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Italian Pages 160 [105] Year 1998
Cosetta G. Saba insegna presso l’Università di Udine Analisi del film e Pratiche audiovisive nella Media Art. Le sue recenti attività di studio sono orientate all’analisi delle relazioni tra cinema, video e arte. Tra le sue pubblicazioni: Unstable Cinema. Film and Contemporary Visual Arts (con C. Poian, 2007), Arte in Videotape. Art/tapes/22, collezione ASAC – La Biennale di Venezia. Conservazione Restauro Valorizzazione (2007), Preserving and Exhibiting Media Art: Challenges and Perspectives (con J. Noordegraaf, B. Le Maître e V. Hediger, 2012), Matthew Barney. Polimorfismo, multimedialità, neobarocco (con N. Dusi, 2012), Archivio Cinema e Arte (2013). Ad Alberto Farassino Il Castoro Cinema n. 195 © 1999 Editrice Il Castoro srl viale Abruzzi 72, 20131 Milano [email protected] www.castoro-on-line.it In copertina: Nostra Signora dei Turchi eISBN 978-88-8033-856-7 Prima edizione digitale 2014 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. ebook by ePubMATIC.com
Cosetta G. Saba
Carmelo Bene
CARMELO BENE
Indice L’invisibilità del cinema e il cinema senza immagini Carmelo Bene IL PARADOSSO DELL’ A(U)CTOR Incipit Carmelo Bene: dalla “sospensione del tragico”alla “macchi na attoriale” CINEMA: LA MACCHINA ANTI-LINGUAGGIO Hermitage Nostra Signora dei Turchi Capricci Don Giovanni Salomè Un Amleto di meno TELEVISIONE: IL PARADOSSO DEL LINGUAGGIO (VIDEO) Bene! Quattro diversi modi di morire in versi… Amleto Riccardo III Otello (riprese, 1979) Hommelette Laforgue)
for
Hamlet,
Macbeth Horror Suite Filmografia Nota bibliografica
operetta
inqualificabile
(da
Jules
Cinema
C’è della gente convinta di fare il cinema perché fa i film, io non faccio cinema per fare dei film, questo è importante. (1970) Ho pensato molto al cinema come mezzo “specifico” e ho avuto voglia di provarlo. Mi interessano soprattutto le persone che hanno innanzitutto un’idea di cinema. L’idea di cinema contiene senza dubbio un cinema di idee, mentre non è vero il contrario. In questo senso, Il bandito delle ore undici è un film geniale e Weekend, nello stesso senso, è un film fallito. Ma oggi, è soprattutto il cinema di idee che è apprezzato e praticato, quello dove le piccole idee vengono appiccicate sulla pellicola. (1968) Perché il cinema? Mi si è sempre maldestramente equivocato, prima ancora ch’io mi filmassi o filmassi l’impossibilità di filmare altro dal set, già ai miei esordi teatrali, che io battessi una strada avanguardistica dell’immagine di contro alla parola. A sconfessare questo ci provai con cinque film in cui il “silenzio” è sovrano e il lógos decisamente estromesso. Cinema: regno dell’immagine. Mi provai ad eccedere l’immagine pur di dissipare il malinteso della mia pre-avventura teatrale. Cinema: gioco del soggetto che gioca perverso con l’immagine, come si fa con il più futile dei balocchi. L’obiettivo giocato come il caleidoscopio dei bambini che nello stupore orecchiano ben altro, la musicalità delle immagini, effetti ottici della phonè. Invece del racconto, questo bricolage di suoni e immagini destinato a una citazione di racconto, questa miriade di segni alla deriva dell’onda sonora che detta il movimento. Tutto giocato in perfetto a-sincrono, nell’idiosincrasia tra “musicalità” e “musica”, che non sempre coincidono. Quindi Nostra Signora dei Turchi, se vogliamo. (1983) Ma il cinema, se è cinema, non si può raccontare. Lo si può solo spacciare, facendolo. E vaneggiare. (1998) Il cinema è morto, filmato per sempre. Non è filmante. (1982) Al cinema è precluso l’immediato e una sorta di cecità “visiva” della musica. (…) Un cinema dell’atto? Non può darsi l’atto filmico. (1998)
Mentre nel teatro ho offerto il destro a qualche equivoco mondano, nel cinema proprio no. Rimane proibitivo. Intollerabile. Anche per me. Protratto fino al fallimento economico e alla rovina fisica. (1998) Se quello che si rimpiange in Nostra Signora dei Turchi (c’è sul libro, ma è citato anche nel film) è che non c’è né ingiustizia né nemici, che si rimpiange una barbarie assente, cioè che non si può essere matti, il peccato è scongiurato. È la prima opera occidentale senza peccato. (1970) La scena del frate in Nostra Signora dei Turchi è una teoria sulla solitudine. Ora, nessun occidentale che non sia un russo vissuto a Parigi e suicidato a Venezia avrebbe potuto concepire una scena dove gli spaghetti sono un modo di confondere le cose, ma non un modo di italianizzarle… di confonderle, di renderle inaccessibili. Invito tutti a rileggere L’Uomo Nero di Esènin. (1970) Nella scena della omelette, la differenza tra il buono e il cattivo spettatore è data dal fatto che il secondo distoglie lo sguardo e non sente più niente, mentre invece il primo ascolta anche. (…) non è il disgusto che deve emergere, ma il gusto del disgusto. (…) Si sente la musica di Il terzo uomo. L’idea nasce dal fatto che la scena si trova subito dopo quella del doppio. Qui, è il titolo della musica che importa, non la musica. (1968) È costante in Nostra Signora dei Turchi e in tutte le altre “nostre” mie Signore operine la vocazione alla cretineriastupidità. Puntualizzata e insistita. (…) Antidoto, contravveleno alla minaccia d’ogni astuzia-precauzione e dell’“intelligenza”. Stupidità, aspirazione sovrintelligente alla nolontà, all’inettitudine metacorporea. (1998) Importante in Nostra Signora dei Turchi è che tutto quanto è avvenire è già passato, che non è cominciamento di qualcosa, è già subito dopo la fine. (1998) Non mi interessa nessun cineasta. Pure quello che io ho fatto non mi interessa, salvo che in due o tre situazioni: l’autocrocifissione mancata in Salomè, la pellicola bruciata e fatta a pezzi in Nostra Signora dei Turchi come parodia del ricordo. Quello che è importante è l’amplificazione, che sia
quella del suono o quella delle luci. Questa amplificazione è il massimo del blow-up. Essa permette di mostrare che più ci si avvicina a qualche cosa meno la si vede. (1998) Affrontando il cinema io affrontavo certo uso dell’immagine che da sempre rifiutavo e trovavo insopportabile. (1983) Tecnica cinematografica (téchne)
Non tutto ciò che è filmato è cinematografico. (…) Non tutto ciò che è dipinto è “pittura”. La macchina da presa è un mezzo come un altro per muovere (evocare) immagini. (1968) Ho dovuto vedere il film per montarlo, ma è stato un lavoro modesto, che non mi interessa. È nelle riprese che mi contesto, contesto i miei progetti e la loro realizzazione, contesto tutto. (1968) Sono presente praticamente in tutte le inquadrature, ma, anche se non fossi stato l’interprete, credo che sarei stato ugualmente davanti alla macchina da presa durante le riprese. Per me girare un film (che io sia o no l’attore) significa essere da entrambi i lati. (1968) Non si parli di cinema. Io non faccio film, faccio opere. Io non scrivo, canto. (…) Keaton è un obiettivo umano (…). Essere al di qua e al di là della macchina da presa: è questo il concetto che si ha di un attore-autore. Keaton è di là della m.d.p. quando interpreta (…), ma è come se fosse di qua. In questo senso è un “9”, è un “25”, è un “400”, è un “tele”, un “fish eye”, un grandangolo umano… Keaton non è la prima persona ad aver giostrato di qua e di là della macchina da presa. C’è il fenomeno Orson Welles e Laurence Olivier. Ma per intenderci sul rapporto tra Olivier e la m.d.p.: se questa è la m.d.p. (…) e lui deve dire una battuta, mettiamo ad esempio “Clarenza, attento, tu mi togli il sole ma io preparo…” da Riccardo III, (…) fa l’inquadratura, una volta al di qua della m.d.p., dopo aver stabilito l’obiettivo, stabilito un “50”, poi passa, si trucca, passa al trucco, si dà una bella ritoccatina… ed infine viene ad interpretare da quest’altra parte, ed interpreta un personaggio shakespeariano, quello che io ho esemplificato prima “Clarenza…” È una realtà che filma un’altra realtà. Non è la stessa realtà del dietro la m.d.p. che viene ad autocriticarsi dal di qua. È
filmata, non filmantesi. (1972) Quando il montaggio si fa nello stesso tempo della ripresa, si può ottenere un film-musica. (…) La registrazione diviene allora evento. (1970) Nel cinema esiste il montaggio, sicché il film non è soltanto già scritto, ma anche già letto, dal momento che viene montato. (…) Durante il montaggio critico quello che ho girato. (1970) Faccio quello che si fa da secoli in pittura e in musica. Bisogna fare del cinema non stupido, e non fare del cinema intelligente. Nella musica di Monteverdi il montaggio ha un ruolo capitale. Molti pensano di scoprire queste cose per mezzo del cinema, invece le hanno scoperte in Bach, in Verdi, in Mozart. Quando parlo di cineasti, penso a Borges, a Joyce, a Gounod… (…) Penso alla musica come cinema. Non la colonna sonora, ma la musica delle immagini. In questo senso il montaggio mi interessa enormemente. (…) Giro sempre con la musica in testa. Dico all’operatore: “Attento! Qui c’è un valzer, ecc…”. Calcolo tutto questo prima delle riprese. Detesto la musica applicata al film finito, come un’etichetta. (1969) (…) Perché mai la mia immagine orale non può essere doppiata da una voce femminile, dallo squittir d’un topo, dalle fusa o miagolio d’un gatto, eccetera? Oppure asincrona (lorenzaccia) all’articolazione labiale. Singola o polifonica? (1998) Ma l’arte delle immagini non è soltanto cinema, anzi, quasi mai cinema (che tra tutti i compromessi è l’ultimo arrivato). Nota: i più bei film che abbia visto li ho letti, o, se li ho visti, mai al cinematografo. (1967) L’immediato
In Joyce, per la prima volta, ci troviamo davanti a un pensiero dell’immediato, all’immediato pensiero, tanto che non pare scritto, pare sottratto alla scrittura stessa (…): quanto viene pensato è reso attraverso l’immediato e questo non lo ha nessun altro autore al mondo. L’Ulisse di Joyce si può proporre anche come il modo più straordinario, l’esempio più fulgido di cinema,
di grandissimo cinema, ma quello sulla pagina, non il filmaccio che ne hanno ricavato. Non esiste un film, un criterio del montaggio di questa immediatezza… perché il cinema passa sempre attraverso… il morto, così come il dire passa sempre attraverso il detto… cioè il detto è il morto… Nell’Ulisse di Joyce non ci sono mai pensieri: “pensò che…” no, tutti questi pensieri sono catapultati in balìa di chissà quante combines di significanti. (…) L’Ulisse è soprattutto grandissimo cinema, tutto quello che il cinema non è mai riuscito a fare. Il cinema dai fratelli Lumière in poi l’ha fatto Joyce con l’Ulisse, queste sono immagini… immagini di prima si direbbe… mentre il cinema non fa altro che riferire un’immagine morta del set. (1988) (…) L’irrappresentabile è l’atto possibile solo nell’immediato (cortocircuitato presente). Non ha futuro-passato. (…) L’irrappresentabile coincide con l’impossibile: non ha passato, non ha testo a monte, non ha un progetto, non ha messaggi da lasciare, non ha socialità e nessun “ismo”. Non conosce il prima e non conosce il dopo. È prima del prima e dopo il dopo. (…) Ma cosa ci può essere d’immediato nel presente? Se l’orrore, come si dice fin da Aristotele, appartiene al passato. Il terrore è prospettico, appartiene all’avvenire. L’atto è lo spavento. Disinforma l’azione, è una mina che fa esplodere la comunicazione (…). L’immediato si sottrae all’arte, si sottrae alla cultura (da colo, colonizzare). (1998) Iconoclastia
Mia congenita allergia all’immagine (quasi) sempre volgare, dalla Storia dell’Arte al cinema, a meno che non sia differenza dall’arte (Velázquez, Bernini, Francis Bacon, ecc.). (1998) Alla volgarità dell’immagine “artistica” riservo da sempre, disgustato, la mia intransigente ostilità iconoclastica. (1998) Io detesto il cinema. (…) Detesto anche l’arte, ma almeno quando becco un singolo fotogramma mi suggerisce delle energie, delle dinamiche, una dinamica, un’energia… Da dov’è nato, da dove viene, dove va… (…) io faccio del cinema una stroncatura chiaramente da iconoclasta. Il cinema non può appartenere a tutti quelli che si alzano la mattina e fanno film d’azione o fanno film d’orrore… Lì non c’è più movimento! Il cinema è già una virtualità d’una virtualità. E questi tirano fuori
una virtualità d’una virtualità d’una virtualità: elevata al cubo. Poi c’è la virtualità dello spettatore… (1998) Al cinema è più difficile far scomparire l’immagine dietro l’immagine, perché lì è tutto già immagine, (…) in una virtualità che uccide la virtualità. (1998) Nella suite (sequenza innumere di fotogrammi) filmica, come nel singolo fotogramma “artistico”, non è l’immagine in sé a disgustarmi, ma la sua deprecabile visibilità: la virtualitàricordo-disattualizzata, orfana della differenza. Della presenzaassenza. E, al contrario: una serie infinita di fotogrammi, alla pari del “fermo” fotogramma singolo, mi coinvolge nella ripetizione-differenza senza concetto (“non è lo stesso a ritornare, è il divenire che è uguale allo stesso che ritorna”). Non ho davvero nulla da obiettare all’immagine filmica (singolo fotogramma o centomila, meglio ancora: ripresa a “passo-uno”), purché graziata da virtualità-attuale. Ma questa virtualità attuale non poteva appagare la mia urgenza di perseguire una cecità dell’immagine. (1998) Cortocircuito audiovisivo del linguaggio
(…) Chiamiamo Contini quel gigante guerriero inesistente, rumorista assordante di gesti lorenzacci. Nell’economia di uno spazio teatrale all’italiana, questa vuota armatura, al centro dei suoi ordigni amplificati, se visibili, agirebbe nella fossa destinata di solito all’orchestra, eufemisticamente detta golfo mistico. Contini non è un doppio di Lorenzo, ché gestisce di spalle al palcoscenico. Il suo chiasso non ha significato; chiasso storico e basta; così come l’ipotesi di un significante impazzito è a tutto azzardo dello spettatore. Contini suona, amplifica i movimenti, i passi lorenzacci, ostentandone il sincrono e l’asincrono, ma per suo conto; volontà fine a se stessa, espropriata a qualunque raziocinio; beve, frantuma, nei microfoni, piatti e bicchieri ecc. Vuoto guscio guerriero cinquecentesco, in tutto simile a un rumorista immerso nel buio d’una sala cinematografica di doppiaggio; professionale nel suo produrre “effetti”, con questa sola differenza, appunto: è di spalle all’immagine. (… Lorenzaccio) Levatosi di scatto, inveì sugli oggetti a sua portata: le porcellane, il peltro, l’edizione latina delle Vite Parallele; una pioggia arbitraria sul tappeto, ma insonora; né
sincrona, né asincrona; insonora. Non era lui l’autore di questa piccola catastrofe? (…) I rumori amplificati precedevano i gesti lorenzacci. Narciso senza voce e senza immagine, Renzino era in balìa del divenire. Si muoveva in un film talmente asincrono, che un altro attore, al “suo posto”, avrebbe, senza esitazione, abbandonato la scena. (1986) Autore
Avete qui un altro autore, non avete l’autore di quelle (…) opere. Quello è il problema. Un autore che parla è un’altra cosa. È un autore che vede altre cose e che potrebbe interpretare quelle nel futuro delle altre che ha sottomano da fare. (Le opere) sono oggetti completamente al di fuori di me. (…) Non si può parlare di una cosa fatta. (…) Ogni autore dovrebbe essere considerato morto dal momento che è stato autore. (…) La contemporaneità, la sopravvivenza dell’autore alla propria opera crea adito al giornalismo e soprattutto all’equivoco. (1969) (…) l’importante è considerare gli autori di un’opera morti. Perché sono fuori da quell’opera o perché sono autori di altre cose, che stanno pensando, quindi non possono dare nessuna delucidazione sull’opera fatta. (1970) L’equivoco originale. Che cosa garantisce l’identitàcorrispondenza tra lo scribafacitore del testo e l’intenzione del medesimo? Chi è stato pensato suppone di pensare (e già qui casca l’asino), chi suppone di pensare suppone di trascrivere il “proprio” pensiero, questo significante orfanello di più paternità plurie(qui)vocate. I significanti di uno spettacolo immaginato possono mai coincidere con i significanti che determinano la trascrizione testuale? Categoricamente escluso. Non si dà che una drammaturgia residuale, allucinatoria, pattumiera di un testo impossibile in quanto impensabile. Impossibile essere l’autore d’alcunché! (1998) I critici
Non partecipano a una mia sollecitazione perenne, laddove io mi sforzo di togliere, come artefice, il lógos, cioè di togliere il senso, sulla scena, allo spettacolo, per recuperare un controsenso, dove da capire non ci deve essere nulla (…). Quindi cosa fa la mediazione critica (tra l’altro obbligata in una recensione)? Io li
ho sempre compresi i signori critici, è un mestiere veramente umiliante. Leon Bloy li ha definiti veramente bene: il critico è colui che ostinatamente cerca un letto in un domicilio altrui. Ecco, io sento questo loro disagio. (…) Cosa fa la critica? Riconduce tutto al senso, a una visione di senso assai personale, truccata da oggettività, mentre qualunque critica dovrebbe essere di tendenza, cioè prima si qualifichi, il critico. Non si dà critico, diceva Oscar Wilde, fuori dall’artista, Feuerbach l’aveva già detto prima di Wilde. L’artista è il critico e il critico è quindi l’artista. I critici artisti non sono. Io sono il critico dei miei spettacoli. (1988) Rifiuto qualsiasi funzione di mediazione della critica. (1970) Dov’è Godard? La moglie? La moglie è una persona che non esiste, perché tutti i criticuzzi italiani o stranieri dicono: la signora Godard… Perché non citare Fellini o Pasolini, che prima di me in Capricci, aveva usato Davoli… Trattare della società di consumo… come fa Godard (in Weekend), è un compito da vigile urbano che non mi interessa. 1970 Citazioni
Sono d’accordo con Borges, quando dice: «non posso esprimermi, posso solo fare delle citazioni». Non credo nell’espressione. (1969) Io posso citare, e nel momento che cito quello che cito è mio e non perché sacrifichi me stesso. Ma a questo punto l’opera di altri non esiste più, esiste un’opera mia perché mia è la scelta di parlarne. Io sono senza frustrazioni. (1970) Io cito cose che potrebbero essere mie. Solamente per ragioni di sintesi, dico l’ha detto tizio; così per confortarvi perché non sia sempre io a parlare. (1970) Le precedenti dichiarazioni sono tratte da: Jean Narboni, Carmelo Bene: Nostra Signora dei Turchi, «Cahiers du cinéma», n. 206, novembre 1968. Noël Simsolo, Entretiens: Carmelo Bene: Capricci, «Cahiers du cinéma», n. 213, giugno 1969. Elias Chaluja, Jacques Fillion, Gianna Mingrone, Sebastian Schadhauser, a cura di, Conversazione con Carmelo Bene, registrata al magnetofono, Roma, 1970. Noël Simsolo, Carmelo Bene o della responsabilità di un’arte critica, «Zoom», n. 1, 1972. Interviste televisive a Carmelo Bene, 1972 e 1988.
Carmelo Bene, La voce di Narciso, a cura di S. Colomba, Milano, Il Saggiatore, 1982. Carmelo Bene, Sono apparso alla Madonna. Vie d’(h)eros(es), Milano, Longanesi, 1983. Carmelo Bene, Opere con l’Autografia di un ritratto, Milano, Bompiani, 1995. Carmelo Bene, Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, Milano, Bompiani, 1998. Thierry Lounas, Cogito ergo est. “Que les vivants me pardonnent…” Entretien avec Carmelo Bene, «Cahiers du cinéma», Cinéma 68, numéro Hors Série, avril 1998.
IL PARADOSSO DELL’A(U)CTOR
Esegeta di stesso, Carmelo Bene, in un’autointervista su ‘l mal de’ fiori (2000) scrive: «L’attentato alla forma è simultaneo alla forgia della forma stessa. Ecco quanto non è mai stato». Ecco ciò che è stata ed è ancora la «vita delle opere» di Bene. Occuparsi del suo opus implica la frequentazione di un paradosso e come accade al suo Lorenzaccio, – che è «quel gesto che nel (…) compiersi si disapprova» –, ci si trova a compiere i “gesti” della “lettura” e della “visione”, anche se, a ogni passo, nel loro procedere e nel loro “farsi”, essi non possono che “disapprovarsi”. Detto in altri termini, com’è possibile intercettare (interpretare?) un opus attraverso “testi” (teatrali, filmici, televisivi, radiofonici, discografici, letterari) che si sottraggono programmaticamente alla comunicazione, anzi al principio stesso della comunicabilità? Le opere sono autonome e secondo Jacques Derrida «non c’è opera che non lasci l’artista, che non si separi da lui, e non c’è artista che non si separi dall’opera per lasciarla a sé». Bene sostiene, con maggiore radicalità, che (l’artista), «(…) l’autore non esiste» e, come Borges, motiva: «Tutti si vantano di quello che scrivono. Io mi vanto di tutto quello che ho letto (…)»; «L’autore è l’illusione d’un cretino. Perché l’opera, se tale è, è senza autore. Se no è residuale. Se no son tracce. Lascia scorie». Forse qui si delinea un ulteriore superamento di quello che è stato definito il «côté Artaud» di Bene, l’oltrepassamento dell’ossessione artaudiana, l’ossessione dell’arte senza opera: è ciò che Derrida ha definito, come scato-teologia del «Gran Furtivo» (demiurgo del senso e del linguaggio) in Antonin Artaud: ciò che cade lontano dal corpo «(…) è l’opera, è l’escremento, la scoria, valore annullato perché non è stato trattenuto e che può diventare un’arma di persecuzione» per l’autore, «poiché l’opera – soufflée – è sempre opera della morte» (cfr. J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 1971). Derrida si riferisce all’opera, che offrendosi in spettacolo, al contempo, si offre al “furto”; è opera soffiata, “sottratta” da un possibile “commentatore” (lo spettatore), che la «riconosce per disporla in un ordine», e insieme “ispirata” da un’altra voce, da un “suggeritore” (la tradizione culturale). Ne La vecchiaia precoce del cinema (1933) Artaud riconduce la registrazione dell’immagine sulla pellicola alla morte, giacché «impedisce ogni risistemazione e ogni ripetizione», ogni «imprevisto»; «la figura di un film è definitiva e senza appello». Ma l’oltrepassamento che Bene compie del côté Artaud è assoluto, decisivo, brucia ogni affinità: l’opera stessa si mette in gioco, mette in gioco la propria autocontestazione, la propria autodistruzione. A differenza di Artaud, per Bene: «Quando un’opera è finita non può più essere compromessa». «Ogni autore dovrebbe essere considerato morto dal momento che è stato autore». Perché è fuori dall’opera. La separazione è condizione dell’opera e a fortiori di ogni discorso sull’opera. Con Bene ci si trova di fronte a un “opus che non ha autore” e a un “autore che non ha opus” in senso ancor più radicale, giacché egli pone l’impersonalità automatica della macchina attoriale come sola autorialità possibile. Se, in termini semiotici, l’autore è effetto dell’opera, allora nel caso dell’opera soprattutto cinematografica e televisiva di Bene ci si trova di fronte a una pluralità, o quantomeno a una endiadi: l’autore-attore. Si tratta – come scrive Piergiorgio Giacché – della contraddizione tra augēre e agĕre; l’autore-attore Bene «fonde insieme (e in sé) l’inventare dell’autore e il giocare dell’attore, ovvero un aumentare la posta e un sottrarre dalla scena che si rincorrono e si smentiscono l’un l’altro» (cit. P. Giacché, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina teatrale, Bompiani, Milano, 1997). Questo a(u)ctor ha fatto del proprio corpo attoriale, corpo perfomativo – voce, cavità orale, diaframma, respiro –, attraverso l’assunzione della strumentazione fonica amplificata, la macchina attoriale. La strategia testuale delle opere di Bene procede proprio attraverso un rigoroso dissidio critico tra augĕre e auge-re dell’autore-attore e tale dissidio non può non coinvolgere anche lo spettatore (“implicito” o “modello”) in uno stesso processo d’estenuazione. Il cinema di Bene presenta una matrice performatica, fortemente intertestuale, la cui cifra, come chiarito da Gilles Deleuze, è il “corpo” e il “pensiero”. Già a teatro il corpo è la dimensione attraverso la quale Carmelo Bene incontra il pensiero, il pensiero dell’irrapresentabile. In scena, come sul set, il cogliersi dell’attore in un gesto, o il suo sorprendersi a ripensare criticamente a ciò che sta dicendo, rende impossibile il rappresentare, lo stare al posto di un altro (o anche l’essere l’altro di un altro, che viene insieme evocato e cancellato dalla rappresentazione), e fa sorgere come un automatismo la parodia (para-odé). Si determina così uno scontro, un dissidio critico tra ciò che l’attore sta dicendo, o facendo, e ciò che va opponendo a ciò che va dicendo o facendo; questo origina una difformità che rende impossibile l’assunzione di un ruolo, di un’identità. Tale dissidio critico, oppositivo, rende evidente l’autorialità insita nel gioco dell’attore. L’autorialità che origina
dal pensiero dell’irrapresentabile si rivela nella forma della parodia e inficia alla radice le metodiche attoriali sia della reviviscenza stanislavskiana (il “magico se”, lo scarto “dalla terza persona alla prima”) che dello straniamento brechtiano (tecnica di epicizzazione, l’attore entra ed esce dal proprio ruolo), ma anche della biomeccanica mejercholdiana. È dal proprio corpo che Carmelo Bene procede verso la sperimentazione dell’irrapresentabile. È la pratica della parodia del “Soggetto” nel linguaggio, che si palesa nei “rituali del corpo” (rituali dissociativi nel gesto e nella parola). Ma è attraverso la tecnica e il linguaggio cinematografici, che la contraddizione tra augēre e augĕre si precisa in una meccanica impersonale, la quale mira all’annientamento della “soggettività”, di cui sono sistema, appunto, il corpo e il pensiero. La tecnologia cinematografica attiva nell’opus beniano il paradosso del linguaggio che si dispiega nell’essere, al contempo, «al di qua» e «al di là» della macchina da presa (interfaccia del corpo attoriale e suo strumento di oggettivazione), «nell’essere da entrambi i lati», «nell’essere un “obiettivo umano” alla Keaton», una macchina celibe, fonte e insieme terminale del proprio funzionamento, ma anche della propria autocontestazione. Tale paradosso è insorgenza di un feroce automatismo critico, quello della (auto)parodia. Bene muove una critica radicale al concetto di rappresentazione; critica che da un lato differisce dalle pratiche decostruttive avviate in campo cinematografico nel corso degli anni Sessanta dai cineasti – del cinema moderno, della Nouvelle Vague, del cinema underground – i quali, iuxta propria principia, ritenevano sufficiente marcare il meccanismo di costruzione del film per evidenziarne, sul piano metaliguistico, la logica di funzionamento; e dall’altro anticipa, per radicalità, anche se in modo piuttosto idiosincratico, le incursioni teoriche in campo cinematografico di Roland Barthes (il terzo senso, il «senso ottuso» della «significanza» di «una rappresentazione che non può venir rappresentata») e di Jean-François Lyotard (a-cinéma). La rappresentazione intesa come «ri-presentazione di qualcosa che non c’è (la realtà, la “storia” ecc.), ma si affaccia in altra forma (l’immagine)» e come «momento in cui si sovrappongono assenza e presenza» (qualcosa in presaentia “sta per” qualcosa che è assente) è contestata in ambito cinematografico da Bene nel momento stesso in cui essa determina il rapporto di sostituzione (lo “stare per”, aliquid stat pro aliquo), l’atto del rinvio. La messa in crisi del concetto di rappresentazione, che implica il connotato della ri-presentazione e significa un’azione ripetuta, cronologicamente successiva a un’altra, intesa come “originaria”, presenta nell’opus di Bene una doppia derivazione: l’una interna alle teorie del teatro, l’altra interna al pensiero filosofico. Rispetto al teatro, sulla lingée Diderot-Wilde-Mejerchol’d-Artaud, l’opus di Bene diviene la teoria-prassi «dell’idiosincrasia abissale tra scritto e orale», che annienta qualsiasi presunto primato “originario” del testo letterario drammatico sul testo spettacolare, prima attraverso la «(di)scrittura di scena» (scrittura sottrattiva o “discrittura”, come l’ha definita Deleuze) e la «sospensione del tragico»: da Amleto da Shakespeare e Laforgue, 1974, Romeo e Giulietta (storia di W. Shakespeare) 1976, Riccardo III, 1977, a Otello, o la deficienza della donna, 1979; poi mediante il «teatro senza spettacolo» e la «macchina attoriale» da Lorenzaccio, 1986 a Gabriele D’Annunzio: concerto d’autore (poesia da “La figlia di Iorio”), 1999. Tale «idiosincrasia», che implica, oltre alle differenze tra testo letterario e testo spettacolare, il principio dell’intertestualità e la questione autoriale, è operativa anche nel cinema di Bene. La critica della (nozione di) rappresentazione si salda a quella filosofica proprio attraverso Artaud. Ma all’ossessione artaudiana dell’opera filmata, opera morta che si ripete, Bene oppone un principio differenziante che produce una rivolta permanente contro la catena della pellicola, contro la catena del testo: un antilinguaggio au travail, dispositivo di significanti autonomi, automatici, eccedenti, discontinui, spezzati, staccati dal significato. Deleuze evidenzia come nell’opera di Bene la ripetizione funzioni quale principio differenziante, e non come ritorno dell’uguale. Proprio attraverso il cinema, Bene perviene al riconoscimento di un «evento irriproducibile nell’istituto della ripetizione» (replica teatrale o registrazione audiovisiva che sia). Questo avviene attraverso il corpo attoriale reso “macchinico” dagli automatismi dell’afasia («guasto della parola»), dell’aprassia («sincope del gesto») e dagli autoimpedimenti e handicap che dribblano il significato degli atti, la formazione dei contenuti. Ogni componente testuale è investita da un principio dissociativo, da slittamenti continui del senso e da improvvise defunzionalizzazioni. Vi è una relazione tra la critica della rappresentazione, l’irrappresentabile e la critica del “Soggetto”. Quest’ultima, per via estetica, incrocia la critica della concezione umanistica della centralità del “Soggetto” elaborata dalla filosofia contemporanea a partire da Nietzsche. Ma per Carmelo Bene, l’incipit di tale percorso critico sembra aver luogo nel “corpo interno-esterno” de Il
mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer: dall’esterno il corpo è rappresentazione tra le rappresentazioni, dall’interno e nella sua immediatezza è volontà che deve essere annichilita, negata, noluntas (ascesi, contemplazione del nulla, estasi). Il “corpo” è, dunque, il testo fondamentale (il “palintesto”) d’ogni opera di Bene. La dimensione “corporale” è presente sia nel cinema sperimentale sia nella letteratura italiana d’avanguardia degli anni Sessanta da Edoardo Sanguineti a Paolo Volponi. Ma nell’opus di Bene il corpo assume una valenza assolutamente singolare. Il “corpo” è l’uguale (o forse non è già più l’uguale?) che prende a differirsi in proliferazioni di altri da sé. Per Bene, come nota Pierre Klossowski, è «l’uguale che si tratta di contraffare (e disintegrare) implicando una dissomiglianza» nel gesto e nella voce. Si tratta di far emergere «la terza dalla prima persona». Tuttavia, la formula rimbaudiana del «JE est un autre» si complica: l’altro non è un “soggetto”, bensì un “oggetto” verso il quale tendere mediante pratiche, o rituali, di oggettivazione (Hermitage; Nostra Signora dei Turchi). Già dagli anni Cinquanta si registrano diverse poetiche “dell’oggettività”: l’école du regard di Robbe-Grillet (con esiti anche cinematografici), le implicazioni teoriche derivate dal «grado zero della scrittura» di Barthes, l’oggetto-sguardo di Merlau-Ponty, i corpi-cose nella scrittura di Beckett, la «riduzione o meglio rimozione dell’io e l’espansione delle cose» della neoavanguardia letteraria italiana dal Gruppo 63 ai Novissimi, i corpi e gli oggetti nella pittura di Bacon, le immagini-oggetto della Pop Art. Nell’opus di Bene l’oggettività, le pratiche di oggettivazione del corpo (si pensi ai rituali enunciati nelle varianti letteraria, teatrale e cinematografica di Nostra Signora dei Turchi) attraverso la tecnologia cinematografica assumono un carattere nuovo: la ricerca dell’inorganicità e l’insorgenza della macchina attoriale. In ciò si può cogliere forse quel che si gioca fra il teatro e il cinema di Bene, un punto d’intersezione che si esplicita nella ricerca del «metacorporeo», corpo disincarnato, “macchinico”. Il corpo è il luogo in cui il Soggetto non smette di scindersi in un altro da sé; il corpo è alterità che però non può che ripiegarsi sull’interno. Nei film di Bene il corpo è il luogo di una stessa superficie il cui interno e il cui esterno stanno in una relazione critica di continuità sempre reversibile. Il gioco oscillante interno-esterno è l’istanza paradossale che investe il corpo e il pensiero nell’opus di Carmelo Bene e che il cinema rivela con forza inaudita. Il corpo cerimoniale, liturgico, come lo ha definito Deleuze, del cinema beniano marca una distanza abissale dagli automatismi dei corpi quotidiani, “ordinari” o “straordinari” che siano, del cinema di Andy Warhol; così come manifesta un’assoluta diversità dai corpi-sguardo del cinema di Mario Schifano (si pensi al corpo di Anna Carini “vista dalle farfalle”, o a quello di Rada Rassimov, o ai corpi di Alberto Moravia, di Sandro Penna… o ancora ai corpi degli operai dell’Apollon, o ancora alle interpolazioni televisive dei corpi-immagine dei soldati vietnamiti…), o dai corpi “filmati” dal Cinema Indipendente, come ad esempio il corpo-occhio di Quasi una tangente (1966) di Massimo Bacigalupo, o il corpo-oggetto di Morte all’orecchio di Van Gogh (1968) o dei corpi “pellicolari” investiti da trasformazioni “chimiche” in Trasferimento di modulazione (1969) e in Nelda (1969) di Piero Bargellini. Nel cinema di Bene, deleuzianamente «il corpo non è più l’ostacolo che separa il pensiero da se stesso, ciò che il pensiero deve superare per arrivare a pensare. Al contrario è ciò in cui affonda o deve affondare, per raggiungere l’impensato». Ma a differenza di Deleuze, per Carmelo Bene tale impensato non è più «la vita». Con il pensiero dell’irrapresentabile e la contestuale critica al “Soggetto”, l’opera di Bene, soprattutto quella cinematografica, sviluppa, ancorché in modo assolutamente singolare e complesso, un côté postmoderno sul piano filosofico e non certo sul piano artistico, anche se apparentemente alcuni elementi di superficie tipici delle pratiche estetiche postmoderne della riscrittura, quali il pastiche e la citazione, possono sembrare come “anticipati” dalle sue opere. L’intertestualità è la conditio prima dell’opus di Bene, teoria e prassi di ri-scrittura e di ritestualizzazione radicale, che pertanto porta alla perdita irreversibile della fonte o al depistaggio deliberato, alla falsificazione delle fonti. Bene sostiene che «si riscrive perché non si può scrivere. Io riscrivo perché non sono Eva e tanto meno Adamo!» e anche perché, alla Borges, non è più possibile “esprimere”, ma soltanto citare; Bene riscrive soprattutto perché si sente «inattuale». La tecnica intertestuale «dell’anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee» ha informato tutto il suo esercizio teatrale, cinematografico e videotelevisivo: le pratiche della citazione/allusione, il discorso sull’attore (la situazione in luogo del personaggio), la musicalità del suono e dell’immagine (phonè), l’asincrono (il playback) ecc.
