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Italian Pages 258 [260] Year 2023
B I B L I O T E C A / C I N E M A , M E D I A E S T U D I C U LT U R A L I
M E LT E M I
ANDREA INZERILLO (EDITED BY) ATLAS OF CONTEMPORARY QUEER CINEMA
ANDREA INZERILLO (A CURA DI) ATLANTE DEL CINEMA QUEER CONTEMPORANEO
ANDREA INZERILLO (A CURA DI)
ATLANTE DEL CINEMA QUEER CONTEMPORANEO
Interprete di pensieri e modalità esistenziali non omologate, il cinema queer contemporaneo riparte dal desiderio e rielabora le tematiche LGBTQI+ con modalità linguistiche e discorsive inedite, innovando estetiche e sensibilità e inaugurando una cornice all’interno della quale liberarsi delle etichette. In occasione dei dieci anni dalla nascita del Sicilia Queer filmfest, il volume curato da Andrea Inzerillo mappa per la prima volta in una ricerca di ampio respiro il cinema queer europeo dal 2000 al 2020, proponendosi come un racconto originale e prezioso di un segmento importante della cinematografia del nuovo millennio. Andrea Inzerillo è direttore artistico del Sicilia Queer filmfest. Ha tradotto e curato l’edizione italiana di opere di Michel Foucault, Jacques Rancière, Gilles Lipovetsky, Pierre Bayard, Madame de Staël, Douglas Sirk. Docente di storia e filosofia nei licei, ha un assegno di ricerca in Cinema presso l’Università degli Studi di Palermo.
EUROPA 2000-2020
MELTEMI www.meltemieditore.it
EUROPE 2000-2020
ATLAS OF CONTEMPORARY QUEER CINEMA (EDITED BY)
ANDREA INZERILLO M E LT E M I
B I B L I O T E C A / C I N E M A , M E D I A E S T U D I C U LT U R A L I
26,00 euro
ISBN 978-88-5519-678-9
9 788855 196789
Andrea Inzerillo is the artistic director of Sicilia Queer filmfest. He has translated and edited the Italian edition of works by Michel Foucault, Jacques Rancière, Gilles Lipovetsky, Pierre Bayard, Madame de Staël, Douglas Sirk. He is a teacher of history and philosophy in high schools, and is currently post-doctoral research fellow in Cinema at the University of Palermo. As an interpreter of non-homologated existential thoughts and modalities, contemporary queer cinema restarts from desire and reworks LGBTQI+ issues with new linguistic and discursive modalities. It innovates aesthetics and sensibilities in order to promote a new framework within which feeling free from labels. Marking the occasion of the tenth anniversary of Sicilia Queer filmfest, the volume edited by Andrea Inzerillo maps European queer cinema from 2000 to 2020 for the first time in a wide-ranging research, presenting itself as an original and valuable account of an important segment of the new millennium cinematography.
Biblioteca / Cinema, media e studi culturali 7
Direzione Marco Dalla Gassa (Università Ca’ Foscari Venezia), Federico Zecca (Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”) Comitato di direzione Giuliana Benvenuti (Alma Mater Studiorum – Università di Bologna), Claudio Bisoni (Alma Mater Studiorum – Università di Bologna), Cristina Demaria (Alma Mater Studiorum – Università di Bologna), Ilaria De Pascalis (Università Roma Tre), Mauro Giori (Università degli Studi di Milano), Toshio Miyake (Università Ca’ Foscari Venezia), Catherine O’Rawe (University of Bristol), Maria Paola Pierini (Università degli Studi di Torino), Massimo Scaglioni (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano), Alberto Scandola (Università degli Studi di Verona), Deborah Toschi (Università degli Studi di Pavia), Nicoletta Vallorani (Università degli Studi di Milano), Federico Vitella (Università degli Studi di Messina) Comitato scientifico Luca Caminati (Concordia University), Giulia Carluccio (Università degli Studi di Torino), Iain Chambers (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”), Fausto Colombo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano), Maria Pia Comand (Università degli Studi di Udine), Maria Grazia Fanchi (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano), Luisella Farinotti (Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM), Massimo Fusillo (Università dell’Aquila), Paolo Jedlowski (Università della Calabria), Giacomo Manzoli (Alma Mater Studiorum – Università di Bologna), Andrea Minuz (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”), Jacqueline Reich (Fordham University, New York), Tiziana Terranova (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”), Roberta Sassatelli (Università degli Studi di Milano), Tomaso Subini (Università degli Studi di Milano), Daniela Treveri Gennari (Oxford Brookes University), Christian Uva (Università Roma Tre), Federica Villa (Università degli Studi di Pavia) Redazione Allegra Bell (Università Roma Tre), Francesco D’Asero (Università Roma Tre), Valerio Fiume (Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”), Andrea Gelardi (Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”), Dianora Hollmann (Università Ca’ Foscari Venezia), Gabriele Landrini (Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”), Angela Bianca Saponari (Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”), Giulio Tosi (Alma Mater Studiorum – Università di Bologna) La collana adotta la politica del referaggio in chiaro a opera di due revisori che appartengono al comitato scientifico o che sono stati individuati tra esperti esterni alla redazione
Atlante del cinema queer contemporaneo Europa 2000-2020
A cura di Andrea Inzerillo
MELTEMI
Con il contributo del Forum Austriaco di Cultura e del Goethe-Institut Palermo
Meltemi editore www.meltemieditore.it [email protected] Collana: Biblioteca / Cinema, media e studi culturali, n. 7 Isbn: 9788855196789 © 2023 – meltemi press srl Sede legale: via Ruggero Boscovich, 31 – 20124 Milano Sede operativa: piazza Don Enrico Mapelli, 75 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 22471892 L’editore resta disponibile ad assolvere le proprie obbligazioni riguardo alle immagini presenti nel testo avendo effettuato, senza successo, tutte le ricerche necessarie al fine di identificare gli aventi titolo. Per maggiori informazioni, si rimanda alle Photo Courtesy. In copertina: © Lilith Kraxner, Milena Czernovsky, BEATRIX (2021). Finito di stampare nel mese di aprile 2023 da Digital Team – Fano (Pu)
Indice
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Introduzione Andrea Inzerillo
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Corpi queer, film queer in Portogallo António Fernando Cascais
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Rise and a Phoenix. Queer Film Austria Dietmar Schwärzler
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La Greek Weird Wave: una lettura queer Marios Psaras
111 Ritorno al futuro: il cinema queer tedesco dal 2000 Jan Künemund, Skadi Loist 153 Queer Relay nel cinema britannico post-millennial Cüneyt Çakirlar, Gary Needham 187 Qualcosa di inafferrabile. L’orizzonte queer nel cinema spagnolo Nuria Cubas 215 Cinema gay o cinema queer? Il doppio gioco del cinema francese Didier Roth-Bettoni
235 Dove sono le immagini? Alla ricerca di un cinema queer italiano Pier Maria Bocchi 253 Biografie
Introduzione
Andrea Inzerillo
Offrire un proprio contributo alla categorizzazione critica, alla concettualizzazione teorica o alla costruzione di una o più storie del cinema non è certamente lo scopo principale dei festival cinematografici – o se non altro di ciò che ordinariamente i festival cinematografici credono di dovere o poter rappresentare. Che i festival possano tuttavia percepirsi come attori significativi di una costellazione assai più ampia e che la loro azione sia parte costitutiva dell’elaborazione culturale dell’arte cinematografica è cosa certo difficile da mettere in dubbio, sotto pena di non comprendere ciò che i festival che si ritengono tali – e cioè quelli che portano avanti una ricerca e offrono nella loro programmazione una lettura critica del cinema, e non un semplice catalogo di prodotti audiovisivi – siano oggi in profondità, dietro immagini di superficie apparentemente più leggere. Le ragioni dell’una e dell’altra cosa sono molteplici: se certamente da un lato pesa un sistema di finanziamenti che (almeno in Italia e fin nelle sue destinazioni amministrative più periferiche) tende a privilegiare la promozione turistica alla programmazione culturale, pensando e sostenendo le manifestazioni di fruizione cinematografica essenzialmente come strumento finalizzato a promuovere un territorio e incoraggiarne la frequentazione, dall’altro c’è il fatto che la progressiva trasformazione dei luoghi di fruizione del cinema, la rarefazione delle sale nelle città, l’omologazione
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Andrea Inzerillo
della distribuzione tradizionale e naturalmente il mutamento delle abitudini di visione di chi ancora vuole accordare tempo e attenzione ai film fanno sì che oggi festival sempre più diffusi nel territorio rappresentino di fatto un circuito di visione e di distribuzione alternativo e capillare che è parte integrante dell’industria cinematografica. E che è anche, talvolta e forse meno occasionalmente di quanto si possa ritenere, un luogo cruciale per la riflessione e l’indagine su ciò che il cinema è o va diventando nella contemporaneità. Nella loro dimensione evenemenziale – più o meno gioiosamente assecondata o sopportata – i festival cinematografici possono essere luoghi anomali di sospensione del tempo ordinario e di consumo, e hanno la capacità di costruirsi come luoghi di approfondimento (di incontro, di conoscenza e di relazioni autentiche) che guardano ben al di là dell’evento stesso. Potrebbe sembrare paradossale (e certo è raro) ma accade, e forse tutte le persone che per una ragione o per un’altra si trovano coinvolte nella concezione e nella costruzione di manifestazioni di questo tipo possono testimoniare di essersi considerate parte di questo meccanismo già da prima, sin da quando qualcosa che avevano avvertito nella semplice fruizione da spettatori è stata in grado di generare nelle loro esistenze meccanismi in qualche modo irreversibili. Questo libro nasce da un evento (la decima edizione di un festival, prevista per la fine di maggio del 2020); da un impedimento (l’impossibilità di svolgerlo come previsto, per cause imprevedibili come lo scoppio di una pandemia); da un progetto (quello del Sicilia Queer filmfest e della piccola comunità che gli dà vita) e da un desiderio: offrire un contributo più lento e ragionato su una trasformazione che stiamo attraversando. L’oggetto d’analisi è dunque il cinema contemporaneo, e in particolare i primi vent’anni del nuovo millennio. La prospettiva adottata è quella di uno sguardo orientato, innanzitutto geograficamente (l’Europa occidentale), per una ragione che è nello stesso tempo pratica e teorica: sulla cinematografia europea si è principalmente concentrato lo sguardo del nostro festival nei primi dieci anni della sua
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esistenza; per motivi contingenti, certo, ma anche per il fatto che l’offerta e la diversità del cinema europeo sembrava sufficientemente stimolante e nutriva una programmazione ogni anno ricca e diversificata. Tanto da metterci dinanzi a una domanda: è possibile ipotizzare che se gli anni Ottanta e Novanta sono stati (per ragioni storiche e politiche ben precise) i due decenni di un cinema queer nord-americano – a partire dalla proposta avanzata nel 1992 dal celebre saggio di B. Ruby Rich sul New Queer Cinema, che in qualche modo codificava una serie di movimenti nel cinema e permetteva di offrirne una cornice teorica, per quanto aperta – è possibile ipotizzare, dicevamo, che i decenni immediatamente successivi, dal Duemila in poi, abbiano visto emergere un cinema queer tutto europeo? La domanda accompagnava il nostro lavoro di programmazione e risultava stimolante da un punto di vista teorico. Se da un certo punto di vista era certamente possibile rispondere affermativamente, ecco sorgere immediatamente altre domande connesse alla prima: di che cinema si è trattato dunque? E che cosa ha significato, di volta in volta, ridefinire il concetto stesso di queer al cinema per autori, autrici, persone che si occupano di studiare e commentare il cinema nel suo farsi, spettatori e spettatrici? A partire da questa ed altre serie di domande – consapevoli della parzialità dello sguardo e senza alcuna pretesa di preminenza territoriale, ma desiderosi di alimentare una curiosità che eccede la nostra piccola realtà – ci è venuta voglia di chiedere a una serie di persone che nel corso di questi anni sono entrate in relazione con il Sicilia Queer di aiutarci a costruire innanzitutto una mappa: un movimento preliminare a qualsiasi tentativo di teoria più articolata. Muovendoci nell’ambito di un cinema che per lungo tempo e spesso ancora oggi si muove ai margini dell’industria tradizionale, abbiamo voluto chiedere a persone provenienti e operanti da/in otto paesi diversi dell’Europa dell’ovest di offrire il loro sguardo sulla cinematografia queer del Paese in cui vivono, nella certezza di poter così mettere in comune alcuni riferimenti non necessariamente noti ai più. Una
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mappa, dunque, ma anche un catalogo ragionato: di titoli, di nomi, di discorsi emersi in questi venti anni. E dall’analisi di questi nomi e titoli provare a far emergere delle storie, otto piccole storie del cinema europeo contemporaneo sotto la lente d’ingrandimento di quello che è… un genere? una forma? una pratica? che va sotto il nome di cinema queer. Non c’è bisogno di sottolineare come ogni storia rappresenti un punto di vista, e per quanto informata e argomentata nasconda sempre dietro di sé molteplici altre storie possibili, tutte da scrivere. Ma il tentativo programmatico di questo libro è stato quello di coinvolgere e sentire il parere di specialiste e specialisti di formazione, professione e background diversi – soprattutto per il fatto che ognuno di loro è stato un incontro significativo per la vita del Sicilia Queer, che deve a ciascuno di essi, per ragioni diverse, un pezzo della sua crescita. Critici cinematografici, programmer, distributori, studiosi e accademici (anche nascosti in questa sede dietro il ruolo di traduttrici e traduttori): questi, in breve, i loro profili. Ciò che ci accomuna tutti è una domanda sul cinema e un interesse specifico verso ciò che si definisce, in maniera non univoca né pacifica, cinema queer, al cui approfondimento questo libro prova a fornire un ulteriore contributo. Perché se è vero che il lavoro di programmazione di un festival è già un’operazione teorica e critica – ne siamo convinti –, offrire uno spazio ulteriore alla condivisione di saperi ci sembra un elemento imprescindibile dell’attività di politica culturale di un festival che provi a prendere sul serio il proprio lavoro. D’altra parte, questo libro nasce anche dall’osservazione e dall’imitazione: in occasione del suo diciottesimo compleanno, il festival Queer Lisboa ha realizzato un libro fondamentale per chiunque sia interessato a conoscere nel profondo il cinema e la cultura queer portoghese, e volevamo che in occasione del suo decimo compleanno il Sicilia Queer provasse a farsi e a fare questo regalo, imitando lo spirito di uno dei festival che più abbiamo imparato ad assumere come punto di riferimento. Chi avrà modo di leggere tutto il libro troverà dei riferimenti comuni ai vari saggi (Butler, Muñoz, Preciado, ma anche Mie-
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li, Kosofsky Sedgwick, De Lauretis): essi rappresentano una parte significativa della costellazione teorica e filosofica attorno alla quale il cinema queer si è strutturato in questi anni, più o meno consapevolmente. L’emergere costante di riferimenti simili rappresenta un ulteriore invito all’approfondimento – e anche per questo ogni saggio presenta in conclusione una bibliografia essenziale. Abbiamo inoltre aggiunto alla fine di ogni capitolo una filmografia delle opere citate, indicando con un punto elenco se e quando il film è stato presentato al Sicilia Queer. È potenzialmente un altro modo per ripercorrere a partire dai singoli film alcune possibili storie di questi vent’anni di cinema europeo – e anche un rapido test per verificare quanta familiarità avrà chi legge con alcuni dei nomi e dei titoli che vedremo essere tenuti in grande o scarsa considerazione dagli autori e dalle autrici dei vari saggi. Era la nostra scommessa iniziale: chiedendo a chi scriveva di considerare quali film il Sicilia Queer avesse presentato nel corso di questi anni di trasformazione nel cinema contemporaneo, volevamo renderci conto soprattutto delle mancanze e di quello che avremmo potuto e forse dovuto tenere in considerazione; allo stesso modo, le filmografie costruite all’interno dei cataloghi del festival – disponibili gratuitamente online e in molte biblioteche pubbliche, non solo italiane – e gli altri contributi teorici e di analisi delle varie sezioni del festival (dalla Carte postale à Serge Daney alle Retrovie italiane passando per le Eterotopie e le incursioni nelle arti visive e nelle letterature queer, oltre alle figure cui è stato assegnato sin dalla prima edizione del festival il Premio Nino Gennaro) potranno servire come ulteriore complemento di ciò che segue per chi dovesse stupirsi del fatto che, ad esempio, tra gli autori citati per il cinema italiano non si faccia cenno ai film del collettivo Canecapovolto o a quelli di Adele Tulli, o che per il cinema francese non si menzionino registe come Catherine Corsini, Marie-Claude Treilhou o il contestatissimo Abdellatif Kechiche, e così via. A ulteriore riprova della grande vivacità del cinema di cui qui è questione, la cui ricchezza è tutta da esplorare e sulla quale molte persone in tutto il mondo continuano a ragionare.
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Con questo progetto collettivo intendiamo ringraziare tutte le persone che hanno dato vita, sin dal 2010, all’esperienza del Sicilia Queer filmfest; a tutte le istituzioni, pubbliche e private, singole e collettive, che lo hanno sostenuto; a tutti gli spettatori e le spettatrici che hanno condiviso all’interno di questo spazio riflessioni, tempo ed emozioni; a tutte le persone che grazie al festival si sono conosciute e continuano a farlo, provando ad abbattere barriere e pregiudizi, a guardare non solo a sé stesse, a lottare per rivendicare spazi e diritti per tutte e tutti, a pensare – alla ragione il pessimismo, alla volontà un difficile e non meno pertinace ottimismo – alla costruzione del futuro: nonostante tutto.
Corpi queer, film queer in Portogallo António Fernando Cascais Traduzione di Francesco Caruso
Un corpo queer è un corpo che r-esiste. È un corpo perché si materializza come una presenza corporea, narrativa, organica, meccanica. È queer perché produce e plasma sé stesso attraverso pratiche artistiche, tecniche e politiche che disarticolano il legame tra il suo sesso biologico, la sua performance sociale di genere e la sua soggettività sessuale. Il corpo r-esiste perché fa uso di queste risorse per contrastare un’identità autocostruita contro quella imposta dall’eteronormatività, un ideale regolatorio che la riduce ad abiezione, stereotipo, stigma e abuso e che la definisce “identità svantaggiata”. Il New Queer Cinema ha avuto un ruolo particolarmente rilevante nel dare risalto a concetti come “tecnologie del sé” (Foucault 1988) o “tecnologie del genere” (de Lauretis 1987), illuminando il modo in cui i corpi queer vengono rifatti, ricostruiti, ricomposti e risoggettivizzati nella loro lotta per la sopravvivenza in un mondo in cui la loro esistenza è possibile solo come r-esistenza, e le loro vite diventano degne di lutto, superando la loro precarietà costitutiva, per usare la terminologia di Judith Butler (2014). In effetti, il cinema queer è una di quelle tecnologie in cui tecnologia non è un mero sistema operativo ma, piuttosto, una tecnica semiotica, una lente cognitiva per l’interpretazione di quelle pratiche discorsive e non-discorsive (visuali, filmiche, drammaturgiche, etc.) attraverso cui i corpi queer vengono risoggettivizzati.
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Ciò significa essere un corpo, piuttosto che avere un corpo. Il corpo non può essere ridotto a un’entità fisica avvolta nella pelle, che pre-esiste come luogo di resistenza alle tecniche e ai linguaggi, qualcosa che (non) sussiste da solo ai fini della mera resistenza: piuttosto, è lo spazio per l’incorporazione e l’iscrizione di quelle tecniche e quei linguaggi, che r-esiste nel momento in cui diventa un corpo. L’ostacolo alle relazioni di potere e conoscenza che avvolgono e intrappolano il corpo non si trova nella sua irriducibile e primaria materialità ma, piuttosto, nella sua materializzazione attraverso quelle relazioni, come un’amorfa materia prima aperta alla trasformazione. È il principio sorgente generativo che i Greci definiscono “ricettacolo” (hypodoche) delle trasformazioni, la chora platonica che la tradizione occidentale sembra aver dimenticato e di cui Butler fornisce l’anamnesi: Questo ricettacolo/nutrice non è una metafora che si basa sulla somiglianza a una forma umana, ma una deturpazione che emerge ai confini dell’umano sia come sua condizione necessaria sia come minaccia insistente della sua deformazione. Non può prendere una forma, una morphe, e dunque, non può essere un corpo (Butler 1996, p. 47).
Come in una biologia casualmente abbinata a un genere, necessariamente articolata a una sessualità, potremmo aggiungere. Questa sequenza casuale non è un dato essenziale di natura ma, piuttosto, un costrutto normativo, un ideale regolativo che ha naturalizzato l’artificio attraverso cui il corpo si è prodotto come tale: come un’entità scissa dall’opposizione binaria tra sessi, uno esclusivamente maschile, l’altro esclusivamente femminile, e polarizzata da due sessualità mutualmente escludentisi, l’eterosessualità e l’omosessualità. Un corpo non è un’articolazione coesa di organi e delle loro relative funzioni, non è un organismo di per sé funzionale, quanto piuttosto ciò che Deleuze e Guattari chiamano “corpo senza organi”: “Essere una proprietà di tutti gli organi significa essere una proprietà che non è necessaria ad alcun organo, una proprietà definita dalla sua stessa plasticità, tra-
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sferibilità ed espropriabilità” (ivi, p. 61, corsivo nell’originale). La disarticolazione critica e creativa che ricostruisce le relazioni tra organi è la performatività queer. Ispirata agli scritti di Judith Butler, e ancor di più a quelli di Eve Kosofsky Sedgwick (2003), questa è la prima categoria interpretativa che abbiamo applicato all’analisi dei film portoghesi che possono essere definiti, in senso lato, “queer”. La nostra seconda categoria interpretativa è la “controsessualità” teorizzata da Paul Preciado, anch’essa basata su un programma di libertà morfologica che si fonda sulla premessa che la storia della sessualità ha subìto uno spostamento dall’interno della storia naturale della riproduzione alla storia artificiale della produzione: La controsessualità non è la creazione di una nuova natura, ma piuttosto la fine della natura in quanto ordine che legittima l’assoggettamento di alcuni corpi ad altri corpi. Primo punto: la controsessualità è un’analisi critica della differenza di genere e di sesso prodotta dal contratto sociale eterocentrico, le cui performance normative sono state inscritte nei corpi come verità biologiche […] Questa nuova società prende il nome di società “controsessuale” per almeno due ragioni. La prima è in negativo: la società controsessuale si dedica alla decostruzione sistematica della naturalizzazione delle pratiche sessuali e del sistema dei generi. La società controsessuale è quindi una società destitutiva. La seconda è in positivo: la società controsessuale proclama l’equivalenza (non l’uguaglianza) di tutti i corpi viventi vincolati dalle clausole del contratto controsessuale e rivolti alla ricerca del piacere e del sapere. La società controsessuale è un’assemblea costitutiva di una infinita molteplicità di corpi singolari (Preciado 2019, pp. 30-31 passim).
Il nostro è un progetto di analisi comparativa il cui punto di partenza è l’identificazione, dal punto di vista della performatività queer e della controsessualità, dei corpi materializzati dalle pratiche cinematografiche portoghesi. Il cinema queer in Portogallo è emerso ben prima del XXI secolo. Tuttavia, i cortometraggi dei registi João Paulo Ferreira e Óscar Alves, risalenti alla seconda metà degli anni
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Settanta, sono stati presto dimenticati, per essere fortunatamente salvati dall’oblio dal Queer Lisboa – Festival de Cinema Queer de Lisboa. Tra il 1975 e il 1978, i film di questi due registi riecheggiavano una certa sottocultura gay prodotta al tempo dello stanziamento di soldati portoghesi nelle guerre coloniali in Angola, Mozambico e Guinea Bissau tra il 1961 e il 1974 e che fiorì a Lisbona negli ultimi anni della dittatura dell’Estado Novo, in seguito al relativo alleggerimento delle leggi contro l’omosessualità. All’indomani della rivoluzione democratica del 25 aprile 1974, quella sottocultura poté esprimersi apertamente, per poi essere bollata dalla cultura politica dominante come decadente, borghese e dissociata dal processo rivoluzionario, accuse che ne causarono il declino. Questi film sono una tipica espressione della sottocultura associata a ciò che a quel tempo venne definito un “ghetto gay” e allo stile di vita che esso rendeva possibile e proteggeva, ma sono anche molto più. Óscar Alves, nei suoi film O Charme indiscreto de Epifânea Sacadura (1975), scritto insieme a João Paulo Ferreira, e Aventuras e desventuras de Julieta pipi, ou O processo intrínseco global kafkiano de uma vedeta não analisada por Freud (1978) e João Paulo Ferreira in Goodbye Chicago (1978) mettono in scena la classica storia della diva del cinema al tramonto ormai diventata la caricatura di sé stessa. Questi film lasciano spazio alla politicizzazione culminata nella spietata satira en travesti delle apparizioni della Vergine Maria a Fátima dal titolo Fatucha Superstar (1976) di João Paulo Ferreira. Altri due titoli, Solidão povoada (1976), diretto da Óscar Alves e co-sceneggiato da João Paulo Ferreira e Os demónios da liberdade (1976), diretto da quest’ultimo, sono magistrali ricostruzioni dell’ambiente portoghese in cui l’omosessualità è nascosta, un ambiente che è parte di una cultura sociale in cui per lo più essa non è dichiarata, che scoraggia l’affermazione pubblica delle proprie convinzioni optando per una quieta risoluzione dei conflitti e che ha, tra le sue conseguenze maggiori, la negazione dell’omofobia, che viene minimizzata, rigettata o razionalizzata. Queste pellicole, tuttavia, ritraggono anche i processi di coming out,
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un’affermazione privata e pubblica che mette alla prova i limiti della tolleranza. Infine, la prima immagine registrata di intimità sessuale tra due uomini, e la nudità di uno di loro come fantasia dell’altro, sono un manifesto contro la violenza simbolica che impone a un gruppo o a una persona una rappresentazione di sé diversa dalla propria. La morte prematura di João Paulo Ferreira può spiegare perché altri film di cui sono noti i titoli – Ruínas (1978), Tempo vazio (1982), A queda, A última guerra, Crónica de um caso vulgar, Sessão final e Trauma – non sono presenti in alcun archivio portoghese, sebbene siano stati rintracciati all’estero, dove l’autore ha vissuto per qualche tempo. Passarono diversi anni, finché si affermò quello che può essere considerato il corrispettivo portoghese di quello che divenne noto come New Queer Cinema tra gli anni Novanta e gli anni Duemila. I registi João Pedro Rodrigues, João Rui Guerra da Mata e Joaquim Pinto furono i primi ad acquisire una certa fama, seguiti da Gabriel Abrantes, António da Silva, Carlos Conceição, Vicente Alves do Ó, Raquel Freire e da diverse figure meno note. Ci sono anche artisti che hanno prodotto lavori di cinema artistico, inclusi cortometraggi, film sperimentali e video, nonché performance o opere di arte visiva, ma anche teatro o letteratura, come ad esempio João Pedro Vale e Nuno Alexandre Ferreira, Miguel Bonneville e Vasco Araújo. Sono da segnalare, inoltre, alcuni film di registi estranei alla cultura queer, che hanno affrontato temi e argomenti queer da una prospettiva non eteronormativa, come Paulo Rocha, Joaquim Leitão, Luís Filipe Rocha, José Álvaro Morais. Parabéns! (1997) annuncia, in modo relativamente discreto, il debutto del regista João Pedro Rodrigues. Dopo aver trascorso la notte con un partner più giovane, un uomo (João Rui Guerra da Mata) ascolta gli auguri di compleanno registrati dalla sua ragazza nella segreteria telefonica: è un ritorno al ricorrente tema nazionale dell’omosessualità nascosta, qui trattato in modo raffinato e infine fatto implodere. L’acuto ritratto di Rodrigues dimostra la sua padronanza del soggetto e della
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António Fernando Cascais
sua rappresentazione, nella distruzione di qualcosa che non può che essergli estremamente familiare. La difficoltà intrinseca del suo O fantasma (2000) non sta nella linearità narrativa che descrive la vera e propria carriera di libertino di un netturbino di Lisbona, gradualmente ma radicalmente trasformato dalla sua ossessione sessuale in un essere (il “fantasma”) che finisce ad abitare in una discarica, quanto piuttosto nell’intreccio tra la metamorfosi, con il suo eterno bagaglio mitologico, e il desiderio omosessuale, nel suo aspetto moderno e profondamente problematico. Inoltre, il processo di ri-soggettivazione del protagonista, con la messa in discussione della sua umanità e della sua esclusione sociale, il suo diventare altro mediante animalità e abiezione, il gioco di dominazione e sottomissione attraverso la post-pornografia e il feticismo ipersessualizzato con la violenza dell’omicidio wildiano dell’amato, sono tutti elementi che spiegano perché Rodrigues non avrebbe potuto optare per l’eteronormatività convenzionale di una toccante storia boy-meets-boy. Che questo non sia mai stato il suo intento lo dimostrano le sue prove successive. Odete (2005) e ancor di più Morrer como um homem (2009) – una tragica biografia romanzata di Ruth Bryden (interpretata da Joaquim Centúrio de Almeida), una stella della scena drag portoghese, morta lo stesso giorno del più giovane fidanzato tossicodipendente – insieme mantengono e desessualizzano l’estrema intensità della passione per l’opera. Rodrigues ha confermato il suo talento di regista dell’universo maschile in Manhã de Santo António (2012), O corpo de Afonso (2013) e Fogo-Fátuo (2022). Nel primo, il corpo maschile diventa la chiave per un’interpretazione biopolitica della zombificata gioventù portoghese che si aggira per le strade vuote di Lisbona all’indomani della grande festa del patrono. Nel secondo, giovani culturisti portoghesi e galiziani seminudi declamano testi su Afonso Enrico, primo re del Portogallo, rivisitando così la memoria storica e mitica del Paese. L’ultimo è invece il lavoro più recente di Rodrigues, una commedia musicale che parodizza un immaginario principe ereditario portoghese fattosi pompiere e che intrattiene una focosa relazione con un collega di etnia mista.
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Rodrigues e Guerra da Mata (che sono partner nella vita) ci propongono processi più o meno intensi di trasformazione identitaria, o vere e proprie metamorfosi, durante i quali i protagonisti subiscono mutazioni talvolta radicali, sullo sfondo di un dislocamento spaziale che gioca un ruolo attivo e strumentale in queste trasformazioni. Il legame fondamentale tra questi cambiamenti e gli spazi si articola attraverso la concreta corporeità dei personaggi. Potremmo definire questa operazione di Rodrigues e Mata come una spazializzazione dei processi di (ri)soggettivazione. Nel mostrare le varie modalità di smontaggio e frammentazione del sé, il loro cinema preferisce ricorrere ad allegorie mitico-culturali (prima fra tutte la metamorfosi), piuttosto che alla performatività queer, di cui non sottoscrivono l’agenda. João Ferreira osserva che: Se si prendono in considerazione il cinema gay nelle sue varie espressioni, l’affermazione della sessualità e la sua validazione […] [si può dire che] i suoi film non sono nati nel canone ma che il canone se n’è appropriato […] Non si tratta di politiche identitarie, ma esclusivamente di politiche del desiderio. Il desiderio omosessuale, ovviamente… ma non ci si ferma lì. In questa prospettiva, i film di Rodrigues scaturiscono più direttamente, almeno dal punto di vista concettuale, dalle basi del (N) ew (Q)ueer (C)inema, poste dai primi lavori di Gus Van Sant e Todd Haynes (Ferreira 2008, pp. 243-244).
In O fantasma, di cui sono state messe in luce le analogie con i film di Tsai Ming-liang (Bértolo 2020, pp. 146-152), Sérgio, un netturbino di Lisbona, viene presentato nella scena introduttiva del film come un insaziabile predatore sessuale che, in tuta aderente di lattice nero, stupra un altro uomo, nudo e ammanettato, mentre dall’altra parte della porta chiusa si sentono l’abbaiare furioso e i graffi di un dobermann. La scena rappresenta il punto finale del processo metamorfico del protagonista, poi esplorato con un flashback narrativo. Sérgio fa il turno di notte su un camion della nettezza urbana, per le strade di una Lisbona crepuscolare, labirintica e claustrofobica, un ambiente che allude
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chiaramente ai sotterranei dei locali sadomaso per soli uomini. Le numerose scene ambientate in un paesaggio urbano notturno, con un incessante abbaiare di cani sullo sfondo, esaltano l’atmosfera di violenta animalità e sfrenato desiderio sessuale che pervade il film. O fantasma non è un film muto, ma è sicuramente un film di poche parole, seppur con una eloquentissima prossemica, “ad esprimere l’impossibilità di comunicazione tra esseri umani, se non attraverso la fisicità pura” (Armone 2008, p. 248). La crescente abiezione nel suo divenire animale nel corso del film può essere letta come una metafora dell’abiezione totalizzante storicamente imposta sulla figura dell’omosessuale, progressivamente allontanato dall’interazione sociale dallo stigma e segnato da una macchia che avvolge tutto lo spazio e il tempo della sua esistenza all’interno della società eteronormativa. Anche Sérgio va alla ricerca di sesso nei luoghi pubblici, assumendo comportamenti sempre più avventati che lo portano a molestare esplicitamente i suoi colleghi negli spogliatoi. Nell’unico primo piano innegabilmente pornografico (o forse, si può dire, post-pornografico?) del film, senza precedenti nel cinema portoghese moderno, Sérgio costringe il suo partner occasionale a succhiargli il pene eretto in un bagno pubblico. Mentre è al lavoro, spia le persone che abitano nelle case in cui raccoglie i rifiuti. Alla fine incontra João, un giovane che diventa il bersaglio del suo desiderio ossessivo e la forza trainante del suo divenire animale, e lo segue furtivamente. A dispetto della sua ossessione, Sérgio continua anche ad avere rapporti sessuali occasionali, ma torna frettolosamente nella sua tana cavernosa, alle ossessioni che aborriscono la luce del giorno, in una chiara allusione alla metamorfosi notturna del lupo mannaro. La tuta di lattice simboleggia ovviamente la muta della pelle, il cambiamento dello status ontologico del protagonista, che finisce per vagare nella discarica ai margini della città, lontano da ogni contatto umano, dopo lo stupro su João, il cui rifiuto di arrendersi non simboleggia solo il rifiuto di João ma un rifiuto più generale, della società considerata come un tutto.
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Fig. 1. Odete, João Pedro Rodrigues.
Come in O fantasma, anche in Odete Lisbona svolge un ruolo attivo nella trama del film. La sera del loro primo anniversario, Rui e Pedro si salutano, il secondo torna a casa, mentre il primo si reca al lavoro notturno nella zona dei locali gay di Príncipe Real. Poco dopo, però, Pedro muore tra le braccia di Rui in seguito a un incidente stradale: “Individuare questo momento come fulcro della metamorfosi di Pedro nel film permette di vedere la maggiore complessità del suo passaggio rituale da vivo a morto” (Bértolo 2019, p. 153). Al cimitero, uno spazio non-profano che serve da punto di accesso rituale tra gli universi della vita e della morte, vicino la tomba di Pedro, Rui incontra Odete, una ragazza presa da un’eccentrica forma di lutto: ossessionata dall’idea di avere un bambino, che il suo ragazzo si rifiuta di concepire, si dimena disperatamente sulla tomba di Pedro, urlandone il nome nell’evidente tentativo di farsi ingravidare da una presenza che non è più, da una vita che non vive più, per poi comunicare al fidanzato e a Rui di essere incinta di Pedro. In Odete lo spazio della trasformazione è il corpo della protagonista: nel corso della sua gravidanza diventa sempre più mascolina, nel suo modo di vestire, nel portare i capelli corti e nell’assenza di
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trucco. Il film “si inquadra come una di quelle imprese etiche e filosofiche che descrivono l’esperienza del minoritario e allo stesso tempo pongono la questione delle norme sessuali e di genere” (Curopos 2016, p. 50), e che “si inscrivono radicalmente nell’etica queer che rifiuta di incasellare il corpo in una delle categorie identitarie normative” (ivi, p. 51). Un omicidio apre Morrer como um homem. Durante le esercitazioni militari notturne, il giovane soldato Zé Maria, figlio di Tónia, un attempato travestito sieropositivo, spara a un commilitone con cui aveva avuto un rapporto sessuale. I due sono vicini alla casa di campagna della sofisticata e misteriosa Maria Bakker, che trova il soldato morto e lo seppellisce nel suo giardino. Tónia, la cui esistenza ruota attorno alla vita notturna queer di Lisbona, ha relazioni burrascose con le sue colleghe travestite, Irene e Jenny, con il suo agente Teixeira, nonché con suo figlio e il suo compagno Rosário, coetaneo di Zé Maria. Divisa tra la sua profonda fede religiosa – che la dissuade dal sottoporsi all’intervento chirurgico di riassegnazione del sesso – e il suo desiderio di compiacere Rosário, Tónia non è in grado di abbracciare un’autentica performatività queer per superare il binarismo di genere e la vergogna costitutiva che esso comporta, secondo la teoria critica di Eve Kosofsky Sedgwick. D’altra parte, questa difficoltà di essere è quasi una costante dei personaggi di Rodrigues e da Mata. Nel tentativo di sfuggire a un ambiente soffocante, Tónia e Rosário intraprendono un viaggio in macchina e si perdono nel bosco intorno alla casa di Maria Bakker, che li accoglie. Questo luogo è rappresentato come uno spazio labirintico: conduce tutti i personaggi, inconsapevoli del loro destino, allo stesso punto, sviandoli a loro insaputa e senza che abbiano il controllo della situazione. In presenza di Bakker, che intrattiene una schiera di ospiti cosmopoliti e colti, Rosário si sente estremamente a disagio e si ritira verso quello che sarà il suo capezzale, dichiarando in anticipo di voler morire come un uomo ed essere sepolta in abiti maschili. O ornitólogo (2016) rivisita spazi simbolici un tempo occupati dalla religione: il rapporto tra l’uomo e la natura e il
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rapporto con sé stessi, il legame tra l’individuo e il proprio sé. En route verso gli habitat degli uccelli che intende osservare, Fernando non sa di star varcando una soglia antica quanto le mitologie occidentali, secondo cui la foresta (come il deserto per l’Oriente) è il luogo del soprannaturale, dove ogni meraviglia è possibile, come la metamorfosi. Tuttavia, il passaggio del confine tra il mondo umano e il bosco è segnalato da due eventi di cruciale valore simbolico e preannunciato dalla perdita di segnale del cellulare, che impedisce a Fernando di comunicare con la persona che gli ricorda regolarmente di prendere le medicine1. Questa vicenda introduce ancora una volta il tema dell’incomunicabilità tra le persone e, in senso più ampio, tra mondi. Il protagonista cade quindi nelle rapide di un fiume, che lo trascinano dall’altra parte, lasciandolo in balia di forze sovrumane. A questo primo episodio di transizione ne succede un altro, che avviene di notte mentre la fragile tenda di Fernando viene circondata da minacciosi caretos danzanti, uomini con le maschere tipiche della cultura popolare portoghese e galiziana che ricordano i fauni della mitologia. La macchina da presa indugia sulla forma itifallica della maschera di uno dei caretos. In una sequenza che scivola verso una dimensione onirica, Fernando viene svegliato da un giovane pastore sordomuto (di nuovo il tema dell’incomunicabilità) di nome Jesus, con cui interagisce a gesti e alla fine ha un rapporto sessuale. In una violenta lite scoppiata per il sospetto infondato di essere stato derubato, Fernando lo uccide, per poi mettersi a vagare in quello che sembra un antico eremo abbandonato – un luogo particolarmente simbolico, associato alla contemplazione purificatrice, alla privazione materiale e all’assenza di contatti umani. Fernando si mortifica bruciandosi la punta delle dita assassine con un ferro da stiro rovente e sembra così raggiungere una pacificazione con sé stesso, che esplicita sbarazzandosi di due oggetti altamente simbolici: la carta d’identità e le medi1 Secondo Roth-Bettoni, un’implicita minimizzazione dell’AIDS come malattia cronica e non mortale (Roth-Bettoni 2017, pp. 111-112).
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cine. Da un punto di vista biopolitico, la prima conferma formalmente la sua appartenenza alla comunità socio-politica, il bios, mentre la seconda lo tiene legato alla vita biologica, la zoe. Alla fine, in cerca di perdono, Fernando si imbatte nel corpo di Jesus e tocca la sua ferita mortale nello stesso modo in cui Cristo invitò l’apostolo Tommaso a toccare la ferita causata dalla lancia romana. Ma il giovane lo sorprende risorgendo davanti ai suoi occhi e, parlando ora chiaramente in galiziano, gli rivela di essere il careto con il naso itifallico, di chiamarsi Tomé (Tommaso) e di aver perso la vita giocando incautamente con un coltello insieme ai suoi compagni. A lui risponde non più Fernando, l’ornitologo, ma il regista stesso, João Pedro Rodrigues, un essere trasmutato che afferma di chiamarsi António, come il santo portoghese-italiano che predicava nella Padova medievale. Fernando/António/João Pedro Rodrigues sembra così pagare il prezzo di sangue per il suo crimine – “Guarda le mie dita: non sono più quell’uomo. E so che sono qui per riparare a quel torto” – ed esorta Tomé a credergli, come Cristo fece con l’apostolo omonimo, in un ribaltamento dei loro ruoli mitico-religiosi: “È inutile cercare di capire certe cose. Succedono, si crede così”. Redenti e riconciliati, con le dita amorevolmente intrecciate, João Pedro Rodrigues e Tomé intraprendono il viaggio verso la città dove Sant’Antonio aveva predicato. Con il cortometraggio O que arde cura (2012), João Rui Guerra da Mata confeziona la sua risposta a Parabéns!, in cui João Pedro Rodrigues incarna letteralmente la loro relazione, un amore che brucia come il grande incendio che nel 1988 distrusse un isolato storico del Chiado, nel cuore di Lisbona, qui utilizzato come sfondo. A última vez que vi Macau (2012) è il noir deliberatamente (trans)gendered del ciclo cinese dei due autori. Il ruolo principale è affidato alla bellezza perversa della drag queen Candy (Cindy Scrash, che si traveste anche nella vita), che appare solo nella scena iniziale e viene presto uccisa da una setta criminale; nella voce fuori campo, il regista Guerra da Mata riceve la richiesta di aiuto di Candy e torna a Macao, dove aveva vissuto felicemente in
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passato, ma non riesce a salvarla. Nel complesso, Rodrigues e Mata sono i registi queer portoghesi che hanno ricevuto la maggiore attenzione da parte della critica, sia in patria che all’estero (Duarte, Rosário 2022).
Fig. 2. E agora? Lembra-me, Joaquim Pinto.
La collaborazione tra Joaquim Pinto e Nuno Leonel ha dato vita a E agora? Lembra-me (2013), un oggetto penetrante, sublime e assolutamente originale nel nostro cinema, che ritrae le “opere e i giorni” di un uomo positivo all’HIV e all’HCV. Una gemma della storia dell’arte e del cinema portoghesi, quest’opera, che parla della devozione dell’amato partner del regista, del suo legame con i prodotti della terra, nonché del suo stesso cinema, permette a Pinto di mettersi al di sopra delle difficoltà causategli da una terapia sperimentale e di redimere la propria malattia insieme a una serie di patologie più tipicamente nazionali. Il regista offre il suo corpo come sacrificio a un amore che sboccia in un Libera me di dimensioni assolutamente bibliche e sorpassa e supera di molte spanne analoghi documentari autobiografici sul mercato internazionale. È ormai assodato da tempo che la pandemia di AIDS è stata determinante per l’ascesa del New Queer Cinema, al
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cui carattere, spesso distopico, inquietante e dirompente, ha contribuito in maniera decisiva, anche quando i film stessi non si concentrano apertamente sull’AIDS. Fin dall’inizio di E agora? Lembra-me, nel raccontare un anno di vicissitudini cliniche nella sua vita di uomo gay e malato di epatite B e AIDS affrontate in compagnia del marito Nuno Leonel e dei loro quattro cani, con i quali condivide una casa nella campagna portoghese, Joaquim Pinto schiude forzosamente, insieme alla propria privacy, la dimora di un dolore che abbraccia lo spettro di tutte le esperienze possibili. Chiaramente ispirata a figure di spicco come il regista, poeta e scrittore Pier Paolo Pasolini e al pensatore, attivista e regista Guy Hocquenghem (con cui Pinto ha stretto amicizia a Parigi), la schiettezza di Pinto è saldamente radicata in una posizione etica e politica sostenuta con coerenza, che informa il suo sguardo retrospettivo sulla “normalizzazione democratica” successiva agli anni infuocati della rivoluzione del 25 aprile 1974, che ha rovesciato la dittatura sostituendola con il processo di integrazione nella Comunità Europea. Per Pinto ciò ha comportato, in ultima analisi, l’emergere un nuovo sistema di conformismo politico, sociale e culturale travestito da democrazia, imprenditorialità e innovazione: Un altro granello di tempo e l’HIV e l’HBV diventeranno storia passata, dormienti nel genoma umano, mutati in altri virus meno letali o semplicemente debellati. Altri virus, che forse già covano, verranno a prendere il posto che si è liberato. Mi piacerebbe vedere in Darwin qualcosa di più della semplice eugenetica, in Freud qualcosa di più dell’ebreo errante, in Marx qualcosa di più della prospettiva di un aldilà di barbarie. Posso solo suggerirvi di non accettare riassunti, citazioni di citazioni (Pinto in E agora? Lembra-me).
D’altra parte, l’equazione tra omosessualità e AIDS è stata una delle percezioni errate più difficili da smascherare e smantellare, almeno all’inizio della pandemia. La controparte socioculturale della costruzione scientifica dell’identità omosessuale onnipervasiva è l’iper-remissibilità dell’omosessualità,
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cioè la cornice interpretativa attraverso la quale tutto ciò che nell’individuo è percepito come omosessuale riguarda la sua (omo)sessualità, e ogni minimo dettaglio della sua persona, rimanda in qualche modo al suo essere sessuale ed è quindi osceno. In modo molto diverso da quanto accade nella rappresentazione dell’eterosessualità, ciò rende ancora più difficile, diciamo pure impossibile, banalizzare le singole istanze di relazione omossessuale nelle arti, nel teatro, nel cinema. Agli occhi di Pinto e Leonel, che ne sono pienamente consapevoli, il prodotto finale risulterebbe quantomeno sminuente e, in ultima analisi, offensivo per i loro standard morali, se si adeguassero a una simile, non dichiarata, ma pur sempre limitante sottigliezza. Pertanto, la strategia più efficace per evitare che la loro vita insieme venga appiattita è mostrarla esattamente nella sua inequivocabile letteralità, anche se questa letteralità, con una scena di sesso che non lascia assolutamente nulla all’immaginazione e viene sbattuta in faccia al pubblico, è filtrata attraverso un’estetica piena di garbo: Se il loro fare l’amore viene sacralizzato da una musica classica non-narrativa, alla maniera di Pasolini, ciò è senza dubbio perché al cinema raramente si vedono rapporti omosessuali, il che rende questa sequenza tanto più eccezionale. La settima arte, invece, ci ha reso familiari le relazioni eterosessuali, anch’esse (per lo più) accompagnate dalla musica classica. Il punto riguarda meno la sacralizzazione del sesso che l’affermazione della sua naturalezza; l’uguaglianza riguarda anche queste questioni. Sì, anche gli omosessuali fanno l’amore (Curopos 2015, p. 123).
Pinto e Leonel utilizzano evidentemente i loro corpi come materia prima per la rappresentazione e l’iscrizione simbolica. Nessun accorgimento cinematografico può servire come scusa per avere un corpo, per essere un corpo, e Pinto e Leonel si amano con i corpi che hanno, con i corpi che sono, che tutti noi siamo. Pinto afferma: “La decisione di fare un film in cui ci sarebbe stata un’esposizione personale ha preceduto la realizzazione del film. Abbiamo pensato che fosse arrivato il momento. C’era un minimo di responsabilità e di volon-
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tà” (citato in Gonçalves 2014, p. 33). E aggiunge: “L’idea di esporci è stata uno dei punti di partenza del film. Era proprio questa la sfida. Fare un film non in terza persona ha significato, alla fine, fare un film in cui ci si esponeva. Se la gente risponde positivamente, tanto meglio, era quello il punto di partenza” (citato in Fernandes 2014). Pinto si spinge fino a rivendicare il carattere politico del film: Mi sono reso conto che non solo i film “in prima persona” su questo tema erano scomparsi, ma anche che c’era un nuovo filone di film “negazionisti” che manipolava i dati e le dichiarazioni degli scienziati sull’HIV e l’AIDS in modo deplorevole. In questo senso, E agora? Lembra-me è anche un film politico (citato in Ferreira 2014, p. 12).
La corporeità onnipervasiva del film è il luogo dell’istanza etica di Pinto e Leonel: “[Pinto] consegna un corpo, il suo, a una malattia che, negli ultimi anni, al cinema è diventata quasi impalpabile, sottolineando al contempo la sua differenza rispetto ai suoi predecessori” (Roth-Bettoni 2017, p. 113). In questo, il modo in cui il film sfida i parametri di decenza e di accettabilità dell’arte invalsi nella società portoghese presenta forti analogie con il modo in cui l’opus magnum di Tony Kushner Angels in America: A Gay Fantasia on National Themes (1992), successivamente adattato da Mike Nichols (2003), affronta la società nordamericana. Dal punto di vista della critica cinematografica portoghese media, la scena di sesso è un “dettaglio” inutile ed eliminabile, qualcosa di “in-immaginabile” che contamina l’intera pellicola con la sua insostenibile abiezione, rendendola impossibile da recuperare come cinema “di nicchia” da reintegrare nel circuito mainstream. Dal momento che “una certa centralità erotica dell’ano, nell’omosessualità maschile, si è rafforzata proprio sotto i riflettori della paura eterosessista dell’AIDS” (Kosofsky Sedgwick 2011, pp. 67-68, traduzione lievemente modificata), la scena di sesso in E agora? Lembra-me affronta volutamente la localizzazione erotica, cioè l’analità, che è sempre stata un topos dell’interdizione sia dell’omosessualità che della trasmissione dell’HIV. Da una
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prospettiva queer, la scena di sesso post-pornografica opera dunque un’autentica “inversione performativa” dell’abiezione che da sempre ha come bersaglio gli omosessuali maschi. In questo Pinto quasi non si discosta dalle politiche sessuali lanciate da Guy Hocquenghem e successivamente perseguite dalla teoria queer, come ci ricorda Paul Preciado nella sua postfazione all’edizione spagnola de Il desiderio omosessuale di Hocquenghem: “Il soggetto che finora era stato costruito come abietto (anal-izzato, ridotto ad ano sociale) eccede l’offesa, non si lascia rinchiudere dalla violenza dei termini che lo costituiscono” (Preciado 2011, p. 14). In ultima analisi, la scena di sesso funge da nucleo significante dell’intero film nella misura in cui trasmette il rifiuto di de-corporalizzare una parte importantissima delle vite dei protagonisti, quasi che, per essere accettabile, il loro amore reciproco dovesse essere meno corporeo della malattia, del dolore, del lavoro fisico, del cibo, dell’arte. È pertanto una scena che costruisce la coerente e ininterrotta linea narrativa di un film che deve essere altrettanto unitario quanto lo è la loro vita. Pinto intende dare una diversa immagine all’abietta rappresentazione visiva della sessualità degli uomini gay. In questo senso, si potrebbe recuperare nel film un filo sottile che lo lega all’iconografia gay del martirio, il cui tratto più evidente, che è allo stesso tempo rilevante ai fini di questa analisi, è che spesso ritrae un corpo che si contorce in agonia raffigurandolo con le stesse caratteristiche parossistiche dell’orgasmo maschile. Pinto è pienamente consapevole dei problemi che comporta la rappresentazione dell’identità gay, soprattutto quando questa identità già contestata viene messa in discussione da un ulteriore stereotipo, quello dell’omosessuale come malato di AIDS. Per certi aspetti, Joaquim potrebbe essere considerato una sorta di anti-Larry Kramer. Pur condividendone la scorrettezza politica di base (comune anche a Guy Hocquenghem ai suoi tempi), nonché le posizioni intransigenti, lucide e schiette, nel mite e sereno Joaquim Pinto tutto è all’insegna della riconciliazione, della pacificazione, della ri-
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parazione, in modo molto diverso da Kramer, che si mostra aggressivo, infervorato, litigioso, polemico e provocatorio. Pinto e Leonel si immergono nel vasto flusso delle complesse interrelazioni tra la produzione di conoscenze scientifiche e la costruzione sociale della semantica dell’AIDS che hanno pervaso l’analisi culturale dell’epidemia. L’idea che essa sia un’epidemia di significati è stata un dato acquisito fin dall’inizio, facendosi strada nel cinema a partire da Silverlake Life: A View from Here (1993), di Peter Friedman e Tom Joslin, fino appunto a E agora? Lembra-me. Il punto è se l’AIDS sia rappresentabile, questione che, come ricorda Augusto M. Seabra, era stata posta solo a proposito dell’Olocausto: “Sono proprio questi i due argomenti per i quali è stata sollevata la questione della rappresentazione e della rappresentabilità. E se, tuttavia, va sottolineata, è anche perché si affianca a un’altra, quella della figurazione [figuraçaõ]” (Seabra 2013, p. 9). Si dà il caso che, con riguardo all’AIDS, l’atto della figurazione – l’atto di fornire, cioè scegliere, una “figura” per rappresentare qualcosa in modo da renderlo tanto visibile quanto significativo – comporti inevitabilmente la costruzione icon(ograf)ica della disfigurazione. A riguardo, Seabra usa il termine desfiguraçaõ (“disfigurazione”, con un gioco di parole con il termine portoghese che usa anche per indicare la deturpazione fisica) con riferimento a Blue (1993) di Derek Jarman, in cui non si trova anima viva che produca una pur sola immagine, e il termine hiper-figuraçaõ (“iper-figurazione”) con riferimento alla sovraesposizione del corpo martoriato dalle malattie in La pudeur ou l’impudeur (1992) di Hervé Guibert. Quanto a totale esposizione di sé, il film di Pinto può paragonarsi a questi film, nonché a quelli di Tom Joslin, come non è sfuggito a molta critica. Tuttavia, Pinto osserva che negli anni Ottanta, molti registi che ho conosciuto e che sono citati nel film – Hervé Guibert o Derek Jarman, per esempio – erano spinti dall’urgenza di testimoniare in forma di autoritratto il momento in cui avevano contratto l’HIV. Tuttavia, non si può fare un paragone tra il film che ho diretto e i film che loro
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hanno fatto a quel tempo. Quegli autoritratti si confrontavano con l’inevitabilità della morte, mentre io, nonostante tutto, convivo con la malattia e faccio parte di coloro che sono sopravvissuti. Nel film mi pongo proprio questa domanda: come continuare a vivere? (E agora? Lembra-me).
Ma riguardo a questo aspetto il film di Pinto non potrebbe essere più distante dal già citato Silverlake Life: A View from Here, perché la brutale devastazione della malattia non è più (per fortuna!) quella di allora e perché non vige più quell’epistemologia dello sguardo su cui si basava il bisogno di rendere visibile le atrocità della malattia. Tra loro contrapposte, queste due pellicole si trovano ai due estremi della linea di sviluppo della scrittura (o del cinema, se si vuole) autobiografica al cui interno si è venuto a costruire un ethos queer, cioè una forma di vita etico-estetica che plasma il sé individuale nonché la nostra relazione con la vita e il modo fuori da noi. Joaquim e Nuno, insieme, incarnano quell’ethos.
Fig. 3. Olympia I & II, Gabriel Abrantes & Katie Widloski.
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In Olympia I (2006) e Olympia II (2006), entrambi co-diretti con Katie Widloski, Gabriel Abrantes ricrea il dipinto Olympia di Edouard Manet. Nel primo, il suo personaggio diventa il bersaglio del disgusto della sorella prostituta, che a sua volta viene derisa per la sua eterosessualità, mentre nel secondo appare nudo, con del make-up femminile, che attende i clienti mentre ascolta la musica di Gorecki. In Visionary Iraq (2008), in cui viene fatta oggetto di satira una coppia eterosessuale in cui la donna è un uomo travestito, il travestitismo diventa una strategia compiutamente parodica. Abrantes è infatti il regista portoghese che con più coerenza e creatività usa la parodia per decostruire l’eteronormatività e una certa mitologia portoghese, incarnata nella storia nazionale e nelle icone della cultura di massa, nonché nell’attivismo ambientale e nell’immaginario postcoloniale. La sua vasta filmografia rende difficile una selezione. Abrantes racconta la storia di due ragazzi americani disillusi dalla civiltà urbana in A History of Mutual Respect (2010), dove identità post-coloniali si intrecciano all’emergere di nuove soggettività sessuali sullo sfondo delle insormontabili difficoltà delle relazioni interculturali. Palácios de pena (2011) rivisita la storia portoghese, concentrandosi sulla paura culturalmente ereditata dell’Inquisizione e del regime fascista, attraverso le tante sfaccettature di una relazione tra due ragazze che contrappongono l’identità della loro amicizia lesbica alla relazione di due mori condannati al rogo per sodomia. Fratelli (2011) adatta il prologo de La bisbetica domata di Shakespeare, enfatizzando gli aspetti omoerotici già presenti nell’originale, raccontando la storia di un aristocratico che rapisce un mendicante ubriaco che ha perso conoscenza, lo porta nel suo palazzo, gli fa credere di essere nato nobile e gli presenta un travestito del suo seguito, di cui il mendicante si innamora. In Too Many Daddies, Mommies and Babies (2009), una coppia di attivisti ecologisti gay abbandona il progetto di salvare una foresta pluviale ormai irreversibilmente distrutta per creare una famiglia attraverso una madre surrogata, che però muore tragicamente.
