispondenza di pubblico egli preferisce agire in relazione dialettica con esso. Il confronto con il mélo viene compiuto con forza da molti registi, nelle chiavi più diverse: dall’interno, da Cottafavi (Traviata 53, Una donna libera) con i suoi ritratti di donne distaccati e autoriflessivi; in chiave più ideologica, da Giuseppe De Santis (Un marito per Anna Zaccheo, 1953). Con gli anni del miracolo economico, la corrispondenza tra questo genere e il suo pubblico si sfalda, e Antonioni a quel punto potrà ribaltarne e negarne i meccanismi, usandolo come uno schema quasi da parodiare.16 Come già aveva capito il melodramma anni Cinquanta, l’analisi delle figure femminili è il campo in cui si possono osservare in maniera più evidente i mutamenti della società, l’emergere di nuove classi sociali, nuovi costumi e consumi, nuove relazioni sociali, nuove insoddisfazioni. I percorsi di Antonioni mostrano anche questo:

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«La borghesia di Cronaca di un amore e di Le amiche è (…) ancora una borghesia che lotta per il suo miracolo. Sfiora delitti, paga tradimenti, investe (…) il proprio successo sociale sul proprio insuccesso esistenziale (…). La borghesia di L’avventura ha invece ormai vinto: ha conquistato il “sociale” e il “politico”, è classe indiscutibilmente al potere (…). Eppure, o forse appunto per questo, essa è come naufraga».17

Il rapporto con certi “resti” neorealistici in L’avventura può essere letto allo stesso modo. Nelle figure che Antonioni spesso, in questo film, inserisce per relativizzare i dilemmi dei suoi personaggi e per spiazzare lo spettatore (come sarà per i ragazzi di borgata nella passeggiata di La notte), emerge un’altra verità, visiva prima che sociologica: che l’alienazione e l’incomunicabilità, per chi viene dalla povertà, possono essere anche una forma di eleganza, di distinzione, di coolness. Tutte queste cose le ricorderà Scola in C’eravamo tanto amati, attraverso il personaggio di Giovanna Ralli che da burina stile “neorealismo rosa”, figlia di Aldo Fabrizi, diventa donna “alla Antonioni”, traendone emancipazione e infelicità, fino al suicidio. 4.

Il suggerimento di Sandro Bernardi, di vedere nel cinema italiano (di quegli anni in particolare) una rilettura “antropologica” nella direzione degli studi di Ernesto De Martino (ma anche della “mutazione antropologica” di Pasolini),18 si rivela assai suggestiva se applicata a L’avventura e alla compresenza di arcaico e moderno che la caratterizza. L’intero percorso del film è inaugurato da un prologo in un cantiere (uno dei grandi topoi visivi del cinema di quegli anni) con San Pietro sullo sfondo: «Questa povera villa sarà soffocata, tra poco» commenta la donna parlando al padre. E se il percorso mitico è anche quello di un confronto con una natura selvaggia e un’umanità bruta, quasi calibanesca, il tema continuo è lo sfasamento temporale, non riducibile a un confronto col passato, ma piuttosto a una sorta di doppio percorso da road movie scentrato, da “viaggio al centro della terra”.19 Sull’isola, insieme ai turisti, arrivano aliscafi ed elicotteri, e da sottoterra appaiono resti romani (come in Viaggio in Italia); il commissariato sorge surreale nelle stanze della Villa dei Mostri di Bagheria; ma i veri “relitti” che si incontrano sono quelli di una 79

città fantasma costruita dall’Ente Minerario, specie di involontaria opera di land art e simbolo di uno sviluppo già “fantasma”; e anziché l’amore pagano dei viaggiatori alla D.H. Lawrence il povero Ferzetti si ritrova su un divano con una divetta-squillo. In tutto questo, la Sicilia è vista inevitabilmente con l’occhio di un turista, e dunque popolata di macchiette comico-erotiche (il pescatore che parla inglese, e soprattutto l’arrivo della “diva-scrittrice” in città, quasi un ironico doppio dell’arrivo di Sylvia in La dolce vita). Dapprima dunque il film mostra delle scene da teatro borghese raffreddato (le coppie sulla barca, a parte quella centrale, tendono più alla commedia che al dramma), poi li butta a confronto con l’assurdo della sparizione di Silvia e soprattutto con un luogo totalmente altro: «In un viaggio così superficiale di gente sciocca come il Sandro di Gabriele Ferzetti, il Raimondo di Lelio Luttazzi, si verifica un’esperienza grandiosa: l’incontro con una forza arcaica, primordiale, che essi non vedono, ma che la cinepresa intravede, spingendosi grazie a loro, accanto a loro, fino alle soglie del mondo visibile, fino ai confini oltre i quali non è possibile andare».20 Questa compresenza di piani temporali, che ricorda la celebre immagine dell’inconscio di Freud paragonato alla visione simultanea di Roma antica e moderna,21 accomuna Fellini e Antonioni. Per La dolce vita, popolato continuamente di comparse in vesti di antichi romani, di creature faunesche e di sopravvivenze pagane, Fellini chiede a Gherardi scenografie e costumi “bizantineggianti”, e a Rota una parodia di musica da peplum. Dal canto suo, Antonioni spiega così il leitmotiv che gli serve per L’avventura: «Come avrebbero fatto un pezzo jazz nell’ellenismo, se allora il jazz ci fosse stato».22 5.

L’avventura aveva ottenuto il Premio speciale della giuria a Cannes nello stesso anno in cui La dolce vita aveva vinto la Palma d’oro. Era stato accolto in maniera contrastata, ed era poi diventato un “caso”, assai diverso dall’evento felliniano ma inevitabilmente confrontabile con esso. Nel film successivo, Antonioni sembra accettare la sfida col film di Fellini. Prende come protagonista Mastroianni, come sceneggiatore Flaiano, comincia con un intellettuale morente che fa da coscienza critica ai protagonisti, usa come comparse degli 80

intellettuali nel ruolo di loro stessi, e culmina in un’altra orgia con spogliarello. La notte (1961) è il film in cui Antonioni affronta di petto il proprio pubblico, facendone quasi l’oggetto del film. I protagonisti di L’avventura sono borghesi ma per lo più non intellettuali: tecnici, o parassiti, diremmo, e i loro teatrini erotici in barca nella prima parte sono visti con evidente ironia. Dal confronto con il mondo intellettuale e borghese visto nel proprio habitat derivano invece alcune novità di stile, a cominciare da uno dei classici marchi di fabbrica del regista: la presenza di inquadrature “vuote” che precedono l’ingresso dei personaggi, marcandone l’estraneità ai luoghi. Uno stilema che viene qui usato per la prima volta in maniera massiccia, mentre in L’avventura è molto più evidente un altro leitmotiv formale, ossia l’attacco di molte sequenze “in medias res”, su personaggi nel pieno di un’azione, lasciando fuori campo i precedenti dell’azione stessa. La prima inquadratura del film mostra Lea Massari già in movimento, e attacchi simili ci sono nella scena del commissariato, e nell’abbraccio in primo piano tra Ferzetti e la Vitti, dopo la visita alla città-fantasma. Inoltre, se la potente natura del film precedente aveva una forza di suggestione autonoma, che creava ancora qualche effetto “epico”, la realtà urbana in La notte è gemella del cinema, e c’è quasi un effetto di raddoppio della disumanità della città industriale sulla macchina-cinema. Se in L’avventura c’è un effetto di smarrimento, qui ce n’è anche uno di prigionia. E insieme, si affaccia in maniera ambigua una sorta di estetismo della disumanizzazione: l’implacabile bellezza degli oggetti, del design, una specie di attrazione fatale del dispositivo cinematografico per elementi che l’umanesimo (anche del regista) vorrebbe a parole “denunciare” e smascherare. In questo senso il giudizio di Arbasino, secondo il quale i film di Antonioni non criticano l’alienazione ma sono l’alienazione stessa, è un involontario complimento. Detto altrimenti, quello di Antonioni è anche l’«unico caso, assieme al cinema di Godard, di una “scrittura” del disagio che essendone la “forma” è anche il modo “estetico” della sua “ideologia”».23 L’“estetismo” di Antonioni è in fondo un altro modo di definire la centralità che ha per lui il momento della visione, e come la situazione dei personaggi e del loro contesto discenda in lui da un’interrogazione sugli spazi e sui luoghi, sul loro effetto sullo sguardo, sulla loro bellezza.24 81

6.

Se è vero che il processo di Antonioni da L’avventura è quello di una decantazione del melodramma, la sua impostazione complessiva farà approdare L’eclisse, nel finale, in un’atmosfera fantascientifica. Antonioni gioca spesso coi generi, dal noir di Cronaca di un amore al “giallo alla rovescia” di L’avventura.25 Ma il suo “immaginario fantascientifico” ha a che fare più con la visione d’assieme che con il meccanismo narrativo; infatti il regista la sfiorerà di nuovo in Deserto rosso e, più esplicitamente, in Identificazione di una donna (1982). La tonalità fantastica-orrorifica di Antonioni è dovuta forse anche al fatto che il suo “estetismo” non ha a che fare tanto col bello, quanto con ciò che Edmund Burke descrisse sotto il nome di sublime: «tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore».26 Un senso di incertezza, di vertigine che nasce nelle faglie dei grandi mutamenti storici dell’età moderna, e si manifesta anche attraverso forme di privazione: il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il silenzio.27 In L’avventura questo ha a che fare, come detto, col timor panico che nasce dal confronto con la natura, per cui in un certo senso «Anna non può essere ritrovata perché ormai Anna è diventata natura, Anna è il paesaggio».28 Nel finale di L’eclisse lo sguardo della macchina da presa si perde nelle cose, elimina l’uomo o lo rende irrilevante, e si rivela oltretutto macchina tra le macchine, oggetto, dispositivo. Ma insieme, ostinatamente, riafferma una capacità di organizzazione del mondo attraverso la composizione delle immagini, il montaggio visivo e sonoro. Il prosciugamento dei personaggi e delle regole dei generi, lo scioglimento del personaggio nello sfondo, l’autonoma forza plastica (sinistra e affascinante) degli oggetti producono una nuova, ipnotica flagranza, un’apocalisse di inquietante bellezza. Da queste visioni della città e del tempo partirà molto cinema successivo: certi set e tempi sospesi, urbani e no, del cinema americano degli anni Sessanta-Settanta (da Monte Hellman ad Alan J. Pakula), le città tedesche e i non luoghi americani di Wim Wenders, o i vagabondaggi nelle metropoli orientali di Tsai Ming Liang o Hou Hsiao Hsien, hanno radici in questo percorso dello sguardo proprio di Antonioni.29 E il cinema del maestro di Ferrara finisce col risultare una delle poche eredità persistenti di una stagione di modernità, le cui istanze radicali sono state invece nel tempo negate e riassorbite. 82

1. Sono anni particolarmente difficili per il Pci, che dopo la crisi seguita alla rivoluzione ungherese del 1956 (e mentre il Psi entra nell’orbita del governo) cerca di aggiornare i propri strumenti anche culturali per tenersi al passo con i mutamenti sociali. E in Italia è spesso in ambienti culturali vicini al Pci che si fanno i conti con Antonioni: «Cinema Nuovo» gli dedica grande spazio, con lunghi saggi del direttore Guido Aristarco, «Il Contemporaneo» (cfr. la Prima parte) impianta una tavola rotonda con nomi prestigiosi (Chiarini, Della Volpe, Salinari, Carocci), e anche un filosofo di scuola fenomenologica, di recente approdato al marxismo, Enzo Paci, organizza una discussione con i suoi allievi che sarà poi pubblicata su «L’Europeo». (Riprodotta poi in versione ampliata in Carlo di Carlo, a cura di, Antonioni, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1964, pp. 87-118). 2. Tra cui la televisione, che ormai appare anche in Italia in tutta la sua importanza politica ed estetica: in questi anni arrivano le prime tribune politiche, ma anche le candid camera di «Specchio segreto», insieme ai primi “casi” politici, dalla Canzonissima di Dario Fo al licenziamento di Enzo Biagi dal telegiornale. 3. Per una rapida rassegna di interpretazioni, cfr. Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio, Venezia, 2002, pp. 112-3; come introduzione critica, cfr. Geoffrey Nowell-Smith, L’avventura, Bfi, Londra, 1997, e soprattutto il recente Federico Vitella, Michelangelo Antonioni: L’avventura, Lindau, Torino, 2010, che utilizza fonti nuove chiarendo vari passaggi della genesi del film. 4. L’universo senza qualità, «Cinema Nuovo», n. 157, maggio-giugno 1962 (raccolto in Carlo di Carlo, a cura di, Antonioni, cit., p. 257). 5. Anche il percorso di L’avventura, come quello di La dolce vita, si conclude all’alba: e le albe sono anzi due classici topoi del loro cinema: albe che non annunciano il nuovo, ma semmai sembrano segnalare una diversità dei personaggi, e dello sguardo del regista, a vedere la realtà quotidiana da una prospettiva straniata e irreale. 6. «Tempo», 23 marzo 1961. Cfr. anche Guido Fink, Antonioni e il giallo alla rovescia, «Cinema Nuovo», n. 162, marzo-aprile 1963. 7. Federico Vitella (Michelangelo Antonioni: L’avventura, cit., pp. 106-120) ha ricostruito i passaggi della gestazione del film, per cui il cuore della vicenda, ossia l’inspiegabilità della sparizione di Anna, già presente nel soggetto, venne a un certo punto sacrificato dal regista per venire incontro alle esigenze dei finanziatori, per essere poi ripristinato in una fase ulteriore della lavorazione. 8. Ivi, p. 128. Sul tema cfr. Pascal Bonitzer, La disparition (Sur Antonioni), in Id., Cinéma et peinture. Décadrages, Cahiers du Cinéma/Editions de l’Etoile, Parigi, 1985, pp. 97-101. 9. Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, cit., pp. 114-5. Anche Lorenzo

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Cuccu (La visione come problema. Forme e svolgimento del cinema di Antonioni, Bulzoni, Roma, 1973) ha notato che la dedramatisation in Antonioni va di pari passo con una valorizzazione estetica del momento visivo. 10. Come ha affermato al riguardo il grande storico dell’estetica Wladislaw Tatarkiewicz, intervistato da una rivista polacca, «io credo che egli non abbia pensato a una nuova etica, ma a una nuova moralità, cioè non a una nuova formula, ma a nuovi impulsi». (W. Tatarkiewicz, Antonioni e l’avventura, intervista, «Film», n. 10, in Carlo Di Carlo, Michelangelo Antonioni, cit., p. 478) 11. Roger Tailleur, Vivere La notte, «Positif», n. 29, maggio, 1961, ora in Gianni Volpi (a cura di), Roger Tailleur & Positif, Falsopiano, Alessandria, 2006, p. 376. Si veda anche, nello stesso ambito francese, la precisa ricostruzione di Paul-Louis Thirard, «Les lettres francaises», 6-12 aprile 1961. 12. Per una nuova riconsiderazione del ruolo del volto e del gesto nel cinema di Antonioni cfr. Veronica Pravadelli, “Dall’assenza all’affetto: lo sguardo etico di Antonioni”, in Uta Felten e Stephan Leopold (a cura di), Le dieu caché? Lectura cristiana des Italienischen und Französischen Nachkriegskinos, Stauffenberg, Tübingen, 2010, pp. 111-120. 13. Sandro Bernardi nota come, rispetto allo stile della Nouvelle Vague, quello di Antonioni sia per questo ancor più ricco e disturbante. Antonioni invece «non demolisce tutto il sistema narrativo (…), anzi, lascia tutto com’è, si limita ad aprire dei vuoti tra un’inquadratura e l’altra, spesso dentro l’inquadratura stessa (…). La forza del cinema di Antonioni è l’incertezza che coinvolge tutto e tutti». (“Antonioni: immagini di pensiero”, in Giorgio De Vincenti, a cura di, Storia del cinema italiano. 1960-64, Marsilio-Scuola Nazionale di Cinema, Roma-Venezia 2001, p. 98). Sullo stesso tema, cfr. Id., Il paesaggio nel cinema italiano, cit. 14. Per il rapporto del nuovo stile di Antonioni col suo cinema precedente Lorenzo Cuccu, La visione come problema. Forme e svolgimento del cinema di Antonioni, Bulzoni, Roma, 1973, pp. 27- 45. 15. Sul tema del melodramma come genere letterario, e sul suo armamentario cinematografico, cfr. Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica (1976), Pratiche, Parma, 1985. L’inventario più recente e completo dei topoi melodrammatici è probabilmente P. Perez Rubio, El cine melodramatico, Paidós, Barcellona, 2004. 16. Il paragone con i personaggi femminili di Fellini è interessante. In qualche modo, nel vorace caleidoscopio felliniano il mondo di Antonioni è già presente e parodiato. I personaggi di Anouk Aimée, compagna nevrotica in La dolce vita, moglie raffinata e indulgente in 8 1/2, potrebbero essere personaggi di Antonioni (con un di più, inevitabilmente, di indulgente calore materno): ed è indicativo che comun-

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que, al di là delle proverbiali icone femminili del regista (statuarie come Sylvia o grottesche come la Saraghina), siano queste le donne reali di Mastroianni. 17. Lino Micciché, I “meravigliosi” anni ’60 (1989), cit., p. 158. Accenni di grande acume sul tema del moderno in Antonioni li ha dati, in tempi più recenti, Roland Barthes, il quale nota che nei suoi film «il Moderno è la difficoltà di seguire il mutare del Tempo, non più solamente a livello della grande Storia, ma all’interno di quella piccola Storia di cui è misura l’essenza di ciascuno di noi». “Caro Antonioni…”, in Caro Antonioni, catalogo della mostra al Palazzo delle esposizioni, Comune di Roma-Assessorato alla Cultura, 1982. 18. «Nel loro stare sempre sul confine tra sguardo e racconto, i registi italiani, spesso inconsapevolmente, s’imbattono e anche assorbono o realizzano nei loro film quella straordinaria mescolanza di mondo arcaico e mondo moderno che caratterizza la cultura italica. Nasce una figura di narratore-osservatore più complessa di quella classica, collocata fra presente e passato, fra storia e mito, fra sapere e non sapere, piena di feconde interessanti contraddizioni.» (Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, cit., p. 92). 19. Bernardi ha citato addirittura il mito di Proserpina (Il paesaggio nel cinema italiano, cit., p. 161). 20. Ivi, p. 160. La passeggiata di La notte, d’altro canto, è anche l’esplorazione di un multiversum temporale, di un cronotopo in cui passato e presente convivono ipnoticamente: emergono operai, figure neorealiste, violenze premoderne, musichette di lisci quasi anni Trenta, insieme agli spazi dell’industria (siamo davanti alla Breda). E al commento di Mastroianni («Incredibile: non è cambiato niente qui») la Moreau risponde: «Cambierà. Cambierà molto presto». 21. «Facciamo ora l’ipotesi fantastica che Roma non sia un abitato umano, ma un’entità psichica dal passato similmente lungo e ricco, un’entità, dunque, in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti. Nel caso di Roma ciò significherebbe quindi che sul Palatino i palazzi dei Cesari e il Septizonium di Settimio Severo si ergerebbero ancora nella loro antica imponenza, che Castel Sant’Angelo porterebbe ancora sulla sua sommità le belle statue di cui fu adorno fino all’assedio dei Goti, e così via. Ma non basta: nel posto occupato dal Palazzo Caffarelli sorgerebbe di nuovo, senza che tale edificio dovesse esser demolito, il tempio di Giove Capitolino, e non soltanto nel suo aspetto più recente, quale lo videro i romani dell’epoca imperiale, ma anche in quello originario, quando ancora presentava forme etrusche ed era ornato di antefisse fittili. Dove ora sorge il Colosseo potremmo del pari ammirare la scomparsa Domus Aurea

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di Nerone; sulla piazza del Pantheon troveremmo non solo il Pantheon odierno, quale ci venne lasciato da Adriano, ma, sul medesimo suolo, anche l’edificio originario di Marco Agrippa; sì, lo stesso terreno risulterebbe occupato dalla chiesa di Santa Maria sopra Minerva e dall’antico tempio su cui fu costruita. E, a evocare l’una o l’altra veduta, basterebbe forse soltanto un cambiamento della direzione dello sguardo o del punto di vista da parte dell’osservatore.» (“Il disagio della civiltà”, 1929, in Sigmund Freud, Opere. Vol. 10: 1924-1929, Boringhieri, Torino, 1978, pp. 562-3, corsivo mio). 22. Cit. in Tommaso Chiaretti (a cura di), L’avventura, Cappelli, Bologna, 1960, p. 44. 23. Lino Micciché, I “meravigliosi” anni ’60 (1989), ora in Id., Patrie visioni. Saggi sul cinema italiano 1930-1980, Marsilio, Venezia, 2010, p. 159. 24. Il tema dell’estetismo di Antonioni, del suo ambiguo rapporto con la realtà e il visivo, si lega al tema della superficie, sul quale Chatman ha impostato la propria lettura dell’opera del regista (Seymour Chatman, Antonioni, or the Surface of Things, University of California Press, Berkeley, 1985), e che è stato ripreso in termini generali da Fredric Jameson: «Questa minaccia della reificazione e del visuale (…) è un tutt’uno con il modernismo stesso, la cui strategia omeopatica contrappone la reificazione a se stessa, riproducendo per mezzo dell’autodifesa un processo sociale nei suoi linguaggi formali specializzati, ma è una minaccia che non può essere soddisfatta senza distruggere la medesima struttura dell’opera modernista». Fredric Jameson, “L’esistenza dell’Italia” in Id., Firme del visibile. Hitchcock, Kubrick, Antonioni (1992), Donzelli, Roma, 2003, p. 221. 25. Sandro Bernardi, “Antonioni: immagini di pensiero”, cit., p. 106. 26. Edmund Burke, Inchiesta sul bello e il sublime (1756), ed. it. Aesthetica, Palermo 1995, p. 86. 27. Ivi, p. 95. A questo punto, giocando con le coincidenze si può anche collegare la silenziosa “apocalissi” finale di L’eclisse a un film pienamente “di genere” che viene girato pochi mesi dopo negli stessi luoghi, all’Eur, e che potrebbe esserne un ideale seguito: L’ultimo uomo della terra (1963) di Ubaldo Ragona e Steve Sekely, con Vincent Price. 28. Federico Vitella, Michelangelo Antonioni: L’avventura, cit., p. 155. 29. Per la filiazione del cinema di Tsai Ming Liang da Antonioni cfr. Giuliana Bruno, Atlante delle emozioni, Bruno Mondadori, Milano, 2006, pp. 87-91, che la legge sotto il segno del nomadismo dei personaggi nel loro rapporto con gli spazi urbani.

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Il principe, il conte e il walzer finale: Il gattopardo (1963) di luchino visconti

1.

Il Gattopardo è considerato dagli studiosi un film-cesura tra la prima maniera di Visconti, che ancora domina le spinte contrastanti tra impegno neorealista e “derive decadenti”, e una seconda fase in cui il suo sguardo si rivolgerà al passato, a mondi scomparsi e personaggi alto-borghesi o aristocratici. Se fino al 1963 l’unico film in costume del regista era stato Senso (1954), da allora tutti i successivi saranno ambientati nel passato, tranne Gruppo di famiglia in un interno (1974) che (girato completamente in studio) è appunto un film su un uomo chiuso in casa, anche lui in fuga dal presente. Visconti, aristocratico e comunista, era all’epoca la bandiera dei critici di sinistra, e il film creò enorme disappunto tra le fila dei suoi sostenitori. Già qualcosa doveva insospettire nella scelta di un libro risolutamente antiprogressista, non amato né dai critici lukacsiani né dalla nuova generazione del gruppo 63, che lo considerava un bestseller astuto e vecchiotto. Certamente Lampedusa, con la sua visione dell’immutabilità della storia d’Italia, non era in nessun modo un autore di sinistra, ma Visconti, nella fase preparatoria del film, quando già comincia un ampio lavoro di promozione del film, tenta di fornirne una lettura “progressista” e contemporaneamente di inserirlo nel proprio percorso di autore. Visconti presenta il “suo” Lampedusa come completamento della linea di Verga, Pirandello e De Roberto, congruente con la visione del Risorgimento come “rivoluzione tradita”: insomma un testo «per nulla contraddittorio a quello della storiografia democratica e marxista, diciamo di Gobetti, di Salvemini o di Gramsci».1 A garante politico dell’operazione stava anche la presenza come consulente storico di Antonello Trombadori, storico dell’arte, abile e influente 87

consigliere culturale di Togliatti, e già collaboratore dei film risorgimentali di Rossellini, Viva l’Italia e Vanina Vanini.2 Le coordinate per la lettura dell’operazione sono chiare. Il critico marxista Guido Aristarco (che considerava Rocco e i suoi fratelli, visto come recupero del romanzo nazional-popolare, la via “corretta” per il nuovo cinema italiano contro l’antiromanzo di Fellini e di Antonioni), all’annuncio del film descrive candidamente il film che Visconti, giusta la sua corretta posizione ideologica, dovrà necessariamente dare. «Il Gattopardo, che Visconti sta girando, sarà senza dubbio la continuazione del discorso iniziato con Senso. (…) Nel film ci sarà quell’ampiezza di visione storica che in verità manca al romanzo.»3 Davanti al film finito, ovviamente, sarà grande l’imbarazzo. Visconti si riprometteva dunque di mostrare «non solo lo splendido tramonto del principe, ma anche il fermento di vita della collettività». Ma questo fermento alla fine nel film manca, e le “forze nuove” non sono rappresentate. Soprattutto, l’identificazione di Visconti con il principe appare pressoché totale, e il film assume in più punti, esplicitamente, il suo punto di vista.4 È proprio il rapporto tra lo sguardo di Lampedusa, quello del principe di Salina, e quello di Visconti, il punto di maggior contraddizione, ma anche di maggior modernità del film. Mentre dunque la stampa “conservatrice” e “borghese” elogia il film,5 Aristarco scrive una recensione in forma di lettera aperta al regista,6 manifestando le sue perplessità. Il film gli appare troppo fedele al romanzo; e quindi esso non è affatto la continuazione di Senso, bensì «un epos della decadenza, ma proprio nello stile del Principe don Fabrizio Salina». È certo indicativo, dell’adesione di Visconti al libro, il fatto che Il Gattopardo sia l’adattamento più “fedele” realizzato dal regista (poi ci sarebbe stato, nel 1967, Lo straniero da Camus), che fino allora era stato piuttosto disinvolto nell’uso delle fonti, da James Cain a Verga, da Testori a Dostoevskij. Tra le modifiche principali della sceneggiatura rispetto al testo di partenza, c’è l’eliminazione del quinto capitolo (il viaggio di padre Pirrone a San Cono anticipato e riassunto in una scena in osteria in cui il prelato parla della difficoltà di capire i nobili). E tra le piccole varianti “ideologiche” ci sono un generale Pallavicino ancor più antipatico che nel libro, i 88

ripetuti accenni alle fucilazioni di “disertori” che avevano raggiunto Garibaldi in Aspromonte (e che il regista reitera fino alle ultime scene, in un tentativo estremo di bilanciare il cupio dissolvi del ballo con cenni di “impostazione corretta”) e soprattutto le scene della battaglia a Porta Carini, assenti nel romanzo.7 Ma la modifica più macroscopica portata da Visconti, su cui ci soffermeremo in seguito, è la completa eliminazione dei capitoli settimo e ottavo, con la morte del principe e il ritorno sui luoghi a decenni di distanza. Una posizione di grande onestà e acume, all’epoca del film, fu quella espressa in un’altra lettera aperta da Renzo Renzi, comunista anche lui e sodale di Aristarco, che definiva il film, senza mezzi termini: «il più bel film conservatore degli ultimi vent’anni»8, elencando gli elementi di questo “conservatorismo”: «1. la mancata e impossibile rinuncia dell’autore alla sua condizione di aristocratico; 2. l’elemento funesto, decadente – il tema morte – sempre presente, fin da Ossessione; 3. la posizione pre-religiosa; 4. la concezione del futuro come un passato da riconquistare, mescolata a quella di un nuovo tempo da costruire.»9