Nell’opus di Bene è riscontrabile una tecnica dell’anacronismo “puntuale”, deliberato e delle “attribuzioni erronee”, dunque false citazioni e false fonti – («… non vi darò le fonti, morirete di sete»). Non è certo casuale il continuo riferisi di Bene a Borges, il quale invita a “leggere” l’Odissea come se fosse posteriore all’Eneide e il De Imitatione Christi come se fosse scritto da Céline, o come se fosse attribuibile a James Joyce, o ancora, riferendosi al Chisciotte di Paul Mennard, mette in campo un concetto di “intertestualità bidirezionale” che, svincolandosi dall’ordine cronologico dei testi, gioca appunto sulle tecniche delle “attribuzioni erronee” e dell’“anacronismo deliberato”. L’intertestualità, come scrive Grande, è la «forma moderna della contaminazione e della citazione, del dialogo fra testi, forme estetiche e linguaggi» ed è la «scrittura critica che scova la profondità nella superficie, stana il classico nella parodia. L’intertestualità funziona ad almeno due livelli: uno palese e superficiale, dichiarato e smentito nella forma della citazione; l’altro occulto e profondo, annidato nella forma della allusione. E così come la forma palese della citazione consiste nel trasportare pezzi di testi da un luogo all’altro, da un’opera all’altra, allo stesso modo il dispositivo occulto della allusione consiste nella ramificazione polimorfa del senso in un linguaggio assonnato eppure vigile che dà luogo alle forme critiche del moderno: il fraintendere e l’equivocare» (cit. M. Grande, Il disturbo del tragico, programma di sala di Hommelette for Hamlet, 1987). L’intertestualità, intesa in senso genettiano come «relazione di compresenza fra due o più testi, vale a dire, eideticamente e come avviene nella maggior parte dei casi, come la presenza effettiva di un testo in un altro» (cfr. G. Genette, Palinsesti, Torino, Einaudi, 1982) è attiva nell’opus di Bene attraverso la forma della citazione. La citazione è un processo complesso: coinvolge contemporaneamente la porzione di testo citata nonché il prelievo e l’innesto nel nuovo testo. Bene fa un uso molteplice della citazione e della parodia, che in chiave metatestuale rivela i meccanismi e le logiche di funzionamento del passaggio testuale parodiato, riducendo la serietà del modello cui si riferisce mettendolo deliberatamente in ridicolo. Parodia, nel senso etimologico di “vicinanza” e al contempo «deviazione, alterazione, contrapposizione», ma anche autoparodia. Citazione in quanto parodia della forma, come ad esempio il gioco su configurazioni tipiche di “genere” (“archivio” tipologico formale e tematico), che implica la piena identificabilità dell’operazione di trasferimento: ciò evidentemente non richiede, anzi elude, l’atteggiamento fàtico dello “spettatore” (o “lettore”) rispetto al riconoscimento dello schema citato, e semmai riguarda la decostruzione critica dei sistemi di significazione cui si riferisce ad esempio il gangster film stile Nouvelle Vague in Nostra Signora dei Turchi (1968), dove Bene per puro divertissement sovrappone la propria “scrittura” filmica alle operazioni citazioniste di Godard stesso in Fino all’ultimo respiro (1960), quando Belmondo fa il verso a Bogart, o la ripresa in Salomè (1970) del contrappunto cristologico alla Anger di Scorpio Rising (1963) o la citazione puntuale della canzone popolare Abat Jour in luogo della danza di Salomè riferibile alla scena dello strip tease di Sophia Loren di fronte a Marcello Mastroianni nell’episodio “Mara” in Ieri, oggi e domani di Vittorio De Sica (1963). In ogni caso, e soprattutto nell’opera cinematografica, non solo allo “spettatore” non è richiesta alcuna cooperazione testuale, alcun contatto comunicativo, nessuna “negoziazione del senso”, ma addirittura viene deliberatamente “impedito di capire”. Teoria-prassi di intertestualità è l’operazione sottrattiva, o sottrazione, così come è stata definita da Deleuze, che pertiene alla riscrittura intesa come saggio critico su un’opera che è anch’essa un’opera. Secondo Deleuze, allorché Bene nelle proprie riscritture sottrae “qualcosa” ad un’opera originaria, come quando, nel testo teatrico di Romeo e Giulietta (1976) toglie, o meglio neutralizza, ciò che nel testo shakespeariano di riferimento è “Romeo”, accade che «tutta quanta l’opera, dato che manca adesso un pezzo scelto non arbitrariamente, forse oscillerà, girerà su se stessa, poggerà su un altro lato. Amputando Romeo, si può assistere a uno sviluppo sbalorditivo, quello di Mercuzio, che nella tragedia di Shakespeare era solo una virtualità. Mercuzio muore presto in Shakespeare, ma con Bene non vuole morire, poiché costituirà fra poco la nuova opera (…). Per operazione bisogna intendere il movimento della sottrazione, dell’amputazione, ma già ricoperto dall’altro movimento, che fa nascere e proliferare qualcosa d’inatteso, come in una protesi: amputazione di Romeo e sviluppo gigantesco di Mercuzio, l’uno inserito nell’altro» (cit. G. Deleuze, “Un manifesto di meno”, Sovrapposizioni, 1978, pp. 69-70). Carmelo Bene scrive e riscrive continuamente «testi altrui, ammettendo spudoratamente sia la fonte [da intendersi qui come opera oggetto di “discrittura”], che la propria successiva manipolazione», procedendo autoriflessivamente alla manipolazione delle proprie manipolazioni. Ma soprattutto, ri-scrive continuamente i testi propri: Nostra Signora dei Turchi, Un Amleto di
meno, Hommelette for Hamlet, Pentesilea, Hamlet Suite, Macbeth Horror Suite. Si tratta di un opus intermediologico, i cui testi «si camminano affianco, si sovrappongono, si differenziano, si ritrovano di nuovo», che (im)pone un ulteriore problema: non è possibile far derivare dalla cronologia delle opere una periodizzazione storica, il che tuttavia non impedisce di individuare delle fasi. L’opus di Bene non può essere “letto” in chiave cronologica, non ammette progressi, ma un continuum di differenze, cesure e ripetizioni. Non è deducibile una periodizzazione che proceda, secondo il criterio dello sviluppo, da un “primo” teatro, al “teatro senza spettacolo”, alla “macchina attoriale”, né è possibile registrare l’intenzionalità di Bene che estromette dal suo opus delle parti (dopo i diversi e reiterati congedi dal teatro nel 1967, 1979, 1989). È possibile semmai intravedere un percorso mai interrotto, un’antigenealogia che interconnette il teatro, il cinema, il video (televisivo), il radiofonico e il letterario nei plessi del significante di un opus che – non solo dagli anni Novanta – eccede il linguaggio, esce dalla “forma” per entrare in ciò che non ha modo. Incipit Carmelo Bene: dalla “sospensione del tragico” alla “macchina attoriale”
Carmelo Bene nasce a Campi Salentina (Lecce), in «terra d’Otranto, nel sud del sud dei santi», l’1 settembre 1937: «la nascita è un debutto prematuro, come il Caligola al teatro delle Arti, nell’ottobre del ’59 a Roma. Bisognava debuttare: è sempre stata una necessità imposta». E tra il tempo dell’infanzia e quello del debutto vi sono il Sud, il Salento tra Campi e Lecce, la guerra («giocare a spaventarsi sotto le bombe») e il dopoguerra, le malattie («quelle ordinarie e quelle straordinarie», i primi «disastri del corpo»), la formazione scolastica presso gli Scolopi e i Gesuiti, il “barocco” e le “chiese”, i rituali e le liturgie: «Io che sin dall’età di tre o quattr’anni servivo tre o quattro messe al giorno, trovavo esaudito nei giorni di festa il mio desiderio di celebrare il rosso con la cotta bianca. Quindi innegabile fascino del rituale, dell’ostia che io divoravo dalla fame – questo mangiare dio sconsacrato – quotidianamente, perché bisognava entrare in classe, dove gli altri arrivavano da casa mentre io ero lì dalle sei di mattina, reduce dagli altari dove avevo già vezzeggiato alle prime luci le mie splendide madonne bionde; biondissime come Cerere, un po’ pagane, eseguite secoli addietro da quegli straordinari artigiani della cartapesta leccese. Quindi questi azzurri, questi argenti, questi rossi e oro, questi rosa, questi incensi. (…) Il culto come oltraggio al dio assente mi avrebbe poi destinato a quella “rivoluzione” teatrale “copernicana”, alla “sospensione del tragico”, al rifiuto d’esser nella storia, in qualunque storia, anche e soprattutto in scena. L’essermi come Pinocchio rifiutato alla crescita è se si vuole la chiave del mio smarrimento gettata in mare una volta per tutte. L’essermi alla fine liberato anche di me» (cit. C. Bene, Sono apparso alla Madonna, Longanesi, Milano, 1983, pp. 14-15). Terminati gli studi classici, si trasferisce a Roma dove si iscrive contemporaneamente alla facoltà di Giurisprudenza e in un primo tempo alla scuola di recitazione Sharoff, poi all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico (rispettivamente «il metodo per risvegliare i sentimenti e quello per addormentarli»): abbandoni “già scritti”. Infatti Bene frequentava “in privato” la polifonia della propria voce attraverso un registratore “Geloso”. Il debutto avviene nel 1959 con Caligola di Albert Camus (regia di Alberto Ruggiero). Nel 1960, a Bologna, al Teatro della Ribalta, con Sylvano Bussotti concerta il primo Majakovskij; segue il debutto discografico: due 45 giri di Majakovskij per La Voce del Padrone. Nel 1961 Genova e Roma: Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, da Stevenson, al Teatro la Borsa d’Arlecchino; Tre atti unici di Marcello Barlocco al Teatro Duse e la seconda edizione di Caligola di Camus al Teatro Politeama. A Roma: Gregorio: cabaret dell’800 di Bene al Teatro Ridotto dell’Eliseo; Amleto da Shakespeare, con cui inaugura il Teatro Laboratorio, in Piazza San Cosimato a Trastevere, e dove mette in scena anche Pinocchio da Collodi. Carmelo Bene ha sempre rifiutato qualsiasi apparentamento alla neoavanguardia teatrale, alla “scuola romana”, alle cosiddette “cantine romane”, sostenendo di non aver mai teorizzato “le cantine” e di non aver mai avuta «la vocazione di fare l’eroe artritico». «Scendo a Roma e siccome non ci son teatri per le prove apro una specie di teatro-laboratorio dove non faccio che provare e far assistere qualche spettatore per pagare l’affitto. Nelle cantine al massimo ho preso qualche reumatismo. Da qui è nato l’equivoco del teatro nelle cantine, la scuola “romana”. Balle solo di Quadri e di Bartolucci: se le sono sognate. Ma quale avanguardia? Esistono solo le avanguardie storiche, quella futurista, quella sovietica» (intervista di Rita Cirio, Carmelodramma, «Espresso», 10 gennaio 1988). Tra il 1961 e 1963 al Teatro Laboratorio, oltre all’Amleto, passano Addio porco (rivisitazione di Gregorio: cabaret dell’800), due versioni di Majakovskij e Cristo ’63. In Addio porco e Cristo ’63,
happening (o “rituali”?), gli attori preparavano e consumavano in tempo reale cene quotidiane e cene liturgiche, “ultime cene” (premesse alle crocifissioni a venire) e si decostruivano attraverso «amnesie, vuoti di scena, identità smarrite». Dopo questo «teatro degenere» si rendono individuabili altre fasi teatrali interrelate (marcate, se non altro, dagli abbandoni al teatro annunciati e “messi in atto” da Bene). La prima riguarda le operazioni teatrali concentrate sulla forma letteraria “romanzo”: Manon dell’Abate Prévost, Pinocchio di Collodi, Il monaco di M.G. Lewis, Don Chisciotte di Cervantes. Bene tra il 1964 e il 1965 scrive «in forma di romanzo» Nostra Signora dei Turchi che viene editato nel 1966, quando ne elabora la prima variante teatrale presentata al Teatro Beat 72. Ma il 1966 è anche l’anno del Faust o Margherita, della seconda edizione teatrale di Pinocchio, nonché della sceneggiatura di Pinocchio dappertutto per un film mai realizzato e del fondamentale Il rosa e il nero, invenzione da Il Monaco di Lewis (in cui i “ruoli” attoriali sono cancellati per far apparire le “situazioni”). Sylvano Bussotti compone la partitura per la voce di Maria Monti, Vittorio Gelmetti elabora la colonna sonora sul piano elettronico (le campionature sono di Paul Ketoff); Salvatore Venditelli, che in seguito curerà anche il set di Don Giovanni (1970), predispone l’impianto scenografico. De Il rosa e il nero Bene scrive: «Se trascritta su d’un pentagramma, la messinscena de Il Monaco equivale a un’opera fuori registro. Come psicodramma è una situazione di cavie tormentate da nessuno (…). Teatralmente è musica (musicalmente è teatro). (…) Testualmente è un tradimento fedele». Testimoniano questo periodo due cortometraggi di Paolo Brunatto: Un’ora prima di Amleto, più Pinocchio (1967) e Bis (1967), entrambi prodotti da Giorgio Patara per la Documento Film. Un’ora prima di Amleto, più Pinocchio (dedicato ad Antonin Artaud) attesta le presenze nei teatri romani di Bene con Pinocchio e di Charles Marowitz con Amleto. Come rileva Aprà, il cortometraggio di Brunatto «è uno dei primi tentativi di sperimentalismo cinematografico italiano (…); è anomalo non solo per stile (macchina a mano, zoom frenetico, inquadrature rapide, montaggio ellittico) ma anche per la durata (18’ rispetto agli abituali 10’ richiesti come minimo dalla legge sui premi) e per l’adozione del bianco e nero e del 16 mm, poi gonfiato a 35 mm». Bis è un cortometraggio di 10’ circa sulle prove del primo atto de Il Rosa e il Nero girato in bianco e nero e in 16 mm, poi ingrandito a 35 mm. Il set è l’appartamento di Maria Monti, a vicolo del Cinque a Trastevere, in cui avevano luogo le prove de Il Rosa e il Nero e che veniva frequentato in quello stesso periodo dagli attori del “Living”. Al proposito Bene ricorda: «L’appartamento (…) era giorno e notte frastornato dai viaggi acidi di tanto Living Theatre (più volte tempestivamente ripescato sugli orli di davanzali chiarolunati) e da quelli miei superalcolici (…)». Da Un’ora prima di Amleto, più Pinocchio e da Bis, Bene eredita per i suoi film a venire la perizia tecnica di Mario Masini e un referente per la produzione: Giorgio Patara. In quei primissimi anni Sessanta, Masini (Il sogno di Anita, 1963, 8 mm) e Alberto Grifi (Cyril, 1960, Lariano 1961, Nonotte, girato con Beppe Lenti, 1961, tutti in 16mm), per vie autonome e indipendenti, danno avvio al cinema sperimentale italiano. Patara è titolare oltre che della Documento Film, anche della Nexus Film che finanzierà i cortometraggi A proposito di “Arden of Feversham” (1968), un documentario a colori (fotografia di Giulio Albonico), per la coregia di Carmelo Bene e Salvatore Siniscalchi, Hermitage (1968) e, giocoforza, il lungometraggio Nostra Signora dei Turchi. Rispetto a quest’ultimo, Masini ricorda: «Carmelo ricevette il finanziamento [da Patara] per girare dei documentari. Invece, con il coraggio di chi non ha scelta per realizzare il proprio progetto, impiegò tutto il denaro per girare Nostra Signora dei Turchi». A proposito di “Arden of Feversham” come si evince dalla domanda di revisione inoltrata nel giugno del 1968 era un documentario su «Alcune scene dallo spettacolo teatrale “Arden of Feversham” che sintetizzano lo spettacolo stesso. L’inserimento del dialogo, che è in parte una sintesi critica e in parte discorsi sul teatro, chiarisce la linea e lo sviluppo del teatro di Carmelo Bene». Il parlato porta citazioni estese da Le oscillazioni del gusto di Gillo Dorfles, da Miti d’oggi di Roland Barthes e dal testo teatrale omonimo. Rispetto a questo periodo Bene scrive a proposito di se stesso: «Nel primo decennio scenico, senza nemmeno il filo di un microfono, mi producevo come dotato d’una strumentazione fonica amplificata a venire, esercitando le medesime costanti orali d’una ricerca elementare irrinunciabile: la verticalità (metrica e prosodia) del verso (e del verso libero), gli accenti interni nel poema in prosa, il canto fermo (dal gregoriano al lied, di contro al belcantismo vibrato), il parlato d’opera, l’intenzione musicale, la dinamica e le (s)modulazioni di frequenza nelle contrazioni diaframmatiche, la non mai abbastanza studiata cura dei difetti, l’ampiezza del ventaglio timbrico e le variazioni tonali, lo staccato, l’emissione (petto-maschera-testa-palatale) della voce ecc., ma sempre costringendo altezze e picchi dentro il diagramma monotòno della fascia armonica (a
rivestire dell’alone il suono) e del basso continuo, mai disinserito; l’inspirazione e il fiato trattenuto, il guizzare vocalico esasperatamente tratteggiato a dissennare la frastica del lógos (fin dalla prima edizione del Pinocchio come infortunio sintattico): donde quel recitarsi addosso, magico che non fuggì ai più sensibili ascoltatori. Una palestra fondamentale, questa, “pre-amplificata” come in campo lungo (…)» (cit. C. Bene, Opere, Bompiani, Milano, 1995, pp. XXXIII-XXXIV). In una seconda fase i riferimenti intertestuali riguardano prevalentemente il teatro elisabettiano (da Edoardo II ad Arden of Feversham) e il periodo simbolista (da Amleto, o le conseguenze della pietà filiale da Shakespeare e Jules Laforgue a Salomè da Oscar Wilde). Segue il congedo dal teatro e il passaggio al cinema tra il 1968 e il 1973. È piuttosto significativo il fatto che Bene prenda congedo dal teatro dopo la sottoscrizione del documento collettivo al Convegno sul Nuovo Teatro tenutosi a Ivrea nel 1967, dove, nonostante le differenze, vi fu pure un punto di confluenza verso la messa in causa della «struttura espressiva e rappresentativa» del teatro, per una sua definitiva mutazione in scrittura scenica, in teatro laboratorio, in teatro di ricerca (cfr. Elementi di discussione. Convegno «per un nuovo teatro» – Ivrea, giugno 1967, in «Teatro», II, 1967-1968, n. 2). Il cinema è stato il laboratorio tecnologico in cui Bene ha forgiato la «macchina attoriale», che ha trovato uno spazio di sperimentazione nella videografica (dal 1974 al 1999) e che a teatro si è definita con Lorenzaccio (1986). Alla parentesi cinematografica, o «ciclo della dépense» come l’ha definita Bene, segue una terza fase, quella rivolta al saggio critico, all’essai, al metateatro (teatro sul teatro). Gli anni Settanta segnano – oltre a S.A.D.E. ovvero libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della gendarmeria salentina (1974) – la fase delle riscritture shakespeariane, della scrittura sottrattiva (pratica presente anche nelle opere precedenti), o “discrittura” come ha chiarito Deleuze, e della “sospensione del tragico”: Amleto (da Shakespeare e Laforgue), 1974; Romeo e Giulietta (storia di W. Shakespeare) secondo Bene, 1976; Riccardo III, 1977; Otello, o la deficienza della donna, 1979. Seppur differente, questa fase è fortemente intrecciata alla coeva produzione televisiva, – che marca l’avvento della strumentazione fonica amplificata (tecnologia della phonè degli anni Ottanta) – e alla “svolta” concertistica per voce sola. La strumentazione fonica amplificata è un sistema di tecnologie sonore integrate (microfoni, casse acustiche, monitor, spie audio gestiti da un elaboratore elettronico) dal quale origina – attraverso l’amplificazione, la risonanza e il play-back – “la macchina attoriale”. Per svolta concertistica si intende l’assunzione di voci altre nella propria (in qualche modo anticipata da e intrecciata con le diverse versioni di Spettacolo-concerto Majakovskij dal 1960 al 1980). Si tratta di: Manfred, Hyperion di Bruno Maderna (1980); Lectura Dantis per voce solista (1981); Canti orfici di Dino Campana (1982); Egmont (un ritratto di Goethe), 1983; …Mi presero gli occhi da Hölderlin e Leopardi (1983); Adelchi (1984); Pentesilea la macchina attorialeattorialità della macchina, momenti n. 1 e n. 2 del progetto di ricerca Achilleide, da Stazio, Kleist, Omero e post-omerica (1989-1990). Alla fine di gennaio del 1988 Bene è nominato direttore artistico della sezione teatro della Biennale di Venezia per il 1989-90, periodo in cui ha curato un laboratorio su Tamerlano il grande di Marlowe, e per il 1991-92, periodo in cui avrebbe dovuto curarne un altro su Bafometto di Klossowski mai realizzato. Laboratori interdetti al pubblico, dedicati al “teatro senza spettacolo” e alla “ricerca impossibile”. Si è trattato più propriamente di una ricerca incompiuta, affatto “impossibile” da concludersi, date le contingenze politiche, economiche e culturali dell’Ente che hanno costretto Bene alle dimissioni. L’intera vicenda (con i suoi strascichi legali) si è svolta in modo davvero paradossale; come ha rilevato Giancarlo Dotto: «Un Ente di Stato si affida, anima (si fa per dire) e portafoglio (scarso), al suo diavolo in corpo. Come insediare un “serial killer” alla presidenza di telefono Azzurro. Dov’è il cortocircuito?». Segue alla parentesi della Biennale un periodo di assenza protratta in cui Bene, a suo dire, «si disoccuperà di sé». Gli anni Novanta sono segnati, oltre che dall’edizione della sua opera omnia (Opere con l’Autografia di un ritratto, 1995), da una fase – anticipata da Lorenzaccio, al di là di De Musset e Benedetto Varchi (1986) e da La cena delle beffe (1989) – nella quale a teatro, Bene ha trasferito, con una radicalità inaudita, tutto quanto accadeva in scena dal visivo al sonoro, ovvero alla musicalità che si dà tra voce e silenzio, secondo due percorsi tematici intersecati: il «teatro senza spettacolo» e il «concerto d’autore-attore»: Hamlet Suite (1994); Macbeth Horror Suite (1996); Adelchi (1997); Voce dei Canti (1998); Pinocchio ovvero lo spettacolo della provvidenza (1998); In-vulnerabilità d’Achille (1998); Gabriele D’Annunzio: concerto d’autore (poesia da “La
figlia di Iorio”), 1999. Il primo percorso è definito dalla macchina attoriale amplificata che (si) gioca a scindere la visione dall’ascolto o trasporre l’una nell’altra nell’ossimoro «dell’ascolto visto» e «dell’immagine udita». Il corpo separato dalla (propria) voce, la manca (manca la sincresi nel play-back), se ne distacca in ritardi incolmabili. E se in Lorenzaccio «la macchina attoriale CB» lascia in scena il proprio «corpo» che si danna «a inseguire i suoi passi, i movimenti, i gesti esitati dalla risonanza, vanamente cercando di ridurre l’intervallo di quel suo già insostenibile ritardo» rispetto al sonoro che lo precede, lo rende vano, in Macbeth Horror Suite o in Pinocchio ovvero lo spettacolo della provvidenza, il corpo stesso è un automatismo assolutamente indifferente al suo «fuori tempo». Insegue estasiato la voce disappropriata, «gesto» che rimanda al «giretto» di cui parla Deleuze a proposito del movimento in Bacon. Carmelo Bene, infatti, si muove “in scena” come in una passeggiata a handicap, tracciata proprio sugli autoimpedimenti del corpo. Ma come sostiene Deleuze: «Al di là del movimento c’è l’immobilità, al di là dello stare in piedi c’è lo stare seduti, e al di là dello stare seduti, lo stare distesi, per poi infine dissolversi». Ed è l’immobilità del “corpo” a segnare il secondo percorso teatrale, quello del “concerto d’autore-attore” che si compie nell’integrazione tecnologica tra l’amplificazione elettronica e la voce. L’immobilità, la staticità del corpo implode nella polifonia della voce come accade, ad esempio, in Gabriele D’Annunzio: concerto d’autore (poesia da “La figlia di Iorio”); la macchina attoriale amplificata CB riscrive, strumenta le voci di Aligi, Mila di Codra, Lazaro di Roio, Candia della Leonessa - in-canto. Il flusso delle modulazioni, la somatizzazione del canto (nel diaframma, nella bocca) è ritmo e decostruzione del verso nelle diverse velocità della voce polifonica tra silenzio e musica. Modi vocali (soffio, grido…) nei ritmi di una voce polifonica e amplificata che investe intensivamente, con le proprie onde sonore, il corpo dello spettatore mettendo, come direbbe Deleuze, «orecchi nel ventre, nei polmoni…». Sono i modi vocali in cui «il corpo fugge, ossia fuoriesce dall’organismo…», fugge attraverso la bocca; modulazioni attraverso le quali il corpo dell’autore-attore Bene si disincarna, scompare nella sua stessa voce e diviene il “corpo” sonoro della macchina attoriale amplificata, che dilata «il ventaglio della dinamica della voce per restituirla alla sua cavità interna», alla bocca. L’eccedenza della forma è qui tendere all’oltrepassamento del linguaggio tout court e dell’arte, è il modo in l’a(u)ctor Carmelo Bene intende fuoriuscire dall’opera sottraendosi alla scena. In-vulnerabilità d’Achille Impossibile suite fra Ilio e Sciro (autunno 2000), che segue il poema ‘l mal de’ fiori (marzo 2000), segna un’ulteriore repentina e coerente mutazione che investe, oltre “l’autore” (che si dichiara, non può che dichiararsi, volens nolens «autore di niente»), il «testo intentato» che sempre «è (deve essere) smentito, travolto dall’atto, cioè de-pensato». Poema «scritto in voce», ‘l mal de’ fiori è «esercitazione poetica» in cui Bene si conferma «straniero nella propria lingua»; il «crogiuolo di idioletti, arcaismi, neologismi di che trabocca il poema» si manifesta in una scrittura plurilingue che non si può più dire: «spacciato anche l’orale nella “lettera del testo” s’im-prime soltanto l’ascolto». In In-vulnerabilità d’Achille, per vie diverse, l’ascolto e il silenzio spalancano davanti allo sguardo lo spettacolo del nulla: nell’incipit e in certi suoi passaggi. Il silenzio è l’incipit di In-vulnerabilità d’Achille. La cornice del palcoscenico inquadra uno spazio funerario schermato da veli da sposa in rovina e disseminato di volti, busti, avambracci, pezzi lattescenti di manichini che Carmelo Bene meccanicamente prende a montare e a smontare in figure incongrue, deformi, per definire l’immagine di Pentesilea. Bene ha scritto: «Per me, l’In-vulnerabilità d’Achille, fra Ilio e Sciro è un fatto testamentario: il mio funerale ridicolo». Lo s-concerto testamentale che è accaduto “tramite Bene” si è distaccato definitivamente dal “testo”. In scena non c’è che il testo. Carmelo dice di se stesso: «CB si è da tempo eliminato ed è il testo che mi reclama». Carmelo Bene muore il 16 marzo 2002, a Roma. «Un’opera non è di un autore e neppure la vita lo è». Ma la sua immensa opera, che lo ha reso postumo a se stesso, lo sottrae in qualche modo alla morte; come i suoi “Amleto”, “Otello”, “Macbeth” … Carmelo Bene svanisce, si dilegua in chissà quale “altrove”, definitivamente fuori di sé, fuori dal corpo-metastasi, fuori da ogni dove. Dopotutto, non ha fatto che questo Bene, con rigore estremo, per tutte le vite che ha esperito dal Caligola (1959) all’ultima Lectura Dantis, alla fine dell’estate del 2001 a Otranto. Esercizi di mortalità per apprendere la tecnica dell’abbandono, per sperimentare l’assenza di sé, «per mettere in gioco i limiti del “corpo” e la capacità di pensiero che vi è in essi». Bene ha sempre analizzato sino al limite i linguaggi dell’arte, costruendoli e decostruendoli, attraverso la sua opera, in una ininterrotta modificazione del limite stesso, trasformandolo in “soglia”, in un passaggio, in un varco verso qualcos’altro. Il linguaggio teatrale, con i suoi
costitutivi sdoppiamenti e alterità (testo letterario drammatico e testo spettacolare), con le sue ripetizioni differenti (le varianti dei suoi testi spettacolari), con l’autorialità dell’attore, è stato il campo disciplinare, il margine filosofico e teologico, dell’estetica di Bene dalla «sospensione del tragico» al «teatro senza spettacolo». Il teatro è stato per Bene pura impasse quale esercizio di congedo impossibile dal Soggetto e proprio in quanto tale matrice del suo opus perché, a suo dire, per «mancare» «dovrò pur esserci, per non esserci, in scena». Complemetarmente al percorso tracciato, ricondotto a “snodi” tematici e cronologici, a delle “fasi”, si può tentare un approccio alla complessità della teoria-prassi dell’opus di Bene mediante una serie di termini operativi che ne sostanziano l’idioletto. Alcuni termini-chiave sono: «sospensione del tragico», «parodia e autoparodia», «variazione», «donna-ragazzo», «situazione», «inorganico», «scrittura di scena», «play-back», «lettura-oblio», «phonè», «teatro senza spettacolo» e «macchina attoriale». Sospensione del tragico
La sospensione del tragico è un metodo che attiene, nell’opus di Bene, allo snodo teorico dell’impossibilità della rappresentazione, dell’irrappresentabile; è innanzitutto “sospensione del senso”, riserva inattingibile del senso di contro la pretesa di una sua fungibilità; è un metodo critico, saggisitico, che attiene alla riscrittura dei testi teatrali in scena, ma non solo, riguarda il sovvertimento della “fabula”, il ripetersi della “storia” secondo l’articolazione narrativa e l’arco drammatico dispiegato nel discorso tra un incipit e un exciplit. Per Bene il fatto che la “cecità” di Edipo sia già data quando la sua storia viene rappresentata apre il gioco intertestuale che non può non attivarne la parodia. La sospensione del tragico è depotenziamento, sovvertimento, del tragico che si manifesta in primis come “rifiuto di morire in scena”. È l’addormentarsi, come nella novella delle Mille e una notte in cui Ali Shar «dopo il suo tanto affanno sperperato a rapire la sua bella Zukuruck, che, innamorata, l’attende all’alba, stremato, sotto la finestrella di lei s’addormenta». Con Romeo e Giulietta (storia di W. Shakespeare) è ben evidente la sospensione del tragico: Mercuzio-Bene, ferito da Tebaldo, rifiuta la morte – ma non il morire – e resta ad libitum agonizzante perché «non muore, non può morire (…), la morte sarebbe la catarsi, la liberazione, e dunque la possibilità di rinascere». Mercuzio agonizzante in scena “sospende il tragico” («…ridi, ridi… non si muore più…») e segna definitivamente l’irrappresentabilità dell’evento (spettacolare) sulla scena, artefice il dispositivo della strumentazione fonica. Romeo e Giulietta sono proiezioni mentali di Mercuzio che doppia con la sua voce Romeo. Così Bene intende l’irrappresentabilità dell’evento o il non-evento e il “patetico” che ne origina: Romeo e Giulietta, Mercuzio, Riccardo III, Otello a ogni exciplit s’addormentano estenuati. Il tragico è legato all’Io, è “una vicenda dell’Io”, così come la rappresentazione stessa lo è; perché a teatro “lo stare per” è anche stare “al posto di un altro”, assumerne il ruolo e comunque accettare un’identità. Si pone dunque il problema (identitario) del Soggetto e della soggettività nel linguaggio. Bene intercetta così, nel suo opus, il pensiero del Soggetto da un côté filosofico (Nietzsche, Husserl, Deleuze, Derrida, Benveniste ecc.). Egli esperisce a teatro, anche attraverso la fondamentale sperimentazione cinematografica, l’impossibilità di prendere congedo dal Soggetto, perché è necessario esserci in scena per non esserci; in questa impasse paradossale consiste il processo delle autocontestazioni dell’Io nell’opera di Bene. Egli constata anche l’impossibilità di poter uscire dalla tradizione culturale («il n’y a pas de hors-texte», come sosteneva Derrida) e sul piano teatrale ciò si traduce in una interlocuzione critica che focalizza il teatro del grande attore ottocentesco, il teatro lirico, la contrazione sincretica rispetto al “pensiero del corpo”, tra il corpo organico e “musicale” della teoria di Adolphe Appia e l’inorganicità della Übermarionette di Gordon Craig. Parodia e autoparodia
C’è un legame tra la “sospensione del tragico”, l’irrappresentabile e la parodia: «Basta cogliersi in un gesto o pensare un istante a ciò che si sta dicendo, ripensarlo e sorge la parodia. Questo vale tanto per l’attore che per il pubblico: perché, da questo scontro fra ciò che sto dicendo e ciò che sto opponendo a ciò che sto dicendo, nasce una terza cosa che è l’impossibilità del teatro e dunque l’impossibilità del teatro irrappresentabile. Rimane il teatro irrappresentabile nel senso di irripetibile» (cit. C. Bene, Dramaturgie, 1977, p. 160). Variazione
Secondo Deleuze (e la sua definizione può essere estesa anche agli audiovisivi) è anzitutto la voce polifonica che mette «la lingua e la parola in variazione continua. (…) E questa variazione non
intacca soltanto la situazione esterna, non soltanto l’intonazione fisica, ma intacca dall’interno il significato, la sintassi, i fonemi». Ora, questo processo, che mantiene in variazione continua lingua e parola, coinvolge nello stesso flusso di continuità anche la dimensione non strettamente linguistica (azioni, passioni, gesti…). (cit. G. Deleuze, “Un manifesto di meno”, in Bene, Deleuze, Sovrapposizioni, 1978, pp. 78, 81). La variazione quindi è da intendersi come «differenza senza concetto» non «differente da» alcunché, come l’eccedere la forma, l’essere in balìa dei significanti. Donna-ragazzo
La donna-ragazzo del teatro elisabettiano è una «donna presente-assente». La revoca di tale interdizione avrebbe, secondo Bene, segnato la «scissione tra maschio e femmina, condannati a caratteri sessuali» di contro alla simbiosi, all’androginia, all’esser fuori dal ruolo dei sessi “maschio” “femmina”, fuori dai sessi tout court. (Cfr. C. Bene, La voce di Narciso, Il Saggiatore, Milano, 1982, pp. 62-75). Le “situazioni” e “l’inorganico”
Per Bene non esistono personaggi, né attori ma corpi attoriali e “situazioni”. I corpi attoriali sono parti integranti della partitura audiovisiva e consistono in un concatenato insieme di voci, parole, rumori, sguardi, gesti, movimenti, colori, luci, vesti. Le “situazioni” si definiscono anche come fasci di virtualità che portano a implosione l’identità dei personaggi e che si rendono percettibili nello stesso corpo attoriale in quanto sempre altrove rispetto a dove si mostra. Da qui nasce il rifiuto del “soggetto” di qualsiasi «teatrino dell’io» non solo delle dramatis personae, ma anche degli «attoriinterpreti-recitanti». L’iconoclastia di Bene non può non coinvolgere anche – soprattutto – il teatro, da dove ha origine la negazione assoluta dell’immagine che non sia “ascoltabile”, che non sia anche sonora e proprio qui s’installa l’ossimoro dell’«ascolto-visto» e dell’«immagine udita». Per Bene «non solo l’orecchio è ascolto, ma anche l’occhio è ascolto: una poggiatura del capo, una frantumazione del gesto, una disarticolazione del corpo». Il corpo attoriale diventa macchina (organicità sottratta). La cena delle beffe è «un saggio sull’automatico», sull’organicità sottratta (o autocancellata). Umberto Artioli scrive – nel programma di sala Il fascinans e il tremendum dell’inorganico – di uno spazio vuoto in cui le “situazioni”, i corpi attoriali «fasciati di pelli e di carni finte sono mere apparenze pellicolari; inabilitati a deambulare, hanno smarrito il ricordo della vita organica. Che si spogli il corpo o si sfogli il copione (…), assidua rimbalza la figura dello scacco». Scrittura di scena
Di contro alle teorie e alle prassi del teatro occidentale – teatro del testo letterario drammatico “a monte”, memorizzato e riferito, (teatro del detto, del già detto) rappresentato (ri-presentato) – Bene pone, tra la metà degli anni Settanta e gli anni Ottanta, la scrittura di scena come radicalizzazione definitiva «dell’idiosincrasia abissale tra scritto e orale». La “scrittura di scena” è «tutto quanto non è il testo a monte, è il testo sulla scena». Il testo letterario drammatico diviene un materiale di scena, «ha la medesima importanza che può avere un parco lampade, la musica, un pezzo di legno (…) La scrittura di scena non è mise en scène, ma è un doppio movimento: è un levar di scena, un sottrarre, amputare elementi, pezzi dell’opera “originaria” (“materiale” di scena che, come ha rilevato Deleuze, prenderà a oscillare, poggiando su altri punti che si svilupperanno come anomale proliferazioni) e un aggiungere evocando tutte quelle “zone” testuali estromesse dall’unica zona notificata dall’opera “originaria”. “Play-back” e “lettura-oblio”
Play-back è l’esteriorità-estraneità della voce dissociata (assunta o rifiutata) dal corpo-immagine che assicura «l’ampiezza delle variazioni». La “lettura” della partitura è una memoria-di-lettura che si sgancia dal ricordo (sistema mnemotecnico dell’attore e anche transito per il contatto attorepersonaggio), è amnesia dello “scritto”. Con Romeo e Giulietta l’impiego del play-back costituisce «la prima avocazione-frantumazione» di tutte le “situazioni”, «espediente tecnologico-teologico (…) del situare la voce al di là del soggetto». La lettura è per Bene “l’esser detto”; leggere dunque non per ri-ferire, re-citare, per ricordare nella (errata) presunzione che lo scritto corrisponda all’orale (giacché tra scritto e orale vi è una profonda idiosincrasia), ma al contrario per dimenticare; lettura come oblio, come non ricordo. Phonè
La strumentazione fonica amplificata rende possibile la phonè – che «è dell’esser detto, non del dire» – è l’ascolto. È la voce che «si ascolta dire. La voce è la sua stessa eco». La strumentazione
fonica amplificata infatti, soprattutto nelle alte frequenze, produce una risonanza in cui l’eco anticipa la voce emessa: «Il dire l’ascolto, un apparir della voce». Si tratta di «dimettersi come Io parlante». Bene si è «logorato sulla strumentazione fonica amplificata per stravolgere il concetto di soggetto». Come lui stesso sostiene: «È spacciato ogni dire. È la voce (abbandono nella lettura-oblìo) che si scorpora nell’alone del suono». Giacchè sostiene che la “phonè” «può essere un’utile “parola chiave”» se la si intende «per indicare o sfidare (…) il confine fra visione e ascolto, ovvero per disporre di un termine nuovo che della voce sappia raccogliere l’immagine – e viceversa della visione possa ricordare l’origine e la sostanza sonora. Se questo è il suo significato, si può dire allora che la phonè – appare allo spettatore come rottura della sincronia (…) tra corpo e voce, oppure tra gesto e parola e, dentro la parola, tra suono e significato» (cit. P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina teatrale, Bompiani, Milano, 1997, p. 141). “Teatro senza spettacolo” e “macchina attoriale”
La regia teatrale novecentesca intesa à la Craig come “Art of the Theatre” e la sua negazione dei “classici”, riconducibile al potere del testo letterario rispetto al testo spettacolare – “evento” teatrale (“teatrico”) che comincia e finisce nel tempo in cui si fa, in cui «la prima è già una replica» – brucia e si consuma sulla linea Diderot-Wilde-Mejerchol’d-Artaud-Bene pervenendo al “teatro senza spettacolo”, la cui tecnica è «una tecnica senza prodotto». Non c’è, come scrivono Dumoulié, Manganaro, Scala, da aspettarsi nulla: «Né oggetto, né opera di consumo culturale (…); i microfoni, (i mixer, gli equalizzatori, il dBx, l’aphex, l’harmonizer ecc.), i computer, le parole e le musiche sintetiche sono la macchina attoriale stessa che canta e modula senza misura né metrica». Il «cortocircuito audiovisivo del linguaggio» è la macchina attoriale «nella sua proprietà di strumentazione fonica amplificata» che mediante tecnologie informatiche permette di spaziare «dalle singole sezioni strumentali, alle immense masse sinfoniche equivalenti infinità d’orchestre (in pochi metri cubi di laboratorio), al campionamento-elaborazione-conversione sonora vocale; dalla invincibilità auditiva-fuori campo, all’attribuzione-espropriazione orale nei soggetti/oggetti e viceversa attraverso il play-back (ossequiato-disatteso dall’attore) nel naufragio inaudito, dei ruoli, finalmente irrappresentabili» (cit. C. Bene, Opere, Bompiani, Milano, p. XVI). È proprio la strumentazione fonica amplificata che in Lorenzaccio (1986) origina l’autonomia e l’idiosincrasia del significante sonoro rispetto ai gesti di Lorenzaccio-Bene, dentro la boîte scenica, ostentandone il sincrono e l’asincrono, interferendovi con volumi e sbalzi sonori impropri: «le pagine schioccavano metalliche, i liquidi scorrevano nei calici con il fragore delle cascate alpine» e le parole «solamente accennate erano come radiotrasmesse a un volume d’ascolto sconsiderato». I rumori amplificati precedono i gesti, oppure questi risultano privi di effetti sonori. Macchina attoriale, Lorenzaccio è un «incredibile film, se la ripresa delle immagini seguiva il già doppiato». CINEMA: LA MACCHINA ANTI-LINGUAGGIO
Il primo set cinematografico frequentato da Bene è il deserto d’Ouarzazate in Marocco, dove interpreta Creonte nell’Edipo re (1967) di Pier Paolo Pasolini (accanto a Paolo Brunatto, non accreditato nel ruolo di Laio, a Julien Beck, Tiresia, e a Franco Citti, Edipo e già Iokanaan in Salomè da Oscar Wilde nel 1964 al Teatro delle Muse a Roma). Set “non condiviso”; in scena, invece, Bene condivide con Pasolini «i suoi Citti, padre e figlio, tutti e due insieme» nell’Arden of Feversham al Teatro Carmelo Bene, in vicolo del Divino Amore a Roma. Teatro che chiude per passare al cinema proprio dopo il ritorno dal set desertico di Edipo re. In quel primo set, espropriato della voce, in una fissa, impassibile, «ottusa» corporeità senza tempo, Bene prende a conoscere il cinema come tecnica audiovisiva, ma fuori dal linguaggio dell’azione che tanta importanza andava assumendo invece nella scrittura filmica di Pasolini. (L’elaborazione di Edipo re è coeva alla teoria del «cinema di poesia» e del cinema come «lingua scritta della realtà» «che si manifesta sempre in azioni»; cfr. P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1972). Per Bene, al contrario, l’azione è ideologica. Atto e azione devono risultare incompatibili. Tale incompatibilità troverà un definitivo assetto teorico-pratico, qualche anno più tardi, con (la “virtualità” filmica di) Lorenzaccio (1986). Per Bene le tecniche di doppiaggio divengono modalità di traspropriazione della voce soprattutto in relazione agli attori “non professionisti”. L’attenzione che Pasolini dedica, nella sua opera cinematografica, agli attori non professionisti – e l’idiosincrasia che ne deriva per gli attori
professionisti – è motivata, rispetto al regime enunciativo della “soggettiva libera indiretta”, come eccesso di coscienza (e quindi di soggettività): «Un attore professionista è un’altra coscienza che si aggiunge alla […] coscienza» dell’autore (cfr. P.P. Pasolini, Intervista, in «Bianco e Nero», n.6, giugno 1964). L’attenzione di Bene, invece, è rivolta agli attori non professionisti proprio in quanto fondamentalmente non-attori che soli, fuori dalle tecniche recitative (e dalla comprensione del loro stesso progetto attoriale) passano attraverso gli atti che compiono sul set come per caso; essi sono «inattivi anche nell’azione che li gestisce». Sospendono i ruoli per farsi, attraverso l’immagine cinematografica, sistemi di linguaggi corporali-fisionomici “idiomatici”. Per Bene si tratta di operare, con rigore estremo, contro la nozione di “Soggetto”, sia esso autore, attore, regista o altro. Il passaggio cinematografico per Bene marca da un lato la sua conoscibilità internazionale (soprattutto in Francia), dall’altro segna un fallimento finanziario. Passaggio dettato «dal detestar qualcosa. Per poi demolirla». Bene sostiene: «Non è detto che ci sia riuscito. Qua e là se ne ha il sentore. È una sensazione, non una visione». Il cinema di Bene tende all’immediato, alla «sensazione» e, come sostiene Deleuze attraverso Valéry, «la sensazione è ciò che si trasmette direttamente, evitando l’espediente o il tedio di una storia da raccontare» o da rappresentare. Si è trattato di «smontare il cinema attraverso un altro cinema», fase cui è complementare l’assenza dal teatro, «sei anni di ininterrotto silenzio», dal 1968 al 1973. La filmografia è composta, attualmente, – (forse) definitivamente –, da due cortometraggi, Hermitage (1968) e Il barocco leccese (1968), e da cinque lungometraggi: Nostra Signora dei Turchi (1968), Capricci (1969), Don Giovanni (1971), Salomè (1972) e Un Amleto di meno (1973); manca però di altri cortometraggi, invisibili, forse perduti: A proposito di “Arden of Feversham” (1968) e Ventriloquio (1970-1971). Bene ha anche formulato una serie di ipotesi progettuali per il cinema mai realizzate: Pinocchio dappertutto (1966, alla cui sceneggiatura collaborò Nelo Risi che avrebbe dovuto dirigerlo per l’Associazione Italiana Cinema d’Arte, produzione di Franco Cancellieri) e Faust (“tratto” da La serata a Colono di Elsa Morante, film progettato nel 1969 con Eduardo De Filippo). A proposito del Faust Bene sostiene: «Sarebbe stato il mio miglior film, il più orrido». Del progetto per un film dedicato a Giuseppe Desa da Copertino rimane la «partitura per il cinema» A boccaperta editata nel 1976. Oltre che all’Edipo re di Pasolini, Bene ha partecipato – per ricuperare «un po’ di fondamentale denaro» – a Lo scatenato (1967) di Franco Indovina in cui, sostenendo la parte di un prete, dà un brevissimo saggio sul principio dell’impedimento-afasia, a Tre nel mille (1970), sempre di Indovina (Bene è doppiato), e a Colpo rovente (1970, sceneggiatura di Ennio Flaiano) unica regia cinematografica di Pietro Zuffi, film in cui Bene (sempre doppiato) interpreta il ruolo di un killer italo-americano, Billy Desco, che muore crivellato di colpi dentro una cabina telefonica di New York. Altro breve “saggio” in cui Bene evidenzia, attraverso il ruolo che pure sostiene, un’interpretazione che rende il personaggio al contempo svagato e attento nel suo vagabondare circospetto per le vie newyorchesi. (A New York, Bene frequenta Barney Rosset editore di “Evergreen Review”, rivista dell’avanguardia culturale). Partecipa inoltre a: Umano non umano (1969) di Mario Schifano in cui, insieme ad Alexandra Stewart, Bene insiste sulla comunicazione impossibile, a Necropolis (1970) di Franco Bròcani, in cui l’impossibilità di comunicare emerge nel dialogo plurilingue tra Bene e Viva (attrice di riferimento del cinema warholiano), e a Claro (1975) di Glauber Rocha (in cui Bene interpreta il “povo de Roma”), film che pone il tema dello “sguardo dell’Altro” da un punto di vista postcoloniale. Nel 1970 Bene scrive L’orecchio mancante (titolo che rimanda all’aforisma nietzschiano di Umano, troppo umano), un pamphlet «contro l’orrore dell’immagine e della scaletta a monte, quella che si chiama soggetto». Scritto con una babele di corpi tipografici e in una lingua inventata, gergalcinematografara è parodia della “sceneggiatura”, di cui è fatta oggetto La Signorina Felicita di Gozzano, per meglio evidenziare «i diversi modi in cui attraverso lo script cinematografico si possa deturpare la poesia». Alla fine degli anni Sessanta, il congedo dal teatro e la contestuale incursione nel cinema sono fatti che rivelano una precisa scelta di campo, operata da Bene, motivata da un interesse di tipo tecnologico, per cui il cinema diviene un’area di ricerca e di sperimentazione linguistica e un laboratorio audiovisivo nel quale mettere a punto la «potenza sonora» dell’immagine. Bene non pensa alla “musica” utilizzata e trasposta nei film (la musica applicata al cinema) e nemmeno al suono delle immagini, ma alla “musicalità” come modello da realizzare sub specie imaginis (Salomè). Il passaggio al cinema è una scelta culturale coerente con il delinearsi, nel corso della seconda metà degli anni Sessanta, della centralità del linguaggio cinematografico quale crocevia di altri
linguaggi e di altre arti, non solo in una “zona underground”. È una tendenza che in Europa si era già annunciata con il passaggio dalla letteratura al cinema di Alain Robbe-Grillet (che cura la sceneggiatura di L’anno scorso a Marienbad, 1961, di Alain Resnais) e di Pier Paolo Pasolini, e che sia negli Stati Uniti sia in Italia si andava esplicitando, in modo esemplare, come punto di intersezione tra pittura e cinema nell’opera di Andy Warhol e di Mario Schifano il quale nel 1962, a New York, espone, insieme a Tano Festa con i Pop americani, alla Mostra New Realists e frequenta Andy Warhol e lo studio del fotografo Bob Richardson (dal contatto americano prendono origine i primi cortometraggi Reflex, 1964, e Round Trip, 1964). In Italia sperimentano il cinema Gianfranco Baruchello, Tano Festa, Franco Angeli, Ugo Nespolo. Cioni Carpi allinea una doppia attività “cinematografica” (cinema “a mano”) e pittorica (Point and Counterpoint, 1960, cui seguiranno film sperimentali spesso destinati alla televisione o al teatro). Luca Patella, tra le molte opere filmiche, realizza SKMP2 (1968) che è un’interessante “performance iconico-visuale sulle performance” di Mattiacci, di Kounellis, di Patella stesso e di Pascali. Bruno Munari produce nel 1962 Arte programmata il primo dei suoi cinque film (tra i quali Tempo nel tempo e Sulle scale mobili). Per quanto concerne il cinema e la musica il sistema di relazioni è rilevantissimo: nel corso degli anni Sessanta è fortemente caratterizzato dall’opera di John Cage e, nell’ambito di Fluxus, dall’attività di La Mont Young, di Terry Riley e, in Italia, dall’attività del compositore Sylvano Bussotti che espone nelle gallerie d’arte grafi musicali e realizza brevi film (Rara Film, 1967-1970, con la fotografia di Mario Masini, non a caso su spartito di Cage). Anche la relazione cinema e teatro ha una rilevanza storica determinante e presenta anch’essa una derivazione avanguardistica (si pensi a V.E. Mejerchol’d [kinofikacija teatra], a Ejzenštejn, a Piscator, a Laszlo Mohloy-Nagy ecc.); nel corso degli anni Sessanta, in Italia, nel “teatro immagine” Mario Ricci impiega l’immagine cinematografica «come momento espressivo primario». Alfredo Leonardi, come Carmelo Bene, passa dal teatro al cinema; è tra i fondatori della Cooperativa di produzione e lavoro Cinema Indipendente (1967) e teorico del Cinema Indipendente Italiano. Leonardi realizza Living & Glorious (1965, 21’, 35 mm, sonoro su pista ottica), sulle prove dei Mysteries and Small Pieces (1964) del Living Theatre che conteneva frammenti di The Brig (La prigione, testo letterario di Kenneth Brown) che, a sua volta, fu oggetto, nel 1964, del film omonimo di Jonas Mekas. Un altro cortometraggio di Leonardi, Se l’inconscio si ribella/si rivela (1967, 21’, 16 mm, sonoro su pista ottica), si apre e si chiude con immagini tratte da Mysteries. Il Living Theatre è presente inoltre in “Agonia”, 1967, episodio diretto da Bernardo Bertolucci per il film collettivo Amore e rabbia (1969). Anche Alberto Grifi, dopo La verifica incerta, indirizza la sua attenzione “cinematografica” al teatro e realizza Pezzi dell’Amleto (1966) proiettato durante lo spettacolo di Leo De Bernardinis e Perla Peragallo, e registra “operazioni teatrali” come in Transfert per Kamera vs Virulentia (19661967) o happening interminabili come in No stop grammatica (1966). E, come già ricordato, Paolo Brunatto, con Mario Masini in qualità di operatore, in Un’ora prima di Amleto, più Pinocchio (1967), documenta l’Amleto di Charles Marowitz e il Pinocchio di Bene (1966), e in Bis (1967) Il rosa e il nero sempre di Bene. In tale situazione s’inscrive il fondamentale passaggio cinematografico di Carmelo Bene. Pensare oggi il cinema di Bene, pensare a cosa “pensano” i suoi film, procura – come ha scritto Ghezzi – «sfasamenti temporali». È un cinema che “eccede” la forma cinematografica portandola a implosione. I frammenti che ne derivano sono anticipazioni video (finanche video-clip) e richiami a un “cinema” e a film coevi, ma anche precedenti e successivi: l’avanguardia degli anni Venti (Ejzenštejn, Vertov), i film di Keaton, Freaks di Browning, la Nouvelle Vague di certo Godard, il cinema underground (Brakhage, Markopoulos, Anger, Rice), le filmografie di Schifano, Warhol, Glauber Rocha, Straub-Huillet, Fassbinder, Almodóvar, Lars von Trier. Richiami che tuttavia non c’entrano niente, o quasi, con l’idioletto iconoclasta di Bene. L’iconoclastia del suo cinema è volta contro la volgarità dell’immagine e investe tutto il cinema: certo underground e (quasi tutto) l’overground sia “d’autore” che di “consumo”. Si tratta di una «iconoclastia di principio» contro la volgarità dell’immagine, o meglio contro un certo uso dell’immagine, fatto, secondo le parole stesse di Bene, «da un cinema tributario, decadente, un cinema della provincia letteraria, dove si procede per attendibilità di racconto, scansione del lógos, ecc. ecc.». Iconoclastia che non può non coinvolgere anche la “visibilità” del teatro e il proprio cinema da cui si salverebbero, secondo la sua rigorosa autocritica, «due, tre sequenze in tutto: Erode che si lascia spellare vivo (alternato all’autocrocifissione mancata) in Salomè e la pellicola massacrata, calpestata, bruciata in Nostra Signora (parodia del ricordo)».
Come si è detto, il passaggio dal teatro al cinema, è dettato a Bene «dal dete-star qualcosa. Per poi demolirla». Non per un eccesso di consapevolezza à la Godard: «Noi siamo i primi cineasti a sapere chi è Griffith». E nemmeno per decostruire “Griffith” ovvero il linguaggio cinematografico divenuto storicamente, nei modi di produzione, dispositivo di narrazione, fabulazione (linguaggio che finanche nei film disnarrativi si presenta nella forma del lógos). Ma per smontare il cinema attraverso un cinema idiosincratico che non ha altra finalità se non quella della (auto)contestazione. Il “cinema” di Carmelo Bene è contro il cinema: nessun «cinéma de papa» da negare, nessun nuovo cinema da costruire, ma, tout court, il cinema da disfare in un progetto di annientamento che investe lo statuto di visibilità dell’immagine cinematografica e i codici della rappresentazione di cui si sostanzia e che nell’intenzione iconoclasta che lo muove non lascia possibilità di (ri)costruzione o di rinnovamento. Cinema irrecuperabile, politicamente “non organico”, scandalosamente dalla “parte sbagliata”, fuori contesto: esemplare l’antinomia di Nostra Signora dei Turchi che fu “il ’68” di Bene e che presentato alla XXIX Mostra Inter -nazionale d’Arte Cinematografica di Venezia divenne “l’anti-’68”. (Dopo l’interruzione del Festival di Cannes, anche la XXIX Mostra di Venezia, diretta da Luigi Chiarini – già lettore e spettatore delle varianti letteraria e teatrale di Nostra Signora dei Turchi –, fu oggetto di contestazione, ma comunque si aprì con due giorni di ritardo. Nostra Signora dei Turchi fu proiettato il 3 settembre e ottenne il Premio Speciale della Giuria ex aequo con Le Socrate di Robert Lapoujade. La Giuria era presieduta da Guido Piovene). La cultura antiumanistica di Bene lo conduce alla distruzione delle ideologie (che in Italia si caratterizzavano attraverso i paradigmi delle tre culture: cattolica, idealista e marxista) proprio nel momento in cui, a livello internazionale, le ideologie stavano implodendo nel «ciclo della protesta» nel contesto della rivolta del Movimento studentesco del 1968 (e oltre). E con Nostra Signora dei Turchi Bene si trova ad essere dentro il «ciclo della protesta» alla Mostra del cinema di Venezia del 1968, mentre i più giocano al ritiro «per motivi ideologici». Jonas Mekas dopo aver accettato, in un primo momento, l’invito del direttore Luigi Chiarini a far parte della giuria della Mostra, lo declina. Pasolini, che presenta alla Mostra Teorema, è impegnato in una complicata azione comunicativa tra l’ANAC (Associazione Nazionale Autori Cinema -tografici che si oppone alla realizzazione della Mostra e contesta oltre allo statuto di fondazione risalente all’età fascista, la politica cinematografica che si serve della cultura come alibi di copertura di un mero interesse mercantile) e Luigi Chiarini (ritenuto «vittima» di una situazione di potere). Bernardo Bertolucci, presente a Venezia con Partner chiede: «Perché il cinema italiano, […], insieme con le istituzioni e le strutture non comincia a contestare se stesso, e cioè il suo provincial-naturalismo piccolo borghese?». Bene, invece, si pone deliberatamente contro i giovani ANAC a difesa di Chiarini. Non crede nelle istanze rivoluzionarie del 1968 e non vi avrebbe creduto comunque, «fosse stata anche la rivoluzione russa», perché non crede nelle rivoluzioni sociali. Non a caso Franco Quadri analizzando la frequentazione, a partire dal 1960, dell’opera di Majakovskij da parte di Bene, lo definisce «un Majakovskij orfano della Rivoluzione». Negli anni intorno alla «rivolta del ’68» – anni in cui alcuni (ciascuno a suo modo) la anticipano o la attuano attraverso il cinema (I pugni in tasca di Marco Bellocchio, Prima della rivoluzione e Partner di Bernardo Bertolucci, Dillinger è morto di Marco Ferreri), altri la filmano (ad esempio nei documenti dei Cinegiornali del movimento studentesco italiano di Silvano Agosti, o nelle sequenze dedicate alle Black Panthers a New York nel film Occhio privato sul mondo di Alfredo Leonardi ecc.) e altri ancora la concretano sul campo delle istituzioni (scolastiche, mediali, familiari ecc.) – Carmelo Bene iuxta propria principia compie una singolare “rivolta” per mezzo del cinema non solo contro il cinema, ma anche contro l’arte. Il cinema di Bene è un cinema irrelato, non è classificabile, né catalogabile, ma può essere solo “registrato”, in quanto, come sostiene Gian Piero Brunetta nella sua Storia del cinema italiano, la stessa «raggruppabilità tematica, stilistica, poetica, ideologica degli autori in famiglie, tendenze, scuole, cooperative, che ci consente di operare un taglio netto tra produzione commerciale e produzione sperimentale, porta, alla fine d’ulteriori suddivisioni e ripartizioni, a riconoscere che i conti non tornano perfettamente. Rimane sempre fuori, quasi in uno spazio di nessuno, Carmelo Bene». Brunetta riprende il carattere d’inscindibilità tra lo sperimentalismo (o se si preferisce l’avanguardia) e il “mercato”, al quale Bene non ha mai inteso sottrarsi e che marca una ulteriore alterità della sua opera cinema-tografica rispetto al quadro del cinema nazionale tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, ovverosia rispetto al cinema underground italiano e alla Cooperativa Cinema Indipendente (Bargellini, Bacigalupo, Leonardi, De Bernardi ecc.). Vi è una prossimità con Mario Schifano, non riferibile semplicemente alla partecipazione di Bene a una scena di Umano non
umano. Si tratta, invece, di una prossimità che pertiene a due cinematografie «individualiste», quella «autonoma» di Schifano e quella «irrelata» di Bene le quali, come rileva Micciché, nel quadro del cinema sperimentale italiano, si pongono tout court come oltrepassamento dell’avanguardismo. Vittorio Boarini infine considera l’opera cinematografica di Bene come la sola «vera esperienza underground» del cinema italiano. La dimensione industriale del cinema è giocoforza accettata da Bene, il che implica la consapevolezza non drammatica che l’opera, il film, è una merce (sulla linea Adorno-Benjamin). La cognizione della difficile “indipendenza” dal denaro è una delle differenze fondamentali che separano la sperimentazione cinematografica di Bene da quelle dei film-makers del cinema indipendente italiano (e non solo). Egli intende collocarsi all’interno della logica economica del “sistema” neocapitalista cercando di utilizzarla per realizzare i propri progetti (atteggiamento quest’ultimo non dissimile da quello tenuto dal Gruppo 63). L’opera di Bene presenta una logica autre e tuttavia si colloca strategicamente all’interno del sistema dell’industria culturale (secondo l’insegnamento ricevuto da Eduardo De Filippo circa il management artistico e da Salvador Dalì circa l’annichilazione del dolore nell’opera). Bene sostiene: «Il cinema è un’industria e questo mi trascende». «Quando finisco un film entra in me una seconda persona che non sono più io. C’è un prodotto che è costato tot, allora bisogna scegliere tra il carcere e la sala cinematografica». Non essendo vocato alla “espressione” né alla comunicazione né tanto meno alla formazione di nessun tipo di pubblico, mal sopporta la programmazione dei suoi film nei circuiti d’essai. È consapevole che il fallimento economico non è imputabile a un problema di distribuzione. Bene subisce quelli che definisce «i rapporti di sala» (sala cinematografica) e il circuito d’essai in cui vengono “confinati” i suoi film dal momento che il pubblico non intende vederli («né in centro né in periferia»). Basti ricordare, tra i tanti episodi di “intolleranza” spettatoriale, la sala cinematografica Gioiello di Torino semidevastata causa la prima proiezione di Nostra Signora dei Turchi. Il cinema è un mezzo di comunicazione di massa, una macchina audiovisiva prevalentemente volta alla produzione industriale di merci: film orientati preminentemente alla narrazione, secondo dispositivi tecnologici retti dai codici della rappresentazione. Bene sa che il testo filmico investe almeno due circuiti di comunicazione interrelati: uno esterno tra il film (lo “schermo”) e il pubblico (la “sala”), e uno interno al film tra le persone finzionali. Sa, soprattutto, che lo spettatore cinematografico entra in relazione con il film attraverso i rapporti che i personaggi stabiliscono tra loro, mediante l’azione narrativa. Ma sa anche che non è sufficiente decostruire la logica della narrazione e della rappresentazione, mostrarne i meccanismi di funzionamento, per rifondare il patto comunicativo. Bene non crede nella tesi della “disalienazione” del pubblico (o meglio dei “pubblici” eterodiretti dalle forme «della società dello spettacolo») e assume quindi una distanza polemica dal cinema “indipendente” italiano, dalle sue pratiche di negazione critica della comunicazione, che coinvolgono le modalità di produzione e di distribuzione. Non crede nella «comunicazione della negazione della comunicazione esistente» (secondo la definizione data da Gianni Scalia circa la neoavanguardia letteraria). Manifesta una incredulità “crudele” (“crudeltà” in senso artaudiano) circa tutte le pratiche estetiche e politiche che perseguano lo scardinamento del linguaggio e la distruzione dei significati, ma anche dei significanti, sia come mezzo per “comunicare la rottura della comunicazione” (secondo la nota formula di Marcuse ne L’uomo a una dimensione) sia come strumento per denunciare il carattere ideologizzato in senso “borghese” e mercificato della comunicazione esistente. Così, dal centro della rivolta culturale del ’68, la questione dei film politici e, impegnati, “engagés”, è per Bene invalidata alla radice: «L’idea di cinema contiene senza dubbio un cinema di idee, ma il contrario non è vero. Il bandito delle ore undici, è un film geniale per questo, e Week-end è fallito per lo stesso motivo». Bene è davvero «un Majakovskij orfano della Rivoluzione». I film di Bene, attraverso la demolizione delle figure della “soggettività” nel linguaggio cinematografico, lavorano contro il sistema e i modi della rappresentazione, contro la radice della narrazione cinematografica (poiché lo spazio rappresentato sullo schermo diventa «il contenitore di un’azione» ovvero il dispositivo del racconto). Ma la dimensione industriale, rappresentativa e narrativa del cinema non è per Bene oggetto di una decostruzione che miri a “smontarne” il meccanismo semplicemente evidenziando il principio di costruzione del film, per mostrarne le relazioni strutturali (organizzazione della “textura”) e seriali (giustapposizione dei temi ricorrenti). Egli, come si è detto, mira alla (auto)distruzione dell’immagine cinematografica. Il radicalismo (cinematografico) di Bene fa sì che i suoi film si pongano tout court come oltrepassamento delle istanze dell’avanguardia, di qualsiasi avanguardia.
