Cile 1973
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Cile 1973 Il governo di Allende, il golpe e la dittatura di Pinochet nella stampa di tutto il mondo

“Il dramma si è svolto in Cile, per sventura dei cileni, ma passerà alla storia come qualcosa che è accaduto a tutti gli esseri umani di quest’epoca e che è rimasto per sempre nelle nostre vite”. Gabriel García Márquez, pagina 88

“All’età di 55 anni, Olga è entrata nel suo appartamento di Amburgo, ha visto le foto di suo fratello e di Allende, si è trovata di fronte le ceneri del figlio e la solitudine della cucina di sua madre. Ha capito di essere irrimediabilmente sola. E ha sentito su di sé tutto il peso della frase che aveva ascoltato così spesso da sua madre: ‘Un giorno sarà fatta giustizia’”. Mónica González, pagina 135

“Come succede nel resto del mondo, il modo in cui il Cile interpreta i traumi del passato determinerà la sua identità più profonda, il tipo di futuro che la popolazione immagina per i suoi figli. Non posso prevedere come il mio paese uscirà da questa ricerca di un’unità sfuggente, di un consenso diffuso su chi siamo veramente”. Ariel Dorfman, pagina 180

In copertina: illustrazione di Nazario Graziano da foto Getty Images, Alamy, Contrasto e Mondadori Portfolio

Ricerche

Cile 1973 Il governo di Allende, il golpe e la dittatura di Pinochet nella stampa di tutto il mondo

Trinidad-e-Tobago

Ca acas Carac Caracas

P nam Pan Panama nam na

Oceano Atlantico

Venezuela zuela Guyana Gu Guyana na a Surina Suriname nam Guya uyana ya Francese Guyana

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Colombia C Co Colo Equatore

Qui uito Quito

Ecuador cuado aus Manaus

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Perù Perú ú ras Brasile Lima Lima Sal Salvador Br Brasília Bra Brasilia La Paz

Bolivia Bo Bol Boliv Bolivi ia

Oceano

Pisagua Iquique

Antofagasta asta

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Pau São Paulo

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Rio de d Rio Janei Janei Janeiro

Tropico del Capricorno

Por Alegre Porto Po Có doba Cór Córdoba

Cerro Esperanz anzza anza Esperanza Valparaíso Santiag Santiago Santia go

Rosario

Uruguay

Buenos Aires

Oceano Atlantico

A entina Argent Argentina

Isole Falkland / Malvinas

2

Punta unta Arenas renas enas Isla Dawson awson ws

Internazionale storia | Cile 1973 Ushuaia U Us huaia

500 km

Sommario Internazionale storia, numero 7, settembre 2023 5

Editoriale

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Cronologia 1969–2023

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LA VIA CILENA AL SOCIALISMO

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Cile, anno primo Eric Hobsbawm

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Contagio rivoluzionario Cyrus Leo Sulzberger

27

Un’altra arma di lotta Carmen Grandé

32

Le prove generali Jack Anderson

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Un Vietnam silenzioso Pierre Kalfon

42

Portfolio. Vicente Larrea

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IL GOLPE E LA DITTATURA

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Il giorno della verità La Tercera

55

Una tragedia già scritta Raymond Aron

62

Agli ordini dell’imperialismo globale Viktor Borovskij

Internazionale storia | Cile 1973

65

Tutti cileni, vittime e carnefici Lorenzo Gomis

136 TORNA LA DEMOCRAZIA

67

Macelleria cilena John Barnes

138 Verso il referendum Benny Pollack

71

L’unica risposta possibile Lajpat Rai

144 Maturità e disciplina La Época

79

Il Cile, il golpe e i gringos Gabriel García Márquez

146 L’esplosione degli anni novanta M. Vodanovic, A. Luengo e N. F. Mosciatti

90 Come in Spagna nel 1936 Rose Styron 100 I diritti umani secondo il regime Qué Pasa 101 I Chicago boys al comando Orlando Letelier 111 Alla conquista di Santiago Álvaro Godoy Haeberle 114 Un popolo in fuga Felipe Pozo 120 All’origine della rabbia Patricia Collyer 124 Il miraggio è finito Mario Benedetti 128 Una storia vera Mónica González

152 Il grande burattinaio Christopher Hitchens 168 Morte di un simbolo Carlos Franz 171 La speranza di un cambiamento Juan Pablo Luna 177 L’eterna battaglia per la memoria Ariel Dorfman 181 Fumetto. Le ultime ore di Allende Carlos Reyes e Rodrigo Elgueta 190 Postfazione Raffaele Nocera

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Editoriale Andrea Pipino, Internazionale Tra gli orrori che il novecento ci ha lasciato in eredità, insieme a grandi utopie e straordinari progressi sociali e tecnologici, un posto di rilievo lo meritano senz’altro, con i loro impareggiabili repertori di brutalità, le dittature sudamericane. E in particolare quella cilena. Il regime militare di Augusto Pinochet è stato forse il più riconoscibile e famigerato modello di governo autoritario del dopoguerra, almeno in America Latina. Per chi ha vissuto gli anni settanta e ottanta, l’incarnazione stessa dell’autoritarismo più impudente era proprio la faccia del generale cileno, con i suoi immancabili occhiali scuri e un’espressione tra il compiaciuto e l’enigmatico. Era il 1973 quando, nel primo 11 settembre passato alla storia, ventott’anni in anticipo rispetto a quello dell’attentato alle torri gemelle, i militari cileni rovesciarono con i carri armati il governo del presidente Salvador Allende, impegnato da quasi tre anni nel complicato esperimento di trasformare, pacificamente e nel rispetto della legge, il Cile in una democrazia socialista. Il regime nato da quel golpe si rese responsabile di violenze indicibili e di una completa riorganizzazione sociale ed economica del paese, per poi cadere, quindici anni dopo, senza spargimenti di sangue ma attraverso un referendum popolare, lasciando però ai cileni un’eredità difficilissima da gestire. Raccontare oggi quegli anni – dalla soppressione del progetto politico di Allende, alle torture e agli omicidi compiuti dal regime, fino

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al ripristino dell’ordine democratico – vuol dire prendere posizione in difesa della libertà e della democrazia, ribadire la pericolosità di ogni tentazione autoritaria e riconoscere i rischi che possono sorgere quando ci si appella con troppa insistenza agli slogan del nazionalismo, del tradizionalismo, dell’ordine. Ma parlare dei fatti cileni significa anche chiedersi perché nell’agosto del 1973, al culmine di un periodo di caos economico e di polarizzazione, l’ipotesi di un colpo di stato di destra appariva a molti osservatori molto probabile. E soprattutto invita a interrogarsi su un punto fondamentale: un governo che agisce nel sistema di alternanza politica di una democrazia rappresentativa fino a dove può spingersi nel ridisegnare i confini stessi del sistema, senza alimentare la reazione, più o meno violenta, dei gruppi di potere e dei partiti che sostengono lo status quo? In altre parole: al netto dei sabotaggi della classe proprietaria e delle interferenze internazionali, in particolare statunitensi, il sogno di Allende di costruire il socialismo senza strappi rivoluzionari era comunque destinato al fallimento? Oppure in altre circostanze si sarebbe potuto realizzare? Gli articoli raccolti in queste pagine non danno una risposta definitiva, ma offrono elementi di riflessione e un punto di vista diverso su una pagina fondamentale della storia novecentesca che, come dimostrano le recenti cronache politiche cilene, con ogni evidenza non si è ancora del tutto chiusa.

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1969 Il 9 ottobre a Santiago nasce la coalizione politica di sinistra Unidad popular (Up), per iniziativa dei partiti comunista e socialista. Nei mesi successivi nell’alleanza entrano altre forze progressiste.

Schneider, contrario a ogni interferenza militare in politica, resta ferito in un tentato rapimento commesso da forze di estrema destra. Muore tre giorni dopo. Il 4 novembre Allende s’insedia alla presidenza della repubblica.

1971 1970 Alle elezioni presidenziali del 4 settembre l’Up candida il senatore socialista Salvador Allende (nella foto), che risulta il più votato con il 36,6 per cento dei voti. Il 24 ottobre il congresso ratifica la nomina di Allende alla presidenza. In cambio del suo appoggio il Partito democratico cristiano, preoccupato per una possibile svolta del governo in senso radicale e socialista, chiede ad Allende di siglare uno statuto di garanzia, con cui il presidente s’impegna a rispettare la costituzione. Prende il via l’esperimento politico della “via cilena al socialismo”. Il 22 ottobre il capo di stato maggiore René

L’11 luglio il parlamento cileno approva la nazionalizzazione delle miniere di rame, di proprietà di aziende statunitensi. Il governo accelera la riforma agraria.

1972 In un clima di crisi economica e inflazione crescente, il 9 ottobre comincia lo sciopero nazionale dei camionisti, indetto dal sindacato Cndc, guidato da León Villarín, legato al gruppo di estrema destra Patria y libertad. Lo sciopero si ferma il 5 novembre; Allende decide di far entrare nel governo alcuni ufficiali dell’esercito.

1973

PATRICIO GUZMÁN (GETTY IMAGES)

Alle elezioni legislative del 4 marzo Unidad popular ottiene il 44,2 per cento dei voti alla camera dei deputati e il 42,7 per cento al senato. Le opposizioni di centro e di destra si presentano unite e ottengono il 55,5 per cento alla camera e il 57,2 per cento al senato. Il 29 giugno è sventato il tanquetazo, un tentativo di golpe orchestrato da alcuni settori

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THE NEW YORK TIMES/CONTRASTO

Cronologia 1969–2023

dell’esercito. Il 23 agosto Allende nomina il generale Augusto Pinochet comandante in capo dell’esercito. L’11 settembre un colpo di stato guidato da Pinochet rovescia il governo di Unidad popular. Allende muore durante l’assalto al palazzo presidenziale. Si costituisce una giunta militare formata dai comandanti in capo dei tre rami delle forze armate e dal responsabile dei carabineros, con a capo Pinochet; la giunta sospende la costituzione, mette al bando le opposizioni e prende il controllo dei mezzi d’informazione. Nei primi tre mesi e mezzo di dittatura più di mille persone vengono uccise o scompaiono; altre migliaia sono costrette all’esilio. Nella foto: Santiago, 11 settembre 1973

1974 A giugno nasce ufficialmente la Dina, Dirección de inteligencia nacional, sostituita nel 1977 dal Cni, Central nacional de informaciones. Il 27 giugno Pinochet diventa de facto presidente del Cile.

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por la democracia, una coalizione di centrosinistra nata dopo il referendum del 1988 che comprende, tra gli altri, il Partito socialista e il Partito democraticocristiano. La coalizione rimarrà al governo fino al marzo del 2010.

1975 Il 26 novembre viene formalizzato il sistema Condor, un’operazione congiunta dei servizi segreti delle dittature militari di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay e Uruguay, per l’eliminazione delle opposizioni di sinistra.

1998 Il 16 ottobre Pinochet è arrestato a Londra su richiesta del giudice spagnolo Baltasar Garzón, che sta indagando sulla morte e la scomparsa di cittadini spagnoli durante la dittatura cilena. Dopo una lunga battaglia legale sulla sua estradizione, il 2 marzo 2000 Pinochet torna in Cile da libero cittadino.

1976 A Washington viene assassinato da agenti della Dina Orlando Letelier, ex ministro nel governo di Unidad popular, riparato negli Stati Uniti dopo il golpe.

1980 L’11 settembre la nuova costituzione cilena, elaborata dal regime di Pinochet, è approvata in un “plebiscito nazionale” con il 67 per cento dei consensi.

2006 Il 10 dicembre Augusto Pinochet muore, all’età di 91 anni, nell’ospedale militare di Santiago.

1982 2010

Il Cile si schiera con la Gran Bretagna nella guerra delle Falkland, mettendo a disposizione dei britannici basi e informazioni.

L’11 marzo il candidato di centrodestra Sebastián Piñera diventa presidente del Cile.

1987

2011

Tra febbraio e marzo il regime riapre i registri elettorali e legalizza alcuni partiti politici.

In tutto il paese comincia una stagione di proteste studentesche (nella foto) che si protrarrà fino al 2013.

1988

1989 Il 14 dicembre si svolgono le elezioni presidenziali e legislative. Alla presidenza è eletto il democristiano Patricio Aylwin, mentre la forza più votata è la Concertación de partidos

2019 A ottobre a Santiago e nel resto del E. FERNANDEZ (REUTERS/CONTRASTO)

Al referendum del 5 ottobre, convocato per decidere se concedere a Pinochet un ulteriore mandato di otto anni, vince il fronte del no con il 56 per cento dei voti.

paese scoppia una grande ondata di proteste e rivolte, conosciuta in Cile come estallido social (esplosione sociale). I manifestanti protestano contro le disuguaglianze, l’aumento del costo della vita, i progetti di privatizzazione e la disoccupazione. Tornano slogan e rivendicazioni degli anni di Salvador Allende.

2020 Nel referendum del 25 ottobre i cileni stabiliscono che il paese dovrà avere una nuova costituzione, elaborata da un’apposita Convención constitucional, che viene eletta a suffragio universale il 15 e 16 giugno 2020.

2021 Dopo due anni di mobilitazioni, alle presidenziali del dicembre 2021 vince il candidato di sinistra Gabriel Boric, che sconfigge al ballottaggio José Antonio Kast, leader del Partito repubblicano, di estrema destra. Boric è sostenuto dalla coalizione di sinistra Apruebo dignidad. Entra in carica l’11 marzo 2022.

2022 Nel referendum del 4 settembre la proposta di nuova costituzione elaborata dalla Convención constitucional viene respinta dal 61,9 per cento degli elettori. Boric chiarisce che la sconfitta non segna la fine del processo costituente.

2023 Il 7 maggio si svolgono le elezioni per la composizione del nuovo consiglio costituzionale (Consejo constitucional), incaricato di elaborare una nuova proposta di costituzione. Il Partito repubblicano, di estrema destra, e la coalizione di centrodestra Chile seguro si aggiudicano insieme 33 seggi sui 50 disponibili.

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La via cilena al socialismo

Casablanca, Cile, 28 maggio 1971. Davanti alla fabbrica della Ford, nazionalizzata dal governo Allende. (Ap/LaPresse) tutti questi quotidiani, riviste e libri sono frutto del lavoro esclusivo del sito eurekaddl.skin per favore lasci perdere i ladri parassiti che rubano soltanto vanificando il lavoro degli altri e venga a sostenerci scaricando da noi, la aspettiamo!

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Cile, anno primo

PAOLA AGOSTI

Nel novembre 1970 in Cile comincia un radicale processo di trasformazione politica, economica e sociale, portato avanti nel rispetto della legge e delle regole costituzionali. La via cilena al socialismo raccontata da uno dei maggiori storici del novecento Eric Hobsbawm, The New York Review of Books, Stati Uniti, 23 settembre 1971

Santiago, dicembre 1970. Manifestazione a sostegno del governo di Salvador Allende

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Internazionale storia | Cile 1973

I Il fatto che il trasferimento costituzionale del potere e la transizione pacifica al socialismo siano possibili è stato ammesso al livello teorico dai marxisti fin da quando ne parlò Marx stesso, nel 1872. Le prospettive di questa transizione, però, rimangono oscure. Gli scritti marxisti in proposito sono scarsi, astratti e per niente concreti, probabilmente perché manca quasi completamente un’esperienza pratica significativa per tale discussione. A tutt’oggi nessuna economia socialista si è affermata senza un trasferimento di potere violento o non costituzionale. Questo rende il caso del Cile di oggi assolutamente unico. Fino al novembre 1970, quando Salvador Allende ha assunto la carica di presidente, i casi di possibili transizioni legali al socialismo erano di tre tipi, tutti parimenti inutili come precedenti storici. In primo luogo, ci sono numerosi esempi di trasferimento del potere, pacifico o meno, a governi socialdemocratici o “laburisti”. Nessuno, però, ha tentato di introdurre il socialismo, e quasi nessuno voleva davvero farlo. In secondo luogo, ci sono i fronti popolari degli anni trenta, che a un primo sguardo sono piuttosto simili alla cilena Unidad popular (Up), in quanto sono sostanzialmente dei fronti uniti di socialisti e comunisti all’interno di una più ampia alleanza elettorale di centrosinistra. Nel caso dei fronti popolari, quest’alleanza proponeva in teoria dei sistemi non insurrezionali per arrivare al socialismo. In pratica era una prospettiva squisitamente accademica. Gli obiettivi politici immediati di questi governi erano infatti principalmente difensivi: respingere la marea del fascismo. In ogni caso, la configurazione delle forze politiche non consentiva a comunisti e socialisti “seri” di dominare l’alleanza, e gli avrebbe anche impedito di spingersi più lontano, perfino se la politica dell’Unione Sovietica e del Comintern [l’organizzazione internazionale dei partiti comunisti, attiva tra il 1919 e il 1943] li avesse

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incoraggiati a provarci, cosa che comunque non avvenne. Fu questo il caso del Fronte popolare cileno del 1938, in cui i radicali della classe media rimasero la forza decisiva. In terzo luogo, ci sono i governi di unità antifascista emersi dalla lotta contro la Germania alla fine della seconda guerra mondiale in diversi paesi europei. Questi potrebbero essere considerati l’estensione logica della strategia dei fronti popolari, e ci sono pochi dubbi che una transizione pacifica e graduale al socialismo fosse nelle intenzioni dei comunisti e di molti socialisti che ne fecero parte. Lo dimostrano le discussioni sulla natura della “democrazia popolare” che animarono il periodo tra 1943 e il 1947. Tuttavia, la rottura dei fronti antifascisti pose fine rapidamente a tale prospettiva. In occidente le forze politiche dominanti erano totalmente impreparate a consentire la transizione pacifica al socialismo, mentre a est l’espressione “democrazia popolare” divenne un mero eufemismo per i regimi comunisti ortodossi di tipo sovietico [...]. In sostanza, la via pacifica al socialismo fu bloccata alla metà del 1947. Quest’esperimento non dà quindi molte indicazioni per futuri tentativi di aprire nuove strade. La situazione del Cile di Allende è quindi senza precedenti. Non possono esserci dubbi sul fatto che l’obiettivo del governo di Unidad popular sia il socialismo. Allende non è in nessun modo come Léon Blum [1872-1950, politico socialista francese, fu presidente del consiglio del Fronte popolare tra il 1936 e il 1937], Clement Attlee [1883-1967, politico laburista britannico, primo ministro tra il 1945 e il 1951] o Harold Wilson [1916-1995, politico laburista britannico, primo ministro tra il 1964 e il 1970 e tra il 1974 e il 1976]. Unidad popular è dominata dai due maggiori partiti della classe operaia, che si dichiarano entrambi marxisti rivoluzionari. L’unico altro partito di una certa rilevanza della coalizione, i Radicali, era già minoritario e alle elezioni comunali dell’aprile 1971 è stato così ridimensionato da non rap-

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presentare più un freno per i marxisti. D’altra parte, è evidente che l’Up intende raggiungere il suo obiettivo gradualmente (“la progressiva costruzione di una nuova struttura di potere” ha detto Allende nel suo primo messaggio al parlamento, il 21 maggio 1971) e per via costituzionale. La “via cilena” si contrappone quindi alla dittatura del proletariato in quanto “metodo pluralista, previsto dai classici del marxismo, ma finora mai applicato”. Questa via pluralista non va confusa con la democrazia borghese. La sua legalità non rimarrà necessariamente quella che oggi “risponde alle esigenze di un sistema capitalista. Nel regime di transizione al socialismo, le norme giuridiche risponderanno alle esigenze di un popolo che lotta per edificare una nuova società. Ma ci sarà legalità”. Il sistema istituzionale sarà modificato con i mezzi costituzionali esistenti, per esempio sostituendo il parlamento bicamerale con una camera unica. Eppure, “non è un semplice compromesso formale, ma il riconoscimento esplicito che il principio di legalità e l’ordine istituzionale sono consustanziali a un regime socialista, malgrado le difficoltà inevitabili nel periodo di transizione. Noi accettiamo le libertà politiche dell’opposizione e portiamo avanti le nostre attività politiche nei limiti delle nostre istituzioni. Le libertà politiche sono una conquista di tutta la società” [dal discorso di Allende del 21 maggio 1971]. Non c’è solo un calcolo politico dietro alla dedizione di Allende alla “via cilena”. A differenza dell’opposizione di estrema sinistra esterna all’Up e di alcuni elementi interni al suo stesso partito, il presidente non considera la situazione esistente come momentanea, ma vi scorge i germi di una trasformazione a lungo termine. La violenza controrivoluzionaria, interna o esterna, è possibile. Tuttavia, se non si verificherà, la legalità e il pluralismo sopravvivranno. In altre parole, il Cile è il primo paese al mondo che sta seriamente tentando di percorrere una via alternativa verso il socialismo.

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È una prospettiva elettrizzante e politicamente valida. Non c’è nulla che alle nazioni, soprattutto a quelle più piccole, piaccia di più che essere di esempio per il mondo. E in questo caso la rivendicazione è probabilmente giusta. “Come la Russia (nel 1917), il Cile si trova davanti alla necessità di dare inizio a un nuovo modo di edificare la società socialista. […] I pensatori sociali avevano ipotizzato che i primi a farlo sarebbero stati i paesi più sviluppati, probabilmente l’Italia e la Francia, con i loro potenti partiti operai d’ispirazione marxista. Tuttavia, ancora una volta la storia ci permette di rompere con il passato e costruire un nuovo modello di società, non dov’era a livello teorico più probabile, ma dove si sono create condizioni concrete più favorevoli alla sua realizzazione. Il Cile è oggi la prima nazione della Terra chiamata a realizzare il secondo modello di transizione alla società socialista” [dal discorso di Allende del 21 maggio 1971]. L’esperienza cilena è quindi molto di più che una curiosità politica per gli osservatori dei paesi sviluppati. Il socialismo non arriverà mai in Europa occidentale seguendo la via cinese o vietnamita, ma è possibile riconoscere in Cile i lineamenti di situazioni politiche che potrebbero verificarsi anche nelle società industrializzate e di strategie che potrebbero essere applicate anche nelle società industrializzate, così come i problemi e le difficoltà della “via pluralista” al socialismo. Questo non vuol dire che tale esperimento debba fallire, e meno che mai che non debba essere tentato. Perfino la parte più seria e rigorosa della sinistra insurrezionalista cilena, il Mir (Movimento della sinistra rivoluzionaria), si è trasformata in un gruppo di pressione alla sinistra di Unidad popular, cercando di radicalizzarne la politica attraverso iniziative di base. Tuttavia il Mir sostiene gli sforzi di Allende, anche se conserva un proprio apparato ben organizzato e in futuro prevede un confronto armato. Il gruppo non sembra condividere la tendenza suicida della sinistra più estremista, che punta

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ad “acuire la lotta di classe” in modo da arrivare il prima possibile allo scontro, dopo il quale ci sarà la cara, vecchia rivoluzione o (più probabilmente) la sconfitta totale e un gran numero di eroici martìri. Tuttavia, l’istintiva simpatia che proviamo per il governo di Allende e l’appassionata speranza nel suo successo non dovrebbero renderci ciechi di fronte alla complessità della situazione. Proprio perché il Cile potrebbe essere un modello per altri, dobbiamo guardare con distacco e realismo alla sua esperienza. II Il turista esperto di rivoluzioni che arriva a Santiago in questi giorni non avverte l’atmosfera – difficile da definire ma facile da riconoscere – delle grandi lotte popolari di liberazione. A parte alcuni studenti armati, non ci sono quasi segnali visibili del rivolgimento in atto, se non sui giornali. Manca del tutto quella familiare esplosione di opuscoli, fogli e volantini: le librerie di estrema sinistra appaiono austere rispetto alle loro equivalenti di Parigi o degli Stati Uniti. Le occupazioni delle terre, anche se sulla stampa hanno avuto molto risalto, sono trascurabili, almeno nei numeri. Di solito sono sit-in di dieci o venti persone. I manifesti, i ritratti e gli striscioni politici non sono ovunque, e nemmeno i murales politici. A un primo sguardo il Cile appare molto simile a com’era – poniamo – nel 1969. La spiegazione ufficiale secondo cui i cileni sono piuttosto riservati non sembra molto convincente. Forse in effetti non hanno la tipica esuberanza caraibica, ma quando vogliono non se ne stanno certo con le mani in mano. Lo stato d’animo cileno odierno, per come può percepirlo il visitatore casuale, può ricordare quello che si respirava nei mesi (ma non nelle prime settimane) immediatamente successivi alla vittoria del Fronte popolare in Francia nel 1936 o dopo il successo dei laburisti nel Regno Unito nel 1945. È un atteggiamento di solida soddisfazione tra i sostenitori

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della sinistra organizzata, di attesa tranquilla e priva di ardore messianico tra i poveri non organizzati, e d’isteria tra i ricchi e i portavoce della destra. L’emozione immediata della vittoria si è placata mentre la fase caratterizza dai problemi e dal crollo del morale, per quanto prevedibile, non è ancora arrivata. Le cose vanno meglio per i poveri: finora il governo dell’Up ha mantenuto le promesse. D’altra parte, con l’eccezione forse di alcune fabbriche, miniere e di qualche insediamento rurale particolarmente organizzato e politicamente strutturato, la vita rimane per lo più com’era prima. Ma l’ex classe dirigente sa di non dirigere più nulla, e proietta il proprio timore di essere annientata in scenari di totalitarismo e di schiavitù che sono semplici sciocchezze retoriche in un paese dove le campagne elettorali e le discussioni politiche sono uno sport riservato alla classe media, come il golf in altri paesi. Tra le frange più estreme della destra questa retorica – evidente sui giornali – raggiunge vette di pura paranoia: il terrore già incombe sul paese, la polizia appoggia gruppi di assassini di sinistra e così via. La prima cosa da osservare è che Unidad popular è entrata in carica con due gravi handicap politici. Ha conquistato solo la maggioranza relativa (in realtà ha ottenuto il 3 per cento in meno rispetto alle elezioni perse nel 1964) e si è ritrovata con un insufficiente appoggio popolare e un parlamento controllato dai suoi avversari, per non parlare delle forze armate, tenute a bada solo grazie all’indubbia legalità del comportamento della coalizione di governo. La sinistra deve operare esclusivamente nell’ambito dei poteri e delle leggi di cui disponevano i suoi predecessori. Potrebbe, e può far approvare nuove leggi solo con il consenso dell’opposizione oppure quando si tratta di provvedimenti impossibili da contrastare, come la nazionalizzazione del rame, contro cui nessun politico cileno sarebbe disposto a schierarsi pubblicamente. Sotto diversi aspetti il governo ha quindi le

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mani più legate di prima, anche a causa dell’emendamento costituzionale del gennaio 1971, il prezzo pagato ai democristiani per poter entrare in carica. L’episodio è descritto con chiarezza nel libro Chile al rojo di Eduardo Labarca Goddard. È vero che oggi i poteri di Allende includono la facoltà di chiedere un referendum per scavalcare l’opposizione parlamentare, ma l’esigua maggioranza del suo governo – resa ancora più esile dalle elezioni comunali del 1971 – rende il referendum uno strumento dagli esiti imprevedibili. Una situazione del genere è perfetta per le capacità di Salvador Allende che, tra le altre cose, è un politico di stampo ortodosso brillante e raffinato. Inoltre, ha l’immensa e giustificatissima fiducia in sé stesso dell’uomo che ce l’ha fatta contro ogni previsione: nessuno credeva che potesse vincere e il suo stesso partito a un certo punto ha cercato di ritirare la sua candidatura. Per un uomo del genere è uno scherzo entrare in carica con entrambe le mani legate dietro la schiena: una dall’opposizione, che controlla il parlamento e il sistema giudiziario, l’altra dai complessi equilibri della sua stessa coalizione, con le sue tensioni e divergenze interne. Allende può fare molto anche nei limiti dei poteri di cui dispone. Costituzionalità e legalità garantiscono ai presidenti cileni un notevole raggio di azione, compresa l’applicazione di circa 17mila leggi in vigore tra cui possono essere scovati molti provvedimenti utili. Per fare un esempio, l’Up ha ampiamente usato un decreto, mai abrogato, della Repubblica socialista cilena del 1932, durata appena due settimane, un breve interludio di sinistra nella fase più critica della grande depressione, quando il paese fu guidato dal colonnello Marmaduke Grove. La norma consente al governo di espropriare qualunque fabbrica o industria che “non fornisce al popolo” beni e servizi. Il decreto è stato usato per nazionalizzare vasti settori industriali. [...] Gran parte del sistema bancario non ancora sotto controllo pubblico è stata nazionaliz-

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zata con un semplice espediente, non previsto dall’opposizione: il governo ha acquistato la maggioranza delle azioni al prezzo di mercato per poi dirigere le banche in quanto loro nuovo proprietario (questo espediente ha suscitato una furia del tutto irrazionale tra gli imprenditori, i quali sono pronti a considerare ingiuste le loro stesse pratiche quando queste sono messe in atto da un governo socialista). In un modo o nell’altro, l’Up ha quindi portato avanti il suo programma senza dover contare sulla buona volontà dell’opposizione. Progressi così rapidi sarebbero stati ovviamente impossibili senza la politica attuata dal Partito democratico-cristiano tra il 1964 e il 1970. È un errore pensare che l’Up si sia trovata a dover affrontare una situazione “feudale” o un’economia fatta solo di libere imprese concorrenti tra loro. Il Cile era già un paese dominato, almeno in teoria, dal settore pubblico, che rappresentava il 70 per cento circa degli investimenti, dava direttamente lavoro a un’ampia fetta della popolazione ed era abituato a interferire anche in modo deciso con la proprietà privata, nazionale e straniera. La strada per qualunque tipo di sviluppo economico in America Latina passa per riforme sociali radicali, un’importanza sempre maggiore del governo nell’economia e un certo controllo sul capitale straniero, il che non implica di per sé il socialismo. Quindi l’Up non ha avuto bisogno di far approvare una legge di riforma agraria, ma ha potuto semplicemente accelerare i progressi piuttosto esitanti fatti grazie alla legge esistente. Il governo di Allende non solo può esercitare una serie di poteri generali, ma ha a disposizione molte leggi e istituzioni specifiche che possono essere adattate per servire i suoi scopi. [...] Il secondo handicap politico dell’Up è strettamente legato al primo. Oltre a un sostegno insufficiente, non ha riserve adeguate di lealtà politica. A livello numerico oggi può contare su circa la metà dei votanti, un netto miglioramento rispetto al settembre 1970, ma un ap-

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Santiago, 1971

Santiago, 1971. Brigata giovanile al lavoro

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poggio ancora esiguo per affrontare le crisi della politica costituzionale rivoluzionaria. Ha uno zoccolo duro di sostenitori: il proletariato industriale e urbano, specialmente i minatori, e i sindacati organizzati e ora unificati. Solo in questi settori – e malgrado l’esistenza di sindacati moderati, che sollevano problemi economici e non politici, come i minatori del rame – Allende può fare appello a quelle riserve d’impegno che fanno superare ai governi i momenti difficili. Il classico proletariato di questo tipo in Cile è più corposo e meglio organizzato che in altri paesi latinoamericani, e garantisce al governo un ampio sostegno. Ma è comunque una minoranza della popolazione. Il sostegno degli altri tre settori decisivi della popolazione è condizionato, inaffidabile o assente. Le campagne (dove vive circa il 30 per cento della popolazione) rimangono in maggioranza ostili ad Allende, malgrado l’aumento di consensi della sinistra negli ultimi anni, soprattutto tra il proletariato rurale. L’effetto politico di una rapida riforma agraria sarà quasi sicuramente quello di aggravare le divisioni all’interno di questo settore. Ma il governo potrebbe anche fare a meno di approvarla. La classe media, piuttosto ampia e formata prevalentemente di colletti bianchi, molti impiegati nel settore pubblico, non si opporrebbe a un esecutivo socialista: non è ciecamente devota a una società basata sull’impresa privata, anche se con ogni probabilità al suo interno permangono forti pregiudizi anticomunisti. E sicuramente non ha alcuna empatia verso i più poveri. D’altra parte, i ceti medi devono essere convinti che il governo socialista durerà, o almeno che si ripresenterà con la stessa frequenza degli esecutivi non socialisti. Queste persone non ne sono ancora persuase. Il grosso del sostegno per la sinistra, non ancora mobilitato, è rappresentato dal variegato e inclassificabile mondo dei lavoratori poveri, il cui numero è in costante aumento [...]. Il gergo politico-sociale tende a definire questi soggetti come “semiproletari” (a volte

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addirittura come “lumpenproletari”), oppure come “pobladores”, con riferimento alle baraccopoli e agli insediamenti periferici in cui molti di loro vivono [le población], o anche solo negativamente come “popolazione marginale”. Questa classe, però, non è affatto marginale, ma centrale per la società latinoamericana, perfino in Cile. E la sinistra tradizionale non riesce a inquadrarla: non è stata infatti assorbita nel classico “proletariato” da nessun processo storico spontaneo, non è organizzabile mediante i soliti sistemi, per esempio i sindacati, né è tenuta insieme da un’ideologia di coscienza di classe come il marxismo.[…] Eppure, nonostante la difficoltà di mobilitarle con gli strumenti del movimento operaio, queste persone sono un bacino elettorale naturale della sinistra, perché sono povere e perché lavorano. Inoltre, ora che la classe contadina si sta assottigliando, rappresentano sempre di più il settore decisivo delle masse latinoamericane. I democristiani sono riusciti a esercitare una certa attrattiva su di loro. A giudicare dalle elezioni comunali del 1971, l’Up non le ha ancora convertite in massa. III Cosa ha ottenuto il governo Allende fino a oggi? Cosa ha cercato di fare? Di certo ha capito che il tempo a sua disposizione è poco. E perciò concentra le sue riflessioni sul periodo – da sei mesi a tre anni – entro il quale si deciderà il suo destino. Oltre quest’orizzonte non si fanno elaborazioni politiche, il che è un peccato. In primo luogo, le politiche a breve termine si basano sul programma concordato dai sei partiti della coalizione di Unidad popular, una complessa piattaforma negoziata con grande difficoltà prima delle elezioni e oggi vincolante. Nessuno sa cosa potrebbe emergere dalla prossima fase di discussione, tanto che i politici più prudenti cercano in ogni modo di rinviarla. È vero che tre dei sei partiti dell’Up ormai hanno un peso trascurabile, e che i Radicali sono allo sbando. Ma la componente della sini-

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stra ex democristiana non è certo insignificante. Inoltre, mentre su importanti questioni Allende è d’accordo con il Partito comunista, tra le correnti del suo Partito socialista, e tra questo e i comunisti, ci sono profonde divergenze. In secondo luogo, il governo sa perfettamente che la situazione politica insolitamente favorevole in Cile e al livello internazionale, la stessa che gli ha permesso di entrare in carica e che da allora ha paralizzato i suoi avversari, probabilmente non durerà a lungo. Finora i militari hanno temporeggiato. Ma prima o poi il governo dovrà arrivare al confronto e alla lotta, anche se non necessariamente nelle modalità ingenuamente previste dagli apocalittici dell’ultrasinistra: per esempio un golpe militare contro la resistenza di massa, o un’invasione armata straniera. Sul breve periodo la situazione può ancora essere prevedibile, ma non certo sul medio periodo. In terzo luogo c’è una questione urgentissima: i problemi economici del Cile, che si aggraveranno nei prossimi due anni e che derivano da due caratteristiche dei paesi semicoloniali, in Cile fortemente presenti: la dipendenza da un unico bene di esportazione e l’inefficienza dell’agricoltura, che rende il paese (come altri in America Latina) un grande importatore di beni alimentari. L’80 per cento delle entrate estere del Cile è generato dal rame. Un terzo delle sue importazioni, in termini di valore, è rappresentato dai generi alimentari. Non c’è praticamente nulla che il Cile possa fare a breve termine per il prezzo del rame, che deve restare ben al di sopra dei 40 centesimi di dollaro al chilo per far quadrare i calcoli dei pianificatori. Tuttavia diversi fattori, compresa la guerra del Vietnam, potrebbero provocare una caduta del mercato tale da innescare conseguenze catastrofiche. Purtroppo, i due metodi più ovvi per combattere la crisi – esportare più rame e tagliare le importazioni – sono difficili da attuare. La produzione di rame non crescerà quanto si spera o quanto è stato pianificato. E se tutto va bene,

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la produzione agricola rimarrà stabile. Il boom della spesa interna farà crescere la domanda di materie prime industriali, l’altra grande voce delle importazioni. I leader cileni sono piuttosto ottimisti sulla possibilità di superare queste difficoltà. Perfino i politici più prudenti calcolano che non dovrebbero volerci più di tre anni. Ma quei tre anni saranno difficili e cruciali, e terranno il governo molto occupato. IV In questa situazione il governo ha perseguito quattro obiettivi. In primo luogo, ha puntato a introdurre “cambiamenti strutturali” irreversibili nell’economia entro il suo primo anno di vita. L’idea alla base di questa decisione sembra essere il semplice determinismo economico. E il metodo è sostanzialmente quello dell’esproprio e della nazionalizzazione di attività economiche cruciali. Stando al suo programma, l’Up ha in mente una struttura tripartita dell’economia: un settore pubblico dominante, un settore misto pubblico-privato, soprattutto nei comparti dove sono essenziali il progresso tecnico e gli investimenti (anche stranieri), e un settore privato di piccole e medie imprese. Per adesso sono stati acquisiti dal governo rame, nitrati, carbone, ferro, banche, cemento, buona parte dei tessili e numerose altre aziende. Anche il commercio con l’estero presumibilmente dovrà essere nazionalizzato. In secondo luogo, l’esecutivo ha cercato di stimolare la produzione e quindi l’occupazione, allo stesso tempo migliorando il tenore di vita dei cittadini attraverso l’incentivazione della domanda, vale a dire combinando un netto aumento dei salari con il congelamento dei prezzi. Il governo pensava, abbastanza correttamente, che l’industria cilena stesse funzionando non a pieno regime, e che potesse sopportare quest’operazione senza nuovi investimenti immediati. Dare più soldi ai poveri, si sosteneva, avrebbe stimolato l’occupazione, perché i meno abbienti sono interessati a beni con una produzione a più alta intensità di ma-

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nodopera rispetto ai prodotti più sofisticati venduti alla classe media. Non bisogna dimenticare che i clienti effettivi dell’industria cilena erano non più di 300mila su una popolazione di nove milioni di persone. Era un piano rischioso, e nei primi drammatici mesi dopo il voto del 4 settembre 1970, quando l’isteria borghese ha provocato fughe massicce di capitali e il crollo temporaneo della produzione, non sembrava affatto promettente. Ma già nella primavera del 1971 questa linea politica si era dimostrata efficace, con enorme sollievo del governo, grande sorpresa degli osservatori stranieri e straordinari benefici per la popolazione cilena. La disoccupazione era la più bassa degli ultimi dieci anni e, se non fosse stato per alcuni problemi di pianificazione che hanno ritardato il rilancio dell’edilizia, sarebbe stata ancora inferiore. Il tenore di vita dei poveri è migliorato sensibilmente. I critici sottolineano che con l’aumento della produzione anche l’endemica inflazione cilena ha rialzato la testa. Per anni oscillante tra il 25 e il 30 per cento, negli ultimi dodici mesi del governo del democristiano Eduardo Frei aveva raggiunto il 35 per cento. Quest’anno non supererà la metà di quella cifra. La politica economica interna a tutt’oggi è il successo più significativo del regime di Allende. Dimostrare i vantaggi materiali di un governo popolare è indispensabile per l’Up, visto che deve competere in libere elezioni. Allende non potrebbe, neppure se lo volesse, imporre al suo popolo i sacrifici materiali che i cubani fanno da anni. Questo limita rigidamente lo spazio di manovra del governo, anche se alcuni suoi sostenitori non sono disposti ad ammetterlo. I comunisti, che sono i più realistici, ritengono che durante la presidenza Allende l’industria pesante debba essere subordinata a quella dei beni di consumo. Allende probabilmente è d’accordo, ma la questione è ancora dibattuta. Se poi migliorare il tenore di vita dei cittadini possa bastare a fornire adeguato appoggio a un governo di rivoluzionari costitu-

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zionali è un’altra questione. Il terzo obiettivo discende da queste riflessioni. Il governo deve aumentare la produzione, soprattutto di rame e generi agricoli, per mantenere quantomeno l’approvvigionamento di prodotti alimentari e beni di consumo. Anche qui Allende e i comunisti sono d’accordo. Poiché il razionamento, o un taglio incontrollato alle importazioni, sarebbero un suicidio politico, la “battaglia per la produzione” è la priorità. Rame e agricoltura pongono però questioni diverse. Buona parte del rame cileno proviene da tre miniere che in precedenza appartenevano a compagnie statunitensi: El Teniente, Chuquicamata e Salvador. Dal settembre scorso la produzione è calata, cosa grave, e i costi sono aumentati notevolmente, fattore forse meno grave. In che misura questa situazione sia provocata dal sabotaggio di Kennecott e Anaconda o, più verosimilmente, dal loro tentativo di approfittare dei depositi in previsione dell’esproprio, non è chiaro. Sicuramente è una conseguenza della diffusa mancanza di collaborazione da parte di dirigenti e supervisori (a detta dell’opposizione circa 300 si sarebbero già dimessi), soprattutto quelli che erano pagati in dollari americani che poi cambiavano sul mercato libero, oggi nero, in cambio di mucchi di escudos cileni. Inevitabilmente, bloccando i pagamenti in dollari ai cileni si è ridotto il reddito reale di queste persone, nonostante la disponibilità del governo a riconoscere loro stipendi in escudos anche molto elevati. Le difficoltà, tuttavia, derivano anche dagli interessi della piccola aristocrazia operaia dei minatori del rame, che se la passavano piuttosto bene nell’economia da “enclave” gestita delle multinazionali statunitensi e che difficilmente in futuro potranno mantenere lo stesso tenore di vita. Questi gruppi operano a spese del più vasto interesse popolare. Gli scioperi dei lavoratori e dei tecnici scoppiati l’estate scorsa riflettono entrambi questi fattori. Il problema della produzione agricola è molto più complesso. Il governo democristia-

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no aveva subordinato il ritmo della riforma agraria all’aumento della produzione, cosa che ha fatto con discreto successo. Sui 250mila contadini senza terra o con piccoli appezzamenti, solo 30mila hanno ricevuto la loro porzione di terra. Alla fine della presidenza Frei il malcontento contadino accumulato in anni aveva già cominciato a manifestarsi in una serie di occupazioni e altri conflitti rurali. Anche se Allende non avesse vinto, la riforma agraria avrebbe comunque dovuto essere accelerata. L’Up lo ha fatto, ma con un costo immediato in termini di raccolti, com’era prevedibile. L’entità del calo della produzione è difficile da quantificare, in parte perché non si possono non considerare gli effetti di alcune calamità naturali avvenute nella prima metà del 1971, in parte perché queste cifre sono comunque il risultato di congetture. I problemi sono stati causati dal sabotaggio o dalla realizzazione di capitali di quanti temevano gli espropri, soprattutto nell’autunno 1970, quando molti capi da latte e da allevamento sono stati svenduti ai macelli, oltre che dall’incertezza dei contadini sulle loro prospettive e dalla demoralizzazione di chi lavorava nei settori coinvolti dalle riforme. Questa situazione è stata anche aggravata dalla mancanza di una chiara politica agricola da parte dell’Up. Quando le riunioni indette per discutere della riforma agraria si trasformano in discussioni ideologico-programmatiche, è facile che i contadini pensino che il vecchio governo forse era troppo prudente, ma almeno si sapeva chi prendeva le decisioni e quali erano queste decisioni. Gli elementi suicidi o utopisti dell’Up hanno perfino esagerato la portata dei problemi, parlando, senza prove e in modo irresponsabile, di un crollo della produzione del 50 per cento nel settore interessato dalla riforma, un calo che, sostengono oggi, sarà più che compensato dai progressi della lotta di classe rurale. Secondo le stime più accurate, una contrazione ci sarà, ma sarà in parte compensata dal nuovo raccolto. Per adesso il governo ha reagi-

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to rallentando l’espropriazione delle terre: le requisizioni ufficiali sono state sospese fino all’aprile 1972. Quanto a quelle non ufficiali, l’opinione del governo si ricava dal messaggio di Allende: “Le occupazioni indiscriminate di tenute e terreni sono inutili e dannose”. Su questo punto Allende (sostenuto dal Partito comunista) si scontra con l’opposizione del Mir e con elementi dell’ala sinistra del suo stesso partito. L’idea di Allende presuppone che le occupazioni (tomas de fundos) siano controllabili. Probabilmente è così, perché solo in piccola misura sono il prodotto di disordini popolari ingestibili. Delle 150 occupazioni registrate in un giorno a caso dell’estate 1971, circa il 25 o 30 per cento erano tentativi degli indios mapuche di recuperare le terre comunitarie perdute. Questa oggi è sicuramente la parte più spontanea delle agitazioni agrarie, ma in ogni caso non è – o non più – un movimento di massa. [...] Le altre erano in parte occupazioni di contadini senza terra che chiedevano espropri, ma soprattutto incidenti legati a controversie di lavoro che non avevano nulla a che vedere con la proprietà della terra. In entrambi i casi le proteste non hanno mai coinvolto più di una manciata di persone. Al momento il Cile è parecchio lontano da un’insurrezione contadina. Il quarto obiettivo del governo è di non essere rovesciato. Il pericolo di un golpe militare, sebbene presente, non sembra immediato. La ragione principale non sta nella correttezza costituzionale dell’esercito, che pure esiste, ma nella consapevolezza che un simile evento porterebbe alla guerra civile. Una cosa è occupare qualche strada e qualche palazzo per poi caricare il presidente sul primo aereo diretto all’estero, un’altra è aprire un conflitto armato dagli esiti imprevedibili. Questo è forse il principale vantaggio di un governo marxista legittimo e diverso da quelli composti da normali riformatori populisti civili, le cui politiche a breve forse non sono invece così diverse. Finora i populisti hanno

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mostrato la tendenza ad abdicare nel momento dell’inevitabile confronto con la destra: in Brasile Getúlio Vargas [1882-1954, presidente del Brasile dal 1930 al 1945 e dal 1951 al 1954] si è suicidato, Jânio Quadros [1917-1992, presidente del Brasile dal gennaio all’agosto del 1961] si è dimesso e João Goulart [1918-1976, presidente del Brasile dal 1961 al 1964] è fuggito. I riformatori marxisti sanno che la trasformazione sociale dovrà affrontare tali sfide e – ce lo auguriamo – sono pronti ad affrontarle: in questo modo il rischio di colpo di stato si riduce. Non c’è molto che l’Up possa fare per gestire le forze armate, tranne tenere la polizia sotto un efficace controllo politico e circondare il presidente di un’efficiente scorta reclutata tra i quadri politici (soprattutto ex militanti del Mir). Entrambi questi provvedimenti sono stati accolti con insulti isterici dalla destra. Che poi Unidad popular possa davvero prevalere in caso di guerra civile è tutt’altra questione, ma a breve termine la sua determinazione serve a scoraggiare avventure militariste. La destra, quindi, preferirebbe non tornare al potere con un’insurrezione armata; sicuramente questa è la posizione dei democristiani. I governanti cileni hanno beneficiato troppo a lungo di un costituzionalismo stabile e pacifico per privarsene a cuor leggero. Al momento esiste una promettente strategia alternativa: riunificare le forze antimarxiste, che con la loro spaccatura hanno consentito l’elezione di Allende, e riportare al potere Frei nelle elezioni del 1976. È una prospettiva realistica. Se l’Up non riuscisse a far crescere i suoi consensi, e soprattutto se il suo appoggio fosse eroso dai problemi economici, la destra potrebbe avere la meglio alle urne già nel 1973, perpetuando il suo controllo sul parlamento e mantenendo la facoltà di sabotare le iniziative dell’esecutivo. In altri termini, quello che l’opposizione deve fare è semplicemente aspettare che l’Up esaurisca le sue energie. È la classica strategia usata per indebolire i fronti popo-

lari, e ha già funzionato in passato. L’obiettivo immediato sarebbe quindi una vittoria contro la sinistra alle legislative del 1973, seguita da tre anni in cui la presidenza di Allende avrà minimi spazi di manovra. Più di un imminente scontro aperto, è questa la paura degli elementi più realistici dell’Up, anche se nessuno trascura la minaccia di una vera controrivoluzione. I motivi per essere preoccupati esistono, anche se la destra sopravvaluta la probabilità di un crollo economico, così come ha costantemente sopravvalutato le difficoltà economiche del governo dal 1970. Cosa può fare Allende? Sicuramente più di quanto non si stia facendo ora. V Unidad popular deve affrontare tanti problemi che sfuggono al suo controllo. Ma può agire su tre fattori. Il primo è il tempo, il ritmo dei cambiamenti. Le trasformazioni rivoluzionarie dipendono dalla capacità di prendere e mantenere l’iniziativa. Per le rivoluzioni costituzionali vale lo stesso: mantenere l’iniziativa rispettando le regole, come in una partita a scacchi. A me sembra che l’Up non abbia ancora preso questo ritmo. La campagna elettorale ha generato una spinta, che è stata rafforzata dall’enorme e inattesa soddisfazione per la vittoria e per il seguente fallimento dei tentativi di impedire ad Allende di entrare in carica. Paralizzata dalla sconfitta inattesa e terrorizzata da una possibile rivoluzione, la destra è invece rimasta per diversi mesi senza una strategia, limitandosi a cercare di mettersi in salvo. Al contrario, Unidad popular aveva un programma e doveva portarlo avanti rapidamente, cosa che ha fatto, almeno finché non sono cominciate le prime difficoltà. Finora l’Up ha sfruttato quella spinta iniziale, che però prima o poi si esaurirà e dovrà essere sostituita da una vera strategia. Qualunque governo riformista tende a comunicare con grande slancio. Una volta esaurito tale slancio, per i governi non rivoluzionari è diffi-

Temuco, regione del Cautín, 1971. Indio mapuche durante l’occupazione di un latifondo. (Paola Agosti)

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cile trovare una nuova spinta. Non riuscendo a trovare nuove energie, questi governi finiscono per essere messi sulla difensiva dai nemici, interni ed esterni, e dai pericoli globali. Allora sono perduti. Si consumeranno, come i vecchi fronti popolari, tra risse intestine; oppure creeranno le condizioni per farsi rovesciare. Nel 1970 e nel 1971 l’Up non ha avuto bisogno di generare la sua forza motrice. Oggi deve farlo. Quest’obiettivo è ostacolato dal fatto che Unidad popular è una coalizione, la sua seconda grande debolezza. Per essere chiari, l’Up è un veicolo progettato per frenare piuttosto che per muoversi. Per impedire che un qualunque partito (leggi: il Partito comunista) prenda il controllo esclusivo su un qualsiasi settore del governo, tutti gli incarichi sono stati distribuiti seguendo un rigido sistema di quote, in modo che nessun funzionario abbia un superiore o un subordinato diretti del suo stesso partito. Per impedire che un partito (leggi di nuovo: il Partito comunista) possa definire da solo la linea politica, “l’azione del presidente, dei partiti e dei movimenti che formano il governo sarà coordinata da un comitato politico di tutte queste forze”, che avrà la responsabilità di valutare “la fattibilità delle misure economiche e sociali del governo e di quelle concernenti l’ordine pubblico e la politica internazionale, nonché i metodi con cui realizzarle”. Questo significa che ogni dipartimento e agenzia dello stato sono formati di strutture intrecciate e legate a partiti rivali. I funzionari sono leali prima di tutto a queste strutture. Le controversie si risolvono con negoziati tra i partiti, e le più rilevanti arrivano ai vertici del potere. Questo significa anche che i relativamente pochi ministri o funzionari non di partito devono legarsi a una determinata macchina partitica per potere agire, e che è estremamente difficile licenziare i funzionari nominati dalla politica ma incapaci di svolgere il loro lavoro: sono infatti protetti dalla necessità di mantenere in equilibrio il sistema delle quote. Ma soprattutto questo significa che qualunque

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cosa non specificamente prevista nel patto preelettorale è affrontata con difficoltà e lentezza, e che è quasi impossibile prendere decisioni rapide e chiare. L’effetto di questa paralisi è disastroso. Qualunque governo non in grado di prendere decisioni rapide è nei guai, ma un governo rivoluzionario che non riesce a farlo è in guai molto grossi. È vero che oggi la fiducia tra i partiti è molto maggiore di quanto non fosse prima delle elezioni. Perfino il Mir è sceso a patti e ha instaurato un rapporto di lavoro sia con i socialisti sia con i comunisti, con i quali le relazioni sono però decisamente migliori, perché “con il Pc è possibile confrontarsi per arrivare a intese razionali”. Simili relazioni non sono facili da instaurare con il Partito socialista, che è poco più di un insieme di gruppi rivali, sistemi di clientele e baronie politiche. Il suo maggiore problema oggi è l’ala sinistra. Malgrado la retorica estremista, ben pochi dei clan che compongono la sinistra del Partito socialista sono veri rivoluzionari. Qualcuno direbbe – cito un progressista imparziale e disilluso – che “è gente che non riesce ad abituarsi all’idea di essere al governo, perché stare all’opposizione era molto più facile”. Alcuni osservatori meno benevoli aggiungerebbero che spostarsi sempre più a sinistra è una scappatoia facile per chi non è all’altezza degli incarichi di governo. È difficile valutare quanto conti la sinistra all’interno del Partito socialista. È stata sicuramente la sinistra a scegliere il nuovo segretario generale nel luglio di quest’anno, anche se Carlos Altamirano, che mira a diventare il prossimo candidato presidenziale dell’Up (la legge vieta due mandati presidenziali consecutivi), difficilmente si identificherà con una corrente specifica. È probabile che la sinistra socialista si rafforzerà grazie alla competizione con i comunisti e a una familiare forma di reazione alle delusioni e alle incertezze del governo popolare. Se la sinistra, o qualunque dei suoi gruppi, conquistasse il controllo del partito, sarebbe almeno una soluzione al pe-

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renne problema della sua frammentazione. Ma ciò è improbabile, e quindi le speranze vanno riposte in Allende, la cui posizione gli dà un peso di rilievo nel partito. Purtroppo, finora, il presidente è stato molto prudente nell’usare questo potere. Per farla breve, l’Up soffre della fragilità tipica delle alleanze e delle coalizioni di partito nelle democrazie parlamentari. La “via cilena al socialismo” non implica necessariamente un partito di sinistra unico, e tanto meno monolitico, prospettiva che non sarebbe comunque realistica. Implica, però, una maggiore unità all’interno dell’alleanza. In terzo luogo, finora l’Up non è riuscita a mobilitare adeguatamente le masse. Ancora una volta, ha riproposto la debolezza dei suoi antenati storici: la democrazia parlamentare borghese e il movimento socialista dei lavoratori. I protagonisti della politica parlamentare pensano alla mobilitazione delle masse sostanzialmente in termini di voti da ottenere, mentre i leader tradizionali della classe operaia immaginano i sindacati e i partiti che vanno a prendere i lavoratori nelle miniere e nelle fabbriche per portarli in piazza. Nessuna di queste varianti è adeguata agli scopi rivoluzionari, soprattutto nei paesi dove le elezioni non fanno parte della cultura politica popolare o dove i lavoratori poveri non compongono un proletariato industriale organizzato. Tutte le tradizioni che discendono dal liberalismo e dal classico movimento socialista dei lavoratori, inoltre, sono state sempre scettiche verso l’emergere di figure carismatiche, la personalizzazione della politica, il rapporto diretto tra i leader e le masse e la demagogia, fenomeni che di solito accompagnano la mobilitazione degli “emarginati”. All’interno dell’Up si fa un gran parlare di come ottenere più voti alle prossime elezioni o di come formulare un referendum che consenta di conquistare la maggioranza; c’è perfino la tendenza a prendere le tornate elettorali minori più seriamente di quanto meritino. Ci

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sono molti progetti su come mobilitare i lavoratori organizzati e costituire consigli contadini o comitati di fabbrica. La sinistra più radicale, al contrario, ha la semplice convinzione che tutto andrebbe bene se solo “la lotta si trasferisse nelle fabbriche, nei latifondi, nelle baraccopoli, nelle scuole e nelle università”. Ma il fatto è che tra un’elezione e l’altra i poveri non organizzati non sono ancora coinvolti continuativamente nel governo. Non c’è un equivalente del dialogo continuo, anche se unilaterale, che Fidel Castro intrattiene con il suo popolo, o delle chiacchierate al caminetto di Franklin Delano Roosevelt trasmesse alla radio statunitense. Non è semplicemente una questione di stile retorico. Per tenere aperto un colloquio costante tra un governo popolare e la sua gente non serve la demagogia. Qui si tratta del modo di fare politica, non di retorica o di propaganda. È un problema che riguarda la persona del presidente Allende più che Unidad popular, anche se i sospetti di un eccesso di presidenzialismo tra i partner della coalizione dovranno probabilmente essere superati (e i partner in questione dovrebbero ricordare che i cittadini che negli Stati Uniti diventarono democratici grazie a Franklin Delano Roosevelt lo sono rimasti anche dopo la sua morte: la personalizzazione della politica può innescare cambiamenti politici permanenti). I lavoratori poveri non organizzati ascolteranno Allende perché ha prestigio, potere e la funzione quasi paterna di ogni presidente, e perché rappresenta un governo che è chiaramente al loro fianco. È da Allende che possono essere mobilitati come forza nazionale, permanente e decisiva, come ha fatto Peron in Argentina. Allende può scegliere uno stile diverso da quello del suo amico Fidel, ma non dovrebbe dimenticare una delle poche lezioni della rivoluzione cubana applicabili in Cile, vale a dire che un leader capace di parlare direttamente ai più emarginati e meno politicizzati dei suoi concittadini poveri è un bene pre-

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zioso, addirittura indispensabile per una rivoluzione che non può costringere il popolo ma deve persuaderlo. VI Come si può sintetizzare il primo anno della via cilena? Il governo ha dimostrato ciò che non aveva bisogno di essere provato, e cioè che un’alleanza di sinistra può arrivare al potere. E ha dimostrato anche una cosa più importante, vale a dire che quest’alleanza può agire con rapidità e decisione, pur non avendo il controllo delle forze armate e di componenti cruciali della macchina costituzionale. Ha dimostrato determinazione nel procedere verso l’edificazione del socialismo, anche se si è limitata a riforme di stampo non socialista. Finora quanto ha fatto non è qualitativamente molto diverso da quello che hanno fatto, stanno facendo o potrebbero fare altri governi latinoamericani. Ma a differenza dei governi riformisti, quello dell’Up si basa fermamente sul movimento operaio, e la sua ispirazione primaria non è il nazionalismo o la “modernizzazione”, ma l’emancipazione degli sfruttati, degli oppressi, dei deboli e dei poveri. Ha dimostrato grande intelligenza e abilità politica. E i suoi successi, soprattutto in campo economico, sono stati significativi. Queste cose, tuttavia, non ne garantiscono la sopravvivenza. Come succede in gran parte dei paesi semicoloniali sottosviluppati, o piuttosto mal sviluppati, il governo cileno è alla mercé di forze che non può controllare. Per adesso non sappiamo ancora se la coalizione sarà capace di superare la stagnazione economica, a cui si unisce un’inflazione costante e molto elevata. L’esperienza mostra che porre rimedio a queste debolezze a lungo termine è più difficile di quanto pensino i politici. E ancora non sappiamo neppure come la via cilena potrà superare il principale problema delle economie sottosviluppate, ossia la scarsità di posti di lavoro. Le difficoltà a breve termine della produzione, sono gravi, ma non decisive.