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Taprobana (2014), l’antico nome portoghese dell’isola di Ceylon, è una satira del grande poema epico Lusiadi di Luís de Camões, che celebrava le esplorazioni e le conquiste portoghesi, enfatizzando le scene erotiche di abusi sessuali e stupri di donne non europee da parte dei soldati portoghesi, che si comportano invariabilmente come satiri sfrenati. Abrantes ha raggiunto un nuovo apice nella sua pratica parodica nel lungometraggio Diamantino (2018), una surreale commedia drammatica co-diretta con Daniel Schmidt. Il personaggio centrale, Diamantino Matamouros, è visibilmente modellato sulla stella del calcio portoghese Cristiano Ronaldo e ci presenta un calciatore ingenuo e credulone la cui carriera è in declino dopo aver assistito all’arrivo dei rifugiati sulle coste europee all’apice della crisi migratoria. Con la complicità calcolatrice delle sorelle, manipolatrici e malvagie, viene sottoposto a un intervento di modificazione genetica con l’obiettivo di clonarlo per sostenere la propaganda nazionalistica del governo neofascista a favore dell’uscita del Paese dall’Unione Europea (una chiara allusione alla Brexit). Infantilmente affettuoso, idealista e compassionevole, Diamantino decide di adottare Rahim, un giovane rifugiato androgino che si rivela essere Aisha, una giovane lesbica capoverdiana di cui si innamora. Alla fine del film, il giocatore subisce una transizione di genere per adeguarsi alle aspettative della sua compagna e i due trascorrono il resto della loro vita insieme. A questo riguardo, Abrantes è il regista che più si avvicina al concetto di queer technogender. A Assassina Passional está Louca! (2010), una parodia del cliché delle lesbiche omicide nel cinema, è stato il biglietto da visita del romanziere e regista Vicente Alves do Ó, ma è stato con i lungometraggi Al Berto (2017) e Golpe de sol (2018) che la sua opera ha fatto un salto di qualità. Al Berto è il biopic di Alberto Pidwell Tavares, uno dei massimi poeti portoghesi, che pubblicava con lo pseudonimo di Al Berto ed è morto nel 1997. Il film, fortemente influenzato dalle tecniche delle soap opera, sa rendere con abilità la reazione profondamente ostile e omofoba della cittadina costiera dove lo scrittore è nato e
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dove è tornato dopo un esilio forzato all’estero per evitare la leva al tempo delle guerre coloniali. Nella villa di famiglia, dopo l’esproprio per la costruzione di un enorme porto, il poeta ha creato una sorta di comune hippy libertaria. Tuttavia, anche l’ambiente post-rivoluzionario si rivela essere intollerante verso la relazione che Al Berto vive alla luce del sole con un ragazzo locale. Il film mette in luce il carattere omofobico e reazionario della cultura politica rivoluzionaria allora dominante, un tema che è stato per lungo tempo tabù nonché una delle ragioni del ritardo nello sviluppo della cultura e dell’associazionismo LGBTQ+ portoghesi. Golpe de sol è un racconto “in una camera chiusa”, incentrato sull’insostenibile tensione vissuta da quattro personaggi, una coppia di uomini, un ragazzo e una ragazza che, rintanati in una villa per le vacanze, aspettano con ansia crescente l’arrivo prima inatteso e poi temuto di un altro uomo, un loro ex amante nonché fonte di rancori e conflitti reciproci. Nell’ondata di biopic, Al Berto non è un caso isolato: nel suo Variações (2019), il regista João Maia tenta un ritratto dell’icona pop António Variações, la prima figura pubblica portoghese vittima dell’AIDS nel 1984. Nella sua fulminante carriera triennale Variações ha fuso creativamente le radici del fado portoghese insieme a una sensibilità pop d’avanguardia, un’audacissima e teatrale presentazione del sé con un simbolismo corporeo ipersessualizzato e un’immagine suggestivamente queer – muscoli e trucco. Questa miscela, assolutamente inedita, lasciò la società portoghese in uno stato di shock, mentre la sua morte seminò il panico in tutta la comunità gay. Il film, tuttavia, è privo di quella valenza pungente, provocatoria, seduttiva, brillante e tragica che Variações conferì al suo stile di vita, e partecipa di quell’attuale tendenza a farne rivivere la vita e l’opera, a lungo sottovalutata, all’interno di un mainstream tanto accettabile quanto scialbo e pacchiano. La filmografia di António da Silva costituisce il più vasto e articolato archivio della sessualità gay nel cinema portoghese. Nei suoi cortometraggi, piuttosto marcati in senso
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identitario, non c’è nulla che non venga detto dei molti modi in cui gli uomini si rimorchiano a vicenda, delle loro fantasie sessuali e del modo in cui le mettono in pratica. La cultura urbana del sesso occasionale è ampiamente documentata in Mates (2011), in cui si pratica del sesso a domicilio tra sconosciuti, e in Bankers (2012), che racconta di sveltine nei bagni pubblici in pausa pranzo e i cui protagonisti vengono intervistati in Be Sexual (2016), dove rivelano di essere sposati e di vivere doppie vite, pur rifiutando l’etichetta di bisessuali. Su questa falsariga, Cruising in the Park (2018), co-diretto insieme a Fabio Lopes, è incentrato su un uomo sposato, apparentemente eterosessuale, e nei suoi frequenti incontri con altri uomini nel parco vicino al suo ufficio durante la pausa pranzo. Doggers (2015), co-diretto insieme a Miguel de Arroja, si riferisce alla pratica del dogging, cioè al sesso occasionale nei parcheggi, mentre Spunk (2015) e Pix (2012) ruotano attorno agli incontri online. Il primo è un documentario sperimentale in cui il virtuale (webcam, smartphone) e il reale si fondono in un collage sessuale di marca surrealista. Diviso in due parti, la prima si concentra sull’estetica digitale e su come gli incontri occasionali online tra gay sono cambiati nel corso del tempo, mentre la seconda trasporta lo spettatore in un universo fantastico, dove uomini eccitati esibiscono apertamente la propria cybersexuality. In Pix gli incontri online vengono osservati con occhio analitico, che esamina i selfie che costituiscono la persona sexualis dei profili online, in cui il sé viene presentato sui siti di incontri attraverso la composizione di immagini di parti del corpo piuttosto che di volti. Il ritmo accelerato di presentazione di queste immagini annulla la presunta esclusiva singolarità di ogni profilo e le fa sembrare tutte appartenenti a un unico corpo. Questo film non si limita a creare un’illusione: piuttosto, rende nota la creazione biopolitica di una comunità corporea, un concetto che emerge chiaramente anche in Solos (2014), in cui uomini particolarmente colpiti dal lavoro di da Silva hanno accettato volontariamente di affidare alla pellicola in modo esplicito i loro feticismi, le loro relazioni e le loro fantasie,
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che coinvolgono biancheria intima, pelle, lattice, jeans, calze, peni di grandi dimensioni, tatuaggi, peli, eiaculazioni prolungate, rapporti schiavo/padrone, ricordi d’infanzia e molto altro. Alcuni hanno colto l’occasione per esprimere il loro esibizionismo davanti alla telecamera, spogliandosi o raggiungendo l’orgasmo. Una possibile interpretazione è che si tratta di un corpo omosessuale che si riproduce attraverso il meccanismo dell’incontro occasionale, come era già emerso in Nude Dudes (2014), sulla frequentazione da parte del regista di due giovani nudisti che fanno sesso con gli uomini che ospitano regolarmente nella loro casa di Tel Aviv. I film postpornografici di António da Silva, visibili online sul sito del regista, sono una componente effettiva e non una semplice rappresentazione del meccanismo dell’incontro occasionale: gli attori sono volontari e il regista ha ammesso di aver preso parte all’azione fuori dallo schermo. Sono film che collocano la centralità dello sguardo nell’erotismo maschile al centro di una riflessione sul cinema come tecnologia dell’immagine che amplifica la pulsione scopica stessa, ricordandoci che il climax finale in cui lo sperma sgorga è attraente tanto per gli eterosessuali quanto per i gay, come ribadito dal narcisismo dell’immaginario maschile in senso ampio, con la sua religiosa venerazione dell’eiaculazione. Ciò avviene sia sullo schermo che fuori, quando cioè essa viene stimolata, dal momento che un uomo che guarda l’eiaculazione di un altro sullo schermo la sta anche mimeticamente fantasticando come propria. Esempio particolarmente illuminante della glorificazione ed esibizione dell’organo maschile come arte e culto estetico è anche Penis Poetry (2016), co-diretto insieme ad André Medeiros Martins. Mentre in Machos (2017), girato in Messico, vengono messe insieme interviste, danze e scene da un’orgia che raccontano di un’esperienza omoerotica cruda e violenta all’interno di una società profondamente conservatrice e sciovinista. Un tour mondiale dei diversi siti di battuage ha portato da Silva a Limanakia (2014), una zona rocciosa a sud di Atene, dove ha girato un cortometraggio che potrebbe essere incluso nella sua serie sui rapporti occa-
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sionali in spiaggia, la cui apoteosi è Praia 19 (2014). Con la sua schietta rappresentazione di un luogo mitico per gli incontri gay – un tratto della spiaggia di Caparica, alla periferia di Lisbona, rinomata fin dagli anni Quaranta – quest’ultima pellicola è particolarmente rilevante per i portoghesi e ha avuto un tale successo da guadagnarsi un sequel intitolato Cruising at Beach 19 (2018). Ritroviamo la ruvida mascolinità degli incontri occasionali anche nel ciclo brasiliano di da Silva, che include: Cariocas (2014), i cui protagonisti, fatto piuttosto inconsueto nel cinema di da Silva, parlano davvero e dove il regista si aggira in mezzo a un turbinare di uomini, tra una palestra improvvisata all’aperto e i cespugli dove avvengono gli incontri anonimi nella zona di Arpoador a Rio de Janeiro; Brazil Carnival (2016), ambientato al festival di Rio che si trasforma in un’orgia collettiva dove tutto è concesso a corpi di uomini che ballano, parlano tra loro e si eccitano; Car Cruising (2019), che affronta ancora una volta gli incontri occasionali in auto; e soprattutto Brazil Solos (2016), un collage di trenta uomini brasiliani nudi e in erezione che parlano della diversità in Brasile e delle loro fantasie. D’altra parte, abbiamo anche Brazil Jungle (2016), un film multi-testuale realizzato secondo l’estetica visiva dei documentari etnografici, che si concentra su un paradiso naturale perduto nell’Amazzonia brasiliana. Infine, sulla stessa linea dei primi film del regista, Daniel (2020) è il ritratto di un videomaker amatoriale, modello maschile e artista erotico che ha partecipato anonimamente alla maggior parte dei film precedenti. A differenza dei ragazzi atletici e attraenti come i coverboy delle riviste erotiche o gli attori porno che appaiono nella maggior parte dei suoi film, gli uomini maturi ritratti in Daddies (2014) si scontrano con l’ageismo gay che li disprezza e li ostracizza preferendovi un’eterna giovinezza, impossibilmente consumistica, edonistica, assuefacente e frivola. In Gingers (2013), da Silva rivolge nuovamente uno sguardo compiaciuto a una nicchia erotica decisamente minoritaria. I suoi cortometraggi sono attraversati da una certa nostalgia
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per una mascolinità edenica e natural-rousseauiana, come nel viaggio estivo in auto di Julian (2012), o in Ecosexual (2015), dove il corpo del protagonista funge da mezzo privilegiato di mediazione con la natura circostante, o in Poetry (2018), con i partecipanti al rituale di purificazione che bruciano salvia nel tentativo di stabilire connessioni tra corpo, cuore, mente, anima e natura, anziché ritrovarsi negli spazi bui, sporchi e appartati che sono solitamente teatro del sesso occasionale. Tra i corti di António da Silva, Dancers (2014) è forse quello di maggior successo. Il regista si è semplicemente limitato a invitare alcuni noti attori, ballerini e performer a posare, eseguire passi di danza o acrobazie davanti alla macchina da presa completamente nudi. Rivolgendo aggressivamente lo sguardo verso la macchina, cioè verso noi spettatori, dimostrano che, ben lungi dall’essere semplice materia prima passivamente plasmabile dalle mani di da Silva essi partecipano attivamente all’opera del regista, che mira a raddoppiare la visione degli spettatori e a sottoporla a una concreta esigenza. Come ben notava Paul Klee: sono le immagini ora a guardarci. Nell’ultimo decennio sono stati prodotti numerosi cortometraggi queer, anche se la maggior parte dei giovani registi ha prodotto, per ciascuno, un numero molto limitato di film. Chi ha scritto questo saggio ha deciso, certamente in modo arbitrario, di non tener conto di gran parte dei corti queer portoghesi, nella convinzione che, indipendentemente dal loro valore intrinseco, la loro omissione non compromette questa rassegna delle principali tendenze del cinema queer portoghese. È importante comunque sottolineare alcune eccezioni di rilievo: Carlos Conceição, David Bonneville e il duo costituito da André Santos e Marcos Leão. La filmografia di Carlos Conceição sembra concentrarsi sulle varie forme della manipolazione – che ricorre a una violenza sia psicologica che fisica, e che è più evidente nei suoi risultati che nella sua esplicita esibizione – e al modo in cui la trasgressione dei confini di genere si intreccia all’abbattimento delle barriere generazionali. Ci soffermeremo su due dei suoi film, Boa noite, Cinderela (2014) e Carne (2010). Il
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primo è l’anamorfosi ultra-romantica e gotica della fiaba di Cenerentola, in cui la scarpetta perduta funge da simbolo della passione segreta del servo per il suo principe. Spietato verso le immagini popolari del sacrificio, del senso di colpa e della mortificazione corporea, diffusissime in un Paese così profondamente cattolico come il Portogallo, Carne rivela un Cristo indecentemente bello e vulnerabile, somigliante più alla vittima di uno stupro che a un morto crocifisso: corona di spine in testa, bacia la suora Violante, per poi scambiare con lei citazioni bibliche in una successiva sessione di bondage. Ancora insoddisfatta, Violante si reca in un bar e dice a una drag queen di essere sposata con Cristo, per poi essere immediatamente rimorchiata da un seduttore a cui pratica sesso orale in un vicolo; torna quindi al suo convento e si inginocchia ai piedi di un Cristo nudo, le cui contorsioni sulla croce mostrano ambiguamente piacere o dolore. Tre film primeggiano nella produzione di David Bonneville: Heiko (2008), L’Arc-en-Ciel (2008) e Cigano (2013). Il primo ritrae l’estrema relazione feticistica tra un ragazzo e un anziano esteta psicopatico che gli taglia il piede e lo conserva nell’alcol. L’Arc-en-Ciel ritrae una donna di mezz’età mantenere viva la passione per il suo giovane compagno, recentemente scomparso, attraverso i suoi incontri occasionali con vari ragazzi e le pratiche erotiche a lui associate. In Cigano, Bonneville mette a nudo le tensioni sociali ed etniche sovente minimizzate o perfino negate dalla società portoghese. Un ragazzo altoborghese viene aiutato a cambiare una gomma da un coetaneo rom, che prova sottilmente a intimidirlo e ad imbrogliarlo, ma quando gli viene offerto un passaggio durante il quale condividono uno spinello, si instaura una crescente e irresistibile attrazione reciproca il cui epilogo rimane irrisolto all’allontanarsi dell’auto. In Cavalos Selvagens (2010), André Santos e Marcos Leão offrono una metafora della claustrofobia, incarnata dagli stessi registi nei ruoli di due giovani amanti che, incapaci di separarsi, condividono un piccolo appartamento dove ogni giorno cercano di trovare motivi per restare insieme. Il loro
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corto successivo, Pedro (2016), svela, con uno stile realistico e minuzioso, una scena di rimorchio in spiaggia tra le dune della Costa de Caparica. Sotto lo sguardo silenzioso e freddamente compiacente della madre, Pedro, che si esibisce online, abborda un uomo che emerge nudo dall’acqua, gli chiede una sigaretta, lo punta con uno sguardo allusivo e lo segue infine tra i cespugli, dopo aver dato alla madre la scusa banale di dover fare pipì. Al centro di Self Destructive Boys (2018), molto più ambizioso del film precedente, c’è una sessione fotografica su uno sfondo naturale, a cui partecipano due fotografi gay e tre modelli. Il film si distingue per il suo modo minuzioso e schietto di svelare le tensioni tra uomini gay ed etero – o in altre parole, tra l’habitus della mascolinità gay e l’habitus di quella etero – attraverso i modi diversi che i personaggi hanno di rapportarsi al proprio corpo e a quello degli altri uomini. Tra i molti saggi visuali che ha dedicato alla storia del cinema, nel suo Os motivos de Reinaldo (2018) Ricardo Vieira Lisboa ha letteralmente ricreato e ripensato il pionieristico film muto queer O Táxi 9297 (1927). Lisboa è anche un critico che è andato sviluppando un approccio criticamente queer al cinema portoghese e internazionale, un caso raro di doppia carriera nonché di autoriflessione. Il cinema queer portoghese, in senso generale, offre un vasto repertorio di mascolinità gay (e anche etero, sia egemoniche che non, tavolta in conflitto con quelle gay), oltre a temi queer, trans o lesbici post-identitari; e il loro posizionamento rispetto all’eteronormatività avviene principalmente attraverso il “criticamente gay” piuttosto che il “criticamente queer”, a cui ricorrono quasi esclusivamente registi affermati come Carlos Conceição e Gabriel Abrantes. I film a tematica lesbica non abbondano nel New Queer Cinema portoghese e ancora più rari sono quelli a tematica trans: finora, la stragrande maggioranza di pellicole queer sono state realizzate da uomini gay. In effetti, il pubblico e le associazioni lesbici hanno protestato a gran voce per la loro invisibilità nel cinema portoghese e quindi nei festival. Nel caso del Queer Lisboa, data la mancanza di produzioni nazionali, i film a tema lesbico sono quasi esclusivamente stranieri.
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Né la percezione del pubblico lesbico né quella del pubblico in generale del Queer Lisboa sono ancora state oggetto di uno studio approfondito, nonostante questo festival costituisca spesso l’unico sbocco per il cinema queer. Dopo tutto, il pubblico queer vede sé stesso come complice di queste rappresentazioni, come se lo dovessero o danneggiare o validare. L’investimento emotivo del pubblico queer su quello schermo e su quei personaggi è superiore a quello di altri tipi di pubblico. Ma di solito queste reazioni non hanno una dimensione complessa; i film e le videocassette sono accettati o rifiutati in base alla stretta accettabilità delle rappresentazioni che offrono (Rich 2013, p. 38).
I pochi corti che trattano esplicitamente relazioni tra donne le rappresentano come rapporti animati da ampie sfumature sentimentali, la cui intensità e violenza sono semplicemente suggerite o accennate, laddove quelle tra uomini sono spesso parossistiche. Tuttavia, ci sono tre registe che vanno qui ricordate: Raquel Freire, Filipa César e Cláudia Varejão. I film della prima, in particolare Veneno cura (2007), se meno espliciti dal punto di vista del discorso identitario, esprimono in modo più violento e crudele le tensioni sessuali e affettive di tutte le identità (lesbica, gay, etero, trans). Veneno cura è la prima parte di una trilogia ancora non completa sull’intimità, l’identità e i tabù della società portoghese. Raquel Freire è anche una scrittrice e nei suoi film, come nei suoi testi, le trasgressioni dei confini di genere si intrecciano con forme di trasgressione e sperimentazione sessuale, contestando in modo davvero inusuale e autenticamente programmatico, ossia secondo un’agenda queer che si muove lungo le linee della politica sessuale, qualunque categorizzazione cinematografica (gay, lesbica, etero, trans…) che sia funzione di un orientamento sessuale essenzialistico. In Memograma, un progetto che include videoarte, due corti, arte visuale e una mostra documentaria, Filipa César rievoca la pratica giuridica di mandare in esilio uomini e donne condannate “per pratiche recidive di vizi contro natura”.
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La regista è ritornata sullo stesso tema nel corto narrativo Inserts (2010), co-girato insieme a Marco Martins, che narra la (non) storia di due lesbiche confinate a Castro Marim, un villaggio remoto e isolato dell’Algarve noto per le sue saline e, per decenni, la destinazione di questa categoria di esiliati – un luogo che in qualche modo evoca il destino delle statue di sale bibliche nella fuga da Sodoma e Gomorra. Um dia frio (2009) di Cláudia Varejão, narra le vicende di una famiglia problematica in cui l’unico elemento di intimità e tenerezza è rappresentato dalla inconfessabile relazione tra la figlia adolescente e un’altra ragazza. Amor Fati (2020) ritrae una serie di coppie, da anziani eterosessuali a sorelle gemelle conviventi, a coppie di disabili e di persone sovrappeso, fino a coppie lesbiche, tutte accomunate da un certo grado di non-conformità e alienazione sociale.
Fig. 4. Amor fati, Cláudia Varejão.
Per João Pedro Vale e Nuno Alexandre Ferreira, il cinema è quasi un’occupazione parallela, anche se i loro film, visionari e incisivi, sono animati da un’ispirazione sperimentale e passionale. Il loro ampio corpus di lavori include performance, attività circensi, installazioni, opere d’arte visiva, video e film.
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English as She is Spoke (2010) è liberamente ispirato a delle autentiche storie di giovani portoghesi espulsi dal Canada e dagli Stati Uniti per aver commesso dei crimini e rispediti nelle Azzorre, le isole dei loro antenati, un luogo con cui non hanno alcun legame. Il film si concentra sulle vicende di un ragazzo la cui sessualità e stile di vita sono sempre più oggetto di rifiuto da parte della società e della famiglia. John Romão, attore e regista teatrale nonché uno tra i più noti drammaturghi queer portoghesi, interpreta magnificamente il protagonista; il punto più alto della sua performance è l’interpretazione della canzone “I’m Like a Bird” di Nelly Furtado, con il suo corpo prepotentemente maschile avvolto nello scialle di solito usato dalle cantatrici di fado. Vale e Ferreira danno visibilità all’eccesso, esibendolo quando viene negato e facendolo riecheggiare quando esso si è già manifestato, al punto da riscrivere la storia, tanto spesso rivisitata, del Moby Dick di Melville in Hero, Captain and Stranger (2009), in cui l’omosocialità ad alta densità dei marinai non può che sfociare in un contatto brutale che li costringe a confrontarsi gli uni con gli altri e li mette a nudo. La versatilità dei due registi spazia dai grovigli goethiani dello scambio d’anime tra le due coppie “eteroqueer” di Werther Effect (2013) a King Ghob-O rei dos gnomos (2012), di ascendenze deliziosamente noir, è basato sulla vera storia di un serial killer portoghese e delle sue perversioni omicide e casalinghe. In un elegante bianco e nero, il film scava nei meandri dell’anima assassina che è in ognuno di noi, splendidamente resa nella scena in cui il protagonista, nudo e appeso al soffitto con delle lenzuola bianche, si contorce come una marionetta azionata dai fantasmi psichici che lo torturano, in una straordinaria scena da Grand Guignol. Possidónio Cachapa, noto soprattutto come scrittore, ha portato sullo schermo uno dei suoi racconti con O nylon da minha aldeia (2012), che mette in scena un episodio rivelatore di omofobia di cui è fatto oggetto un ragazzo in un villaggio di campagna nel Portogallo negli anni Settanta: si tratta con tutta probabilità del ritratto più crudele e veritiero di un mondo rurale violentemente sciovinista, arretrato e gretto,
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in una rappresentazione che ha paragoni solo in un ristretto numero di opere letterarie e teatrali lusitane. Infine, quattro film di altrettanti registi i cui lavori non possono essere inclusi all’interno del cinema queer in senso stretto ma che, tuttavia, hanno assunto posizioni ad esso congeniali, con il loro sguardo non omo-lesbo-transfobico o eteronormativo. Alla fine della sua lunga carriera, Paulo Rocha, un illustre veterano del cinema, ha diretto A raíz do coração (2000), un oggetto del tutto insolito nella sua cinematografia così come quella portoghese in generale, un’incursione nella finzione narrativa futuristica, in cui Lisbona è dominata da Catão, un politico nazionalista, carismatico e spietato, impegnato nella persecuzione ossessiva di travestiti (tra cui un formidabile José Manuel Rosado, l’attore che ha interpretato la graffiante drag queen en burlesque “Lídia Barloff”). Le drag queen mettono in scena una rivolta contro il dittatore e danno l’assalto alle celebrazioni in onore di S. Antonio, patrono della città, vestite da spose, in una parodia dei matrimoni eterosessuali collettivi tradizionalmente patrocinati dal Comune durante quelle festività. Luís Filipe Rocha, che aveva già adattato il romanzo semi-autobiografico di Jorge de Sena intitolato Sinais de fogo (1995), in cui l’autore racconta le sue esperienze (omo)sessuali, ritorna su questo tema con A outra margem (2007), che allestisce un palcoscenico per il suo splendido protagonista, un travestito che canta in un locale di Lisbona che prova a riprendersi dal suicidio del suo compagno. Fa ritorno nella cittadina della provincia portoghese che aveva abbandonato fuggendone l’onnipervasiva omofobia solo per trovare di nuovo la voglia di vivere nell’affetto per il suo giovane nipote con la sindrome di Down – un rapporto attraverso cui il film celebra ogni diversità discriminata e stigmatizzata. In Peixe lua (2000), diretto da José Álvaro Morais, la relazione tra due giovani omosessuali, inframmezzata da ampie citazioni letterali da El público di Federico García Lorca, è il motore della narrazione di un ritorno al passato da parte di una famiglia che ha lasciato una scia di traumi, ferite aperte e anime peste, progressivamente
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rivelate all’implacabile presenza dello zio Nini, un anziano omosessuale che ha strutturato la propria persona opponendo costante resistenza a infinite avversità e che protegge la relazione della giovane coppia contro tutti. In un film che trabocca di mascolinità stereotipe, 20,13 – Purgatório (2006), Joaquim Leitão affronta uno dei traumi più profondi della storia recente portoghese, la guerra coloniale che si è svolta dal 1961 al 1974, una sorta di Vietnam locale. La società e la cultura portoghesi sono solite cancellare o rigettare la memoria del passato nazionale su una serie di questioni tabù che poi sono quelle che questo film affronta: l’omosessualità tra le truppe sullo sfondo dello sfruttamento coloniale, lo stupro sistematico delle donne africane subalterne, le atrocità e i massacri perpetrati dai soldati, il loro diffuso alcolismo e la loro tossicodipendenza, nonché i successivi casi di stress post-traumatico e di esclusione familiare e sociale. Bibliografia Armone, F. 2008 I luoghi oscuri dell’anima, in Catalogo generale della 23° edizione di “da Sodoma a Hollywood-Torino GLBT film festival”, Museo Nazionale del Cinema, Torino, pp. 248-249. Bértolo, J. 2019 Sobreimpressões. Leituras de filmes, Documenta, Lisbona. 2020 Espectros do cinema. Manoel de Oliveira e João Pedro Rodrigues, Documenta, Lisbona. Butler, J. 1996 Corpi che contano. Sui limiti discorsivi del “sesso”, Feltrinelli, Milano, ed. or. Bodies That Matter. On the Discursive Limits of “Sex”, Routledge, New York 1993. 2014 Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza, Postmedia Books, Milano, ed. or. Precarious Life. The Powers of Mourning and Violence, Verso, Londra 2004. Cascais, A.F. 2014a Queer cinema and the queering of cinema in Portugal, in Cascais, A.F., J. Ferreira, J. (a cura di), Queer Film and Culture. Queer Lisboa – International Queer Film Festival, Associação Cultural Janela Indiscreta, Lisbona, pp. 136-155.
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2014b Metamorphoses of O Fantasma by João Pedro Rodrigues, in Cascais, A.F., J. Ferreira, J. (a cura di), Queer Film and Culture, op. cit., pp. 170-177. 2014c Gay Portuguese short films from the 1970s, in Cascais, A.F., J. Ferreira, J. (a cura di), Queer Film and Culture, op. cit., pp. 182-183. 2014d António da Silva, in Catálogo do Queer Lisboa 18. 18º Festival Internacional de Cinema Queer, 19-27 settembre, pp. 152-153. 2018 Um grão de tempo e serei pó. “E agora? Lembra-me” de Joaquim Pinto, in Cascais, A.F., J. Ferreira, J. (a cura di), O vírus-cinema. Cinema queer e VIH/SIDA, Associação Cultural Janela Indiscreta, Lisbona, pp. 128-136. 2019 Now and at the Hour. Pain and Transfiguration in Joaquim Pinto’s “What Now? Remind Me”, in Pepe, P., Fernandes, R. (a cura di), Beyond Binaries. Sex, Sexualities and Gender in the Lusophone World, Peter Lang Academic Publishers, Oxford e New York, pp. 151-178. Curopos, F. 2015 Et maintenant? de Joaquim Pinto. Ceci n’est pas un requiem, “Inverses” 15, pp. 115-126. 2016 Queer(s) périphériques. Représentations de l’homosexualité au Portugal (1974-2014), L’Harmattan, Parigi. De Lauretis, T. 1987 Technologies of Gender. Essays on Theory, Film, and Fiction, Indiana University Press, Bloomington e Indianapolis. Duarte, J. Rosário, F. 2022 ReFocus. The Films of João Pedro Rodrigues & João Rui Guerra da Mata, University of Edinburgh Press, Edimburgo. Fernandes, A I. 2014 Já que estamos a falar de sociedade contemporânea, não acredito nessas coisas, in “Delfos – A profecia das artes”, disponibile online, https://delfosaprofeciadasartes.wordpress.com/2014/02/11/ja-queestamos-a-falar-de-sociedade-contemporanea-nao-acredito-nessascoisas. Ferreira, F. 2014 Um filme de combate, “Expresso Atual”, 30 Agosto, pp. 10-13. Ferreira, J. 2008 The Politics of Desire in Portuguese Cinema, in Catalogo generale della 23° edizione di “da Sodoma a Hollywood-Torino GLBT film festival”, Museo Nazionale del Cinema, Torino, pp. 243-244. Foucault, M. 1992 Tecnologie del sé, in Martin, L.H., Gutman, H., Hutton, P.H. (a cura di), Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 11-47.
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Filmografia 20,13 Purgatório (Joaquim Leitão, 2006) A Assassina Passional está Louca! (Vicente Alves do Ó, 2010) • A History of Mutual Respect (Gabriel Abrantes, 2010) – SQ 2017 A outra margem (Luís Filipe Rocha, 2007) A raíz do coração (Paulo Rocha, 2000) • A última vez que vi Macau (João Pedro Rodrigues, João Rui Guerra da Mata, 2012) – SQ 2013 • Al Berto (Vicente Alves do Ó, 2017) – SQ 2018
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Amor Fati (Cláudia Varejão, 2020) Angels in America (Mike Nichols, 2003) Aventuras e desventuras de Julieta pipi, ou O processo intrínseco global kafkiano de uma vedeta não analisada por Freud (Óscar Alves, 1978) Bankers (António da Silva, 2012) Be Sexual (António da Silva, 2016) Blue (Derek Jarman, 1993) • Boa noite, Cinderela (Carlos Conceição, 2014) – SQ 2015 Brazil Carnival (António da Silva, 2016) Brazil Jungle (António da Silva, 2016) Brazil Solos (António da Silva, 2016) Car Cruising (António da Silva, 2019) Cariocas (António da Silva, 2014) • Carne (Carlos Conceição, 2010) – SQ 2021 Cavalos Selvagens (André Santos e Marcos Leão, 2010) Cigano (David Bonneville, 2013) Cruising at Beach 19 (António da Silva, 2018) Cruising in the Park (António da Silva, Fabio Lopes, 2018) Daddies (António da Silva, 2014) • Dancers (António da Silva, 2014) – SQ 2015 Daniel (António da Silva, 2020) • Diamantino (Gabriel Abrantes, Daniel Schmidt, 2018) – SQ 2019 Doggers (António da Silva, Miguel de Arroja, 2015) • E agora? Lembra-me (Joaquim Pinto, 2013) – SQ 2015 Ecosexual (António da Silva, 2015) English as She is Spoke (João Pedro Vale, Nuno Alexandre Ferreira, 2010) Fatucha Superstar (João Paulo Ferreira, 1976) Fogo-Fátuo (João Pedro Rodrigues, 2022) • Fratelli (Gabriel Abrantes, 2011) – SQ 2017 Gingers (António da Silva, 2013) Golpe de sol (Vicente Alves do Ó, 2018) Goodbye Chicago (João Paulo Ferreira, 1978) Heiko (David Bonneville, 2008) Hero, Captain and Stranger (João Pedro Vale, Nuno Alexandre Ferreira, 2009) In Peixe lua (José Álvaro Morais, 2000) Inserts (Filipa César, Marco Martins, 2010) Julian (António da Silva, 2012) King Ghob-O rei dos gnomos (João Pedro Vale, Nuno Alexandre Ferreira, 2012) La pudeur ou l’impudeur (Hervé Guibert, 1992)
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L’Arc-en-Ciel (David Bonneville, 2008) Limanakia (António da Silva, 2014) Machos (António da Silva, 2017) Manhã de Santo António (João Pedro Rodrigues, 2012) Mates (António da Silva, 2011) Morrer como um homem (João Pedro Rodrigues, 2009) Nude Dudes (António da Silva, 2014) O Charme indiscreto de Epifânea Sacadura (Óscar Alves, 1975) O corpo de Afonso (João Pedro Rodrigues, 2013) O fantasma (João Pedro Rodrigues, 2000) O nylon da minha aldeia (Possidónio Cachapa, 2012) • O ornitólogo (João Pedro Rodrigues, 2016) – SQ 2017 O que arde cura (João Rui Guerra da Mata, 2012) O Táxi 9297 (Reinaldo Ferreira, 1927) Odete (João Pedro Rodrigues, 2005) • Olympia I & II (Gabriel Abrantes, Katie Widloski, 2006) – SQ 2017 Os demónios da liberdade (João Paulo Ferreira, 1976) Os motivos de Reinaldo (Ricardo Vieira Lisboa, 2018) • Palácios de pena (Gabriel Abrantes, 2011) – SQ 2017 Parabéns! (João Pedro Rodrigues, 1997) • Pedro (André Santos e Marcos Leão, 2016) – SQ 2018 Penis Poetry (António da Silva, André Medeiros Martins, 2016) Pix (António da Silva, 2012) Poetry (António da Silva, 2018) Praia 19 (António da Silva, 2014) Ruínas (João Paulo Ferreira, 1978) Self Destructive Boys (André Santos e Marcos Leão, 2018) Silverlake Life: A View from Here (Peter Friedman, Tom Joslin, 1993) Sinais de fogo (Luís Filipe Rocha, 1995) Solidão povoada (Óscar Alves, 1976) Solos (António da Silva, 2014) Spunk (António da Silva, 2015) • Taprobana (Gabriel Abrantes, 2014) – SQ 2017 Tempo vazio (João Paulo Ferreira, 1982) • Too Many Daddies, Mommies and Babies (Gabriel Abrantes, 2009) – SQ 2017 Um dia frio (Cláudia Varejão, 2009) Variações (João Maia, 2019) Veneno cura (Raquel Freire, 2007) • Visionary Iraq (Gabriel Abrantes, 2008) – SQ 2017 Werther Effect (João Pedro Vale, Nuno Alexandre Ferreira, 2013)
Rise and a Phoenix*2 Queer Film Austria
Dietmar Schwärzler Traduzione di Trevis Annoni
Il mio nome è Harvey Milk e sono qui per reclutarvi tutti Sean Penn in Milk (2008) di Gus Van Sant
Digitando le tre parole “Queer Film Austria” Google ci indirizza soltanto verso pagine dai contenuti piuttosto approssimativi. Questo avviene poiché, da un lato, i motori di ricerca non sono strumenti poi così affidabili, dall’altro perché, effettivamente, il cinema queer in Austria è un fenomeno del tutto marginale. Nel senso strettamente discorsivo del termine, la storia del cinema queer di questo Paese si riduce a poche personalità e si colloca quasi esclusivamente nel campo del “cinema artistico”, sebbene negli ultimi anni ci siano state novità interessanti per quanto riguarda documentari e lungometraggi. Il * Il titolo è un gioco di parole pressoché intraducibile che si riferisce al titolo della canzone Rise like a Phoenix di Conchita Wurst (pseudonimo drag di Thomas Neuwirth) con cui l’Austria ha vinto l’Eurovision Song Contest del 2014 [N.d.T.].
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panorama austriaco dell’arte queer è limitato prevalentemente alla città di Vienna e al contesto delle accademie di belle arti, da cui peraltro proviene. Parlando di cinema queer l’Austria è come una terra incolta dove crescono solo sparuti fili d’erba, ma in cui spuntano sporadicamente meravigliosi fiori solitari. In questo testo vorrei parlare di loro, combattenti in solitaria, e focalizzarmi sugli importanti contributi che hanno apportato nel corso degli ultimi vent’anni di produzioni cinematografiche. “Queer” è ormai un termine onnipresente che non descrive più solo un movimento o una teoria, né tanto meno una sottocultura, e che, proprio a causa dell’uso inflazionato, ha verosimilmente perso il suo valore politico. Il significato esatto di “queer” non è statico e viene lasciato volutamente aperto per evitare qualsiasi tipo di esclusione. Questo implica, però, che ad ogni utilizzo si debba per prima cosa chiarire il significato del termine e dire quindi che cosa si intende di preciso con “queer”. Ed è proprio per questo che propongo qui, come premessa, la spiegazione di Martin Büsser, la cui visione condivido in pieno, anche se in questo testo userò il termine in modo meno rigido: Queer non è solo un’altra parola per “gay” [o “lesbica/bi/ transgender/inter”]: non è né un rinnovamento del termine “gay”, né una semplice espansione del termine per includere sia gli uomini gay che le lesbiche. È una manovra di incertezza che mette in discussione qualsiasi assegnazione di identità, sia del soggetto stesso che dall’esterno. In tal modo “queer” contiene strategie gay, lesbiche, bisessuali, transgender e, in ultima analisi, anche eterosessuali, nel momento in cui aderiscono ad un trattamento della sessualità che si sappia opporre all’eteronormatività [e all’omonormatività]. Una certa pigrizia intellettuale, o piuttosto un trend fuorviante, ha fatto sì che la parola queer si affermasse nel nostro linguaggio come sinonimo di “gay/lesbica[bi/transgender/ inter]”: ad esempio, quello che una volta si era soliti chiamare “cinema gay” ora è conosciuto come “cinema queer”, mantenendo tuttavia il mero significato di “cinema gay”. Al contrario, come spiega Andreas Kraß nell’introduzione
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a Queer denken [Pensare queer], il pensiero queer mira a scardinare i concetti normativi di mascolinità e femminilità, a scindere le categorie di genere e sessualità, a destabilizzare il binomio eterosessualità/omosessualità e a riconoscere il pluralismo sessuale (Büsser 2008, p. 83).
Quando si tratta del cinema queer di questo Paese si deve per forza nominare Ashley Hans Scheirl1. Nel 1975 Scheirl entra all’Accademia di Belle Arti di Vienna per studiare restauro e conservazione, diplomandosi nel 1980 con un lavoro sulla sbiancatura della carta e sul restauro di un disegno barocco. Di origine rurale, Angela Scheirl (dal 1996 Hans Scheirl, poi dal 2016 con il nome di genere neutro Ashley Hans Scheirl) ha iniziato i suoi studi con dirndl2 e codini, non per scherzo o ribellione, bensì a causa della provenienza piccolo-borghese, che si è andata solo col tempo relativizzando per mano di un vocabolario liberatorio dalle forme anarchiche e di uno stile di vita edonistico. Accanto agli esperimenti musicali con il gruppo 8 oder 9, il Super 8 è diventato presto il suo strumento artistico preferito, in quanto accessibile e facile da gestire sia in termini di produzione che di presentabilità. Dal 1979 al 1984 Scheirl ha girato diciotto cortometraggi in Super 8, ma ha fatto coming out solo a metà degli anni Ottanta; fino a quel momento non conosceva la piccola scena queer di Vienna, che aveva comunque poca visibilità pubblica. Contemporaneamente al suo coming out, in una sorta di scatto di liberazione personale, Scheirl ha realizzato insieme a Ursula Pürrer (alias Shi-zu) numerosi cortometraggi in Super 8, fondamentali per la storia del cinema queer3. È con il primo lungometraggio a costo zero Rote Ohren fetzen durch Asche (1991), anch’esso gi1 Scheirl ha recentemente rivendicato il pronome personale “loro” (ing. they, ted. sie, N.d.T.). 2 Il dirndl è un abito tradizionale ispirato al costume delle classi elevate, diffuso nelle aree germanofone meridionali, tra cui l’Austria [N.d.T.]. 3 Tra gli altri Super 8-Girl Games (1985), Das Schwarze Herz Tropft – Bastelanleitung zu Rinnen (1985), Bodybuilding (1984), Gezagtes Rinnsaal
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rato in Super 8 e realizzato in collaborazione con Pürrer e Dietmar Schipek, che questi processi di lavoro collettivi hanno dato luogo a convergenze fertili. Questi film sono l’espressione di un cinema fai-da-te (DIY) appassionato che, cercando di riempire dei vuoti soggettivi, produce mondi (sessuali) fantastici e combina giocosamente arte performativa, pittura, scenografia, musiche cariche di feticci sessuali così come eloquenti prestiti cinematografici da film horror e di fantascienza. Costumi insoliti, trucco intenso, accessori e materiali di scena DIY, scene animate o plastici (urbani) ne caratterizzano l’estetica, veicolata da un “linguaggio dei segni” queer-lesbico in cui oggetti e simboli quotidiani vengono sovvertiti o invertiti sessualmente. Oltre alle pratiche S/M, messe sempre in scena in modo umoristico, sono il fisting o i giochi di pissing a comporre il vocabolario sessuale che entra in azione negli spazi femminili queer ad alta tensione erotica, rivolgendosi principalmente a persone affini. Questi film sono l’espressione di energie sessuali dalla connotazione positiva che, celebrando il pluralismo sessuale, mettono in discussione l’immaginario sessuale e la morale borghese. Tale sottocultura edonistica è resa esplicita da Scheirl in ½ Frogs Fuck Fast (1992-1996) e Summer of 1995 (codiretto con Jewels Parker, 1995), quest’ultimo in grado di catturare e restituire la drag king fever allora dilagante a Londra. Scheirl ha vissuto per due anni a New York e per sedici a Londra, dove ha fatto parte di una scena artistica internazionale queer e transgender (Catherine Opie, Oreet Ashery, Shu Lea, Del LaGrace Volcano, Sue Golding aka Johnny de Philo, Tina Keane, Svar Simpson) prima di tornare a Vienna nel 2005 e di ricoprire, dal 2006 al 2022, la cattedra di pittura concettuale all’Accademia di Belle Arti. Nel 2022, insieme alla partner Jakob Lena Knebel, allestisce il Padiglione austriaco alla Biennale di Venezia. sich schamlos schenkelnässend an (1985), Ein Schlauchboot und Austern (1985). V. sixpackfilm.com.
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Fig. 1. Dandy Dust, Ashley Hans Scheirl.
Dopo Dandy Dust del 1998, ispirato al Manifesto Cyborg di Donna Haraway e punto di arrivo provvisorio della sua opera cinematografica, Scheirl ha scelto di dedicarsi prevalentemente alla pittura, utilizzando da questo momento in poi l’immagine in movimento soltanto come supporto per installazioni e performance. Dandy Dust è una satira horror futuristica che presenta affinità con il fumetto, lo splatter, i B-movie e il cinema underground, in cui Scheirl convoglia raffigurazione e incarnazione del concetto di cyborg verso un’identità impossibile da fissare, in costante transizione. Mi interessa proporre una prassi, una dinamica tra elementi dissonanti e creare ibridi, connessioni e interfacce tra cose diverse, nonché forme di mediazione tra opposti. L’importante è che si tratti di dinamiche. Non tentare, quindi, di stabilire un’identità, ma porre l’accento sul movimento intermedio (v. Schwärzler, Szely 2005).
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Lo sviluppo sessuale, il piacere e l’eccitazione sono le premesse cardine di questo film fun-punk, le cui peculiarità sono l’esposizione versatile di un’estetica low-tech e un processo di collaborazione ben definito e confidenziale, capace di ritrarre la scena queer di quegli anni. I protagonisti di Dandy Dust provengono infatti dalla cerchia di amici e conoscenti di Scheirl e hanno tutti fatto parte dei club dyke d’avanguardia che sono emersi come parchi giochi underground del fetish dyke nei primi anni Novanta; nel film sono presenti riferimenti al Clit Club di Suzie Krüger, che organizzava occasionalmente serate a tema fetish (sex party), e al primo locale di drag king, il Club Naiv (cfr. Armstrong 1999, p. 24 e sgg.).
Mentre Scheirl celebra butch, dyke, dandy e altre figure fantastiche sessualmente feticizzate, i film di Katrina Daschner, ispirati all’arte performativa, si concentrano sulla figura malvagia della femme o della diva che declina immagini (normative) di donna, drag e femminilità (inscenata). Daschner si trasferisce a Vienna, all’inizio degli anni Novanta, per studiare scultura presso l’Università di arti applicate. Insieme a Johanna Kirsch e Stefanie Seibold concepisce e fonda lo spazio artistico Salon Lady Chutney (2000-2002), e Lady Chutney Productions è tuttora il nome del suo laboratorio di produzione. Mentre nei suoi primi lavori persegue una estetica video da girato su mini-dv, assai sprezzante e amatoriale, la sua trilogia NOUVELLE BURLESQUE BRUTAL (2011), composta dai cortometraggi HAFENPERLEN (2008), ARIA DE MUSTANG (2009) e FLAMING FLAMINGOS (2011), prende, almeno sul piano formale, una strada completamente diversa. La sua grafia artistica consiste in una sorta di iperestetica dell’aspetto visivo, corredata da una forte sensibilità verso stile, trucco, oggetti di scena, costumi e make-up che Daschner utilizza ancora oggi per mettere in discussione e assemblare modelli di ruolo e forme di desiderio queerfemministe. Una parte sostanziale della trilogia è il coro greco che commenta le rispettive performance secondo la loro funzione storica (in FLAMING FLAMINGOS sono gli oggetti a condurre la performance), composto da persone apparte-
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nenti alla scena queer femminista e lesbica di Vienna. Oltre a commentare, la stessa comunità queer è anche la destinataria delle performance; l’inquadratura dei loro volti come inizio e fine di ogni sezione rappresenta una parentesi di forma e contenuto. Inoltre, questa trilogia è collegata direttamente al CLUB BURLESQUE BRUTAL del suo alter ego “Professoressa La Rose” (il club, in gestione condivisa, è esistito dal 2009 al 2014 ed è stato successivamente rinominato CLUB GROTESQUE FATAL), che fungeva da luogo di riferimento della scena viennese e da trampolino di lancio per performer queer. Nel documentario Femme Brutal (2015) di Liesa Kovacs e Nick Prokesch troviamo un apprezzamento e una riflessione su noti personaggi di spettacolo e performer quali Miss Bourbon, Madame Cameltoe, Madame Don Chanel, Cunt, Miss Kottlett, Doktor Sourial. Ogni artista parla del suo background, delle sue esperienze di vita e di palcoscenico, delle immagini alternative del corpo, del self-empowerment e della rottura con i concetti normativi di genere. L’appropriarsi del burlesque, già parte della tradizione teatrale, opera come campo di riferimento e di espansione; lo spogliarello viene esibito in quanto live performance fortemente sessualizzata che esibisce forme di desiderio queer-femministe, in riferimento al movimento femminista del sex positivism, all’antibody-shaming, così come ai dibattiti post-porno. Proprio sui palcoscenici, siano essi quelli del teatro, del vaudeville o del circo, è ambientato il film compilation HIDING IN THE LIGHTS (2020), che consiste in otto cortometraggi realizzati tra il 2012 e il 20204. La serie è liberamente tratta da Doppio sogno (1925) di Arthur Schnitzler, romanzo pubblicato a puntate sulla rivista di moda berlinese “Die Dame” e in cui è evidente l’influenza degli scritti di Freud, in particolare quelli sulla femminilità. Le maschere hanno un ruolo cruciale nel mettere in scena la femmi4 Parole Rosette (2012), Hiding in the Lights (2013), Powder Placenta (2015), Perlenmeere (2016), Pferdebusen (2017), Pfauenloch (2018), Plum Circus (2019), Pomp (2020). V. sixpackfilm.com.
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nilità sia in Schnitzler che in Daschner, sebbene quest’ultima, a differenza di Schnitzler, la decostruisca in femminilità queer e Femmeness (cfr. Braidt 2020, p. 243).
Doppio sogno, ripreso da Stanley Kubrick nel film Eyes Wide Shut del 1999 con protagonisti, tra gli altri, Tom Cruise e Nicole Kidman, racconta in sette capitoli la difficoltà della coppia borghese Fridolin e Albertine a vivere le proprie fantasie sessuali. Da un lato, in HIDING IN THE LIGHTS Daschner trasforma i sogni erotici di Albertine in desideri lesbici e queer, in cui compaiono culi imbottiti di silicone, diversi buchi del corpo, frammenti corporei, parrucche dai capelli lunghi, giardini del piacere, accenni di penetrazione e fisting, lupi, cavalli, donne in corteo o persino feticci come la pioggia dorata5. Dall’altro invece riprende la struttura di base del romanzo, legata a luoghi e spazi specifici, caricati eroticamente, e, in otto capitoli, concepisce mondi onirici e fantastici, iperestetici, in cui il kink o la perversione sono espressi tramite la stilizzazione. In Lezzieflick (2008), un corto animato di sette minuti, Nana Swiczinsky è molto più esplicita nella rappresentazione del sesso: il suo materiale di partenza sono scene pseudo-lesbiche tratte da porno etero, che lei, facendo proprie, decostruisce. Attraverso l’uso di tecniche di morphing e compositing, la film-maker mette a nudo il contenuto stereotipato del materiale originale, scompone e allunga a dismisura ciò che ha visto, lo riporta al suo aspetto più puro e al contempo ne suggerisce una reinterpretazione fluida e sessualmente carica. Anche gli habitat teatrali e polimorfi della regista, pittrice e artista performativa Mara Mattuschka6 presentano figure dal desiderio sessuale polidirezionale. In senso queer, 5 In inglese golden shower; si riferisce alla pratica del pissing, in italiano conosciuta anche come urofilia [N.d.T.]. 6 Nel 2013, Elisabeth M. Klocker ha dedicato all’artista un ritratto cinematografico vivace e stratificato – Mara Mattuschka_Different Faces of an Anti Diva – in cui la sua attitudine intellettuale e umanista è espressa alla perfezione.
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le trasgressioni o le alterazioni di categoria tipiche di Mattuschka sono eclatanti in Burning Palace (2009) – realizzato insieme a Chris Haring e alla compagnia performativa Liquid Loft – e nel lungometraggio spacca-generi Phaidros (2018). Mentre Burning Palace, tratto dalla pièce teatrale L’arte della seduzione7, mostra cinque personaggi in un albergo che vengono svegliati nel sonno dal dio greco Pan per farli venire a contatto con le loro fantasie (sessuali), in Phaidros è proprio l’omonimo dialogo di Platone tra il suo maestro Socrate e l’amico Fedro il punto di partenza di un thriller, ambientato nel giro del teatro viennese, che verte sui temi del potere, del sesso e della sottomissione. Gli scenari sono significativi: le pareti scure di un piano dell’Hotel Altstadt di Vienna, decorate con pesanti tessuti viola dal designer Matteo Thun, forniscono il set ideale per una spirale di desiderio e seduzione in questo “palazzo in fiamme”, metafora del corpo. Oltre a figure attive nella scena, come May Teodosio o le due drag queen Lucy McEvil e Tamara Mascara, sono protagonisti in Phaidros i posti gay storici di Vienna. Il film è in parte ambientato nel club Wiener Freiheit, che durante gli ultimi anni di attività, prima di essere chiuso definitivamente nel 2019, è stato spesso luogo di ritrovo e festa per giovani uomini dal background migratorio, così come lo è stato il Kaiserbründl, secondo la guida gay Spartacus una delle saune maschili più belle al mondo, e pure il magnifico Café Savoy8, che esiste dall’inizio del secolo, o l’appartamento del pittore Stefan Riedl, autore dei succinti affreschi sul soffitto e sulle pareti del Kaiserbründl, che – al pari delle opere di Mattuschka – si ispirano a miti o dipinti famosi. 7 L’opera è stata realizzata da Chris Haring/Liquid Loft nell’ambito della Biennale di Venezia sul tema “Body und Eros”. 8 Il Cafe Savoy ospita gli specchi più grandi d’Europa dopo quelli della Reggia di Versailles, un lampadario di Theophil Hansen, che funzionava a gas ed è poi stato elettrificato, un lampadario da salone dorato a fuoco, due statue egiziane provenienti dalla tenuta di Rudolf Nureyev, applique rococò, innumerevoli statue, marmi, ottoni e stucchi.
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Fig. 2. Phaidros, Mara Mattuschka.
Storia – Storie P.S. Esperimenti omosessuali. Metti una goccia d’acqua su un tavolo. Mettile accanto un’altra goccia. Guarda le gocce che si espandono finché non si toccano. E poi, ecco. Una sola goccia. Guarda due fiumi che scorrono l’uno nell’altro. Guarda il vento del Nord che si scontra col vento del Sud. Siamo circondati. John
In Dear John (2014), film saggistico di Hans Scheugl, uno dei più importanti esponenti dell’avanguardia cinematografica austriaca,9 il cineasta getta dal presente uno sguardo sobrio seppur amorevole sulla sua giovinezza a metà degli anni Sessanta. In quel periodo, in Grecia, egli conosce e si innamo9
V. scheugl.org
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ra di un americano, che successivamente viene a trovarlo a Vienna, oltre a scrivergli diverse lettere d’amore. Gli estratti di queste lettere sono l’anima del film: alcuni brani di testo ritagliati restano al centro dell’inquadratura mentre Scheugl riprende con la sua telecamera un lungo viaggio in tram verso il parco divertimenti del Prater. Si ricorda così di John, a malapena del suo volto e appena vagamente della forma del suo corpo o dello stato d’animo in cui i due si erano trovati. Dalle lettere e dalla voce fuori campo dello stesso regista apprendiamo che John scriveva libri, amava la grappa di prugne Slivowic e, tra le altre cose, veniamo a conoscenza di un suo incontro con Jack Kerouac, avvenuto in un bar, durante il quale i due ebbero modo di parlare delle rispettive madri. Il piano di John, che avrebbe voluto confessare la propria omosessualità per sottrarsi al servizio militare e non essere spedito in Vietnam, non è andato in porto. È la madre che non gli ha permesso di esporsi. La casa di John, che Scheugl trova per caso online grazie a una ricerca con Google Street View, fornisce il pretesto per il film, oltre a rappresentare un’inattesa scoperta, dato che egli era convinto, in realtà, che John fosse morto in Vietnam. Questa casa equivale allo spettro di una vita trascorsa insieme che non è mai avvenuta, anche se nel film non germogliano mai forme di rimorso o malinconia. Le riprese delle persone al parco divertimenti e durante la traversata della città sono montate insieme a The Cyclist & the Werewolf, seducente film, girato in 16 mm, che Scheugl ha acquistato negli Stati Uniti per 8,64 dollari e proveniente forse dal laboratorio di produzione di Bob Mizer10. Nel film si vede un uomo, che indossa solo una giacca e dei pantaloni, entrambi di pelle, sdraiarsi sulla sua moto per prendere il sole. Appare poi improvvisamente un secondo 10 Bob Mizer fondò nel 1945 il leggendario studio Athletic Model Guild dove, oltre alla nota Physique Pictoral, negli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta vennero prodotti e venduti a privati svariati film. Nota di Scheugl sul film: Vol. 13 n. 3: “Cyclist & the Werewolf è uno dei nostri sforzi meno riusciti, ma alcuni spettatori potrebbero comunque divertirsi”. 5 minuti e 45 secondi. 8 mm: 5,75 dollari, 16 mm: 8,64 dollari.
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uomo, vestito solo con un perizoma, con il corpo oliato e una maschera da lupo mannaro. Ne segue una rissa, ma i due uomini tornano a casa insieme, divertiti. Alla fine del film, Scheugl riflette sui suoi ricordi che vanno via via scomparendo e conclude: “Da giovane conoscevo un americano di nome John. Non male, come ricordo”. Dear John è l’ultimo film di Scheugl; all’età di 74 anni fa per la prima volta pubblicamente riferimento alla propria sessualità in una sua opera, sebbene avesse già affrontato il tema dell’omosessualità, tra l’altro, nei cortometraggi Sugar Daddies (1968) e Prince of Peace (1993) – entrambi film ambientati in bagni pubblici maschili – e, in privato, non abbia mai fatto mistero del suo orientamento sessuale (Schwärzler 2008). In Austria, la proibizione totale dell’omosessualità è terminata solo nel 1971 grazie alla riforma del Codice penale dell’allora ministro della Giustizia Christian Broda, esponente del governo di maggioranza dell’SPÖ [Partito Socialista] di Bruno Kreisky, dopo molti anni di resistenza da parte dei conservatori dell’ÖVP [Partito Popolare] e della Chiesa cattolica. Fino ad allora, ogni pratica omosessuale era punibile per legge. Dal 1950 al 1971, in Austria, sono state condannate circa 13.000 persone per “fornicazione innaturale”, di cui ben il 95% uomini (Repnik 2006, p. 59 e sgg.). Bisogna aspettare il 1997 per vedere eliminati altri due paragrafi (220 e 221) che vietavano la divulgazione dell’omosessualità, così come la costituzione di associazioni per promuoverla. Gli eventi del ’68 lasciano il segno, e gli anni Settanta, con il loro contesto di sconvolgimento politico, sociale e culturale, sono il decennio in cui anche in Austria si avvia un processo di modernizzazione. Anche i primi effetti concreti del movimento femminista iniziano a farsi sentire. Nel 1974, ad esempio, il governo rende legale l’aborto11, e il 1975 è l’anno della riforma del diritto di famiglia, che pone fine all’istituzione patriarcale del capofamiglia, prevista per legge sin dal 1811. Infine, il referendum del 1978 contro la centrale nucleare di Zwentendorf, vinto per pochi voti, dà inizio al mo11
Fino a quel momento legale soltanto in alcuni casi particolari.
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vimento ecologista in Austria. Tuttavia, nel dopoguerra non c’è ancora traccia di un movimento gay e lesbico attivo nel Paese. I primi tentativi di sostenere la depenalizzazione in forma moderata e organizzata hanno luogo alla fine degli anni Sessanta. A metà degli anni Settanta si formano i primi gruppi d’emancipazione (femminile come ad esempio AUF 1976, Coming Out 1976); il movimento, con la fondazione dell’HOSI di Vienna nel 1979 e l’inclusione delle lesbiche nel 1981, si radicalizza e vengono gettate le basi per la cooperazione organizzativa tra gay e lesbiche. Tutte le leggi sull’uguaglianza delle persone LGBTQ+ che negli ultimi due decenni sono state approvate in Austria (ad esempio: unione civile dal 2010, modifica dello stato civile dal 2011, adozione dal 2016, registrazione del nome e del terzo genere dal 2018, matrimonio dal 2019) non sono merito della politica, bensì di cause private presentate presso la Corte costituzionale. Ad ogni modo questa è la ragione per cui, dopo decenni di lotte, l’Austria è oggi uno dei Paesi più liberali al mondo, almeno dal punto di vista giuridico. Nell’affrontare e nel rielaborare queste lacune storiche possono risultare fondamentali i due film verliebt, verzopft, verwegen (2009) e FtWTF – Female to What The Fuck (2018), entrambi di Katharina Lampert e Cordula Thym. Il documentario verliebt, verzopft, verwegen, della durata di un’ora, è contraddistinto da un’accurata ricerca sulla vita lesbica a Vienna negli anni Cinquanta e Sessanta, un periodo della storia lesbica che in Austria fino ad allora non era stato né documentato né studiato. Il film si propone di “rendere visibile l’invisibile, […] volevamo dare a loro una voce e al tempo il suo significato. Dare vita ai luoghi, narrarne la storia”, come si evince dal parlato in apertura, e prosegue con una conversazione telefonica che si conclude con un rifiuto da parte di una potenziale testimone. La maggior parte delle donne che Lampert e Thym hanno contattato tramite le soffiate di conoscenti si sono rifiutate di parlare per vari motivi, tra cui il fatto di essere troppo vecchie per fare coming out. Alla fine, però, sono riuscite comunque a trovare tre importanti testimoni dell’epoca, le quali intendono la sessualità come
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parte integrante del loro lavoro politico e raccontano quindi volentieri e in modo eloquente, laconico e umoristico alcuni stralci della loro vita, rendendo così tangibili modelli di vita alternativi e reti sociali libere. Si apprende che non di rado, in un pub che faceva da punto di ritrovo sia di gay che di lesbiche, avvenivano irruzioni della polizia con conseguenti denunce; o che il matrimonio tra un uomo gay e una donna lesbica serviva spesso da copertura e il modello standard di famiglia con bambini offriva riparo. Oltre a primi baci, tentativi di suicidio, relazioni e storie d’amore – tra cui una con l’insegnante della figlia – emergono il tema della sessualità in età avanzata e del significato dell’identificarsi come lesbica. Tutte queste storie sono messe in relazione a ritratti di donne lesbiche più giovani, evocando l’eco dell’attualità. Con il loro secondo documentario FtWTF – Female to What The Fuck, Lampert e Thym si avventurano in un terreno fino ad allora poco considerato dal cinema. Il film ritrae sei persone in fase di transizione, mostrando stralci di biografie e approcci assai differenti nella maniera di affrontare la loro identità trans. Criteri fondamentali sono la messa in discussione delle logiche binarie di genere, la ricerca di una mascolinità positiva e il riconoscere la transizione in quanto processo in costante sviluppo senza una vera e propria conclusione. Aree di attrito e discrepanze emergono soprattutto riguardo l’attitudine nei confronti della comunità queer-femminista o della scena gay, così come nelle differenti posizioni rispetto al dibattito sulla visibilità o ai concetti di sessualità; anche nel descrivere la rispettiva vita quotidiana, i resoconti oscillano tra esperienze positive e negative. Ashley Hans Scheirl, ad esempio, ha assunto testosterone per sette anni senza però mai sottoporsi a intervento chirurgico, beneficiando del genere femminile riportato sul suo passaporto per ottenere la cattedra, visto che alle donne, a parità di qualifiche, veniva data la precedenza. Gin Müller, studioso di teatro, drammaturgo e artista performativo, è consapevole della sua posizione privilegiata di transgender bianco, queer e femminista, e non considera per nulla facile lo stare a metà, ma prende comun-
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que il misgendering alla leggera. Lo scienziato, docente e allenatore Persson Perry Baumgartinger, invece, è stato costretto a sterilizzarsi per compiere la transizione (secondo una legge che in Austria è stata abrogata solo nel 2010), cosa di cui oggi si rammarica alquanto. Sia all’inizio che alla fine del film vengono mostrate due asportazioni del seno: Nick Prokesch, egli stesso regista,12 adora le cicatrici che ne derivano, mentre l’artista performativo Dorian Bonelli aveva proprio bisogno di una ferita per essere più sé stesso. A spiccare in FtWTF sono i racconti autoriflessivi, aperti e leggeri di chi narra, tutte persone che lavorano per diventare sé stesse senza troppi lutti o malinconie, così come pure il contesto sociale, premuroso e accogliente, restituito molto bene dalle due registe. Uno dei registi austriaci più importanti del cinema queer è Patric Chiha. Nato a Vienna nel 1975, si trasferisce a Parigi (dove abita tuttora) all’età di diciotto anni per studiare moda, per poi formarsi come montatore cinematografico a Bruxelles. Con Domaine (2009), il suo primo lungometraggio, il regista mette in atto un’impressionante narrazione parallela che esplora lo stile di vita gay. Il suo lungometraggio successivo, Boys Like Us (2014), è una deviazione nel regno della commedia e racconta di tre parigini gay che, sulle Alpi austriache – la città che incontra la campagna – conducono un’arguta e talvolta farsesca ricerca di sé stessi, gettando uno sguardo a ritroso sulle loro relazioni, tresche e amicizie. Chiha trova, con Brüder der Nacht (2016) e Si c’était de l’amour (2020), un linguaggio cinematografico a cavallo tra la finzione e il documentario in grado di mettere in scena con enfasi la realtà, senza limitarsi a rappresentarla. In questi film la verità è, per così dire, relativa e ha luogo anche nella menzogna (esibita). Tutti gli attori di Brüder der Nacht sono dilettanti, giovani rom bulgari che si prostituiscono a Vienna. Distanziandosi nettamente dall’approccio socio-pornografico che accomuna numerosi servizi televisivi sul tema, Chiha punta sulla collaborazione da un lato e sulla stilizzazione 12 Cfr. in questo testo Femme Brutal o anche il suo cortometraggio Passing – (a beginning) (2016).