E concludeva: «Fatta eccezione per i piccoli-borghesi di Le notti bianche, [Visconti], del resto, non ha ancora tentato (almeno nel cinematografo) un dramma borghese. Forse perché, Visconti, Don Calogero, lo disprezza troppo. Ha, appunto, due ragioni per disprezzarlo: una di destra e una di sinistra».10 Visconti cercherà di difendersi dalle accuse,11 ma sarà l’ultima volta. Dal film successivo, ogni pretesa di leggibilità in chiave marxista sarà eliminata, e l’animo “decadente” di Visconti si libererà senza remore.12 Nel film, dunque, a conti fatti «nessuno, proprio nessuno, assolutamente nessuno e niente rappresenta i segnali dei “tempi nuovi”».13 O meglio, le due presenze di Angelica e Tancredi li richiamano ambiguamente, con la fotogenia di due attori moderni, che per il pubblico simboleggiano la generazione degli anni Sessanta: Alain Delon e Claudia Cardinale. Dei due, va detto, il personaggio più “positivo” è forse Angelica, l’unica borghese che, per meriti diremmo anzitutto estetici, non viene guardata con disprezzo. Su Tancredi, invece, Vi89

sconti appare davvero scisso: da un lato, nell’intervista programmatica a Trombadori afferma che egli «non è soltanto cinico e vorace: riverberano in lui, già dall’inizio della deformazione e della corruzione, quei lumi di civiltà, di nobiltà e di virilità che l’immobilità feudale ha cristallizzato e cicatrizzato senza speranza di futuro nella persona del principe Fabrizio». Ma poco oltre, si fa delle domande angosciose: «Ti sei mai chiesto, leggendo il Gattopardo, se un uomo come Tancredi avrebbe un giorno potuto dire di sì non solo alla repressione dei moti del ’96, ma addirittura al fascismo? Io mi sono posto questa domanda, e debbo dire che il barlume che Lampedusa getta in direzione di una risposta affermativa mi ha profondamente scosso».14 Nasce allora quasi un sospetto: ci sono forse già, nella seduzione che il regista subisce da parte di Tancredi, i germi di quell’attrazione sofferta e masochista di Visconti per i nazisti di La caduta degli dei e i neofascisti di Gruppo di famiglia in un interno? Infine, c’è anche un elemento che riguarda il metodo, e perfino i vezzi e le ossessioni, del regista, a qualificare il film come intimamente aristocratico.15 Il gusto del dettaglio rivelatore, dell’oggetto, molto meno presente in Senso dove predominava il gusto del riferimento pittorico e musicale, rende il film assai più “nostalgico”, emotivamente caldo. Nella visita a Donnafugata gli sceneggiatori avevano inserito anche suggerimenti tratti dai Ricordi d’infanzia16 di Lampedusa, testo in prima persona assai debitore di Proust. E il nome di Proust ricorreva, come un’aspirazione o una minaccia, tra i riferimenti del film. Visconti ne rivendicava la liceità nell’intervista a Trombadori: «Sarebbe la mia ambizione più sentita quella di aver fatto ricordare in Tancredi e Angelica, la notte del ballo in casa Ponteleone, Odette e Swann, e in don Calogero Sedàra nei suoi rapporti coi contadini e nella notte del Plebiscito, Mastro don Gesualdo».17 Ma l’incontro magico tra questi personaggi non avviene (non in questi termini, almeno), e il ballo finale, che dovrebbe unire e armonizzare realismo progressista e “pulsioni decadenti”, diventa uno dei pezzi più memorabili del cinema di Visconti per i motivi opposti, per l’accettazione e la contemplazione delle contraddizioni, trasformate in spettacolo; per come il corteggiamento della morte germoglia da un’osservazione maniacale, feticistica del dettaglio storico, ossessione dentro ossessione, con un effetto non di superamento delle tensioni, ma 90

di loro esibizione. Curiosamente, ad apprezzare la svolta di Visconti sarà proprio il segretario del Pci, Palmiro Togliatti, che in una lettera a Trombadori sprona quest’ultimo a consigliare Visconti di non tagliare nulla, specie del lungo ballo finale nel quale «l’opera d’arte culmina, anche perché raggiunge quel carattere ossessivo (non so se sia ben detto) che è solo delle grandi concezioni artistiche» (fot. 6).19 La definizione, in effetti, è acuta: il ballo è davvero un momento di pura ossessione, nella concezione e nell’esecuzione.

Fot. 6

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2. «Col punto di vista di Lampedusa, e diciamo pure con quello del suo protagonista, il principe Salina, io concordo non soltanto fino al limite del movimento analitico dei fatti storici e delle situazioni psicologiche da essi derivanti, ma oltre questo limite: vale a dire laddove è adombrata la loro considerazione pessimistica di quei fatti. Il pessimismo del principe di Salina porta quest’ultimo a rimpiangere la caduta di un ordine che per quanto immobile era sempre un ordine, mentre il nostro pessimismo si carica di volontà, e in luogo di rimpiangere l’ordine feudale e borbonico mira a postularne uno nuovo.»19

Il nodo ideologico di Il Gattopardo è dunque il rapporto di prossimità con il punto di vista del testo di partenza e, all’interno di questo, con lo sguardo del suo protagonista. «Mai come in Il Gattopardo Visconti sposa il punto di vista del protagonista letterario e adotta la sua centralità narrativa».20 E questo diventa l’elemento decisivo per capire non solo la posizione ideologica dell’autore, ma la sua posizione nel cinema di quegli anni. Il Gattopardo esce lo stesso anno di 8 ½, che fonda il moderno “film sul cinema” inteso come film sull’autore, aprendo la stagione dell’autobiografismo felliniano.21 Dall’altro lato, i registi della Nouvelle Vague sono nel pieno della loro pratica di un cinema “moderno”. L’autore, dunque, è in primo piano come stile o contenuto dell’opera. Visconti in tutto ciò realizza un film dall’apparenza classica, senza nessuna delle marche caratteristiche del “nuovo cinema” degli anni Sessanta. Tuttavia questa classicità del film è incrinata dal continuo negare e affermare la coincidenza col punto di vista del principe. Se già si è molto discusso della coincidenza tra narratore e protagonista nel libro, per valutare quanto delle idee del principe Salina appartenga a Lampedusa, con l’entrata di un terzo soggetto (Visconti) il gioco si complica. O, secondo alcuni, si semplifica. Visconti infatti non può utilizzare le continue marche ironiche con cui Lampedusa punteggia il racconto, e nemmeno i procedimenti di analessi e gli anacronismi22 per cui i continui riferimenti a eventi e a termini successivi svelano il carattere di “gioco” nella costruzione da romanzo storico dell’intero libro. Gli studiosi hanno segnalato precisamente i momenti nei quali, 92

all’interno del film, il punto di vista di Salina e quello del regista coincidono in senso stretto. Si hanno vere e proprie soggettive del principe nella scena del rinvenimento del cadavere di un soldato nel giardino di villa Salina, e poi nel racconto in flashback che interrompe la sequenza del trasferimento del principe a Donnafugata per mostrare l’incontro con un generale garibaldino23. È indubbio poi che il ballo sia vissuto con lo stato d’animo del principe, in un’alternanza di inquadrature in soggettiva e di parti oggettive. Di più: il tema dello sguardo è essenziale e il principe Salina (in questo pienamente contemporaneo al cinema di quegli anni) non agisce ma osserva, e si trova scollegato dal mondo esterno come i protagonisti assai più giovani di un cinema assai più “moderno”. Sempre alle prese con cannocchiali, finestre, specchi, lo sguardo del principe domina il film24 nella sua continua e parziale coincidenza con quello di Visconti. In tutto questo, la maggiore preoccupazione di Visconti è di “riempire” l’inquadratura, «caratterizzata dal trionfante formato Technirama a otto perforazioni: un’opzione tecnica che garantisce un fotogramma la cui ampiezza è analoga al 70mm, pur impiegando la consueta pellicola a 35, tuttavia utilizzata nel senso della larghezza anziché in quello dell’altezza. Da questo punto di vista, Visconti condivide con Fellini una sorta di horror vacui, sebbene con opzioni stilistiche assai diverse.25 Ma in definitiva, i tratti di autobiografismo del film non derivano tanto dai momenti di identificazione con il punto di vista del principe, ma nell’impostazione generale del film, per cui questo autobiografismo risulta infine quasi coincidere con una forma di autoriflessività. «Benché il rapporto autore/personaggio sia di grande complicità, il film nel suo complesso è organizzato e controllato da Visconti a tutti i livelli, sino al dettaglio irrilevante. L’istanza autoriale permea ogni scena dando al film una tessitura altamente autoriflessiva. Particolarmente significative sono le scelte compiute dal regista nella configurazione del profilmico: dalla scelta di arredi e oggetti, ai restauri e ritocchi apportati ad ambienti e palazzi sino alla rete di citazioni pittoriche e riflessive, Il Gattopardo esprime non solo il mondo del Principe, ma, 93

soprattutto, il mondo culturale e artistico del regista: questo è forse il tratto che meglio esprime l’autorialità di Visconti.»26

A suo modo, con questo film Visconti ottiene il massimo di autobiografismo cui avesse aspirato fino ad allora. Del resto, il regista ha sempre preferito sublimare e decantare le pulsioni autobiografiche, in una sorta di camuffamento che potrebbe essere letto a partire anche dalla logica dell’occultamento della propria identità omosessuale. Se dopo Il Gattopardo Visconti ritroverà altre due figure in cui mette molto di sé (in maniera fantasmatica e mediata l’Aschenbach di Morte a Venezia [1971], in maniera più esplicita il professore di Gruppo di famiglia in un interno), prima del 1963 il personaggio più “autobiografico” del regista è probabilmente la contessa Serpieri di Senso, sospesa tra dovere e amore. Potremmo dire: tra impegno e vocazione, tra la propria più intima natura “decadente” e il “marito” Ussoni del Pci e di «Cinema Nuovo». 3.

Nella non appariscente modernità del film (che come stiamo vedendo risiede soprattutto nelle sue contraddizioni), oltre alla schizofrenia ideologica, e al complesso rapporto fra i punti di vista del personaggio, del regista e dello scrittore, va inserito un ultimo elemento. Ossia il duplice paradosso di un “bestseller aristocratico”, che a sua volta dà vita a un kolossal internazionale sotto il segno dell’autore (fot. 7). Il Gattopardo di Visconti è interessante anche come momento di massima sintesi, e massima contraddizione, del “superspettacolo d’autore”. Film costosissimo, dalla interminabile lavorazione, con un cast di divi internazionali (Burt Lancaster, Alain Delon) e grandi attori teatrali (Paolo Stoppa, Rina Morelli, Romolo Valli), è un grande successo di pubblico ma ugualmente, a causa dei costi, contribuisce alla rovina della Titanus di Lombardo, che contemporaneamente si era lanciato in un’altra impresa ancora più catastrofica: Sodoma e Gomorra (1962) di Robert Aldrich. Il romanzo di Lampedusa era stato anzitutto il primo bestseller italiano in senso moderno, e Lombardo ne deteneva i diritti fin dalla sua uscita (prima di Visconti, aveva cercato di affidarlo a Ettore Giannini e a Mario 94

Fot. 7

Soldati).27 L’idea del produttore era di farne “il Via col vento italiano”: anche qui, una storia di un Sud “nobile” sconfitto dal Nord, la nostalgia di un mondo spazzato via col vento, e la possibilità, tra i conflitti familiari, di inserire sontuose ricostruzioni d’epoca. È Lombardo a insistere, contro un perplesso Visconti, perché Burt Lancaster interpreti il principe Salina, ed è sempre lui a scegliere 95

infine di non realizzare il progetto in coproduzione con la Francia (come era d’uso all’epoca, e come era stato anche per Rocco e i suoi fratelli) ma di coinvolgere invece una casa di produzione americana, la Fox. La quale, in difficoltà con la Cleopatra (1963) di Joseph L. Mankiewicz (le cui riprese erano in corso a Cinecittà), partecipa al film cercando un prodotto di successo relativamente a buon mercato.28 Il risultato però li sconcerta, e il film uscirà sul mercato americano in un’edizione con venticinque minuti in meno. Ovviamente, nel passaggio al pubblico americano, a saltare sono quei momenti che invece il pubblico europeo sarebbe stato disposto ad assorbire come parte della strategia d’autore: e quindi vengono tagliate soprattutto le scene con attività non finalizzate strettamente all’azione, e i numerosi tempi morti. I critici americani, comunque, reagiranno lo stesso al film biasimandone le lunghe parate senza eventi. Altrettanto significativo delle strategie commerciali e delle mutazioni del pubblico sarà la successiva riedizione del film di Visconti nei primi anni Ottanta, agli albori della nuova ideologia del “director’s cut”, con successiva edizione in home video. La prospettiva “aristocentrica” del passaggio Lampedusa-Visconti non deve far dimenticare questo momento di mediazione economica e ideologica, ossia il rapporto bestseller letterario-superspettacolo d’autore. Il Gattopardo non è solo il libro di un aristocratico siciliano, ma anche il primo bestseller italiano “di massa”. E quindi il gioco è tra un nuovo pubblico borghese (quello dei bestseller e dei registi come Visconti) e una visione del mondo che paradossalmente si fonda sul rifiuto sprezzante, seppur fatalista, di ogni ruolo progressivo della borghesia italiana.29 Questa costruzione produttiva del film ne segna la struttura formale in maniera profonda, e le strategie di ricezione: «La fascinazione immediatamente visibile, quasi palpabile, del grosso investimento produttivo – fatta di un accumulo anche esagerato di oggetti, di persone, di attori, di architetture e di interventi particolarmente costosi – si incontra con la fascinazione più segreta e impalpabile del segno dell’autore».30, in un film che è tutto costruito all’insegna di una poetica del dettaglio e dello spreco, e insieme del restauro e dell’intervento scenografico su set esistenti (superando l’alternativa tra cinema neorealista e “studio”).31 96

4.

Come abbiamo accennato, il film di Visconti termina nel 1861, condensando idealmente nel gran ballo finale i due ultimi capitoli del libro di Lampedusa, che invece narravano la morte del principe e un malinconico ritratto dei superstiti cinquant’anni dopo. Il senso di questa “condensazione temporale” è spiegato da Visconti stesso: «Io ho sentito che tutto ciò che nel romanzo si sviluppa oltre il nesso 1861-2 potevo anticiparlo e bloccarlo grazie al linguaggio del cinema, esattamente in quell’arco di tempo, ricorrendo, naturalmente, a una forzatura espressiva, a una dilatazione iperbolica dei tempi del ballo in casa Ponteleone.»32

Il ballo è idealmente un “viaggio nel tempo”: oltre le stanze, si potrebbe immaginare che l’Italia giunga non solo al 1911 del romanzo, ma (perché no?) alle soglie del 1963; che il palazzo Salina vada davvero in rovina, ma cent’anni dopo, come è stato nella realtà e come la sgomenta troupe di Visconti non smette di notare durante i sopralluoghi. Lo stesso regista confidava al figlio adottivo di Lampedusa i mutamenti intervenuti dagli anni in cui aveva girato La terra trema: «Sì, dal tempo di Acitrezza molte cose sono cambiate. C’è un risveglio di attività. Ma anche di obbrobri. Palermo, per esempio, era molto più bella prima. Ora le speculazioni edilizie la stanno rendendo decisamente brutta».33 Il tema del tempo, più ancora che quello della storia, è centrale nel film. Il film di Visconti non sembra vedere forze storiche progressive e razionali in azione nel tempo storico, ma non è d’altronde riconducibile al “fatalismo” delle celebri parole del principe di Salina. Come ha scritto una studiosa, «più che celebrare (o rimpiangere) il trionfo dell’immutabile, Il Gattopardo propone, mi sembra, nel gioco che s’instaura tra il racconto, l’immagine e il sonoro, un modello di come si articolano i diversi ritmi del tempo storico»34: la campagna immutabile, i bruschi avvenimenti, la continuità aristocratica confliggono. Ma questo scontro di tempi, agli occhi dello spettatore di mezzo secolo dopo, coinvolge inevitabilmente il tempo nel quale il film fu girato. All’epoca si colsero, nel film, riferimenti più o meno volontari a 97

una “fine delle illusioni” più recente, quella degli ideali della Resistenza, per cui il “Risorgimento tradito” era anche una metafora della “Resistenza tradita”35, ma anche accenni più contemporanei, come l’idea che quella messa in atto dal principe Fabrizio e da don Calogero sia una specie di “operazione Milazzo”36. Ma la maggior impressione oggi è visiva, e generata dal fatto che Visconti si trova in effetti a girare in un periodo in cui solo per pochi istanti potrà filmare le cose in quel modo, ossia con la citata estetica “del restauro” e “della ricostruzione” che presuppone un luogo reale da ripristinare. Il principe di Salina si muoveva già, nel romanzo di Tomasi di Lampedusa scritto tutto in un bar del centro, nel cuore della nuova Palermo del sacco edilizio. Il principe Salina di Visconti, tra Villa Boscogrande (successivamente divenuta discoteca), la piazza di Ciminna e Palazzo Ganci a Palermo, si muove sul crinale di una crisi perfino più radicale di quella di cent’anni prima, quasi sapendolo. A suo modo, compostamente e malinconicamente, il ballo di Il Gattopardo è anche l’ultimo dei grandi “sabba” del cinema italiano del boom, quelle grandi feste, party e orge che punteggiano i film di Antonioni e Fellini degli stessi anni. 1. «Né Verga, né Pirandello, né De Roberto avevano detto tutto del dramma risorgimentale italiano rivissuto da quell’angolo visuale determinante che è costituito dalla grande, complessa, affascinante realtà siciliana. Tomasi di Lampedusa ha in un certo senso completato quel discorso. Da questo suo completamento, che sul terreno dell’arte non ho trovato per nulla contraddittorio a quello della storiografia democratica e marxista, diciamo di Gobetti, di Salvemini o di Gramsci, ho preso le mosse; sollecitato al tempo stesso da pure emozioni poetiche.» (Antonello Trombadori, “Dialogo con Visconti”, in Suso Cecchi d’Amico, a cura di, Il film “Il Gattopardo” e la regia di Luchino Visconti, Cappelli, Bologna, 1963, p. 24). 2. Gianni Rondolino, Luchino Visconti, Utet, Torino, 1981, p. 439. 3. «Cinema Nuovo», luglio-agosto 1962. 4. Lino Micciché, Luchino Visconti. Un profilo critico, Marsilio, Venezia, 1996, pp. 45-8. 5. Citazioni da David Bruni, “La fortuna critica in Italia”, in Lino Micciché (a cura di), Il Gattopardo, Electa Napoli/Csc, Napoli/Roma, 1996, pp. 243-5. Tra i cri-

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tici che elogiano Il Gattopardo, preferendolo a volte allo stesso Senso, ci sono Filippo Sacchi, Pietro Bianchi ed Ercole Patti. 6. Il Gattopardo e il telepata, «Cinema Nuovo», n. 162, pp. 123-5. Da segnalare, sempre su «Cinema Nuovo», un’altra lettera, molto critica sul film, di Leonardo Sciascia (n. 166, novembre-dicembre 1963). 7. Ma come nota Michèle Lagny, le scene di battaglia sono anche «un semplice momento di teatro, dove si agitano un po’ di comparse, mentre altre manovre, quando i rivoluzionari saranno incensati ma eliminati, ne cancelleranno le eventuali conseguenze». (“Un Gattopardo senza storia, o una storia senza Gattopardo?”, in Lino Micciché, a cura di, Il Gattopardo, cit., p. 43). Sul rapporto tra il film di Visconti e lo sfondo storico, cfr. Alberto Costa, Visconti, Il Gattopardo e la scena storica, in Id., Immagine di un’immagine. Cinema e letteratura, Utet, Torino, 1993, pp. 118-127. 8. La lettera aperta, uscita su «Cinema Nuovo», n. 167, gennaio-febbraio 1964, è riproposta in Renzo Renzi, Visconti segreto, Laterza, Roma- Bari 1994, pp. 138sgg. 9. Renzo Renzi, Visconti segreto, cit., p. 141. 10. Ivi, p. 153. 11. Tra le varie dichiarazioni del regista, a parte la citata intervista di Trombadori, si veda quella di Paolo Spriano («l’Unità», 11 aprile 1963, in Lino Micciché, a cura di, Il Gattopardo, cit., p. 295), intitolata significativamente Voterò come ho sempre votato per la lista comunista. 12. «Nel film pesano ancora il volontarismo dell’impegno viscontiano, le intenzioni intellettuali di rileggere i processi storici del passato per meglio capire il presente, i consigli ideologici degli uomini di sinistra, cui Visconti si sente (…) particolarmente vicino; ma il tutto invece di produrre feconda dialettica, porta ormai più soltanto a una palese contraddizione, che Visconti supererà soltanto dopo Il Gattopardo (accettandola senza contrastarla: ovvero nel solo modo che gli è ormai possibile).» (Lino Micciché, Luchino Visconti, cit., pp. 47-8). 13. Lino Micciché, “Il Principe e il Conte”, in Id. (a cura di), Il Gattopardo, cit., p. 11. 14. Antonello Trombadori, “Dialogo con Visconti”, cit., p. 29. 15. «Al tripudio dell’esteriorità, al mondo fulgido delle apparenze Visconti affida il proprio discorso interiore. (…) Il mondo che Visconti evoca è un mondo perduto, in cui le cose sono divenute emanazione dei personaggi e i personaggi emanazione delle cose. (…) L’intima adesione di Visconti al sentire principesco dei suoi personaggi si riverbera fin nel metodo di preparazione del film, del tutto

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simmetrico rispetto al mondo messo in scena.» (Stefania Parigi, “L’ambiente come sentimento”, in Lino Micciché, a cura di, Il Gattopardo, cit., p. 74). 16. Gianni Nuvoli-Maurizio Regosa, Storie ricreate. Dall’opera letteraria al film, Utet, Torino, 1998, pp. 245-8. 17. Antonello Trombadori, “Dialogo con Visconti”, cit., p. 28. 18. La lettera del 2 aprile 1963 è riprodotta in Caterina D’Amico (a cura di), Album Visconti, Sonzogno, Milano, 1975, p. 197. 19. Antonello Trombadori, “Dialogo con Visconti”, cit., p. 23. 20. Lino Micciché, “Il Principe e il Conte”, in Id., Il Gattopardo, cit., p. 9. 21. 8 1/2 e Il Gattopardo escono, nel 1963, nelle stesse settimane, e vengono spesso letti insieme all’epoca. La stessa lettera aperta di Aristarco è seguita dalla recensione del film di Fellini, donde il titolo Il Gattopardo e il telepata. In una recensione, Tullio Kezich deplora l’assenza in Visconti dell’umorismo di Lampedusa, e rinnova il paragone con l’autobiografismo di 8 1/2, più dichiarato e palese («La Settimana Incom illustrata», 14 aprile 1963, cit. in David Bruni, “La fortuna critica in Italia”, in Il Gattopardo, cit., p. 247). 22. Secondo Micciché, anzi, Visconti è molto più vicino a Salina dello stesso Lampedusa, proprio perché non può adottare questa strategia di flash-forward e anacronismi (Lino Micciché, “Il Principe e il Conte”, in Id., Il Gattopardo, cit., p. 12). 23. L’analisi è in Lino Micciché, “Il Principe e il Conte”, in Id., Il Gattopardo, cit., pp. 12-13, che fornisce anche i numeri di inquadratura delle sequenze (45-6 e 187204). 24. Vito Zagarrio, “Lo sguardo dell’eccellenza. Note sulla regia”, in Lino Micciché (a cura di), Il Gattopardo, cit., pp. 62-73. 25. Si potrebbe ipotizzare, a questo punto, che per il cinema di Fellini, Antonioni e Visconti gli elementi di innovazione o comunque la peculiarità della modernità cinematografica emergono assai più chiaramente dall’analisi delle singole sequenze e addirittura della singola inquadratura, che dall’analisi delle strutture narrative. 26. Veronica Pravadelli, Moderno/Postmoderno, cit., p. 73. 27. Caterina D’Amico, “La bottega del Gattopardo”, in Lino Micciché (a cura di), Il Gattopardo, cit., p. 269. 28. Sam Rohdie, “Il giudizio della critica anglosassone”, in Lino Micciché (a cura di), Il Gattopardo, cit., p. 218. In questo senso, dal punto di vista produttivo il film segna idealmente la fine non solo del “progetto Titanus” ma anche dei grandi produttori italiani. Il recente documentario di Giuseppe Tornatore su Lombardo, non a caso, si intitola L’ultimo gattopardo (1963).

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29. La stroncatura di Alberto Arbasino, in effetti, accomunava tranquillamente libro e film leggendoli dalla stessa prospettiva di prodotti dell’industria culturale per una nuova borghesia del boom: «L’Italia ha finalmente una destra Letteraria dignitosa e presentabile (…). Il suo regno è il Tempo Perduto. I suoi sovrani, Jadis e Naguère. Il suo ciambellano, la Memoria. La sua ideologia, lo Status Quo Ante: fermo, sicuro, riposante, morale. E la sua arma sarebbe la Nostalgia, ribattezzata però accortamente Recherche». (Grazie per le magnifiche rose, Feltrinelli, Milano, 1965, poi in Gian Piero Brunetta, Spari nel buio. La letteratura contro il cinema italiano: settant’anni di stroncature memorabili, Marsilio, Venezia, 1994, p. 225). Sapendo sicuramente il dispetto che faceva a Visconti, Arbasino definiva in questa chiave Il Gattopardo un film “malagodiano”, dal nome del leader dal Partito liberale. 30. Paolo Bertetto, “Il simulacro e la figurazione. Strategie di messa in scena”, in Veronica Pravadelli (a cura di), Il cinema di Luchino Visconti, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 2000, p. 201. 31. Ivi, pp. 203-4. 32. Antonello Trombadori, “Dialogo con Visconti”, cit., p. 26. 33. Giuseppe Lanza Tomasi, «Stasera», 27 settembre 1962, poi in Lino Micciché (a cura di), Il Gattopardo, cit., p. 292. 34. Michèle Lagny, “Un Gattopardo senza storia, o una storia senza Gattopardo?”, in Lino Micciché (a cura di), Il Gattopardo, cit., p. 46. 35. Renzo Renzi, Visconti segreto, cit., p. 149. 36. Ivi, p. 151. Silvio Milazzo governò la Regione Sicilia dal 1958 al 1960 (tra i due Gattopardi, si potrebbe dire) scalzando la Dc con una singolare coalizione composta dalla Unione Siciliana Cristiana Sociale (composta da fuoriusciti della Dc), da Psdi, Pri, Pli e addirittura Msi, con l’appoggio di Psi e Pci. L’esperienza, assai contraddittoria, ebbe importanti ripercussioni sulla politica nazionale e viene da alcuni storici considerata una delle prime avvisaglie dei futuri governi di centro-sinistra.

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essere vivi o essere morti: Accattone (1961) di pier paolo pasolini

1.