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Sotto il profilo politico, la via cilena non ha ancora dimostrato che da un fronte popolare può nascere una vera rivoluzione, seppure costituzionale. L’esperimento cileno è ostacolato non solo da forze esterne, ma anche dalle caratteristiche del sistema politico da cui esso stesso è emerso e delle forze che si sono unite per formarlo. È troppo presto per giudicare. Il governo non è stato ancora messo davvero alla prova, e la capacità dell’Up di superare le sue attuali debolezze di stile, organizzazione e politica non va sottovalutata. L’anno prossimo potrebbe far vacillare la coalizione o potrebbe invece trasformarla. Ma questa trasformazione non accadrà spontaneamente. Qui non serve ragionare in dettaglio sulla natura di queste crisi e di queste sfide. È un compito che spetta ai cileni e ai giornalisti che raccontano il paese giorno dopo giorno. Unidad popular riuscirà a superare i problemi? I suoi avversari, tra cui quasi certamente il governo statunitense, sono convinti di no. I leader del governo cileno sono invece cautamente ottimisti, o forse non pessimisti, perfino in privato. E lo sono anche alcuni cileni molto in gamba e non impegnati in politica con cui ho parlato. Un allibratore che permettesse all’istintiva simpatia per Allende di condizionare il suo giudizio forse quoterebbe 6 a 4 il successo del governo, quota che non è scoraggiante. Se invece non si facesse influenzare dalle sue simpatie, potrebbe offrire una quota di 2 a 1. Molto più di quanto chiunque sarebbe stato disposto a scommettere sui bolscevichi dopo il 1917. O, se è per questo, sulla vittoria di Allende tredici mesi fa. u gc Eric Hobsbawm (1917– 2012) è stato uno storico britannico. Di formazione marxista, ha insegnato al Birkbeck College di Londra dal 1947 fino alla morte. La sua opera più celebre è Il secolo breve (Rizzoli 1995). Il testo di queste

pagine è stato pubblicato in Italia nel libro Viva la revolución (Rizzoli 2016). The New York Review of Books è un quindicinale statunitense di cultura, politica e attualità. È stato fondato nel 1963.

Internazionale storia | Cile 1973

Contagio rivoluzionario L’esperimento politico avviato in Cile da Salvador Allende può fare proseliti in Europa. In particolare in Italia, dove il Partito comunista ha la forza e gli strumenti per arrivare al potere. I timori di Washington e della Nato in un commento del quotidiano newyorchese Cyrus Leo Sulzberger, The New York Times, Stati Uniti, 13 gennaio 1971 Pochi giorni fa Régis Debray, giovane attivista francese di sinistra che ha accettato un incarico nella nuova amministrazione cilena, ha dichiarato che la rivoluzione in Cile avrà ripercussioni importanti in Europa. Nessun osservatore attento della politica internazionale potrebbe mettere in dubbio quest’affermazione. Luis Corvalán, leader dei comunisti cileni, ha ribadito il concetto, scegliendo di diffonderlo dalle pagine dell’Unità, il giornale del Partito comunista italiano, sottolineando che il popolo del Cile “ha conquistato il governo, che però rappresenta solo una parte del potere politico”. Corvalán ha fatto presente che per i suoi è arrivato il momento di “consolidare la vittoria e fare ulteriori passi avanti, fino a controllare l’intero apparato statale e politico. La situazione non è ancora irreversibile. Tocca a noi fare in modo che lo diventi”. Da queste dichiarazioni si possono trarre due considerazioni. La prima è che il Partito comunista cileno e i suoi alleati, che nella co-

Internazionale storia | Cile 1973

alizione Unidad popular (Unità popolare) operano al fianco di gruppi più moderati, sono determinati ad assumere il pieno controllo del paese, gradualmente ma irrevocabilmente, nascondendosi dietro l’apparente moderazione di Allende. La seconda è che lo stesso potrebbe succedere in Italia: non a caso l’Unità è considerato uno strumento di propaganda ideale. L’Italia è politicamente malata, nonostante tutti gli sforzi che il presidente Saragat, il primo ministro Colombo e il ministro degli esteri Moro stanno facendo per curarla. Negli ambienti della Nato c’è grande preoccupazione. Il Partito comunista italiano è infatti rimasto compatto nonostante le vicissitudini interne ed esterne, e si sta lentamente avvicinando alla conquista del potere attraverso le elezioni, esattamente come hanno fatto i comunisti alleati di Allende. Se in Italia dovesse emergere un governo regolarmente eletto e dominato dai comunisti, la Nato non potrebbe fare molto

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per opporsi. Presumibilmente, seguendo l’esempio di Corvalán, i comunisti italiani si metterebbero immediatamente all’opera per rendere irreversibile il cambiamento politico. Uno sviluppo di questo tipo distruggerebbe sostanzialmente l’Alleanza atlantica, danneggiando il Mercato comune europeo e alterando drasticamente il delicato equilibrio di potere nel Mediterraneo, dove la flotta sovietica si sta progressivamente rafforzando e la diplomazia di Mosca continua a guadagnare spazio. Per questo motivo, quando si pronuncia la parola Cile, la Nato pensa immediatamente all’Italia. Così com’era possibile scorgere in anticipo gli eventi che si sono verificati sulle Ande, oggi s’intravede chiaramente una minaccia simile lungo gli Appennini, minaccia che di certo non si concretizzerà domani, ma potrebbe farlo nell’arco di tre o quattro anni. Trent’anni fa si temeva che i comunisti potessero conquistare l’Europa occidentale con la forza, attraverso gli scioperi generali guidati dai partiti di massa in Francia e in Italia o tramite un’invasione sovietica. Quelle paure sono progressivamente svanite dopo il fallimento degli scioperi del 1947, dopo la sconfitta elettorale dei comunisti italiani nel 1948, dopo la nascita della Nato e la sconfitta di Mosca nella crisi scoppiata con il blocco di Berlino del 1948. Oggi incombe una minaccia diversa. I partiti comunisti di Francia e Italia proclamano la loro indipendenza dall’Unione Sovietica, il loro patriottismo e la loro intenzione di arrivare al potere attraverso le urne. In Francia le probabilità che ciò accada sono minime, ma in Italia sono molto più concrete. Per questo motivo, nel paese la rivoluzione cilena è seguita con attenzione e con una certa inquietudine. Allende, che è un socialista e non un comunista, è riuscito a far accettare il suo regime all’esercito, alla chiesa, ai magnati dell’economia e alla comunità internazionale. Con grande astuzia, il presidente ha saputo raggiungere i suoi obiettivi senza imporre né la censura

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né restrizioni sui viaggi o sulla religione. Allende ha nazionalizzato alcune grandi imprese (come le banche e le aziende del carbone e del rame) e dietro le quinte sta assumendo il controllo di molte altre. Il tentativo di creare una situazione “irreversibile” è portato avanti con grande perizia. I comunisti sono impazienti, e quando Allende sembra frenarli molti elogiano la sua relativa moderazione. Nel frattempo il suo regime sta conquistando una popolarità sempre maggiore, promettendo di ridistribuire la ricchezza e la manna dal cielo. In una situazione normale la Nato non si preoccuperebbe più di tanto degli sviluppi in corso in un paese del sudovest del Pacifico, ma in questo caso non può non fiutare un pericolo, considerata la propria impotenza di fronte a un’ipotetica ripetizione dello stesso processo in Italia, paese dalla cruciale importanza strategica. Debray ha rinviato il suo viaggio da una prigione boliviana all’Europa e ha apparentemente abbandonato le esortazioni alla rivolta armata per appoggiare la rivoluzione pacifica in Cile. Se a ciò aggiungiamo che Corvalán sta informando i compagni italiani non solo di quello che è stato fatto, ma di come è stato fatto e di cosa aspettarsi nel prossimo futuro, è evidente che la Nato deve necessariamente leggere la lezione sudamericana in chiave europea. u as

Cyrus Leo Sulzberger (1912–1993) è stato un giornalista e scrittore statunitense, tra gli anni quaranta e cinquanta corrispondente dall’estero del New York Times. Apparteneva alla

famiglia che controlla il quotidiano dal 1896. The New York Times è uno dei principali quotidiani statunitensi, fondato nel 1851 come New-York Daily Times.

Internazionale storia | Cile 1973

Un’altra arma di lotta Nell’emancipazione sociale e culturale dell’America Latina la musica popolare ha un ruolo essenziale. Il peso delle parole e delle melodie del cantautore cileno Víctor Jara Carmen Grandé, La Nación, Argentina, 24 gennaio 1971 La sua immagine è inconfondibile. Chioma folta, carnagione scura. Lo sguardo profondo e vivace, labbra spesse che si aprono per rivelare denti perfetti, bianchi e vitali. Passo sicuro e morbido, la chitarra e una camicia viola, arancione, o semplicemente una maglietta. Non tradizionale, non convenzionale. Pensieri chiari. Impegnato nei confronti della sua arte, del suo popolo, della sua storia. Chi è Víctor Jara? Da quando è il Víctor Jara che conosciamo? Spiega lui stesso: “Da quando ho memoria: una festa, eravamo a casa e mangiavamo un pezzo di carne. Non è giusto che i bambini muoiano di fame. Non è giusto che un uomo passi la vita a lavorare la terra che non gli appartiene, e che quando muore non abbia un pezzo di terra dove poter far riposare le sue ossa”. Mentre parla torna con la memoria alla sua infanzia, passa al setaccio i ricordi, frugando in ogni angolo della mente, per non lasciare nulla di non detto. “L’ingiustizia e l’inganno devono finire. La lunga e umiliante

Internazionale storia | Cile 1973

schiavitù dell’America Latina procede irreversibilmente lungo la strada della liberazione”. Víctor racconta i tempi del passato: “I miei genitori erano mezzadri, vivevano nei pressi di Chillán. Eravamo sei fratelli. Quando mangiavamo la carne era una festa. Non sapevo perché. Più tardi l’ho capito. Gli inverni erano lunghi. Pativamo il freddo”. I suoi genitori. Simboli di malinconia, di povertà, dei tempi passati. Quando parla del padre, i suoi occhi si accendono di rabbia. “Passava le giornate con l’aratro, mentre la terra si apriva in solchi per ricevere il seme”. Sua madre era cantante. “Trascinava i più piccoli a cantare alle feste e alle veglie funebri. Non credo di averla mai disturbata, mi piaceva sentirla cantare. Cercava di ingannarci per renderci felici. Era una donna coraggiosa e combattiva. Sono stato un bambino felice grazie a lei”. Ora la sua mente viaggia altrove, verso il luogo dove si trasferirono in seguito. Lon-

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Internazionale storia | Cile 1973

quén, un piccolo villaggio incastonato sui monti, nell’entroterra di Talagante. “La mia festa preferita era la sfogliatura del mais. Tutti partecipavano. Di sera si raccontavano storie di personaggi malvagi. Noi bambini lottavamo contro il sonno. Mi rannicchiavo a guardare le stelle e ad ascoltare la chitarra”. La chitarra, la sua compagna, l’ha sempre accompagnato. “Dopo, quando siamo arrivati a Santiago, nel quartiere Pila, ho conosciuto Omar Pulgar, che mi ha insegnato a suonare. A orecchio”. Poi c’è stata la scuola di teatro dell’università del Cile. Per caso, da un momento all’altro, senza preavviso, Jara entra nel gruppo Cuncumén. “Lavoravo con Silvia Urbina, Helia Fuentes, Rolando Alarcón, Alejandro Reyes. Ho cominciato ad apprezzare quello che la vita mi aveva dato fino a quel momento, e mi sono unito alla ricerca e allo studio dei nostri balli e delle nostre canzoni”. Più tardi sono arrivate le tournée, i recital, e si è ritrovato a cantare come solista. Ed è arrivata l’occasione. “Quando ero direttore dell’Accademia del folklore nella casa della cultura di Ñuñoa sono andato a parlare con Ángel Parra e gli ho detto che volevo cantare. Oggi sono ancora lì. Violeta mi ha sempre incoraggiato. Il gruppo mi ha dato le ali per comporre e maturare come interprete”. Tra canto, chitarra e danza, Jara si è diplomato alla scuola di teatro come direttore artistico, grazie a una borsa di studio. Oggi fa parte del dipartimento di teatro. Ha diretto diversi spettacoli. “Alcuni mi hanno dato grandi soddisfazioni personali. Grazie a questo lavoro ho conosciuto uomini e maestri di profonda integrità, come Atahualpa del Cioppo, e ho avuto la fortuna di essere invitato anche altrove”. La canzone di Jara è un grido, una risposta, un lamento, un sentimento, una storia d’amore, un’accusa. Tutto. Ma cos’è tutto questo per lui? “Un modo di comunicare con gli altri. Di cercare una vicinanza. Di sentire il bisogno di essere migliori. Chi vuole davvero interpreta-

re l’anima del popolo deve percorrere molte strade. E queste strade non devono puntare a risolvere conflitti personali, ma soprattutto alla ricerca e alla scoperta di sentirsi un essere umano utile per gli altri. Sentirsi compagno della donna che lava, dell’uomo che tiene gli animali, di chi scava solchi nella terra, di chi scende in miniera, di chi getta le reti in mare, della propria compagna, dei propri figli, dei compagni di lavoro. Sentire che, così come siamo uniti da una canzone, siamo uniti anche dal desiderio di costruire una vita migliore. Una vita più giusta, più umana”. Il canto unisce. Da sempre. Da quando l’uomo è sulla terra, si è unito agli altri e ha cantato contro le avversità: perché il raccolto fosse abbondante, per la virtù dell’amore. Quando ha smesso di cantare ha impiegato il suo tempo ad armarsi, a dominare e a uccidere. “Questo momento che mi è stato concesso sulla terra lo voglio passare cantando, tenendo tutti per mano, contro quelli che ancora si ostinano a rimanere separati”. La canzone di Víctor Jara nasce dall’esperienza. La sua definizione più accurata è: cantore popolare. Esprimere un sentimento. Il sentimento non ha restrizioni o frontiere. Il suo canto non è folcloristico. È semplicemente canto. Una canzone senza pretese. Rivolta a tutti coloro che la sentiranno come la sente il suo creatore e interprete. La sua base è la terra stessa. Si proietta verso l’alto. Nasce dalle viscere della terra e arriva alla gola, così, semplicemente, senza pretese. Senz’altra intenzione che quella di dire qualcosa. Arte dell’uomo per l’uomo. Artista al servizio del popolo. Combinazione di attività. Un ricco mondo interiore in cerca di un luogo dove riversare questa inquietudine. Teatro, composizione, canzone. Tutto unito. Tutto perfettamente incastrato. E ora? Quando la canzone avrà occupato un posto privilegiato, Víctor lascerà il teatro? “Non ho mai pensato di abbandonare il teatro. È solo una questione di tempo

Victor Jara. (Ap/LaPresse)

Internazionale storia | Cile 1973

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e di possibilità di scelta. Posso ancora continuare a perfezionare entrambe le cose”. Chiede tempo per fare tutto. Gli inviti non mancano. Li accetta sempre. Non per ottenere la fama internazionale, ma come un pezzo di Cile che va a raccontare agli altri paesi quello che siamo. “Credo che quello che devo fare devo farlo qui, nel mio paese, dove c’è molto da fare. Molto da costruire. C’è ancora da combattere, bisogna bandire tutto il male seminato negli anni passati, i semidei del denaro che hanno corrotto la mia terra al punto da farle avere una delle più alte percentuali di mortalità infantile. Spero di essere vivo per celebrare la grande vittoria che il nostro paese e poi tutto il continente celebreranno con la sconfitta dell’analfabetismo, della schiavitù e dello sfruttamento; quando finalmente sarà sconfitto l’imperialismo statunitense e tutta la mafia che lo sostiene sotto la maschera della ‘democrazia’ e della ‘libertà’”. A questo punto, Jara smette di essere un cantante e diventa un accusatore. Si sente parte del mondo, uno dei tanti ingranaggi di un sistema intricato. Le sue frasi sono accompagnate da gesti bruschi e violenti. Tutto in lui è una reazione angosciosa, un tentativo di combattere il nemico dell’America Latina. “Nessuno potrà fermare la rivoluzione latinoamericana. Ora che siamo al governo sentiamo l’eco della fratellanza fin oltre le Ande. In campo artistico è chiaro che dobbiamo discutere, ma anche agire. Soprattutto fare per il gusto di fare”. Fare cose, dire cose. Tutto è necessario. Il canto e il teatro. Quando c’è qualcosa da dire, entrambi i linguaggi sono armi potenti. Cosa pensa di fare Víctor quest’anno, nel 1971? Quali attività lo terranno impegnato? Dove sta andando l’arte popolare? “Mi concentrerò sul canto. Mi dedicherò alla produzione di dischi, sono un po’ lento a farli uscire. La conquista di un governo popolare ci offre un percorso più ampio, più aperto. L’artista si sente più libero, più ottimista. Questo non si-

La Nación è uno dei più diffusi e longevi quotidiani argentini. È stato fondato a Buenos Aires nel 1870.

gnifica che la classe oligarchica sia finita, sta facendo di tutto per fermare il progresso. Abbiamo la speranza di fare qualcosa di migliore. Si vede in tutto ciò che viene realizzato. La risposta al nostro lavoro è stata enorme”. Oggi le canzoni di protesta sono finite, è il momento di costruire, identificare gli errori e i percorsi da seguire. Ma questo non significa che la canzone abbia smesso di essere ciò che era. “La canzone è ancora un’arma di lotta. La canzone autentica, la canzone rivoluzionaria, deve cambiare l’uomo affinché l’uomo possa cambiare il sistema. La ricerca dei compositori è ancora legata all’impegno a favore della realtà del Cile. Dobbiamo continuare ad andare in profondità. Ora che ci ascoltano dobbiamo usare questi stimoli per elevare il livello del popolo”. Questa sarà la strada da percorrere in termini di canzoni. Continuare a lottare, coinvolgere sempre di più il popolo. “Ci sono alcuni progetti che riguardano l’estero: Uruguay, Argentina, Perù, Europa. Se il mio lavoro in Cile me lo permetterà, lo farò. Non vado per mettermi in mostra, ma come testimone della realtà del mio paese. Vado perché sono invitato, non per conquistare il mondo. In ogni caso, penso che andrò in tournée, però nei paesi vicini. L’America Latina ha bisogno di noi. Se non mi invitano, cercherò comunque il modo per creare un’unità. Abbiamo gli stessi obiettivi. L’America Latina deve essere una grande casa, anche se i fascisti tengono chiuse alcune sue parti. Dobbiamo entrarci, aprirle. L’unione deve essere forte. Dobbiamo unirci per discutere, per vedere cosa faremo e come lo faremo. La nostra coscienza deve impegnarsi in questa direzione. Noi americani siamo alienati, perché siamo stati colonizzati intellettualmente per molti anni”. È difficile separare i vari aspetti di Víctor. Tutta la sua vita e la sua attività hanno come sfondo l’impegno nei confronti della realtà. Tutto è collegato. Tutto inevitabilmente ricade in un pensiero politico. u fr

Canzone Manifiesto Victor Jara Non canto per cantare o perché ho una bella voce, canto perché la chitarra ha senso e ragione. Ha un cuore di terra e le ali di una colombella, è come l’acqua santa benedice le gioie e i dolori. Qui il mio canto ha trovato il suo posto come diceva Violeta chitarra lavoratrice che profuma di primavera. Non è chitarra di ricchi o niente di simile la mia canzone è delle impalcature per raggiungere le stelle, il canto ha senso quando pulsa nelle vene di chi morirà cantando le verità vere, non l’adulazione effimera né la fama straniera ma il canto di questa striscia di terra fino alla fine del mondo. Là dove tutto arriva e dove tutto inizia il canto che è stato coraggioso sarà sempre una canzone nuova. Victor Jara scrisse il brano Manifiesto nel 1973, poco prima del colpo di stato militare. La canzone fu pubblicata l’anno seguente nell’album omonimo. Militante del Partito comunista cileno e sostenitore del governo di Salvador Allende, Jara fu arrestato subito dopo il golpe e rinchiuso, con altre migliaia di prigionieri politici, nello stadio nazionale di Santiago, trasformato in campo d’internamento, dove fu torturato e ucciso il 16 settembre 1973. Traduzione di Francesca Rossetti.

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Le prove generali

Tre anni prima del golpe dell’11 settembre, la Cia e l’azienda di telecomunicazioni statunitense Itt avevano già cercato di impedire ad Allende di arrivare alla presidenza. I dettagli del piano e le trame dei servizi statunitensi tra Washington e Santiago Jack Anderson, The Washington Post, Stati Uniti, 21 marzo 1972 I documenti segreti che l’International telephone and telegraph [Itt, azienda statunitense attiva nel settore delle comunicazioni e della tecnologia] non è riuscita a distruggere indicano che nel 1970 l’azienda ha manovrato ai più alti livelli per impedire l’elezione del presidente Salvador Allende, leader della sinistra cilena. Le carte rivelano che l’Itt ha collaborato regolarmente con la Central intelligence agency (Cia), considerando a un certo punto la possibilità di innescare un colpo di stato militare alla vigilia delle elezioni in Cile. Dai documenti consultati, l’Itt appare come una sorta di azienda-stato, con enormi interessi all’estero, capace di accedere alle più alte cariche di Washington, forte di un proprio apparato d’intelligence e perfino di un sistema di classificazione specifico. Le carte sono contrassegnate da una serie di indicazioni di segretezza, tra cui i timbri “confidential”, “system confidential” e “personal confidential”. Con ogni probabilità gli originali sono stati

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distrutti insieme ad altri sacchi di documenti che l’Itt ha ammesso di aver eliminato per evitare che diventassero di dominio pubblico. Il Washington Post è però riuscito a ottenerne le copie. I documenti dimostrano che i funzionari dell’Itt hanno intrattenuto stretti rapporti con William V. Broe, all’epoca direttore della divisione latinoamericana delle operazioni clandestine della Cia. L’azienda e Broe hanno complottato per alimentare il caos economico in Cile, nella speranza che questo spingesse l’esercito a organizzare un golpe per impedire che Allende conquistasse il potere. Il direttore dell’Itt, John McCone, ex capo della Cia, ha avuto un ruolo di primo piano in questo bizzarro intrigo. Il 9 ottobre 1970 McCone ha ricevuto un rapporto confidenziale da William Merriam, vicepresidente dell’Itt, a capo della sezione di Washington. “Oggi ho pranzato con il nostro contatto all’interno dell’agenzia McLean (la Cia) e ti riassumo le conclusioni della nostra conversazione”, scri-

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ve Merrim. “È ancora molto pessimista a proposito di una sconfitta di Allende in occasione del voto in parlamento del 24 ottobre. Sono tuttora in corso tentativi di avvicinamento con esponenti selezionati delle forze armate nella speranza che possano guidare una rivolta, ma finora non hanno prodotto risultati […]. Quasi nessun progresso è stato fatto per convincere gli imprenditori statunitensi a collaborare per provocare il caos economico. General Motors e Ford, per esempio, sostengono di avere troppi interessi in Cile per assumersi qualsiasi rischio e mantengono la fiducia che tutto si risolva da sé. La Bank of America ha accettato di chiudere i battenti a Santiago, ma ogni giorno continua a rimandare l’inevitabile. Secondo le mie fonti dobbiamo continuare a esercitare una forte pressione sulle aziende”. Le manovre per provocare un colpo di stato attraverso le pressioni economiche sono illustrate in un telex segreto datato 29 settembre 1970 e indirizzato al presidente dell’Itt Harold Sydney Geneen da uno dei suoi vicepresidenti, E.J. Gerrity. Segue la descrizione del piano da parte di Gerrity: 1. Le banche non dovranno rinnovare il credito, agendo senza ulteriori indugi. 2. Le aziende dovranno temporeggiare ritardando l’invio di denaro, le consegne, le spedizioni di pezzi di ricambio, eccetera. 3. Le aziende che si occupano di gestire i risparmi e i prestiti sono in difficoltà. Se sarà applicata la pressione necessaria dovranno fermare le attività, creando una situazione di forte disagio.

Jack Anderson (1922–2005) è stato un giornalista statunitense. Considerato tra i fondatori del moderno giornalismo d’inchiesta,

nel 1972 vinse il premio Pulitzer per un lavoro sugli accordi segreti tra l’amministrazione del presidente Richard Nixon e il Pakistan.

Internazionale storia | Cile 1973

4. Dovremmo interrompere qualsiasi forma di assistenza tecnica ed evitare di promettere aiuti per il futuro. Le aziende che sono nelle condizioni di fermare l’attività dovranno farlo. 5. È stata stilata una lista di aziende ed è stato suggerito di contattarle per trasmettere i messaggi indicati. Mi è stato riferito che tra tutte le aziende coinvolte, solo la nostra ha risposto senza esitazioni e ha compreso il problema. Il visitatore (evidentemente William Broe) ha aggiunto che il denaro non è un problema e ha ammesso che sono in corso diverse manovre, ma che vorrebbe ricevere maggiore assistenza per provocare un vero tracollo economico. Il giorno successivo, Gerrity ha inviato un promemoria all’ufficio dell’Itt a Washington riferendo un messaggio ricevuto da una fonte anti-Allende in Cile: “Mantenete la calma, non agitate le acque. Stiamo facendo progressi”. “Questo contrasta direttamente con le raccomandazioni di Broe”, si legge nel promemoria. “Vi contatterò in seguito per discutere nel dettaglio la reazione di Hsg (Harold S. Geneen) al mio telex. Hsg concorda con me sul fatto che i suggerimenti di Broe non siano applicabili. Tuttavia suggerisce di gestire Broe con la massima discrezione”. Nota: Un portavoce della Cia non ha voluto rilasciare commenti, rifiutandosi perfino di confermare l’identità di Broe. Abbiamo dovuto verificarla attraverso una fonte interna. Al momento della scrittura di questo articolo, l’Itt non aveva accettato di rispondere alle nostre domande. u as

The Washington Post è un quotidiano statunitense, il più longevo giornale di Washington, dove è stato fondato nel 1877.

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Un Vietnam silenzioso

JEAN-PAUL PAIREAULT (BRIDGEMAN IMAGES)

Inflazione, scioperi, negozi vuoti. E una polarizzazione politica senza precedenti. Dopo due anni e mezzo il progetto di Unidad popular è in estrema difficoltà. Il reportage di uno dei grandi inviati europei in America Latina Pierre Kalfon, Le Monde, Francia, 20–21 giugno 1973

Sciopero dei lavoratori della miniera El Teniente, 1973

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Santiago. settimana dopo settimana la crisi economica sta assumendo dimensioni tali che i sostenitori più lucidi di Unidad popular dichiarano ormai che per il governo si tratta di una questione di vita o di morte. Il Cile è malato d’inflazione. Finora era un male endemico e i cileni, come gli abitanti degli altri paesi del terzo mondo che comprano più di quanto possono vendere, avevano finito per considerarlo alla stregua di una calamità naturale contro la quale non si poteva fare niente. Ma oggi, con un tasso che batte tutti i record mondiali – 238 per cento – l’inflazione è entrata di forza nella vita quotidiana di tutti: ormai in un mese il potere d’acquisto crolla di quasi il 20 per cento. L’inflazione spiega quindi la nuova ondata di rivendicazioni salariali, gli scioperi, il mercato nero, la corruzione, la crisi di fiducia verso le istituzioni, le inquietudini dell’esercito e della chiesa, le velleità della “battaglia per la produzione” così come è stata concepita e, soprattutto, la separazione sempre più netta tra i partiti di sinistra e quelli di destra. Tutto è cominciato nel 1970, con l’applicazione di una strategia teoricamente corretta. L’apparato produttivo cileno ereditato dal presidente Allende era usato solo parzialmente. Di conseguenza, per farlo girare a pieno regime, ridistribuendo i redditi e combattendo la disoccupazione, era stato deciso un aumento generale degli stipendi. Questo ha portato a un aumento immediato della domanda di beni e servizi, che ha provocato un boom della produzione. Nonostante la tradizionale fuga di capitali e la contrazione, altrettanto tipica, degli investimenti privati di circa il 30 per cento, nel 1971 il pil cileno era aumentato dell’8,5 per cento mentre l’inflazione si manteneva a un tasso “ragionevole” (il 22,1 per cento). Quello è stato l’anno del “miracolo cileno”. Grazie al suo ruolo nell’economia, la borghesia cilena ha approfittato più di qualunque altra classe sociale di questa congiuntura favorevole, ma non si è mostrata riconoscente

Internazionale storia | Cile 1973

nei confronti di Allende. Al contrario, nel dicembre 1971 erano stati proprio gli abitanti dei quartieri residenziali che avevano cominciato a lamentarsi della mancanza di beni, problema che però allora ancora non esisteva. Nel 1971 la massa monetaria era più che raddoppiata, e l’anno dopo sarebbe ancora aumentata del 100 per cento. Nel solo mese di maggio il tasso di inflazione era stato del 24,9 per cento, superiore a quello del 1971. Di fatto la borghesia ha rimesso in circolazione i benefici accumulati negli anni, facendo però attenzione a non lasciare nulla al fisco, cioè organizzando un circuito clandestino di compravendita di prodotti essenziali. Questo ha segnato l’inizio del mercato nero. La pressione della domanda ha provocato un aumento dei prezzi nel settore “libero” che, per i prodotti con prezzi “bloccati”, si è tradotto in costi di produzione più alti: un prezzo che il governo ha dovuto compensare con nuova emissione di moneta. Inoltre il paese, che ha nazionalizzato il settore del rame senza indennizzare veramente le aziende statunitensi espropriate, comincia ormai a sentire gli effetti del blocco finanziario organizzato da Washington attraverso i diversi organismi internazionali. Infine, per rispondere a una domanda interna sempre più alta, il Cile ha dovuto importare una maggiore quantità di prodotti alimentari a prezzi che, a causa del basso valore del dollaro e della congiuntura internazionale, hanno fatto registrare aumenti considerevoli: 40 per cento per la carne, 51 per cento per il grano e addirittura 86 per cento per lo zucchero. Nel 1972 le importazioni di materie prime sono diminuite e la produzione industriale è scesa parecchio, attestandosi appena al 2,8 per cento. Anche la produzione agricola è calata. Il Cile di Allende, che aveva anche ereditato il più alto debito estero del mondo dopo quello di Israele (600 dollari per abitante), ha dovuto chiedere una rinegoziazione dei prestiti al “club di Parigi” [gruppo informale di

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organizzazioni finanziarie dei paesi creditori]. Ma prima di negoziare un accordo, gli Stati Uniti chiedono che le aziende minerarie ricevano le loro compensazioni. Per questo motivo Allende, riprendendo davanti alle Nazioni Unite la formula di Pablo Neruda, parla del suo paese come di “un Vietnam silenzioso”. L’inflazione è infatti solo il risultato economico di un processo politico di soffocamento condotto, dall’esterno, da una grande potenza decisa a far fallire nuove “rivolte” nei paesi vicini e, dall’interno, da una classe di proprietari che vuole mantenere i suoi privilegi. Quella dinamica che all’inizio era considerata come una specie di “deviazione controllata” dal normale percorso produttivo, ha acquisito una velocità tale da mettere in difficoltà l’intero apparato economico del paese e sembra ormai sfuggire al controllo degli apprendisti stregoni del ministero dell’economia che l’hanno messa in moto. In due anni il paese ha quintuplicato la massa monetaria. In circolazione ci sono banconote da 500 escudos e quelle da mille sono già state stampate. Il Cile è diventato uno dei pochi paese al mondo dove il valore del dollaro è in costante aumento, perché la fiducia nella moneta locale sta crollando. Quando l’inflazione diventa iperinflazione, e minaccia di raggiungere il 300 o addirittura il 400 per cento – come succede oggi in Cile –, nessuna pianificazione seria è più possibile. Già grave da un punto di vista economico, questa situazione lo è ancora di più per le sue conseguenze sociali, politiche e anche morali. L’inflazione colpisce infatti la quasi totalità dei lavoratori: l’88 per cento di quelli dipendenti e il 98 per cento degli operai cileni guadagnano meno di cinque salari di base (salario vital), una cifra molto bassa. Questo spiega il malcontento attuale e gli scioperi per le rivendicazioni salariali, fenomeni che l’opposizione non si fa remore a cavalcare, quando non li ha creati direttamente. La borghesia, che co-

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stituisce ancora una classe privilegiata, si affretta a trasformare le banconote, che rischiano di bruciarle in mano, in beni mobili o immobili. Questa distorsione tra offerta e domanda spiega la scomparsa dei prodotti essenziali. Ormai si fanno lunghe code per comprare zucchero, olio, riso, sapone, dentifricio o lana. Nelle ultime settimane anche la farina ha scarseggiato, al punto che i panifici hanno dovuto chiudere. In compenso tutto quello che manca nei negozi lo si trova senza troppe difficoltà attraverso altri canali. Nel paese sono apparsi dei veri e propri “professionisti delle code”, che comprano per rivendere a prezzi maggiorati, guadagnando così più di quanto farebbero con un lavoro regolare. Spesso si tratta di intere famiglie, per lo più provenienti dal sottoproletariato. Oggi la maggioranza dei cileni partecipa al mercato nero, in qualità di venditori o acquirenti. Questa situazione è ovviamente molto pericolosa per il governo. Nelle lunghe code davanti ai negozi le discussioni sono accese: “Prima di Allende si trovava di tutto; adesso non c’è più niente e bisogna fare sempre la coda”. Poche sono le persone consapevoli del fatto che prima di Allende il razionamento era di fatto imposto dal livello dei redditi. Quando il livello di consapevolezza politica è scarso e il malcontento è diffuso, tutti gli eccessi sono possibili. In passato in diverse occasioni la folla ha invaso e saccheggiato i supermercati o preso d’assalto camion carichi di zucchero. A Santiago tutti ricordano il 2 aprile 1957, quando un semplice aumento dei biglietti del trasporto pubblico innescò disordini che durarono giorni e che alla fine l’esercito soffocò nel sangue. Non siamo ancora a quel punto. Inoltre i problemi di irreperibilità dei beni hanno avuto l’effetto di obbligare i cileni a organizzarsi per formare i cosiddetti Jap (Comitati di approvvigionamento e di controllo dei prezzi), che di recente si sono moltiplicati. I Jap sono per lo

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OWEN FRANKEN (CORBIS/GETTY IMAGES)

aziende alimentari, l’espropriazione di tutti i centri privati di distribuzione (che costituiscono ancora il 70 per cento della rete distributiva),e di tutte le proprietà rurali superiori ai 40 ettari, e inoltre la creazione di negozi popolari nelle poblaciones. Dunque il problema dell’inflazione, che è di natura politica, oggi alimenta nuovi problemi politici

Santiago, 4 marzo 1973 più degli organismi popolari di distribuzione che collaborano con i negozi di alimentari di quartiere e vendono a prezzi calmierati, molto economici, i prodotti essenziali che il governo si sforza di fornire. L’opposizione ha subito protestato contro questo “controllo della pancia da parte dello stato” e chiede che le “juntas de vecinos”, i comitati di quartiere di orientamento democristiano creati dall’amministrazione del presidente Eduardo Frei, godano delle stesse attenzioni. A loro volta i pobladores [gli abitanti dei quartieri poveri di periferia] hanno costituito nella provincia di Santiago, la più popolosa del paese, quello che hanno chiamato “il primo soviet di approvvigionamento”. In questo modo si servono direttamente presso la centrale di distribuzione dello stato (Dinac) e danno da mangiare a 136mila famiglie povere. Questa “struttura di rifornimento diretto” oggi chiede a gran voce la creazione di una centrale di acquisto e di distribuzione per tutte le grandi

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La medicina militare I partiti di Unidad popular, imbarazzati da quello che l’opposizione presenta come il simbolo del loro fallimento, finora hanno esitato ad affrontare apertamente il problema dell’inflazione. La rivista di sinistra Chile Hoy è stata la prima a suonare il campanello d’allarme: “L’inflazione è l’espressione più concreta della lotta di classe. Il problema è politico e richiede soluzioni rapide. Ricorrere ai meccanismi monetari e fiscali per ristabilire l’equilibrio tra domanda e offerta è incompatibile con la caotica situazione attuale e implicherebbe una violenta repressione dei lavoratori. Lo stato deve controllare la distribuzione e l’insieme del ‘settore sociale’ dell’economia”. Il primo partito a reagire è stato il Partito comunista. Lo scorso 30 maggio un lungo appello dell’ufficio politico proclamava: “Per salvare il Cile bisogna fermare la spirale dell’inflazione”. Ma le soluzioni proposte alla classe operaia non erano nuove: “Bisogna prima di tutto mettere l’accento sulla produzione, rinviare a un secondo momento le rivendicazioni parziali, collegare i salari alla produzione, fornire dei contributi materiali, autofinanziare le imprese”. Due giorni dopo il quotidiano del Partito comunista cileno, El Siglo, affrontava con coraggio una questione legata direttamente all’inflazione e che da qualche tempo provoca grande scompiglio nella sinistra cilena: la corruzione. “Una grande offensiva contro i nemici del popolo sarebbe incomprensibile se non andasse di pari passo con la volontà di ripulire

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la casa dall’interno. Ci sono militanti di Unidad popular che si alleano con i responsabili della reazione. E non si fanno scrupoli a fare mercato nero con i momios (reazionari), ad accaparrarsi prodotti, a fare la bella vita. Una tessera di partito, qualunque sia il partito, non può servire da salvacondotto per l’immoralità e l’inefficienza”. All’inizio del mandato Allende aveva dichiarato che nel suo governo si sarebbero potuti mettere i piedi ma “non le mani”. In realtà in molti – in particolare tra gli interventores, indicati dal governo per dirigere le fabbriche nazionalizzate – non hanno saputo resistere alla tentazione di “mettere le mani” sui facili profitti, vendendo articoli al doppio o al triplo del loro prezzo, con o senza fattura. Il problema è sapere se la lotta all’inflazione debba passare prima attraverso una “battaglia della produzione”. Ma con cosa produrre? Se lo chiedono i duemila lavoratori della fabbrica di elettrodomestici Mademsa, passata da un anno nel “settore sociale”, cioè nazionalizzata. “In mancanza di valute estere, lo stato importa meno materie prime e di conseguenza ci manca l’acciaio. Così per rimanere occupati siamo ridotti a ‘inventare’ delle attività di carattere comunitario, sociale o culturale. D’altra parte a cosa servono i nostri sforzi se il frigorifero che consegniamo al commerciante va subito sul mercato nero, al triplo del prezzo? Dovremmo controllare soprattutto la distribuzione”. Un recente studio dell’università del Cile segnala che, anche recuperando le 91 grandi imprese previste dal piano e tenendo conto di tutte le aziende del “settore sociale” e del “settore privato”, lo stato riuscirebbe a controllare solo il 31,7 per cento della produzione industriale e solo il 29,3 per cento di quella alimentare. Nell’immediato una “battaglia della distribuzione” sembra un obiettivo più realistico. Condotta con energia dal governo, questa battaglia susciterebbe certamente un enorme

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sforzo di mobilitazione popolare contro il mercato nero. “Se il governo è capace di essere duro con i reazionari”, dice Manuel Dinamarca, segretario generale del sindacato Cut (Centrale unica dei lavoratori), “la classe operaia è capace di fare qualunque sacrificio, anche di nutrirsi solo di tè e di pane. Se il processo rivoluzionario avanza veramente senza accomodamenti né compromessi, gli operai sono pronti a dare la loro vita per difendere questo governo”. Allende ha la fortuna di poter ancora contare su una classe operaia combattiva e generosa, la cui tradizione di lotta è la più antica del continente, e che, anche se si sente frenata “dall’alto”, capisce confusamente che le difficoltà attuali sono legate a uno scontro profondo tra due tipi di società. Del resto il “voto di classe” del 4 marzo 1973 in favore di Unidad popular ha provocato un cambiamento sensibile della tattica dell’opposizione e della sua stessa strategia. Un anno fa uno dei teorici della democrazia cristiana, Claudio Orrego Vicuña, spiegava che la strategia adottata dal Partito democratico cristiano (Pdc) nei confronti del governo Allende si ispirava all’esempio dell’esercito russo in fuga davanti a Napoleone o a Hitler prima di contrattaccare: “Non accettare mai il combattimento quando l’avversario dispone di tutta la propria forza; arretrare fino a Mosca continuando ad attaccarlo per disorganizzarlo, demoralizzarlo; adottare la tattica della terra bruciata, abbandonare le città in attesa dell’arrivo dell’inverno. Solo allora arriverà il momento dell’offensiva”. Questo testo chiarisce il comportamento dell’opposizione nei confronti del governo Allende. Alleandosi opportunamente con la destra tradizionale, il Pdc ha fatto leva con intelligenza sull’usura del tempo, approfittando degli errori politici dell’Up e delle sue difficoltà finanziarie. La democrazia cristiana ha realizzato, per esempio, la politica della “terra bruciata” abbandonando una a una le 258 imprese

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BETTMANN/GETTY IMAGES OWEN FRANKEN (CORBIS/GETTY IMAGES)

Una manifestazione contro il governo, Santiago, 1 marzo 1973

Lustrascarpe a Santiago, 4 marzo 1973

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JEAN-PAUL PAIREAULT (BRIDGEMAN IMAGES)

fondamentali che in seguito a un “intervento” o a una “requisizione” sono state incluse nel settore “statale” dell’economia. Nel frattempo, dall’ottobre 1971 si lavora a un piano di riforma della costituzione, ma dopo un anno e mezzo di lavori parlamentari il progetto ha finito per provocare un grave conflitto tra il potere esecutivo, che ha messo il veto alla sua promulgazione, e quello legislativo, che pretende di avere il diritto di respingere il veto con una votazione a maggioranza semplice. La tattica della demoralizzazione, della disorganizzazione dell’avversario, si è espressa in modo ancora più sottile. L’opposizione ha respinto in modo unanime qualunque modifica del sistema fiscale (il 30 per cento delle risorse fiscali proviene direttamente dai contribuenti più ricchi, mentre il 70 per cento è il frutto delle imposte indirette che riguardano l’intera popolazione). L’opposizione rifiuta di fornire le risorse necessarie all’ultimo riaggiustamento dei salari. Lo stato ha quindi dovuto ancora una volta ricorrere all’emissione di denaro. Il risultato è stato un forte aumento dell’inflazione, una crescita dei prezzi e una riduzione del potere di acquisto, con grande esasperazione dei lavoratori, con scioperi e così via. In ottobre il Partito nazionale aveva creduto di poter rovesciare il governo attraverso lo sciopero dei commercianti e dei camionisti. Il Pdc aveva seguito l’iniziativa ma senza coinvolgere le sue truppe nella battaglia (funzionari, contadini più agiati e operai qualificati). La mobilitazione della classe operaia e la fedeltà dell’esercito gli avevano fatto capire che la situazione non era matura. Questa volta l’inflazione, con la mancanza di prodotti e il mercato nero che ne deriva, costituiscono un’importante carta da giocare per cercare di tagliare i rapporti tra Unidad popular e la sua base operaia, facendo leva sul malcontento e creando un’immagine repressiva del governo. L’obiettivo è vedere “fin dove si può arrivare”. La nuova tattica consiste nel favorire quello

Minatori di El Teniente, 1973 che qui è chiamato un “ottobre di fuoco”, che paralizzerebbe il paese, settore per settore, gruppo professionale per gruppo professionale, e creerebbe le condizioni per un cambiamento politico. L’opposizione cerca inoltre di screditare il governo affermando che non rispetta la legalità. In questo senso vanno interpretati i ripetuti attacchi nei confronti del rifiuto di Allende di promulgare il testo completo della riforma costituzionale. In parlamento le continue accuse di incostituzionalità rivolte ai ministri e agli “intendenti” di provincia (una trentina in 30 mesi), l’ostruzione sistematica contro qualunque progetto governativo, le critiche feroci e le risse hanno suscitato una recrudescenza del risentimento contro il governo. Questi eccessi tendono a provocare nell’opinione pubblica l’impressione che “l’emiciclo sia un emicirco”, e che la farsa che vi si recita non sia più in sintonia con il paese reale. Questo antiparla-

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mentarismo potrebbe sfociare in un totalitarismo tanto populista quanto fascista. A sinistra si ricordano i pericoli della guerra civile, evocando la Spagna del 1936, Giacarta e il massacro dei comunisti, e la “notte dei lunghi coltelli”, il massacro dei capi delle SA [Sturmabteilung, il primo gruppo paramilitare del potere nazista, che ebbe un ruolo essenziale nel portare al potere Adolf Hitler] nel 1934 compiuto dalle SS. A quanto pare gli enfants terribles del Mir (la sinistra rivoluzionaria) sembrano aver capito la lezione di Carlos Rafael Rodríguez, segretario generale del Pc cubano, che ha spiegato loro che non c’erano alternative di sinistra al di fuori di Unidad popular (Up). Ma il Pc cileno, irritato dagli attacchi contro le sue sedi e i suoi militanti e dall’intransigenza del Pdc, non parla più di negoziare ma di “avanzare senza transigere”, e un discorso simile lo fa Altamirano [Carlos], il segretario generale del Partito socialista. Di ritorno da Mosca, Altamirano sostiene che il

dilemma ormai è “socialismo o fascismo”, e rimprovera al governo di non usare tutti i suoi poteri per timore di uno scontro e in questo modo di incoraggiare la controrivoluzione. Nell’ottobre scorso, per risolvere la crisi, Allende aveva fatto ricorso alla “pozione magica” di un governo con la partecipazione militare. Adesso per combattere la malattia inflazionista e per proteggersi anche contro nuovi attacchi nei confronti della sua amministrazione, il capo dello stato pensa di nuovo di fare entrare alcuni capi dell’esercito nel suo governo. Ma una mossa del genere basterà a risanare l’economia? L’esito è tutt’altro che scontato. Una politica “tradizionale” contro l’inflazione dovrebbe passare necessariamente attraverso una repressione, aperta o nascosta, dei lavoratori. Forse Allende riuscirà a salvare la sua poltrona presidenziale, con il tiepido sostegno dei moderati dei due schieramenti. Ma questo basterà per salvare la “rivoluzione” cilena? u adr

Pierre Kalfon (1930–2019) è stato un giornalista, scrittore e diplomatico francese. Visse e viaggiò in America

Le Monde è uno dei maggiori quotidiani francesi. È stato fondato a Parigi nel 1944.

Latina per oltre trent’anni. Tra i suoi libri, in italiano è disponibile Il Che. Una leggenda del secolo (Feltrinelli 1998).

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Portfolio Vicente Larrea

Il manifesto illustrato è stato uno strumento di comunicazione fondamentale per raccontare ai cileni e alle cilene la via democratica al socialismo proposta dal governo di Salvador Allende. Riprendendo la tradizione dei grandi murales latinoamericani, grafici e illustratori hanno ideato modi semplici ed efficaci di dare forma visiva alle conquiste sociali e culturali della democrazia cilena. Tra questi artisti spicca Vicente Larrea che ha lavorato, tra gli anni sessanta e il 1973, a centinaia di poster, manifesti e copertine di dischi. Il suo stile, volutamente molto lontano dal realismo socialista di tanta propaganda sovietica, si rifaceva alla grafica della controcultura hippy da una parte e alle celebri locandine dell’artista statunitense Saul Bass dall’altra.

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ARCHIVIO LARREA

Rame cileno, in occasione della nazionalizzazione delle miniere di rame, 11 luglio 1971

ARCHIVIO LARREA (4)

Diamoci sotto con la produzione, campagna per il lavoro volontario, estate 1972

Centro culturale Pueblo, manifesto per l’inaugurazione, 31 dicembre 1971

Al lavoro!, campagna per il lavoro volontario, estate 1972

Progresso contadino, gennaio–febbraio 1967

ARCHIVIO LARREA (4)

Università del Cile, Prima scuola di primavera di Curicó, 16–29 ottobre 1966

Quarto festival nazionale di cinema di Viña del Mar, 2–8 maggio 1966

Uniti vinceremo, 31 maggio–4 giugno 1972

Con la ricostruzione rinasce la vita, aiuti dopo il terremoto dell’8 luglio 1971

ARCHIVIO LARREA

Seconda scuola di primavera di Curicó, Università del Cile, ottobre 1968

ARCHIVIO LARREA

Locandina per il film Ya no basta con rezar, regia di Aldo Francia, 1972

ARCHIVIO LARREA (4)

Festival di cinema bulgaro, 26 giugno–2 luglio 1972

Festival di cinema cecoslovacco, anni settanta

Scuola sindacale, 1965

Locandina del film Los testigos, regia di Charles Elsesser, 1971

ARCHIVIO LARREA (4)

Il Cile è adulto, ora il rame è cileno!!, 1971

26ª stagione dell’orchestra sinfonica del Cile, maggio–settembre 1967

Locandina dell’etichetta discografica Dicap, discoteca del cantar popular, 1968–1973

Dalla sicurezza dei bambini dipende il futuro del Cile, 1971

Il golpe e la dittatura

Il bombardamento del palazzo presidenziale della Moneda, 11 settembre 1973. (Ap/LaPresse)

Il giorno della verità

I carri armati. Gli spari. I civili in fuga. Il bombardamento del palazzo presidenziale. La mattina dell’11 settembre 1973 nella cronaca di uno dei più diffusi quotidiani cileni, il conservatore La Tercera, critico con Allende e favorevole all’intervento militare La Tercera, Cile, 13 settembre 1973 I drammatici eventi che hanno scosso il Cile sono cominciati alle 7.20 di martedì, quando i carri armati numero 219 e 198 dei carabineros si sono allontanati dalla residenza presidenziale di avenida Tomás Moro, dove erano di guardia. Si sono diretti a grande velocità verso La Moneda, dove sono arrivati insieme ad altri quattro carri armati alle 7.35. È stato il primo segnale per gli abitanti di Santiago: stava succedendo qualcosa di anomalo. Alle 7.40 sono arrivati quattro minibus da cui sono scesi circa trecento carabineros, a rinforzo della guardia del palazzo presidenziale. I carri armati e i poliziotti di rinforzo hanno lasciato il luogo intorno alle 9, quando è stato diffuso il primo comunicato della giunta militare. L’ex ministro della difesa José Tohá è arrivato al palazzo del governo. Al suo ingresso ha rilasciato una dichiarazione: “Il presidente Allende rimarrà alla Moneda. Sono venuto a prendere il mio posto al fianco del compagno Allende. Non cederemo il comando prima del

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3 novembre 1976”. L’operazione militare per controllare il centro si è svolta rapidamente. Per le strade del centro hanno cominciato a circolare camion con soldati armati di tutto punto e in assetto di combattimento. I civili sono stati fatti allontanare in fretta dalla zona. Tre carri armati hanno preso posizione in calle Morandé, calle Augustinas e calle Teatinos. Le porte della Moneda e degli edifici pubblici sono state sigillate ermeticamente. L’imponente fuoco diretto contro La Moneda è cominciato alle 9.45, quando sono entrati in azione i fucili e le mitragliatrici dei carri armati. Il frastuono dominava l’intero centro e i civili rimasti nella zona si sono messi a correre all’impazzata. Molte donne con bambini in braccio cercavano riparo. Alcuni uomini in uniforme le hanno aiutate a uscire dalla zona dei combattimenti. Gli uomini si gettavano a terra e, strisciando, cercavano riparo. I franchi tiratori civili posizionati negli edifici pubblici hanno cominciato a farsi sentire,

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com’era già successo il 29 giugno. Hanno sparato contro civili e militari dal ministero delle finanze, dalla banca nazionale e da altri edifici. I militari hanno reagito al fuoco, che arrivava con particolare intensità dal decimo piano del ministero delle finanze. Alle 10.15 il centro era quasi completamente deserto. Si vedeva solo il personale delle forze armate e dei carabineros che consolidava le proprie posizioni. Le stazioni radio trasmettevano gli annunci della giunta militare. Il rumore era particolarmente intenso nel quartiere di Alameda. All’improvviso alla finestra del secondo piano della Moneda, situata tra calle Morandé e calle Moneda (e corrispondente all’ufficio presidenziale), un civile ha cercato di posizionare una mitragliatrice di grosso calibro. Il tentativo è stato soffocato dall’intenso fuoco delle forze armate e dei carabineros. I vetri sono andati in frantumi e la persona che aveva cercato di opporre resistenza è scomparsa. I giornalisti che sono riusciti a raggiungere le vicinanze della Moneda (compresi quelli di La Tercera) si sono piazzati nei giardini di plaza de la Constitución. Da lì, con i carri armati da una parte e i franchi tiratori dall’altra, hanno cominciato a osservare quello che stava accadendo. Gli elicotteri hanno preso a sorvolare la Moneda e l’area circostante, comunicando alle centrali a terra tutti i movimenti sospetti. Con l’avvicinarsi dell’ultimatum per l’inizio del bombardamento della Moneda, i giornalisti hanno cercato di allontanarsi dalla zona circostante il palazzo. Tuttavia, mentre correvano lungo calle Augustinas in direzione est, sono finiti sotto il fuoco di alcuni franchi tiratori. Un soldato è subito intervenuto sparando diverse raffiche con il fucile per proteggerli, gridandogli allo stesso tempo di correre verso il garage sotterraneo dei carabineros di plaza de la Constitución. Ci sono riusciti. Il luogo era sorvegliato, ma l’atmosfera era più tranquilla. I giornalisti sono stati perquisiti

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amichevolmente e poi accompagnati in un bar dove gli è stato offerto un caffè. Erano le 10.50. Alle 10.58 i carabineros hanno intimato ai giornalisti di abbandonare immediatamente la zona. Nel frattempo, si sono messi in moto i mezzi della polizia stradale. I giornalisti sono stati portati all’angolo tra calle Morandé e calle Compañía sotto la protezione di carabineros armati. Sono rimasti lì fino a quando, pochi minuti dopo, i veicoli della stradale e altre auto private hanno svoltato rapidamente verso est: trasportavano personale che stava lasciando la Moneda, rispettando l’ordine di resa. La distanza e la velocità rendevano impossibile distinguerne i volti, ma erano persone sia civili sia in uniforme. Nel frattempo i franchi tiratori continuavano a sparare. Da un edificio di fronte al quotidiano El Mercurio sono stati sparati diversi colpi contro la sede del giornale, e il personale è stato costretto a cercare rapidamente riparo. Anche sull’Alameda il fuoco si è intensificato e si è cominciato a sentire il frastuono dei proiettili sparati dai carri armati. L’attacco alla Moneda Per quindici minuti due aerei Hawker Hunter hanno bombardato La Moneda. Si sono alzati in volo alle 11.55 e, dopo aver fatto un giro della zona intorno al palazzo del governo, si sono posizionati per puntare verso La Moneda. Il primo aereo non ha sparato. Il secondo è passato molto in alto. Poi hanno virato di nuovo e, mantenendosi a una distanza di circa un chilometro l’uno dall’altro, sono piombati sul loro obiettivo, che non era altro che La Moneda. Arrivati all’altezza della stazione di Mapocho, gli aerei hanno lanciato due bombe a razzo che sono esplose subito dopo, facendo tremare l’intera zona. Al quarto e quinto passaggio, gli aerei hanno continuato a bombardare il palazzo progettato da Joaquín Toesca. La potenza delle bombe stava aumentando. I velivoli sono nuovamente passati sul palazzo della Moneda per la

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sesta e la settima volta, e hanno continuato a sganciare bombe. Quando si sono avvicinati alla Moneda per l’ottava volta, con la missione di bombardarla, gli aerei sono stati attaccati con colpi di mitragliatrice. Anche dalla sede di un giornale del mattino si sono sentiti dei boati diretti contro i cacciabombardieri. Gli Hawker Hunter hanno bombardato nuovamente La Moneda per la decima e l’undicesima volta. La potenza delle bombe era sempre maggiore e nelle vicinanze nessuno riusciva a rimanere in piedi a causa dell’onda d’urto. L’orologio segnava le 12.06, e per la prima volta si è visto alzarsi dalla facciata della Moneda del fumo, che si è fatto più fitto con il passare del tempo. Il colore nero del fumo indicava che il palazzo era in fiamme. Il bombardamento aereo è continuato con il supporto a terra dei cannoni dei carri armati. Alle 12.08 il bombardamento a terra continuava con intensità crescente. Le fiamme che uscivano dalla Moneda erano visibili a un chilometro di distanza. Il fumo e le fiamme erano spinti dal vento verso plaza de la Constitución. I due aerei hanno compiuto un altro raid

La Tercera è uno dei principali quotidiani cileni, su posizioni conservatrici. Fondato nel 1950, fu tra i principali

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sulla Moneda. Solo uno, però, ha sganciato una bomba. Era la quindicesima. I cacciabombardieri hanno attaccato di nuovo, e ancora una volta solo quello che guidava la squadriglia ha sganciato una bomba. Dagli edifici vicini si continuava a sparare contro gli aerei, che tuttavia non sono stati colpiti. Alle 12.12 si è sentita un’altra ondata di esplosioni e il frastuono è stato più forte che mai. Quando l’orologio segnava le 12.15 gli aerei hanno virato e si sono ritirati. Erano state sganciate 17 bombe, le ultime due ad alta potenza, che hanno mandato in frantumi le finestre di tutti gli edifici in un raggio di due chilometri dalla Moneda. Secondo i testimoni oculari che hanno assistito al bombardamento, allontanati su richiesta dei militari che avevano circondato l’area intorno, il palazzo del governo è stato quasi completamente distrutto. Le prime bombe avrebbero colpito la casa militare del palazzo di governo. Il bersaglio successivo è stata la facciata dell’edificio progettato da Toesca. Poi le bombe si sono susseguite fino alla completa distruzione della Moneda. u fr

oppositori del governo di Allende e appoggiò il golpe militare dell’11 settembre 1973.