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dall’altro, con l’intenzione di non fare un film sui ma con i marchettari. Le varie scene sono state realizzate con una tempistica flessibile nel corso di un anno, bevendo, fumando e chiacchierando insieme ai ragazzi, la maggior parte dei quali, che non ha un’educazione scolastica, non sa né leggere né scrivere. Stilisticamente, Brüder der Nacht prende spunto dagli allestimenti melodrammatici di Douglas Sirk, Rainer Werner Fassbinder o Kenneth Anger, ai quali il direttore della fotografia Clemens Hufnagel si è ispirato, su indicazione dello stesso Chiha (Schiefer 2016). Mentre i ragazzi riproducono le situazioni vissute con i clienti, i loro volti sono avvolti da un’intensa luce rossa, blu o gialla. Il film riesce a restituire un tessuto sociale particolare; i ragazzi si conoscono bene, alcuni sono addirittura parenti, si piacciono molto e trascorrono spesso e volentieri tempo insieme, divertendosi e festeggiando, cosa che non possono fare a casa nella loro cerchia familiare. Quando, oltre che delle loro esperienze sessuali, parlano di relazioni e progetti per il futuro, uscendo dai loro ruoli e rivelando frammenti di vita privata, si manifesta un piano affettivo piuttosto intimo. Si c’était de l’amour, che ha vinto il Teddy Award per il miglior documentario alla Berlinale 2020, è costruito intorno a Crowd, spettacolo in cui la compagnia di danza di Gisèle Vienne interpreta un rave techno anni Novanta. Un ruolo di primo piano nell’opera, così come nel film, lo svolge la straordinaria selezione musicale ad opera di Vienne e Peter Rehberg, che comprende, oltre alla formazione KTL e a un progetto solista dello stesso Rehberg, nomi importanti della scena di Detroit come Jeff Mills e altri membri dell’Underground Resistance. Quindici soggetti danzanti si incontrano in un club techno, i loro personaggi e le loro “storie” forniscono un campione di sguardi, che lo scrittore Dennis Cooper sviluppa in collaborazione con Vienne e il suo gruppo di performer. Chiha dà corpo ai personaggi attraverso dei dialoghi, suddivisi a gruppi di due o tre persone, in cui viene reso esplicito l’intreccio tra i ruoli sul palco e le loro vere vite. Si c’était de l’amour è un tentativo di esprimere una grammatica della sensibilità, di accostarsi alle vicende attraverso l’empatia e di stimolare (affettivamente) il pubblico.
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Fig. 3. Si c’était de l’amour, Patric Chiha.
Ritratti cinematografici13 L’essenza di ogni ritratto consiste nell’accostarsi a una persona o alla sua immagine pubblica, con la possibilità che il soggetto ritratto condizioni in qualche modo il prodotto finale. Una considerazione da fare, forse un po’ semplicistica, è la seguente: più la persona ritratta è conosciuta e a suo agio di fronte alla telecamera, maggiore è l’influenza 13 I film su persone LGBTQ+ conosciute sono produzioni rare nel contesto austriaco degli ultimi vent’anni, in cui l’orientamento sessuale non è quasi mai il tema centrale; chi fa cinema queer, di solito, non si considera parte di una vera e propria comunità e non ha intenzioni divulgative unitarie. Le loro opere appartengono principalmente al formato del Filmporträt [rispetto al film biografico, il Filmporträt, in italiano reso con “ritratto cinematografico”, ha un carattere più documentaristico e si occupa, in genere, solamente di un periodo ben preciso della vita di una persona, N.d.T.]: è proprio a causa dei soggetti ritratti che interessano il pubblico e risultano utili a scrivere la storia del cinema queer; si citano di seguito le opere che non sono menzionate nel testo: Helmut Berger, Actor (2015) di Andreas Horvath, i due ritratti piuttosto divergenti di Hermes Phettberg Der Papst ist kein Jeansboy (2011) di Sobo Swobodnik e Hermes Phettberg, Elender (2007) di Kurt Palm, Who’s Afraid of Kathy Acker (2007) di Barbara Casper, Whatever happened to Gelitin (2016) di Angela Christlieb, Die Dohnal / Johanna Donahl – Visionary of Feminism (2019) di Sabine Derflinger.
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che questa può esercitare sul risultato, anche se, c’è da dire, ogni incontro è diverso a seconda della situazione, del momento e di chi ne prende parte. In Kern (2012), di Veronika Franz e Severin Fiala, l’attore, regista, scrittore e produttore Peter Kern domina la scena. “Un film che si sfalda”: secondo Kern la regia non ha la minima idea di cosa vuole fare. Kern dà di matto per tutto il film. Durante le riprese urla contro lo scenografo, sgrida una collaboratrice e non si sottrae al confronto con il pubblico. Quando la regia gli propone di leggere davanti alla cinepresa la cattiva recensione di uno spettatore, relativa al suo film Blutsfreundschaft (2009, in cui Helmut Berger interpreta il proprietario omosessuale di una lavanderia in un ambiente neofascista), Kern accetta, per poi smontare e rendere vana l’intenzione voyeuristica di farlo adirare. Il film continua ad alternare il personaggio e la persona reale, anche se in questo caso la verità non sta nel mezzo, bensì dentro ai ruoli stessi. Kern finge di non rivelare nulla di sé, presentando un’immagine di sé stesso che contrappone menzogna e verità seguendo la lezione di Jean Genet (cfr. Albers e Mau 1991, a cura di). Kern non interpreta però solo il ruolo di collerico aggressivo, ma anche quello di affascinante ammaliatore, cercando spesso di risultare un intrattenitore eloquente e spiritoso, trasportato da un profondo desiderio d’amore e parlando, tra l’altro, con le lacrime agli occhi durante la visione della sua semi-fiction Knutschen, Kuscheln, Jubilieren (1997), che racconta la storia di sei gay anziani. Kern si mostra anche in altre modalità: rievoca il suo primo bacio con Leonard Bernstein, che suona il pianoforte con e sulla sua lingua, racconta di ungheresi che fingono di essere prostituti filippini o parla del suo rapporto con la madre, alla quale non mai ha confessato la sua omosessualità – motivo per cui fa coming out con la sua “madre cinematografica” in Glaube, Liebe, Tod (2012). Quando deve fare una risonanza magnetica, il medico lo manda in una clinica veterinaria perché è troppo grosso per entrare nel macchinario a cilindro. Prima è il turno di una mucca, poi di un cavallo, di un maiale
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e alla fine tocca a Kern. Quando sul finale balla sulla sedia “Stand By Me” di Ben E. King, è quasi impossibile non venir contagiati dall’esibizione della persona e del personaggio di Kern. Il London Times ha definito i film di Peter Kern “il cinema dei feriti” e lui stesso afferma: Ogni personaggio è parte della mia vita, è una sensazione, un’esperienza, un’invenzione. […] Le persone che fingono non mi interessano. Le persone autentiche mi arricchiscono la vita. Le persone che stanno nell’ombra, le trascino verso la luce. Siamo una società di gruppi emarginati. Al centro sta la mediocrità, con cui io non ho niente a che fare (Pichler e Slanar 2006, a cura di, pp. 28 e ss.).
Tintenfischalarm (2006) di Elisabeth Scharang è basato sulla storia di Alex Jürgen14, che nasce nel 1976 con il nome di battesimo di Jürgen e viene cresciuto come una ragazza, su indicazione dei medici. All’età di 6 anni gli viene amputato il pene, a 10 anni i testicoli e a 15 anni subisce un intervento di chirurgia plastica vaginale. Quando nel 2002, al programma radiofonico FM4 / Doppelzimmer, Alex ascolta la storia di una diciassettenne che parla di chirurgia estetica, gli viene spontaneo chiamare a sua volta la stazione radio, per parlare della sua vita e fare coming out come persona intersessuale, e fornendo a Scharang lo spunto per realizzare il film. In Germania nascono ogni anno 350 persone intersessuali, per l’Austria mancano i dati. Sebbene delle otto diverse forme di intersessualità solo una (!) richieda un intervento chirurgico (la sindrome adrenogenitale), le operazioni vengono eseguite regolarmente al fine di normalizzare le persone, evitando così di mettere in risalto la loro particolarità e impedendo loro di scegliere, raggiunta una determinata età, il proprio sesso. Alex Jürgen ed Elisabeth Scharang lanciano un appello all’autodeterminazione, 14 Con l’aiuto del suo avvocato Helmut Graupner, Alex Jürgen è diventato, nel 2019, la prima persona in Austria a ottenere la dicitura “X” sul passaporto e la designazione “divers” sul certificato di nascita.
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sensibilizzando e informando quei genitori che si trovano ad affrontare questo tipo di decisione. Dalla sua posizione ambigua, Alex intraprende il viaggio verso la “condizione primordiale”, come piace dire a lui, un viaggio di “costante auto-confronto”, come lo chiama lo psicologo Knut Werner-Rosen, uno dei pochi ad offrire terapie per persone intersessuali. Alex trova riscontri positivi sia partecipando alla prima Trans March a San Francisco nel 2004, sia nell’incontro con il Max Wolf Valerie, uomo trans famoso grazie ai film di Monika Treut Gendernauts (1999) e Female Misbehavior (1992) e autore di Testosterone Files (2006). La questione di genere, inizialmente centrale, torna ad essere, in questo ritratto cinematografico, solo una fra le tante: il film mostra un processo di scoperta e di responsabilizzazione complesso, non di rado tormentato. Alla fine del film, Alex si è avvicinato al suo obiettivo. A questo punto essere un maschio non è più così importante e la “via di mezzo” si dimostra un’opzione potenzialmente positiva. Seppur veicoli tutt’altro messaggio in termini di contenuto, Outing (2012), documentario di Sebastian Meise e Thomas Reider, ha un approccio formalmente simile. Il film inizia con un girato amatoriale in cui si vede un padre rispondere alla domanda del figlio, che lo interroga a proposito delle sbarre nere che coprono il volto di una persona in TV: “Abbiamo diritto alla nostra identità [breve pausa] e alla nostra immagine di persona”. Nel film di Meise e Reider non compaiono né sbarre nere né indirizzi, ma le immagini dei bambini sono state sfocate, in modo da non renderli identificabili. Sven, il protagonista, mette a disposizione la sua figura, senza sbarre né voce distorta, e parla esplicitamente del suo disturbo sessuale, confidandosi e restituendo un sincero autoritratto critico. All’origine del lavoro dei due autori c’è un progetto dell’Ospedale universitario della Charité di Berlino che coinvolge persone consapevoli delle proprie tendenze pedofile e decise a non metterle in atto. Sono fissati così i limiti del film: quelli del protagonista, che sfrutta questa possibilità per sondare il terreno e mostrarsi
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in pubblico riducendo così il rischio di commettere abusi, e quelli dei registi, che durante i quattro anni in cui accompagnano Sven non sanno fare a meno di considerarsi come un rimedio. Il senso comune o, per così dire, l’accordo di base sarebbe dunque: il tabù sociale può sfociare in un outing solo se non avvengono abusi. Le varie tappe della biografia di Sven, le chiamate via Skype, le foto della sua infanzia, le interviste riprese con una telecamera portatile e le registrazioni dei racconti costituiscono il canovaccio del film; Meise e Reider cercano di stare dietro alla versione di Sven restando il più possibile sobri e neutrali. Tuttavia, i vincoli individuali di Sven vanno allentandosi e viene prontamente organizzata una chiacchierata con i genitori di Sven, per riflettere ancora una volta sui dilemmi dell’intera situazione. L’amore, la cura e un senso di responsabilità sollecitato più volte si contrappongono alla paura, al rifiuto e, in ultimo, alla castrazione chirurgica scelta come soluzione da un compagno di sofferenza. Alla conclusione del film Sven ha 28 anni e non è chiaro se sarà in grado di disciplinare il suo desiderio sessuale. Il film non tratta di un reato penale, ma tenta di cogliere una particolare inclinazione sessuale, implicando così un aspetto del lavoro di prevenzione. Il regista tedesco Jan Soldat, che abita da qualche anno a Vienna, ha dato il via nel novembre 2019 a un ciclo di corti chiamato Erste-Dates-Kurzfilme15. Partendo da alcuni annunci sulle piattaforme di incontri online Soldat stabilisce un primo contatto. Per l’incontro ci sono tre criteri: 1) La persona deve avere voglia di mostrarsi di fronte alla telecamera. 2) Rendere noto il proprio volto non dev’essere un problema, a meno che coprirsi il viso con una maschera non faccia parte di una pratica sessuale. 3) Soldat mette in chiaro fin da subito che il suo ruolo è di stare esclusivamente dietro la cinepresa. Il risultato è un ritratto di uomini gay di una certa età che riportano principalmente i propri gusti e le proprie fantasie sessuali, che sfociano nella pornografia. 15
“Cortometraggi dei primi appuntamenti” [N.d.T.].
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In questi film Soldat è presente solo come benevolo intervistatore fuori campo, attenendosi all’essenziale, laddove i protagonisti si esibiscono, nudi. Così facendo si svelano mondi fatti di sesso: un segaiolo che passa tutto il giorno a masturbarsi davanti al computer in cerca di avventure sessuali e ama ingoiare sperma (Der Wixer, 2020), Mic e Flo, che ogni martedì svolgono la loro sessione sadomaso, con tanto di fisting (Immer wieder Dienstag, 2020), così come le riprese porno private a cui Soldat assiste (Drei Engel für Wolfgang, 2020; Mensch Christian, wir drehen’n ‘nen Porno, 2020). Delle inquadrature statiche, a volte con camera a mano, sono il tratto distintivo formale di tutti questi film, girati in (economiche) camere d’albergo o in piccoli appartamenti di proprietà delle persone ritratte; spazi abitativi circoscritti e oggetti sullo sfondo costringono a una narrazione ombrosa. Il pubblico può così osservare un gruppo di persone che raramente viene rappresentato sugli schermi cinematografici, le cui abitudini sessuali vanno a riempire delle lacune nell’ambito del documentario. Il cinema funziona qui come una forma di contatto, di esplorazione delle possibilità di un primo incontro, in cui l’attrazione del regista per gli interpreti risuona latente. In Erwartungen (2020), Soldat interrompe le riprese perché l’uomo che si masturba davanti a lui lo sta usando come stimolo sessuale. Anche in Erwin (2020) è evidente una tensione sessuale univoca, anche se prende una piega completamente diversa. Erwin, oltre a presentarsi in modo remissivo come “scrofa arrapata” all’inizio del film, incalzato dalle domande di Soldat, parla delle sue fantasie sessuali e dei suoi due grandi amori, entrambi uomini che, accanto alla loro relazione, hanno avuto relazioni con donne e che, alla fine, hanno preferito la classica vita familiare. Erwin ci regala una lucida biografia del gay ordinario nell’Austria rurale degli anni Settanta, zeppa di feticci sessuali, offrendoci al contempo uno spaccato della vita di quest’uomo che, nella sua roulotte parcheggiata in giardino, persegue un’equilibrata armonia con il mondo. Soldat passa, con gli Erste-Dates-Kurzfilme, dai portali web
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al cinema e contribuisce a compilare la “voce enciclopedica” delle perversioni, e del queer. Corrispettivi immaginari di realtà Uno dei film gay di maggior successo nei festival degli ultimi anni è sicuramente Kater (2016) di Händl Klaus, ambientato, a differenza dei film di Soldat, nell’ambiente borghese di una coppia di artisti gay. I due innamorati vivono in una bella casa con un grande giardino, cucinano molto e invitano spesso persone a cena; la loro vita sembra restare lontana da preoccupazioni e contraddizioni politiche. Sarà l’omicidio del loro gatto Moses a far crollare questo idillio apparente. I due uomini, che hanno una relazione di lunga data, sono incapaci di comunicare tra loro, in linea con il paradigma del “maschio classico”. Le allusioni al racconto biblico sono del tutto intenzionali e il sogno dell’Eden, che per Klaus non rappresenta un ironico obiettivo, ma neppure un vivido miraggio, si infrange. Kater rimane impegnato nella rappresentazione di uno status quo, ma sa dimostrare come alcuni stili di vita omosessuali dalle “vedute ristrette” appartengano ormai, nel mondo occidentale, ad una convenzionalità diffusa.
Fig. 4. Kater, Händl Klaus.
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Recentemente, numerosi lungometraggi austriaci, per lo più produzioni provenienti della Vienna Film Academy, sono riusciti a differenziare in modo crescente il genere del coming-of-age. In Schwitzen (2014) di Iris Blauensteiner, Siebzehn (2017) di Monja Art, Die Mitte der Welt (2016) di Jakob M. Erwa, L’Animale (2018) di Katharina Mückstein e Nevrland (2019) di Gregor Schmidinger, i protagonisti sono personaggi LGB, sebbene nella maggior parte dei casi l’orientamento sessuale non sia più così rilevante. Si tratta piuttosto di film che provano a cogliere stati d’animo e inclinazioni di adolescenti, soprattutto di zone di campagna, alla ricerca del primo amore e delle prime esperienze sessuali, indipendentemente dal loro orientamento sessuale; si possono considerare come film di presa di coscienza. Tuttavia, non è difficile ipotizzare in quali contesti le esperienze biografiche siano risultate rilevanti e come queste siano la fonte di ispirazione prevalente per chi fa cinema queer, soprattutto nel rappresentare le scene di sesso, più che mai decisive. Die Mitte der Welt, tratto dall’omonimo romanzo di Andreas Steinhöfel, affronta i temi dell’amore, del sesso e dell’adolescenza nel modo più naturale e, in un certo senso, più romantico possibile. Erwa mette in scena una storia d’amore burrascosa, erotica ma leggera tra il diciassettenne Phil e Nicholas, suo nuovo e attraente compagno di scuola, storia che finisce quando quest’ultimo va a letto con la sua amica Kat. In un periodo in cui le storie di disavventure omosessuali erano nuovamente in voga16, l’approccio di Erwa si rivela un modello positivo, che porta con sé un enorme potenziale di emancipazione, capace di contrapporsi e destabilizzare le categorie eterosessualità/omosessualità, seppur in fin dei conti non osi sviluppare veri e propri modelli alternativi di vita e amore. In ultima analisi, i personaggi del film rimangono fedeli ad una nor16 Tra gli altri, il film premio Oscar Moonlight (2016) di Barry Jenkins o i due libri Ritorno a Reims (pubblicato in tedesco nel 2016) di Didier Eribon, Il caso Eddy Bellegueule di Edouard Louis (pubblicato in tedesco nel 2015); l’approccio intersezionale di questi esempi è particolarmente degno di nota.
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matività omosessuale. Un approccio simile viene adottato da Iris Blauensteiner e Monja Art nei loro film Schwitzen e Siebzehn, entrambi ambientati in provincia e caratterizzati da atmosfere tenui. Le amiche quindicenni Marion ed Elisa sperimentano la ribellione insorgendo contro il gruppo dei coetanei, mentre l’attrazione sessuale fra di loro è latente e soltanto accennata da immagini frementi. I personaggi che ruotano intorno alla diciassettenne Paula, invece, sono un passo più avanti. Talentuosa studentessa di collegio, Paula è innamorata della sua compagna di classe Charlotte, che però ha un fidanzato. Paula si mette allora con Tim, un simpatico nerd con cui va a letto, senza comunque riuscire a ricambiarne l’amore. Poi c’è la ribelle Lilli, aperta al sesso in tutte le sue forme e in cerca di attenzioni. Monja Art inserisce, nella diegesi del film, il sesso tra ragazzo e ragazza in modo naturale, sensibile e diretto. Charlotte, invece, si limita a sognare (nei suoi pensieri, raffigurati anche visivamente) un bacio di Paula o a immaginarla quando il suo ragazzo la soddisfa oralmente. Del primo rapporto sessuale tra Lilli e Paula viene mostrata solo la schiena nuda di Lilli sedersi, con addosso i pantaloni, su Paula, che si toglie il reggiseno. Quando, poco dopo, coperta nell’inquadratura da Lilli, anche Paula si toglie il pezzo sopra, la scena si interrompe. Anche in Siebzehn le parole gay, lesbica e queer non compaiono più esplicitamente, ancora una volta nel tentativo disinvolto di fare a meno di attribuire etichette sessuali. Ad ogni modo, i modelli di rappresentazione possono essere perfezionati, ad esempio in L’Animale di Katharina Mückstein ci si concentra sull’ampliamento dei ruoli femminili. Sempre ambientato in provincia, in questo film Mückstein giustappone alla storia di conoscenza di sé tra Mati, che sta per diplomarsi, e Carla, poco più grande di lei, quella dei genitori di quest’ultima, Paul e Gabi. La relazione dei due è in un momento di crisi, perché a Paul piacciono anche gli uomini ma non riesce ad ammettere la propria bisessualità, una difficoltà che, più avanti nel film, lo porta a un crollo. Mückstein si
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astiene completamente dal mostrare scene di sesso tra le due ragazze che, per vie traverse, finiscono per trovarsi, e contrappone la loro storia di emancipazione a quella dei genitori, dove il sesso tra uomini finisce invece puntualmente in lacrime. In questi film c’è un’unica via d’uscita: partire per andare in città. Nevrland, lungometraggio d’esordio di Gregor Schmidinger, classe 1985, è ambientato a Vienna. Jakob, diciassette anni, condivide con il padre e il nonno un appartamento silenzioso. È afflitto da disturbi d’ansia e, con un contratto interinale part-time, lavora insieme al padre in un mattatoio. Di notte frequenta locali o portali di sesso online, dove incontra l’artista ventiseienne Kristjan, di cui si innamora. Nelle interviste, Schmidinger ha rivendicato ripetutamente il termine “post-gay”, termine che si era già affermato negli anni Novanta – riferito a persone e realtà omosessuali che vengono sì rappresentate, ma non problematizzate (Köhnemann 2019). Eppure, nel film la serenità è molto distante: il bel protagonista, presente in tutte le scene del film, non ride nemmeno una volta. Schmidinger, che ha studiato prima televisione digitale alla Fachhochschule di Salisburgo e poi sceneggiatura all’UCLA in California, è anche il co-ideatore, insieme a Yavuz Kurtulmus e Jasmin Hagendorfer, del Porn Film Festival Vienna, fondato nel 2018 sul modello omonimo di Berlino. L’uso della pornografia è la regola in Nevrland e serve come luogo di fuga, o come catalizzatore della realtà e dell’esplorazione di ogni aspetto della carnalità. Ad esempio, in una sequenza concettuale la macellazione di un maiale viene sovrapposta ad una scopata tratta da un porno. Inoltre, durante il primo rapporto sessuale tra Jakob e Kristjan, la macchina da presa è letteralmente incollata prima alle loro labbra, poi ai loro corpi atletici; i tocchi delicati sulla voglia di Jakob e sul petto di Kristjan generano inquadrature sensoriali; l’obbligatorio intreccio di dita durante l’amore e l’orgasmo simulato attraverso una meteora bianca che esplode nello spazio (Jakob vorrebbe studiare cosmologia) sono al servizio del cliché.
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Prospettiva Il film d’essai Gli Appunti di Anna Azzori (2020) di Constanze Ruhm mostra, oltre all’interazione tra arte e realtà, come le immagini della memoria storica del cinema, restando in continuo movimento, possano far sorgere, tramite una prospettiva complessa, nuovi rapporti nell’attuale. Da una prospettiva queerfemminista, Ruhm prende in prestito la protagonista dell’omonimo film Anna (1972-1975) di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli, una pietra miliare del cinéma vérité, e ne ipotizza nuove versioni. Per farlo, l’artista si affida a un coro di donne che sostengono e moltiplicano il personaggio principale; allo stesso tempo, mette in luce il potenziale emancipatorio del lavoro collettivo. Nel film di Ruhm, se non altro, le persone “indigene”17 fanno parte di una comunità evocata e rivendicata, ma anche questo elaborato film non può nascondere il fatto che il cinema (queer) austriaco sia in realtà ancora lontano da complessità e inclusione. Anche questo deve cambiare. Addendum Questo testo è stato scritto nel 2020 e da allora sono stati realizzati altri film che appartengono di diritto alla storia del cinema queer austriaco. Innanzitutto, Moneyboys (2021) di C.B. Yi e Große Freiheit (2021) di Sebastian Meise, entrambi presentati in anteprima nella sezione “Un Certain Regard” a Cannes, nonché Eismayer (2022) di David Wagner, anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia. Forme ibride come Beatrix (2021) di Milena Czernovsky e Lilith Kraxner o PARA:DIES (2022) di Julia Windischbauer ed Elena Wolff richiederebbero entrambe una riflessione più approfondita; bisogna citare, inoltre, i cortometraggi Mein Hosenschlitz ist offen. Wie mein Herz (2021) di Marie Luise-Lehner, 5pm Seaside (2022) di Valentin Stejskal, TRANS*GAZE (2021) di Rosa Wiesauer e 17
Nella versione originale “People of Color” [N.d.T.].
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Staging Death (2022) di Jan Soldat. La storia non si ferma, il panorama attuale richiede una revisione permanente. Certamente Große Freiheit si è assicurato un posto stabile nella storia del cinema (queer) austriaco, e dunque vorrei concludere dando un’occhiata più da vicino a questa insolita produzione.
Fig. 5. Beatrix, Milena Czernovsky & Lilith Kraxner.
Prima di tutto, però, un caso reale: nel 1962, nel corso di un’indagine di polizia, in un locale pubblico di Mansfield (Ohio) fu installata una telecamera, nascosta per più di tre settimane dietro una porta tramite una costruzione a specchio, con lo scopo di registrare ciò che accadeva nel locale, noto luogo di incontro per omosessuali e bisessuali. La cinepresa da 16 mm – che doveva essere cambiata manualmente più volte poiché una bobina di pellicola ha una durata di tre minuti – era gestita da Bill Spognardi e Dick Burton per conto della polizia statunitense. Il materiale filmato servì come prova in tribunale per condannare gli uomini in base alla legge
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sulla sodomia in vigore all’epoca. Più di 30 uomini, quasi un terzo dei quali sposati con donne, furono condannati a pene detentive da uno a otto anni a causa dei comprovati comportamenti omosessuali, mentre tanti altri vennero rinchiusi negli ospedali psichiatrici; i tentativi di appello al tribunale distrettuale competente risultarono vani. Lo scottante materiale video, assai rilevante dal punto di vista storico ed estetico, è stato reso pubblico nel 2008 dal regista statunitense William E. Jones, nella forma di un ready-made cinematografico intitolato Tearoom (slang per indicare una toilette pubblica dove gli uomini gay si incontrano per fare sesso anonimo), integrato da un opuscolo informativo (Jones 2008). Große Freiheit, concepito come un lungometraggio ambientato in Germania, si ispira a casi reali come questo e in particolare a questa vicenda, descrive la storia del personaggio immaginario Hans Hoffmann, brillantemente interpretato da Franz Rogowski. Il protagonista finisce più volte in carcere per aver violato il paragrafo 175 della legge tedesca, che rende l’omosessualità un reato (il corrispettivo in Austria era il paragrafo 129). Nel dopoguerra, Hans viene trasferito dal campo di concentramento direttamente in prigione; un numero tatuato, trascritto nel film in un atto d’amicizia, simboleggia questa prima vicenda. Per moltissimi omosessuali, gli Alleati non furono affatto dei liberatori: adottarono infatti il paragrafo 175, presente in Germania sin dal 1872, anno dall’entrata in vigore del Codice Penale del Reich, inasprito poi sotto il nazismo, continuando quindi a tenere in galera gli omosessuali. Il paragrafo, che rendeva perseguibile per legge ogni atto omosessuale, non fu abolito in Germania prima del 1969; solo nel 1994, dopo la riunificazione è stato definitivamente abrogato18. 18 Nella sola Germania, nei due decenni successivi alla guerra, circa 140.000 persone sono state portate in tribunale e più di due terzi di loro sono state condannate al carcere. In Austria, tra il 1950 e il 1971, ci sono state circa 13.000 condanne per “immoralità innaturale”, il 95% delle quali hanno riguardato uomini (Repnik 2006). In Germania, l’Articolo 175 riguardava esclusivamente gli atti omosessuali tra uomini, mentre in Austria l’Articolo 129 rendeva punibili anche gli atti omosessuali tra donne.
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Il film di Meise inserisce la continuità storica dell’omofobia in una prospettiva temporale alternata e non cronologica, compresa tra la fine della guerra e il 1969. La narrazione si concentra sulle storie d’amore di Hans e sui periodi passati in carcere, così come pure sulle forme di relazione non proprio chiuse che hanno luogo dietro le sbarre. Il primo è Oskar (Thomas Prenn), che in prigione crolla. Le prove usate per incarcerarlo sono delle riprese private in Super 8 che mostrano Hans e Oskar durante un’idilliaca gita balneare (gli attori si sono filmati a vicenda). I filmati in Super 8, che nel film permettono di osservare da vicino la vita di Hans al di fuori delle mura della prigione, sono reperti del privato che si trasformano, in un sovvertimento giuridico quasi perverso, in materiale incriminante: gli uomini, che nelle riprese si mostrano affettuosi e in intimità, sono, per la legge, dei delinquenti. Leo (Anton von Lucke), un insegnante che Hans ha conosciuto nei bagni, è il secondo love interest. Hans si assume in questo caso tutta la responsabilità, per fare in modo che Leo abbia un futuro. Georg Friedrich fa da congeniale controparte a Rogowski nel ruolo di Viktor, uomo tipico dell’epoca, normativo e piuttosto burbero. Mentre Rogowski dota il suo personaggio di grande tenerezza e mostra in silenzio ma in modo coinvolgente il suo nucleo familiare emotivo, Viktor resta sull’esperienza della soglia che la vita carceraria gli impone, oscillando tra un grossolano disgusto e l’affetto per Hans, che sviluppa in seguito. Sono principalmente le sbirciate e i cambi di visuale ad essere capaci di comunicare, sebbene facciano comunque parte del dispositivo di sorveglianza che la direttrice della fotografia Crystel Fournier lascia spesso sprofondare nell’oscurità, insieme ai suoi vincoli di spazio e movimento, o mette in risalto tramite sorgenti luminose ridotte. Sebastian Meise e il suo sceneggiatore Thomas Reider si occupano di società interamente maschili, in cui sembra particolarmente importante distinguere tra omosessuali ed eterosessuali, nonostante i confini tra esse siano fluidi a causa, di fatto, della loro dimensione chiusa
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ed esclusiva, come dimostrato ripetutamente nelle classiche roccaforti maschili, ovvero Chiesa ed esercito. Nel film le alleanze si costituiscono esclusivamente all’interno di queste costellazioni; soltanto Viktor osa fare un passo più in là, senza però abbondonare le sue idee, modellate dal patriarcato. Le donne non appaiono in Große Freiheit che in alcune foto di nudo e in un racconto, comunque impregnato di maschilismo. Si parla brevemente di “femmine” e in un’occasione di un femminicidio avvenuto perché il “padrone di casa”, all’epoca ancora parte centrale dell’immaginario diffuso, pretendeva il silenzio. Una delle scene chiave più intime del film è quella in cui Viktor descrive ad Hans, di sua spontanea volontà, il motivo della sua reclusione. È uno dei rari momenti di fragilità di un film altrimenti ricco di gradazioni differenti: qui, infatti, la connessione emotiva rimane, nel tentativo tanto contraddittorio quanto misogino di giustificarsi: – “Volevo solo che fosse tranquilla. L’amavo, davvero” – con l’autore del reato, lasciando la vittima, che resta sconosciuta, in secondo piano. Alma Zadić è stata, nell’estate del 2021, la prima ministra della Giustizia dell’Austria a scusarsi pubblicamente, in nome della giustizia, per la persecuzione penale contro gli omosessuali nella Seconda Repubblica. Große Freiheit è il primo film cinematografico austriaco (!) a trattare di queste ingiustizie e dunque con questa categoria di vittime della legge19. I titoli di coda del film scorrono senza sonoro, alludendo a questo lunghissimo silenzio. Grazie a Christa Benzer, Isabella Reicher e Kathrin Wojtowicz Bibliografia Albers, B., Mau, L. (a cura di) 1991 Hubert Fichte/Jean Genet. Ein Interview, Rimbaud Verlag, Aachen. 19 Rob Epstein e Jeffrey Friedman, ad esempio, si sono occupati del paragrafo 175 nel loro film-documentario del 2020, dal titolo omonimo.
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Armstrong, R. 1999 Cyborg Film Making in Great Britain, in Braidt, A.B. (a cura di), [Cyborg. Nets/z] Catalogue on Dandy Dust (Hans Scheirl, 1998), Vienna. Braidt, A.B. 2020 Weiblichkeit, Maskerade, Queerness. Zu Katrina Daschners Filmserie nach der “Traumnnovelle” in Reicher, I. (a cura di), Eine eigene Geschichte. Frauen Film Österreich seit 1999, Sonderzahl Verlag, Vienna. Jones, W.E. 2008 Tearoom, 2nd Cannons Publications, Los Angeles. Köhnemann, A. 2019 Emotional Education, intervista a Gregor Schmidinger, disponibile online, https://www.queer.de/detail.php?article_id=34701. Pichler, B., Slanar, C. (a cura di) 2006 Diagonale 06 – Festival des österreichischen Films, Catalogo, Vienna. Repnik, U. 2006 Die Geschichte der Lesben und Schwulenbewegung in Österreich, Milena Verlag, Vienna. Schaffer, J., Schwärzler, D. 2005 Rot-Weiss-Rot. Oder die Eingrenzung der potentiell ausufernden roten Farbe. intervista a Hans Scheirl, in Schwärzler, D., Szely, S. (a cura di), “Rohstoff. Eine filmhistorische Recherche nach der kleinen Form”, Eigenverlag, Vienna. Schiefer, K. 2016 Ich wollte, dass sie Helden sind, Intervista a Patrcic Chiha, disponibile online, http://www.austrianfilms.com/news/news_article?j-cc-node =artikel&j-cc-id=1450654471091. Schwärzler, D. 2008 Beobachtungen von Raumstrukturen, allegato a Hans Scheugl. The Seconds Strike Reality, Sixpackfilm, Index DVD 029, Arge Index, disponibile online, https://sixpackfilm.com/en/indexedition/release/29.
Filmografia ½ Frogs Fuck Fast (Ashley Hans Scheirl, 1992-1996) 5pm Seaside (Valentin Stejskal, 2022) ARIA DE MUSTANG (Katrina Daschner, 2009) • Beatrix (Milena Czernovsky, Lilith Kraxner, 2021) – SQ 2021 Blutsfreundschaft (Peter Kern, 2009) Bodybuilding (Ashley Hans Scheirl, Ursula Pürrer, 1984) Boys Like Us (Patric Chiha, 2014)
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• Brüder der Nacht (Patric Chiha, 2016) – SQ 2017 Burning Palace (Mara Mattuschka, Chris Haring, Liquid Loft, 2009) Dandy Dust (Ashley Hans Scheirl, 1998) Das Schwarze Herz Tropft – Bastelanleitung zu Rinnen (Ashley Hans Scheirl, Ursula Pürrer, 1985) Dear John (Hans Scheugl, 2014) Der Papst ist kein Jeansboy (Sobo Swobodnik, 2011) Der Wixer (Jan Soldat, 2020) Die Dohnal (Sabine Derflinger, 2019) • Die Mitte der Welt (Jakob M. Erwa, 2016) – SQ 2017 Domaine (Patric Chiha, 2009) Drei Engel für Wolfgang (Jan Soldat, 2020) Ein Schlauchboot und Austern (Ashley Hans Scheirl, Ursula Pürrer, 1985) Eismayer (David Wagner, 2022) Erwartungen (Jan Soldat, 2020) • Erwin (Jan Soldat, 2020) – SQ 2020 Eyes Wide Shut (Stanley Kubrick, 1999) Female Misbehavior (Monika Treut, 1992) Femme Brutal (Liesa Kovacs, Nick Prokesch, 2015) FLAMING FLAMINGOS (Katrina Daschner, 2011) FtWTF – Female to What the Fuck (Katharina Lampert, Cordula Thym, 2018) • Gendernauts (Monika Treut, 1999) – SQ 2022 Gezacktes Rinnsaal schleicht sich schamlos schenkelnässend an (Ashley Hans Scheirl, Ursula Pürrer, 1985) Glaube, Liebe, Tod (Peter Kern, 2012) Gli Appunti di Anna Azzori (Constanze Ruhm, 2020) • Große Freiheit (Sebastian Meise, 2021) – SQ 2022 HAFENPERLEN (Katrina Daschner, 2008) • Helmut Berger, Actor (Andreas Horvath, 2015) – SQ 2016 Hermes Phettberg, Elender (Kurt Palm, 2007) Hiding in the Lights (Katrina Daschner, 2013) HIDING IN THE LIGHTS (Katrina Daschner, 2020) Immer wieder Dienstag (Jan Soldat, 2020) Kater (Händl Klaus, 2016) Kern (Veronika Franz, Severin Fiala, 2012) Knutschen, Kuscheln, Jubilieren (Peter Kern, 1997) L’Animale (Katharina Mückstein, 2018) Lezzieflick (Nana Swiczinsky, 2008) Mara Mattuschka: Different Faces of an Anti-Diva (Elisabeth Maria Klocker, 2013)
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ATLANTE DEL CINEMA QUEER CONTEMPORANEO
Mein Hosenschlitz ist offen. Wie mein Herz (Marie Luise-Lehner, 2021) Mensch Christian, wir drehen’n ‘nen Porno (Jan Soldat, 2020) Milk (Gus Van Sant, 2008) Moneyboys (C.B. Yi, 2021) Moonlight (Barry Jenkins, 2016) Nevrland (Gregor Schmidinger, 2019) NOUVELLE BURLESQUE BRUTAL (Katrina Daschner, 2011) • Outing (Sebastian Meise, Thomas Reider, 2012) – SQ 2013 Para: Dies (Julia Windischbauer, Elena Wolff, 2022) Paragraph 175 (Rob Epstein, Jeffrey Friedman, 2000) Parole Rosette (Katrina Daschner, 2012) Passing – (a beginning) (Nick Prokesch, 2016) Perlenmeere (Katrina Daschner, 2016) Pfauenloch (Katrina Daschner, 2018) Pferdebusen (Katrina Daschner, 2017) Phaidros (Mara Mattuschka, 2018) Plum Circus (Katrina Daschner, 2019) Pomp (Katrina Daschner, 2020) Powder Placenta (Katrina Daschner, 2015) Prince of Peace (Hans Scheugl, 1993) Rote Ohren fetzen durch Asche (Dietmar Schipek, Ashley Hans Scheirl, Ursula Pürrer, 1991) Schwitzen (Iris Blauensteiner, 2014) • Si c’était de l’amour (Patric Chiha, 2020) – SQ 2021 Siebzehn (Monja Art, 2017) Staging Death (Jan Soldat, 2022) Sugar Daddies (Hans Scheugl, 1968) Summer of 1995 (Ashley Hans Scheirl, Jewels Parker, 1995) Super 8-Girl Games (Ashley Hans Scheirl, Ursula Pürrer, 1985) Tearoom (William E. Jones, 2008) Testosterone Files (Max Wolf Valerio, 2006) Tintenfischalarm (Elisabeth Scharang, 2006) TRANS*GAZE (Rosa Wiesauer, 2021) verliebt, verzopft, verwegen (Katharina Lampert, Cordula Thym, 2009) Whatever happened to Gelitin (Angela Christlieb, 2016) Who’s Afraid of Kathy Acker (Barbara Casper, 2007)
La Greek Weird Wave: una lettura queer Marios Psaras Traduzione di Silvia Nugara
Introduzione Il film Dogtooth (Yorgos Lanthimos, 2009) ha un finale aperto: il bagagliaio della Mercedes paterna inquadrato in campo medio. Questa immagine si protrae per circa mezzo minuto. Regna un silenzio sconcertante. È un momento di suspence e di sospensione, con quel silenzio agonizzante dell’attesa che chi guarda desidererebbe interrotto dall’apertura del bagagliaio. L’inquadratura finale di Dogtooth risente infatti di alcune sequenze che la precedono in cui si vede la figlia maggiore rompersi un canino con uno dei manubri usati dal fratello per la ginnastica e poi nascondersi nel bagagliaio per tentare di fuggire i confini opprimenti del totalitario spazio famigliare. Ma Lanthimos delude le nostre aspettative. Dopo uno stacco a nero partono i titoli di coda. Questo finale acquisisce immediatamente un carattere allo stesso tempo tragico ed enigmatico poiché invece di fornire un significato conclusivo, il film si dissolve in una ennesima forclusione senza significato; in una forclusione del significato. Non sapremo mai quale sarà il destino della figlia maggiore. Il film apre un vuoto, una voragine nel significato. Un gesto che potremmo definire come etico. Come ha dimostrato il filosofo Gilles Deleuze nel suo L’immagine-tempo, “la narrazione si rapporta sempre a un sistema del giudizio” (1985; tr. it. 2001, p. 150). Il testo spiega che il
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cinema narrativo classico insiste su una narrazione “organica” che pretende di dire la verità preservando le “connessioni legali nello spazio e [i] rapporti cronologici nel tempo” (ibidem). In questo tipo di cinema, la rappresentazione del tempo è indiretta, derivante dall’azione e dipendente dal movimento dedotto dallo spazio (ivi, p. 145). Attraverso questa struttura, che la teorica del cinema Janet Harbord chiama “atti rivelatori della narrazione, volti a esporre l’errore e a riasserire l’ordine morale” (2007, p. 157) osserviamo che “il cinema normativo implicitamente pone un’autorità morale superiore, una legislazione trascendente” (ivi, p. 158). Tuttavia, questa nozione di “verità più grande o assoluta” collassa nel cinema del dopoguerra e nelle culture cinematografiche marginali che privilegiano la ripetizione o l’accumulo di atti privi di un “senso più alto”, che non espongono “una rivelazione o una verità che in qualche modo rinvia alla giustizia” (ibidem). Nel mio libro The Queer Greek Weird Wave. Ethics, Politics and the Crisis of Meaning (2016) identifico una tendenza nel cinema contemporaneo greco non solo a sfidare le relazioni logiche e cronologiche di tempo e spazio cinematografici ma anche a ripudiare la possibilità che il cinema riveli o esponga delle verità; il ripudio, quindi, della capacità stessa del cinema di produrre significato, e anche del significato stesso. Questa tendenza cinematografica è stata chiamata weird, bizzarra. Io la chiamerei queer. Il significato della crisi o la crisi del significato “È solo una coincidenza se il Paese più scombinato del mondo sta realizzando il cinema più scombinato?” si è chiesto nel 2011 il giornalista del “Guardian” Steve Rose, cercando di capire se “i film stupendamente strani di Yorgos Lanthimos e Athina Rachel Tsangari [fossero] un prodotto del tumulto economico della Grecia”. In questo stesso articolo, Rose sosteneva l’esistenza di una Greek Weird Wave (d’ora in avanti GWW) riferendosi al “crescente numero di nuovi film greci
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indipendenti e inspiegabilmente strani”. Ovviamente, suggerire che tale ondata particolare sia una conseguenza diretta nella drammatica crisi finanziaria del Paese è un po’ ingenuo. Questi film non sono emersi dal nulla. Esisteva già una lunga tradizione di cinema sovversivo e/o fortemente politico prodotto in Grecia (basti pensare a Theo Angelopoulos o a Nikos Nikolaidis). Ma c’è anche stata un’ampia gamma di strani corti, documentari, show televisivi, spettacoli teatrali e progetti di arti visive realizzati prima della crisi e critici nei confronti di quella che stava man mano diventando una situazione biopolitica opprimente. Apporre su questo fenomeno l’etichetta GWW, ideata più dalla critica che non dai filmmaker – che in maggioranza non ritengono ci sia neppure mai stata una vera e propria “ondata” – si è comunque rivelata un’efficace strategia di marketing per l’industria cinematografica indipendente di un piccolo Stato alla ricerca di pubblico nazionale e internazionale. Sta di fatto però che la maggior parte di tali film inizialmente non ha riscontrato il favore del pubblico greco e può darsi che sia le autrici e gli autori sia le produzioni avessero come obiettivo più che altro il circuito festivaliero internazionale. Certo è che il successo internazionale e specialmente la breccia aperta da Lanthimos a Hollywood hanno subito attratto l’attenzione di pubblico, critica e mondo accademico in patria, stimolando sempre più domande sui temi e sulle forme non convenzionali delle opere in questione. Effettivamente, come si pongono questi film rispetto alla contemporaneità del Paese che ritraggono? Una prima rapida risposta è che il collasso del sistema politico-economico greco negli anni Dieci del 2000 non è solo responsabile di un deterioramento senza precedenti delle condizioni materiali della vita quotidiana del popolo greco. È anche all’origine di una destabilizzazione irrevocabile delle narrazioni consolidate e a lungo centrali nella produzione di una storia e di un’identità nazionali; e ha svelato quanto queste narrazioni, nella veste di regimi ideologici fantasmatici, abbiano avuto un ruolo nel determinare la catastrofe.
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Chiaramente tale risposta non comprende appieno la produzione cinematografica greca che, dopotutto, si è sempre confrontata più o meno criticamente con le principali narrazioni del Paese, specialmente quelle incorniciate nella triade emblematica “Dio, Patria, Famiglia”. Nonostante il modo innegabilmente controverso in cui è stata impiegata storicamente e in cui i regimi dittatoriali greci se ne sono appropriati, questa particolare triade ha marcato significativamente se non addirittura costituito la modernità in Grecia. Ha fornito al Paese un lessico con cui autorappresentarsi ed eretto istituzioni come la famiglia e la religione a fondamenti della società greca moderna. Per di più, la famiglia greca si è trasformata non solo in metafora della nazione ma anche in vero e proprio spazio entro cui la stessa idea di nazione si è costruita ideologicamente e materializzata empiricamente. Non c’è dunque di che sorprendersi se la famiglia greca è l’epicentro critico dei film weird; rappresentata tanto come orizzonte ideologico oppressivo che tormenta la realtà e la fantasia dei personaggi (queer o meno) quanto come ambito d’esperienza entro cui si produce il sé in termini di genere, sessualità e appartenenza nazionale. Ma in essi lo spazio familiare e, per estensione, nazionale è rappresentato mediante eccessi che lo riscrivono radicalmente e lo decostruiscono. La modalità filmica è più performativa che rappresentativa, compromette la verosimiglianza, mina il realismo e crea precisamente quella “sensazione perturbante”, quell’“inspiegabile stranezza” (Poupou 2014) che ha dato luogo all’etichetta weird. Contrariamente alla maggior parte della critica e del mondo accademico che in Grecia ha espresso delle riserve sul termine weird, considerandolo paternalistico, orientalista o esorcizzante (Nikolaidou 2020), personalmente ho trovato affascinante la potenzialità analitica dell’epiteto weird e ne ho difeso la riappropriazione sulla base di una relazione semantica con “queer”, altro aggettivo un tempo insultante e poi soggetto a riappropriazione. In altri termini, ho voluto azzardare un passaggio dal weird al queer come utile torsione metonimica capace di far emergere il discorso soggiacente in questi film e, per la precisione, l’aspra critica queer con cui hanno reagito alla crisi nazionale.
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La riappropriazione del termine weird come metonimia di “queer” non si riferisce, però, a come questi film rappresentano desideri e pratiche sessuali non normative benché immagini di questo tipo vi siano spesso presenti. L’uso di queer in questo caso si riferisce alla radicale “sensibilità queer” che, a mio avviso, permea l’estetica weird, performativa e non rappresentativa, nonché il modo in cui vengono narrate la famiglia e la nazione. Ritengo che la poetica weird riguardi tanto la queerizzazione dell’identità (ed essenzialmente della grecità eteropatriarcale) quanto della narratività, delle concezioni egemoniche, etero e omonormative del tempo e dello spazio. A questo proposito, per Rosalind Galt (2013) il concetto di “cinema del default” si riferisce proprio a quel filone globale di arte cinematografica contemporanea che risponde alle storie recenti di crisi economica con i mezzi di una radicale critica queer dall’impatto sia sulla forma che sul contenuto. Il pensiero di Galt si radica nella critica di Lee Edelman alle concezioni eteronormative e omonormative di tempo e spazio riassunta nell’assioma “rifiuto queer del significato”, ma anche in quella che Teresa de Lauretis chiama “testualità queer” e che “non solo opera contro la narrazione, contro la generale pressione di tutte le narrazioni a conchiudere e a fornire pieno significato, ma opera anche una determinata rottura con la referenzialità della lingua e delle immagini” (de Lauretis 2011, p. 244). Mediante una sfida (queer) alla narrazione e all’identità e mediante il rifiuto di concezioni e rappresentazioni normative di tempo e spazio intesi come significativi e produttivi, il “cinema del default” materializza secondo Galt il “rifiuto queer del significato”, proprio in quanto rifiuto formale e tematico dell’intreccio tra significati e narrazioni del capitalismo neoliberale, del patriarcato e dell’eteronormatività. Dopotutto, come sostiene Edelman, “proporre l’insignificanza come possibilità […] è un modo per veicolare un particolare significato dell’insignificanza stessa” (Edelman 2004, p. 120). Quello che Galt chiama “cinema del default” si trova soprattutto nelle culture cinematografiche dei paesi del Sud globale, anche se per esemplificare tale categoria lei usa un
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film argentino, cioè Tan de repente (Diego Lerman, 2002), che ritiene dirompente non solo in termini testuali ma anche contestuali poiché, nota, non si tratta di un film “pienamente legittimo” nel “regime neoliberale di circolazione” della distribuzione mainstream e dei maggiori festival del cinema (Galt 2013, p. 70). È chiaro che la concezione di Galt rappresenta una cornice analitica particolarmente utile per comprendere il modo in cui il cinema radicale risponde alle macchinazioni del capitalismo neoliberale contemporaneo. Tuttavia, la teoria non può trascurare la sfida rappresentata dai diversi contesti in cui il cinema europeo della crisi, e soprattutto la GWW, è prodotto, promosso e distribuito. Da una parte, a differenza dell’Argentina, la Grecia non è mai andata in default, benché nel periodo in cui venivano prodotti i film presi in esame nulla giustificasse un possibile cambiamento di rotta nella traiettoria di degrado della vita quotidiana né tanto meno una crescita economica. D’altra parte, la GWW ha fatto molta leva sulla ricezione internazionale (le reti di festival del cinema, la critica, le riviste, l’ambito accademico) per essere promossa e distribuita, se non addirittura per costituirsi in “ondata”. Al di là delle differenze contestuali, riprendo da Galt l’idea di una sensibilità queer costitutiva nel “cinema del default” suggerendo un’analogia con il modo in cui la GWW esplora la situazione attorno e in seguito all’esplodere della crisi economica e, più ancora, dell’ampia “crisi di significato” che quest’ultima ha fatto emergere, in virtù di una prospettiva queer che sollecita a rivedere e a riesaminare le narrazioni del capitalismo neoliberale, del nazionalismo e del patriarcato, proprio difendendo un “rifiuto queer [dei loro] significat[i]”. Qui di seguito esamino una selezione di film della GWW che hanno circolato e vinto premi in alcuni dei maggiori festival mondiali. La mia lettura si basa su una varietà di approcci metodologici che vanno dalla teoria queer alla film theory, dalla filosofia etica alla psicoanalisi. Sostengo che questo approccio interdisciplinare ci può aiutare a moltiplicare la comprensione del film e dei piaceri che suscita.
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Hardcore: Dennis Iliadis (2004) All’inizio del ventunesimo secolo, la grande prosperità economica della Grecia – alimentata da un eccesso di credito derivato dall’ingresso del Paese nell’Eurozona – ha rinvigorito parallelamente un sentimento nazionale che Stathis Gourgouris (2004) ha ribattezzato “ellenomania spontanea”. Momento di rinascita del cinema commerciale greco, la prima decade degli anni Duemila è stata quella dei “blockbuster greci” (Kokonis 2012). Tra questi, produzioni di alto profilo e ad alto budget come Un tocco di zenzero (Tassos Boulmetis, 2003), Nifes (Pantelis Voulgaris, 2004), realizzate sotto la supervisione di Martin Scorsese, ed El Greco (Yannis Smaragdis, 2007), fino a quel momento il film greco più costoso di sempre. Si trattava, in qualche modo, di espressioni cinematografiche dell’euforia di quel periodo e, in una certa misura, di veri e propri tentativi di contribuire a essa tramite una legittimazione culturale. Tutti e tre i film sono ambientati nel passato, con set e costumi elaborati a coronare narrazioni di ampio respiro su migrazioni, espatri e rimpatri, e dimostrano un sostegno incondizionato nei confronti di discorsi, da sempre ampiamente sbandierati, circa la notevole unicità culturale della nazione e dei suoi inestimabili valori quali religione, patria e famiglia. Come ha sottolineato Dimitris Eleftheriotis, riferendosi in particolare a Un tocco di zenzero, “il film ha dato avvio a un percorso storico e geografico dilettevole e ottimista nei confronti di ansie, fantasmi e aspirazioni del nostro passato e del nostro presente” (Eleftheriotis 2012, p. 21). Per di più, il grande dispiego di tecnologie avanzate, effetti speciali e astute strategie distributive in Grecia e altrove che ha favorito il successo dei tre film dal punto di vista commerciale quando non anche critico, ha promosso questi film a “fonti di gioia e orgoglio nazionale” capaci di rappresentare “la promessa di un futuro brillante in cui la creatività e l’immaginazione greche potranno godere di una certa sicurezza nel nuovo e spietato circuito globale di merci culturali” (ivi, p. 34).
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Ciononostante, accanto a questi splendidi blockbuster, le cui scenografie eleganti e immagini straordinarie hanno accresciuto il senso mitico infuso nelle narrazioni nostalgiche, “andava cristallizzandosi uno sguardo innovativo pieno di curiosità, ingenuità e contraddittorietà” come osservato da Vrasidas Karalis (2012, p. 265). In effetti, l’inizio del nuovo secolo è stato anche segnato dalla rinascita del cinema indipendente in Grecia che ha dato impulso a un’esplorazione disinibita di modalità espressive nuove e sovversive che attingevano dall’estetica postmoderna della scena indipendente internazionale senza trascurare la relazione con le tradizioni dell’arte cinematografica moderna a livello globale. Un caso esemplare di innovazione e sovversione che ha tentato di mappare il banale e l’insignificante piuttosto che lo storico e il monumentale è probabilmente Hardcore di Dennis Iliadis. Uscito nel 2004, l’anno che forse segna il picco di quelli che oramai vengono chiamati “anni della bolla” in Grecia, il film di Iliadis riassume ironicamente il sentimento predominante di quel momento e prefigura il suo destino incerto. Disturbando corrosivamente l’immaginario collettivo di quella delirante contingenza nazionale, il film di Iliadis getta una luce cupa sui bassifondi di Atene e mette energicamente sotto scacco le fantasie nazionali, inclusa quella della sacra famiglia patriarcale. Con la sua estetica postmoderna, il film tenta di decostruire dal punto di vista formale e tematico le convenzioni narrative nazionali più in voga e la stessa idea di grecità, e intraprende delle sperimentazioni in questo senso. Per ciò, Hardcore anticipa la GWW, suggerendo che prima di essa esistevano già voci alternative desiderose di esprimere l’incontro weird, strano, con la “crisi del significato”, affrontando direttamente un tema esplicitamente queer. Dopotutto, la destabilizzazione e la smitizzazione di immagini nazionali e familiari desiderabili sono di certo un’impresa queer per eccellenza. Hardcore è la storia di due adolescenti, Martha e Nandia, che si incontrano in un bordello e stringono un legame che oltrepassa i confini di una semplice amicizia. Chiamando in causa la psicoanalisi post-lacaniana, possiamo dire che il tem-
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po diegetico e narrativo di Hardcore oscilla costantemente tra Desiderio e Pulsione (la pulsione di morte), nella misura in cui quest’ultima è legata inestricabilmente alla pulsione sessuale, come insegna Freud. Tale oscillazione non si riflette necessariamente nell’antitesi tra i due personaggi principali, Martha la sognatrice sensibile che incarna il Desiderio e Nandia, l’autodistruttiva, lussuriosa, ribelle omicida che rappresenta la Pulsione. La fondamentale oscillazione psicoanalitica è piuttosto drammatizzata sul piano spaziotemporale e più specificamente attraverso le traiettorie narrative di entrambi i personaggi. Sia le azioni (o non azioni) di Martha sia quelle di Nandia oscillano tra, da una parte, il Desiderio oscuro ma determinato di una “vita normale”, di una “famiglia normale” idealizzato fino alla parodia, catapultato nel regno dell’immaginario, del mitico, dell’utopico, e, dall’altra parte, l’esperienza quotidiana di una vita turbolenta tra dipendenza, prostituzione, sfruttamento, violenza, promiscuità, morte – la Pulsione. Nel film di Iliadis, lo spazio e il tempo cinematografici tradizionali sono smantellati per assemblare fantasia, passato e presente senza alcuna continuità o coerenza logica né cronologica. Spesso e volentieri, la trama è interrotta da fantasticherie, performance e montaggi ambigui che compromettono la linearità e sovvertono l’idea di un tempo palinsesto lasciando emergere storie nascoste o cancellate (di corpi abietti, abnormi o senza nome cui è stata negata o sottratta ogni forma di identificazione). Allo stesso tempo, Martha e Nandia non sono semplicemente riconfigurazioni di quei mostri queer riapparsi sul grande schermo agli albori del Nuovo Cinema Queer. Paiono più che altro incarnazioni visive dei sinthomosessuali di Lee Edelman, incarnazioni del rifiuto queer del “futurismo riproduttivo”, cornice ricorrente di qualsiasi politica riconosciuta imperniata sull’immagine del Bambino eterno, questo beneficiario fantasmatico di ogni intervento politico, per quanto alternativo o di rottura. Il sinthomosessuale di Edelman è una sintesi tra lo sterile “omosessuale” e il “sinthomo” lacaniano, ovvero quella
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singolarità intraducibile simbolicamente che apre la porta all’insignificanza della jouissance e della pulsione di morte. Concentrati sul sesso non riproduttivo e quindi insignificante, senza visione di futuro e minaccioso, i soggetti queer acquisiscono lo status di sinthomosessuali che vogliono smantellare le fantasie individuali e collettive di una futurità sempre già orientata alla famiglia. Sono perciò una minaccia sociale e politica e incarnano la pulsione di morte. Analogamente, le queer Martha e Nandia, innanzitutto e soprattutto attraverso le loro azioni (o non azioni) insignificanti e distruttive ma anche attraverso intermezzi ingenui o fantastici che sfiorano la parodia, acquisiscono lo status di sinthomosessuali che prendono di mira proprio la famiglia greca eteropatriarcale e “naturalizzata” (cruda materia ricorrente delle loro fantasie) e, per estensione, le spaziotemporalità nazionali, famigliari ed eteropatriarcali unificate e lineari. Dogtooth: Yorgos Lanthimos (2009)
Fig. 1. Dogtooth, Yorgos Lanthimos.