Quando Pier Paolo Pasolini, alle soglie dei quarant’anni, esordisce nella regia, è già ben noto alle cronache letterarie. Poeta e studioso, ha conosciuto il successo e lo scandalo con il romanzo Ragazzi di vita, nel 1955, e nello stesso periodo ha intrapreso la carriera di sceneggiatore, collaborando a una ventina di film. L’avvicinamento al cinema è progressivo: scopre il set grazie a Mario Soldati (La donna del fiume, 1954) e a Fellini (Le notti di Cabiria e La dolce vita); tra il dicembre del ’59 e il febbraio del ’60 tiene una rubrica di critica cinematografica su «Il Reporter»; lo stesso anno recita in Il gobbo di Carlo Lizzani. È sempre Fellini a stimolarlo a esordire, salvo ritrarsi dopo aver visto le prime riprese, probabilmente spaventato dall’ostentato primitivismo del suo sguardo registico. Dal 1961, e fino alla morte, Pasolini non smetterà più di fare film, a ritmi più o meno di uno all’anno. Il suo incontro con il cinema ha il carattere di un destino. Non solo perché, come molti registi della sua generazione, Pasolini ama fin da giovane il cinema. Ma perché il cinema giunge a compimento di un percorso di ricerca che dalla scoperta della lingua friulana arriva al dialetto delle borgate, e poi alla lingua del cinema, nell’inesausto tentativo di aderire a una sostanza ultima della realtà. Il percorso è stato rivendicato e narrato più volte dallo scrittore: «Già il dialetto era per me il mezzo di un approccio più fisico ai contadini, alla terra, e nei romanzi “romani” il dialetto popolare mi offriva lo stesso approccio concreto, e per così dire materiale. Ora, ho scoperto molto presto che l’espressione cinematografica mi offriva, grazie alla sua analogia sul piano semiologico (ho sempre sognato 102

un’idea cara a vari linguisti, vale a dire una semiologia totale della realtà) con la realtà stessa, la possibilità di raggiungere la vita in modo più completo. Di impossessarmene, di viverla mentre la ricreavo.»1

Gli scritti successivi all’arrivo a Roma spesso “prefigurano” il cinema, e soprattutto quelli in cui la materia descritta non è ancora organizzata intorno a dei fuochi narrativi definiti. Come esempio lampante, si può citare questo brano all’inizio di Studi sulla vita del Testaccio (1951): «Panoramica iniziale – dall’alto, come in qualche classico del cinema francese, René Clair: – Porta Portese, Riformatorio dei minorenni – di uno stinto, solido barocco romano – lungoteveri alti, deserti. Ma questo di scorcio: l’obbiettivo si fermerà subito contro la riva di Testaccio. Ponte Testaccio».2 Ma i lampi di cinema nei testi di quell’epoca sono numerosi: Appunti per un poema popolare (1951-2) è anche una meditazione allucinata sulla luce di Roma, e il racconto Mignotta (1954) ha come sottotitolo relazione per un produttore. Non è un caso se questi testi confluiranno in Alì dagli occhi azzurri (1965), insieme ai testi per La notte brava (1959), Accattone (1961), Mamma Roma (1962), La ricotta (1963), a costruire un ideale continuum.3 A monte di Accattone si trovano dunque due percorsi, che in realtà si intrecciano in maniera inscindibile: la tensione verso delle forme che permettano l’immersione in una realtà primigenia, prelinguistica, e la scoperta del mondo delle borgate romane. 2.

Dopo aver rinunciato a trasformare in film il proprio racconto La commare secca, affidato al suo aiuto-regista Bernardo Bertolucci, Pasolini decide di lavorare su un soggetto originale. Si tratta della storia di Vittorio detto Accattone, giovane magnaccia di borgata, il quale dopo l’arresto della sua donna Maddalena tenta di tornare dalla moglie Asenza, che vive coi parenti e non lo vuole più vedere. Ma in quella zona Accattone conosce un’angelica ragazzina burina, Stella: la corteggia, sembra innamorato, e ben presto la manda sulla strada a battere, anche se lei è timidissima e non ci riesce. Accattone, intenerito, sembra quasi messo sulla retta via da Stella: andrà a lavorare, la manterrà. Ma nel frattempo, in carcere, Maddalena 103

viene a sapere della nuova fiamma di Accattone, e lo denuncia. L’uomo è ormai spesso seguito da un agente, e quando tenta di rubare del cibo da un camion viene inseguito. Ruba una moto, va a sbattere contro un camion, e muore sul lungotevere mormorando: «Aaah… mo’ sto bene!» Al centro del film, a differenza che in Ragazzi di vita e nel film La commare secca (1962), troneggia un protagonista assoluto. Come nel romanzo Una vita violenta (1959), ma molto di più, perché lì la folla dei personaggi minori riempiva a tratti il racconto offuscando la centralità del giovane Tommaso Puzzilli. Inoltre, il suo personaggio non compie alcun percorso di presa di coscienza politica come, seppur contraddittoriamente, faceva Tommaso con l’iscrizione al Pci e il coinvolgimento nelle rivendicazioni dei malati dell’ospedale Forlanini. Dunque, come Pasolini stesso ammette,4 da un punto di vista rigidamente marxista Accattone è un passo indietro rispetto a Una vita violenta. Ma in verità, è facile oggi vedere come il film sia semplicemente fuori da un’impostazione di quel tipo, proprio perché assume come dato di fatto il carattere irrecuperabile (se non postumo) del sottoproletariato, in un’Italia ormai nel pieno del miracolo economico. E anzi non è escluso che gli elementi di “sacralizzazione”, lo stile sublime provocatoriamente applicato a un ambiente sociale infimo, siano anche una reazione autocritica a Una vita violenta. Nel romanzo precedente, infatti, dopo gli attacchi dei critici comunisti a Ragazzi di vita,5 Pasolini aveva costruito intorno a un personaggio una vicenda di presa di coscienza, almeno parziale. Ma se Una vita violenta era stato scritto sull’onda del 1956, con il rapporto Chruščëv la rivolta d’Ungheria e la speranza che la crisi del Pci preludesse a una sua modernizzazione («uno stato terribile di crisi annunciava albeggianti e luminose soluzioni: il rovesciamento dell’epoca staliniana, un rinnovamento interno e fecondo dei Partiti comunisti»), la storia di Accattone «ha la durata di un’estate, che è quella del governo Tambroni. Tutto, nella mia nazione, in quei mesi, pareva riprecipitato nelle sue eterne costanti di grigiore, di superstizione, di servilismo e di inutile vitalità».6 Più ovvio, ma non per questo da trascurare, è il fatto che nel passaggio al cinema Pasolini debba rinunciare al discorso indiretto 104

libero su cui aveva fondato i due romanzi “di borgata”. Lì la forma narrativa, la mimesi del dialetto era una forma di letterale manierismo, reinvenzione linguistica, e la voce narrante cercava di mimare l’effetto di un punto di vista parallelo a quello dei personaggi, adottandone il timbro e il sistema di valori. In Accattone, proprio perché la mimesi non è un punto di arrivo ma di partenza, la preoccupazione di Pasolini sarà quella inversa, di distanziarsi dai personaggi e in qualche modo di far sentire la presenza del regista: non con l’esibizione di un punto di vista, ma attraverso la costruzione di uno stile visibile, imponente e riconoscibile, che non coincide in nessun modo con la riproduzione della realtà, e anzi chiarisce subito dei riferimenti pittorici e musicali “alti”. Questa distanza, peraltro, indica anche la coscienza di una distanza da un mondo di cui non si intende più rendere la vitalità in presa diretta, ma quasi il solenne monumento funebre: «In realtà già nel ’61 il film si presenta come un’urna incrinata, che il poeta ha edificato nel corso degli anni ’50 soltanto per celebrarne il rimpianto. (…) Accattone non ci appare oggi come un fossile riesumato dal passato perché l’inattualità è il suo tratto ontologico già all’inizio degli anni ’60. Il film non ha mai proposto una lettura sociologica della borgata: quel tanto o poco di documentario che contiene è dovuto al carattere riproduttivo del medium cinematografico.»7 3.

Questo percorso è ormai lontanissimo dai termini del dibattito sul neorealismo. La sua estetica unisce in maniera originale elementi di modernità tipica del decennio a un vistoso recupero primitivista di tecniche e stilemi da cinema muto, ma sotto il segno di una dichiarazione di filiazione più dall’arte figurativa (Masaccio, Giotto) che dal cinema: «Il mio primo, istintivo approccio con la tecnica cinematografica è stato quello di semplificarla: questa semplificazione ha portato con sé una scoperta estetica, cioè la scoperta estetica della semplicità ieratica ferma fissa sacrale delle immagini.»8 105

«Il mio gusto cinematografico non è di origine cinematografica, ma figurativa. Quello che io ho in testa come visione, come campo visivo, sono gli affreschi di Masaccio, di Giotto (…). Quindi, quando le mie immagini sono in movimento, sono in movimento un po’ come se l’obiettivo si muovesse su loro (come) sopra un quadro; concepisco sempre il fondo come il fondo di un quadro, come uno scenario, e per questo, lo aggredisco sempre frontalmente. E le figure si muovono su questo sfondo sempre in maniera simmetrica, per quanto è possibile: primo piano contro primo piano, panoramica di andata contro panoramica di ritorno, ritmi regolari (possibilmente ternari) di campi, ecc. ecc.»9

La semplificazione, la spinta verso il primitivo sono anzitutto il rifiuto della verosimiglianza del cinema narrativo tradizionale, erede del romanzo borghese – e dunque qui la spinta di Pasolini coincide in parte con le istanze coeve di rinnovamento del linguaggio cinematografico, ma se ne distanzia per il rifiuto, ideologico e istintivo, della dimensione borghese, e per la tensione verso il sacro.10 La libertà stilistica di Pasolini, dunque, fa saltare la sintassi tradizionale con il richiamo a una ieraticità antica, filmica e soprattutto figurativa, e fondando questa scelta sulla necessità di una narrazione che esuli dai canoni borghesi, in omologia col mondo raccontato, la cui alterità rispetto al presente capitalistico giustifica e quasi fonda, come vedremo, un’ontologia quasi mistica. Nella prima inquadratura del film la presenza del dispositivo si segnala in maniera forte, con un personaggio, Scucchia, che si rivolge alla macchina da presa dicendo: «Ecco ’a fine del mondo» (scopriamo pochi secondo dopo che questa prima inquadratura è in pratica una soggettiva del gruppo di sfaccendati, tra cui Accattone, seduti al bar). Gli stacchi da un’inquadratura all’altra sono bruschi, i movimenti di macchina quasi completamente limitati alle panoramiche,11 sia sui paesaggi che sui volti, secondo una figura che Stefania Parigi ha definito di panoramica “a stazioni”12. Le riprese erano state effettuate tutte con un filtro arancione, per rendere la fotografia ancora più contrastata. La pellicola usata, una Ferrania P30 uscita sul mercato pochi mesi prima e molto “dura”, serviva allo stesso scopo. Infine, un elemento fondamentale di di106

stanziazione è dato dalla recitazione non professionale, quasi da sacra rappresentazione (gli attori principali e secondari erano davvero borgatari, sottoproletari, in qualche caso veri magnaccia o piccoli criminali) cui si sovrappone un doppiaggio assai carico. Per sintetizzare questo intreccio tra riferimenti pittorici, infrazioni alla grammatica corrente del cinema e passione quasi mistica della realtà, la cosa migliore è rivolgersi al Pasolini poeta, che così si ritrae nell’atto di girare, rivolto al direttore della fotografia Tonino Delli Colli: «Una coltre di primule. Pecore/ controluce (metta, metta, Tonino,/ il cinquanta, non abbia paura/ che la luce sfondi – facciamo/ questo carrello contro natura!)/ L’erba fredda tiepida, gialla tenera,/ vecchia nuova – sull’Acqua Santa./ Pecore e pastore, un pezzo/ di Masaccio (provi col settantacinque,/ e carrello fino al primo piano)».13 4.

I rapporti dello stile pasoliniano con le forme del cinema moderno sono tutt’altro che univoci. Da un lato, egli opta per alcune soluzioni che sono l’opposto delle poetiche della Nouvelle Vague: lavora su una sceneggiatura di ferro che non tocca durante le riprese, anzi si munisce di storyboard,14 fa uso del doppiaggio (come del resto tutti i registi italiani), e rifiuta il piano-sequenza,15 preferendo già nella fase di riprese effettuare inquadrature brevi da comporre al montaggio.16 Ma dall’altro lato gira esclusivamente in ambienti naturali e utilizza le nuove macchine da presa leggere Arriflex, che consentono una lavorazione meno “ingombrante”, compiendo tranquillamente infrazioni allo stile di illuminazione e al montaggio “classici”. Nel complesso, la Nouvelle Vague appare a Pasolini (come gli apparirà, almeno all’inizio, il ’68) un fenomeno generazionale borghese. E non solo perché, rispetto agli esordienti francesi come Truffaut o Godard, lui ha dieci (decisivi) anni in più (sono suoi coetanei semmai Rohmer e Resnais), ma appunto perché quello stile nervoso, moderno, quell’esibizione di soggettività artistica gli sono estranei.17 Inoltre, il regista costruisce i primi due film intorno a dei personaggi “forti” (cosa che non farà più in seguito, scegliendo la dimensione dell’apologo o del mito o del racconto breve). La strut107

tura narrativa è lineare, anzi epica, solenne, per blocchi narrativi squadrati e nettamente distinti. Questo consente oltretutto di utilizzare lo spazio come protagonista, attraverso ritorni di luoghi, con dei moduli quasi musicali, ritmici: «La messinscena dello spazio prevale su quella del tempo»18, anche perché i personaggi (come in Ragazzi di vita) camminano sempre, sono sempre in movimento, e sempre tornano negli stessi luoghi. Dietro i personaggi, ci sono sempre spianate e palazzi: i film sono girati in esterni reali che Pasolini rende alla pari della figura umana, e Roma c’è quasi in ogni inquadratura. La pulsione verso la realtà si manifesta anche in questo guardare allo stesso modo luoghi e corpi, quasi non scindendo gli uni dagli altri. Pasolini regista non si nasconde allo spettatore, tutt’altro. Il suo stile anzi è così riconoscibile da poter essere presto declinato in aggettivo, perfettamente riconoscibile e replicabile. Il suo è un cinema che rivendica il proprio essere d’autore, la presenza di un punto di vista forte.19 Questo stile riconoscibile è anche un aspetto di quello che è stato definito manierismo pasolinano: «un continuo eccesso di presenza dell’autore e delle sue maschere formali per fronteggiare l’insidia fatale dell’assenza, della scomparsa, del vuoto di esistenza».20 E se il regista si metterà in scena solo successivamente, in La ricotta, come personaggio e come “altro” da quel mondo, riguardo ad Accattone si può rinvenire una proiezione dei propri impulsi di base, funerei e sensuali, non solo sul mondo narrato ma anche sul protagonista, o quanto meno sul suo destino. Come mostra l’ironico narcisismo di far nascondere il persecutore di Accattone, un poliziotto che è anche emissario del Fato, dietro il «Candido», foglio di destra che negli anni precedenti si era lanciato in ripetuti attacchi contro Pasolini. 5.

Il Pasolini teorico farà tesoro dell’esperienza di Accattone, e gli scritti della metà degli anni Sessanta ci aiutano anche a chiarire retrospettivamente il rapporto del regista con la realtà filmata. «I poveri sono reali, i ricchi irreali»21 così il regista sintetizza i motivi della sua predilezione per gli ambienti sottoproletari. Ma cosa intende Pasolini per realtà? In che senso egli la filma? 108

Nel 1964 e nel 1965 il regista interviene ai convegni del festival di Pesaro con due conferenze importanti, sui cui temi poi torna più volte. In questi due scritti, Il “cinema di poesia” e (più interessante per il nostro discorso) La lingua scritta della realtà, offre in compendio una semiologia “eretica” del cinema, basata su una tesi radicale e provocatoria: «L’unità minima della lingua cinematografica sono i vari oggetti reali che compongono una inquadratura»: i cinèmi.22 Non dunque l’inquadratura, ma ciò che essa contiene (anzi, più precisamente, l’azione): il che apre tra l’altro la vertiginosa conseguenza che «l’intera vita, nel complesso delle sue azioni, è un cinema naturale e vivente».23 Il cinema e la sua grammatica dunque cercano di ordinare qualcosa che ha un fondamento in un caos vitale prelinguistico, «quel sotto-film mitico e infantile, che, per la natura stessa del cinema, scorre sotto ogni film commerciale anche non indegno».24 Senza addentrarci nelle varie formulazioni della teoria pasoliniana, va rilevato che essa affonda le radici in alcune delle spinte più profonde della sua ricerca poetica e critica. Già in un articolo del 1947, lo scrittore faceva un ragionamento molto simile sulla pittura, chiedendosi se in ogni tela non si trovasse contenuta tutta la pittura, «come una potente mina “sempre sul punto di brillare”» e se potessero identificarsi nelle arti figurative dei “cromemi” equivalenti ai “fonemi”.25 Va notato però che il concetto pasoliniano di realtà è assai prossimo all’uso che di questa parola fa, negli stessi anni un costante interlocutore di Pasolini: Elsa Morante. La quale, proprio tra le due conferenze di Pasolini, nel febbraio 1965, dà la formulazione più compiuta e appassionata alla propria idea del rapporto tra il poeta e la realtà in Pro e contro la bomba atomica. L’irrealtà è il nemico del poeta, dice Morante, e la realtà, quasi inesprimibile a parole ma attingibile nella pratica poetica, va ricercata come «il paradiso naturale di tutte le persone umane, almeno finché non si siano trasformate nella struttura stessa visibile dei loro corpi. Non siano diventate, cioè, dei mutanti».26 In questo senso, il punto di osservazione di Morante è già in parte quello del Pasolini successivo, osservatore atterrito di corpi mutanti. La scrittrice vedeva come ultimi portatori di realtà i reietti e le 109

generazioni più giovani, ma già in una prospettiva di trionfo generalizzato dell’irrealtà. Il complesso sistema semiologico di Pasolini, checché lui ne pensasse, sembra oggi soprattutto la sistematizzazione ex post di una fase del suo cinema, da Accattone a La ricotta, proprio mentre prendeva nuovo spazio uno dei motivi conduttori del Pasolini intellettuale, poeta, regista: ossia l’elemento funebre. Al posto di realtà, Pasolini usa talvolta il termine “vita”, che però indica di solito qualcosa di più cupo: se con “realtà” possiamo intendere un impulso biologico primario, il dato di base dell’esistenza e della sua contemplazione, quando dice “vita” Pasolini sembra intendere spesso il suo contrario, l’istinto di morte. 6.

Già da subito i critici avevano notato la vocazione mortuaria dello stile di Pasolini, che in Accattone è evidente: «Accattone non è un film che contiene o implica una ideologia politica sbagliata o regressiva, per la semplice ragione che, al di là delle proprie stesse pretese, non si offre in alcun modo come rappresentazione ideologica della condizione proletaria, ma soltanto come applicazione a un mondo sottoproletario (…) dell’“ideologia della morte” che tormenta ed esalta l’intellettuale borghese Pier Paolo Pasolini.»27

I richiami alla morte sono continui, fin dalla prima battuta del film.28 Accattone è, a tutti gli effetti, un morto vivente, e a un certo punto il suo volto ricoperto di sabbia è davvero quello di uno zombi.29 «Guarda che il cimitero sta dall’altra parte» gli gridano a un certo punto, e subito dopo incontra un funerale. Culmine di questo versante è la scena del sogno, che è appunto la premonizione della propria morte, declinata in varie figure. Il finale dell’episodio La terra vista dalla luna (1967), reciterà che «Essere vivi o essere morti è la stessa cosa». Ma già i personaggi di Accattone sono, assai più di quelli dei romanzi degli anni Cinquanta, dei morti viventi: e il loro nemico non è la morte, ma la Storia, da intendere proprio nel senso del romanzo di Elsa Morante, «uno scandalo che dura da diecimila anni». E lo stesso concetto di Vita, 110

così ricorrente nelle opere di Pasolini, sarà allora da intendere come idealmente opposto a Realtà, come quel che resta della realtà (biologica, prestorica e prelinguistica) dopo l’urto feroce con la Storia. In questo senso Micciché ha proposto di leggere il compimento della “Trilogia della vita” degli anni Settanta nel film successivo, Salò (1975), considerandola dunque una «tetralogia della morte»,30 ipotizzando che per Pasolini «sia proprio la Storia l’agente patogeno che conduce alla morte i personaggi: ciascuno di essi, e tutti senza eccezione, sembrano provenire – e per Pasolini provengono – da un immoto Limbo pre-storico, ignaro e felice nel proprio prebiologismo».31 Il film d’esordio in effetti rimarrà l’unico a celebrare il mondo pre-storico, pagano, del sottoproletariato romano, tanto da farlo considerare a ritroso come un riassunto e insieme la “premessa” per un discorso, che il poeta aveva già cominciato altrove, nei saggi e negli interventi militanti. Alla luce dei film immediatamente successivi, appare chiaro che Accattone è un riassunto, la descrizione di una scena originaria. Già Mamma Roma racconta la tragedia di un sottoproletariato che vuole diventare piccola borghesia, un percorso di ascesa che però non è in alcun modo una presa di coscienza, ma solo una violenza.32 Nel successivo La ricotta la situazione è ancora più interessante. Qui viene esplicitamente tematizzato il proprio rapporto di intellettuale e di artista con la materia trattata, e viene mostrato un regista, una specie di nichilista di sinistra interpretato da Orson Welles, che risponde a base di citazioni pasoliniane, ma in maniera cinica e ironica. Un esorcismo di una parte di se stesso, che è da un lato una sorta di prima apparizione dello spirito “saggistico” di un film come Uccellacci e uccellini (1966), e dall’altro il confronto diretto con i grandi registi borghesi della modernità: Fellini è esplicitamente nominato («Egli danza», dice Welles doppiato da Giorgio Bassani), mentre i sottoproletari/comparse (mostrati per la prima volta come comparse) ballano al ritmo dell’Eclisse twist. L’alternanza di bianco e nero e colore è a suo modo illuminante: perché a questo punto il bianco e nero non è semplicemente il (neo)realismo da contrapporre all’artificio “hollywoodiano” del film religioso ispirato ai pittori manieristi, ma un universo stilistico da contrapporre a un altro. 111

Dopo il 1963, Pasolini si lascia alle spalle il mondo della borgata: prima gira il Vangelo secondo Matteo (1964), poi utilizza in maniera quasi astratta gli sfondi delle periferie per il film-saggio Uccellacci e uccellini: e curiosamente la fine della centralità delle borgate coincide con l’arrivo di Ninetto Davoli, che in qualche modo la porta dentro di sé, come un angelico superstite. La realtà su cui si fondava Accattone e che i saggi di teoria cercavano disperatamente di sistematizzare, è sempre più corrotta e lontana.33 Nell’appunto Contro la televisione (1966), Pasolini dichiarerà di essersi reso conto che «probabilmente tutto il realismo, e la sua idea, è piccolo-borghese. È una nostalgia della realtà»,34 e addirittura applica la propria allucinata ricostruzione al mezzo televisivo, osservandone quasi il contagio che apporta mostruosamente perfino alle fisionomie degli uomini a lui cari: Bassani diventato dirigente della televisione «era divenuto a tratti un uomo irriconoscibile», e l’espressione gonfia, allusiva e contegnosa degli uomini «aveva cominciato a invadere la sua faccia tesa e gonfia», così come quella di Attilio Bertolucci, a cui «un orrendo rossore, come una tabe (…) sta gonfiando le membra e le membrane del viso».35 L’osservazione dei volti e delle fisionomie assume dei tratti quasi lombrosiani nel tardo Pasolini. Il culmine sarà uno dei suoi ultimi articoli, nel quale il regista, in occasione della messa in onda televisiva di Accattone, commenta la lontananza di quel mondo filmato nemmeno quindici anni prima: «Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. (…) Se io avessi fatto un lungo viaggio, e fossi tornato dopo alcuni anni, andando in giro per la “grandiosa metropoli plebea”, avrei avuto l’impressione che tutti i suoi abitanti fossero stati deportati e sterminati, sostituiti, per le strade e nei lotti, da slavati, feroci, infelici fantasmi. (…) Se io oggi volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo. Non troverei più un solo giovane che fosse nel suo “corpo” neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentati se stessi in Accattone.»36

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1. Pier Paolo Pasolini, Il sogno del centauro, a cura di Jean Duflot, Editori Riuniti, Roma, 1983, ora in Id., Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano, 1999, p. 1413 (d’ora in poi SPS). 2. Pier Paolo Pasolini, Alì dagli occhi azzurri, ora in Id., Romanzi e racconti 19611975, Mondadori, Milano 1998, p. 414. 3. Lino Micciché ha ripercorso la tendenza a uno “sguardo cinematografico” non solo nei romanzi degli anni Cinquanta, ma forse ancora più nelle prose sparse, come quelle raccolte nel 1995 da Walter Siti col titolo Storie della città di Dio. Lino Micciché, Pasolini nella città del cinema, Marsilio, Venezia, 1999, pp. 24-7. L’autore cita tra gli altri un brano dal racconto Roma allucinante (1961): «Enorme sequenza, d’una lentezza che rasentava la fissità, il foro cuoceva a un sole che non riusciva nemmeno a intiepidirlo, un sole mattutino ancora un po’ profumato di cavoli, fragilissimo ardente vaporoso. (…) Ma nell’odierna purezza, la stupenda carrellata carica di aeree panoramiche, compie il suo giro intorno ai fianchi del Campidoglio…». Come ricorda ancora Micciché, I morti di Roma (1959), scritto poco prima di Accattone, è il progetto di un film in cinque episodi sulla capitale vista dal Tevere. 4. Pier Paolo Pasolini, Diario al registratore, in Id., Accattone-Mamma Roma-Ostia, Garzanti, Milano, 1993, p. 395. 5. Cfr. Il giudizio di Carlo Salinari, riportato nella Cronologia dei vari Meridiani, alla data 1955: «Pasolini sceglie apparentemente come argomento il mondo del sottoproletariato romano, ma ha come contenuto reale del suo interesse il gusto morboso dello sporco, dell’abbietto, dello scomposto e del torbido…». 6. Dalla rubrica dei lettori su «Vie nuove» (1 luglio 1961), ora in SPS, p. 943. Ma anche in Accattone-Mamma Roma-Ostia, cit., p. 63. 7. Stefania Parigi, Pier Paolo Pasolini: Accattone, Lindau, Torino, 2008, pp. 8 e 9. 8. Dal dibattito Cinema e letteratura nell’opera di Pier Paolo Pasolini (Alessandria 1964), ora in SPS, cit., pp. 777-8. 9. Pier Paolo Pasolini, Mamma Roma (Rizzoli, Milano, 1962), poi in AccattoneMamma Roma-Ostia, cit., pp. 386-7. 10. «La caratteristica di questa figura stilistica (il primo piano frontale, “sacrale”) non è la speranza ma la disperazione. E con la scomparsa della speranza, c’è anche la scomparsa dell’amore per l’uomo medio. C’è l’amore per l’eroe, per l’uomo eccezionale». (Intervista a Jean-André Fieschi per la trasmissione Cinéastes, de notre temps, poi in «Cahiers du cinéma», hors série 1981 (Pasolini cinèaste), cit. in Stefania Parigi, op. cit., p. 33). 11. A parte un uso sporadico dello zoom, all’epoca peraltro non molto in voga, e un

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paio di carrelli indietro, il più vistoso dei quali nella scena dell’istigazione alla prostituzione di Stella da parte di Accattone. 12. Stefania Parigi, op. cit., p. 167 13. Pier Paolo Pasolini, Accattone-Mamma Roma-Ostia, cit., p. 395. 14. Stefania Parigi, op. cit., pp. 109 e 113. 15. Sul montaggio cfr. “Il sogno del centauro”, in SPS, p. 1518, e le Osservazioni sul piano-sequenza, lette a Pesaro nel 1967 e poi raccolte in Empirismo eretico (ora in SPS, pp. 1555-61, insieme a una seconda parte inedita, pp. 1671-74). 16. Il metodo di Pasolini prevedeva le riprese di scene brevissime, già in vista della loro composizione al montaggio, e questo ad esempio causò dei problemi in Mamma-Roma con la Magnani, costretta a frammenti di recitazione (Pier Paolo Pasolini, Accattone-Mamma-Roma-Ostia, cit., p. 381) 17. L’elenco dei registi preferiti, oltre a Rossellini, comprende Dreyer, Murnau, Mizoguchi, Renoir e Tati, Godard, Chaplin. Inoltre, come ribadisce in un’intervista degli ultimi giorni di vita, «Non amo nessuno dei miti dei “Cahiers du cinéma”, cioè Hawks, Hitchcock, Ford. E detesto Eisenstein». («Gente», 17 novembre 1975, intervista di Peter Dragadze, ora in SPS, p. 865) Una certa insofferenza per la Nouvelle Vague era stata già mostrata da Pasolini durante la sua breve carriera di critico cinematografico per «il Reporter», dicendosi irritato dalla presunzione del principiante di I quattrocento colpi (ma alla distanza, ammette, il film migliora). (L’anno del “Generale Della Rovere”, 5 gennaio 1960, ora in SPS, pp. 2240-1). 18. Ivi, p. 161 19. «Il cinema d’autore è creazione assolutamente individuale. Il numero dei collaboratori tecnici non cambia nulla» dichiara Pasolini nell’intervista a Jean Duflot (Il sogno del centauro, poi in SPS, p. 1434). 20. Stefania Parigi, op. cit., p. 57. 21. «Gente», 17 novembre 1975, ora in SPS, p. 868. 22. Pier Paolo Pasolini, La lingua scritta della realtà (1965), poi in Id. Empirismo eretico (1972), ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano, 1999, p. 1508. 23. Ivi, p. 1514. 24. Pier Paolo Pasolini, Il “cinema di poesia” (1964), poi in Id., Empirismo eretico (1972), ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., p. 1469. 25. Pier Paolo Pasolini, Il ritratto a Udine, ora in SPS, pp. 240-1. 26. Elsa Morante, Pro e contro la bomba atomica e altri scritti, Adelphi, Milano, 1987, p. 110. 27. Lino Micciché, Pasolini nella città del cinema, cit., p. 40.