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Una tragedia già scritta

Per quanto brutale, il colpo di stato che ha affossato la democrazia cilena era prevedibile. Il progetto socialista di Unidad popular non aveva l’appoggio della maggioranza della popolazione e per questo era destinato al fallimento Raymond Aron, La Figaro, Francia, 14 settembre 1973 La vita e la morte del presidente Allende obbligano al rispetto. Fedele fino alla fine al suo giuramento costituzionale, Allende non ha né rinunciato al suo progetto socialista né soppresso le libertà pubbliche. Di fatto è stato l’esercito, e non la coalizione di sinistra, a proclamare lo stato di assedio e a sospendere il funzionamento della democrazia a lungo portata come esempio nei paesi dell’America Latina. Se la qualità delle persone potesse sostituirsi alla qualità delle idee, se un capo di stato fosse responsabile solo delle sue intenzioni, la storia del Cile sarebbe semplice da scrivere: i demoni armati hanno abbattuto la virtù al potere. Ma sarebbe bastato fare riferimento agli articoli che da diverse settimane inviavano tutti i corrispondenti per convincersi che, per quanto doloroso, il colpo di stato non è sorprendente. Entrambi gli schieramenti si preparavano a usare la forza, organizzandosi per una lotta che l’opinione pubblica prevedeva e

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temeva al tempo stesso. Inflazione galoppante, mancanza di prodotti di prima necessità, razionamento, mercato nero, file davanti ai negozi, esaurimento delle riserve di valute estere: così si presentava alle famiglie delle città il bilancio economico del socialismo alla cilena. Non c’è nulla che io detesti più dei colpi di stato militari, anche quelli che le circostanze e le manipolazioni permettono di nascondere sotto un’apparenza di legalità. Ma nel settembre 1973 quello che il commentatore non può né deve dimenticare è che l’esercito cileno era considerato fedele alle istituzioni, che lo è stato nel corso dei due primi anni del regime di Unidad popular e che è perfino accorso in aiuto del presidente Allende quando diversi dirigenti militari hanno accettato di entrare al governo. L’esercito ha rotto con la sua tradizione e con i suoi princìpi solo quando il fallimento del presidente Allende era ormai evidente. CONTINUA A PAGINA 60 >>

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THE NEW YORK TIMES/CONTRASTO HORACIO VILLALOBOS (CORBIS/GETTY IMAGES)

Il presidente Allende alla Moneda durante il colpo di stato, 11 settembre 1973

Carri armati diretti verso il palazzo presidenziale, 11 settembre 1973

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HORACIO VILLALOBOS (CORBIS/GETTY IMAGES)

L’ingresso della Moneda dopo l’attacco dei militari, 11 settembre 1973

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AP/LAPRESSE

Soldati bruciano libri e volantini comunisti, 23 settembre 1973

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HORACIO VILLALOBOS (CORBIS/GETTY IMAGES) HORACIO VILLALOBOS (CORBIS/GETTY IMAGES)

Abitanti di Santiago cercano di procurarsi del cibo, 13 settembre 1973

Un’auto distrutta durante il golpe, davanti alla Moneda, 11 settembre 1973

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Le forze armate non sono intervenute per fermare i progressi del socialismo – di fronte alle forti proteste e a un’economia in crisi, il presidente pensava ormai solo a rimanere in carica – ma per prevenire una guerra civile. Quale lezione possiamo trarre dal fallimento (o, se si preferisce, dalla condanna a morte) del socialismo alla cilena? Probabilmente nessuna. Ripetiamolo ancora una volta, come hanno già fatto molti altri: il Cile non è la Francia, e la cilena Unidad popular, caratterizzata da un’ala sinistra sempre più radicale, è diversa dall’unione della sinistra francese, coalizione sicuramente eterogenea ma controllata da due partiti principali. Quanto agli ufficiali dell’esercito francese, di certo non consentirebbero al loro capo di entrare in un governo diretto da Mitterrand [François, 1916–1996, leader socialista francese e presidente della repubblica dal 1981 al 1995] o da Marchais [Georges, 1920–1997, leader del Partito comunista francese dal 1972 al 1994]. Non dimentichiamo che già nel 1961 i soldati del contingente francese in Algeria seppero fare buon uso della radio a transistor [il riferimento è al cosiddetto “putsch dei generali”, un fallito golpe orchestrato da un gruppo di militari francesi di stanza in Algeria e annunciato alla popolazione via radio la mattina del 22 aprile 1961]. Non cerchiamo insegnamenti particolari, la storia più vicina a noi ci offre tutt’al più un’illustrazione di vecchie idee. All’origine della tragedia vedo piuttosto un deplorevole aspetto della costituzione cilena. Infatti, sulla base del sistema angloamericano, i cileni scelgono il loro presidente a suffragio universale diretto a turno unico. Questa procedura, che nel Regno Unito e negli Stati Uniti è resa tollerabile dal bipolarismo politico, diventa funesta quando, in seguito alla pluralità dei candidati, fa in modo che la più alta carica della repubblica possa essere sostenuta dalla minoranza del corpo elettorale. Scelto solo dal 36 per cento degli elettori, il presidente Allende aveva il di-

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ritto di instaurare il socialismo? Legalmente sì, senza dubbio. Ne aveva però la capacità politica? Su questo punto i dubbi sono numerosi. Un presidente di minoranza, senza maggioranza nelle assemblee principali, ha cercato di conciliare socialismo e democrazia, proprietà pubblica degli strumenti di produzione e libertà individuali. Il successo del suo esperimento ci avrebbe sorpresi di più del suo fallimento. Di fatto il progetto si è arenato nella burocrazia e nell’inflazione. Forse in alcuni paesi europei il suffragio universale diretto un giorno porterà alla presidenza il leader di una coalizione di sinistra. Ma questo leader, a differenza di Allende, avrà raccolto più della metà dei voti. Così, forte del suo mandato popolare, questo eventuale presidente potrà indirizzare il suo paese verso il socialismo non in assenza di legalità, per riprendere una celebre espressione di Léon Blum [1872–1950, politico socialista francese, presidente del consiglio per tre volte tra il 1936 e il 1947]. Nel migliore dei casi gli elettori di sinistra otterrebbero qualche punto in più oltre la fatidica soglia del 50 per cento. Ma cosa succederebbe dopo qualche mese o qualche anno? Le due coalizioni elettorali si trasformerebbero in blocchi armati pronti allo scontro e determinati alla prova di forza? In attesa che sia di nuovo la coalizione liberale o conservatrice a vincere le elezioni, la situazione somiglierà – quanto meno superficialmente – a quella dei paesi anglo-americani, dove gli elettori accordano i loro voti all’uno o all’altro blocco, senza che questo porti alla guerra civile. Quello che è determinante non è l’esistenza di due partiti, schieramenti o blocchi (fenomeno normale nelle democrazie), ma la portata dei cambiamenti che pretenderà di imporre la coalizione vincente, perché secondo le regole la vittoria elettorale è sempre temporanea. Che lo si voglia o meno, un governo legale che danneggia gli interessi vitali di una parte importante della popo-

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lazione si scontra inevitabilmente con un’opposizione progressivamente sempre più incompatibile con le pratiche della democrazia. Non penso ai trust, ai monopoli o ai grandi capitali, entità mitiche dell’immaginario collettivo; penso, invece, ai camionisti e ai commercianti, ai medici, ai proprietari di terre o d’imprese, ai piccoli imprenditori, inizialmente indifferenti alle nazionalizzazioni, che prendono di mira solo i soggetti più grandi, ma che poi diventano esasperati quando si sentono direttamente minacciati. Un paese altamente industrializzato, ancor più del Cile, non è costituito da qualche migliaio di capitalisti e da masse popolari. Nelle nostre società il proletariato, nel senso tecnico di operai dell’industria, rappresenta una minoranza. Molti lavoratori dipendenti, artigiani, commercianti, agricoltori, liberi professionisti votano per partiti di sinistra: la loro adesione non resisterebbe all’estensione delle nazionalizzazioni burocratiche, alla costituzione di gruppi militari di autodifesa, alle tessere di razionamento, alla svalutazione accelerata della moneta. Un governo che si propone il passaggio legale al socialismo non può sopravvivere a errori come quelli commessi dai bolscevichi in Unione Sovietica pri-

Raymond Aron (1905–1983) è stato un filosofo, sociologo, politologo e giornalista francese, tra i più importanti intellettuali

liberali del novecento. Il suo ultimo libro tradotto e pubblicato in Italia è Libertà e uguaglianza. L’ultima lezione al Collége de France (Edb 2015).

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ma dell’instaurazione della Nep [Nuova politica economica, fase di liberalizzazione dell’economia sovietica, durata dal 1921 al 1928]. I socialisti, che sono al potere in Svezia o nella Repubblica federale tedesca, in Austria o in Belgio, sono attenti a non confondere socialismo e nazionalizzazioni e non contrappongono più il socialismo al mercato. In Europa un solo grande partito socialista fa eccezione, quello di François Mitterrand. Poco importa che abbia festeggiato troppo presto un’esperienza che è poi finita in tragedia. E non sembra determinante neppure che oggi si allei con il Partito comunista: il Mir [Movimento della sinistra rivoluzionaria, gruppo insurrezionale marxista-leninista nato in Cile nel 1965] ha dato fastidio ad Allende molto più di quanto abbiano fatto i comunisti. L’essenziale è il programma comune. Questo programma sarà applicabile senza provocare una crisi economica tale da spingere il governo di sinistra a dover scegliere tra dimissioni e dispotismo? Al posto di Mitterrand chiederei consiglio a qualche economista di sinistra al di sopra di ogni sospetto sia per le posizioni politiche sia per le competenze. u adr

Le Figaro è uno dei più diffusi quotidiani francesi. È stato fondato a Parigi nel 1826.

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Agli ordini dell’imperialismo globale Il governo di Allende è stato vittima di un colpo di mano orchestrato da forze reazionarie interne e internazionali. Ma il popolo cileno ha il coraggio per difendere le sue conquiste democratiche. Il commento del quotidiano del Partito comunista sovietico Viktor Borovskij, Pravda, Unione Sovietica, 14 settembre 1973 Le forze reazionarie cilene e internazionali sono riuscite a organizzare un colpo di mano contro il legittimo governo di Unidad popular. Lo hanno preso alle spalle: i congiurati hanno colpito il capo supremo delle forze armate della repubblica, il presidente Salvador Allende. Mentre il presidente veniva ucciso, sono stati arrestati diversi ministri, è stato sciolto il parlamento, i sindacati e le organizzazioni progressiste sono diventati bersaglio di brutali repressioni e gli elementi progressisti in tutto il paese sono stati vittime di episodi di giustizia sommaria. Le forze reazionarie giustificano il colpo di stato richiamandosi alla gravissima crisi economica, sociale e morale del paese, alla quale il governo non sarebbe in grado di opporre misure capaci di mettere fine al dilagare del caos. Ma è chiaro a tutti che la situazione di tensione attraversata dal Cile alla vigilia del golpe è stata orchestrata a bella posta dalle forze re-

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azionarie. Sono state loro a organizzare il cosiddetto sciopero delle società dei trasporti che ha danneggiato fortemente il paese, interrompendo il rifornimento dei generi alimentari e il normale funzionamento dell’industria. Sono state loro ad alimentare un’ondata di terrore antigovernativo in tutto il paese e a organizzare gruppi armati fascisti responsabili di sabotaggi e omicidi con il solo e dichiarato obiettivo di far cadere il governo. Le alte cariche delle forze armate e il corpo dei carabineros non hanno fatto nulla contro i sabotatori. È per questo motivo che gli operai e gli impiegati si sono visti costretti ad assumere la difesa delle fabbriche, delle ferrovie e delle strade, finite alla mercé dei sabotatori. E proprio contro di loro, contro i veri difensori dell’ordine e della legalità, si è scagliata la repressione. Con il pretesto di cercare armi, all’insaputa del governo alcuni generali hanno svolto “operazioni” in una serie di stabilimenti industriali per cercare di intralciare il lavoro

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della sorveglianza. È possibile rendersi conto della portata di queste “operazioni”, nel corso delle quali sono stati uccisi e feriti diversi operai, osservando l’operato del generale Manuel Torres de la Cruz nella città di Punta Arenas: il militare ha coordinato un massacro di operai, comandando l’intera azione dal suo elicottero. Tutto questo ci suggerisce quanto il caos e il disordine fossero necessari alle forze della reazione, che ora si dichiarano “custodi dell’ordine” e usano questo alibi per le loro azioni. Tutto questo ci fa capire che il colpo di stato era stato preparato da tempo e che i ruoli sono stati distribuiti progressivamente. L’opposizione ha lanciato un feroce attacco contro il governo, chiedendo le dimissioni del presidente. La dirigenza del Partito cristiano democratico ha avuto un ruolo imbarazzante in questa operazione: con i suoi interventi, in teoria contro la violenza, in pratica non ha fatto che spianare la strada a golpe. Le elezioni presidenziali del 1970 e il successivo sviluppo degli eventi avevano mostrato che la maggioranza del popolo cileno si era definitivamente spostato a sinistra, sostenendo i profondi cambiamenti sociali avviati dal governo e voltando le spalle ai partiti di destra, difensori dell’ordine reazionario. L’oligarchia, che stava progressivamente perdendo peso – proprietari terrieri, capitalisti, banchieri, servitori dei monopoli stranieri, tutti in grande difficoltà – non poteva più contare sul sostegno del popolo, necessario per tornare al potere nei limiti di un regime borghese democratico. Ecco perché ha calpestato le istituzioni e si è abbandonata alla violenza e al terrore. Fin dall’autunno del 1970 le forze della reazione e i monopoli stranieri, che per anni avevano spadroneggiato in Cile, hanno cercato di mobilitare l’esercito contro il governo di Unidad popular. In quest’operazione è stato ucciso il generale René Schneider, il comandante in capo dell’esercito, in quanto simbolo di quel gruppo di ufficiali sostenitori dell’ordine democratico e fedeli alla costituzione, e

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contrari alla loro trasformazione in uno strumento piegato agli interessi della borghesia e del capitale straniero. Allora gli assassini non sono riusciti a realizzare i loro obiettivi, poiché l’ampio sostegno popolare al governo di Salvador Allende non poteva non influire anche sul comportamento delle forze armate. Ma nel corso dei tre anni trascorsi dalla vittoria di Unidad popular, i suoi nemici interni ed esterni non hanno mai interrotto il loro lavorio finalizzato a far cambiare posizione agli ufficiali cileni. Negli ultimi tempi si sono molto impegnati ad allontanare dall’esercito gli alti ufficiali fedeli alla costituzione. I primi passi dei rivoltosi, a partire dall’omicidio del presidente, svelano i veri obiettivi della reazione, il cui scopo principale è instaurare una feroce dittatura per azzerare, una volta per sempre, le conquiste democratiche ottenute dal popolo nella sua lunga e costante lotta contro la reazione. Contro gli operai che hanno opposto resistenza ai rivoltosi a Santiago sono stati impiegati i carri armati e l’artiglieria, e le vittime sono già migliaia. L’oligarchia cilena e i suoi protettori stranieri stanno cercando di spezzare la resistenza del popolo con il terrore. Ma il popolo capisce che stanno nuovamente cercando d’imporgli il dominio dei proprietari terrieri, dei banchieri e dei monopoli stranieri che per decenni hanno depredato il paese; il popolo capisce che vogliono privarlo delle conquiste ottenute in questi tre anni: la nazionalizzazione delle risorse naturali, le terre espropriate ai latifondisti e distribuite ai contadini, le banche e le fabbriche passate sotto il controllo dello stato e sottratte a oppressori e usurpatori, il diritto dei cittadini di scegliere il modello di sviluppo del proprio paese e di partecipare al suo governo. Il popolo cileno sa bene dove portano i fili del complotto di cui è vittima il governo di Unidad popular. Nella storia del paese Allende è stato il secondo presidente a cercare di far valere gli interessi cileni contro la pressione

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dei monopoli stranieri. Il primo fu, alla fine del secolo scorso, José Manuel Balmaceda, che si oppose al capitale inglese e ai suoi tentativi d’impadronirsi del salnitro cileno. Anche allora i capitalismo straniero si alleò con l’oligarchia cilena e con il suo aiuto organizzò un colpo di stato. Il liberale Balmaceda fu fisicamente annientato: i congiurati dichiararono che si era suicidato. Gli organizzatori dell’attuale colpo di stato dicono di voler salvare il Cile dal “giogo comunista”. Ma stanno semplicemente ripetendo la vecchia bugia diffusa dal Times nel 1891, mentre era in fase di preparazione il colpo di mano contro il liberale e aristocratico Balmaceda. Alla fine del secolo scorso il quotidiano britannico scriveva: “Il governo comunista del Cile è in realtà un governo dispotico, che ha distrutto la pace, la prosperità e il sistema educativo che esistevano da ottant’anni”. Oggi tutti sanno che, nel 1891 come nel 1973, queste falsità sono servite e servono a un solo scopo: nascondere il carattere filoimperialista dei due colpi di stato. Gli organizzatori dell’attuale congiura agiscono secondo lo stesso schema seguito alla

fine dell’ottocento, stavolta non nell’interesse dei britannici, ma di altri. Ma dalla deposizione di Balmaceda sono passati novant’anni, e per il Cile, come per il resto del mondo, questo secolo non è passato invano. Né la repressione né il terrore possono piegare la volontà del popolo cileno o fermare il percorso del progresso economico e sociale. Tutti i popoli dell’America Latina, tutti i pacifici popoli del mondo sono accanto ai cileni, che rivendicano il proprio diritto di seguire la strada scelta, che difendono i diritti democratici e l’indipendenza della patria. Protestano contro le azioni dei golpisti e sostengono le forze progressiste del paese. I popoli dei paesi dell’America Latina si rendono conto che l’attuale intervento delle forze reazionarie in Cile è parte di un ampio piano imperialista che punta a liquidare le conquiste del movimento di liberazione nazionale del continente ottenute negli ultimi anni. Il popolo sovietico esprime solidarietà a quello cileno in ogni modo. Manifestando la sua rabbiosa protesta contro i crimini delle forze reazionarie cilene, esso sostiene le forze progressiste del Cile. u ab

La Pravda è un quotidiano russo. Fondato nel 1912, fino al 1992 è stato l’organo ufficiale del Pcus. Oggi è legato al Partito comunista della Federazione Russa.

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Tutti cileni, vittime e carnefici

Mentre cominciano a emergere i dettagli delle violenze commesse dai golpisti, una rivista spagnola critica la pretesa di Pinochet di rappresentare la nazione cilena nella sua totalità e riflette sulla vera forza emancipatrice della democrazia rappresentativa Lorenzo Gomis, El Ciervo, Spagna, settembre 1973 “Siamo tutti cileni”, dice il generale Pinochet. Rispunta il mito della totalità. Sono cileni anche quelli che muoiono colpiti dalle pallottole e quelli che sono ancora in attesa che gli chiedano qualcosa – sicuramente meno importante della nazionalità – in uno stadio o in un’isola in mezzo al mare. Sono tutti cileni, salvo quelli che non lo sono. A consolazione e beneficio di tutti i nazionalismi c’è sempre lo straniero, su cui ricadono tutte le colpe. Se tutti sono cileni e se l’azione della giunta – come afferma il suo portavoce – non rappresenta né la destra né la sinistra, ma un movimento “nazionale”, allora non sarà più necessario il periodico computo delle opinioni – le elezioni – per nominare i rappresentanti dei cittadini. Il mito della totalità copre qualsiasi iniziativa, qualsiasi cosa come un manto sacro. Ogni azione è intrapresa per il bene di tutti, di tutti coloro che non sono altro che una cosa: cileni. Il Cile era una speranza ed è diventato un motivo di frustrazione. Alcune persone che

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conoscono meglio di me il paese e l’esperienza della cosiddetta via cilena al socialismo offrono delle testimonianze che speriamo siano utili al lettore per rispondere con più cognizione di causa alla domanda più importante da farsi quando una speranza è frustrata: perché? Ammetto però che mi è stato difficile trovare, per il consueto commento mensile, un tema che non fosse in qualche modo legato al Cile. Voglio comunque limitarmi a un punto scomodo, ma necessario per un’analisi seria. Non sarà forse stato seminato del vento prima della tempesta che oggi stiamo raccogliendo? Le risorse schiaccianti del capitale internazionale, il meschino egoismo delle grandi ricchezze, il vantaggio decisivo che avevano i militari, già armati, mentre gli altri cominciavano a sperare nella distribuzione di armi, sono tutte cose che possiamo ricordare, ma che forse dovremmo già sapere: sono dati di fatto. Ma non sta in questo la novità o l’interesse del caso cileno, anche se ci colpiscono la smi-

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suratezza e la crudeltà della reazione, che per contrasto fanno risaltare la figura nobile e degna dell’uomo che ha saputo essere democratico fino alla morte, il presidente Salvador Allende. Il dibattito verte su un’altra questione. Secondo alcuni, quello che è successo in Cile dimostra che non è possibile ottenere un cambiamento sociale profondo in modo pacifico e nel rispetto della legge. Forse è necessario fare qualche precisazione. Sembra abbastanza sicuro che finora la cosiddetta democrazia rappresentativa (che non esaurisce la questione dell’uguaglianza, ma non è un cattivo punto di partenza per l’uguaglianza politica) non sia mai sopravvissuta dov’è stata usata come strumento per avanzare verso un socialismo – diciamo – compiuto. E se non ha resistito è perché è stata soppiantata da qualche forma di dittatura: quella che proprio nel dominio del proletariato, organizzato e gestito da un partito, vede l’obiettivo di tutto il processo, o quella di estrema destra, che si presenta come forza salvifica e interrompe il percorso che puntava al cambiamento. È vero, però, che ci sono partiti socialisti arrivati al potere (in Europa si contano diversi casi) grazie alle elezioni, cercando poi di realizzare il programma proposto. Quei programmi e quei partiti sono meno radicali e si accontentano di obiettivi minori? Ovviamente sì. Si accontentano di quegli obiettivi che possono assicurargli la maggioranza nelle elezioni che si svolgono periodicamente. Tra il tempo breve delle sfide elettorali e quello logicamente più lungo della svolta socialista si producono conflitti che devono essere risolti a scapito di una o dell’altra cosa. Del resto, la lezione non è sconosciuta agli stessi dirigenti comunisti occidentali, compresi, in questo caso, quelli del Cile e, ovviamente, di Francia e Italia, dove in questi momenti si discute delle conseguenze da trarre dall’esperienza cilena e si cerca un avvicinamento ai settori democratici esterni al fronte dei socialisti e dei comunisti. C’è però anche chi tira la coperta dall’altra parte.

El Ciervo è una rivista culturale e politica spagnola, pubblicata a Barcellona. Negli anni del franchismo è stata tra le poche testate

apertamente critiche verso la dittatura. È stata fondata nel 1951 da un gruppo di studenti vicini al cattolicesimo progressista, tra cui il

Il mito della totalità può essere usato in chiave sia nazionalista sia socialista (nella sua declinazione non pluralista, cioè non parlamentare), ma è incompatibile con un governo scelto attraverso il computo periodico delle preferenze dei cittadini e costruito sulle scelte che i rappresentanti eletti dovranno poi fare: insomma, è incompatibile con la democrazia formale. Nell’esperienza cilena questo mito ha avuto un certo peso. Chi aveva un camion è stato sospettato di non fare parte di questa totalità chiamata popolo, e anche chi poteva essere bollato come un “riformista” (lo stesso Allende, per intenderci) a un certo punto è diventato un personaggio sospetto, nel migliore dei casi accusabile di essere un dirigente a cui si può disobbedire in nome della rivoluzione. La borghesia, però, a quanto pare costituisce la metà, se non di più, della popolazione. Con il risultato che un settore ideologicamente minoritario è riuscito a soppiantare perfino l’opposizione ingenua e maldestra che credeva di giocare la carta costituzionale mentre gli altri si preparavano a raccogliere i frutti del loro sforzo e a cambiare la costituzione a loro piacimento. Non credo che l’esperienza cilena abbia dimostrato che attraverso la via democratica non si ottengono cambiamenti; ha dimostrato, piuttosto, che la democrazia è qualcosa di più di una “via”, e che è necessario prendere molto sul serio le sue esigenze se non la si vuole perdere. Con la via democratica è possibile ottenere solo i cambiamenti che periodicamente ricevono il sostegno degli elettori. È un limite ma è anche una forza. L’esperienza cilena mostra (non dico che lo dimostri, dico solo che è una delle cose che rivela) che se non si accetta questo limite è facile perdere quella forza. L’estrema destra in Cile ha recuperato con facilità posizioni che aveva perso molti anni fa. E ha coperto le rovine fisiche o morali del paese con il vecchio mito della totalità. “Siamo tutti cileni”, dice il generale Pinochet. E qui non è successo nulla. u fr

poeta, scrittore e giornalista Lorenzo Gomis (1924–2005), che l’ha diretta, insieme ad altri, fino alla morte.

Macelleria cilena

EVANDRO TEIXEIRA (ACERVO IMS/COLEÇÃO EVANDRO TEIXEIRA)

Nei primi giorni dopo il golpe, il regime minimizza le violenze contro i cittadini. Ma il corrispondente di un settimanale statunitense riesce a entrare nell’obitorio di Santiago e trova centinaia di cadaveri di vittime della repressione John Barnes, Newsweek, Stati Uniti, 8 ottobre 1973

Prigionieri politici detenuti nei sotterranei dello stadio nazionale di Santiago, 22 settembre 1973

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Mentre il corpo del poeta cileno Pablo Neruda, morto di cancro, veniva calato nella fossa, i suoi connazionali stavano già uccidendo anche le sue parole. I libri di ogni genere – quelli di Neruda ma anche quelli di Mao, Marx e Marcuse – sono prelevati dalle librerie e dalle biblioteche per essere ammassati e bruciati nelle strade di Santiago. Ma la giunta militare che governa il Cile da tre settimane non si è limitata al rogo dei libri. Le università cilene, un tempo roccaforti d’autonomia e indipendenza, sono state “ripulite” da chiunque fosse sospettato di avere simpatie di sinistra, e i cittadini comuni hanno imparato ad avere paura che qualcuno possa bussare alla loro porta nel cuore della notte. Come se tutto questo non fosse abbastanza tragico, la settimana scorsa il corrispondente di Newsweek John Barnes ha scoperto che il nuovo governo è molto più brutale di quanto pensi la popolazione. Ecco il reportage di Barnes. La giunta militare non ammette che ci siano state esecuzioni di massa dopo la deposizione del governo marxista di Salvador Allende. “Abbiamo giustiziato al massimo otto persone, tutte accusate di aver sparato contro le nostre truppe”, ha dichiarato ai giornalisti il colonnello Pedro Ewing. Ma la settimana scorsa, sventolando il mio lasciapassare da giornalista con l’impazienza autoritaria di un alto funzionario, sono riuscito a intrufolarmi nell’obitorio comunale di Santiago. Al piano terra ho trovato centocinquanta cadaveri in attesa di essere identificati dai familiari. Al piano di sopra, dopo aver attraversato una porta a vento, mi sono ritrovato in un corridoio poco illuminato dove giacevano almeno altri cinquanta corpi senza vita, stretti uno accanto all’altro e con la testa appoggiata al muro. Erano tutti nudi. La maggior parte dei cadaveri presentava fori di proiettili sotto il mento, tipici dei colpi sparati a distanza ravvicinata. Alcuni erano stati falciati da raffiche di mitra. Tutti i toraci erano stati aperti e ricuciti dopo quella che

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presumibilmente era stata un’autopsia pro forma. Erano tutti giovani e, a giudicare dalle mani, lavoratori. C’erano anche un paio di ragazze, distinguibili nella massa di corpi solo per la curva dei seni. Molti avevano la testa fracassata. Sono rimasto lì per meno di due minuti. Poi sono andato via. Il giorno successivo sono tornato all’obitorio con un amico cileno, per avere un testimone che potesse confermare quello che avevo visto. Ho portato con me anche una macchina fotografica. Quando ho attraversato la porta a vento, l’odore dolciastro della decomposizione mi ha fatto quasi svenire. I cadaveri erano aumentati. Erano una settantina, diversi da quelli che avevo trovato il giorno prima. Mentre stavo per tirare fuori dalla giacca la macchina fotografica, un uomo in camice bianco è apparso all’altro capo del corridoio. “Cosa vuoi?”, mi ha chiesto. “Sto cercando il bagno”, ho risposto. “Vieni con me”, mi ha ordinato. Ho cominciato a seguirlo, poi all’improvviso ho svoltato a destra e sono corso fuori dall’edificio. L’uomo con il camice bianco mi ha gridato qualcosa, ma non mi ha seguito. Non ho avuto il coraggio di tornare all’obitorio. Più tardi, nella mia camera d’albergo, il mio amico è scoppiato a piangere. “Erano miei connazionali”, ha detto. “Mio dio, cosa ci sta succedendo?”. Ai dipendenti dell’obitorio è stato fatto presente che chiunque oserà rivelare quello che succede all’interno della struttura sarà processato da una corte marziale e giustiziato. Ma dai racconti delle donne che entrano per identificare i cadaveri è possibile ipotizzare che ogni giorno, al piano terra, vengano deposti tra i cento e i centocinquanta corpi. Sono riuscito a ottenere un conteggio ufficiale dalla figlia di un dipendente dell’obitorio: a quattordici giorni dal colpo di stato, aveva visto e registrato 2.796 cadaveri. Nessuno sa quanti corpi siano stati portati altrove. Un becchino mi ha spiegato che, secondo alcune voci, molti cadaveri sarebbero

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stati caricati sugli elicotteri del soccorso d’emergenza e poi gettati in mare. Un prete mi ha raccontato che il sabato successivo al colpo di stato è riuscito a entrare nel politecnico (dove si erano svolti scontri durissimi) con il pretesto di benedire i morti. Ha trovato duecento cadaveri ammassai uno sull’altro. “Erano tutti studenti”, mi ha detto. “C’erano due ragazze con ancora indosso le uniformi scolastiche”. Racconti di questo tipo circolano in abbondanza a Santiago. Dal resto del Cile quasi non arrivano informazioni, ma è ragionevole supporre che le esecuzioni si stiano verificando anche in altre città. Considerando solo i morti nell’obitorio, si può affermare che nella capitale il regime uccide al ritmo impressionante di duecento persone al giorno. Le vittime, quasi senza eccezioni, vengono tutte dalle población, i bassifondi che circondano Santiago e che ospitano circa la metà dei quattro milioni di abitanti della città. Nei tre turbolenti anni del governo Allende, i poveri delle población non hanno mai fatto mancare il loro supporto al presidente, anche perché i rotos (i rotti, come li chiamano in modo sprezzante i cileni più agiati) non avevano mai vissuto un periodo così favorevole. Nonostante l’inflazione galoppante, infatti, guadagnavano abbastanza da potersi permettere piccoli lussi un tempo impensabili: vestiti, radio, tv, frigoriferi. I centri per la distribuzione degli alimenti situati nelle población erano sempre ben riforniti, anche quando gli scaffali dei negozi del resto della città erano vuoti. È verosimile che la giunta cerchi di sottomettere con il terrore le población, perché è da lì che arrivava gran parte del sostegno al governo precedente. Oggi i leader locali pagano con la vita la loro fedeltà ad Allende. Nessuna población è sfuggita alla carneficina. Paralizzati dalla paura Ho parlato con tre donne della población di Pincoya. Una di loro, madre di due figli, aveva appena scoperto di essere diventata vedova.

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Mi ha raccontato la sua storia: “Sabato i soldati sono venuti a Pincoya alle otto del mattino. Nella zona dove viviamo hanno radunato cinquanta uomini e li hanno trattenuti fino a quando è arrivato un tenente della polizia. Appena ha visto mio marito, gli ha ordinato di fare un passo avanti e gli ha detto: ‘Ora pagherai per quello che la tua gente ha fatto’. I carabineros lo hanno portato in caserma insieme a un piccolo gruppo di uomini. Gli altri sono stati arrestati dai soldati”. Per giorni le donne di Pincoya hanno cercato i loro mariti nelle caserme della polizia e nei due stadi di calcio dove sono incarcerate migliaia di persone. Solo dopo aver sentito dire che un ragazzo di 17 anni del quartiere era stato trovato all’obitorio (gli avevano sparato in testa e al petto) sono andate a controllare la lista dei morti. Tra i nomi c’era anche quello del marito della donna, Gabriel, insieme a quelli di tutti i maschi adulti di un particolare isolato della población. Ho partecipato a un corteo funebre in cui le famiglie seguivano in lacrime tre bare. Mi hanno spiegato che i carabineros avevano fatto irruzione in una casa nella población di Parque Santa Maria e avevano prelevato tre ladruncoli di 18, 19 e 20 anni. Un sergente gli aveva promesso che sarebbero stati rilasciati se avessero pagato settemila scudi. È l’equivalente di appena cinque dollari, ma per i poveri è una cifra importante. Gli abitanti del quartiere hanno raccolto il denaro e i ragazzi sono tornati a casa. Ma due ore dopo una pattuglia di carabineros è tornata a prenderli. È stata l’ultima volta che li hanno visti vivi. Le famiglie hanno trovato i loro nomi nella lista dell’obitorio. Uno dei ragazzi era stato colpito da così tanti proiettili che è stato difficile vestirlo per il funerale. Agli altri due è andata perfino peggio. Le bare in Cile hanno solitamente una piccola finestra in corrispondenza del viso del morto. Le donne le hanno aperte per farmi guardare. Dentro non c’erano le teste. Orlando Contreras, che vive con la moglie e sette figli nella población di José Maria Caro,

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trascorre le giornate nel terrore che qualcuno venga a bussare alla sua porta. È un operaio che lavorava nell’ufficio per lo sviluppo sociale di Santiago, uno dei bersagli principali del nuovo regime. Contreras è perfettamente consapevole dei pericoli che correrebbe se i soldati decidessero di dargli la caccia. Mi ha raccontato che nel giorno del colpo di stato, mentre era insieme a uno dei suoi figli, ha visto dieci studenti liceali che venivano fatti marciare fuori dalla scuola con le mani incrociate dietro la testa, dopo un breve scontro con i carabineros. I ragazzi erano stati costretti a stendersi con la faccia a terra. Poi un poliziotto li aveva crivellati di colpi. Nella vicina población di Victoria i soldati si sono presentati per cercare padre Santiago Thyssen, di nazionalità olandese. Per fortuna la gente del quartiere lo aveva convinto a fuggire proprio il giorno prima. Così i soldati hanno sparato con i mitra contro la chiesa, distruggendo l’altare. Poi hanno fracassato tutto ciò che hanno trovato nella casa del prete, poco lontano da lì. Non c’è alcun dubbio che padre Santiago sarebbe stato ucciso se fosse rimasto in città. Le storie delle atrocità sono innumerevoli, e gli abitanti delle población sono terrorizzati.

John Barnes è stato un giornalista statunitense. Ha lavorato a lungo in Argentina, ed è stato inviato in Africa, Europa ed Estremo Oriente.

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“Sono troppo spaventata per cercarlo”, mi ha confessato una donna del quartiere di Ultima Hora, che ha visto il marito per l’ultima volta mentre lo caricavano su una camionetta della polizia, coperto di sangue. “Ho paura che prendano anche me. Cosa succederebbe ai miei quattro figli?”. Oggi molti temono di essere associati alle famiglie che erano legate al regime di Allende tramite un esponente del partito, un leader sindacale o un impiegato dei centri per la distribuzione del cibo. “Possono uccidere chiunque”, ammette Contreras. “E noi non possiamo farci nulla”. A causa della censura totale imposta alla stampa nazionale, la maggior parte dei cileni delle classi medio-alte non ha idea di cosa stia succedendo. Ascoltano le voci che girano, ma il loro odio per Allende e il loro storico disprezzo per i rotos li spinge a non voler conoscere la verità. Molti non credono alle storie sui massacri. Ad altri, semplicemente, non interessano. “Perché dovrebbe fregarcene qualcosa?”, mi ha detto la settimana scorsa un avvocato con cui ho pranzato in un ristorante esclusivo di un quartiere benestante. “Non credo alle storie che mi stai raccontando, ma so che i sostenitori di Allende si meritano qualsiasi cosa, dopo quello che hanno fatto al Cile”. u as

Newsweek è uno dei principali settimanali statunitensi. È stato fondato a New York nel 1933.

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L’unica risposta possibile Le reazioni dei progressisti di tutto il mondo al colpo di stato nell’analisi di una rivista indiana. Una critica marxista alla prudenza e alla mancanza di spirito rivoluzionario di Allende e della sinistra internazionale Lajpat Rai, Economic and Political Weekly, India, 8 dicembre 1973 Il colpo di stato militare in Cile ha provocato reazioni in tutto il mondo. Da Indira Ghandi a Fidel Castro, dai comunisti tradizionali alla nuova sinistra, dai capi di stato all’uomo della strada, la risposta è stata netta e inequivocabile. Ci sono stati comunicati stampa, discorsi indignati, articoli di giornale e pacifiche manifestazioni di protesta per condannare il golpe, la giunta militare cilena, gli imperialisti americani, la compagnia telefonica Itt e “la reazione della destra cilena, capeggiata dall’organizzazione fascista Patria y libertad”. Le varie anime del centrosinistra e della sinistra hanno condannato il golpe in modo unitario. Quando però si tratta di capire quali insegnamenti trarre dal golpe cileno, questa fragile unità si spezza ed emergono le fratture. I vari gruppi traggono dall’evento lezioni diverse o evitano la questione, a seconda del loro retroterra ideologico, della loro formazione politica, della fonte d’ispirazione da cui pren-

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dono forza (o debolezza) o della classe, o classi, che rappresentano o di cui sono al servizio. Dai leader centristi borghesi dei paesi del terzo mondo, per esempio, è arrivata una pseudoreazione: una serie di dichiarazioni di circostanza sullo “stupro della democrazia” e sull’intervento degli Stati Uniti attraverso la famigerata Cia e le multinazionali, seguite da ipocriti inviti rivolti a quegli stessi giganti economici a investire nei loro paesi. I comunisti tradizionali hanno reagito all’evento nel loro modo consueto, dando una risposta quanto mai evasiva ed equivoca. L’intera stampa sovietica e quella di ispirazione sovietica, in India e altrove, sono piene di reazioni del genere. Sul settimanale moscovita Novoe Vremja, Volodia Teitelboim, membro del comitato centrale del Partito comunista cileno, trae la seguente conclusione: “L’esperienza cilena dimostra che l’unità della sinistra non è solo indispensabile, ma dev’essere più forte e più ampia. È la prova che la nostra

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strategia è corretta (sic!), anche se imporrà obbligatoriamente alcuni cambiamenti tattici. Soprattutto, ci ricorda la necessità di guardare il nemico più da vicino”. Nella loro presunzione e ipocrisia, l’unico insegnamento che i comunisti vicini a Mosca riescono a trarre dall’esperienza cilena è che la loro strategia era corretta e che ciò che è mancato in Cile sia stata l’unità della sinistra e la capacità di “guardare il nemico più da vicino”. Quando parlano di “unità più forte e più ampia” della sinistra, i comunisti intendono l’unione di tutti i partiti della “borghesia nazionale”, compresa la principale fazione dei democristiani, guidata da Eduardo Frei. Questo esercizio di ambiguità ed evasività riempie le colonne di Novoe Vremja fino a raggiungere il suo apice con la risposta all’inevitabile domanda “Può esserci una via pacifica al socialismo?”. Scrive Teitelboim: “Prima di rispondere alla domanda, è importante definire cosa s’intenda con ‘via pacifica’. Riteniamo che non ci sia una via assolutamente pacifica al socialismo, poiché un qualche tipo di coercizione è inevitabile nel processo rivoluzionario. Siamo dell’avviso che si debba fare di tutto per impedire che la coercizione rivoluzionaria prenda la forma della guerra civile e ciò pone chiaramente un limite a tale coercizione”. Dunque, i comunisti cileni sono per una via pacifica, ma non in senso assoluto. Sono per una coercizione rivoluzionaria limitata, ma non per una guerra civile, che costituirebbe una degenerazione di quella coercizione. Quanto al modo in cui propongono di combattere le intrusioni statunitensi alla luce dell’esperienza del golpe, ecco un’altra perla di saggezza rivoluzionaria: “Pertanto, pur essendo formalmente per la détente [distensione] e la pace internazionale, stiamo cercando di limitare la possibilità dell’interferenza imperialista negli affari interni di altre nazioni”. Anche in quest’ora buia, in cui al popolo cileno è stato dato un primo assaggio dei frutti della détente internazionale, questo notabile

comunista non dimentica gli interessi globali della burocrazia sovietica. Giura che il suo partito s’impegna a “mobilitare il popolo” per limitare l’interferenza imperialista negli affari di altre nazioni, ma non esclude questa possibilità, per non ledere gli interessi “della détente e della pace internazionale”. Un altro esempio dell’ambiguità e del rifiuto comunista di imparare dal golpe cileno è l’articolo scritto sempre su Novoe Vremja da Juan Cobo, che difende l’atteggiamento del governo di Unidad popular nei confronti delle forze armate cilene e la gestione dei vertici militari da parte del presidente Allende. Scrive Cobo: “Il prestigio sociale dell’esercito cileno è cresciuto in modo tangibile negli anni di governo di Unidad popular. I rappresentanti delle forze armate sono stati ospiti d’onore in tutti i principali ricevimenti e cerimonie. Sono stati inviati all’estero alla testa di missioni militari e di delegazioni. Ci sono stati anche dei cambiamenti sostanziali riguardo alle posizioni di ufficiali e soldati. Dal 1 gennaio 1971 le forze armate non soffrono più delle ristrettezze materiali del passato. La loro retribuzione è stata aumentata in media del 40 per cento. Il presidente Allende, quindi, aveva ogni motivo per contare sulla devozione dell’esercito ai suoi doveri costituzionali, e questa convinzione era corroborata dal comando dell’esercito stesso”. Allende, sostiene Cobo, ha fatto di tutto per “conquistare la fiducia dell’esercito” e per “assicurarsene l’appoggio in vista dell’introduzione di provvedimenti rivoluzionari”. Gli ingrati vertici militari, però, avevano altri progetti e si sono rivoltati contro il loro benefattore. Che bell’esempio di “analisi” marxista! L’analista comunista, tra l’altro, dimentica di menzionare che Allende, oltre ad aver fatto entrare i capi dell’esercito nel suo governo, ha affidato ad alcuni alti ufficiali una serie di incarichi ben pagati e di prestigio nella pubblica amministrazione. Non solo: ha silenziosamente rimosso o spostato in posizioni meno

Salvador Allende nel 1971. (Raymond Depardon, Magnum/Contrasto)

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importanti tutti gli ufficiali e i funzionari di sinistra che non erano riusciti a conquistare l’approvazione dei vertici militari. Le premure della coalizione “marxista” verso le forze armate “apolitiche” e “neutrali” si sono spinte fino a garantire la continuità del rapporto di collaborazione privilegiata tra l’esercito cileno e il Pentagono. Gli ufficiali cileni hanno continuato ad addestrarsi a Panama e gli aiuti militari americani hanno continuato ad affluire, nonostante la retorica sulla “penetrazione, la sovversione e il sabotaggio economico statunitensi”. Nell’ottobre 1972 l’America Latina ha assistito allo spettacolo unico di una manovra navale congiunta cileno-americana al largo della costa del Cile, con tanto di invio di un messaggio di congratulazioni del presidente “marxista” per il successo della suddetta operazione. Secondo Cobo, questa politica di collaborazione con gli Stati Uniti avrebbe dovuto “neutralizzare gli irriducibili a Washington e nelle forze armate cilene”. A un certo punto, però, il notabile comunista scrive: “Il golpe è avvenuto perché gli ufficiali, che conducevano una vita elitaria, sono stati influenzati da persone del Pentagono legate alle forze armate cilene attraverso una serie di accordi”. È davvero difficile capire la logica di questi comunisti. Il golpe è avvenuto perché gli ufficiali cileni sono stati influenzati dal Pentagono. Ma chi ha permesso agli uomini vicini al Pentagono di proseguire le loro attività e rafforzare la loro posizione con i corsi di addestramento a Panama e le manovre navali congiunte? Cosa è stato fatto per tenerli lontani dal governo di Unidad popular, in cui i comunisti avevano un peso decisivo? Sul mensile statunitense di sinistra Ramparts, Betty e James Petras, che sono stati diverse settimane in Cile poco prima del golpe di settembre, commentano: “Una serie di purghe all’interno delle forze armate e le dimissioni forzate degli ufficiali lealisti hanno preparato il terreno per il golpe, e Allende ha ac-

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cettato tutto questo nel nome del compromesso, della sicurezza e della riconciliazione. Alla fine, nella speranza di evitare il golpe, è riuscito a far entrare nel suo gabinetto tutti i capi militari notoriamente antigovernativi. Ha tentato di ingraziarsi gli stessi uomini che di lì a pochi giorni gli avrebbero puntato la pistola alla testa”. I due giornalisti scrivono inoltre che “molti soldati di leva e una parte degli ufficiali provenienti dalle masse popolari erano contro il golpe. Eppure, il governo ha preferito collaborare con i vertici, tutti uomini di destra, senza fare alcun tentativo di creare un collegamento tra i lavoratori e i soldati comuni. Nei primi mesi del 1973 i generali erano ancora divisi tra fedeli ad Allende (il 40 per cento) e golpisti alleati della destra (circa il 60 per cento). Alla fine di agosto, tuttavia, i golpisti hanno preso il sopravvento dopo le dimissioni di tre lealisti (Carlos Prats, Guillermo Pickering e José María Sepúlveda), compattando ulteriormente la leadership dell’esercito in preparazione del golpe”. Un altro scrittore statunitense, Jose Yglesias, amico personale di Allende, ha parlato dei “penosi tentativi” del presidente di ingraziarsi i militari cileni: “Credeva davvero di poter conquistare chiunque. Era una cosa che sentiva nel profondo, non una manovra politica come quella con i comunisti. Un socialista deluso una volta mi ha detto: ‘Allende non si presenta mai a una riunione senza farsi accompagnare da qualche generale’. Nel centro culturale Gabriela Mistral, mentre aspettavo un amico, ho sentito un applauso provenire da una sala riunioni al secondo piano. Sono entrato per dare un’occhiata e c’era Allende che parlava a un gruppo di madri. Accanto a lui c’era un generale che ascoltava educatamente mentre il presidente parlava di socialismo e diritti delle donne. Il generale teneva il cappello sulle ginocchia e le mani ferme ai lati mentre tutti applaudivano Allende”. Il generale non era altri che Pinochet, il capo della giunta militare fascista che ha rove-

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sciato il governo di Unidad popular e ha fatto uccidere a sangue freddo il vecchio e ignaro Salvador Allende nel palazzo presidenziale. Come da copione Una reazione significativa al golpe in Cile è arrivata da Fidel Castro. Nel suo discorso del 28 settembre 1973, peraltro non privo di ambiguità e doppiezze, Castro mostra di trarre la giusta lezione dal golpe militare, e cioè che “non c’è alternativa alla lotta rivoluzionaria armata”. Dopo aver reso omaggio ad Allende, Castro procede ad analizzare gli eventi che hanno portato al “golpe fascista” del 1973. Questa “analisi”, tuttavia, non contiene una sola parola di critica al governo di Unidad popular o ai comunisti tradizionali – i fautori della transizione pacifica al socialismo – e nemmeno al Partito socialista che guidava la coalizione. Castro cerca invece di giustificare l’operato, le motivazioni e i piani del governo di Allende, usando parole di condanna per “l’imperialismo americano” e “le forze armate cilene”. Sull’esercito cileno osserva: “Le forze armate hanno gettato la maschera. La natura della loro ‘apoliticità’ e della loro ‘fedeltà alle istituzioni’ è ormai chiara. Queste posizioni sono state mantenute finché non sono stati minacciati gli interessi delle classi dominanti. Quando questo è accaduto, i militari hanno abbandonato la loro presunta ‘apoliticità’ e la loro presunta ‘fedeltà alle istituzioni’ e si sono schierati al fianco dei reazionari e degli sfruttatori, e contro il popolo”. Questo, però, è esattamente ciò che un governo guidato da “marxisti” doveva aspettarsi e prevedere. Chi ha dato la patente di apoliticità e senso delle istituzioni all’esercito cileno? Chi ha “fatto crescere il prestigio sociale” dei militari cileni e ha parlato di “fedeltà dell’esercito ai suoi doveri costituzionali”? L’analisi di Castro non muove una sola critica a quelli che hanno alimentato pericolose illusioni sul ruolo dei militari, che hanno affidato incarichi di governo a generali fascisti, che

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hanno preso in giro le masse sostenendo ripetutamente che “le forze armate cilene sono con il popolo”. Non critica nemmeno chi ha proclamato che il Cile poteva costruire pacificamente il socialismo attraverso la via parlamentare, nel rispetto della costituzione e delle istituzioni borghesi. Tutto ciò che Castro ha saputo dire è stata la seguente banalità: “Il golpe fascista ha segnato il destino delle forze armate cilene. Un divario profondo e insormontabile separa la parte migliore del popolo cileno dalle forze armate cilene. Questo divario è rappresentato dal sangue dei lavoratori, dei contadini e degli studenti”. Ma un “divario profondo e insormontabile” ha sempre separato il popolo cileno dall’esercito di uno stato borghese, addestrato e armato dagli americani; il golpe ha solo mostrato in modo spietato quel divario ai politici ciarlatani che parlavano di “apoliticità” e “fedeltà alle istituzioni” delle forze armate e a chi voleva “conquistare” i militari attraverso manovre politiche. Eppure, nonostante la verbosità, Castro non manca di trarre il giusto insegnamento dal golpe quando dice: “Eravamo stati previdenti nel regalare quel fucile al presidente. E se ogni lavoratore e ogni contadino avesse avuto un fucile come quello nelle sue mani, non ci sarebbe stato nessun golpe fascista…”. In un’altra parte del suo discorso, il leader cubano osserva: “La lezione che ci arriva dal caso cileno è che è impossibile fare la rivoluzione esclusivamente con il popolo: sono necessarie anche le armi. I rivoluzionari cileni sanno che non c’è alternativa alla lotta rivoluzionaria armata”. Castro, tuttavia, non chiarisce chi siano questi “rivoluzionari cileni”. A giudicare dalle reazioni al golpe, di certo i rivoluzionari non sono i suoi amici, i comunisti allineati a Mosca che parlano ancora di “via pacifica” o “via costituzionale” al socialismo e continueranno a farlo finché non ci saranno dei cambiamenti nella linea promossa dai leader sovietici. Qui

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è importante sottolineare che Castro non muove alcuna critica ai detrattori della strategia della lotta armata in America Latina né usa parole chiare e nette come quelle che era solito usare fino al 1968. Al congresso culturale dell’Avana, nel gennaio 1968, Castro aveva detto: “Se vogliamo esprimere la nostra linea di pensiero, quella del nostro partito e del nostro popolo, dobbiamo chiarire che nessuno deve coltivare l’illusione che in un qualunque paese dell’America Latina sia possibile prendere il potere con mezzi pacifici. Chiunque provasse a spacciare un’idea simile alle masse le starebbe ingannando”. Eppure, quando i socialisti e i comunisti cileni hanno provato a fare proprio questo, Castro si è mantenuto discretamente in silenzio, arrivando perfino a descrivere la situazione in Cile sotto il governo di Allende come “un grande processo rivoluzionario”. Nonostante queste lacune nel discorso del 28 settembre, tuttavia, il ritorno di Castro alle posizioni politiche adottate alla conferenza dell’Olas [Organizzazione latino-americana di solidarietà] e il suo rifiuto pubblico della “via pacifica” saranno accolti favorevolmente dai rivoluzionari di tutta l’America Latina. Le lancette della storia Un’altra reazione significativa al golpe in Cile è arrivata dai vertici del Movimiento de izquierda revolucionaria (Movimento della sinistra rivoluzionaria, Mir), la cosiddetta estrema sinistra cilena. L’appello al popolo cileno del segretario generale del Mir, Miguel Enríquez, è stato fatto uscire clandestinamente dal Cile e pubblicato su diversi giornali. Secondo il Mir, “è stata persa una battaglia, ma non la guerra”. In Cile il fascismo si è imposto grazie al sostegno dell’imperialismo statunitense e del subimperialismo brasiliano, e oggi a Santiago c’è un regime che s’ispira alla Germania nazista. “A fallire, in Cile, non sono stati né il socialismo né la rivoluzione proletaria e

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neanche i lavoratori”, scrive Enríquez. “A crollare drammaticamente è stato un progetto riformista basato sull’illusione che si potesse raggiungere il socialismo accettando […] di operare all’interno di un quadro istituzionale definito dalla borghesia”. Già prima del golpe, il Mir aveva invitato a non riporre troppa fiducia nel “progetto riformista”. In un documento pubblicato nel 1972 dal titolo “Le masse si elevano al di sopra delle debolezze e degli errori della sinistra”, il Mir sottolineava che con l’elezione di Allende “un governo appoggiato da forti partiti operai è riuscito a prendere il controllo di una parte – una frazione – dell’apparato statale della borghesia: il potere esecutivo”. La classe operaia, continuava il documento, non può pensare di mantenere l’equilibrio di potere esistente con la borghesia, né può aspettare che questa passi alla controffensiva per riconquistare la frazione di potere che ha perso. Le classi operaie devono continuare “a colpire la borghesia, a indebolire le basi del suo potere economico e a distruggere il suo apparato statale. In altre parole, l’arrivo di Unidad popular al governo obbliga storicamente la classe operaia e i partiti che la rappresentano a pianificare rapidamente la conquista del potere rivoluzionario da parte degli operai e dei contadini”. Il Mir esortava quindi la coalizione di Unidad popular a non fare affidamento solo sulle “riforme e le misure varate attraverso i canali burocratici e amministrativi”, ma a trarre forza dalla mobilitazione e dalla partecipazione attiva delle masse. Dopo aver invitato il governo a non “cedere alle pressioni borghesi”, a non “mostrare rispetto per la legalità borghese” e a non “frenare la militanza delle masse”, il documento concludeva: “Queste concessioni alle pressioni della destra non hanno pacificato la borghesia. Avranno l’unico risultato di incoraggiare le classi dominanti a diventare ancora più aggressive nel loro tentativo di riconquistare quella piccola parte di potere che hanno perso”.