Invece, il cinema indipendente italiano pone un problema “altro”, quello della reinvenzione del linguaggio cinematografico. Guido Lombardi sosteneva che il cinema è un «modo di vedere che si attua in forme molto più oggettive di qualsiasi altra arte». «Come trasformazione della realtà in immagini e delle immagini in realtà, il cinema “inizia” da una cosa vista, guardata semplicemente per vedere, ma che contiene in sé la possibilità di una trasformazione, di un’altra esistenza nella vitalità dell’immaginazione che continua la realtà». Il cinema è semplicemente una delle tante forme della realtà. Con gli oggetti e gli ambienti c’è sempre e anzitutto lo sguardo che li vede, il pensiero che li rivede, la passione che li deforma. La registrazione oggettiva è anch’essa un’interpretazione. Tale poetica dello sguardo molteplice, al contempo dentro l’immagine e separato da essa, trova un inedito indirizzo nel progressivo estendersi dell’opera all’ambiente: dalle videoinstallazioni, all’happening di Michael Kirby e all’enviromnent di Allan Kaprow (in Italia attraverso Mario Ceroli e Pino Pascali). Inoltre, lo sguardo cinematografico è uno sguardo-protesi attraverso il quale poter vedere ciò che della “realtà” non vediamo, ma pensiamo (Bargellini, Brakhage). De Bernardi tematizza la registrazione dello sguardo del cineasta e, contestualmente, la creazione della realtà vista. Cinema complesso quello di Bene, ma non così “alieno” o “irrelato” come potrebbe apparire d’acchito e forse il contesto storico-culturale in cui si iscrive è l’unico contesto possibile. Il passaggio di Bene dal teatro al cinema se da un lato è motivato da una iconoclastia del “visibile”, dall’altro è marcato da un’attenzione rigorosa alla tecnica, alle macchine, ai dispositivi cinematografici. Un’attenzione tecnicolinguistica in cui Bene implementa un “sapere” che eccede immediatamente la conoscenza del medium e che subito prende a “sprogettare”, proprio attraverso la tecnologia stessa (tecnologia come risorsa). Tecnica (téchne) che – nonostante i film girati «a basso costo, in tempi brevissimi e con mezzi di fortuna» – è in grado di trasformare le materie espressive cinematografiche mettendole in relazione con i linguaggi degli altri media, facendoli interagire, contaminandoli, alterandoli in un cinema “intermediologico”. Ma, dal linguaggio del medium assunto – cinema o video – Bene non toglie quel tanto che, di volta in volta, con dislocazioni e combinatorie differenti, consente sia di reggere, per quanto transitoriamente, la strategia testuale dell’opera, sia di passare, non visto, ad altro linguaggio, surdeterminadolo o facendosi surdeterminare. L’eccedere la forma del linguaggio – teatrale, cinematografico o televisivo – è l’idioletto di Bene e consiste anche nella messa in interferenza di “macchine linguistiche” che fungono da dispositivi di intertestualità del circuito teatrale-cinematografico-televisivo-letterario. Tale intertestualità produce una forza sotterranea, che disgrega le convenzioni del medium adottato e che non avendo siti in cui potersi manifestare può solo rendersi percettibile, non visibile, nell’opera. Si tratta di un’intertestualità “patologicamente” autoriflessiva: è l’opera stessa che ripiega su di sé. Il carattere intermediologico e intertestuale dell’opus di Bene fa sì che il cinema non inizi con il primo cortometraggio, Hermitage (1968) e non finisca con il quinto e ultimo lungometraggio, Un Amleto di meno (1973), ma riveli un “prima” teatrale e soprattutto un “dopo” televisivo che si compie nel “teatro senza spettacolo” e nella “macchina attoriale”. L’interesse di Bene verso il cinema è “tecnologico”. Tecnologia che egli fa immediatamente contaminare (dall’etimo “lasciare una impronta tattile”) dal corpo attoriale in Hermitage. Come scrive Deleuze rispetto al circuito cinema-corpo-pensiero e all’immagine-cristallo «“dare” un corpo, montare una cinepresa sul corpo» acquista nel cinema di Bene «un altro senso, non si tratta più di seguire e inseguire il corpo quotidiano, ma di farlo passare attraverso una cerimonia, di introdurlo in una gabbia di vetro o di cristallo, di imporgli un carnevale, una mascherata che ne fa un corpo grottesco, ma ne estrae anche un corpo grazioso o glorioso, per giungere infine alla scomparsa del corpo visibile» (cit. G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1985, p. 211). L’opera filmica è la «gabbia di vetro o di cristallo» in cui Bene introduce il (proprio) corpo attoriale per farlo oggetto anzi per oggettivarlo in un cerimoniale. La cerimonia è la parodia feroce e crudele attraverso cui il corpo performatico si trasforma in un corpo cinematico-macchinico, automatico, inorganico. Il cinema è nell’opus di Bene la teoria-prassi dell’estromissione del soggetto, della soggettività nel linguaggio e del linguaggio tout court. Il cinema come macchina antilinguaggio. In tale rituale della dissipazione del sé gioca un ruolo importante un’estetica degli oggetti. Si tratta dell’ostensività degli oggetti, che nella versione letteraria di Nostra Signora dei Turchi (1966), Bene differenzia in oggetti dell’«orsa maggiore» e in oggetti dell’«orsa minore». Quelli dell’«orsa
maggiore» sono «i punti fissi del rituale, quali, ad esempio i gerani, anche appassiti, le candele, gli alcoolici, l’alcool puro, i portacenere, il vino molto graduato, lo specchio»; quelli dell’«orsa minore», motivo di distrazione continua, sono gli oggetti variabili «impiegati al ricambio quasi perenne, in quanto assolventi la funzione di variante tra il chimico officiante e gli oggetti fissi». Vi sono inoltre gli oggetti della «provocazione» scelti con cura, una volta per tutte, «adottando in prevalenza proprio quelli più indifferenti». All’interno di tali costellazioni di oggetti – cui si aggiungono anche oggetti da trovarobe teatrale (i cilindri, «i tanti suoi da teatro» ecc.) – il set diviene il luogo della parodia liturgica, in cui il corpo dell’attore è esso stesso oggetto e i cui gesti sono «vettori patetici». Bene contamina così la tecnologia cinematografica con il corpo attoriale e tale contaminazione diviene il luogo in cui si manifesta il paradosso del linguaggio: l’essere al contempo “al di qua” e “al di là” della macchina da presa, «l’essere da entrambi i lati». Ma l’essere un “obiettivo umano” alla Keaton, fonte e insieme terminale del proprio funzionamento, è insorgenza dell’automatico (autómatos “che si muove da sé”), di qualcosa che «deve negarsi nello stesso momento in cui non può fare a meno di proporsi». Il corpo attoriale come corps-caméra, che ha origine dal teatro e che è possibile identificare con il termine di “performatico”, comporta quindi una condizione di alterazione. Nell’opera cinematografica il corpo attoriale tende all’oggettivazione sia dal côté teatrale (profilmico) – (Hermitage, Nostra Signora dei Turchi, Capricci) – sia dal côté filmico, in riferimento soprattutto al montaggio (Don Giovanni, Salomè, Un Amleto di meno). Condizione che si rende evidente nelle interviste di quegli anni: «È nelle riprese che mi contesto, contesto i miei progetti e la loro realizzazione, contesto tutto»; «io improvviso sulla base di ciò che è molto elaborato»; «nel cinema esiste il montaggio, sicché il film non è soltanto già scritto, ma anche già letto, dal momento che viene montato. (…) Durante il montaggio, critico quello che ho girato». Il corps-caméra raccorda da sé e su di sé le inquadrature, le raccorda sulla propria “ipercinesi” e sulle proprie “immobilità” e, dall’interno dell’inquadratura, produce direttamente la propria variazione scalare: muta cioè, senza soluzione di continuità, “dimensione”, mettendo in variazione la relazione tra profondità e superficie. Ma il corpo attoriale è anche, come abbiamo già detto, il sito del rituale, della liturgia: è un corpo “set”, un corpo dissociato, attraversato dalla incongruità delle relazioni fra gesto e azione, dell’atto che manca l’azione. In ciò consiste anche la distanza, rispetto ai temi dell’inorganico, dall’arte estrema (Body Art) in cui invece l’azione si installa nel corpo e diviene corpo. Nel cinema di Bene le ferite sono inventate, ferita è la benda; come in Macbeth il rosso-sangue è già sempre una macchia di bende e lenzuola. «Ferita era la benda e non il braccio. Ecco un braccio bendato. Una ferita? E svolgi svolgi questa benda, svolgi, svolgi: bianco bianco men bianco un po’ di rosso rosso rossorosso più rosso (è qui la piaga?) Svolgi svolgi men rosso meno rosso meno rosso Bianco bianco più bianco e via la benda Niente (…)». Oppure, come accade in Salomè, si confondono wildianamente «macchie di sangue e petali di rosa». Le «cadute volontarie» in Nostra Signora dei Turchi sono invisibili; il crash automobilistico non sfalda la carne, le lamiere non tagliano in Capricci; i fili metallici che intrappolano il corpo non lo invadono in Don Giovanni; il togliere la pelle in Salomè è l’esfoliarsi dell’immagine, non del corpo. Così come a teatro in La cena delle beffe (1989) i corpi attoriali «fasciati di pelli e di carni finte» sono «mere apparenze pellicolari»: «dietro il derma non esiste nudità, ma il resistente simulacro di nuove vestizioni». Il “sangue” denso dell’autocrocifissione in Salomè, le ferite aperte sui volti di Rosencrantz e Guildenstern in Un Amleto di meno, sono la parodia del gore, del “trucco” che palesa lo sberleffo all’effetto speciale. Ma un cinema di “corpi” è anche un cinema di volti. E il volto in primo e primissimo piano, il volto attraverso particolari a tutto schermo, sospende la spazialità, sospende l’individuazione, poiché determina un aplatissement, uno schiacciamento dei volumi e una saturazione dello spazio schermico in un effetto di superficie in cui il tempo, in quanto durata, si fa sentire. Il cinema di Bene tratta il volto come oggetto e l’oggetto come volto, oppure nega il volto in quanto unità, disfacendolo, cancellandolo attraverso cerotti e bende o mediante il trucco “calcinato” (bianco ruvido e grumoso come calce sopra la pelle) e il maquillage («il trucco è meditazione, il trucco è interno» sia nell’opera cinematografica Nostra Signora dei Turchi, che in quella video Riccardo III). Oppure lo divide tra luce e ombra (richiamo a un altro cinema, quello di Welles e di Bergman); ma il volto diviso in due fra luce e ombra permane sotto il contagio di quest’ultima che lo corrode, lo distorce (questo soprattutto nell’opera video: Riccardo III, Manfred). Talora il volto, visto attraverso focali corte, diventa un puro oggetto di distorsione e di compressione. Ma la compressione è una figura espressiva che può operare, per esempio, tramite la costrizione di due volti in un’unica
inquadratura mediante l’utilizzo di specchi (Nostra Signora dei Turchi, fot. 1), o per mezzo della congiunzione-opposizione di due volti attraverso il “fuoco” dell’uno e il “fuori fuoco” (o flou) dell’altro (e viceversa; Salomè, fot. 2) o, ancora, mediante sovrimpressione (Don Giovanni, fot. 3). L’opera cinematografica e video di Bene è dunque un’opera di volti in «dé-visage», in disfacimento. Secondo Jacques Aumont «il dé-visage accade sotto il volto» (fot. 4) in quanto tendenza «a una disfatta dall’interno del volto» (cfr. J. Aumont, Du visage au cinéma, Editions de l’Etoile/Cahiers du cinéma, Parigi, 1992). Ma nell’opera di Bene il volto è «dévisagéfié» soprattutto perché costantemente mancato dalla voce nel “doppiaggio” (la tecnica della sincronizzazione labiale è totalmente decostruita attraverso la dissociazione tra il suono della parola udita e la parola vista sulle labbra) perennemente in asincrono (lo stesso accadrà a teatro con il play-back mediante l’impiego della strumentazione elettronica amplificata): volto la cui bocca, le cui labbra sono afasiche, contratte nel ritardo incolmabile della voce, di una qualsiasi voce. In questo processo, dalla meccanica del dispositivo cinematografico, dal suo svolgimento indifferente e automatico, dal taglio tra il corpo e la voce attoriali, dalla dissociazione della voce dal corpo (corpo cavo, cavità orale: os oris “bocca”) che l’emette, Bene ha infine estratto la voce separata, autonoma, illocalizzabile, sempre altrove rispetto al corpo. L’immagine visibile del corpo si (dis)fa (in) immagine orale come parodia cerimoniale presente nel corpo stesso, nei gesti anche vocali. «L’aprassia e l’afasia sono due facce della stessa postura»: afasia come «guasto della parola» e aprassia come «sincope del gesto». La parodia intesa come «parlare-accanto» originato dalle strumentazioni tecnologiche di “doppiaggio” (e poi, a teatro, dal play-back) fa emergere la dissociazione delle identità, dei “ruoli” disdetti. Tale dissociazione genera un’immagine ottica del sonoro: sono voci singole o polifoniche, asincrone, doppiate da voci altre o da rumori e suoni. Parodia come cerimoniale della «fine delle forme, del linguaggio» e del soggetto. Dal cinema in poi la strumentazione fonica amplificata è stata “strumento” di oggettivazione del “soggetto”.
FOT. 1
FOT. 2
FOT. 3
FOT. 4
Corpo, cinepresa e montaggio non sono che strumenti del ritmo, della musicalità dell’immagine. Si interroga Bene: «Chissà chi, che cosa, è riuscito in me e per me a musicare certe posture del corpo, certo reclinare del capo, certa inquadratura inclinata, la scelta delle luci, degli obiettivi». Musicalità sub specie film, ritmo; per questo la cinepresa diviene interfaccia del corpo attoriale e suo strumento di oggettivazione. La cinepresa è strumento del ritmo, in grado non solo di costruire i punti di attacco e di stacco tra le diverse inquadrature, ma anche di essere tout court montaggio, cioè ritmo interno all’inquadratura. Il ritmo nel cinema di Bene si costruisce attraverso un uso molteplice della cinepresa: macchina da presa “fissa” (interfaccia statica), macchina da presa come protesi corporea (interfaccia dinamica) e macchina da presa “aptica” (interfaccia automatica). La m.d.p. “fissa” registra, in funzione del montaggio, i movimenti del corpo performatico. La m.d.p. intesa come protesi corporea (vettore del movimento è il corpo stesso dell’operatore che l’installa su di sé in una specie di integrazione tecnologica, “macchina a mano”) “gira” addosso al corpo performatico. La m.d.p. “aptica” stacca lo sguardo dal corpo dell’operatore e produce un sguardo autonomo, automatico: la vista stessa scopre in sé «una funzione tattile che le è adeguata e che appartiene a essa sola, distinta dalla sua funzione ottica» (come in certi passaggi testuali di Salomè). La m.d.p. muove “addosso” al corpo performatico, interagisce contrastandone o assecondandone i gesti, gli atti. Frequenti sono i reframing, ma sono delle re-inquadrature affatto anomale che non “centrano” il corpo dentro l’inquadratura, semmai lo “mancano”, lo decentrano, lo disinquadrano continuamente. I movimenti di macchina sono essenzialmente movimenti in panoramica, rare le carrellate ottiche con violenti sbalzi in avanti e indietro. Movimenti sempre instabili, istantanei, vertiginosi, disorientanti. Il montaggio è paratattico ed è al lavoro quasi sempre per stacco netto, cioè a dire con passaggi immediati, senza soluzione di continuità, direttamente da una inquadratura a quella successiva; oppure apre con uno squarcio l’inquadratura stessa – facendo balzare lo sguardo dal più lontano al più vicino (dal campo lungo ai primi, primissimi piani o viceversa) in funzione di “intarsi mentali”, di dettagli, mettendo cioè un’immagine dentro l’altra. È un montaggio in cui le relazioni di contiguità sintattica avvengono per giustapposizione secondo un repertorio preziosissimo di effrazioni al sistema dei raccordi e alla regola classica dello spazio a 180 gradi (quest’ultima situa la m.d.p. e gli attori nello spazio del set, determinando una linea immaginaria d’azione tra “un al di qua” praticabile a 180 gradi e un “al di là” impraticabile secondo i codici del découpage classico, regolato da una sintassi dei raccordi, la cui figura fondamentale è costituita dal campo-controcampo). Viene a prodursi così una complessa, e strategica rottura del “punto di vista” che sul piano audiovisivo opera un’altrettanto complessa
mutazione delle forme dello sguardo (classificate da Francesco Casetti come oggettiva, oggettiva irreale, soggettiva e interpellazione), in un continuo trapassare dall’una all’altra, in un continuo sovrapporsi di un’immagine sull’altra, in un continuo “inabissare” di un’immagine dentro l’altra, sino all’indistinzione. E se il punto di vista è «un qualcosa in cui inevitabilmente confluiscono il punto di vista da cui si osserva, il punto di vista attraverso cui si mostra e il punto che si vede», allora la sua rottura – qualora correlata alle modalità enunciative dello sguardo – implica uno slittamento continuo nel mutare di una modalità in un altra. Talvolta, per esempio, la m.d.p. simula lo sguardo “in soggettiva” di oggetti (ma forse tutte le false soggettive nelle opere filmiche di Bene sono “soggettive senza soggetto”), come lo “sguardo” del vaso di fiori in Hermitage simulato da un controcampo anomalo, musicale (in cui passa «Alla vita che t’arride», atto I, da Un ballo in maschera di Verdi). Si tratta dunque di un punto di vista discisso, di uno sguardo contratto tra “l’infrazione del visibile” e la visione dell’inguardabile, sempre autoriflessivo, in quanto istanza impersonale di enunciazione che richiama “l’impersonalità della macchina attoriale”, “macchina antilinguaggio”. Scene e sequenze, infine, sono trattate in modo assolutamente eccentrico. Entrano in dissoluzione in Don Giovanni e in Salomè, dove emerge la giustapposizione di piani autonomi e finanche di “fotogrammi”, mentre in Un Amleto di meno assumono già caratteri “video”. La “scala dei piani e dei campi di ripresa” è completamente alterata sia perché il corps-caméra funge da dispositivo per una continua variazione scalare entro l’inquadratura, sia perché il “taglio” dell’inquadratura stessa è sempre in qualche modo “fuori scala”, oppure perché un certo tipo di piano o un certo tipo di campo è adottato per essere immediatamente contraddetto sia sul piano profilmico (come, ad esempio, le schermature in plexiglas in Salomè) sia sul piano filmico (come ad esempio attraverso la luce o il colore, in Un Amleto di meno). Anche la tecnica straniante dell’ingrandimento, del blow-up (“dettaglio” o “particolare” a tutto schermo) invece di aggiungere sottrae allo sguardo e porta a non vedere più nulla. Non solo. Tale sottrazione implica un concetto molto prossimo a quello «della frammentazione» secondo Robert Bresson, per il quale per scongiurare il rischio della rappresentazione è necessario «Vedere esseri e cose nelle loro parti separabili. Isolare queste parti. Renderle indipendenti così da porle in una nuova dipendenza» (cit. R. Bresson, Note sul cinematografo, Marsilio, Venezia, 1986). Per Bene il «massimo del blow-up ottico-acustico coincide con il minimo dell’ingrandimento (visibilitàudibilità zero). Ecco l’amplificazione come ri-sonanza». La scomposizione-frammentazione dell’immagine in particolari o dettagli di movimenti e gesti concorre alla deconnessione del corpo, determinando una forma di discontinuità in cui gesti e movimenti tendono a un’autonomia propria che è una autonomia delle “parti”. Non si tratta certo dell’estetica del dettaglio bigger than life del cinema “postmoderno”, ma è semmai riconducibile al «dividuale» secondo Deleuze: «Lo schermo, in quanto quadro dei quadri, dà una misura comune a ciò che non ne ha, totale del paesaggio e primissimo piano del volto, sistema astronomico e goccia d’acqua, parti che non si trovano allo stesso denominatore di distanza, di rilievo, di luce. In tutti questi sensi il quadro assicura una deterritorializzazione dell’immagine» (cit. G. Deleuze, L’imma gine-movimento, Ubulibri, Milano, 1984). Sono ricorrenti le disinquadrature (décadrages, fot. 5) che non producono semplicemente la decentratura dell’immagine (prospettiva obliqua, angolazioni estreme). Si tratta, infatti, di una inquadratura paradossale: la disinquadratura è nello stesso tempo «attivazione dei bordi e forza tranciante» che scinde l’immagine dal suo fuori-campo, proprio mentre ne accentua i margini (cfr. P. Bonitzer, Le champ aveugle, Gallimard/Cahiers du cinéma, Parigi, 1982).
FOT. 5
Rari sono gli interventi sulla pellicola, oltre che di sottoesposizione, di sovraesposizione e di solarizzazione (Nostra Signora dei Turchi, Salomè; fot. 6) anche di manipolazione diretta dei fotogrammi dipinti a mano (secondo un percorso di sperimentazione che va da Arnaldo Ginna e Bruno Corra a Douglass Crockwell, Len Lye, Norman MacLaren, Marie Menken, Stan Brakhage ecc.), graffiati e bruciati (la sequenza della «parodia del ricordo» in Nostra Signora dei Turchi; fot. 7), così come le commutazioni del tempo di scorrimento della pellicola (accelerazioni e rallentamenti improvvisi).
FOT. 6
FOT. 7
Ripetuto è l’uso di obiettivi con forti variazioni focali (in particolare in Hermitage, fot. 8) e schermature (gelatine, stoffe e vetri colorati, fot. 9 e 10).
FOT. 8
FOT. 9
FOT. 10
I testi audiovisivi di Bene sono oggetti possibili-impossibili, come le figure di Penrose, “possibili” in quanto figure visibili, “impossibili” in quanto oggetti anomali, irrealizzabili e che tuttavia consistono proprio della loro stessa contraddittorietà (antinomia tra la figura che si dà a vedere e il saper vedere dello sguardo implicato). Non sono testi che semplicemente enunciano forme estreme del linguaggio cinematografico (audiovisivo) sino al limite dell’incomprensibilità; sono invece testi che coerentemente costruiscono le condizioni stesse della propria incomprensibilità e incomunicabilità. Distinguendo fra le marche enunciative (costruzioni enunciative quali schermi secondi, specchi, oggettive orientate) e le marche stilistiche (configurazioni che agiscono prevalentemente sui movimenti di macchina, décadrages, scene, sequenze), Christian Metz (1990) sosteneva che il gioco sulle marche enunciative diviene «talvolta un tratto stilistico tra i molti altri», nel senso che a volte le marche stilistiche possono coincidere con le marche di enunciazione. Ora, nell’opera cinematografica e televisiva di Bene è possibile constatare come le marche stilistiche tendano a divenire tout court marche di enunciazione. È con il cinema che alla fine degli anni Sessanta Bene sperimenta attraverso il “corpo attoriale” il pensiero dell’irrappresentabile. Irrappresentabilità che manifesta il paradosso del linguaggio, la strategia (enunciativa) dell’impasse, dei percorsi a handicap in cui s’incidenta non solo il corpo, ma ogni elemento testuale. La conoscenza tecnico-linguistica del medium cinematografico consente all’autore-attore Carmelo Bene di sperimentare attraverso il dispositivo audiovisivo, quindi secondo nuove modalità, ciò che aveva praticato a teatro e di volgerlo definitivamente contro il “linguaggio”, l’espressione, la comunicazione. Il congedo temporaneo dal teatro marca l’impossibilità di fare ancora teatro. In fondo, è questa impossibilità che Bene esperisce proprio mentre sperimenta il cinema. E il cinema è la scoperta di come tale impossibilità coinvolga il linguaggio stesso (qualsiasi linguaggio, qualsiasi forma espressiva). E, tuttavia, il cinema è per Carmelo Bene, in quel periodo, l’unica possibilità a dire l’impraticabilità del linguaggio e dell’arte. Resta il fatto che, come già Artaud, Bene «ha creduto, un momento, il tempo di un’opera troppo presto interrotta, volontariamente interrotta, alla capacità che avrebbe il cinema di dare un corpo, cioè di farlo nascere e scomparire in una cerimonia, in una liturgia. Qui forse potremo cogliere quel che si gioca fra teatro e cinema» (cit. G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1985). Hermitage
Hermitage, dal racconto omonimo (premessa a Credito italiano V.E.R.D.I., 1967), è un cortometraggio a colori girato in 35mm; il richiamo al “romanzo” Credito italiano V.E.R.D.I. si esplicita attraverso diversi riferimenti intertestuali, fra cui il richiamo al Genesi (“Giacobbe sposa Lia e Rachele”, “Primi figli di Giacobbe”, “Altri figli di Giacobbe”). Il set è costituito dalla stanza n. 805 dell’Hotel Hermitage di Roma, in cui un tale (Bene) si “ritira” e dal corridoio sui cui si affaccia anche la stanza n. 804, la cui porta rimane inaccessibile: al di là una sconosciuta (Lydia Mancinelli). Nell’Hotel Hermitage le porte sono per il “protagonista” come lapidi, le stanze come tombe. Chiudersi dentro la stanza 805 significa per lui chiudersi in un luogo di rituali: svestirsi e rivestirsi, specchiarsi, bere, fumare, scrivere, dormire. Rituali con cui interferisce una figura femminile, una sconosciuta che bussa alla sua porta scambiandolo per un altro e
che, accortasi dell’errore, si dilegua. “Estasiato” il “protagonista” le scrive un biglietto che poi farà in modo – per un errore dissimulato – di recare a se stesso (uscito in corridoio infilerà il messaggio sotto la porta della propria stanza scambiandola per la 804, quella della sconosciuta). La voce off di Bene legge quanto il “protagonista” ha scritto (e che verrà mostrato in dettaglio): «Cara, è un divino errare ma il destino ti accompagnò alla mia casa… il passato tuo e mio non conta più… quindi devi tornare… credimi tua… ». Messaggio che una volta ritrovato sotto la propria porta egli trucca con le dita cancellando la gamba alla “a” di “cara” e di “tua”. Poi in asincrono la sua voce dice: «Basta è finita con chi mi vuole bene!»; egli quindi getta il biglietto dentro il wc, mentre la m.d.p. in panoramica verticale (dall’alto verso il basso) rivela dentro al wc una foto della sconosciuta. Sedutosi sulla grande poltrona accanto al letto con gesti meccanici si versa da bere, poi addormentandosi lascia cadere la coppa.
Hermitage è stato definito da Bene una «prova di obiettivi», una prova tecnica per il film a venire: Nostra Signora dei Turchi. Eppure già vi agiscono una precisa competenza linguistica cinematografica, l’uso di strategie enunciative del cinema underground e il dispositivo dell’intertestualità, in particolare, nella forma della citazione e dell’autocitazione. Ma Hermitage è il luogo in cui si manifesta per la prima volta il corpo cinematico di Bene, la presa di distanza dall’organicità del corpo attoriale, la perfomatività di matrice teatrale del suo cinema. È la premessa a quella teoria della solitudine che sarà, in fondo, il cinema di Bene. Solitudine che attiva l’immaginario. I rituali della contraffazione, del differimento dell’identità implicano – in tutta l’opera cinematografica beniana – la distinzione e, al tempo stesso, l’indiscernibilità tra «reale» e «immaginario», tra «presente» e «passato», tra «immagine attuale» e «immagine virtuale»: è «l’immagine-cristallo» di cui scrive Deleuze, la quale costituisce «un’illusione oggettiva» che non sopprime la differenza tra «attuale» e «virtuale», «reale» e «immaginario» e tra «presente» e «passato», ma la rende inassegnabile (cfr. G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1985). La stanza 805 di Hermitage è il luogo in cui l’a(u)ctor Bene non solo enuncia, ma dà inizio anche all’oggettivazione del sé attraverso il proprio corpo. Ciò che veniva solo annunciato in un passaggio del “racconto” letterario – «Guardò sul tavolo i fiori artificiali stralunati. Fu tentato di mettere il vaso nel letto al posto suo e lui sul tavolo al posto del vaso» – si compie nella variante cinematografica: il corpo si oggettiva sostituendosi al vaso. Bene compie la sostituzione: il soggetto è l’oggetto. Egli pone se stesso al posto del vaso di rose sul tavolino (entrando in un fascio di luce azzurrognola orientata dall’alto) e il vaso di rose celesti al proprio posto, tra il bianco dei cuscini del letto (campo sonoro). Bene vede, e a sua volta è visto dal vaso di rose artificiali celesti stinte, in un’alternanza di “primi piani” del vaso (campo sonoro) e primi piani del volto calcinato di lui mentre fuma e lo guarda insistentemente (silenzio) (fot. 11). L’alternanza dei campo-controcampo si chiude con la ripresa dell’inquadratura di avvio (una “semi-soggettiva” del vaso di rose). L’esser visto è un elemento di alterità che s’inserisce nella visione stessa innescando l’oggettivazione di sé, nell’immagine vista.
FOT. 11
Va rilevata l’articolazione già godardiana del montaggio tra “piani sonori” e “piani visivi” nei quali il suono si sospende. Nell’incipit il sonoro consiste in una texture di interferenze radiofoniche che rinviano alle sperimentazioni di John Cage (in particolare a Imagery Landscape no. 4. del 1951, composizione di dodici radio sintonizzate su canali scelti casualmente, in chiave dadaista, in cui il caso fungeva da «incidente rivelatore»). Hermitage enuncia la vanità del «voler dir tutto in un racconto»; “racconto” di cui s’incarica la voce di Bene, voce over che spesso si fa voce off, voce mentale: il corpo di Bene è immagine silente. La voce è altrove, separata, autonoma. Gli atti performatici a cui attende il corpo attoriale sono in lieve ritardo, fuori sincrono, rispetto al “dire” delle voci fuori campo. Non v’è altro “protagonista”, se non il corpo performatico di Bene che solo si sottopone alla fatica, simulata, di compiere degli atti a vuoto. La stanza 805 è già un set minato da “handicap”, da impedimenti, da oggetti che resistono alle loro funzioni, da lapsus, da interferenze femminili sonore e visive (come l’immagine di Lydia Mancinelli che richiama il volto estatico di Renée Falconetti, in La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer) (fot. 12 e 13). Il “protagonista” non ha nome, è un corpo performatico che diviene immagine. Come enunciazione del corps caméra, Hermitage è tout court una prova tecnica per il cinema di Bene.
FOT. 12
FOT. 13 Nostra Signora dei Turchi
Dopo Hermitage, Bene realizza Nostra Signora dei Turchi. Film a basso costo, senza sceneggiatura, originato dal pretesto di girare nel Salento tre documentari per la Nexus Film di Giorgio Patara. Il progetto si colloca nel quadro dei film a basso costo nel quale, oltre alle cinematografie di ricerca, sperimentali e d’avanguardia, si inscrive anche il cinema documentario. Ma dei tre documentari originari (sulla grotta della Zinzulusa, sui martiri di Otranto e sul Barocco) Carmelo Bene ne avrebbe realizzato uno solo: Il barocco leccese (girato in 16mm, a colori, della durata di 6’ circa). La copia recentemente restaurata de Il barocco leccese rivela però quest’ultimo come un non-documentario, una sequenza lenta e insistita di immagini fisse su “frammenti” (putti, angeli…) della facciata superiore (opera di Cesare Penna) della basilica di Santa Croce di Lecce. Le riprese sono di Mario Masini che ricorda: «Solo qualche giorno prima di tornare a Roma, e con il film in tasca (Nostra Signora dei Turchi, ndr), ci fermammo davanti alla basilica di Lecce. “Devo girare un documentario” mi disse Carmelo. Inquadrature fisse, immobili che sembravano tante fotografie. Scelta stilistica che sul primo momento non afferrai, ma che capii più tardi. Il barocco è (specialmente quello leccese) molto aggettante, ricco di movimento, sovrabbondante di decorazioni, così non c’era bisogno di far scorrere su quell’architettura anche la macchina da presa».
Il montaggio e la sonorizzazione, probabilmente, hanno avuto luogo presso La Microstampa: la voce over (che non è di Bene) sembra fare il verso, per la struttura a loop del testo che vi è enunciato, a L’anno scorso a Marienbad (1961) di Alain Resnais. Come ricorda Bene, Nostra Signora dei Turchi è un film condannato alla pellicola misurata: «Ci si arrangiava con gli scarti di pellicola, e con gli scarti si addizionavano immagini ammantate di nulla, in nome del mio metodo oramai classico che aggiunge per sottrarre. Si andava per eccesso decolorando l’immagine stessa. Era questo mio disammantare l’ammanto che costituiva il mio primo film. Ma si è sempre al primo film. Si è sempre al primo verso, si è sempre alla prima battuta. Si è sempre “prima”, come mi piace ricordare» (cit. C. Bene, Sono apparso alla Madonna, 1983). Il film è stato girato in circa quaranta giorni, con una Arriflex ST, in 16mm invertibile Kodak Ektachrome, poi ingrandito in 35mm, presso la Micro -stampa impiegando interi caricatori per un’unica angolazione e più angolazioni per una stessa scena. Mario Masini, direttore della fotografia, utilizza per le immagini fluttuanti e liquide «fondi di bicchiere, vetri e gelatine colorate posti davanti all’obiettivo o ai proiettori». Il “girato” viene (de)costruito in due settimane di montaggio da Mauro Contini, a cui seguono ventiquattr’ore di “doppiaggio” e sonorizzazione. La prima versione di Nostra Signora dei Turchi aveva una durata di 160’ (ma Sergio Colomba riferisce di 180’), poi ridotti a 125’ per il concorso della XXIX Mostra del Cinema di Venezia diretta, come già ricordato, da Luigi Chiarini. La presentazione del film avviene il 3 settembre 1968. Ottiene il Premio Speciale della Giuria e il Primo premio al Festival di Hyères. L’ipotesto è costituito dalle varianti testuali omonime, quella letteraria, definita da Bene come «perverso romanzo della idiolessi», e quella teatrale del 1966, nonché da Credito italiano V.E.R.D.I. e Hermitage. Tra le due vi è, al contempo, sia una «autonomia relativa» che una forte interferenza e contaminazione linguistica. Nella variante teatrale del 1966, al Teatro Beat 72: «C’era soltanto una vetrata al posto del sipario. Il pubblico doveva seguire l’azione attraverso questa vetrata. Non sentiva niente, tranne quando l’attore si degnava di aprire una finestrella. È stato un gioco diverso, ma ancora più forte che nel film. Per colpa della vetrata, il pubblico era obbligato a vedere delle azioni senza sentire una parola. In teatro, questo era ancora più importante. Nel film, si capivano poche parole, ma non era come a teatro, dove il pubblico è abituato a comunicare proprio attraverso queste parole. A causa di questa specie di acquario a teatro c’era un’impossibilità totale di comunicazione (…), mentre invece nel film c’è un equivoco. Le immagini e i colori possono colpire lo spettatore al punto da fargli credere di comunicare e di capire. Il film, a causa di questo equivoco è infernale; la realizzazione teatrale è uno spettacolo astratto. Questa è l’unica differenza» (cit. Noël Simsolo, Entretiens: Carmelo Bene: Capricci, «Cahiers du cinéma», 213, 1969). Anche la variante teatrale del 1973, al Teatro delle Arti, riporta lo stesso impianto scenografico: una lastra trasparente “scherma” il palcoscenico (una «quarta parete in forma di vetrata realizzata da Gino Marotta»). Inoltre, “l’immagine” del corpo attoriale di Bene viene “solarizzata”, investita «in pieno da un fascio di luce dei riflettori»; «tutto appare come soffocato, come ovattato»; la voce è fuori campo. Nostra Signora dei Turchi è un film su un’autobiografia immaginaria, parodia feroce della “vita interiore”, ed è insieme una ricerca testuale, a carattere tecnico-linguistico, sulla “forma” cinematografica che Bene definisce «bricolage di suoni e immagini destinato a una citazione di racconto (…)». «Nostra Signora dei Turchi è la morte raccontata da un vivo»: “racconto” in cui interferiscono immaginario, memoria e oblio volontario. È un saggio-racconto “sul sud del Sud dei santi” in cui memoria e immaginario sono attraversati, senza soluzione di continuità, da una forza falsificante giacché «al momento stesso del suo discorso qualunque racconto è immaginario». Ma né memoria né immaginario si danno in sé, bensì nelle loro continue interferenze che solo la voce over di Bene riesce a “circostanziare” rispetto al flusso continuo delle immagini. Voce over che attraverso la parola-racconto non smette di farsi dispositivo di istantanee sostituzioni di senso, di disorientanti salti temporali. Ciò produce una distorsione irrisolvibile del tempo filmico, un’anacronia radicale che nessun frammento di racconto, disperso nel testo, riesce a restituire in una sintassi narrativa (intesa come progressione crono-logica). Sul piano della parola enunciata la voce over che detiene la funzione di voce narrante, attiva un “racconto” al passato; ma il passato della parola-racconto raccorda sullo stesso piano temporale (indicativo imperfetto) i due diversi “passati” della memoria e dell’immaginario. Il tempo dell’autobiografia si sfalda per effetto dell’interferire di memoria e di immaginario nella fisicità stessa dei luoghi del set. La villa paterna di Bene, a Santa Cesàrea Terme (luogo di vacanza,
con abitazioni in stile mediterraneo e moresco), è attigua al «moresco palazzo kitsch Sticchi». Sin dall’incipit del film si determina una deviazione del senso tra il piano del presente (filmico) e il piano del passato (tempi immaginari), in uno spostamento continuo con la presenza e con il “presente” delle immagini di quel mondo (im)possibile che è Nostra Signora dei Turchi. Il “presente” è un tempo impossibile, sempre spostato. Una distorsione temporale, uno sfasamento audiovisivo segnalano qualcosa che è in atto, ma non può avvenire in quanto già sempre avvenuto: l’interferire del mythos, della leggenda cristiana, che narra della strage di cristiani compiuta dai turchi di Maometto II, a Otranto nel XV secolo (28 luglio 1480), dopo un assedio durato due settimane: una parte di abitanti della città caddero in difesa delle mura diventando martiri della patria, altri, ottocento e più “cristiani” inermi rifugiatisi nella Cattedrale, divennero martiri della fede, rifiutando l’abiura e accettando la decapitazione. La strage ebbe luogo sul colle di Minerva; i corpi di duecentosessanta degli ottocento martiri della fede vennero conservati nella ottagonale “Cappella dei martiri” della Cattedrale di Otranto; gli altri vennero fatti portare a Napoli da Ferdinando d’Aragona. Il film porta a implosione la logica temporale-causativa della narrazione, non si dà, infatti, alcuna progressione di azioni o di eventi; si danno solo atti mancati, gesti sospesi, impasse: non accade null’altro che una «parodia della vita interiore». La voce di Bene – sia essa voce “over”, “off” o “in” in asincrono – cita i frammenti di un racconto di «qualcuno», un «non-io, fornito solo della sua realtà esteriore» (un corpo), che non può essere «protagonista» poiché «manca la caratteristica principale, la soggettività, la capacità di essere centro interiore di azione» (cfr. U. Volli, “Prefazione” a Nostra Signora dei Turchi, ed. 1978). Si è quindi in presenza di un “effetto racconto”. Sul piano della parola-racconto, attraverso la polifonia della propria voce fuori campo in asincrono, Bene finge di adottare la «formula narrativa della terza persona» – resa come una pura nominazione pronominale, un “egli”, un “lui”, una pura marca grammaticale – e vi fa interferire altri “egli”. Anzi, il luogo grammaticale della terza persona diventa il luogo di una “pluralità” pur restando nell’immagine e nella voce uno stesso: il corpo attoriale di Bene. Questa strategia enunciazionale rende possibile, sul piano dell’ascolto, la compresenza di più voci in un discorso attribuibile a un unico corpo in variazione. Un “egli” dunque. Qualcuno (Carmelo Bene) sceglie di diventare “cretino” e prende a frequentare il proprio solipsismo facendo della solitudine il dispositivo della propria aspirazione all’inettitudine. Qualcuno mette in gioco, mediante una serie di rituali, una serie di situazioni in cui fa passare, attraverso contraffazioni e travestimenti cerimoniali, il proprio stesso corpo. Corpo che tenacemente tende a oggettivarsi in altro da sé, in una proliferazione di altri. Molteplicità di figure temporanee che si innestano sul corpo attoriale di Bene. “Doppi” come ferite dell’Io: il Palazzo Moresco, un luogo fisico, un “falso” architettonico, il martire “mancato” alla strage compiuta dai turchi, il poeta, il morto, il cavaliere. E il “doppio” come Io differito, contraffatto, in altro come “parodia del doppio”: “lui” che si sdoppia nel gangster e nel turco, e successivamente nel frate “anziano” («aveva fatto del suo orgoglio un frate…») che a sua volta si doppia nel frate “giovane” («caricatura novizia di se medesimo»). E ancora l’altro da sé è raffigurato nella “donna”, o in immaginate presenze “femminili”: il “primo amore” che se n’è andato (Anita Masini); il «secondo amore crocerossino» d’una immaginaria Santa Margherita (Lydia Mancinelli) discesa per amor suo dall’altare e che, disamorata, è costretta ad ascendervi nuovamente; una serva-bambina (Ornella Ferrari) da reinventare in un amore a cui poter abbandonarsi. La donna per Bene è «emancipazione dal femminile, dal depensamento»: in ogni caso il femminile non è necessariamente la donna, in quanto, solo «il rifiuto alla crescita è conditio sine qua non alla educazione del proprio femminile. È il rifiuto alla storia, e alla conflittualità dell’historiette del quotidiano». Schegge dell’iconografia sacra (l’aureola, le vesti) entrano in contatto con comportamenti e oggetti della quotidianità: Santa Margherita ama “infermieristicamente”, pratica il sesso, legge «Annabella» (fot. 14), fuma e lo fa risparmiare sulle bollette telefoniche. La dissacrazione è il tentativo stesso di evadere dalla necessità del sacro e del mitico. Anche il “primo amore” è immaginato secondo schemi iconografici sacri, come una “Madonna con bambino”, in una scena che richiama Credito italiano V.E.R.D.I. (cfr. fot. 21 e fot. 22).
FOT. 14
Il film “mette in scena” il cerimoniale dei reiterati tentativi di diventare “cretino” di un tale che non ha nome, ma che ha il corpo e la voce di Bene. Sono i rituali dell’autodistruzione dell’Io, la cui pratica principale risiede nelle “cadute volontarie” o “voli impossibili”, allusione ai “voli estatici, alle levitazioni di San Giuseppe da Copertino, illetterato et idiota, detto Fra’ Asino. Tali tentativi vengono reiteratamente svuotati di senso da questo stesso corpo, corpo liturgico, che tende a smarrirsi nelle procedure del rituale stesso; corpo «sfinito, ferito, addormentato o ubriaco, e senza grazia» che manca la «prefissa demenza oggettiva». Questo “non-io” innestato sul corpo attoriale di Bene, è oggetto di una volontà ossessiva, quella di diventare “cretino”, in dissidio con la nolontà di essere fatto santo – “lui” martire scampato alla strage compiuta dai turchi. Colui che avrebbe dovuto essere il suo carnefice, proprio quando toccava a “lui” essere decapitato, essendosi convertito al cristianesimo viene crocifisso al suo posto: «Pose il capo su un sasso (…). Si ridestò che non lo avevano ancora decapitato. Guardò in alto, cercando il suo carnefice e lo trovò crocifisso. Gli spiegarono che era stato così punito perché aveva all’improvviso mutato fede. Poi gli dissero di levarsi e andarsene. Lui non avrebbe osato insistere, lo avevano umiliato, non c’è dubbio». Attraverso un effetto di “sovrimpressione” dall’immagine del teschio di un martire emerge il volto di Bene che poi si dissolve nuovamente in teschio. Tale “sovrimpressione” – figura dell’assenza e figura privilegiata della nostalgia secondo Marc Vernet – determina il passaggio testuale, con un effetto spazio-temporale di scarto, di accelerazione e di simultaneità, di distanza e di prossimità, di alterità e identità, fra il martire che ha conservato gli occhi e il martire mancato, ovverosia uno dei doppi di “Bene”. Nostra Signora dei Turchi si apre sull’immagine del Palazzo Moresco, sito mentale e virtuale, cui si sovrappone la voce over di Bene che attiva sul piano della «citazione del racconto» una deviazione temporale: memoria (autobiografia) e immaginario entrano in interferenza. S’inserisce nella partitura sonora la musica di Una notte sul Monte Calvo di Musorgskij. Le immagini del Palazzo Moresco divengono liquide, sovraesposte, trasformandosi in riflessi dell’obiettivo (fot. 15). Si assiste al passaggio dall’esterno del Palazzo Moresco all’interno della cappella-ossario della Cattedrale di Otranto, ma il luogo è lo stesso, è un luogo mentale: dentro la parodia della vita interiore. La voce over di Bene “racconta” la leggenda di un prodigio che vuole che le ossa dei martiri della strage compiuta dai turchi siano «ancora rivestite di carne dopo tanto». L’esplicitazione del mythos e il contagio memoria-immaginario avvengono attraverso un gioco di riflessi il quale produce una sovrimpressione che evoca il volto di Bene dissolvendolo poi nel teschio di un martire, mentre la sua voce over dice: «Stava immobile, come nell’urna perduta, ma, a differenza degli altri martiri, oltre ai pezzi di fegato, alle membrane, ai tendini, aveva conservato gli occhi». Segue la presentazione dell’immagine propria di Bene in due quadri geometrici dentro campiture bianche e nere: la sua voce “in” asincrono dice: «Sì. Sono io» (fot. 16). Bene steso a terra con le mani e i piedi legati, chiuso dentro uno spazio compresso, lambito dalle fiamme, cerca di riempire una valigia, afferrando con i denti e con le mani legate dietro alla schiena degli oggetti, un elenco del telefono, una bandiera. La scena enuncia il tema della partenza-fuga e della sua coessenziale impossibilità. A questo punto si assiste a una contraffazione del corpo attoriale di Bene nella parodia del “doppio”. Il montaggio alternato, simulando un inseguimento, consente a Bene di sdoppiarsi in un gangster e in un turco e di giocare con i temi dell’identitàidentificazione. Bene-gangster insegue e uccide, sparandogli alle spalle, quell’altra parte di sé, il “turco”, che stringe nella mano bendata un passaporto (la citazione godardiana, Belmondo che fa il verso a Bogart, sembra alludere in chiave parodica alle differenze “identitarie” interne al nuovo cinema francese: i “jeunes turcs” dei «Cahiers du cinéma» contrapposti al gruppo “Rive gauche”). A questo punto ha luogo la prima interferenza “femminile”, quella della servabambina.
FOT. 15
FOT. 16 Il film introduce il rituale delle «cadute volontarie» (“voli impossibili”?). L’inquadratura d’apertura contiene un secondo schermo: il balcone aperto sul mare. Il corpo attoriale di Bene si inscrive dentro l’azzurro dello “schermo secondo” dando le spalle al mare e gettandosi nel vuoto: l’atto simulato è interrotto dallo stacco e il corpo attoriale di Bene resta sospeso per un attimo, prima di passare, poi, flottante, nelle inquadrature successive, dentro a un colore bianco lattescente, in cui i forti colpi di zoom cancellano il tragitto della caduta (fot. 17). Bene è già a terra: il dolore è simulato in una segmentazione del gesto propria di un corpo già trasformato in macchina. Sulle note di un valzer – Rosen aus dem Süden di Johann Strauss – le immagini si fluidificano sino all’invedibile: una serie di inquadrature costruisce un autoritratto speculare che porta i segni delle “conseguenze” della caduta volontaria per cui il volto di Bene è cancellato da deformazioni ottenute con bende e cerotti. Bene brinda con la propria immagine allo specchio, immagine che in una campitura di rosso distorce la testa come una «Figura» di Francis Bacon (fot. 18).