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28. Gli appunti del regista all’epoca mostrano la consapevolezza di questo tema: «Un sole radioso e stupendo, che era tanto più macabro quanto più era radioso.» (“Diario al registratore”, in Accattone-Mamma Roma-Ostia, cit., p. 373) «C’è qualcosa di funereo, di cadaverico nella pelle del mondo – facciate di case, strade, visi di amici, vestiti – che circonda Franco come un pianeta disabitato.» (Ivi, p. 378). Questa “luce nera” che illumina il film la si può ritrovare in un’azione costantemente compiuta dai personaggi, e cioè il riso a piena gola, grottesco, che ricorda la definizione che Michail Bachtin dà della moderna versione degradata del carnevalesco, che comincia col romanticismo: «Nel romanticismo la maschera perde quasi interamente il suo elemento rigeneratore e rinnovatore e prende una valenza lugubre. Vi si cela spesso un vuoto terribile, il “niente” (…). Nel grottesco popolare, invece, dietro la maschera si nascondeva l’inesauribilità della vita e i suoi molteplici volti». (L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino, p. 46). 29. Su questo tema cfr. Stefania Parigi, op. cit., pp. 179-187. Parigi elenca i riferimenti alla morte nei dialoghi, le continue pose funerarie dei personaggi, e ricorda la scena della visita alla tomba del padre di Stella ad Ardea, poi non girata. 30. Lino Micciché, Pasolini nella città del cinema, cit., p. 36. 31. Ivi, p. 133. E ancora: «La Morte, intesa come destino ineluttabile che dà un senso alla vita e costituisce la sua pulsione fondamentale; la Storia, intesa come il luogo dove l’individuo è destinato a dannarsi spegnendovi la propria individualità e la propria libertà». (p. 130) 32. «Filmcritica», n. 125, settembre 1962, ora in Pier Paolo Pasolini, Per il cinema, Mondadori, Milano, 2001, p. 2819. 33. Sulle mutazioni della teoria del cinema di Pasolini, dagli scritti degli anni Sessanta al “nominalismo” e all’abiura della “Trilogia della vita”, cfr. la ricostruzione di Antonio Costa, “Pier Paolo Pasolini: eresia semiologica e scrittura tragica”, in Id., Immagine di un’immagine, Utet, Torino, 1993. 34. Pier Paolo Pasolini, SPS, p. 129. 35. Ivi, p. 133. 36. Pier Paolo Pasolini, Il mio Accattone in Tv dopo il genocidio, «Corriere della Sera», 8 ottobre 1975, poi in Id., Scritti corsari, ora in SPS, pp. 676-7.

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spaesamenti: I fidanzati (1963) di Ermanno Olmi

1.

Al festival di Venezia del 1961, sparsi nelle varie sezioni, si trovarono alcuni film di registi italiani che davvero diedero l’impressione di una “nuova ondata” generazionale: in concorso Banditi a Orgosolo di Vittorio De Seta, e nella sezione informativa Il posto di Ermanno Olmi, Accattone di Pier Paolo Pasolini, Tiro al piccione di Giuliano Montaldo.1 Ovviamente, per motivi vari, i film in questione furono letti da buona parte della critica nella chiave di un “ritorno al neorealismo”, e a questa prospettiva non sfuggì Il posto. I più benevoli segnalarono la continuità con il neorealismo, derivandone una ortodossia alla sua lezione («Olmi ha voluto tornare al neorealismo più rigoroso (…) anzi (…) il neorealismo non ha mai raggiunto una purezza così ascetica», Kezich), o addirittura lo collegano al pedinamento zavattiniano (Lino Dal Fra).2 Da altri, invece (specialmente in area socialista e comunista) Il posto viene criticato per l’impostazione ideologica,3 e le critiche maggiori sono appunto quelle di una mancata fedeltà ai modelli neorealisti, di una impostazione “deamicisiana” e di un bozzettismo, che evocano lo spettro del temuto “neorealismo rosa”. In realtà, rivisto oggi Il posto è un film di una sorprendente crudeltà, ferocissimo nel raccontare la quotidianità del mondo impiegatizio, con scene di una cupezza e di uno squallore quasi insostenibili, a cominciare dalla celebre scena del party aziendale di capodanno. Ma soprattutto, già riguardando quel film, ci si accorge quasi di un progressivo slittamento, durante la narrazione, da una descrizione sostanzialmente realistica, nella descrizione della famiglia di origine, della provincia lombarda, verso una sempre maggiore vicinanza con le istanze più avanzate delle nouvelle vague contemporanee. A mano a mano che il protagonista, proveniente da un hinterland ancora con116

tadino, entra in contatto con la realtà metropolitana, il film subisce una metamorfosi stilistica, aderendo alla sua percezione della realtà circostante: alcune scene (come i passaggi dal lavoro a casa) non sono segnalate dalle classiche dissolvenze al nero o incrociate, ma giustapposta l’una all’altra a stacco, in nervosa continuità; l’idillio tra il protagonista e la compagna di lavoro per le vie della città è pedinato con i classici obiettivi a focale corta tipici del “pedinamento” da cinema en plein air; sono frequenti le infrazioni al découpage classico e i passaggi spiazzanti da campi lunghi a primissimi piani. Proprio verso il finale, che segna la definitiva integrazione/disintegrazione del protagonista, il film raggiunge la sua massima forza sperimentale: dopo la festa di capodanno, con un brusco taglio si passa ad alcuni uomini che guardano in macchina: sono i colleghi di ufficio, che assistono al liberarsi della scrivania di un collega morto. Segue una serie di inquadrature “vuote”, irrelate alla narrazione, che mostrano alcuni luoghi abitati dallo scomparso. A questo punto il protagonista, fino allora semplice fattorino, è impiegato. L’ultima inquadratura è un lungo primo piano che lo mostra fissare davanti a sé, leggermente in alto. Gli elementi di modernità stilistica di Il posto si trovano presenti assai più chiaramente nel successivo I fidanzati (1963), che è uno dei film italiani stilisticamente più vicini alle coeve nouvelle vague (in specie allo stile di Alain Resnais) e il titolo più sperimentale dell’intera carriera del regista. Ma anche davanti a questo film la critica italiana si concentrò su elementi contenutistici, riferendosi a un’ortodossia neorealista intesa come impostazione politica corretta, e il film, che fu un insuccesso di pubblico e di critica, venne apprezzato molto di più in Francia e negli Stati Uniti. I fidanzati, venendo dopo Il posto e Il tempo si è fermato (1960), costruiva idealmente una “trilogia del lavoro”, e sulla base di come questo tema era affrontato, andava appunto giudicato. Ne derivarono accuse di intimismo cattolico, di ignoranza dei conflitti operai e via dicendo.4 2.

I fidanzati sembra cominciare dove Il posto finiva, con la scena di un ballo (fot. 8): ma stavolta alla mestizia un po’ crepuscolare si sostituisce una vera e propria esplosione della messinscena. Il film, che dura settantatré minuti (nella edizione italiana in Dvd uscita con il 117

«Corriere della Sera»), è pressoché privo di dialoghi per i primi otto, offrendo prima la silenziosa descrizione dei preparativi e poi dello svolgimento di un ballo, che richiama alla mente la festa della parte finale di Il posto.

Fot. 8

L’impostazione visiva delle scene dei due film è però molto diversa: la prima era stata girata tutta insieme (96 inquadrature, girate in una sola notte) e, nonostante la libertà dello stile di ripresa paradocumentaristico, ha una sostanziale compattezza interna, presentandosi chiaramente come clou dell’intero film, costruita al proprio interno in maniera molto serrata (arrivo nella sala deserta, incontro con alcuni personaggi, esplosione della festa, brusca interruzione col passaggio alla scena successiva), mentre l’altra viene subito inframmezzata di immagini e suoni provenienti da un altrove e da un altro tempo, secondo la precisa lezione del Resnais di Hiroshima mon amour e L’anno scorso a Marienbad.5 La peculiarità di I fidanzati sta proprio qui: nella decisione con cui affronta gli intrecci spazio-temporali facendone l’anima del film.6 Durante questa sequenza (che complessivamente dura dodici minuti), vengono isolati i due protagonisti, Giovanni e Liliana, che seduti accanto non si rivolgono la parola (fot. 9), e in una serie di fulminei salti indietro vediamo i motivi del loro litigio: lui è stato appena trasferito in Sicilia con mansioni di operaio specializzato, e lei è amareggiata dall’im118

Fot. 9

minente separazione. Poi il film segue Giovanni nel suo spostamento (il film è girato a Priolo, in provincia di Siracusa, dove era stato installato uno stabilimento petrolchimico): l’immersione nel lavoro operaio, i commenti dei colleghi, le esplorazioni di luoghi quasi metafisici come le saline, i contatti sporadici con strani personaggi (un cameriere della mensa che racconta la misteriosa malattia del figlio neonato, un seminarista che fa da garzone a un barbiere). In quest’incontro con una Sicilia industrializzata in modo paradossale e contraddittorio si sente forte l’influenza di Donnarumma all’assalto (1959) di Ottiero Ottieri:7 le giovani impiegate accompagnate dall’intera famiglia, gli operai che nei giorni di pioggia non vanno a lavorare. Il “vagabondaggio” di Giovanni culmina nella lunga scena del carnevale di Paternò, girato in maniera para-documentaria, con gli attori mescolati alla vera festa. In questo evento rituale e collettivo, i momenti della relazione con Liliana si ripresentano, insieme al ricordo di un tradimento compiuto da Giovanni, e di come lei lo avesse scoperto. Verso la fine, una serie di lettere, che Giovanni e Liliana leggono ad alta voce, uniti dal montaggio come in un dialogo a distanza indica il recupero del loro rapporto, la sua crescita attraverso la lontananza: vengono visualizzate le immagini evocate dal testo, oppure vediamo i due personaggi leggerne le frasi come se parlassero tra loro. Le ultime immagini (anzi, quasi le ultime, come vedremo), li mostrano baciarsi sulla spiaggia, sono forse quelle dei loro primi incontri, quasi in un percorso à rebours. 119

L’intreccio tra passato e presente dunque è fitto nella scena iniziale del ballo, poi si distende in quello centrale, con l’esplorazione di un mondo diverso (o meglio, di un mondo familiare come la fabbrica del Nord, trapiantato in un ambiente estraneo) da parte di Giovanni, e riesplode nel finale del carnevale e delle lettere. Nella parte iniziale e in quella finale, Olmi «innesta in verticale le immagini, e talora vi impasta anche i suoni, di eventi anteriori accaduti in altri luoghi (…). Tutti accadimenti in bilico tra lo statuto di ricordi, intermittenze della coscienza rammemorante di cui il montaggio traduce i sussulti, e quello di libere analessi dello sguardo narrante che ne assume il punto di vista».8 In questo film, in maniera più chiara che nei due precedenti del regista (che pure contenevano «un intenso lavoro di découpage che fraziona la scena e la ricompone attivando tutto un sistema di raccordi impercettibili»), 9 si chiarisce l’assoluta centralità del montaggio nella poetica del primo Olmi. Lo stesso regista, in un’intervista ai «Cahiers du cinéma», aveva sottolineato in maniera chiara lo statuto ambiguo delle immagini, molto diverso da quello di un tradizionale flashback esplicativo: «I salti della narrazione non sono flashback nel senso tradizionale del termine. Si avvicinano piuttosto a quel “cinema-memoria” che comincia proprio adesso a nascere, e che supera i limiti convenzionali della narrazione cinematografica per raggiungere una narrazione pluri-direzionale, che esiste in sé, libera dal tempo e dallo spazio. Allo stesso modo, i flashback non sono ricordi personali del personaggio, ma una oggettivazione del suo carattere, della sua psicologia, della sua maturità morale.»10

Il film dunque accorpa due vie maestre della modernità cinematografica di quegli anni: si apre e chiude sotto il segno di Resnais e di una nuova concezione della scansione temporale, e all’interno procede radicalmente secondo il dettato “rosselliniano” (nel senso dei suoi discepoli francesi), con il vagabondaggio di un protagonista, che sostanzialmente guarda il mondo intorno; in grande libertà narrativa, tra scene rubate e successioni di immagini sconnesse dal parlato e non accostate spesso a un punto di vista particolare.

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3.

In I fidanzati, «a differenza che nei due film precedenti, (…) l’identificazione tra autore e personaggio è totale».11 Uno dei tratti più evidenti di Il posto era proprio una distanza con il protagonista, con il quale l’identificazione è impossibile, perché con quella sua aria atona, quasi da Buster Keaton, è sì un puro di cuore, ma anche un personaggio che il regista tiene a distanza da sé e dallo spettatore, salvo poi rendere partecipi della sua confusione, in una descrizione che paradossalmente, nel descrivere il grigiore impiegatizio, procede sempre più a singulti: a salti di montaggio, a ellissi, a falsi raccordi. Nel film successivo il rapporto tra regista e personaggi cambia. «Giovanni e Liliana sono operai, ma sono lontani dai “cuori semplici” di Il posto, richiedono strumenti espressivi all’avanguardia per cogliere ombre e smarrimenti»,12 e il film fin da subito, con tutto il suo armamentario di complessi intrecci spazio-temporali, manifesta una forte prossimità al loro sentimento. In questo senso l’uso dei flashback, evidenziato in precedenza, ha un ruolo decisivo, nell’accompagnare lo sbandamento morale ed emotivo dei due fidanzati: «al punto estremo della crisi tra i due personaggi corrisponde la massima ambiguità sia spaziale sia temporale», nella scena del tradimento in spiaggia da parte di Giovanni e del successivo dialogo con Liliana, in cui non capiamo dove siamo, nel tempo e nello spazio. «Dopo questo apice di crisi, il montaggio comincia a operare in senso inverso: non separa i fidanzati che abitano lo stesso spazio ma li unisce (grazie a dei semplici raccordi sullo sguardo) benché siano in spazi diversi.»13 In apparenza, dunque, il film compie un percorso di riconquista dei rapporti umani: «Volevo mostrare (…) che un avvenimento temporale può portare a una maggior fermezza morale e coesione: (…) è la separazione stessa a far nascere la riunione».14 Ma in verità diremmo piuttosto che il percorso che attraverso i due personaggi lo spettatore compie è quello di una scoperta e accettazione della complessità dolorosa, traumatica, sottilmente angosciosa del mondo – un mondo che è essenzialmente mutazione, cambiamento storico. Come in Il posto, lo smarrimento dei personaggi è dato dal loro inserimento in una situazione nuova: la realtà del lavoro e della vita urbana, o il confronto con l’urto violento, visivo, tra mondo conta121

dino e industriale. Lo stile del film non cerca di descrivere una sensibilità nervosa e giovane, una rabbia o una vitalità, come è in certi film di Godard, Truffaut, Skolimowski, Reisz. Il protagonista di Il posto (dato sconcertante per lo spettatore di oggi) è un quindicenne, e quelli di I fidanzati ne hanno meno di trenta, ma il film tematizza l’opposizione tra loro e il mondo esterno non in quanto giovani, bensì in quanto “nuovi arrivati” in un mondo in trasformazione – e di questa trasformazione paiono cogliere (o meglio sentire) soprattutto gli elementi di angoscia: «La constatazione della brutalità (e della bruttura) del capitalismo non produce tanto dialettica, quanto smarrimento esistenziale.»15 4.

Il lavoro sullo spazio-tempo è dunque inscindibile dalle contraddizioni storiche messe in scena. L’accavallarsi spazio-temporale, la confusione e la multidirezionalità delle immagini non hanno una radice esistenziale o teorica, ma diremmo proprio storico-antropologica. Lo notò, all’epoca, Jean-Louis Comolli nella recensione apparsa sui «Cahiers du cinéma»: «I fidanzati sono insieme testimoni e critici delle opposizioni NordSud, padrone-operaio, dei conflitti di classe, dei luoghi, dei climi, delle usanze… Ma la novità di Olmi è, invece di trattare queste difficoltà come materia od oggetto, di integrarli nella struttura stessa del film, di far sì che il percorso e i suoi termini si sposino e si scambino.»16

Va notato come in effetti il cinema di Olmi, nel suo racconto preciso della nuova borghesia nata dal boom, rappresenti un’eccezione: operai, tecnici e funzionari dell’industria non sono quasi mai al centro del cinema di quegli anni, mentre sono al centro di romanzi di rilievo: Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri, Memoriale (1962) di Paolo Volponi, La vita agra (1962) di Luciano Bianciardi, Il maestro di Vigevano (1962) di Lucio Mastronardi, cui seguirà poco dopo il terribile Il padrone (1965) di Goffredo Parise. Olmi è uno dei pochi registi del periodo che possa essere avvicinato a questa narrativa, tutta fortemente critica nei confronti dei modi dello sviluppo, e tutti con al centro personaggi alienati, in progres122

siva perdita di contatto con il mondo esterno, fino alle soglie della patologia mentale. Questo può aiutare a capire come molte caratteristiche tipiche del personaggio del cinema “moderno” descritte da Bordwell o da Bálint-Kovács siano anche, in Italia, da legare a un preciso momento di shock che deriva dall’industrializzazione rapidissima e dall’entrata ancora più rapida nella società dei consumi. Di questo elemento, che non ha riscontri simili non solo negli Stati Uniti, ma neanche in Francia e Inghilterra, offrono testimonianze assai potenti proprio i personaggi di molti romanzi, come quelli citati o altri coevi di Calvino (La giornata di uno scrutatore, 1963), Moravia (La noia, 1960), Buzzati (Un amore, 1963) e numerosi altri. Olmi, peraltro, era stato in contatto con molti di questi autori: Parise aveva scritto il testo di uno dei documentari che il giovane regista aveva girato per la Montedison (Michelino 1° B), con Bianciardi (del quale pare avesse presentato a Milano La vita agra) scriverà la sceneggiatura di un film sulla campagna di Grecia,17 e sarà in rapporto anche con Ottieri, intellettuale della cerchia di Adriano Olivetti e autore del citato Donnarumma all’assalto, ispirato all’esperienza dell’autore come selezionatore del personale alla Olivetti di Pozzuoli. Inoltre, il regista giunge all’amarezza di I fidanzati dopo una serie di documentari industriali per la Edisonvolta, spesso sinceramente convinti della possibilità di coniugare progresso industriale e realtà rurale italiana: centrali idroelettriche o dighe che uniscono passato e presente, città e campagna (alcuni appunto scritti da Parise, o da Pasolini). Ma se già nel primo lungometraggio, Il tempo si è fermato, la convivenza di vecchio e nuovo è assai più stridente, nel conflitto tra l’anziano custode di una centrale d’alta montagna e uno studente che vi lavora per arrotondare, i film successivi segnano addirittura un ribaltamento della prospettiva. E in I fidanzati questo appare ancora più chiaramente, proprio perché Olmi ritorna a quel mondo industriale, agli operai e ai tecnici osservati nei documentari. Mentre fuori dal finestrino scorre il paesaggio di una Sicilia contadina, i colleghi commentano fuori campo, come in una parodia dei commenti dei documentari industriali, compresi quelli di Olmi stesso: «Appena messo da parte qualche soldo, cominciano a costruire la casa. Non importa se poi devono piantare lì i lavori a metà: l’importante è avere 123

su quattro mattoni. Mangiano pane e limone, pane e carrube e il resto lo mettono via per pagare i debiti. Piantano un po’ di aranci, mandarini; soprattutto limoni e mandarini che fanno prima. Passa qualche anno, e appena il terreno comincia a rendere, vengono via dalla fabbrica e vanno a vivere sul campo».18 Per far andare in cortocircuito i personaggi, per avere un’antinomia forte, anche Olmi sceglie di andare a Sud, per la prima e unica volta nella sua carriera. In questo senso, è vero, «I fidanzati è la risposta di Olmi a Rocco e i suoi fratelli».19 Ma anche, potremmo aggiungere, a L’avventura. Se è vero che la storia del film afferma la possibilità della comunicazione nonostante tutto,20 la maggiore opposizione con Antonioni riguarda l’uso del set-Sicilia, che in Olmi è pienamente teatro in sé di contraddizioni, non proponibile in alcun modo come luogo del mito. E viene da ricordare che quello stesso anno un altro regista mette, assai più sarcasticamente, a confronto Nord e Sud, anzi proprio Sicilia e Milano, anzi fabbrica e paese, in una chiave che mostra (stavolta in chiave grottesca) i paradossi del boom: Mafioso (1963) di Alberto Lattuada. Lì un tecnico della fabbrica taylorista va in Sicilia, ma non per “industrializzarla”, bensì per diventare semplicemente killer. Rivelando come le due logiche, quella dei colletti bianchi e quella della criminalità organizzata, non siano poi così incompatibili. L’unione tra Nord e Sud descritta da Lattuada ha qualcosa di agghiacciante e profetico, quella contemplata da Olmi è un fallimento da cui al massimo si salvano gli individui, ma a patto di “dimenticare” la fabbrica. La scena finale, «aperta e un po’ enigmatica, è uno dei punti forti del film: a un passo dalla sua sintesi narrativa, la dialettica del film si blocca e quel che viene consegnato allo spettatore è il desiderio del suo completamento».21 Dopo il flashback (ma è davvero un flashback o una visione?) dei due “fidanzati” che si baciano: lui la chiama, così per sentirla, mentre sta per scatenarsi un temporale. Stavolta, come gli operai troppo contadini del luogo, è lui che non ha tanta voglia di andare a lavorare. Le ultime inquadrature colgono dei bambini con la bocca aperta mentre scende la pioggia, e Giovanni che si ripara con la sua cartellina. C’è una forte somiglianza con il finale di Viaggio in Italia di Rossellini, con le ultime inquadrature “rubate” di gente tra la folla. E il senso finale è l’apertura a una realtà di frammenti, e 124

il salvare piccoli frammenti di realtà e di felicità, di grazia laica, che presuppongono l’apertura e la precarietà del punto di vista. Come dice lo stesso regista: «Dopo la telefonata con la ragazza con cui finalmente il dialogo è ricominciato, anzi è cominciato veramente per la prima volta, lui resta lì a guardare la pioggia, come i bambini. Torna anche lui bambino, si libera dallo spettro della fabbrica».22 1. I primi quattro erano stati curiosamente presi in considerazione da Federico Fellini che, in maniera abbastanza velleitaria, dopo La dolce vita aveva accarezzato l’idea di diventare produttore per favorire nuovi talenti, fondando con Rizzoli la Federiz, che alla fine non portò a termine nessun progetto. 2. Laura Buffoni, “La fortuna critica”, in Adriano Aprà (a cura di), Ermanno Olmi. Il cinema, i film, la televisione, la scuola, Marsilio, Venezia, 2003, p. 97. 3. Ivi, pp. 98-9. 4. Una rassegna della critica dell’epoca è in Laura Buffoni, “La fortuna critica”, cit. 5. Virgilio Fantuzzi, “Il cristiano muore ogni giorno e ogni giorno rinasce”, in Adriano Aprà (a cura di), Ermanno Olmi. Il cinema, i film, la televisione, la scuola, cit., p. 43. 6. Morando Morandini ha messo tra le caratteristiche del cinema di Olmi la discontinuità della linea narrativa, già indicata timidamente con Il posto, ma sistematica in I fidanzati, dove Olmi, così incolto, recepisce la sovversione del montaggio discontinuo, inaugurato dalla Nouvelle Vague, e lo adatta alla propria poetica. Come in Resnais (più che in Godard), Olmi sceglie il tempo come terreno privilegiato della narrazione. Le sconnessioni temporali, all’indietro ma anche in avanti, il rilievo dei fatti e dell’azione passano attraverso il filtro della coscienza del personaggio o dei personaggi principali. Pochi altri hanno coltivato il “tempo a fisarmonica” quanto lui.” (Ermanno Olmi, Il Castoro, Milano, 2009, p. 7) 7. A fare il nome di Ottieri è lo stesso Olmi: cfr. Morando Morandini, Ermanno Olmi, cit., p. 44. 8. Luciano De Giusti, “Il lavoro della scrittura”, in Adriano Aprà (a cura di), Ermanno Olmi. Il cinema, i film, la televisione, la scuola, cit., p. 74. 9. Ivi, p. 71. 10. Intervista di Jean-Luis Comolli e Jean Narboni, «Cahiers du cinéma», n. 157, luglio 1964, p. 28. 11. Virgilio Fantuzzi, “Il cristiano muore ogni giorno e ogni giorno rinasce”, cit., p. 51.

