Architettura in trasformazione. Problemi critici del progetto sull'esistente 9788856804225

La trasformazione dell'esistente si configura come uno degli ambiti che, nell'architettura, raggiunge un alto

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Italian Pages 208 [206] Year 2009

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2009-02-12_de_matteis
01_indice_Master
02_prefazione_Master
03_introduzione_Master
04_storia_Master
05_venustas_Master
06_costruzione_Master
07_riutilizzo_Master
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Architettura in trasformazione. Problemi critici del progetto sull'esistente
 9788856804225

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85.53

20-02-2009

16:33

Pagina 1

F. DE MATTEIS Architettura in trasformazione

Federico De Matteis è ricercatore presso la Facoltà di Architettura “Valle Giulia”, “Sapienza” Università di Roma, dove insegna Progettazione architettonica.

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La trasformazione dell’esistente si configura come uno degli ambiti che, nell’architettura, raggiunge un alto grado di complessità, chiamando in causa tutte le risorse della disciplina. Si tratta quasi di un progetto di secondo grado, legato alla pratica del restauro architettonico ma al contempo dotato di una specificità disciplinare del tutto autonoma. Nella storia culturale dell’architettura l’opera di trasformazione dell’esistente, soprattutto nel contesto italiano, ha rivestito costantemente un ruolo fondante del ragionamento teorico come anche della pratica progettuale. Questo libro ripercorre le tappe salienti di questa vicenda, evidenziando come il rapporto con le manifestazioni fisiche del passato sia stato interpretato, di volta in volta, seguendo l’onda lunga del pensiero filosofico di ogni periodo. Le preesistenze sono «materiale di progetto»: in quanto tali, l’autore contemporaneo ne può disporre il destino, interpretandole ed inserendole nella vita delle nuove architetture. Le modalità di questo processo ermeneutico sono ampie e diversificate, tanto da costringere i progettisti a mettere in gioco tutte le loro capacità perché antico e nuovo possano convivere, armoniosamente, nello stesso orizzonte di cose. Costruzione, utilità, bellezza: viene chiamato in causa l’intero spettro degli strumenti del progetto, sino a riflettere sull’architettura in toto. Nonostante il carattere fondante di questa problematica, la riflessione critica in merito risulta ancora frammentaria e disarticolata. Scopo di questo libro è pertanto riordinare i ragionamenti ed i problemi critici all’interno di un sistema metodologico coerente.

Federico De Matteis

Architettura in trasformazione Problemi critici del progetto sull’esistente

Prefazione di Benedetto Todaro

I S B N 978-88-568-0422-5

€ 00,00

(U)

9

788856 804225

Serie di architettura e design

FRANCOANGELI

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Federico De Matteis

Architettura in trasformazione Problemi critici del progetto sull’esistente Prefazione di Benedetto Todaro

Serie di architettura e design

FRANCOANGELI

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Giulia, tibi...

01_indice:Master 12/02/2009 16.49 Pagina 4

Il presente volume è stato stampato con il contributo del Dipartimento Ar_Cos - Architettura e Costruzione, “Sapienza” Università di Roma

In copertina: Yerebatan Sarai, Istanbul

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Indice

pag.

7

1. L’uomo e l’architettura nell’arena del tempo

»

15

2. Le trasformazioni dell’esistente nel pensiero architettonico

»

35

3. Linguaggio e morfologia: preesistenze e venustas

»

79

4. Tecnica e costruzione

»

97

5. Riutilizzo e rifunzionalizzazione

»

119

6. Il progetto sull’esistente nella cultura architettonica italiana

»

129

7. Conclusione. La persistenza dell’architettura

»

195

Bibliografia

»

199

Indice analitico

»

203

Ringraziamenti

»

207

Prefazione, di Benedetto Todaro

5

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Prefazione Le due culture del progetto

“[…] epoche che lunghi millenni sembrano irrimediabilmente allontanare e distaccare, per chi consideri l’astratto fluire di un tempo vuoto di storia: ma che proprio la storia, invece – in quanto continuità della prassi di un’umanità associata – ravvicina, e lega, e direttamente pone a confronto, in una sorta di eterna “disputa dei moderni e degli antichi”. Ed ogni nuova generazione degli uomini, invero, non può prender le mosse, per quella sua prassi viva ed attuale, se non da una realtà, che l’opera delle generazioni passate è venuta faticosamente elaborando, imponendole forme, contorni, limiti ben definiti. Solo fondandosi saldamente in questa concreta e ben delimitata realtà storica, anzi, ogni prassi umana può sortire la sua efficacia: che resterebbe tuttavia, priva di contenuto e di senso, là dove essa si esaurisse – entro un contorno, e al di qua dei limiti prefissi – nella stanca riproduzione di forme già date, e non travalicasse e non travolgesse perennemente, invece, quel suo dato contorno e quei suoi dati limiti storici, inducendo nella realtà contenuti e forme nuovi ed originali.” Emilio Sereni, “Storia del Paesaggio agrario italiano”

Il brano di Sereni chiama in causa argomenti che ben configurano l’ambito di cui si occupa quest’opera. Due di questi, in particolare, pur citati dall’autore in riferimento al paesaggio agrario, mantengono piena validità se estesi al nostro argomento. Già William Morris del resto aveva riconosciuto come ogni modifica indotta dall’uomo sulla superficie della terra in vista dei propri bisogni – e quindi anche l’agricoltura – rientri nella categoria generale dell’ “architettura”: il primo argomento riguarda la concezione delle trasformazioni antropiche dell’ambiente quale opera corale e come modo storicamente manifesto dell’umano abitare la terra. Tale concezione, anche se apparentemente ovvia, ha però il merito di porre in evidenza il principio di continuità e di normalità del procedere, nella costruzione dell’ambiente antropico, attraverso continue riscritture su scritture precedenti, come per un palinsesto mai abbandonato e continuamente ripreso. Questo modo di vedere dà conto del carattere di cura continua del patrimonio disponibile che la progettazione ha sempre svolto. Immette appieno l’operare contemporaneo nel flusso storico e fa giustizia di 7

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un’ottica semplificata che intenderebbe porre uno iato tra la serie degli accadimenti storici ed una visione della contemporaneità priva di profondità prospettica, quasi schiacciata in un non-tempo assoluto. L’evoluzione nel tempo dei tessuti edilizi delle città storiche non diversamente - del resto - da quanto avviene per i tessuti organici, mostra con evidenza il permanere di alcuni loro caratteri e della morfologia complessiva pur nella sostituzione, più volte avvenuta, della propria materia fisica e nonostante la distruzione di singole parti. Cosa questa che testimonia l’agire continuo, sul palinsesto urbano, di un patrimonio genetico transgenerazionale non legato solo alla mera funzionalità quanto piuttosto alla riconferma di valori simbolici e rappresentativi. Il secondo argomento citato da Emilio Sereni sul quale ci soffermiamo è il riconoscimento della piena legittimità, se non addirittura della necessità, per il progetto contemporaneo, di operare dialetticamente tra radicamento nella tradizione e tensione verso l’innovazione. Legittimità un tempo scontata, ma oggi - nei fatti - contrastata dall’affermarsi di due diverse culture progettuali divergenti e difficili da ricondurre ad unità. Mi riferisco alla cultura della conservazione, che nel rafforzare gli strumenti soi-disent esatti della tutela e del restauro, e nell’avocare a sé la cura del costruito storico, ha di fatto espulso dalle sue pratiche d’intervento la componente dialettica e contraddittoria di cui il progetto di architettura è, per statuto, portatore. Allo stesso tempo, e con nessi causali ormai difficili da decifrare, si registra una sorta di disimpegno strisciante, da parte di alcuni settori della ricerca architettonica, verso l’analisi del contesto, fino a giungere, in alcuni casi, alla teorizzazione esplicita dell’irrilevanza del contesto come determinante per la qualità della nuova architettura. Sulla scorta di queste considerazioni, è possibile individuare alcuni punti critici, necessari per definire l’ambito in cui ci troviamo ad agire. Intanto occorre riconoscere come la dicotomia tra queste due culture progettuali sia in realtà del tutto pretestuosa, forse anche comoda per qualcuno e a qualche fine, ma del tutto priva di fondamento scientifico e molto pericolosa per le ricadute che ne possono derivare per la qualità dell’architettura e dell’ambiente urbano. È infatti difficile individuare cosa possa concretamente distinguere oggi il progetto sull’esistente da un progetto diverso: ipoteticamente ex-novo. Può veramente darsi - oggi - la condizione di costruire “dal nulla”, rispetto alla quale chi interviene sull’esistente si distinguerebbe, o non è piuttosto il residuo di un pensiero attardato su di una mitica condizione originaria, forse mai esistita e comunque non disponibile? La situazione attuale, ad esempio nelle città storiche, ma vale per l’intero territorio, è caratterizzata dalla presenza pervasiva di testimonianze che da molto tempo hanno strutturato l’ambiente, anche quello che ci ostiniamo a definire naturale, in una sorta 8

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di opera d’arte totale protratta nel tempo, le cui responsabilità e cura sono demandate da ogni generazione alla successiva. Una certa specificità può essere - semmai - riconosciuta, sul piano empirico, a quei casi in cui gli spazi operativi della progettazione siano particolarmente stretti e impegnativi in ragione della particolare valenza storico documentaria e simbolico rappresentativa del contesto che impone una prevalenza della componente critico-analitica su quella trasformativa. Ma anche per questi casi non può affermarsi la necessità di un diverso approccio teorico e di diversi strumenti d’intervento, quanto piuttosto la necessità di mettere in campo una specifica ed opportuna qualità di strumenti analitici e propositivi, sempre all’interno dello stesso statuto progettuale unitario. Per sciogliere con più efficacia i nodi concettuali posti dal coesistere di antico e moderno appare dunque più giusto concentrare l’attenzione sul fenomeno del parlare: sull’atto di esprimersi all’interno di un dibattito già iniziato da altri e, soprattutto, inserendosi nella sommatoria di linguaggi che deriva dalla sovrapposizione di un parlato su di un altro parlato, di un linguaggio su di un altro linguaggio. Innestando un nuovo programma sul vecchio, si impone la scelta, all’ultimo arrivato, di coinvolgersi nel senso complessivo del discorso avviato piuttosto che tentare il disimpegno da tutto ciò che non riguarda direttamente la propria azione in una sorta di riproposizione della pratica dadaista dei cadaveri squisiti. Nella sovrapposizione dei linguaggi e nella complessiva acquisizione di senso, lo stesso cambio di destinazione d’uso assume di per sé valore critico e significante, attribuisce valori specifici all’atto dell’abitare l’incongruo e chiede all’opera del progettista di governare la disattinenza tra involucro e funzione, generando nuovi significati. La distanza temporale (e culturale) che può separare i due autori: quello dell’opera originaria da colui che opera la trasformazione costituisce, più che un valore aggiunto, la vera sostanza delle città storiche, apprezzate ed ammirate forse anche per lo sfasamento anacronistico tra linguaggio espressivo dei contenitori e modi della fruizione contemporanea al punto da ipotizzare che alti livelli di qualità ambientale possano darsi solo a quelle condizioni. Per il progettista il fatto di sopraggiungere pone in evidenza il carattere critico del giudicare, del valutare, del soppesare i valori relativi, dello spostare i termini complessivi fino ad assumerne le responsabilità conseguenti in una sorta di dialogo a distanza in cui l’artefice della trasformazione, avendo l’ultima parola, almeno per il momento, può agire incontestato gravando sulla sua responsabilità non solo l’esito del proprio eloquio, quanto il senso complessivo del discorso che ne deriva. Riconosciuta la fondamentale unitarietà degli interventi di trasformazione e la costante presenza di qualcosa che preesiste, non sembra che il tentativo di distinguere per tipi i possibili inter9

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venti (recupero, restauro, riuso, realizzazione ex novo, ecc.) sia in grado di generare teorie e forse nemmeno riflessioni organizzate di un qualche giovamento. Molto più produttiva appare la distinzione che può essere operata nei riguardi dell’intenzione in architettura: il riconoscere o meno, da parte del progettista, la presenza ed il valore di ciò che preesiste al suo intervento, la sua disponibilità ad intessere un dialogo con la cultura e con gli autori che produssero ciò che ora tocca a lui curare. Non si tratta di una condizione inedita o tipica della contemporaneità: la storia ha sempre conosciuto la reinterpretazione di strutture edilizie già esistenti per adeguarne l’uso al mutare delle esigenze, per usi del tutto nuovi o addirittura per semplice risemantizzazione degli apparati significanti, a volte solo quelli decorativi. Potremmo dire che, nella tradizione storica, ciascuno dei tre paradigmi vitruviani, solidità, utilità e bellezza, hanno potuto, da soli o in combinazione con gli altri due, motivare le ragioni dell’intervento. Così come potremmo anche estendere l’interpretazione di tale pratica fino a comprendere alcuni casi di reinterpretazione linguistico-funzionale non solo di edifici costruiti dalla mano dell’uomo, ma persino di strutture trovate di origine naturale, come avvenne per i costoni tufacei che caratterizzano il paesaggio della campagna laziale, e che hanno dato luogo ad alcune significative realizzazioni già dall’epoca etrusca e poi romana sia nell’interno del territorio che lungo la costa e nelle isole; ma anche, sempre nell’ambito della cultura romana e dei suoi derivati tardoantichi, per le edificazioni rupestri nabatee di Petra in Giordania. Il carattere estremo (e non necessario) della reinterpretazione operata per via di levare dagli antichi autori nei confronti delle risorse del sito giustifica l’assimilazione di questi casi a quelli di cui prevalentemente ci occupiamo e testimonia della antica familiarità con la pratica del reinterpretare, includere e modificare l’esistente, sia esso di origine naturale o artificiale. A partire dalle prime risignificazioni di strutture naturali, l’intera storia dell’architettura è attraversata dalla costante pratica della reinterpretazione, del riuso e della modifica, dello spoglio e della superfetazione, attestando il sorgere di una speciale consapevolezza della contiguità col passato, e lo sviluppo della capacità degli architetti di interagire con esso. L’intervenire sul lavoro di altri configura la storia della città come eterno cantiere. In questo senso ci interessa giovarcene come idea guida e modello interpretativo del rapporto tra momenti storici e tra autori diversi. Alla ricerca del principio di continuità ed in contrapposizione con quello di diversità, di singolarità, di eccezione. Certo la storia della città - e quindi dell’architettura - è tanto storia di uniformità e di permanenze quanto di differenze, di eccezioni e di discontinuità. Il motivo di tanto insistere sul tema del recupero delle linee di continuità e di omogeneità risiede nella satu10

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razione ormai raggiunta dai temi della differenza linguistica, dall’insistenza con cui, negli ultimi decenni, si è ricercata la salvezza per vie eccezionali, per miracoli puntuali, piuttosto che per pazienti crescite corali. Sembra quasi che una società di progettisti abbia di buon grado accettato il fallimento e l’inutilità pur di esprimere, dal suo seno, pochi superstiti ai quali consegnare le sorti dell’espressione contemporanea. All’espressione corale si è preferito l’assolo, alla qualità diffusa l’unicum spettacolare. Ma, una volta dichiarato l’interesse per le forme di espressione collettiva piuttosto che individuale, in che modo, con quali strumenti e con quali distinguo avvicinarsi alla progettazione che, in fin dei conti sempre atto individuale resta? Come coniugare la quotidiana prassi di intervento sulla realtà con il senso di appartenenza al continuo costituito dalla schiera dei predecessori e dalla generazione dei contemporanei? In che modo la consapevolezza che l’ontogenesi del progetto individuale ricapitoli la filogenesi storica dell’arte del costruire ci aiuta ad individuare, tra i tanti, un modo di procedere che si possa giudicare corretto? Gioca, sulla questione, l’esistenza di una singolare fenomenologia del giudizio: nel prevalere di un’ottica conservativa, la valutazione sul pregio dell’ambiente costruito vede privilegiate le testimonianze più antiche, via via riducendo la considerazione per quelle che si avvicinano temporalmente ai nostri giorni, secondo una scala di valori che sembra assegnare lo zero alle opere della contemporaneità. In un suo noto saggio, Charles P. Snow mise in luce il dualismo primario che contrappone oggi la cultura umanistica e quella tecnico-scientifica. Per quanto attiene al nostro argomento, le due culture divaricate e pericolosamente distinte che lacerano il progetto contemporaneo sono quelle contrapposte della conservazione dell’esistente (cioè del prodotto di culture diverse dall’attuale) e quella della produzione contemporanea. La prima tende ad esaltare qualità ormai irriproducibili di cui avverte il valore ma anche in certa misura la nostalgia, la mancanza, la preoccupazione di ulteriore perdita. La seconda manifesta le ragioni del vitalismo e della libertà: il diritto ad esprimersi, come altre generazioni precedenti hanno fatto, alimentando la fiducia nella possibilità di una prosecuzione nell’opera avviata dalle generazioni precedenti. Le due facce di una medaglia non andrebbero divise, non dovrebbero darsi l’una senza l’altra, ma in realtà i protagonisti, i riferimenti culturali, gli interessi e la formazione delle due culture sono molto diversi tra loro ed in rotta di ulteriore allontanamento. All’equilibrata e responsabile prassi della contrattazione caso per caso si sono sostituiti opposti integralismi e sospetti sulle altrui istanze. La contrapposizione è tanto più violenta, irresolubile, ingiusta, quanto più formalizzata in un’ottica discreta, discontinua, corpuscolare dell’intervento e della preesistenza, quanto più con11

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trapposti e distinti sono visti i due momenti che definiamo con i termini: intervento e preesistenza. Una visione fluida del trascorrere storico e una visione continua dell’avvicendarsi responsabile delle successive generazioni possono facilitare la percezione di maggiore affinità - diremmo identità - tra preesistenza e progetto del nuovo. Non riconoscere come estraneo l’intervento evita la reazione di anticorpi ed il rigetto da parte dell’organismo urbano. Immaginare la scena del proprio abitare-costruire come idealmente inscritta in un orizzonte infinito oppure, al contrario: avvertire la finitezza dei termini in cui si agisce, per estesi che siano, da queste due diverse attitudini possono avere origine esiti progettuali differenti e forse anche opposti. Concepire l’atto progettuale come dotato di natura discreta, facilmente distinguibile, contrapponibile, alla serie di altri analoghi succedutisi nel tempo o – al contrario – immaginarlo dotato di una “natura continua”, appena distinguibile dagli altri tra i quali può teoricamente determinarsi come uno degli infiniti stati di quasi-equilibrio nella filogenesi dello sviluppo antropico. Anche questa seconda opposizione concettuale può assumere significato determinante per una teoria del progetto contemporaneo ed orientare in direzioni coerentemente diverse i portatori delle varie visioni. La natura utile del progetto si adatta di buon grado ai condizionamenti derivanti dalla finitezza dei propri ambiti; non altrettanto può dirsi della qualità più sottile: quella espressiva. Vivere all’interno di un orizzonte finito, abitare un palinsesto antico e pervasivo è divenuto condizione abituale, quasi connaturata alla contemporaneità. In questo senso una accezione di “progetto” come colonizzazione di territori vergini, come primo verbo espresso dall’uomo a partire dal silenzio primigenio: espressione originaria e risposta sensibile alle esigenze dell’esistere e dell’abitare, atto d’imperio e presa di possesso, marcatura del territorio e creazione di una seconda natura indipendente e alternativa è concepibile solo come manifestazione di intenzione (e di irresponsabilità) artistica. Questa è caratterizzata da un’attitudine che possiamo definire “violenta”, che assegna valore solo a ciò che è interno al progetto, contrapponendolo al suo opposto visto come una sorta di vuoto esterno, come se tutto ciò che giace “al di fuori” del progetto fosse privo di significato proprio e quindi da riconoscersi unicamente come risorsa a spese della quale espandersi, come pura disponibilità inerte. Una seconda accezione – debole – di progetto lo interpreta quale studio, conoscenza, e tutela delle vestigia a noi rimaste di quello che un tempo fu progetto forte; come interpretazione del proprio ruolo in chiave di esegesi e consolidamento di posizioni acquisite, di rinuncia a nuove frontiere e all’estensione del proprio dominio in vantaggio di un approfondimento consapevole. Critica sì, ma non operativa, il cui scopo appare più quello di maturare opinio12

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ni ed attribuire sensi alla realtà che non di modificarla. Più o meno esplicitamente quest’accezione è legata al tema della “morte dell’arte” ed al presunto destino della modernità come erede indegno e liquidatore testamentario della grande tradizione artistica e storica esauritasi nel passaggio tra settecento ed ottocento. Fin qui, appare chiaro come tutte le questioni citate raccontino di una scissione avvenuta, nel procedere storico, tra fatti e attitudini un tempo incardinate nella stessa sfera disciplinare e operativa. Queste riflessioni conclusive consentono dunque di definire il posizionamento – etico e disciplinare – dell’opera di De Matteis, che mira proprio a indagare la teoria e la pratica dell’intervento sull’esistente superando barriere disciplinari e sovrastrutture metodologiche. L’architetto che progetta e costruisce in relazione all’esistente non deve necessariamente essere uno specialista – ovvero possedere nozioni e competenze specifiche, distinte da quelle dell’architetto generalista. Certamente è indispensabile che sia dotato di una forte attitudine alla praxis – intendendo con ciò la facoltà di operare nel mondo reale; ma soprattutto si richiede in lui un forte posizionamento critico, derivante dalla sensibilità e consapevolezza dell’etica dell’agire a cavallo tra diversi ambiti temporali, pur mantenendo sempre in primo piano l’unità del mondo reale, della materia costruita, che oppone resistenza ai tentativi di riduzione semplicistica. Questa sensibilità, questa capacità di lettura e interpretazione – ben più importanti di qualsiasi specificità derivante dalla segmentazione delle competenze – si manifesta come il più forte richiamo alla ricerca di una diversa etica del progetto, che trova nella coralità dell’azione e nella ricerca di qualità diffusa la sua più compiuta espressione. Benedetto Todaro

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1. L’uomo e l’architettura nell’arena del tempo

Il nostro posto è nel divenire. Noi dobbiamo inserirvici, ciascuno al proprio posto. Non dobbiamo irrigidirci contro il “nuovo”, tentando di conservare un bel mondo condannato a sparire. E neppure cercare di costruire in disparte, mediante una fantasiosa forza creatrice, un mondo nuovo che si vorrebbe porre al riparo dai danni dell’evoluzione. A noi è imposto il compito di dare una forma a questa evoluzione e possiamo assolvere tale compito soltanto aderendovi onestamente; ma rimanendo tuttavia sensibili, con cuore incorruttibile, a tutto ciò che di distruttivo e di non umano è in esso. Il nostro tempo è dato a ciascuno di noi come terreno sul quale dobbiamo stare e ci è proposto come compito che dobbiamo eseguire. Romano Guardini1

Come tutti gli oggetti del mondo, l’architettura appartiene al tempo. Prima ancora che un’opera venga completata, dal momento stesso in cui inizia a possedere un corpo fisico, essa subisce continue trasformazioni, processi lentissimi e graduali o subitanei e rapidissimi. Nella natura stessa della materia è implicita la suscettibilità al cambiamento, ovvero il destino ineluttabile del mutare di tutte le cose sottoposte al tempo. Il tempo è ciò che lega l’architettura al terreno ontologico della fisicità. La corporeità degli oggetti costruiti si colloca in equilibrio tra due diversi modi di attraversare il tempo: il cambiamento, che consente all’osservatore di constatarne le mutazioni, per quanto lentamente esse possano avere luogo, e la permanenza, che non origina dall’inerzia bensì dalla dilatazione della trasformazione oltre la soglia della cognizione dell’uomo, della durata del singolo individuo. Sul corpo fisico dell’architettura il tempo agisce attraverso le forze naturali che si riappropriano dell’artificialità del costruito, restituendolo ad un ordine ineluttabile, teleologicamente indirizzato, secondo diverse traiettorie, verso il disgregamento ultimo di ogni cosa. Il tempo fisico, lineare ed univoco per quanto inafferrabile, si affianca al tempo storico, più stratificato ed ambiguo, mutevole come gli oggetti che vi sono sottoposti. Anche a questo l’architettura appartiene, entrando a far parte del tempo descritto dall’uomo come storia, soggettivizzazione dell’ordine fisico che 15

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investe tutte le cose del mondo. Nella storia quale immagine del tempo umano, permanenza e trasformazione non sono più distinte unicamente dalla soglia di cognizione dell’osservatore: si configurano come fenomeni ontologicamente diversi, l’uno imparentato all’invariabilità e al perdurare degli archetipi, l’altro legato alla mutevolezza degli uomini, del loro pensiero e delle necessità contingenti. È in questo tempo descritto che l’architettura esprime il suo senso più pieno, quale oggetto costruito nell’orizzonte antropico, carico di ideologie, significati e figurazioni intrecciati nella cultura, solo in parte prestato alla transitorietà del mondo materiale. Nell’orizzonte storico la fisicità dell’architettura può essere elusa attraverso l’infinito ritorno dei modelli, il riemergere degli archetipi, l’azione della memoria e dell’invenzione quale modalità genetica del nuovo. Esiste poi un terzo tempo cui l’architettura partecipa: quello del soggetto, di tutti il più imperscrutabile, che sfugge alla misurazione e descrizione. Il tempo interiore si muove lungo traiettorie mistilinee composte da tracce mnesiche e cognitività, intenzionalità e memoria del corpo. A differenza del tempo esteriore questo non è orientato, né è possibile identificare con precisione i punti lungo la sua traiettoria: il prima e il dopo si confondono, perdendo chiarezza. Nonostante la congenita indeterminazione del tempo interiore, è questo che più profondamente influenza il rapporto tra l’architettura e chi la utilizza; determina altresì, come basso continuo, l’operare di chi la progetta. Nell’architettura come nel soggetto questi tre stati ontologici si intersecano, flettendosi per la reciproca influenza; in misura differente, ciascun oggetto partecipa di queste temporalità multiple che nell’incontrarsi generano di volta in volta armonia, dialettica o contesa. Nell’arena del momento presente il confronto chiama dunque in causa le ragioni del passato, rappresentate nella storia descritta e nella memoria indescritta: l’architettura nel suo stato presente stabilisce il punto di partenza, mentre l’uomo ne orienta la trasformazione, catturando in quest’atto frammenti di passato e futuro, costituendosi dunque come agente metatemporale del cambiamento. Esiste dunque un momento presente, abitato dagli oggetti architettonici che ne formano il corpo materiale con la loro fisicità certa; in quanto presenze fisiche essi allestiscono la scena per l’operare dell’uomo quale agente della trasformazione. In questo ruolo di sostrato materiale dell’esperienza del soggetto, l’architettura funge da tramite tra uomo e civiltà: come il libro è stato il veicolo materiale della parola scritta, il costruito si pone come strumento di trasmissione per la cultura nella sua interezza. L’architettura svolge un ruolo imprescindibile quale cardine tra mondo fisico e mondo antropico, ancorando l’esperienza umana ad entrambe le entità: in assenza di questa manifestazione materiale, 16

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l’esperienza del soggetto perde di senso. La materia fisica dell’architettura viene modificata nel tempo dalle leggi naturali; l’uomo, quale altro agente della trasformazione, interagisce con essa modificandola, imponendole mutamenti che perseguono molteplici finalità. Può trattarsi della volontà di sottrarre alcuni oggetti di particolare rilievo agli effetti del tempo, restituendoli ad uno stato cronologicamente anteriore rispetto al momento dell’intervento; ovvero dell’esigenza di appropriarsene più pienamente nel tempo presente, attribuendo loro nuovi significati e usi. In qualunque modo si agisca, con diversa consapevolezza la trasformazione interviene sulla linearità cronologica, trasferendo gli oggetti fisici dell’architettura avanti o indietro rispetto alla loro originaria collocazione temporale. Le sorti della trasformazione dell’esistente si giocano dunque nell’individuazione dei fondamenti ontologici dell’operare nel tempo. Chi modifica gli oggetti costruiti ne decide il destino, imponendo loro un ritorno al passato o una diversa partecipazione al momento presente. Nella trasformazione viene esplicitata l’intenzionalità di chi interviene sugli oggetti del mondo dato: l’assunzione di una posizione critica rispetto al significato del tempo nell’architettura rappresenta il primo passo di chiunque operi le trasformazioni. In questa ideale arena delle temporalità si svolge la contesa tra l’uomo ed il mondo da lui stesso costruito: quali sono gli strumenti critici che gli consentono di affrontare l’impresa nel migliore dei modi? È questo l’interrogativo di fondo cui cercheremo di dare risposta.

Il nuovo e l’antico: la questione del frammento Gli oggetti di architettura del passato che pervengono al presente si manifestano sotto una molteplicità di vesti, dalla rovina archeologica all’edificio storico, dal tessuto urbano sedimentato al tracciato regolatore. Raramente questi reperti mantengono le loro caratteristiche originarie: più spesso sono già il risultato di precedenti trasformazioni, mutazioni derivanti da interventi deliberati o dalla sola azione del tempo. Dell’intenzione originaria rimane a volte poco, lacerti occultati dagli innumerevoli eventi che il trascorso ha stratificato sul corpo materiale. Ma anche quando le sorti delle architetture hanno consentito una sopravvivenza più completa del costruito, si tratta comunque di una conservazione solamente parziale: scomparso o mutato l’universo culturale che lo ha originato, l’oggetto del passato è per sua stessa natura frammento. Molto del fascino dell’antico risiede proprio in questo carattere di frammen17

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tarietà. Ciascun frammento rappresenta un rimando ad un contesto di riferimento, ad un’epoca terminata, ad un significato assente: attraverso il frammento, il passato viene inscenato nell’orizzonte dell’osservatore, consentendogli di varcare la soglia della temporalità presente. La fascinazione romantica per le rovine artificiali trovava la sua radice in questa capacità demiurgica dell’immagine, in grado di trasportare il soggetto avanti e indietro nel tempo. Fra tutti gli strumenti di cui l’architettura dispone per costruire un legame con la memoria, l’uso del frammento è quello più significativo dal punto di vista della presenza fisica: la citazione, la reminiscenza, l’imitazione o altri artifizi poetici che perseguono la medesima finalità, agendo attraverso la rappresentazione rimangono svincolati dalla materialità dell’oggetto. La trasformazione dell’architettura, ovvero l’azione del progetto sulla materia esistente non può che avvenire in presenza degli oggetti stessi, nel momento in cui nuovo e antico si trovano ad occupare il medesimo orizzonte. L’architettura comprende per definizione molteplici aspetti che esulano rispetto alla sola consistenza materiale; questa costituisce però la condizione fondante, l’elemento basilare senza il quale risulta difficile se non impossibile concepire l’architettura in quanto tale. Il corpo costruito fonda l’esperienza dell’osservatore, la àncora alla terra, ne orienta la percezione: in altre parole, si pone come tramite tra l’uomo e la conoscenza del mondo. Sulla materia costruita si innestano poi altri fattori di rilievo: il ruolo di un edificio nell’ambito di un tessuto urbano, il suo significato simbolico individuale o collettivo, la sua capacità di partecipare della vita economica di una comunità. Tutti questi fanno parte dell’architettura e possono essere coinvolti nella trasformazione; la loro esistenza è tuttavia subordinata alla presenza fisica del costruito. In che modo una nuova architettura può appropriarsi dei frammenti del passato? In un dipinto conservato alla National Gallery di Washington, Sandro Botticelli racconta un’Adorazione dei Magi ambientata in un luogo del tutto particolare (Fig. 1). La stalla nella quale la Sacra Famiglia ha trovato rifugio è ricavata dalle rovine di un tempio classico; il tetto, crollato, è stato sostituito da una copertura di fortuna realizzata con tre capriate in legno, appoggiate sull’architrave dell’ordine architettonico2. Antico e nuovo si propongono qui in una singolare antitesi. Le vestigia del tempio appaiono pericolanti: sulla sinistra, tre blocchi di pietra sporgono avventurosamente nel vuoto, provvidenzialmente privati del loro peso dalla mano del pittore; sulla destra, una situazione di analoga rovina ci viene risparmiata dalla presenza di un giovane albero che copre provvidenzialmente l’imminenza di un crollo. A fronte di tanta instabilità, la modesta capriata giustapposta appare sta18

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Fig. 1 Sandro Botticelli. Adorazione dei Magi (1480 circa). Washington, National Gallery

bile, pervasa da un senso di firmitas che viene negato ai lacerti di architettura classica. Al contrario, l’elegante decorum dell’ordine architettonico non trova spazio nella nuova costruzione, senz’altro opera di un umile carpentiere ignaro del valore estetico del costruire. Eppure questi due mondi così diversi sembrano essere in grado di convivere serenamente. La capriata dona all’antico tempio un nuovo invaso, una copertura che questo non sembra disdegnare, memore di un precedente tetto che potrebbe essere stato simile. In alto a sinistra, un frammento di cornice (difficile capire se si tratti di un blocco inclinato incidentalmente o dell’ultima traccia di un timpano) indica una pendenza: la nuova capriata si allinea diligentemente ad essa, quasi a testimoniare la presa d’atto di una condizione data. Infine, l’occhio dell’osservatore: Botticelli sceglie di raccontare l’evento tramite una prospettiva acceleratissima, che lancia tutti gli oggetti verso l’esatto baricentro della scena, suddividendo la composizione in spicchi triangolari. Antico tempio e nuova copertura vengono così coinvolti nello stesso rapido movimento, apparentemente senza sforzo in una singola architettura. Il significato iconologico della rappresentazione è evidente: il mondo cristiano nasce dalle rovine di quello pagano, portando con sé una nuova Verità, figurata nella rudimentale ma fermissima capriata. Ciò che più colpisce l’occhio è tuttavia il modo in cui Botticelli decide di raccontare l’evento, esempio para19

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digmatico di un preciso atteggiamento architettonico nei confronti dell’intervento sull’esistente. Oggetti anche profondamente differenti tra loro si trovano a coesistere, contiguamente, entro il medesimo orizzonte fenomenologico; il divario temporale che li separa viene colmato da un’intenzione progettuale che ingloba l’antico nel nuovo. La particolarità del progetto sulle preesistenze si enuncia dunque non tanto per la specificità del metodo che viene applicato, quanto attraverso la patente intenzione del progettista di considerare la situazione data nel processo, dalla fase conoscitiva preliminare sino alla realizzazione. Se la materia preesistente diviene materiale di progetto, essa produrrà sul nuovo una traccia riconoscibile, che dà conto della relazione causale tra le due parti, imparentandole ben più strettamente di quanto non avvenga nel caso più generale in cui un’architettura si inserisca un ambiente già colonizzato. In altre parole, è il progettista stesso a trasformare il contesto in una preesistenza, instaurando intenzionalmente un rapporto dialettico tra le diverse parti. In questo processo, l’antico viene trasformato, trasfigurato, risignificato: la presenza del nuovo intervento cambia anche lo status degli oggetti preesistenti. L’intenzione del progettista di coinvolgere, a diverso titolo, una situazione data nel processo che conduce alla realizzazione del nuovo intervento, costituisce dunque una delle caratteristiche fondamentali del lavoro sulle preesistenze. Come si è detto, sussiste la possibilità che, a seguito dell’intervento, nuovo e antico non costituiscano due entità separate – almeno concettualmente – bensì partecipino di un’intenzione comune, come nel caso del dipinto botticelliano. L’ipotesi che nuovo e antico possano coesistere sullo stesso piano ontologico implica una considerazione trascendente del fatto storico, per la quale la ragione dei singoli eventi rimane slegata rispetto ad una contingenza dell’hic et nunc. Benché l’universo culturale che ha dato vita ad un determinato oggetto possa essere mutato o estinto ormai da lungo tempo, le ragioni sottese alla sua creazione potrebbero non aver subito la stessa sorte e perdurare con immutata validità anche nel momento presente. Come spesso accade, dunque, nel rapportarsi con la storia, l’attività intellettuale dell’architetto viene influenzata dalla presenza del passato: spesso, tuttavia, questa si manifesta in maniera umbratile, incerta, implicita nell’interpretazione che della storia viene operata da ciascun autore, niente affatto determinata dalla positività della materia. Al contrario, è solo in presenza di questa materia storica – fondamentale ancoraggio alla particolarità delle cose – che può avere luogo la trasformazione dell’architettura. Il progetto sulle preesistenze è dunque contesa dialettica: antico e nuovo si confrontano ad armi pari, nella medesima arena percettologica; entrambi contribuiscono allo svolgimento della scena con il loro corpo, presentandosi all’os20

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servatore in prima persona piuttosto che attraverso figure metaforiche. Non è pertanto necessario che il nuovo si sobbarchi il peso dell’allegoresi, narrando quanto avviene fuori dal teatro: tutte le dramatis personae avranno l’occasione di esporre ciò che hanno da dire, utilizzando la propria vis rhetorica, la peculiare capacità narrativa che le caratterizza. Il senso complessivo della storia, dell’unica storia che emerge, si potrà dedurre dalla combinazione di queste testimonianze, e tale significato finale sarà diverso da quelli espressi dall’uno e dall’altro contendente.

