Carlo Verdone. Ediz. illustrata 8880334247, 9788880334248

Un ampio ed esaustivo viaggio che attraversa il percorso professionale e i processi creativi di Carlo Verdone, uno dei c

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Italian Pages 134 [104] Year 2007

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Carlo Verdone. Ediz. illustrata
 8880334247, 9788880334248

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Antonio D’Olivo (Udine, 1959) ha lavorato per i settimanali «Panorama» ed «Epoca». È stato giornalista parlamentare per il quotidiano «Brescia Oggi» e per il Gruppo Class Editore. Dal 1990 lavora al Giornale Radio Rai di cui è critico cinematografico e inviato. Dal 1999 al 2007 è stato uno dei conduttori del contenitore culturale di Radio 1 “Il Baco del millennio”, trasmissione ideata da Piero Dorfles. A Marcello, mio padre. Il Castoro Cinema n. 225 © 2008 viale Abruzzi [email protected] www.castoro-on-line.it

Editrice

Il 72,

Castoro 20131

srl Milano

In copertina: Grande, grosso e Verdone. Foto di Romolo Eucalitto. eISBN 978-88-8033-857-4 Prima edizione digitale 2014 Quest’opera è protetta dalla Legge È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. ebook by ePubMATIC.com

sul

diritto

d’autore.

Antonio D’Olivo

Carlo Verdone

CARLO VERDONE

 

INDICE Io Carlo Verdone Carlo Verdone A mo’ di premessa: l’Italia che cambia La formazione Professione regista Leone chiama Un sacco bello Bianco, rosso e Verdone Borotalco Mi faccio dirigere Acqua e sapone I due carabinieri Per affetto e amicizia Troppo forte Io e mia sorella Compagni di scuola Il bambino e il poliziotto Stasera a casa di Alice Maledetto il giorno che t’ho incontrato Al lupo, al lupo Perdiamoci di vista Viaggi di nozze Sono pazzo di Iris Blond Gallo Cedrone C’era un cinese in coma Ma che colpa abbiamo noi L’amore è eterno finché dura Ritorno a farmi dirigere Il mio miglior nemico Grande, grosso e Verdone Filmografia Nota bibliografica

Come è mutato il suo modo di fare cinema dai tempi di Un sacco bello? È molto cambiato. Come prima cosa direi che il virtuosismo si è molto moderato. I primi due film, Un sacco bello e Bianco rosso e Verdone, sono curiosi, originali, non tanto per la struttura della storia, in realtà piuttosto semplice, ma per il fatto che un solo attore interpreta più personaggi. Questa scelta li rende originali, oltre naturalmente al modo in cui li faccio agire e parlare. Borotalco segna la svolta: con il personaggio di Sergio Benvenuti abbandono il virtuosismo per tentare la strada del personaggio unico, pur sdoppiandomi con l’imitazione di Manuel Fantoni. È stata una verifica: se il pubblico non lo avesse accettato non avrei mai potuto decollare come attore e regista su una storia e un personaggio unico. Sarei rimasto un virtuoso. Borotalco dunque è stato il film più importante della mia carriera. Poi, con il passare del tempo, il mio modo di fare cinema è cambiato anche grazie all’esperienza, che mi ha portato a essere più sicuro, più ponderato: si affina “l’arte di nascondere l’arte” e si diventa più abili, più tranquilli. Anche i tempi si riescono a gestire meglio, riducendo quelle “sbrodolature” che riscontro in alcuni dei miei primi film (nonostante ciò in Un sacco bello ci sono di performance che ancora oggi trovo di una rapidità di esecuzione incredibile!). Dai tempi di Borotalco, poi, ho approfondito l’analisi della sceneggiatura, e dedico un’attenzione maggiore

anche a qualche movimento di macchina. Io mi ritengo sempre un tradizionalista nel muovere la macchina da presa, eppure sia in Ma che colpa abbiamo noi che in L’amore è eterno finché dura sono riuscito finalmente a usare un po’ di steady-cam. Certo, non è facile fare l’attore e il regista insieme! Comunque considera sempre Borotalco il suo miglior film? Non il migliore, ma sicuramente tra i migliori che ho fatto. A livello di scrittura è un film molto brioso, molto brillante, una commedia piena di equivoci scritta molto, molto bene. Con Enrico Oldoini lavorammo la bellezza di un anno al soggetto e alla sceneggiatura, ne buttammo quattro prima di arrivare a Borotalco. Quel film era essenziale per la mia sopravvivenza: non lo dovevo sbagliare. Anzi, dovevo creare qualcosa di nuovo. Credo che Borotalco, insieme a Maledetto il giorno che t’ho incontrato e Compagni di scuola, sia uno dei miei film migliori, ma c’è anche Al lupo, al lupo che a me piace molto… comunque ogni spettatore ha il suo film del cuore. Certamente questi tre li metto tra i miei preferiti. Con il protagonista di Borotalco viene messo a punto un personaggio che è un po’ considerato “l’homus verdonianus”. Simpatico, dolce, malinconico, un po’ a disagio con il mondo, alle volte fragile, delicatamente nevrotico. Tutto il contrario degli smargiassi di Sordi, Tognazzi, Gassman, mostruosi e cinici. Borotalco nasce subito dopo l’esperienza del grande movimento femminista che aveva messo completamente in crisi il maschio, quel maschio che era già in difficoltà e in crisi di solitudine nel mio primo film Un sacco bello e poi, in modo diverso, in Bianco, rosso e Verdone, in cui se ne coglievano tic e difetti. Avevamo sempre visto sul grande schermo personaggi che tradivano, che facevano, diciamo così, “i galli cedroni”. I miei personaggi maschili sono invece sempre stati in qualche modo degli sconfitti che avevano perso ogni punto di riferimento. In Borotalco c’è già, in nuce, tutto quello che sarebbe stato il mio cinema. Poi alcuni film sono diventati più poetici, come Al lupo, al lupo, altri più raffinati, come Maledetto il giorno che t’ho incontrato, ma in Borotalco si può trovare l’anima verdoniana al cento per cento: le timidezze, le fragilità, i momenti di poesia e, anche, l’immancabile finale melanconico. Sempre con Borotalco nasce anche una sorta di struttura narrativa basata sul contrasto, la contrapposizione tra due personaggi di carattere opposto. Sì, una contrapposizione che sarà poi il denominatore comune di tante mie pellicole, perché io ho sempre vissuto sui contrasti, soprattutto tra me e la donna, vedi Acqua e sapone, Io e mia sorella, Stasera a casa di Alice, Maledetto il giorno che t’ho incontrato e Al lupo, al lupo. C’è sempre il contrasto, c’è sempre una donna che mette nei guai il personaggio maschile. In Maledetto il giorno che t’ho incontrato nei guai non mi ci mette tanto la Buy, quanto Elisabetta Pozzi, la donna che mi lascia all’inizio del film. Poi anche la Buy ci mette del suo, soprattutto alla fine del film! La contrapposizione nasce dall’incontro tra un carattere maschile fragile e un carattere spesso lunatico, inafferrabile come quello dell’universo femminile. Ecco quindi le donne, un altro elemento fondamentale nel suo cinema. Provo verso l’altro sesso molto affetto, molto senso di protezione, molta tenerezza. Ho sempre considerato la donna, per alcuni aspetti, superiore all’uomo, sicuramente più saggia. Ma oggi l’uomo è fortemente in crisi perché il femminismo, che ha anticipato tante rivoluzioni culturali, lo ha anche spogliato di tante responsabilità concedendo alla donna di scavalcarlo, di “tritarlo”. Anche Nuti, nei suoi primi film, e Troisi hanno sentito e raccontato questo disagio. Penso a Ricomincio da tre, dove Troisi è vittima di un carattere femminile più forte di lui. Facciamo ridere mettendo in mostra le nostre debolezze, le nostre fragilità.

Tutte, ma proprio tutte, le attrici con cui ha lavorato dicono che ha dato loro sempre molto spazio, che le dirige magnificamente. Qual è il segreto? Il segreto innanzitutto è amare il film, amare il personaggio che hai scritto. Io poi amo la regia e, devo dire la verità, spesso dedico più cura ai miei attori che a me stesso. Io posso guardarli lavorare, ma chi guarda me? L’aiuto regista, l’operatore. Come si dice in gergo, non mi sono mai “sparato” completamente la macchina da presa addosso. Anche nei primi film ho dato parecchio spazio a Mario Brega, che era mio padre, alla spagnola Veronica Miliel, alla Sora Lella (Elena Fabrizi) di Bianco, rosso e Verdone, per la quale ho costruito un personaggio poetico, o ancora a Irina Sanpiter che fa la parte di mia moglie. Penso infatti che un film vive anche degli altri attori, anche di personaggi secondari. Non può vivere soltanto del protagonista. I nostri grandi maestri della commedia del passato, da De Sica a Risi, da Monicelli a Germi a tanti altri, ci hanno insegnato che in una scena vivono tante anime diverse, che anche una comparsa è importante. Guarda De Sica nel film L’oro di Napoli. L’altro giorno rivedevo Ladri di biciclette… era tutto giusto, anche l’ultima comparsa là in fondo che magari non diceva niente, ma che aveva la faccia perfetta! Questa coralità si è un po’ persa nel cinema italiano e allora io cerco di recuperare mettendomi a fianco dei personaggi che mi piace curare. Amo la regia e soffro molto quando devo stare in scena, spesso da solo, ma il pubblico vuole questo e io devo soddisfarlo. Però mi piacerebbe tantissimo fare un film soltanto come regista e penso che potrei dare veramente tanto ai miei attori. Tra scrivere il soggetto, girare il film e montare, che cosa le piace di più? Mi piace molto “soggettare”, se mi si passa il termine! Creare il soggetto del film. Perché il soggetto è sempre di gran lunga migliore rispetto al film che andrai a fare. Un’opera è sempre più bella immaginata. Come viene poi è una vera sorpresa. Il soggetto è il pensiero puro di quello che vuoi realizzare. La stesura della sceneggiatura è creativa ma molto faticosa, mentre il momento più stimolante è rappresentato da regia e recitazione. Però questo è anche il momento più snervante. Bisogna sempre essere al cento per cento. Io, per come sono adesso, amo costruire il soggetto di una storia. Perché il soggetto ti può venire in mente nei luoghi più insoliti: mentre guidi la moto, quando stai osservando una situazione in strada e vedi una faccia… Certo, fare poi la scaletta di un soggetto non è una cosa così automatica, ma io mi diverto. Ci sono due scuole di pensiero: “Verdone è una costola di Alberto Sordi” e “Verdone ha poco a che fare con Sordi”. Come stanno realmente le cose? Chiariamole una volte per tutte. Allora, nell’ordine: io non sono una costola di Alberto Sordi e Verdone non ha nulla a che fare con Sordi. Alberto Sordi è stato un grandissimo attore e ha avuto la fortuna di percorrere, di disegnare cinquant’anni importanti della vita del nostro Paese, dal dopoguerra alle Brigate Rosse e anche oltre. Noi a cosa abbiamo assistito? Soltanto alla perdita di punti di riferimento. Quindi per noi raccontare storie è stato più difficile perché non abbiamo avuto il grande evento, il grande avvenimento storico, una grande narrativa a sostegno, ma un cambiamento di costume, un cambiamento di linguaggio, una grande confusione che cominciava ad espandersi. Certamente dal punto di vista storico Sordi è stato molto più importante. Con Una vita difficile, La grande guerra, Tutti a casa, I vitelloni, Un borghese piccolo, piccolo Sordi ha raccontato un grande pezzo della nostra storia. Io ho raccontato delle piccole storie private sottolineando le nostre fragilità, le difficoltà di relazione, di linguaggio, la solitudine dei coatti, dei bulli di periferia, che non sono piccoli problemi! I bulli negli anni Sessanta erano vincenti, come Gassman in Il sorpasso: era un bullo con la macchina che correva, con una figlia carina, ed era un pazzo. Certo, si sente la solitudine del bullo, ma nel finale, quando muore Trintignant, Gassman è anche pavido. I bulli dei miei film invece fanno davvero pena. In gruppo, tutti

insieme, quei bulli farebbero anche paura, ma presi singolarmente sono di una solitudine tremenda, sono figli della periferia odierna che è veramente squallida e vuota. A questo punto parliamo di Alberto Sordi. È stato uno degli attori, anzi la maschera, più importante del panorama italiano. Ha scardinato le regole della recitazione con un ruolo innovativo, originale. La sua gestualità, la sua mimica non hanno niente di teatrale. Niente che possa ricordare gli attori del passato. Perché Sordi, con una vera e propria analisi psicanalitica, ha studiato una certa italianità. Basta pensare a film come Lo sceicco bianco e I vitelloni. Il rapporto che c’è stato tra Sordi e Fellini è molto importante per capire gli italiani. Come anche il legame Sordi-Sonego. Era avanguardia. Anticipava tanti fattori. Insieme hanno creato una “maschera alta” nel solco della tradizione della commedia italiana. Ne è nata una definizione di stile: basta dire “sordiano” per indicare un personaggio alla Sordi. Il suo viso è particolare, si adegua, muta: dal mascalzone, all’infantile, al cialtrone. Un viso trasformista, ma che era sempre Sordi alla fine. Il mio primo approccio al cinema, alla commedia, lo devo anche a lui: alcuni film, come Lo scapolo, erano nelle mie lezioni di recitazione. Sordi non perdeva tempo. Aveva ritmo, energia, velocità, capacità di cambiare “passo”: un acting incredibile. Nessun attore comico è stato come lui. Poi, in tarda età, è stato esattamente l’opposto. Che effetto le fa essere diretto da altri registi? Non un buon effetto, nel senso che sono talmente abituato a dettare io i tempi di una scena, di un film, di una giornata lavorativa che faccio una grande fatica ad adattarmi alla mentalità di un’altra persona. Ma è arrivato il momento che io mi faccia anche dirigere perché fare un film è diventato faticoso. Non dico che non ci sia più l’energia di prima, ma è anche un po’ vero che devo mettermi in vendita come attore se trovo un buon copione. Lavorerei molto volentieri in film non prettamente comico, ma vorrei che lo facesse un altro regista, non lo vorrei fare io. Confonderei il pubblico. Soffro un po’ a farmi dirigere. Anche quando ho girato con Sordi In viaggio con papà ho sofferto, perché sentivo che certi dialoghi erano lunghissimi, tremendamente lunghi, erano prolissi. Non che non glielo abbia detto anche con molta sincerità, ma non era facile farlo capire a Sordi, lui aveva le sue idee. Non voglio dire che avessi ragione io, però il film alcune volte mancava di snellezza. In altre situazioni invece mi sono trovato abbastanza bene. Per rendere l’idea di quello che provo quando sono diretto posso fare l’esempio della guida: io ho paura della macchina e della motocicletta, ma se guido io mi sento più tranquillo, più sicuro, so quello che posso azzardare, sono abbastanza equilibrato, corro dove posso correre, rallento dove devo rallentare. Se guidano altri ho ancora un po’ di paura. Ma con Giovanni Veronesi, che mi ha diretto nei due Manuale d’amore, mi sono trovato bene. Sicuramente perché è un amico. Sicuramente perché abbiamo lavorato molto insieme sul mio personaggio. C’è stata una vera e sincera collegialità e questo ha reso tutto molto più facile. Torniamo a Sordi e a In viaggio con papà. Nel film tra di voi c’è una grandissima sintonia… C’è sintonia perché c’era soprattutto un grande affetto. Provavo un affetto enorme nei confronti di Sordi e anche una grande ammirazione, non solo perché era una persona simpatica, ma perché è stato lui ad avvicinarmi al cinema. Ho visto i suoi primi film al Cineclub Tevere al Farnese. Li vedevo al Filmstudio. Ho capito così tutto il percorso di Alberto Sordi e la grandezza di un attore, e ho capito anche cos’era la commedia italiana. Devo a lui quindi il passaggio alla commedia. I miei primi film infatti erano intellettualissimi, di ricerca. Girati in 16mm o in Super8, erano pellicole un po’ underground, sperimentali. Sordi mi ha spinto con il suo cinema ad andare verso la commedia, quindi per me lavorare con lui era lavorare con il mio punto di riferimento.

Lei dice spesso «non faccio film per il pubblico, faccio quello che mi piace fare». Lo conferma anche adesso? Sì, è vero, faccio quello che mi piace fare, ma cerco di trovare dei compromessi con quello che il pubblico si aspetta, perché per il pubblico bisogna sempre avere un occhio di riguardo: entrare in un cinema non è come entrare in una galleria d’arte, dove non paghi e se ti piace un quadro lo compri altrimenti te ne vai. Il cinema si paga! È giusto quindi fare delle cose nuove, dare delle sterzate, perché altrimenti si muore e si rimane sempre fermi allo stesso punto. Però bisogna anche tenere presenti quegli elementi e quei dettagli che il pubblico ama in te e che ha identificato nella tua maschera e vuole ritrovare. Quindi: faccio quello che mi piace fare anche perché non scrivo soggetti, sceneggiature e film soltanto per soldi. Se fosse così avrei scelto dei soggetti o delle storie molto più semplici, molto più furbe. Il film mi deve piacere ma, ripeto, faccio anche attenzione all’effetto che può avere sul pubblico. Raymond Chandler, lo scrittore americano che ha inventato Philip Marlowe, diceva che «a mostrare se stessi il più delle volte ci si rimette». Lei in Maledetto il giorno che t’ho incontrato ha mostrato molto di sé. Si è pentito? No, nella maniera più assoluta. Io sono guarito. Quel film è stato un esercizio di grande autoterapia. Mi sono veramente vuotato in quel film, mi sono aperto al pubblico raccontando chi ero. Perché io ero veramente così; dico ero perché con il tempo sono molto cambiato, non sono più così ipersensibile, ipocondriaco. Crescendo si migliora e si matura, poi diventare padre ti cambia davvero. Devi diventare un punto riferimento per i figli, quindi certe cose le devi mollare. Ma quel film è stato molto importante perché è stato come fare un’immensa, enorme terapia di autoanalisi. È stato estremamente utile! Ho l’impressione che i suoi personaggi nascano embrionalmente dalla voce e poi arrivi tutto il resto. È così? Beh, nei primi film sicuramente sì. Nei film che sto interpretando in questo periodo non è così, perché recito me stesso. Ma se devo caratterizzare un soggetto è certamente la voce la prima cosa che mi colpisce, e dalla voce cerco di risalire a tutta la struttura psicologica del personaggio. Questo era un po’ il percorso dei miei primi anni di teatro, con gli spettacoli Tali e quali all’Alberichino e Rimanga fra noi all’Alberico. Partivo dalla voce per poi risalire a un Dna molto preciso. Sai, la voce è rivelatrice di tante anime. Da un particolare di un tic, da un modo di dire, da una battuta lei analizza la società, la vita, i rapporti, i sentimenti, la perdita di comunicazione tra gli esseri umani, il male di vivere, il degradarsi della società. È d’accordo? Abbastanza. Io racconto le nostre debolezze, le nostre nevrosi. Alcuni film hanno avuto successo perché il pubblico indubbiamente ha riconosciuto dei tic che non aveva mai notato. Io li ho messi sotto la lente d’ingrandimento e si sono divertiti. Ma sono dettagli veri, non costruiti. A me piace la comicità che porta sempre un segno di verità. La comicità surreale non mi appartiene, la lascio fare ad altri. Non è il mio terreno. Lei ha studiato l’Italia degli ultimi ventotto anni. Attraverso i suoi film possiamo capire quanto e come siamo cambiati. Per esempio il bullo di Un sacco bello è molto diverso dal coatto di Gallo cedrone. Il primo è ingenuo, fantasioso, il secondo è anche cattivo, si è incarognito, ruba persino la moglie al fratello. Questo perché il paese è cambiato, quindi sono cambiati anche i modi. È cambiata anche l’età. Oggi i coatti di vent’anni non sono come i miei. Sono tutti uguali, hanno le stesse scarpe, lo stesso taglio di capelli, gli stessi occhiali, per usare un’orrenda parola hanno lo stesso look, parlano nello stesso modo, vestono griffati, ormai sono gli stilisti che dettano la moda. Per L’amore è eterno finché dura, cercavo una ragazza che potesse

interpretare la parte di mia figlia. Ho visto sessanta/settanta ragazzine tra i sedici e i diciassette anni, tutte si sono presentate vestite nello stesso identico modo: avevano un tatuaggio, la pancia scoperta e molte volte il pantalone arrivava all’altezza del pube. Questa è la realtà di oggi: tutto è uguale a tutto e tutti sono uguali a tutti. Se in questa realtà incontri un coatto di quarant’anni o poco più, allora lì c’è un mondo da scoprire perché dietro lo squallore del personaggio c’è una truffa, un matrimonio fallito, un’amante, figli fatti con altre, cioè un disastro, una miseria. Di Gallo cedrone, film volutamente sgangherato, mi piaceva il finale: questo personaggio così terribile, così squallido, geniale e anche un po’ patetico sale su un palco elettorale, diventa un politico e trova anche quattro gatti che lo ascoltano. Il messaggio era un po’ questo: «Guardate che in politica a’ arrivà nun ce vò niente»… ma poi saranno dolori rimanerci! Fare un partito e ingannare un po’ di persone con cinque o sei proposte abbastanza strane, azzardate e folli, come quelle del mio personaggio, non è poi fantascienza nel nostro Paese. Alla fine del film quando il protagonista fa il comizio ha uno stile un po’ Forza Italia. Ha lo stile dei politici così come li vedo oggi io… con una cravatta da politico, tutti vestiti con giacche da politico, con colletti inamidati da politico… Il nostro è un Paese che non vuole e non può cambiare. Perché l’Italia non è altro che una Repubblica “feudale”: abbiamo trenta partii!. Il grande successo che hanno sempre ottenuto i suoi film è dovuto ai personaggi, alla storia, oppure al fatto che raccontano quello che realmente siamo noi? Raccontano realmente quello che siamo noi. In questo credo di essere stato sempre molto sincero. Ricevo molte lettere sia da giovani sia da persone di una certa età. Recentemente mi hanno scritto dopo aver rivisto in televisione Io e mia sorella, facendomi i complimenti per la capacità di descrivere alcuni comportamenti, situazioni, reazioni che appartengono alla vita vissuta, quella vera. Credo sinceramente di aver colto in alcuni dei miei film umori, tonalità, colori di una piccola società, anche di una famiglia, di un rapporto coniugale, sinceri e molto veri. Ha ritenuto un insuccesso il film C’era un cinese in coma. Comunque ha sempre incassato cinque miliardi di vecchie lire: oltre due milioni e mezzo di euro. Questo è un Paese strano, come cali un po’ dicono subito che sei in crisi, che non hai più niente da dire. Che significa? Un artista non può finire dall’oggi al domani. Può essere stanco o in una fase creativa un po’ incerta. Allora c’è un’unica maniera per vincere la battaglia: non partecipare, cioè fermarsi e guardare, guardare molto gli altri, guardare i colleghi. Così, piano piano, si recuperano le energie. È andata in questo modo per Ma che colpa abbiamo noi che ritengo un buon film, mi è venuto molto bene e ne sono decisamente fiero. Certo, ha sofferto del confronto con Compagni di scuola, film corale più cattivo e feroce. Ma che colpa abbiamo noi è più morbido e malinconico, pur facendo ridere non è graffiante, ma lo ritengo più maturo di Compagni di scuola. Inoltre è stato coraggioso fare un film di questo tipo dopo tre anni di assenza. Per tornare a C’era un cinese in coma, sono convinto che con il tempo verrà rivalutato non come uno dei miei migliori lavori, ma sicuramente come una buona commedia con un’ottima interpretazione. Non è un film dalle molte risate, è la tragedia di un uomo penoso, un agente che viene accoltellato dall’attore che ha creato. Guardandolo ora noto una certa somiglianza con Iris Blond, ma al maschile, della quale non ero consapevole durante le riprese, ma vedo anche dei sapori, un’atmosfera triste e delle amarezze che mi piacciono. Quel film ha un bel finale nonostante abbia un inizio tragico e non mi sento di condannarlo. Non condanno niente di quello che ho fatto, perché ogni gradino mi ha sempre portato a salire il seguente in modo migliore. La carriera di un autore è fatta così, un film ti riesce in pieno e un altro invece può lasciare il pubblico insoddisfatto. È necessario essere molto lucidi e capire che il pubblico

può momentaneamente soffrire un po’ di stanchezza verso il tuo personaggio. Quello è il momento di fare una pausa, lasciar passare un po’ di tempo per poi rientrare in campo e giocare una nuova partita. È quello che ha fatto in quei tre anni di attesa? Sì, e sono stati i tre anni più belli della mia vita! Perché non avevo nessuna scadenza, potevo aspettare fino a quando non mi fossi sentito pronto. Ho passato delle giornate meravigliose con i miei figli, da solo, con gli amici, a fare spese, in giro per librerie e negozi di dischi, a fare viaggi, week-end in posti che non conoscevo. Non avevo l’acqua alla gola della sceneggiatura o del soggetto da consegnare. Sono stato benissimo, ho fatto molto bene a fermarmi. Ma che colpa abbiamo noi è stato un film difficile? Difficilissimo! Soprattutto per la scrittura. L’argomento era abbastanza semplice: le nevrosi di sette personaggi ai quali viene a mancare l’analista. Il difficile è stato creare un retroscena a ciascuno di loro. Credo di averlo fatto bene, ma devo ringraziare gli attori che hanno dato autorevolezza ai loro personaggi: Lucia Sardo, Margherita Buy, Antonio Catania, Anita Caprioli, Stefano Pesce… Sono molto contento di quel film e debbo dire che è piaciuto a tutti. Sessantacinque locations, vero? Quasi settanta. Veramente tante. È stato davvero complicato. Ma ho sentito poco la fatica perché venivo da un riposo di tre anni e poi perché non ero sempre in scena: avevo le stesse pause degli altri e c’erano dei giorni nei quali facevo solo il regista, cosa che non è accaduta in questo nuovo film dove sono in scena quasi sempre. È sempre convinto di un’altra sua affermazione: «in Italia tra noi registi si parla molto poco»? Convintissimo. Con chi parlo io? E con chi parlano loro? Ci sono dei piccoli gruppi che si incontrano la sera magari solo per cenare insieme, ma sono gruppetti molto chiusi. No, non c’è molto collegamento tra di noi. Bisognerebbe stare molto di più insieme. Si migliorerebbe anche il cinema italiano, nascerebbero delle collaborazioni costruttive. Secondo me non avviene per miopia o più semplicemente perché si hanno dei gusti differenti su come passare la serata. Però è un errore perché in queste differenze dovremmo cercare un comune denominatore. Gassman, Sordi e Tognazzi, non dico che erano amici però si incontravano… altro periodo, non voglio ritornare alla solita dolce vita però c’è poco da fare: in quell’epoca è stato fatto un gran bel cinema soprattutto di commedia, quindi evidentemente quegli incontri erano molto proficui. E poi c’era la voglia di stare insieme, oggi invece c’è la voglia di stare da soli! Fortunatamente la costituzione del gruppo Centautori è stata una benedizione per la possibilità di conoscerci tutti e meglio. Orson Welles diceva che girare un film è facile (è una provocazione questa). Il vero momento in cui il regista ha il totale controllo del film è il montaggio. È d’accordo? Non sempre. Forse era vero per lui. Secondo me il montaggio non salva un film girato male. Il montaggio lo può migliorare o lo può uccidere, ma tutto dipende dalle riprese. Nel montaggio poi intervengono il produttore e la distribuzione che pensano alla vendita del film e chiedono tagli o cambiamenti. In realtà è il momento in cui sei meno libero. Credo poi che non sia importante parlare del montaggio dei miei film se non per i primi due: Un sacco bello e Bianco, rosso e Verdone. Qui ho applicato la formula delle tre storie insegnatami da Leo Benvenuti e Piero De Bernardi. Sono tre storie incrociate: parte la prima, poi la seconda, poi la terza. Poi riprende la prima, la seconda e poi la terza…: è una sottile operazione geometrica che si basa anche sulla capacità di resistenza di ciascun personaggio. Lei ha avuto un grandissimo rapporto con Vittorio Cecchi Gori. È mai intervenuto sui suoi

film? Mai. È intervenuto il padre, ma Vittorio no. Il padre interveniva molto sulla sceneggiatura, non era mai contento. Poi veniva alle proiezioni e ogni volta si ripeteva la stessa scena: si accendevano le luci, veniva verso di me con l’aria burbera e io pensavo «adesso mi massacra» invece mi abbracciava e mi diceva: «mi smentisci sempre, li giri meglio di come li scrivi». Finiva sempre così. Perdiamoci di vista, per esempio, non lo voleva fare, diceva: «è un argomento delicato, parlare degli handicap in una commedia è una cosa difficile. Ma che ti metti a fare?». Non era convinto. Purtroppo poi, poverino, morì durante le riprese del film. Ma aveva visto i giornalieri perché c’era Asia Argento che era ancora minorenne, e dopo le prime tre settimane di lavoro, nonostante fosse un pochino malato, mi telefonò per dirmi che il tono del film era giusto. Come ha fatto a dare quel tocco di leggerezza a un problema serio come l’handicap? L’ho preso seriamente. Con Francesca Marciano abbiamo frequentato dei centri di riabilitazione con la consulenza di una disabile che ne coordina alcuni. Abbiamo anche parlato con molti disabili e siamo stati per mesi in contatto con il Centro Santa Lucia. Alla fine nel film siamo stati sinceri, molto corretti ma anche molto scorretti nel senso che abbiamo infranto tabù e barriere che isolano il mondo dell’handicap. Sapevamo però di cogliere un loro desiderio. I disabili che abbiamo incontrato erano stanchi del silenzio o delle descrizioni ovattate del loro mondo: chiedevano di essere raccontati per quello che davvero sono, senza, appunto, i tabù imposti dalla società. È soprattutto l’imbarazzo delle persone a farli sentire portatori di handicap. La loro testimonianza ci ha aperto la mente nella stesura della sceneggiatura e poi Asia è stata molto, molto brava. Una grande professionista. Mi ricordo che per quindici giorni ha girato con una carrozzina da disabile per alcune stradine di Roma, per vedere le reazioni della gente: tutti le si rivolgevano in modo compassionevole, considerandola un’infelice. Asia voleva vedere l’ipocrisia delle persone e questa prova le è molto servita. Ha fatto un ottimo lavoro ed è stata ricompensata: ha vinto il David di Donatello come migliore attrice e io l’ho vinto come miglior regista. Nel film si tocca anche un altro tasto: emerge infatti un atto di accusa nei confronti della Tv spazzatura. È vero, ma non mi sembra che quella denuncia abbia cambiato le cose. La Tv spazzatura c’è ancora e sinceramente oggi vedo in Tv cose anche peggiori di quelle che ho mostrato nel film. Allora qualche conduttore televisivo mi disse: «Carlo, io mi vergogno, perché sembro quel Fuxas del tuo personaggio. Ma che posso fare? Mi pagano per questo». Effettivamente… È la televisione, quella dei dolori, che alla fine paga. Sempre. I programmi di Alda D’Eusanio o di Maria De Filippi cosa sono se non, in fondo, la televisione del dolore, basata sulle fragilità e i tormenti affettivi della gente, tra liti furibonde, lacrime e riappacificazioni clamorose? Dove sta andando il cinema? E come sarà il suo futuro? È la solita storia. Non so più che dire quando mi fanno questa domanda. Ci sono delle annate molto favorevoli e delle annate che sono meno ricche di film, o che partoriscono dei film meno importanti. Non si può parlare di una cinematografia italiana compatta, si può parlare di buoni autori che stanno emergendo. L’ho già detto, si sta poco fra di noi, non c’è un comune denominatore, non c’è un’alleanza solida. Ognuno corre per conto proprio, quindi dipende molto dell’annata. Manca anche il dialogo tra sceneggiatori, tra scrittori e soprattutto manca una narrativa che possa aiutare il cinema. Ma manca soprattutto una politica che il cinema lo ami davvero. Nessun governo se ne è veramente preoccupato. Nessuno! Rivede mai i suoi film? E quando li rivede le piacciono ancora o cambierebbe qualcosa? Certo che cambierei qualcosa, perché i tempi cambiano, quindi cambiano anche i ritmi.

Prendiamo Gabriele Muccino: anche se qualche volta è un po’ nevrastenico, beh, bisogna ammettere che è molto bravo. È velocissimo, è un mago della sintesi e gira anche molto, molto bene. Io lo apprezzo, ma è anche vero che esistono film più tradizionali, con le loro lunghezze, le loro pause e hanno successo. Penso ad alcuni film del passato che il pubblico ama molto. Allora ti viene il sospetto che la ragione non sia solo dalla tua parte, o da quella di Muccino, ma che ci sia una via di mezzo che vada cercata. Forse io sono troppo critico verso me stesso, sempre sotto la lente di ingrandimento. Però di alcuni miei film davvero non toccherei niente. Penso a Maledetto il giorno che t’ho incontrato, Compagni di scuola, Io e mia sorella e Borotalco. Sono perfetti. Al lupo, al lupo sarebbe stato perfetto se fossi rimasto meno nel locale notturno, ma la passione per la musica mi porta ogni tanto a esagerare nell’utilizzarla. È accaduto anche in Sono pazzo di Iris Blond, dove ho inserito novanta secondi di musica in più. È la reazione di chi fa film molto dialogati come i miei: appena trova uno spazio per mettere la musica ci rimane incastrato. Tra tutti i film che ha fatto, quale è stato il più difficile da girare? Troppo forte. È stato molto difficile da girare per il problema dell’interpretazione di Alberto Sordi. Se Sordi avesse fatto più Leopoldo Trieste e meno Oliver Hardy avrebbe influenzato anche la mia recitazione che sarebbe stata più asciutta e avrebbe dato forse, pur rimanendo una storia di fantasia, una credibilità maggiore. Senza togliere nulla alle risate, sarebbe diventato un film un poco più serio. Sia chiaro, io adoro Sordi, ma in quel film non ha capito che doveva “smacchiettizzare” il personaggio. I suoi dialoghi poi, tutti scritti da lui, erano interminabili, incessanti, lunghissimi e quindi spesso è mancato il ritmo. In quel caso il montaggio ha risolto un pochino, ma scelsi di mandare Sordi in presa diretta e non il suo doppiaggio che era ancora più calcato nella macchietta. E il personaggio più arduo che ha interpretato quale è stato? Sicuramente quello di C’era un cinese in coma. È un personaggio drammatico, vero, patetico, anche squallido. Con quel personaggio dimostro addirittura più anni di quelli che ho! Non avevo idea di quale potesse essere la reazione del pubblico che infatti ha preso le distanze, non ritrovando il Verdone che voleva. Ma non mi pento: allora sentivo di fare un film come quello e non tornerei indietro. Tra le difficoltà del film c’è stata anche la scelta di avere con me un attore esordiente, Beppe Fiorello. Non interpretava un personaggio simpatico ma fu veramente bravo. Vidi giusto perché oggi Beppe è l’attore più ricercato negli sceneggiati. Ha prodotto anche un film come Zora la vampira. Quello è stato un grande dolore. Non voglio dire che sia stato un errore, è stato un grande dolore e basta! Davvero il primo e fortunatamente l’unico passo falso della mia carriera. Quel copione era conteso fra tre produzioni, perché era una storia veramente divertente, strana, come quei copioni un po’ folli all’inglese. Poi nel girarlo, non so neanche io come è successo, quel soggetto scritto in maniera così briosa, così colorata, dinamica, piena di personaggi, di tipi e di tic, ha perso tutta la vis comica ed è diventato un filmone teatrale con un piede nel Centro Sociale e uno nel mondo del Piotta. Poi è subentrata la fragilità del produttore Carlo Verdone che si è chiesto: «avessero ragione loro, non capissi niente io?». Perché “loro” mi dicevano che era giusto così: strano, moderno, fumettistico, con taglio attuale. Ma io non mi divertivo affatto e a un certo punto non ho capito più niente. Appena il film è uscito ho percepito che non aveva nessuna chance e ho provato una grande amarezza. Allora ho deciso che era meglio fermarmi, riflettere e ricaricare le batterie. L’amore è eterno finché dura è andato bene. Ha avuto buone recensioni e ottimi incassi. L’amore è eterno finché dura è una sincera ispezione su uno dei grandi temi irrisolti del nostro secolo: le relazioni affettive. Quanto durano, perché sono a tempo determinato, perché si

interrompono, perché cerchiamo sempre dell’adrenalina, perché a un certo punto ci stufiamo, che cos’è che manca? Mancano delle affinità oppure abbiamo bisogno di non essere affini. Oppure siamo impazienti, distratti. Tutti questi quesiti complicatissimi da studiosi di sociolo gia io li racconto nella storia di una famiglia: un padre, Carlo Verdone, una moglie, Laura Morante e una figlia di diciassette anni. Il nucleo affettivo si rompe e il disagio si allarga verso tutti i personaggi coinvolti nella storia. Rodolfo Corsato nel film è il mio socio: abbiamo un negozio di ottica, io misuro la vista, lui vende montature di tendenza. Rodolfo ha una compagna interpretata da Stefania Rocca. Il loro è un rapporto fresco, con una grande intesa fisica che sembra destinato a durare a lungo, invece. invece non dura e vince la follia. L’analisi della loro storia, della mia, mette in luce le fragilità, gli errori che commettiamo, che commettono i nostri amici e che non siamo mai in grado di giudicare. Però in questo film fatto di disastri alla fine ironizziamo anche un po’ sul comportamento di queste persone così confuse: e ai giorni nostri di confusi e distratti siamo pieni. Per questo nel film l’ottimismo è affidato alle nuove generazioni, rappresentate da mia figlia. Una delle ultime scene ha proprio questo valore positivo, con lei e il suo ragazzo in primo piano e la nostra speranza che non commettano gli stessi errori dei genitori. Che cos’è per lei andare al cinema? È una delle esperienze più affascinanti. Il cinema è la nostra realtà dilatata: entriamo dentro la storia e allo stesso tempo la contempliamo. E poi una bella storia ferma il tempo. Partecipi emotivamente a un racconto. Le immagini danno emozioni che hanno una forza straordinaria. Ecco perché ho paura delle multi-sale: rimpiccioliscono il film. Se scompare il grande schermo è la fine, si arriva al contatto con la Tv di casa… La sala, quella vera, è un tempio. Cinema è anche contatto con gli altri. Non si può vedere un film da soli. Il film va visto con altre persone. In sala c’è un contatto con il pubblico, perché si forma una specie di comunicazione occulta, sottile, che ci rende tutti uniti, partecipi: si vivono le emozioni collettive. Questa splendida magia va preservata come un tesoro. Lei ha sempre detto che il nostro Paese è pieno di attori. Siamo un popolo di attori. Ogni regione è piena di volti, di maschere. Purtroppo l’industria cinematografica degli ultimi anni ha portato chiunque sappia fare qualcosa a essere subito protagonista. Così oggi abbiamo grandi o piccoli protagonisti, che fanno il loro grande o piccolo successo, ma non abbiamo più caratteristi. Questo è grave. Il cinema degli anni Quaranta, Cinquanta, Sessanta e, in parte, anche degli anni Settanta, era popolato dai caratteristi. Con la nascita di Moretti, Nuti, Verdone, Troisi, Benigni la figura del caratterista ha perso significato. I produttori vedevano, in noi, allora emergenti, attori in grado di sostenere un film da soli. In questo modo si è ridotto il ruolo del regista, la sua figura è andata, diciamo così, “un po’ a quel paese”. Gli anni Ottanta segnano il “de profundis” della regia del cinema comico. Per quanto mi riguarda, ritengo la mia storia un po’ diversa dagli altri attori-registi che ho citato. Vengo dal Centro Sperimentale, una scuola di regia. Nel mio cinema ho sempre dato spazio agli attori e ho sempre illuminato i caratteristi. Elena Fabrizi, alias Sora Lella, Mario Brega, Angelo Infanti, Fabrizio Bracconeri. Soprattutto dopo i primi film ho capito che l’attore da solo non può funzionare. Ci vuole un contorno. Ho dato sempre delle ottime possibilità alle mie attrici, ai miei attori: Sergio Rubini in Al lupo, al lupo, Sergio Castellitto in Stasera a casa di Alice, Beppe Fiorello in C’era un cinese in coma. Ho sempre pensato che la performance di un attore da solo non basta. Non paga. Pietro Germi ci ha insegnato che le più belle commedie sono quelle corali. Dagli attori ai personaggi… L’Italia è piena di personaggi. Io sono un osservatore e vedo questo Paese come un grande

minestrone colorato, ogni tanto educato, stravagante, assurdo, e molto volgare. Osservando, ho cercato di descrivere questa gente anonima, normale e di sottolinearne gli aspetti apparentemente banali che nascondono quel tic, quella anomalia, quel difetto che può diventare un tormentone. Il pubblico mi ha dato ragione, si è affezionato ai miei personaggi. Certo, io ho studiato principalmente la cosiddetta “romanità”, ma nei miei personaggi ho sempre cercato quel gene particolare che sia riconoscibile non solo dal romano ma da tutto il pubblico nazionale. Una “analisi genetica” che Federico Fellini è riuscito a fare magistralmente. In questa arte lui è stato e resterà sempre il più grande osservatore. Faccio un esempio: Furio di Bianco, rosso e Verdone non è altro che Leopoldo Trieste in Lo sceicco bianco quando apre il taccuino e dice a quella povera moglie: «ore 10 appuntamento ai Musei Vaticani, ore 11 appuntamento con i parenti, ore 12 cambio della guardia al Quirinale, ore 15.30 Cappella Sistina…». Ho abbinato quel soggetto a un personaggio che avevo studiato nella realtà ed è nato il “carattere”. Anche certi miei “bulli” nascono dai personaggi di Fellini. Non dai protagonisti, ma dalle figure secondarie. Ancora in Lo sceicco bianco c’è un personaggio, Oscar, che fa la parte di un moro. Arriva sul set, guarda il mare, è contento. Prende una canna, la stacca e la lancia. Oscar parla in romanesco. È solo una comparsa ma nasconde tutto un mondo. Ecco: quelle comparsate mi hanno aiutato a vedere cosa si nasconde dietro quei personaggi. A Roma i miei punti di osservazione sono stati il Rione Regola, Campo dei Fiori, il Monte di Pietà. Ho studiato la psicologia popolare, ho frequentato tutti e questo mi ha permesso di realizzare i personaggi dei miei primi film. L’osservazione della cosiddetta gente normale è importantissima perché ha sempre un dettaglio comico. Dai personaggi a una figura a lei cara che ha sempre dipinto con calore e intelligenza: il coatto. Il coatto inventa. La borghesia non inventa. Il coatto è un personaggio poetico, che soffre la solitudine. Certo, può risultare antipatico per le sue smargiassate, le sue volgarità, la sua arroganza. Ma fuori dal gruppo, solo, è un personaggio di una debolezza e di una fragilità unica. Il primo vero coatto che ho visto è stato quello interpretato da Alberto Sordi in Un giorno in pretura, il famoso “bagno nella marrana”. Forse più che coatto era un pazzo. Il primo bel coatto – magari sarò presuntuoso – è Enzo di Un sacco bello: il personaggio che vuole andare nella Polonia comunista con le calze da donna e le penne biro convinto che quello è il dono più bello per conquistare una polacca. Allora in effetti funzionava così. L’idea nasce da un viaggio vero che ho fatto in Polonia. Lì ho visto cose incredibili: auto targate Viterbo in quantità, una Fiat 500 targata Enna giudata da un cinquantenne claudicante, che sembrava un settantenne, carico di collant, penne, magliette… attirava le donne perché sembrava ricco! Enzo il bullo è sicuramente un grande coatto, ma con il suo personaggio credo di essere riuscito a sottolineare la solitudine del ragazzo di periferia che tenta di copiare la realtà americana, ma riesce solo a risultare ridicolo, patetico. Certo, ci fa sorridere, ma in realtà ridiamo della sua miseria. In Viaggi di nozze ho “inventato” altri due grandi coatti: Ivano e Jessica. Fanno ridere ma ridiamo di due disgrazie, di due solitudini, di due persone che non sanno cosa dirsi, che comunicano con tredici parole, con le canzoni. Vanno oltre perché prima del matrimonio hanno già consumato qualsiasi cosa. Da qui la battuta «O famo strano?». Una frase emblematica, come dire: andiamo oltre. Ma dopo l’oltre non c’è nulla. E il loro episodio finisce nell’incomunicabilità: Ivano e Jessica nella casa ancora vuota, lui che tira calci al pallone nel salotto, lei che va a dormire. Si capisce che è una coppia che finirà presto. Non c’è comunicazione, non c’è cultura, c’è noia, solitudine, tristezza. Quello del coatto, comunque, è un mondo che mi diverte. È la riscossa della periferia attraverso la sua fantasia. Nel coniare nuove frasi, parole, abbigliamenti.