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PHOTOPRESS ARCHIV/KEYSTONE/BRIDGEMAN IMAGES AFP/GETTY IMAGES

Una manifestazione a Zurigo contro il colpo di stato, 1973

Cile, 1971. Il generale Augusto Pinochet con Fidel Castro

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In Cile, sosteneva il documento del Mir, la lotta di classe ha ormai superato i limiti della politica istituzionale e burocratica, come dimostrano le occupazioni delle terre e delle fabbriche compiute da contadini e operai. Il movimento criticava il governo di Unidad popular per la sua “politica difensiva e per le restrizioni legalistiche e burocratiche imposte al popolo”, e lo diffidava dal “fraternizzare con i militari, assecondando le loro pretese”, che sono solo “una copertura per riuscire a mettere all’angolo il governo di Unidad popular” e costringerlo a cedere alle pressioni della borghesia. Il documento si chiudeva quindi con un’affermazione profetica: “Ciò che Unidad popular non è riuscita a fare nel suo anno e mezzo al governo è stato precisamente mobilitare le masse e assestare dei colpi decisi alle istituzioni e all’apparato dello stato; questa incapacità potrebbe rivelarsi fatale, poiché la dinamica della lotta di classe prevede solo due esiti per il processo politico cileno: il fascismo o il socialismo”. Poiché è impossibile costruire pacificamente il socialismo attraverso la via costituzionale, poiché il popolo è stato convinto con un raggiro che una nuova epoca potesse cominciare all’interno di un quadro istituzionale borghese e senza una dura lotta di classe, poiché i vertici di Unidad popular hanno continuato pateticamente a confidare nella neutralità e nella fedeltà alle istituzioni di un esercito addestrato e armato dagli Stati Uniti, quello che il popolo ha ottenuto è stato il fascismo nudo e crudo, anziché il promesso socialismo. In questo senso, i leader comunisti e socialisti hanno fatto fare al popolo cileno un passo indietro anziché avanti. Schiacciato sotto il pu-

gno di ferro della giunta militare fascista e vittima di persecuzioni ed esecuzioni di massa, il popolo cileno trova ben poca consolazione nel fatto che una manciata di leader e capi di stato abbiano diramato comunicati e rilasciato dichiarazioni di condanna per i golpisti cileni e gli imperialisti americani. Una di queste dichiarazioni l’ha fatta Fidel Castro nel discorso del 28 settembre: “L’imperialismo ha provato a corrompere il popolo cileno. I monopoli hanno provato a corrompere i lavoratori. L’imperialismo ha tramato nell’ombra contro il governo di Unidad popular. La Cia era attiva a Santiago negli anni del governo Allende. E mentre impediva al paese di ottenere qualsiasi tipo di prestiti economici, il Pentagono manteneva ottimi rapporti con le forze armate cilene”. Potremmo chiedere a Fidel Castro e agli altri: cosa vi aspettavate dall’imperialismo degli Stati Uniti? Cosa vi aspettavate dal Pentagono e dalla Cia? È forse la prima volta che l’imperialismo americano interviene per rovesciare un governo eletto democraticamente in America Latina? Come ha fatto il Pentagono a mantenere “ottimi rapporti” con le forze armate cilene mentre al potere c’era un governo “marxista” e un presidente “marxista” era a capo delle forze armate? Parafrasando Che Guevara, potremmo concludere: i crimini dell’imperialismo americano sono enormi e riguardano il mondo intero. Tutto questo lo sappiamo già. Ma la colpa è anche di chi, con le sue politiche revisioniste, ha attirato il popolo cileno in una trappola preparata dai suoi nemici, riportando indietro le lancette dell’orologio della storia per questo popolo coraggioso e indefesso. u fas

Lajpat Rai (1926–2004) è stato un professore universitario e attivista politico indiano.

Fondata nel 1949 come Economic Weekly, negli editoriali sostiene spesso posizioni marxiste e di sinistra radicale.

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Economic and Political Weekly è una rivista accademica indiana di scienze sociali, tra le più prestigiose del paese, pubblicata a Mumbai.

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Il Cile, il golpe e i gringos L’ostinata fiducia di Allende, le interferenze degli statunitensi, la ferocia dei militari. Gli eventi dell’11 settembre 1973 nell’analisi di uno dei più grandi scrittori latinoamericani Gabriel García Márquez, Alternativa, Colombia, marzo–settembre 1974 Alla fine del 1969, tre generali del Pentagono cenarono con quattro militari cileni in una casa della periferia di Washington. L’anfitrione era l’allora colonnello Gerardo López Angulo, addetto aeronautico della missione militare del Cile negli Stati Uniti, e gli invitati cileni erano suoi colleghi delle altre armi. La cena era in onore del direttore della scuola di aviazione del Cile, il generale Carlos Toro Mazote, arrivato il giorno prima per un’ispezione. I sette militari mangiarono macedonia di frutta e arrosto di vitello con piselli, bevvero i buoni vini della remota patria del sud dove c’erano uccelli luminosi sulle spiagge mentre Washington naufragava nella neve, e parlarono in inglese dell’unica cosa che sembrava interessare ai cileni in quel periodo: le elezioni presidenziali del successivo settembre. Al dolce, uno dei generali del Pentagono domandò cosa avrebbe fatto l’esercito cileno se il candidato della sinistra, Salvador Allende, avesse vinto le elezioni. Il generale Mazote

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rispose: “Prenderemmo il palazzo della Moneda in mezz’ora, anche se dovessimo incendiarlo”. Uno degli invitati era il generale Ernesto Baeza, attuale dirigente della sicurezza nazionale cilena, che ha guidato l’assalto al palazzo presidenziale durante il recente golpe e ha dato l’ordine di incendiarlo. Due suoi subalterni di quei giorni sono diventati celebri nella stessa giornata: il generale Augusto Pinochet, presidente della giunta militare, e il generale Javier Palacios, che ha partecipato alla sparatoria finale contro Salvador Allende. Al tavolo sedeva pure il generale di brigata aerea Sergio Figueroa Gutiérrez, attualmente ministro dei lavori pubblici e amico intimo di un altro membro della giunta militare, il generale dell’aviazione Gustavo Leigh, che ha impartito l’ordine di lanciare missili sul palazzo presidenziale. L’ultimo invitato era l’attuale ammiraglio Arturo Troncoso, governatore navale di Valparaíso, che ha promosso una cruenta purga degli ufficiali progressisti della

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marina e ha iniziato la sollevazione militare all’alba dell’11 settembre. Quella cena storica fu il primo contatto del Pentagono con ufficiali delle quattro forze armate cilene. In successive riunioni, sia a Washington sia a Santiago, si arrivò all’accordo conclusivo in base al quale i militari cileni più fedeli all’anima e agli interessi degli Stati Uniti avrebbero preso il potere qualora Unidad popular avesse vinto le elezioni. La cosa fu programmata a freddo, come una semplice operazione bellica, e senza prendere in considerazione le reali condizioni del Cile. Il programma era stato elaborato previamente, non solo in seguito alle pressioni della International telegraph & telephone (Itt), ma anche per motivi molto più profondi concernenti la politica mondiale. L’organismo che gli diede l’avvio fu la Defence intelligence agency del Pentagono, ma responsabile dell’esecuzione fu la Naval intelligence agency, che aveva raccolto e analizzato i dati delle altre agenzie, inclusa la Cia, sotto la supervisione politica del consiglio nazionale per la sicurezza. Era normale che il progetto fosse affidato alla marina e non all’esercito, poiché il golpe doveva coincidere con l’operazione Unitas, ossia le manovre congiunte di unità statunitensi e cilene nel Pacifico. Queste manovre venivano svolte in settembre, il mese delle elezioni, ed era naturale la presenza sul territorio e nei cieli del Cile di ogni sorta di strumenti bellici e di uomini addestrati nelle arti e nelle scienze della morte. In quel periodo Henry Kissinger disse in privato a un gruppo di cileni: “Non mi interessa il sud del mondo, dai Pirenei in giù, e non ne so nulla”. In quel momento il piano era stato definito fin nei minimi dettagli, ed è impensabile che non ne fossero al corrente Kissinger o lo stesso presidente Nixon. Il Cile è un paese angusto, 4.270 chilometri di lunghezza e 190 di larghezza, con dieci milioni di amichevoli abitanti, due dei quali risiedono a Santiago, la capitale. La grandezza del

paese non sta nella quantità delle sue virtù ma nella dimensione delle sue anomalie. L’unica cosa che produce con assoluta serietà è il rame, che però è il migliore del mondo, e il volume della sua produzione è di poco inferiore a quello degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Produce pure vini buoni come quelli europei, ma li esporta poco perché se li bevono quasi tutti i cileni. Il reddito pro capite, 600 dollari, è tra i più elevati dell’America Latina, ma quasi la metà del prodotto nazionale lordo viene suddivisa tra sole 300mila persone. Nel 1932 il Cile fu la prima repubblica socialista del continente, e si tentò di nazionalizzare il rame e il carbone con l’appoggio entusiasta dei lavoratori, ma l’esperienza durò solo tredici giorni. Si hanno in media una scossa tellurica ogni due giorni e un terremoto devastante ogni tre anni. I geologi meno apocalittici ritengono che il Cile non sia un paese di terraferma ma un cornicione delle Ande in un oceano di nebbie, e che l’intero territorio nazionale, con le sue distese di salnitro e le sue donne amorevoli, sia condannato a scomparire in seguito a un cataclisma. È la gente più simpatica del continente, sono felici di essere vivi e sanno esserlo nel miglior modo possibile, e perfino un po’ di più, ma hanno una pericolosa tendenza allo scetticismo e alle elucubrazioni intellettuali. “Nessun cileno crede che domani sia martedì”, mi disse una volta un cileno, e neppure lui ci credeva. Eppure, nonostante tale incredulità di fondo, o forse proprio grazie a essa, i cileni hanno raggiunto un grado di civiltà naturale, una maturità politica e un livello culturale che sono le loro migliori anomalie. Due dei tre premi Nobel per la letteratura ottenuti dall’America Latina erano cileni. Uno di loro, Pablo Neruda, è stato il più grande poeta del secolo. Tutto ciò Kissinger doveva saperlo quando rispose che non sapeva nulla del sud del mondo, perché allora il governo degli Stati Uniti conosceva anche i pensieri più reconditi dei cileni. Li aveva passati al vaglio nel 1965, senza il permesso del Cile, in un’incredibile opera-

Santiago, 1972. (Romano Cagnoni, Getty Images)

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zione di spionaggio sociale e politico: l’operazione Camelot. Fu un’indagine camuffata mediante questionari molto precisi, sottoposti a tutti gli strati sociali, le professioni e i mestieri, fin negli angoli più remoti del paese, per definire in modo scientifico il grado di sviluppo politico e le tendenze sociali dei cileni. Nel questionario destinato alle caserme figurava la domanda che cinque anni dopo i militari cileni si sentirono rivolgere di nuovo durante la cena a Washington: “Quale sarebbe il vostro atteggiamento se il comunismo arrivasse al potere?”. La domanda era capziosa. Dopo l’operazione Camelot, gli Stati Uniti sapevano con certezza che Salvador Allende sarebbe stato eletto presidente della repubblica. Il Cile non fu scelto a caso per questo esame. La storia e la forza del suo movimento popolare, la tenacia e l’intelligenza dei suoi dirigenti e le stesse condizioni economiche e sociali del paese permettevano di prevederne il destino. L’analisi dell’operazione Camelot lo confermò: il Cile sarebbe diventato la seconda repubblica socialista del continente dopo Cuba. Sicché l’intento degli Stati Uniti non era semplicemente impedire, per salvaguardare i loro investimenti, che Salvador Allende governasse. L’intento ambizioso era ripetere l’esperienza più atroce e fruttuosa mai compiuta dall’imperialismo in America Latina: quella del Brasile. Il 4 settembre 1970, come previsto, il medico socialista e massone Salvador Allende fu eletto presidente della repubblica. Tuttavia, il piano non venne messo in atto. La spiegazione più diffusa è anche la più divertente: al Pentagono qualcuno commise un errore sollecitando duecento visti per un presunto coro della marina che in realtà era composto da esperti nell’abbattere governi, tra cui diversi ammiragli che non sapevano neppure cantare. Il governo cileno scoprì la manovra e rifiutò i visti. Questo impedimento, si presume, determinò il rinvio dell’avventura. La verità è che il progetto era stato esaminato a fondo: altre

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agenzie statunitensi, in particolare la Cia e lo stesso ambasciatore degli Stati Uniti in Cile, Edward Korry, ritennero che il piano era solo un’operazione militare che non prendeva in considerazione le condizioni effettive del Cile. Il trionfo di Unidad popular, infatti, non suscitò il panico sociale che si aspettava il Pentagono. Al contrario, l’indipendenza del nuovo governo in politica estera e la sua determinazione in campo economico crearono subito un’atmosfera sociale festosa. Nel corso del primo anno furono nazionalizzate 47 imprese industriali e oltre la metà del sistema creditizio. La riforma agraria espropriò e incorporò alla proprietà sociale due milioni 400mila ettari di terre produttive. L’inflazione si attenuò: fu raggiunta la piena occupazione e i salari ebbero un incremento effettivo del 40 per cento. Il governo precedente, presieduto dal democristiano Eduardo Frei, aveva avviato un processo di nazionalizzazione del rame. Si era limitato a comprare il 51 per cento delle miniere, pagando per la sola miniera di El Teniente una somma superiore al prezzo complessivo dell’impresa. Unidad popular restituì alla nazione con un solo atto legale tutti i giacimenti di rame sfruttati dalle filiali di compagnie statunitensi, l’Anaconda e la Kennecott. Senza indennizzo. Secondo i calcoli del governo, le due compagnie avevano accumulato in quindici anni guadagni spropositati per otto miliardi di dollari. La piccola borghesia e gli strati sociali intermedi, due grandi forze che avrebbero potuto spalleggiare un golpe militare in quel momento, cominciavano a godere di vantaggi imprevisti, e a spese non del proletariato, com’era sempre accaduto, bensì dell’oligarchia finanziaria e del capitale straniero. Le forze armate, in quanto gruppo sociale, hanno la stessa età, la stessa origine e le stesse ambizioni della borghesia, e non avevano motivo, e neppure un alibi, per spalleggiare un esiguo gruppo di ufficiali golpisti. Consapevole di tale realtà, la Democrazia cristiana non

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solo non patrocinò in quel momento la cospirazione militare, ma vi si oppose risolutamente, sapendo che era impopolare tra i suoi stessi membri. Il suo obiettivo era un altro: attentare in qualsiasi modo alla salute del governo per avere dalla propria parte i due terzi del congresso alle elezioni del marzo 1973. Con questa maggioranza, secondo la costituzione poteva decidere di destituire il presidente della repubblica. La Democrazia cristiana era una grande formazione interclassista, con un’autentica base popolare nel proletariato industriale, tra i piccoli e medi proprietari contadini e tra i borghesi e gli strati sociali intermedi delle città. Unidad popular rappresentava il proletariato operaio meno favorito, il proletariato agricolo, e la piccola borghesia urbana. La Democrazia cristiana, alleata con il Partito nazionale, di estrema destra, controllava il congresso. Unidad popular controllava il potere esecutivo. La polarizzazione di queste due forze sarebbe diventata la polarizzazione del paese. Paradossalmente, fu il cattolico Eduardo Frei, che non credeva nel marxismo, a trarre profitto dalla lotta di classe, a stimolarla e a esacerbarla, con il proposito di far uscire dai gangheri il governo e di spingere il paese sulla china della demoralizzazione e del disastro economico. Il blocco economico statunitense, in seguito alle espropriazioni senza indennizzi, e il sabotaggio interno della borghesia fecero il resto. In Cile si produce tutto, dalle automobili al dentifricio, ma l’industria aveva una falsa identità: nelle 160 ditte più importanti il 60 per cento del capitale era straniero, e l’80 per cento dei componenti fondamentali veniva importato. Inoltre, al paese occorrevano trecento milioni di dollari all’anno per importare beni di consumo e altri 450 milioni per coprire gli interessi del debito estero. I crediti dei paesi socialisti non rimediavano alla carenza fondamentale di pezzi di ricambio, perché l’intera industria cilena, l’agricoltura e i trasporti dipendevano da attrezzature statunitensi.

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L’Unione Sovietica dovette comprare grano dall’Australia per mandarlo in Cile, dato che era la prima a non averne, e attraverso la Banca dell’Europa del Nord, a Parigi, fece diversi prestiti sostanziosi in dollari. Cuba, con un gesto più esemplare che risolutivo, inviò in regalo una nave carica di zucchero. Ma i problemi urgenti del Cile erano enormi. Le spiritose signore della borghesia, con la scusa del razionamento e delle eccessive pretese dei poveri, si presentarono sulla pubblica piazza facendo risuonare le loro pentole vuote. Non era casuale, ma al contrario molto significativo, che quello spettacolo per strada con volpi argentate e cappellini a fiori si svolgesse lo stesso pomeriggio in cui Fidel Castro terminava una visita di trenta giorni che aveva provocato un terremoto sociale. L’ultimo ballo Il presidente Salvador Allende capì allora, e lo disse, che il popolo aveva il governo ma non il potere. La frase era allarmante, perché Allende aveva un’anima legalitaria che era il germe della sua stessa rovina: un uomo che ha combattuto fino alla morte in difesa della legalità, che sarebbe stato capace di uscire dal portone principale della Moneda, a fronte alta, se fosse stato destituito dal congresso nei termini stabiliti dalla costituzione. Rossana Rossanda, giornalista e donna politica italiana, che gli fece visita in quel periodo, lo trovò invecchiato, teso e pieno di premonizioni lugubri, sul divano di crétonne giallo dove sarebbe giaciuto il suo cadavere crivellato di pallottole, la faccia sfigurata dal calcio di un fucile. In quel momento perfino i settori più comprensivi della Democrazia cristiana erano contro di lui. “Anche Tomich?”, gli domandò Rossana. “Tutti”, rispose Allende. Alla vigilia delle elezioni del marzo 1973, in cui era in gioco il suo destino, si sarebbe accontentato che Unidad popular ottenesse il 36 per cento. E invece, malgrado l’inflazione galoppante, il feroce razionamento, il concerto a base di pentole

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sbatacchiate, ottenne il 44 per cento. Era una vittoria talmente spettacolare e decisiva che quando Allende si ritrovò nell’ufficio senza altri testimoni che il suo amico e confidente, il giornalista Augusto Olivares, fece chiudere la porta e ballò da solo una cueca. Per la Democrazia cristiana quella era la prova che il processo democratico promosso da Unidad popular non poteva essere ostacolato con espedienti legali, ma il partito non fu previdente nel valutare le conseguenze della propria avventura: per loro fu un caso imperdonabile di irresponsabilità storica. Per gli Stati Uniti costituiva un avvertimento molto più importante degli interessi delle ditte espropriate; era un precedente inammissibile nel progresso pacifico dei popoli di tutto il mondo, e in particolare per quelli della Francia e dell’Italia, le cui condizioni rendono possibile il tentativo di esperienze simili. La Cia e lo sciopero Tutte le forze della reazione interna ed esterna si concentrarono in un blocco compatto. Invece i partiti di Unidad popular, le cui spaccature interne erano molto più profonde di quanto si ammetta, non riuscirono a mettersi d’accordo sull’analisi delle elezioni di marzo. Il governo si ritrovò senza risorse, contestato da quanti volevano approfittare dell’evidente radicalizzazione delle masse per dare una svolta decisa ai cambiamenti sociali, mentre i più moderati temevano lo spettro della guerra civile e speravano di arrivare a un compromesso con la Democrazia cristiana. Adesso si vede in tutta chiarezza che quei contatti, da parte dell’opposizione, erano solo un espediente per distrarre e, intanto, guadagnare tempo. Lo sciopero dei camionisti fu la scintilla decisiva. A causa della sua geografia strabiliante, l’economia cilena è alla mercé dei trasporti su gomma. Paralizzarli significa paralizzare il paese. Per l’opposizione era facilissimo farlo, visto che il sindacato dei trasporti era tra quelli maggiormente colpiti dalla scarsità di pezzi di ricambio, e inoltre si sentiva minacciato dalla

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decisione governativa di nazionalizzare i trasporti grazie a dotazioni sovietiche. Lo sciopero fu sostenuto fino alla fine, senza un solo istante di cedimento, perché era finanziato dall’estero con denaro in contanti. La Cia inondò di dollari il paese per appoggiare lo sciopero, e il valore di questa valuta scese alla borsa nera, come scrisse Pablo Neruda a un amico in Europa. Una settimana prima del golpe erano finiti l’olio, il latte e il pane. Negli ultimi giorni di Unidad popular, con l’economia a rotoli e il paese sull’orlo della guerra civile, le manovre del governo e dell’opposizione si accentrarono sulla speranza di modificare, ciascuno a proprio favore, l’equilibrio delle forze nell’esercito. La mossa conclusiva fu perfetta: quarantotto ore prima del golpe, l’opposizione era riuscita a far dimettere gli alti comandi che spalleggiavano Salvador Allende, e a sostituirli, uno per uno, grazie a una serie di mosse magistrali, con tutti gli ufficiali che avevano partecipato alla cena di Washington. In quel momento, però, lo scacchiere politico si era sottratto alla volontà dei suoi protagonisti. Trascinati da una dialettica irreversibile, loro stessi avevano finito per trasformarsi in pedine di una partita più vasta, molto più complessa e politicamente molto più importante di una congiura consapevole tra l’imperialismo e la reazione contro il governo del popolo. Era un terribile scontro di classi ad averla determinata, un accanito guazzabuglio di opposti interessi che doveva culminare in un cataclisma sociale senza precedenti nella storia dell’America. L’esercito più sanguinario del mondo Un golpe militare, considerate le condizioni del Cile, non poteva essere incruento. Allende lo sapeva. “Non si scherza col fuoco”, aveva detto alla giornalista italiana Rossana Rossanda. “Se qualcuno crede che in Cile un golpe militare si produrrà come in altri paesi d’America, con un semplice cambio di guardia alla Moneda, si sbaglia di grosso. Qui, se l’esercito

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PRENSA LATINA/AFP/GETTY IMAGES KEYSTONE PICTURES USA/EYEVINE/CONTRASTO

Santiago, novembre 1972. Studenti distribuiscono cibo durante lo sciopero nazionale dei trasporti

New York, 4 dicembre 1972. Salvador Allende alle Nazioni Unite.

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esce dalla legalità, ci sarà un bagno di sangue. Sarà l’Indonesia”. Questa certezza aveva un fondamento storico. Le forze armate cilene, al contrario di quanto ci hanno fatto credere, sono intervenute in politica ogni volta che hanno visto minacciati i loro interessi di classe e lo hanno fatto con una terribile ferocia repressiva. Le due costituzioni che il paese ha avuto in un secolo furono imposte con le armi, e il recente golpe militare è stato il sesto tentativo negli ultimi cinquant’anni. Le tendenze sanguinarie dell’esercito cileno sono legate alla sua nascita, si sono formate alla terribile scuola del corpo a corpo contro gli araucani, che durò trecento anni. Uno dei precursori delle forze armate si vantava, nel 1620, di aver ucciso con le proprie mani, in una sola azione di guerra, più di duemila persone. Nelle sue cronache Joaquín Edwards Bello racconta che, durante un’epidemia di tifo esantematico, l’esercito trascinava giù dal letto i malati e li ammazzava immergendoli nel veleno per mettere fine al morbo. Nel corso di una guerra civile durata sette mesi, nel 1891, ci furono diecimila morti in una sola battaglia. I peruviani assicurano che quando i militari cileni occuparono Lima, durante la guerra del Pacifico, saccheggiarono la biblioteca di don Ricardo Palma, ma non per leggere i libri, bensì per pulircisi il sedere. Con una brutalità ancora maggiore sono stati repressi i moti popolari. Dopo il terremoto di Valparaíso, nel 1906, le forze della marina liquidarono l’organizzazione dei lavoratori portuali massacrando ottomila persone. A Iquique, agli inizi del secolo, i partecipanti a una manifestazione di operai in sciopero si rifugiarono nel teatro municipale per sfuggire alle truppe, ma furono mitragliati: ci furono duemila morti. Il 2 aprile 1957 l’esercito represse una sommossa civile nella zona commerciale di Santiago: non fu possibile stabilire il numero delle vittime, perché il governo fece sparire i cadaveri in fosse clandestine.

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Durante uno sciopero nella miniera di El Salvador, sotto il governo di Eduardo Frei, una pattuglia di soldati disperse una manifestazione sparando e uccidendo sei persone, tra cui alcuni bambini e una donna incinta. Il comandante della piazza era un oscuro generale di cinquantadue anni, padre di cinque bambini, professore di geografia e autore di diversi libri su questioni militari: Augusto Pinochet. Il mito del legalismo e della mansuetudine di quell’esercito sanguinario era stato inventato a beneficio della borghesia cilena. Unidad popular lo sostenne nella speranza di cambiare a suo favore la composizione di classe dei vertici. Ma Salvador Allende si sentiva più sicuro tra i carabineros, un corpo armato di origine popolare e contadina ai diretti comandi del presidente della repubblica. In effetti, tra loro solo gli ufficiali più anziani assecondarono il golpe. Gli ufficiali giovani si arroccarono nella scuola dei sottufficiali di Santiago e opposero resistenza per quattro giorni, finché non furono annientati con ordigni bellici sganciati dal cielo. Fu la battaglia più nota della lotta segreta che ebbe luogo nelle caserme alla vigilia del golpe. I golpisti assassinarono gli ufficiali che si rifiutavano di assecondarli e quelli che non eseguivano gli ordini repressivi. Si ebbero sommosse di interi reggimenti, sia a Santiago sia in provincia, che furono represse senza clemenza, mentre i loro promotori venivano fucilati per dare una lezione alla truppa. Il comandante dei corazzieri di Viña del Mar, il colonnello Cantuarias, fu ucciso dai suoi subalterni a raffiche di mitra. Il governo in carica ha fatto credere che parecchi di quei soldati leali furono vittime della resistenza popolare. Passerà molto tempo prima che si conoscano le dimensioni reali di quel massacro interno, perché i cadaveri vennero portati via dalle caserme sui camion per la spazzatura per seppellirli di nascosto. In definitiva, solo una cinquantina di ufficiali di fiducia, alla testa di truppe precedentemente

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PATRICIO GUZMÁN (FARABOLA/BRIDGEMAN IMAGES)

Santiago, 1973. Allende incontra gli operai di una fabbrica epurate, sono stati responsabili della repressione. Numerosi agenti stranieri hanno preso parte al dramma. Il bombardamento del palazzo della Moneda, la cui precisione tecnica ha stupito gli esperti, è stato condotto da un gruppo di piloti acrobati statunitensi che erano entrati nel paese, con la copertura dell’operazione Unitas, per offrire uno spettacolo di acrobazie aeree il 18 settembre, giorno dell’indipendenza nazionale. Numerosi agenti segreti dei governi vicini, infiltrati attraverso la frontiera boliviana, sono rimasti nascosti fino al giorno del golpe e hanno scatenato una persecuzione accanita contro circa settemila rifugiati politici di altri paesi latinoamericani. Il Brasile, patria dei peggiori sbirri, si era incaricato di questo servizio. Due anni prima aveva promosso in Bolivia il golpe reazionario che aveva tolto al Cile un sostegno essenziale e facilitato l’ingresso di ogni tipo di risorse utili alla sovversione. Alcuni prestiti fatti dagli Stati Uniti al Brasile sono stati trasferiti segre-

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tamente in Bolivia per finanziare la sovversione in Cile. Nel 1972 il generale William Westmoreland si è recato in segreto a La Paz, e lo scopo del viaggio non è stato rivelato. Non sembra casuale, tuttavia, che poco dopo quella visita riservata siano iniziati movimenti di truppe e materiali bellici alla frontiera con il Cile, il che ha fornito ai militari cileni un’ulteriore occasione per consolidare la loro posizione interna ed effettuare spostamenti di personale e promozioni gerarchiche in vista del golpe imminente. Infine, l’11 settembre, mentre proseguiva l’operazione Unitas, veniva portato a termine il piano originale della cena di Washington, con tre anni di ritardo ma proprio com’era stato concepito: non un convenzionale golpe militare, ma una devastante operazione bellica. Doveva essere così, perché non si trattava semplicemente di abbattere un governo, ma di piantare il tenebroso seme del Brasile, con le sue terribili macchine di terrore, tortura e

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morte, finché in Cile non fosse rimasta nessuna traccia delle condizioni politiche e sociali che avevano reso possibile Unidad popular. Quattro mesi dopo il golpe, il bilancio era atroce: quasi ventimila persone assassinate, trentamila prigionieri politici sottoposti a torture selvagge, venticinquemila studenti espulsi e oltre duecentomila operai licenziati. La fase più dura, tuttavia, non era ancora terminata. Fine di un presidente Nell’ora della battaglia conclusiva, con il paese alla mercé delle forze scatenate della sovversione, Salvador Allende rimase aggrappato alla legalità. La contraddizione più drammatica della sua vita fu di essere nel contempo un nemico congenito della violenza e un rivoluzionario appassionato, contraddizione che egli stesso credeva di aver risolto con l’ipotesi secondo cui le condizioni del Cile permettevano un’evoluzione pacifica verso il socialismo secondo i crismi della legalità borghese. L’esperienza gli insegnò troppo tardi che non si può cambiare un sistema stando al governo, ma solo stando al potere. Tale constatazione tardiva dev’essere stata la forza che lo spinse a resistere fino alla morte tra le macerie in fiamme di una casa che non era neppure sua, una dimora cupa costruita da un architetto italiano come sede della Zecca, che era finita per diventare il rifugio di un presidente senza potere. Resistette per sei ore, con un mitra regalatogli da Fidel Castro, la prima arma da fuoco mai usata da Salvador Allende. Il giornalista Augusto Olivares, che lottò al suo fianco fino alla fine, venne ferito più volte e morì dissanguato all’ospedale. Verso le quattro di pomeriggio, il generale di divisione Javier Palacios riuscì ad arrivare al secondo piano, con il suo attendente, il capitano Gallardo, e un gruppo di ufficiali. Lì, tra le false poltrone Luigi XV, i vasi da fiori a forma di draghi cinesi e i quadri di Rugendas del salone rosso, li stava aspettando Salvador Allende. Portava in testa un casco da minatore ed era in

Gabriel García Márquez (1927–2014) è stato uno scrittore colombiano, premio Nobel per la letteratura nel 1982. Alternativa è stato un

settimanale colombiano, fondato nel 1974 da García Márquez e dal giornalista Enrique Santos Calderón. È stato pubblicato fino al 1980.

maniche di camicia, senza cravatta e con i vestiti sporchi di sangue. Imbracciava il mitra. Allende conosceva bene il generale Palacios. Pochi giorni prima aveva detto ad Augusto Olivares che era un uomo pericoloso, in stretto contatto con l’ambasciata degli Stati Uniti. Non appena lo vide salire le scale, Allende gli gridò: “Traditore” e lo ferì a una mano. Allende morì nella sparatoria ingaggiata con quella pattuglia. Poi tutti gli ufficiali, in un rito di casta, spararono sul cadavere. Alla fine un sottufficiale gli sfigurò il viso con il calcio del fucile. La foto esiste: l’ha scattata il fotografo Juan Enrique Lira, del giornale El Mercurio, l’unico a cui fu permesso di ritrarre il cadavere. Era talmente deturpato che alla signora Hortensia Allende, la moglie, mostrarono il corpo nella bara, ma senza permetterle di scoprirgli il viso. Allende aveva compiuto sessantaquattro anni in luglio ed era un Leone perfetto: tenace, deciso e imprevedibile. “Quel che pensa Allende lo sa solo Allende”, mi aveva detto uno dei suoi ministri. Amava la vita, amava i fiori e i cani, e la sua galanteria era un po’ all’antica, fatta di biglietti profumati e incontri furtivi. La sua maggior virtù è stata la coerenza, ma il destino gli ha riservato la rara e tragica grandezza di morire difendendo a suon di pallottole il fantoccio anacronistico del diritto borghese, mentre difendeva una corte suprema di giustizia che dopo averlo ripudiato avrebbe legittimato i suoi assassini, mentre difendeva un congresso miserabile, che l’aveva dichiarato illegittimo, ma che si sarebbe chinato compiaciuto davanti alla volontà degli usurpatori, mentre difendeva la libertà dei partiti d’opposizione che avevano venduto la loro anima al fascismo e tutti i congegni tarlati di un sistema di merda che il presidente si era proposto di annientare senza sparare un colpo. Il dramma si è svolto in Cile, per sventura dei cileni, ma passerà alla storia come qualcosa che è accaduto a tutti gli esseri umani di quest’epoca e che è rimasto per sempre nelle nostre vite. u

Questo articolo è stato tradotto da Angelo Morino e pubblicato nella raccolta A ruota libera. 1974-1995 ©2015 Mondadori Libri Spa. L’editore ha cercato

con ogni mezzo i titolari dei diritti di traduzione senza riuscire a reperirli: è ovviamente a piena disposizione per l’assolvimento di quanto occorra nei loro confronti.

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Come in Spagna nel 1936 I militari hanno introdotto in Cile un regno del terrore con pochi precedenti nella storia. Le testimonianze degli esuli e dei sopravvissuti dalla conferenza di Città del Messico del 1975, il primo incontro internazionale per discutere del regime di Pinochet Rose Styron, Ramparts, Stati Uniti, maggio–giugno 1975 Primavera del 1975. È passato un anno e mezzo da quando in Cile un violento colpo di stato di destra ha partorito una dittatura militare. Un anno e mezzo da quando il cardinale Silva [Raúl Silva Henríquez, 1907–1999, cardinale e arcivescovo cileno] – che per mesi aveva tentato di usare l’autorità della chiesa per trovare una soluzione pacifica al conflitto e che poi, dopo il golpe, ha mantenuto una posizione indipendente – ha denunciato la brutalità della giunta: “Abbiamo ricordato che la violenza genera solo altra violenza”, ha detto. “Abbiamo insistito con le autorità perché ricordino che i princìpi del rispetto per l’essere umano non possono essere ignorati e che i diritti umani sono sacri e non devono essere calpestati da nessuno. Ma non siamo stati ascoltati. E ora piangiamo come un padre che osserva la sua famiglia che viene distrutta”. Sui cileni incombe un regno del terrore che ha pochi precedenti nella storia moderna. Su una popolazione di 10,5 milioni di abitanti, cir-

ca quarantamila persone sono state giustiziate o sono morte in seguito alle torture subite; duecentomila sono state arrestate, incarcerate o sono attualmente sottoposte a interrogatori; di un numero imprecisato di individui si sono perse le tracce; trecentomila cileni sono stati licenziati per motivi politici; il 60 per cento della popolazione vive al livello di sussistenza, molto spesso soffrendo la fame a causa dell’inflazione galoppante; trentamila orfani hanno bisogno di assistenza; venticinquemila studenti e il 30 per cento dei professori sono stati espulsi dalle università, ormai affidate a rettori chiamati dall’esercito, che applicano programmi imposti dai militari. Centinaia di giovani marciscono in prigione, condannati in quanto leader studenteschi o perché avevano sostenuto la presidenza di Allende. I professori e gli insegnanti delle scuole preparatorie che hanno insegnato marxismo durante l’epoca di Allende sono stati condannati a pene carcerarie fino a trent’anni.

Santiago, 18 settembre 1974. Augusto Pinochet durante le celebrazioni per il primo anniversario del colpo di stato. (Alain Keler, Myop)

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L’incubo, per le vittime, comincia molto prima del processo (secondo Ramsey Clark [1927–2021, politico e avvocato statunitense, fu procuratore generale durante la presidenza di Lyndon Johnson] e altri osservatori internazionali i processi sono una farsa: gli avvocati possono incontrare i loro clienti solo per pochi minuti prima delle udienze, tra l’altro fissate in segreto; inoltre non possono chiamare testimoni né fare riferimento alla tortura o alle confessioni estorte con la violenza). I resoconti dei sopravvissuti, dei profughi, dei medici e dei leader sindacali stranieri, del clero e dei giuristi che hanno visitato il Cile per indagare sulle condizioni dei loro colleghi, nonché i rapporti delle istituzioni per la difesa dei diritti umani – dalle Nazioni Unite all’Organizzazione degli stati americani [Osa, raggruppa 35 paesi delle Americhe] fino ad Amnesty international – confermano i dettagli di questo calvario. Le persone sono prelevate in strada, a qualsiasi ora, dai soldati o dagli agenti della famigerata Dina (Dirección de intelligencia nacional, una squadra di poliziotti in borghese, i cui dirigenti sono stati formati da brasiliani addestrati negli Stati Uniti). Chi viene portato via da casa spesso è costretto a osservare la distruzione dei propri beni e le violenze inferte ai propri familiari, che in alcuni casi vengono arrestati o uccisi sul posto. Dopo l’arresto, la vittima, uomo o donna che sia, è condotta in uno dei centri per gli interrogatori (circa una decina), dove resta per settimane o mesi senza potere comunicare con nessuno, sottoposta quotidianamente a torture fisiche e psicologiche. Gli strumenti e le tecniche di tortura sono talmente comuni che non c’è bisogno di descriverli nel dettaglio: fili elettrici sui genitali e altre parti sensibili del corpo e del volto, acqua versata sul viso per provocare la sensazione del soffocamento, botte prolungate e ripetute. Lo stesso vale per i pestaggi, effettuati mentre la vittima è incatenata e appesa a sbarre di ferro, immersa in barili pieni di liquido caldo o freddo, infilata

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a forza in sacchi di plastica pieni di escrementi o addirittura legata a cavalletti di tipo medievale. Poi c’è l’isolamento: i prigionieri restano nudi in celle gelide, senza poter dormire, sottoposti a deprivazione sensoriale. A molti sono iniettate droghe nel sangue e poi li si costringe ad ascoltare i nastri con le registrazioni delle urla dei propri cari. Per le donne esistono torture speciali: stupro di gruppo, inserimento nella vagina di bastoni, bottiglie, topi o ragni, somministrazione di droghe che portano alla follia, elettroshock, colpi all’utero delle donne incinte ed estrazione forzata del feto. Alcune donne sono costrette ad assistere alle torture e all’omicidio dei mariti e dei figli. Le prigioni cilene sono piene di adolescenti che subiscono le stesse violenze degli adulti. Secondo il rapporto della Commissione internazionale dei giuristi, al momento sono in fase di costruzione dei campi in cui saranno rieducati con la forza fino a seicentomila giovani. Sembra di essere tornati ai giorni di Hitler. Di certo l’influenza dei nazisti sul Cile di oggi non può essere ignorata. Apprezzato in passato per la sua integrità apolitica, l’esercito cileno ha ricevuto una formazione di stampo germanico. L’ambasciatore presso le Nazioni Unite – l’ammiraglio Ismael Huerta, che ha trascorso un periodo in Germania prima della seconda guerra mondiale – ha risposto alle accuse di fascismo rivolte al regime di Pinochet con le seguenti parole: “Se con fascismo intendete un governo forte, allora sì, siamo fascisti”. Le voci secondo cui alla guida della Dina e del sistema repressivo del regime ci sarebbero degli ex nazisti sono sempre più insistenti. Il nome citato più spesso è quello di Walter Rauff, ex capo delle SS nell’Italia del nord. Noi statunitensi dovremmo preoccuparci, perché il Cile è chiaramente nella nostra sfera d’influenza. Senza un incoraggiamento diretto o indiretto di Washington, l’esercito cileno non avrebbe mai rovesciato Allende. Allo stato attuale non è chiaro fino a che punto Washington sia coinvolta nel golpe, ma conside-

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rate le passate interferenze in Indocina, Repubblica Dominicana, Brasile, Guatemala, Grecia, Indonesia, Sudafrica e Uruguay (e forse anche in Portogallo), gli statunitensi ancora convinti che un paese democratico non dovrebbe immischiarsi negli affari interni di un altro stato sono confusi e profondamente preoccupati. Forse il Cile è la Spagna della nostra generazione? Prima del golpe, all’inizio del 1973, Kissinger aveva garantito più volte alla stampa che gli Stati Uniti non avevano mai interferito, e mai lo avrebbero fatto, nella politica del Cile, “una questione interna” del paese. Ma se davvero siamo intervenuti in Cile per consegnare il potere a un governo che sta violando i diritti umani nel modo più osceno immaginabile, allora siamo moralmente tenuti a intervenire di nuovo, non con la forza ma facendo pressioni, per garantire il ripristino della libertà. Come ha sottolineato a febbraio il premio Nobel per la medicina George Wald a Città del Messico, “i diritti umani non sono mai una questione interna”. La riunione delle vittime Wald ha pronunciato queste parole durante la terza sessione della Comisión internacional de investigación de los crímenes de la junta militar en Chile [commissione internazionale di indagine sui crimini della giunta militare in Cile]. In occasione dei due precedenti incontri della commissione, organizzati a Helsinki e a Copenaghen nel 1974, erano state ascoltate le raccapriccianti testimonianze dei rifugiati arrivati in Europa dal Cile (anche il Tribunale Russell [tribunale di opinione per la condanna dei crimini di guerra, fondato nel 1966 dal filosofo britannico Bertrand Russell e dal francese Jean-Paul Sartre] ha tenuto incontri simili, a Roma e a Bruxelles). La sessione di Città del Messico è stata la prima organizzata in America Latina. Ospitata dal presidente messicano Luis Echeverría, grande amico e ammiratore di Allende, è stata convocata per valuta-

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re la situazione attuale in Cile, per analizzare il carattere del regime di Pinochet, per attirare l’attenzione sulla violazione sistematica dei diritti sociali, economici, culturali e giudiziari in Cile, per sottolineare le persecuzioni dei giovani, per cercare il modo di fermare la repressione e infine per far conoscere la vicenda cilena al resto del mondo attraverso testimonianze vivide e personali. Diversi collaboratori di primo piano di Allende – quelli che non sono morti misteriosamente in carcere, come il generale Alberto Bachelet, o sotto tortura, come il giornalista José Tohá – hanno voluto essere presenti all’evento. In un tentativo di ripulire la propria immagine internazionale, la giunta di recente ha offerto a queste figure di primo piano l’esilio come alternativa al carcere a vita. Gli uomini vicini ad Allende sono stati ufficialmente invitati a riparare in Venezuela, Romania, Svezia, Australia, Italia, Russia, Francia e Messico, ma non negli Stati Uniti. Quella di Città del Messico è stata la prima riunione a cui hanno potuto partecipare, ed erano tutti visibilmente e comprensibilmente felici di essere ancora vivi e di ritrovarsi insieme. L’affetto con cui si sono salutati e hanno abbracciato i sopravvissuti alle prigioni militari e ai campi di concentramento di Tres Álamos, Tejas Verdes, Chacabuco, Isla Dawson, Ritoque, del reggimento Tacna, dell’Accademia dell’aeronautica e ad altri centri segreti per gli interrogatori ha regalato a noi partecipanti una speranza, il sentimento che lo spirito umano possa ancora trionfare, anche mentre ascoltavamo la loro descrizione di esperienze così terrificanti. La cerimonia di apertura della conferenza si è tenuta nel Palazzo delle belle arti, un’elegante struttura a cupola solitamente dedicata ai concerti di musica classica. La sala era affollatissima. Mentre attendevamo l’avvio dei lavori, l’atmosfera era quasi di festa, trepidante. Sul palco, i componenti della commissione e gli altri relatori provenienti da tutto il mondo discutevano animatamente. Tra il pubblico

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c’erano scrittori come Carlos Fuentes (nuovo ambasciatore del Messico a Parigi), Gabriel García Márquez (che ha lasciato la Colombia per trasferirsi a Barcellona e a Londra, dove ha scritto articoli appassionati e accurati sul Cile) e l’argentino Julio Cortázar, i cui libri sono stati vietati dalla giunta cilena. C’erano anche il sociologo statunitense James Petras, il cui nuovo lavoro sull’America Latina è ormai quasi completo, il pittore Matta, e Amy Conger, giovane insegnante di arte di Chicago, che a ottobre a Santiago ha subìto gravi abusi e ha assistito alle torture in un carcere dell’aeronautica cilena. Un’altra presenza importante è stata quella dell’ambasciatore svedese in Cile, Harald Edelstam, che durante il golpe ha accolto nell’ambasciata chiunque avesse bisogno di asilo e ha incoraggiato gli altri consoli a fare lo stesso (l’ambasciata americana si è rifiutata di farlo, e i cittadini statunitensi hanno trovato rifugio altrove o sono stati prelevati dai militari e portati nell’enorme stadio trasformato in centro di detenzione, dove anche loro hanno sperimentato la sanguinaria ferocia xenofoba delle autorità. Alcuni giovani, come Frank Teruggi e Charles Horman, sono stati picchiati, torturati e uccisi. L’amministrazione di Washington non ha nemmeno protestato. Non solo: Harry Shlaudeman, il funzionario incaricato della gestione dell’ambasciata in quei giorni, è stato recentemente nominato ambasciatore in Venezuela). Vicino a Edelstam c’era Armando Uribe, ex ambasciatore cileno in Cina, autore del Libro nero dell’intervento americano in Cile, scritto per smentire il Libro bianco della giunta [Libro blanco del cambio de gobierno en Chile, che giustificava il golpe militare e le sue violazioni dei diritti umani]. Accanto a Uribe sedeva l’economista Pedro Vuskovic, la cui partenza dall’ambasciata messicana in Cile è stata organizzata personalmente dal presidente Echeverría subito prima che il Messico interrompesse i rapporti

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diplomatici con Santiago, a dicembre. Vicino a Vuskovic, Clodomiro Almeyda e Orlando Letelier discutevano animatamente. Nell’ultima estate del governo di Unidad popular, Letelier era tornato da Washington per ricoprire il ruolo di ministro della difesa. Letelier, che aveva ripetutamente ricevuto dal generale Pinochet la promessa di fedeltà ad Allende (addirittura fino al pomeriggio precedente il golpe), ha definito il generale cileno un “genio del tradimento”. Almeyda, sociologo e ministro degli esteri con Allende, ha trascorso quasi sedici mesi in diversi campi d’internamento e prigioni, prima di essere rilasciato in seguito alla pressione internazionale promossa dall’Onu. A un certo punto, accanto al palco, è apparso Carlos Altamirano, segretario generale del Partito socialista cileno. Considerato per un certo periodo l’uomo più ricercato del Cile, è riuscito a fuggire in Europa passando da Cuba. Poi la vedova di Allende, Hortensia Bussi, si è avvicinata al centro del palco. Gli occhi di tutti erano puntati su di lei, regale e sorridente. Ogni delegato l’ha salutata baciandola. Quando la banda dell’esercito messicano ha attaccato l’inno nazionale, tutti hanno preso posto e sono rimasti in piedi a osservare il fondo della sala, da dove il presidente Echeverría, seguito dai suoi generali in uniforme, camminava verso il palco. I generali si sono disposti ai lati, sull’attenti, mentre il presidente ha baciato la señora Allende, ha dato il benvenuto agli ospiti, ha manifestato il suo supporto e la sua solidarietà al governo cileno in esilio, si è messo in posa per le foto e si è inchinato con eleganza davanti agli applausi dei suoi sostenitori. Poi la commissione ha cominciato i lavori. L’agonia di un paese Jacob Söderman, parlamentare finlandese nominato presidente della commissione, ha presentato Clodomiro Almeyda, che ha raccontato l’agonia della democrazia e ha sottolineato la necessità che la solidarietà internazionale

Internazionale storia | Cile 1973

KOEN WESSING (PANOS/PARALLELOZERO) ALAIN KELER (MYOP)

Santiago, settembre 1973. L’arresto di sospetti oppositori del regime di Pinochet

Santiago, settembre 1974. Festeggiamenti per l’anniversario del colpo di stato

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riporti la libertà e la giustizia nel “Cile eterno […], non il Cile degli scarponi e delle baionette, del filo spinato e dei campi di concentramento, ma […] il Cile che disprezza chi si vende per un pugno di dollari offerti dalla Cia, il Cile che non tollera il rogo dei libri e l’inquisizione”. Uno dei relatori non cileni è stato Stepan Šalaev, segretario del consiglio centrale dei sindacati dell’Unione Sovietica. Šalaev ha parlato della fratellanza tra la Russia e il popolo cileno (anche la Russia ha interrotto i rapporti diplomatici con la giunta) e ha ricordato che, nonostante il regime abbia liberato alcuni prigionieri, molti altri restano in carcere, e ha poi aggiunto che la coscienza dell’umanità non può dimenticarli. L’ironia della concomitanza tra il golpe e la pubblicazione del libro Arcipelago gulag non è sfuggita a nessuno. Il vietnamita Pham Van Bach ha preso la parola mentre la platea scandiva il nome del suo paese. I generali si sono seduti, impassibili. Dopo altri discorsi e altri applausi, la sessione si è conclusa. Abbiamo attraversato il palazzo andando incontro a un sole caldo, poi abbiamo proseguito fino all’hotel del Prado, dove erano già in vendita le copie della rivista Excelsior che riportavano in prima pagina le interviste e le fotografie a colori delle “stelle” della conferenza. I giornali messicani hanno seguito ogni giornata dell’evento. All’hotel del Prado i lavori sono entrati nel vivo. […] Le sessioni in cinque lingue, che solitamente cominciavano subito dopo colazione, si sono protratte per due volte fino a mezzanotte. Gli ospiti europei e nordamericani hanno aggiunto informazioni dal podio o rivolto domande dalla platea. Orlando Letelier ha ricapitolato nel dettaglio gli eventi del mandato di Allende, culminati nel colpo di stato. Poi ha raccontato il suo arresto e il suo interrogatorio insieme ad altri 35 funzionari di Unidad popular, successivamente trasferiti nel campo dell’isola di Dawson, nell’Antartico, dove la giunta ha cer-

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cato di distruggerli fisicamente e psicologicamente, costringendoli a trasportare senza sosta sacchi di pietre, nella sabbia, sotto la pioggia e la neve, e a osservare le torture inflitte a centoventi ragazzi di età compresa tra i 14 e i 18 anni provenienti da Punta Arenas. Da Dawson, Letelier è stato trasportato, legato e incappucciato, in una serie di celle per gli interrogatori sparse per Santiago. Il figlio di Luis Corvalán (leader del Partito comunista, non ancora scarcerato nonostante le richieste dell’Onu) ha parlato dei mesi trascorsi nel campo di Chacabuco. Il giovane Luis Alberto ha descritto con dovizia di particolari la sua atroce esperienza, cominciata nell’ottobre del 1973. Sempre incappucciato durante le torture e interrogato ininterrottamente sul luogo in cui si trovava il padre (che era stato arrestato un mese prima), Corvalán è riuscito a vedere il volto dei dodici individui che lo avevano torturato – picchiandolo fino a farlo svenire, rianimandolo con getti d’acqua e scariche elettriche per poi riprendere a picchiarlo – solo quando gli hanno tolto il cappuccio per verificare che fosse vivo. Steso per terra, coperto di fili elettrici, il giovane Corvalán sanguinava dagli occhi, dalle orecchie, dalla testa e dal corpo. Dopo l’ultima sessione di torture, durata sette ore, non riusciva più a muoversi. A tre giovani è stato ordinato di portarlo via. I suoi compagni di prigionia lo hanno curato e alla fine è sopravvissuto, ma ancora oggi soffre di giramenti di testa. In seguito, nel campo di Chacabuco, Luis Alberto ha saputo delle sue “confessioni di complotto”. Per undici mesi è stato sottoposto a torture perché denunciasse il padre e Unidad popular. Un relatore intervenuto in seguito – Benjamín Teplizky, leader del Partito radicale, esiliato in Israele – ha raccontato di aver visto Luis Corvalán a Dawson mentre spingeva una carriola con 35 chili di pietre. Era tenuto in una cella d’isolamento, veniva svegliato improvvisamente con colpi d’arma da fuoco e obbligato a lavorare senza sosta. Quando nel

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gelo di maggio Pinochet ha accettato di evacuare da Dawson gli uomini che erano stati ministri nel governo di Allende, i feriti e gli anziani sono stati costretti a camminare insieme agli altri nella neve per 24 chilometri prima di raggiungere gli aerei che li avrebbero trasferiti in altre prigioni. A Città del Messico speravo d’incontrare il senatore Hugo Miranda, rilasciato da poco e riparato in Venezuela, ma i suoi documenti non sono arrivati in tempo. Avrei voluto vedere anche Carmen Castillo. Come le vicende di Jorge Montes (che ha subìto torture orribili e al momento è irreperibile) e Fernando Flores (che è stato arrestato nuovamente mentre si preparava a raggiungere la California, dove aveva ottenuto un incarico all’università), il caso di Carmen Castillo suscita forti preoccupazioni. Quando il marito, il leader del Mir Miguel Enríquez è stato giustiziato, Castillo, che portava in grembo suo figlio, era rimasta ferita. In ospedale l’hanno presa a calci in pancia, violentata e drogata, prima di rispedirla dal padre a Londra. Sapevo che in Inghilterra aveva partorito un bambino. Non sapevo che il bambino presentava danni al cervello ed è morto poche settimane dopo il parto. I medici hanno insistito affinché Castillo non partisse per il Messico. È stata operata a un braccio martoriato dalle torture, nel tentativo di ripristinarne almeno in parte la funzionalità. Un attimo di serenità Una sessione è stata dedicata alle donne cilene: Elba Vergara, la segretaria di Allende; Angela Bachelet, vedova del generale; Moy Tohá, vedova dell’ex ministro della difesa; Ana María Morgado, vedova dell’esponente del Partito radicale Patricio Weitzel; Gladys Marín, parlamentare e organizzatrice della gioventù comunista, e Lina Benitez, dirigente ospedaliera. Queste donne hanno raccontato le proprie storie e quelle dei mariti. Non dimenticherò mai il racconto di Elba Vergara. Catturata e trascinata via da casa da quindici

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uomini della Dina armati fino ai denti, è stata brutalmente interrogata nel tentativo di strapparle i segreti di Allende. Quando si è rifiutata di rispondere, l’hanno portata in un edificio e le hanno mostrato un bambino di tre anni, tenuto per i piedi fuori da una finestra al diciannovesimo piano. “Parla, o lo facciamo precipitare”, le hanno detto. La madre del bambino, amica di Elba, ha scosso la testa in segno di diniego, ed Elba è rimasta in silenzio. In seguito l’hanno rinchiusa in una cella da cui poteva sentire gli uomini della Dina che stupravano le donne e le torturavano fino a farle urlare come animali, e dove ha subìto interrogatori lunghi fino a sette ore. Non ha mai ceduto. Un giorno i suoi aguzzini le hanno detto che, visto che voleva fare la dura, l’avrebbero portata nel loro “teatro” personale: la “piccola stanza blu”. Lì le hanno tolto la benda dagli occhi e l’hanno lasciata sola in una stanza, con una parete illuminata da una fioca luce blu. Poi quattro uomini sono entrati nella stanza portando una brandina con una figura avvolta nelle lenzuola. “Siediti”, le ha ordinato uno di loro, “stai per ammirare un’esibizione di un pessimo attore, un attore che ha dimenticato la sua parte. Aiutalo a ricordare”. A quel punto gli uomini hanno scostato le lenzuola mostrandole un corpo completamente viola, senza un piede. “Vieni più vicina”, le ha intimato un agente. “Guardalo, lo conosci”. Non si sbagliava. Era “El Gordo” Toledo, un ragazzo di 27 anni con cui Elba era stata venti giorni prima. Non riusciva più a parlare né a gridare. Quando Elba ha detto di non conoscerlo, gli uomini le hanno risposto: “Ora vediamo”. Gli hanno strappato le unghie, mozzato l’unico orecchio che gli rimaneva, tagliato la lingua e cavato gli occhi. Poi lo hanno ucciso lentamente, mentre Elba osservava e pensava: potrebbe essere mio figlio. Ucciso El Gordo, hanno portato nella stanza un altro “attore”, Eduard Muñoz, di 26 anni. Ci hanno messo cinque ore a ucciderlo, sotto gli occhi di Elba. La donna ci ha raccontato che quell’angoscia

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KOEN WESSING (PANOS/PARALLELOZERO)

Santiago, settembre 1973 è stata peggiore di qualsiasi tortura le avessero inferto. In un altra occasione Elba è stata costretta a guardare mentre le sue compagne di cella – di 16, 17 e 40 anni, nude e drogate – sono state costrette a eseguire una danza erotica, prima di essere violentate. Un’altra ragazza incinta, di ritorno da un temuto centro di tortura, era talmente fuori di sé che si svegliava continuamente urlando che il suo unico desiderio era veder nascere il suo bambino per poi ucciderlo. Elba ha concluso il suo intervento con parole di elogio per le donne cilene, per i loro valori, per la loro forza di volontà, per la loro capacità di continuare a credere nell’amore e nell’umanità. Nella sala è calato il silenzio. Elba Vergara è una donna piccola e robusta, con i capelli neri, gli occhi luminosi e un sorriso pungente che rispecchia il suo spirito. Lei stessa ha ammesso di essere stata una militante per 39 dei 51 anni della sua vita. Angela Jeria, la vedova di Bachelet, invece, è alta e snella, di

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una bellezza delicata, quasi fragile. Ha raccontato la sua esperienza mostrando una compostezza assoluta: il giorno in cui la Dina ha arrestato lei e la figlia (una studentessa di medicina: ai medici è stato riservato un trattamento particolarmente barbarico), il percorso verso il centro di tortura, i tentativi di farla crollare psicologicamente, la cella d’isolamento senza finestre, in cui è stata abbandonata per giorni con gli occhi coperti dal nastro adesivo. Ha parlato della sporcizia, della fame e della sete costanti, del fetore, dei prigionieri perennemente in manette, bendati con stracci sporchi e vestiti con abiti il cui colore, dopo mesi passati in cella, era ormai impossibile da definire. Ha raccontato anche le “grida strozzate” di uomini e donne con la bocca riempita di stracci, legati con le braccia e le gambe divaricate a una “griglia elettrificata”. All’inizio aveva pensato che quei versi fossero di cani o gatti. Ana María Morgado, molto più giovane di Angela ed Elba, ha parlato animata dalla rab-

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bia. Ha chiesto un intervento immediato. Insieme ai suoi tre figli piccoli si è rifugiata in Svezia (Elba, invece, vive in Messico e Angela in Australia). Suo marito Patricio è stato arrestato due volte, in entrambi i casi interrogato con estrema crudeltà, poi dichiarato innocente e liberato. Mentre si stava riprendendo dalle torture, era stato arrestato una terza volta. Da allora era scomparso. Tre mesi di ricerche non avevano portato a nulla. A Natale un agricoltore era entrato nella bottega di orologiaio del suocero di Ana María, portando un orologio. L’uomo aveva riconosciuto l’orologio del figlio e, dopo aver seguito l’agricoltore (terrorizzato) fino a casa, ha scoperto che era stato rubato da un cadavere nei pressi del fiume Ñuble. Il padre e la moglie di Patricio si sono fatti strada tra una decina di corpi orrendamente mutilati finché non hanno riconosciuto quello del giovane Patricio. Il certificato di morte ottenuto da un tribunale cileno indicava come causa del decesso “anemia acuta con molteplici fori di proiettile”. Potrei continuare a citare le testimonianze all’infinito. Il professor Friedrich Karl Kaul [vicepresidente della commissione] ha proposto un parallelo tra la Germania nazista del 1933 (è stato prigioniero a Dachau) e il Cile del 1973. Armando Uribe ha parlato del coinvolgimento della Cia. Jim Petras ha analizzato l’economia cilena e la sua dipendenza storica dagli Stati Uniti. L’ufficiale dell’esercito Jaime

Rose Styron è una poeta, giornalista e attivista per i diritti umani statunitense. Nata Burgunder, nel 1953 ha sposato lo scrittore William Styron,

prendendone il cognome. Il suo ultimo libro è il memoir Beyond this harbor. Adventurous tales of the heart (Knopf 2023).