Modi di intervento Nella pratica contemporanea, diverse modalità di intervento si occupano della trasformazione dell’architettura: restauro, recupero, ampliamento, ristrutturazione, allestimento, riconversione, rifunzionalizzazione, spoglio – l’elenco potrebbe estendersi ad includere altre modalità più o meno codificate. Ciò che accomuna questi termini è chiaramente l’azione diretta su un oggetto architettonico precedente, sia essa intesa per la conservazione o la trasformazione; a questi risulta inoltre necessario aggiungere tutte quelle operazioni che, pur non intervenendo direttamente sulla materia architettonica data, mettono comunque in atto quel sistema dialettico che abbiamo individuato quale fondamento concettuale dell’intervento sull’esistente. Ciò che invece distingue questa molteplicità di modi di intervento è la distanza critica che l’autore assume rispetto agli oggetti preesistenti. Per quali motivi si è indotti ad attribuire ad un oggetto artistico – estendendo tale termine nel modo più ampio possibile – un valore, una particolare importanza? Da un lato perché si riconoscono in questo oggetto delle qualità intrinseche, rapportabili a criteri estetici comunemente accettati: armonia, abilità tecnica nella realizzazione, espressività – in una parola, bellezza. Dall’altro, perché l’oggetto rappresenta una testimonianza – di un’epoca, di un evento, di una persona o di qualsiasi altro fatto passato che, per l’individuo o la collettività, merita di essere ricordato: in altre parole, quando l’oggetto viene elevato alla condizione di monumento. Questi due diversi processi – spesso inestricabilmente intrecciati – attribuiscono all’oggetto artistico un duplice stato ontologico. È evidente che nessuno dei due può ambire all’universalità, essendo il primo sottoposto alle trasformazioni del gusto, il secondo al carattere transeunte della memoria storica: in entrambi i casi l’universo culturale entro il quale il progettista opera fornisce indicazioni più o meno precise – spesso anche normative – su quale 21

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debba essere la fascia di rispetto di un oggetto esistente. Lo spazio marginale tra queste indicazioni o imposizioni, ovvero la libertà di interpretazione e interazione disponibile può essere dunque sfruttata in diversi modi. In questo consiste la distanza critica tra il progettista e l’oggetto preesistente: nella posizione relativa che egli assume rispetto alla condizione data sulla quale si trova ad operare, sia a seguito delle proprie scelte sia dei vincoli impostigli dall’esterno. La questione della distanza critica lega fortemente l’operare sulle preesistenze alla problematica, propria della filosofia artistica, del rapporto tra l’autore e l’oggetto artistico considerato come modello. L’imitabilità dell’opera costituisce uno dei nodi centrali dell’estetica classica; la riflessione sulle modalità tramite le quali l’artista contemporaneo può interagire con il modello hanno a lungo occupato filosofi e critici d’arte. Se da un lato l’opera d’arte, oggetto ieratico per definizione, viene considerata come conclusa in sé stessa, resa perfetta dalla intenzionalità dell’atto creativo, è anche innegabile che qualsiasi oggetto artistico può essere inteso come aperto e rientrare – eventualmente sotto forma di interpretazione – nel processo che porta alla costituzione di una nuova opera. È evidente che questa dinamica si rispecchia anche nell’architettura, nel momento in cui il progettista è chiamato a rapportarsi con oggetti esistenti. La specificità del caso risiede nuovamente nell’interazione materiale con le preesistenze: l’opera architettonica non viene recepita, in genere, con la stessa assolutezza dell’oggetto d’arte. È per sua natura meno distante, più oggetto d’uso che di contemplazione. È lecito pertanto ipotizzarne una trasformazione anche materica, operazione questa difficilmente pensabile per l’oggetto ‘da museo’, se non in situazioni del tutto particolari. Se già il modo in cui il progettista considera l’oggetto dell’intervento stabilisce in partenza l’uso che ne farà, l’ampiezza del campo decisionale è però sovente ristretta da fattori esterni: un bene vincolato per legge lascia al progettista uno spazio di azione relativamente ristretto, dovendosi inderogabilmente privilegiare le proprietà dei manufatti esistenti; al contrario, nell’intervento su oggetti di meno conclamato valore testimoniale le limitazioni possono essere piuttosto dettate da condizioni economiche, di programma, di rapporto con la committenza ecc. La scelta di una posizione critica rimane tuttavia prerogativa del progettista: il modo di procedere rispetto alla situazione data scaturisce dalla sua intenzionalità e capacità. Valore attribuito all’oggetto preesistente e distanza critica sono dunque due fattori complementari: all’aumentare dell’universalità del giudizio rispetto all’opera data, la distanza che rispetto ad essa il progettista può assumere tende a diminuire. Il progetto di restauro rappresenta in questa prospettiva il grado 22

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Fig. 2 Yerebatan Sarai, Istanbul. Una delle due teste utilizzate come base per le colonne che sostengono le volte della cisterna Fig. 3 Dimitris Pikionis. Casa Garis, Atene (1964). Frammenti lapidei inseriti nella muratura

minimo di libertà disponibile: è necessario mettere in primo piano le esigenze di conservazione e recupero del manufatto storico, relegando quanto di nuovo viene aggiunto sullo sfondo dell’entità estetica che si viene a produrre; il portato iconografico e simbolico: i significati esistenti vengono rigorosamente conservati. All’estremo opposto dello spettro metodologico troviamo invece lo spoglio, quale radicale operazione di ri-significazione: il nuovo oggetto, pur incorporando frammenti di opere preesistenti, può inglobarli in maniera tale da trasformarne completamente il ruolo nel sistema figurativo del nuovo intervento (Figg. 2, 3). Nell’architettura storica abbondano gli esempi di riuso di materiali di spoglio, adoperati senza attribuire loro alcuna importanza: capitelli inglobati in murature, partizioni architettoniche utilizzate come riempitivi, o ancora frammenti di statuaria destinati a fungere da basi di pilastri; in altre parole, l’unico valore che si attribuiva all’oggetto antico era quello economico rappresentato dai suoi materiali costituenti. Benché nell’architettura contemporanea le opere di spoglio siano rare, è evidente quanto questo atteggiamento sia mutato rispetto alla tradizione storica dello spoglio: se anche estrapolati dalla loro cornice originaria, in mancanza della quale difficilmente riescono a conservare la loro dimensione linguistica pertinente, i frammenti di antico ridivengono protagonisti della nuova opera, spesso a seguito della creazione di un collage di oggetti 23

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Fig. 4 Christo & Jeanne-Claude. The Gates Project, Central Park, New York (2005). La percezione del parco viene trasformata attraverso l’introduzione di una fitta sequenza di schermi

non sempre sintatticamente correlati. Rispetto a questa tassonomia di possibilità di intervento, il progetto dell’effimero occupa evidentemente una posizione del tutto autonoma. La premessa della temporaneità non solamente tende a dissolvere molti dei vincoli normativi che spesso limitano l’intervento progettuale, ma contribuisce altresì alla riduzione delle considerazioni di carattere etico che generalmente investono la cultura architettonica. Gli allestimenti temporanei sono in grado di sondare la reazione di un oggetto architettonico sottoposto a determinate trasformazioni, quasi si trattasse di esperimenti scientifici a carattere non invasivo. Avendo la possibilità di agire in maniera più libera, chi progetta l’effimero può guidare l’osservatore attraverso un’esperienza amplificata della preesistenza architettonica, mettendo in evidenza aspetti dell’opera precedentemente non visibili, o addirittura non intesi per essere visti in alcun caso. Gli oggetti possono essere altresì nascosti, secondo una poetica di rivelazione attraverso l’occultamento, o ancora trasformati in entità differenti dalla loro (Fig. 4). Il limite alle potenzialità di queste operazioni è dato solo dal vincolo di reversibilità. Le distinzioni che sono state sinora introdotte riguardo la molteplicità metodologica dell’intervento sull’esistente rispondono essenzialmente a criteri qualitativi, che trovano il proprio fondamento nell’ambito culturale dal quale emergono. Come varia questa problematica in base al cambiamento della scala di riferimento? Interventi su singoli oggetti, su spazi interni, sono equiparabili ad ampie trasformazioni su scala urbana, quali ad esempio l’inserimento di nuove architetture nei tessuti storici sedimentati? Di nuovo, la distinzione sembra esse24

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re pertinente piuttosto agli strumenti che non al metodo da utilizzare: è evidente che l’analisi condotta sul singolo manufatto si concentrerà maggiormente sulle sue proprietà, sull’individuazione delle sue regole genetiche, mentre un intervento su scala urbana avrà il suo punto di partenza nell’ambito della città intera.

Strategie della trasformazione La pratica di trasformazione dell’esistente si può avvalere di tutti gli strumenti operativi propri del progetto di architettura, ulteriormente incrementati da quanto sviluppato in ambiti attigui quali il restauro o l’allestimento museale, o anche le esperienze nel campo dell’arte contemporanea. Il rapporto tra il nuovo e l’antico viene però sovente coniato attraverso l’adozione di alcune strategie che trovano nella pratica della trasformazione il loro campo di applicazione privilegiato. Queste modalità della modificazione intervengono su particolari aspetti degli oggetti preesistenti, alterandone le condizioni rispetto allo stato ante operam. La figurazione dell’architettura è un primo campo sul quale è possibile operare la trasformazione. Ciascun oggetto fisico si manifesta attraverso la produzione di immagini, elementi fondanti del processo di cognizione linguistica. All’immagine singola prodotta dall’oggetto individuale si affianca l’immagine

Fig. 5 Aldo Rossi. Scholastic Building, New York (1995). L’inserimento nello stretto lotto urbano di SoHo avviene deducendo le altezze dei marcapiani dall’edificio a sinistra e gli accostamenti cromatici dall’edificio a destra

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collettiva determinata dalla sequenza o sovrapposizione di una molteplicità di entità: è questo il caso dell’ambiente urbano, nel quale la compresenza di più scale dimensionali conduce alla continuità figurativa tra piccoli e grandi oggetti. La conoscenza dell’architettura come della città si basa in larga parte sulla tipicità delle immagini, sulla loro ripetizione anche al di là degli ambienti noti a ciascun individuo (Fig. 5). Riconoscere un edificio significa generalmente ritrovare in esso caratteri già precedentemente incontrati in altri; il sistema-città tradizionale diviene riconoscibile in virtù della ricorrenza di specifiche sequenze di immagini riferibili a elementi tipici – la strada, la piazza, il parco ecc. Quando però un edificio o un tessuto urbano si presentano sotto forma di frammento può accadere che essi non siano più riconoscibili. La mancata completezza degli oggetti genera un disturbo nella figurazione che può severamente menomare la possibilità di fruizione estetica dei frammenti: in molti casi il progetto sull’esistente mira, sulla piccola come sulla grande scala, alla riparazione di quelle situazioni nelle quali, per diversi motivi, si sono venute a formare delle lacune. La teoria brandiana del restauro enuncia un fondamento estetico per la necessità di ricostituire la completezza di immagine di un oggetto artistico; non ci sembra impropria l’ipotesi di estendere tali considerazioni anche a manufatti più ampi, quali possono essere ambienti, edifici o addirittura interi ambiti urbani. La presenza di un vuoto nel tessuto cittadino – soprattutto in quello sedimentato – viene sovente recepita come una privazione impropria che riduce la completezza che tale ambiente dovrebbe essere in grado di generare: al posto di una facciata, di un volume, l’osservatore è posto di fronte alle viscere della città storica, che entrano prepotentemente nel suo campo percettivo, spesso negando la qualità di momento sintetico dell’esperienza estetica all’unitarietà dell’effetto complessivo. Il vuoto costituisce in questi casi un elemento di disturbo, che può essere ridotto – di nuovo in analogia con le formulazioni di Brandi – tramite il ricorso a riempimenti stilisticamente distinguibili, eppure adatti all’interazione con una situazione già avviata. Il problema del completamento di immagine assume un rilievo particolare in tutti quei casi in cui i nuovi interventi si trovano ad interagire con ambienti di carattere omogeneo, quali i centri storici. Nella loro accezione di opera d’arte collettiva, nonché per la loro qualità di res publica gli ambienti urbani sedimentati pongono frequentemente vincoli non trascurabili ai progettisti, a causa dell’esigenza più o meno espressa di conservare l’immagine della città storica. Spesso però questi vincoli si limitano alla qualità dei prospetti: nel lasciare al progettista un ben più ampio margine di libertà relativamente agli spazi interni, non è infrequente che si verifichino discutibili disgiunzioni tra facciata e interno3. 26

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Fig. 6 Luigi Moretti. Edificio per uffici a Piazzale Flaminio, Roma (1975). Dalla terrazza tra Piazza del Popolo ed il Pincio, il peculiare coronamento dell’edificio sembra voler proseguire le curve del complesso di Porta del Popolo

Anche alla scala del singolo edificio il procedimento di completamento dell’immagine può avere luogo secondo modalità analoghe. Le valenze iconiche di un edificio non si limitano alla figurazione, bensì includono tra gli altri anche il proporzionamento, il dimensionamento e l’articolazione morfologica. Il completamento dell’immagine può dunque attuarsi attraverso l’aggiunta all’esistente di nuove parti che deducono da questo indicazioni per la loro definizione. Per via analogica, la trasformazione accoglie gli elementi metrici, introducendoli in un processo di trasfigurazione; anche in assenza di una precisa correlazione linguistica, la costruzione della nuova immagine può assumere i caratteri di un completamento (Fig. 6). È evidente che, sempre seguendo l’analogia con la teoria del restauro di Brandi, il completamento implica necessariamente il riconoscimento e l’acquisizione di un’immagine preesistente, alla quale si attribuisce una determinata validità ed un significato. L’immagine originaria viene acquisita e quasi interiorizzata nel nuovo progetto, diventando dunque elemento fondante del nuovo. Nel delineare lo sviluppo della pratica di progetto sull’esistente, Vittorio Gregotti rileva che alla nozione di modificazione si accompagna costantemente quella di appartenenza: nella sua interpretazione, si può modificare solo ciò che è parte integrante del proprio orizzonte culturale4. Questa posizione implica la continuità dell’atto di trasformazione, ovvero la persistenza di determina27

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ti fatti rispetto alla variabilità imposta dal movimento del tempo. Quello di continuità non è tuttavia un concetto universalmente applicabile, poiché sovente la trasformazione avviene in maniera dialettica, opponendo ad un ordine dato procedimenti ad esso radicalmente opposti. Al centro del lavoro sull’esistente può dunque collocarsi il dialogo tra una molteplicità di piani temporali: il confronto – o in alcuni casi conflitto – di storicità. Nella permanenza della materia antica il progettista contemporaneo può riconoscere quanto appartiene alle sue fondamenta culturali, rifiutando al contempo ciò che non considera significativo: ciascuna trasformazione, ogni operazione sulla materia precedente andrà ad aggiungere un ulteriore livello alla stratigrafia del mondo antropizzato. Mentre la strategia del completamento implica il riconoscimento della possibile analogia tra antico e nuovo, stabilendo pertanto delle similitudini con la pratica del restauro, le operazioni dialettiche devono necessariamente fare leva sull’alterità di quanto viene affiancato alla preesistenza. La scelta di rendere autonomo il nuovo intervento può perseguire il fine di rendere evidenti in negativo i caratteri dell’esistente, contrapponendo morfologie, linguaggi e tecniche distinti. Può dunque trattarsi della creazione di uno “specchio in negativo”, attraverso il quale l’osservatore viene messo in grado di conoscere più chiaramente, per differenza, l’una e l’altra parte. Nell’intervento sull’esistente le vie dialettiche sono ovviamente più di una: la contrapposizione può essere misurata ovvero produrre un impatto forte, a volte tanto da rendere difficile la sopravvivenza della materia data. L’introduzione forzata di linguaggi, l’innesto di morfologie aliene o ancora la brusca variazione delle caratteristiche ambientali di un edificio esistente possono in alcuni casi produrre risultati discutibili. Al contempo è innegabile che l’enfatizzazione delle differenze costituisce un validissimo strumento alternativo all’analogia. La dialettica tra preesistenza e nuovo intervento può anche verificarsi relativamente al solo contenuto funzionale: ciò può risultare fondamentale – non diversamente dal trapianto di un organo – per un manufatto che, pur non essendo considerato monumento in quanto tale, ha esaurito la propria vita economica, non essendo più in grado di generare i profitti necessari a giustificarne il mantenimento; non sono rari i casi in cui la trasformazione dell’uso di questi oggetti costituisce l’unico modo per promuoverne il recupero. Palazzi gentilizi trasformati in spazi per uffici, impianti sportivi riadattati a caserme, stazioni ferroviarie dedicate alla cultura, fabbriche che ospitano aule universitarie: nel recupero delle architetture si è spesso fatta di necessità virtù, adattando in maniera più o meno efficace vecchi contenitori a contenuti totalmente diversi 28

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Fig. 7 Massimo e Gabriella Carmassi. Musealizzazione della miniera Ravi Marchi, Gavorrano (2001). Il percorso di visita viene predisposto svolgendo un nastro continuo all’interno del sito, determinando le viste privilegiate della preesistenza

per i quali non erano stati intesi. Ma c’è chi sostiene che il vero pregio delle buone architetture è proprio quello di sapersi lasciar trasformare in altro senza eccessiva sofferenza e soprattutto senza perdere il proprio carattere. Analogia e dialettica rappresentano due contrapposte strategie di interazione con il sistema linguistico del costruito esistente. A monte della cognizione strutturale, l’esperienza diretta dell’architettura è tuttavia determinata dal modo in cui questa informa la percezione dell’osservatore. Se la preesistenza viene considerata secondo la sua qualità di oggetto dato, ne consegue che il nuovo intervento può costituirsi come dispositivo di lettura: interagendo in un preciso modo con la situazione esistente, è in grado di disvelarne aspetti inusitati, consentendone una comprensione aumentata rispetto alla condizione di partenza. Così come un ritrattista evidenzia determinati tratti di un volto, rilevando aspetti peculiari di una persona altrimenti meno visibili, così anche l’interazione del nuovo con l’antico può consentire all’osservatore di carpire caratteristiche non del tutto evidenti. A prima vista, questo può aver luogo predisponendo percorsi e punti di vista privilegiati tramite i quali l’osservatore viene condotto attraverso un preciso itinerario di esperimento dell’oggetto preesistente; in termini più generali, il nuovo intervento determina e diventa parte integrante dell’orizzonte fenomenologico dell’antico (Fig. 7). Attraverso l’uso delle tecniche costruttive, le proprietà dei materiali e l’illuminazione, il progettista può indurre effetti di riflessione, trasparenza, attenuazione o accentuazione degli spazi, enfatizzando o smorzando determinate caratteristiche: l’inversione della percezione – dal buio alla luce, dal silenzio al rumore – può trasformare un ambiente noto in un’esperienza del tutto originale. La modificazione dell’esistente si può espletare dunque nell’alterazione o 29

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incremento delle modalità percettive intrinseche nella preesistenza, anche in contrasto rispetto all’intenzione originaria. Nell’ambito dello stesso intervento possono naturalmente essere applicate contemporaneamente diverse strategie, al fine di includere nella trasformazione tutti i livelli di esperimento dell’architettura. I modi della modificazione, le vie prescelte dai progettisti per giungere alla narrazione del passato attraverso il presente sono numerosissimi e resistono peculiarmente ad una sistematizzazione – indice con ogni probabilità della resilienza dell’antico a qualsiasi atto di semplificazione concettuale.

Il compito Progetto, strategie, metodi e strumenti: la strada è tracciata. Nello studio che segue si tenterà di comprendere con quali armi l’architettura possa combattere la contesa del tempo in presenza delle manifestazioni materiali del passato. Si è già detto che all’origine del confronto l’architetto si trova faccia a faccia con l’ineffabile tempo stesso, ordine sfuggente e polimorfo di tutte le cose: in relazione a questo egli deve comprendere e definire la propria identità. È forse il compito più arduo per ognuno, poiché intrinseca alla condizione umana è l’oscillazione tra la permanenza ed il cambiamento, l’ambizione di sconfiggere l’eternità e l’inesauribile energia dell’innovazione. L’aspirazione all’eterno è la ricerca di una radice profonda, del senso di appartenenza ad una continuità umana, unica garanzia di invincibilità di fronte alle maree del tempo. In nome di questa permanenza l’architettura del passato ha eretto i suoi monumenti; anche nel ventesimo secolo, Louis Kahn costruiva gigantesche rovine moderne, asserendo che «ciò che sarà è sempre stato», mentre Adolf Loos sognava una titanica colonna dorica svettante nel cielo di Chicago, segno della persistenza del passato. Eppure le intuizioni dei maestri hanno anche aperto la strada alle aberrazioni di chi non ha saputo coglierne il senso profondo, provocando gli eccessi dello storicismo o la conservazione oltranzista, entrambi incapaci di accettare lo scorrere del tempo, diffidando del futuro e abusando della memoria storica. Per chi crede troppo fermamente nella permanenza delle cose, il tempo può apparire come un trascurabile incidente ontologico. All’estremo opposto il tempo diviene invece misura di tutte le cose: non è possibile sfuggirgli ricorrendo alle immagini archetipe o ai modelli classici. Il momento presente è l’unico campo su cui confrontarsi, nel tentativo di orientare il percorso del tempo; tutto ciò che esula da quest’ambito è superfluo anco30

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raggio ad un passato che non ha la capacità di dare forma al futuro. La promessa di «rivoluzione attraverso l’architettura» ha generato la consapevolezza del potere demiurgico del progetto; allo stesso tempo lo ha condannato al destino del mutamento quotidiano, rendendolo schiavo della temporalità. Entrambi questi atteggiamenti estremi privano il tempo del suo significato – da un lato escludendolo dall’orizzonte umano, dall’altro relativizzandolo sino al punto di renderlo inconsistente. Il pericolo esiziale in cui rischiano di incorrere è lo stesso: quello di dimenticare che l’architettura appartiene al tempo. A nostro avviso il progetto – e a maggior ragione la trasformazione dell’esistente – non possono risolversi né nel tentativo di conservare pervicacemente al costo di mummificare la storia, tantomeno nel dictum piranesiano «Novitatem meam contemnunt, ego illorum ignaviam». Ciò che il progetto richiede è ben più complesso: contemperare istanze multiformi e disparate, alla ricerca di un preciso punto di equilibrio che sarà l’espressione sintetica di come l’autore affronta la dialettica tra presente e passato. Per il solo fatto di trovarsi ad operare in un ambiente storicizzato, il progettista non può e non deve rinunciare al potere demiurgico dell’architettura, veicolo di modernità: nonostante la profondità ed il carattere pervasivo della riflessione critica che ha interessato gli strumenti del moderno, l’istanza di operare attraverso i «mezzi del nostro tempo» non ha ancora esaurito la propria attualità. Il progetto contemporaneo sull’esistente può affrontare la contesa tra presente e passato solo se è piena espressione di un presente dialettico, consapevole della sua precisa collocazione nell’orizzonte storico del tempo. Attraverso questa cognizione della storicità del presente deve concretarsi dunque la relazione con la materia esistente: il momento attuale non è necessariamente disgiunto rispetto agli eventi che hanno prodotto tale materia; si tratta semmai di comprendere la propria distanza critica rispetto al passato. Se anche le cause materiali sono mutate nell’ampliarsi del divario, un filo di continuità permane invariabilmente in ogni rapporto tra antico e nuovo. Le appropriazioni di una situazione data, sovente operate proprio nel nome di questa continuità, devono poter essere circoscritte e limitate. Un’esauriente lettura dell’oggetto preesistente, del tessuto urbano sedimentato o del contesto ambientale è senza dubbio operazione preliminare inderogabile: il progetto che deriverà da questa analisi non può però esaurirsi nell’operazionismo del fornire una risposta a ciascuna delle condizioni che sono state rilevate. Persino il progetto di restauro – per definizione il più vincolato alla materia presente – deve produrre interpretazioni critiche, atte a delimitare l’estensione dell’intervento; a maggior ragione ciò deve avvenire in misura significativa nel progetto 31

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architettonico. Evidentemente, nell’operare sull’esistente la timidezza non paga: così come l’antico può beneficiare della presenza del nuovo, entrando a far parte di un impianto estetico che valorizzi entrambi, così anche il nuovo non deve temere di utilizzare – anche spregiudicatamente – la materia esistente per dare concretezza e fondamento alle proprie ragioni architettoniche. Se abilmente adoperato, il rapporto con la materia storica può rivelarsi eccellente strumento nella produzione del senso dell’architettura contemporanea. La positività del progetto, il suo potere innovatore, trovano dunque il loro contrappeso nella materialità dell’esistente, nell’evidenza degli oggetti sui quali si interviene. Non è attraverso la demagogia delle operazioni mimetiche, né con la volgarità degli exploit dall’immagine dirompente che si può ottenere una coabitazione sensata di oggetti separati dal mare del tempo. «Il nostro tempo,» scrive Romano Guardini, «è dato a ciascuno di noi come terreno sul quale dobbiamo stare e ci è proposto come compito che dobbiamo eseguire»: non diversamente, ci sembra che l’unico modo per contemperare le istanze del passato con l’attualità del momento presente sia quello di rendere solidali la visione del futuro con «il mondo che ci è stato dato».

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Note 1 R. Guardini, Lettere dal Lago di Como, Morcelliana, 1993, p. 95. 2 In ciascuna delle rappresentazioni dell’Adorazione, in particolare nelle tavole conservate alla National Gallery di Londra e agli Uffizi, Botticelli interpreta in maniera differente il tema del rapporto tra rovine e nuove costruzioni. Di fondo rimane l’intento metaforico di fusione tra nuovo e antico mondo, inteso come punto cardine nel Tempo, segnato dall’arrivo del Messia. 3 Non sono pochi i casi in cui la necessità di conservare le facciate per non creare lesioni all’interno di un ambiente urbano ha portato ad una totale spaccatura fra gli ambiti interni ed esterni di singoli manufatti, dei quali i soli prospetti vengono pudicamente conservati al fine di simulare l’autenticità di quanto autentico non è. Questa pratica, tristemente nota nell’area mitteleuropea come Fassadismus, non ha ovviamente mancato di trovare estimatori in Italia, vuoi per le difficoltà di adeguare gli spazi interni alle stringenti normative tecnologiche odierne, o anche per l’impossibilità di rendere sufficientemente redditizi impianti distributivi antiquati ed eccessivamente vincolanti, o spesso ancora per semplice inettitudine dei progettisti. Può dunque accadere che dietro ad una elegante facciata d’epoca si celi un edificio del tutto disgiunto da quest’ultima, sul quale i resti dell’antico sono stati “incollati” per fornire una parvenza di decorum. La pratica di questa architettura di facciata non è ovviamente auspicabile per nessun motivo: nel migliore dei mondi possibili, un progettista cui viene richiesto un programma tale da non consentirne lo sviluppo nei ragionevoli limiti imposti dall’oggetto esistente dovrebbe avanzare un’obiezione di coscienza. Con molta probabilità, la demolizione e successiva ricostruzione rappresenta un’alternativa ben più decorosa, che non pretende ipocritamente di ridurre il fatto architettonico ad un trompe l’oeil storico applicato su un oggetto completamente alieno. 4 V. Gregotti, “Modificazione”, Casabella, n. 498-499 gennaio-febbraio 1984. «Bisogna innanzitutto […] partire dalla considerazione che negli ultimi trent’anni si è verificato, in modi spesso divergenti e con esiti anche discutibili, un progressivo interesse da parte della cultura architettonica per un’altra nozione che accompagna quella di modificazione: la nozione di appartenenza. Questa nozione di appartenenza (ad una tradizione, ad una cultura, ad un luogo e così via) si oppone progressivamente all’idea di tabula rasa, di ricominciamento, di oggetto isolato, di spazio infinitamente ed indifferentemente divisibile»; p. 2; «La “modificazione” è, nella sintassi linguistica, un modo di essere del modo, cioè della categoria del verbo, che definisce la qualità dell’azione (modo congiuntivo, indicativo ecc.), quindi essa rivela anche la coscienza dell’essere parte di un insieme preesistente, la trasformazione introdotta in tutto il sistema dal cambiamento di una delle sue parti ed indica che essa si sviluppa nel tempo e, attraverso la radice etimologica che la ricollega al concetto di misura (modus), si congiunge poi al mondo geometrico delle cose finite», p. 5.

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2. La trasformazione dell’esistente nel pensiero architettonico

Nell’ambito della storia della teoria architettonica, la problematica critica della trasformazione riveste un ruolo del tutto particolare, che segue in buona parte percorsi autonomi rispetto ai più ampi sviluppi della disciplina. Le ragioni di questa peculiarità sono da ricercarsi nella fattispecie del rapporto con l’oggetto materiale, la testimonianza storica dell’ambiente antropizzato, condizione che si è verificata non infrequentemente, ma che solo in alcuni particolari casi ha dato luogo ad una riflessione critica riconoscibile da parte di progettisti e teorici dell’architettura. Più specificamente, è necessario rilevare che la questione della preesistenza materiale è stata affrontata in maniera diversa, nel corso dello svolgimento storico, a seconda del particolare momento del pensiero di ciascuna epoca: se si volesse delineare il difficile sviluppo di un’epistemologia dell’architettura considerata come attività cognitiva, ci si imbatterebbe continuamente nelle trasformazioni che essa ha vissuto come riflesso dell’onda lunga del pensiero estetico e scientifico. Senza che questa affermazione voglia negare originalità o autonomia alla disciplina, è pur vero che i mutamenti intervenuti sul modo in cui gli architetti hanno considerato la materia storica sono sovente stati determinati a monte, influenzando solo in un secondo momento l’operare dei progettisti. Ciò che però distingue la problematica della trasformazione nell’architettura da un più generale discorso sugli sviluppi della filosofia dell’arte, è proprio l’intrinseca attitudine delle costruzioni ad essere radicate nei luoghi, nonché a determinarne fortemente il carattere. L’oggetto artistico rappresenta, almeno fino all’inizio del ventesimo secolo, un’entità isolata, generalmente autoreferenziale e potenzialmente autosufficiente. L’opera d’architettura, di là da qualsiasi intenzionalità, entra in rapporto con il contesto entro il quale sorge, sia esso artificiale o naturale; il rapporto con le preesistenze, dunque, si configura come precisazione del più ampio problema del contesto: l’influenza che l’oggetto esistente esercita sulla nuova costruzione è qualitativamente distinta rispetto ad un semplice contestualismo. Apparirebbe naturale, da un certo punto di vista, tracciare un parallelo tra lo 35

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sviluppo del senso antiquario e la questione delle preesistenze. In ambedue i casi, risulta determinante la concezione stessa della storia, l’importanza che si attribuisce alla tradizione, nonché il senso di discendenza che molti autori hanno avvertito nei confronti degli antichi. Eppure, nonostante questi innegabili punti di contatto, la problematica della trasformazione continua a possedere una specificità, derivante senza dubbio dall’inevitabile coinvolgimento con la materia fisica. Se dunque, fin da quando è nato il concetto di antichità, gli architetti hanno dovuto fare i conti con la presenza spesso ingombrante della Storia, da cui hanno desunto modelli e linguaggi, la questione delle preesistenze si è presentata immediatamente come determinata da un più concreto ancoraggio ai manufatti del passato. Senz’altro però i due temi critici, ovvero il rapporto con l’antichità nel senso generale e in quello più specifico della presenza materiale delle architetture storiche, sono accomunati dalla loro origine. Se nell’epoca premoderna la consapevolezza dell’entità storica degli oggetti era limitata, riducendo tutto il patrimonio di forme su un piano di sostanziale contemporaneità, l’avvento di un momento di cesura, spesso individuato nella critica rinascimentale all’architettura gotica1, segna una profonda trasformazione sia per quanto riguarda il rapporto con la Storia astrattamente intesa sia con le sue manifestazioni materiali.

Fig. 1 Leon Battista Alberti. Facciata di Santa Maria Novella, Firenze (1450 circa)

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Se gli interventi di trasformazione si configurano dunque come tali quando sono caratterizzati dall’intenzionalità del progettista, questi non possono che avere luogo laddove sia presente una consapevolezza della storicità della materia con cui si lavora. Ontologicamente, in assenza della presa d’atto di una diversità di tale materia, le preesistenze non esistono: se non se ne sa ascoltare il linguaggio, le antiche pietre rimangono mute. Nelle pagine che seguono si intende tracciare una linea di sviluppo della problematica delle preesistenze dalla sua origine sino alla contemporaneità; nel fare ciò, sarà necessario dunque scorporare questo tema critico, individuando il labile filo che lega autori e opere irregolarmente distribuite nel tempo e nello spazio. In altre parole si tenterà di comprendere in che modo le testimonianze materiali del passato sono state considerate nel corso dello svolgimento del pensiero architettonico, il ruolo che hanno rivestito nelle diverse teorie della progettazione, individuando tratti comuni anche al di là di una rigida suddivisione storiografica.

Il Rinascimento e le origini del senso dell’antico Intorno al 1450, Leon Battista Alberti riceve da Giovanni Rucellai l’incarico di completare la facciata del complesso di Santa Maria Novella a Firenze (Fig. 1), il cui registro inferiore era già stato realizzato su commissione della famiglia Baldesi. A causa dei delicati equilibri politici sussistenti tra le due grandi famiglie di commercianti, all’architetto si richiede un intervento che non alteri né demolisca quanto già realizzato, completando la facciata medievale. Quasi incidentalmente dunque, a causa di motivi esterni rispetto alla volontà di Alberti stesso, compare nella storia dell’architettura la problematica dell’intervento sulle preesistenze. Se anche il vincolo imposto al progettista costituisce una condizione esterna alle sue intenzioni, di fatto l’intervento che egli metterà in opera sarà in grado di conservare il senso originario dell’articolazione medievale, inserendola all’interno di un ordine euritmico di stampo radicalmente diverso. Come hanno dimostrato le ricostruzioni di Wittkower2, la nuova facciata della chiesa è ordinata da un principio proporzionale basato sul diapason, il rapporto matematico 1:2 che Alberti applica in diverse opere. Il modulo geometrico include, nella definizione delle proporzioni dell’opera, anche il registro inferiore, caratterizzato dagli archi a sesto acuto, il cui linguaggio entra dunque a pieno titolo nella nuova composizione. Per ottenere questo risultato, Alberti è costretto a non poche acrobazie sintattiche: l’introduzione dell’insolita fascia 37

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centrale, che risulta tangente al rosone preesistente, nonché l’adozione dell’ordine gigante sui lati, necessario per concludere l’impaginato della facciata. Nella Firenze della metà del Quattrocento, innegabilmente ostile alla ‘barbarica’ maniera nordica, l’operazione compiuta da Alberti non poté che essere criticata come incoerente, mescolando impropriamente ambiti stilistici eterogenei e incompatibili. Eppure, come osserva Wittkower3, la facciata di Santa Maria Novella rappresenta il primo grande esempio di euritmia rinascimentale, rispondendo pienamente al concetto di finitio – la “commisurazione delle parti” che costituisce una componente fondamentale nella teoria albertiana della concinnitas4. Che questo risultato sia raggiunto nonostante – o forse in virtù – della scomoda compresenza di due sistemi linguistici non è fatto da sottovalutare e che sarà destinato a riemergere più volte nei secoli successivi. Nel 1450, ricevendo da Sigismondo Pandolfo Malatesta l’incarico per il riadattamento della chiesa di San Francesco a Rimini (Figg. 2-3), Alberti si era già trovato a confrontarsi con un oggetto preesistente, una basilica medievale. La situazione, in questo caso, è ben diversa rispetto a quella di Firenze: l’edificio antico è destinato, almeno per quanto riguarda il suo involucro esterno, a scomparire quasi completamente, e solo il mancato completamento del nuovo intervento consente ancora oggi la parziale lettura dell’antico prospetto.