Cosa pensa del cinismo nel cinema? Alcuni attori hanno sottolineato l’aspetto cinico della vita: Sordi, Tognazzi, alcune interpretazioni di Manfredi, il Gassman di Il sorpasso. Negli anni Sessanta si è posto l’accento sull’aspetto dell’italiano tracotante, sbruffone. Ecco allora l’italiano che si diverte, rimorchia le donne, fa una bella vita, “tira a campare”. Questo carattere rappresentato dal cinema comico è diventato purtroppo un esempio da seguire. Gli italiani hanno eletto a modello quel tipo di “italianità” raccontato da attori che, sebbene cinici, sapevano divertire. Nei loro film c’era una risata cattiva. Non ho mai amato questo tipo di comunicazione perché il pubblico ne coglieva solo il lato peggiore. Proprio non mi piacciono le risate cattive né quel cinismo privo di umanità. Parliamo della comicità. Questo è un Paese che ha fatto leva sulla commedia brillante. Siamo un popolo di comici… Totò è stato un momento alto della nostra commedia. Come Sordi. O Germi: il regista che in Italia ha fatto la commedia più seria, colta e intelligente. Ma quando Germi era vivo… come lo criticavano, come lo disprezzavano! Ho riletto delle recensioni di Massimo Mida sulla rivista «Cinema»: credo di non aver mai letto dei siluri su Pietro Germi come quelli che gli hanno lanciato a quell’epoca. Oggi invece rivalutiamo pienamente il suo lavoro, la sua capacità di osservazione. È terribile questa ostilità dei critici. Forse perché la commedia è sempre stata considerata di serie B. Un artista, un regista, un attore in Italia viene rivalutato solo dopo la sua morte, a molti anni di distanza dal suo lavoro. È successo con Massimo Troisi. Era un attore dai tempi recitativi strepitosi ma i critici lo attaccavano. Ora gli stessi critici lo osannano. È un neo della critica italiana. Ci è voluto Goffredo Fofi per rivalutare Totò. Eppure già Pasolini aveva mostrato il vero valore di Totò, ma nessuno lo aveva ascoltato. Ultimamente mi domando dove stia andando la comicità. Nemmeno il pubblico sa più cosa vuole. E questo mi spaventa. E mi preoccupa: i film comici che vivacchiano sono quelli assolutamente privi di messaggio, di qualsiasi critica di costume. Sono perplesso. Dove andare? Seguire la coscienza, fare quello che senti. Perché se il film è buono il tempo te ne darà atto. Ci parli del suo rapporto con la critica. Ho sempre avuto rispetto e attenzione verso i critici, forse perché mio padre è stato in passato un autorevole critico e storico del cinema. Lui mi ha insegnato a leggere un film e a riflettere su tanti dettagli che a me sfuggivano. Mi ha sempre incoraggiato con stima quando visionava qualcuno dei miei film migliori, come mi ha rimproverato, sempre con rispetto e tatto, quando la pellicola lo convinceva di meno. Insomma mio padre, nelle vesti di critico, mi ha senza dubbio migliorato con i suoi pareri. Ho sempre cercato nella mia carriera di trarre, anche da un rimprovero, un insegnamento. Molti dei nostri autorevoli critici mi sono stati utili in questo senso e, anche se con dolore, mi hanno portato a una riflessione che poi ha sortito dei benefici effetti. Altri decisamente no. Per molto tempo ho come percepito una leggera sottovalutazione del mio lavoro, una severità eccessiva forse dovuta al fatto che provenissi da un ceto borghese e non proletario come Benigni o Troisi. O non fossi così impegnato e militante come Moretti. Credo di essere stato considerato per molto tempo come un autore “rassicurante” e poco aggressivo. Ma in realtà io non ho mai barato: ho sempre rappresentato tic e difetti veri, di borghesi o “coatti”, con estrema lucidità ed efficacia. Sono stato e continuo a essere un “pedinatore” di italiani alla ricerca di un loro Dna facilmente riconoscibile nella realtà del nostro Paese. Se oggi ancora le giovani generazioni restano affascinate dai personaggi di Un sacco bello o Bianco, rosso e Verdone (che hanno conosciuto in Dvd) vuol dire che stavo rappresentando qualcosa di importante dal punto di vista del costume e dal punto di vista psicologico.

A critiche piene di elogi ai miei film sono sempre seguite recensioni piene di sospetti. Perfino l’ottimo Compagni di Scuola ha dovuto attendere diversi anni prima di essere totalmente liberato dalle perplessità. Ho molto sofferto per le avventate considerazioni su Borotalco (tra i miei migliori in assoluto) o per Al lupo al lupo (film molto autobiografico). Ma ho imparato due cose: la prima è che il tempo rende inevitabilmente giustizia al valore della pellicola, la seconda è che alla fine il critico cinematografico non è altro che uno spettatore che scrive. Certo, uno spettatore che viene letto e può influenzare gran parte del pubblico. Ma pur sempre uno spettatore. E siccome l’unanimità in realtà non esiste, è bene farsene una ragione e non affliggersi eccessivamente. Il tempo, nel bene o nel male, dichiarerà il giusto valore dell’opera. Se penso a quello che dovette subire il grande Pietro Germi, tacciato come “immorale mercenario” da qualcuno che all’epoca era molto autorevole, ritengo che spesso la critica italiana abbia fatto una gran brutta figura. La critica quando si appoggia totalmente a un’ideologia rischia di fare danni su danni. E il primo è senz’altro quello di guardare con estremo sospetto chi fa commedia, così non si aiuta il genere “leggero” a elevarsi e gli si preclude anzi una visibilità nei Festival più prestigiosi. Cosa vuol dire per lei fare cinema? Sono stato fortunato. Vengo da quella generazione che ha frequentato i cineclub. Ho visto cose che molti non hanno mai conosciuto. Fare cinema è l’ambizione massima di tutti i giovani che si avvicinano allo spettacolo. Ma per farlo bisogna avere dentro il giusto Dna. Quel “qualcosa” che ti porta verso la tua strada. Poi servono le scuole. Oggi invece c’è troppa improvvisazione. Non che non mi piaccia: l’improvvisazione ben fatta porta alla sperimentazione. Ma ci vuole intelligenza e cultura. Non furbizia, come spesso accade. La sperimentazione manca in Italia. È una parola ancora ostica per questo paese. Mentre se ne fa, e molta, nel cinema inglese, francese, australiano. Da noi appena ti spingi un po’ più in là desti sospetti, perché il pubblico italiano non è abituato bene e questo grazie alla Tv dell’auditel. La sperimentazione ci può aiutare a trovare nuove strade… Ci puo’ aiutare a crescere. Non si puo’ dare la macchina da presa in mano al primo comico che ha ottenuto un po’ di successo in televisione. Hai il personaggio ma non avrai il film. Per questo ci vuole una scuola, perché per fare cinema ci sono delle regole che comunque vanno rispettate. Un nome, un vero amore: Federico Fellini. Regista raffinato, particolare, che parlava per immagini. Più che un regista era uno psicologo. Era un artista totale. Grande narratore di storie, gran bugiardo, sognatore, costumista, scenografo, attore, scrittore, disegnatore. Un personaggio rinascimentale. I suoi film si possono vedere solo sul grande schermo. Perché ogni sua immagine è una visione. È un pittore di ambienti, di facce. Ingrandisce la realtà e gli umori. Una sensibiltà superiore a tutti. Quanto sono importanti i cortometraggi? Negli anni Sessanta il corto aveva una funzione importantissima. Io stesso dopo il Centro Sperimentale di Cinematografia ho girato un piccolo documentario, chiamiamolo pure un cortometraggio, Il castello nel paesaggio laziale. Poi ho realizzato L’Accademia musicale chigiana. Ho intervistato Severino Gazzelloni, Silvano Accardo, Silvano Agosti… e tanti altri. Sono state esperienze fondamentali, essenziali per poi realizzare un vero e proprio film, per capirlo, per padroneggiare lo “strumento cinema”. Cosa è oggi la figura del regista nel panorama italiano? È una figura precaria che manca un po’ di autorevolezza nella cinematografia italiana. Oggi ci sono tanti protagonisti ma pochi registi. Ci si affida a cinque o sei nomi buoni che davvero sanno fare i registi ma oltre non si va… L’errore dei produttori è quello di affidare il film all’attore che in Tv o in teatro ha avuto un notevole successo. Ma l’attore non sa fare il regista.

Non lo può fare. Diciamo le cose come stanno: è il direttore della fotografia che, a quel punto, diventa il regista. Per questo non abbiamo film di regia, abbiamo film completamente incentrati su interpreti che, forse, potevano fare i caratteristi e invece fanno i protagonisti. La grande schiera di registi che abbiamo avuto negli anni Sessanta e Settanta non esiste più. Io come lavoro? Credo che i miei film siano tutti molto corretti dal punto di vista registico. Per me ha grande importanza la preparazione e scegliere gli attori giusti che lavoreranno al mio fianco. Spesso però il mio doppio ruolo di attore-regista mi impedisce di curare la regia come vorrei. Penso a movimenti di macchina azzardati, che poi non riesco a realizzare perché sono preso da troppe cose. Forse dovrei fare un film solo come regista per dimostrare a me stesso e agli altri tutte quello che so fare. Lo ammetto, sono abbastanza tradizionale e non mi piace: vorrei azzardare di più, vorrei provare a utilizzare un linguaggio nuovo. Ma sono già preoccupato per la mia recitazione, per quella dei miei attori. Così resto sul tradizionale, senza voli pindarici. Ma darò più movimento alla mia staticità. In futuro muoverò molto, ma molto di più la macchina da presa: sono un regista un po’ frustrato perché ho sempre mosso gli attori e mai la macchina. Ma, ripeto, ho acquisito esperienza per fare uno scatto in più. Dice sempre che l’ironia le ha salvato la vita. Se non avessi l’ironia sarei un uomo finito. L’ironia la devo ai miei genitori. E poi sono un romano e i romani sono ironici e anche autoironici. Nella vita è meglio ridere che piangere. La vita non è una bella cosa, è in mano alla fortuna. Qualche volta va bene, ma quando l’aria cambia bisogna essere preparati e prendere le disavventure con ironia. L’ironia per me è una vera filosofia di vita. Lei mi ha confidato di avere un segreto nel cassetto: interpretare Jago. È vero? È uno dei personaggi più complessi di William Shakespeare, uno dei più belli per un attore. La suprema aspirazione non è interpretare Othello ma Jago. È molto più difficile, più affascinante, contorto: è un sogno nel cassetto. Ci riuscirò mai un giorno a interpretare Jago? Lo devo girare io o mi devo far dirigere da un altro regista? Beh, comunque questo film lo farò. Non in costume, ma trasportato nei nostri tempi, rivisitando la tragedia. Credo di poter tirare fuori delle corde della mia recitazione che non ho mai mostrato. Un tema a lei caro. La malinconia. Fa parte del mio carattere. Non è che uno gioca a essere malinconico. Non ricordo un mio film che non abbia un finale malinconico. Ogni volta mi dico: devo trovare un bel finale, ottimista, allegro… Non mi viene mai… Forse ha ragione il nostro medico di famiglia che a quindici anni mi disse: «mettiti l’anima in pace, sei un tipo un po’ depresso e devi convivere con questa malinconia. Accettala.» Forse sono malinconico perché rimpiango il passato, i ricordi, gli odori, le emozioni. Mi meraviglia quindi essere diventato un attore comico. La musica per lei è importantissima: tanto nella vita quanto nei film. Accompagna gran parte della mia giornata e accarezza il mio stato d’animo. Nella mia vasta discoteca c’è veramente di tutto. Ho incominciato ad amare la musica grazie a mio padre che mi portò dall’America – era il 1964 mi pare – i primi dischi di Bob Dylan. Poi ho scoperto i Beatles. Avevo un buon orecchio e suonavo bene il tamburo. Dal tamburo alla batteria il passo è breve. Da allora ho sempre seguito tutta la musica. Il mio vero hobby è la musica, cercare la buona musica e metterla, quando posso, nei miei film. Devo confessare che più di una volta un brano musicale mi ha suggerito una sequenza intera, se non una scena e alle volte il finale del film. La musica dunque è per me anche creatività. Non a caso ho dedicato Borotalco a Lucio Dalla e Maledetto il giorno che t’ho incontrato a Jimi Hendrix. Cosa vuol dire recitare per Carlo Verdone?

Per me recitare è come fare uscire una seconda anima. Perché dentro di me c’è l’anima del timido che sta a casa e si chiude nella sua fortezza, nella sua rocca. E poi c’è l’anima che vuole comunicare, l’anima imprevedibile. Quando mi trovo sul palcoscenico esce fuori tutta quella parte di me che di solito dorme e ogni volta mi sorprende. Recitare è un privilegio che pochi hanno, è la cosa più bella del mondo. Comunichi delle sensazioni, delle emozioni. Questa capacità comunicativa non è comune. Tanti sono attori ma pochi sanno recitare. Oggi mi pongo in un film con molta più leggerezza rispetto al passato. Andare sul set non è più un esame tremendo, perché dopo tanto tempo che cosa devo ancora dimostrare? Sono passato indenne ai trent’anni di carriera, una cosa quasi proibitiva oggi! Gli attori vengono consumati presto dalla Tv, dalle repliche, dai vecchi sketch. Però io ho avuto la fortuna di fare alcuni film più importanti di quel che si potesse pensare inizialmente. Per esempio: Un sacco bello e Bianco, rosso e Verdone sono pellicole importantissime. Perché hanno fermato un periodo, un momento. Il mio problema è quello di rimanere in quota e di scendere il più lentamente possibile. Mi ritengo una persona preparata, ho una filosofia di vita abbastanza forte. Dunque, il giorno che vedrò che non c’è più corrispondenza da parte del pubblico non ne farò un dramma. Mi dirò: sono felice di quello che ho fatto, mi è andata molto bene! E di sicuro non cadrò in depressione. La scenografia privilegiata dei suoi film è rappresentata da una città reale: Roma. È un grande serbatoio dove si può trovare tutto, è una città dolce, romantica, violenta. Roma è una meravigliosa cartolina ma io sento che c’è anche qualcosa di macabro. I nomi di alcuni luoghi, per esempio: Cessati Spiriti, Tor Tre Teste, Torre Spaccata, Casal Bruciato, Casal dei Pazzi, Valle dell’Inferno: c’è sempre qualcosa di sinistro. Perché? Ogni nome ha un suo destino. Roma è meravigliosa, monumentale ma sotto ci sono le catacombe. È sempre evidente questo dualismo. Così strano, inquietante. Ci sono sia la cripta sia la solarità di Trinità dei Monti. C’è il Tevere bello e il Tevere brutto, quello di ponte Marconi, non a caso inquadrato più volte da Pasolini. Amore e morte, solarità e buio: questa è la grande Roma. È stato il suo maestro, il suo amico: Sergio Leone. È stato un personaggio essenziale, fondamentale per la mia carriera. Ho avuto la fortuna che Leone mi vedesse prima in un teatrino del quartiere Prati di Roma, poi in televisione… Beh… chissa’ cosa avrei fatto io. Ma è andata così. Leone mi ha chiamato e si è proposto come mio produttore. Questo grande regista, quest’uomo di grande sensibilità e intuito si è proposto come mio padrino artistico. Sergio non era solo un produttore. Era un vero creativo. Ho passato dieci mesi con lui, nella sua casa: mi faceva lezione una volta su come girare una scena, la volta dopo su come comportarsi con la troupe, e poi sui canoni del montaggio, la geometria delle riprese. È chiaro che quelle lezioni valevano più del Centro Sperimentale che avevo frequentato: Sergio mi ha insegnato praticamente tutto. Lui mi capiva, capiva il mio spirito, il mio stato d’animo. I miei primi due film sono venuti così bene perché avevo un produttore che comprendeva le sfumature che volevo raccontare. Per me è stato come un secondo padre. Non finirò mai di ringraziarlo.

Verdone ha sempre recitato benissimo. Forse piace agli uomini perché riscatta i deboli avviliti dalle donne. Forse piace alle donne perché le fa sentire padrone, più intelligenti e spiritose, di carattere più forte. Forse piace ai giovani perché permette loro di considerarsi superiori, e piace agli anziani perché ne comprendono la remissività. Certo l’uomo-vittima Carlo Verdone piace, piace. Lietta Tornabuoni da «Lo Specchio», 28 febbraio 2004 A mo’ di premessa: l’Italia che cambia

Il primo fu Luchino Visconti. Era il 1974 quando uscì il suo penultimo film: Gruppo di famiglia in un interno. Con molti anni di anticipo, Visconti annunciava la scomparsa di una “certa borghesia” e la nascita, o meglio l’affermarsi, di una nuova razza, di un nuovo stile di vita irruento, chiassoso, volgare, senza cultura. Il film racconta la storia di un professore sessantenne, magistralmente interpretato da Burt Lancaster, che vive tra i suoi quadri, i libri, la buona musica. Che vive nella sua quiete di “borghese colto”. Tale tranquillità viene disturbata dall’arrivo di un’affittuaria, Silvana Mangano, ricca ma volgare, maleducata, eccessiva e,

soprattutto, priva di cultura e di interessi. Siamo negli anni Settanta, un decennio che segnerà un passaggio importante nella società italiana e un decennio attraverso cui si dipaneranno la formazione e gli esordi teatrali/televisivi/cinematografici di Carlo Verdone. Gli ultimi grandi intellettuali (Calvino, Montale, Sinisgalli, Gatto, Argan, Moravia, Palma Bucarelli, Pasolini, Flaiano…) scompariranno poco a poco, senza lasciare veri eredi. La cosiddetta “borghesia colta” (non solo quella di sinistra) con tutti i suoi pregi e i suoi difetti sta svanendo, si sta dissolvendo. Per borghesia colta si intende quella classe sociale che nel bene e nel male ha dettato le linee guida all’intero Paese. Sono in arrivo i nuovi ricchi. Avanzano inesorabilmente. Nuovi ricchi senza etica, estetica e cultura. Hanno le case arredate dagli architetti. Le loro librerie sono colme di libri, ma il più delle volte non li hanno letti. Ciò che conta è avere, non conoscere. Ma in quel decennio che appare così lontano, con le Brigate Rosse, il rapimento Moro, il movimento studentesco, che pur con molti sussulti si sta distaccando dalla politica e ha sempre meno interesse per le sorti del Paese, qual cosa di buono prende forma. Proprio tra i ragazzi di allora si forma un’ultima razza “disponibile”. Tutti quei giovani che non furono travolti dalle droghe o da smanie politiche estreme rimasero “giovani buoni”, con una loro integrità, una loro bontà d’animo, con un grande e sincero entusiasmo verso la vita e i suoi molteplici interessi. Era una razza generosa e sincera; fiduciosa dell’altro, soprattutto. Una certa razza degli anni Settanta. La formazione

Carlo Verdone è nato nel 1950 in Lungotevere dei Vallati, nel cuore antico di Roma, accanto alla cinquecentesca Via Giulia. «In quella casa ho trascorso il periodo più dolce e poetico della mia vita. Ho fatto le grandi scoperte che fa un ragazzino», spiega Verdone, «ma soprattutto ho scoperto il mio grande amore per Roma che, a quei tempi, non era ancora devastata dalla violenza edilizia. Quella casa era ricca di poesia, di storia, soprattutto grazie a quel lungo terrazzo, ben curato dai miei nonni e da mia madre». È stato proprio quel terrazzo la prima “finestra sul cortile” di Verdone. Proprio da quel luogo ha preso il via la curiosità dell’adolescente, il desiderio di osservare, di carpire i gesti, le movenze, i caratteri, le voci degli altri. Il regista racconta come, a poco a poco, incomiciò a spiare la strada, a sbirciare, non visto, da dietro le finestre. A vedere come si muovevano e camminavano i preti; a osservare l’universo mondo che popolava l’albergo di fronte. Aveva anche un binocolo per vedere meglio, per cogliere il particolare, il tic, il gesto non comune. Ma l’osservatorio privilegiato di Verdone è stato soprattutto il suo quartiere, con le sue strade e i suoi punti d’incontro. Il bar Mariani, per esempio, in via dei Pettinari, «uno dei più fertili punti di controllo e di osservazione del mondo», spiega Verdone, «in quel bar passava gente di ogni tipo, dalle prostitute al postino, dallo scrittore al tifoso, dallo scommettitore allo strozzino. […] Ho sempre amato la gente perché in tutti ho sempre cercato il lato divertente. Ricordo la contrabbandiera dietro la Chiesa Nuova, il giornalaio, il figlio del presidente di una banca, Santino l’elettrauto, il calzolaio che noi chiamavamo Odorello, “Martello d’oro”, che altri non era che il meccanico. Da loro ho capito tante cose, fanno parte della mia memoria privata e di attore. Perché i miei genitori mi hanno sempre detto: rispetta tutti allo stesso modo siano essi ricchi o poveri». Verdone respira cinema da quando è venuto al mondo. Il padre Mario era ed è uno storico del cinema, docente universitario, per lungo tempo dirigente del Centro Sperimentale di Cinematografia. Appare dunque normale per que sto ragazzino predestinato trovarsi in casa registi come Pier Paolo Pasolini, Vittorio De Sica, Roberto Rossellini, Michelangelo Antonioni. Così, più o meno volontariamente, quei discorsi ascoltati tra le mura domestiche per caso o per saziare la propria curiosità, impregnano la mente del giovane Carlo. Trascorre tante

ore al cinema: vi si reca come minimo due volte a settimana, maturando uno passione smodata per Jerry Lewis e John Wayne. A undici anni riceve dal padre un regalo che considera «molto importante»: un proiettore 8mm. In casa si proiettano film. Insieme al fratello Luca il futuro regista organizza una sorta di piccolo cineclub tra amici, proiettando i film muti di Buster Keaton, Charlot, Stanlio e Olio. Dall’8 al 16mm il passo è breve e i fratelli Verdone programmano gran parte dei film di Ingmar Bergman e Roberto Rossellini. Tutto questo porterà Carlo Verdone a laurearsi in Lettere nel 1974 con una teti su Le influenze della letteratura nel cinema muto. Contemporaneamente passa intere giornate nei tanti cineclub e sale d’essai della capitale: «Vedevo qualsiasi cosa: mi cibavo di cinema. Forse sono uno dei pochiracconta Verdone – che conosce tutta la cinematografia di Kenneth Anger, le sperimentazioni di Marco Schifano, il cinema di Andy Warhol». L’Occhio l’Orecchio e la Bocca, il Filmstudio, il Farnese sono i luoghi della formazione del futuro attore-regista che aveva già realizzato tre cortometraggi. Il primo è Poesia Solare (1969), un film di venti minuti basato su visioni psichedeliche e oniriche di cose, oggetti e persone, profondamente influenzato dalla musica dei Pink Floyd e dalle sue suggestioni. Il secondo corto, del 1970, è Allegoria di primavera, vero esempio di cinema underground. Del 1971 è invece Elegia Notturna, poemetto visivo all’avanguardia in cui emerge una grande attenzione ai dettagli. Questo film, realizzato con un cinepresa Super8 Bolex vendutagli da Isabella Rossellini, frutta a Verdone il premio per il miglior cortometraggio in un festival di film sperimentali di Tokyo. Il giovane film-maker, intanto, si reca sempre più spesso a Cinecittà insieme a suo padre, curiosando sui set e soprattutto al montaggio, dove scopre le moviole. Si dice che raccogliesse dai cestini i pezzettini di celluloide scartati e poi li riappiccicasse, mettendo insieme folli e improbabili spezzoni di qualcosa che era tutto meno che un film. La sorte vuole però che i tre corti di Carlo vengano mostrati a Roberto Rosellini. È deciso, il ragazzo ha le doti, le capacità per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia. Ma Verdone lavora anche come burattinaio: non solo muove i personaggi, ma gli dà anche la voce, e qui emergono le sue doti naturali di grande imitatore. Doti che si manifestano anche a teatro. Il fratello Luca lo convince a lanciarsi come attore con il Gruppo Teatro Arte. Nel periodo in cui la compagnia stava rappresentando una riduzione di Gargantua, in una cantina di via Cavour, una sera, “causa freddo”, mancavano all’appello quattro attori. «Io conoscevo a memoria le parti di tutti. Così per non far naufragare la serata recitai tutti i ruoli mancanti, compresi un paio di personaggi femminili. Non c’era molta gente ma tutti si divertirono moltissimo». Ma Verdone continua a ritenere la professione di attore come una sorta di hobby, di divertimento tra amici. Tutti i suoi sforzi si concentrano sullo studio del mestiere del regista. Nel 1974 si diploma in regia con un saggio, Anjuta, ispirato a una novella di Cechov. Lo realizza in una settimana; gli interpreti sono Lino Capolicchio, Christian De Sica, Giovanella Grifo e Livia Azzariti. Professione regista

“Fare il regista”, questo è il chiodo fisso di Verdone: la sua aspirazione. «Ma all’inizio mi sentivo scoraggiato, avvilito, la strada mi sembrava tutta in salita». Nel 1975 Verdone comincia a bussare alla porta dei produttori per lavorare come assistente e aiuto regista: «Andai un po’ dappertutto», ricorda, «Alberto Bevilacqua, Franco Citti, Franco Rossi…» Poche settimane dopo ecco Verdone sul set di Guernica (1975) di Franco Bottari. Un film che doveva essere girato a Buenos Aires ma che per motivi di costi venne realizzato ai Parioli, il quartiere della “Roma bene”. «Quella fu una strana esperienza: ma Bottari, che mi stava molto simpatico, mi offrì una lezione di grande approssimazione e velleità». Segue poi l’esperienza con Franco Rossetti in una commedia erotica: Quel movimento che mi piace tanto (1976). Verdone comincia a lavorare, a vedere «i set da dentro», a capire in diretta i meccanismi che regolano la costruzione di un film. «Nonostante tutto quel film per me è stato

importante», ricorda, «perché mi ha fatto scoprire che avrei potuto fare davvero il regista». Verdone racconta che si prese la responsabilità di organizzare una scena molto complicata con ben cento comparse. «Feci il mio lavoro talmente bene, con una buona lucidità di inquadratura e anche una certa autorevolezza, che alla fine Rossetti mi chiamò e mi disse: “hai il cinema nel sangue!”». Verdone lavora anche con Franco Zeffirelli e quasi contemporaneamente realizza dei documentari per la Presidenza del Consiglio dei Ministri: Il castello nel paesaggio laziale e L’Accademia musicale chigiana; ma sente che la svolta non arriva. Torna così a frequentare il teatro, i cosiddetti teatri off, perché in quel mondo si divertiva ed era curioso di vedere le novità sperimentali che venivano presentate nelle cantine romane. Il caso vuole che a Verdone venga chiesto di allestire uno spettacolo all’Alberichino, vera palestra di nuovi comici, che aveva tenuto a battesimo anche Roberto Benigni. In tempi brevissimi Verdone scrive sette monologhi e quattro scenette: sono i ritratti “dell’uomo che guarda”, rivisitazioni del popolo del quartiere dove l’attore vive, a cui si aggiungono vecchi compagni di liceo, professori. Nascono i primi “bulli”, il marito logorroico, il ragazzetto ingenuo, il prete che parla in dialetto lucano. Lo spettacolo si intitolava Tali e quali, era il 1977. «La sera della prima ero fiaccato, emozionato, pensavo di non ricordarmi nulla ma soprattutto ero divorato dall’ansia» ricorda Verdone. Al debutto la sala è piena di amici, parenti, e anche giornalisti. Lo spettacolo dura cinquantacinque minuti e alla fine viene accolto da un grande applauso. Due giorni dopo le recensioni sui giornali sono tutte favorevoli. Una sera però in sala si accomoda solo uno spettatore: il critico del quotidiano romano «Paese Sera», Franco Cordelli. Verdone non si perde d’animo, generoso come sempre si esibisce comunque e recita tutto il suo repertorio. Due giorni dopo Cordelli scrive sul suo giornale una strepitosa recensione: « È venuto al mondo un nuovo Fregoli. Verdone è un attore nato, un attore che non si perita di apparire come tale, un puro attore, tale e quale. Egli passa con disinvoltura da un ruolo all’altro, si immedesima nel suo personaggio (dal tipo qualunque all’uomo illustre) e lo imita, ne fa una succosa caricatura. Verdone è uno di quegli attori nati che possiamo incontrare per caso in ferrovia o al ristorante. L’incontro, inevitabilmente, ci farà passare una piacevole serata, non potremo non ridere a crepapelle con lui. Forse poi lo dimenticheremo, ma lui non mirava proprio a nulla, se non a consumare il tempo, viso a viso, in un rapporto tutto “fisico”, nel quale, tuttavia, la parte dominante è quella della voce: la voce assai più del gesto, la voce assai più della mimica». «Paese Sera», all’epoca, era molto diffuso e letto nella capitale. Quella recensione è come una bomba e tutte le sere per vedere Verdone c’è la fila. Lo spettacolo fu addirittura prolungato. Non solo. Dopo una piccola pausa viene trasferito nel teatro più grande: l’Alberico. Per il suo nuovo debutto Verdone scrive uno spettacolo che lui stesso definisce pirandelliano. Si intitola Rimanga tra noi… La scena consiste in una camera mortuaria. Al centro del palco la bara che viene “visitata” da vari personaggi che rendono l’ultimo saluto al caro estinto. L’attore è scatenato nelle trasformazioni, nel mostrare tic e manie, non solo fisiche ma anche vocali. Azzarda le voci più diverse, più imprevedibili. Ognuno offre una descrizione diversa del defunto. «Il contrasto fra bontà e cattiveria è stridente, i ritratti sono ipocriti, ridicoli, entusiasti: tutti comunque accumunati dall’ironia e dal divertimento» (Franco Montini, Carlo Verdone, Roma, Gremese, 1997). Tutta Roma accorre a vedere il “nuovo Fregoli” e la platea spesso si popola di personaggi illustri: Paolo Poli, Enzo Siciliano, Steno, Sergio Leone, Lucia Poli, Franco Zeffirelli, Enrico Lucherini, Pasquale Festa Campanile. Ma anche molti produttori cinematografici, politici e uomini della televisione. Una sera sono presenti tra il pubblico il regista Enzo Trapani e il dirigente televisivo Bruno Voglino. I due chiedono a Verdone di partecipare alla seconda serie del fortunato programma di prima serata di Rai Uno Non stop.

Il programma va in onda dal 28 dicembre 1978 al 1 febbraio 1979: sei puntate di grande successo (molte scenette di Verdone vengono ancora oggi riproposte da Rai Uno e fanno ormai parte “dell’immaginario collettivo”) in cui il comico romano ripropone in Tv i suoi personaggi visti a teatro. È un vero trionfo, la consacrazione a livello nazionale. Leone chiama

Nel 1977 Bernardo Bertolucci chiama Carlo Verdone per offrirgli un piccolo ruolo in La Luna. Il personaggio è quello di un regista di Caracalla che doveva coordinare il movimento di un gruppo di figuranti: «rimasi sul set una settimana: era pieno di gente che non sapevo bene cosa facesse e di una marea di comparse. Mi ricordo che con Bertolucci c’era Vittorio Storaro che si aggirava pensieroso mentre Bernardo, distaccato e maestoso, governava il tutto con grande maestria ed eleganza». E così Bernardo Bertolucci, che siamo andati a trovare nella sua casa in Trastevere a Roma, ricorda Verdone sul set: «a Carlo chiesi, sul palcoscenico di Caracalla, in qualche modo, senza troppo spirito caricaturale, di ripetere o di ricordare qualche regista con cui aveva lavorato a teatro. E credo che uno di questi fosse Zeffirelli. Sono più che convinto che Carlo, a modo suo, abbia fatto quel personaggio, tracciando segretamente, per quelli che se ne sono resi conto, un ritratto. Carlo riuscì a sviluppare questa caricatura delicata, senza nessuna cattiveria, anzi affettuosa di Franco Zeffirelli. Fu veramente molto bravo!». Ma la vera svolta per Verdone arriva via telefono. Dall’altro capo del filo c’è un altro mostro sacro del cinema: Sergio Leone. Il regista lo vuole incontrare per capire se il giovane attore è in grado di fare cinema. Verdone ricorda che la prima volta che andò a casa di Leone era «un piovoso e freddissimo pomeriggio di febbraio». Emozionato, consegna al regista due soggetti e un copione; poi viene congedato con sette parole: «Me li leggo e ti chiamo domani». Così avviene. La mattina dopo Leone telefona e Verdone viene convocato a pranzo. Il regista di C’era una volta il West afferma che le cose scritte da Verdone valgono poco. Bisogna costruire un film con i personaggi che Verdone aveva così ben caratterizzato in televisione. Leone comincia a pensare anche a chi avrebbe potuto dirigere il giovane talento. Forse Magni, o Steno o la Wertmüller. Per preparare la sceneggiatura il regista affida Verdone a due grandi esperti: Leo Benvenuti e Piero De Bernardi (un sodalizio che si protrarrà negli anni). Trascorsi alcuni mesi, Leone, uomo carismatico, colto, saggio, ma anche genuinamente trasteverino, decide che Verdone sarà il regista e l’interprete del film che lui stesso avrebbe prodotto. «Benvenuti e De Bernardi mi sarebbero stati accanto per rafforzare quelle tre idee, quei tre episodi che avrebbero dato vita al mio primo film. Ma soprattutto mi avrebbero insegnato i meccanismi, le alchimie che regolano un film basato su tre storie incrociate». Ricorda Verdone che Sergio Leone «per circa quattro mesi mi segregò letteralmente a casa sua per farmi un corso approfondito di regia cinematografica. Non solo fu importante il suo insegnamento sulla tecnica della ripresa, ma fu fondamentale stargli accanto per capire che tipo di rapporto un regista deve intrattenere con la troupe intera. Non faceva che ripetermi: il set è come una nave, e la troupe sono i marinai. Se i marinai vedono che l’ammiraglio se la fa sotto e non ha le idee chiare sai cosa succede? Te lo ricordi Gli ammutinati del Bounty? Sì, rispondevo io. E lui: ti fanno a fettucce…» Un sacco bello viene realizzato nell’estate del 1979. Tempo di lavorazione: cinque settimane e due giorni. Costo: 560 milioni. Un sacco bello

Nel gennaio del 1980 nei cinema italiani circolano film come Apocalypse Now (Id., di Francis Ford Coppola, 1979), Manhattan (Id., di Woody Allen, 1979), Il malato immaginario (di Tonino Cervi, 1979). E proprio a gennaio, esattamente il 19, era un sabato, esce il primo

film di Carlo Verdone: Un sacco bello. La macchina da presa avanza lungo un corridoio. Una porta si apre. Una nuvola di vapore riempie lo schermo. Dal vapore emerge una figura vestita solo con un asciugamano in vita. Si apre così Un sacco Bello (fot. 1). Accompagnato da una musica ritmata, tesa, seguiamo la vestizione del “bullo Enzo” (capelli neri impomatati), che dinoccolandosi, tiene il tempo: ecco che si infila, davanti allo specchio, dei pantaloni neri, poi una camicia dello stesso colore aperta fino all’ombelico. Come in un rito pagano Enzo sceglie il medaglione d’oro da mettere al collo, gli occhiali da sole, il cotone per “gonfiare” il basso ventre. Un inizio fulminante, «Che mi è venuto in mente», ricorda Verdone, «ascoltando un brano dei Cream con Jack Bruce all’armonica e Ginger Baker alla batteria». Senza far pronunciare una sola parola al suo protagonista, Verdone ci regala già un “ritratto”. In questo film l’attore-regista interpreta, grazie al suo innato fregolismo, ben sei personaggi, ma i principali caratteri, come le storie, sono tre: il “bullo Enzo”, che vuole raggiungere Cracovia con un amico per una vacanza fatta tutta di conquiste e sesso sfrenato. Ruggero, un hippy dai capelli biondi lunghissimi pienamente immerso nella “filosofia degli anni Settanta”, che il padre (un grandioso e verace Mario Brega, conosciuto da Verdone a casa Leone) cerca di riportare a casa, fot. 2. E l’infantile e mammone Leo (capelli corti, lieve abbronzatura, fot. 3), timido, impacciato, imbranato, trasteverino che, per qualche giorno senza la madre tiranna, assapora la libertà e sogna di conquistare una turista spagnola, Marisol (fot. 4), in crisi sentimentale.

FOT. 1

FOT. 2

FOT. 3

FOT. 4

Verdone non ha fatto altro che perfezionare alcuni dei suoi pezzi forti teatrali, che saranno poi la base di una gran parte dei suoi film futuri. I tre “eroi” del ferragosto romano appaiono in una prima lettura completamente diversi fra loro. Ma c’è qualcosa che li accomuna: tutti e tre hanno una profonda solitudine esistenziale, una malinconia latente. Scrive Franco Montini: «Il più disperato è Enzo, il bullo, il quale, quando l’amico con cui sarebbe dovuto partire è colpito da una colica renale, cerca disperatamente qualcun altro disposto ad accompagnarlo». Il bullo è terribilmente solo. Non ha amici. Vive la sua solitudine di coatto, dell’emarginato (però creativo, fantasioso) di periferia. La sua agendina telefonica è drammaticamente priva di numeri. Ispira tenerezza notare che sotto la lettera “S” compare solo il numero dello Stadio Olimpico. Una tenerezza che diventa drammatica quando scopriamo che lo stesso numero compare anche sotto la lettera “O”, come Olimpico Stadio. Roma, agosto: città deserta, caldo. Tre personaggi, tre solitudini. Enzo, bullo di periferia, prepara il suo viaggio in auto a Cracovia. Nella valigia, oltre ai vestiti, infila calze da donna e penne a sfera: oggetti che serviranno per conquistare le ragazze del luogo. Compagno di viaggio è l’amico Sergio. Titubante e indeciso, non sa ancora se la sente di andare a Cracovia. Alla fine i due partono con la spider nera di Enzo. Poco dopo Sergio si sente male ed Enzo è costretto a portarlo in ospedale. In attesa di notizie sul suo amico, con la sua debordante fantasia incomincia a raccontare storie a malati, portantini e infermieri. L’amico viene ricoverato e Enzo incomincia telefonare per trovare un sostituto. Ma i suoi numeri sull’agenda telefonica sono rari. Troverà un amico di un amico, spelacchiato e squallido. Enzo è rassegnato. Carica l’ometto in auto e i due partono. Seconda storia. Ruggero vive con un gruppo di idealisti e ecologisti hippy. Ha i capelli biondi lunghi e crede nella bontà del prossimo. Con i suoi amici ferma gli automobilisti ai semafori per raccontare la sua filosofia e chiedere fondi per la sua comunità. Il caso vuole che incontri il padre, che convince lui e la sua amica a fare un breve ritorno in famiglia. In casa si scontrerà e si confronterà non solo con il padre, ma anche con un amico prete, un professore, e il cugino logorroico. Tutti cercano di convincere l’hippy Ruggero a tornare a casa. Ma la chiacchierata servirà a ben poco. A sera il padre accompagnerà nuovamente il figlio e l’amica nel luogo dove si erano incontrati. Protagonista della terza storia è Leo: ragazzo fanciullesco mammone, goffo e timido. Vive a Trastevere e tornando a casa incontra una giovane turista spagnola, Marisol. La ragazza non trova posto in ostello e allora la ospita a casa sua, dove vive con la madre che ora però è in vacanza a Ladispoli. Leo resta affascinato dalla giovane in crisi sentimentale. La porta allo zoo dove Marisol finisce con il fare il bagno nuda. Tornati a casa Leo prepara la pasta e una serata romantica, sulla terrazza, per la sua amica spagnola. Tutto sembra andare per il meglio, ma l’arrivo del fidanzato di Marisol cambia le carte in tavola. Leo è triste, anche perché i due dopo aver fatto pace faranno l’amore. Alla fine telefonerà alla mamma che aspetta il figlio a Ladispoli. Il giorno dopo, risistemata casa, Leo, sconfortato, partirà per raggiungere la madre al mare.