FOT. 17
FOT. 18 Una successione di inquadrature su campiture bianche e azzurre fa il verso sul piano delle immagini, per i tagli obliqui e le strategie di ripresa, e sul piano sonoro (colonna sonora e tema musicale di Maurice Jarre) a Lawrence d’Arabia (David Lean, 1962). La voce over di Bene riprende il mythos: “racconta” della differenza tra i martiri della fede e quelli della patria e del prodigio, interpellando lo sguardo dello spettatore: «Vedete ancora la carne, le dita. Questo qui ha conservato addirittura gli occhi». È ripresa la figura della “sovrimpressione” del teschio e del volto. Interferenza del “femminile”: il primo amore inginocchiato davanti all’urna. La voce over di Bene fa il verso alla voce “media e impersonale” di tanto cinema classico, mentre sul piano della parola-racconto si attiva uno scarto spazio-temporale, un’interferenza tra memoria e immaginario che consiste nel fatto che l’immaginario individuale di “lui” percepisce l’invasione di Otranto da parte dei turisti come il ripetersi di un altro assedio turco, creando così tra i turchi e i turisti un’equivalenza. Il montaggio alterna, in una serie di campi-controcampi improbabili, alla serie di inquadrature dedicate al rituale delle cadute volontarie, la serie di inquadrature dedicate a “qualcuno” (Vincenzo Musso) che, inconsapevole, vuole impedire che tale rituale si compia. Camera car a precedere la
corsa lunghissima ed estenuante di questo qualcuno che, da chissà quale distanza, lo vede sul balcone di casa, ne intercetta l’intenzione e si precipita verso di “lui” per impedire che accada… sino a crollare sfinito, senza più respiro, sulle strisce pedonali. “Lui” stizzito, scuro in volto, livido, è costretto a ritirarsi dal balcone lasciando il quadro vuoto. L’estenuante camera car fa il verso ai piani-sequenza delle interminabili camminate degli attori della Nouvelle Vague, in particolare sembra fare il verso alla fuga di Michel Poiccard (Belmondo) in Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1960) di Godard. Tale “percorso” è coperto da più piani sonori: da una voce over (quella di Ruggero Ruggeri) recitante ilTrionfo di Bacco e Arianna e da un valzer tratto da Un ballo in maschera di Verdi. Nella scena seguente, immersa dentro un monocromatismo di variazioni di giallo, “Bene” scrive al Ministero del turismo e dello spettacolo; poi esce dall’inquadratura, sul fondo, per rientrarvi subito dopo, con un’andatura ostentatamente teatrale e parodisticamente solenne (corpo glorioso), “trasformato” da un mantello-coperta di colore rosso gettato intorno alle spalle: quindi di fronte a un tavolo, brucia la carta uso bollo con il fuoco di una candela, si siede, ma la sedia si sfascia, cade. Il colore dominante ora è il rosso. Si apre la sequenza delle pulizie “esterne-interne” che enuncia la poetica degli oggetti-impedimento. “Lui” si scaglia contro gli oggetti all’interno della stanza per distruggerli (partitura del rumore); si getta contro il letto, le sedie ecc. Poi, calmatosi improvvisamente, prende a riaggiustarli. La voce over di Lydia Mancinelli – voce enunciante che si sostituisce a quella di Bene – anticipa, sul piano della parola-racconto, l’apparizione dell’immaginaria Santa Margherita. Sul piano sonoro, alla voce della Mancinelli si sovrappone continuamente un’altra voce over, quella di Arnoldo Foà che recita Alle cinque della sera di Lorca. Si mostrano vani tentativi di riassetto della stanza; gli oggetti tenacemente si sottraggono alle loro funzioni, cadono, si rompono, sono l’impedimento stesso al lavoro: “lui” passa, con gesti ostentati da giocoliere, lo strofinaccio sul pavimento nel tentativo di pulirlo, ma il pavimento a contatto con l’acqua letteralmente si sfalda, poiché è fatto di terra (l’interno della stanza è un esterno). È un luogo dove niente si tiene; oggetti e azioni mancati rendono evidente al contempo l’impossibilità dell’azione e l’atto della dissipazione del sé. Terminato il “riassetto” della “stanza”, si corica. Segue una serie incalzante di inquadrature che riguardano l’immaginario: il contesto inventato della relazione riattualizzata tra il Palazzo Moresco, i martiri della fede, i turchi-turisti, il carnefice convertito e se stesso come altro, nonché «le sue stesse ferite come conseguenze di tale immaginario». Ha luogo un’altra interferenza del “femminile”, l’amore crocerossino, l’apparizione annunciata di Santa Margherita. Serie di inquadrature della stanza da letto di “lui”, pervasa da una leggera coltre di bianco fumo: in ciò consiste l’apparizione della Santa. Sul piano sonoro, alla canzone popolare Vorrei baciare i tuoi capelli neri si sovrappone la “voce in” della Santa che ripete ossessiva e meccanica: «Ti perdono!… Ti perdono!…». Sull’automatismo della voce insiste, in contreplongée, l’immagine di lei, che alternata a quella di “lui”, scarta dal mezzo primo piano al particolare (fot. 19). Lei si avvicina al letto (l’immagine della Santa è doppiata dalla sua stessa immagine speculare), dove è coricato “lui” che chiude gli occhi, non vuole vedere. Una panoramica verticale muove dal letto ora vuoto verso il pavimento: “lui” è steso sotto il letto, dove si è nascosto per sottrarsi alla presenza di lei che implacabile si impone; segue una serie di inquadrature in cui la m.d.p. muove addosso ai due corpi attoriali persi tra il disfarsi delle bende di “lui” e le pesanti vesti e l’aureola incombente di lei: il sottrarsi dell’uno è il darsi dell’altra. Per effetto di un’immagine speculare i due sono abbracciati sul set, ma divisi nell’inquadratura (fot. 20). “Lui” sfinito, non ha più energia per resistere e con una smorfia dolorosa, piange, mentre si lascia baciare. Quindi la m.d.p. muove in panoramica verticale inquadrando il pavimento, interamente ricoperto da tappeti rossi fermati da pesanti pietre e sassi, fino a raggiungere la Santa che ora è a letto, fuma e legge «Annabella».
FOT. 19
FOT. 20 Segue la sequenza del “monologo dei cretini”. Bene, avvolto da bende e garze bianchissime, è immerso in uno spazio compresso, in un vuoto pneumatico e glaciale bianco-azzurro, in uno spaziotempo raggelato, in una camera blu fluorescente; la segmentazione estenuante dei gesti, dei movimenti lentissimi delle cadute, dei rovesciamenti sono mostrati da punti di vista sempre differenti, così come sono differenti le angolazioni e le inclinazioni della m.d.p. Le stesse bende si fanno impedimento per il corpo attoriale che trascinandosi carponi, raggiunge nella stanza il tavolo su cui ha visto qualcosa… un vaso di fiori; passa carponi sotto il tavolo, si rialza dal lato opposto e si pone accanto al vaso dei fiori, poi finalmente sale in piedi sul tavolo: la m.d.p. lo segue e inquadra solo il volto, illuminato dall’alto, come se fosse “lui” il vaso di fiori. Altrove, Bene assume la postura di un San Sebastiano; la m.d.p. – in un’inquadratura con un mascherino circolare – muove verso la figura della Santa che giace sempre sul letto e che appare ora come una macchia scura, informe, un corpo mummificato. Un canto gregoriano funge da continuum sonoro. Segue una sequenza in cui ancora l’“interno” è portato in “esterno”; nella piazza di Santa Cesàrea Terme, in una “cucina” inventata solo con un fornello a gas viene fatta bollire la siringa per un’iniezione epatoprotettiva: si tratta della cura disintossicante a cui “lui” si sottopone. Giustapposta alla precedente segue la scena di un “esterno” portato in un “interno”. Si apre con un’immagine speculare di “lui” addormentato sul letto, poi la m.d.p. esce dalla cornice dello specchio e quindi «lo inquadra di lato, mentre si rovescia sul letto, agitato. Avanzano, dal fondo oscuro, una Fiat 124 e contadini e bambini a piedi, alcuni conducendo biciclette a mano». L’automobile si ferma accanto al letto, con i fari accesi; “lui” dormiente adagia un cuscino sul cofano e vi si appoggia finché finalmente cade. La voce over di Bene, sovrapponendosi alla musica per pianoforte e archi di Rachmaninov, enuncia il tema del sonno «a bocca aperta», segno della tanto ricercata idiozia. La scena a seguire è dedicata alle lettere non spedite che “lui” decide di rileggere e poi ripone in un cassetto che inchioda, disponendo tutt’intorno del filo spinato. E dall’interno della stanza semibuia, con le mani bendate prende ad allargare un varco sul muro, togliendone metodicamente dei pezzetti: fuori si intravede un corpo di giovane donna, la serva, mostrato in dettagli e particolari incomprensibili. Una nuova inquadratura, una valigia aperta a tutto schermo in cui viene scaraventata una bandiera italiana e che poi viene chiusa, inventa una partenza. “Lui” parte, non prima di aver inchiodato porte e finestre e di aver messo del filo spinato intorno alla propria casa. Esterno notte: serie di immagini di luminarie di festa paesana; “lui”, tra la folla, è colto da un finto malore e ritorna verso la propria casa, inseguito; i fuochi d’artificio esplodono e frammentano il buio della notte con rumori assordanti di bombe; la Santa cerca di chiamarlo a sé. “Lui” entra dentro un luogo desolato, vuoto, semidistrutto con in braccio un bambino, mentre fuori incombono i fuochi… (la situazione, “lui” che consola il bambino piangente e spaventato dal rumore assordante dei fuochi d’artificio, allude all’incipit di Edipo re di Pasolini, al pianto disperato del bimbo lasciato solo, ed è da Bene contrapposta a quello in chiave anti-edipica). Il sonoro inventa un inseguimento di cani inferociti, mentre “lui” riesce a rientrare precipitosamente a casa. Segue la sequenza dell’editore omosessuale (Salvatore Siniscalchi) in abiti coloniali, che rivendica a sé, (nonostante “lui” non sia morto, il che di per sé pregiudica la vendita) «tutto il passivo» per la pubblicazione delle lettere che “lui” non ha mai spedito. In seguito “lui” giace malato, con il trucco che accentua sul suo volto emaciato i segni della malattia; tossendo convulsamente e ininterrottamente chiede alla Santa l’immagine (una fotografia) dell’altra (Anita Masini) che, nella scena a seguire, appare statuaria come una Madonna con bambino all’interno di una grotta, secondo l’iconografia della Vergine delle Rocce di Leonardo (fot. 21). “Lui” si china a baciarla dolcemente, le toglie dalle braccia il bambino (fot. 22), il cui pianto è in primo piano sonoro. Nella scena successiva riprende l’Intermezzo della Manon Lescaut di Puccini a “commento” del funerale dell’altra, della Madonna: breve cerimoniale svolto per mezzo di una sua fotografia posta sopra un tavolino ammantato in nero e oro sulla strada.
FOT. 21
FOT. 22 La scena successiva ha luogo in esterno giorno sul mare: un’oggettiva in campo lungo mostra, in una piccola barca, Santa Margherita “aureolata”, di spalle, in piedi nell’atto di remare; di fronte a lei, disteso e immobile, “Bene” senza
alcuna benda, lo sguardo perso nel vuoto. Si ode il suono-ambiente delle onde del mare e l’immagine si fa come sospesa, galleggiante. Mentre la Santa ripete meccanica: «Ti cambio le bende?», “lui” riprendendosi improvvisamente, si accende una sigaretta e le chiede d’essere l’altra (il primo amore) che si è pentita di averlo lasciato. Poi, mutando registro, la sua voce asincrona prende a progettare, o meglio sprogettare – con metodologia teatrica – la parodia del ricordo in una serie di situazioni in cui la Santa diverrà virtualmente l’altra. Esterno notte: arrivo simulato del primo amore; “lui” trasporta a fatica il baule con l’etichetta «Paris-Express». Il baule trapassa dall’esterno e dal colore, attraverso la giunta di due inquadrature, all’interno in bianco nero. Si assiste a una rarefazione del set che consiste ora in una stanza vuota in cui rimbomba il rumore assordante, amplificato, del battere ossessivo e ritmico di un pallone con cui gioca un ragazzino; l’immagine del pallone entra ed esce ritmicamente dall’inquadratura. Vi è una defunzionalizzazione dei gesti e del décor: Stesa sul pavimento una tovaglia, su cui vengono intenzionalmente lasciati cadere piatti e bicchieri che s’infrangono con un rumore sordo. Lo scorrere dei fotogrammi, in bianco e nero, è marcato da graffi, strappi, bruciature, tagli. Il corpo attoriale di Bene è supino sul pavimento e circondato da bottiglie contenenti candele ardenti che il pallone lanciato dal fuori campo spazzerà via come birilli di vetro. “Lei” è lì accanto, in piedi, e dice: «Mi chiami Rita adesso?». Segue una serie di inquadrature – nuovamente a colori – relative al gioco delle carte tra “lei”, “lui” e il “morto”. Le carte sono tenute alla rovescia, sono esibite. Dettaglio delle mani del morto: ha «le dita interamente coperte d’anelli». Il “morto” è un ulteriore alter ego: «il morto era “lui” che da morto era guarito, neanche un graffio». Parodia del doppio: “lui” si sdoppia nel frate anziano e nel novizio. Il set è una cucina, fuori campo piove: c’è un temporale simulato. Lo sdoppiamento non avviene solo attraverso le diverse serie di inquadrature montate in alternanza secondo la logica del campocontrocampo (fot. 23), bensì s’innesta sul corpo attoriale medesimo, mettendolo in variazione con se stesso soprattutto attraverso le “voci” asincrone. Il gioco della dissipazione del sé, del differimento del sé in qualcosa d’altro fa sì che la memoria contagiata dall’immaginario sia deliberatamente messa nella condizione di cessare: “Bene”, attraverso i suoi doppi nel frate e attraverso la “meditazione” del trucco (fot. 24), lascia che Santa Margherita cominci a disamorarsi… Le inquadrature di “lui” mentre si trucca inscrivono dentro lo specchio l’immagine in primissimo piano della Santa che, dopo aver «fermato un temporale», è venuta a prenderlo per una gita in barca, ma “lui” (il frate anziano) dice che quell’altro (il novizio) è malato e che non vuole più farsi guarire dalla Santa, giacché «guarire, non è curare», è diverso.
FOT. 23
FOT. 24 Interno della cripta: “lui”, il martire mancato, fa richiesta di sepoltura alla serva che acconsente. I due si danno un appuntamento a casa di “lui”. In interno, seduto alla macchina da scrivere “lui” sta in attesa della serva e immagina un ulteriore altro da sé, un «cavaliere di un ordine misterioso»; fuori campo piove. La serva entra nello stesso “set” della scena del frate e, dopo essersi tolta, di spalle alla m.d.p., il vestito rosa bagnato nell’intenzione si mette a lavare i piatti sporchi, ma di fatto sposta residui di cibo – mostrati in dettaglio – da un piatto all’altro, immergendoli finalmente dentro un’acqua rossastra; poi, avvertendo qualcosa, si riveste. “Lui” in armatura entra nella cucina a cavallo (ingresso marcato dalla musica del Faust di Gounod); poi discende e le è accanto, in ginocchio e faticosamente l’accarezza, le bacia lungamente una mano: il colore rosso del pomodoro passa dalla mano di lei al corpo di “lui”. Serie di inquadrature intorno ai loro corpi. Ellissi temporale. Interno di una casa abbandonata: la serva e Santa Margherita si guardano e la reciprocità del loro sguardo scatena il conflitto che culmina nella fuga precipitosa della serva. «Dov’è quella ragazza?»: la domanda dalla voce di Santa Margherita passa in quella di “lui” – uscito da chissà quale fuori campo – con addosso un lenzuolo bianco. Egli vorrebbe inseguire il cavaliere, altro suo doppio, fuggito a cavallo con la serva, ma sa che non potrà raggiungerli. Serie di inquadrature del Palazzo Moresco: il movimento della m.d.p. simula il movimento delle onde marine in décadrages continui. Epilogo: interno di una chiesa sconsacrata, l’altare è vuoto; il cavaliere in armatura entra in sella a un cavallo bianco; immediatamente dopo entra Santa Margherita, che ascende all’altare disamorata. Il corpo attoriale di Bene è riverso sui gradini dell’altare, sul quale ora Santa Margherita è definitivamente statuaria; “lui” assume una posizione consona al venir meno e forse, semplicemente, s’addormenta, mentre la sua voce si frammenta nell’invocazione-ripetizione «Signorina! Signorina!…»: la m.d.p. si allontana progressivamente, con un lento carrello indietro. La musica è Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti.
Nostra Signora dei Turchi è, come si è detto, la parodia feroce della “vita interiore” e della solitudine affidata, attraverso la formula narrativa in terza persona e il tempo imperfetto, alla voce over di Bene: «monodia affollata di una e una voce» assolutamente “fuori campo” che s’incarica di citare frammenti di racconto. “Racconto” in cui, come sostiene Bene, «l’io va a sfinire dappertutto, si frange. Il corpo che il protagonista esibisce – protagonista è il corpo – è sempre acciaccato, ferito, bendato, malconcio, tumefatto da queste disavventure che un io autolesionista si procura continuamente». Parodia di un racconto affidato a un «non-io», a qualcuno che intende mancare la propria soggettività, che non vuole essere «centro interiore di azione» e che abita l’esteriorità di un corpo, quello di Bene. Esteriorità di un corpo attoriale che si fa luogo dei rituali performatici della propria vocazione all’idiozia, all’inettitudine, alla stupidità, alla cretineria. Ed è attraverso i rituali della dissipazione di sé e della frantumazione dell’Io (incidenti e malattie simulati, ferite e tumefazioni immaginate) che il corpo attoriale esibisce il compiersi della propria trasformazione da corpo performatico a corpo cinematico: un primo modo di trapassare nell’inorganico, nella futura macchina attoriale. Ciò si manifesta reiteratamente in molti passaggi. Ad esempio, nella scena che enuncia il tema del viaggio-fuga impossibile il corpo attoriale raccorda le inquadrature sulla “fisicità” dei propri movimenti. La posizione della m.d.p. è frontale, fissa o in interazione con il corpo attoriale, il quale si ridimensiona continuamente, facendosi carico delle variazioni scalari dall’interno dell’inquadratura sino a debordarne; corps-caméra, a tratti si sostituisce alla cinepresa, consegnandosi direttamente al montaggio, in qualche modo, già “in macchina”. La radicalizzazione della durata della scena è enfatizzata, sul piano sonoro, proprio dalle differenti velocità, dai diversi volumi, dalle sovrapposizioni temporanee e dall’intercalare in primo piano sonoro del rumore delle fiamme al motivo di “giostra” su cui s’innesta una canzone popolare francese. L’autofrantumazione dell’Io è praticata anche nel rituale delle cadute volontarie. Tale rituale mette in atto l’eliminazione della «fenomenologia del percorso», una sottrazione, una non visibilità. Per Bene «la mancanza di traiettoria equivale alla mancanza dell’agìto, dell’azione, quindi alla mancanza di visione. Questa è la traiettoria, l’altezza tratteggiata. Invece prendiamo il vertice, inquadriamo, stacco al netto e… pac! già caduto. Questo è l’atto. Invece il cinema, quello ben girato, hollywoodiano, (…) si riempie di azione» (cit. C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano, 1998). Inoltre, l’autodistruzione dell’Io si realizza attraverso le pratiche di oggettivazione. Se in Hermitage il corpo performatico di Bene si oggettiva sostituendosi a un oggetto, ponendo se stesso al posto di un vaso di fiori, in Nostra Signora dei Turchi, attraverso una serie estenuante di atti performatici, diviene oggetto accanto a un altro oggetto, un altro vaso di fiori: entrambi posti sullo stesso tavolo. L’oggettivazione in altro da sé enunciata in Hermitage è ripresa, nel “monologo dei cretini”. La voce over di Bene dice: «Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna. Io sono un cretino che la Madonna non l’ha vista mai. Tutto consiste in questo, vedere la Madonna o non vederla. (…) I cretini che vedono la Madonna hanno ali improvvise, sanno anche volare e riposare a terra come una piuma. I cretini che la Madonna non la vedono, non hanno le ali, negati al volo eppure volano lo stesso, e invece di posare ricadono (…). Ma quelli che vedono non vedono quello che vedono, quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la Madonna, sono loro la Madonna che vedono. È l’estasi questa paradossale identità demenziale che svuota l’orante del suo soggetto e in cambio lo illude nella oggettivazione di sé, dentro un altro oggetto. Tutto quanto è diverso, è Dio. Se vuoi stringere sei tu l’amplesso, quando baci la bocca sei tu. (…) Ma i cretini che vedono la Madonna, non la vedono, come due occhi che fissano due occhi attraverso un muro: miracolo è la trasparenza. Sacramento è questa demenza, perché una fede accecante li ha sbarrati, questi occhi, ha mutato gli strati – erano di pietra gli strati – li ha mutati in veli. E gli occhi hanno visto la vista. Uno sguardo. O l’uomo è così cieco, oppure Dio è oggettivo.
I cretini che vedono, vedono in una visione se stessi, con le varianti che la fede apporta (…). E dinanzi a questo alter ego si inginocchiano davanti come a Dio. (…) I cretini che non hanno visto la Madonna, hanno orrore di sé, cercano altrove, nel prossimo, nelle donne – in convenevoli del quotidiano fatti di preghiere – e questo porta a miriadi di altari. Passionisti della comunicativa, non portano Dio agli altri per ricavare se stessi, ma se stessi agli altri per ricavare Dio. L’umiltà è la conditio prima. I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di essi significa pregare. Si prega così oggi. Come sempre. Frequentare i più dotati non vuol dire accostarsi all’assoluto comunque. Essere il più gentile dei gentili. Essere finalmente il più cretino. Religione è una parola antica. Al momento chiamiamola educazione». La parodia del doppio è una parodia sub specie cinematografica sia nella sequenza dell’inseguimento tra il gangster e il turco, sia nella scena del “triplo”, in cui il “protagonista” si sdoppia nel frate anziano che a sua volta si doppia nella «caricatura novizia di se medesimo». Il gangster è un gangster alla Jean-Paul Belmondo secondo la citazione del gansgster-film americano, citata, a sua volta, dalla Nouvelle Vague, attraverso alcuni tic attoriali (la postura, la sigaretta rigirata nervosamente, di lato, tra le labbra, la pettinatura) di Fino all’ultimo respiro (1960) e di Il bandito delle ore undici (1965) di Jean-Luc Godard, il quale a sua volta cita, in funzione critica, Humphrey Bogart. Attraverso il montaggio alternato Bene gioca con i temi dell’identità-alterità. La sequenza è articolata in una serie insistita di false soggettive: tra una giunta e l’altra, dentro alla sequenza stessa, c’è “qualcosa” che non si raccorda. Nella scena del “frate” Aumont rileva un’altra parodia, quella della scena a colori del «festino» di Ivan il Terribile di Ejzenštejn. Nella scena ejzensteinjana “citata”, il colore rosso circola nell’immagine prevalentemente mediante il suo valore tematico: rosso-sangue secondo un “sistema” fortemente «sottomesso al senso, compatto, senza cedimento logico», ma anche «nelle sue accezioni più astratte e indirette». Secondo Aumont, non vi sarebbe «migliore dimostrazione della forza di questo sistema della parodia che fa di questa scena a colori Bene in Nostra Signora dei Turchi: i colori ci sono sempre, ma svincolati da ogni senso, fluttuano, si fanno vedere senza significare nient’altro che una referenza» (cit. J. Aumont, L’occhio interminabile, Marsilio, Venezia, 1991, p. 128). Capricci
Capricci è stato girato in 16mm (poi gonfiato in 35mm) nel marzo 1969 nel corso di tre settimane. Il direttore della fotografia, Mario Masini, è sostituito da Maurizio Centini. Bene sostiene di aver approfittato del forfait di Masini «per degradare la fotografia (…) a livello degli altri materiali» per fare di questo film un film intenzionalmente «malgirato, sgradevole, delirante». Il montaggio e la postsincronizzazione, seguiti sempre da Contini, hanno richiesto, rispettivamente due settimane e ventiquattr’ore. Si è trattato di «un doppiaggio sommamente arbitrario perché fatto senza visivo e solo in seguito restituito al sincrono» da Contini, che in sede di montaggio metteva agli attori «in bocca quanto non avevano mai detto o comunque detto in altri tempi». Alla base non c’è una sceneggiatura, ma un breve soggetto-contaminazione di Arden of Feversham (riscrittura di Arden of Feversham di anonimo elisabettiano) e di Manon (un progetto per il teatro da Manon Lescaut dell’abate Antoine-François Prévost), già versioni teatrali da cui Bene deriva, rispettivamente, la “situazione” del pittore (da Clarke) e quella del poeta suicida (da Des Grieux). Anche nel caso di Capricci va registrata una forte interferenza e contaminazione linguistica tra i diversi media adottati. Della variante teatrale Arden of Feversham del gennaio del 1968, presentata al Teatro Carmelo Bene a Roma, Gianni Menon annota: «la luce bianca veniva da un proiettore puntato» sul letto in cui Alice (Lydia Mancinelli) «accendeva una sigaretta, si copriva-scopriva con il lenzuolo (…); si sentiva, inesorabile, il ronzio della proiezione a 16, senza pellicola». Documento indiretto della variante teatrica è il cortometraggio A proposito di “Arden of Feversham” (1968, colore, 20’ circa, prodotto da Nexus Film) di cui è stato individuato il negativo, anche se privo di colonna sonora; si tratta di una coregia di Bene e Salvatore Siniscalchi, con la fotografia di Giulio Albònico. Nella domanda di revisione della Nexus Film, del 28 giugno 1968, al Ministero del Turismo e dello Spettacolo, che porta la firma di Giorgio Patara, è contenuta la seguente descrizione del soggetto: «Alcune scene dallo spettacolo teatrale Arden of Feversham che sintetizzano lo spettacolo stesso. L’inserimento del dialogo, che è in parte una sintesi di critica e in parte discorsi sul teatro, chiarisce la linea e lo sviluppo del teatro di Carmelo Bene».
Prodotto da Bene, Brunet e Barcelloni, presentato nel 1969 a Cannes alla Quinzaine des Réalisateurs, Capricci è una critica feroce al ruolo dell’artista sotto forma di parodia del rapporto arte-vita. Il film si articola in due serie di eventi paralleli che si intersecano, si interrompono a vicenda ed entrano in interferenza, distruggendo l’ordine di successione sequenziale. Ogni nuova sequenza appare come la distruzione di quella precendente. Il film – il cui titolo provvisorio era La Bohème – si presenta come un parallelismo tra la serie di “eventi” dedicata a un pittore (Tonino Caputo) a quella dedicata a un poeta (Bene). L’uno è il pittore Clarke di Arden of Feversham che dipinge “cristi avvelenati”, immagini dai colori che uccidono e che Alice, una giovane donna, intende impiegare, con la complicità del vegliardo Mosbie suo amante, per assassinare il proprio marito, Arden, altrettanto decrepito. L’altro è il poeta vocato al suicidio, un Des Grieux che insieme a una Manon (Anne Wiazemsky), compagna di strada, dà vita a una performance autodistruttiva e che, in un simulato jeu au massacre, utilizza le automobili come veicoli di morte, in un’accumulazione insensata ed estenuante di incidenti: investe delle prostitute e poi cerca e trova l’incidente mortale in un crash definitivo. I due “artisti” entrano in conflitto e si contrastano fisicamente utilizzando, in modo improprio, i quadri del pittore. Quadri, di varie dimensioni, che non casualmente presentano ingranditi i simboli delle falci e martello (fot. 25 e 26) e che richiamano la serie di opere dal titolo Compagni, compagni che Schifano dipinge nel 1968.
FOT. 25
FOT. 26
Gli interni sono stati girati presso la casa-studio del pittore Tonino Caputo a Roma e gli esterni presso un cimitero di automobili inventato presso lo svincolo per Napoli del raccordo anulare, il mercato di Campo de’ Fiori e il set di un villaggio western a Cinecittà. La serie di inquadrature in interni è dedicata al pittore Clarke, ad Alice e ai vecchioni di Arden of Feversham, mentre la serie di inquadrature in esterni è dedicata al poeta e alle sue “compagne di strada”. Rispetto alla variante teatrale Arden of Feversham, Capricci conferma gli interpreti dei “vecchi” Arden (Giovanni Davoli), Mosbie (Franco Gulà) e Franklin (Manlio Nevastri), sostituendo invece nel ruolo di Alice Ornella Ferrari a Lydia Mancinelli. Attraverso la vecchiaia di Arden, Mosbie e Franklin, ostentata nel disfacimento fisico (l’organico in disfacimento), in cui si rende percettibile l’irreversibilità del tempo al lavoro sui corpi degli attori ottuagenari, e in contrasto con la giovinezza di Alice (richiamo allo schema iconografico di “Susanna e i vecchioni”), Bene intende «abbruttire ogni tentazione dell’arte», attentare «a tutto quanto d’istituzionale e di ricattatorio c’è nel visivo», spalancare davanti allo sguardo spettatoriale «il nulla totale nell’arte». Un set che richiama Goya, viene costruito e decostruito attraverso il montaggio, rende la vecchiaia estrema come il tempo interstiziale che precede la morte, morte differita ma che già abita i corpi e prelude al disfacimento definitivo del sé, alla spoglia inanimata, inerte. La morte in Capricci non ha alcuna contiguità con l’eros, è pura sottrazione, oscenità. Un telefono rosso a tutto schermo e in “primissimo piano” sonoro introduce, all’interno di un atelier, il pittore Clarke e il poeta. Questi si trova alla macchina da scrivere, mentre il pittore sta dipingendo “nature morte”, nel senso che non dipinge tele, ma dipinge-colora le “cose”, gli “oggetti reali” (sedie, mele, pesci ecc.). Nell’atelier c’è anche un vecchio che posa da “crocifisso schiodato” con le braccia spalancate: porta al polso un orologio che ossessivamente e continuamente guarda. Il poeta, in preda al disgusto, strappa dei fogli dalla macchina da scrivere e insiste con lo sguardo verso il pittore che, immobile di fronte a un enorme quadro in cui sono dipinti falce e martello, citando la chiusa di Caino da I pagliacci di Leoncavallo, dice: «La commedia è finita». Il poeta gli risponde «Primo atto» e gli lancia contro dei fogli che Clarke brucia. Ancora il poeta, nuovamente intento a scrivere a macchina, porgendo al pittore i fogli dattiloscritti, dice: «La fine»; quindi si alza e “recando un quadro dai colori vivi” avanza frontalmente vero la m.d.p. sino a far coincidere il quadro con lo schermo. Il poeta e il pittore con “falce” e “martello” lottano: la m.d.p. si muove tra i corpi, gli oggetti “dentro” ai quadri,
attraverso le cornici dei quadri sfondati. Intanto il vecchio si riveste precipitosamente (in una serie di inquadrature dettagliate). Infine il poeta, con una finta ferita sanguinante alla bocca, sputa contro il pittore; conclude il “prologo” uno zoom in avanti sul volto del pittore che attonito guarda il poeta. Da questo momento in poi si alternano la serie di inquadrature dedicata al poeta con la serie dedicata a Clarke e ad Alice. In uno spiazzo sabbioso di una periferia, pieno di automobili dismesse e frequentato da prostitute, il poeta progetta il proprio suicidio sperimentando diverse possibilità di crash, mentre la sua compagna, una prostituta, sta a guardare. Nella camera da letto di Alice e del suo vecchio marito Arden, la m.d.p., attraverso una lenta panoramica dal basso verso l’alto, procede dal volto in primo piano di lei, dormiente, al volto di lui, che finge di dormire. Arden si alza dal letto e fa entrare nella stanza Franklin che trascina un pesante baule; poi sottrae le vesti ad Alice ed esce dalla stanza trascinando faticosamente il baule, aiutato da Franklin. I due entrano dentro l’attiguo bagno “trasformato” nello scompartimento di un treno diretto a Londra dalla voce over di un altoparlante, che annuncia gli orari di arrivi e di partenze di una stazione ferroviaria, e dalla voce asincrona di Arden, che guardando verso la m.d.p., dice: «Adesso andiamo a Londra». Alla (falsa) partenza di Arden e Franklin segue, attraverso il montaggio alternato, una conversazione telefonica tra Alice e Mosbie, il quale le dice di aver conosciuto «un pittore che è davvero il pittore più ingegnoso della Cristianità: sa temperare il veleno con l’olio, che se tu guardi quello che ha dipinto, muori!!!». Infatti, Mosbie, progetta di assassinare Arden, ma Alice, sulle prime, gli rifiuta la propria complicità perché, spiega, «è pericoloso, può morire chiunque! »; poi cercando le vesti che il marito le ha sottratto per impedirle di uscire, in asincrono, piange. Intanto, nel bagno-scompartimento, Arden e Franklin simulano, attraverso il movimento dei loro corpi, il movimento oscillatorio del treno. Franklin smette per un attimo di tracannare birra da un boccale perennemente pieno e cantilenando, in asincrono, con inflessione meridionale suggerisce ad Arden: «Non essere geloso e non domandarle mai se lei ti ama e quanto, ma come se avessi fiducia in lei prendi subito il tuo cavallo e vieni a Londra con me!». Il poeta e la prostituta, sua compagna, già feriti, si gettano da un’automobile in corsa: successivamente egli la porta, priva di sensi, tra le braccia e sale con lei su un’altra auto. In una sala da pranzo, intorno a un tavolo, siedono Arden, Franklin e Mosbie. Alice, nuda, porta una tovaglia a scacchi bianchi e rossi, sale e ridiscende da una scala a chiocciola per poi recare con sé una pila di pentole vuote. Franklin comunica ad Arden che il duca di Somerset ha liberamente concesso a lui e ai suoi eredi tutte le terre dell’abbazia di Feversham. Indifferente Arden si lamenta ossessivamente con Franklin dell’infedeltà di Alice: l’accusa di scambiare lettere d’amore con Mosbie e di avergli donato l’anello nuziale. Franklin risponde con la solita cantilena. Ellissi temporale: Mosbie si trova nell’atelier di Clarke per chiedergli di dipingere un «quadro avvelenato» con cui poter assassinare Arden; il pittore accetta, ma in cambio gli chiede la sorella (Susanna), cioè un amore, perché, a suo dire, anche i pittori, come i poeti, devono avere un amore. Quindi, tenendo una molletta sul naso, egli prende a dipingere con i colori avvelenati il quadro voluto da Mosbie, che gli è accanto e rischia di soffocare a causa delle esalazioni tossiche provenienti dall’immagine dipinta. Nuova ellissi temporale. Nella sala da pranzo sono presenti Clarke, Alice, Mosbie, Franklin e Arden. Questi, colto da una crisi respiratoria, si rifuta di guardare il quadro dai colori avvelenati, facendo così fallire la congiura ordita contro lui. Clarke ed Alice si mettono a impiegare i colori avvelenati per decorare le pietanze che lei ha preparato, mentre sul piano sonoro si ascolta il “Tema di Lara” di Jarre (da Il dottor Zivago di Lean) e la voce over di Bene legge “La cucina ornamentale” di Barthes da Miti d’oggi. Arden, diffidente e insospettito, rifiuta il cibo che gli viene offerto e chiede a Franklin un antidoto. Ulteriore ellissi temporale: Alice, seduta di fronte a un fuoco mette volontariamente il piede a contatto con le fiamme per entrare nella “parte”, per aiutarsi a simulare la sofferenza, il dolore necessari a convincere Mr. Dick Greene ad assassinare il marito. Mr. Dick Greene è una vittima di Arden che gli ha ha sottratto possedimenti terrieri. Successivamente Mr. Dick Greene si aggira per il set fatiscente di un film western e, all’interno di un saloon dismesso, assolda tre killer messicani. Nel frattempo, Franklin, nella camera di Arden, gli somministra l’antidoto. Altrove, il poeta e la sua compagna nuovamente tentano un crash: i due rimangono feriti dentro un’auto capovolta. Intanto sulla strada alcune prostitute stanno intorno a un fuoco (sul piano sonoro si sentono delle risa) mentre un poliziotto non riesce a parlare ma piange; Arden e Franklin ritornano da Londra uscendo dal bagno-scompartimento-stazione ferroviaria: una voce over da un altoparlante comunica: «È in arrivo al binario due…», mentre i due trascinano faticosamente fuori dal bagno il baule. Mosbie e Alice entrano in conflitto; lui disamorato e pentito le dice «non è amore assassinare l’amore». Il poeta sta demolendo un motore; lei è a bordo dell’automobile e attraverso il parabrezza infranto gli passa gli attrezzi necessari. Lui lentamente si avvolge la mano con una benda già insanguinata. Poi sale a bordo dell’automobile che cerca ripetutamente di mettere in moto per lanciarla poi a tutta velocità contro le prostitute sulla strada. Plongée sui corpi riversi a terra delle donne apparentemente senza vita. Il poeta li solleva da terra uno dopo l’altro – con fatica – e li carica a bordo di un’altra automobile. Altrove, in una strada di un quartiere qualsiasi, un lungo movimento di macchina a precedere, mostra i grotteschi killer assoldati da Mr. Dick Greene a passeggio, pedinati dal poliziotto. Intanto Alice ritrova le vesti che Arden le aveva sottratte, mentre la musica del Macbeth di Verdi detta il ritmo al montaggio. Segue la «Festa di Alice e Mosbie»: i due brindano. Nel frattempo fanno ritorno Arden e Franklin trascinando il baule sulla scala a chiocciola. Alice sulla soglia della porta impedisce ad Arden di entrare nella stanza: Arden cade a terra e accanto al suo capo si vede una larga macchia di rosso-sangue. Il poliziotto continua il pedinamento dei killer. All’interno dell’atelier di Clarke, Franklin sale dalla scala a chiocciola trascinando il corpo esanime di Arden. Poi entra il poliziotto che ingaggia un “corpo a corpo” con un autoritratto gigante del pittore. Clarke tiene tra le mani un altro autoritratto e lo imprime su una macchia del rossosangue di Arden e poi lo firma. Frattanto nel cimitero di macchine esplodono delle automobili. Il poeta e la sua compagna hanno i volti insanguinati. Lui – come Des Grieux con Manon – adagia la sua compagna, seduta per terra, con il busto eretto. La figurazione richiama il Capriccio di Goya “Porque fue sensible”. Il poeta, pateticamente, ricerca la postura più adatta al morire. Si odono degli spari off. Giovani armati entrano in campo, salgono a bordo di carcasse di automobili, alcune addirittura in fiamme, e partono. Il poeta e la sua compagna trovata la “posa” possono finalmente “morire”. Esterno, colore rosso; la m.d.p. inquadra in campo lungo una scena di caccia alla volpe. (Qui, forse, è attivo un rimando critico ai Principi di un’estetica futurista di Ardengo Soffici secondo il quale il cinema «è da rigettare nella categoria degli sport e degli spassi, come la caccia alla volpe, le corride e la danza del ventre»). Seguono i titoli di coda.
Dopo l’incipit in cui il poeta e il pittore entrano in contrasto, la serie di inquadrature dedicate all’uno e all’altro sono intercalate e messe “in parallelo” con il montaggio: ciascuna serie mantiene la propria autonomia (spazio-temporale) intrattenendo tuttavia con l’altra una relazione, non foss’altro che l’interferenza. La serie dedicata al pittore di “crocifissi avvelenati” è quella più complessa e include quella di Alice e i vecchioni, nonché quella dei killer assoldati da Mr. Dick per
uccidere Arden. I killer sono corpi grotteschi à la Grosz. Come ricorda Bene: Poldo Bendandi, un travesti, «imbracciava un mezzo tronco d’uomo, senza gambe né braccia, ma con tanto di cinturone a quattro revolver. Giancarlo Fusco vestito da barone tedesco, in tight e bombetta. Piero Vida (…) era il poliziotto. Pedinava lentamente la promenade di questi tre criminali e piangeva». L’unico contatto tra le due serie è costituito dalla presenza enigmatica del poliziotto afasico e perpetuamente in lacrime. Capricci è la «parodia della creazione per immagini» nella contemporanea distruzione di tutto quanto il pittore Clarke viene creando. Clarke dipinge oggetti e corpi concreti: «Clarke, il pittore muove i pennelli sugli oggetti veri per farli assomigliare a quelli dipinti (…)», oppure sui corpi. Si tratta di un’eversione critica dell’impressione di realtà, dei codici realistici, del referenzialismo iconico. Le immagini degli oggetti, le cose, pesci o quadri che siano, sono materiali preesistenti utilizzati non per creare un senso, ma per toglierlo. Il pittore di Arden of Feversham intossica, avvelena, uccide per mezzo delle immagini. Capricci lavora sul camp dell’immagine cinematografica sul suo regime di visibilità ornamentale divenendone una parodia. La m.d.p. inquadra in plongée la scala a chiocciola dalla quale sale lentamente Alice recando sul capo vassoi in cui i cibi vengono “presentati” secondo criteri ornamentali: Alice salendo “entra” nella spirale della scala a chiocciola mentre la m.d.p., a sua volta, gira in panoramica dentro le volute della spirale. Durante la scena del pranzo di Arden, Mosbie e Franklin, in cui vengono servite le vivande ornate con i colori avvelenati, Bene cita un brano dei Miti di oggi di Barthes relativo appunto al concetto di “ornamento”: «Il giornale “Elle” (vero gioiello mitologico) ci dà circa ogni settimana una bella fotografia a colori di un piatto preparato: pernici dorate punteggiate di ciliege (…). L’ornamentazione procede per due vie contraddittorie, di cui si vedrà subito la soluzione dialettica: da una parte fuggire alla natura grazie a una sorta di barocco delirante (appuntare gamberetti in un limone, rosare un pollo, servire pompelmi caldi) e dall’altra tentare di ricostruirla mediante un tentativo strampalato (disporre funghi meringati e foglie di pungitopo su un ceppo di Natale, rimettere al loro posto le teste di gambero tutt’intorno alla sofisticata besciamella che ne nasconde i corpi). Questo stesso movimento si ritrova del resto nell’elaborazione dei gingilli piccolo-borghesi (portacenere a sella di cavallo, accendini a forma di sigaretta, zuppiere a forma di lepre)». Maurizio Grande in “Arte e messinscena” (1973, p. 98) scrive: «Lo scaldabagno, il cesso, i vetri macchiati di spruzzi di colore da una parte; i rumori della ferrovia e le voci che annunciano all’altoparlante le partenze e gli arrivi dall’altra, stanno a denunciare l’illusorietà del cinema e di un rapporto di tipo “riproduttivo” con la realtà, denunciano proprio l’illusorietà di una funzione basata sull’“impressione di realtà” (Metz, Semiologia del cinema) che il cinema favorirebbe attraverso le sue immagini in movimento. Arden deve dire “Adesso andiamo a Londra”, perché questa volta alle immagini non corrisponde il senso che esse sembrano proporre allo spettatore: ed è proprio in questo blocco del riconoscimento, in una messa in crisi del “realismo” più grossolano, che le immagini acquistano la funzione contraddittoria di negare l’immediato rapporto stabilito tra esse e il fuori, tra rappresentazione e mondo, tra riproduzione e realtà sulla base di comportamenti e abitudini standardizzate». I volumi, i toni, le variazioni del suono (rumore e musica) e del colore diventano i tratti caratterizzanti le diverse sequenze. Le parole sono quasi assenti e, quando presenti, sono fortemente ambigue ed enigmatiche, e pronunciate con intonazione straniante. Arden e Franklin parlano con inflessione siciliana, Alice parla in asincrono passando, senza soluzione di continuità, dalla dizione italiana “perfetta” a ritmi e accenti inglesi. La variazione anche gli andamenti (lentoaccelerato), le tonalità e la timbrica (dalla donna alla bambina e viceversa) così che il corpo di Alice si fa luogo di più voci. Allo stesso modo la musica operistica funge da “blocco del riconoscimento”; essa è investita da un procedimento di decontestualizzazione culturale che la porta a significare altro: asincrona rispetto all’immagine (non fa che “mancare” il punto di sincronizzazione degli atti, li fa circolare a vuoto), essa detta, tuttavia, il ritmo al montaggio. Don Giovanni
Don Giovanni è stato girato – in 16mm, successivamente gonfiato in 35mm – nell’appartamento di Bene in via Aventina a Roma: un set di pochi metri quadrati, completamente avvolto da velluto scuro, allestito dal pittore Salvatore Vendittelli, dal 1961 collaboratore di Bene. La fotografia è ancora di Masini, il montaggio di Contini: circa quattromila inquadrature con inserti di fotogrammi colorati e le giunte «visibili e udibili», così come le lacerazioni e i tagli che attraversano le immagini. Il film, prodotto da Bene, è stato presentato a Cannes, alla Quinzaine des réalisateurs, nel maggio del 1970 e nell’agosto dello stesso anno alla Mostra del Cinema di Venezia.
Nell’opus di Bene questo film rappresenta un evento unico anche nel senso che non ha varianti né teatrali né letterarie. Il riferimento testuale è “Il più bell’amore di Don Giovanni” novella di Le diaboliche di Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly. Commenta ironicamente, in lingua inglese, la voce over nell’incipit: «Si poteva credere che si trattasse di rappresentare semplicemente un libretto d’opera»; ci si trova invece di fronte a un film che si apre, attraverso una serie di citazioni, con un falso prologo. Mentre dei cartelli riportano i versi del sonetto 123 di Shakespeare si ode un rumore di vento. Poi il vento sfuma sulla citazione mozartiana del Don Giovanni, aria n. 4, “Madamina, il catalogo è questo”. Il falso prologo del film, unica parte in bianco e nero, ha inizio con un movimento in panoramica verticale della m.d.p. che inquadra, come una “natura morta”, la tavola di un banchetto (affollata di brocche, coppe, candelabri, alzate ricolme di frutta, fot. 27) al quale prende parte solo Bene-Don Giovanni (che richiama il tema della cena offerta al conte Ravila di Ravilès da una «dozzina di gentildonne del virtuoso sobborgo di Saint-Germain» di cui narra la novella di Barbey D’Aurevilly). Poi, appare in primo piano, Lydia Mancinelli: un volto “truccato” a differirsi, anche attraverso il mutare del “taglio” delle inquadrature, in “altri” volti di donna. Il falso prologo dichiara l’ostentata indifferenza di Don Giovanni rispetto al “catalogo” cui rimandano i primi piani di Lydia Mancinelli truccata in dodici modi diversi, uno per ogni volto: «Nella bionda egli ha l’usanza / Di lodar la gentilezza, / Nella bruna la costanza, / ecc.». Il montaggio, con stacchi in asse, simula una lunga panoramica orizzontale lungo i diversi volti fino allo sfondamento del fuori campo, interrotto da inquadrature su “Don Giovanni”, montate secondo le variazioni del ritmo della musica mozartiana.