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12. Alberto Pezzotta, “I fidanzati”, in Adriano Aprà (a cura di), Ermanno Olmi. Il cinema, i film, la televisione, la scuola, cit., p. 147. 13. Ivi, p. 149. 14. Intervista di Jean-Luis Comolli e Jean Narboni, «Cahiers du cinéma», cit., p. 28. 15. Alberto Pezzotta, “I fidanzati”, cit., p. 148. 16. Jean-Luis Comolli, I fidanzati, «Cahiers du cinéma», n. 157, luglio 1964, p. 35. 17. Luca Mazzei, “Amori di confine. Olmi fra società industriale e mondo contadino”, in Adriano Aprà (a cura di), Ermanno Olmi. Il cinema, i film, la televisione, la scuola, cit., p. 27. Cfr. Morando Morandini, cit., pp. 26-7. Olmi poi, sempre tra gli anni Cinquanta e Sessanta, collabora anche con il giovane Pasolini (che sceneggia i documentari Manon finestra due e Grigio), e con Mario Rigoni Stern per un adattamento da Il sergente nella neve poi non realizzato (la sceneggiatura è stata pubblicata nel 2009 da Einaudi). 18. I documentari di Olmi sono stati raccolti nel Dvd Gli anni Edison, Feltrinelli, Milano, 2007. Sull’industrializzazione della Sicilia furono realizzati all’epoca vari documentari che ne annunciavano le potenzialità: l’anno successivo al film di Olmi, viene girato a pochi chilometri di distanza da Priolo Gela antica e nuova (1964) di Giuseppe Ferrara su testi di Leonardo Sciascia. 19. Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Vol. III, Editori Riuniti, Roma, 1998, p. 203. 20. Morando Morandini, “Tra candore e rigore, profilo di un regista”, in Tullio Masoni, Adriano Piccardi, Angelo Signorelli, Paolo Vecchi (a cura di), Lontano da Roma. Il cinema di Ermanno Olmi, La Casa Usher, Firenze, 1990, p. 22. 21. Luca Mosso, I fidanzati, «Quaderni del CscI», n. 5, 2009, p. 184. 22. Franca Faldini-Goffredo Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano 1960-1969, Feltrinelli, Milano, 1981, p. 81.

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racconti crudeli della giovinezza: Prima della rivoluzione (1964) di bernardo bertolucci e i pugni in tasca (1965) di marco bellocchio 1.

Se oggi Prima della rivoluzione viene considerato uno degli esordi italiani più importanti del decennio, e uno dei pochi film ascrivibili a una nouvelle vague italiana, alla sua uscita cadde nel silenzio più completo. L’opera seconda di Bertolucci rappresentò l’Italia alla Semaine de la Critique a Cannes 1964 vincendo due premi, ma fu ignorato o stroncato dai corrispondenti italiani, e conobbe un totale insuccesso commerciale, sia in prima visione sia in un’uscita successiva con alcuni tagli di alleggerimento: con circa 32 milioni di incasso, fu uno dei film italiani meno visti dell’anno. Invece in Francia il film veniva subito adottato dai critici dei «Cahiers du cinéma», e sarebbe stato distribuito in sala poche settimane prima del Maggio 1968, diventando la bandiera di una generazione di cinefili.1 Del resto Bertolucci, reduce da una trasferta parigina avente come meta sostanzialmente la Cinémathèque, ha ricordato spesso come in quel periodo si sentisse idealmente più “francese” che italiano.2 In effetti Prima della rivoluzione è uno dei primi e pochi film italiani del periodo a proporsi come espressione diretta di una soggettività d’autore,3 parzialmente incarnata in un personaggio, in un luogo, e in una generazione. La vicenda è quella classica di un ingresso nell’età adulta, della fine delle illusioni (sentimentali e politiche) della giovinezza. I protagonisti hanno nomi rubati a La Certosa di Parma di Stendhal:4 Fabrizio, il protagonista, è un giovane borghese parmense, deluso da una breve parentesi politica (rappresentata da un suo amico, militante comunista e insegnante elementare, Cesare). Già messo in crisi dalla morte, forse volontaria, dell’amico Agostino, Fabrizio lo sarà ancora di più dal ritorno in città di Gina, sorella di sua madre, eccentrica e mentalmente instabile, con la qua127

le intreccia una relazione incestuosa. Ma alla fine anche la trasgressione erotica verrà abbandonata dal giovane, che si sposerà con una giovane e bella figlia della gioventù cittadina, Clelia.5 Come ha notato Veronica Pravadelli, il film, pur costruito come la storia di un coming of age, non è un “romanzo di formazione” in senso stretto, perché Fabrizio è già borghese dalla nascita, e dunque nella sua parabola gli manca l’elemento dinamico:6 anziché la storia di un’ascesa, potremmo dire, la sua è la storia di una resa. Di più: la prima frase del film, che si ascolta sullo schermo ancora nero («Bisognava che accadessero molte cose. Bisognava che io soffrissi, che tu soffrissi tanto. Esistevo perché voi esistevate. Adesso che me ne sto in pace, attaccato alle mie radici, mi pare di non esistere più») sembra connotare l’intera vicenda come una specie di flashback a partire dalla rassegnazione del presente. La citazione che dà il titolo al film è attribuita a Talleyrand: «Chi non ha vissuto negli anni prima della rivoluzione non sa che cosa sia la dolcezza del vivere». Bertolucci ha dichiarato di essere stato indeciso se metterla all’inizio o alla fine, e di considerarla un’antifrasi, perché il film esprime piuttosto un’angoscia del vivere. E si può aggiungere un dato curioso, e cioè che “la dolcezza del vivere” è anche, alla lettera, La dolce vita:7 La douceur de vivre si chiamava il film di Fellini in Francia, per cui la frase potrebbe tradursi anche: chi non è vissuto prima della rivoluzione non sa cosa significhi la dolce vita… 2.

Il film comincia con una specie di monologo declamato dal protagonista: e sullo schermo, in salti di montaggio fondati su raccordi liberissimi, vediamo Fabrizio, alternato a riprese della città dall’alto. Siamo quasi in uno spirito da pastiche: le prime frasi sono tratte da una poesia di Pasolini, cui seguono senza stacco le riflessioni del protagonista su Parma, la sua borghesia, e la fidanzata Clelia. Per tutto il film poi sono continui i momenti di forte visibilità dello stile e di rottura della continuità narrativa. Citiamo solo qualcuno dei più vistosi: la scena in cui Agostino si esibisce sulla bicicletta è piena di jump cut con una musica circense (fot. 10), come quella in cui Adriana Asti si prova vari modelli di occhiali (fot. 11). Durante il racconto del funerale del padre di Gina lo zoom va avanti e indietro 128

su di lei, senza legame col contenuto della scena. Molto scioccanti anche le immagini, “rubate” da lontano con un obiettivo a focale lunga e commentate da una canzone di Gino Paoli, di Gina in giro per la città, che si concludono con la dissolvenza a iride tipica del cinema muto, mentre le scene successive delle passeggiate sono girate con la macchina a mano. Il rapporto sessuale tra i due protagonisti è girato con un montaggio alternato senza musica, stilizzato, che cita un famoso brano di L’Atalante (1932) di Jean Vigo. E in una visita a Fontanellato, dove i protagonisti visitano la camera ottica

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(convenzionalmente considerata un ideale antenato del dispositivo cinematografico) le immagini viste nel marchingegno rinascimentale sono improvvisamente a colori. In una intervista per l’edizione in Dvd (Ripley’s video, 2004) il montatore Roberto Perpignani ha sottolineato la varietà delle soluzioni registiche di Bertolucci. E per poter gestire la libertà creativa delle riprese, con largo ricorso all’improvvisazione, l’autore si serve di una struttura fatta di blocchi ampi, definiti, e invertibili tra loro. «Il film io l’avrei potuto montare in tre o quattro modi diversi. (…) È questa un’esperienza che ha dei punti di contatto col metodo di lavoro della poesia.»8 Il film si gioca tutto tra seduzione della realtà e impeto espressivo (e ludico) giovanile; in maniera più specifica Francesco Casetti ha individuato all’interno del film l’alternanza tra “i modi dell’immediatezza” e quelli “della mediatezza”: «se il film palesemente insegue il “dire diretto” dell’autobiografia, insieme cerca anche degli strumenti di “distanziazione”, degli allontanamenti prudenziali: Stendhal (e Flaubert) come pretesti narrativi, o Melville e Talleyrand come voci con cui confrontarsi, funzionano appunto come una sorta di filtro che ritarda l’urgenza di una vicenda di per sé troppo spinta».9 Nel film ci si sposta continuamente tra i due poli che caratterizzano la modernità cinematografica, quello del “ritorno al realismo” e quello della spinta metalinguistica: «Il montaggio sregolato e la musica vengono associati alla dimensione dell’infanzia, della giovinezza, e più in generale dell’affettività del desiderio. È chiaro come invece il binomio piano sequenza/linguaggio sia riconducibile a una dimensione opposta: non solo la vita adulta, il simbolico, la ragione, l’ordine, ma anche l’ideologia e il “dover essere”».10 La forza dirompente dell’elemento metalinguistico è dovuto anche al fatto che Prima della rivoluzione è uno dei primi film cinefili italiani, forse il primo. Nel film vengono citati Il fiume rosso (Red River, 1948) di Howard Hawks, e La donna è donna (Une femme est une femme, 1961) di Godard; inoltre, lo stesso regista ha elencato varie influenze: «Marienbad, nella scena in cui Gina guarda le fotografie distesa sul divano; i carrelli sui quadri (Il disprezzo); il discorso tra Fabrizio e Brice Parain in Vivre sa vie, lì fondamentale, qui molto meno. La scena degli occhiali è godardiana ma non c’è un riferimento preciso».11 Ma più 130

ancora che per le citazioni esplicite, Prima della rivoluzione è il film di un cinefilo perché comunica il piacere di far cinema, di girare: fa sentire il lato, anche ludico, di fare (e ri-fare) del cinema, e lo collega direttamente al piacere di guardare il cinema altrui. Nel film c’è un famoso dialogo tra il protagonista e l’amico cinefilo interpretato da Gianni Amico (co-sceneggiatore del film)12. Le battute del dialogo tra Francesco Barilli (Fabrizio) e Gianni Amico vengono spesso citate (con ragione) come una dichiarazione di poetica del regista: «Non si può mica vivere senza Rossellini», «360° di carrello, 360° di moralità»… Va tenuto presente però che queste frasi sono dette da un personaggio un po’ petulante e importuno nel suo “cahierismo”, e punteggiate dai commenti perplessi del protagonista («Ma tu sei matto…»): anche qui il regista mette un diaframma, sostanzialmente fatto di ambiguità, tra sé e i suoi specchi, moltiplicando e contraddicendo il sé-cinefilo come ha fatto col sé-Fabrizio, con Cesare, e ovviamente con Gina. 3.

Veniamo con ciò a un elemento come sempre decisivo nei film di questi anni: il rapporto tra il regista e il suo personaggio principale. Così Bertolucci: «Nel film ci sono due personaggi: uno è questo autore molto ingombrante che tende ad autorappresentarsi tutto il tempo, attraverso il suo delegato che è il personaggio di Fabrizio; e poi c’è il cinema-verità su Adriana Asti, che è veramente l’altro polo del film, insomma la cosa vera e, credo, più interessante. Il personaggio di Fabrizio, rivisto oggi, mi sembra quasi uno scherzo se ripenso a come è vicino a quello che ero io, uno scherzo di mancanza di pudore da parte mia.»13

D’altro canto, come si è già accennato, Bertolucci tiene a mettere tra sé e Fabrizio una serie di veli e di prismi: da un lato si scompone anche negli altri personaggi del film, dall’altro distanzia da sé Fabrizio, anzi lo usa come esorcismo di un lato di sé: «In Prima della rivoluzione ho voluto descrivere un personaggio che è un vinto, un impotente, che crede di essere qualcosa e non è assoluta131

mente niente. A un altro livello, Fabrizio sono io, come Gina sono io, come Puck sono io, come Cesare sono io. Sono affettuosamente legato a questi personaggi». 14

Prima della rivoluzione è uno dei titoli che Pasolini utilizza nella sua celebre conferenza su “Il cinema di poesia”. Secondo Pasolini, i film di Bertolucci o quelli di Godard esemplificano una nuova linea, neo-formalista, che si basa su una “soggettiva libera indiretta”, ossia su una sovrapposizione della voce dell’autore su un personaggio. Ma se è vero che il film moderno si conclude normalmente «con l’affermazione, da parte dell’autore, del suo maggiore grado di consapevolezza»15, in Prima della rivoluzione sembra che il regista adotti, rispetto al suo protagonista, anche un certo incremento di emotività, in una maggiore prossimità con Gina: nel finale, «il rumore dei singhiozzi di Gina è l’unico suono diegetico della scena: così, se la diegesi termina con il matrimonio di Fabrizio con Clelia, l’immagine e il suono privilegiano Gina e il suo pianto. Il finale rappresenta dunque il momento di massima distanza tra l’autore e il suo alter ego»,16 e insieme di grande vicinanza con il personaggio femminile e con il “demone del melodramma” (che è anche, nella fattispecie, un genius loci), mentre viene ricordata attraverso il montaggio anche la via di uscita “razionale”, politica, all’impasse borghese di Fabrizio: Cesare che spiega ai suoi alunni la folle caccia di Achab a Moby Dick.17 4.

Tra Bertolucci e i suoi amati francesi, specie quel Godard che anche Pasolini cita, un elemento di grande differenza è il rapporto con il passato, molto più intenso e sofferto. Si può anzi parlare esplicitamente, e Bertolucci stesso ne ha parlato, di un’opzione nostalgica per questo impetuoso film di un ventitreenne. Intanto, il film è curiosamente ambientato un anno e mezzo prima delle riprese, nella primavera-estate del 1962, a creare una impercettibile sfasatura: «Prima della rivoluzione dovrebbe essere un film storico: l’ho girato nel 1963-64, ma l’azione si situa nel 1962, l’anno della morte di Marilyn Monroe. Un film storico sull’ambiguità e l’incertezza».18 132

Lo stesso intreccio di invenzione, nostalgia e cinefilia presiede alla rappresentazione di Parma. Bertolucci parte da Parma, ma per inventarla, come «una terra straniera» ma intima, e inscindibile (nella automitologia) dal cinema: «Parma era il posto dove andavo al cinema. Ma ti dirò che se questa città è così dentro di me, lo si deve anche al fatto che a undici anni sono andato ad abitare a Roma: perché a Roma mi sembrava di essere all’inferno, e allora avevo nostalgia di Parma, di quella Parma che non conoscevo se non nella sua veste domenicale, la città del cinematografo.»19

E l’altra cosa sorprendente è che la giovinezza, per la prima volta, non è più l’oggetto ma il soggetto della contemplazione del passato. Quelli di Prima della rivoluzione (compreso il ventitreenne regista) sono i primi ventenni a essere investiti da un sentimento di struggimento proveniente dall’appena ieri. Bertolucci irrompe in maniera sorprendente tra i registi nati quindici-vent’anni prima, ancora sconvolti dalla fine degli ideali resistenziali, dal XX congresso del Pcus, dalle delusioni del centro-sinistra, e usa questi rimpianti e rimorsi quasi come elementi ritmici, figurativi, per campire una provincia che, con una sensibilità acutissima, legge in tutta la sua imminente fine. Una spia eloquente: le canzonette, che in film come La lunga notte del ’43 di Vancini o Una vita difficile di Risi rappresentano la volgarità del presente contro gli anni dell’impegno, sono per Bertolucci dei momenti di pura epifania della realtà e del cinema insieme, anche secondo l’esempio di Godard. Nelle scene «rubate» al mercato, Gino Paoli canta in colonna sonora: «Ricordati/ Del film che abbiamo veduto/ E poi tutto quello che abbiamo vissuto/ Quel giorno, quel giorno/ che era un giorno come tutti gli altri». Il paradosso di Prima della rivoluzione (o meglio: il paradosso visto, riprodotto e patito da questo film) sta proprio qui, nella sua assoluta contemporaneità e nel rivendicato giovanilismo, costruiti attraverso la nostalgia. Sta, insomma, nel fatto che non è chiaro quale sia «la rivoluzione». Da un lato, è difficile non leggere nel film la premonizione delle inquietudini generazionali che sfoceranno nel ’68. Ma già le cose si complicano nelle parole di Fabrizio alla festa dell’Unità: 133

«Io ho (una) febbre. Una febbre che mi fa sentire la nostalgia del presente. Mentre vivo, sento già lontanissimi i momenti che sto vivendo. Così non voglio modificarlo, il presente. Lo prendo come viene. Ma il mio futuro di borghese è nel mio passato di borghese. Così, per me, l’ideologia è stata una vacanza, una villeggiatura. Credevo di vivere gli anni della rivoluzione e invece vivevo gli anni prima della rivoluzione. Perché è sempre prima della rivoluzione quando si è come me.»

Il rapporto con i padri, tema costante delle trame e dello stile di Bertolucci, è qui esplicitamente tematizzato in chiave generazionale e politica. Il confronto con i padri è, in questa scena di forte intensità emotiva, il confronto con il Pci.20 Ma stilisticamente, in realtà, il film è già il primo dei “tradimenti” di Bertolucci, del “padre” Pasolini col “fratello maggiore” Godard. E coi tradimenti successivi, che lo portano a un padre non istituzionale come Leone, e ai “nonni” Visconti e Lean (con i kolossal da Novecento a Il tè nel deserto), Bertolucci aggiungerà un’ulteriore dimensione di grande spettacolarità e di “sfida a Hollywood”. Ma c’è anche un altro elemento. La “rivoluzione” che il film contempla con gli occhi del vecchio aristocratico in una celebre sequenza ha i tratti della catastrofe (fot. 12), non politica bensì sociale e (avrebbe detto Pasolini) antropologica; ed è uno dei pochi momenti in cui il cinema italiano degli anni del boom avverte così apocalitticamente il mutamento: «Puck: Il fiume no. Il fiume basta. Bisogna dimenticarselo, il fiume. Ci dicono di salutarlo; ci ordinano di salutarlo. Verranno qui con delle macchine… Il pittore, sull’argine: Le tinche… Puck: Verranno qui con le loro draghe. Ci saranno degli uomini diversi, e il rumore dei motori! Pittore: Pioppi, i filari… Puck: Ah, chi ci penserà a tirarli su, che non gelino, i pioppi? Pittore: La pavera… Puck: Non resterà più niente. Pittore: Le nasse.

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Puck: Non ci sarà più l’estate. Pittore: I canali… Puck: Non ci sarà più l’inverno. Pittore: I rospi… Puck: Anche per te è finita, fatti da una parte. Tirati indietro, affondala quella tua barca! Sì, sì, parlo anche per te! Non pescheremo più il luccio insieme. Neanche le carpe pescheremo, e le anatre non passeranno, non ritorneranno più dentro il mirino del mio fucile. E basta le folaghe, basta il volo delle oche selvatiche! Amici miei, vedete? Qui finisce la vita e comincia la sopravvivenza. Perciò addio, Stagno Lombardo. Ciao. Ciao, fucile. Ciao, fiume. E ciao, Puck.»21

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5.

Se già all’epoca della loro uscita i critici occasionalmente si trovarono a considerare insieme Prima della rivoluzione e I pugni in tasca (ma si tenga conto che il primo fu molto meno visto del secondo, e non suscitò in Italia alcun dibattito), successivamente il confronto tra i due film e i loro autori è diventato corrente. Le carriere parallele, di registi che avevano esordito con film letti come una critica “di sinistra” al Partito comunista e adottati come precursori del ’68, si biforcarono ben presto proprio nelle opzioni politiche di quegli anni (Bellocchio con una fase maoista, Bertolucci con un “ritorno 135

al padre” Pci), incontrarono poi la psicanalisi in diverse forme e con diversi esiti, e si ritrovarono per una curiosa coincidenza alla Mostra del cinema di Venezia del 2003, con due film che rievocavano l’inizio e la fine degli anni del Movimento: Buongiorno, notte e The Dreamers. Certo I pugni in tasca e Prima della rivoluzione hanno vistosi elementi in comune: sono due film di ribellione interna alla borghesia, con protagonisti coetanei dei registi (a loro volta tra loro quasi coetanei); opere di giovanissimi, entrambi autori di versi pubblicati in volume o rivista. Due registi che vengono dalla provincia, anzi che raccontano una borghesia a pochi chilometri di distanza, Parma e Piacenza, facendo saltare la geografia maggioritaria del cinema italiano del boom, dominato dall’asse Roma-Milano (e Sicilia come polo dialettico). Due film portati a termine con operazioni produttive avventurose, ormai fuori dalla “politica degli esordi” della Titanus o simili.22 Due racconti che hanno al centro figure di donne modernissime, difficili da cogliere, si direbbe, sia per i registi sia per i protagonisti, ma di vitalità in fondo positiva, e alla fine fedeli a se stesse, laddove i personaggi maschili vengono, se si vuole perfino moralisticamente o per compensazione con l’eccessiva identificazione, condannati (uno alla morte, l’altro alla vita borghese). E a incrociare questi personaggi maschili e femminili sono in entrambi i casi dinamiche interne alla famiglia, in varia misura incestuose: un rapporto fratello-sorella (più allusivo) per Bellocchio, un rapporto zia-nipote (esplicito) in Bertolucci. Sia I pugni in tasca sia Prima della rivoluzione, peraltro, nel corso della lavorazione conoscono una progressiva decantazione degli elementi “sociali” e collettivi, per concentrarsi su ambienti ristretti, familiari, sui destini dei personaggi. Nel copione di Bellocchio, saltano le scene che mostrano la relazione tra la famiglia di Ale e la società cittadina. E anche la sceneggiatura del film di Bertolucci era molto più ricca di riferimenti precisi, addirittura con nomi e cognomi della borghesia parmense, poi tutti espunti.23 In entrambi i film, poi, i registi si rivolgono curiosamente a un giovane compositore, che aveva sino allora lavorato solo a qualche spaghetti western: Ennio Morricone. Ma tutti e due, alla fine, concludono i destini dei loro personaggi sulle note ottocentesche e padane di Giuseppe Verdi… 136

Evidenti sono però anche le differenze. È l’atteggiamento verso il presente a mutare: introflesso e agonistico in Bellocchio, nevroticamente edonista in Bertolucci, più aperto ai “segnali del tempo”. Bertolucci è cinefilo, ama le canzonette, i suoi personaggi ballano e si stringono; quelli di Bellocchio si agitano in preda agli spasmi. Soprattutto, è ancora una volta decisiva la diversa distanza dai personaggi: entrambi gli autori costruiscono due “doppi”, ma quello di Bellocchio è progettato dall’inizio come una deformazione grottesca, per impedire ogni immedesimazione col regista, e lo stile del film che ne consegue oscilla tra la “prosa” di cui parlava Pasolini e la “soggettiva libera indiretta”. Il rapporto di Bertolucci col suo protagonista, anzi con tutti i personaggi, è più affettivo, ambiguo, e le strategie per dominare questa identificazione sono più labili. La passione per il melodramma, si direbbe, è in Bertolucci più sensuale, in Bellocchio più intellettuale – anche se nessuno dei due registi è mai un ideologo (nemmeno Bellocchio, nonostante i propri intenti), ed entrambi sono rimasti, attraverso le metamorfosi dei decenni, dei visionari, in fondo dei poeti. 6.

I pugni in tasca è stato uno degli esordi più discussi della storia del cinema italiano. Sostanzialmente autoprodotto dal regista grazie alla collaborazione di un gruppo di compagni di studi del Centro Sperimentale di Cinematografia, il film suscitò dibattiti su giornali e riviste, dovuti soprattutto all’atteggiamento dissacrante con cui raccontava il mondo della famiglia.24 Il film narra la storia di una famiglia borghese “malata”, composta da una madre cieca e quattro fratelli: Ale, ribelle puerile e nichilista sul filo della psicosi; Giulia, legata al fratello da un rapporto morboso (fot. 13); il ritardato Leone e Augusto, l’unico “normale” con un lavoro e una fidanzata. Il film è tutto cucito addosso al personaggio di Ale, che progetta dapprima lo sterminio della famiglia per “liberare” Augusto, e poi butta davvero la madre in un burrone. Gli atteggiamenti di Ale sono sempre eccessivi, infantili o velleitari: progetta un allevamento di cincillà, va con una prostituta frequentata da Augusto, prova a sedurne la fidanzata, frequenta con esiti disastrosi una festa di coetanei “bene”. Infine, prosegue la propria 137

Fot. 13

opera di “igiene familiare” annegando Leone nella vasca. Giulia cerca di soccorrere Leone ma cade dalle scale, rischiando di restare paralizzata. Subito dopo i funerali di Leone, Ale ha una crisi epilettica e muore tra le convulsioni, invocando la sorella che non può (o non vuole) salvarlo. La cosa che più sorprende, nel riguardare I pugni in tasca e nel ripercorrere il dibattito che ne accompagnò l’uscita, è la sua ricezione in termini politici. Mentre oggi salta agli occhi proprio, si direbbe, la programmatica inutilizzabilità “pubblica”, sociologica del personaggio di Ale, il suo carattere ambiguo e aporetico. Molto si gioca, evidentemente, nel rapporto (istintivo eppure multiforme) tra il regista e il personaggio. Il nichilismo di quest’ultimo è solo in parte quello di Bellocchio; i due condividono solo l’impulso vitalistico, di base. Dove regista e personaggio si separano è proprio nella torsione parossistica e grottesca di quest’ultimo, nell’accento posto da Bellocchio sul nichilismo di Ale. Certo, Ale non è in alcun modo un proto-rivoluzionario, la sua spinta ribellistica può sembrare che contenga tratti quasi fascisti. (E infatti, nel girare nel 2009 Vincere, il regista in un primo tempo immagina il giovane Mussolini come un figlio, o un antenato, di Ale). Bellocchio non si identifica con il suo protagonista, ne è insieme attratto e respinto. Il suo stile a tratti ne mima le convulsioni, ma ad esempio nel finale sembra accomunarlo ai suoi simili e godere della sua agonia. Di certo la di138

stanza tra autore e personaggio, rispetto a Prima della rivoluzione, è molto maggiore, e all’ambiguità rivendicata di Bertolucci fa riscontro qui una oscillazione tra adesione e ripulsa. Tutto il racconto si muove all’interno di una famiglia, che però non è indicativa o tipica di alcunché. Ale, Giulia, Leone, la madre, con ogni evidenza non sono “la borghesia”, non sono “una famiglia borghese”. La gente per strada li considera anormali. Augusto, l’unico fratello “normale” è colui che più si avvicina alla posizione dello spettatore. E l’anormalità degli altri personaggi serve anche a meglio decostruire la normalità di Augusto, che è forse l’unico personaggio realistico, “sociale”. Spostando l’attenzione dal vistoso protagonista al grigio fratello, è come se Bellocchio abbia voluto mettere in scena il rimosso, i fantasmi, gli incubi di un personaggio “normale”, un Augusto, in una serie di suoi specchi deformanti, quasi horror. 7.