Il film è strabordante di scene comiche esilaranti: il mammone Leo allo Zoo con Marisol, l’arrivo della spider nera del bullo Enzo all’ospedale per ricoverare l’amico sofferente… Ma il massimo virtuosismo Verdone lo raggiunge nella sequenza del grande dialogo a casa di Ruggero, “il figlio dell’amore eterno”, tra il padre e Verdone, che “sostiene” senza problemi ma con un ritmo incredibile e perfetti tempi comici quattro personaggi: Ruggero, il prete, il professore e il cugino (fot. 5, 6 e 7).

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FOT. 6

FOT. 7

Certi modi di dire e tic del ragazzo figlio dell’amore eterno, come l’abuso dell’avverbio “cioè”, lasciano decisamente il segno, diventando immediatamente di uso comune. Il film piace, le critiche e le recensioni sono buone, l’incasso è ottimo: due miliardi e cinquecento milioni. Verdone con il suo primo film trionfa per davvero. Un sacco bello, inoltre, non è soltanto un ottimo film comico, è qualcosa di più: è anche la cronaca di tre fallimenti. Scrive Franco Montini: «Leo fallisce la conquista di Marisol, la turista spagnola; Ruggero e il padre non si ricon-ciglieranno; Renzo, dopo aver trovato un compagno d’avventura, un triste anziano che si presenta all’appuntamento con il golfino appoggiato al braccio, non arriverà mai a Cracovia: una macchia d’olio che appare in sottofinale sotto la macchina profetizza infatti la disfatta». L’amarezza e la malinconia sono palpabili. Non solo: il ritrattista Verdone rimane profondamente legato alla realtà e non può dimenticare in questo suo primo film il lato “di piombo degli anni Settanta”. Quasi in chiusura tutti e tre i protagonisti sentono l’esplosione di una bomba e poi il suono delle sirene: non vediamo nulla, ma con quel segnale il già maturo Verdone ci ricorda il decennio terribile appena concluso. Questa è l’Italia, questi i suoi personaggi. Oltre a essere una grandissima prova d’attore, Un sacco bello evidenzia anche l’abilità di Verdone nel ruolo di coordinatore e di regista, essendo riuscito con straordinaria abilità a incrociare i tre episodi legandoli a filo doppio in un unico racconto, lineare e senza sbavature, grazie al sapiente utilizzo del montaggio parallelo. Del resto Verdone al suo esordio era in una vera botte di ferro. Oltre alla produzione di Sergio Leone, ha potuto contare anche sulla

fotografia di un professionista come Ennio Guarnieri e sulle musiche di Ennio Morricone. Il successo viene sancito dalla consegna al regista di un David di Donatello speciale con la seguente motivazione: «Per una presenza nuova e stimolante nell’ambito del cinema italiano confermata dal suo film Un sacco bello». Verdone vince anche il Nastro d’argento come “miglior attore esordiente”. Bianco, rosso e Verdone

Verdone non lascia, bensì raddoppia. Dopo il successo di Un sacco bello, riprende a fare teatro, al Piccolo Eliseo, dove nel 1981 si esibisce con il suo repertorio completo. Nello stesso periodo, ascoltando le tante radio libere che popolavano l’etere in quegli anni, scopre Sora Lella, ovvero Elena Fabrizi, la sorella di Aldo Fabrizi, che dai microfoni di una piccola radio dava consigli di ogni tipo agli ascoltatori. Ne scopre quindi prima di tutto la voce, a riconferma del fatto che i personaggi di Verdone nascono, a livello embrionale, proprio dalla voce. «Aveva quella bonaria e lucida saggezza che hanno sempre avuto le matrone romane. A sentirla parlare tornavano in mente le espressioni e la filosofia dei sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli». È in questo periodo che “nasce” Bianco, rosso e Verdone, in cui il comico romano ripropone le tre storie intrecciate. A fianco ha sempre Sergio Leone, la coppia Benvenuti/De Bernardis e Ennio Morricone. Il tema del film è il viaggio, nello specifico il viaggio di tre personaggi per andare a votare, un’avventura attraverso l’Italia ricca di contrattempi, soste forzate, incidenti. Ancora una volta la chiave di lettura scelta da Verdone è quella ironica. In Italia è tempo di elezioni. I protagonisti del film si mettono in viaggio per raggiungere i comuni di residenza ed esprimere il loro voto. La pellicola si apre con un camionista che sta guidando in autostrada. Accende la radio e lo speaker ci informa che «oggi domenica 10 giugno gli italiani andranno alle urne». Il materano Pasquale, silenzioso e primordiale, vive a Monaco di Baviera. Ha sposato una tedesca di cui non apprezza la cucina. A bordo della sua Alfa Sud arancione, Pasquale varca il confine, ascoltando da un registratore appoggiato sul sedile del passeggero Binario di Claudio Villa. Fa la prima sosta: subito gli rubano l’amato registratore. Alla successiva sosta all’autogrill secondo furto: le borchie dell’Alfa. E sarà così per tutto il viaggio. I soliti ignoti gli faranno sparire anche il sedile dell’auto e il parabrezza. Lui resiste, sopporta, accetta in silenzio. Alla fine viene contagiato e ruba le borchie di un’auto ma viene scoperto e picchiato. La sua rabbia interna monta e il suo silenzio sarà rotto al seggio elettorale. Dopo aver espresso la sua preferenza, si sfogherà parlando per la prima volta. Da Torino, con una Fiat Giardinetta parte alla volta di Roma insieme alla moglie e ai figli il pignolissimo Furio: uomo abituato a programmare tutto al millesimo di secondo. Prima di partire Furio chiede puntiglioso alla moglie: «Il gas lo hai chiuso? La chiavetta l’hai portata in posizione orizzontale? Le persiane le hai sprangate? La sacca dei documenti l’hai presa? Codice fiscale, carta d’identità, partita Iva? Thermos latte? Thermos acqua e limone? Succhi di frutta, sandwich al burro? Al prosciutto? Allo stracchino?». Lei appare già distrutta prima di partire. E schiacciata dalla logorrea maniacale del marito che ripete spesso: «Magda tu mi adori?» E lei: «Sì» . Furio: «E allora lo vedi che la cosa è reciproca!?» Il viaggio ha inizio e Furio ha da ridire su tutto. È pignolo, insistente, e Magda per sopportarlo è costretta a usare gli psicofarmaci. Ma in una sosta all’autogrill Magda incontra un personaggio affascinate che la fissa senza sosta. Scambi di sguardi e di sorrisi. Ma tutto sembra finito lì. Più avanti l’auto di Furio e famiglia bucherà una ruota. Si fermano. Furio si incammina per cercare aiuto. Intanto si ferma il fascinoso signore che Magda ha incontrato all’autogrill. Guida una Volkswagen azzurra. Sarà lui a cambiare la ruota. Ma quando Furio ritorna dopo aver chiamato l’Aci protesterà con la moglie per ciò che ha fatto. Poi Furio e famiglia avranno un incidente automobilistico sotto una galleria. A soccorrerli arriverà ancora il corteggiatore di Magda. Finiranno tutti in ospedale, dove il dottore offre a Magda una diagnosi allarmante riguardo al marito: «un nevrotico ansioso che va seguito». Furio resterà in osservazione in ospedale e tutti andranno a dormire in albergo, dove l’uomo con la Volkswagen continuerà a corteggiare Magda. Finalmente arrivati al seggio di Roma, mentre Furio sale per votare Magda fugge con il suo corteggiatore. A Verona arriva da Roma con una Fiat 1100 il timido e impacciato Mimmo, venuto a recuperare la nonna che deve riportare nella capitale per votare. Appena la nonna lo vede gli molla un ceffone: è in ritardo. Nonna Teresa vuole a tutti i costi andare a votare per i suoi amici comunisti. La signora, che chiama Mimmo “bello de nonna” è una donna obesa piena di acciacchi (deve pren dere un sacco di medicine durante il giorno) ma anche ironica e piena di vita. Vuole salire dietro per poter allungare le gambe, così Mimmo è costretto a smontare il sedile del passeggero e metterlo sul portapacchi. Sarà un viaggio pieno di litigate, battute e riappacificazioni, ma soprattutto di attenzioni del giovane e infantile Mimmo verso la nonna. Durante una sosta

il candido ragazzone avrà una infelice avventura con una prostituta d’albergo. Una volta arrivati a Roma, la nonna muore dopo essere scomparsa dietro al seggio per votare. Mimmo scoppia a piangere, mentre gli scrutatori si interrogano o meno sulla validità del voto.

La vera rivelazione di questo film è Pasquale: l’emigrante che da Monaco con la sua Alfa Sud arancione (la scelta dell’auto non è casuale) discende la penisola per raggiungere la nativa Matera per fare il suo dovere di elettore. Pasquale non parla per tutta la pellicola, sino allo sfogo finale. Ha un difficilissimo rapporto con gli oggetti che gli si ribellano contro complicandogli la vita. In un certo senso Verdone amalgama i silenzi e la gestualità di Jacques Tati e l’impossibilità di convivere con gli oggetti di certi film con Peter Sellers, come Uno sparo nel buio (A Shot in the Dark, 1964), Hollywood Party (The Party, 1968), entrambi diretti da Blake Edwards. Pasquale è un rozzo animale gentile che dorme sotto un lenzuolo rosso con tanti cuori bianchi (fot. 8). È un primitivo che vive in un suo mondo. La tragedia con gli oggetti inizia al mattino, quando una parte dello scopino per pulire il water ci finisce dentro. Con naturalezza il ragazzo tenterà di recuperarlo, anche con uno spazzolino da denti. Poi non riesce a farsi la barba: ogni volta che si avvicina al rasoio elettrico questo si spegne (fot. 9). È la rivolta degli oggetti. Questo emigrante che fa colazione controvoglia mangiando il cibo grasso che la moglie tedesca gli ha preparato storce solo un po’ il naso… ma poi manda giù il boccone perché è un buono che sa farsi amare. Non sappiamo da quanto manchi dall’Italia, ma capiamo la sua gioia, il suo desiderio di ritornare in patria. E proprio grazie a questo personaggio Verdone ci fa capire com’è l’Italia del 1981. Eccolo varcare il confine ascoltando da un registratore, appoggiato sul sedile accanto, Binario di Claudio Villa. Ma dopo la prima sosta si accorge che qualcuno gli ha rubato il registratore. Si guarda intorno, il volto è tra il serio e lo stupito. Stacco. Verdone inquadra un cartello: Benvenuti in Italia. Come a dire che l’Italia è anche questa. Altra sosta e altro conflitto con gli oggetti: non riesce più a uscire dal bagno dell’autogrill. Una volta liberatosi, scopre che qualcuno gli ha fatto sparire le borchie dell’auto. Grugnisce Pasquale con il suo passo stanco, la maglietta arrotolata che lascia vedere peli e pancia. La gente lo evita: dalla polizia di frontiera agli autostoppisti. Tutti lo guardano con curiosità, stupore, incredulità, quasi fosse qualcosa di raro, una sorta di “bestiale animale preistorico”. Più discende la penisola e più riscopre l’Italia. I furti continuano e al ristorante gli rifilano un conto folle. Ma lui nulla, resiste: perché dietro quell’essere rozzo, c’è un uomo buono e fiducioso, sempre pronto a perdonare, ad accettare la malasorte. Ma alla fine, esasperato, resta come contagiato… Vede un’auto come la sua e ruba le borchie; ma viene scoperto e picchiato. Pasquale è incapace di “fare cattiverie”, tantomeno improvvisarsi ladro. Non è la sua natura, è solo costretto a farlo nel tentativo di adattarsi a una società, a un Paese che stenta a riconoscere come il suo. Forse proprio colto da un moto di senso civico, oltre che di disperazione, dopo aver finalmente votato si sfoga parlando per la prima volta. E lo fa in un lucano praticamente incomprensibile, anche se (e qui c’è tutta la bravura vocale di Verdone) cogliamo perfettamente il senso delle sue parole, ripercorrendo tutte le disavventure che gli sono capitate. Che cosa è accaduto a questo Paese? Che cosa sta diventando? Verdone già vede che in quei nascenti anni Ottanta in Italia qualcosa si è incrinato: il Paese inizia a perdere il suo candore, diventando sempre più cinico e arrogante.

FOT. 8

FOT. 9

L’episodio di Mimmo e della nonna, invece, colpisce soprattutto per la sua delicatezza. La naturalezza della recitazione di Elena Fabrizi, solenne matrona romana, fiera, orgogliosa, dura ma infinitamente dolce, lascia una grande impronta in Bianco, rosso e Verdone (fot. 10). Mimmo, giovanotto romano ingenuo e fanciullesco è una sorta di Candido voltairiano. La cura con cui accudisce la nonna e l’affetto che le dimostra sono sinceri, e danno vita a molti momenti di intima poesia. Così come è poetica la sosta nel piccolo cimitero alla ricerca di una tomba che forse non c’è, quella di «Risi, Riso, De Risi…», tanto che Mimmo si chiede: «Chissà come si chiama questo?», mentre la nonna è rapita dalla bellezza di una tomba. Alla fine i due decidono di distribuire il mazzo di fiori che la nonna ha con sé ponendo un fiore su ogni tomba… Verdone chiude così la sequenza con una matura e lieve delicatezza.

FOT. 10

La nonna per il ragazzo è anche fonte di tranquillità e sicurezza: quando Mimmo viene sedotto (e intimorito) da una prostituta di motel interpreta da Milena Vukotic, lui corre in camera a raccontare a suo modo l’accaduto alla nonna, cercando conforto, per ritrovare il suo candore trasformando quel fatto in “un brutto sogno”. Ma un sogno ben più brutto alla fine diventa realtà: la morte della nonna. È incantevole l’uscita di scena che Verdone prepara per Elena Fabrizi. È straziante il pianto del disperato Mimmo appoggiato al muro del seggio. «Te ne sei andata senza che abbiamo fatto pace», dice tra le lacrime come un bambino. Mentre gli altri, totalmente disinteressati al dramma di quella morte, sono impegnati in una feroce e cattiva discussione sulla validità del voto della donna appena defunta. Tutti i personaggi di questo film, nonostante il tono caricaturale scelto da Verdone, si

muovono all’intero di un quadro sociale/ambientale autentico e vero. Furio (fot. 11) il pazzo, il paranoico, il logorroico, il maniacale è un italiano che in parte esiste ancora oggi. È il ritratto di un impiegato statale, di un piccolo commerciante, di un imprenditore di provincia. Ha distrutto la moglie, distruggerà i figli. Lei, la povera Magda, è talmente avvolta dalla forza distruttrice di Furio (fot. 12) che non riesce a lasciarsi andare quando il bel tenebroso (interpretato da Angelo Infanti, fot. 13) incontrato sull’autostrada, la corteggia senza sosta (bel tenebroso che dentro l’auto ha una batteria, strumento suonato da Verdone che già avevamo visto nella casa dell’invasato Ruggero in Un sacco Bello).

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Anche Bianco, rosso e Verdone è la storia di tre sconfitte, o meglio di tre cambiamenti. Furio dovrà ricostruire la famiglia senza la moglie; Mimmo è obbligato a crescere e a svezzarsi senza la presenza rassicurante della nonna-matrona; l’animalesco ma genuino Pasquale dovrà cambiare la visione del suo amato Paese. Borotalco

«Non potevo continuare a costruire storie con più personaggi. Non avrei resistito più di due o tre film. Non sarà un caso allora che Borotalco è sicuramente il film più importante della mia carriera. Era la prova del nove per andare avanti. Un film, un personaggio unico che, nella trama, rifaceva il verso a un altro personaggio interpretato da Angelo Infanti. Grazie a questo espediente in qualche modo riuscivo ancora un po’ a sdoppiarmi, donando alla storia una fluidità particolare. Inoltre in Borotalco volevo dare più spazio alla regia».

Questo film segna quindi la prima grande svolta nella filmografia dell’autore romano. Essendone consapevole, Verdone impiega quasi dieci mesi per la stesura della sceneggiatura, facendosi affiancare da Enrico Oldoini e abbandonando così momentaneamente Benvenuti e De Bernardi, «non una rottura ma una amichevole pausa di riflessione», spiega il regista. Attraverso il protagonista Sergio Benvenuti, Verdone può permettersi di mostrarsi in tutta la sua palpabile tristezza, nella sua perenne indecisione, nella sua dolce malinconia. Ma grazie a Sergio, l’autore può anche mostrare come un qualsiasi ragazzo imbranata e timido piò riscattarsi attraverso la fantasia, la creatività, l’immaginazione, inventandosi una vita favolosa, fantastica. Con Borotalco nasce dunque la vera autentica maschera verdoniana. Una maschera “tutta sua”, ma anche tutta italiana. Maschera che sarà il prototipo di buona parte di tutte le future caratterizzazioni di Carlo Verdone. Per contrastare il suo personaggio impacciato, Verdone costruisce una figura femminile decisa, sicura, sciolta, disinibita, moderna ma anche lei legata alla fantasia, all’immaginazione. Per il ruolo di Nadia sceglie Eleonora Giorgi. Come in tantissimi altri suoi film successivi, Verdone narra dell’incontro di due personaggi agli opposti, uno scontro fra i sessi in cui è la figura femminile quella più forte. La grande differenza tra i due è evidente già nella sequenza dei titoli di testa: con in sottofondo La settima luna di Lucio Dalla, assistiamo, grazie a un montaggio alternato, alla vestizione dei due protagonisti. A Sergio si spezza il laccio della scarpa, si scuciono l’orlo e il cavallo dei pantaloni e, mentre si pettina, si accorge che gli cadono i capelli. Quando si presenta al colloquio di lavoro, dove c’è anche Nadia (fot. 14), non si accorge che sulla giacca ha ancora cucita la targhetta del prezzo (fot. 15). Sergio si presenta quindi come l’esatto opposto della sexy, dinamica e vincente Nadia. Ambedue lavoreranno per “I colossi della musica” (ma grazie a un magnifico gioco di incastri non si incontreranno fino alla trasformazione di Sergio in Manuel). Se lui sarà un più che complessato, intimidito e incapace venditore di enciclopedie musicali a domicilio, lei (che sogna Lucio Dalla – il cantautore aleggia non visto, ma è come se ci fosse, in tutto il film) sarà invece grintosa, capace e spigliata (nonché spudorata), tanto da racimolare clienti anche in ospedale. Intanto al povero Benvenuti capita di tutto: perde una scarpa, gli fanno male i piedi, gli sbattono la porta in faccia e spesso viene cacciato in malo modo. Insomma il ragazzetto è un vero disastro.

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Nel perfetto stile di Verdone, l’attore-regista popola sapientemente il suo film di caratteristi, dal grande Mario Brega, nel ruolo del burbero e ossessivo ma buono padre della fidanzata di Carlo, a Christian De Sica, compagno di stanza di Verdone, giovanotto nullafacente e ossigenato che vuole “sfondare a Los Angeles” (i due vivono in un convitto di preti). Spiccano poi Isabella Gallinella, amica di Eleonora, e ovviamente Angelo Infanti, ovvero Manuel Fantoni, vera chiave di volta del film. Sarà lui a far scattare all’impacciato e impreparato (alla vita) Verdone il “potere” dell’immaginazione, la forza della creatività e dell’improvvisazione. La vita non è “un insieme di vero e falso”, come sosteneva con forza Orson Welles? La falsificazione, l’identificazione con un’altra vita, un’altra personalità, si pone quindi come via d’uscita da un’esistenza piatta, monotona e ormai già scritta, (le pressioni della fidanzata e del futuro suocero) offrendo una sorta di riscatto piccolo-borghese, verso un successo (momentaneo) che altrimenti non avverrebbe mai. Sergio Benvenuti, giovanotto romano un po’ timido, ingenuo, impacciato, è fidanzato con Rossella. Lei lo accompagna a un colloquio di lavoro presso “I colossi della musica”, casa editrice di una collana musicale. Si tratta di vendere la collana a domicilio. Sergio inzia a lavorare, ma le cose non vanno bene. Non riesce a vendere praticamente nulla e si lamenta con il suo amico con cui condivide la stanza in un convitto di preti. Prima nella classifica delle vendite di queste enciclopedie musicali è la spigliata Nadia Vandelli, che sogna di incontrare Lucio Dalla. Sergio va a trovare il padre di Rossella al suo negozio di alimentari. L’uomo cerca di convincere il ragazzo a decidersi a sposare la figlia: «Sono quattro anni che siete fidanzati», gli ricorda, e vorrebbe convincerlo a lavorare nel negozio, ma Sergio è titubante. Intanto le cose sul lavoro non migliorano. Dopo un mese Sergio non ha venduto nulla, mentre Nadia ha incamerato ben cinquantadue contratti. Sergio cerca di farsi coraggio e decide di telefonare alla collega, invidiata da tutti per la sua bravura. Con la sua proverbiale timidezza, Sergio cerca di convincere Nadia a unire il loro lavoro almeno per una giornata, in modo da poter imparare da lei un po’ di trucchi e segreti del mestiere. L’indomani l’appuntamento è a mezzogiorno a Via della Farnesina 326, davanti all’abitazione del cliente Arch. Manuel Fantoni. Ma Nadia non arriva: è in fila per comprare i biglietti per il concerto di Lucio Dalla. Sergio si fa forza e decide di salire. Ad aprire la porta si presenta una fanciulla straniera. Sergio si siede e aspetta perché Manuel, in vestaglia, è allungato su un divano e parla al telefono. Sergio si guarda in giro e da una sorta di acquario emerge una fanciulla bionda completamente nuda. Manuel Fantoni, finita la telefonata, inizia a raccontare le sue storie, le sue favolose avventure a un sempre più incredulo e affascinato Sergio. Ma dopo i lunghi racconti Manuel confida al ragazzo che quelle storie sono tutte inventate. Dopo il pranzo suonano alla porta: sono i Carabinieri. Cercano Cuticchia Cesare, questo è il vero nome di Manuel Fantoni. Hanno un mandato di cattura per lui. Così Sergio si trova solo nella grande casa e quasi per gioco, dopo aver fatto un bagno, si mette davanti a uno specchio a imitare Manuel Fantoni. Suonano alla porta: è Nadia Vandelli. Sergio, in accappatoio, si spaccia per Manuel e inizia a raccontare le tante storie narrate dal finto architetto. Nadia resta affascinata anche perché scopre che Manuel/Sergio è amico del suo mito: Lucio Dalla. Sergio torna alla vita normale. Va a cena dalla fidanzata e viene rimproverato perché è arrivato in ritardo. Poi, da casa della fidanzata, telefona a Nadia con la voce di Manuel dicendole che ha dimenticato l’agenda a casa sua. Si danno quindi appuntamento la stessa sera alla Galleria Colonna nel centro di Roma. I due si incontrano e Sergio/Manuel le dice di essere in partenza per Parigi. Si tratta solo di una scusa inventata per porre fine a questo gioco del cambio di identità, ma Nadia lo accompagna in stazione e Sergio è costretto a comprare veramente il biglietto. Nadia gli chiede se può telefonare a Lucio Dalla perché lei ha scritto una canzone per lui. Sergio non riesce più a reggere in questa situazione, così si presenta a casa di lei per confessare tutto. Ma non ci riesce, anche perché da Nadia c’è un gruppo di amici che iniziano a fargli raccontare le “sue” storie incredibili e fantastiche sul mondo dello spettacolo. Suonano alla porta: è Rosella, la fidanzata di Sergio, che vuole avere notizie del suo ragazzo da Nadia, visto che era al corrente del loro appuntamento di lavoro. Sergio per non vederla si rifugia in bagno, finge un malore e poi Nadia lo accompagna a casa. Tra i due nasce un’amicizia, forse qualcosa di più. Il giorno dopo fanno un giro in moto: vanno a vedere il mare. Lei ha comprato due biglietti per il concerto di Lucio Dalla, ma Sergio fa di tutto per arrivare tardi ed evitare l’incontro con il cantante. Così avviene. Ma anche se il concerto è finito, Nadia vuole che Sergio/Manuel dia al suo idolo la canzone che lei ha scrito per lui. Sergio ci prova: entra nella roulotte vuota di Dalla e lascia lo spartito. Lei, per ringraziarlo, ma anche per affetto, lo bacia. Il giorno dopo Sergio va in carcere a trovare Manuel a chiedergli le chiavi di casa. Manuel dice che non c’è problema: «chiedile pure al portiere». La sera, a casa di Manuel, Sergio si prepara all’appuntamento romantico con Nadia. Lei arriva ma poco dopo si presenta Rossella con il padre e l’amico di Sergio. Il grande equivoco viene chiarito. Nadia, ormai distrutta dopo aver capito di essere stata presa in giro, se ne va in lacrime e ha un terribile incidente in automobile. Sergio si sposa quindi con Rossella e Nadia, ristabilitasi, con il suo fidanzato. Ma i due si ritrovano qualche

anno dopo; Sergio ha un figlio, Nadia ha un bar con il marito. La loro vita sembra spenta, monotona. Così lei per gioco inzia a ricordargli una frase del passato, riesumata dai tempi di Sergio/Manuel: il gioco ricomincia. E i due si baciano.

«La vita mia sì che è un’odissea… A me Ulisse mi fa una pippa». Esordisce così, avvolto in vestaglia nera, Manuel Fantoni nella sua mega-casa (divani color panna e cuscini rossi, tavolo da biliardo, piante lussureggianti). La sua splendida dimora è ricca di foto, con dedica, di personaggi famosi, oltre a essere popolata di bellissime ragazze. Tra queste compare anche Moana Pozzi, nuda, che emerge dalle acque di una vasca-acquario. Molte delle spassose battute di Fantoni diventano indimenticabili, come quando racconta: «E così un giorno me ne uscii di casa, me ne andai a Genova e m’imbarcai su un cargo che batteva bandiera liberiana. Che cosa trasportasse quel cargo non l’ho mai capito. In quei due anni ho fatto di tutto, mi sono drogato, sono stato con le donne, con gli uomini….». Manuel Fantoni (fot. 16) è il padrone assoluto di questo ambiente sospeso tra realtà e immaginazione; Sergio crede ingenuamente a ogni invenzione del presunto architetto. Ma il sogno è presto infranto. Arriva la polizia che arresta Cuticchia Cesare, e il nostro venditore di enciclopedie musicali si ritrova solo nella grande casa.

FOT. 16

A questo punto Versone ci confida, è il caso di dirlo, un suo segreto: come costruisce i personaggi per i suoi film. Nella camera da letto di Fantoni, davanti a uno specchio, in accappatoio nero e bianco, si osserva modulando la voce, per dare gradualmente forma e immagine al carattere, alla gestualità ma soprattutto alla voce del “suo” Manuel Fantoni. In accappatoio l’anonimo Sergio si lancia in una perfetta trasformazione/identificazione con l’uomo che lo ha affascinato, abbattendo tutte le sue paure, gli impacci, le timidezze. E naturalmente, per complicare l’intreccio, confida a Nadia di essere amico di Lucio Dalla (fot. 17).

FOT. 17

Insomma gli stilemi della commedia classica ci sono tutti: la fuga, il travestimento, l’equivoco, lo scambio di persona, le bugie, la promessa, il sogno, la sottomissione e la riscossa, l’impaccio continuo e la rivincita con la consapevolezza che solo con il sogno si può tornare a giocare. E sia Nadia che Sergio sono due sognatori, puri e genuini, a loro modo candidi e onesti. Non c’è malizia nell’identificazione di Sergio con Manuel, e ispira tenerezza

Nadia che, estasiata, ascolta le avventure di Sergio (fot. 18).

FOT. 18

Il film è tutto un fuoco d’artificio di piccole deliziose situazioni. Del resto l’impianto narrativo, gli incastri, la sceneggiatura sono perfetti ed Eleonora Giorgi costruisce il miglior personaggio di tutta la sua carriera. Verdone è perfetto nel suo doppio personaggio e oltretutto riconferma la sua grande abilità nel dirigere gli attori, siano essi protagonisti o caratteristi. Il crescendo finale è veramente grandioso: la sequenza risolutrice ambientata a casa di Manuel è orchestrata alla perfezione. Come nella più classica commedia americana, Sergio corre su e giù tra un piano e l’altro, tra una ragazza di colore che fa il bagno e la candida Nadia arrivata con spumante e pasticcini. I tempi registici e i movimenti di macchina sono impeccabili. E quando il sogno è infranto e la nuda verità è svelata (fot. 19), Verdone ci riserva comunque un finale di rivincita: anni dopo Sergio e Nadia si rivedono e il sogno può ricominciare (fot. 20): «Ti ha più chiamato Dustin Hoffman? E di Robert Redford hai notizie?». «La verità non esiste: la vita è un palcoscenico», dice al telefono Manuel Fantoni. E Nadia e Sergio vogliono con forza quel palcoscenico.

FOT. 19

FOT. 20

Il film fu un vero successo. Quattro miliardi e mezzo di incassi. Non solo. Borotalco vinse ben cinque David di Donatello: miglior film; miglior attore protagonista (Verdone); miglior attrice (Giorgi); miglior attore non protagonista (Angelo Infanti). Vennero ugualmente premiati con un David i musicisti Lucio Dalla e Fabio Liberatori, che poi vinceranno anche il Nastro D’Argento.

Mi faccio dirigere

Il 1982, l’anno di Borotalco, è assai prolifico per Verdone, che interpreta altri due film: Grand Hotel Excelsior e In viaggio con papà. Grand Hotel Excelsior è un film costruito su storie parallele che si intersecano, ed è chiaramente ispirato a Grand Hotel di Edmund Goulding (1932). Diretto da Castellano e Pipolo, il film risulta composto da una serie di sketch che si reggono completamente sugli attori che lo interpretano. Enrico Montesano è un cameriere, Adriano Celentano il padrone dell’albergo, Eleonora Giorgi una cliente, Diego Abatantuono un mago. Quanto a Verdone, è un pugile scemotto e ignorantello dal ciuffo alla Elvis che, più che al combattimento che lo attende, pensa a mangiare, a conquistare una cameriera e soprattutto a non allenarsi. Questa volta il suo accento è a metà tra il romanesco e l’umbro. In viaggio con papà, diretto da Alberto Sordi e sceneggiato da Sordi, Verdone e Rodolfo Sonego, vuole unire due differenti comicità romane: mettere a confronto due stili di recitazione. Vuole confrontare “il vecchio” con “il nuovo”. Ma i due attori sembrano essere forse troppo distanti, stilisticamente, per indole e per tempi comici. La pellicola racconta di Armando (Sordi), ricco borghese amante della bella vita e delle donne, che ha un figlio timido, impacciato, fanciullesco, imbranato e soprattutto ecologista: Cristiano (Verdone). Il personaggio interpretato da Verdone è un po’ la miscellanea del protagonista di Borotalco, del soave Mimmo di Bianco, rosso e Verdone e del figlio dei fiori di Un sacco bello, ovvero Ruggero. Padre e figlio saranno costretti a passare le vacanze insieme tra confessioni, scontri, suggerimenti, scherzi, battute. Nonostante il film non sia del tutto riuscito, vi sono comunque momenti che offrono al pubblico un sano divertimento. Decisamente positivo l’incasso al botteghino: undici miliardi di lire. Acqua e sapone

Racconta Rossella Rinaldi che nel 1983 la modella Brooke Shields è arrivata a Roma, per una vacanza, insieme alla madre che la controllava in ogni suo spostamento. Una sorta di madre manager dura e inflessibile che si preoccupava di amministrare gli affari e l’immagine della figlia. Ma soprattutto il suo compito più importante era quello di preservare la verginità della giovane modella. A quanto pare Carlo Verdone ha preso spunto da questa singolare storia per costruire il soggetto di Acqua e sapone. «Questo film», ha spiegato il regista «è un po’ una diramazione di Borotalco, forse un film meno importante, riuscito meno bene, però era l’inizio di una strada che dovevo assolutamente proseguire, per poi lasciarla al momento giusto: è stato un percorso abbastanza complicato, ma io mi sono sempre lasciato andare in quello che mi sentivo di fare. Certamente Acqua e sapone ha dei momenti gradevoli, come ad esempio tutte le sequenze in cui compare la nonna, nuovamente Elena Fabrizi, il momento in cui le insegno a rispondere al telefono… È un film che vive più di momenti isolati che di una storia» (Carlo Verdone, Un bel giorno mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana, a cura di Antonello Panero, Gremese, Roma, 1998). Se in Borotalco Sergio aveva “rubato” la voce e la vita (immaginaria) dell’avventuriero Manuel Fantoni, in Acqua e Sapone il laureato, ma impiegato come bidello, Ronaldo veste l’abito talare e assume l’identità dello stimato padre Spinetti per dare lezioni private alla giovanissima Sandy, top model americana obbligata da una madre terribile (Florinda Bolkan) a una vita di rigori e sacrifici, del tutto priva di divertimenti. Il personaggio di Verdone è, come al solito, timido, impacciato e un po’ sfortunato. Vive con la nonna: Elena Fabrizi (fot. 21). Per tirare avanti dà anche lezioni private a quattro extracomunitari e a un corazziere (fot. 22) mentre aspetta che il suo lavoro di bidello si trasformi in altro. Intanto, proprio come in Borotalco, sfrutta “il caso” per migliorare la sua

grigia esistenza.

FOT. 21

FOT. 22

Il film è molto leggero e, come ha sottolineato lo stesso Carlo Verdone, si fa apprezzare soprattutto per alcune singole scene. Come quando Rolando fa colazione con la nonna. Ha fretta. Deve partire per Milano assieme alla sua nuova allieva. Chiede all’anziana matrona dove ha messo il vestito che doveva smacchiare. La nonna candidamente risponde: «L’ho mandato in tintoria perché mi facevano male le mani». Verdone si innervosisce. Beve il latte di Elena Fabrizi. «Ma che fai? Ti sei bevuto il mio latte?» «Si perché?» E la nonna: «ci ho messo venticinque gocce di lassativo.» Primo piano del volto di Verdone tra l’incredulo e il preoccupato. Poi esce e corre in tintoria. È chiusa per lutto. Si ritrova a casa del proprietario: è morto. Tutti lo piangono. E Verdone-Rolando cosa fa? Senza farsi troppi problemi sfila i pantaloni del morto, si prende anche la giacca appesa e fugge. Una sequenza da grande commediante. Rolando è laureato ma non trova lavoro. Per il momento fa il bidello e dà ripetizione di italiano a un gruppetto di extracomunitari. Vive con la nonna. Dall’America arriva una giovanissima e affascinante modella, Sandy, che per motivi di lavoro deve passare tre mesi a Roma. L’accompagna la madre, donna più che esperta e abile nell’essere manager della figlia. Ma oltre a lavorare, Sandy a Roma ha bisogno di studiare. La scelta cade su padre Spinetti, un sacerdote colto e preparato, insegnante in un istituto diretto da suore. Un bel giorno Ronaldo, mentre è al lavoro, riceve una telefonata. Chiedono di padre Spinetti, la madre di Sandy lo vorrebbe come precettore della figlia. Ronaldo lo cerca ma lui non vuole essere disturbato: sta facendo lezione. Il ragazzo riflette un po’ e poi decide di spacciarsi per padre Spinetti. Così si veste da prete e va all’appuntamento con la madre di Sandy. La donna, non conoscendo il vero padre Spinetti, cade nella trappola e assume Rolando come precettore per la figlia Sandy con un compenso di cinquecento dollari a settimana. Durante un viaggio in aereo (la ragazza deve partecipare a una sfilata), Sandy, già dubbiosa sull’identità di padre Spinetti scopre che il suo precettore in realtà è Rolando. La ragazza ne approfitta, e confida al finto padre Spinetti che questo dovrà restare un loro segreto. Con la scusa di andare ai Musei Vaticani, Sandy e Rolando vanno a divertirsi: giocano a bowling, vanno al luna park, in pasticceria, a distendersi su un campo di grano vicino all’aereoporto per vedere gli aerei atterrare. Durante una festa notturna la madre di Sandy conosce il vero padre Spinetti. Furiosa, va da Ronaldo, lo prende a schiaffi e lo licenzia. Ma tra Rolando e Sandy oltre a una complicità è nata una simpatia. I ritmi imposti dalla madre di Sandy obbligano la ragazza a un altro servizio fotografico, ma Sandy fugge e si nasconde a casa di Rolando. I due con dolcezza realizzano il loro sogno d’amore. Ma il sogno dura poco: la ragazza scompare, ritorna per sempre in America. Scena finale: Rolando con due amici balla su un prato.

Titoli di coda.

La giovane top model è l’esordiente Natasha Hovey (volto semplice, dolce e pulito). Sandy (fot. 23) ha bisogno di Rolando per vivere una vita normale. Tra i due nasce un sentimento sincero e innocente. Nonostante la ragazza sia ben più giovane di Rolando, lei gli confida: «A te ti vedo un po’ bambino… sei un tipo che ispira un senso materno». La coppia si rende protagonista di una serie di poetiche, rigeneranti fughe nel divertimento (al bowling, al luna park, in pasticceria, a vedere gli aerei…, fot. 24).

FOT. 23

FOT. 24

Acqua e sapone è una commedia classica e di questo genere mantiene i tempi, perché innesta un meccanismo esilarante di reazioni a catena. «Esattamente come il protagonista di Borotalco», scrive Franco Montini, «anche Rolando, nonostante l’imbroglio perpetrato (fot. 25) resta un innocente, un tenero, un bravo ragazzo vittima di se stesso. È sufficiente un particolare per assolverlo: quando organizza la sua truffa, Rolando è pieno di paure e timori, e al telefono comincia a sudare abbondantemente, asciugandosi la fronte con un fazzoletto». Il finale del film è poeticamente malinconico. Ambedue, sia Sandy che Rolando, usciranno notevolmente arricchiti da questa esperienza. E il ballo finale (fot. 26) di Verdone con due suoi amici vicino al campo di grano non può che ispirare ottimismo.

FOT. 25

FOT. 26

I due carabinieri

L’idea di realizzare I due carabinieri venne a Mario Cecchi Gori, che chiamò Verdone e gli disse che avrebbe fatto il film di Natale con Enrico Montesano. Il titolo? I due carabinieri. L’attore romano si fece immediatamente conquistare dall’idea di interpretare un personaggio in divisa. E il grande produttore aveva fiutato giusto. La pellicola ottenne un enorme successo al botteghino. Correva l’anno 1984. Il soggetto del film è firmato da Leo Benvenuti e Piero Bernardi, ma su di esso interviene con entusiasmo anche Verdone che, alla fine, risulta cosceneggiatore e co-soggettista. L’attore-regista interpreta ancora una volta un personaggio timido, impacciato e solo (fot. 27); chiarificatore a riguardo è il suo monologo con l’esaminatore prima di essere arruolato.

FOT. 27

Esaminatore: «Alla domanda 39, (Quanti amici ha?), lei ha risposto Nessuno.» Verdone: « È la verità.» Esaminatore: «Le è mai capitato di rompere qualche amicizia?, Lei ha risposto Sì, perché mi hanno sempre fregato e tradito.» Verdone: «Non ci crederà ma è la verità.» Esaminatore: «Nel paragrafo “rapporti con l’altro sesso” lei alla domanda Quante relazioni ricorda di avere avuto?, ha messo una sola.» Verdone: « È la verità.» Esaminatore: «Perché vuole fare il carabiniere?» Verdone: «Per trovare una dimensione.» Il personaggio di Montesano è invece l’opposto, spavaldo e un po’ cialtrone. Ai due amici, che sono anche rivali in amore (si contendono la graziosa Rita), si aggiunge poi l’ansioso Occhipinti, interpretato da Massimo Boldi, che soffre di tachicardia e prende “un leggero ansiolitico” (fot. 28).

FOT. 28

Montesano e Verdone (tra i due ci fu molta tensione durante la lavorazione perché Montesano sosteneva di avere molte meno battute di Verdone) ricordano e citano diverse coppie celebri del grande schermo (fot. 29), a partire da Stanlio e Onlio. Montesano si produce anche in un’imitazione di Jerry Lewis.

FOT. 29

Marino Spada è un ragazzotto timido e un po’ goffo. Un po’ controvoglia si reca in Caserma per sostenere l’esame attitudinale per diventare carabiniere. Durante la prova conosce Glauco Sperandio. I due superano l’esame per il rotto della cuffia: vengono arruolati e iniziano l’addestramento. Marino e Glauco diventano amici e si divertono a fare scherzi all’ansioso Occhipinti. Marino è innamorato della bella Rita, che poi sarebbe sua cugina, ma non è corrisposto. Durante la festa seguente al giuramento, la ragazza conosce Glauco, che inizia a corteggiarla. Dopo le prime esperienze a Roma da carabinieri, Marino, Glauco e Occhipinti si ritroveranno in Piemonte: insieme partecipano a una retata che ha come obiettivo dei trafficanti di droga. Poi, nonostante la paura di Marino, non resistono alla tentazione di provare a sniffare un po’ di cocaina. Purtroppo Occhipinti muore durante il controllo di un’auto che salta in aria. Successivamente Marino scoprirà la relazione tra Glauco e Rita. L’amicizia tra i due sembra definitivamente rotta. Ma durante un viaggio in treno uno psicopatico sequestrerà dei vagoni carichi di boy scout. Su quel treno si trovano anche Marino e Glauco. Quest’ultimo si travestirà da prete e riuscirà a risolvere il sequestro, mentre Marino è nel panico totale. Tra i due torna l’amicizia e Glauco sposa Rita. Il film si chiude con il carosello dei carabinieri a cavallo a piazza di Siena a Roma.

I due protagonisti diventano eroi loro malgrado, come Sordi e Gassman in La grande Guerra (di Mario Monnicelli, 1959). Prima della loro riscossa finale in treno, e dopo la morte di Occhipinti, Glauco si pone anche la domanda: «Ma c’ha un senso fare il carabiniere?» Non è una domanda retorica, perché, poco dopo arriverà la scena del treno (fot. 30).

FOT. 30

Ciò che funziona meno in I due carabinieri sono le scene d’azione: inseguimenti, fughe, sparatorie ricordano più un prodotto televisivo che un film per il grande schermo. Mentre la pellicola è efficientissima, come scrive Franco Montini, «nel raccontare con brevità e intensità la morte del terzo carabiniere, interpretato da Boldi, che viene dilaniato dall’esplosione di un’automobile imbottita di trirolo». L’elemento femminile, rappresentato da Rita (fot. 31), permette a Verdone di riequilibrare sufficientemente la vicenda, altrimenti totalmente dominata dai due protagonisti. Le immagini finali del carosello dei carabinieri confermano che il film non è una presa in giro, bensì un omaggio all’Arma.

FOT. 31

Per affetto e amicizia

Cuori nella tormenta (1984) è il debutto registico di Enrico Oldoini, e per amicizia Verdone accetta di recitare nel film. Tra gli sceneggiatori, oltre al regista, compaiono Scola, Scalpelli e lo stesso Verdone. Il film è una sorta di remake di Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca (di Ettore Scola, 1969), come anche una parodia del melodramma sentimentale di Carlo Campogalliani del 1941 che aveva lo stesso titolo. La storia è quella del sottoufficiale di marina Walter (Carlo Verdone) e del cuoco di bordo Raffaele (Lello Arena), diventati grandi amici. I problemi nasceranno nel momento in cui i due si innamoreranno della stessa donna, che non darà retta a nessuno dei due. Il risultato è una commedia sospesa tra l’ironico e il grottesco. La quarta esperienza di Verdone esclusivamente nel ruolo di attore ha luogo invece nel 1986 per affetto verso il fratello Luca, che lo dirige in Sette chili in sette giorni. È la storia di due medici cialtroni che decidono di aprire una clinica di lusso per cure dimagranti: ovviamente l’iniziativa finirà malissimo e la clinica verrà trasformata in trattoria. Accanto a Verdone troviamo Renato Pozzetto ed Elena Fabrizi. Troppo forte

Oscar Pettinari, il protagonista di Troppo forte, è un po’ l’evoluzione del bullo Enzo di Un sacco bello, ma anche del silenzioso Pasquale di Bianco, rosso e Verdone. È un coatto degli anni Ottanta, un “edonista” (conta più l’apparire che l’essere), adora la sua moto (fot. 32) e il cinema, e come i classici personaggi di Verdone ha una grande fantasia creativa. Per uscire dal grigiore della sua esistenza quotidiana, Oscar vive anche una sorta di vita parallela fatta di avventure incredibili e mirabolanti, una realtà immaginaria che lo avvicina molto al Manuel Fantoni di Borotalco. «Sempre con Borotalco», scrive Massimo di Pietrantonio, «c’è una certa assonanza di the end, in cui la vena “malincomica” di Verdone – per ricordare la felice definizione coniata dallo scomparso critico Stefano Reggiani – emerge in tutta la sua franchezza: nel primo caso tra Sergio e Nadia rinasce la complicità quando lei gli chiede “… ti ha più chiamato Dustin Hoffman?”, mentre in Troppo forte è sempre l’artificio a dominare e ad avvolgere i due eroi tristi: in aereoporto la bella Nancy spaccia il marito per un famoso produttore, e Oscar annuncia trionfante di aver vinto la causa e incassato un lauto

risarcimento» (Massimo di Pietrantonio……). Non è vero nulla, entrambi mentono. O meglio, si costruiscono la realtà che vorrebbero vivere.

FOT. 32

Un bar semideserto di Roma. Oscar Pettinari, giubbetto in pelle senza maniche, occhiali da sole, dà lezioni su come si usa il flipper a un giovanotto intimidito. Poi esce dal bar e schizza via con la sua moto. Poco dopo lo affiancano altri amici con altre moto di grossa cilindrata. Il gruppo di centauri raggiunge Cinecittà. Tutti vengono reclutati come comparse. Tutti meno lui: Oscar è scartato perché “ha la faccia da buono”. Deluso, si mette a raccontare la sua disavventura, ma anche le sue incredibili storie a un gruppo di comparse in attesa. Ad ascoltare i suoi racconti, un po’ in disparte, anche l’avvocato Pignacorelli, che poi si mette a parlare con Oscar e lo convince a farsi difendere da lui perché ha subito troppe ingiustizie. Lo proteggerà, difenderà la sua immagine di attore, tutelerà i suoi interessi. L’avvocato convince Oscar a gettarsi con la sua moto contro la Rolls Royce del produttore del film che lo ha scartato come comparsa. È un modo, maldestro, per avere un po’ di soldi. Però le cose non vanno come dovrebbero andare, perché a farne le spese è Nancy, una giovane attrice diva del film che si sta girando. È lei alla guida della Rolls. L’avvocato fa ottenere al suo cliente un risarcimento di cinque milioni, ma a darglieli sarà la giovane attrice. Oscar si presenta nell’albergo dove alloggia Nancy, che nel frattempo scopre di non avere più la sua stanza: è senza soldi ed è stata licenziata dalla produzione. Così la ragazza si vede costretta a essere ospitata nella casa di Oscar: un’improbablile appartamento nel quartiere Ostiense di Roma, proprio davanti al gasometro. La ragazza si mette a telefonare in America e Oscar è anche costretto ad andare a fare la spesa per farla mangiare. Avvilita e triste, Nancy tenta il suicidio; il ragazzo, terrorizzato, chiama in soccorso due coinquiline che lo aiutano a salvare Nancy. Nei giorni seguenti Oscar accompagna la ragazza a fare jogging: lei corre e lui la segue in moto. Poi vanno al mare, parlano, fanno il bagno. Inaspettatamente il produttore convoca Oscar e gli offre una grossa occasione: vuole scritturarlo per una parte importante. Non solo: pagamento in contanti, quaranta milioni subito. Ma mentre i due stanno per firmare, arriva l’avvocato Pignacorelli che convince il bonario e sognatore Oscar a rifiutare i quaranta milioni, perché accettandoli rinuncerebbe al risarcimento per l’incidente. Oscar è trascinato via dall’avvocato dopo essersi visto sfilare davanti agli occhi ottanta milioni, l’ultima offerta che gli era stata fatta. In cerca di soldi per sopravvivere, Oscar accetta di partecipare a una corsa clandestina di moto organizzata dal “Murena”. Vince la corsa e intasca cinque milioni. Ma poco dopo un gruppo di motociclisti picchia Oscar e il suo amico e gli ruba la vincita. L’amico di Oscar telefona all’avvocato per chiedere aiuto. L’avvocato fa trasportare Oscar in una clinica privata dove un chirurgo amico di Pignacorelli gli leva la milza. Quando si risveglia dall’operazione è stravolto: trova l’avvocato che gli ripete che quell’intervento gli frutterà un sacco di soldi. Si arriva al processo per il risarcimento a Oscar Pettinari. L’avvocato Pignacorelli durante l’arringa perde la memoria, va fuori di testa: non si ricorda più nulla. Dice solo che vuole tornare da mamma sua. Oscar arriva in tribunale proprio mentre due carabinieri lo stanno portando via: non capisce cosa sia accaduto e corre a casa dell’avvocato. Ma l’avvocato non c’è più, ora c’è il maestro, dice il cameriere. Arrivano la zia e la mamma dell’avvocato: le donne spiegano a Oscar che Pignacorelli ha spesso delle crisi. Fa una professione per un po’, poi dimentica tutto, va a dormire e si sveglia convinto di fare un nuovo mestiere. Oscar entra e trova Pignacorelli vestito da maestro di danza. Naturalmente non lo riconosce. Oscar è sconvolto. Il ragazzo torna a casa. Trova una lettera di Nancy che gli scrive di essere partita perché un suo amico produttore gli ha offerto un lavoro. Non è vero: Nancy sta tornando in America con il mari to. Oscar corre all’aereoporto e la incontra. Anche lui mente: dice di aver vinto la causa e di aver preso un sacco di soldi. Oscar torna a Cinecittà, questa volta vestito come Indiana Jones, e ricomincia a cercare un film in lavorazione in cui fare la comparsa. Perché, come dicono i suoi amici, è “troppo forte”.

Verdone firma il soggetto di Troppo forte con Sergio Leone e Rodolfo Sonego. La sceneggiatura è sempre dello stesso trio con l’aggiunta di Alberto Sordi che, in ottima forma, recita la parte dell’avvocato.

Oscar Pettinari, coatto con attico-lavatoio (probabilmernte abusivo) davanti al gasometro dell’Ostiense, si descrive come «un carattere un po’ zingaro, un po’ peones. Penso, oppure non penso; butto giù appunti, leggo… Ho un carattere un po’ crepuscolare e pure un pochetto orso». Passa il tempo al bar, sulla moto o a Cinecittà in attesa di fare la comparsa per racimolare qualche lira: «Che faccio io? La comparsa?» dice quasi offeso, «Io so’ attore! Regolarmente iscritto al collocamento. All’occorrenza stunt per scene pericolose tipo crolli, terremoti, inabissamenti, stupri… tutto… Ti basta?!» Ma in verità Oscar è un fifone, tenero perdente e mitomane. Quante volte durante il film racconta la leggendaria “avventura” in Rhodèsia (fot. 33)? La racconta anche in piedi sul letto dell’ospedale dove finisce a causa del piano dell’avvocato Pignacorelli (fot. 34) impersonato con maestria da Alberto Sordi (e qui i tempi comici tra i due sono perfettamente armonici), che lo adesca nei viali di Cinecittà. Oscar si crede un duro ma ha la “faccia da buono”. Quando all’inizio del film arriva in moto con il codazzo di amici-coatti (tutti motorizzati) a Cinecittà è l’unico a essere scartato, proprio per quella sua faccia da bambinone, nonostante lo straccio intorno alla testa, per sentirsi un po’ Rambo e un po’ “esotico”.

FOT. 33

FOT. 34

Al povero Oscar non ne va bene una: non lo prendono come comparsa, gli amici lo prendono in giro e lo sfottono e la vendetta contro il produttore americano orchestrata dall’avvocato finisce decisamente male. Anzi, sarà di fatto la causa di tutti i suoi guai. Forse l’unico momento di riscatto per Oscar è costituito dalla vittoria nella corsa clandestina con la moto (a raccogliere i soldi per le scommesse c’è Mario Brega); ma il momento di gloria dura ben poco. Ulteriori guai arrivano anche in ambito sentimentale. Nancy, l’attrice americana, interpretata dall’esordiente Stella Hall (in verità casalinga inquieta fuggita dal marito), dopo essere stata scaricata dal produttore finirà ospite nell’improbabile appartamento di Oscar, in cui campeggia il manifesto del film Rambo (First Blood, di Ted Kotcheff, 1982). Ma che al posto del volto di Stallone ha quello di Verdone. Lui, sempre senza una lira, sarà costretto a mantenerla. Lei vuole mangiare salmone e telefona continuamente negli Stati Uniti: Oscar, completamente ammaliato, accetta tutto. Alla fine sarà proprio la bella Nancy (fot. 35) a scoprire fino in fondo il lato dolce di questo

finto Rambo e a regalargli momenti di insperato benessere, come nel caso della corsa in spiaggia (fot. 36), del bagno (lei nuda, lui con gli slip leopardati) e della “seduzione” in mezzo al mare di Ostia. Alla fine di questa avventura iniziata in un bar solitario di periferia in cui Oscar impartisce “lezioni di flipper” (il contatto con il flipper segue tutta una procedura erotica ed equilibristica divertentissima), dopo mille disavventure e peripezie, dopo le botte, la milza espiantata, i quaranta milioni che gli passano sotto il naso, Oscar vuole continuare a sognare. Eccolo quindi nuovamente a Cinecittà, vestito come Indiana Jones, che racconta ancora una volta la sua storia… E questa volta cosa gli capiterà?

FOT. 35

FOT. 36

Io e mia sorella

«Verdone è cresciuto. Ha firmato un film scritto molto bene, diretto con la giusta misura di respiro e colore, e recitato meglio di sempre per quella che sembra una perfetta consonanza tra personaggi e interpreti». Così lo scomparso Giovanni Grazzini sul «Corriere della sera» del 20 dicembre 1987, scrivendo del settimo film di Verdone: Io e mia sorella. Si tratta di una nuova svolta nella carriera di Carlo Verdone. Dalla commedia delle maschere (il suo esordio) e quella degli equivoci, Verdone approda alla commedia dei caratteri, con una più accentuata analisi dei costumi sociali dell’epoca che sta raccontando. Non solo. Per la prima volta “abbandona” Roma per una piccola città: Spoleto. Poi scrittura un’attrice come Ornella Muti per rappresentarla non come una “mangiatrice di uomini”, ma come è lei veramente: con le sue debolezze, i suoi capricci, la sua allegria. A riconferma di questa svolta emerge anche un dichiarato autobiografismo. Il protagonista del film, che si chiama guarda caso Carlo, dichiara di essere nato il 17 novembre 1952. È la stessa data di nascita di Verdone, solo posticipata di due anni. E ancora, la sorella si chiama Silvia: proprio come la sorella di Verdone. Come se non bastasse, il regista dedica il film alla madre, da poco scomparsa. Di «svolta nell’itinerario di Verdone» parla anche Morandini nel suo Dizionario dei film, aggiungendo: «La commedia ha una struttura solidamente articolata con una conclusione amara che corregge il suo sentimentalismo». Sceneggiato con Benvenuti e De Bernardi, Io e mia sorella è la storia di un uomo tra due donne. Carlo è un tranquillo, pacifico, timido, metodico, ordinato oboista. Conduce una quieta vita borghese (tutte le sere a letto alle 22.30) con la

moglie Serena, una gelida, impeccabile violoncellista interpretata da Elena Sofia Ricci. Ma la sua vita monotona sarà scossa da un terremoto con l’arrivo, il giorno del funerale della madre di Carlo, della sorella Silvia, che ha corpo e volto di Ornella Muti. L’apparizione nel piazzale davanti alla chiesa di una Fiat 125 con il portabagagli sul tetto carico di valigie sarà il presagio del tornado in arrivo. Capelli lunghi raccolti in una treccia, impermeabilone e scarpe da ginnastica: così appare, nella sua prima scena, la Muti (fot. 37).

FOT. 37

L’abilità registica di Verdone emerge soprattutto nella sequenza con cui racconta la morte della madre del protagonista. Accanto al letto della donna troviamo il medico e Carlo, che per un attimo torna nel corridoio e detta un telegramma alla sorella per informarla della gravità della malattia della madre. Nello stile di Verdone (come è accaduto con la nonna di Mimmo in Bianco, rosso e Verdone), fuori campo la mamma si spegne. Il figlio richiama per correggere il telegramma, dicendo timidamente, quasi per non voler disturbare: «volevo cambiare solo una parola, anziché “gravissima” volevo mettere “mamma deceduta”» (fot. 38). Ma non si può: deve inviare un nuovo telegramma. Ci vuole maestria per uscire con un sorriso da una situazione drammatica come la morte della madre, ci vuole tutta la lievità di Verdone.

FOT. 38

Gli equilibri del film sono saggiamente miscelati. Carlo è succube della moglie; sarà la sorella ribelle a fargli accendere quella miccia sopita che lo renderà finalmente libero e indipendente. Soprattutto grazie a Silvia il personaggio di Verdone si mostrerà in quello che è veramente. Il prezzo da pagare sarà molto alto: il matrimonio di Carlo, infatti, verrà messo a dura prova sino a essere distrutto. In un teatro si stanno tenendo le prove di un concerto. Carlo Piergentili, l’oboista, viene chiamato dal custode: la madre si è aggravata. L’uomo percorre quasi di corsa le strade di Spoleto e, arrivato a casa, si accorge della gravità delle condizioni della madre. Mentre è al telefono a dettare un telegramma per avvisare la sorella Silvia, la madre spira. Il giorno del funerale della madre, Carlo è circondato dagli amici, mentre parla fuori dalla chiesa arriva una Fiat 125 con il portabagagli carico di valige. È la sorella di Carlo. Carlo fa una vita metodica e tranquilla. Una vita borghese al fianco della moglie Serena, musicista anche lei: suona il violoncello. Silvia si piazza a casa della coppia e comincia a turbare la quiete dei due. Arrivano sempre telefonate che chiedono di lei, ma Silvia non vuole parlare con nessuno. Non solo: occupa il bagno con le sue scatole e scatoline. Una sera Carlo esce con la sorella. Lei lo trascina in discoteca a ballare. Nel locale arriva anche Rinaldo, il marito di Silvia, che lei ha lasciato da anni mentre lui la ama ancora. I due

litigano e si prendono a schiaffi. Carlo interviene, prende Silvia e la porta via. Una mattina squilla il telefono; risponde Carlo. È l’avvocato Sironi. Carlo non lo conosce, scende e incontra l’avvocato che viene da Milano. L’uomo, che ha 62 anni, moglie e due figli, è perdutamente innamorato di Silvia, con la quale ha passato i due mesi più belli della sua vita (poi lei se ne è andata senza lasciare nemmeno un biglietto). L’avvocato chiede a Carlo di aiutarlo a recuperare l’amore di Silvia. Durante un pranzo Carlo cerca di far ragionare la sorella, gli parla anche dell’avvocato. Nel discorso interviene anche Serena. Ma la storia si complica: Carlo viene convocato d’urgenza a Roma dal Consolato Ungherese, dove gli comunicano che sua sorella Silvia è sposata con un cittadino ungherese con il quale ha avuto un figlio. Rientrato a Spoleto Carlo torna a casa e trova solo la moglie, che gli dice che la sorella è partita. Carlo riesce a trovare Silvia e la riporta a casa, ricordandole che ha un figlio. Così i due salgono su un aereo e volano a Budapest, in Ungheria. Qui trovano il marito di Silvia: lei scopre che l’uomo è paralizzato e costretto su una sedia a rotelle. Non solo, scopre anche che il figlio è stato affidato a una specie di orfanotrofio. Carlo e Silvia vanno a trovare il bambino, ma scoprono che non possono riportarlo in Italia. Silvia vuole il bambino, così i due fratelli e il marito di Silvia organizzano un piano. Carlo viene convinto ad andare a cena con un’infermiera che lavora nell’orfanotrofio dove è tenuto il bambino, una donna a cui piacciono gli italiani. Carlo la corteggia e a sera tarda entra con la donna nell’istituto. I due fanno l’amore, mentre i bambini dormono. Carlo, approfittando di una scusa, prende il nipotino e lo passa dalla finestra alla sorella che attende fuori. Nonostante i controlli all’aereoporto i due riescono a riportare il bambino in Italia. All’aereoporto incontrano l’avvocato Sironi che porta via Silvia e il bambino. Così Carlo torna a Spoleto dalla moglie. Tutto sembra tornato normale. Ma un giorno squilla il citofono. È l’avvocato Sironi che gli comunica che Silvia se n’è andata con un musicista, lasciandogli suo figlio. Una sera chiama Silvia: è in Inghilterra, a Brighton. Vuole che Carlo le porti il bambino; lui ubbidisce e vola in Gran Bretagna. Arrivato nella casa dove vive Silvia trova la polizia. La sorella è nel letto ferita: un colpo di striscio. A sparare è stata la moglie del suo fidanzato. Carlo torna nella sua Spoleto, a casa dalla moglie. I due parlano e lui le dice che vorrebbe far venire la sorella a Spoleto. Serena sembra convinta, ma è solo apparenza. La moglie di Carlo se ne va e lo lascia solo. Solo con la sorella e il piccolo bambino che lo chiama già papà.

Il borghese oboista vorrebbe dare un equilibrio alla situazione in cui, suo malgrado, è precipitato. Vorrebbe che sua moglie e sua sorella andassero d’accordo, che si accettassero. Ma gli eventi gli cadono addosso uno dopo l’altro (fot. 39). Se nei precedenti film erano semplici equivoci, piccole situazioni a far scattare la molla comica, in Io e mio sorella gli eventi sono forti, duri come massi, alle volte drammatici. Fatalità, incontri con la morte, abbandoni, ripensamenti, indecisioni, minacce, tentativi di omicidio, rapimenti… In ogni situazione, come scrive Franco Montini: «il film coglie quegli aspetti ridicoli che non mancano neppure nelle circostanze peggiori». Come quando durante il colloquio con il severo giudice ungherese che deve decidere le sorti del figlio di Silvia, Verdone si lancia in una gag alla Peter Sellers, dando vita a una lotta privata con una lampada da tavola che gli si rivolta contro. Carlo per tutta la conversazione fa prima cadere la lampada, poi la rimette sul tavolo, la tiene ferma con la mano, ma questa non vuole stare in piedi: il gioco continua comicamente mentre il discorso è decisamente serio (fot. 40). Molto riuscita è anche la scena in cui un impacciato e goffo Carlo deve sedurre l’infermiera che adora gli italiani: una volta terminata la performance sessuale l’uomo chiede qualcosa di dolce perché ha consumato troppo potassio! Subito dopo, però, si torna alle corde drammatiche, e nello specifico al rapimento del nipotino.

FOT. 39

FOT. 40

Dice bene ancora Franco Montini: «Nel solco della migliore tradizione della commedia all’italiana, Io e mia sorella è un film dove gli elementi tragici e quelli comici, il dramma e l’umorismo, convivono perfettamente e, anziché disturbarsi, contribuiscono a creare un’atmosfera di credibilià e verosimiglianza anche nelle situazioni più esasperate». Compagni di scuola

Edonistici, eccessivi, esagerati, auocelebrativi, esaltati di nulla, eccessivamente mondani, consumistici: questo e molto altro sono stati gli anni Ottanta. Verdone li ha osservati e ha preso appunti: Compagni di scuola è il ritratto di quell’epoca. Verdone costruisce la sua acuta analisi di costume attraverso diciotto personaggi ben caratterizzati, regalandoci un film compatto, amaro e sincero. Il ritmo è perfettamente scandito e allo stesso tempo incontrollabile. Lasciate nel cassetto tutte le sue macchiette, Verdone affronta con coraggio e sensibilità i turbamenti e le ansie della sua generazione, giocando però sempre abilmente con la commedia. «Ho voluto anche», spiega Verdone, «rendere ancora una volta omaggio al grande cinema degli anni Settanta, che era popolato di meravigliosi caratteristi. Compagni di scuola rende omaggio anche a loro». Una Porsche rossa varca il cancello di una villa, subito dopo è la volta di una Renault 5 bianca. Nella prima auto Walter Finocchiaro, romano arricchito e un po’ volgare. Nella seconda un giovane uomo un po’ stempiato, è Fabris, che nessuno riconosce perché con gli anni è completamente cambiato. Sono quasi le 18.00 e i due uomini sono i primi ad arrivare alla festa-ritrovo preparata dalla padrona di casa Federica che, quindici anni dopo, ha voluto organizzare una rimpatriata con i vecchi compagni di scuola. Nel salone campeggia una gigantografia della classe nell’ultimo anno di liceo. E un Jukebox. A uno a uno arrivano gli ex compagni di scuola: Maria Rita, compita psicanalista nevrotica; Gloria, una ragazza madre; Margherita, giovane donna sposata con un carabiniere geloso; Isa, zitella inacidita; Carmela, donna rattristata perché non riesce ad avere figli; Valeria, donna separata in crisi, mentre il suo ex marito Luca è rimasto un romantico fermo ai tempi del liceo; Luigi, logorroico intellettualoide. Ma c’è anche un onorevole: il sottosegretario Valenzani, prepotente e rampante. Poi Giulio, che riprende con una videocamera l’incontro tra i compagni di scuola; Giovanni, ai tempi del liceo un po’ bruttino e ora graziato dagli anni e dalla natura. Tra gli ultimi ad arrivare Ciardulli, in arte Tony Brando, cialtroesco uomo di spettacolo da televisione locale che non è mai riuscito a sfondare. Appena arriva si mette una calza in testa e entra nella villa con una pistola puntandola contro i compagni di scuola, ma viene subito immobilizzato e picchiato dagli uomini di scorta dell’ex alunno diventato sottosegretario. Il suo scherzo è riuscito male. Nella villa squilla il telefono: è Piero Ruffolo, detto “er patata”, che telefona e racconta di aver sbagliato festa. Finalmente anche il timido e un po’ impacciato Piero riesce ad arrivare alla lussuosa villa di Federica. Proprio mentre entra con la sua auto, Fabris se ne sta andando.

Tra ricordi, battute e appelli della classe, come ai vecchi tempi, ognuno fa un po’ il punto sulla propria vita, su quello che ha fatto, su quello che è diventato. All’improvviso arriva un altro ex alunno, Lepore che invita gli amici a uscire. Un loro collega di scuola, Santolamazza è su una sedia a rotelle: ha avuto un brutto incidente. Piero si mette al telefono e chiama la moglie che lo aveva cercato; lei vuole sapere quando rientra a casa. Inizia la cena. Piero, che fa l’insegnante, è un po’ nervoso: dice di non riuscire a fare il respiro lungo. Soffre un po’ ma è una cosa passeggera. Lepore invita Iolanda a dare da mangiare a Santolamazza. Piero si confida con l’amica Maria Rita, dice di essere allergico alla moglie: “è saturo”. E poi ha anche smesso di fumare. Tony Brando prende in disparte il sottosegretario cercando un aiuto per riprendere a lavorare nel mondo dello spettacolo. Piero torna a fare una telefonata e gli ex compagni vogliono ascoltare. Pensano che chiami ancora la moglie; invece telefona a Cristina, una sua allieva. Gli amici ascoltano e commentano tra risate e ilarità. Finita la telefonata, Piero scopre che lo hanno ascoltato. Intanto Tony Brando cerca di vendere un quadro di Sironi a Finocchiaro, ma la cosa non riesce. La serata continua con il sottofondo delle canzoni di una volta, mentre Luca continua a fare la corte all’ex moglie Valeria. In cucina Piero beve una camomilla. Arriva il sottosegretario che convince Piero ad andare a Roma a prendere la ragazza: gli offre la sua auto con telefono e autista. Intanto alla festa degli ex liceali diventati grandi si continua a ballare, ma c’è anche chi chiacchiera, chi gioca a carte e chi canta. Intanto a Finocchiaro sono sparite quattrocento mila lire. E mentre tutti sospettano di Tony Brando, riappare Piero con la giovane Cristina. I due assistono attoniti alla scena di svestizione di Tony, che resta in mutande per dimostrare di non aver rubato le quattrocento mila lire. “Er patata” presenta la ragazza agli amici e, proprio mentre sta parlando con lei e con il sottosegretario il cameriere gli dice che al telefono c’è il suocero. La discussione telefonica si fa accesa, anche perché il suocero sospetta che sia alla festa con una ragazza. Piero è costretto a raggiungere il suocero e chiede in prestito l’auto a Federica. Intanto nella villa va via la luce e Cristina resta a parlare con il sottosegretario. In un’altra stanza si continua a giocare a carte. A perdere è Tony, che deve in totale due milioni e ottocento mila lire. Lui dice che non ha i soldi e chiede agli amici di aiutarlo dandogli un’offerta. Poco dopo nel giardino della villa Tony scopre che Santolamazza non è paralizzato: cammina benissimo e non ha bisogno di sedia a rotelle. Ha solo organizzato uno scherzo di cattivo gusto con la complicità di Lepore. Tony, furioso, lega con una corda la sedia a rotelle alla sua auto e trascina la carrozzina sino a fare cadere in terra Santolamazza. Intanto davanti allo stabilimento “La nave” ha luogo l’appuntamento tra Piero e suo suocero: in macchina ci sono anche la moglie di Piero e il figlio. Piero e il suocero parlano camminando. Intanto il bambino tenta di bucare una gomma della ruota dell’auto di Federica, mentre la moglie rimane a seno nudo urlando: «cos’ha quell’altra più di me». Piero sale in auto e torna nella villa, mentre dal cancello esce un’ambulanza: portano in ospedale Santolamazza che è rimasto ferito dopo lo scherzo di Tony. Piero si mette a chiedere a tutti dove è finita Cristina. Molti sono sulla spiaggia a fare il bagno. Piero vede uscire da una cabina il sottosegretario; si avvicina, entra e trova Cristina che si sta rivestendo. La ragazza è in lacrime: «perché mi hai lasciato sola?» domanda. Piero è furioso e prende a cazzotti il sottosegretario. Il sottosegretario se ne va. Ormai è l’alba. Tutti tornano in villa fanno la doccia, bevono il caffè. Cristina vuole andare a casa, ma Piero dice che non vuole portarla. A riaccompagnare la ragazza ci pensa Maria Rita. Federica confida ai pochi amici rimasti che non ha più una casa e nemmeno una lira: è anche stata sfrattata. Gloria, la ragazza madre, le offre di andare a vivere un po’ con lei. Prima di lasciare la villa gli amici rimasti si fanno una foto di gruppo. Sono le sei del mattino, tutte le auto escono dal giardino della villa. L’auto di Piero è rotta e viene parcheggiata fuori dalla villa in attesa di un carro attrezzi. Piero resta solo, si guarda intorno. In terra vede una sigaretta ancora accesa. Lui, che ha smesso di fumare, la raccoglie, la guarda, pensa e poi da un tiro. Fermo immagine, titoli di coda.

Classico film corale, Compagni di scuola ha il suo maggiore punto di forza nella solidità e nella verace consistenza dei molti personaggi che si alternano davanti alla macchina da presa. Si tratta di personaggi perfettamente soppesati nei gesti, nelle parole, nei tic, nel modo di parlare e di vestire, a partire dalla vaporosa padrona di casa interpretata da Nancy Brilli (fot. 41), fino agli eterni goliardoni Lepore (Maurizio Ferrini) e Santolamazza (Alessandro Benvenuti) – fot. 42 – e al “povero” Fabris, che nessuno riconosce più da quanto è cambiato e si è imbruttito con gli anni (all’inizio del film è costretto a giustificarsi: «sono dimagrito e un po’ stempiato, ma sono Fabris», fot. 43). Il risultato è un film compatto, amaro, sincero e molto duro, cmpletamente privo di tempi morti, sospeso tra dramma, poesia, psicologia e comicità. E pensare che la sceneggiatura fece infuriare Mario Cecchi Gori: «è un’autentica schifezza… E poi tutti questi personaggi!» sentenziò. Ma poi, da grande produttore quale era, a film finito andò da Verdone e gli disse: «Devo ammetterlo, mi sono sbagliato, avevi ragione tu. Carlo hai fatto un bellissimo film».

FOT. 41

FOT. 42

FOT. 43

Carlo Verdone è Piero Ruffolo, detto da tutti “er patata” (fot. 44). Si tratta di un classico personaggio verdoniano: professore in un liceo privato, marito incompreso e soprattutto vittima di un suocero becero e volgare. Ma non è la figura centrale del film. «È un jolly che», scrive Francesco Bolzoni, «scaricando in una risata la tensione emotiva che si è andata creando, spinge lo spettatore a soffermarsi con attenzione su quanto propongono i comprimari, scelti in modo da rappresentare adeguatamente il nostro dissennato costume».

FOT. 44

La storia in fondo è molto semplice. È il racconto di una festa, di una rimpatriata (fot. 45). Il tutto si svolge nello spazio di una serata, in un ambiente unico: una splendida villa di campagna. Sembra non accadere nulla ma per molti è tempo di bilanci, di riflessioni. Tempo per meditare su fallimenti e amori, su delusioni e successi. Tra musiche dei Procol Harum, Creedence Clear-water Revival e Troggs, si mangia, si beve, si parla, ci si confronta, ci si

confida. «Fra allegria e disicanto», scrive Franco Montini, «il film ha un avvio decisamente goliardico, ma piano piano assume progressivamente un tono riflessivo, malinconico e sempre più amaro, che funziona come occasione di bilancio esistenziale per una generazione di sconfitti».

FOT. 45

Verdone, che solitamente riesce ad assolvere con simpatia anche i personaggi più cialtroni, qui condanna senza appello (come un male per il Paese) il sottosegretario Valenzani, interpretato da Massimo Ghini, inquietante rappresentante di una classe politica allo sbando. Ma non solo lui. Compagni di scuola rappresenta la più esplicita analisi portata avanti dal regista sulla società italialna e i suoi vizi, un’analisi compiuta con l’attenzione di un autentico sociologo. Il bilancio, evidentemente non è dei migliori. Il bambino e il poliziotto

Bambino: «Ma che l’avete arrestata un’altra volta?» Carlo: «Sì, ma solo per accertamenti.» Bambino: «Sì va bene… Ma sei autorizzato?» Carlo: «Come non sono autorizzato. Se non sono autorizzato io chi deve essere autorizzato?!» Bambino: «Fammi vedere la tesserina!» Carlo la tira fuori dalla tasca e la porge al bambino. Bambino: «Carlo Vinciguerra… Commissario! Ah… Ma sei commissario!?» Carlo: «Sono commissario.» Bambino: «Va beh… sei in regola!» È questo il primo dialogo tra il bambino e il poliziotto (fot. 46) quando il piccolino di sei anni, capelli rossicci e pigiama a righe, appare dopo la retata guidata da Vinciguerra (fot. 47), che ha arrestato la madre e tutti i suoi amici nell’appartamento di via del Pellegrino (proprio dietro via Giulia, dove abitava realmente Verdone).

FOT. 46

FOT. 47

Con questo film, che arriva sugli schermi nel Natale del 1989, Verdone, che nel frattempo è diventato due volte papà, riflette a suo modo sul ruolo della figura paterna. Se con Aprile (1998) Nanni Moretti ha raccontato in prima persona la sua paternità, Verdone lo fa in maniera decisamente meno personale, ponendo anche il problema della difficile conciliabilità tra affetti, paternità e lavoro. Scritto con Leo Benvenuti e De Bernardi, Il bambino e il poliziotto è una commedia-fiaba. Ma la struttura è su due livelli. Da una parte la storia poliziesca, dall’altra il rapporto tra Carlo e Giulio, tra l’uomo e il bambino, fra il potenziale padre e il potenziale figlio (fot. 48).

FOT. 48

Verdone non costruisce figure macchiettistiche ma si cala nella vicenda attraverso un personaggio dai tratti chiaramente autobiografici. Carlo Vinciguerra è un commissario dalla vita tranquilla (come spesso accade nei film di Verdone). Il suo modello è Humphrey Bogart (ha il manifesto dell’attore appeso in camera) e vive una relazione con una collega: Lucia (fot. 49). Ma è più che naturale che la routine venga sconvolta da quel pestifero e sin troppo saggio bambino di sei anni, Giulio. Come sempre Carlo sarà la vittima. Lui ha mandato in galera la madre e a lui viene affidato, temporaneamente, il bambino. E piano piano il suo istinto di paternità prenderà il sopravvento.

FOT. 49

Il commissario Carlo Vinciguerra accompagnato da una poliziotta, entrambi in abiti borghesi, citofona, dando un nome falso, in un appartamento nel cuore di Roma. È sera, Carlo e la donna entrano nell’attico dove vive una giovane donna: Rosanna. C’è una festa, è il compleanno della padrona di casa. Carlo si finge un tossicodipendente che cerca di disintossicarsi. Poco dopo fa finta di sentirsi male e chiede della droga: è una scusa per avere la prova che nella casa si spaccia. Nel momento decisivo il commissario tira fuori la pistola e

urla «Polizia». Tutti vengono arrestati. Nella casa però viene trovato un bambino in pigiama. È il figlio di Rosanna; Carlo e i suoi uomini lo lasciano ai vicini di casa. Il commissario è fidanzato con Lucia; anche lei è della Polizia e lavora al commissariato, ma è sposata. La mattina successiva alla retata, mentre Carlo si sta facendo la barba suonano alla porta. È il bambino, il piccolo Giulio. Per strano che possa apparire il giudice affida il ragazzino, temporaneamente, al commissario. Carlo prima temporeggia e poi accetta. La madre inizialmente non gradisce che il figlio viva da lui. Una notte, durante un’operazione di Polizia, Carlo si ritrova Giulio dentro la volante. Il commissario telefona al giudice per capire cosa deve fare. Alla fine, nonostante le molte difficoltà, accetta di tenerlo ancora, anche perché la madre ha dato il consenso a Carlo di accudire il bambino. Spesso durante il lavoro il commissario telefona al bambino per sapere come sta, visto che ad accudirlo spesso sono le vicine di casa. Qualche tempo dopo il bambino si ammala, prende il morbillo ed è costretto a letto dalla febbre alta. Così due poliziotti accompagnano la detenuta a casa di Carlo, dandole la possibilità di andare a trovare suo figlio. Il bambino sta molto meglio. Ora chi è febbricitante e con il morbillo è Carlo. Arriva anche Lucia che trova Rosanna che sta facendo una puntura a Carlo: la donna sembra contrariata e dopo un po’ ne se va. Intanto il bambino, parlando con la madre, dice che con Carlo si trova bene. Il poliziotto quando non sa a chi lasciare il bambino lo porta con sé in commissariato. Ma il ragazzino non gli dà pace. Lucia e Carlo si incontrano al poligono di tiro. Lei gli dice che ha parlato con il marito, ha confessato di avere una relazione con Carlo e quindi da subito può andare a vivere da lui. Carlo sembre felice e allo stesso tempo preoccupato. Poco dopo lei afferma che non è vero niente. Non ha raccontato nulla al marito, era solo un’ultima prova per Carlo. Poi aggiunge che la loro è una storia finita. Carlo viene chiamato urgentemente al telefono: qualcuno ha rapito il piccolo Giulio. Il commissario va in carcere a parlare con la madre. Si organizzano posti di blocco, controlli, battute con i cani lupo. Alla fine, a tarda sera, il piccolino viene ritrovato nello yacht dei rapitori. La madre di Giulio viene rilasciata; Carlo accompagna Giulio davanti al carcere. Tutti e tre si allontanano mano nella mano. In mezzo ai due il bambino. Titoli di coda.

Se lo trova dovunque, Giulio: in camera da letto mentre fa l’amore con la fidanzata, nell’auto di servizio durante un inseguimento… Eppure Carlo non riesce a non essere affettuoso e tiene sempre con sé il bambino. Con questo film Verdone analizza il rapporto padre-bambino costruendo a questo scopo una sorta di commedia dei buoni sentimenti, che vuole fare divertire ma anche commuovere e riflettere. La morale finale è molto chiara, per i figli bisogna fare di tutto. L’aver preso in affidamento il bambino, infatti, ha sconvolto la vita di Carlo e mandato all’aria la sua relazione con Lucia; nonostante ciò, il film si chiude con un intenso finale di speranza: davanti al carcere Giulio ritrova la madre (coraggiosa e azzeccata si è rivelata la scelta dell’attrice esordiente Adriana Franceschi per questo ruolo) e i due, insieme a Carlo, possono allontanarsi insieme, in un’immagine dolce e romantica (fot. 50).

FOT. 50

Stasera a casa di Alice

«Se ripenso a Stasera a casa di Alice direi che è una storia tipicamente italiana. Mi piaceva analizzare, capire l’ipocrisia di due uomini borghesi. Secondo me il film è una vecchia commedia all’italiana riveduta e corretta». Così Verdone parlando del film. La pellicola passa con disinvoltura dal comico al patetico, dal satirico al paradossale, dal frivolo al serio. Ma la novità di questo film è un’altra, ed è legata al personaggio interpretato da Carlo Verdone.

Saverio è un borghese con casa lussuosa nel centro storico, con il telefono nell’automobile, che cita Don Sturzo e non si fa mancare nulla. È bugiardo, opportunista, ipocrita, egoista, cinico, squallido, cattivissimo. In questo film l’attore-regista non interpreta la vittima, il personaggio più debole e fragile. Perciò Stasera a casa di Alice risulta un po’ lontano dallo stile e soprattutto dalla personalità di Verdone. Attraverso questo personaggio l’autore romano vuole mettere in luce i vizi e i difetti degli italiani e le nuove volgarità germogliate sul nascere degli anni Novanta. Insomma, mettere in scena il peggio degli italiani. In una sala di doppiaggio Alice sta lavorando a un film porno. Saverio e il cognato Filippo lavorano invece in un’agenzia di viaggi religiosi che si chiama Urbi et orbi, di proprietà delle rispettive mogli: Gigliola e Caterina. Una sera Saverio torna a casa proprio mentre è in atto un dramma familiare: il marito di sua sorella ha una storia con una certa Alice e ha lasciato casa per trasferirsi a vivere in un resi dence. Saverio raggiunge il cognato e cerca di farlo ragionare, ma Filippo non vuole sentire ragioni. Saverio prende la sua auto e va in quella specie di loft in cui vive Alice. La casa (che poi è di proprietà dell’agenzia di famiglia) è piena di persone, di strani individui che ballano e suonano. Saverio trova Alice che sta giocando a carte sul letto con tre amici. Le dice di lasciare in pace Filippo, di pensare che non esiste più. Intanto la festa continua e Saverio assiste allo spogliarello di Alice, che si scambia i vestiti con un amico. Non solo per rispettare una penitenza, Alice bacia in bocca Saverio. Lui, un po’ sconvolto, esce dalla casa. Fuori trova Filippo che vuole sapere come è andato l’incontro con Alice. Ancora una volta Saverio intima al cognato di tornare a casa, e così accade, anche perché i due abitano sulle stesso pianerottolo, uno di fronte all’altro. Tutto sembra apparentemente tornato normale. Il giorno dopo Saverio torna da Alice. In casa trova anche la sorella di Alice, Valentina. L’uomo è venuto per farle andare via dall’appartamento, ma alla fine si convince a lasciarle nel loft. La sera Saverio cena a casa con la moglie, Filippo, la cognata, la loro figlia, il padre delle donne (un po’ arteriosclerotico) e un monsignore. Ma Saverio trova una scusa per lasciare quella cena e tornare a casa di Alice, dove c’è ancora una grande festa. Mentre si trova lì arriva una telefonata di Filippo alla segreteria telefonica. Saverio alza la cornetta, camuffa la voce e dice che in quella casa stanno ultimando un trasloco. Saverio continua a restare alla festa e qualche ora dopo si ritrova in camicia e mutande nel letto di lei. L’uomo si sta infatuando della donna. Il giorno dopo Saverio torna al lavoro, dove sorprende Filippo che sta prendendo dei tranquillanti. L’uomo chiede in lacrime a Saverio di dirgli dove sia Alice. Saverio va a trovare Alice in sala di doppiaggio, dove come sempre sta doppiando delle scene porno. Saverio pensa di passare una serata con la ragazza: ma lei ha un appuntamento di lavoro. Così l’uomo, a notte fonda, l’aspetta sotto casa. Alice arriva. I due salgono a casa di lei: Alice si offre a Saverio, ma lui timoroso e intimidito desiste. Saverio chiede ad Alice di registrargli dei mugolii erotici come fa al doppiaggio, inserendo nella registrazione anche il suo nome. Il giorno dopo Saverio accompagna all’aereoporto la moglie, che parte per andare a prendere un figlio in adozione. Saverio torna all’agenzia e al suo lavoro. Poi mentre accompagna Alice e la sorella di lei (gravemente malata) da una sorta di santona, in agenzia qualcuno, sostituendo la cassetta di musica classica che fa da sfondo musicale, inserisce quella con i mugolii di Alice che nomina anche Saverio. Filippo è furioso. Il giorno dopo Alice, tornata a casa, quando si sveglia trova ben ventisette messaggi nella segreteria telefonica. Sono di Saverio e Filippo: ognuno accusa l’altro. I due poi all’ora di pranzo mangiano nello stesso ristorante e discutono riguardo ad Alice. Cosa fare? Come comportarsi? Un giorno per uno? E con le famiglie? Silenzio assoluto. Quella sera è Filippo ad andare a casa di Alice. Ma nessuno si fida dell’altro. Così Filippo spia Saverio e Saverio spia Filippo. Una sera Filippo sta parlando sul letto con Alice. Dall’abbaino Saverio li osserva, ma il vetro cede e l’uomo cade dentro la stanza, sul letto. I due iniziano a picchiarsi. Alice li ferma e poi fa la proposta: spogliatevi e mettetevi a letto. Faranno l’amore in tre. C’è un certo imbarazzo da parte di Saverio e Filippo. Alla fine il letto cede. Alice si alza: Fra i tre non è accaduto nulla. Il giorno dopo Saverio va a prendere all’aereoporto la moglie e il bambino che hanno adottato e lo portano a casa. La moglie di Saverio trova una busta indirizzata a lei, dentro c’è una cassetta. La donna ascolta: sono i gemiti registrati da Alice. La donna caccia il marito da casa. Saverio va a vivere in un residence. Arriva Filippo che dice a Saverio che ha sistemato tutto: ha parlato con la moglie di lui e ora può tornare a casa (la cassetta alla moglie di Saverio l’ha fatta avere proprio Filippo). Ma anche Filippo viene buttato fuori di casa, poiché ha confessato alla moglie di avere ancora una storia con Alice. Così anche Filippo torna al residence. I due vanno al lavoro, ma ricevono una lettera che li esonera dagli incarichi. Saverio va a trovare Alice che gli confida che Valentina, malata di nervi, continua a stare male. Muore il papà di Gigliola e Caterina, così Saverio e Filippo, momentaneamente, tornano a casa. Alice intanto va al mare con la sorella che, come sempre, non parla. Alice va a fare una telefonata; quando torna sulla spiaggia Valentina non c’è più. La ragazza si è lasciata affogare. Saverio e Filippo tornano nel residence e decidono che vogliono tornare dalle loro mogli. Squilla il telefono: è Alice che li vuole vedere a casa di lei. I due arrivano e trovano l’appartamento vuoto. Nella segreteria

telefonica un messaggio della donna che dice che se ne va. Saverio e Filippo, avviliti, escono dalla porta della casa di Alice per l’ultima volta.

Muovendosi tra borghesia, cinici riccastri e ambienti clericali, il film vuole far emergere il contrasto tra sacro e profano. Come ha spiegato Verdone «Quando parlo di sacro e profano non mi riferisco solo al sesso: bensì all’attrazione-repulsione esistente fra il mondo di Saverio (Carlo Verdone) e Filippo (Sergio Castellino) (fot. 51), con le loro certezze borghesi, la loro etica cattolica, e il mondo di Alice (Ornella Muti), disordinato, folle, imprevedibile, amorale. Alice è l’attimo fuggente che vorrebbero cercare di fermare (fot. 52)». I due, fino alla comparsa di Alice grandi amici, sono sposati con due sorelle di ottima famiglia, proprietarie di un’importante agenzia di viaggi, la Urbi et Orbi: già il nome dice tutto, la società si occupa di pellegrinaggi e viaggi in luoghi sacri. Tutto tranquillo, dunque. Tutto borghesemente perfetto. La bolla dorata si romperà con l’entrata in scena dell’irrequieta Alice, «una brava Ornella Muti – scrive il Morandini–, che rende con efficacia il fascino, l’ambiguità, la fragilità del personaggio». Emblematica è la scena in cui Saverio, in giacca e cravatta, arriva per la prima volta a casa di Alice. Appena entrato si trova davanti a: un gruppo di neri in vestiti africani che suonano dei tamburi, gente che balla, una ragazza che, immobile, osserva la lavatrice, un sosia di John Belushi, una punk… (fot. 53) tanti quadrettini post-moderni di colori diversi che conducono fino allo spogliarello della disinibita Alice, di cui Saverio si infatua all’istante. Se l’ir-ruento Filippo aveva avuto il coraggio di confessare, il personaggio interpretato da Verdone, più borghese e calcolatore, tenterà di tenere tutto nascosto, venedo avvolto dalle spire di Alice e rimanendo invischiato in una serie di eventi tra il penoso e il patetico.

FOT. 51

FOT. 52

FOT. 53

«Si sorride e si ride» scrive Sauro Borelli, «con qualche amarezza, nel dipanarsi delle gag, dei goffi tic di questo piccolo mondo esoso e filisteo. Per dirla con il vecchio Sartre il microcosmo desolato di Stasera a casa di Alice mostra di essere abitato da una disgraziata genia di gente tragica, proprio perché questa stessa si palesa, in fondo, priva, spossessata ab aeterno di ogni senso del tragico». Maledetto il giorno che t’ho incontrato

L’arte del racconto si affina sempre di più in Carlo Verdone: «Se questa storia non è accaduta, io la farò accadere» diceva Karen Blixen. Verdone con Maledetto il giorno che t’ho incontrato “fa accadere” la propria storia: racconta con grazia, stile e delicatezza una vicenda di nevrosi apparentemente immaginaria, in realtà assai ricca di tratti autobiografici: «Mi sono messo in gioco. Ho raccontato di me, delle mie debolezze, delle mie nevrosi e ansie. È stato un film molto importante perché è stato come fare un’immensa, enorme terapia di autoanalisi». Il regista approfondisce temi e personaggi a lui cari, gioca magnificamente con le atmosfere e affina la scrittura. Ma soprattutto Verdone con questo film allarga ulteriormente il suo orizzonte (che già si stava ampliando nei precedenti film), senza per questo perdere contatto con il sociale, con i fenomeni di costume. Da cinque anni Bernardo vive a Milano, dove fa il critico musicale. È alla continua ricerca di notizie su Jimi Hendrix, di cui sta ultimando una biografia. In apertura di film il giovane critico è ospite di una trasmissione televisiva (Jukebox all’idrogeno) dove racconta del suo libro. Uscito dagli studi televisivi, Bernardo si avvia a piedi verso casa. Vuole dire alla fidanzata, Adriana, che è arrivato il momento di sposarsi. Ma, entrato nella sua abitazione, trova un’audiocassetta della donna: con questa registrazione lei gli comunica che ha deciso di lasciarlo, perché il loro rapporto, anche sessuale, è ormai solo minestra riscaldata. Lei, più che una fidanzata, si sente sua madre e poi ora ha trovato un altro uomo, un uomo vero. Bernardo è stravolto e si misura subito la pressione, poi si accascia sul divano. La sera va in un locale dove deve parlare con due amici del libro su

Hendrix, nonostante sia un po’ intontito dai tranquillanti. L’amico gli dice che deve andare assolutamente in Inghilterrra a intervistare con la videocamera una quindicina di musicisti che hanno conosciuto Hendrix, così da poter allegare una videocassetta al libro. Ma Bernardo si sente in difficoltà: sta male psicologicamente e non se la sente di prendere un aereo. Su un set si sta registrando una pubblicità di una marmellata. Camilla è l’attrice protagonista: è troppo agitata, nervosa e insicura e continua a sbagliare tutte le battute. Intanto Bernardo va in analisi. Dopo la prima seduta, uscito dallo studio, sul pianerottolo incontra Camilla (sta andando dal dottore anche lei). Il colloquio tra lo strizzacervelli e Camilla verte sulla fine del percorso di analisi. Ma Camilla vuole continuare la terapia, anche perché è innamorata del suo analista. Bernardo in accappattoio, allungato sul divano, registra un videomessaggio per l’ex fidanzata. Per ripicca si inventa anche una storia: confessa di avere da molto tempo una relazione con una ragazza. Ma, appena finita la registrazione, Bernardo scoppia a piangere. Camilla nella sua casa scrive una lettera allo psicanalistica, poi blocca Bernardo fuori dallo studio del medico e lo convince a lasciargli la lettera sulla scrivania. Camilla intanto aspetta per strada, è nervosa: in un bar prende una cosa calda e dentro ci mette molte gocce di tranquillante. Ma per un piccolo equivoco a bere dalla tazza della ragazza è una vecchietta. Bernardo esce dal portone dello psicanalista e conferma a Camilla di aver consegnato la lettera. La ragazza accompagna Bernardo al supermercato, dove lui ha una una sorta di mancamento nervoso. Camilla su indicazione di Bernardo gli verserà sotto la lingua quindici gocce di Serenil, un nuovo ansiolitico. Usciti dal supermercato i due incrociano un’ambulanza che sta caricando sulla lettiga la vecchietta che aveva bevuto dalla tazza di Camilla. Bernardo è in casa. Con lui c’è anche la sua ex fidanzata che sta prendendo le ultime cose da portare via. Lui la invita a restare a cena. A tavola le confida che il contenuto della videocassetta è completamente falso, si è inventato tutto e la invita a tornare con lui. Squilla il campanello. È Camilla in preda a una crisi d’ansia che chiede all’amico delle gocce di Serenil. Prese le gocce va in bagno, ma non riesce più a uscire: la porta si è incastrata. È disperata, dice che le manca l’aria, che non riesce a respirare, che soffre di claustrofobia. La ex fidanzata di Bernardo se ne va e lui è costretto ad aprire un’anta della porta con una piccola sega elettrica per fare uscire Camilla. I due si raccontano, parlano e scoprono di avere molte paure e fobie comuni, così decidono di frequentarsi per affrontare e risolvere insieme paure e difficoltà. Camilla torna a lavorare, si dedica al teatro: le prove vanno bene. Bernardo intanto si rimette a scrivere. Una sera Camilla piomba a casa di Bernardo in preda a una crisi d’ansia molto forte. In segreteria telefonica ha trovato un messaggio dell’amato analista. Bernardo la tranquillizza con quindici gocce di Serenil. La ragazza chiede all’amico di poter incontrare l’uomo a casa di Bernardo perché la sua è tutta sottosopra: la sta ridipingendo. Alla fine il buono e tenero Bernardo accetta, lascia la casa a Camilla e se ne va a casa di lei a dormire. Ma squilla il telefono: è Camilla che chiede aiuto. Bernardo corre da lei. L’incontro con lo psicanalista non è andato bene. Alla fine anche i due litigano e lui la butta fuori di casa. Bernardo vola a Londra dove comincia a videointervistare persone che hanno conosciuto Hendrix; passeggiando per la città vede un manifesto che annuncia uno spettacolo teatrale dove recita anche Camilla. La va a vedere e, calato il sipario, la va a salutare nel camerino. Così i due vanno a cena insieme e con il fidanzato di lei. Il giorno dopo Bernardo parte per la Cornovaglia in moto per proseguire le sue interviste: Camilla lo accompagna. Un vecchio e losco amico di Hendrix chiede cinquemila sterline per raccontare la terrificante verità sulla fine della rockstar. I due si sistemano in un piccolo hotel; Camilla vende un suo anello per aiutare Bernardo a raggiungere la cifra di cinquemila sterline. La mattina verso l’alba Camilla bussa alla porta della stanza dell’amico. È un po’ ansiosa. Alla fine Bernardo tira fuori un sacco pieno di medicine, tranquillanti, ansiolitici, sedativi. In camera d’albergo piomba il fidanzato di lei che sorprende i due sul letto. Fra i tre scoppia una rissa: arriva la polizia che porta Bernardo in centrale perché i poliziotti hanno trovato il bustone con tutte le medicine e pensano che si tratti di droga. Camilla è furiosa con Bernardo e lo accusa di averle distrutto la vita, ma poi lo va a trovare in centrale: lui chiede all’amica di andare a fare l’intervista-scoop per lui. Camilla accetta. L’amico di Hendrix afferma che la rockstar non si è ammazzata. Bernardo torna a Londra e in albergo trova Camilla che ha fatto, dice, l’intervista del secolo: le rivelazioni sono sconvolgenti. I due guardano la videocassetta ma dopo un po’ l’audio svanisce: Camilla nel fare l’intervista ha sbagliato qualcosa. I due litigano di nuovo e Bernardo la butta fuori dalla stanza, ma poco dopo i due si riparlano, fanno la pace e Bernardo invita Camilla al Ritz. Mentre lui si sta preparando, piomba nella stanza l’ex fidanzata, Adriana, ora pentita. I due sembrano volere ricominciare tutto da capo. Ma di colpo si apre la porta ed entra Camilla in abito da sera. È imbarazzata e quasi in lacrime. Scappa subito via. Ma da fuori ascolta la conversazione tra Bernardo e l’ex fidanzata, rimasta senza parole. Bernardo inventa scuse su scuse e alla fine sembra aver convinto Adriana. Poi però vede dalla finestra Camilla con le valige salire su un taxi: a quel punto scende di corsa e sale anche lui. Entrambi confessano di essere innamorati l’uno dell’altra e chiedono all’autista di essere portati al Ritz.

L’ulteriore crescita di Verdone è dovuta anche all’incontro con Francesca Marciano, con cui firma la sceneggiatura di questo film. «Fra me e lei si è creata una rara alchimia», spiega

Verdone, «e la sceneggiatura è venuta perfetta. Volevo fare un film sulle nevrosi, visto che io sono un nevrotico e la Buy è una nota nevrotica. Il soggetto è nato nell’arco di tre mesi e la sceneggiatura l’abbiamo scritta velocemente perché l’argomento ci piaceva proprio». E in effetti i due sono riusciti a raccontare con grande lievità ansie, fobie, nevrosi e depressioni, senza mai scadere nel patetico e nel banale, impresa sinceramente non semplice. In Maledetto il giorno che t’ho incontrato Verdone trasforma “la malattia” in qualcosa su cui ironizzare con garbo. Ma il film è riuscito in ogni suo aspetto: i tempi comici sono perfetti, i dialoghi non perdono un colpo e la direzione degli attori è impeccabile. Il valore aggiunto della pellicola è rappresentato da Margherita Buy (fot. 54 e 55), che regala a Verdone (e al pubblico) la sua migliore interpretazione di sempre nei panni della folle, nevrastenica, invadente Camilla. L’attrice è perfetta. «Sembra apparentemente astratta», scrive Franco Montini, «sfuggente e confusa, quanto più credibile e convincente. La Buy gioca sugli sguardi lievi, i toni e i ritmi vocali sconnessi, la dizione nevrotica con risultati eccellenti».

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Il regista dimostra anche grande maturità e destrezza nell’utilizzo della voce-off, che dona una notevole fluidità alla narrazione, sottolineandone anche ogni snodo decisivo, come nel caso del primo incontro tra Bernardo e Camilla: «Questo fu l’impatto con Camilla: devastante come un maremoto, martellante come un concerto degli U2 in un asilo nido. In quei venti minuti di tempesta logorroica avevo intuito solo una cosa: che era una grande consumatrice di cucina cinese, di antidepressivi, di ansiolitici». Lo spettatore capisce subito di avere a che fare con due “fuori di testa”, due svitati irresistibilmente simpatici. Due persone che si sentono accomunate da fobie e disturbi comuni, così come dalla eguale passione per i farmaci (come non citare il “magico” Serenil, fot. 56, che Bernardo fa scoprire a Camilla?). Due persone che insieme cercano di guarire, attraverso metodi e terapie non sempre ortodossi: Carlo chiude Camilla in una cassapanca per vedere quanto riesce a resistere, lei lo porta sulla ruota panoramica del luna park per superare le vertigini. Verdone ci vuole dire, come sosteneva lo psicanalista Alfred Adler, che la maggioranza della razza umana soffre di nevrosi, ansie, depressioni. Solo una piccola minoranza vive in pace: dunque è la maggioranza malata a essere «veramente sana». Ma

Verdone ci dice anche che nonostante tutti i farmaci, la via d’uscita da questo “incastro psicofarmacologico” sta principalmente in noi stessi, nella capacità di accettarci per quello che siamo.

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In perfetto stile verdoniano, il film è stracolmo di gag indimenticabili: il giramento di testa al supermercato di Bernardo, Camilla che rimane chiusa nel bagno, la gita curativa al cinema a vedere/non vedere un film horror (fot. 57), solo per citarne alcuni. La scena sul letto d’albergo con Verdone che tira fuori il sacco di plastica pieno di farmaci è incredibilmente spassosa (fot. 58). Camilla ingurgita farmaci e invita Bernardo a prendere anche lui “qualcosa”. In qualche modo è un atto d’amore.

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Il film si chiude con un soffice happy end (fot. 59), delicato e autentico, decisamente atipico se paragonato al resto della filmografia dell’autore-regista. Maledetto il giorno che t’ho incontrato rimane a tutt’oggi la pellicola più amata e più citata di Carlo Verdone. Il film si porta a casa cinque David di Donatello: miglior attore protagonista (Carlo Verdone); miglior attrice non protagonista (Elisabetta Pozzi); miglior fotografia (Danilo Desideri); miglior montaggio (Antonio Siciliano); miglior sceneggiatura (Carlo Verdone e Francesca Marciano). Si resta sopresi che la Buy non vinca il David, ma all’attrice andranno poi il Globo d’oro della stampa estera e il Ciak d’oro.

FOT. 59

Al lupo al lupo

Dopo il grande successo di Maledetto il giorno che t’ho incontrato, Verdone non prende pause e continua il percoso di “analisi personale” intrapreso con quel film, concentrandosi ora sul ricordo del proprio passato. Spiega il regista: «In questo film ho messo molto dei miei ricordi. E qua e là ho raccontato la mia famiglia. Ho concentrato in Al lupo al lupo tutti i luoghi che avevano fatto parte della mia infanzia e della mia adolescenza. I miei soggiorni estivi soprattutto. Ho fotografato i luoghi cari del mio passato. Ammetto: c’è qualcosa di autobiografico». I fratelli Verdone sono tre, proprio come i fratelli Sagonà, i protagonisti del film. Vanni è serio e intellettuale (un po’ come Luca Verdone); Gregorio è allegro e scherzoso come Carlo; la sorella Livia in piena crisi matrimoniale, sembra invece rispecchiare meno il carattere di Silvia Verdone. I tre fratelli hanno perso la madre e hanno un padre che si chiama Mario, esattamente come l’affermato critico Mario Verdone, padre del regista. Ma i riferimenti autobiografici non finiscono qui: il film si snoda tra Roma, Siena, Forte dei Marmi, la Maremma, le Alpi Apuane, tutte località frequentate abitualmente e molto legate alla memoria della famiglia Verdone. Non è un caso che il regista sia particolarmente legato a questo film, che assume quasi la valenza di un autentico “album dei ricordi”. Al lupo al lupo è una ricognizione sul tempo che non può tornare, una riflessione sul sempre difficile rapporto padre-figlio. Ma è anche la storia di tre fratelli: Vanni (Sergio Rubini, fot. 60), fine pianista che suona Erik Satie (la scelta del compositore francese potrebbe essere una sorta di citazione di Storia Immortale [Une histoire immortelle, 1968] di Orson Welles, regista amatissimo da Verdone); Gregorio (Carlo Verdone, fot. 61) giocoso dj che organizza serate nella residenza di campagna della famiglia trasformata in discoteca; Livia (Francesca Neri, fot. 62) malinconica e inquieta donna sposata indecisa se lasciare o meno il marito per andare a vivere con l’amante. Tre fratelli che si ritrovano perché il padre, intellettuale e scultore di fama, è sparito (fot. 63). Tre fratelli che in fondo non si conoscono e che covano segreti, gelosie e rancori. Tre fratelli all’apparenza diversissimi. Il loro confrontarsi, discutere, litigare, arrabbiarsi, per poi ricordare, confessarsi, scoprirsi, fare pace e rilitigare è un modo per raccontare il malessere e il disagio quotidiano che caratterizza la società contemporanea.

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Quello che ne deriva è un ritratto dell’inevitabile solitudine e dell’incomunicabilità che ci circonda, un’incomunicabilità prettamente borghese. Il giovane e occhialuto maestro Vanni deve tenere un concerto di musica classica, ma aspetta di sedersi al pianoforte perché la poltrona che ha riservato per il padre, raffinato intellettuale e artista di fama, sembra restare vuota. Il padre non arriva e alla fine Vanni si mette a suonare. È notte e Vanni si reca a casa del padre nel cuore antico di Roma, ma la sontuosa casa borghese è vuota: nessuna traccia dell’uomo, che il portiere dice di non vedere da una settimana. Vanni telefona alla sorella Livia, che vive con il marito e la figlia in una villa con piscina. Chiede notizie del padre, è preoccupato, ma la sorella lo tranquillizza. Vanni domanda alla sorella di accompagnarlo a cercare il padre, che forse si trova nella casa al mare o in quella in campagna. I due partono in auto a notte fonda. Arrivati, trovano la villa trasformata in una discoteca piena di gente. Dentro, folla, ressa e tanta musica. A guidare le danze, nei panni di un dj vestito in maniera eccentrica, è il fratello dei due: Gregorio, sorpreso di vedere Livia e Vanni. La mattina seguente Gregorio litiga con Vanni. La casa dei nonni, che lui ha trasformato in discoteca, è semi distrutta. A cercare di fare da paciere ci si mette Livia. Vanni e Livia confidano a Gregorio le preoccupazioni sulla scomparsa del padre, ma Gregorio dice di averlo visto due giorni prima nel giardino della grande casa dei nonni. E nel giardino i tre fratelli trovano la giacca del padre. Dentro, oltre a un libro di poesie, scoprono un foglio che annuncia che proprio quel giorno, a Siena, dovrà ritirare un premio più un assegno di trenta milioni. I fratelli si dividono: Livia va nella casa al mare mentre Vanni e Gregorio vanno a Siena. Ma il padre non si trova da nessuna parte, così a ritirare il premio sono i due fratelli. Vanni e Gregorio, una volta usciti, telefonano alla sorella. Lei mente, finge di essere al mare invece è da tutt’altra parte a discutere con il suo amante. Ma i due fratelli, mentre stanno andando verso la casa al mare, si accorgono che le chiavi sono in loro possesso: dunque Livia ha mentito. La loro ipotesi ha una conferma, infatti giungono alla casa al mare prima di lei. Livia arriva seguita dal suo amante, così i fratelli scoprono che la sorella ha una relazione da ben tre anni. I tre si aggirano nella grande casa, discutono e ricordano, ritrovano oggetti della loro infanzia. Vanni entra in una stanza e trova un proiettore acceso: è la conferma che il padre è passato di lì. I tre riguardano il filmino che il padre aveva visto e si rivedono bambini che giocano e corrono sulla spiaggia.

Scende la sera, i fratelli chiacchierano in allegria e mangiano insieme. Il giorno dopo vanno sulla spiaggia, ricordano, pranzano con gli amici: si rilassano. Ma alla fine Vanni litiga nuovamente con Gregorio, che successivamente va sulla spiaggia e trova il cane di papà. Livia si accorge che il cane ha un numero di telefono sul collare. Raggiungono quindi una villa (nel parco ci sono le sculture del padre) dove abita una vecchia signora raffinata e distinta, amica del papà dei tre. La signora non crede alla tesi della sparizione o del suicidio, ma dice ai tre che l’uomo è andato in un posto solitario, anche se non saprebbe dire dove. I figli, conclude la signora, devono cercare di capirlo. Gregorio riprende a fare il dj. Una sera Livia e Vanni vanno in discoteca a trovarlo: Livia trascina il timido e compassato fratello pianista a ballare. Alla fine Vanni si scatena e danza come un pazzo, anche perché la sorella gli ha dato una pasticca. Vanni, sudato e spettinato, chiede un favore al fratello: trovargli una ragazza per fare l’amore per la prima volta. Gregorio lo tranquillizza e gli manda un’amica. A notte fonda i tre fratelli vanno a fare un bagno caldo alle terme di Saturnia e durante il bagno notturno Livia dice che forse sa dove si trova loro padre. L’auto sale su per le montagne, con a bordo i tre fratelli Sagonà, fino a raggiungere una piccola casetta sui monti di Carrara. Il loro padre è proprio lì, tra i suoi ricordi e le sue sculture. Padre e figli chiacchierano, bevono il caffè. Poi il vecchio Sagonà si mette a ritrarre i tre, li osserva e disegna. Ma il disegno raffigura Livia, Vanni e Gregorio quando erano piccoli, quando erano bambini. Titoli di coda.

La famiglia Sagonà è divisa e frammentata come le tante e sontuose case che i tre fratelli andranno a rivisitare per tentare di trovare una traccia del padre scomparso. Ma come può restare unita una famiglia? Forse è questa la domanda che si pone Verdone. È un sogno irrealizzabile? I destini, i percorsi, le strade diverse che ognuno dei personaggi del film ha tracciato possono riportare a un’armonia della vita? O tale armonia risiede esclusivamente nel passato? I tre fratelli che ritrovano e rivedono (fot. 64) un filmino super8 che li ritrae bambini a giocare sulla spiaggia (Livia da piccola è impersonata dalla vera figlia del regista, tanto per aumentare il tasso di autobiografismo), per un istante tornano docili e disponibili. Sui loro volti si disegna una serenità perduta. Le incomprensioni e i dolori della vita per un attimo si dissolvono (fot. 65). Ma questa situazione è destinata a durare?

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Questa commedia sentimentale è anche un tentativo di raccontare cosa accade quando, improvvisamente, una scomparsa, un’assenza, un vuoto può mettere in moto sentimenti ed emozioni soffocate, sopite dal vivere quotidiano. La memoria e il ricordo sono il collante, come ci dimostra quel padre, allo stesso tempo duro e dolce, che alla fine del film ricorda con la matita la sua giovinezza e la fanciullezza dei suoi figli (fot. 66), generando per qualche attimo l’illusione che il passato possa prendere il posto del presente, annullando così d’un colpo le distanze smisurate che nel corso di una vita si sono instaurate tra i diversi componenti di questa famiglia, come di tante altre.

FOT. 66

Scriveva Ian Lancaster Fleming: «la vita è fango e panna: qualcosa di piuttosto futile e disperato». Ma vale la pena di essere vissuta, in fondo è una magnifica commedia. Perdiamoci di vista

Dopo l’autoanalisi di Maledetto il giorno che t’ho incontrato e la ricognizione sui ricordi e sul padre di Al lupo al lupo Verdone ritorna a osservare il mondo. Le riflessioni sviluppate nei due precedenti film sono state decisive e “liberatorie” per il regista e hanno contribuito ad affinare le sue doti di regista e di attore. Perdiamoci di vista affronta due temi molto scottanti, indubbiamente non facili da trattare, come l’handicap e la bassezza del mondo televisivo italiano. Proprio per questo Verdone, per la sceneggiatura, vuole nuovamente accanto a sé Francesca Marciano. Era inevitabile che un acuto osservatore della nostra società come Verdone affrontasse prima o poi il tema della Tv: «Molto spesso vediamo dei programmi brutti, fatti male, girati male. La televisione rovina la cultura dello spettatore: ne abbassa il livello. Poi quando la gente va al cinema chiede di vedere ciò che passa la Tv. E questo rovina il nostro cinema. Bisogna tornare a una televisione di qualità, di cultura […] Non tutti possono fare la televisione. Quando Carl Popper diceva che per andare in video ci vuole una sorta di patente aveva perfettamente ragione. Hai sbagliato? Bene, ti levo dal video e ti annullo la “patente-Tv”, poi se migliori torni a condurre programmi, a fare televisone». Il personaggio interpretato da Verdone nel film è un arrogante, odioso conduttore sempre pronto a sorridere falsamente al pubblico. È un mostro partorito da quella colossale macchina che è la società dello spettacolo televisivo, in cui se si vuole sopravvivere bisogna dimenticare

ogni pudore e ogni scrupolo morale, proprio come fa il personaggio di Giampiero Antonazzi (fot. 67, uno straordinario Aldo Maccione, caratterista “ripescato” con grande intuito da Verdone), furbo e “scafato” avventuriero della televisione. Gepy Fuxas conduce un programma strappalacrime dal titolo Terrazza italiana, che sfrutta le disgrazie altrui per costruire quella che può essere definita la “Tv del dolore”. Si sente onnipotente come molti altri uomini della Tv. Ma Gepy Fuxas è pur sempre un personaggio verdoniano: dietro questa maschera quindi si nasconde una persona mite e dolce, molto più buona degli spettatori del suo programma.

FOT. 67

Il conduttore ossessionato dagli indici di ascolto, sempre vanesio al trucco, che ostenta il suo Rolex d’oro in trasmissione (fot. 68) e va a caccia di drammi sempre più devastanti pur di mantenere alto l’audience, crollerà proprio davanti alle telecamere in diretta Tv. Sarà una ragazza disabile di nome Arianna (una più che convincente Asia Argento) a contestarlo in trasmissione e a far sciogliere il colosso d’argilla («voi qua non fate informazione: svendete i dolori della gente come se foste al supermercato […] lei è uno sciacallo […] il pubblico non è un bidone della spazzatura, noi ci meritiamo un po’ più di rispetto»). Gepy è incapace di reagire, di controbattere (fot. 69), sarà travolto dagli eventi e “annientato” dallo schermo stesso per aver rivolto all’aggressiva ragazza una frase assolutamente imperdonabile: «è molto facile prendere degli applausi quando si sta su una sedia a rotelle. Quando invece in certi casi i veri razzisti siete proprio voi!» e qui incomincia tutto un altro film.

FOT. 68

FOT. 69

Gepy Fuxas è al trucco. Sta per andare in onda con il suo programma Terrazza italiana. Il giorno dopo è nella vasca a fare il bagno, intanto parla al telefono. Il programma ha avuto una calo di ascolti. Dopo mezz’ora è in redazione e con i suoi collaboratori e cerca spunti per la nuova puntata. In seguito a svariate consultazioni lo ritroviamoin trasmissione, ad ascoltare i drammatici problemi degli invalidi al 100%. Tutto questo viene raccontato da Magda, ma Fuxas non sta ai patti concordati prima della messa in onda con la sua ospite: senza pietà, narra nei suoi dettagli più dolorosi la storia della figlia di Magda, Maddalena, che dopo un incidente é rimasta invalida e si è suicidata. Non solo, Gepy fa vedere al pubblico delle foto della ragazza. La madre è sconvolta e chiede al conduttore come ha avuto quegli scatti. Ma Gepy va avanti. A quel punto dal pubblico una ragazza interviene accusando duramente Fuxas, che si ritrova palesemente in difficoltà. Lo è ancor di più quando scopre che la ragazza, Arianna, è disabile. Il tutto finisce con un’impietosa rissa verbale, durante la quale Gepy ribatte alla ragazza attaccandola duramente. Il giorno dopo Gepy viene convocato dal capo della Tv privata dove lavora. I vertici della televisione sono indignati per il suo comportamento e la trasmissione viene cancellata. La polemica monta sui giornali e in tv, il suo comportamento ha offeso tutti i portatori di handicap. Il conduttore si trova così senza lavoro. Una sera Gepy è a cena, da solo, in un ristorante; qui incontra Giampiero Antonazzi, squallido personaggio televisivo diventato manager in una piccola rete regionale, che gli propone di lavorare per lui. Il giorno dopo Gepy è in libreria a comprare un po’ di volumi sulla televisione. Uscito, si avvia verso la sua auto, che ha parcheggiato nella zona sosta riservata alle vetture per i portatori di handicap. Vicino alla sua macchina è accostata un’altra vettura, in attesa di occupare il posto auto. Dentro quella Rover c’è Arianna: lei abita lì e quello è il suo posto. Gepy e Arianna iniziano a parlare: Arianna lo invita a cena ma Fuxas non accetta. La mattina alle nove, mentre Gepy è ancora in accappatoio, suonano alla porta: la ragazza gli ha mandato un grande mazzo di fiori, invitandolo nuovamente a cena la sera stessa. All’ora stabilita Fuxas si presenta a casa di Arianna, che vive da sola nonostante la sedia a rotelle: è un po’ impacciato, intimidito, ma i due cenano, parlano e si raccontano. Il giorno dopo Fuxas incontra nuovamente Antonazzi, che gli parla di un programma televisivo studiato apposta per lui: Galline da combattimento. Nel frattempo Gepy invita Arianna a una mostra; lei rifiuta perché il giorno seguente deve andare in Veneto per il matrimonio della sorella. Alla fine Arianna lo invita ad andare con lei. Durante il viaggio la ragazza racconta come a causa di un incidente stradale, quattro anni prima, sia rimasta paralizzata. Arianna deve andare in bagno ma Gepy, che sta guidando, supera la stazione di servizio abilitata per le persone disabili. Così in quelle successive Gepy, metro alla mano, si accorge che i bagni pubblici degli autogrill sono troppo stretti per fare entrare una carrozzina. Il viaggio termina in una lussosa villa del trevigiano. È il giorno delle nozze: si susseguono la cerimonia, il ricevimento, la festa. La sera tardi, Gepy si prepara ad andare a dormire nella camera degli ospiti, ma Ambra, la sorella ribelle della famiglia, lo trascina a ballare in un locale. Arianna li vede allontanarsi dalla finestra. I due tornano molto tardi e quando Gepy viene svegliato dalla cameriera è già pomeriggio. Fuxas chiede subito di Arianna: si sente rispondere che è partita per Roma la mattina presto. Raggiunta la ragazza in un centro per disabili, Fuxas protesta con Arianna per essere stato abbandonato nella Pianura Padana. Arianna battibecca un po’, ma alla fine si tranquillizza e confida a Gepy che l’indomani è il suo compleanno: vorrebbe andare in un posto particolare, forse lui la può aiutare. Così avviene e la sera

dopo Arianna può nuotare tutta sola nella piscina olimpionica di Roma. Unico spettatore: Gepy. Più tardi i due vanno a casa di Gepy e lui si siede sulla carrozzina: con una mossa sbagliata però la rompe. Arianna va su tutte le furie. Fuxas la mette nel suo letto e gli spiega che ha parlato con il tecnico della carrozzina e che il giorno seguente la sedia sarà riparata. Ma suonano alla porta: è Antonazzi con due giovani ragazze. Tutti hanno in mano rotoli di carta igenica, è lo sponsor per la trasmissione di Gepy. Intanto Arianna è caduta dal letto. Gepy si sente in difficoltà; alla fine riesce a mandare tutti via. Corre nella stanza dove c’è Arianna e la rimette sul letto, ma i due litigano ancora. Alla fine Arianna chiama un taxi e si fa portare a casa. Pochi giorni dopo Fuxas è in sala trucco e inizia a registrare la puntata pilota di Galline da Combattimento. Ma le troppe volgarità, il cattivo gusto, le battutacce scuotono Fuxas, che alla fine se ne va. Prende un taxi e si fa riportare a casa. Mentre è in auto sfoglia la rivista dove c’è un articolo su di lui. Ma non gli interessa quello, lo colpisce l’articolo su un medico, “Il medico che sfida l’impossibile”. Quest’uomo lavora a Praga. Arrivato a casa il portiere gli consegna una bicicletta, è un regalo di Arianna. I due si ritrovano in un parco: Gepy la invita tre giorni a Praga e Arianna accetta. I due vanno in giro per la città; Arianna trascina Gepy a una serata di musica e poesia, ma lui si addormenta. Rientrano in albergo. Hanno le stanze comunicanti e Arianna chiede di lasciare la porta aperta: poi invita Gepy a sedersi sul letto accanto a lei. La ragazza tenta di sedurlo, ma Gepy dice di non sentirsi a suo agio, anche se tiene molto a lei. Il giorno dopo porta la ragazza a fare una visita specializzata, ma lei, che non ne sapeva nulla, arrivata davanti alla clinica non vuole scendere dal taxi. È stufa di essere visitata e torturata dai medici. Alla fine accetta: l’attesa è lunga ma poi il professore la visita minuziosamente. Usciti dalla clinica, Arianna è arrabbiata con Gepy e si allontana da sola, con la sua sedia a rotelle. Lui la segue. Poi discutono, ma lei se ne va per i fatti suoi. Una delle ruote della sedia a rotelle resta incastrata in un tombino, proprio mentre sopraggiunge un tram: Arianna si mette a urlare. Il tram inizia a frenare, arriva Gepy che la prende in braccio e la salva, anche se il tram si è fermato a pochi centimetri dalla sedia a rotelle. Gepy e Arianna si baciano.

«Non ho voluto dire sciocchezze o stupidaggini nel mio film quando ho parlato di handicap. Per questo mi sono avvalso della collaborazione di Osanna Brugnoli [portavoce del Fiaba: Fondo Italiano Abbattimento Barriere Architettoniche, N.d.A.] proprio per essere reale e vero nel mio racconto». Verdone riesce a dire molto sul grave problema che affronta, e sa come dirlo, senza per questo rinunciare a lampi della sua consueta comicità. Ecco l’attore che misura con il centimetro l’altezza del citofono per capire se Arianna riuscirà o meno a suonare, o eccolo ancora in autostrada alle prese con la misurazione delle porte dei bagni (fot. 70): «per cinque centimetri niente!», dice lui, e Arianna: «non resisto più!», Gepy: «e che devo fare? Gli smuriamo le porte?!». Ma l’autore riesce anche ad andare oltre questo aspetto e a raccontare con delicatezza una complessa, profonda storia d’amore tra due persone molto diverse tra loro, tornando a soffermarsi sul confronto tra un uomo e una donna inspiegabilmente, eppure fortemente, attratti l’uno dall’altra (fot. 71).

FOT. 70

FOT. 71

Lo stile registico diventa tanto più convincente quanto più ci si allontana dalla commedia, approdando al melodramma. Le sequenze più riuscite, infatti, sono quelle in cui non trova spazio la comicità, basti ricordare la delicatezza della scena, accompagnata solo dalla musica, in cui Arianna nuota nella piscina deserta mentre Gepy, pensoso e sorridente (fot. 72), la osserva. Nonostante forse strida un po’ il mutamento di Gepy da implacabile e cattivo conduttore a bravo ragazzo succube della volitiva Arianna, Perdiamoci di vista resta un film coraggioso, un tassello importante nella filmografia dell’autore romano. Per questo film Verdone vince il David di Donatello per la miglior regia e Asia Argento quello per la migliore attrice.

FOT. 72

Viaggi di nozze

Dopo l’ambizioso Perdiamoci di vista, Verdone ritorna al suo classico film a episodi, e a una nuova serie di variazioni delle sue caricature più celebri. Particolarmente riuscito risulta il ritratto dei due coatti/ rocchettari romani (fot. 73), che con il loro tormentone «o’ famo strano?!» hanno contribuito a rendere Viaggi di nozze il successo cinematografico del Natale 1995. L’ottima accoglienza che il pubblico ha riservato a questa pellicola rappresenta un’ulteriore conferma di quanto colgano nel segno le indagini di costume che il regista sa portare avanti sulla nostra società. Del resto ormai sempre più spesso capita di sentir dire che è la realtà ad assomigliare a un film di Verdone, e non viceversa. Commentando le nozze del calciatore della Roma Francesco Totti, Aldo Grasso, sul «Corriere della sera», ha scritto: «si sono sposati dando vita a una cerimonia mediatica inconsueta e popolare, esclusiva e folcloristica, surreale e enormemente casalinga. Un film di Verdone».

FOT. 73

Tre coppie; tre matrimoni; tre storie. Il professor Raniero Cotti Borroni sposa Fosca. Durante la cerimonia il professore risponde al cellulare e si fa leggere le analisi di un paziente mentre sta per arrivare all’altare. Appena concluso il rito, Raniero porta Fosca al cimitero per salutare la prima moglie del professore, Scilla, morta cinque anni prima. Raniero e Fosca partono in treno. Durante il pranzo in vagone ristorante Fosca, già avvilita e depressa, si alza per andare in bagno e mentre percorre un vagone ha un giramento di testa e sviene. Arriva il marito che senza problemi tira il freno di emergenza e fa fermare il treno. Anche se hanno già superato Bologna la porterà nell’ospedale della città perché lì conosce un ottimo medico. La poveretta è sottoposta a una serie di esami mentre Raniero e il suo collega commentano e discutono sulle possibili diagnosi. Finalmente i due sposi arrivano a Venezia. Passano la notte, dormendo, nella loro stanza all’Hotel Danieli. Il giorno dopo Raniero porta la moglie a fare una Tac da un’amico. Raniero e Fosca fanno un giro in gondola; lei è sempre molto avvilita e depressa. La sera Raniero dona a Fosca una reliquia: una camicia da notte che apparteneva a Scilla. Raniero chiede alla moglie se ama i preliminari; se solitamente ha un orgasmo vaginale o clitorideo. Mentre i due fanno l’amore squilla il telefonino e naturalmente Raniero risponde. La mattina fanno colazione in camera. Raniero confida che la sua prima moglie si è suicidata e lui non ha capito il perché. Intanto Fosca si è buttata dalla finestra. È morta. Si svolge una breve cerimonia, ma dalla bara si sente trillare il telefonino. Raniero la fa riaprire e risponde al suo cellulare. Naturalmente è uno dei suoi pazienti. Il coatto arricchito e ignorante Ivano sposa Jessica in una cerimonia in chiesa dove risuona la chitarra. Il pranzo nuziale è un continuo trillare di cellulari, di volgarità e di discorsi vuoti. Saliti a bordo della loro nuova e fiammante Bmw decappottabile, partono per il viaggio di nozze. Ascoltano musica e poi fanno l’amore a 220 chilometri all’ora. Vengono fotografati dall’autovelox e i poliziotti restano colpiti non tanto dalla velocità della Bmw ma da quanto stavano facendo i due. Ivano e Jessica arrivano in un grande albergo di Firenze; in camera i due ballano e fanno sesso. Poi vanno in discoteca a ballare senza sosta e pause. La mattina tardi la cameriera entra nella stanza e li trova addormentati e mezzi nudi, specchi spostati e messi vicino al letto, sul quale è stata anche posizionata una videocamera. La cameriera se ne va inorridita. Ivano e Jessica sono sulla spiaggia con la loro auto; lei balla e parla con lui. Tentano di scrivere cartoline ma si annoiano subito. Cambiano zona. Vanno in una piscina con le onde artificiali e dentro la piscina fanno l’amore. Ma le cose non vanno molto bene. È la noia? L’abitudine? Così per vivacizzare il matrimonio i due a cena fingono di non conoscersi e mangiano in tavoli separati. Ivano le manda un biglietto; Jessica risponde. Poi il finto corteggiatore si sposta al tavolo di lei. Fanno un giro in auto “per conoscersi meglio”. Ma lui la bacia e lei si arrabbia: voleva il corteggiamento lungo. Squilla il cellulare di Ivano, sono gli amici che li invitano a ballare. Eccoli ancora in discoteca. Ma anche la luna di miele finisce. Jessica e Ivano vanno nella loro nuova casa nella periferia romana. Appena arrivati accendono la Tv. Si scambiano poche parole. Sono annoiati e stufi. Lui vorrebbe fare l’amore; lei non ne ha voglia, dice di sentirsi apatica e se ne va a dormire. Ivano prende un pallone e si mette a dare due calci in salotto. Il timido e buono Giovannino sposa Valeriana. La cerimonia però si dilunga perché il frate, zio dello sposo, è logorroico e divaga. Così, finita l’interminabile predica, i due novelli sposi raggiungono in tutta fretta la nave che sta per salpare e che li porterà in crociera. Ma arrivati in cabina, a Giovannino giungono subito brutte notizie: suo padre è rimasto solo perché l’infermiera albanese si è licenziata, e la portinaia Caterina non sa come fare. Giovannino è disperato; lo è anche sua moglie che lo rimprovera perché i suoi fratelli non fanno nulla. Giovannino scende dalla nave e torna a Roma. Con il padre in macchina va dal fratello, che lavora in Posta, per chiedere aiuto, ma non ottiene nulla. Allora va dalla sorella che lavora in un negozio, ma lei non si fa trovare. Così il neo sposo si trova da solo con il padre quando dovrebbe essere in viaggio di nozze. La sera lo porta a cena al ristorante, mentre la moglie cena da sola sulla nave. Più tardi Giovannino va con il padre a parlare dalla madre: nonostante i due siano divorziati da venticinque anni, la madre, con il consenso del convivente, accetta di accudire il vecchietto. Il giorno dopo Giovannino è all’aereoporto per prendere un volo e ricongiungersi con la moglie, ma proprio a Fiumicino incontra la sua metà. È disperata, è rientrata a Roma di corsa perché la sorella minaccia di suicidarsi. I due corrono a casa della sorella: la donna ha ingoiato un tubetto di sonnifero. Cercano di farla vomitare, poi la fanno camminare. Giovannino intanto cerca un volo per

recuperare il viaggio di nozze che non hanno ancora fatto. Arriva il marito di lei e rivela agli sposini che i sonniferi non sono sonniferi ma mentine. La sorella di Valeriana esce di casa. Giovannino e Valeriana sono furiosi e decidono di andarsene, ma scoprono che la sorella ha preso la loro auto con dentro i passaporti e i biglietti. Tutti e tre si mettono a cercare la sorella ragazza: la trovano in Questura. L’auto è distrutta. In Questura trovano pure il padre di Giovannino che vagava da solo per Roma. Alla fine i giovani sposi, insieme al padre di Giovannino, finiscono a Torbola Marina. Ma fare l’amore con il vecchietto che russa è molto difficile. Sono avviliti ma pensano che le cose si risolveranno. E lei propone per il prossimo Natale un viaggio ai Carabi.

Verdone rispolvera quindi la formula delle tre storie già sperimentata nei suoi due primi film, Un sacco bello e Bianco, rosso e Verdone. Ma questo non vuol dire che il regista abbia fatto un passo indietro. Viaggi di nozze è un’opera importante perché, come scrive Carlo Cozzi, «attesta la crescita di Verdone come autentico maestro della commedia di costume, come l’autore che più di tutti ha saputo rilanciare e rivitalizzare la tradizione della commedia cinematografica italiana. In Viaggi di nozze Verdone riafferma e ribadisce il potere della riflessione ironica della commedia, la sua capacità di interpretare la realtà del presente. Si scorge in ciò il segno di una coerenza fatta di fedeltà assoluta ai canoni classici della commedia di costume che attinge dall’osservazione attenta della realtà l’estro dell’esasperazione caricaturale dei caratteri e l’esemplarità grottesca del ritratto satirico». Con il passare degli anni la nostra realtà sfilacciata e confusa diventa sempre più difficile da raccontare, ma l’attoreregista romano non sembra soffrirne e con Viaggi di nozze ci ha consegnato l’allarmante ritratto di una società sempre più vuota e distratta. In questo film, scritto dal regista con Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, emerge uno dei pregi maggiori di Verdone, che «con gusto sa trattare la stupidità e la volgarità» (ha scritto Irene Bignardi su «la Repubblica» del 17 dicembre 1995). Il film segue le storie di tre coppie a partire dal momento del “sì” davanti all’altare. In tutti e tre i casi il marito è interpretato da Carlo Verdone, che si concede anche un quarto personaggio: un asfissiante frate logorroico. I mariti dipinti da Verdone sono una naturale evoluzione di personaggi creati dall’attore-regista nella prima fase della sua carriera. Il vuoto, afasico e annoiato Ivano, coatto arricchito, è la naturale evoluzione dei personaggi di Enzo di Un sacco bello e di Oscar di Troppo forte (fot. 74). Ma a metà anni Novanta, il coatto è sì cresciuto economicamente, ma ha perso allo stesso tempo creatività e fantasia, venendo travolto da una noia distruttrice e da una frenesia consumistica dettata da quella noia. Il professor Raniero Cotti Borroni, primario ospedaliero, è una variazione sul tema del petulante e pignolissimo Furio di Bianco, rosso e Verdone, solo più insopportabile, più borghese e dotato di una ferocia maniacale che rasenta il sadismo. È incapace di riconoscere i propri difetti e sembra non provare alcun tipo di rispetto nei confronti della moglie: si pensi per esempio alla sua mania di tenere sempre acceso il telefonino, anche durante il matrimonio e la prima notte di nozze («Pronto?… No, non disturba affatto, mi dica», risponde sempre). Giovannino (fot. 75) è il classico personaggio verdoniano: timido, buono, un po’ impacciato, sfortunato e spesso vittima sacrificale; insomma un bravo ragazzo che, insieme alla moglie Valeriana, pur con i suoi difetti, rappresenta quella parte di Italia buona che è sempre pronta a sacrificarsi e allo stesso tempo a sperare, con un lieve sorriso amaro sulle labbra. Anche questo personaggio parte da lontano: ricorda Leo di Un sacco bello e Mimmo di Bianco, rosso e Verdone. Le tre mogli sono interpretate da tre giovani attrici, come sempre scelte con maestria e intelligenza da Verdone: Claudia Gerini (fot. 76), Veronica Pivetti (fot. 77) e Cinzia Mascoli (fot. 78).

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Il ritratto della coppia composta da Ivano e Jessica non è solo il più divertente, è anche il più disperato e crudele. Come ha scritto Franco Montini: «Verdone coglie bene la trasformazione

del modello “boro” avvenuta in questi anni. È soprattutto il linguaggio a essere cambiato: Enzo parlava in continuazione, convinto, spesso e volentieri a torto, di dominare la parola e i suoi significati. Ivano e Jessica comunicano per monosillabi, il loro vocabolario è di una povertà sconcertante, parlano per slogan, incapaci di costruire una frase minimamente articolata». Particolarmente significativa è la conversazione tra Ivano, Jessica e due loro amici, di notte in auto: «Una volta eravamo noi che ci attaccavamo agli stilisti per avere una dritta. Poi sono stati loro a osservare noi. Ma adesso? Più nulla… Su capelli è stato detto tutto… così pure sugli orecchini, e anche sui tatuaggi. Non solo: la musica arranca, non ci sono novità vere. Insomma ci hanno clonato a tutti: come i cellulari. È stato detto e fatto tutto. E allora, noi coatti, che cosa dobbiamo fare per risultare veramente strani? Per emergere dalla massa?». Non c’è risposta a questo interrogativo. Sono pazzo di Iris Blond

Dopo l’enorme successo di Viaggi di nozze, Carlo Verdone «si riaccosta alla tendenza intimista», come scrive Cristina Bragaglia, «in Sono pazzo di Iris Blond. La ricerca del nuovo si unisce a una sotterranea sfumatura autobiografica, intorno alla quale si costruisce il singolare personaggio: Un musicista a molte facce, tradizionalista e rocchettaro, sentimentale e fracassone, anche lui alla ricerca di una sua via». Verdone dunque spiazza (si fa per dire) lo spettatore con un film dolente in cui c’è ben poco di comico. Un film tutto concentrato sui due protagonisti: Carlo Verdone e una bravissima Claudia Gerini (fot. 79). Scrive Tullio Kezich sul «Corriere della sera» del 17 dicembre 1996: «Ancora una volta, di fronte al nuovo film di Verdone, verrebbe la voglia di dire che è il suo più bello: per come si gode la cornice belga senza farsene sopraffare, per la spietata tenerezza con cui ritrae (o autoritrae) i protagonisti. Come interprete Carlo è sempre più padrone dei propri mezzi e ha acquistato a tratti un tono agro e risentito che prima non aveva. Quanto a Claudia Gerini, dopo Viaggi di nozze si conferma una bella scoperta, recita con passione e allegria, si muove a suo agio nei numeri musicali: e se avessimo un cinema in grado di contenerla, potremmo davvero dire che è nata una stella».

FOT. 79

Romeo è un musicista. La sua fidanzata, che lavora con lui, gli confessa di avere una storia con un altro componente della band. Un anno dopo Romeo va a Napoli da una maga, che gli annuncia che presto conoscerà una donna straniera che ha il nome di un fiore. Romeo si imbarca su una nave da crociera dove ha trovato lavoro come pianista: qui conosce Marguèrite, cantante belga. Sei mesi dopo Romeo e Marguèrite lavorano insieme: lei si esibisce con il suo repertorio di Jacques Brel, lui la accompagna al piano. Stanno insieme e vivono a Bruxelles con un piccolo cagnolino che la donna adora. Una sera dopo lo spettacolo Romeo chiede alla fidanzata quando cambieranno repertorio, lei per tutta risposta si mette a cantare una canzone dei Queen per strada. Rientrati a casa i vicini protestano perchè il piccolo cane di Marguèrite abbaia troppo. In casa Romeo vorrebbe mangiare della pasta ma la fidanzata dice che da quel giorno si incomincia la dieta e i due mangiano uno yogurt. È mezzanotte e Romeo porta fuori il cagnolino a fare la pipì, poi si ferma in un fast food a mangiare un panino. Qui conosce Iris, una cameriera italiana che da dieci anni vive in Belgio. Romeo continua le sue serate con Marguèrite, eseguendo sempre lo stesso repertorio. Ma si sente ormai stanco, sia di quella musica che del suo rapporto con la donna. Romeo da tempo dorme in una stanza separata e una mattina lei lo sveglia molto presto perchè vuole fare l’amore. Più tardi Romeo si presenta con

un mazzo di fiori al fast food, ma è il giorno di riposo di Iris. La trova poi nella cattedrale, dove sta facendo le prove con il coro. Si mette ad aspettare, mentre Iris ha una furiosa discussione con il maestro che dirige il coro. Iris esce dalla cattedrale con Romeo. I due passeggiano e chiacchierano, si raccontano e Romeo scopre che la ragazza scrive poesie. Romeo spiega che il loro incontro è molto importante: lui è un musicista e ha una buona esperienza, mentre Iris ha un’ottima voce. Romeo scriverà della musica per trasformare le poesie di lei in canzoni, affitterà una sala di registrazione, incideranno e poi si vedrà. È sera e Romeo è in casa al telefono con Iris, che gli legge altre poesie. Sente dei rumori: sta rientrando Marguèrite. E allora, nonostante piova, va a parlare al telefono sul balconcino. Quando lei appare Romeo fa cadere il telefono e si mette a ballare sotto la pioggia. Marguèrite lo guarda stupita, Romeo la invita a ballare sotto l’acqua. Quello sarà il numero di chiusura delle loro serate. Intanto Romeo porta Iris in sala di registrazione a incidere le prime canzoni. Usciti dallo studio vengono visti da Marguerite che stava spiando Romeo. La sera Romeo telefona a Iris (ha una mano fasciata e dei graffi in faccia), dice che ha chiuso il suo rapporto, e che sta cercando un residence; lei lo invita ad andare a casa sua. Quando arriva Iris lo sistema su un divano letto, anche perchè lei ha già un ospite. La mattina Iris sveglia Romeo: è contenta dell’incontro con lui. «Ho fatto progetti per noi», dice lei. Per questo lo invita a vivere a casa sua. Però è necessario che i due si accordino su un aspetto, spiega Iris: loro due non dovranno mai fare sesso per salvaguardare la loro unione artistica. Così iniziano a lavorare in casa: Romeo alle tastiere e Iris alla voce. Registrano brani, ne provano di nuovi, cercano sonorità e tonalità, oltre a un nome per il loro gruppo. Le canzoni proposte piacciono e i due vanno in cerca di abbigliamenti “particolari” per andare in scena. Non solo, Iris si taglia i capelli corti e se li tinge di scuro e obbliga anche Romeo a una ritoccata. La sera con l’auto vanno fuori Bruxelles per il loro primo concerto: si fermano per fare benzina, ma si accorgono di non avere soldi, così si fanno dare un passaggio da un camionista e finiscono per arrivare in ritardo. Finalmente Iris Blond and the Freezer si esibiscono sul palco: i due hanno un’ottima accoglienza e i concerti si ripetono. Una sera in camerino Iris dice a Romeo che “quello che decide della musica in Europa” vuole parlare con lei. Romeo si sente escluso ed è anche un po’ geloso: se ne va a cena da solo, mentre Iris si reca in albergo a incontrare il produttore musicale. Iris telefona a Romeo e gli dice di stare tranquillo perché il produttore è gay, ma Romeo non ci crede. I due si ritrovano a casa: lei lo seduce e lo bacia. Romeo e Iris fanno l’amore. Subito dopo, lui le dice di essere innamorato di lei. Iris gli spiega che il discografico le ha offerto una cosa importante. Un disco da fare in Francia, una tournée in Europa e tanti soldi. Ma purtroppo il discografico vuole solo lei: Romeo non interessa ai discografici perché, dicono, è démodé. I due litigano, Romeo si sente tradito. Iris fa la valigia e se ne va a vivere dal padre, in un paesino vicino Bruxelles. Romeo resta solo e va a mangiare un panino in un parco. Tornato a casa trova una lettera di Marguèrite: il cane è morto. Romeo accompagna la ex fidanzata al funerale del cagnolino, che viene sepolto in un cimitero per cani, poi va a trovare il padre di Iris, Vincenzo, a Charleroi. L’uomo dice che Iris in quella casa non ci va mai, ma soprattutto Vincenzo riconosce in Romeo il cantante del Cantagiro ’72, ’73, esperienza che l’artista preferirebbe non ricordare: all’epoca portava i capelli lunghi biondi e cantava Bella senza trucco. L’uomo tira fuori il 45giri e se lo fa autografare. Non solo: Vincenzo porta Romeo a una serata di italiani a cui partecipa anche Mino Reitano. Così Romeo sale sul palco di un triste dancing per accompagnare alle tastiere Reitano. Tornato a casa, Romeo trova nella segreteria un messaggio di Iris che lo avvisa della sua partenza per Parigi la mattina seguente. Romeo corre alla stazione. Davanti al vagone i due si guardano. Iris gli chiede di andare con lei, ma Romeo dice di no. Lui la implora di non partire, ma il treno lascia la stazione con Iris a bordo e Romeo resta solo. Così si rimette nei panni di The Freezer e torna a esibirsi, naturalmente tutto solo.

Con Sono pazzo di Iris Blond Verdone cerca di fare qualcosa di assolutamente nuovo: «questa è una commedia europea», mi disse durante la lavorazione del film. Ma gli elementi di novità si fondono con il tipico retroterra verdoniano, soprattutto nella caratterizzazione del personaggio di Romeo. «Ho rischiato, volevo una commedia più sommessa, dai toni malinconici. E poi mi aveva molto colpito il Belgio: così grigio, così piovoso. Era uno sfondo singolare per far navigare una commedia. Anche perché uscire dall’Italia ti aiuta a scrivere qualcosa di diverso e ti aiuta anche a recitare in maniera diversa». Il film si apre, prima dei titoli di testa con una deliziosa scenetta comica della durata di due minuti. Verdone è solo sullo schermo; la sua fidanzata e un componente del suo gruppo musicale gli confessano di avere una relazione. La macchina da presa continua a inquadrare solo Verdone/Romeo. I due traditori sono fuori campo, di loro sentiamo le voci. Vediamo solo per due volte la mano e il braccio tatuato dell’uomo che porge l’accendino a Romeo (fot. 80). Del resto il regista ha una sorta di predilezione per i particolari anatomici: all’inizio di Borotalco si sofferma sui piedi (della Giorgi e suoi); in Acqua e sapone è la volta delle mani (più esattamente la mano di Verdone); in Idue carabinieri è la nuca di Carlo mentre gli tagliano

i capelli; in Compagni di scuola le mani e il primo piano del volto (occhi e naso) di Nancy Brilli.

FOT. 80

Ancora una volta il personaggio interpretato dall’attore-regista romano è un uomo indeciso, debole, una “eterna vittima” che si adatta, che accetta di tutto. La fine è sempre la stessa, l’amore non lo salva. Il “rapporto” si frantuma e si delinea la sconfitta. Certo, l’incontro con l’avvenente Iris svecchierà l’anonimo e rattristato Romeo, fot. 81 (già schiacciato dalla precedente relazione), che assumerà quell’aspetto da musicista electrorock che tanto ricorda lo “stile Kraftwerk” (questo fa tornare in mente il gruppo musicale ritratto, un anno dopo, dai fratelli Coen in quel capolavoro che è Il grande Lebowsky). Ma alla fine il musicista si ritroverà al punto di partenza, nuovamente solo, questa volta tutto vestito di bianco, nel ruolo che più gli si addice: quello di cantautore semi sconosciuto. Verdone riesce a raccontare con straordinaria efficacia il sentimento della delusione. Di tutt’altro segno è il personaggio costruito per la Gerini, che in questo film mostra le sue doti di attrice scoppiettante e incredibilmente duttile, capace di mostrare tutte le sue corde: sa essere comica, ironica, spietata, amara, irresponsabile, dolce. Verdone la lascia lavorare, le porge la battuta tanto da essere, in molte occasioni, una specie di spalla.

FOT. 81

E da attento “osservatore” qual è, il regista racconta splendidamente il clima degli emigranti italiani in Belgio, grazie alla sequenza della squallida e tristissima festa dove Romeo viene trascinato dal padre di Iris (fot. 82, dove Reitano interpreta se stesso), l’uomo che in precedenza l’aveva accolto in tuta da ginnastica e ciabatte. Con pochi tratti decisi l’autore

descrive quel clima di nostalgia verso un’Italia che esiste ormai solo nei ricordi di chi da tempo vive lontano, non nella realtà.

FOT. 82

Gallo Cedrone

L’Italia in pochi anni ha subito una mutazione sociale e culturale rapidissima. Nei vent’anni che vanno dalla fine degli anni Settanta alla fine dei Novanta il Paese si è reso protagonista di tanti e tali cambiamenti che, un secolo fa, sarebbero avvenuti in cinquanta o sessant’anni. L’Italia si è impoverita culturalmente, si è drammaticamente assuefatta al cattivo gusto, alla volgarità, alla totale mancanza di senso etico e civile. «In Italia sono tollerate cose che in un paese come l’Inghilterra sarebbero impensabili» diceva Carlo Verdone in un’intervista a «l’Espresso» nel 1998, dopo l’uscita di Gallo Cedrone. Con questo film il regista ha dipinto gli italiani degli anni Novanta. Ha raccontato la parte d’Italia più volgare, sciatta, incarognita, impuntita e vuota, attraverso una galleria di personaggi che esplicitamente omaggia la tradizione della commedia all’italiana e i suoi “mostri”. Certo, Gallo Cedrone è solo un film, ma il cinema, come le altre arti, per fortuna ogni tanto riesce a svolgere una funzione anticipatrice o di denuncia dello stato delle cose. Forse per questo buona parte della critica all’epoca si scagliò contro il film. Forse perché Gallo Cedrone prende in giro la volgarità nella quale siamo tutti impantanati, anche se spesso non ce ne accorgiamo. «Guardando i personaggi del film», spiegava sempre Verdone su «l’Espresso», «ognuno di noi riconosce, in un certo atteggiamento, in un certo modo di dire, il vicino di casa, un parente, un fratello, il tifoso allo stadio, mai se stesso. Non c’è autocritica, c’è sempre critica verso gli altri. Così alla fine rischiamo una grande omologazione in un mondo di cafoni». Ha scritto saggiamente Aldo Fittante: «Verdone ha il coraggio di scaraventare addosso al pubblico di massa il Nulla inquietante dell’Italia delle Apparenze… Capaci di celare il Vacuo, la Mancanza, la Volgarità dei nostri anni ’90». Deserto, dune. Poi una cittadina orientale, il mercato. Un uomo apre un giornale arabo: si vede la foto di Armando Feroci. Roma, redazione di Televideo. Ultim’ora delle 13.37: «Armando Feroci, il volontario della Croce Rossa Italiana rapito cinque giorni fa a Zamar-Sherif nel Mirastan da un gruppo integralista islamico, è stato condannato a morte». Una signora da un parrucchiere legge «il Tempo»: in prima pagina la notizia e la foto di Feroci. Una ragazza che lavora dal parrucchiere dice che quel volto lo ha già visto e inizia a ricordare. Si vede la ragazza che cammina, è seguita da un’auto sportiva, una spider gialla: dentro c’è Armano Feroci, con indosso una camicia colorata e sul viso basette stravaganti. L’uomo tenta di abbordare la ragazza, ma lei non risponde. Un bar di Roma. Gente che gioca a carte o a biliardo. La Tv è accesa: viene trasmesso il Tg1; Maria Luisa Busi parla del caso Feroci. I coattoni del bar si fermano per ascoltare: si sta facendo tutto il possibile per liberarlo, così dice il console in contatto telefonico dalla Farnesina. Per gli amici del bar Armando è colpevole, e ricordano una sera di qualche tempo prima. Stesso bar, tutti davanti al televisore: Feroci sta partecipando a un quiz televisivo, sta vincendo venticinque milioni. La sua specialità è riconoscere i rombi dei motori delle auto. Tenta di raddoppiare e passa a cinquanta milioni, ma poi perde. Una signora in autobus legge «Il Messaggero» con notizia e foto di Feroci. Ricorda quando passeggiava per la periferia romana ed è stata abbordata da un coatto in spider dalle battute un po’ volgari. Feroci naturalmente. Interno di una casa. Una giornalista fuori campo chiede: «Signora Feroci ci può parlare di suo marito?» «Il

mio ex marito» risponde la donna. «E il mio ex padre» aggiunge una ragazza accanto con un bambino tra le braccia. La signora Feroci afferma che il giorno più bello con Armando è stato quando si sono separati (si vede Feroci con la moglie davanti al giudice). E così iniziano i ricordi. Ecco Feroci con i capelli lunghi e occhiali da sole mostrare una specie di appartamento semi-distrutto a una ragazza che poi diventerà sua moglie. Lui è un improbabile agente immobiliare. Naturalmente lo stabile è inagibile; l’uomo tenta di sedurla e la bacia. Tra Armando e Marcella scoppia l’amore. Qualche tempo dopo. Lei incinta sta salendo le scale, la porta della loro casa è aperta. Entra: tutto è sottosopra, in salotto Armando è disteso in terra con del sangue sul viso. La donna si mette a urlare, ma era solo uno scherzo organizzato da Armando: lei si sente male e finisce in ospedale. Anche la figlia ricorda il papà Feroci: «Quando ero piccola mi faceva divertire molto» dice alla giornalista. Si vede Armando vestito come Elvis Presley in sella a una super moto; arriva sua figlia Morena e i due partono in moto. Vanno a Ostia, a un raduno di fans di Elvis. Feroci porta una notizia clamorosa: lui sarebbe il figlio naturale del celebre cantante, ma nessuno crede alle sue improbabili prove. Si ritorna al presente, Unità di crisi della Farnesina. Una giovane donna chiede notizie di Feroci. Quasi contemporaneamente arriva una foto del sequestrato con il volto un po’ tumefatto; ma in mano ha il giornale arabo del giorno prima, quindi è vivo. Alla Farnesina sono preoccupati. Nuovo salto nel passato. In una lussuosa villa vive il fratello di Armando, Franco, noto dentista sposato con Martina, una giovane ragazza non vedente. Arriva Armando con una lucente Alfa Romeo spider e i capelli tinti di biondo. Franco ha invitato a cena il fratello perché è l’anniversario della morte del loro padre, ma naturalmente Armando non ricorda. Cenano in giardino serviti dalla cameriera. Dopo cena Franco propone un lavoro al fratello: fare l’autista a un assessore. Per tutta risposta Armando dice a Franco che forse loro padre era anche gay. Tutti vanno a dormire. Armando è in camera, entra Martina per dirgli che si è molto divertita a cenare anche con lui, perché in quella casa non si ride mai. La mattina dopo Armando si mette a girare per la villa e in una stanza trova Martina da sola, ancora addormentata. Si mette il profumo e un paio di occhiali del fratello e si infila nel letto con Martina. Lei capisce che al suo fianco non c’è il marito bensì Armando, ma non si scompone: i due fanno l’amore. Martina scappa con Armando. Si ritorna al presente: Roma, piazza del Pantheon. Un banchetto con le foto di Armando Feroci e un grande cartello: “No alla pena di morte. Feroci libero”. Salto indietro. Armando e Martina sono arrivati in un convento di suore di clausura. Qui vive la zia di Armando, lui le chiede tre milioni perchè deve essere operato: ha bisogno di un rene. Naturalmente mente. Alla fine la suora-zia consegna una busta con tutto quello che ha a Martina. I due si mettono in viaggio con l’auto. Armando porta Martina quasi in cima all’Etna, mentre lei vuole andare a Pisa, Piazza dei Miracoli. Lui la imbroglia, la porta in un campo di calcio e le descrive la torre come se ritrovassero a Pisa. La sera sono in albergo e Martina confida ad Armando che ha capito di essere stata presa in giro. Armando scopre che la camera costa troppo, escono dalla stanza e se ne vanno. I due sono senza soldi: così Armando la porta in un locale veneto a fare lo spogliarello per racimolare del denaro. Ma Martina cade dal palco. I due finiscono in un alberghetto, Armando va nella hall e telefona al fratello. Ma Franco riattacca. Il giorno dopo Armando porta Martina in un grande spiazzo in campagna e la fa guidare, ma lei, che è cieca, lo investe. Armando finisce all’ospedale; lì trovano anche Franco che quasi con la forza si porta via Martina. Armando è in terapia intensiva. Lo vanno a trovare un gruppo di amici del bar e gli fanno sentire i rombi dei motori delle auto a lui tanto care. Alla fine Armando si risveglia, grazie anche alle preghiere di un’infermiera. Una volta ristabilito, Armando, grazie all’infermiera, si arruola nei volontari della Croce Rossa. Si ritorna al presente. Il Tg1 annuncia la liberazione di Armando Feroci. Alla Farnesina sono tutti contenti. Alla fine si scopre come mai Feroci è stato rapito e condannato a morte. È una triste verità: nel deserto Feroci ha corteggiato una donna araba e le ha abbassato il velo scoprendole il volto, e subito dopo è stato catturato da un gruppo di arabi. Al ministero sono avviliti e attoniti. Due anni dopo Armando Feroci torna a far parlare di sé: si è buttato in politica e sta parlando a un comizio. Tra i suo progetti per migliorare Roma: «asfaltare il Tevere» per migliorare il traffico e l’inquinamento. Applausi.

Armando Feroci vive in un mondo di nulla. La sua vita è costellata dal nulla, dall’accumulo consumistico di chi deve colmare il suo immenso vuoto interiore. Il personaggio che Verdone ci presenta è la desolante raffigurazione di un certo tipo di italiano, frutto di anni e anni di decadimento culturale. Risultato che si riassume molto bene in un pensiero che Pier Paolo Pasolini ha esplicitato nei primi anni Settanta: «stiamo andando verso una cultura unica. Verso un futuro dove ci faranno dimenticare il passato e non ci faranno pensare al futuro e dove passeremo il tempo a comprare, comprare… comprare». Feroci è “l’uomo medio” della fine degli anni Novanta che incarna, in parte, l’altra grande preveggenza pasoliniana, che il regista-poeta ha riassunto nell’invettiva contro “l’uomo medio” pronunciata da Orson Welles (doppiato da Giorgio Bassani) in La ricotta: «Lei sa cosa è un uomo medio? L’uomo medio è un mostro! Un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista!». E Feroci è anche questo. Non ha rispetto per

nulla. Ha un livello di cultura pari allo zero. È un approfittatore, un uomo senza personalità che si adatta alla situazione che ha davanti. Armando Feroci è figlio dei bullo di Un Sacco bello, del coatto di Troppo forte e dell’annoiato Ivano di Viaggi di Nozze. Ma è un figlio cattivo, spietato, incarognito: mai Enzo o Oscar o Ivano sarebbero arrivati alle sue meschinerie, alle sue furbe bugie. Questo “uomo medio” creato da Verdone si inventa professioni improbabili, partecipa a quiz televisivi (fot. 83), affitta case sotto sequestro perché inagibili, cerca di convincere un gruppo di fan di Elvis di essere figlio del grande rocker (fot. 84), si aggira per Roma su auto sportive cercando di abbordare una donna dietro l’altra (fot. 85), fa scherzi di cattivo gusto. Soprattutto, è perennemente alla ricerca di soldi e per giungere a essi non si pone alcun freno etico-morale (arriva a convincere la moglie del fratello, non vedente, a spogliarsi in un infimo locale di lap dance). E alla fine, visto che ha capito che in Italia si può fare veramente di tutto, basta improvvisare, Feroci si butta in politica e tiene un comizio in stile Forza Italia (fot. 86).

FOT. 83

FOT. 84

FOT. 85

FOT. 86

Da lodare la struttura ricercata del film (per la sceneggiatura il regista si è fatto affiancare da Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi e Pasquale Plastino): la storia del protagonista viene raccontata da parenti, amici, conoscenti fino ad arrivare alla stretta conclusiva, al momento in cui finalmente veniamo a sapere per quale motivo Feroci è stato rapito (da ignorante irrispettoso ha abbassato il velo a una donna araba durante l’ennesimo tentativo di abbordaggio, fot. 87).

FOT. 87

La pellicola, del 1998, ottine un grandissimo successo di pubblico e incassa circa nove miloni di euro. Ancora una volta Verdone è riuscito a far divertire il grande pubblico, spingendolo anche a ragionare un po’ su ciò che di spaventoso accade ogni giorno accanto a noi. C’era un cinese in coma

«È una storia che vuole tornare alle fonti classiche del cinema», spiega Verdone, «di una commedia che sapeva fondere la risata all’amarezza, la follia al patetico. È la storia di un agente di attori di cabaret e del suo cabarettista di punta, Beppe Fiorello, un attore fantastico, davvero. L’ho scritto con Pasquale Plastino e Giovanni Veronesi, ma credo che se non avessi visto Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli non sarei riuscito a fare questo film». C’era un cinese in coma “spiazza” un po’ i fan verdoniani, ma il film era nella naturale evoluzione della carriera dell’attore-regista. Verdone ha voluto sviluppare una storia a cui teneva, «costruita su diversi livelli, fatta di più atmosfere e temi, dalla famiglia alla solitudine, dall’amicizia al momento del successo, una storia anche molto malinconica. Volevo fare un film sul successo facile, sulla solitudine all’interno della famiglia, a tratti patetico ma con un finale non triste, pieno di piccoli significati, direi quasi liberatorio. L’amarezza di questa pellicola è costruttiva, riflette esperienze che si vivono nella vita, permette al pubblico di ritrovarsi in cose che conosce. Non mi interessa più quanta gente esce dal cinema ma come, e credo che su questo aspetto dovremmo lavorarare per far riprendere il cinema italiano». Il film si apre con un omaggio a I Vitelloni (1953) di Federico Fellini. La triste e patetica cerimonia della premiazione della “Miss regina di cuori” con una squallida cerimonia allestita sulla spiaggia, che sarà disturbata da un temporale (fot. 88), ricorda molto l’inizio della pellicola di Fellini, tanto amata da Verdone. Nonostante il film non abbia ricevuto una buona

accoglienza, l’interpretazione di Verdone rimane tra le più riuscite della sua carriera. Scrive Lietta Tornabuoni su «La Stampa» il 29 febbraio del 2000: «Verdone comico e malinconico è portatore di rimpianti, di sussulti di vitalità, di tristezze, di divertimento». E Tullio Kezich sul «Corriere della sera» (4 marzo 2000): «Apprezzabile soprattutto per la stupenda interpretazione del protagonista, che fa simpatia per quel suo tenersi in bilico fra il grottesco e la commozione, nella seconda parte il film risulta prevedibile e non ben motivato. Un altro limite è costituito dalla prestazione di Beppe Fiorello, disinvolto ma ancora immaturo per esprimere la complessità di un personaggio bello e dannato: per tener testa all’uomo-orchestra Verdone ci voleva un Tony Curtis d’epoca».

FOT. 88

Ercole Preziosi, agente-impresario di artisti, cabarettisti, maghi e ballerine, ha organizzato su una spiaggia la premiazione di “Miss regina di cuori”. Dal mare tira un grande vento, poi inizia a diluviare. Ma Preziosi continua a presentare la serata, anche se piove sempre più forte. Il pubblico si allontana, restano poche persone, ma Preziosi svela comunque le vincitrici. Una pernacchia disturba la premiazione; a quel punto il presentatore manda tutti a quel paese e se ne va. Dopo la cerimonia Ercole viene rimproverato per la sua “fuga”. L’impresario torna a Roma in auto; alla guida c’è il suo autista Nicola, che gli racconta la barzelletta del cinese in coma. Arrivano a Roma all’alba. In casa Ercole per sbaglio sveglia la figlia che si arrabbia. Vorrebbe fare l’amore con la moglie ma lei vuole solo dormire. Ercole allora va alla sua agenzia. Qui arriva una madre con la figlia che vuole lanciarsi nel mondo dello spettacolo: Ercole sfoglia il book della ragazza e scopre una lunga serie di foto della fanciulla nuda. Arriva poi il sosia di Stallone oltre a molti altri attori o aspiranti tali. A casa, Preziosi pranza con la moglie e la figlia, ma le due donne parlano in russo e lui si arrabbia perché non capisce. La moglie protesta perché rimprovera al marito di non esserci mai. Una sera Ercole è furente perché un suo attore non si presenta allo spettacolo che sta per iniziare (ha avuto un incidente stradale). Ercole parla con il suo autista Nicola e lo convince ad andare in scena. Il ragazzo improvvisa, coinvolge il pubblico, fa lo spogliarello. Non solo: lo sponsor della serata è una fabbrica di sanitari e sul palco c’è in esposizione un bagno, così Nicola urina nel water dando le spalle al pubblico, che naturalmente applaude. La serata continua e Nicola fa tutto di testa sua senza dare retta ai consigli di Ercole. La sera seguente Nicola è in casa con la fidanzata. Lei gli parla del loro prossimo matrimonio, ma lui è concentrato su altro. Arriva Ercole, che si mette a parlare con il suo ormai ex autista (da oggi si chiamerà Nicky), discutendo dei sui prossimi spettacoli. Le serate un po’ volgari di Nicky hanno successo. E lui, sul palco, è sempre più sicuro. Con Nicky Renda è nata la sexy-comicità. Ben presto si invertono i ruoli: al volante ormai c’è sempre Ercole. La tournée di Nicky Renda prosegue nei teatri e nelle piazze italiane. I giornali parlano di lui, le donne sono in delirio. Ormai l’ex autista è una star, in Toscana come in Liguria. Una sera arrivano in albergo; Nicky ha preparato una sorpresa. In camera ad attenderli ci sono due giovani ragazze abbastanza disinibite: la serata finirà male. Le due, con la scusa di giochini erotici, li legheranno ai letti e poi ruberanno non solo l’incasso della serata ma i anche i soldi di entrambi. Nicky continua a stupire il suo pubblico, esibendosi anche con un gigantesco preservativo addosso. Ercole intanto inizia a essere insofferente, è insofferente nei confronti del comportamento del suo ex autista diventato star. Ercole arriva nella sua agenzia; la segretaria Daniela è di pessimo umore e gli rimprovera di non essere mai in ufficio e di pensare solo al suo attore di punta. Ercole organizza in un locale la festa per il compleanno della figlia. Per lei ha due regali: un cellulare e Nicky, che entra con la torta con le candeline. Ercole scopre che la figlia ha un tatuaggio sulla pancia e chiede spiegazioni alla moglie. Lei gli risponde che lui non c’è mai, poi si apre il vestito mostrandogli il seno che si è rifatta tre mesi prima: Ercole non ne sapeva niente. Ercole e Nicky vanno a un incontro di lavoro molto

importante, ma davanti all’ingresso della villa Nicky dice di dover andare da solo. Ercole ci resta un po’ male e si fa accompagnare da un contadino in motorino a un chiosco per bere qualcosa. Nella villa elegante e ben arredata tre uomini offrono a Nicky un probabile programma televisivo, il compenso che lui desidera e lo consigliano di trovarsi un nuovo agente. Nicky, uscito dalla villa, raggiunge Ercole. Il discorso dell’attore resta vago ma afferma che gli sono stati offerti due miliardi. Tornando verso Roma vedono un cartello: Ercole vuole fare il gioco rischioso che su di esso viene reclamizzato: salire in cima a una gru e buttarsi giù con un elastico spesso e robusto. Ercole lo fa ma sviene. Nicky sembra preoccupato, ma è costretto a lasciarlo per correre a uno spettacolo. Ercole arriva quando tutto è già terminato: scopre che al pubblico non è piaciuto molto. In camerino il talent scout trova della cocaina e un assegno di settecento milioni. L’uomo si alza ed esce senza dire nulla. In casa trova una lettera della moglie che dice che se ne va con la figlia, ma lui non si rassegna e le va a cercare. Trova la moglie e in lacrime le chiede di non lasciarlo. I due stanno per tornare a casa, ma Ercole rimane di sasso quando la moglie gli dice che la figlia esce da un mese con Nicky. Preziosi va sotto casa di Nicky e lo vede in strada con sua figlia. La ragazza sale su un taxi e si allontana. Ercole chiama Nicky, lo prende a cazzotti e dà fuoco alla Porsche nuova del suo ex autista. È quasi l’alba. Ercole passeggia pensieroso, poi, rivolto alla macchina da presa si avvicina e racconta la barzelletta del cinese in coma. Terminato lo sketch, si gira e se ne va con le mani in tasca.

La storia è anche una riflessione sull’ingratitudine nella vita e nel cosiddetto mondo dello spettacolo. Ma Verdone (che il più delle volte ha interpretato personaggi che subivano, che incassavano), questa volta reagisce. Spiega il regista: «Ercole vive in un mondo parallelo, notturno, deve essere iena tra le iene e fare il ruffiano con il suo allievo. Ma scremando tutti questi difetti emerge una persona perbene, che alla fine cade proprio sui suoi errori. Il mondo in cui vive è un mondo in cui non si riesce ad approfondire un’amicizia, in cui non si è più capaci di stupirsi e di assaporare le cose normali. Un mondo molto confuso, vuoto, materialista, regolato dalla competizione, dall’arte di rubacchiarsi l’uno con l’altro per primeggiare». E allora il nostro “homus ver-donianus” (che come sappiamo ha una sua morale) quando si renderà conto che l’amorale Nicky ha una storia con la figlia, gli dirà ciò che pensa, lo prenderà per il bavero, gli brucerà la Porsche (fot. 89). Atti estremi in risposta a comportamenti estremi.

FOT. 89

La chiusa del film è una sorta di addio a un certo mondo dello spettacolo (quello sano però) che non esiste più. Verdone che si rivolge direttamente alla macchina da presa e declama la poesia o la storiellina – fate voi – del cinese in coma (fot. 90) omaggia con dolcezza e malinconia l’universo dell’avanspettacolo.

FOT. 90

Pur incassando ben oltre due milioni e mezzo di euro, C’era un cinese in coma non attira nelle sale tutto il pubblico che Verdone vorrebbe. Il film, senza dubbio, riassume e fotografa un momento particolare della carriera del regista e attore romano. Forse con esso Verdone ha voluto raccontare anche un certo senso di ingratitudine che sentiva nell’aria. Come ha scritto Enzo Natta, «Carlo Verdone ha avuto un bel coraggio a sfogare i suoi rancori. In questo film l’autore ha guardato a sé più che al pubblico, ha riflettuto su se stesso più che sul botteghino, regalandoci una storia che, per dirla alla Hemingway, parte dal cervello arriva al cuore e diventa un lieve sorriso». L’accoglienza ricevuta da questo film fa molto riflettere Verdone, che decide di “rallentare”, di pensare “dove sta andando” e “cosa vuole fare”. Così mentre medita sul futuro si fa convincere a produrre un film, Zora la vampira dei Manetti Bros: «Mi sono lasciato convincere ma ripensandoci ora», spiega Verdone, «è stato un grande dolore. Non voglio dire che sia stato un errore, è stato un grande dolore e basta. Ma sulla carta mi sembrava un lavoro coraggioso… Penso che forse avrei dovuto riflettere di più. Ma ormai è una cosa lontana nel tempo». Il film esce nel settembre del 2000. Zora la vampira è una horror-parodia, forse un po’ caotica ma ricca di trovate. Per esempio Dracula arriva in Italia perché crede a tutto quello che vede in Tv, ma viene subito bollato come extracomunitario. È una pellicola in stile trash che tenta un approccio sociologico per raccontare l’Italia degli emarginati: graffittisti, extracomunitari, tossici, rasta, punk, rapper. Carlo Verdone si regala una particiona: vestito di nero, gli stivali con la punta in acciaio, il pizzetto e gli occhiali a specchio, interpreta un poliziotto reazionario, che detesta il prossimo e con una visione del mondo tutta sua. Ma che colpa abbiamo noi

Dopo la scottatura di C’era un cinese in coma Carlo Verdone torna con un film che abbraccia temi e modalità narrative a lui cari: il male di vivere, la psicanalisi e il film corale. Non solo, richiama a sé un’attrice a cui si sente particolarmente legato: Margherita Buy. Un anno e mezzo di lavoro è stato necessario per la stesura della sceneggiatura, scritta con Piero De Bernardi, Pasquale Plastino e Fiamma Satta. Nel maggio del 2002, durante il Festival di Cannes, Carlo Verdone vola sulla Croisette per presentare alla stampa il prossimo film, la cui uscita è prevista per il 10 gennaio 2003. Nelle note che accompagnano il press-book Verdone scrive: «L’uscita di Ma che colpa abbiamo noi avviene dopo tre anni da C’era un cinese in coma. Mai avevo atteso tanto tempo tra una pellicola e l’altra e mai avevo avvertito l’esigenza di fermarmi volontariamente per un periodo così lungo. Sentivo che stavo entrando in una seconda fase della mia carriera, più delicata, più difficile, quella che devi affrontare dopo ben ventidue anni in cui hai chiesto alla fantasia, all’intuizione, allo stremante doppio ruolo di regista-attore il massimo in tutti i sensi. Ventidue anni volati via come il vento, tant’è che ancora oggi mi stupisco di come io sia riuscito ad avere due anime recitative (quella virtuosistica dei primi film e quella più “canonica e moderata” di Maledetto il giorno che t’ho incontrato e Compagni di scuola), trovando

consenso e incoraggiamento nel pubblico. Una sfida difficile che forse mi ha premiato per non aver offerto, quasi mai, lo stesso film, la stessa formula. Ecco, posso forse dire che quando ho incominciato ad avvertire questo pericolo mi sono saggiamente fermato. Per riflettere e ripartire c’erano solo due modi. Andare a vedere con maggiore frequenza il lavoro dei miei colleghi, sia nel campo brillante che in quello drammatico, e ricominciare, libero da impegni, a uscire, parlare con la gente, ascoltare e percepire gli umori del momento. Questa è stata l’unica benzina che ho usato nel rimettere in moto il motore dell’immaginazione, della fantasia». In uno studio romano si sta tenendo una seduta psicanalitica di gruppo. Otto persone sono sedute in semicerchio, davanti a loro la psicanalista. Gli otto parlano dei loro problemi, dei loro sogni, la dottoressa tace. Ci vuole poco per capire che la poveretta è morta. La sera Gegé, ricco borghese, torna a casa. Vive con il vecchio e severo padre, con cui lavora nella fabbrica di famiglia, che lo rimprovera perché è arrivato tardi per cena. Gegé riceve una telefonata dalla giovane fidanzata e nuovamente il padre lo rimprovera: il cellulare a tavola va spento. Flavia, una delle persone in terapia, entra in un negozio di scarpe e ne acquista un paio. L’obeso Alfredo rientra in casa, dove risuona una musica sacra. Anche lui era in terapia dalla dottoressa. Chiara, giovane studentessa di architettura, vive con un’amica. Arrivata nel suo appartamento si mette su internet per leggere la e-mail di una persona con cui dialoga da sei mesi ma che non conosce. Flavia a casa ingoia un paio di pillole. Le squilla il cellulare, è Aldo, il suo amante, un uomo sposato. Ernesto è alla stazione Termini: chiede informazioni allo sportello: i treni sono l’unico posto dove riesce a dormire. Marco vive in una casa hi-tech; appena rientrato si mette a ballare da solo. Luca è in una sauna gay, rattristato. Telefona a un amico ma risponde una voce femminile. Ernesto sale sul treno e si mette a dormire. Flavia apre un armadio pieno di scarpe e sistema quelle nuove appena comprate. In un locale la bionda Gabriella corteggia un ragazzo più giovane. Anche Gabriella, come tutti i personaggi precedentemente presentati, fa parte del gruppo in terapia. È il giorno dei funerali dell’analista, tutti sono in chiesa e il prete sta parlando. Un uomo si alza e dice a voce alta che l’analisi non serve a nulla. Dopo la cerimonia tutti i pazienti del gruppo della dottoressa si ritrovano in un locale. Non sanno cosa fare, così si mettono alla ricerca di un altro analista: tutti insieme vanno a parlare con un nuovo dottore, ma dopo pochi minuti di attesa scappano dallo studio. Usciti, Gegé ha una proposta: nessuno psicoanalista, faranno autogestione. Gegé arriva in fabbrica, ma la guardia giurata non lo lascia entare. L’ha ordinato il padre, perché lui ha dimenticato un appuntamento di lavoro. Gegé allora va a trovare la giovane fidanzata in palestra. Flavia va a vedere un appartamento con il suo fidanzato-amante, che la rassicura dicendo che divorzierà. Ernesto, che abita in un residence, va a trovare la ex moglie, ma lei non gli apre la porta. Chiara in casa sta litigando con il suo professore di urbanistica: a voce alta gli dice che la loro storia è finita. Lui se ne va e lei si mette a mangiare voracemente. I sette si ritrovano nella casa dove vive Daria, la giovane fidanzata di Gegé, per la prima seduta di analisi autogestita. Ma la riunione non va molto bene. Le vite dei “compagni di cura” proseguono tra una crisi e l’altra. Gegé riceve la visita di suo figlio, che vive in Argentina e che non vedeva il padre dalla prima comunione. Gegé, suo figlio Manuel e il vecchio padre pranzano insieme, il nonno parla da solo con il nipote: vorrebbe che fosse lui a prendere in mano le redini dell’azienda di famiglia. Manuel va da suo padre per dirgli che ha intenzione di ripartire subito e gli chiede di seguirlo in Argentina. Il gruppo si ritrova per una nuova seduta, questa volta a casa di Luca. Il ragazzo è in lacrime: ha trovato un messaggio in segreteria, è la compagna del suo fidanzato che gli vuole parlare. Flavia invece è felice, dice che quella è la sua ultima seduta: spiega che Aldo lascia la famiglia e va a vivere con lei. Alla fine tutti si mettono a parlare. Le voci si sovrappongono. Dissolvenza. Passano i giorni; Flavia viene mollata dal suo amante, mentre tra Chiara e Marco nasce una tenera amicizia. Il gruppo si ritrova quindi nel residence di Ernesto per l’ennesima seduta autogestita. Ma entra il portiere per fare vedere l’appartamentino a due extracomunitari; alla fine il gruppo litiga. Nel frattempo Alfredo, il ragazzo obeso che non aveva mai partecipato alle sedute dopo la morte della psicanalista, si è suicidato. Il gruppo di autoanalisi si ritrova e Gegé propone di andare tutti in un agriturismo per passare un po’ di tempo insieme. E così il gruppo si ritrova in una villa in campagna. Gegé chiama la fidanzata per fare venire anche lei, ma Daria è in un concessionario di auto di lusso con il maggiordomo del papà di Gegé, che le ha regalato un’auto. Dopo cena il gruppo scopre che Luca ha messo della marijuana nel dolce: così tutti saranno più felici, almeno per quella sera. Chiaccherano, discutono, litigano, ballano. A notte fonda Flavia esce nella campagna e si avvicina alla strada. Passa un’auto e si ferma; lei riflette un momento e poi sale. Durante la notte Chiara scopre che il misterioso amico di mail è proprio Marco: i due si baciano. La mattina dopo sono tutti in giardino a fare colazione. Gegé continua a telefonare a Daria ma lei ha sempre il telefono staccato. Il gruppo scopre che Marco e Chiara sono partiti. Flavia racconta che la sera prima ha fatto una “marchetta”: è salita in auto con uno sconosciuto e ha fatto l’amore. Ma poi dice che si tratta solo di uno scherzo, una bugia. Il gruppo fa una foto, mentre Gegé capisce che la storia con Daria è finita.

Una mattina Gegé in fabbrica solleva dall’incarico il padre parlando a voce alta davanti agli operai, che alla fine applaudono. Scorrono rapide immagine di vita dei vari componenti del gruppo. Gegé è all’aereoporto, parte per l’Argentina per rivedere il figlio. Flavia con il pancione passeggia sulla spiaggia. Un aereo prende quota.

Con Ma che colpa abbiamo noi la creatività di Verdone torna a funzionare come il registaattore voleva: l’autore romano dà una svolta al suo modo di fare cinema, rinunciando senza remore alle zavorre del passato. Non a caso, il suo personaggio, Galeazzo detto Gegé, per gran parte della storia succube di un padre despota e autoritario, alla fine ha un sussulto di coraggio: mette “in pensione” il padre e prende in mano le redini dell’azienda di famiglia. La “pausa di riflessione” dopo C’era un cinese in coma porta i suoi frutti. Scrivendo di Ma che colpa abbiamo noi sul «Corriere della sera» Tullio Kezich sottolinea: «Il 2003 del cinema italiano si apre in modo promettente con questo film: uno spettacolo divertente che non rinuncia all’intelligenza e al buongusto, professionalmente impeccabile, privo di spocchia pur avendo le caratteristiche del prodotto autoriale. Nel gestire la sua popolarità, Verdone non vive di rendita e procede in controtendenza. Anziché buttare un film sull’altro, lavora per mesi alla sceneggiatura e ne cura la realizzazione con meticolosità maniacale. Nel caso in esame si profila poi un valore aggiunto, da talento in perfetta crescita. Incarnando un personaggio parente dello Zeno di Svevo, a disagio con la figura paterna come con le donne e la società, Carlo, pur lavorando assai sulle psicologie, sa menare l’affondo che garantisce la risata. Il tutto all’interno di una scelta che pochi comici accetterebbero: infilarsi in un concertato alla pari». E Roberto Nepoti su «la Repubblica»: «Vitale, divertente, in complesso ottimista, Ma che colpa abbiamo noi è un film tutt’altro che banale o semplificatorio. Nessuno si aspetta da Verdone un trattato sulla psicanalisi, d’accordo: le esigenze dello spettacolo restano in primo piano; a tratti, magari, prendono un po’ la mano. Ciò non toglie che le tipologie umane e relative nevrosi siano trattate con sensibilità e autenticità, che lo sguardo posato sulle insicurezze contemporanee appaia maturo, comprensivo, piacevolmente rasserenato. Il tutto, poi, immerso in un bel ritmo da commedia nera, di respiro più internazionale rispetto alla corrente produzione italiana». Il film piace soprattutto per la delicatezza e lievità con cui Verdone affronta, ancora una volta, il tema della psicanalisi. Scrive su «La Stampa» Lietta Tornabuoni: «eccezionale: una commedia italiana che parla di psicanalisi, che segue gli otto pazienti di una terapia di gruppo, e che non sfotte, non fa battute ignoranti, non descrive macchiette, non ridicolizza, ma si limita ogni tanto a un’ironia leggera. In uno dei suoi film più riflessivi e cauti, Carlo Verdone racconta coralmente personaggi la cui malattia rappresenta l’esasperazione nevrotica di guai e malesseri esistenziali tra i più comuni e diffusi: il che permette agli spettatori di identificarsi con loro, e consente al regista di esaminare il nostro alterato presente». Per “inaugurare” la sua seconda vitalità Verdone usa un dolly. Nella scena d’apertura del film la macchina da presa, delicatamente, entra nella casa della psicanalista mentre le voci si rincorrono fuori campo. Così conosciamo gli otto protagonisti del film e i loro problemi (fot. 91). Con questa pellicola Verdone ci vuole dire che si può vivere anche senza psicanalisi e che le nostre ansie e angosce dobbiamo riuscire a superarle da soli. Non a caso durante i funerali dell’analista il regista mette in una scena uno sketch dal sapore morettiano: Fabio Traversa (fot. 92) in chiesa urla: «Lo volete un consiglio? Non ci andate più in analisi, ti illudono che guarisci e tu ci credi. Non ci andate in analisi, è un’utopia!» Da questa scomparsa iniziale prende avvio il film, e con esso l’attenta descrizione di una serie di personaggi in crisi, tutti interpretati da attori “in ottima forma”. Anita Caprioli, (fot. 93) affascinate nella sua bellezza acquosa, è una studentessa bulimica, che vive in un mondo a parte. Margherita Buy (fot. 94) è una professoressa di liceo che sfoga le sue ansie comprando scarpe ed è innamorata di un uomo sposato che non lascerà mai la moglie. Carlo Verdone, ricco borghese, è oppresso, umiliato,

represso dal vecchio padre-despota e autoritario ed è ossessionato dalla giovane e superficiale amante. Antonio Catania (ancora fot. 93), lasciato dalla moglie, soffre d’insonnia e riesce a dormire solamente sui treni in viaggio.

FOT. 91

FOT. 92

FOT. 93

FOT. 94

La biondissima Lucia Sardo, che non si rassegna al passare del tempo, abborda giovani uomini nei bar, per storie che non durano che lo spazio di una notte. Max Amato, (fot. 95) omosessuale colto, è innamorato di un uomo sposato. Luciano Gubinelli, religioso e obeso, è un musicista represso che vive con la madre. Stefano Pesce rifiuta la realtà esterna, è esageratamente introverso e blocca le emozioni. Ogni componente del gruppo rappresenta l’esasperazione nevrotica di un problema umano molto comune, di disagi molto diffusi. Verdone racconta con grande sensibilità ogni disagio, senza mai cadere nel macchiettismo. Alla base di questo atteggiamento vi è la convinzione che per tutti può esserci una possibilità, una

speranza. Basta saper osare, basta avere un po’ di coraggio: per superare il “male” bisogna passarci in mezzo. La via d’uscita, alla fine, si trova.

FOT. 95

E la “nuova via” di Carlo Verdone ha una conferma, ulteriore, negli incassi: il film porta a casa quasi sei milioni di euro, un ottimo risultato. L’amore è eterno finché dura

«Racconto i nostri anni distratti, racconto quella strana età che sono i cinquant’anni, ma soprattutto racconto il malessere della coppia», dichiara Verdone prima dell’uscita di L’amore è eterno finché dura. «Il pregio di questo film», scriverà poi il 22 febbraio 2004 sul «Corriere della sera» Tullio Kezich, «sta proprio nelle sue accensioni di italianissima vitalità. E se Verdone attore appare ancora più sottile e misurato del solito, soprattutto nei duetti al sopracuto con Laura Morante, quest’ultima azzarda con successo toni alla Carole Lombard: da applauso tutti e due». Ed Enrico Magrelli su «Film Tv» aggiunge: «Verdone con i suoi sceneggiatori Francesca Marciano e Pasquale Plastino ha scritto e messo in scena una partita a quattro (la ex coppia Gilberto e Tiziana, la coppia di conviventi Carlotta e Andrea) con intrusi, un girotondo della confusione sentimentale, una commedia di costume che se il cinema fosse in bianco e nero e avesse sessant’anni di meno sarebbe una commedia sofisticata sulla guerra imprescindibile, mai dichiarata e mai finita, dei sessi. L’amore è eterno finché dura ha i tempi giusti, né troppo diluiti né troppo contratti; non scava le proprie fondamenta sul dosaggio delle battute (i moti di spirito sono incassati nelle scene); dà agli interpreti – diretti benissimo da Verdone (brave sia la Morante che la Rocca) – un comodo margine per interagire con i personaggi; si scioglie in duetti divertenti e impasta con cautela tinte e colori». Gilberto Mercuri è un oculista cinquantenne. Una sera è in un locale dove si svolge uno “Speed-date”, ovvero la ricerca di un partner in soli tre minuti. Gilberto è sposato con Tiziana, un’attraente psicologa che conduce un programma sulle coppie in una Tv privata. I due hanno una figlia diciassettenne, Marta. La sera mentre stanno cenando suonano alla porta. Sono due carabineri che notificano a un preoccupato Gilberto una convocazione per un’indagine che stanno conducendo. La mattina dopo alle nove, in caserma, Gilberto, accompagnato da Tiziana, si ritrova davanti ai partecipanti della serata di Speed-date: tutti sono stati convocati perché Stella, una ragazza che ha partecipato alla serata, è scomparsa. Gilberto è imbarazzato e cerca di nascondere la verità alla moglie, ma Tiziana scopre il segreto del marito. La rabbia di lei esplode e la crisi è inevitabile. Mentre Gilberto è nel suo negozio di ottica arriva Tiziana, che gli comunica che è per lui arrivato il momento di fare le valigie e di andare via di casa. Gilberto viene ospitato in casa di Andrea, il suo socio nel negozio di ottica che vive da dieci mesi con Carlotta, una allegra trentenne che fa l’agente immobiliare. La vita in casa con loro è piacevole: Gilberto ha una stanza tutta per sé, Andrea poi è bravissimo a cucinare ma detesta che Carlotta e Gilberto fumino in casa, così glielo vieta. Carlotta è molto simpatica e ha preso a cuore la situazione di Gilberto: gli vuole presentare un ragazza, Carolina. Gilberto va da un suo amico medico: Guido. Il dottore, che saltuariamente dà lezioni di tennis alla moglie, gli vuole parlare di Tiziana. Guido racconta all’amico che la donna è nervosa e non dorme. È sera e Gilberto va a casa sua. Trova la moglie elegantemente vestita. L’uomo le dice che è venuto a trovare la figlia, ma Marta è a dormire da un’amica. Uscendo dalla sua ex casa vede salire Guido. Il giorno dopo Gilberto va a prendere sua figlia all’uscita da scuola. Ma durante il tragitto in auto litigano. Gilberto, con un paio di occhiali scuri, va a spiare la moglie che gioca a tennis con Guido. Sul campo i due hanno

atteggiamenti affettuosi. Gilberto si fa vedere e a voce alta li rimprovera, soprattutto sfogandosi contro Tiziana e la sua pretesa fedeltà. Marta, intanto parla della crisi familiare con la professoressa, mentre Andrea va da Tiziana a prendere le cose di Gilberto. È sera, a casa di Andrea, Gilberto e Carlotta parlano di musica mentre Andrea, come sempre, cucina. Suonano alla porta: è Tiziana. Gilberto scende e i due si mettono a parlare: naturalmente finiscono con il litigare. Il giorno dopo Tiziana è al trucco; sta per andare in onda e si consiglia con truccatori, sarta e assistenti di studio sulla sua situazione. Gilberto si confida con Carlotta: forse questa separazione rappresenta la possibilità di rifarsi una vita. La ragazza invita Gilberto a chiamare Carolina; lui non e’ molto convinto ma alla fine accetta. Venti minuti dopo arriva all’appuntamento: da una finestra un uomo sta tirando in strada gli oggetti della ragazza, che tenta di raccoglierli. Gilberto la fa salire in auto e i due si allontanano. Poco dopo a casa di lei Gilberto fa l’amore con Carolina, ma durante l’amplesso lei continua a rispondere al cellulare. Tiziana incontra Guido per avere chiarimenti sul loro rapporto. Andrea e Carlotta organizzano una cena per presentare Graziella a Gilberto; durante la cena lui scopre che Graziella andrà a Nizza a vedere il concerto di Joe Cocker. I due decidono di andare a Nizza insieme. Dopo il concerto in albergo si ritrovano nella stessa stanza, un po’ intimiditi. Ma dopo un iniziale approccio passeranno il tempo a parlare di malattie, di intestino e diverticolite. Tornato dal viaggio Gilberto si confida con Carlotta e le chiede di trovargli un appartamento. Gilberto e Tiziana vengono convocati da due professori di Marta, che comunicano ai genitori che la ragazza è distratta e sta affrontando un periodo di forte disagio a causa della separazione dei genitori. Usciti da scuola i due parlano della figlia e dei loro problemi: Tiziana poi va al lavoro e, come sempre, si mette a parlare con i suoi assistenti. Gilberto è nel suo negozio e parla con la figlia Marta, la invita a cena. Ma gli squilla il telefonino: è Stella, la ragazza dello Speed-date. La sera Gilberto cena con lei in un ristorante, ma l’incontro risulta un fallimento. Stella va a cercare Gilberto nel suo negozio, ma lui si nasconde. A riceverla ci pensa Andrea: i due vanno a bere un caffè. Tiziana è a pranzo con Guido. I due discutono e lei scopre che Guido non vuole avere una storia definitiva con lei. Durante una visita in un appartamento vuoto che Gilberto vorrebbe affittare, Carlotta confida all’amico che non sopporta l’idea che lui se ne vada da casa per andare a vivere da solo: dice di avere più complicità con lui che con Andrea. I due si dichiarano il loro reciproco amore. Andrea confida a Gilberto che forse gli piace un’altra donna, e chiede all’amico-socio di stare vicino a Carlotta. Non solo: Andrea gli confida di partire con una ragazza per le Canarie. Carlotta e Gilberto fanno l’amore nella nuova casa. A lui squilla il cellulare. È Tiziana che, forse, vorrebbe recuperare il rapporto. Poi squilla il cellulare di Carlotta: è Andrea che finge di essere in Toscana e le confida di essersi pentito, ma Carlotta dice di essere nel posto giusto e con la persona giusta. In verità Andrea è ai Carabi con Stella. Marta è in vacanza con il suo fidanzato, parla di come cambia la vita dopo aver fatto l’amore per la prima volta. Dice che adesso vede i genitori in modo diverso, forse ora li capisce di più. Tiziana parte da sola per il Mar Rosso e all’aereoporto incontra Andrea. Intanto Gilberto e Carlotta hanno trovato una soluzione per gestire con serenità la loro storia d’amore: vivono in case separate e quando vogliono passano giornate e notti insieme. La mattina si incontrano e si allontanano lunga la strada, di spalle, chiaccherando. Fermo immagine.

«Spio la gente e le sue nevrosi, i suoi disagi. Poi metto tutto sotto una lente deformante». Così ama ripetere Verdone per spiegare come “osserva la realtà” per poi costruire i film. E così riassume L’amore è eterno finché dura: «un’esplorazione della vita sentimentale di coppie sposate o che convivono attraverso la confusione dei sentimenti. Coppie che si chiedono come si fa a restare sempre innamorati della stessa persona. Per essere sintetici: un film sulla crisi dei sentimenti». Verdone riflette sull’amore, sulla sua forza e sulla sua capacità di tenere in piedi un rapporto, sul cosa fare quando l’amore coniugale svanisce, e su come far rinascere quelle pulsioni. Ironizza con sapienza sugli incontri amorosi al buio, sul “popolo” che frequenta le chat e gli Speed-date, ci mostra la distrazione e la confusione di certa gioventù, ma si concentra soprattutto sulla sua generazione, quella dei cinquantenni in crisi d’identità, sospesi tra la voglia di fare ancora molto e il rimpianto per i tempi passati. I cinquantenni di oggi si trovano in un’età in cui non si è né vecchi né giovani, si è in una strana età di mezzo: palestre, creme e lifting aiutano a sentirsi più giovani e la società circostante contribuisce ad aumentare questa confusione. «Noi viviamo in un periodo di aggiornamento, di novità continua. Tu compri un cellulare e dopo sei mesi è già vecchio, compri una macchina fotografica e l’anno dopo è superata. Qualsiasi cosa acquisti, sei costretto a riaggiornarla entro un anno; il capitalismo ti

costringe a questo. È una spirale. Sembra, incredibilmente, che ci sia anche una commercializzazione dei sentimenti. Sembra che l’amore appagato, sicuro, a un certo punto risulti noioso e porti alla depressione: quindi c’è bisogno di adrenalina. Forse manca il tempo di vivere la coppia. Manca il dialogo e la famiglia muore». Gilberto, il protagonista del film che Verdone interpreta, è troppo legato a un’epoca passata, agli anni Settanta: rimpiange nostalgicamente quel periodo, quell’effervescenza, quella spontaneità. La moglie se ne rende bene conto e per questo continua a riprenderlo: «La sera ti metti in camera e ascolti le musiche di trent’anni fa, non quelle di adesso! Sei lontano, stai da un’altra parte». E così Tiziana descrive il loro rapporto: «Sai a cosa somiglia il nostro matrimonio? Al rapporto di un portiere di un albergo a quattro stelle con il cliente: buongiorno, buonasera, cosa c’è per pranzo, cosa c’è per colazione?». Da questa crisi matrimoniale prende avvio “la guerra dei sessi”: le scaramucce, le litigate, le scoperte, le delusioni, le bugie, la ricerca delle soluzioni. Il film inizia con una veloce carrellata sui frequentatori dello Speed-date, una “scappatella” che costerà cara a Gilberto. La sequenza in questura, con il protagonista che cerca di nascondere alla moglie il suo segreto, è veramente ben costruita: i volti scelti dal regista sono perfetti e assolutamente credibile è l’impaccio un po’ infantile che assale il personaggio interpretato da Verdone. Convincenti e divertenti sono poi anche le scenate sul campo da tennis (fot. 96), il battibecco notturno sotto casa del collega Andrea (fot. 97) e la scena in cui la Morante si fa psicanalizzare dai suoi collaboratori dello studio televisivo (l’assistente è interpretato da Ivo Di Persio, fot. 98,, nella vita proprio il reale assistente/factotum di Verdone, che lo definisce «una persona rara che sa fare tutto: insostituibile»). Come sempre il regista si dimostra abile e intelligente nella riscoperta dei caratteristi: Orsetta De Rossi nei panni di Graziella è semplicemente impeccabile e ha il merito di dare vita allo spassoso e autoironico duetto con Verdone nell’albergo di Nizza (fot. 99) discutendo di malattie: un classico! Grazie anche all’ottima fotografia, il regista costruisce un clima caldo, avvolgente, delicato e velato di romanticismo: Verdone riesce a rendere importante anche un appartamento vuoto, come quello in cui si svolge un tenero scambio di battute tra Gilberto e Carlotta (fot. 100), che iniziano insieme una nuova storia d’amore, senza rinunciare però alle proprie libertà.

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Per la serenità della coppia ecco “la teoria degli istrici”: si sta insieme ma si vive in case separate, godendo di una continua possibilità di scelta. Questa è la soluzione di Verdone agli incerti e inquieti rapporti di oggi. E la scena finale del film, con Carlo Verdone e Stefania Rocca che si allontanano di spalle conversando serenamente tra la folla (fot. 101), è un gradevole segnale di speranza.

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Ritorno a farmi dirigere

Nel settembre del 2004 Verdone torna, dopo tanti anni, a farsi dirigere. E lo fa per Manuale d’amore, diretto da Giovanni Veronesi e prodotto da Aurelio De Laurentis, film evento della stagione 2005 con circa quattordici milioni di euro di incasso. «Effettivamente sono poche le volte che mi sono fatto dirigere: però si va avanti con il

tempo e diventa sempre più lungo il lavoro di soggetto e sceneggiatura. Non volevo far passare troppo tempo tra un film e un altro. Quando Veronesi mi ha portato la sceneggiatura e ho visto che si trattava di un solo episodio, mi sono detto: lo faccio. Anche perché il soggetto è attualissimo, e il cast ottimo». Cosa vuol dire oggi per Verdone farsi dirigere? «Giovanni lo conosco da anni: siamo amici. Abbiamo sceneggiato insieme C’era un cinese in coma e abbiamo costruito in perfetta sintonia le mie battute, il mio personaggio. Sintonia totale che poi abbiamo avuto anche sul set. Farsi dirigere da Giovanni è stato piacevolissimo». Manuale d’amore è composto da quattro storie che raccontano rispettivamente l’ “Innamoramento”, la “Crisi”, il “Tradimento” e infine l’“Abbandono”. I quattro capitoli del “manuale” sono vissuti da quattro coppie diverse che, con il classico stile alla Altman si sfiorano soltanto, passandosi però il testimone della narrazione. Tommaso (Silvio Muccino) e Giulia (Jasmine Trinca) vivono tutte le fasi dell’innamoramento: il primo appuntamento, il primo bacio, il sesso, il vivere insieme. Barbara (Margherita Buy) e Marco (Sergio Rubini) affrontano la loro prima crisi dopo anni d’amore: sarà la decisione di fare un figlio a salvare la coppia? Ornella (Luciana Littizzetto) vive il dramma del tradimento con una grinta unica, scagliandosi contro il vero e unico nemico: l’uomo. La sua rabbia la porterà alla scelta di multare (essendo lei vigilessa) solo trasgressori del codice della strada di sesso maschile. Goffredo (Carlo Verdone) ci racconta dell’abbandono. È talmente impreparato ad affrontare questa sua prima grande tragedia che si lascia consigliare da un audio-book trovato in libreria, dal titolo confortante: Manuale d’amore. L’attore offre una splendida performance, esprimendo con autenticità timori, titubanze, infantilismi e rendendo il “suo” episodio sicuramente il migliore del film. A lui andranno il David di Donatello e il Nastro d’Argento come miglior attore non protagonista, oltre al Ciak d’oro come miglior attore della stagione cinematografica italiana e a un accostamento “di lusso”: vari critici lo paragonano infatti a Jack Lemmon. Il mio miglior nemico

Nel settembre 2005 iniziano, a Roma, nel quartiere Prati, le riprese del ventesimo film di Carlo Verdone: Il mio miglior nemico. Alle spalle un lungo lavoro di sceneggiatura, durato oltre un anno e tre mesi. Risultato: un copione di centotrenta scene e un nuovo produttore, Aurelio De Laurentiis (con cui Verdone ha firmato un contratto per cinque film). «De Laurentiis ha molti pregi e qualche difetto, anzi uno», ci dice Verdone, «spreme i suoi autori sino alla buccia. Forse va oltre». Ad accompagnare Verdone in questa nuova avventura troviamo Silvio Muccino, conosciuto sul set di Manuale d’amore, che oltre a recitare si occupa anche della sceneggiatura, lavorando spalla a spalla con il regista. Il risultato di questa collaborazione è sicuramente apprezzabile. «Lavorare con un giovane significa restare giovani» sottolinea Verdone, «è stato uno scambio reciproco di idee, di esperienze, di trovate. Io ho imparato da lui; lui ha imparato da me». Al termine di tre mesi estenuanti di riprese tra Roma, Sabaudia, il lago di Como, Ginevra, Istanbul, Verdone afferma: «Questo film vi lascerà sorpresi, di certo non vi deluderà». Dopo C’era un cinese in coma è iniziata la seconda fase della carriera di Verdone, questo film ne rappresenta una tappa molto importante. Dal punto di vista prettamente attoriale, inoltre, Verdone può ormai permettersi di agire in scioltezza, giocando di fioretto con grande levità, forte di uno straordinario bagaglio di esperienze. Ha scritto Lietta Tornabuoni: «Verdone è talmente bravo che vale la pena di vederlo. Un attore di rara finezza, energico e delicato, comico e patetico. È straordinario vederlo affrontare disastri totali con l’accoramento ma anche con la distrazione dell’indifferenza. Sono ammirevoli il suo oscillare tra avvilimento e aggressività, i suoi momenti di sfinimento, di sfrontata cialtroneria nel tentativo di discolparsi». Il tema dello scontro generazionale, l’accoppiata curiosa Verdone-Muccino, la bontà del copione e della storia hanno decretato l’enorme successo del film, che per Tullio Kezich si

colloca «a cavallo tra la vecchia e la nuova commedia italiana». Continua il giornalista del «Corriere della sera»: «è impossibile non restare ammirati dalla ricchezza e veemenza di un’attualissima raffigurazione che mette l’autore-attore sulla scia della grande tradizione del palcoscenico. Si pensi ai campioni d’umanità creati da Molière servendosi di spunti della farsa, ai vari Pantalone e burberi più o meno benefici che Goldoni ritaglia dalla commedia dell’arte. È quindi inevitabile che la monumentalità del protagonista sovrasti il ragazzo Orfeo e il suo interprete, dal quale oltre alla fresca spontaneità dovrebbe far emergere le sofisticate mezze tinte che ancora non possiede». Il pubblico dà ragione a Verdone. Nel primo weekend il film si porta a casa ben cinque milioni di euro. Questo il commento del cineasta: «Pensavo che andasse bene, ma non così. Mi sembra veramente di sognare». Alla fine l’incasso totale sarà di dieci milioni di euro. «Questa storia a due anime è piaciuta al pubblico – spiega il regista – perché il film è un racconto a 360° con tonalità diverse: dentro ci si può trovare sia il Verdone classico sia il nuovo Verdone». L’incontro tra il vero decano della commedia malinconica e di costume e l’esuberante ragazzotto della commedia giovanilistica ha sicuramente fatto centro. Achille De Bellis sta guidando. In auto con lui Orfeo, un ragazzo che si copre con il fazzoletto il naso sanguinante. De Bellis dirige un grande albergo a cinque stelle di proprietà della moglie Gigliola, figlia di proprietari alberghieri, e ha una figlia, Cecilia, che per passione scrive poesie. Achille è al lavoro: ha fatto convocare le cameriere perché qualcuno ha rubato un computer a un cliente. Achille accusa Annarita Rinalduzzi e la licenzia seduta stante. Orfeo torna a casa e trova la madre in lacrime; è stata licenziata. Il giovane piomba in albergo e urlando dice ad Achille di riassumere la madre, ma non ottiene nulla. Achille passeggia nel giardino della villa con la moglie Gigliola: discutono della festa che faranno per festeggiare i loro venticinque anni di matrimonio. Achille trova sul parabrezza dell’auto una lettera di Orfeo che si scusa del comportamento che ha tenuto e lo prega di riassumere la madre. Achille strappa la lettera. Orfeo si mette a seguire l’auto di Achille con il motorino. L’uomo ha un appuntamento con una giovane ragazza e con lei si apparta in un bosco. Orfeo li fotografa con il telefonino mentre si baciano e si abbracciano, poi arriva un guardone che presta una macchina fotografica al ragazzo. Orfeo si presenta nella villa di Achille e si sostituisce al dog-sitter abituale. La sera, tornato a casa, Achille trova la moglie quasi in lacrime perché qualcuno ha dipinto a chiazze rosa il povero animale. Non solo, in una busta indirizzata a lui Achille trova le foto che ha scattato Orfeo, che lo ritraggono dentro l’auto in posizioni compromettenti con la sua amante. Il giorno dopo a pranzo Achille fa vedere le foto alla ragazza, che poi è Ramona, sua cognata. Nel ristorante arriva anche Orfeo, che dice ad Achille di volerlo rovinare. È sera, Achille è in casa pensieroso. Fuori, nel parco della villa, si sentono dei rumori: è Orfeo. Achille esce con la pistola e il ragazzo, non visto, scappa. Mentre si allontana con il motorino ha un incidente con un’auto guidata da Cecilia, la figlia di Achille. Ignorando l’identità della ragazza, Achille si fa accompagnare al Pronto Soccorso e poi a casa. Dopo aver messo a letto la madre di Orfeo, i due ragazzi iniziano a parlare. Cecilia prima di andare via scrive il suo numero di cellulare sul palmo della mano di Orfeo. Il giorno dopo Cecilia va nel bar dove lavora Orfeo. I due ragazzi vanno nella villa al mare di lei e fanno l’amore; poi lei gli confida di avere una storia con un uomo di quarant’anni da oltre un anno. Achille è nel suo ufficio in albergo. Arriva Ramona, la cognata-amante, che gli dà un dischetto arrivato per posta. Achille lo mette nel computer e appaiono le foto del loro incontro. Poco dopo bussa alla porta Guglielmo, il fratello della moglie e marito di Ramona. Guglielmo pensa che la moglie lo tradisca e poi confida ad Achille di avere problemi di impotenza. Arriva la sera della festa per i venticinque anni di matrimonio di Achille e Gigliola. A sorpresa però arriva Orfeo che, tra lo stupore dei tanti invitati, dice a tutti che Achille ha l’amante, mostrando anche le foto che ha scattato. Scoppia il caos. Non solo: Orfeo capisce che la sua amata Cecilia è figlia del suo nemico Achille. Cecilia ha una violenta discussione con Orfeo e gli dice che è un uomo falso e mediocre. Gigliola, furiosa, caccia il marito da casa, mentre Guglielmo gli dice che non lavorerà più alla direzione dell’albergo. Orfeo torna a casa e trova la madre in partenza per una tournée teatrale. E la madre poi confessa al figlio di aver rubato il computer perché serviva a un suo amico. Suonano alla porta, Orfeo apre. È Achille, che gli sferra un cazzotto sul naso. Il ragazzo cade in terra. Achille lo porta al Pronto Soccorso, dopo le cure riaccompagna Orfeo a casa. Ma appena scesi dall’auto, qualcuno ruba la lussuosa berlina di Achille. Forse Orfeo sa chi è stato. I due si mettono alla ricerca dell’auto andando in giro per Roma con il motorino; alla fine trovano il ladro ma Achille viene steso da una testata. Achille si ritira quindi nella casa al mare dove Orfeo gli riporta la sua berlina, anche se priva di molti pezzi. Il ragazzo poi chiede scusa ad Achille, perché sua madre ha rubato veramente il computer. Orfeo, rattristato, torna a casa e trova la madre con il suo amico. Dopo aver litigato con lei se ne va. L’amante segreto di Cecilia va da Orfeo, che lo porta da Achille. L’uomo scopre una realtà che non

conosce. Scopre cose della figlia che non immaginava; quindi decide di trovare la ragazza, di cui non ha più notizie. Racimolando qualche indizio, Achille e Orfeo partono insieme alla ricerca di Cecilia. Ma l’auto si rompe per strada e, quando Achille tenta di noleggiarne una, si accorge che la sua carta di credito è stata annullata: così paga in contanti. I due arrivano sul lago di Como e vanno a dormire in un hotel. La mattina presto Orfeo prende la macchina e va in una villa dove, molto probabilmente, abita suo padre, che non ha mai conosciuto. Scavalca il muro, viene scambiato per ladro e portato dai carabinieri. In suo soccorso arriva Achille che, per evitare la denuncia, si finge suo padre. I due risalgono in auto e vanno a casa del professore amico di Cecilia che forse può avere notizie della ragazza. Scoprono che la figlia di Achille è passata di lì, ma solo per una notte. Successivamente però ha telefonato e ha lasciato un messaggio: «Istanbul Gran Café». I due litigano e si separano per l’ennesima volta. Achille vola a Istanbul a cercare il Gran Café e la figlia. Intanto Orfeo, seguendo i suoi indizi, arriva a Ginevra, e proprio sul lago trova il Gran Café Istanbul. Dentro, come cameriera, lavora Cecilia. I due si baciano e scappano via. Intanto a Istanbul Achille continua a cercare Cecilia. Gli telefona Orfeo per chiedergli dove sia. Il giorno dopo in albergo Achille ritrova sua figlia. È stato Orfeo a dire a Cecilia di volare a Istanbul dal padre. Mentre Achille e la figlia parlano seduti su una panchina, arriva anche il ragazzo. Saluti e abbracci, poi Achille chiede a Orfeo di fare una foto a lui e a sua figlia abbracciati.

Carlo Verdone, che conosce molto bene la storia del nostro cinema, con Il mio miglior nemico si rituffa nella commedia italiana e prende spunto da Germi per costruire una solida tragi-commedia, un film dolce, cattivo, romantico, amaro, sentimentale, divertente. La struttura drammatica portante, comunque, non impedisce all’autore di inserire nella pellicola alcuni momenti del suo umorismo classico, come nel caso della sequenza in ospedale, con i portantini convinti che i due siano amanti; o della scena in cui nel suo uffico Verdone cerca di nascondere l’amante agli occhi del cognato (il bravissimo Paolo Triestino). Ma anche i molti caratteri di contorno (il terzetto di ladruncoli d’auto di periferia, il gruppetto di guardoni hi-tech, con finti cespugli e binocoli agli infrarossi…) non potevano essere più riusciti e divertenti. Se le danno di santa ragione Carlo Verdone e Silvio Muccino (fot. 102). Ma il loro scontro annienterà le loro vite (fot. 103): dovranno ricominciare, ricostruire tutto. Il mio miglior nemico è uno scontro/incontro generazionale (fot. 104): i due protagonisti si trovano quasi obbligati a cercare un contatto, ad avvicinarsi, comprendersi, aiutarsi, fino a diventare più che amici e complici, fino a diventare un’anomala coppia padre/figlio.

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Nonostante le molte candidature (e gli incassi clamorosi), il film non conquista nessun David di Donatello: Verdone ammette di essere un po’ dispiaciuto ma si dichiara contento per Nanni Moretti e per il suo Il caimano. Del resto il regista oggi sembra assai gratificato dai suoi trent’anni di carriera; intervistato a riguardo ci ha fornito, sereno, il segreto della sua longevità: «Non mi sono mai reso conto del mio successo. Questa è stata la mia salvezza». Grande, grosso e Verdone

«Il candore contrapposto alla volgarità». Purtroppo oggi sembra non esserci più posto per i candidi: assistiamo al trionfo della volgarità, sempre più spietata e squallida», così Carlo Verdone riassume il suo film Grande, grosso e Verdone. A più di dieci anni da Viaggi di nozze l’attore e regista romano torna «per l’ultima volta» a reinterpretare i suoi personaggi storici in un film a episodi. «La vera spinta mi è stata data dai miei fan. Sul mio sito (www.carloverdone.it) sono arrivate oltre 1400 mail che mi chiedevano di girare ancora un film con i miei personaggi». Non solo, il pubblico della rete specificava anche i caratteri che avrebbe voluto rivedere: Leo il candido, il professore logorroico, il cafone Ivano. Verdone ne parla con il suo produttore, Aurelio De Laurentiis, che prontamente risponde: «mi associo ai tuoi fan, li devi rifare con la tua età, li devi rappresentare in una evoluzione, con mogli, eventuali figli e contrapporli al mondo giovanile». «Devo dire – confessa Verdone – che l’intuizione del mio produttore è stata geniale: non potevo ringiovanirmi, sarei stato patetico. Così invece avrei avuto anche la possibilità di cogliere il clima attuale e lo stato della società italiana oggi». In un mese e mezzo Verdone con Pasquale Plastino e Piero De Bernardi scrive tre soggetti: in quattro mesi il copione è pronto: «È un film corale, una grande critica di costume dove il punto di forza è una recitazione sicura, molto spigliata». Il 3 settembre 2007 iniziano a Ostia le riprese, che terminano il 16 novembre a Taormina. Il risultato è un film a tre episodi, «ovvero tre piccoli film» come tiene a sottolineare il regista. Primo episodio: “La famiglia Nuvolone”. Il personaggio è ispirato al timido e impacciato Leo di Un sacco bello e al Mimmo di Bianco, rosso e Verdone. Leo (Verdone) deve partire con la moglie (Geppi Cucciari) e i due figli per un raduno di scout. Ma la mattina della partenza muore la madre di Leo. Quella morte scatena una serie di disastri, di disavventure, di incidenti senza fine, a partire dall’incontro con i cinici impresari delle pompe funebri, ai problemi della tumulazione, ai certificati di morte, al fratello di Leo che arriva dall’Australia. Il tutto raccontato in tono favolistico. Secondo episodio: “Callisto Cagnato”. Callisto è un professore di Storia dell’Arte Medioevale e ha il Dna del logorroico Furio di Bianco, rosso e Verdone e di Raniero di Viaggi di nozze. Tutte le mogli del professore sono morte. L’uomo vive con il figlio, interpretato da Andrea Miglio Risi. Il padre è una sorta di diavolo nazista mentre il figlio è una figura candida. Questo episodio ci offre il ritratto di un uomo che all’apparenza sembrerebbe perfetto, eticamente ineccepibile, un professore austero, autorevole, colto, ma che in verità ha una

doppia personalità. Di giorno è un riverito professore, la notte si trasforma in una sorta di vampiro: va sulla Salaria e sulla Tiburtina a cercare le prostitute, contratta il prezzo, frequenta i siti porno e lo fa con una inaspettata naturalezza. «Devo confessare – spiega Verdone – che sono riuscito a far ridere con un personaggio spaventoso perché la mia recitazione è stata buona, non solo grazie alla sceneggiatura ma più che altro per la mia capacità di improvvisare sul set. Inoltre per la prima volta, nella mia lunga carriera, mi sono sdoppiato: da regista infatti non mi sono visto come Verdone attore, mi sono piuttosto sentito come Verdone che osserva un altro attore recitare. E da lì ho capito che avevo costruito un grande personaggio». Terzo episodio: “Enza e Moreno”. Enza Sessa (Claudia Gerini) e Moreno Venchiarutti (Verdone), cafoni arricchiti, hanno una catena di negozi di telefonia cellulare. Decidono di andare in vacanza con il figlio Steven per ricompattare la famiglia su invito dello psicologo. «Sono un terzetto disastrato, una famiglia impresentabile» spiega Verdone. Una famiglia dove nessuno si parla più. Dove il figlio sta sempre zitto e non parla nemmeno ai genitori; ha solo un idolo, Totti, di cui indossa sempre la maglietta, ma non può più andare allo stadio perché è stato diffidato e ha l’obbligo di firma. «Sono tre di quelle persone cafone che siamo costretti a vedere tutti i giorni nelle strade, al bar, sui treni, al cinema, in auto, negli areoporti: persone diseducate, volgari, senza gusti estetici, senza nessun senso civico e dello Stato. Una sorta di “razza”, purtroppo sempre più presente nel nostro paese», spiega il regista. Questa famiglia dove anche marito e moglie vivono senza comunicare ha affittato due suite al San Domenico di Taormina, lussuoso albergo ricavato da un convento del 1400. Ma la improbabile quiete familiare si rompe subito: dopo quarantotto ore marito e moglie litigano e ognuno prende la sua strada: i due avranno due vicende personali parallele. Alla fine della storia chi ne uscirà meglio sarà il figlio che, nella sua cafonaggine, nella sua ignoranza, si renderà conto di avere «due genitori impresentabili», spiega Verdone, che poi aggiunge: «ma nell’ultimo fotogramma ci sarà una sorta di riscatto anche per Enza e Moreno che, alla fine, non provocheranno più nello spettatore rabbia o ilarità, faranno piuttosto tenerezza proprio per quella loro squallida ignoranza e futile superficialità. Questo episodio lo chiamerei un vero e proprio piccolo film, visto che prende tutto il secondo tempo».

REGIE 1969 | Poesia solare Regia: Carlo Verdone. 1970 | Allegria di primavera Regia: Carlo Verdone. 1971 | Elegia notturna Regia: Carlo Verdone. 1974 | Anjuta Regia: Carlo Verdone (saggio di conseguimento del diploma, al Centro Sperimentale di Cinematografia). 1974 | Il castello del paesaggio laziale Regia: Carlo Verdone. 1975 | L’Accademia musicale chigiana Regia: Carlo Verdone. 1980 | Un sacco bello Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone;

fotografia: Ennio Guarnieri; musica: Ennio Morricone; montaggio: Eugenio Alabiso; scenografia: Roberto Mangoni; interpreti: Carlo Verdone (Leo, Ruggero, padre Alfio, il professore, Anselmo, Enzo), Isabella De Bernardi (Fiorenza), Luciano Bonanni, Mario Brega (il padre di Ruggero), Filippo Cirò, Fausto Di Bella, Sandro Ghiani, Veronica Mariel (Marisol), Maria Mizar Ferrara, Renato Scarpa, Filippo Trincia, Pietro Zardini; produzione: Sergio Leone; distribuzione: Medusa; durata: 99’. Premi: David di Donatello – David speciale a Carlo Verdone; Nastro d’Argento come miglior attore esordiente a Carlo Verdone. 1981 | Bianco, rosso e Verdone Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone; fotografia: Luciano Tovoli; musica: Ennio Morricone; montaggio: Nino Baragli; scenografia e costumi: Carlo Simi; interpreti: Carlo Verdone (Pasquale, Furio, Mimmo), Anna Alessandra Arlorio, Andrea Aureli, Mario Brega (il “Principe”), Giovanni Brusatori, Elena Fabrizi (nonna di Mimmo), Angelo Infanti (il playboy), Irina Sanpiter (moglie di Furio), Milena Vukotic (la prostituta), Elisabeth Wenier, Vittorio Zarfati; produzione: Medusa; distribuzione: Medusa; durata: 116’. Premi: Nastro d’Argento a Elena Fabrizi come miglior attrice esordiente (ex aequo con Carla Fracci per La storia vera della signora delle Camelie); Nastro d’argento come miglior attore a Carlo Verdone. 1982 | Borotalco Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Enrico Oldoini, Carlo Verdone; fotografia: Ennio Guarnieri; musica: Lucio Dalla, Fabio Liberatori; montaggio: Antonio Siciliano; scenografia: Andrea Grisanti; interpreti: Carlo Verdone (Sergio Benvenuti), Mario Brega (Augusto), Christian De Sica (Marcello), Isabella Gallinelli (Valeria), Eleonora Giorgi (Nadia Vandelli), Angelo Infanti (Manuel Fantoni), Roberta Manfredi (Rossella), Enrico Papa (Cristiano);produzione: Mario e Vittorio Cecchi Gori per la Intercapital Rai; distribuzione: Cineriz; durata: 130’. Premi: David di Donatello al miglior film, migliore attore protagonista (Carlo Verdone), migliore attrice protagonista (Eleonora Giorgi), migliori musiche (Lucio Dalla e Flavio Liberatori), migliore attore non protagonista (Angelo Infanti); Festival di Montreal: premio a Eleonora Giorgi come miglior attrice; Nastro d’Argento a Eleonora Giorgi come miglior attrice, miglior musica a Lucio Dalla e Flavio Liberatori; Grolla d’Oro a Eleonora Giorgi come miglior attrice protagonista. 1983 | Acqua e sapone Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Franco Ferrini, Enrico Oldoini, Carlo Verdone; fotografia: Danilo Desideri; musica: Fabio Liberatori; montaggio: Antonio Siciliano; scenografia: Franco Velchi; interpreti: Carlo Verdone (Rolando), Florinda Bolkan (madre di Sandy), Fabrizio Bracconeri (Enzo), Philip Dallas (Padre Spinetti), Elena Fabrizi (nonna Ines), Natasha Hovey (Sandy), Michele Mirabella (Guidi), Glenn Saxon (patrigno di Sandy); produzione: Intercapital; distribuzione: Ceiad; durata: 109’. Premi: David di Donatello a Elena Fabrizi come miglior attrice non protagonista. 1984 | I due carabinieri Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone; fotografia: Danilo Desideri; costumi: Luca Sabatelli; musica: Fabio Liberatori; montaggio: Antonio Siciliano; scenografia: Franco Velchi; interpreti: Carlo Verdone (Marino Spada), Enrico Montesano (Glauco Sperandio), Paola Onofri (Rita), Guido Celano (lo zio), Massimo Boldi (Adalberto Occhipinti), Claudia Poggiani (la prima zitella), Marisa Solinas (la seconda zitella), John Steiner (lo squilibrato);produzione: Mario e Vittorio Cecchi Gori per la Silver Cinematografica; distribuzione: Ceiad – Columbia; durata: 118’. 1986 | Troppo forte Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Sergio Leone, Rodolfo Sonego, Alberto Sordi, Carlo Verdone; fotografia: Danilo Desideri; costumi: Raffaella Leone; musica: Antonello Venditti; montaggio: Nino Baragli; scenografia: Franco Velchi; interpreti: Carlo Verdone (Oscar “Troppo Forte” Pettinari), Stella Hall (Nancy), Alberto Sordi (conte Giangiacomo Pignacorelli in Serci), Mario Brega (Sergio), John Steiner (Mike Adams), Sal Da Vinci (“Capua”), Ulisse Minervini (“Murena”), Salvatore Aiesi (il Barone), Giorgio Conti (avv. Cobianchi), Francesca Dominici (Susan Taylor), Giordano Falzoni (Frank), Alessandra Vazzoler (Ersilia), Mario Vivaldi (Rollins), Rodolfo Magnaghi, Alvaro Gradolla, Franco Manino, Pietro Zardini, Sergio Mirabelli; produzione: Scena Film Production; distribuzione: Titanus; durata: 110’. 1987 | Io e mia sorella Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone;

fotografia: Danilo Desideri; costumi: Luca Sabatelli; musica: Fabio Liberatori; montaggio: Antonio Siciliano; scenografia: Emilio Baldelli; interpreti: Carlo Verdone (Carlo Piergentili), Ornella Muti (Silvia Piergentili), Elena Sofia Ricci (Serena), Tomas Arana (Gabor), Galezzo Benti (Avvocato Sironi), Tom Felleghy, Mariangela Giordano (Nadia), Maurizio Fardo (Rinaldo), Veronica Lazar (giudice ungherese);produzione: Mario e Vittorio Cecchi Gori per la CG Silver Film/RAI Uno; distribuzione: Columbia Pictures Italia; durata: 109’. Premi: David di Donatello per la migliore sceneggiatura a Carlo Verdone, Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, ex aequo con L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci; premio per la migliore attrice non protagonista a Elena Sofia Ricci; Nastro d’Argento a Ornella Muti come migliore attrice protagonista e a Elena Sofia Ricci come migliore attrice non protagonista. 1988 | Compagni di scuola Regia: Carlo Verdone; soggetto: Leo Benvenuti, Rossella Contessi, Piero De Bernardi, Carlo Verdone; sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone; fotografia: Danilo Desideri; costumi: Luca Sabatelli; musica: Fabio Liberatori; montaggio: Antonio Siciliano; scenografia: Giovanni Natalucci; interpreti: Carlo Verdone (Piero Ruffolo detto “Il Patata”), Alessandro Benvenuti (Lino Santolamazza), Angelo Bernabucci (Finocchiaro), Nancy Brilli (Federica), Giusi Cataldo (Margherita Serafini), Athina Cenci (M. Rita Amoroso), Christian De Sica (Bruno Ciardulli alias Tony Brando), Maurizio Ferrini (Armando Lepore), Isa Gallinelli (Jolanda Scarpellini), Massimo Ghini (Mauro Valenzani), Eleonora Giorgi (Valeria Donati), Natasha Hovey (Cristina Romagnoli), Luisa Maneri (Gloria Montanari), Piero Natoli (Luca Guglielmi), Luigi Petrucci (Ottavio Postiglione), Fabio Traversa (Fabris), Silvio Vannucci (Attemi), Giovanni Vettorazzo (Francesco Toscani), Carmela Vincenti (Gioia Savastano); produzione: Mario e Vittorio Cecchi Gori per la CG Group Tiger Cinematografica/Rai Uno; distribuzione: Columbia Tri Star Films Italia; durata: 118’. Premi: David di Donatello ad Athina Cenci per la migliore attrice non protagonista. 1989 | Il bambino e il poliziotto Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone; fotografia: Danilo Desideri; musica: Fabio Liberatori; montaggio: Antonio Siciliano; scenografia: Giovanni Natalucci; interpreti: Carlo Verdone (Carlo Vinciguerra), Federico Rizzo (Giulio), Adriana Franceschi (Rosanna Clerici), Barbara Cupisti (Lucia), Luigi Petrucci (Maresciallo Morra), Isabella De Bernardi (poliziotta), Gianluca Favilla (poliziotto), Claudia Poggiani (giudice), Tony Brennero, Anna Maria Dossena, Francesco Gabriele; produzione: CG Group Tiger Cinematografica; distribuzione: Penta Film; durata: 118’. 1990 | Stasera a casa di Alice Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Gianfilippo Ascione, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone; fotografia: Danilo Desideri; costumi: Tatiana Romanoff; musica: Vasco Rossi; montaggio: Antonio Siciliano; scenografia: Virginia Vianello; interpreti: Carlo Verdone (Saverio), Sergio Castellitto (Filippo), Ornella Muti (Alice), Yvonne Sciò (sorella di Alice), Chiara Aymonino (Chiara), Francesca D’Aloja (Chicca), Mariangela Giordano (sensitiva), Cinzia Leone (moglie di Filippo), Beatrice Palme (moglie di Saverio); produzione: CG Group Tiger Cinematografica; distribuzione: Penta Film; durata: 123’. 1992 | Maledetto il giorno che t’ho incontrato Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Francesca Marciano, Carlo Verdone; fotografia: Danilo Desideri; costumi: Tatiana Romanoff; musica: Fabio Liberatori; montaggio: Antonio Siciliano; scenografia: Francesco Bronzi; interpreti: Carlo Verdone (Bernardo), Margherita Buy (Camilla), Elisabetta Pozzi (Adriana), Giancarlo Dettori (Attilio De Sorges), Alexis Meneloff (Altieri), Richard Benson (se stesso), Max Cane (secondo poliziotto), Dario Casarini (Flavio), Stefania Casini (Clari), Ermanno De Biagi (regista pubblicità), Simon Holmes (primo poliziotto), Gillian McCutcheon (vedova Gardner), Anthony Morton (parrucchiere), Christopher Owen (reverendo), Renato Pareti (Loris), Didì Perego (madre di Camilla), Peggy Phango (giamaicana), Count Prince Miller (Cat Fish), Valeria Sabel (madre di Bernardo), Guardial Sira (donna pakistana); produzione: Mario e Vittorio Cecchi Gori per CG Group Tiger Cinematografica/Penta Film/Silvio Berlusconi Communications; distribuzione: Penta Distribuzione; durata: 115’. Premi: David di Donatello come migliore attore protagonista (Carlo Verdone), migliore attrice non protagonista (Elisabetta Pozzi), miglior fotografia (Danilo Desideri), miglior montaggio (Antonio Siciliano), miglior sceneggiatura

(Carlo Verdone e Francesca Marciano). 1992 | Al lupo al lupo Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Gianfilippo Ascione, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone; fotografia: Danilo Desideri; costumi: Gianna Gissi; musica: Manuel De Sica; montaggio: Antonio Siciliano; scenografia: Francesco Bronzi; interpreti: Carlo Verdone (Gregorio Sagonà), Sergio Rubini (Vanni Sagonà), Francesca Neri (Livia Sagonà), Cecilia Luci (Vanessa), Barry Morse (Mario Sagonà), Giampietro Bianchi (Paolo), Fabio Corrado (Gregorio da piccolo), Stefano De Angelis (Vanni da piccolo), Marco Marciani (Giorgio), Alberto Marozzi (Ivano), Gillian McCutcheon (Diamante), Loris Paiusco (Rodolfo), Giulia Verdone (Livia da piccola); produzione: Mario e Vittorio Cecchi Gori per CG Tiger Cinematografica; distribuzione: Penta Film; durata: 115’. Premi: Nastro d’Argento per il miglior soggetto a Carlo Verdone, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi e Filippo Ascione; Nastro d’Argento per la migliore musica a Manuel De Sica. 1994 | Perdiamoci di vista Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Francesca Marciano, Carlo Verdone; fotografia: Danilo Desideri; costumi: Tatiana Romanoff; musica: Fabio Liberatori; montaggio: Antonio Siciliano; scenografia: Francesco Bronzi; interpreti: Carlo Verdone (Gepy Fuxas), Asia Argento (Arianna), Anita Bartolucci (Elda), Natalia Bizz (Aurora), Cosima Costantini (Ambra), Sonya Gessner (Magda Roversi), Aldo Maccione (Antonazzi), Massimo De Lorenzo (Riccardo), Lino Pannofino (Fabrizio), Edmondo Tieghi (padre di Arianna), Irene Bufo (Francesca), Nicola Di Foggia (Fausto), Agnese Ricchi (Alessandra), Deborah Cocco (Clara), Mariangela Giordano; produzione: Cecchi Gori Group Tiger Cinematografica; distribuzione: Penta; durata: 113’. Premi: David di Donatello come miglior regista a Carlo Verdone e ad Asia Argento come miglior attrice protagonista; Premio d’onore al merito della Repubblica Italiana. 1995 | Viaggi di nozze Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carlo Verdone; fotografia: Danilo Desideri; costumi: Tatiana Romanoff; musica: Fabio Liberatori; montaggio: Antonio Siciliano; scenografia: Maurizio Marchitelli; interpreti: Carlo Verdone (Raniero, Giovannino, Ivano), Veronica Pivetti (Fosca), Cinzia Mascolo (Valeriana), Claudia Gerini (Jessica), Manuela Arcuri (Mara), Cristina Ascani (sorella di Jessica), Maddalena Fellini (madre di Giovannino), Mario Granato (vice commissario), Ugo Luly (tenente Dezza), Marcello Magnelli (corteggiatore di Valeriana), Angela Masini (madre di Ivano), Luis Molteni (prof. De Vitis), Agnese Ricchi (Loredana), Francesco Romei (padre di Ivano), Alessandro Ruo (tenente Lo Giudice), Enzo Salomone (controllore treno), Ermanno Schiavina (vescovo), Martino Scovacricchi (col. Cassian), Gloria Sirabella (sorella di Valeriana), Edoardo Siravo (cognato di Valeriana), Nanni Tamma (padre di Giovannino), Paolo Triestino (Ugo), Gianni Vagliani (avvocato Taddei), Costantino Valente (Mirko), Adriana Volpe (Marcella); produzione: Cecchi Gori Group Tiger Cinematografica; distribuzione: Warner Bros; durata: 112’. 1996 | Sono pazzo di Iris Blond Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Francesca Marciano, Pasquale Plastino, Carlo Verdone; fotografia: Danilo Desideri; costumi: Tatiana Romanoff; musica: Lele Marchitelli; montaggio: Antonio Siciliano; scenografia: Maurizio Marchitelli; interpreti: Carlo Verdone (Romeo Spera), Claudia Gerini (Iris Blond), Patrice De Minche (Daniel), Didier De Neck (Julien), Andréa Ferréol (Marguerite), Nuccia Fumo (cartomante), Liesbet Jammes (Jacqueline), Nello Mascia (Vincenzo Cecere), Alain Montoisy (Renè), Mino Reitano (se stesso);produzione: Vittorio e Rita Cecchi Gori per la Group Tiger Cinematografica; distribuzione: Cecchi Gori Group; durata: 112’ 1998 | Dialetti miei dialetti Regia: Carlo e Luca Verdone. Lavoro di montaggio su filmati di repertorio. 1998 | Gallo Cedrone Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Pasquale Plastino, Carlo Verdone; fotografia: Danilo Desideri; costumi: Tatiana Romanoff; musica: Fabio Liberatori; montaggio: Antonio Siciliano; scenografia: Maurizio Marchitelli; interpreti: Carlo Verdone (Armando Feroci), Giorgia Brugnoli (Morena Feroci), Maria Luisa Busi (se stessa), Piero Di Carlo (presentatore quiz Tv), Roberto Mincuzzi (Quinto), Ines Nobili (Marcella Feroci), Regina Orioli (Martina), Enrica Rosso

(Egle), Paolo Triestino (Franco Feroci), Mario Granato (giudice conciliatore), Alessia Bruno, Ernesto Fioretti, Tony Brennero, Marcello Magnelli, Mimma Petrelli, Gloria Sirabella, Costantino Valente; produzione: Cecchi Gori Group Tiger Cinematografica; distribuzione: Cecchi Gori Group; durata: 98’. 1999 | C’era un cinese in coma Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Pasquale Plastino, Carlo Verdone, Giovanni Veronesi; fotografia: Danilo Desideri; costumi: Tatiana Romanoff; musica: Fabio Liberatori; montaggio: Antonio Siciliano; scenografia: Franco Velchi; interpreti: Carlo Verdone (Ercole Preziosi), Beppe Fiorello (Nicky Renda), Marit Nissen (Eva), Anna Safroncik (Maruska, figlia di Ercole), Nanni Tamma (Tiepolo, mago prestigiatore), Annalisa Cucchiara (Moira, segretaria di Ercole), Giorgia Bongianni (Daniela, assistente di Ercole), Rosaura Marchi (madre borghese), Roberta Mancino (ragazza con foto senza veli), Romano Sommadossi (sosia di Stallone), Luisa Nardelli, Lucia Nardelli (ballerine gemelle), Salem Mohamed Badr (Amir), Tatiana Illari Dell’Acqua (Zenda, giovane contorsionista), Sonia Tozzi (Sonia, ragazza di Nicola), Antonia Liskova (Melanie), Mary Asiride (Fiona), Antonella Mosetti (ragazza in Mercedes con Nicky), Harold Davies (presentatore della sfilata), Antonio Conte (Assessore alla Cultura), Giovanni Febraro (agente di zona), Maria Teresa Battaglia (sig.ra Cavallari, madre ragazza sfilata), Fulvia Lorenzetti, Rosaria Mattera, Raffaella Muscillo, Alessia Vallesi (gruppo “chewing-gum”), Renato Campese (chirurgo), Lucio Caizzi (Rudy Sciacca); produzione: Cecchi Gori Group Tiger Cinematografica; distribuzione: Cecchi Gori; durata: 110’. 2003 | Ma che colpa abbiamo noi Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Piero De Bernardi, Pasquale Plastino, Fiamma Satta, Carlo Verdone; fotografia; Danilo Desideri; costumi Maurizio Millenotti; musica: Lele Marchitelli; montaggio: Claudio Di Mauro; scenografia: Maurizio Marchitelli; suono: Tommaso Quattrini; interpreti: Carlo Verdone (Gegé), Margherita Buy (Flavia), Anita Caprioli (Chiara), Stefano Pesce (Marco), Antonio Catania (Ernesto), Lucia Sardo (Gabriella), Max Amato (Luca), Raquel Sueiro (Daria), Luciano Gubinelli (Alfredo), Sergio Graziani (Camillo Tinacci), Roberto Accornero (Massimo), Rodolfo Corsato (Aldo), Fabio Traversa (uomo 35enne), Remo Remotti (maggiordomo), Roberto Attias (poliziotto), Lorenzo Baldacci (Manuel), Giovanna Bavicchi (mamma di Alfredo), Bruna Bossi (moglie di Aldo), Tony Brennero (Michele), Giorgia Brugnoli (Alessandra), Albano Bufalini (portiere residence), Giuditta Cambieri (Laura, moglie di Ernesto), Roberto Ceccacci (bigliettaio), Amedeo D’Amico (Antonio), Carmela Danise (Gemma), Ida Eccher (Dott.essa Lojacono), Maria Dolores Genolini (cameriera), Antonio Fulfaro (macchinista), Raffaella Lebboroni (Marisa), Andrea Lucchi (Vito), Paolo Mannina (barman), Marina Pennafina (Signora agriturismo), Raffaele Pezzella (venditore autosalone), Annalisa Pezzotta (commessa profumeria), Dario Placidi (Ermanno), Enrico Pozzi (proprietario agriturismo), Daniel Prosperi (Fabio figlio di Ernesto), Paola Sotgiu (agente immobiliare);produzione: Virginia Srl; distribuzione: Warner Bros Italia; durata: 116’. 2004 | L’amore è eterno finché dura Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Carlo Verdone, Francesca Marciano, Pasquale Plastino; fotografia: Danilo Desideri; scenografia: Maurizio Marchitelli; costumi: Francesca Sartori; montaggio: Antonio Siciliano; musica: Fabio Liberatori; interpreti: Carlo Verdone (Gilberto Mercuri), Laura Morante (Tiziana Mercuri), Stefania Rocca (Carlotta), Rodolfo Corsato (Andrea), Gabriella Pession (Stella), Elisabetta Rocchetti (Carolina), Orsetta de’ Rossi (Graziella), Lucia Cerracchi (Marta Mercuri), Giovanni Corbellini (Prof. D’Errico), Claudio Ammendola (Paolo), Guglielmo Cascioli (direttore speed date), Antonio Catania (Guido); produzione: Cecchi Gori Group Tiger Cinematografica; distribuzione: Medusa Film; durata: 108’. Premi: Nastro d’Argento come miglior attrice protagonista a Laura Morante. 2006 | Il mio miglior nemico Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Silvio Muccino, Pasquale Plastino, Silvia Ranfagni, Carlo Verdone; fotografia: Danilo Desideri; scenografia: Maurizio Marchitelli; costumi: Tatiana Romanoff; montaggio: Claudio Di Mauro; musica: Paolo Buonvino; interpreti: Carlo Verdone (Achille De Bellis), Silvio Muccino (Orfeo Rinalduzzi), Ana Caterina Morariu (Cecilia), Agnese Nano (Gigliola Duranti), Corinne Jiga (Ramona), Sara Bertelà (Annarita Rinalduzzi), Leonardo Petrillo (Riccardo), Paolo Triestino (Guglielmo Duranti), Roberto Attias (Poliziotto ospedale); produzione: Aurelio De Laurentiis; distribuzione: Filmauro; durata: 110’.

2008 | Grande, grosso e Verdone Regia: Carlo Verdone; soggetto e sceneggiatura: Piero De Bernardi, Pasquale Plastino, Carlo Verdone; fotografia: Danilo Desideri; costumi: Tatiana Romanoff; musiche: Fabio Liberatori; montaggio: Claudio Di Mauro; scenografie: Luigi Marchione; interpreti: Carlo Verdone, Claudia Gerini, Cinzia, Formasier, Roberto Farnesi, Martina Pinto, Vittorio Emanuele Propizio, Eva Riccobono, Andrea Miglio Risi, Geppi Cucciari; produzione: Luigi e Aurelio De Laurentis; distribuzione: Filmauro; uscita prevista: 7 marzo 2008. INTERPRETAZIONI 1978 | Una settimana come un’altra Regia: Daniele Costantini; soggetto e sceneggiatura: Daniele Costantini; fotografia: Tonino Maccoppi; scenografia: Paolo De Manincor; costumi: Katia Dettori; musica: Steve Lacy; interpreti: Leonardo Treviglio (Sergio), Donato Sannini (Donato), Carlo Monni (Carlo), Chiara Moretti, Marcella Michelangeli, Carlo Verdone; produzione: Coop. Ars Nova; distribuzione: Indipendenti Regionali; durata: 89’. 1979 | La luna Regia: Bernardo Bertolucci; soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Bertolucci, Bernardo Bertolucci, Claire People; fotografia: Vittorio Storaro; scenografia: Maria Paola Maino e Gianni Silvestri; costumi: Lina Taviani; montaggio: Gabriella Cristiani; musica: Giuseppe Verdi; interpreti: Jill Clayburgh (Caterina Silveri), Matthew Barry (Joe), Fred Gwynne (Douglas), Elisabetta Campeti (Arianna), Veronica Lazar (Marina), Peter Eyre (Edward), Julian Adamoli (Julian), Jole Silvani (guardarobiera dell’Opera), Carlo Verdone (direttore di Caracalla), Enzo Siciliano (direttore d’orchestra al Teatro dell’Opera), Tomas Milian (Giuseppe);produzione: Giovanni Bertolucci per la Fiction Cinematografica; distribuzione: Twentieth Century Fox; durata: 140’. 1982 | Grand Hotel Excelsior Regia, soggetto e sceneggiatura: Castellano & Pipolo; fotografia: Danilo Desideri; scenografia: Bruno Amalfitano; costumi: Luca Sabatelli; montaggio: Antonio Siciliano; musica: Armando Trovajoli; interpreti: Adriano Celentano (Taddeus), Enrico Montesano (Egidio Costanzi), Carlo Verdone (Pericle Coccia), Diego Abantantuono (Mago di Segrate), Eleonora Giorgi (Ilde Vivaldi), Aldina Martano (Fatima), Armando Brancia (Bertolazzi), Isabella Amodeo (Maria), Daniela Intrioni (la bambina); produzione: Mario e Vittorio Cecchi Gori per la Intercapitol; distribuzione: CIC; durata: 130’ 1982 | In viaggio con papà Regia: Alberto Sordi; soggetto: Rodolfo Sonego, Alberto Sordi; sceneggiatura: Rodolfo Sonego, Alberto Sordi, Carlo Verdone; fotografia: Sergio D’Offizi; scenografia: Emilio Baldelli; costumi: Bruna Parmesan; montaggio: Tatiana Morigi; musica: Piero Piccioni; interpreti: Alberto Sordi (Armando), Carlo Verdone (Cristiano), Giuliana Calandra (Rina Canegatti), Angelo Infanti (Gianni), Edy Angelillo (Soraya), Ugo Bologna (ing. Mantovani), Flora Mastroianni (Luciana), Angela Cardile (signora Mantovani), Tiziana Pini (Federica), Francesca Ventura (Valentina), Victoria Zinny (Susanna); produzione: Augusto Caminito per la Scena Film; distribuzione: Titanus; durata: 113’. 1984 | Cuori nella tormenta Regia: Enrico Oldoini; soggetto e sceneggiatura: Enrico Oldoini, Ettore Scola, Furio Scarpelli, Carlo Verdone; fotografia: Sandro D’Eva; scenografia e costumi: Giuseppe Magano; montaggio: Alberto Gallitti; musica: Manuel De Sica; interpreti: Carlo Verdone (Walter Migliorini), Lello Arena (Raffaele Cuoco), Marina Suma (Sonia), Rossana Di Lorenzo (la madre di Walter); produzione: Pio Angeletti e Adriano De Micheli per International Dean Film e Franco Committeri per la Massfilm; distribuzione: Titanus; durata: 100’. 1986 | Sette chili in sette giorni Regia: Luca Verdone; soggetto e sceneggiatura: Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Luca Verdone; fotografia: Danilo Desideri; scenografia: Franco Velchi; costumi: Luca Sabatelli; montaggio: Antonio Siciliano; musica: Pino Donaggio; interpreti: Carlo Verdone (Alfio Tamburini), Renato Pozzetto (Silvano Baracchi), Tiziana Pini (la bella signora), Silvia Annichiarico (Samantha), Annabella Schiavone, Lella Fabrizi; produzione: Mario e Vittorio Cecchi Gori per Cecchi Gori Silver Film; distribuzione: Columbia Pictures Italia; durata: 113’.

2000 | Zora la vampira Regia, soggetto e sceneggiatura: Manetti Bros; fotografia: Federico Schlatter; costumi: Cinzia Lucchetti; musica: Dj Gruff, Squarta; montaggio: Federico Maneschi; interpreti: Toni Bertorelli, Micaela Ramazzotti, Carlo Verdone, Chef Ragoo, Marco Manetti, Selen; produzione: Carlo Verdone e Marco Scaffardi per Virginia Film Srl; distribuzione: Mario e Vittorio Cecchi Gori; durata: 100’. 2005 | Manuale d’amore Regia: Giovanni Veronesi; soggetto: Vincenzo Cerami; sceneggiatura: Ugo Chiti, Giovanni Veronesi; fotografia: Giovanni Canevari; musica: Paolo Buonvino; montaggio: Claudio Di Mauro; scenografia: Luca Gobbi; costumi: Gemma Mascagni; interpreti: Carlo Verdone (Goffredo), Luciana Littizzetto (Ornella), Silvio Muccino (Tommaso), Sergio Rubini (Marco), Margherita Buy (Barbara), Jasmine Trinca (Giulia), Rodolfo Corsato (Alberto Marchese), Dino Abbrescia (Gabriele), Dario Bandiera (Piero), Luis Molteni (avvocato di Goffredo), Sabrina Impacciatore (infermiera Luciana), Anita Caprioli (Livia), produzione: Aurelio De Laurentiis per Filmauro Dada Film; distribuzione: Filmauro; durata: 90’. Premi: David di Donatello come miglior attore non protagonista a Carlo Verdone; Nastro d’Argento a Carlo Verdone come miglior attore non protagonista; Ciak d’Oro a Carlo Verdone come miglior attore della stagione cinematografica italiana. PER IL TEATRO 1971 | Gesta Opera burattinaia di Maria Signorelli. Carlo Verdone svolge il ruolo di attore e animatore 1971 | Pittura sul legno Regia: Luca Verdone; Carlo Verdone svolge il ruolo di attore (da un testo di Ingmar Bergmar). 1973 | Il mondo dei Rabelais Regia: Luca Verdone; Carlo Verdone interpreta Pamurgo. 1977 | Tali e quali Scritto, diretto e interpretato da Carlo Verdone. 1977 | Rimanga fra noi Scritto, diretto e interpretato da Carlo Verdone. 1980 | Senti chi parla Scritto, diretto e interpretato da Carlo Verdone. 1992 | Il barbiere di Siviglia (Teatro dell’Opera di Roma e stagione estiva Caracalla). Regia: Carlo Verdone. PER LA TELEVISIONE 1977 Del resto fu un’estate meravigliosa 1978 Non stop 1981 Al Paradise 1982 “A” come Alice 1982 Un sacco Verdone 1982 Che fai ridi? 1999 Orgoglio coatto PER LA RADIO

1977 Radio anch’io 1978 Gli altri siamo noi PUBBLICITÀ 1989 Polo, Nestlè 1992 Agip 1993 Campagna antipirateria cinematografica 1994 Status single; Silhouette ultra, Johnson & Johnson; Ip 1995 Galbani DOPPIAGGI 2000 | La gabbianella e il gatto Regia: Enzo D’Alò Nel 2003 Carlo Verdone ha ricevuto il Nastro d’Argento alla carriera.

SCRITTI DI E SU CARLO VERDONE

Carlo Verdone (a cura di), Naso a patata, Sei, Torino, 1983. Aldo Piro, Verdone: in che senso scusa?, Marsilio Editore, Venezia, 1988. “Doppio corpo: il cinema di Carlo Verdone”, contenuto nel volume Eastwood - Verdone. L’uomo con la macchina da presa, a cura di Walter Mazzetta e Marco Pizzo, Arte stampa, Rieti, 1993. Georgette Ranucci, Stefanella Ughi (a cura di), Carlo Verdone, Dino Audino, Roma, 1994. Alberto Castellano (a cura di), Intervista a Carlo Verdone, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996. Franco Montini, Carlo Verdone, Gremese, Roma, 1997. Carlo Verdone, Un bel giorno mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana, a cura di Antonello Panero, Gremese, Roma, 1998. Carlo Verdone, Marco Giusti, Fatti coatti (o quasi), Mondadori, Milano, 1999. Volume e atti della rassegna “Primo piano sull’autore. Carlo Verdone: difetti speciali”, tenutosi ad Assisi tra il 19 e il 24 novembre 2001. ARTICOLI

Gian Luigi Rondi, Faccio ridere con la gente che vive nel vuoto, «Il Tempo», 6 luglio 1979.

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