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Il film d’esordio di Yorgos Lanthimos inizia come il ritratto implacabile e ripetitivo, con qualche elemento di commedia nera, di una famiglia che vive reclusa dal mondo circostante per poi assumere progressivamente toni sempre più neri, minacciosi e violenti. La violenza visiva e formale del film prende chiaramente di mira la famiglia eteropatriarcale; e ci riesce molto bene nella misura in cui chi guarda si ritrova nella scomoda posizione di assistere a un modo del tutto strano di accostarsi al tabù dell’incesto. Come si giunge alla questione? Nell’universo del film tutto ruota attorno all’assoluta necessità di soddisfare i bisogni sessuali del figlio anche se l’uomo/ragazzo non esprime mai tale esigenza. Eppure, i “bisogni” devono essere soddisfatti a ogni costo o comunque resi presenti nella forma di un’assegnazione di genere, di uno sviluppo dell’identità maschile del figlio in quanto, tra le altre cose, eterosessuale. Ironicamente, il desiderio sessuale non è mai enunciato per tutto il film. Il sesso non è l’effetto di un desiderio ma un rito di mascolinità. In un primo momento il padre assume un’estranea, Christina, per effettuare il lavoro. Ma quando i genitori si rendono conto che Christina si sta infiltrando pericolosamente nella famiglia, attraverso l’influenza negativa che ha sulle due figlie, la cacciano di casa e decidono di “risolvere la questione internamente”. E così lasciano che il figlio scelga una delle due sorelle per occuparsi di lui. Le scene che seguono questa improvvisata strategia di genderizzazione sono proprio quelle di un rituale: un rituale di famiglia, perturbante e piuttosto destabilizzante. Nel suo libro La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte (2000), Judith Butler sostiene che “[l]’assunto costante dell’ordine simbolico, secondo cui le norme stabili della parentela sostengono il nostro senso permanente d’intelligibilità della cultura” ha prodotto “quell’orrore sessuale moralizzato che è forse più fondamentalmente associato all’incesto”. Per Butler, il tabù dell’incesto legittima e normalizza la parentela basata sulla riproduzione biologica e l’eterosessualizzazione della famiglia. Però, ammette, “il
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tabù dell’incesto contiene in sé la propria infrazione”, poiché “la normalizzazione [è] invariabilmente spaccata e frustrata da ciò che non può essere prescritto da norme regolative”. In questo senso, il tabù dell’incesto “non proibisce semplicemente l’incesto, ma piuttosto lo sostiene e lo coltiva come uno spettro necessario di dissoluzione sociale, uno spettro senza il quale non possono emergere i legami sociali” (Butler 2000; tr. it. 2003, p. 91). In altre parole, il tabù non solo proibisce le relazioni incestuose ma le produce anche. In quanto “orrore sessuale moralizzato” dell’eteropatriarcato, l’incesto è incapsulato nella norma sotto forma di dialettica negativa: è l’elemento negativo ma essenziale senza cui la norma non può esistere e senza cui non è possibile definire le posizioni e le relazioni (anche sessuali) ammesse in famiglia. Butler qui non sta argomentando a favore delle relazioni incestuose, ma sottolineando che ogni tentativo di denaturalizzare la famiglia eteropatriarcale implica la rivelazione dell’incesto come un ulteriore costrutto sociale, effetto di linguaggio, struttura normativa e normalizzante che organizza le relazioni di parentela, stabilisce gli attori, le posizioni e gli spazi della famiglia normativa collocando il tutto “a livello simbolico, [come] sostegno psichico necessario contro una fagocitazione da parte del Reale” (ivi, p. 96). È interessante notare che in Dogtooth il tabù dell’incesto non è solo relegato ai margini ma completamente cancellato dall’universo diegetico della famiglia quando si trova di fronte al bisogno “urgente” del figlio di essere sessualmente soddisfatto. Filmato in un modo da non stimolare istinti sessuali bensì riflessi etici, senza alcuna musica romantica o luci soffuse, e recitato con uno stile freddo, quasi robotico, il film costruisce una scena di sesso superbamente goffa tra fratello e sorella, tanto noiosa quanto disturbante, piena di richiami allo stupro. Volontariamente messo in scena come fosse il dietro le quinte della produzione performativa del soggetto maschile, eterosessuale e familistico, il rapporto tra fratello e sorella diventa un atto di parentela, per quanto sconcertante e paradossale.
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Il sesso appare perciò come meccanismo regolatore che preserva le gerarchie di genere e sessuali nell’ambito domestico e attraverso cui i genitori perpetuano la struttura famigliare. Il patriarcato stesso appare come una narrazione incoerente sottomessa alle contingenze della sua stessa fantasmatica temporalità teleologica; anzi, un circolo vizioso che mantiene i suoi soggetti intrappolati in un’esistenza precaria proprio mentre, ironicamente, promette loro stabilità e “realizzazione”. Strella: Panos Koutras (2009) In Strella di Panos Koutras la narrazione patriarcale è minata alle fondamenta dal desiderio queer del padre per la creatura transgender che ha generato. È interessante notare che con questa riconfigurazione queer dello spazio familiare tradizionale il film opera anche una riconfigurazione visiva e narrativa dello spazio nazionale che fa del film un’utopia estetica queer come quelle teorizzate da José Esteban Muñoz. Per Muñoz (2009, tr. it. 2022), diversamente dalle utopie astratte anistoriche, come per esempio i paradisi gay artistoidi, un’utopia estetica queer è una forma concreta di utopia, che emerge dalle speranze collettive di un gruppo emergente; “speranza” va inteso qui come struttura affettiva di tipo anticipatorio in cui si intrecciano affetto critico e metodologia – in questo Muñoz si ispira al filosofo tedesco Ernst Bloch quando teorizza la cosiddetta “speranza sapiente”. Muñoz definisce l’“illuminazione anticipatoria dell’arte” come un surplus sia di affetto sia di significato nell’estetico che ci permette di provare quel sentimento utopico da lui chiamato “non-ancora-conscio” (ivi, p. 4). Perché per Muñoz, il queer è una formazione utopica di questo tipo in quanto “fondato sull’economia del desiderio e del desiderare” (ivi, p. 34), un desiderio di un altro spazio e tempo non isolato ad uso individuale bensì una futurità collettiva che “funzion[a] come critica storica materialista” (ibidem). Di conseguenza, la fun-
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zione critica di un’utopia estetica queer sta nell’immaginare e nel rendere per immagini un futuro che ristrutturi l’opprimente passato egemonico e l’ancora violento presente. Dopotutto, come ci ricorda Ernst Bloch, “la funzione principale dell’utopia è quella di darci un metro di giudizio sulla realtà presente e indicarci l’orizzonte da perseguire. Se non avessimo già oltrepassato le barriere non saremmo neppure in grado di percepirle in quanto tali” (Bloch 1988, p. 12). Strella è un’utopia estetica nella misura in cui critica e riconfigura la tradizionale antitesi narrativa eteropatriarcale tra città e villaggio, caposaldo della concezione dello spazio nazionale in Grecia. Il film riesce a rovesciare questa antitesi adottando come asse il soggetto queer. Da una parte mantiene la rappresentazione canonica del villaggio greco come avamposto dei valori e della morale tradizionale, di un pacifico stile di vita rurale, rifugio fisico e simbolico per il soggetto nazionale moderno, che è però fortemente eteropatriarcale. Riprese con colori freddi, illuminazione discreta e camera a mano, le scene ambientate nel villaggio ritraggono quest’ultimo come un luogo ostile che disorienta, uno spazio ideologico inquietante dove si esercitano molteplici forme di oppressione per il soggetto queer che vi trova l’origine e la misura di tutti i propri fallimenti. Dall’altra parte, per contrasto, la capitale greca Atene, che nel cinema greco più canonico appare brutta, peccaminosa, ostile e disumana, viene ritratta qui in modo assai più complesso. Benché non neghi i disagi tipici di una metropoli caotica quali il traffico, il sovrappopolamento o i traffici illegali, il film non demonizza la città. Koutras sceglie di collocare questi elementi negativi ai margini dell’immagine e di porre invece in primo piano alcuni degli angoli più colorati di Atene, soprattutto quelli attraversati dai soggetti queer, come per esempio l’appartamento di Strella e il bar di drag queen KOUKLES. Ed è proprio in questi spazi narrativi, fonti di resilienza affettiva, che si configura l’utopia estetica queer del film. Brulicante di colori, di luci fiammeggianti, di musica pop trash, di risa e voci, di performance drag con co-
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stumi stravaganti, di riscritture queer del passato e di visioni alternative del futuro, il sottobosco urbano diventa un rifugio straordinario e straordinariamente sicuro per i suoi soggetti queer emarginati; un rifugio in cui possono immaginare e trovare una requie momentanea o addirittura un allontanamento dall’esperienza quotidiana di violenza di genere e sessuale, dai vizi sessualizzati e genderizzati dell’immaginario nazionale tradizionale. Un rifugio in cui poter vivere i propri sogni effimeri oltre la precarietà delle vite. Attenberg: Athina Rachel Tsangari (2010)
Fig. 2. Attenberg, Athina Rachel Tsangari.
Attenberg di Athina Rachel Tsangari si svolge sullo sfondo della piccola cittadina residenziale di Aspra Spitia (ovvero Case Bianche). È qui che quella contingenza che ho chiamato “fantasmatica temporalità teleologica della narrazione patriarcale” si presenta continuamente nella forma di uno spazio e di un tempo familiari completamente collassati an-
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cora prima che avvenga la temuta perdita (fisica e simbolica) del Padre. Si può studiare Attenberg attraverso l’analisi dell’orientamento queer elaborata da Sara Ahmed in Queer Phenomenology (2006). Per Ahmed, l’orientamento queer non si limita a quello che spontaneamente chiamiamo orientamento sessuale ma si estende a tutta l’esperienza corporea che il soggetto queer fa di uno spazio nazionale e famigliare sempre genderizzato e sessualizzato. In questo racconto di formazione, Tsangari racconta il complicato processo di elaborazione della morte imminente del padre da parte di Marina nel momento in cui il suo stesso corpo sta maturando insieme alla richiesta sociale di abbracciare l’eterosessualità e la femminilità. Il corpo di Marina appare queer non perché abbia dei rapporti con altri corpi dello stesso sesso ma perché denaturalizza il desiderio e il sesso eterosessuali; al punto tale che i suoi vagabondaggi improduttivi attraverso gli spazi ostili e sempre più asfittici della famiglia e della nazione trasformano questi ultimi in prodotti non naturali o essenziali, bensì discorsivi. Forse l’esempio più evidente del tono di sfida che caratterizza il film sono i ricorrenti interludi in cui Marina e la sua amica Bella si esibiscono nelle Silly Walks dei Monty Python. In queste scene, il corpo perennemente mobile ma improduttivo, giocoso ma inutile, strano come una freddura, queer eppure visibilmente genderizzato, vorrebbe sfuggire dai contorni scomodi e assurdi dell’immagine proprio come lo vorrebbe anche chi guarda. Infatti, il corpo di Marina e con lui tutto il film rifiutano di allinearsi alle tradizionali traiettorie nette e chiare dell’eteropatriarcato, del cinema mainstream normativo con il suo modo canonico di inquadrare e proiettare il corpo umano. Perciò, il film di Tsangari costituisce in ultima istanza un’esplorazione fenomenologica di un corpo che ridicolizza e si prende gioco di quelle traiettorie, preferendo invece seguire le linee alternative della resistenza e della ribellione queer, di un minaccioso orientamento queer che nel suo farsi demolisce discorsi, pratiche, istituzioni, politica e politiche a lungo dispiegatesi nella nostra formazione come
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soggetti (nazionali, famigliari, genderizzati, sessuati) dentro a quel male sociale necessario che chiamiamo identità. Alps: Yorgos Lanthimos (2011)
Fig. 3. Alps, Yorgos Lanthimos.
Mentre in Dogtooth l’individuo desidera sempre di più sfuggire all’asfissia totalitaria della struttura eteropatriarcale – per quanto alla fine essa si riveli permeabile – in Alps Lanthimos procede in direzione inversa: i corpi muoiono di soggettivazione, i corpi muoiono dalla voglia di entrare in uno spazio sociale che può riconoscerli validi, degni di vivere e di essere pianti, e così ne minimizza la vulnerabilità. Il film narra le attività professionali di un gruppo di quattro persone, “Alps”, che si incaricano del ruolo morboso e bizzarro di sostituire dei morti per conto di amici o parenti in lutto. Gradualmente, il film si concentra sulla storia di una delle componenti del gruppo, Monte-Rosa, che inizia di nascosto a sostituire una giovane atleta morta nell’ospedale
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in cui lavora come infermiera. Le scene in cui Monte-Rosa sottopone il proprio corpo alla meticolosa trasformazione che le permette di interpretare la giovane morta mostrano – con palpabile chiarezza cinematografica e con quello humor nero che è la cifra distintiva di Lanthimos – quanto possa dare sollievo ma anche essere doloroso il processo di soggettivazione mediante la performatività. Reso parodico da abito, acconciatura, postura, gestualità, voce e dialogo, questo processo performativo di interpretazione o soggettivazione (ciascuno la chiami come preferisce) sfocia, in ultima istanza, nell’assurdo per via dell’impasse narrativa a cui conduce il deliberato fallimento della sua trasformazione. Il film riflette in modo impressionante il concetto di spoliazione nei termini forniti dal libro eponimo di Judith Butler e Athena Athanasiou (2013). Applicato a quei corpi privati di status umano – status sociale e politico che dà accesso a protezione temporanea e minimizzazione della vulnerabilità – il concetto di “spoliazione” si applica alle recenti storie di migrazione (inclusa quella delle persone queer), traffico di esseri umani e crisi dei rifugiati ma anche a quelle delle vittime delle crisi del capitalismo neoliberale, tutte egualmente e tragicamente rilevanti nell’esperienza della Grecia contemporanea e del mondo in generale. Infatti, il comportamento frenetico, incomprensibile e provocatorio di Monte-Rosa sfocia tanto in una personificazione non credibile dell’altra ma anche nella propria mancata soggettivazione. La donna finisce così non solo per essere esclusa dal gruppo Alps ma anche da tutto il consesso umano, e a vagare per le strade buie e i sobborghi di Atene come uno spettro invisibile che però insiste a stare tra gli “umani” legittimi, gettando un’ombra sulle loro chiare – ma precarie – categorie e identità. Boy Eating the Bird’s Food: Ektoras Lygizos (2013) L’insostenibile vulnerabilità dell’essere, forse la condizione esistenziale principale dei nostri corpi, e la responsabilità che
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abbiamo di proteggerli non solo per noi ma anche e ancora di più per l’Altro, l’altro altro, persino il non-umano, sono al centro di Boy Eating the Bird’s Food di Ektoras Lygizos. Boy è un film sulla fame e sulla destituzione sociale ed economica di un giovane come risultato della crisi economica. Il film mantiene sempre a distanza chi guarda, prende in contropiede quei piaceri cinematografici canonici che sono l’identificazione e il desiderio e incoraggia, al contrario, una riflessione critica sul dramma che mostra. Per leggere il film di Lygizos torno al concetto di “spoliazione” al fine di risalire alla sua genealogia etica, il che ci riporta alla filosofia di Emmanuel Lévinas. L’assioma etico di Lévinas consiste nella comune responsabilità umana di preservare l’irriducibile alterità dell’Altro. Si tratta di una sfida particolarmente difficile da compiere attraverso la lente cinematografica che resta fenomenologicamente ancorata alla rappresentazione visiva. Tuttavia, Boy offre delle originali strategie di resistenza alle pratiche tradizionali di altericidio cinematografico, ossia pratiche che eliminano l’irriducibile alterità dell’altro, quali la garanzia di una distanza di sicurezza e la conservazione di una relazione soggetto-oggetto tra chi guarda e ciò che guarda. Il film di Lygizos, invece, dispiega tecniche filmiche tipiche del cosiddetto “cinema etico” (praticato da autori come i fratelli Dardenne, Lars Von Trier o Michael Haneke) quali la riflessività, l’ironia, la distanza e lo stile recitativo brechtiano. Forma e contenuto si intrecciano in modo originale per costruire una narrazione eticamente neutra e una spaziotemporalità propria. La rappresentazione della vittima della crisi greca è meticolosamente decostruita. Il protagonista non è un martire. Non è neppure un personaggio a tutto tondo, profondo e stratificato. Il suo corpo, i suoi gesti, i suoi movimenti nello spazio sono convulsi, imprevedibili. La sua sofferenza è straniante. Non ci viene chiesto di provare pietà o empatia nei suoi confronti ma di riflettere criticamente sulle circostanze della sua destituzione. Di riflettere criticamente sulla strana relazione che ha con il suo amico non-umano, un canarino, che fa di tutto per proteggere e nutrire a ogni costo tra le macerie e i crolli di una nazione che
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lo ha abbandonato. In tale modo, il film finisce per criticare le narrazioni totalizzanti e sensazionalistiche di sofferenza umana e vittimizzazione che producono solo risposte sentimentali temporanee e inani da parte di chi guarda, invitando invece a sviluppare un approccio critico queer che comporta la reinvenzione delle premesse umaniste della biopolitica. Infatti, Boy, come quasi tutti i film weird, strani, bizzarri, pone delle domande biopolitiche fondamentali: chi si merita lo status di essere umano? Quali corpi sono considerati validi e degni di protezione? Quali vite contano? Questa retorica ha spinto Dimitris Papanikolaou (2021) a considerare la GWW come un cinema della biopolitica: una struttura affettiva che può essere rintracciata non solo nel cinema, e certamente non solo in quello greco, ma anche in altre forme di espressione sociale e artistica contemporanee. Come sostiene Papanikolaou, la GWW non va considerata come circuito autonomo ma come la punta dell’iceberg di tutta una comunità artistica che durante la crisi ha sviluppato forme di resistenza, persistenza e sopravvivenza mediante il ricorso a distorsioni di materiale d’archivio, assemblaggi, espressioni pubbliche di cittadinanza e intense esperienze condivise di appartenenza collettiva: una risposta politica a un “intenso presente biopolitico”. Verso un’etica e una politica della differenza Il contributo forse più importante che la GWW ha fornito alla storia del cinema è l’aver sollecitato modi più etici di catturare, montare, mostrare, inquadrare e immaginare cinematograficamente corpi e soggettività. Sovvertendo la referenzialità di lingua e immagini e mostrando la futilità e l’arroganza di discorsi che mirano a infondere significati precisi nel tempo e nello spazio, la GWW esprime una sfida queer alla logica narrativa e all’identità. Il suo obiettivo non è “superare il disorientamento che deriva dall’irrompere del queer ma piuttosto abitare l’intensità di quel
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momento”, come scrive Sara Ahmed (2006, p. 107). Il che corrisponderebbe ad abbracciare gli aspetti critici, oppositivi e resistenti del queer. In effetti, gli intensi momenti queer che emergono dalle “bizzarre” narrazioni e forme di questi film, privi di visioni e significati prestabiliti, sono fortemente improntati a una critica di ampia portata che ripudia e decostruisce le narrazioni maggioritarie compromesse con il capitalismo, veicolate dalla struttura ideale e quintessenziale della nazione ovvero la “sacra” famiglia patriarcale greca, riprodotte e disseminate da una serie di discorsi a sostegno e sostenuti dallo Stato (il sistema educativo, la Chiesa Ortodossa, i media di massa), compreso il cinema stesso. Sullo sfondo di una crisi del significato e delle sue tecnologie, i film weird esprimono una fascinazione queer per il corpo e una fascinazione per corpi che si comportano in modo queer, strambo, eccentrico. Questi film si fanno deposito di corpi che rifiutano l’ordine patriarcale tanto quanto resistono alle strutture produttive neoliberali e alla “responsabilizzazione”: i corpi inerti e de-sessualizzati di Dogtooth e Attenberg, il corpo convulso e in disintegrazione di Boy, i corpi trasgressivi dei sinthomosesseuali di Hardcore e gli amanti incestuosi di Strella, senza dimenticare i corpi spettrali di Alps. Sono tutti casi in cui il corpo che si comporta in modo eccentrico, bizzarro, strano e dunque queer o weird, è anche un corpo sofferente, escluso o gettato via, emarginato, svalutato, lasciato a morire. Ma l’immagine che ce ne viene fornita rifiuta il sensazionalismo e il sentimentalismo. La modalità performativa e non rappresentativa di questi film sfugge al realismo, si sottrae alle canoniche operazioni di costruzione dei personaggi e compromette i piaceri consueti dell’identificazione e dell’immersione narrativa. Sesso, violenza e dolore sono offerti in modo crudo, privo di glamour, bizzarro. La riflessività e l’ambiguità dominano sia il piano diegetico sia quello non diegetico. La poetica weird non prende di mira solo l’etica problematica del capitalismo eteropatriarcale ma anche l’etica del realismo e le premesse dell’illusionismo cinematografico.
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Sono filmmaker che girano la macchina da presa su di noi, spingendoci a un impegno critico invece che a un’identificazione con i drammi proiettati. Forma e contenuto cospirano insieme per far emergere le nostre responsabilità nella riproduzione e nella rappresentazione della sofferenza umana, della violenza reale o immaginaria; come scrive Michele Aaron seguendo Levinas, il modo in cui guardiamo “dipende dal modo in cui ci relazioniamo intersoggettivamente con la possibilità di sofferenza da parte dell’altro” (Arnon 2007, p. 112). Quel che invece fanno questi film è decostruire sovversivamente il contesto spaziale e la struttura temporale dei discorsi normativi sul corpo. Immagini, spazi e corpi appaiono e scompaiono senza alcuna coerenza temporale o significato narrativo. Lo sguardo cinematografico, spesso scorporato e frammentario, è perciò pregno di ambivalenza e indeterminatezza invece che portatore di un significato e di esperienze soggettive, il che concretizza l’assioma di Levinas riguardo alla nostra responsabilità di preservare l’irriducibile alterità dell’Altro. Che si trovino al centro o ai margini della scena, i personaggi sono spesso privati di agentività, commettono azioni eccessive, ingiustificate e irrisolte, mentre lo stile recitativo freddo nega ogni accesso significativo e produttivo all’esperienza del tempo e dello spazio. Se il tempo appare sprecato non è necessariamente perché questi film siano privi di azione, bensì perché l’azione è separata dalla produttività, è eccedente, come nelle teorizzazioni sul tempo queer come improduttivo e il queer stesso come “una perdita di tempo, una perdita di vite, una perdita di produttività” (Schoonover 2012, p. 73). Il tempo, infatti, è una questione cruciale in questi film che ne elaborano concezioni per nulla ovvie. A uno sguardo superficiale, il tempo sembra lineare e cronologico ma anche ripetitivo, preso in un’alternanza tra frammenti disparati di quotidianità, scandito dalla noia e da attività improduttive, un mosaico di momenti tra loro disgiunti di fantasticherie e siparietti, atti di rottura temporanea segnati dalla violenza, dall’incesto, dalla morte e dalla privazione; il tutto progressivamente accumulato senza per questo assumere un significato “più alto”. La possibi-
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lità di futuro è prima contestata e poi in ultima istanza negata. Come? Da una parte, una tale spaziotemporalità è all’origine di quello che Harbord descrive come “feticizzazione dell’azione, una ri-messa in scena a ripetizione del quotidiano” (2007, p. 156) che, cionondimeno, acquisisce connotazioni particolari nella misura in cui fa emergere il carattere costitutivamente performativo di identità, spazio e tempo. Dall’altra parte, la ripetizione di quanto appare banale e insignificante viene costantemente ostacolata e oscurata dalla possibilità della rottura. Quest’affascinante convergenza tra limitazioni temporali, ripetizioni e contingenze finisce per far emergere il legame strutturale della performatività con la non essenza, la sua dipendenza dal vuoto del significante, e il fatto che il significato stesso è questione di contingenza, un atto di immaginazione, sottoposto a una continua ri-contestualizzazione, a un deferimento perpetuo della/e sua/e possibile/i determinazione/i. Effettivamente, questi film non si risolvono con un riassetto dell’ordine morale e neppure in modo definitivo, catartico. Al contrario, le soluzioni narrative adottate oppongono un tenace diniego a conclusioni dense di significato e, allo stesso tempo, si aprono in modo profondamente etico all’indefinito e all’irriducibile. Si rifiutano di significare. E questo rifiuto di significare, questa ambivalenza e indeterminatezza che impregna non solo i finali ma tutto il modo in cui vengono costruiti tempo e spazio finiscono per dare forma a una spaziotemporalità cinematografica queer. In un’epoca di regressioni e divisioni, di populismo reazionario e fondamentalismo, di crescenti sentimenti e attacchi nazionalisti e fascisti; in un paesaggio politico globale così cupo e minaccioso dove la verità è contestata e i significati manipolati, la GWW articola e dà una forma eminentemente queer a questa “crisi di significato”, a questo momento di assenza di senso. Tuttavia, il vuoto di visioni che pertiene a questa assenza di senso non va inteso come un annichilimento del discorso politico. Questo vuoto di visioni, infatti, non si oppone al confronto politico ma ne sospende la fissità del significato e le rivendicazioni identitarie rigide.
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È, forse, una visione del vuoto, un invito a un deferimento perenne di visioni chiaramente fissate, un invito alla contestazione perenne e alla non-riproduzione di regimi opprimenti che hanno sempre regolato l’assegnazione di diritti nei termini di una riconoscibilità da essi stabilita: patriarcato, eteronormatività, nazionalismo, fascismo, capitalismo, neoliberismo, neocolonialismo, fondamentalismo e così via. Infatti, la “politica weird” si configura in ultima istanza come queer proprio in quanto consente essenzialmente uno slittamento di paradigma nelle modalità con cui il mezzo può offrirsi come piattaforma imprevista per proporre tanto un’etica quanto una politica della differenza. Bibliografia Aaron, M. 2007 The Power of Looking On, Wallflower, London. Ahmed, S. 2006 Queer Phenomenology. Orientations, Objects, Others, Duke University Press, Durham and London. Bloch, E. 1998 The Utopian Function of Art and Literature. Selected Essays, translated by J. Zipes and F. Mecklenburg, MIT Press, Cambridge (MA). Butler, J., Athanasiou A. 2003 Dispossession. The Performative in the Political, Polity Press, Cambridge, tr. it. Carbone, A., Spoliazione. I senza casa, senza patria, senza cittadinanza, Mimesis, Milano e Udine 2019. Butler, J. 2000 Antigone’s Claim. Kinship Between Life and Death, Columbia University Press, New York, tr. it. Negri, I., La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte, Bollati Boringhieri, Torino 2003. De Lauretis, T. 2011 Queer Texts, Bad Habits, and the Issue of a Future, “GLQ. A Journal of Lesbian and Gay Studies”, 17, pp. 243-263. Deleuze, G. 1985 L’Image-temps. Cinéma 2, Les éditions de Minuit, Paris, tr. it. Rampello, L., L’immagine-tempo. Cinema 2, Ubulibri, Roma 2001. Edelman, L. 2004 No Future. Queer Theory and the Death Drive, Duke University Press, Durham e Londra.
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Filmografia Alps (Yorgos Lanthimos, 2011) Attenberg (Athina Rachel Tsangari, 2010) Boy Eating the Bird’s Food (Ektoras Lygizos, 2013) Dogtooth (Yorgos Lanthimos, 2009) El Greco (Yannis Smaragdis, 2007) Hardcore (Dennis Iliadis, 2004) Nifes (Pandelis Voulgaris, 2004) Politiki Kouzina (Tassos Boulmetis, 2003) Strella (Panos Koutras, 2009) Tan de repente (Diego Lerman, 2002)
Ritorno al futuro: il cinema queer tedesco dal 2000 Jan Künemund, Skadi Loist Traduzione di Tommaso Isabella
Checklist della diversità “Il mondo ci appartiene!”: questa affermazione fiduciosa, urlata da tre giovani nel lungometraggio d’esordio di Faraz Shariat Futur Drei (2020), risuona in un paesaggio deserto della Germania centrale e può essere udita solo dalle persone nell’inquadratura diegetica, ma l’eco con cui è stata amplificata in post-produzione si rivolge già a un pubblico cinematografico che saprà ascoltare, capire e simpatizzare con quella esclamazione. Questo senso di auto-emancipazione, che apparentemente non va da nessuna parte, è espresso da giovani che hanno sperimentato su di sé il sessismo, il razzismo e l’omofobia, a livello individuale ma anche condiviso attraverso l’intreccio dei loro legami (due sono fratello e sorella, due una coppia). Si tratta di un’affermazione significativa tanto dal punto di vista sociale quanto da quello della storia del cinema, perché questi personaggi sono visti come persone con un’estrazione da immigrati da parte di una società a maggioranza bianca, e perché il film è nato come produzione esterna al sistema dell’industria cinematografica tedesca – cioè non come co-produzione con un minimo di garanzia da parte della televisione pubblica, come è la norma – e anche fuori dal contesto produttivo delle scuole di cinema. Oltre a ciò, pur essendo uscito in sala solo per qualche settimana tra due chiusure dovute alla pandemia
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di Covid-19, il film ha raggiunto un pubblico per lo più giovane, che statisticamente abbandona di rado i piccoli schermi privati o l’offerta dei multiplex per spingersi nelle più piccole sale d’essai. Il titolo tedesco del film allude a una forma grammaticale inventata (letteralmente un Futuro III1), delineando quindi un futuro invisibile e a malapena immaginabile, ma di cui si reclama la possibilità: un futuro per le persone migranti, per le persone che non rientrano nelle aspettative eteronormative, per un cinema (queer) tedesco che valorizzi voci finora non adeguatamente rappresentate e lo faccia in modi che potrebbero non rientrare comodamente nelle forme di una narrazione fatta di contrasti e basata sulla sceneggiatura. D’altra parte, tra immagini e coreografie di corpi da videoclip, il film afferma una mobilità di personaggi e sentimenti che, anche solo per un momento, imprime movimento al determinismo delle attribuzioni sociali. Non ci è voluto molto tempo prima che le riviste tedesche cominciassero a dichiarare che Futur Drei era il “futuro del cinema tedesco” (Kay 2020). Anche se Futur Drei allude in tanti modi all’Iran come punto di riferimento dei suoi personaggi (i genitori del protagonista gay sono fuggiti in Germania alla fine degli anni Settanta prima della Rivoluzione islamica, il giovane di cui si innamora vive insieme alla sorella in una casa d’accoglienza temporanea a Hildesheim, entrambi con lo status di rifugiati dall’Iran, e nel film si menziona il fatto che la pratica dell’omosessualità maschile sia illegale in Iran), tuttavia, intrecciando esperienze di discriminazione post-migranti e queer, il progetto è chiaramente concepito come una rappresentazione delle condizioni tedesche. Girato a Hildesheim, non esattamente una grande città, in una Germania centrale descritta come ordinaria e monotona, il film racconta esperienze specificamente tedesche, anche se il marketing cittadino di Hildesheim (per ora) occulta completamente la diversità locale nelle sue pubblicazioni2. 1 Per indicare il futuro la lingua tedesca (come del resto quella italiana) prevede due forme, Futur I e Futur II [N.d.T.]. 2 Cfr. http://www.hildesheim-tourismus.de.
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Fig. 1. Futur Drei, Faraz Shariat.
Nel discorso di accettazione che ha tenuto il 9 settembre 2019 in occasione del Premio cinematografico tedesco per esordienti First Steps (dove Futur Drei ha ottenuto, tra gli altri, il premio per il miglior lungometraggio3), Shariat ha criticato il fatto che diverse generazioni di persone con storie di migrazione siano state intenzionalmente ignorate nella narrazione nazionale, sottolineando come fosse bizzarro dover notare questo fatto a una cerimonia di premiazione in Germania di fronte a un pubblico composto per il 95% da bianchi. Questo accadeva in un momento in cui il discorso sulla mancanza di diversità nel cinema tedesco cominciava improvvisamente a prendere piede. I successivi sviluppi in questo senso sono stati visti come un processo di adeguamento che era da tempo necessario. In questo contesto vanno citati, tra gli altri, l’introduzione da parte del fondo cinematografico regionale della Germania settentrionale MOIN Hamburg SchleswigHolsteindi una “Diversity Checklist” che le case di produzione devono includere nelle loro domande di partecipazione a 3 Cfr. https://www.facebook.com/FirstStepsAward/videos/dankesredefaraz-shariat-2019/465966178100693.
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partire da giugno 2020 (MOIN Filmförderung 2020); l’ampio sondaggio “Vielfalt in Film” condotto tra luglio e ottobre 2020 su un campione di oltre 6.000 partecipanti, che per la prima volta ha presentato dati sulla discriminazione sistemica, ovvero gli ostacoli alla diversità prodotti dall’industria cinematografica tedesca davanti e dietro la cinepresa (Vielfalt im Film 2021); la pubblicazione il 5 febbraio 2021 sulla rivista della Süddeutsche Zeitung dell’iniziativa #actout4, che ha dato visibilità alle esperienze di 185 attrici e attori vittime nella loro professione di una esplicita e strutturale discriminazione nei confronti di persone non binarie, trans*, bisessuali, intersessuali, queer, lesbiche e gay (Emcke, Fritzsche 2021). Come ci si poteva attendere, questo nuovo discorso sulla diversità nel cinema tedesco è andato incontro a una diatriba il cui principale argomento è che la “libertà artistica”, esistita apparentemente nel vuoto, è ora messa in pericolo dalle politiche identitarie. Questa reazione solleva a sua volta seri interrogativi sull’immagine della Germania nel cinema nazionale degli ultimi decenni, sulla visibilità e sull’integrazione di approcci e prospettive queer e su come queste si ricolleghino alle questioni della (post-)migrazione, delle differenze sociali e di genere, degli ordini binari (urbano/rurale, est/ovest, ecc.). Quali strutture e rappresentazioni sociopolitiche hanno fatto sì che nel cinema tedesco la diversità divenisse un tema politicocinematografico soltanto nel 2019? Lo scherzo e i finanziamenti nel cinema tedesco Il film tedesco con personaggi principali queer che ha avuto il maggior successo degli ultimi vent’anni non è, ovviamente, Futur Drei ma (T)Raumschiff Surprise – Periode 1 (Michael Herbig, 2004), una satira su Star Trek e altri blockbuster di fantascienza. I classici personaggi di Kirk, Spock e Scott 4 Si veda anche il “Manifesto” dell’iniziativa, disponibile al link https:// act-out.org/en/
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appaiono qui in varianti gay sissy, e pur sembrando completamente inadatti ai loro compiti, contro ogni aspettativa, salvano il mondo. Sviluppato a partire da un suo sketch televisivo da Michael “Bully” Herbig, comico di Monaco di Baviera attivo alla radio e in televisione, il lungometraggio ha totalizzato 9,2 milioni di spettatori nelle sale cinematografiche5, diventando il secondo film tedesco di maggior successo dai primi conteggi degli spettatori nel 1980, superato solo da Der Schuh des Manitu (2001) dello stesso Herbig, una satira del genere western della Germania occidentale, anche questa con un personaggio gay sissy in un ruolo di supporto significativo. Entrambe le commedie lavorano palesemente sugli stereotipi (il gay effeminato, il nero lussurioso, il rigido tedesco orientale, gli imperscrutabili asiatici, lo stupido macho eterosessuale, ecc.), ma li inquadrano attraverso riferimenti alla storia della cultura pop tedesca, favorendo così una distanza ironica da rappresentazioni obsolete (queerfobiche, sessiste, razziste). È un divertimento innocuo, che non vuole attribuire ai personaggi alcuna “essenza” dietro ai cliché da loro incarnati, ma che solleva alcune questioni quando si voglia considerare chi sta effettivamente ridendo di chi – e perché (Kram 2018). Le società di produzione e lo staff creativo erano composti per lo più da uomini bianchi e cis della Germania occidentale. L’equipaggio che hanno pensato per questa astronave sissy è così incompetente perché il suo equipaggio è gay e quindi, nella logica dello stereotipo, privo di talenti tecnici, scarsamente virile, inefficiente perché ossessionato dal sesso, il che conferisce all’umorismo una tinta omofobica. Le gag sulle persone non bianche e sui tedeschi dell’Est funzionano allo stesso modo. Anche se la narrazione intende presentarsi come una satira anarchica sulla padronanza tecnologica e sull’eroismo maschile, e certamente lavora contro convenzioni narrative come la verosimiglianza, 5 Le cifre relative al pubblico citate nel corso del testo sono tratte dai resoconti annuali dell’agenzia nazionale di finanziamento cinematografico (FFA) così come riportate nelle schede dei film sul sito filmportal.de.
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la forma chiusa e lo sviluppo dei personaggi, lo scherzo qui funziona sempre dall’alto verso il basso, costruendo una gestione apparentemente sicura del politicamente scorretto da parte di coloro che nel pubblico non devono identificarsi con i bersagli dell’umorismo. Il travolgente successo del film, che – anche a causa dei tanti riferimenti alla storia dei media tedeschi6 – non ha potuto tradursi a livello internazionale, svela un’auto-percezione specificamente tedesca: la maggioranza è tollerante, le minoranze hanno visibilità, e la loro interazione non presenta problemi perché si può ridere insieme di pregiudizi e stereotipi. Il successo dei film di Herbig può essere visto come il culmine di uno sviluppo che ha segnato il cinema tedesco a partire dagli anni Ottanta, sintetizzato da Christopher Treiblmayr nel suo studio sulla mascolinità e l’omosessualità maschile nel cinema tedesco degli anni Novanta (Treiblmayr 2015). L’autore individua in quel momento una rottura con il Nuovo Cinema Tedesco e il suo successo internazionale (associato a nomi come quelli di Rainer Werner Fassbinder, Werner Herzog, Wim Wenders), e un’evoluzione promossa a livello politico verso un cinema orientato a un successo commerciale basato principalmente in Germania, affermando quindi un diritto dei contribuenti all’intrattenimento (Treiblmayr 2015, p. 164). Treiblmayr delinea ulteriori sviluppi, come la crescente influenza delle emittenti televisive sulla produzione cinematografica, prima sotto forma di società produttive private emergenti e integrate che sfruttavano gli effetti di sinergia, poi sotto forma di influenza delle emittenti pubbliche sulle decisioni di finanziamento dei film, entrambe ancorate al sistema federale. In queste nuove condizioni, i giovani registi formati nelle scuole di cinema negli anni Novanta hanno iniziato a rompere con la tradizione del Nuovo Cinema Tedesco, sono emersi nuovi concetti di pro6 Il titolo del film, ad esempio, è un composto di Raumschiff Enterprise, titolo tedesco della serie originale di Star Trek, trasmessa dalla TV tedesca a partire dal 1972, e di Das Traumschiff, una serie di film prodotti dalla televisione tedesca a partire dal 1981.
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fessionalità, si sono progettate esigenze del pubblico e del mercato per poi soddisfarle e l’idoneità televisiva è diventata un argomento di cui tener conto anche prima della produzione (Treiblmayr 2015, p. 165-167). L’influenza esercitata dalle emittenti televisive regionali è stata accompagnata da una differenziazione dei rispettivi finanziamenti cinematografici, puntando a sviluppare le infrastrutture locali in cosiddetti “media hubs” grazie a cui le produzioni finanziate avrebbero dovuto generare “effetti regionali” (Treiblmayr 2015, p. 176-177). Inoltre, per quanto riguarda il cosiddetto “finanziamento di riferimento”, l’agenzia nazionale di finanziamento cinematografico (Filmförderungsanstalt, FFA) ha legato le sue decisioni di finanziamento al successo commerciale calcolato nel numero di presenze per i film precedenti prodotti dalle società proponenti. In ragione dell’interazione di questi fattori, Treiblmayr definisce il finanziamento culturale un “finanziamento economico camuffato”, che ha essenzialmente condotto a un orientamento più commerciale del sistema cinematografico tedesco, una generale “logica di sfruttamento” tra la produzione a livello locale, il finanziamento cinematografico regionale e nazionale e la televisione pubblica organizzata a livello federale (Treiblmayr 2015, p. 181-182). Questa logica non è stata modificata nemmeno dal surriscaldamento del mercato, da effimeri tentativi di intervento politico (ad esempio, la “Alleanza per il Cinema”, con cui Michael Naumann, Segretario alla Cultura dal 1998 al 2001, voleva promuovere le produzioni indipendenti), da una nuova generazione di cineasti che si percepiva in dialogo con il cinema d’autore internazionale (Tom Tykwer, Fatih Akin, Andreas Dresen e altri) e, dalla metà degli anni Duemila, dalla maggiore partecipazione promessa dai più economici flussi di lavoro digitali. Per quanto riguarda le implicazioni di questi sviluppi per il cinema queer tedesco, si possono avanzare le seguenti ipotesi: primo, che la crescente interconnessione tra la produzione cinematografica e le emittenti, insieme al riorientamento dei finanziamenti cinematografici a favore di un cinema d’in-
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trattenimento nazionale di successo commerciale, abbiano promosso narrazioni cinematografiche costruite attorno alla questione dell’identità omosessuale; secondo, che le attese della cosiddetta “società mainstream” nei confronti delle rappresentazioni delle minoranze sociali si siano risolte in una disponibilità a farsi istruire sulle loro condizioni, non tanto per celebrare la diversità, ma proprio per poterla dissolvere il più rapidamente possibile senza guardarla da vicino. Identità mainstream e coming out tardivi Nel Nuovo Cinema Tedesco di Rainer Werner Fassbinder (Querelle, 1982), Werner Schroeter, Ulrike Ottinger, Rosa von Praunheim, Daniel Schmid e, successivamente, nei film di autori affini come Frank Ripploh (Taxi zum Klo, 1980), Elfi Mikesch (Mondo Lux, 2011) e Monika Treut, erano presenti posizioni queer incisive e influenti, che condividevano il fascino per le rappresentazioni espressive e i concetti di genere fluidi del cinema di Weimar come dell’underground queer statunitense di Andy Warhol, Gregory Markopoulos e Jack Smith. Le opere che ne derivarono raggiungevano un pubblico internazionale e i loro autori possono essere ora considerati come parte di una scena cinematografica queer interconnessa (Kuzniar 2000). Con l’eccezione dei film di Praunheim, una scelta estetica condivisa era quella di non rappresentare l’omosessualità in quanto tale, di non creare narrazioni identitarie secondo le modalità stabilite dai discorsi del movimento gay e lesbico e del femminismo della seconda ondata, in Germania come altrove. Con la morte di Fassbinder nel 1982 e la ristrutturazione dei finanziamenti cinematografici tedeschi seguita di lì a poco, questa scena e le sue ricerche estetiche furono messe da parte. Werner Schroeter ha completato il suo studio sull’ossessione Der Rosenkönig nel 1986 senza finanziamenti cinematografici grazie all’aiuto di coproduttori internazionali. Ha girato i suoi film successivi in Francia e, tra il 2000 e la sua morte nel 2010, è
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riuscito a realizzare solo due lungometraggi: Deux (2002), che non ha trovato alcuna distribuzione nelle sale tedesche, e Nuit de chien (Diese Nacht, 2009), che ha ricevuto qualche attenzione solo in quanto opera di congedo. Un progetto che aveva a lungo perseguito, l’adattamento cinematografico del romanzo di James Baldwin La stanza di Giovanni (1956), non fu mai sviluppato per mancanza di fondi. Ulrike Ottinger, che fino al 1984 ha prodotto strepitosi film camp femminili, a partire dal 1986 ha intrapreso nuovi percorsi estetici verso forme sperimentali e saggistiche, realizzando documentari di viaggio che spesso duravano diverse ore e potevano essere proiettati solo come happening nei festival o in contesti espositivi. Il suo Prater, un interessante ritratto del parco divertimenti di Vienna e una lettura queer che svela la varietà delle tipologie di intrattenimento di una grande città europea, non ha avuto successo nei cinema tedeschi nel 2007. Il progetto di un lungometraggio sulla “sanguinaria contessa” (lesbica) Erzsébeth Báthory, a cui si dedica almeno dal 2010, attende ancora di essere realizzato. Nel caso del loro film d’esordio, Verführung – Die grausame Frau (1985), Monika Treut ed Elfi Mikesch sono state private dei finanziamenti che erano stati già destinati al progetto (Künemund 2020). La resistenza dei circoli di operatori del cinema d’essai, a predominanza maschile, e di giornalisti cinematografici ostili al pittorialismo con cui rappresentavano una sessualità femminile liberata dallo sguardo maschile, nonché la mancanza di sostegno da parte delle emittenti televisive e dei finanziamenti cinematografici nazionali, hanno spinto Treut a recarsi negli Stati Uniti per fare rete, insegnare e infine, nel 1999, girare Gendernauts – Eine Reise durch die Geschlechter, un film chiave su una prospettiva di vita “genderfuturista”. Il film è poi atterrato come un UFO in un sistema cinematografico tedesco che aveva ancora poca familiarità con le rappresentazioni cinematografiche di persone e posizioni trans*. È interessante notare che in questa rete di cineasti solo Rosa von Praunheim è stato in grado di produrre film ininterrottamente fino a oggi, per quanto con budget ridotti,
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ma con uscite regolari al cinema, circolazione nei festival e trasmissioni sulla televisione tedesca. La sua estetica è guidata da uno stile di produzione contro il tempo, veloce ed economico, che in superficie può sembrare segnato da scarse ambizioni formali, ma che è sempre stato in grado di catturare eroine “inappropriate” e luoghi di precarietà queer che altrimenti non avrebbero mai raggiunto lo schermo. Dal suo famoso film-saggio Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt (Non è l’omosessuale a essere perverso, ma la situazione in cui vive, 1971), divenuto un classico, Praunheim ha assunto una visibilità come voce e volto del movimento gay e della storia dell’HIV nella Germania occidentale, e come peculiare personaggio mediatico ha offerto una narrazione dell’identità gay, la cui integrazione nel sistema cinematografico e televisivo non si è mai davvero affermata, ma è stata ritenuta per lo più una sufficiente rappresentazione mediatica degli omosessuali. Rispetto alle proposte formulate dal Nuovo Cinema Tedesco a partire dagli anni Sessanta, che erano estatiche, ossessive, e che mettevano in discussione l’estetica eteronormativa, dal 2000 in poi è rimasta in vista solo una posizione consapevolmente queer che lavorava esplicitamente su questioni legate a una trasparente omosessualità, risultando in un fenomeno sociale resistente, ma tutto sommato integrabile. Dopo che negli anni Novanta il tema dell’omosessualità è emerso in una serie di commedie di successo, che non assumevano una posizione queer ma offrivano a un pubblico eterosessuale una complessità di costellazioni relazionali, filmmaker lesbiche e gay hanno finalmente potuto beneficiare di una nuova visibilità concessa a stili di vita non eterosessuali anche grazie al successo (nazionale) ottenuto da formati non particolarmente ispirati, ma che hanno condotto a film di riferimento nel genere coming out. Senza essersi formata in una scuola di cinema, Angelina Maccarone è riuscita a ottenere un’approvazione diretta per la sceneggiatura della commedia Kommt Mausi raus? (Alexander Scherer, 1995) da parte della Norddeutscher
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Rundfunk (NDR), emittente regionale della Germania settentrionale. Il film, in cui la protagonista abbandona la scena lesbica urbana per tornare al suo villaggio natale e annunciare tardivamente il suo coming out ad amici e familiari, è stato trasmesso in prima serata dalla TV tedesca e ha consacrato Maccarone come una voce nuova e interessante del cinema queer tedesco. Il film risolve le formule imposte dal genere che contrappone gli stili di vita della grande città a quelli della provincia, tracciando un quadro dettagliato e denso di esperienze delle strutture del villaggio, affrontando le questioni identitarie in modo sorprendentemente flessibile anche per un film di coming out. Nel suo secondo lungometraggio, Alles wird gut (1998, co-sceneggiato da Fatima El-Tayeb), anch’esso prodotto per la televisione, Maccarone ha aggiunto una dimensione intersezionale alla sua esplorazione comica di stili di vita lesbici emancipati: le tre protagoniste sono persone non bianche che attraversano con spigliatezza un ambiente borghese tedesco strutturalmente segnato tanto dall’omofobia quanto dal razzismo, facendo sì che né l’essere lesbica né l’essere nera siano l’essenza della loro identità; una novità assoluta nella storia del cinema tedesco. Per lei il passo verso la produzione cinematografica di lungometraggi non è stato privo di difficoltà. Nel 2005 ha presentato Fremde Haut, un film drammatico su una donna che si trova in una condizione di illegalità in Iran, a causa della sua omosessualità, e in Germania, dove trova rifugio, a causa di una domanda di asilo respinta. Assume perciò un’identità maschile e finisce per avere una relazione quasi eterosessuale in una cittadina della Svevia. Con una sorprendente auto-evidenza, il film mostra le stratificazioni di un personaggio che non trova un proprio luogo da nessuna parte. Nonostante il successo riscosso nei festival internazionali, il film è stato realizzato senza il sostegno di alcuna emittente televisiva tedesca, e di conseguenza ha avuto problemi di finanziamento. Lo stesso vale per Verfolgt (2006), che ha vinto il concorso Cineasti del Presente a Locarno, una commedia da camera in bianco e nero sulla relazione sadomasochistica
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eterosessuale tra una matura addetta alla libertà provvisoria e un minorenne a suo carico. Anche Vivere (2007), un road movie intergenerazionale che racconta le complesse relazioni fra tre donne, è stato presentato nei festival internazionali, ma ha raggiunto poco meno di 4.000 spettatori nelle sale tedesche7. Oltre a vari lavori per la televisione tedesca, successivamente Maccarone è riuscita a completare solo un documentario su Charlotte Rampling (The Look – Charlotte Rampling, 2011). Sebbene abbia ricevuto il Premio tedesco per la sceneggiatura per Klandestin nel 2017, al momento in cui scriviamo (2022) la produzione del film non è ancora stata completata. Il materiale complesso affrontato dalla cineasta fin dai primi anni Duemila era chiaramente eccessivo per il sistema di finanziamento cinematografico e le reti del cinema d’essai in Germania, e l’impressione che il suo approccio intersezionale sia accolto e compreso molto meglio all’estero sembrerebbe confermarlo.
Fig. 2. Verfolgt, Angelina Maccarone. 7 In Germania il pubblico dei festival non è conteggiato nelle statistiche generali degli incassi al botteghino.
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Il tentativo di raccontare l’omosessualità nel cinema commerciale è ancora più strettamente interconnesso con le narrazioni identitarie di alcuni film del regista gay Marco Kreuzpaintner. Insieme all’esordio di Maccarone, Sommersturm (2004) è considerato il secondo importante film di riferimento del genere coming out in Germania, avendo raggiunto 275.000 spettatori, una cifra considerevole per un film a tema giovanile. In esso il desiderio gay del protagonista è integrato in un discorso più ampio sulla scoperta della propria identità sessuale e sulla “prima volta”; il film è ambientato in un campo vacanze eterotopico, dove i giovani possono sbrogliare la loro caotica situazione libidinale prima di tornare in società. Il coming out gay del protagonista sembra essere un problema personale da risolvere per non disgregare la comunità. L’approccio di Kreuzpaintner, descritto dallo stesso regista in un’intervista in occasione dell’uscita del film (2004), è quello di adattare un tema outsider al contesto di un cosiddetto “centro sociale”, il che vuol dire, da un lato, integrare tematiche omosessuali entro un discorso generale sulla sessualità giovanile, privandolo così di concretezza, e, dall’altro, offrire una rappresentazione concentrata sull’identità nelle forme di una narrazione di coming out. Un processo di identificazione emancipato viene così adattato a canoni rappresentativi compatibili con il mainstream. Tuttavia, Sommersturm presenta anche momenti in cui il protagonista può liberarsi dalle determinazioni dei concetti identitari, ad esempio nelle riprese subacquee dopo il salto in un lago, in cui la macchina da presa segue il suo corpo in uno spazio misterioso e opaco dove può muoversi in modo diverso e sfuggire allo sguardo degli altri. Gli aspetti alquanto sgradevoli di una fissazione identitaria nel concetto di diversità, da cui Sommersturm trae un potenziale comico basato sui contrasti (etero/gay, ragazzi/ragazze, Germania Ovest/Germania Est), emergono soprattutto nel ritratto stereotipato di un equipaggio di canottaggio femminile proveniente dalla Sassonia, che i ragazzi etero bavaresi respingono come potenziali candidate alla loro “prima volta” a causa del
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forte accento e del carattere bigotto delle ragazze. Carente nella sua riflessione, questo film si avvicina al già citato (T) Raumschiff Surprise e mostra come un approccio riservato a “questioni minoritarie”, almeno per il cinema tedesco degli anni Duemila che era indirizzato a un “centro della società”, non fosse in grado di immaginare una reale diversità sociale. Il successo di Kreuzpaintner lo ha portato, dopo una breve incursione a Hollywood (Trade, 2007) e un adattamento non troppo audace di un classico tedesco per giovani adulti (Krabat, 2008), all’ambizioso tentativo di sviluppare una screwball comedy incentrata sui concetti identitari di gay/ etero e concepita per il mercato internazionale. La presunta svolta progressista di Coming In (2014) consiste nel fatto che il protagonista, presentato come gay, si innamora di una donna, suscitando incomprensione e intolleranza nella comunità gay (Thiele, 2014). Una narrazione che, a prima vista, sembra voler ammorbidire i rigidi concetti di orientamento sessuale, in realtà si predispone – nei contenuti e nella forma di genere – a una facile lettura nei termini di una commedia romantica eterosessuale, in cui l’essere gay viene semplicemente strumentalizzato come complicazione identitaria, senza mettere in discussione le premesse eteronormative della relazione di coppia monogama. Solo molto più tardi i lungometraggi che trattano costellazioni e soggettività trans* hanno cominciato a essere integrati nelle strutture del cinema tedesco basate sui finanziamenti televisivi e regionali. Romeos (2011) di Sabine Bernardi può essere considerato un film di riferimento che la regista, dopo una sceneggiatura pluripremiata (2007), ha potuto finalmente realizzare a Colonia come film di diploma presso la IFS – Internationale Filmschule Köln con il finanziamento per giovani talenti della ZDF (Zweites Deutsches Fernsehen) e della Filmstiftung Nordrhein-Westfalen. L’autrice si era imbattuta nel tema degli uomini trans* nel corso dei suoi studi e aveva prodotto un documentario breve sulle esperienze di due persone trans* (Transfamily, 2005). Il suo lungometraggio è incentrato sulla costruzione dei perso-
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naggi ed è sviluppato come un dramma convenzionale dalla prospettiva soggettiva di un giovane uomo trans* (interpretato da un attore maschio cisessuale nel ruolo principale), che vive la sua pubertà maschile indotta dal testosterone tra un dormitorio femminile e la scena gay. La narrazione si fonda su una ricerca consistente e si avvale delle esperienze di molte persone nella stessa situazione, ma tenta un’integrazione estetica con formati narrativi classici che finiscono per imporre una definizione del protagonista sulla base della sua identità trans*. Ciononostante, Romeos si è rivelato una sfida eccessiva per le istituzioni cinematografiche. L’FSK (Freiwillige Selbstkontrolle Film), organo di autoregolamentazione dell’industria cinematografica che decide le classificazioni in base alle età, ha considerato questo dramma giovanile “disorientante” per i minori di 16 anni, anche se ha poi rivisto la sua valutazione dopo le proteste che questa aveva suscitato. Nelle sale, il film ha raggiunto poco più di 6.000 spettatori, ma è stato invitato a festival internazionali e ha ricevuto reazioni positive dalla comunità trans. In confronto, i film televisivi sullo stesso tema funzionano in modo molto diverso. Il film Mein Sohn Helen (Gregor Schnitzler, 2015), commissionato dal gruppo radiotelevisivo ARD, è raccontato da un punto di vista esterno, in particolare dalla prospettiva del padre di un adolescente trans*, che deve fare i conti con uno sviluppo del figlio insolito per lui (e per il pubblico a cui il film è idealmente rivolto). In questo caso, il passaggio da una narrazione di coming out focalizzata sull’identità a una oggettivazione dell’alterità, ovvero quello che Bernardi cercava in ogni modo di evitare, sembra esteticamente quasi inevitabile. Tra il 2010 e il 2022 troviamo poche altre produzioni che, godendo di un sostegno relativamente ampio da parte di emittenti televisive e finanziamenti cinematografici, hanno formulato tematiche queer in narrazioni identitarie e, quindi, hanno cercato di posizionarsi nell’area mainstream del mercato d’essai tedesco. Vanno qui menzionati tre lungometraggi che hanno affrontato la sfida in modi
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diversi. Il primo, Freier Fall (2013), si presenta come una narrazione sull’insicurezza della mascolinità borghese, minacciata da un desiderio gay alternativo che dà avvio alla caduta del titolo. Il regista Stephan Lacant incentra il dramma psicologico sulle ansie del protagonista: l’omosessualità appare come un mondo estraneo, il cui confine con l’eterosessualità non è permeabile, motivo per cui la costruzione drammaturgica di Freier Fall si esaurisce in un classico approccio eteronormativo a una ricerca entro le strutture del desiderio. Il secondo è il lungometraggio di Lars Kraume Der Staat gegen Fritz Bauer (2015), che ha vinto, tra gli altri, il Premio del Cinema Tedesco (Deutscher Filmpreis) e si basa su eventi storici: la presunta omosessualità del procuratore generale di Francoforte Fritz Bauer (1903-1968) rischia di minare il suo lavoro di investigazione dei crimini nazisti nella Germania occidentale del dopoguerra. La presenza di un giovane avvocato gay, personaggio di finzione, apre la strada a possibili momenti di tensione omoerotica. Il fatto che il paragrafo 175 del Codice penale tedesco, che rendeva l’omosessualità maschile un reato punibile dal 1871, fosse stato inasprito dai nazisti e conservato in questa forma nella Germania Ovest, rendendo così ricattabili tutti gli omosessuali, è assunto dal film come indicazione di una continuità delle strutture di destra dopo la fine del regime nazista. Il terzo film è Die Mitte der Welt (2016) di Jakob M. Erwa, che adatta un classico per giovani adulti di successo internazionale in una forma estetica più ambiziosa. Il film segue il percorso di un diciassettenne gay che deve lasciare lo spazio sicuro della sua famiglia anticonformista e accettare le sfide di un ambiente non altrettanto tollerante. La produzione austro-tedesca, che crea un’interessante atmosfera poetica grazie alla sua ambientazione alternativa, è stata ben accolta a livello internazionale, ma ha deluso le aspettative nei cinema tedeschi con poco più di 40.000 spettatori e non è stata accolta come rappresentante di un nuovo cinema queer tedesco.