FOT. 27
Il film arriva a decostruire il mito di Don Giovanni riducendolo alla sola storia del plus bel amour del conte di Ravila narrata dal conte stesso, oramai invecchiato, nel corso di una cena. Si tratta della storia dell’amore del conte verso una oscura tredicenne, religiosissima figlia di una sua amante: una bambina che per essersi seduta su una poltrona dopo di lui crede di essere incinta e lo confessa alla propria madre. Su questa semplice “storia” Bene opera un’estenuante dilatazione temporale, in cui Don Giovanni tenta vanamente di restituire a se stesso la femminilità che gli è propria e che vede oggettivata nella bambina «non sfiorita in donna». Il film precipita la “situazione” Don Giovanni in una serie di cerimoniali ripetuti e differiti dentro la trappola di una seduzione impossibile che viene tentata sotto lo sguardo fisso e impassibile della bambina onnipresente. L’autodistruzione dell’Io, del Soggetto, che è uno degli snodi del cinema di Bene, passa in questo film attraverso pratiche di oggettivazione che coinvolgono lo sguardo e i suoi rituali. Protagonista del film è uno sguardo cinematografico che forza i limiti della (in)visibilità in un flusso continuo e stratificato di “punti di vista” diversi, ovunque disseminati e ovunque reinquadrati (specchi, cornici, “schermi secondi”), in una vertiginosa mise en abîme. La soggettiva diventa nel film simulacro delle “situazioni” della bambina (Gea Marotta), di sua madre (Lydia Mancinelli) e di Don Giovanni stesso (Carmelo Bene): i loro sono sguardi impossibilitati a vedere, guardano ma non vedono o vedono altro. Dopo il falso prologo in bianco e nero, si ode solo il vento; quindi, con uno stacco, avviene il definitivo passaggio dal bianco e nero al colore. Una panoramica verticale, dall’alto verso il basso su due grandi vetrate rosse a sesto acuto, rivela, in mezzo primo piano e di spalle, la bambina. Seduta su un seggiolino è intenta a “suonare” una spinetta, ma i tasti scollegati dalle corde emettono un rumore sordo. All’improvviso, si ode un altro rumore: sincrona la bambina, in primo piano, si volta di scatto, ruotando sul seggiolino che cigola con un rumore amplificato. Rivolge uno sguardo insistito su un oggetto che non riesce a vedere distintamente (la difficoltà di visione viene simulata dalla variazione fuori fuocofuoco dell’obiettivo della m.d.p.) anche perché sull’immagine dell’oggetto interferisce, inserendosi in sovrimpressione, l’immagine del volto di Bene-Don Giovanni. Egli si trova dietro le pesanti tende che introducono nella camera rossa in cui la bambina è seduta. Il volto di Don Giovanni passa in sovrimpressione stabilendo un contatto diretto con l’immagine della madre che, dall’altro capo della stanza, in fondo al corridoio, attende immobile. La bambina avanza verso la madre: i pochi metri di set vengono attraversati in un tempo tale da consentirle (attraverso sovrapposizioni temporali e ripetizioni) di citare – con voce fuori campo in francese – un passo dal racconto in cui Santa Teresa di Lisieux parla dell’apparizione della «Perfection»; grazie a tale racconto la bambina dice di aver compreso come solo il dolore possa portare alla santità. Quando infine raggiunge la madre, la bacia e le augura di morire e la stessa sorte augura al padre. Segue una serie di immagini relative alla morte del padre (Vittorio Bodini), il cui corpo muta in una sorta di crisalide. I volti della bambina e della madre sono ripresi, ora in sorriso ora in pianto, in una serie alternata di inquadrature con
variazioni scalari e scavalcamenti di campo. Il montaggio fratto presenta una serie incalzante di (false) soggettive della madre alternate alle oggettive sul padre si chiude con l’immagine della madre vista in soggettiva dal padre morto: dal basso, egli la guarda dall’interno della fossa mentre gli viene gettata addosso la terra. Attraverso uno stacco di montaggio, nel gesto di togliersi il velo del lutto, la madre passa altrove, in un set che si fa richiamo esplicito di La baingneuse di Ingres. Nella serie di inquadrature successive la madre costruisce la propria immagine nell’immagine del dipinto, e si avverte insistente la presenza dello sguardo voyeuristico di Don Giovanni. Questi, ripreso in dettagli, primi, primissimi piani e continui reframing decentranti, nella propria stanza davanti a uno specchio si veste e si sveste per tornare poi a guardare da dietro la tenda: ora la citazione pittorica di Ingres è immagine filmica, “effetto quadro”. Segue una serie di inquadrature di immagini speculari di Don Giovanni, il cui corpo, ora vestito ora nudo, rivela la presenza del doppio, di un’immagine indipendente dalla propria. La bambina davanti alla spinetta incrocia le braccia, mentre Don Giovanni raccoglie frettolosamente da terra le proprie vesti; scorrono poi vorticosamente – con graffi e tagli visibili e udibili – brevi inquadrature della madre nella citazione pittorica di Ingres (fot. 28). Partendo dal nero la m.d.p. con una panoramica semicircolare si ferma sulla bambina che di spalle sta seduta alla spinetta e che poi, in soggettiva, guarda le grandi vetrate ricoperte adesso da enormi tele di ragno. La m.d.p. inquadra nell’ordine uno sgabello vuoto, il volto in primo piano di Don Giovanni mentre si accende un sigaro e il viso in primo piano della bambina che adesso sta “suonando” la spinetta: si ode il vento e il rumore sordo dei tasti scordati. Dopo un’alternanza di inquadrature di Don Giovanni, della bambina e del padre, segue una serie frammentata di inquadrature, con ripetizioni e sovrapposizioni temporali, dedicate alla madre mentre attraversa il corridoio che conduce alla camera rossa. Quando finalmente vi giunge bacia la figlia per poi costringerla, con gesti ossessivi e meccanici, a volgere lo sguardo verso Bene-Don Giovanni che se ne sta seduto lì accanto sullo sgabello; ma quando finalmente la bambina volge il capo verso il fuori campo, sullo sgabello non c’è nessuno. La madre stranita prende a mandare baci con gesti meccanici verso il fuori campo; quindi si assiste a una serie di inquadrature, anche ripetute, insistite sui volti. I rituali di seduzione che Don Giovanni inscena verso la bambina si svolgono, con l’ambigua complicità della madre, in quattro momenti (rituali) e secondo quattro strategie: la preparazione del tè, lo spettacolo di teatro di figura (Pinocchio), l’ostensione di “oggetti” religiosi: e, infine, il travestimento (contraffazione) in Cristo. La comunicazione tra Don Giovanni e la madre avviene attraverso l’incrociarsi dei loro sguardi, che in questa occasione dà avvio ai preparativi del tè. Ogni rumore (ad esempio il tintinnio delle porcellane e dei cristalli) è amplificato; ogni voce (ad esempio il grido di Don Giovanni quando si scotta con la teiera bollente) è straniante: manca la sincresi dei suoni con le immagini. I movimenti di macchina sono brevi, incalzano in reframing sui gesti, insistono nei particolari sui volti (occhi, bocche) e nei dettagli sugli oggetti. Fallito il primo tentativo di seduzione, Don Giovanni si nasconde dietro le pesanti tende rosse e da lì continua a guardare.
FOT. 28 Secondo tentativo. La madre e la bambina sono ora inquadrate dall’interno di un teatrino di burattini e il punto di vista varia tra semisoggettive, false soggettive e oggettive irreali. La madre, nuovamente e con insistenza, forza la figlia a guardare, mentre a tutto schermo appaiono delle silhouette di burattini in lotta (l’effetto è quello del teatro di ombre: rosso su fondo nero); ma la bambina non guarda, anzi si mette a baciare convulsamente la croce del suo rosario. Allora Don Giovanni, lasciate le ombre, prende ad animare dei pupazzi, ma la fanciulla continua a non voler guardare. Ancora una volta Don Giovanni è costretto a mutare tecnica: anima Pinocchio e le marionette, dà loro la voce in asincrono (a tutto schermo appare il volto ligneo della fatina dai capelli turchini). La bambina tuttavia non cessa di baciare il rosario e, per non guardare, gira su se stessa volgendo continuamente altrove lo sguardo: per poterlo intercettare Don Giovanni è costretto a interrompersi ripetutamente e a spostare il teatrino dinanzi a lei. Lo spazio è uno spazio sonoro amplificato in cui si manifesta la polifonia vocale di Bene mentre il volto della madre in primo piano è già preso in altra citazione pittorica (fot. 29): Venere allo specchio di Velázquez. Dopo una serie di piani di spalle (dal mezzo primo piano al primissimo piano, intercalati a dettagli dello specchio da Velázquez, fot. 30), Don Giovanni si volge verso la m.d.p. per poi cadere a terra (rumori amplificati), in una sorta di backstage di marionette, pupazzi e burattini e il suo sguardo in soggettiva scorge la bambina che gli sta accanto; quindi, rialzatosi prende ad “animare” se stesso: il montaggio (dettagli, particolari, inserti, plongée ecc.), con ritmo vertiginoso mostra il suo corpo avvolto dai fili che egli stesso muove con la mano. I corpi di Don Giovanni e della madre – nel luogo stesso della messa in quadro di Velázquez – precipitano con un’alternanza di attrazione e repulsione in una lotta. Sul volto di Don Giovanni appare del rosso-sangue e la sua voce è un urlo che si inabissa in una vertigine di immagini: a tutto schermo appaiono, in alternanza, il volto ligneo della Fata Turchina, il volto della madre, l’immagine di Don Giovanni, fotogrammi graffiati ecc. Il flusso s’arresta sul volto in lacrime della madre, in primissimo piano, con gli occhi rivolti verso l’alto: uno stacco mostra Don Giovanni crocifisso (fot. 31). Appare il doppio di Don Giovanni e ha quindi inizio una lotta: rumori, cigolii, schianti di porte che sbattono amplificati.
FOT. 29
FOT. 30
FOT. 31 La strategia seduttiva si svolge ora mediante oggetti religiosi, corone e crocifissi. La bambina, in mezzo primo piano, incrocia le braccia e d’improvviso il suo vestito con uno scatto si apre sulla schiena. Don Giovanni esita, poi applaude. In primo piano sonoro è un rumore di schiaffi: il capo della bambina violentemente oscilla dentro l’inquadratura e la sua voce diventa un lamento. La madre si trova sul fondo dell’inquadratura, fuori fuoco. Primo piano della madre: fuori campo si sentono un pianto di neonato e una voce over che dice il sonetto di Shakespeare già citato in epigrafe. Don Giovanni cerca qualcosa in una sorta di magazzino di oggettistica religiosa: statue, paramenti, ostensori, ex voto. Lo sguardo in soggettiva della bambina si fa vertiginoso e vaga completamente decentrato tra ceri, statue di San Sebastiano, madonne, santi, candelabri. La bambina, di spalle, è seduta alla spinetta dietro di lei si trova Don Giovanni. Si odono rintocchi di campana come su nastro magnetico: la bambina si volge di scatto e sincrono Don Giovanni si ritira; primo piano sul volto in lacrime della bambina: il suo sguardo si muove su di un grande crocifisso ligneo mentre la sua voce off dice frammenti da Santa Teresa di Lisieux. Don Giovanni intraprende l’ultimo tentativo di seduzione, l’ultima estrema contraffazione di sé: travestito da Cristo avanza nel corridoio verso di lei che si volge di scatto. L’avanzare di Don Giovanni è sospeso e a tratti “bloccato” tra variazioni, rallentamenti, arresti; anche il sonoro perde definizione. E quando la sua immagine si sblocca, precipita sulla bambina che gli sputa in faccia; si ode il grido di Don Giovanni che si allontana non prima di aver spento tutte le candele accese; si avventa poi sulla madre e tra i due si ingaggia una lotta. Riceve due “sonori” ceffoni che lo fanno precipitare dal letto a terra, ma la caduta dal letto appare come uno sprofondare. Sul piano sonoro si ode la voce della bambina in pianto; la madre, alzatasi dal letto, la raggiunge. La bambina in lacrime dice (nell’unica scena girata con il sonoro in presa diretta): «Così, mamma, fu una sera. Lui stava qui nella grande poltrona così, poi s’alzò e io ebbi la sfortuna di sedermi al suo posto; poi volli alzarmi e non, non mi riuscì. E allora sentii mamma, sentii che portavo un bambino». Don Giovanni con gli occhi nega reiteratamente e, lanciatosi contro uno specchio, lo sfonda scomparendovi. Il volto della madre è in primo piano e il suo sguardo in soggettiva rivela la cornice e il nero dello specchio sfondato. Sul nero, una voce over in inglese dice – interpolazione da Finzioni di Borges -: «Copulation and mirrors are abominable because they multiplicate the number of human beings». Il montaggio è fratto e i movimenti di macchina oscillanti: segue una serie di inquadrature della madre – tra il riso e il pianto – mentre raccoglie pezzi di specchio che riflettono frammenti del volto di Don Giovanni e che a tratti rifrangono la luce in macchina. Infine la m.d.p. inquadra il nero risalendo le linee della cornice. Sul nero appare la scritta: Un film di / Carmelo Bene.
Il film si chiude dunque con l’ultima contraffazione in “Cristo”, ultimo «disperato travestimento devozionale», ultimo estremo tentativo di seduzione della bambina, ultimo fallimento di Don Giovanni che sfonda lo specchio (e lo specchio infrange l’immagine). Come dicevamo, in Don Giovanni si assiste a una proliferazione di punti di vista in stratificazioni di immagini incompatibili: lo sguardo in soggettiva della bambina mistico e ambiguo e della madre perturbante, ambivalente e quello oggettivante di Don Giovanni. Soprattutto, però, in Don Giovanni
il montaggio fratto segna l’avvento di uno sguardo-macchina che vede e si sposta a velocità inaudite, con mutazioni immediate e trasformazioni continue del “punto di vista cinematografico” tra oggettive irreali, soggettive, semisoggettive, false soggettive e false interpellazioni sino all’indistinzione: l’immagine si piega, si avvolge e si riavvolge su se stessa, ripresa e ripetuta, si dilata e si contrae, distorce il proprio “volume”. La “giunta” visibile-udibile non è tanto un richiamo a Brakhage, quanto l’esplicita utilizzazione dell’interstizio tra le immagini, dell’interruzione immotivata o «irrazionale», come l’ha definita Deleuze. L’interstizio non marca la fine di un’immagine e l’inizio di un’altra, bensì si autodesigna come un’interruzione e, non appartenendo né all’una né all’altra, comincia «ad avere valore per se stessa». Il nero, la giunta, l’interstizio sono assenza di immagine, assenza che colpisce il “visibile” come un’interferenza, un disturbo e che fa del “visibile” qualcosa che tende a sottrarsi alla vista. Nello spazio claustrofobico costituito da pochi metri compresi tra la camera rossa e il corridoio adiacente – scandagliato dalla m.d.p. (operatore Antonio Nardi) – la spazialità è dislocata dal montaggio. L’annullamento dello spazio e del tempo avviene sia sul piano dell’indistinzione della topografia del set e delle relazioni spaziali attivate all’interno della “camera rossa” (con il corridoio e con gli altri luoghi prossimi e contigui), sia sul piano dell’acronia e delle relazioni temporali che intercorrono tra un atto e l’altro (assenza di marche temporali). Alcune distorsioni temporali si attivano sul piano spazio-temporale attraverso il montaggio, mediante continui salti in avanti e indietro, per sovrapposizione (temporale) e ripetizione. Questo accade soprattutto quando la bambina, la madre e Don Giovanni attraversano il corridoio che porta alla camera rossa. Le loro immagini continuamente avanzano (in totale, in campo medio o lungo) e continuamente arretrano (nei dettagli, nei primi e primissimi piani) mediante forti variazioni della scala delle distanze e repentine variazioni di direzione (scavalcamenti di campo). Ad esempio, il corpo di Don Giovanni viene fatto tornare indietro in una sorta di effetto rewind; quindi viene fatto ripartire ripreso da un altro punto di vista e da un’altra inquadratura; l’immagine del corpo di Don Giovanni è chiusa in un circuito temporaneo, che la fa passare senza soluzione di continuità dal mezzo primo piano al primissimo piano, al campo lungo e poi ancora dal primissimo piano al campo medio ecc. Tale circuito si disattiva e per qualche secondo lascia scorrere l’immagine, poi nuovamente interrotta e riportata al punto di partenza: il “corpo” di Don Giovanni non riesce a passare attraverso il corridoio che porta alla camera rossa, è bloccato in questo circuito. Nel caso della madre, alle ripetizioni differenti della sua immagine bloccata nel circuito temporaneo vanno ad aggiungersi le variazioni riguardanti il doppio habitus “vestito-nudo”. Come ricorda Bene, i costumi di Lydia Mancinelli «sono dei Rembrandt, dei Cranach, Ingres, ecc. La coprono solo davanti. Dietro è nuda. L’inattendibilità della veste, ma anche della pelle». Le citazioni pittoriche – La baigneuse di Ingres, La Primavera di Botticelli, Venere allo specchio di Velázquez – sono richiami svuotati di senso. Il “doppio” in Don Giovanni è una figura speculare, ovvero “specchio” che rilancia l’immagine una seconda volta, doppiandola («riflessività come molla dell’enunciazione»), ma è anche il corpo attoriale stesso che si “traveste” nei rituali di seduzione, o meglio come rilevato da Klossowski è «l’uguale che si contraffà implicando una dissomiglianza». Sul piano della visibilità e dell’invisibilità dell’immagine, la presenza insistita di specchi, di riflessi speculari, di immagini stratiformi, fa coesistere e mescola immagini diverse. Il contatto tra i corpi avviene su dislivelli, attraverso le stratificazioni dell’immagine che li rendono, nello stesso tempo, prossimi e lontanissimi. Come ad esempio nel primo rituale di seduzione, la preparazione del tè, in cui la citazione pittorica di un particolare di La Primavera di Botticelli fa dello schermo – attraverso le immagini sottoesposte e le “sovrimpressioni” – una “tela” trasparente, veicolo di variazioni in cui convergono serie diverse d’immagini. La madre con un gesto – prende un rametto di germogli che appoggia sulle labbra – si “trasforma” nel richiamo a “Flora” di La Primavera; la sua immagine è in contatto con quella di Don Giovanni, ma uno zoom all’indietro la rivela come immagine speculare. Abbandonando quindi la postura di “Flora”, la madre si toglie dalle labbra il ramo di germogli e lo porge, fuori dal “quadro”, a Don Giovanni; segue un inserto in cui, su un fondo nero e sulla diagonale, la mano di lei porge una rosa bianca a Don Giovanni, la cui mano si chiude intorno al nulla; la rosa intangibile è in “sovrimpressione”: la sola mano di Don Giovanni resta in campo, quella di lei scompare. Don Giovanni porge il vassoio di pasticcini alla madre, ma – inserto su fondo nero – la mano di lei, “incorporea”, vi si sovrappone non potendolo toccare. Segue un bacio in “sovrimpressione”: su un fondo nero permane il volto in primo piano di Don Giovanni mentre si spegne quello di lei. Inquadratura d’insieme, variazione luministica: Don Giovanni si copre lo sguardo con una mano e si spegne; contemporaneamente lei si fa più luminosa, poi si copre lo sguardo: dissolvenza in nero. Salomè
Salomè, film in Super16 (poi gonfiato in 35mm), viene girato nel teatro 2 di Cinecittà tra il 1971 e il 1972. La produzione è di Bene per l’Italnoleggio, avviata da Anna Maria Papi e proseguita anche con il contributo dell’art. 28. A fine agosto del 1972 il film viene presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Precedenti sono le varianti teatrali Salomè, da Oscar Wilde, del 1964 (Teatro delle Muse, Roma) e del 1967 (al Teatro Beat 72, Roma). Della prima versione Arbasino scriveva di «un indimenticabile spettacolo di Carmelo Bene che vede il mal riuscito party del Tetrarca come uno scalcagnato dopo-orgia di un produttore di Macisti con le cambiali, tra le bottiglie vuote di whisky e travestis dispettosi e sonnolenti». E della variante radiofonica trasmessa nel febbraio del 1975 sul terzo canale, Quadri rileva il passaggio diretto dal cinema alla radio, piuttosto che dal teatro alla radio: «Il serrato montaggio del nastro – con sovrapposizioni di voci, mutazioni di tonalità, cambi di velocità e di volume, associazioni della musica classica con la canzonetta – sostituisce il montaggio ossessivo del cinema e la preziosità degli incastri sonori ricompone il mosaico di quella pioggia di visioni che era stato il film Salomè. Ma anche il film è “ascoltabile”». Alternate ai titoli di testa appaiono le seguenti serie di inquadrature: un disegno animato in cui un cammello carico di una borsa di monete d’oro passa e ripassa dentro la cruna di un ago con improvvise strizzatine d’occhio, una serie di inquadrature dinamiche su stendardi e sulle natiche, flagellate da piumini, di donne masochiste; una serie di primi e primissimi piani di Naaman. A seguire una breve serie di inquadrature in cui appare il Cristo-Vampiro nell’atto insistito di guar-dare fuori campo. In montaggio alternato seguono inquadrature dell’immagine “astronomica” della “luna”, e inquadrature del Tetrarca (Bene) che si versa da bere (rumore del liquido versato) e si porta la coppa alla bocca. In campo verde e giallo un piccolo specchietto rotondo si muove in panoramica orizzontale riflettendo gli occhi del Tetrarca: è sua la mano che lo regge orientando la panoramica con il proprio movimento. Appare in primo piano il volto di Onorio (Bene), aureolato, a occhi chiusi: interpolazione visiva di un frammento di La sainte courtisane di Wilde. Quando improvvisamente egli apre gli occhi, uno specchio d’acqua ghiacciata si infrange con un rumore amplificato di vetro in frantumi: ne emerge Myrrhina (Veruschka), il capo calvo e il volto completamente cosparsi di gocce di vetro e finte pietre preziose colorate (fot. 32); sul piano sonoro passa Valse Triste di Sibelius. Attraverso il montaggio frammentato degli sguardi tra Onorio e Myrrhina, si rende percettibile il progressivo avvicinamento dei loro corpi, che senza mai toccarsi – ciascuno dentro la propria serie di immagini – mutano e, per il tramite di un contagio “invisibile”, le pietre preziose passano dal corpo di lei al corpo di lui. La serie si chiude con una inquadratura del Tetrarca che continua a bere dalla coppa.
FOT. 32 Sibilo del vento: appare il volto terreo del Cristo-Vampiro che guarda insistentemente in macchina, ma l’immagine vista è lo sguardo in soggettiva di Erodiade-Vincenti. Nel passaggio dal controluce alla “luce” appare, in campo medio, lo schema iconografico dell’«ultima cena» rivisitato, attraverso i colori acrilici in stile Pop Art (fot. 33). Segue una serie alternata di primi e primissimi piani, mezzi primi piani dei volti calcinati del Cristo Vampiro, di Erodiade-Vincenti, degli “apostoli” e infine dettagli sulle mani e sulla sacca con i denari (sul piano acustico si ode il tinnire delle monete); tutti attendono che si compia il rituale del tradimento. Il Cristo-Vampiro con la voce fuori campo di Bene dice: «Uno di voi mi tradirà»: zoom indietro violentissimo, l’immagine del Cristo-Vampiro s’inscrive in una enorme aureola “pop”. Dettaglio sulla sacca e sui denari, mentre si ode una polifonia di «Io!… Io!… Io!…»: sono le voci degli apostoli che a gara si gettano scompostamente sulle monete (montaggio frammentato, movimenti di macchina instabili e discontinui, violente carrellate ottiche). La serie si conclude con la bocca del Cristo-Vampiro a tutto schermo: sorride rivelando i denti aguzzi.
FOT. 33 Il montaggio alterna la serie di inquadrature riprese dal prologo a una serie di inquadrature in esterno relative agli apostoli che s’avventano su di un “gregge” di pecore fingendo di sbranarle. Si odono rintocchi di campane e risate isteriche. Entrano nell’alternanza anche le inquadrature di Naaman e le semi-plongées, in un controluce in cui si rifrangono solo i colori acrilici della corte galleggiante, dove il Tetrarca cammina vacillante con la sua immancabile coppa. A seguire la serie alternata di inquadrature del Cristo-Vampiro e del Tetrarca. Il Cristo-Vampiro, avvicendandosi tra l’«ultima cena» e il banchetto orgiastico di Erode Antipa, attende ora alla “messa in scena” del festino orgiastico, canticchiando Vipera, mentre il Tetrarca continua a bere. La serie relativa al festino orgiastico (caleidoscopio di colori e di corpi) si alterna alla serie del disegno animato del cammello che continua ad attraversare lo schermo, e verso cui il Tetrarca spara dei fuochi artificiali con una pistola giocattolo.
Sulle note della Danza dei sette veli della Salomè di Richard Strauss, il Cristo-Vampiro è ripreso nell’atto di ripiegare “i veli” della danza di Salomè. Segue un’inquadratura di Naaman. Il Cristo-Vampiro necrofilo porta tra le braccia il corpo esanime di una giovane donna che depone accanto al Tetrarca. Il montaggio è frammentato: si alternano serie di inquadrature del Cristo-Vampiro, della giovane donna, di Erodiade e del Tetrarca, il quale ripetutamente si copre gli occhi e, che come Onorio, non vuole guardare, ma tuttavia guarda il volto della giovane morta. Segue la presentazione di Iokanaan. Il Tetrarca indica Iokanaan a uno degli schiavi che raggiunge Naaman, il quale, ricevuta l’istruzione, getta il profeta dentro un pozzo-cisterna. Salomè, rifiutato l’invito del Tetrarca a rientrare, turbata dalla stranezza della voce del vecchio profeta, (l’uomo di cui il Tetrarca ha paura e che dice cose mostruose sul conto di sua madre Erodiade) seduce il capitano siriaco e ottiene, nonostante il divieto, di potere vedere Iokanaan. All’improvviso, in campo medio, Iokanaan esce dal pozzo-cisterna. Sul piano sonoro passa la canzonetta popolare Valzer spensierato, le cui parole profetiche dicono: «Se vuoi vivere senza pensieri dalle donne ti devi guardar…». Iokanaan prende a sbucciare con un temperino una mela che inghiotte e rigurgita continuamente. Egli riferisce del testo wildiano parole pronunciate sul filo delle assonanze di fonemi, che introducono equivoci e radicalizzazioni dissacranti del senso: «Ha venuto quel signore, il figghio di quel signore… ricorda il nostro passato… bella figlia ’e puttanona (…) Chi è questa donna che mi guarda? (…) Non voglio che mi guarda…». Non potendo più sopportare le parole di Iokanaan contro la principessa Salomè, il giovane capitano siriaco si uccide. Il Tetrarca ne è profondamente turbato, soprattutto perché egli si è suicidato “nonostante lo avesse fatto capitano”. Ma l’attenzione del Tetrarca è concentrata sull’immagine di Salomè intercettata nel suo specchietto. Entrano in alternanza inquadrature di Erodiade che sottrae degli oggetti mettendoli dentro grandi sacche. Attraverso lo specchietto che il Tetrarca tiene orientato verso la m.d.p. entra in alternanza anche la serie di inquadrature del volto di Salomè. Egli chiede a Salomè di avvicinarsi, di bere del vino, di mangiare della frutta, di sedersi. Salomè – inquadrata attraverso lo specchietto – rifiuta. Dal fuori campo incombe la voce di Iokanaan che, insistente, grida profezie oscure: «Ha venuto, giorno del Signore… montagne… passi… salvatore del mondo…». Erodiade, stanca delle ingiurie, chiede di farlo tacere, ma il Tetrarca non capendo “niente di quel dice”, chiede a Tigellino che cosa significhi «salvatore del mondo». Tigellino risponde che significa «uno degli attributi di Cesare». Ma il Tetrarca obietta che Cesare non sta arrivando in Giudea. Sul motivo della canzone popolare Rosamunda, suonata da un’orchestrina in una delle zattere della reggia galleggiante, una voce over amplificata da un altoparlante pronuncia le parole che nel testo wildiano sono attribuite ai Nazareni. La voce over spiega che quanto detto da Iokanaan circa l’avvento del «salvatore del mondo» è riferito al Messia che fa miracoli. Allora, il Tetrarca chiede del miracolo della figlia di Giairo. E quando la voce over racconta che la figlia di Giairo era morta e che il Messia l’ha resuscitata, ne è sconvolto e dice: «Cambiare l’acqua in vino, guarire i lebbrosi, i ciechi… queste cose se vuole le può fare. Non ho nulla in contrario (…). Ma non gli permetto di risuscitare i morti… sarebbe terribile, se i morti rivivessero». Il Tetrarca guarda Salomè e finalmente le dice: «Salomè, danza per me». Ma Salomè non ha nessun desiderio di danzare. Erodiade chiede ancora di fare tacere Iokanaan. Ancora il Tetrarca chiede di danzare a Salomè che solo dopo il “giuramento” acconsente. Segue un montaggio alternato tra le inquadrature relative all’automartirio del Cristo-Aspirante Crocifisso in cui egli procede all’autocrocifissione, inchiodandosi da sé, in un martirio impossibile, i piedi e una mano (ma l’altra? Disperato utilizza la mano rimasta libera per sfondarsi il cranio a martellate. Si ode amplificato il rumore del martello che picchia sui chiodi e contrappuntisticamente la canzone Abat-Jour) e quelle in cui Salomè avanza al Tetrarca la richiesta della testa di Iokanaan intercalate dalla serie del Cristo-Vampiro e infine da quelle relative a Erodiade, che sale in groppa a un asinello e se ne va in viaggio verso la luna: solo Erodiade-Mancinelli è rimasta in sella con le sue finte ali bianche d’angelo. I veli di una danza invisibile coprono il volto del Tetrarca. Salomè con le sue agili mani li toglie ripiegandoli a uno a uno, sino a quando giunge a contatto con la pelle (fot. 34 e 35): l’immagine scarta in un bianco abbacinante (fot. 36). Salomè continua a togliere, ma ciò che toglie ora è la pelle del Tetrarca. I due sono stesi a terra nella neve. Il diafano corpo di Salomè esercita una forza magnetica: il volto, il corpo del Tetrarca rimangono immobili tra sue mani, lasciando che unghie insistenti, affondino e strappino via la pelle. Il Tetrarca chiede d’essere ascoltato, non vuole acconsentire alla terribile richiesta di Salomè e mentre le chiede d’essere “ragionevole”, passano in montaggio alternato la serie di inquadrature dell’automartirio del Cristo-Aspirante Crocifisso (fot. 37) e la serie di inquadrature di una scacchiera di ghiaccio, i cui pezzi celesti e rosa si vanno sciogliendo in acqua rossa. Poi ancora la pelle strappata del Tetrarca nelle mani implacabili di Salomè che continuano a togliere il derma e che la m.d.p. segue e “dettaglia” a tutto schermo contro il bianco dello sfondo (fot. 38); Salomè continua a “togliere”, nonostante il lungo elenco di doni preziosi che il Tetrarca le offre: lo smeraldo, i cento pavoni bianchi di neve, la collana di perle a quattro file, il velo del santuario, l’Università (quest’ultima offerta è un’interpolazione da Salomè di Laforgue). Segue un montaggio frammentato e vorticoso sui corpi e i volti di Salomè e del Tetrarca, che si fanno progressivamente invisibili, sbiancano e con loro anche le macchie rossosangue sulla neve. Le mani di Salomè tolgono ossessive altri strati di pelle che, ancorché strappata e ristrappata, rivela ancora il volto che sotto diversi strati è – per effetto della solarizzazione – «un altro e uno stesso»: un volto sotto un altro volto, come se l’immagine stessa si esfogliasse. Nel bianco la voce di Salomè dice: «Dammi la testa…». Segue l’urlo del Tetrarca e l’immagine della luna. Silenzio, il Tetrarca ride e la sua voce dice: «I re! I re non devono mai dare la loro parola. Se non la custodiscono, è terribile. E se la custodiscono, è ugualmente terribile… chi ha preso il mio anello?! Chi ha bevuto il mio vino?! C’era del vino qui… L’ha bevuto qualcu(no)… Manasseeeee! Isakaaaaar! Otiaaaaasss! Spegnete le torce! Non voglio vedere più nulla. Non voglio che niente mi guardi. Spegnete le torce! Cancellate il sole! Nascondete la luna! Nascondete le stelle! Comincio ad avere paura».
FOT. 34
FOT. 35
FOT. 36
FOT. 37
FOT. 38
I testi di riferimento sono La sainte courtisane (La Santa Cortigiana o La donna coperta di gioielli) e Salomè di Wilde, dalla quale Bene ha “sottratto” la danza, la decapitazione di Iokanaan, il bacio e l’uccisione di Salomè. L’epilogo wildiano è sospeso nella solarizzazione, nel bianco abbacinante che rende cieca l’immagine, lasciando la voce sola. L’interpolazione del frammento wildiano di La sainte courtisane funge invece da procedura addizionale: Onorio è un presagio, un alter ego che Erode Antipa intercetta attraverso il suo specchietto. Lo specchietto rotondo attraverso il quale Erode Antipa guarda è la necessaria protesi intrusiva dei suoi occhi, poiché wildianamente «non bisogna guardare mai né le persone, né le cose; bisogna guardare solo negli specchi, perché gli specchi non riflettono che maschere!». Lo specchio non “specchia”, ma si specchia, come nell’aneddoto di Wilde, riferito da Gide, è il lago che si specchia in Narciso. Quindi la precauzione dell’epilogo wildiano non è sufficiente a salvarlo dalla stessa rovina di sempre: quello specchio riflette altri specchi. Onorio è il giovane eremita che “non vuole guardare volto di donna”, ma che tuttavia non può sottrarsi alla sfida conoscitiva di Myrrhina e la guarderà perdendosi. E attraverso la reciprocità degli sguardi l’uno diviene quello che l’altra era prima e viceversa: Onorio passando dalla rivelazione alla perdita di Dio e Myrrhina passando dalla perdita alla rivelazione di Dio. Il corpo di Myrrhina (Verushka) è interamente coperto di finte pietre preziose (richiamo a L’apparizione di Moreau) che per il tramite di un “invisibile” contagio passano al corpo di OnorioBene secondo un’estetica dei gioielli falsi presente già da Il rosa e il nero (1966). Il testo wildiano, già di per sé in continua mutazione, subisce una variazione ulteriore, quella cinematografica e Bene, come sempre, rilancia senza sosta questo processo come ad esempio quando il Tetrarca Erode Antipa, alzatosi, per raggiungere gli ospiti romani, dice ironicamente: «Ah! Sono scivolato» e solo dopo scivola sul sangue del giovane siriaco suicida. Dopo averne rilevato il “cattivo presagio”, avvedendosi della presenza del cadavere, chiede vieppiù alterandosi: «E questo cadavere? Che fa qui questo cadavere? Credete che davvero sia come il re d’Egitto che
non dà mai un banchetto senza mostrare un cadavere agli ospiti? Non voglio guardarlo. Portatelo via, portatelo via, portatelo via… chi è?». Per quanto riguarda le “situazioni”, alla figura di Erode Antipa, o meglio “all’universo occidentale di Erode Antipa”, Bene contrappone la figura del Cristo. Egli ritiene «autentica antagonista storica la figura del Cristo (in forma d’incubo), intesa come storia del cristianesimo e perpetrazione ossessiva del mondo delle idee. Nel testo wildiano non si parla che di lui, di Gesù…». Erode si fa segno del “mito che muore” con la dissoluzione del mondo arcaico (paganesimo), mentre “Cristo” si fa segno della “storia che incombe” con la formazione di un mondo nuovo nella “religione/rivoluzione del cristianesimo”. Ma nella riscrittura beniana la figura del Cristo è un doppio: vi è un Cristo-Vampiro (Franco Leo) metteur en scène di rituali orgiastici (quale figura tradìta, istituzionalizzata della religione cattolica) e un Cristo-Aspirante Crocifisso, automartirizzantesi (quale figura troppo umana che aspira a una crocifissione impossibile). La figura del Cristo-Aspirante Crocifisso è un riferimento esplicito a un aneddoto (Il Maestro) raccontato da Wilde a Gide circa Giuseppe d’Arimatea, il quale subito dopo la morte di Cristo, di fronte al dolore di un giovane in pianto, ne loda la fede, sentendosi rispondere: «Non per Lui piango, ma per me stesso. (…) Tutto ciò che quell’uomo ha fatto ho fatto anch’io. E tuttavia non mi hanno crocifisso». Riferimento che è presente già nel “romanzo” Credito italiano V.E.R.D.I., nei tentativi di “suicidarsi in croce” di Giacobbe. Erode Antipa (il Tetrarca, Bene) è oppresso dai segni, dai presagi dell’imminente rovina di se stesso, del suo potere e della regalità (peraltro usurpati al fratello di cui ha sposato la moglie Erodiade) e dei suoi dèi, ma nonostante la “paura” non vi si sottrae, non potendo non farsi strumento della propria disfatta, del proprio annientamento. Come scrive Bene, il Tetrarca Erode Antipa, «che tra gli intervalli e i simulati battiti del suo cuore, smanioso – simulate anche le smanie –, nell’attesa – simulata anche l’attesa – che la vita bambina in Salomè lo compiaccia di tra i veli danzanti l’invisibile, muove insensato i pezzi rosa e celesti modellati in ghiaccio sulla sua scacchiera. Estrema parodia del gioco e del progetto, ché re regine e alfieri e torri gli si disciolgono tra le mani, nella sequenza ritardata delle mosse – simulato anche il riflettere – in una fredda pozza d’acqua. E Antipa, il matto, lo dà al se stesso re» (cit. C. Bene, Sono apparso alla Madonna, 1983, p. 213). Ogni “situazione” riscritta (Salomè, Iokanaan, “Erodiade” ecc.) del testo wildiano presenta un unico modo vocale, uno stesso tono, una stessa variazione ritmica dentro un’unica tonalità; solo la voce del Tetrarca-Bene presenta variazioni molteplici. “Erodiade” è sdoppiata (come già nella variante teatrale) in un aspetto femminile (Lydia Mancinelli) e in un aspetto maschile (Alfiero Vincenti). La sua presenza è quindi sempre raddoppiata in immagine e in suono; le voci si sovrappongono: l’una ha sempre lo stesso tono lamentoso, l’altra un tono perentorio. Salomè (Donyale Luna) è l’immagine che Erode Antipa guarda solo attraverso il proprio specchietto. Salomè è “immagine” e, secondo Bene, «l’immagine è la morte, l’immagine è mortale, ma non è il morire. Il morire è il continuum, l’agonia, è la crisi, l’impasse». Nella prima apparizione Salomè – il capo calvo, il volto diafano, lo sguardo scuro, il corpo scavato ed evanescente – tiene in mano un rasoio con il quale “taglia” in orizzontale lo schermo. Iokanaan, il Battista (Giovanni Davoli, già Arden in Capricci), la cui voce asincrona grida continue invettive in una lingua incomprensibile (pastiche di dialetti meridionali) “esprime” contenuti sacri, contaminandoli attraverso un lessico osceno e declama profezie secondo una concezione del mondo «che si presenta nelle forme storiche di una religione, quella cattolica». Questa voce per Erode Antipa è oscura e tuttavia presaga di catastrofi, i cui segni egli intravede ovunque, nel pallore delle varie lune incombenti e nel pallore di Salomè, nel freddo improvviso, nel sangue, nei petali di rosa come sangue: «Come sono rossi questi petali. Sembrano macchie di sangue sparse sulla tovaglia. Ma non bisogna trovare simboli dappertutto, la vita diventerebbe impossibile. Sarebbe più bello dire che le macchie di sangue sono belle come dei petali di rose. È più bello così… ». Iokanaan è la crisi e la dissoluzione di un mondo arcaico, mitico. Le altre “situazioni” sono come dei circuiti audiovisivi chiusi: Naaman è un carnefice fumettizzato che, coatto a ripetersi, nelle prove di decapitazione, spacca a metà con la scimitarra un cocomero; Narraboth, il capitano siriaco (Piero Vida) è un onanista estremo sino al punto da morirne; Tigellino, ospite romano, è orgiasticamente immerso nel circuito cibo-erotismo. Gli “effetti” dell’impianto scenografico del set di Salomè sono di Gino Marotta. Il set è una reggia acquatica (galleggiante), interamente coperta di rose artificiali, con palme acriliche dai cromatismi sintetici; i palmizi artificiali costituiscono in se stessi una sorta di décor mobile, perpetuamente in movimento. Si tratta di una corte galleggiante – in un movimento-deriva – resa in montaggio alternato. Una corte immersa nel nero dal quale si “staccano” i colori acrilici di tessere luminose attaccate sugli oggetti, sui costumi e sui corpi come mosaici policromi. Un kitsch totale: i
palmizi acrilici (gialli, verdi e azzurri), i fiori di plastica (tinti al fluoro), i praticabili, i costumi, i fuochi, i pannelli in plexiglas con smalti, tutto è esasperazione luministico-cromatica dell’esotismo. Il colore brillante, “acrilico”, è ottenuto tecnicamente attraverso l’impiego dello scotchlight (materiale rifrangente della 3M composto da microscopiche sfere di plastica trasparente) e implica un rigoroso sistema luministico con parchi lampade mobili cui corrisponde l’estrema mobilità della macchina da presa: una cinepresa Super16, alla quale è fissato un proiettore frontale. I corpi attoriali sono quasi sempre sdraiati, accovacciati in posture e distanze che non lasciano definire le inquadrature con i termini convenzionali. I primi e primissimi piani, i dettagli, i campi medi, lunghi e lunghissimi che sono quasi sempre debordanti e decentrati, si “scalzano” sia mediante l’alternanza, sia attraverso il cambio di focale: carrellate ottiche violentissime in una instabilità continua fatta di scarti immediati fra il “troppo vicino” e il “troppo lontano”. Vi è una forte interazione tra i corpi attoriali e la m.d.p. che però “manca” sempre i corpi, come il set, muovendosi in modo destabilizzante, prevalentemente attraverso panoramiche discontinue, “nervose” e fintamente casuali, vacillanti. I movimenti di macchina sono depistanti, mostrano, ma nel mostrare sottraggono. Il ritmo rapido del montaggio spezza i movimenti, gli atti, i gesti dei corpi determinando una forte discontinuità audiovisiva. Le inquadrature sono da un lato serializzate (immagini di una stessa serie), dall’altro, variate all’interno della stessa serie. Il montaggio fratto mette in alternanza serie diverse di (una o più) inquadrature le quali pertengono a differenti aspetti di “eventi”, di atti simultanei, che si dispiegano in un unico set: la corte galleggiante del Tetrarca, alla deriva. Sul piano temporale, il montaggio, anche se attualizza la simultaneità delle diverse serie di inquadrature, tuttavia non riscatta la consecuzione all’interno di ciascuna serie, dove invece la variazione è continua. Così in Salomè, come già in parte in Don Giovanni, il flusso filmico è fatto di “piani autonomi” (brevissime inquadrature). Il montaggio è frammentato, cadenzato da tagli rapidi quanto netti (assenza di raccordi) e il flusso discontinuo delle inquadrature è vorticoso (circa 4500 inquadrature per 80 minuti di proiezione). La risonanza del tema, già wildiano, dello sguardo è fortissima, vertiginosa; circola ossessivamente non solo attraverso l’enunciazione dello sguardo in immagine, ma anche attraverso le voci. Salomè “vede” con altri occhi Iokanaan-Davoli e di lui dice: «Sembra una sottile statua d’avorio (…) una statua d’argento», in un’assurda e straniante fascinazione. Salomè è un film che tende all’annullamento della forma-sguardo: è un film che non vuole guardare, né essere guardato. Gli sguardi in soggettiva non sono mostrati, né tanto meno raccontati, sono sguardi-simulacro, sguardi sempre deformati, schermati da qualche oggetto (il vetro della coppa, il ventaglio) che “smarca” la soggettività dello sguardo di chi guarda, simulato dalla m.d.p. e quindi sempre dichiaratamente falso. Salomè è pura “superficie” in cui opera, attraverso il montaggio frammentato, una “sintesi disgiuntiva” tra diverse serie di immagini. Superficie filmica percorsa da serie di inquadrature eterogenee che il montaggio fratto da un lato coordina, correla, fa convergere e dall’altro spezza introducendo all’interno di ciascuna serie forti disgiunzioni. Si tratta, allo stesso tempo, di una correlazione e di una dissimmetria. La variazione, il doppio principio di afasia e d’impedimento che Deleuze rileva nell’opus di Bene, in Salomè si dispiega cinematograficamente. E attraverso questo film viene in chiaro «la possibilità per il cinema di costituire direttamente una specie di musica visiva, come se fossero anzitutto gli occhi ad afferrare il suono; (…) le due variazioni devono restare parallele. In un modo o in un altro, devono essere incorporate l’una nell’altra. La variazione continua dei gesti e delle cose, la variazione della lingua e dei suoni possono interrompersi, secarsi e intersecarsi a vicenda; cionondimeno, devono continuarsi ambedue, formare un solo identico continuum…» (cit.G. Deleuze, “Un manifesto di meno”, in Bene-Deleuze, Sovrapposizioni, 1978, pp. 83-84). Con il nero, il “buco nero”, che si spalanca sullo schermo attraverso la rottura dello specchio in Don Giovanni e con il bianco accecante della solarizzazione in Salomè, l’immagine cinematografica si fa invisibile. Salomè, in un certo senso, porta a compimento il cinema di Bene: è la sua ultima opera “cinema-tografica”. Un Amleto di meno, l’ultimo “film” di Bene in senso cronologico, è infatti anticipazione dell’opera video. Un Amleto di meno
Un Amleto di meno viene girato nell’autunno del 1972 in 35mm con il sistema 2P (pellicola a doppia perforazione) in Techniscope e in Technicolor. Il prologo è in bianco e nero e, a eccezione
degli esterni del “cimitero marino” (le cui riprese hanno avuto luogo a Forte dei Marmi) è stato girato quasi interamente a Cinecittà in due teatri di posa: uno completamente bianco «foderato di pelle d’uovo, (…) e illuminato dall’alto a luce diffusa», l’altro completamente nero. La fotografia è di Masini, il montaggio di Contini. Il film è stato prodotto da Anna Maria Papi per la Donatello Cinematografica con il ricorso all’art. 28, ed è stato presentato in concorso al Festival di Cannes nel maggio 1973. L’Italnoleggio non ne ha consentito la distribuzione sino al 1974. Nell’opus di Bene «Amleto» è una sorta di “ipertesto”, con le sue varianti e combinazioni di varianti. Bene stesso sostiene che «dall’Hamlet, Hommelette, all’Hamlet Suite (…) l’operetta del principe artistoide è il refrain delle vite che ho svissuto. La frequentazione assidua, persecutoria del bell’argomento (cinque esecuzioni sceniche sempre cangianti – ’61, ’67, ’74, ’87, ’94 – (…) un film (’72), due diversissime edizioni televisive e registrazioni radiofoniche, audiocassette e compactdisc) mi “definisce” Amleto del novecento» (cit. C. Bene, Opere, 1995, p. 1351). Oltre alle varianti teatrali del 1961 al Teatro Laboratorio a Roma, del 1967 al Teatro Beat 72 a Roma, i fondamentali “pretesti” di riferimento sono: l’Amleto di Shakespeare; il racconto “Amleto, o le conseguenze della pietà filiale” (Moralità leggendarie) e il “Lamento dello sposo oltraggiato” (Les complaintes) di Jules Laforgue e infine un frammento di “La signorina Felicita ovvero la Felicità” (I colloqui) di Gozzano. L’Amleto inaugura il metateatro moderno, ma quella che nell’opera di Shakespeare è solo una virtualità, vale a dire l’esser artista di Amleto (al di là della simulazione della follia «ad arte», III, IV, si ricordi il discorso agli attori sull’arte drammatica II, II) si attualizza, compiendosi, con levità e ironia, nel racconto di Laforgue: Amleto è un artista. Ora, nella riscrittura dei “materiali” shakespeariani e laforguiani, talvolta montati in contrappunto, talaltra ibridati e soprattutto alterati, Bene introduce un’impasse: Amleto vede se stesso chiuso in un circuito d’impossibilità, «la propria vita fatta teatro e alienata nel teatro fatto fare agli attori». L’esitazione, l’incapacità “patologica” all’agire di Amleto diviene nell’opera filmica l’impossibilità di essere artista ovvero il suo delìnquere (dal lat. delinquĕre “sottrarsi al dovere”) in quanto artista (come accade al poeta di Capricci). Un Amleto di meno diventa così un film sul metateatro o forse è il metateatro di un film che si colloca – in un non-luogo tutto cinematografico – tra due siti mentali: “Elsinore” e “Parigi”. “Amleto” sperimenta l’impossibilità d’essere artista o, meglio, dell’agire artistico proprio in quanto autore-attore della suite di “opere” messe in scena dagli “attori” della troupe di Kate e William, di cui re Claudio è il produttore-impresario con intenti registici che proprio nella regia si sostituisce ad Amleto. Se nell’opera shakespeariana Amleto è il regista e nel racconto laforguiano è l’autore, nel film di Bene egli è autore-attore-spettatore. Un Amleto di meno attiva una serie di slittamenti di senso e si fa dispositivo di spostamenti del contenuto: il film non significa là dove ci si potrebbe aspettare, ma contro l’aspettativa spettatoriale spinge la propria significazione altrove. Invece di cominciare con «il dovere di rammentare l’orrido evento» – evento che in Shakespeare è rivelato al giovane Amleto dallo Spettro del padre assassinato (I, V) – Un Amleto di meno comincia laddove il dovere di ricordare da parte di Amleto fils si sprogetta nell’immaginare e “forzare insieme”, in un’allucinazione visiva e acustica, la “scena primaria” e “l’uccisione del padre”. Un inserto mentale, in bianco e nero sgranato (quasi si trattasse di un’interpolazione video) funge da incipit all’impossibilità ad agire di Amleto. L’inazione di Amleto già shakespeariana (presente anche nei “palintesti” Histories tragiques di Francis de Belleforest e nell’originaria leggenda nordica delle Gesta Danorum di Saxo Grammaticus) diviene nel racconto di Laforgue impossibilità ad agire per onore e per pietà filiale, a seguito dell’«irregolare decesso» «in istato di peccato mortale» di Amleto père; Amleto fils può prendere l’orrido evento e la pietà filiale solo quali occasioni di argomenti per l’opera estetica: «Avevo cominciato con il dovere di rammentarmi l’orrido, orrido, orrido evento. Per esaltare in me la pietà filiale, per far gridare l’ultimo grido al sangue di mio padre, per riscaldarmi il piatto della vendetta. Ed ecco invece ho preso gusto all’opera. Poco a poco mi scordai che si trattava di mio padre assassinato, di mia madre prostituita, del mio trono. Andavo avanti a braccetto con le finzioni di un bell’argomento: e l’argomento è bello». Un “bell’argomento” che il film porta all’estremo del teatrale: vi si definisce la sospensione del tragico. In un certo senso Un Amleto di meno comincia laddove finisce l’Amleto di Laforgue, cioè quando Laerte – straripando fuori «dall’inespicabile anonimato del suo destino» – pugnala il giovane principe non prima di avergli detto: «quando si finisce con la pazzia è segno che s’è cominciato con il cabotinage». Ed è appunto ciò che fa l’Amleto di Bene: fare di se stesso il proprio cabotin, un buffone che boicotta il «grande attoreautore» e che trasforma il tragico in ridicolo. L’ironia depotenzia e rende risibile qualsiasi tentativo
di rappresentazione, qualsiasi azione scenica, qualsiasi azione, qualsiasi spettacolo. Amleto è la crisi dell’artifex, l’impasse dell’artista, ma soprattutto il paradosso dell’autore-attore della serie di “opere” messe in scena dal film (gli “Amleto” di Bene costituiscono i diversi siti testuali in cui si mostra la “perfetta fusione autore-attore”). Il set “astratto” di Elsinore è al contempo backstage attoriale e palcoscenico; gli “attori” non giungono a Elsinore dalla riva del mare come nell’Amleto shakespeariano; non sono scorti dalla «finestra prediletta» di Amleto come in Laforgue: la troupe di Kate e William è già a Elsinore ed è frequentata da Amleto fils quale autore-attore. Re Claudio (Alfiero Vincenti) è un attoreimpresario che sovvenziona non solo la recita del teatro nel teatro – la «Trappola per topi» in Shakespeare o «l’orrido dramma a chiave» in Laforgue – bensì l’opera filmica tout court. Tra Re Claudio, attoreimpresario e Amleto attore-autore, c’è quindi una relazione economica: il finanziamento, oltre che della tournée, della troupe di Kate. Così, dopo l’uccisione di Polonio, il denaro passa dal re Claudio ad Amleto, che lo intasca, con le conseguenti allusioni riguardo al necessario repentino espatrio (di Amleto) per l’imprevista tournée in Inghilterra. Re Claudio manifesta la noia per il proprio ruolo di attore attraverso una recitazione patetico-grottesca. Amleto stralcia i monologhi shakespeariani, strappandoli da una sceneggiatura-copione, li accartoccia e li passa a Orazio affinché sia lui a leggerli. Orazio, «quel che resta della coscienza amletica», muto testimone, sperimenta da sé l’inesprimibilità (irrappresentabilità) del proprio disgusto. Amleto, sottraendosi al vincolo della partnership economica con il produttore-impresario Claudio, dice a Kate laforguianamente: «Dovrei soltanto agire, uccidere, ammazzarlo, fargli vomitare la vita, ammazzare. Mi son fatto la mano con Polonio: mi stava spiando da dietro l’arazzo della Strage degli Innocenti. Ahi. Tutti contro di me. E domani sarà Laerte magari e dopodomani Fortebraccio, quel dirimpettaio. Agire, bisogna uccidere, Kate, o evadere da qui; o evadere, evadere, evadere; libertà, libertà libertà; amare, vivere, sognare, esser celebri lontano da qui: cara aurea mediocritas. Ma l’arte è tanto grande e la vita così breve». Amleto di Bene non fugge insieme a Kate – meta un teatro parigino – dopo il colpo del dramma a chiave, come in Laforgue, bensì fugge dopo il “sipario” e i fischi sul suo monologo d’attore, monologo shakespeariano (Amleto, II, II); i due partono in carrozza e Amleto dice laforguianamente: «Su, su, non t’abbattere Kate: andrà meglio a Parigi, vedrai zio Claudio non farà una grinza pur di levarmi di torno. Su, su, non t’abbattere, o Kate, se tu sapessi, questo dramma non è nulla, l’ho concepito, vi ho lavorato tra repellenti preoccupazioni domestiche, ma sopra ne ho altri». In Un Amleto di meno le “situazioni” sono anzitutto “attori” e i loro rapporti sono sempre «rapporti di scena». La “situazione” Amleto (Carmelo Bene) si presenta secondo alcuni tratti iconografici del racconto di Laforgue: «capelli castani che scendono a punta (…) e che ricadon giù lisci e fiacchi, spartiti da una pura e diritta scriminatura (…); maschera imberbe senza parer glabra, dal pallore un po’ artificiale ma giovanile…». La raffigurazione di Orazio (Franco Leo) consiste non tanto in ciò che resta della coscienza amletica, quanto nell’autoconoscenza teatrale tràdita di e su Amleto: legge, suo malgrado, i monologhi shakespeariani che Amleto-Bene gli passa e, vestendosi di nero, ne assume il “rigore” (vestito di nero è anche l’Amleto laforguiano, ma per Bene quand’anche Amleto sia vestito di nero lo è per una «necessità di rigore, mai certamente un lutto per suo padre»). Ofelia (Isabella Russo) quale «prototipo di Ofelia» (fot. 39) è un corpo ridotto a solo sguardo: grandi occhi azzurri vaganti, dilatati, esasperati dalle spesse lenti degli occhiali da miope, senza parola, irrimediabilmente persa «a frugare senza metodo» nella libreria di Amleto. Ofelia è «allieva del suo stesso apprendistato, della ricerca di un’identità maschile, come maschili sono tutte le identità, nel frugare senza metodo alcuno nella biblioteca altrui (…). Questi libri le donne di corte li usano a mo’ di specchio e solo davanti allo specchio hanno quell’attimo di depensamento, nel loro rovinoso maquillage, perché è un maquillage che le distrugge, le annienta. Questa lezione di maquillage in che la donna si distrugge vale anche per il teatro» (cit. C. Bene, Sono apparso alla Madonna, 1983, p. 24). Ofelia è una situazione d’ensemble, figura sincretica in cui confluisce anche la fanciullina laforguiana testimone di un «fulmineo misfatto» di Amleto: questi preda dei suoi stessi, apparentemente immotivati, “alti e bassi” prima ancora di vederla, si butta sopra una gabbia, «la spalanca, vi coglie un tiepido canarino appisolato, gli torce il collo tra pollice e indice e, sempre fischiettando allegramente, lo scaglia in fondo alla stanza, proprio in testa (oh, ma solo per caso) a una bimbetta che se ne sta lì a lavorar d’uncinetto (…) e che smette, gli occhi spalancati e le mani giunte, di fronte a quel fulmineo misfatto!». L’Amleto di Bene si dissocia dall’inconsapevolezza con la quale quel gesto viene compiuto dall’Amleto laforguiano. L’atto esige una premeditata crudeltà; la scena è completamente immersa nel bianco: appare una gabbia con delle bianche colombe,
Amleto vi si avvicina, apre la gabbia, afferra una colomba e dopo averle spezzato il collo la lancia addosso a Ofelia, che gli si trova di fronte, tra pizzi e tomboli insieme ad altre donne, e che immediatamentesi fa il segno della croce, rimanendo poi impietrita con le mani giunte. Sul piano sonoro alla repentina variazione degli “alti e bassi” dell’umore di Amleto allude il passaggio, senza soluzione di continuità, dall’accenno iniziale di La gazza ladra di Rossini all’estratto da Petrouchka di Stravinskij, che detta il ritmo del montaggio. Quindi, mentre sul piano sonoro passa un estratto da L’Arlésienne di Bizet, “Amleto” può finalmente abbandonarsi, il capo in grembo a Ofelia, e con voce in asincrono le chiede: «Perdono! Perdono! Non l’ho fatto apposta! Ordinami qualsiasi espiazione. Ma sono così buono! ho un cuore d’oro e non ce n’è più come il mio (…) Tu mi capisci, non è vero? Come sono solo! E quest’epoca non c’entra nemmeno un po’. E io non voglio più essere io! Non più l’esteta gelido, il sofista, ma vivere nel tuo borgo natio, ma vivere alla piccola conquista mercanteggiando placido in oblio come tuo padre, come il farmacista (…) E io non voglio più essere io».