Fig. 2 Leon Battista Alberti. Trasformazione della chiesa di S. Francesco a Rimini (1450 circa). Facciata Fig. 3 Fronte laterale

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Fig. 4 Matteo de’ Pasti. Medaglia commemorativa con l’ipotesi di completamento del Tempio Malatestiano (1450)

Le due facciate laterali della chiesa lasciano però comprendere quali fossero le intenzioni dell’architetto nei confronti della preesistenza: la profonda paries, articolata dalle arcate scandite anche in questo caso da un sistema basato sul diapason, è giustapposta in maniera indifferente sull’antico prospetto, di modo che le finestre ogivali non cadono mai nella stessa posizione all’interno dell’arco a tutto sesto. L’incidentalità di questa soluzione può essere interpretata in diversi modi: innanzi tutto, è possibile affermare che Alberti ignori completamente le irregolari proprietà metriche dell’edificio medievale, sovrapponendogli un’articolazione classica autonoma. Lo sdoppiamento della facciata in due piani di profondità, a differenza della bidimensionalità di Santa Maria Novella, consente sicuramente una maggiore indipendenza dei due sistemi, il più antico dei quali è destinato a scomparire nella visione di scorcio dei prospetti; il posizionamento delle arche sepolcrali all’interno delle campate indicherebbe il medesimo intento. Ci sembra però che tale interpretazione non riconosca la coerenza che Alberti dimostra in tutte le sue opere d’architettura, e questo per due diversi motivi. Innanzi tutto, lo sdoppiamento tra la superficie della facciata e le aperture contraddice uno dei principi cardine del sistema teorico esposto nel De re aedificatoria: quell’esigenza di organicità dell’opera architettonica che impone una continuità tra articolazione interna ed esterna. In secondo luogo, non potendo ricondurre lo spazio del S. Francesco ad un proporzionamento armonico, Alberti decide di sovrapporre una partizione regolare indifferente alle aperture della chiesa preesistente. In questo modo egli rinuncia ad ottenere una corrispondenza tra gli assi delle finestre e quelli degli archi sulle facciate laterali, sacrificando la precisa collocatio (il principio di 39

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posizionamento delle parti) a favore del proporzionamento euritmico. Si può dunque porre una domanda fondamentale: per quale motivo Alberti sacrifica due criteri compositivi che rivestono un’importanza cruciale nel suo trattato per soddisfarne un terzo che – possiamo almeno supporre – si sarebbe anche potuto risolvere altrimenti? Perché nel Tempio Malatestiano Alberti non applica l’abilissima operazione di inclusione che riuscirà a rendere euritmica la difficile facciata della chiesa fiorentina? Ipotizzare una risposta significa speculare al di là dei fatti storici, soprattutto in un caso particolare come quello riminese, segnato da una lunga e travagliata storia di cantiere; si può però tentare di tracciare un’analogia tra la composizione del progetto nel suo complesso ed il rapporto tra nuovo e antico. Nonostante l’incertezza riguardante le sue precise caratteristiche, è noto che la pianta basilicale della chiesa avrebbe dovuto essere completata da un’ampia rotonda voltata a cupola, come è testimoniato dalla medaglia di Matteo de’ Pasti (Fig. 4). La giustapposizione di due sistemi tanto diversi, fa osservare Manfredo Tafuri5, costituisce una novità nel panorama architettonico del primo Rinascimento: l’evidente volontà di contrapporre tipi spaziali di differente origine, l’uno di pura invenzione geometrica, l’altro di derivazione archeologica, significa il tentativo di mescolare la maniera nuova con quella antica, seguendo il principio teorico della concordia partium. Non è necessariamente da escludersi che questa contaminazione linguistica non potesse ripetersi anche nel conflitto tanto evidente tra i due distinti involucri. La disinvoltura con la quale Alberti palesa la struttura sottostante non deve necessariamente implicare la presunta invisibilità della preesistenza: al contrario, sembrerebbe la manifestazione della volontà esplicita di creare un rapporto dialettico tra le parti, nell’ottica di «aiutare quel ch’è fatto, e non guastare quel che s’abbia a fare»6. Se risulta difficile ambientare questo atteggiamento in un’epoca tanto esplicitamente avversa alla maniera gotica, è però incontrovertibile che in Alberti prevale una volontà di comprensione del fenomeno architettonico antico, intesa nel senso di inclusione all’interno della nuova opera. È un’esigenza questa esplicitata dall’Alberti stesso, nel libro IX del De re aedificatoria7, quando si afferma che prima di procedere a qualsiasi azione, è indispensabile la comprensione di quale sia la situazione di partenza. Quella che oggi sarebbe una semplice regola di buona condotta progettuale non va invece sottovalutata in un’epoca che aveva dell’antico una percezione non più che embrionale. È chiaro però che le testimonianze dell’antico – soprattutto quando si tratta di un passato non classico – non costituiscono per Alberti una presenza forte, quanto piuttosto un problema da risolvere. Ma è proprio 40

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nella qualità di questa risoluzione che risiede la rilevanza critica di questi esempi: non si tratta di occultare le prove della differenza, quanto, in ambedue i casi, di metterle chiaramente in mostra, quasi volesse Alberti sottolineare, tramite il confronto con la preesistenza medievale, la classicità del suo linguaggio architettonico. È pertanto il dialogo che si instaura tra antico e nuovo del tutto peculiare: se nella facciata di Santa Maria Novella è possibile riscontrare una continuità legata ai modelli fiorentini, primo fra tutti San Miniato al Monte, nel Tempio Malatestiano ciò che risalta è la netta cesura, critica operazione di palinsesto tra oggetti di diversissima origine. Nelle opere di Alberti, tuttavia, nonostante la marcata diversità di sistemi linguistici, prevale un principio unitario, astratto ma anche compositivo, che ricomparirà numerose volte nel corso della storia successiva: la possibilità, sia teorica che pratica, di far felicemente convivere oggetti chiaramente distinti tra loro su un unico piano ontologico e fenomenologico. Per la stessa natura economica dell’industria architettonica rinascimentale, le imprese basate sulla trasformazione di oggetti esistenti risultano abbondantissime. Anche frequente è il caso di fabbriche che si prolungano nel tempo oltre la vita del singolo progettista: chi gli succede è tenuto a intervenire su un abbozzo di edificio, su un cantiere non finito, senza naturalmente poter concludere l’opera secondo le intenzioni originali, il più delle volte non registrate, se non sommariamente. Alberti risolve queste occasioni applicando un metodo basato sul rigore filologico e sulla coerenza linguistica delle parti; l’oggetto preesistente viene dunque considerato come figura misuratrice, rispetto alla quale proporzionare le nuove articolazioni. La misurazione svolge un ruolo cardinale nel metodo albertiano, costituendo un aspetto fondante del sistema estetico proposto nel De re aedificatoria. In tempi successivi, il concetto di finitio perderà progressivamente la sua centralità, a favore di una pratica di proporzionamento più empirica, meno vincolata da canoni dimensionali esatti. A seguito di questa trasformazione nella formulazione concettuale, muterà anche lo statuto dell’oggetto preesistente, che non viene più inteso come dispositivo linguistico o insieme misuratore, quanto piuttosto considerato nella sua essenza architettonica immediata. Gli effetti spaziali e pittorici passano dunque in primo piano: è in questo senso che opera Michelangelo, quanto mai remoto da Alberti per sensibilità e impostazione teorica. Quasi tutti gli incarichi che Michelangelo riceve nel corso della sua attività implicano la trasformazione di strutture antiche; Ackerman osserva al riguardo che l’architetto fiorentino non rifugge tali ostacoli, anzi potrebbe averli addirit41

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Fig. 5 Ignoto. Vista del Campidoglio nel secolo XVI. Parigi, Louvre, Cabinet des Dessins

Figg. 6, 7 Michelangelo. Campidoglio, Roma (1540). Vista dal Palazzo Senatorio e planimetria della piazza

tura cercati di sua iniziativa, quasi con l’intento di porre dei limiti esterni alle proprie capacità creative8. Il suo atteggiamento nei confronti dell’antico è tutt’altro che reverenziale, e se anche l’influenza delle grandi rovine romane è riscontrabile nelle sue architetture, egli non esita, in diverse occasioni, a trasformare la materia esistente in modo radicale, forzandola entro un sistema riconducibile ad un’idea dominante. La trasformazione del Campidoglio dimostra in che modo egli sia in grado 42

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di sfruttare efficacemente le limitazioni imposte dalle committenze (Figg. 5-7). L’esigua disponibilità economica per l’opera impone il mantenimento delle volumetrie esistenti, il Palazzo dei Conservatori ed il Palazzo Senatorio, i cui assi formano un angolo di 80 gradi. Con la realizzazione del Palazzo Nuovo Michelangelo razionalizza l’insieme, trasformando la piazza sfrangiata in un sistema simmetrico. Il nuovo edificato è speculare rispetto al Palazzo dei Conservatori, e va a chiudere il terzo lato della piazza, la cui pianta diviene dunque trapezoidale. Questo semplice gesto dimostra lo straordinario intuito di Michelangelo, che comprende immediatamente quanto lo svasamento della piazza possa enfatizzare il dinamismo dell’impianto spaziale. La soluzione ovvia – riportare la piazza all’ortogonalità, possibilmente ordinandola attraverso un rigoroso sistema proporzionale – avrebbe prodotto un effetto totalmente differente, senz’altro più statico, adatto all’osservazione da punti di vista privilegiati, piuttosto che all’esperienza del movimento ascensionale verso la sommità del colle e attraverso la piazza. Tutte le successive operazioni contribuiscono a sottolineare il particolare carattere dell’esperienza architettonica determinata da questo teatro urbano. Da una condizione di frammentarietà si è passati ad un’opera avvolgente, sicuramente intesa a stimolare i sensi piuttosto che l’intelletto. Al termine dei lavori, il Campidoglio è profondamente trasformato, e poco o nulla rimane della situazione precedente. A differenza degli interventi albertiani, non si tratta certamente della ricerca di un rapporto dialettico tra nuovo Figg. 8, 9 Michelangelo. Santa Maria degli Angeli, Roma (1561). Vista dell’interno e pianta con evidenziati in nero gli interventi di Michelangelo

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intervento e materia antica, bensì dello sfruttamento di una particolare condizione morfologica. Invece di risaltare, le differenze vengono omogeneizzate in un unico sistema costruttivo decisamente moderno. Di segno nettamente opposto è invece l’operazione che lo stesso Michelangelo compierà, venti anni più tardi, nel trasformare la sala voltata delle Terme di Diocleziano in Santa Maria degli Angeli (Figg. 8-9). Completamente differente è la situazione di partenza: se il colle capitolino sul quale l’architetto si trova ad operare è uno spazio urbano sostanzialmente informe, le strutture dell’aula termale sono ben conservate, salvo naturalmente i rivestimenti mancanti. Si tratta di uno spazio straordinario e certamente Michelangelo, che sostiene di aver voluto ricostruire in San Pietro una sala termale romana, non rimane indifferente alla sua qualità architettonica. A differenza del Campidoglio, Santa Maria degli Angeli ha bisogno dunque di pochissime aggiunte per funzionare perfettamente. Michelangelo realizza alcuni diaframmi per separare più efficacemente gli ambienti, ma soprattutto impone alla nuova chiesa l’accesso dalla rotonda posta sulla mezzeria della grande sala voltata, di nuovo rifuggendo la soluzione ‘ovvia’ dell’utilizzare l’ambiente centrale come navata. L’impianto architettonico rimane sostanzialmente immutato; la diversa modalità di fruizione fa sì che esso venga percepito in maniera sequenziale, con un ampio salto di scala tra l’ambiente di ingresso e la sala voltata. Se l’ingresso fosse stato posto sul lato corto della sala, l’osservatore si sarebbe trovato proiettato al suo interno senza alcuna transizione; al contrario, entrando dalla rotonda, viene svelata progressivamente l’altezza delle volte, poi la larghezza dell’anomalo transetto. Il particolare effetto viene ottenuto semplicemente spostando la posizione dell’accesso alla chiesa. Si può ipotizzare che, di fronte alla grandiosità delle Terme di Diocleziano, Michelangelo abbia voluto minimizzare il suo intervento per non ledere l’identità architettonica ma anche storica della preesistenza. Purtuttavia, ciò non corrisponderebbe necessariamente alla sua personalità artistica, proverbialmente poco incline a riconoscere la ‘grandezza degli antichi’. È molto più probabile che per lui la grande sala andasse bene così com’era, e che potesse rispondere all’intento tramite le semplici operazioni messe in atto. Nulla ci può indurre a pensare che, in Santa Maria degli Angeli, abbia prevalso il rigore filologico sulla volontà di forma tipicamente michelangiolesca. Alberti e Buonarroti, come intellettuali e progettisti, sono icone di due opposti modelli culturali che, nel corso del Rinascimento italiano, si compenetreranno continuamente. Nell’operare sull’esistente, loro come altri autori oscilleranno tra l’indagine archeologica ed il tentativo di bilanciare la inventio con le con44

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dizioni date. Il difficile equilibrio raggiungibile tra queste tendenze sarà il filo conduttore del problema dell’intervento sull’esistente per lunghissimo tempo.

L’arbitrario e il positivo: da Piranesi a Viollet-le-Duc L’età del Rinascimento dà avvio ad un lungo processo di avvicinamento filologico all’antichità, che sarà influenzato radicalmente dalle trasformazioni epistemologiche dei secoli successivi. Progressivamente l’oggetto storico perde la connotazione di objet trouvé – ovvero di artefatto capitato quasi incidentalmente sulla scena – per essere sempre più considerato come traccia significativa di una nobile età trascorsa. La considerazione attenta che Alberti ha delle costruzioni medievali è pur sempre menomata da un’imperfetta conoscenza dell’origine storica dell’opera, nonché da una posizione ideologica che ne disconosce in parte la validità. La minuziosa indagine che nei tre secoli successivi verrà condotta sui resti del mondo antico contribuirà a portare in superficie il filo conduttore di una storia che entrerà a titolo sempre maggiore nelle teorie dell’arte e dell’architettura, sino a giungere, in un momento generalmente identificato con l’opera di Winckelmann, alla moderna disciplina della storia dell’arte. Ben prima di questo istante però la trattatistica aveva prodotto una molteplicità di repertori archeologici di diversa natura, dall’Entwurff einer historischen Architektur di Fischer von Erlach, alle numerose raccolte di disegni dei viaggiatori inglesi nel vicino e lontano Oriente. Nelle teorizzazioni architettoniche del XVIII secolo i modelli storici svolgono un ruolo centrale nella complessa dialettica tra imitatio e inventio9: la superiorità delle opere del passato rispetto a quelle contemporanee viene sostenuta da molti autori per i quali l’attività creativa è subordinata al rispetto dei tipi classici. Il tipo come definito da Quatremère de Quincy nel suo Dizionario è uno strumento indispensabile per la creazione di una classificazione razionale dell’architettura, le cui caratteristiche devono poter essere definite chiaramente, evitando di ripetere le arbitrarie bizzarrie del barocco. In quest’intento tassonomico, Quatremère pone le basi per la sistematicità di approccio che giungerà ad un più completo sviluppo nel secolo successivo. Se dunque i linguaggi del passato affascinano profondamente gli architetti europei, tanto da portare, nel giro di cento anni, alla proliferazione di un gran numero di stili più o meno distanti dai modelli reali, meno diffuso è l’interesse nei confronti dei dati materiali del costruire, della presenza fisica dell’antico. I 45

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motivi figurativi vengono ripetuti liberamente, ma fino al XIX secolo lo studio degli oggetti architettonici porrà in secondo piano quelli tettonici. Più interessati agli aspetti costruttivi sono gli studi delle antichità romane di Piranesi, il cui instancabile lavoro sulle rovine del Lazio gli consentirà di giungere ad una notevole comprensione delle tecniche costruttive utilizzate nelle grandi opere di ingegneria del periodo imperiale. Sia nelle Magnificenze di Roma che nelle Antichità Romane, gli aspetti tettonici rivestono un’importanza paragonabile all’intento figurativo, tanto da insistere sulla ricostruzione degli attrezzi di cantiere e dei modi costruttivi. La sensibilità dimostrata in queste rappresentazioni non viene condivisa da altri cultori dell’antico. John Soane, avido collezionista delle incisioni di Piranesi, coglie della sua opera altri aspetti: per l’inglese il mondo delle forme architettoniche dell’antichità assume una valenza estrema, come repertorio o campionario liberamente aggregabile; ne è dimostrazione il carattere di pastiche poliglotta della sua casa-museo londinese. Solo con la diffusione del pensiero positivo ottocentesco prenderà corpo una diversa consapevolezza dell’importanza dell’oggetto storico, che viene investigato non più esclusivamente per la sua validità quale modello riproducibile, quanto come manifestazione di un ordine passato. L’era della scienza storica dell’ottocento culmina, nello studio dell’architettura antica, nell’opera di Auguste Choisy10; ma a preparare la strada per la presunta oggettività di queste indagini serviranno gli scritti dei tre grandi teorici del XIX secolo: Viollet-leDuc, Ruskin e Semper. I vastissimi sistemi teorici formulati da questi tre autori convergono nell’intento di porre la sostanza materiale del costruito al centro dell’esperienza umana; nonostante questa convergenza, però, va rilevato come le diverse posizioni culturali di partenza facciano sì che tale avvicinamento avvenga percorrendo strade eterogenee: poco ha infatti in comune lo spiritualismo di Ruskin con il razionalismo meccanicistico di Viollet o gli interessi etnologici di Semper; tuttavia, il risultato comune, che provocherà profondi rivolgimenti nei decenni successivi, sarà quello di sviluppare una nuova consapevolezza del dato storico nella sua configurazione materiale. L’attenzione rivolta da questi autori ai miti di fondazione dell’architettura rivela quanto i loro sistemi teorici costituiscano di fatto delle ampie cosmogonie dell’universo materiale, costruite per collocare ciascun reperto del passato all’interno di un continuum storico e antropologico. In Semper questo processo è quanto mai evidente nella volontà di concatenare consequenzialmente e razionalmente ciascuna manifestazione umana ad un’esigenza primordiale; ogni artefatto, ogni costruzione risulta dunque spiegabile alla luce dei quattro ele46

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menti primari che egli pone alla base della sua concezione: il focolare, il terrazzamento, la copertura, la parete, con le tecniche che a ciascuno di questi atti fondativi viene associato11. Semper generalizza questo mito delle origini, individuando poi nelle diverse culture i modi in cui i quattro elementi primari si sono manifestati e combinati a seconda delle condizioni locali. Tralasciando qui la vexata quaestio relativa al materialismo semperiano12, appare evidente che in questa trattazione l’aspetto materico dell’oggetto-architettura non viene collocato in coda ad un processo generativo, come risultato di un’attività intellettuale ad esso precedente, ma diviene elemento determinante anche se non esclusivo nella realizzazione del manufatto attraverso la necessità della sua manipolazione tecnica. Il rapporto tra tecnica e linguaggio che Semper ipotizza è radicalmente nuovo, e prelude al diffondersi della espressione costruttiva che sarà uno dei temi centrali dell’architettura del Movimento moderno, in particolare – anche se in forma mediata e mai pienamente riconosciuta – sul Neues Bauen delle avanguardie tedesche. Un’equivalente influenza sul mondo anglosassone è quella esercitata dalle idee di Ruskin, per il quale l’oggetto materiale occupa una posizione centrale nel rapporto con la storia. Si tratta però di una considerazione del tutto diversa rispetto a quella che gli attribuisce Semper: per Ruskin, infatti, piuttosto che una manifestazione culturale, il manufatto rappresenta una testimonianza, il più delle volte un lascito anonimo tramandatoci dalla figura mitica dell’artigiano dell’età gotica; l’impersonalità di questa testimonianza è indice di una concezione storica nella quale l’opera minore riveste altrettanta importanza rispetto a quella del grande maestro13. Piuttosto che l’importanza storica degli edifici, ciò che rileva è la memoria della quale essi sono incarnazione; memoria necessaria soprattutto per il suo portato morale, per il suo significato di legame tra generazioni remote nel tempo. A differenza del più scientifico approccio di Semper, nell’opera di Ruskin la testimonianza materiale non manca di assumere connotati metafisici; tramite le pietre l’autore inglese intende evocare lo spirito dell’idealizzata età medievale, alle cui strutture sociali è paragonabile l’utopia socialista condivisa con William Morris: tempi di più integra moralità, di maggiore fecondità e vigore spirituale, di più alta capacità artistica. Non mancano nel discorso ruskiniano le allusioni al carattere nazionale, uno degli argomenti più dibattuti nell’era dell’Inghilterra vittoriana. Più che un modello, per Ruskin dunque l’oggetto storico diviene monumento: altro caposaldo della teoria architettonica esposta nelle Sette Lampade è infatti l’autenticità dell’opera, da intendersi in ciascuna sua frazione materiale; 47

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dell’edificio storico va preservata ogni singola pietra con cura amorevole, evitando di manometterla, alterarla o restaurarla. Qualsiasi trasformazione della sostanza architettonica, infatti, viene condannata come una falsificazione, che non potrà in alcun modo rendere giustizia all’essenza originale dell’opera14. Mai come in questi frangenti gli scritti di Ruskin sono appassionati: naturalmente si tratta della reazione ad una pratica di conservazione che, nell’Inghilterra di metà ‘800, interpretava in maniera alquanto libera l’oggetto preesistente, sottoponendolo ad alterazioni profonde ed irreversibili. La posizione oltranzista assunta da Ruskin e dagli altri fondatori della Society for the Protection of Ancient Buildings costituirà uno dei primi veri momenti di riflessione sulla sostanza storica intesa come testimonianza materiale, degna dunque di essere preservata anche in assenza del genio artistico. Negli anni della grande espansione industriale, durante i quali si va definendo la distinzione tra arte ed artigianato, comincia ad emergere la consapevolezza del significato storico della cultura materiale, intesa in questo caso come legame di continuità con una nobile e antica tradizione di architettura anonima. Nonostante il sempre crescente senso di continuità storica, però, il XIX secolo continuerà ad operare sull’esistente in maniera quantomeno ambigua: nessun caso meglio di Viollet-le-Duc può aiutare a comprendere quanto il pensiero positivo stentasse a trovare un punto di equilibrio nei confronti della materia della storia. Ciò che Viollet-le-Duc riesce a costruire costituisce innanzi tutto un impressionante corpus di conoscenze sull’architettura medievale francese, che per la prima volta viene indagata tramite laboriose campagne archeologiche, mirate a restituirne il senso attraverso studi improntati ad uno spirito manifestamente razionale. Viollet studia i monumenti, le loro rovine, analizza, rileva e disegna: gradualmente giunge dunque ad acquisire una comprensione dell’architettura gotica tale da rendere giustizia alle ragioni costruttive e funzionali che la informano, valori questi che erano stati generalmente negati in tempi precedenti. Dalla pura suggestione figurativa che aveva improntato il revival neogotico, dunque, avviene la transizione verso una più coerente ed unitaria considerazione del patrimonio architettonico medievale, incentrata prevalentemente intorno ai valori tettonici, senza però trascurare l’organicità delle opere. Il lungo e minuzioso lavoro interpretativo condotto da Viollet non si arresta però alla sola fase analitica: come osserva Summerson15, il suo atteggiamento si volge rapidamente verso le possibili e molteplici reinterpretazioni che di questo patrimonio si possono elaborare. Si tratta, in altre parole, di verificare la possibilità di trasporre nell’opera architettonica contemporanea le regole che gover48

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nano la costruzione gotica; la centralità attribuita da Viollet alla razionalità del costruire medievale farà sì che la sua stessa opera verrà successivamente considerata come monumento sorto attraverso il pensiero scientifico moderno, e, in quanto tale, tra le basi del Razionalismo nell’architettura del ventesimo secolo. Il ‘teorema Viollet’ cade però in contraddizione – almeno apparentemente – non appena la conoscenza archeologica viene applicata come base scientifica per l’opera di restauro. Delle discussioni sugli innumerevoli contributi di Viollet in questo campo la letteratura architettonica trabocca sin dalle pagine di Camillo Boito, il più delle volte sottolineando, a fronte della solidità del sistema conoscitivo dell’antico, la totale arbitrarietà nella ricostruzione ambientista dei ruderi. Il divario, in effetti, non è trascurabile. Le preesistenze sulle quali Viollet interviene costituiscono testimonianze eccellenti dell’epoca medievale, che lo studioso analizza ampiamente prima di passare all’opera di restauro; la sua approfondita conoscenza delle tecniche costruttive, dei tipi edilizi, nonché del repertorio iconografico non lascerebbe luogo a eccessive libertà interpretative per un’eventuale ricostruzione filologica. Eppure Viollet decide – e tale posizione è riscontrabile dalle indubbie forzature rilevabili dai suoi taccuini – che è necessario privilegiare l’effetto complessivo piuttosto che la coerenza delle singole parti; a guardar bene, si tratta della contaminazione della pratica del restauro (ancora in fasce) con una più libera metodologia progettuale di stampo beaux-arts16. Il criterio di integrazione stilistica perseguito da Viollet non è mai stato del tutto accettato dai suoi colleghi restauratori, i quali hanno sottolineato insistentemente la sua tendenza a produrre falsi, paragonando (forse non del Fig. 10 E.-E. Viollet-le-Duc. Castello di Pierrefonds (1884)

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tutto impropriamente) Pierrefonds con Hohenschwanstein17 (Fig. 10). Date queste premesse, la domanda fondamentale è dunque la seguente: quale può essere il senso delle preesistenze storiche, se l’intervento su di esse comporta un completo stravolgimento del loro assetto originario, tanto da menomarne l’essenza e la riconoscibilità? Se i restauratori – almeno quelli a lui immediatamente successivi – disconoscono la validità dell’opera di Viollet, altrettanto difficile risulta per il progettista accettare la falsificazione del reperto antico. La questione è però più complessa: Viollet non è certo un semplice imitatore delle cose del passato; come anzi dimostra tutta la sua produzione progettuale, egli possiede una notevolissima capacità di innovazione figurativa e concettuale, riscontrabile sicuramente nelle straordinarie invenzioni nelle quali spazi di impronta medievale vengono contaminati da magnifiche e modernissime strutture in ferro o ghisa. Questa prevalente componente tecnica, tuttavia, non è priva della capacità di strutturare un linguaggio complesso, basato su una sintassi costruttiva e decorativa sostanzialmente omogenea; in altre parole, nel concepire le sue visioni architettoniche, Viollet si basa su di un principio unificante innegabilmente organico18. È ipotizzabile che l’estrema sintesi dei suoi studi sull’architettura medievale consistesse proprio nella comprensione della presenza di un principio organico unificante, una specie di summa che fosse in grado di guidare la mano dell’operaio intento nella costruzione della grande cattedrale: dall’impianto generale al sistema strutturale, sino all’ultimo scampolo di decorazione invisibile da terra, lo scalpellino veniva guidato da questo principio, proprio come la formica conosce la forma che assumerà, una volta completato, il formicaio. Dall’architettura medievale Viollet-le-Duc desume dunque non solo un insieme di elementi decorativi e costruttivi, quanto una struttura linguistica completa, le cui regole possono essere trasposte nell’epoca contemporanea a riprova della loro validità trans-storica. Il significato degli oggetti storici costituisce una base da cui dedurre quell’insieme di regole che possono essere reinterpretate in una ideale continuazione dell’era medievale; Viollet inventa pertanto impianti difensivi e tipi costruttivi, decorazioni ed arredi, ascrivibili ad un’operazione di genuina creazione non imitativa, almeno nelle intenzioni dell’autore. Il nuovo e l’antico, dunque, non radicalmente separati, ma partecipi di un singolo – per quanto dilatato – momento storico. Nel rimettere in gioco il linguaggio dell’architettura medievale, Viollet sta affermando un principio che apparentemente contraddice la sua filosofia della storia19: la superiorità dell’evo antico, epoca di più grandi costruttori e più alta moralità. In questo si costituisce un parallelismo con il ‘romantico’ Ruskin, la 50

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cui conoscenza dell’architettura medievale, per quanto sicuramente profonda, era imperniata su parametri nettamente diversi rispetto a quelli di Viollet: gli effetti di superficie, l’atmosfera, il carattere, il valore simbolico. Inoltre, nonostante le profonde diversità, anche la metodologia progettuale di Viollet si avvicina, forse per evoluzione convergente, a quella semperiana, soprattutto per quella necessità di creare opere d’architettura interamente definite da un unico principio ordinatore, in maniera non del tutto diversa rispetto all’ideale del Gesamtkunstwerk; da questo punto di vista, il paragone tra le opere di restauro di Viollet ed i wagneriani castelli bavaresi di Ludwig può essere visto sotto diversa luce. I tre maggiori teorici dell’architettura dell’800, dunque, oltre alle innegabili diversità di pensiero e di metodo, giungono a risultati non del tutto dissimili: il patrimonio storico viene indagato nella sua valenza materiale e, nonostante l’altissimo valore assegnatogli, entra nel processo poetico e creativo come una scintilla di innesco, la quale si estingue nel nome della creazione di una nuova e più completa architettura, spesso a costo di creare clamorosi falsi storici. Una volta accantonata la questione della falsificazione storica, del pensiero di Viollet rimane una metodologia che troverà non poca eco nell’architettura del ventesimo secolo. Se la teoria del restauro, pur contestandone la coerenza, attribuisce al francese il ruolo di padre fondatore della disciplina, è forse proprio per l’aver verificato la possibilità di prolungare nel contemporaneo un linguaggio storico di modernità duratura che Viollet darà il suo contributo alla teoria della progettazione architettonica. Nel secolo seguente, cessata la possibilità di riproporre il medesimo repertorio di forme, potrà però essere salvaguardata la continuità fra oggetti provenienti da diverse epoche storiche.

Ambientismo, culturalismo ed il problema della forma urbana Sul finire del XIX secolo, il problema delle preesistenze assume, per la prima volta nella storia, una dimensione diffusa, dettata dall’aggressione ai centri storici tradizionali da parte della città moderna. Il secolo delle nuove tecniche, che testimonierà lo sviluppo a dismisura delle metropoli europee (ed in particolare delle tre ‘capitali’ del XIX secolo: Parigi, Londra, Berlino) condurrà ad un aspro dibattito fra i diversi operatori nel campo dell’architettura, sintomo tra l’altro del moltiplicarsi di figure professionali legate alle diverse metodologie di insegnamento della disciplina. La “cultura degli ingegneri”, nata intorno alle grandi scuole politecniche, 51

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dalla seconda metà dell’800 formula una metodologia di pianificazione urbana scientifica, articolata intorno alla costruzione razionale della città moderna, basata su principi di funzionalità e igiene; gli architetti, formati nelle scuole di Belle Arti, contrappongono alla freddezza dei modelli urbani ortogonali il romanticismo dei centri storici e dell’architettura minore del medioevo. Il dibattito tra Wagner e Sitte, svoltosi nella Vienna fin-de-siècle, è sicuramente il più illuminante esempio di queste due tendenze fortemente contrapposte20. Oltre a proporre la ripresa di temi edilizi di sperimentata efficacia per le nuove urbanizzazioni, le istanze dei conservatori erano chiaramente dettate dall’impellente necessità di salvaguardare un patrimonio storico di cui si temeva la distruzione. Sulla scia dei movimenti delle Arts & Crafts inglesi, ed in particolare della Society for the Protection of Ancient Buildings21 istituita da Morris e Ruskin, dunque, si vanno formando in tutta Europa associazioni dedite alla conservazione – spesso oltranzista – del patrimonio storico delle città22. Non necessariamente queste associazioni si opponevano in toto all’architettura moderna: piuttosto i nuovi interventi dovevano inserirsi armoniosamente nel paesaggio ereditato dal passato. Fra le varie iniziative italiane, la Associazione artistica tra i cultori dell’architettura di Roma (Aacar), nata nel 1890 e fra i cui membri spiccherà Gustavo Giovannoni, si premurerà tra l’altro di “rialzare il prestigio” della figura dell’architetto a fronte dell’egemonia della cultura ingegneristica23. L’attenzione delle diverse associazioni verterà dunque intorno all’infinita ricchezza del patrimonio urbano tradizionale, latore di un’ineguagliabile testimonianza culturale, nonché di innumerevoli modelli sperimentati di spazi cittadini. Lo studio di questi ambienti verrà posto al centro dei testi classici della progettazione urbana dell’epoca, primo fra tutti quel Der Städtebau nach seinen künstlerischen Grundsätzen attraverso il quale Camillo Sitte nel 1889 rivoluzionerà lo studio della città intesa come opera d’arte. Nei decenni successivi quest’opera eserciterà un’enorme influenza sullo sviluppo della pratica urbanistica, proponendo la costruzione di nuovi spazi urbani articolati secondo precetti dedotti dalla tradizione minore europea e soprattutto italiana. Con Sitte si inaugura dunque l’era dell’urbanistica pittoresca, le cui manifestazioni non tarderanno a raggiungere ogni angolo del mondo occidentale, dalla Town Planning in Practice di Raymond Unwin alla Steinerne Berlin di Werner Hegemann, dalla Città-Giardino sulla Nomentana a Roma di Giovannoni e Sabbatini fino ai suburbs delle grandi metropoli americane. Ciò che di questi sviluppi assume rilievo ai fini della presente trattazione è il sorgere, in quest’epoca, di un nuovo e diverso approccio nei confronti del tessuto storico dei centri urbani, solo in parte derivato dall’opera degli autori pre52

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cedenti. La città antica viene considerata innanzi tutto come un’entità continua, organicamente ordinata secondo principi formali e funzionali; in secondo luogo, essa rimane compresa all’interno di un unico ambiente, costituito non solamente dall’essenza materiale della città stessa ma anche da quegli elementi esterni che altrettanto concorrono alla definizione del suo carattere complessivo: la luce, le patine, i colori e più in generale tutti quei fattori di derivazione pittorica che la cultura positiva tendeva a porre in secondo piano. In breve, il concetto di ambiente giunge a definire in maniera sintetica tutti gli aspetti non strettamente misurabili degli spazi urbani, secondo una terminologia che rimarrà sempre molto generica. La questione della trasformazione viene immediatamente assimilata all’interno della più vasta problematica dell’ambiente: a fronte di chi promuoveva l’isolamento dei monumenti storici, proponendo l’abbattimento del tessuto minore ad essi circostante per dare il debito respiro alle nobili testimonianze del passato, gli ambientisti contrapponevano il valore intrinseco dell’anonima città dal tessuto minuto; è la città storica nel suo insieme ad assurgere allo status di monumento. Nei decenni a cavallo tra ‘800 e ‘900, che vedranno proliferare in tutta Europa opere di risanamento urbano, nell’ambito delle quali interi quartieri medievali verranno rasi al suolo per fare posto ai simboli dei nuovi Stati democratici, il dibattito tra ambientisti e novatori troverà ampio spazio. Naturalmente, in Italia la questione dell’ambiente urbano e delle modalità di intervento su di esso assumeranno un certo peso nel dibattito culturale tra le due guerre, soprattutto grazie al contributo originale di Giovannoni. Nel pensiero giovannoniano il concetto di ambiente assume una valenza se possibile ancora più ampia rispetto a quella generalmente considerata: se da un lato rimangono di fondamentale importanza le questioni purovisibiliste, legate sostanzialmente all’influenza esercitata dal metodo di Adolfo Venturi, per Giovannoni “ambiente” comprende anche l’insieme di cause tecniche oggettive che hanno condotto alla singolare conformazione di ogni singolo oggetto architettonico. A testimonianza della sua formazione poliedrica, solidissima sia sul piano delle tecniche che su quello dell’erudizione storica, le analisi degli antichi monumenti condotte da Giovannoni partono dalle «cause permanenti d’ambiente», quali geologia, topografia, clima ecc., per giungere sino alla più precisa definizione stilistica. A differenza di quanto avanzato da altri autori, propensi a sostenere la tesi della casualità dell’architettura medievale, Giovannoni intende rintracciare tutto quel plesso causale che determina le opere in senso organico, nel modo già inteso da Viollet-le-Duc, tanto da portarlo a così descrivere la valle di Subiaco:

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Nella valle serena e selvaggia [...] hanno avuto vicende straordinarie, nel rapido corso dei tempi, l’acqua e gli uomini e i monumenti. E le suggestioni di queste vicende [...] danno un fascino singolare al paesaggio montuoso, austero e raccolto, vero ritiro di ‘beata solitudo’, agli edifici che ancora rimangono e che sembrano una cosa naturale venuta su con le rocce ed i boschi, alle opere d’arte che nei vari tempi sono venute ad adornare i monumenti. Giù nel fondo, tra le rupi altissime, le acque argentee dell’Aniene balzano impetuose e col mormorio incessante danno alla mistica vallata una voce sonora.24

Il rigore con il quale Giovannoni conduce le sue analisi preliminari, volte alla produzione di una base conoscitiva oggettiva sulla quale successivamente innestare una più calibrata interpretazione artistica, consente di leggere con diversi occhi il topos letterario delle architetture che nascono dalla natura. In questo quadro è ben possibile comprendere il senso delle analisi costruttive condotte da Giovannoni alla maniera di Choisy25 proprio negli anni in cui veniva composto il brano sopra riportato. Ambiente diviene dunque un termine onnicomprensivo che definisce le condizioni al contorno, considerate con ampiezza olistica. Con il trascorrere del tempo, la posizione meccanicista di Giovannoni sembra stemperarsi verso un più placido ambientismo, mai però scevro di attenzione analitica. Negli scritti della Aacar verranno teorizzate le modalità per rispondere, negli interventi sui centri cittadini, alle esigenze dell’ambiente urbano: così come la città medievale produce un contesto avvolgente, totale, così anche la risposta dell’architetto deve necessariamente giungere a definire ogni singola scala di intervento, producendo uno stile che sia in grado di fornire, come nel caso del Gesamtkunstwerk, risposte adeguate a tutti i livelli. Questo concetto di stile ha poco a che vedere con la problematica dei linguaggi nazionali di cui si era dibattuto in Europa nei decenni precedenti; sarà il tentativo di riprodurre la città spontanea, costruita da anonime maestranze, a spingere Giovannoni verso la definizione di quell’edilizia cittadina poi divenuta cardine del suo intero sistema teorico. Operativamente, le nuove costruzioni devono cercare l’accordo con l’antico, nell’intento di non incrinare il delicato equilibrio estetico dell’ambiente urbano. Ma sarà soprattutto nel formulare il noto principio del diradamento che entreranno in gioco le questioni di carattere più strettamente pittorico: nell’allargare lo spazio urbano per favorire una maggiore igiene degli insalubri borghi medievali, sarà opportuno studiare i nuovi tagli in maniera da dare ai singoli monumenti la luce ed il respiro ad essi necessari; si ritrova qui una concezione di ambiente strettamente pittoresco, nel quale stentano a definirsi i rapporti non 54

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strettamente misurabili tra i diversi oggetti26. L’ambientismo che si diffonderà in Italia ed in Europa al principio del XX secolo rimarrà ben lontano dal profondo rigore intellettuale di Giovannoni: in generale si tratta di costruzioni di maniera, inclini alla riproduzione di elementi morfologici dedotti dalla tradizione minore, assemblati secondo criteri di pura Sichtbarkeit. Il fattore razionale di definizione dell’ambiente passa in secondo piano, restringendo il campo di operazione ad un singolare plesso percezioneintuizione, una forma aurorale di conoscenza che viene applicata alla costruzione della città come alla realizzazione di un’opera d’arte, secondo un’identità di metodo sancita da molti autori del periodo, primo fra tutti lo stesso Sitte. Questo approccio sintetico nei confronti della forma urbana, del quale di fatto Giovannoni si avvale nonostante la sua formazione positivista, è analogo alla negazione dell’intellettualità dell’arte proposta da Croce27 in virtù della concessione di maggiore spazio al principio regolatore del sentimento. Questa operazione, sebbene su basi filosofiche e culturali profondamente diverse, ripropone quanto già avvenuto in Viollet-le-Duc: la conoscenza positiva della materia antica, che ne consente un’interpretazione storicamente adeguata, serve in ultima istanza a costruire un quadro sintetico, un repertorio linguistico mirato all’armonizzazione del nuovo costruito sulla materia preesistente. Sarà proprio intorno a questo procedimento che verterà la critica operata dalle avanguardie moderniste europee.