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Contreras ha sottolineato la crudeltà mostrata dai soldati nei confronti dei prigionieri. Il leader studentesco Antonio Leal ha raccontato dell’anno trascorso tra i giovani martiri nei campi di concentramento. L’avvocato dell’Oregon Joe Murray ha descritto l’incompetenza dei tribunali. L’ultima sera ho avuto la fortuna di essere invitata a una festa nella casa del cantante Ángel Parra, appena arrivato da Chacabuco. C’era un ottimo buffet con piatti cileni. Durante la cena, il leader del Mapu [Movimento de acción popular unitaria, partito di sinistra cileno fondato nel 1969] José Miguel Insulza, che ora lavora a Roma, ci ha fatto da anfitrione, perché Parra e Letelier erano in ritardo. Quando finalmente sono arrivati, gli ospiti, giovani e non più giovani, si sono riuniti nell’accogliente salotto, dove si sono tolti le scarpe e si sono seduti sul pavimento. Ángel Parra e Orlando Letelier, passandosi una chitarra, hanno suonato i più noti brani cileni e qualche canzone d’amore, intervallandole con storie della loro prigionia. C’erano anche Almeyda, Corvalán, Teplizky, Hortensia Allende e altri cileni. Ho pensato agli ultimi appelli per l’ingegnere David Silberman Gurovich, arrestato e oggi irreperibile, e per il dottor Bautista van Schouwen, paralizzato e ancora sottoposto a torture. Ma l’atmosfera, anche solo per un momento, era di pace. Nessuno voleva tornare a casa. u as

Ramparts è stata una rivista culturale e politica statunitense, legata al movimento della New Left (nuova sinistra). Fondata in California nel

1962, è stata pubblicata con cadenza bimestrale fino al 1975.

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I diritti umani secondo il regime Qué Pasa, Cile, 10 luglio 1975 Il governo ha deciso di non permettere l’accesso in Cile alla commissione delle Nazioni Unite che avrebbe dovuto indagare sul rispetto dei diritti umani nel nostro paese. La decisione del governo ha obbedito a un principio di realismo. L’“indagine” dell’Onu fa parte della campagna anticilena, con finalità e ispiratori ben noti. Sarebbe stato ingenuo pensare che quell’indagine potesse essere imparziale o portare a un esito diverso dal rapporto prevedibilmente negativo che è destinato a essere usato contro di noi. Se anche il documento fosse stato almeno parzialmente favorevole, la propaganda nemica (con le sue immense risorse) ne avrebbe sottolineato solo gli aspetti negativi. La questione è ancora più evidente se si pensa alla confusione che regna tra “diritti umani” propriamente detti e “diritti politici”. I primi non ammettono mai una sospensione; i secondi, transitoriamente, sì. Ma gli uni e gli altri sono stati raggruppati insieme dagli organismi internazionali promossi dall’Unione Sovietica e dai suoi satelliti. La parzialità della cosiddetta indagine delle Nazioni Unite è confermata dal fatto che i principali sostenitori sono stati i marxisti-leninisti sovietici, che non conoscono i diritti umani neanche di nome. Apprezzando la bontà della decisione del governo, non possiamo però ignorarne l’inevitabile conseguenza: l’inasprimento della campagna universale anticilena sul tema dei diritti umani. Davanti a questo pericolo:

Qué Pasa è stata una rivista cilena conservatrice, critica verso il governo di Unidad popular e poi sostenitrice

del regime di Pinochet. Fondata nel 1971, è stata pubblicata settimanalmente fino al 2018.

1. Il paese deve essere mobilitato spiritualmente per accettare con serena e inamovibile fermezza gli effetti, qualunque essi siano, di un’altra decisione, altrettanto serena e inamovibile: conservare a ogni costo l’indipendenza. 2. Il paese deve contrastare con azioni concrete l’inasprimento della propaganda anticilena. Alcune misure possibili: accelerare la commutazione delle pene carcerarie in condanne all’esilio, obiettivo per cui esistono norme e meccanismi già applicabili; un’amnistia (per esempio in occasione del prossimo 11 settembre) per chi sta scontando pene per reati politici commessi fino a una determinata data e che non siano stati di eccezionale gravità; l’istituzione di una commissione nazionale al più alto livello, formata da persone insospettabili di ogni partigianeria, per indagare sul rispetto delle regole in materia di diritti umani, e in particolare su quelle dettate recentemente dallo stesso governo, con il fine ultimo di proporre eventuali correzioni di fatto e di diritto. In poche parole, il Cile deve far conoscere al mondo la sua inalterabile determinazione sia a chiudere le porte a ogni ingerenza esterna sia a far rispettare i princìpi dei diritti umani, che sono parte della nostra eredità storica, culturale e spirituale. u fr

I Chicago boys al comando La repressione politica e l’assoluta libertà economica per piccoli gruppi di privilegiati sono due facce della stessa medaglia. E hanno un prezzo altissimo per la maggior parte della popolazione cilena Orlando Letelier, The Nation, Stati Uniti, 28 agosto 1976 Può sembrare semplice buon senso sostenere che le politiche economiche sono condizionate dalla situazione sociopolitica in cui sono applicate e allo stesso tempo la modificano. Sono introdotte proprio allo scopo di modificare le strutture sociali. Se mi soffermo a fare queste considerazioni è perché il necessario nesso tra politica economica e assetto sociopolitico appare assente da molte analisi dell’attuale situazione cilena. In breve, la violazione dei diritti umani, la brutalità istituzionalizzata, il drastico controllo e la repressione di ogni forma di dissenso sono discussi (e spesso condannati) come fenomeni solo indirettamente collegati, o addirittura del tutto estranei, alle sfrenate politiche di “libero mercato” che sono state applicate dalla giunta militare. Questo mancato collegamento riguarda soprattutto le analisi delle istituzioni finanziarie, private e pubbliche, che hanno apertamente elogiato e sostenuto le politiche economiche adottate dal governo Pinochet,

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pur deplorando la “cattiva immagine internazionale” che la giunta si è guadagnata con la sua “incomprensibile” persistenza nel torturare, imprigionare e perseguitare i suoi critici. La recente decisione della Banca mondiale di concedere un prestito di 33 milioni di dollari alla giunta è stata giustificata dal suo presidente, Robert McNamara, in quanto basata su criteri puramente tecnici, che non implicano alcun rapporto particolare con le attuali condizioni politiche e sociali del paese. Lo stesso tipo di giustificazione è stato addotto dalle banche private statunitensi che, per usare le parole del portavoce di un’azienda di consulenza, “hanno fatto a gara per concedere prestiti alla giunta militare”. Ma probabilmente nessuno ha espresso questo atteggiamento meglio del segretario statunitense al tesoro. Dopo una visita in Cile, durante la quale aveva discusso delle violazioni dei diritti umani compiute dal governo militare, William Simon si è congratulato con Pinochet per aver portato

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la “libertà economica” al popolo cileno. Questo concetto particolarmente conveniente di un sistema sociale in cui libertà economica e terrore politico coesistono senza toccarsi, consente a questi portavoce della finanza di sostenere la loro idea di “libertà” mentre affermano a gran voce di difendere i diritti umani. L’utilità di questa distinzione è stata particolarmente apprezzata da chi ha favorito le riforme economiche attualmente in atto in Cile. Su Newsweek del 14 giugno Milton Friedman, che è l’architetto e il consigliere non ufficiale del gruppo di economisti che oggi gestisce l’economia cilena, ha detto: “Nonostante il mio profondo disaccordo con il sistema politico autoritario del Cile, non considero sbagliato fornire consulenza tecnico-economica al governo cileno, non più di quanto considererei sbagliato per un medico fornire consulenza tecnico-medica al governo cileno per aiutarlo a risolvere una problema sanitario”. È curioso che l’uomo che nel 1962 ha scritto un libro, Capitalismo e libertà, per avanzare la tesi secondo cui solo il liberismo economico classico può garantire la democrazia, possa ora separare così facilmente l’economia dalla politica, quando le teorie che sostiene coincidono con una restrizione assoluta di ogni tipo di libertà democratica. Ci si aspetterebbe logicamente che, se chi limita l’impresa privata dev’essere ritenuto responsabile degli effetti dei suoi provvedimenti in ambito politico, lo debba essere anche chi impone una “libertà economica” sfrenata quando questa imposizione è inevitabilmente accompagnata da una massiccia repressione, dalla fame, dalla disoccupazione e da un brutale stato di polizia. Ricette economiche e realtà Il piano economico attualmente in corso di realizzazione in Cile mette in pratica l’aspirazione storica di un gruppo di economisti cileni, la maggior parte dei quali si è formata all’università di Chicago con Milton Friedman e Arnold Harberger. Profondamente coinvolti nella

preparazione del colpo di stato, i “Chicago boys”, come vengono chiamati in Cile, hanno convinto i generali di poter aggiungere alla loro brutalità le risorse intellettuali assenti tra i militari. Il comitato ristretto per l’intelligence del senato degli Stati Uniti ha rivelato che i “collaboratori della Cia” avevano contribuito a pianificare le misure economiche che la giunta cilena ha adottato subito dopo il golpe. I componenti della commissione sostengono che alcuni dei Chicago boys abbiano ricevuto fondi dalla Cia per stilare un progetto economico di trecento pagine che è stato consegnato ai leader militari prima del colpo di stato. È quindi comprensibile che, dopo aver preso il potere, gli economisti – come ha scritto il Wall Street Journal – stessero “scalpitando per poter intervenire” sul campo. Il loro primo approccio alla situazione è stato graduale. Solo dopo un anno di relativa confusione hanno deciso di implementare senza grosse modifiche il modello teorico che gli era stato insegnato a Chicago. Per l’occasione Friedman in persona ha visitato il Cile. Insieme al professor Harberger ha fatto una serie di apparizioni ben pubblicizzate per promuovere un “trattamento shock” per l’economia cilena, che Friedman ha enfaticamente definito “l’unica medicina possibile. Senza dubbio. Non ce ne sono altre. Non c’è altra soluzione a lungo termine”. Ecco i princìpi del modello economico offerto da Friedman e adottato dalla giunta cilena: l’unico quadro possibile per lo sviluppo economico è quello in cui il settore privato può operare liberamente, l’impresa privata è la forma più efficiente di organizzazione economica e il settore privato dev’essere il fattore economico predominante. I prezzi devono fluttuare liberamente in conformità alle leggi della concorrenza. L’inflazione, il peggior nemico del progresso economico, è il risultato diretto di politiche monetarie espansive e può essere eliminata solo con una drastica riduzione della spesa pubblica. Fatta eccezione per il Cile di oggi, nessun

La borsa di Chicago, primi del novecento. (Ullstein Bild/Getty Images)

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governo al mondo lascia completamente mano libera ai privati. Questo perché ogni economista (tranne Friedman e i suoi seguaci) sa da decenni che, nella realtà del capitalismo, non esiste la concorrenza perfetta descritta dagli economisti liberali classici. Nel marzo 1975, a Santiago, un giornalista ha osato suggerire a Friedman che anche nei paesi a capitalismo più avanzato, come gli Stati Uniti, il governo applica controlli sull’economia. Friedman ha risposto: “Sono sempre stato contrario, non li approvo. Credo che non dovremmo applicarli. Sono contro l’intervento economico dello stato, nel mio paese, in Cile o altrove”. Non è questa la sede per giudicare la validità generale dei postulati di Friedman e della scuola di Chicago. Voglio concentrarmi solo su ciò che accade quando il loro modello è applicato in un paese come il Cile, dove le teorie di Friedman diventano particolarmente discutibili – da un punto di vista economico oltreché morale – perché propongono una politica di libero mercato totale in un quadro di estrema disuguaglianza tra gli agenti economici coinvolti: tra monopolisti e piccoli e medi imprenditori, tra chi ha il capitale e chi solo le braccia per lavorare e così via. Situazioni simili si verificherebbero in qualsiasi altra economia sottosviluppata e non indipendente che adottasse questo modello. È assurdo parlare di libera concorrenza in Cile. L’economia è in mano a pochi monopolisti. Uno studio condotto durante il regime del presidente Frei ha evidenziato che nel 1966 “284 imprese controllavano tutti i settori dell’economia cilena. In quello industriale, 144 aziende controllavano tutti i sottosettori. A loro volta, queste 144 erano controllate da pochissimi azionisti: in più del 50 per cento delle imprese, i dieci maggiori azionisti possedevano tra il 90 e il 100 per cento del capitale”. D’altra parte, studi condotti anche durante il periodo precedente alla presidenza Allende hanno dimostrato che l’economia cilena era dominata da multinazionali con sede all’este-

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ro. Come scrivono Richard Barnet e Ronald E. Müller in Global reach. The power of multinational corporations [Controllo globale. Il potere delle multinazionali], “nel Cile pre-Allende il 51 per cento delle 160 aziende più grandi era controllato da multinazionali. In ciascuno dei sette settori industriali chiave dell’economia, da una a tre imprese controllavano almeno il 51 per cento della produzione. Delle 22 principali imprese globali operanti nel paese, 19 erano libere da qualsiasi concorrenza o si dividevano il mercato con altri oligopolisti”. Dal 1971 al 1973, la maggior parte delle industrie monopolistiche e oligopolistiche era stata nazionalizzata. Tuttavia, lo zelo con cui la dittatura militare ha smantellato la partecipazione statale all’economia e ha trasferito le industrie alla proprietà straniera fa pensare che i livelli di concentrazione e monopolizzazione oggi sono alti almeno quanto lo erano prima del governo di Unidad popular. Le teorie di Friedman propongono quindi una politica di libero mercato totale in un quadro di estrema disuguaglianza. In un rapporto del Fondo monetario internazionale del maggio 1976 si legge: “Il ritorno al settore privato della maggioranza delle imprese che nei quindici anni precedenti, ma soprattutto tra il 1971 e il 1973, erano entrate a far parte del settore pubblico è proseguito fino al 1975 […]. Alla fine del 1973 la Società per lo sviluppo pubblico cilena (Corfo) contava un totale di 492 imprese, tra cui 18 banche commerciali […]. Di queste, 253 sono state restituite ai loro precedenti proprietari. Delle altre 239, 104 (tra cui dieci banche) sono state vendute, 16 (di cui due banche) sono già state assegnate (il completamento della procedura di trasferimento è questione di settimane) e per la cessione di altre 21 è in corso un negoziato con i potenziali acquirenti”. Resta da indire la gara per le restanti imprese. Ovviamente gli acquirenti sono sempre i pochi e potenti gruppi di interesse che aggiungono queste imprese alle strutture monopolistiche o oligopolistiche in

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cui operano. Allo stesso tempo, un numero considerevole di industrie è stato venduto a multinazionali, per esempio l’industria nazio­ nale degli pneumatici (Insa), acquistata da Fi­ restone per una somma non resa nota, e una delle principali produttrici di cellulosa per la carta (la Celulosa forestal Arauco), ceduta alla Parsons & Whittemore. Ci sono molti altri esempi per dimostrare che, per quanto riguarda la concorrenza, la ri­ cetta di Friedman non produce gli effetti eco­ nomici descritti nel suo modello teorico. Nella prima metà del 1975, nell’ambito del processo di abolizione della regolamentazione dell’eco­ nomia, il latte è stato esentato dai controlli. Con quale risultato? Il prezzo al consumatore è aumentato del 40 per cento e quello pagato al produttore è diminuito del 22 per cento. Ci sono più di diecimila produttori di latte in Cile, ma solo due aziende di trasformazione, che controllano il mercato. Più dell’80 per cento della produzione di carta cilena, e l’intera pro­ duzione di alcuni tipi di cellulosa, è affidata a un’unica impresa, la Compañia manufacture­ ra de papeles y cartones, controllata dal grup­ po Alessandri, che decide i prezzi senza teme­ re concorrenza. Sul mercato cileno degli elet­ trodomestici esistono più di quindici marchi stranieri, ma sono tutti nelle mani di tre sole aziende, che li assemblano in Cile e ne stabili­ scono i prezzi al dettaglio. Naturalmente, qualsiasi seguace della scuola di Chicago spiegherebbe che con la li­ beralizzazione del mercato internazionale, come prescritta dal modello, i monopoli e gli oligopoli cileni dovrebbero vedersela con la concorrenza dall’estero. Ma questo non succe­ de. Il Cile ha così poca valuta estera che non può importare ciò di cui ha bisogno, nemmeno i beni più essenziali. Ancora più importante è il fatto che le imprese straniere non sono inte­ ressate a esportare in Cile merci che potrebbe­ ro competere con quelle prodotte dalle loro fi­ liali cilene. Inoltre, in Cile gli interessi econo­ mici che controllano l’industria manifatturie­

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ra controllano anche l’apparato finanziario e le attività d’importazione. Questi gruppi non sono certo disposti a competere con se stessi. In breve, l’applicazione delle teorie di Fried­ man ella situazione reale del Cile significa che gli industriali possono liberamente “compete­ re” ai livelli di prezzo decisi da loro stessi. Altri aspetti della teoria economica inse­ gnata all’università di Chicago sono opportu­ namente ignorati dai consiglieri economici della giunta. Uno è l’importanza dei contratti salariali liberamente negoziati tra datori di la­ voro e lavoratori, un altro è l’efficienza del mercato come strumento per allocare le risor­ se dell’economia. È paradossale menzionare il diritto dei lavoratori a negoziare, in un paese dove il sindacato principale è stato messo al bando e dove i salari sono stabiliti per decreto dalla giunta. Può anche sembrare grottesco parlare del mercato come strumento efficace per allocare le risorse, quando è risaputo che praticamente non ci sono investimenti produt­ tivi nell’economia perché l’“investimento” più redditizio è sempre la speculazione. Dietro allo slogan “Dobbiamo creare un mercato dei capitali in Cile”, gruppi privati selezionati, e protetti dalla giunta, sono stati autorizzati a fondare le “financieras”, che si dedicavano al­ le più vergognose speculazioni finanziarie. I loro abusi sono stati così evidenti che perfino Orlando Sáenz, ex presidente dell’associazio­ ne degli industriali cileni e convinto sostenito­ re del colpo di stato, non ha potuto evitare di protestare. “Non è possibile”, ha detto, “conti­ nuare con il caos finanziario che regna nel pa­ ese. È necessario convogliare in investimenti produttivi le risorse che oggi sono impiegate in selvagge operazioni speculative sotto gli occhi di chi non ha nemmeno un lavoro”. Ma il nodo della ricetta di Friedman, come la giunta non smette di sottolineare, è il con­ trollo dell’inflazione. Secondo la giunta, l’o­ biettivo dovrebbe mobilitare “gli sforzi di tutti i cileni”. Come ha dichiarato il professor Har­ berger nell’aprile del 1975, “non vedo scuse

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per non combattere l’inflazione: le sue origini sono ben note. Il disavanzo pubblico e l’espansione monetaria devono essere fermati. So che mi chiederete della disoccupazione, ma se il disavanzo fosse ridotto della metà, il tasso di disoccupazione non aumenterebbe comunque di più dell’1 per cento”. Secondo i dati ufficiali della giunta, tra l’aprile e il dicembre 1975 il disavanzo pubblico è stato ridotto di circa il 50 per cento. Nello stesso periodo la disoccupazione è aumentata di sei volte rispetto alle previsioni di Harberger. Il rimedio che l’economista continua a proporre consiste nel tagliare la spesa pubblica per ridurre la quantità di moneta in circolazione. Questo si tradurrebbe in una contrazione della domanda, che a sua volta determinerebbe una generale riduzione dei prezzi. E l’inflazione sarebbe sconfitta. Ma il professor Harberger non dice esplicitamente chi dovrebbe abbassare il proprio tenore di vita e accollarsi il costo della cura. Senza dubbio, l’eccessiva espansione monetaria costituisce un importante fattore inflazionistico in qualsiasi economia. Tuttavia, l’inflazione in Cile (o in qualsiasi paese sottosviluppato) è un problema molto più complesso di quello immaginato dai modelli meccanicistici dei teorici monetaristi. I seguaci della scuola di Chicago sembrano dimenticare, per esempio, che la struttura monopolistica dell’economia cilena consente alle imprese dominanti di mantenere i prezzi bloccati nonostante il calo della domanda. Dimenticano anche il ruolo svolto dalle cosiddette aspettative inflazionistiche nel provocare gli aumenti dei prezzi. In Cile, le aspettative inflazionistiche si sono recentemente avvicinate al 15 per cento al mese. Guardando al futuro, le imprese si preparano all’aumento dei costi alzando i prezzi. Questo continuo “balzo in avanti” dei prezzi alimenta la spirale inflazionistica. D’altra parte, in un clima simile nessuno vuole mantenere capitale liquido. Potenti gruppi di interesse, che operano senza alcun controllo da parte del governo, possono quindi manipolare l’econo-

mia. Creano istituzioni per assorbire tutto il denaro disponibile e usarlo in varie forme di speculazione, che sfruttano l’inflazione e la fanno ulteriormente aumentare. I conti non tornano Sono passati tre anni dall’inizio di questo esperimento e ormai ci sono dati sufficienti per concludere che i discepoli cileni di Friedman hanno fallito, almeno nei loro obiettivi dichiarati e misurabili, in particolare nel tentativo di controllare l’inflazione. Sono invece riusciti, almeno temporaneamente, nel loro scopo più ampio: assicurare il potere economico e politico a una ristretta classe dominante, effettuando un massiccio trasferimento di ricchezza dalle classi medio-basse a un gruppo selezionato di monopolisti e speculatori finanziari. La prova empirica del fallimento economico del Cile è schiacciante. Il 24 aprile 1975, dopo l’ultima visita di Friedman e Harberger in Cile, il ministro delle finanze della giunta, Jorge Cauas, ha dichiarato: “L’onorevole giunta mi ha chiesto di formulare e realizzare un programma economico diretto principalmente a sradicare l’inflazione. Insieme a un nutrito gruppo di tecnici, ho presentato alle autorità un piano di rilancio economico che è stato approvato ed è in fase di avvio. L’obiettivo principale di questo programma è fermare l’inflazione per il resto del 1975” (il “gruppo di tecnici” è ovviamente costituito da Friedman e dai suoi seguaci). Alla fine del 1975 il tasso annuo di inflazione del Cile ha raggiunto il 341 per cento, il più alto al mondo. Nello stesso anno i prezzi al consumo sono aumentati in media del 375 per cento e quelli all’ingrosso del 440 per cento. In un recente rapporto del Fondo monetario internazionale (Fmi) sulle cause dell’inflazione cilena del 1975 si legge: “Il taglio della spesa pubblica, con i suoi effetti negativi sull’occupazione, sugli alloggi e sulle opere pubbliche, è andato molto oltre quanto era stato programmato per soddisfare le grandi richieste di credito del settore privato”. “La poli-

Milton Friedman, 1981. (Dana Gluckstein, Mptvimages/Contrasto)

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tica monetaria complessiva”, continua il rapporto, “è rimasta espansiva. Inoltre, le continue aspettative d’inflazione elevate e la conseguente riluttanza dei risparmiatori ad aumentare la disponibilità di cassa in termini reali hanno notevolmente complicato l’attuazione del programma monetario”. Riferendosi alle organizzazioni private che hanno cominciato a operare senza alcun controllo, il documento aggiunge che alle “financieras” è stato permesso di operare parallelamente al sistema bancario commerciale e a tassi di interesse fino al 59 per cento superiori al massimo consentito. Secondo la stessa fonte, le “financieras” che nel 1975 concedevano prestiti a un tasso d’interesse mensile del 14 per cento, cioè il 168 per cento all’anno, ottenevano prestiti da New York tra il 10 e il 12 per cento annuo. L’attuazione del modello di Chicago non ha portato a una significativa riduzione dell’espansione monetaria. Ha piuttosto provocato una spietata riduzione del reddito dei salariati e un drammatico aumento della disoccupazione. Allo stesso tempo, ha aumentato la quantità di moneta in circolazione mediante prestiti e trasferimenti alle grandi imprese, concedendo alle istituzioni finanziarie private il potere di creare denaro. La concentrazione della ricchezza non è quindi una conseguenza collaterale di una situazione di difficoltà, ma la base di un progetto sociale. Il processo inflazionistico, stimolato dalle politiche della giunta subito dopo il golpe, si è leggermente ridotto nel 1975 rispetto all’incredibile tasso del 375,9 per cento raggiunto nel 1974. Una riduzione così modesta, tuttavia, non indica un sostanziale avvicinamento alla stabilizzazione e sembra irrilevante per la maggioranza dei cileni, costretti a subire il collasso totale della loro economia. Questa situazione ricorda la storia di un dittatore latinoamericano dell’inizio del secolo. Quando i suoi consiglieri gli dissero che il paese aveva un grave problema con il sistema d’istruzione, ordinò la chiusura di tutte le scuole pubbliche.

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Evidentemente, a più di settant’anni di distanza, ci sono ancora discepoli di quel dittatore, convinti che il modo per sradicare la povertà in Cile sia uccidere i poveri. Il deprezzamento del cambio e i tagli alla spesa pubblica hanno prodotto una depressione che, in meno di tre anni, ha rallentato il tasso di sviluppo del paese, riportandolo a quello di dodici anni fa. Nel 1975 il prodotto interno lordo reale cileno si è contratto di quasi il 15 per cento, raggiungendo il livello più basso dal 1969, mentre – secondo l’Fmi – il reddito nazionale reale “è sceso del 26 per cento, tornando sotto i livelli di dieci anni prima”. Nel settore agricolo la produzione del 1975– 76 appare stagnante, con una variazione appena dello 0,4 per cento rispetto all’anno precedente. Questa stagnazione è stata causata da una combinazione di fattori, tra cui il continuo aumento del costo dei fertilizzanti e dei pesticidi importati. L’uso di fertilizzanti è diminuito di circa il 40 per cento. L’aumento dei prezzi dell’importazione spiega anche il calo della produzione di carni suine e pollame, che dipendono quasi interamente dai mangimi importati. Anche la restituzione ai precedenti proprietari di milioni di ettari di terreni, che erano stati espropriati e ceduti alle organizzazioni contadine ai sensi della legge di riforma agraria del 1967, ha ridotto la produzione. Nel commercio con l’estero i risultati sono stati altrettanto disastrosi. Nel 1975 il valore delle esportazioni è sceso del 28 per cento, da 2,13 a 1,53 miliardi di dollari, e il valore delle importazioni è diminuito del 18 per cento, da 2,24 a 1,81 miliardi, provocando così un deficit della bilancia commerciale di 280 milioni. Le importazioni di generi alimentari sono calate dai 561 milioni di dollari del 1974 ai 361 milioni del 1975. Nello stesso periodo, la produzione alimentare interna è diminuita, provocando una drastica riduzione della disponibilità di cibo per la popolazione. Allo stesso tempo, il debito pubblico estero rimborsabile in valuta estera è aumentato dai 3,60 miliardi di dollari

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del 31 dicembre 1974 ai 4,31 miliardi del 31 dicembre 1975. Questo ha accentuato la dipendenza del Cile da fonti di finanziamento esterne, in particolare dagli Stati Uniti. Le politiche della giunta hanno appesantito il Cile con uno dei più alti debiti esteri pro capite al mondo. Ma il risultato più drammatico delle politiche economiche della giunta è stato l’aumento della disoccupazione. Prima del colpo di stato, in Cile la disoccupazione era al 3,1 per cento, una delle più basse dell’emisfero occidentale. Alla fine del 1974 era aumentata di oltre il 10 per cento nell’area metropolitana di Santiago e perfino di più in molte altre zone del paese. I dati della giunta e dell’Fmi dimostrano che alla fine del 1975 la disoccupazione aveva raggiunto il 18,7 per cento nell’area metropolitana di Santiago ed era superiore al 22 per cento in altre zone del paese. La disoccupazione ha continuato a crescere anche nel 1976: secondo le stime più prudenti, a luglio quasi 2,5 milioni di cileni (circa un quarto della popolazione) non avevano alcun reddito e sopravvivevano grazie al cibo e ai vestiti distribuiti dalla chiesa e da organizzazioni umanitarie. Le condizioni disumane in cui vive buona parte della popolazione cilena si riflettono in modo drammatico nel sostanziale aumento della malnutrizione, della mortalità infantile e nella comparsa di migliaia di mendicanti per le strade delle città. È un’immagine di fame e povertà mai vista prima in Cile. Le famiglie che ricevono il “salario minimo” non possono acquistare cibo per più di mille calorie e 15 grammi di proteine per persona al giorno, meno della metà del livello minimo di consumo alimentare ritenuto sufficiente dall’Organizzazione mondiale della sanità. Una lenta morte per fame. La mortalità infantile, ridotta in modo significativo durante gli anni di Allende, secondo i dati forniti dalla commissione economica delle Nazioni Unite per l’America Latina, è aumentata del 18 per cento durante il primo anno del governo militare. Per mettere a tacere le critiche interne contro le brutali

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conseguenze dei licenziamenti, nel 1975 la giunta ha istituito un “programma minimo di occupazione”, che però copre solo il 3 per cento della forza lavoro e paga stipendi inferiori a 30 dollari al mese! Anche se le politiche economiche del regime hanno colpito soprattutto i lavoratori, il fallimento generale si è fatto sentire pure nella classe media. Le aziende nazionali di medie dimensioni sono state indebolite dalla contrazione della domanda, e sono state fagocitate dai monopoli con i quali avrebbero dovuto competere. A causa del crollo dell’industria automobilistica, centinaia di officine meccaniche e piccole imprese che lavoravano in subappalto sono fallite. Tre grandi aziende tessili (Fiad, Oveja e Bellavista Tomé) operano tre giorni alla settimana. Diverse aziende calzaturiere, tra cui la Bata, hanno dovuto chiudere. La Ferriloza, una delle principali produttrici di beni di consumo durevoli, ha dichiarato bancarotta. Di fronte a questa situazione, Raúl Sahli, il nuovo presidente dell’associazione degli industriali cileni, egli stesso legato ai grandi monopoli, all’inizio dell’anno ha dichiarato: “L’economia sociale di mercato dovrebbe essere applicata in ogni suo aspetto. Se ci sono industriali che si lamentano per questo, che vadano all’inferno. Non li difenderò”. La natura della ricetta economica dei Chicago Boys e i suoi risultati possono essere compresi osservando lo schema di distribuzione del reddito interno. Nel 1972, agli impiegati e agli operai attivi nei settori controllati dallo stato era destinato il 62,9 per cento del reddito nazionale complessivo, mentre il 37,1 per cento andava al settore privato. Nel 1974 la quota riservata ai salariati era scesa al 38,2 per cento. L’Fmi stima che nel 1975 “i salari reali medi siano diminuiti di quasi l’8 per cento”. È probabile che queste tendenze regressive nella distribuzione del reddito stiano continuando anche nel 1976. Ciò significa che negli ultimi tre anni diversi miliardi di dollari sono stati prelevati dalle tasche dei salariati e messi in

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quelle dei capitalisti e dei proprietari terrieri. Questi sono i risultati economici dell’applicazione in Cile della ricetta di Friedman. I motivi del golpe Le politiche economiche della giunta cilena e i loro risultati vanno collocati nel contesto di un ampio processo controrivoluzionario che mira a restituire a una piccola minoranza il controllo economico, sociale e politico progressivamente perso negli ultimi trent’anni, in particolare durante il governo di Unidad popular. Fino all’11 settembre 1973 la società cilena era stata caratterizzata dalla crescente partecipazione della classe operaia ai processi decisionali economici e sociali. A partire dal 1900, impiegando i meccanismi della democrazia rappresentativa, i lavoratori avevano costantemente accresciuto il loro potere economico, sociale e politico. L’elezione di Allende a presidente era stata il culmine di questo processo. Per la prima volta nella storia, una società aveva tentato di costruire il socialismo con mezzi pacifici. Durante il periodo in cui Allende è rimasto in carica, per le masse c’è stato un netto miglioramento delle condizioni di lavoro, salute, alloggio e istruzione. Ma le classi privilegiate e gli interessi stranieri si sentivano minacciati. Per questo doveva essere applicato il piano economico dei Chicago boys, che però non ha piegato la coscienza del popolo cileno. Nonostante le forti pressioni economiche e politiche dall’estero e i tentativi di manipolare la classe media attraverso la propaganda, tra il 1970 e il 1973 il sostegno popolare al governo Allende era cresciuto notevolmente. Nel marzo 1973, solo cinque mesi prima del colpo di stato, c’erano state le elezioni politiche. Unidad popular aveva aumentato i suoi consensi di oltre sette punti percentuali rispetto alle presidenziali del 1970. È stata la prima volta nella storia cilena che i partiti al governo hanno aumento il loro consenso in un’elezione di metà mandato. Questo aveva convinto la borghesia nazionale e i suoi sostenitori stranieri

Orlando Letelier (1932–1976) è stato un uomo politico e diplomatico cileno, ambasciatore negli Stati Uniti dal 1971 al 1973 e poi

ministro nel governo di Unidad popular. Arrestato dopo il golpe militare, nel 1974 si trasferì a Washington, dove il 21 settembre 1976 morì in

che non avrebbero potuto recuperare i propri privilegi attraverso il processo democratico. Ecco perché hanno deciso di smantellare la democrazia e le istituzioni dello stato e di prendere il potere con la forza. In un contesto simile la concentrazione della ricchezza non è un caso, è la norma. Non è la conseguenza improvvisa di una situazione difficile, ma la base di un progetto sociale. Non è un fallimento economico ma un successo politico temporaneo. Il vero fallimento della giunta non è l’incapacità di ridistribuire la ricchezza o di generare un percorso di sviluppo più equo (del resto non sono queste le sue priorità), ma l’incapacità di convincere la maggioranza dei cileni che le sue politiche sono ragionevoli e necessarie. In breve, la giunta non è riuscita ad annientare la coscienza del popolo cileno. Il nuovo piano economico doveva essere applicato. E nel contesto cileno lo si poteva fare solo uccidendo migliaia di persone, istituendo campi di concentramento in tutto il paese, arrestando oltre centomila cittadini, smantellando i sindacati e le organizzazioni di quartiere, e vietando ogni attività politica e ogni forma di libera espressione. Mentre i Chicago boys hanno dato un’apparenza di rispettabilità tecnica all’avidità della vecchia oligarchia dei proprietari terrieri e dell’alta borghesia di monopolisti e speculatori, i militari hanno usato la forza bruta per raggiungere quegli obiettivi. La repressione per la maggioranza e la libertà economica per ristretti gruppi privilegiati sono due facce della stessa medaglia. C’è, dunque, un’intima sintonia tra le due priorità annunciate dalla giunta dopo il golpe, cioè “l’eliminazione del cancro marxista”, l’instaurazione di una libera economia privata e il controllo dell’inflazione. Non ha senso che chi ispira, sostiene o finanzia questa politica economica oggi cerchi di basare la propria difesa su “considerazioni tecniche”, fingendo di ignorare il sistema di terrore di cui questo progetto ha bisogno per funzionare. u bt

un attentato organizzato dai servizi segreti cileni. The Nation è un settimanale statunitense. Fondato nel 1865 a New

York, è tra le pubblicazioni di riferimento della sinistra americana.

Alla conquista di Santiago

DR

La canzone come strumento per riappropriarsi di una dimensione collettiva e condivisa. E un inno a una città diversa, da ripensare e ricostruire. Il Canto nuevo cileno e la storia del complesso Santiago del Nuevo Extremo Álvaro Godoy Haeberle, La Bicicleta, Cile, agosto–settembre 1979

I Santiago del Nuevo Extremo, anni settanta

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I Santiago del Nuevo Extremo sono nati circa un anno e mezzo fa nell’ambito dei festival organizzati dall’Agrupación cultural universitaria. Si sono fatti notare agli Incontri di gioventù e canto e in altri recital, e hanno registrato la loro prima canzone per un lp pubblicato dalla casa discografica Alpec. Il brano (che trascriviamo di seguito) s’intitola A mi ciudad [Alla mia città]. I componenti del gruppo sono studenti dell’università del Cile: Luis Le-Bert (architettura), Mario Muñoz (antropologia), Andrés Buzeta (agronomia), Luis Pérez (psicologia) e Pedro Villagra (antropologia). Nel movimento musicale chiamato Canto nuevo comincia a emergere un approccio diverso, che attraversa e trascende gli stili e le correnti che convivono al suo interno. Il Canto nuevo supera i temi della Nueva canción chilena, il movimento che l’ha preceduto e di cui è erede. Di recente grazie al Canto nuevo sono usciti lavori assolutamente originali. La sfida è stata raccolta dai Santiago del Nuevo Extremo fin dagli inizi, in un momento in cui “bisogna misurare le parole senza esagerare né tacere”. La canzone A mi ciudad è un buon esempio di come il gruppo proponga di risolvere il problema. A noi spetta “disarmare” la città, e poi, in una nuova lettura, “tornare a conquistarla”. I nostri occhi si posano su ciò che sembrava vicino, a portata di mano, e che prima passava inosservato perché faceva parte della quotidianità. Gli occhi osservano Santiago, la nostra città e le sue abitudini, come se ci fossimo fermati per percepirne il respiro. Qualcosa è successo, Santiago ci si stacca dalla pelle e si trasforma davanti al nostro sguardo, come se le nostre mani si muovessero all’improvviso da sole o la nostra bocca pronunciasse parole mai pensate. La città subisce il cambiamento e lo subiscono i suoi abitanti, con l’impressione che non li riguardi. Per questo la osserviamo, sentendola estranea, come se ci avesse voltato le spalle e ci trattasse da sconosciuti. Ma Santiago resta la nostra città, anche se le insegne vogliono farci credere che siamo a Las Vegas o

Álvaro Godoy Haeberle è un giornalista, formatore e consulente cileno. È stato vicedirettore della rivista La Bicicleta.

La Bicicleta è stata una rivista culturale cilena, tra le poche voci che durante gli anni della dittatura hanno provato a parlare liberamente di musica,

a Chicago e le strade ci soffocano intrappolandoci in una spirale di consumo. In questa Santiago ferita c’è ancora qualcosa che resiste e che, per non cadere nell’oblio, ci chiama e ci chiede di parlare della “sua storia antica”, dei “suoi giorni”, del suo sole di primavera che muore sulle finestre, delle sue notti rubate per paura di quello che non si vede, di ciò che si muove come ombra di altre ombre. Bisogna smontare questa storia per capire come Santiago si sia infiltrata in ogni piega dei suoi vestiti, come strati di vernice su un muro. E anche se la patina esterna è bianca, sappiamo tutti che sotto ci sono tanti altri strati fatti di parole e colombe. Con il tempo, bussando un po’ alle sue porte – alle sue “mille porte” – verrà via il trucco e Santiago mostrerà il suo volto senza paura. Pieno di storia e di passato. I Santiago del Nuevo Extremo imparano a cantare la loro città (è stata lei a insegnarglielo) e non cantano a un paesaggio urbano esterno, ma al paesaggio disegnato dalla storia sul viso di quella che era la nostra pelle e che oggi è una maschera lontana ed estranea. La nostra città è la base di un mito, una realtà scavata ed esposta come mera esteriorità, un palcoscenico per la commedia… o per la tragedia. Smantellando la sua storia, o almeno proponendosi di farlo, la canzone inverte la prospettiva di una Santiago fuori di noi e recupera una città unica e diversa, smontandone nel frattempo il mito. Una città persona. Santiago comincia a essere sinonimo delle voci che la cantano e la raccontano. “La tua voce sarà la voce di tutti quelli che un giorno hanno avuto qualcosa da raccontare”. L’uomo, che era il grande assente di questo paesaggio, ora risponde all’appello. “Canta, è meglio se vieni, ci serve la tua voce, voglio vederti nella mia città”. Questo verso si sovrappone all’evocazione finale di un’altra Santiago. “Nella mia città un giorno è morto il sole di primavera”. Così s’incontrano due realtà: città e persone. La città è di nuovo popolata da voci, mentre la persona riconquista la sua storia. u as

arte, letteratura e società. È stata pubblicata a Santiago dal 1978 al 1990.

Canzone Alla mia città Luis Le-Bert Chi mi aiuterà a disarmare la tua storia antica, e a pezzi tornare a conquistarti. Una città che vorrei costruita per tutti, e che sfami chi la vuole abitare. Santiago, non hai voluto essere collina e non hai mai conosciuto il mare, come saranno ora le tue strade se ti hanno rubato le notti.

Busserò a mille porte chiedendo dei tuoi giorni. Se risponderanno imparerò a cantare. Percorreremo la tua allegria dalla collina alle tue guance, e da lì uscirà un bacio per la mia città. Santiago, vorrei vederti innamorata e al tuo abitante mostrarti senza paura. Nelle tue strade sentirai il mio passo deciso e conoscerò chi respira al mio fianco. Nella mia città…

Nella mia città un giorno è morto il sole di primavera. Alla mia finestra sono venuti a dirmi: vai, prendi la tua chitarra la tua voce sarà di tutti quelli che un giorno hanno avuto qualcosa da raccontare.

Canta, è meglio se vieni, ci serve la tua voce voglio vederti nella mia città.

Interpretata dal complesso Santiago del Nuevo Extremo. Traduzione di Andrea Sparacino

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Un popolo in fuga

KEYSTONE/MONDADORI PORTFOLIO

Negli anni della dittatura centinaia di migliaia di persone sono costrette all’esilio. Scappano per sopravvivere, per paura di ritorsioni o perché hanno avuto la pena in carcere commutata con l’espatrio Felipe Pozo, Análisis, Cile, luglio 1982

Rifugiati cileni all’aeroporto di Ginevra, 5 novembre 1973

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“L’uomo non deve essere privato del diritto fondamentale di vivere e di morire nella patria che gli ha dato i natali, là dove conserva i ricordi più cari della sua famiglia, le tombe dei suoi avi, la cultura che gli conferisce la sua identità spirituale e che la alimenta, le tradizioni che gli danno vitalità e felicità, l’insieme dei rapporti umani che lo sostengono e difendono”. (Giovanni Paolo II, discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, dicembre 1981). Non si sa con certezza quanti siano. Le stime variano da duecentomila a un milione di cileni che sono costretti a vivere fuori del paese. In fondo i numeri, per quanto importanti, non sono il nocciolo del problema. Ciò che conta davvero è che ci sono persone nate in questa terra oggi fuggite per il mondo, soggette a una pena che nella storia dell’umanità è sempre stata considerata estremamente grave: l’esilio. Nell’antica Grecia l’ostracismo era la condanna più grave per un cittadino, decisa attraverso un referendum in cui l’intero corpo civico era chiamato ad assumersi la responsabilità di condannare qualcuno all’esclusione totale dalla comunità. L’esilio era una punizione così severa da essere paragonato solo alla condanna a morte, e forse era ancora più temuto. Nel corso della storia l’esilio è sempre stato considerato il castigo di ultima istanza, fino a quando la rivoluzione francese non l’ha virtualmente cancellato. In un certo senso, l’uso dell’esilio è caduto insieme all’assolutismo, e la sua scomparsa definitiva sembrava essere arrivata con la dichiarazione universale dei diritti umani, che all’articolo 9 sancisce quello di ogni persona di vivere nella propria patria. Non è facile cogliere la vera dimensione del dramma di chi è costretto a vivere lontano dal proprio paese. L’incontro con lingue sconosciute, usi e costumi estranei e società strutturate in modo diverso provocano un forte senso di sradicamento. Come ha detto ad Análisis un esule che vive ad Amsterdam, “anche l’aria è diversa. Vivo in questa città da cir-

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ca otto anni e ancora non riesco ad abituarmi. Può sembrare una banalità, ma mi mancano la cordigliera, i modi di dire del mio paese, lo smog. Il mio posto non è qui. Mi sento straniero, un alieno. Noi cileni che viviamo qui (siamo più di tremila) ci chiudiamo in noi stessi e cerchiamo di riprodurre il nostro stile di vita. Ma è molto difficile, con i canali congelati e la gente che parla in modo così strano”. Secondo l’interpretazione “colta” che gli psicologi danno di questa situazione, quando l’individuo abbandona il suo ambiente, perde anche il suo universo simbolico e i suoi punti di riferimento. Per questo la persona si sente insicura, come se fosse stata privata di qualcosa. Da qui il passo verso la nevrosi è breve. Dolore umano In tutto questo, a soffrire in maniera particolare è la famiglia. Secondo uno studio condotto da un gruppo di specialisti incaricati dalla commissione cilena per i diritti umani in occasione delle “Prime giornate per il diritto di vivere in patria” (Primeras jornadas per el derecho de viver en la patria), che si sono svolte due anni fa, l’esilio prolungato causa diversi problemi sul piano personale e familiare: brusca separazione dei membri della famiglia e loro dispersione nel mondo; aumento delle tensioni che la famiglia deve affrontare in condizioni avverse; inasprimento dei problemi coniugali a causa del cambiamento dei ruoli all’interno della coppia, alterazioni emotive dovute a sofferenze e a crisi difficili da affrontare in condizioni di instabilità; solitudine, isolamento, sradicamento e perfino suicidio (tra gli esuli ci sono stati diversi tentativi di suicidio. Fortunatamente, la maggior parte è fallita. Purtroppo non è stato il caso dell’avvocato Sergio González, che si è tolto la vita a Roma); dolore e angoscia di fronte alla perdita e all’incertezza; cambiamenti improvvisi nei sistemi culturali e di riferimento affettivo; continui spostamenti da un paese all’altro in cerca di stabilità; interruzione dei progetti di

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vita delle persone; difficoltà a realizzare progetti di vita a causa della violazione del diritto inalienabile di scegliere liberamente il proprio luogo di residenza. Ma i problemi sono in realtà molti di più. Per esempio nel caso dei bambini, che vedono i loro genitori sognare di far ritorno in un paese che non li vuole: come amare il Cile se mamma e papà non possono tornarci? E la lingua che sfugge. I figli dell’esilio sono cileni a metà, spinti compulsivamente a non dimenticare un territorio lontanissimo del quale non capiscono l’importanza. A Roma, una bambina di dieci anni, e che ne ha passati quasi nove in esilio, non sapeva per quale nazionale tifare ai mondiali. Se fosse stata costretta a prendere una decisione, avrebbe preferito l’Italia. La situazione delle donne non è molto diversa. Condividono l’esilio dei loro mariti, spesso senza avere “né arte né parte”. “Se il matrimonio è già di per sé difficile, immaginate cosa significa affrontarlo con questo ‘peso’ in più”, racconta una donna che vive in esilio da più di otto anni. Anche se non esistono statistiche precise, sono molte le coppie che hanno deciso di separarsi. E poi c’è il caso delle donne senza “passato politico” che hanno lasciato il paese al seguito dei mariti e che, avendo richiesto lo status di “rifugiate politiche”, hanno perso il diritto di rientrare. Non è difficile imbattersi in donne separate che, con due o tre figli minorenni, devono affrontare mille difficoltà in un paese sconosciuto. Alcune scelgono di mandare i figli in Cile dai nonni, restando completamente sole davanti a una realtà avversa e sognando che un giorno le irremovibili autorità cilene cambino atteggiamento e il divieto di rientro sia annullato. Oltre a questi fattori, qui delineati solo a grandi linee, ci sono le ristrettezze economiche sopportate da buona parte degli esuli. Professionisti costretti a lavorare in settori che non hanno nulla a che fare con le loro competenze. Operai specializzati che raccol-

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gono rifiuti. Tecnici che svolgono i compiti più umili. E altri che semplicemente trovano dei lavoretti per sopravvivere e arrivare a malapena a fine mese. Il problema del diritto Nel suo discorso, il papa ha riassunto così il problema: “A nessuno può sfuggire il fatto che l’esilio sia una grave violazione delle norme della vita sociale, in evidente opposizione con la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e con il diritto internazionale stesso; e le conseguenze di una tale punizione si manifestano drammaticamente sul piano individuale, sociale e morale”. Continuando il suo ragionamento, il papa ha aggiunto: “Ma per gli esiliati, non si tratta tanto di una situazione di emergenza, di una scelta provvisoria, quanto di una vera e propria esclusione forzata, che li colpisce nei loro affetti più profondi e che può spesso corrispondere a quella che si chiama ‘morte civile’”. “Auspico che, grazie all’azione congiunta delle autorità e degli organismi responsabili, si possa determinare un adeguato piano d’azione – in riferimento al diritto internazionale – perché si metta fine in tutti i paesi alla tragedia dell’esilio, che è in contrasto con le fondamentali conquiste dello spirito umano”. Le autorità cilene si sono sempre opposte categoricamente al rientro degli esuli. Lo stesso generale Pinochet ha espresso la sua totale contrarietà. In un’intervista rilasciata al quotidiano La Tercera l’8 marzo 1981, Pinochet ha dichiarato: “Io sono il nemico di quella gente. E quella gente mi odia. Non entreranno. Quei furfanti sono dei bugiardi. Dicono bugie belle e buone, e se li lasciamo rientrare in Cile, come è già successo in altre occasioni, non manterranno la loro promessa e si rimetteranno a fare propaganda politica. Dicono solo bugie”. Nell’ordinamento giuridico internazionale il diritto di vivere in patria è garantito sia dalla dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite sia dal patto internazionale sui diritti

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civili e politici. Entrambi i documenti sono stati sottoscritti dal nostro paese. Lo stesso diritto era garantito dalla costituzione cilena del 1925 ed è previsto anche da quella approvata nel 1980, tranne che in caso di stato d’assedio. Ma le norme in vigore prevedono che l’espulsione dal paese e il divieto di rientro siano a discrezione del capo dello stato. È quanto dispone la disposizione transitoria numero 24, lettera c, secondo cui “il presidente della repubblica ha la seguente facoltà: vietare l’ingresso sul territorio nazionale o espellere dallo stesso gli individui che diffondono le dottrine di cui all’articolo 8 di questa costituzione (ovvero le persone che minacciano la famiglia, promuovono la violenza o la lotta di classe), gli individui che sono ritenuti attivisti di tali dottrine e coloro che compiono atti contrari agli interessi del Cile o che costituiscono un pericolo per la pace interna”. Questi poteri derivano dallo “stato di disordine interno” che è dichiarato dal capo dello stato in base alla sua personale percezione, senza che sia ammesso alcun ricorso in sede legale. Tradotto nel linguaggio comune, ciò significa che il provvedimento di espulsione e di divieto di ingresso è un atto di volontà. O almeno è questa l’interpretazione che ne dà il potere giudiziario. Al governo non è mai stato richiesto di motivare le sue decisioni. Per il tribunale è sufficiente dire “in conformità ai poteri esclusivi del governo” per chiudere la questione. Insomma, in materia di esilio prevale la buona o cattiva volontà del ministero dell’interno. Si tratta di un atto amministrativo a cui non è possibile opporsi. Come ha detto una volta il giurista vicino al governo Jaime Guzmán in uno dei suoi tanti interventi sulla stampa: “Dobbiamo fidarci della bontà di giudizio del generale Pinochet”. Ma non tutti i giuristi concordano sul fatto che la questione sia tanto semplice. I poteri dell’articolo 24 non sembrano così perentori se si ragiona a fondo sul loro significato. All’interno dell’ordine degli avvocati è in

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corso un importante dibattito sulla questione dei diritti umani. Come prevedibile è in discussione anche il problema dell’esilio, legato in concreto a un ricorso presentato da Jaime Castillo Velasco [1914–2003, politico cileno democristiano, due volte ministro tra il 1965 e il 1969]. A questo proposito, il consigliere Augusto Elgueta ha analizzato in un intervento l’espulsione di Castillo alla luce dell’attuale sistema giuridico. Elgueta sostiene che “affinché il presidente della repubblica sia investito del potere di espellere una persona dal paese o di vietarle l’ingresso sul territorio nazionale, ai sensi della ventiquattresima disposizione transitoria, non è sufficiente una mera dichiarazione di suo pugno sul fatto che si sono verificati atti terroristici durante il periodo di transizione costituzionale o che esiste il pericolo di disturbo della pace interna. Tale dichiarazione è condizione necessaria ma non sufficiente per l’esercizio di questa facoltà. È infatti necessario che la persona oggetto di queste misure sia indicata anche in base a precisi criteri, accuratamente descritti nel testo costituzionale”. Quali sono questi criteri? La persona deve promuovere idee contrarie alla famiglia o favorevoli alla violenza e sostenere una concezione della società, dello stato o dell’ordinamento giuridico di tipo totalitario; deve essere ritenuta partigiana di tali dottrine o costituire un pericolo per la pace interna. Di conseguenza, secondo le riflessioni di Elgueta, affinché sia concretamente esercitabile la facoltà di espellere e mantenere lontana dal paese una persona, è necessario dimostrare che questa rispetti i criteri previsti dalla costituzione. È importante chiarire due cose: il concetto di totalitarismo – che secondo il dizionario è “il regime politico che esercita un forte intervento in tutti gli ambiti della vita nazionale, concentrando i poteri dello stato nelle mani di un gruppo o di un partito che non consente la partecipazione di altri partiti” – e la portata dei

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ANTONY MATHEUS LINSEN (FAIRFAX MEDIA/GETTY IMAGES)

Sette famiglie cilene arrivano a Sydney, Australia, 8 marzo 1975 termini “pericolo” e “pace interna”. L’intervento di Augusto Elgueta affronta questi punti: “La parola ‘pericolo’, secondo il suo significato ovvio e naturale, indica il rischio imminente che accada qualcosa di negativo. ‘Rischio’ significa ‘vicinanza di un danno’, e ‘imminente’ vuol dire che il fatto in questione ‘sta per succedere’. ‘Pace’ equivale a ‘tranquillità pubblica e quiete tra stati, in contrapposizione alla guerra’. La ‘guerra’, nella sua seconda accezione, quella rilevante in questo caso, è la ‘lotta armata tra due o più nazioni o tra bande della stessa nazione’. Pericolo per la pace interna significa, di conseguenza, ‘rischio di un danno alla pace interna, che è contrapposta alla guerra’. In breve significa ‘rischio imminente di guerra interna, di guerra civile’”. Perciò, da quanto appena descritto si capisce che, fin quando le caratteristiche della persona coinvolta non sono dimostrate, il presidente non ha la facoltà di espellerla o tenerla

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lontana dal paese. Questo significa che le misure adottate in questo senso, dopo l’11 marzo 1980, sono nulle. Prima della costituzione Senza dubbio tutte queste argomentazioni valgono per gli ultimi due anni. Bisogna però riconoscere che la grande maggioranza degli esuli se n’è dovuta andare prima della promulgazione della costituzione del 1980. L’esilio, che per alcuni va avanti da più di otto anni, è cominciato con la decisione dei militari di rovesciare l’ordine costituzionale nel 1973. Molti sono fuggiti chiedendo asilo e portandosi dietro le loro famiglie. Poi ci sono stati quelli che hanno avuto la pena carceraria commutata in esilio o che sono stati direttamente espulsi. Altri se ne sono andati perché si sentivano minacciati o perché la loro situazione economica era diventata insostenibile. Nonostante i numerosi cambiamenti giuridici e la transizione verso nuovi “equilibri istituzionali”, la

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situazione di questi cileni è rimasta invariata. Non possono rientrare nel paese perché le autorità li considerano “pericolosi per la sicurezza interna” o li accusano di aver partecipato alla “campagna contro il Cile”, avendo manifestato pubblicamente il loro dissenso nei confronti dell’attuale regime. Anche le persone che si sono avvalse del decreto 506, che consente di commutare il carcere in esilio, non sono potute rientrare in Cile nonostante abbiano scontato il periodo di tempo previsto dalla pena. Un bollettino del comitato per il rientro degli esuli ha pubblicato una lista di 387 persone in questa situazione. Secondo l’opinione di alcuni difensori degli esuli che stanno cercando di rientrare in patria, “siamo in presenza di un tipico atto di volontà da parte delle autorità. Accogliere o meno una richiesta di rientro dipende esclusivamente dalla volontà dell’autorità”. Nel frattempo dall’estero gli esuli cercano di far sentire la loro voce, scarsamente ascoltata all’interno dei confini cileni. In un documento intitolato Manifesto sull’esilio, sei esuli latinoamericani affermano: “Siamo convinti che nessun governo abbia il diritto di imporre l’esilio e di approvare leggi che vietino il ritorno di una persona nella sua patria. Nessuno

Felipe Pozo è un giornalista cileno. Negli anni del regime militare è stato direttore delle riviste d’opposizione Fortín Mapocho e Análisis.

