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Italian Pages 200 [202] Year 2012
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Collana diretta da Roberto De Gaetano
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ALESSANDRO CAPPABIANCA
CARMELO BENE Il cinema oltre se stesso
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Si ringrazia Antonietta Petrelli per la collaborazione
Proprietà letteraria riservata © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy Stampato in Italia nel mese di marzo 2012 da Pellegrini Editore Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672 Sito internet: www.pellegrinieditore.it E-mail: [email protected]
I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
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INTRODUZIONE
Dieci anni fa (il 16 marzo 2002) moriva Carmelo Bene – anche se non sono sicuro che sia giusto utilizzare il verbo morire per qualcuno che sosteneva di non essere mai davvero nato. Questo studio è imperniato sulle figure, gli oggetti e i nomi ricorrenti del suo lavoro, nomi di personaggi teatrali (come Amleto, Otello, Macbeth), di burattini (come Pinocchio), di poeti (come Majakovskij), di poeti/filosofi (come Leopardi), sulle loro variazioni e riprese, attraverso le più diverse pratiche significanti, nonché sulle contaminazioni cui queste danno continuamente luogo: fantasmi che vanno, vengono, spariscono, restano in agguato come ossessioni, tornano, si incarnano sulle scene teatrali, sui set cinematografici, in televisione, in radio, in concerto, sulla pagina scritta, attraverso molteplici varianti e metamorfosi, che riguardano allo stesso tempo il corpo, l’immagine e la voce. Proprio con l’immagine, forse, Bene ha avuto i rapporti più problematici, in relazione al periodo (breve) delle sue esperienze cinematografiche, che tuttavia continuiamo a ritenere fondamentali, non solo in ragione delle loro metamorfosi attraverso il passaggio verso altri media, ma anche della rilevanza filosofica che non esitiamo ad attribuir loro. Ciò che qui si vorrebbe evidenziare, infatti, è che ogni immagine di Carmelo Bene è espressione di pensiero, sotto forma di depensamento, nel momento 5
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CARMELO BENE
stesso in cui viene cancellata, o contestata, la sua evidenza. Mostrare il nulla dietro il preteso qualcosa (dietro l’immagine) ci sembra l’impresa “filosofica” di Carmelo Bene; e ci pare, appunto, che questa impresa dimostri in pieno la difficoltà del suo compimento specialmente nel cinema, dove da ogni parte appaiono più forti gli agguati del (buon) senso. Gilles Deleuze, in Un manifesto di meno1, ha scritto sul teatro di Carmelo Bene, apponendo ai rispettivi paragrafi titoli come “Il teatro e la sua critica”, “Il teatro e le sue minoranze”, “Il teatro e la sua lingua”, “Il teatro e i suoi gesti”, “Il teatro e la sua politica”, che echeggiano, ovviamente, un altro titolo famoso come Il teatro e il suo doppio – ma l’affinità con Antonin Artaud, più che nella pratica teatrale, si registra forse nel cinema2, a cominciare dal rifiuto che tutti e due (Artaud e Bene) a un certo punto, dopo iniziali entusiasmi, hanno espresso nei suoi confronti. È noto che Bene, come Artaud, a un certo punto, nel cinema ha smesso di credere ed è “tornato” al teatro: a questo ritorno, però, si è accompagnata un’opera di quasi sistematica trasfigurazione (non “registrazione”) in video dei suoi spettacoli, trasfigurazione che teneva conto delle esperienze cinematografiche acquisite e le portava avanti con il ricorso
C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, in C. Bene, Opere. Con l’Autobiografia di un ritratto, Bompiani, Milano 2002, pp. 1431-1456.
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Cfr. G. Deleuze, L’immagine-tempo, tr. it., Ubulibri, Milano 1989, pp. 211-212. 2
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Introduzione
alle nuove tecnologie elettroniche, specie sul piano sonoro. Non si trattava tanto di “documentarli”, quanto in un certo senso di evidenziare la labilità del loro continuo costeggiare lungo i bordi del Nulla. Certo, rispetto al cinema, non ci sono solo differenze di tecnica e di supporto (nastro invece di pellicola), a monte delle quali esistono comunque modi di produzione assai diversi. In ogni caso, la produzione video (e radiofonica) induce a riconsiderare retrospettivamente anche i film come concerti per voci e immagini, sempre eseguiti sull’orlo della cancellazione. Il teatro, certo, rimane alla base di tutto. Il teatro e il suo spazio, che le opere video, senza diluirlo, dilatano in un certo modo e i film in un altro. Se l’organizzazione dello spazio scenico (previa disorganizzazione di quello tradizionale) è la matrice del lavoro di Bene, bisogna sottolineare che la trasfigurazione televisiva conserva comunque certe caratteristiche di quello spazio, ne mantiene l’unità, sia pure giocandola a livello di inquadrature, di montaggio, di alternativa tra luce e ombra. Per questo parlo di trasfigurazione, perché le figure spaziali sottese, trasportate in un altrove dotato di differenti caratteristiche materiali, restano comunque riconoscibili (o ricostruibili). Il cinema, invece, tende a distruggere lo spazio teatrale, fa a meno delle unità di tempo e luogo, volentieri proietta all’esterno la cosiddetta “azione”, si affida al movimento come racconto (ed è proprio questo che il cinema di Bene non accetta). Anche il teatro, però, nel momento in cui ad esso si “ritorna”, assume paradossalmente il sogno della dislocazione filmica e televisiva (in esso già impli7
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CARMELO BENE
cita, nel caso di Bene), prospettando l’utopia d’una recita che si svolge al Quirino, per un pubblico seduto in platea all’Argentina. Voce/ascolto e voce/proferita si dissociano, riassociati dalla tecno-teologia. Le figure nascoste, i fantasmi, le ossessioni, allora percorrono tempo e spazio, variabili, ma in fondo sempre testardamente riconoscibili, attraversando le prove delle più impensate metamorfosi. Insomma, dopo aver girato cinque splendidi lungometraggi più due cortometraggi (dal ‘68 al ‘73), Carmelo Bene aveva scoperto il peccato capitale del cinema, quello che non era disposto a perdonargli: il suo dipendere dall’immagine come corrispondenza meccanica al referente-immagine come balocco futile, veicolo colorato del racconto, pronta a rinnegare la sua natura di fantasma. Azione senza azione. Benché, poi, lui avesse fatto di tutto per evitarlo, questo peccato, riuscendovi brillantemente. È per questo che “torna al teatro”? Si può anche dire così, purché sia chiaro che si tratta non solo di un teatro che tiene conto della strumentazione tecnologica del cinema (nel rapporto sonoro/immagine), ma è anche pronto a trasformarsi in montaggio elettronico di immagini e suoni. Insomma, se lasciava il cinema (in senso stretto), Carmelo Bene non lasciava l’immagine, nel senso che non (tra)lasciava di torturarla, sminuzzarla e insultarla. Il risultato (teatro + elettronica) si potrebbe definire cinema senza cinema o anche oltre-cinema; ma una volta preso atto di questo, occorre rendersi conto di un fenomeno inevitabile di riverbero, per cui anche i film in senso stretto (i cinque lungometraggi più Hermitage e Ventriloquio) andranno iscritti, retrospettivamente, all’universo dell’oltre8
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Introduzione
cinema. Come fossero oltre-cinema fin dall’inizio. Con oltre-cinema indichiamo dunque un superamento del cinema. Vero che questo essere-oltre designa al tempo stesso per Bene, almeno da un certo punto in poi, un essere-contro e che essere-contro implica comunque una sorta di vicinanza, di lotta corpo a corpo. Meglio allora parlare di contro-cinema piuttosto che di oltre-cinema? Forse. O forse è più proficuo pensare che qui si tratti di una lotta con l’angelo, che nel caso di Bene è lotta contro l’immagine di se stesso – e non si lotta contro l’immagine di se stesso, se non andando, nietzschianamente, oltre la propria immagine – tanto oltre, da perderla, a un certo punto, per strada. O dimenticarla in uno specchio. Cos’è l’oltre-cinema, insomma? Perché usare questa espressione, a proposito di Carmelo Bene? André Bazin aveva coniato il termine “sur-western” per indicare «l’insieme delle forme adottate dal genere [il western] dopo la guerra»3. Precisando poi: «Diciamo che il “sur-western” è un western che si vergognerebbe di non essere che se stesso e che cerca di giustificare la propria esistenza con un interesse supplementare: di ordine estetico, sociologico, morale, psicologico, politico, erotico»4. La particella “oltre”, come il “sur” di Bazin, indica dunque un arricchimento, e se la si premette non a un genere, ma al cinema in generale, segnala appunto la necessità di un arricchimento del cinema, dunque la 3 A. Bazin, Evoluzione del western, in Id., Che cosa è il cinema?, tr. it., Garzanti, Milano 1973, p. 262. 4
Ivi, p. 263.
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CARMELO BENE
coscienza di una sua inadeguatezza e l’esigenza di un suo “superamento”. Il cinema può superare questa inadeguatezza, proprio nella misura in cui è in grado di accogliere un valore aggiunto, restando cinema, ma diventando in certa misura altro: teatro, video, musica, romanzo, radio, televisione, performance vocale5. Altro e di più, tutto insieme, ma riassumibile in questa formula: il valore aggiunto dell’oltre-cinema di Carmelo Bene, alla fin fine, era Carmelo Bene – corpo, voce, presenza, assenza. Unica e moltiplicabile, visibile o invisibile, sempre incombente. Al di là del discorso specifico sul cinema, peraltro, anche Umberto Artioli aveva parlato, riferendosi alla prassi attoriale di Carmelo Bene, di un’esperienza dell’oltre, attorno alla quale ha sempre ruotato la mistica, in ogni tempo – anche se Bene tendeva a non accettare a cuor leggero qualunque discorso di cui si potesse sospettare una coloritura di “misticismo” come superamento del corpo. Artioli, però, coglieva in Carmelo Bene un oltre del corpo, non come trascendenza in direzione dello “spirito”, ma come vuoto, come punto segreto in cui il visibile trascorre in udibile: voce in quanto musica, sonorità immateriale, evenienza del suono interiore. Si può dire allora che la sperimentazione televisiva, per Bene, sia stata luogo di superamento del cinema, ma anche del teatro, allo stesso modo in cui la sperimentazione sulla voce (meglio, sulle voci) è stata luogo di superamento dell’immagine – il risulta Cosetta G. Saba, nel suo Carmelo Bene (Il Castoro, Milano 1999, p. 27) parla di un cinema «intermediologico». 5
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Introduzione
to è uno splendido ibrido, una magnifica mostruosità: la voce-immagine (o l’immagine-voce). Si ritiene, in genere, che il corpo abbia (emetta) una voce o che, al massimo, sia in grado di modulare una pluralità di voci (virtuosismo massimo dei “bravi” attori); si tratta, invece, di mettere in funzione una voce che abbia un corpo, dunque il corpo di una voce, capace di manifestarsi anche laddove non ci sia traccia visibile di corpo. Non voce-off, semmai corpo-off: fisicità intrinseca d’una voce, eventualmente evidenziata, ritoccata, scolpita, modellata (non solo potenziata) dalle apparecchiature elettroniche. Ma se dire corpo della voce ha un senso, ha un senso parlare di voce-immagine? Ha davvero un’immagine, la voce, al di là dei diagrammi con i quali tecnici e scienziati la misurano e usano rappresentarla nei grafici? Evidentemente, un conto è l’immagine, un conto è il fenomeno sonoro. L’importante, allora, è scindere l’eventuale legame tra i due, fino a renderlo qualcosa di sospetto, o comunque di indecidibile. Se nell’Otello la voce di Cosimo Cinieri sembra quella di Carmelo Bene (o viceversa), ecco che l’immagine/ Cinieri si stacca dalla sua voce: immagine e voce vivono ciascuna per conto proprio. Non viene meno l’immagine, non viene meno la voce – viene meno la loro reciproca co-appartenenza. Così, a sfaldarsi è il soggetto, è l’identità. Dell’attore e del personaggio. Jago diventa Otello, Otello Jago6, allo stesso modo in cui Otello trasmette la sua La messa in scena del drammatico scontro (o incontro?) tra Otello e Jago ha sempre attirato gli interpreti teatrali in certi
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CARMELO BENE
nerezza agli altri personaggi, Desdemona compresa, e nel far questo, da parte sua, si sbianca. Così Mastro Ciliegia, Geppetto, la Fatina Azzurra, diventano burattini, alla stessa stregua di Pinocchio. È esatto dire che la voce proveniente da un apparecchio di registrazione, anche se manipolata elettronicamente, e magari resa irriconoscibile, conserva la materia di sostanza fonica; e, ciò che più importa, non tradisce il ruolo e la funzione del teatro. Nel caso di Bene, ha scritto Piergiorgio Giacchè: Un potente sistema di microfoni e casse acustiche (e “monitor e magnetofoni vari e “cassette” per musica e rumori di repertorio...”) – disperso ovunque come il laboratorio di un rumorista (proprio come preconizzava la scenografia del S.A.D.E.) oppure concentrato attorno al trono di un attore-cantante – prende tutto lo spazio, anzi tutto il volume del teatro, fagocitandolo ma soprattutto risvegliandone e potenziandone la sua originaria funzione: cos’altro è o era il teatro se non una cassa o la casa dell’amplificazione sonora?7.
L’immagine fotografica o cinematografica o elettronica invece cambia natura (perde peso e materia) rispetto a corpi, cose, oggetti. Diventa inconsistente,
giochi di intercambiabilità. Si ricordi l’alternarsi quotidiano, nei rispettivi ruoli, di Vittorio Gassman e Salvo Randone. Era questa, però, un’alternativa meccanica, che interveniva soltanto tra una replica e l’altra. P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, Milano 1997, p. 153.
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Introduzione
gioco di luci. Ulisse, agli Inferi, riconosce sua madre, ma non può abbracciarla. Può vederla, può udirne la voce come se fosse viva; ma non può toccare il suo corpo, perché il suo corpo non esiste più – quella è appunto juste une image, uno spettro, un fantasma immateriale (se si parla di “corpo dell’immagine” ci riferiamo al massimo alla sua maggiore o minore definizione). Carmelo Bene lavorava in teatro per concerti di voci e di corpi. Ha girato film, come concerti di voci e immagini. Ha infine montato il suo teatro per la televisione, bypassando il cinema – ossia, ha montato voci, suoni e immagini di corpi che erano già predisposti per il (suo) teatro: non più immagini di corpi “veri”, come era ancora possibile ritenere avvenisse nei film, ma immagini di corpi già teatralizzati, già non più corpi (statue barocche semoventi, maschere, burattini, automi). I lavori tele-visivi, dunque, sarebbero definibili più esattamente come concerti per voci e corpi perduti. Il che significa che anche le voci sono perdute, disperse, senza più appartenenza. A pensarci bene, dopo tutto, non c’è niente di più “spirituale” del corpo, nel senso che nulla più del corpo attira affetti e percetti, sentimenti ed emozioni – tutta una retorica di trasfigurazioni ed epifanie, oltre-la-carne. Non meraviglia che, tra i cineasti italiani (di solito gente dalla lacrima facile), Bene apprezzasse quasi esclusivamente Ciprì e Maresco, il loro lavoro sui corpi, l’insistenza e la coerenza con le quali cercavano di spogliarli da ogni “spiritualità”, esaltandone laidezze e deformità, al di là d’ogni possibile empatia. E non meraviglia che Bene abbia lavorato con loro, prestando la sua voce che legge Pizzuto (un brano di Signorina Rosina) per il corto13
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CARMELO BENE
metraggio Ai rotoli, girato nel cimitero di Palermo – dove non si vedono corpi, ma solo loculi, tombe e lapidi funerarie. Non c’è retorica della morte e della perdita, non c’è rimpianto, non c’è nostalgia: semmai c’è squallore di sepolture abbandonate, immerse nella sporcizia, di marmi spezzati, nell’incuria generale. Perfino i volti dei defunti, nelle fotografie porcellanate, somigliano a quelli dei vecchi personaggi di Cinico TV. Non c’è dignità, nei morti non più che nei vivi – a meno che, a parziale riscatto, la voce off di Bene non evochi l’ombra della signorina Rosina. Quasi tutti i personaggi cui Bene dedica la sua attenzione ci sembrano caratterizzati, in ultima analisi, da un tenace autolesionismo, nel cui ambito è forse riscontrabile una duplice tipologia: 1) gli eroi tragici shakespeariani sono eroi e sono tragici in quanto titani che perseguono con costanza il loro annientamento. L’operazione di Bene, allora, consiste nel togliere “l’eroico” e nel rendere ridicolo l’annientamento – con l’avvertenza che “ridicolo” forse non è la parola giusta. Men che meno, c’è in questo qualcosa di “parodico” (per intenderci, un trattamento del tipo che ad Amleto riservava Petrolini, a parte il fatto che Amleto non è un eroe né un titano) – nel processo di annientamento per loro allestito da Bene, svanisce poco a poco la loro stessa consistenza di soggetti. Quasi svaporano, sono riassorbiti nel nulla da cui baldanzosamente provengono. Per esemplificare: - Amleto, come aspirante drammaturgo, vorrebbe andarsene a Parigi con Kate, e il pensiero di vendicare l’assassinio del padre, già restio in Shakespeare a tradursi in azione, scolorisce sempre più nella 14
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Introduzione
contaminazione con Laforgue, sfociando infine in una moritat burlesca dove i bauli assumono l’ufficio di bare, e il posto di Claudio viene occupato da una corazza vuota (da un re senza testa); - Riccardo III gioca con le sue protesi, gode a indossarle, toglierle, rimetterle, camuffandosi da mostro sotto gli occhi delle donne che lo circondano: come un bambino capriccioso e perverso, ma in fondo indifeso – tanto è vero che, venuta meno la protezione del femminile, l’oscurità lo inghiotte, mentre è alla ricerca disperata di un cavallo per il quale sarebbe disposto a dare il suo regno; - Otello, eroe carico di medaglie che sembrano (e sono) paccottiglia, sbianca man mano la sua nerezza, ossia la sua “barbarie”, la sua diversità, l’impeto della sua gelosia, diventando sempre più simile ai “civili” veneziani, dai quali si lascia assimilare, addormentandosi. L’uccisione di Desdemona avviene troppe volte, ossia non avviene; - Macbeth, nella sua corazza ferrata, non è mostrato mentre architetta piani per eliminare il re e i pretendenti al trono, ma come preda di elementi (tempeste, fulmini) che si scatenano da armadi vuoti, e come giocattolo del caso, fino a che, assimilata la sua condizione di mediocre attore che si agita sulla scena della vita, tenta disperatamente di sfuggirvi demolendo lo stesso palcoscenico su cui si esibisce. Quanto a Lorenzaccio, personaggio “storico” (per così dire), ma non shakespeariano, Bene non ha bisogno di togliergli un eroismo che non ha. La sua mal destrezza nell’ordire congiure, è potente, e quando l’assassinio del duca Alessandro, “provato” quasi fosse una commedia, alla fine per avventura 15
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CARMELO BENE
riesce davvero, rifulge il più totale autolesionismo nel gestirne le conseguenze “politiche”. Egli sarà dunque, teatralmente, autore di azioni sempre sfasate rispetto alle conseguenze (ai rumori) che ne derivano (e viceversa); 2) tra gli altri personaggi, di diversa filiazione letteraria, ne spiccano due che non hanno nome, e già per questo presentano elementi autobiografici (di un’autobiografia mitica): ci riferiamo al protagonista di Nostra Signora dei Turchi (gli esegeti non hanno altra scelta che chiamarlo “Lui”) e al cosiddetto “poeta” di Capricci. L’opzione autolesionistica si fa qui particolarmente evidente. “Lui” prova piacere a “buttarsi dalla finestra”, a compiere salti spericolati, dai quali esce malconcio (non vola come san Giuseppe da Copertino), procurandosi ferite e fratture nell’impatto col selciato sottostante – oppure, si contenta di cadere dal letto, di scivolare e perdere l’equilibrio sul pavimento della sua casa. Il suo corpo, pertanto, è costantemente ricoperto di fasciature e bende, che invano santa Margherita, discesa in terra per lui, si offre pietosa di cambiargli. Bene si procura qui, insomma, un corpo inglorioso, un corpo del malessere, intenzionalmente fratturato. Visto che non può realizzare il suo sogno d’essere uno tra i martiri cristiani della strage di Otranto, visto che quell’occasione è irrimediabilmente persa, visto che non può avere il martirio – ricerca almeno l’infortunio. Quanto al poeta di Capricci, negli intervalli dei duelli a colpi di falce e martello col suo nemico pittore (un pittore che non somiglia minimamente a 16
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Introduzione
Bacon), si diverte a perseguire il proprio annientamento, assieme alla sua puttana (Anne Wiazemsky), scagliandosi a tutta velocità alla guida di vecchie auto scassate contro altre macchine da rottamare, uscendone ogni volta malconcio, ma vivo. È questa la vera difficoltà: trovare la postura adatta per la morte, che quindi va ripetutamente provata, in modo da risultare il più possibile suggestiva e spettacolare. Resta sullo sfondo, comunque, una domanda cui non è stata mai fornita una risposta davvero soddisfacente: perché Carmelo Bene a un certo punto ha smesso di fare cinema? Con le domande correlate: perché ha dichiarato di disprezzarlo? Perché si è compiaciuto di non fare troppe distinzioni, al suo interno, tra un regista e l’altro, accomunandoli tutti (salvo rare eccezioni) nella più totale disistima, fino a dichiarare che l’unico film davvero valido fosse l’Ulisse di Joyce, ossia, che non è possibile fare cinema se non andando, appunto, oltre il cinema? La risposta che qui si vorrebbe delineare parte da un presupposto: siamo sicuri che Carmelo Bene abbia davvero mai smesso di fare cinema? Le sue produzioni teatrali, radiofoniche, televisive, non erano forse proprio la realizzazione di quell’oltre-cinema da lui considerato (magari senza chiamarlo cinema) come il solo che valesse la pena di fare?8
8 Una esauriente silloge degli interventi di Carmelo Bene sull’argomento/cinema si trova in C. Bene, Contro il cinema, a cura di E. Morreale, Minimum fax, Roma 2011. Tra i pezzi antologizzati, spicca a nostro parere una conversazione del ’78 (pp. 136-160), nel corso della quale Maurizio Grande, tra l’altro,
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CARMELO BENE
Questo libro vorrebbe essere anche altra cosa: precisamente, ricordare un amico prematuramente scomparso anni fa, Maurizio Grande, col quale le vicissitudini della vita mi hanno spesso impedito di avere gli stretti rapporti culturali che avrei voluto, in base a una comunanza di formazione e di interessi, fin dai tempi di “Filmcritica”. Me ne resta il rimpianto, ormai inutile; parlando di Carmelo Bene, di teatro, e del cinema di Carmelo Bene, però, non si può non imbattersi ad ogni passo nelle sue insostituibili intuizioni. Studiare Carmelo Bene, per me, significa studiare Maurizio Grande e ricordarlo, come del resto Umberto Artioli, Gilles Deleuze e molti altri – con in più il punctum barthesiano del vissuto.
riesce a condurre Carmelo Bene ad alcune preziose ammissioni sul rapporto tra cinema e televisione.
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I. Il paradosso di Narciso
I. IL PARADOSSO DI NARCISO
Tuttavia, un discorso su Carmelo Bene, non può cominciare altro che con una domanda “metafisica”: perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla? Vecchia domanda. Carmelo Bene la dribbla subito, intitolando Quattro Momenti su Tutto il Nulla le sue quattro puntate televisive del 2001, e ponendo a base del secondo momento (quello su moscienza e monoscenza) le parole che Gorgia rivolgeva “come un ceffone” a Parmenide, l’inventore dell’Essere: “Nulla esiste. E ammettendo che esista, non potremmo conoscerlo. E se ci fosse possibile conoscerlo, non avremmo modo di comunicarlo”. Momenti su tutto il nulla, dunque. Non solo sul tutto che è nulla, o sul nulla che è il tutto, ma sulla sconfinata estensione del nulla, che Carmelo Bene pretende di smascherare nella sua interezza: tutto il nulla, dal linguaggio alla coscienza e conoscenza, dall’eros all’arte. Ma la Voce (la phoné), quella voce (quella di Bene) è appunto quanto si sottrae al linguaggio, consentendo di sentire il molteplice. Con ciò forse possiamo dire che si sottrae al nulla. Ciò che si incarica di presentare tutto il nulla, ciò che lo veicola, paradossalmente, è qualcosa. È una Voce che ci fa balenare il nulla, e al tempo stesso, 19
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CARMELO BENE
misteriosamente, se ne tira fuori. Questo è il vero paradosso dell’attore, o almeno, dell’attore Carmelo Bene. Gli attori hanno disimparato a respirare, diceva già Antonin Artaud, come soffiatori di vetro che non sanno più il loro mestiere. Hanno disimparato a soffiare e a gridare. Nel teatro, poi, si sono sentite anche troppe grida, si è fatto anche troppo frastuono, troppo inutile rumore, nell’illusione che questo bastasse a dar vita al teatro della Crudeltà di cui parlava Artaud. Dopo Artaud, nessuno ha affermato con più forza di Carmelo Bene che non solo il testo è l’attore, ma il testo è la voce. Cosa fa la voce di Carmelo Bene? Opera proprio quel “transfert anatomico” per cui non si dà luogo allo spettacolo, ma semmai allo spettacolo (gioioso e inquietante) della trasposizione del corpo in un al di là che confina con la morte, ma che non è un altrove: è qui. Bisogna saper suonare i microfoni come strumenti musicali, diceva Carmelo Bene, ma non per creare un’armonia e neppure una dissonanza sapiente, “d’avanguardia”. Piuttosto, occorre produrre all’interno della voce (osservava Manganaro) una differenza di voci, per cui si allenti il legame banalissimo, organico, tra voce e volto, sbiadisca la miseria delle loro pretesa unità e si instauri quella schizofrenia che è la condizione poetica del dire. Bisogna, in altre parole, che la voce smetta di appartenere ad un corpo determinato, fosse pure quello del grande attore, perché non si dà grandezza se non mettendo in gioco l’identità. Per questo, nell’Otello, 20
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I. Il paradosso di Narciso
Brabanzio può parlare con la voce di Jago, Desdemona con quella di Bianca (la prostituta), Cassio contemporaneamente con le voci di Jago e Otello, magari fuori sincrono… E nel Manfred di Byron e Schumann, non è più questo o quel personaggio che parla, ma è il suono stesso a diventare personaggio (“Parlami!”). Come ha scritto Deleuze: utilizzando il play-back, Carmelo inventa qualcosa che non è canto e neppure “recitar cantando”, ma una “voce filtrata”, in grado di modificare e far variare il colore di base di un suono. Voce espropriata, separata dal corpo. Amplificazione della macchina attoriale, anche attraverso l’elettronica. La sua voce si sottopone a quel martirio fonetico di cui anche Artaud aveva lasciato un’indimenticabile traccia radiofonica in Pour en finir avec le jugement de Dieu. Attore del malessere, nel coma e nel delirio si cancellano le sordide sicurezze dell’identità, dell’interpretazione e dello spettacolo. Come Artaud, ma per ragioni diverse, anche Carmelo Bene a un certo punto ha smesso di credere nel cinema, non senza prima aver girato, a cavallo tra i ’60 e i ’70, una mezza dozzina di grandi film, capolavori eccentrici, sradicati e sconvolgenti, perfino nell’ambito di quel cinema italiano che allora stava vivendo il suo secondo periodo d’oro, dopo il Neorealismo. Non si capisce il perché di quella rinuncia, se non la si collega alla rinuncia successiva nei confronti del teatro stesso, o meglio della forma/spettacolo, in favore della forma/concerto. Allora, l’abbandono del cinema prefigura l’abbandono dello spettacolo, 21
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CARMELO BENE
nel senso del passaggio dal gioco con il corpo/voce al gioco con la musica della voce, con il diventare soffio del corpo. Il corpo/voce/Carmelo Bene, insomma, progressivamente si smaterializza, transitando da immagine (cinematografica e teatrale) a soffio; ma esiste, ovviamente, una materialità della voce, mai del tutto spenta da qualunque manipolazione, per quanto radicale (anche elettronica). Analogamente, nell’esperienza cinematografica di Carmelo Bene, il corpo non ha mai fatto a meno della voce (anzi, delle voci) e della musica, secondo modalità che sarebbe troppo facile chiamare parodiche. A puro titolo esemplificativo, si pensi a certe sequenze di Nostra Signora dei Turchi e ai brani musicali che le accompagnano: 1) presentazione del Palazzo Moresco/musica di Una notte sul Moncalvo di Mussorgsky; 2) Bene inoltra una domanda di finanziamento al Ministero, che gliela respinge/aria Te perduto ov’è la patria, dal Ballo in maschera di Verdi; 3) Bene fa pulizie nel cortile di casa/aria Ch’ella mi creda libero e lontano, dalla Fanciulla del West di Puccini; 4) Scena tra Bene e Santa Margherita/Vorrei baciare i tuoi capelli neri. Ci si potrebbe arrampicare sugli specchi e trovare (inventare) corrispondenze tra le rispettive situazioni narrative, filmiche e musicali, ma sarebbe un esercizio inutile. Forse una corrispondenza più diretta c’è solo per la sequenza finale, tra Bene che stramazza (morto?) ai piedi dell’altare della Santa e il Tu che a Dio spiegasti l’ali, dalla Lucia di 22
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I. Il paradosso di Narciso
Lammermoor di Donizetti. Ma in generale si tratta di brani musicali famosi e popolari, scelti perché capaci di creare immediatamente un contrappunto sonoro familiare (falsamente rassicurante) ad immagini che invece inquietano per la frenesia del loro montaggio. Giustamente Maurizio Grande parlava, in proposito, d’una tecnica effettuata mediante “incollaggio” di “spezzoni di gesti” colti in momenti differenti (ancorché spesso ravvicinati): gioco di gesti e movimenti disarticolati e sconnessi, cui si sovrappone un universo sonoro talmente noto da sopportare agevolmente anche l’intrusione di altre voci, suoni, rumori in sottofondo ecc. Qui il melodramma fa da padrone, ma anche da servo, in attesa che la voce stessa di Carmelo Bene, come macchina attoriale, si faccia carico per intero d’una musicalità intrinseca. Allora si delineano i contorni d’un transito, d’un passaggio, di una sorta di staffetta, tra le figure mitiche di Eco e Narciso. La figura dell’attore, di qualunque attore, deve sempre fare i conti con le suggestioni del mito: prima di tutto, con quello di Narciso. Ma chi è Narciso? E l’attore/Narciso è davvero automaticamente ascrivibile alla categoria del “narcisismo”? Davanti alla superficie dello stagno, Narciso scambia la sua immagine riflessa per quella d’un altro e, innamoratosene, affoga nel tentativo di raggiungerla? Oppure riconosce che si tratta di lui stesso, dunque che il suo tentativo è destinato a fallire, e si consuma, si strugge per questo? 23
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CARMELO BENE
Le versioni del mito, com’è noto, presentano su questo punto significative divergenze. C’è un Narciso che si prende per un Altro – che si innamora d’un Altro, ritrovando in lui i lineamenti di se stesso. E c’è un Narciso (come quello di Ovidio) che cade vittima della mortifera attrazione che lui stesso esercita su se stesso: “Iste ego sum”. Un Narciso vittima d’un auto-inganno. Un Narciso che si consegna coscientemente ad uno sfinimento mortale. Un Narciso che agisce, aggredisce (senza capire che sta aggredendo se stesso). Un Narciso che si lascia morire, consumato dall’inedia. Sappiamo che Freud utilizzava, già dal 1910, il termine “narcisismo” per spiegare la scelta d’oggetto degli omosessuali. Quattro anni più tardi, nell’Introduzione al narcisismo, «pone in evidenza la possibilità che la libido reinvesta l’Io disinvestendo l’oggetto» (Laplanche e Pontalis); il che significa che l’investimento narcisistico persiste, in una certa misura, oltre la fase del narcisismo primario infantile, e si può ripresentare nell’adulto. In ogni caso, al mito di Narciso si fa riferimento in relazione all’amore verso l’immagine di se stessi, che induce ad amare soprattutto ciò che ci somiglia. Più tardi Lacan, approfondendo il concetto di “fase dello specchio”, chiarirà tuttavia che questa “immagine di se stessi” non si dà senza che in essa si insinui in qualche modo ciò che vi è nell’uomo di dissolto, di frantumato, di anarchico. Più che davanti a uno specchio di Narciso, si ha l’impressione d’essere di fronte a uno specchio di Dioniso, quello in cui il dio-fanciullo si incantava 24
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I. Il paradosso di Narciso
a guardare gli oggetti del mondo, identificandosi con essi e dimenticando se stesso. Aveva ragione Carmelo Bene, insomma, quando preferiva affidare la sua immagine d’attore alla favola di Narciso così come l’aveva rielaborata Oscar Wilde, rifiutando al tempo stesso la nozione corrente di “narcisismo”. Nel racconto di Wilde, ormai morto Narciso, protagonista diventa lo stagno in cui era solito specchiarsi. Le sue acque, da dolci che erano, diventano all’improvviso amare, come una coppa di lacrime. Le Ninfe, accorse a piangere sul corpo dell’affascinante defunto, mostrano di capire bene questo dolore dello stagno. Era proprio lo stagno a vederlo sempre sostare sulle sue rive e specchiarsi nelle sue acque: nessuna meraviglia, dunque, che si mostri inconsolabile per la perdita di tanta bellezza. Ma lo stagno si mostra stupito. A dire la verità, non aveva mai fatto attenzione alla bellezza di Narciso. No, il suo dolore nasce dal fatto che ora non sarà più in grado di godere della propria bellezza (della bellezza dello stagno stesso), dato che, morto Narciso, non potrà più riflettersi nello specchio delle sue pupille. Narcisista insomma, per Wilde, è lo stagno. Uno specchio (lo stagno) si specchiava in un altro specchio (le pupille), e la fine di Narciso mette precisamente fine a questo gioco di specchi. Nelle pupille dell’attore si riflette la totalità del lago. Ossia, in esse lo spettatore si specchia, si contempla e può innamorarsi di sé. Narcisista è il pubblico, non l’attore. L’attore, se ancora si può chiamare narcisista, lo è nel senso che gioca a nascondersi, finge di volersi rendere irriconoscibile dietro i personaggi, si traveste, inventa maschere e 25
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CARMELO BENE
se le applica. Può arrivare (era il caso di Carmelo Bene) a separare il suo corpo dalla voce, ripetendo l’esperienza di Eco. Oppure non si traveste affatto, si presenta nudo, magari, ma il corpo nudo dell’attore si fa ipso facto travestimento, si fa maschera o metafora, corpo/maschera, corpo/testo (lo sapeva bene anche Grotowski). Quello di Bene è un narcisismo (se proprio vogliamo continuare a chiamarlo così) niente affatto basato sulla contemplazione della propria immagine. Anzi, ogni immagine (sia di Carmelo Bene, sia degli altri attori) è sempre frantumata in mille rifrazioni e infiniti riflessi, come se un Narciso dispettoso si divertisse a rimescolare e agitare la superficie calma dello stagno, provocando l’affiorare di riverberi preziosi (vedi Salomè). Oppure, come se si fosse in presenza d’uno specchio rotto, nel quale (vedi il finale di Don Giovanni) si riflettono i frantumi dispersi della persona. In ogni caso, si tratta di introdurre sulla scena (o sullo schermo) colui il cui nome è Legione.