I pugni in tasca è sempre stato giustamente considerato un punto di svolta nella storia del cinema italiano, ma più che aprire fronti nuovi appare in difficile e fecondo equilibrio tra diverse fortissime tradizioni e opzioni. Come si è visto nella Prima parte, la nuova generazione di autori italiani non costituisce una nouvelle vague vera e propria, e gli esordi più promettenti sono andati esibendo un recupero della lezione del cinema neorealista. In questa situazione, il posto di Bellocchio è abbastanza chiaro, e la novità di I pugni in tasca è, insieme alla feroce descrizione della borghesia di provincia, la volontà di smarcarsi dalla strada che il cinema italiano d’autore andava prendendo. Ma se ci spostiamo sul piano della storia dei linguaggi, il discorso su I pugni in tasca si fa più complesso. Lo scritto di Pasolini sul “cinema di poesia”, che trova una delle sue applicazioni proprio nel film di Bellocchio25, è una delle riflessioni più significative: Pasolini, dopo aver identificato sostanzialmente il cinema di prosa con la grammatica classica hollywoodiana (e non solo) e il cinema di poesia con le nouvelle vague, pone Bellocchio a mezza via tra le due opzioni: un cinema di prosa espressionista, che va oltre il neorealismo proponendo una rivolta irrazionalistica alla borghesia. Rispetto agli esempi coevi della Nouvelle Vague ma anche a cer139

te punte avanzate del cinema indipendente americano, e perfino rispetto a certi esempi italiani (come Prima della rivoluzione) I pugni in tasca mantiene un legame abbastanza stretto con le forme tradizionali di narrazione. A livello di struttura, non disperde gli eventi, non procede in modo “orizzontale”. A livello di sguardo, mantiene una centralità del montaggio classico, sembra voler tenere tutto entro una rappresentazione spaziale centrifuga sì, ma ancora non esplosa. Eppure fin dalle prime inquadrature notiamo un nervoso smarcarsi da una sintassi troppo rigida, con un uso frequente della macchina a mano e raccordi spiazzanti. Questi elementi di rottura sono anche legati all’apporto di due collaboratori fondamentali, come il montatore Silvano Agosti e ovviamente l’attore protagonista Lou Castel. Agosti, giovanissimo, era sensibile alle innovazioni della Nouvelle Vague, come nel caso della scena iniziale di uno dei ragazzi che girano intorno a Giulia in moto, finché uno di loro non cade: caduta involontaria, prontamente recuperata e inserita nel film.26 Ma i momenti di nervoso infrangersi della sintassi, come le esplosioni del protagonista, sono inscindibili da altri di opprimente stasi. Quiete e febbre procedono insieme, così come quelle che Pasolini chiamava “prosa” e “poesia”. Il ribellismo di Ale non può fare a meno, nell’economia del film, della descrizione, realista per quanto a tinte grottesche, della quotidianità borghese. Da questa impostazione, da questo conflitto deriva una peculiare teatralità degli spazi e dei movimenti, accentuata dalla recitazione ludica e goliardica di Castel e della Pitagora. Ci sono certo, come aveva notato Grazia Cherchi, motivi interni alla costruzione dei personaggi: Ale «è un esibizionista. È nell’età in cui si ha l’impressione di essere costantemente seguiti da una macchina da presa»27. Ma i movimenti scomposti, i continui scarti rispetto alla quotidianità e alla verosimiglianza sono anche parenti immediati e involontari dei moti di molto teatro, più interessato all’espressione corporea che allo “straniamento” brechtiano, che si faceva conoscere in quegli anni anche in Italia. Un certo gusto dell’happening rende il film teatrale nel senso di una cosciente decostruzione dei meccanismi rappresentativi, proprio attraverso il cortocircuito tra i corpi dei giovanissimi attori e i set (specialmente gli interni) in cui sono inseriti. 140

Tanto che Antonio Costa ha sostenuto, correggendo Pasolini, l’appartenenza del film di Bellocchio al “cinema di poesia” proprio sulla base della performance di Lou Castel, «principio organizzatore (…) dell’intero film».28 Non sorprende allora, in questa dimensione critica interna alla borghesia, che sia già la casa l’unità di luogo del film. Ed è già la casa che impareremo a vedere in molti film successivi, da Salto nel vuoto (1980) a Diavolo in corpo (1986) a L’ora di religione (2002): fatta di stanze inquadrate in modo che appaiano simultaneamente squadernate davanti all’obiettivo, labirintica, dinamica e comunicante al proprio interno (tutta finestre, porte, balconi) ma anche in certo modo verticale, e separata in modo verticale dal resto del mondo (con precipizi, salti nel vuoto: qui c’è la terrazza con la montagna innevata che si vede dal balcone). Dalle case di Bellocchio si entra (si esce, si salta) anche attraverso i balconi, le finestre, i lucernai. La vertigine della casa, una delle emozioni ricorrenti del cinema dell’autore, è già tutta in questo film. 8.

Se i personaggi di Bellocchio sconfinano dunque esplicitamente nel patologico, l’occhio del regista pare fermarsi un attimo prima, letteralmente borderline. Se i film della Nouvelle Vague sono spesso l’espressione coerente di brucianti sensibilità nervose, I pugni in tasca è l’incontro di uno stile “nevrotico” con personalità “psicotiche”. Il risultato è, come accennato, un film che da un lato è interno alla drammaturgia classica, ai suoi canoni, personaggi e temi; dall’altro, pare pronto a forzarne la prosa verso accensioni liriche ed “espressioniste”. Non sarà casuale forse che Bellocchio venga alla lettera dalla pratica poetica, come peraltro Bertolucci29. L’emergere della loro soggettività di registi però si può declinare in modi diversi, e la prima mossa che fa Bellocchio è proprio esorcizzare l’identificazione tra autore e personaggio, infrangere il triangolo autore-spettatore-regista che in alcuni momenti pare costitutivo della nuova figura del regista in quegli anni. I pugni in tasca, oggi ci appare come un film che chiude con il passato e che coglie convulsamente una situazione storica sospesa (l’an141

no dopo la “congiuntura”, tre anni prima del ’68), trasfigurandola in mondi visivi che da un lato già sono quelli del Bellocchio maturo, ma dall’altro hanno una potenza e una urgenza che, proprio per la loro immediatezza, acquistano una profondità e una polisemicità da esplorare ancora oggi nei loro intrecci col tempo storico. I pugni in tasca è certo documento di se stesso, di un punto di vista e dell’incontro tra una sensibilità emergente davanti all’incerto manifestarsi di vecchio e nuovo (un film che «sceglie di rappresentare, come spesso è accaduto alla grande arte, il nuovo attraverso il vecchio»30). Il suo paradosso è forse quello di essere un grande film giovanile che arrivava alla fine del momento di maggiore vitalità della società italiana e del suo cinema; un film, quasi, in leggera e feconda discrasia, controtempo senza saperlo.

1. Francesco Casetti, Bernardo Bertolucci, La Nuova Italia, Firenze, 1975, pp. 3940. Prima della rivoluzione è uno di quei film particolarmente amati dai registi: si ricordano a questo riguardo le testimonianze di Martin Scorsese (New York 1964, “Prima della rivoluzione”, «Cinegrafie», n. 17, pp. 9-10) e di Glauber Rocha (citato sullo stesso numero della rivista). Negli Usa il film fu acclamato dalla nuova generazione di critici come Andrew Sarris e Pauline Kael. 2. Il regista ha raccontato più volte che alle prime conferenze stampa pretendeva di rispondere alle domande in francese «perché è la lingua del cinema». Inoltre, come direttore della fotografia avrebbe voluto Raoul Coutard, geniale collaboratore di Truffaut e Godard. (Giuseppe Bertolucci e Tatti Sanguineti, a cura di, Si vive sempre “prima della rivoluzione”. Conversazione con Bernardo Bertolucci, «Cinegrafie», n. 17, pp. 50-1. L’intervista si trova tra gli extra del Dvd edito da Ripley’s Home Video nel 2004). Roberto Perpignani ricorda come il lavoro col regista fosse stato tutto condotto sotto il segno del comune amore per i registi francesi di quegli anni: non solo Godard e Truffaut, ma anche Resnais: Perpignani imitò “a memoria” lo stile di L’anno scorso a Marienbad nella scena dell’abbraccio ripetuto tra i due protagonisti, dopo la crisi dell’incontro con la bambina. (L’intervista è contenuta tra gli extra del citato Dvd Ripley’s). 3. Forse influenzati dal debutto di Bertolucci come poeta, due scrittori, Alberto Moravia e Mario Soldati, entrambi molto amici del padre Attilio, recensendo il film notano come il film di Bertolucci sia esattamente girato «con le identiche disposizioni

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d’animo di un giovane della sua stessa età che, invece, ne farebbe un romanzo» (Mario Soldati, Da spettatore, Mondadori, Milano, 1973, p. 129); e che «è il romanzo che egli avrebbe scritto se avesse esordito vent’anni fa» (Adriano Aprà e Stefania Parigi, a cura di, Moravia al/nel cinema, Fondazione Alberto Moravia, Roma, 1993, p. 95). Anche il copione iniziale, è stato ricordato, ricordava «l’abbozzo di un romanzo di quasi trecento pagine» (Fabien S. Gerard, Sulla cresta dell’onda. Il sogno di una cosa in “Prima della rivoluzione”, «Cinegrafie», cit., p. 30). 4. Sul rapporto tra il film e il romanzo di Stendhal cfr. Linda Williams, Stendhal and Bertolucci: The Sweetness of Life before the Revolution, «Film Quarterly», IV, n. 4, estate 1976, pp. 215-221 e T. Jefferson Kline, I film di Bernardo Bertolucci: cinema e psicanalisi, Gremese, Roma, 1994, soprattutto p. 19. 5. Il critico del «Nouvel Observateur» Jean-Louis Bory lo definì «Un’autobiografia che comincia come La certosa di Parma e finisce come L’educazione sentimentale» (cit. in Francesco Casetti, Bernardo Bertolucci, cit., p. 41). 6. Veronica Pravadelli, “Prima della rivoluzione”, in Giorgio De Vincenti (a cura di), Bernardo Bertolucci, Marsilio, Venezia, 2011 (in corso di pubblicazione) , pp. 4-5. 7. Il primo a osservarlo di sfuggita è stato, che io sappia, Tatti Sanguineti nell’intervista Si vive sempre “prima della rivoluzione”, cit., e in quell’occasione Bertolucci sostiene che il film di Fellini è quello che lo ha spinto a diventare regista. 8. Intervista di Adriano Aprà e Maurizio Ponzi, «Cinema e film», nn. 156-7, aprilemaggio 1965; nello stesso numero cfr. il saggio di Adriano Aprà, Bertolucci e il cinema come certezza. 9. Francesco Casetti, Bernardo Bertolucci, cit., p. 41. 10. Veronica Pravadelli, “Prima della rivoluzione”, cit., p. 12 11. Intervista di Adriano Aprà e Maurizio Ponzi, cit., p. 273. 12. La cosa curiosa è che questa scena non solo è stata aggiunta alla fine delle riprese come momento di alleggerimento, ma il dialogo è stato aggiunto al doppiaggio. Come si può dedurre dalla visione della copia-lavoro (di cui alcuni frammenti si trovano nel Dvd Ripley’s), che mantiene la colonna sonora guida in presa diretta, il dialogo in origine partiva sì dal film di Godard, ma si spostava su tutt’altri temi: il rapporto tra il Pci e gli intellettuali, la figura di Cesare. Nessun riferimento alla moralità delle carrellate circolari di Ray, al Grande sonno. E la battuta «Non si può mica vivere senza Rossellini!» era in realtà un più prosaico invito a sentirsi per telefono. 13. Giuseppe Bertolucci e Tatti Sanguineti (a cura di), Si vive sempre “prima della rivoluzione”, cit., p. 13. Nel copione originario l’identificazione era moltiplicata da alcuni dettagli, come il fratello minore chiamato Giuseppe, e la passione di

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cineamatore di Fabrizio, che mostrava alla zia i film fatti durante l’estate (proprio come Bernardo girava nelle campagne parmensi i suoi primi 16mm). I brani del copione espunti dal film si trovano nel volumetto: G. Cusatelli (a cura di), Filmino a passo ridotto, Alfa, Reggio Emilia, 1965, pp. 352-354. 14. «Cineforum», n. 73, marzo 1968, dichiarazioni trascritte da Jean-André Fieschi, ora in Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione, Bompiani, Milano 2010, p. 39. 15. Veronica Pravadelli, “Prima della rivoluzione”, cit., p. 6. 16. Ivi, p. 7. 17. Si capisce forse allora cosa possa aver spinto Pasolini, nella sua analisi del film, alla singolare affermazione secondo cui Prima della rivoluzione sarebbe un film che adotta la prospettiva «lo stato d’animo dominante della protagonista del film, la giovane zia nevrotica» (Il cinema di poesia, cit., p. 1480). 18. L’ambiguité et l’incertitude au miroir, «L’Avant-scène du cinéma», giugno 1968, ora in Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione, cit., p. 36. 19. Intervista in Francesco Casetti, Bernardo Bertolucci, cit., p. 3. 20. Un piccolo dato per inquadrare i tormenti politici di Fabrizio: all’interno di una forbice sempre maggiore, all’interno del Pci, tra elettori e militanti (questi ultimi in costante diminuzione), la Federazione Giovanile Comunista passa addirittura da 358.000 a 183.000 iscritti tra il 1956 e il 1962. 21. Curiosamente l’interprete del personaggio di Puck, Cecrope Barilli, zio di Francesco, era uno dei fondatori del Movimento di Cooperazione Civica, un gruppo di intervento sociale e pedagogico di ispirazione liberalsocialista (tra gli altri fondatori Ebe Flamini, Guido Calogero, Ignazio Silone e Augusto Frassineti). Dunque tutto sommato più simile, anche se non comunista, a una figura come l’educatore Cesare. 22. L’avventurosa lavorazione del film è stata raccontata più volte dal regista: cfr. ad esempio Si vive sempre “prima della rivoluzione”. Cit., pp. 16-18. 23. Ivi, pp. 13-14. 24. A questa ricezione contribuì, ricorda Antonio Costa, un’intervista a «L’Espresso» in cui il regista parlava di «un’alternativa rivoluzionaria, non democratica, a tutta la sinistra italiana» (cit. in Antonio Costa, Marco Bellocchio: I pugni in tasca, Lindau, Torino, 2005, pp. 65-6): ne seguirono ben otto articoli sulla rivista ufficiale del Pci, «Rinascita». Bellocchio all’epoca era assai vicino al gruppo della rivista «Quaderni Piacentini»: Piergiorgio Bellocchio (fratello maggiore anche anagraficamente), Goffredo Fofi e Grazia Cherchi, che utilizzarono il film anche per un discorso sullo stato della sinistra italiana e del suo rapporto con le nuove generazioni.

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25. Si veda lo scambio epistolare contenuto nel volume Giacomo Gambetti (a cura di), I pugni in tasca. Un film di Marco Bellocchio, Garzanti, Milano, 1967 (ora in Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano, 1999, pp. 2000-2015). Le risposte di Bellocchio, come lo stesso regista ha ammesso anni dopo, furono in realtà redatte da Piergiorgio Bellocchio e soprattutto da Grazia Cherchi (cfr. Antonio Costa, “I pugni in tasca”, in Gianni Canova, a cura di, Storia del cinema italiano. Vol. XI, cit., pp. 66-67). 26. «I due ragazzi che girano attorno a Giulia cadono: tutto da ripetere… E invece no. Recupero un pezzo di ciak in cui a Paola scappa da ridere e in cui lei si copre le labbra con la mano. Monto la caduta e gli aggiungo la risata. La cosa non era assolutamente prevista in sceneggiatura: era un incidente che qualsiasi montatore avrebbe tagliato.» (Intervista di A. Ferrente, in Antonio Costa, Marco Bellocchio: I pugni in tasca, cit.¸ p. 7). Una scena curiosamente simile a quella di Prima della rivoluzione, in cui Barilli cadeva dalla bicicletta e, anche lì, era implacabilmente tenuto nel montaggio definitivo da Perpignani. 27. L’età verde, «Giovane Critica», n. 12, estate 1966, ora in Antonio Costa, Trent’anni con “I pugni in tasca”, Anteprima per il Cinema Indipendente Italiano, Bellaria, 1995, p. 22. 28. Antonio Costa, Marco Bellocchio: I pugni in tasca, cit., p. 131. 29. Un paio di poesie di Bellocchio, (uscite sui «Quaderni piacentini» tra il 1962 e il ’63), sono state ristampate in Antonio Costa, Trent’anni con “I pugni in tasca”, cit. 30. Lorenzo Cuccu, “Figli e padri: l’immaturità rivendicata”, in Gianni Canova (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. XI, cit., p. 64. Lucide le osservazioni retrospettive di Piergiorgio Bellocchio: «Si poteva discutere se la tematica della lotta contro l’istituzione familiare fosse ambientata nel luogo e nel tempo giusto – quella provincia, quella campagna un po’ anni ’30, un po’ vetero… – ma la vitalità del film era tale da bruciare simili obiezioni sociologiche. La tipologia della famiglia era in effetti sfasata rispetto alla realtà, ma era perfetta per il cinema, per il cinema di poesia di Marco, che ricordava un po’ sia Rimbaud, sia Vigo. Letta nero su bianco, la storia mi aveva deluso – oltre che per la stranezza della situazione – proprio per l’aria rétro che si respirava in alcune pagine… In effetti l’atmosfera un po’ “vecchiotta” era rimasta, ma di fronte allo schermo il senso del film era diventato altro». (Testimonianza raccontata in Paola Malanga, a cura di, Marco Bellocchio, Olivares, Milano, 1998, p. 205).

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una donna alla finestra: io la conoscevo bene (1965) di antonio pietrangeli

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Quello che oggi appare uno dei punti di forza di Io la conoscevo bene, l’incrocio tra sguardo d’autore e commedia all’italiana, talvolta è stato un ostacolo al suo pieno apprezzamento.1 Nonostante la vittoria ai Nastri d’Argento del 1965, infatti, il film di Pietrangeli fu sottostimato da parte della critica specializzata, che recepì le spie della prossimità alla commedia (la presenza di Tognazzi e Manfredi, più Gassman in effige) come cedimenti commerciali. Pietrangeli era stato, da critico, uno dei sostenitori del neorealismo del dopoguerra, e in quella chiave era stato letto il suo esordio Il sole negli occhi (1953). Ma ormai da tempo il suo cinema era poco classificabile in quei termini, e piuttosto dialogava con la commedia e si concentrava su ritratti femminili piccolo-borghesi, proletari, provinciali che consentivano il racconto di un passaggio epocale in maniera spesso obliqua, senza prendere di petto i “grandi temi”. Qui va osservata subito una cosa: Io la conoscevo bene era già stato progettato, scritto e messo in cantiere nel 1961. Nella sua ideazione e nel suo progetto, esso è un film del pieno boom: sarebbe uscito prima di Il sorpasso (1962), insieme a Una vita difficile (1961), a ridosso di La dolce vita e di La notte, controcanto interessante di un cinema che scopriva la società del benessere. Sarebbe stato forse ancora di più «una “dolce vita” in minore, da grandi magazzini, poco eroica e molto tragica».2 È interessante anche osservare il progressivo avvicinamento, negli anni intercorsi, ai modelli della commedia all’italiana: il personaggio dello pseudo-giornalista Cianfanna, che era stato assegnato a Tullio Kezich, passa a Nino Manfredi,3 mentre quello di Bagini (che nella prima stesura era un’attricetta siciliana)4 va a Tognazzi, 146

inizialmente contattato per il ruolo di Roberto, l’attore “vincente”, ma che riteneva giustamente di poter rendere al meglio nel ruolo del comico fallito di varietà.5 Con questa nuova distribuzione di “maschere” il film occupa con maggior precisione un campo, fornendone però una critica implicita. Non solo per il finale tragico, che in realtà può essere considerato un elemento comune a molti film avvicinabili alla commedia all’italiana (La grande guerra [1959], Tutti a casa [1960], Il sorpasso, ma anche Risate di gioia [1960]); ma proprio per lo sguardo femminile, che ribalta la prospettiva rigorosamente maschile della commedia all’italiana e ne osserva i personaggi togliendo loro ogni simpatia e ambiguo fascino.6 Nel contempo, la vicinanza al genere commedia non impedisce un dialogo con il cinema di Antonioni e di Fellini. Il rapporto con gli oggetti, come vedremo, è una versione più emotivamente coinvolta dell’alienazione alla Antonioni, e l’influenza felliniana apparve da subito ancora più evidente. Ad esempio, è facile scorgere un omaggio/rovesciamento del film di Fellini nella scena della festa in cui il vecchio attore di varietà Bagini si esibisce fino allo stremo per il divertimento della sua vecchia spalla ora attore di successo (Enrico Maria Salerno). 2.

Le prime immagini del film mostrano in un lungo piano-sequenza la giovane Adriana (Stefania Sandrelli) distesa sulla spiaggia di Ostia. La ragazza gestisce una parruccheria, e ha una relazione col laido proprietario. Ma nelle scene successive Adriana ha già cambiato lavoro, e fa la maschera in un cinema. Seguiamo poi il suo tentativo di farsi strada nel mondo del cinema, attraverso il misero giornalista-traffichino Cianfanna che le fa pubblicare delle foto a pagamento su una rivistina, e le trova qualche altro piccolo ingaggio. Nel frattempo, Adriana ha storie occasionali con vari uomini: uno che scappa dal motel lasciandole il conto da pagare; un altro appartenente a una famiglia bene, che dopo essere stato con lei le chiede di telefonare alla fidanzata per coprirlo; uno scrittore che in un racconto la descrive come una donna priva di intelligenza e morale. La ragazza, che si è fatta una piccola posizione e vive in un appartamento, a un certo punto si scopre anche incinta e aborti147

sce, però rifiuta una carriera da mantenuta cui vorrebbe istradarla una conoscente. A una festa in onore dell’attore Roberto, Adriana assiste alla pietosa esibizione di un vecchio comico, Bagini, che viene inviato anche dall’attore come ruffiano. Adriana rifiuta l’offerta poco signorile. Nel corso della festa ha comunque ottenuto di apparire in un servizio per un cinegiornale. Potrebbe essere l’occasione buona: ma quando va a vederlo al cinema, Adriana scopre che il servizio, manipolando le sue scarne risposte, la presenta come un’idiota buona per il marciapiede. Tutto questo, però, non sembra colpirla in profondità. Una sera incontra un ragazzo americano di colore, forse la persona più gentile in cui si sia imbattuta, passa la notte in giro con lui, fino all’alba, ma dopo un giro in auto, sola per la città deserta, tornata a casa, Adriana mette su l’ennesima canzone sul giradischi e si butta dal balcone. In verità, Io la conoscevo bene rischiò seriamente di essere uno dei numerosi progetti mancati del suo regista. Il produttore Morris Ergas si tirò indietro perché non troppo convinto dell’attrice scelta, Sandra Milo,7 e probabilmente anche a causa di preventivi più alti di quelli previsti. Pietrangeli dunque accetta un lavoro su commissione, ma assai vicino alle sue corde, come La parmigiana (1963), e torna sul soggetto anni dopo. A questo punto, si impone come attrice la giovanissima Sandrelli, già musa di due film di Germi e protagonista di La bella di Lodi (1963) di Arbasino-Missiroli. L’attrice viene preferita da Pietrangeli alle numerose ipotesi della produzione (Catherine Spaak, Corinne Marchand di Cléo dalle 5 alle 7, Brigitte Bardot, Natalie Wood, Daniela Rocca, Silvana Mangano, Claudia Cardinale…)8 e vincendo le resistenze del fidanzato di allora, Gino Paoli, preoccupato di una possibile identificazione tra personaggio e attrice.9 La modifica più consistente rispetto alla sceneggiatura sta nell’epilogo, che fu addirittura girato e poi eliminato al montaggio: «Era un’intervista postuma, in cui lei si raccontava così come si vedeva, poi gli altri, i giornalisti e quelli che l’avevano conosciuta, la descrivevano secondo il loro punto di vista. Era una sequenza che avrebbe reso ancora più completa la personalità di Adriana».10 Proprio in questo finale uno dei personaggi (lo scrittore) avrebbe pronunciato la frase del titolo: «Già. Io la conoscevo bene» – e 148

peraltro questa frase avrebbe reso molto più chiaro come il ritratto che lo scrittore stesso ne aveva offerto poco prima (un po’ “alla Moravia”, tra La noia e l’intervista alla Cardinale) fosse parziale se non del tutto falso. Il metodo di lavoro di Pietrangeli, ampiamente ricostruito sulla base di vari documenti e testimonianze,11 si basava su una sceneggiatura molto rifinita, anche se soggetta a continue modifiche sul set,12 e su una ripetizione dei ciak quasi proverbiale, con movimenti di macchina particolarmente complessi. Ma per Io la conoscevo bene è significativo anche il lavoro di inchiesta precedente. Se può essere vero che alla radice dell’ispirazione originaria c’era addirittura l’omicidio Montesi del 1953,13 gli spunti maggiori vennero dalle interviste che lo stesso Pietrangeli fece ad alcune attricette del sottobosco di Cinecittà.14 3.

Il procedimento dell’inchiesta chiarisce bene lo spirito del film, spaccato sociologico prima che introspezione dell’animo di un personaggio. Io la conoscevo bene è il culmine di una serie di ritratti femminili del suo regista, “women’s director” come pochi altri nel nostro cinema. Il suo film d’esordio era stato Il sole negli occhi, delizioso ritratto tardo-neorealista di una servetta, ma è solo negli anni del boom che i suoi film compongono un’esplorazione dell’universo femminile in mutazione. In Nata di marzo (1958) c’è una giovane moglie sposata con un uomo più maturo, capricciosa e poco incline ai compromessi (ma con un lieto fine imposto dalla produzione). Adua e le compagne (1960) è la tragica storia di alcune ex prostitute che, dopo la legge Merlin, cercano una propria strada in autonomia, finendo però schiacciate da una società maschilista e ipocrita. Protagonista di La visita (1963) è una donna non più giovanissima, impiegata “single”, che cerca un compagno tramite un annuncio matrimoniale, e si imbatte in un meschino impiegato romano. Il personaggio più vicino ad Adriana è però Dora, la protagonista di La parmigiana, interpretata da Catherine Spaak. Nel film, attraverso una serie di flashback, viene raccontata una ragazza di provincia, disinibita e moderna, alle prese con maschi che ne subiscono il fascino e/o cercano di sfruttarla: un seminarista, un 149

fotografo che la porta a Roma (Manfredi, in un ruolo molto simile a quello di Io la conoscevo bene), un poliziotto meridionale geloso. Pietrangeli stesso, però, chiarì di non essere interessato alla donna in quanto tale, ma ad alcuni tipi specifici di donne in quanto osservatori privilegiati per osservare i mutamenti della società italiana: «Non è tanto che io sia la Celestina di Il sole negli occhi o l’Adriana di Io la conoscevo bene o la Pina di La visita come, scusatemi, Flaubert era Emma Bovary. Ma è che nel processo di trasformazione sociale a cui, da vent’anni a questa parte, assistiamo in Italia, la donna ha incontestabilmente un ruolo da protagonista. Tanto profondo e rapido è stato il passaggio dalle posizioni in cui era relegata ancora subito dopo la guerra a quelle che, di forza, ha occupato negli ultimi anni. (…) Sono tutte legate da uno stesso “filo rosso” rappresentato non già da una mia predilezione per questo o quel prototipo di donna quanto dai vari aspetti che può aver assunto il cammino dell’emancipazione della donna nella società italiana.»15

In Io la conoscevo bene il legame tra il personaggio e l’epoca è più dichiarato che nei film precedenti. In fondo, è la storia di una donna “incastrata” dal mutamento dei costumi, che hanno l’unico risultato di mutarla in oggetto, sfruttando le crepe aperte dalla maggiore libertà e laicità di consumi: «Una delle più belle figure femminili di tutto il nostro cinema diventa poco a poco (…) una sorta di acida e malinconica fenomenologia del disagio. Quasi la radiografia di una modernità che, stordita dai suoi stessi miti e abbacinata dai suoi feticci più vistosi, sembra aver perso di fatto ogni coscienza di sé».16 E più precisamente, l’unicità del discorso di Pietrangeli sta nel «fotografare un’epoca di disequilibrio nel rapporto tra i sessi, di transizione nella concezione del ruolo femminile».17 Il ritratto di Adriana è però tutt’altro che freddo e, nel corpo del film, è sviluppato in modo non psicologico ma anzitutto fisico. Sono i gesti, le movenze, i passi di danza, i cambi d’abito e di pettinatura, gli sguardi nel vuoto a chiarire il personaggio, nelle sue interazioni con l’ambiente, gli oggetti, gli altri.18 Secondo Ruggero Eugeni il personaggio passa attraverso una serie di metamorfosi divistiche, da una Sandrelli-Bardot (sulla spiaggia) a una Sandrelli150

Cardinale (la visita ai genitori in Toscana), da una Sandrelli-Loren (la seduzione del garagista, con lei molto truccata) a una SandrelliSandrelli (di Germi): «Il personaggio di Adriana ne risulta frammentato, impossibile da fissare anche nella memoria spettatoriale in un’icona unitaria». Insomma Io la conoscevo bene è anche un film su «un io vissuto come supporto di tipi intercambiabili».19 In questo rapporto ineludibile, fondativo, tra una ragazza e i mass media, che in qualche modo ne definiscono l’identità, un evento traumatico è quello del cinegiornale nel quale lei finisce per apparire deformata e definitivamente assunta a rotella di un sistema: «Non c’è rimedio a quella menzogna: la distruzione dell’immagine (o la sua deformazione caricaturale) cancella ogni residua speranza, rende impraticabile ogni illusione. Adriana non si riconosce nel servizio del cinegiornale, eppure sa che quell’immagine finta conserva un’impronta reale di quello che lei effettivamente è».20 Ma soprattutto, e a bilanciare la distanza “sociologica” dell’assunto, in questo film il rapporto tra regista e personaggio femminile raggiunge una tensione e una prossimità nuova attraverso lo stile della messa in scena: la scomposizione narrativa, la supremazia della musica, l’emergere del momento della messinscena su quello del racconto. 4.