FOT. 39
Ofelia, che nel racconto di Laforgue s’è uccisa il giorno precedente l’incipit, nell’Amleto di Bene muore suicida, come nell’opera shakespeariana, ma annegata come “immagine dipinta”, richiamo esplicito all’Ophelia di Millais. Kate è fissata nel meccanismo della ripetizione in una dissociazione totale del corpo dalla voce; come accade ad esempio quando consegna ad Amleto con gesto fulmineo un teschio che, invisibile ma percettibile, trapassa frontalmente l’inquadratura (quasi un’anamorfosi), deborda dallo schermo mentre dalle labbra di Kate “si stacca” la sua stessa voce: «Non sono che una disgraziata ma ho l’animo elevato io… Sa Dio quante sublimi eroine ho logorato in palcoscenico. Ma quando ho letto la mia parte scritta così da te in quella specie di commedia… È proprio così il nostro misero destino, pietoso e impietoso. Come devi essere unico e incompreso tu e non matto come dice la gente». A tratti Kate si riappropria del proprio primo nome, “Ofelia” (nel racconto di Laforgue), e da attrice dice anche le battute dell’Ofelia shakespeariana (Amleto, III, I). Polonio è l’osservatore del metodo della follia di Amleto: in Shakespeare, attuando un progetto condiviso dal re Claudio e dalla regina Gertrude, si nasconde dietro l’arazzo e sta in ascolto del discorso tra Gertrude e Amleto che «avendo sentito muoversi qualcosa dietro l’arazzo, grida “Un topo, un topo”, e in quell’impeto folle uccide il povero vecchio…» (Amleto, IV, I); invece nel racconto laforguiano, Amleto si è già «fatto la mano con Polonio» che lo stava spiando, nascosto «dietro l’arazzo che raffigura la Strage degl’Innocenti», uccidendolo prima dell’incipit del racconto stesso. In Un Amleto di meno la “situazione” Polonio (Pippo Tuminelli) diviene al contempo quella di un vecchio padre delirante (che come gli altri padri – i Geppetto, i Brabanzio… – dell’opus beniano porta una lunga barba bianca e indossa una camicia da notte con relativa papalina sul capo) e quella di un pedissequo osservatore freudiano dell’inazione amletica. Polonio attende – ancillarmente – alla variazione di Gertrude (Laura Cante) e, nel continuo vestire/svestire il corpo della regina con trasparenti veli neri, riferisce letteralmente da L’interpretazione dei sogni di Freud, la parte che attiene alle relazioni tra l’Amleto di Shakespeare e l’Edipo re di Sofocle. Il testo freudiano riferito da Polonio è sussurrato, al limite dell’intelligibilità ed è strumentale alla critica della disamina freudiana dell’Amleto che, messa in bocca a Polonio, «deve far ridere, visivamente deve già far ridere senza nemmeno capire le parole». Laerte (Luigi Mezzanotte) è per Laforgue un “capopopolo” e per Bene un gauchiste in partenzaritorno dal maggio francese del ’68. Il film mostra in dettaglio, tra i suoi bagagli, l’etichetta «Lenin» e dentro la sua valigia si vedono coltello e pistola: la sua meta è Parigi. L’inquadratura d’apertura del mare di notte porta in sovrimpressione il nome di Bene, mentre si sente il frangersi delle onde lente sulla riva. Nell’oscurità dell’inquadratura successiva appaiono, in campo lungo, una spiaggia, un cimitero marino e una croce bianca. Si intravede poi una corona di rose rosse e l’immagine di Amleto: la direzione del suo sguardo è verso un fuori campo “immaginato”, visualizzato in un “inserto mentale”, in cui si compie il rituale dell’assassinio di Amleto père. Seguono alcune inquadrature del mare. Al suono delle onde si sovrappone la voce off di Amleto: «Avevo cominciato con il dovere di rammentarmi l’orrido, orrido, orrido evento. Per esaltare in me la pietà filiale…». Poi si apre la sequenza che, insieme ai titoli di testa, presenta Elsinore: un backstage di bauli con le etichette
«Paris Express». Intorno ai bauli aperti s’avvicendano meccanicamente gli attori – William (Sergio Di Giulio) il capocomico, Kate la prima attrice, Polonio, Laerte – che, persi nella provvisorietà di continui arrivi e partenze, estraggono e ripongono disordinatamente e senza metodo costumi e oggetti di trovarobato teatrale, Kate porge ad Amleto-Bene un teschio mentre in asincrono dice: «Non sono che una disgraziata ma ho l’animo elevato io…». Nell’inquadratura successiva, Kate ripete – in sovrapposizione temporale – il gesto di porgere il teschio ad Amleto, che lo afferra e lo lancia immediatamente altrove; poi sedutosi ai suoi piedi le bacia meccanicamente la mano dicendole: «E questo non è niente, ti leggerò tutto, andremo a vivere a Parigi… Io ti amo, ti amo, ti amo: vestiti, vestiti, tu sei un angelo in scena, un mostro sacro… Faremo colpo. Vestiti. Me ne frego del mio trono. I morti son morti. Vedremo il mondo! Parigi, vita mia: a noi due!». Seguono alcune inquadrature dall’alto del volto di Amleto père, un quadro che sta per l’apparizione dello Spettro. Nella scena successiva appare al centro dell’inquadratura un buco nero, un foro, un tunnel (fot. 40); sopra di esso una superficie bianca su cui sta in piedi, quasi sospeso, Orazio. A terra gli attori continuano ad avvicendarsi in uno spreco di gesti e movimenti, tra bauli, stoffe e oggetti. Le donne del set, tra cui Ofelia, sono intente a leggere libri. Amleto-Bene è costretto a prendere atto di quella presenza e a dire: «Orazio, se non sbaglio?».
FOT. 40 Il dialogo tra Amleto e Orazio è retto da una rete di campi-controcampi mancati in cui il ritmo della scena va prendendo progressivamente velocità. Il dire di Amleto depotenzia il significato delle parole – già sempre dette – di Orazio. Amleto ripete a Orazio: «Mi turba, mi turba, mi turba, mi turba, mi turba, mi turba…» e si diverte ad anticipare il suo racconto circa l’apparizione dello Spettro dicendo fintamente nostalgico: «Ah… avrei voluto esserci!». Orazio risponde serissimo: «Vi avrebbe sbigottito». Poi la voce di Amleto-Bene modificandosi dice: «È probabile, molto probabile. La barba, e com’era com’era la barba, la barba com’era? brizzolata, no?». Bene nel dire il testo shakespeariano (I, II), pur rispettandone la letteralità, lo sovverte, sottraendo senso alle parole e, ottenendo un effetto ironico con interpolazioni del testo, tagli, sottrazioni (non solo dei personaggi Bernardo, Marcello, ma anche di parti testuali cancellate; inoltre vi è un’inversione dell’ordine: prima il discorso di Orazio, poi quello del re Claudio). Segue una serie di inquadrature alternate con nuovamente l’immagine dello Spettro di Amleto père. Amleto fils afferra la propria valigia con etichetta “Paris Express” ed entra nel tunnel, ma la voce over del padre lo costringe a fermarsi; s’inginocchia e accende un cero votivo che subito dopo spegne con un soffio. Amleto, tentando di evitare l’incombenza dell’onorevendetta, chiede perdono, facendo appello al fatto che in fondo suo padre dovrebbe pur conoscere quella sua impossibilità ad agire. A seguire una scena di corte: la m.d.p. mostra, nel set immerso nel bianco, la consistenza spaziale di sfere colorate di diverse dimensioni che fungono da trono, su cui prendono posto il re Claudio e la regina Gertrude. Mostra, inoltre, cortigiane dalle vesti imponenti e Amleto che, seduto a loro fianco, finge di leggere; sul fondo dell’inquadratura sono in corso i preparativi per una mise en scène e gli spostamenti continui del quadro di Amleto père, cui sovrintende Orazio. La voce fuori campo di Amleto dice: «Schifo! Schifo! Morto appena… »; e: «Fragilità il tuo nome è donna» facendo da contrappunto al dire del re Claudio, monocorde e cantilenante (con improvvise e insensate accelerazioni e decelerazioni del ritmo). Questi, attendendo al tedio della propria parte secondo Shakespeare (Hamlet, I, I), congeda Laerte e il dolore di Amleto e antepone al cordoglio, ancorché «con gioia abbattuta», le sue nozze con Gertrude. Un campo lungo mostra Amleto fils mentre continua a fingere di leggere, seduto accanto alle cortigiane immobili nei loro costumi: la m.d.p. si muove verso l’enorme gonna di un vestito oro e blu avvicinandosi progressivamente sino a inquadrare un dettaglio; risalendo poi con una panoramica verticale che si trasforma in plongée, rivela definitivamente la struttura di oggetto solido semisferico di quella stessa gonna, ma quando la m.d.p. gira intorno al corpo della donna che avrebbe dovuto indossarla, ne scopre e ne evidenzia la nudità (fot. 41 e 42). Il costume è un trompe l’oeil: il corpo è nudo dalla vita in giù. Quando finalmente gli astanti abbandonano il set, Amleto commenta: «Tempi schiodati, tempi schiodati!». La m.d.p., con inclinazione obliqua dall’alto, lo inquadra intento a strappare accuratamente un pezzetto di pagina che porge meccanicamente a Orazio, il quale si vede così costretto a leggere la battuta che nel testo shakespeariano è di Amleto (Amleto, II, II); quindi lacera con disgusto il frammento: «Lo spettro che ho veduto potrebbe essere il diavolo? Se vuole, un diavolo può assumere gli aspetti anche più cari?… Un diavolo potentissimo com’è, può cogliermi in quest’attimo di spleen e malinconia e menarmi alla perdizione?… no? Non mancheranno altre più serie occasioni al mio intento?».
FOT. 41
FOT. 42 Ora prende avvio la parte dedicata a Polonio e Gertrude. Nella scena seguente, completamente immersa in un bianco accecante e glaciale, Amleto con un’inconsapevolezza premeditata uccide una colomba, gettandola poi addosso a Ofelia che impietrita si fa il segno della croce. A questo punto Amleto mentre tiene il capo in grembo alla fanciulla chiedendole perdono, intravede, attraverso il diaframma del pizzo della veste, il nero della figura di Kate che gli sta di fronte: subito le si fa incontro e mentre insieme si allontanano (fot. 43), giustificandosi, le dice dolcemente: «Io non posso vedere le lacrime delle ragazze. Perché far piangere una ragazza è più irreparabile che sposarla, perché le lacrime son tutta infanzia (…). Ma si fa tardi… a domani i baci e le teorie».
FOT. 43 Riprendono ora le inquadrature dedicate a Polonio e Gertrude, ancora sull’Edipo. Segue la scena di uno spettacolo teatrale incentrato sui temi dell’onore e della fedeltà secondo la tradizione della letteratura cavalleresca, dalle fabulae del ciclo della Tavola Rotonda a quelle di Pelléas e Mélisande di Maeterlinck, affidato alla recitazione dei teatranti di Elsinore. Allo spettacolo teatrale – forse opera di Amleto – partecipano anche Gertrude e il re Claudio, rispettivamente nel ruolo di Mélisande e di Lancillotto. Sul piano sonoro si susseguono citazioni da Tristano e Isotta di Wagner, da Rossini e da Verdi. Amleto, steso a terra con il volto completamente coperto dal pizzo della veste di Ofelia, finge di non guardare. Al termine della pièce, William allontana Kate. Amleto, a sua volta, allontandosi da Ofelia (un’altra Ofelia, una delle sue repliche che stringendosi al petto un libro indietreggia, spaventata, verso il fondo dell’inquadratura, nel buio) dice: «Frasi, chincaglierie, ricordi in grumi. Ahimé, come s’è dimagrita, che ne sarà di me?». Segue la scena in cui Amleto si “gioca” Rosencrantz e Guildenstern. Poi, altrove, Amleto cerca con attenzione nel libro dell’Amleto un frammento che strappa, mentre Kate, nel ripiegare i costumi di scena, ripete il monologo laforguiano: «E va bene, ecco qua: non sono che una disgraziata». Amleto uscendo di campo, passa un altro frammento a Orazio che prende a leggere ad alta voce con rabbia, sempre più disgustato: «Si racconta di più di un assassino che, sedendo a teatro ad ascoltare un dramma, preso e profondamente scosso dall’artificio scenico, subito, lì dov’era rivelò il suo delitto? Io farò questi attori recitare un qualcosa di simile alla morte di mio padre… davanti a mio zio. Ne seguirò il contegno… se appena avrà un fremito saprò il da farsi. Il dramma è la trappola in cui sorprenderò la coscienza del re!». Si apre la sequenza della biblioteca, luogo presentato mediante un movimento in panoramica orizzontale attraverso un obiettivo grandangolare (fot. 44). Amleto si dirige verso la finestra e guarda in basso; Orazio in esterno notte, sotto la neve, riceve un altro frammento shakespeariano, che legge immediatamente: «Essere o non essere…» (Amleto, III, I). “Amleto” ritirandosi, dice tra sé: «Avere o non avere, ecco il problema» (scheggia dell’Ulisse joyciano). La serie di inquadrature in biblioteca è alternata a quella dedicata al re Claudio, che sorregge Rosencrantz e Guildenstern feriti (i quali presentano delle vistose bende intorno al capo e si appoggiano alle grucce, fot. 45) e ne è a sua volta sorretto mentre si scambiano battute su Amleto quali «pazzo furbo» che «svicola sempre». Nel frattempo all’interno della biblioteca Ofelia è immersa nella lettura di un libro, mentre Kate allo specchio è attenta ad anticipare, nel suggerirlo ad Amleto, il testo shakespeariano (Amleto, III, I). Poi le voci di Kate e di Amleto – in sovrapposizione – con differenti tempi, velocità e modi dicono a tratti lo stesso testo; la voce di Kate recita anche le battute di Ofelia che, maltrattata, senza parola, digrigna i denti e, immobile, tenta di mordere ossessivamente la mano di Amleto. La violenza verbale che nel testo shakespeariano Amleto esercita su Ofelia per mettere in scena la propria follia, muta qui in violenza fisica. Segue una serie alternata di inquadrature di re Claudio, Rosencrantz e Guildenstern. Re Claudio chiede: «Vanno avanti le prove? E questa recita si fa o non si farà?». La sequenza si chiude con le voci di Kate e Amleto che in sovrapposizione dicono a Ofelia: «(…) In convento. Addio».
FOT. 44
FOT. 45 A questo punto ha luogo la messa in scena del “teatro nel teatro”: Kate e William recitano il testo del “Lamento dello sposo oltraggiato” di Laforgue; l’argomento (in)fedeltà introduce all’assassinio di Gonzago. Il capocomico William recita la parte del re ucciso; re Claudio, sollevato dal proprio ruolo, interviene per mostrare agli attori e al pubblico in che modo deve essere versato il veleno: «Lo avvelena nel giardino per usurparne il ducato. La vittima ha nome Gonzago. La storia è consegnata agli archivi di Vienna scritta in bell’italiano… Ora vedrete come l’assassino conquista la moglie dell’assassinato». Si tratta di un evidente scarto rispetto al testo shakespeariano: il ruolo di Amleto è assunto qui da re Claudio, ma il contenuto metateatrale non interessa più a nessuno tranne che a Orazio. Il volto di Amleto è sepolto dai pizzi di Ofelia che lo bacia ripetutamente, ma sopravviene Polonio che gli comunica: «La regina ha urgente bisogno di parlarvi». Amleto risponde come da copione: «Una nuvola lassù, non somiglia a… E noi verremo da nostra madre» (Amleto, III, II). Si assiste quindi a un’ulteriore ripresa della “situazione” Polonio-Gertrude; lei avvolge un filo nero su un gomitolo che lentamente svolge dalla matassa tenuta tra le mani da Polonio; matassa che poi si moltiplica in altri gomitoli, in nere sfere. Il corpo stesso di Gertrude, abbandonato, s’adatta alla sfericità di un enorme gomitolo nero (fot. 46) ed è a tratti preso dentro una rete di fili intricati (Amleto, III, IV). Nel contempo Polonio continua a citare L’interpretazione dei sogni: «Amleto può tutto, tranne compiere la vendetta sull’uomo che ha eliminato suo padre prendendone il posto presso sua madre. Così ho tradotto in termini di vita cosciente ciò che nella psiche dell’eroe deve rimanere inconscio… ». In ascolto, Amleto uccide Polonio trafiggendo un velo con un pugnale; l’arazzo e Polonio sono qui raffigurati da un velo che sanguina, lacerato dal pugnale. Nella scena che segue re Claudio si interroga sul “pentimento” (Amleto, III, III) e Amleto, dopo l’assassinio di Polonio, consegna al re il pugnale dell’omicidio, ricevendone in cambio quattrini. Tra i due c’è complicità: la “recita”, l’impresa dello spettacolo di cui re Claudio è il produttore. Succes sivamente entrano in scena Amleto e Rosencrantz-Guildenstern (sempre feriti e sempre sulle grucce) che ridendo chiedono – con un’unica voce -: «Dov’è nascosto il corpo?» e Amleto risponde: «Il corpo è col re, ma il re non è col corpo. Il re è una cosa da nulla, da nulla! da nulla!». Dopo le dissimulazioni di re Claudio che dice: «Ora, affinché tutto vada liscio e senza scosse, questo suo espatrio repentino, questa tournée… allora dov’è Polonio?»; Amleto risponde: «A cena!» (segue il testo shakespeariano IV, II e III) e quindi s’appresta al viaggio in Inghilterra. Successivamente all’interno del tunnel fa passare Rosencrantz e Guildenstern oltre una porta che poi chiude con uno schianto amplificato: si sente fuori campo un’esplosione il cui bagliore si intravede appena sul volto di Amleto mentre dice laconico: «È bello al minatore saltare in aria della sua stessa bomba» (Amleto, III, IV). A seguire un’altra scena di “teatro” inteso qui anche come luogo architettonico (il set è un teatro ottocentesco): Amleto, solo sul proscenio, di fronte a un pubblico assente, recita con virtuosismo da “grande attore” il monologo shakesperiano (II, II): «Non è mostruoso che quell’attore per artificio possa ripiegare l’anima al suo concetto da impallidire, piangere e singhiozzare? E tutto questo per chi? Per Ecuba. E che cos’è Ecuba per lui e lui per Ecuba che debba piangerne». Sipario. Seguono i fischi e le ingiurie di un pubblico virtuale: la platea e i loggioni sono vuoti.
FOT. 46 Amleto fugge insieme a Kate, alla volta di un teatro parigino: i due partono, ma il luogo in cui la carrozza si ferma è il cimitero marino, sulla spiaggia (fot. 47). Amleto in riva al mare trova ai suoi piedi, annegata a fior d’acqua, l’immagine dell’Ophelia di Millais, su cui prendono a cadere petali rossi di rosa. Poi l’inquadratura si allarga attraverso una carrellata ottica, rivelando dall’alto in campo lunghissimo le croci bianche disseminate sulla spiaggia. Amleto in riva al mare con lo sguardo fisso su Ophelia, dice: «Eppure non era poi tanto pesante. Ebbé, sì, dev’essere gonfia d’acqua come un’otre… Sporcaccioncella ripescata alla fogna. Non poteva finire che così, dopo aver frugato senza metodo alcuno nella mia biblioteca (…). Io l’ho aiutata a sfiorire. Il fato ha compiuto il resto». Intanto, altrove, dopo l’improvvisa rivolta sedata (e con il relativo arretramento delle masse popolari verso il buco nero del tunnel) Laerte accoglie la volontà del re Claudio: dissimulare l’assassinio di Amleto (Amleto, IV, V e VII).
FOT. 47 Completamente immersa in un bianco glaciale, la scena disloca i corpi di re Claudio e di Laerte intorno a un imponente sarcofago di vetro in cui giace il corpo di Ofelia (Amleto, IV, VII). Nel frattempo, abbandonato il cimitero
marino, Amleto si rivolge al “povero Yorick”: «Fratello mio Yorick, il vostro cranio me lo porto a casa, gli farò un bel posto sull’étagère dei miei ex-voto, tra un guanto d’Ofelia e il mio primo dente… Ah, come lavorerò bene quest’inverno, con tutti questi fatti ho l’infinito in cartellone!». Mentre gli altri attori della compagnia dormono, Amleto e Kate a cavallo intraprendono nuovamente il loro viaggio-fuga verso Parigi, ancora interrotto da Amleto sempre nello stesso luogo: il cimitero marino. Amleto solo davanti alla tomba di Ofelia incontra Laerte che lo pugnala; morendo, dice: «Qualis… artifex… pereo!» (motto attribuito da Svetonio a Nerone). Laerte preso da un repentino pentimento, chiama Amleto «compagno» e lo bacia sulla bocca. Kate cercando Amleto si muove quasi volando fra le bianche croci e infine lo trova a terra, accanto alla tomba di Ofelia; quindi, attraverso uno stacco, passa all’interno del backstage tra i bauli e gli attori della compagnia: la mano di William l’afferra e la tira dentro un baule che si chiude con uno schianto amplificato. Il set è vuoto e nel silenzio assoluto, procedendo dal buco nero del tunnel avanzano lentamente corpi-armatura che si dispongono a semicerchio intorno al corpo-armatura di Fortebraccio: questi, con la visiera alzata, si autoincorona, ma non ha volto (Tannhäuser di Wagner).
Un Amleto di meno procede per sottrazione-addizione. Come ricorda Grande, la sottrazione, «l’uno di meno» è anche «il cominciamento di una erosione, il primo avanzo di una sottrazione e di un esaurimento». L’erosione non intacca tanto il mito letterario o la tradizione culturale del testo letterario drammatico, quanto la “forma spettacolare” che s’incarica di attualizzarlo; e in tal senso laforguianamente, ebbene sì, «un Amleto di meno; ma la razza non s’è estinta, lo si sappia!». Il film si presenta sia come sperimentazione-anticipazione del “teatro senza spettacolo”, sia come anticipazione dell’opera video. Il set è rarefatto eppure saturo del bianco e del nero di fondo; talvolta lo spazio è sottratto e disperso dal montaggio frammentato. Sia il montaggio che i movimenti di macchina in reframing continuo, anche attraverso repentini zoom, spezzano lo spazio, con stacchi sui movimenti e sulle direzioni degli attori, determinando così una visione discontinua. Il movimento interno all’inquadratura (orientamento, direzionalità e distanza) sovente viene negato, oppure contrastato, dall’inquadratura seguente. Il montaggio mette in successione le inquadrature – mediante raccordi diretti – secondo una fortissima variazione scalare attraverso sbalzi visivi tra il “lontano” e il “vicino” e viceversa e tra l’alto e il basso o viceversa. I corpi attoriali sono contratti nella meccanicità degli atti, nella segmentazione dei gesti. Il dialogo è retto da una rete di campi-controcampi mancati: sul piano profilmico la direzione dello sguardo manca il raccordo possibile, mentre sul piano filmico la m.d.p. muove decentrandosi rispetto alla direzione dello sguardo e ai movimenti degli attori. La direzione degli sguardi rinvia a un fuori campo che disattende la possibilità del controcampo. Il set è un commento scenico al “costume di corte”. I costumi di scena, con le loro stoffe pesanti e le loro forme geometriche, sono rigonfiamenti ipertrofici, come deformazioni dei corpi, impedimenti al movimento. Amleto indossa un costume “a spicchi” colorati, con imbottiture stravaganti, a forma di sfera e cubo. Il re Claudio indossa una gobba rossa (la “gobba politica” che ricorrerà nel Riccardo III), Ofelia un’enorme cuffia bianca da suora-infermiera, ripresa sul piano del costume e dell’attività di lettura e di ricamo nelle altre donne del set. Pizzi, merletti e tomboli costituiscono una marca testuale espansa sia nel décor del set, sia – quando posti come bianchi diaframmi davanti all’obiettivo della m.d.p. -, quali impedimenti dello sguardo, come nelle rare soggettive di Amleto. L’armatura di Fortebraccio è un costume senza corpo, che incede meccanico e automatico dal nulla. Alla vista del cimitero Amleto, come nel racconto di Laforgue «punto da non si sa quale tarantola», deve interrompere il proprio viaggio-fuga poiché «la morte è il cerchio che lo attende». Amleto inizia e finisce la propria “opera” sulla riva del mare; è «compreso, chiuso, in un cerchio d’acqua». È una “situazione” chiusa nel “cerchio” del venir meno della volontà, persa nella propria impossibilità all’azione, presa dentro il paradosso di un autore-attore senz’azione. E il cerchio come segno di chiusura si fa campitura dell’immagine cinema-tografica; un tondo, circolare o ovale, in cui vengono meno le relazioni di profondità, che isola i corpi performatici. Le campiture rendono i corpi “figure”, puri effetti di superficie. Sono lo sfondo, il riverbero, ma anche la risonanza del bianco accecante sulle differenze cromatiche o il nero assoluto come riassorbimento di tutte le divergenze e i differimenti, in cui stanno i corpi come “figure”. Cerchio che si chiude sui corpi e che si moltiplica nei passaggi circolari, nelle sfere, nei movimenti rotanti e nella calibratura dei movimenti di macchina (spesso a mano) lungo assi bilanciati, nei grandangoli (cifre della circolarità) e nelle trasformazioni a vista del set. La coesistenza di tutti i movimenti dentro la campitura dà il ritmo all’immagine. Il film opera uno spostamento di forme e linguaggi diversi; esso consiste nei continui slittamenti da una forma di espressione a un’altra che producono a loro volta alterazioni, mutazioni all’interno della forma cinematografica ospitante. La generazione di relazioni originali, idiolettali, fanno del set una scena o-scena, investita dalla doppia modalità di sguardo dell’a(u)ctor Bene
contemporaneamente “al di là” e “al di qua” della m.d.p.; ma in Un Amleto di meno l’essere contemporaneamente “fuori” e “dentro” la scena scarta di livello e preannuncia la simultaneità del “vedere” e del “vedersi visti” che è propria del linguaggio video. Nel cinema di Bene è l’immagine a essere presa tra voce, silenzio e parola. Il divenire delle immagini, con le loro proliferazioni, addensamenti e improvvise rarefazioni, produce figure che rilasciano sonorità, che richiedono l’ascolto. La successiva opera video trasporterà tutto ciò che accade in scena o in studio (set teatrale) dal visivo al sonoro. TELEVISIONE: IL PARADOSSO DEL LINGUAGGIO (VIDEO)
Il primo incontro-scontro tra Carmelo Bene e la Rai è databile intorno al 1969. La Rai gli propone la “direzione artistica” per un Don Chisciotte e Bene, a sua volta, propone il cast: Eduardo De Filippo per Don Chisciotte, Popov (clown sovietico) per Sancho Panza, Salvador Dalí per le scenografie e i costumi. La Rai giudicò il progetto «impopolare». La prima apparizione televisiva risalente agli anni Sessanta ci mostra in campo lungo all’interno di un set teatrale (sullo sfondo una veduta del Palazzo Ducale) Bene in frac e cilindro che legge il manifesto di Marinetti «27 aprile 1910. Contro Venezia passatista». Terminata la lettura, Bene lancia innumerevoli foglietti fendendo l’aria con gesti meccanici. La prima collaborazione, un cortometraggio in 16mm dal titoloVentriloquio è introvabile. Nell’articolo Carmelo Bene o della responsabilità di un’arte critica apparso nel 1972 sul n. 1 della rivista «Zoom», Noël Simsolo scrive di aver assistito all’ultima fase del montaggio di tale cortometraggio, un divertissement (prodotto dalla Rai) tratto dal capitolo IX del romanzo À rebours (Controcorrente) di Huysmans, relativo alle frequentazioni da parte del protagonista Des Esseintes di una ventriloqua (interpreti: Des Esseintes-Bene; ventriloqua-Lydia Mancinelli; montaggio: Mauro Contini). In occasione della presentazione di Un Amleto di meno al Festival di Cannes nel maggio 1973 Ventriloquio, insieme a Hermitage, è presentato alla Quinzaine des réalisateurs. Dopo Ventriloquio le collaborazioni di Bene con la Rai si concentrano sulla radiofonia, forse anche perché ritiene che la televisione sia il mezzo più importante solo dopo la radio: «perché la radio, essendo un mezzo per ciechi, bandisce l’immagine, intendendo per immagine la volgarità (…) un’immagine è volgare in quanto viene data lì morta, determinata attraverso un linguaggio mistificante che non le permette di rispecchiare mai la realtà e quindi nemmeno di astrarre da una realtà». Prima, dunque, è la radio con: Interviste impossibili di Manganelli e Ceronetti, 1973; Marco Aurelio di Sermonti (1973); Cassio governa Cipro di Manganelli (1973); Amleto da Shakespeare (1974); Pinocchio da Collodi (1974). Poi ha inizio la sperimentazione televisiva, mai interrotta, in cui l’approccio all’aspetto musicale si andrà via via facendo sempre più importante. Ciò avviene secondo due indirizzi. Il primo è relativo a testi in cui la musicalità della voce interferisce e interagisce con l’immagine: Bene! Quattro diversi modi di morire in versi: Majakovskij-BlokEsènin-Pasternak (1974); Amleto (1974); Riccardo III (1977); Otello (1979/2001); Hommelette for Hamlet (1987) e Macbeth Horror Suite (1996). Il secondo riguarda testi in cui la voce assorbe l’immagine, cancellandola: Manfred versione per concerto in forma d’oratorio, di Byron e Schumann (1979); Adelchi, (1984); Voce dei Canti (1998) e Pinocchio (1999). Bene rifunzionalizza il medium televisivo trasformandolo da «elettrodomestico» (come lo definiva Eduardo De Filippo) a strumentazione elettronica, macchina audiovisiva. La sperimentazione di un uso diverso del mezzo televisivo è per Bene coessenziale alla sperimentazione di uno “specifico” televisivo (nell’accezione di «specificità eventualmente molteplice» di Metz) rispetto alle forme della rappresentazione e della narrazione (del racconto televisivo o sceneggiato) e non solo rispetto al teatro televisivo. Negli anni Settanta l’utilizzo “anti-televisivo” della televisione è parte anche della sperimentazione di Eduardo e di Luca Ronconi con l’Orlando Furioso (1975). Il tentativo è quello di dissociare il mezzo elettronico dal medium televisivo, dai modi di produzione dell’apparato radiotelevisivo. In questo ambito Bene avvia una ricerca sperimentale più propriamente video, che procede attraverso la deviazione dai codici che il linguaggio televisivo mutua dal cinema e in primis dagli stereotipi del “piccolo schermo” poiché, come sostiene Bene, lo schermo diventa “piccolo” se si impiegano i campi medi, i campi lunghi e i campi lunghissimi, vale a dire se lo si tratta «come un grande schermo del panoramico da cinema». La televisione, quindi, può esprimere, sul solo piano della tecnologia, tutte le potenzialità del linguaggio audiovisivo che Bene andrà sperimentando: la strumentazione fonica amplificata, il “taglio” diagonale dell’inquadratura video, il sistema “multicamera”, il montaggio fratto. Con un gioco di parole è possibile dire che la sperimentazione
della strumentazione elettronica audiovisiva di Bene si attua “nel linguaggio, col linguaggio, sul linguaggio” ponendosi, contemporaneamente, “fuori dal linguaggio stesso”. La partitura sonora, talvolta, viene realizzata prima della partitura video e diventa così «la guida del lavoro di composizione delle immagini» dettandone il ritmo. Come già nell’opera cinematografica non esistono dialoghi, ma “voci”, “rumori”, “suoni” e questo non tanto perché non ci sono “personaggi”, e non solo perché, come scriveva Deleuze «le voci, simultanee o successive, sovrapposte o trasposte, sono rinchiuse nella continuità spazio-temporale della variazione», ma proprio perché “voci”, “rumori”, “suoni” sono parte integrante dell’immagine: sono l’immagine. Immagini e suoni non sono paralleli, bensì le une sono negli altri e viceversa. È dal cinema, dal doppiaggio, dalle tecniche di postsincronizzazione che Bene attinge la dissociazione e la separazione delle voci dai corpi-immagine attraverso il fuori sincrono e l’asincrono, rendendoli così contemporaneamente voci “in” e voci “off ”. Cosicché una stessa voce “doppia” più corpi e uno stesso corpo è doppiato da più voci, da «una o più voci altre, separate dal corpoimmagine che le assume o le rifiuta». Ma già nella variante letteraria di Nostra Signora dei Turchi, quando il corpo e la “voce” di Santa Margherita “miracolosamente” possono essere anche il corpo e la voce di un’altra donna, o meglio dell’altra donna («il primo amore»), Bene scrive: «Alla fine la voce di lei funzionava come in sovrapposizione. Diceva “me ne vado, è tardi!” e “anch’io vorrei dormire!” simultaneamente, deformando i tratti del suo volto, oramai indecifrabile, pericoloso, dove un’espressione infuriava a cavallo dell’altra, fino alla piramide, un mosaico di gesti contrastanti, ammucchiati dalla follia o dalla passione sfrenata». È evidente che il mancare il punto di sincronizzazione è un’operazione che coinvolge tutto il sonoro, quindi anche la musica e il rumore, quasi sempre dissociati e slittanti rispetto alle immagini. Con la strumentazione fonica questa dissociazione descritta in Nostra Signora dei Turchi trapasserà nel teatro (utilizzo in palcoscenico di monitor di controllo e di “spie” per il sonoro), per poi radicalizzarsi nell’opera televisiva, in cui l’analiticità dei primissimi piani dispiega una più forte dissociazione dei volti dalle voci. Non solo, è proprio attraverso la strumentazione fonica amplificata che la voce diverrà «la sua stessa eco; eco non successiva alla parola: anzi, come puntualmente si verifica – soprattutto per le note alte nella registrazione su nastro magnetico -, è sempre l’eco ad anticipare il suono emesso». Assolutamente centrale nelle partiture audiovisive è il sistema di microfoni (ciascuno con caratteristiche foniche e specificità tecniche differenti). L’impianto di strumentazione fonica amplificato rimanda volumi elevati dei suoni affinché le frequenze non siano “schiacciate”. In Amleto, Riccardo III e in Otello l’audio è oggetto di una complessa strategia volta a nascondere i microfoni mediante variazioni scalari dal campo lungo al primo piano. In Hommelette for Hamlet e in Horror Macbeth, invece, i microfoni sono “parte” della strumentazione fonica amplificata della macchina attoriale e quindi visibili. Inoltre la risonanza della voce cancella definitivamente la distinzione tra voce in campo e voce fuori campo. Nell’opera videografica di Bene la voce, il silenzio, la musica, il rumore e le loro risonanze compongono lo spazio, il tempo, il ritmo, il respiro stesso dell’immagine schermica. Lo schermo video è una superficie su cui s’irradia il suono, uno schermo “acustico” in cui anche il silenzio si fa ascolto. Per Bene l’unità di misura della dimensione dello schermo televisivo, e quindi dello spazio schermico, è la diagonale. È sulla diagonale che Bene fa irradiare la luminosità delle immagini, fluide, instabili, in vibrazione costante, secondo una strategia a forti contrasti, in cui la luce frantuma lo spazio rimodulandolo continuamente dall’interno in uno spazio astratto, rarefatto, cui è tolta ogni profondità. Inoltre, sul taglio in diagonale è possibile effettuare una torsione della superficie in grado di ridefinire il volume schermico: il “taglio” della diagonale diviene il perno sul quale i volti in primo o primissimo piano, così come i corpi, possono ruotare (Riccardo III). Gli unici orientamenti possibili nell’opera televisiva di Bene sono quindi orientamenti secondo le diagonali, attraverso le quali vengono trasformati il volume e la profondità della superficie dell’immagine schermica. Le diagonali sono gli assi su cui transitano i corpi attoriali ed è attraverso tali transiti che avviene, sulla superficie schermica, la messa in contatto dell’avampiano con il retropiano, mediante una rigorosa partitura luministica che prevede i punti di attacco e stacco per il montaggio. Questo accade, ad esempio, nelle “modulazioni” tra Claudio e Amleto, o in Otello nell’ensemble Jago, Roderigo, Emilia e Cassio, in cui quest’ultimo, dal retropiano, avvicinandosi a Jago sull’avampiano, si muove seguendo la diagonale. Con “modulazione” si intende lo svolgimento e il riavvolgimento di una serie di immagini su se stessa. Con il video Bene porta alle estreme conseguenze ciò che aveva sperimentato con il cinema: non la successione delle immagini le une dopo le altre, bensì immagini giustapposte, le une dentro le
altre secondo un gioco di continua reversibilità. Le immagini video non hanno più “fuori campo”, ma presentano semmai un diritto e un rovescio, sempre reversibili, sempre rivoltabili. Il concetto di «lavoro di impedimento sulle cose e sui gesti» quale «messa in variazione degli uni in rapporto agli altri e ognuno in rapporto a se stesso (il vestito che cade e che viene rialzato è la variazione del vestito, ecc.)» formulato da Deleuze è applicabile anche a proposito dello spazio che è spazio mentale: contratto in primissimo piano, scagliato e dilatato in campo lungo senza soluzione di continuità. Il montaggio è il dispositivo che fa scartare l’immagine, negando sistematicamente il campo medio, ovvero “l’intera scena all’interno dello studio”; il campo medio è oggetto di continue smarginature e rimarginature che corrodono l’assetto dell’inquadratura dall’interno del set, attraverso una precisa strategia della luce. I corpi attoriali vengono trattati – anche a teatro e non solo nello studio televisivo – come schermi per le luci, punti di attacco o di stacco visivo e sonoro in funzione del play-back. Il trattamento delle luci si avvale di provenienze teatrali tràdite, come le fonti luminose orientate dall’alto, o cinematografiche, come la luce frontale (che lavora sull’aplatissement dell’immagine ed elimina le ombre); vi rientra anche l’impiego di corpi illuminanti posti ai bordi laterali del set o della boîte scenica (direzionalità che lavora sul volume, “scolpisce” il set tra luce e ombra) e di altre fonti luce orientate di spalle o da terra o dal basso (che lavorano sulle distorsioni dell’immagine). L’illuminazione dei proiettori, da terra, in quinta, «impone al corpo attoriale d’inventarsi continuamente, proponendosi come corpo che riflette la luce». In Amleto la sperimentazione è volta all’annientamento dei grigi che «spengono i contorni in una generale uniformità», per far emergere un bianco e nero assoluti. In Riccardo III nella «eliminazione dei magenta e dei viola» si ricerca «il colore dei bianchi e dei neri con l’eliminazione dei pastelli», ottenendo che i colori televisivi risultino “stinti”. Il ritmo del montaggio è implicato dal “girato” e, viceversa, il “girato” è implicato dal montaggio; ciò fa sì che la “registrazione stessa divenga evento”: la simultaneità del registrare-vedere sui monitor di controllo fa sì che l’opera non possa più darsi come terminale di un processo compiuto, ma come processo in atto. Il sistema “multicamera” implica anche il montaggio in diretta o “in macchina”; si tratta della ripresa (controllata da monitor) di “scene” o “piani-sequenza” senza profondità di campo, attraverso una serie di telecamere (quasi sempre) fisse orientate simultaneamente (anche se con durate differenti), da diversi “punti di vista” (diverse distanze assiali, inclinazioni e angolazioni quasi sempre frontali, oblique alte o basse), sullo stesso set e che, talvolta, è contemporanea alla presa diretta delle voci e dei rumori (secondo un sistema di microfoni adeguato). Tale strategia di ripresa procede spesso montando “in macchina” (stacchi, attacchi, dissolvenze, assolvenze in diretta), attraverso le permutazioni delle diverse telecamere e con passaggi immediati dall’una all’altra nel corso della ripresa stessa. La tecnologia elettronica consente, mediante l’impiego del generatore di effetti speciali (GEF), di compiere in tempo reale tutte quelle operazioni che nell’attività cinematografica implicano la postproduzione (editing, sovrimpressione, dissolvenze ecc.). In Bene! Quattro diversi modi di morire in versi: Majakovskij-Block-Esènin-Pasternak, il sistema multicamera è stato impiegato per riprese in funzione di “intarsi”, anche se talvolta Bene opta anche per il montaggio in truca come al cinema. Il ritmo del montaggio, in postproduzione, risegmenta il movimento, frammenta i gesti, le posture dei corpi, spezza il flusso con dei “tagli” che aprono l’immagine; le telecamere fisse e ferme (senza “movimenti” ottici) lavorano sui particolari, sui dettagli, sui contrasti e servono a mettere in variazione l’immagine nel cortocircuito del “troppo vicino” e del “troppo lontano”, isolando nello stesso modo, trattandoli cioè come “primi piani”, volti, corpi e oggetti nello spazio schermico. I movimenti di macchina sono rari e brevi, prevalentemente in panoramica, quasi sempre volti a marcare i corpi attoriali in movimento, oppure in violente carrellate ottiche che determinano un “falso movimento”, un “movimento sul posto”. Come già nell’opera cinematografica, Bene procede all’effrazione continua del sistema dello spazio a 180 gradi con continui scavalcamenti di campo. In Riccardo III i movimenti rotatori del corpo di Bene all’interno dell’inquadratura sono dei movimenti “a spirale”, in quanto vanno ad avvitarsi intorno alla linea dello spazio a 180 gradi superandola costantemente e doppiandola a 360 gradi. Si tratta di rotazioni che s’interrompono, come stacchi o attacchi sul nuovo asse che si è venuto a determinare in funzione del montaggio. Vi sono poi rotazioni senza alcuno stacco, fatte in ripresa diretta, “in macchina”, oppure attraverso l’uso di specchi (anche con l’impiego di piattaforme mobili, come le macchine teatrali rotanti dell’Ottocento). Come già in ambito cinematografico, Bene ricorre frequentemente al falso raccordo, ma soprattutto, usando intensivamente il primo e primissimo piano dei volti, viola la regola dei 30 gradi – mutuata dalla
sintassi del cinema classico americano – secondo la quale la successione di due inquadrature di un medesimo oggetto o soggetto debbono, per essere percepite come autonome, essere “sufficientemente” distanziate e angolate almeno di 30 gradi. «Il paradosso del linguaggio nasce dal fatto di lasciare le camere ferme facendo grosse operazioni nelle cabine di controllo per quella che viene chiamata la “tosatura”, cioè il contrasto, che è anche un grosso aiuto elettronico che si porta al datore luci che opera in studio. La camera ferma non è alla Straub o alla Bergman, ma serve per proiettare gli attori in piena violenza, con testoni in primissimi piani e campi lunghi, eliminando del tutto il campo medio, il cosiddetto “totalino” televisivo» (cit. da L’estetica del dispiacere: conversazione con Carmelo Bene, a cura di Maurizio Grande, in «Cinema & cinema», luglio, 1978, p. 163). La tecnologia video rivela il paradosso del linguaggio, nel senso già cinematografico dell’“al di là” e dell’“al di qua” della m.d.p. (si ricordi Keaton definito da Bene «obiettivo umano»), rifunzionalizzato secondo la definizione che Pasternak dà del poeta come «colui che vede al tempo stesso ciò che è visibile a due isolatamente». La tecnologia video mette in chiaro l’autorialità dell’attore: «l’attore è l’autore della stipula metodologica del linguaggio, nel momento in cui sfida tutto quello che sa e lo mette in crisi allo stesso tempo»; ora, «lo specchiarsi nel piccolo schermo, (…) nel monitor, inverte tutte le prospettive e l’ordine stesso del linguaggio. Ecco allora che la regia interviene per tirare le somme, di sequenza in sequenza, proprio giocando col monitor e con questi effetti di inversione, di specchio, anche quando il linguaggio si nega come involucro, come pura forma (…)». La regia è l’altro aspetto di autorialità che l’attore Bene assume, rivelando sul piano della tecnologia audiovisiva quello che egli da sempre ha frequentato, il paradosso: «quando ti guardi in questo specchio e ti riconosci imbecille e ti accorgi e sai benissimo che tutto quello che stai facendo è irrappresentabile. Nasce lì l’irrappresentabilità, lì davanti a te, davanti a te riproposto nello specchio del monitor nasce l’impossibilità di rappresentare. Qui il linguaggio, direi non solo si rovescia, ma qui nasce, qui nasce il linguaggio (…) in un presente che è “l’innocenza del divenire” e nell’amor fati» (ibidem). Bene! Quattro diversi modi di morire in versi…
Risale al 1960 il primo Spettacolo-concerto Majakovskij, recital (senza repliche) con musiche live del compositore Sylvano Bussotti al Teatro della Ribalta, a Bologna. Le riprese successive risalgono al 1962 (Teatro Laboratorio, Roma) e al 1968 (Teatro Carmelo Bene, Roma). Su quest’ultima versione, che include le poesie di Blok, Quadri osservava: «Pochi elementi, una corona di fiori, uno scanno, un leggio (…). Di fronte, un pianoforte ricoperto di oggetti quotidiani» che tra le mani di Vittorio Gelmetti diventavano fonti di suoni e strumenti musicali. Quadri storicizza la frequentazione dell’opera di Majakovskij da parte di Bene e lo definisce «un Majakovskij orfano della Rivoluzione» (cfr. F. Quadri, Il Teatro degli anni Settanta. Tradizione e ricerca, 1982). Nel 1980 viene presentato Spettacolo-concerto Majakovskij (Majakovskij-Blok-Esenin-Pasternak), concerto per voce e percussione-live (Antonio Striano) con le musiche di Gaetano Giani Luporini, al Teatro Morlacchi di Perugia. Il 1980 è anche l’anno della variante discografica, nel cinquantenario della morte di Majakovskij e nel centenario della nascita di Blok. L’opera televisiva Bene! Quattro diversi modi di morire in versi: Majakovskij-Block-EsèninPasternak è stata registrata in ampex a colori presso gli studi Rai di Roma, nell’autunno del 1974. La messa in onda dello special televisivo, in due parti (avvenuta il 27 e il 28 gennaio 1977, Rai 2), precede di poco l’inizio ufficiale delle trasmissioni a colori (febbraio 1977). Il montaggio dell’opera video stabilisce per il tramite della voce polifonica di Bene un “contatto” tra le diverse poesie «in un concertato molto preciso di ritmi e di cadenze», tale da formare un «ideale dialogo» fra i quattro poeti russi. Nel corso della prima parte Bene dice: Là dove echeggia nelle lunghe sale (Blok); Bene! (Majakovskij); Confessione di un teppista, Ritorno al luogo natale, La Rus’ sovietica (Esenin); Viola e un poco nervosamente e La nuvola in calzoni (Majakovskij). Nella seconda parte: L’uomo nero (Esenin); A Sergej Esenin (Majakovskij); I dodici (Blok); All’amato se stesso dedica queste righe d’autore (Majakovskij); Morte di un poeta, Oh, s’io avessi allora presagito (Pasternak). Le poesie di Majakovskij, Blok, Esenin, Pasternak sono state tradotte da Ignazio Ambrogio, Bruno Carnevali, Renato Poggioli, Angelo Maria Ripellino e adattate, nei testi dello special televisivo, da Bene e da Roberto Lerici. Dal nero dei titoli di testa si stagliano dal set – ripreso in un’inquadratura frontale con inclinazione obliqua molto alta – in un bianco luminescente, i tondi delle percussioni, delle bobine del revox e le linee delle tastiere. Tale spazio, frequentato da Vittorio Gelmetti, è uno spazio sonoro dedicato all’improvvisazione e all’interazione dei suoni degli strumenti con le variazioni della voce di Bene. Ed è altresì lo spazio dal quale il montaggio isola degli inserti: ad esempio le mani di Gelmetti mentre suona il pianoforte. Contiguo è lo spazio in cui più frequentemente viene a trovarsi Bene: un palcoscenico divelto, pieno delle rovine, dei frammenti architettonici di un “teatro” devastato, sventrato; sul fondo
(maxischermo) appaiono le alte fiamme di un fuoco (elettronico) che arde costantemente. Rari sono i movimenti della telecamera in panoramica, più frequenti gli zoom dal primissimo piano al campo lungo e viceversa. Il montaggio, fratto nel corso della prima parte, diviene rarefatto nella seconda. Le inquadrature sono fisse e il montaggio le “stacca” facendo contrarre o dilatare lo spazio schermico (dal campo lungo al primo o primissimo piano e viceversa). La partitura visiva sperimenta soprattutto l’analiticità dei primi e primissimi piani televisivi con frequenti sguardi in macchina: si assiste a un trattamento videografico del volto in primo piano di volta in volta orientato sulla diagonale destra o sinistra dello schermo; volto “intarsiato” su un fondo nero che muta, via via, nel rosso del fuoco che arde, nel bianco della neve che cade o in fuochi d’artificio incolori. La prima parte presenta la dominante del rosso. Anche la topografia del set è “video”: i palchetti, le gallerie, il palcoscenico sono “intarsiati” tra le fiamme che ardono con i colori elettronici del rosso-giallo-arancio. L’opera si apre con una breve inquadratura su fondo nero in cui si staglia in décadrage la nuca di Bene. Stacco, campo medio. Bene, seguito in panoramica dalla telecamera, cammina, fuma, si affaccia dai palchetti e alle sue spalle arde il fuoco elettronico. La sua voce (fuori campo) inizia a dire: Là dove echeggia nelle lunghe sale di Blok che poi continua, in primissimo piano con voce live. Nel corso della seconda parte i fuochi vanno spegnendosi, – esangui, quasi incolori -, coperti dalla neve che cade sul fondo nero. A tratti, il bianco e nero è interrotto dal rosso della bandiera che Bene, con gesti fulminei, lacera davanti alla telecamera. Il rumore degli strappi è amplificato e l’immagine della lacerazione del rosso “buca” lo schermo. Lo spazio del set tende a farsi invisibile, l’inquadratura è fissa sul volto intenso di Bene isolato in primissimi piani. Rari gli inserti (la pistola che spara verso l’alto). A conclusione viene interpolato materiale di repertorio del funerale di Boris Pasternak (1960) che mostra la folla, poi la bara scoperta, portata a spalla e infine il primo piano del volto del poeta morto, “bloccato” nella durata di in un fermo-immagine, mentre la voce di Bene dice «Oh, s’io avessi allora presagito». Amleto
Registrato nel 1974 negli studi Rai di via Teulada, su ampex, Amleto (da W. Shakespeare a J. Laforgue) è ritenuto da Bene «fatto televisivo», ricerca sull’audiovisivo «nel senso tecnicoscientifico, specifico del video, del piccolo schermo». Il bianco e nero in Un Amleto di meno svolgeva funzione di intensificazione e di annullamento dei cromatismi, mentre nella terza variante teatrale (sempre del 1974) consisterà nella rielaborazione di un gioco ritmico d’incorniciamenti «dei pannelli laterali scorrevoli e di un fondale» (su cui si apre un vasto foro) che «ruotando sul proprio asse orizzontale» immerge «l’azione, alternativamente, nel nero assoluto o nel bianco assoluto delle sue facciate». Ma è l’opera televisiva a sperimentare un bianco e nero assoluto – ciascuna immagine presenta un particolare tipo di illuminazione che ha richiesto un processo di “tosatura” tale da eliminare i grigi e ottenere solo i contrasti – comportando una totale sottrazione della profondità di campo. Il bianco e nero dei costumi ipertrofici – gli stessi di Un Amleto di meno – invadono i corpi, ne fanno delle figure, delle superfici che si smarginano (fot. 48) nel bianco e nero assoluto, elettronico, ma “denso” dell’inquadratura, che a loro volta smarginano, in una reciproca trasmutazione fatta di corrosioni e assorbimenti: le immagini e non i bauli sono i sarcofagi (sarkophágos: “che consuma carne”) dei corpi attoriali. Lo studio televisivo stesso è negato, eroso dalla partitura luministica di un set che consiste nell’essen-ziale della Elsinore-backstage di Un Amleto di meno: i bauli con le scritte “Paris Exprès”, i passaggi – qui transiti – dal bianco al nero (e viceversa), il “foro” del tunnel, varco circolare, vuoto dal quale provengono le “situazioni” PolonioGertrude prese nel circuito iterativo del testo freudiano L’interpretazione dei sogni.
FOT. 48
Nell’opera televisiva il delìnquere – nell’etimo latino “sottrarsi (al dovere)” – di Amleto in quanto artista o meglio in quanto autore-attore, si radicalizza ulteriormente rispetto alla variante cinematografica. Amleto non prende più «l’orrido evento» e le conseguenze della pietà filiale quali argomenti per l’opera estetica; Amleto, ovvero “l’autore-attore”, prende la pietas verso la filiazione shakespeariana e laforguiana quale “argomento” dell’opera audiovisiva stessa, di cui continua a essere, suo malgrado, artefice. Il côté Laforgue si frammenta in una serie di interpolazioni: “Amleto, ovvero le conseguenze della pietà filiale” (Moralità leggendarie), “Lamento dei contrasti
malinconici e letterari”, “Lamento dello sposo oltraggiato” (Les complaintes), “Una parola al sole, per cominciare”, “Giuochi” (L’Imitation de Notre-Dame la Lune), “Avvertenza”, “Domeniche”, “La penultima parola” (Des Fleurs de Bonne Volonté), “Canzone del piccolo ipertrofico” (Le sanglot de la terre) e una lettera a Madame Multzer. La Elsinore dei bauli e del viaggio fermo di una tournée teatrale sempre sul punto di realizzarsi diviene il luogo mentale in cui Bene “riscrive” le “situazioni” Amleto e Claudio solo come parodia del rapporto di natura economica che lega “attore-autore” e produttoreimpresario, il cui cerimoniale fagocita tutte le altre “situazioni”. Orazio paga Will e gli fornisce scettro, elmo e spada per poi “sentirsi” dire, rivolto verso la telecamera: «Tale quale il re morto! Mi gela di raccapriccio… di gelo e di stupore!». L’aspetto economico della relazione tra Kate e Will si fa evidente. Come già nella versione cinematografica tutta l’opera è finanziata da Claudio e non solo lo “spettacolo a corte”; egli si fa produttore, impresario e regista del proprio operato delittuoso: l’assassinio-usurpazione. Anche Orazio vi è coinvolto, forse solo per seduzione registica (peraltro già intuibile nei continui spostamenti del ritratto di Amleto père, a cui sovrintendeva nel corso dell’opera filmica): ciò che resta del “rigore” amletico nelle “situazioni” Orazio tende a venir meno. In un rituale da teatro di figura “in nero” Amleto passa – attraverso gli sbalzi vertiginosi del montaggio (fot. 49 e 50) – frammenti di copione a Orazio che li leggerà sino a quando tra le mani si troverà solo il frammento di un margine bianco. Dopo il dialogo del “Lamento dello sposo oltraggiato” Kate, Will e il primo attore ripetono, nell’artificio scenico del “teatro nel teatro”, l’assassinio e la seduzione; tuttavia, nonostante le istruzioni di Orazio, il primo attore invece del veleno brandisce un pugnale e Claudio è costretto quindi a intervenire dicendo preso dallo sconforto: «Lo avvelena! Lo avvelena!…». Il dramma scritto «tra repellenti preoccupazioni domestiche» da Amleto-Bene è una canzone da variété che egli canta in napoletano, con voce alla Petrolini, accompagnato alla chitarra da Claudio. Dopo l’uccisione di Polonio, nell’alternanza di primi piani (quello di Polonio velato), Amleto-Bene consegna a Claudio (e dopo la constatazione del pentimento impossibile) il pugnale dell’assassinio, cui segue lo scambio di denaro. Amleto-Bene, con voce grave, dice: «Siamo un po’ bassi con il preventivo»; Claudio chiede: «I costumi?» e Amleto-Bene risponde: «No, i costumi vanno bene… aumentiamo un tantino il budget…». Claudio aggiunge un’altra borsa di denaro. I loro volti sono in primo piano, poi uno zoom indietro apre l’inquadratura per rendere evidente lo scambio di denaro e la presenza di Orazio.
FOT. 49
FOT. 50
La versione video dell’Amleto è la decostruzione di Un Amleto di meno, di cui restano delle “schegge” interpolate, autocitazioni che consentono al testo di operare per forti sintesi. Come accade nell’incipit quando ai titoli di testa si sovrappone l’interpolazione della colonna sonora del film con la voce ossessiva di Amleto père che dice: «Io sono l’anima di tuo padre… se mai mi amasti… vendica il mio assassinio… addio… ricordati di me…». O come quando la voce fuori campo di Amleto-Bene – «Avevo cominciato con il dovere di rammentarmi l’orrido, orrido, orrido evento…» – copre in primo piano sonoro il passaggio testuale dal nero all’assolvenza del bianco, in cui appare a tutto schermo la scritta nera “Paris Exprès” in una campitura di “bianco elettronico”; con una carrellata ottica l’inquadratura si apre rivelando un muro di bauli, impilati gli uni sugli altri, bianchi e neri e talvolta per inversione neri e bianchi, in cui si moltiplicano le scritte e le etichette “Paris Exprès”. La rarefazione del set si fa assoluta: è un set di bauli, in cui si avvicendano le
“situazioni”, gli attori della troupe di Kate; “situazioni” che appaiono o dissolvono dentro l’immagine, così come il set stesso si accende e si spegne dentro lo schermo. Il testo shakespeariano (I, II) – Orazio: «Salute a vostra Altezza!» – Amleto: «Uh, Orazio, se non sbaglio» ecc. – che nel film passava in una fitta rete di campi-controcampi mancati, diviene qui, nella partitura audiovisiva, più analitico e intensivo nell’alternanza tra primissimi piani di Orazio e i primi piani di Amleto in dévisage e in décadrage su campiture di nero. Intervengono poi scavalcamenti di campo, l’attivazione delle diagonali dello schermo, variazioni scalari stranianti; per esempio nel passaggio da un primissimo piano a un piano indecifrabile di Orazio: l’inquadratura presenta l’assetto di un piano americano o di una mezza figura, ma la dimensione è smarginata, erosa dal nero del set, il corpo è completamente assorbito dal nero inchiostrato dell’immagine; solo il suo volto è illuminato (in un certo senso è un “primo piano”). Nel totale appiattimento del bianco schermico, la morte di Ofelia consiste nel gesto di Claudio che le scopre il volto sotto il velo da sposa. Immerso nel nero dello schermo, un baule bianco è la bara in cui giace il corpo di Ofelia. Segue uno scambio di denaro da Claudio ad Amleto-Bene e da quest’ultimo a Will, cui Kate lo sottrarrà. Il bianco baule-sarcofago, con una croce in campo nero, inventa il luogo cimiteriale in cui Amleto-Bene ripone dei fiori bianchi e dice, tra finte lacrime, il monologo laforguiano (primissimo piano, fortemente contrastato dal nero e dal bianco, inclinato sulla diagonale dello schermo): «Eppure non era tanto pesante… ». In un set sintesi del cimitero marino e di Elsinore-backstage cimiteriale, Amleto-Bene incontra Laerte che lo colpisce a morte: primissimo piano del volto di Amleto-Bene, gli occhi rovesciati in bianco, dice: «Qualis artifex pereo» (nella sintassi del montaggio la morte di Amleto si enuncia in una falsa soggettiva di Laerte), per poi precipitare in un baule-sarcofago. Campo lungo su due bauli aperti: Kate con un largo mantello nero e bianco, ruotando su stessa, come nella versione cinematografica, viene afferrata da Will e tratta a forza dentro a un baule. Anche Claudio, Gertrude e Laerte si ritirano in silenzio nei loro rispettivi bauli-sacrofagi che l’armatura di Fortebraccio, sola, chiuderà con schianti sepolcrali in primo piano sonoro. In campo bianco si assiste all’incoronazione del nulla (autoincoronazione di Fortebraccio); dissolvenza sul bianco. Riccardo III
La versione televisiva di Riccardo III, dedicata a Gilles Deleuze, è stata preceduta dall’opera teatrale del periodo 1977-1978 (la “prima” ha luogo al Teatro Bonci di Cesena il 22 dicembre 1977), cui segue la pubblicazione del testo letterario “Riccardo III di Carmelo Bene”, in Sovrapposizioni (1978), che contiene il saggio deleuziano “Un manifesto di meno”. Bene procede nella propria riscrittura («discrittura») del Riccardo III di Shakespeare elaborando gli aspetti di difformità morale e di deformità fisica che già nella scrittura shakespeariana definivano il duca di Gloucester poi Riccardo III. La difformità fisica viene raffigurata mediante l’uso di protesi corporee. Quando il duca di Gloucester comincia a capire che la difformità può essere strumento di seduzione s’affanna a estrarre dai cassetti finti avambracci, tibie, ingessature vuote, guanti di gomma squamata dalle dita deformi e adunche: escrescenze, protesi e bende (fot. 51). La difformità è protesi, escrescenza, come la «gobba politica» da indossare e che viene estratta dall’armadio-bara («senza gobba non si governa»; il rinvio iconografico allude alla “situazione” re Claudio, di Un Amleto di meno). Gloucester, dopo aver fatto uccidere suo fratello Clarenza e indotto il re, suo fratello, Edoardo IV alla morte, procede con determinazione allo sterminio sistematico di quel che rimane della sua famiglia, per poter essere finalmente re. Molti anni di storia inglese (la Guerra delle Due Rose), una catena sanguinosa di delitti, sono qui condensati e “sospesi” in una notte: la notte insonne che precede la battaglia di Bosworth, ovvero «la nottataccia di un uomo di guerra», oramai perso irrimediabilmente non tanto nella sua stessa passione divorante per il potere e per il dominio, quanto nella sperimentazione (auto)distruttiva della propria deformità.
FOT. 51
Bene progetta la “macchina di guerra” Gloucester-Riccardo III – che solo distruggendo può autodistruggersi – attraverso la sottrazione dell’intero intreccio shakespeariano dedicato alla conquista del potere (il sistema regale e principesco) e lasciando quindi “solo” Gloucester-Riccardo con le proprie proiezioni mentali, apparizioni, fantasmi ovvero le donne sopravvissute alle stragi da lui perpetrate. Sopravvissute anche alla riscrittura di Bene, le donne-”situazioni” sono: la duchessa di York, madre di Riccardo, di Clarenza e di re Edoardo IV (Lydia Mancinelli), Elisabetta, regina e moglie di Edoardo IV (Maria Grazia Grassini), Margherita, ex regina, vedova del defunto Enrico IV (Daniela Silverio), Lady Anna Warwick (Susanna Javicoli), una cameriera che Riccardo chiama Buckingham (Laura Morante) e Madama Shore amante prima di Edoardo IV e poi di Hastings (Licia Dotti). E dunque, come scrive Deleuze, ciò che nel testo shakespeariano «esiste solo virtualmente» diviene qui attuale: le donne «hanno rapporti di guerra in proprio». Una guerra che, tra le lacrime, esse disputano sui loro stessi volti a colpi di “maquillage”. Dopo i titoli di testa l’incipt dell’opera video presenta, immersa in un bronzo monocromatico, una bara; poi l’inquadratura lentamente si apre con una carrellata ottica che termina in un campo medio (con un’inclinazione obliqua dall’alto) rivelando una configurazione di bare accatastate che si spegne con l’affievolirsi fino a scomparire della voce di Bene. Il testo visivo è la superficie in cui la sua voce fuori campo dice frammenti da Mercoledì delle ceneri di Eliot. Dopo il bianco e nero assoluti dell’Amleto, segue la sperimentazione monocromatica di Riccardo III: il bronzo elaborato elettronicamente su un fondo nero diviene il colore dominante, di tono plumbeo, del set mentale e intimo di una veglia funebre, in cui si consuma la “nottataccia” insonne di “Gloucester-Riccardo III”. Nottataccia in cui egli diventa in piena solitudine “attore di se stesso” nella propria veglia funebre. Il colore, “bronzeo lavato”, rivela del set i pallidi fiori rosa disseminati ovunque, un letto-catafalco nero su cui giace il corpo nudo di una donna (richiamo iconografico della Salomè di Franz von Bayros), le configurazioni di bare-bauli (o armadi), gli specchi, le fiammelle delle candele, i volti e i corpi femminili, gli oggetti teatrali. La luce costruisce e decostruisce la dimensione spaziale che essa sola fa emergere dal nero di fondo; la luce “taglia” di netto in due il volto di Bene (nei primi e primissimi piani), sulla diagonale. Rivela, inoltre, la presenza d’immagini speculari e l’illusione della profondità di campo che consiste nella presenza di una parete-specchio che restituisce il circuito attrici-specchi (immagini speculari) tra set e monitor. Il corpo di Bene si fa strumento del “set”, corps-caméra: la gestualità, le posture, le rotazioni fungono da “stacchi” e da “attacchi” per il montaggio; le rotazioni-torsioni del corpo danno volume all’inquadratura («il volume è dato dalla torsione della superficie come avviene nell’anello di Moebius»); il suo volto intenso rimane, nella continua fissità dell’inquadratura spezzata solo dai rilanci dello sguardo, sempre “bloccato” dal gioco a rimbalzo della “multicamera” che non lo fa passare, ma che sempre lo restituisce e annichilisce dirigendo il suo sguardo spalancato su un fuori campo cieco. Si produce uno spaesamento (delle direzioni) dello sguardo, anche quando il cambio di inquadratura è fatto “in diretta” sulle rotazioni del corpo di Bene che la luce spegne e riaccende altrove (davanti a un’altra telecamera). Il montaggio fratto dell’opera televisiva è frutto quindi di complesse interazioni tra sistema luministico, corpo attoriale e multicamera, in cui la luce funge da “giunta” visibile tra un’immagine e l’altra. In questo contesto il corpo di Bene è dispositivo di espansione e di contrazione dello spazio schermico: come quando, per esempio, dentro una campitura nera, Gloucester è colto da malori improvvisi (collassi?) che lo fanno scivolare – sulla
diagonale dello schermo – a terra, slittando da una inquadratura in campo lungo a un’altra in primissimo piano (fot. 52); o come quando perde continuamente l’equilibrio, barcolla, cade e i suoi stessi gesti, la postura del capo, le direzioni dello sguardo non smettono di mutare, di cambiare velocità, di far variare non solo la dimensione spaziale, ma la durata e il flusso del tempo.
FOT. 52
Altrove, ma sempre nello spazio mentale di Gloucester-Riccardo, stanno le altre “situazioni”: le donne. Le donne abitano lo spazio che va dal campo lungo al campo medio e sono immerse in un buio specchiato; reggono candelabri dalle candele accese e sono “simili” le une alle altre nelle loro fruscianti vesti nere o rosa pallido, nei loro gesti meccanici e perfino nelle loro variazioni (svestirerivestire, capelli raccolti o sciolti). Sul piano della partitura audiovisiva esse frequentano uno spazio contiguo a quello di Gloucester-Riccardo, ma non entrano in contatto con lui se non attraverso gli sguardi e le voci di un fuori campo per lui inattingibile. Solo Buckingahm passa attraverso la “giunta” del montaggio: Gloucester (in primissimo piano) sfiora il volto di Buckingham anche se il gesto è solo accennato; Buckingahm (in primo piano) nel controcampo si ritrae per evitarne il tocco (fot. 53). Alcune apparizioni di Buckingahm fungono da intermezzo, anticipano o seguono i malori improvvisi, le cadute di Gloucester: Buckingham, ruotando su se stessa, variando dal primo al primissimo piano, chiude gli occhi, si toglie la veste e aprendola a metà la fa scivolare lentamente sulle spalle nude. Ma il dolcissimo volto di Buckingham (una carrellata ottica in avanti dal mezzo primo piano al primo piano intercetta il movimento rotatorio dell’attrice) nel chiudere gli occhi qui fa cadere la veste che “passa” oltre, in controcampo, nell’inquadratura in primissimo piano di Gloucester-Bene che dice: «Non ho nessun fratello, non somiglio a nessuno io… e la parola “amore” che dicono divina sia con tutti quelli che sono fatti l’uno per l’altro… Io, …io sono diverso!…». La frequentazione dell’assenza del femminile di Gloucester-Bene avviene ogni volta che egli danza dolcemente con vesti senza corpi, accarezza capelli senza volto, danza con il nulla.
FOT. 53
Quando, spente le candele, Gloucester dice il monologo shakespeariano – «Ora l’inverno dei nostri rancori a questo sole di York si fa gloriosa estate…» – è continuamente zittito dalle donne e si
vede così costretto a contrastare queste interferenze, così come le proprie improvvise amnesie e “visioni”, interrompendosi più volte senza poterlo terminare; lo riprenderà altrove (dopo la seduzione di Lady Anna). Nel corso del monologo – quando viene evocato lo specchio («io che a questi spassi non ci son tagliato, né a corteggiarmi davanti a un vago specchio») – ciascuna delle donne cerca e trova, dentro un gioco di specchi, all’interno delle bare-bauli un oggetto che sceglie come privilegiato: Lady Anna un crocifisso, Margherita un piatto, la duchessa di York un quaderno con una “penna”, il copione, o forse King Richard the Third di Shakespeare. Nell’esordio le donne aprono le bare-bauli e vi cercano con gli occhi (sguardi in soggettiva) oggetti in cui specchiarsi; nell’epilogo li richiuderanno furtive disfando il set e seppellendovelo dentro. Preceduto dall’inserto del teschio sul vassoio (anamorfosi schermica), segue la strategia di seduzione di Gloucester nei confronti di Lady Anna Warwick, cui ha ucciso il marito e il padre (I, II). La seduttività delle parole dette da Gloucester diviene oggetto di ironia nella voce di Bene che si distacca così dal loro significato disdicendole. Qui la strategia di seduzione implica l’uso consapevole delle varianti alla difformità; ma è soprattutto l’atto di Gloucester d’avvolgere, svolgere e riavvolgere una benda sulla sua mano (inserto, inquadratura dall’alto) a trasformare Lady Anna che frattanto, già toltasi il nero del lutto («è preferibile un difforme agli eroi morti»), ora è in rosa e si sveste e riveste, specchiandosi nel crocifisso che tiene tra le mani e che a tratti bacia ossessa, come la bambina in Don Giovanni. La regressione di Lady Anna a bambina avviene soprattutto nella voce (separata dalla sua stessa immagine silente, voce fuori campo). Lady Anna è l’osceno da intendersi secondo Bene come «eccesso del desiderio». Il precipitare dentro la macchinazione della tattica politica e della strategia militare fa di Gloucester «la macchina di guerra Riccardo III» che nulla potrà contro Richmond (tradimento di Buckingham); e nell’inevitabile (auto)annuncio dell’altrettanto inevitabile battaglia di Bosworth la voce polifonica di Bene (con interpolazioni dal testo shakespeariano, IV, IV) si strumenta con una formidabile potenza autoironica, in una variazione continua dal ritmo intensivo, nella voce di Gloucester e nelle voci di Ratcliff, Catebsy e Stanley. Il sogno spaventoso di Gloucester-Riccardo che precede la battaglia di Bosworth diviene nell’opera video di Bene horror vacui; Margherita disfa e rifà un letto, cambia le lenzuola e le federe ai cuscini togliendole a una a una. I suoi gesti sono intercettati da una serie di violente carrellate ottiche in avanti che portano il “bianco” a tutto schermo: sono gli spettri del principe Edoardo, di Enrico IV, di Grey, di Vaughan, di Rivers, dei nipotini e di Anna. Riccardo-Bene è una “figura” che si ritira dentro il nero della campitura schermica e chiede: «… Un cavallo Un cavallo Il mio regno per un cavallo!…». Otello (riprese, 1979)
Nella primavera del 2001, Bene prende la decisione di montare la versione televisiva incompiuta dell’Otello girata, nel 1979, negli studi della Rai di Torino, avvalendosi della regia al montaggio di Marilena Fogliatti. La presentazione dell’opera fu differita e “irrisolta” da Bene più volte, sino all’ultimo. È stata messa in onda da Rai Educational il 18 marzo 2002. Nondimeno, Otello resta un’opera video “sospesa” in molti sensi. Nell’opera incompiuta del 1979, le riprese sono coestensive alle varianti radiofonica (1979), teatrali (la prima edizione è presentata al Teatro Quirino di Roma, il 18 gennaio 1979, la seconda al Teatro Verdi di Pisa, il 9 gennaio 1985) e letteraria con la pubblicazione di Otello o la deficienza della donna di W. Shakespeare, secondo C. Bene, nel 1981. La sospensione del tragico in Otello scardina il tempo cronologico: tutto è già avvenuto. Le varianti teatrali incominciano laddove nel testo shakespeariano si compie il tragico: la morte di Desdemona e di Otello (Othello, V, II). Morte che “conclude” e che tuttavia rimane irrisolta nella sospensione del senso determinata dal silenzio di Jago: «Demand me nothing: what you know, you know: / From this time forth I never will speak word». Gli incipit delle varianti teatrali sospendono il tragico bloccando la morte, reiterandola nel morire “di tanto in tanto” di Desdemona anche in quanto “situazione” e quindi non solo come dramatis persona. Così come accade anche nell’addormentarsi di Otello: «dopo essersi illuso d’aver ritrovato una traccia della sua diversità d’onore in un’ombra di nerofumo da palcoscenico, un dito di polvere che in una carezza svogliata della sua memoria (“Ah, ecco, una volta io, ad Aleppo…”) gli colora di nero sporco la fronte ormai sbiancata…» (cit. C. Bene, La voce di Narciso, 1982, p. 164). All’addormentarsi di Otello la voce fuori campo di Bene dice: «Egli l’onore tolto m’aveva / ed io a lui ho la vita levata»; si tratta della riscrittura del testo shakespeariano: «Why, any thing: / An honourable murderer, if you will; / For nought did I in hate, but all in honour» (Othello, V, II). L’onore di Otello consiste anzitutto
nell’identità dell’unione voce-volto, dissociata in quanto “manca” la sincresi tra la voce e il corpo che l’emette: egli sdoppia e ricongiunge la propria voce con la voce di Jago. Bene “traduce” l’onore come stile (ovvero la tecnica d’attore che Bene definisce come una «poetica dissociata d’attore») ed è questo che Jago invidia a Otello, ed è per questo che Otello si tradisce già sempre da sé, geloso appunto del suo onore in quanto stile. Sempre questo oggettiva Otello e Jago e li “doppia” nelle situazioni “Otello-Jago” e “Jago-Otello”, ed estromette in Desdemona la “donna”, riammettendola solo per deficěre, in quanto mancante, assente. Nel “girato” della versione televisiva, come già nelle edizioni teatrali, “il fazzoletto” di Desdemona – che nell’opera shakespeariana diviene il dispositivo della strategia di Jago che precipita Otello nell’autodistruzione – è qualcosa che prende a funzionare autonomamente, staccandosi dall’intreccio testuale, trasformandosi in vela, in stendardo, in una grotta-alcova, nelle vesti strappate. L’incompiuta opera televisiva presenta un set completamente ovattato da stoffe, in cui il “fazzoletto” è l’ossessione visiva che consiste non solo nella messa in variazione del set stesso, ma attraverso le sue mutazioni dimensionali, cromatiche e finanche nella consistenza dei suoi materiali, diviene anche l’unico “movimento” percettibile nella successione delle inquadrature riprese a telecamere fisse. Da queste inquadrature è possibile evincere la trasformazione dello spazio schermico che avviene tanto attraverso le variazioni scalari di una stessa scena, ottenute sistemando la camera fissa a diversi di punti di vista e “punti di ascolto” (impiego di diversi microfoni dal panoramico al direzionale per la presa diretta, anche se spesso le voci sono in playback o in asincrono), quanto attraverso il set mentale, oggettivato negli annerimenti e lacerazioni progressivi delle stoffe, che si fanno segno della strategia autodistruttiva di Otello. In campo lungo il set presenta un letto circolare e bianco (come un enorme gâteau-mariage), al centro di una grotta velata da stoffe come stalattiti (moltiplicazioni del fazzoletto) che mutano il loro biancore candido in nero sporco e che si sfilacciano sino allo strappo, alla lacerazione. Nei campi intermedi il bianco del letto è interrotto da nere lenzuola, circondato da brandelli di stoffe nerofumo sospese dall’alto. Sempre lo spazio dell’inquadratura è saturo, scavato, a tratti “doppiato” in immagini speculari (l’intero pavimento è uno specchio) o interamente ricoperto di stoffe (il fazzoletto in un continuum); talvolta sulla pavimentazione a specchio sono poggiate delle stoffe che richiamano fregi modernisti e lambiscono il bordo inferiore dello schermo con effetti di superficie. Il letto circolare è il luogo in cui si accendono o si spengono le “situazioni”, ognuna delle quali ha nel “girato”, secondo la metodologia di Bene, un particolare trattamento audiovisivo, coerente con alcuni tratti tipici presenti anche nelle varianti teatrale e letteraria. Jago (Cosimo Cinieri) tiene tra le mani e legge il libro delle «favole di Otello», che continuamente getta a terra per poi riprendere. Da questo libro strappa delle pagine che poi mastica e sputa contro la telecamera. Per l’invidioso Jago «Otello è il suo stesso racconto, il poeta che, lui, Jago, vorrebbe diventare, frequentando il Moro. E, a un certo punto, Otello cessa di raccontare, decidendo, insensato, di vivere in Desdemona una qualunque delle sue avventure, di là dalla finzione. Questa è una trasgressione che svilisce in Jago la propria ammirazione per Otello». E quindi Jago vuole diventare ciò che Otello è (stato). La “situazione” Jago definisce: «un Roderigo muto, un Brabanzio vocalmente artefatto (…) e soprattutto Michele Cassio “doppiato” – sincrono e no» (cit. C. Bene, Otello, o la deficienza della donna, 1981). Cassio, casualmente presente, è eterodiretto dalle voci di Jago-Cinieri e di Otello-Bene, corteggia Desdemona-Emilia-Bianca (e puntualmente si ubriaca), senza venir meno alla funzione che Bene gli attribuisce, quella di apparire e di essere «il fantasma del femminile assente nel “donnesco” a disposizione». Roderigo è una presenza “muta”, così come lo è la donna-ragazzo. Brabanzio striscia a terra sulla propria immagine specchiata, stracciandosi camicia da notte e papalina e, seminudo, «impazzito come un Re Lear», “vomitandosi” addosso il proprio dire (play-back). Il corpo di Otello è progressivamente fagocitato, assimilato dall’immagine schermica, “confitto” nella propria autodistruzione, come già il Tetrarca in Salomè; ciò che resta è la voce sola di Bene. Rispetto alla versione teatrale, il “girato” dell’opera televisiva rende la “situazione” Desdemona (Michela Martini) più complessa. Qui, infatti, Desdemona entra in variazione “in immagine” (nel vestirsisvestirsi), “in voce” (regredendo da donna a bambina) e in se stessa (è divisa: una metà di sé porta i capelli raccolti, l’altra metà sciolti), nel progressivo annerirsi della sua pelle (nonché nella sua somiglianza a Emilia-Bianca/Rossella Bolmida). «Desdemona trova la sua volgarizzazione in Emilia: Emilia la sua prostituzione in Bianca. Così, tramite Emilia, il donnesco trascolora da Desdemona a Bianca e viceversa. Assente il femminile». Desdemona prima “uccisa” e poi riammessa – come lettrice o meglio ascoltatrice della storia di Otello – e poi ancora uccisa («deve morire di tanto in tanto»), muore anche in quanto Emilia, prima uccisa da Jago e poi riammessa in scena.
La presenza-assenza di Desdemona, il suo esercizio di mortalità è correlativo alla “necrofilia” di Otello («… Resta così da morta… e io ti ucciderò e poi t’amerò… per sempre (…) Dolcissima, conviene che tu muoia di tanto in tanto…»). Del “girato” vi è una serie di inquadrature in cui il corpo di Desdemona è abbandonato sul bordo inferiore dello schermo (inquadratura frontale obliqua alta); Otello-Bene lo tiene tra le braccia, il volto di lui sbiancato, quello di lei annerito, i capelli disfatti. Carrellata ottica indietro in sincrono alla voce di Otello-Bene che dice: «Mostruoso!… Mostruoso!… Oh, avesse quel vile quarantamila vite! Una soltanto è poca e troppo poco per la mia vendetta! Jago Jago vedi…». A questo punto l’inquadratura si apre – con uno zoom in avanti – sino a includere nell’immagine, in un gesto violento di Otello-Bene, Jago, costringendolo a guardare il corpo inanimato, nudo e sporco di nerofumo di Desdemona. Sul fondo campeggiano brandelli di stoffe annerite, il nero incombe. Il corpo di Desdemona è senza vita, dietro di lei Otello-Bene è disteso su un fianco, alla sua destra sta Jago con il volto annerito. Tre corpi immobilizzati, uno senza vita, gli altri due agonizzanti attraversati dal ritmo della voce di Bene; tre corpi indistinti, riassorbiti, oggettivati; le vesti lacerate si confondono in un continuum con le stoffe strappate e tutt’intorno disperse, sospese ovunque… mentre la voce di Bene in variazione dice: «Tutto il mio folle amore… Ecco svanì…» per poi cadere stremato al fianco di Desdemona. Nel testo shakespeariano (III, III) le parole di Otello sono rivolte a Cassio e sono precedenti all’uccisione di Desdemona. Sul piano visivo l’unico movimento è dato dal trasmigrare del bianco in nero del set e nel trascolorare del nero da derma a derma, sino al livido biancore di Otello: il nero passa attraverso i gesti – quasi per contagio – da un corpo all’altro: da Otello a Desdemona, da Otello a Jago, da Jago a Emilia, da Jago a Cassio. Oltre alle inquadrature di immagini speculari, vi sono inquadrature letteralmente “rovesciate” (alto verso il basso). Il montaggio è ovviamente assente, anche se le riprese in “multicamera” con montaggio in macchina in diretta implicano già di per sé un’idea di montaggio. Hommelette for Hamlet, operetta inqualificabile (da Jules Laforgue)
Parodia delle forme sceniche, l’opera televisiva Hommelette for Hamlet (1987) è un «teatro dei significanti» in cui convivono – anche se nell’interferenza dei linguaggi e nella contaminazione dei codici – l’operetta, alcuni accenni al melodramma ottocentesco e il monologo drammatico. Pastiche, riscrittura intertestuale che Bene compie di alcuni frammenti shakespeariani e, soprattutto, dell’opera di Laforgue, nonché delle proprie varianti testuali (il collage sonoro è di Luigi Zito); «pastiche» ironico e patetico, parodia felice dei significati (parodia felix come l’ha definita Grande) che tuttavia prende a funzionare come «il cerimoniale della fine dell’espressione e della forma». In Hommelette for Hamlet permangono, anche se mutati, la partnership economica tra il Re impresario e Amleto, la regia del Re con le relative istruzioni per la messa in scena del “teatro nel teatro”, i pezzetti di testo letterario strappati dal «copione originale di scena» che da frammenti shakespeariani divengono margini bianchi. Con Hommelette for Hamlet, nei «plessi del significante» di quell’ipertesto che è l’“Amleto” di Bene, interferiscono l’instaurazione dell’«Imperativo Climaterico» e la volontà di sposare «una povera ragazza» che, fra tutte le idee, è senz’altro «la più amletica» (“idea” laforguiana, già presente peraltro nella variante televisiva del 1974). L’ironia sul sentimento e lo sfinimento dell’età focalizzano Kate, l’attrice quale «infermiera per amor dell’arte». La figura sincretica di Kate si complica non solo in “Ofelia”, ma anche nelle “altre” figure femminili laforguiane tratte da “Loehngrin, figlio di Parsifal” (Moralità leggendarie), “Assolo di luna”, “Nera tramontana, ululante acquazzone…“, “Domeniche” (Derniers vers), “Per il libro d’amore”, “La canzone del piccolo ipertrofico” (Le sanglot de la terre), “Complainte des pianos qu’on entend dans les quartiers aisés”, (Les complaintes) e “Locutions des Pierrot” (L’imitation de Notre-Dame la Lune). Il cimitero marino di Un Amleto di meno diviene in Hommelette for Hamlet il «Cimitero degli Angeli” e i bauli dell’Elsinore-backstage divengono definitivamente bianchi sepolcri (fot. 54). L’opera televisiva si apre con un’assolvenza dal bianco, presentando, in campo lungo frontale, il «Cimitero degli Angeli», un monumentale ensemble funebre marmoreo “posto” su un basamento bronzino “appoggiato” al bordo inferiore dello schermo; questo astratto spazio cimiteriale è frequentato da angeli musici che – in disarmonie di suoni – si sciolgono dalla loro immobilità con gesti istantanei e meccanici e in particolare da un angelo che, con una lunga tunica, se ne sta seduto accanto a un sepolcro con il capo poggiato a una mano e che animandosi si alza, si toglie la veste e si lascia cadere alle spalle le lunghe ali: è Kate, una “donna-ragazzo” in calzamaglia e guêpière.
FOT. 54
Atelier mentale, il set è un cimitero barocco abitato da bianchi angeli marmorei che dall’immobilità statuaria dei loro gesti si sciolgono in improvvise animazioni, sempre più numerose, prendendo gusto alla frequentazione dell’operetta con passaggi continui dall’inorganicità all’organicità (e viceversa). La composizione del «Cimitero degli Angeli» nelle continue mutazioni di luce, di distanze e di suoni sottende una partitura audiovisiva, già teatrale, che attiva uno dei suoi percorsi di intertestualità anche sul piano iconografico. Gino Marotta trasferisce la citazione statuaria del barocco sulla plasticità dei corpi degli attori secondo una vis critica («parodia come gesto critico»), o meglio, come scrive Grande, «disloca il sentimento e le forme del barocco nella plasticità vivente di una citazione che sconfessa l’originale proprio nel momento in cui attesta l’istante introvabile della sua prima apparizione». All’interno di tale set cimiteriale interviene la partitura luministica con viraggi dal notturno al diurno (e viceversa), dai bianchi di madreperla e d’alabastro, ai grigi, ai bronzi, agli ori. Dalle “situazioni” è definitivamente sottratto Amleto (i titoli di testa non riportano la “situazione” Amleto): ciò che resta in scena è l’attore-macchina Bene. Ad esempio, quando dopo il frammento shakespeariano sull’impossibile pentimento, tra il Re e Bene avviene uno scambio di cambiali, è Orazio che scorgendoli riesce a leggere la battuta di Amleto: «Ora è il momento giusto, ora che sta pregando, ora lo faccio: così va in cielo e io son vendicato. Ma un momento, un momento: una canaglia mi assassina il padre e da quell’unico figlio che sono, quella stessa canaglia mando in cielo. Questo è render servigio e non vendetta! (Amleto, III, III)». Amleto non è tanto quel che resta del soggetto-artista “strappazzato” dall’opera, quanto davvero un vuoto, una mancanza. Ed è intorno a tale mancanza che si avvicendano le seguenti “situazioni”: il Re (Ugo Trama), Kate (Marina Polla de Luca), Orazio (Achille Brugnini), la “Beata Ludovica Albertoni” (Stefania De Santis) e gli angeli, uno dei quali è Will (Vladimiro Waiman), il capocomico. Laerte è cancellato. Di Polonio rimane, forse, una traccia muta nella presenza di un angelo custode sempre accanto a Kate. Gertrude consiste nella citazione del Bernini della “Beata Ludovica Albertoni” (fot. 55). Ofelia-Kate è raffigurata in una sola inquadratura: nero di acque immote, il volto bianco statuario e i fiori alla Millais.
FOT. 55
La parola shakespeariana nella voce di Orazio non ha più alcuna risposta possibile, segue solo il silenzio. Orazio riesce a leggere «Sono venuto vostra altezza…», «Orribile, orribile, troppo orribile…», «Lo spettro che ho veduto potrebbe essere il diavolo…»; «Si racconta di più di…» e «Essere o non essere questo è il problema e forse più nobile…», omettendone da sé delle parti, sino a precipitare – nel corso dell’opera – la propria voce in suoni inarticolati. Spaventato, Orazio non vuole ascoltare le disarmonie degli angeli, così come, ridotto a voyeur involontario, non vuole guardare l’animarsi estatico del corpo statuario della “Beata Ludovica Albertoni” che con lenti movimenti si toglie la veste marmorea svelando il seno: è l’autocitazione sonora dell’incipit di Un Amleto di meno (Stravinskij); poi si “spegne” rimanendo tuttavia visibile: qui la luce anima. La composizione di Hommelette for Hamlet si basa su una partitura audiovisiva che rielabora la modulazione delle immagini, già presente nella precedente versione televisiva e che nell’opera video di Bene costituisce un sintagma testuale “altro” rispetto a quello di scena e a quello di sequenza. La modulazione dell’immagine video avviene mediante variazioni performatiche – posture, rotazioni del corpo, inclinazioni del capo, segmentazioni e arresti del gesto, orientamenti dello sguardo, dissociazione vocecorpo – declinate da un montaggio “secco” e rarefatto. Tali modulazioni aprono e chiudono la serie della composizione audiovisiva, o meglio svolgono e riavvolgono il testo audiovisivo su se stesso. All’opera televisiva fanno seguito la versione teatrale dell’Hommelette for Hamlet al Teatro Piccinni di Bari, nel novembre 1987, e lo spettacolo-concerto da Laforgue Hamlet Suite presentato, nel luglio 1994, al Teatro Romano di Verona (XLVI Festival Shakespeariano). Macbeth Horror Suite
Le varianti di Macbeth (1983-84, 1996, versioni teatrali presentate a Parigi al Festival d’Automne rispettivamente nel 1983 e nel 1996) segnano «l’avvento della macchina attoriale», «sollecitato dall’esperienza elettronica ereditata dalla fase cinematografica e maturata nell’avventura concertistica del poema sinfonico (s)drammatizzato» (cit. C. Bene, Opere, 1995, p. 1203). L’opera televisiva realizzata nel 1996 presso gli studi Rai di Napoli presenta, rispetto al Macbeth, libretto e versione da William Shakespeare (1982), sottrazioni di “movimenti” o di parti di “movimenti”. La sola voce di Bene restituisce le rare “situazioni” ammesse dalla partitura audiovisiva sul Macbeth shakespeariano, attraverso le proprie «variazioni fonetiche-umorali»: gli animali, il temporale, le streghe, il capitano, Rosse, Duncun, Banquo, Macbeth, il portiere, i sicari. Silvia Pasello è la “voce” di Lady Macbeth, una «lady-domestica» che attende complice ai cambi di costume e al crimine del consorte. Il set coincide con l’impianto scenico: al centro un letto quadrato su due piani, nero; ai lati due armadi anch’essi neri (presso i quali stanno lunghe lance e scudi) che a tratti si spalancano: rivelano gli specchi interni, lasciano baluginare dei lampi e sono attraversati da violenti spifferi che sollevano dei veli bianchi. Armadi che poi si richiudono con schianti
amplificati, come fossero finestre, porte, soglie ma senza un esterno. Semmai, sono essi stessi un perturbante “fuori campo” a cui “bussare dall’interno” della stanza teatrale, un non-luogo in cui uscire-entrare. Dal nero del set (lo sfondo è nero, come nero è l’impiantito) la luce accende e spegne i toni del plumbeo metallico (lucido e opaco), del bianco calce, del rosso-sangue. Come già in Hommelette for Hamlet, la rarefazione assoluta dell’immagine traslata in suono si fa cristallizzazione del linguaggio audiovisivo, soprattutto per quanto concerne il montaggio, che procede per rari salti improvvisi (dal campo lungo al primo piano e viceversa; pochi i primissimi piani) e diventa “secco”: il taglio fa balzare in avanti in “dettaglio” i gesti, o meglio le segmentazioni dei gesti, orientati sui pochi oggetti del set, estendendone la durata. Il montaggio opera così prevalentemente sulla disarticolazione del corpo attoriale, sulla frantumazione del gesto, come accade, ad esempio, prima del banchetto (Macbeth, libretto e versione da William Shakespeare di Bene, Mov./10; Macbeth, III, IV). In assenza della voce, stacco dal volto in primo piano di Bene, dettaglio sul gesto del suo braccio che con tre arresti, in tre segmenti successivi, spezza la continuità del movimento (seguito allo stesso modo dalla telecamera). Stacco sempre in dettaglio (falso raccordo) sul gesto che finalmente si compie nel prendere da sopra il tavolo la lanterna che vi è poggiata. Poi Bene, in primo piano, alzando la lanterna davanti a sé, dice: «Hai del sangue sul viso». Il set teatrale è spazio mentale oggettivato in una stanza chiusa, scatola acustica, in cui on joue (“si recita”) Macbeth; stanza delle macchinazioni criminali («il sangue chiama sangue») e, al contempo, stanza dei rimorsi in cui l’antieroe Macbeth si annienta nel suo stesso progetto, vaticinato dalle streghe, di ottenere il trono di Scozia. La situazione Macbeth è sempre sprogettata e deviata. Deviata è anche la complicità – retta sul piano visivo da un raccordo sulla direzione dello sguardo in un campo-controcampo – tra Macbeth e la sua Lady donna-ragazzo in uno spostamento dal piano del crimine (l’assassinio di Duncan) al piano dell’autoerotismo che discende per autoparodia (Romeo e Giulietta, Otello), dall’impossibilità dell’amplesso tra Macbeth e Lady Macbeth. Quest’ultima sposta il proprio “dire” circa l’esitazione e i dubbi di Macbeth riguardo al progetto di assassinare il re Duncan (ospite per quella notte a Inverness), appunto dal piano del delitto al piano dell’amplesso impossibile. In ascolto Macbeth-Bene, in piedi accanto alla porta di un armadio prima di rifugiarvisi dentro, le lancia uno sguardo di distaccato e ironico disappunto. Il tutto (delitto e autoerotismo) è – attraverso il crescendo delle loro voci – presto «Fatto!» sia da dentro l’armadio in cui Macbeth si è rinchiuso, sia dal “fuori” in cui sta Lady Macbeth (Macbeth, libretto e versione da William Shakespeare di Bene, Mov./5; Macbeth, II, II). Segue ciò che nel libretto è nel Mov./12 («damned spot», Macbeth, V, I): Macbeth e Lady Macbeth, in campo lungo ai lati opposti del letto, vi prendono lenzuola che successivamente tendono in uno “schermo” dapprima bianco, poi macchiato al centro di rosso-sangue. Come in un sorta di “passo uno” le lenzuola sono “fotogrammi” che fanno apparire-crescere e decrescere-sparire la macchia di sangue; a ogni cambio corrisponde uno stacco, in mezzo primo piano, alternativamente su l’uno o sull’altra nel gesto di gettare via il lenzuolo dentro gli armadi aperti e poi nuovamente totale in campo lungo. La macchia rosso-sangue appare e scompare già nell’incipit quando «Dalla quiete universa dei non morti una volta per tutte, Duncan-corpo storico (…) si lascia titillare un bel mattino da un chicchirichì. E, sciagurato, baratta la sua mummia sovrana-estatica col primo gesto insensato che gli accade. Scioglie, incauto, le bende del suo immoto alla balìa dell’“agire-patire” che lo precipita in Macbeth (la sua stessa morte, per cominciare) che, attore demenziale, ne prosegue la vita, e nella vita è bello e coniugato a degno amore (degno amor di teatro): la sua donna-ragazzo-Lady Macbeth» (cit. C. Bene, Sono apparso alla Madonna, 1983, p. 206). Seduto al centro del letto nella situazione di Duncan, Bene, vestito di bianco, ha il capo fasciato inclinato su una spalla. Si ode un temporale: Bene alza il braccio sinistro per portarlo sopra la testa (stacco su tale gesto). Poi inizia a togliersi la fasciatura che rivela sotto il primo “giro”, al centro della fronte, un’enorme macchia rosso-sangue ma senza ferita. Il volto è calcinato, gli occhi e la bocca spalancati e contratti. In campo lungo allontana da sé le bende appena tolte e si accinge ora a togliere quelle del braccio sinistro. Stacco, dettaglio sulla benda e sulla mano che prende lentamente a svolgerle, tra arresti e frazioni di movimento: a ogni “giro” appare una macchia rossosangue sempre più grande che poi decresce sino a sparire: la benda è nuovamente bianca. Reframing sulla benda. Ripresa del campo lungo: Bene la getta via mentre si ode fuori campo il canto di un gallo. Quindi Bene in asincrono da “rumorista”, per divertissement, fa il verso ai suoni che provengono dal fuori campo, proiezioni sonore addomesticate del bestiario delle streghe e del temporale.
Rispetto a Otello e a Hommelette for Hamlet, la recuperata motricità, il movimento del corpo attoriale presenta il carattere di «un giretto» sulla scena teatrale. Il corpo insegue estasiato (“fuori di sé”) gli automatismi dei propri gesti, disattesi dalle risonanze che gli arrivano attraverso la strumentazione fonica amplificata. Gesti sempre “fuori modo”, palesemente incongruenti rispetto alla “situazione”, esercizi di parodia attoriale: dal grande attore, al gigionismo dell’attore d’avanspettacolo, al canto da tenore in certi passaggi musicali verdiani. La macchina attoriale CB lascia in immagine il corpo solo come automatismo. La voce live o in play-back (ostentazione del sincrono o dell’asincrono) disdice il corpo. E quando la voce, totalmente in asincrono, precede e manca il corpo, il corpo da parte sua se ne infischia della propria dissociazione, del proprio ritardo sulla propria voce, non tenta più di recuperare il “fuori tempo” (articolando le parole «come un pesce in un acquario») perché non può – né vuole – stare più in sintonia. L’attorialità automatica «del corpo fisiologicamente inteso» usa quale organo transitorio e temporaneo la voce. La voce della macchina attoriale CB è anche il “rumorista” della scatola acustica del set. Rumorista che non è «immerso nel buio di una sala di doppiaggio» e nemmeno si trova come Contini nel Lorenzaccio «di spalle all’immagine». (In Lorenzaccio Contini aveva il compito di raffigurare la Storia e si trovava ad agire in quella che nel teatro all’italiana è la fossa dell’orchestra, stipata di microfoni e strumenti e attrezzi vari da “rumorista cinematografico”. Sul palcoscenico, totalmente insonoro, Lorenzaccio-Bene giocava a star dietro ai rumori, ai suoni, alle voci fuori campo…). Anzi il rumorista è esso stesso immagine oltre che dispositivo di immagini acustiche, poiché «quando il corpo visibile affronta, come un lottatore, le potenze dell’invisibile, non può attribuirgli altra visibilità che la propria». Ciò accade ad esempio quando il bianco calcinato del volto di Bene, attraverso improvvise staticità, si oggettiva in deformazioni “espressive”: una bocca spalancata in un grido che non grida, ma che «crea la sonorità del grido» (sensazione visivo-auditiva). Questo accade nei rituali dell’autospavento o dell’orrore («I have supp’d full with horrors: / Direness, familiar to my slaughterous thoughts, / Cannot once start me», Macbeth, V, IV). Durante il Mov./11, Macbeth-Bene assembla una corazza vuota per «figurarsi uno spettro di paura», più per l’autospavento che per l’imminente battaglia («la foresta di Birnam a Dunsinane», Macbeth, V, III). La “costruzione” della corazza è mostrata in una serie di dettagli successivi e rumori amplificati, in alternanza ai primi piani di Bene. Terminata l’operazione, Macbeth-Bene immediatamente se ne allontana spostandosi sulla diagonale – da uno zoom in avanti – e accasciandosi altrove, la guarda (falsa soggettiva); stacco sul guscio vuoto della corazza e stacco sul volto calcinato di Bene in primissimo piano: la bocca è contratta in un grido immobile che l’attraversa, come una forza invisibile che si fa “visibile” in un sibilo e la cui risonanza giunge dalla strumentazione fonica amplificata. Il video (a cui è stato sottratta la parte finale del Mov./13 del libretto «… Tu vieni Annientamento Incomincio / a essere stanco / del sole») termina con l’impiantito schiodato, sollevato e scaraventato nell’aria in un’energia residua del corpo prima che Bene si sieda cancellandosi il volto con una stoffa bianca, «prima di rassegnarsi all’inorganico». Macbeth Horror Suite non segna propriamente la scissione della visione dall’ascolto, ma in quanto autoascolto (sia esso eco o play-back), in quanto “risonanza” che giunge prima del suono, è l’ascoltarsi ascoltare che – come già il vedersi vedere – porta a implosione sia la visione sia il suono eccedendo e differendo il linguaggio (audiovisivo) “senza concetto”. Se come sostiene Deleuze «ogni immagine comporta, in principio, elementi visivi ed elementi sonori» è evidente come nell’opera teatrale e in quella cinematografica Bene ha trattato contemporaneamente questi due elementi. Nell’opera video più recente (in particolare in Voce dei Canti) l’interferenza fra “immagine visiva” e “immagine sonora” si trasforma per contaminazione in “videofonia” (dal play-back che determina l’esteriorità-estraneità della voce propria, alla strumentazione fonica amplificata gestita dall’elaboratore elettronico, che automaticamente “disappropia le voci, i suoni… ”). Con Hommelette for Hamlet e Macbeth Horror Suite la rarefazione dell’immagine elettronica si fa assoluta: a tratti si trasforma in “suono” (“immagine traslata in suono”) o estrae da se stessa il sonoro (“estrarre il sonoro dal visivo” scrive Deleuze), a tratti entra in un cortocircuito idiosincratico con il sonoro; a volte “l’immagine visiva” e “l’immagine sonora” sono “autonome”, e, a volte, ancora, divengono “ascolto visto” e “immagine udita”. Con Manfred, Adelchi e soprattutto Voce dei Canti è “l’elemento sonoro preso in se stesso” a forgiarsi “come una punta che trascina tutta l’immagine”: l’immagine diviene cieca. E una tale immagine richiede, davvero, solo l’ascolto. Dopo Manfred, come sostiene Deleuze, non è più «la voce che si mette a bisbigliare, o a
gridare, o a martellare (…), ma il bisbiglio stesso diventa una voce, il grido diventa una voce, mentre al contempo le emozioni corrispondenti (affetti) divengono modi vocali (…). È l’invenzione d’una voce modalizzata, o piuttosto filtrata. (…) Si tratta al contempo di fissare, creare o modificare il colore di base di un suono (o di un sistema di suoni), e di farlo variare o evolvere nel tempo, di cambiarne la curva fisiologica. Carmelo Bene rinnova con questo lavoro tutte le ricerche sulle sottrazioni e addizioni vocali che lo mettono sempre più in rapporto con le potenze del sintetizzatore». Con Pinocchio ovvero lo spettacolo della provvidenza (1999) l’autorialità della “macchina attoriale CB” si dispiega nella sottrazione totale della voce-live; le voci amplificate sono continuamente rilanciate dalla strumentazione fonica e modulate in play-back. Le voci di Bene – quelle di Geppetto, di mastro Ciliegia, del Grillo, di Mangiafuoco, della volpe e di Lucignolo – assumono il corpo mutante (che a sua volta assume e dismette le corrispondenti maschere e costumi) della “bambina-bambola meccanica” dai capelli turchini (Sonia Bergamasco, fot. 56). Bene in scena fa il verso alla voce disappropriata di Pinocchio e come annunciato in Macbeth Horror Suite, la sottrazione si fa estrema, crudele: il corpo in immagine sarcastico si prende gioco della “voce”.
FOT. 56
CINEMA COREGIE 1968 | A proposito di “Arden of Feversham” Regia: CB e Salvatore Siniscalchi; fotografia (35mm): Giulio Albònico; produzione: Nexus Film; durata: di 20’ circa. Invisibile (presso la Cineteca Nazionale è stato individuato il negativo privo di colonna sonora). REGIE 1968 | Hermitage Scritto diretto e interpretato da: CB; fotografia (35mm): Giulio Albònico; montaggio: Pino Giomini; musica: Vittorio Gelmetti; interpreti: CB, Lydia Mancinelli; produzione: Nexus Film; durata: 25’. 1968 | Il barocco leccese Regia: CB; fotografia (16 mm): Mario Masini; montaggio e sincronizzazione: presso LA MICROSTAMPA; durata: 6’. 1970 | Ventriloquio Regia: CB; montaggio: Mauro Contini; girato in 16mm presso gli studi Rai di via Teulada; interpreti: CB, Lydia Mancinelli; produzione: Rai; durata: 17’. Invisibile. 1968 | Nostra Signora dei Turchi Regia: CB; fotografia (Ektachrome, 16mm, gonfiato a 35mm): Mario Masini; effetti speciali: Renato Marinelli; montaggio: Mauro Contini; musica coordinata da CB: Pëtr Il’ič Čajkovskij (Capriccio italiano), Gaetano Donizetti (Lucia di Lammermoor), Modest Musorgskij (Una notte sul Monte Calvo e Quadri di un’esposizione), Charles Gounod (Faust), Giacomo Puccini (Manon Lescaut e La fanciulla del West), Sergej Rachmaninov (Concerto n. 2 per pf. e orch.), Gioachino Rossini (La Gazza ladra), Igor Fëdorovic Stravinskij (Pétrouchka), Giuseppe Verdi (Un ballo in maschera e La Traviata). Citazione dei temi di Lawrence d’Arabia di Maurice Jarre e di Il terzo uomo di Anton Karas; interpreti: CB, Lydia Mancinelli (Santa Margherita), Ornella Ferrari (la serva-bambina), Anita Masini (la Madonna e il primo amore), Salvatore Siniscalchi (l’editore), Vincenzo Musso; produzione: C. Bene; distribuzione: IFC; durata: 124’. 1969 | Capricci Regia: CB; fotografia (Ektachrome, 16mm, gonfiato a 35mm): Maurizio Centini; montaggio: Mauro Contini; musica coordinata da CB: Pëtr Il’ič Čajkovskij (Capriccio italiano), Giacomo Puccini (La Bohème), Giuseppe Verdi (Macbeth, La Traviata); interpreti: CB (il poeta), Anne Wiazemsky (la puttana), Tonino Caputo (Clarke, il pittore), Giovanni Davoli (Arden), Ornella Ferrari (Alice), Giancarlo Fusco (sicario), Poldo Bendandi (sicario), Francesco Gulà (Mosbie), Manlio Nevastri (Franklin), Piero Vida (il poliziotto), Michèle Lagneau; produzione: BBB (Barcelloni, Bene, Brunet); durata: 95’. 1971 | Don Giovanni Regia: CB; scenografia: Salvatore Vendittelli; fotografia (16mm, gonfiato a 35mm): Mario Masini; montaggio: Mauro Contini; operatore: Antonio Nardi; musica coordinata da CB: Georges Bizet (Carmen), Gaetano Donizetti (Don Pasquale), Wolfgang Amadeus Mozart (Don Giovanni), Modest Musorgksij (Quadri di un’esposizione), Sergej Sergeevic Prokof’ev (Aleksandr Nevskij), Giuseppe Verdi (Simon Boccanegra); interpreti: CB (Don Giovanni), Lydia Mancinelli (l’amante di Don Giovanni e la madre della bambina), Vittorio Bodini (il padre della bambina e il “confessore”), Gea Marotta (la bambina); la voce over è di J. Francis Lane; produzione: C. Bene; durata: 70’.
1972 | Salomè Regia: CB; scene e dialoghi: CB; fotografia (Super16, gonfiato a 35mm): Mario Masini; operatore: Silvano Tessicini; montaggio: Mauro Contini; musica coordinata da CB: Johannes Brahms (Ein Deutsches Requiem), Franz Peter Schubert (Sinfonia n. 8, “Incompiuta”), Jean Sibelius (Valse Triste), Richard Strauss (Danza dei sette veli); interpreti: CB (Onorio ed Erode Antipa), Lydia Mancinelli e Alfiero Vincenti (Erodiade), Donyale Luna (Salomè), Veruschka (Myrrhina), Piero Vida (il capitano siriaco), Franco Leo (Cristo-Vampiro), Giovanni Davoli (Iokanaan), Tom Galieés, Ornella Ferrari, Luciana Cante; int. spec.: Gino Marotta; effetti di laboratorio per edizione L.V.: Luciano Vittori; produzione: C. Bene; durata: 80’. 1973 | Un Amleto di meno Regia: CB; scene, costumi: CB; fotografia (Techniscope, Technicolor, 35mm): Mario Masini; montaggio: Mauro Contini; musiche coordinate da CB: Modest Musorgksij (Quadri di un’esposizione), Gioachino Rossini (Ouvertures: “La gazza ladra”, “Il turco in Italia”, “L’italiana in Algeri”), Igor Fëdorovic Stravinskij (L’histoire du soldat), Richard Wagner (Tannhäuser); interpreti: CB (Amleto), Lydia Mancinelli (Kate), Alfiero Vincenti (Claudio), Pippo Tuminelli (Polonio), Franco Leo (Orazio), Luciana Cante (Gertrude), Isabella Russo (Ofelia), Luigi Mezzanotte (Laerte), Sergio Di Giulio (William); produzione: C. Bene; durata: 70’. PARTECIPAZIONI 1965 | Un’ora prima di Amleto, più Pinocchio di Paolo Brunatto (cortometraggio). 1965 | Bis di Paolo Brunatto (cortometraggio). 1967 | Edipo re di Pier Paolo Pasolini. 1967 | Lo scatenato di Franco Indovina. 1969 | Umano non umano di Mario Schifano. 1969-1970 | Colpo rovente di Piero Zuffi. 1970 | Necropolis di Franco Bròcani. 1970 | Tre nel mille di Franco Indovina, sceneggiato da Tonino Guerra e da Luigi Malerba, 1970 (viene trasmesso in sei puntate dalla Rai, con il titolo Storie dell’anno mille, nel gennaiofebbraio 1973). 1975 | Claro di Glauber Rocha. TELEVISIONE 1974 | Bene! Quattro modi di morire in versi: Majakovskij-Blok-EsèninPasternak Adattatamento testi: CB e Roberto Lerici; traduzioni: Ignazio Ambrogio, Bruno Carnevali, Renato Poggioli, Angelo Maria Ripellino; scene: Mario Fiorespino;
fotografia (video): Giorgio Abballe; musiche: Vittorio Gelmetti; voce solista: CB; assistente alla regia: Claudia Tempestini; mixer video: Antonio Lepone; operatori RVM: Mario Nicoletti, Ennio Piccirilli; produzione: Rai; durata: 1h20’’; trasmesso in due parti il 27 e 28/10/1977, Rai 2. 1974 | Amleto di Carmelo Bene (da Shakespeare a Laforgue) Scene, costumi: CB; fotografia (video, b/n): Giorgio Abballe; montaggio RVM: Gaetano Marguccio; musiche: Luigi Zito; interpreti: CB (Amleto), Alfiero Vincenti (Claudio), Jean Paul Boucher (Fortebraccio), Franco Leo (Orazio), Paolo Baroni (Polonio), Luigi Mezzanotte (Laerte), Daniela Silverio (Rosencrantz), Susanna Javicoli (Guildenstern), Luca Bosisio (primo attore in Elsinore), M. Agnes Nobencourt (Gertrude), Laura Morante (Ofelia), Lydia Mancinelli (Kate), Cosimo Cinieri (capo comico in Elsinore); delegato alla produzione: Roberta Carlotto; produzione: Rai; durata: 63’; trasmesso il 22/4/1978, Rai 2. 1977 | Riccardo III (da Shakespeare) secondo Carmelo Bene Scene e costumi: CB; fotografia (video): Giorgio Abballe; montaggio RVM: Silvano Spiti; musiche: Luigi Zito; interpreti: CB (il duca di Gloucester poi Riccardo III), Lydia Mancinelli (la duchessa di York, madre di Riccardo, di Clarenza e di Edoardo IV), Maria Grazia Grassini (Elisabetta, regina e moglie di Edoardo IV), Daniela Silverio (Margherita, ex regina, vedova di Edoardo VI), Susanna Javicoli (Lady Anna Warwick), Laura Morante (una cameriera che Riccardo chiama Buckingham), Licia Dotti (madama Shore amante prima di Edoardo IV e poi di Hastings); assitente alla regia: Anna Maria Angeli; tecnico audio: Bruno Severo; mixer video: Giovanni Casalinuovi; elaborazione elettronica per il colore: Giorgio Virgili; delegato al programma: Roberta Carlotto; produzione: Rai; durata: 76’; trasmesso il 7/12/1981, Rai 2. 1979 | Riprese. Otello di William Shakespeare secondo Carmelo Bene Scene, luci, costumi: CB; interpreti: CB, Cosimo Cinieri (Jago), Michela Martini (Desdemona), Cesare dell’Aguzzo (Cassio, Brabanzio, Lodovico), Rossella Bolmida (Emilia-Bianca), Beatrice Giorgi (Roderigo); delegato della produzione: Bruno Gambarotta; a cura di Roberta Carlotto; girato, in 2 pollici, presso gli studi Rai di Torino, è stato montato nel 2001 a cura di Rai Educational. 1979 | Manfred, versione per concerto in forma d’oratorio Da George Gordon Byron e Robert Schumann; fotografia (video): Giorgio Abballe; aiuto regista: Marilena Fogliatti; montaggio RVM: Francesco Biccari; elaborazione elettronica per il colore: Marcello Taruffi; direttore di scena: Mauro Contini; mixer video: Mauro Agrestini, Sergio Di Paolis; mixage: Alfonso Bianchi; voci soliste: CB, Lydia Mancinelli (Astarte); Orchestra e coro comunale di Bologna; direttore d’orchestra: Piero Bellugi; maestro del coro: Leone Magiera; soprano: Anna Tammaro; contralto: Sofia Mukhametova; tenore: Dino Di Domenico; bassi: Flavio Tasin, Bernardo Ferracchiato, Antonio Picciau, Armenio Santi. Registrazione in esterni, realizzazione e produzione: Rai; coordinamento per l’edizione: Laura Stefanucci; trasmesso il 12/9/1983, Rai 2. 1984 | L’Adelchi di Alessandro Manzoni in forma di concerto Da uno studio di CB e Giuseppe Di Leva L’Adelchi o la volgarità della politica; musiche: Gaetano Giani Luporini; voci soliste: CB, Anna Perino (Ermengarda); ripresa della versione teatrale al Teatro Lirico di Milano (1984); regia televisiva: Carlo Battistoni; trasmesso il 9/9/1985, Rai 2. 1987 | Carmelo Bene e i Canti di Giacomo Leopardi Ripresa in diretta da Villa Leopardi a Recanati; regia: Franza de Rosa; voce solista: CB; trasmesso il 12/9/1987, Rai 3.
1987 | Hommelette for Hamlet, operetta inqualificabile (da J. Laforgue) Scene e costumi: Gino Marotta; fotografia (video): Giorgio Abballe; musiche originali adattate e dirette da: Luigi Zito; protesi scultoree: Giovanni Gianese; direttore di scena: Mauro Contini; fonico mixer: Sante Santori; fonico recordista: Maurizio Corazzini; interpreti: CB, Ugo Trama (il Re), Marina Polla de Luca (Kate), Achille Brugnini (Orazio), Stefania De Santis (la Beata Ludovica Albertoni), Vladimiro Waiman (Will), gli Angeli: Osvaldo Cattaneo, Walter Esposito, Franco Felice, Luciano Fiaschi, Davide Riboli, Andrea Zuccolo; produzione: Nostra Signora S.r.l. - Rai; durata: 62’; trasmesso il 25/11/1990, Rai 3. 1996 | Macbeth Horror Suite di Carmelo Bene da William Shakespeare Montaggio: Pietro Centomani; musica da: Giuseppe Verdi; voci soliste: CB e Silvia Pasello (Lady Macbeth); impianto scenico: Tiziano Fario; datore luci spettacolo: Davide Ronchieri; costumi: Luisa Viglietti; montaggio audio: Enzo Savinelli; per la ripresa televisiva consulente musicale: Massimo Verone; tecnico video: Pino Murolo; tecnico audio: Salvatore Laureto; mixer video: Claudio Ciampa; collaborazione alla regia: Margherita Lamagna; ottimizzazione: Antonio Loreto; direttore di produzione: Giovanni Pagano; produzione: Rai e Nostra Signora S.r.l; realizzazione nel Centro di Produzione TV di Napoli; durata: 60’; trasmesso il 5/4/1997, Rai 2. 1998 | Carmelo Bene e voce dei Canti Dai Canti di Giacomo Leopardi; musica: Gaetano Giani Luporini; voce solista: CB; con: Sonia Bergamasco al pianoforte; tecnici del suono: Daniele D’Angelo, Andrea Macchia; montaggio: Mauro Contini; audio studio: Andrea Macchia; direzione di studio: Tiziano Fario; luci: Davide Ronchieri; controllo camere: Edmondo Pisani; produzione: Rai in collaborazione con Nostra Signora S.r.l. e l’Assessorato alla cultura di Roma. Trasmesso in sette puntate di circa 30’ dal giugno al luglio 1998 da Rai 2. 1999 | Pinocchio ovvero lo spettacolo della provvidenza Riduzione e adattamento da Carlo Collodi di CB. Regia teatrale e televisiva, scene, maschere e costumi: CB; direttore della fotografia (video): Gianni Caporali; montaggio: Fabio Loli; musiche di scena: Gaetano Giani Luporini; “voci” soliste: CB, Sonia Bergamasco; luci spettacolo: Davide Ronchieri; fonico: Andrea Macchia; realizzazione scene e maschere: Tiziano Fario; realizzazione costumi: Luisa Viglietti; aiuto regia: Margherita Lamagna; postproduzione audio: Claudio Bocci; postproduzione in Edit Box: Caterina Bonavita; direttore di produzione: Giorgio De Vizio; produzione: Rai in collaborazione con Nostra Signora S.r.l; durata: 75’; trasmesso il 29/5/1999, Rai 2. 2001 | Montaggio. Otello di William Shakespeare secondo Carmelo Bene Scene, luci, costumi: CB; interpreti: CB, Cosimo Cinieri (Jago), Michela Martini (Desdemona), Cesare dell’Aguzzo (Cassio, Brabanzio, Lodovico), Rossella Bolmida (Emilia-Bianca), Beatrice Giorgi (Roderigo); capo progetto: Marco Dedola; a cura di Laura Torre; montaggio: Giorgio Gianoglio; regia al montaggio: Marilena Fogliatti. Rai Educational. TEATRO 1959 | Caligola di Albert Camus (I ed.), vers. it. di CB e Alberto Ruggiero. Regia: Alberto Ruggiero; scene e costumi: Titus Vossberg; interpreti principali: CB, Antonio Salines, Flavia Milanta. Roma, Teatro delle Arti. 1960 | Spettacolo-concerto Majakovskij (I ed.). Testo e regia: CB; musiche live: Sylvano Bussotti; protagonista solista: CB. Bologna, Teatro alla Ribalta.
1961 | Caligola di Albert Camus (II ed.). Regia: CB; scene: Giancarlo Bignardi; interprete principale: CB. Genova, Teatro Politeama. 1961 | Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde da Robert Lewis Stevenson, due atti di CB. Regia: CB; scene: Giancarlo Bignardi; interprete principale: CB. Genova, Teatro la Borsa di Arlecchino. 1961 | Tre atti unici di Marcello Barlocco. Regia: CB; interprete principale: CB. Genova, Teatro Duse. 1961 | Gregorio: Cabaret dell’800 di CB. Regia: CB; scene: Salvatore Venditelli; interpreti: CB, Rosa Bianca Scerrino, Nino Casale, Manlio Nevastri, Paola Faloja. Roma, Teatro Ridotto dell’Eliseo. 1961 | Pinocchio da Carlo Collodi (I ed.). Adattamento scenico, regia, scene e costumi: CB; interpreti principali: CB, Rosa Bianca Scerrino, Gino Lavagetto. Roma, Teatro Laboratorio. 1961 | Amleto da William Shakespeare (I ed.). Regia, scene e costumi: CB; interpreti: CB, Rosa Bianca Scerrino, Corrado Sonni, Luigi Mezzanotte. Roma, Teatro Laboratorio. 1962 | Spettacolo-concerto Majakovskij (II ed.). Regia: CB; musiche live: Amelia Rosselli; protagonista solista: CB. Roma, Teatro Laboratorio. 1962 | Spettacolo-concerto Majakovskij (III ed.). Regia: CB; musiche live: Giuseppe Lenti; protagonista solista: CB. Roma, Teatro Laboratorio. 1963 | Addio porco (II ed. riv. di Gregorio: cabaret dell’800). Testo e regia: CB; interpreti principali: CB, Rosa Bianca Scerrino, Luigi Mezzanotte. Roma, Teatro Laboratorio. 1963 | Cristo ’63 di CB. Regia: CB; interpreti principali: CB, Alberto Greco. Roma, Teatro Laboratorio. 1963 | Edoardo II da Christopher Marlowe. Regia, scene e costumi: CB; interpreti principali: CB, Luigi Mezzanotte, Michele Francis, Helen Cameron, Giacomo Ricci. Roma, Teatro Arlecchino. 1963 | I polacchi (Ubu Roi) di Alfred Jarry. Regia e costumi: CB; interpreti principali: CB, Luigi Mezzanotte, Edoardo Torricella, Alfiero Vincenti. Roma, Teatro dei Satiri. 1964 | Salomè di e da Oscar Wilde. Regia: CB; scene: Salvatore Venditelli; costumi: CB; interpreti principali: CB, Rosa Bianca Scerrino, Alfiero Vincenti, Franco Citti. Roma, Teatro delle Muse. 1964 | La storia di Swaney Bean
di Roberto Lerici. Regia, scene e costumi: CB; interpreti principali: CB, Lydia Mancinelli, Luigi Mezzanotte. Roma, Teatro delle Arti. 1964 | Manon dal romanzo dell’abate Prévost. Regia, scene e costumi: CB; interpreti principali: Alfiero Vincenti, Rosa Bianca Scerrino, Lydia Mancinelli. Roma, Teatro Arlecchino. 1966 | Faust o Margherita di CB e Franco Cuomo. Regia: CB; scene: Salvatore Vendittelli; costumi: CB; interpreti principali: CB, Lydia Mancinelli, Mario Tempesta, Piero Vida, Angela Angelucci, Manuela Kustermann, Valeria Nardone, Rosaria Vadacea. Roma, Teatro dei Satiri. 1966 | Pinocchio ’66 da Carlo Collodi (II ed.). Regia: CB; interprete principale: CB. Roma, Teatro Centrale. 1966 | Il rosa e il nero, invenzione da “Il monaco” di M.G. Lewis Adattamento e regia: CB; scene: Salvatore Vendittelli; costumi: CB; musiche: Sylvano Bussotti e Vittorio Gelmetti; interpreti principali: CB, Maria Monti, Lydia Mancinelli, Silvano Spadaccino, Ornella Ferrari, Max Spaccialbelli. Roma, Teatro delle Muse. 1966 | Nostra Signora dei Turchi di CB (I ed.). Regia: CB; interpreti principali: CB, Lydia Mancinelli, Margherita Puratich. Roma, Teatro Beat 72. 1967 | Amleto o le conseguenze della pietà filiale da William Shakespeare e Jules Laforgue (II ed.). Regia: CB; interpreti: CB, Adriano Bocchetta, Pietro Napolitano, Pino Prete, Andrea Moroni, Luigi Mezzanotte, Edoardo Florio, Carla Tatò, Lydia Mancinelli, Margherita Puratich, Manlio Nevastri. Roma, Teatro Beat 72. 1967 | Salvatore Giuliano, vita di una rosa rossa di Nino Massari. Regia: CB; interpreti: Lydia Mancinelli, Luigi Mezzanotte, Carla Tatò. Roma, Teatro Beat 72. 1968 | Arden of Feversham di anonimo elisabettiano. Rielaborazione: CB e Salvatore Siniscalchi; regia: CB; interpreti: CB, Giovanni Davoli, Manlio Nevastri, Lydia Mancinelli, Franco Gulà, Ninetto Davoli, Alfiero Vincenti. Roma, Teatro Carmelo Bene. 1968 | Spettacolo-concerto Majakovskij (IV ed.). Regia: CB; musiche live: Vittorio Gelmetti; protagonista solista: CB. Roma, Teatro Carmelo Bene. 1968 | Don Chisciotte di Miguel de Cervantes Saavedra, a cura di CB e Leo de Bernardinis. Interpreti: CB, Lydia Mancinelli, Leo de Bernardinis, Perla Peragallo, Clara Colosimo, Gustavo d’Arpe, Claudio Orsi, Roma, Teatro delle Arti. 1973 | Nostra Signora dei Turchi (II ed.), di CB. Regia: CB; scene: Gino Marotta; interpreti: CB, Imelde Marani, Isabella Russo, Alfiero Vincenti, Bruno Baratti, Franco Lombardo, Gerardo Scala. Roma, Teatro delle Arti. 1974 | La cena delle beffe
da Sam Benelli secondo CB (I ed.). Regia, scene e costumi: CB; musiche: Vittorio Gelmetti; Compagnia del Teatro Stabile dell’Aquila; interpreti: CB, Luigi Proietti, Lydia Mancinelli, Massimo Fedele, Alessandro Haber, Franco Leo, Alessandro B. Dakar, Roberto Lattanzio, Carlo Colombo, Roberto Caporali, Simona Ranieri, Isabella Russo, Carla Cassola, Stefania Nelli. Firenze, Teatro la Pergola. 1974 | S.A.D.E. Ovvero libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della gendarmeria salentina di CB. Regia: CB; scene e costumi: Giancarlo Bignardi; musiche: Sante Maria Romitelli; interpreti: CB, Cosimo Cinieri, Lydia Mancinelli, Luciana Cante, Francesco De Rosa, Massimo Fedele, Stefania Nelli, Giuseppe Castronuovo, Franco Cosolito, Walter Francesconi, Vincenzo Iadicicco, Isabella Russo, Giorgio Tieghi, Alfiero Vincenti, Vladimiro Waiman; direttore d’orchestra: Luigi Zito. Milano, Teatro Manzoni. 1974 | Amleto di CB (da Shakespeare e Laforgue) (III ed.). Regia, scene e costumi: CB; interpreti: CB, Alfiero Vincenti, Luigi Mezzanotte, Lydia Mancinelli, Franco Leo, Paolo Baroni, Benedetta Buccellato, M. Novella De Cristofano, Massimo Fedele, M. Agnes Nobencourt, M. Luisa Serena, Marina Tagliaferri, Vera Venturini. Prato, Teatro Metastasio. 1976 | Faust-Marlowe-Burlesque di Aldo Trionfo e Lorenzo Salveti. Regia: Aldo Trionfo; protagonista: CB; scene: Emanuele Luzzati, costumi: Giorgio Panni; interpreti: CB e Franco Branciaroli. Prato, Teatro Metastasio. 1976 | Romeo & Giulietta (storia di W. Shakespeare) secondo CB. Collaboratori al testo e alla traduzione italiana: Roberto Lerici e Franco Cuomo; regia, scene e costumi: CB; musiche originali: Luigi Zito; colonna sonora: CB; maestro d’armi: Enzo Musumeci Greco; interpreti: CB, Luigi Mezzanotte, Lydia Mancinelli, Edoardo Florio, Franco Branciaroli, Paolo Baroni, Mariano Brancaccio, Alfiero Vincenti, Mauro Bronchi, Luca Bosisio, Roberta Lerici, Barbara Lerici, Laura D’Angelo. Prato, Teatro Metastasio. 1977 | Riccardo III (da Shakespeare) secondo Carmelo Bene Regia, scene e costumi: CB; musiche originali: Luigi Zito; colonna sonora: CB; interpreti: CB, Lydia Mancinelli, Maria Grazia Grassini, Daniela Silverio, Susanna Javicoli, Laura Morante, Maria Boccuni. Cesena, Teatro Bonci. 1979 | Otello (da Shakespeare) secondo Carmelo Bene (I ed.). Collaborazione al testo: Cosimo Cinieri; regia, scene e costumi: CB; musiche: Luigi Zito; interpreti: CB, Cosimo Cinieri, Luca Bosisio, Jean Paul Boucher, Cesare Dell’Aguzzo, Licia Dotti, Susanna Javicoli, Michela Martini. Roma, Teatro Quirino. 1979 | Manfred poema drammatico di George Gordon Byron. Versione italiana e riduzione: CB; musiche da: Robert Schumann; regia: CB; protagonisti: CB, Lydia Mancinelli; orchestra e coro dell’Accademia di Santa Cecilia diretta da Piero Bellugi. Roma, Auditorium di Via della Conciliazione e al Teatro alla Scala di Milano. 1980 | Spettacolo-concerto Majakovskij (Majakovskij-Blok-EsèninPasternak) (V ed.). Regia: CB; musiche: Gaetano Giani Luporini; percussioni live: Antonio Striano; protagonista solista: CB. Perugia, Teatro Morlacchi.
1980 | Hyperion di Bruno Maderna, suite dell’opera (da Friedrich Hölderlin) per flauto, oboe, voce recitante, coro e orchestra. Traduzione italiana e adattamento: CB; orchestra e coro dell’Accademia di Santa Cecilia diretta da Marcello Panni; solisti: Angelo Persichilli (flauto), Augusto Loppi (oboe); voce solista: CB. Roma, Auditorium di Via della Conciliazione. 1981 | Divina Commedia. “Lectura Dantis” per voce solista Musiche introduttive: Salvatore Sciarrino; flauto solista: David Bellugi; voce solista: CB. Bologna, Torre degli Asinelli. 1981 | Lectura Dantis; Eduardo recita Eduardo recital di CB e Eduardo De Filippo. Roma, Palaeur. 1981 | Pinocchio (storia di un burattino) da Carlo Collodi (III ed.). Regia, scene e costumi: CB; musiche: Gaetano Giani Luporini; direttore di scena: Mauro Contini; strumentazione fonica: Salvatore Maenza; maschere: Giovanni Gianese; protagonista: CB (con la partecipazione di Lydia Mancinelli e dei Fratelli Mascherra). Pisa, Teatro Verdi. 1982 | Canti orfici poesia e musica (per Dino Campana), voce solista: CB; chitarra solista: Flavio Cucchi. Milano, Palazzo dello Sport. 1983 | Macbeth due tempi di CB da Shakespeare (I ed.). Regia, scene e costumi: CB; musiche: Giuseppe Verdi; direzione di scena: Mauro Contini; strumentazione fonica: Salvatore Maenza; orchestrazione e direzione: Luigi Zito; interpreti: CB, Susanna Javicoli. Milano, Teatro Lirico. 1983 | Egmont (un ritratto di Goethe) Vers. it. ed elaborazione per concerto di CB. Musiche: Ludwig van Beethoven; orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia diretta dal maestro Gerd Albrecht; voci soliste: CB, Barbara Lerici. Roma, Piazza del Campidoglio, Accademia di Santa Cecilia (direttore d’orchestra: Rolf Reuter). 1983 | … Mi presero gli occhi… da Friedrich Höderlin e Giacomo Leopardi. Musiche: Gaetano Giani Luporini; voce solista: CB. Torino, Teatro Colosseo. 1984 | L’Adelchi di Alessandro Manzoni (in forma di concerto) Uno studio di CB e Giuseppe Di Leva. Regia: CB; musiche: Gaetano Giani Luporini; interpreti: CB, Anna Perino, Antonio Striano (percussioni). Milano, Teatro Lirico. 1985 | Otello di William Shakespeare secondo Carmelo Bene (II ed.). Regia, scene e costumi: CB; musiche: Luigi Zito; interpreti: CB, Cristiana Borgognoni, Valerio De Margheriti, Benedetta Fazzini, Isaac George, Filippo Mascherra, Anna Perino, Marina Polla de Luca. Pisa, Teatro Verdi. 1986 | Lorenzaccio, al di là di De Musset e Benedetto Varchi Testo e regia: CB; interpreti: CB, Isaac George, Mauro Contini. Firenze, Ridotto del Teatro Comunale. 1987 | Canti di Giacomo Leopardi (I ed.). Voce solista: CB. Recanati, Piazza Leopardi.
1987 | Hommelette for Hamlet, operetta inqualificabile (da J. Laforgue) (IV ed.). Regia: CB; scene e costumi: Gino Marotta; musiche originali adattate e dirette da: Luigi Zito; protesi scultoree: Giovanni Gianese; interpreti: CB, Ugo Trama, Marina Polla de Luca, Achille Brugnini, Stefania De Santis, Osvaldo Cattaneo, Walter Esposito, Franco Felici, Luciano Fiaschi, Davide Riboli, Andrea Zuccolo. Bari, Teatro Piccinni. 1989 | La cena delle beffe da Sam Benelli, secondo CB (II ed.). Regia: CB; musiche: Lorenzo Ferrero; interpreti: CB, David Zed, Raffaella Baracchi, Achille Brugnini, Stefania De Santis, Davide Riboli. Milano, Teatro Carcano. 1989 | Pentesilea la macchina attoriale-attorialità della macchina momento n.1 del progetto Achilleide, da Stazio, Kleist, Omero e post-omerica. Elaborazioni musicali elettroniche: CB; voci soliste: CB e Anna Perino. Milano, Castello Sforzesco. 1989-1990 | Pentesilea la macchina attoriale-attorialità della macchina mom. n. 2 del progetto Achilleide, da Stazio, Kleist, Omero e post-omerica. Voce solista: CB. Milano, Castello Sforzesco, Roma, Teatro Olimpico. 1994 | Hamlet Suite spettacolo-concerto da Jules Laforgue (V ed.). Collage di testi e musica: CB regia: CB; interpreti: CB, Monica Chiarabelli, Paula Boschi. Verona, XLVI Festival Shakespeariano, Teatro Romano. 1996 | Macbeth Horror Suite di CB da William Shakespeare (II ed.). Musica: Giuseppe Verdi; interpreti: CB, Silvia Pasello; impianto scenico: Tiziano Fario. Roma, Festival d’Autunno, Teatro Argentina. 1997 | Adelchi di A. Manzoni elaborazione in due tempi di CB (II ed.). Spettacolo in forma di concerto. Musiche: Gaetano Giani Luporini; interpreti: CB, Elisabetta Pozzi. Roma, Teatro Quirino. 1998 | Voce dei Canti spettacolo in forma di concerto (II ed.). Musiche: Gaetano Giani Luporini; voce solista: CB; con Sonia Bergamasco. Roma, Teatro Olimpico. 1998 |Pinocchio ovvero lo spettacolo della provvidenza (IV ed.). Riduzione e adattamento da Carlo Collodi di CB. Scene e maschere: Tiziano Fario; costumi: Luisa Viglietti; musiche: Gaetano Giani Luporini; voci playback: CB e Sonia Bergamasco. Roma, Festival d’Autunno, Teatro dell’Angelo. 1999 | Gabriele D’Annunzio: concerto d’autore (poesia da La figlia di Jorio) Riduzione e adattamento da Gabriele D’Annunzio di Carmelo Bene. Scena: Tiziano Fario; musiche di Gaetano Giani Luporini; organizzazione: Luisa Viglietti. Roma, Festival d’Autunno, Teatro dell’Angelo. 2000 | In-vulnerabilità d’Achille. Impossibile suite fra Ilio e Sciro Testi e versioni liriche di Carmelo Bene da Stazio, Omero e Kleist. Scena: Tiziano Fario; fonico: Andrea Macchia, Emanuele Carlucci; organizzazione: Luisa Viglietti. Roma, Festival d’Autunno, Teatro Argentina. RADIO (TITOLI PRINCIPALI)
1973 | Interviste impossibili, di G. Manganelli e G. Ceronetti; Marco Aurelio, di V. Sermonti; Cassio governa Cipro, di G. Manganelli. 1974 | Amleto, da W. Shakespeare; Pinocchio, da C. Collodi. 1975 | Salomè, da e di O. Wilde; Tamerlano il Grande, di C. Marlowe, protagonista CB, regia C. Quartucci. 1976 | Romeo e Giulietta, da W. Shakespeare, secondo CB. 1979 | Cuore, di E. De Amicis; Manfred, da Byron-Schuman.; Otello, da W. Shakespeare. 1983 | Egmont, da Goethe-Beethoven. 1984 | L’Adelchi, da A. Manzoni. SEMINARI E PROVE L’immagine come phonè. Seminario con CB. Videoregistrazione in tempo reale, al Teatro Argentina di Roma (il 18 e il 20/1/1984); riprese: M.Onorato e A.Muschietti; audio e video: S.Casaluci; con: CB, M.Grande, F.Marotti, G.Dotti e C.Cinieri; interventi di V.Gassman e di vari astanti. Produzione: Centro Teatro Ateneo, 3/4 BVU e 1/2’’; durata: 7 ore circa. (Centro Teatro Ateneo. Archivio dello spettacolo, Roma). Seminario (o più propriamente un “mancato” seminario) circa la Biennale/Teatro a “porte chiuse” del 1989 e la “macchina attoriale CB”. Registrazione presso la sede universitaria di S.Maria di Venezia, nel settembre 1989; con: CB, E.Fadini e M.Grande; produzione: Biennale di Venezia, U-MATIC, b/n; durata: 600’. (Archivio Storico delle Arti Contemporanee, La Biennale, Venezia). Macbeth di William Shakespeare. Videoregistrazione in tempo reale delle prove della versione teatrale del 1983, presso il Teatro Ateneo di Roma dal 22/10 al 23/11 1982; riprese: A.Muschietti; fonico: G.Cabiddu; tecnico video: S.Casaluci; con: CB e S.Javicoli; realizzazione e produzione: Centro Teatro Ateneo, 3/4’’ BVU e 1/2’’; durata: 35 ore circa. (Centro Teatro Ateneo. Archivio dello spettacolo, Roma). Macbeth di Carmelo Bene, programma video in due parti: “Concerto per attore solo” e “Le tecniche dell’assenza”.Progetto di F.Marotti a cura di M.Grande; riprese: A.Muschietti; fonico: G.Cabiddu; tecnico video: S.Casaluci; montaggio: A.Conforti; con CB e S.Javicoli; realizzazione e produzione: Centro Teatro Ateneo, 1’’, min., riversato in 3/4’’ BVU e 1/2’’; durata: 1 ora e 29; Roma, 1985. (Centro Teatro Ateneo. Archivio dello spettacolo, Roma). Si segnala inoltre, in ordine alla direzione di Carmelo Bene della sezione Teatro 1989-1990 de La Biennale di Venezia, la videoregistrazione del laboratorio sulla “Ricerca impossibile”: Il barbarico ovvero il gioco teatrale di là dal senso Tamerlano il grande - C.Marlowe-; con: A.L.Poulain e il gruppo Beaux Quartiers, H.Bennik, A.Ancona, A.Striano; montaggio: L.Rizza; regia televisiva: A.M.Bianchi; realizzazione: Promedia di Bologna; produzione: La Biennale di Venezia; VHS; Venezia, 1989. (Archivio Storico delle Arti Contemporanee, La Biennale, Venezia).
SCRITTI DI CARMELO BENE
Pinocchio Manon e Proposte per il teatro, Lerici, Milano, 1964. Nostra Signora dei Turchi, Sugar, Milano, 1966 (riedito, con introduzione di U. Volli, SugarCo, Milano, 1978). Con Pinocchio sullo schermo (e fuori), «Sipario», n. 244-245, 1966. Carmelo Bene e Salvatore Siniscalchi, Arden of Feversham, riproposto così da «Sipario», n. 259, Milano, novembre 1967. Credito Italiano V.E.R.D.I., Sugar, Milano, 1967. L’orecchio mancante, Feltrinelli, Milano, 1970. Salomè di Carmelo Bene (da e di O.Wilde), cartella informativa a cura dell’Ufficio Stampa dell’Italnoleggio Cinematografico, Roma, 1972. A boccaperta (contiene i testi: Giuseppe Desa da Copertino. A boccaperta, S.A.D.E, Masoch), Einaudi, Torino, 1976. Riedizione del solo A boccaperta, Linea d’ombra, Milano, 1993. Dramaturgie, Garnier Saracelles, Parigi, 1977 (contiene la traduzione in lingua francese di S.A.D.E. curata da J.-P. Manganaro e scritti di J. Guinot e F. Quadri). “Il rosa e il nero”, in F. Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia, Einaudi, Torino, 1977 (riedito da Giusti, Firenze, 1979). S.A.D.E. (Extrait), «Travail Théâtral», n. 27, 1977. Pinocchio, Giusti, Firenze, 1978. Carmelo Bene, Gilles Deleuze, Sovrapposizioni. “Riccardo III” di Carmelo Bene e il saggio “Un manifesto di meno” di G. Deleuze, Feltrinelli, Milano, 1978. Manfred, Giusti, Firenze, 1980. Pinocchio, seguito da Pinocchio o lo spettacolo della Provvidenza (distrazione a due voci tra scena e quinta) di G.Dotto, La casa Usher, Firenze, 1981. Otello, o la deficienza della donna, (con saggi critici di G. Deleuze, G. Dotto, M. Grande, P. Klossowski, J-P. Manganaro), Feltrinelli, Milano, 1981.
La voce di Narciso, a cura di S.Colomba (con interventi di S. Colomba, M. Grande, A. Signorini), Il Saggiatore, Milano, 1982. Sono apparso alla Madonna. Vie d’(h)eros(es), Longanesi, Milano, 1983. Carmelo Bene, G. Di Leva, L’Adelchi o della volgarità del politico, Longanesi, Milano, 1984. Lorenzaccio, con studio di M. Grande, Nostra Signora Editrice, Roma, 1986. La ricerca teatrale nella rappresentazione di Stato (o dello spettacolo fantasma prima e dopo C.B.), in AA.VV., La ricerca impossibile. Biennale Teatro ’89, (con saggi di U. Artioli, C. Dumoulié, E. Fadini, M. Grande, J-P. Manganaro, A. Scala), Marsilio, Venezia, 1990. Il teatro senza spettacolo, (con saggi di U. Artioli, C. Dumoulié, E. Fadini, M. Grande, P. Klossowski, J-P. Manganaro, A. Scala), Marsilio, Venezia, 1990. Vulnerabile invulnerabilità e necrofilia in Achille. Poesia orale su scritto incidentato. Versioni da Stazio Omero Kleist, Nostra Signora Editrice, Roma, 1994. Opere con l’Autografia di un ritratto (contiene l’opera omnia di C. Bene, selezionata e revisionata da C. Bene stesso, più un’antologia di saggi critici), Bompiani, Milano, 1995. Carmelo Bene, Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano, 1998. Dino Campana, Carmelo Bene, Canti orfici. Con CD, Bompiani, Milano, 1999. ‘l mal de’ fiori, poema, Bompiani, Milano 2000. ‘l mal de’ fiori, Autointervista dell’autore, Roma 16 maggio 2000 http://www.ilportoritrovato.net/html/carmelobene1.html INTERVISTE E CONVERSAZIONI
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e
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del
ribelle
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“Un Hamlet de moins”, in L’avant-scènecinéma, 178, 1976. VARI
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