Modernità e antichità: riduzione e collage Mentre in tutta Europa nascevano associazioni per la difesa del patrimonio architettonico della città storica, gli effetti del progresso tecnico si facevano sentire con particolare vigore, trasformando gli antichi centri urbani in “città di seconda mano”28. L’invasione delle nuove tecnologie, in particolare dei trasporti di massa, introducono profondi cambiamenti sia nella costruzione della forma urbana che nella sua percezione. Improvvisamente il tessuto tradizionale, così come la città classica progettata, vengono messi a confronto con la possibilità di essere lette secondo modalità precedentemente inedite, ovvero la prospettiva cinematica del movimento meccanizzato, più rapida rispetto a qualsiasi fruizione tradizionale. Insieme con l’accelerazione del movimento, la presenza di gallerie, sopraelevate, attraversamenti di edifici ecc. comporta una radicale rivisitazione dello spazio urbano, il quale, pur non perdendo la sua connotazione storica, mostra 55

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ora volti non progettati per essere visti: la città si può vedere dall’interno, dal retro e, addirittura – come osserverà entusiasticamente Le Corbusier – dalla prospettiva aerea. La “città di seconda mano” produce dunque un’immagine diversa rispetto alla sua versione originale; nella sua analisi delle prime sala cinematografiche berlinesi, Siegfried Kracauer29 ha individuato nella distrazione una modalità di fruizione contrapposta alla attenzione, incentrata non sugli oggetti interi nella loro fissità, quanto sugli oggetti minori, in movimento, fondamentalmente effimeri. Questo particolare modo di esperire la realtà avviene plausibilmente anche nella città moderna, nella quale il rapido movimento costituisce un parametro ineluttabile30. Di fronte a questi cambiamenti epocali, alle trasformazioni macroscopiche sulle quali l’architetto non può operare quasi alcun controllo, il tessuto urbano della città assume un nuovo modo di essere interpretato in veste di preesistenza. La lettura dello spazio urbano non può più avvenire nella maniera consueta: gli assi stradali degli impianti barocchi vengono affiancati da nuovi percorsi; la scala stessa della composizione è costretta a variare, riducendo l’articolazione decorativa, che non può più essere osservata con i tempi ad essa necessari. Man mano che l’automobile e i treni metropolitani si impossessano dello spazio della città classica, gli architetti divengono consapevoli di un mutato rapporto tra osservatore e materia storica. Gli atteggiamenti degli architetti nei confronti di questa nuova situazione Figg. 11, 12 Ludwig Mies van der Rohe. Progetti di concorso per la torre sulla Friedrichstrasse (1921) e per Alexanderplatz (1929), Berlino

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Fig. 13 Adolf Loos. Edificio sulla Michaelerplatz, Vienna (1910)

urbana sono molteplici. La storiografia moderna ha posto l’enfasi sull’aspetto di decontestualizzazione radicalizzato da alcune avanguardie, generalizzando le proposte di diradamento avanzate da Le Corbusier, Hilberseimer, ecc. La ragione progressista, oscillante tra impeto innovatore e igiene ambientale, in questi casi lascia poco spazio alla città storica fatta di pietra: più opportuno, sostengono questi autori, ricominciare da una tabula rasa più moderna e razionale; la città tradizionale è dunque destinata a sparire, cedendo letteralmente il passo all’utopia della ville radieuse. Se – come osserva Colin Rowe31 – molto dell’utopismo modernista incarna in architettura il pensiero dialettico hegeliano, altri autori sono rimasti distanti da queste posizioni, operando una complessa rivisitazione in chiave moderna di principi propri della Reform. L’attenzione recente dei critici si è concentrata sui progetti berlinesi di Mies van der Rohe e sul modo in cui questi, lungi dall’ignorare l’ambiente urbano preesistente, se ne impossessavano operando collage di immagini, secondo tecniche non dissimili dai montaggi cinematografici che venivano prodotti in quegli anni nella Bauhaus32. Nella versione datane che ne dà Mies, l’invenzione del curtain wall divie57

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ne dunque parte integrante di quella metamorfosi della percezione urbana che già da decenni si stava manifestando. Le torri della Friedrichstrasse, nonché il progetto per la Alexanderplatz (Figg. 11-12), ripropongono entrambi l’interazione tra la facciata vetrata ed il contesto urbano: frammentata, distorta, cubisticamente rivisitata, la città ottocentesca diventa parte integrante della nuova architettura, costituendone una sorta di decorazione, immagine sempre mutevole di un progresso interpretato in maniera sicuramente non lineare. Benché in chiave ‘cubista’, Mies non rifiuta la presenza della città preesistente; le nuove tecniche costruttive divengono strumento per dare vita ad un’interazione di nuovo genere, a testimonianza di una modernità che non richiede necessariamente – di là di ogni artificio storiografico – una cesura con la tradizione culturale precedente. Durante tutto il corso della sua carriera, Mies proseguirà nell’indagine sul rapporto tra l’oggetto di architettura ed il contesto urbano, proponendo continuamente la sostituzione del linguaggio tradizionale con quello della nuova industria, non ignorando però la necessaria interazione – il più delle volte operata in chiave negativa33 – tra nuova costruzione e città esistente. L’opera berlinese di Mies rappresenta senza dubbio il più rarefatto incontro fra tradizione e modernità tra le due guerre, e non va certo considerato un esempio estensibile alla situazione generale dell’architettura europea di quell’epoca; sicuramente però, i suoi progetti, benché non realizzati, propongono un’interpretazione della materia storica più ricca di conseguenze di quanto non venisse Figg. 14, 15 (pagina opposta) Erik Gunnar Asplund. Ampliamento del Palazzo di Giustizia, Göteborg (1920-1936). Vista del fronte principale e confronto tra le soluzioni del 1920 e 1936

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fatto in nome di un vago ambientismo in altre situazioni europee. Di fatto, per quanto possa sembrare misurato ad un osservatore di quasi cento anni successivo, l’impatto dell’architettura moderna sulle città borghesi dell’ottocento fu alquanto esplosivo. L’edificio di Adolf Loos sulla Michaelerplatz di Vienna (Fig. 13), completato nel 1911 tra innumerevoli polemiche relative alla sua impudica nudità, conserva un ordine proporzionale classico, la suddivisione in fasce orizzontali, il rapporto tra pieni e vuoti; fatta salva la riduzione dell’apparato decorativo, l’edificio si inserisce senza troppo clamore nel contesto urbano preesistente. La sostituzione di linguaggio, operazione oggi consueta, veniva allora percepita come totale rottura rispetto alla norma; se questo sta a dimostrare il portato della proliferazione semantica avvenuta nel XX secolo, d’altro canto riafferma quanto sostenuto in apertura circa la derivazione del concetto stesso di preesistenza da un più ampio quadro di riferimento filosofico, variabile al mutare dei tempi. È proprio nella rielaborazione dei linguaggi classici che ha luogo il maggiore mutamento apportato dall’architettura moderna alla progettazione sulle preesistenze: se nel realizzare l’edificio sulla Michaelerplatz Loos lancia una sfida alla “Vienna potëmkiniana”34, riducendo fortemente l’ornamentazione delle facciate, nell’ampliamento del Palazzo di Giustizia di Göteborg Erik Gunnar Asplund (Figg. 14-15) affronterà un lungo processo di elaborazione, che culmi-

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nerà nella riproposizione del significato tettonico dell’articolazione decorativa. La sequenza di progetti, che va dal concorso del 1913 all’edificio realizzato vent’anni più tardi, vede la successiva trasformazione del linguaggio da neoromantico a neoclassico, sino alla soluzione razionalista finale. Asplund preserva sempre il proporzionamento del progetto originale: dall’edificio preesistente deduce altezze, proporzioni, scansione orizzontale e verticale, tipologia di copertura, attacco a terra; le membrature classiche vengono però trasformate nella griglia in facciata, struttura in cemento armato che scandisce ritmicamente i prospetti; nella soluzione poi realizzata, Asplund decentrerà le finestre dai loro campi, denunciando così la diversità dei sistemi costruttivi. Nell’essere moderna senza essere radicale, la nuova ala del Palazzo di Giustizia dimostra dunque una profonda comprensione della problematica delle preesistenze: il sistema morfologico è analogo a quello presente in situ; il linguaggio architettonico adoperato si configura come interpretazione del sistema tettonico classico; la costruzione denota infine la chiara adesione ad un programma moderno35. Navigando a fianco dell’impeto innovatore del modernismo ortodosso, dunque, alcuni fili di continuità mantengono, pur nella sostanziale revisione della questione linguistica, un rapporto significativo con la materia storica, con la città preesistente; sarà in buona parte sulla base di queste esperienze che si articolerà, in tutta Europa, la vicenda della ricostruzione postbellica.

Fig. 16 Rudolf Schwarz et al. Paulskirche, Francoforte (1948). Vista dell’interno della Festhalle

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La ricostruzione postbellica: le preesistenze e la memoria ferita Al termine della seconda guerra mondiale, molte nazioni che erano state teatro del conflitto si ritrovano a dover fronteggiare il complesso problema della ricostruzione, nel tentativo di realizzare, attraverso quest’atto di nuova fondazione, una sorta di espiazione delle colpe dei regimi fascisti. Il dibattito sui centri storici distrutti si infiamma subito e nell’ambito di questa riflessione complessiva le preesistenze, per la prima volta, assumeranno un significato di tipo morale. La vicenda della ricostruzione di Colonia costituisce, per la presenza di una figura come quella di Rudolf Schwarz, l’esempio più significativo di quanto avvenuto nella Germania postbellica. Rasa al suolo quasi interamente, all’alba della liberazione la città storica appare come un immenso cumulo di macerie, dalle quali emerge, in maniera quasi spettrale, il colossale Duomo, risparmiato dai bombardieri alleati. La ricostruzione, necessaria per dare avvio alla ripresa economica del paese, assurge al contempo ad atto simbolico, espiatorio, nel quale le testimonianze del passato, ridotte a frammenti, dovranno aiutare il popolo tedesco ad esorcizzare i demoni della guerra. Delle numerose chiese della cattolica città renana alcune erano state seriamente danneggiate; altre, come la romanica St. Martin sulle rive del fiume, completamente disintegrate. Le modalità di intervento che Schwarz individua sono dunque molteplici, dal semplice consolidamento delle strutture danneggiate, che preservi anche le tracce della guerra, sino alla ricostruzione filologica, portata a termine per alcune chiese di grande importanza simbolica, quale ad esempio la stessa St. Martin. Fra questi due approcci estremi, afferenti solo marginalmente al campo Fig. 17 Rudolf Schwarz e Karl Band. Festhalle Gürzenich, Colonia (1955). Vista del fronte est

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Figg. 18, 19 Rudolf Schwarz e Josef Bernard. Festhalle Gürzenich, Colonia. Vista dell’interno dei ruderi di St. Alban con i Genitori in lutto di Käthe Kollwitz e pianta della del progetto di concorso (1949) In alto a sinistra i resti della chiesa di St. Alban

della progettazione architettonica, si colloca invece la ricostruzione interpretativa, che Schwarz ebbe modo di sperimentare in diverse occasioni. Mettendo in opera le riflessioni filosofiche elaborate nei due testi redatti prima e durante la guerra, Vom Bau der Kirche e Von der Bebauung der Erde36, l’architetto dà un’interpretazione del tutto particolare del concetto di preesistenza storica. Le tracce materiali del passato, sembra asserire Schwarz, sono sì un autonomo documento archeologico, ma la loro reale importanza è accresciuta enormemente dall’aver preso parte alla disfatta morale subita dalla Germania a causa del regime nazista. La ricostruzione degli edifici, dunque, è mirata a restituirli non solo come spazi istituzionali, ma anche per recuperare la funzione simbolica e morale che essi esercitavano prima che “il fuoco divorasse le città”. Se i ruderi degli antichi edifici divengono dunque materiale di progetto, altrettanto si può affermare della sacralità civile e religiosa di cui essi sono depositari37. Secondo Schwarz, l’unico modo di riprendere il discorso interrotto è quello di entrare in colloquio con le preesistenze storiche, non considerandole solo alla stregua di reperti archeologici, ma rispondendo loro come fossero “persona viva”38. Le funzioni simboliche degli edifici distrutti devono essere recuperate: così, nella ricostruzione della Paulskirche di Francoforte (194662

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48) (Fig. 16), prima opera di Schwarz del dopoguerra, l’architetto sente la necessità di rendere alla sala della chiesa, già da tempo utilizzata per celebrazioni civili, l’antico carattere di solennità, spogliandola fino a raggiungere una sobrietà ed un «rigore monacale da non consentire che là dentro venissero pronunciate parole non vere»39. L’austerità morale che Schwarz propone è determinata dalla presenza maestosa delle tracce del passato: le masse murarie che delimitano lo spazio centrale della grande sala vengono coperte da un sottilissimo strato di intonaco, tale da lasciare in vista la tessitura del pietrame; la nuova copertura in legno, il cui occhio centrale allude al Pantheon, rende ancora più ambigua la distinzione fra spazio sacro e profano. Fra le numerose realizzazioni di questo periodo, il Gürzenich di Colonia (Figg. 17-19) è quella che meglio rappresenta la metodologia di intervento sulle preesistenze di Schwarz. Dell’antica Festhalle, nata nel XV secolo e ampliata con interventi successivi sino a raggiungere le dimensioni di un intero isolato, rimanevano alcuni brani di facciata, ma nulla dello spazio interno; la presenza più forte era dettata dai ruderi della chiesa romanica di St. Alban, il cui corpo di fabbrica era stato inglobato nel complesso edilizio a seguito delle diverse addizioni. Nel corso dei bombardamenti la chiesa aveva perso la copertura e buona parte dell’impianto murario, apparendo dunque, all’epoca del concorso svoltosi nel 1949, come un mutilo lacerto. Successivamente, l’Archidiocesi di Colonia decise di non restituire St. Alban al culto, consentendone così l’inclusione all’interno del nuovo Gürzenich. L’intervento di Schwarz – realizzato insieme a Karl Band, vincitore a pari merito del concorso – propone una soluzione alquanto singolare. I prospetti della nuova edificazione, spezzati per riproporre il carattere variegato dell’antico Gürzenich, sono modulati dimensionalmente sulla facciata preesistente; tale scansione è data dall’ossatura strutturale, griglia ordinatrice tamponata di volta in volta da laterizio, superfici vetrate, vetrocemento ecc., costituendo così un’immagine polimorfa, memore dell’antico palazzo delle feste. Per le sue proporzioni, il nuovo isolato ripristina lo stato ante quem; nell’uso del linguaggio, viene fornita un’interpretazione in chiave moderna di una memoria storica. La vera messa in scena del dialogo con l’antico avviene però all’interno dell’edificio: i nuovi saloni, allestiti per esprimere pienamente il senso di celebrazione di una società civile, ripropongono non pochi espedienti della tradizione costruttiva barocca, con sequenze di saloni collegati, scenografici scaloni a tenaglia ecc.: tutto quanto necessario per preparare il giusto ambiente per la festa. Ma Schwarz e Band introducono una sorpresa all’interno dello spazio per le celebrazioni: lo scalone monumentale che conduce al salone delle feste, al 63

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quale si accede dal piano superiore, costeggia le mura della chiesa di St. Alban; nella promenade architecturale che devono obbligatoriamente percorrere per giungere all’apice della festa, gli ospiti sono invitati ad osservare i ruderi della chiesa romanica, conservati nella loro nudità e frammentarietà. Nella navata della chiesa, sulla cui struttura si è intervenuto con il solo consolidamento, gli architetti hanno collocato una copia dei Genitori in lutto di Käte Kollwitz; l’illuminazione artificiale, attentamente studiata, conferisce alla rovina un aspetto solenne, silenzioso, del tutto in contrasto con la sfavillante vita mondana che si svolge all’interno del Gürzenich. Il complesso sistema di scale concepito da Schwarz e Band, dunque, serve per allestire un meccanismo di contemplazione della preesistenza, permettendo all’osservatore di fruire di una prospettiva differente rispetto a quella che si ha dalla strada. Il significato simbolico dell’operazione è evidente: il memoriale ed il palazzo delle feste esaltano la reciproca presenza tramite l’aspro contrasto del carattere ed il contatto visivo accuratamente predisposto. Nel Gürzenich Schwarz interagisce con le preesistenze su diversi livelli: reinterpretandole semanticamente, cogliendone e riproducendone la forma urbana, utilizzandole come monito: se pure si intravede il fumus di un uso strumentale della materia storica, è tuttavia innegabile che il dialogo che Schwarz riesce a stabilire con le memorie del passato dona ad esse nuova vita, arricchendo al contempo il significato degli interventi moderni40. Negli stessi anni in cui la Germania opera la sua ricostruzione, in Italia, dove l’impatto del conflitto era stato meno devastante, la cultura architettonica sarà altrettanto rivolta alla ricerca di un nuovo senso etico del costruire, sfociando però prevalentemente nell’individuazione di linguaggi architettonici, nonché nel rinnovamento dell’impegno sociale della disciplina. La riflessione relativa alle preesistenze ambientali scaturisce proprio da questo moto di revisione, nell’ambito di un riavvicinamento alla cultura architettonica tradizionale, rispetto alla quale molti progettisti ritenevano fosse avvenuta una brusca cesura nel periodo fra le due guerre, soprattutto ad opera dei movimenti di avanguardia internazionali. Fra gli anni ’50 e ’60, il clima architettonico in Italia subisce dunque una netta virata verso il recupero di antichi piaceri che l’ascetica estetica modernista aveva pervicacemente voluto negare: decorazione, composizione e carattere si affacciano nuovamente nel repertorio di strumenti degli architetti italiani, con enorme disdegno di molti critici in patria e all’estero. Opere quali la casa alle Zattere di Gardella, la Borsa Merci di Pistoia di Michelucci, o le milanesi abitazioni di via Borgonuovo dei BBPR, testimoniano una nuova sensibilità nei 64

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confronti dell’immagine pittorica della città tradizionale, il cui valore era stato messo in discussione fra le due guerre. La più significativa elaborazione teorica del problematico rapporto tra l’uomo contemporaneo e la tradizione storica è quella proposta da Ernesto Rogers attraverso i numerosi articoli comparsi negli anni ’50 su Casabella e altre testate, successivamente raccolti in due volumi. La questione delle «preesistenze ambientali» sta particolarmente a cuore a Rogers, il quale si fa interprete, critico e difensore dell’operato delle giovani leve di architetti italiani, che dall’indagine su questi oggetti deducevano i lineamenti dei nuovi linguaggi che andavano sperimentando in quegli anni. Il sistema teorico costruito da Rogers è complesso e articolato; è, a tutti gli effetti, un sistema aperto, volutamente non vincolato o schematico, onde rifuggire da quell’eccessiva linearità che si era rivelata la maggiore limitazione dell’ideologia modernista. Eppure Rogers, teorico della continuità, non può fare a meno di legare il suo pensiero a quella generazione di maestri – primo fra tutti Walter Gropius – che avevano avuto il merito di rivoluzionare il mondo dell’architettura. Rogers definisce il rapporto uomo – processo storico come un avvicendarsi di stati, dove ciascun momento rappresenta la scaturigine di quello successivo, senza che sussistano fratture o improvvisi salti. Allo stesso tempo, per Rogers la condizione moderna è irrinunciabile, sancendo di fatto la linearità positiva dell’evoluzione storica, lungo un continuum che concatena ciascun evento a ogni altro. L’artista moderno è dunque inserito all’interno di questo flusso e come tale deve compiere dei percorsi obbligati, quasi a rendersi responsabile nei confronti di una tradizione storica di cui l’uomo contemporaneo è erede41. Parafrasando il titolo del famoso saggio di Eliot Tradition and the Individual Talent, Rogers definisce un punto di equilibrio, al contempo un limite invalicabile, tra le istanze della inventio ed il necessario ambientamento all’interno di una tradizione storica che ci pervade, indipendentemente dalla volontà del singolo individuo. Ciò che l’architetto dovrebbe dunque fare è prendere atto di questa continuità, operando al suo interno consapevolmente ed in piena libertà. In quest’ottica, e sempre nell’ambito di un’apertura intellettuale a vasto raggio, Rogers asserisce che innovatori e conservatori possono entrambi cogliere lo spirito di questa evoluzione storica, a condizione di non partire da pregiudizi formali, «ritenendo che il nuovo e il vecchio si oppongano invece di rappresentare la dialettica continuità del processo storico»42. La formulazione di un metodo per governare le trasformazioni del territorio 65

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costituisce il punto cruciale del pensiero di Rogers, e la soluzione sarà, nella sua semplicità, la premessa per lo sviluppo di molta architettura italiana del secondo novecento. Partendo dalla rivisitazione del metodo universalista proposto da Gropius, Rogers di fatto giunge a sovvertirlo, per affermare che le soluzioni possono essere individuate solamente «caso per caso»43, rispondendo in ciascun momento alla particolare situazione del contesto, alla tradizione costruttiva, alle specifiche funzionali: in altre parole a tutte quelle istanze locali che l’ortodossia moderna aveva relegato in secondo piano. È il preludio a quel regionalismo di cui la critica recente individuerà le radici proprio nell’architettura del secondo dopoguerra italiano44. La metodologia anti-ideologica del «caso per caso» costituisce, di fatto, una critica rivolta alla classificazione per casistiche, che Rogers teme come una fatale riduzione all’astrazione tipologica; in questo procedere apparentemente asistematico, Rogers non è distante da quella che Rudolf Schwarz aveva definito ricostruzione interpretativa. Così come nel caso dell’architetto tedesco, l’elemento regolatore della progettazione deve essere dunque esogeno, derivante dall’interpretazione delle preesistenze ambientali nella loro accezione più vasta45. È proprio a causa della vastità dell’accezione che ad esse viene attribuita al fine di farne vero e proprio “materiale di progetto”, che nel corpus degli scritti di Rogers le preesistenze ambientali non vengono mai definite in senso univoco. Come giustamente rileva Guido Zucconi46, non sono poche le analogie tra la concezione giovannoniana delle preesistenze ambientali e quanto elaborato da Rogers: in ambedue gli autori, le preesistenze ambientali costituiscono un insieme armonico di condizioni, nel quale elementi naturali ed artificiali si intrecciano per dare vita ad un unicum altrimenti indefinibile. Eppure una fondamentale diversità nella concezione estetica determina distinzioni non trascurabili fra i due: se, come si è osservato, Giovannoni si muove diviso tra la permanenza di un pensiero meccanicista e l’egemonia dell’estetica crociana, Rogers partecipa di un vasto movimento di reazione a quest’ultima, che attraverso l’opera di diversi autori si andava rafforzando proprio intorno alla metà degli anni ’50. Più in particolare, i rapporti stretti con Enzo Paci, membro del comitato di redazione di Casabella-Continuità, nonché la forte influenza esercitata dalla pubblicazione degli scritti di John Dewey47, avvicinano Rogers al pensiero fenomenologico: lo stesso titolo da lui scelto per la raccolta di scritti del 1958, Esperienza dell’architettura, ne è un chiaro segnale. Abbandonando la distinzione classica tra monumento e opera minore, di cui invece era impregnato il pensiero di Giovannoni, il campo fenomenologico individuato da Rogers invita l’architetto contemporaneo ad un’azione più spre66

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giudicata, che si distacchi dalle timidezze del culturalismo, riallacciandosi – sempre in nome della continuità – con il potere di innovazione delle avanguardie moderne48. Riguardo alla nota polemica sul progetto di Wright per il Masieri Memorial, nel 1954 Rogers scriverà: Per Venezia non c’è alcun pericolo: non è un museo di capolavori: vale per la sua miracolosa atmosfera; il carattere di Venezia, come quello di ogni fenomeno storicamente vivo e concreto, è il risultato di una vasta vibrante composizione tra le coordinate del tempo e quelle dello spazio; ogni oggetto si definisce, ancor più che in se stesso, per il gioco di rapporti che scambia con gli altri; se così non fosse, il gotico potrebbe rappresentare una stonatura con il Cinquecento e le casupole sarebbero soffocate dai palazzoni di marmo. Mentre invece tutti partecipano al grande concerto: anche la casa di Wright vi unirà la sua voce; si incominci a dare l’ostracismo ai mercanti del tempio e sempre si conceda al poeta libertà di parola.49

In altre parole, «i monumenti e i paesaggi eccezionali debbono essere considerati solo come emergenze nella visione temporale e spaziale della realtà che non presenta soluzioni di continuità.»50 Questa concezione della materia stori-

Fig. 20 Saverio Muratori. Uffici ENPAS, Bologna (1957)

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ca si discosta in maniera netta rispetto a quella giovannoniana, per il quale, come testimoniato anche dall’indagine tipologica sulle piazze medievali italiane, ispirata a quella condotta da Sitte, il monumento ed il tessuto costituiscono due campi logici chiaramente separati. Le più significative opere dei BBPR mettono coerentemente in pratica questi principi: l’adattamento alle preesistenze avviene per via analogica, non per similitudine; pur nella rispondenza ad un sistema ambientale, le nuove architetture non rinunciano alla loro autonomia figurativa, tentando di stabilire una risonanza armonica con il tessuto storico della città. Ma questa risonanza, lungi dall’essere asservimento a procedimenti mimetici, formula comunque assunti polemici non irrilevanti; come osserva Gregotti, «[la] torre Velasca, [...] comunque essa venga giudicata, è certo l’opera che meglio testimonia il passaggio dalla critica alla crisi della modernità di fronte alla storia ed alla condizione urbana»51; in questo, è bene osservare, l’etica progettuale di Rogers e dei BBPR si avvicina agli esempi più riflessivi della produzione postbellica dei Maestri dell’architettura Moderna. Parallelamente a Ernesto Rogers, nei medesimi anni Saverio Muratori, operante tra Venezia e Roma, va costruendo un metodo analitico per la città storica che, per certi versi, funge da modello opposto rispetto a quello rogersiano. Se Rogers si renderà difensore della continuità, intesa come legame ambivalente con la tradizione storica ma anche con le avanguardie Moderne, Muratori interpreterà il momento di incertezza vissuto dall’architettura negli anni del dopoguerra come un irrefutabile segno di crisi. Mentre Rogers fonda la propria lettura dell’ambiente urbano su modalità topografiche, tralasciando intenzionalmente gli aspetti meccanicisti dello sviluppo della città, le rigorose analisi tipo-morfologiche di Muratori mirano dichiaratamente all’individuazione del principio strutturale dei centri storici; in questo, egli è senz’altro più vicino alle idee di Gustavo Giovannoni. Fra le innumerevoli metodologie tipologiche che hanno caratterizzato lo studio dei fenomeni urbani nella seconda metà del novecento, quella di Muratori è senza dubbio la più coerente, lontana da strumentalizzazioni ideologiche. La ricerca dell’organicità del costruito, applicata sia nell’analisi dell’esistente sia nella metodologia progettuale, è la caratteristica più significativa dell’architettura di Muratori, laddove per organico egli intende la «nozione della connessione, graduazione gerarchica e progressiva implicanza dei valori»52. Non si tratta dunque di un organicismo di cifra stilistica, quanto semmai una considerazione scientifica dell’idea di organismo. Così anche le architetture urbane di Muratori – si pensi fra tutte alla sede bolognese dell’ENPAS (Fig. 20) 68

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– sono basate su un analogo rigore struttivo, che vincola forma e costruzione all’interno di un unico processo di interpretazione della materia storica. Una trasformazione di non poco conto avviene dunque nello status architettonico delle preesistenze dopo la seconda guerra: superata la confusione linguistica ottocentesca, che delle preesistenze spesso considerava gli aspetti esclusivamente formali; sedato l’impeto innovativo del Moderno, il cui orientamento ideologico – al di là da alcune interessanti eccezioni – non poteva tributare agli oggetti storici eccessiva importanza; nel produrre i primi moti di critica nei confronti dell’ortodossia dei Maestri, di cui comunque avevano acquisito le fondamentali lezioni, gli architetti operanti nel dopoguerra possono confrontarsi a viso aperto con la materia storica, agendo liberamente, all’interno di una dialettica con il Moderno, che non sia più sfida incondizionata alla tradizione. È un momento di rara libertà, che durerà assai poco, spegnendosi presto in nuovi filoni di modernità, o nello strumentale rispetto dell’ambiente costruito, risultante in un blando contestualismo.

Limiti, nuove avanguardie e postmodernità L’attenzione rivolta dai progettisti alla questione della trasformazione fra gli anni ’70 e ’80 sarà fortemente debitrice dell’operato della generazione intermedia degli architetti del novecento. In Italia, l’influenza del pensiero di Rogers troverà ulteriore risonanza attraverso il lavoro dei suoi allievi e collaboratori, la cui ramificata produzione proporrà numerose soluzioni alla problematica delle preesistenze; l’influenza di Muratori risulterà più circoscritta, ma verrà successivamente riconosciuta anche all’estero per il rigore metodologico dell’analisi urbana da lui introdotta. L’interesse nei confronti dei centri urbani tradizionali, in sé atto di critica nei confronti della forma della città moderna nelle sue diverse manifestazioni, si diffonde sia in Europa che negli Stati Uniti53; l’inserimento nei contesti esistenti assume spesso un ruolo determinante in questo sviluppo, soprattutto nel vecchio continente. A fronte delle neoavanguardie situazioniste54, che negli anni della contestazione negheranno la stessa ragion d’essere dell’architettura nella sua accezione tradizionale, smantellando il concetto di urbanesimo, la reazione postmoderna individuerà nella città storica il proprio punto di riferimento privilegiato. Sebbene molti dei testi teorici più diffusi degli anni ’70 prendano le mosse da quanto elaborato durante gli anni della ricostruzione postbellica, va rilevato immediatamente che l’assenza di un’analoga tensione morale dà luogo a risultati 69

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Figg. 21, 22 Aldo Rossi. Schützenstrasse, Berlino (1997). Vista e schizzo di progetto

profondamente diversi, quasi derivasse da lì l’energia strutturante i sistemi teorici formulati dalla generazione precedente. Le analisi dei tessuti urbani storici si riducono a esercizi di formalizzazione; l’indagine fenomenologica sull’architettura si tramuta in un lirico quanto superficiale invito al ritorno al primitivo; la ricerca del linguaggio si ramifica sino a divenire un incontrollabile collage polisemantico, la cui autonomia viene rivendicata in nome di un’istanza di autenticità. L’esperienza berlinese dell’IBA, campo di sperimentazione delle nuove tendenze dell’architettura negli anni ’80, dimostra chiaramente quanto la frammentazione del linguaggio abbia riproposto, di fatto, una questione sostanzialmente stilistica nella pratica architettonica. Programmaticamente, la Internationale Bauausstellung di Berlino si propone come intervento sulla città esistente: “Stadtreparatur” (ricostruzione urbana), “Lückenfüllung” (chiusura di spazi vuoti) sono le modalità secondo le quali gli architetti invitati devono procedere a ricostituire l’immagine di una città che, a 40 anni dalla fine della guerra, mostrava ancora numerosi segni delle distruzioni subite. I vincoli imposti dall’amministrazione comunale per la realizzazione dei nuovi interventi sono esigui: si tratta di eseguire delle Blockrandbebauungen, ovvero completamenti che rispettino il filo stradale costituito, nonché altre marginali indicazioni di carattere dimensionale. Se dunque la continuità della forma urbana viene garantita dai vincoli morfologici, i nuovi interventi non sembrano prestare troppa attenzione al carattere di Berlino, dando vita ad un curioso eclettismo postmoderno. Questo tipo di operazione trova il suo fondamento teorico negli scritti di Rob Krier, il quale, alla metà degli anni ’70, aveva formulato un metodo di analisi urbana fondato esclusivamente sulla geometria degli spazi; l’appiattimento sui dati dimensionali delle esperienze urbane – di ogni epoca e derivazione geografica – a cui viene sottratto qualsiasi altro elemento caratterizzante, di fatto si ripercuote anche nel progetto, ponendo come sostanzialmente equivalente qualunque soluzione, fintantoché vengano rispettati i criteri di 70

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carattere dimensionale55. La Lützowplatz a Berlino è forse il luogo nel quale questa poliedrica Babele giunge al suo massimo limite: sui quattro lati della piazza e nelle sue immediate vicinanze gli edifici di Ungers, Cook, Botta e Gregotti conducono conversazioni tendenti al monologo, con solo scarse possibilità di convergenza; se poi si estende l’indagine a tutto il territorio cittadino, includendo gli interventi di Eisenman, Krier, Rossi, OMA, ecc., il campionamento si fa ancora più vasto. Non a caso, rivisitando la tipologia dell’isolato berlinese dieci anni più tardi, Aldo Rossi proporrà una severa (auto)critica, ricostruendo, nel complesso della Schützenstrasse (Figg. 21-22), il più variegato collage di immagini architettoniche di tutta la capitale tedesca: è un commento al polilinguismo dell’IBA, che ha preteso di individuare, nella sola morfologia urbana, un elemento sufficiente per costruire una città rispondente alle nuove esigenze della condizione postmoderna. Guardando oltre gli equivoci che hanno condotto alla moltiplicazione delle forme espressive, rimane però il dato di fatto che, nell’esperienza berlinese, almeno una parte delle proprietà del contesto sono state assunte come principi regolatori per l’attività progettuale. Se nell’IBA quest’operazione di adattamento è stata condotta in maniera alquanto superficiale, almeno per quanto riguarda l’indagine sui mezzi linguistici, nello stesso periodo si andava diffondendo una tendenza opposta, che vedeva nella meticolosa analisi delle condizioni preesistenti una modalità per fornire all’attività progettuale quel fondamento obiettivo

Fig. 23 OMA – Rem Koolhaas. Progetto per la Arnhem Koepel (1981). Spaccato prospettico

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Figg. 24, 25 OMA – Rem Koolhaas. Progetto per la Arnhem Koepel (1981). Sezione e vista interna

che risulta – nonostante le buone intenzioni – assente nell’esperienza tedesca. Soprattutto in Italia, la diffusione di questa pratica analitica intransigente viene giudicata rischiosa da alcuni autori; il delicato equilibrio tra imitatio e inventio risulta nuovamente compromesso dalla presenza di un numero amplissimo di vincoli imposti dal contesto, la cui interpretazione all’interno del progetto di architettura paralizza almeno parzialmente la facoltà ideativa del progettista. Si tratta, in altre parole, di ristabilire quel limite necessario che già Ernesto Rogers individuava nella dialettica fra tradizione storica e talento individuale. «Nel progetto di architettura,» scrive Vittorio Gregotti non si tratta oggi di mettere in essere un punto da cui osservare e descrivere la realtà ma della messa in luce del terreno del reciproco coinvolgimento e nello stesso tempo della scelta del livello di realtà trasformabile in sostanza architettonica, così come una cartografia non rappresenta tutta la realtà ma quella parte di realtà trasformabile nella descrizione geografica56.