Nei decenni, è stata più notata la modernità narrativa e visiva del film, costruito in una serie di salti temporali arditissimi, con inserti di brevi flashback, e di piani-sequenza al limite del virtuosismo. In un’analisi minuziosa della struttura del film, Lino Micciché ha sottolineato come lo stile di Pietrangeli, da sempre tendente a una costruzione “paratattica”, per episodi, del racconto, tocchi qui la propria forma più sperimentale. Il film è costruito da una serie di episodi (diciannove ne conta lo studioso) tra loro nettamente divisi, per ambientazione e cronologia, spesso senza nessi forti, e di durata relativamente simile.21 Qui l’effetto è proprio di un détournement temporale, strettamente connesso con la figura femminile principale. In questo caso, i tre sceneggiatori del film sono espliciti fin dall’inizio, nel presentare il progetto già nella prima versione del ’61: 151

«Non è proprio una storia, perché non ha – come del resto tutto il personaggio di Adriana – un inizio preciso, né uno sviluppo ragionato e conseguente. Racconteremo alcuni “momenti” della sua vita casuale e un po’ sconclusionata, con grandi intervalli in mezzo. Come quando si sfoglia un album di fotografie, dove forse mancano quelle più importanti: come appunto succede in tutti gli album, dove magari ci sono dieci istantanee di una vecchia gita in campagna e neppure una, neppure formato tessera, del giorno in cui si è persa la fede nella vita. Dei ritratti di Adriana, quello che viene prima non è certo la causa di quello che succede dopo, ma tutti insieme forse sono la causa di quello che viene per ultimo. Così come a guardare bene quelle dieci fotografie della gita in campagna, si può anche arrivare a capire e ricostruire la fotografia – che non c’è nell’album – della fede perduta.»22

Questo comporta una certa varietà di registri: dalla sospensione della narrazione, in certe scene vuote di eventi, a una versione corrusca della commedia all’italiana, che scorrono insieme alla mutevolezza della protagonista. La stessa Sandrelli afferma che «Io la conoscevo bene è un insieme di tanti piccoli film, di piccole storie, di incontri e di stati d’animo che, come un puzzle, ricostruiscono la storia di Adriana».23 Per tutta la parte iniziale del film, addirittura, non si capisce quale sia il presente, il cuore del racconto. Lo spaesamento riguarda allo stesso modo anche la geografia di una Roma che continuamente tracima verso Ostia, Orvieto, la campagna pistoiese, e che al suo interno è caratterizzata da una sensibile “assenza di riferimenti topografici” per cui non sappiamo quasi mai dove si trovi esattamente Adriana.24 Mentre lo spettatore viene costretto “a continui salti di logica e aggiustamenti di tiro”, la protagonista è spesso inquadrata da vicino, o tagliata nei dettagli, e spesso attraverso vetri (fot. 14) o nello specchio25 (come nel prefinale): «Lo sviluppo cronologico della scena è ricco di ellissi destinate a rimanere incolmate (…). Piccoli lampi invadono il presente (…). Ma sono legami deboli e metonimici. L’imprecisione dei flashback, infatti, fa di ogni si152

Fot. 14

tuazione evocata una situazione tipo, che sembra essersi ripetuta infinite volte».26 I flashback lampeggiano all’interno del racconto con brevi inserimenti che non servono a far procedere la vicenda, ma sono piccole apparizioni di un passato: l’immagine della sorella morta, una sera a un bowling, le avance di un ragazzo… intermittenze temporali quasi casuali.27 L’assunzione di questo modello frammentato è anzitutto un elemento di prossimità alla protagonista, di resa del suo tempo e del suo spazio, di avvicinamento grazie anche all’uso dello zoom e degli sguardi in macchina,28 che un paio di volte servono a introdurre i flashback del passato, ma non solo. Il suo sguardo si sofferma sulla cinepresa, di sfuggita, anche in altri momenti come quando viene presa dalla delusione per il comportamento di uno dei suoi amanti (quello che la fa telefonare alla fidanzata) e soprattutto nell’intensa scena “sospesa” in cui Adriana è in casa, da sola, e guarda fuori dalla finestra mentre sul giradischi suona Mani bucate di Sergio Endrigo (fot. 14 e 15). Un piano-sequenza di tre minuti, una delle scene più potenti del film e di tutto il cinema italiano dell’epoca, che mostra appieno l’unione di modernità cinematografica e di dialogo con il sistema-cinema. In quella scena Stefania Sandrelli guarda in macchina come Anna Karina in Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962) di Jean-Luc Godard, e sta proprio guardando noi, sta guardando gli spettatori (maschi) della commedia all’italiana.29 153

Fot. 15

Insieme all’uso dei flashback e del piano-sequenza, il terzo elemento fondante della prospettiva del film (e certo non il meno importante) è l’uso delle canzoni. Il film è praticamente sempre accompagnato dalla musica, talvolta quella originale di Piero Piccioni, ma più spesso canzoni italiane e straniere, per lo più provenienti da fonti sonore in scena: juke-box, orchestre, radioline. La centralità della musica doveva essere ben presente fin dalla concezione del film (il soggetto iniziale si intitolò a un certo punto Il giradischi),30 ma la costruzione a flashback e la presenza delle canzonette fu progressivamente accentuata nelle successive fasi di stesura.31 L’intero film è costruito in molti momenti in totale simbiosi con la musica. Le canzonette fanno parte del mondo della protagonista, delle sue illusioni; ma fanno parte anche del corpo del film. Dunque, da un lato «Adriana muore uccisa dalle canzoni, dai palazzoni, dai localini, dalla miseria dei padri e dal desiderio di ricchezza dei figli»;32 eppure le canzonette, nell’economia del film, non comunicano tanto biasimo, quanto un pathos moderno. Le canzoni trasformano il film in un neo-melodramma, e in alcuni momenti fungono da elementi di epifania (come nel coevo Bertolucci). Come dice un personaggio di La signora della porta accanto (La femme d’à côté, 1981) di Truffaut: «le canzonette dicono la verità. E più sono stupide, più dicono la verità». L’elemento tragico del film sta anche in questo: ciò che reprime e aliena Adriana è anche ciò che la svela, a noi e 154

forse anche a se stessa – e così facendo, peraltro, non le permette di riscattarsi, ma la uccide. 1. Sulle reazioni della critica cfr. Lorenzo Pellizzari, “Antonio Pietrangeli e la critica”, in Piera Detassis, Tullio Masoni, Paolo Vecchi, a cura di, Il cinema di Antonio Pietrangeli, Marsilio, Venezia, 1987, pp. 83-5. 2. Irene Bignardi, “Le donne di Pietrangeli”, in Lino Micciché (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli: Infelicità senza dramma, Lindau, Torino, 1999, p. 59. 3. Tullio Kezich, “Mi voleva Pietrangeli”, ivi, p. 68. 4. Antonio Maraldi, “Da Pacini a Bagini: Le sceneggiature di Io la conoscevo bene”, ivi, p. 110. 5. Testimonianza di Ugo Tognazzi in Piera Detassis, Tullio Masoni, Paolo Vecchi (a cura di), Il cinema di Antonio Pietrangeli, cit., p. 172. 6. «Io la conoscevo bene fa i conti con tutto l’immaginario che l’ha prodotto, fissa ed isola i caratteri delle maschere (…), ricompone ed armonizza i moduli del genere raccogliendo nella tragedia le loro forme più evolute (…), svela i propri mezzi commerciali – i cast, i dischi a 45 giri che formano la colonna sonora – e sa usarne.» (Tullio Masoni-Paolo Vecchi, “Il realismo difficile di Antonio Pietrangeli”, in Piera Detassis, Tullio Masoni, Paolo Vecchi, a cura di, Il cinema di Antonio Pietrangeli, cit., p. 24) 7. Intervista a Sandra Milo di Maria Pia Fusco, in Lino Micciché (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., p. 19. 8. Ritratti cinematografici di donne italiane di oggi, «Bianco e Nero», n. 5, maggio 1967, poi in Lino Micciché (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., p. 273. 9. Intervista a Stefania Sandrelli di Maria Pia Fusco, in Lino Micciché (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit, p. 15. 10. Ibid. 11. Si vedano le interviste contenute nei citati volumi Il cinema di Antonio Pietrangeli e Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, e in quest’ultimo volume i due soggetti, la scaletta e il verbale di una riunione ideativa del ’61. 12. Sceneggiare per Pietrangeli, testimonianza di Ettore Scola in Lino Micciché (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., pp. 25-30. 13. La ventunenne Wilma Montesi era stata trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica, e la morte, dapprima archiviata come suicidio, si trasformò poi in

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uno scandalo che coinvolse nomi della politica, del cinema, dell’aristocrazia e della giurisprudenza. Che lo spunto iniziale venisse da quel caso è sostenuto da Tullio Kezich nella sua testimonianza in Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit. 14. Nel volume Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., sono pubblicati tre ritratti contenuti nella cartella intitolata Personaggi e tipi per Io la conoscevo bene, depositata nel Fondo Pietrangeli del Comune di Cesena. La prima ha il nome fittizio di Esterina Libassi, è umbra, amante di un capocomico, che la porta all’abuso di alcol e droghe, poi diventa amante di un cantante e infine si stabilisce col fratello gay. “Adelaide Franchetti”, amante di un organizzatore di concorsi per miss, rimasta più volte incinta, ora sta con un attore. “Eva Rossetti” è una prostituta da residence, poi conosce un produttore. Una sera partecipa alla festa nella villa di un’attrice. Quest’ultima non sapendo che la ragazza è diventata amica del produttore le fa scherzi crudeli «e Sordi non si lasciò sfuggire l’occasione per fare una serie di numeri, uno più crudele dell’altro, alle spese della nuova arrivata. La fecero ballare, cantare, suonare. A un certo punto il giovane produttore, seccato, cercò di portarla via dalla festa. Ma Eva non se ne diede per intesa. Quella le sembrava la sua grande occasione». (p. 81). Eva peraltro è lesbica, e riesce a eccitare il produttore presentandosi regolarmente con un’amica. 15. Ritratti cinematografici di donne italiane di oggi, cit., pp. 271-2. 16. Gianni Canova, “La commedia all’italiana: l’‘invenzione’ della borghesia”, in Id. (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. XI: 1965-9, Marsilio-Edizioni di Bianco e Nero, Venezia-Roma, 2002, p. 128. 17. Piera Detassis, “Storie di donne nell’Italia di Pietrangeli”, in Il cinema di Antonio Pietrangeli, cit., p. 47. 18. «Adriana si fa definire dalle cose illudendosi di appropriarsi, con esse di un mondo. (…) Gli oggetti con cui si maschera (…) la definiscono ma non le appartengono, se non nel senso estremo della recita cui inconsapevolmente si sottomette.» (Luisella Farinotti, “Il rovescio delle cose”, in Gianni Canova, a cura di, Storia del cinema italiano. Vol. XI: 1965-9, cit., p. 269) 19. Ruggero Eugeni, “Nuovi volti/corpi attoriali”, in Gianni Canova (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. XI: 1965-9, cit., p. 182. 20. Gianni Canova, “Il cinema “inquieto” di Antonio Pietrangeli”, in Lino Micciché (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., p. 45. 21. Lino Micciché, “Su alcuni dati strutturali di Io la conoscevo bene”, in Id. (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., p. 120.

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22. Antonio Pietrangeli-Ruggero Maccari-Ettore Scola, “Il primo soggetto”, in Lino Micciché (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., pp. 84-5. 23. Lino Micciché (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., p. 17. 24. Vincenzo Buccheri, “Transiti e viaggi”, in Gianni Canova (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. XI, cit., pp. 205 e 207. 25. Vito Zagarrio, “La frantumazione dello sguardo”, in Lino Micciché (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., p. 254. 26. Barbara Grespi, “Modi e mode della rappresentazione”, in Gianni Canova (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. XI, cit., pp. 245-6. 27. Come ha notato Micciché (“Su alcuni dati strutturali di Io la conoscevo bene”, cit., p. 121), dal punto di vista della costruzione narrativa, in effetti, Io la conoscevo bene si spinge molto avanti, anche rispetto ai film precedenti del regista (La visita e La parmigiana) che facevano uso di flashback. Negli altri casi, infatti, essi costituiscono una buona parte dell’intreccio, e sono la struttura su cui si basa l’intero film. Qui, invece, i brevi flashback (appena cinque, tra 1 e 30 secondi di durata) non aggiungono niente alla narrazione ma al più «connotano lo stato psicologico della protagonista». 28. Vito Zagarrio, La frantumazione dello sguardo, cit., pp. 257-8. In Pietrangeli rimangono delle tentazioni di virtuosismo, anche in questo film: le riprese dal basso della Sandrelli davanti al duomo di Orvieto, la macchina a mano che ne segue l’arrivo in campagna, la panoramica a 360° del suo svenimento durante il corso di recitazione. 29. Gli sceneggiatori di questo film, come degli altri ritratti femminili di Pietrangeli, sono tutti maschi. E forse nell’impostazione rimane un che di programmatico o addirittura di paternalista: ma si potrebbe dire che quel che di estraneo permane nel progetto e nel copione venga bruciato da una regia assai partecipe e tutt’altro che ideologica o moralistica. 30. Antonio Maraldi, “Tra le carte di un regista. I materiali preparatori per «Io la conoscevo bene»”, in Lino Micciché (a cura di), Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, cit., p. 74. 31. “Da Pacini a Bagini: Le sceneggiature di Io la conoscevo bene”, cit., p. 112. 32. Sandro Bernardi, “Luoghi e paesaggi”, in Gianni Canova (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. XI, cit., p. 193. Un tema nascosto del film, ricorda Bernardi, è l’inurbamento, il rapporto di una provinciale di origine contadina con Roma.

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la lunga notte: dillinger è morto (1969) di marco ferreri

1.

La carriera di Marco Ferreri fino agli anni Settanta viene talvolta divisa in tre fasi: la prima, quella dei film girati in Spagna, segnati da un feroce umorismo nero; poi la fase dei film italiani con Tognazzi, che si concentrano sulla critica alla famiglia borghese e furono visti come varianti particolarmente acri della coeva commedia all’italiana; infine la serie, che comincia con Dillinger è morto (1969), degli apologhi nichilisti e radicali sul destino dell’uomo contemporaneo. La difficoltà per la critica italiana dell’epoca a inquadrare la prima produzione di Ferreri derivava anche da una sua doppia provenienza: prima, il neorealismo di area zavattiniana (Ferreri aveva cominciato organizzando alcuni dei progetti di Zavattini negli anni Cinquanta),1 poi appunto l’umor nero di area spagnola, alla Buñuel. Infine, giocava un ruolo la prossimità apparente con la commedia all’italiana, anche per la presenza costante di Ugo Tognazzi nei primi quattro film realizzati in Italia. Quest’ultimo riferimento è forse il più utile, a patto di intenderlo in maniera dialettica, come il progetto di estremizzare e sabotare, fino al capovolgimento, una forma di racconto e un tipo di rapporto con i personaggi e col pubblico. Maurizio Grande, oltre a sottolineare gli ovvi limiti di una tale periodizzazione, ne ha precisato alcuni punti. Se è vero, infatti, che fino a Dillinger è morto il processo di “fissazione del senso” era largamente affidato alla sceneggiatura, e da quel film in poi il primato passa alla messa in scena, in realtà già prima quella fra trama e messa in scena era una relazione dialettica – come è evidente, ad esempio, in L’harem (1967) che, per ammissione del regista, era un film «girato contro il modo in cui era stato scritto, e montato contro il modo in cui era stato girato».2 158

Il punto di svolta nel cinema di Ferreri può considerarsi Break Up (1965-8), film rimontato dal produttore Ponti come episodio di un film collettivo, e ripreso dal regista tre anni dopo con l’aggiunta di tre scene, ma mai uscito in Italia. In esso, si racconta un’unica minima ossessione che conduce il protagonista alla morte: scoprire quanto si può gonfiare un palloncino senza farlo scoppiare. In seguito Ferreri continuerà a usare questo procedimento, costruendo su un’unica idea la trama dei propri film: un uomo vuole entrare in Vaticano e non ci riesce (L’udienza, 1971), alcuni uomini decidono di mangiare fino a morirne (La grande abbuffata, 1973), l’umanità del futuro proibisce la riproduzione (Il seme dell’uomo, 1969), una donna decide di sostituirsi al cane di un uomo e di essere letteralmente il suo animale da compagnia (La cagna, 1972).3 Nel caso di Dillinger è morto, però, l’ossessione unica intorno a cui il film è costruito non sembra appartenere solo al personaggio, ma soprattutto al regista. L’ossessione del protagonista non c’è, o meglio essa è il vuoto: appena un passo più avanti dell’ossessione per i palloncini del protagonista di Break Up. L’elemento più vistoso del film, e quello che lo definisce, è la scelta registica di riprodurre i tempi morti della quotidianità in maniera da creare una sorta di performance, di sfida allo spettatore. La coerenza con cui questa vicenda non viene raccontata, con cui un’interminabile introduzione a non si sa cosa viene condotta avanti, in una specie di suspense all’incontrario fino all’unico evento che accade senza apparenti spiegazioni, è la vera azione del film. 2.

Il protagonista del film, disegnatore industriale, torna a casa dal lavoro, dove ha assistito a una prova di maschere antigas, commentate da un collega con considerazioni sul destino dell’uomo nella civiltà consumistica. A casa, trova la moglie a letto con il mal di testa e una cena non troppo invitante. Allora si mette a preparare un piatto elaborato, e contemporaneamente, inizia a giocare con una pistola, a oliarla, a dipingerla a pois. Nel frattempo rientra la cameriera, e si chiude in camera. I contatti tra i due arrivano fino a un pigro rapporto sessuale consumato con l’ausilio di un vasetto di miele. Infine, il protagonista uccide la moglie, che dorme sotto 159

l’effetto dei sonniferi, sparandole attraverso il cuscino. All’alba, lo vediamo fuggire e raggiungere uno yacht di proprietà di una giovane donna. Si offre come cuoco, e la nave salpa per Tahiti contro un sole rosso fuoco dall’aria irreale. Come si è detto, la serata del protagonista, proprio perché seguita nei suoi minimi dettagli, assume rapidamente i caratteri di una gigantesca, unica gag che consiste nel procrastinare qualcosa che dovrebbe accadere. In questa orizzontalità, tuttavia, è evidente una divisione in parti: «Il film racconta, in fondo, la storia di una “esecuzione” ma è anche la esecuzione di una serata, e, come ogni esecuzione si articola in movimenti».4 Si può anche suddividere la serata in due macro-episodi: la preparazione della cena e della pistola, e la proiezione dei film familiari seguita dal rapporto sessuale con la cameriera e dall’omicidio della moglie. Ma per il protagonista «non vi è alcuna differenza tra le diverse azioni compiute», e in alcune scene anzi egli sembra giocare sull’equivalenza tra l’olio che serve per cucinare e quello in cui è immersa la pistola per ungerne i meccanismi.5 Questa dimensione del lavoro sul tempo entra in relazione dinamica con la rigidità dell’assunto, che come in molto cinema di Ferreri all’epoca è assai presente, e non si capisce quanto parodiata. «Dillinger è morto mette alla prova il cinema come dispositivo di duplicazione (più che di rappresentazione) della realtà. (…) È certamente un esercizio di stile sul tempo cinematografico e sui tempi morti dell’esistenza nella civiltà moderna. (…) La scrittura diviene pura esecuzione di un programma di duplicazione dell’apparenza, per cui “mostrare” il reale significa anche riprodurre i concatenamenti metonimici di una superficie piatta, sulla quale si inscrive l’effetto-cinema come calco virtuale delle immagini (e dei legamenti fra le immagini), come esecuzione di uno sguardo “a programma”.»6

Si può notare di sfuggita come un film “impossibile” come questo abbia avuto una notevole eco sulla stampa, e un buon successo di pubblico (130 milioni di incasso), con un coro di consensi critici che sarebbe oggi inimmaginabile per un film del genere, e che testimonia comunque una certa persistente ricettività dell’opinione pubblica dell’epoca nei confronti del cinema. A questo riguardo va specificato 160

che la forza di Ferreri, nel rapporto col pubblico, fu anche di giocare con un tipo di spettatore che si era formato negli anni del “superspettacolo d’autore” e che stava popolando i numerosi cineclub, oltre a nutrire un fitto dibattito sul cinema nei giornali. Dillinger è morto può essere considerato il punto estremo e la conclusione di un certo tipo di film d’autore, di un certo rapporto tra autore e pubblico. Il film di Ferreri infatti, pur nella sua radicalità, non è un film sperimentale nel senso del cinema underground di quegli anni. Il suo è comunque un racconto, seppure ridotto all’osso, e anzi alcuni elementi mostrano una precisa strategia comunicativa. Lo mostrano, tra l’altro, la presenza (seppur molto parca) della musica di commento, specialmente all’inizio e alla fine, e il fatto che ad esempio il film, nonostante dia quest’impressione, non è ovviamente girato in tempo reale: la sua parabola si svolge dalla cena all’alba, mentre la sua durata è dell’ora e mezza canonica. Dunque al suo interno si riscontra il consueto procedimento di condensazione del tempo tipico della narrazione cinematografica tradizionale. L’ora e mezza di Dillinger è morto è una costruzione pensata anche in tensione dialettica con la drammaturgia e con le forme di comunicazione tradizionali. L’efficacia che il film ebbe all’epoca deriva anche da questa strategia di mediazione-radicalità, che consiste nel disporre alcuni elementi narrativi per poi disfarli nel corso della narrazione, approdando però infine a un insieme estetico riconoscibile e, per quanto ambiguo, comprensibile. 3.

Quella che Elsa Morante chiamava l’irrealtà (cfr. capitolo su Accattone) ha ormai trionfato: per questo nelle inquadrature di Ferreri non c’è più spazio per i corpi, per la fisicità, e anche gli elementi di happening che si trovano nel cinema della Nouvelle Vague sono negati. Semmai si trova nel film una precisa vicinanza alla sgomenta oggettività della pop art italiana di quegli anni (il film è girato nella casa del pittore Mario Schifano, tranne la cucina che è quella della casa di campagna di Ugo Tognazzi). E se nel precedente L’harem la scelta di uno stile “pop” riguardava anzitutto una patina visiva, cromatica, e una certa libertà dei nessi di montaggio, qui c’è una vicinanza più profonda alla programmatica atarassia degli artisti pop nei confronti dei prodotti della cultura di massa. 161

In un film come questo, ovviamente, è più facile notare quel che manca rispetto a quello che c’è: le assenze sono più lampanti delle presenze. Il film è composto di piani fissi con movimenti funzionali, qualche zoom e qualche movimento di macchina a mano, nessun carrello. Gli obiettivi sono spesso a focale corta, e schiacciano i personaggi nello spazio degli interni. Riguardo all’inquadratura-tipo di Ferreri, Maurizio Grande ha parlato di “spazio rifilato”: «il campo visivo coincide con uno spazio che espone oggetti e agenti molecolari (atmosfere) in un calcolo di forze equilibrate che corrispondono alla rotazione visiva del raggio di 360 gradi appiattito (…). È qualcosa di più della centratura dell’immagine attraverso una inquadratura ben calibrata. (…) Si tratta del centro neutralizzato in quanto focus privilegiato (…). Questo modo di elaborare il dinamismo di uno spazio inerte è ovviamente legato alle tematiche più care a Ferreri: la superficie traslucida dell’immagine-cosa, la levigatezza del design, l’esattezza del gesto, la monodia del comportamento.»7

La scelta di Piccoli, rispetto agli attori dei film precedenti, è una relativa novità, e va nella direzione intrapresa con il Mastroianni di Break Up, di una certa apatia e passività rispetto ai toni sanguigni di Tognazzi. (Il successivo cinema di Ferreri oscillerà tra questi poli, ottenendo peraltro alcuni dei risultati migliori con corpi di attori esuberanti, da Enzo Jannacci a Roberto Benigni a Jerry Calà.) Eppure il mondo osservato è tutt’altro che ridotto all’essenziale, e nel crudo materialismo dei piani ferreriani ben poco spazio viene lasciato all’altrove, a quel che non si vede. «In Dillinger è morto tutto quello che era assenza è diventato eccedenza; nulla viene lasciato fuori campo se non in modo provvisorio, il piano-sequenza riunifica spazio e tempo sventando ogni possibile stravolgimento o indeterminazione.»8 Dall’ascesi razionalista degli ambienti dei primi anni Sessanta si è passati ai colori pop, a una casa non algida ma anzi fin troppo reale, e insieme piena di “eccessi” cromatici e arredativi. In questo risalta la differenza con Antonioni, che nei suoi film aveva introdotto in maniera vistosa il tema dell’estraneità dell’uomo al proprio ambiente urbano e domestico. Antonioni, fa del rapporto con il fuori campo 162

l’elemento di forza del proprio cinema. In Ferreri, almeno in questa fase, non sono l’inquadratura e il découpage a comunicare l’alienazione, ma la progressione drammaturgica complessiva, il tempo, in relazione invece a un’assoluta banalità. Salta quindi l’ultima àncora, l’estetismo che in qualche modo combatteva e insieme accompagnava l’alienazione, finendone anzi per costituirne un’ambigua contemplazione. 4.