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II. Morire in versi
II. MORIRE IN VERSI
La notorietà di Carmelo Bene, definitivamente affermata dai film, si basava, nei primi tempi, sull’apprezzamento che un pubblico ristretto, ma scelto, aveva riservato alle sue interpretazioni di personaggi come il Caligola di Camus e al trattamento di figure (che sarebbero poi diventate ricorrenti) come quelle di Pinocchio (quasi un alter ego), di Amleto (tra Shakespeare e Laforgue). È facile rendersi conto però, anche sulla base della semplice cronologia, dell’importanza che da subito assume la poesia come fondamento del suo lavoro, a cominciare dal riferimento a Majakovskij: poesia più musica, in particolare, attraverso performance che non temono di attribuirsi fin dall’inizio l’etichetta di spettacoli-concerti. Non si può dire che, tra le costanti ispiratrici dell’opera di Carmelo Bene, occupasse gran posto l’emozione, sempre ben volentieri sostituita magari dallirrisione1. Meno che mai, poi, Bene frequentava l’emozione collettiva, verso la quale si era mantenuto sempre giustamente sospettoso. Cfr. A. Attisani, M. Dotti, Bene crudele. Cattivario di Carmelo Bene, Nuovi Equilibri, Viterbo 2004. 1
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CARMELO BENE
Eppure non si può parlare che di emozione (di altissima emozione) quando Carmelo Bene chiude i suoi Quattro diversi modi di morire in versi (1974), recitando la poesia di Pasternak in morte di Majakovskij, soprattutto mostrando le immagini dei funerali di Majakovskij e poi di Pasternak, e la bara di questi, aperta, portata a spalla dalla folla commossa: “Ah, se avessi allora presagito”. Se vesse presagito, allora, che le righe con il sangue affluiscono alla gola e uccidono, non avrebbe sottoscritto l’impegno. I poeti si salutano l’un l’altro post-mortem. Majakovskij saluta Blok. Pasternak saluta Majakovskij. Carmelo Bene saluta Pasternak. Siamo all’interno d’un teatro in fiamme, parzialmente crollato. Fuochi elettronici ardono dietro i palchi, come televisori accesi. Da uno di essi si affaccia Carmelo Bene, in gessato scuro, sigaretta in bocca alla malandrina, come il teppista di Esenin. Rumore di percussioni, proveniente da un altrove, accompagna il suo dire, finché non appare la postazione di Vittorio Gelmetti, musicista/rumorista, allo stesso modo di Mauro Contini in Lorenzaccio (1986); solo che sarà compito di Contini (guerriero in corazza ferrata) l’esser sempre fuori-tempo, di non lasciar mai coincidere l’azione e la sua scia sonora, mentre qui vale il contrario. Il teatro in rovina arde, bruciato nell’incendio della rivoluzione. Un’ala di vento fa ondeggiare la triste oscurità. Nei palchi dove sedevano i borghesi, ormai arde il fuoco e si aggira un teppista. Bene re-cita Esenin: “Stasera ho tanta voglia di pisciare/dalla finestra mia contro la luna”. 28
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II. Morire in versi
Poi lo scenario cambia. Subentra il gelo. La neve cade dal soffitto sfondato sulle poltrone sfasciate, sulle travi di legno carbonizzate e le imbianca. Potrebbe essere l’aspetto di una strada di Pietroburgo, percorsa dal passo marziale dei Dodici di Blok, in una sera cupa di bufera. Ma l’eco cadenzata dei loro passi svanisce, come quella di fantasmi nell’ombra. Non c’è che la morte, la morte in versi. Il viso affilato di Pasternak nella bara: Ah, se avessi allora presagito, quando mi avventuravo nel debutto che le righe con il sangue uccidono, mi affluiranno alla gola e mi uccideranno. Mi sarei nettamente rifiutato di scherzare con siffatto intrigo. Il principio fu così lontano, così timido il primo interesse.
In fondo, se il primo spettacolo di (con) Carmelo Bene fu il Caligola (da Camus), all’origine del suo teatro (quello di cui può essere considerato responsabile in prima persona) c’è la poesia, c’è Majakovskij: teatro-poesia, spettacolo-concerto, dove la poesia si accende, arde senza bruciare, grida senza essere udita – e il poeta dichiara la propria incommensurabile inutilità. Che bisogno ho io d’abbeverare col mio splendore il grembo dimagrato della terra? Passerò trascinando il mio enorme amore in quale notte delirante e malaticcia? 29
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CARMELO BENE
Da quali Golia fui concepito così grande, e così inutile?
Non è la rivoluzione, dunque, a bruciare i teatri. Essa semmai li restaura, li imbelletta, effettua su di essi un’opera di imbalsamazione – magari, nel momento in cui si avvia alla massima sclerosi, sostituisce al pubblico borghese un pubblico proletario che in ben poco si distingue da quello antico, se non forse per la maggiore ignoranza dei suoi rappresentanti, il cui unico scopo sembra quello di far dimenticare la rivoluzione ai rivoluzionari. No, a bruciare i teatri è la poesia. Sono i poeti a lasciarvi entrare fuoco, neve e vento, giocandovi la loro stessa vita. Sono i poeti, i giganti inutili. È Carmelo Bene. Mancando una rivoluzione in questa triste Italia, a bruciare i teatri, o il Teatro, doveva essere un sublime anarchico come lui, incendiario metaforico, teppista che piscia dalla finestra verso la luna. È qui che si verifica il grande paradosso: occorre morire in versi perché il Teatro bruci, e renda giustizia permanente a tutte le rivoluzioni.
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III. Pinocchio: quasi un destino
III. PINOCCHIO: QUASI UN DESTINO
Ci sono ragioni profonde che legano Carmelo Bene a Pinocchio, attraverso le versioni che si sono succedute negli anni, dai tempi del Teatro Laboratorio alla produzione TV del 1999 – ragioni che si potrebbero riassumere in quelle parole della Fata o Bambina dai Capelli Turchini (“Ma tu non puoi crescere, perché i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini, muoiono burattini”), che suonano come una sentenza, quasi prefigurano un destino. Pinocchio è creatura doppia, ambigua, non diciamo anfibia, solo perché una delle sue nature confina con l’inorganico (è legno stagionato, da falegname), più che col vegetale. Per questo, risulta troppo facile e sbrigativo definirlo burattino. A volerlo mettere in scena, a volerlo filmare, non si sa che pesci prendere, a meno di non mettere decisamente tra parentesi il burattino e puntare sul ragazzo (come ha fatto Luigi Comencini), oppure scegliere la strada del cartoon (disneyano o meno). Benigni, nell’impersonarlo, si è votato a un sia pur coraggioso fallimento, tanto da farci quasi preferire l’ingenua, lontana performance muta di Giulio Antamoro, o addirittura le invenzioni da avanspettacolo di Totò (un cui saggio magistrale si può ancora vedere nel finale di Totò a colori). 31
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CARMELO BENE
Nessun marchingegno alla Rambaldi pare all’altezza del compito, e noi siamo assaliti dal sospetto che Carmelo Bene si sentisse in particolare sintonia col personaggio, proprio in quanto si considerava non-nato. O almeno, non-nato da donna, come il mecha David di Spielberg/Kubrick in Artificial Intelligence (la cui storia non a caso ha un risvolto pinocchiesco). Corpo di non-nato, dunque, quello di Pinocchio come quello di Bene: estraneo agli uomini. Ligneo, eppure non esente da infortuni, malattie e malanni. Corpo metamorfico, esposto alle trasformazioni, fino ai rischi di morte. In fondo, proprio trasformandosi in ragazzo, Pinocchio “muore”. Egli cresce, smette d’essere un burattino discolo, scioperato e disutile, intento solo a divertirsi e baloccarsi, irriconoscente verso suo padre, disperazione della buona Fata, e diventa un ragazzo in carne e ossa, studioso, probo, lavoratore e impastato di pregiudizi. Quando, alla fine, incontrerà il Gatto e la Volpe, invecchiati e in miseria, si rifiuterà perfino di far loro la carità («Se siete poveri, ve lo meritate») e li assalirà a colpi di proverbi popolari («La farina del diavolo va tutta in crusca»), compresi quelli chiaramente mendaci («Chi ruba il mantello al suo prossimo, per il solito muore senza camicia»). Il venir meno del naso – ha scritto lo stesso Bene – «è l’attimo del consegnarsi definitivamente all’obbedienza», non soltanto perché segna l’ingresso nel mondo adulto, che è il mondo imbalsamato dei doveri, ma anche perché il corpo adulto non diviene, piuttosto invecchia e decade. Paradossalmente, è proprio il burattino di legno, o almeno il suo naso, a crescere, ad allungarsi e accorciarsi, secondo che si 32
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III. Pinocchio: quasi un destino
resista o meno alle tentazioni (del resto, quasi sempre irresistibili) della menzogna. Il sipario dello Spettacolo della provvidenza, si apre comunque su uno scenario onirico, tra Lewis Carroll e Jan Švankmajer, dove burattini e maschere animate si stagliano in una luce sospesa, come all’ingresso d’un sogno infantile che manchi poco a trasformarsi in incubo. Pinocchio, in un angolo, siede accasciato su un banco di scuola, di quella scuola che non ha mai gradito frequentare e sempre ha schivato con ogni pretesto: tanto è vero che al banco risulta legato da una catena, e la catena è fissata a sua volta a un collare di ferro attorno al collo, che allude anche ad una certa sua prestazione obbligata di cane da guardia. Contemporaneamente, i suoi piedi bruciano, vicini come sono a un braciere di carboni arroventati. La Bambina dai Capelli Turchini, dal canto suo, non manca di soffiarci sopra, in modo che brucino ancora di più; intanto balla, accarezza la testa del Gatto orbo, abbandonato come un vecchio giocattolo su una specie di cattedra o gioca con una palla, il che personalmente mi fa venire in mente, più che Alice, la bambina perversa del Toby Dammit di Fellini. La Bambina però porta una maschera, come tutti gli altri personaggi, e le Maschere sono intercambiabili, come risulta specialmente negli scambi concitati di battute: vedi Geppetto che litiga con Mastro Ciliegia, o le dispute tra i due dottori (il Dottor Corvo e il Dottor Gufo) circa l’eventuale morte di Pinocchio. La Volpe, dal canto suo, entra in scena con un vezzoso ombrellino rosso, mentre il Grillo parlante è correttamente vestito di nero e, una volta ammazzato, 33
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CARMELO BENE
la sua voce d’oltretomba proviene da un’urna funeraria. Il Giudice, che condanna Pinocchio in quanto vittima di un furto, è uno Scimmione. I becchini sono Conigli (come già in Collodi). L’Omino grasso conduce il carro diretto al Paese dei Balocchi, e guida una pariglia di ciuchini parlanti (ai cui ammonimenti però Pinocchio rifiuta di dare ascolto). Benché anche lui porti una maschera, come personaggio si salva solo Lucignolo, in quanto teppista e dunque alter ego di Carmelo Bene. Invece non c’è il Pescecane, forse perché il suo ventre, nel quale Pinocchio e Geppetto si ingegnano a sopravvivere fino all’ultima candela, è l’antro oscuro del Teatro stesso.
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IV. Prove di cinema: hermitage-ventriloquio
IV. PROVE DI CINEMA: HERMITAGE-VENTRILOQUIO
Se il Teatro è un antro oscuro, a maggior ragione lo è il Cinema, dove il buio è addirittura la condizione del vedere. Ma è possibile vedere un film, senza poter distinguere bene le immagini (e non per l’imperizia dell’operatore)? Questa è la domanda paradossale che subito pone l’inizio di Hermitage, dove Carmelo Bene si aggira, riconoscibile forse solo in quanto sappiamo già che si tratta di lui, in un corridoio oscuro (dell’hotel Hermitage a Roma: altra cosa che sappiamo). Nel buio, non si distingue bene cosa faccia. Forse cerca la porta della sua camera (n. 805, si saprà poi). Per orientarsi, accende fiammiferi, la cui scarsa luce brilla per un attimo nell’oscurità e subito vien meno, senza poterla rischiarare in modo significativo. Ci sembra di capire che traffichi con alcune paia di scarpe, lasciate, come d’uso, davanti alle porte chiuse, ma è impossibile esserne sicuri. Poi, di colpo, è nella sua camera, all’interno della quale notiamo, per prima cosa, un vaso da fiori, con un mazzo di rose azzurre artificiali, posto su un tavolo. Bene entra, si spoglia, si guarda allo specchio (ha la faccia imbrattata di bianco). Si mette a letto, o piuttosto vi entra, come scavandosi una tana sotto le lenzuola, ma non dorme, non resta immobile – si 35
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CARMELO BENE
agita, non trova pace, strapazza cuscini e lenzuola. La sua voce off racconta quella che sembra una storia biblica, protagonista Rachele (in realtà, sono brani tratti dalle prime pagine del suo Credito italiano). In primo piano, compaiono delle lingue di fuoco, come se all’improvviso fosse scoppiato un incendio – ma poi il fuoco, com’era apparso, scompare, e la sua apparizione rimane misteriosa. Carmelo Bene fuma. Dal letto, osserva il vaso da fiori sul tavolo. Il vaso da fiori lo guarda. Campo/ controcampo. Dalla colonna sonora, parte un brano del “Ballo in maschera” verdiano (“Come se fosse l’ultima /ora del nostro amor...”), che però si interrompe e riprende secondo la successione del campo e del controcampo. La musica tace, quando è inquadrato Carmelo Bene; riprende, quando è inquadrato il vaso da fiori; e così via, fino a che Bene si alza, pone il vaso sul cuscino, dov’era lui, e lui prende il suo posto salendo sul tavolo – come se lo scambio reciproco di sguardi fosse stato talmente intenso, da provocare una dislocazione spaziale, uno scambio di atomi (corpo vs oggetto), per cui il corpo si fa oggetto, l’oggetto si fa corpo. Mai guardare un oggetto troppo fissamente. Potrebbe ricambiare. A questo punto, nella camera di Carmelo Bene fa il suo ingresso una sconosciuta (Lydia Mancinelli): è un’apparizione multipla, estatica, aureolata di luce. Potrebbe benissimo essere la Madonna, secondo Carmelo Bene propensa, come si sa, ad “apparire ai cretini” – ma forse la sconosciuta, che ha la stanza n. 804, ha solo sbagliato camera. Come che sia, Carmelo Bene ne rimane folgorato, cerca di trattenerla, si 36
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IV. Prove di cinema: hermitage-ventriloquio
accuccia davanti alla sua porta. Le scrive un biglietto, una lettera d’amore: «Cara, è un divino errare ma il destino ti accompagnò alla mia casa... il passato tuo e mio non conta più... quindi devi tornare... credimi tuo...»; poi passa il biglietto sotto la porta, ma per errore (?) lo fa passare sotto la porta della camera 805, indirizzandolo a se stesso. Errore, davvero? Ancora un effetto dell’oscurità in cui è avvolto il corridoio? O per caso Bene sta citando il “Mihi ipse scripsi” di Nietzsche? Avrebbe egli, sdoppiandosi, scritto a se stesso? Ce ne viene il sospetto quando, di nuovo nella sua stanza, Carmelo Bene apre il biglietto, lo legge e compie due operazioni: con un dito nasconde la zampetta della a, in modo che cara diventi caro; poi, con una matita, ne applica una a tuo, così che diventi tua (e per soprammercato, aggiunge un punto esclamativo!). La lettera, così, diventa lettera d’amore d’una donna a un uomo, a lui, a Carmelo Bene; ma fosse anche rimasta immutata, ci sarebbe sempre da chiedersi se chi la legge sia la stessa persona, uomo o donna, che l’ha scritta. Questo va notato, perché più tardi Bene è tornato, altrove, sulla questione della lettura dei propri scritti (gli scritti di Bene scrittore) da parte di Bene attore, negando che davvero si potessero considerare la stessa persona. In un certo senso, chi legge non ri-legge mai ciò che magari ha appena scritto, in quanto scrivente/leggente, sempre già trasformato da un inesorabile divenire. Qui è già all’opera Gorgia, contro Parmenide (cfr. il secondo dei Quattro Momenti su Tutto il Nulla, girati per la TV nel 2001). 37
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CARMELO BENE
Di nuovo solo, il personaggio acquista sempre di più i connotati d’un Narciso, che si contempla davanti a uno specchio incorniciato di fiori (incorniciato lui, incorniciato lo specchio) o nell’acqua della vasca da bagno. Deciso a “farla finita con chi gli vuole bene”, sia un’amante, la Madre o la Madonna, ora sembra voler accentuare la sua solitudine, gettando il biglietto nel cesso e tirando lo sciacquone, al cui fondo si indovina anche, poco prima di scomparire, una fotografia della sconosciuta. Sì, Carmelo Bene ha deciso di rimanere solo, di bastare a se stesso. “Ieri come oggi, prendere dieci in storia per far contenta sua madre, o uccidere sua madre, per far contenta la storia”: in realtà, l’opzione è in favore della seconda ipotesi, ma non certo “per far contenta la storia”, dato che per Carmelo Bene la storia non esiste. Seduto su una ricca poltrona di velluto rosso, Bene si riempie una coppa di vino, e beve, mentre dalla colonna sonora parte “Ella giammai m’amò” (dal Don Carlos di Verdi). Infine si addormenta (o muore?)1. La coppa gli scivola dalle mani.
Addormentarsi, morire. Come distinguerli, almeno sulla scena? Ha scritto Maurizio Grande: «Penso al modo di morire in scena dei personaggi di Carmelo Bene. Anzi, al modo di morire di Carmelo Bene, possibile soltanto sulla scena, tanto è vero che non è un morire, ma un addormentarsi dentro la nostalgia: della fine dello spettacolo e della fine di un qualche cosa che non può essere […]. Addormentarsi è un modo di aggirare la morte, la morte come intrigo e destino, i cadaveri come reperti teatrali. È un modo di fingere la morte, di anticiparla, di addestrarsi a scomparire senza cedere all’esperienza della morte», in Id., La riscossa di Lucifero, Bulzoni, Roma 1985, citato in A Carmelo
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IV. Prove di cinema: hermitage-ventriloquio
Prove tecniche di obiettivi e di filtri, ha definito questo film lo stesso Carmelo Bene, in vista di Nostra Signora dei Turchi. Sarà così, ma l’occasione comunque non è persa per sperimentare anche inediti accostamenti tra immagini e sonoro, in particolare tra immagini e musica, nel segno del melodramma verdiano. È a partire da qui che alcuni, non del tutto a torto, hanno potuto parlare d’un “lato italiano” di Bene, suscitando però le più violente ripulse da parte sua (“Verdi è italiano per sbaglio”). L’importante, comunque, è capire che ogni sequenza è segnata da un determinato ritmo musicale, mentre non c’è nessuna corrispondenza “di contenuto”. Anche qui, però, bisogna intendersi: se la musica marcia a un ritmo, le immagini seguono un contro-ritmo, e il risultato non è tanto un accordo, quanto un dis-accordo. In questo senso, il lavoro di Carmelo Bene è verdiano in quanto è anti-Verdi, così come è shakespeariano in quanto è anti-Shakespeare. Nel tritacarne beniano, tutto si mescola, sminuzzato in piccoli pezzi. Non siamo di fronte a una composizione, ma a una de-composizione. Bene è l’acido corrosivo che tutto sgretola, a cominciare da se stesso, dal suo volto nei primi e primissimi piani, spesso ricoperto d’una pasta bianca che ne mette in evidenza il lato spettrale. Non è il trucco d’un clown, o se lo è, è un trucco che si sta disfacendo nel momento stesso in cui viene applicato. Il viso “antico” e il corpo di Bene sono quelli dei fratelli Citti, ricordano Totò, i freaks di Browning, le Bene, a cura di G. Costa, Editoria & Spettacolo, Roma 2003, p. 137.
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CARMELO BENE
creature mostruose di Ciprì e Maresco. E il suo volto si disfa pian piano, assieme al trucco. Se Hermitage è una prova di cinema, non possiamo dire cosa fosse Ventriloquio, cortometraggio girato nel ‘70 da Carmelo Bene e, a quanto pare, andato perduto. Un’altra prova di cinema? Forse una prova di Voce (nel cinema), stando alle pagine di Huysmans dalle quali Bene aveva preso spunto. Siamo nel IX capitolo di A’ rebours. Des Esseintes ha conosciuto e sedotto, grazie ai suoi soldi, una ragazza che esercita la professione di ventriloqua in un caffè concerto. Al fine di perfezionare lo scenario dei loro amplessi, egli arreda la stanza da letto con una sfinge in marmo e una chimera di terracotta, poi obbliga la donna, durante gli amplessi, a dar voce ai due mostri, ripetendo le battute di Flaubert nella Tentation de Saint Antoine. Presto però neppure la prosa di Flaubert ha più effetto. Per risvegliare i suoi sensi intorpiditi, Des Esseintes ricorre allora alla paura (l’afrodisiaco più efficace, in certe situazioni). “Mentre abbracciava la donna, una voce avvinazzata scoppiava di dietro all’uscio” – la ventriloqua presta la voce a un immaginario amante geloso, che urla, minaccia, inveisce, intima di farlo entrare. In quei momenti di panico d’un uomo che si sente minacciato, Des Esseintes “provava godimenti inauditi”. Purtroppo non abbiamo idea di come si svolgesse effettivamente questo gioco delle voci, tra Carmelo Bene e l’altra interprete, Lydia Mancinelli: voci apparentemente off, in senso cinematografico (già in Huysmans), ma in realtà in (tanto in da provenire dalle viscere); non sappiamo se Bene si sia anche 40
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IV. Prove di cinema: hermitage-ventriloquio
lasciato affascinare da un altro rapporto di Des Esseintes (quello con l’acrobata miss Urania), basato sull’inversione dei sessi (femminilizzazione di lui, virilizzazione di lei); non sappiamo (anche se è probabile) se prendesse ispirazione dal gusto di Des Esseintes per i colori, le gemme e i fiori artificiali (un vero e proprio “mal de’ fiori”)... Ma basta. Si può solo sperare che, un giorno o l’altro, il film venga ritrovato.
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CARMELO BENE
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V. Nostra Signora: un romanzo teatrale
V. NOSTRA SIGNORA: UN ROMANZO TEATRALE
Nella sua prefazione alla ristampa del 1978 di Nostra Signora dei Turchi (scritto nel ‘64, edito per la prima volta nel ‘66), Ugo Volli definisce questo “romanzo” come un libro-teatro non perché trascriva o parafrasi o narri una vicenda teatrale. Ma perché è costituito di materiali teatrali, e soprattutto perché è una grande metafora del teatro, di quell’impasto di follia, imbroglio consapevole, destrutturazione della realtà, ironia, ciarlataneria, trucco esplicito e magia che è il teatro secondo Carmelo Bene1.
Volli si avventura anche nell’impresa di delineare una sorta di “trama” del “romanzo”, che individua come storia di un tale che decide di “diventare cretino” e per riuscirci «si immerge in infinite cerimonie decadenti e religiose, fatte di santi e di sangue, di parole ripetute e di atti mancati»2. Non si tratta, però, di un personaggio dotato di C. Bene, Nostra Signora dei Turchi, Sugar, Milano 1978, p. 14 (prefazione di U. Volli). 1
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Ivi, p. 12.
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CARMELO BENE
soggettività, volontà e capacità di prendere decisioni (dunque non si può dire che decida di diventare cretino): «Al contrario è un non-io, un recitante fornito solo della sua realtà esteriore, un attore che è ciò che finge di essere»3. A malapena, dunque, lo si potrà definire personaggio, ancora meno protagonista, salvo che per comodità. Dovendone scrivere, dato che non ha neppure un nome, sarebbe preferibile chiamarlo lui o egli, visto che parla in terza persona. Quello che più ci interessa, però, è individuare ciò che differenzia il romanzo dal successivo film, rimpiangendo che non sia possibile compiere analoga operazione per la trasposizione teatrale, di cui non risultano pervenute tracce visive. Diremo, allora, che il film comincia a pagina 58 del romanzo, dove si parla del “palazzo moresco”. Il romanzo, invece, introduce subito il protagonista senza nome, che ingiunge a una certa Flora, contraddittoriamente, di amarlo e (non o) di vestirsi e andarsene; ma non c’è nessuna Flora. Oppure c’era, e se n’è già andata. Quello che ci pare di capire è che il protagonista (chiamandolo così sempre per comodità) stia davanti allo specchio, impegnato a truccarsi, cingendosi il capo con una corona di spine estratta da uno dei suoi tanti cilindri da teatro. Si tratta dunque di un attore? Sarebbe allora un attore ben strano, poiché, essendosi ferito col frammento di un bicchiere rotto, ne approfitta per disegnare col sangue i contorni della 3
Ivi, p. 13.
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V. Nostra Signora: un romanzo teatrale
sua immagine allo specchio. Sembra che soltanto questo doppio tracciato col proprio sangue completi veramente l’operazione del trucco: perché il trucco è meditazione, ossia estrapolazione di uno degli altri innumerevoli “se stesso” che ci abitano e ci ossessionano. Con altri “se stesso” immaginari, accompagnatori inesistenti, il protagonista finge di conversare, litigare, scambiare insulti o convenevoli – se recita, recita davanti a un pubblico anch’esso inesistente, o invisibile. Torna spesso a visitarlo l’apparizione di Santa Margherita, che lascia spesso il Paradiso per scendere da lui, lo protegge, lo cura, gli cambia le bende quando si ferisce (come spesso gli accade), ma è anche capace di rimproverarlo aspramente per il disordine della sua vita. Se lui aspira veramente a raggiungere uno stato di ebetudine assoluta, la Santa, mezzo infermiera, mezzo moglie, con i suoi eccessi iper-protettivi, rappresenta un ostacolo, tanto più noioso quanto più benintenzionato. Dell’opera di rincretinimento fa parte il suo frequente buttarsi dalla finestra. Anche se abita al primo piano, e dunque non si tratta di un gran salto, spesso si fa male. Finge allora di voler tranquillizzare una folla di astanti, di soccorritori preoccupati, risalendo su per le scale e assicurando “Non è successo niente”. Ogni volta si sorprende che, in realtà, non ci sia nessuno. Solo gli oggetti, in fondo, fissi o mobili che siano, lo osservano, ricambiando il suo sguardo: il che spiega come, in Hermitage come in Nostra Signora, egli tenti volentieri di mettersi al loro posto: per esempio, salendo su un tavolo al posto di un vaso 45
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CARMELO BENE
da fiori, e sistemando il vaso sul letto nel quale dovrebbe riposare lui. Gli oggetti si personalizzano, egli si oggettivizza, in uno scambio cerimoniale che può coinvolgere lettere non spedite e mai ricevute, documenti, perfino un passaporto. Questo passaporto, testimone della sua identità, nel romanzo viene buttato anch’esso più volte dalla finestra e lui (“era incredibile”), sempre correva giù per le scale a raccattarlo dal selciato. In Nostra Signora, invece, sarà conteso tra lui, Carmelo Bene, in veste di gangster, e un turco fuggitivo, forse un emigrante, quello che oggi si direbbe un clandestino, infine ucciso a colpi di pistola sulla spiaggia davanti al mare. “In altri meriggi, preferiva salire in terrazza, più su delle palme, davvero molto più su del mare” e immaginarsi d’essere seguito da turbe innumerevoli di ammiratori, in attesa d’una sua parola. Egli li arringava, cercando di chiarire la sua posizione, e alla fine li invitava a buttarsi giù: una vera carneficina, data l’altezza. Altre volte, scendeva di corsa i gradini consumati della scala esterna, immaginando di gridare “Al ladro! Al ladro!”. Oppure, preso da una furia incontenibile, distruggeva gli oggetti della sua stanza (“libri, quaderni, seggiole”) e poi, una volta rinsavito, si adoperava ad aggiustarli, con nastri isolanti, attrezzi vari, mastice per porcellane. Uno di questi eccessi, poteva capitare magari proprio nel giorno in cui si erano dati convegno i vescovi in casa sua, per decidere la sua santità. E c’era allora il pericolo che lo facessero santo, “lui che voleva diventare cretino”. Bisognava impedire quel concilio, scacciare quegli anziani prelati, magari aggredendoli con atroci insulti. 46
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V. Nostra Signora: un romanzo teatrale
Qui Carmelo Bene introduce la famosa distinzione tra cretini che hanno visto la Madonna, e cretini che non l’hanno mai vista. Distinzione che si ritroverà in Nostra Signora. Cerca di convincere i vescovi della sua indegnità, paragonandosi a San Giuseppe da Copertino, che sapeva volare e riposarsi a terra con la leggerezza di una piuma, e tuttavia era capace di starsene per ore a bocca aperta come un ebete. Va notato che su Giuseppe Desa da Copertino, detto Frate Asino, Carmelo Bene ha scritto quella che si può considerare la sua unica vera sceneggiatura (se così si può chiamare) in vista di un film che non si fece mai. Si tratta di un frate vissuto nel ‘600, noto alla religiosità popolare come “Santo dei voli”, per la frequenza delle sue levitazioni in stato di estasi, non a caso devotissimo alla Madonna. Ma quelli che vedono – scrive Carmelo Bene – non vedono quello che vedono, quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la Madonna, sono loro la Madonna che vedono [...] Essere santi è perdere il controllo, rinunciare al peso, e il peso è organizzare la propria dimensione4.
In questo senso, le cadute del protagonista di Nostra Signora (del romanzo come del film) sono ripetuti tentativi di rinunciare al peso, come metodo per diventare finalmente il più cretino. Ma all’orizzonte, sul mare, appare di nuovo la 4
Ivi, p. 52.
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CARMELO BENE
flotta turca. Cominciava un altro assedio, un assedio di turchi/turisti, disponibili a spendere, in onore dei quali il paese restaura e imbianca le sue case, passando sui muri nuove mani di calce, con l’incoraggiamento dell’azienda autonoma del turismo. Questo è il punto in cui, s’è detto, compare il palazzo moresco (e comincia Nostra Signora): Attiguo a casa sua stava un palazzo moresco, denunciato dal salmastro, orientale come un riflesso sbiadito, scrostato sotto le volte degli archi e sulle cupole, abitato l’inverno da cristiani comodi che nell’estate pagana cedevano le due ali sul mare, per non morire di fame5.
Sia il romanzo che il film, poi, introducono il tema delle ossa degli ottocento e più martiri, che furono uccisi dai turchi dopo il lungo assedio, per essersi rifiutati di abiurare la religione cristiana: ossa che figurano nella cripta della cattedrale di Otranto, ossa e teschi, cui la religiosità popolare attribuisce il miracolo di qualche brandello di carne rimasto, dopo tanti secoli, ancora attaccato. Uno dei teschi, addirittura, ha conservato gli occhi, e nel film sono gli occhi di Carmelo Bene, in sovrimpressione. Nel libro, Carmelo Bene si immedesima in uno di quei martiri, reliquia oggetto di venerazione, e riceve l’omaggio di una visitatrice ritardataria, d’una Lei che forse è Santa Margherita, tornata ancora una volta sulla terra per lui. 5
Ivi, p. 58.
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V. Nostra Signora: un romanzo teatrale
A questo punto, il protagonista rivela forse quale potrebbe essere la sua attività lavorativa, proponendo alla locale azienda turistica di collaborare all’allestimento di una sacra rappresentazione da lui diretta, da svolgersi durante l’assedio turco, per istallare il dubbio e la vigliaccheria negli animi dei concittadini, preparandoli spiritualmente alla resa, al fine di non farne dei martiri. Allega, all’uopo, tutto un album di recensioni negative. Ma la proposta viene bocciata, visto che, proprio in quel momento, la Chiesa ha un gran bisogno di martiri. Il protagonista decide allora di partire, di lasciare il paese alla chetichella, nell’imminenza della festa di San Lorenzo, sempre celebrata in loco con un “tripudio esplosivo” di fuochi artificiali – e in previsione della partenza, per evitare incursioni dei ladri nella casa vuota, inchioda porte e finestre, sbarrandole con assi di legno, mura l’ingresso e svolge tutto attorno ai muri, nel giardino, rotoli di filo spinato. Prepara quindi le valigie, stipandole alla cieca di oggetti impensati (scena che invece appare quasi all’inizio di Nostra Signora). Poi si avvia, proprio nel giorno di San Lorenzo, trascinando a fatica le due valigie pesantissime per le strade del paese, fino alla piazza principale, dove i turchi (i turisti) siedono al caffè, aspettando lo spettacolo dei fuochi; ma qui si sente male, vomita, deve essere soccorso, e riposare un po’ seduto su una sedia, nel bar: sequenza, questa, che possiamo far corrispondere a quella di Nostra Signora, in cui Carmelo Bene si pratica da solo un’iniezione, in pieno giorno, nella piazza del paese, tra la gente seduta al caffè. Per la prima volta nel libro, qui, si accenna anche 49
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CARMELO BENE
al fatto che il protagonista abbia un nome, anche se questo nome quasi non viene detto. Mentre è occupato a riprendersi, nel bar, egli urta “casualmente” (ossia, con voluta malignità) uno dei “turchi” (un turista lombardo). Ha con lui un breve colloquio, uno scambio di impressioni sui rispettivi luoghi d’origine (l’altro è nato sul lago di Como). Bene dice “Bene!”, non si sa se presentandosi o in riferimento al lago. Si constata una strana omonimia: anche l’altro, a quanto pare, si chiama Bene – rivelandosi così, alla fine, l’ennesimo appartenente a quella lunga serie di doppi, solo con i quali il protagonista riesce ad avere qualche (illusorio) rapporto. Il progettato viaggio, ora, si risolve sempre più come un viaggio mancato: il protagonista fa fermare la vecchia “balilla” sulla quale stava viaggiando, e si fa portare di nuovo indietro, fino all’imbocco del paese. Poi prosegue a piedi, trascinando le due pesanti valigie per tornare a casa sua. Non si capisce se sia solo, o in compagnia di una ragazza (forse della stessa Margherita?) o se lei lo aspetti a casa. Comunque procede nella notte ormai discesa, cercando di non farsi vedere, mentre si scatenano le luminarie e il frastuono dei fuochi artificiali. Nell’oscurità, bambini lanciano pietre e lo feriscono. Difficile rientrare in casa, in quella casa che era stata preventivamente sbarrata, e che stenta a riconoscere. Forse ha proprio sbagliato casa, nell’oscurità. È entrato dai vicini. O forse no, perché qualcuno sta aspettando proprio lui: un editore, che vuole pubblicare le sue lettere. Nel buio, impaurito dal rumore dei fuochi, un bambino piange. No, non era a casa sua, era la casa accanto, 50
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V. Nostra Signora: un romanzo teatrale
separata da un muro comune, eppure ugualmente diroccata, come se un pazzo (un altro?) si fosse divertito a sfasciarla. Era poi rientrato chez lui, deciso a chiudersi a chiave senza aprire più a nessuno, in attesa che le ferite guarissero. Ma ora appare Santa Margherita, decisa a curarlo, a sistemargli le bende e cambiargli le fasce, senza badare alle sue proteste. Giocano a carte, in quattro: lui, la Santa, il ricordo di lei e se stesso. Sul tavolo, ci sono le carte del morto, dal lato davanti allo specchio. Il protagonista è geloso del morto, o almeno finge di esserlo, fa una scenata alla Santa, che se ne va (torna in Paradiso?) indispettita. Che non pensi di venire con lei: non lo lascerebbero passare. Un chiostro, un convento di frati. Un bambino insegue una farfalla dalle ali color rosso e oro, poi si ferma, scoppia a piangere, spaventato dall’apparizione improvvisa del protagonista. Una ragazza, anche lei quasi una bambina, alla quale era evidentemente affidata la sua custodia, lo raggiunge, lo prende in braccio, lo consola. Il bambino, agitandosi aggrappato al suo collo, le scopre i seni, le solleva la veste. Affascinato, lui tenta di seguirli, o perlomeno, di vedere in che direzione vanno; ma nella cucina è bloccato da un frate (anziano), che lo rimprovera aspramente, rompendo sedie, pentole, tazze, tegami. Furioso, spacca i tubi dell’acqua, e il pavimento si allaga. Poi, benché ora fuori piova a dirotto, lo manda al pozzo, a prendere acqua, lui che è giovane. In Nostra Signora, Carmelo Bene è il frate anziano e alternativamente il frate giovane. Lavora, nella sequenza, qualche memoria di una frequentazione giovanile al collegio degli Scolopi. Nel libro, si 51
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CARMELO BENE
dice esplicitamente: è il protagonista a crearsi, per orgoglio, la figura di questo frate anziano, che sulle prime lo strapazza e a un tratto si lascia umiliare; ma la ragione principale di tutto questo è un’altra: i frati cucinano bene. C’è stato, forse, un appuntamento con la Santa, che difatti riappare all’ora stabilita; ma il protagonista la liquida, col pretesto di sentirsi male. Di nuovo lei se ne va irritata. Tornato icona tra le icone, martire tra i martiri, agghindato di collane, braccialetti, anelli, sotto una teca di vetro, egli dà appuntamento alla ragazza di prima (quella che aveva preso in braccio il bambino), a casa sua alle dieci. Ma qui irrompe di nuovo la Santa, facendo l’ennesima scenata di gelosia. La ragazza fugge, portata via da un cavaliere bianco-vestito, che forse è l’ennesima incarnazione del protagonista. Lui si getta all’inseguimento, insegue se stesso. Ma il palazzo moresco, ora, se ne va, rimpatria, viaggia verso Tunisi, galleggiando sull’acqua. Lui chiama Flora, la ragazza che chiamava all’inizio del libro. Le dice di vestirsi e andarsene. “Non c’era nessuna Flora. Oppure s’è vestita e se n’è andata”.