Análisis è stata una rivista cilena d’opposizione alla dittatura di Pinochet. Fondata nel 1977 nell’ambiente del cattolicesimo

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può ergersi a padrone del destino altrui. La violazione di questo diritto comporta automaticamente quella di molti altri diritti sanciti in vari articoli della dichiarazione universale dei diritti umani. Qualsiasi governo che usi l’esilio come strumento politico distrugge la convivenza sociale con il pretesto di salvarla. Va contro il diritto internazionale contemporaneo. Danneggia i valori umani fondamentali. Diventa un nemico dell’umanità”. Se il papa ha ripetutamente espresso la sua profonda preoccupazione per il problema dell’esilio e l’ha sottolineata esplicitamente nel suo discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede lo scorso dicembre, la chiesa cilena non è stata da meno. Nel Natale del 1977 i vescovi del nostro paese avevano già sollevato il tema del rientro degli esiliati, ai quali avevano scritto una lettera aperta: “Desideriamo vedervi tornare in patria, senza odio o rancore, con uno spirito costruttivo e solidale, per lavorare insieme con noi che siamo qui, per il bene del Cile e per la riconciliazione e la pace tra tutti i cileni, arricchendo la vita del paese con il fecondo contributo delle vostre esperienze e delle vostre sofferenze”. Da allora sono passati altri cinque Natali… u fr

democratico, fu edita con cadenza settimanale fino al 1993. Fu il primo giornale a pubblicare le lettere dei cileni in esilio, e diede spazio a personaggi legati al

governo di Unidad popular, finendo spesso nel mirino del regime.

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All’origine della rabbia

ABBAS (MAGNUM/CONTRASTO)

Tra i protagonisti delle proteste che nella primavera del 1983 scuotono il regime ci sono anche i ragazzi delle población, i quartieri periferici di Santiago. Si ribellano all’emarginazione sociale, alla povertà e alla disoccupazione Patricia Collyer, Cauce, Cile, 18 novembre 1983

La periferia di Santiago, 1983

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I giovani sono più del 60 per cento delle vittime delle proteste. Se si tiene conto della loro situazione socioeconomica, emerge che quasi tutti vivono in situazioni di emarginazione. La conclusione è inevitabile: la protesta è stata guidata dai giovani, e le ragioni del loro attivismo non mancano di certo. Nei quartieri periferici, dove le persone si trovano in situazioni di povertà estrema, tutti ripetono: “Non vogliamo più vivere senza speranze, denutriti o malnutriti, stipati in stanze di tre metri per cinque con le nostre famiglie, in condizioni inimmaginabili. Vogliamo avere diritto all’istruzione e al lavoro, il diritto di amare, di poterci sposare, di avere figli e di crescerli in una casa decente. Vogliamo che la nostra vita non sia un orizzonte buio in cui si accumulano rabbia, impotenza, frustrazioni e umiliazioni. Vogliamo avere dei progetti e poterli realizzare”. Ecco perché i giovani protestano. Cercano di lottare contro una realtà preoccupante, sulla quale si è abbattuto con ferocia il peso del modello economico applicato implacabilmente dal 1973. Circa la metà dei quattro milioni di abitanti dell’area metropolitana della capitale vive in condizioni di estrema povertà. Tenendo conto che quasi la metà della popolazione cilena ha meno di vent’anni, si può dire che oggi quasi un milione di bambini e ragazzi vive nelle baraccopoli attorno a Santiago. Queste cifre si traducono in fatti concreti e drammatici, come la percentuale di abbandono scolastico per ragioni economiche, che supera il 20 per cento tra i 6 e i 19 anni, o la disoccupazione giovanile, che è il doppio o il triplo della media nazionale: una realtà che mette a dura prova questa fetta di popolazione, a causa del sovraffollamento, della promiscuità, della disoccupazione, della mancanza di prospettive. Una realtà terribile, contro cui i giovani si stanno ribellando ormai da maggio. Come dimostrano le nuove vittime, che si aggiungono a quelle accumulate nei dieci anni del governo di Pinochet, la mobilitazione sembra voler

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contrastare un sistema responsabile di un “genocidio a intermittenza”, come l’hanno definito alcuni. Cauce ha deciso di pubblicare una serie di reportage sulla gioventù emarginata, per cercare di offrire una visione d’insieme di questa parte della società che oggi occupa indubbiamente un posto importante nel panorama politico cileno. Il giovane emarginato è definito dalla situazione d’emergenza in cui vive. Lo psicologo Pablo Valdivieso, che lavora nella población di Lo Hermida, spiega: “La mancanza di cibo lo rende denutrito e gli dà un’aria di indolenza; la mancanza di una casa lo priva della sicurezza personale e del senso di appartenenza a un gruppo; l’assenza di lavoro gli toglie l’autostima e il senso di realizzazione di sé. Il giovane non si sente più in grado di partecipare e organizzarsi; la frustrazione costante in cui vive lo rende più debole. Dà la colpa a se stesso: ‘Sono un buono a nulla’. Diventa apatico: ‘Non ho niente da fare: mi sto seppellendo vivo’. Si estrania: ‘È la volontà di Dio’. Insomma, vive in una società che minaccia la sua salute mentale non permettendogli di essere il protagonista della sua storia”. Un’altra espressione di questa situazione limite è la mancanza di protezione di fronte ai tentativi di manipolazione del governo. Per il regime al potere, i giovani dei quartieri periferici non meritano una politica nazionale specifica. La segreteria nazionale della gioventù è presente nelle población con delle organizzazioni che cercano solo di assicurarsi il sostegno ideologico dei ragazzi. Se non aderiscono, i giovani perdono la protezione delle organizzazioni. Una ragazza di Lo Hermida racconta: “I dirigenti della segreteria della gioventù ci hanno detto che dovevamo partecipare alla sfilata militare altrimenti avrebbero smesso di aiutarci: ci danno un locale per ritrovarci, offrono un corso preuniversitario gratuito e altri tipi di aiuti materiali”. Gli aiuti ai giovani dei quartieri periferici

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non sono subordinati solo alla partecipazione ad alcuni eventi; il lavoro delle organizzazioni è accompagnato da discorsi profondamente ideologici. Uno dei sintomi più gravi della situazione estrema in cui vivono i giovani delle población è la disoccupazione. Uno studio condotto dal centro di informazione e analisi Sur presenta statistiche devastanti: la disoccupazione nella fascia di età compresa tra i 14 e i 19 anni è passata dal 12 per cento del 1973 al 45 per cento del 1982; tra i 20 e i 25 anni le cifre sono altrettanto allarmanti: la percentuale è passata dal 6,9 per cento del 1973 a oltre il 36 per cento. Uno studio degli economisti Alejandro Foxley e Dagmar Raczynski, della Cieplan (Corporación de estudios para Latinoamérica), assegna al nostro paese un triste primato: nel documento intitolato “Gruppi vulnerabili in situazioni di recessione”, Foxley e Raczynski indicano che nel 1982 l’istruzione costava duecentosette volte di più rispetto al 1974. È un aumento che rende molto più profonda la miseria in cui vivono questi giovani e che non si limita a moltiplicare per 207 volte il loro allontanamento dall’istruzione: semplicemente li taglia fuori da tutti i giochi. È l’ennesima conseguenza di un sistema economico brutale, che evidentemente ha le sue vittime predilette, su cui non vuole lasciare la presa. Lo studio del Cieplan consente di trarre anche altre conclusioni scoraggianti riguardo la disoccupazione. Oggi chi non ha lavoro e ha meno di 25 anni non appartiene necessariamente alla fascia meno istruita: il 75 per cento dei disoccupati di età compresa tra i 15 e i 19 anni e l’80 per cento di quelli tra i 20 e i 24 anni sono andati a scuola fino alle medie. Lo studio indica che questa percentuale è solo del 37 per cento nel resto della popolazione. Tutto questo ci permette di concludere, insieme agli psicologi Domingo Asun e Patricia Hamel, attivi nelle población dell’area sud di Santiago, che “la consapevolezza della distanza tra come sono le cose e come potrebbero

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essere contribuisce a trasformare l’adolescente in un ribelle”. Un ribelle, aggiungiamo noi, che presto riprenderà in mano il timone della sua storia. Se il vandalismo è politico Per la consolazione dei cileni, le peggiori esplosioni di vandalismo urbano degli ultimi tempi si sono verificate nei quartieri neri poveri degli Stati Uniti (Dade County, Florida) e dell’Inghilterra (Birmingham). Gli atti vandalici sono durati giorni e hanno causato molta più distruzione che in Cile. Ma con un vantaggio rispetto al nostro paese: hanno sempre portato all’istituzione di commissioni composte da persone di riconosciuta saggezza e obiettività, e incaricate di indagare in modo esaustivo sulle cause del vandalismo oltre che di proporre soluzioni. Le conclusioni a cui queste commissioni sono giunte sono sempre le stesse, negli Stati Uniti e in Inghilterra, così come le cause individuate: eccessiva disoccupazione tra gli adolescenti e i giovani; quartieri degradati e inospitali, dove le strutture dedicate al divertimento sano dei ragazzi sono poche o inesistenti; discriminazioni razziali in relazione alle opportunità di lavoro e all’accesso ai luoghi pubblici; incessanti vessazioni da parte della polizia, che ha un atteggiamento discriminatorio nei confronti dei giovani neri. Le commissioni non hanno identificato una vera e propria causa politica, pur rilevando la presenza di gruppi politici radicali. Le conclusioni hanno messo in moto un laborioso processo per identificare delle soluzioni, che ha coinvolto professionisti, residenti, leader giovanili, imprenditori locali, autorità scolastiche e municipali. Se sostituiamo il concetto di discriminazione razziale con quello di discriminazione sociale, ci accorgiamo che in Cile esistono tutti i presupposti perché si verifichino simili esplosioni di rabbia popolare (il paese potrebbe rallegrarsi per il fatto che finora la rabbia dei giovani cileni dei quartieri poveri è stata

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meno violenta di quella dei giovani neri negli Stati Uniti e in Inghilterra). In Cile è impossibile negare una certa presenza politica in termini di organizzazione e coordinamento. Tuttavia, dieci anni di liquidazione dei “nemici”, di controllo rigoroso da parte della polizia segreta, Dina e Cni, e di ferree limitazioni all’attività politica hanno lasciato il segno. La componente politica può essere inizialmente minima e fornire a malapena un pretesto per le proteste più distruttive, ma in futuro potrebbe acquisire un peso rilevante se le circostanze fossero propizie. Ci sono circostanze decisive in cui i potenziali guerriglieri si convincono, o vengono convinti, del fatto che i rischi che si corrono vivendo normalmente, disarmati di fronte alla polizia o alle milizie punitive sono maggiori di quelli che si correrebbero impugnando le armi e affrontando gli agenti in modo organizzato. Anche la scelta di diventare guerriglieri come alternativa alla tossicodipendenza e al degrado criminale, con tutta la mistica che ne consegue, è comprensibile. Considerando la “prassi” ormai consolidata della violenza di strada, con non meglio precisate componenti politiche, ci sono tre possibili soluzioni al problema: poliziesca, militare e civile. L’inefficacia della soluzione poliziesca potrebbe portare a un approccio militare che, una volta applicato, renderebbe impossibile ricorrere a una soluzione civile, come si è visto in Iran e in America Centrale. La soluzione di polizia consisterebbe nell’impedire, con i carabineros e tutti i mezzi necessari, nuovi atti di vandalismo, cogliendo in flagrante il maggior numero possibile di colpevoli. Immaginando che dietro la rabbia, il risentimento e l’odio dei giovani ci siano cause profonde, e in mancanza di soluzioni che diano loro qualche speranza, si verificherebbe un’inevitabile diffusione della violenza, fino a rendere inutile ogni reazione della polizia (com’è successo nelle notti precedenti e successive alle giornate di protesta di agosto e settembre). Una forza di polizia sopraffatta, o che rischia di esserlo,

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agisce con ferocia o è costretta a usare armi letali, provoca vittime e con loro dolore, più odio e più risentimento. La soluzione militare è descritta nei manuali di controinsurrezione ed è stata applicata in Cile nel periodo successivo al golpe del settembre 1973. Prevede forti restrizioni all’attività politica dei partiti, alla libertà di stampa e ai diritti umani in generale. In Cile è ben noto cosa significhi vivere in uno stato di guerra interna. Considerata quest’esperienza, è facile immaginare le conseguenze dirette o indirette di una simile situazione. La soluzione civile, al contrario, consiste nel far sì che persone delle varie correnti politiche democratiche, insieme a sociologi, psicologi, assistenti sociali, architetti e via dicendo, abbattano le barriere della segregazione sociale e, con l’aiuto di sacerdoti o altri leader radicati nei quartieri “difficili”, s’incontrino, non una ma mille volte, con chi ci vive, soprattutto con i giovani. Questi dovrebbero avere la possibilità di esprimersi in pubblico senza restrizioni, senza paura di essere denunciati e senza temere un successivo arresto punitivo. Questo dialogo, con l’aiuto di professionisti e persone della società civile, li porterà a identificare con precisione le vere cause del loro risentimento e a capire che la soluzione non sta nel vandalismo o nella violenza suicida, ma nel partecipare attivamente, in modo pacifico e civile, ai cambiamenti politici che permetteranno loro di essere artefici del proprio destino, cittadini con pieni diritti. Questa soluzione civile richiede la più ampia libertà politica possibile: ma esiste forse un altro modo per porre davvero fine alla rabbia popolare? u fr Patricia Collyer è una giornalista e psicologa cilena; durante la dittatura ha scritto per le riviste e i giornali Hoy, El Mercurio e Análisis ed è stata tra i fondatori di Cauce.

Cauce è stata un rivista politica cilena, pubblicata tra il 1983 e il 1989. Su posizioni socialdemocratiche, fu tra uno dei pochi mezzi d’informazione critici verso il regime di Pinochet.

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Il miraggio è finito

HECTOR LOPEZ

Le dittature sudamericane, e in particolare quella del Cile, offrono una lezione amara per tutti, comprese le forze moderate che in qualche modo le hanno sostenute. Lasciarsi sedurre dalle promesse di ordine e patria dell’estrema destra porta a conseguenze catastrofiche Mario Benedetti, El País, Spagna, 22 agosto 1983

Santiago, 1986

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“Tutto, tutto si dimentica”, cantava Gardel. In questi tempi così inclini all’amnesia, forse vale la pena ricordare che le dittature sudamericane hanno cominciato le loro tragiche esperienze con la tacita approvazione, se non con l’entusiastico sostegno, delle borghesie nazionali. Questi spontanei salvatori arrivavano per riportare l’ordine nel caos, per risanare l’economia in crisi, per porre rimedio alla corruzione e, soprattutto, per mettere fine alla violenza. Oggi, per diverse ragioni, il miraggio è finito. Sul fronte economico il disastro è totale: i Chicago boys in Cile, Martínez de Hoz [José Alfredo, 1925–2013, ministro dell’economia durante la dittatura di Jorge Rafael Videla, tra il 1976 e il 1981] in Argentina e la semplice inettitudine in Uruguay hanno portato le rispettive economie sull’orlo del baratro. Sul fronte della crociata morale, le manovre e gli accomodamenti di cui erano accusate le amministrazioni civili sono fioretti di san Francesco se paragonati alla corruzione attuale. Per quanto riguarda la violenza, nonostante con autorità e solerzia l’eversione sia stata sottomessa e le sue organizzazioni completamente smantellate, la repressione non si è comunque fermata, come testimoniano le ultime retate in Uruguay e in Cile. In Argentina la guerra delle Malvine [Falkland], con la dimostrazione inconfutabile che le forze armate sono molto più adatte a torturare e a uccidere i connazionali che non a confrontarsi con nemici ben equipaggiati, e l’imprevista scoperta di numerosi cimiteri clandestini hanno fatto perdere ai militari non già la simpatia popolare, scomparsa ormai da tempo, ma anche la semplice autorità professionale. È forse in Cile che questa lezione è più chiara. In primo luogo perché è stato il primo paese dell’America Latina ad avere un presidente marxista in seguito a elezioni libere, nel quadro di una democrazia liberale e rappresentativa. E poi perché nel rovesciamento di Allende ha giocato un ruolo fondamentale una potenza che ha sempre voluto essere considerata un

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paradigma di democrazia. Come ben sa qualsiasi alunno di Fort Benning (il centro di addestramento statunitense dove, per puro caso, ha studiato anche Pinochet), la democrazia rappresentativa è ammissibile in America Latina solo quando vince la destra, o per lo meno il centro. Il senatore statunitense William Proxmire aveva già riferito nel 1971 che dal 1945 al gennaio di quell’anno l’addestramento di “320mila militari di settanta paesi indipendenti” era costato la bellezza di 175 miliardi di dollari (sì, avete letto bene). In un’altra occasione, un esperto statunitense, testimoniando davanti al congresso, ha affermato con esemplare candore che “lo scopo, in breve, è portare gli ufficiali stranieri a far combaciare gli obiettivi di politica estera degli Stati Uniti con i propri interessi nazionali, il che significa, in primo luogo, tutelare gli interessi delle grandi aziende private”. Nel 1976 due giornalisti cileni, Fernando Rivas ed Elisabeth Reimann, hanno pubblicato in Messico un libro (Las fuerzas armadas de Chile: un caso de penetración imperialista), che da allora è diventato uno strumento indispensabile per chiunque voglia analizzare l’intricato panorama delle forze armate in America Latina. In una breve introduzione, gli autori sottolineano che il libro cerca di rispondere a questa ragionevole domanda: “Perché le forze armate cilene, in teoria apolitiche, non deliberanti, obbedienti all’autorità civile, hanno agito con la fredda brutalità, la spietatezza e la disumana barbarie di cui siamo stati testimoni?”. Uno dei punti di forza del libro è che il caso cileno viene analizzato nella sua specificità solo dopo aver tracciato un quadro generale della situazione continentale. Attraverso documenti, molti dei quali provenienti dal Pentagono stesso, gli autori mostrano come questa istituzione abbia addestrato e istruito tutti gli eserciti latinoamericani che gliel’hanno consentito. Il motivo per cui in Cile l’applicazione di un simile addestramento è stata così violenta può essere dovuto al fatto che nel pa-

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ese di Salvador Allende la sinistra era salita al potere democraticamente: un modello da scoraggiare per sempre. Testimoni scomodi Uno dei protagonisti del sistema cileno è stato l’incredibile ammiraglio Carlos Jiménez, ministro dell’istruzione nel primo gabinetto di Pinochet. Per giustificare l’epurazione dei programmi scolastici, ha dichiarato che “la rivoluzione francese non sarà più studiata perché è più che nota”. Un altro è stato un tale comandante Alvarado, che in un discorso ai prigionieri tenuti nello stadio del Cile, pronunciò frasi come queste, riportate da Le Monde Diplomatique: “Siete prigionieri di guerra. Non siete cileni perché siete marxisti, siete stranieri. Siamo decisi a uccidervi tutti, fino all’ultimo. Per quanto mi riguarda lo farò con il massimo piacere, con una gioia molto speciale. Non pensate che avrò rimorsi se nessuno di voi uscirà vivo da questo campo di prigionia. Nel caso in cui non le conosciate, vi spiegherò ora alcune caratteristiche delle mitragliatrici che si trovano in alto sulle gradinate dello stadio, su entrambi i lati, sopra le vostre teste. Durante la seconda guerra mondiale erano conosciute come le seghe di Hitler, perché quando colpivano il bersaglio tagliavano in due il corpo del nemico. Ho ricevuto istruzioni speciali dai miei superiori nella giunta del governo militare. Posso fare di voi ciò che voglio, anche uccidervi. Vi prego di darmi un pretesto per farlo. Basterà che uno di voi si muova, o faccia il minimo gesto sospetto, o che a me sembri sospetto, e sentirete la sega di Hitler tagliarvi il corpo, segarvi in due. Buonasera a tutti”. Il comandante Alvarado si era rivelato un allievo particolarmente brillante tra i 1.261 ufficiali cileni che nel marzo 1973 erano stati addestrati nei centri statunitensi nella zona del canale di Panama. Nel 1971, due anni prima del colpo di stato, un altro dei migliori allievi di una di queste accademie, il generale Augusto Pinochet, aveva enunciato una delle

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sue tesi più illuminanti: “Quando l’esercito esce, esce per uccidere, perché è per questo che è stato addestrato”. Il Cile è un testo con diverse letture possibili. Una di queste, forse la più ovvia, indica che la sinistra latinoamericana deve capire quanto sia urgente la sua unità. Ma il tragico settembre cileno dovrebbe insegnare qualcosa anche ai partiti liberali e centristi, quelli che nei mesi precedenti il golpe fecero di tutto per distruggere l’immagine di Allende, paralizzare le forze produttive del paese e far precipitare l’economia nel caos. Questi conglomerati politici e le loro cricche giornalistiche assediarono Unidad popular con false accuse e richieste impossibili. E alla fine chiesero a gran voce l’avvento di un generale salvatore, mandato dalla provvidenza. Oggi, a dieci anni da quel tradimento, il generale della provvidenza ha un nome odiato e un potere vacillante, e ha da tempo voltato le spalle alla maggior parte dei settori che, in un modo o nell’altro, avevano agevolato la sua ascesa. L’intera Democrazia cristiana – non solo le correnti più progressiste, ma anche quelle vicine all’ex presidente Frei (noto promotore del colpo di stato) – è ormai nel mirino della giunta. La chiesa, che già nel 1976 aveva scomunicato alcuni agenti di polizia per i maltrattamenti inflitti a tre vescovi, è diventata una forza di opposizione, schietta e influente. Lo stesso generale Gustavo Leigh, un tempo considerato l’ideologo della giunta, oggi è un nemico di Pinochet. Il generale è rimasto senza alleati interni ed è comprensibile che scagli il suo vacillante anatema anche contro chi l’ha aiutato a salire al potere. Di fronte a un simile monito storico, sarebbe opportuno che altri ambienti liberali e conservatori dell’America Latina (diciamo quelli che attualmente cospirano in Nicaragua contro il governo sandinista) imparassero qualche lezione elementare. Per esempio che l’estrema destra può usarli, ma poi, quando arriva al potere, non solo è capace di abbandonar-

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li al loro destino, ma spesso cerca di annientarli, forse per il loro coinvolgimento e il loro ruolo di testimoni della sua illegalità e della sua impostura. Fortunatamente l’umanità è una somma di popoli. E i popoli non sono mai stati suicidi. Il popolo cileno ne è consapevole. Pochi hanno visto questa possibilità così chiaramente come Salvador Allende, il presidente che, in modo paradossale ed eroico, è morto difendendo, armi in pugno, la sua concezione di rivoluzione non violenta. “Potranno schiacciarci”, disse a Radio Magallanes poco prima di morire, “ma il domani apparterrà al popolo, ai lavoratori. L’umanità avanza verso la conquista di una vita migliore”. Solo chi è molto ipocrita, molto squilibrato o molto stupido oggi può

Mario Benedetti (1920–2009) è stato uno scrittore, poeta e saggista uruguaiano, tra i maggiori autori sudamericani del dopoguerra. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Impalcature (nottetempo 2019).

credere che il mostruoso progetto di Pinochet si imporrà, alla fine, sulla rigorosa verità enunciata da Allende con la semplice lucidità che a volte dà la prossimità della morte. Dieci anni dopo quell’olocausto, è senza dubbio incoraggiante che molte delle persone che vi hanno collaborato si siano finalmente rese conto che Pinochet e tutto ciò che rappresenta sono una vergogna per il Cile e per l’umanità. Sarebbe ancora più incoraggiante, ovviamente, se analizzassero le loro responsabilità in questa vergogna. Perché se non lo fanno, se non le giudicano e non le valutano ora, ci sarà sempre il rischio che in un futuro più o meno prossimo si lascino sedurre di nuovo dalle solite promesse di ordine, patriottismo, pacificazione e crociate morali. u fr

El País è uno dei principali quotidiani spagnoli. È stato fondato a Madrid nel 1976, dopo la fine della dittatura franchista.

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Una storia vera

PICTURE ALLIANCE/GETTY IMAGES

Il dramma di una famiglia divisa, schiacciata e annichilita dalla violenza del regime militare. Le ferite lasciate dalla dittatura nel racconto di una delle più importanti giornaliste cilene Mónica González, Análisis, Cile, 19 febbraio 1990

Amburgo, Repubblica Federale Tedesca, 1971

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Amburgo, 12 febbraio 1974. Il freddo gelido della città è il primo schiaffo ricevuto da Francisco José Pastor dopo il suo lungo e movimentato viaggio. A nove anni, con gli occhi sbarrati e stringendo la mano della madre, comincia a camminare verso la sua nuova “casa”. Si lascia alle spalle la sua amata Valparaíso, l’appartamento di famiglia, gli zii, la nonna, la maestra delle elementari, tutto quello che l’ha reso un bambino felice. È successo tutto molto rapidamente, ma ogni ora trascorsa dopo l’11 settembre 1973 è impressa a fuoco nella sua memoria: gli spari, la paura, il panico, la madre che deve nascondersi, gli uomini che irrompono in casa cercando lei e gli zii. Nel giro di poche ore aveva dovuto lasciare la casa di Cerro Esperanza: non ci sarebbe più stata una famiglia felice. E poi il giorno in cui l’avevano portato fuori del carcere. Circondato da uomini armati, aveva camminato fino alla casa in cui era nato. Le domande: “Dov’è tua madre? Dove sono le armi? Rispondi!”. Gli schiaffi. L’urina che gli colava lungo le gambe, calda, bruciante, e il calore che sfuggiva e l’abbandonava. Dagli occhi arrossati della nonna aveva capito che stavano succedendo cose molto gravi. Così, ascoltando mezze frasi, sussurri soffocati e parole spesso incomprensibili, aveva ricostruito che sua zia Silvia era tenuta prigioniera su una nave. Non poteva crederci. La Lebu era una delle sue navi preferite, protagonista di tanti sogni e avventure. Non ci sarebbero stati più giochi. Chiudere gli occhi con forza e trattenere il respiro per credere che fosse tutto un sogno e che al suo risveglio tutto sarebbe tornato a com’era prima dell’11 settembre 1973. Non era un sogno. Tenendo gli occhi spalancati e le orecchie in allerta, aveva saputo anche che suo zio Mario Morris non avrebbe mai più accompagnato i suoi giochi d’infanzia. Gli avevano sparato, da qualche parte a nord. Un giorno lo portarono a Santiago. Fu un viaggio accidentato. Non come la grande visita alla capitale, quella che aveva fatto con i

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compagni della scuola elementare e alcuni genitori. Dalla cima del Cerro Santa Lucía sua madre gli aveva raccontato com’era nata la città. La piscina Tupahue gli era sembrata enorme. Era stata una giornata fantastica. Così diversa dal viaggio successivo. Lo condussero direttamente in una grande casa sorvegliata da uomini armati, lo perquisirono, con sguardi d’odio, e alla fine c’era sua madre che lo aspettava nell’ambasciata della Repubblica Federale Tedesca. Fu un momento meraviglioso. Stringerla di nuovo, sentirsi al sicuro tra le sue braccia. Poi gli dissero che il giorno dopo avrebbe lasciato il Cile. Sarebbero partiti per la Germania. Non riuscì a sentirsi felice. La nonna non sarebbe andata con loro, gli zii e le zie erano in posti sconosciuti e lo zio Mario era al nord, era stato fucilato, dicevano. Chi si sarebbe occupato della casa sul Cerro Esperanza? Quando si ritrovò ad Amburgo capì che la sua infanzia era rimasta in Cile. E non riuscì a piangere. Lo avrebbe raccontato in una lettera anni dopo a uno dei suoi amici. Non avrebbe mai dimenticato il 12 febbraio 1974. Sul mare, al nord Ad Amburgo, riesce a riprendere gli studi. È l’unico straniero in quel liceo tedesco. Fin dal primo giorno sua madre si è lanciata in un vortice di attività solidali con il Cile. Così, tra i volti che parlano, dormono e passano, gli eventi, le canzoni, le mostre e i pianti degli incontri all’aeroporto e le lacrime di chi viene a sapere della morte di qualcuno, lui vive e cresce. Di giorno è un ottimo allievo del liceo tedesco: ha imparato la lingua molto velocemente ed è diventato un bambino come tutti gli altri. Alla fine della giornata, però, dedica la sua vita al Cile, e così sarà per molti anni a venire. Alla fine del 1974 si sente un cileno privilegiato. Anche sua nonna, la sua amata nonna, è arrivata ad Amburgo. In pochi giorni ha trasformato la cucina nel suo piccolo regno e occupato ogni spazio nella vita di Francisco José e di sua madre Olga. Ha scritto Francisco José

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anni dopo: “Un giorno d’inverno del 1974 la vidi arrivare all’aeroporto di Amburgo. Avevo dieci anni quando cominciai a godere di quello che poi scoprii essere un privilegio per un bambino cileno: avere la nonna a casa. L’esilio di mia nonna è cominciato al tramonto della sua vita. Per me all’alba della vita. Forse è per questo che la sua vita è stata così fortemente intrecciata alla mia. Mia nonna ha costruito passo dopo passo il tessuto invisibile della mia storia, quella che si è svolta dall’altra parte dell’Atlantico”. Nessuno ha mai saputo con certezza cosa abbia significato per Olga Barrios lasciare la sua casa, il suo Cerro Esperanza, la sua Valparaíso e il suo solido ingranaggio familiare all’età di 64 anni. Non avrebbe mai più potuto visitare la tomba del marito. Entrambi di umili origini, avevano dedicato tutta l’esistenza alla lotta sindacale e si erano impegnati per assicurare l’istruzione ai loro nove figli. Tutti rimasti saldamente legati alla casa familiare di Cerro Esperanza. Mano a mano che si sposavano, costruivano le loro case vicino a quella dei genitori. Così la vita di tutti rimaneva intrecciata, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Il golpe distrusse il nucleo familiare. La maggior parte dei figli fu costretta all’esilio. I nipoti si dispersero in Svezia e in Canada, e il figlio più giovane scomparve per sempre a Pisagua. Olga Morris, avvocata, è la figlia maggiore. La madre va a vivere con lei nell’inverno del 1974. “Ad Amburgo”, ha scritto Francisco José, “dalla sua piccola stanza e dalla sua cucina, la nonna si dà da fare: scrive lettere, invia foto e ricette, ricorda i compleanni, informa, conforta, infonde coraggio e, nonostante le distanze, ricostruisce a poco a poco la sua opera di tanti anni: la famiglia, la MIA FAMIGLIA”. Il rapporto con i suoi otto figli e nipoti non è sempre idilliaco. I nuovi modi di vivere e i nuovi valori a volte la turbano. Ma lei si dà da fare, riscrive la storia per i suoi nipoti e anche ad Amburgo diventa la madre instancabile di un detenuto scomparso. Sì, perché il corpo di

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suo figlio Mario Morris non le è mai stato consegnato. Da lontano ricostruisce anche la sua storia. “Un giorno”, dice a Francisco José, “sarà fatta giustizia”. Da quell’inverno del 1974, nell’ingresso della casa dei Morris ad Amburgo saranno esposti due ritratti: quello di Salvador Allende e quello di Mario Morris. Non mancheranno mai i fiori e la bandiera cilena a incorniciarli. Una manciata di terra del Cerro Esperanza mette radici ad Amburgo. Francisco José Pastor non riesce a stare lontano dalla cucina della nonna. Lì, tra gli aromi di una terra lontana, la nonna porta in tavola le sue ricette dopo estenuanti ricerche nei mercati della città, e allora l’atmosfera s’impregna della storia, della famiglia, del Cile e di Mario Morris. Ecco come Francisco José ha descritto il rituale: “La politica e la famiglia hanno acquisito un loro ritmo e una loro dinamica. La politica è ospitata alla tavola della cucina di nonna Olga, una cuoca eccellente. Con le sue trecce d’aglio e i suoi condimenti crea un angolo culturale dove i visitatori sono invogliati a raccontare tutto. I leader politici e sindacalisti cileni passano da qui, mangiano, raccontano le loro storie, dormono per una notte e proseguono il loro viaggio. La sua vita quotidiana a Barmbek segue un percorso particolare: prima il mercato, poi i vicini che le parlano delle loro malattie e dei loro dolori in una lingua che lei non capisce. Ma questo non la ferma. Nonna Olga è attiva. La sera il telegiornale è il suo svago costante, quasi sacro. Attende giorno dopo giorno la notizia che desidera ma che non arriva mai. Poi c’è un altro rituale: le notizie in spagnolo sulla radio a onde corte. Radio Mosca. Molti esuli scelgono la via più breve per avere notizie dal Cile: chiamano nonna Olga”. Ogni prigioniero politico che sbarca ad Amburgo passa dalla cucina di nonna Olga. Lì tutti raccontano, piangono e poi se vanno più leggeri e più forti. La nonna ascolta e alimenta il suo archivio. Fa tesoro di ogni notizia sulla

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vita di suo figlio, Mario Morris. Mette insieme mille dettagli e mille altre storie di vita. Mario Morris si era diplomato alla scuola di amministrazione doganale nel 1972. Fu assunto alla dogana di Valparaíso e poco dopo entrò a far parte del dipartimento investigativo doganale. Nel 1973 fu assegnato a Iquique. Olga Barrios era contenta, ma soffriva per la sua partenza. Era il figlio più giovane, El Conchito. Il trasferimento subì dei ritardi, passarono dei mesi e alla fine, il 5 settembre 1973, Mario partì per il suo nuovo lavoro. Francisco José Pastor scoprì nella cucina di Olga che Mario era arrivato il 6 settembre all’hotel Bolívar di Iquique e si era sistemato nella stanza numero 10. Il 12 settembre 1973, prima di prendere servizio, era stato arrestato e trasferito nel campo di Pisagua. Aveva 26 anni quando fu fucilato insieme ad altri cinque prigionieri, il 10 ottobre 1973, su ordine del tenente colonnello Ramón Larraín. Nella sua memoria e nei suoi archivi quel nome è rimasto marchiato a fuoco. Francisco José conosce i nomi e le vite di tutti i compagni di prigionia di Mario Morris e aiuta la nonna a raccogliere dati, a mettere insieme testimonianze, a cercare la verità. A un certo punto comincia a intravedere il suo futuro professionale nel cinema e nella fotografia. Tutta la famiglia è in fibrillazione quando arriva il grande giorno della maturità di Francisco José. È una gioia immensa per nonna Olga sapere che suo nipote è uno dei cinque migliori diplomati della regione di Amburgo. Quella sera, nel suo letto, dopo aver ascoltato le notizie in spagnolo, ne parla con suo marito, la cui tomba non visitava ormai da undici anni. Olga Morris decide di premiare il figlio con un viaggio in Nicaragua. Francisco José parte pieno di entusiasmo. Lì, oltre a partecipare alle attività di volontariato come molti altri giovani cileni, visita le zone in guerra con la Contra [gruppi armati controrivoluzionari e anticomunisti nicaraguensi, combattuti negli anni ottanta dai governi di sinistra dei sandinisti]. Al suo ritorno, come sempre, parla a lungo

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con la madre. Olga ricorda: “Mi disse che aveva imparato una cosa molto importante: non sarebbe mai diventato un militare”. Francisco José desidera ardentemente tornare in Cile. Ma è solo un desiderio. Come scrive lui stesso: “Il nome di mia nonna era tra quelli che la dittatura considerava ‘un pericolo per la sicurezza nazionale’” e l’ingresso in Cile le è vietato. Sua madre è nella stessa situazione. Si ritrova con gli amici cileni, con cui ha condiviso anni di solidarietà, amori e gioie, per parlare del ritorno a casa. Il problema di fondo, che si riaffaccia sempre, è quello dell’identità: cosa sono, tedesco o cileno? Ho studiato in Cile o in Germania? Sono domande scottanti che non hanno risposte facili. Francisco José decide di studiare germanistica, filosofia e romanistica alla Freie Universität di Berlino. Non è quello però il suo obiettivo. La sua vera aspirazione è studiare cinema all’Accademia di Berlino. Ma entrarci è molto difficile. Ha bisogno di un titolo universitario. Nel tempo libero comincia a lavorare nel cinema. Per prima cosa prova a realizzare un video sulla nonna: “La nonna universale”. Cerca finanziamenti, aiuti. Non era facile. Tuttavia, nell’ansiosa ricerca della sua storia, Francisco José non interrompe mai le registrazioni delle interviste con Olga. Poi si addentra nella vita dei suoi compagni. Comincia ad accumulare informazioni sui suoi amici cileni che, come lui, vivono in esilio. Intervista ognuno di loro e registra tutto nel suo archivio. L’incontro mancato Un giorno Olga Barrios smette di essere la madre di un detenuto scomparso. Un ex prigioniero di Pisagua è arrivato nella sua cucina ad Amburgo. È così che viene a sapere che Mario è stato torturato e ucciso. Olga Barrios non si perde d’animo. Vive il suo lutto con la forza di una “nonna universale”, continuando a ripetere: “Un giorno sarà fatta giustizia”. Poi, nel 1988, le notizie provenienti dal Cile scuotono la famiglia Morris. Il referendum si

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avvicina e molti degli amici di Francisco José sono rientrati in patria. Anche lui decide di prendere la strada del ritorno e un giorno dell’agosto 1988 sbarca all’aeroporto di Pudahuel. Quando arriva a Santiago ha 25 anni. Non può evitare di fare un parallelo con lo zio Mario. Le valigie contengono un carico prezioso: il suo archivio e le registrazioni delle interviste ai suoi amici. Oltre alle valigie portava con sé un’idea confusa e onirica della sua patria. Non ricorda nulla di Santiago e deve imparare a orientarsi nella città. Oltre a mettersi subito in contatto con gli amici rientrati e a riprendere le interviste, visita i quartieri periferici, che conosce in dettaglio grazie a video e film. Camminare per le strade, sentire la miseria, annusarla, mescolarsi con i giovani tossicodipendenti agli angoli delle strade, è una realtà che lo impressiona duramente. Vaga per Santiago cercando di unire l’immagine del paese che si è costruito in Germania alla realtà che bombarda la sua mente e i suoi occhi. Con il passare dei giorni, si rende conto che il Cile a cui ha dedicato tutta la sua adolescenza e giovinezza, quello in cui tutti lottavano per porre fine alla dittatura, non esiste. È un colpo durissimo. Ci riflette e racconta alla madre in una lettera la sua angoscia, ma anche la sua speranza: “Sono arrivato alla conclusione che non c’è alternativa e che questa è davvero la strada da percorrere”. Alla fine del suo racconto, Francisco José esprime il timore che il popolo cileno non sarà in grado di difendersi in caso di un altro attacco. Si dice certo che al referendum vincerà il no e che il risultato scatenerà la rabbia della gente. La campagna referendaria, gli eventi e l’entusiasmo nelle strade non gli fanno dimenticare la sua principale missione: presentare una denuncia penale per l’omicidio di suo zio Mario Morris a Pisagua. Richiede documenti e procure e alla fine, con l’aiuto dell’avvocato Carlos Fresno del Vicariato della solidarietà

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[organizzazione della chiesa cattolica istituita per aiutare le famiglie delle vittime della dittatura], prepara tutto il necessario, compresa la testimonianza di un sopravvissuto di Pisagua. Ma l’angoscia e lo stupore causati dalla delusione di aver trovato un paese diverso da quello che immaginava non l’abbandonano. Cerca disperatamente le sue radici, la sua identità, che continua a sfuggirgli, e la sua storia, ricostruita con la nonna Olga. Prende un autobus e arriva a Valparaíso, alla casa di Cerro Esperanza e non riesce a trattenere le lacrime. La casa è molto più piccola di come la ricordava. Brutta, abbandonata. Passa lunghe ore a contemplarla. Cerca i suoi amici d’infanzia, i suoi compagni d’avventura. Uno è tossicodipendente. Un altro è diventato un alcolizzato in seguito a un incidente d’auto che l’ha reso zoppo, e quasi non lo riconosce. Un altro ancora è in prigione per aver rapinato un autobus. Non riesce a smettere di piangere. Cammina e scrive, e piange intensamente, sentendosi un privilegiato. Ha lasciato il Cile all’età di nove anni, evitando il terrore, l’umiliazione e la miseria. Ha ricevuto un’istruzione e a 25 anni è pieno di sogni e di progetti. Il paragone gli sfugge senza poterne fare tesoro. Prende un autobus e scende in avenida Argentina, proprio di fronte al mercato, dov’era la sua scuola elementare. Cerca la sua maestra, ma non c’è più. Va al cimitero a cercare la tomba di suo nonno. Si perde tra i padiglioni e non la trova. L’accompagna un pianto semplice e silenzioso. Quasi correndo, va in cerca della piazza dei suoi giochi d’infanzia, quella dove aveva scattato l’ultima foto con lo zio Mario. Nella disperazione si confonde e invece di arrivare a plaza Recreo si ritrova a plaza Esperanza. Non la riconosce. Anche quella è stata trasformata. Niente è più come nella sua storia e nei suoi sogni. La sua identità gli sfugge davanti agli occhi, provocandogli un’angoscia che non lo abbandonerà più. Va a Iquique, per filmare i luoghi dove suo zio Mario Morris ha vissuto i suoi ultimi giorni.

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OWEN FRANKEN (CORBIS/GETTY IMAGES) WOLFGANG WEIHS (PICTURE ALLIANCE/GETTY IMAGES)

Augusta, Baviera, Repubblica Federale Tedesca, 1974

Rifugiati cileni arrivati a Friedland, Repubblica Federale Tedesca, gennaio 1974

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Vuole regalare quelle immagini a sua nonna. Non riesce ad arrivare a Pisagua. A Iquique ascolta direttamente dai sopravvissuti di Pisagua il racconto dei massacri, della miseria e della disperazione. È più di quanto possa sopportare. Torna a Santiago per finire il lavoro sui giovani rientrati in patria, e la gioia di esserci riuscito non allevia la sua angoscia. È solo una parentesi. L’ultimo giorno di ottobre la morte di Raúl Alejandro Pellegrin, il comandante José Miguel del Fronte Patriottico Manuel Rodríguez [organizzazione guerrigliera cilena, fondata per rovesciare la dittatura di Pinochet], sconvolge i suoi amici rimpatriati. Anche Pellegrin era un giovane tornato dalla Germania. Avevano condiviso anni di lavoro e di speranze. La stampa filogovernativa dà particolare risalto allo status di rimpatriato di Pellegrin e gli amici si spaventano. Anche il documentario, il suo lavoro di tanti anni, gli sta sfuggendo dalle mani. Un giorno si accorge di essere seguito. Lo scrive sul diario. Annota la sua angoscia e i sospetti crescenti, finché non ne ha una prova certa. Mentre attraversa la strada per incontrare uno dei suoi amici, questi, nel vederlo arrivare, si allontana velocemente senza salutarlo. È l’ultimo schiaffo per Francisco José Pastor, che rientra nella casa dove alloggia e si chiude nella sua stanza. Brucia il suo archivio: si è reso conto che contiene informazioni dettagliate su ciascuno dei giovani rimpatriati. Non vuole correre il rischio che finisca nelle mani del Cni [Centro nacional de información, il nome della polizia segreta del regime di Pinochet dal 1977]. Non vuole essere responsabile di ulteriori torture e morti. Non scrive. Non mangia. Non beve. Non esce nemmeno per comprare le sigarette (alcuni mesi dopo Olga Morris, sua madre, scoprirà dall’amico che aveva evitato l’incontro che qualcuno stava davvero seguendo il figlio, e che per questo motivo l’amico, vedendolo, si era allontanato bruscamente). Francisco José Pastor è in uno stato di de-

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pressione acuta e lo fanno rientrare precipitosamente in Germania nel novembre 1988. Olga va a prenderlo all’aeroporto di Amsterdam e lo porta in auto ad Amburgo. Durante il viaggio, la sua paura rimane immutata. A casa, la situazione continua a peggiorare: trema di paura, soffre di convulsioni e le sue crisi di pianto sono sempre più frequenti. Si rifiuta di parlare tedesco e ripete di non poter sopportare di vivere in Germania. Afferma ripetutamente che lì sono stati uccisi sei milioni di ebrei, i loro cadaveri sono stati calpestati e non c’è mai stata giustizia. In Cile, dice, sarà lo stesso. Non appartiene al Cile e nemmeno alla Germania: qual è la sua patria? La dottoressa Patricia Lacoste, neurologa e psichiatra, amica di famiglia, lo visita, raccomandando un trattamento immediato. Avverte del pericolo di suicidio. La famiglia decide di mandarlo in Svezia, alla Clinica latinoamericana, dove la dottoressa Arellano e la sua équipe hanno esperienza nel trattamento di pazienti vittime della repressione. E poi una parte del clan dei MorrisBarrios si trova lì. Sarà ospitato da zii e cugini. Non appena Francisco José si sente meglio, torna ad Amburgo. Da Olga e dalla nonna. Ma la nonna si è gravemente ammalata. Una gamba le sta andando in cancrena. Sopporterà stoicamente cinque mesi in ospedale con dolori atroci. Il nipote l’accompagna. E la depressione torna. Quando la gamba di Olga viene amputata, senza però arrestare la cancrena, Francisco José ha un’altra ricaduta e viene rimandato in Svezia. Cugini e zii fanno del loro meglio. Lo tengono occupato tutto il giorno con sport e attività di ogni tipo. Ma è impossibile superare la crisi. Il 15 giugno 1989, la famiglia Morris-Barrios si riunisce ad Amburgo per accompagnare gli ultimi giorni di nonna Olga. Francisco José è arrivato dalla Svezia con gli zii e le zie e va immediatamente all’ospedale dov’è ricoverata la nonna. Intorno a lei ci sono i fratelli e le sorelle. Olga, tremante, fa un ultimo sforzo

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e parla con ognuno di loro. L’emozione e la fatica l’hanno lasciata muta. La mattina dopo l’avrebbero riportata a casa, affinché potesse morire , nel suo regno, nel suo angolo pieno degli odori della sua terra lontana. Ma quando Francisco José arriva in ospedale con gli zii per il trasferimento, è già troppo tardi. La “nonna universale”, Olga Barrios Pereira, è morta. Francisco José smette di parlare. In mezzo al dolore di tutti, scivola silenziosamente in bagno per tagliarsi le vene. Gli zii e la madre riescono a salvarlo. Lo ricoverano d’urgenza in una clinica psichiatrica. La famiglia MorrisBarrios si separa di nuovo. Olga Morris è esausta. Il suo diabete, trascurato da quando le condizioni della madre si erano aggravate, raggiunge lo stato critico. Con la madre morta e il figlio in clinica, si ricovera per farsi curare con l’insulina. Sa che suo figlio ha urgentemente bisogno d’aiuto. Ma non sa come aiutarlo. Si sente impotente, stanca, stremata. Quella sera parla con Francisco José, lei dall’ospedale e lui dalla clinica psichiatrica. Il figlio le dice che ognuno è padrone della propria vita, anche di metterle fine quando desidera. È calmo, sereno e parla senza fretta. Olga gli chiede di parlarne il giorno dopo, quando andrà a trovarlo. Gli dice della vita che li aspetta in Cile, lo prega di aspettare... Nelle prime ore del 20 giugno 1989, Francisco José Pastor Morris si impicca a una trave della sua stanza in una clinica psichiatrica di Amburgo. Ha 26 anni, la stessa età di suo zio Mario Morris quando fu fucilato a Pisagua. Nel suo diario-agenda scrive: “Voglio documentare il percorso di Olga Barrios in retro-

Mónica González è una giornalista e scrittrice cilena. Nata a Santiago nel 1949, all’inizio degli anni settanta aveva cominciato a collaborare

con i giornali El Siglo e Ahora, vicini al governo Allende. Dopo il golpe del 1973 si era rifugiata in Francia. È tornata in Cile nel 1978 e ha ripreso

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spettiva, non solo perché sono parte di mia nonna, ma perché la sua vita contiene momenti così ricchi e svolte così drammatiche che la rendono una ‘nonna universale’”. Aspettando la giustizia Olga Morris non riusciva a credere che suo figlio fosse morto. Da madre e da avvocata ha preteso di vedere la sua stanza, di parlare con i medici di turno, di vedere il suo corpo e i documenti del decesso. Francisco José era stato cremato prima che lei avesse ricevuto il documento dell’autopsia e quando era ormai solo un mucchietto di ceneri in attesa di essere sepolto in Cile, Olga Morris si era resa conto che era stato cremato senza il cervello. Ha chiesto subito di sapere la verità, ha bussato a tutte le porte, ha lottato con giudici e medici, e infine ha saputo che il cervello di suo figlio era nelle mani di uno scienziato. Aveva un peso maggiore del solito, volevano studiarlo. Dopo una dura battaglia giudiziaria, Olga Morris ha recuperato il cervello di Francisco José. Il corpo di suo fratello Mario Morris era ancora in qualche luogo sconosciuto del Cile del nord, e Olga non poteva sopportare che anche solo una piccola parte del corpo di suo figlio rimanesse in mani sconosciute. Tanto meno il suo cervello. All’età di 55 anni, Olga è entrata nel suo appartamento di Amburgo, ha visto le foto di suo fratello e di Allende, si è trovata di fronte le ceneri del figlio e la solitudine della cucina di sua madre. Ha capito di essere irrimediabilmente sola. E ha sentito su di sé tutto il peso della frase che aveva ascoltato così spesso da sua madre: “Un giorno sarà fatta giustizia”. u fr

l’attività giornalistica con le riviste Cauce e Análisis. Nel 2020 ha vinto il premio spagnolo di giornalismo Ortega y Gasset. I suoi articoli

scritti durante la dittatura sono raccolti nel volume Apuntes de una época feroz (Santiago de Chile 2015).

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Torna la democrazia

Santiago, 6 ottobre 1988. Festeggiamenti per la vittoria del no al referendum sul secondo mandato di Pinochet. (Marco Ugarte, Afp/Getty Images)

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Verso il referendum Alla vigilia del voto per decidere se Pinochet potrà rimanere al potere, l’opposizione ha la vittoria in tasca. Dopo un feroce esperimento sociale durato quindici anni e costato indicibili sofferenze, i cittadini non hanno più paura Benny Pollack, New Statesman, Regno Unito, 30 settembre 1988 Quando me ne sono andato nel 1973, dopo il colpo di stato militare che rovesciò il governo Allende, ho lasciato un paese che fino a quel momento, nonostante i suoi limiti, aveva potuto vantare ottimi risultati nel campo del rispetto dei diritti umani e nella pratica della democrazia, anche se tutt’altro che perfetta. Aveva anche costruito uno dei migliori sistemi di welfare dell’America Latina, fornendo assistenza sanitaria, sicurezza sociale, istruzione e cultura in base ai bisogni della popolazione, non alla logica del profitto. Uno stato dinamico aveva sostenuto la nascita di un’ampia infrastruttura industriale, pubblica e privata, attraverso sussidi, tariffe protettive e tassi di cambio favorevoli. La “legge del vantaggio comparato”, tanto cara ai monetaristi, non aveva ancora avuto occasione di essere messa alla prova. Dopo il 1973 il Cile sarebbe invece diventato la prima cavia nel laboratorio sociale lanciato dai “Chicago boys” di Milton Friedman [1912–2006, economista statuni-

tense, principale esponente della cosiddetta scuola di Chicago, sostenitrice dell’economia di libero mercato; i Chicago boys furono un gruppo di economisti cileni che avevano studiato alla scuola di Friedman e, una volta tornati in America Latina, divennero consiglieri economici dei governi di diversi paesi, tra cui il Cile di Pinochet]. Quello che ho trovato al mio ritorno in Cile dopo quindici anni è il risultato di questo esperimento, che sette milioni e mezzo di votanti sono chiamati a giudicare il 5 ottobre. L’unica scelta è tra il sì e il no. Il risultato determinerà non solo il regime politico per il prossimo futuro, ma, cosa ben più importante, il sistema di valori che potrebbe segnare generazioni di cileni per gli anni a venire. Le due opzioni a disposizione hanno provocato una divisione nel paese paragonabile a quella prodotta dal caso Dreyfus nella Francia di fine ottocento. Che la società cilena si sia estremamente polarizzata è evidente

Santiago, 1988. Una manifestazione a favore del no durante la campagna referendaria del 1988. (Julio Etchart, Panos/Parallelozero)

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ovunque: nelle strade, dove i giovani indossano i distintivi con su scritto sì o no; nei fantasiosi graffiti che inondano i muri ripuliti dai militari dopo il colpo di stato del 1973; e nelle università, tradizionali centri di attivismo politico. Le famiglie sono divise, il padre dal figlio, l’amico dall’amico; il pranzo e la cena sono di nuovo terreno di scontro per discussioni politiche. Il Cile ha cominciato un lungo e doloroso processo di riscoperta. Sta lentamente tornando a essere l’animale politico di una volta. Tuttavia, non è più “la Gran Bretagna dell’America Latina”. Quindici anni di governo militare hanno trasformato un paese considerato in passato un modello di democrazia in uno stato che fa parlare di sé solo per le brutalità commesse ai danni della popolazione. Anno dopo anno l’assemblea generale delle Nazioni Unite e la sua commissione per i diritti umani hanno ripetutamente condannato i gravi abusi del regime militare: la prima volta nel 1973, l’ultima nel 1987. Ma non è bastato. Il consiglio ecumenico delle chiese, Amnesty international, la chiesa cattolica, la Commissione internazionale dei giuristi e l’Organizzazione degli stati americani si sono uniti invano in un triste coro di denunce. Certo, la repressione è diventata mano a mano più selettiva, perfino sofisticata: al momento ci sono “solo” cinquecento prigionieri politici (molti detenuti senza processo) e le persone che scompaiono senza lasciare traccia sono diminuite rispetto alla metà degli anni settanta, quando il terrore di stato era al suo apice. Ma questi minimi progressi nascondono un equilibrio che mostra in modo chiarissimo cosa può fare a un paese e alla sua gente l’attuazione dogmatica dell’autoritarismo politico abbinata al liberismo più estremo. Tornare in Cile nel bel mezzo di una campagna elettorale, che culminerà il 5 ottobre in un referendum, è stato come ricostruire le scene un po’ surreali che avevano reso così famosi gli ultimi dieci anni della democrazia

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cilena prima del golpe. Durante entrambi i governi allora in carica – prima quello centrista, del Partito democratico cristiano, e poi quello di sinistra di Unidad popular, dal 1964 al 1973 – c’erano state forti ondate di mobilitazione sociale e politica che avevano alimentato la partecipazione popolare e fornito un sostegno dal basso per le politiche di modernizzazione e ridistribuitone messe in pratica da entrambe le amministrazioni. Assistere di nuovo a vigorosi dibattiti politici e discussioni aperte tra posizioni molto diverse è stato senz’altro incoraggiante, ma al di là delle speranze suscitate da questa esperienza rimangono anche molte paure. Perché quello che ho visto il giorno del mio ritorno, qualche settimana fa, è il risultato dell’esperimento d’ingegneria sociale di destra più radicale mai visto nel mondo dalla fine della seconda guerra mondiale. L’“esperimento cileno” lancia minacciosi avvertimenti agli altri paesi, tra cui il Regno Unito, che stanno cedendo consapevolmente o meno al fondamentalismo monetarista. Ai cileni oggi viene chiesto se vogliono che il presidente Augusto Pinochet rimanga al potere per altri otto anni (cosa che gli conferirebbe un mandato complessivo di 23 anni, senza dubbio il più lungo della storia cilena) o se preferiscono che il prossimo anno siano indette elezioni libere, in cui il candidato del governo (non necessariamente Pinochet) potrà essere sfidato e in caso sconfitto. Sotto la spinta degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale, il regime ha concesso all’opposizione una relativa libertà di manovra, anche se le limitazioni sono ancora molte. L’esilio forzato – la piaga dell’era Pinochet per la comunità internazionale – è stato abolito, e gli ex leader di Unidad popular sono tornati in patria per partecipare alla campagna referendaria del no. I propagandisti del governo non hanno mancato di far notare che, tra questi rimpatriati, comunisti e socialisti sono in maggioranza. Il loro arrivo è quotidianamente sottolineato negli spot tele-

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JULIO ETCHART (PANOS/PARALLELOZERO)

Una sostenitrice del no durante una manifestazione a Santiago, 1988 visivi della campagna per il sì. È così che il governo sta sfruttando le paure e l’insicurezza di molti cileni. Con spezzoni audio e video il regime continua a ricordare alla popolazione “l’instabilità”e le “tensioni” vissute al tempo del governo di Unidad popular. Quello che viene taciuto, però, è che si tratta per lo più di materiali fabbricati da chi detiene il potere. La tesi del governo si basa generalmente su messaggi e simboli negativi, il cui scopo è inculcare la paura del passato. Del futuro, invece, c’è poco o nulla. Il messaggio dell’opposizione, al contrario, si basa su affermazioni positive, che evocano l’arrivo di tempi migliori. Concetti come speranza, felicità, libertà, uguaglianza e giustizia compaiono spesso negli slogan degli oppositori. I diritti che sono stati cancellati da un regime duro e spietato, in democrazia saranno di nuovo garantiti a tutti. All’opposizione è stato concesso uno spazio televisivo notturno di quindici minuti, lo stes-

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so tempo assegnato al governo. Pur essendo una concessione significativa (il regime è stato costretto), non è certo sufficiente: il regime ha infatti a disposizione tutti i canali tv, e le redazioni dei telegiornali sanno fin troppo bene come comportarsi. La radio non è molto diversa: solo due stazioni (sulle circa 17 a diffusione nazionale) accettano gli spot dell’opposizione, e solo perché sono di proprietà del Partito cristiano-democratico o della chiesa cattolica. Unità o propaganda Nella campagna referendaria l’opposizione sta parlando con una sola voce. Messe da parte le differenze, è formata da un’ampia coalizione che abbraccia vari partiti e rappresenta un ampio spettro sociale e le ideologie più democratiche di destra, sinistra e centro. Include ex sostenitori di Pinochet del Partito nazionale, indipendenti di destra ormai lontani dal regime e diversi altri partiti: Umanista (su posizioni ambientaliste), Cristiano democratico, Ra-

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dicale, Socialdemocratico, Radicale democratico, Comunista e Socialista. Il blocco è anche sostenuto da una parte significativa del Mir, il Movimento della sinistra rivoluzionaria, un gruppo storicamente scettico nei confronti delle “elezioni borghesi”. Molte di queste formazioni hanno aderito al Partito per la democrazia (Ppd), il cui obiettivo principale è il ripristino del sistema democratico. Questo formidabile fronte politico dovrebbe sconfiggere Pinochet, se non altro per motivi puramente aritmetici. La maggior parte dei sondaggi condotti da istituzioni indipendenti assegna la vittoria all’opposizione, con numeri che variano dal 52 al 70 per cento. Solo un rilevamento, commissionato dalla polizia, dà il governo in vantaggio (47 per cento contro 42 per cento). Il trionfo dell’opposizione è una certezza, sempre che non si verifichino frodi, un nuovo colpo di stato o altre irregolarità. E sarebbe un risultato più che giusto, visti i quindici anni d’ingegneria sociale alle spese del popolo cileno, costati un milione di esiliati, trentamila morti e diverse migliaia di cittadini torturati o scomparsi. Il Cile offre anche altre cifre impressionanti: il fallimento di cinquantamila piccole e medie imprese a causa delle drastiche riduzioni di sussidi e tariffe, e per le variazioni dei tassi di cambio; un tasso di disoccupazione ufficiale di circa il 23 per cento (e uno non ufficiale del 35 per cento); cinque milioni di persone al di sotto della soglia di povertà (su una popolazione di undici milioni); istruzione, sicurezza sociale, pensioni e servizi sanitari completamente distrutti; controllo assoluto del governo sui mezzi d’informazione; sindacati e partiti ridotti all’impotenza. Senza contare la persecuzione ai danni del sapere, della cultura e di qualunque forma di “cultura popolare”, da anni vittima di repressione e ancora guardata con sospetto. Questi dati drammatici sono bollati come “propaganda comunista” dal regime, che ricorda invece l’efficienza con cui il paese sta ripagando l’enorme debito estero contratto.