Come per Prima della rivoluzione o I pugni in tasca, appare quasi incredibile che Dillinger è morto possa esser stato letto come esempio di film “politico” e rivendicato dalla sinistra, soprattutto estrema. Ma per i film precedenti citati, opere di giovani borghesi inquieti e ribelli, c’era davvero un elemento di rivolta (anche generazionale), di cosciente ambiguità; mentre quello di Ferreri è un film dichiaratamente “borghese”, anarcoide ma più apocalittico che rivoluzionario (e piuttosto misogino). Il regista rivendicò, nelle interviste dell’epoca, il carattere eminentemente negativo del proprio fare cinema, la volontà di fare un cinema borghese a dispetto delle tentazioni rivoluzionarie dell’epoca (è il periodo in cui ad esempio Bellocchio o Godard “abiurano” il loro essere autori mettendosi al servizio di progetti collettivi dell’estrema sinistra), facendosi carico del proprio statuto ambiguo di regista dentro il sistema. Ai redattori della rivista politicamente impegnata «Ombre rosse», che lo sostenevano come uno dei pochissimi autori-manifesto, risponde provocatorio: «Non servo a niente io come non servite a niente voi. Anche perché manca il discorso politico al quale riferirsi… e gli studenti non possono esserlo troppo, con tutti i loro difetti. (…)».9 E ribadiva i concetti ai rappresentanti di un’altra rivista sostenitrice, «Cinema & Film»: «Dillinger è nonostante tutto ancora un film borghese per i borghesi. (…)Un film come Dillinger in fondo è come se lo avesse fatto lo stato: lo distribuisce l’Ital Noleggio, l’Ente di Stato, che non funziona. (…) è una ribellione solo personale. Però oggi come oggi le ribellioni personali o le rivoluzioni personali non servono. La rivoluzione con il film che uno si produce non serve a niente. (…) Forse è sempre me163

glio fare invece di una cattiva opera rivoluzionaria, un’opera negativa al massimo, un’opera che voglia distruggere. Dillinger non è certo un film positivo, è un film negativo, perché è un film abbastanza tragico. Ecco, al massimo possiamo arrivare a fare gli sciacalli di un mondo che va autodistruggendosi, e basta. (…) Il suicidio cinematografico non è proibito.»10

La differenza tra Dillinger e i film di Bellocchio e Bertolucci è anche cronologica: quelli sono film che intercettano inquietudini giovanili, in un periodo di fermento ancora pre-politico. Ferreri, invece (che peraltro ha oltre dieci anni in più dei due), realizza Dillinger è morto in piena contestazione studentesca, in qualche modo applicando alcune riflessioni che stavano a monte del bagaglio di quella generazione a un resoconto della nuova borghesia, che appare (coerentemente appunto con la visione delle nuove generazioni) come classe giunta al capolinea. Ed è curioso che alcuni dei film “d’autore” italiani fatti a ridosso del ’68 o immediatamente dopo siano film claustrofobici, tutt’altro che vicini alle masse o alle piazze (Partner, Nostra signora dei turchi), o film di esplicita fantastoria, ambientati in epoche immaginarie o remotissime, come Sotto il segno dello scorpione dei fratelli Taviani e il Satyricon di Fellini. A suo modo, la produzione di Ferreri di quegli anni, tra L’harem, Dillinger è morto e Il seme dell’uomo, è a cavallo delle due tendenze. Un tratto essenziale del film è, a rivederlo oggi, l’ambiguità, o meglio il carattere ambivalente del proprio rapporto con il messaggio, con le tesi politiche che vengono esposte, applicate e insieme disperse nel corso del film. Come ha scritto Ungari, in Ferreri «L’idea del film diventa (…) il film di un’idea della quale l’autore ha colto tutta l’inadeguatezza. Quanto più il soggetto iniziale è didascalico, tanto più è il film finito a insegnare qualcosa».11 Il che, però, alla distanza regge fino a un certo punto, e in fondo il retroterra culturale del film, seppure evitato o contraddetto, rimane molto presente e rende comunque molto invecchiato lo sfondo dell’operazione (in questo è vero che nel film «fenomenologia e marcusianesimo si accavallano, e non sempre il dosaggio funziona»).12 Gli elementi in scena che scandiscono l’alienazione del personaggio sono in fondo pochi: la televisione, i filmini familiari, la cucina, 164

la rivoltella, la moglie (che quasi non si vede, assente e malata) e la cameriera appassionata del cantante Dino. Il film, soprattutto, fotografa con particolare precisione il nuovo spazio domestico della visione e del consumo culturale, solitario e narcisistico: la cameriera balla guardandosi allo specchio in una tutina sexy a beneficio non si sa di chi. Piccoli è uno spettatore televisivo nonché di filmini familiari privati, e come nel film ogni azione equivale a un’altra, così sullo schermo tutte le immagini si equivalgono, anche quando alludono sarcasticamente a un altrove che magari si trova all’interno stesso dello spazio in cui si trova Piccoli, o nei paraggi del film tutto: Adriano Aprà, giovane sostenitore di Ferreri, appare sullo schermo parlando di Satellite, film di Mario Schifano le cui tele si vedono ovviamente in varie occasioni, essendo sua la casa. Le frasi nel colloquio iniziale, (che sono il programma illustrato e insieme condotto ad absurdum dal prosieguo del film) secondo la testimonianza di Ferreri, erano tratte da scritti di Umberto Eco:13 «Una camera quindi dove per sopravvivere è necessario portare una maschera, ricorda molto le condizioni di vita dell’uomo contemporaneo. (…) L’introiezione di questi bisogni ossessivi e allucinatori non dà come risultato l’adattamento alla realtà, ma la mimesi, la massificazione, l’annullamento dell’individualità». Ed è curioso il nome dato al protagonista, che si chiama Glauco, e rimanda a un celebre passo posto all’inizio del Discorso sull’origine della disuguaglianza di Jean-Jacques Rousseau: la statua del dio marino Glauco, secondo una metafora presa dalla Repubblica di Platone, era in quel caso il simbolo dell’uomo sfigurato dalla società, reso irriconoscibile rispetto al suo stato di natura (finito con l’introduzione della proprietà privata).14 5.

Uno dei punti su cui i critici si sono scatenati nelle interpretazioni è l’epilogo, con l’uccisione della moglie e la fuga di Glauco verso Tahiti, come cuoco di bordo per un equipaggio tutto maschile agli ordini di una giovane donna (che si stia ricreando la situazione di base di L’harem? O i lontani prodromi di La cagna?). Ora, la sola cosa certa è che Ferreri punta all’ambiguità e all’assurdità del gesto finale, ma nello stesso tempo mette sullo stesso piano tempi morti, 165

omicidio e forse anche la loro negazione, la fuga. Per cui è vero che «è questa casa (…) a uccidere la povera moglie di Piccoli, Anita Pallenberg, che vediamo appena»15 e, più direttamente, che «il comportamento del protagonista è istigato dall’esperienza di visione dei film familiari».16 Oppure, si potrebbe aggiungere: Piccoli uccide la moglie perché c’è una pistola da usare. In questo senso, l’estenuante operazione di pulitura della pistola è una versione paradossale della celebre frase di Čechov sulla costruzione drammaturgica, citata da mille film e manuali di sceneggiature: «Se nel primo capitolo dici che c’è un fucile appeso al muro, nel secondo o terzo capitolo devi assolutamente farlo sparare». In Dillinger c’è solo questo: un fucile (una pistola), per quasi un intero film, e lo sparo. E tra l’uno e l’altro non c’è nessun legame di causa ed effetto, a parte la presenza fisica della pistola stessa.17 La pistola diventa un’opera d’arte, attraverso una minuziosa elaborazione (pulitura, colorazione) e il gesto finale è in fondo un gesto “estetico”, gratuito nel senso della “finalità senza scopo”, nella logica dell’assurda quotidianità borghese ma anche in quella delle performance dell’arte contemporanea. Comunque, siamo lontani dall’agghiacciato pathos della strage compiuta da Steiner in La dolce vita, esattamente dieci anni prima. Tutte queste interpretazioni però devono andare insieme alla sostanziale, costitutiva ambiguità e anzi assurdità del contesto, anche perché il film manifesta in modo chiaro che il proprio senso non sta nei suoi significati possibili, ma nella sua superficie18: il gesto performativo è forma e contenuto del film. E l’importanza della visione dei filmini familiari (fot. 16) si fa più forte soprattutto nell’epilogo. Glauco, più che allo stato di natura, torna all’evasione pura, quella creata dai mass media. Il finale, nel quale a differenza del resto del film impazzano gli zoom e risuona la musica, è una specie di riunione con un immaginario esotico che abbiamo visto dispiegato proprio nei filmini familiari. Piuttosto che una semplice fuga dalla civiltà, in questa fantasticheria esotica possiamo vedere la riunione del protagonista a quell’immaginario turistico nel quale si è crogiolato poco prima sullo schermo domestico: immaginario sempre vagamente coloniale e “alla Gualtiero Jacopetti”, come ha mostrato la serie dei Frammenti elettrici di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, che smontano i filmati balneari o 166

Fot. 16

di turismo in luoghi esotici, o di riprese di un soldato francese in Indocina. Probabilmente Ferreri intende anche questo quando nel press-book afferma che «la chiave del discorso del film è la quotidianità subita anche nell’atto di ribellione». In un finale che d’altro canto «dà il senso a tutto il discorso, è quasi la ragione del film. Che, d’altra parte, è ambiguo tutto». La stessa ambiguità segna il rapporto di Ferreri con il suo protagonista: che è sì osservato con freddezza da entomologo, ma è forse anche il personaggio, volontariamente o meno, più rivelatore di Ferreri, quello nel quale si ha l’impressione che egli si riconosca di più: negli improvvisi scatti buffoneschi e negli slanci culinari e artistici e sessuali, nel suo essere contemporaneamente “dentro” e “fuori”, spettatore e attore, vittima e carnefice; nell’aporia rivendicata della sua ribellione.19 1. Con Zavattini, Ferreri aveva lavorato in qualità di addetto alla produzione della “rivista cinematografica” Documento mensile (1953), collaborando anche al successivo film a episodi L’amore in città (1953). 2. Maurizio Grande, Marco Ferreri, La Nuova Italia, Firenze, 1974, p. 95. 3. Il che costituirà negli anni la forza e il limite del suo cinema. «È tipico del suo metodo partire da un unico (anche minimo, a volte) pretesto assurdo o ai limiti dell’assurdo, ed estrarne le possibilità narrative, dimostrative. A volte il pretesto

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risulta grande, la metafora è subito centrata e massima, come in La grande abbuffata, L’ape regina, La donna scimmia, perfino Non toccare la donna bianca, eccetera, e allora il film ne consegue, con la sua duplice forza di evidenza e di profondità, di leggibilità dell’aneddoto e di provocatorietà degli sviluppi. A volte appare invece forzato, perfino gratuito, e il film annaspa, si perde, deve infittirsi di digressioni non conseguenti, di divaganti provocazioni secondarie.» (Goffredo Fofi, “Dillinger è morto”, in Stefania Parigi, a cura di, Marco Ferreri. Il cinema e i film, Marsilio, Venezia, 1995, p. 204) 4. Maurizio Grande, “La scrittura celibe”, in Stefania Parigi (a cura di), Marco Ferreri. Il cinema e i film, cit., p. 9. 5. Veronica Pravadelli, “Derive del soggetto. Il cinema di Marco Ferreri”, in Gianni Canova (a cura di), Storia del cinema italiano. Vol. X: 1965-1969, Marsilio-Edizioni di Bianco e Nero, Venezia-Roma, 2002, p. 105. 6. Maurizio Grande, “La scrittura celibe”, cit., p. 8. Tra le descrizioni più interessanti del procedimento ferreriano, si segnala quella di Pasolini, relativa a Break Up: «[...] egli riproduce la realtà nelle sue durate per sadismo: cioè, la durata reale di un’azione, nella sua riproduzione, mostra tutta la sua casualità, la casualità cioè del tempo che passa [...] si mostra in tutto il suo misero e spaventevole orrore.» (Battute sul cinema, «Cinema & Film», I, n. 1, inverno 1966-7, poi in Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico (1972), ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano, 1999, p. 1547) 7. Maurizio Grande, “La scrittura celibe”, cit., pp. 3-4. Quella di Ferreri è definita da Grande inquadratura celibe “perché non ha bisogno di accoppiarsi a un’altra inquadratura”. 8. Enzo Ungari, Lo spazio della malinconia, «Cinema & Film», 7-8, 1969, poi in Id., Schermo delle mie brame, Vallecchi, Firenze (col titolo “Marco Ferreri e lo spazio della malinconia”), pp. 58-9. 9. La corazza e il baraccone, intervista di Goffredo Fofi e R. Savino p. 45 e 44. E ancora: «Sarei d’accordo con chi pensasse che il film rappresenta un cedimento rispetto alla linea portata avanti nei miei film; d’altronde, basta a dimostrarlo l’indice di gradimento del film, l’unanimità della critica, che si è creata proprio perché il film è innocuo, proprio innocuo». (pp. 43-44) 10. Intervista di Adriano Aprà, «Cinema & Film», 7-8, primavera 1969, pp. 33-5. 11. Enzo Ungari, “Marco Ferreri e lo spazio della malinconia”, cit., p. 58. 12. Goffredo Fofi, “Dillinger è morto”, in Stefania Parigi (a cura di), Marco Ferreri. Il cinema e i film, cit., p. 204. Dei film di quel periodo, i più datati sono i proprio quelli in cui la ricerca è più “pura” e quindi più ideologica (non in senso stretta-

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mente politico), in cui la scoperta dell’unica trovata è portata fino in fondo, con esplicite pretese di critica negativa della società: Dillinger è morto, La cagna, Il seme dell’uomo. È forse nei successivi, più affastellati e pieni di episodi collaterali, più contagiati dalla verve degli attori, più inclini al comico basso e alla parodia e al recupero del vecchio grottesco, che il cinema di Ferreri raggiunge il suo apice: L’udienza, La grande abbuffata e un film all’epoca sottovalutato come Non toccate la donna bianca. Ed è almeno in parte vero quel che sosteneva Adriano Aprà che «Ferreri, come Fellini e come Pasolini, riesce meglio quando non è sicuro di sé» – o quando si trova a mediare con strutture produttive e di generi più esigenti (come nei primi film con Tognazzi o in L’harem). 13. Press-book a cura dell’Italnoleggio, p. 9. Una copia del press-book è conservata alla Cinteteca Nazionale. La copia della sceneggiatura, invece, che sarebbe stata utilissima per ricostruire il metodo di lavoro del regista, era stata depositata alla Cineteca come risulta dal catalogo, ma è dispersa. 14. «Simile alla statua di Glauco, che il tempo, il mare e le procelle avevan talmente sfigurato, che somigliava meno a un dio che a una bestia feroce, l’anima umana, alterata in seno alla società da mille cause senza posa rinascenti, dall’acquisto di una moltitudine di conoscenze ed errori (…), e non vi si trova più (…) se non il deforme contrasto della passione che crede ragionare e dell’intelletto delirante.» (Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull’origine della disuguaglianza [1755], in Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze, 1972, p. 39) 15. Sandro Bernardi, “I luoghi del cinema nell’opera di Ferreri”, in Stefania Parigi (a cura di), Marco Ferreri. Il cinema e i film, cit. 16. Veronica Pravadelli, “Derive del soggetto”, cit., 106 17. Altrettanto ambiguo (programmaticamente ambiguo, si direbbe) è il riferimento a Dillinger, presente nel titolo e, all’interno del film, in un ritaglio di giornale che ne racconta la morte. Nel press-book, oltretutto, c’è una curiosa aggiunta insieme esplicativa ed enigmatica. Dopo una lunga descrizione della figura di Dillinger e della sua figura come ideale di ribelle nichilista, il press-book descrive la sua cattura e la sua morte e aggiunge: «Nello stesso giorno, a Vienna, veniva ucciso il ministro Dolfuss» (p. 6). Come, insomma, se l’epoca simbolica in cui “Dillinger è morto” fosse anche quella del trionfo dei totalitarismi novecenteschi. 18. Bruno Torri, “Metafore e catastrofi”, in Stefania Parigi (a cura di), Marco Ferreri. Il cinema e i film, cit., p. 67. 19. La corazza e il baraccone, cit., p. 44.

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nota bibliografica

Il cinema italiano degli anni Sessanta, e lo stesso cinema degli anni del miracolo economico, non sono stati troppo spesso oggetto di studi complessivi. Per il cinema del decennio, oggi le raccolte di maggior importanza sono i due volumi pubblicati dalla Scuola Nazionale di Cinema in collaborazione con Marsilio, e curati rispettivamente da Giorgio De Vincenti (Vol. X. 1960-64, 2001) e Gianni Canova (Vol. XI. 1965-1969, 2002). Sul versante delle testimonianze dirette, è imprescindibile L’avventurosa storia del cinema italiano (Feltrinelli, Milano, 1980) a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, in corso di riedizione per la Cineteca di Bologna. Se nel corso di questo volume abbiamo rilevato una certa carenza, all’epoca, di esperienze critiche di riferimento, vanno comunque segnalate, per l’attenzione al nuovo cinema, riviste come «Filmcritica», «Schermi» (pubblicata dal 1958 al 1961) e «Il nuovo spettatore cinematografico» (che chiude nel 1964). Il nuovo status del cinema italiano, inoltre, si rispecchia in alcune iniziative editoriali tra le quali spicca la collana dell’editore bolognese Cappelli “Dal soggetto al film”, che pubblica i copioni dei film italiani di maggior rilievo, corredati spesso da materiali di grande interesse. Fondata nel 1956 e diretta da Renzo Renzi, la collana raggiunse il suo apice proprio nel corso degli anni Sessanta. I titoli possono essere istruttivi come testimonianze d’epoca, come letture critiche, o entrambe le cose.

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Guido Crainz, Storia del miracolo italiano: cultura, identità e trasformazioni tra anni cinquanta e sessanta (Donzelli, Roma, 1996) – Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta (Donzelli, Roma, 2003)

A partire soprattutto dagli anni Novanta, sono molte le ricostruzioni della storia repubblicana e degli anni del boom. Il libro di Crainz è forse quello che in maniera più puntuale si confronta con i media, e con il cinema in particolare, utilizzandolo come luogo di osservazione privilegiato accanto ai verbali delle riunioni di partito o agli archivi della polizia. Ma il volume (e in misura ancora maggiore il suo ideale seguito, Il paese mancato, che per buona metà rientra anch’esso nel nostro ambito cronologico) fa riflettere anche su un parallelismo ulteriore, ossia tra la decadenza della società italiana e quella del mezzo-cinema che con maggiore evidenza l’aveva raccontata. Gli ultimi capitoli di Il paese mancato hanno titoli come Alle origini del tunnel, L’ultima occasione, La catastrofe, e sono utilizzabili anche per leggere la parabola del cinema italiano (e dei media tutti) dagli anni Settanta agli Ottanta. Vittorio Spinazzola, Film 1961 - Film 1962 - Film 1963 - Film 1964 (Feltrinelli, Milano, 1961-64)

Per quattro anni Vittorio Spinazzola, studioso di letteratura italiana di ispirazione gramsciana, curò un annuario di cinema per la casa editrice Feltrinelli. I quattro volumi sono utilissimi per capire il clima culturale nel quale viene vissuto il cinema, perché Spinazzola è un osservatore particolarmente privo di pregiudizi, attento alla dimensione comunicativa e popolare del mezzo, al rapporto con il pubblico, all’evoluzione dei generi. I suoi saggi che ogni anno fanno il punto della situazione confluiranno poi, insieme ad altri testi, in quel libro ancora oggi fondamentale che è Cinema e pubblico (Bompiani, Milano, 1974), storia del rapporto tra cinema italiano e società condotto con l’eleganza del saggista e la precisione del sociologo. I quattro volumi che proponiamo sono concepiti non come semplice catalogo, ma come strumento di intervento: anche perché, come si afferma nell’introduzione a Film 1961, «il film italiano è vivo, ed è vivo perché è all’opposizione», come confermano gli attacchi della censura. Proprio alla censura è dedicato l’inserto di immagini di quell’anno, con foto dai film più colpiti dai tagli nella stagione in esame (L’avventura, La dolce vita, I dolci inganni, 171

La giornata balorda, Il gobbo, Rocco e i suoi fratelli, La ragazza in vetrina). L’impostazione è a tratti vicina a quella di «Cinema Nuovo», ma assai più aperta, e a tratti tangente con certe posizioni e curiosità della critica francese («Positif» anzitutto) e di alcune riviste giovani italiane («Schermi» e «Il nuovo spettatore cinematografico»). I volumi non si interessano solo di cinema italiano ma, dato il periodo, l’analisi della produzione nazionale è molto presente. Oltre ai saggi di Spinazzola ricordiamo un importante questionario a otto “nuovi registi” del cinema italiano e a cinque stranieri (Film 1962); un saggio imprescindibile di Leonardo Sciascia sul cinema e la Sicilia e uno di Umberto Simonetta su Milano, oltre a un notevole excursus di Gian Piero Brega su Film sadici e film sadiani (Film 1963). Lino Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre (Marsilio, Venezia, 2002)

Lino Micciché, oltre che uno studioso, è stato uno dei protagonisti del dibattito culturale sul cinema negli anni Sessanta. Socialista, critico del quotidiano «Avanti!», fu soprattutto direttore del Festival Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, che portò l’Italia a contatto diretto con le nouvelle vague internazionali. Il suo libro Il cinema italiano degli anni ’60, pubblicato da Marsilio nel 1975, raccoglieva contributi nuovi o editi e ha costituito per lungo tempo la guida principale, forse l’unica, alla produzione italiana del decennio, non solo quella d’autore, ma anche quella di genere. Impostato classicamente per temi, autori e filoni, il libro di Micciché è stato ristampato più volte, con introduzioni che di volta in volta facevano il punto sulla questione: la prefazione del 1986, è eloquentemente intitolata Erano invece gli ultimi bagliori. Tullio Kezich, Noi che abbiamo fatto La dolce vita (Sellerio, Palermo, 2009)

Nella citata collana di Cappelli “Dal soggetto al film”, forse il titolo più memorabile è il reportage su La dolce vita scritto da Tullio Kezich. Il libro è stato poi più volte ristampato senza la sceneggiatura del film, con titoli diversi: l’ultima, presso Sellerio, col titolo Noi che abbiamo fatto La dolce vita. Negli anni, altri materiali e riflessioni si sono accumulati sul film, intorno al nucleo centrale 172

costituito dal lungo reportage sulla lavorazione del film, che Kezich segue in maniera discontinua, dalla fine del 1958 all’uscita. Il risultato è una commistione esemplare di aneddotica e interpretazione critica, ritmo narrativo e materiali di prima mano: numerose le interviste ai collaboratori e le lettere. Certo, quel che rende appassionante il libro è anche l’oggetto, il fatto che si tratti di un “evento” progettato come tale, e in questo senso il libro di Kezich racconta l’operazione-Dolce vita nello stesso tempo in cui ne è parte. Il risultato rende in maniera esatta il percorso accidentato di un’opera ambiziosa ed epocale, al centro del quale troneggia un ritratto di Fellini già sornione dentro il proprio mito, astuto e sicuro, geniale e cagliostresco. Pasolini, Empirismo eretico (Garzanti, Milano, 1972 e sgg.) – Accattone-Mamma Roma-Ostia (Garzanti, Milano, 1993)

Anche se lui negava che le proprie riflessioni teoriche fossero una poetica mascherata, rifiutando di essere considerato una “bestia da stile”, pratica e teoria sono inscindibili nell’opera di Pasolini. Si vedano le riflessioni raccolte nella parte finale di Empirismo eretico, ampiamente citate nel capitolo di questo libro dedicato al regista. E soprattutto, le sue opere trapassano l’una nell’altra, da un mezzo all’altro, come è evidente anche nelle sceneggiature pubblicate. Si tratta di testi interessanti anche per la loro scelta di esplicita eterogeneità, per il loro presentarsi come zibaldoni che cercano di rendere la tumultuosa ispirazione dell’autore: molto vicini, in questo, a un testo come Alì dagli occhi azzurri. La sceneggiatura di Accattone è preceduta da un diario di lavorazione che testimonia il primo impatto di Pasolini col nuovo mestiere. Mamma Roma è seguita da un Diario al registratore altrettanto illuminante, e da alcuni versi scritti durante la lavorazione del film. Tra essi, troviamo il celebre passo «Io sono una forza del Passato/ Solo nella tradizione è il mio amore/ Vengo dai ruderi, dalle chiese,/ dalle pale d’altare, dai borghi/ abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/ dove sono vissuti i fratelli./ Giro per la Tuscolana come un pazzo/ per l’Appia come un cane senza padrone» ecc., che confluiranno in Poesia in forma di rosa (1964) e che Orson Welles leggerà (esibendo proprio il volume rizzoliano) in La ricotta. 173

Goffredo Fofi, Il cinema italiano: servi e padroni (Feltrinelli, Milano, 1971)

Seguito ideale della rivista «Ombre rosse», il libro è interessante come testimonianza di quella fase in cui nelle giovani generazioni l’interesse verso il cinema si accompagna o entra in conflitto con l’impegno politico. Si tratta di un pamphlet assai diretto contro «gli opportunismi e le fughe dei registi, le miserie e i condizionamenti del “mondo del cinema”». I modelli politici a cui Fofi si rifà sono, alla lontana, quello maoista dell’“inchiesta”, e quello della nuova sinistra americana. Il cinema americano è visto a tratti come modello anche per il cinema “interno al sistema”, opposto a un cinema italiano più ipocrita e blandamente progressista. Anche se all’epoca fece scalpore più come collezione di stroncature, il libro era anche un tentativo di leggere il sistema-cinema nel suo insieme, fino alla distribuzione e all’esercizio. Gli “alibi” e gli “equivoci” di cui vengono accusati i registi vengono elencati alla fine: l’alibi dell’autore; l’equivoco della fine del mondo, la mistica del cinema (e qui sono sotto accusa anche i discepoli rosselliniani di «Cinema e film»), l’equivoco del linguaggio (i registi underground), l’equivoco della rivolta (gli epigoni di Bellocchio); l’equivoco della politica, l’equivoco della popolarità. Le poche vie praticabili, a questo punto, sono quelle di un cinema “borghese” radicale, e di un cinema militante che però in Italia non ha praticamente nessun esemplare. In questa dimensione di cinema possibile, è curioso l’elenco dei temi che il cinema italiano di quegli anni non affronta, e che potrebbero secondo l’autore costituire la base di un rinnovamento anche contenutistico (pp. 218-9): il rapporto tra borghesia e ascesa del fascismo, l’immigrazione meridionale al Nord, il sindacato, i politici (invocando un film anche kennedyano, “all’americana” sui politici italiani), la scuola, i mutamenti del mondo cattolico, eccetera.

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INDICE

Cinema d’autore degli anni Sessanta Le mutazioni della società e del pubblico Un paese senza nouvelle vague? “Say Alive”: L’eredità neorealista, De sica e Rossellini Il cinema d’autore come genere (mancato) Maggiori e minori Gli intellettuali al cinema, il cinema agli intellettuali Autori nella crisi: la seconda metà del decennio Note

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I film Affresco in rotocalco: La dolce vita (1960) di Federico Fellini I borghesi e il sublime: L’avventura (1960) di Michelangelo Antonioni Il principe, il conte e il walzer: Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti Essere vivi o essere morti: Accattone (1963) di Pier Paolo Pasolini Spaesamenti: I fidanzati (1963) di Ermanno Olmi Racconti crudeli della giovinezza: Prima della rivoluzione (1964) di Bernardo Bertolucci e i pugni in tasca (1965) di Marco Bellocchio Una donna alla finestra: Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli La lunga notte: Dillinger è morto (1969) di Marco Ferreri

Nota bibliografica

58 74 87 102 116

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italiana Storie di cinema

Mariapia Comand, Commedia all’italiana, Editrice Il Castoro, Milano, 2010. Emiliano Morreale, Cinema d’autore degli anni Sessanta, Editrice Il Castoro, 2011.