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VI. Nostra Signora. Il cinema come partitura musicale
VI. NOSTRA SIGNORA. IL CINEMA COME PARTITURA MUSICALE
Mi capitò molti anni fa, all’uscita di Capricci, di affrontare il discorso sulla morte nel cinema di Carmelo Bene e di collegarlo a Nostra Signora dei Turchi, come “delirio arabo-barocco”1. Mi meraviglio, oggi, della disinvoltura con la quale avevo coniato questa categoria: che cosa può mai essere un delirio “arabo-barocco”? Il fatto è che, senza rendermene pienamente conto, avevo assimilato due diverse istanze presenti addirittura nell’occasione produttiva da cui Nostra Signora era nato: ricevuto un risicato finanziamento per girare alcuni documentari sul barocco leccese, il salentino Carmelo Bene non poteva che reimbattersi nel (falso) palazzo moresco dell’infanzia, aperto sul mare, evocatore di scorrerie turche e di (successive) invasioni turistiche. Il luogo del delirio arabo-barocco dunque non esisteva, era puramente mentale - ma questo non impediva di situarlo precisamente (e paradossalmente) in una “terra mobile” come il Salento. Terra mobile, s’intende, non per terremoti, ma per la propensione Cfr. A. Cappabianca, Capricci, in “Filmcritica”, n. 202 (1969), pp. 407-408. 1
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CARMELO BENE
dei suoi palazzi a viaggiare, salpando come navi verso il mare aperto. Era precisamente questo il destino del palazzo moresco, palazzo e scenografia insieme: Mattinata piovosa, le arcate come rondini allineate, ali aperte le bifore animate, il palazzo moresco se ne va. Rimpatria dove sono altri stormi di follie, si autentica incastrato in una via popolare di Tunisi, dimora inconsapevole a eccezionali vicende ordinarie. Se ne va, galleggiando sull’acqua, corroso dalle obiezioni occidentali, santuario vagante alla ricerca di sacerdoti sempre che lo inventino, incurante del pubblico africano. E dove toccherà la sponda, oltremare, starà naturalmente, come non se ne fosse mai staccato. E i turchi lo abiteranno a poco prezzo2.
Il film Nostra Signora è stato più volte accuratamente analizzato, e non si intende qui ripetere il catalogo delle sequenze, che somiglia troppo all’esercizio di vivisezione di un corpo vivo. Preferiamo procedere per flash, magari a partire da ciò che, a nostro parere, può ancora fare problema. Per esempio: la breve o brevissima durata delle inquadrature, la loro ossessiva moltiplicazione, il ritmo frenetico col quale si succedono. Ultimamente, ci sono stati molti film (da odiare), in cui un’inquadratura che duri più di tre secondi è considerata già C. Bene, Nostra Signora dei Turchi, Sugar, Milano 1978, pp. 155-156. 2
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VI. Nostra Signora. Il cinema come partitura musicale
troppo lunga, al fine di non costringere lo spettatore al benché minimo sforzo, al di fuori di una visione mordi-e-fuggi. Questo ritmo frenetico è in realtà un non-ritmo, un’insensata iterazione, un cullarsi ipnotico del vedere, staccato dall’attenzione: film per cerebrolesi televisivi. Si tratta di procedimenti che non si sognano neppure di contestare la narrazione, anzi, rendendola più fluida, più scorrevole, ne confermano la preminenza. È un “tutto scorre” che non fa scorrere niente, salvo le meschine avventure della trama. Con Carmelo Bene, invece, non si capisce mai bene cosa stia succedendo, non è possibile “raccontare” alcunché. Si può passare senza mediazioni diegetiche, senza “un percorso”, da un esterno a un interno, da un interno a un esterno, da un interno che in realtà è un esterno a un esterno che in realtà è un interno. Da un primo piano a un totale, e viceversa. Un gesto, per quanto breve, può essere frazionato in tre, quattro inquadrature staccate, con annesse variazioni cromatiche. Sono identificabili (non sempre) gli interpreti, ma i personaggi? Addio, grammatica del cinema. Tutto è subordinato a rendere problematica la visione. Meglio: a renderla non-pacifica. Niente deve andare da sé. Ma per quale ragione, dopo tutto? Se una o più visioni esaurissero il suo senso, il film si potrebbe gettare via come il guscio di una castagna secca. È quanto anche Artaud rimproverava al cinema, che può essere divertente da fare, mentre lo si gira, ma poi, una volta finito, inscatolato e proiettato, è quello che è e, contrariamente al teatro, non è più suscettibile di variazioni o modifiche. Bisogna allora che il senso rimanga aperto, indipendentemente dalla 55
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CARMELO BENE
immodificabilità del materiale. Meglio: bisogna che ogni volta risulti un senso diverso – e questa è l’avventura che Carmelo Bene ha pensato valesse la pena di correre, col cinema, almeno finché ci ha creduto. Il montaggio non è allora, per Carmelo Bene, uno dei modi per costruire il film, ma uno dei modi per impedire che assuma un senso definito (o definitivo). Prendiamo un’azione elementare: saltare da una finestra, per esempio, gettarsi nel vuoto. “Non era la prima volta che si buttava da una finestra” osserva la sua voce off, con ciò già rendendo paradossalmente abitudinaria un’azione insensata. Il salto, già breve in sé, è spezzettato da stacchi sull’asse verticale: è impossibile risalire alla sua durata. A Bene non interessa il percorso del corpo, ma solo l’attimo: il corpo schiantato. Proprio questo finirà per rimproverare al cinema: l’incapacità di andare al di là dell’immagine descrittiva. E qui il suo cinema va proprio oltre il cinema, se è vero che il cinema è nato per insegnarci a riscoprire non tanto la traiettoria, quanto il tempo d’un movimento, e perfino il tempo d’una stasi, l’immobilità di un grattacielo o di un uomo che dorme (Warhol). Chissà se Bene sarebbe mai stato in grado di filmare un uomo che dorme. Ha spesso filmato se stesso su un letto, questo si, a partire da Hermitage, ma solo per sconvolgere il letto stesso, mandare all’aria lenzuola e cuscini, scavare tunnel al di sotto delle coperte, fingere di nascondersi: una specie di terremoto, un’agitazione senza tregua, il rifiuto del riposo, l’epitome dell’insonnia. Forse per lui il letto era sempre letto di morte, qualcosa contro cui ribellarsi, da non accettare. Letto di morte anche 56
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VI. Nostra Signora. Il cinema come partitura musicale
in quanto letto dell’amplesso impossibile, non per impotenza, ma per eccesso di potenza. C’è sempre una corazza chiodata a segnare l’inavvicinabilità dei corpi: ferro vs carne femminile, scontro di materie incompatibili, anche se rimane da stabilire quale sia la più coriacea. Il cinema di Bene, dunque, rifugge dal pianosequenza. Preferisce frazionare l’azione, tanto che, in Nostra Signora, risalta come una vera e propria anomalia la corsa d’un contadino, seguito con una certa continuità dalla camera-car per le strade del paese, fino a quando crolla a terra sfinito – e il sonoro, da parte sua, contribuisce ad alterare il senso dell’azione (ammesso che ce ne sia uno), sovrapponendo la voce d’un “grande attore” (Ruggero Ruggeri che recita Il Trionfo di Bacco e Arianna) alle note di un valzer verdiano (dal Ballo in maschera). A dettare legge, ancora una volta, è il ritmo, non la mimesi. Da questo punto di vista, si potrebbe addirittura considerare Nostra Signora come un vero e proprio omaggio a Verdi e all’universo del melodramma: omaggio in senso beniano, che include sempre una certa dose d’irrisione. Inutile, però, illudersi di identificare il senso d’un film di Carmelo Bene: si ha sempre a che fare con una molteplicità di sensi, concomitanti e contraddittori. Il tema della morte, ad esempio. Non ce n’è un altro, forse, capace di porsi più di questo come significante ultimo. E tutta la prima parte di Nostra Signora, in effetti, sembra situarsi nell’ottica della morte, giustificando in parte la caratterizzazione del film come delirio. Delirio di morte è la piramide di ossa e teschi 57
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CARMELO BENE
dei martiri accatastati nella cattedrale di Otranto. Martiri cristiani, massacrati dai turchi di Maometto II dopo l’assedio del 1480; ossa e teschi cui la pietà popolare aveva attribuito a lungo la persistenza di pelle e brandelli di carne. Uno, anzi, “ha conservato addirittura gli occhi” – ma sono gli occhi di Carmelo Bene, sovrimpressi in primo piano, a uno dei teschi. Dunque si pone, Carmelo Bene, come morto e martire, vittima dei turchi – salvo sdoppiarsi quasi subito in turco e gangster: il Carmelo Bene/gangster che indossa un gessato da killer cinematografico (quale sarà poi, come attore, in Colpo rovente di Zuffi), insegue il Carmelo Bene/turco attraverso un campo di papaveri rossi fino una scogliera a strapiombo sul mare, e lo uccide a colpi di pistola. Il Carmelo/turco cade riverso, stringendo nella mano fasciata un ormai inutile passaporto. Più tardi, l’editore in divisa coloniale deciso a pubblicare le lettere giovanili di Carmelo Bene (peraltro mai spedite), si rammarica esplicitamente del fatto che l’autore sia ancora vivo. Bruscamente (come sempre in Carmelo Bene), subentra il tema, analogo al primo, ma differente, del viaggio-fuga impossibile, che torna un po’ in tutto il film. Bene, le mani legate dietro la schiena, in vestaglia rossa che lascia intravvedere un corpo abbondantemente fasciato, strisciando per terra (anche i piedi sono legati), si industria a riempire una valigia afferrando con i denti elenchi telefonici e qualche indumento, mentre sembra che la stanza in cui avviene l’azione vada a fuoco. Le fiamme, in primo piano, lambiscono i suoi piedi; e viene subito in mente l’analoga sequenza 58
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VI. Nostra Signora. Il cinema come partitura musicale
nella stanza d’albergo di Hermitage. Neppure qui esiste l’ombra d’una qualche giustificazione narrativa. L’unica cosa che possiamo supporre, è la persistenza di un’ossessione che deriva dal Pinocchio, nelle sue varie versioni, quando il burattino si addormenta vicino al braciere, e i piedi gli vanno a fuoco (costringendo Geppetto a rifarglieli). Perdere i piedi, dopotutto, è il più radicale impedimento a qualunque velleità di fuga o viaggio, come e più dell’essere legato e non riuscire a prepararsi la valigia. Ma poi è anche significativo il fatto che venga a fatica cacciato nella valigia stessa un volantino politico che inneggia a re Costantino di Grecia, allora appena deposto da una giunta militare e in seguito costretto all’esilio. Sarà invece, l’abbiamo detto, proprio il palazzo moresco a viaggiare, salpando come una nave imbandierata, diretto non verso un esilio, ma verso la (presunta) terra d’origine. Appare Santa Margherita (Lydia Mancinelli), un po’ come appariva la sconosciuta sulla soglia della stanza 805 in Hermitage, ma munita di aureola, decisa a salvare Carmelo Bene, ad accudire le sue ferite, fargli da infermiera, cambiargli le bende. Per lui “ha lasciato il Paradiso”, per intraprendere l’impresa di farlo Santo, o almeno tentare. È come se, in un susseguirsi di immagini febbrili, aleggiasse anche su Carmelo Bene l’incombere di un’aureola, sotto forma di mascherino, specchio tondo o spalliera circolare del letto. A questa imposizione, lui si ribella, sfugge, si butta a terra, si agita frenetico, coperto di bende, nelle inquadrature a luce dominante blu; ma invano, a quanto sembra, perché la Santa ha ormai trovato 59
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CARMELO BENE
posto nel suo letto, fuma e legge tranquillamente “Annabella”. Santa Margherita è un’apparizione (per quanto concreta) e richiama per ciò stesso “i cretini” cui è apparsa la Madonna. Cretini/santi, mai all’altezza della loro visione, anche se capaci magari di volare, come Giuseppe da Copertino. Asino che vola. Anche Carmelo Bene aspira a farsi cretino, ma la Madonna non gli è mai apparsa (al più, Santa Margherita). Tentando di volare, non fa che inciampare e cadere. La sua unica possibilità di effettiva cretinizzazione è il diventare cosa. Anche qui, come in Hermitage, fissa intensamente un vaso di fiori posto su un tavolo, e poi sale sul tavolo stesso, prendendone il posto. La Santa assume, sul letto, l’aspetto di una macchia scura, d’un corpo mummificato. Ma non demorde. Carmelo Bene, allora, prova a sfuggirle, sdoppiandosi. Si sdoppia, nella lunga sequenza dei due frati, il giovane e l’anziano, tutta svolta all’interno di una cucina dalle pareti dipinte di rosso, mentre fuori piove, anzi, si sta scatenando una tempesta. È una scena d’iniziazione, in cui Bene, s’è detto, pesca forse tra i ricordi dell’infanzia, a scuola dagli Scolopi, ma non è da escludere qualche suggestione proveniente dallo spettacolo Il rosa e il nero (1966), ispirato a Il monaco di Lewis. Ha scritto in proposito Maurizio Grande: L’episodio è costruito con lunghe inquadrature girate per lo più con la macchina ferma, mentre si assiste ad una straordinaria mobilità dell’attore che passa rapidamente da un ruolo all’altro, truccando la voce e i toni, differenziando le cadenze 60
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VI. Nostra Signora. Il cinema come partitura musicale
e la psicologia dei due personaggi, offrendo un ritratto vivo, animato, del rapporto tra il vecchio e il giovane3.
Il vecchio frate, munito di barba posticcia, affila coltelli, beve vino a garganella, fuma, addenta pomodori e mele rosse, e intanto cucina, cuoce gli spaghetti, ma poi, forse irritato per una scottatura, li getta sul pavimento. Infine si dedica alla preparazione di una frittata, di una (h)om(m)elette (in assenza di Hamlet). Intanto catechizza il frate giovane, gli offre buoni consigli, prima di tutto quello di “lasciar perdere le puttane”, benché il giovane replichi timidamente che non si tratta di una puttana, ma di “una bambina”. Ora però il problema è che la Santa lo sta aspettando, e lui non si sente di andarci. “Andrò io al posto tuo!” gli propone l’anziano, e il giovane si profonde in ringraziamenti, gli bacia la mano (ossia, Bene bacia la mano a se stesso). “Non mi ringraziare. Vattene a letto”. La struttura apparente della scena, a campo/ controcampo, opera in realtà su un controcampo che altro non è se non un “campo” camuffato. È sempre lo stesso attore, con voce cambiata e l’aggiunta di una barba finta, che risponde a se stesso (forse per questo alcuni, all’epoca, evocarono Jerry Lewis, provocando lo sconcerto di Carmelo Bene). Quanto al tono cromatico, qui siamo al predominio del rosso acceso. Non al rosa-nero teatrale,
Cfr. M. Grande, Materia e linguaggio, in “Bianco e Nero”, n. 11-12 (1973), dedicato a Carmelo Bene. Il circuito barocco, p. 56.
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CARMELO BENE
dunque. Pareti rosse, pomodori rossi, mele rosse, fiori rossi, vino rosso... e facce rosse dei due frati avvinazzati. Colore d’un Ejzenštejn febbricitante o ubriaco (ma lucido). Del corpo fasciato di Carmelo Bene, ferito per le sue numerose cadute, è pronta a prendersi cura la Santa (Santa Margherita), che in cambio però riceve solo manifestazioni d’insofferenza. Carmelo Bene, in realtà, non aspirerebbe ad altro che a liberarsi da questa fastidiosa tutela. Vorrebbe partire, magari in compagnia della serva/bambina, o giacere su un letto assieme a lei, senza l’impedimento dell’armatura; ma il suo corpo, nelle diverse incarnazioni, o è un corpo infortunato, reso invalido dalle bende o è corpo inutilmente catafratto, impacciato da una pesante corazza: il suo destino è finire riverso ai piedi di quell’altare barocco, in cima al quale la Santa lo rimprovera assumendo sembianze di statua o idolo, nella cripta abbandonata. Lì, ai suoi piedi, forse si addormenta, o forse muore, come Edgardo, suicida sulla tomba di Lucia, mentre risuona la musica della Lucia di Lammermoor di Donizzetti. Così in fondo, ribadimento di una tutela in articulo mortis, finisce il sogno di una fuga, e così la morte stessa si riduce a melodramma. In fondo Nostra Signora dei Turchi era, fin dall’inizio, il sogno di una morte gloriosa, da autentico martire, con Bene che collocava il suo volto, nell’immaginario, tra le ossa dei testimoni della fede massacrati dai turchi. «Allora gli sarebbe piaciuto morire – dice la Santa – ora è troppo tardi» (pensasse piuttosto a pagare la bolletta del telefono). 62
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VII. Il sacrificio dell’attore. Credito Italiano
VII. IL SACRIFICIO DELL’ATTORE. CREDITO ITALIANO
Credito Italiano. V.E.R.D.I. (quasi un racconto), uscì nel 1967, per le edizioni Sugar. È un altro ritorno che qui ha luogo: il ritorno d’un uomo (Giacobbe) a quello che forse è il suo paese natale, dove è già arrivata sua moglie (Rachele), in vista del compimento di una singolare operazione. Viene da chiedersi, per prima cosa, il perché di quei due nomi così fortemente connotati, tanto più che nessuna delle vicende narrate sembra avere rapporto con quelle dei corrispondenti personaggi biblici; però questo potrebbe essere dovuto al fatto che lo stesso Carmelo Bene ha definito il suo “racconto” come un residuo, ciò che resta d’un romanzo abortito, dove forse i due nomi avrebbero trovato una loro ragion d’essere. Al momento, ci sembra che l’unico rapporto indiretto che lega Credito italiano alla Bibbia, stia nella figura del “padre”, quell’Isacco che il Giacobbe biblico, com’è noto, ingannò (spacciandosi per Esaù), e qui invece “inganna” Giacobbe, spacciandosi per suo padre: ma l’analogia regge poco, perché è lo stesso Giacobbe a scegliere di “adottarlo” come padre, ben consapevole, inoltre, di avere da qualche parte un padre “vero”, ancora vivo. Il racconto, comunque, è assai legato al tema della paternità, che allora (presumibilmente) tormentava 63
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CARMELO BENE
Carmelo Bene, come figlio e come padre d’un bambino, Alessandro (morto di tumore nel ‘65). Allo stesso tempo, Credito italiano sembra continuare l’operazione di assiduo autolesionismo perpetrata sulla sua stessa persona (o personaggio) già in Nostra Signora: lì il protagonista (senza nome) aspirava a raggiungere quello stato di cretinismo assoluto che confina con la santità, qui Giacobbe, convinto di essere perseguitato dalla fortuna, ricco (all’inizio) con un patrimonio di vari miliardi, si propone non solo di (ri)diventare povero, iniziando così una sorta di nuova vita assieme alla moglie, ma anche di “perdere la fiducia” di tutti coloro ancora disposti a fargli credito. Per questo brucia banconote, che riempivano due grossi bauli, per sei miliardi, torna a vivere nella sua vecchia casa abbandonata e cadente, senza luce né acqua, distrugge i prodotti dell’orto adiacente (insalata, pomodori), sega un albero di nespolo. Ossia, metodicamente, distrugge le sue eventuali fonti di sostentamento; per di più, incontrato nella piazza del paese, sui gradini della chiesa, un vecchio mendicante deforme, gobbo e cieco da un occhio, finge di riconoscerlo come padre. “Padre, sono tornato!” esclama lui; “Figlio mio!” risponde il mendicante, ripromettendosi qualche vantaggio dall’equivoco. Tutti e due fingono, come pessimi attori. Comunque questo “padre”, ubriacone e maligno, va a vivere con Giacobbe e Rachele, i quali, senza più una lira, per aumentare le loro difficoltà, decidono anche di fare un figlio. Ma Giacobbe, lo voglia o no, ormai gode di una certa fama e di un certo prestigio presso i suoi 64
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VII. Il sacrificio dell’attore. Credito Italiano
compaesani, che sembrano disposti a fargli credito illimitato. Il successo ha aperto il credito, e il credito è ancora più forte della fede. L’esperienza di ricominciamento da parte di Giacobbe rischia di fallire. Avere credito, continuare a subirlo, è cosa che forse si può sopportare solo a patto di assumere verso di esso una posizione di ambiguità. Vedi il caso di Giuseppe Verdi: Sebbene asfissiato dal credito, Giuseppe Verdi seguitò a “sbagliare”, evitando fin quasi all’ultimo lo spettro dello spettacolo fine a se stesso. Perché l’equivoco innestato a un particolare momento storico, fu per lui un pergolato d’ombra sotto cui riparò, non solo indisturbata, ma addirittura riconfortata, tutta l’urgenza della sua musica. Le sue parole sono sempre d’altri, anche se lo truccarono da Vittorio Emanuele, se scambiarono le comparse per Austriaci e Sant’Agata per l’Italia. V.E.R.D.I. Non cambia niente, così come niente mutava in cielo quando Santa Teresa credeva di leggere nelle stelle le iniziali del proprio nome1.
Insomma, Giacobbe non riesce a non farsi dar credito. Difficile cominciare a farselo dare, ma, una volta riusciti, quasi impossibile che la smettano. È proprio la stessa cosa che accadeva a Verdi con i bussetani, i compaesani del Cigno: quasi tutto il paese natio si sentì partecipe dei successi che man mano 1
C. Bene, Opere, Bompiani, Milano 2002, pp. 201-202.
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CARMELO BENE
gli arridevano. «Fatto sta che Giacobbe non riusciva a disorganizzare la propria vita. Non gli riusciva di arginare il credito. Quei soldi avrebbe dovuto bruciarli in piazza»2. I paesani, invece, si indebitano per prestargli denaro, addirittura si derubano l’un l’altro, convinti che le somme investite (cioè prestate a lui, Giacobbe) sarebbero state loro restituite, un giorno, moltiplicate. È la disperazione. Fuori di sé, Giacobbe appende suo “padre” a due ganci sporgenti dal muro, gli rompe una bottiglia in testa, gli stacca un pezzo di lingua con le forbici. Pensa perfino al suicidio, tramite crocifissione agli stipiti di una porta, ma si scontra con l’evidenza di un’impossibilità: una volta inchiodatane una, con quale mano inchiodare l’altra? Alla stessa impossibilità si troverà di fronte Gesù Cristo, tentando di auto-crocifiggersi, in Salomè. L’unica speranza è che nasca questo figlio, questo erede, al fine di pervenire alla definitiva disistima dei paesani; ma è un evento che Giacobbe allo stesso tempo aspetta e teme: «Sarebbe stato di lui come di tanti monaci innamorati che, la notte, invisibili, frequentano una madonna che non è mai sola, sorridente alla volta soltanto del suo bambino»3 e tentano di scroccare uno sguardo, anche fuggevole, diretto a loro, magari togliendo il bambino alla statua, prendendolo in braccio, avvicinando il loro viso al suo – ma la madonna si muove a riprenderlo, lo chiama. 2 3
Ivi, p. 209. Ivi, p. 213.
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VII. Il sacrificio dell’attore. Credito Italiano
E poi piange, se nel frattempo il bambino si muta in crocifisso appena deposto. Comunque, Rachele muore, proprio sul punto di partorire, e muore anche il bambino. Giacobbe si consola, pensando che almeno gli sono state risparmiate le solite lungaggini di tipo operistico. Non c’è stato tempo per Leonora di esalare al suo Manrico “Prima che d’altri vivere/io volli tua morir!”. Queste morti (della sposa e dell’erede) hanno il solo effetto di far aumentare l’apertura di credito nei confronti di Giacobbe. Addirittura, i paesani arrivano a proporgli le loro figlie, da prendere in moglie. E Giacobbe decide di non rassegnarsi, di non aspettare passivamente l’arrivo di una nuova agiatezza, senza temere né volere più nulla. Così, si mette a correre sulle terrazze delle case, passando dall’una all’altra a grandi balzi, rischiando ogni volta di cadere, finendo abbracciato a una grondaia, a un parafulmine, a un cornicione. Poi, dalla bottega del barbiere, si procura un rasoio e, tornato sulle terrazze, di fronte a una folla di spettatori che lo osservano esterrefatti, si taglia i testicoli e glieli getta. “L’attore restò immobile finché, come una statua incerta, si schiantò nella strada”.
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CARMELO BENE
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VIII. Capriccio italiano
VIII. CAPRICCIO ITALIANO
In Capricci, la morte è data come immediata connotazione dell’usura biologica di vecchi cadenti, vicini ad essa per natura, oppure come scelta delirante del poeta, intento a perseguire un elaborato suicidio. In quanto vicini alla morte, i corpi decrepiti di Capricci pretenderebbero il rispetto dovuto alla vecchiaia; ma proprio per questo Carmelo Bene li sbeffeggia e dileggia, li impiastriccia d’ocra e di verde, li fa tossire, sbavare, sputacchiare, li fa parlare con accento barese, li veste da donna, li fa declamare pompieristicamente, fa loro ordire trame ridicole e controproducenti, ne mette a nudo l’impotenza ridicola e pretenziosa. Il triangolo Alice-Arden-Mosbie diventa un circolo che ha al centro, come polo d’attrazione in un campo di equivalenti impotenze, la disponibile carne della donna, e alla periferia le macabre larve gerontologiche, il trombonismo di Mosbie, l’imbecillità di Arden, le coazioni a ripetere di Franklin, la mostruosità ridicola dei sicari, il pianto patetico del poliziotto. Alice (Ornella Ferrari) odia il vecchio marito Arden (Giovanni Davoli), lo vorrebbe morto, e incita il suo amante Mosbie ad assoldare sicari che lo uccidano, come nella cronaca elisabettiana da cui fu tratto Arden of Feversham (opera creduta a 69
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CARMELO BENE
lungo di Shakespeare) – ma qui anche Mosbie è un vecchio, poco meno ripugnate di Arden, tanto che la stessa Alice, a cose fatte, se ne disamora. Vecchio è Franklin, l’amico di Arden, capace solo di tracannare birra, sbavando, da un boccale sempre pieno, e di ripetere oscure massime in dialetto (meridionale). È lui che consiglia ad Arden di mettere alla prova la fedeltà della moglie (non prima di averle nascosto i vestiti per impedirle di uscire!), fingendo di “partire per Londra”. Partire come? In treno. Ma il treno altro non è che il cesso di casa, dove i due si nascondono, aspettando gli eventi – eppure sembra che davvero si metta in moto, mentre un altoparlante annuncia arrivi e partenze: “Adesso andiamo a Londra” annuncia Arden, quasi rivolto alla macchina da presa. Quanto a Mosbie, altro vecchio rimbambito, elabora dapprima un piano ridicolo per l’eliminazione di Arden: si tratta di commissionare a un certo pittore suo amico, un ritratto di Alice, dipinto con colori avvelenati, così che, solo a guardarlo, Arden muoia – e quando il piano fallisce (perché Arden, sospettoso, rifiuta di guardare il quadro), ingaggia tre ridicoli killer messicani, pescati da una scenografia dismessa d’un western all’italiana: killer che un solerte poliziotto immediatamente individua e si mette a pedinare, anche se, non riuscendo a capire bene cosa stia succedendo, scoppia troppo spesso a piangere. I vecchi, dunque. Già essi, come categoria, godono di scarsa visibilità al cinema, dove possono incarnare al massimo lo spirito della saggezza. Sono, in genere, vecchi venerandi, al di là d’ogni residuo fremito erotico, muniti di barbe maestose e gestualità ieratica, insaccati in paludamenti che servono più 70
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VIII. Capriccio italiano
che altro a mimetizzarne la decadenza fisiologica (tra le poche eccezioni, ricordo la “verità” dei vecchi di Dreyer). Farne dunque i protagonisti di un film, accostando le loro bave e i loro tremori alle nudità di una giovane donna, è inusuale, e poteva venire in mente solo a Carmelo Bene. La loro decrepitezza in effetti, difficilmente mascherabile dal più abile maquillage, ricorda troppo la morte, ne è quasi l’annuncio, per passare inosservata sullo schermo. Tutto vogliamo vedere, al cinema, salvo lo spettacolo della decadenza fisica, che è poi il vero e proprio spettacolo del (nostro) comune destino! Bene, per di più, spoglia uno di loro (Davoli), mostrandone l’impressionante magrezza, il torace scheletrico da Cristo in croce, oltre al volto dagli zigomi ossuti, mal mimetizzati da una stentata barbetta, la proterva testardaggine, la presuntuosa ignoranza. Questi vecchi, malgrado tutto, arriverebbero quasi a conquistarsi l’esistenza autonoma (per quanto ridicola e macabra) di “personaggi”, di protagonisti d’un “racconto”, se la “narrazione”, per fortuna, non fosse a sua volta sconvolta dall’inserzione di altre due figure: il poeta-aspirante suicida (Carmelo Bene) e il pittore Clarke, che derivano da suggestioni disparate (perfino da La Bohéme). Clarke dipinge direttamente sugli oggetti, cosparge di rosso anche i pesci, reitera ossessivamente il simbolo della falce e martello1, litiga furiosamente con il poeta, sotto gli occhi preoccupati del vecchio È forse rinvenibile qui qualche residuo della frequentazione con Mario Schifano.
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CARMELO BENE
che, nello studio, sta posando per un Cristo in croce. Soprattutto, s’è detto, dipinge su commissione quadri con colori avvelenati. Si direbbe, però, che per Carmelo Bene ogni quadro sia dipinto con colori avvelenati, rientrando i pittori nella spregevole genìa accusata già da Platone d’essere capace solo di eseguire copie da copie. In questo senso, ogni quadro (realistico o no) è un veleno per l’intelligenza, vietando a chi lo guarda ogni possibilità di andare oltre la piatta considerazione d’una mimesi più o meno riuscita (Carmelo Bene, non a caso, amava quasi solo la pittura di Bacon, quella che perfino il terribile Joker nel Batman di Tim Burton ordinava ai suoi accoliti di risparmiare, durante i raid nei musei). Come fornitore dello strumento d’un improbabile delitto, il pittore fa comunque parte integrante della storia di Arden, si mescola alle sue “situazioni”, interagisce con esse. Il vero corpo estraneo, l’elemento perturbante, è invece il poeta-suicida (Bene), che finisce col formare, assieme alla sua donna (Anne Wiazemski)2, una coppia addirittura omicida, facendo strage di vecchie auto, ma anche di prostitute. I crash di Carmelo Bene, alla ricerca ossessiva d’una confacente morte automobilistica, non derivano forse dal coevo Week-end godardiano, ma viene naturale collegarli ad essi. Sono comunque Capricci, come recita il titolo del film, alla stessa stregua di certe posture alla Goya di Carmelo Bene e della Wiazemski, fino alla sarabanda conclusiva (figurativamente stupenda) dei cavalieri in giacca rossa da caccia alla 2
Ricordi della Manon?
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VIII. Capriccio italiano
volpe, caracollanti su fondo nero al ritmo del Capriccio italiano di Cajkovskij. Il fatto è che la struttura di Nostra Signora era data principalmente dall’assonanza analogica delle immagini e dei suoni al montaggio, scintillanti immaginicristallo (nel senso di Deleuze), mentre in Capricci il tono è livido, smorto, esplicitamente funereo, e la struttura almeno duplice, col segno-Bene anarchico da un lato e dall’altro i lacerti d’una “storia” che pretenderebbe quasi a un suo svolgimento lineare. Naturalmente però, anche all’interno di questa “storia”, irrompe la follia, prima di tutto la follia erotica della vecchiaia, alle prese con la decadenza fisica. Poi la follia e le ossessioni di Carmelo Bene, compresa quella del fuoco, che divampa nel rogo finale delle auto, ma non esita a manifestarsi in situazioni più incongrue: ad esempio, per convincere uno dei suoi spasimanti a liberarla del marito, Alice mima realisticamente il dolore e il fastidio della convivenza coniugale, ponendo un piede sopra un braciere acceso, come ennesima citazione da Pinocchio. In fatto di cucina, invece, gli stomachevoli pasticci e le orripilanti poltiglie dei due frati in Nostra Signora, qui si mutano in piatti sofisticati, bellissimi soprattutto da vedere, preparati e posti davanti ai commensali da Alice, il cui corpo nudo è appena coperto da una specie di tovaglia a scacchi, e va su e giù per una scala a chiocciola, mentre non a caso la voce off di Carmelo Bene legge dai Miti d’oggi di Roland Barthes il brano dedicato a La cucina di Elle. Ogni settimana, dice Barthes, “Elle” (la nota rivista femminile) pubblica la bella fotografia a colori di qualche piatto, preparato secondo ricette 73
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CARMELO BENE
sofisticate: a contare in queste pietanze è l’aspetto, in genere talmente elaborato da sconfinare nel “barocco delirante”. Alice e Clarke, in realtà, fallito il piano del quadro, ora guarniscono questi piatti con i colori avvelenati; ma ancora una volta, Arden non si lascia ingannare, rifiuta il cibo. Quando morirà, finalmente, in seguito a una caduta casuale, sarà il suo sangue a servire da colore rosso per un altro quadro di Clarke. I colori, dopotutto, sono davvero segnali di morte; l’incendio cromatico è il contrassegno dell’Inferno.