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In effetti oggi il Cile è il ragazzaccio rimesso in riga a suon di crediti e finanziamenti internazionali. Se solo il Perù, il Brasile e il Messico si comportassero come il Cile… Controllo totale Camminando per le strade di Santiago penso ai due Cile che ho conosciuto. Quello di una volta e il “nuovo” paese creato dai militari. Il Cile che conoscevo era imperfetto, segnato da profondi disagi sociali e da un’insufficiente rappresentanza politica. Ma era un Cile più giusto di quello di oggi, dove qualsiasi osservatore obiettivo vedrà l’avidità, l’egoismo e la crudeltà delle élite dominanti, l’opulenza arrogante dei ricchi e l’indifferenza quasi disumana dei potenti verso i deboli e i poveri. Bastano pochi minuti per passare da un paese europeo, moderno e sviluppato a uno sottosviluppato, arretrato e povero. Il primo è pieno di opportunità, l’altro di disperazione. Il Cile dei poveri è un monumento vivente alla stupidità e alla crudeltà umana, reso possibile solo da una scellerata alleanza tra fascisti irriducibili, fondamentalisti del monetarismo, yuppie opportunisti e libertari di destra. Insieme ai militari hanno proposto una ricetta a cui nessuno poteva permettersi di resistere. Può una piena e illimitata libertà economica essere realmente raggiunta senza la repressione politica? E la libertà economica è davvero una precondizione della democrazia politica? Chi finge che la risposta sia semplicemente tecnica si autoillude o illude gli altri con i propri pregiudizi e dogmi. Perché queste domande, e le loro risposte, sono al centro della più ideologica delle argomentazioni. Il Cile è il miglior esempio finora disponibile, nel secondo dopoguerra, di cosa può succedere a una nazione quando dei fanatici di destra prendono il controllo totale della società e abusano del monopolio del potere di cui godono per imporre il loro rigido modello su tutti e su tutto. Chi ha ceduto alla religione monetarista, e chi sta per farlo, può trarre

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qualche utile spunto di riflessione dal Cile. L’esito del referendum di mercoledì prossimo dipenderà da più fattori. In primo luogo, il fatto che l’opposizione si sia presentata in un fronte unito è un risultato importante, soprattutto dopo anni di lotte tra fazioni. Anche il Partito comunista e una parte consistente del Mir sono finalmente confluiti nel sostegno al no dopo essersi inizialmente schierati per l’astensione. In secondo luogo, l’atteggiamento della chiesa cattolica sta diventando sempre più importante. Fin dalle prime fasi del governo militare, la chiesa è stata in prima linea nella lotta per la difesa dei diritti umani. Questo ha inevitabilmente causato uno scontro con il governo, che ha sempre negato l’esistenza di abusi, e ha portato il clero a essere accusato di filocomunismo. Ultimamente la chiesa ha svolto un ruolo importante nel riavvicinare i partiti di opposizione; marxisti e cattolici hanno messo da parte le differenze per unirsi nel comune rifiuto del regime militare. Un’altra questione rilevante è quella dell’effettiva adesione del governo al rispetto delle regole. Uno degli ostacoli alla nascita di un fronte unito d’opposizione consisteva nel fatto che alcuni partiti pensavano che la partecipazione a un referendum organizzato secondo la logica e le regole dettate dal governo avrebbe dato

Benny Pollack (1942–2020) è stato un giornalista e professore di scienze politiche cileno naturalizzato britannico. Dopo aver collaborato con il governo di Unidad popular, fuggì dal Cile in

seguito al golpe del 1973 e si stabilì nel Regno Unito. Nel 2000 fu nominato dal presidente socialista Ricardo Lagos ambasciatore cileno in Cina, ruolo che ricoprì fino al 2004.

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legittimità al regime. Questi dubbi, in effetti, ci sono ancora, ma la presenza di circa quattrocento giornalisti stranieri e di diverse squadre di osservatori dovrebbe fornire sufficienti garanzie. Ma forse il fattore più importante, e con una speciale dimensione psicologica, è la scomparsa della paura. Il voto consentirà a molte persone di uscire allo scoperto per esprimere il proprio dissenso come non era mai stato possibile sotto il regime militare. Questo potrebbe rivelarsi decisivo. Contro ogni previsione, oggi l’opposizione sembra avere ottime possibilità di vittoria. I tentativi dell’ultimo minuto per intimidire gli indecisi e gli insicuri hanno fatto emergere anche manovre maldestre e discutibili, come la decisione di non concedere il parco O’Higgins per una manifestazione dell’opposizione, o come l’organizzazione della più imponente parata militare degli ultimi quindici anni. Il minaccioso monito del governo, che voleva far capire a tutti di essere ancora saldamente in carica a tutti gli effetti, non è passato inosservato. D’altra parte, le parole del gruppo folk Inti-Illimani, “el pueblo, unido, jamás será vencido” (il popolo unito non sarà mai sconfitto), cantate dalle migliaia di persone che hanno accolto il complesso al ritorno dall’esilio, sono il presagio di una speranza e di una promessa. u ab

New Statesman è un settimanale britannico. È stato fondato a Londra nel 1913 da esponenti della Società Fabiana, un movimento della sinistra socialista e riformista.

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Maturità e disciplina

Con il no al referendum del 5 ottobre 1988 gli elettori negano a Pinochet un ulteriore mandato presidenziale di otto anni, restituendo pacificamente al paese la democrazia e un rinnovato senso di unità nazionale La Época, Cile, 7 ottobre 1988 Uno degli aspetti più rilevanti della recente giornata referendaria, in cui il popolo cileno ha dato il suo più ampio sostegno all’opzione del no e si è opposto alla possibilità che il generale Augusto Pinochet potesse rimanere al potere, è stata la dimostrazione di maturità e disciplina della cittadinanza e, soprattutto, dell’opposizione politica. Contrariamente a quanto era stato malignamente suggerito dal governo nella campagna elettorale, le persone che hanno votato contro Pinochet non sono terroristi o criminali. Non sono furfanti, rancorosi o cattivi politicanti che usano la violenza come argomento ultimo per raggiungere i loro obiettivi. Il comportamento tenuto dal popolo cileno non può che rendere orgoglioso tutto il paese, che è stato ingannato troppo a lungo sulle ragioni dei movimenti di protesta e sulle vere intenzioni dell’opposizione. Mettendosi alla guida dell’opposizione, lo schieramento del no ha assunto un ruolo di grande importanza. Ha ritenuto che fosse suo

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dovere istruire tutti quelli che si sono riconosciuti in questo schieramento su quali erano i passi da compiere per evitare repressioni ingiuste o una distorsione dei reali obiettivi dei dissidenti. In questo modo ha creato un rapporto fluido tra i partiti schierati a favore del no e con gli elettori. Mentre diventava evidente che quella era la direzione giusta e che le misure concordate si dimostravano efficaci, il popolo non solo ne ha compreso il senso, ma le ha rivendicate come proprie. Ne è nata una disciplina che è stata accettata senza bisogno di misure repressive o di deterrenti esterni. In questo modo si è dimostrato che se il popolo non è provocato, se lo si convince in modo intelligente e corretto, la repressione non è necessaria, anzi: il popolo partecipa con entusiasmo per capire e intraprendere le strade proposte. Quanti morti si sarebbero evitati se il governo fosse stato una vera guida e non avesse imposto il terrore per sottomettere e “far rigare dritto” i dissidenti!

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Noi cileni siamo pacifici e moderati. L’entusiasmo, la calma e l’interesse con cui le persone hanno partecipato al referendum, sopportando le distanze, i disagi e le lunghe attese sotto il sole, dimostrano quale sia la vera natura nazionale. Anche le forze armate e i carabineros devono essersi resi conto che, se non usano la violenza contro il popolo, quest’ultimo non solo esprimerà nei loro confronti il suo rispetto, ma anche la sua ammirazione e il suo affetto. La correttezza con cui la maggior parte dei militari, dei componenti della marina, dell’aeronautica e dei carabineros ha agito per mantenere l’ordine pubblico in tutto il territorio nazionale ha meritato anche il plauso dell’opposizione. È stato un promettente momento d’incontro tra cittadini e militari. Vorrà anche dire che le forze armate non saranno mai più usate in modo improprio contro la popolazione civile?

La Época è stato un quotidiano cileno indipendente, nato nell’ultima fase della dittatura per sostenere il ritorno alla democrazia e l’unità delle opposizioni.

I militari non hanno motivo di pensare che le persone più povere, solo perché tali, sono criminali, agitatori o potenziali estremisti. Non c’è nessuna ragione per guardarle con sospetto. In Cile nessuno è superfluo, ed è assurdo che qualcuno sia perseguitato perché la pensa in un determinato modo. L’atmosfera di convivenza pacifica, sobrietà e spirito civico che si è respirata mercoledì 5 ottobre è la prova che l’unità nazionale è possibile, senza la guerra fratricida che corrompe le menti e serve come terreno di coltura per l’odio. Quello che è successo il giorno del referendum è parte della migliore tradizione cilena. La calma dimostrata durante lo scrutinio dei voti riflette la serietà con cui è stato affrontato tutto il processo elettorale. E quella calma è stata la conseguenza della certezza che, se le cose andranno sempre così, non ci saranno più scontri tra cittadini cileni. u fr

Fondato nel 1987 da un gruppo di redattori della rivista Hoy e stampato fino al 1998, fu vicino al Partito democraticocristiano.

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L’esplosione degli anni novanta

DANIEL GARCIA (AFP/GETTY IMAGES)

Dopo le elezioni del dicembre 1989 e il ritorno della libertà, le ragazze e i ragazzi cileni devono riprendersi il futuro. Ritrovare la speranza, coltivare sogni e sviluppare un progetto di vita tutto loro Milena Vodanovic, Alberto Luengo e Nibaldo Fabrizio Mosciatti, Apsi, Cile, 3 gennaio 1990

Sostenitori del candidato di centrosinistra Patricio Aylwin a Santiago, 15 dicembre 1989

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Ora o mai più: è una sensazione da prendere al volo. Pensare che Pinochet stia proteggendo la democrazia, che i capitali stranieri ci mangeranno in un sol boccone o che i senatori designati dall’alto annulleranno ogni legge del parlamento è tipico (perdonateci se tocchiamo un nervo scoperto, ma è proprio per questo che lo facciamo) di quel logoro esercizio nazionale che da tempo schiaccia le nostre vite e che consiste nel pensare sempre al peggio. Prendete piuttosto una boccata d’aria fresca, di quella che soffia oggi. Confrontatela con l’aria del 1974, del 1980, del 1986, e anche con quella del 1988. Le cose sono diverse. Non c’è dubbio. Gli anni novanta stanno arrivando. E si preannunciano esplosivi. Forse il decennio non andrebbe definito come “la fine di” (utopie, ideologie, settarismi) né come un “post” (marxismo, modernismo, sinistra), ma considerato piuttosto una possibilità aperta. Quando i giri di vite del mondo e del paese si fanno sentire sul corpo e sulla pelle, significa che sta accadendo qualcosa di importante. Ed è così. È l’ora di osare. Augusto Pinochet è ormai un post: come il muro. Anche se se ne resta lì, con le sue medaglie e le sue leggi segrete. Questo decennio non gli appartiene, è chiaro: né nei fatti né nello spirito. Il paese affronta il futuro con l’ansia che si prova davanti a un regalo da scartare. I minimi riassestamenti cominciati dopo il voto del 14 dicembre alimentano il disorientamento. Così c’è chi, in questi giorni, guarda con inquietudine alla pacificazione nazionale. Pinochet progetta addirittura di prendere un tè con Aylwin alla Moneda; il sindacato Cut si riunisce con gli imprenditori, che dicono di aver sempre voluto il dialogo; quelli che ieri sostenevano con il silenzio il crimine e la tortura oggi distribuiscono pacche sulle spalle ai loro detrattori davanti alle telecamere; nei circuiti ufficiali si organizzano mostre d’arte collettive “dove saremo tutti insieme, come prima”. Appare una smorfia di disagio.

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Un “siamo tutti fratelli” risuona nell’anima collettiva, evocando la paura di una trappola nascosta, di un regolamento di conti non del tutto giusto né completo. “Siamo i figli di una famiglia divorziata che vogliono che i genitori restino a letto la domenica per mangiare biscotti tutti insieme”, dice il sociologo José Auth. La storica Sol Serrano osserva gli eventi con freddezza: “Ci sono periodi in cui stabilire nuove regole del gioco diventa l’obiettivo fondamentale di un paese. Oggi, in Cile, sembra essere questo il desiderio più profondo. E se l’immagine di Pinochet come statista è un costo da pagare per costruire quelle regole, be’, che lo si paghi”. La memoria sociale, quella emotiva, la più importante, quella che si trasmette di genitore in figlio e che plasma valori e atteggiamenti, si sta annidando nei cuori in modi nuovi. E avrà il suo peso. Tuttavia, al di là dei risentimenti, quello che abbiamo tra le mani è un presente diverso, frutto del desiderio e della scelta. Eccoci qui: con la fretta di ricostruire un nuovo campo da gioco che – come sappiamo bene – non può essere lo stesso di questi anni. Né quello del passato. Gli anni novanta hanno un’altra marcia. Il tempo dell’autonomia “Vedo un chiaro cambiamento”, dice Sol Serrano. “Per la prima volta nella storia di questo paese si apre la possibilità di una società forte e di uno stato debole”. È interessante: una situazione inedita in questa parte di mondo, dove oggi l’attore economico più dinamico è il settore privato, formato soprattutto da imprenditori locali. Allo stesso tempo, l’autoritarismo degli ultimi anni ha comportato una reazione sociale che ha dato vita a vivaci modelli di organizzazione al di fuori delle strutture ufficiali. Segno dei tempi, il Cile entra nel decennio con poche possibilità di affidarsi allo stato per realizzare i suoi progetti. Lo stato è povero, ha le mani legate ed è screditato. Questa situazione non è certo un dramma (anche

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se lo fosse non cambierebbe nulla) e cambia completamente lo scenario. È il tempo di autonomia. O, almeno, può esserlo. Alberto Urquiza, che fa parte della commissione per la tecnologia della Concertación, dice: “Un’economia aperta e competitiva genera una domanda interna di beni e servizi molto forte, in un contesto che è però caratterizzato da restrizioni finanziarie. Date queste condizioni, la nostra sfida è produrre di più con gli stessi mezzi, o anche con mezzi minori”. La parola chiave per raggiungere quest’obiettivo è il topos degli anni novanta: tecnologia. Un concetto a cui anche lo stato dovrà ricorrere per rinnovare la sua immagine. “La nostra gestione, come governo, sarà complessa: non ci affideremo più all’organizzazione gerarchica e militare che ha retto l’amministrazione pubblica negli ultimi anni”, aggiunge Urquiza. “Siamo un governo che si è posto l’obiettivo della partecipazione e che, di fatto, è frutto di una coalizione. Dovremo trovare i metodi adatti per prendere le decisioni, nel mezzo di crisi sociali e di fronte a un grande censore: il parlamento. Per farlo ci vuole innovazione”. Per tutti questi motivi, “la modernità per noi non è uno slogan. Per necessità pratiche e di sopravvivenza dobbiamo modernizzarci, e la modernità deve raggiungere tutti”. Un tema complicato: la “modernità”. Tutti quelli che di fronte alla parola tecnologia immaginano subito un intricato e futuribile miscuglio di fax, computer, satelliti e altri marchingegni, stanno forse cogliendo una parte (solo una parte) di una favola ben conosciuta. Perché l’idea di raggiungere una “modernità” che non esploda solo come un sofisticato boom, ma che abbia anche il merito di mettere in discussione diverse questioni, richiede molto di più. Il Cile avrà anche il più alto numero di computer del Sudamerica, ma il loro potenziale è davvero sfruttato appieno? Invece di cercare perfezionismi e sofisticazioni, la proposta tecnologica per la fine del millennio richiede al-

tro: cercare modi migliori e più efficienti per fare le cose. Si tratta, per esempio, di prendere coscienza del fatto che nella costruzione di una casa un materiale non vale l’altro, e che non si deve scegliere solo in base al prezzo immediato da pagare. Dobbiamo pensare (la crisi ecologica non è uno scherzo) che, in base ai materiali scelti, si potrà risparmiare energia ed evitare di ricorrere a metodi di riscaldamento inquinanti (legna o idrocarburi solidi) o costosi (elettricità). Introdurre la tecnologia in questo paese potrebbe significare progettare metodi migliori per il trattamento dei rifiuti, cercare sistemi di trasporto razionali e stringere una volta per tutte la necessaria alleanza tra imprese e università. Tecnologia potrebbe anche significare cercare nuovi metodi di gestione per eliminare l’insopportabile dicotomia manichea tra “impresa privata” e “proprietà statale”. “Perché non creare imprese di edilizia abitativa con la partecipazione dei privati e del settore pubblico, ricorrendo ai finanziamenti delle organizzazioni sovranazionali e coinvolgendo i futuri proprietari nel processo decisionale?”, azzarda Urquiza. Offrire formazione, progettare formule di finanziamento alternative, dare modo alla creatività dei professionisti locali di esprimersi, valorizzare le conoscenze artigiane, creare reti pubbliche di fax e banche dati. Tutto è possibile. Tutto si può fare. Questa è la sfida tecnologica del decennio. È lo stimolo per questi anni di rimescolamento. La Concertación è al lavoro. Un dato: il Cile investe attualmente in scienza e tecnologia un decimo dei paesi sviluppati (in rapporto al pil). Se non invertiamo la rotta, come possiamo fare il grande salto? Se negli anni novanta lo stato può essere considerato utile e benevolo (e non oppressivo o paternalistico) rispetto al resto delle strutture del paese, uno stimolo al cambiamento potrebbe contribuire a rendere ancora più dinamico il territorio. “La fine delle utopie implica un grande

Santiago, 1988. Manifesti affissi dalle famiglie dei desaparecidos. (Susan Meiselas, Magnum/Contrasto)

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scetticismo nei confronti della sfera pubblica e una grande speranza nel privato. Va benissimo così”, afferma Sol Serrano. “Chi ha vissuto gli anni sessanta si è divertito molto, ma a noi ha lasciato una situazione terribile. Gli anni settanta sono stati bui. Negli anni ottanta si è cominciato a riflettere lucidamente sulla crisi, a cui è stato dato un nome: ‘la fine delle utopie’, che è stata analizzata senza ‘il peso della notte’ [il riferimento è a un celebre romanzo del 1965 dello scrittore cileno Jorge Edwards, El peso de la noche] sopra la testa. Gli anni novanta si aprono con un invito: che la storia cessi di essere solo quella delle grandi battaglie, delle grandi cause. Bisogna recuperare l’essere umano, con le sue debolezze e i suoi trionfi. Con lo spazio per chi sta accanto”. Finalmente il Cile respira questa nuova aria in democrazia. E s’intravede una promessa: è il momento giusto perché le persone cerchino di fare quello che vogliono. Quello che vogliono davvero. Resta da vedere se ci riusciranno o no. Alla fine del decennio si dovrà fare un bilancio. Un sogno a occhi aperti Emilia Fernández ha 26 anni, un figlio di due e un marito geometra. Dice che dal 14 dicembre esce per strada e vede le cose in modo diverso: “Non so, è molto strano. Prima, e me ne rendo conto solo adesso, mi sentivo come se tutto quello che mi circondava – le piazze, le strade, gli autobus, i giornali – appartenesse a qualcun altro, come se fossi un’ospite e dovessi chiedere permesso, o assicurarmi che non mi osservassero mentre facevo qualcosa. Ora, invece, sento di avere un maggiore controllo, mi identifico di più con le strade e gli angoli della città. Mi sento in pace con ciò che mi circonda, anche se qui non è ancora cambiato nulla. Ma c’è qualcosa nell’aria”. Le piazze e le strade non sono solo una metafora. E se lo sono, va comunque bene. La città è lo spazio degli anni novanta. I confini dei paesi e i limiti geografici si confondono quan-

do le reti telematiche, i flussi commerciali, i centri di potere si costruiscono attorno ai centri urbani: New York, Tokyo, San Francisco, Silicon valley, Mosca, Parigi. Qui abbiamo Santiago, Concepción, Talca, Valparaíso, Arica. L’85 per cento dei cileni vive in città. Dice il sociologo Manuel Canales, della commissione giovani della Concertación: “La città è il primo sogno a occhi aperti di questa generazione”. Prima c’era un altro sogno: cacciare Pinochet. Ed è intorno a quel desiderio, declinato in negativo, che i giovani ventenni hanno riunito le preoccupazioni degli anni ottanta (ricordate le proteste?). Ora, senza l’archetipo del nemico, come costruire un’identità? Contro chi si ribellano i giovani in democrazia? Gli anni novanta saranno gli anni dei giovani di oggi. In questi anni i ragazzi hanno disegnato un profilo fuori dalle convenzioni. Lo stesso è successo, quasi senza volerlo, nel mondo dei quartieri più poveri. Sono ai margini. Margini in attesa (o forse ormai non più tanto) di cui la società si è abituata a sospettare. Un altro dato: ogni anno finiscono in carcere centomila giovani semplicemente perché qualcuno li ha ritenuti “sospetti”. Strani, diversi, insolitamente simili dietro le stesse scarpe da ginnastica, gli stessi gusti musicali, lo stesso videoclip e la stessa sigaretta, agli occhi degli adulti sembrano estranei, menefreghisti, privi di ideali. I ragazzi, invece, preferiscono un’altra definizione per il loro atteggiamento: “Avere la testa altrove”. Ma dove? “Questo ‘altrove’ non ha un nome. Non può averlo. Dal loro angolo lontano, i giovani sanno che la loro esistenza segue un corso parallelo a quello del resto della società, ma non per questo hanno ben chiaro dove stanno andando”, dice Canales. Ed eccoli lì: i giovani guardano. Un’immagine è ormai impressa sulla loro retina: la città. Quella che cantavano i Santiago del Nuevo Extremo all’inizio degli anni ottanta. L’aspirazione nascosta verso l’integrazione, offuscata dal freno del dubbio (“nessu-

Milena Vodanovic è una giornalista cilena. Dal 2007 al 2015 ha diretto Paula, la rivista femminile del quotidiano La Tercera.

Nibaldo Fabrizio Mosciatti è un giornalista cileno, collabora con la Cnn Chile ed è direttore della radio Bío Bío, che

Alberto Luengo è un giornalista e professore di scienze della comunicazione cileno.

negli anni settanta e ottanta si oppose al regime militare.

no voleva davvero aiutarli”, come cantavano i Prisioneros), attraversa il mondo giovanile, il più consistente della popolazione cilena. Mai nella storia del paese ci sono stati, in proporzione, così tanti ragazzi e ragazze. Quale spazio gli sarà concesso? Come risolveranno il loro desiderio di far parte di una città che non deve controllarli, ma deve riconoscerli? Come faremo a essere tutti cittadini? Sarà una buona domanda per gli anni novanta. Attenzione: “essere” cittadini, non “essere nella” città. Appropriarsi degli spazi è un’azione concreta che ha delle ripercussioni sull’anima. Noi cileni degli anni novanta, e per i giovani sarà ancora più difficile, dovremo imparare a essere cittadini. Essere cittadini comporta un modo diverso di sentire, di muoversi: con scioltezza. Significa poter esprimere senza paura ciò che si pensa, come il tassista che qualche giorno fa ha confessato a un passeggero il suo immenso desiderio di sputare contro Sergio Fernández [politico cileno, ministro del lavoro e dell’interno durante la dittatura] all’uscita dal senato (il che, sia ben chiaro, non significa che lo farà). Significa potersi baciare appassionatamente in mezzo alla strada alle tre del mattino senza che una pattuglia che passa da lì ti interrompa illuminandoti con i suoi fari del pudore. Significa che i bar e i caffè potranno chiudere tardi, che i poveri avranno spazio in tv, che le leggi saranno davvero frutto di discussione, che il sesso smetterà di essere una vergogna, che ci saranno alberi nella baraccopoli di La Bandera e in quella di Pablo de Rokha, che i cileni finalmente potranno parlare ad alta voce. Tutto succederà affinché ognuno trovi il suo posto, affinché la città si apra alla follia individuale. Lo stato dovrà fare spazio. Non ha altra scelta. Confinare qualcuno ai margini sarebbe la più grande vergogna degli anni novanta. A meno che l’esilio non sia volontario. Ma anche in quel caso… Si è parlato molto delle risorse a cui il nuovo

Apsi è stato un quindicinale cileno, tra i primi giornali d’opposizione alla dittatura. Fondato nel

1976 dal sociologo e giornalista Arturo Navarro Ceardi, fu pubblicato fino al 1995.

governo dovrà attingere per sedare la presunta esplosione delle aspettative dei settori finora trascurati, e che ora, tornata la democrazia, potrebbe travolgerci. I giovani e i poveri sono considerati come potenziali valanghe che oggi, con il venir meno dei freni militari, minacciano di sovvertire gli spazi ordinati della società per bene. Chiedono che gli sia aperta la strada. Alcuni dicono che non è questo il punto. Per Manuel Canales, “il problema non sono le aspettative, anzi: è la mancanza di aspettative. La mancanza di speranze e di desideri potrebbe portare a una pericolosa diffusione di cani sciolti, senza direzione né orientamento”. Secondo Canales, i giovani e i poveri hanno già imparato dalla storia a “stare fuori”. Un processo involontario e doloroso, naturalmente, perché dietro quel distaccato scetticismo conquistato a fatica si nasconde un enorme desiderio di credere ancora, di riprendere un’idea del futuro. I giovani degli anni ottanta vorrebbero provare l’euforia degli anni sessanta. Ma non possono. Nei prossimi anni, quindi, è necessario che la politica e la società riconquistino la fiducia dei giovani, aprendo per loro uno spazio reale. Secondo Canales bisogna ricordare che i giovani di fine secolo, come dice Ortega, “si sono trovati a dover vivere senza modelli di riferimento precostituiti”. Come stimolare i desideri dei giovani? Un’altra domanda per il decennio: saremo in grado, alla fine degli anni novanta, di avere una gioventù piena di speranze? Esteban Fuentes, studente universitario di vent’anni, descrive bene questo fermento che ha il gustoso sapore della novità: “La questione è complicata. Non sarà più possibile dare la colpa a Pinochet”. Ed è proprio questo il punto: adesso il compito spetta a tutti. Un’immagine dovrebbe rimanere nella nostra mente: anche se non ci crediamo del tutto, anche se il dubbio ci assale e ci attanaglia, gli anni novanta sono nostri. Dovremmo ripetercelo come un mantra quotidiano. Se non lo facciamo noi, chi lo farà? u fr

Il grande burattinaio

Henry Kissinger, anni settanta. (Alamy)

Il segretario di stato americano Henry Kissinger, la Cia e il presidente Richard Nixon hanno avuto un ruolo cruciale nell’organizzazione del golpe cileno. Le trame e gli obiettivi politici dell’amministrazione e dei servizi statunitensi raccontati dal giornalista e saggista Christopher Hitchens

Christopher Hitchens, The Guardian, Regno Unito, 24–25 febbraio 2001 Il 2 dicembre 1998 Michael Korda è stato intervistato davanti a una telecamera nel suo ufficio alla Simon & Schuster. Korda è uno dei grandi magnati dell’editoria newyorchese: ha pubblicato le opere degli autori più disparati, da Tennessee Williams a Richard Nixon fino a Joan Crawford. A un certo punto si è messo a parlare della cantante Cher, il cui ritratto era appeso sulla parete alle sue spalle. In quel mentre ha squillato il telefono e gli hanno detto di chiamare il “dottor” Henry Kissinger appena possibile. Da uomo di mondo, Korda sa benissimo come passare da Cher agli affari di stato. La telecamera è rimasta accesa e ha registrato la scena seguente su un nastro attualmente in mio possesso. Chiedendo alla segretaria di comporre il numero (759 7919, il numero della Kissinger associates), Korda dice senza scomporsi, e provocando l’ilarità dell’ufficio, “dovrebbe essere 1-800-Cambogia… 1-800-bombardare-Cambogia”. Dopo una pausa ben calibrata (a nessun direttore

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editoriale piace essere messo in attesa mentre è in compagnia, soprattutto se è in compagnia dei media), dice: “Henry, ciao, come stai? Il New York Times ti sta facendo tutta la pubblicità possibile, ma non quella che vorresti… Credo anche che sia molto, molto discutibile da parte dell’amministrazione dire semplicemente che sì, pubblicheranno quei documenti… No… No, assolutamente… Be’, sì. L’abbiamo fatto fino a pochissimo tempo fa, francamente, e alla fine ha avuto la meglio lui… Be’, non penso che ci siano dubbi su questo, per quanto possa essere imbarazzante… Henry, questo è veramente scandaloso… Sì… Anche la giurisdizione. Un giudice spagnolo che si rivolge a un tribunale britannico per un capo di stato cileno. Perciò è… Tra l’altro la Spagna non ha giurisdizione su quello che succede in Cile, quindi la cosa non ha nessun senso… Be’, questo probabilmente è vero… Se vuoi. Penso che sarebbe di gran lunga la cosa migliore… Esatto, sì, no, secondo me è esattamente

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quello che dovresti fare e secondo me dev’essere lungo, e deve finire con la lettera di tuo padre. Secondo me è un documento molto importante… Sì, ma secondo me la lettera è meravigliosa, e centrale per tutto il libro. Puoi farmi leggere il capitolo sul Libano nel fine settimana?”. A questo punto la conversazione si conclude con Korda che scherza sulla sua imminente colonscopia: “Una procedura davvero ripugnante”. Da questo scambio è possibile capire non poco del mondo di Henry Kissinger. La prima cosa, e la più importante, è questa: comodamente seduto nel suo ufficio alla Kissinger associates, i cui tentacoli si estendono da Belgrado a Pechino, e protetto da un numero infinito di dittature e comitati vari, Kissinger trema ancora quando sente dell’arresto di un dittatore. Dalla conversazione con Korda, per quanto ellittica, emerge chiaramente che la parola chiave è “giurisdizione”. Ma cosa ha scritto il New York Times la mattina del 2 dicembre 1998? Sulla prima pagina del giornale c’era un reportage di Tim Weiner, corrispondente per la sicurezza nazionale a Washington. Sotto il titolo Gli Stati Uniti pubblicheranno i documenti dei crimini commessi sotto Pinochet, si legge: “Entrando in una disputa politica e diplomatica che avevano cercato di evitare, oggi gli Stati Uniti hanno deciso di rendere pubblici alcuni documenti segreti sulle uccisioni e le torture commesse durante la dittatura di Augusto Pinochet in Cile. […] La decisione di pubblicare questi documenti è il primo segnale che gli Stati Uniti coopereranno nel procedimento contro il generale Pinochet. Esponenti dell’amministrazione Clinton hanno dichiarato che, in questo caso specifico, i vantaggi della trasparenza in tema di diritti umani superano i rischi per la sicurezza nazionale. Ma la decisione, nelle parole di un ex funzionario della Central Intelligence Agency (Cia) di stanza in Cile, potrebbe scoperchiare ‘un verminaio’, rivelando fino a che punto gli Stati Uniti fossero a conoscenza dei crimini

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imputati al governo Pinochet. […] Secondo alcuni documenti precedentemente declassificati, l’ex presidente Richard M. Nixon e il suo consulente per la sicurezza nazionale e segretario di stato Henry A. Kissinger hanno appoggiato il colpo di stato di destra in Cile all’inizio degli anni settanta. Tuttavia, le modalità dell’intervento degli Stati Uniti durante il golpe del 1973 e gran parte delle attività svolte dai leader e dai servizi di intelligence americani di concerto con il governo Pinochet restano ancora sotto lo scudo della sicurezza nazionale. […] Secondo gli archivi del dipartimento di giustizia, questi documenti contengono le prove di violazioni dei diritti umani e atti di terrorismo internazionale”. Bisogna riconoscere a Kissinger di aver capito quello che a molti altri in quel momento sfuggiva, e cioè che se si fosse stabilito il precedente di Pinochet, anche lui sarebbe stato in pericolo. Gli Stati Uniti pensano di essere i soli a perseguire e incriminare criminali di guerra e “terroristi internazionali”: non c’è nulla, nella loro cultura politica e giornalistica, che li faccia sospettare di offrire riparo e protezione a criminali fatti e finiti. Questo sospetto, tuttavia, trapelava (seppur indirettamente) dall’articolo di Weiner. Per questo Kissinger quel giorno ha chiamato il suo editor in merito al suo ultimo libro di memorie, all’epoca ancora in lavorazione (e poi pubblicato con il noioso e autoreferenziale titolo Years of renewal, Anni di rinnovamento). “Riparo e protezione”, tuttavia, sono eufemismi che non descrivono adeguatamente il lusso della condizione di Henry Kissinger. Il suo illustre parere è ricercato, al prezzo di 25mila dollari ad apparizione, da platee di imprenditori, accademici e politici. La sua ampollosa rubrica viene pubblicata in tutti i giornali su licenza del Los Angeles Times. Il primo volume delle sue memorie è stato in parte scritto e curato da Harold Evans, che insieme a Tina Brown è tra i numerosi ospiti – uomini e donne – che anelano a far parte della cerchia

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WHITE HOUSE/CNP/GETTY IMAGES

Washington, 16 settembre 1972. Il presidente statunitense Richard Nixon con Henry Kissinger sociale di Kissinger, come dicono i cronisti che raccontano le soirées newyorchesi. […] “Quella che abbiamo di fronte è una scrittura di primissimo ordine”, scrive il giornalista Norman Podhoretz in un supino encomio al secondo volume della memorie di Kissinger, Anni di crisi. “Una scrittura che è a suo agio tanto nella ritrattistica quanto nell’analisi astratta; che sa dare forma a un racconto con la stessa abilità con cui sa dipingere una scena; che può raggiungere livelli mirabili di sintesi pur muovendosi con passo ampio e leggero. È una scrittura che riesce a passare senza sforzo e con un tono naturale dalla gravitas che si confà a un libro su grandi eventi storici all’umorismo e all’ironia imposti da un senso indefettibile delle caratteristiche umane”. Un simile leccapiedi, come ha detto una volta uno dei miei mentori morali, non dovrà mai preoccuparsi di cenare da solo. Né dovrà preoccuparsene l’oggetto delle sue lusinghe. Solo che, di tanto in tanto, il destinatario (e dispensato-

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re) di tutta questa piaggeria avverte un fremito d’ansia. Abbandona la tavola imbandita e corre al bagno. Forse una nuova rivelazione su un nastro di Nixon appena pubblicato? Notizie dall’Indonesia che preannunciano la caduta o l’arresto di un altro protetto (e forse la fuga di qualche documento imbarazzante)? L’incriminazione di un torturatore o di un assassino? La scadenza del vincolo di segretezza su oscuri documenti di governo in un paese lontano? Una qualunque di queste notizie può rovinargli la giornata. Come si vede dal filmato di Korda, Kissinger non può aprire il giornale del mattino e rimanere tranquillo. Perché sa quello che gli altri possono solo sospettare. Sa. Ed è prigioniero della conoscenza come, in una certa misura, lo siamo noi. […] In una sua celebre manifestazione di disprezzo per la democrazia, Kissinger una volta ha osservato: “Non vedo il motivo per cui a un paese debba essere permesso di diventare marxista solo perché ha un popolo irresponsa-

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bile”. Il paese in questione era il Cile, che al tempo del commento di Kissinger era considerato, a ragione, la democrazia pluralista più evoluta nell’emisfero meridionale delle Americhe. Negli anni della guerra fredda, quel pluralismo si era tradotto in un elettorato che votava per un terzo i conservatori, per un terzo i socialisti o i comunisti e per un terzo i democristiani. Questa situazione rendeva relativamente facile escludere i marxisti dall’alternanza di governo, e dal 1962 la Cia – come aveva fatto in Italia e in altri paesi – si era sostanzialmente accontentata di finanziare gli elementi considerati più affidabili. Nel settembre 1970, però, il candidato della sinistra aveva conquistato la maggioranza relativa del 36,2 per cento alle elezioni presidenziali. Le divisioni della destra e l’apparentamento dei piccoli partiti radicali e cristiani con la sinistra rendevano praticamente scontato che il parlamento cileno, dopo i tradizionali 60 giorni di interregno, confermasse il dottor Salvador Allende come nuovo presidente. Il nome di Allende, tuttavia, era anatema per l’estrema destra cilena, per alcune grandi aziende che operavano in Cile e negli Stati Uniti (in particolare la Itt, la Pepsi-Cola e la Chase Manhattan bank) e per la Cia. Questa profonda avversione fu subito palesata al presidente Nixon. Nixon era personalmente legato a Donald Kendall, il presidente della Pepsi-Cola, che era stato il suo primo grande cliente quando, da giovane avvocato, era entrato nello studio legale di John Mitchell a New York. Una serie di riunioni che si svolsero a Washington nel giro di undici giorni dalla vittoria di Allende alle elezioni segnarono di fatto il destino della democrazia cilena. Dopo aver discusso con le parti interessate e con il direttore della Cia, Richard Helms, Kissinger fu ricevuto insieme a Helms nell’ufficio ovale. Come dimostrano gli appunti di Helms, Nixon espose senza tanti giri di parole i suoi desiderata. Allende non doveva entrare in carica. “Niente rischi. Nessun coinvolgimento

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dell’ambasciata. Dieci milioni di dollari disponibili, di più se necessario. Un lavoro a tempo pieno, con i migliori uomini che abbiamo… Fate urlare di dolore l’economia. Avete 48 ore per il piano d’azione”. Come dimostrano alcuni documenti declassificati, Kissinger – che prima di allora non si era mai interessato al Cile – non si fece sfuggire l’opportunità di impressionare il suo capo. A Langley, in Virginia, fu creato un gruppo con il preciso scopo di gestire una politica “a due binari” per il Cile: da un lato la via apparentemente diplomatica; dall’altro – all’insaputa sia del dipartimento di stato sia dell’ambasciatore statunitense in Cile, Edward Korry – una strategia di destabilizzazione, rapimenti e assassinii volta a provocare un golpe militare. C’erano ostacoli a lungo e a breve termine per l’incubazione di un intervento militare, soprattutto nel limitato intervallo di tempo prima del giuramento e dell’entrata in carica di Allende. L’ostacolo a lungo termine era il tradizionale atteggiamento delle forze armate cilene, restie a farsi coinvolgere nella politica, cosa che differenziava il Cile dai paesi vicini. Una cultura militare di quel tipo non poteva essere smantellata da un giorno all’altro. L’ostacolo a breve termine, invece, era rappresentato da una persona, il generale René Schneider. Capo dello stato maggiore cileno, Schneider era categoricamente contrario a qualsiasi interferenza militare nel processo elettorale. Perciò, in una riunione del 18 settembre 1970, fu deciso che il generale Schneider doveva essere tolto di mezzo. Il piano era di farlo rapire da alcuni ufficiali estremisti di sinistra, in modo da far sembrare che dietro il complotto ci fossero elementi favorevoli ad Allende. La confusione causata dal rapimento – si auspicava – avrebbe gettato il parlamento cileno nel panico, spingendolo a non ratificare la nomina di Allende. Una somma di cinquantamila dollari fu messa a disposizione nella speranza di trovare qualche militare pronto ad assumere l’incarico. Richard

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Helms e il direttore delle operazioni sotto copertura della Cia, Thomas Karamessines, dissero a Kissinger che non erano ottimisti. I circoli militari erano indecisi e divisi, oppure fedeli al generale Schneider e alla costituzione cilena. Come racconta Helms in una successiva ricostruzione del colloquio, “cercammo di far capire a Kissinger quanto fosse ridotta la possibilità di un successo”. Kissinger disse di procedere in ogni caso. A questo punto facciamo una pausa per ricapitolare. Un funzionario non eletto negli Stati Uniti s’incontra con altri funzionari non eletti, all’insaputa e senza l’autorizzazione del congresso, per organizzare il rapimento di un alto ufficiale ligio alla costituzione di un paese democratico con cui gli Stati Uniti non sono in guerra e mantengono cordiali relazioni diplomatiche. Le minute delle riunioni hanno un’aria ufficiale (anche se sono state tenute a lungo nascoste), ma quello che descrivono è tecnicamente un atto di terrorismo di stato. Testimonianze e memorandum In una testimonianza, l’ambasciatore Korry ha raccontato di aver dato istruzioni allo staff della sua ambasciata di non intrattenere rapporti di nessun tipo con un gruppo denominato Patria y libertad, un’organizzazione parafascista che puntava a sovvertire i risultati delle elezioni. Inviò anche tre telegrammi a Washington per invitare i suoi superiori a fare lo stesso. A sua insaputa, però, i suoi collaboratori militari erano stati incaricati di contattare proprio quel gruppo. E quando il presidente cileno uscente, il democristiano Eduardo Frei, annunciò di essere contrario a qualsiasi intervento degli Stati Uniti e che avrebbe votato per confermare Allende, regolarmente eletto, fu proprio a quei banditi che si rivolse Kissinger. Il 15 ottobre 1970 Kissinger fu messo al corrente del fatto che c’era un ufficiale di estrema destra, il generale Roberto Viaux, con contatti in Patria y libertad e pronto a togliere di mezzo il generale Schneider. All’epoca, come

spesso avviene anche oggi, si usava il termine “rapimento”. Il gruppo del “secondo binario” della politica di Kissinger in Cile, tuttavia, autorizzò l’invio di mitragliatrici e lacrimogeni a Viaux e soci, e a quanto pare non gli chiese mai cosa avrebbero fatto del generale dopo averlo rapito. Ma lasciamo che la storia la raccontino i documenti. In un telegramma della Cia inviato da Santiago al gruppo del “binario due” di Kissinger in data 18 ottobre 1970 si legge (con i nomi oscurati per motivi “di sicurezza” e le identità di copertura scritte a mano – e qui riportate tra parentesi – dal sempre efficiente servizio di redazione): “1. (Cooptato dalla stazione) si è incontrato clandestinamente la sera del 17 ottobre con (due ufficiali delle forze armate cilene) che gli hanno detto che i loro piani stavano procedendo meglio del previsto. Hanno chiesto (al cooptato) di predisporre per la sera del 18 ottobre la fornitura di otto-dieci bombe lacrimogene. Entro 48 ore necessitano di tre mitragliatori calibro 45 con 500 colpi l’uno. (Un ufficiale) ha commentato di essere in possesso di tre mitragliatori che però possono essere identificati dal numero di serie, poiché gli sono stati dati in dotazione, e quindi impossibili da usare. 2. (Ufficiali) hanno detto che devono muoversi perché credono di essere sospettati e sotto osservazione dei sostenitori di Allende. (Un ufficiale) è arrivato tardi alla riunione dopo aver fatto una manovra evasiva per eludere la possibile sorveglianza di uno o due taxi muniti di doppia antenna che ritiene siano stati utilizzati contro di lui. 3. (Cooptato) ha chiesto se (ufficiali) avevano contatti nell’aviazione militare. Hanno risposto che non ne hanno, ma ne gradirebbero uno. Da allora (cooptato) ha provato separatamente a contattare (un generale dell’aviazione militare cilena) e continuerà a provare finché sarà così stabilito. Inviterà (generale dell’aviazione militare) a incontrare (altri due

Una vignetta satirica tedesca sul Cile, 1973. (Ernst Volland/Mondadori Portfolio)

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ufficiali) il più presto possibile. (Cooptato) ha commentato con la stazione che (generale dell’aviazione militare) non ha provato a contattarlo da allora. 4. Commento (del cooptato): non sa chi sia il leader di questo movimento ma sospetta fortemente sia l’ammiraglio (cancellato). Dalle azioni (del suo contatto) e dai presunti sospetti di Allende a tale riguardo sembra che se non agiscono adesso sono perduti. La sera del 18 ottobre proverà a ricavare da loro altre informazioni sugli appoggi che pensano di avere. 5. Stazione prevede di affidare sei bombe lacrimogene, in consegna il 18 ottobre a mezzogiorno tramite corriere speciale, a (cooptato) per consegna a (ufficiali delle forze armate), anziché farle consegnare da (ufficiale sotto falsa bandiera) al gruppo Viaux. Il nostro ragionamento è che (cooptato) tratti con ufficiali in servizio attivo. Inoltre (ufficiale sotto falsa bandiera) è in partenza la sera del 18 ottobre e non sarà sostituito ma (cooptato) rimarrà in loco. Dunque è importante che la credibilità (del cooptato) con (ufficiali delle forze armate) sia rafforzata dalla tempestiva consegna di ciò che richiedono. Si richiede approvazione del quartier generale per le 15 ora locale del 18 ottobre su decisione consegna lacrimogeni a (cooptato) tramite (ufficiale sotto falsa bandiera). 6. Si richiede rapido invio tre mitragliatori sterili [sanitazed, cioé senza matricola, di origine irrintracciabile] calibro 45 e munizioni di cui al paragrafo 1, tramite corriere speciale se necessario. Si prega confermare entro 20 ora locale del 18 ottobre se possibile in modo che (cooptato) possa informare i suoi contatti di conseguenza. La risposta, con oggetto “Santiago immediato - Solo Occhi (cancellato)” porta la data 18 ottobre e recita: “Pistole mitragliatrici e munizioni inviate tramite corriere regolare (cancellato) da Washington ore 7 19 ottobre arrivo previsto San-

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tiago tarda serata 20 ottobre o prima mattinata 21 ottobre. Preferito utilizzo corriere regolare (cancellato) per evitare attirare attenzione indebita su operazione”. In un messaggio di accompagnamento, sempre indirizzato a “Santiago 562” si legge: “1. A seconda di come procede conversazione (del cooptato) il 18 ottobre si consiglia inviare rapporto di informazione (cancellato) in modo da poter decidere se va diffuso. 2. Nuovo soggetto. Se (cooptato) progetta di guidare golpe, o essere attivamente e pubblicamente coinvolto, non capiamo perché dovrebbe importargli se mitragliatori possono essere collegati a lui. Possiamo formulare giustificazione razionale del perché fucili devono essere sterili? Continueremo a fare sforzi per fornirli, ma dovremmo pensare che la nostra credulità sia messa in dubbio da (ufficiale) della marina che comanda le sue truppe con fucili sterili? Qual è lo scopo specifico di questi fucili? Proveremo a inviarli sia nel caso che forniate spiegazioni sia in caso contrario”. La bellezza di questo scambio di telegrammi non può essere apprezzata in pieno senza la lettura di un altro messaggio, datato 16 ottobre (va tenuto a mente che il congresso cileno si sarebbe riunito il 24 ottobre per confermare Salvador Allende alla presidenza). “1. Politica, obiettivi e azioni di (cancellato/ nome in codice scritto a mano Trickturn) sono stati ricevuti ad alto livello del Gsu (governo degli Stati Uniti) pomeriggio 15 ottobre. Seguono conclusioni, che dovranno essere vostra guida operativa. 2. È decisione ferma e definitiva che Allende sia rovesciato da un colpo di stato. Sarebbe preferibile che ciò accadesse prima del 24 ottobre ma sforzi in questo senso continueranno risoluti oltre questa data. Dobbiamo continuare a generare massima pressione verso questo obiettivo usando ogni risorsa adeguata. È necessario che queste azioni siano imple-

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mentate clandestinamente e in sicurezza in modo tale che la mano del Gsu e americana sia ben nascosta. Se ciò ci obbliga a un alto livello di selettività nel creare contatti militari e impone che questi contatti siano creati nella maniera più sicura, assolutamente non preclude contatti come quelli di cui riportato in Santiago 544, che è stato un lavoro magistrale. 3. Dopo la più attenta considerazione è stato determinato che un tentativo di golpe Viaux condotto da lui solo con le forze oggi a sua disposizione fallirebbe. Dunque, sarebbe controproducente per i nostri obiettivi (cancellato; inserto scritto a mano “binario due”). È stato deciso che (cancellato; inserto scritto a mano “Cia”) invii un messaggio a Viaux diffidandolo da azione precipitosa. In sostanza il nostro messaggio è: ‘Abbiamo ricevuto i vostri piani, e sulla base delle vostre e le nostre informazioni, la nostra conclusione è che in questo momento i vostri piani per un golpe non possono avere successo. In caso di fallimento, potrebbero ridurre le vostre possibilità per il futuro. Preservate le vostre risorse. Resteremo in contatto. Arriverà il momento in cui voi insieme a tutti i vostri altri amici potrete fare qualcosa. Continuerete ad avere il nostro appoggio’. Si richiede di recapitare il messaggio a Viaux come riportato sopra. I nostri obiettivi sono i seguenti: (A) metterlo al corrente della nostra opinione e scoraggiarlo dall’agire da solo; (B) continuare a incoraggiarlo ad ampliare i suoi piani; (C) incoraggiarlo a unire le forze con altri golpisti in modo che possano agire di concerto prima o dopo il 24 ottobre. (N.B. Sei maschere antigas e sei bombole di gas lacrimogeno sono in arrivo a Santiago tramite corriere speciale - ora stimata di consegna ore 11 16 ottobre). 4. C’è grande e continuo interesse per le attività di Tirado, Canales, Valenzuela et al. e auguriamo loro la migliore fortuna. 5. Quella sopra indicata è la nostra guida operativa. Nessuna altra indicazione di condotta che doveste ricevere da (indecifrabile: stato?)

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o dal suo massimo esponente a Santiago, al suo ritorno, dovranno distogliervi dalla vostra rotta. 6. Pregasi rivedere tutte le vostre attuali ed eventuali nuove attività includendo propaganda, operazioni in nero, emersione di intelligence o disinformazione, contatti personali o qualsiasi cosa l’immaginazione vi suggerisca per permettervi di perseguire il nostro obiettivo [cancellato] in maniera sicura”. Infine, è essenziale leggere il “memorandum di conversazione” della Casa Bianca datato 15 ottobre 1970, al quale il telegramma di cui sopra si riferisce direttamente e di cui è un riassunto più onesto. I presenti alla riunione “ad alto livello del Gsu” sono, come indicato nell’intestazione, “Dr. Kissinger, Mr. Karamessines, Gen. Haig”. Il primo paragrafo delle loro deliberazioni è completamente oscurato, senza nemmeno al margine uno scarabocchio del servizio di redazione (alla luce di ciò che è stato ammesso successivamente, sarebbe sicuramente interessante leggere queste venti righe). Saltando al paragrafo due, troviamo quanto segue: “2. Quindi Karamessines ha fornito un resoconto su Viaux, l’incontro di Canales con Tirado, la nuova posizione di quest’ultimo (dopo che Porta è stato sollevato dal comando ‘per motivi di salute’) e, nel dettaglio, sulla situazione in Cile dal punto di vista di un possibile colpo di stato. 3. Una certa quantità di informazioni ci è disponibile riguardo al presunto appoggio di cui gode Viaux nelle forze armate cilene. Abbiamo valutato attentamente le dichiarazioni di Viaux, basando la nostra analisi su dati affidabili di intelligence provenienti da varie fonti. La nostra conclusione è stata chiara: Viaux non aveva più di una possibilità su 20 – forse meno – di condurre al successo un colpo di stato. 4. Si è discusso delle spiacevoli ripercussioni di un colpo di stato fallito, in Cile e a livello internazionale. Il dottor Kissinger ha spuntato la lista di queste eventualità nega-

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tive. I suoi punti erano sorprendentemente simili a quelli elencati da Karamessines. 5. Si è deciso tra i presenti che l’agenzia faccia recapitare un messaggio a Viaux, scoraggiandolo dall’intraprendere qualunque azione precipitosa. In sostanza il nostro messaggio è: ‘Abbiamo ricevuto i vostri piani, e sulla base delle vostre e le nostre informazioni, la nostra conclusione è che in questo momento i vostri piani per un colpo di stato non possono avere successo. In caso di fallimento, potrebbero ridurre le vostre possibilità per il futuro. Preservate le vostre risorse. Resteremo in contatto. Arriverà il momento in cui voi insieme ai vostri altri amici potrete fare qualcosa. Continuerete ad avere il nostro appoggio’. 6. Dopo la decisione di disinnescare il piano di colpo di stato di Viaux, almeno temporaneamente, il dottor Kissinger ha richiesto a Karamessines di preservare le risorse dell’agenzia in Cile e di lavorare clandestinamente e in sicurezza per mantenere intatte le possibilità di operazioni dell’agenzia contro Allende in futuro. 7. Il dottor Kissinger ha espresso il desiderio che le nostre parole di incoraggiamento all’esercito cileno nelle ultime settimane siano tenute il più possibile nascoste. Mr. Karamessines ha detto enfaticamente che stavamo facendo tutto il possibile a riguardo, compreso l’utilizzo di ufficiali sotto falsa bandiera, incontri in auto e ogni precauzione immaginabile. Ma recentemente noi e altri abbiamo avuto moltissimi colloqui con una serie di persone. Per esempio, le discussioni ad ampio raggio dell’ambasciatore Korry con numerose persone che sollecitavano un golpe ‘non possono essere rimesse nella bottiglia’. La riunione si conclude con la raccomandazione di Kissinger che l’agenzia seguiti a fare pressione su Allende: ora, dopo il 24 ottobre, dopo il 5 novembre e in futuro, finché non saranno dati nuovi ordini operativi. Karamessines risponde che l’agenzia seguirà le indicazioni date.