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Nessun nuovo cinema queer ed economie di nicchia Le infrastrutture per consentire lo sviluppo di un cinema queer emancipato erano già presenti in Germania (Ovest) almeno dalla metà degli anni Ottanta. Nel 1985 si è tenuta la prima edizione della Schwule Filmwoche Freiburg (Settimana del Cinema Gay di Friburgo), seguita dal LesbenFilmFestival Berlin (1985-2004), nel 1988 dal Queergestreift (in precedenza Warmer Winter) a Costanza, nel 1990 sono iniziati i Freiburger Lesbenfilmtage (Giornate del Cinema Lesbico di Friburgo) e il Queer Film Festival Hamburg (in precedenza Lesbisch Schwule Filmtage di Amburgo) (Diepenbroick 2009; Dawson e Loist 2018)8. L’operatore cinematografico, curatore e critico gay Manfred Salzgeber (1943-1994), che già nel 1970 aveva partecipato alla fondazione del cinema municipale Arsenal di Berlino e del “Forum des Jungen Films”, un contro-festival all’interno della Berlinale, nel 1979 fu incaricato di ampliare la sezione collaterale della Berlinale “Info-Schau” in un programma indipendente. Nel 1987, insieme al co-responsabile Wieland Speck, Salzgeber istituì come riconoscimento per i contributi queer alla Berlinale il Teddy Award, che per decenni è stato l’unico Premio per il cinema queer a essere assegnato da un festival cinematografico di primo piano (Loist 2022). Una delle conseguenze di questo percorso innovativo è stata che la sezione “Panorama” ha mantenuto un focus sul cinema queer ed è diventata la sede principale per molti contributi internazionali in questo campo, anche dopo che Speck nel 1992 ha assunto il ruolo di Salzgeber, dirigendo la sezione fino al 2017. Dopo essersi confrontato con l’impossibilità di convincere le emittenti televisive o i distributori cinematografici a includere nella loro programmazione il primo film sull’HIV, Buddies (Arthur, J. Bressan Jr., 1985), Salzgeber fondò già nel 1985 una propria società di distribuzione cinematografica, continuata fino ad oggi, dopo la morte di Salzgeber nel 1994, 8 Per approfondire lo sviluppo dei festival queer in Germania e nel mondo cfr. la mappa di Loist “LGBTI*Q Film Festivals (1977-2018)”, disponibile al link http://tinyurl.com/yas8mcw7.
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dal suo successore Björn Koll. La società Edition Salzgeber distribuisce tuttora film queer nelle sale cinematografiche, in VHS, DVD e VoD, agendo a volte anche in qualità di produttore e come società di vendita a livello mondiale. Nel 2009 ha anche lanciato “Sissy”, una rivista di critica cinematografica (proseguita poi con il portale online sissymag.de) che fornisce un contesto per discutere l’intera gamma del cinema queer in Germania (Künemund, Weber, 2022). I festival queer indipendenti (venti attualmente) si sono uniti per formare l’associazione Queerscope9, che assicura a livello nazionale nelle città più grandi la circolazione di film che altrimenti non otterrebbero uscite regolari nelle sale. Così, dagli anni Ottanta, in Germania si è formata una nicchia per la presentazione e la ricezione del cinema queer, che mette in mostra forme narrative ed estetiche che non sono modellate sulle classiche narrazioni identitarie e che vanno oltre ciò che il mainstream angusto e ignorante dei multiplex e delle trasmissioni televisive poteva offrire. L’importante segnale storico-cinematografico internazionale in questo senso, il momento “queer-is-hot” alla fine del 1991, per il quale B. Ruby Rich ha inventato l’accattivante etichetta New Queer Cinema (Rich 2013), è stato percepito in Germania solo all’interno di questa nicchia. L’attrattiva commerciale dei nuovi lungometraggi e documentari indipendenti, che immancabilmente combinavano esperienze queer con una messa in discussione ludico-critica delle convenzioni estetiche, rimase un fenomeno in gran parte limitato agli Stati Uniti e al Canada. Opere fondamentali di Todd Haynes, Tom Kalin, Isaac Julien, Su Friedrich o Sadie Benning, tra le altre, non sono state distribuite nelle sale tedesche e gli impulsi politici ed estetici del New Queer Cinema non hanno avuto alcuna risonanza nel sistema di produzione cinematografica tedesco. Tuttavia, Michele Aaron annovera in questo filone i lavori di Monika Treut realizzati negli Stati Uniti (Aaron 2004, p. 3), mentre Alice Kuzniar contestualizza l’interessante storia punk berlinese Prinz in Hölleland 9
Cfr. https://queerscope.de.
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(1993) di Michael Stock, che utilizza elementi e modelli tratti dalla fiaba e dal dramma barocco (Trauerspiel) come un esempio specificamente tedesco di New Queer Cinema (Kuzniar 2000, 2018). Sempre in questo contesto, occorre menzionare il ruvido lungometraggio Oi! Warning (2000), girato in bianco e nero da Dominik e Benjamin Reding, ambientato tra skinhead e punk nella regione della Ruhr, che ha suscitato paragoni con i film queercore di Bruce LaBruce. Sia Stock che i gemelli Reding non sono però stati in grado di conservare gli stimoli provocatori di questi film nei loro progetti successivi. Dopo aver fallito per molti anni nel tentativo di finanziare un lungometraggio sulla storia degli abusi che aveva subito da parte del padre, Stock ha finalmente affrontato il tema in un documentario a basso costo (Postcard to Daddy, 2010). Ad oggi non è riuscito a realizzare altri progetti. Nel 2007, i fratelli Reding hanno realizzato il loro secondo lungometraggio, Für den unbekannten Hund, che esplorava anch’esso una sottocultura giovanile (rappresentata da due apprendisti artigiani on the road) in modo esteticamente sperimentale e con sfumature queer, ma da allora non sono più riusciti a presentare un altro progetto per un lungometraggio. Le carriere interrotte nel cinema queer tedesco degli ultimi 20 anni – a quanto pare un’affermazione così drastica è necessaria – non sono un’eccezione, ma la regola. Anche dopo esordi di successo, non sembrano esserci strutture che sostengano il cinema queer al di fuori delle nicchie dei festival e della distribuzione o che vi investano con un atto di fede. Di conseguenza, è molto difficile trovare produttori che promuovono attivamente progetti queer. Le esperienze di Ulrike Zimmermann (MMM Film) spingono a una considerazione disillusa a tal riguardo e includono, ad esempio, il suo impegno per i film di Angelina Maccarone (Verfolgt, Fremde Haut), che – nonostante i precedenti successi della regista – incontravano grandi difficoltà a trovare finanziamenti. Il documentario stesso di Zimmermann Vulva 3.0 (2014), che affronta il tema del tabù imposto sui genitali femminili in modo scanzonato e attingendo soprattutto all’esperienza le-
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sbica – un approccio che in un documentario su un tema simile, lo svizzero-tedesco #Female Pleasure (Barbara Miller, 2018), sembra del tutto assente – è un film che ha dato un importante contributo a rendere visibili le prospettive femminili nel cinema queer tedesco degli ultimi anni. Jürgen Brüning, che ha realizzato interessanti film a basso costo nei primi anni Duemila (West fickt Ost, 2001; Saudade, 2003), ha poi prodotto in Germania progetti cinematografici di registi e registe che si possono includere nel filone del New Queer Cinema, ovvero Bruce LaBruce (The Raspberry Reich, 2004; Otto, or: Up With Dead People, 2008; Ulrike’s Brain, 2017; Die Misandristinnen, 2017) e Cheryl Dunye (Mommy Is Coming, 2011), produzioni che hanno offerto una stimolante prospettiva esterna sulla scena berlinese, ma che in Germania hanno ricevuto scarso sostegno dal sistema di finanziamento cinematografico e di programmazione televisiva. In seguito, Brüning si è concentrato sulle produzioni di film porno ed è stato tra i fondatori del Berlin Porn Film Festival.
Fig. 3. The Raspberry Reich, Bruce LaBruce.
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Sono rare le filmografie che presentino in modo continuativo una prospettiva queer. Nel 2000 Jochen Hick, che come Ulrike Zimmermann ha studiato cinema alla Hochschule für bildende Künste di Amburgo, ha presentato un lungometraggio ambizioso, che combina elementi thriller, sottintesi operistici e teorie sull’origine dell’HIV (No One Sleeps), ma che ha mancato i suoi obiettivi commerciali. In seguito, come von Praunheim, Hick ha spostato la sua attenzione su progetti più facili da finanziare, come documentari su vari protagonisti delle scene queer negli Stati Uniti (Cycles of Porn, 2005), in Europa (At the End of the Rainbow, 2006; East/West – Sex & Politics, 2008) e in Germania (Ich kenn keinen – Allein unter Heteros, 2003; Out in Ost-Berlin – Lesben und Schwule in der DDR, 2013; Mein wunderbares West-Berlin, 2017), offrendo panoramiche sintetiche mirate a contestare pregiudizi e logiche binarie. Il progetto di un’emittente televisiva privata alternativa rivolta a un pubblico gay (TIMM), che Hick ha promosso come caporedattore, è stato interrotto nel 2010 dopo due anni di attività mirata alla produzione di contenuti originali. Jan Krüger, laureato presso l’Academy of Media Arts di Colonia, ha iniziato la sua carriera nel 2000 con il cortometraggio Freunde, che racconta di una relazione trasgressiva tra due studenti ed è circolato ampiamente a livello internazionale, vincendo il Leone d’argento alla Biennale di Venezia. Solo tre anni dopo, Krüger ha realizzato il suo primo lungometraggio, Unterwegs (2004), che ha stabilito il suo formato caratteristico di road movie che ben si adatta al movimento in cui sono coinvolte le relazioni dei suoi personaggi. All’International Film Festival di Rotterdam il film ha ricevuto il Tiger Award, ma in seguito è stato proiettato solo in poche sale tedesche. Nel 2005, i “Cahiers du Cinéma” hanno presentato Unterwegs come una “rivelazione” del cinema tedesco, accostandolo a Marseille di Angela Schanelec e Klassenfahrt di Henner Winckler e collocandolo nel contesto della “Scuola di Berlino” (Lequeret 2005). Solo nel 2009 Krüger ha completato il suo lungometraggio successivo, Rückenwind, film
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a basso costo in cui due ragazzi intraprendono una fiabesca gita in bicicletta che spinge la loro relazione verso esiti surreali. Due anni dopo è riuscito a realizzare un progetto a lungo pianificato, Auf der Suche (2011), in cui due persone che non si conoscono, la madre e l’ex fidanzato di un medico scomparso a Marsiglia, cercano insieme di rintracciare l’uomo, proiettando prospettive differenti, eteronormative e queer sull’assenza che affligge entrambi. Cinque anni dopo, Krüger ha presentato Die Geschwister (2016), dove un agente immobiliare berlinese resta invischiato in una relazione con un fratello e una sorella che risiedono illegalmente in Germania. In seguito, la carriera di Krüger nel cinema si è arenata, e il regista non è mai riuscito ad affermarsi pienamente nell’ambito del cinema d’essai, nonostante i premi, l’accoglienza internazionale e le anteprime in festival importanti. Il suo è un caso esemplare di come per i registi in Germania sia quasi impossibile sviluppare materiale queer con continuità senza affrontare il tema dell’omosessualità. Rückenwind di Jan Krüger è stata la prima di una serie di nove produzioni a basso budget del distributore di cinema queer Salzgeber sotto la direzione di Björn Koll, che tra il 2009 e il 2015 ha rappresentato un tentativo di rimediare alla carenza di film tedeschi nella nicchia queer, finanziando piccole, ma ambiziose produzioni nazionali. Il modello di finanziamento era basato su un contributo di Salzgeber, su fondi del BerlinBrandenburg Film Fund destinati a “documentari artistici e film sperimentali” e, a seconda dei singoli casi, integrati da ulteriori finanziamenti regionali. Tutti i nove film di questa serie erano ambientati nella provincia tedesca e mostravano stili di vita queer al di fuori degli scenari urbani. Il motivo del road movie di Rückenwind è stato ripreso anche in You & I (Nils Bökamp, 2014), in cui due amici berlinesi partono per un viaggio nell’Uckermark, regione scarsamente popolata della Germania orientale, dove incontrano un giovane polacco che inconsapevolmente mette a rischio la loro relazione. In Lichtes Meer (Stefan Butzmühlen, 2015) uno stagista del Meclemburgo-Pomerania Occidentale affronta un viaggio ancora più lun-
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go, quando si imbarca in Francia su una nave container diretta in Martinica e si innamora di un marinaio – i due sono i soli veri attori del film, che è stato davvero girato nel corso di un transito su una nave mercantile. Stadt Land Fluss (Benjamin Cantu, 2011) racconta la storia d’amore di due apprendisti in un’autentica azienda agricola del Brandeburgo, dove i processi di lavoro sono ripresi in stile documentaristico e gli altri lavoratori interpretano sé stessi. Sia Westerland (Tim Staffel, 2012) che Frauensee (Zoltan Paul, 2012) raccontano di persone provenienti dalla grande città che arrivano in provincia e si innamorano delle persone che vivono e lavorano lì. Von Mädchen und Pferden (Monika Treut, 2014) collega entrambi i motivi. Nel film, una studentessa che ha abbandonato la scuola lascia una grande città per iniziare a lavorare in un allevamento di pony della Frisia settentrionale, sperimentando il suo coming out con un’allieva di equitazione, mentre una sottotrama si concentra sull’istruttrice di equitazione che prende una pausa dalla sua relazione lesbica. Un po’ fuori dal comune sono i documentari Unter Männern – Schwul in der DDR (Ringo Rösener e Markus Stein, 2012), che indaga con pacata intensità le biografie di alcuni uomini gay nella RDT da una prospettiva post-riunificazione, e il lungometraggio sperimentale Sleepless Knights (Stefan Butzmühlen e Cristina Diz, 2012), che ambienta nell’Estremadura spagnola una storia d’amore gay che si intreccia gradualmente con mitologie locali. Queste produzioni avevano un intento commerciale, in quanto realizzate senza sforzi eccessivi e con un budget ridotto per soddisfare la plausibile domanda del target di pubblico interessato al cinema queer tedesco. È interessante notare che questi film hanno seguito questa strategia sviluppando un approccio documentaristico ai mondi di vita dei loro personaggi e, quindi, evitando le modalità più auto-riflessive delle scene queer metropolitane e del loro “safe space” (come avevano fatto, ad esempio, Lose Your Head di Stefan Westerwelle, 2013, o Desire Will Set You Free di Yony Leiser, 2015). Oltre ai film di esordio di Cantu, Bökamp, Staffel, Butzmühlen/Diz e Rösener, anche registi e registe affermati
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come Treut, Krüger e Paul, che a volte hanno ricevuto scarso sostegno dal sistema di finanziamento cinematografico tedesco, hanno sviluppato dei progetti per questa serie. La maggior parte di questi film è stata presentata in anteprima all’interno di festival di primo piano: Berlinale (Rückenwind, Unter Männern, Sleepless Knights, Westerland, Stadt Land Fluss), Hofer Filmtage (Frauensee, You & I), Crossing Europe Linz (Lichtes Meer) e Torino LGBT Film Festival (Von Mädchen und Pferden, presentato anche al Filmfest Hamburg), dopodiché hanno avuto una circolazione a livello internazionale nei festival di cinema queer. Oltre ai film mainstream dedicati a questioni identitarie e a queste assertive produzioni di nicchia, il cinema queer tedesco è stato tradizionalmente associato alla scena del cinema sperimentale e d’arte, scena in cui registi come Michael Brynntrup10, Matthias Müller & Christophe Girardet, Ute Aurand o Heinz Emigholz hanno potuto lavorare in modo piuttosto continuativo anche nel corso degli anni Zero e Dieci del XXI secolo, pur dovendo contare per lo più sulle garanzie concesse dai loro impieghi nelle accademie d’arte. Interessante è una tendenza più recente visibile nei brevi lavori documentari di Jan Soldat, che è entrato in contatto con il mezzo cinematografico alla Filmwerkstatt di Chemnitz e ha poi completato gli studi presso l’Università del Cinema di Babelsberg “Konrad Wolf” (ex HFF, Hochschule für Fernsehen und Film). In gran parte, Soldat ritrae da una prospettiva eterosessuale protagonisti gay, coinvolti in scene fetish raramente rappresentate dai media e che il regista contatta tramite portali web, costruendo relazioni interessanti e lavorando insieme a loro al progetto. Soldat lavora principalmente come montatore, ma i suoi film hanno avuto straordinari successi festivalieri, stimolando nei festival di cortometraggi una nuova sensibilità per le prospettive queer. Anche Vika Kirchenbauer si è diplomata a Babelsberg e ha costruito una carriera ragguardevole come 10 Per un’analisi della decostruzione queer compiuta da Brynntrup sul genere biopic in E.K.G. Expositus (2003), si veda Künemund 2018.
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artista di film sperimentali e installazioni di successo. Tra i vari premi ha ricevuto il German Short Film Award e il suo lavoro viene presentato a livello internazionale in festival cinematografici e istituzioni artistiche. Il suo lavoro combina elementi personali, impiegando la sua storia e il suo corpo, per esplorare temi politici e teorici più vasti. Il suo cortometraggio Like Rats Leaving a Sinking Ship (2012) crea un collage sperimentale sulla sua esperienza di transizione. Opere come Please Relax Now (2014) e You Are Boring! (2015) esplorano modalità dello sguardo cinematografico, affrontando allo stesso tempo questioni come lo sfruttamento neoliberale o l’implicazione delle tecnologie mediatiche con la guerra e la violenza (Loist 2017). Oltre ai cortometraggi e alle installazioni, Kirchenbauer lavora anche con il suono e crea musica elettronica. Il cinema queer tedesco ha sempre ricevuto stimoli interessanti dai progetti universitari di diploma, talvolta molto personali, realizzati in condizioni di free shot (in cui cioè il materiale e la supervisione sono forniti dall’istituzione, i contatti con i finanziatori cinematografici locali sono facili da stabilire e la promozione dell’opera finita è garantita dall’infrastruttura dei festival per giovani talenti come il Max Ophüls Preis o la sezione della Berlinale “Perspektive Deutsches Kino”). A un’analisi più attenta, tuttavia, spesso si tratta di eventi unici che non si prolungano in classiche carriere da filmmaker né in una filmografia propriamente queer. Il film corale Wir (We, 2003, HFF Potsdam) di Martin Gypkens presentava Berlino come un biotopo per giovani di provincia, che per studiare ed esplorare la propria vocazione artistica si trasferivano in una città in grado di offrire ancora spazi gratuiti, affitti a prezzi accessibili e dove i progetti di vita, i desideri e le relazioni potevano costantemente riconfigurarsi senza la necessità di essere produttivi. Di Birgit Grosskopf si sono perse le tracce nei portali professionali di cinema, dopo il successo e i vari premi per giovani talenti ottenuti col suo esordio Prinzessin (2006, KHM), che trattava di una gang di ragazze violente in cui il desiderio erotico non prende mai forma. Axel Ranisch, diplomato in regia all’HFF di Babelsberg, dopo
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una breve fase cinematografica, si è dedicato principalmente alla regia nel teatro e nell’opera, alla scrittura di romanzi e alla recitazione. Il troppo lungo processo di produzione del suo film di diploma autobiografico Ich fühl mich Disco (2013) lo ha portato a girare nel frattempo il lungometraggio a zero budget Dicke Mädchen (2011) con una videocamera MiniDV, tre attori improvvisati e senza una sceneggiatura definita: due uomini che si prendono cura della madre affetta da demenza di uno dei due si innamorano improvvisamente l’uno dell’altro, dando vita a forme di assistenza e di comunità completamente inedite. Utilizzando lo stesso metodo, che è stato inquadrato in termini di genere come un “Mumblecore tedesco” (Zywietz 2013), Ranisch ha prodotto nel 2015 Alki Alki, le cui sfumature queer si concretizzano nell’idea di rappresentare in modo corporeo la dipendenza dall’alcol del protagonista come una figura maschile in carne e ossa. Presso la scuola di cinema autogestita di Berlino FilmArche, Diemo Kemmesis ha realizzato il suo unico lungometraggio ad oggi, Silent Youth (2012), in cui due ragazzi si avvicinano gradualmente l’uno all’altro mentre si abbandonano a una deriva attraverso luoghi berlinesi ancora privi di un significato stabilito. I sentimenti e le motivazioni dei ragazzi, il loro interesse reciproco, rimangono opachi e inespressi, il movimento che condividono è erratico, ma collocato in un’esteriorità molto concreta. Anche il film con cui Chris Miera si è diplomato all’Università del Cinema di Babelsberg, Ein Weg (2017), impiega toni che rifuggono la spettacolarità per raccontare la relazione di due uomini con un bambino in un villaggio della Turingia, dove l’interesse per le trame della quotidianità, la precisione nella descrizione dei luoghi e gli inaspettati salti temporali mostrano una vicinanza alle opere del cosiddetto “New-Wave Queer Cinema”, che include autori come Andrew Haigh, Ira Sachs, Travis Matthews, Dee Rees (Walters 2012; Yekani 2018). Più inusuali sono due opere prodotte presso la DFFB di Berlino: Der Samurai (2014) di Till Kleinert è uno slasher ambientato nella provincia della Germania orientale, storia di un serial
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killer queer e del giovane agente di polizia che ne subisce il fascino erotico, mentre Das melancholische Mädchen (2019) di Susanne Heinrich è un film-saggio che decostruisce le relazioni di genere secondo un approccio queer.
Fig. 4. Das Melancholische Mädchen, Susanne Heinrich.
I film citati hanno elaborato una visione avvincente e concreta di luoghi e ambienti tedeschi, hanno trovato tonalità accattivanti, che sicuramente li hanno fatti notare nei festival per esordienti e sono valse dei premi, ma la maggior parte di questi autori e autrici non è riuscita a oltrepassare l’ostacolo della produzione del secondo lungometraggio. Da allora Miera e Kleinert hanno continuato a esprimere prospettive queer nella produzione di serie, mentre Grosskopf e Kemmesis sembrano aver abbandonato il campo. Alcuni recenti esordi di registe hanno infuso speranza e attirato a più attenzione a partire dal 2014, quando l’iniziativa femminista “Pro Quote Film”, insieme a una serie di studi successivi sulla disuguaglianza di genere e
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sulla mancanza di diversità, hanno favorito una rinnovata considerazione della situazione desolante delle lavoratrici creative nel sistema cinematografico tedesco11. Anne Zohra Berrached, che ha studiato all’Accademia del Cinema di Ludwigsburg, è già riuscita a completare tre lungometraggi. Il suo esordio, Zwei Mütter (2013), parla di una coppia di lesbiche la cui relazione è messa a dura prova dagli ostacoli opposti dal sistema legale tedesco al loro desiderio di avere un figlio insieme; il film adotta metodi di ripresa interessanti dal punto di vista formale, integrando nella trama narrativa un ritratto documentario delle istituzioni. I film di Uisenma Borchu, che nel complesso sono classificabili come queer solo a certe condizioni, situano entro il contesto tedesco ritratti femminili sorprendentemente sfaccettati, che si muovono tra la Germania e la Mongolia, tra la critica del patriarcato e un discorso femminile sull’autodeterminazione, mettendo in gioco rappresentazioni sessualmente esplicite. Dopo gli studi all’HFF di Monaco, Borchu ha iniziato come documentarista, ma ha proseguito poi con i suoi due lungometraggi Schau mich nicht so an (2015) e Schwarze Milch (2020), che l’hanno consacrata come voce indipendente del cinema tedesco. Notevole è la visibilità del desiderio lesbico all’interno di situazioni comunitarie femminili in Looping (2016) e Kokon (2020), entrambi di Leonie Krippendorff (un’altra diplomata alla Università del Cinema di Babelsberg), che riesce a realizzare progetti queer lavorando molto concretamente sulla sessualità lesbica senza voler determinare i segreti dei suoi personaggi o la loro posizione nell’ambiente sociale. Il cinema queer tedesco nel XXI secolo, tre passaggi Uno, l’Ovest fotte l’Est La coesistenza all’interno di uno stesso Stato di due grandi gruppi di popolazione, che hanno vissuto di persona (o 11 Per una panoramica di contributi femministi recenti cfr. Baer e Fenner 2018; Heiduschke 2018; Prommer e Loist 2020.
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attraverso i propri genitori) esperienze storiche e forme di socialità entro sistemi politici completamente diversi, è una peculiarità per l’Europa. Le asimmetrie strutturali tra Est e Ovest, destinate ad allinearsi nel 1990, hanno riguardato anche la situazione giuridica degli omosessuali (per riassumere molto sinteticamente: i tedeschi dell’Est godevano di più libertà sul piano giuridico, ma erano anche sottoposti a una maggiore sorveglianza statale e a pressioni per conformarsi) così come le forme di organizzazione collettiva delle minoranze: a pratiche di appropriazione eclatante dello spazio politico, da una parte, si contrapponevano, dall’altra, tattiche caratterizzate da resilienza e da un’opacità resistente. A questo proposito, un’asimmetria chiave emersa con la riunificazione tedesca riguardava l’auto-consapevolezza e l’articolazione dell’esperienza: mentre per l’Ovest l’aggiunta dei cosiddetti “nuovi Stati federali” non ha implicato una sfida a ripensare o ridefinire sé stesso, all’Est si è posta la questione di come portare nell’arena mediatica – senza essere accusati di piagnistei o di “ostalgia” – le esperienze uniche dell’epoca della RDT e del periodo successivo alla riunificazione, che hanno comportato significative rotture, svolte biografiche, trasferimenti e cambi di carriera per la maggior parte delle persone coinvolte (Wenzl 2021). In effetti, è sensato guardare al cinema tedesco queer anche in termini di autorialità provenienti dall’Est o dall’Ovest. Soprattutto quando si tratta di prospettive sull’Est, che negli anni Novanta sono state sviluppate quasi esclusivamente dalla Germania Ovest. In linea con una tradizione di curioso interesse per l’Est, così vicino eppure, fino alla Wende (“Svolta”), così lontano (il fortunato lungometraggio del 1985 Westler di Wieland Speck, ad esempio, tratteggiava una storia d’amore gay Est-Ovest sorprendentemente priva di cliché, includendo, tra l’altro, immagini riprese clandestinamente a Berlino Est), il lungometraggio sperimentale West fickt Ost (2001) di Jürgen Brüning si presenta come un commento crudele sulla scena gay della Germania Ovest. I suoi personaggi possono vivere nei loft di Berlino Est e
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leggere testi comunisti, ma in realtà sono impotenti e privi di volontà di fronte all’onnipotenza del capitalismo; persino il sesso gay è diventato una merce, e i tedeschi dell’Est che vengono a Berlino per fare festa diventano un oggetto di desiderio, un brivido superficiale per i gay dell’Ovest, annoiati dalle loro contraddizioni interne. Una serie di film presentano la Germania Est come uno sfondo desolato offerto all’auto-riflessione delle coppie della Germania Ovest (Unterwegs, Rückenwind, You & I, Nachthelle). Questi film non riguardano tanto un’appropriazione quasi coloniale di nuovi spazi, quanto piuttosto l’analisi di personaggi che tradizionalmente si confrontano con questioni di identità in un paesaggio segnato da sconvolgimenti e sovrascritture. Le escursioni assumono i contorni di una fiaba, le deterritorializzazioni acquistano una dimensione percepibile, persino il ritorno alla casa della Germania dell’Est abbandonata subito dopo la riunificazione, come in Nachthelle (2014) di Florian Gottschick, non consente più di riconnettersi con i ricordi o le fasi biografiche del passato, dal momento che il paesaggio stesso (qui segnato dall’abbandono di luoghi che diventano preda delle miniere di lignite a cielo aperto) è scomparso o profondamente modificato. Le esperienze queer della Germania dell’Est sono state articolate soprattutto nei documentari, che negli ultimi vent’anni hanno sviluppato una pratica di indagine intergenerazionale. Ringo Rösener (Unter Männern – Schwul in der DDR), Barbara Wallbraun (Uferfrauen – Lesbisches L[i]eben in der DDR, 2019) e Therese Koppe (Im Stillen laut, 2019) sono nati nella Germania dell’Est negli anni Ottanta e pongono interrogativi a lesbiche e gay delle generazioni precedenti riguardo alle strategie, alle reti e alle esperienze particolari di difesa della felicità privata contro la dottrina dello Stato socialista, una prospettiva sostenuta ad esempio nell’ultimo lungometraggio – e unico contributo al tema dell’omosessualità – prodotto dalla DEFA, Coming Out (Heiner Carow, 1989). Neubau (Johannes M. Schmit, 2020) pone accenti completamente nuovi per quanto riguarda un cinema queer che
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sia specifico della Germania orientale. Sviluppato come produzione a basso costo a partire da lavori performativi in stretta collaborazione con l’autore e attore Tucké Royale, il film si attribuisce la disinvolta definizione di “Heimatfilm”, re-immaginando dunque un tipico genere tedesco degli anni Cinquanta, criticato per la sua rappresentazione di una superficiale beatitudine eteronormativa e conservatrice. Sebbene il film rappresenti in modo realistico le prospettive di vita immaginate da un uomo trans*, collocandole tra il rischio di rimanere isolato nella sua casa nella Germania dell’Est e il sogno di una comunità queer nella grande città, alla fine azzarda cautamente un appello a un lavoro sperimentale per realizzare l’utopia di una provincia intesa come luogo di una “nuova ovvietà”12, dove nuove forme di comunità, sessualità e amore possono trovare il loro posto e, in contrasto con Berlino, possono essere considerate “diversamente belle”. Due, l’arte della migrazione “La storia della migrazione in Germania innanzitutto è, e continua a essere, una storia ancora da raccontare; il “silenzio eloquente” non si applica solo alla derubricazione del tema del razzismo, ma anche alla non-narrazione di un Paese d’immigrazione che non vuole esserlo, un Paese di non-immigrazione”, scrive Nanna Heidenreich (2015), e in effetti è solo nel 2015, lo stesso anno in cui Heidenreich scrive questo commento, che l’auto-definizione “Paese d’immigrazione” viene utilizzata per la prima volta dalla cancelliera tedesca Angela Merkel (Frankfurter Allgemeine Zeitung 2015), sebbene i movimenti migratori abbiano da sempre plasmato la Germania e oggi poco meno di un quarto della popolazione abbia una storia personale o familiare di immigrazione successiva al 1945. La persistente costruzione della migrazione come soggiorno temporaneo ha condotto ai desiderata delle storiografie ufficiali, a storie (al plurale) mancanti, che si sono invece materializ12
Cfr. http://www.geteilte-gegenwart.de.
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zate in forme artistiche, per lo più di finzione, come romanzi, poesie, canzoni e film (Heidenreich 2015, p. 13). La queerness configura un interessante fattore intersezionale in questo “spazio di possibilità” aperto dalla migrazione (Heidenreich 2015, p. 18). Nella tradizione del “film problematico”, che nella storia del cinema tedesco è stato spesso declinato in rappresentazioni del cosiddetto “discorso sugli stranieri” – così come del discorso sull’omosessualità e sulla transessualità concepito in termini identitari – la combinazione di due (o anche più) concetti identitari minoritari sembra essere una rivendicazione eccessiva, un surplus di alterità che non può essere integrato negli ideali di chiusura sociale e cinematografica. Di conseguenza, alcuni film recenti collocano il tema omofobico e transfobico in ambienti cosiddetti “migranti”, spesso fortemente religiosi, come se questi problemi avessero invaso la società tedesca dall’esterno. In Lola e Bilidikid (Kutluğ Ataman, 1999), Shahada (Burhan Qurbani, 2010) o Wo willst du hin, Habibi? (Tor Iben, 2015) l’intersezionalità è raccontata nel motivo di un coming out più complesso del solito, ma anche nelle molteplici giustapposizioni, migrazioni e consolidamenti dei segni di appartenenza e non appartenenza ad ambienti, luoghi e concetti diversi. In particolare, il film di Ataman mette in gioco così tanti contrasti e peculiarità da far emergere raffigurazioni spaziali completamente inedite, dove i cliché e i loro intrecci danno forma a nuovi contesti, mentre la storia d’amore lesbica in Auf der anderen Seite (2007) di Fatih Akin appare astratta e artificiosa, un mero dispositivo sperimentale sfruttato per creare connessioni complesse in biografie sospese tra Germania e Turchia. La già citata screwball comedy lesbica Alles wird gut (1998) di Angelina Maccarone utilizza persone non bianche come suoi personaggi con una disinvoltura che è divenuta da tempo una consuetudine nel cinema queer tedesco. I film intersezionali più convincenti si interessano alla concretezza delle esperienze, invitano a guardare e ascoltare più da vicino storie tedesche reali al plurale. Prima ancora di Futur Drei e Neubau (dove il protagonista maschile trans* si innamora di
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un vietnamita-tedesco, con il quale sembra infine possibile un futuro nella provincia della Germania orientale), l’uscita nel 2003 di Kleine Freiheit, diretto da Yüksel Yavuz, ha segnato l’avvento di un film che sapeva descrivere con estrema precisione diverse forme di non-appartenenza e affermare al contempo un’utopia queer. Con uno stile narrativo da realismo sociale, il film racconta l’amicizia di due giovani clandestini ad Amburgo (entrambi a rischio di deportazione, uno perché la sua richiesta di asilo è stata respinta, l’altro per aver raggiunto la maggiore età come immigrato curdo) e rappresenta mondi diversi che si intrecciano nell’inaspettato sviluppo queer di questa amicizia, tra scambi di videocamere e armi, droghe e cibo, fino a uno spazio di possibilità in cui condividere la breve felicità implicita nel titolo. Il film di Yavuz trae anche una libertà formale dalla euforica varietà del suo vocabolario, sviluppando la sua narrazione a partire dall’impiego di film di famiglia per arrivare alla fine a inscriverla nelle forme di genere del thriller e del film poliziesco. Tre, diversità in trasformazione Nel 1999 e nel 2021, Monika Treut ha presentato due film su gruppi di diverse artiste “genderfuturiste” in California che hanno formato, ricercato e collaborato in e con scene e reti caratterizzate da scambi virtuali e prossimità fisica. Gendernauts e Genderation forniscono una cornice di particolare valore per questo saggio, in quanto immaginano la trasformazione come principio utopico queer, insistendo su di essa e mostrando contemporaneamente la sua relazione con il cinema come medium di movimento e di montaggio. Alla fine degli anni Novanta, Monika Treut, che come rappresentante del Nuovo Cinema Tedesco rifiutava un cinema problematico, essenzialista e identitario, era tornata dagli Stati Uniti piena di entusiasmo per la Wende e per una Germania in trasformazione. Da qui è riuscita a mappare una rete di posizioni genderqueer andando a trovare alcune amiche a
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San Francisco e, limitandosi a suggerire alcune parole chiave ad Annie Sprinkle, Sandy Stone, Susan Stryker e altre, ha raccolto le loro idee innovative sul genere e sulla comunità per riportarle in Germania. Vent’anni dopo, ha riunito in un nuovo film questa rete di persone, che nel frattempo si erano disperse e trasferite altrove a causa della gentrificazione e delle loro scelte di vita. Treut ha saputo mantenere i contatti e restare in carreggiata per assemblare nuovamente queste idee ed esperienze in un unico soggetto. Il film collettivo si è trasformato così in un road movie che ristabilisce connessioni senza vincolare le individualità coinvolte. Nel frattempo, in Germania è emerso un cinema trans* di identità fluide, serie (Fremde Haut) e giocose (Mein Freund aus Faro, 2008, diretto da Nadja Neul), senza dover ricorrere a film problematici a tema transgender.
Fig. 5. Gendernauts, Monika Treut.
Il periodo che abbiamo preso in considerazione è quello segnato dal governo di Angela Merkel (2005-2021, in coalizioni conservatrici e conservatrici-socialdemocratiche). Il quadro
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politico non può certo essere descritto come una fase di impegno attivo riguardo alle questioni LGBTQIA*, ma come un contesto in cui si sono passivamente privilegiate le istituzioni conservatrici come il matrimonio eterosessuale e la parentela di sangue, le quali si sono semplicemente estese ai diritti civili di gay e lesbiche in senso omonormativo e solo in reazione a varie pressioni istituzionali, come quelle esercitate dalla Corte Costituzionale Federale (Schotel 2022). Anche se la lotta per l’uguaglianza giuridica ha raggiunto importanti risultati (modifica della TSG Transsexuellen Gesetz, matrimonio tra persone dello stesso sesso, divieto della terapia di conversione, possibilità di registrare un terzo genere nei moduli burocratici, adozione del figlio del partner), ciò che più colpisce è quanto raramente e con quanta poca acutezza si sia dato spazio alle esperienze queer all’interno del discorso politico. L’immagine di sé coltivata dalla Germania come Paese fondamentalmente contrario alla discriminazione, secondo la nostra tesi, ha condotto di rado a un’apertura nei confronti delle voci che raccontano esperienze di discriminazione specifiche e intersezionali (Künemund, Weber 2022). Al netto di tutti gli appelli alla diversità, si fatica ancora ad affermare una prospettiva che riconosca come la mobilità di posizioni del cinema queer, uno sguardo preciso focalizzato sui dettagli di una percezione non auto-evidente e la capacità, anzi la necessità, di una visione utopica, siano inneschi che tipicamente alimentano impulsi e strategie estetiche innovative. Il potenziale trasformativo del cinema queer tedesco, quando non è stato relegato ai margini e ai discorsi minoritari, ha sempre ottenuto una visibilità internazionale come produzione di nicchia e nei termini di una politica identitaria conservatrice – si tratti del cinema della Repubblica di Weimar, del Nuovo Cinema Tedesco o delle figure opache della Scuola di Berlino. Resta da vedere se questo sguardo diretto al passato sarà in grado di condurre verso il futuro e se gli imperativi della diversità, che attualmente sono per lo più formulati da una prospettiva neoliberale (i servizi di streaming statunitensi hanno dimostrato che c’è da guadagnarci), avranno almeno un effetto strutturale nella promozio-
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ne di nuove voci, storie e posizioni. L’aspettativa che le nicchie si integrino nel mainstream, dissolvendo così inconvenienti e contraddizioni, al momento ha ancora l’effetto di silenziare e accecare il fermento vivace e polifonico che, nonostante tutto, continua a manifestarsi in queste nicchie. A questo proposito, un’ultima immagine, ancora da Neubau, nella quale un uomo trans sperimenta il sesso con un uomo cis: vengono stimolate molteplici zone erogene, viene usato un dildo, mentre l’inquadratura si dirige fuori dalla finestra, su un desolato paesaggio della provincia tedesca orientale; nel frattempo arriva una telefonata, la nonna è scomparsa, il suo compagno è preoccupato, il protagonista deve occuparsene. È un momento, un’immagine che non funziona come in qualsiasi altro film: questa è una Germania specifica, concreta, utopica, filmata. Bibliografia Interview mit Marco Kreuzpaintner, in Sommersturm, comunicato stampa, X-Verleih, 2004, pp. 12-15. Disponibile online, https://www.kinobutzbach.de/pm_09.pdf. Aaron, M. 2004 New Queer Cinema. An Introduction, in Aaron, M. (a cura di), New Queer Cinema. A Critical Reader, Edinburgh University Press, Edimburgo, pp. 3-14. Baer, H., Fenner, A. 2018 Representation Matters. Tatjana Turanskyj on Women’s Filmmaking and the Pro Quote Film Movement, “Camera Obscura”, vol. 33, n. 3, pp. 129-145, https://doi.org/10.1215/02705346-7142212. Dawson, L., Loist, S. 2018 Queer/ing Film Festivals. History, Theory, Impact, “Studies in European Cinema”, vol. 15, n. 1, pp. 1-24, https://doi.org/10.1080/1 7411548.2018.1442901. Diepenbroick, D. von, Loist, S. (a cura di) 2009 Bildschön. 20 Jahre Lesbisch Schwule Filmtage Hamburg, Männerschwarm, Hamburg. Frankfurter Allgemeine Zeitung 2015 Merkel: „Deutschland ist ein Einwanderungslan“, 1 giugno, https://www.faz.net/aktuell/politik/ausland/angela-merkel-siehtdeutschland-als-einwanderungsland-13623846.html.
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Filmografia (T)Raumschiff Surprise – Periode 1 (Michael Herbig, 2004) • Alki Alki (Axel Ranisch, 2015) – SQ 2016 Alles wird gut (Angelina Maccarone, 1998) At the End of the Rainbow (Jochen Hick, 2006) Auf der anderen Seite (Fatih Akin, 2007) Auf der Suche (Jan Krüger, 2011) Buddies (Arthur J. Bressan Jr., 1985) Coming in (Marco Kreuzpaintner, 2014) Coming Out (Heiner Carow, 1989) Cycles of Porn (Jochen Hick, 2005) Das melancholische Mädchen (Susanne Heinrich, 2019) Der Rosenkönig (Werner Schroeter, 1986) Der Samurai (Till Kleinert, 2014) Der Schuh des Manitu (Michael Herbig, 2001) Der Staat gegen Fritz Bauer (Lars Kraume, 2015) Desire Will Set You Free (Yoni Leiser, 2015) Deux (Werner Schroeter, 2002) Dicke Mädchen (Axel Ranisch, 2011) Die Geschwister (Jan Krüger, 2016) • Die Misandristinnen (Bruce LaBruce, 2017) – SQ 2017 • Die Mitte der Welt (Jakob M. Erwa, 2016) – SQ 2017 East/West – Sex & Politics (Jochen Hick, 2008) Ein Weg (Chris Miera, 2017) Female Pleasure (Barbara Miller, 2018) Frauensee (Zoltan Paul, 2012) Freier Fall (Stephan Lacant, 2013) Fremde Haut (Angelina Maccarone, 2005) Freunde (Jan Krüger, 2000) Für den unbekannten Hund (Dominik e Benjamin Reding, 2007) • Futur Drei (Faraz Shariat, 2020) – SQ 2021 • Genderation (Monika Treut, 2021) – SQ 2022 • Gendernauts (Monika Treut, 1999) – SQ 2022 Ich fühl mich Disco (Axel Ranisch, 2013)
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Ich kenn keinen – Allein unter Heteros (Jochen Hick, 2003) Im Stillen laut (Therese Koppe, 2019) Klassenfahrt (Henner Winckler, 2002) Kleine Freiheit (Yüksel Yavuz, 2003) Kokon (Leonie Krippendorff, 2020) Kommt Mausi raus? (Alexander Scherer, 1995) Krabat (Marco Kreuzpaintner, 2008) Lichtes Meer (Stefan Butzmühlen, 2015) Like Rats Leaving a Sinking Ship (Vika Kirchenbauer, 2012) Lola e Bilidikid (Kutluğ Ataman, 1999) Looping (Leonie Krippendorff, 2016) Lose Your Head (Stefan Westerwelle, 2013) Marseille (Angela Schanelec, 2004) Mein Freund aus Faro (Nadja Neul, 2008) Mein Sohn Helen (Gregor Schnitzler, 2015) Mein wunderbares West-Berlin (Jochen Hick, 2017) Mommy Is Coming (Cheryl Dunye, 2011) • Mondo Lux (Elfi Mikesch, 2011) – SQ 2012 • Nachthelle (Florian Gottschick, 2014) – SQ 2015 Neubau (Johannes M. Schmit, 2020) Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt (Rosa von Praunheim, 1971) No One Sleeps (Jochen Hick, 2000) Nuit de chien (Diese Nacht) (Werner Schroeter, 2009) Oi! Warning (Dominik e Benjamin Reding, 2000) Otto, or: Up With Dead People (Bruce LaBruce, 2008) Out in Ost-Berlin – Lesben und Schwule in der DDR (Jochen Hick, 2013) Please Relax Now (Vika Kirchenbauer, 2014) Postcard to Daddy (Michael Stock, 2010) Prater (Ulrike Ottinger, 2007) Prinz in Hölleland (Michael Stock, 1993) Prinzessin (Birgit Grosskopf, 2006) • Querelle (Rainer Werner Fassbinder, 1982) – SQ 2012 Romeos (Sabine Bernardi, 2011) Rückenwind (Jan Krüger, 2009) Saudade (Jürgen Brüning, 2003) • Schau mich nicht so an (Uisenma Borchu, 2015) – SQ 2017 Schwarze Milch (Uisenma Borchu, 2020) Shahada (Burhan Qurbani, 2010) Silent Youth (Diemo Kemmesis, 2012) Sleepless Knights (Stefan Butzmühlen e Cristina Diz, 2012)
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Sommersturm (Marco Kreuzpaintner, 2004) • Stadt Land Fluss (Benjamin Cantu, 2011) – SQ 2014 • Taxi zum Klo (Frank Ripploh, 1980) – SQ 2019 The Look – Charlotte Rampling (Angelina Maccarone, 2011) The Raspberry Reich (Bruce LaBruce, 2004) Trade (Marco Kreuzpaintner, 2007) Transfamily (Sabine Bernardi, 2005) Uferfrauen – Lesbisches L[i]eben in der DDR (Barbara Wallbraun, 2019) • Ulrike’s Brain (Bruce LaBruce, 2017) – SQ 2017 Unter Männern – Schwul in der DDR (Ringo Rösener e Markus Stein, 2012) Unterwegs (Jan Krüger, 2004) Verfolgt (Angelina Maccarone, 2006) Verführung – Die grausame Frau (Monika Treut e Elfi Mikesch, 1985) Vivere (Angelina Maccarone, 2007) Von Mädchen und Pferden (Monika Treut, 2014) Vulva 3.0 (Ulrike Zimmerman, 2014) West fick Ost (Jürgen Brüning, 2001) Westerland (Tim Staffel, 2012) • Westler (Wieland Speck, 1985) – SQ 2011 Wir (Martin Gypkens, 2003) Wo willst du hin, Habibi? (Tor Iben, 2015) You & I (Nils Bökamp, 2014) You Are Boring! (Vika Kirchenbauer, 2015) • Zwei Mütter (Anne Zohra Berrached, 2013) – SQ 2014
Queer Relay nel cinema britannico post-millennial Cüneyt Çakirlar, Gary Needham Traduzione di Francesco Caruso
Il British Queer Cinema non esiste. Un’affermazione ardita e controversa, certo. Ma se è vero che nel Regno Unito ci sono film e registi queer, è una pia illusione pensare che facciano parte di un movimento o di una corrente storica riconoscibile e affine al realismo sociale britannico del dopoguerra. Non esiste, nelle risorse umane e in ambito produttivo, un sostegno reciproco mobilitato collettivamente che possa portare a uno slancio politico condiviso e dare un minimo di forma a un patrimonio culturale che possa chiamarsi British Queer Cinema. Al contrario, le pratiche queer sono atomizzate e vanno identificate caso per caso, in base alla singola produzione. Spesso, le carriere di registi i cui primi lavori sembrano affondare le proprie radici nell’impegno queer, come è il caso di Andrew High, autore di Greek Pete (2008) e Weekend (2011), non si sviluppano in progetti autoriali di dissidenza queer del tipo che si è visto nei lavori di Derek Jarman – un fatto su cui la letteratura critica sul cinema britannico ha più volte richiamato l’attenzione. Come scrive Sarah Street, “con riguardo al cinema britannico, la tematica gay e lesbica non è stata centrale” (Street 1997, p. 191). È indiscutibile, inoltre, che tutte le minoranze sono state ampiamente sottorappresentate sia davanti che dietro la macchina da presa (Cobb, Newsinger e Nwonka 2020). Per confrontarci con questo atipico “ci-
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nema queer” nel contesto britannico post-millennial, proponiamo qui una valutazione sinottica delle rappresentazioni queer trasversali rispetto ai diversi registri produttivi, stilistici, di genere e politici. Questa mobilità del soggetto queer nel cinema britannico limita la possibilità di un “cinema queer” come forza culturale dissidente e di opposizione e conduce, piuttosto, a un relay system che mobilita il valore politico e discorsivo della queerness oltre le distinzioni mainstream/alternativo, egemonico/non-normativo e centrale/marginale1. Riteniamo che questa mobilità della queerness nella cinematografia britannica contemporanea sia paragonabile a ciò che Lisa Henderson ha teorizzato come queer relay. Il relay, secondo Henderson, interrompe o sospende l’ansia culturale e il pregiudizio che rivolgersi al mercato sia umiliante. Reintegra il potere culturale queer nel momento in cui sottrae al parlante il vantaggio che deriva dal rifiuto della queerness, restituisce l’energia morale e libidica derivante dall’opporsi all’egemonia separandosene e restituisce quel concentrato di energia come capitale politico. Quanto si perde nella decisione di fare opposizione può guadagnarsi nel riconoscere e ridistribuire risorse culturali critiche, incluse le nuove soggettività, poiché produttori e pubblico possono muoversi nel raggio di una medietà culturale dove le scelte non sono così vincolate dall’egemonia del capitale rispetto alla sovversione a costo zero (Henderson 2008, p. 571).
Nell’argomentazione che fa Henderson queer relay è adoperato come una nozione che mira a storicizzare un’economia culturale in cambiamento, un mondo non formato sulla base di un calcolo anacronistico in cui le ambizioni espressive delle lesbiche e di altri produttori culturali outsider sono visti con sospetto, o per essersi venduti all’ambizione del settore o per aver mantenuto l’autonomia culturale queer (ivi, p. 594). 1 Relay può indicare sia la staffetta sia un sistema di trasmissione con conseguente potenziamento dell’oggetto trasmesso, che è l’accezione in cui questo termine è usato principalmente nel saggio [N.d.T.].
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In questo senso, l’approccio metodologico proposto in questo articolo non costruisce né etichetta un “cinema queer britannico” in base a una campionatura di comodo di film queer specifici, ma esplora, piuttosto, il più ampio contesto del cinema britannico in cui il soggetto queer opera attraverso i diversi livelli di produzione, genere e stile. Presa nel suo complesso, l’espressione British Queer Cinema potrebbe forse indicare qui un riconoscimento dell’esistenza di singoli film e registi che esplorano cosa significhi essere o essere stati queer nel Regno Unito o trovarsi ad essere situati come queer all’interno degli attuali contesti sociopolitici successivi al Gender Recognition Act (2004) e alla Brexit (2016). La maggior parte di queste osservazioni può aiutarci a identificare una tendenza che definisce la cinematografia LGBT non solo in ambito britannico ma anche nel più ampio ambito europeo. Tuttavia, in numerosi film contemporanei nel contesto britannico si nota una forte propensione verso l’intersezionalità, l’anti-essenzialismo, la frammentazione dello Stato-nazione e la percepita fragilità dei suoi confini, del suo patrimonio culturale e delle sue tradizioni. Il cinema britannico è, inoltre, incline a essere ossessivamente retrospettivo e nostalgico, al punto da non riuscire a fare i conti con l’eredità contemporanea dell’imperialismo o a impegnarsi in un revisionismo queer. Si potrebbe notare, comunque, che i film queer britannici spesso si impegnano a recuperare episodi storici perduti e marginalizzati – Man in an Orange Shirt (Michael Samuels, 2017), The Happy Prince – L’ultimo ritratto di Oscar Wilde (Rupert Everett, 2018) –, a mettere insieme materiali d’archivio sulle alterne vicende della storia del cinema queer britannico e delle sue icone – Derek (Isaac Julien, 2008), Queerama (Daisy Asquith, 2017), After 82: The Untold Story of the AIDS Crisis in the UK (Steve Keeble, Ben Lord, 2019) –, ad appropriarsi, attraverso dei biopic, di figure queer storiche – Kenneth Williams: Fantabulosa (Andy De Emmony, 2006), The Imitation Game (Morten Tyldum,
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2014), Vita and Virginia (Chanya Button, 2018), Against the Law (Fergus O’Brien, 2017) – e ad affrontare altre questioni contemporanee ispirate a tematiche relative al genere e alla sessualità, incluse le problematiche relative all’immigrazione (God’s Own Country, Francis Lee, 2017), all’intersezionalità (Nina’s Heavenly Delights, Pratibha Parmar, 2006) e all’appartenenza (Scandalo a Londra, Ian Iqbal Rashid, 2004 e Disobedience, Sebastián Lelio, 2017). Nell’impostare questa panoramica critica, abbiamo identificato due ambiti predominanti nella rappresentazione queer nel cinema britannico degli ultimi due decenni. Questi due ambiti, caratterizzati da (1) rivendicazioni storiche e di tradizioni culturali e (2) rappresentazioni dell’intersezionalità queer, piuttosto che condurre a una “tendenza” o “corrente” queer politicamente ed esteticamente riconoscibile, operano sulla base del queer relay. Occorre tuttavia fornire un più ampio contesto prima di discutere questi due grandi ambiti e i film ad essi associati. Il contesto del cinema britannico post-millennial (2000-2020) Il cinema britannico, inteso sia come realtà produttiva sia come fonte di identità nazionale, presenta numerosi fattori di problematicità, incluso l’assetto geopolitico del Regno Unito, che condiziona i parametri nazionali, economici e politici relativi al settore culturale, specialmente quelli determinati dal processo di devoluzione, dall’assegnazione dei finanziamenti governativi, dagli sgravi fiscali sugli investimenti cinematografici internazionali (cioè Hollywood e i conglomerati mediatici globali) e, più recentemente, dalla Brexit (2016). La devoluzione e la decentralizzazione (soprattutto fuori Londra) hanno favorito le produzioni nazionali su piccola scala in Scozia – come ad esempio la produzione con sede a Glasgow Seat in Shadow (Henry Coombes, 2016) – e nel nord dell’Inghilterra – come ad esempio God’s Own Country –,
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molte delle quali si sono avvalse di fonti di finanziamento europee, oltre a quelle nazionali e regionali. Nel 2000 il governo (New) Labour ha sciolto sia il British Screen che il British Film Institute e ha creato lo UK Film Council come nuovo ente per lo sviluppo dei finanziamenti con il compito di determinare le modalità di assegnazione dei fondi pubblici (compresi gli investimenti regionali nel settore cinematografico). Questi ultimi sono stati ulteriormente ripartiti in un Premier Fund per il cinema – con cui sono stati sovvenzionati, tra gli altri, Diario di uno scandalo (Richard Eyre, 2006), cofinanziato da BBC Films, con il suo cast di celebrità, e film di genere ibrido, come Dorian Gray (Oliver Parker, 2009) – e il New Cinema Fund per talenti emergenti, che ha finanziato Weekend e My Summer of Love (Paweł Pawlikowski, 2004). Va detto comunque che nel periodo che stiamo considerando a beneficiare di finanziamenti dello UK Film Council è stato un numero inferiore di produzioni, tra cui AKA (Duncan Roy, 2002), Nine Dead Gay Guys (Lab Ky Mo, 2002), Nina’s Heavenly Delights (Pratibha Parmar, 2006), Scenes of a Sexual Nature (Ed Blum, 2006), I Can’t Think Straight (Shamim Sarif, 2008) e Shank (Simon Pearce, 2009), per cui si è potuto fare affidamento a finanziamenti di coproduzioni internazionali, alle start-up e alle prevendite ai distributori di DVD LGBT, come TLA negli Stati Uniti. Lo UK Film Council ha investito centosessanta milioni di sterline distribuiti su novecento film (Gant 2020), una cifra apparentemente davvero ragguardevole. Ma sono numeri che parlano anche di una penuria di investimenti nella cinematografia queer, con tre eccezioni degne di nota: My Summer of Love, Diario di uno scandalo e Weekend. Il passaggio politico della governance sul cinema da investimenti pubblici sul valore culturale (sotto il New Labour) a quelli del settore privato misurati sul valore economico (sotto i Conservatori) contribuisce a spiegare la natura irregolare ed erratica della cinematografia queer nel Regno Unito. Inoltre, questo modello business-oriented ha dato
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modo all’industria cinematografica britannica di estendere i benefici finanziari a grosse produzioni blockbuster di provenienza americana a cui veniva accordato lo status di produzione nazionale nonché degli sgravi fiscali a condizione che superassero un “test culturale”. Questa categoria di film profit-oriented include titoli come Harry Potter (2001-2011) e The Dark Knight (2005-2012), due global media franchise della Warner Bros. Questo discorso può in parte ricollegarsi alla cancellazione del riferimento alla sessualità contenuto nell’Equality Act britannico del 2010, come spiegato da Cobb, Newsinger e Nwonka: La nozione di diversità è una modalità di articolazione delle disuguaglianze sulla base di razza ed etnia, genere, disabilità e classe sociale (l’orientamento sessuale difficilmente viene contemplato dalle politiche sulla diversità, benché trovi copertura ai sensi dell’Equality Act del 2010) pur essendo, allo stesso tempo, un modo di gestire la promozione delle azioni rivendicative di uguaglianza provenienti dal basso all’interno delle strutture e delle pratiche industriali esistenti (Cobb, Newsinger e Nwonka 2020, p. 1).
Lo scioglimento dello UK Film Council del Regno Unito da parte del governo conservatore, decretato per allineare l’industria cinematografica agli investimenti privati esteri profit-oriented e agli incentivi fiscali, anziché dar vita a un cinema nazionale con istanze, relazioni politiche e rappresentazioni nazionali, ha reso l’industria cinematografica britannica un contesto produttivo vitale per Hollywood e per gli investitori stranieri. Il Regno Unito offre studi di produzione, una forza lavoro qualificata e sostanziali agevolazioni fiscali che permettono di classificare i film come opere nazionali quando, in realtà, i finanziamenti provengono da conglomerati mediatici globali. In questo contesto, a film come Fast & Furious Presents: Hobbs and Shaw (David Leitch, 2019), girato in parte intorno a Glasgow, sono accordati consistenti bene-
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fici fiscali e sono considerati formalmente co-produzioni inglesi-americane sebbene il marchio sia statunitense. Pertanto, a partire dal 2000, il contesto ideologico e politico dell’industria cinematografica britannica, condizionato dallo UK Film Council, dal suo scioglimento e dalla mancanza di interesse del governo conservatore a dare priorità alle arti e alla cultura, ha finito con l’attirare investimenti stranieri per la realizzazione di prodotti commerciali lucrativi e ben confezionati, prodotti in studi britannici con personale britannico (come nel caso dei franchise di Harry Potter e di James Bond, rispettivamente Warner Bros. e MGM), anziché sostenere produzioni che fossero anche solo lontanamente legate alle esperienze delle minoranze, alla diversità e all’inclusione, o alla critica delle politiche di classe, all’immigrazione o alle persistenti disuguaglianze strutturali. Ciò condizionerà certamente una produzione cinematografica regionalizzata e disarticolata, con un impatto sulle storie queer che vengono raccontate. Dopo la Brexit, le produzioni cinematografiche britanniche faranno spazio a punti di vista “dall’esterno” che propongano verità alternative a quelle vigenti all’interno dei nuovi confini? I film queer nel Regno Unito alimenteranno un’idea di identità-come-unità attraverso una comprensione condivisa dell’essere queer in un periodo di incertezza politica, insicurezza economica, politiche neoliberiste, rinascita della destra populista e gestione della sanità nazionale/ globale nel senso più ampio del termine? Queste sono le domande con cui certamente ci si dovrà confrontare nel futuro prossimo del cinema queer britannico. Tuttavia, vale anche la pena ricordare che durante il periodo di massimo splendore del New Queer Cinema alcune pellicole britanniche sono state incluse in un canone dichiaratamente americano-centrico (dominato principalmente dalle opere dei registi queer statunitensi Gregg Araki, Todd Haynes, Tom Kalin e Marlon Riggs), come ad esempio Edward II (1991) di Derek Jarman, con il suo ana-
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cronismo queer d’epoca e Young Soul Rebels (1991) di Isaac Julien, attento all’intrecciarsi di temi legati a razza, sessualità e classe nelle sottoculture musicali. A dispetto della filosofeggiante frase d’apertura secondo cui il British Queer Cinema non esiste, vorremmo sottolineare la presenza di una pletora di film queer britannici, molti dei quali verranno discussi più avanti, che si inseriscono perfettamente nella riconcettualizzazione contemporanea del cinema queer e i suoi nuovi trend globali. Qui usiamo “queer” come termine ombrello per tutte quelle pellicole LGBTQ+ che potrebbero anche non essere allineate agli aspetti più radicali delle politiche queer ma anzi si conformano a priorità acquisite, omonormative, assimilazioniste o addirittura antagoniste rispetto alla realtà queer. Il nostro studio fornirà una valutazione critica dettagliata degli ultimi due decenni di cinematografia queer nel Regno Unito. Piuttosto che riprodurre le solite schematizzazioni che guardano alle singole pellicole queer britanniche come oggetti teorici globali e le collocano in un contesto transnazionale di cinematografia LGBTQ+, il nostro approccio contestualizzerà le modalità con cui questi film trattano la queerness e la soggettività queer, mettendo in discussione la misura in cui l’appartenenza nazionale e i contesti produttivi modellano la costruzione estetica e politica della sessualità. In particolare, molti dei film a tematica queer realizzati tra il 2000 e il 2020 continuano a presentare storie individuali e introspettive di individui queer e biopic come The Imitation Game e The Happy Prince; risoluzioni poetiche e sentimentali di intrecci di vita quotidiana come in Weekend; luoghi caratteristici come l’omonimo quartiere londinese in Clapham Junction (Adrian Shergold, 2007) e lo Yorkshire di God’s Own Country; congiunture storiche come la Seconda guerra mondiale in Man in an Orange Shirt e gli anni Cinquanta in Against the Law; le perenni tematiche criminali a sfondo omofobico come la perfidia lesbica di Diario di uno scandalo e l’omicida queer di Tony (Gerard Johnson, 2009), basato sul serial killer Dennis Nilsen.