Le considerazioni di Gregotti, formulate nell’ambito di una complessiva revisione dell’incisività dello strumento progettuale, richiamano alla necessità di non restringere l’azione dell’architetto ad un’operazione di alta manutenzione, che risulti in una sostanziale immobilità entro gli angusti limiti del contesto; il rischio è quello di «scioglimento della forma architettonica in garantismo 72

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ambientale»57. Il dibattito che animava la scena architettonica ai tempi di Giovannoni si rivela dunque ancora attuale, problematica non risolta della specifica condizione italiana, dettata dalla necessità di lavorare adeguatamente con un gravoso portato di tradizione e materia storica. In altri ambiti culturali, l’ondata di contestualismo degli anni ’80 viene criticata su diverse basi. Rem Koolhaas definisce le sequenze morfologiche di spazi urbani individuate da Krier una «casta economia dell’immaginazione»58, mentre di quello che probabilmente è il più acuto manifesto della città anti-utopista, la Collage City di Colin Rowe, scrive: Al centro della progettazione contestualista giace una contraddizione: negli esempi preferiti dei contestualisti, le collisioni e le utopie abortite vengono generate nel corso degli eventi, durante lunghi periodi di tempo; ma il contestualista moderno è costretto a proiettare le vicissitudini di secoli in un unico momento di concepimento. In un atto di proiezione più o meno ispirato, il contestualista genera uno scenario che simula la storia dei prossimi 400-500 anni. Attraverso questa estrapolazione operata in nome della storia, il contestualista mette in corto circuito la continuità storica59.

La critica avanzata da Koolhaas coglie, di fatto, uno dei punti centrali della problematica del rapporto con la storia e più in particolare dell’intervento di trasformazione: la strumentalità della materia di base. Riallacciandosi ad un concetto di progetto storico, per la trasformazione della Arnhem Koepel (Figg. 2325) Koolhaas propone un’interpretazione della preesistenza che ignora la materia fisica, per interrogare direttamente il principio ideologico da cui essa deriva. La prigione di Arnhem, realizzata nel 1882 sul modello del Panopticon di Bentham, incarna il principio meccanicista dell’efficienza produttiva; osservando il modo in cui la struttura è stata trasformata attraverso l’uso quotidiano, nonché per i cambiamenti nel sistema carcerario, Koolhaas propone l’aggiunta di uno zoccolo polifunzionale, che contrapponga alla rigida centralità – metafora visiva del controllo – la più flessibile organizzazione di una piastra isomorfa. Il nuovo intervento serve dunque a trasformare la fruizione del carcere; ad una nuova fruizione si associa una diversa «produzione di esseri umani riformati»: questo, a parere di Koolhaas, è reso possibile grazie al margine posseduto da un edificio iper-monumentale e antieconomico come la prigione di Arnhem, che, a differenza dell’architettura moderna, impostata sulla coincidenza deterministica tra forma e programma, si rivela altamente flessibile. Attraverso l’aggiunta di una piastra, il meccanismo cambia il suo funzionamento; la permanenza dell’antica struttura consente di conservarne l’immagine simbolica, il valore 73

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di deterrente, liberando la nuova piastra dalla necessità di esprimere l’idea dell’incarcerazione60. Il procedimento seguito da Koolhaas in questo particolare caso rappresenta sicuramente un modo estremo di considerare l’oggetto preesistente: come se si trattasse di un meccanismo non più funzionante, l’architetto lo ripara, adattandolo ad un nuovo tipo di uso. Se la rifunzionalizzazione rappresenta uno dei principali campi di intervento sulle preesistenze, sicuramente in questo caso si manifesta in maniera quanto mai chiara il carattere strumentale che, nell’attività progettuale, viene attribuito alla materia storica. A conclusione del percorso cronologico compiuto è possibile individuare alcune problematiche ricorrenti nell’ambito dell’intervento di trasformazione. Innanzi tutto è opportuno ribadire quanto affermato in apertura: la lettura della materia storica è determinata da un più vasto nesso di cause, dalla particolare configurazione del momento epistemologico entro il quale ciascun autore opera; il senso della condizione storica, inoltre, indirizza profondamente le posizioni progettuali così come le scelte linguistiche. A proposito di queste, due sono gli ambiti generali entro i quali è possibile collocare molti interventi: la contaminazione, che vede la sovrapposizione di diversi linguaggi all’interno del medesimo orizzonte, e l’armonizzazione, nel qual caso il nuovo intervento tende ad assimilare quanto già presente in situ. L’efficacia di quest’ultima modalità risiede nella possibilità di produrre immagini concluse; la prima sfrutta invece il contrasto fra nuovo e antico per dare maggiore risalto ad uno o entrambi. Il contrasto linguistico, alla cui base sta una sostituzione fra nuovo e antico, utilizza la materia preesistente come un fondo, rispetto alla cui presenza il primo piano della figura è rappresentato dal nuovo intervento; si tratta in molti casi di un uso strumentale, della messa in scena della modernità: da Alberti a Mies sino a Koolhaas, non sono pochi gli autori che hanno sfruttato le potenzialità di questo strumento. L’altra messa in scena, simmetrica rispetto alla precedente, è quella della continuità storica; così un filo sottile lega Viollet-le-Duc a Giovannoni, Rogers e Schwarz. Eppure entro queste due differenti linee le acque si confondono, rendendo impraticabili precise suddivisioni, classificazioni, denotazioni di sistemi metodologici. Rimangono però le preesistenze come materia storica, ambiguamente interpretabile come reperto archeologico e macchina mnemonica; se, come afferma Michel Foucault, «L’histoire est ce qui transforme les documents en monuments»61, inevitabilmente diviene compito di ciascun progettista di appropriar74

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si di questa materia, per trasformarla attraverso la sua azione: o affiancandole un oggetto differente, che per contrasto ne consenta la comprensione della natura, o ricostituendo l’ambiente entro il quale essa era stata eretta; o, ancora, mettendo in atto quell’infinità di possibili soluzioni che integrano queste due strade contrapposte. A ogni modo la preesistenza è materiale di progetto; è il progettista stesso a determinarne il destino, rendendola in diversi modi partecipe del nuovo intervento.

Note 1 A questo proposito si veda il saggio del 1930 di Erwin Panofsky, “La prima pagina del «Libro» di Giorgio Vasari”, in Il significato nelle arti visive, Einaudi, 1962, pp. 169-224. Pur sottolineando l’ambiguità della posizione di Giorgio Vasari nei confronti dell’arte medievale, Panofsky mette in evidenza il sorgere della “consapevolezza del passato”, che darà successivamente luogo alla nascita del senso antiquario. 2 R. Wittkower, Principî architettonici nell’età dell’Umanesimo, Einaudi, 1964, p. 63. 3 Ibidem, p. 64. 4 Vedi J. Gadol, Leon Battista Alberti, University of Chicago Press, 1969, p. 108. 5 M. Tafuri, Architettura dell’umanesimo, Laterza, 1980, p. 31. 6 Dalla lettera autografa di Alberti a Matteo de’ Pasti, 1450. 7 L. B. Alberti, L’architettura, trad. G. Orlandi, Il Polifilo, 1989. «[...] Nella casa di città occorre regolare molti particolari tenendo conto della conformazione degli edifici vicini, mentre nella villa ci si comporta con maggiore libertà. Bisogna evitare che lo zoccolo della casa sia troppo elevato di quanto comporta l’esigenza di armonia con l’edificio vicino. Anche l’ampiezza dei portici avrà un limite dipendente dalla forma dei muri attigui.» Libro IX, cap. 2, p. 436. 8 J. Ackerman, The Architecture of Michelangelo, A. Zwemmer, 1961, p. 21. 9 La questione dell’imitazione e dell’invenzione sarà centrale proprio nell’opera di Piranesi, uno dei più convinti assertori della necessità di lasciare maggiore spazio all’attività creativa rispetto a quella che egli definisce la “ignavia” dei suoi contemporanei. Al riguardo si veda M. Tafuri, La sfera e il labirinto, Einaudi, 1980, cap. 1, nonché direttamente l’opuscolo del 1765 di Piranesi, Osservazioni di Giovanni Battista Piranesi sopra la lettre d M. Mariette aux auteurs de la Gazette littéraire de l‘Europe, ed in particolare il Parere sull’architettura in esso contenuto. Come contraltare, chiaramente, il saggio del 1755 di Winckelmann Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst. Altro contributo di grande rilievo il saggio di Quatremère de Quincy sull’imitazione, De l’imitation, 1823. 10 A. Choisy, L’art de batir chez les romains, Ducher, 1883, e Histoire de l’architecture, Gauthier-Villars, 1899. Per un’acuta critica del ruolo di Choisy nello sviluppo dell’architettura moderna, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto tettonico, si veda R. Banham, Architettura della prima età della macchina, Calderini, 1970, soprattutto il capitolo 1. 11 G. Semper, “I Quattro elementi dell’architettura”, in H. Quitzsch, La visione estetica di Semper, Jaca Book, 1991. 12 Vedi W. Herrmann, Gottfried Semper: Architettura e teoria, Electa, 1990, pp. 100-101. 13 J. Ruskin, “La lampada della memoria”, in Le sette lampade dell’architettura, Jaca Book, 1981, p. 214 e seguenti.

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14 Ibidem, p. 194. 15 J. Summerson, “Viollet-le-Duc and the Rational Point of View”, in Architectural Design Profile: Viollet-le-Duc, 1980, p. 7. 16 Vedi G. Carbonara, Avvicinamento al restauro, Liguori, 1997, p. 145 e seguenti. 17 Per questo accostamento, operato assegnando al paragone diverse accezioni, si vedano le descrizioni del castello riportate nei cataloghi apparsi in occasione del centenario della morte di Viollet nel 1979, in particolare AD Profile, p. 65, e AA. VV., Viollet-le-Duc e il restauro degli edifici in Francia, Electa, 1981, p. 58. 18 Vedi G. Carbonara, op. cit., p. 148: «Il suo tentativo sarà quello di conferire alla struttura architettonica la stessa logica della natura: come da una sola foglia si riconosce e ricostruisce la pianta che l’ha generata, così da una cornice si potrà restituire razionalmente e restaurare [...] un’intera architettura. Non a caso egli con gli stessi metodi affronterà i monumenti artistici ed un monumento fisico e naturale, come il Monte Bianco, proponendone in stretta analogia anche il restauro.» Tali considerazioni non possono che ricondurci alle parole di Gottfried Semper, che si dichiara affascinato dal metodo scientifico del barone Georges Cuvier, il quale affidava ad un principio strettamente funzionale la classificazione delle specie animali. A tale proposito si veda J. Rykwert, “Semper e il concetto di stile”, in La necessità dell’artificio, Edizioni di Comunità, 1988, pp. 70-74. 19 Si veda, al riguardo, il saggio di M. Bressani, “Notes on Viollet-le-Duc’s Philosophy of History: Dialectics and Technology”, in Journal of the Society of Architectural Historians, vol. XLVIII, n. 4, dicembre 1989, pp. 327-350. 20 Si veda a proposito C. E. Schorske, Vienna Fin-de-Siècle, Bompiani, 1981, pp. 20-108. 21 Sulla Spab si veda in particolare M. Manieri Elia, William Morris e l’ideologia dell’architettura moderna, Laterza, 1976, p. 15 e seguenti. 22 Nascono così in Germania il Dürerbund, fondato nel 1902, ed il Bund Heimatschutz, ambedue orientati alla promozione dei fattori di tipicità dell’architettura nazionale tedesca. A proposito delle diverse associazioni operanti nell’ambito del movimento tedesco Reform a fianco del Werkbund, si veda J. Campbell, Il Werkbund tedesco, Marsilio, 1987, pp. 29-36. 23 Vedi G. Zucconi, “Dal capitello alla città. Il profilo dell’architetto totale”, in G. Giovannoni, Dal capitello alla città, Jaca Book, 1997, pp. 16-17. 24 Tratto da I monasteri di Subiaco, 1904, ora in G. Giovannoni, op. cit., p. 24, nostro corsivo. 25 Gustavo Giovannoni intratterrà per lungo tempo una corrispondenza con Auguste Choisy. 26 Questa difficoltà di definizione si rispecchierà anche nel famoso testo di legge sui Beni culturali e ambientali del 1939, alla cui redazione Giovannoni prenderà parte in prima persona. 27 Vedi B. Croce, Breviario di estetica, Laterza, 1982, p. 124. Per un regesto del pensiero estetico posthegeliano nella Germania di fine ottocento, si veda H. F. Mallgrave (a cura di), Empathy, Form, and Space, Getty Center, 1994. 28 Questo termine è stato utilizzato da Fritz Neumeyer nel suo saggio “The Second-Hand City: Modern Technology and Changing Urban Identity”, in M. M. Angelil (a cura di), On Architecture, the City, and Technology, ACSA, 1990, pp. 16-25. 29 Vedi S. Kracauer, The Mass Ornament, Harvard University Press, 1995, p. 323 e seguenti. 30 Vedi D. Leatherbarrow e M. Mostafavi, Surface Architecture, MIT Press, 2002, p. 202. 31 C. Rowe, Collage City, Il Saggiatore, 1981, in particolare il capitolo 2. 32 Vedi J.-L. Cohen, Mies van der Rohe, Laterza, 1994, pp. 19-35 e 77-105; D. Mertins, “The Reichsbank Architectural Competition”, in Alphabet City, n. 4-5, 1995, pp. 106-111; V. Magnago Lampugnani, “Berlin Modernism and the Architecture of the Metropolis”, in T. Riley – B. Bergdoll (a cura di), Mies in Berlin, MoMA, 2001, pp. 42-46; per i rapporti tra Mies ed i movimenti di Wohnreform, si veda B. Bergdoll, “The Nature of Mies’s Space”, in T. Riley – B. Bergdoll, op. cit., pp. 67-105; D. Hammer-Tugendhat – W. Tegethoff (a cura di), The Tugendhat

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House, Springer, 2000, pp. 29-37. 33 Vedi M. Tafuri, F. Dal Co, Storia dell’architettura contemporanea, Electa, 1976, p. 307. 34 A. Loos, “La città alla Potëmkin”, in Parole nel vuoto, Adelphi, 1972, p. 103 e seguenti. 35 Vedi H. Ahlberg, “Gunnar Asplund Architect”, in Gunnar Asplund Architect 1885-1940, Tidskriften Byggmästaren, 1950, p. 72. 36 R. Schwarz, Vom Bau der Kirche, Schneider, 1938; Von der Bebauung der Erde, Schneider, 1949. 37 Questo binomio materia-spirito, elemento caratteristico del sistema teorico di Schwarz, ha le sue origini nel pensiero di Romano Guardini, e di fatto costituisce anche il più significativo trait d’union fra l’architetto di Colonia e Mies van der Rohe. Per i rapporti fra Schwarz, Mies e Guardini, si veda: W. Pehnt, H. Strohl, Rudolf Schwarz, Electa, 2000, pp. 50-57; R. Padovan, “Machines á méditer”, in Mies van der Rohe: Architect as Educator, Illinois Institute of Technology, 1986, pp. 17-26; D. Mertins, “Living in a Jungle: Mies, Organic Architecture, and the Art of City Building”, in P. Lambert (a cura di), Mies in America, Canadian Center for Architecture, 2001, pp. 625-630. 38 Vedi W. Pehnt, H. Strohl, Rudolf Schwarz, Electa, 2000, pp. 149-150. 39 Ibidem, p. 154. 40 Le complesse vicende della ricostruzione postbellica della Germania vedono molteplici protagonisti, autori di interessanti esempi di interventi sulle preesistenze. Benché nella presente sede ci sia concentrati esclusivamente su Rudolf Schwarz e Karl Band, è necessario citare, tra gli autori di altre opere di ricostruzione in varie città tedesche, almeno Emil Steffann, Egon Eiermann, Johannes Krahn, Dominikus e Gottfried Böhm; particolarmente interessante anche l’opera di Hans Döllgast a Monaco. Per maggiori approfondimenti si veda il già citato libro di Pehnt e Strohl su Schwarz, nel quale viene ricostruita buona parte della vicenda di Colonia; inoltre si veda: W. Nerdinger, “Hans Döllgast. Ricostruzione della Alte Pinakothek a Monaco”, in Casabella, n. 636, luglio-agosto 1996, pp. 46-55; W. Schmidt, Bauen mit Ruinen, Maier, 1949; K. von Beyme (a cura di), Neue Städte aus Ruinen, Prestel 1992. 41 E. N. Rogers, Esperienza dell’architettura, Skira, 1997, p. 267. 42 E. N. Rogers, ibidem, p. 279. 43 E. N. Rogers, ibidem, p. 290. 44 Si veda in particolare K. Frampton, Storia dell’architettura moderna, Zanichelli, 1986, pp. 380-381; A. Colquhoun, Modern Architecture, Oxford University Press, 2002, pp. 183-191. 45 Per un’attenta rilettura della figura intellettuale di Rogers, ed in particolare della questione del metodo, si veda V. Gregotti, “Ernesto Rogers 1909-1969”, in Casabella, n. 557, maggio 1989, pp. 2-3. In particolare, Gregotti osserva: «Ma il principio del “caso per caso”, predicato da Rogers su Casabella Continuità, non ha nulla a che vedere con l’appiattimento sul quotidiano, che ha caratterizzato molte anti-ideologie dei nostri anni; piuttosto è il tentativo di dimostrare l’unità del metodo gropiusiano proprio a partire dalla diversità dei casi e quindi dei risultati; è anche il tentativo di avviare un discorso con il contesto, di ascoltarne le ragioni, di accettarne l’appartenenza senza rinunciare alla tradizione della modernità». 46 G. Zucconi, op. cit., p. 66; Zucconi estende l’analogia anche alla contemporanea «teoria dell’ambientamento edilizio» di Roberto Pane. 47 Arte come esperienza, testo fondamentale dell’estetica pragmatista di Dewey, compare per la prima volta in Italia per i tipi de La Nuova Italia nel 1951. 48 Già nel 1938 Rogers scriveva su L’Ambrosiano: «Così nell’aver creato vetrate più ampie che non le sopportino i nostri occhi feriti dalla luce e la temperature dei nostri climi, vi è stato certamente qualche errore, ma, in ogni modo, questo non muta il nostro desiderio di stabilire un rapporto tra la vita della casa e quella della natura: e, mentre per gli altri il problema si risolve semplicemente con il consiglio di “tornare all’antico”, a noi esso impone di inventare nuovi adegua-

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ti mezzi, che ci consentano di realizzare più armonicamente il nostro impegno». Ora in E. N. Rogers, op. cit., p. 41. 49 E. N. Rogers, Esperienza dell’architettura, op.cit., p. 120. 50 Ibidem, p. 252. 51 V. Gregotti, op. cit., p. 3. 52 S. Muratori, Studi per una operante storia urbana di Venezia, Istituto Poligrafico dello Stato, 1960, p. 8. 53 Vedi, fra gli altri, G. Cullen, Il paesaggio urbano, Calderini, 1976; J. Jacobs, Vita e morte delle grandi città, Einaudi, 1969; K. Lynch, L’immagine della città, Marsilio, 1964; a fronte di questi, Robert Venturi proporrà come via alternativa la reinterpretazione dell’immagine caratteristica della città americana, come proposto in Complessità e contraddizione in architettura, Dedalo, 1977, e R. Venturi – D. Scott-Brown – S. Izenour, Imparando da Las Vegas, Cluva, 1985. 54 Alcuni dei progetti utopici delle avanguardie situazioniste svelano un singolare interesse nei confronti della città tradizionale, che viene “invasa” da oggetti di dimensioni incontrollabili. Non sempre però il rapporto è del tutto antitetico: mentre Rem Koolhaas ed Elias Zenghelis nel loro Exodus propongono la completa sostituzione di un’intera fascia del centro di Londra, il Monumento continuo e la No stop city del gruppo Archizoom si pongono più ambiguamente come “contenitori” di grandi centri urbani. In questo caso alla totale separazione rispetto alla città esistente si preferisce un rapporto dialettico radicale, operato attraverso l’invasione dello spazio tipico e la moltiplicazione dell’immagine sui giganteschi curtain wall vetrati. 55 Vedi D. Vitale, Introduzione a R. Krier, Lo spazio della città, Clup, 1982, p. 13. 56 V. Gregotti, Dentro l’architettura, Bollati Boringhieri, 1991, p. 37. 57 V. Gregotti, ibidem, p. 74. 58 R. Koolhaas, S,M,L,XL, Monacelli Press, 1995, p. 285. 59 R. Koolhaas, ibidem, p. 283, nostra traduzione. 60 R. Koolhaas, ibidem, pp. 235-253. 61 Citato da V. Gregotti, Dentro l’architettura, op. cit., p. 68.

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3. Linguaggio e morfologia: preesistenze e venustas

Si è detto che un determinato oggetto assurge allo status di preesistenza in virtù della considerazione che ad esso viene attribuita dal progettista; il modo in cui questo rapporto viene attuato si configura come un processo di comprensione. Tale termine, intenzionalmente generico, implica la possibilità di numerosi diversi approcci nei confronti dell’esistente; naturalmente, le modalità conoscitive di questi oggetti divengono parte integrante del cammino che conduce al progetto, determinandolo anzi in maniera intrinseca. Quali sono dunque le diverse modalità di comprensione dell’oggetto preesistente, o, più in generale, dell’oggetto architettonico? Questa domanda non può naturalmente trovare risposta esauriente in questa sede; al fine di consentire un approccio sistematico al problema della figurazione dialettica fra antico e nuovo, è indispensabile operare una semplificazione, riducendo l’ambito analitico a due campi epistemologici basilari, ovvero interpretazione e misurazione. Una terza modalità, riconducibile alla lettura fenomenologica dell’opera architettonica verrà più approfonditamente investigata in relazione alla questione delle tecniche costruttive. Interpretazione e misurazione, dunque, introducono due universi filosofici paralleli, ricchi di punti di contatto, eppure fondamentalmente separati nella sostanza concettuale. L’interpretazione ci riconduce ad una lettura strutturale, legata ad una concezione linguistica, improntata al rapporto di significazione; la misurazione prescinde, almeno teoricamente, dai riferimenti culturali, basandosi su elementi quantificabili, dimensionali: morfologia e, per estensione, tipologia. Risulta evidente come non sia possibile – né tantomeno corretto – isolare questi due campi epistemologici: se non è pensabile un oggetto architettonico che sia pura figurazione, scevra dall’influenza della costruzione geometrica, derivata se non altro dalle qualità tettoniche dell’oggetto, d’altro canto ogni ordine dimensionale rimanda in maniera più o meno evidente ad un sistema di riferimenti figurativi, simbolici, o, più genericamente, culturali. L’ermeneutica dell’opera architettonica e la comprensione delle sue caratteristiche morfologiche costituiscono pertanto due modalità solo parzialmente conciliabili di analisi; nella fattispecie, nella pratica progettuale si verifica 79

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sovente la prevalenza dell’una rispetto all’altra, non infrequentemente a seguito della precisa assunzione di una posizione ideologica da parte del progettista. Come si è visto inseguendo le tracce della nozione di preesistenza attraverso lo sviluppo della teorizzazione architettonica, è la posizione dell’architetto nei confronti della storia e della sua manifestazione materiale nell’oggetto-preesistenza a connotare ideologicamente l’intervento sull’esistente. Nelle sue molteplici configurazioni sia materiali che immateriali, la storia entra a far parte del progetto di architettura: le diverse modalità attraverso le quali l’architetto si rende interprete del passato influiscono sull’opera. La Storia è dunque un apparato di testimonianze materiali, dalla precisione infallibile e incontestabile, o piuttosto massa neutra di memorie cangianti, umbratili, variabili a seconda di quello che l’architetto ritiene necessario riportare al presente? Filosofia della storia, immaginazione e memoria, realtà e illusione, oggettività scientifica e rêverie onirica: per l’interpretazione del passato non è data una soluzione univoca e incontrovertibile, ma piuttosto un nucleo magmatico di possibilità, spesso destinate a intersecare fatalmente dimensioni oggettive e soggettive. Apparentemente, nel progetto di intervento sull’esistente la via più consueta è quella dell’interferenza tra filologia storica e poetica personale, dando luogo ad un intreccio la cui matrice di partenza può rimanere, a conclusione del processo, invisibile.

Interpretazione e linguaggio La sostanza architettonica esistente entra nel processo ermeneutico sotto forma di oggetto; la sua struttura linguistica, espressiva di un universo di riferimenti culturali, diviene mezzo di trasmissione di un ampio numero di significati. L’impianto formale di un’opera può infatti esplicitare la funzione che essa svolge, la sua appartenenza alla sfera pubblica o privata; può riproporre immagini di altri edifici, modelli che, per il loro particolare posto nella storia architettonica, rimandano a significati specifici; può evocare, in maniera più indiretta, un’impressione, immagine o memoria collettiva. In breve, attraverso la strutturazione semantica, l’opera architettonica può mettere in scena una vasta gamma di significati, presenti o rappresentati. Naturalmente, l’interpretazione dell’oggetto può variare a seconda di chi la compie; il significato è passibile pertanto di variazioni e moltiplicazioni, a volte conflittuali tra loro. L’arbitrarietà è data dal sistema di riferimento adoperato, dall’universo culturale del lettore: chi legge un testo antico, pur comprendendo80

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ne la scrittura, può rimanere all’oscuro del significato di termini non più in uso; d’altro canto, sarà propenso ad applicare al testo categorie semantiche contemporanee, individuandovi significati artefatti, ontologicamente impropri. In ogni caso, l’interpretazione della situazione esistente restituisce a chi la compie un quadro soggettivamente valido del suo significato; ciò che risulta determinante è l’uso che di tale oggetto si opera nell’ambito della produzione della nuova architettura. Il progettista può decidere di rimanere fedele alla materia preesistente, rispondendo per analogia ai diversi livelli di figurazione: si possono dunque riproporre articolazioni decorative o caratteristiche formali e compositive tali da porre in corrispondenza biunivoca – almeno entro i limiti della variabilità interpretativa – vecchia e nuova costruzione. Si tratta in questo caso di mantenere una linea di continuità tra i linguaggi adoperati, secondo una metodologia di analogia figurativa tra l’oggetto esistente ed il nuovo intervento. Il progettista si adopera per proseguire un discorso già avviato, con l’intento – nella maggior parte dei casi – di inserire la propria opera in maniera armoniosa, se non addirittura invisibile. In talune condizioni si tratta di interventi a carattere mimetico, nei quali sull’autonomia del nuovo progetto prevale l’esigenza di non alterare uno status quo: l’esempio più chiaro di questa modalità sono le costruzioni in stile. Chiaramente la fedeltà all’immagine esistente non garantisce necessariamente l’armonioso inserimento del nuovo intervento: tale risultato deriva in genere da una calibrata considerazione di numerosi aspetti del progetto. Un primo grado di deviazione rispetto ad un’immagine originale ha luogo quando il progettista ridisegna l’apparato linguistico dell’oggetto esistente. Le

Fig. 1 Massimo Carmassi. Ricostruzione di San Michele in Borgo a Pisa (2001). Vista della piazza interna

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Figg. 2, 3 Massimo Carmassi. San Michele in Borgo a Pisa (2001). Vista della piazza interna e dettaglio della costruzione in mattoni

articolazioni architettoniche non mutano di significato, mantenendo la loro posizione all’interno del sistema sintattico; ciò che varia è invece la loro costituzione formale, che viene spesso rivista in nome dell’attualizzazione dell’immagine prodotta. In questo senso opera Massimo Carmassi nella ricostruzione del Borgo di S. Michele a Pisa1 (Figg. 1-3): l’immagine prodotta dall’intervento è chiaramente derivata da un’operazione di interpretazione dell’esistente, soprattutto della sintassi della costruzione in laterizio. Analogamente, Carmassi decide di mantenere almeno in parte il proporzionamento tra massa muraria e aperture, riproporre la composizione irregolare di queste sulle facciate, la morfologia degli archi ribassati ecc. Tuttavia, la distanza tra antico e nuovo rimane ben evidente: il contrasto viene assicurato dalla permanenza di lacerti di mura medievali, sulle quali i segni del tempo sottolineano la distinzione fra le due parti del Borgo; ma ancora di più, è la riduzione e semplificazione del linguaggio a dare nota di una differenza. Carmassi non pretende di riprodurre la disomogeneità della materia storica, riducendo al minimo il numero di articolazioni tettoniche, elementi caratterizzanti della struttura in laterizio. Nonostante questa riduzione figurativa, la derivazione del sistema linguistico da quello preesistente è palese, pur senza compiere un’operazione necessariamente mimetica. Un ulteriore passo di allontanamento rispetto alla strutturazione linguistica di un tessuto urbano consolidato è quello compiuto da Frank Gehry nell’edificio sul lungofiume di Praga noto come “Ginger & Fred”2 (Figg. 4-5). L’interpretazione che l’architetto formula della tipologia degli edifici in linea praghese è mediata attraverso un repertorio figurativo pop: finestre e marcapiani, inizialmente allineati alle quote dei blocchi adiacenti, vengono coinvolti in un ‘passo di danza’ che trasforma le orizzontali in onde, presumibilmente in omaggio alla Moldava che scorre ai piedi dell’edificio. Mentre sul lungofiume le dimensioni del corpo di fabbrica sono paragonabili a quelle degli edifici adiacenti, la soluzione d’angolo cambia nettamente scala, formando una doppia 82

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Figg. 4, 5 Frank O. Gehry. Edificio “Ginger & Fred“ a Praga (1994). Vista e pianta del piano tipo

torre, svettante rispetto all’edilizia circostante. La necessità del gesto eclatante di Gehry non è del tutto chiara, è invece evidente il modo in cui il linguaggio architettonico leggibile in situ venga reinterpretato in chiave ironica. Fra questi due esempi, che rappresentano diverse strategie di interpretazione di un linguaggio, esistono numerose possibili sfumature, in cui la mediazione del progettista trasfigura l’esistente, rielaborandone l’oggetto. La ripresa di un linguaggio dato costituisce una modalità specifica che prende pienamente atto del significato della materia architettonica presente, partendo da questa premessa per giungere a conclusioni ampiamente diversificate. Procedimento opposto è invece quello che, sulla scorta della lettura della preesistenza, interviene tramite la sostituzione con un nuovo linguaggio, che con il precedente entra in rapporto dialettico. La nuova figurazione può comun83

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Figg. 6, 7 (pagina opposta) Carlo Scarpa. Museo del Castelvecchio, Verona (1964). Vista del taglio che ospita la statua di Cangrande della Scala e della fontana nella corte

que rimanere debitrice a quella antica, riprendendone posizioni ontologiche o finalità, rimanendone distante solo sul piano delle modalità espressive; può strutturarsi però anche come radicale palinsesto, rigettando in maniera completa quanto presente in situ. Pur in quest’ultimo caso, non è necessariamente detto che il nuovo intervento risulti del tutto dissimile rispetto alla configurazione preesistente: nella complessità del progetto, la consonanza fra vecchio e nuovo può scaturire da un movimento di evoluzione convergente. Tramite la sostituzione del linguaggio opera dunque Carlo Scarpa in molti dei suoi interventi su strutture architettoniche preesistenti, dal Castelvecchio di Verona alla Querini Stampalia di Venezia, sino al palermitano Palazzo Abatellis3 (Figg. 6-7). Senza entrare in profondità nel merito degli strumenti figurativi adoperati dall’architetto veneziano, ciò che risulta innegabile è la loro autonomia rispetto alla materia di partenza, attestata dalla riconoscibilità stilistica dei nuovi interventi pur in contesti nettamente diversificati. Gli interventi di Scarpa non mirano certo all’invisibilità, bensì alla decisa strutturazione formale degli ambienti, nei quali la sostanza antica viene generalmente arretrata al fondo, se non addirittura occultata o rimossa; infine, fra i suoi strumenti progettuali egli adotta frequentemente la radicale trasformazione delle modalità di fruizione e percezione dello spazio architettonico. Nelle opere di Scarpa l’intervento sull’esistente diviene ridisegno degli spazi, ripensamento del loro carattere; il tutto avviene sotto il controllo della rara maestria dell’architetto4. Nel carattere dei suoi allestimenti si riscontra un atteggiamento senza tempo, che 84

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nel rifiutare l’appiattimento sulla materia storica rifugge con altrettanta decisione gli strumenti figurativi della contemporaneità. Se la dialettica fra antico e nuovo è marcata, al contempo essa non viene radicalizzata: è questo il motivo per il quale gli allestimenti dell’architetto veneziano non giungono alla crisi totale rispetto all’esistente. Spesso la sostituzione di linguaggio come procedimento poetico è indirizzata esattamente alla messa in opera di una frattura profonda, programmatica, nell’ambito della quale la dialettica fra nuovo e antico diviene monologo: è questo il caso della ‘feluca’ imposta dai Coop Himmelb(l)au sull’attico di un edificio viennese di fine ‘8005 (Fig. 8). Alterità totale di linguaggio, differenziazio-

Fig. 8 Coop Himmelb(l)au (Prix e Swiczinsky). Rimodellazione di un attico sulla Falkestrasse, Vienna (1989)

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ne morfologica netta, scelta di tecniche e materiali costruttivi in contrapposizione con l’esistente: l’ampliamento realizzato da Prix e Swiczinsky non si presta a compromessi figurativi, procedendo secondo canoni di intervento più vicini all’installazione artistica che non alla pratica più propriamente architettonica. Se questo intervento è sicuramente un fedele esempio della poetica perseguita dal gruppo viennese, rimane aperta la questione relativa alla validità della scelta di ignorare un oggetto preesistente che, pur non rappresentando un’eccezionale testimonianza storica, non mancava di suggerire numerose soluzioni alternative meno propense allo scontro frontale. Da quale procedimento ermeneutico della materia esistente può derivare la scelta del progettista di sostituire il linguaggio architettonico dato con un altro? Nel caso dei Coop Himmelb(l)au è possibile postulare l’indifferenza rispetto al significato storico della preesistenza; in quello di Scarpa, forse più sottilmente, l’autore decide di prolungare lo sviluppo stilistico dell’antico nel nuovo, facendo riferimento ad una tradizione artigianale a cui egli si sente vicino ed il cui linguaggio ritiene di poter dominare sino in fondo, anche e soprattutto nelle sue manifestazioni contemporanee. In entrambi i casi il nuovo intervento introduce dunque un linguaggio ‘altro’ che si confronta con quello già presente; in taluni esempi, tuttavia, l’aggiunta intende risultare a-significante, con l’intento di non entrare in competizione con il sistema di figurazione della preesistenza: è questo un procedimento tipico del progetto di restauro o di quello architettonico compiuto in presenza di oggetti