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Dunque, la strategia del “binario due” prevedeva a sua volta altri due binari. Il primo era il gruppo di estremisti guidato dal generale Viaux e dal suo braccio destro, il capitano Arturo Marshall. Nel 1969 i due avevano già provato a rovesciare con un golpe il governo democristiano; in seguito erano stati destituiti e nel corpo degli ufficiali erano malvisti anche dai conservatori. Il secondo era una fazione apparentemente più rispettabile, guidata dal generale Camilo Valenzuela, capo della guarnigione della capitale, il cui nome ricorre nei dispacci sopracitati e la cui identità è nascosta dalle cancellazioni. Diversi agenti della Cia in Cile ritenevano che Viaux fosse una scheggia impazzita e che non fosse affidabile. Anche i ripetuti avvertimenti dell’ambasciatore Korry avevano avuto il loro effetto. Come dimostra il memorandum del 15 ottobre, Kissinger e Karamessines avevano avuto un ripensamento dell’ultimo minuto su Viaux, che appena due giorni prima, il 13 ottobre, aveva ricevuto ventimila dollari in contanti dalla stazione della Cia e la promessa di una polizza sulla vita di 250mila dollari. L’offerta era stata autorizzata direttamente dalla Casa Bianca. Tuttavia, a pochi giorni dall’entrata in carica di Allende, e mentre Nixon ripeteva che era “assolutamente essenziale impedire l’elezione di Allende alla presidenza”, la pressione sul gruppo di Valenzuela si era fatta sempre più forte. Come diretta conseguenza, specialmente dopo le calorose parole di incoraggiamento ricevute, anche il generale Viaux si era sentito in obbligo di dimostrare di essere all’altezza della situazione e di smentire chi aveva dubitato di lui. La sera del 19 ottobre 1970, il gruppo Valenzuela, con l’aiuto di pezzi della banda Viaux e delle bombe lacrimogene consegnate dalla Cia, tentò di rapire il generale Schneider dopo una cena ufficiale. Il tentativo fallì perché il generale si allontanò su un’auto privata e non su un veicolo ufficiale, come previsto. Dopo il fallimento, dal quartier generale della

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BETTMANN/GETTY IMAGES

Cile, 1976. Augusto Pinochet dà il benvenuto a Henry Kissinger Cia partì un telegramma particolarmente importante diretto alla stazione locale dell’agenzia, in cui si chiedeva un’azione urgente perché “la mattina del 20 ottobre il quartier generale dovrà rispondere a domande dai livelli più alti”. Fu autorizzato il pagamento di cinquantamila dollari ciascuno per il generale Viaux e il suo collaboratore affinché facessero un altro tentativo. Il tentativo ci fu, il 20 ottobre, ma fu un altro fallimento. Il 22 ottobre, le mitragliatrici “sterili” di cui abbiamo detto sopra furono trasferite al gruppo di Valenzuela per un ulteriore tentativo. Qualche ora dopo la banda del generale Viaux uccise il generale Schneider. Secondo la successiva sentenza dei tribunali militari cileni, a quest’atrocità parteciparono elementi di entrambi i binari del binario due. In altre parole, Valenzuela non fu personalmente presente sulla scena, ma nel plotone

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di esecuzione, guidato da Viaux, c’erano uomini che avevano partecipato ai due tentativi precedenti. Viaux fu arrestato con l’accusa di rapimento e cospirazione per provocare un colpo di stato. Valenzuela fu arrestato con l’accusa di cospirazione per provocare un colpo di stato. Qualsiasi tentativo di distinguere le due trame è un’operazione inutile a impossibile. Poco importa che Schneider sia stato ucciso per un rapimento andato male (gli assassini dissero che aveva avuto l’ardire di resistere) o che il suo assassinio sia stato il vero obiettivo fin dall’inizio. Il rapporto della polizia militare cilena parla semplicemente di un omicidio. Secondo la legge di ogni paese in cui vige lo stato di diritto (compresi gli Stati Uniti), il fatto che un omicidio si commetta durante un rapimento costituisce un’aggravante, non un’attenuante. Non è possibile dire, davanti a un ca-

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davere, “Stavo solo cercando di rapirlo”. Quantomeno non se si spera di invocare le attenuanti. Eppure, una di queste “circostanze attenuanti” è diventata la sottilissima foglia di fico con cui Kissinger da allora tenta di difendersi dall’accusa di essere stato complice di un rapimento e di un omicidio. Questa pietosa foglia di fico ha trovato accoglienza perfino in documenti scritti, ufficiali. Nella sua inchiesta sulla vicenda la commissione intelligence del senato statunitense ha concluso che, poiché le mitragliatrici fornite a Valenzuela non erano state usate nella sparatoria e visto che il generale Viaux era stato ufficialmente diffidato dalla Cia pochi giorni prima dell’omicidio, non c’erano “prove di un piano per uccidere Schneider o che le autorità degli Stati Uniti potessero prevedere nello specifico che Schneider sarebbe stato colpito da un’arma da fuoco durante il sequestro”. Walter Isaacson, uno dei biografi di Kissinger, prende per buono un memorandum che Kissinger invia a Nixon dopo il suo incontro con Karamessines del 15 ottobre, in cui riferisce al presidente di aver “disattivato” il piano Viaux. E prende per buona anche l’affermazione secondo la quale l’azione di Viaux non era stata autorizzata. Queste scuse e giustificazioni sono tanto fragili da un punto di vista logico quanto moralmente esecrabili. Henry Kissinger è direttamente responsabile dell’omicidio di Schneider, come dimostrano i seguenti punti. 1. Brian MacMaster, uno degli agenti “sotto falsa bandiera” citati nello scambio di telegrammi precedente – un uomo in carriera della Cia che aveva un passaporto colombiano contraffatto e diceva di rappresentare gli interessi economici americani in Cile – ha raccontato dei suoi tentativi di “comprare il silenzio” di elementi in carcere del gruppo Viaux, dopo l’assassinio e prima che potessero coinvolgere l’agenzia.

2. Il colonnello Paul M. Wimert, funzionario militare a Santiago e principale contatto della Cia con il gruppo Valenzuela, ha testimoniato che dopo l’assassinio di Schneider ritirò in tutta fretta i due pagamenti di cinquantamila dollari che erano stati fatti a Valenzuela e al suo collaboratore, insieme ai tre mitragliatori “sterili”. Quindi partì in auto per la località balneare cilena di Viña del Mar e gettò i mitra nell’oceano. Il suo complice nell’azione, il capo della stazione della Cia Henry Hecksher, pochi giorni prima aveva rassicurato Washington che o Viaux o Valenzuela sarebbero riusciti a eliminare Schneider e quindi a dare il via a un colpo di stato. 3. Soffermiamoci sul memorandum Casa Bianca/Kissinger del 15 ottobre e sul modo pedissequamente letterale con cui è stato ritrasmesso in Cile. Non si può certo dire che il contenuto “disattivi” Viaux, in nessuna accezione possibile del termine. Se mai, incita il generale – un noto e vanaglorioso fanatico – a raddoppiare gli sforzi. “Preservate le vostre risorse. Resteremo in contatto. Arriverà il momento in cui voi insieme ai vostri altri amici potrete fare qualcosa. Continuerete ad avere il nostro appoggio”. Non esattamente le parole più adatte per farlo desistere. Il resto del memorandum parla apertamente dell’intenzione di “scoraggiarlo dall’agire da solo”, di “continuare a incoraggiarlo ad ampliare i suoi piani” e di “incoraggiarlo a unire le forze con altri golpisti in modo da poter agire di concerto prima o dopo il 24 ottobre”. Le ultime tre disposizioni sono una descrizione molto precisa, per non dire premonitrice, di ciò che poi Viaux ha fatto. 4. Torniamo sul telegramma ricevuto da Henry Hecksher il 20 ott0bre, che fa riferimento alle domande preoccupate “degli alti livelli” dopo il primo dei due attentati falliti a Schneider. Thomas Karamessines, interrogato a proposito di questo telegramma dalla commissione intelligence del senato, ha detto di essere certo che le parole “alti livelli” si riferissero direttamente a Kissinger. In tutte le preceden-

Davanti all’obitorio di Santiago nei giorni successivi al golpe, settembre 1973. (Horacio Villalobos, Corbis/Getty Images)

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ti comunicazioni da Washington, come dimostra un rapido sguardo a quanto riportato sopra, è sempre stato così. Già questo basterebbe a smontare la dichiarazione di Kissinger di aver “disattivato” il binario due (e i suoi binari interni) il 15 ottobre. 5. Successivamente, l’ambasciatore Korry ha fatto notare – se mai ce ne fosse bisogno – che Kissinger stava cercando di costruirsi un alibi nell’eventualità di un fallimento del gruppo Viaux. “Quello che gli interessava non era il Cile, ma chi sarebbe stato incolpato e di cosa. Voleva che io mi prendessi la colpa. Henry non voleva essere associato a un fallimento, e stava preparando un dossier per far ricadere la responsabilità sul dipartimento di stato. Mi portò dal presidente perché voleva che dicessi quello che avevo da dire su Viaux; voleva che passassi per un debole”. Nel 1970 il concetto di “negazione dell’evidenza” non era ancora ben compreso a Washington come lo è oggi. È chiaro, però, che Henry Kissinger voleva simultaneamente due cose. Voleva la rimozione del generale Schneider, con qualsiasi mezzo e attraverso qualsiasi intermediario (da Washington non è mai arrivata alcuna disposizione di lasciare Schneider illeso, sono state invece consegnate armi letali a un gruppo di uomini selezionati); e voleva essere fuori dai giochi nel caso in cui il tentativo fosse fallito o fosse stato scoperto. Kissinger, tuttavia, era più interessato al compimento di quel crimine che a costruire un espediente per la negazione dell’evidenza. Senza aspettare la declassificazione o la citazione in giudizio delle sue carte nascoste, possiamo dire con certezza che è colpevole prima facie di collusione diretta nell’omicidio di un ufficiale di un paese democratico e pacifico. L’operazione Condor L’operazione Condor è stata una macchinazione internazionale all’insegna dell’omicidio, del sequestro, della tortura e dell’intimi-

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dazione, coordinata tra le polizie segrete del Cile di Pinochet, del Paraguay di Stroessner [Alfredo, 1912–2006, presidente e dittatore del Paraguay dal 1954 al 1989], dell’Argentina di Videla [Jorge Rafael, 1925–2013, ufficiale e politico argentino, dittatore dell’Argentina durante il regime militare dal 1976 al 1981] e di altri caudillos regionali. Sappiamo oggi che è stata responsabile – per citare solo le vittime più salienti – dell’omicidio del generale dissidente cileno Carlos Prats (e di sua moglie), dell’assassinio del generale boliviano Juan José Torres e del ferimento del senatore democristiano Bernardo Leighton, in Italia. La complicità del governo degli Stati Uniti è stata riscontrata a ogni livello di questa rete. È stato accertato, per esempio, che l’Fbi ha aiutato Pinochet a catturare lo studente e attivista Jorge Isaac Fuentes Alarcón, prima detenuto e torturato in Paraguay, poi consegnato alla polizia segreta cilena e infine “scomparso”. L’intelligence statunitense ha delegato a esponenti della rete Condor la sorveglianza di dissidenti latinoamericani rifugiati negli Stati Uniti. Questi e altri fatti sono stati accertati grazie al lavoro delle commissioni per la verità e la riconciliazione istituite dalle forze politiche salite al potere dopo le dittature nei paesi dell’emisfero meridionale delle Americhe. Stroessner è stato rovesciato, Videla è in carcere, e in Cile Pinochet e i suoi sgherri stanno per essere incriminati, o lo sono già stati. Gli Stati Uniti, finora, non hanno ritenuto opportuno istituire una commissione del genere. Tutti i reati appena ricordati, e molti altri ancora, sono stati commessi sotto la “vigilanza” di Kissinger quando era segretario di stato. Ed erano tutti punibili – e lo sono ancora – ai sensi del diritto nazionale o internazionale, o di entrambi. È difficile sostenere, come fa egli stesso o chi lo difende, che Kissinger sia stato indifferente, o perfino inconsapevole, rispetto alla situazione. Nel 1999 è stato declassificato un

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memorandum segreto che fornisce i dettagli agghiaccianti di una conversazione tra Kissinger e Pinochet a Santiago del Cile l’8 giugno 1976. L’incontro avviene il giorno prima del discorso di Kissinger all’Organizzazione degli stati americani (Oas). Il tema sono i diritti umani. Kissinger, in difficoltà, spiega a Pinochet che le parole che dirà all’Oas sull’argomento non sono assolutamente da prendere sul serio. Il mio amico Peter Kornbluh si è preso la briga di confrontare questo “Memcon” (memorandum di conversazione) con la ricostruzione dell’incontro fatta dallo stesso Kissinger nel terzo volume della sua autobiografia, Years of renewal. “Una notevole quantità di tempo, nel mio colloquio con Pinochet, è stata dedicata ai diritti umani che erano, infatti, il principale ostacolo alle strette relazioni tra Stati Uniti e Cile”, si legge nel libro. “Descrissi i punti principali del discorso che avrei tenuto all’Oas il giorno successivo. Pinochet non fece commenti”. “Tratterò dei diritti umani in termini generali e dei diritti umani in un contesto mondiale”, è scritto invece nel memorandum. “In due paragrafi farò riferimento al rapporto della commissione per i diritti umani dell’Oas sul Cile. Dirò che la questione dei diritti umani ha pregiudicato le relazioni tra Stati Uniti e Cile. Questo è in parte il risultato delle azioni del congresso. Aggiungerò che spero che lei rimuoverà rapidamente questi ostacoli… Non posso fare di meno senza scatenare una reazione negli Stati Uniti che porterebbe a restrizioni legislative. Il discorso non è rivolto al Cile. Volevo parlargliene. La mia valutazione è che lei sia vittima dei gruppi di sinistra internazionali e che il suo peccato più grande sia stato quello di rovesciare un governo che stava diventando comunista”. Di nuovo Years of renewal: “Da segretario di stato, sentivo di avere la responsabilità di

Christopher Hitchens (1949–2011) è stato un giornalista, scrittore e saggista britannico naturalizzato statunitense. È stato tra gli intellettuali più

brillanti della sua generazione, e si è sempre distinto per l’indipendenza di giudizio e lo spirito polemico. Il brano qui riportato fa parte del

spingere il governo cileno nella direzione di una maggiore democrazia tramite una politica di comprensione per le preoccupazioni di Pinochet… Pinochet mi ricordò che ‘la Russia appoggia i suoi popoli al 100 per cento. Noi vi seguiamo. Voi siete i leader. Eppure avete un sistema punitivo per i vostri amici’. Tornai al mio tema di fondo, e cioè che qualsiasi aiuto rilevante da parte nostra era legato ai progressi fatti sul tema dei diritti umani”. Ancora il memorandum: “C’è del vero in quello che dice. È un momento curioso negli Stati Uniti… È spiacevole. Abbiamo avuto il Vietnam e il Watergate. Dobbiamo aspettare fino alle elezioni (del 1976). Abbiamo accolto con favore il rovesciamento del governo filocomunista. Non abbiamo intenzione di indebolire la nostra posizione”. In modo alquanto sgradevole, Pinochet cita due volte il nome di Orlando Letelier, il leader dell’opposizione cilena in esilio, accusandolo di ingannare il congresso degli Stati Uniti. Per tutta risposta, Kissinger si scusa a nome del congresso e invita il dittatore a sperare in giorni migliori, in seguito alle imminenti elezioni. Tre mesi dopo, Letelier viene ucciso da un’autobomba a Washington; è l’unico attentato di questo tipo mai commesso nella capitale del paese da agenti di un regime straniero. Il responsabile, l’ufficiale della polizia segreta Manuel Contreras, ha sempre testimoniato di non aver mai preso iniziative senza l’ordine diretto di Pinochet. Invitando un assassino e un despota a considerare le sue parole come una concessione fatta per opportunismo al congresso, Kissinger ha insultato entrambi i paesi. E, alla luce del ritorno della democrazia in Cile e della decisione dei tribunali cileni di cercare la verità e la giustizia, ha offeso la dignità di un popolo che ha già patito molto di più dei suoi insulti verbali. u fas

libro Processo a Kissinger (Fazi 2005). The Guardian, conosciuto come The Manchester Guardian fino al 1959, è un

quotidiano britannico. Fondato a Manchester nel 1821, dal 1961 ha sede a Londra.

Morte di un simbolo

RODRIGO GOMEZ ROVIRA (AGENCE V U/KARMAPRESS)

La scomparsa di Pinochet segna la fine di un’epoca. Liberati dalla sua ingombrante presenza i cileni potranno completare la transizione alla democrazia e progettare una diversa identità collettiva Carlos Franz, El País, Spagna, 13 dicembre 2006

Ritratto di Pinochet nella scuola militare di Santiago, 11 dicembre 2006

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Poche ore fa Pinochet ha ricevuto gli ultimi onori alla scuola militare di Santiago. Un cavallo ha sfilato senza cavaliere, sono state pronunciate orazioni marziali e sono stati sparati colpi a salve non meno retorici. Ma nella camera ardente, sorvegliata da una guardia di cadetti con i loro elmetti prussiani, non si piangeva solo il cadavere di un soldato già mezzo marcio in vita. Quegli onori erano resi anche – e forse per questo sembravano così appropriati – a un’icona pop contemporanea. Mi è capitato di capirlo in posti inaspettati, a Bucarest e a Fez, per esempio, quando ho dovuto scandire a chiare lettere “Cile, Sudamerica” per far capire da quale luogo remoto provenissi. A quel punto c’era sempre un tassista particolarmente accorto o un lettore di giornali che riusciva a decifrarmi ed esclamava: “Ah, Cile: Pinochet!”. E lo dicevano come per farmi una cortesia, felici di dimostrarmi che sapevano qualcosa del mio paese. Pinochet godeva di questa fama mondiale (di un tipo che nessun altro cileno raggiungerà mai, spero). Con i suoi occhiali scuri e il suo mantello da vampiro, il capitano generale (titolo che aveva usurpato ai governatori del periodo coloniale) si era guadagnato il dubbio onore di incarnare uno dei “cattivi” più riconoscibili dell’incultura politica mondiale. Come ci è riuscito, questo mediocre militare che, da tiranno, non è stato peggiore di tanti suoi colleghi latinoamericani? Le spiegazioni sono diverse. Quella che mi pare sia stata meno raccontata ha a che fare con la notevole capacità di semplificazione e caricatura del soggetto. Semplificare e rappresentare in modo farsesco Pinochet era facile perché lui stesso era un grande caricaturista della realtà (un talento non da poco nella politica di oggi, strettamente legata all’immagine). Erano poche le semplificazioni, retoriche o pratiche, che Pinochet giudicava indegne di sé. Analogamente, erano poche le semplificazioni troppo grottesche per essere affibbiate a quel militare di provincia. La sua mediocrità

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genuinamente piccolo-borghese produceva luoghi comuni e allo stesso tempo ne attirava sempre di nuovi. Ancora più importante per il “successo pop” di questa icona del male contemporaneo era il fatto che i cliché, suoi e di altri, spingevano il generale fino alle lacrime o alla rabbia (spesso entrambe le cose). In privato, e contrariamente al luogo comune che lo dipingeva come un mostro di freddezza, credo che Pinochet fosse soprattutto un sentimentale. In assenza di una vera ideologia, Pinochet aveva promosso un’estetica basata sul sentimentalismo. Nulla di troppo originale. Come in altre dittature, l’estetica del regime cileno consisteva nel rimpiazzare, quando possibile, la ragione con l’emozione. Per farlo Pinochet non solo manipolava il sentimentalismo popolare dividendo il mondo in buoni e cattivi – fu il creatore ante litteram del concetto di asse del male – ma praticava anche il più primitivo e proficuo dei sentimentalismi: alimentava passioni rabbiose per offuscare la ragione. Parte del successo di un semplificatore consiste nell’essere semplificato. Da buon stratega militare, Pinochet era riuscito, a forza di luoghi comuni, ad attirare i suoi nemici sul suo stesso terreno: quello delle banalizzazioni che generano confusione. Facciamo un esempio. Un sabato di qualche anno fa, il prestigioso quotidiano inglese The Guardian – il mio giornale quando vivevo a Londra – mi fece lo sfregio di pubblicare una foto di Salvador Allende facendolo passare per Augusto Pinochet. “The great dictator. Pinochet”, recitava la didascalia errata. E sopra c’era Allende, che quel giorno aveva avuto la cattiva idea di indossare degli occhiali scuri. Il valore simbolico di questo malinteso, di questo “con-fondere” gli opposti a forza di rimaneggiamenti e caricature, è un chiarissimo esempio dei rischi che comporta una politica sequestrata dalla pubblicità. Soprattutto quando quest’ultima gioca impunemente a trasformare i protagonisti del dramma di un paese piccolo e lontano in icone pop. Queste trasfor-

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mazioni hanno sicuramente contribuito a rendere incomprensibile per alcuni il rifiuto del governo cileno di consentire l’estradizione di Pinochet in Spagna dopo il suo arresto a Londra. Dietro alle solide argomentazioni legali, c’era una specie di tristezza: preferiamo il nostro mostro alla vostra caricatura. A parte questo, niente di grave. Le incomprensioni dei nostri osservatori esterni sarebbero divertenti, se non fosse che hanno reso ancora più difficile un processo interno fondamentale per la transizione cilena: la ricostruzione della nostra memoria storica. Rispetto ad altre transizioni politiche, il Cile ha affrontato la sua storia con rapidità e obiettività notevoli. Questa elaborazione della nostra memoria (per quanto incompleta e frammentaria, ma quale memoria non lo è?) ha già portato risultati benefici. È stato uno dei nostri pochi “antidoti culturali” contro il materialismo dilagante, prodotto dal successo economico; e anche contro una certa vertigine di grandezza politica, che spesso è la sua conseguenza. Tuttavia, in questa elaborazione di una memoria storica, ci sono state poco utili sia la persona di Pinochet sia l’icona globale del male politico in cui il generale si era trasformato. Da queste due figure non potevamo aspettarci nessun gesto onorevole e nemmeno un’argomentazione interessante. Nei suoi ultimi anni di vita, l’ex dittatore aveva perfino avuto la straordinaria opportunità di poter affrontare personalmente i procedimenti penali a suo carico. Se lo avesse fatto sarebbe potuto diventare, in extremis, lo statista che diceva di essere, trasformando quei processi in verdetti pubblici e storici sulla sua amministrazione, ma soprattutto sulle sue motivazioni. Aveva invece preferito nascondersi dietro un’altra delle maschere dell’icona: quella del pazzo. Non festeggio la morte di Pinochet. Lo trovo di cattivo gusto (anche se capisco l’euforia malinconica di chi gli è sopravvissuto). Ciò che mi entusiasma è la possibilità che ora, dopo aver cremato il grottesco personaggio che era

Carlos Franz è uno scrittore cileno naturalizzato spagnolo. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è Il deserto (e/o 2008)

diventato, sia più facile per noi ritrovarci in una memoria meno emotiva e più oggettiva. Per dare spessore etico alla nostra attuale prosperità e stabilità politica, dovremo approfondirne le origini traumatiche, fino a scrivere una storia inclusiva in cui ci sia spazio per i chiaroscuri. Non solo per le ombre reciproche, ma anche per quelle luci che abbiamo ereditato da Pinochet e che, invece di spegnere, oggi usiamo per illuminarci in questo tratto di strada. E dato che quella versione sentimentale e manichea della nostra storia era la preferita di Pinochet, la nostra migliore vittoria su di lui sarebbe quella di confutarla scrivendo insieme una storia meno semplicistica. In Cile, in questo senso, si è fatto più di quanto si possa pensare. Ma la caricatura della nostra transizione e, al suo interno, quella di Pinochet, non ci hanno permesso di capirlo con chiarezza. Per esempio, in quella stessa scuola militare dove oggi si svolgono i pacchiani funerali del tiranno, due anni fa si era svolta una cerimonia molto diversa. In quell’occasione, nell’aula magna dell’istituto, davanti a un migliaio di cadetti e ufficiali in uniforme, alcuni tra i più importanti poeti cileni avevano recitato i loro versi. Le poesie che molti di loro, imprigionati e torturati, avevano composto per protesta durante la dittatura. Quella sera tutta la scuola militare aveva ascoltato, in un silenzio marziale, la voce cruda della poesia che denunciava i danni fatti dalla dittatura. Quel silenzio dei giovani cadetti, quasi bambini in uniforme, mentre nelle loro orecchie cadevano i versi in cui i corpi dei desaparecidos cadevano in mare e nei crateri dei vulcani cileni… Quel silenzio poetico inquietante, complesso… Quel silenzio così poco “pop”, che auspicabilmente comincerà a farsi sentire un po’ di più, dentro e fuori il Cile, quando si spegneranno gli echi della retorica di questi ridicoli funerali… Solo così, ora che il dittatore è morto, l’icona in cui l’avevamo trasformato smetterà di gridare, inosservata nella nostra confusione, i suoi slogan semplicistici. u fr

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La speranza di un cambiamento

GUILLERMO SALGADO (AFP/GETTY IMAGES)

Nel dicembre 2021 il candidato di sinistra Gabriel Boric conquista la presidenza del Cile, recuperando alcune parole d’ordine di Unidad popular. Di fronte ha un compito difficilissimo: avviare una nuova fase di sviluppo attraverso il dialogo e la concertazione Juan Pablo Luna, Nueva Sociedad, Argentina, dicembre 2021

Gabriel Boric a Talcahuano, Cile, 5 dicembre 2021

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L’elezione di Gabriel Boric alla presidenza del Cile è arrivata dopo sedici anni di alternanza tra Michelle Bachelet e Sebastián Piñera, il cui operato al governo ha finito per delegittimare le due coalizioni che hanno dominato la transizione cilena: Concertación (centrosinistra) e Alianza por Chile (centrodestra). Entrambe si sono trovate, per la prima volta dal ritorno della democrazia, senza un candidato al ballottaggio delle presidenziali del 19 dicembre 2021. Paradossalmente, il voto che ha messo fuori gioco le due alleanze si è giocato sulla contrapposizione tra “pinochetismo” e “comunismo” e ha fatto rivivere la vecchia spaccatura del referendum del 1988. Il sostegno a Boric può essere inteso come un rifiuto del passato pinochetista, oggi incarnato dal candidato di destra José Antonio Kast, ma anche come una scommessa sul futuro. Ed è da questa stessa prospettiva che va osservata la vittoria dell’opzione “apruebo” (approvo) nel referendum del 2020, con cui i cileni si sono espressi a favore della convocazione di una Convención constituyente incaricata di scrivere una nuova costituzione. Apruebo dignidad, la coalizione tra l’alleanza di sinistra Frente amplio, il Partito comunista e altre forze minori, oggi possiede tre vantaggi rispetto alle sgangherate forze politiche tradizionali. Per prima cosa, è in grande sintonia con il clima attuale, femminista, ecologista, giovane e più attento all’uguaglianza. In secondo luogo, nonostante le difficoltà nei rapporti con i movimenti sociali e con i gruppi di estrema sinistra, il Frente amplio è riuscito a presentare Boric come legittimo interprete della richiesta di trasformazioni sociali che siano al tempo stesso profonde e graduali. E in terzo luogo, Apruebo dignidad possiede un enorme capitale di leader giovani ma già d’esperienza, in grado di consolidare il processo di cambiamento nelle prossime elezioni (Camila Vallejo, Izkia Siches, Karol Cariola, Giorgio Jackson e altre figure al livello locale e nella Convención constituyente). La coalizione

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rivale non possiede un paragonabile capitale politico. Anche la sincronia tra tempo sociale e tempo biologico gioca a favore della sinistra. In campagna elettorale, Boric ha esibito una serie di caratteristiche personali che, per quanto autentiche, erano sconosciute alla maggior parte della popolazione. Al di là della sua giovane età, non ha nulla a che vedere con i leader narcisisti e messianici tipici dei nostri anni. Boric sembra sinceramente capace di mettere in dubbio le sue certezze, di chiedere scusa, di dialogare con tutti. È anche consapevole che la sua sorte dipenderà dalla capacità di convincere chi oggi lo teme. Forse solo intuitivamente, ma comunque grazie a questa personalità, Boric ha mostrato che è possibile dialogare e negoziare anche senza rinunciare ai propri princìpi o all’impegno verso i cambiamenti attesi dalla maggioranza dei cittadini. In un clima sociale in cui predominano visioni moralizzanti della politica e dei suoi protagonisti, anche questa è una capacità inusuale. Il netto contrasto tra la sua leadership e quella del presidente uscente Sebastián Piñera gli garantisce, almeno per adesso, popolarità e sostegno. Nonostante queste potenzialità, per Boric governare sarà difficilissimo. E questo non per la “radicalità” delle richieste dei cittadini, come afferma una destra disorientata (le persone sanno bene che i cambiamenti non saranno immediati, ma l’élite sembra non capire che in politica l’elemento simbolico conta quanto, se non più, di quello materiale), bensì per altre caratteristiche di Apruebo dignidad e del contesto che il governo dovrà affrontare. Le paure della destra Al di là dei suoi punti di forza, in termini di struttura politica l’alleanza di sinistra ha i tipici problemi che esistono in un sistema di partiti privo di radici. Con qualche eccezione, le sue leadership si presentano più forti sul piano teorico che su quello concreto e non hanno la capacità di strutturare e canalizzare gli inte-

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ressi e i conflitti che oggi attraversano la società cilena. Anche se possono portare a risultati molto netti, come quello che abbiamo appena visto in Cile, le leadership di questo tipo sono per definizione evanescenti. Tanto più che, nel caso cileno, una parte non trascurabile dei voti ha espresso più una contestazione nei confronti di Kast che un’adesione al programma di Boric. Inoltre, Apruebo dignidad arriva a La Moneda con un’evidente carenza di dirigenti per l’azione di governo, e dovrà quindi ricorrere a quadri presi in prestito o a indipendenti con competenze particolari ma privi di esperienza politica. In termini economici, quantomeno durante il primo anno di governo, il paese si troverà ad affrontare una frenata della crescita e un’inflazione in aumento, con la fine degli aiuti sociali per l’emergenza da covid-19, oltre che una difficile situazione fiscale. In termini politici, le elezioni legislative hanno aggravato la frammentazione in parlamento, con un ricambio di deputati senza precedenti e una situazione di sostanziale parità tra i due blocchi in senato. Non ci sono maggioranze certe per nessuno dei progetti simbolo presentati da Boric in campagna elettorale. Non sarà facile realizzare le riforme proposte. La costruzione del patto sociale indispensabile per avanzare verso un modello di sviluppo che combini crescita, sostenibilità ambientale e diritti sociali rappresenta una minaccia per gruppi di interesse tanto potenti quanto miopi. Gli imprenditori cileni, i loro mezzi d’informazione e i loro think tank più influenti sembrano vedere solo due scenari: o si mantiene il modello attuale oppure il Cile diventa come Cuba, il Venezuela o la Corea del Nord. Anche se dopo le proteste sociali del 2019 il settore imprenditoriale aveva fatto una blanda autocritica e dato qualche segnale di apertura, la posizione assunta durante la campagna elettorale ha dimostrato che, davanti alla prima sfida, il suo tropismo è tale da offuscare

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ogni razionalità. Il candidato che agli occhi degli imprenditori stranieri e dei mezzi d’informazione internazionali era una figura di estrema destra – Kast – per gran parte dei cileni era un’ancora di salvezza contro la “minaccia comunista”. Sostegno e strategia L’intransigenza della classe imprenditoriale cilena fa capire che, in un sistema senza bussola economica e senza certezze istituzionali (al di là della costituzione ancora in vigore, i protagonisti e le istituzioni della transizione oggi sono inefficaci), il centrodestra cerca d’imporre nuovamente il modello “con le buone o con le cattive”. Caratterizzata da questa miopia, la classe imprenditoriale cilena non ha, tuttavia, un contrappeso nella società in termini di potere strutturale e strumentale. I sindacati sono decimati, mentre le comunità locali e la società civile sono ancora deboli e frammentate. Al di là della loro precaria incarnazione nella Convención constituyente e nel sostegno oggi dato a Boric, dalle proteste e dalle piazze, i sindacati non hanno né struttura né portavoci legittimi e nemmeno legami solidi con i partiti. In questo, Pinochet è più vivo dei suoi eredi. Anche la questione dell’ordine pubblico – al centro delle preoccupazioni dei cittadini – è estremamente complessa. Qui si devono affrontare tre enormi sfide, in parte ereditate da un governo che, negli ultimi due anni e per via della sua negligenza, ha accentuato ogni problematica: il conflitto nell’Araucanía [regione del nord del Cile abitata dai nativi mapuche e spesso teatro di proteste e disordini antigovernativi per i diritti sulle terre d’origine], l’aumento del crimine organizzato, l’illegalità crescente e la necessità di conciliare il diritto alla protesta con l’ordine pubblico. In questi tre settori, la capacità di coordinare ed esercitare il controllo civile sulle forze dell’ordine è fondamentale quanto la riforma delle forze di polizia, colpite non solo da accuse di violazio-

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CRISTOBAL OLIVARES (BLOOMBERG/GETTY IMAGES) MATIAS DELACROIX (AP/LAPRESSE)

Santiago, 16 dicembre 2021. Il comizio di chiusura della campagna elettorale di Boric

Santiago, 16 dicembre 2021. Sostenitori di Boric

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ne dei diritti umani, ma anche da scandali di corruzione. La capacità di ricostruire l’ordine pubblico dipende anche dalla capacità di articolare con successo una riforma che limiti l’autonomia delle forze dell’ordine, dalle quali dipende la soluzione o meno dei problemi che angosciano la popolazione. Come combattere con successo contro i poteri costituiti? Come salvare il processo di cambiamento avviato dalle proteste del 2019? Come ridurre la possibilità che Boric diventi “il presidente che consegna il potere all’estrema destra”? E come aumentare la possibilità che possa invece guidare la transizione verso un nuovo Cile? Per quanto possa dispiacere, la presidenza Boric va considerata come un’amministrazione transitoria più che come un governo di trasformazione. L’obiettivo del primo anno di governo dev’essere il successo del processo costituente che richiede due condizioni: garantire l’autonomia della Convención e sostenere il suo lavoro. L’autonomia è necessaria perché la costituzione non può essere solo quella di Apruebo dignidad e dei suoi stretti collaboratori, ma deve rappresentare un’ampia maggioranza dei cittadini. La Convención constituyente dev’essere slegata dal potere costituito. Il sostegno istituzionale è però imprescindibile affinché riesca a raggiungere il suo obiettivo, che implica anche l’organizzazione di un referendum. Boric deve inoltre evitare che il voto del 2022 si trasformi in un plebiscito sul nuovo governo o sulla figura presidenziale. Di solito si dice che il governo deve avviare in fretta, durante la luna di miele con gli elettori, le riforme principali del suo programma. Non è – temo – ciò che conviene a Boric. Se la sua popolarità crollasse rapidamente nel tentativo di far approvare riforme che spaventano i cosiddetti poteri costituiti, è probabile che il dibattito costituente finisca distorto e messo a rischio (è evidente che i gruppi di potere possono contare su risorse più che sufficienti per

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favorire tale scenario). Il pericolo che questo accada sarà ancora maggiore nel contesto di recessione e stagnazione economica atteso per il 2022. Anche se avrà successo, il processo costituente è un fattore necessario ma non sufficiente per risolvere i problemi del Cile. Ecco perché il presidente deve concentrarsi, fin dal primo giorno, sull’avvio di un ampio programma di negoziati e accordi sociali attorno a un nuovo modello di sviluppo in grado di gettare le basi per una crescita economica compatibile con i diritti che saranno sanciti dalla nuova costituzione. Prima di cominciare a promuovere riforme settoriali, il governo di Boric deve preparare il terreno per un’ampia intesa sociale su un nuovo modello di sviluppo per il paese. In altre parole, più che inviare al parlamento progetti di legge relativi a specifiche decisioni politiche (su tasse, salute, educazione, pensioni, politiche assistenziali), occorre far sedere attorno al tavolo persone che non sono abituate a negoziare ma a imporre unilateralmente le proprie condizioni. E bisognerà aiutare altri soggetti a trovare gli strumenti per far sentire la loro voce. Nel corso del primo anno, e durante la discussione del nuovo testo costituzionale, la negoziazione di un nuovo modello non deve avvenire in sede parlamentare o in modo settoriale, ma attraverso una concertazione sociale che coinvolga un ampio gruppo di attori e di interessi. Le insolite caratteristiche della leadership di Boric rendono possibile una svolta del genere. Oltre a stabilire i parametri di un nuovo modello di sviluppo, forse un diverso patto sociale può contribuire a ricostruire la fiducia necessaria per un negoziato più solido e a largo raggio. Il governo guidato da Boric deve capire fin da subito il peso che hanno l’amministrazione e le politiche pubbliche. Quando consultiamo i cittadini circa le loro richieste in merito alla Convención constituyente, di solito quelli che si trovano in posizioni socialmente più preca-

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rie fanno riferimento a problemi che riguardano la vita quotidiana. Tali problemi sono legati alle mancanze delle politiche pubbliche, soprattutto in tema di scuole, sanità, problemi locali, presenza dello stato al livello territoriale. Sul breve periodo, mitigare una buona parte di questi problemi richiede l’istituzione di meccanismi di articolazione, coordinamento e implementazione delle decisioni politiche, piuttosto che riforme legali o costituzionali. Dunque, con una buona amministrazione si può fare molto per risolvere i problemi delle persone. Il Frente amplio e i suoi partiti hanno di fronte una sfida immensa. Quando le forze politiche arrivano al governo, di solito trascurano il rapporto con i cittadini per dedicarsi a governare. Il Frente amplio non solo deve contribuire all’azione del proprio governo, ma i suoi partiti devono costruire un rapporto che non hanno mai avuto con vasti settori della cittadinanza cilena. Solo attraverso questa articolazione politica si potrà istituzionalizzare la fragile e timida adesione ottenuta con il voto del 19 dicembre. La continuità del progetto dipende da questo. Infine, il destino del governo dipenderà

Juan Pablo Luna è un professore di scienze politiche cileno. Insegna alla Pontificia universidad católica de Chile di Santiago.

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Nueva Sociedad è una rivista bimestrale di scienze sociali latinoamericana, su posizioni di sinistra, nata da un progetto della

anche da ciò che si troverà davanti. La destra dovrà gestire una dura sconfitta. Ricostruire la credibilità di un progetto conservatore impegnato per la democrazia è fondamentale, non solo per la destra stessa, ma anche per la stabilità istituzionale. Oggi, però, mancano i leader in grado di compiere questa transizione. Chi sarà in grado di fare autocritica e capire che è necessario partecipare in modo costruttivo alla nascita di un nuovo Cile, potrà diventare il punto di riferimento di una nuova destra democratica. Il governo di Boric ha l’occasione di rendere possibile questo scenario, aprendo la trattativa con le fazioni costruttive dell’opposizione. Tutto questo, inoltre, faciliterà anche la nascita di maggioranze parlamentari sui più rilevanti progetti legislativi. L’alternativa, per la destra, è fare un’opposizione senza concessioni, puntando a usurare il governo. Questa potrebbe anche essere la strategia di Kast. E potrebbe finire per diventare una strategia di successo alle prossime elezioni. Se Kast, o un altro candidato equivalente, raggiungerà l’obiettivo, vorrà dire che il Cile ha perso l’occasione, dopo tanto tempo, di prendere la via dello sviluppo e rafforzare la sua democrazia. u sc

fondazione tedesca Friedrich Ebert. È pubblicata dal 1972 e al momento ha sede a Buenos Aires, in Argentina.

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L’eterna battaglia per la memoria Il modo in cui i cileni interpretano i traumi del passato determina la loro identità e definisce il futuro che vogliono costruire. Per questo è importante ricordare quello che è stato il sistema di Pinochet Ariel Dorfman, El País, Spagna, 16 febbraio 2023 Ogni mattina all’alba, durante la mia passeggiata quotidiana ai piedi delle Ande, passo davanti all’aerodromo di Tobalaba, una struttura che accoglie una gran varietà di aerei privati. Per la maggior parte dei residenti di La Reina, il quartiere di Santiago dove io e mia moglie abbiamo una casa, questo è uno spazio aperto e piacevole in una città congestionata, una garanzia che nessun grattacielo offuscherà l’orizzonte. Nell’anno in cui ricorre il cinquantesimo anniversario del colpo di stato contro il governo democraticamente eletto di Salvador Allende, nella mia memoria quell’aeroporto genera sentimenti meno positivi. Da lì, poche settimane dopo l’insurrezione militare dell’11 settembre 1973, decollò un enorme elicottero Puma, stipato di ufficiali dell’esercito cileno con una missione che gli era stata affidata dal generale Augusto Pinochet: assicurarsi che fossero giustiziati i sostenitori di Allende a cui erano già state inflitte lievi pene dai tribunali militari locali nel sud e

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nel nord del paese. Tra i 97 prigionieri politici uccisi da quella che fu poi chiamata la “carovana della morte” c’era un mio amico, un giovane comunista di nome Carlos Berger. Carlos e io eravamo stati colleghi alla casa editrice statale Quimantú, che pubblicava riviste popolari e milioni di libri a prezzi bassissimi. Lo ricordo bello, serio e a tratti anche scherzoso, ma soprattutto ricordo il suo intenso impegno per la rivoluzione pacifica che Allende aveva avviato dopo aver vinto le elezioni presidenziali nel 1970. L’ultima volta che c’incontrammo, Carlos mi disse, con un’emozione traboccante, che sua moglie, Carmen Hertz, aveva dato alla luce un figlio, Germán, che sarebbe cresciuto – aggiunse – in un paese senza sfruttamento e senza ingiustizie. Carlos stesso stava lasciando Santiago per andare a dirigere una stazione radio a Calama, conosciuta come la capitale mineraria del Cile. Non poteva sapere che questo trasferimento nel nord del paese avrebbe significato,

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all’età di trent’anni, la sua condanna a morte. Pur non avendo opposto alcuna resistenza violenta al colpo di stato, Carlos era stato condannato a settanta giorni di prigione, pena che poi era stata commutata in multa. Stava per essere rilasciato quando la carovana della morte arrivò con quell’elicottero Puma e una missione letale: il 19 ottobre Carlos e altri 25 prigionieri politici furono incappucciati e caricati su un camion che si perse nelle lande desolate del deserto di Atacama, dove furono sventrati a colpi di coltello prima di essere fucilati. I cadaveri mutilati furono sepolti sotto la sabbia anonima del deserto più arido del mondo. Anni dopo, questa tragedia avrebbe fatto nuove vittime. I genitori di Carlos, Julio e Dora, finirono per suicidarsi. Per quanto riguarda i resti di Carlos, per celebrare un simulacro di funerale la vedova Carmen ha dovuto attendere fino al 2014, quando i medici forensi hanno stabilito che alcuni piccoli frammenti umani trovati in una duna appartenevano al marito scomparso. L’anno scorso Carmen, che è una deputata e una nota attivista per i diritti umani, ha presentato una proposta di legge per finanziare la costruzione di un memoriale davanti all’ingresso dell’aerodromo e ricordare così le violazioni dei diritti umani avvenute in quel luogo. Ma l’aerodromo non fu solo il luogo da cui partì la carovana della morte. Altri elicotteri Puma furono usati in momenti successivi per disfarsi di prigionieri politici morti sotto tortura e poi gettati in mare. I militari legavano i morti a pezzi di binari ferroviari, in modo che affondassero nell’oceano Pacifico e i loro cadaveri non potessero più essere usati per accusare gli assassini. Un modo crudele ed efficace per farli rimanere eternamente “scomparsi”. Ed è per questo che il monumento, austero e imponente, metterà in mostra davanti all’aerodromo una fila di binari innalzati che gridano al cielo contro i voli della morte. La legge, già passata al vaglio della camera dei

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deputati (con 88 voti favorevoli, 49 contrari e 15 astensioni, ricordiamo questi numeri), non è ancora stata approvata dal senato. Un modo in più per ricordare quello che è successo e che non deve più succedere. Non tutti, però, sono soddisfatti del memoriale. Un gruppo di residenti di La Reina ha lanciato una campagna per impedirne la costruzione. Temono che il sito diventi un punto di conflitto e di disordini. Sui social media c’è chi dice che il monumento incoraggerà la violenza, che le folle verranno a dipingere graffiti sui muri, a costruire barricate, a saccheggiare i negozi. Anche se non ci sono mai stati episodi di violenza davanti ai numerosi monumenti ai diritti umani sparsi per il paese, questo non ha scoraggiato chi suggerisce che sarebbe meglio spostare il memoriale in un’altra zona della città. Occhio non vede, cuore non duole? Deplorevoli eccessi Non varrebbe neanche la pena di parlare delle proteste in corso in questo isolato quartiere cileno se non fossero rappresentative di qualcosa di più profondo. Questo tentativo di far insorgere i cittadini contro un monumento alle vittime della dittatura è un’ulteriore scaramuccia nella più ampia e prolungata battaglia nazionale per la memoria, che si è intensificata con l’avvicinarsi del cinquantenario del golpe. La domanda a cui i cileni dovranno inevitabilmente rispondere nel corso di quest’anno è: come vogliamo ricordare quel giorno di settembre del 1973, quando il palazzo presidenziale fu bombardato e Salvador Allende morì insieme alla democrazia che difendeva? Ci sono due risposte possibili a questa domanda. Il governo del presidente Gabriel Boric, un carismatico trentasettenne ex leader studentesco e fervente ammiratore di Allende, sta organizzando una serie di iniziative e commemorazioni che culmineranno proprio l’11 settembre. L’accento sarà posto sulla memoria e

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FONDO GENEVIEVE JACQUES/COLECCIÓN MUSEO DE LA MEMORIA Y LOS DERECHOS HUMANOS

Ariel Dorfman è uno scrittore e saggista argentino, naturalizzato statunitense. Nato nel 1942 a Buenos Aires, nel 1954 si è trasferito con la famiglia in Cile. Tra il 1970 e il 1973 è stato consulente per la cultura del presidente Allende.

Dopo il golpe ha lasciato Santiago e ha vissuto ad Amsterdam e Parigi prima di stabilirsi a Washington, negli Stati Uniti. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è I fantasmi di Darwin (Clichy 2019).

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L’immagine che accompagna l’articolo raffigura un’arpillera, un’opera ricamata su tela grezza. Negli anni settanta le donne cilene hanno usato questo mezzo espressivo per protestare contro la dittatura di Pinochet.

Nell’esemplare riprodotto sono rappresentati dei detenuti politici. L’opera fa parte della collezione del Museo della memoria e dei diritti umani di Santiago.

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sulla difesa dei diritti umani come strada per garantire un futuro in cui ogni dittatura sia inconcepibile, soprattutto per le nuove generazioni, che non hanno vissuto l’incubo senza fine del terrore subìto dai loro genitori. La chiave, quindi, è educare i giovani, sempre più scettici sul fatto che la democrazia possa rispondere alle loro ansie e frustrazioni. La posta in gioco è alta. Come molti altri paesi del mondo, il Cile è in crisi. La criminalità dilagante, le ondate di immigrati, l’insicurezza economica, la siccità e gli incendi boschivi, la polarizzazione politica, l’odio ormai quasi palpabile: tutto questo è terreno fertile per l’ascesa del populismo autoritario, alimentato dalla nostalgia per i tempi in cui un uomo forte governava il Cile e nelle strade regnava l’ordine. Per vaccinarsi contro le nuove forme di tirannia non basta ricordare le atrocità del passato, quei binari che ancora ci opprimono, è altrettanto necessario incoraggiare nuovamente la fede popolare nell’idea che un Cile diverso e migliore è possibile, il sogno alimentato dalla rivoluzione pacifica e democratica di Allende. Per Boric – il cui governo deve ancora riprendersi dalla clamorosa sconfitta al referendum del 2022 sull’approvazione di una nuova costituzione progressista – è anche un modo per cambiare la narrazione e riprendere l’iniziativa, ricordando alla gente quanti politici e uomini d’affari troppo ricchi che si definiscono democratici hanno beneficiato dei diciassette anni di dittatura di Pinochet, quanti erano e restano suoi complici. Ricordare le radici di Pinochet – il peccato originale, si potrebbe dire – non piace alla destra, che si oppone ferocemente alla sinistra di Boric. I suoi leader preferiscono che il cinquantesimo anniversario sia un’occasione per lasciarsi il passato alle spalle: un atteggiamento negazionista la cui persistenza e ostinazione è confermata da quel 42 per cento di deputati che ha scelto di non approvare il me-

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moriale dell’aerodromo. Se si vuole onorare il passato, dicono, bisogna tenere a mente il trauma, gli errori e il disordine degli anni di Allende, e ricordare come il desiderio di una società socialista abbia portato a divisioni insormontabili che hanno costretto le forze armate ad agire. Certo, continuano, gli “eccessi” (l’assassinio di Carlos Berger?) sono deplorevoli, ma il Cile deve imparare ancora una volta la lezione fondamentale del golpe: se ci ostiniamo a chiedere troppi cambiamenti, il risultato sarà disastroso. E virulento. Boric deve stare attento a non cercare riforme troppo radicali. Queste due visioni si scontreranno nel corso di quest’anno, come hanno fatto negli ultimi cinquant’anni. Come succede nel resto del mondo, il modo in cui il Cile interpreta i traumi del passato determinerà la sua identità più profonda, il tipo di futuro che la popolazione immagina per i suoi figli. Non posso prevedere come il mio paese uscirà da questa ricerca di un’unità sfuggente, di un consenso diffuso su chi siamo veramente. Spero che in questo processo i morti non siano assenti. Spero che i cileni possano sentire la voce di Carlos Berger che chiede, dalla notte buia che abita, di essere ricordato. E spero che quel ricordo gentile e feroce serva a creare un mondo in cui nessun bambino cresca senza padre, com’è successo a Germán, nessun padre e nessuna madre muoiano di dolore e disperazione, come Julio e Dora, e nessuna vedova debba ricordare il compagno attraverso un monumento, come Carmen. Sarebbe il miglior riconoscimento e il miglior lascito di Carlos e di tanti altri fratelli e sorelle la cui vita è stata stroncata dopo il colpo di stato: che la loro memoria sia uno stimolo a unirci e non a dividerci, che si possa essere in grado, come nazione, di sconfiggere la paura, l’odio e la cecità che ci impediscono di rendere giustizia ai vivi e ai morti. u fr

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Le ultime ore di Allende

Carlos Reyes e Rodrigo Elgueta Lo sceneggiatore Carlos Reyes e l’illustratore Rodrigo Elgueta, entrambi cileni, ricostruiscono in queste pagine le ore che hanno preceduto la morte del presidente della repubblica Salvador Allende, asserragliato nel palazzo della Moneda, l’11 settembre del 1973. Secondo la versione ufficiale il presidente si sarebbe ucciso sparandosi con un fucile automatico AK-47 che gli aveva donato Fidel Castro, l’unica arma che avrebbe mai usato in vita sua. Queste tavole sono un estratto dalla graphic novel Gli anni di Allende (Edicola edizioni 2016) che, alternando documenti storici e inserti più narrativi, descrive il drammatico naufragio del sogno democratico di Salvador Allende, attraverso lo sguardo del protagonista, un giornalista statunitense di nome John Nitsch. Rodrigo Elgueta e Carlos Reyes, traduzione di Paolo Primavera. Tratto dal volume Gli anni di Allende - La novella grafica (Edicola edizioni 2016)

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Postfazione Raffaele Nocera Socialismo, golpe, dittatura, diritti umani, transizione, democrazia. Sono solo alcune delle parole chiave che hanno guidato l’organizzazione di questo numero di Internazionale Storia dedicato al Cile. E che però rendono solo in parte la complessità della storia recente del paese, dei cinquant’anni passati dall’11 settembre 1973, quando i militari guidati da Augusto Pinochet rovesciarono il governo del presidente socialista Salvador Allende. A queste parole se ne potrebbero aggiungere molte altre – come nueva canción chilena, Unidad popular, esilio, memoria, estallido social – che in questo mezzo secolo hanno fatto conoscere il paese andino al mondo. E all’Italia. Tuttavia da noi, come altrove, questi termini non dicono quasi nulla a chi oggi è adolescente o ha meno di vent’anni, ragazze e ragazzi che a malapena conoscono l’altro 11 settembre, quello degli attentati alle torri gemelle e al Pentagono nel 2001, e che difficilmente potranno avere familiarità con un paese etichettato come l’ultimo rincón del mundo, l’angolo più remoto del pianeta. Una definizione così efficace da essere stata interiorizzata dai cileni stessi, i quali, del resto, fin dall’epoca coloniale hanno usato un nome, Chili, la cui origine è nell’espressione di lingua quichua “ancha chiri”, che significa “molto freddo”, probabilmente legata alle difficoltà incontrate dai primi conquistadores nell’attraversamento

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delle vette andine e comunque nata all’esterno del territorio nazionale. In sintesi, il Cile è un luogo che ha cominciato lentamente a prendere forma mediante lo sguardo di chi non lo abitava e lo considerava inaccessibile. Mi piace pensare che oggi possano essere proprio i ragazzi e le ragazze più giovani a varcare le Ande e, con la loro naturale sfrontatezza, a catapultarsi per le strade di Santiago del Cile e dei suoi dintorni: a ripercorrere le grandi alamedas cui fece riferimento Allende nel suo ultimo discorso prima di suicidarsi nel palazzo presidenziale, ad ascoltare le canzoni di Víctor Jara e Violeta Parra, a leggere i libri dei suoi tanti scrittori e poeti (da Gabriela Mistral a Pablo Neruda solo per citare i più noti), a fermarsi a riflettere nei luoghi dell’orrore del terrorismo di stato, a manifestare con i loro coetanei cileni per una vita degna e per l’accesso a istruzione e sanità gratuite. Tuttavia sono consapevole che le pagine che precedono queste mie poche righe sono rivolte soprattutto alle persone che i “fatti cileni” li hanno vissuti in prima persona, che negli anni settanta e ottanta sono scese in piazza in tutta Italia per sostenere il Cile democratico in nome di quel legame, informale ma profondo, che si era instaurato tra i due paesi fin dagli anni sessanta. E poi perché per il variegato mondo della sinistra italiana ed europea il Cile di Allende e di Unidad popular era un grande la-

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Raffaele Nocera insegna storia e istituzioni delle Americhe all’università di Napoli L’Orientale.

boratorio, poi inserito tra i miti politici dell’America Latina. I motivi di questa vicinanza erano diversi: il Cile di Unidad popular aveva rappresentato una stagione originale, seppure breve, nel panorama politico latinoamericano e mondiale. Inoltre c’erano anche alcune presunte analogie tra i sistemi politici, che rendevano il Cile più “familiare” rispetto a tante altre nazioni dell’area, ed esistevano vincoli tra i principali partiti dei due paesi, in particolare democristiano, comunista e socialista. Tuttavia, l’esperienza di governo di Unidad popular rappresentò anche il culmine di un esperimento politico-sociale cominciato alla fine degli anni cinquanta e spazzato via dalla svolta autoritaria, che – non va taciuto – fu accolta con entusiasmo negli ambienti della destra, soprattutto estrema, in Italia e in Europa. La via pacifica al socialismo ebbe un impatto senza precedenti al livello mondiale, a cominciare dall’Italia. Sul dibattito politico, sull’opinione pubblica, sul giornalismo, sulle relazioni sociali. E un effetto più o meno analogo lo produsse il golpe dell’11 settembre, che non fu uno dei tanti interventi militari nella regione latinoamericana del novecento. Il colpo di stato cileno del 1973 fu guidato dalla logica della guerra antisovversiva che aveva l’obiettivo di annientare l’avversario politico in nome della difesa della civiltà cristiana occidentale. Una “dottrina” che avrebbe spia-

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nato la strada ad arresti arbitrari, detenzioni in campi di concentramento, ricorso sistematico alla tortura, sparizioni forzate e omicidi, non diversamente da quanto accadde in Brasile, in Uruguay o in Argentina più o meno nello stesso periodo. Tuttavia, le forze armate cilene guidarono una “rivoluzione reazionaria” più ampia, che avrebbe portato negli anni ai duraturi successi della destra politica ed economica e del loro ideale di società, mediante una profonda trasformazione del sistema economico-sociale, ma anche culturale, del paese. Le vicende recenti, dalle proteste sociali scoppiate nell’ottobre 2019 al processo costituente momentaneamente naufragato, hanno mostrato quanto le ferite generate da quella lunga stagione dittatoriale siano ancora aperte e sanguinanti. Fratture così profonde da rendere estremamente complesso ogni tentativo di superare l’eredità dell’autoritarismo di Pinochet, com’è emerso anche durante l’attuale presidenza di Gabriel Boric, le cui speranze iniziali sono finora rimaste tali. A distanza di cinquant’anni dal golpe, per il Cile la strada da percorrere per riaprire, come disse Allende nel suo ultimo giorno di vita, “i grandi viali dove camminerà l’uomo libero, per costruire una società migliore” è ancora lunga e irta di ostacoli. E il rischio di passi indietro è sempre dietro l’angolo.

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“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra filosofia” William Shakespeare, Amleto A cura di Andrea Pipino con Daniele Cassandro Copy editor Giovanna Chioini Photo editor Giovanna D’Ascenzi Progetto grafico e art direction Mark Porter Associates (markporter.com) Impaginazione Beatrice Boncristiano, Pasquale Cavorsi, Marta Russo Segreteria Monica Paolucci, Gabriella Piscitelli Correzione di bozze Lulli Bertini, Sara Esposito Consulenza storica Raffaele Nocera Traduzioni Alessandra Bertuccelli, Sara Cavarero, Maria Giuseppina Cavallo, Andrea De Ritis, Francesca Rossetti, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Bruna Tortorella Mappa Dario Ingiusto Le condizioni di utilizzo dei testi coperti da copyright sono concordati con i detentori prima della pubblicazione. Se ciò non è stato possibile l’editore si dichiara disposto a riconoscere il giusto compenso. Chiuso in redazione il 25 settembre 2023

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Il regime militare di Augusto Pinochet è stato forse il più riconoscibile e famigerato modello di governo autoritario del dopoguerra, almeno nella regione latinoamericana. Per chi ha vissuto gli anni settanta e ottanta, l’incarnazione dell’autoritarismo era proprio la faccia del generale cileno, con i suoi immancabili occhiali scuri e un’espressione tra il compiaciuto e l’enigmatico. Era il 1973 quando, nel primo 11 settembre passato alla storia, ventott’anni in anticipo rispetto a quello dell’attentato alle torri gemelle, i militari cileni rovesciarono con i carri armati il governo del presidente Salvador Allende, impegnato da quasi tre anni nel complicato esperimento di trasformare, pacificamente e nel rispetto della legge, il Cile in una democrazia socialista. Andrea Pipino, pagina 5

Il presidente Salvador Allende e la “via cilena al socialismo”. L’intervento dei militari. Le violenze del regime. La resistenza dei cileni. Il ritorno della democrazia. Nel cinquantenario del golpe di Augusto Pinochet, Internazionale racconta quello che accadde in Cile tra il 1970 e l’inizio degli anni novanta attraverso i commenti, le analisi, le fotografie e le cronache della stampa estera dell’epoca.

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