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Fig. 1. Pride, Matthew Warchus.
Nel trasmettere i loro contenuti LGBTQ+ a un pubblico più ampio, alcuni film ricorrono a personaggi e situazioni queer per raccontare di contesti politici, storici o contemporanei particolarmente significativi – Pride (Matthew Warchus, 2014), Against the Law –, mentre altri si limitano ad accennare ai desideri e alle possibilità queer – Diario di uno scandalo, Philomena (Stephen Frears, 2013). È inoltre fondamentale sottolineare che non si può separare l’essere queer nel Regno Unito dall’interesse verso le politiche governative in materia di immigrazione, cittadinanza, unioni civili e matrimonio, religione, classe ed etnia. Come sostiene Robin Griffiths (2016), il cinema queer britannico contemporaneo può essere storicizzato come cinema “post-Jarman” nel suo muoversi verso istanze estetiche e politiche nuove, allineate ad aspirazioni neoliberiste e assimilazioniste che rifuggono dall’energia formalista radicale della peculiare autorialità di Jarman. Tuttavia, senza sminuire i suoi risultati, l’indirizzo anglo-centrico
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dei film di Jarman non è sempre stato rilevante per gli altri stati-nazione britannici, per le esperienze a livello regionale e per i segmenti di popolazione multirazziali e multietnici. Bisogna riconoscere che i suoi riferimenti alla cultura alta, l’anglo-centrismo e l’oscurità caratteristica dell’avanguardia costituiscono un ostacolo alla ricezione queer nel più ampio contesto britannico. Inoltre, il servizio pubblico radiotelevisivo del Regno Unito, in particolare la BBC e Channel 4, ha svolto un ruolo significativo con rispetto alla cinematografia queer britannica. Poiché queste grandi istituzioni televisive sono impegnate nelle produzioni cinematografiche nazionali, sono state anche cruciali e molto generose nel sostenere finanziariamente i film queer britannici fin dagli anni Ottanta. Sebbene molte di queste pellicole finanziate dalla televisione passino brevemente nelle sale prima di andare in onda sul piccolo schermo, il più delle volte vengono viste al di fuori del Regno Unito in festival e al cinema e sono prodotte come qualsiasi altro film, cioè per essere visti in sala. Quando Channel 4 fu lanciato nel 1982, tra i suoi compiti vi era quello di commissionare lungometraggi che potessero passare nelle sale all’estero prima di essere trasmessi dal sistema televisivo nazionale. Una delle prime produzioni indipendenti finanziate da Channel 4 è stata My Beautiful Laundrette (Stephen Frears, 1985), un’opera importante nel canone globale del cinema queer degli anni Ottanta. Oltre a momenti televisivi emblematici come il newsmagazine Out on Tuesday (1989), la serie Brookside, che ha mandato in onda il primo bacio lesbico sullo schermo in fascia non protetta (1994), Queer as Folk (1999) e, più di recente, Years and Years (2019), I May Destroy You (2020), Trigonometry (2020) e It’s a Sin (2021), è difficile immaginare una cultura britannica queer su schermo senza la televisione, i finanziamenti che ha erogato e il ruolo che ha svolto in quanto servizio pubblico. La BBC e Channel 4 sono stati storicamente i principali finanziatori delle culture cinematografiche antagonistiche,
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come i lavori di Derek Jarman. Di questo regista la BBC ha infatti finanziato Edward II (1991) e Channel 4 ha co-finanziato The Angelic Conversation (1985), Caravaggio (1986) e The Last of England (1987). Citiamo questi esempi di finanziamento “televisivo” non solo per mostrare la continuità con il cinema contemporaneo, ma anche per mettere in luce il contesto in cui questi film sono stati finanziati da un ente pubblico, e cioè con il governo di destra dei Conservatori al potere, durante la crisi dell’AIDS e mentre era in vigore l’Articolo 28, che proibiva la “promozione” dell’omosessualità in ambito scolastico. In breve, a partire dagli anni Ottanta, la televisione è stata una fonte di finanziamento essenziale per la produzione cinematografica indipendente britannica, che continua a dipendere dal patrocinio della televisione. Più recentemente, la BBC ha co-finanziato My Summer of Love, Diario di uno scandalo, The Edge of Love (John Maybury, 2008), Monsoon (Hong Khaou, 2019) e Supernova (Harry Macqueen, 2020). FilmFour, la società di produzione cinematografica controllata da Channel 4, ha finanziato in tutto o in parte Clapham Junction, Disobedience e La favorita (Yorgos Lanthimos, 2018). Recuperi: amanti queer, heritage britannico e svolta nostalgica I film britannici della fine del XX secolo, come nota Geoff Eley nel bilancio che ha tracciato del cinema degli anni Ottanta e Novanta, trattano prevalentemente “dell’appartenenza alla nazione e di come tale appartenenza debba essere pensata dopo la trasformazione del panorama sociale e la diversa strutturazione della sfera pubblica nella Gran Bretagna thatcheriana” (Eley 2019, p. 134). Lo studio di Eley individua nel cinema heritage un potente esempio di consolidamento della svolta della Gran Bretagna verso la politica culturale conservatrice e neoliberista degli anni Ottanta. Inoltre, Higson (1993) ha identificato le caratteristiche stilistiche e tematiche comuni del genere heritage
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per come si è venuto a configurare: la rappresentazione della storia come spettacolo attraverso uno stile di ripresa pittorico; il primato della mise-en-scène sulla narrazione; il fascino esercitato dallo stile di vita dell’alta borghesia; l’ispirazione ai classici della letteratura, in particolare E.M. Forster; il costante ricorso ad attori specifici, come Helena Bonham-Carter, James Wilby e Anthony Hopkins. Higson colloca inoltre questi film nel contesto politico del conservatorismo britannico, in particolare del Thatcherismo, interpretando il genere heritage come sintomatico di una negazione dei conflitti sociali in corso da parte della classe media (Street 2009, pp. 117-118; Higson 1993). Tuttavia, secondo Eley, la cinematografia heritage ripropone, con successo, al centro della storia nazionale la “tradizione” come il bene fondamentale […] [laddove] le stesse identiche storie potrebbero essere ri-raccontate (o rilette controcorrente) per mettere in questione il conformismo del tempo presente, criticando l’istituzione familiare, resistendo alla repressione sessuale, sovvertendo l’eteronormatività, abbracciando sessualità queer, rivendicando la soggettività femminista e così via (Eley 2019, p. 136).
In sintonia con quanto afferma Eley, riteniamo che Vita and Virginia di Chanya Button, La favorita di Yorgos Lanthimos e Ammonite di Francis Lee (2020) siano i tre film queer chiave del cinema britannico post-millennial e che abbiano rifondato il filone heritage operando una rilettura queer della riproposizione normativa della tradizione. Vorremmo soffermare la nostra attenzione su Vita and Virginia e Ammonite perché queste due pellicole offrono un terreno fertile per indagare non solo le appropriazioni queer della cinematografia heritage, ma anche i modi in cui il biopic viene usato come strumento di recupero queer del passato, i cui esempi precedenti (e più radicali) sono Caravaggio, Edward II e Wittgenstein (1993) di Derek Jarman, e Looking for Langston (1989) e Derek di Isaac Julien. Mentre i biopic queer hanno il potenziale politico
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di destabilizzare, decentrare, reinventare e recuperare il passato, alcuni di questi sono prodotti secondo un indirizzo del tutto mainstream, avverso a qualsiasi provocazione queer. Il vergognoso de-queering di uomini gay o bisessuali in due recenti film con finanziamento britannico e distribuzione hollywoodiana, cioè Bohemian Rhapsody (Bryan Singer, 2018) della Twentieth Century Fox e Rocketman (Dexter Fletcher, 2019) della Paramount Pictures, dimostra efficacemente i modi in cui la rappresentazione del soggetto queer radicale in un biopic potrebbe prestarsi ad esprimere non solo una posizione predefinita di dissenso, ma allo stesso tempo anche una visione assimilazionista e depurata dei suoi elementi queer.
Fig. 2. Vita & Virginia, Chanya Button.
Vita and Virginia di Chanya Button è una meditazione sull’appassionata relazione tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West. In contrasto con la sperimentazione stilistica condotta da Jarman con il dramma storico e il filone heritage in Edward II, Vita and Virginia prova a sovvertire
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il genere dall’interno delle sue stesse convenzioni estetiche, puntando sulla relazione erotica tra due famose esponenti della letteratura inglese del Novecento. Il film si riappropria del lascito culturale di una Woolf sensuale, queer e inassimilabile all’interno del generico ambito del patrimonio culturale britannico (Sproles 2000). Secondo Eley, queste rappresentazioni agiscono come fonti soppresse di una più radicale concezione dell’essere persona […] [e] di un modernismo irriducibilmente ostile verso le rigide normatività del passato [che] […] potrebbero […] produrre una contronarrazione, lasciando che sia una storia diversa a essere raccontata (Eley 2019, p. 134).
Costruito significativamente attorno a lettere d’amore portate sullo schermo attraverso immagini tattili di primi piani ravvicinatissimi, suoni acusmatici e sequenze oniriche volte a rendere sensazioni corporee, in Vita and Virginia il racconto si snoda attorno alle dinamiche del desiderio queer tra le due donne, che ispirerà a Woolf il suo romanzo Orlando: A Biography (1928). Il film presenta un soggetto queer espressivo e sensuale, cioè in continua trasformazione, in divenire. Piuttosto che aspirare alla rivelazione dell’omosessualità dei personaggi per poi inquadrarli in determinate categorie identitarie, il film dà la precedenza a come si dispiega il desiderio, a come si sviluppa l’intimità e a come l’intimo legame tra i personaggi li rende soggetti espressivi, aperti, estetici. Come aggiunge Eley, nella filosofia modernista dell’essere persona, attribuire valore all’espressività – all’importanza dei sentimenti individuali e al coraggio di riconoscerli – agli inizi del Novecento aveva un dichiarato potenziale politico a cui il cinema heritage […] si sottrae (Eley 2009, p. 249).
Criticando la figlia che si traveste da uomo e sovverte i ruoli di genere come “un’esibizionista promiscua che porta solo vergogna alla famiglia” e considerando Blo-
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omsbury, il milieu della Woolf, come una “bolla dissoluta e bohémien”, l’aristocratica madre di Vita, Lady Sackville (Isabella Rossellini), viene presentata come il generico personaggio-guardiano dei film heritage, in cui l’“espressività” queer di una coppia e l’individualità radicale sono fattori di contrapposizione, portando scompiglio nel registro affettivo predefinito in tutto il film. Queste tensioni nella rappresentazione trovano un loro riscontro anche nelle scelte estetiche di Chanya Button. Mentre la mise-en-scène di Vita and Virginia (in particolare i luoghi, le ambientazioni, i costumi e la recitazione) riproduce le formule generiche del dramma d’epoca britannico, il registro stilistico del film passa spesso a una modalità tattile contemporanea che articola, attraverso vari usi espressivi dell’inquadratura e del suono non diegetico, le sensazioni fisiche di Woolf e gli sguardi assorti degli amanti. L’espressione contemporanea del desiderio saffico nel film sottrae il soggetto queer dall’ambientazione d’epoca e allo stesso tempo costruisce una Virginia Woolf non assimilabile alla normatività di genere del filone heritage o all’ottica identitaria della contemporaneità queer. “Mi piacciono le cose selvagge, vaste, complicate”, dice Vita in uno dei momenti chiave del film. L’esperienza che fa Virginia del suo legame “selvaggio, vasto e complicato” con Vita sfocia in Orlando, la biografia di un aristocratico adolescente del XVI secolo che subisce un misterioso cambiamento di sesso, in cui si recupera e riafferma il retaggio di Virginia Woolf, intessuto di queerness e plasmato dal desiderio queer. In modo non dissimile dal recupero della queerness compiuto da Vita and Virginia all’interno della cinematografia heritage britannica, Ammonite di Francis Lee rielabora la relazione della pioniera della paleontologia ottocentesca, Mary Anning, con la sua collega, la geologa Charlotte Murchinson. Afflitta dalla malinconia e da un matrimonio infelice, Murchinson è stata lasciata dal marito in compagnia di Anning, nella speranza che l’atmosfera balneare di Lyme Regis curi la sua depressione.
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Combinando insieme la fotografia pittorica dei drammi d’epoca con i mezzi espressionistici del realismo poetico, tra cui l’uso specifico dei colori, l’inquadratura, il trucco, l’ambientazione e le luci, Lee crea un universo filmico che riflette la passione di Anning per la caccia ai fossili. Nel rappresentare due donne dell’Ottocento come soggetto di desiderio ritraendole tra le rocce e i fossili nel clima uggioso della costa britannica, il film recupera un soggetto queer che era andato perduto nell’opprimente omosessualità non dichiarata dell’heritage britannico. Quanto nota il critico Peter Bradshaw nella sua recensione al film riguardo all’uso metaforico che fa Lee della caccia ai fossili e cioè “lo spaccare le rocce, la scoperta di segreti, l’eccitante tangibile prova della vita” (Bradshaw 2021), dimostra anche come Lee fa che l’heritage operi come relay per la queerness e come l’amore queer sovverta i copioni ufficiali heritage. Nella scena finale del film, le due donne si rivedono al British Museum. Guardandosi dai lati opposti di una teca di vetro che contiene il fossile di ittiosauro scoperto dalla Anning, la coppia occupa il museo e lo rivendica come proprio, in qualità di solleciti soggetti queer della storia e del patrimonio culturale. Analogamente alla visione anti-identitaria della sessualità che troviamo in Vita and Virginia, Ammonite non va inteso necessariamente come il dramma di una crisi di identità sessuale nella vita di due donne vittoriane. Mantenendo la metafora dell’ammonite (inteso come vita fossilizzata e preservata nella roccia), il film sospende la specificità storica e de-contestualizza il film d’epoca concentrandosi sull’intimità tra le due donne, mettendo in atto una forma di ciò che Elizabeth Freeman ha teorizzato come “erotostoriografia”: “una cronopolitica anomala” che facilita “l’attrito di corpi morti con quelli vivi, di costrutti obsoleti con quelli emergenti” (Freeman 2005, p. 66). Dal pittoresco paesaggio balneare al British Museum, Lee garantisce a queste donne visibilità e dinamicità negli spazi improbabili del genere e della storia.
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Fig. 3. Ammonite, Francis Lee.
La rifondazione queer dell’immaginario di genere nel cinema britannico post-millennial non è limitata al contesto delle pellicole heritage o ai drammi di ambientazione storica. Weekend di Andrew High, Pride di Matthew Wachus e God’s Own Country di Francis Lee sono esempi importanti, leggibili come interventi che ricavano uno spazio per personaggi e relazioni non eteronormativi all’interno del lascito del realismo sociale al cinema britannico (comprese le varianti d’autore e quelle destinate a un pubblico di media cultura). Griffiths avanza l’ipotesi che “l’ossessione per il passato e la ‘svolta nostalgica’ che sembrano predominare i più recenti film britannici a tematica gay sono particolarmente vistosi nel comedy-drama Pride di Matthew Warchus, del 2014” (Griffiths 2016, p. 604). Secondo Griffiths, “questo film è essenzialmente una continuazione di quelle narrazioni fin de millennium sulla ‘crisi della mascolinità’, che erano senz’ombra di dubbio una delle pietre angolari del cinema britannico della fine degli anni Novanta” (ibidem). Per lui, i minatori gallesi della Dulais Valley Lodge di Pride
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sono pressoché intercambiabili con le disilluse comunità di minatori dell’Inghilterra del Nord di Grazie, signora Thatcher (Mark Herman, 1996) e Billy Elliot (Stephen Daldry, 2000) e con gli operai disoccupati delle acciaierie di Sheffield in Full Monty (Peter Cattaneo, 1997): tutti partecipano alla stessa lotta per far fronte al trauma seguito al cambiamento economico e alla conseguente trasformazione delle strutture sociali e delle relazioni di genere prodotte dalla dura temperie politica del Thatcherismo di fine Novecento (ivi, pp. 604-605).
Ripercorrendo l’attivismo associativo di Lesbians and Gay Support the Miners (LGSM), Pride fa rientrare le politiche queer nell’ambito generalista del socialismo realista del cinema nazionale, che ha ignorato le sessualità marginali(zzate) come efficace tema politico e culturale per la sua critica alla società britannica. La posizione di Griffiths, che vede in Pride una nostalgica “attrazione per il passato”, è condizionata non solo dalla memoria culturale che il film vuole richiamare all’azione riguardo all’eredità delle politiche associative LGBTQ+ nel Regno Unito, ma anche da quel movimento associativo contemporaneo che si oppone alle forze disgreganti del neoliberismo conservatore della Gran Bretagna del nuovo millennio, comprese le sue politiche gay assimilazioniste e omonormative (ivi, p. 607). Nel suo narrare storie di amicizia, collaborazione e dissidenza dall’interno del registro affabile e mainstream del realismo sociale, Pride può essere visto come uno degli esempi fondamentali di queer relay che è a nostro avviso largamente predominante nel panorama delle rappresentazioni queer del cinema britannico post-millennial. Piuttosto che rivendicare la marginalità, incarnare politiche queer radicali, anomale e non conformiste e rifiutarsi di relazionarsi con realtà mainstream, film come Pride aspirano a oltrepassare i vari registri della produzione cinematografica, e a trasmettere, potenziandola, la queerness dove solitamente non è di casa. Sebbene chiedersi cosa viene compromesso a beneficio di questo “mobilitarsi al di là” sia una valida obiezione critica, il potenziale culturale e politico di questo relay non dovrebbe essere ignorato.
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L’outing del soggetto queer intersezionale: collisioni e collusioni Da My Beautiful Laundrette a God’s Own Country, il cinema britannico ha dato spazio a complesse rappresentazioni della queerness, che si intrecciano a relazioni di razza, classe e genere. Sebbene la proliferazione di film a tematica LGBTQ+ nella cultura visiva britannica post-millennial non comporti necessariamente il consolidarsi di un cinema queer con istanze estetiche e politiche ricorrenti, la crescente visibilità del soggetto queer intersezionale nella maggior parte di queste pellicole merita attenzione critica. Spaziando dalle rappresentazioni della diaspora queer a storie di migrazione, attraversamento di confini e desiderio queer interrazziale, la queerness intersezionale di questi film esprime una particolare etica della relazionalità, in quanto espande la soggettività queer oltre le più note modalità di dissidenza LGBTQ+. La rappresentazione dei personaggi queer all’interno di queste pellicole afferma un’identità che contesta non solo le operazioni intersezionali di eteronormatività, patriarcato, razzismo, nazionalismo e classismo britannici ma anche l’estetica normativa delle relazioni tra sguardo, genere stilistico e rappresentazione filmica. Con riguardo al modo in cui il soggetto queer diasporico è stato rappresentato sullo schermo nella cinematografia britannica post-millennial, riteniamo che My Brother the Devil (2012) di Sally Al Hosaini costituisca uno degli esempi più significativi. Il film racconta la storia di Mo e Rashid, due fratelli adolescenti di origine egiziana, che vivono con i loro genitori a Hackney, un sobborgo di Londra. Flirtando con lo stile del realismo sociale ma attraverso un uso più espressivo del suono, Al Hosaini esplora la mascolinità della gioventù diasporica concentrandosi sull’ingresso dei due ragazzi nell’età adulta. Rashid fa parte di una gang locale e spaccia droga. Incontra Sayyid, un fotografo franco-arabo. Quando una gang rivale uccide un suo amico, Rashid decide di abbandonare la propria e di accettare il lavoro che gli offre Sayyid. La loro amicizia si trasforma in una storia
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d’amore e l’intimità queer complica l’ottica diasporica del film. Per Fernandez Carbajal, l’intimità tra due uomini arabi “forgia un nuovo modello di mascolinità diasporica che crea una combinazione simultanea tra modelli concorrenti di mascolinità musulmane e di queerness, che disorienta a livello micro-politico le costruzioni familiari diasporiche della mascolinità islamica e il modello ipermaschile delle gang” (Fernandez Carbajal 2019, p. 142). Mentre in termini stilistici il film presenta un certo approccio alla diaspora, caratterizzato dall’inclusione tematica dei conflitti intergenerazionali e dall’uso della musica hip-hop, che si avvicina in parte a ciò che Hamid Naficy ha teorizzato come accented cinema (Naficy 2001), la rappresentazione della casa/patria, della nazionalità, dell’essere musulmano e della mascolinità complica ulteriormente l’uso che Naficy fa dell’“accento” come paradigma metaforico, diversificando e dando spessore a quanto comunemente si intende per soggettività diasporica. Questo differenziarsi da rappresentazioni più convenzionali dello sradicamento, dei legami ambivalenti e della nostalgia per le origini perdute nel cinema diasporico e di migrazione è significativamente condizionato dall’enfasi che Al Hosaini pone sull’appartenenza: secondo Fernandez Carbajal, in questo film la gioventù diasporica si allontana vistosamente dai valori dei migranti di prima generazione ed è alla ricerca di un proprio spazio in cui creare nuove modalità di appartenenza che siano multietniche e diasporiche, in cui l’accento sia posto sullo stabilirsi e il re-radicarsi piuttosto che sul dislocarsi (Fernandez Carbajal 2019, pp. 139-140).
Questa affermazione di britannicità consente ad Al Hosaini di sperimentare un’articolazione più sfumata della mascolinità, della fede e dell’intimità omosessuale. Le sfumature nelle relazioni tra i personaggi del film e la rappresentazione discorsiva del genere e della sessualità sono plasmate dall’approccio critico di Al Hosaini alla visibilità identitaria: il film rifiuta di costruire una vicenda
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in cui l’essere musulmani e l’omosessualità siano categorie identitarie monolitiche necessariamente contrapposte. Mentre l’approccio liberal di Sayyid alla casa/patria, all’Islam e all’omosessualità è condizionato dal suo privilegio di classe e dal relativo capitale culturale, l’atteggiamento difensivo ma insieme ambivalente di Rashid verso Sayyid, che condurrà a una relazione sentimentale senza dramma da coming out, fa sì che il film “scoraggi uno sguardo etnografico […] [ed] eviti di titillare lo spettatore cosmopolita nel fargli frequentare i ‘bassifondi’ in cerca di brividi erotici” (Schoonover e Galt 2016, pp. 55-56). Piuttosto che seguire una narrazione sullo svelamento dell’omosessualità, il film preferisce non spettacolarizzare l’intimità tra Rashid e Sayyid né imporre un’identità alla coppia. La rivelazione della loro relazione intima all’interno della storia ha la funzione narrativa di attenuare, se non risolvere, le crisi identitarie innescate tra i giovani dalla dominante mascolinità eteronormativa della diaspora. Peter Cherry sostiene che “il posizionamento dualistico [della coppia] […] collude involontariamente con l’emergente omo-nazionalismo britannico” (Cherry 2018, p. 282). Tuttavia, la diversificazione operata da Al Hosaini all’interno dell’identità musulmana britannica e la presa di distanza del film dalla cornice identitaria della visibilità e del coming out offrono una chiara alternativa alle opposizioni binarie dominanti monogamo/ promiscuo e nativo/migrante che hanno plasmato la “coppia-guscio” romantica prevalente nelle pellicole queer britanniche (Çakırlar e Needham 2020), inclusi Weekend di Andrew Haigh e God’s Own Country di Francis Lee. Il soggetto diasporico nel cinema britannico post-millennial subisce una significativa trasformazione a opera della strumentalizzazione della queerness intersezionale. Rifiutando di ridurre i personaggi migranti queer alle diverse forme di estraniamento culturale – estraniamento sia dall’essere britannici che dall’essere queer – questi film propongono un’ibridità più affermativa che negativa, il che complica l’ethos identitario dell’“ottica diasporica” (Moorti 2003) o
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di quello che Hamid Naficy considererebbe l’“accento” cinematico della cinematografia diasporica (Naficy 2001). Ciò che rende particolarmente importanti queste rappresentazioni della queerness intersezionale è che esse hanno sostituito “il primato del ritorno” e del rimpatrio (Naficy 2001; Çakırlar 2020) nonché la nostalgia delle origini perdute costitutiva della soggettività migrante (e investimento tipico del cinema della diaspora) con soggetti relazionali che si collocano assertivamente nella Gran Bretagna postcoloniale. Da questo punto di vista, la rappresentazione dell’amore queer in Nina’s Heavenly Delights di Pratibha Parmar e I Can’t Think Straight di Shamin Sarif sono esempi fondamentali di appropriazione dell’armamentario omonormativo della storia d’amore lesbica confezionata secondo i registri stilistici mainstream della commedia romantica. Nina’s Heavenly Delights si apre con Nina, la protagonista, che torna a Glasgow per i funerali del padre. Parmar non inquadra il ritorno di Nina riproducendo i tipici motivi del rimpatrio e della nostalgia del cinema e della letteratura diasporici (Naficy 2001; Hall 1989). Mentre per Hall e Naficy la “doppia coscienza” del soggetto diasporico è notevolmente plasmata dai conflitti intergenerazionali intorno a tradizione e modernità e agisce come un fardello fortemente condizionato dal genere e dalle relazioni patriarcali, Nina reintegra il soggetto queer diasporico all’interno della famiglia e della tradizione attraverso la storia di coming out di una donna scozzese di origini sud-asiatiche il cui forte attaccamento al padre defunto e al suo lascito culturale come cuoco non ostacola né rende palesemente alieno da sé il desiderio queer, ma lo asseconda, ricollegandolo a una visione delle donne diasporiche di origini sud-asiatiche che è motivante, transgenerazionale e inclusiva. Il rapporto di Nina con il padre è proficuo tanto quanto è informato a logiche proprietarie: al racconto del coming out, che è l’asse narrativo del film, si affianca quello riguardante la competizione per il miglior curry tra i ristoranti di Glasgow, che Nina prepara per salvare il ristorante paterno ed evitare che la proprietà cada nelle mani del suo ex-fidanzato.
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Nel rivendicare la Scozia come patria, il film presenta la famiglia e gli amici diasporici di Nina secondo l’ottica celebrativa del nazionalismo scozzese neoliberal (Mahn 2013, p. 318). In questa cornice di inclusività e diversità neoliberal, il film si confronta con un tema articolato e di genere, quello del segreto sessuale: alla queerness nascosta di Nina è associata la passione della sorella minore per la danza delle Highlands scozzesi e l’amore extraconiugale di sua madre per Raj. Il film, pertanto, non solo celebra il coming out di Nina, ma avvalora nuovamente anche una femminilità diasporica ibrida, facendo uscire allo scoperto i desideri femminili che trasgrediscono i legami normativi con la nazione, il genere, la sessualità e la tradizione. Eppure, “l’immagine scozzese indiana utopica queer e ibrida” di Nina (Schoonover e Galt 2016, p. 66) non è limitata solo alle donne. Nell’economia del film, il personaggio fluido di Bobbi, il miglior amico di Nina, incarna la saggezza queer e la vita domestica. Le sue osservazioni sulle difficoltà in cui si viene a trovare Nina nel corso del film alimentano un immaginario dell’appartenenza che viene trasformata […] da obbligo paralizzante (la necessità di scegliere tra desideri apparentemente confliggenti) a percorso utopico verso la coesione (mai insufficiente o escludente, platonica ed erotica, con radici qui e altrove, rispettosa del passato e garantita per il futuro) (Schoonover e Galt 2016, p. 65).
In modo non dissimile dall’uso strumentale che Al Hosaini e Parmar fanno della diaspora queer, anche I Can’t Think Straight di Shamim Sarif dà spazio a una visione assertivamente identitaria sebbene ancora una volta intersezionale della ibridità queer. Il film ruota intorno alla relazione sentimentale tra due donne, Leyla e Tala. Sarif racconta di questa coppia appassionata attraverso una polarità oppositiva accuratamente stratificata, che va al di là delle consuete dicotomie monogamo/promiscuo e nativo/migrante. Se da un lato Sarif dà visibilità alla relazione erotica tra una donna palestinese-giordana di ascendenze arabe e cristiane (cioè Tala) e una donna britannica musulmana di ascendenze sud-asiatiche, la rappresenta-
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zione dell’intimità omosessuale interetnica tra due donne di colore fa mettere in moto “un insieme di identità un tempo ritenute incompatibili in base a ideologie normative nazionalistiche e diasporiche” (Fernández Carbajal 2019, p. 126). Come in Nina, Sarif ricorre al genere della commedia romantica “in parte anche per respingere sia gli schematismi ‘razziali’ delle storie d’amore raccontate al cinema, sia le elaborazioni discorsive restrittive dell’appartenenza queer” (Schoonover e Galt 2016, p. 61). In tutti questi film, i tentativi di muovere/dislocare una critica queer-of-colour secondo il meccanismo del relay da modalità alternative di cinematografia queer ai registri dei generi mainstream, implicano allo stesso tempo collisioni e collusioni. Se il giocoso misurarsi di Parmar e Sarif con la commedia romantica potrebbe portare a collusioni con l’omonazionalismo e omonormatività britannici, il loro ricollocare la queerness all’interno di una dimensione intersezionale collide con gli schemi neocoloniali e nazionalisti dell’omofobia e dell’esclusione su base etnico-religiosa. I Can’t Think Straight inizia con la festa di fidanzamento di Tala ad Amman. Mentre la ricca mise-en-scène del film sottolinea l’opulenza della privilegiata élite araba, in queste sequenze iniziali è data grande visibilità al senso di estraneità di Tala verso i sontuosi rituali meritocratici del matrimonio eterosessuale. Inoltre, il modo in cui Sarif costruisce il personaggio di Leyla – una figlia allontanatasi da una famiglia diasporica musulmana di origini sud-asiatiche, medio-borghese, ambiziosa ed integratasi con successo nell’economia neoliberista britannica – crea un parallelo tra le due protagoniste femminili, accomunate dall’estraneità alla normatività delle aspettative di genere delle loro famiglie. Mentre nel film l’articolarsi del desiderio queer e della storia d’amore tra le due donne conduce all’intimità omonormativa e “chiusa nel guscio” (Çakırlar e Needham 2020) della coppia monogama, la mise-en-scène colloca la coppia nei luoghi tradizionali dell’heritage britannico (i college di Oxford, bucolici cottage col tetto di paglia, partite di polo, il Parlamento e così via) che nel corso del film vengono “reinventati come spazi queer-of-colour” (Schoonover e Galt 2016, p. 63). Non è
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detto, comunque, che queste immagini di collisione culturale, costruite performativamente, indeboliscano necessariamente i legami collusivi del film con una combinazione di omonazionalismo e l’omonormatività. Il coinvolgimento britannico nel conflitto israelo-palestinese è reso opaco dalle semplicistiche osservazioni fatte dai vari personaggi, pro Israele o antisioniste o antisemite, che puntellano le pratiche discorsive del film sulla diversità e celebrano, al contempo, la Gran Bretagna come il regno dell’inclusione liberale. Ciò è reso ulteriormente più concreto dal modo in cui il film descrive la stanza di Leyla, che funziona come tropo narrativo della sua omosessualità non dichiarata: nella mise-en-scène possono riconoscersi CD di k.d. lang e, impilati, libri di Virginia Woolf, Martina Navratilova, Jeanette Winterson e Sarah Waters. Come scrive Fernández Carjabal, questo “abbracciare un canone lesbico occidentale marcatamente anglofono e un modello di liberazione sessuale comporta anche una miope condivisione dei valori liberali occidentali e una mancanza di commensurabilità valoriale rispetto ad altre culture” (Carjabal 2019, pp. 123-124). In linea con quanto si è detto, il coming out di Leyla e Tala risolve la narrazione filmica accordandola alla generica promessa, tipica della commedia romantica, del felice riunirsi della coppia monogama. La felicità, qui, è sostenuta dall’aspirazione di Tala di farsi una famiglia: una delle scene finali consolida l’omonormatività riproduttiva ritraendo le due donne in un parco insieme a una mamma col suo neonato. I film che abbiamo discusso finora in questa sezione mostrano i vari modi in cui la visibilità della queerness intersezionale può riesaminare e rimodulare criticamente, se non sovvertire, le cornici identitarie del multiculturalismo britannico. Tuttavia, al cinema, le figure della queerness intersezionale “sono in grado di sfuggire alle trappole identitarie che caratterizzano il multiculturalismo liberale, permettendo di passare da personaggi identificati come LGBT a rappresentazioni meno fisiche del concreto stare al mondo queer” (Schoonover e Galt 2016, p. 74). In questo senso, Lilting (2014) e Monsoon del regista britannico-cambogiano-cinese Hong Khaou, possono esse-
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re considerati come affascinanti esempi della cinematografia queer che caratterizza questo passaggio dalla politica identitaria a una pratica più critica che reinventa nuove modalità estetiche di relazionalità (piuttosto che identità) queer nel suo confrontarsi con l’amore, la perdita, il dolore, la memoria e l’appartenenza rivisti in un’ottica non eteronormativa. Al centro di Lilting c’è la relazione tra Junn e Richard dopo la morte di Kai, che era il figlio della prima, una donna cinese-cambogiana conservatrice e tradizionalista, e il partner del secondo. Anche se al centro del film vi è l’impossibilità di effettuare una traduzione transculturale nel modo di elaborare collettivamente il lutto per la morte di Kai – che nel film funge da “soggetto queer fantasmatico” la cui omosessualità non è dichiarata – al modo in cui Khaou rappresenta il dolore della perdita viene assegnata la funzione narrativa di “ritrarre la tanto attesa possibilità di un’affinità queer cinese-cambogiana-britannica che sia tangibile e oggetto d’amore” (ibidem). Rispetto a Nina di Parmar e a I Can’t Think Straight di Sarif, in Lilting la sessualità non dichiarata opera come metafora linguistica, affettiva e transculturale degli impedimenti che interferiscono nella comunicazione tra Junn e Richard. Anche se alla fine Richard rivela a Junn l’omosessualità di Kai e la loro relazione, “Lilting si conclude con una deviazione dell’arco narrativo tipico delle storie di coming out, sostituendo alla logica dell’identità gay lo spazio filmico dell’influenza e dell’affettività tra culture” (ibidem). Al contrario, ritenendo la rappresentazione che fa Khaou dell’identità gay una “tipica [proiezione] delle narrazioni gay britanniche contemporanee [post-Jarman e post-Tatcher] […] e delle [loro] tematiche di colpa e vergogna interiorizzate”, Robin Griffiths associa Lilting con quanto viene da lui identificato come la “svolta nostalgica […] [nei] film britannici a tematica gay” e la loro “ossessione neoliberal” con le politiche identitarie (Griffiths 2016, pp. 603-604), cioè, più specificamente, con “la problematica divisione tra repressione e apertura” (Bruzzi 2009, p. 125). Noi riteniamo, tuttavia, che la rinuncia di Khaou all’uso del coming out come asse narrativo principale fa di Lilting un contributo più criticamente
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innovativo alla specifica eredità del cinema queer diasporico, sia nel Regno Unito che a livello transnazionale. Anche il recente Monsoon, sempre di Khaou, può essere letto come un’originale incursione sui ben noti temi dell’immigrazione e della diaspora queer nel cinema britannico ed europeo. Il film narra la storia del ritorno di Kit in Vietnam, dopo la morte della madre. Kit visita il Paese per la prima volta da quando aveva sei anni, cioè da quando i suoi genitori lasciarono il Vietnam per immigrare nel Regno Unito negli anni successivi alla fine della guerra americano-vietnamita. Se da un lato la perdita e il dolore lo conducono a tornare nel suo Paese di origine, dall’altro Kit fatica a risvegliare i ricordi della sua infanzia. Piuttosto che inquadrare il rimpatrio del soggetto migrante come un viaggio di riscatto e miglioramento che si traduce in una serie di identificazioni assertive (Çakırlar 2020), la mise-enscène di Monsoon presenta, attraverso il punto di vista di Kit, un’immagine della Saigon del dopoguerra che è epistemologicamente densa, prepotentemente efficace sebbene impersonale e transnazionale, spogliata di qualsiasi mitologia empatica che abbia per oggetto la casa, l’appartenenza o il focolare. Questo impersonale sguardo “turistico” viene a volte interrotto dagli incontri di Kit con Lewis, il figlio di un veterano americano ormai morto, che visita il Vietnam e prova sentimenti di estraniamento simili a quelli di Kit. Sebbene nel film loro siano ritratti come una coppia “chiusa nel guscio” – attraverso varie scene in cui vengono ripresi mentre fanno sesso –, la loro intimità non costituisce necessariamente il fulcro narrativo del film. Attraverso una serie di conversazioni con il suo amico d’infanzia Lee e con una ragazza del posto con cui ha stretto amicizia, Kit si rende conto che la sua privilegiata vita londinese è la conseguenza del primo, fallito tentativo di fuga e del conseguente abbandono della famiglia, da parte di suo padre nonché del secondo, riuscito tentativo di fuga dell’intera famiglia, inclusi Kit e la madre. Il modo in cui il film affronta questa presa di coscienza da parte di Kit non produce il pathos della delusione, della colpa o della vergogna; anzi, la situazione in cui il destino ha voluto che il suo sé si trovasse all’età di sei anni lo libera. Contrariamente a
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quanto accade nel finale dei film di Parmar e Sarif discussi in precedenza, in cui il venir fuori allo scoperto in quanto omosessuali viene integrato, Monsoon si rifiuta di offrire una soluzione narrativa che assimili il soggetto queer intersezionale nelle pieghe della storia d’amore monogama e/o nel riscatto dell’appartenenza al focolare o alla patria. Rifiutandosi di riprodurre i noti motivi della “doppia coscienza”, dell’ibridità e della “nostalgia per le origini perdute” tipici del cinema della diaspora, per raccontare un soggetto migrante sradicato senza focolare e senza patria il film di Khaou persegue un’estetica cinematografica flemmatica e carica di affetti. La connessione intima di Kit con Lewis (cioè l’unica relazione personale che vediamo svilupparsi nel corso del film) è determinata dal fatto che Khaou delinea in modo non-identitario lo status di migrante queer o il nomadismo queer. Non offrendo soluzioni né riscatto, né le promesse eteronormative della monogamia di coppia, Monsoon invita lo spettatore a partecipare alla deriva cinematica del soggetto queer migrante, secondo una logica relazionale in parte simile all’erotismo impersonale del cruising gay.
Fig. 4. Monsoon, Hong Khaou.
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Per concludere: la politica del queer relay La principale motivazione intellettuale sottesa a questo studio è stata quella di fornire una panoramica della cinematografia e della rappresentazione queer nel cinema britannico post-millennial. Anche se fatichiamo a identificare una precisa corrente cinematografica queer nel Regno Unito, cioè un British Queer Cinema che investe in una critica queer radicale attraverso un insieme di specifiche istanze estetiche e politiche, la sporadica visibilità della queerness (che agisce all’interno di un ambito culturale deregolato e riconfigurato) e la sua mobilità attraverso diversi livelli produttivi e distributivi può leggersi come una sintesi di ciò che Lisa Henderson definisce queer relay, cioè un concetto che storicizza un’economia culturale in cambiamento, un mondo non formato da un calcolo anacronistico in cui le ambizioni espressive [queer] […] e di altri produttori culturali outsider sono visti con sospetto, o per essersi venduti all’ambizione del settore o per aver mantenuto l’autonomia culturale queer (Henderson 2008, p. 594).
Sebbene l’assenza di una cultura cinematografica queer collettivamente mobilitata nella Gran Bretagna contemporanea non debba sfuggire a una lente critica che ne osserva i limiti politici e settoriali, sarebbe comunque semplicistico ridurre la visibilità queer nel cinema e nella televisione britannici contemporanei a un insieme di appropriazioni culturali mainstream che potenzialmente oscurano, se non cancellano, i risultati ottenuti dalla dissidenza LGBTQ+. Secondo Henderson, una critica queer a queste formazioni che aspiri a essere trasversale rispetto a modi di produzione mainstream e alternativi, non dovrebbe “precipitarsi a opporre un rifiuto auto-conservativo al primo o all’ultimo segnale di incontro queer con una cultura di mercato non queer” (Henderson 2008, p. 570). Una cornice queer sottoposta a revisione dovrebbe allora muoversi
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in direzione di un relay, di una traiettoria diversa nell’immaginare relazioni tra sottoculture e le loro alternative dominanti […] immaginando un intreccio storico tra condizioni produttive in cambiamento e sistemi commerciali virtualmente famelici di energia e creatività subculturale (ivi, p. 571).
Piuttosto che cercare la falsa autenticità di un “cinema queer” in un contesto nazionale specifico (un’opzione che potrebbe far gola alle richieste del mercato neoliberal di una diversità in ambito accademico), gli studi di cinema queer dovrebbero prestare più attenzione ai contesti di mobilità e relay. Piuttosto che perseguire la metodologia predefinita della lettura ravvicinata dei film e pensare un cinema nazionale queer su queste basi, gli studiosi del cinema LGBTQ+ dovrebbero estendere i loro schemi a un’analisi più integrata che contestualizzi il cinema queer in modo trasversale rispetto ai diversi registri produttivi, stilistici, di genere, politici e di pubblico. Bibliografia Bradshaw, P. 2021 ‘Ammonite’ review. Kate Winslet and Saoirse Ronan find love among the fossils, “The Guardian”, 25 Marzo, https://www.theguardian.com/film/2020/sep/12/ammonite-review-kate-winslet-saoirseronan-mary-anning-fossils-lyme-regis-francis-lee. Bruzzi, S. 2009 Where are those buggers? Aspects of homosexuality in mainstream British cinema, in Murphy, R. (a cura di), The British Cinema Book, terza edizione, Palgrave Macmillan/BFI, Basingstoke, pp. 133-41. Çakırlar, C. 2020 Ameliorative Homecomings. Framing the Queer Migrant in “A Sinner in Mecca” (2015) and “Who’s Gonna Love Me Now?” (2016), “The Garage Journal. Studies in Art, Museums and Culture”, I, n. 1, pp. 245-263. Çakırlar, C., Needham, G. 2020 The Monogamous/Promiscuous Optics in Contemporary Gay Film. Registering the Amorous Couple in “Weekend” (2011) and “Paris
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Filmografia After 82: The Untold Story of the AIDS Crisis in the UK (Steve Keeble, Ben Lord, 2019) Against the Law (Fergus O’Brien, 2017) AKA (Duncan Roy, 2002) Ammonite (Francis Lee, 2020) Batman Begins (Christopher Nolan, 2005) Billy Elliot (Stephen Daldry, 2000) Bohemian Rhapsody (Bryan Singer, 2018) Caravaggio (Derek Jarman, 1986) Clapham Junction (Adrian Shergold, 2007) Derek (Isaac Julien, 2008) Diario di uno scandalo (Richard Eyre, 2006) Disobedience (Sebastián Lelio, 2017) Dorian Gray (Oliver Parker, 2009) Edward II (Derek Jarman, 1991) Fast & Furious Presents: Hobbs and Shaw (David Leitch, 2019) Full Monty (Peter Cattaneo, 1997) God’s Own Country (Francis Lee, 2017)
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Grazie, signora Thatcher (Mark Herman, 1996) Greek Pete (Andrew High, 2008) Harry Potter e i Doni della Morte – Parte 1 (David Yates, 2010) Harry Potter e i Doni della Morte – Parte 2 (David Yates, 2011) Harry Potter e il calice di fuoco (Mike Newell, 2005) Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (Alfonso Cuarón, 2004) Harry Potter e il principe mezzosangue (David Yates, 2009) Harry Potter e la camera dei segreti (Chris Columbus, 2002) Harry Potter e la pietra filosofale (Chris Columbus, 2001) Harry Potter e l’Ordine della Fenice (David Yates, 2007) I Can’t Think Straight (Shamim Sarif, 2008) Kenneth Williams: Fantabulosa (Andy De Emmony, 2006) La favorita (Yorgos Lanthimos, 2018) Lilting (Hong Khaou, 2014) Looking for Langston (Isaac Julien, 1989) Man in an Orange Shirt (Michael Samuels, 2017) Monsoon (Hong Khaou, 2019) My Beautiful Laundrette (Stephen Frears, 1985) My Brother the Devil (Sally Al Hosaini, 2012) My Summer of Love (Paweł Pawlikowski, 2004) Nina’s Heavenly Delights (Pratibha Parmar, 2006) Nine Dead Gay Guys (Lab Ky Mo, 2002) Philomena (Stephen Frears, 2013) • Pride (Matthew Warchus, 2014) – SQ 2015 Queerama (Daisy Asquith, 2017) Rocketman (Dexter Fletcher, 2019) Scandalo a Londra (Ian Iqbal Rashid, 2004) Scenes of a Sexual Nature (Ed Blum, 2006) Seat in Shadow (Henry Coombes, 2016) Shank (Simon Pearce, 2009) Supernova (Harry Macqueen, 2020) The Angelic Conversation (Derek Jarman, 1985) The Dark Knight (Christopher Nolan, 2008) The Dark Knight Rises (Christopher Nolan, 2012) The Edge of Love (John Maybury, 2008) The Happy Prince – L’ultimo ritratto di Oscar Wilde (Rupert Everett, 2018) The Imitation Game (Morten Tyldum, 2014) The Last of England (Derek Jarman, 1987) Tony (Gerard Johnson, 2009) Vita and Virginia (Chanya Button, 2018) • Weekend (Andrew High, 2011) – SQ 2012 Wittgenstein (Derek Jarman, 1993)
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Young Soul Rebels (Isaac Julien, 1991)
Serie tv Brookside (1994) I May Destroy You (2020) It’s a Sin (2021) Queer as Folk (1999) Trigonometry (2020) Years and Years (2019)
Qualcosa di inafferrabile L’orizzonte queer nel cinema spagnolo Nuria Cubas Traduzione di Andrea Libero Carbone
Introduzione Potremmo non arrivare mai al queer, ma possiamo sentirlo come la dolce illuminazione di un orizzonte carico di potenzialità. José Esteban Muñoz
Per quanto nel contesto globale del XXI secolo l’idea di un cinema nazionale vada perdendo forza, è possibile e forse interessante tenere insieme nell’analisi le nuove generazioni di cineasti che vivono nello stesso territorio e condividono una storia comune, tenendo sempre presente che questa storia è attraversata da commistioni e fusioni tipiche del nostro tempo. È per questo motivo che ci soffermeremo su alcuni degli autori più rilevanti del cinema queer in Spagna dall’inizio del XXI secolo. Inizieremo con un breve riassunto della storia del cinema queer spagnolo per porre le basi delle pratiche contemporanee e poterle analizzare nel loro contesto. Nel suo Cruising Utopia. L’orizzonte della futurità queer (2022, ed. or. 2009), José Esteban Muñoz, docente e saggista cubano-americano, vede il queer come qualcosa di effimero, un’impronta, una traccia. Qualsiasi tentativo di definire o delimitare discorsivamente il concetto ritorna quindi neces-
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sariamente a questo punto di partenza, perché il queer è per sua natura anti-normativo, e cercare di delimitarlo lo trasformerebbe automaticamente in una norma, perdendo così di vista la sua essenza. Ci concentreremo quindi sulla ricerca di tutto ciò che il cinema e i film che andremo analizzando ci offrono come anti-modelli, sia attraverso sessualità non binarie, dissenzienti, lontane dall’eteronormativo, sia attraverso forme cinematografiche distanti dal canone. In questo senso, ci interessano le nuove narrazioni che rivelino significati nascosti e non regolamentati o che affrontino per opposizione qualsiasi discorso a sostegno del sistema sesso-genere o delle modalità del sistema della rappresentazione cinematografica. Per altro verso consideriamo questo contributo non come l’espressione di un sapere chiuso, finito e delimitato, ma come un innesco o una potenzialità che permetta al lettore di avvicinarsi agli autori in vista di analisi nuove e più approfondite. Non c’è modo migliore per iniziare questa breve analisi se non prendere in prestito le parole di Paul B. Preciado nella sua introduzione a Un appartamento su Urano. Cronache del transito: “Lascio queste parole e la loro attesa di classificazione e di controllo agli esperti disciplinari – come diceva Thomas Bernhard, quando il sapere è morto lo chiamano accademia” (Preciado 2020, ed. or. 2019). In questo testo ci si propone di pensare in termini di relazione e di potenziale di trasformazione, piuttosto che in termini di identità. Il nostro desiderio è che questo contributo possa offrire un chiarimento utile per un approccio possibile al cinema queer in Spagna. Breve panoramica sul cinema queer in Spagna Sul finire degli anni Settanta, con la caduta della dittatura di Francisco Franco, in Spagna furono prodotti una serie di film popolari in cui si esprimeva la necessità di una transizione della società spagnola verso un’apertura politica, ideologica e sociale. È in questo contesto che registi come Vicente Aranda, Pedro Olea, Jaime Chávarri e Eloy de la
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Iglesia realizzarono alcuni film incentrati sull’omosessualità e la transessualità. Queste produzioni hanno al contempo il pregio di presentare al grande pubblico argomenti che erano assolutamente tabù per la società spagnola e il difetto di essere, a volte, film inconsistenti dal punto di vista cinematografico e di rischiare di apparire ancora ingenui e prevenuti agli occhi dello spettatore contemporaneo. Nel contesto del cinema popolare si trovano tuttavia anche opere di valore, soprattutto tenendo conto del fatto che nel cinema spagnolo i personaggi omosessuali erano comunemente trattati in chiave comica1, i personaggi transessuali erano praticamente invisibili o venivano confusi con i travestiti2, e i personaggi lesbici erano visti esclusivamente attraverso un prisma erotico-patriarcale3 . Di questo gruppo di film è interessante segnalare Cambio de Sexo (Vicente Aranda, 1977), che con una vocazione apertamente didattica sulla transessualità precorre i tempi includendo nel cast donne transessuali. Cambio de Sexo fu anche il debutto cinematografico di Bibiana Fernández, all’epoca nota con il nome d’arte di Bibí Andersen, un’attrice transessuale che avrebbe poi lavorato nei film di Pedro Almodóvar e che in Spagna è anche un’icona popolare e televisiva. Il ruolo impersonato da Bibiana Fernández nel film è quello, importante, di guida e insegnante della protagonista, interpretata da Victoria Abril. Da salvare anche alcune produzioni di Eloy de la Iglesia, come Los Placeres Ocultos (1977) o El Diputado (1979). Dopo la morte di Franco, Eloy de la Iglesia ha iniziato a realizzare film in cui la sessualità è un punto chiave, parlando di una grande varietà di pratiche sessuali non normate e costruendo anche personaggi omosessuali 1 Uno dei principali esempi di questo tipo di commedia è stato No desearás al vecino del quinto (Tito Fernández, 1970), che di certo è stato popolare, avendo mantenuto per trent’anni il primato di film più visto in Spagna. 2 Anche Mi querida señorita (Jaime de Armiñán, 1972), film che a volte viene citato come esempio di cinema queer, non va molto oltre l’esposizione del sistema binario dei ruoli, finendo poi con l’abbracciarlo. 3 Le terrificanti donne vampiro di Jess Franco rimarranno per sempre nell’immaginario collettivo.
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con sensibilità e conflitti veri, complessi e reali, diversi dalle caricature fatte da alcuni colleghi della sua generazione. Intorno al 1980 si assiste alla produzione di una serie di film queer underground con una vocazione molto più dirompente e provocatoria, che sarebbero stati il seme di una relativa normalizzazione nel cinema e nei media di una cultura queer4 che godeva di una certa presenza e popolarità almeno in una parte della società, anche per quel che poteva apparire strano a un popolo che stava appena iniziando a guardare collettivamente ad altri modi di pensare. L’esempio probabilmente più underground è quello del gruppo amatoriale Els 5 QK’s, un collettivo catalano il cui nome si potrebbe tradurre come “i cinque pisellini”, che realizzò due lungometraggi e un buon numero di cortometraggi e sketch tra il 1976 e il 1980. Una delle particolarità di questo gruppo è che, pur avendo a tutti gli effetti una vocazione amatoriale, tanto che nessuno dei suoi membri ebbe mai una carriera professionale nel cinema, diede un contributo significativo alla scena cinematografica underground organizzando proiezioni in sala dei propri film e trasformando queste proiezioni in eventi di riferimento per la scena gay della Barcellona di quegli anni. Els 5 QK’s rivendica un cinema trasgressivo dall’estetica camp, con elementi di melodramma e cultura popolare spagnola e radici nel cinema americano. In questo senso, possiamo riferirci in particolare a una delle scene principali del loro primo lungometraggio, También encontré mariquitas felices del 1980, in cui il protagonista, un giovane gay, dopo essere stato umiliato a scuola, in famiglia, in chiesa e dallo psichiatra5, e persino dopo aver sopportato il disprezzo dei suoi stessi amanti per i suoi modi effeminati, viene picchiato in mezzo 4 In questo periodo, riferito quasi esclusivamente all’omosessualità maschile bianca. 5 “Gli stereotipi sono stati mantenuti intatti sia nel discorso medico che nella diffusione mediatica in solidarietà con il pensiero conservatore e/o religioso. Quest’ultimo invoca la volontà divina della conservazione dei due sessi creati all’origine della specie e un ordine naturale che deve essere rispettato” (Maricruz Ricalde 2005, p. 6).
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alla strada. Il giovane, ammaccato e dolorante, cammina sulla spiaggia dove, trovata una rapa sepolta sotto la sabbia6, la estrae compiendo così una performance chiaramente influenzata da Sara Montiel7. Dopo la battuta “Dio mi sia testimone, né io né nessun altro frocio sarà mai più umiliato” segue un campo largo su di lui che ascolta la colonna sonora di Via col vento (Victor Fleming, 1939), risultando in quella che è di fatto una versione omosessuale di Rossella O’Hara. Va tenuto conto anche di Pepi, Luci y Bom y otras chicas del montón (Pedro Almodóvar, 1980), un film amatoriale a basso costo, primo film di un regista che diventerà uno dei più internazionali della cinematografia spagnola. Con un’estetica che mescola punk e costumbrismo, il film trasgredisce tutte le norme morali dell’epoca, mettendo in scena la relazione di tre amiche nel contesto di un’incipiente movida madrileña. Relazioni lesbiche, sottomissione o travestitismo sono gli ingredienti di una trama che oscilla tra melodramma e commedia, e che sarà il segno caratteristico delle prime opere di Almodóvar. In questa breve storia vorrei anche recuperare un film ben più dimenticato dal pubblico e dalla critica, Manderley (Jesús Garay, 1981). Una ballerina, un pittore (interpretato da José Pérez Ocaña8) e una donna trans decidono di trascorrere l’estate insieme in un villaggio, in cerca della calma bucolica. Il film, narrativamente molto disomogeneo, si basa su un intervallo di tempo morto (l’estate) in cui si susseguono giochi, escursioni ed eccentricità, sempre accompagnati da dialoghi sulla sessualità, sui desideri e sulle passioni dei personaggi, che sullo sfondo altamente poetico del lungomare affrontano temi importanti come le operazioni di cambio In spagnolo la rapa è un’espressione gergale riferita al pene. Sara Montiel (1928-2013) è stata una delle più grandi e conosciute star del cinema spagnolo per le sue interpretazioni sensuali e i suoi ruoli da femme fatale. La sua carriera si è sviluppata tra la Spagna, il Messico e Hollywood ed è diventata un’icona della comunità gay. 8 José Pérez Ocaña è stato un pittore, performer, anarchico e pioniere dell’attivismo LGBTQ+ spagnolo. 6 7
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di sesso o fortemente controversi e politicamente scorretti come la sessualità dei bambini e la pedofilia. La trama minimalista sottolinea ulteriormente la natura queer del film, che sembra soprattutto l’espressione di un gesto di attivismo, senza però ridursi al pamphlet. Ventura Pons dedicherà a José Pérez Ocaña il suo primo film documentario, Ocaña, retrato intermitente (1978), in cui l’artista ripercorre la propria biografia mostrando il suo immaginario creativo tra religione, costumbrismo andaluso e travestitismo. Questi film deliberatamente sovversivi mirano a provocare non solo l’ordine costituito, la famiglia, la chiesa e il conservatorismo spagnolo del post-dittatura ma anche la stessa comunità omosessuale, che in quel momento di apertura politica e sociale in Spagna sembrava assumere tutti i tic dell’eterosessualità. Sono approcci ricchi di risonanze con il concetto di utopia a cui José Esteban Muñoz si richiama in relazione al queer: Il progetto utopico queer a cui facciamo riferimento qui si rivolge ai margini della produzione politica e culturale per compensare la tirannia dell’omonormativo; tende verso gusti, ideologie ed estetiche che possono solo sembrare eccentriche, strambe, o per l’appunto queer, anziché verso il faticare a testa bassa dell’omosessuale pragmatico e desideroso di normalità (Muñoz 2020, pp. 34-35).
La trasgressione, nel cinema di Els 5 QK’s o di Jesús Garay, consiste principalmente nel mostrare il lato femminile dell’uomo omosessuale senza remore o riserve9 , ma anche nella rottura con le istituzioni di una società decisa a criminalizzare tutto ciò che è fuori dalla norma. Sono film costellati di tabù che vanno al di là della sodomia o dell’effeminatezza del maschio: troviamo anche la zoofilia, la necrofilia, la pedofilia o l’incesto, e persino casalinghe che ridono di gusto vedendo morire i mariti. Tutto questo nel contesto 9 Nei primi film di Pedro Almodóvar questo personaggio è solitamente incarnato da Fabio Macnamara, figura chiave della Movida.
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politico della Transizione spagnola, che fa soprattutto da sfondo nel cinema di Els 5 QK’s, nei vari scenari naturali e urbani in cui sono girati i loro film. Ci sono però altri due registi ancora più interessanti rispetto al nostro tema. Due registi che non solo hanno decostruito la morale di un’epoca, ma lo hanno fatto trasgredendo i limiti del linguaggio cinematografico stesso. Adolfo Arrieta, un pioniere e un riferimento del cinema indipendente e queer in Spagna, ha iniziato la sua carriera a Madrid negli anni Sessanta, con due cortometraggi assolutamente rivoluzionari: El crimen de la pirindola (1965) e Imitación del ángel (1966). Le sue prime opere mostrano già una ricerca formale, legata al linguaggio poetico10, che prende le distanze dalle convenzioni narrative. Se in Spagna il suo cinema è totalmente pionieristico, non lo è in minor misura in Francia, dove si trasferisce nel 1967. Anche le sue produzioni francesi nascono da un istinto poetico e da un modo non industriale di concepire il cinema, sempre ai margini: il suo primo lungometraggio Le jouet criminel (1969) entra a pieno titolo nella storia del cinema underground francese. Anche se parleremo più avanti delle produzioni di Arrieta nel XXI secolo, vale già ora la pena notare che la sua opera, a metà strada tra il cinema sperimentale e quello d’autore, e ancora molto minoritaria, è segnata dal lirismo, dal linguaggio dei sogni e da uno sguardo al mondo dei bambini, soprattutto attraverso le storie. L’altro cineasta è Iván Zulueta, che nel tempo è diventato un personaggio di culto, circondato dal mistero che aleggia sempre intorno ai poeti maledetti. La sua opera consta di sedici cortometraggi e due lungometraggi realizzati tra il 10 Adolfo Arrieta ha riconosciuto in varie interviste l’esperienza che ha significato per lui vedere da bambino La bella e la bestia (1946) di Jean Cocteau. Il film uscì in Spagna nel 1950, quando Arrieta aveva appena 8 anni. Il nome di Jean Cocteau è sempre stato associato ai film di Arrieta per lo sviluppo poetico del linguaggio e per altri elementi ricorrenti in entrambe le filmografie, come le immagini oniriche e persino la figura dell’angelo. Il film Merlín (Adolfo Arrieta, 1991) è ispirato all’opera teatrale I cavalieri della tavola rotonda scritta da Jean Cocteau nel 1948.