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Fig. 9 (pagina opposta) Charles Gwathmey & Robert Siegel. Ampliamento del Solomon R. Guggenheim Museum, New York (1992). Vista del nuovo volume Fig. 10 Nodo con la pensilina di F. O. Gehry Fig. 11 Frank Lloyd Wright. Prospettiva di progetto per il Guggenheim Museum a New York (1951)

di particolare rilievo storico o figurativo. Esempio particolarmente interessante di questa modalità è l’ampliamento del Museo Guggenheim di Manhattan, completato nel 1992 da Charles Gwathmey e Robert Siegel6 (Figg. 9-11). Il volume prismatico risolve il difficile problema della creazione di un raccordo fra la spirale wrightiana, in sé teorema anti-urbano (e soprattutto antinewyorkese) ed il tessuto edilizio di Central Park East, caratterizzato dall’ortogonalità della maglia stradale. Rispetto agli edifici allineati sul lato sud della 89a strada, l’ampliamento introduce l’anomala testata organica; rispetto al museo, esso diviene uno schermo o fondale, minimamente articolato, programmaticamente neutro. Pur nell’esiguità della sua articolazione linguistica, l’addizione è conformata in maniera da costituire per il museo uno ‘specchio in negativo’. Alla qualità incommensurabile della spirale il prisma oppone una rigorosa finitio, diligentemente misurata dalla scansione regolare del prospetto; la continuità avvolgente dell’intonaco del museo, elemento anomalo nel panorama discontinuo delle facciate di Manhattan, viene sottolineata dalla stessa modulazione geometrica; la scelta cromatica della superficie del prisma contribuisce a mantenerlo in secondo piano rispetto alla spirale; se la caratterizzazione plastica di quest’ultima viene enfatizzata dalla luce solare, l’addizione tende invece a neutralizzare gli effetti chiaroscurali, evitando di offrire articolazioni tridimensionali. La scansione geometrica della superficie, unica articolazione dell’intero 87

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Figg. 12, 13 Rafael Moneo. Museo d’arte romana a Merida (1985). Vista del salone principale e pianta del livello dei resti archeologici

intervento di ampliamento, svolge così numerosi compiti: come in alcuni disegni di Wright nei quali la griglia quadrettata di fondo consente una più precisa lettura delle complesse curvature, così la modulazione cartesiana suggerisce all’osservatore una scala di misurazione; isola il museo dal problematico rapporto con la sequenza di edifici alle sue spalle, evidenziandone al contempo il carattere di alterità rispetto al contesto. Se fosse però rimossa dalla sua posizione, l’addizione di Gwathmey e Siegel costituirebbe un oggetto silenzioso, sicuramente più debitore alle architetture di Mies van der Rohe che non a quelle di Wright, indice di una costruzione asemantica dell’architettura. In tutte le opere che sono state sinora analizzate, con la parziale eccezione di Carlo Scarpa, il linguaggio delle preesistenze viene interpretato come elemento oggettivo: che esso venga poi reinterpretato, deformato, ignorato o ribaltato analiticamente, la sua trasposizione nella nuova opera avviene sempre attraverso un’operazione razionale che ha il suo cardine nell’oggettualità dell’antico. Come materia costruita essa è dunque determinata e immutabile, risultato di una conoscenza storica presumibilmente oggettiva e scientifica. Non sempre però i linguaggi storici vengono considerati secondo l’essenza dell’opera che li esprime: avviene frequentemente che fra l’oggetto esistente e la nuova costruzione il progettista inserisca uno scarto, movimento diagonale che pone in correlazione punti diversi, a volte anche del tutto estranei rispetto al circuito 88

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chiuso della situazione materiale. Nonostante l’oggetto dell’interpretazione sia in queste condizioni più frequentemente la preesistenza nella sua individualità sintetica piuttosto che il suo linguaggio, si tratta comunque di un’operazione ermeneutica, basata sulla lettura della materia storica. Analizzando il Museo di arte romana di Merida7 (Figg. 12-13), opera di Rafael Moneo, si può constatare in cosa consista questo scarto: pur trovandosi direttamente sopra un sito archeologico romano, la fondazione della nuova opera non considera gli orientamenti ortogonali dati dai resti, privilegiando un impianto che rispetti invece gli allineamenti stradali successivi. In secondo luogo, l’intera aura di romanità del museo risulta in realtà più allusiva che filologica: i dispositivi costruttivi in laterizio sono realizzati secondo tecniche tipiche dell’epoca medievale; anche da un punto di vista tipologico, l’edificio è più prossimo ad un museo ottocentesco che non ad uno spazio classico. Il sistema costruttivo del museo costituisce un esempio quanto mai appropriato di dispositivo di rappresentazione: facendo leva sull’antico equivoco che associa la costruzione in laterizio all’architettura romana (pur trattandosi di una peculiarità dei suoi resti archeologici), Moneo mette in scena la sua versione dell’antico; analogamente, gli ampi spazi espositivi voltati fanno riferimento ad una generica romanità, alla quale la tipologia museale ottocentesca si rivolgeva a sua volta. Piuttosto che fornire un’interpretazione rigorosa dell’architettura romana, Moneo coglie dunque l’occasione per riprodurne l’essenza aurorale, metafisica. Il risultato dello scarto semantico può dunque oscillare tra la messa in scena e la rêverie. La natura concettuale dell’intervento è chiaramente differente rispetto a quelle altre opere che, come visto precedentemente, si legano in diversa maniera al linguaggio come testo. Dalla oggettività storica l’attenzione del progettista si sposta ad un campo più ambiguo e variabile, ovvero la permanenza umbratile del passato nella coscienza contemporanea, intersezione imprecisa tra storia e memoria. L’azione della memoria, con le sue ineludibili contaminazioni immaginifiche, trasforma autonomamente l’oggetto storico in un contenitore di immagini che possono essere adoperate liberamente all’interno del nuovo progetto. Sotto quest’aspetto l’intervento sull’esistente non si differenzia affatto rispetto al più generale progetto architettonico, anch’esso costantemente sottoposto a questo processo più o meno latente di elaborazione mnemonica; la peculiarità risiede invece nel coinvolgimento della materia storica stessa in questo meccanismo personale di riconfigurazione8. I progetti che nascono dall’interferenza tra dato storico e memoria costituiscono un caso limite dell’intervento sulle preesistenze, poiché lo spostamento di linguaggio altera la posizione metafisica dell’opera; se la contiguità è condi89

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Fig. 14 Franco Albini e Franca Helg. Grandi Magazzini La Rinascente a Roma (1961). Vista da Piazza Fiume

zione necessaria per poter distinguere tra preesistenza e contesto, di fatto in questi casi alla topografia reale se ne sostituisce un’altra individuale, nella quale i rapporti di prossimità variano sensibilmente, traslando gli oggetti architettonici all’interno dello spazio culturale9. Il ruolo svolto dal linguaggio in questo processo è del tutto secondario, indicativo al più di un ancoraggio al testo spesso intenzionalmente reciso dagli autori.

Morfologia e spazialità: misurazione Parallelamente all’ambito linguistico, quello morfologico svolge un ruolo di grande importanza nella pratica di intervento sull’esistente, se per morfologia si vogliono intendere tutte le caratteristiche geometriche, dimensionali e spaziali che determinano l’opera architettonica. Naturalmente, la pura forma svincolata da un universo di riferimento culturale è senz’altro acefala, soprattutto in un ambito di specificità come quello della materia storica; anch’essa, come strumento struttivo proprio dell’architettura, può essere inglobata a pieno titolo nella sfera della espressività. L’interesse specifico nell’ambito del presente studio può essere individuato tracciando un’analogia con la teoria del restauro brandiana e la sua preoccupazione relativa alle lacune, al completamento dell’immagine10. La presenza di 90

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una lacuna, argomenta Brandi, è innanzi tutto un problema di Gestalt; incide negativamente sulla percezione unitaria dell’opera d’arte, sulla sua capacità espressiva; per questo motivo è lecito intervenire sulla materia dell’opera per ripristinare ove possibile un’immagine omogenea, che liberi da eventuali interferenze l’esperienza artistica. Spesso le medesime condizioni si verificano alla scala dell’oggetto architettonico: la ricucitura degli spazi urbani, il completamento di edifici ecc. possono essere interpretati come operazioni di restauro, mirate alla ricostituzione (o creazione ex novo) di un’immagine unitaria. In questo procedimento, la questione morfologica assume un ruolo centrale, dovendo il nuovo oggetto disimpegnare l’ingombro della lacuna. È possibile individuare numerosi esempi di questo tipo di procedimento, già nella citata Stadtreparatur dell’IBA berlinese, mirata alla ricostituzione del tessuto urbano attraverso il riempimento dei vuoti dovuti ai bombardamenti bellici. In questo caso, come già osservato, la concordanza morfologica diviene punto di partenza ma spesso anche di arrivo dell’intervento sull’esistente, a causa della pluralità linguistica messa in atto nel corso di quella particolare esperienza. Esempio paradigmatico di un completamento morfologico che si mostra invece attento alle problematiche del linguaggio è l’edificio per la Rinascente di Roma realizzato da Franco Albini11 (Fig. 14): il volume, che ricalca le dimensioni del corpo simmetrico posto a testata di via Salaria sul fronte delle Mura Aureliane, ne riassume anche l’articolazione decorativa, fondamentale per la definizione della prospettiva dell’asse stradale. Albini adopera un linguaggio che è stato interpretato come rilettura dell’articolazione barocca, che egli assume come segno caratterizzante dell’architettura romana; nonostante l’astrazione del riferimento e le modalità della sua messa in opera siano tali da prevenire qualsiasi abbandono nostalgico, la chiarezza con cui il linguaggio si ‘radica’ nella tradizione locale, insieme all’inequivocabile programmaticità del dimensionamento dell’oggetto, garantiscono il legame con una situazione preesistente considerata sia per il singolo ambito di intervento sia per la più generale associazione figurativa tra nuovo e antico. Philip Johnson, nel progettare l’ampliamento della Boston Public Library di McKim, Mead & White nel 1972 (Figg. 15-16), utilizza un procedimento analogo: le dimensioni del nuovo corpo di fabbrica vengono dedotte dalla biblioteca esistente; ciò che invece varia sono le proporzioni e la scansione ritmica della facciata, la cui scala viene aumentata. Dalla partizione originaria dell’edificio in stile neorinascimentale si passa dunque a degli ordini giganti, in cui ciascuna campata è articolata secondo un passo triplo; il sistema ad archi non viene 91

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Figg. 15, 16 Philip Johnson. Ampliamento della Boston Public Library di McKim, Mead e White (1972). Viste del fronte ovest

ripreso, preferendo ad esso una rilettura delle partizioni ad archi incorniciati da trabeazioni. Mentre Albini realizza un edificio che, pur nella sua spiccata modernità, si assimila ai criteri morfologici della sua controparte, Johnson sostituisce al sistema esistente un altro del tutto differente, nel quale la rivisitazione di un generico modello classico prevale rispetto alla messa in atto di un procedimento analogico; le affinità tra antico e nuovo rimangono dunque esclusivamente legate alla volumetria dell’ampliamento, nonché un comune riferimento agli ordini classici. L’assimilazione morfologica costituisce dunque un criterio di dimensionamento oggettivo, non in sé determinante rispetto alle intenzioni del nuovo intervento; ciò che risulta realmente discriminante è il passaggio da una considerazione dello spazio quantitativa ad una qualitativa. Attraverso diversi procedimenti di trasfigurazione, il restauro dello spazio architettonico è stato alla base della ricostruzione delle chiese tedesche nel secondo dopoguerra: nonostante l’adozione, nella maggior parte dei casi, di un linguaggio contemporaneo, la morfologia degli antichi edifici è stata ricostituita, preservando in molti casi i resti delle chiese distrutte, come nella St. Maria im Kapitol a Colonia. Sulla scorta delle riflessioni intorno alla sacralità dello spazio ecclesiastico di Rudolf Schwarz, gli architetti interpretano la ricostruzione come un ripristino del significato spirituale dell’edificio-chiesa, individuato fondamentalmente dall’invaso, termine medio tra la materia incarnante e la luce come simbolo della presenza divina12. 92

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Fig. 17 Joachim Schürmann. Quartiere Groß St. Martin, Colonia (1979). Vista aerea della chiesa ricostruita e dell’edificato circostante Figg. 18, 19 Vista del chiostro e scorcio della torre dalle strade della zona residenziale Fig. 20 (pagina successiva) Planimetria del progetto di concorso

Ma la ricomposizione di una condizione spaziale non è questione legata esclusivamente a fattori spirituali: rappresenta un elemento fondamentale per la definizione dell’immagine urbana nella sua unitarietà, secondo un procedimento del tutto analogo a quello del restauro. Il binomio monumento-tessuto urbano, evidenziato come caratteristica dell’urbanistica pittoresca, realizza le condizioni per una precisa modalità di apprezzamento degli elementi salienti attraverso la creazione di scorci, prospettive assiali e accidentali, parziali sovrapposizioni ecc. Joachim Schürmann, autore della già menzionata ricostruzione del St. Martin a Colonia, nel progettare il quartiere intorno la chiesa13 (Figg. 17-20) comprende la necessità di ripristinare, insieme all’edificio stesso, le condizioni nelle quali esso veniva recepito dagli osservatori; reinterpreta dunque la forma 93

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urbana del tessuto distrutto dai bombardamenti secondo un criterio tipologico, basando il nuovo intervento sulla memoria della situazione precedente, organicamente correlata all’emergenza del monumento sacro. L’esempio di Schürmann dimostra come, soprattutto nell’ambito dei tessuti storici sedimentati, morfologia e tipologia costituiscano elementi fondanti della spazialità urbana; la completezza dell’immagine viene ottenuta non solamente attraverso le caratteristiche fisiche degli edifici, ma anche tramite le relazioni spaziali che queste producono. Se l’analisi tipologica può essere considerata come una particolare modalità di misurazione dello spazio, che mette in relazione le caratteristiche morfologiche con gli aspetti costruttivi, economici e funzionali della crescita urbana, si può dunque concludere che anche attraverso questo strumento di lettura dell’ambiente può essere messa in atto una concordanza tra nuovo e antico. Ciò che emerge da questa breve casistica di considerazioni morfologiche e spaziali nella pratica di intervento sull’esistente è la preponderanza di elementi simbolici, linguistici e figurativi: a parte rari esempi, nei quali i progettisti sono generalmente poco inclini a mettere in relazione l’opera nuova con la preesistenza, la morfologia in sé non svolge un ruolo autonomo nel rapporto dialettico con la materia storica. Questo è spiegabile se non altro poiché la qualità spaziale dell’oggetto esistente viene ricondotta, attraverso un processo di lettura, alla sfera linguistica; la morfologia del nuovo intervento è dunque riflesso inter94

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pretativo di quella esistente. Chiudendosi in questo modo il cerchio della questione linguistica nell’intervento sull’esistente, viene ulteriormente suffragata la precedente assunzione della strumentalità della materia storica nel progetto contemporaneo: se alla base del rapporto tra nuovo e antico agisce in ogni caso un procedimento ermeneutico, è evidente che nel corso di questo processo il significato della preesistenza può mutare anche sensibilmente, a seconda dell’universo di riferimenti culturali propri di chi opera l’interpretazione. Questa mutevolezza è sintomo di quanto l’antico può rappresentare per il progettista: materiale di progetto, in quanto tale sottoposto al libero arbitrio, alla licenza poetica; in questa libertà risiede anche la specificità disciplinare del progetto architettonico, distinguendolo nettamente dalla pratica del restauro, orientata da cogenze presumibilmente oggettive.

Note 1 Sul recupero del Borgo di S. Michele a Pisa si veda: M. Mulazzani, “Massimo Carmassi: recupero di San Michele in Borgo”, in Casabella, n. 701, giugno 2002, pp. 78-91; J. Mandell, “Blended Brick – Massimo Carmassi: Church of San Michele in Borgo, Pisa”, in Architecture, vol. 91, n. 10, ottobre 2002, p. 85. 2 Vedi L. Moiraghi, “Un segno forte per Praga”, in L’Arca, n. 100, gennaio 1996, pp. 82-87; F. Dal Co, K. W. Forster (a cura di), Frank O. Gehry: tutte le opere, Electa, 1998, pp. 504-511. 3 Sulle opere di Scarpa si veda F. Dal Co, G. Mazzariol, Carlo Scarpa 1906-1978, Electa, 1984; più specificamente, sul Museo di Castelvecchio, L. Magagnato, “Il museo di Scarpa. Il percorso museografico del Castelvecchio di Verona”, in Lotus International, n. 35, 1982, pp. 75-85; S. Marinelli, Carlo Scarpa. Il Museo di Castelvecchio, Electa, 1991; su Palazzo Abatellis a Palermo: M. Frascari, “Carlo Scarpa in Magna Graecia: the Abatellis Palace in Palermo”, in AA Files, n. 9, estate 1985, pp. 3-9; S. Polano, “Frammenti siciliani: Carlo Scarpa e palazzo Abatellis”, in Lotus International, n. 53, 1987, pp. 108-124. 4 Tranciante il commento al riguardo di Manfredo Tafuri: «[…] Quello che era permesso a Carlo Scarpa non va permesso né ad un suo imitatore né ad un normale professionista. Entrano infatti in gioco problemi di qualità e di valore: Scarpa riusciva, anche massacrando un monumento, a darci un’opera di alta validità. Questo avveniva per grazia di Dio, e non tutti hanno la grazia». M. Tafuri, “Storia, conservazione, restauro”, a cura di C. Baglione e B. Pedretti, in Casabella, n. 580, giugno 1991, p. 26. 5 Vedi P. Cook, “Spreadeagled”, in Architectural Review, n. 1112, ottobre 1989, pp. 76-80; Red., “Costruzioni spezzate: due architetture di Coop Himmelblau”, in Casabella, n. 560, settembre 1989, pp. 33-34. 6 Il progetto di Gwathmey e Siegel è ispirato ad un disegno del 1951 dello stesso Wright, nel quale compare un simile blocco prismatico a sfondo della spirale. Sull’ampliamento si veda C.

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Wiseman, “Born again: Solomon R. Guggenheim Museum addition and restoration, Gwathmey Siegel & Associates”, in Architectural Record, vol. 180, n. 10, ottobre 1992, pp. 100-113; E. Frank, “Sfregio del Guggenheim”, in L’Architettura cronache e storia, vol. 38, n. 446, dicembre 1991, p. 887; A. Plattus, C. Imrey, “L’ampliamento dl Solomon R. Guggenheim Museum di Gwathmey Siegel”, in Casabella, n. 594, ottobre 1992, pp. 4-17 e 68-70; K. Frampton, “Usonia Revisited: The Recasting of the Guggenheim”, in A+U, n. 268, gennaio 1993, pp. 72-101. Da osservare peraltro la realizzazione, nel 2001, di una pensilina temporanea di collegamento tra il museo e l’ampliamento, progettata da Frank Gehry: l’inserimento delle lastre curve in acciaio inossidabile, morfologicamente e linguisticamente autonome, si colloca come terzo termine fra i due oggetti, rendendo ancora più complesso il sistema figurativo dell’insieme. 7 Sul Museo di Merida si veda l’acuto saggio di G. Grassi “Il carattere degli edifici”, in Casabella, n. 722, maggio 2004, pp. 4-15 al quale sono dovute buona parte delle osservazioni qui riportate; inoltre A. Colquhoun, “Entre el tipo y el contexto: formas y elementos de una obra singular”, in A & V, n. 3, 1992, pp. 8-11; F. Dal Co, “Murature romane: Il Museo di arte romana di Rafael Moneo a Merida”, in Lotus International, n. 45, 1985, pp. 22-35; I. De Solá Morales, “Support, surface. Il progetto di Rafael Moneo per il Museo Archeologico di Merida”, in Lotus International, n. 35, 1982, pp. 87-92. 8 Si veda al proposito nuovamente il saggio di P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Il Mulino, 2004. Nel capitolo IV viene abilmente investigata la questione della permanenza del passato e dei rapporti tra memoria e conoscenza storica. 9 Traslazioni di questo genere sono alla base della poetica di Aldo Rossi, così come viene esposta nella sua Autobiografia scientifica. 10 Cfr. C. Brandi, Teoria del restauro, Einaudi, 1977, p. 75: «Da questa retrocessione della figura a fondo, da questo inserirsi violentemente della lacuna come figura in un contesto che tenta d’espellerla, nasce il disturbo che produce la lacuna, assai più, si noti, che per la interruzione formale che opera in seno all’immagine. [...] Così posto, è chiaro che le soluzioni caso per caso, che la lacuna esigerà, non divergeranno nel principio, che è quello di ridurre l’emergenza alla percezione della lacuna come figura.» 11 Vedi P. von Meiss, “The Aesthetics of Gravity”, in Arq, vol. 4, n. 3, pp. 237-245; A. Piva, V. Prina, Franco Albini, Electa, 1998, pp. 341-347. 12 I resti delle chiese divengono oggetti sacri alla stregua di reliquie; scrive Willy Weyres: «Se alla base del mio giudizio pongo il carattere della chiesa come Casa del Signore, non è possibile giungere ad altra conclusione rispetto a quella di pretenderne la ricostruzione. Non si può costruire una nuova chiesa accanto alla rovina: il luogo sul quale sorge la chiesa è sacro». In W. Weyres, Kirchen in Trümmern, Balduin Pick, 1948, p. 7, nostra traduzione. 13 Vedi A. Ruby, “Modernes Köln: Quartier Gross St. Martin in Köln (1970-79)”, in Deutsche Bauzeitung, vol. 131, n. 6, giugno 1997, pp. 93-98; P. Davey, “Housing in West Germany”, in Architectural Review, n. 1006, dicembre 1980, pp. 336-341; Red., “Martinsviertel in Köln”, in Baumeister, vol. 76, febbraio 1976, pp. 122-125.

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4. Tecnica e costruzione

Nella vasta problematica relativa al rapporto fra tecnica costruttiva e linguaggio architettonico, la questione dell’innesto sull’esistente rappresenta una condizione di particolare complessità, dettata se non altro dalla specifica sensibilità del contesto nel quale si va ad operare. In maniera sintetica, è possibile individuare tre ambiti fondamentali entro i quali circoscrivere l’indagine; fra questi sussistono continue interferenze e sovrapposizioni, pur rimanendo sempre discernibile un nucleo di specificità inerente ciascun esempio. In primo luogo, va considerata la complessa questione del raffronto ontologico fra la materia costitutiva delle preesistenze e quella utilizzata per porre in opera il nuovo intervento. Nonostante la proliferazione delle tecniche costruttive moderne, in sostanza la dialettica fra principi di autenticità e rappresentazione non ha perso attualità; da questo punto di vista le nuove architetture possono porsi in continuità con le vecchie pur differendo radicalmente per l’immagine prodotta; o, per converso, generare una similitudine attraverso modalità tecniche ontologicamente opposte. Il secondo ambito, di stampo fenomenologico, costituisce probabilmente il più autonomo dei tre; si tratta, in sostanza, di comprendere il modo in cui le tecniche costruttive moderne influiscono sulla percezione del rapporto fra nuovo e antico. Più specificamente, l’intenzione sottesa a numerose opere realizzate nel corso dell’ultimo secolo è stata quella di appropriarsi della preesistenza, per introdurla nell’orizzonte fenomenico del nuovo intervento. Quest’operazione, diversamente portata a termine, trova nella composizione tecnologica della superficie degli edifici la linea discriminante fra le sue molteplici possibilità realizzative. La terza problematica, più sfuggente e di difficile classificazione, è relativa alla fisiologia delle opere costruite, ossia al modo in cui l’oggetto tecnico funge da mediatore fra ambiente naturale e spazio artificiale. L’edificio contemporaneo, il cui funzionamento fisiologico è paragonabile a quello di un meccanismo, si configura diversamente rispetto all’edilizia tradizionale, la cui interazione con l’ambiente circostante rientra – pur sempre con una discreta approssimazione – 97

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nell’ambito di un comportamento organico. Questa distinzione risulta altresì evidente quando la preesistenza è costituita da interi centri urbani premoderni, la cui caratterizzazione è da questo punto di vista estremamente specifica. Nelle pagine che seguono si tenterà di ragionare su questi tre distinti ambiti, con l’intenzione di ricongiungerli, in conclusione, entro un unico filone che consenta una più accurata comprensione di quale sia il ruolo delle tecniche nel costruire sul costruito. L’origine della moderna considerazione delle tecniche costruttive è rintracciabile nelle trattazioni ottocentesche della questione materiale dell’architettura, della quale si è già precedentemente discusso. Attraverso le opere dei maggiori teorici del secolo delle nuove tecniche prende forma una scissione radicale della prospettiva ontologica, centrata intorno all’essenza del corpo costruito dell’architettura. I due differenti orientamenti del pensiero daranno vita a scuole, tendenze, dibattiti e confronti, le cui ripercussioni, attraverso innumerevoli oscillazioni e intrecci, interessano ancora oggi la disciplina. Nell’elaborare la sua concezione antropologica dell’origine dell’architettura, Gottfried Semper giunge a formulare un principio struttivo legato al rivestimento: il termine da lui utilizzato, Bekleidung, viene ricondotto alla sua radice semantica di Kleid, “vestito”, il cui significato è etimologicamente analogo a quello del termine italiano. L’arte tessile, uno dei “quattro principi” dell’architettura, si fa carico di un compito fondamentale: quello di portare il significato simbolico degli edifici, rappresentato attraverso le diverse forme di decorazione. Il passo successivo introdotto da Semper è quella teoria dello Stoffwechsel – il “cambiamento di materiale”’ – che vede la permanenza della qualità iconografica della costruzione anche al variare del materiale con il quale essa viene messa in opera. Le considerazioni di Semper sulla policromia dei templi greci entreranno anche nel merito della interpretazione tettonica dell’ordine architettonico classico, sulla cui veridicità si andava incentrando molta della discussione fra archeologi, storici dell’arte e architetti nella seconda metà dell’ottocento. Il principio della Bekleidung influenzerà profondamente gli architetti dell’area tedesca: dell’importanza del rivestimento come superficie iconografica è consapevole Wagner; Loos lo porrà alla base della sua concezione architettonica, estendendolo peraltro, sulle orme di Simmel, sino a rappresentare una lente attraverso la quale osservare l’intera scena della società. Se la Bekleidung verrà oscurata nel periodo fra le due guerre, è tuttavia possibile riscontrare la sua permanenza in alcuni aspetti delle opere di Mies e di altri autori del Neues Bauen; infine, la presenza di Semper a Zurigo plasmerà una scuola le cui più recenti manifestazioni rielaborano in chiave contemporanea un principio teorico e 98

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costruttivo che viene da lontano. Il secondo filone è quello che fa capo alla cultura vittoriana anglosassone: la autenticità dei materiali – truth to material – si diffonde attraverso gli appelli di Ruskin contro le finzioni dell’architettura; la pietra deve essere pietra, la ghisa non deve dissimulare la sua essenza, tutti i materiali debbono rispondere alla propria natura. In Ruskin questa esigenza deriva da un’istanza di carattere morale; Viollet-le-Duc, che negli stessi anni elabora posizioni analoghe, sarà invece guidato dalla volontà di concordare l’immagine prodotta dai materiali con la loro specificità tecnologica e costruttiva. Nella XII Entretien, Viollet scrive: Sarà dunque il caso che, utilizzando i nuovi materiali che ci vengono forniti dai nostri produttori, come la ghisa o il ferro, ci accontenteremo di sostituire gli archi di pietra con archi in ghisa o ferro? No; potremo adottare il principio, ma nell’adottarlo, essendo cambiato il materiale, dobbiamo cambiare la forma.1

Quanto Ruskin e Viollet scrivono determinerà il corso dell’architettura del XX secolo: in particolare, l’eco della dottrina della autenticità dei materiali appare sulla sponda opposta dell’Atlantico, negli scritti di Richardson, Sullivan, Wright, e non da ultimo Kahn; l’influenza della Arts & Crafts sull’architettura del New England è alla radice di quella dottrina moralistica per difendersi dalla quale, cento anni dopo, Robert Venturi invocherà l’artificio della contraddizione. La codificazione ottocentesca dalla quale siamo partiti prendeva naturalmente atto di una situazione normalmente visibile nell’architettura di tutti i tempi: la compresenza di due opposti modi di costruire, l’uno legato alla autenticità, l’altro alla rappresentazione. Le superfici intonacate sulle quali veniva riportata la scansione del pietrame presentano un’immagine assente; questa trasposizione è stata compiuta innumerevoli volte e per i motivi più disparati, ponendosi come contrappunto logico alla evidente esibizione dei sistemi costruttivi. L’introduzione delle tecniche costruttive moderne ha spostato il punto focale della questione: la atipicità di queste rispetto al più generale ambito tecnologico si è senza dubbio andata evidenziando. Albert Borgmann individua le linee evolutive della tecnologia contemporanea nei seguenti tre punti, che egli definisce “paradigma tecnologico”: 1) I meccanismi che costituiscono un apparato tecnologico vengono ridotti, in termini sia di dimensione sia di visibilità; 2) I limiti spaziali e temporali della disponibilità di un bene vengono meno; 3) L’apparato tecnologico non richiede un coinvolgimento fisico o spirituale; diviene pertanto un oggetto rimpiazzabile, che può essere sostituito facilmente a seguito del suo deterioramento2. 99

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Se la validità del secondo punto è sicuramente estensibile anche alla specifica condizione delle tecniche costruttive contemporanee, le altre due affermazioni richiedono un’analisi più accurata. La tendenza all’invisibilità dell’apparato tecnologico costituisce un dato la cui negazione è divenuta fondamento della poetica costruttiva di alcune recenti correnti architettoniche, che di fatto reinterpretano in diverse maniere l’appello alla veridicità dei materiali. L’aspetto tettonico stesso del costruire si esprime centralmente attraverso il palesamento del meccanismo sotteso alla funzione statica e più in generale tecnologica: è di questa specifica potenzialità figurativa che si avvale molta architettura high-tech, riproducendo operazioni poetiche sperimentate da autori come Viollet-le-Duc o, in tempi più recenti, James Stirling. Quelle correnti che dunque si propongono come estrema avanguardia, se non altro da un punto di vista tecnologico, di fatto interpretano in maniera inversa quello che appare essere uno dei principi cardine della tecnologia contemporanea. Il terzo punto della definizione di “paradigma tecnologico” comporta ancora più problemi quando lo si voglia applicare nell’ambito delle tecniche costruttive: se da un lato è vero che il trasporto emotivo nei confronti del singolo componente costruttivo è trascurabile, d’altro canto l’oggetto costruito nella sua totalità dà spesso luogo ad un altro grado di coinvolgimento, rispetto al quale decade almeno parzialmente l’ipotesi di facile sostituibilità. Anche senza entrare nel merito di opere di architettura dal particolare significato storico, nei confronti delle quali vengono elevati vincoli conservativi, il coinvolgimento emotivo per l’oggetto fisico dell’architettura costituisce un fattore certamente non trascurabile. La ragione per questa atipicità è ascrivibile alla capacità di produzione iconografica dell’architettura: oltre alla sua funzione tecnologica, la materia costruita svolge un ruolo fondamentale nella figurazione; imparentata in questo alla tecnica artistica, coinvolge gli edifici nel processo psicologico di risposta alle immagini. Nell’universo della tecnica, i sistemi costruttivi rappresentano dunque un’eccezione, a causa della loro posizione liminare fra oggetto tecnico e dispositivi di rappresentazione, analoghi pertanto ad oggetti artistici; è dunque tra le facoltà di questi dispositivi quella di farsi latori di significanti assenti, come su un ideale tableau, o, più modernamente, su uno schermo di proiezione. L’apparato tecnologico che li sostiene tende, in queste condizioni, effettivamente a scomparire, o quantomeno a passare in secondo piano; il suo uso strumentale porta alla aletheia, “disvelamento” di questi significati assenti: si tratta pertanto di una finalità prevalentemente narrativa3. Infine, il cerchio si chiude se consideriamo che la narrazione condotta può essere relativa alle qualità tecni100

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che dell’oggetto: la tecnologia mette in scena sé stessa, rappresentando, per via più o meno metaforica, il suo funzionamento. Questa premessa, nella quale sono stati evidenziati alcuni punti della ontogenesi della tecnica costruttiva moderna, individuandone l’anomalia rispetto al caso più generale, è indispensabile per comprendere cosa può accadere nel momento in cui un oggetto architettonico contemporaneo, il cui sistema tecnologico è mirato alternativamente all’autenticità o alla rappresentazione delle tecniche costruttive, entra in rapporto con una situazione preesistente. Come abbiamo già osservato, la duplicità del sistema tecnologico non è invenzione recente, bensì rientra nella pratica corrente dell’architettura sin da tempi remoti: è possibile dunque ipotizzare, anche nell’intervento sull’esistente, l’incrocio fra le diverse interpretazioni della materia tecnica del costruire. Esistono dunque numerosi esempi in cui i progettisti contemporanei intervengono su preesistenze dal palese sistema costruttivo con altrettanta franchezza; è questo il caso della biblioteca ricavata da un granaio da Boris Podrecca a Biberach4 (Figg. 1-2): il Fachwerk originale, le cui membrature lignee sono rimaste in buona parte intatte, si confronta nel nuovo intervento con il telaio in calcestruzzo a vista, il corpo scala di servizio, rinchiuso entro un nitido volume sempre in calcestruzzo, nonché con l’ascensore in struttura di acciaio e vetro. Il disegno dei dettagli costruttivi è tale da non lasciare dubbi riguardo alla consiFig. 1 Boris Podrecca. Biblioteca comunale, Biberach (1995). Dettaglio della nuova struttura portante in c.a. Fig. 2 Dettaglio della scala, con il conglomerato “tagliato” per mostrare gli inerti

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stenza materica di ogni singola componente; i gradini della scala centrale, ad esempio, sono tagliati sui lati per svelare l’anatomia del conglomerato e della lamiera piegata con cui sono realizzati. La notevole diversità tra antico e nuovo nasce da una stretta parentela nel modo di narrare la costruzione: si tratta, in sostanza, di un prolungamento del modus operandi dell’antico edificio nel nuovo intervento. Se questo modo di intervento stabilisce una continuità epistemologica, da un punto di vista figurativo si tratta comunque di una forte rottura semantica: i nuovi materiali differiscono nettamente dall’antico costruito e non v’è alcuna volontà da parte del progettista di giungere ad un compromesso; l’intero impatto architettonico del progetto di Podrecca si basa su questa premessa concettuale. In altri casi avviene invece il contrario: il contrasto figurativo fra nuovo e antico viene ridotto, utilizzando a tale scopo sistemi costruttivi opposti. Un esempio di questa modalità di intervento che si rivela particolarmente esaustivo è quello dell’edificio residenziale che José Ignacio de Linazasoro realizza a Bergara, in Spagna, nel 1988 (Figg. 3-5) 5. In una posizione privilegiata all’interno del nucleo storico della città, a chiusura di una piazza occupata su un lato dal cinquecentesco palazzo Eguino, Linazasoro inserisce un blocco di forma compatta, morfologicamente del tutto analogo all’edificio adiacente. Tutti gli elementi compositivi indicano la chiara volontà di realizzare un inserimento armonico all’interno di un sistema urbano definito e omogeneo: la scansione regolare della finestratura, la copertura a falde in laterizio, nonché la fascia di festoni decorativi al piano attico del nuovo intervento. Linazasoro si arresta appena un passo prima di trasformare il nuovo edificio in un intervento mimetico: rispetto al palazzo Eguino, la cui facciata principale in muratura in pietra a vista è scavata da poche aperture, Linazasoro inverte il rapporto pieno-vuoto, ampliando sensibilmente dimensione e numero delle finestre. Se questa variazione appare nel proporzionamento geometrico della facciata, essa è chiaramente resa possibile dalla struttura in cemento armato del nuovo intervento, che consente il significativo mutamento nell’immagine complessiva dell’edificio. Il rivestimento sottile in pietra adoperato da Linazasoro evidenzia ulteriormente il differente intento costruttivo: gli ampi giunti di malta presenti nella facciata del palazzo Eguino scompaiono, sostituiti da nitide e sottilissime fughe, che nel basamento del retro dell’edificio vengono evidenziate, mettendo in rilievo la bidimensionalità delle lastre. Pur rispecchiando un linguaggio architettonico canonico, dunque, l’intero nuovo intervento, se raffrontato alla notevole forza 102

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Figg. 3, 4 José Ignacio de Linazasoro. Edificio residenziale a Bergara (1988). Vista della piazza e dettaglio del rivestimento di facciata Fig. 5 Prospetto sulla piazza

plastica del palazzo Eguino, sembra voler cedere spessore, riducendo i suoi prospetti a fogli traforati, pressoché privi di effetti chiaroscurali. Pur in presenza dell’ostentata decorazione a festoni dell’attico, è in questa reductio che viene espresso il carattere di modernità dell’opera; riduzione operata attraverso cesellati interventi che fanno leva sulle proprietà costruttive dell’opera piuttosto che su quelle compositive, mirate invece all’ottenimento di un’immagine armonica.