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IX. Tra Schifano, Brocani e Rocha
IX. Tra Schifano, Brocani e Rocha
Tra Capricci e Don Giovanni, Carmelo Bene, che era già stato Creonte nell’Edipo Re di Pasolini, prende parte come attore, non si sa quanto convinto, ad alcuni film “d’avanguardia”, ascrivibili al filone del (cosiddetto) cinema underground italiano. A utilizzarlo, è il clan di Mario Schifano, che comprendeva anche Franco Brocani. Della cosiddetta trilogia di Schifano (Satellite, Umano non umano, Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani), Bene partecipa al secondo film. Non risulta che abbia mai duellato col pittore a colpi di falce e martello, come avviene in Capricci – anzi, il pur breve sodalizio va considerato importante, per la considerazione privilegiata che Schifano riservava al mezzo televisivo e che in parte può aver trasmesso a Bene. In Umano non umano si filma molto spesso un televisore acceso, e compaiono immagini televisive, di minore definizione rispetto a quelle cinematografiche. Filmare un televisore acceso, per la differente frequenza rispetto ai fotogrammi, una volta significava vedere strisce nere tra un’immagine e l’altra. Oggi è possibile evitare questo effetto fastidioso, anche se rimane la minor definizione. In realtà, strisce nere e scarsa definizione possono 75
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CARMELO BENE
essere definiti effetti “fastidiosi” solo in rapporto a un’immagine filmica che si proponga in quanto riproduzione più o meno “fedele” del reale. Nel film di Schifano, quando si vede un televisore acceso, è come se ci fosse un altro occhio aperto all’interno dell’occhio cinematografico, quasi l’occhio di una creatura “non umana”; e ciò serve a ricordarsi che neppure l’occhio della macchina da presa è “umano”. “Umano non umano” non segna dunque una contrapposizione (umano vs non umano, cinema vs televisione ecc.), ma adombra una condizione comune a qualunque occhio “artificiale”. Non solo: allude al complicato processo (lato sensu, artificiale) attraverso il quale passa anche la visione cosiddetta “umana”. Resta il fatto che l’occhio dell’attualità televisiva può essere assimilato ad un occhio non-umano, non solo perché può farci vedere immagini inumane, ma anche perché, a confronto con la “bellezza” (umana, troppo umana) della visione cinematografica, ne distrugge l’aura e perfino la riconoscibilità. Cosa mostrano, alla fine del film di Schifano, le immagini televisive girate sulla strada di Avola? Lì nel ’68, per chi non lo sapesse o non ricordasse, ci fu una strage di braccianti in sciopero, uccisi dalla polizia. Ma nel film non si capisce bene cosa si vede lungo quella strada: sono pietre, carcasse d’auto, meteoriti carbonizzati? Non potrebbero sembrare addirittura cadaveri? Una sfilata di cadaveri, allineati lungo una strada? Forse. Però è fondamentale che non lo siano, o meglio, che Schifano non tenti di spacciarli per tali, come una parata di goffe comparse che fingano di essere morte, in un film neorealista. 76
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IX. Tra Schifano, Brocani e Rocha
Cosa ha a che fare Carmelo Bene con tutto questo? Sul piano sonoro, intanto, dobbiamo riconoscere l’ininterrotta, ossessiva presenza del battito cardiaco, quasi una sigla che già marcava Hermitage. Una voce off (di Maurizio Calvesi? dello stesso Schifano?) parla della pittura, della sua miseria odierna: “Oggi la pittura sembra finita. Forse perché conosciamo meglio le condizioni scientifiche della materia. Una volta, essa era il tentativo alchimistico di animare la materia dalla luce...”. Un bambino col maglione rosso, poi, lacera uno schermo dove stanno passando immagini di Godard. Sono tutte suggestioni che potrebbero benissimo appartenere a Carmelo Bene, che infine appare di persona in una breve sequenza, assieme ad Alexandra Stewart. La scena concerne un letto, luogo per eccellenza beniano, trappola bianca a cui sfuggire in tutti i modi e assieme rifugio sotto il quale tentare di rendersi invisibile. La Stewart si infila sotto le lenzuola, sembra in attesa che Bene la raggiunga. Lui, seduto sul letto dalla parte della cinepresa, fuma, traccheggia, sfoglia distrattamente “L’Unità” e poi la butta via. Continua a fumare, beve. Sguardi in tralice. Come se non potesse traccheggiare oltre, infine Carmelo si sdraia sul letto, ma restando sopra le lenzuola. Appoggia la testa sul grembo della Stewart, la accarezza distratto. Poi anche lui non può fare a meno di scivolare sotto le coperte; si copre la testa col lenzuolo e copre anche la testa di Alexandra. Tutti e due scompaiono, per intero: non vediamo altro che lenzuola e cuscini che si agitano. Non c’è Carmelo Bene, nella sequenza succes77
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CARMELO BENE
siva, ma la Stewart e Mario Bagnato litigano, si spintonano, entrando e uscendo da una macchina parcheggiata nei pressi di un aeroporto, mentre sullo sfondo partono e atterrano aerei: altra situazione che ci pare molto beniana. Carmelo Bene lavora poi in Necropolis, primo film di Franco Brocani, che vede una folta partecipazione di attori e attrici gravitanti attorno al mondo del cinema d’autore e underground, da Pierre Clementi a Tina Aumont, da Louis Waldon a Paul Jabara, da Nicoletta Machiavelli a Paolo Graziosi, fino alla star warholiana Viva. Bene, in giubbotto nero di pelle, sigaretta in bocca alla malandrina, gira proprio con Viva, vagabondando nella notte e scolando cognac a garganella. Viva parla ininterrottamente in inglese. Bene non capisce niente, ma fa finta di capire. Le passa la bottiglia, anche se è chiaro che gliela spaccherebbe volentieri sulla testa. Vagamente ispirato al Traité de savoir-vivre à l’usage des jeunes génerations del situazionista Raoul Vaneigen, il film è girato quasi tutto all’interno di un appartamento, tanto che si è potuto parlare, in proposito, di un set “senza uscite”. Fanno eccezione, però, le scene notturne sulla spiaggia, che vedono in azione “i barbari” al comando di Attila (Pierre Clementi). Solo i barbari sono filmati in esterni (in esterno/notte), accendono fuochi, vanno a cavallo; ma al loro universo è iscritto ad honorem anche Carmelo Bene. “Selvaggio”, in un certo senso, è anche il soldato di ventura Pannocchia, uno dei pavidi protagonisti, sempre affamati, di Tre nel mille, uno sceneggiato TV diretto da Franco Indovina nel ‘70 e mandato in 78
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IX. Tra Schifano, Brocani e Rocha
onda solo nel ’73 (sceneggiatura di Tonino Guerra e Luigi Malerba). Qui il riferimento è all’Armata Brancaleone di Monicelli, e Bene affianca Giancarlo Dettori e Franco Parenti, tutti accomunati dal destino d’essere doppiati! Il risultato è uno strano film, molto intellettuale e poco popolare, dominato dall’ossessione del cibo, della fame e della fine del mondo; ma Carmelo Bene, doppiato (come s’è detto) e barbuto, è assolutamente sprecato e irriconoscibile. Dopo tornerà come attore, in un ruolo en travesti del quale abbiamo già parlato, solo in Claro, girato da Glauber Rocha nel ’75 a Roma, come “capitale morale dell’imperialismo”, contro l’imperialismo che opprime il Terzo Mondo. Ma Carmelo, in abiti femminili, si limita a mangiare un gelato e a tessere le lodi degli imperatori della Decadenza.
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CARMELO BENE
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X. Don Giovanni diabolique
X. DON GIOVANNI DIABOLIQUE
Il Don Giovanni di Carmelo Bene sembra fin quasi alla conclusione la storia di un fallimento (fallimento da parte di Don Giovanni nell’impresa di sedurre la Bambina, malgrado l’attiva complicità della Madre). Bene si era ispirato a un racconto di Jules Barbey d’Aurevilly, Le plus bel amour de Don Juan (facente parte delle novelle Diaboliques), rovesciandone peraltro il senso. In Barbey, Don Juan ama la Marchesa, madre della Bambina, ma non ha nessun interesse verso quest’ultima, accettando di buon grado d’essere odiato da costei, devota e bigotta (d’una devozione oscura, medievale, quasi superstiziosa), che lo disprezza e disapprova il legame amoroso della Madre. Questa, dal canto suo, è dispiaciuta per l’atteggiamento della figlia verso Don Juan, ma non le passa neppure per la mente che possa esserci tra i due qualcosa di men che corretto. Un giorno, tuttavia, la Marchesa riceve da sua figlia (tredicenne) l’incredibile confessione di essere incinta, di aspettare un bambino da Don Juan. Le parole della Bambina, sconvolta e disperata, sono, nel film, quasi le stesse del racconto: “Così, mamma, fu una sera. Lui stava qui nella grande poltrona, così, poi si alzò e io ebbi la sfortuna di sedermi al suo posto; poi volli alzarmi e non ci riuscii. E allora sentii che portavo un bambino”. 81
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CARMELO BENE
La confessione segna nel racconto il trionfo di Don Juan, che può ritenere questo, a buon diritto, il suo amore più bello, proprio in quanto non cercato e consumato solo nell’immaginazione di un’innocente. E in fondo lo è anche nel film, benché lì faccia seguito a ripetuti tentativi effettuati, con la complicità della Madre, e tutti regolarmente falliti – il Don Juan di Barbey si insediava senza volerlo nell’immaginario della Bambina, il Don Giovanni di Bene, in un certo senso, se ne deve accontentare, mentre aspirerebbe a ben altro (arrivando al punto di camuffarsi da Gesù Cristo). Del resto, già nell’opera mozartiana, in fondo non assistiamo altro che ai fallimenti dell’eroe, costantemente frustrato nelle sue imprese amorose, così che il catalogo di Leporello rischia di passare solo per un’elencazione di vanterie bugiarde. Per questo forse il film, dopo la citazione del sonetto 123 di Shakespeare (“No, Time, thou shalt not boast that I do change”), comincia (in bianco e nero) proprio con il Catalogo, durante la cui recita Bene siede a tavola con le dodici dame di cui parla anche Barbey d’Aurevilly (dodici in rappresentanza di milletre); ma si tratta sempre di Lydia Mancinelli, variamente camuffata, truccata ora da vecchia, ora da “giovin principiante”, ora da grande e maestosa, ora da piccina e vezzosa ecc.: falsa molteplicità, effettiva ripresentazione del medesimo, in che poi consiste la sindrome di cui Don Giovanni soffre (ammesso che soffra). Nel racconto, il volto della Bambina è descritto come una “piccola maschera”, incorniciata da capelli neri e secchi, le cui sopracciglia, increspandosi in 82
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X. Don Giovanni diabolique
perenne atteggiamento di deprecazione, lo rendono simile alla maschera di una “cariatide umiliata”. A volte, controvoglia, non può esimersi dal suonare qualche aria al pianoforte, per la madre e il suo amante, pestando i tasti con dita impacciate. Nel film, invece, lei “suona” un pianoforte, o spinetta, i cui tasti, non collegati alle corde, non emettono alcun suono. Questa spinetta, attorno alla quale Don Giovanni e la Madre sembrano in attesa, o in agguato, seduti su un divano o una poltrona, intenti ad ascoltare suoni inaudibili e immaginari, è il fulcro scenografico del film, luogo deputato della tentata seduzione, contro la quale la Bambina, vivente icona, cerca difesa nelle immagini sacre appuntate sul suo vestito. La Madre invece è almeno duplice. Divisa tra il suo ruolo protettivo e la complicità con l’amante, tra custodia della verginità della figlia e favoreggiamento delle voglie di Don Giovanni, ne porta iscritto il marchio nel suo stesso abbigliarsi: inquadrata di fronte, si presenta castamente vestita di un severo abito scuro, ma basta un’inquadratura di schiena a rivelarne la nudità, poiché il vestito manca della parte di dietro. Come Teresa di Lisieux, la Bambina le augura la morte per troppo amore, perché possa godere al più presto delle beatitudini celesti: augurio di morte per eccesso d’amore che aveva già determinato la fine del Padre, visibile in poche inquadrature sotto forma di mummia o larva. Pragmaticamente, anche Don Giovanni gioca le sue carte. Dapprima, accetta di partecipare alla cerimonia del tè, organizzata dall’amante, nel corso della quale però non dimostra grande disinvoltura, scottandosi ripetutamente con la teiera bollente e poi 83
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CARMELO BENE
utilizzando teiera, tazze e cucchiaini per un improprio concertino musicale, contraltare altrettanto maldestro a quello del pianoforte muto1. Poi gioca il ruolo d’artista, organizzando in casa un teatrino di marionette e mettendo in scena l’ennesima variante di “Pinocchio”. È un piccolo teatrino mobile, una sorta di televisore, attraverso la cui apertura agiscono Pinocchio e la Fatina Azzurra – ma la Bambina non si lascia conquistare, bacia le sue immagini sacre, distoglie lo sguardo, tanto che Don Giovanni è costretto a spostare continuamente il tutto, nel vano tentativo di intercettarne lo sguardo. Alla fine deve arrendersi, prendendo atto della sua condanna a essere e morire burattino; insomma, Don Giovanni cita Carmelo Bene. Come estremo tentativo, infine, Don Giovanni recita la commedia della devozione: giocherella con un crocifisso, ostenta una croce attorno al collo, assume un’aria pia e, non bastando, si abbiglia come è rappresentato tradizionalmente Gesù Cristo. È questo l’ultimo travestimento, il cui esito è fatale. Fatale, sia perché innesca nella Bambina la convinzione d’essere rimasta incinta, quasi come Maria Vergine ad opera dello Spirito Santo, sia perché, quasi lottando contro il proprio doppio speculare, Don Giovanni
Sul rito del tè come campo simbolico per ogni mitologia, si è soffermato Franco Pecori nella sua bella analisi del Don Giovanni beniano, «[...] bere il tè, mangiare pasticcini e girare cucchiaini diventano gesti senza senso, veicoli vuoti di una comunicazione in fallimento», Il buio nello specchio, in Id., Carmelo Bene. Il circuito barocco, cit., p. 118.
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X. Don Giovanni diabolique
scompare e ne rimangono solo frantumi di specchio, al di là d’una cornice vuota. Frantumi di specchio, frantumi di film. Don Giovanni, fin dall’inizio (e alla fine esplicitamente), è visione che si nega, sfugge, si sottrae: film contro la narrazione, certo, ma anche contro il presupposto implicito della riconoscibilità cinematografica. Più volte la Bambina guarda, secondo le modalità classiche della soggettiva – ma non si capisce cosa guardi: uno sgabello vuoto, un oggetto non riconoscibile? Oppure, la riconoscibilità è ostacolata, se non impedita, dalla frenesia nella successione delle immagini: circa 4000, un numero spropositato rispetto gli standard filmici, che l’occhio dello spettatore non può riuscire a distinguere con chiarezza. Immagini subliminali? Si, ma non per aumentare la suggestione del film, non per “agire sull’inconscio”. È un fare film contro il film, un perseguire la cecità dell’immagine. Mai il ralenti, dunque, semmai sempre una furiosa accelerazione, al limite del parossistico e oltre.
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CARMELO BENE
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XI. La ri-scrittura
XI. LA RI-SCRITTURA
L’immagine accecata, questa diventa sempre più l’impresa cui si dedica Carmelo Bene – ed è singolare che il libro nel quale egli tenta di fare esplicitamente i conti critici con quest’impresa, sia intitolato invece L’orecchio mancante, come la visione fosse appunto questione d’orecchio, d’ascolto e non di sguardo. Dedicato a Giuseppe Saragat, allora (1970) Presidente della Repubblica Italiana (ma è una dedica derisoria, come appresso si chiarirà), il libro comincia con la citazione del sonetto 123 di Shakespeare, che già aveva aperto il Don Giovanni beniano, e seguita con altre citazioni (difficile riconoscerle tutte con sicurezza: anzi, questo è proprio il gioco al quale Bene si diverte a sfidare “i gazzettieri”), tra le quali spicca un paradosso dovuto a Oscar Wilde: “L’immaginazione imita. È lo spirito critico che crea”. Poi si chiarisce il senso dell’orecchio mancante, con una citazione da Nietzsche: l’uomo volgare dà sempre la colpa agli altri, colui che è sulla strada della saggezza incolpa solo se stesso, ma il vero saggio non trova nessun colpevole, né sé, né gli altri. Chi lo disse? Epitteto, milleottocento anni fa. Non che da allora lo si sia dimenticato. “Ma non si ebbe l’orecchio adatto, l’orecchio di Epitteto; dunque egli lo ha detto nell’orecchio a se stesso? Così è: 87
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CARMELO BENE
la saggezza è il bisbiglio del solitario a se stesso in pieno mercato”. Segue una “supplica” al presidente Saragat, perché voglia adoperarsi al mantenimento dello statuto “fascista” che regolava la Biennale di Venezia: statuto d’una realtà fantomatica, che sarebbe controproducente sostituire con il fantasma reale di un qualsivoglia potere. Bene, com’è noto, aveva portato a Venezia nel ’68, su invito di Luigi Chiarini, Nostra Signora dei Turchi, e ne erano seguite furiose polemiche, da parte degli autori di sinistra e degli studenti che contestavano l’assetto ufficiale della Mostra del Cinema. Di qui, il paradossale appello di Carmelo Bene in favore d’un “vuoto di potere”, d’un vivente anacronismo, che permetteva però l’accesso a un’opera anomala e non omologata come Nostra Signora. Ciò che egli temeva, era proprio la presa di potere da parte di un conformismo di sinistra, che avrebbe potuto soffocare nella regola ogni eccezione. E certo non avrebbe potuto prevedere che, molti anni dopo (nel 1988), sarebbe stato proprio lui, Carmelo Bene, ad essere chiamato a ricoprire il ruolo istituzionale di direttore artistico del settore teatro della Biennale (esperienza del resto allucinante, per mille motivi, e finita dopo due anni, tra tribunali e carte bollate). L’orecchio mancante, rispetto ai precedenti di Bene, tende a porsi subito come un libro di riscrittura. Ogni ri-scrittura è originale, in quanto scrittura d’una scrittura, ed è precisamente l’atto creativo che ogni spirito critico dovrebbe perseguire. Non più romanzo o quasi-romanzo, dunque, non più racconto o quasi-racconto, ma ri-scrittura critica, 88
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XI. La ri-scrittura
che però investe anche la scrittura tipografica: vedi l’alternarsi dei caratteri normali con quelli a stampatello, secondo una strategia che non sempre è dettata dall’esigenza di evidenziare determinate parole; vedi l’inserzione di pagine bianche; l’iterazione della parola FINE (che compare in mezzo al libro, in fondo a tre pagine diverse); l’inserzione di due pagine di stroncature di Nostra Signora, ripetute 14 volte; l’iscrizione di una pagina composta di sole virgolette; ecc., ecc. Opera che si dà a pezzi, ma non per questo frammentaria. Piuttosto, si danno qua e là i frammenti dell’autore – o dell’autrice, visto che fin dal primo capitolo Carmelo Bene dichiara la sua femminilità: «Non sono Gesù. Sono la madonna». Anche l’opera è femminile, e vani, nonché ridicoli, risultano sempre gli sforzi dei cosidetti “critici della mediazione”, nani che si vendicano della frustrazione indotta in loro dalla piccola statura, accusando essa, l’opera, d’essere TROPPO GRANDE: REATO DI STATURA – anomalia bizzarra. La CRITICA DELLA MEDIAZIONE non ha da divulgare altro che la propria perversione, mentre la CRITICA GAZZETTIERA fa la parte del coro (purtroppo non muto). Sarebbe auspicabile, invece, una TERZA CRITICA, quale a suo tempo delineata da Valery, che «si ponesse davanti all’opera (femminile) come altra eventuale opera (femminile)»1. Opera critica, dunque, non come recensione dell’opera prima, ma come utilizzo di questa in quan C. Bene, L’orecchio mancante, Feltrinelli, Milano 1970, p. 22.
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CARMELO BENE
to pretesto o occasione per una SECONDA opera. «Mi rifiuto altresì che Giuseppe Verdi in Tutte le sere al tacito, ecc. della sua LUISA, abbia inteso recensire nell’aria del tenore la propria gelosia per la Strepponi, in quella data a Firenze»2. L’OPERA sull’OPERA altro non è che GIOCO D’AZZARDO. È RI-CREAZIONE. Però, per lavorare a una ri-creazione di cui Verdi (per esempio) sia il pretesto, Carmelo Bene non ha altro modo che riportare pagine e pagine del libretto della “Traviata”: sono i versi di F.M. Piave, in tutta la loro assurdità, a funzionare come “occasione”. SIBI SCRIBERE, scrivere a se stesso, o meglio SIBISCRIBERE (tutto attaccato). Sono le lettere che il protagonista di Nostra Signora non spediva, “domande urgenti che non meritavano davvero l’umiliazione di una risposta”. Il primo momento del SIBISCRIBERE è lo SPECCHIO: «Quando rompo uno specchio non mi rompo, posso, al peggio graffiarmi una mano...»3. E d’altra parte, alla domanda se era bello Narciso, il laghetto di casa Wilde potrebbe giustamente rispondere: «Non lo so, non l’ho mai visto: ero io che mi specchiavo in lui!»4 Michelangelo, Dama barbuta, poco prima di morire rinasce a Roma, nella Cappella Sforza a S. Ivi, p. 23. L’aria di Rodolfo, a cui Carmelo Bene si riferisce (dalla “Luisa Miller”), in realtà recita: “Quando le sere al placido – ecc.”.
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Ivi, p. 31. Ibidem.
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XI. La ri-scrittura
Maria Maggiore, a dispetto di Firenze. È da lì che già si annuncia il Barocco. Che c’entra il cinema? A partire dal capitolo 8, Carmelo Bene affronta di petto il discorso sul cinema, nel quale in quel momento era fortemente impegnato – e lo fa prendendosela prima di tutto con i registi. Costoro, incapaci di ogni invenzione autonoma, hanno sciaguratamente mediato dalla peggiore letteratura (nel migliore dei casi, dal naturalismo alla Zola) contenuti e forme. Perché si impolverano soprammobili noleggiati, avendo a solo scopo dell’operazione la ingenuità di attribuirsi un passato? Perché ogni realtà “interna” al cinema deve essere a tutta forza giustificata dalla sua equivalenza ad una realtà esterna? Perché la capacità di un attore è riposta soltanto nella sua facoltà d’imitazione? Perché lo spazio deve essere paesaggio e basta? Perché il “colore” è obbligato a uniformarsi alla stupidità della natura?5 Come mai in tutte le altre “speculazioni artistiche” la vecchia polemica naturalistica si è spenta, schiantata da evidenze arcinote, e solamente nel cinema la si continua a portare avanti con una ostinazione asinina, sorda muta e cieca a tutto danno dell’“ORA” e del “SEMPRE”, con la meschineria
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C. Bene, L’orecchio mancante, cit., p. 47.
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CARMELO BENE
dell’alibi della FRUIZIONE?6
A tutti questi perché e come mai, sarebbe in realtà (troppo) facile dare risposta rigettando tutte le colpe sull’Industria (cinematografica), che ha sempre saputo bene quello che doveva fare per rincitrullire il pubblico. Carmelo Bene va oltre, e attacca direttamente, esemplificando, un mostro sacro come Ejzenštejn. In quegli stessi anni, in Russia, c’erano due poeti, Sergej Esenin, rivoluzionario suicida, e Vladimir Majakovskij, rivoluzionario suicida. Tutti e due troppo grandi “per il presepe di questo mondo”, hanno un fato (Bene scrive “un fiato”) comune: l’immediato sparire. Li ha riassunti Boris Pasternak, li aveva annunciati Alexandr Blok (tornano, qui, i nomi dei Quattro modi di morire in versi). Loro è il rifiuto di sopravvivere in un presente “imbandierato”, in un presente “da Cinecittà”. Ejzenštejn, invece, subisce il compromesso. Vedi Alexandr Nevskij. Grande affresco, certo. Bella la battaglia sul ghiaccio (che vi muoiano migliaia di persone, poco importa). Il popolo russo è oppresso dai Cavalieri Teutonici, e il duca Alessandro lo libera “in un’ora e mezzo di spettacolo”. Alessandro è nobile e bello; non è Masaniello; è l’antitesi dell’eroe popolare. La sua entrata a Kiev “è degna di Eliogabalo”: si, ma di un Eliogabalo dignitoso, sorridente e misurato È LO ZARISMO RIVISITATO COME POTERE ASSOLUTO DEL BELLO [...] Ejzenštejn non
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Ibidem.
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XI. La ri-scrittura
è libero dalla sua OPERA, perché le affida una qualche responsabilità futura che, sul piano della forma, si traduce nella ricerca del “duraturo”, dell’immagine come “assoluta”, cioè rispondente al codice pregiudiziale della bella immagine7.
Qui Bene non esita a citare Jean-Luc Godard, benché potesse essere comprensibilmente irritato per l’insistenza con la quale certi critici avevano ritenuto le scene “automobilistiche” di Capricci derivate da quelle di Week-end (cosa che Carmelo Bene ha sempre negato). Diceva Godard: bisogna eliminare ogni forma di regia “padronale”; partire da una forma di pensiero più vivo, da una creazione permanente; fare film che costino meno, per farne di più, su soggetti finora giudicati non commerciali. Bene sottoscrive. Poi riporta una lettera (pubblicata su “Filmcritica” n. 176, aprile ‘67) di Stan Brakhage a Gregory Markopoulos, su un argomento tecnico come il modo di fare le “giunte” tra un fotogramma e un altro, a seconda che si voglia evidenziarla (la giunta) o renderla invisibile. E riporta un breve riassunto di un film di Brakhage (Dog Star Man), immaginando che l’esilità del pretesto “narrativo” scateni l’ira di quelli che sono affezionati ai “grandi soggetti”. Tutto sommato, però: «[...] i più bei films che abbia visto li ho letti, o, se li ho visti, mai al cinematografo»8.
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Ivi, p. 54.
Ivi, p. 71.
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CARMELO BENE
La signorina Felicita al rogo Fino a che punto la macchina cieca (il tritacarne, avrebbe detto Stroheim) del ciclo produttivo cinematografico, può arrivare a sconciare la poesia, se gli viene in mente di prenderla come pretesto per un soggetto o treatment? Non ci sono limiti, esemplifica Carmelo Bene, immaginando le esilaranti sciocchezze inanellate da un campionario di produttori cinematografici burini e analfabeti, e accostandole alle strofe della “Signorina Felicita ovvero la felicità” di Guido Gozzano. Il panorama produttivo che risulta da questa serie di grottesche scempiaggini è caratterizzato, oltre che dall’ignoranza, da un’evidente povertà di mezzi, per cui il cinema italiano (di quel periodo, ma di sempre) non può neppure sognarsi gli standard elevati del cinema, per esempio, americano. Non sono film fatti in serie, alla catena di montaggio (tipo Hollywood), ma prodotti ancora intrisi dai residui degradati di quelle “pratiche basse” che avevano caratterizzato lo spettacolo pseudo-popolare italiano. Così, se un produttore afferma che ci vuole un regista con un poco di “sinzibilitudine” per le piccole cose e la vita semplice (la distribuzione sarà regionale), un altro intende “fornire un delicate quadretta di vita nazionale”; uno afferma trattarsi di un vero e proprio “documento approfondite” di una nevrosi mondiale generalizzata (ma la chiama “situazione internazionale del nervo”); un altro si propone di trasportare la storia in Olanda, trasformando la signorina Felicita in una vamp e l’avvocato in un cinico gaudente (ma alla fine la sua “cinicittà” sarà punita); 94
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XI. La ri-scrittura
un altro ha in mente un film-inchiesta sulla condizione economica della provincia piemontese; un altro intende ricostruire gli interni di Villa Amarena senza badare a spese (il film più costa, meglio è); un altro ancora vorrebbe trasformare l’amore tra la signorina e l’avvocato in una storia di incesto familiare (allusione a Visconti?); ecc. ecc. ecc. Non c’è che da chiudere con lo sconsolato verso gozzaniano: “Ed io non voglio più essere io!”. Cos’è il Barocco? A tante sciocchezze sul piano produttivo, seguono 26 pagine di amenità “critiche” (due, sempre le stesse, ripetute per 13 volte). Poi Carmelo Bene parla dei suoi film, e nota: «NOSTRA SIGNORA DEI TURCHI è la MORTE raccontata da un VIVO / e / DON GIOVANNI è la VITA raccontata da un MORTO»9. L’accenno al Don Giovanni serve a introdurre una “Lettera sul Barocco” di Vittorio Bodini. Il cinema di Carmelo Bene, com’è noto, è stato quasi subito etichettato nel segno del “barocco” (più che altro come sinonimo di eccessivo e stravagante), mentre altri hanno contestato la legittimità dell’attributo e altri ancora (pochi) ne hanno evidenziato le valenze positive (Maurizio Grande intitolerà un famoso numero di “Bianco e Nero”, del novembre 1973, Carmelo Bene. Il circuito barocco). Bodini, che aveva interpretato il ruolo del padre 9
Ivi, p. 136.
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CARMELO BENE
della bambina (e anche del confessore) nel Don Giovanni, cerca qui di chiarire quale sia (per lui) il concetto di barocco e in che misura possa applicarsi al cinema di Bene e al Don Giovanni in particolare: Ma il barocco è la grande alternativa al mondo classico […] rinunziando perciò alla ormai preordinata armonia del Rinascimento si rifugia in un angolo, a dare ascolto alla propria mancanza di certezze e alla conseguente angoscia, cosicché quello che dall’esterno può apparire semplicemente caotico disordine è al contrario una ricerca che mira a dar corpo al demone interiore10.
Caravaggio, Bernini, Borromini sono barocchi – barocche le loro strutture asimmetriche, le linee spezzate, il policentrismo, la novità degli scorci, la preminenza dell’ombra sulla luce, il dinamismo. Non è barocco, per esempio, il Marino: «Di barocco in lui c’è solo la formulazione della poetica barocca come meraviglia […]. Purtroppo il torto del Marino è quello di meravigliarci assai poco o nulla»11. Il Don Giovanni è un’opera autenticamente barocca, che fa un uso sapiente dei simboli che Jean Rousset battezzò coi nomi di Circe e del Pavone: […] la metamorfosi e l’ostentazione, il movimento e la decorazione, dove il secondo termine della coppia, che pare in sé negativo, acquista rilievo
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Ivi, p. 138.
Ivi, p. 141.
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XI. La ri-scrittura
e positività nel modo in cui si presenta in intimo connubio coi tempi del mutamento, della incostanza, del trompe l’oeil, delle pompe funebri, della fugacità della vita e dell’instabilità del reale12.
Il cinema è l’arte “più barocca che ci sia”, dato che in esso, con i colori, con la materia, con la parola, spontaneamente si dà quel dinamismo che le altre arti sono costrette faticosamente a cercare. È così che le immagini corrono rapidamente incontro al loro destino di distruzione. Ed è per questo che Carmelo Bene, accecatore delle immagini, è il più barocco dei registi. Il will di Will. Il Chisciotte di Don Chisciotte Will di Will, voglia di voglia. William Shakespeare (secondo Bene) non aveva un gran talento per il teatro. Ci si dedicò per vivere, per mettere insieme il pane quotidiano, anzi, la zuppa da intingere nel sangue di qualche spettro grondante vino rosso (come in Riccardo III). La sua grandezza fu di non averla fatta finita, fingendo solo di rassegnarsi ai gusti del pubblico, scrivendo un Tito Andronico da Grande Guignol soltanto per acchiappare qualche soldo al volo. Fu creduto il Sole, e come tale onorato: ma quando davvero lo divenne (nei sonetti) «non lo disse a nessuno perché il sole non ha bisogno degli altri». 12
Ivi, p. 142.
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CARMELO BENE
Piantava lì Falstaff e le “storie inglesi”. Con i sonetti, c’era un altro will nella sua vita (senza bisogno di pubblico). Sulle orme di Borges, poi, di Cervantes e di Pierre Menard, si esalta ancora il concetto di ri-scrittura, o di critica femminile. Leggere l’Odissea come fosse posteriore all’Eneide. Utilizzare la tecnica dell’anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee. Chi dettò il Don Chisciotte a Cervantes? Lo storico arabo Cide Hamete Benengeli. Ma chi era Cide Hamete Benengeli? Un espediente letterario. Ossia? Uno spirito che abitava nel profondo dell’anima di Cervantes. L’artista non è ALTRI dal CRITICO: RISCRIVO SOPRATTUTTO PERCHé LO SENTO E MI SENTO INATTUALE. RISCRIVO PERCHÈ MI VERGOGNO D’APPARTENERE AL MIO TEMPO. QUANDO SAPRò IMITARMI, SARò MORTO.
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XII. Salomè. Il cinema spellato vivo
XII. SALOMÈ. IL CINEMA SPELLATO VIVO
Molto più tardi, superata (e in parte rinnegata) l’esperienza cinematografica, Carmelo Bene rimprovererà al cinema ciò che i suoi adepti non fanno o fanno con troppe timidezze ed esitazioni: mutilare la pelle/pellicola, spellare l’immagine, come si tolgono gli strati dalla buccia d’una cipolla. Cos’è il film (o meglio, cos’era) se non pellicola? Pellicola, quindi pelle, o anche velo. Per questo, i veli abbondano, nel cinema di Carmelo Bene, e in Salomè (1973) ce ne sono molti di più dei canonici sette, tra veli propriamente detti, schermi trasparenti, superfici luminose, cangianti, rifrangenti e una profusione di scotch-light; forse per questo, il volto del Tetrarca (di Carmelo Bene) viene metodicamente spellato, alla fine, da una Salomè che prima ha spellato se stessa, togliendosi di dosso uno a uno i suoi sette veli, come si tolgono strati di pelle (o di cerone). Il viso di Carmelo Bene diviene dunque il film da spellare, non per mettere a nudo, sia ben chiaro, chissà quale illusorio ultimo strato, ma per mostrare come l’immagine cinematografica difficilmente riesca a scampare dalla trasparenza, che è la sua maledizione. Il corpo, sulla scena, riesce in rari casi a trascendere se stesso in macchina attoriale (vedi Carmelo 99
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CARMELO BENE
Bene), ma non ha a che fare con l’immagine, altro che metaforicamente. Il cinema, invece, vi è preso in pieno, e anzi, quanto più cerca di sfuggire alla referenza (sia essa narrativa o documentaria) tanto più vi rimane invischiato. È la maledizione del realismo, che per tanti (ma non per Carmelo Bene) è una benedizione, ossia è la sua intrinseca forza. Per opporvisi, la prassi filmica di Carmelo Bene è sempre la stessa ma, se possibile, accentuata: I temi, i tempi, i procedimenti e i materiali vengono drasticamente bloccati non appena stanno per passare dalla “apparizione” alla “permanenza” (nel tempo e negli spazi). Il montaggio porta alla rarefazione del collegamento o delle giunture “naturalistici” (in senso temporale, spaziale e gestuale-comportamentale) tra atti e risultato: si procede per un movimento sintattico di “accenni” di gesti, di movimenti e di eventi, mentre il parlato stesso tende ad evitare quella funzione di “narrazione esterna” (quasi un commento) relativa agli accadimenti e alle immagini1.
Malgrado tutto, però, al di là di tutto, resta reperibile un senso, che si esprime nella disperazione finale, nella paura di Erode, e credo che, ancora una volta, nessuno abbia saputo coglierlo meglio di Maurizio Grande, che devo di nuovo citare:
M. Grande, Salomè o la fine del mito, in “Bianco e Nero”, n. 11-12 (1973), pp. 135-136.
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XII. Salomè. Il cinema spellato vivo
Erode si cerca, si rincorre, tenta di riafferrare in qualche modo i brandelli della sua umanità e di un’esistenza travolta e distrutta dagli avvenimenti che non riesce a cancellare. I veli della danza ripiegati dalle agili dita di Salomè, sollevati dal volto terreo di Erode, dissolventisi al sole e al vento, rivelano la nudità del Tetrarca che ha goduto l’ultimo suo atto da protagonista ormai sostituito2.
Erode si oppone, scriveva Grande, alla “positività della storia”, in nome del suo universo mitico e privato, d’un aristocraticismo nutrito di ossessioni e fantasie (tutt’altro che uno snobismo). Per questo lascia vivere Jokanaan, pur tenendolo prigioniero, sopporta i suoi insulti, resiste, con deboli motivazioni, alle pressioni di Erodiade e di tutti coloro che vorrebbero farlo tacere per sempre. Per questo, risulta senza uscita la trappola in cui si è cacciato, promettendo a Salomè, in cambio della danza, qualunque cosa ella voglia (e lei vuole la testa del profeta). Dunque Jokanaan, pur avversario di Erode e della sua Corte, in un certo senso ne è la faccia complementare. A interpretarlo è Giovanni Davoli (il padre di Ninetto), che gira in calzoncini e maglietta da calciatore e si esprime in uno strano gergo popolaresco, ricco di strafalcioni, prodigo di insulti. Egli appartiene a un universo arcaico, ma annuncia qualcosa di inaudito, qualcosa che egli stesso non capisce e che a Erode, invece, suggerisce un terrore superstizioso. Tutto può ammettere Erode: che Gesù 2
Ivi, p. 151.
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CARMELO BENE
trasformi l’acqua in vino, che guarisca i lebbrosi. Su queste cose, niente in contrario; ma non è ammissibile che si metta a resuscitare i morti. I morti no! “Io gli proibisco di resuscitare i morti”. Erode ha paura dei morti, anche perché ne ha più d’uno sulla coscienza. Trema davanti al cadavere del capitano siriaco (suicida per amore di Salomè), non comprende perché si sia ucciso, dopo che l’aveva appena fatto capitano. Jokanaan è il suo amuleto vivente, l’avversario che, insultandolo, perseguitandolo con i suoi anatemi, lo fa sentire vivo. Tutto il resto sfuma nel sogno. Le natiche delle ragazze, frustate da variopinti piumini. Il boia che sghignazza, prova il filo della sua scimitarra esercitandosi a spaccare cocomeri. Gli anelli, le piume, le pietre preziose, il vino, i lustrini, i loro molteplici riflessi. La luna come un’aureola. I fiori artificiali. Le palme luminescenti, come fuochi d’artificio. Erodiade, che si sdoppia in una donna (L. Mancinelli) con ali d’angelo, più un baffuto cortigiano (A. Vincenti), ambedue decisi a contrastare, a suon di buon senso, certe idee deliranti di Erode («Non vi sembra che la luna assomigli a una donna ubriaca?»). Lo stesso Carmelo Bene si sdoppia. Prima di essere Erode, contaminando la Salomè con La sainte courtisane (sempre di Oscar Wilde), a inizio film è Onorio, suicida per amore di un’altra donna (Myrrhine/Veruschka), un’altra donna/scheletro, il cui corpo anoressico corrisponde a quello di Salomè/Donyale/ Luna, ma si ammanta, in più, di pietre preziose che la ricoprono per intero, viso compreso. Tra Onorio e Myrrhine ci si scambia alternativamente la posizione sullo sfondo di una luna teatrale, che sembra 102
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XII. Salomè. Il cinema spellato vivo
un’aureola dietro il loro capo. È l’amore di Dio come sigillo di santità, il cui contrasto irrisolto con l’amore (profano) sfocia nell’annientamento: «non c’è altro amore che l’amore di Dio», «non c’è altro amore che l’amore», «non c’è altro amore», «non c’è altro». E Onorio si getta in acqua, suicida, tra mille riflessi cangianti. Si sdoppia anche Gesù Cristo, in Cristo/Vampiro e Cristo/Uomo. Vampiro è il Cristo figlio di Dio e Salvatore del Mondo, pronto a porsi come inizio di una Nuova Storia (con nuove Corti, nuove Burocrazie, nuove Regole e nuove Leggi), e a dare il suo contributo all’affossamento della Vecchia, intrisa di vecchie mitologie, di cui fa parte Erode. Non a caso, è questo Cristo/Vampiro a preparare il banchetto in onore del Tetrarca, a bere con lui e, insomma, a predisporre la trappola in cui costui sarà indotto a cadere per opera di Salomè. Tra gli Apostoli, durante l’Ultima Cena, c’è perfino una sorta di gara per la primogenitura del tradimento, che tutti vorrebbero strappare a Giuda: ed è, questo, tutt’altro che un semplice esempio di satira della religione. Così come non lo è l’impossibile tentativo finale del Cristo/Uomo di crocefiggersi da solo – tentativo che finisce, per disperazione, con un suicidio a martellate, altrettanto solitario. Lungi dal combattere la Legge che lo condanna, qui Gesù sembra non sopportare i suoi ritardi, le sue esitazioni e i suoi distinguo – alla fine, esasperato, decide di fare da solo. E in effetti attorno a lui non c’è traccia di popolo, impegnato forse ad andare avanti non “alla riscossa”, come recitano le parole di un canto rivoluzionario ma, come dice Jokanaan, «a riscuotere». Morte disperata del Cristo, dunque, 103
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CARMELO BENE
sulle note di “A bat-jour”, e morte simbolica di Erode Antipa, resosi colpevole d’aver impegnato alla leggera la sua parola di Re. Sopra fotogrammi d’un bianco accecante, assieme alle note del Requiem Tedesco di Brahms, risuona la voce di Carmelo bene: «Spegnete le torce! Non voglio che niente mi guardi! Spegnete le torce! Cancellate il sole! Nascondete la luna! Nascondete le stelle! […] Comincio ad avere paura». Erode, spellato vivo, sparisce nel bianco della luce che man mano acceca lo schermo. “Non voglio che niente mi guardi!”. Il personaggio, qui, auspica e invoca una condizione esattamente opposta a quella dell’attore, che di solito fa di tutto per essere guardato (dagli spettatori, dalla macchina da presa); ma non opposta a quella dell’attore Carmelo Bene, che ha spesso elencato tra i pochi pregi del cinema rispetto al teatro, quello di non avere a che fare (almeno durante le riprese) con il pubblico. Agisce forse, qui, anche una sorta di civetteria? Ammettiamolo, tanto più che il bianco acceca la visione, ma, assieme alla musica, valorizza al massimo la Voce. Può darsi invece che Erode esprima il lamento e la paura dello spettatore; ma paura di cosa, in concreto? Forse è solo la paura di cui parla Jean Louis Schefer quando, nell’Uomo comune al cinema3, ipotizza che la condizione dello spettatore in sala sia quella di chi è sospeso, per un’inestimabile, oscura eternità, J.L. Schefer, Uomo comune al cinema, tr. it., Quodlibet, Macerata 2006; ma l’edizione originale francese è del 1980.
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XII. Salomè. Il cinema spellato vivo
tra un corpo gigante (alle sue spalle) e l’oggetto del suo sguardo (sullo schermo). Il bianco avrebbe, allora, proprio la funzione di accecare questo gigante, lasciando libero lo spettatore di vedere con i suoi occhi il niente che c’è da vedere.
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CARMELO BENE
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XIII. Variazioni su Amleto
XIII. VARIAZIONI SU AMLETO
“Ed io non voglio più essere io!” Chi è l’io che parla qui, enunciando la propria intenzione (o velleità) di cambiare tanto radicalmente da non più riconoscersi, salvo che in un altro io, del tutto diverso dal precedente? È Carmelo Bene? È il poeta Guido Gozzano? È un letterato convalescente, che fantastica di sposare la signorina Felicita? È il principe Amleto, che progetta di fuggire a Parigi con la prim’attrice della compagnia? È …………………………………….? (Non basta dire io, per identificare un soggetto; tanto più se si tratta di un soggetto che dichiara, anzi declama, la propria disponibilità alla mutazione)1.
«In Carmelo Bene la questione del soggetto è la domanda fondamentale che tocca la differenza insormontabile tra essere e rappresentare, tra immagine dell’Altro nella Voce (e nel linguaggio) e radicamento del soggetto nella phoné. […] La parola dell’attore non rappresenta né riproduce le vicende dell’Io. Presenta sulla scena dell’io (il teatro borghese di rappresentazione) il più irriducibile affronto alla ‘consolazione dell’identità’ che mai sia stato tentato all’interno del teatro». Nota di M. Grande in C. Bene, Opere, Bompiani, Milano 2002, p. 993.
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CARMELO BENE
Proviamo allora a partire dall’origine fonetica. Di chi è la voce che pronuncia quel verso (e gli altri) di Guido Gozzano? La voce proviene dall’immagine-video di Carmelo Bene, e sembra proprio la sua (ma che significa “sua”?). Sopravviene anche la memoria di averla sentita in teatro, molti anni fa, e poi in un film e in altri documenti video (tutte variazioni su Amleto), ma il ricordo subito complica le cose: perché ci tornano in mente le tante voci registrate negli spettacoli di Carmelo Bene, voci fantasmatiche, provenienti da un altrove (consolle, banco delle amplificazioni acustiche, microfoni, playback) e dunque ci riesce difficile sostenere con sicurezza che quella voce, un tempo, l’abbiamo davvero sentita “dal vivo”. Registrata, quella voce proveniva semmai “dal morto” (anche se Carmelo Bene non era ancora morto)2. Tuttavia, sacrifichiamo pure al mito dell’origine, e ipotizziamo che alla base di tutto vi siano state emissioni vocali da parte del soggetto Carmelo Bene
«I poveri morti che hanno freddo sotto la terra del camposanto, che asfissiano – sepolture precipitose – sotto il peso della terra; che si dibattono inascoltati nella cassa… è l’impunita, recidiva immaturità dei morti», Non esisto: dunque sono, Ivi, p. 998. «Il vero fine del teatro/all’origine/non era lo spettacolo,/era il transfert anatomico visibile da un corpo a un altro corpo. L’attore reale viveva/la morte e/il passaggio;/e la viveva al naturale […] Là, altrove, in/questo al di là/questo famoso al di là/dei morti/ che non è altrove/ma qui», scriveva Artaud in un testo inedito del ’47 (citato da C. Dumoulié, in A Carmelo Bene, a cura di G. Costa, cit., pp. 16-17).
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XIII. Variazioni su Amleto
e la loro registrazione mediante apparecchiature elettriche (o elettroniche). Questo complica solo le cose, perché l’atto di emissione/registrazione non si dà, malgrado le apparenze, come assertivo, ma si pone esplicitamente in contrasto con l’affermazione d’un will univoco e strutturato. Si tratta invece d’un will demotivato e svilito, come ha scritto lo stesso Carmelo: «L’ultimo will sia questo démaquillage della pensosa-illusa faccia di will che siamo»3. “Ed io non voglio più essere io!”. Bisognerebbe scrivere maiuscolo il primo Io, o scriverlo I, all’inglese, con una sola lettera maiuscola (ipertrofica, ridicola megalomania dell’I); oppure io’, e contrassegnare il secondo, per distinguerlo, come io’’, per dire che sono e non sono la stessa cosa. Soggetto del will è io’, will che prospetta il suo annientamento in io’’ – ma io’’ apre a una vertigine molteplice. Ove compare io’’, non si può più parlare di identità: si opera il démaquillage del soggetto, e insieme la convocazione sulla scena di mille pseudo-soggetti, per i quali, invece, il maquillage è di rigore. Da quando, in mano a Carmelo Bene, William Shakespeare, detto Bibì (diminutivo di Billy), si è lasciato contaminare da Jules Laforgue, Guido Gozzano e da tanti altri, Amleto ha acquistato (e subito perso, come vuoti a rendere) mille aspetti e mille voci. Non si sa più bene quale io non voglia essere più io. Certo, le parole sono quelle scritte da Gozzano, ma da dove provengono? Da una consolle, 3
C. Bene, Opere, cit., p. 1176.
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CARMELO BENE
o anche solo da una colonna sonora? L’aspetto di chi sembra pronunciarle non è quello d’un intellettuale intristito, tentato di ritirarsi in campagna, e d’altra parte, accanto a lui, non si vede nessuna signorina Felicita – semmai un’attrice troppo sensibile, cui invano proporre di fuggire insieme a Parigi (ma Kate preferirebbe piuttosto farsi monaca, dedicarsi ai feriti delle guerre, dei trent’anni o dei cent’anni, che non mancano mai). Tutto cambia, in effetti, dal primo Amleto del ’61 alla Hommelette dell’87, e tutto rimane uguale. Nel film, Un Amleto di meno, fa la sua comparsa il mare, in omaggio (ma anche a derisione) del “realismo” cinematografico, ma subito ad esso si oppone il fantastico teatrale di Elsinore: i bianchi, i rossi, i colori puri della reggia, i costumi “eccessivi” dei comici e dei cortigiani, quelli “dimezzati” (senza la parte di dietro) delle attrici e delle dame. Il fantasma del vecchio Re è il suo ritratto, dove è rappresentato con un elmo guarnito di spropositate corna. Ofelia (Isabella Russo) porta occhiali con un grosso paio di lenti scure /che invece Laura Morante, nell’edizione televisiva in bianco e nero del ’74, non porterà). Una biblioteca, dove ragazze seminude leggono “senza alcun metodo”, tra migliaia di libri accatastati a terra. Claudio è già Alfiero Vincenti, e ha già messo a punto il suo personaggio memorabile, tra sfumature viscide della phoné e scoppi vocali selvaggi, come se fosse sempre impegnato a trattenersi lungo il bordo della sua natura di assassino, nel vano tentativo di presentare un aspetto rassicurante. È doppio anche in quanto nello stesso tempo attore e spettatore, al punto di applaudire (come spettatore) il se stesso attore che 110
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XIII. Variazioni su Amleto
cavalca e duella in una ricostruzione scenica, cui partecipa anche Gertrude, della storia di Lancillotto e Mélisande. Diventa secondario, si direbbe, l’effetto della “trappola per topi” che Amleto starebbe preparando “per cogliere in fallo la coscienza del Re”, con l’aiuto dei teatranti di Elsinore (prima tra tutti, Kate), anche perché è lo stesso Claudio a finanziare la recita, facendosi anche impresario. Emergono, invece, le connotazioni della gelosia, del triangolo adulterino, sia nella rappresentazione relativa ai cavalieri della Tavola Rotonda (dove il terzo polo è Re Artù), sia nella recita del Lamento dello sposo oltraggiato di Laforgue, scambio di versi a due tra Kate e il capocomico William. Come “concessioni” al cinema si potrebbero leggere, poi, alcune altre scene: uno scoppio (reale, con tanto di boato e fiamme) commentato a parte («È bello al minatore saltare in aria sulla sua stessa mina») da Amleto, che è stato spedito in Inghilterra assieme a Rosencrantz e Guildenstern; oppure, l’esibizione di Amleto come attore in un teatro dove viene subissato di fischi (benché il teatro sia vuoto). Ma Amleto non si preoccupa, in carrozza con Kate la rassicura: «Andrà meglio a Parigi!» – benché Kate ribadisca, invece, la sua intenzione di lasciare le scene e farsi suora. Polonio confida alla Regina, passeggiando con lei attraverso grotte labirintiche, i segreti di un inconscio volgarizzato, vero e proprio gomitolo nero nei cui fili la Regina stessa finisce per rimanere impigliata. Si suicida Ofelia, ma vediamo solo una riproduzione dell’Ofelia di Millais depositata dalla risacca 111
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CARMELO BENE
sulla spiaggia. Amleto la piange con moderazione, concludendo che, dopo tutto, non è stata colpa sua: non poteva che finire così. Il suo corpo giace in un grande sarcofago trasparente, in mezzo a quello che sembra un cimitero marino, pieno di croci bianche – in questo cimitero Amleto viene ucciso da Laerte («Qualis artifex pereo!»), non senza che Laerte subito se ne penta, baciandolo sulla bocca e chiamandolo “Compagno!”. In una distesa bianca, come di neve, guerrieri catafratti avanzano lentamente. Togliendosi l’elmo che ne cela il volto, Fortebraccio incorona se stesso, ma la sua faccia è quella dell’uomo invisibile. Amleto di Carmelo Bene (da Shakespeare a Laforgue) è una versione televisiva dell’anno successivo (1974). Il bianco e nero (allora era ancora tale la televisione in Italia) offre il destro a Carmelo Bene per un esperimento di stilizzazione e astrazione, in cui il gioco dei colori diventa sinfonia di forme geometriche bianche e nere in movimento. Nella quasi costante oscurità degli sfondi spiccano, ad esempio, le etichette luminescenti “Paris Express” dei bauli, attorno ai quali ancora una volta la compagnia dei teatranti è occupata a sistemare vestiti, costumi, acconciature e oggetti di trovarobato (compreso un teschio, e ossa di gomma). Tutto diviene più cupo e al tempo stesso più astratto, come se il set fosse sottoposto a un processo di inarrestabile rarefazione. Polonio sussurra all’orecchio di Gertrude le sue banalità freudiane, percorrendo i soliti tunnel oscuri, come se la diagnosi dell’esitazione di Amleto a vendicarsi fosse ormai diventata un segreto di Pulcinella (o di vecchi 112
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XIII. Variazioni su Amleto
bacucchi, freudiani ortodossi, futuro pasto per la cena dei vermi). Ancora una volta, Amleto rivolge a Claudio, che avrebbe piacere d’essere chiamato Padre, l’epiteto straordinario di Madre, poiché Padre e Madre sono una cosa sola. Ancora una volta, lascia l’onere di pronunciare le sue battute più celebri ad Orazio (ancora F. Leo), passandogli i fogli del quaderno (il copione?) sul quale sono scritte. E Orazio, dal canto suo, le pronuncia con rabbia, quasi con disgusto, subito dopo gettando i fogli appallottolati nel cestino, tanto da poter essere definito, non senza ragione, “cestino della coscienza” (di Amleto)4. In Hommelette for Hamlet, le attrici si sono ormai tramutate in statue barocche, sante e angeli pietrificati, protesi scultoree, il cui movimento (fosse pure solo quello degli occhi) ci meraviglia e sorprende. Se la hommelette preparata da Lacan poteva fregiarsi dell’immagine berniniana di Santa Teresa in estasi, trafitta dall’Angelo sotto gli occhi degli spettatori assiepati nei palchi riservati alla famiglia Cornaro, eppure agognante un reiterato “Encore”, quella di Carmelo Bene adotta un’altra Santa berniniana, anzi (pardon) una Beata, la Beata Ludovica Albertoni, distesa su cuscini di marmo in S. Francesco a Ripa, avvolta nelle pieghe barocche di cui ha parlato De-
4 Donde il titolo del cortometraggio di Carlo Rafele e Maurizio Grande, Carmelo Bene. Il Principe Cestinato (1972). Durante una sequenza di Carmelo Bene al trucco, Grande gli ricorda quello che Tommaso Salvini diceva proprio del maquillage: «che è un momento di meditazione».
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CARMELO BENE
leuze, la bocca deformata dall’impeto della passione che la infiamma5. Simulacro vivente, tra lo stupore delle altre statue, che a loro volta ne ricevono impulso ad animarsi, essa poco a poco si libera dalle pieghe, e denuda i suoi seni di marmo, il corpo non più corpo, ormai votato al gelo bruciante dell’ “avventura spirituale”. Per molti altri, per gli uomini di potere (il re, i nobili, il regista e gli attori della troupe di Elsinore), non si può parlare di barocco, di pieghe che animano la pietra, ma semmai di statuaria devota, un po’ da sacrestia, in costumi d’epoca su corpi dipinti in oro, come icone preziose. Amleto, lui, resta semplicemente pallido, senza arrivare al bianco delle statue. Si lascia uccidere da Laerte, che lo sorprende sulla tomba di Ofelia e Polonio e gli pianta nel cuore un pugnale vero, senza lama retrattile, come non si rendesse conto, l’imbecille, della finzione cui ogni attore sul palcoscenico si pretende debba restare fedele. Ucciso per futili motivi, Amleto esala ancora un «Ah! Qualis…artifex…pereo!», che appartiene tanto a Nerone quanto a Laforgue, ma anche a Carmelo Bene: «nostalgia, come ha scritto Maurizio Grande, di una voce che verrà a mancare». “Ed io non voglio più essere io!”.
«Un altro tipo di pieghe, che avvolge la beata Ludovica Albertoni, fa pensare invece a una terra profondamente dissodata». E poco prima: «[…] il marmo conduce e coglie all’infinito pieghe che non sono ormai riconducibili a un corpo, bensì a un’avventura spirituale capace di infiammarlo», G. Deleuze, La piega. Leibniz e il barocco, tr. it., Einaudi, Torino 2004, p. 200.
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XIII. Variazioni su Amleto
È soprattutto un monologo (in forma di poesia) e come monologo esplicita il totale rifiuto di dialogo (scambio di battute) che il teatro di Carmelo Bene ha sempre perseguito. Anche se pronunciato con una sorta di violenza, esso non perde, proprio in quanto monologo (non accademico, indifferente a porsi come “pezzo di bravura”), il legame originario con l’interiorità, ossia col soffio che promana dall’interno del corpo e, benché si propaghi, udibile, nello spazio sonoro, al corpo resta intimamente legato: come ha scritto Derrida, chiosando Husserl, è nel monologo, nel linguaggio senza comunicazione «nella voce del tutto bassa della ‘vita solitaria dell’anima’ (im einsamen Seelenleben) che bisogna cercare la purezza non compromessa dell’espressione»6. La voce, nel soliloquio, si ascolta: «Le mie parole sono “vive” perché sembrano non lasciarmi: non cadere fuori di me, fuori dal mio respiro, in un allontanamento visibile; non cessare di appartenermi, di essere a mia disposizione, “senza accessorio”»7. Eppure, allo stesso tempo, la voce di Carmelo Bene. non cessa di non appartenergli, di non essere più a sua disposizione, in rapporto anche all’abbondanza degli accessori che se ne fanno veicolo. Voce propria, voce interiore, che ritorna come altra, seppure riconoscibile. Presagio, più che nostalgia, di una voce che verrà inevitabilmente a mancare (anche se, o proprio perché, registrata). J. Derrida, La voce e il fenomeno, tr. it., JacaBook, Milano 1984, p. 52.
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Ivi, p. 116.
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CARMELO BENE
Essere o non essere? Nella sua forma canonica, il famoso monologo viene spezzettato e trascritto su foglietti strappati, affidati alla lettura di un Orazio che sembra non credere ai suoi occhi e subito getta via irosamente questi lacerti di follia. Essere o non essere (più io)? Ma come chiederselo se, ha scritto da qualche parte Klossowski, lo stesso proprio corpo non garantisce la stessa anima? Il cavaliere catafratto nella sua armatura, alla fine si toglie l’elmo, ma sotto l’elmo non c’è niente. La corona si posa su una testa invisibile, su un definitivo non-io.
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XIV. Riccardo III. Le protesi del mostro
XIV. RICCARDO III. LE PROTESI DEL MOSTRO
Poi ch’io non spero più di ritornare Poiché non spero di tornar giammai.
Da Cavalcanti a T.S. Eliot, si declina il lamento della patria perduta, che può essere il dantesco esilio, ma anche l’impossibilità ontologica del ritorno laddove l’anima, indipendentemente dal corpo, vorrebbe (direbbe Freud) regredire, ossia alla condizione beata dell’infans; ma Carmelo Bene, lettore di Leopardi e Schopenhauer, sa bene che questa condizione è mitica, che la nostalgia è una trappola tesa dalla natura agli umani, perché sopportino l’esistenza, e che, in ultima analisi, non si dà altra nostalgia che quella del non-essere pre-natale – e allora, si può, si deve sperare in un altro non-essere, dalle conseguenze peraltro un po’ diverse: quello dell’annullamento post-mortem. Il Riccardo III (da Shakespeare) secondo Carmelo Bene viene presentato nel 1977 al teatro Bonci di Cesena e diventerà l’anno successivo testo scritto, compreso nel volume Sovrapposizioni di Bene e Deleuze (edito da Feltrinelli). In mezzo, ebbe luogo la trasposizione televisiva, di cui si parla qui. 117
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CARMELO BENE
Nel testo scritto, ora leggibile in Opere1, sembra quasi che Bene avanzi un dubbio, circa questo famoso nulla post-mortem – o almeno, è possibile interpretare come tale, forse abusivamente, il fatto che la parola fine, dopo l’ultima battuta di Riccardo (che pure si dice rivolta “al nulla”), venga fatta seguire da un punto interrogativo (La fine?), come prospettando una qualche forma di possibile continuità. Nessun dubbio sembra invece possibile nella reinvenzione televisiva, che parte da un desolato tono plumbeo, gravante su una scena nella quale si intravvedono appena, come messaggeri dell’inizio, gli emblemi della fine (sarcofaghi color bronzo, decorati con croci), e termina con la figuretta minuscola di Riccardo, che gira su se stesso come un pazzo, invano implorando che qualcuno gli dia un cavallo (disposto a offrire in cambio anche un regno), disperso in un angolo dello schermo ormai invaso totalmente dal buio. Il tutto seguito poi, col solito brusco passaggio dal totale al primissimo piano, dall’inquadratura del volto di Carmelo Bene, che abbassa lentamente le palpebre, socchiude gli occhi e consegna lo schermo al definitivo silenzio. Il montaggio, come sempre nel lavoro di Carmelo Bene, è basato sugli sguardi e sui gesti; ma sono sguardi indirizzati da nessuna parte, sempre ritornanti su colui che li rivolge, e gesti accennati, continuamente interrotti, abortiti o spezzati da bruschi salti di campo2. 1 2
C. Bene, Opere. Bompiani, Milano 2002, pp. 755-831.
«Potremmo ricordare le minuzie di centinaia di micro-
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XIV. Riccardo III. Le protesi del mostro
C’è un teschio in un vassoio... Tutto è funebre arredo: Bare e specchi dovunque. Dappertutto i cassetti: contengono tante garze e bende bianche e trucchi difformi dei quali si potrebbe ben gloriare un bel tradizionale Riccardo III...
La bruttezza del duca di Gloucester, già in Shakespeare era, come sappiamo, un segno della sua malvagità. Si pensi al Riccardo III di Laurence Olivier (che Bene non sopportava). Olivier si era fatto applicare un naso finto, per apparire più “plebeo”, e camminava zoppicando. Il particolare più notevole del suo abbigliamento era tuttavia uno strano farsetto a quattro maniche, due di lunghezza regolare, contenenti le braccia, e due vuote, molto più lunghe e pendenti dalle spalle, terminate da due nodi (come se gli mancassero le mani). Il Gloucester di Olivier, insomma, poteva passare per un mostro a quattro braccia e privo di mani. Carmelo Bene, dal canto suo, non si camuffa, non usa trucchi – o meglio, li squaderna sotto gli occhi degli spettatori, togliendo dai cassetti una quantità di protesi posticce (garze,
movimenti straziati, di semi-toni smorzati, di quasi-espressioni cancellate... O i dettagli di decine di pagine sfogliate, bandiere strappate, abiti sdossati... Colpi di chiusure e di cesure continue, suoni spinti a morire in altezza o gesti atterrati e ripiegati sul nascere, atti sbrigati o liquidati in fretta o parole sfatte e liquefatte ancora in gola... Insomma, la costante di una sparizione, che è tutto ciò che si vede per davvero apparire». P. Giacchè, Carmelo Bene. Antologia di una macchina attoriale, Bompiani, Milano 2007, p.123.
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CARMELO BENE
bende, guanti, ossa di plastica, una gobba finta, ingessature vuote), di cui evidenzia appunto la ridicola falsità. I guanti, per esempio, hanno un aspetto ripugnante, con lunghe dita luride, da bestia, ma sembrano accessori da film dell’orrore, così come il corpo del re assassinato è fatto dei pezzi smembrati d’un manichino decomposto. Non zoppica, il Riccardo di Carmelo Bene – ogni tanto, però, crolla a terra, perde l’equilibrio, come se gli girasse la testa, senza una ragione apparente. Sono cadute “verso il nulla”, anche se occorre dire che possono essere altrettante occasioni per avere contatti con la bella cameriera Buckingham (Laura Morante) che soccorrevole ogni volta lo aiuta a rialzarsi. Contatti però sempre puramente virtuali, mai “mostrati”, sempre spezzati dall’intervento del montaggio: sicché rimane, tra uomo e donna (o donne), una sostanziale estraneità, un’impossibilità di aderenza, in senso fisico e in ogni altro senso. Ciò, malgrado il fatto che le vere protesi di Riccardo, le stampelle che in effetti lo tengono in piedi, siano proprio le donne, da sua madre, la duchessa di York (Lydia Mancinelli) alla stessa servizievole Buckingham, da Elisabetta a Margherita, da Lady Anna a Madama Shore, che si affollano attorno a lui e se ne lasciano ammaliare, pur avendo tutte le ragioni per odiarlo. Sono loro, recando le sia pur flebili fiammelle dei candelabri in giro nel buio del palcoscenico, a romperne l’oscurità. Una estrae un crocifisso di bronzo dal solito baule/sarcofago, e compulsivamente lo bacia. Un’altra tira fuori un piatto prezioso. Un’altra ancora, vi pesca un libro e una penna d’oca. Davanti a invisibili specchi, si truccano. 120
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XIV. Riccardo III. Le protesi del mostro
Intanto Riccardo accenna passi di ballo assieme a un vestito senza corpo e una parrucca senza testa. Dal fondo del palcoscenico, fuori scena, ogni tanto proviene un pianto di bambini. Sono i lamenti dei figli di Clarence, uccisi, come il loro padre, per ordine di Riccardo? Forse, anche se quelli erano adolescenti, e Bene, invece, li definisce come vagiti di neonati. Infine, Margherita disfa e rifà il letto, cambia federe e lenzuola, allargandole verso la telecamera, fino a coprire di bianco l’obbiettivo, evocando fantasmi al delirio di Riccardo. Una voce (di Margherita?) recita altri versi di Eliot3, stavolta dal Ritratto di signora. È una partenza, un addio agli spettatori e a Riccardo, che scompare alla vista, inghiottito dal buio che invade lo schermo. Non so quanto sia esatto sostenere che il Riccardo III di Bene costituisca una rilettura critica del Riccardo III di Shakespeare. Certamente non ne è neppure la parodia. Come ha giustamente notato Gilles Deleuze, Bene non effettua la messa in scena del potere, della Corte, del mostruoso cinismo col quale Gloucester persegue il disegno di diventare re. Sottrae tutto il lato regale e principesco, e abbandona Riccardo al suo rapporto con le donne (cfr. la nota preliminare “sul femminile”): donne che però non usa come meri “strumenti di lotta politica”, in senso
3 La frequentazione beniana della poesia di T.S. Eliot si manifesta nel 1967, quando Carmelo Bene fornisce la sua voce al cortometraggio sperimentale di Nico D’Alessandria, Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock, con interventi sonori di Luciano Berio.
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CARMELO BENE
machiavellico. Con loro gioca, e viene giocato, in un vortice di inganni e metamorfosi dal gusto quasi infantile, di cui sono espressione proprio le protesi che ama esibire. Il Riccardo di Bene è un attore-bambino, che perfeziona man mano, in scena, la sua strategia, prima di rendersi conto (troppo tardi) che questa lo conduce all’annientamento. Così che la sua disperata ricerca finale di un cavallo potrebbe apparire solo come l’estremo tentativo di reperire un gadget (un cavallo a dondolo di legno? l’ennesima protesi?) per continuare il gioco.
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XV. Variazioni su Otello
XV. VARIAZIONI SU OTELLO
L’armatura di Otello, gremita di medaglie, è come un’immagine sacra carica di ex-voto. Otello gioca con questa paccottiglia e le lancia ogni tanto occhiate poco convinte – oppure manipola le lenzuola del letto dove giace riversa Desdemona, le gualcisce, le riduce a cenci spiegazzati. Così fa Jago, sul medesimo letto, con il fatidico fazzoletto: lo morde, ci si soffia il naso, ci si deterge il sudore. Più tardi, il bianco delle lenzuola, del fazzoletto, dei veli, dei merletti, dei corpi di Jago, Roderigo, Cassio, Emilia, Bianca e della stessa Desdemona, sarà sporcato dal nerofumo, mentre Otello poco a poco inesorabilmente si sbianca. L’Otello di Bene è la storia del progressivo impigliarsi di corpi in un viluppo di veli e lenzuola, e della loro contaminazione in una tinta opaca di fuliggine (salvo Otello, per il quale vale il processo inverso). Non si può nemmeno dire sia una storia che comincia dalla fine, visto che, sì, ad apertura di sipario Otello dichiara l’ineluttabilità della morte di Desdemona («Conviene che tu muoia...», esclama), ma aggiunge «... di tanto in tanto». Dunque Otello non cessa di uccidere Desdemona sulla scena («di tanto in tanto»); Desdemona, come Jago, non cessa di annerire; Otello non cessa di sbiancare. Né cessa, tra di loro (e gli altri), un continuo scambio di voci, sincrone o asincrone: 123
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CARMELO BENE
scambio di voci, si badi, non di battute, per cui non saremo mai sicuri, noi spettatori, che Otello non parli con la voce di Jago e Jago con quella di Otello (o di Brabanzio). È questa la loro “indefinibile complicità, parallela a quella tra Bianca, Emilia e Desdemona. Il letto dell’Otello di Bene è dunque essenzialmente il luogo della contaminazione di voci, colori e corpi, maschili, femminili, bianchi, neri, l’uno diveniente nell’altro, l’uno diveniente altro. Contaminazione che è lotta (maschile/vs/femminile, bianco/ vs/nero), ma anche irrimediabile complicità. Allo stesso tempo, viene ribadita nella contaminazione l’essenza dell’opera di Carmelo Bene, tra teatro, cinema, poesia, elettronica, musica – dove può sembrare irrilevante, ma non si annulla, perfino il pre-testo, l’opera consacrata da sconsacrare. All’inizio, infatti, non può esserci che la lettura (delle opere di Shakespeare, di Laforgue, del Pinocchio di Collodi), ma questa lettura diventa subito una lettura comparata e quindi una ri-scrittura, piegata all’ottica della contaminazione – alla scrittura teatrale, poi, segue l’eventuale rielaborazione televisiva, nel corso della quale si esalta la funzione del montaggio, secondo quella “lettura verticale” di cui ha parlato Maurizio Grande, contrapponendola alla “lettura orizzontale” della pura successione di scene. Il testo, tuttavia, non si riduce a pretesto – o meglio, si fa pretesto per lo scatenarsi di private ossessioni, che vi trovano alimento. Non c’è più l’Otello di Shakespeare, ma l’Otello di Bene – o meglio, le innumerevoli versioni beniane, teatrali, cinematografiche, televisive, perfino radiofoniche, del personaggio shakespeariano. 124
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XV. Variazioni su Otello
Nel teatro come pratica abitudinaria, il corpo dell’attore o dell’attrice si pone (nel migliore dei casi) come metafora, luogo di transito e di passaggio. Nell’interpretazione, si instaura una relazione attore/ personaggio che può andare dall’immedesimazione simpatetica (calarsi nel personaggio, come ci si cala in un pozzo) al distanziamento brechtiano, ma resta comunque una relazione univoca. Nel teatro di Carmelo Bene, invece, si ha l’esplicitazione di doppi possibili virtuali, che per Klossowski erano già nella mente del drammaturgo (per esempio Shakespeare), ove questi sia figura separata da quella dell’attore (per esempio Carmelo Bene). Scambi corpi/voci. Nell’Otello, Brabanzio parla con la voce di Jago, Desdemona con quella di Bianca, Cassio contemporaneamente con le voci di Jago e Otello, magari fuori sincrono. Sono voci espropriate, separate dal corpo, addirittura delegate alla macchina (nel play-back). Nota Klossowski: [...] lo spettatore non sopporta che un attore da lui scelto per vedergli recitare un dato personaggio, possa essere bruscamente doppiato, durante uno stesso spettacolo, da un altro attore nella stessa parte. Carmelo Bene, invece, è dotato di un corpo sottile: [...] è l’interprete per eccellenza delle anime separate dai loro corpi o dei corpi separati dalle loro anime...1.
P. Klossowski, Cosa mi suggerisce il gioco ludico di Carmelo Bene, in C. Bene, Opere, Bompiani, Milano 2002, p. 1468. 1
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CARMELO BENE
Corpi che si scambiano voci, voci che si scambiano corpi. Vengono in mente, allora, proprio i soffi multipli del Bafometto, il soffio di Santa Teresa nel corpo del giovane paggio ecc. Viene in mente la voce-martirio di Artaud, in Pour en finir avec le jugement de dieu. Gli attori hanno disimparato a respirare, diceva già proprio Artaud, come soffiatori di vetro che non sanno più il loro mestiere. Hanno disimparato a soffiare e a gridare. Nel teatro, poi, si sono sentite anche troppe grida, si è fatto anche troppo Frastuono, troppo inutile rumore, nell’illusione che questo bastasse a dar vita al teatro della Crudeltà di cui parlava Artaud. Dopo Artaud, nessuno ha affermato con più forza di Carmelo Bene che non solo il testo è l’attore, ma il testo è la voce. Cosa fa la voce di Carmelo Bene? Opera proprio quel “transfert anatomico” per cui non si dà luogo allo spettacolo nel senso consueto, ma semmai allo spettacolo (gioioso e inquietante) della trasposizione del corpo in un al di là che confina con la morte, ma che non è un altrove: è qui. Bisogna saper suonare i microfoni come strumenti musicali, ma non per creare un’armonia e neppure una dissonanza sapiente, “d’avanguardia”. Piuttosto, occorre produrre all’interno della voce (osservava Manganaro) una differenza di voci, per cui si allenti il legame banalissimo, organico, tra voce e volto, sbiadisca la miseria della loro pretesa unità e si instauri quella schizofrenia che è la condizione poetica del dire. Bisogna, in altre parole, che la voce smetta di ap126
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XV. Variazioni su Otello
partenere ad un corpo determinato, fosse pure quello del grande attore, perché non si dà grandezza se non mettendo in gioco l’identità. Come ha scritto Deleuze: utilizzando il play-back, Bene inventa qualcosa che non è canto e neppure “recitar cantando”, ma una “voce filtrata”, in grado di modificare e far variare il colore di base di un suono. Voce espropriata, separata dal corpo. Amplificazione della macchina attoriale, anche attraverso l’elettronica. Martirio fonetico. Attore del malessere, nel coma e nel delirio si cancellano le sordide sicurezze dell’identità, dell’interpretazione e dello spettacolo. Otello si regge dunque su un’operazione di contagio delle voci, che si trasmettono dall’uno all’altro personaggio come si trasmette una malattia (per esempio la peste, per rimanere in ambito artaudiano) – contagio delle voci analogo alla reciproca trasmissione di sporco, o di nero, sulle rispettive epidermidi: maquillage e demaquillage. Solo che per Otello il demaquillage, lo sbiancamento, è la fine.
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CARMELO BENE
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XVI. Variazioni su Macbeth
XVI. VARIAZIONI SU MACBETH
Carmelo Bene aveva già ri-scritto, da Shakespeare, un Macbeth Horror Suite in tredici movimenti. Nel testo scritto troviamo, come da copione, l’indicazione dei nomi dei personaggi (nell’ordine: Duncan, le streghe, il Capitano, Rosse, Macbeth, Banquo, lady Macbeth, il Portiere, Macduff, il Sicario, le tre Apparizioni, il Coro) e l’attribuzione delle relative battute. Nessuna indicazione scenica, invece. Possiamo ritenere che, del Macbeth, Bene avesse estratto il succo, asciugandolo e soffocando sul nascere ogni tentazione d’enfasi? Certamente. Però, ancora una volta, non c’è quasi alcuna corrispondenza tra il testo (scritto) e ciò che avviene e si ode sulla scena – tanto meno con ciò che avviene e si ode nel montaggio preparato nel 1996 da Carmelo Bene per il Centro di Produzione TV di Napoli. Che avviene, dunque, in scena? Un solo attore, Carmelo Bene, sostiene tutte le parti (salvo quella di Lady Macbeth) – ma non per questo si traveste, si camuffa o cambia voce. Nessun segnale ci avvisa se stia parlando proprio Macbeth, o Duncan, o Macduff, né del passaggio dall’uno all’altro. Principalmente, certo, Carmelo Bene è Macbeth, ma costui è attraversato da molteplici voci, a volte perfino animali (un gallo, una pecora, un cane, una mucca, una rana). 129
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CARMELO BENE
Altre volte, la voce non arriva, come in un film muto dal quale siano state espunte le didascalie. Altre volte ancora, ne udiamo il prolungamento nell’eco, il puro riverbero sonoro. Bene parla a volte dal vivo, a volte usa un microfono, altre volte ancora accenna vocalità da tenore d’opera (verdiano). Il suo corpo è uno, ma la strumentazione elettronica lo attraversa e, ben al di là di una semplice amplificazione, ne moltiplica e confonde le identità. L’horror è in questa moltiplicazione, in questa con-fusione delle identità, più che nello spargimento di sangue. Il sangue chiama sangue, ma qui appare e scompare da bende e lenzuola, come se giocasse a rimpiattino con coloro che si ostinano a evocarne la presenza. “Ferita era la benda e non il braccio” scrive Carmelo Bene. In effetti, prima spicca la benda avvolta come un turbante attorno alla fronte di Bene: fronte che alfine, messa a nudo, non presenta ferite. Poi c’è la benda attorno al braccio sinistro, sporcata da macchie di sangue che sembrano farsi più grandi man mano che ci si avvicina alla carne, e da un certo punto in poi invece diminuiscono fino a sparire del tutto. Di chi è questo braccio? Questa benda ferita? Dell’attore Carmelo Bene, certo. Ma chi è in quel momento l’attore Carmelo Bene, al posto di quale personaggio sta? Forse del Capitano ferito, reduce dalla battaglia e messaggero della vittoria contro il traditore Cawdor, ma non ha importanza. Sangue chiama sangue. Più tardi, Lady Macbeth e suo marito, insieme, mostrano, esibendole alla platea come panni sciorinati, lenzuola al cui centro spiccano macchie rosse di diametro prima crescente poi decrescente, alle ultime due lenzuola, che invece 130
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XVI. Variazioni su Macbeth
sono bianchi immacolati – come se, dopo tutto, Lady Macbeth fosse riuscita a lavarli. Il rosso scompare, sangue anemico evaporato, e il bianco prende il suo posto. Nella scena del banchetto, tra i convitati invisibili, Carmelo Bene solleva una lanterna e nota, rivolto a un fantomatico sicario, «Hai del sangue sul viso»; poi agita un velo bianco e grida furioso «Non mi scuotere in faccia i tuoi capelli insanguinati!». Alla fine, si copre il viso con quel velo, come se fosse il bianco il colore della morte. Il tono predominante dello spazio scenico in verità è il nero. Nero è il letto sul quale Carmelo Bene, da subito, appare seduto, e sul quale tenterà invano di possedere Lady Macbeth, impedito dalla corazza irta di punte aguzze chiodate. Neri sono i due armadi, ai lati della scena: le loro ante scure metalliche si aprono e si chiudono cigolando con fragore. Nero è il fondo del palcoscenico. Dagli armadi, quasi fossero porte o finestre aperte sul vuoto, si sprigionano tuttavia i rumori e i lampi d’un temporale. Dalle ante spalancate, il vento agita veli bianchi, con violenza di tempesta. Poi comincia a udirsi quello che a tutta prima sembra il rumore del galoppo d’un cavallo, che però presto si regolarizza, acquistando quasi il ritmo implacabile d’un battito cardiaco: prosegue a lungo, e cessa solo quando Macbeth entra nell’armadio di destra, trascinandosi dietro sotto la porta, come una coda, uno strascico bianco. È lì che forse dorme il re, in procinto d’essere ucciso? In ogni caso, Macbeth resta il trastullo di forze negative che lo ingannano e lo illudono. Il suo agire, sempre eterodiretto, lo rende preda di falsi presagi. È 131
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CARMELO BENE
«un povero attore che si dimena pavoneggiandosi», costantemente beffato dal destino, nelle cui mani non è più di una marionetta e che invano, per sfuggire alla rappresentazione di cui fa parte, tenta di svellere l’impiantito del palcoscenico: gesto auto-distruttivo, se venisse davvero portato a termine, perché egli, anche ribattezzandosi “macchina attoriale”, rimane pur sempre “animale teatrale”.
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XVII. Lorenzaccio o la divergenza dei rumori
XVII. LORENZACCIO O LA DIVERGENZA DEI RUMORI
Di Lorenzaccio. Al di là di De Musset e Benedetto Varchi, presentato per la prima volta al Teatro Comunale di Firenze nel 1986, ci restano le riprese TV (girate allora), delle quali Carmelo Bene e Mauro Contini avevano cominciato il montaggio: montaggio che, poi, era stato completato da Contini nel 2003. E abbiamo il “racconto”, scritto dallo stesso Bene1, pure nell’86 (Nostra Signora Editrice, Roma – con il saggio “La grandiosità del vano” di Maurizio Grande). Le “Storie fiorentine” del Varchi aprono il montaggio televisivo, assieme alla voce off di Bene, che legge il brano relativo alla vicenda di Lorenzo de’ Medici, detto Lorenzaccio, “antiumanista congenito” e uccisore del duca Alessandro. Ancora una volta Bene opera, già dal dato di partenza, una contaminazione a priori, tra Varchi e De Musset. Non solo: forse si ricorda anche dell’interpretazione en travesti di Sarah Bernhardt, in abiti maschili nel ruolo di Lorenzo e, per contrasto, appare a un certo punto in una mise femminile, con un grande cappello guarnito di Ora lo si può trovare del volume C. Bene, Opere, Bompiani, Milano 2002, pp. 7-41. 1
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CARMELO BENE
fiori. È una delle sue rare concessioni al travestitismo, cui si era abbandonato anche un anno prima come attore nel film Claro dell’amico Glauber Rocha, dove, in cappellino con veletta e vestito a fiori, mangiava un gelato (pessimo) e parlava degli imperatori della decadenza («La decadenza è bella...»). In realtà, però, non è esatto parlare di travestitismo, né di concessioni verso di esso: Carmelo Bene rimane Carmelo Bene, pienamente (ir)riconoscibile, senza indulgere a vezzi e smorfiette. No – il cappello guarnito di fiori, qualche altro accessorio femminile (un ventaglio di piume, un ombrellino), sono oggettioperatori dell’ennesima contaminazione, per cui, se Carmelo Bene si collega a Sarah Bernhardt, Lorenzo assimila parti di Caterina Ginori, sua zia, nonché di Maria Soderini, sua madre. Varchi racconta come Lorenzo avesse dapprima in animo di uccidere il Papa (Clemente VII), non riuscendovi perché espulso in tutta fretta da Roma, in seguito alla bravata di aver decapitato certe statue antiche dell’arco di Costantino (donde l’epiteto di “antiumanista congenito”). Tornato a Firenze, s’era ripromesso di uccidere il duca Alessandro, nella confusa aspirazione di ripetere il gesto di Bruto nei confronti di Cesare. Ma lo spunto da cui parte Carmelo Bene è un altro, e concerne la preparazione del piano omicida: dopo aver conquistato la fiducia del duca, facendogli all’occorrenza anche da ruffiano e spia, Lorenzo usava introdurre in casa, per parecchie notti di seguito, una sua compagnia di scioperati fannulloni, che mimavano risse, lanciavano urla ed esclamazioni, tiravano di scherma, fingevano duelli e ferimenti. In tal modo, i vicini poco a poco si sarebbero assuefatti al 134
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XVII. Lorenzaccio o la divergenza dei rumori
chiasso e probabilmente non si sarebbero dati pensiero quando si sarebbe fatto sul serio. Azioni e gesti, dunque, separati dai rumori. Rumori “imitati”, cui nessuna azione “vera” corrisponde. Azioni effettive svolte in un silenzio spettrale. Qui si può parlare più propriamente, dunque, di concerto per gesti e rumori; e allora Carmelo Bene, in scena come Lorenzaccio, si deve misurare continuamente con un catafratto Mauro Contini in elmo e corazza, piazzato nella fossa dell’orchestra, nelle funzioni di rumorista (maldestro, o addestratissimo), impegnato ad assicurare un’assoluta non-corrispondenza, un perenne fuori-sincrono, tra gesti e rumori. Chiameremo Contini – scrive Carmelo Bene – quel gigante guerriero inesistente, rumorista assordante dei gesti lorenzacci. Nell’economia d’uno spazio teatrale all’italiana, questa vuota armatura, al centro dei suoi ordigni amplificati, se visibili, agirebbe nella fossa destinata di solito all’orchestra, eufemisticamente detta golfo mistico. […]. Contini suona, amplifica i movimenti, i passi lorenzacci, ostentandone il sincrono e l’asincrono, ma per suo conto; volontà fine a se stessa, espropriata a qualunque raziocinio: beve, frantuma, nei microfoni, piatti, bicchieri ecc. Vuoto guscio guerriero cinquecentesco, in tutto simile a un rumorista immerso nel buio d’una sala cinematografica di doppiaggio; professionale nel suo produrre “effetti”, con questa sola differenza, appunto: è di spalle all’immagine2.
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Ivi, pp. 23-24.
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CARMELO BENE
Far sì che Lorenzaccio sia sempre “in ritardo sul proprio gesto”, è dunque affare soprattutto di Carmelo Bene, impegnato a frantumare piatti e bicchieri con congruo anticipo, o ritardo, sul rispettivo rumore. Contini, dal canto suo, toglie e rimette l’elmo, alza e abbassa la celata, sfodera spade e pugnali: con un pugnale trafigge un sacco, mimando i lamenti d’un corpo scannato. Beve rumorosamente, grugnisce. Ai gesti di Lorenzo, invece, quasi sempre mancano i rumori, del che non manca di stupirsi. Quanto al terzo attore, Isaac George, disteso seminudo sul letto dove verrà ucciso, è un’altra versione (una versione “negra”) di Alessandro, ma è anche la sua spada impedita dai lacci, è anche la cornice vuota all’interno della quale tentano invano di specchiarsi sia Alessandro che Lorenzaccio. Nel letto comunque non riposa, grugnisce, si masturba, si lega da solo, si mette un cappio al collo, straccia drappi e lenzuola. Concerto, dunque, di rumori dissonanti, una volta tanto senza musica. Isaac George non fa che grugnire. Bene non fa che parlare. Contini grugnisce spesso, ma parla anche, con voce tonante. A Bene e a Contini sono affidati lacerti dei dialoghi di De Musset, brani di battute ascritte a loro, ma anche ad altri personaggi della pièce demussettiana. Per esempio: il nobile Maurizio offende Lorenzo, che di buon grado sarebbe disposto a ingoiare l’offesa, ma Alessandro, scherzando, pretende che si dia una spada a Lorenzo, perché difenda l’onore dei Medici, ottenendo solo lo svenimento dell’impressionabile giovanotto (atto I, scena 4); Maria, la madre, e Caterina, la zia, parlano di lui, l’una lo difende, l’altra recrimina sulla vigliaccheria della sua indole, ed è Carmelo Bene a dire le 136
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XVII. Lorenzaccio o la divergenza dei rumori
battute di tutte e due (I, 6); analogamente, il solo Bene recita il dialogo tra Lorenzo e il pittore Tibaldeo (allievo di Raffaello) che ha dipinto una veduta di Firenze, ma poi si rifiuta, con scarsa coerenza, di dipingere il ritratto di una cortigiana (II, 1); ecc. ecc. Bene non è interessato, invece, a mostrarci l’ultimo atto del dramma, quando, una volta compiuto il delitto, Lorenzo ripara a Venezia, lì viene ucciso da un sicario di Cosimo de’ Medici e il suo cadavere gettato nella laguna. Il suo interesse si concentra solo sulla preparazione dell’atto e sull’atto stesso, che fallisce nel momento stesso in cui si compie: «Lorenzaccio è quel gesto che nel suo compiersi si disapprova». Gli chiedeva infatti Filippo (uno dei personaggi di De Musset), impressionato dal cinismo di Lorenzo, dalla sua vigliaccheria e dall’inconsistenza politica delle sue motivazioni: “Ma perché uccideresti il duca, se hai queste idee?» (in III, 3) – e Lorenzo non dà, non può dare, una risposta soddisfacente, diviso com’è tra l’aspirazione romantica a imitare l’atto di Bruto e il gusto di incanaglirsi, di confermarsi feccia, materia vile e spregevole, capace d’ogni tradimento. o forse nell’oscuro tentativo di riscattarsene. La pièce ha termine, non a caso, con Lorenzo che sogguarda verso il pubblico attraverso una cornice vuota, inesistente autoritratto di se stesso. Poi, il buio. Buio fitto/oscurità/fotogrammi neri Bisognerà sul buio, distinto dalla semplice oscurità, avanzare qualche precisazione. A teatro, serve 137
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spesso a segnalare cambiamenti di scena che non abbiano consistenza tale da richiedere la chiusura del sipario. Più raro il suo uso in funzione espressiva. Come tale, lo aveva ereditato il cinema, quasi come un segno d’interpunzione, e lo aveva valorizzato l’espressionismo tedesco – ma più recentemente (vedi per esempio Straub/Huillet) è invalso il suo utilizzo autoriale, sotto la forma specifica di una serie più o meno lunga di fotogrammi neri. Vedendolo al cinema, o in TV, anche nella semplice registrazione di uno spettacolo, oramai esso assume inevitabilmente un valore privativo, di annullamento del visibile e quindi dell’immagine: una sorta d’esperienza di vuoto, temporanea o (alla fine) definitiva. È inevitabile che il buio assuma un significato diverso, rispetto al teatro: tanto più che nel cinema, per esempio, sarebbe possibile prescinderne completamente, mostrando le sequenze, o addirittura le inquadrature, una dopo l’altra, giuntandole senza soluzioni di continuità. È quanto preferiva fare Carmelo Bene nei film: anche se il suo primo cortometraggio, Hermitage, aveva comunque molto a che fare, se non col buio, almeno con l’oscurità.
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XVIII. Prolegomeni al niente
XVIII. PROLEGOMENI AL NIENTE
Con Sono apparso alla Madonna. Vie d’(h) eros(es), pubblicato nel 1983, Carmelo Bene inaugura quella pleasure dome che è il rendiconto della sua vita – rendiconto paradossale, applicato com’è alla non-esistenza di un non-nato, che tuttavia si svilupperà sempre più, in seguito, nella Vita di Carmelo Bene, scritta insieme a Giancarlo Dotto, e nell’Autografia di un ritratto. Ci interessa qui mettere in evidenza solo alcuni elementi: 1) la nascita, come nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento. Non avvenne, questo evento mitico, al Sud, terra dove è fiorito il Pensiero italico, da Giordano Bruno a Vico, a Campanella, Croce, Gentile ecc., ma nel “Sud del Sud”, dove comincia la Magna Grecia e il Pensiero si depensa. È un Sud dove il Pensiero si dà in pura perdita (come dono, come spreco, avrebbe detto Bataille), dove è nato il santo più grande, colui che eccede la santità stessa: Giuseppe Desa da Copertino, “Frate Asino”, il Santo dei Voli (dalla cui maldestra imitazione a Carmelo Bene non sono derivate altro che rovinose Cadute); 2) il rifiuto della crescita, come conditio sine qua non all’educazione della propria parte “femminile”; 139
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rifiuto di rassegnarsi alla paternità; e anche rifiuto della Storia, il cui insegnamento può essere a ragione definito “apologia di stragi”; 3) la “spiegazione” della propria tecnica vocale, anche come parziale correzione di alcune inesattezze in cui, in proposito, era incorso Vittorio Gassman. Non può esistere un “ventaglio di timbri” perché il timbro è unico: infinite sono le tonalità I microfoni sono veri e propri strumenti musicali, che bisogna saper suonare, soprattutto se ne adoperi cinque o sei insieme. Attraverso tali strumenti (collegati a un mixer, dotato d’equalizzatore, ecc.) la voce può permettersi una musicalità di colori insospettata davvero. La voce, per così dire, si riveste, s’abbiglia per spogliarsi a suo piacimento. È in grado di pronunciare l’impercettibile, di giocare armonia e modalità e intervalli proprio come un’orchestra1;
4) il ritorno sulla trascorsa esperienza cinematografica, a cominciare da Nostra Signora dei Turchi: Cinema: gioco del soggetto che gioca perverso con l’immagine, come si fa con il più futile dei balocchi. L’obiettivo giocato come il caleidoscopio dei bambini che nello stupore orecchiano ben altro, la musicalità delle immagini, effetti ottici della phonè. Invece del racconto, questo bricolage di suoni e
C. Bene, Sono apparso alla Madonna, Mondadori, Milano 1984, p. 59.
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XVIII. Prolegomeni al niente
immagini destinato a una citazione di racconto, questa miriade di segni alla deriva dell’onda sonora che detta il movimento2;
5) il racconto degli incontri, con Eduardo De Filippo, Dalì, Lacan, Klossowski, Foucault, Deleuze ecc. La conclusione ha il sapore amaro d’un bilancio, in cui le somme comunque non tornano: «Si è nati. E la vita pare il tempo accordato alla giustificazione grottesca d’esserci […]. Cos’è stato? Un bel niente»3. Ma il lavoro di Carmelo Bene non finisce certo qui.
2 3
Ivi, p. 96.
Ivi, p.167.
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XIX. Il soffio della voce
XIX. IL SOFFIO DELLA VOCE
Gli amici e gli specialisti assicurano che la biblioteca di Carmelo Bene, situata per gran parte nella sua casa di via Aventina a Roma, era composta da migliaia di volumi. Questi erano (e probabilmente sono ancora) ben ordinati sugli scaffali, ma personalmente non posso fare a meno di evocare in proposito, quando ci penso, l’immagine della biblioteca di Amleto (che torna in tutte le varianti). col pavimento ingombro di pile e cataste di libri, alte quasi fino al soffitto, a formare una sorta di labirinto da biblioteca di Babele, al cui interno si perdono Ofelia e altre semplici, nonché poco vestite, anime muliebri. Gli stessi amici e specialisti attestano pure che al posto d’onore della biblioteca, tanto da assurgere al ruolo di livre de chevet, stava un’edizione del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenauer, fittamente annotata di suo pugno da Carmelo Bene. Questo sarebbe stato dunque il libro filosofico della sua vita – e io penso, quasi per gioco, a quel pesante volume che viene ripetutamente sbattuto sulla testa del profeta Jokanaan, in Salomè: come se Schopenauer funzionasse da implacabile contrappeso nei confronti di ogni pretesa di possesso della Verità – anzi, 143
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che dico, della sua esistenza stessa. Il Tutto è Nulla ecc. Del resto, anche Jokanaan delirava, d’un delirio plebeo, come delirano tutti i sedicenti possessori di Verità positive. La Verità non si possiede, non si propaganda, non si porta (vedi Gorgia) – al massimo, volendo esserne a tutti i costi un portatore, bisognerebbe esserlo come si è portatori di un virus, agenti occulti di un’infezione che, a tutta prima inavvertita, poi scoppia inarrestabile: ma non si tratta tanto di portare il virus (come favoleggiavano Freud e Jüng sulla nave in viaggio per l’America), quanto di diventarlo. Pensando alle parole, una non-attrice, una scrittrice come Virginia Woolf, poteva dire, in una conversazione radiofonica del 1937, la cui registrazione si è fortunosamente conservata: Sono le più selvagge, le più libere, le più irresponsabili e le meno addomesticabili di tutte le cose. Naturalmente le si può acchiappare e ordinare e piazzare in ordine alfabetico nei dizionari. Ma le parole non vivono nei dizionari; loro vivono nella mente1.
Nella mente? Sia pure. Ma non diventano forse ancora più selvaggiamente inafferrabili, nel momento in cui la voce è costretta a pronunciarle? Ben meschino, allora, risulta il trattamento utilitario che permette a Giorgio VI di superare i suoi problemi di balbuzie, ad opera del logopedista Logue (vedi Il discorso del La registrazione è ascoltabile in rete, sul blog di “Nazione Indiana” (09/04/11). 1
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XIX. Il soffio della voce
re di Tom Hooper), sebbene Logue si riveli alla fine non un medico, ma proprio un ex-attore. E altrettanto meschini dovevano sembrare i procedimenti adottati dai cosiddetti insegnanti di dizione ad un Artaud che si accingeva a delirare vocalmente in Per farla finita col giudizio di dio. Abbiamo già accennato al secondo dei Quattro Momenti su Tutto il Nulla, dedicato da Carmelo Bene a “Coscienza e conoscenza”. Abbiamo ricordato come egli citi Gorgia, l’anti-Parmenide. Precisiamo ora quel che Carmelo Bene pensa della Voce, della sua Voce (della phonè): Questa Voce – dice – è quanto si sottrae al linguaggio. Mi spettina, mi ingarbuglia la comprensione intollerabile come un timbro prodotto dalla simultaneità di due vibrazioni che non coincidono esattamente. […] Il lavorio della cavità orale provoca la spaccatura attore/ruolo.
E dunque quella Voce non si limita a “spettinare” o a “ingarbugliare” il senso e il soggetto, ma li “vomita sulla scena”. L’abiezione del senso e del soggetto consiste in questo: che se vogliamo cogliere le cose, cogliamo in definitiva nient’altro che lo specchio in cui si riflettono come miraggi, e se cerchiamo di considerare lo specchio in sé, finiremo per scoprire su di esso nient’altro che miraggi, prendendoli per cose. In tutti i casi, rispetto all’eternità del nonessere, la durata d’ogni esistenza è nulla, e qui Bene, attraversando Schopenauer e Nietzsche, incontra le suggestioni del pessimismo radicale di Leopardi, di quel Leopardi qualificato da Emanuele Severino non 145
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solo come grande poeta, ma anche come lucidissimo pensatore (o pensatore lucidissimo in quanto grande poeta) del divenire contrapposto all’essere2. Si tratta allora, per l’ultimo Carmelo Bene, di leggere la poesia, ma non ‘L mal de’ fiori, come se, non leggendo la propria, egli volesse evitare un modo troppo facile di “appartenersi” (Noi non ci apparteniamo…), di essere troppo semplicisticamente identificato con se stesso3. Nel leggere poesie altrui (per esempio di Leopardi), Bene non persegue alcuna inopinata “fedeltà” al testo – in realtà non legge, si abbandona a una lettura-oblio, scorporata nell’alone del suono4. Opera variazioni della voce, nell’assoluta fedeltà non al testo, ma semmai allo spartito. Voce in concerto5. Pensiamo al recital dell’87 in piazza Leopardi a Recanati. Un leggio, un microfono. Una camicia bianca aperta sul petto. Un filo di trucco. Qualche involontario tic iniziale, che però passa presto, negli occhi. Gestualità molto contenuta6. Cfr. E. Severino, Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano 2006. 2
Tuttavia, Bene legge qualche brano de ‘L mal de’ fiori nel terzo (“Eros”) dei Quattro Momenti.
3
«Da qui l’alone della voce, non del dire. È spacciato ogni dire. È la voce (abbandono nella lettura-oblio) che si scorpora nell’alone del suono. Per questo ho bisogno di leggere, per sbiancare la pagina, perdermi, svanire». C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 2005, p. 339.
4
«Leggere è ripartire dal grado zero del rimembrare» dice Carmelo Bene nel primo “Linguaggio” dei Quattro Momenti.
5
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«Strutturata come una sottopartitura, la gestualità e la mimica
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XIX. Il soffio della voce
Spaziatura dei versi. Per esempio, nel Sogno: «[…] e la perduta / speme dei nostri dì […]», pausa tra perduta e speme, seguendo il ritmo del verso, non il senso; ma altrove magari il contrario: inserire nel verso una pausa, spezzarlo, se è l’unico modo per sottrarlo all’andar da sé del senso. Così si spiega la frequentazione della voce di Bene soprattutto presso la poesia romantica, dell’infelice Leopardi, del pazzo Campana, dell’esaltato Byron… Quanto a Leopardi, ciò che Bene privilegiava era ovviamente il Leopardi meno frequentato, a preferenza di quello sottoposto al logorante consumo scolastico (Infinito compreso, a me sembra). In prima linea, per esempio, l’Inno ad Arimane, scoperto tra le carte di Giacomo dopo la sua morte, e non incluso nell’edizione canonica dei Canti. Arimane è la divinità del Male presso lo Zoroastrismo, in perenne lotta con lo Spirito del Bene, e destinato, di fronte a questo, alla sconfitta definitiva. Leopardi, però, non accenna al trionfo finale del Bene, quasi che lo spirito del Male fosse non la realtà soccombente (o anche eventualmente vittoriosa), ma l’unica realtà, l’unico “autor del mondo”:
residua di Bene è ormai composta di lampi e languori, di abbandoni attoniti e di bruschi distorcimenti del volto, che continuano a trasmettere i motivi di un disagio attoriale che ormai, più che contro la scena, è contro il suo stesso canto». P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, Milano 1997, p. 138.
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Re delle cose, autor del mondo, arcana malvagità, sommo potere e somma Intelligenza, eterno dator de’ mali e reggitor del moto…
Come di cosa arcana e stupenda, si ricordava della vita (brevissima parentesi tra l’uscita dal nulla e il rientro in esso), il coro dei morti nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie: «Che fu quel punto acerbo / che di vita ebbe nome? / Cosa arcana e stupenda / oggi è la vita al pensier nostro, e tale / qual de’ vivi al pensiero / l’ignota morte appare». Severino precisa opportunamente che qui “stupenda” significa al tempo stesso lusinghevole e respingente7. Qualcosa di simile dirà Freud, sostenendo che la vita è un’anomalia dell’universo e come tale oscuramente aspira al ritorno nell’inorganico. Arcana per Leopardi, oltre che la vita, è anche la malvagia divinità che ne regola il moto, e questa è una concezione che si affianca all’altra (tra le due Leopardi oscilla) secondo cui l’agire della Natura è cieco, non mira alla felicità né all’infelicità dell’uomo. Non si tratta di malvagità: piuttosto, il gioco del divenire non ha alcun senso, nel perpetuo circuito di produzione e distruzione. Alla vita dunque, per essenza, appartiene la morte, all’essere il non-essere: e forse per questa ragione Cfr. E. Severino, Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, BUR, Bologna 2006, p. 30.
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XIX. Il soffio della voce
l’Amleto di Carmelo Bene preferiva tacere, lasciando semmai all’amico Orazio, scandalizzato, l’incarico di proferire sentenze destinate a finire nel cestino. È dunque puro artificio retorico, implorare da Arimane, da parte di Leopardi, la concessione di una grazia, fosse pure quella di morire (di non passare “il settimo lustro”, ossia i trentacinque anni), poiché non se ne può più della vita. Ci si può chiedere piuttosto, stando così le cose, cosa trattenga Giacomo e tutti coloro che sono riusciti a vedere in faccia la verità, dal porre fine col suicidio ai propri giorni; ma qui entrano in gioco i terrori e le illusioni con le quali la Natura si fa beffe di noi, allettandoci con false promesse e spaventandoci con la prospettiva di possibili futuri, ancora peggiori, patimenti. Il nulla che precede l’esistenza è il nulla che la segue. Eterno quello, come questo. Lo stesso unico eterno” chiosa qui Severino, ascrivendo Leopardi al nichilismo dell’Occidente. E Carmelo Bene rivolto alla Morte: “… null’altro in alcun tempo / sperar se non te sola; / solo aspettar sereno / quel dì ch’io pieghi addormentato il volto / sul tuo virginio seno”.
Nei Quattro momenti su Tutto il Nulla, emerge la possibilità di leggere proprio il lavoro della Morte (per dirla con Cocteau), sul volto stesso di Bene, seduto nel soggiorno di casa sua. La pelle levigata dell’eterno ragazzo si è fatta greve di rughe, al di sopra delle palpebre gonfie gli occhi appesantiti lanciano solo sporadicamente qualche lampo. Siamo vicini, si direbbe, al ritorno al nulla, all’inorganico – 149
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CARMELO BENE
ma se l’Immagine fallisce, la Voce si sottrae ancora al semplice dire imbellettato, non vuole smettere di tra-dire. Non si riesce a vedere, dunque, alcuna “svolta concertistica”, nel lavoro di Carmelo Bene, almeno se intendiamo per “svolta” qualcosa di improvvisamente e radicalmente diverso da quanto fatto in precedenza. Certo, il Manfred da Byron/Schumann (del ’79), l’Hyperion da Hölderlin/Maderna (dell’80), l’Egmont da Goethe/Beethoven (dell’83), nascono da altrettante specifiche committenze di enti lirici – ma Bene sosteneva, giustamente, che fin dagli esordi si era prodotto, senza supporti elettronici, in performance vocali che presupponevano una strumentazione fonica “a venire”: «C’è più orchestra – diceva – in un grandissimo attore-macchina che non in un’orchestra vera e propria al gran completo […]»8. Certo nel Manfred, Bene doveva sentirsi particolarmente vicino all’eroe byroniano, tenebroso e romantico, evocatore di spiriti, tra i quali si nota quell’Arimane cui anche Leopardi rivolgerà il suo inno. In particolare, quando Manfred proclama «le parole non sono che fiato» ci viene in mente il primo dei Quattro Momenti (quello sul Linguaggio) in cui Bene scherza (molto seriamente) sul “soffio di vento” che diventa “soffio di-vento” e quindi “divento soffio”. Non ho tregua. Non so che cosa chiedere o cercare. Sento soltanto quello che tu sei
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C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, cit., p. 353.
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XIX. Il soffio della voce
e io sono. Ma, prima di morire vorrei udire di nuovo quella voce che era la mia musica. Parlami! Ti ho invocato nelle notti serene, ho spaventato gli uccelli addormentati tra i silenziosi rami, per chiamare te ... Ho risvegliato i lupi montani ho appreso alle caverne a riecheggiare invano il nome tuo adorato; tutto rispose, tranne la tua voce. Parlami! Ho errato sulla terra e non ho mai trovato a te l’uguale. Parlami! T’ho cercato tra le stelle a venire, ho contemplato il cielo inutilmente, senza trovarti mai. Parlami! Guarda, i demoni a me attorno, hanno pietà di me che non li temo ed ho pietà per te soltanto. Parlami! Sdegnata, se vuoi, ma parlami! ... Dimmi non so che cosa, ma che io ti senta una volta ancora …
È il soggetto-simulacro (così lo definisce Camille Dumoulié), l’attore-simulacro, la cui sola chance è di esistere nelle pieghe della voce: «il soggetto, sulla scena di Carmelo Bene, è un puro evento della voce, effetto barocco del dispiegarsi e dell’involgersi delle pieghe, effetto di risonanza della voce sulle pareti della cavità orale, del corpo, dello spazio»9. 9
C. Dumoulié, Chora o il corpo della Voce, in C. Bene, Opere,
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CARMELO BENE
Naturalmente, però, nel successivo passaggio, ormai quasi di regola, attraverso un mezzo che adesso è quello televisivo, non solo avviene una profonda rielaborazione registica da parte di Carmelo Bene (se è lui in persona a curare la regia), ma le cose cambiano anche se vengono effettuate delle riprese da parte di un qualunque regista professionista del ramo. Il mezzo televisivo stesso implica la frequenza del primo o primissimo piano, che può essere usato come supporto della voce e sua (relativa) normalizzazione. È forse il caso della versione televisiva dell’Adelchi di Alessandro Manzoni (in forma di concerto) del 1984 (regia TV di Carlo Battistoni), in cui non hanno luogo per esempio gli stacchi e gli aggiustamenti continui sul primo piano che Bene di solito predilige. Tutto rientra in una “normalità”, che però definiamo relativa, dato che in realtà è impossibile “normalizzare” Carmelo Bene. Appare prima un percussionista (Antonio Striano) che percuote tamburi all’interno della sua postazione (illuminata), secondo la partitura di Gaetano Giani Luporini – accanto, nel buio, esce dall’ombra Carmelo Bene, che recita (leggendo con voci diverse) i versi della scena iniziale tra Desiderio e Adelchi. Tra Striano e Carmelo Bene
cit., p. 1513. Nello stesso volume, cfr. G. Deleuze sul Manfred: «Tra il canto e la musica, Carmelo Bene inserisce il testo divenuto sonoro, lo fa coesistere con essi, reagire su di essi, in modo tale da farci sentire l’insieme per la prima volta e da ottenere una profonda alleanza dell’elemento musicale e contrasto con l’elemento vocale inventato, creato, reso necessario». Ivi, p. 1467.
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XIX. Il soffio della voce
si instaura così una sorta di montaggio alternato, interrotto dall’apparizione di Ermengarda (Anna Perino), che invece è sempre inquadrata nei pressi della postazione di Striano, in mezzo ai suoi strumenti. È una tragedia (letteraria) utilizzata dal compositore (Giani Luporini) come pretesto e “interpretata” da Carmelo Bene come un musicista interpreta un pezzo musicale, attraverso il concerto delle voci beniane, tutte però (a parte la Perino) riconducibili a un solo, inconfondibile timbro. È Carmelo Bene a “dire” i cori più famosi, “Dagli atri muscosi” e “Sparse le trecce morbide”. La conclusione è un pianissimo, sussurrato, un essere inghiottita dell’immagine nel buio e della voce nel silenzio, “resto di che mai fu”.
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CARMELO BENE
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XX. Santi, madonne, altari
XX. SANTI, MADONNE, ALTARI
Ogni altare, per Carmelo Bene, era eretto in onore di una Madonna o di una Santa, anche se di sesso maschile, e potremmo dire, in ultima analisi, in onore (o dis-onore) di se stesso, benché a volte1 si raffigurasse ai piedi dell’altare medesimo, in veste di adorante. In realtà allora è la Santa a ricevere la visione, a doversi fare statua, folgorata dall’apparizione. È lui ad apparire (alla Madonna). Ma cos’è un altare? Personalmente, credo che ogni altare sia un incrocio tra mensa e tomba. Tutti presentano quasi sempre una netta distinzione tra il davanti, offerto allo spettacolo degli sguardi, e il retro, invisibile residuo. Solo il Barocco va oltre, inventando un monumento/spettacolo globale. Il retro allora smette di essere residuo e diventa luogo di produzione degli effetti, degli inganni, dei giochi di luce, delle false prospettive. Per il Barocco, l’invisibile è impensabile, non si nasconde che per meglio mostrare, anche se non si mostra senza nascondere. Ma nascondere vuol dire alludere all’invisibile da cui ogni visibile 1
Cfr. il finale di Nostra Signora.
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CARMELO BENE
è affetto, evocare il vuoto assoluto dove svaniscono tutti i visibili. Carmelo Bene precisa: un altare comincia dove finisce la misura, così come essere santi è perdere il controllo, rinunciare al peso (i voli di Giuseppe Desa da Copertino), ossia rinunciare a situarsi in uno spazio che delimiti i termini del proprio essere. Ogni altare, insomma, sarebbe Altare dei Morti? Si, ma non necessariamente nel senso di Henry James o della Camera verde di Truffaut, dove le candele ardevano davanti ai ritratti fotografici degli amici scomparsi, affinché non si spegnesse l’omaggio alla loro memoria; e tuttavia tutta la costruzione si reggeva su un’assenza, su un posto vuoto (quello dell’amico fedifrago) che non poteva né doveva essere riempito. È l’estasi questa paradossale identità demenziale che svuota l’orante del suo soggetto e in cambio lo illude nella oggettivazione di sé, dentro un altro oggetto. Tutto quanto è diverso, è Dio. Se vuoi stringere sei tu l’amplesso, quando baci, la bocca sei tu. Divina è l’illusione. Questo è un santo. Così è di tutti i santi, fondamentalmente impreparati, anzi negati. Gli altari muovono verso di loro, macchinati dall’ebetismo della loro psicosi o da forze telluriche equilibranti – ma questo è escluso. È così che un santo perde se stesso, tramite l’idiozia incontrollata2.
In Nostra Signora/film e in Nostra Signora/romanzo, Sugar, Milano 1978, p. 52.
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XX. Santi, madonne, altari
Mentre dice questo, nel film, Carmelo Bene striscia a quattro zampe sul pavimento, rotola tra veli, bende e lenzuola, immerso in una luce blu o, alternativamente, rosso acceso (come un muro antico, come un sugo preparato in cucina), si guarda, o meglio, sorprende se stesso, allo specchio, il volto devastato da macchie di cerone. La macchina da presa impazzisce a seguirlo e, non riuscendovi, è costretta a interrompersi e a ricominciare continuamente, in un’orgia di frenetici stacchi. La sua voce (off), invece, recita il lungo monologo in maniera tranquilla, quasi senza pathos. Santa Margherita d’Otranto (Lydia Mancinelli), santa inesistente, giace sul letto, come una sorta di mostruoso feticcio nero, una specie di totem carbonizzato, tra le lenzuola bianche. Era apparsa nella stanza di lui, inquadrata di sotto in su, addobbata in maestosi paramenti rossi, con tanto di aureola: non un’aureola di luce, splendente, da cinema, ma una povera aureola da statua popolare, in ferro battuto, fissata sulla nuca, che si confonde con il tondo della spalliera del letto. Aveva lottato, lui, per non lasciarsi baciare, ma la Santa era stata implacabile, ripetendo “Ti perdono!” con una determinazione senza scampo, mentre risuonava la romanza “Vorrei baciare i tuoi capelli neri”. Poi si era sistemata sotto le lenzuola, fumando e leggendo “Annabella”, ma sempre fornita di aureola. Il monologo dei cretini sostituisce la Madonna a Santa Margherita, cui dovrebbe essere più propriamente diretto. Ma Santa Margherita, a sua volta, non è che una sostituta, un pallido surrogato della Madonna come primo amore. Carmelo Bene giace 157
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CARMELO BENE
sul letto, squassato da una tosse ininterrotta, e chiede proprio alla Santa, che gli fa da infermiera, di trovare in un cassetto la fotografia di colei che l’ha preceduta. La Madonna allora gli appare come in un delirio, all’interno di una grotta che si è voluto ricollegare all’iconografia della Vergine delle Rocce di Leonardo. Nella grotta, Bene avanza esitante, come se oscuramente presagisse di venirsi a trovare in una situazione angosciosa, in qualche modo già vissuta. Uccelli bianchi volano, battendo le ali nell’aria caliginosa, come in un inferno alla Dorè. E la Madonna (Anita Masini) è lì, lo aspetta col suo bambino in braccio, nella posa classica di tutte le statue di quel genere. Carmelo Bene prende in braccio il bambino, che piange. Lo posa a terra. Poi vaga ancora nella grotta, come se non riuscisse a ritrovarne l’uscita. Si imbatte in un corpo nudo riverso, tra le candele accese. Ma non si riesce a capire bene, a causa dell’oscurità e del rapido montaggio, se si tratta davvero della Masini, ora in veste di “primo amore”. “È morto per colpa tua” dice. Ma chi? Stacco. Segue la scena d’un funerale che è indicato in genere come “funerale della Madonna” (o “del primo amore”). In realtà, viene trasportato lungo una strada del paese, e posato su un muretto, un piccolo catafalco con la fotografia della Masini. Tra le poche persone che seguono il “feretro”, non ci sembra di scorgere Carmelo Bene (ma l’inquadratura è in campo lungo, i volti non si distinguono bene). Ci si può chiedere: che fine avrà fatto il bambino? Del resto, un pullman turistico, passando, cancella presto la scena. Santa Margherita, ossia la Mancinelli, torna 158
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XX. Santi, madonne, altari
nella scena successiva, in esterno giorno sul mare, come rematrice (in piedi, inquadrata di spalle) su una barca in fondo alla quale Carmelo Bene se ne sta comodamente sdraiato, lasciandosi trasportare. Lei ripete “Ti cambio le bende?”, lui si accende una sigaretta e sembra voler rievocare le vicende del “primo amore”. Respingerà la Santa anche più tardi, dopo la sequenza dei frati, quando lei, dopo aver fermato un temporale, è venuta a prenderlo per un’altra gita in barca. Lui, in veste di frate anziano, le dice che l’altro, il novizio (ma sempre Carmelo Bene), è malato, e non può venire. Il rapporto con la Santa, sempre più disamorata, precipita. Alla fine, ella lo abbandona al suo destino, riprendendo il proprio posto di statua su un altare ai cui piedi lui giace riverso, frustrato nella sua aspirazione d’essere martire, e di essere quindi lui, sull’altare, oggetto di venerazione. In Nostra Signora/libro, altri santi sono nominati. C’è un accenno a San Martino, che divise il suo mantello con un poveraccio spogliato di tutto dai briganti: «Il cavaliere era un santo, armato di tutto ferro e caritatevole»3. Più avanti4 sembra che debba svolgersi un concilio di vescovi in casa del protagonista, e lui teme d’essere fatto santo. Quello che teme, in realtà, è il riconoscimento ufficiale, dover andare a Roma, rendere omaggio al Papa e cose simili – lui che voleva diventare un santo cretino, come San Giuseppe da Copertino, detto Frate Asino, guardiano di porci, 3 4
Ivi, p. 37.
Ivi, p. 48 e sgg.
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CARMELO BENE
inetto e maldestro, ma capace di volare di notte, a bocca aperta, fino agli altari della Vergine, per poi riposarsi a terra leggero come una piuma. Alla personalità di Giuseppe da Copertino, Carmelo Bene dedicherà una sceneggiatura, che però non troverà mai il modo di tradursi in film. Nelle Opere edite da Bompiani, il lavoro è diviso in un prologo e due parti. Il prologo, scrive Carmelo Bene, non precede il film, vuol essere soltanto “un succedersi di fatti citati», una sorta di sinfonia d’opera, che ne anticipa i motivi principali. Prima parte A Copertino, nel Salento. Epoca: 1600. I genitori di Giuseppe (che deve ancora nascere), Felice e Francesca Desa, sono di modeste condizioni, ma Felice si carica di debiti con mercanti e strozzini del luogo per aiutare il suo amico frate Silvestro, allora tenuto in concetto di santo, nelle sue opere di misericordia e carità verso i tanti poveri e i malati della zona. I creditori, di conseguenza, lo perseguitano. Dappertutto, onnipresenti, cavalcando enormi muli, vanno in giro sbirri/esattori, incaricati di riscuotere le tasse e di reprimere i crimini, armati di tutto punto. Carmelo Bene si diverte comunque ad elencare diverse situazioni in cui gli sbirri sono beffati: se un ladro è sorpreso a rubare, un delinquente a uccidere un usuraio, un cavaliere a violentare una donna ecc., basta che costoro indossino rapidamente un saio, travestendosi da frati, perché gli sbirri nulla possano. Solo nelle case dei poveri essi irrompono, 160
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XX. Santi, madonne, altari
pignorando immobili e vite umane. Citazione manzoniana: frate Silvestro, arrivato non si sa come alla mensa d’un signorotto, d’un Don Rodrigo locale, prende le difese dei poveri ed è cacciato via in malo modo… Gli sbirri/esattori fanno irruzione in casa di Felice Desa, senza trovare nessuno. Inciampano nella macchina da presa. Francesca Desa partorisce in una stalla, tra la paglia. A differenza di Betlemme, non c’è un bue, ma Felice, orgoglioso, assiste al parto, a cavallo di un asino. Principio della mongolfiera. Visualizzarne una che sale in alto a condizione di disfarsi dei pesi, della zavorra. Il piccolo Giuseppe gioca con ciotole, cucchiai, piatti, anfore ecc., realizzati in piombo, in modo d’essere pesantissimi. Guarda in alto, a bocca aperta. Apre e chiude gli occhi. A tavola, Giuseppe e la madre. La madre lo costringe a stare seduto, non rendendosi conto che il figlio ha delle piaghe sulle natiche. Senza più forza per il dolore, Giuseppe lascia cadere la scodella (di piombo) col brodo. Assume un aspetto d’icona, “sembra dipinto”. La madre vorrebbe dargli un ceffone, ma schiaffeggia l’aria. Sembra che il bambino si sia sollevato sopra il suo sgabello. Giuseppe è malato, quasi agonizzante. Per divertirlo nei suoi ultimi istanti, i vicini di casa, credendo gli faccia piacere, rompono piatti e stoviglie (una “pentolaccia alla Goya”). Un cerusico, chiamato d’urgenza, dichiara che non c’è nulla da fare. Si aspetta solo la sua morte. Ma la madre non si rassegna. Cura il figlio, lo lava, lo benda. Poi lo manda 161
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CARMELO BENE
a scuola, confezionandogli due stampelle con due croci5. La scuola è una scuola mortis, dove non si impara niente. Un maestro dall’aria agonizzante si lamenta mugolando. I ragazzi sbadigliano. Il tutto assume così l’aspetto di un’esercitazione di “canto fermo” o di una lezione sull’uso delle vocali. È una lezione che dura forse anni, durante la quale Giuseppe cresce sempre di più, mentre attorno i suoi compagni cambiano, restando piccoli – come se lui fosse un ritardato, un ripetente recidivo, che frequenta per sempre la stessa classe. Il maestro si è tramutato in scheletro, mangiato dai vermi. Anche nel corpo di Giuseppe, sempre malato, i vermi stanno proliferando. Un eremita/taumaturgo guarisce Giuseppe. Giuseppe raggiunge il convento detto della Grottella. Veste un saio, che la madre gli ha fatto indossare per sfuggire agli sbirri/esattori, ma non è un frate, né un novizio. I frati vorrebbero buttarlo fuori, ma ne sono impediti dal fatto che, proprio in quel momento, il convento è assediato da una turba di altri “monaci” che vorrebbero entrare. Si preferisce serrare la porta, e tenersi Giuseppe. Nel convento, Giuseppe esercita la propria mal destrezza, incapace di eseguire i compiti più semplici (attingere acqua, alimentare il fuoco), tanto che i frati sono costretti a punirlo continuamente. Alla fine, lo mettono a fare il guardiano dei porci, ma lo mandano anche in giro per la questua, visto che i contadini Come non sentire qui qualche eco, sia pure alla lontana, delle avventure di Pinocchio?
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XX. Santi, madonne, altari
sono molto caritatevoli con lui e lo riempiono di doni – doni che però Giuseppe perderebbe regolarmente per strada, se non fosse accompagnato da un altro novizio, Ludovico, incaricato di raccoglierli man mano che li perde. Prime tentazioni di Giuseppe Desa Lungo una strada pietrosa, affocata dalla calura, incontra una giovane donna bellissima, che ride e gli sorride. Giuseppe si copre gli occhi e le orecchie, per resistere alla tentazione; ma ecco che gli viene incontro un’altra apparizione, un uomo vestito alla fiamminga, che cavalca un enorme mulo, carico di attrezzi da pittore (pennelli, tavolozza, cavalletto). È il pittore Malatasca. Dietro, sulla sella, aggrappato ai suoi fianchi, un bambino scalzo, che si volta spesso… Sembrano tutti e due diretti al convento. Turbato, Giuseppe si benda gli occhi. Così accecato, inciampa nel cadavere insanguinato di un pastorello, forse caduto da un ciglione sulle pietre della strada. Attorno, un gregge di agnelli, capretti e montoni feriti, senza più guida. Spaventato, Giuseppe grida, e grida anche il “cadavere”, che non solo non è morto, ma alla fine scoppia a ridere per lo scherzo giocato a Giuseppe. Altri pastorelli, intorno, ridono. Giuseppe vuole punire l’abbaglio della sua vanità (ha forse pensato per un attimo, imbattendosi nel “morto”, di poter operare un miracolo?). Si colpisce mani e piedi con pietre aguzze, procurandosi piaghe autentiche. 163
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CARMELO BENE
Tornato al convento, al vespro, Giuseppe crede di rivedere, dietro una finestra, la dama bellissima (quasi una Madonna fiamminga) che aveva incontrato per la strada. Si precipita verso di lei e, come in trance, si leva in volo, finisce sul ramo di un albero del convento, tra lo sgomento e la meraviglia dei confratelli. Subito si raduna una folla che grida al miracolo, che implora grazie. Quando viene fatto scendere, con l’aiuto di una scala, deve constatare che quella Madonna è sparita. O era solo la modella del pittore Malatasca, che sta eseguendo alcuni dipinti per il convento, tra cui una Madonna con bambino? Seconda parte Continuano i voli di Giuseppe, la cui fama di taumaturgo si va diffondendo ben oltre i confini del Salento; ma continuano anche le sue tentazioni, legate alla presenza della modella, il cui volto troppo somiglia a quello d’una Madonna, il cui ritratto Giuseppe tiene nella cella che divide con Ludovico. Appare il personaggio della terziaria Chiara Margiotta, “invaghita in purezza” di Giuseppe Desa, sua assidua e devota sostenitrice, come santa Chiara lo fu di Francesco. Si rivede la madre di Giuseppe, che va a trovarlo al convento, ma lui le volta le spalle: “La mamma mia non è quella! Questa (indicando la Vergine) è mamma mia!”. Forse Giuseppe non si rende conto che sia la madre, sia la modella del pittore, sia Chiara Margiotta, somigliano stranamente alla Madonna dipinta, alla quale è tanto devoto. 164
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XX. Santi, madonne, altari
Ora la sua fama è arrivata alle orecchie del Superiore della basilica di Santa Croce a Lecce, che sta predicando a chiesa praticamente vuota. Questo Giuseppe, pensa il Superiore, potrebbe essere un’attrazione, attirare gente con i suoi miracoli e i voli spettacolari, se gli riuscisse di portarlo lì. Detto fatto, arriva a Copertino, e se lo fa consegnare, benché recalcitrante. Tornano insieme verso Lecce, ma durante il viaggio (il Superiore su una mula; Giuseppe lo segue a piedi) si fermano in una chiesetta di campagna, dove si sta celebrando il matrimonio di Chiara Margiotta. I due si riconoscono. Il matrimonio va all’aria. Giuseppe fugge, torna al convento, si precipita ai piedi della sua Madonna: «Apre gli occhi: la Vergine ha esattamente il volto di Chiara. E stavolta Giuseppe se ne rende conto perfettamente. Caccia un urlo a bocca spalancata. Un urlo muto. Un urlo di terrore e di caos»6. Non ha importanza, allora, che il padre guardiano, sospettoso verso quella che ritiene un’eccessiva devozione, faccia togliere il quadro della Vergine dal muro. Giuseppe ormai è oltre l’immagine, può pregare davanti al muro bianco, perché la sua preghiera si è interiorizzata, non ha più bisogno di ritratti. L’arte era dunque tentazione diabolica, di fronte al cui fallimento, il pittore Malatasca (che bisogna intendere come personificazione del demonio), compie l’ultimo tentativo: scaraventa la modella seminuda nella cella di Giuseppe. Ma anche questa tentazione è respinta. C. Bene, Giuseppe Desa da Copertino. A boccaperta, in Id., Opere, Bompiani, Milano 2002, p. 521. 6
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CARMELO BENE
Giuseppe vola, compie miracoli, altri ne fallisce per maldestrezza congenita. Comunque la sua fama cresce e il convento, di conseguenza, diventa meta di pellegrinaggi, riceve donazioni, si arricchisce. Forse destino di ogni Santo è dare il suo nome a una Festa Patronale. Altro testo condannato a non diventare mai spettacolo, a rimanere affare di corpi tipografici e non di corpi attoriali, il Ritratto di Signora del cavalier Masoch per intercessione della beata Maria Goretti (spettacolo in due incubi), dove si assiste alle prove deliranti d’un “professore” (Sacher-Masoch? Schreber?) «pronto finalmente a barattare la sua docenza con l’indecenza, gli stivali-testicoli e il decoro cattedratico con il travestitismo e l’afasia; a calzare – indossare – estasiato, in un atelier di moda – scarpe, indumenti intimi e vestiario della sua partner»7. Sarebbero dovuti essere in scena (o meglio, fuori-scena) due personaggi (Carmelo Bene e Lydia Mancinelli) dai nomi volutamente “sbagliati” come Luisolo e Semprelei. Perché “sbagliati” (o forse paradossalmente giustissimi)? Perché Luisolo è tutt’altro che lui solo, è professore, ma anche direttore d’una clinica psichiatrica, ricoverato nella clinica stessa, Masoch, Schreber e Alessandro Serenelli, il ragazzo (“il bruto”) che assassinò Maria Goretti nel 1902; e Semprelei è tutt’altro che sempre lei, è Wanda Sacher-Masoch, padrona crudele d’un marito/schiavo, ma anche la beata Maria Goretti, uccisa da Alessandro per aver difeso fino all’ultimo 7
C. Bene, Autografia di un ritratto, in Ivi, p. XXVII.
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XX. Santi, madonne, altari
la propria verginità e canonizzata nel 1950. Semprelei assume la personalità di Maria a seconda che l’interprete (nella prima parte) indossi o meno un certo vestito (o vestaglia) di colore rosso – mentre Luisolo, in quanto professore e in quanto assassino, è anche lo scrittore della sua storia, per la qualcosa ne pretende la riconoscenza (ossia, l’essere maltrattato in quanto Masoch). La scenografia stessa è doppia: è un campo di grano con un’infinità di spighe (l’ambiente contadino del tentato stupro e del martirio), in mezzo al quale sono quasi sepolti alcuni mobili bianchi – un letto, un tavolo da lavoro, un armadio, un lavabo, uno specchio (un interno borghese, trasportato in un finto esterno). Qui avvengono le schermaglie dei due personaggi, o meglio, delle loro molteplici incarnazioni, durante le quali Luisolo/Alessandro, per sedurre Semprelei/ Maria, finge addirittura d’essere sua madre (Assunta, madre di Maria) truccata da Alessandro. Semprelei, però, non si lascia ingannare: continua imperterrita a lucidare gli stivali del partner, a indossare e provare pellicce e vestaglie rosse. La scissione dei personaggi non conosce limiti. Luisolo arriva a supporre che Semprelei sia gelosa di Maria (gelosa d’una santa!); Semprelei afferma di essere innamorata di Alessandro, di volerlo sposare, a costo di aspettare anni o di sposarlo in galera. Il professore/Alessandro ha scavato una fossa, ha costruito una bara, che trascina nella fossa stessa. Lei continua a spogliarsi e rivestirsi a più riprese, a più riprese le capita di indossare qualcosa di rosso, a più riprese è Marietta. Poi inchioda le mani di Luisolo al legno del tavolo, come a una “croce di nulla”. Finisce 167
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CARMELO BENE
la prima parte (il primo incubo) con una provvisoria riconciliazione: Semprelei abbraccia Luisolo, gli promette che vivranno insieme, basta che lui la smetta con la fissazione di scrivere. Vorrebbe un consorte dignitoso, più stimato, più austero: potrebbe essere, per esempio, il direttore di una clinica per malattie nervose. Nella seconda parte, i riferimenti a Maria Goretti e ad Alessandro Serenelli quasi scompaiono. Siamo forse in una clinica per malattie nervose, ma sono leciti molti dubbi sul fatto che Luisolo ne sia il direttore (e non, magari, un ricoverato). Semprelei con un martello, sta ribattendo chiodi negli stivali di lui, in mezzo a un fracasso infernale. Luisolo si specchia e si pettina alla toilette di lei, si prova una cravatta dopo l’altra, un vestito dopo l’altro, calza le sue scarpe, la vestaglia, un cappellino – si traveste da donna-vampiro. Lei lo prende a calci, e scompare. Rimasto solo, il professore indossa “un bel tailleur grigio austero” e un cappellino a veletta. Sistema il suo abito maschile da sera nella bara aperta: “Quest’uomo è una signora/indisposta”. Il cavalier Masoch è diventato la Dignitosa Vedova del suo cadavere, che ciò si debba o no all’intercessione della beata Maria Goretti. C’è uno stretto legame dunque, per Carmelo Bene, tra santità e idiozia, di cui è emblema, certamente, Giuseppe Desa da Copertino – ma si pensi anche al Jokanaan di Salomè, profeta dialettale, improbabile e sbraitante, sia nella versione filmica di Giovanni Davoli che in quella teatrale di Franco Citti. Perfino Gesù Cristo non sfugge alla regola, visto che, sempre in Salomè, si incarna prima in Vampiro, 168
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XX. Santi, madonne, altari
salvo poi tentare un’assurda auto-crocifissione. Non solo: l’idiozia si estende a tutti coloro che passano attraverso esperienze mistiche, senza in alcun modo poterle “dire”. Sono i famosi “cretini che hanno visto la Madonna”, sconvolti in qualche modo dall’esperienza dell’indicibile. Da questo punto di vista, la sfilata delle Sante o Beate non sarebbe completa, se non menzionassimo la Beata Ludovica Albertoni, che appare di sfuggita tra le statue bianche e dorate di Hommelette for Hamlet. E torna allora, inevitabilmente, il discorso sul Barocco, nell’accezione in cui Deleuze lo sviluppa come rapporto tra piega e corpo8, rapporto che ha molto a che fare con la scultura (prima di tutto con Bernini), ma che dopotutto è anche un problema di costumistica teatrale. Se possiamo definire il Barocco come la piega che va all’infinito, bisogna «che il tessuto, il vestito, svincoli le proprie pieghe dall’abituale subordinazione a un corpo finito»9. Le pieghe marmoree non tanto contornano i corpi un po’ allo stesso modo in cui i drappeggi delle stoffe nascondevano i corpi delle donne arabe fotografate da Clérambault, quanto li avvolgono in un ritmo autonomo e sempre moltiplicabile, «facendo infine emergere le loro teste dall’onda delle stoffe come quelle di altrettanti nuotatori»10. È così che Bernini cesella pieghe ormai non più G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, tr. it., Einaudi, Torino 2004, cap. IV. 8
9
Ivi, p. 199.
10
Ibidem.
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CARMELO BENE
riconducibili a un corpo, ma «a un’avventura spirituale capace di infiammarlo»11. È il fuoco che si nasconde nelle pieghe della tunica della Santa Teresa del Bernini, mentre il tipo di pieghe che avvolge la beata Ludovica Albertoni «fa pensare invece a una terra profondamente dissodata»12. Sono i grandi Elementi (fuoco, terra, acqua, aria) che intervengono come fattori terzi tra il vestito e il corpo, rendendo sensibile “una forza spirituale infinita”13. È il guizzare delle fiamme d’un rogo, come se il fuoco che consuma le carni di una Giovanna d’Arco un po’ diversa da quella di Dreyer, fosse diventato veste, trasfigurazione dell’eterno grido che si leva dall’incendio di ogni estasi.
11
Ivi, p. 200.
12 13
Ibidem.
Ivi, p. 201.
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XXI. Disiecta membra
XXI. DISIECTA MEMBRA
Statue barocche, capaci di animarsi inopinatamente, angeli dorati, burattini, maschere, robot, armature semoventi, benché vuote... dobbiamo ancora ascrivere a Carmelo Bene le bambole, o meglio, i manichini femminili, per completare il repertorio dei partners, tra i pochi tollerati dal nostro sulla scena, come sostituti di corpi troppo molesti. E non potevano essere, ovviamente, altro che bambole ferite, manichini spezzati e disarticolati, alla ricerca delle proprie membra disperse1. Achille uccide Pentesilea o ne è ucciso? Le versioni del mito contrastano, e Kleist le rovescia radicalmente, nella sua tragedia a lungo tenuta per irrappresentabile. Ha scritto Maurizio Grande: Kleist/Pentesilea, ovvero il desiderio come enigma che sovverte i sensi e il volere. Il desiderio rende «In Pentesilea come nell’Achilleide, una scena di brandelli e resti umani ricordava l’orrida visione del massacro dopo una battaglia. Ma ferita era la celluloide, non la bambola, e, nello spazio disseminato di braccia, gambe e busti, Carmelo Bene si aggirava con la sua voce ancor più struggente davanti al tramonto del senso», G. Costa, A Carmelo Bene, in Editoriale & Spettacolo, Roma 2003, p. 58.
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CARMELO BENE
Pentesilea inafferrabile a se stessa, incapace di comprendere la furia che la devasta […] Oltre la brama e la nausea, fiera ebbra di orrore, Pentesilea banchetta con l’aldilà della morte, fa scempio del pasto umano che eccede e oltraggia la morte.”2 E ancora: “è come se Pentesilea avesse lei per prima guardato Achille, trascinandolo con questo sguardo alla lotta, all’amore e alla distruzione. È come se Kleist avesse rovesciato la favola classica, capovolgendo il mito dello sguardo: non Achille si innamora della Regina da lui ferita a morte, ma Pentesilea si innamora del suo avversario, lo sceglie come preda degli occhi e lo “aspira” nel regno di una violenza originaria implacabile, inarrestabile3.
È un fatto che nell’In-vulnerabilità di Achille (tra Sciro e Ilio), Carmelo Bene a sua volta ribalta il tracciato di Kleist: l’eroe ha a che fare con una catasta di torsi, braccia, gambe, teste (con occhi o senza occhi), disiecta membra dei corpi di manichini massacrati, tra i quali resta quasi indistinguibile il simulacro di Pentesilea. Achille tenta, sia pure senza troppa convinzione, di rimettere insieme almeno uno di quei cadaveri, ma l’impresa non sembra andare a buon fine: svita teste, braccia, gambe e tenta di riavvitarle sui rispettivi torsi, ma sbaglia, avvita una testa su un braccio, compone una bambola mostruosa con più teste... Tra 2 M. Grande, Dodici donne. Figure del destino nella letteratura drammatica, Bulzoni, Roma 2009, p. 179. 3
Ivi, p. 186.
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XXI. Disiecta membra
queste, tutte calve, ce n’è una sola fornita di capelli, ornata di nastri bianchi, che sembra impressionarlo particolarmente. Cerca di comporlo, questo manichino mostruoso, come si compone un cadavere, addirittura tenta di fargli indossare un vestito bianco, mentre sempre più bianca diventa anche la luce. Poi Carmelo Bene indossa una giacca scura, con un garofano bianco all’occhiello. Legge qualcosa. Beve. Si toglie una scarpa e se la rimette. Uno dei manichini, inopinatamente, si tira su. Achille evoca la madre, Teti, tra lontani, quasi impercettibili, rumori d’onde: O me infelice che ho generato un figlio quasi perfetto e l’ho mandato a Ilio con le navi ricurve a combattere i Teucri Che mai più in casa farà ritorno Che vivo vede ancora questa luce del sole afflitto che soccorrere non posso Madre era meglio che tu restassi tra le immortali nel profondo giù del mare che una mortale Pelèo sposasse
Il manichino ricade. Si rialza, ricade, più e più volte. 173
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CARMELO BENE
Questa la Vita è morta Questa la carne tutta ne marcisce
Achille si toglie la giacca. Giocherella con una delle teste. Ride, piange. Sfoglia un libro fatto di pagine bianche che, voltate, producono un rumore amplificato. “Principessa Mia sposa Principessa Non era questo il giorno delle rose” Beve. Si sfila anche la camicia, ma sotto ha un’altra giacca. Parole inaudibili. Voce negata. Solo il rumore di pagine bianche sfogliate. Buio.
È una riscrittura/contaminazione di Omero, Stazio e Kleist, una “poesia orale”, sottoposta a ulteriore riframmentazione ad opera della Voce, che non solo rifiuta qualunque appartenenza a un personaggio particolare, ma lavora sempre in contraddizione al senso. Achille sente la voce di Teti, o quella di Pentesilea, ma è sempre la voce di Carmelo Bene – per cui si pone continuamente il problema di sapere chi parla, quale personaggio. Ma, appunto, non ci sono più personaggi. Essi giacciono in un mucchio selvaggio, in un cumulo di membra confuse, di corpi che qualcuno ha sbranato, per liberarsi dal pensiero insostenibile del proprio destino.
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XXII. I vivi e i morti
XXII. I VIVI E I MORTI
È stato notato da molti che, attraversando i generi letterari e scavalcandone gli steccati con suprema disinvoltura, Carmelo Bene ha sperimentato una prosa narrativa che sconfina nella drammaturgia (Nostra Signora dei Turchi e Credito italiano), sceneggiature cinematografiche ibridate con la narrativa (Giuseppe Desa da Copertino) e testi teatrali che presentano riflessioni non solo sulla tecnica attoriale, ma sulla legittimità del teatro stesso all’esistenza. Allo stesso modo, il teatro, il cinema e i lavori televisivi, tendono a diventare concerti per voci e immagini, e un “poema” come ‘L mal de’ fiori un testopartitura, da leggere come si decifra uno spartito. Se lo scritto, secondo la formula beniana, è il funerale dell’orale, quei versi sono una sorta di ri-animazione – sono da sentire prima ancora che da leggere: procedimento paradossale, che comporta un leggere, anche silenzioso, che sia nello stesso istante aperto alle risonanze del ritmo, del verso, della “musica”, indipendentemente da ogni risonanza “interiore”. Farai un vers de dreit nien, diceva Guilhem de Peitieu – e Bene: nostalgia delle cose che non furono mai. Plurilinguismo, arcaismi, neologismi. Nomadismo. Confermarsi “stranieri nella propria lingua”. Non so se sia il caso di utilizzare la parola nostal175
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CARMELO BENE
gia, talmente carica di una “poeticità” d’accatto, che si riverbera perfino sulle cose che dovrebbero rifiutarla, come quelle che non furono mai. Di “nostalgia” potrebbe essere accusato, ma ingiustamente, perfino un Roland Barthes, per esempio quando compie un’operazione di lettura di certe fotografie (in La camera chiara) a partire da una foto invisibile (ossia, non mostrata al lettore) della madre. Ciò che Barthes ricercava nelle foto che più lo avevano colpito, al di là dello studium (la composizione, l’abilità tecnica, i caratteri stilistici), era il punctum, cioè una puntura una macchiolina, un piccolo taglio, dovuto alla consapevolezza dolorosa che, nella foto, qualcosa (qualcuno) è stato lì, davanti all’obbiettivo: è dunque esistito, e re-inghiottito dal nulla irrimediabile. Di qui, più che da considerazioni storiche sull’origine del teatro, discende (per Barthes) il “singolare relais” tra Fotografia e Teatro, ossia il rapporto con la Morte: «[...] la Foto è come un teatro primitivo, come un Quadro Vivente: la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti»1. Anche Carmelo Bene, a proposito dell’amore, si riferisce alla fotografia2, quando evoca certe si-
1 R. Barthes, La camera chiara, tr. it., Einaudi, Torino 1980, p. 33.
Non si sa molto di Carmelo Bene fotografo, ma recentemente è stata pubblicata in rete (tramite CAFE’-Jonquille) una foto di eccezionale bellezza a suo tempo da lui scattata al figlio Alessandro, poi morto prematuramente. La suggestione patetica della foto è tale che quasi non sembra opera di Carmelo Bene.
2
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XXII. I vivi e i morti
tuazioni in cui «si torna ‘ndietro indove s’era stati”, forse viventi, “e trovi ‘ncorniciate / gialle fotografie della svanita / quasi persona ‘nsottoscritta stenta de imminome / ‘Magini gialle stanno e siccome stanno / e tu le fissi che nun ci se’ più». Immagini gialle o ingiallite, ma d’una “quasi persona”, di cui si stenta a ricordare il nome. Nel fissarle, non sono esse a sparire, ma sei tu (che le fissi). Nessuna nostalgia: «Tutto è passato senza incominciare». Si vedono i morti? Si, ma a vederli sono altri morti, o viventi ipotetici. Il grande manto nero del Niente si appresta a ricoprire la notte di chi non è mai stato.
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CARMELO BENE
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XXIII. Cosmogonia immaginaria
XXIII. COSMOGONIA IMMAGINARIA
Se, dopo aver aperto il discorso su Carmelo Bene nel nome di Antonin Artaud, ci piace ritornarvi in chiusura, non è per ribadire somiglianze, né per rimarcare le ovvie differenze. Ci colpisce un’altra cosa: per uno strano scherzo del destino, Artaud era approdato senza volerlo al teatro senza spettacolo. Lui, che aveva teorizzato il teatro della crudeltà, dov’era centrale l’esperienza del corpo, e non era mai riuscito a metterne in scena altro che insoddisfacenti tentativi (vedi I Cenci), ghermito dalla follia e faticosamente uscitone, era diventato soprattutto voce, consegnando alla radio, nell’ultimo periodo della vita, le sue performance migliori (vedi Pour en finir avec le jugement de dieu). Antonin Artaud, dunque, realizza se stesso (solo in parte) come voce: anche se il suo sogno sarebbe stato forse quello di tornare al teatro, questo esito appare comunque coerente con il precoce disincanto nei confronti del cinema, nell’ambito del quale aveva si compiuto notevoli prove d’attore (naturalmente, mi riferisco al Marat del Napoleon di Abel Gance e al monaco Massieu nella Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, ma anche allo spazzino/angelo custode del Liliom di Fritz Lang, al Savonarola di Lucrèce Borgia, sempre di Gance, ecc.), ma non 179
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CARMELO BENE
era riuscito a realizzare i suoi progetti più personali. Non mi riferisco tanto alla delusione che gli aveva procurato il modo in cui Germaine Dulac aveva diretto La coquille et le clergyman (sulla riuscita del film e sul presunto “tradimento” della sceneggiatura di Artaud, si potrebbe discutere), quanto alle suggestioni derivanti dalle sceneggiature non realizzate per Trentadue, La rivolta del macellaio e I diciotto secondi. Come ha scritto Gilles Deleuze nel cap. 7 dell’Immagine-tempo, qui il cinema non anticipa la potenza del pensiero, ma il suo non-potere: il suicida dei Diciotto secondi è diventato incapace di cogliere i suoi stessi pensieri, e il pensiero è proprio questa impossibilità di pensare che Carmelo Bene ha più volte definito come depensamento1. È l’automa spirituale, la Mummia, che introduce nel cinema una figura del nulla, qualcosa che rompe il concatenamento delle immagini e le dissocia. Ora, cos’è il cinema di Carmelo Bene se non dissociazione tra corpo e voce, virtuale scomparsa del corpo visibi Cfr. P. Boioli, Carmelo Bene. Il cinema della dépense, Falsopiano, Alessandria 2011, p. 12: «L’improbabilità del cinema di Carmelo Bene nasce dallo stesso assunto impossibile che permea il pensiero di Georges Bataille: entrambi ci testimoniano come si vive, cosa succede quando si è immersi nella hybris senza però avere come controparte un Dio che la punisca e che dia senso alla nostra tracotante pretesa di vivere al di là del limite. E se in Bataille questa mancanza sembra essere la fonte principale di angoscia, in Bene l’angoscia diventa sberleffo mondano, indifferente all’alfa privativo di qualsiasi atelogia». Sull’alfa privativo di acarmelobene gioca anche Enrico Ghezzi nel suo contributo al già citato A Carmelo Bene, a cura di Gioia Costa, pp. 129-131. 1
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XXIII. Cosmogonia immaginaria
le, o almeno, difficile “riconoscibilità” delle azioni, dei gesti, dei movimenti che compie e del loro senso, aspirando a diventare corpo soltanto sonoro? E c’è da meravigliarsi se il suo “ritorno” al teatro sia avvenuto in contaminazione con l’elettronica, volentieri mutandosi in “concerto”? La macchina attoriale incorpora microfoni, apparecchiature di amplificazione, registrazione e manipolazione della Voce. In questo senso l’approdo è verso un teatro senza spettacolo. Si potrebbe anche dire: verso un teatro in cui la Voce faccia spettacolo, purché si espunga dalla locuzione qualunque sospetto di virtuosismo fine a se stesso. D’altra parte le immagini (il cinema e il teatro/ elettronico di Carmelo Bene), conservano tutto il loro ancora inesplorato potere di deflagrazione: contestano perfino ogni possibile virtuosismo della Voce, ogni possibile abbandono al fascino della sua “musica”. Bisogna che neppure la Voce, neppure la Voce di Carmelo Bene, possa credersi espressione di qualcosa, invece che fantasma tra gli altri fantasmi (corpi, oggetti, manichini) impegnati in una danza (macabra) lungo i bordi del nulla. Alla pratica di questa danza, se non è possibile chiamarla ancora cinema, nell’accezione in cui Carmelo Bene ne scorgeva i limiti e ne auspicava il superamento, a noi pare sia giusto apporre il titolo di oltre-cinema. Oltre-cinema. Oltre-realtà. Se anche non accettiamo il fatto che la realtà (cosiddetta) e la vita umana (che ne è parte) siano nulla, dobbiamo tuttavia ammettere che esse costantemente ne rasentano i bordi – i bordi del nulla, dai quali forse siamo usciti per caso e siamo sicuramente 181
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CARMELO BENE
destinati a essere di nuovo inghiottiti. Parzialmente? Totalmente? È questo il punto. Lungo i bordi del nulla, si può pensare che sopravvivano più a lungo le immagini che i corpi, che esse (in movimento o meno, e comprendendovi anche la voce, i suoni e le parole della poesia) rimangano a darne testimonianza – queste immagini si svolgerebbero in solitudine, non viste da nessuno, come un film proiettato all’aperto, in una notte buia, in un’arena cinematografica vuota. Almeno fino alla fine dei tempi, quando è possibile che arrivi qualcuno o qualcosa – un dio? un Super-uomo? – in grado di rivederle e riattivarne il significato. È questo per noi il solo modo, perché acquisti senso l’assunzione da parte di Godard della famosa frase paolina sull’immagine che verrà al tempo della resurrezione. Ma quali immagini, tra le tante banali e insignificanti, varrà la pena di rivedere (risentire), da parte di un ipotetico Super-uomo? Temerario, da parte nostra, avanzare ipotesi. Certo, le immagini (figure, voci, suoni, parole) lasciate da Carmelo Bene, sembrano legittimate, tra tutte le altre, a gettare questo guanto di sfida al Nulla.
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XXIV. Piccolo repertorio di oggetti
XXIV. PICCOLO REPERTORIO DI OGGETTI
I bauli/sarcofaghi La preparazione dei bauli serve (o serviva un tempo) a predisporre un viaggio, un trasferimento, un trasloco. Sulla scena, i bauli evocano i preparativi di un viaggio imminente, spesso, nel teatro di Carmelo Bene, di una tournée da parte di una compagnia di commedianti. Essi potranno dunque essere riempiti di oggetti di scena, costumi, maschere e trovarobato, strumenti consueti di illusione (o di potere, come avveniva per le protesi e le gobbe finte di Riccardo III). Tutto assume un’aria provvisoria. Quegli oggetti non appartengono tanto agli attori e alle attrici, quanto ai personaggi (i più diversi) che si trovano di volta in volta a interpretare. Con ciò che i bauli contengono, allora, ci si traveste, ci si camuffa. Essi racchiudono l’armamentario dell’attore, l’armamentario delle sue protesi. E questo spiega anche il fascino che il contenuto dei bauli (vecchi bauli, in soffitta) esercitava sui bambini, sempre disponibili a compiere, cambiando costumi, esercizi di perdita d’identità. O di ritrovamento? Dopo tutto, se non si tratta di costumi teatrali, si tratta allora di reperti d’una storia familiare. Ciò che portava la mamma, 183
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CARMELO BENE
la nonna, o un’antenata ancora più lontana (genere femminile, quasi sempre). Camuffandosi, si gioca ai quadri viventi, che fanno rivivere il passato sotto forma di sclerosi. È il potere del baule, scatola mummificante. Le etichette di paesi diversi, di dogane o di hotel testimoniavano invece di viaggi già effettuati. Allo stesso tempo, relegati nelle cantine o in soffitte polverose, i bauli attestavano la persistenza di oggetti non più utilizzati, che non si aveva avuto più occasione di far uscire dai loro ripostigli. In ogni caso, a differenza della valigia (una valigia come quella che tentava freneticamente di preparare anche il protagonista di Nostra Signora, incalzato da lingue di fuoco), il baule è profondo; se è vuoto, ci si chiede cosa mai potrebbe contenere. Un cadavere? Perché no? Sarebbe facilissimo nascondervi un corpo, rinchiuderlo per sempre, con i molteplici giri di chiavi di una ferrea serratura. Sulla scena, per Carmelo Bene, i bauli di Amleto indicano la sua intenzione di viaggiare, di lasciare, assieme a Kate, la tetra corte di Danimarca, per mietere trionfi teatrali a Parigi; e poi, alla fine, diventano bare, ancora accessori indispensabili di un viaggio, che è l’ultimo. I bauli, però, sono strani sarcofaghi. Più che bare, in cui si può essere decentemente composti, sembrano trappole che si aprono, si spalancano all’improvviso: alla fine, ci si cade dentro. Come se anche gli attori/marionette fossero destinati a far compagnia alle loro protesi: roba da teatro.
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XXIV. Piccolo repertorio di oggetti
La corazza Il corpo del predestinato vincitore, dell’eroe guerriero, è corpo catafratto. Indossa la corazza, compreso l’elmo o celata, che lo rende completamente invisibile e dovrebbe testimoniarne l’invincibilità. La corazza è un’armatura, una protesi bellica (ne è parte la spada o la lancia). La indossa dunque Otello, eroe nero e barbaro che si sbianca al servizio dei civilizzati veneziani. In lui si aggiunge anche un sovrappiù di peso, sotto forma di medaglie, paccottiglia dal dubbio valore. La indossa Macbeth, perfino in camera da letto, dove gli risulta d’impaccio nell’amplesso tentato con Lady Macbeth, anche a causa dei grossi chiodi ferrati che ricordano l’armatura dell’istrice. La indossa, in Lorenzaccio, il rumorista Contini, che sottolinea con interventi puntualmente sfasati, le defaillances dell’azione cospiratoria. Talento supremo: sottolineare gli sbagli, sbagliando a hoc. La indossa a un certo punto il protagonista di Nostra Signora (film), partito alla conquista della sua nuova fiamma (ma anche lui ne è impacciato). La indossano infine i guerrieri che si contendono il regno di Danimarca, in Amleto – ma l’impressione, qui, è che si tratti di armature vuote, di goffi burattini deambulanti. La indossa Fortebraccio, conquistatore e futuro re: solo che quando, vittorioso, siede infine su un trono che (tanto per cambiare) è un baule, e si toglie la celata, ci accorgiamo che, sotto, non c’è nessuna testa. L’armatura è vuota. Come insegnano parecchie pièces teatrali e parecchi film, anche comici, la corazza sta in piedi da sé, e questo introduce sempre il dubbio se vi sia o no qualcuno dentro. 185
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CARMELO BENE
Il letto Mai, per Carmelo Bene, un letto sulla scena, o sul set, è servito ad espletare la sua funzione principale, che è quella di riposare – ma neppure ad evocare congressi carnali, o esserne direttamente luogo, benché spesso, in questi letti, si infilino creature femminili dalle carni morbide e disponibili (Desdemona in primis, ma anche Lady Macbeth). Sono luoghi di tortura, di agitazione e d’insonnia, in cui è impossibile non solo trovare riposo, m anche soltanto rilassarsi. Ci si rotola tra le lenzuola, si strappano i cuscini – molto spesso dai letti si cade. Le lenzuola, poi, si sciorinano finché al centro della loro bianchezza non appaiono i segni rossi, residui di ferite misteriose, agli occhi degli spettatori e dei coniugi Macbeth. È la danza del bianco, dei veli, delle fasce, delle bende, in cui i corpi si dibattono, perfino nella stanza dell’hotel Hermitage, in cui non sembra proprio che il protagonista sia venuto a cercare riposo, come se il bianco strappasse al nero il primato di colore della morte. Che santa Margherita lo attenda coricata sotto le lenzuola, leggendo “Annabella”, non smuove più di tanto il Carmelo Bene di Nostra Signora; e neppure riesce a smuoverlo, occupato com’è a fingere di leggere “L’Unità”, Alexandra Stewart che l’aspetta, in una sequenza di Umano non umano.
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XXIV. Piccolo repertorio di oggetti
Veli. Bende Metri e metri di bende, a fasciare un corpo infortunato: bende che la pietà (anche troppo) sollecita della Santa, in Nostra Signora, si offre ripetutamente di cambiare, provocando l’insofferenza di Carmelo Bene, il quale (forse) si trova a proprio agio solo nell’infortunio. Ferite di Macbeth. Ma a essere ferita è la benda, non il braccio (o la fronte). Veli di Salomè. Bianchi. Colorati. Solo sette? E non sono quasi-veli, quelli che Salomè va sollevando con meticoloso sadismo, mentre spella vivo il volto del Tetrarca? I fiori Sotto forma di serti e corone, forse per eccesso di profumi o forse solo per eccesso di colori, confondendosi i petali con gocce di sangue, possono provocare malesseri, che Carmelo Bene ha spesso mostrato e dai quali si è lasciato ispirare almeno nel titolo del Mal de’ fiori. A volte, come tappeti di petali, tracciano il percorso di pavimentazioni orientaleggianti, da corridoi di palazzo moresco o da reggia di Erode. Contenuti in un vaso, sul tavolo in una stanza dell’Hermitage o in casa del protagonista di Nostra Signora, assumono, senza bisogno d’un gioco di specchi, le qualità ipnotiche d’un dispositivo lacaniano: oggetti che, pur senza sguardo, lo restituiscono a colui che li fissa, riuscendo a convincerlo a scambiarsi di posto. Così Carmelo Bene si arrampica sul tavolo, al posto 187
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CARMELO BENE
del vaso, e il vaso, unico dormiente, trova posto nel letto, sul cuscino. Quello che non sappiamo dire allora, malgrado Mallarmé, è se manchi, oppure no, l’assente da ogni bouquet...
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Cronologia delle figure e dei personaggi
Cronologia delle figure e dei personaggi
MAJAKOVSKIJ 1960 Spettacolo–concerto Majakovskij (musica: S. Bussotti) – Teatro alla Ribalta, Bologna. 1962 Id. (musica: A. Rosselli) – Teatro Laboratorio, Roma. 1962 Id. (musica: G. Lenti) – Teatro Laboratorio, Roma. 1968 Id. (musica: V. Gelmetti) – Teatro Carmelo Bene, Roma. 1974 Bene! Quattro modi di morire in versi: Majakovskij– Blok-Esenin–Pasternak (musica: V. Gelmetti) – TV. 1980 Spettacolo-concerto Majakovskij (Majakovskij– Blok-Esenin-Pasternak (musica: G. Giani Luporini – Teatro Morlacchi, Perugia). 1981 Majakovskij (musica: G. Giani Luporini) – LP Fonit Cetra. PINOCCHIO 1962 Pinocchio – Teatro Laboratorio, Roma. 1966 Pinocchio ‘66 – Teatro Centrale, Roma. 1975 Pinocchio – Radio. 1981 Pinocchio (Storia di un burattino) – Teatro Verdi, Pisa. 1981 Id. – LP Messaggerie Musicali. 1998 Pinocchio ovvero lo spettacolo della Provvidenza – Teatro dell’Angelo, Roma. 1999 Id. – TV 189
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CARMELO BENE
AMLETO 1962 Amleto – Teatro Laboratorio, Roma. 1965 Amleto o le conseguenze della pietà filiale – Teatro Argentina, Roma. 1967 Id. – Beat 72, Roma. 1973 Un Amleto di meno – Cinema. 1975 Amleto – Teatro Metastasio, Prato. 1974 Amleto di Carmelo Bene (Da Shakespeare a Laforgue) – TV. 1978 Amleto – Radio. 1987 Hommelette for Hamlet. Operetta inqualificabile (da J. Laforgue) – Teatro Piccinini, Bari. 1987 Id. – TV. 1994 Hamlet Suite – Teatro Romano, Verona. 1994 Id. – LP Giungle Records. SALOMÈ 1964 Salomè – Teatro delle Muse, Roma. 1972 Id. – Cinema. 1975 Id. – Radio. NOSTRA SIGNORA DEI TURCHI 1964 Nostra Signora dei Turchi – (pubblicato da Sugar, Milano, 1966). 1966 Id. – Beat 72, Roma. 1968 Id. – Cinema. 1973 Id. – Teatro delle Arti, Roma. ARDEN OF FEVERSHAM 1968 Arden of Feversham – Teatro Carmelo Bene, Roma. 1969 Capricci – Cinema. 190
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Cronologia delle figure e dei personaggi
RICCARDO III 1977 Riccardo III (da Shakespeare) secondo Carmelo Bene – Teatro Benci, Cesena. 1977 Id. – TV. 1978 Riccardo III di Carmelo Bene in C. Bene-G. Deleuze – Sovrapposizioni (Feltrinelli, Milano). DON GIOVANNI 1971 Don Giovanni – Cinema. GIUSEPPE DESA DA COPERTINO 1976 Giuseppe Desa da Copertino – Sceneggiatura. OTELLO 1979 Otello (da Shakespeare) secondo Carmelo Bene – Teatro Quirino, Roma. 1979 Otello – Radio. 1979 Otello di William Shakespeare secondo Carmelo Bene – TV. 1985 Id. – Teatro Verdi, Pisa. MACBETH 1983 Macbeth – Teatro Lirico, Milano. 1996 Macbeth Horror Suite – Teatro Argentina, Roma. 1999 Macbeth Horror Suite di Carmelo Bene da Shakespeare – TV. ADELCHI 1984 L’Adelchi di A. Manzoni (in forma di concerto) – Teatro Lirico, Milano. 1984 L’Adelchi – Radio e LP Fonit Cetra. 1984 L’Adelchi di Alessandro Manzoni in forma di concerto – TV. 191
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CARMELO BENE
1997 Adelchi di A. Manzoni – Teatro Quirino, Roma. LORENZACCIO 1986 Lorenzaccio, al di là di De Musset e Benedetto Varchi – Teatro Comunale, Firenze. 1986 Id. – TV. LEOPARDI 1987 Canti – Piazza Leopardi, Recanati. 1987 Carmelo Bene e i canti di Giacomo Leopardi – TV. 1998 Voce dei Canti – Teatro Olimpico, Roma. 1998 Carmelo Bene e Voce dei Canti – TV. ACHILLE 1989 Pentesilea. La macchina attoriale. Attorialità della macchina – momento n.1 – Castello Sforzesco, Milano. 1990 Id. – momento n. 2 – Teatro Olimpico, Roma. 1997 In-vulnerabilità di Achille (tra Sciro e Ilio). Libera versione poetica da Stazio, Omero, Kleist – TV. 2000 In-vulnerabilità di Achille. Impossibile suite fra Ilio e Sciro – Teatro Argentina, Roma.
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Indice dei nomi e dei film
Indice dei nomi e dei film
A.I. Intelligenza artificiale (A.I. Artificial Intelligence, S. Spielberg, 2001), 32 Ai rotoli (D. Ciprì e F. Maresco, 1996), 14 Aleksandr Nevskij (Id., S.M. Ejzenštejn, 1938), 92 Amleto di meno, Un, 110, 190 Antamoro, Giulio, 31 Armata Brancaleone, L’ (M. Monicelli, 1966), 79 Artaud, Antonin, 6, 20, 21, 55, 92, 108, 126, 127, 145, 179, 180 Artioli, Umberto, 10, 18 Attisani, Antonio, 27 Aumont, Tina, 78 Bacon, Francis, 17, 72 Barbey d’Aurevilly, Jules, 81, 82 Barthes, Roland, 18, 73, 176 Bataille, Georges, 138, 180 Batman (Id., T. Burton, 1989), 72 Battistoni, Carlo, 152 Bazin, Andrè, 9 Benigni, Roberto, 31 Bernhardt, Sarah, 133, 134
Bernini, Gian Lorenzo, 96, 113, 169, 170 Bodini, Vittorio, 95 Borges, Jorge Luis, 98 Brakhage, Stan, 93 Brocani, Franco, 75, 7779, 193 Browning, Tod, 39 Bruno, Giordano, 139 Burton, Tim, 72 Cajkovskij, Pëtr Il’ič, 73 Calvesi, Maurizio, 77 Camera verde, La (La chambre verte, F. Truffaut, 1978), 156 Campanella, Tommaso, 139 Camus, Albert, 27, 29 Capricci, 73, 75, 93, 190, 193 Carroll, Lewis, 33 Cavalcanti, Guido, 117 Cervantes, Miguel de, 98 Cesare e Lucrezia Borgia (Lucrèce Borgia, A. Gance, 1935), 179 Chiarini, Luigi, 88 Ciprì, Daniele, 13, 40 Citti, Franco, 39, 168 Citti, Sergio, 39 Claro (G. Rocha, 1975), 79, 134 Clementi, Pierre, 78 Clérambault, Louis-Nicolas, 169 193
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Indice dei nomi e dei film
Collodi, Carlo, 34, 124 Colpo rovente (P. Zuffi, 1970), 58 Comencini, Luigi, 31 Contini, Mauro, 28, 133, 135, 136, 185 Coquille et le clergyman, La (Id., G. Dulac, 1928), 180 Croce, Benedetto, 139 Dalì, Salvador, 141 Davoli, Giovanni, 69, 71, 101, 168 De Filippo, Eduardo, 141 De Musset, Alfred, 133, 136, 137, 192 Deleuze, Gilles, 6, 18, 21, 73, 114, 117, 121, 127, 141, 152, 169, 180, 191 Des Esseintes, Jean Floresses, 40, 41 Desa da Copertino, Giuseppe, 139, 156, 159, 160, 165, 168, 175, 191 Dettori, Giancarlo, 79 Discorso del re, Il (The King’s Speech, T. Hooper, 2010), 145 Dog Star Man, (S. Brakhage, 1961-1962), 93 Don Giovanni, 26, 75, 81-85, 87, 95, 96, 191, 193 Donizetti, Gaetano, 23 Dorè, Gustave, 158 Dotto, Giancarlo, 139, 146, 150 Dreyer, Carl Theodor, 71, 170, 179 Dulac, Germaine, 180
Edipo Re (P.P. Pasolini, 1967), 75 Ejzenštejn, Sergej Michajlovič, 62, 92 Eliot, Thomas Stearns, 117, 121 Esenin, Sergej, 28, 92, 189 Fellini, Federico, 33 Ferrari, Ornella, 69 Flaubert, Gustave, 40 Foucault, Michel, 141 Freaks (Id., T. Browning, 1932), 39 Freud, Sigmund, 24, 112, 113, 117, 144, 148 Gance, Abel, 179 Gassman, Vittorio, 12, 140 Gelmetti, Vittorio, 28, 189 Gentile, Giovanni, 139 Giacchè, Piergiorgio, 12, 119, 147 Ginori, Caterina, 134 Godard, Jean-Luc, 72, 77, 93, 182, 194 Goretti, Maria, 166, 168 Gozzano, Guido, 94, 107109 Grande, Maurizio, 17, 18, 20, 23, 38, 60, 61, 95, 100, 101, 107, 113, 114, 124, 133, 171, 172 Graziosi, Paolo, 78 Grotowski, Jerzy, 26 Guerra, Tonino, 79 Hermitage, 8, 35, 37, 3941, 45, 56, 59, 60, 77,
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Indice dei nomi e dei film
138, 186, 187, 193 Huillet, Danièle, 138 Huysmans, Joris Karl, 40 Indovina, Franco, 78 James, Henry, 156 Joyce, James, 17 Jüng, Carl Gustav, 144 Kleist, Heinrich von, 171, 172, 174, 192 Klossowski, Pierre, 116, 125, 141 Kubrick, Stanley, 32 Lacan, Jacques, 24, 113, 141, 187 Laforgue, Jules, 15, 27, 109, 111, 112, 114, 124, 190 Lang, Fritz, 179 Laplanche, Jean, 24 Leggenda di Liliom, La (Liliom, F. Lang, 1934), 179 Leonardo, 158 Leopardi, Giacomo, 5, 117, 145-150, 192 Lewis, Mattheu Gregory, 33, 60, 61 Luporini, Gaetano Giani, 152, 153, 189 Machiavelli, Nicoletta, 78 Majakovskij, Vladimir, 5, 27-29, 92, 189 Malerba, Luigi, 79 Mancinelli, Lydia, 36, 40, 59, 82, 102, 120, 157, 158, 166 Manganaro, Jean-Paul,
20, 127 Manzoni, Alessandro, 152, 161, 191 Maresco, Franco, 13, 40 Margiotta, Chiara, 164, 165 Markopoulos, Gregory, 93 Masini, Anita, 158 Menard, Pierre, 98 Morante, Laura, 110, 120 Mussorgsky, Modest, 22 Napoleone (Napoléon, A. Gance, 1927), 179 Necropolis (F. Brocani, 1970), 78 Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 37, 87, 145 Nostra Signora dei Turchi, 16, 22, 39, 43, 53, 54, 62, 88, 95, 140, 175, 190 Olivier, Laurence, 119 Ovidio, 24 Parenti, Franco, 79 Pasolini, Pier Paolo, 75, 194 Passione di Giovanna d’Arco, La (La passion de Jeanne d’Arc, C.T. Dreyer, 1928), 179 Pasternak, Boris, 28, 28, 92, 189 Peitieu, de Guilhem, 175 Perino, Anna, 153 Pontalis, Jean-Baptiste, 24 Puccini, Giacomo, 22 Riccardo III (Id., L. Olivier, 1955), 15, 97, 117, 119, 195
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Indice dei nomi e dei film
121, 183, 191, 193 Rocha, Glauber, 75, 77, 79, 134, 193 Rousset, Jean, 96 Ruggeri, Ruggero, 57 Sacher-Masoch, Wanda, 166 Salomè, 26, 66, 99-103, 105, 143, 168, 187, 190, 193 Saragat, Giuseppe, 87, 88 Satellite (M. Schifano, 1968), 75 Savonarola, Girolamo, 179 Schefer, Jean Louis, 104 Schifano, Mario, 71, 7577, 79, 193 Schopenhauer, Arthur, 117 Schreber, Gottlob Moritz, 166 Schumann, Robert, 21, 150 Serenelli, Alessandro, 166, 168 Severino, Emanuele, 145, 146, 148, 149 Shakespeare, William, 14, 27, 39, 70, 82, 87, 97, 109, 112, 117, 119, 121, 124, 125, 129, 190, 191, Soderini, Maria, 134 Spielberg, Steven, 32 Straub, Jean-Marie, 138 Striano, Antonio, 152, 153 Stroheim, Erich von, 94 Švankmajer, Jan, 33 Toby Dammit (F. Fellini,
episodio del film Tre passi nel delirio, 1968), 33 Totò a colori (Steno, 1953), 31 Totò [Antonio De Curtis], 31, 39 Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani (M. Schifano, 1969), 75 Truffaut, François, 156 Umano non umano (M. Schifano, 1969), 75, 76, 186 Vaneigen, Roaul, 78 Varchi, Benedetto, 133, 134, 192 Ventriloquio, 8, 35, 37, 39, 40, 41 Verdi, Giuseppe, 22, 36, 38, 39, 57, 65, 99, 130, 189-190 Vico, Giambattista, 139 Visconti, Luchino, 95 Waldon, Louis, 78 Warhol, Andy, 56, 78 Week-end, un uomo e una donna da sabato a domenica (Week End, J.-L. Godard, 1967), 72, 93 Wiazemski, Anne, 72 Wilde, Oscar, 25, 87, 90, 102 Woolf, Virginia, 144 Zola, Émile, 91 Zuffi, Piero, 58
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Cronologia delle figure e dei personaggi
INDICE
Introduzione
pag.
5
I. Il paradosso di Narciso – II. Morire in versi – III. Pinocchio: quasi un destino – IV. Prove di cinema: Hermitage-Ventriloquio – V. Nostra Signora: un romanzo teatrale – VI. Nostra signora. Il cinema come partitura musicale – VII. Il sacrificio dell’attore. Credito Italiano – VIII. Capriccio Italiano – IX. Tra Schifano, Brocani e Rocha – X. Don Giovanni diabolique – XI. La ri-scrittura – XII. Salomè. Il cinema spellato vivo – XIII. Variazioni su Amleto – XIV. Riccardo III. Le protesi del mostro – XV. Variazioni su Otello – XVI. Variazioni su Macbeth – XVII. Lorenzaccio o la divergenza dei rumori – XVIII. Prolegomeni al niente – XIX. Il soffio della voce – XX. Santi, madonne, altari – XXI. Disiecta membra – XXII. I vivi e i morti – XXIII. Cosmogonia immaginaria – XXIV. Piccolo repertorio di oggetti. Cronologia delle figure e dei personaggi Indice dei nomi e dei film
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CARMELO BENE
Frontiere. Oltre il cinema Collana diretta da Roberto De Gaetano
AA. VV., Benjamin il cinema e i media J. Rancière, Il destino delle immagini R. De Gaetano, Tra-Due. L’immaginazione cinematografica dell’evento d’amore A. Canadè, a cura di, Corpus Pasolini A. Badiou, Del Capello e del Fango. Riflessioni sul cinema, a cura di D. Dottorini A. Cervini, A. Scarlato, L. Venzi, Splendore e miseria del cinema. Sulle Histoire(s) di Jean-Luc Godard A. Cappabianca, Trame del fantastico. Riflessi e sogni nel cinema R. De Gaetano, a cura di, Politica delle immagini. Su Jacques Rancière R. De Gaetano, Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente A. Canadè, A. Cervini, a cura di, Clint Eastwood A. Cappabianca, Carmelo Bene. Il cinema oltre se stesso 198
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Cronologia delle figure e dei personaggi
Fata Morgana Quadrimestrale di cinema e visioni N. 0 Bíos N. 8 Visuale N. 1 Mondo N. 9 Disaccordo N. 2 Archivio N. 10 Sacro N. 3 Trasparenza N. 11 Territorio N. 4 Esperienza N. 12 Emozione N. 5 Limite N. 13 Potenza N. 6 Natura N. 14 Animalità N. 7 Desiderio N. 15 Autoritratto
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CARMELO BENE
Stampato da Pellegrini Editore - Cosenza
200
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ISBN 978-88-8101-832-1
9
788881
018321
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