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1964 e il 1979, oltre a un paio di lavori successivi per la televisione. È stato anche un noto disegnatore, e ha realizzato le locandine di film di Pedro Almodóvar, José Luis Garci o per le rivisitazioni di alcuni film di Luis Buñuel. Zulueta è probabilmente uno dei registi più fuori dal comune nel cinema spagnolo: i suoi film molto personali sviluppano un linguaggio che va dal cinema narrativo alla sperimentazione con forti accenni all’horror, che fanno del suo cinema un mix insolito e unico. Si può dire di fatto che Zulueta sia uno dei registi spagnoli più a loro agio nel genere horror. I suoi primi film girati in 35 mm, ancora opere di scuola, si collocano già in questo genere, come Ágata (1966) liberamente tratto dal racconto Il ritratto ovale di Edgar Allan Poe e Ida y vuelta (1967) che narra la terrificante storia del viaggio in auto di una giovane donna dell’alta borghesia che partendo dal centro di Madrid percorre una strada di montagna dove un uomo ha assassinato diverse donne. Il suo film più acclamato, Arrebato (1979), ritrae una vampirizzazione attraverso la lente di una cinepresa Super 8. Sulle note di una colonna sonora spettacolare e spaventosa, è uno sguardo sul mondo della dipendenza, del cinema underground e su uno dei suoi fantasmi personali più potenti, la paura di crescere. Il film è attraversato da una violenza disinibita, che in presenza di personaggi femminili si trasforma in misoginia. La stessa sessualità è violenta e frustrante, a causa dell’uso di droghe. La dipendenza dall’eroina ha portato Iván Zulueta ad abbandonare il cinema e la vita pubblica dopo Arrebato, che è stato il suo ultimo film. Nel 2004, il regista ispano-venezuelano Andrés Duque ha realizzato un ritratto di Zulueta, di cui parleremo ancora in seguito. Due esempi di cinema queer e collettivo Sebbene il cinema sia sempre stato un’opera collettiva, oggi assistiamo sempre più spesso al fenomeno di film firmati da più autori e anche da collettivi che rimangono attivi per lungo
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tempo, sviluppando il loro lavoro creativo cinematografico come un soggetto unico. Ad esempio, espressione della tradizione del cinema queer collettivo un contesto contemporaneo è quello di Equipo Palomar. Questo collettivo, formato da Mario Kissme e R. Marcos Mota, si definisce come “un luogo di produzione, ricerca, memoria, incontro, esposizione, dialogo e visibilità politica11”. Come la Factory di Andy Warhol, Equipo Palomar si identifica con uno spazio: la sede di Barcellona frequentata, oltre che dai suoi fondatori, anche da vari personaggi della scena culturale barcellonese e anche straniera, grazie al programma “Put one’s foot in it”. Il Palomar produce opere d’arte, organizza workshop e sessioni di performance, cura mostre… Gran parte del lavoro del collettivo consiste in creazioni rivolte alla sfera queer, dando visibilità a progetti artistici sviluppati da persone che non si identificano con il genere binario, ma anche in buona parte nel recupero di opere di riferimento. La loro è un’azione di ricerca e recupero che va oltre il cinema, e che ha restituito un posto di primo piano a personaggi come Renzo Barbieri12 o Ismael Smith Marí13, ma che naturalmente ha anche a che fare con il cinema e si richiama a progetti queer di registi come Jesús Garay, Cecilia Barriga o José Antonio Maeza. Uno di questi progetti di recupero è legato all’antropologo Alberto Cardín, che oltre a numerose pubblicazioni in cui sviluppa i suoi studi antropologici in chiave queer ha lasciato nel 1976 una sceneggiatura cinematografica mai realizzata né pubblicata. Nel 2016, Equipo Palomar ha ripreso la sceneggiatura di Cardín No es homosexual simplemente el homófilo, sino el cegado por el falo perdido. 11 La citazione è tratta dal sito del collettivo (elpalomar.sexy), dove sono presentati tutti i progetti in cui è impegnato. 12 Renzo Barbieri (1940-2007) scrittore, editore e vignettista, è considerato uno dei padri del fumetto erotico-pornografico in Italia. 13 Ismael Smith Marí (1886-1972), scultore e incisore ispano-americano, trascorse i suoi ultimi giorni in un sanatorio nei pressi di New York a causa della sua sessualità ambigua e del suo gusto per il nudismo.
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Fig. 1. No es homosexual simplemente el homófilo sino el cegado por el falo perdido, Equipo Palomar.
Il cortometraggio è ricco di iconografia queer, da Pasolini a Caravaggio passando per la flânerie lungo le Ramblas di Barcellona nello stile di Ocaña, con peni di carne e porcellana e uomini decostruiti che esibiscono una gestualità femminile in case e giardini di un’aristocrazia in decadenza. La liberazione del queer finisce per materializzarsi in una scultura realizzata in animazione 3D dai colori cangianti, ma il film ha anche le sue ombre, soprattutto nelle testimonianze che mostrano la difficoltà storica e politica di costruirsi come individui non egemoni. Per altro verso, il collettivo Nuc&Beade, formato da Quiela Nuc e Andrea Beade, ha svolto un interessante lavoro di creazione e recupero di riferimenti lesbici in Spagna, un compito davvero difficile se si considera che molte delle donne e delle esperienze che Nuc&Beade vogliono salvare dall’oblio rimangono anonime. Con una forte consapevolezza politica e femminista, questo collettivo si pone l’obiettivo di recuperare una storia che non è ancora stata documentata e lo fa attraverso installazioni, azioni e processi partecipativi, oltre che attraverso il cinema.
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Nel loro primo cortometraggio come duo, ШАГ (šag) del 2017, rivendicano il desiderio lesbico assumendo il concetto di desiderio sbagliato per ribaltarlo e trasformare la repressione e il dolore in ironia, potere e gioco. Nel cortometraggio, donne in abiti futuristici occupano paesaggi naturali manipolati digitalmente, creando interferenze nell’immagine. Nuc&Beade operano sul sistema binario della rappresentazione digitale, facendo apparire glitch, “errori” nell’immagine, e proponendo una traduzione diretta nel sistema binario di sesso/genere con i suoi desideri sbagliati. ШАГ non solo apre la possibilità dell’“altro” (del desiderio sbagliato) permettendo al queer di entrare a pieno titolo nelle sue immagini, ma si richiama anche alla necessità di calpestare la storia egemonica e la sua violenza. Particolarmente potente è la danza carica di significato politico che una donna, che rappresenta il desiderio lesbico, esegue su un quadrato di luce mentre una voce fuori campo ripete: “Colpisci la terra, affonda nella terra sotto cui giacciono i loro corpi”. Il film rompe con la brutalità aggressiva per “lasciare che il glitch parassitizzi sinuosamente i nostri paesaggi” (Echave 2018). Il loro Una dedicatoria a lo bestia, del 2019, entra nell’edificio che fu il Patronato per la Protezione della Donna, un’istituzione creata nel 1941 per le adolescenti e le giovani donne con un comportamento non normativo da rieducare secondo la morale cattolica dello Stato. L’edificio, rimasto aperto fino al 1984, è ora chiuso e sta per essere demolito. Nuc&Beade si addentrano nello spazio per cercare e recuperare le tracce che ancora rimangono delle detenute: adesivi, registri, dichiarazioni d’amore. Attraverso queste vestigia riescono così a ricostruire, almeno in parte, le vite e i desideri delle donne che vi abitavano. Una dedicatoria a lo bestia dispone su un piccolo altare tutti gli oggetti ritrovati, e la funzione di questo altare è al contempo quella di un principio di documentazione della Storia invisibile e di un omaggio pagano a tutte le donne con vite e storie “sbagliate” nascoste sotto la morale egemonica del patriarcato. Troviamo l’idea di una ricostruzione storica attraverso un altare-tributo anche nel loro lavoro precedente, Lesboanimitas
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del 2018, che definiscono “un esercizio di corpo, memoria e finzione” e che è un’azione collettiva anch’essa incentrata sulla creazione di riferimenti e sul salvataggio di esempi di desiderio lesbico, stavolta tra il 1930 e il 1980, nel cinquantennio del XX secolo che comprende il periodo più buio della dittatura di Franco. Il loro progetto Licencia de Amor B&P, presentato nel programma Generaciones 2021 de La Casa Encendida di Madrid, ricostruisce una delle stanze trovate nel Patronato per la Protezione delle Donne durante le indagini e le riprese di Una dedicatoria a lo bestia, proseguendo con l’idea di restituire la storia di donne la cui vita e i cui desideri sono stati negati con la forza, recuperandole alla Storia con la “S” maiuscola. Sull’amore e sui processi creativi Il cinema è anche, a volte, un processo di coppia e in questo senso possiamo soffermarci su alcuni casi che, per la presenza o l’assenza dell’“altro”, hanno prodotto grandi storie d’amore contemporanee per lo schermo. Nel 2016, Jorge Suárez-Quiñones Rivas, regista di León, presenta il suo film d’esordio Amijima, basato sull’opera bunraku Shinjū Ten no Amijima (Doppio suicidio d’amore ad Amijima)14. Il film ritrae un giovane uomo che si muove in uno spazio quasi mitico, con prospettive spesso deformate, un luogo geograficamente perduto tra i quattro punti cardinali e a malapena abitato dalla piccola figura del protagonista che affronta la natura selvaggia della passione. La tragica fine, annunciata sin dall’inizio e mai mostrata esplicitamente, aleggia su di lui come una fatalità a cui non può e non vuole sottrarsi. L’intera filmografia di Suárez-Quiñones Rivas è attraversata dalla stretta collaborazione con Guillermo Pozo, il suo compagno. Oltre ad essere abitualmente quello dei due che appare sullo schermo, dando forma al film con il proprio 14 Scritto da Chikamatsu Monzaemon nel 1720 in Giappone, è un dramma del teatro dei burattini ningyō jōruri o bunraku che narra l’amore impossibile di una coppia che finirà per suicidarsi.
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corpo, Pozo condivide infatti il processo creativo di SuárezQuiñones Rivas e vi partecipa attivamente. Benché non vi sia da parte dell’autore l’intenzione dichiarata di fare del film un’opera queer, l’idea stessa dell’amante suicida o quella classica dell’amore impossibile, come presupposto di ribellione e perdita, si richiama immediatamente a una norma e a un personaggio che è spinto a vivere al di fuori di essa. In Amijima non si parla del contesto in cui emerge l’idea del suicidio, né della vita precedente del personaggio: sappiamo solo della sua rinuncia e della ricerca di un posto dove morire. Le comunicazioni che nel suo percorso in qualche modo scambia con l’amante assente, inoltre, ci fanno intuire che questi si trova nella stessa situazione. Questa rinuncia o perdita è esplicitamente rappresentata nelle teorie queer. La tesi di José Esteban Muñoz è che accettare la propria perdita significa allontanarsi dal ruolo o dalla norma che il mondo ci ha imposto. “Perdersi, in una particolare accezione queer, significa rinunciare al proprio posto (e dunque al privilegio) nell’ordine eteronormativo” (Muñoz 2022, p. 97). Amijima è un film che attraverso la forma esplora i limiti della passione romantica. L’immagine e il suono sono trattati come due elementi indipendenti, il che non implica affatto un’asincronia. L’indipendenza è realizzata soprattutto in termini di distanza, e produce un risultato fuori da ogni norma. A volte vediamo questo personaggio, l’amante suicida interpretato da Pozo, immerso nella lontananza di una montagna, riusciamo a malapena a distinguere i suoi tratti, è solo una figura umana al centro di un paesaggio imponente. Tuttavia, sentiamo il suo respiro e i suoi passi in primo piano, come se stessimo camminando accanto a lui, gettando sassi nel lago o cercando di non scivolarci dentro. Questo modo di lavorare con l’immagine e il suono, che ha la particolarità di metterci gomito a gomito con una figura che vediamo appena, è utilizzato in maniera simile anche dalla cineasta portoghese Salomé Lamas in Encounters for Landscapes (3x) del 2012, ma nel caso di Amijima aggiunge una dimensione ulteriore. In alcune inquadrature, infatti, il gioco delle distanze si realizza anche
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nell’ambito dell’immagine stessa attraverso un gioco di fuoco/ fuori fuoco, di modo che il suono in primo piano possa riferirsi a una figura che abbiamo di fronte, al centro o sullo sfondo dell’immagine, mentre la sfocatura sugli altri piani dell’inquadratura genera un nuovo ed evocativo fuori campo. Twelve seasonal films (Suárez-Quiñones Rivas, 2020) può essere letto in un contesto molto diverso. Si tratta di un film composto da diverse bobine Super 8, montate su camera, con una base documentaristica sulla vita quotidiana del regista e del suo rapporto di coppia, ma costruito con un linguaggio sperimentale, distante da una narrazione classica. Twelve Seasonal Films compie un viaggio completo intorno al sole, fermandosi a osservare ogni stagione dell’anno. Anche in questo caso, la collaborazione tra Suárez-Quiñones Rivas e Pozo ha un ruolo importante. Osserviamo subito luoghi e momenti della loro vita privata comune, le stanze della loro casa o la preparazione del kimchi che fanno insieme ogni anno, ma notiamo anche che Pozo è l’unico personaggio ad apparire in ogni stagione dell’anno. La sua presenza costante fa da guida per tutto il film, diventando una figura in cui lo spettatore può rifugiarsi anche emotivamente, come una persona cara. Mi piace vedere nella sua semplice presenza una trasformazione in materiale filmico, un innesco della possibilità della finzione, o almeno dell’azione. Si potrebbe dire che nella maggior parte delle bobine Twelve Seasonal Films abbia un substrato documentario, ma in quelle in cui appare Guillermo emerge un elemento più finzionale. E credo che questo sia dovuto alla creazione di un contesto comune: luoghi, azioni, tendenze, paesaggi che scopriamo insieme… Forse non esiste un modo ortodosso di catalogare questo tipo di lavoro nell’ambito di un film, ma a me sembra qualcosa di essenziale (Suárez-Quiñones Rivas 2020).
In alcuni dei capitoli, il film rivela un sottile erotismo. In estate, una figura femminile, il cui corpo tatuato viene mostrato in dettaglio, compie il rituale di aprire un’anguria fresca in quelle che sembrano essere le ore più calde del pome-
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riggio. Nelle bobine invernali, Guillermo galleggia sull’acqua di una sorgente calda in Giappone, e la finezza dello spazio si fonde con la figura in uno dei più bei ritratti che un regista abbia mai dedicato a un amante. C’è una storia nel cinema spagnolo recente in cui amore e cinema sono strettamente legati. In Ver a una mujer (2017), la cineasta catalana Mònica Rovira prende spunto da una rottura per raccontare in prima persona il processo di una forte mancanza d’amore. È interessante che questa mancanza d’amore appaia anche legata a un progetto creativo comune: il desiderio di fare film insieme è fallito. Lo smarrimento di fronte al vuoto e al senso di dolore che si prova dopo la fine di un amore, quando questo comporta anche una crisi creativa, non attenua in Rovira lo stupore e il fascino nei confronti della persona che ha provocato tutti questi sentimenti. “Quando vedi qualcuno che ti abbaglia, improvvisamente ti riempi dell’altro e smetti di vedere qualsiasi cosa” (Rovira 2021).
Fig. 2. Ver a una mujer, Mònica Rovira.
Rovira prende le distanze dalla narrazione convenzionale sull’amore o sulla mancanza d’amore e trova un linguaggio tutto suo, dove i movimenti della macchina da presa, il contrasto
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tra bianco e nero e la vicinanza ai suoi oggetti del desiderio – Sarai (la sua ex amante) e sé stessa (nel tentativo di capire cosa le sta succedendo) – danno forma a un film fuori dagli schemi, con un potenziale sensoriale capace di creare un mondo dalla distruzione di un altro. Si potrebbe dire che Ver a una mujer sia un film-gesto. Il titolo stesso del film, tratto dal romanzo Eine Frau Zu Sehen, scritto da Annemarie Schwarzenbach nel 1929, ci introduce a un frammento di tempo, un momento preciso e fugace. Come un dipinto di Caravaggio, è un gesto, appena percepibile dall’occhio umano, quasi impalpabile, che trafigge come un fulmine la coscienza di chi lo vive. Vedere una donna e sentire nello stesso istante che anche lei mi ha vista, che i suoi occhi si fissano su di me, interrogativi, come se dovessimo incontrarci sulla soglia dell’ignoto, questa frontiera oscura e malinconica della coscienza… e una volta lì, per la prima volta, vedere una donna (Schwarzenbach 1929).
Questo gesto effimero ma altamente significativo (“vedere una donna”) è doppiamente queer, perché da un lato rivela una nuova coscienza lesbica nella sua autrice (in questo caso, sia in quella di Annemarie Schwarzenbach che in quella di Mònica Rovira), e dall’altro, come abbiamo visto nell’introduzione, è in sé la definizione stessa di una delle caratteristiche del queer. “Il gesto […] segnala il rifiuto di un certo tipo di finitudine” (Muñoz 2022, pp. 87-88), possiamo dire che il gesto è possibilità e come tale è legato a un modo sempre in divenire di intendere il queer. In Ver a una mujer, Mònica Rovira porta il gesto nella direzione della performance. La sua presenza come personaggio sullo schermo mette continuamente in scena la confusione vitale, prima davanti al torrente di nuove emozioni legato all’innamoramento con Sarai, poi di fronte alla perdita dell’amore e al vuoto che questa comporta. Rovira si lascia sferzare dal vento in cima a una scogliera in riva al mare o salta sulla sabbia in spiaggia e questi gesti pieni di vita diventano un grande alleato di fronte alla sua confessata incapacità di verbalizzare il dolore.
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Adolfo Arrieta nel XXI secolo Adolfo Arrieta è una delle figure fondamentali del cinema queer e underground spagnolo, con una carriera che nell’arco di quasi 60 anni lo ha visto realizzare finora 13 film. Arrieta è un cineasta in continua metamorfosi, come la sua stessa identità15 o quella dei suoi film, che ha rimontato quando sono stati digitalizzati in occasione dell’acquisto da parte della televisione italiana. Dal 2000 ha realizzato tre film in cui ha mantenuto una coerenza con i suoi lavori precedenti, pur continuando a rinnovare il proprio linguaggio perché, come dicevamo, Arrieta è il cineasta della metamorfosi. Nel 2003 ha girato Eco y Narciso, un mediometraggio queer sul mito greco. È un film sul desiderio, il desiderio d’amore e il desiderio di cinema16, un tema molto ricorrente nei film di Arrieta. In questo caso, il desiderio insoddisfatto, ma anche il desiderio omosessuale. Nel mito originale, Narciso vive finché non vede sé stesso: in questa premessa, Arrieta vede non solo l’autocompiacimento dell’essere che ama sé stesso, ma anche chi ama ciò che gli è uguale, cioè le persone del suo stesso sesso. Sia pure in modo sottile, il Narciso di Arrieta potrebbe allora rifiutare una relazione con Eco per via della sua condizione omosessuale. Nel film, Narciso non muore ma scompare, lasciando al suo posto una rosa. Come sottolinea Frédéric Majour nel suo testo Las reglas del juego (2011), si può dire che Narciso scompaia da una realtà eteronormativa. In Eco y Narciso ritroviamo una certa ingegnosità nella messa in scena che è comune a tutti i film di Arrieta, elementi come l’uso della notte americana che provocano una sensazione di improvvisazione o di falso cinema non professionale che ha risonanze di purezza e autenticità. Secondo Érik Bullot (2006) “i film di Arrieta oscillano sempre 15 Il mistero dei suoi cambi di nome rimane irrisolto. Tra quelli con cui ha firmato le sue opere troviamo numerose combinazioni tra Adolfo, Adolpho, Udolpho, Vdolfo e persino Ado e Arrieta, Arrietta, Arietta, ecc. 16 Eco e Narciso rappresentano anche rispettivamente voce (suono) e immagine, e si possono quindi considerare una metafora del cinema.
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tra una forma amatoriale (il pudore dei media è totale), una certa goffaggine ricercata, quasi dandy, vicina a un lasciarsi andare e una neutralità di tono esacerbata, una costruzione tesa, spesso enigmatica e concisa”. Con Vacanza Permanente, presentato nel 2008, Arrieta si avvicina alle sue origini in una nuova chiave di lettura delle sue immagini sperimentali. Rompendo con ogni accademismo, realizza un film fresco e immediato, come gli consente la nuova telecamera digitale con cui gira. È un film a metà tra il diario intimo e l’auto-fiction in cui si può riconoscere ancora una volta il tema della passione per il cinema, ad esempio attraverso le riprese delle finestre dei suoi vicini, colte da Arrieta in un atto di voyeurismo in cui è al contempo regista e spettatore del film. Il desiderio fluttua anche sotto forma di vita notturna e di telefonate che non ricevono mai risposta. Ci chiediamo ancora una volta, come nei suoi film precedenti, dove finisce il sogno e dove inizia la realtà, come Bacco che dorme alla festa in cui accade di tutto in Eco e Narciso, come l’omicidio nella stanza in La imitación del ángel, come la ragazza che entra ed esce dal letto in Flammes (1978). Le ripetizioni, nei film di Arrieta, sono costanti: come osserva Marguerite Duras (1993) nel suo testo su Le Château de Pointilly (1972), “il pleonasmo diventa qui la stessa struttura del film”. E dall’ambito di uno stesso film, le ripetizioni si estendono anche alla filmografia di Arrieta nel suo insieme, alla reiterazione di immagini e idee che diventano le sue icone creative. L’ultimo film di Arrieta, Belle Dormant (2016) è, insieme a Flammes, la sua produzione più grande. È un ritorno alla metamorfosi che dal radicalismo linguistico di Vacanza Permanente passa a una narrazione dalla struttura classica in cui porta sullo schermo un’interpretazione libera e contemporanea della Bella Addormentata, che sembra basarsi sulla versione dei fratelli Grimm. Il film è costruito intorno all’idea di agire secondo i propri desideri, sogni e istinti, lasciando da parte regole e convenzioni, cosa che ha molte risonanze con la vita e la pratica cinematografica di Arrieta. Il protago-
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nista è il giovane Egon, principe di un regno nei cui confini si trovano alcune rovine nascoste dalla foresta e alle quali è vietato recarsi. Come in Le Château de Pointilly, è il padre (il re) a incarnare questo divieto. Il padre, un uomo conservatore e neoliberale, interpretato da Serge Bozon, non capisce né concorda con il modo di essere del figlio, che vuole fare il batterista e crede nella leggenda della Bella Addormentata. Questa ragazza si è nascosta per cento anni nelle rovine circondate dalla foresta, aspettando che il principe Egon la tirasse fuori dal sonno profondo, causato da un incantesimo fatto il giorno in cui ha compiuto quindici anni. Nonostante tutte le difficoltà, Egon è sicuro che la sua missione e il suo destino siano di raggiungere Rosemund, la Bella Addormentata. Per portare a termine la sua missione, avrà il supporto di una fata travestita da archeologa dell’UNESCO e di un consigliere del re che è in realtà un angelo sotto mentite spoglie. Ci imbattiamo qui nuovamente nella figura dell’angelo, una delle icone o personaggi ricorrenti che attraversano l’intera filmografia di Arrieta. Nei suoi primi film l’angelo poteva fare riferimento a una sessualità furtiva e nascosta, mettendo in relazione questi personaggi con l’omosessualità. Dobbiamo tenere presente che la trama di Le jouet criminel (1969) è incentrata su un angelo che vuole portare un drappo, mentre gli altri vogliono toglierglielo. Quel che possiamo dare per certo è che gli angeli di Arrieta non hanno alcun carattere religioso, ma sono concetti poetici che, come il regista ha dichiarato in più di un’occasione, sono più vicini all’irriverenza e alla blasfemia che a qualsiasi immaginario cattolico. La musica è un altro degli aspetti rappresentativi del cinema di Arrieta, accompagna tutti i suoi film, a volte senza interruzione, ed è fondamentale anche in Belle Dormant. Nella forma di assoli di batteria, la musica è il linguaggio con cui il principe si esprime, ed è ciò che lo separa dal padre e che lo unirà definitivamente alla moglie, la Bella Addormentata, in un’ultima scena in cui la principessa Rosemund balla uno swing con Egon come se non avesse passato gli ultimi cento anni a dormire.
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La libertà della trasgressione Il cinema di Albert Serra ha sempre avuto una particolare inclinazione per i personaggi visionari, non necessariamente figure intellettualmente brillanti, almeno non tutte, ma che per la loro capacità di vedere ciò che gli altri non sono neppure in grado di percepire si collocano fuori dall’ordinario, ai margini. Sono dei fenomeni, nella doppia accezione del termine, straordinari e mostruosi, individui eccezionali che vanno oltre ogni convenzione. Questa è del resto una descrizione calzante non solo per i personaggi di Serra, ma anche per il suo cinema. I suoi film esprimono una genialità visionaria per la scelta dei tempi e della mise en scène che colloca il regista catalano in una posizione singolare, ai margini di ogni norma. Liberté (2019) entra nel mondo della licenziosità sessuale nell’Europa della fine del XVIII secolo. Al calar della notte, in una foresta tedesca, un gruppo di aristocratici si aggira alla ricerca di esperienze erotiche e sessuali che li mettono a confronto con i limiti morali del momento. Non importa che questo itinerario non sia strettamente omosessuale, come ha dichiarato Serra in un’intervista: “Oggi i ruoli si scambiano, non si esce più allo scoperto in una sola direzione, c’è una fluidità di genere… tutto è possibile. E nel film, oltre alle scene gay, ce ne sono di tutti i tipi, oltre la definizione di genere, perché scommettono sulla totale arbitrarietà”. La semplice liberazione dalle passioni carnali, in un momento di ferrea moralità conservatrice, avvicina il film di Serra a una sensibilità queer, che parla non solo del XVIII secolo ma della nostra stessa realtà, a più di due secoli di distanza. Gli ultimi film di Serra, soprattutto a partire da Historia de la meva mort (2013), hanno tracciato un percorso della storia intellettuale europea del XVIII secolo, dalla lucidità all’oscurantismo, che trova molti paralleli con la realtà del mondo occidentale all’inizio del XXI secolo. In Liberté, la notte esercita il suo potere trasformativo collocando lo spettatore in uno spazio utopico, secondo due dimensioni dell’utopia: la potenzialità del futuro e la ne-
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cessità di cambiare il presente, in questo caso attraverso la trasgressione. “Il qui e ora semplicemente non è abbastanza. Il queer dovrebbe e potrebbe riguardare il desiderio per un altro modo di abitare sia il mondo che il tempo, un desiderio che si oppone all’ordine di accettare ciò che non è abbastanza” (Muñoz 2022, p. 126). Gli aristocratici di Liberté infrangono tutte le regole morali lasciandosi trasportare dalle più svariate pratiche sessuali. Anche Casanova in Historia de la meva mort è un personaggio pieno di potenzialità, un libertino scevro di pregiudizi, che passa le giornate a immaginare il suo prossimo scritto e a parlare male della morale conservatrice cristiana. Uno sperimentatore, sessualmente libero e trasgressore fino alla coprofagia. Eppure, in questo passaggio dalla luce all’oscurità che Serra ci offre nei suoi ultimi film, Casanova soccombe alle forze della superstizione, rappresentate dal Conte Dracula, per i girovaghi di Liberté la notte si conclude trascinandosi in una foresta devastata e in La Mort de Louis XIV (2016) e Roi Soleil (2018) il più grande re di Francia non è altro che confusione e agonia.
Fig. 3. Liberté, Albert Serra.
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Un immaginario queer Se il queer è, come abbiamo sostenuto, ciò che per definizione deve rimanere indefinito, un concetto tra le cui condizioni di possibilità è insita l’idea dell’anti-normatività, di modo che ogni tentativo di delimitarlo, circoscriverlo o farne una norma va contro la sua stessa natura, possiamo allora affermare che Stella Cadente (Lluis Miñarro, 2014) è senza dubbio un film queer, fugace proprio come una meteora. Lluis Miñarro ha avviato la sua carriera nel cinema come produttore, diventando uno dei più importanti in Spagna, con registi come Albert Serra, Javier Rebollo o Andrés Duque, ma lavorando anche all’estero su film di Lisandro Alonso, Apichatpong Weerasethakul e Manoel de Oliveira. Nel 2009 ha fatto un passo verso la regia con Familystrip, dove racconta la storia della sua famiglia a partire da un ritratto realizzato dal pittore Francisco Herrero. Stella Cadente è la sua prima incursione nel cinema di finzione e riprende la figura poco conosciuta di Amedeo I di Savoia, monarca spagnolo di origine italiana, che regnò per meno di tre anni. È un ritratto contraddittorio, a tratti allucinato, di un personaggio storico la cui vana aspirazione era di fare della Spagna del XIX secolo un luogo di progresso. I suoi tentativi di modernizzazione, infatti, non andarono oltre le intenzioni, e la corruzione politica e istituzionale, la chiesa, oltre che i sommovimenti sociali, lo costrinsero a rinchiudersi nel suo castello fino alla sua abdicazione nel 1873. Quando lasciò il Paese, molti spagnoli non sapevano neppure di aver avuto un re italiano. L’aneddoto storico è utilizzato da Lluis Miñarro come innesco per far emergere il proprio immaginario, un universo ricco di letteratura, dipinti e citazioni musicali che non corrispondono al periodo ritratto nel film, ma ai riferimenti dell’autore stesso. Di fronte alla figura del re isolato in un castello, Miñarro sceglie di mostrare un paesaggio mentale in cui sono rappresentati personaggio e autore. Stella Cadente è un film ricco di metafore e contraddizio-
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ni17. Nel dramma politico che Amadeo vive c’è spazio per la commedia sotto forma di un ballo su musiche degli anni Settanta, e di fronte al vuoto e alla tristezza di un Paese ingovernabile, corrotto e incolto, viene mostrata la pienezza e la felicità di una corte immersa nel desiderio, dove c’è ancora spazio per i bei momenti della vita quotidiana. L’erotismo, il sesso e i desideri incrociati attraversano tutto il film e tutti i personaggi, prendendo il sopravvento sul castello. Amedeo desidera la moglie, Alfredo, l’attendente del re, desidera la cuoca e la serva, e anche lo stesso Amedeo, che bacia il vescovo e la cuoca, che a sua volta lo desidera. Le prospettive sessuali sono liberate, come tutto il film, in un’atmosfera giocosa che convive con l’oppressione, e che trasforma il film in una proposta inaspettata, rompendo ogni convenzione. In Stella Cadente, L’origine du monde di Courbet è citato in chiave maschile e nel finale i personaggi compaiono in una carrellata nel formato delle sitcom anni Ottanta. Come dice l’attendente del re, in questo universo tutto è possibile: “Signore, nulla è totalmente puro, tutto coesiste e va accettato”. Ritratti di creatività queer Nel 2004 è uscito il film Iván Z, diretto da un regista fino ad allora sconosciuto, Andrés Duque. Il film è un ritratto del regista basco Iván Zulueta. Duque ha realizzato il film quando il regista era prossimo a compiere 60 anni e da anni era confinato a Villa Aloha, la casa di famiglia a San Sebastián, ormai in pieno declino. Quando ci si avvicina al ritratto di un artista, soprattutto se si tratta di un artista che si ammira, si può cadere nella trappola di cercare di ingrandire artificialmente la sua figura. Non è così in Iván Z. Il film non insiste sul tramonto del regista e del suo ambiente, ma riesce piuttosto a tracciare 17 Lo stesso Miñarro in diverse interviste lo definisce “un film monarchico con uno spirito repubblicano”.
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un ritratto brutalmente onesto di un cineasta che ha superato ogni norma, che accetta indirettamente di essere stato sconfitto dalla vita e parla apertamente della sua relazione con l’eroina. Grazie a immagini di repertorio e a una regia ricca di riquadri, inquadrature storte, immagini imperfette e correzioni di luce, Duque svela i feticci e i fantasmi di Zulueta, la sua passione per gli adesivi e i manifesti cinematografici, le circostanze in cui ha girato i suoi film, l’importanza della casa di famiglia in cui è confinato e una personalità che nuoce ingiustamente alla sua fama e che trova in El Ángel Exterminador (Luis Buñuel, 1962) uno specchio della sua vita. Iván Z non è l’unico ritratto cinematografico di Duque, che nel 2005 ha presentato Paralelo 10, il profilo di una donna filippina che compie quotidianamente un rituale geometrico dai significati sconosciuti nel centro di Barcellona. L’interesse di Duque per i personaggi apertamente marginali, che si dichiarano fuori dalla norma, si cristallizza infine nel film Oleg y las raras artes (2016), un documentario sullo stravagante compositore sovietico/russo Oleg Karavaichuk. Ancora una volta, il ritratto non è concepito come una biografia, ma si addentra nel processo creativo di Oleg, una trance in cui cade il protagonista che a volte sembra essere solo un canale, uno strumento utilizzato dalla musica per manifestarsi. A questo proposito, è molto interessante la lettera rivolta dal musicista alla regina di Spagna, citata nel film. Nel 2015, in occasione del suo primo viaggio fuori dalla Russia, Oleg visita il Museo del Prado per tenere un concerto ispirato a Il giardino delle delizie di Bosch. Questo evento, promosso dallo stesso Duque, che ha filmato la visita con l’intenzione di inserirla nel film, pur non essendo stato incluso nel montaggio finale, è diventato una pietra miliare dell’assurdo dato che Oleg si è limitato a suonare una sola nota perché, come ha dichiarato, il pianoforte della sala lo offendeva. Nella lettera alla regina si scusa per la situazione spiegando ampiamente la fusione mistico-creativa delle sue composizioni e chiarendo che non è lui a suonare il pianoforte, ma “il pianoforte a suonare me”.
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Fig. 4. Oleg y las raras artes, Andrés Duque.
Oleg y las raras artes si evolve dalle riprese più statiche dell’inizio, all’interno del Museo dell’Ermitage dove Oleg cammina come se fosse a casa sua, a una più vibrante macchina a mano. Duque descrive la sua pratica cinematografica in un’intervista del 2016: “Cerco di fare in modo che tutti i miei film si coalizzino contro uno stile definito. E questo gioca anche a favore dell’idea di non creare stereotipi, neppure a livello estetico”. Questo gioco di prossimità e distanza dal personaggio produce un’empatia ben più dinamica con la figura di questo ottuagenario piccolo e segaligno, con un copricapo che gli conferisce un’aria femminile e che espone come in un delirio il suo modo di sentire e concepire l’arte. Oleg è un personaggio contraddittorio, a metà strada tra due generi, un essere in divenire e non binario che si allontana da ogni stereotipo, capace di esprimere con la sua musica una realtà oltre la realtà, una realtà mista e non banale. Conclusione Tutti gli autori su cui ci siamo soffermati rispondono in un modo o nell’altro alla definizione del concetto di “queer” of-
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ferta da Muñoz. Uno spazio mutevole che per la sua natura sfuggente si sottrae sempre alla normatività. Questi film e questi personaggi offrono spazi per mostrare e immaginare altre realtà, altri corpi e altri modi di fare nella società, ma hanno anche contribuito a creare altri cinema e linguaggi artistici. Non abbiamo voluto definire o delimitare il queer, e anche volendo non potremmo farlo: il queer continua a dimostrare di essere qualcosa che sfugge a qualsiasi certezza, è un concetto volubile e in questa instabilità risiede tutta la sua forza trasgressiva. Non sappiamo cosa verrà domani, ma possiamo intuire che il cinema queer continuerà ad aprire strade non ancora immaginate e a presentare forme e personaggi che seguiremo a due passi di distanza, come figure sempre inafferrabili. Bibliografia Bullot, É. 2006 Adolfo Adorfo Udolfo, tr. es. Algarín Navarro, F., “Cinéma”, n. 11, http://www.elumiere.net/especiales/arriettta/arriettabullot.php. Duras, M. 1993 Le Château de Pointilly, in Le Monde extérieur, Outside 2, POL, Parigi. Echaves, M. 2018 ШАГ, de nucbeade Madrid. Foglio di sala per il progetto espositivo. Gómez Cascales, A. 2019 Albert Serra director de Libérté. Todas las películas tendrían que verse por morbo, “Shangay”, intervista, 18 novembre, https://shangay. com/2019/11/18/albert-serra-director-liberte-morbo-entrevista. Majour, F. 2011 Las reglas del juego, tr. es. Algarín Navarro, F., “Vertigo”, n. 39, http://www.elumiere.net/especiales/arriettta/arriettamajour.php. Mérida Jiménez, R.M. 2016 Transbarcelonas. Cultura, género y sexualidad en la España del siglo XX, Ediciones Bellaterra, Barcellona. Mora Gaspar, V. 2015 La popularización del arquetipo del homosexual en la comedia cinematográfica del tardofranquismo, “Dossiers Feministes”, 20, Publicacions de la Universitat Jaume I, Castellón.
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Muñoz, J.E. 2009 Cruising Utopia. The Then and There of Queer Futurity, Sexual Cultures New York University Press, New York, tr. it. di Ferrante, N., Grassi, S., Cruising utopia. L’orizzonte della futurità queer, Nero, Roma 2022. Preciado, P.B. 2019 Un apartamento en Urano. Crónicas del cruce, Editorial Anagrama, Barcelona, tr. it. De Ritis, A., Ferrone, F., et al., Un appartamento su Urano. Cronache del transito, Fandango Libri, Roma 2020. Ricalde, M. 2005 El cine contemporáneo y la teoría queer, in Castro, M. (a cura di), El cine contemporáneo y la teoría queer, “Butaca. Revista del Cine de Arte del Centro Cultural San Marcos”, a. 7, n. 18. Rovira, M. 2021 The Making of To See a Woman in Blanco, M.J., Williams, C. (a cura di), Women in Transition. Crossing Boundaries, Crossing Borders, Routledge, Londra. Schwarzenbach, A. 1929 Eine Frau zu Sehen, n.d., tr. it. D’Agostini, T., Ogni cosa è da lei illuminata, Il Saggiatore, Milano 2012. Suárez-Quiñones Rivas, J. 2020 Corrispondenza personale con l’autore.
Filmografia Ágata (Iván Zulueta, 1966) Amijima (Jorge Suárez-Quiñones Rivas, 2016) Arrebato (Iván Zulueta, 1979) • Belle dormant (Adolfo Arrieta, 2016) – SQ 2018 Cambio de Sexo (Vicente Aranda, 1977) Eco y Narciso (Adolfo Arrieta, 2003) El Ángel Exterminador (Luis Buñuel, 1962) El crimen de la pirindola (Adolfo Arrieta, 1965) El Diputado (Eloy de la Iglesia, 1979) Encounters for Landscapes (3x) (Salomé Lamas, 2012) Familystrip (Lluis Miñarro, 2009) Flammes (Adolfo Arrieta, 1978) Historia de la meva mort (Albert Serra, 2013) Ida y vuelta (Iván Zulueta, 1967) Imitación del ángel (Adolfo Arrieta, 1966) Iván Z (Andrés Duque, 2004)
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La bella e la bestia (Jean Cocteau, 1946) La mort de Louis XIV (Albert Serra, 2016) Le jouet criminel (Adolfo Arrieta, 1969) Lesboanimitas (Nuc&Beade, 2018) Liberté (Albert Serra, 2019) Licencia de Amor B&P (Nuc&Beade, 2021) Los Placeres Ocultos (Eloy de la Iglesia, 1977) Manderley (Jesús Garay, 1981) Merlín (Adolfo Arrieta, 1971) Mi querida señorita (Jaime de Armiñán, 1972) No desearás al vecino del quinto (Tito Fernández, 1970) • No es homosexual simplemente el homófilo, sino el cegado por el falo perdido (Equipo Palomar, 2016) – SQ 2017 Ocaña, retrato intermitente (Ventura Pons, 1978) Oleg y las raras artes (Andrés Duque, 2016) Paralelo 10 (Andrés Duque, 2005) Pepi, Luci y Bom y otras chicas del montón (Pedro Almodóvar, 1980) Roi Soleil (Albert Serra, 2018) Stella Cadente (Lluis Miñarro, 2014) También encontré mariquitas felices (Els 5 QK’s, 1980) Twelve seasonal films (Jorge Suárez-Quiñones Rivas, 2020) Una dedicatoria a lo bestia (Nuc&Beade, 2019) Vacanza permanente (Adolfo Arrieta, 2008) • Ver a una mujer (Mònica Rovira, 2017) – SQ 2019 Via col vento (Victor Fleming, 1939) ШАГ (Nuc&Beade, 2017)
Cinema gay o cinema queer? Il doppio gioco del cinema francese Didier Roth-Bettoni Traduzione di Davide Oberto
“Sono un frocio! Sono un frocio! Sono un frocio!” Fino a poco tempo fa, questa autoaffermazione ripetuta tenacemente davanti allo specchio da François, il personaggio incarnato da Gaël Morel ne L’età acerba di André Téchiné (1994), avrebbe indubitabilmente condensato tutto quello che si sarebbe potuto raccogliere sotto la definizione di “cinema queer francese”. Il cinema queer francese nato sulla scia di questo film che ha segnato la nascita di una nouvelle vague di registi che si facevano carico della loro omosessualità è stato un cinema quasi esclusivamente gay, indirizzato da registi gay verso tematiche gay. La lista è lunga e copre l’intero spettro produttivo francese, dai margini cinefili al cuore stesso del sistema, dal riconoscimento nella community alla popolarità presso il grande pubblico: François Ozon, Vincent Dieutre, Alain Guiraudie, Rémy Lange, Gaël Morel, Christophe Honoré, Jacques Nolot, Jacques Maillot, le coppie/duo Pierre Trividic/Patrick Mario Bernard e Olivier Ducastel/Jacques Martineau, ecc. Solo in tempi recenti, a metà degli anni 2010, con l’apparizione di alcuni registi con un approccio più risolutamente queer – Yann Gonzalez, Bertrand Mandico, Benjamin Crotty o Antony Hickling, per restare tra coloro che hanno realizzato anche lungometraggi – si aprirà la radura in cui avvistare l’introvabile cinema queer à la française, capace di oltrepas-
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sare le tematiche più strettamente legate all’omosessualità per avventurarsi in terreni meno battuti sia dal punto di visto delle tematiche, sia dal punto di vista estetico. Purtuttavia, benché tentati di accontentarsi di questa netta divisione, ci tocca riconoscere che la realtà è molto più sfumata e il percorso molto più graduale. Il “cinema gay” post-età acerba (ma anche L’età acerba stessa) veicolava già una serie di caratteristiche che si avvicinavano a quelle del New Queer Cinema americano, tra le quali le questioni legate all’adolescenza e ai suoi desideri, e alcuni film e alcuni cineasti, come Sébastien Lifshitz e il suo Wilde Side (2004) si erano già rapidamente e felicemente affrancati dalla mono-inquadratura per dedicarsi alla rappresentazione delle persone trans o per tentare di avvicinarsi all’intersezionalità (persone razzializzate, appartenenze a classi sociali differenti…). Inoltre, l’apparizione, dentro questa coorte mascolina, di alcune registe apertamente lesbiche, a cominciare da Céline Sciamma, che si dedicano a raccontare l’omosessualità femminile, ci fa comprendere meglio come la frontiera tra cinema gay e cinema queer sia stata negli ultimi 25 anni costantemente in movimento. Per il modo molto libero e franco con cui un cineasta sceglie di mettere in scena il formarsi della propria sessualità, per come disegna il ritratto di adolescenti in preda ai loro desideri in un contesto storico (la guerra d’Algeria) e sociale (la Francia rurale) non particolarmente propizio all’affermazione di un’identità omosessuale e infine per la produzione (televisiva) assai minimale1, L’età acerba condivide alcuni tratti distintivi del cinema queer che stava emergendo in quel periodo negli Stati Uniti e se ne distanzia su molti altri, a cominciare dalla carriera già corposa e riconosciuta del suo regista che ha esordito nel 1969 e girato film con le più grandi star del cinema francese: Depardieu, Adjani, Deneuve, Huppert… Anche la forma classica della narrazione è poco conforme ai criteri che potrebbero definire il “queer cinematografico” che, in Francia, potremmo archeologicamente rintracciare 1 L’età acerba è la versione cinematografica del telefilm La Chène et le Roseau, episodio della serie Tous les garçons et les filles prodotta da Arte.
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tra le ricerche avanguardiste di Germaine Dulac (La Coquille et le Clergyman, 1928) e Jean Genet (Un Chant d’amour, 1950), tra le fantasie musicali di Jacques Demy (La favolosa storia di Pelle d’Asino, 1970), le sperimentazioni poetiche virate in seppia di Guy Gilles (Absences répétées, 1972) e le libertà sessuali di Philippe Vallois (Johan, 1976; Nous étions un seul homme, 1979) per citare solo alcune tra le opere ben più esplicitamente audaci del film di Téchiné. Eppure, questo film così personale e intimo, così fragile in molti dei suoi aspetti e il suo successo inatteso di pubblico e di critica segnano un punto di svolta nel modo in cui il cinema francese aveva fino ad allora affrontato l’omosessualità: meno militante di Race d’Ep di Lionel Soukaz e Guy Hocquenghem (1979), meno scuro de L’uomo ferito (Patrice Chéreau, 1983), meno tragico de Le notti selvagge (Cyril Collard, 1992), febbricitante gesto provocato dalla violenza dell’AIDS. A differenza di questi titoli, né il film di Téchiné né quelli dei giovani registi che imbracceranno la macchina da presa dopo di lui scateneranno scandali e polemiche. L’omosessualità che si sta affermando qui in una forma inedita ed esplicita non segue i registri del sulfureo, del rivendicativo o del marginale. Partecipa, anzi, alla normalizzazione sociale che sta caratterizzando quel preciso momento storico, in cui l’arrivo delle tri- e multi-terapie (in Francia nel 1996) cambia radicalmente le condizioni e le speranze di vita dei malati di AIDS e l’affermarsi nel cuore del dibattito pubblico della questione dei diritti delle coppie dello stesso sesso sfocia nel 1999, non senza violente controversie, nell’adozione del Pacs (Pacte Civil de Solidarité, Patto Civile di Solidarietà), primo riconoscimento dello statuto legale per le coppie omosessuali in Francia2. È in questo contesto non esente da forti tensioni in cui, però, gay e lesbiche cercano di ampliare e integrare il diritto comune che il cinema offre un’inedita visibilità a personaggi omosessuali, per lo più gay, in film in cui la loro omosessualità non è il sog2 La legge sul “matrimonio per tutti” sarà adottata solo nel 2013, ancora tra dibattiti di una grande violenza.
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getto del film, ma una delle dimensioni della loro personalità, non messa in discussione, ma semplicemente affermata insieme alle altre, che può generare le più diverse narrazioni e storie. Per non perdersi nell’abbondante e impensata produzione che ne seguirà, conviene senza dubbio stabilire, pur tenendo conto dell’artificialità dell’esercizio e della sua contestabilità, un certo numero di “famiglie”, di raggruppamenti di film e di autori tra 1) cinema d’autore gay (e a volte lesbico) più o meno mainstream, dalle andature produttive tradizionali; 2) cinema di franchi-tiratori che assemblano i loro film artigianalmente nel loro cantuccio; 3) cinema propriamente identificabile come queer con tutte le infinite sfumature che il queer comporta. Come procedere altrimenti nel tentativo di voler esaminare un territorio così grande e sempre in cambiamento come il cinema gay/queer francese? Trattandosi di questioni di famiglia non è assurdo cominciare col padre, quel cineasta riconosciuto e celebre che è André Téchiné il cui L’età acerba rappresenta in qualche modo il coming out cinematografico3. Di questo film molto intimo e senza dubbio liberatorio realizzerà, due decenni più tardi, una sorta di contrappunto contemporaneo con Quando hai 17 anni (2016), un altro ritratto di adolescenti di provincia, provenienti da classi sociali e origini differenti, alle prese con i loro desideri nella Francia di oggi. Nella parvenza delle somiglianze, dietro le apparenze rassicuranti del suo stile narrativo, Téchiné mette a nudo le mutazioni avvenute nel frattempo: il passaggio da un mondo in cui l’omosessualità era un’identità quasi indicibile che si scontrava continuamente con una società ostile (quella degli anni Sessanta) a una Francia post-gay dove la vera omofobia con cui i due giovani protagonisti si confrontano è quella interiorizzata. Al di là della loro stessa importanza, questi due film confermano la posizione cruciale che André Téchiné occupa nel cinema gay francese dopo L’età acerba: impossibile non far no3 Anche se l’omosessualità è presente sullo sfondo di molti suoi film, come Hôtel des Amériques (1981) e Niente baci sulla bocca (1991).
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tare che in questo film debuttano due promesse che avranno un grande avvenire nel cinema LGBTQ+ (Gaël Morel che da lì a poco si darà alla regia e Stéphane Rideau, presto attore simbolo per Morel, Ozon, Lifschitz). Incrociamo anche Jacques Nolot, collaboratore regolare di Téchiné sia come sceneggiatore che come attore4, che realizzerà come regista alcuni dei film queer più singolari e audaci del cinema francese, esplorando ambiti spesso nascosti dalle rappresentazioni delle vite omosessuali: i cinema porno come territorio di rimorchio e socializzazione (La chatte à deux têtes, 2002) e il desiderio e la sua soddisfazione alle prese con l’invecchiamento del corpo (Avant que j’oublie, 2007). La sceneggiatura di Quando hai 17 anni è, invece, frutto di una collaborazione tra Téchiné e Céline Sciamma, anche lei cineasta emblematica dei tempi in questione, capace, a partire da Naissance des pieuvres (2007), di affermarsi costantemente film dopo film come una delle registe più appassionanti sulle questioni del genere, del desiderio e della costruzione del sé fuori dalle norme stabilite.
Fig. 1. Naissance des pieuvres, Céline Sciamma.
4 Firma la sceneggiatura, tra l’altro, di un film molto personale come La Matiouette (1984) i cui echi si ritroveranno sia in Niente baci sulla bocca, alla cui sceneggiatura partecipa, sia in L’età acerba.
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Difficile non ricordare un altro indizio della posizione essenziale di Téchiné nel panorama in divenire del cinema LGBTQ+: con I Testimoni (2007) Téchiné è il primo regista francese a tentare di raccontare gli anni dell’AIDS seguendo sia un destino individuale, quello tragico del giovane Manu, sia il percorso collettivo (la mobilitazione medicale). Questo doppio movimento strettamente intricato rompe con il modo con cui il resto del cinema francese, da Paul Vecchiali (Once More – Ancora, 1988) a Olivier Ducastel-Jacques Martineau5, passando per Cyril Collard, aveva fino ad allora raccontato l’AIDS attraverso le vite individuali. Sono evidenti risonanze che si ritrovano in 120 battiti al minuto (2017) di Robin Campillo capace di tracciare con un solo disegno i primi passi di Act Up e la nascita della relazione amorosa tra Sean e Nathan. Continuando a seguire la traccia della metafora familiare, il ruolo di figlio può andare a Gaël Morel, l’erede più diretto di André Téchiné, anche se il suo cinema da regista se ne è ben presto affrancato. Se il suo primo film A tutta velocità (1996), realizzato a soli 24 anni, riprende alcuni dei temi cari a Téchiné (la dolorosa scoperta dei sentimenti, il confronto tra un giovane provinciale di origine contadina e/o operaia a Parigi…), egli li arricchisce con una attenzione molto moderna sull’omosessualità nelle periferie attraverso il personaggio del giovane beur (giovane di origini nordafricane N.d.T.), innamorato non corrisposto dal protagonista ma con un rapporto con l’omosessualità assai sereno. A partire da questo film, Morel non smetterà di mettere in questione le nozioni di identità, di virilità, di gruppo, di famiglia (che sia di sangue o di scelta), tutti temi che riprenderà e svilupperà in Le Clan (2004), scritto insieme a Chri5 Senza dubbio bisogna sfumare questa affermazione rispetto alla presenza costante, sotto forme diverse, dell’AIDS nei film del duo Ducastel/Martineau che già di per sé rappresenta una situazione assai specifica. La constatazione di cui sopra la possiamo ritrovare in Drôle de Felix (2000) o in Théo et Hugo dans le même bateau (2016), ma il loro primo film, Jeanne et le garçon formidable (1998), è attraversato dalla presenza di Act Up, mentre il giovane eroe di Nés en 68 (2008) entra in un gruppo di attivisti.
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stophe Honoré, storia di tre fratelli alla ricerca del proprio posto a cui si aggiungerà Hicham, un giovane arabo amico del fratello più vecchio e amante del più giovane. Tra tutti i cineasti che abbiamo menzionato, Gaël Morel è quello che, con questo film, si spinge più lontano nell’eroticizzazione dei suoi attori, imponendo così uno sguardo apertamente gay in un cinema francese dove questa dimensione restava ancora tabù, attirandosi per questo le critiche di una parte della critica. I primi film di François Ozon (i suoi cortometraggi come Une robe d’été, 1996, o un lungometraggio come Gli amanti criminali, 1999) o di Sébastien Lifshitz (Les corps ouverts, 1998, e Presque rien, 2000) assumono esplicitamente il gioco omoerotico avvicinandosi sempre di più al corpo maschile, quasi feticizzandolo, rischiando, secondo alcune analisi queer posteriori contestabili (Rees-Roberts 2008; Cervulle e Rees-Roberts 2010), l’esotismo da parte di registi bianchi cisgender “dei corpi dell’operaio magrebino o del giovane di periferia [rappresentati come] oggetti fantasmatici e eccitanti” (Cervulle e Rees-Roberts 2010). In effetti, analogamente a Gaël Morel nei film citati sopra, Ozon e Lifshitz ne Gli amanti criminali per il primo, in Les Corps ouverts e nel telefilm Les Terres froides (1999) per l’altro, al centro della narrazione ci sono personaggi di origine magrebina, incarnati da due attori feticcio (termine non neutro) del cinema gay di quel periodo – Salim Kechiouche per Ozon e Yasmine Belmadi per Lifshitz – i cui corpi vengono offerti alla tentazione della camera che li filma. La condotta dei due cineasti è, però, radicalmente diversa: nel racconto crudele e perverso sul desiderio, sulla frustrazione, sulla sessualità di Ozon, Salim Kechiouche è ridotto a puro oggetto fantasmatico destinato a essere divorato dopo esser stato consumato (e verrà rimproverato al regista il fatto di aver utilizzato per incarnare questo fantasma un corpo razzializzato con tutte le implicazioni coloniali annesse); Yasmine Belmadi nel mediometraggio di Lifshitz possiede uno spessore tale che gli permette di sfuggire alle polemiche. Personaggio complesso, colto nelle sue molteplici contraddizioni e nella confusione dei suoi sentimenti e della sua iden-
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tità – origini miste algerina e francese, sessualità indefinita, indecisione sulle scelte riguardanti il futuro… – Rémy offre il suo corpo perché è l’unica cosa di cui sia sicuro. Fin dai primi film Lifshitz denota la singolarità del suo cinema: mentre gli altri cineasti gay della sua generazione lavorano, ciascuno alla propria maniera, attorno alla nozione centrale dell’identità LGBT – Morel o Jaques Maillot con Nos vies heureuses (1998), Ozon con Gocce d’acqua su pietre roventi (2000) o Il tempo che resta (2005) o il duo Olivier Ducastel-Jacques Martineau da Drôle de Felix (2000) a Théo et Hugo dans le même bateau (2016) – Lifshitz si impegna a superarla film dopo film. Lo mette in pratica con i suoi intensi documentari dedicati ad aprire discorsi notoriamente tabù come la vecchiaia per gay e lesbiche (Les Invisibles, 2012; Les Vies de Thérèse, 2016), a seguire i destini transgender di ieri (Bambi, 2013, rievocazione del percorso di una regina del cabaret degli anni Sessanta) come di oggi (Petite fille, 2020, ritratto di una bambina trans di 8 anni). Ma è soprattutto in un film senza equivalenti nella cinematografia francese come Wild Side che si incarna la propensione queer di Lifshitz a preferire le identità fluide, indecise, multiple, trasgressive.
Fig. 2. Wild Side, Sébastien Lifshitz.
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Wilde Side è un film chiaramente intersezionale capace di lasciar incrociare tra di loro, aumentandone così la forza, le cause d’esclusione dei tre personaggi principali – una giovane donna trans, un giovane gay arabo che si prostituisce e un clandestino russo bisessuale – capaci di sostenersi vicendevolmente e di creare una solidarietà che è quella della famiglia scelta, reinventata al di là delle categorie di genere e di identità sessuale. Qui si misura la modernità di questo film nel panorama spesso ingessato del cinema francese, uno dei rari film dell’epoca a decidere di scegliere un’attrice trans (Stéphanie Michelini) per interpretare un personaggio trans. Un’audacia che è anche politica: non è solo questione di creare delle rappresentazioni più realiste e incarnate del vissuto delle persone trans, ma anche di permettere ad attori e attrici trans l’accesso a ruoli cinematografici. Pochi film francesi si possono fregiare di una trans-identità (al di là di ogni identità e appartenenza sessuale minoritaria) così fortemente ancorata nel reale; di una capacità tale di s/drammatizzare, ossia di porre come un’evidenza ciò che il cinema ha tendenza a problematizzare. Con una sola eccezione senza dubbio: Tomboy (2011), il secondo lungometraggio di Céline Sciamma, senz’altro una delle più appassionanti autrici del giovane cinema francese, di cui ciascun film è capace di oltrepassare sempre di più i limiti del cosiddetto “sguardo femminile” al punto in cui – dopo averli costretti ai margini nel Diamante nero (2014) spazzando via i cliché sulle ragazze delle periferie – è possibile quasi eliminare del tutto gli uomini dal grande schermo come in quella passione lesbica in costume che è Ritratto della giovane in fiamme (2019). In Tomboy, Sciamma usa l’indefinitezza dell’infanzia per far vacillare le identità fisse, per denunciare i generi assegnati e celebrare l’autodefinizione di sé. È quello che fa Laura, una ragazzina di dieci anni dai capelli corti e dall’andatura che si definirebbe come quella di un mancato ragazzo, quando con la famiglia trasloca in un’altra città: presentarsi come un ragazzo con tutte le conseguenze che questo comporta. Nonostante il forte ancoraggio nel terreno del reale che caratterizza Tomboy, Céline Sciamma attraversa talvolta i
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sentieri fiabeschi, ma sono Bertrand Bonello (Tirésia, 2002), Christophe Honoré (Métamorphoses, 2014) e, in maniera meno diretta ma non meno efficace, François Ozon (Una nuova amica, 2014) a scegliere la via mitologica o fantastica per evocare le identità in transito. Tutti e tre propongono delle variazioni contemporanee di figure culturali riconosciute: il mito greco, il famoso poema di Ovidio, o un immaginario cinefilo d’altri tempi (Hitchcock e La donna che visse due volte in primis) (Lalanne 2014); i loro personaggi passano magicamente da un corpo all’altro, da un genere all’altro, a volte, come in Honoré da una specie – umana – a un’altra – animale. Così facendo, questi cineasti adottano uno stile prettamente queer di contestazione del binarismo, di decostruzione degli schemi tradizionali che ritroveremo tra i più inventivi e impetuosi rappresentanti del cinema queer francese molto meno “istituzionalizzati”6, come Bertrand Mandico e i suoi Garçons sauvages (2017), film in cui la dimensione favolosa di slittamento tra i generi è ben lontana dal non essere rintracciabile. Pur essendone la dimensione più tangibile e potente, ci pare limitante ridurre i tratti queer presenti nel cinema gay francese più in vista (in termini di pubblico e critica) alla sola rappresentazione trans-identitaria, sottostimando così la loro ampia varietà. Tra un omaggio a Jacques Démy (Les Bien-aimés, 2011) e un elogio alla sessualità e ai sentimenti capaci di evacuare le rigidità di genere (Les Chansons d’amour, 2007), una rivisitazione molto personale degli anni dell’AIDS (Plaire, aimer et courir vite, 2018) e una ridefinizione delle frontiere tra cinema porno e cinema tradizionale (Homme au bain, 2010), la lista delle forme con cui Christophe Honoré si serve per lasciare sbocciare il queer nelle sue narrazioni è lunga quanto la sua variegata filmografia. Lo stesso discorso vale per François Ozon, la cui opera abbondante e spesso di successo si concentra soprattutto – da 6 Tenendo comunque conto che Tirésia e, ancor più, Métamorphoses sono tutt’altro che i film più mainstream dei loro autori.