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Le tecniche costruttive moderne, utilizzate in questo caso non in maniera pienamente visibile, non vengono al contempo negate; il rivestimento – dispositivo tecnico della rappresentazione – si fa carico della figurazione, del rapporto con il sistema urbano preesistente, mettendo in scena segni desunti dagli edifici circostanti: è questo un ulteriore modo di rapportarsi con il costruito attraverso le caratteristiche tecniche della costruzione. Illusione e realtà, dunque, si intrecciano fittamente nella costruzione dell’architettura, nel modo in cui la tecnica realizza la materia fisica delle opere. Per la limitata visibilità del procedimento, che non viene sempre del tutto esplicitato, questa componente costituisce piuttosto una corrente sotterranea, ad alto livello di astrazione, che influenza l’interazione fra nuovo e antico costruito in maniera indiretta.

Fenomenologia e materia costruita Come è stato constatato precedentemente, una parte non trascurabile del rapporto fra nuova e antica costruzione è data dalla superficie esterna, deputata a costituire l’immagine visiva dell’opera. È su questa superficie che avvengono gli intrecci fra autenticità e rappresentazione, realtà e illusione; ma oltre a dare spazio a complesse interrelazioni concettuali, va rilevato che la pelle degli edifici guida la percezione dell’osservatore, conducendolo attraverso il processo di esperimento dell’architettura. La tecnica costruttiva mette in opera l’idea: attraverso la determinazione delle qualità materiali del costruito, l’architetto orienta il modo in cui verrà recepito l’edificio, stabilendone trasparenza e opacità, grana e tessitura, colore e tono, luce e ombra ecc. Già nel primo impatto dell’osservatore con l’opera si determina molto del destino che essa avrà all’interno di un sistema di preesistenze: se, per riprendere il concetto di ambiente proposto da Ernesto Rogers, risuonerà armonicamente con il tessuto circostante, o se sul piano percettologico si imporrà come presenza estranea. Per il loro potenziale di determinare la maniera in cui vengono percepite le superfici, le tecniche costruttive moderne hanno ampliato notevolmente il già vasto repertorio accumulato dalla tradizione storica; in taluni casi, soprattutto nel rapporto con gli ambienti costruiti, i progettisti sono stati abili nello sfruttare le potenzialità delle nuove tecniche per realizzare efficaci interscambi fra nuovo e antico. Fra tutte le tecnologie introdotte dal processo di industrializzazione, è sicu104

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ramente quella del vetro ad avere contribuito in maggior misura a questo campo, nella sua veste bifronte di trasparenza e riflesso. A partire dalla tradizione dei saloni degli specchi dell’architettura rococò, la riflessione è entrata a pieno titolo nel repertorio compositivo del costruire; ma solo con la nascita del curtain wall il vetro diviene in grado di sostituire integralmente la massa opaca dell’edificio tradizionale, ampliando la scala dell’intervento dallo spazio interno a quello esterno, sino alla dimensione propriamente urbana. Nelle loro differenti conformazioni, il vetro e la struttura metallica, componenti primari delle pareti vetrate, possono trasformare nettamente la percezione delle superfici costruite, in particolare nella riflessione del tessuto circostante. Mies van der Rohe è stato uno dei pionieri nella sperimentazione delle grandi superfici vetrate, come dimostrano già i suoi progetti elaborati intorno al 19206. Nelle quattro versioni della prospettiva del grattacielo sulla Friedrichstrasse (Fig. 6), l’architetto evidenzia di volta in volta differenti aspetti dell’oggetto: la verticalità dei montanti, il trasparire dei solai attraverso la pelle vetrata, nonché la presenza di immagini riflesse sulla fascia bassa dell’edificio. A seconda delle condizioni luminose che si alternano nel corso della giornata o con il passaggio delle nuvole, l’edificio verrebbe percepito in maniera diversa: trasparente, specchiante, nettamente delineato, o ancora evanescente. In un fotomontaggio in particolare, il prisma vetrato si rivela come presenza fantasmatica, dai contorni appena definiti; la massa scura alla base, che rappresenta con ogni probabilità il

Fig. 6 Ludwig Mies van der Rohe. Progetto di concorso per la torre sulla Friedrichstrasse, Berlino (1921)

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Figg. 7, 8 Ludwig Mies van der Rohe. Seagram Building, New York (1958) Fig. 9 Ludwig Mies van der Rohe. 860-880 Lake Shore Drive, Chicago (1951)

riflesso degli edifici antistanti, áncora la torre nel lotto. Possiamo inferire che la perdita del contorno apparente della torre comporta una forte riduzione della sua massa visiva; in altre parole, l’edificio tende a scomparire, rimpiazzando la sua presenza con l’immagine riflessa della Friedrichstrasse. 106

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Il secondo grattacielo sviluppato da Mies pochi anni dopo indica ancora più chiaramente l’intento di porre l’appropriazione dell’immagine urbana alla base della figurazione dell’edificio. La pianta poligonale, discutibilmente interpretata come di derivazione organica, mira all’annullamento della visione frontale, quella che in genere dà luogo alla trasparenza, allo sfondamento visivo della facciata vetrata. Come dimostra la nota foto del plastico, mentre al centro del volume si addenserebbe la percezione dello spazio interno, le porzioni laterali sarebbero sempre angolate rispetto all’osservatore, riflettendo gli edifici circostanti nella fascia bassa, il cielo nei piani più alti. I disegni che di questi progetti ci sono pervenuti non consentono di comprendere se e come Mies avesse congegnato il sistema strutturale della facciata; di fatto, una volta constatato che la riflessione svolge un ruolo fondamentale nella definizione della figura complessiva, il modo in cui viene messa in opera la cortina vetrata determina la qualità dell’immagine che si viene a formare. I grattacieli americani di Mies, realizzati più di tre decenni più tardi, possono però aiutarci a comprendere che cosa avesse in mente l’architetto tedesco: in ciascuno degli esempi realizzati la struttura portante della facciata è infatti collocata sul filo esterno, creando quella griglia misuratrice caratteristica dei suoi progetti. La presenza di montanti metallici costituisce, oltre ad un sistema ordinatore dimensionale, anche uno strumento di modulazione dell’immagine riflessa: così accade che la frammentazione della facciata ed il contrasto luminoso provocato dall’aggetto dei montanti non generi mai un’immagine riflessa continua, ma sempre una sua versione frammentata, ricomposta come un collage sulla superficie vetrata. Nelle torri sul Lake Shore Drive di Chicago (Fig. 9) Mies si confronta con il rapido movimento delle automobili sulla strada, offrendo sempre visioni angolari dei corpi di fabbrica; nel grattacielo Seagram a Manhattan (Figg. 7-8) la presenza degli edifici circostanti sulla superficie è umbratile, incerta, eppure innegabile. Le lastre di vetro, altamente riflettenti, catturano l’immagine, ritmandola tramite i montanti; le fasce orizzontali dei parapetti, in bronzo opaco, si distaccano rispetto alla figura emergente, divenendo un fondo scuro. Attraverso questa differenziazione, la facciata rigorosamente bidimensionale acquista una profondità di immagine, distinguendo la rigida costruzione metallica, gabbia oggettiva, dal fluido corpo interno, vibratile riproduzione della città circostante. Il risultato dell’operazione è un susseguirsi caleidoscopico di immagini riflesse, alterate e discontinue; frammenti di realtà esistente incamerati sul dispositivo ottico messo a punto da Mies van der Rohe. I tessuti urbani preesistenti all’interno dei quali sorgono questi oggetti – sia i lapidei grattacieli anni 107

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Fig. 10 Volker Staab. Museo del design a Norimberga (2000). Planimetria Fig. 11 Prospetto sulla corte interna

’30 di Manhattan che gli edifici in linea della Berlino ottocentesca – partecipano della figurazione, non estendendo il loro linguaggio architettonico nel nuovo intervento, bensì entrando nell’immagine con le loro stesse articolazioni, riviste e trasformate dalla macchina costruttiva moderna. Un diverso modo di utilizzare la riflessione nell’inserimento in contesti urbani sedimentati è quello adoperato dall’architetto tedesco Volker Staab per il Museo del design a Norimberga, completato nel 2000 (Figg. 10-14)7. Il museo occupa un ampio lotto compreso fra le mura medievali della città e la Luitpoldstrasse; lo stretto fronte del nuovo intervento su questa strada riproduce per dimensioni, articolazione delle finestre e tipologia di copertura il fronte continuo preesistente, riproponendo anche l’avanzamento del corpo di fabbrica, che consente l’apertura di una colonna di finestre sullo stretto fronte laterale. Nel nuovo museo, questa sequenza di aperture diviene parete vetrata a tutta altezza, il grande marchingegno teatrale dell’intero intervento: la facciata prosegue, incurvandosi leggermente, lungo tutta la profondità dell’edificio, terminando nell’ampia piazza antistante le mura cittadine e conclusa da un ulteriore isolato di palazzi storici. Lievemente arcuata, la grande facciata vetrata del museo diviene un collettore parabolico di immagini: all’osservatore che si accinge a percorrere lo stretto vicolo che separa i due corpi di fabbrica dell’intervento si presentano riflessi tratti della facciata stessa, che a loro volta riflettono le mura medievali ubicate al fondo della piazza. Al termine del percorso le mura reali e quelle riflesse si fondono in una sequenza continua, che prosegue sulla superficie vetrata come immagine fedelmente riprodotta. Attraverso il raffinato dispositivo ottico i brani della città storica vengono trasportati al di là della loro collocazione fisi108

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ca, sino a renderli visibili dalla strada principale; divenendo l’articolazione della grande parete vetrata, estendono la preesistenza sul nuovo intervento. Una volta giunti nella piazza, l’immagine del museo cambia nettamente: nella visione frontale la trasparenza tende a prevalere sul riflesso ed il grande contenitore si rivela nella sua essenza di vetrina a scala urbana, espressiva dun-

Figg. 12, 13, 14 Volker Staab. Museo del design, Norimberga (2000). Sequenza di viste dall’ingresso sulla Luitpoldstraße sino alla corte interna

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que del contenuto dell’edificio, espositore di oggetti di produzione industriale; nelle ore notturne, l’illuminazione interna della vetrina tende a sottolineare ulteriormente questo significato. A differenza di Mies, il museo di Norimberga si affida ad una riproduzione fedele dell’immagine della città circostante; oltre alla curvatura della facciata, che consente di angolare la vista dell’osservatore, il fattore fondamentale è dato dal modo in cui è costruita la cortina vetrata: la struttura portante in acciaio è ridotta al minimo spessore possibile e posta all’interno del filo della vetrata, così che sull’esterno rimangono solamente dei sottilissimi traversi. La superficie che ne risulta è assolutamente liscia, adatta a raccogliere l’immagine della città storica senza distorcerla. Pur condividendo con gli edifici di Mies l’intento di mettere in scena la città circostante tramite un dispositivo ottico, il modo in cui questa operazione viene condotta è radicalmente differente; la differen-

Figg. 15, 16 Sezione sulla corte e planimetria generale del museo

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Figg. 17, 18 JeanMarc Ibos e Myrto Vitart. Ampliamento del Palais de BeauxArts, Lille (1997). Viste della corte con la nuova facciata riflettente

ziazione tecnica della costruzione della cortina vetrata dà luogo ad uno specifico effetto piuttosto che ad un altro. La riduzione di visibilità del sistema costruttivo, utilizzata da Staab per dare continuità all’immagine proiettata sul curtain wall, è una costante di tutti quegli interventi di trasformazione nei quali la riflessione rappresenta una centralità tematica del progetto. Nel realizzare l’estensione del Palais de Beaux-Arts a Lille (Figg. 15-18)8, Jean-Marc Ibos e Myrto Vitart progettano una piazza di forma quadrata antistante l’edificio in stile neomedievale del 1892; sul lato opposto rispetto al museo preesistente collocano un volume a pianta rettangolare specu111

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Fig. 19 Ieoh Ming Pei. John Hancock Tower, Boston (1980). Vista da Trinity Square Fig. 20 Piante del piano terra e del piano tipo

lare ad esso. Il fronte prospiciente la piazza viene trattato a specchio, con un sistema di facciata a scomparsa: l’intento è dunque quello di creare uno schermo, questa volta quasi documentario, per interpretare sul nuovo intervento le articolazioni linguistiche dell’antico museo. Non si tratta però nemmeno in questo caso di una riproduzione fedele: l’elemento di disturbo, di frammentazione dell’immagine, è affidato al trattamento delle lastre di vetro, che vengono serigrafate con un motivo astratto, variabile secondo le fasce di altezza della facciata9. Non sempre il sistema a curtain wall viene però utilizzato per instaurare un dialogo figurativo fra antico e nuovo: i volumi specchiati possono anche servire per ridurre la massa visiva dell’edificio, diradandone la presenza all’interno dell’ambiente preesistente. È questo il difficile obiettivo che persegue Ieoh Ming Pei con la sua John Hancock Tower nella Copley Square di Boston (Figg. 19-20)10: la piazza quadrangolare raccoglie un singolare repertorio di architetture, dalla Trinity Church di Henry H. Richardson alla Boston Public Library di McKim, Mead & White, nonché edifici residenziali di fine ‘800 nel più classico stile Back Bay. Nel tentativo di rendere più accettabile l’impatto sulla piazza di una torre di oltre 60 piani, Pei rimuove qualsiasi caratterizzazione costruttiva dal nuovo intervento; il sistema vetrato diviene estremamente ‘levigato’, a negare il peso visivo della torre. Congiuntamente ad un’attenta articolazione 112

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volumetrica del grattacielo, la consistenza della pelle consegue un risultato sorprendente: la John Hancock Tower tende letteralmente a dissolversi nel cielo, apparendo più come un condensatore atmosferico che non come un volume effettivamente costruito. Il raffronto fra la metafisica assenza di volume della torre di Pei e la vigorosa modulazione plastica della chiesa neoromanica ci riconduce alla questione ontologica della concordanza o dissonanza fra tecniche costruttive; il nuovo intervento si pone in dialettica radicale rispetto all’opera preesistente, affermando un’assenza di figuratività che si oppone come ‘specchio in negativo’ della fitta articolazione decorativa di Richardson. In tutti i casi analizzati, l’intero processo di figurazione è operato attraverso la modulazione del sistema costruttivo: la variazione della qualità materica e del funzionamento dei componenti principali – vetro e struttura metallica – consentono un ampio spettro di possibilità nel campo fenomenologico, tali da trasformare anonimi volumi vetrati in entità architettoniche fortemente distinte e caratterizzate. Quanto sopra affermato relativamente al caso delle cortine vetrate è da ritenersi peraltro valido anche per tutte le altre tecniche costruttive, nella loro capacità di configurare gli oggetti architettonici: gli innumerevoli modi nei quali si possono mettere in opera le ‘pelli’ degli edifici contemporanei consentono ai progettisti di sfruttare un vasto repertorio, che può interagire in diversi modi con l’immagine degli ambienti preesistenti. Così i rivestimenti in pietra o in laterizio, i sistemi di facciata con pannelli metallici o in altri materiali, possono essere adoperati in maniera flessibile, rivolgendo l’attenzione alle sottili sfumature di effetto ottenibili.

Fisiologia degli edifici Ritornando su questioni architettoniche meno legate alla pura esperienza visiva, è necessario compiere una breve digressione relativa ad altri aspetti legati alla tecnica costruttiva, che influiscono notevolmente sull’effetto complessivo dell’opera. Sinora abbiamo considerato l’oggetto-edificio secondo la sua specificità di strumento di figurazione nell’ambito di un sistema preesistente; si tratta ora di analizzarne, nelle medesime condizioni, l’essenza di oggetto tecnologico. L’edificio-oggetto tecnologico svolge una serie di funzioni, rispondendo a determinate esigenze; il volume interno funge da strumento di mediazione fra ambiente esterno ed interno, calibrando l’influenza degli agenti naturali sullo spazio architettonico. La qualità dello spazio interno, nella sovrapposizione tra 113

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elementi visivi e altri fattori percettivi, partecipa alla caratterizzazione di un’architettura: anche in questo caso, l’intervento su una situazione esistente può avvenire secondo diverse modalità, entrando in dialettica o in continuità con una preesistenza che, a sua volta come oggetto tecnologico, produce determinati effetti. Luce, calore, umidità, rumore, odore: se queste categorie fanno riferimento ad un campo di esperienza istintivo, remoto dalla conoscenza cognitiva e razionale, esse costituiscono parte indispensabile dell’esperienza dell’architettura attraverso la percezione sensoriale; sono inerenti ad una dimensione diversa rispetto a quelle dello spazio geometrico, che viene alla luce attraverso l’esperienza dell’osservatore. Cosa rimarrebbe dell’atmosfera di una moschea nordafricana senza la sensazione di fresco e buio che si prova entrandovi? A ogni modo, per quanto irrazionale sia l’esperienza di questi spazi, la loro qualità viene determinata dall’oggetto tecnologico-edificio; senza dubbio questi aspetti intangibili costituiscono parte integrante dell’opera architettonica: benché spesso non se ne tenga debitamente conto, sono il fondamentale complemento di quella materia dell’esistente che è stata sinora considerata come aspetto centrale della presente trattazione. Da questo punto di vista, nella pratica del riuso e rifunzionalizzazione le trasformazioni avvengono spesso in maniera eclatante: i sistemi di condizionamento e di illuminazione alterano profondamente il carattere degli edifici. Se ciò avviene in nome del raggiungimento di un comfort ambientale definito per via normativa, si tratta di fatto della giustapposizione di meccanismi tecnologici la cui logica di funzionamento è profondamente diversa. Nel costruito tradizionale, i sistemi di controllo dell’ambiente costituiscono generalmente parte integrante dell’architettura: la conformazione degli spazi, il dimensionamento delle aperture, la composizione dell’impianto costruttivo ecc. danno luogo sincronicamente alla figurazione ed alla qualità dell’ambiente; gli impianti tecnologici contemporanei sono invece in grado di prescindere da questa integrazione, facendo parte di un sistema il più delle volte separato. Quanto affermato nel caso del singolo edificio può essere esteso anche alla scala urbana: i centri di molte città storiche creano spesso, attraverso la loro costituzione materiale, ambienti dalle qualità ben definite, paragonabili talvolta anche per dimensioni agli spazi interni degli edifici. Se in questo processo la morfologia urbana svolge un ruolo più determinante rispetto alla qualità strettamente tecnica del costruito, ciò nonostante si tratta sempre della mediazione fra ambiente naturale e spazio antropizzato, estendendo così la similitudine del meccanismo tecnologico all’oggetto-città. L’atmosfera generata da un edificio o da un brano di città antica rappresenta 114

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Figg. 21, 22 Massimo e Gabriella Carmassi. Ristrutturazione di Casa Balbarini a Pisa (1996). Viste dell’interno

dunque un elemento nei confronti del quale il progettista che interviene sulla preesistenza può collocarsi dialetticamente: così ad esempio Massimo e Gabriella Carmassi, operando sugli interni delle case pisane (Figg. 21-22), aggiungono alle consuete fonti di illuminazione naturale numerosi lucernari, pozzi di luce, tagli nei solai ecc., sovrapponendo alla luce concentrata delle finestre quella più diffusa di altri sistemi, con un generale aumento della luminosità. In conseguenza di questa trasformazione, la percezione dello spazio muta notevolmente, diminuendo il contrasto netto fra le zone illuminate e quelle in ombra11.

Fig. 23 Bernard Tschumi. Centro per le arti Le Fresnoy, Tourcoing (1997). Collage di progetto

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Figg. 24, 25 Bernard Tschumi. Centro per le arti Le Fresnoy, Tourcoing (1997). Vista dei camminamenti sospesi tra i padiglioni preesistenti e la nuova copertura e dell’interno di un capannone

Pur nella diversità dell’effetto ottenuto, la validità di questa soluzione è data dalla scelta compiuta dall’autore di intervenire con lo stesso apparato tecnologico – la conformazione dell’involucro murario – senza introdurre elementi di discontinuità o meccanismi operanti secondo principi sostanzialmente diversi. Di segno opposto è invece la trasformazione compiuta da Bernard Tschumi sul complesso di Le Fresnoy (Figg. 23-25)12: la grande copertura che ingloba i vecchi padiglioni trasforma il loro esterno in un interno, spazio interstiziale intermedio. Le grandi vetrate delle strutture di inizio secolo non introducono più luce naturale al loro interno; l’intera illuminazione è pertanto delegata a sistemi artificiali, fatto che cambia in maniera non indifferente la qualità di questi spazi. Analogamente a quanto osservato riguardo alla questione dell’illuminazione, in particolare sulla sostituzione della luce artificiale a quella naturale, i sistemi di areazione possono sortire simili effetti, non misurabili visivamente ma purtuttavia fondamentali per determinare l’atmosfera di un edificio. Così avviene sovente che, all’interno di un fabbricato storico nel quale sia stato installato un sistema di condizionamento dell’aria, vada perduta la caratterizzazione termica dei singoli ambienti: la sequenza di differenti condizioni di temperatura e umi116

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dità, derivanti dalla presenza o meno di aperture, dimensione e geometria degli ambienti, direzione del flusso di aria, distanza da terra, spessore delle pareti ecc. viene appiattita su parametri termoigrometrici costanti per tutto l’edificio. A conclusione di queste riflessioni, possiamo dunque osservare come la questione tecnica del costruire sull’esistente ricopra un ruolo fondamentale nella definizione del progetto di intervento. Non si tratta semplicemente dell’edificare: la tecnologia risulta determinante tanto per la figurazione dell’opera quanto per la sua costituzione materiale, tanto per la sua lettura razionale quanto per la risposta istintuale; dalla costruzione dell’opera scaturisce il linguaggio, così come tutti gli altri possibili livelli di cognizione dell’architettura.

Note 1 E. E. Viollet-le-Duc, Entretiens sur l’architecture, A. Morel, 1863, XII, nostra traduzione. 2 A. Borgmann, Technology and the Character of Contemporary Life, University of Chicago Press, 1984, pp. 41 e seguenti. 3 Questa interpretazione è parzialmente debitrice al concetto di Entbergung esposto da Heidegger nella sua Frage nach der Technik; si intende però qui sottolineare la potenziale funzione narrativa dei dispositivi tecnologici, che trasporta l’intera questione in un ambito più direttamente legato alla comunicazione linguistica. 4 Vedi W. Zschokke, “Deposito di memorie. Biblioteca comunale Viehmarktplatz Biberach”, in Casabella, n. 646, giugno 1997, pp. 28-37. 5 Vedi Red., “Esencial y desnudo: edificio de viviendas en Vergara, Guipúzcoa”, in A & V, n. 21, 1990, pp. 58-59; Red., “Wohnungsbau in Bergara, Spanien”, in Architektur + Wettbewerbe, n. 148, dicembre 1991, p. 5; J. I. Linazasoro, J.I. Linazasoro, Gustavo Gil, 1989. 6 Sui progetti di grattacielo per Berlino vedi D. Mertins, “Mies’s Skyscraper “Project”: Towards the Redemption of the Technical Structure”, in D. Mertins (a cura di), The Presence of Mies, Princeton Architectural Press, 1994, pp. 53 e seguenti; K. Frampton, Tettonica e architettura, Skira, 1999, in particolare il cap. 6, “Mies van der Rohe: Avanguardia e continuità”. 7 Vedi V. Staab, Ansichten zur Architektur: Neues Museum in Nürnberg, Hatje Cantz, 2000, pp. 28 e seguenti; Red., “Museum in Nürnberg”, in Detail, vol. 40, n. 2, marzo 2000, pp. 230-233; N. Ballhausen, “Das Neue Museum in Nürnberg”, in Bauwelt, vol. 91, n. 2, gennaio 2000, pp. 1823; J. della Fontana, “Solido e trasparente: nuovo museo a Norimberga”, in L’Arca, n. 151, settembre 2000, pp. 30-35. 8 Vedi F. Michel, “Ancien et moderne en réssonance: Palais des Beaux Arts, Lille”, in Architecture intérieure – Crée, n. 277, 1997, pp. 54-61; C. Ellis, “Beaux-Arts Revival”, in Architectural Review, n. 1207, settembre 1997, pp. 34-39; F. Fromonot, “Ibos & Vitart, Musée des beaux-arts, Lille”, in Architecture d’aujourd’hui, n. 313, ottobre 1997, pp. 34-41. 9 Un sistema analogo è quello adottato dallo Studio Passarelli nell’edificio di via Campania a Roma L’altezza del corpo vetrato corrisponde a quella delle mura antistanti: di queste in parte ne preleva l’immagine; al di sopra di questo dispositivo ottico la costruzione cambia nettamente carattere, frammentandosi in una molteplicità di volumi.

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10 Sulla John Hancock Tower vedi C. Wiseman, I. M. Pei: A Profile in American Architecture, Harry N. Abrams, 1990, pp. 138-153; R. Moneo, “Concerning the Hancock Tower by I.M. Pei and Partners”, in Harvard Architecture Review, vol. 7, 1989, pp. 176-181; R. Campbell, “Evaluation: Boston’s John Hancock Tower in context”, in AIA Journal, vol. 69, n. 14, dicembre 1980, pp. 18-25; H. N. Cobb, “John Hancock Tower a Boston”, in Casabella, n. 457-458, aprilemaggio 1980, pp. 26-31; C. E. Marlin, “Some reflections on the John Hancock Tower”, in Architectural Record, vol. 161 n. 7, giugno 1977, pp. 117-126. 11 Vedi M. e G. Carmassi, Del restauro: Quattordici case, Electa, 1998; Red., “Massimo Carmassi, Gabriella Carmassi: due appartamenti a Pisa”, in Domus, n. 778, gennaio 1996, pp. 4854. Nella citata biblioteca di Biberach, Podrecca opera analogamente, sostituendo ad una porzione di copertura opaca un ampio lucernario adoperato per fornire luce zenitale all’invaso centrale a tutta altezza. 12 Vedi B. Tschumi, Le Fresnoy: Architecture In/Between, Monacelli Press, 1999; Y. Safran, “Bernard Tschumi: Centro nazionale per le arti contemporanee Le Fresnoy, Tourcoing, Francia”, in Domus, n. 801, febbraio 1998, pp. 10-17; A. Fleischer, “Le Fresnoy”, in Architecture d’aujourd’hui, n. 314, dicembre 1997, pp. 35-55. La situazione che si configura in questo progetto è analoga a molti interventi di musealizzazione di siti archeologici, nei quali le coperture trasformano l’ambiente degli scavi in uno spazio interno. Se da un lato le caratteristiche ambientali delle architetture antiche non sono più riscontrabili, dall’altro è anche vero che i siti archeologici possiedono un’atmosfera tipica, anch’essa associabile a quella specificità di esperienza non cognitiva di cui sopra.

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5. Riutilizzo e rifunzionalizzazione

Come si svolge la vita delle architetture nel tempo? I modi in cui gli oggetti costruiti si trasformano con il transitare degli anni sono moltissimi, spesso imperscrutabili: il termine vita non appare affatto improprio, poiché la complessità dei sistemi biologici sembra estendibile, oltre qualsiasi modello strutturale, agli spazi abitati dall’uomo. Per ragioni non sempre evidenti, gli edifici, le città o anche loro singole parti subiscono profonde trasformazioni nell’uso, vengono abbandonati e ripresi, negletti o colonizzati in modi non previsti nel momento della loro originaria realizzazione (Figg. 1-2). La vitalità di un’architettura è prodotto di fattori eterogenei e l’efficacia dello svolgimento della funzione cui è destinato un edificio è senz’altro condizione fondante per la sua sopravvivenza. Allo stesso tempo, considerare la funzionalità di un’opera come unico principio di validità della sua vita appare come una riduzione ad un operazionismo semplicistico: un oggetto architettonico che non inneschi – anche se incidentalmente – un meccanismo di appropriazione da parte degli utenti difficilmente riuscirà a integrarsi nel paesaggio antropico. Il carattere e la riconoscibilità risultano dunque altrettanto importanti dell’efficienza dell’opera. Le qualità estetiche e quelle funzionali, intrinsecamente connesse nel progetto di architettura, seguono però traiettorie spesso divergenti con il trascorrere della vita degli oggetti costruiti1. Le stratificazioni della città storica sono freFigg. 1, 2 Frederick Fisher, Centro per le arti contemporanee P.S.1, New York (1998)

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quentemente costituite da diversi usi che degli edifici sono stati fatti piuttosto che da costruzioni sovrapposte. Storicamente principi di economia e necessità hanno portato quasi immancabilmente al riuso di fabbricati dismessi: adattamento ad altra funzione, occupazione da parte di squatters, ecc.2 Si tratta spesso di riusi impropri, non informati da un’intenzionalità estetica, esclusivamente mirati a sfruttare il valore economico del bene-edificio. L’appropriazione più o meno abusiva di fabbricati dismessi da parte di una comunità continua ad essere ancora oggi uno dei modi tramite i quali si prolunga la vita utile di un edificio. La necessità economica permane dunque come legge strutturale; ciò che si può dire mutato è il grado di consapevolezza con il quale si opera la trasformazione, la nozione della passeità della materia sulla quale si interviene, il suo significato di storicità. In altre parole l’azione del progettista contemporaneo è più informata, anche se necessariamente limitata da vincoli di varia natura. Sono proprio questi vincoli a dover garantire – almeno in linea puramente teorica – il rispetto degli oggetti sui quali si interviene, di modo che questi possano essere mantenuti in vita non solo utilmente ma anche preservandone il carattere architettonico.

Funzione e carattere La questione fondamentale che dunque si pone relativamente alla trasformazione dell’uso delle architetture è legata allo scardinamento della coerenza tra la loro funzione originaria ed il sistema figurativo ad essa correlato. Tradizionalmente uno dei principali strumenti per la definizione del carattere di un edificio viene desunto dall’espressività della sua destinazione d’uso3: cosa avviene quando un fabbricato originariamente inteso per ospitare una precisa funzione viene privato di questo tratto essenziale per dare spazio ad attività del tutto diverse? Lo scarto di significato che un’operazione di questo genere produce costituisce uno degli strumenti peculiari dell’intervento sulle preesistenze. Si tratta in effetti di una riconfigurazione semantica, non del tutto aliena dal linguaggio pop, nel quale la traslazione del significato viene frequentemente utilizzata come artificio poetico. Se la critica modernista al concetto di carattere e gli intenzionali sfasamenti dell’arte pop hanno reso questo strumento ormai consueto, prima del ventesimo secolo separare semanticamente contenuto e forma conduceva all’infrazione delle regole del decorum, dell’appropriatezza. Per questo motivo le operazioni di trasformazione d’uso venivano condotte con par120

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ticolare attenzione alla ri-configurazione, con l’intento di sostituire al vecchio apparato decorativo un sistema iconografico adatto al nuovo uso. La conversione degli spazi sacri rappresenta, sotto questo aspetto, un esempio particolarmente interessante. Nel 608 Papa Bonifacio IV decreta la conversione della Rotonda di Roma da Pantheon a Chiesa di Santa Maria dei Martiri. I residui di decorazione classica vengono rimossi e sostituiti con le insegne della Chiesa; per esorcizzare i demoni pagani (e presumibilmente anche il superbo spazio voltato, peccato di orgoglio contro il Grande Architetto, quasi non fosse opera umana), il rituale prevede il trasferimento di ventotto carri di reliquie di martiri cristiani. Quest’operazione viene eseguita in pompa magna, allestendo una grande processione; le cronache registrano che la consacrazione della Rotonda provocò il verificarsi di diversi miracoli, tra cui la conversione di numerosi ebrei al cristianesimo4. Sebbene dunque la funzione del tempio cambia solo nominalmente, rimanendo comunque luogo di culto, la studiatissima ritualità è necessaria per dirimere qualsiasi dubbio di legittimità e appropriatezza dell’uso dell’antico edificio per le celebrazioni cristiane. Non è sufficiente la semplice risemantizzazione attraverso la sostituzione di effigi per riconquistare il tempio alla cristianità: la grande processione festiva deve lasciare il suo segno nella memoria collettiva dei cittadini romani, chiarendo una volta per tutte la vittoria del cristianesimo sui culti ad esso precedenti. Successivamente, l’aggiunta dei campanili gemelli nel 1627 a opera di Bernini intenderà ulteriormente sottolineare il carattere del Pantheon come chiesa. La trasformazione dell’uso richiede un’attenta coreografia, interventi ripetuti che devono contrapporsi alla presenza fisica permanente della Rotonda, al fine di debellare il genius pagano del tempio. Se la funzione del monumento è la stessa narrazione, appare chiaro come la trasformazione del suo uso costituisce una risemantizzazione. Nell’accezione che del termine monumento ci dà Adolf Loos si tratta di oggetti che più di tutti gli altri difficilmente sono convertibili ad altro uso, proprio in virtù del loro potere allegorico. Sono tuttavia numerosi i casi nei quali si decide di mantenere una struttura fisica operandovi l’innesto di una nuova narrazione: ciò si verifica soprattutto quando gli oggetti preesistenti costituiscono elementi importanti di un tessuto urbano o hanno acquisito uno status archeologico che ne richiede la conservazione in concomitanza con la prosecuzione dell’utilizzo. Anche al di fuori del regno dei monumenti l’allegoresi continua a svolgere un ruolo centrale nella costituzione dell’estetica architettonica, bilanciata però più incisivamente dalla necessità di consentire l’efficace svolgimento delle attività previste. Come si è osservato, il mantenimento del sistema figurativo pree121

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sistente, strumento peculiare della pratica contemporanea, conduce a risultati linguisticamente interessanti, dettati dalle successive stratificazioni di immagini. Da questo punto di vista, il Museo d’Orsay di Gae Aulenti e Italo Rota è un’opera in cui i riferimenti figurativi si propongono con una densità non consueta5 (Figg. 3-4). Il tipo architettonico della grande stazione ferroviaria ottocentesca è già in partenza un residuo archeologico: il grande salone voltato centrale, elemento tipico della progettazione beaux-arts, trae le sue origini negli studi sulle antichità romane condotti dagli studenti del Prix de Rome. Le volte monumentali delle basiliche e delle terme imperiali vengono estrapolate dal loro impianto architettonico originario e trasferite in un nuovo sistema, creato artificialmente per una funzione moderna, pertanto priva di una sua specificità figurativa. La preoccupazione tipicamente ottocentesca per le problematiche del carattere fa sì che questi nuovi manufatti vengano progettati conferendo loro un aspetto di monumentalità generica, desunta appunto dai grandi spazi pubblici romani. La volta risolve brillantemente anche il problema della creazione di ambienti a grande luce libera, e rappresenta pertanto un elemento perfettamente adattabile alle nuove esigenze di funzionalità e rappresentatività. Lo spazio espositivo che viene realizzato all’interno della stazione dismessa si innesta dunque su un sistema figurativo già vastamente articolato. I pro-

Figg. 3, 4 (pagina opposta) Gae Aulenti e Italo Rota. Museo d’Orsay, Parigi (1986). Vista dell’interno e sezione trasversale

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gettisti affiancano al linguaggio della stazione un sistema totalmente indipendente rispetto ad esso, chiaramente distinguibile e dimensionalmente analogo. Il nuovo allestimento evidenzia la propria funzione museale consentendo da diverse altezze la visuale non ostruita delle terrazze dove sono esposte le opere. Paradossalmente, si potrebbe affermare che la grande sala voltata si rivela più adatta ad un museo di quanto non lo fosse per il salone dei viaggiatori di una stazione. La genericità del senso monumentale negli edifici beaux-arts – a riprova anche di una certa debolezza del concetto stesso di carattere in quel particolare frangente storico – non oppone eccessiva resistenza ai tentativi di conversione. Programmi funzionali più precisi, che conducono inevitabilmente a soluzioni distributive e tipologiche maggiormente vincolanti, danno come risultato spaziale e figurativo sistemi più determinati, inflessibili. La monumentalità dell’antica Gare d’Orsay è un tratto ricorrente di molta architettura del diciannovesimo secolo: ciò ne ha consentito sovente, come nel caso della stazione parigina, una riconversione che ha potuto efficacemente sfruttare il margine dimensionale per l’inserimento di nuovi programmi funzionali6. Ben più arduo si presenta il compito di chi deve trasformare l’uso di opere moderne, nelle quali non di rado il dimensionamento degli spazi è accuratamente calibrato, orientato secondo criteri di esattezza. Naturalmente non tutta l’architettura moderna può essere considerata rigida e inflessibile: gli edifici per la produzione industriale, ad esempio, articolati in grandi spazi liberi, si offrono egregiamente a operazioni di riconversione. Anche in questo caso è tuttavia necessario osservare come la progressiva specializzazione del processo produttivo meccanizzato abbia portato alla realizzazione di sistemi funzionali sempre più specifici: se il modello del padiglione derivante dall’industria ottocentesca richiedeva semplicemente ambienti di 123

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grandi dimensioni e livelli di illuminazione adeguati, la successiva introduzione di macchinari più complessi ha reso gli stabilimenti produttivi veri e propri meccanismi, calibrati per funzionare come ingranaggi. Con il passare del tempo, gli spazi per il lavoro collettivo si sono dunque andati precisando tipologicamente, introducendo vincoli di carattere prestazionale, i quali spesso incidono sulla possibile convertibilità. Rispetto alle strutture più strettamente industriali, gli edifici progettati per ospitare uffici mostrano una maggiore flessibilità: il sistema ergonomico e dimensionale lavoratore-scrivania non è sostanzialmente mutato negli ultimi cento anni, se si considera l’introduzione delle apparecchiature informatiche come semplice cambiamento dell’interfaccia tra operatore e strumento. La documentazione storica e la manualistica dimostrano come il concetto di spazio lavorativo ottimale sia invece variabile non solo nel tempo ma anche geograficamente. Si possono trovare infatti uffici open space e distribuzioni a cubicles, ambienti che ospitano da due a duecento persone, illuminazione prevalentemente naturale o esclusivamente artificiale: le variazioni sono infinite e l’allestimento di questi spazi richiede un alto grado di flessibilità negli edifici deputati ad accoglierli. La torre per uffici, il cui sistema strutturale viene generalmente concepito in modo da concentrare gli elementi portanti lungo il perimetro e al centro, si è imposta come tipologia ottimale per il lavoro terziario anche in virtù della flessibilità della pianta, la cui distribuzione può essere variata senza necessità di interventi impegnativi. La stratificazione di usi successivi produce, in maniera più o meno intenzionata, la sovrapposizione e parziale intersezione tra numerosi sistemi estetici e funzionali, inestricabilmente connessi fra loro. Gli interventi che si susseguono sull’oggetto non sempre rimuovono le tracce delle attività che si sono svolte al suo interno: queste vengono talora intenzionalmente conservate. Queste tracce rappresentano testimonianze caratterizzanti della vita delle architetture, costituendo una complementarità con la materia costruttiva delle preesistenze. Nell’analisi dei reperti archeologici la presenza di queste tracce è fondamentale per risalire agli eventi cui i manufatti hanno partecipato: la profondità dei solchi su una macina di pietra, la presenza di superfetazioni o altre modifiche apportate ad un edificio ecc. Analogamente, una persona che per molti anni si dedica ad una particolare attività fisica, come gli atleti o chi svolge intensi lavori manuali, mostra nella conformazione del proprio corpo i segni evidenti di questi usi. Se dunque ogni oggetto d’uso – dall’utensile all’edificio, non diversamente dal corpo umano – viene prodotto con una destinazione funzionale più o meno precisa che ne determina in maniera cospicua la conformazione, lo svolgimento di questa e altre attività influirà decisamente sulla trasformazione della mate124

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ria, modificando al contempo anche la sua apparenza. Per comprendere pienamente il senso di ciò su cui si interviene, nell’operare sull’esistente diviene dunque necessario considerare questa duplice valenza del concetto di utilità: da un lato il programma funzionale, determinato al momento della progettazione e realizzazione; dall’altro la stratificazione di segni e modificazioni causate dall’uso più o meno appropriato che dell’oggetto è stato fatto.

Adeguamento Un aspetto particolarmente delicato – per le ricadute spesso disastrose che provoca sugli oggetti di architettura – dell’intervento sull’esistente è quello dell’adeguamento normativo. Le crescenti esigenze di qualità in fatto di sicurezza, accessibilità, impiantistica, risparmio energetico ecc., nonché la rapida trasformazione dei sistemi infrastrutturali per le comunicazioni inducono la necessità di interventi su edifici anche relativamente recenti per la messa a norma di questi differenti aspetti. L’adeguamento rappresenta tuttavia una conditio sine qua non per l’estensione della vita utile di un’architettura: al pari dell’inserimento artificiale di nuove attività, può essere considerato alla stregua di un trapianto eseguito al fine di rimettere in funzione un organismo il cui movimento si è arrestato. Benché le trasformazioni indotte dai processi di adeguamento tecnologico vengano generalmente progettate con l’intento di minimizzare l’impatto sull’immagine dell’oggetto preesistente, nella maggior parte dei casi risulta impossibile azzerarne completamente gli effetti. Anche l’aggiornamento dei sistemi impiantistici, o dei soli dispositivi per il cablaggio degli ambienti, che non implicano l’introduzione di volumi di grandi dimensioni, possono produrre variazioni anche notevoli negli spessori costruttivi, che nel caso di edifici realizzati con tecniche tradizionali danno luogo a discrasie non trascurabili rispetto all’immagine originale. Anche in questo caso l’architettura della tradizione moderna, in cui non di rado la massima riduzione degli spessori e l’esattezza geometrica della costruzione riveste un carattere fortemente poetico, può risultare meno convertibile di oggetti realizzati con tecniche tradizionali. La rapida obsolescenza delle tecniche di avanguardia è un fenomeno che interessa sia la costruzione, dove l’efficienza di una soluzione può essere verificata in via definitiva solo sulla lunga durata, sia nell’alta tecnologia delle reti informatiche, nel cui caso l’incessante spostamento verso l’alto degli standard di qualità impone continui aggiornamenti dei sistemi infrastrutturali. A fronte della trasformazione degli spessori destinati ad alloggiare i sistemi 125

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impiantistici, gli adeguamenti per ragioni di sicurezza e accessibilità possono risultare di gran lunga più problematici. Il diffuso utilizzo di sistemi a produzione industriale quali scale di sicurezza, ascensori, montascale ecc. consente certamente ampi risparmi in termini di tempo dedicato alla progettazione e costi di costruzione, ma impone una gamma necessariamente limitata di scelte a catalogo fra oggetti non sempre adatti a interagire efficacemente con il sistema estetico delle preesistenze7. L’aggiunta di nuove volumetrie ad un edificio esistente non è in sé cosa semplice: se la gamma di strumenti a disposizione del progettista risulta limitata da questioni economiche diviene impresa ardua. Massimo Carmassi risolve il delicato problema di aggiungere le scale antincendio al Teatro Giuseppe Verdi di Pisa con un intervento coraggioso8 (Figg. 56). Rispetto al corpo del Teatro e al tessuto storico della città, qualsiasi intenzione mimetica sarebbe risultata inadatta; il corpo scala sfrutta pertanto l’ambito interstiziale disponibile, incuneandosi nello spazio fra il Teatro e l’edificio adiacente, recidendo qualsiasi rapporto figurativo con l’intorno. Puntando sulla qualità del disegno del sistema costruttivo in acciaio, Carmassi intende realizzare un oggetto che possa porsi autonomamente nell’ambito dell’immagine urbana, non diversamente da un’opera artistica. Pur nella durezza dell’inserimento, la scelta di sottolineare chiaramente l’alterità estetica dell’oggetto funzionale risulta efficace. Il distacco rispetto alla parete del Teatro crea una forte separazione figurativa, riducendo nettamente l’interazione fra i due sistemi: il fabbricato ottocentesco con la sua muratura piena contrasta decisamente con l’intelaiatura metallica della scala. Carmassi di fatto ignora la preesistenza, svincolando l’aggiunta da qualsiasi rapporto linguiFigg. 5, 6 Massimo e Gabriella Carmassi. Restauro del Teatro Verdi, Pisa (1990). Dettagli costruttivi della scala di emergenza

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stico; così facendo assegna ad essa un grado di autonomia che la esautora dalla necessità di tale interazione. In questo caso, la diversità totale tra antico e nuovo conduce ad un risultato valido, forse più di quanto sarebbe avvenuto instaurando un dialogo fra le parti. Oggetti particolarmente sensibili quali gli edifici storici giustificano interventi progettuali di più ampio respiro, di modo da poter rendere architettonicamente valide le operazioni di adeguamento. Tuttavia, l’abile utilizzo degli strumenti più raffinati della disciplina, nonché un’accorta considerazione delle potenzialità implicite nelle operazioni estetiche, consentono la realizzazione di interventi validi anche in condizioni di minore disponibilità economica. La rifunzionalizzazione degli edifici avviene dunque per addizione di strati funzionali, figurativi ma anche concettuali: l’interazione tra le molteplici componenti conduce ad un sistema estetico che si attua nel presente, raccogliendo in sé tutte le tracce, dalle più remote alle manifestazioni della fisiologia degli edifici nella loro vita contemporanea. Fra i diversi piani temporali, con i loro rispettivi contenuti, si instaura dunque un dialogo di infinita complessità, gioco en abîme di tracce e rimandi, espressione stessa del senso dell’operare sulla materia esistente.

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Note 1 Questa considerazione è alla base della teoria urbana di Aldo Rossi. Cfr. L’architettura della città, Clup, 1978, p. 57: «Un fatto urbano determinato da una funzione soltanto non è fruibile oltre l’esplicazione di quella funzione. In realtà noi continuiamo a fruire di elementi la cui funzione è andata da tempo perduta; il valore di questi fatti risiede quindi unicamente nella loro forma. La loro forma à intimamente partecipe della forma generale della città, ne è per così dire una invariante». Nella formulazione dell’autore il maggiore peso attribuito alle questioni formali è necessario per screditare la perentorietà del tecnicismo funzionalista sia nel progetto di architettura sia nell’analisi urbana; è però senz’altro vero che la forma della città può permanere sostanzialmente invariata all’avvicendarsi delle funzioni che in essa trovano spazio. 2 In tempi antichi la demolizione degli edifici non era pratica frequentissima: essa veniva talora motivata dalla necessità di rimuovere oggetti dal particolare significato – vedi ad esempio la Domus Aurea di Nerone. Un’ulteriore prassi di trasformazione è quella dello spoglio: il riutilizzo dei materiali edili di un fabbricato si configura come modalità estrema di intervento sulle preesistenze e testimonia come, ben oltre la permanenza iconica o formale indicata da Rossi, è il valore economico dell’edificio, anche se smembrato, a sopravvivere più a lungo di tutti gli altri. 3 È questa una delle tre accezioni del termine carattere (carattere distintivo) proposta da Quatremère de Quincy nel suo Dizionario storico di architettura. 4 Sulle vicende del Pantheon vedi F. Lucchini, Pantheon, Nuova Italia Scientifica, 1996, pp. 119-120. 5 Vedi P. Nicolin, “Parigi: Museo d’Orsay”, in Lotus International, n. 35, 1982, pp. 14-31. 6 Un’interessante osservazione al riguardo viene proposta da Koolhaas a commento del già citato progetto per il panopticon di Arnhem: «La differenza forse più importante e meno riconosciuta tra l’architettura tradizionale (1882) e quella moderna si rivela nel modo in cui un edificio ipermonumentale e che spreca spazio come il panopticon di Arnhem si dimostra flessibile, mentre l’architettura moderna è basata sulla coincidenza deterministica tra forma e programma, essendo il suo scopo non più la “crescita morale” ma un pedissequo inventario di tutti i piccoli dettagli della vita quotidiana. La flessibilità non è anticipazione esaustiva di tutti i possibili cambiamenti. La maggior parte delle trasformazioni non sono prevedibili. Bentham non avrebbe mai potuto immaginare l’attuale uso della Koepel. La flessibilità è creazione di un margine – capacità in eccesso che consente usi e interpretazioni diverse o addirittura opposte. Dato che la purezza ideologica di Bentham poteva essere realizzata solo a costo di un surplus di spazio, la Koepel possiede tale margine. La nuova architettura, che non dispone di questa eccedenza, è destinata ad un perpetuo stato di alterazione se solo dovesse adattarsi anche a piccoli cambiamenti ideologici o pratici.» In S,M,L,XL, Monacelli Press, 1995, pp. 239-240, nostra traduzione. 7 Analogamente, le ingombranti e antiestetiche apparecchiature per il condizionamento degli ambienti vengono spesso giustapposte in maniera brutale su facciate e coperture, alterando gravemente il profilo dei tessuti urbani, soprattutto quando li si osserva dall’alto. 8 Vedi M. Carmassi, Architettura della semplicità, Electa, 1992, pp. 64-77; M. Mulazzani, Massimo e Gabriella Carmassi, Electa, 2004, pp. 116-127.

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6. Il progetto sull’esistente nella cultura architettonica italiana

Nella pratica architettonica contemporanea in Italia la problematica della trasformazione dell’esistente ha progressivamente assunto, nel corso degli ultimi decenni, un peso sempre maggiore. La cronaca dell’architettura recente consente di osservare come, soprattutto in determinati periodi, l’intervento sull’esistente abbia prevalso rispetto alla realizzazione del nuovo, dando luogo a riflessioni metodologiche e critiche ormai divenute patrimonio della nostra cultura architettonica. Già fra le due guerre, riflettendo su «vecchie città ed edilizia nuova», Gustavo Giovannoni si mostrava interessato al problema: la sola densità di materia storica diffusa in tutto il territorio nazionale fa sì che, piuttosto che l’eccezione, l’operare sull’esistente tenda a diventare una condizione di normalità. A scadenze regolari, nel dibattito architettonico italiano degli ultimi cento anni il tema è riemerso, sollecitando le risposte di intellettuali e progettisti; in alcune occasioni questi hanno saputo fornire soluzioni brillanti per l’innesto del nuovo sull’antico, mentre in altre sono caduti vittime di interpretazioni semplicistiche o deviate del problema. Tra questi due estremi di qualità si può sostenere che il dibattito sulle preesistenze non ha di fatto mai perso attualità, anche grazie al continuo dialogo con il mondo del restauro, che della specifica questione costituisce parte integrante. Il corpus disciplinare prodotto dalla pratica del restauro, sostenuto da un forte quadro concettuale, rigoroso dal punto di vista scientifico e filosofico, costituisce senz’altro una delle più significative espressioni della cultura italiana del ’900; solo difficilmente chi opera sul piano del progetto contemporaneo può competere con questa solidità di approccio. Avendo preso le distanze dal soggettivismo del progetto, la metodologia del restauro ha consentito ai suoi operatori di acquisire una posizione dominante rispetto al mondo dell’architettura: fuori dai circoli specialistici, entro i quali è possibile entrare nel merito dell’efficacia di una scelta progettuale rispetto ad un’altra, si è fatta strada la convinzione che l’unico vero modo di conservare in maniera eticamente inattaccabile un manufatto è quello di restaurarlo, ovvero di restituirgli l’integrità materica perduta. 129

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A seguito di tante distruzioni e trasformazioni arbitrarie avvenute negli ultimi decenni ai danni dell’architettura antica ma anche più recente, le ragioni del restauro hanno giustamente acquisito importanza sempre maggiore, suscitando l’interesse degli specialisti e dell’opinione pubblica. Spesso le ragioni del nuovo si sono dimostrate inadatte a comprendere il significato dei reperti del passato; la pratica del restauro, che attribuisce agli oggetti architettonici un valore assoluto, ha invece saputo in molti casi garantire la salvaguardia dei monumenti storici del Paese. Se da un lato il restauro ha svolto un ruolo essenziale per la conservazione del patrimonio minacciato, dall’altro ha contribuito alla diffusione di una strisciante diffidenza nei confronti del progetto di architettura, considerato sovente quale causa prima delle dannose trasformazioni. Le perplessità scaturiscono da uno dei punti fondamentali del progetto architettonico: la soggettività del riconoscimento di valore agli oggetti del passato. Questa variabilità, derivante dal rapporto dialettico tra il progettista, il suo universo culturale di riferimento e la materia esistente, non sempre garantisce alle esigenze di conservazione la priorità rispetto a quelle della trasformazione. D’altro canto, al di là della salvaguardia di oggetti propriamente storici – il cui status di inalterabilità costituisce, nel bene e nel male, un limite necessario – si è spesso manifestata la tendenza a preservare l’esistente anche in assenza di un suo preciso valore culturale; a dimostrazione di questo basti ripercorrere i recenti fatti di cronaca relativi ad iniziative lanciate per salvare dalla demolizione frammenti di città moderna indicati sino a ieri come pure e semplici brutture.1 Al di là di questi casi particolari, quando la materia su cui si interviene si situa in quella zona intermedia tra i monumenti storici universalmente riconosciuti ed il costruito generico privo di interesse, le potenzialità del progetto contemporaneo appaiono sotto molti aspetti maggiori rispetto alla pratica del restauro. Chi opera sul costruito dispone di una serie di strumenti specifici che, ben oltre il progetto di restauro, possono rendere i risultati particolarmente interessanti. La fruizione di questi spazi trasformati è ormai esperienza del quotidiano; sappiamo pertanto quanto possano essere diversi gli esiti di queste operazioni: brillanti riconversioni che sfruttano egregiamente le potenzialità di un manufatto preesistente, così come scellerate manomissioni che sfigurano gli oggetti in maniera paragonabile al vandalismo. Osservando le profonde differenze nella qualità degli interventi si comprende come la questione del rapporto con l’esistente sembri richiedere una disamina di taglio etico piuttosto che metodologico, nell’intento di delineare quale sia la responsabilità del progettista chiamato a trasformare il patrimonio architettonico. Le numerose opere di 130

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recente realizzazione in Italia rappresentano testimonianza di molteplici atteggiamenti nei confronti della materia preesistente, sia essa storica o contemporanea, integra o diruta; nel raffrontarsi con questi oggetti, ciascun progettista esplicita la propria comprensione di quanto si trova davanti, l’immagine culturale che le testimonianze di un’epoca precedente – qualsiasi essa sia – producono attraverso i filtri del suo personale universo di riferimento. L’intrinseca soggettività dell’attribuzione di valore che caratterizza il progetto architettonico rappresenta un’importante alternativa ai principi metodologici fondanti del restauro, meno orientato alla formulazione di una considerazione critica dell’esistente. In conseguenza di questa profonda differenza ideologica, progetto architettonico e restauro hanno percorso a lungo strade separate, dando vita ad un fertile dibattito disciplinare: grazie a questa dialettica entrambi hanno acquisito maggiore consapevolezza rispetto ai propri strumenti operativi; l’effetto più evidente, tuttavia, è lo scisma oggi esistente tra le due discipline, lontane tra loro come in nessun’altra situazione culturale, i cui esigui punti di contatto vengono frequentemente considerati radicalismi piuttosto che ricerca di una mediazione. Una delle più significative influenze del restauro sulla pratica del progetto consiste nella possibilità di adottare una metodologia di indagine preliminare che consente all’opera architettonica di acquisire una diversa coerenza, circostanziata dai fatti storici; non sempre però il tentativo di incorporare i procedimenti di analisi storica nel progetto di architettura ha sortito effetti positivi. Il progettista che conduce un’indagine preliminare delle condizioni del luogo può senz’altro vantare una conoscenza approfondita dello stato di fatto; la vera abilità consiste però nel saper misurare la propria distanza critica rispetto a queste conoscenze, che rischiano altrimenti di divenire un vincolo inestricabile, lesivo delle potenzialità intrinseche del progetto contemporaneo. Francesco Venezia esprime in maniera tranciante la sua scarsa fiducia nelle indagini operate dai progettisti: «Ho spesso visto tavole e tavole di analisi territoriale, urbana, morfologica, tipologica, partorire un progetto banale. Lo stesso per le indagini storiche, che servono soltanto a tranquillizzare qualche funzionario incapace di giudizio»2. Analogamente Vittorio Gregotti: «Soprattutto si tratta di mettere da parte ogni illusione deduttiva, di chi pensa cioè che il progetto possa essere dettato dalla sola lettura, anche la più approfondita, delle condizioni e del contesto considerato»3. Discretamente, i progettisti reclamano l’autonomia della loro disciplina, mettendo in discussione il dogma del restauro quale unico possibile intervento sulla materia storica. Non si tratta tuttavia di invocare la liberazione dalla storia: piuttosto, di limitarne il ruolo di imprescindibile strumento di pre131

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comprensione della realtà. La tendenza alla conservazione oltranzista trova la propria giustificazione proprio in questo assunto, che non può che condurre ad una stasi, «[…] pericolo cioè di una apoteosi della conservazione in sé, che si tradurrebbe in un annullamento del soggetto per l’idolatria dell’oggetto»4. La possibilità di dialogo tra le due discipline non è questione semplice, né tanto meno sembra sussistere al riguardo una fiducia diffusa: alcuni autori sostengono che conservazione, restauro e progetto di architettura hanno ormai raggiunto un grado di autonomia tale da renderne improponibile la riconciliazione, che non può avvenire se non su base conflittuale nel momento del confronto sull’oggetto materiale; la distanza tra queste specializzazioni, destinata a crescere, deve anzi essere sostenuta dalla differenziazione nella formazione delle diverse figure professionali5. Si tratterebbe in sostanza di attuare anche nella conservazione e nel restauro quella convergenza disciplinare che caratterizza già da tempo il progetto architettonico, sviluppato, sotto il controllo centrale dell’architetto, da un vasto numero di specialisti di settore. È plausibile che un aggiornamento secondo nuovi modelli professionali della pratica del restauro possa giovare ad una sua reintegrazione con il progetto architettonico; altrettanto vero è l’influsso potenzialmente benefico che questa condivisione può avere sul progetto sull’esistente. Quel che in questa sede ci preme sottolineare è tuttavia la necessità di garantire a quest’ultima disciplina un grado di autonomia sufficiente a svincolarla dalla storia assoluta, poiché non è attraverso questa che può nascere un’architettura che sia pienamente espressione del momento attuale: essa sarà sempre ripiegata sul passato, subordinata alla cogenza dei fatti, mortificata nelle sue capacità innovatrici. Edoardo Benvenuto e Roberto Masiero formulano una sorta di manifesto di questa necessità di autonomia: La storia non potrà più essere strumento di individuazione o peggio ancora veicolo della verità, né, tanto meno, strumento di identificazione dell’ente. La storia potrà essere solo una sorta di experimentum cogitationis. Sarà allora necessario conservarne gli oggetti non in nome di valori, o della identità sociale, che è poi lo stesso, o della variante economicistica presente nella parola “patrimonio”, ma in nome della necessità che il pensiero in essa si alimenti provando e riprovando se stesso, cioè conoscendo.6

In numerose occasioni, l’architettura italiana ha saputo mantenere solidamente l’autonomia rispetto al predominio concettuale e metodologico del restauro. Lo sviluppo della disciplina nel ventesimo secolo ha avuto nella dialettica con l’antico una delle sue ragioni principali, alla radice di quella sostan132

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ziale diversità rispetto agli eventi internazionali che la storiografia contemporanea vi individua. La pratica dell’intervento sull’esistente, nelle sue diverse ramificazioni, ricade tra gli ambiti nei quali la l’Italia ha saputo proporre i contributi più originali: i nuovi interventi possono letteralmente riportare in vita gli antichi edifici; ciò avviene in virtù delle capacità prometeiche del progetto contemporaneo, non esclusivamente a seguito della rigorosa conservazione dei monumenti.

La via italiana alla trasformazione Esiste dunque una via italiana alla trasformazione dell’esistente: le sue origini vanno ricercate nella matrice profonda della nostra cultura architettonica. L’Italia è un paese antico, densamente stratificato: non a caso Sigmund Freud scelse di utilizzare la metafora dei livelli archeologici di Roma per rappresentare la profondità della psiche umana. Quest’intreccio inestricabile è la caratteristica più rappresentativa del costruito storico italiano, nel quale riusi, adattamenti e trasformazioni delle architetture hanno costantemente prevalso rispetto al loro abbandono. Solo occasionalmente gli oggetti antichi sono divenuti reperti archeologici: ciò è avvenuto a seguito di eventi catastrofici, distruzioni per mano dell’uomo o della natura; in assenza di questi momenti critici, le architetture hanno continuato a essere usate, assumendo più o meno spontaneamente la fisionomia dei processi vitali che si svolgevano al loro interno. Non infrequentemente quello che oggi conosciamo come rovina archeologica è stato recuperato a tale stato da un intervento deliberato di musealizzazione: valga su tutti l’esempio dell’Augusteo romano, artificialmente reintegrato al mondo dell’antico nel corso delle trasformazioni urbane di Mussolini. Nonostante la materia antica abbia continuato a essere utilizzata nel tempo, solo raramente essa è pervenuta a noi nel suo stato originario, o quantomeno integro: quasi sempre si tratta di frammenti, prodotti dalle innumerevoli trasformazioni subite per i successivi adattamenti a funzioni diverse, per le parziali distruzioni o crolli, o ancora per le opere di restauro che a partire dall’epoca moderna hanno riportato, secondo differenti strategie, le costruzioni antiche ad una più ‘dignitosa’ esistenza contemporanea. Chi nel ventesimo secolo si è trovato ad intervenire sull’esistente ha dovuto quindi quasi sempre dipanare il lungo filo storico di ciascuna opera nel tentativo di comprenderne il destino. La persistenza di questa condizione nel tempo ha indotto la formazione di una specifica sensibilità verso la materia storica, riconosciuta diffusamente e 133

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senza grandi riserve, tacita costante della cultura architettonica italiana. L’evidenza che l’opera progettuale non parte sempre dalla tabula rasa, ma si costituisce anzi spesso come atto trasformativo di una realtà antropizzata preesistente appartiene alla radice profonda dell’architettura italiana. L’antico è parte integrante e sovente predominante del panorama umano del paese; l’orizzonte di riferimento culturale di chi lo abita non può che assimilarlo quale elemento connaturato – se non addirittura consustanziale – del mondo circostante. Un effetto collaterale ma quanto mai significativo di questa consuetudine rispetto all’antico è l’assenza di modelli teorici specifici formulati per il progetto architettonico sull’esistente. La sensibilità per le qualità della materia storica che caratterizza l’operato dei migliori autori italiani consente loro di affrontare le preesistenze quali oggetti viventi, piuttosto che come reperti archeologici da esaminare con la sistematicità filologica dell’indagine storica. Predominante è dunque l’approccio del caso per caso, la cui validità intrinseca risiede proprio nell’adattabilità delle scelte progettuali rispetto alla variabilità delle preesistenze. Se quest’attitudine dovesse venire riassunta in un singolo termine, non potrebbe che trattarsi della continuità teorizzata da Ernesto Rogers, concetto che implica identità e differenza, variazione nel tempo occasionata da spostamenti piuttosto che da fratture. La continuità dell’architettura italiana rispetto al suo passato, sia esso recente o remoto, trae la sua origine proprio nel modo in cui l’antico entra a far parte in maniera strutturante della cultura: non cum mortuis in lingua mortua, bensì scheletro di un organismo vivente, non immediatamente percepibile dall’esterno eppure essenziale nel determinarne la morfologia. Quel che Reyner Banham non comprese nel formulare il suo verdetto di morte dell’architettura moderna italiana fu proprio che si stava assistendo ad un momento di presa di coscienza di questa continuità. L’assenza di un modello teorico dominante nella pratica della trasformazione non significa tuttavia che le realizzazioni non siano informate da alcuni elementi comuni. La profonda influenza esercitata dall’elemento storico sulla formazione degli architetti italiani detta senz’altro un rispetto generalizzato per la materia antica; le occasioni nelle quali si è verificata una vera e propria opposizione tra moderno e antico sono relativamente poche. La tendenza prevalente risulta comunque quella di attribuire alla preesistenza un ruolo fondante nel nuovo intervento, assumendola come principio guida o anche materiale di progetto. Ciò non implica un asservimento del nuovo alle ragioni dell’antico, bensì la costituzione di un delicato equilibrio che dia autonomia al progetto senza interferire pesantemente con la preesistenza; quest’equilibrio è stato di volta in volta individuato attraverso una molteplicità di strategie tra loro ampiamente diversificate. 134

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Un ulteriore fattore di identità della via italiana risiede nella prevalenza di talune strategie progettuali rispetto alla più ampia casistica sinora individuata. Fra tutti gli aspetti critici dell’architettura quello linguistico assume nella pratica della trasformazione un ruolo dominante; il confronto tra nuovo e antico si svolge quasi obbligatoriamente su questo piano, relegando allo sfondo le questioni costruttive e fenomenologiche. Questa tendenza, peraltro intrinseca alla cultura architettonica italiana, riduce lo spettro delle soluzioni, costituendo una cifra di riconoscibilità. La predominanza delle questioni linguistiche non implica tuttavia la limitazione delle proposte, poiché dal confronto tra diversi linguaggi possono scaturire innumerevoli ed inaspettati esiti. A fronte di questa corrente principale alcune significative eccezioni testimoniano della profondità della riflessione condotta dagli autori italiani sul rapporto con gli oggetti del passato. Tra identità culturale e differenze dettate dalle poetiche degli autori, la pratica di trasformazione dell’esistente ha dato un contributo fondamentale alla costruzione dell’architettura italiana moderna. Nelle pagine che seguono esamineremo alcuni punti significativi di questa vicenda, tentando di enucleare i diversi modi attraverso i quali essa ha acquisito il suo senso profondo.

La messa in scena dell’antico Una delle più rilevanti modalità tramite le quali gli architetti italiani sono intervenuti sull’esistente consiste nella orchestrazione dei reperti, che vengono inseriti in una vera e propria costruzione scenica. Non si tratta evidentemente di operazioni mimetiche di anastilosi, poiché gli oggetti del passato vengono radicalmente risignificati, in parziale analogia a quanto avveniva anticamente nelle costruzioni che facevano uso di materiali di spoglio. L’aspetto ricorrente di questa modalità di intervento risiede nella centralità attribuita all’esistente, disponibile in genere sotto forma di rovina. Il compito dell’architetto è dunque quello di restituire al frammento archeologico l’integrità costitutiva che ne consente l’esperienza da parte dell’osservatore; se da un lato sussiste un’analogia di intenti con il restauro, dall’altro nel processo di ricostruzione la cornice entro la quale vengono inseriti i reperti tende ad assumere una netta autonomia formale e linguistica. Tra gli esempi più rilevanti di questo approccio è la ricostruzione del Carlo Felice di Genova: l’intervento di Aldo Rossi e Ignazio Gardella sui resti del Teatro del Barabino, gravemente danneggiato nel corso dei bombardamenti bellici, rappresenta in maniera esemplare quale grado di complessità possa assume135

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Figg. 1, 2 Aldo Rossi e Ignazio Gardella. Ricostruzione del Teatro Carlo Felice, Genova (1990). Vista dell’edificio originale (XVIII secolo) e prospettiva di progetto

re l’operare sulla materia esistente in un centro storico sedimentato (Figg. 1-5)7. Al momento del concorso bandito nel 1981, rispetto alla condizione postbellica lo stato dei luoghi è già notevolmente variato, sia a seguito di vari interventi di consolidamento, sia al succedersi di progetti per la trasformazione dei resti, in particolare quello redatto da Scarpa nel 1969 ma mai condotto a termine. Il manufatto preesistente contiene dunque più della sua sola consistenza materiale: la stratificazione di vicende architettoniche che lo hanno interessato vengono incluse dagli architetti in un ideale svolgimento storico di cui anche l’imminente trasformazione rappresenta solo una tappa. La riflessione condotta dai progettisti si sposta poi oltre i limiti del singolo manufatto, alla ricerca di un’identità specifica per un teatro genovese, che non sia informata solamente dal modello precedente, ma possa dare conto di un senso di contemporaneità che la città – in quanto grande centro europeo – non può fare a meno di possedere. Rossi sembra dunque intraprendere un’ideale promenade lungo i vicoli del centro storico, raccogliendo immagini caratteristiche dell’edilizia aristocratica come di quella popolare, ricucendole infine in un oggetto unitario di importanza centrale nel tessuto urbano. Nel raccogliere questi numerosi frammenti di passato – mescolando indifferentemente la fisicità delle rovine con la stratificazione teorica dei progetti non eseguiti – Rossi giunge ad una configurazione del tutto peculiare. Si tratta quasi di un repertorio archeologico di immagini, ritrovate nel corso dell’operazione di scavo ad ampio raggio che ha interessato il passato del Teatro e della città intera, sino ad includere l’intera cultura urbana europea. L’obiettivo dell’operazione di collage non è però di carattere populista, inteso come assemblaggio del tutto velleitario di viste di Genova a uso e consumo dei suoi abitanti, al fine di rendere più accettabile una nuova e ingombrante presenza urbana. La suggestione della necessità di creare un’immagine di 136

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Fig. 3 Aldo Rossi e Ignazio Gardella. Ricostruzione del Teatro Carlo Felice, Genova (1990). Vista della torre scenica dalle strade del centro storico Figg. 4, 5 Prospetto sud e plastico

città-capitale evoca il trascorso storico eccellente della Berlino schinkeliana, non a caso più volte citata nei disegni presentati al concorso, nella tecnica grafica della prospettiva d’angolo, così come nella riproduzione della stessa prospettiva nella scena del teatro vista in sezione. Il riferimento a Schinkel entra in quest’opera sotto una duplice veste. Da un lato esso può essere inteso come basso continuo della storia architettonica europea, espressione di un razionalismo costitutivo al quale Rossi fa sovente riferimento nei suoi scritti teorici e nelle sue opere. Dall’altro, l’influenza dell’architetto tedesco può aiutare la comprensione dell’elemento più enigmatico del Carlo Felice, la grande torre scenica che sovrasta l’intero complesso, andando ad insediarsi di forza nello profilo della città storica. Si tratta di un espediente di stampo pittoresco, dettato dall’intento di formare la veduta del centro cittadino attraverso la scansione di volumi nettamente separati. La concezione urbana di Schinkel, in parte derivante dalla sua esperienza come pittore vedutista, è fortemente determinata da questo dialogo tra i grandi oggetti primari-monumenti, articolati come geometrie pure tendenzialmente isolate nello spazio ed il tessuto connettivo costituito prevalentemente da assi stradali, viali alberati, piazze, porticati ecc.8 137

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La Berlino di Schinkel è città progettata; la Genova sulla quale interviene Rossi è invece risultato della stratificazione storica. Precipitando una riflessione su queste modalità di costruzione dello spazio urbano nell’ambito di un centro storico, Rossi sta operando dialetticamente sulla percezione tradizionale della città, sovrapponendo un oggetto che per la sua origine storica richiederebbe una fascia di riguardo su un tessuto che non ne consente, se non episodicamente, una chiara e univoca comprensione. In altre parole, la qualità dominante del paesaggio urbano preesistente viene modificata dal palinsesto di una logica progettuale ad essa estranea. Solo così risulta possibile comprendere la necessità di raddoppiare il volume della torre rispetto a quanto sarebbe necessario per la realizzazione dei soli macchinari di scena: non è da escludersi che gli ambienti collocati al di sopra del palcoscenico avrebbero potuto trovare una consona sistemazione anche altrove. Il più ampio livello di interazione con la situazione preesistente prende dunque in considerazione la dimensione urbana, orientandosi verso una dialettica morfologica. Scendendo di scala, il confronto con quanto presente in situ si radica in senso più strettamente linguistico, data la necessità di inglobare nel nuovo edificio il pronao dell’antico teatro e stabilire un efficace collegamento con il porticato ad esso adiacente. La peculiare conformazione originaria dell’edificio preesistente, caratterizzato dai due sistemi di fronte disposti ad angolo retto, viene mantenuta. L’articolazione del nuovo fronte di ingresso è chiaramente mirata a ripristinare il carattere dell’antico teatro; persino la selezione di materiali, tecniche costruttive e cromatismi esplicita l’intenzione di operare secondo un criterio indicativamente mimetico, nonostante la riduzione dell’apparato decorativo. