Banchetti letterari. Cibi, pietanze e ricette nella letteratura italiana da Dante a Camilleri 9788843062386, 8843062387

Dal pane di Dante e di Manzoni al risotto di Gadda, dalle salsicce del Decameron al timballo di maccheroni del Gattopard

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Banchetti letterari. Cibi, pietanze e ricette nella letteratura italiana da Dante a Camilleri
 9788843062386, 8843062387

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Sfere 66

Banchetti letterari Cibi, pietanze e ricette nella letteratura italiana da Dante a Camilleri A cura di Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi

Carocci editore

ristampa, novembre 2017 1a edizione, novembre 2011 © copyright 201 r by Carocci editore S.p.A., Roma a

1

Riproduzione vietata ai sensi di legge ( art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 6 3 3) Siamo su: http://www.carocci.it http://www.facebook.com/caroccieditore http://www.twitter.com/caroccieditore

Indice

Introduzione 9 di Gian Mario Anse/mi e Gino Ruozzi Abbuffata ( Carlo Varotti) 13 Acqua (Fabio Giunta) 23 Aglio (Rossana Vane/li Coralli)

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Birra (Francesco Benozzo) 38 Bistecche e braciole (Alberto Sebastiani) Burro (Barbara Troise Rioda) 54

46

Cacciagione (Andrea Cazzoni) 61 Caffè, tè, cioccolata e biscotti (Nicolò Ma/dina) 68 Cassate, gelatine, sorbetti e gelati (Elisa Curti) 75 Castagne (Elisa Curti) 85 Cibi d'inferno ( Giuseppe Ledda) 92 Cibi dei migranti (Fulvio Pezzarossa) 100 Cibi di guerra ( Cinzia Ruozzi) 108 Cibi di paradiso ( Giuseppe Ledda) 118 Cibi dietetici (Lucia Rodler) 126 Cibi magici (Sarah Cruso) 132 Cibi polizieschi (Michele Righini) 139 Colazione ( Gian Mario Anse/mi) 146 Cucina ebraica e cibo kasher (Eleonora Conti) 153 Cucina futurista (Daniela Baroncini) 166 Dolci e torte (Eleonora Conti)

172

Formaggi (Alberto Natale) 181 Frutta e verdura ( Gino Ruozzi) 190 Latte (Irene Palladini) 196 Legumi (Stefano Co/angelo) Liquori (Denise Aricò) 210 7

204

«Magnagat», mangiauomini e altri gourmet (Silvia Tornasi) Merendine (Marco Marangoni) 223 Minestre e zuppe ( Gino Ruozzi) 230 Olio, olive ( Giulio Iacoli)

236

Pane (Maria Rosa Panté) 243 Pasta e maccheroni (Bruno Capaci) 254 Patate (Stefano Scio/i) 262 Pesci (Francesca Ricci) 269 Piada (Stefano Pavarini) 276 Pizza (Fabio Giunta) 282 Polenta (Andrea Severi) 288 Polpette ( Giovanni Baffetti) 296 Pomodoro (Francesca Florimbii) 301 Pranzi e cene (Noemi Billi) 308 Risotti ( Giovanna Mosconi)

318

Sale, pepe, peperoncino e spezie (Nicolò Ma/dina) Salumi e insaccati (Nicola Bonazzi) 331 Tartufi e funghi (Loredana Chines) Uova e frittate ( Cinzia Ruozzi) Vino (Marco Veglia)

353

Zucchero (Denise Aricò) Bibliografia

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Indice dei nomi

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399

362

346

338

325

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Introduzione di Gian Mario Anselmi e Gino Ruozzi

Nel racconto Dolcezza, incluso nel Sil/a,bario n. 1 (1972), Goffredo Parise parla di un ricordo di felicità legato a una giornata veneziana ritmata dalla cadenza dei cibi: cappuccino spolverato di cacao e fagottini di pasta sfoglia calda e pasta di mandorle a colazione (i Kipferl); risotto di vongole aglio e prezzemolo, polipi bolliti e Tokai friulano a pranzo; aragosta freschissi­ ma e Silvaner a cena. Parise comunica un fascino speciale quando scrive di cibi, perché lo fa con natu­ ralezza ed eleganza, con una sobrietà e una necessità interiori, che si amalgamano perfettamente al racconto. Lo fa in maniera e con toni diversi dal suo amato maestro Giovanni Comisso, nelle cui storie il cibo è un rito e un evento bacchico, di festa collettiva, di allegria agreste. La comunità di Parise è per lo più a due, talvolta anche solitaria, intima e lenta, di evocativi silenzi e parole raccolte. Quella di Comisso è sovente rumorosa, aperta al mondo, espansiva e addirittura mercantile, come descrive in più di un passaggio della Mia casa di campagna (1958). Parise offre uno degli ultimi ritratti di Comisso nel racconto Poesia, inserito in Sil/a,bario n. 2 (1982); è un ritratto pieno di affetto e di poesia, mimetico delle proverbiali stranezze del «poeta» in prosa Comisso, una cui «misteriosa malattia l'aveva ingrassato come un frutto enorme». Il poeta, che parla dei propri Amori d'Oriente con «ammirazione golosa come si trattasse di un cibo», sembra tornato allo stato infantile e assomiglia a «un contadino un poco rimbambito»; tuttavia gli occhi «molto lucidi, ironici e pieni di sensualità soddisfatta>> esprimono una salute essenziale e definitiva, il contatto pieno con «la vita, la bellezza della vita». Il cibo è senza dubbio una delle cose necessarie e buone della vita; si po­ trebbe aggiungere belle. Con un rapporto intrinseco con la letteratura. In que­ sta ricerca abbiamo cercato di documentare, descrivere e capire il legame tra il cibo e l'invenzione letteraria, studiandone la presenza e la consistenza all'in­ terno della nostra cultura. Senza ambizioni esaustive, ma scegliendo temi e percorsi significativi. Il punto di partenza è il cibo nelle opere degli scrittori e 9

BANCHETTI LETTERARI

ci siamo pertanto attenuti a un elenco di alcune decine di voci scelte ed esami­ nate per la loro importanza letteraria. A quelle più tradizionali abbiamo acco­ stato voci di carattere generale che trovano poco spazio nei libri di ricette ma ne hanno invece uno rilevante nel particolare ricettario della letteratura (per esempio i cibi d'inferno e di paradiso, i cibi magici e quelli polizieschi), nell'am­ bito delle diverse tradizioni etniche e sociali, storiche e di attualità (cibi kasher e cibi dei migranti), in particolari contingenze e situazioni storiche ed esisten­ ziali (cibi di guerra e magnagat), socioculturali (cibi dietetici), storico-letterarie (cucina futurista), nell'immaginario culturale collettivo (abbuffata). L'interesse culturale per il cibo e le sue relazioni con la letteratura si è mol­ tiplicato negli ultimi decenni; basti pensare alle tante opere di storici, filosofi, antropologi e letterati dedicate al tema e alle sue numerose diramazioni. In Italia sono state senza dubbio esemplari le ricerche di Piero Camporesi e di Emilio Facciali, di Vito Fumagalli, Massimo Montanari, Alberto Capatti, che si sono innestate sulla linfa vitale di indagini sul campo condotte da scrittori appassionati di cibo come Paolo Monelli, Mario Soldati, Gianni Brera, Luigi Veronelli, Folco Portinari. Uno dei segnali più significativi è il riconoscimen­ to di «classico» della letteratura attribuito al libro La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi (1891), così come lo indicava già nel 1948 Giuseppe Prezzolini accostandolo, per motivi diversi, a Dante e a Pinocchio. Da allora (soprattutto per merito dell'edizione curata da Camporesi per Ei­ naudi nel 1970) la fama e la conoscenza dell'opera di Artusi si sono consolida­ te ed estese, favorendo gli studi di lingua e di letteratura gastronomica. Nella letteratura italiana la centralità del cibo è stata evidente fin dall'ini­ zio e ribadita in ogni passaggio d'epoca. Basti pensare al rilievo reale e metafo­ rico del cibo nella Commedia e nel Convivio di Dante; nelle novelle del Deca­ meron di Boccaccio; nelle Intercenali di Alberti; nel Cortigiano di Castiglione e nel Galateo di Della Casa; nei Promessi sposi di Manzoni e nelle novelle e nei romanzi di Verga; nelle opere di Gadda e di Calvino; nel Ventre di Napoli di Matilde Serao, in Fame e in Nascita e morte della massaia di Paola Masino. Il pane in primo luogo, come documenta la rivolta manzoniana; e il vino, come mostra l'arguzia di Cisti fornaio, che grazie al cibo compie un significativo progresso sociale. Il cibo è insieme necessità e piacere, segno inequivocabile di potere, controllo e supremazia. La tavola può unire o dividere, mescolare o ri­ badire le differenze di classe, come mostrano a Renzo e Lucia novelli sposi il pur gentile successore di don Rodrigo e ai propri convitati di Donnafugata il principe di Salina. In ogni tempo e in ogni religione, in ogni utopia come in ogni program­ ma di vita il cibo la fa da padrone: siamo di carne e sangue e gli istinti primi non si possono eludere. Il corpo è parte essenziale della nostra natura di "ani­ mali pensanti" e, in positivo come in negativo, in abbondanza come in ecces10

INTRODUZIONE

so, mangiare, bere, fare sesso sono il cuore profondo del nostro istinto di so­ pravvivenza, anzi il miglior antidoto alla morte nel segno di vita e vitalismo naturali. Nell'Eden Adamo ed Eva non avevano bisogno di procurarsi il cibo, la natura incontaminata del paradiso terrestre forniva loro ogni genere di nu­ trimento e al tempo stesso è un frutto proibito, la mela fatale, che li conduce alla tentazione e alla perdizione: intorno al cibo e alle sue forme, fin dal Gene­ si, si gioca una partita decisiva. Il cibo come simbolo di prosperità, di vita e di abbondanza ma anche metafora di possibile caduta e peccato originario è in­ somma agli inizi del "canone occidentale" e del suo "Grande Libro". Da allo­ ra in poi non ha più abbandonato i testi, le narrazioni, le letterature: infinite sono state le sue rappresentazioni (ma si pensi anche alle altre arti fra cui so­ prattutto pittura e cinema) nel segno della gioia godereccia, della fatica per procurarselo, della sua assenza fino al degrado della fame, incubo terribile di ogni tempo e ancor oggi ben presente in tante sfortunate regioni del mondo. Bere e mangiare (ce lo hanno insegnato i magistrali studi di Piero Camporesi cui idealmente dedichiamo questo volume) sono entrati nelle narrazioni po­ polari come in quelle colte; hanno assunto una forte pregnanza metaforica e allegorica sia in senso religioso che laico. Non solo nella Bibbia, come si dice­ va, la cosa è eclatante ma ancor più forse nel Nuovo Testamento dove il Pane e il Vino divengono "figura" del Corpo e del Sangue del Redentore e l'agnel­ lo simbolo sacrificale e immagine stessa del martirio offerto da Gesù agli uo­ mini come l'acqua era stato l'elemento fondativo del suo Battesimo. Ma Ge­ sù opera anche miracoli emblematici: alle nozze di Cana fa scorrere vino in abbondanza, quando ormai pareva terminato, per non turbare la gioia di una festa di matrimonio e in altra occasione moltiplica pane e pesci di fronte a tanti poveri e affamati. Non a caso queste immagini del Vangelo sono entrate in ogni forma di linguaggio, di detto popolare, di allusione religiosa nelle cui• • ture cr1st1ane. Ali'altro capo la cultura laica con le sue letterature ha sempre celebrato ad ogni livello il buon cibo e le buone bevande, ora esaltandone delizia ed abbon­ danza ora invitando alla moderazione nel loro uso: in ogni caso picchettando tra i territori del "piacere" per eccellenza, accanto ali'amore e ali'amicizia, il poter godere di una buona tavola. Non casualmente la penuria di cibo e di ac­ qua, la paura ancestrale della fame e della sete risaltano in testi della letteratura di ogni tempo. E il "banchetto" come luogo di scambio dialogico e di conver­ sazione e come nutrimento assume precocemente da un lato il valore di ritro­ vo tra amici per eccellenza gradevole e dall'altro diviene simbolo di "banchet­ to" dell'anima, di testi volti ad apparecchiare il nutrimento del "sapere" (dal Simposio di Platone e via via fino al Convivio di Dante e oltre). Per altro nel mondo contemporaneo dei paesi opulenti gli assilli dietetici, le prescrizioni mediche, le ansie della "forma perfetta" e del fisico asciutto e ideale tentano di 11

BANCHETTI LETTERARI

arginare il cibo e di esorcizzarne la funzione di piacere inderogabile ripropo­ nendo, in chiave laica, l'ideale monastico (talora di derivazione orientale e non solo cristiano) della rinuncia e della dieta con pochi ingredienti essenziali (le diete vegetariane con l'assenza di bevande alcoliche) fino al rischio delle patologie conseguenti (anoressia, bulimia). Siamo insomma di fronte a un al­ tro punto di osservazione straordinario che la letteratura ci offre per aiutare a capire noi stessi e la nostra storia e a partire dal gesto decisivo che ci porta all'i­ stinto di afferrare un cibo, di dissetarci, di gustare sensitivamente i più dispa­ rati sapori; gusto, tattilità, odorosità, contemplazione di un cibo ben apparec­ chiato ci avvicinano, con tutti i sensi, alla nostra natura, al nostro corpo, alla fisicità, sbaragliando ogni pretesa di rinchiuderci in mondi solo virtuali. Se­ guiamo, attraverso la nostra straordinaria letteratura, lo svolgersi affascinante di questa storia così per altro connessa ad una delle più peculiari forme identi­ tarie del nostro paese (proprio nel centocinquantesimo dell'Unità), il paese appunto per eccellenza del buon bere e del buon mangiare.

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Abbuffata di Carlo Varo tti

In quanto funzione essenziale della condizione uma­ na, tutte le società hanno sottoposto a norme più o meno vincolanti l'assunzione del cibo, con regole, divieti e tabù. Non possiamo toccare che di sfuggita le molteplici implicazioni antropologico-culturali del tema: e i le­ gami archetipici tra abbuffata ed esorcizzazione della penuria; tra ipernutrizione, grassezza e fertilità fem­ minile. Sono fattori di cui possiamo trovare le tracce in tante norme religiose, nelle cadenze del calendario o nelle credenze popolari, sia sul piano delle espressioni socio-comportamen­ tali, sia nelle aree complesse e mediate dell'immaginario. Ed è appunto in que­ sto ambito che le interazioni con l'immaginario letterario diventano stringen­ ti, aprendosi a un sistema complesso e sfumato di relazioni. Pensiamo in pri­ mo luogo al Carnevale e al vasto repertorio di immagini del folclore: in un gioco complesso e multiforme di reciproche appropriazioni e ri-usi. Sulla scorta delle geniali intuizioni di Bachtin, difficilmente l'immagine vitale e gioiosa dell'abbuffata può ignorare il legame con il rovesciamento "carnevale­ sco" dei valori ufficiali: imponendosi come forma archetipica dell'anti-regola, rappresentazione icastica dell'a-nomia, dello sberleffo de-idealizzante opposto a ogni volontà monumentale e celebrativa. Cosicché l'abbuffata e la compia­ ciuta rassegna dei cibi diventano spesso parodia dell'eroico, contrapposizione alla lingua monolitica del potere attraverso la mescolanza variopinta dei lin­ guaggi e degli stili. La relazione abbuffata/parodia sembra condurci alle origini stesse dell'imma­ ginario occidentale. Se la prima espressione letteraria a noi nota di una conce­ zione eroica della vita e del personaggio è quella che troviamo nei poemi ome­ rici, non stupisce che proprio su quelle modalità stilistiche e contenutistiche si eserciteranno le prime forme di parodia letteraria di cui ci sia giunta notizia. Solo un breve cenno alla Batracomiomachia (la Battaglia delle rane e dei topi) 13

BANCHETTI LETTERARI

che gli antichi vollero addirittura attribuire a un Omero parodiatore di sé stes­ so, tanto da celebrare le gesta ridicole degli eroi meschini di uno stagno. Né citeremmo l'operetta se non fosse per un'inventiva onomastica dei personaggi che rimanda al quotidiano della cucina e del ventre; un tripudio di piccoli ro­ ditori dai nomi composti (come Tiròglifo [il Grattacacio] o Embasichitro [il Montapignatte]) che formalmente riecheggiano le altisonanti prosapie aristo­ cratiche. Ma è a Ipponatte che dobbiamo guardare, il grande poeta di Efeso (vI secolo a.C.) che gli antichi vollero "inventore" (euretés) della parodia. E significativo che il primo sistematico e coerente esempio di parodia omerica di cui si abbia notizia consista proprio nella celebrazione iperbolica di un ghiot­ tone impenitente. L'efficacia del rovesciamento del canone formale omerico, e del suo prestigio normativo, marca così il trionfo del ventre e delle ragioni "basse" di cui esso è portatore, quasi ad assegnare all'abbuffata (in un momen­ to aurorale della tradizione occidentale) il ruolo di protagonista negativa nella dualità bipolare alto e basso, tragico e comico. Il poeta di Efeso in un famoso frammento chiede alla Musa di ispirarlo per celebrare non già l'umana eccellenza di Achille (e la sua prepotente «ira fu­ nesta») o la variegata intelligenza del versutus Odissea (l'uomo dalle mille vie e possibilità), bensì il gorgo onnivoro e mostruoso, lo stomaco del formidabile mangiatore Eurimedonte. «Cantami o Musa di Eurimedonte / il gorgo ocea­ nico tritavivande / che senza misura divora» ecc. Quello di Ipponatte è solo il primo esempio di un'associazione tra moduli formali della poesia eroica ome­ rica e argomenti bassi del ventre e dell'abbuffata che costituirà nella Grecia antica una consolidata tradizione, alla quale attingerà Tommaso Garzoni nella Piazza universale di tutte le professioni del mondo. Se la Piazza stessa, inconte­ nibile enciclopedia barocca, è espressione di una voracità onnicomprensiva in cui lo scibile si accumula in un gioco vario di associazioni e di casuali aggrega­ zioni, sembra quasi naturale che Garzoni, nel "discorso" dedicato ai cuochi, si dimostri affascinato proprio dall'ingordigia, dalle abbuffate di cui le fonti, in gran parte antiche (Matrone e Ateneo), parlano. Ali'amplificazione barocca delle immagini e delle parole corrisponde un tripudio gioioso di vivande, in cui un vero e proprio furore nomenclatorio di cibi "moderni" si affianca alla rassegna di un'aneddotica antica di incontenibili mangiate. Così (per limitarci solo ai «cibi di pasta») ci sono «polente, gnocchi, macheroni, lasagne, tagliatel­ le, vermicelli, sfogliate di più sorte, mantegate, tortelli, tortelletti, ritortelli, truffali, ravioli senza spoglia e con la spoglia, cascose, casatelli, morselli, pasta tedesca, stelle, stellette, offelle, fiadoni, fiadoncelli, rosoni, guanti, torte, reti­ celle, pasta finta, pastelli, pastadelle, pastelletti, mariconda, frittelle, frittelline, migliaccio, frilingoti, crostelli, crostate e levatelli» ("discorso" XCIII: De' cuo­

chi e altri ministri simili, come scalchi, guatari, credenzieri, trincianti, canevari o bottiglieri, servitori da tavola, convitanti, et caetera). Accanto all'incontenibile 14

ABBUFFATA

lista dei cibi Garzoni aggiunge la lista di abbuffate testimoniate dalle fonti an­ tiche. E c'è una sorta di corrispondenza tra l'abbuffata di cibo e quella di paro­ le, in un crescendo iperbolico in cui la voracità diviene qualcosa di assoluto, persino pulsione di morte e autodistruzione: Astidamante milesio che al convito del re Ariobarzane, con stupore di tutti infinito, de­ vorò da sé solo quanto era preparato per tutti insieme; Cambie, re de' Lidi, che fu tanto vorace che una notte si devorò la propria moglie che gli era appresso; e finalmente l'in­ credibile essempio d'Erisictone che, per estrema voglia di mangiare, si ruose le membra del corpo da se medesimo.

L'eccesso iperbolico di cibo, fino all'assolutezza autodistruttiva, è motivo che ricorre nelle tradizioni folkloriche più disparate, a conferma della sua dimen­ sione archetipica. E se i racconti di mangiate smisurate sono ben documentati nei racconti folklorici, casi simili all'«incredibile essempio d'Erisictone» di cui parla Garzoni ricorrono in fiabe degli Indiani d'America e della Groenlandia. Alla dimensione diseroicizzante della parodia omerica di Ipponatte e di Matrone possiamo accostare nella nostra letteratura il Morgante di Luigi Pul­ ci, che rivisita gli eroi della tradizione cavalleresca affidandosi a uno spirito carnevalesco e ridicolizzante. Si pensi alla figura di Margutte, il mezzo gigante, ladro e traditore, protagonista di due felicissimi canti del poema (il XVIII e il XIX), quasi interamente occupati dalle avventure mangerecce e culinarie del duo Margutte-Morgante. Quando Morgante, il gigante domato da Orlando e convertito al cristianesimo, incontra per strada Margutte e gli chiede conto della sua fede, la famosa risposta che riceve da Margutte parodizza la profes­ sione di fede del cristiano, con una rassegna di cibi che costituiscono la Trini­ tà e la personale corte di santi del gaglioffo mezzo-gigante: Rispose allor Margutte: - A dirtel tosto, io non credo più al nero ch'a l'azzurro, ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto; e credo alcuna volta anca nel burro, nella cervogia, e quando io n'ho, nel mosto, e molto più nell'aspro che il mangurro; ma sopra tutto nel buon vino ho fede, e credo che sia salvo chi gli crede; e credo nella torta e nel tortello: l'uno è la madre e l'altro è il suo figliuolo; e 'l vero paternostro è il fegatello, e posson esser tre, due ed un solo, e diriva dal fegato almen quello.

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BANCHETTI LETTERARI

Ogni eco dell'antico spirito di crociata, che pure il rimontante pericolo turco aveva reso attuale, viene rovesciata in un "credo" parodiante e buffonesco. Ma è soprattutto nella rappresentazione dei paladini, campioni della fede e dell'e­ roismo, che l'abbuffata diventa strumento di ridicolizzante deroicizzazione. Nel canto III troviamo Rinaldo, Ulivieri e Dodone, mossi alla ricerca di Or­ lando, giungere presso un convento ai confini estremi della cristianità, di cui si è impossessato un gigante pagano, Brunoro; scambiati per ladri e ghiottoni viene loro ammannita una broda in cui nuota ogni sorta di avanzo. La disgu­ stosa abbuffata dei paladini diviene allora una sorta di spettacolo, che lo stesso Brunoro ha allestito, dando disposizione che i tre [ ... ] faccin collezione se v'è reliquia, arearne o catr°iosso rimaso, o piedi o capi di cappone, e dà pur broda e macco a l'uom ch'è grosso: vedrai come egli scuffia, quel ghiottone, che debbe come il can rodere ogn'osso. Assettagli a mangiare in qualche luogo, e lascia i porci poi pescar nel truogo.

L'abbuffata esclude degustazione e sapore, nel soddisfacimento primordiale del trangugiare e del riempirsi: il cibo è pura massa e volume, che esorcizza la paura ancestrale dell'inedia e richiama l'appetito animale del cane e del porco e la loro proverbiale ingordigia. L'abbuffarsi dei paladini di Pulci ha una valenza buffonesca e parodica data dal contrasto tra il comportamento del personaggio e quello che, da un individuo del suo ceto e della sua formazione, sarebbe lecito aspettarsi. A far scattare il meccanismo parodico è l'evidente contravvenzione di norme cor­ renti nel banchetto aristocratico. La definizione di una normativa comporta­ mentale a tavola è del resto ben attestata nel Medioevo, collegandosi in primo luogo a contesti caratterizzati da una forte istanza regolativa. E il caso della realtà monastica, che produce manuali di "disciplina" che non tralasciano la definizione del corretto comportamento a tavola. E, andando alle origini stes­ se del monachesimo occidentale, già la Regula di san Benedetto stabiliva il cri­ terio della sobrietà e dell'autocontrollo alimentare in un apposito capitolo (xxxix, De mensura ciborum), che stigmatizzava, senza eccezioni, la pratica della crapula: «si eviti l'intemperanza, e il monaco non si lasci mai cogliere dall'ingordigia. Nulla infatti è così sconveniente ad ogni cristiano quanto l'ec­ cesso di cibo». La società cavalleresco-cortese del basso Medioevo, che costituisce il fon­ dale "serio" delle sguaiate scorribande di Pulci, produsse un galateo in cui non 16

ABBUFFATA

e'era posto per l'appetito smodato, che al pari degli altri istinti doveva essere autocontrollato e censurato in pubblico. Come insegna Massimo Montanari, tra l'alto e il basso Medioevo entra in crisi la figura (di tradizione germanico­ barbarica) del divoratore animalesco, la cui eroica eccellenza fisica si manifesta parallelamente nel coraggio sul campo di battaglia e nella robustezza dell'ap­ petito. Montanari cita una pagina dell'Antapodosis di Liutprando da Cremona in cui si racconta che nell'888 i Franchi, rimasti senza re, proposero la corona al duca Guido di Spoleto, salvo revocare l'offerta quando seppero che era un misurato mangiatore e bevitore: evidentemente l'ingordigia alimentare era sentita come attributo necessario della regalità. Nel basso Medioevo sono in­ vece numerosi gli esempi di una "cortesia" che a tavola, assieme al rispetto di precise norme comportamentali, impone una complessiva misura e sobrietà nell'assunzione del cibo. Così in un testo di area urbano-borghese, ma forte­ mente influenzato dalla cultura delle corti provenzali e padane, come le Cin­ quanta cortesie a mensa [De quinquaginta curialitatibus ad mensam] del mila­ nese Bonvesin da la Riva (vissuto a cavallo del 1300), una delle prime "corte­ sie" è appunto quella di «no trop mangiar ni poco, ma temperadhamente». La censura di ogni manifestazione esteriore di ingordigia e di appetito ec­ cessivo e incontrollabile è caratteristica di tutti i trattati di buone maniere, dove costituisce una sorta di macro-norma o arei-norma al cui interno sono comprese indicazioni comportamentali più specifiche. In un trattatello di Era­ smo dedicato alla civilitas (che potremmo tradurre "corretto comportamen­ to") dei fanciulli, il De civilitate morum puerilium (1530), si consiglia di non allungare subito le mani sui piatti di portata; quello sarebbe un comporta­ mento da lupi, o da ingordi, mentre è obbligo dissimulare l'appetito. Pochi anni dopo il trattatello erasmiano, il manuale per antonomasia delle buone maniere, il Galateo di monsignor Della Casa (1558), ribadiva la sanzione di ogni forma di eccessiva voracità. Della Casa stigmatizza l'ingordigia, tradu­ cendola nell'icona vivace del divoratore che, simile a un animale, affonda il muso nel truogolo: coloro che noi veggiamo talora a guisa di porci col grifo nella broda tutti abbandonati non levar mai alto il viso e mai non rimuover gli occhi, e molto meno le mani, dalle vi­ vande? E con amendue le gote gonfiate, come se essi sanassero la tromba o soffiassero nel fuoco, non mangiare, ma trangugiare: i quali, imbrattandosi le mani poco meno che fino al gomito, conciano in guisa le tovagliuole che le pezze degli agiamenti sono più nette? Con le quai tovagliuole anca molto spesso non si vergognano di rasciugare il su­ dore che, per lo affrettarsi e per lo soverchio mangiare, gocciola e cade loro dalla fronte e dal viso e d'intorno al collo, et anca di nettarsi con esse il naso, quando voglia loro ne viene?

BANCHETTI LETTERARI

Nel ritratto di questi maleducati divoratori, l'azione repellente dell'imbrattare gli arredi del desco («le tovagliuole»), con i residui del cibo e, addirittura, con i propri umori corporali (sudore e muco nasale), è derivata direttamente dal1'assunzione eccessiva di cibo: è l'incontrollata voracità che imbratta «fino al gomito» questi commensali e provoca la sudorazione abbondante detersa con i tovaglioli. Abbiamo ricordato come nell'immaginario germanico-barbarico il gigan­ tesco appetito e l'abbuffata (e la bevuta) durante il banchetto costituissero una componente importante dell'ammirazione per l'eroe. All'interno di un legame ancestrale tra forza fisica e potere, l'abbuffata nel banchetto diventava l'esibi­ zione pubblica della superiorità fisica, perfettamente omologa alle esibizioni della ferocia e della forza in battaglia o nel torneo. Sono temi che nell'area dei miti compensativi dell'aldilà sostanziano il sogno di un paradiso di eroi dediti ali'eterno banchetto glorioso degli dei, nel tripudio del cibo e dell'ebbrezza al­ colica. Così nell'Edda in prosa di Snorri Sturluson (1179-1241), fondamentale narrazione (e documento) delle credenze e miti scandinavi, gli eroi morti in battaglia sono accolti nel gigantesco salone dorato di Valhol, dove banchetta­ no cibandosi dell'inesauribile carne del porco Stehrimnir e bevono l'idromele che continuamente stilla dalle mammelle della capra Heiorun. La figura del Grande maiale dell'Edda, quotidianamente tagliato e cotto, ma che continuamente si rigenera e dà carne, richiama il sogno della libera ab­ buffata e della disponibilità inesauribile di cibo che troviamo nel grande mito folklorico del paese di Cuccagna o di Bengodi, magistralmente indagato da Piero Camporesi. Versione popolare del grande mito dell'età dell'oro, il paese di Cuccagna ha rappresentato per secoli l'utopia di un mondo più libero e più giusto, redento dalla condanna della fame e della distribuzione ineguale delle risorse, dello sfruttamento dei deboli. Mondo "rovesciato" rispetto alla realtà penosa della fatica e della penuria, Cuccagna affonda le radici nello spirito del Carnevale e nei suoi riti comici: dove il realismo grottesco, e la riduzione delle cose alla dimensione concreta del corpo e delle sue funzioni, è (come ci inse­ gna Bachtin) una liberazione temporanea (e perciò tollerata) dalle gerarchie sociali ed economiche. La gigantesca e ininterrotta abbuffata è mito folklorico che diviene presto un topos letterario, che in ambito italiano trova consacrazione in una novella boccacciana del ciclo di Calandrino (Decameron, VIII, 3). Ordendo abilmente uno scherzo, Maso del Saggio racconta allo sciocco Calandrino del paese di Bengodi, dove si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un'oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti

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ABBUFFATA

che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di cap­ poni, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n'aveva.

Poche righe in cui sono contenuti i particolari essenziali di un mondo " altro " , liberato dalla fame, popolato di capponi, di formaggio e di vino, nel quale il prezzo della carne è incredibilmente basso . Nel Trionfo di Cuccagna di Martin Cieco da Lucca (inizio del XVII secolo) si precisa che «ci è tanti fegatelli grossi come un tamburo» e che «li danno a un quattrin l'uno e si danno a credenza» . E la " cuccagna" di Martino è del resto un luogo che al meraviglioso puro e semplice del cibo ovunque presente (cosicché «lasagne informaggiate si getton per la via» ) associa il sogno del guadagno estraneo alla condanna del lavoro ( «là ci si guadagna senza durar fatica») . Alcuni secoli dopo una «vera cucca­ gna» sarà per Lucignolo il Paese dei balocchi, la cui attrattiva è la liberazione definitiva dagli impegni e dalle fatiche. Tra i tanti esempi citabili nel Cinque­ cento si ricordi la Cuccagna visionaria di Andrea Calmo, narrata in un vene­ ziano meravigliosamente straniante: per cui «in tinelo de miser Giove ghe gie­ ra dona Venere, che feva i rafioli», Marte che «menava el paston» e Mercurio che «gratava formazo» . L'abbuffata è il sogno del morto di fame, del povero in lotta quotidiana con l'endemica penuria di calorie. E nella dimensione del sogno si muove l'abbuffata dello Zanni, topos della commedia dell'arte e del repertorio di at­ tori girovaghi e cantapanche, che Dario Fo ricrea nella magistrale reinvenzio­ ne del Mistero buffo. Lo Zanni di Fo sogna una gigantesca abbuffata, ma il ri­ sveglio lo riporta ai morsi abituali della fame. Una fame assoluta e impoten­ te, amplificata dall'anafora del condizionale ( «am magnarìa» . . . «am magna­ rìa» . . . «am magnarìa» ) , fino al delirio disperato dell' auto-fagia. Così , dice lo Zanni, «am catarìa un ocio , al scroberìa e al ciuciarìa. Un'oregia me straperìa e . . . drento . . . la magnarìa» . Ed è un crescendo disperato in cui l'utopia libera­ toria dell'incontrollata abbuffata di Cuccagna si stravolge nella smorfia tragi­ comica della minaccia a Dio stesso , salvato dalla travolgente violenza fagoci­ tatoria dello Zanni soltanto dalla sua lontananza: «e bon per te Deo, che ti sé lontano ! » . L'immagine folklorico-carnevalesca del paese di Cuccagna ricorre in aper­ tura del Baldus di Teofilo Folengo (1 517) , poema in un latino maccheronico in cui il mondo eroico e mirabolante dei cavalieri viene passato al vaglio di uno spirito irridente. Il poeta in cerca di ispirazione divina non può che trovarla nella terra fantastica in cui da «montagne fatte di formaggio tenero, duro e mezzano» scendono «a valle profondi fiumi di brodo, che fanno un lago di zuppa, un mare di sugo» . Qui egli attingerà un'ispirazione che, come si con­ viene alla sua poesia materiale, si manifesta nell'essere concretamente rimpin­ zato dalle opulente dee, che finalmente «imboccare suum veniant macarone 19

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poetam / dentque polentarum vel quinque vel octo cadinos» . Il nutrimento spirituale delle muse diviene un materialissimo nutrimento del corpo, nella coincidenza tra l'atto del mangiare e del bere e quello della poesia, che ricorre­ rà in apertura di un altro capolavoro di poco successivo al Baldus (e che il Bal­ dus ispirò ) , il Gargantua et Pantagruel di François Rabelais ( 1532-52) . Nel Pro­ logo Rabelais dice di aver dedicato alla stesura dell'opera non un minuto di più del tempo dedicato alla propria refezione. A prescindere dalle mirabolanti mangiate e bevute, un vero tripudio iperbolico di cui è intessuto il libro di Ra­ belais, è chiaro che la perfetta coincidenza tra tempo del mangiare e tempo della scrittura segnala per metafora al lettore un'ispirazione irridente e parodi­ ca, che attribuendo alle comiche invenzioni del romanzo lo statuto di " alte materie" e " scienze profonde ", polemizza contro quanti (i teologi della Sorbo­ na in primis) si arrogano il ruolo di depositari della verità e dell'ortodossia. La metafora della lettura come abbuffata deriva dal topos del libro quale nutrimento della mente (si pensi alla «vivanda» somministrata nel Convivio da Dante; o quel «cibo che solum è mio» con cui Machiavelli, nella lettera a Fran­ cesco Vettori del 10 dicembre 1 513, designa la lettura degli amati storici anti­ chi) . Pensiamo naturalmente al topos umanistico (che del primo è corollario) che rappresenta l'ideale di un'imitazione non pedissequa, ma originale e riela­ borativa, attraverso l'esempio dell'ape che, delibando le mille varietà di fiori, produce la dolcezza del miele. L'abbuffata di libri assume nel mondo moder­ no molteplici sfumature e articolazioni : dall'indigestione di libri che asciuga il cervello al povero don Chisciotte; alle disordinate e indigeste assimilazioni delle idées reçues ricopiate dai flobertiani Bouvard e Pécuchet; all'abbuffata (se pur di birra, non propriamente di cibo) che conclude Finnegans Wake di Joyce, quando il protagonista trangugia quanto è rimasto nel pub deserto, me­ tafora dello sforzo dello scrittore irlandese di impossessarsi della tradizione, per ricombinarla e riscriverla sotto altre forme. Risalendo alle origini del modello visionario cristiano, mangiare il libro è il gesto simbolico che segna, proprio al centro dell'Apocalisse (10, 9-11) l'acqui­ sizione dell'ultima profezia, che si dispiegherà al suono della settima tromba («E andai dall'Angelo a dirgli che mi desse il libro . Ed egli mi disse: " Prendilo e divoralo " ») . La tonalità ironico-parodica che parla dell'assunzione del cibo in termini eroici marca anche i passaggi del Giorno di Parini espressamente dedicati alla mensa. Il Mezzogiorno, nella versione data alle stampe nel 1765, si apre con un distico che alla topica umiltà del cantore associa iperbolicamente la grandezza della materia: «Ardirò ancora tra i desinari illustri / sul meriggio innoltrarmi umil cantore» . A desinare è associato l'aggettivo, pariniano quanti altri mai, di illustre, in un accostamento che reca in sé un contrasto dissonante, il meccani­ smo generatore del sorriso ironico . La voracità e l'abbuffata diventano nel 20

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Giorno una delle possibili modalità attraverso le quali il «giovin signore» può rendere visibile la sua esistenza quotidiana, soddisfare la grottesca necessità di "distinguersi", realizzando una sorta di estremizzazione dei comportamenti che costituisce la norma fondamentale del grottesco percorso di formazione dell'aristocratico. Tra schifiltoso disdegno del cibo e iperbolica voracità, tra digiuno e abbuffata, tertium non datur. E stato detto da Ettore Mazzali che nel Mezzogiorno a diventare protagonista è proprio il pranzo, con i suoi riti e il suo grottesco tableau vivant di commensali. Così gli opposti del digiuno e dell'abbuffata, dell'astensione ano­ ressica e della bulimia rivivono in due commensali vicini al «giovin signore», che quasi fungono da emblema di un'azione che, perso ogni contatto con la dimensione naturale e biologica dell'assunzione di cibo, diviene gesto emi­ nentemente sociale e pubblico, esposizione di sé e ricerca di identità distinti­ va. Il malizioso accostamento del caso tra il divoratore e il digiunatore sono naturalmente, nell'ottica pariniana, le figure complementari di un'aristocrazia debosciata, che affida alla banalità del quotidiano la ricerca grottesca di eccel­ lenza individuale. L'abbuffata non ha nulla della gioia irridente e liberatoria, nessuna eco della vitale opposizione simmetrica tra il Carnevale e la Quaresi­ ma, tra la gioia della carne e la sua ascetica mortificazione. La coppia di figuri­ ne indica semmai gli estremi contrari di una sola nevrosi, che sembra anticipa­ re le contemporanee nevrosi alimentari di massa. L'abbuffata grandiosa, sempre più svincolata dall'espressione di una gioio­ sa vitalità del corpo, tende ad acquisire nell'immaginario comune le caratteri­ stiche della pratica negativa o immonda, fino alle forme estreme della patolo­ gia bulimica inscritta nel ciclo perverso dell'assunzione smodata di cibo e del vomito. L'abitudine romana di vomitare durante i banchetti (pur denunciata dai moralisti, come Seneca nella Consolatio ad Helviam, x, 3), costituiva tutta­ via un comportamento socialmente visibile e dunque, nella sostanza, accetta­ to: il vomito solitario del bulimico acquista invece la connotazione negativa del vizio solitario. Destituito di ogni gioia, estraneo al voluttuoso soddisfaci­ mento della gola, l'abbuffarsi è azione penosa, furia meccanica e coazione a • ripetere. Solo negli ultimi vent'anni si è consolidata una letteratura sulla sofferenza anoressica e bulimica (due facce della stessa medaglia, naturalmente, anche se è alla seconda che qui pensiamo); a partire, in Italia, dal libro autobiografico di Fabiola De Clerq, Tutto il pane del mondo (1990); e dal romanzo Briciole di Alessandra Arachi (1994). Briciole ha per protagonista la giovane studentessa liceale Elena, che si muove in un ciclo continuo di abbuffate/vomito procura­ to. In un passo del romanzo ritroviamo quel rovesciamento parodico tra eroi­ smo e abbuffata che abbiamo segnalato come uno dei tratti incipitari della tra21

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dizione letteraria occidentale. Rievocando i pomeriggi di studio Elena descri­ ve la propria incapacità di concentrarsi: ad ogni pagina, ad ogni riga mi comparivano davanti montagne di budini e torte al cioccolato. Non riuscivo a concentrarmi sulle battaglie epiche, perché i guerrieri diven­ tavano cuochi e i cavalli finivano cotti nei forni, accanto a cumuli di patate arrosto.

La monumentalità epica si trasforma nella banale materialità dell'arte culina­ ria, in cui i nobili cavalli sono arrosti con contorno. Ma senza parodia e ironia: c'è solo la disperazione dell'ossessione, il chiodo penetrante dell'idea fissa. Non più espressione della gioia del corpo e della sua esultanza, la carica rabbiosa e autodistruttiva dell'abbuffata può divenire consapevole rifiuto, sui­ cidio premeditato e lucido: e come tale accusa (ma disperata, priva di aspira­ zioni utopico-liberatorie) lanciata al mondo. Alludiamo al film La grande ab­ buffata di Marco Ferreri (1973), scritto dal regista e dal romanziere e sceneg­ giatore Rafael Azcona, storia di quattro amici che decidono di chiudersi in una villa nei sobborghi di Parigi e lì ingozzarsi fino alla morte. La gioiosa ab­ buffata popolaresca, figlia della fame e del desiderio attivo del cibo, viene qui rovesciata in pratica disperata, frutto dell'endemica sazietà della società dei consumi, che produce una costante svogliatura, un'inappetenza che richiede sempre nuovi stimoli e, pertanto, nuove forme di consumo. L'atmosfera plumbea della villa e della Parigi autunnale si carica di inquietanti significati simbolici, segnali incombenti di morte che fanno della scelta suicida dei quat­ tro amici il riconoscimento di uno scacco assoluto: la sconfitta sostanziale del corpo e della possibilità di stabilire un rapporto autentico con il mondo. Non più parodia della monumentalità monocorde, della cultura ufficiale e dei valo­ ri dominanti, l'abbuffata è qui una disperata parodia di sé stessa: forma ultima di un'ambigua liberazione, in fondo alla quale non si apre lo spazio di una so­ gnata utopia, ma l'abisso disperato della morte.

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Acqua di Fabio Giunta

Benché non sia un vero e proprio cibo, l'acqua è intimamente legata alla tavola, sia come bevanda sia perché fondamentale nella preparazione e nella cottura dei cibi . Né manca un rito di abluzione delle mani prima, talvolta durante e dopo i pasti, a ricordare la sua funzione purificatrice. E a quest' ul­ tima funzione doveva certo far riferimento la solita insolente irriverenza del Belli nel sonetto L 'acqua rumatica: «Che ccrompi?» «Crampo l'acqua de lavanna. » «Che ddiavolo sce fai? » «Pe ddà l'odore. >> «E ppoi dove la porti?» «A la locanna. » «E ppe echi sserve?>> «P'er Commannatore.» O mmatti come la raggion commanna ! ssciacquatura de culi de siggnore Ha da èsse 'no spirito de manna Da méttete p'er naso un bon fragore! Ma ssi tte dico, cristo, che ssò ccose Cose da diventacce sticcaleggna, E ddoppo imminestrà bbòtte fecciose. Sto monna-novo tanto se l'ingeggna C'ha ttrovo a ddà ppe bbarzimo de rose L'acqua che cce se laveno la freggna.

Anche per la letteratura l'acqua risulta noiosamente santa e banalmente salu­ bre. Lo confermano gli aggettivi che dovrebbero garantirne la qualità: inodore e incolore. O il biblico " io bevo acqua" di chi fronteggia gli altri convitati in23

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tenti a scegliere il vino da accompagnare alle portate. Dove trovare un po' di colore e di sapore dunque ? Certamente l'acqua ha giocato un ruolo essenziale nella sua funzione "ma­ gica". Si pensi, ad esempio, al capitolo Come trovorono una fontana piena di pesci e di buone erbe della Navigazione di San Brandano dove i confratelli del santo bevono un'acqua dal potere soporifero: Or sendo venuto il tempo della Quaresima, ed eglino ebbono veduto una isola apresso, di che furono molto allegri e cominciarono a navicare molto forte inverso questa isola; allora era mancato il pane e l'acqua ed erano per fame molto indeboliti e dietro al man­ care delle vivande, ed erano stati due dì, e 'l terzo dì e' viddono porto, onde l'abate be­ nedì il porto e comandò a' frati che uscissono tutti di nave. E cosi feciono, e subito tro­ varono una fontana chiara e bella e molte erbe e radice fresche, e viddono pesci assai che andavano per l'acqua e che uscivano di quella fontana e andavano in mare. E in quell'o­ ra disse San Brandano a' suoi frati: «Lo signore Iddio v'à dato ora consolazione dietro alla gran fatica; . . . » . E vogliendo i frati torre di quella acqua, l'abate disse cosi: «Frati miei, bevete poco di questa acqua, guardatevi di non bere di superchio: avenga eh'ella sia così buona e cosi bella, a [nc] o ch'ella non vi guastasse el v [entre] , ella vi farebbe to­ sto dormire di superchio, più che non bisognerebbe a voi» . Alquanti furono che tenno­ no bene questo amaestramento e altri che no, sì che tale ne bevve una coppa e non n'eb­ be veruno impaccio, quello che ne bee due di quelle coppe d'acqua sì dormi due dì e due notti, quello che ne bee tre coppe si dormì tre dì e tre notti. E veggendo l'abate que­ sto dormire così lungo e forte, e' comincia a pregare Iddio per loro, e subito si destaro­ no e l'abate disse loro: «O frati miei, voi avete perduto molto delle vostre ore e 'l tempo da lodare Idio, per cagione del dormire che voi avete fatto; egli è buono che noi ci par­ tiamo e andià' via di qui e fuggire questo pericolo; acciò che nonn-aveg[na] peggio Idio ci à dato cibo da potere vivere e noi per incordigia della gola pare che noi vogliamo mo­ rire; a me pare che noi ci partiamo di questa isola» . Onde tolsono della roba da mangia­ re di questo luogo soffìcientemente, cioè del pesce dell'erbe e delle radici e dell'acqua, e tolsonne tanta che bastò loro infìno al giovedì santo, e non bevevano di quella acqua se none una volta el dì, e così non fe loro niuno obligamento, e ubidirono l'abate che l'ave­ va loro imposto.

Si possono ricordare anche le acque miracolose del rio dantesco: Da questa parte con virtù discende che toglie altrui memoria del peccato; da l'altra d'ogne ben fatto la rende. Quinci Letè; così da l'altro lato

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XXVIII

canto del Purgato­

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Eunoè si chiama, e non adopra se quinci e quindi pria non è gustato: a tutti altri sapori esto è di sopra.

Ma per tornare dal miracolo alla magia si possono citare alcuni versi della Ge­ rusalemme conquistata di Tasso . Anche qui appare, ad opera di un'ancella al servizio di Armida, il tema dell'acqua soporifera destinata ai crociati irretiti nel castello della maga: Apprestar su l'erbetta, ove più densa l'ombra, e vicina al suon de !'acque chiare, fece di sculti vasi altera mensa, e ricca di vivande elette e care. Era qui ciò ch'ogni stagion dispensa; ciò che dona la terra, o manda il mare, ciò che l'arte condisce; e vaghe e belle serviano a quel convito accorte ancelle. Ella d'un parlar dolce e d'un bel riso temprava altrui cibo mortale e rio, . . mentre ciascuno, ancora a mensa assiso, bevea con lungo incendio un lungo oblio. Poscia, sorgendo con turbato viso, in bel vaso portò l'acqua del rio: la qual bevuta, tutti il sonno assalse, schernendoci in imagini più false.

Meno magica o miracolosa ma di sicuro effetto comico è la mutazione dell'ac­ qua di Giuseppe Gioachino Belli in una sorta di gustosa manna millesapori nel sonetto La colazzione nova: S'io vojjo fà una bbona colazzione, Empio la notte un bicchier d'acqua pieno, Opro li vetri, lo metto ar zereno, Eppoi vado a rronfà ccome un portrone. La matina che vviè, ppijjo un cantone De paggnotta arifatta (che ppiù o mmeno Fo avanzamme la sera quanno scena), L'inzuppo, lo pasteggio, e sto bbenone. 25

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Che vvòi sentì ! caffè, ggramola, panna, Zabbujjone, spongata, rossi-cl'ava? Te sa dd'oggni sapor come la manna. Domani, Nanna mia, tu vviemme a ttrova; E ssenza tanti comprimenti, Nanna, Tu ssentirai 'na colazzione nova.

Sui temi di benessere e sobrietà è il Siracide a ricordarci che tra i pilastri della vita non deve mancare l'acqua: «Indispensabili alla vita sono l'acqua, il pane, il vestito e una casa che serva da riparo». E sebbene san Paolo nella Prima lettera a Timoteo avesse provato a correggere il tiro ( «Smetti di bere soltanto acqua, ma fa' uso di un po' di vino a causa dello stomaco e delle tue frequenti indi­ sposizioni»), fu il Petrarca a rinnovarne, da straordinario avvocato, il valore della sanità, come si legge nelle Seniles: Un altro ch'è gran bevitore di vini ardenti di Grecia, di Candia, d'Egitto, e per costume abborre dall'acqua, contro di questa profferì quella solenne sentenza divenuta ornai fa­ mosa: Dell'acqua non aver i giovani bisogno, se non quando hanno malattie acute. Oh il nobile aforisma che è questo ! Eppure al tutto fuori dalle malattie acute ch'io mai non conobbi, e prego Dio che non mi faccia conoscer mai, so che altri molti ed utilissimi sono gli usi dell'acqua. E lasciando gli scherzi da parte, per tacermi di tante migliaia d'uomini pieni di sanità e di robustezza, a cui l'acqua è bevanda come sola, così gradita e saluberrima, di me posso affermare che, se anche ora nelle lunghe notti d'inverno, fre­ quentemente ed in copia non bevessi acqua freddissima, credo dovrei tenermi per morto.

Ancora più incisivo e apologetico il Petrarca raccomanda all'amico Giovanni da Padova il consumo esclusivo di acqua pura in luogo dell'odioso vino che rende l'uomo un beone feroce e selvaggio: Nè qui starò a ripeterti invano che io di questo [non bere acqua pura] non abbisogno, poichè mi pare di aver dimostrato ad evidenza che in tempi assai più felici de' nostri vis­ ser molti benissimo, e molti vivono anche al presente senza conoscere il vino, e bevendo sola acqua pura: chè questa dalla natura, e quello ci fu dato dalla gola. Ma di tutto quel­ lo ch'io dissi tu esperto disputatore quasi per inavvertenza ti passi, mostrando di non conoscere qual sia l'eccellenza dell'acqua, se si ragguagli ai pochi vantaggi, ed ai gravissi­ mi danni che ci provengon dal vino. Pure, siccome ti dissi, anderò più parco nell'usar­ ne: più parco, dico, e a malincuore: ma ch'io la lasci non è possibile, finchè a lasciare non sia costretto qualunque siasi di queste terrene bevande, le quali quetan per poco ma non spengono la nostra sete, e per celeste favore mi sia concesso d'andar lassù dove l'uo-

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mo si disseta, non col favoloso nettare degli Dei, ma coll'acqua del fonte che zampilla nel regno dell'eterna vita. Berrò frattanto con giusta misura l'acqua di questo mondo, ed userò parcamente anche del vino, non perchè utile io l'estimi, ma perchè bisogna pure acconciarsi al costume di questi beoni, la cui vita è più nel vino che nel sangue: chè se nol facessi mi avrebbero in conto d'uomo selvaggio e feroce.

Sin dall'antichità i medici consigliavano l'uso del vino, in modiche quantità, per curare alcuni mali. Lo sapeva il Petrarca e lo ricorda, ad esempio, Cardano in un passo del Proxeneta dove scriveva che l'inedia può essere sconfitta inge­ rendo «oro potabile grazie al quale la vita è prolungata fin quasi al centesimo anno in perfetta salute». Avverte però quanti «non possono osservare tale nor­ ma>> che come surrogato «giova che bevano vino nella minor quantità e legge­ ro, ma moltissima acqua, se è buona; infatti l'acqua è utilissima alla testa; è migliore del vino anche per il fegato e per lo stomaco; conserva la mente». Ma è in sonetti del Belli quali Er negroscopio solaro andromatico o Er vino e !l 'acqua che l'acqua viene ridimensionata ad antagonista perdente del vino: Er negroscopio so/aro andromatico Mettémo da 'na parte, mastro Bbiascio, L'asceta che cce noteno l'inguille: Lassamo stà la porvere der cascio Piena d'animalacci a mmill'a mmille. Dove a ggiudizzio mio merita un bascio Quer negroscopio è ar vede in certe stille D' acqua ppiù cciuche de capi de spille, Cressceve tanti mostri adasciadascio. Questa è la cosa a mmé cche mm'ha incantato, E bbenedico sempre e in oggni loco Er francese e 'r papetto che jj'ho ddato. Questo è cc'ho ggusto assai d'avé scuperto, Perché ggià ll'acqua me piasceva poco, Ma dd'or impoi nun me la fa ppiù ccerto. Er vino e /l'acq ua Io nun pòzzo soffrì ttutte ste lite C'hanno sempre da fa Cciocco e Ffreghino,

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Sii cche ccosa è ppiù mmejjo, o 11' acqua o 'r vino. Du' parole e ssò ssubbito finite. Chi lloda l'acqua, io je direbbe: «Dite: Pe bbeve un mezzo ve sce vò un lustrino. Pe un bicchier d'acqua poi cor cucchiarino V'abbasta un mille-grazzie, e vve n'usscite. Dunque che vvale ppiù? cquella c'allaga Piazza-Navona auffa, e cce se ssciacqua Li cojjoni, o cquell'antro che sse paga? E ffinarmente, a vvoi: equa vve do er pista. Ch'edè, ssori cazzacci, er vino o 11'acqua, Che vve pò ddiventà ssangue de Cristo?>>

Per quanto il tono e l'intento siano radicalmente diversi da quelli del Belli, an­ che nelle Confessioni di un italiano di Nievo si riscontra una variante del tema • acqua-vino : Ma quello che intendo notare si è che, fatti i conti a fin d'anno, io credo ed affermo che alla fontana di Venchieredo si venga più per far all'amore che per abbeverarsi; e del resto anche, vi si beve più vino che acqua. Si sa; bisogna in questi casi obbedire più ai salsic­ ciotti ed al prosciutto delle merende che alla superstizione dell'acqua passante. lo per me ci fui le belle volte a quella incantevole fontana; ma una volta una volta sola osai profanare colla mano il vergine cristallo della sua linfa. La caccia mi ci aveva menato, rotto dalla fatica e bruciato di sete; di più la mia fiaschetta del vin bianco non voleva più piangere. Se ci tornassi ora forse che ne berrei a larghi sorsi come per ringiovanirmi; ma il gusto idropatico della vecchiaia non mi farebbe dimenticare le allegre e turbolente in­ gollate del buon vino d'una volta.

Anche Italo Svevo riprende in Una vita il cliché («Basta vino ! - intimò Alfon­ so . - Bevi acqua! - L'acqua serve per lavarsi ! - rispose Gustavo spiritosamente e tracannò l'intiero bicchiere di vino») . Federigo Tozzi in Tre croci riusa il topos («E hai bevuto l'acqua ?» «L'acqua ? Vorrei mi schizzassero via gli occhi, se io ne ho mai messo in bocca una gocciola. Con quella mi ci netto il codrio­ ne. » ) e nel Podere Io amplifica e lo colloca in una scena familiare di ristrettezza quotidiana: Picciòlo gli dette la buona notte e tornò a cenare. Ma il vino di quella botte era andato a male, e aveva preso la mercorella. Luigia, che ne aveva voluto assaggiare un sorso prima di mettersi a tavola, lo risputò:

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Benedetto Dio ! Pare ranno! Io preferisco l'acqua. Remigio si rassegnò subito: Beveremo l'acqua. Alla matrigna crebbe il malumore: Per una sera, non me ne importa; ma io sono abituata a bevere il vino. E, poi, non sai che l'acqua del pozzo non è buona? Non sai che su i tetti ci vengono i piccioni dei contadini confinanti? lo non voglio prendere il tifo. Un bicchiere di vino fa sempre bene. - E, allora, vuole che lo compriamo alla Coroncina? - lo non dico che tu lo debba comprare, ma bisogna pigliarci rimedio. Oppure, intanto, comprane un barile di quello più basso. Basta che si possa bevere. Che peccato! Quanto tiene la botte? - Venti barili, almeno; credo! - Tuo padre avrebbe saputo farlo ridoventare buono; ma io non so come faceva. Bisogna andare dal farmacista: ci mandava sempre Giulia ! - Domani, ci vada lei che lo conosce. - Io? Io mi occupo delle faccende di casa. Ti pare che io voglia andare dal farmacista per il vino! Remigio, stizzito, la rimbeccò: Stia zitta: ci andrò io. Oh, io sto zitta ! Se dovessi lamentarmi tutte le volte che ce ne è la ragione! Remigio si provò a mandar giù qualche bicchiere del vino; ma era impossibile; e Luigia non smetteva più di far boccacce, storcendo il viso tutte le volte che doveva beve­ re l'acqua. - Le cose così non vanno bene! Era meglio se il Signore aveva tolto di vita me ! Che ci faccio nel mondo io? La minchiona. E rimproverò Ilda; perché, sorridendo, aveva detto a Remigio che le pareva buono. Era addirittura inviperita: - Tu sei una bambina, e devi tenere il tuo posto. Ricordati che la tua mamma ti ha affi­ dato a me, perché tu m'obbedisca come a lei. Ilda fece una spallucciata, e rispose: - Beverò l'acqua anch'io. O se, invece, andassi da Picciòlo a farmi dare un poco del suo vinello? ... - Peggio ! E tutto pieno di moscerini ! E, poi, dobbiamo andare a chiedere l'elemosina dai nostri sottoposti? No, da vero ! Fino a questo punto, non mi ci voglio ridur­ . re, 10 '. - E, allora, stia zitta! - le rispose la bambina.

L'acqua è un bene primario, nei momenti estremi ancora più indispensabile del cibo; e forse è essa stessa il primo cibo. Lo racconta in modo esemplare Primo Levi nei Sommersi e i salvati (1986), nel capitolo La vergogn a. E un episo29

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dio drammatico, perché il bisogno di bere «rende furiosi», la sete «è più impe­ riosa della fame». Nel torrido agosto del 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz Levi sta lavorando alla sistemazione di una cantina e casualmente trova un tubo d'acqua: Mi sdraiai a terra con la bocca sotto il rubinetto, senza tentare di aprirlo di più: era ac­ qua tiepida per il sole, insipida, forse distillata o di condensazione; ad ogni modo una delizia.

Primo decide di comunicare la scoperta dell'acqua al solo amico della squadra più vicino a lui, Alberto, senza dirlo all'intera squadra. Bevemmo tutta quell'acqua, a piccoli sorsi avari, alternandoci sotto il rubinetto, noi due soli. Di nascosto; ma nella marcia di ritorno al campo mi trovai accanto a Daniele, tutto grigio di polvere di cemento, che aveva le labbra spaccate e gli occhi lucidi, e mi sentii colpevole. ....

E uno dei momenti più tragici della vita del campo di concentramento, quello in cui i fratelli si combattono tra loro, nel quale «ognuno» può essere «il Caino di suo fratello», cosa ben nota alla sistematica e bestiale programmazione degli aguzzini. Il «fratello» Daniele ha visto Primo e Alberto bere l'acqua e non con­ dividerla con lui e con gli altri: Me lo disse con durezza, molti mesi dopo, in Russia Bianca, a liberazione avvenuta: per­ ché voi due sì e io no? [ . . . ] Daniele adesso è morto, ma nei nostri incontri di reduci, fra­ terni, affettuosi, il velo di quell'atto mancato, di quel bicchier d'acqua non condiviso, stava tra noi, trasparente, non espresso, ma percettibile e " costoso" . ....

E forse anche per quell'acqua non condivisa che Primo Levi ha scritto il suo ultimo, estremo libro.

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Aglio di Rossana Vane/li Coralli

Già nella Bibbia (Nm, 11, 5) il popolo ebreo, in marcia attraverso il deserto, lamenta una grave mancanza: «il pesce [... ], i cocomeri, i meloni, i porri, le cipolle, gli agli», di cui era solito sfamarsi in terra madre. L'allium sativum qui nominato era una pianta di origine egizia: consumato fresco, essiccato o in polvere, pare venisse somministrato regolarmente ai costruttori delle pira­ midi. Sostiene ugualmente l'uso "a lunga durata" del1'aglio il lungo paragrafo in cui il domenicano Vin­ cenzo di Beauvais, in quella enciclopedia della natura chiamata Speculum Naturale (libri XIX e xx), ricorda a tutto il XIII secolo - te­ stimone Plinio il Vecchio - che già Prassagora di Cos e Diocle di Caristo, medi­ ci che vissero e operarono in Grecia nel IV secolo a.C. , ne consigliavano l'assun­ zione per svariati generi di accidenti e malattie: intanto per medicare punture di scorpioni, morsi di cani e serpenti in particolare; trito nel latte per la cura dell'a­ sma; mescolato al vino per l'itterizia, ali'olio e alla farina contro l'ileum morbus (morbo di Crohn) e la scrofola (adenite tubercolare); in aceto, infine, contro il mal di denti. Esso poteva, allo stesso tempo, nuocere alla vista e provocare mal di stomaco se assunto in grande quantità. Lo stesso Plinio (Nat. Hist. , XIX, 34) ne raccontava, ancora secoli prima, la consuetudine alimentare in Grecia e in Africa, e non solo ne consigliava metodi di coltivazione ma anche, con il com­ mediografo Menandro (IV-III secolo a.C.), suggeriva che: «chi mangia dell'a­ glio può eliminare l'odore se dopo mangia una radice di bietola arrostita sulla brace». A tal proposito contribuiscono alla diffusione di un sapere antico alcuni proverbi mediolatini riguardanti l'aglio e il suo valore ambivalente, come que­ sto per esempio: «Allia fetorem pellunt variantque colorem, / Clarifìcant rau­ cam cruda coctaque vocem», ovvero «Gli agli respingono i cattivi odori e muta­ no il colore, / crudi e cotti chiarificano la voce rauca». Esaltato in una delle sue particolarità, quali ad esempio il gusto, l'odore e la forma, trova svariate possibilità di applicazione e di riuso, tra XIII e xx seco­ lo, e in occasioni letterarie molto diverse l'una dall'altra. 31

BANCHETTI LETTERARI

Ortaggio o medicina Alcuni agronomi di fama nota, tra XIV e XVI secolo, diffondono nei loro trat­ tati i metodi di coltivazione senza discostarsi troppo, in realtà, dall'insegna­ mento di Plinio. Luigi Alamanni però aggiunge che se lo si pianta e raccoglie quando la luna è sotto l'orizzonte, nascerà privo di ogni odore "molesto" e adatto, paradossalmente, ad un incontro d'amore (Del/,a Coltivazione, v): Or nel bianco terren (che gli è più caro) , Senza letame aver, si pianti l'aglio; [ . . . ] e chi lo pone, E chi lo calie ancor, mentre la Luna Sotto l'altro emisfero il mondo alluma; Poich'alla parca mensa in mezzo ai suoi N'arà gustato, allor senza altra offesa Del suo molesto odor potrà narrare, Quanto vorrà vicino, i suoi tormenti Alla donna gentil che gli arde il core.

Gli stessi trattati, di pari passo, tramandano l'utilità dell'aglio come pianta non solo buona da mangiare ma anche efficace, come riportato dalle summae enciclopediche medievali, nella cura di malattie. De' Crescenzi dà una ricetta ottima contro vermi e parassiti: si intinga pane o carne in una salsa fatta con aglio, pepe, sugo di prezzemolo e di menta, aceto e si mandi giù il boccone; Giovan Vettorio Soderini afferma invece, nel Trattato del/,a cultura degli orti e giardini, che la «fava infranta cotta con l'aglio giova alle tossi invecchiate». Dall'effetto corroborante deriva con tutta probabilità l'espressione "essere ver­ de come un aglio": «Se' vivo, sano, verde come un aglio ?» (Parini, Alcune poe­

sie di Ripano Eupilino,

LXXXVI II ) .

Astiosità Nella Vita Sancti Odonis il monaco cluniacense Giovanni da Salerno (x secolo), estensore della stessa Vita, racconta che trovandosi lui e il suo maestro in viag­ gio verso Roma, e unitosi alla loro compagnia un povero e anziano viandante carico di un sacco pieno di pane, aglio, porri e cipolle, e non potendo lo stesso Giovanni sostenerne il fetore, decide di procedere a distanza dai due. Richiama­ to vicino da Odone, perché tempo di recitare i salmi, Giovanni risponde che non può, a causa dell'odore respingente. Subitamente il maestro lo rimprovera: «O povero me, quel povero può mangiare ciò che a te ripugna, e tu non ne puoi sopportare l'odore!». Redarguito l'allievo si pente e compresa la propria colpa 32

AG LIO

conclude: «il mio odorato fu curato a tal punto che la seconda volta non avvertii più quel puzzo». L'episodio è interessante non solo come testimonianza antica ma soprattutto per il suo carattere esemplare; l'aglio - metafora sociale - o me­ glio il suo fetore, attributo riferito al vecchio più che ali'aglio stesso, innalza il povero viandante ad allegoria di Cristo: «Verus Christi pauper erat». Odone, e così Giovanni, invitano alla tolleranza e al superamento del pregiudizio, limite valicabile con un po' di buona volontà e sentimento di pietà cristiana. Se tra xv e XVII secolo il puzzo dell'aglio e il relativo disgusto ritornano nel Basile: «io me credeva corcareme co tico pe sentire museca de strommiente e non trivole de vuce [ . . . ] marito mio, e tu caglia, ca fiete d'aglie, e lassace arre­ quiare no poco!» (Lo cunto de li cunti, Giorn. 3), sono utilizzati invece in toni più miti, realisti, tra XIX e xx secolo da Scipio Slataper, per esempio. Il giova­ ne contadino Ucio ne Il mio Carso è un «ragazzone. Il suo rutto puzza d'aglio e le sue mani sono piote». E fatto di gesti semplici e rozzi, e in più «non sa distinguere il buono dal cattivo, e mangia fagioli e patate, e brontola dalle pro­ fondità: "Xe bon, xe bon!"». Carlo invece nel romanzo di Federigo Tozzi Con gli occhi chiusi: «era un uomo grasso e robusto [ . . . ]. La sua camicia di lino grosso era sempre la più pulita. Ma puzzava di concio; e il fiato gli sapeva d'a­ glio e di cipolle, di cui era ghiottissimo» (cap. xx1 1 ) . Evocano sensazioni rassicuranti e piacevoli invece i quadri olfattivi dei Primi poemetti del Pascoli (La sementa, Il desinare, 1 1 ): Ora la madre nella teglia un muto rivolo d'olio infuse, e di vivace aglio uno spicchio vi tritò minuto. [ ... ] L'olio cantò con murmure sommesso; un acre odore vaporò per tutto.

Così anche Guido Gozzano in quella che resta una delle sue più note liriche,

La sign orina Felicita ovvero La Felicità: godevo quel silenzio e quegli odori tanto tanto per me consolatori, di basilico d'aglio di cedrina.

Astiosità è da intendersi con il significato di "difficile a digerirsi" in diverse oc­ casioni: il predicatore domenicano Iacopo Passavanti per esempio rammenta che «e' porri, cipolle ed agli, e ogni agrume crudo, le fave ed ogni legume, fan­ no avere i sogni terribili e noiosi» (Specchio di vera penitenza), e così l'Ariosto ripete nell'Erbolato che chi «si piglia "guardandosi" da cose salate, da cipolle, da aglio, e da gli altri cibi di simile specie, [ . . . ] condurrà senza febbre e dolore 33

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alcuno la sua vita sino alla estrema decrepità». Non vale perciò «inacetarsi e mangiar l'aglio» per il Berni (Rime, LII), perché contro la "peste" amorosa nessun rimedio è efficace, e per lo stesso motivo, con ironia, nella Tancia di Michelangelo Buonarroti - il giovane -, l'uomo si augura comprensibilmente che la donna non gli risulti indigesta: «I' ti vo' procurar quella fanciulla / Ma voglia Dio la non mi sappia d'aglio» (1, 1).

Di forma composita, crea forme composite Il francescano Bernardino, predicando ai cittadini sul campo di Siena nell'an­ no 1427, si scaglia contro l'atteggiamento fazioso dei partiti. L'aglio diventa, per lui, efficace exemplum a dimostrazione dell'assurdità di questo astio: Oh pazzia ! O tu della pesca, che dici: «Non la mondare né a questo modo né a quell'al­ tro, né anca la pera!». Chi la monda a merlo, chi a bisce, dicendo che quel tagliare è in dispetto d'una delle parti. [ . . . ] Uno capo d'aglio, in luogo so' stato, che chi l'avesse ta­ gliato cosi a traverso, vi sarebbe stato tagliato a pezzi. O pazzarone ! (XXI I I , 99-100) .

Ogni frutto della terra è solo un frutto e non ha partito alcuno. La follia che sta dietro ad attenzioni maniacali di controllo e di sospetto, esemplificata nel1'ossessione per il modo in cui si sbuccia la frutta, è sottolineata anche dal ta­ glio della testa d'aglio. La sua forma composita, a spicchi di dimensioni irre­ golari, crea insiemi mai uguali; tanto più folle, dunque, la pretesa di tagliarlo perfettamente in due. Il valore ornamentale delle trecce d'aglio è ugualmente sfruttato nei testi, in particolare in alcuni romanzi e racconti del xx secolo. Se pure di autore di­ verso, le seguenti "nature morte" parrebbero ripresentare lo stesso ambiente, povero o contadino: «sulla cappa larghissima del camino erano sospese rosse file di peperoni, brune file di sorbe, corone di agli e cerque di cipolle» (Silane, Vino e pane, cap. 1 1); >, originale nella forma (a > (Teti, 2001 ) , van­ no in crisi le Little ltaly e l'alimentazione, marcatore etnico e della vecchia con­ dizione femminile. Louise DeSalvo ne rievoca il riscatto che comporta la dram­ matica attraversata dell'Anoressia, l'uscita dalla diversità corporea dovuta a una cultura primitiva, sintetizzata in orribili elenchi di «Cuore Lumache Rognone Lingua Trippa Piedi e ossi di maiale Cervello Ovaie Testa in cassetta Anguilla Polpo Sanguinaccio [... ] cose che mi vergognavo di dire che mangiavo, e certa­ mente non potevo invitare i miei amici a rimanere a mangiare da noi. Io volevo essere presa per un'americana. Volevo un hamburger», immergendosi nel nuo­ vo mondo, affascinante proprio per gli anonimi prodotti industriali. 10 1

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L'abisso del gusto che separa mondi lontani aveva coinvolto la «bimba ma­ latella» della ltaly pascoliana, rientrata «A Caprona, una sera di febbraio I [... ] da Cincinnati, Ohio» (1-3). Nella Toscana povera e selvaggia, lontana dalle abitudi­ ni americane, essa recuperava la salute attraverso i semplici cibi della nonna, re­ attiva alla dolorosa separazione migratoria, che annienta i figli della nazione «tralasciati nel banchetto / patrio, come bastardi, ombre, nessuni» (168-169). Il testo di Pascoli esalta lo scambio vitale di cibo e parole, ali'avvio oscure, fra nonna e nipotina, in un'atmosfera che si riempie di affetti e sapori, come le pagine dei ricettari delle italoamericane: «I bear Nonna say senti, bear this, senti, smell this, senti, taste this, senti, senti, senti, to the sound of the ravioli wheel spinning through dough» (Calvetti Michaels). Fissata in un linguaggio estraneo nei «libri di ricette, magari collettivi (i cosiddetti compi/ed cookbook)» (Ortoleva), la cultura materiale attribuiva nuova dignità a un gruppo margi­ nale, capace di imporre simboli divenuti universali (pasta, polenta, mortadel­ la, carciofi, pomodori, trippa, ravioli, caffè... ), che consentivano ai recenti ita­ liani di superare il trauma della vergogna e della perdita, e specialmente legit­ timava il ruolo femminile. La formula di Helen Barolini: «Mangiando, ricor­ do», preludeva al sospirato momento del ritorno, infatti «Sempre gli scrittori meridionali hanno ricordato come il momentaneo ritorno al paese, reale o so­ gnato, il bisogno di trovare senso e posto in un nuovo luogo avvengono anche attraverso una riconquistata familiarità con i cibi perduti, con una sacralità che accompagna l'atto del mangiare» (Teti, 1999). Il cibo non è solo memoria di luoghi lontani, ma anche estrema e avventu­ rosa risorsa lungo i perigliosi passaggi navali, allora atlantici e oggi mediterranei: «La prima cosa che venne fuori dal sacchetto fu una mela. Moses l'addentò e se ne riempì la bocca prima di passarla a chi gli stava vicino. La mela passò di mano in mano, e ognuno l'addentava. Justice era il ventunesimo» (Kenyon). Milioni di affamati e assetati percorrono rotte millenarie di scambio, an­ che alimentare, tra le culture (frutta, verdura, animali, la "italianissima" pasta di origini arabe), che caricano di valori opposti, «il pane e il maiale, e con loro il vino» (Montanari, 2005). Lo stesso couscous (globalizzato come la pizza), dal Medioevo «nella Sicilia orientale rappresenta, in una versione a base di pe­ sce e verdure, il cibo festivo per eccellenza» (Kumalè); portato nella Roma pa­ pale e in Toscana da ebrei fuggiti dal Nord Africa (Toaff), soddisfa la nostal­ gia di chi oggi sbarca fortunosamente, entrando nel brutale sfruttamento del1'agricoltura meridionale, che si affida alle mani straniere per la raccolta del pomodoro e degli altri prodotti: - Olive - spiegò l'uomo, e con le dita fece capire qualcosa di piccolo - poi in novembre e dicembre vi potreste spostare dalle parti di Catania e Siracusa. Ci sono da raccogliere arance, limoni, mandarini . . . i mesi peggiori sono quelli che vengono dopo. Fino a luglio 102

CIBI DEI MIGRANTI

bisogna cavarsela con i lavori che capitano, ma è dura. Da luglio in poi si ricomincia: vendemmie in anticipo, pomodori, meloni . . . (Moussa Ba, La promessa di Hamadi) .

Non meno facile l'approdo nelle città, e l'Immigrato di Salah Methnani segue per sopravvivere una «mappa alternativa» di Roma, «il giro delle mense, delle docce e degli ostelli>> . La traccia dei sapori lontani, offerta dai ristoranti etnici («Mangio il mio couscous proprio con gusto . [ . . . ] Avevo bisogno di un pasto vero») , diviene acuta emozione nelle feste, come il N arale, che ribadisce la se­ paratezza tra le religioni : un frate, dietro il bancone, serve da mangiare. Il pasto ti viene dato in buste di carta ed è composto da due fette di pane, due di mortadella, un po' di formaggio e, a scelta, un'a­ rancia oppure due scatolette di marmellata.

Un ricordo simmetrico cerca di smorzare quelle angustie: Mi viene da pensare, non dico alla lenta ritualità del nostro Ramadan, ma anche soltan­ to alla festa del montone: per giorni, nessuno beve alcolici, e tutte le famiglie si riunisco­ no. Si mangia la carne del montone fino alla sua parte più prelibata e sacra: la testa.

Il valore culturale dei cibi incide anche sulle reazioni del fisico, che rifiuta il sim­ bolo dell'alterità: «Decido di riprovarci e stavolta riesco a mangiare un intero piatto di pasta. Che strano ! Subito dopo sono stato assalito da un sonno tremen­ do» (Bouchane) . Diventano preziosi anche frammenti dell'atmosfera patria, come il «profumo di cucina marocchina, dei nostri piatti , delle nostre spezie. Ho fatto qualche passo e ho capito da dove arrivava. Nel giardino davanti al dormi­ torio i marocchini che vivono nelle macchine lì vicino preparano da mangiare» . È nel volume di Amara Lakhous, ironica figurazione dell'arroccamento identitaria, che l'incongrua presenza del migrante, costretto a subire l'altrui volontà, emerge fin dal clamoroso incipit: Qualche giorno fa, non erano nemmeno le otto di mattina, seduto su un sedile della metropolitana, [ . . . ] ho visto una ragazza italiana che divorava una pizza grande come un ombrello . Mi è venuta la nausea e per poco non vomitavo! Grazie a Dio è scesa alla fer­ mata successiva. Davvero una scena insopportabile ! La legge dovrebbe punire chi si per­ mette di turbare la tranquillità dei buoni cittadini che vanno al lavoro la mattina e tor­ nano a casa la sera.

La (tragi)comica galleria dei luoghi comuni, con lo stereotipo dell'italiano «pizzadipendente», è affidata a Parviz Mansoor Samadi, cuoco iraniano inca­ pace di adattarsi ai ruoli e agli ingredienti dei ristoranti romani, smarrito nel10 3

BANCHETTI LETTERARI

l'alcol per «paura di dimenticare la cucina iraniana se impara quella italiana [... ] è la memoria, la nostalgia e l'odore dei suoi cari tutti insieme». Opposto l'atteggiamento del protagonista Ahmed, divorato dagli incubi della patria algerina, e spinto al mimetismo nella nuova identità italiana; attra­ verso una compulsiva voracità ( >. In altri casi, le contrapposizioni di tavole, costumi e religioni, semplificate dai media nella guerra metaforica fra polenta e couscous, provoca situazioni grottesche, come in Lode alla polenta di Wadia ( 2005 ) , quando si scopre che la giovane vincitrice di un concorso letterario "padano" ...

«E colorita - nera, di colore, una negher insomma». Le sue parole furono come una mano che apre il forno durante la cottura di un soufflé e il viso dell'assessore s'afflosciò in mezzo secondo.

Nella raccolta Pecore nere, un altro testo mostra l'esito dirompente di un'assi­ milazione indotta, che forza il regime alimentare come i sentimenti religiosi. Con ironia, la ragazza di origini somale, musulmana sunnita, decisa a una dra­ stica iniziazione all'italianità ingozzandosi di Salsicce (Scego), denuncia la roz­ za imposizione di scelte intolleranti, che annullano personalità ricche di ten­ sioni e contraddizioni, «O meglio con più identità». Mi sento somala quando 1 ) bevo il tè con il cardamomo, i chiodi di garofano e la can­ nella; [ . . . ] 6) mangio la banana insieme al riso, nello stesso piatto, intendo; 7) cucinia­ mo tutta quella carne con il riso o l'angeelo; [ . . . ] Mi sento italiana quando: faccio una colazione dolce; [ . . . ] ; 8) mangio un gelato da 1,80 euro con stracciatella, pistacchio e cocco senza panna.

Scelte univoche generano conflitti e repulsioni, verso cui declina l'esperimen­ to gustativo, avvertito come forzoso intervento di conversione: 105

BANCHETTI LETTERARI

puzza ! Chiudo gli occhi e avvicino l'immondità alla bocca. Comincio a sen­ tire un sapore acido come vomito. Allora è questo il gusto della salsiccia, vomito? Poi qualcosa mi bagna il petto ed è allora che apro gli occhi. Con stupore noto di aver vomi­ tato la colazione della mattina, una tazza di cereali con latte freddo e una mela. E la sai.... siccia? Dov'è la salsiccia? E ancora infilzata tutta intera sulla forchetta. Non ho fatto in tempo a metterla in bocca, il vomito l'ha preceduta. AGH H H H ,

Il rifiuto del cibo può esprimere anche l'assenza di riferimenti identitari certi, come nella protagonista di Media chiara e noccioline (Chandra), dove l'indif­ ferenza del genitore di origini indiane e la crisi adolescenziale sboccano in ma­ nifestazioni tra anoressia e bulimia, come ancora in Cibo della tedesca, di ori­ gini ebraico-polacche, Helena Janeczek. La pratica di situazioni aperte all'ibridazione, affiora nella raccolta Mi rac­ conto. . . Ti racconto, nella quale «le radici stanno lontano, in altri paesi e in al­ tre culture; l'identità è qui fra noi, ed è costruita mettendo insieme pezzi di culture altre» (Montanari, 200 7 ) . «In questo caso, non ci si limita a gu stare, a conoscere attraverso il palato, a fare un'esperienza legata al gusto, ma si conosce un modo di vita, una storia, una prospettiva. Grande enfasi è data al fatto che al cibo dell'altro si accompagnano, nell'evento, la narrazione e l'incontro, la te­ stimonianza, la possibilità di discutere, comprendere, sapere. Il cibo dell'altro non è solo mangiato, ma incorporato grazie alla narrazione della sua prepara­ zione» (Colombo, Navarini, Semi). Ne escono Ricette scorrette, in cui «si annacquano le proprie tradizioni o non si rispetta fedelmente la cucina ospite», in nome di una logica caotica che praticano le giovani rom Ana e Madalina, con «i macarone cu branzà, un dol­ ce fatto con la pasta e un formaggio rumeno»; la brasiliana Delma coi fusilli e palatanos (banane); o «la himbasha, un pane festivo decorato», accompagnato con nutella per il compleanno della italo-etiope Winty. Una flessibilità che su­ pera i malintesi evocati con graffiante ironia da Komla-Ebri a proposito della moglie italiana, che le amiche immaginano a preparare, per il marito "negret­ to", «un menù a base di serpente affumicato o ginocchio d'elefante bollito». Il senso di gustosi scambi emana da testi che s'allontanano dal semplice recipe di cucina, e da taglieri, pentole e forni, da piatti e bicchieri, e funge da coagulo di percorsi, traiettorie, viaggi contraddittori; cucina e pianeta si abbracciano in Mondopentola di Wadia, che raccoglie da India, Bosnia, Argentina, Brasile, Ro­ mania, Etiopia, Palestina, Italia, effluvi e sapori, a rappresentare le più larghe di­ versità culturali, amalgamate nel contenitore comune dell'italiano letterario. Il cibo scritto si carica di sfumature nel viaggio di migrazione, diviene mito di immobile purezza avvolta da affetti familiari, quando avviene il sospirato ri­ torno in patria e alla vecchia casa, cuore di un sistema culinario dominato dalla 106

CIB I DEI MIGRANTI

figura materna. L'emozione travolge il personaggio algerino davanti a vivande disordinate, smodate, fuori delle sequenze delle regole occidentali: Prendo lham jehlou, carne di manzo addolcita con sciroppo, prugne e mele. Intingo il pane e le dita nel sugo come non facevo da molto tempo. Divoro come non facevo da molto tempo . In assoluta libertà. Poi il pollo con le olive, così senza ordi­ ne, poi il melone giallo - non il cantalupo che chiamavo melone in Europa - poi i ... fichi, poi due cucchiai di couscous, l'amata semola dell'infanzia. «E un'orgia questa . ... E un'orgia !» mormoro mangiando. Dal salato al dolce e dal dolce al salato. Chiedo un qalb ellouz, un dolce sfacciatamente dolce, gocciolante di miele. Libidinoso. Per fortuna c'è. Lo inghiotto con avidità, guardando con sfida tutti, e prima di tutti me stesso. Alla fine mi calmo e chiedo un caffè (Tahar Lamri) .

Ed è al culmine dell'immersione negli anfratti gustativi e vitali, che si rivela il trauma dell'impossibile nostos, perché la vita avanza in dolorosa trasformazione: - Lo sai che mio figlio è morto ? - Ma quale figlio mamma. Non so di nessun fratello morto durante la mia assenza! [ . . . ] - Sì, queste cose le dicevo a mio figlio Maj id ! Ma mio figlio amava il dolce, non poteva bere il caffè amaro, non è possibile.

Uno slancio di fantasia mostrano le donne di casa nel racconto del siriano Yousef Wakkas, accapigliandosi sulla tradizione del kebab di ciliegie, ma im­ provvisando poi una dirompente variante: - Ne ho fatto una teglia . . . ma . . . non come la fanno gli italiani . L'ho resa più gustosa !

[...]

- Guarda ! - disse con apprensione. - Latsania alle fragole ! '

E il vero trionfo del métissage culinario, per cui «le cucine di altri continenti e culture modificano le ricette tradizionali al punto che i diversi piatti perdono quasi completamente la loro identità» (Kumalè). Ma non è solo in Oriente che irrompono in modi fantastici i sapori italiani, perché il nostro territorio è sempre più segnato da presenze transazionali: Guardare alla cucina d'Italia vuol dire cogliere i fili di relazioni complesse che legano i mi­ granti di ieri e di oggi. [ . . . ] Sono gli immigrati in Italia a produrre i pomodori, i formaggi, la pasta, l'olio e i salumi che finiscono sulle tavole dei ristoranti italiani delle metropoli globali . [ . . . ] Sono altri migranti di ogni parte del mondo a lavorare nei ristoranti, pizzerie e caffè italiani all'estero. [ . . . ] è attraverso il lavoro materiale e culturale di altri migranti che la cucina italiana diasporica continua a viaggiare circolarmente tra la penisola e il resto del mondo, attivando molteplici nuove narrazioni di identità (Cinotto, 2009) .

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Cibi di guerra di Cinzia Ruozzi

Fame e trincea Ai primi del Novecento , nonostante i progressi del­ l'industria e le rimesse degli emigranti, la dieta della maggioranza degli italiani era cambiata ben poco ri­ spetto al secolo precedente e con l'arrivo della Gran­ de Guerra il paese ripiombò nelle peggiori ristrettez­ ze. La guerra si rivelò traumatica per le masse conta­ dine arruolate a milioni per combattere nelle trincee e nei contrafforti alpini . L'obiettivo bellico di libe­ rare le terre " irredente " dal giogo austriaco era sentito come qualcosa di lon­ tano, gli uomini erano mandati a farsi massacrare per conquistare pochi me­ tri di terra, la disciplina era severa e prevedeva la fucilazione sommaria dei " codardi " e la decimazione delle unità accusate di vigliaccheria. Il morale delle truppe era basso anche a causa dei rifornimenti alimentari esigui e di• • scont1nu1. Nel romanzo Un anno sull 'altipiano (Parigi 1938) di Emilio Lussu, consi­ derato il libro migliore sulla Prima guerra mondiale, non c'è quasi traccia del cibo . I problemi della cambusa e degli approvvigionamenti sono marginali . Il racconto asciutto e a tratti ironico degli avvenimenti vissuti dalla brigata Sas­ sari, tra il giugno del 1916 e il luglio del 1917 sull'altipiano di Asiago, è una spietata requisitoria contro l'incapacità dei generali, la disumanità e la follia di alcuni di loro che, imbevuti di retorica patriottica e di vanità, sacrificano cen­ tinaia di soldati in battaglie inutili e assalti alla baionetta a trincee inespugna­ bili, fino alla disfatta finale. Fanno da contrappunto le azioni generose dei sol­ dati semplici . In entrambi i fronti scorrono fiumi di cognac con cui si reagisce ali' orrore e ci si difende dalla paura. Non è difficile immaginare a cosa servissero gli al­ colici : si trattava non solo di farsi coraggio, ma anche di andare consapevol­ mente a farsi massacrare, come si legge nella descrizione della battaglia tra au­ striaci e italiani per il controllo del Monte Fior: 108

I battaglioni avanzavano al passo, lentamente, ostacolati dai sassi e dagli sterpi. La no­ stra mitragliatrice sparava rabbiosa, senza arresto. Noi vedevamo reparti interi cadere falciati. I compagni si spostavano, per non passare sui caduti. I battaglioni si ricompo­ nevano. Il canto riprendeva. La marea avanzava. Hurrà ! Il vento soffiava verso di noi. Dalla parte austriaca, ci veniva un odore di cognac, carico, condensato, come se si sprigionasse da cantine umide, rimaste chiuse per anni. Durante il canto e il grido dell'hurrà sembrava che le cantine spalancassero le porte e ci inondassero di cognac. Quel cognac mi arrivava a ondate alle narici, mi si infiltrava nei polmoni e vi restava con un odore misto di catrame, benzina, resina e vino acido.

Gli ufficiali ricevevano un trattamento speciale e morivano con meno fre­ quenza dei soldati semplici : sono numerose le pagine del Giornale di g uerra e di prigionia (1915-19) dell'ufficiale di complemento Carlo Emilio Gadda nelle quali con scrupoloso ordine lo scrittore annota la lista dei cibi : La mensa continua a essere buona, abbondante e simpatica. L'altro ieri si bevve del cat­ tivo Champagne offerto da noi nuovi venuti. Ieri si bevve del buon Champagne offerto a due maggiori che partono; il nostro credo fosse di marca italiana (Ponte di Legno, 27 novembre 191 5 ) . Il giorno 1 5 sera pranzammo con gli ufficiali del 9 0 ° Reparto e il pranzo organizzato da Navutti fu ottimo. Tagliatelle all'uovo, pollo fritto ecc.; vino e Asti spumante (Accam­ pamento del Campiello, 19 agosto 1916).

I motivi della scontentezza, della continua irritazione ( «una rabbia sanguina­ ria mi prende, una rabbia convulsa») , nonché dell'angoscia dello scrittore sono ben altri : l'acquiescenza al male degli italiani, la rovina morale della pa­ tria, l'assenza di disciplina dei soldati attribuita anche alla propria mancanza di autorità, il pensiero della madre e del fratello Enrico e soprattutto il disor­ dine della vita in trincea sentito come minaccia per l'equilibrio psichico . La guerra gli appare «necessaria e santa» pur nell'orrore e nella morte, ma egli ne ricava un senso di delusione e scoramento; la morte del fratello Enrico segnerà inesorabilmente la vita dello scrittore, stendendo una lunga ombra fino alla Cognizione del dolore (1963 ) . Dopo Caporetto (24 ottobre 1917) i campi di prigionia degli imperi cen­ trali si riempirono di prigionieri italiani ai quali le nostre autorità non inviaro­ no alimenti perché considerati disertori . Gadda si trovava recluso nella barac­ ca 1 5 in un Lager a Celle (vicino ad Hannover, in Germania) . Gli ufficiali rice109

BANCHETTI LETTERARI

vevano i pacchi dalla Croce Rossa e dai familiari, ma la fame non tardò ad ar• r1vare: Fine delle riserve di pasta, di riso, di farina; tramonto del piatto pomeridiano di mine­ stra o di polenta. Mi rimangono i miei filoni, una quindicina circa, e le scatolette depo­ sitate. Speriamo di avere presto qualche pacco, se no sarà di nuovo la fame (Cellelager, 11 maggio 1918 ) .

Nelle memorie dei prigionieri il cibo diventò un'ossessione: la fame costante costrinse a pensare al cibo, parlare di cibo, ricordare il cibo, aspettare il cibo. Nelle "città dei morenti", come vennero definiti i campi di prigionia, esseri inebetiti dalla fame si aggiravano fra mucchi di rifiuti alla ricerca di avanzi pu­ trefatti e si gettavano gli uni contro gli altri per afferrare un pezzo di pane. Nei campi austriaci la porzione di cibo quotidiano riservata ai soldati (a esclusione degli ufficiali), ridotta al minimo nei mesi dell'inverno 1917-18, era costituita da un caffè di orzo al mattino, una minestra di acqua con qualche foglia di rapa o di cavolo a pranzo e una patata o una fetta di pane a cena. In uno stu­ dio sulla Grande Guerra, Giovanna Procacci ha raccolto molte lettere di pri­ gionieri nei vari campi di concentramento in Austria-Ungheria e in Germa­ nia. Il tema dominante di buona parte di questa corrispondenza è la richiesta, prima pressante poi disperata con il progredire del conflitto, di inviare pacchi alimentari e mezzi di sussistenza, ma se la famiglia era povera e analfabeta non giungevano né posta né pacchi.

Ricettari di cucina in un campo di prigionia Per alleviare la fame, ma soprattutto per resistere ali'alienazione e alla sperso­ nalizzazione indotte dalla prigionia, il sottotenente Giuseppe Chioni e l'uffi­ ciale Giosuè Fiorentino, rinchiusi nello stesso Lager di Celle dove si trovava Gadda, giungono a compilare raccolte di ricette. Il ricettario di Chioni, Arte culinaria (1917-18), compilato con l'aiuto del collega Luigi Marazza, è oggi conservato nell'Archivio della Scrittura Popolare di Genova (città d'origine dell'autore); esso contiene centinaia di ricette ricavate dall'incontro con le di­ verse culture gastronomiche dei prigionieri provenienti dalle varie regioni del­ la penisola: una summa della cucina italiana nata dal ricordo corale dei cibi di casa. , fino all'arresto della vecchia padrona. Il cibo diventa il simbolo in cui si concretizza l'utopia della società dell'avvenire, dove giustizia sociale vuol dire il diritto a non patire più la fame. Così teorizza il partigiano Giacinto nel Sentiero dei nidi di ragno: «Il comunismo è che se entri in una casa e mangiano della minestra, ti diano della minestra, anche se sei stagnino, e se mangiano del panettone, a Natale, ti dia­ no del panettone. Ecco che cos'è il comunismo». Ancora negli anni sessanta "i giovani con le magliette a strisce" che guidarono la protesta contro il governo Tambroni innalzavano cartelli con scritto semplicemente «Pane e Lavoro».

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CIBI DI GUERRA

Per il rapporto tra cibo e letteratura il testo più interessante della narrativa resistenziale è L �gn ese va a morire di Renata Viganò (1949). La protagonista è un'anziana contadina che trascorre molto tempo tra i fornelli e il suo ruolo nella Resistenza sarà per lo più quello di essere cuoca e massaia. E significativo che la dinamica narrativa del romanzo si metta in moto a partire dal momento in cui Agnese incontra un giovane disertore affamato al quale offre ospitalità. Le conseguenze di questo atto di umanità intrecciano di nuovo una traiettoria alimentare, poiché la vicina di casa, per una storia di uova rubate, si vendica di Agnese denunciandola ai tedeschi. La delazione che porterà ali' arresto di Pali­ ta, il marito di Agnese, sarà carica di conseguenze che trasformeranno la vita della donna. Palita sarà deportato in Germania come «sovversivo e comuni­ sta» e morirà di stenti in un vagone ferroviario carico di ebrei; Agnese prende­ rà a poco a poco coscienza che il suo compito è combattere contro i tedeschi e si avvicinerà alla Resistenza. Inizialmente Agnese entra a far parte di quella rete di case sicure dove trovare cibo e nascondersi. In seguito, di nuovo per colpa della vicina che accusa la sua gatta di averle rubato delle salsicce (ancora un elemento chiave di tipo alimentare), Agnese uccide un soldato tedesco reo di aver sparato ali' animale ed è costretta alla clandestinità. Comincia l'epopea di «mamma Agnese», come la chiamano con tenerezza i giovani partigiani del1' accampamento, che instancabilmente pedala in bicicletta, trascina le gambe pesanti, raduna le provviste, scava in terra il focolare, accende fuochi, mette a bollire pentoloni di minestra. E Agnese a mettere in salvo le provviste (dalle capanne alle barche ancorate nelle Valli di Comacchio) quando arriva l'ordine di smobilitare il campo e a tenere il collegamento con «i casoni» della bonifica allagata, dopo il proclama del generale Alexander. E ancora Agnese, madre e nutrice, a creare quei rari squarci narrativi in cui la sospensione della lotta la­ scia spazio alla festa e al piacere del banchetto: Decisero la festa per la sera. Le donne fecero le tagliatelle asciutte, lavorarono da matti tutto il giorno. L'agnello fu scuoiato, infilato in pezzi nelle baionette. Due partigiani si misero vicino al fuoco, improvvisarono una specie di sostegno; facevano girare la carne sulla fiamma e si bruciavano le dita. Tutto il campo stava in allegria: erano come bambi­ ni, andavano dalle capanne al fuoco a curiosare, e ogni volta domandavano quanto ci voleva prima che fosse pronto.

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Cibi di paradiso di Giuseppe Ledda

Ilparadiso delle delizie Se il paradiso celeste, sede autentica dei beati, è nella cultura cristiana caratterizzato da godimenti pura­ mente spirituali e dall'assenza dei bisogni del corpo terreno, così che il gusto e i cibi vi appaiono solo at­ traverso il linguaggio metaforico, è invece diffuso, nella letteratura di viaggi e visioni dell'aldilà, il mito del «paradiso deliciano>> : un luogo di delizie posto al di là del nostro mondo, ma ancora sulla terra, in po­ sti lontani e inaccessibili, talvolta identificato con il paradiso terrestre, sede originaria dell'umanità prima del peccato . Il luogo è deserto ma, secondo al­ cune tradizioni, vi abitano, fino alla fine dei tempi, alcuni profeti, miracolosa­ mente sopravvissuti e fatti giungere da Dio, per la loro santità, a età straordi• nar1amente avanzate. I protagonisti della Leggenda del viaggio di tre santi monaci al Paradiso ter­ restre vi trovano alberi «pieni di pomi dolcissimi e dilettevoli e suavissimi da mangiare» . I frutti, le erbe e le acque di questo luogo hanno straordinarie vir­ tù, ringiovaniscono e prolungano indefinitamente la vita umana, e vi sono frutti «tanto saporosi e dilettevoli a mangiare e confortativi , che chi ne man­ giava una volta solamente assaggiandoli giammai non avea più fame né sete» . Del resto, la Bibbia dice che nell'Eden si trovava «ogni specie di alberi pia­ cevoli d'aspetto e buoni da mangiare, e l'albero della vita in mezzo al giardino» ( Gen, 2 , 9 ) . E perfino nel paradiso terrestre dantesco crescono frutti straordi­ nari e diversi da quelli del nostro mondo : «qui primavera sempre e ogne frut­ to; / nettare è questo di che ciascun dice» (Purg., XXVIII, 143 - 1 44) . Inoltre, che nei quattro fiumi del paradiso terrestre ( Gen, 2 , 1 0-14) scorrano, rispettivamente, latte, miele, acqua purissima e vino prelibato era un'antica cre­ denza. Nella Navigazione di san Brandano si ha la variante dell'olio al posto del miele. E Federico Frezzi, intorno al 1400 , parlerà della «pianta più bella / del pa­ radiso, la pianta felice, / che conserva la vita e rinovella. / Questa gran pianta di 118

gran maraviglia / [ . . . ] è l'arbore vitale / che vita dona a chi suoi frutti piglia» . Anche Ariosto racconta di come Astolfo giunga a cavallo dell'ippogrifo nel pa­ radiso terrestre e qui incontri Enoch, Elia e san Giovanni, i quali rifocillano il viaggiatore con i frutti dell'Eden ( Or/,ando forioso, XXXIV, 60-61 ) . I miracolosi effetti, non dei frutti ma delle acque edeniche ritornavano, con modalità assai particolari, pure nei canti danteschi dedicati al paradiso terrestre. Qui il poeta rielabora e sviluppa in senso cristiano il tema classico del fiume oltremondano Lete, le cui acque danno l'oblio a chi le beve. Nel mondo classico agisce una concezione ciclica della vita, per cui alcune anime, ancora non meritevoli di dannazione o di beatitudine eterna, dopo un periodo di purificazione, tornano alla vita terrena, incarnandosi in nuovi corpi . Tali concezioni sono alla base anche dell'ultima parte del VI libro dell'Eneide, in cui il padre Anchise mostra a Enea le anime che, prima della nuova nascita, devono purificarsi dei ricordi della vita precedente bevendo l'oblio con le ac­ que del fiume Lete (713-716) . Dante riprende l'idea del fiume leteo, ma gli as­ segna una nuova collocazione e una nuova funzione, coerente con l'aldilà cri­ stiano . Nel paradiso terrestre colloca infatti due fiumi , il Letè e l'Eunoè, che si diramano da un'unica fonte. Bere l'acqua del primo cancella i ricordi del male compiuto nella vita terrena, mentre l'acqua del secondo restituisce e rinvigori­ sce i ricordi del bene fatto (Purg. , XXVIII, 127-133) . Bere l'acqua dei due fiumi completa il processo di purificazione purgatoriale delle anime e rende per loro possibile ascendere al paradiso celeste. Lo stesso Dante, di cui non si dice che durante tutto il viaggio oltremondano ingerisca altri cibi o bevande, deve bere la loro acqua per poter salire in paradiso (XXXIII, 1 27-145) .

Banchetti celesti Se nei campi elisi descritti da Virgilio i beati banchettano e cantano inni (Eneide, VI, 657) , anche nel Vangelo il regno di Dio è paragonato a un ban­ chetto (Mt, 22, 1-14; Le, 13, 29; 14, 1-24) dove Gesù berrà ancora con gli apo­ stoli «il frutto della vite» . E Giovanni nell'Apocalisse ribadisce questa immagi­ ne: « Beati quelli che sono invitati al banchetto nuziale dell'Agnello» (Apoc. , 19 , 9 ) . L'altra grande immagine " alimentare" neotestamentaria per la beatitudine è quella dell' «acqua della vita» : chi beve quest'acqua, si dice più volte, «non avrà più sete in eterno» ( Gv, 4, 12-14) . In termini analoghi , Gesù parla del pane: « Io sono il pane di vita: chi viene a me non avrà più fame» (6, 3 5 ) . La beatitudine paradisiaca è prospettata, anche nelle profezie dell'Apoca­ lisse, come una condizione di annullamento dei patimenti corporei, della fame e della sete: «Essi non avranno più né fame né sete, né li colpirà più il 119

BANCHETTI LETTERARI

sole, né ardore alcuno» (Apoc. , 7, 16). E le gioie del paradiso sono indicate come una soddisfazione della sete attraverso la miracolosa e divina «acqua di vita» (21, 6; 22, 1 7 ) . Inoltre nell'Apocalisse si volgono in chiave escatologica le profezie di Ezechiele sul nuovo Tempio, da cui scorre un fiume sulle sponde del quale crescono «gli alberi della vita» che daranno frutti prelibati in ogni stagione (Ez, 47, 1 2 ; Apoc. , 22, 1-2 ) . Le immagini alimentari relative al paradiso sono spesso puramente meta­ foriche e non si va oltre la rievocazione generica del «banchetto celeste». Ma cibi più precisi e concreti talvolta sono imbanditi nei banchetti di paradiso delle visioni medievali, come queste pietanze candide di sola uccellagione: «preparavano mense e uno straordinario banchetto. Non di qualunque bestia, ma soltanto di volatili venivano preparate in abbondanza tutte le pietanze e tutto ciò che veniva imbandito era candido come neve». La doppia immagine dei volatili e del candore niveo delle pietanze suggerisce la valenza spirituale del banchetto. Sul modello biblico, un'attenzione speciale si dedica nella letteratura vi­ sionaria medievale all'acqua del paradiso e ai suoi effetti prodigiosi. Le acque miracolose dei fiumi della città celeste che danno la vita eterna sono esaltate anche nel De Ierusalem celesti di Giacomino da Verona: «quelor ke ne bevrà / çamai no à morir, né seo plu no avrà» (85-89). E, sul modello dell'Apocalisse, sulle rive del fiume della città celeste crescono alberi dai frutti dolcissimi e mi­ racolosi, capaci di guarire ogni malattia (101-105). Se la fame e la sete costituiscono per Bonvesin da la Riva l'ottava pena in­ fernale (De Scriptura Nigra), parallelamente, nel De Scriptura Aurea, il poeta milanese si sofferma sui cibi e bevande di paradiso, lo «spiritual condugio>>, che costituiscono l'ottava tra le glorie riservate ai beati. Il cibo di paradiso è definito da Bonvesin dapprima attraverso la tipica formula negativa, che esclude dal paradiso ogni aspetto sgradevole e fastidioso. Così il cibo celeste è immune dal deperimento e dalla corruzione, non si guasta, né marcisce, né si ammuffisce, come avviene invece ai cibi terreni; non è mai sgradevole al gusto né tossico per la salute; non finisce mai, ma non dà neanche la nausea o il fa­ stidio della sazietà. E alla negazione dei difetti del cibo, segue la sua esaltazione positiva, con tutte le qualità di freschezza e indeperibilità, dolcezza e gradevo­ lezza dei sapori e dei profumi, sino alla lode massima e iperbolica dell'ineffabi­ lità (505-508): Ma sempre g'è recente e san e stracompio, Suav e delectevre, olent e ben condio E net e pur e bello, amabil, savorio: Lo so savor dolcissimo no pò fl diffinio. 120

CIBI DI P ARADISO

Ed ecco che dall'indicazione generica si passa e quella di cibi più precisi, il «pane eternai» e il «vin celestial», il cui sapore straordinario viene esaltato da Bonvesin. Così, «quel cib glorioso / tanto è 'l e san e dolce, suav e precioso», che chiunque lo gustasse sarebbe «per sempre alegro e confortoso» (517-520). L'enu­ merazione dei cibi non va molto oltre la ripetuta menzione del pane, del vino e dei frutti, con ulteriori variazioni dell'aggettivazione elogiativa e iperbolica. Ma oltre al generico frutti colpisce l'indicazione degli esotici datteri (521-524): Illò no manca cibi stradulz e straprovai, Lo pan strasuavissimo e i vin stradelicai, Li datar e li frugi con grang odor suavi: Li soi savor dulcissimi no porav fì cuintai.

E non solo i cibi sono straordinari nel banchetto paradisiaco, ma anche tutti gli altri aspetti della mensa: le sedie e i tavoli intagliati, i piatti preziosi e ri­ splendenti, le tovaglie di seta ricche di ornamenti, le coppe d'oro purissimo con gemme preziose. Insomma, tutto è meraviglioso e incomparabile in que­ sto banchetto, in quanto Cristo stesso sovrintende alla mensa celeste: «Lo no­ stro rex de gloria, fio de sancta Maria, / Quel è administrator dra tavola ban­ dia» ....(539-540). E divenuto un luogo comune sostenere che il paradiso islamico, a differenza di quello cristiano, sia un luogo di godimenti carnali. Di là dalla reale portata teologica di questa volgarizzazione banalizzante, non si può negare che nel Libro della Scala, l'unico testo escatologico islamico noto nell'Occidente medievale, vi sia una forte attenzione ai cibi e alle bevande del paradiso. Tut­ tavia la natura "miracolosa" e perciò metaforica e spirituale di questi cibi pare spesso piuttosto evidente. Inoltre il paradiso descritto nel Libro della Scala è ricco di fonti e fiumi in cui scorrono i vini più vari e preziosi, enumerati e de­ scritti con ricchezza di particolari (100). Non deve stupire la presenza del vino nel paradiso islamico: più avanti nel testo si ribadisce il divieto di berlo nella vita terrena, ma si annuncia pure che sarà concesso ai beati: «Dunque sia a te che al tuo popolo il vino sarà sempre proibito, tranne quello che insieme ber­ rete nella gloria del paradiso» (131).

Cibi spirituali e profumi di paradiso La natura spirituale e miracolosa dei cibi celesti è in certi testi particolarmente evidente. Nel Purgatorio di san Patrizio, le anime dei peccatori non dannati, dopo aver subito una serie di pene purgatoriali, giungono, purificate, al para­ diso terrestre, in attesa di essere assunte a quello celeste. Dio pasce queste ani12 1

BANCHETTI LETTERARI

me una volta al giorno con un «cibo celeste» del tutto spirituale, che nutre scendendo sulle anime sotto forma di fuoco. E di questo cibo spirituale i beati godranno eternamente nel paradiso celeste. Il cibo celeste ha spesso la straordinaria capacità di dare un godimento in­ cessante del palato e la perfetta soddisfazione della fame, senza però generare un senso di sazietà: così si godrà sempre, nello stesso tempo, del desiderio e del suo appagamento. E questo cibo straordinario avrà, secondo alcuni teologi, il sapore che più piace a ciascuno dei beati, come sostiene Giovanni di Fécamp: Il tuo cibo non dà pesantezza, non intorpidisce i sensi, non provoca nausea: ogni tuo alimento è dolce, pieno di profumo e di un sapore che permane. [ ... ] Questo cibo non ha per fine la digestione: l'alimento dolcissimo imbandito ha per ciascuno quel sapore che appaga il suo gusto.

Così annuncia ancora nel Seicento il predicatore gesuita Francesco Zuccarone parlando dei godimenti del corpo risorto in paradiso, secondo lo schema dei cinque sensi: «un godimento di tutti i piaceri insieme, ma senza confusione; un banchetto perpetuo de' sensi, ma senza sazietà; una fruizione incessante, ma senza stanchezza!>>. Più preciso e insieme sfuggente e paradossale, per l'im­ pensabile contemporaneità dei godimenti del gusto, quanto promette un altro predicatore seicentesco, Padre Pacifico da Venezia: > (Par. , II, 1 1 ) . Il latte, specie nella metafora dell'allattamento materno, è immagine fre­ quente in Dante, per esempio quando paragona il proprio rivolgersi, secondo l'invito di Beatrice, verso il fiume di luce dell'Empireo, al desiderio intenso con il quale un lattante si volge verso il latte materno (xxx, 82-86) . E i beati quando la Vergine risale all'Empireo la seguono subito con la stessa affettuosa gratitudine con cui il neonato appena allattato tende le braccia alla madre: «E come fantolin che 'nver la mamma / tende le braccia, poi che 'l latte prese» (XXIII, 121-122) . Il latte materno del paradiso acquista una forte corporeità in questa immagine di un predicatore seicentesco vicino alla sensibilità popolare, il cappuccino Pacifico da Venezia: «Beverà il beato alle poppe del sommo Bene, ne succhierà la dolcezza» . Le mele, i pomi, sono già ampiamente presenti nei paradisi deliciani , ma nella Commedia dantesca l'immagine del pomo diviene una metafora polifun­ zionale: indica la felicità terrena del paradiso terrestre (Purg., XXVII, 1 1 5-117: > nelle case bor­ ghesi secondo gli usi derivati in modo provincialotto dall'Inghilterra. E so­ prattutto la nota si conclude con un ineguagliabile squarcio di vita mattutina nelle "latterie" di Milano dove giovani lavoratori e studenti ad ore antelucane sono accomunati da rumorose colazioni di latte, caffè e panini: il Gadda stu­ dente del Politecnico trova così modo di maledire a modo suo («Satanasso lo incachi») quel corso di mineralogia che, svolgendosi già alle 7, costringe i fre­ quentanti ad alzatacce mescolandoli ai lavoratori in quella sorta di scomparsi luoghi di ristoro (le latterie) dove le parole di Gadda sembrano evocarci con pittorica coloritura (e non a caso aveva citato prima Leonardo e Veronese) fu­ manti scodelle di "caffelatte" su spartani tavoli in ghisa e marmo nel brusio di una colazione ali' alba indaffarata, al risveglio (così diverso da quello dei "si­ gnorini" anche per gli studenti universitari) di una grande metropoli italiana come Milano. Dalla Milano di Parini si torna alla Milano di Gadda, in un percorso che ci ha parlato di mattine al caffè nell'ora dell'"inizio" del giorno per tutti, l'ora della colazione appunto.

Cucina ebraica e cibo kasher di Eleonora Conti

Fra rigidi precetti e umorismo L'insieme delle prescrizioni ebraiche sul cibo è detto kasherut. L'aggettivo kasher o kosher, che significa adatto, opportuno, indica quei cibi che si possono consumare perché conformi alle regole. Il contrario di kasher è taref. Le regole della kasherut, piuttosto ri­ gide e complicate, sono stabilite dai rabbini seguen­ do le indicazioni della Torah. Nel Conto dell'ultima cena (2010 ) Moni Ovadia bulgaro sefardita, autore in yiddish e italiano - sottolinea la vocazione vegeta­ riana dell'ebraismo ed elenca i numerosi alimenti prescritti dall'Antico Testa­ mento, a dimostrazione che l'uomo può vivere anche senza uccidere. Al con­ trario gli animali compaiono spesso nella Bibbia con funzione salvifica e, mentre non esistono benedizioni da recitare per la carne e il pesce, ne esistono per il pane, i dolci, il vino, la frutta e la verdura. Così se un ebreo vuol nutrirsi di carne e pesce dovrà astenersi da precisi animali indicati nel Pentateuco. Ariel Toaff in Mangiare alla giudia (2000, 2011 2 ) ricorda che si tratta, per quanto riguarda gli animali terrestri, di tutti quelli che presentano insieme le due caratteristiche di essere ruminanti e avere lo zoccolo bipartito : vietati dun­ que, oltre ai carnivori, il cammello e il cavallo, il coniglio, la lepre e il maiale; tra i volatili i rapaci, gli uccelli acquatici, gli struzzi. Vietati gli animali che strisciano ventre al suolo, quasi tutti gli insetti , i roditori . L'unica fauna ittica ammessa è quella con pinne e squame. Inoltre le regole della kasherut impon­ gono che la macellazione avvenga con la tecnica dello shechitah (da cui proba­ bilmente deriva la voce popolare, diffusa in Emilia-Romagna, di " sagattare" , per " distruggere, rovinare " , se i n un documento bolognese del 1 5 60 ricordato da Toaff la carne macellata da ebrei è detta " carne assagattata" ) , ossia la rescis­ sione della trachea e dell'esofago dell'animale perché il sangue ne fuoriesca completamente. 1 53

BANCHETTI LETTERARI

Le regole della kasherut riguardano anche la produzione di vino e formag­ gio, che deve prevedere caglio vegetale o di animale macellato secondo le rego­ le. Per il vino le uve dovrebbero essere pigiate solo da piedi ebrei... Infine uno dei divieti più severi riguarda il mescolare carne e latte, dovuto all'idea che il latte rappresenti il simbolo della vita che viene donata mentre la carne può es­ sere mangiata solo dopo l'uccisione di un animale. I rabbini hanno interpreta­ to in modo molto restrittivo questo precetto, tanto che nemmeno un pollo o un tacchino possono essere cotti nel latte o mescolati ai formaggi. Gli ebrei os­ servanti hanno addirittura due servizi di posate distinti per la carne e per i for­ maggi, per evitare contaminazioni. Molte di queste restrizioni hanno pesato da sempre ai commensali ebrei, soprattutto italiani o trasferiti da secoli in Ita­ lia, patria della buona tavola. Ma l'ebraismo possiede anche l'antidoto psicologico per alleggerire il peso di regole così tassative, l'umorismo, come dimostrano le divertenti storielle di Moni Ovadia. La saggezza che semplifica il mondo ai neofiti può provenire da una bambina con uno spiccato dono della sintesi: - La mia famiglia è kasher, - dice Sara, sette anni, all'amichetta Rifka. - Che significa kasher? ' - E quando non puoi mettere il formaggio nel sandwich al prosciutto.

Il mosaico italiano. Nel ghetto romano con Crescenzo Del Monte Tuttavia, come conclude Toaff d'accordo con Jean-Louis Flandrin, la cucina ebraica italiana non si determina solo in negativo, sulla base dei rigidi precetti religiosi, ma anche in positivo, con scelte legate al gusto, alla tradizione e alla cultura delle numerose comunità che si sono stanziate nella penisola, sia dal1'antichità (gli ebrei italiani), sia in seguito alle numerose diaspore avvenute in età moderna (ebrei sefarditi dalla penisola iberica in seguito alla Reconquista, ashkenaziti, dalla Germania e dall'Europa centro-orientale, levantini e norda­ fricani) che hanno caratterizzato la penisola anche con i loro usi alimentari. Ciò è avvenuto lungo due direttrici a cui fa da spartiacque la dorsale appenni­ nica e che possono essere identificate in una linea tirrenica napoletano-roma­ na e in una padano-adriatica. La prima, che dalla Sicilia sale fino alla costa li­ gure, e che si è fusa con la cultura alimentare portata dagli ebrei sefarditi e con i piatti provenienti dal Maghreb, come il couscous, è caratterizzata dall'olio, dalle spezie, dalle minestre di legumi e da verdure come finocchi e carciofi; si tratta di una linea povera, legata al ghetto romano, che ci ha lasciato pochissi­ me testimonianze scritte. La seconda, partendo dal Piemonte, attraverso Lom154

CUCINA EBRAICA E CIBO KA SHER

bardia, Veneto ed Emilia-Romagna arriva fino alle Marche ed è invece una li­ nea ricca ed evoluta culturalmente, che ci ha lasciato molte testimonianze di una radicata cultura dell'oca e del suo grasso, mescolata ai piatti poveri della zona padana, costituiti da erbe e radici - come rape e radicchi - con olio e ace­ to, e polente. Di questo ricco mosaico cosa è passato nella letteratura italiana? Un pri­ mo prelievo potrà esser condotto nel ghetto romano, quello in cui si visse nel­ le condizioni più misere a causa del rigido controllo delle autorità papaline e che fu l'ultimo ad essere aperto, dieci anni dopo l'unificazione italiana. Qui, tra Otto e Novecento, si incontra un poeta dialettale che si meritò il sopran­ nome di "il Belli del ghetto", l'ebreo Crescenzo Del Monte (1868-1935). I suoi sonetti in dialetto giudaico-romanesco mirano a restituire la vitalità del ghetto di Roma (toccato solo marginalmente nella monumentale opera del Belli), dei suoi abitanti e delle loro abitudini, anche alimentari. I golosi piatti kasher sca­ tenano appetiti pantagruelici: c'è la pizza giudaica, così appetitosa che il rabbi­ no e il sagrestano della sinagoga vogliono mangiarsi anche il piatto (La pizza, 1895), tagliata in quarti e con le punte ben biscottate al forno (La pizza de li pizzi, 1919); c'è la mazzà, il pane azzimo degli otto giorni di Pasqua (La "maz­ zà ", 1895); ci sono i salami di manzo fatti in casa, appesi ai vani delle finestre perché asciughino (Li salami, 1910) e la ricetta della maionese da spalmare sul baccalà ( Un piatto novo, 1912), per tacere delle leccornie servite a 'O 'nvitato a pranzo (1924): vino dei Castelli, pasticcio di carne fatto in casa, spezzato di pollo, i carciofi alla giudìa, con le loro foglie biondo-oro e croccanti, i formag­ gi («caciotta o marzolina?»), le orecchie di Amàn (dolce consistente in una sorta di sfoglie), frutta, grappa e caffè; o di quelle portate in campagna per Lo spasso (1907), un picnic da consumare in comitiva, per il quale Del Monte im­ bandisce tavolate di pietanze tipiche: carscioncini, cappelletti fatti in casa; tor­ zélli, ciuffi di indivia rosolati e fritti (da mangiare freddi, di solito insieme al pollo lesso, il sabato); taratùfel arosti, i cosiddetti occhi di canna, moscardini piccolissimi soffritti in padella; cacciunélli, cuscinetti di trippa soffritti in olio; vino kasher, espressione con cui si definisce di solito un vino di alta qualità; e infine il notissimo abbacchio. Da questi sonetti si impara anche che occorreva una patente che abilitasse alla macellazione rituale (La carne cascèrre, 1915) e che gli ebrei di Roma erano gli unici, per una tradizione antichissima attestata nel Talmud, a mangiare il capretto durante la cena di Pasqua, mentre a tutti gli altri ebrei era vietato, in ricordo dell'episodio biblico della decima piaga d'Egitto ( � guardia cìveca, 1914). Si tratta di un corp us documentario unico nel suo genere, opera di un autore borghese affascinato dal popolo, vissuto nel ghetto i primi vent'anni della sua vita. 1 55

BANCHETTI LETTERARI

Prelibatezze kasher Al di là delle regole e dei precetti religiosi la cucina kasher si è sposata così bene con le peculiarità del territorio italiano che i ristoranti e i negozietti di gastronomia degli antichi ghetti delle principali città offrono da sempre oc­ casioni da veri gourmet, come non manca di ricordare Giorgio Bassani de­ scrivendo le raffinate merende (kasher solo in parte) offerte nel giardino dei Pinzi-Contini : Era stracolmo, il vassoio: di panini imburrati all'acciuga, al salmone affumicato, al ca­ viale, al fegato d'oca, al prosciutto di maiale; di piccoli vol-au-vents ripieni di battuto di pollo misto a besciamella; di minuscoli buricchi usciti di certo dal prestigioso negozietto cascèr che la signora Betsabea (Da Fano) conduceva da decenni in via Mazzini a delizia e gloria dell'intera cittadinanza. E non era finita. Anche Primo Levi , nel racconto Argon che apre Il sistema periodico (1975) , in cui si sofferma sulle tradizioni alimentari ebraiche in uso nella sua famiglia e presso i suoi antenati, rievoca un episodio che ruota intorno a una rinomata ricetta di salami d'oca: Marchìn [ . . . ] si era innamorato di Susanna [ .. . ] , depositaria di una secolare ricetta per la confezione dei salami d'oca: questi salami si fanno utilizzando come involucro il collo stesso del volatile [ . . . ] . Susanna lo rifiutò, e Marchìn si vendicò abominevol­ mente vendendo a un gòi la ricetta dei salami. È da pensare che questo gòi non ne ab­ bia apprezzato il valore, dal momento che dopo la morte di Susanna (avvenuta in epoca storica) non è più stato possibile trovare in commercio salame d'oca degno del nome e della tradizione. Nel 1931 il poeta futurista Luciano Folgore fu invitato dal Touring Club a comporre una lirica da inserire in una guida gastronomica che celebrasse i go­ losissimi " carciofi alla giudìa " , punta di diamante della cucina ebraico-roma­ nesca. Folgore definisce il risultato .

Che la ragazza poi provveda con le sue mani a sciachtare il pollame in cucina, cioè a scannare polli secondo la tradizione kasher, affascina Giorgio non tanto per il suo valore tradizionale quanto piuttosto per l'anticonformismo del ge­ sto, così lontano dall'altero comportamento della giovane. Allo stesso modo nelle peregrinazioni serali di Giorgio e di Malnate capita che i due ragazzi si spingano fino a Pontelagoscuro in una locanda celebre per l'anguilla fritta, cibo proibito agli ebrei. Questa comune tendenza degli scrittori della prima metà del Novecento a sentirsi prima di tutto italiani che ebrei fa sì che anche le loro usanze siano ta­ lora rispettate solo se necessario, ma più spesso trasgredite. Il ritratto del padre di Primo Levi, tracciato nel primo racconto del Sistema periodico, si condensa sulla sua passione per il prosciutto, leccornia proibita e agognata: Mio padre era l'Ingegné, dalle tasche sempre gonfie di libri, noto a tutti i salumai perché verificava con il regolo logaritmico la moltiplica del conto del prosciutto. Non che com­ prasse quest'ultimo a cuor leggero: piuttosto superstizioso che religioso, provava disagio nell'infrangere le regole della Kasherùt, ma il prosciutto gli piaceva talmente che, davan­ ti alla tentazione delle vetrine, cedeva ogni volta, sospirando, imprecando sotto voce, e guardandomi di sottecchi, come se temesse un mio giudizio o sperasse in una mia com­ plicità (Argon) .

Nel più recente Certe promesse d 'amore (1997) di Aldo Zargani il tema della trasgressione delle regole si associa alla trasgressione sessuale: i due protagoni­ sti adolescenti, Aldino e Dlilah, hanno l'occasione di passare una notte insie­ me e la scarsa disponibilità di denaro li spinge per la cena a dividere un piatto di salame finocchiona (cibo proibito per lei, ebrea ortodossa); ma le cose si ri­ solvono a tutto vantaggio di una inaspettata iniziazione alimentare: «Non di­ venne mia, la sera della finocchiona, si convertì "ebrea secolare", ecco tutto, nel breve giro di un antipasto». Entro il filone narrativo del romanzo familiare, illuminante il confronto fra le famiglie ebree descritte in Lessicofamigliare (1963) da Natalia Ginzburg e nel romanzo di Zargani. Cosa di meglio, infatti, di un romanzo che contenga la storia di un'intera famiglia per trovare rappresentate anche le abitudini alimentari di casa ? E in159

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vece in Lessico famigliare gli accenni al cibo sono pochi e quasi nulla si trova di autenticamente kasher. Da una parte ciò si spiega con le rigide abitudini delle famiglie degli anni venti e trenta, presso le quali pranzi e cene erano ridotti al­ i'osso, anche in presenza di ospiti: la scrittrice parla solo di minestrine Liebig e frittate. Dall'altra questo quadro è affine alle testimonianze dei maggiori scrit­ tori ebrei italiani del Novecento, come Levi e Bassani, che dipingono una bor­ ghesia a tal punto integrata nella comunità locale da permettersi di trasgredire le regole della kasherut e ricordarsene solo per le grandi cerimonie religiose. Del resto la vera religione in casa di Beppino Levi, padre di Naralia, sembra quella politica dell'antifascismo e della scienza. Nemmeno una festa sacra vie­ ne ricordata dalla scrittrice. Significativo allora che si parli esplicitamente di cibo kasher solo accen­ nando a due sorelle, amiche di scuola di Naralia, il cui padre cucinava «com­ plicati piatti ebraici che alle figlie non piacevano>>, ma a cui il vecchio prestava grande attenzione e che vengono condivisi, durante la guerra, con profughi ebrei tedeschi nella casa sempre aperta a tutti, col salottino ingombro di lumi ebraici. «Quelle scure pietanze, che il padre usava cucinare e abbandonare in cucina, in larghi e neri tegami» sono parte inscindibile dell'identità di questo vecchio ebreo piemontese. Egli cerca di portarle con sé fino alla fine: infatti «s'era ammalato ed era entrato ali'ospedale israelitico, portandosi dietro un pollo, che sperava gli lasciassero cucinare». Diversa è la ricostruzione dell'ambiente ebraico triestino da parte di Zar­ gani negli anni novanta. La voce narrante (Aldino, ebreo torinese non osser­ vante e sionista) mette in scena una figura di "patriarca", il padre medico della sua ragazza, che condivide col padre della Ginzburg l'origine askhenazita trie­ stina e l'essere burbero e scienziato. La sua identità passa però attraverso le abitudini alimentari. Il sabato in particolare diventa la giornata che coagula le maggiori tensioni della famiglia: Di Sabato non si può accendere il fuoco né spegnerlo, ma è permesso lasciarlo acceso se è stato acceso al venerdì prima del tramonto, e poi lo si spegne dopo la fine del Sabato. La moglie del dottor Giula perciò, che aveva messo sotto sale la sera del giovedì un bel pezzo di manzo, passava il venerdì a tritare una parte della carne e, con alcuni brandelli, spezie e paprika, a preparare, in una grossa pentola, un goulash portentoso e molto mol­ to liquido, poi, con la carne tritata, patate, farina, pane bagnato e altro non so, prepara­ va uno gnocco, grande quasi come un'anguria, che immergeva, alla sera del venerdì, nel goulash liquido, con sotto la marmitta la fiammella del gas appena appena accesa. [ ... ] al pranzo del Sabato, versato con quel po' di sugo denso rimasto in un piatto da portata, la cuoca-padrona lo serviva fumante sulla tavola imbandita. Lo tagliava di persona il dot­ tor Giula, pieno di orgoglio ungarogiudaico. 160

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Il rito si ripete identico ogni sabato, sennonché una volta la fiammella si spe­ gne inavvertitamente sotto la pentola e la signora, riaccendendola furtivamen­ te, scatena le ire del marito: «il lunatico spalancò una finestra, scaraventando la pentola, col contenuto fumante di sugo e gnoccone, quasi sulle vetrine della libreria antiquaria del perplesso poeta Umberto Saba». Nel momento in cui lo scrittore ebreo italiano di oggi sente di poter ar­ monizzare in sé le componenti emotive della propria identità è pronto per ac­ cogliere, nel proprio ricettario personale - nella propria personale "casalinghi­ tudine", come la definisce Clara Sereni -, anche quel cibo della tradizione che, pur costituendo una radice importante della sua vita, risulta fino a certe maturazioni personali ed esistenziali difficile da integrare. La scrittrice dimo­ stra avvenuta questa pacificazione, fornendoci una ricetta kasher molto amata dal padre: La carnesecca di nonna Alfonsa era [ ... ] il suo pezzo di bravura. Nella stanza della domestica c'era un armadio a muro [ ... ] . I fili stesi all'interno era­ no adibiti alla carnesecca: avvolti in garze annerite dal pepe, mi è sempre sembrato che i pezzi di carne stillassero continuamente sangue, avevano qualcosa di macabro [ ... ] . Mio padre amava talmente quelle fettine rosse e irregolari che non insisté mai molto perché ne mangiassi anch'io. Forse per questo ho faticato meno a riappropriarmene ( Casalinghitudine, 1987).

Il cibo dei riti e delle feste [Alla fiera dell'Est per due soldi un topolino mio padre comprò. (Angelo Branduardi,

Alla fiera dell'Est) ]

Se c'è però un campo in cui la tradizione alimentare viene valorizzata nella let­ teratura italiana del Novecento esso è quello del cibo dei riti e delle feste: dai panini allo stracotto e con la concia (le zucchine marinate nell'aceto) per fe­ steggiare a Roma la Succah, la festa delle capanne, ricordati da Giacoma Li­ mentani (Dentro la D, 1 9 92) alla ricetta del charoset (una pasta dolce simboli­ ca, servita durante la cena pasquale, che ricorda la malta usata dai muratori ebrei in schiavitù), trascritta da Paul Sears nelle sue Conversioni a tavola ( 1 9 9 6) ; dalle grìbole (pezzetti di pelle d'oca fritti con cipolle, tipiche dell'area piemontese) di Hanukkah (la festa delle luci) ricordate da Elena Loewenthal in Buon appetito, Elia! ( 1 9 98 ) , alle «aringhe sotto sale, Matjeshering, servite con cipolla cruda, pane e burro» offerte durante il banchetto funebre in onore del padre di Helena Janeczek in Cibo ( 2002) fino alla tavola di Pesach descritta da Clara Sereni in apertura del suo Il gioco dei regn i ( 1 9 93 ) .

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Già Del Monte aveva descritto O pranzo d "oo Sciabbàdde (del Sabato) nel 1925: bottarga, riso cotto in grasso di manzo con la crosta, vitella da latte lessa, olive conciate verdi e nere, cicorietta in insalata e uova sode, aliciotte da mangia­ re fredde in padella con l'indivia, buca/etti (teneri latticini immersi nel latte), uva, frutta secca e moscardini (amaretti impastati con la cioccolata). Ma sono in particolare le cene di Pasqua (i Séder di Pesach) l'occorrenza più frequente e la vera eccezione alla scarsa descrizione di cibi kasher presso gli scrittori ebrei italia­ ni. Già in Bassani sia i Pinzi-Contini sia la famiglia del protagonista siedono a tavola per la cena tradizionale, triste cena di spettri in cui sono già evidenti i se­ gni della persecuzione razziale e i cibi non hanno un buon sapore: Non fu una cena allegra. Al centro del tavolo, il canestro che custodiva insieme coi >. Non posso nemmeno pensare . . . Invece siamo qui senza azzime e nemmeno un po' di erba amara perché la verdura non si trova. [ . . . ] La madre di Fiamma e Fioretta ha deciso di portare via le figlie per una sera. E cosa è mai una sola sera ? Loro vogliono essere di nuovo un attimo tutti insieme per il Séder, la cena della Pasqua ebraica.

L'episodio ha un epilogo tragico: l'intera famiglia di Fiamma e Fioretta è cat­ turata dai fascisti e dalle ss, tradita dai vicini di casa. La delazione colpisce sul sicuro quando la famiglia ebraica è riunita per celebrare i propri riti. Si arriva così alla pagina più tragica della letteratura ebraica del Novecento, quella che racconta le vittime della Shoah.

Cibo della deportazione, identità difese, negate e ritrovate [Non sei una bambina ebrea, hai capito ? Hai capito ? Sei una bambina. Una bambina e basta. (Lia Levi, Una bambina e basta) ]

Nel Lager il tema del cibo si trasforma in tema della fame e della sopravviven­ za. Indimenticabili il blocchetto di pane grigio e duro e la zuppa acquosa evo-

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cati da Primo Levi in Se questo è un uomo (1947), così come gli stratagemmi dei prigionieri per guadagnarsi una razione in grado di garantire anche un solo giorno di sopravvivenza in più. Eppure proprio nell'ambito di questa produzione qualche eccezione risul­ ta significativa perché i prigionieri sentono il bisogno di resistere al processo di disumanizzazione messo in atto dai loro carnefici e lo fanno attaccandosi ai riti legati al cibo, talora anche contro ogni logica di sopravvivenza. Nel citato romanzo di Zargani si accenna alla storia di una famiglia romana imprigiona­ ta durante la guerra che in memoria del padre rabbino assassinato continuò ad astenersi dal cibo non kasher anche in cattività. Solo quando si accorse di ri­ schiare la vita la madre arrivò alla decisione radicale di rinunciare alle regole della kasherut per salvarsi: «In nome di vostro padre, rabbino e martire, annul­ lo da ora e per sempre le leggi sull'alimentazione. Mangiate salami rancidi e siate salvi». Anche Primo Levi, in un'intervista rilasciata nel 1978 a Marco Viglino, rievoca un episodio molto interessante in proposito, escluso dai suoi libri ma di cui conservava forte impressione: C'era con noi un medico ebreo osservante. Lei sa che la religione ebraica prevede dei di­ giuni molto rigorosi: in quei giorni non si mangia niente e neppure si lavora. Questo medico alla sera - dopo il lavoro - disse al capo-baracca che la zuppa non la voleva, per­ ché era giorno di digiuno e lui non la poteva mangiare. Il capo-baracca era un comuni­ sta tedesco, abbastanza indurito dal suo mestiere (aveva dieci anni di Lager alle spalle), però, colpito dalla forza morale del prigioniero, gli conservò la zuppa fino a quando quest'ultimo non terminò il suo digiuno. Questo atto di umanità mi aveva molto impress1onato.

Sono significative le riflessioni di Helena Janeczek (Lezioni di tenebra, 1997), ebrea polacca di lingua tedesca ma scrittrice in italiano, che sembra vivere nel proprio corpo di donna di oggi l'esperienza della fame di sua madre sopravvis­ suta al Lager, in un'ambivalente dialettica di anoressia e bulimia, grazie alla quale la «non esperienza» del Lager continua a logorare, opprimere, persistere nei più remoti recessi dell'anima: Ho [ ... ] una fame atavica, una fame da morti di fame, che lei non ha più. Parlo solo di questo, di questa fame particolare e chiaramente nevrotica che si scatena in certi mo­ menti davanti a un pezzo di pane, pane di qualsiasi tipo, buono, cattivo, fresco, gom­ moso, secco [ ... ] . Me l'ha insegnato lei che il pane è sacro, che lei, quando vede in strada un pezzo di pane, lo raccoglie e lo mette da qualche altra parte più in alto, per non la­ sciarlo lì, per terra.

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Finita la guerra, il bisogno di tornare alla normalità si fa pressante. In realtà gli ebrei italiani si differenziavano assai poco da chi ebreo non era, mancando perfino l'ostacolo di una diversità linguistica (come accadeva in altre zone d'Europa). Venuta meno la propaganda delle leggi razziali, resta solo il forte radicamento di tale comunità nel tessuto sociale e una sorta di "allegra" igno­ ranza delle sue abitudini alimentari: sono lontane le pagine buie dei processi dell'Inquisizione del Cinque-Seicento in cui i marrani erano interrogati e tra­ diti proprio a partire dai loro divieti alimentari. Una testimonianza in tal sen­ so è quella di Liliana Treves Alcalay nel suo Un pollo di nome kashèr (2009). Al riaprire delle botteghe a Milano dopo la guerra Liliana-bambina è attratta dal negozio di un pollivendolo. Il negoziante un giorno le chiede perché la mam­ ma non acquisti mai polli nel suo negozio e si irrita quando si sente rispondere che in casa si mangia pollo il venerdì (giorno di digiuno per i cristiani). Ma la piccola continua con disarmante sincerità: «Noi ebrei mangiamo un pollo di nome kashèr». L'uomo va su tutte le furie: «Ah si? Ah si? Glielo andate forse a domandare, voi altri, prima di mangiarli . . . [ . . . ] Tu come ti chiami? Non mi dirai che i vostri polli hanno un nome speciale, eh? Se il vostro pollo si chiama in quella maniera lì» tentò invano di ripetere la parola «vuoi dirmi come si chiama quello che mangio io?>> [ . . . ] . « Tarèf, si chiama tarèf» e scappai via.

Quando la mamma chiarisce la situazione col negoziante questi si scusa dell'e­ quivoco prodotto dalla sua ignoranza e da quel momento, ogni volta, chiede scherzosamente a Liliana di salutargli il pollo kasher. La conclusione riapre alla speranza, pensando ai tragici anni da cui l'Italia era appena uscita: pur nelle differenze culturali, religiose e alimentari, una convivenza armonica sembra finalmente di nuovo possibile.

Cucina futurista di Daniela Baroncini

Nell'atmosfera inquieta delle avanguardie primonove­ centesche il cibo acquista un rilievo inedito, partico­ larmente nel programma futurista di rinnovamento totale dell'universo, che proponeva una convergenza rivoluzionaria di letteratura, arte e gastronomia. La sperimentazione culinaria si annuncia dalla prima "se­ rata futurista" al Politeama Rossetti di Trieste il 1 2 gennaio 1 9 1 0 , una sorta di cena a rovescio, ovvero un banchetto che invertiva l'ordine delle portate con un evidente intento di sovversione antipassatista: «Caffè I Dolci memorie frappeés / Frutta dell'Avvenire / Marmellata di gloriosi defunti / Arrosto di mummia con fegatini di professori / Insalata archeologica / Spezzati­ no di passato di piselli esplosivi in salsa storica / Pesce del Mar Morto I Grumi di sangue in brodo / Antipasto di demolizioni / Vermouth», secondo il racconto di Marinetti in Rapporto sulla vittoria delfaturismo a Trieste ( 1 9 1 0 ) . In verità l'inventore del Futurismo è anche il teorico di un'autentica rivolu­ zione gastronomica all'insegna di «una alimentazione nuova, rallegrante, otti­ mista, eccitatrice dell'ingegno, poco costosa». Dapprima il poeta collabora con lo chef francese Jules Maincave, che nel Manifeste de la cuisine faturiste (in "Fantasia", 1 ° settembre 1 9 1 3 ) condannava l'alimentazione tradizionale e «le due formidabili Bastiglie della cucina moderna: le miscele e gli aromi», esortando a sperimentare accostamenti inconsueti: «Rane riempite di una pasta di granchio­ lini rosa. I Uova affogate nel sangue di bue da servirsi su un purée di patate al sciroppo di lampone. / Filetti di sogliola alla crema Chantilly spolverati di lische pestate». Il manifesto del cuoco guerriero caduto nella Grande Guerra viene poi riproposto nel 1 9 27 da Marinetti, il quale esalta il «geniale artista del palato», in­ ventore di piatti come «costolette d'attacco» e > . Ma era stato il principe di quegli stessi padri, Girolamo, a sconsigliare, nel1' epistola a Furia ( LIV, 10) , i cibi generatori di calore interno: non solo le carni, ma anche certi legumi, quelli che gonfiano (injlantia) o appesantiscono (gravia, o forse gravida): era un'attestazione precoce e autorevole sull'effetto più sgrade­ vole, e via via sempre più temuto, dell'assunzione dei legumi nelle pieghe del corpo - quello che Artusi nel 1881 chiamerà, bontà sua, «bombardite» . All'inizio del XII secolo Bernardo Silvestre, nel Megacosmus (1 1 1, 355-358) , attribuisce inve­ ce alle singole specie di legumi una qualità pronta a determinarne eticamente e fisicamente la relazione con l'essere umano . L'azione negativa sul ventre è qui assegnata, però, ai piselli, «mouentia uentrem»; molto più tardi, ancora laica­ mente, il Nicomaco della Clizia di Machiavelli, del 1 525 ( iv, 1 1 ) , attribuirà la medesima azione alle fave, che «farebbono far vela ad una caracca genovese» . Prima che a Machiavelli, il repertorio di Bernardo Silvestre potrebbe esse­ re arrivato alla Comedia delle Ninfe fiorentine (1341-42) del Boccaccio , per rap­ presentare un ricco giardino segreto, un microcosmo di fontane, fiori , alberi da frutto e piante spontanee, preludio al bagno ristoratore di Ameto : «si ve­ deano li alti papaveri, utili a' sonni, e i leggieri fagiuoli e le cieche lenti e i ri­ tondi ceci con le già secche fave, ne' suoi luoghi divisi ciascuno» . E più precisi compariranno gli attributi etici dei legumi nell'imitazione virgiliana di Luigi Alamanni, La coltivazione, del 1 546 ( 1 , 174-179 ) : «sian la fava pallente, il cece altero, / il crescente pesel, l'umil fagiuolo, / la ventosa cicerchia in parte dove / senza soverchio umor felice e lieto / truovin l'albergo lor: la lente pure / dello steri! sentir non è sì schiva» . E neanche sessant'anni dopo, nel 1 614, verrà il primo punto della situazione sui legumi in Italia, scritto dal fuoriuscito Gia­ como Castelvetro ad uso degli inglesi, abituati alla povertà di erbe e di legumi, appunto, sul loro suolo . Il Brieve racconto suggerisce gli usi di buona cucina per i piselli, ad esempio : «cocendogli da grasso, si cuocono in brodo buono, et essendo mezzo cotti , vi mettiamo del lardo pesto, sì che sia come butiro; co20 6

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cendogli poi da magro, invece di lardo e di brodo usiam l'acqua, ma poca, e olio assai, col sale, con l'erbe buone e con le spezie forti o dolci»; senza dimen­ ticare, tuttavia, una destinazione da junk food estivo, riservata ai lupini: «viene dalle donne e da' fanciulli mangiata la fava lupina, o lupini che s' appellino [... ] più per trastullo che per altro». Ma ce n'è anche per la lenticchia, «ch'è forse e senza forse il più mal sano legume di quanti se ne mangi>>, e peggio an­ cora per la cicerchia, «cibo grossolano, ventosissimo e generante sangue gros­ so», che «fuor di modo la malinconia nudrisce>>. Ancora sulla presenza dei legumi nella sussistenza del mondo monastico è giusto rilevare altre contraddizioni e sfumature. Di poco più generosa rispetto alle prescrizioni di Girolamo, e tuttavia ancora guardinga contro gli eccessi della tavola, era apparsa, dal primo trentennio del VI secolo, la Regula di Bene­ detto da Norcia, che concedeva ai monaci, oltre a due pietanze cotte, un'even­ tuale terza portata di verdure o di legumi, secondo stagione. La lenticchia fa­ ceva invece da peculium sacrum per i monaci. Come riporta Giovanni Cassia­ no (De coenobiorum institutis, xx, composto intorno al 420 ), un hebdomada­ rius poteva venire sospeso dalle preghiere per avere omesso di raccogliere da terra tre lenticchie sfuggitegli tra le dita durante la preparazione per la cottura, ed essere chiamato a una pubblica penitenza. D'altro canto, il sacrum è da sempre una condizione bifronte, ambigua. E così è stato, a partire dal commento agostiniano al passo del Genesi (25, 31) sulla perdita della primogenitura da parte di Esaù, a beneficio del fratello mi­ nore. Se è vero, come aveva scritto Agostino (Sermones de scripturis, XII), che nulla di spirituale nasce se non dalla carnalità, è anche vero che perseverare nella ricerca della carnalità non può condurre ad alcuna conquista dello spiri­ to. Così, chi si dà ai piaceri secolari nella Chiesa non fa che mangiare le lentic­ chie di Esaù; cibo egiziano, le lenticchie, nota Agostino: emblema, come tale, di tutti quegli errores Gentium, di quelle credenze eterodosse e fallaci, che han­ no trascinato via le civiltà pagane. Prende il nome da un legume il primo istruttore nelle arti retoriche del vol­ gare italiano: Guido Faba, che nella Rota nova (1 227) dichiara di aver acquisito quel nome negli anni dell'infanzia, ab ejfectu rei. Nel più celebre dei suoi Parla­ menti - esempi di mediazioni, transazioni complesse e dispute, che richiedono coscienza dei propri mezzi retorici - Guido inscena un contrasto tra la Quaresi­ ma e il «Carnelvare», dove quest'ultimo deve subire gli epiteti di «fello e latro, ruffiano, putanero, glotto, lopo ingordo, leccatore, biscaçero, tavernero, çogato­ re, baratero, adultero, fornicatore, omicida, periuro, fallace, traditore, inganato­ re, mençonero, amico de morte e pieno de multa çuçura», prima di poter ribat­ tere: «ca tu è inimica del mundo, matre de avaricia, sore de lagreme, figlia de nu­ dità; le toe vare è grise, scì è cener e sacchi; e [tuti li] toi cibi sono legome bistia­ le»; da qui «ira, divisione, mellenconia, infirmità, pallore>>, cui si contrappone la 207

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rinascita primaverile: feste, e «versi de fino amore». Il teatro laico della persua­ sione accoglie così i legumi, in tutta la loro povertà sconfortata. Si è già detto del Boccaccio, ma si può riprendere anche il Ninfale fieso­ lano, con un ardito «cece» posto in rima, incastonato nelle ansie del tormen­ to amoroso (326): «Molte bugie e scuse Africa fece / per ricoprir l'amoroso disire, I il qual, più che non fa 'l foco la pece, I l'ardeva più che mai, a non mentire; / e pareali aver fatto men ch'un cece, / e 'nfra se stesso incomincia­ va a dire: / "Sarà giammai doman, che io ritorni / a baciar quella bocca e gli occhi adorni ?"». Nel Decameron fa invece mostra di sé un bel «lavaceci» - lo zimbello di una moglie furba e intraprendente - quale è Gianni Lotteringhi, protagonista suo malgrado della novella della «fantasima» (VII , 1 ) . E di lì corre poca distanza fino a quel vescovo dell'ordine dei Servi di Firenze che fa proseliti a furia di predicare enormità, come lo ritrae pochi decenni dopo Il Trecentonove/le del Sacchetti: «tanto se n'avvedea dell'altrui beffe quanto farebbe una bestia». Su una tradizione così autorevole i legumi rivelano tutto il loro potenziale idiomatico, a significare l'irrisorio, il quasi-niente, il con­ trassegno dell'indigenza, del sapersi o del doversi accontentare: «men ch'un cece», si è visto; ma anche il «gittare una fava in bocca al leone», che compa­ re nella novella del «diavolo nel ninferno» (III , 10) e che sta per il dare poco a chi richiede molto. E poi, nel tempo, i legumi come misura del minimo commercio, di ciò che non conta nulla, in una fitta costellazione di traslati etici, come nella Talanta (v, 14) dell'Aretino (1542), dove ci si imbatte in «fagiolata» con il significato di stupidaggine, oppure in Buonarroti il Giova­ ne e in Firenzuola, dove «fagiuolo» sta quasi sempre per «minchione». Colo­ ri da toscanacci, che torneranno buoni a Giovanni Papini, nel tardo La se­ conda nascita (1958), dove «fagiolata» sarà uno scritto noioso e prolisso (p. 186): «ai contadini non garbano le ricotte e neanche quei berignoccoli di chiare montate che sfornano i cittadineschi manifattori della mal chiamata "letteratura popolare". Date pan raffermo piuttosto che fagiolate senza gar­ bo né condimento». Tuttavia, non si dà luogo letterario tanto efficace, per fare risuonare gli idiomi derivati dai legumi, quanto i sonetti del Belli. Vale la pena di riascol­ tarne qualche frammento. I «servi ppadroni», per esempio, «che ccommatte­ no er cescio cor fascialo, / sibbè, a sentilli, sò ricchepulloni» (124, 13-14, 1831); ma anche i dignitari francesi, ai quali possono prendere «i fumi» di fronte al funzionario pontifìcio che equivoca sul "falso amico" legumes (ver­ dure), per dare vita a un esilarante frammento alloglotto (431, 9-11, 1832): «Sesi, fuder, nepà cche gge cercé, / crenon bugher de sudditi de Pape: / andé accetté legume ar pottaggé». E ancora: «ttiené ccescio», nel sonetto 71, equi­ vale a «tenere un segreto», mentre il cibo degli umili invade il commercio minimo, come in questa lite per la vendita di un orto iscritto al «Castrato» 208

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(cioè al catasto), dove si avvertono, una volta di più, echi del Genesi (871, 9-14, 1833 ) : «Cento scudi pe un orto che vva a mmille / protenne lui che ssò cc6mprite ladre / da facce un baffo sopra e dda punille, // E a Ggiacobbe, che un piatto de lenticchia / je crompò ttutto l'asso de su' padre, / chi jje l'ha mmessa mai st'antra cavicchia ?». Un ottimo esempio di tutto il peso se­ colare del repertorio veterotestamentario, così caro al Belli; ma anche il se­ gno della collocazione ormai definitiva in una fascia bassa, nel cuore di pic­ cole avventure di sopravvivenza, di questi cibi. Così il Narciso che apre la Bottega da caffè di Goldoni del 1750 ( 1 , 1): «Via, brusè quel caffè. / Mettèghe drento / Quattro grani de fava, E acciò chel para fresco, / Mettèghe una por­ zion d'orzo todesco». Definitivamente sarà cibo degli umili, il legume, an­ che nelle scodelle della Vergine Anna, dalle Novelle della Pescara di d'Annun­ zio, in un'epopea rurale trasfigurata: «i piatti dei legumi conditi d'olio no­ vello fumavano; il vino scintillava nelle semplici forme liturgiche dei vasi; e il cibo frugale dispariva rapidamente entro gli stomachi dei faticatori». E sulla presenza dei legumi in d'Annunzio la dice più lunga un passo critico di un suo parodiatore, Enotrio Ladenarda, che commenta la Laus vitae nella

Superfemina abruzzese (1914) :

ciò che [a d'Annunzio] suscita la visione della cucina e della minestra domestica è " un fil di fumo" che esce da un colmignolo di Zacinto. Oh i bei ceci, oh le grosse fave, oh le fer­ rugigne lenticchie! E a queste immagini leguminose e punto rettoriche, egli s'intenerisce e si metterebbe a piangere se ei non si ponesse ad intonare un inno alla " dolorosa", alla "pa­ ziente" genitrice, implorando "gloria" da tutti e sette i cieli planetari di Tolomeo sul bian­ co capo di " quella solitaria" che, viceversa, è in compagnia delle figliuole!

Ma riecco i sigilli dell'umiltà, in quell'«ora fallita» dove il Montale degli Ossi vede perdersi il tempo, in Egloga, nel «fitto dei fagioli». Sigilli ormai postdan­ nunziani, come già i «legumi produttivi» della Sign orina Felicita di Gozzano, quelli che insieme all'insalata «deridevano il busso delle aiuole»; e ancor più, for­ se, dei «fiori rossi dei fagiuoli>> che fanno da scena a un idillio di Marino Moret­ ti, tra le Poesie scritte col lapis (1910). Negli stessi anni, come il cavaliere primitivo di un'epica perduta, preso da un suo itinerario nei misteri della terra, compare Ucio, il mangiafagioli del Mio Carso di Slataper, che «torna con la camicia carica di pere dure, strappate senza gambo, come vien vien», e «non sa distinguere il buono dal cattivo, e mangia fagioli e patate, e brontola dalle profondità: "Xe bon, xe bon!"». E così anche, per finire, il ciabattino di Scapitozzano gelsi, nelle Rimanenze (1955) di Camillo Sbarbaro, in cerca di rifugio per l'anima: «che il borbottar della pignatta esali / un odor di legumi, altro ei non chiede, / e al suo deschetto lo ritrovi all'alba. / E la sera nel gotto denso vede / avverare le povere speranze / che pure a lui fanciullo / avranno fatto palpitare il cuore». 209

Liquori di Denise Aricò

I luoghi dello spirito La storia dei liquori è antichissima e figlia dell' alchi­ mia. Sembra ancora un mistero se la distillazione sia stata inventata dai greci, dai cinesi o dagli arabi, ma i termini alcol e alambicco, che tanta parte hanno nel­ la loro storia, derivano dalle parole arabe al-koh 'l e al-anbiq, il che fa supporre che la cultura araba abbia svolto un'azione decisiva nell'entrata della distillazio­ ne in Europa. Nell'xI secolo i medici della Scuola Sa­ lernitana ne conoscevano già le tecniche e nella seconda metà del XI I I tale pra­ tica arrivò anche in Francia, grazie all'opera di divulgazione della medicina araba propiziata da studiosi spagnoli come Raimondo Lullo (1233-131 5) e Ar­ naldo da Villanova (123 5-1313) nell'Università di Montpellier. Taddeo Alde­ rotti , celebre medico fiorentino attivo nella seconda metà del Duecento a Fi­ renze e a Bologna, nel suo Libello per conservare la sanità del corpo, oltre a de­ scrivere minuziosamente le fasi della distillazione, prescrive numerose ricette in cui l'acquavite, assunta semplice - cioè distillando solo vino - o composta, quindi con l'addizione di sostanze aromatiche, risultava utile per curare le sof­ ferenze iliache, il mal di stomaco e dei reni, l'artrite, la sciatica, la podagra e, grazie ai suoi effetti euforici, la collera, la malinconia e la tristezza. Preziosi consigli sui modi che permettevano di ottenere «l'acqua vite per lambicco» ar­ ricchivano i Discorsi (1 544) di Pietro Andrea Mattioli e il De distillatione (1608) di Giovambattista Della Porta, ma facevano da corredo anche nella trattatistica sul governo della casa, come testimonia a fine secolo Vincenzo Tanara nell'Economia del cittadino in villa (1674) . Nel Quattrocento l'acquavite aveva cominciato ad uscire dal chiuso delle far­ macie per entrare nelle case e nelle taverne, diventando una bevanda di moda, mentre nell'Europa al di là dell'Elba, nei paesi del Baltico e del Mare del Nord la concorrenza del vino venne aggirata dalla legislazione favorevole ai produttori di superalcolici come i distillati di melassa (rum) , di frutta (calvados, kirsch, mara2 10

schino, curaçao), di cereali (vodka, whisky, gin). Ma se fra i ceti più alti l'etichet­ ta riprovava il bere smodato, tra la popolazione dilaniata dalle guerre e dagli effet­ ti dell'industrializzazione, il consumo di alcol nelle osterie divenne un viatico per ubriacarsi e dimenticare la miseria. La propaganda antialcolica, soprattutto ingle­ se, fu tempestiva nell'illustrare sui giornali gli effetti devastanti dell'acquavite che, grazie alla distillazione, provocava un processo accelerato dell'ubriachezza e indu­ ceva a crimini e misfatti. Mentre il romanziere Henry Fielding deprecava nel1'Enquiry into the Causes ofthe Late Increase ofRobbers gli effetti dell'epidemia di acquavite, William Hogarth nell'incisione coeva Gin Lane (1751, British Mu­ seum, Londra) mostrava l'immagine di un mondo in declino, dove una madre ebbra lascia cadere nel vuoto il figlioletto, le case crollano e prospera solo la botte­ ga dell'usuraio; in quella intitolata Beer Street regnano invece la pace e l'operosità. Non poteva risultare più esplicita l'opposizione tra l'acquavite, emblema dell'ine­ betimento del proletariato, e la birra, simbolo di operosità borghese. Nel Seicento si diffusero gli apéritifi, conosciuti anche col nome di ratafià e già simili ai liquori del xx secolo; alcuni di questi erano stati creati in Italia, dove erano noti con il nome di rosogli o rosso/i, liquori dolci fatti con l'uva pas­ sa. A metà del secolo arrivò dai Caraibi il rumbullion, poi accorciato in rum, distillato della canna da zucchero delle Indie occidentali, che divenne popola­ re in Olanda, nelle colonie inglesi d'America e, nel Settecento, la bevanda più diffusa nella Marina inglese. E furono proprio gli olandesi, ottenuta l'indipen­ denza dalla Spagna, a rappresentare i più agguerriti acquirenti di alcolici, so­ prattutto di quel brandewijn ("vino bruciato"), da cui deriva il termine bran­ dy. Così, Francesco Fulvio Frugoni in una lettera poteva definire il rosolio il «sigillo alla moda di tutte le tavole più nobili» (1677); Lorenzo Magalotti, nel­ la traduzione del poemetto The Cyder (1709) di John Philips, decretava che «tutti nuotano nel rum, e in un focoso / di riso estratto» (Il sidro, 1749, I I, 46) , mentre Vincenzo Corrado elaborava nuove ricette per usare "spiriti" e rosoli in cucina (Il credenziere di buon gusto, 1778).

La Musa alcolica L'apparire in Europa dell'acquavite e degli alcol di cereali a giudizio di Fer­ nand Braudel avviò una vera e propria rivoluzione; erano bevande che, sop­ portando bene i lunghi viaggi, raggiunsero presto le mense della nobiltà e del­ la ricca borghesia, non di rado condite con aromi naturali e dolcificate con miele. In Italia, tuttavia, nessun liquore fu in grado di rivaleggiare con la po­ polarità del vino e potrebbero valere per molti dei nostri intellettuali le dichia­ razioni di Pascoli, che affermava: «voglio, anche a costo di farmi fare accuse dai vigliacchetti d'Italia, difendere il vino e chi lo beve contro la birra i birrai i 2 11

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birri e contro il whisky e chi, snobescamente, invece di un buon bicchiere di vino arzillo, beve un bicchier d'acqua con infuso dentro il pestifero veleno americano» (Lettere a Mario Novaro e ad altri amici, 1909). Il secolo che ne fece il più largo impiego nella letteratura europea, cioè l'Ottocento, non sem­ bra trovare nei liquori il tema fondante come avveniva in Francia o in Russia con l'Assommoir di Zola (1877), col dramma La potenza delle tenebre (1886) di Lev Tolstoj e con l'ubriacone Marmeladov in Delitto e castigo (1866) di Fedor Dostoevskij. Questo non equivale a dire che la ricerca sia infruttuosa: spigo­ lando più da vicino, l' «acquavita» fa capolino nel mondo affollato di pitocchi e di disperati descritto da Giuseppe Gioachino Belli nei Sonetti romaneschi (1886-89) e, sempre in quegli anni, la grappa entra nell'orgoglioso autoritratto delineato nelle Note azzurre da Carlo Dossi: «Della nuova letteraria vendem­ mia fatta coll'uva d'Alfieri, Parini, Foscolo, ecc. Manzoni è il vino, Rovani è il torchiatico, Dossi la grappa». La metafora enoica con la quale lo scapigliato lombardo costruiva la propria maschera letteraria rimandava ad uno stile for­ temente impressionistico e disegnava un modo di vita nel quale s'iscrivono Emilio Praga, Iginio Ugo Tarchetti e, nel secolo successivo, Dino Campana. Ali' assenzio, di cui Pietro de' Crescenzi lodava le virtù terapeutiche ( Trattato dell 'agricoltura, 1605), era dedicato, del resto, anche il Carme comunardo del calabrese Domenico Milelli (Hyemalia, 1877). Ma è in Francia che nell'Ottocento la piaga dell'alcolismo, legata ai con­ flitti del proletariato operaio, diventa un vizio sociale, una sorta di rito di ap­ partenenza. Come nel Medioevo, si beve per scommessa, per festeggiare, ma soprattutto per dimenticare. Si pensi al Bevitore di assenzio dipinto da Édouard Manet nel 1858 circa (Ny Carlsberg Glyptotek, Copenaghen), che infonde nell'osservatore il senso del malessere e dell'assenza di ogni parteci­ pazione emotiva; una strada di degrado e di miseria che, attraverso Henri de Toulouse-Lautrec e Vincent van Gogh, conduce alla Bevitrice di assenzio di Pablo Picasso (1901, Museo dell'Ermitage, San Pietroburgo) e alle sue nature morte (Natura morta con bottiglia di liquore, 1909, Museum of Modern Art, New York). Nella letteratura italiana lo stereotipo dell'operaio alcolizzato viene stemperato nella visione più moderata di Cuore (1886) e del Romanzo di un maestro (1890) di Edmondo De Amicis, che trova il miglior correlato visi­ vo nella composizione Frutta e liquori (1915, Collezioni Peggy Guggenheim, Venezia) di Ardengo Soffici; la prospettiva straniata della bottiglia sottosopra di Chianti e dell'altra di liquori su cui campeggiano le lettere " F C B " contrasta con i rassicuranti colori della frutta sul tavolo. Più fecondo di sorprese è invece il romanzo d'avventura, poiché ci viene subito incontro Emilio Salgari, nelle cui pagine birra, vino, whisky, rum, gin, aguardiente sono ingurgitati con straordinaria leggerezza da protagonisti mai assetati di acqua. Le due tigri, apparso nel 1904 come quarto capitolo del ciclo 2 12

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indo-malese, è ambientato nell'India del 1857 e si chiude con il terribile assedio

di Delhi, durante il quale «migliaia e migliaia di indiani furono massacrati dalle truppe ubriache di sangue e di gin che più nulla ormai rispettavano, né sesso, né età; e la città intera subì un saccheggio spaventevole» (cap. XXXIII) . La metamorfosi dei guerrieri inglesi in belve, propiziata dall'alcol, non sfugge ali'occhio attento di Salgari, capace di rappresentare con una coerenza storica sconosciuta a Guido Gozzano (Verso la cuna del mondo, 1917) un'impresa co­ loniale che agli indiani appariva come una prima guerra d'indipendenza e in Europa aveva i connotati di una feroce ribellione degli "indigeni" contro i propri legittimi dominatori. Il binomio guerra-alcol ritorna nel racconto Lo schiavo della Somalia, firmato nel 1902 con lo pseudonimo di Guido Altieri. Lo scritto, unico a fregiarsi dell'inusuale sottotitolo di storia vera, è costruito attorno al "Liquore Galliano", una variante dello Strega, che permette ai pro­ tagonisti di salvarsi, barattandone alcune bottiglie con un capo indigeno in cambio di viveri e di un mezzo di trasporto per far ritorno in patria. Salgari aveva ribattezzato il distillato col nome di Giuseppe Galliano, un valoroso ca­ pitano del " 1 1 1 Battaglione Indigeni Eritrei" caduto ad Adua nel 1896. La menzione di un personaggio reale non solo poteva spiegare il supplemento ag­ giunto al titolo di storia vera, ma si configurava come un omaggio ali'eroismo di Galliano e a quello dei marinai italiani al Forte di Macallè. In quegli anni, mentre i controlli sul consumo degli alcolici nel fronte in­ terno erano quasi esasperati, fra i soldati che combattevano la loro assunzione veniva incoraggiata, nella convinzione che procurasse un "coraggio artificiale" per affrontare i pericoli e gli assalti; una prassi antica, di cui ci testimonia an­ che Philippe de Commynes, storiografo di Luigi XI, nei suoi Mémoires (1524), quando raccontava di aver visto tante volte soldati così spaventati alla vista del nemico che era possibile lanciarli all'attacco solo dopo averli riempiti di vino. Chi ne voglia una prova deve aprire le pagine di Un anno sull 'altipiano, un memoriale scritto nel 1937 dal tenente Emilio Lussu, ufficiale di fanteria della gloriosa brigata Sassari nella Grande Guerra e pubblicato l'anno dopo a Pari­ gi. L'opera, da cui il regista Francesco Rosi ha tratto lo spunto per il suo film Uomini contro (1970), ricostruisce, a vent'anni di distanza da quegli eventi, la quotidianità di un anno di guerra compreso tra il giugno del 1916 e il luglio del 1917, nelle trincee sull'altipiano di Asiago. Quello che colpisce è la funzio­ ne tragicamente strumentale affidata al cognac e ai liquori: «L'anima del com­ battente di questa guerra è l'alcool. - Commenta il colonnello Abbati - Il pri­ mo motore è l'alcool. Perciò i soldati, nella loro infinita sapienza, lo chiamano benzina». La dipendenza dall'alcol, che accomuna ufficiali e truppe, diventa la nozione fondante di una visione «sconsacrata>> della guerra, come la chiama Mario Isnenghi, che le toglie la maschera eroica confezionata dal fascismo, per mostrarne il volto, talora anche grottesco e deformato. Naturalmente non si 213

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tratta di verificare fino a che punto la narrazione di Lussu rispecchi la verità sto­ rica degli eventi, quanto di valutare il rapporto tra letteratura e realtà che può avvicinare il suo diario ai racconti di Asp ettando l 'alba (1994) di Mario Rigoni Stern o al Giornale di guerra e di prigionia (1915-19) di Carlo Emilio Gadda. Ma c'è di più. Il cognac nell'opera di Lussu diventa una metafora della pazzia inter­ ventista che aveva invaso i quadri dell'esercito italiano, ma pure un antidoto let­ terario ali'oratoria opulenta della festa pagana cantata da d'Annunzio e da Mari­ netti, come lo erano stati oltralpe Addio alle armi di Ernest Hemingway e Nien­ te di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque. Col trascorrere degli anni, ma soprattutto delle nuove mode importate dal­ !'America, i liquori sono entrati nelle abitudini culturali, oltre che alimentari, italiane. Se per Svevo essi mantenevano ancora l'originaria fisionomia di medici­ ne («La passione si converte in spirito, proprio come lo zucchero in alcool. Il mio spirito è passione», dichiara Paolo Mansi all'amica Bice nella commedia Un marito, 1903), l'esaltazione dell'alcol permette a Pirandello di conferire un colore di perversa modernità all'ambientazione berlinese del primo atto di Come tu mi vuoi (1930). Guido da Verona propone al suo lettore i nuovi miti della cultura moderna, l'Old Scotch Whisky, «che promette paradisi certo superiori a quello del divino Baudelaire», e i prodotti fissati nelle luminose réclames che abbagliano gli occhi di Mimì Bluette nel romanzo omonimo del 1916. Lisa Careni, signori­ na borghese tra le poche figure femminili degli Anni perduti (1936) di Vitaliano Brancati, rappresenta bene quest'ansia di evasione; soffocata dalla cupa atmosfe­ ra di Natàca, il paese in cui vive, delusa dall'inettitudine di Leonardo Barini, da cui attende una decisione matrimoniale che non verrà. Una sera, in una riunio­ ne di sole ragazze, si abbandona con loro, per la prima volta, al fascino delle be­ vande alcoliche, desiderando emulare le coetanee viste al cinema americano. L'illusione di aver aperto un varco nel mondo chiuso e provinciale al grido di «Viva la vita!», sembra anticipare le dolenti figure giovanili di Altri libertini (1980) o di Rimini (1985) di Pier Vittorio Tondelli. La cinematografia statunitense ha affrontato in molte occasioni il motivo della dipendenza dall'alcol. Si pensi a Sfida all'O.K Corra! (1957) di John Sturges, a Via da Las Vegas (1995) di Mike Figgis, dove uno splendido Nicolas Cage schiavo dell'alcol raggiunge la sublimazione nel suicidio volontario, o al film Un dollaro d'onore (1959) di Howard Hawks, in cui il vicesceriffo alcoliz­ zato, col volto di Dean Martin, trova la forza del riscatto morale, o ancora a Una moglie (1974), con cui John Cassavetes affronta il tema dell'alienazione femminile, ben dichiarato dal sottotitolo A Woman under the Influence. Nella retorica del ventennio fascista il tema era stato invece dissimulato anche a livello linguistico, trasformando il brandy in arzente, il cognac in cor­ diale e lo cherry brandy in sangue morlacco, secondo l'elegante suggerimento di d'Annunzio. Certo, l'Italia non era l'America e lo stesso Renato Carosone 214

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sembrava ricordarlo canticchiando «Tu vuò fa l'americano ! / Siente a me, chi t'ho fa fa ? / Tu vuoi vivere alla moda / ma si beve "Whisky and soda" I po' te siente 'e disturbà» . Anche nel secondo Novecento la filmologia italiana ha esi­ tato a rappresentare il ricorso ali' alcol come uno stile di vita, fatte salve le lu­ minose eccezioni del Ferroviere di Pietro Germi ( 1 9 56) , in cui l'ubriachezza del protagonista è la causa di un grave incidente, e della Leggenda del santo be­ vitore (1988 ) di Ermanno Olmi, ambientato a Parigi, dove il clochard dall'ani­ mo nobile si riscatta con la morte. L'Italia che usciva dalla guerra e dalla fame preferiva assumere via Veneto come luogo emblematico della volontà di rico­ struirsi e di godere i piaceri della vita. Negli anni del boom economico vi si potevano incontrare artisti come Marlon Brando e Lana Turner in cerca di paparazzi o intellettuali del calibro di Ennio Flaiano e Federico Fellini, che al bar Rosati, sorseggiando il " baby" , cioè il whisky Ballantine, facevano le ore piccole discutendo di copioni di film. La vivacità creativa di quell'epoca sembra aver lasciato il posto a solitudine e indifferenza; i liquori, di cui la pubblicità tace ancora i pericoli dell'abuso, sembrano una volta di più rappresentarne simbolicamente i bisogni . A loro si chiede ancora di medicare mali profondi, di essere compagni di viaggi in mondi esclusivi, ma chiassosamente silenziosi .

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«Magnagat», mangiauomini e altri gourmet di Silvia Tornasi

Leccarsi i baffi, si dice: quasi che, davanti a un cibo ap­

petitoso, ci spuntassero le vibrisse come ai gatti. Ma se il felino ce lo ritroviamo nel piatto ben arrostito, lardel­ lato e profumato di salvia? Subito siamo disposti a far rientrare i nostri baffi e a trasformarci in magnagati. Certo oggi sulla carne di gatto, come su quella di cane, pesa in Occidente il tabù morale dell'affetto, che vale più dell'affettato. Ma nell'Europa affamata l'atavico bisogno di sopravvivenza ha spinto per secoli a nutrirsi con tutto ciò che è commestibile, e il gatto è un piatto. I magnagati per eccellenza in Italia sono considerati i vicentini. Che la loro città fosse «piena gatellis» lo scriveva già Teofilo Folengo, ma la fama dura tuttora, anche se la pratica del gatto in padella non è diffusa solo a Vicenza. Nella Came­ ra da letto, ad esempio, Attilio Bertolucci non esita a definire la sua Parma città «ghiotta di soriani>>. Se lungo l'asse della via Emilia scendiamo verso la Romagna, ecco la scommessa dei personaggi picareschi che popolano L 'osteria del gatto parlante di Francesco Serantini: far mangiare gatto al posto di lepre al Fattore ladro, con la complicità della sensuale cuoca Rebecca. Ma il Fattore non si lascia in­ gannare, perché «solo Rebecca è buona di cucinare a quel modo [... ] una le­ pre... e un gatto». A fare la spia è l'osso della spalla, «che le lepri lo hanno aguzzo e i gatti rotondo», ma per fortuna tutti i salmi finiscono in salmì e a Rebecca non costa troppo, a mo' di penitenza, finire a letto col Fattore. La pratica dei magnagati, ravvivata dalla fame del tempo di guerra, era anco­ ra in uso a fine anni cinquanta, quando Luigi Cavicchioli, nei Voli del tacchino, ci mette di fronte alla scena di primordiale crudeltà in cui i miserabili compaesa­ ni del protagonista Renzo ordiscono un'orribile burla mangereccia ai danni del suo gatto, da lui beffardamente chiamato Palmiro Togliatti. Il povero felino vie216

ne massacrato, scuoiato, messo in padella e divorato, mentre la sua pelle verrà portata come macabro trofeo davanti alla porta di Renzo. Il rituale è quasi can­ nibalesco, si mangia Palmiro al posto del suo proprietario; si è di fronte a una versione indurita di una analoga scena guareschiana in Don Camillo e l'onorevole Peppone: l'eccidio delle galline di Don Camilla da parte dei "compagni". Motivato da vendetta è anche il sacrificio perpetrato dall'avido marcante Ber­ locchio di Cagalanza nei confronti di alcuni malcapitati gatti nel Patajfio di Luigi Malerba, maccheronica apoteosi d'un brancaleonesco Medioevo affamato: I gatti hanno magnato i galletti miei ! [ . . . ] Che se chiappino tutti e due e che se faccino rostiti ! Magnando i due gatti magnerò anca i galletti ! [ . . . ] Svuoterai le budelle e lascerai pieno lo stomaco dove se trovano i gal­ letti [ . . . ] . E cospargerai i due gatti con le spezie come avresti fatto con i galletti. In un racconto gaddiano contenuto nei Viaggi di Gulliver, cioè del Gaddus il gatto si traveste nuovamente da «légora», ossia lepre in dialetto brianzolo: «quella légora che di terra lombarda è onninamente fugitiva, se non che la en­ trò con l'anima dentro nel corpo di messer lo micio gnào gnào». Gadda piega la lingua, la sverza e la manteca in questa caccia dai toni tonitruanti. Vecchie panzane e nuove parapanze accompagnano i racconti dei prodi cacciatori mentre, seduti a mensa, si pappano la lepre immaginaria, persuasa infine a «esser légora se pure al principio la fussi buon'anima del gatto». Ma non ci sono solo i magnagati: basta entrare nell' Osteria della fola di Giuseppe Pederiali, fra i corposi sapori d'un desco padano che unisce tavola e favola, per vedere cucinata, seppure per sbaglio, una singolare «bestiazza»: nientemeno che un drago, metà al forno e metà lessato con patate, sedano e pomodori. Il gatto è in fondo uno dei cibi meno strani nel pantagruelico banchetto del­ la narrativa italiana del Novecento. Un compendio di tale bizzarra araldica man­ gereccia viene sciorinato nell'ultimo romanzo di Umberto Eco, Il cimitero di Praga. Siamo nella Parigi assediata e affamata del 1870 . Nonostante ciò, chi ave­ va denaro da spendere poteva regalarsi un menu sontuoso da Voisin, a base di consommé d'elefante, cammello arrosto all'inglese, stufato di canguro, costolette d'orso alla sauce poivrade, terrina d'antilope al tartufo, e gatto con contorno di topolini di latte. [ . . . ] Passi per il cammello che non era male, ma i ratti no. Questo menu eteroclito è il contraltare gastronomico della vocazione enciclo­ pedica dei romanzi di Eco, con i suoi affastellamenti che soggiacciono alla ver­ tigine della lista. Virata in chiave comico-nonsensica, questa stessa vertigine si ritrova nel menu proposto da un servizievole «Rangoutan» a tre sgangherati 2 17

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diavoli in Elianto di Stefano Benni, tra «bocconcini barboncini alla Pompa­ dour» e «polpettine piccanti alla chihuahua», per non dire del «plaisir du chef>>: > e composta di ritagli delle opere di classi­ ci greci e latini mescolati e conditi con formaggio e uova, giusta beffa per chi che «ora accostuma all'ultimo la zuppa o la minestra>>; e nella commedia Il servitore di due padroni Truffaldino afferma che «a Venezia la minestra se la magna in ultima, per insalata>> . Le minestre più ghiotte sono a base di fagioli e di brodi di carne. Delle prime è ingordo Bertoldo, che le giudica più appetitose «che le tortore, le per­ nici e i pastizzi»; così come il padre di Enrica, la protagonista dell'Età del ma­ lessere di Dacia Maraini (1963 ) , che predilige «i fagioli con le cotiche» (quasi un piatto unico) . Ne offre recenti versioni Clara Sereni in Casalinghitudine (1987) , cimentandosi nella classica «pasta e fagioli» e in una più variegata «mi­ nestra dei sette grani»; una più semplice «minestra di fagioli freschi, coi pomi­ dori freschi, i quadrettini del grano» è gustata da Alfredo Panzini alla «povera mensa» dei contadini nei Giorni del sole e del grano (1929 ) . Del brodo di carne le testimonianze sono numerosissime, anche se, scrive Matilde Serao nel Ventre di Napoli, «il popolo napoletano lo ignora» ed espri­ me comunque diffidenza nei confronti del brodo in generale («Una cuoca si metteva sempre di malumore quando la padrona ordinava il brodo : era soltan­ to felice quando si ordinavano maccheroni o legumi o risotto, grosse e nu­ trienti minestre») . Nel paese di Bengodi citato in una delle novelle del Deca­ meron di Boccaccio (v1 1 1 , 3 ) si narra di «genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi» . Bartolomeo 233

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Sacchi detto il Platina nel De honesta voluptate et valetudine (1474) oltre al cappone suggeriva anche fagiani, pernici, caprioli, colombi. Nella commedia cinquecentesca La Sibilla di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca si parla di minestre (senza le quali «non mi par mai né desinare né cenare») fatte in brodo di starne, capponi, carne secca e salsiccia fresca: «una pappa divina». Il Cavaliere giocondo di Goldoni desidera una cena insolita e stravagante, di sa­ pori inediti e pensa a «un buon minestrone di varie cose intriso. Suppa coi fe­ gatelli di pollo e di piccione, erbe, trippe, ed intorno polpette di cappone». Ri­ chiamando il concetto filosofico e teologico di ipostasi, in Conversioni a tavola (1996) Franco Nasi scrive che nel brodo di carne e con i primi tortelli di zucca della stagione, «ripieni d'amaretto con un pizzico di scorza di limone, ben avvoltolati in un tripudio di burro fuso». Aveva detto bene Artusi: a trop­ po abbondare «c'è il caso però di crepare». Quindi prudenza, anche davanti alle più prelibate leccornie, come quelle che descrive Giovanni Arpino nella raffigurazione di un banchetto contadino piemontese nel romanzo L 'ombra delle colline (1964), in cui spiccano «enormi zuppiere fiorite» di fumanti «ra­ violi al Barolo [... ] immersi in sughi e formaggi>> e «poi il riso con quei passeri, e il bollito, e polenta in quattordici modi». Tutt'altro che allettante doveva invece essere la minestra (reale e metafori­ ca) oggetto degli strali del bambino Leopardi nella poesia in «versi martellia­ ni» Contro la minestra del 1809 («O cibo, invan gradito dal gener nostro uma­ no ! / Cibo negletto, e vile, degno d'umil villano!»); evidentemente ben lonta­ na dalla bontà dei cappelletti in brodo del proprio precettore e della pappa al pomodoro del suo coetaneo Giannino Stoppani «Gian Burrasca».

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Olio, olive di Giulio Iacoli

Fondazione di un continuum mediterraneo Sacro ad Atena e legato nell'antichità a riti di purifi­ cazione, alle cerimonie dei supplici e, insieme ali' al­ loro, a longevi significati di pace e sacralità ( così nel De oleo di Plinio il Vecchio, ma si veda anche Petrar­ ca, R VF, ccxxx: «Non lauro o palma, ma tranquilla oliva / Pietà mi manda, e 'l tempo rasserena, I e 'l pianto asciuga, et vuol anchor ch'i viva») , l'olivo, con i suoi frutti, rappresenta una risorsa imprescindibile della cultura mediterranea, una ricchezza ben attestata dagli scrittori della classicità: «olea prima arborum est», dichiara Columella. Ricorrenti con straordinaria frequenza nel ricettario di Apicio, il De re co­ quinaria, i derivati della pianta ( da noi, pregiatissimo l'olio di Venafro, assai rinomate le olive picene) si prestano a una quantità considerevole di impieghi, fuori e dentro le cucine, nell'economia del mondo antico : dall'azione di ferti­ lizzazione dei terreni e di impermeabilizzazione di vasi e orci compiuta dalla morchia, all'utilizzo dell'olio come liquido per le lucerne, unguento nelle pa­ lestre, nei trattamenti di bellezza e persino medicamento, valevole a garantire sollievo a indisposizioni temporanee, alla presenza costante, infine, delle olive sulle tavole degli antichi - in particolare, i triclini romani - ad accompagnare focacce e cibi vari, e le libagioni che avevano luogo nelle popinae.

Companatico Il richiamo allo spazio dell'osteria appare particolarmente significativo : olio e vino godono di un successo pressoché ininterrotto lungo le diverse epoche delle civiltà mediterranee, occupando spazi contigui della villa romana, espressamente destinati alla loro produzione e conservazione, secondo i pre­ cetti contenuti nel De re rustica di Columella, e in seguito mantenendo la con23 6

figurazione di coppia pressoché antonomastica, come rivela un angolo dell'Ar­ cadia di Sannazaro (ecl. 1x), dove la vite è riconosciuta sacra a Bacco come le «sante olive>> lo sono a Minerva. Giova ora ripensare il binomio evocato, per fargli assumere una forma più ampia, ovvero quella della triade di lunga durata olivo-vite-grano, la quale, ci ricorda Braudel, realizza l'equilibrio vitale del Mediterraneo: Guardate ancora oggi, a Napoli o a Palermo, gli operai che durante l'ora di pausa mangiano ali'ombra di un albero o di un muretto: si accontentano del " companatico", un condimen­ to di cipolle o di pomodori sul pane innaffiato di olio, e lo accompagnano con un bicchiere di vino. Qui la trinità mediterranea si dà appuntamento al gran completo: l'olio d'oliva, il pane di frumento e il vino dei vicini vigneti. Tutto questo, ma non molto di più.

In questa istantanea Braudel ritrae una condizione umana, un modo di stare al mondo che è il medesimo, seppure gravato da un'inquietudine esistenziale tutta del personaggio, in buona parte dell'autore e soprattutto delle linee cul­ turali dominanti nella sua epoca, espresso dalla vecchia lavandaia Zelinda, protagonista del capolavoro di Silvio D'Arzo, il racconto lungo Casa d 'altri, apparso dopo la sua morte (1953). Nel contesto appenninico scarno e livido disegnato dal racconto il narratore, un «prete da sagre», osserva a distanza la donna, intenzionato a venire a conoscenza del segreto che la anima. La moti­ vazione della candida richiesta di «fare un po' prima>>, ovvero di ricorrere al suicidio, risiede nella sua vita ormai insostenibile; il solo momento di ristoro alle sue fatiche consiste in un parco desinare, una fetta di pane condita con l'olio. E il solo particolare che distingua la grama routine di Zelinda da quella dell'unica compagna che ha, una capra.

Motivi in transito L'olio come umile risorsa quotidiana riappare poi in Tutti i nostri ieri di Nata­ lia Ginzburg (1952), dando vita a una descrizione sommessamente grottesca, com'è nelle corde dell'autrice, alla quale è affidato il compito di testimoniare la decadenza e la desolazione presenti, nell'incontro fra Anna e la vecchia go­ vernante, che sottende felici memorie familiari: Scesero a mangiare alla table d'hote e Anna s'accorse che la signora Maria era felice in quella pensione Corona, forse le ricordava gli alberghi dov'era stata un tempo con la nonna, ma era solo una squallida pensione e la table d'hote era una tavola a forma di ferro di cavallo dove mangiavano tante vecchiette come la signora Maria, tutte col loro boccettina d'olio, e mangiavano delle scodelle d'acqua calda con l'erba e due acciughe e otto ciliege per una. 2 37

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Sospesa allora fra povertà e fasto, sia pure un fasto generalmente discreto, la cultura dell'olivo attraversa diversi generi e strati sociali della letteratura italia­ na, scene di vita contadina come riaffìoramenti moderni negli interni delle città. Una diffusa trattatistica disciplina la coltivazione della pianta e gli usi dell'olio: nel trecentesco Libro di bu oni costu mi Paolo da Certaldo dà indica­ zioni sulla vendita «dell'aglio, in quarti, meglio da quaresima a settembre»; si hanno poi, a Cinquecento inoltrato, disposizioni, in endecasillabi, per la rac­ colta e la conservazione delle olive nella sezione dedicata ali'Inverno nel Della coltivazione di Alamanni; indicazioni consimili provengono dalla Piazza u ni­ versale di Garzoni. Vi è infine un poemetto in quattro libri, interamente dedi­ cato alla Coltivazione degli olivi, da parte di Cesare Arici, del 1808: l'autore se­ gue la tradizione didascalica di Alamanni, non senza attingere più di un moti­ vo alle fonti dell'antichità (in primis, Catone e Columella). Va ancora richiamata la cinquecentesca Descrittione di Giovan Lioni Afri­ cano, ripresa nella silloge di Ramusio, la quale colloca il paesaggio degli olivi in una trattazione geografica particolareggiata, intesa a rinnovare e consolidare l'immagine, deformante quanto riduttiva, di un'Africa concepita come una sorta di anti-Europa, attiva sino a Rinascimento inoltrato. Ramusio riferisce della ricchezza costituita dall'olivo per le terre africane, propalata nelle descri­ zioni dell'antichità da Strabone e Plinio, raffrontando inoltre le tecniche di coltivazione e raccolta dei frutti, nonché l'attività conserviera che ne conse­ gue, con l'implicito termine di paragone europeo.

L'olio prodigioso Accanto alle forme della trattatistica e del poema didascalico, si profilano altre esemplificazioni dei motivi dell'olio e delle olive di più accentuata suggestione stilistica: la letteratura italiana dei secoli antichi, in modo particolare, incorpora queste immagini al fine di esibirle a supporto di snodi meravigliosi del racconto, come pure a illustrazione di motivi esemplari, perno di retoriche dimostrative, intese a esaltare la Verità incarnata. Su questa linea insiste uno degli Esempi di Giordano da Pisa, rivolto a mostrare la potenza del «santo glorioso» Nicola: «De la sua tomba uscì olio dall'uno lato e acqua da l'altro per un grande tempo». Se­ gue la certa interpretazione da parte del predicatore, la quale si rifà alla parabola del samaritano, contenuta nel Vangelo secondo Luca: «L'olio significa ne la Scrittura la misericordia, e l'acqua la grazia divina; a dimostrare che tutta la sua vita fu piena di misericordia, e come fu grazioso a Dio e agli omini». Esemplata invece su autori latini e medievali è la narrazione dei prodigi che si accompagnano ali'annuncio della nascita di Cristo, desumibile dal libro quinto del Filocolo boccacciano. La scena è offerta da una Roma notturna, al 238

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crollo delle immagini di Romolo e dei falsi dèi si accompagna un segno nuo­ vo, di rigenerazione, già presente nella Legenda aurea di Jacopo da Varazze: «Quella notte, oscurissima, divenne chiara come bel giorno, e una fonte d'ac­ qua viva in questa città si converse, e olio corse tutto quel glorioso giorno infi­ no al Tevero». Il valore demistificatorio della Parola è poi richiamato nella si­ militudine che sigilla il seguente «cominciamento» sentenzioso, apposto alla favola che conclude la terza delle Piacevoli notti di Giovan Francesco Straparo­ la, dedicata a un umiliante raggiro con seduzione ordito dalla spregiudicata Isotta e sventato dalla sincerità della vittima, il vaccaro Travaglino: «come l'a­ glio posto nel vase sta sopra dell'acqua, così la verità sta sopra la bugia>>. Ancora in contesti mondani si delineano ulteriori figurazioni dell'olio e del1'oliva, racchiuse nei capisaldi del genere novellistico, a siglare scene dal forte contenuto emblematico, caratterizzate dall'elevato grado di intensità con cui si manifesta il meraviglioso, o al quale perviene, venato anch'esso di elementi del meraviglioso medesimo, il dramma - per quanto, stiamo per vedere, si tratti di un drammatico depotenziato, risolto com'è nel sorriso di chi legge, consapevole della finzione in atto - nel racconto. Risaliamo allora nuovamente al Filocolo, per leggere dell'episodio di Tarolfo, il quale, volendo compiacere una nobile donna, e ottemperare alla sua richiesta di godere in gennaio di un giardino co­ pioso di fiori, erbe, frutti, come se si fosse in maggio (la formulazione topica dell'aprosdoketon), incrocia il cammino del ricco Tebano di Tebe, giungendo ad assistere alla magia da questi realizzata in un bosco: «Poi prese un ramo d'un sec­ co olivo e con esso tutte queste cose cominciò a mescolare insieme. La qual cosa faccendo, il secco ramo cominciò a divenire verde e in brieve a mettere le frondi, e, non dopo molto, rivestito, di quelle, si poté vedere carico di nere ulive». Il ri­ goglio della vegetazione accoglie in primo piano l'oliva nereggiante come imma­ gine trionfale di pienezza e prosperità, il prodigio dà rilievo concreto, inveran­ dolo, all'ideale di cortesia del giovane innamorato. In Bandello, per contro, emerge la virtù medicamentosa, di contravveleno, dell'olio, che nella novella quarantesima della seconda parte gli astanti tentano invano di somministrare alla giovane Cinzia, suicida per amore di Camilla: ma è, lo si anticipava, suicidio per finta, e la briosa recita della guarigione si compirà con l'intervento di un bicchiere d'acqua nel quale è stato intanto disciolto il portentoso corno d'alicorno, mediante il quale avviene il " salvataggio".

Spodestamenti e specializzazioni Piero Camporesi ha efficacemente indicato nel Settecento il prodursi di una cesura: il «secolo purgato», «molle e delicato», l'epoca di una generale evolu­ zione, di un raffinamento sostanziale nella preparazione e nella presentazione 23 9

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dei cibi, di percepibile marca francese, porta a irrigidire i tratti di quella «carta dei grassi» (Montanari) che provvede a segnalare, nel tempo, la distinzione originatasi tra regioni dell'olio e regioni del burro; quella condotta trionfal­ mente da quest'ultimo è una vera e propria «rivoluzione e presa di potere» (ancora Camporesi), mediante la quale si elaborano nuovi gusti, nuovi stili, fi­ nanche nuove geometrie a beneficio della vista e del palato. Sulla base di tale tendenza all'alleggerimento e, al contempo, alla sofisticazione della cucina, si fa vieppiù estesa fra Otto e Novecento la distanza fra i centri urbani e le peri­ ferie, fra le regioni prossime ali'arco europeo e quelle più legate a una perdu­ rante geografia economica dalla dominante agricola, nella forma della «triade>> mediterranea ricordata da Braudel. E la cornice necessaria, questa, in cui situare il processo di specializzazione intrapreso dal motivo: in definitiva secola­ rizzato, colto nella sua ancestrale ricchezza materiale, l'olivo campeggia, con i suoi frutti, in rappresentazioni narrative di ambientazione rusticana, legando, in modo particolare, la propria figura ai paesaggi del Verismo. In tale temperie olio e olive recuperano un'eloquente concretezza, denunciando, per metoni­ mia, le miserie di chi attende alla loro lavorazione. È il quadro di stenti e afflizione reso da Nedda (1874): la protagonista della novella è ritratta accanto ad altre raccoglitrici, in una fattoria alle falde dell'Et­ na, con le quali divide la minestra e i lamenti per la propria misera vita. Il pe­ riodo della coltivazione è funestato dalle giornate di pioggia e dalle conse­ guenti detrazioni alla paga, e, per Nedda, dal pensiero per la madre malata e lontana: in continuità con la descrizione oggettiva, d'assieme, delle condizioni delle lavoratrici Verga innesta un piano singolare, approfondito, del racconto, la visualizzazione per gradi successivi dell'inesorabile destino di lutto che inve­ ste l'umile protagonista. Non meno significativa appare l'elaborazione del motivo da parte di Ca­ puana, nel Marchese di Roccaverdina ( 1 9 01 ) . I frequenti scorci paesistici hanno il potere di illustrare uno scenario di povertà e dannazione per la terra; lo stato di siccità che perdura, con un effetto di forte ansietà, lungo la prima parte del romanzo si riverbera nello stato d'animo alterato del protagonista, macchiato­ si di omicidio passionale e caduto in preda a un'ossessione crescente, che ne minerà irrimediabilmente la salute psichica e fisica. L'antica amante, Agrippi­ na Solmo, incarna la passionalità della stessa terra, la malia incoercibile che as­ sedia l'animo del marchese, osteggiata e raffrenata, nondimeno, dalle rigide sanzioni sociali. Nelle parole della vecchia baronessa zia, «Dio non può per­ mettere certe enormità; non può volere che la figlia di una raccoglitrice di uli­ ve diventi marchesa di Roccaverdina. Pares cum paribus, ha detto il Signore». Al senso di colpa e al delirio che si fanno strada nella mente del marchese si ac­ compagna un tema dalla grande fortuna in ambito naturalista, la rovina eco­ nomica, azionata dai prestiti contratti per rilanciare, mediante l'introduzione

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di tecniche d'avanguardia, la produzione di vino e olio nelle campagne, a Margitello. Giova riferire nella sua interezza il moto di slancio che si accom­ pagna alla descrizione dei lavori, compreso in un esercizio, da parte di Capua­ na, di virtuosismo retorico-descrittivo: E al marchese non sembrava vero di riparlarne, di dare ampie spiegazioni, di fare descri­ zioni particolareggiate; di condurre, quasi, le quattro signore per mano a traverso i tini, i tinelli, le botti e i bottaccini che ancora non erano al lor posto, ma che si sarebbero tro­ vati là tra non molto; a traverso i frantoi, gli strettoi, i coppi pieni di olio, che non e'era­ no neppure vuoti, ma che erano stati ordinati, tutti di una misura e di un unico model­ lo, uguali a quelli in uso nel Lucchese e a Nizza, verniciati dentro e fuori, e non di sem­ plice terracotta che comunicava agli oli il rancido e ne alterava il colore !

L'ultimo tassello che convoco dall'ampia orbita del Verismo è costituito dalla narrativa di Grazia Deledda, nella quale spicca, tra i ricordi del tardo Cosima ( 19 3 6) , dal patente valore autobiografico, la rievocazione del frantoio attiguo alla casa dei fratelli - una scena consimile di fascinazione coinvolgerà il prota­ gonista dell'Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo ( 1 9 5 9 ) di un altro narra­ tore sardo, Giuseppe Dessì. Ma è forse, in una serie di paesaggi regionali as­ semblata coerentemente dall'autrice lungo i suoi romanzi, quello luttuoso e opprimente dell'Incendio nell 'oliveto ( 1 9 17) a stagliarsi nella mente del lettore con maggiore incisività. Il modesto appezzamento di terra che fornisce il tito­ lo al romanzo lega Agostina Marini, quasi ottantenne, ali'adorato nipote Ago­ stino, indefesso lavoratore del podere familiare. La precarietà dell'oliveto ri­ produce il legame simbolico costituito dalle povere e orgogliose tradizioni di cui si circonda il mondo della matriarca; Deledda impiega l'immagine dell'u­ mile frutto della terra per raffigurare un gratificante, seppure circoscritto, rito di continuità affettiva: La nonna lo guardava con tenerezza e ammirazione. Era l'unica persona del mondo, Agostineddu suo, davanti alla quale ella si toglieva la sua maschera di severità e di forza. Si trasformava, diventava bella, quasi civettuola. Il passo del cavallo, eh'ella sentiva di lontano, il rumore che Agostino faceva nello smontare di sella battendo la scarpa sul sel­ ciato del cortile, il suo grido per scostare il cavallo e infine il suo entrare in casa, le dava­ no ogni volta un'emozione profonda; le ricordavano quando il suo giovane marito tor­ nava così dal podere, nei primi anni di matrimonio, e lei lo aspettava con ansia d'amore. E la figura stessa di Agostino era, nella sua mente, associata agli olivi e ai noci in fondo alla valle, piantati da suo marito; le sembrava persino di sentire l'odore umido delle fo­ glie nelle vesti di lui; forse perché ogni volta egli frugava nelle sue tasche, traendone un pugno di olive secche, grosse e morbide come prugne, o di altre frutta, e gliele lasciava cadere in grembo; e pareva che i frutti cadessero dalle sue mani come dall'albero.

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Ultime tracce Le vicende del motivo duplice sin qui indagate si richiudono, nel Novecento inoltrato, su di alcune presenze discrete, difficilmente riconducibili a un'im­ magine unitaria, a un durevole investimento poetico-tematico da parte degli autori: in tempi recenti, nella raccolta Le olive verdi (2001 ) di Giovanni Russo il racconto eponimo ricorre, in una rievocazione nostalgica della giovinezza, al motivo per calare l'infelice storia d'amore al suo centro nel paesaggio lucano, affidando al frutto il compito di assecondare, scandendolo, il passaggio delle stagioni; legato ancora all'idillio agreste, stavolta siculo, appare il ricettario af­ fettivo di Simonetta Agnello Hornby, Un filo d 'olio (201 1 ) . Diversamente, Pasolini aveva sospinto il mondo rurale evocato dall'oliva tra le maglie della grande città, ponendo un venditore ambulante «burino», uno spaesato, tenace pecoraio dell'Abruzzo, alle prese con l'aggressione a fini di truffa, con tanto di umiliazione conclusiva, da parte dei delinquentelli al centro delle avventure di Una vita violenta ( 1 9 59 ) . Se si ragiona infine di un cibo decontestualizzato rispetto al mondo natu­ rale, della definitiva perdita di sacralità per il frutto caro ad Atena, assorbito dalle spersonalizzanti dinamiche di produzione e consumo contemporanee, e allo stesso tempo fattosi presenza abituale nella quotidianità delle nostre case, l'ultima parola del saggio può consegnarsi al narratore del toccante Luisa e il silenzio (1997) , di Claudio Piersanti. Nel romanzo, i cupi pensieri e i teneri ricordi di una donna che si appresta ad andare in pensione si fondono con la scoperta dei segni repellenti della ma­ lattia che il suo corpo lascia trapelare. Sul finire, attraverso il suo punto di vi­ sta rinunciatario e astioso, nel quale si riflette il volontario distacco dagli altri e dal mondo, sfilano in primo piano gli oggetti, i silenzi della casa, le pratiche quotidiane, come investite di un senso assoluto, indifferibile. Ostile all'altrui tentativo di aiuto, Luisa cambiò canale e si fermò su una trasmissione musicale, che per fortuna distrasse sua cu­ gina. A lei invece venne voglia di olive. Andò in cucina e mise qualche oliva nel piatto. «Assaggia» disse alla cugina, «sono buonissime. » Voleva liberarsene e le offriva le sue amate olive. La cugina ne divorò quattro o cinque senza fare commenti, e lanciò due noc­ cioli fuori dal posacenere. Masticava ruminando come una mucca, del resto aveva avuto l'educazione che aveva avuto. Ora si era un po' tirata su ma la rozzezza non c'è vestito che la nasconda. Cinque olive, mentre lei teneva ancora in bocca la sua, quasi intera.

Resta al lettore di decidere se le olive si facciano qui fonte di consolazione transitoria, il vuoto contrassegno dell'esaurimento fisico e psichico in corso, o piuttosto il simbolo di una pace interiore anelata, e forse dischiusa dall'abban­ dono finale al riposo, per la protagonista.

Pane di Maria Rosa Panté

Tra sacro e profano «Che ti mangi ?» C O NTA D I N O : «Pane» MARE S CIALLO : «E che ci metti dentro ?>> C O NTA D I N O : «Fantasia, marescia'» (dal film Pane, amore e fantasia, 1953 ) . MARE S CIALLO :

I n che cortile si lavora il grano ? Sul rombo cupo della trebbiatrice s'innalza un canto giovine che dice: anche il buon pane - senza sogni - è vano ! (Gozzano, L 'analfabeta) Il vero fisico è il pane, amico Pelletta! - sentenziò bruscamente il Currao. - Ah, nego, nego . . . - fece Luca. - Non solo pane vivit homo . . . - E intanto, - concluse Santi, - prima base, ci vuole il pane. Non dire sciocchezze e, per giunta, in latino (Pirandello, Un 'altra allodola) .

Il pane oscilla tra l'essenzialità e la complementarità: pane e companatico, ma nella parola companatico l'essenza è il pane! Il pane oscilla sempre tra sacro e profano. Tra sublime e popolare. Oscilla tra estrema concretezza (quanto è bello tenere il pane in mano, sentirne il pro­ fumo e poi addentarlo) e un altissimo valore simbolico: il pane è o metafora di altro o termine di paragone o sineddoche, il pane indica spesso per metonimia tutto il cibo, cosa che non avviene in nessun altro caso. Il pane è tragedia o commedia, per sua natura non sta nel mezzo. Nessuno è indifferente al pane, anche chi non ne parla, eppure "non di solo pane... ". Personalmente, pur avendo indagato l'enorme letteratura sul pane, con dolo­ rosi tagli e omissioni, non ho sciolto il dilemma: l'uomo può vivere di solo pane ? Forse no, forse sì. Ma l'uomo di certo non può vivere senza pane. 243

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Pane, nutrimento essenziale e indispensabile per la vita Il Vangelo consacra il pane come l'alimento essenziale per chi vive: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano»; inoltre nell'Ultima Cena, il «prese il pane» in­ dica nel cibo più concreto e simbolico tra tutti i cibi dell'uomo, il corpo addi­ rittura di Dio. Però in ebraico pane e cibo si dicono allo stesso modo, cioè il pane è metonimicamente tutto il nutrimento (dello spirito e del corpo). An­ che nell'altra radice della nostra civiltà, quella greco-latina, il pane è fonda­ mentale, basti pensare al mito di Demetra, fondativo dell'agricoltura. Deme­ tra è la dea delle messi: c'è una divinità delle mele ? O della carne di montone ? O del latte ? L'essenzialità del pane è espressa in modo scarno e terribile da Dante nel canto infernale di Ugolino, quando sente i figli «dimandar del pane» (Inf, 33, 39). Pirandello più volte sottolinea l'importanza fondamentale del pane ( «l'uomo non può esser tranquillo, se non s'è assicurate tre cose: il pane, la casa, l'amore», L'uomo solo) ; nella novella La vendetta del cane il pane proprio per la sua necessità vitale (in questo caso di un cane) diviene strumento di tor­ tura, quindi di redenzione e infine di tragedia senza speranza. La novella ha come eroi e vittime sacrificali due innocenti: un cane, affamato dal suo padro­ ne, e una bimba che lo nutre... entrambi ne moriranno. Carlo Michelstaedter accosta il pane al tema dell'amore morbosamente geloso d'ogni cosa, anche degli elementi essenziali per la vita: il sole, l'aria e appunto il pane (Poesie, 6). Chi ama vorrebbe essere per l'amata il sole, l'aria che respira, ma anche il pane che la nutre. Vorrebbe essere la vita stessa, tutto ! Mentre mi vince gelosia crudele [ ... ] ma del sole, dell'aria, ma del pane, ché di loro ti nutri e a me sei colta; gelosia d'ogni giorno, d'ogni istante, che vivi, che non vivi di me solo, che l'aria e il pane e il sole, che ogni cosa, che il mondo intero, che la vita stessa vorrei esser per te - ma tu l'ignori.

Per il pane, essenza della vita, nutrimento che tiene in vita, si lotta. Se il pane manca cominciano i tumulti. Innumerevoli e legittime sono infatti nella storia le rivolte dei poveri per il pane, che è anche una forma di lotta per la giustizia: perché non è giusto che qualcuno muoia di fame e altri di indigestione. Pro­ blema irrisolto. 244

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Descrizione "classica" d'una rivolta per il pane è quella di Manzoni negli straordinari capitoli dei Promessi Sposi, che sono una fenomenologia della lotta popolare valida in ogni tempo, luogo e per qualsiasi motivo... purché di vitale, essenziale importanza. Questione di vita o di morte. Questione di pane: ). Ma è nel Pane che, attraverso la tecnica del racconto nel racconto, la Deledda mette in luce la potenzialità del pane, la creazione (o la ripetizione) del racconto; un racconto che di volta in volta, di casa in casa si 247

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gonfia, lievita proprio come il pane e diventa «festa», il cui momento culmi­ nante è quando la donna che inforna comincia a raccontare: «tanti anni or sono [... ] un giorno vado a infornare il pane in casa di dama Barbara. Dama Barbara era ricchissima e avara». Il racconto si configura come una fiaba, ma concreta, con tanto di nomi e cognomi. La storia della donna avara che al bimbo, comparso miracolosamente a chiedere pane, non dà nulla se non avanzi e vede poi il suo pane non lievitare è la storia di una maternità mancata o ancor di più di una disumanità che non dona nemmeno il pane, l'essenziale per la vita, che è avara e in cambio ne ha solo un pane immangiabile. Il pane, infatti, deve essere condiviso, come dice in una filastrocca Gianni Rodari: S'io facessi il fornaio . vorrei cuocere un pane così grande da sfamare tutta, tutta la gente che non ha da mangiare.

Concetto già sottolineato, sia pure in modo insolito, da Leopardi in Storia di un 'anima: «Per esempio, la facoltà di compatire [... ] non è già propria del solo uomo. In casa mia v'era un cane che da un balcone gittava del pane a un altro cane sulla strada». Leopardi oltre a mostrarci come tutto sia relativo e un cane sia molto più umano d'un umano, precorre gli ultimi studi degli etologi sulla moralità e sui sentimenti degli animali. La donna avara della Deledda perde la capacità creatrice che invece risco­ pre Gabriella Sica nella poesia La madia, dove fare il pane è generare, dare vita, con un forte richiamo all'atto creativo di Dio che fu, appunto, un impa­ stare. La poetessa o la donna che fa il pane però vorrebbe perfezionare la crea­ zione, dando vita solo a persone buone, proprio come il pane! Ah potessi con le mie mani fare buone le persone come il pane!

Infine anche Pascoli lascia la poesia per un'altra forma di creazione, per una forma piuttosto di emancipazione: fare il pane settimanale, però sempre con un'importante figura femminile, la sorella: Ma c'è da fare il pane. Oggi è sabato. Lasciamo la penna, e andiamo. Andiamo, buona sorella, a fabbricarci il nostro pane quotidiano, o, a dir meglio, settimanale [ . . . ] ! Castel­ vecchio di Barga, 5 giugno 1897 (Pascoli, Primi poemetti) .

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Il pane come metafora ....

Il pane è metaforico per natura, vuol dire spesso anche altro . E il caso di due forme quasi archetipiche: il pane della salvezza e il pane nutrimento culturale, quindi anima e mente, Iacopone da Todi e Dante: «Pascime de pane celestia­ le» ( Iacopone da Todi, C I Como il vero amore non è ozioso) ; questo pane apre le porte ali' eternità, alla salvezza. Di «pane della vita» parla anche Santa Caterina da Siena. «Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca!» ( Dante, Convivio, I , I , 7) . In questo caso gli angeli nutrono le menti col pane del discorso filosofico e il companatico (le vivande) delle poesie. L'idea del pane come cultura, pane dell'anima (cioè l'istruzione) , viene ripreso da Matilde Serao nel Ventre di Na­ poli. In Manzoni il pane ha grande rilevanza nella vicenda di fra' Cristoforo (/ promessi sposi, cap . 4) , in cui assume la funzione redentiva del «pane del perdo­ no» . Al giovane che uccide e si pente solo una cosa può importare per ricominciare la nuova vita: il perdono dei familiari di chi ha ucciso . E così ecco la toccante «cerimonia» del pane del perdono, un vero rito anche perché il pane arriva su un piatto d'argento . Ma è il pane la cosa più importante (lo è davve­ ro ! Si provi, avendo fame, a mangiare un piatto d'argento ! ) . Questo pane è anche simbolo del cammino : un cammino fisico ed esistenziale, infatti da sempre il pane è anche viatico per il viaggio . Si pensi alla manna, alle gallette dei viandanti e dei soldati, al pan di via dei romanzi fantasy di T olkien. Le lotte per il pane mostrano anche il pane metafora, simbolo di libertà, di giustizia, simbolo della patria, del rapporto complesso con le proprie radici come in Dante: e, nella seconda edizione ( Firenze 1806) , le «patate per contorno>> e le , compli­ mento che il contadino di Lombardia, e chi sa di quant'altri paesi ! non lascia mai di fare a chi lo trovi a mangiare, quand'anche questo fosse un ricco epulone alzatosi allora da tavola, e lui fosse all'ultimo boccone.

A volte più mesta, altre più allegra, non c'è dubbio che intorno alla polenta si consumi un rito, si palesi un'etnografia, fatta di paiolo (spesso di rame), di filo per tagliarla, di intingoli, di attese fameliche, di intimità familiare, di rustica ghiottoneria. Che con la polenta si potesse fare lirica, e fìnanco elegia, francamente, non ce lo aspetteremmo. Ma ci sorprendono a questo riguardo i poeti Umberto Sa­ ba e Andrea Zanzotto. Il primo ci porta a considerare un aspetto rimasto ineva­ so nella nostra rassegna, quello estetico; il suo giallo canarino, in una dimessa Cucina economica (questo il titolo della poesia in Il piccolo Berto), apre inaspet­ tate vie tra l'umano e il metafisico ( (Serao, Il paese di Cucca­ gna, L 'estrazione del lotto). Una strada napoletana, in cui, lo sappiamo, tutto si fa. «Si fa il bucato e la conserva di pomidoro, la pettinatura delle donne e la spulciatura dei gatti, la cucina e l'amoreggiamento, la partita a carte e la parti­ ta a morra» ( Serao, Il ventre di Napoli, Il pittoresco) e, come si vede, tra tutte le attività la «conserva di pomidoro» non manca mai. E poi c'è la pizza: «una delle adorazioni culinarie napoletane» ( Serao, Il ventre di Napoli, Quello che mangiano), quella pizza condita col «pomidoro», l'aglio, la «muzzarella» che ancora oggi è l'orgoglio di tanti palati. La pizza è in tutte le maniere, ma la prima, la più nota e la più gustata è quella al po­ modoro.

Ilp izzaiolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde,

di una pasta densa, che si brucia, ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo [ . . . ] : queste p izze, tagliate in tanti settori da un soldo, sono affidate a un garzone che le va a vendere in qualche angolo di strada, sovra un banchetto ambulante [ . . . ] . Vi sono anche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di sta­ gno entro cui stanno queste fette di p izza, e girano pei vicoli e dànno in un grido specia­ le, dicendo che la pizza ce l'hanno col pomidoro e con l'aglio, con la muzzarella e con le alici salate (ivi) .

Il pomodoro è, inoltre, quello che ribollendo nei tegami sporca gli abiti, le braccia - proprio come succede a chiunque decida di far bollire del sugo in un pentolone - e per questa sua "scomoda" caratteristica è impiegato in letteratura nelle descrizioni e caratterizzazioni dei protagonisti. E il caso dell'> pubblicata sulla rivista " Il Gatto selvatico " nell'ottobre 1 9 59 (poi in Verso la Certosa, 1961 ) . Nel passaggio dalla rivista al volume il titolo della ricetta cambiò da Risotto alla milanese a Risotto patrio. Rècipe, a conferma della na­ tura insieme regionale e nazionale della ricetta, autentico orgoglio «patrio» . La ricetta è uno splendido «racconto» . Gadda non trascura nulla: qualità del riso, tipo di recipiente, modalità di cottura, pregi degli ingredienti (cipolla, burro, zafferano, brodo di carne) , per i quali dà precise indicazioni di prove­ nienza geografica e persino di prezzo . Un «buon risotto alla milanese do­ manda riso di qualità, come il tipo Vialone, dal chicco grosso e relativamen­ te più tozzo del chicco tipo Carolina, che ha forma allungata, quasi di fuso» . Anche il burro , che deve essere «quantum suffìcit, non più, ve ne prego», deve preferibilmente venire da Lodi; in mancanza di quello lodigiano «po­ tranno sovvenire Melegnano Casalbuttano Soresina; Melzo , Casalpusterlen­ go; tutta la bassa milanese al di sotto delle risorgive, dal Ticino ali'Adda e insino a Crema e Cremona» . La ricetta è un viaggio nel territorio lombardo , di cui Gadda conosce caratteristiche e singolarità. La passione del cibo lega la precisione della cucina alla proprietà e alla fantasia linguistiche, facendo del testo un gioiello della gastronomia e della letteratura. Lo zafferano è l'ingrediente peculiare del risotto alla milanese che, pur non avendo un padre certo (Brera e Veronelli lo cercano invano nella Pacciada, 1973 ) , in quanto gastro-toponimo ha evidentemente una patria, al cui luogo­ simbolo lo associano varie leggende, tra le quali quella ricordata (anche) da Pie318

tro Verri, secondo la quale si deve al garzone di un vetraio che nel Cinquecento lavorava alle vetrate del Duomo la casuale scoperta dell'effetto cromatico e aro­ matizzante dello zafferano. L'originale zafferano di Aquila è oggi per Aldo Buzzi un «misconosciuto tesoro italiano» sempre più raro, «sostituito da zafferano im­ portato quasi privo d'aroma e ridotto a semplice colorante» (L'uovo a!Ul kok, 1979). Il colore dominante dei risotti è il giallo anche nella Scienza in cucina e l 'arte di mangiar bene di Artusi, che nell'ampia illustrazione dei risotti (dodici ri­ cette, dal «Risotto colle telline» al «Risotto col brodo di pesce») presenta ben tre varianti di «Risotto alla milanese», ma > . Dopo tanti risotti di musicisti classici un tocco di satira contemporanea è offerto dalla canzone Risotto amaro di Ugo Tognazzi, sigla dell'omonimo pro­ gramma televisivo (1981). Amante dei piaceri della tavola sia nella finzione del cinema sia nella vita, l'attore cremonese presenta qui un'insolita vena malin­ conica; solo in casa per meditare sui perché della vita e ricordare gli amori pas­ sati, egli canta «risotto amaro è il piatto che mi preparo [. . . ] se viene male non mi sparo». Il titolo della canzone riprende quello del celebre fìlm Riso amaro di De Santis (1949), che con La risaia di Matarazzo (1956) ha narrato al gran­ de pubblico la dura vita delle mondine. Pagate talvolta con il prodotto del proprio lavoro, esse contribuirono a diffondere il risotto in tutta Italia, mentre la letteratura del tempo, che annovera nomi quali quelli della Marchesa Co­ lombi, di Maria Giusta Carella, di Ada Negri e - più vicino a noi - di Renata Viganò e di Camilla Ravera, testimonia un risveglio della scrittura femminile cui le condizioni di disumana fatica e di sfruttamento delle donne ne impon322

RISOTTI

gono la denuncia. La scrittrice vercellese Laura Bosio nel romanzo Le stagioni dell'acqua (2007) afferma che sono state quasi sempre le donne ad occuparsi del riso, donne semplici e allo stesso tempo forti, come il riso che è una pianta debole perché «ha bisogno di condizioni particolari, di trattamenti speciali e di essere curato» con «estro, occhio e intuizione»; forte perché sfama milioni di persone in tutto il mondo.

Tatto La casseruola, tenuta al fuoco pel manico e per una presa di feltro con la sinistra mano [ . . . ] per piccoli reiterati versamenti, sarà buttato il riso a poco a poco, fino a raggiungere un to­ tale di due o tre pugni a persona, secondo appetito degli attavolati; [ . . . ] il mestolo ( di le­ gno, ora) ci avrà a che fare tuttavia: gira e rigira ( Carlo Emilio Gadda, Risotto patrio) .

Speculare all'attenzione femminile nella fase della monda è la suprema dili­ genza maschile nella preparazione di questo «piatto seducente, invitante, ver­ satile, edonistico» (Salarelli). Gli scrittori soprattutto sembrano vantare que­ st'abilità, o forse sono semplicemente quelli che meglio la sanno divulgare, es­ sendo appunto questo il loro mestiere. Fatto sta che sono tanti quelli che pare posino la penna per impugnare il cucchiaio di legno, . Una duplice accezione che convive nella polisemia della metafora ali­ mentare con cui Verga dà conto della morbosa attenzione per i più minuti particolari del disastro ambientale della novella Un 'altra inondazione: e le storielle dettagliate del disastro che si raccontavano per rendere più piccante lo spet­ tacolo a coloro che spendevano venti lire per andare a vedere ! [ ... ] Insomma i particolari più desolanti, come il pepe della pietanza, che vi facevano sospirare dal piacere pensan­ do che non ci avevate nemmeno un palmo di terra da quelle parti.

La vivace effervescenza che il pepe garantisce in questi casi a più o meno meta­ foriche vivande si pone poi quasi in parallelo agli effetti eccitanti attribuiti, complice l'effettiva piccantezza, al peperoncino, la cui presenza in letteratura risulta però non solo limitata sino a quando, tra Otto e Novecento, il suo con-

SALE, PE PE, PE PERONCINO E S PEZIE

sumo viene sdoganato da una dimensione regionale in favore di una più vasta diffusione, ma anche non del tutto esente da sovrasensi esotici, evocatori, il più delle volte, di un'ambientazione meridionale se non addirittura sudameri­ cana. Come quella che fa da sfondo a un racconto di Calvino che avrebbe do­ vuto far parte di un'opera sui cinque sensi in cui il peperoncino sembra quasi offrire un concreto referente alla spiritualità barocca delle monache messicane di santa Catalina, per le quali «il bruciore delle quarantadue varietà indigene di peperoncini sapientemente scelti per ogni vivanda apriva prospettive d'u­ n'estasi fiammeggiante» (Sapore sapere [Sotto il sole giaguaro] ) . Tuttavia, se in questi casi a offrire un valido veicolo metaforico è la capacità del sale e delle spezie di condire, e quindi modificare in senso positivo o negati­ vo, gli altri alimenti, numerose altre occorrenze di simili prodotti in letteratura risultano di contro tramate a partire da aspetti diversi del loro impiego culinario e da differenti proprietà tra quelle che si è soliti attribuire loro. La stessa topica erotica del pepe, ad esempio, si arricchisce di una ulteriore scheda alla luce del­ !'assunzione, in un sonetto di Nicolò de' Rossi, della triturazione di questa spe­ zia nel mortaio a immagine emblematica dello stato in cui versa un'amante de­ luso: «Né mi remane onça di carne o libra / che nera non se pesti come pevere» ( Canzoniere, 292, 12-13). Ma sono soprattutto alcune particolari declinazioni della topica del sale ad offrire i migliori riscontri in questo senso. Di antica ascendenza ciceroniana, ad esempio, sembra essere il vasto sistema transuntivo legato alla capacità del sale di conservare gli alimenti, ricordato dal Folletto di una delle Operette morali leopardiane a dimostrazione di come l'uomo creda che l'intero creato sia concepito a sua misura - «Ma i porci, secondo Crisippo, erano pezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero, conditi colle anime in vece di sale» (Dialogo di un folletto e di uno gnomo) -, ma già fruito dal Gismondo degli Aso­ ltini di Pietro Bembo per significare concretamente in cosa consista la funzione dell'anima nei confronti del corpo umano ( 1 1 , xxv1 1 ) : infinite dolcezze ci rende l'animo di questa coltura, tanto da doverci essere di quelle del corpo più care, quanto è esso più eccellente cosa che il corpo. Se pigro e lento e pieno di melensaggine si giace, lasciamo stare che dolcezze non se ne mietino, ma certo io non veggo a che altro fine sia l'animo dato al corpo, se non che al porco si dia il sale, perché egli non infracidisca [ . . . ] .

Di là da eventuali antecedenti letterari, però, in ultima analisi una simile imma­ gine risulta tramata a partire dall'effettivo impiego del sale per conservare i cibi e, in particolare, sulla conseguente immagine del sale come di un elemento soli­ do e resistente, veicolo degno dell'animo umano proprio in quanto capace di opporsi alla corruzione della materia, a favorire la quale sembra aver contribuito

BANCHETTI LETTERARI

anche la sua altrettanto effettiva resistenza all'evaporazione dell'acqua, che già il siciliano Tommaso Sasso declinava in chiave erotica a significare l'amara situa­ zione in cui si viene a trovare l'amante in assenza dell'amata: «Così eo che no ri­ fìno, I sono poco mino divenuto amaro: / agua per gran dimoro torna sale» (D 'amoroso paese, 43-45), facendo leva su di un complesso sistema di riferimenti allusivi che torna, sensibilmente variato, anche nel linguaggio novecentesco di Salvatore Quasimodo, a contraltare immaginifico dello straniamento del poeta: «Come il sale dalle acque / io esco dal mio cuore» (Delfica, 7-8). Due occorrenze, queste ultime, particolarmente significative, anche per­ ché in entrambi i casi l'evaporazione è chiamata in causa per enfatizzare una condizione negativa del soggetto poetico, al quale non rimane altro che l'ama­ rezza di un pugno di sale: un aspetto che permette di aggiustare il tiro di quanto si diceva circa la connotazione generalmente positiva della topica basa­ ta sul motivo del sale in quanto condimento, osservando come talvolta al sale si possa far riferimento come a un elemento che guasta una situazione o una vivanda, secondo una connotazione negativa basata sulla sua presunta amarez­ za, che agisce anche indipendentemente dalla metafora dell'evaporazione. Amarissimo è, ad esempio, il sale della famosa terzina dantesca con cui Cac­ ciaguida illustra al poeta la dura condizione dell'esule: «Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui» (Par. , XVII, 58-59). Tuttavia, tornando al motivo della forza del sale, importa osservare che non è solo la straordinaria resistenza di questo alimento a sostanziare l'imagery letteraria. Al sale, infatti, si può far ri­ ferimento anche in quanto emblema di debolezza e fragilità, magari ricordan­ do con quanta facilità questo elemento si scioglie nell'acqua bollente, sull'on­ da dell'assunzione, in un sonetto di Cecco Angiolieri, dello scioglimento del sale a degna immagine del proprio struggimento amoroso (Rime, IX, 12-14): Così mi strugge stando contumace come ne l'acqua bollita fa 'l sale: ch'io non n'ho peggio ancor, più li dispiace.

E si potrebbe, forse, continuare ancora a lungo nel tentativo di stringere lega­ mi in grado di far sistema alla topica del sale, così come delle altre spezie, in letteratura, ma forse converrà concludere citando, quasi a rimarcare la straor­ dinaria ricchezza metaforica di simili alimenti, un'originalissima occorrenza montaliana del sale, piegato a significare la grandine che si abbatte, distrug­ gendole, sulle cose in uno dei mottetti delle Occasioni: Infuria sale o grandine? Fa strage di campanule, svelle la cedrina. Un rintocco subacqueo s'avvicina, quale tu lo destavi, e s'allontana.

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Salumi e insaccati di Nicola Bonazzi

La comica povertà del salame Rugosi e oblunghi, tozzi o sottili, i salumi hanno l'a­ spetto tipico di un prodotto non particolarmente raf­ finato, nato sulle mense meno pretenziose per sfamare alla buona villici provati dalle fatiche di una giornata sui campi o cenciosi subalterni costretti a elemosinare qualche soldo ai portoni di ricchi palazzi barocchi. Eppure, questo cibo all'apparenza così inelegante fa ,· .....______.�r..........i/ _____.,,.� __ dell'umiltà e della quotidianità il suo punto di forza: alieno dai palati troppo sofisticati, è alla portata di tutti e tutti ne possono gu­ stare la saporosa e nutriente consistenza, al punto che, interrogato sulla incon­ grua presenza di salami nelle sue vignette, Jacovitti può tranquillamente rispon­ dere che tanto, prima o poi, nella vita tutti abbiamo a che fare con i salami. Non a caso un grande umorista del Novecento, Achille Campanile, decide di fare di un panino al salame l'ultimo pasto di un prossimo suicida, che poi vi rinuncia per un eccesso di gentilezza nei confronti di un laconico quanto vorace sconosciuto. Siamo all'inizio di Se la luna mi porta fortuna (1924), uno dei più noti romanzi di Campanile e il protagonista, Battista detto Raggio di Sole, dopo aver dilapidato «in un sol giorno tutto il suo patrimonio>> acquistando in una sa­ lumeria il panino suddetto, si appresta a infarcirlo sulla panchina di un parco pubblico. L'importanza del momento carica l'azione di una lentezza e di un pa­ thos quasi rituali: Battista guarda «le quattro fette di salame ad una ad una con­ tro luce»; poi le libera «delle loro pelli, badando di non danneggiarle e ingoian­ do ogni tanto un po' di saliva»; infine le depone lentamente all'interno del panino. E a questo punto che la generosità verso l'altro occupante della panchina ha il sopravvento, con effetti imprevedibilmente tragicomici: - Vuol favorire ? - disse al vicino. Questi alzò il capo dal giornale, s'accorse per la prima volta di Battista. - Grazie - mormorò. Prese il panino e ne fece un sol boccone. Cominciava a cadere una pioggerella sottile.

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BANCHETTI LETTERARI

Modestia dei salumi Il pane col salame è da sempre una delle vivande più semplici e meno costose, adatte alla bisogna di un ventre che necessita di saziarsi in modi semplici e ve­ loci, piuttosto che di un palato in cerca di gusti preziosi, come dimostra un passo del Bertoldino di Giulio Cesare Croce (1608). Condotto a far merenda per volere della regina, moglie di quel re Alboino che per primo si era deliziato delle «sottilissime astuzie» del padre Bertoldo, e alla cui corte ora è stato condotto nella speranza di riesumare almeno in parte la selvatica saggezza paterna, !'altrimenti ingenuo e sciocco Bertoldino si fa portare «pane», , invertendone più volte l'ordine delle sillabe. L'ingenuità di Bertoldino e la stravaganza del suo errore sono tali da indurre il buon umore in tutti i cortigiani per diversi giorni, e talmente gli entrò in bocca quella parola di lassamo, di samallo, di malasso, di lamasso e massallo, che quando volevano del salama essi ancora, pareva che non sapessero più dire se non lassamo e samallo e malasso, lamasso e massallo, e durò parecchi giorni simil cosa.

La semplicità dell'alimento si riverbera sulla sua veste linguistica e scatena la possibilità del gioco, che alimenti di più alto lignaggio probabilmente censu­ rerebbero. Si può essere consapevoli della povertà un po' rozza dei salumi, e allo stes­ so tempo vederla trasformata in abbondanza rigogliosa e sgargiante, qualora la si investa di un sentimento di amorevole tenerezza, come accade al pizzica­ gnolo di una poesia di Aldo Palazzeschi, impegnato tutto il giorno ad affettare «soppressate salami salamini» per clienti frettolosi ed esigenti in un' «oscurissi­ ma botteghina», eppure rapito da un sùbito, tenero amore per il figlio impie­ gato nella stessa pizzicheria. Allora: Solo per lui gli diven tan tanti fiori le cose nelle mani, i grotteschi salami gli untuosi prosciutti, ma senza quel figliolo come sarebbero brutti !

Molti secoli prima, il bizzarro poligrafo Tommaso Garzoni da Bagnacavallo, nell'enorme Piazza universale di tutte le professioni del mondo (1585), fornisce,

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SALUMI E INSACCATI

rubricata sotto la voce «De' lardaruoli, overo pizzigaruoli, e salsicciari e polla­ ruoli», una descrizione ben diversa: gente sporca e vile, meriterebbe il nome di «scorticacani in pregiudicio dell'arte e delle botteghe loro principalmente>>. Insomma, l'unto che trasuda dalla carne di porco insaccata s'ingromma, nelle parole di Garzoni, persino sulle pareti delle pizzicherie, manifestazione tangi­ bile della volgarità cialtrona dei loro proprietari.

Insaccati da cuccagna La generosità alimentare della pizzicheria palazzeschiana, dove formaggi e sa­ lumi disegnano un paesaggio di «villaggi», «viali» e «giardini>>, traduce, nello spazio angusto del negozio adibito a vendita, la ricchezza e la varietà dei cibi derivati dalla macellazione del maiale, come puntualmente registra il bizzarro Ortensio Lando, scrittore rinascimentale amante degli elenchi eterocliti e del­ le invenzioni paradossali, che nel suo Commentario delle più notabili e mo­ struose cose d 1talia (1548), non manca di ricordare la prelibatezza di certi insac­ cati, associandoli alle città produttrici. Così a Lucca si fa una «buona salsic­ cia», come del resto a Modena; se Ferrara è «unica maestra nel far salami», a Monza si può gustare della «luganica sottile», mentre a Bologna si fanno «sal­ sicciotti i migliori che mai si mangiassero», in grado di aguzzare l'appetito «a tutte l'ore». L'Italia, specialmente quella settentrionale, specialmente quella padana, eccelle in una cucina grassa e di sostanza, che alimenta le più sfrenate fantasie culinarie: non poteva che nascere nel mantovano Teofilo Folengo, autore di quel Baldus (1521) la cui materia viene posta sotto le insegne delle «pancifiche Muse» della poesia maccheronica, dimoranti in una regione favolosa dove, ac­ canto a colline di gnocchi e alpi di formaggio, troviamo fiumi di brodo solcati da barche sopra le quali le Muse medesime preparano reti cucite «con budella di maiale e con busecche di vitello» (retia salsizzis vitulique cusita busecchis), per pescare, tra le altre cose, delle «gialle tomacelle» (ovvero dei salsicciotti di frattaglie di maiale). Del resto, già nel fantasioso Bengodi inventato da Maso per raggirare lo sciocco Calandrino (Boccaccio, Decameron, VIII, 3) e convin­ cerlo a cercare l'immaginaria elitropia, si dispiegava un paesaggio di succulen­ ta abbondanza, dove «si legano le vigne con le salsicce». Ma, in generale, tutti i paesi di Cuccagna, nati dalle fantasie di evasione delle classi subalterne e fatti propri da una letteratura che si compiace dell'invenzione mostruosa e fantasti­ ca, mostrano panorami opulenti e crassi, nei quali gli insaccati hanno ovvia­ mente una parte principale: ancora nell'Isola della Gastrimargia, descritta in quell'enorme deposito dell'immaginazione barocca che è il Cane di Diogene di Francesco Fulvio Frugoni (1689), «i fiumi vi scorron di latte», «i monti son di 333

BANCHETTI LETTERARI ...

cascio», e, naturalmente, «gli alberi fruttano marzolini e mortadelle». E inevitabile insomma che la Cuccagna, sogno utopico dei ceti meno abbienti, di­ spieghi sui propri territori gli alimenti tipici di una cucina rurale, dove domi­ nano l'unto e la torpidezza.

Elogio dell'insaccato Insomma, in un pasto povero sono proprio i salumi a sopperire alla mancanza di vivande più appariscenti, meritandosi elogi tra l'ironico e l'autentico. Inevi­ tabile appare, per la sua provenienza geografica, che sia Giulio Cesare Croce a tessere le lodi del porco, ovvero dell'opima bestia di cui «nulla si getta via» e le cui carni forniscono materia alla preparazione degli alimenti più diversi, in particolare appunto gli insaccati. A Bologna, sita nel mezzo dell'umida e pin­ gue pianura padana, si festeggiava sino al Settecento la festa della porchetta, descritta da Croce nell'Eccellenza e trionfo del porco (1593), una delle tante ope­ rette giocose e fintamente erudite con cui il famoso cantastorie soddisfaceva i gusti di una platea non troppo esigente. Nel testo, di là dalla descrizione del famoso lancio della porchetta dalla finestra del Palazzo comunale sulla folla sottostante, si sciorina tutta una serie di qualità suine, tra le quali le più note sono quelle alimentari. Croce si sofferma per esempio a decantare, sulla scorta di una fantasiosa etimologia, l'utilità e la prelibatezza del prosciutto: Il prosciutto, over presciutto, vuol dire eh'egli fa pro a chi lo mangia, e sciutto eh'egli tiene asciutto dove egli entra; e però chi ne mangia una fettuccia la mattina, bevendole poi dietro un buon bicchiero di tribiano, ha tutto il giorno un fiato odorifero quanto un moscato; ed è ottimo da cuocer con l'altre carni e la sua proprietà è di svegliare l'apetti­ to, tagliar le flemme [scii. : eliminare la flemma, ridare energia] e far saporito il bere.

Il doppio registro di verità e gioco, di lode e parodia, produce nel corso dei se­ coli una serie di elogi paradossali o semplicemente ludici, nei quali l'alimento viene esaltato proprio in virtù del suo statuto basso e popolare, innescando an­ che una serie di compiaciuti equivoci a partire dalla forma allungata di certi . . 1nsaccat1. Così il Cinquecento, secolo quant'altri mai incline al dileggio dell'onorato classicismo italico, produrrà una serie di capitoli in lode della salsiccia, dove il registro triviale si sovrappone a quello puramente encomiastico, come nella Canzone in lode della salsiccia di Agnolo Firenzuola, nella Lode della salsiccia di Anton Francesco Grazzini o nel Capitolo sopra la salsiccia a Caino sp enditore del bernesco Mattio Francesi. Anche il Settecento, altro secolo splendidamen334

SALUMI E INSACCATI

te edonistico, si dedicherà a componimenti encomiastici, tra burla e realtà, di insaccati vari. Si deve alla penna degli emiliani Giuseppe Ferrari (di Modena) e Antonio Frizzi (di Ferrara) l'invenzione paradossale di due ampi poemetti, in elogio del porco il primo (Gli elogi del porco per l'appunto, 1761), e del sala­ me il secondo (1772). Mentre l'opera di Ferrari è, più genericamente, una ras­ segna di qualità animali che non trascura i cibi derivati dalla carne suina («Vanta il tuo cotechin, Modena mia»; «E dove lascio sotto il ciel Germano / il tentator westfalico prosciutto ? / il fiorentin salame ed il nostrano ?»), il se­ condo, intitolato significativamente La salameide (1772), è un'esaustiva enci­ clopedia salamifera, che trae il proprio divertimento dal cortocircuito tra la re­ torica atteggiata dell'ottava eroica e la crassa quotidianità dell'insaccato («Canto il fregio primier d'un lauto desco... »). In quattro canti che, alla gros­ sa, trattano della vita del maiale, dell'invenzione degli insaccati, delle preliba­ tezze suine, e infine dell'etimologia della parola "salame", si dispiega nella Sa­ lameide una onnivora, parodica, e un po' stucchevole sistemazione di una ma­ teria leccarda e ghiotta, che, alle soglie del secolo romantico, costituisce l'ulti­ mo sussulto di quella padana scienza del ventre, di cui Folengo e Croce erano stati i cantori più famosi.

Onomastica oscena Senza necessariamente esibire intenzioni parodistiche, termini quali "salame", "mortadella" o "salsiccia", metaforizzano spesso l'organo genitale maschile. Al solito, è la forma degli insaccati a provocare il facile gioco lessicale e, natural­ mente, sono gli scrittori più aperti a una materia comica o violentemente rea­ listica a impiegarlo. Così Boccaccio (Decameron, Conclusione) giustificando l'oscenità di certe sue novelle, tira in ballo l'uso disinvolto del linguaggio tri­ viale nella vita quotidiana: Dico che più non si dee a me esser disdetto d'averle scritte che generalmente si disdica agli uomini e alle donne di dir tutto dl foro e caviglia e mortaio e pestello e salsiccia e mortadella.

Non mancano (e come potrebbe essere altrimenti !) numerose occorrenze sessual-culinarie nell'oscenissimo Aretino ( «Ella [... ] volle mangiare le sal­ sicce in piedi»: Sei giornate, 62, 5), mentre, più vicino a noi, Luigi Malerba descrive nel Pataffio (1978), divertentissimo romanzo-p astiche ambientato in un Medioevo di maniera, l'assalto di un cane alla "salsiccia" del protago• n1sta:

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BANCHETTI LETTERARI

Il cane parte a testa bassa, salta le frasche, si infila tra gli alberi, svola sopra i fossi, schiva le pietre, solleva la polvere, sfrulla la terra, arriva sull'erba con la bocca spalancata e va diritto con i denti a chiappare la salsiccia di Berlocchio nel mentre che sta sciabolando per inguattarsi fra le gambe della damigella.

Infine, come virtuosistico , trivialissimo esercizio di onomastica genitale, andrà citato un sonetto (Er padre de li Santi, 561 ) di Giuseppe Gioachino Belli, iro­ nico elenco di tutti i possibili sinonimi del pene, tra cui, immancabili, «ssala• • • • me, e ssarc1cc1a, e ssangu1nacc10» .

Salumi peccaminosi Le forme eccentriche (ed equivoche) dei salumi possono diventare esca per abboccamenti ironicamente sensuali . Lungi dalla trivialità sorniona dei berne­ schi rinascimentali, un eros malizioso e provocante si afferma tra Otto e No­ vecento, il quale, se pur consumato fuori da salotti aristocratici e da alcove ele­ gantemente dannunziane, non manca di fare il verso alla sensualità torbidiccia del poeta di Pescara. Così Edoardo Scarfoglio, nel Processo di Frine ( 1884) , rac­ conta di una giovane contadina abruzzese che tradisce il marito e uccide col veleno per topi la suocera, subendo poi un processo nel quale i maggiorenti del paese prendono le difese della bella forosetta. Tra di essi c'è il parroco, il quale imputa alla fame e alle tentazioni indotte dalla carne di porco la condotta adulterina e poi omicida della contadinotta: Costei appunto si è lasciata trarre dal peccato della gola: tutti i suoi mali procedono di qui. Ella non sapeva resistere alle tentazioni, quando l'esca allettava lo stomaco. Ella non si dava, si vendeva. La cosa che più l'allettava erano i salami. Ne faceva delle vere orge con Pasquale Spatocca.

Fuori da qualunque pur blanda interpretazione storico-sociale si colloca inve­ ce l'irriverente Cucina futurista (1 932) di Filippo Tommaso Marinetti e del pittore Fillìa, dove possiamo trovare, a firma del solo Marinetti, la descrizione di una sensuosa cena tra amanti il cui apice è rappresentato da «un prosciutto che contiene un centinaio di carni diverse di maiali» : dopo averne divorato metà, i due recuperano il letto per proseguire la loro notte d'amore. Di tutt'altro segno (e molto posteriore) è la trasgressione che si concede una signora dell'alta borghesia nel pezzo di Giuseppe Pontiggia Due animali­ ste a tavola, uno degli elzeviri contenuti in Prima persona (2002) . L'insaccato di maiale suscita evidentemente, con la sua placida succulenza, l'induzione al peccato, in questo caso solo gastronomico . Due amiche, presenti a una cena 336

SALUMI E INSACCATI

ufficiale alla quale è invitato anche l'autore, discutono sull'opportunità o meno di farsi servire del culatello. L'appartenenza delle due a un circolo ani­ malista provoca un piccolo contenzioso, perché, se una non è disposta a man­ giare carne di maiale, l'altra vorrebbe volentieri farsi traviare per quella che è considerata la specialità del luogo. La piccola schermaglia, dice Pontiggia, è l'ennesima manifestazione di una lotta millenaria tra impulsi famelici e senti­ mentali resistenze all'uccisione di animali. Ma infine, di fronte ali'opulenza della portata in questione (e persino al suo nome sfrontatamente lubrico), la vittoria arride alla più trasgressiva delle due amiche: Un cameriere si inchina verso la commensale alla mia destra: «Ha già scelto, signora ?» «Sì» esclama lei rapita, sottraendosi ai millenni. «Culatello !>>

Per concludere Come un attore che, per la sua fisionomia peculiare (il naso troppo grande o l'adipe prominente), non può che interpretare parti comiche pur essendo in grado di cimentarsi anche in quelle tragiche, i salami, le mortadelle o i pro­ sciutti abitano, in letteratura, territori liminari tra la farsa e il dramma, avendo come oggetti principali della propria rappresentazione la fame e il desiderio di abbondanza. Allo stesso modo in cui la maschera di Totò rappresenta gli aspetti vitalistici e addirittura comici dell'incoercibile povertà delle plebi itali­ che, così gli insaccati portano sulla scena della letteratura la paradossale e iro­ nica opulenza di un alimento in realtà povero e poco raffinato. E allora la conclusione di questo breve excursus sui salumi non può che esse­ re affidata alle parole lievi e surreali di un altro grande comico che, con i suoi ca­ lembours e le sue macchiette, ha raccontato la pacchiana strafottenza di certi tipi italici. La macchietta è I sa/a,mini; l'autore, naturalmente, Ettore Petrolini: Ho comprato i salamini e me ne vanto. Se qualcuno ci patisce che io canto ... E inutile sparlar È inutile ridir Sono un bel giovanottin Sono un augellin . . .

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Tartufi e fun ghi di Loredana Chines

Fin dalla classicità il fascino dei funghi e dei tartufi consiste nella loro capacità sinestetica di attivare si­ multaneamente diverse sfere percettive, quella del gusto e soprattutto quella dell'olfatto, spesso am­ mantandosi, specie nel caso del tartufo, di un'aura di mistero relativa alla genesi e alla stessa identità dell'a­ limento. Cibo sospeso fra il mondo vegetale e quello animale, di origine oscura, il tartufo, secondo Plinio il Vecchio (Naturalis Historia) sta fra quelle cose che • • • nascono ma non si possono seminare, magicamente in grado di sopravvivere senza radici. Dall'origine quasi ammiccante all'ecce­ zionalità di una creazione divina, legata al fulmine e al vigore di Zeus (come dice Teofrasto nella Historia plantarum), il tartufo trae origine dall'unione della pioggia con il tuono e soprattutto Plutarco lo riteneva figlio di un lampo scagliato da Giove sulla terra o di una folgore sfuggita a Vulcano, nonché frut­ to di una combinazione di acqua, calore e fulmini. Non è un caso che sulla na­ scita dei funghi e dei tartufi il giovane Leopardi nel saggio Sopra gli errori popolari degli antichi ricordi le testimonianze e gli autori greci e latini proprio nel capitolo Del tuono. Nel mondo latino Giovenale non mancò di specificare (Sat. , XIII) che era preferibile la penuria di grano piuttosto che di tartufi sulle mense dei Romani; mentre Apicio nel trattato De re coquinaria ne decantava la prelibatezza in ri­ cette elaborate per le pietanze più costose. In epoca umanistica nel trattato quattrocentesco il Libreto de tutte le cosse che se magnano, dedicato a Borso d'E­ ste, il medico Michele Savonarola dedica alla tartufo/a il capitolo v: richiama le autorità di Avicenna e Galeno, si esprime sulla qualità superiore del tartufo bianco, mette in guardia sulla pesantezza dell'alimento e suggerisce modalità di preparazione e cottura specificando che fra tutte le megiore suono quelle che sono ben rotunde, tirano al bianco, nasciute in loco ben sabionegno, le quale non hano cativo odore. Ma il perché pur te piaceno, vaio

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sappi che tardi se padiscono, imperò manzar se voleno drio pasto. Ma gravano el stoma­ co e impaza la digestione e dano uno grosso nutrimento, il perché pareno havere molto del terreo, imperò le più lezere sono meliore. Ma panerò alcuni modi di loro nocumenti correctione. Il primo: siano ben scorcia­ te, dapoi taiate in frustri e alessate, deinde preparate cum il pipere e sale. L'altro: se se cocieno cum l'olio pipere e sale camme si fano i fungi, ancora cocce nel vino bono, con­ dite corno ditto è, cussì darano pur nutrimento grosso ma non cativo. Alquanti le cose­ no sotto la cinere, dapoi le prepara cum l'olio e sale e pipere. Alquanti le cosseno nel brodo dela carne grassa, dapo' le condisse cum el pipere e sale e sono men cative.

Savonarola non dimentica una qualità che al tartufo attribuiva già la medicina antica (Galeno, De alimentorum facultatibus, 1 1, 58) , ovvero una straordinaria capacità nutritiva e quella dote per cui sarà consacrato nella tradizione lettera­ ria e nella fama popolare: di attivare il desiderio erotico, consigliabile a vecchi con mogli giovani e avvenenti . Anche Bartolomeo Platina, che nel Piacere one­ sto e la buona salute (1474) attende alla valorizzazione di ogni sfera percettiva e sensitiva dell'uomo, dedica uno specifico capitolo ai tartufi non eludendo esplicite allusioni ai peculiari effetti fisici del pregiato alimento : Nascono al cadere delle piogge, quando i tuoni sono più frequenti, e non durano più di un anno. Sono considerati più teneri quelli primaverili. Mirabile è il fiuto della scrofa di Norcia, la quale sa riconoscere i luoghi in cui nascono e inoltre li lascia intatti, quali li ha trovati, non appena il contadino le accarezzi l'orecchio. Si cuociono nella cenere cal­ da dopo averli lavati con il vino; quando poi siano cotti, si puliscono e si cospargono di .... pepe, servendoli ancora caldi ai commensali dopo un piatto di carne. E questo un cibo molto nutriente, come crede Galeno, ed è un eccitante della lussuria. Perciò viene servi­ to spesso nei pruriginosi banchetti di uomini ricchi e raffinatissimi che desiderano esse­ re meglio preparati ai piaceri di Venere.

Non c'è da stupirsi che tale alimento entri a pieno titolo nelle mense delle cor­ ti rinascimentali e nelle pagine della letteratura cinquecentesca, come testimo­ nia Pietro Aretino che lo ricorda tanto nella prosa epistolare quanto in gustosi passaggi dei suoi Ragionamenti. In una lettera ad Agostino Ricchi ( 1, 166) sui motivi per cui «preferisce l'inverno ali' estate» egli ricorda che «Ci son molti che vogliono la state per la copia dei suoi frutti, lodando gli scarcioffi, le cirie­ gie, i fichi, le pèsche e l'uva; come i tartufi, le olive e i cardi del verno non fus­ ser da più di loro». Nella lettera a frate Vitruvio Dei Rossi ( 1 , 184) , in cui >, il Tocai, che, anche a giu­ dizio di Louis-Sébastien Mercier, nel 1788, era «il primo vino della terra». Con

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Parini, meglio che in passato, si fa trasparente il rilievo sociale dei vini rari, sia per la difficoltà di procacciarseli, sia per l'esigenza di berli e servirli in luoghi ac­ conci e con calici raffinati. Il vino tanto cercato da Galileo, custodito nei fia­ schi, avrebbe destato orrore al protagonista del poemetto satirico (il fiasco inve­ ce, nella Versilia carducciana, sino a qualche decennio addietro, si chiamava lume, poiché infondeva luce e gioia alla tavola). Per trovare il vino quotidiano e gagliardo, non nobile, non raro, ma infiammabile per pronte passioni, occorre invece, nella Milano che si apre al "Conciliatore" e alla modernità, volgere lo sguardo a Carlo Porta, dove, più volte, come accadrà nelle vicende dei Promessi sposi (soprattutto nel mondo picaresco di Renzo Tramaglino), troviamo il vino delle osterie, gemelle delle guinguettes che circondavano le porte di Parigi. Così, in un Brindes tutto meneghino, sentiamo Carlo Porta vibrare d'entusiasmo: «Che granada! Vardavarda! / sent che odor! / che bel color». Questo è il vino «che consola, che dà gust, / alla bocca, ai oeucc, al nas». Così sarà pure nel Brin­ des scritt all 'osteria della Zittaa a on disnà de allegria. O, anche, senza troppo di­ scostarci da queste atmosfere, che pur sono quelle della «vasta ubriachezza ur­ bana» che richiede «vitigni grossolani di forte rendimento» (Braudel), val la pena non dimenticare il Brindisi di Girella di Giuseppe Giusti. Il Risorgimento, in sé, è fatto non solo di iniziative geniali e di atti magna­ nimi ed eroici, ma di vino razzente, di pronta beva, condiviso con "cuori fra­ telli", accompagnato dal fumo acre ed azzurro dei sigari toscani. Né stupisce che politici scaltriti, addirittura presidenti del Consiglio, forti della loro espe­ rienza europea, della loro intelligenza nella coltivazione agricola e nel poten­ ziamento produttivo e qualitativo dei vigneti, abbiano avuto un ruolo "pater­ no" verso vini preziosi e insieme pregiati: Cavour per il Barolo, Ricasoli per il Chianti. Il presidente della Repubblica Luigi Einaudi, che discendeva dalla tradizione del riformismo liberale della Destra storica, fu anch'egli produttore di vini, che ancora oggi portano il suo nome. Pur con numerose eccezioni, si potrebbe perfino tracciare un diagramma del vino che corre da quello pregiato del versante istituzionale, monarchico, a un garibaldinismo enologico che si dilettava di vini più semplici e pronti, giovani, di pasta buona, schietti e veri come il Generale (Carducci, a tavola e in poesia, si muove tra i due fronti con piglio sicuro). Non vi sono forse altre terre che, al pari dell'Italia, siano state associate alla coltivazione della vite in tutto il corso della loro storia, dalle lontananze neoli­ tiche ali'epoca romana, dal cristianesimo medievale alla contemporaneità. Nel contesto laico di una società che andava cercando nuovi martiri ed eroi, la pri­ ma parte del XIX secolo ha tutto l'aspetto, per dir così, dell'evangelico otre vecchio, logoro, che non poteva ormai arginare la forza spumeggiante, ondo­ sa, dirompente, del vino nuovo. Al fondo, dove il tino ribolle, dove i sedimen­ ti limacciosi si fanno più spessi e frequenti, più del Porta seppe portare lo 357

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sguardo, da par suo, Giuseppe Gioachino Belli. Nei sonetti romaneschi ci pare di cogliere, quasi in presa diretta, la chiassosità festosa, sfidante, la volga­ rità buffa e sfrontata del popolo che mesce e che si fa mescere vino, dal matti­ no alla sera: «Io bevo poi dar fa dell'arba insino / la sera a mezzanotte e un po' più tardi. // E metterebbe er culo in su li cardi / prima ch'arinegà quer goccet­ tino>> (Li gusti). Buono bianco, il vino «è bono rosso e nero». Così, nel sonetto Er vino, si ha, netta e quasi tattile, una scena domestica, un inno al vino dove se ne coglie la dimensione quotidiana, nutritiva (non solo in senso spirituale). Esso è piacere, riposo, diporto, oblio, festa: Er vino è sempre vino, Lutucarda: [ ... ] ...

E bono asciutto, dorce, tonnarella, solo e cor pane in zuppa, e, si è sincero, te se confa a lo stommico e ar ciarvello.

Il vino della Roma papale, mortifera e tirannica di Gregorio xvi, che poteva condurre al grido, alla bestemmia o allo sberleffo, ma anche al torpore rasse­ gnato e imbelle, si faceva invece, radicato sempre nella realtà geopolitica, di ben altra natura entro il capolavoro di Alessandro Manzoni. Di tutt'altra con­ sistenza da quella belliana, infatti, è la traccia che lascia il vino nei Promessi sposi, dove lo troviamo nel suo valore simbolico (sia pur rovesciato: il calice ostinatamente offerto da don Rodrigo a fra' Cristoforo), nel suo valore politi­ co (quando, rapido e gagliardo, dà alla testa al povero Renzo), nella sua di­ mensione corale, infiammabile, dell'osteria, con una escursione di significati che giunge ali'espressione della mobilità e della "pressione" dei pensieri, come accade, a titolo d'esempio, con Perpetua: «un così gran segreto stava nel cuore della povera donna, come, in una botte vecchia e mal cerchiata, un vino molto giovine, che grilla e gorgolia e ribolle, e, se non manda il tappo per aria, gli geme all'intorno, e vien fuori in ischiuma, e trapela tra doga e doga, e gocciola di qua e di là, tanto che uno può assaggiarlo, e dire a un dipresso che vino è». Nella sua refrattarietà a qualsivoglia astrattezza, il vino resta sempre la car­ tina di tornasole degli animi degli uomini e delle storie particolari delle loro terre. Se ne ha conferma quando si lascia trascorrere l'attenzione al mondo non più della Lombardia manzoniana, ma della Sicilia del Verga (sacrale e pe­ gno di fraternità, invece, sarà il vino di Silone, in Vino e pane) . Nei Malavoglia, il vino, strumento d'oblio o di rivolta, rimane confinato al mondo dei vinti: a loro, va da sé, appartiene un vino che infuoca e stordisce, che consola con l'oblio, che scaccia le utopie come fantasmi pericolosi. Ad altri, ai vincito­ ri, invece, ai loro amici e sodali, vanno i vini rari e prelibati (chi, infatti, va al-

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l'osteria, «si chiama ubbriacone»; coloro, di contro, che «si ubbriacano a casa di vino buono non hanno guai per la testa, né nessuno che li rimproveri o fac­ cia loro la predica di andare a lavorare>>). Diverso, e già raffinato, concettoso, satirico, arguto di mille arguzie, il mondo del vino in scapigliati come Dossi, ove troviamo e sorseggiamo un vino bohémien, un vino che si mescola al dan­ dysmo, alla noia, ai sali del riso e dello scherno, a nuove malinconie (oblio e consolazione fu il Marsala per Emilio Salgari). Diverso ancora, più profondo e vario, più ricco di appiccature, più legato alla storia del suo tempo e agli ideali di vita, di studio, di lotta politica che sep­ pe affinarvi con volontà e intelligenza, il mondo del vino in Carducci. Il suo epistolario è quasi ritmato dalla presenza del vino, sulla quale anche lettori come Benedetto Croce non mancarono di pronunciarsi, poiché, in essa, ravvi­ sarono una delle più limpide prove della sanità, della schiettezza terragna e co­ munale dell'animo carducciano. A San Miniato il poeta, che vi era giunto nel novembre del 1856 per il suo primo incarico di magistero, celebrò il vino con parole auliche: «Ave color vini clari, / Ave sapor sine pari! / Tua nos inebriari / Digneris potentia». Lo scoppiettio dei tappi saltanti rese celebre in paese «la casa de' maestri». Al caffè Micheletti, intanto, si allungava il conto per il pon­ ce bevuto in forti quantità. A Bologna, nella casa di via Broccaindosso, per un po' di tempo Carducci prese l'abitudine di farsi il vino, senza che ciò gli to­ gliesse il piacere di acquistare, o di farsi donare, vini pregiati (come, ad esem­ pio, il Barolo). La relazione fra vino e libri restò in lui costitutiva, come pure il «mangiare e bere il meno male e il più spesso possibile». Alla moglie intimava, con tono di celia: «sgombera le tue carabattole». Fiaschi e bottiglie dovevano troneggiare sugli scaffali, in armonica convivenza. I Brindisi, non rari nella sua poesia, incluso il Satana, nascevano perciò con ben altro orientamento da quello, tutto sommato incondito, dei personaggi meneghini del Porta. Con Dopo Aspromonte, con i versi scritti per gli amici della Valle Tiberina, con quelli dettati per una bottiglia di Valtellina del 1848, la sua poesia lasciava spa­ zio al vino, come accadeva, anche, nei versi Su Monte Mario, dove il sole che si rifrange sui bicchieri recupera il senso compiuto e indiviso di una vita vissuta ed espressa in assoluta pienezza: Mescete in vetta al luminoso colle, mescete, amici, il biondo vino, e il sole vi si rifranga: sorridete, o belle: diman morremo.

Come, per giunta, accadeva a Galileo, come accadeva al Redi, al Magalotti, al Filicaia, Carducci colse nel vino un figlio del sole. Così risuona, nelle Rime Nuove, il Brindisi d 'aprile: 3 59

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E tu arridigli, o sole. Ei di te nacque [ ... ] come te ardente, come te sereno: quando tu disparisti, ed ei soggiacque prigion celeste in carcere terreno: bagna i tuoi raggi nel gentil vermiglio, bacia, sole immortal, bacia il tuo figlio. [ ... ] Unico ei resta, o sole; ed io d'amore unico l'amo, o biondo siasi o nero. Biondo, è la luce che da i nervi fuore sprizza del canto il creator pensiero; nero, è il buon sangue che di fondo al cuore ne i magnanimi fatti ondeggia altero: versa al biondo i tuoi raggi ed al vermiglio, bacia, sole immortal, bacia il tuo figlio.

Galileo avrebbe certo firmato e sottoscritto questi versi , dove si nota perfino l'esperienza di colui che è in grado di tracciare ed evocare una tipologia dei frutti diversificati del vino «biondo» e «vermiglio» : l'uno efficace per destare pensieri , l'altro, il «nero», fomentatore di coraggio e magnanimità. S ullo sfon­ do, deprecata sin dal Brindisi che si legge in fuvenilia, quella che Carducci de­ finisce con quello della poesia (in Alcyone, in particolare), come accade­ va nei versi dell' Oleandro: Arde l'ombra. La vigna è come il vino : il grappolo sul tralcio si matura poiché il raggio nell'uva è prigioniere. La terra soffre nell' ebrietà.

Con Viani davvero sembra accordarsi, intorno alla tavola e al suo " lume", l'in­ tero Novecento letterario. Non per caso troviamo anche, in apertura del Cipresso e la vite, Giovanni Pascoli: un poeta, qui, allegro, lieto, aperto al sole, alla mensa da condividere con l'amico Brilli, alle delizie del vino, del cibo, un poeta solare che sorride al mondo e alle vita: «quadretti con rigaglie, prosciut­ to, lesso di manzo all'italiana, vitella in umido alla paesana, galletti di primo canto, arrosto alla casalinga; vini. Toscano vecchio, bianco delle Cinque Ter­ re, sangiovese di sette anni, caffè. L'abito non è di rigore. Si mangia, se si vuo­ le, in maniche di camicia»: un Pascoli luminoso, en plain air. Il Novecento non avrebbe lasciato mancare altre testimonianze: su tutte, di autori come Silane, Soldati, Alvaro, Pea, di Guido Cavani, nei quali si av­ verte la confluenza di antichi sentieri della civiltà italiana. Nessuna, forse, così limpida, così luminosa, come l'immagine di questo Pascoli en plain air. Colpisce certo che, dove il frutto della vite non è un semplice elemento del quadro letterario ma uno spiraglio dischiuso sui segreti della scrittura, esso torni e campeggi in quegli scrittori che, più di altri, non hanno perduto il sen­ so delle cose quotidiane, di una vita che si lascia ancora avvolgere dal calore e dai colori del vino.

Zucchero di Denise Aricò

Pillole di zucchero Nel suo lettino d'infermo, alle prese con un solenne raffreddore, Pinocchio aspetta il consulto medico . Poi la diagnosi e la terapia: una pozione amara, ma benefica, lo rimetterà in sesto . Il monello, però, se ri­ cordate, si rifiuta di bere la medicina e la Fata dai ca­ pelli turchini (una Mary Poppins ante litteram) gli promette in premio una «pillola di zucchero» . Pinoc­ chio, dopo aver sgranocchiato la chicca, esclama: « Bella cosa se anche lo zucchero fosse una medicina ! Mi purgherei tutti i gior­ ni» (Collodi, Le avventure di Pinocchio, 1883 ) . Le parole del simpatico buratti­ no possono avviarci alla storia dello zucchero, comparso in Occidente nel IX secolo con l'arrivo degli arabi, che ne introdussero la coltivazione in Sicilia e in Spagna (il termine deriva infatti dall'arabo sukkar, diventato sucharum nel latino medievale) . Da allora lo zucchero, per il legame connaturato nell'uomo col piacere, è stato di volta in volta celebrato, ma anche duramente esecrato, e per i suoi rapporti con lo sviluppo del commercio mondiale ha alimentato violente rivalità economiche e aspri conflitti politici . A differenza del gusto moderno, propenso a distinguere l'aspro dal dolce, la cucina romana di età imperiale tendeva a mescolare i sapori forti con quelli più tenui . Questa tradizione " agrodolce " , che si arricchì con il tempo dell'ap­ porto di spezie quali lo zenzero, il pepe e la noce moscata, restò alla base per secoli del gusto occidentale. L'incontro con la cultura araba, se da un lato rap­ presenta una fattore di continuità nell'uso delle spezie di cui era ricca, dall'al­ tro promosse una versione più delicata della cucina, con l'introduzione dello zucchero di canna, considerato anch'esso una spezia, da abbinare al miele. Le rotte orientali aperte dai nuovi traffici e dalle Crociate misero i mercanti, so­ prattutto veneziani e genovesi, in grado di rispondere alla domanda di consu­ mo sempre maggiore che proveniva dai ceti più abbienti, curiosi di nuovi pro­ fumi e inediti sapori. Così, se papa Innocenzo III agli inizi del Duecento sca-

gliava il suo anatema contro il vizio della gola, che spingeva gli uomini a desi­ derare cibi sempre più raffinati ed esotici, le derrate preziose comparvero an­ che nei libri di mercatura, com'è quello in cui Francesco Balducci Pegolotti annotava a metà Trecento una gamma assai varia di zucchero trattato, in pani, in polvere, candito, raffinato, alle essenze di rosa e di viola. Qualche tempo dopo, Cristoforo da Messisbugo, vissuto alla corte di Ferrara, prevedeva che se ne potesse adattare l'impiego in base alla condizione sociale dell'anfitrione e un «gentil'huomo mezzano che facesse il convito, potrebbe egli fare col terzo de' zuccari e spezierie, e ancora colla metà» (Banchetti, compositione di vivande e apparecchio generale, 1549). La tendenza verso il dolce veniva dunque perce­ pita come un privilegio di classe, mentre il gusto agro attraversava la cucina di tutti i ceti sociali, come testimonia Gentile Sermini, che in una canzone auspi­ ca che «il villano non gusti il dolce, ma sì l'agro; ma come rustico è, rustico stia» (Novelle, xxx). La tassonomia umorale di origine ippocratica, fissata nel Regimen Sanitatis Salernitanum (x1 -x1 1 secolo), era riproposta senza varianti nel De honesta vo­ luptate et valetudine (1473-75), il primo trattato sull'alimentazione del Rinasci­ mento. Il suo autore, Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, dichiarava che lo zucchero, alimento caldo e umido, dispiega le sue virtù soprattutto sul sistema digestivo e su quello respiratorio. Come tutte le altre spezie infatti il "calore" aiutava quello naturale dello stomaco, favorendo una rapida ed efficace assi­ milazione dei cibi; l'alimento, aggiungeva il Platina, muovendosi diremmo tra pentole e provette, schiariva la vista ed era utile in cucina «per dar gusto a tut­ te le vivande». Che zucchero