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Sitcom (1998) a Nella casa (2012), passando per 8 Donne e un mistero (2002) o Il rifugio (2009) – a smantellare l’ordine familiare classico per riformularlo nei modi più inattesi e degeneri. Gioco kitsch (Potiche – La bella statuina, 2010), evocazione di amori gay adolescenti (Estate ’85, 2020), sottotesti omosessuati più o meno riconoscibili (Swimming Pool, 2003; Frantz, 2016), denuncia della pedofilia nella Chiesa (Grazie a Dio, 2018), celebrazione della differenza attraverso la nascita di un bambino con le ali (Ricky – Una storia d’amore e libertà, 2010): nascondendosi sotto delle apparenze tranquille, il cinema popolare di Ozon non smette di sterzare verso direzioni lontane dalle norme lasciando entrare nei sui film, nei modi più inattesi, la sua messa in questione dei generi e della eteronormatività. La situazione – economica, mediatica, ecc. – del cinema di François Ozon o di quello di Christophe Honoré, anche quando non hanno a disposizione budget smisurati e non raggiungono numeri da record al box office, è comunque molto diversa da quella della maggior parte di altre registe e altri registi del movimento gay/queer, composto per lo più da franchi-tiratori che riescono a lavorare nei margini dell’industria cinematografica e che riescono a raggiungere il grande pubblico spesso in maniera fortuita, come successo a Alain Guiraudie che di colpo riempie le sale con il suo Lo sconosciuto del lago (2013)7, thriller sulle rive del fantastico ambientato in luogo di cruising gay. La selezione del film al Festival di Cannes nella sezione “Un Certain Regard” e l’eccellente accoglienza critica hanno la loro parte nell’improvviso e sorprendente entusiasmo per un film così crudo e diretto nella sua rappresentazione della sessualità gay e per un autore dall’universo assai particolare e fondamentalmente queer che fino ad allora aveva lavorato quasi autarchicamente nel Sud-Ovest, sua terra natale. Impegnato a filmare la ruralità e un mondo operaio nella sua fase finale, Guiraudie lo fa attraverso la creazione di racconti proteiformi, oscillando tra realismo sociale e fantasia picaresca, in cui non smettono di 7
Circa 120.000 spettatori in Francia.
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sbocciare, rivestendo anche la funzione di rivelatori sociali e politici, i desideri omosessuali. L’apice di questa sua ricerca è senza dubbio il mediometraggio Ce vieux rêve qui bouge (2001) dove, in una piccola fabbrica in via di dismissione, un giovane operaio si innamora di un altro operaio ben più vecchio di lui. In effetti, al di là del modo molto intersezionale con cui Guiraudie collega sempre esclusione sociale ed esclusione sessuale, gli aspetti queer del suo cinema si trovano anche nella sua propensione a filmare corpi non conformi (vecchi, con protesi…) e tuttavia desiderabili. A questo si aggiunge ancora un altro strato queer nel cinema di Guiraudie composto da un senso di sfasamento, di humor e invenzione costante che gli permettono di inventare linguaggi, mescolare i generi (come il western e il film “regionalista” in Non c’è pace per Basile, 2003) o di lasciarci entrare in una macchia boschiva assai frequentata alla ricerca di un’erba miracolosa per l’erezione (Le Roi de l’évasion, 2009).
Fig. 3. L’inconnu du lac, Alain Guiraudie.
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Se il cinema artigianale di Guiraudie è riuscito, senza rinnegare i suoi presupposti – ad esempio in Rester vertical, 2016 – a raggiungere una forma di riconoscimento tanto insperata quanto ben accolta, dati i conseguenti aumenti di budget, la situazione per la maggior parte degli altri e delle altre rappresentanti del cinema gay/queer francese resta sempre costretta ai margini della produzione8 e della distribuzione. Queste opere, spesso inclassificabili nel loro essere uguali a nient’altro che a sé stesse, formano uno strano ma affascinante caleidoscopio di temi e di forme. Possiamo trovare l’autofiction radicale ai confini tra documentario e film d’artista di Vincent Dieutre (Rome désolée, 1995; Jaurès, 2012…) e del Ma vie avec James Dean, storia d’amore gay bizzarra e carina di Dominique Choisy (2018); il film di montaggio super intimo realizzato da Frank Beauvais a partire dagli estratti di un centinaio di film (Ne croyez surtout pas que je hurle, 2019) o l’arte dello spaesamento messa in pratica da Patric Chiha con la commedia d’autore Boys Like Us (2014) o con il documentario decisamente non formattato su un gruppo di prostituti bulgari, Brothers of the Night (2016); l’approccio formalista e il simbolismo carico di misticismo di Olivier Py (Les Yeux fermés, 1999) e il lavoro ibrido, tra autobiografia e sperimentazione narrativa, di François Zabaleta (La Vie intermédiaire, 2009 o Ton cœur est plus noir que la nuit, 2014); il film sotto forma d’arte di Pierre Trividic-Patrick Mario Bernard (Dancing, 2002) e l’art brut frontale e coraggioso con cui Rémi Lange costruisce, destreggiandosi tra astuzia e innocenza, il diario del suo coming out (Omelette, 1997) o con cui tenta il ritratto musicale e disincantato di un giovane (Chanteur, 2014). Non dimenticheremo di aggiungere a questa coerente e incompleta lista il lavoro in perpetua reinvenzione del veterano del cinema gay seventies, Philippe Vallois, che non smette di rendere sempre più golosa la sua bella filmografia 8 Molti tra i cineasti qui citati, come Rémi Lange, François Zabaleta o Philippe Vallois, si autoproducono e girano con budget estremamente ridotti.
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grazie a delle opere ludiche e introspettive come Sexus Dei (2007) o L’Adieu à Moustafa (2019). Possiamo definire “queer” queste opere temerarie, che meticciano le forme espressive, esplorando delle contrade poco frequentate delle immagini del desiderio, della sessualità o delle vite LGBTQ+? Sì, senza dubbio. Anche se è necessario constatare che sono innanzitutto filmate da una prospettiva specificatamente gay e che nascono con l’intenzione di voler reinvestire e ricomporre la rappresentazione delle omosessualità maschili. Non è il caso, evidentemente, dei film di una nuova generazione di registi e registe il cui lavoro si presenta esplicitamente come queer, cioè affrancato dai limiti imposti dal genere, dall’identità e dalla sessualità e che possiamo situare sotto i buoni auspici di Claire Denis, pioniera tra quelle terre. Donna e eterosessuale, filma come nessun altro i vagabondaggi sensuali di un oscuro assassino seriale che ama travestirsi in J’ai pas sommeil (1994), i balletti omoerotici dei legionari in Beau Travail (1999) e le pulsioni cannibali di Béatrice Dalle in Cannibal Love – Mangiata viva (2001). Benché Claire Denis non si definisca “queer”, il suo cinema lo è indubitabilmente, così come lo è il cinema di quei cineasti che quell’etichetta la rivendicano e non è neutro constatare la presenza sostanziale di registe in questo gruppo ancora indefinito e in divenire, presenza che marca una cesura netta rispetto alla loro quasi totale assenza nel paesaggio che abbiamo descritto fin qua. Marie Losier, con dei teneri documentari, realizza i ritratti poetici di personalità capaci di trasgredire i generi come l’artista Genesis P. Orridge in The Ballad of Genesis and Lady Jaye (2011) o il celebre luchador messicano protagonista di Cassandro the Exotico (2018). Emilie Jouvet esplora la sessualità lesbica in tutte le sue accezioni mescolando il porno al documentario (One Night Stand, 2005; Too Much Pussy, 2009) e si dedica anche alla costruzione di corpi femminili diversi (My Body, My Rules, 2015) e all’esplorazione dell’omoparentalità (Aria, 2017; Mon enfant, ma bataille, 2018).
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Fig. 4. Cassandro the Exotico, Marie Losier.
Quanto a Véronique Aubouy, nel suo saggio con brio Je suis Annemarie Schwarzenbach (2015), si cimenta in un esercizio di stile capace di comporre un ritratto frammentato della celebre scrittrice svizzera attraverso i e le diverse interpreti chiamati per un casting. In questo movimento queer trova posto naturalmente Océan, attore trans che sceglie di filmare per tutto un anno il diario della sua transizione e delle reazioni provocate (famigliari, amicali, professionali, intime) a beneficio di una serie web che ha trasformato poi in un film intitolato semplicemente Océan (2019) che risulta essere nientemeno che il primo lungometraggio francese firmato da una persona trans. La presenza fluida, ossia senza essere specificità della sceneggiatura, di uomini e donne trans così come di persone non binarie, accumunate dal loro essere pansessuali è uno dei tratti distintivi del giovane cinema queer. Lo ritroviamo nei mondi fantasmatici che Bertrand Mandico crea con i suoi cortometraggi e con il lungometraggio Les Garçons sauvages,
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e nello straniante Fort Buchanan di Benjamin Crotty (2014), ma anche nei corti trash e ribelli del giovane sobillatore Alexis Langlois (De la terreur, mes sœurs, 2019). Troviamo anche Yann Gonzalez i cui manieristi Rencontres d’après minuit (2013), Un couteau dans le cœur (2018) e la decina di cortometraggi – tutti esteticamente perfetti e carichi (talvolta eccessivamente) di referenze – fanno slalom tra i generi (cinematografici) e i gender. Last but not least, in questo panorama del cinema queer francese emergente troviamo il franco-britannico Antony Hickling, cineasta del margine, anzi dei margini, i cui film sui generis prolungano i margini dei modelli rivendicati – Jarman, Pasolini, Schroeter – riprendendone la ricerca formale, l’insolenza sessuale e il discorso politico. Little Gay Boy (2013), One Deep Breath (2014), Where Horses Go to Die (2016) o l’assai radicale e perturbante Frig (2018) sono film la cui bellezza visiva nasconde una violenza, più o meno sorda, che finisce per esplodere (evocando non a caso il Salò di Pasolini). Esploratore dei limiti, amatore di ogni genere di trasgressione, frequentatore dei desideri e delle vite underground, Hickling continua senza posa a elaborare un’opera affascinante che trasuda queer da ogni poro. Che si confonda col cinema gay o che se ne liberi, il cinema queer francese è una realtà appassionante e complessa, che attraversa tutti i livelli della produzione e a cui si affiancano o fanno eco opere e autori che sembrano apparentemente non averci nulla a che fare. È questa estrema varietà che determina la ricchezza del queer à la française e che lo rende quasi indescrivibile. Bibliografia Rees-Roberts, N. 2008 French Queer Cinema, Edinburgh University Press. Cervulle, M., Rees-Roberts, N. 2010 Homo Exoticus. Race, classe et critique queer, Armand Colin. Didier Roth-Bettoni, D. 2007 L’homosexualité au cinéma, La Musardine, Paris.
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Lalanne, J. 2014 “Une nouvelle amie” de François Ozon. Et soudain, Romain Duris s’est senti femme, “Les Inrockuptibles”, 8 settembre. Disponibile online, https://www.lesinrocks.com/cinema/nouvelle-amie-francoisozon-soudain-romain-duris-sest-sentie-femme-113060-08-09-2014.
Filmografia • 120 battiti al minuto (Robin Campillo, 2017) – SQ 2018 8 Donne e un mistero (François Ozon, 2002) A tutta velocità (Gaël Morel, 1996) Absences répétées (Guy Gilles, 1972) Aria (Emilie Jouvet, 2017) • Avant que j’oublie (Jacques Nolot, 2007) – SQ 2011 Bambi (Sébastien Lifshitz, 2013) Beau Travail (Claire Denis, 1999) Boys Like Us (Patric Chiha, 2014) • Brothers of the Night (Patric Chiha, 2016) – SQ 2017 Cannibal Love – Mangiata viva (Claire Denis, 2001) • Cassandro the Exotico (Marie Losier, 2018) – SQ 2019 • Ce vieux rêve qui bouge (Alain Guiraudie, 2001) – SQ 2014 Chanteur (Rémi Lange, 2014) Dancing (Pierre Trividic, Patrick Mario Bernard, 2002) • De la terreur, mes sœurs (Alexis Langlois, 2019) – SQ 2020 Diamante nero (Céline Sciamma, 2014) Drôle de Felix (Olivier Ducastel, Jacques Martineau, 2000) Estate ’85 (François Ozon, 2020) • Fort Buchanan (Benjamin Crotty, 2014) – SQ 2015 Frantz (François Ozon, 2016) Frig (Antony Hickling, 2018) Gli amanti criminali (François Ozon, 1999) Gocce d’acqua su pietre roventi (François Ozon, 2000) Grazie a Dio (François Ozon, 2018) Homme au bain (Christophe Honoré, 2010) Hôtel des Amériques (André Téchiné, 1981) I Testimoni (André Téchiné, 2007) Il rifugio (François Ozon, 2009) • Il tempo che resta (François Ozon, 2005) – SQ 2015 J’ai pas sommeil (Claire Denis, 1994) • Jaurès (Vincent Dieutre, 2012) – SQ 2012 • Je suis Annemarie Schwarzenbach (Véronique Aubouy, 2015) – SQ 2015
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Jeanne et le garçon formidable (Olivier Ducastel, Jacques Martineau, 1998) Johan (Philippe Vallois, 1976) La chatte à deux têtes (Jacques Nolot, 2002) – SQ 2018 La Coquille et le Clergyman (Germaine Dulac, 1928) La donna che visse due volte (Alfred Hitchcock, 1958) La favolosa storia di Pelle d’Asino (Jacques Demy, 1970) La Matiouette ou l’arrière-pays (André Téchiné, 1984) – SQ 2018 La Vie intermédiaire (François Zabaleta, 2009) L’Adieu à Moustafa (Philippe Vallois, 2019) Le chêne et le roseau (André Téchiné, 1994) Le Clan (Gaël Morel, 2004) Le notti selvagge (Cyril Collard, 1992) Le Roi de l’évasion (Alain Guiraudie, 2009) – SQ 2014 Les Bien-aimés (Christophe Honoré, 2011) Les Chansons d’amour (Christophe Honoré, 2007) Les corps ouverts (Sébastien Lifshitz, 1998) Les garçons sauvages (Bertrand Mandico, 2017) – SQ 2018 Les Invisibles (Sébastien Lifshitz, 2012) – SQ 2013 Les rencontres d’après minuit (Yann Gonzalez, 2013) – SQ 2014 Les Terres froides (Sébastien Lifshitz, 1999) Les Vies de Thérèse (Sébastien Lifshitz, 2016) – SQ 2017 Les Yeux fermés (Olivier Py, 1999) L’età acerba (André Téchiné, 1994) Little Gay Boy (Antony Hickling, 2013) Lo sconosciuto del lago (Alain Guiraudie, 2013) – SQ 2014 L’uomo ferito (Patrice Chéreau, 1983 ) – SQ 2014 Ma vie avec James Dean (Dominique Choisy, 2018) Métamorphoses (Christophe Honoré, 2014) Mon enfant, ma bataille (Emilie Jouvet, 2018) My Body, My Rules (Emilie Jouvet, 2015) Naissance des pieuvres (Céline Sciamma, 2007) Ne croyez surtout pas que je hurle (Frank Beauvais, 2019) – SQ 2020 Nella casa (François Ozon, 2012) Nés en 68 (Olivier Ducastel, Jacques Martineau, 2008) Niente baci sulla bocca (André Téchiné, 1991) – SQ 2018 Non c’è pace per Basile (Alain Guiraudie, 2003) Nos vies heureuses (Jacques Maillot, 1998) Nous étions un seul homme (Philippe Vallois, 1979) Océan (Océan, 2019) Omelette (Rémi Lange, 1997) Once More – Ancora (Paul Vecchiali, 1988)
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One Deep Breath (Antony Hickling, 2014) One Night Stand (Emilie Jouvet, 2005) Petite fille (Sébastien Lifshitz, 2020) • Plaire, aimer et courir vite (Christophe Honoré, 2018) – SQ 2019 Potiche – La bella statuina (François Ozon, 2010) Presque rien (Sébastien Lifshitz, 2000) Quando hai 17 anni (André Téchiné, 2016) Race d’Ep (Lionel Soukaz, Guy Hocquenghem, 1979) • Rester vertical (Alain Guiraudie, 2016) – SQ 2017 Ricky – Una storia d’amore e libertà (François Ozon, 2010) • Ritratto della giovane in fiamme (Céline Sciamma, 2019) – SQ 2020 Rome désolée (Vincent Dieutre, 1995) • Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini, 1975) – SQ 2015 Sexus Dei (Philippe Vallois, 2007) Sitcom (François Ozon, 1998) Swimming Pool (François Ozon, 2003) • The Ballad of Genesis and Lady Jaye (Marie Losier, 2011) – SQ 2019 • Théo et Hugo dans le même bateau (Olivier Ducastel, Jacques Martineau, 2016) – SQ 2016 Tirésia (Bertrand Bonello, 2002) • Tomboy (Céline Sciamma, 2011) – SQ 2012 Ton cœur est plus noir que la nuit (François Zabaleta, 2014) Too Much Pussy (Emilie Jouvet, 2009) Un Chant d’amour (Jean Genet, 1950) • Un couteau dans le cœur (Yann Gonzalez, 2018) – SQ 2018 Una nuova amica (François Ozon, 2014) Une robe d’été (François Ozon, 1996) Where Horses Go to Die (Antony Hickling, 2016) Wilde Side (Sébastien Lifshitz, 2004)
Dove sono le immagini? Alla ricerca di un cinema queer italiano Pier Maria Bocchi
Il nuovo secolo si apre in Italia non già con un lamento, ma con uno schianto. L’8 luglio 2000 marciano su Roma duecentomila gay, lesbiche e “simpatizzanti”: è il World Pride. L’anno è quello del Giubileo, e non si parla d’altro, perché, come prevedibile, le forze opposte in azione sono tante e decise. L’evento è discusso, ipotizzato, pronosticato, spremuto e “strumentalizzato” già da tre anni, con tanto di istanze parlamentari e anatemi. A sottrarsi da subito è la cultura queer dominante, l’Arcigay, spaventata da cotanto ardire. È invece il Circolo Mario Mieli a fare la differenza. Nel frattempo, destra e sinistra si scannano, il Presidente del Consiglio Giuliano Amato è conteso tra due fuochi e il Vaticano arde della propria bile. Il successo è inevitabile, anche mediaticamente: la Rai fa la diretta, ed è uno strappo inatteso al conformismo di Stato. Il Papa, da parte sua, non cede: non passano neppure ventiquattro ore che Giovanni Paolo II scaglia da Piazza San Pietro la sua maledizione. Intanto, però, l’Italia s’è mossa. L’immagine del World Pride è per il Paese un’immagine votiva e contemporaneamente di stallo. Temo che per l’egemonia queer essa interpreti ancora oggi un non plus ultra, dopo il quale c’è tutto sommato poco. È stata una conquista d’immagine (appunto), possiamo tornare a farci le coccole. Queer culture e politica sembrano recuperare preoccupazioni di trenta, quaranta, cinquant’anni fa, legittimità e parità,
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genere e onore, note sempreverdi: non è colpa loro ma è anche colpa loro, un po’ attente al mondo – quanto basta, con moderazione – ma anche un po’ ottuse. E la cultura delle immagini, che da noi confida poco nella propria sostanza rivoluzionaria (anche qui, quanto basta, giusto per non dare troppo nell’occhio), segue a ruota. Nato e cresciuto in un sistema produttivo e distributivo senza ossigeno, e vincolato dallo specchietto per le allodole dell’interesse culturale del MiBACT (Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo), il cinema italiano queer crede ancora nelle favole. E alla cicogna. Crede cioè che le immagini siano un’illustrazione, non un pugnale; una splendida messa in scena e, nel peggiore dei casi, un anestetico, non una violenta creatura deforme. Le immagini italiane queer non sono purtroppo dei mostri: sono delle visioni sognanti. In vent’anni il cinema non sa fare tesoro di niente, non delle ferite e delle pene, non degli scontri e delle epifanie. Il massimo dell’immagine, il World Pride, è per l’Italia anche la morte dell’immagine. Quella dimostrazione di massa di una presenza, così clamorosa e “miracolosa”, rimane il miraggio già acquisito, l’oasi già raggiunta; a questo proposito, il cinema, che nel mondo lavora e si fa sentire, ma che soprattutto lavora su sé stesso, in Italia è una forma di banale interazione fenomenologica. Le immagini sono dunque un esercizio del padrone, perché mancano di vera attendibilità ontologica. Da noi siamo rimasti al palo del conseguimento dei diritti, e il cinema, se mai ha avuto una coscienza della propria identità, l’ha dimenticata. Questi vent’anni italiani sono anni di ricordi e di ri-registrazioni; anni di superficiali riflessioni con le immagini (il più delle volte sterili e vane), e non di profonde riflessioni sulle immagini stesse. In Italia, insomma, il cinema queer lo si vuole ancora una volta specchio di una realtà problematica, e non strumento con il quale intervenire sul cinema stesso. A noi manca un cinema che pensi a sé e di sé, che sappia pensarsi e figurarsi, prima di pensare alla società e a come-vanno-le-cose. Siamo nel 2020, ma è come se fossimo ancora là, a Roma, in
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mezzo ai duecentomila manifestanti e dentro al palinsesto egemonico della Rai. Ieri è stata una vittoria, oggi è un ingombro. La cultura delle immagini è semplice cultura per immagini: l’abbiamo cercata, quest’ultima, sperata, voluta, difesa e infine elaborata, ma ora dovremmo liberarcene e liberarla, liberare le immagini da sé stesse e permettere loro di trasformarsi, rilanciarsi, re-immaginarsi. Altrimenti siamo costretti a pensare che il cinema queer, per essere veramente sovversivo, debba passare ancora da Ferzan Ozpetek, che da Le fate ignoranti in poi è in Italia l’autore “di parte” per eccellenza, seguito fedelmente dai gay ma apprezzato in particolare dagli etero. È qui – di nuovo – l’ostacolo: le immagini queer italiane sono ancora regimentate e sistemiche, si impegnano a dire e a tirare conclusioni, non respirano da sole perché sono immagini-replica, sempre e comunque derivate, mai originali, mai prime. Il cinema è compresso e oppresso dai canali ufficiali, obbligato a percorrere le tracce lasciate da altri e, a conti fatti, represso. Il nostro immaginario non è fertile, non si muove, è al contrario ormeggiato al molo della sufficienza e di una sicurezza un po’ pavida, benché orgogliosamente ostentata. Il nostro cinema queer è Diverso da chi?1 (e da cosa?): lusinga lo spettatore nelle proprie opinioni tanto progressiste quanto senili, sfruttando sempre e comunque stereotipi da età della pietra; non c’è sfida, soltanto acquiescenza, e intanto l’immagine è paralizzata in una cartolina da un mondo miseramente d’antan. 1) Nel 2018 esce in sala Puoi baciare lo sposo. Producono Medusa Film e Colorado Film. Il regista, Alessandro Genovesi, è cresciuto a teatro con Luca Ronconi e Elio De Capitani. Nel 1 È il titolo di una commedia del 2009 diretta da Umberto Carteni, nella quale la vita e l’impegno politico a Trieste di un candidato del centrosinistra alla carica di sindaco, apertamente gay e convivente da anni, subiscono un trauma per la presenza di una candidata a vicesindaco cattolica e paladina dei valori tradizionalisti: l’odio reciproco si trasforma in attrazione fisica (rispolverando l’abusato e spregevole luogo comune dell’omosessuale “tentato” dal piacere etero), ma ad avere la meglio, in perfetto stile oligarchico-riformista, è la celebrazione della famiglia allargata.
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cast anche Diego Abatantuono e Monica Guerritore, due volti noti al pubblico, con l’aggiunta tra gli altri del puntuto fashion influencer Enzo Miccio, presenza televisiva ormai assidua. Abatantuono, co-fondatore della Colorado Film, garantisce commedia e risate; Miccio, per quel che può, solletica l’interesse dello spettatore casalingo più “disponibile”. La vicenda è semplice e immediata, comprensibile a tutti e condivisibile da tutti (o quasi): due ragazzi vivono a Berlino e vogliono coronare il loro amore con il matrimonio; l’esigenza di comunicare la notizia ai rispettivi genitori è però un grosso problema, e il rientro in Italia è amaro, perché il padre di uno non ne vuole sapere di celebrare l’unione nel Paese di cui è sindaco, mentre la madre dell’altro ha tagliato da tempo ogni rapporto; finisce tutto in musical, l’amore trionfa. Naturalmente la gioia, la preparazione e la festa sono messe a dura prova anche da altri personaggi coloriti, tra cui un crossdresser molesto e una ex fidanzata che non accetta di essere messa da parte (in favore di un uomo, per di più: quale affronto). L’impaginazione non è dissimile da tutte le altre commedie italiane coeve, un’attenzione alle beltà locali per compiacere le Film Commission (in questo caso svetta il paesino laziale di Civita di Bagnoregio), un’altra alla gradevolezza non volgare (la trivialità è genericamente molto passé). Gli intenti di Puoi baciare lo sposo sono chiari e, logicamente, lodevoli. Si tratta però anche della visione più inequivocabile di un decesso: sullo schermo si lotta per un matrimonio mentre il cinema celebra il funerale dell’immagine queer. Il film di Genovesi è il degno e inevitabile epilogo a quattro lustri italiani di costante violenza perpetrata ai danni dell’immaginario queer, che avvizzisce sotto i colpi di una retrività scambiata per normalità acquisita. L’Italia è un Paese per vecchi, e a farne le spese è anche il cinema. In Puoi baciare lo sposo l’unico sentimento che domina non è la libertà ma la segregazione delle immagini nella comodità del conforto. Non è dunque cambiato nulla: il cinema popolare è un cinema senza risorse, che non guarda sé stesso (come vorrei che anche in Italia il cinema diventasse narciso, si rimirasse nel proprio riflesso,
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scrutasse di più i contorni, le forme, i dettagli, la bellezza) ma che si ritiene tutelato, che sembra osservare e rilevare quando invece ripete senza obiettare, reitera senza eccepire. Il cinema queer italiano è quindi qualcosa di già certificato. Non ci sono falle. Lo spettatore è indotto a considerare il traguardo, compreso quello delle immagini, già raggiunto. World Pride: l’immagine suprema, il punto di non ritorno. L’immagine queer è un’immagine di casa, e anzi da far rientrare ogni volta a casa: Drive Me Home, come suggerisce il titolo del film di Simone Catania del 2019 sull’amicizia ritrovata di due siciliani (uno dei quali gay), portami a casa, accompagnami tra le mura di ciò che può proteggermi, una dimora non propriamente geografica bensì ideologica e morale. È un’immagine queer domestica e addomesticata, che al disfacimento dei confini (in Drive Me Home i due protagonisti si ritrovano in Belgio: nel tentativo di arginare i cliché, la sceneggiatura fa dell’omosessuale un camionista) preferisce il ritrovamento di una residenza. A essere libera è allora esclusivamente una proiezione della mente, non la sua immagine. Non ci sono più fughe, si rimpiange il domicilio dell’identità, l’indirizzo al quale essa può trovare la pace (e spesso anche la pace dei sensi). Eppure le immagini dovrebbero interrogarsi, non sono una specie protetta. Augurerei al cinema queer italiano di scappare dalla propria sede, e scegliere l’estasi del disorientamento, il pericolo e i rischi dell’autoerotismo. Da noi sono in pochissimi che osano contemplarsi. Che credono che il cinema debba cercare ininterrottamente una ragione non per ma nelle immagini. Che nelle immagini fanno dunque affidamento, alla larga tanto dai moralismi quanto dalle adulazioni di casta delle prediche ai convertiti. I film di Marco Filiberti, Poco più di un anno fa – Diario di un pornodivo (2003), Il compleanno (2009) e Cain (2015), provocano il buon gusto allontanandosi con presunzione dalle immagini consolidate del cinema italiano “in tema”, ma è esattamente nell’arroganza che Filiberti trova la libertà delle immagini stesse: percorre una strada poco battuta dal mercato locale, a metà fra l’esibizionismo in prima
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persona, il mélo, il teatro e il camp; non rinuncia alla malizia stereotipata (come l’uso della musica pop in chiave queer icon: la scena con Maledetta primavera di Loretta Goggi in Il compleanno è paradigmatica); tenta la carta dell’ispessimento dei sentimenti, al fine di renderli eccessivi e prepotenti. È un cinema squilibrato, ma anche vivo, perché inquieto e teso a non arrendersi e a non completarsi. Nelle immagini di Filiberti si intravede un nomadismo non soltanto ideologico ma principalmente estetico, ovvero tutto il contrario della matematica inerte del cinema italiano medio. Non occorre guardare a Filiberti in qualità di autore con una poetica: nei suoi film, caotici e spesso grevi, le immagini corrono e si ammirano, recuperando qua e là un senso queer non ortodosso.
Fig. 1. Poco più di un anno fa – Diario di un pornodivo, Marco Filiberti.
No, dunque, al cinema stanziale. Quello di Cosimo Terlizzi, indipendente e sperimentale, tra diario, memoria e performance, è scientemente inappagato, anche laddove è più intimo e “vanitoso”. Terlizzi sceglie sempre il proprio io, declinato di volta in volta in forme e moduli diversi, sé stesso in quanto uomo e artista, la vita di coppia con il marito Damien Modolo, una vecchia fotografia di famiglia, il lavoro
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su un progetto artistico, la casa, la propria terra, con l’ambizione di riflettere, prima che sulla realtà, sul senso delle immagini che si incaricano di rappresentarla: Terlizzi “ha fatto del tema dell’identità […] il centro della propria ricerca. In questo senso egli si inscrive in quel più ampio movimento di racconto, rappresentazione e condivisione del sé che segna, in modo forte, la produzione artistica nata con la ‘rivoluzione digitale’” (Malavasi 2016, pp. 582-583). I cortometraggi e i lungometraggi di Cosimo Terlizzi, da Ritratto di famiglia (2001) e I fratelli Fava (2008) a Folder (2010), L’uomo doppio (2012) e Dentro di te c’è la terra (2019), non cercano mai né la “tematica”, né l’immagine consolidata, e anzi si sforzano costantemente e coerentemente di intrecciare la ragione del privato con quella della sua riproduzione, provando ogni volta ad andare a fondo di un sé in quanto – appunto – immagine. Il passo è più determinato rispetto a Filiberti: Terlizzi non ricorre ai generi cinematografici ma azzarda un io che sia anche genere (cinematografico), sempre e comunque in relazione al dovere di ripensare la cultura contemporanea delle immagini, una produzione che, influenzata da molteplici fattori […], non si limita a rilanciare una logica della “presenza” e della “testimonianza” individuale dell’artista, ma la declina nel quadro di una riflessione che interroga contemporaneamente il ruolo dei media nella messa in forma dell’esperienza e il problema della realtà e della sua rappresentazione, tra estetica relazionale e postproduttività (ibidem).
Mentre dunque si interrogano e interrogano il loro stesso soggetto, le immagini di Cosimo Terlizzi intercettano – loro malgrado? – la necessità del cinema gay odierno di chiudere una volta per tutte con le richieste della cultura queer egemone per darsi interamente in pasto al flusso delle immagini che ci sta travolgendo soprattutto a partire dalla rivoluzione digitale. Soltanto così possiamo sperare in una trasformazione semantica delle immagini stesse e del loro motivo. Negli ultimi vent’anni in Italia non l’ha capito quasi nessuno, non almeno in una maniera così radicale come Terlizzi. Nei film
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di Luca Ferri, ad esempio, l’urgenza del “documentario” è più incalzante della prestazione esercitata con lo stile2. Diverso invece l’approccio di un autore come Luca Guadagnino, le cui immagini vengono spesso accusate dalla critica di estetismo (uno spauracchio, ahimè, valido per tutte le stagioni). Con il suo cinema indomito e – senza ipocrisia, si tratta comunque di una caratteristica nobile – internazionale, Guadagnino capta con le immagini e nelle immagini un sentimento queer probabilmente perduto, con la consapevolezza intellettualmente onesta di non poterlo replicare. La sua opera è così la figurazione di un’inadeguatezza, come dimostra in special modo Chiamami col tuo nome (2017): per lui un racconto di formazione è anche il racconto di una visione impossibile, dove tradizione e modernità, passato e futuro si scontrano annullandosi reciprocamente. In Guadagnino non esistono valori o persuasioni “a priori”, non ci sono punti cardinali: intesa come luogo da occupare, l’immagine è la geografia di un io dall’identità informe, che va inevitabilmente incontro alla disfatta proprio quando sembra più fermo e “antico” (Io sono l’amore, 2009). Queer, per Guadagnino, non è politica, non è militanza, e non è neppure argomento; per lui il sé degno di essere ascoltato può avvenire soltanto attraverso un dialogo tra le immagini, escludendo – qui sì, a priori – lo schema semplice della realtà. Il mondo, insomma, per Luca Guadagnino non basta: se accogliamo l’idea che i gesti dell’uomo della cultura visiva “non esprimono concetti, bensì il suo Io immediato e irrazionale” (Béla Balázs), è nel sentimento che prende origine con le immagini, e non in quello che esse riproducono (o hanno l’ambizione di ripro2 In La casa dell’amore (2020), che chiude la “Trilogia dell’appartamento” dopo Dulcinea (2018) e Pierino (2018), Ferri racconta le giornate di un transessuale che riceve i clienti nella propria abitazione di Quarto Oggiaro, ricostruendo gli incontri a partire da fatti realmente accaduti (molti lo definiscono “docu-drama”) e insistendo senza cinismo sull’isolamento del protagonista in quanto identità indipendente e, per alcuni versi, conclusa. A questo proposito, però, risulta più efficace la casualità senza requie di Rosatigre (2000, Tonino De Bernardi), dove l’omonimo travestito protagonista è una figura di “mattatore” perplesso e fragile.
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durre), che il cinema, altrove ordinato e metodico, recupera significato e la propria autorevolezza.
Fig. 2. Call me by your name, Luca Guadagnino.
2) Nel 2019, un anno dopo Puoi baciare lo sposo, giunge in sala Croce e delizia. Tra i produttori c’è la Groenlandia, fondata dai molto à la page Matteo Rovere e Sydney Sibilia. Distribuisce Warner. Il regista, Simone Godano, è al secondo film: nell’esordio, Moglie e marito (2017), due coniugi si ritrovano nei panni l’uno dell’altro, la donna in quelli del marito, l’uomo in quelli della moglie, con le prevedibili complicazioni (e buffonerie da cabaret sessista) del caso. Il cast di Croce e delizia è una certezza transgenerazionale: accanto ad Alessandro Gassman e Jasmine Trinca, volti noti agli spettatori contemporanei, c’è tra gli altri Fabrizio Bentivoglio, un nome che porta con sé ricordi di un cinema italiano di successo popolare e insieme d’essai (Gabriele Salvatores, le amicizie e le fughe, la Milano non più da bere etc.). Come per la commedia diretta da Alessandro Genovesi, anche in questo caso la vicenda è semplice: due famiglie, opposte per estrazione sociale, facoltà e attitudini, vedono franare la loro vacanza estiva quando i
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rispettivi capifamiglia confessano a mogli e figli di essere innamorati e di volersi sposare; seguono turbamenti vari, e nonostante alcuni remino contro finirà chiaramente come previsto. La confezione è luminosa, Gaeta assicura lo splendore delle location e la volgarità, ancora una volta, è un’estranea. Pure le intenzioni di Croce e delizia, al pari di quelle di Puoi baciare lo sposo, sono evidenti e onorevoli, e più accentuate: abbasso il classismo e i pregiudizi, viva l’amore. È casuale però che in entrambi i film gli eventi prendano spunto dalla decisione e dall’annuncio di un matrimonio? Il pubblico “di cassetta” è nel medesimo tempo stuzzicato e rassicurato: due uomini appartenenti alla “tradizione” (anche del gusto) scelgono la via meno raccomandabile alla felicità, ben coscienti di “inimicarsi” la famiglia; ma nella commedia italiana odierna ogni frattura è ricucita per il bene comune e in nome di un riformismo quanto meno di facciata. Non è però l’impiego di vieti cliché di ruolo a rimarcare di nuovo il dissesto ideologico dominante (i due protagonisti sono rispettivamente caratterizzati con colori e abiti da macchietta, uno è un pescivendolo di borgata rude, virile e altruista, l’altro un mercante d’arte ricco, viziato e completamente egoriferito). Per ipotecare un po’ di modernità, queste immagini del primo ventennio del nuovo secolo, pensate per una media di spettatori non selezionati, e perciò ampia e il più possibile democratica, si appellano ancora alla difficile conquista di una uguaglianza (difficile oggi non per la legge ma per i congiunti) mentre rinnovano il solito destino dell’identità meno allineata, quello cioè di adeguarsi all’ordinamento e di trarre vantaggio dai mezzi e dalle carte di quest’ultimo. Niente di nuovo, tanto che conviene ricordare Mario Mieli: “Per il sistema, liberalizzare significa soprattutto prevenire e impedire la liberazione vera. E la liberalizzazione dell’omosessualità, come ho già detto, è in primo luogo mercificazione, operata dal capitale” (Mieli 2002, p. 121). Le immagini sono vecchie quanto il pensiero e la fede. Puoi baciare lo sposo e Croce e delizia sono prodotti della supremazia culturale che rimanifestano l’antico dogma della sottocultura gay a proposito di legittimità e valori, un cavallo di battaglia ancora energico e sfruttatissimo:
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E ci si chiederà se si tratterà di voglia di rivincita rispetto a una millenaria esclusione o di legittimo desiderio e scelta di valore. In ogni caso sarà allora che si noterà in tutta la sua rilevanza questo almeno apparente paradosso: omosessuali e lesbiche che chiedono con forza il matrimonio proprio nel momento in cui il matrimonio eterosessuale sembra all’apice della propria crisi (Paterlini 2004, pp. 192-193).
Nel cinema queer italiano di oggi manca ancora una visione del sé che sappia intrecciarsi con un’immagine che sia finalmente emergenziale, ossia al passo coi tempi, capace di percepire la realtà ma senza adularla o farsene soffocare, capace insomma di avvertire non soltanto il presente (e il passato) ma anche il futuro. Sullo schermo in Italia vige la società, e la fa da padrone il mondo così com’è (Ozpetek) o come vorremmo che fosse. A parte i rari casi citati poc’anzi, il cinema da noi non dà alle immagini il primato, anche per paura della critica, che per troppo tempo – come precisamente per Guadagnino – ha approfittato dello spettro dell’estetismo o del narcisismo allo scopo di arginare le voci scomode o troppo personali. Da noi comandano il tema, l’attinenza, l’adesione, e le immagini, che per tanti ne sono soltanto la semplice esternazione, passano in secondo piano, l’importante è il loro “decoro”, l’essere “ben costruite”, il “presentarsi bene”. In Italia si vuole che il messaggio logori e appiani le divergenze, e non si accetta che già “con la forza delle sue immagini, il cinema erode ogni distinguo” (Grespi 2019, p. 13). Peccato, perché La bocca del lupo, quando nel 2009 vince il Torino Film Festival e inizia una lunga strada di successo anche internazionale, fa finalmente sperare che anche il nostro cinema sappia intuire e usare con lucidità le nuove forme della cultura delle e per le immagini. Il regista Pietro Marcello, tra coloro che generano ciò che la critica definisce “cinema del reale”, mette le cose in chiaro: Non mi piace la definizione di documentario o di cinema del reale, è imprecisa. Io penso al documentario come a un attrezzo del cinema, come al modo più rapido e immediato per esprimersi;
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poi, però, come spesso succede, e come mi è accaduto lavorando a La bocca del lupo, c’è tutto un lavoro sulla forma e sul racconto che trasforma inevitabilmente la realtà (Malavasi 2010, p. 20).
Fig. 3. La bocca del lupo, Pietro Marcello.
Pur lusingando un vezzo autoriale comune a tanti, quello cioè di rifiutare – a parole – le etichette e le mode, Marcello porta alla luce il problema alla base della stragrande maggioranza del cinema (anche queer) italiano, narrativo e documentario: la forma è una condizione gravosa di cui non si può fare a meno. Non basta l’argomento, e la realtà non è data per scontata: le immagini intervengono, le immagini alterano. A tal riguardo La bocca del lupo è in Italia pionieristico, e poco importa che in seguito molti – se non tutti – si siano accodati, copiandone o replicandone assunti e espressioni. Cercando una simultaneità estetica ed ideologica tra il tempo di un città (Genova) e quello di una coppia non omologata (due carcerati, un uomo e una donna trans, che si innamorano dietro le sbarre e che continuano la loro storia d’amore una volta ritrovatisi fuori), Marcello capisce quanto le immagini siano fondamentali nella creazione di un privato, di un universo, del mondo; il capoluogo ligure, che attraverso numerosi filmati di repertorio cambia con gli
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anni, non è la cornice, e non è neppure un semplice sfondo o il controcanto, ma del privato è la prospettiva, l’immagine, come il privato stesso è di Genova il punto di vista, non un contenuto. Nell’ascoltare i rumori dell’angiporto e di Sottoripa, e nell’osservarli muoversi, brulicare, mutare, La bocca del lupo scopre finalmente un’immagine che sia contemporaneamente io e noi, “Quando si parla di documentario si pensa sempre a qualcosa di oggettivo; e io credo che non esista l’oggettività al cinema, perché dietro la macchina da presa ci sono io, c’è il mio sguardo” (ibidem). Finalmente qualcuno che dà valore alle immagini, dopo lustri infiniti di temi, cronache, resoconti. La bocca del lupo è un film sul sé e su tutti i sé, che combina pubblico e privato alla scoperta di una identità inscindibile, un film narrativo, documentario, soggettivo e oggettivo insieme, che recupera la tradizione3 mentre incontra il presente e pensa al futuro, nella convinzione che il cinema non debba né registrare, né prevedibilmente riprodurre, ma che anzi sia chiamato a re-immaginare e, con le immagini, (re)inventare. Un altro tipo di cinema, insomma, è possibile. Anche un altro tipo di cinema documentario. Ma La bocca del lupo rimane pressoché unico nello spunto teorico e nello sviluppo. Improvvisamente l’inverno scorso (2008), che lo precede di un solo anno, benché encomiabile negli intenti e riuscito nell’ironia, sembra al confronto un prodotto della preistoria. I registi, Luca Ragazzi e Gustav Hofer, coppia nella vita privata e protagonisti, con la videocamera attraversano l’Italia dei Dico, del Family Day, del Coraggio Laico, del Trifoglio, dell’estrema destra e della gente comune alla ricerca di un senso (per sé stessi, per tutti): un senso, chiaramente, c’è e non c’è, ed è anche per questo motivo che l’umorismo è utile, tuttavia si tratta di una concezione di racconto e di messa in scena che si disinteressa alle immagini persuasa che ciò di cui si discute – e ciò a cui “rimandano” le immagini 3 È utile qui ricordare il lavoro con la comunità genovese dei travestiti e delle persone trans della fotografa locale Lisetta Carmi, che nel 1972 pubblica (per Essedi, casa editrice fondata per l’occasione dopo il rifiuto di molte altre) la raccolta di foto I travestiti, innovativa ma ritenuta all’epoca scandalosa e un’offesa al comune senso del pudore.
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stesse – sia sufficiente. È la dittatura – appunto – della tematica, in stile reportage televisivo, da servizio giornalistico impegnato e opportuno. Giusto che se ne parli, il pubblico deve sapere, però intanto a rimetterci è l’immagine in quanto identità, oggetto su cui applicarsi e soggetto con una propria voce. Dei valori queer non ci si deve (soltanto) occupare: è bene che il cinema scenda in campo, non li descriva; che entri in azione e vi prenda parte, non li pubblichi. In Italia un cinema guerrilla è impraticabile perché significa non semplicemente prendere posizione – molti nel corso del tempo l’hanno fatto – ma accordare alle immagini quel medesimo dominio da sempre esclusivo delle ideologie (cioè del bene comune, del politicamente corretto e accettato, del conformismo di stato e della narrazione tradizionale). Le immagini non dovrebbero essere pagine, tanto meno impaginate: vorrei che le immagini fossero violente e balzane, non un compito ben eseguito. Quando Gianni Amelio dichiara che “c’era in partenza la volontà di storicizzare l’argomento (ecco perché sembra un film ‘datato’, come ha detto qualcuno al Festival di Berlino: è a suo modo un film ‘d’epoca’…) per trarre senza toni professorali qualche impressione sull’oggi, stimolare uno scambio più di sentimenti che di ragionamenti” (Bocchi 2014, p. 19), del suo Felice chi è diverso (2014) giustifica la ritualità d’immagine (si tratta di un documentario tradizionale scandito da interviste messe in scena nel modo più semplice e “quadrato” possibile) con l’urgenza delle aspirazioni, “vorrei sbagliarmi, ma un documentario come questo mi sembra utile, se non necessario […] Esce nelle sale, ma vorrei che fosse proiettato in quei posti dove c’è un altro buio che non è quello dei cinema: le scuole o le chiese, per esempio, dove tante cose si nascondono o si deformano” (ivi, pp. 19, 22). In Felice chi è diverso le testimonianze di chi ha vissuto sulla propria pelle la natura di frocio in Italia legittimano le immagini, che sono giuste perché la morale è giusta; sono immagini limpide tanto nell’espressione quanto nell’esposizione, che danno conto attraverso la verità di una realtà. Sono immagini perciò vere e reali, fatte di volti e di mani, di occhi e di memorie. Immagini, dunque, autosufficienti, che
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contano sulla loro motivazione, più che su sé stesse. Amelio è trasparente quanto loro: al suo scopo non serve altra attività da dedicare alle immagini che la loro piana riproduzione. A fronte di La bocca del lupo, però, sono due passi indietro. Le immagini italiane queer degli ultimi vent’anni si autoassolvono dunque con l’assunto e la tesi. Sia nel cinema di finzione, sia nel documentario, le immagini si discolpano, non hanno coraggio, sono miti e arrendevoli. Perfino un regista spinoso e non riconciliato come Aurelio Grimaldi in Un mondo d’amore (2002) dimentica le asprezze del suo Nerolio (1996): e le giornate di Pier Paolo Pasolini a Casarsa, nel 1949, quando è incriminato per atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minorenni, e poco dopo a Roma, quando rinasce, sono raccontate senza impeto, in modo più educato del previsto. È la maniera delle immagini, che sono civili e non scortesi, e ormai ammaestrate. Mancano probabilmente gli autori, quelli capaci di importunare l’immagine, e pertanto sconvenienti e altamente indesiderati dalla critica. Da noi non c’è spazio per un film come La vergine dei sicari (Barbet Schroeder, 2000). E anche quando il progetto si poggia su una materia incandescente, come la vita di Mario Mieli in Gli anni amari (Andrea Adriatico, 2020), le immagini patiscono i loro stessi committenti (in questo caso l’egemonica Rai Cinema). Tra cinema e predominante prime time televisivo non c’è più soluzione di continuità, le immagini si somigliano e si passano il testimone, si evocano e molto più che implicitamente si avallano con la loro giustificazione: Un bacio (2016) non si distingue in nulla dalla fiction tv di cui lo stesso regista Ivan Cotroneo è cliente, l’encomiabile pretesto – la condanna del bullismo e dell’omofobia in ambiente scolastico – è abbastanza. E non appena si tenta la carta (rarissima, in Italia) del vintage e del camp, come con Favola (Sebastiano Mauri, 2017), il gioco cinefilo è talmente esibito, tra omaggi a Douglas Sirk e ricordi di John Waters, che il pubblico ne è frastornato, e non capisce dove cominci l’esigenza e dove la pretestuosità. Le immagini italiane sono o un toccasana, o una panacea, e rivelano di sé un sé pronto ai mille usi, in particolare all’istruzione. Più
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buio di mezzanotte (Sebastiano Riso, 2014), ispirato alla vita di Davide Cordova (noto nei panni della drag queen Fuxia), mette in guardia sui pericoli dell’adolescenza gay in un mondo di padri omofobi, marchettari e papponi, e rappresenta suo malgrado il compendio di vent’anni di cinema queer: la retorica è direttamente proporzionale alla bontà dell’idea; le durezze sono lenite dalla loro stessa enfasi, e comunque mai esagerate a tal punto da offendere il qualunquismo comune; gli stereotipi di ruolo giovano alla buona causa per principio. In tutto ciò, l’immagine in quanto identità all’opera perde ai punti con la sua automatica plausibilità e con la sua verosimiglianza. È l’immagine da World Pride, di consumo e da consumare, magari in Rai: più precisa di così. Bibliografia Bocchi, P.M. 2014 La tolleranza che mette in riga. Intervista a Gianni Amelio, “Cineforum”, n. 533, aprile. Carmi, L. 1972 I travestiti, Essedi. Grespi, B. 2019 Figure del corpo. Gesto e immagine in movimento, Meltemi, Milano. Malavasi, L. 2010 Frammenti di un’armonia scomparsa. Intervista a Pietro Marcello, “Cineforum”, n. 492, marzo. 2016 Identità in transito. media e autoritratto nell’opera di Cosimo Terlizzi, “bianco e nero”, n. 582-583, Centro Sperimentale di Cinematografia. Mieli, M. 2002 Elementi di critica omosessuale, Feltrinelli, Milano. Paterlini, P. 2004 Matrimoni, Einaudi, Torino.
Filmografia Cain (Marco Filiberti, 2015) Chiamami col tuo nome (Luca Guadagnino, 2017)
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Croce e delizia (Simone Godano, 2019) Dentro di te c’è la terra (Cosimo Terlizzi, 2019) Diverso da chi? (Umberto Carteni, 2009) Drive Me Home (Simone Catania, 2019) • Dulcinea (Luca Ferri, 2018) – SQ 2019 • Favola (Sebastiano Mauri, 2017) – SQ 2019 Felice chi è diverso (Gianni Amelio, 2014) • Folder (Cosimo Terlizzi, 2010) – SQ 2013 Gli anni amari (Andrea Adriatico, 2020) I fratelli Fava (Cosimo Terlizzi, 2008) Il compleanno (Marco Filiberti, 2009) Improvvisamente l’inverno scorso (Luca Ragazzi e Gustav Hofer, 2008) • Io sono l’amore (Luca Guadagnino, 2007) – SQ 2011 • L’uomo doppio (Cosimo Terlizzi, 2012) – SQ 2013 La bocca del lupo (Pietro Marcello, 2009) • La casa dell’amore (Luca Ferri, 2020) – SQ 2020 La vergine dei sicari (Barbet Schroeder, 2000) Le fate ignoranti (Ferzan Ozpetek, 2001) Moglie e marito (Simone Godano, 2017) Nerolio (Aurelio Grimaldi, 1996) • Pierino (Luca Ferri, 2018) – SQ 2019 Più buio di mezzanotte (Sebastiano Riso, 2014) Poco più di un anno fa – Diario di un pornodivo (Marco Filiberti, 2003) Puoi baciare lo sposo (Alessandro Genovesi, 2018) Ritratto di famiglia (Cosimo Terlizzi, 2001) Rosatigre (Tonino De Bernardi, 2000) Un bacio (Ivan Cotroneo, 2016) Un mondo d’amore (Aurelio Grimaldi, 2002)
Biografie
António Fernando Cascais fa parte del comitato che dà vita a Queer Lisboa ed è professore presso il dipartimento di Scienze della comunicazione della Universidade Nova di Lisbona. Ha pubblicato più di duecento studi focalizzando la sua attenzione su questioni di bioetica, biopolitica, filosofia della tecnologia e del corpo, cultura visuale della medicina, studi foucaultiani e queer studies. È curatore insieme a João Ferreira del volume Cinema e cultura Queer pubblicato nel 2014. Dietmar Schwärzler è curatore freelance e scrittore, nonché agente cinematografico presso la casa di distribuzione sixpackfilm. Ha ideato e organizzato diversi progetti sulla storia della televisione e del cinema austriaco, sulle pratiche artistiche queer e sulla performance art femminista. Co-editore dell’etichetta di DVD e VOD Index (indexdvd.at), fa parte della redazione della rivista cinematografica kolik.film. Ha curato due libri su Friedl Kubelka vom Gröller e uno sulle pratiche artistiche queer dal titolo Pink Labor on Golden Streets. Marios Psaras è dottore di ricerca in Film Studies alla Queen Mary University di Londra. Ha insegnato teoria del film, studi queer e studi di genere alla Queen Mary, al King’s
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ATLANTE DEL CINEMA QUEER CONTEMPORANEO
College di Londra e nelle università di Greenwich e Nicosia, e scritto articoli, saggi e recensioni sul cinema queer contemporaneo greco, europeo e mondiale, pubblicando la monografia The Queer Greek Weird Wave. Ethics, Politics and the Crisis of Meaning (2016). È Visiting Lecturer al King’s College, membro della Hellenic Film Academy e redattore di diverse riviste scientifiche e case editrici internazionali. È anche filmmaker indipendente, produttore, programmatore di festival, e il suo cortometraggio The Call ha vinto diversi festival internazionali in giro per il mondo. Tra il 2018 e il 2022 è stato Consigliere Culturale dell’Alta Commissione Cipriota nel Regno Unito e direttore artistico del festival londinese Cyprus Short Film Day, prima di essere nominato funzionario culturale presso l’ufficio cinema del viceministro della cultura di Cipro. Jan Künemund è uno scrittore freelance, giornalista, curatore e docente specializzato in cinema queer. Scrive di cinema per i quotidiani Tagesspiegel e Taz, lavora per la sezione Forum della Berlinale e il Dokfest Kassel e insegna, tra l’altro, alla scuola di cinema di Berlino DFFB. La sua pubblicazione più recente è Queer Cinema Now! (2022, curata insieme a Christian Weber e Björn Koll). Skadi Loist insegna Culture della produzione nelle industrie dei media audiovisivi presso la Film University Babelsberg Konrad Wolf di Potsdam, in Germania. La sua ricerca ed attività scientifica si concentra in particolare sui festival cinematografici, cinema internazionale e circuitazione dei film, cultura cinematografica queer, sostenibilità ed uguaglianza, diversità e inclusione nelle industrie cinematografiche. Gary Needham insegna cinema presso l’Università di Liverpool, dove tiene corsi sul cinema queer. Tra le sue pubblicazioni un volume su Brokeback Mountain (2010), Queer TV (co-edito nel 2009) e Warhol in Ten Takes (co-edito nel
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2010). Ha scritto articoli e capitoli di libri su temi e film diversi come My Hustler, Cruising, la discomusic nella pornografia gay, Transamerica e, insieme a Cüneyt Çakırlar, sulla monogamia e la promiscuità nei film gay Weekend e Théo et Hugo dans le même bateau. Lavora a due libri: Sex, Guys, and Videotape (sul cinema indipendente gay negli Stati Uniti) e una monografia sul primo film sull’AIDS, Buddies. Cüneyt Çakırlar lavora come docente di cinema e media studies presso la Nottingham Trent University. Si occupa di studi di genere e sessualità e di culture visive globali, e dopo essersi occupato di mobilità interculturale delle pratiche artistiche queer contemporanee ha insegnato cinema LGBTQ+ in varie istituzioni tra cui l’UCL (Regno Unito), l’Università Boğaziçi (Turchia) e l’Università Istanbul Bilgi (Turchia). Ha curato un volume sulle culture della dissidenza sessuale in Turchia e tradotto in turco Corpi che contano di Judith Butler (2014). Suoi articoli sono apparsi su Screen, Cineaction e Critical Arts. Ha inoltre lavorato con istituzioni artistiche come la Paul Kasmin Gallery (USA), la Zilberman Gallery (Germania) e Arter (Turchia). È stato autore di cataloghi di mostre per diversi artisti queer, tra cui Soufiane Ababri, Taner Ceylan e Erinç Seymen. Nuria Cubas è regista e programmatrice. Dal 2010 i suoi video e Super 8 sono stati presentati in spazi espositivi come ECOH (Città del Messico), Tabakalera (San Sebastian) o Pickpocket (Lisbona) e in festival come Lima Independiente, Zinebi o Antofacine. Nel 2013 ha lanciato il progetto Pasajes de Cine, uno spazio itinerante per la riflessione e la diffusione del cinema a Madrid. Nel 2015 ha co-fondato il Festival Internazionale di Cinema FILMADRID, che dirige sin da allora. Oltre a programmare in istituzioni in Spagna e all’estero, ha fatto parte della squadra di programmazione del Punto de Vista International Documentary Film Festival di Navarra e del Documenta Madrid International Film Festival. Ha inoltre svolto attività di consulenza per progetti audiovisivi per
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ATLANTE DEL CINEMA QUEER CONTEMPORANEO
il Centro de Residencias Artísticas de Matadero di Madrid e per la Bienal de Artes Mediales di Santiago del Cile. Didier Roth Bettoni è stato direttore di Chéries-Cheris, il festival di cinema LGBTQ+ di Parigi. Giornalista, critico e storico del cinema, ha scritto tra l’altro L’Homosexualité au cinéma (2007), Le Cinéma français et l’homosexualité (2009) e Les Années-sida à l’écran (2017), oltre a saggi su Derek Jarman e Philippe Vallois. Sugli stessi temi ha curato documentari radiofonici per France Culture e nel 2019 è stato uno dei co-curatori della mostra Champs d’amour, 100 ans de cinéma arc-en-ciel, la prima mostra al mondo dedicata alla storia del cinema LGBTQI, presso l’Hôtel de Ville di Parigi. Pier Maria Bocchi è studioso e critico cinematografico. Collabora con le riviste “Cineforum” e “Film Tv” e ha scritto per numerose altre tra cui “Nocturno”, “Blow Up”, “Segnocinema”. Ha dedicato monografie a Guy Maddin, Agustí Villaronga, Claire Denis, Woody Allen e pubblicato, tra gli altri, Mondo Queer – Cinema e militanza gay (2005), Musical! Sex! – La rappresentazione dei sessi nel Musical hollywoodiano (2009), Invasion Usa – Idee e ideologie del cinema americano anni Ottanta (2016), Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir (2019) e Michael Mann. Creatore d’immagini (2021). Ha collaborato per anni con il dizionario dei film Il Mereghetti e dal 2007 al 2021 ha fatto parte del comitato di selezione del Torino Film Fest, curando negli ultimi due anni la sezione “Le stanze di Rol”.
Biblioteca / Cinema, media e studi culturali 1 Sergio Rigoletto, Le norme traviate. Saggi sul genere e sulla sessualità nel cinema e nella televisione italiana 2 Mariapia Comand, Andrea Mariani, Effemeridi del film. Episodi di storia materiale del cinema italiano 3 Angela Bianca Saponari, Federico Zecca (a cura di), Oltre l’inetto. Rappresentazioni plurali della mascolinità nel cinema italiano 4 Lucia Tralli, Vidding Grrls. Nuovi sguardi sulle pratiche di genere nei fandom 5 Gabriele Landrini, Fotogrammi di carta. I venticinque anni del cineromanzo italiano (1950-1975) 6 Paolo Caneppele, Etica cinematografica e spirito del capitalismo. Il denaro nella réclame della Settima arte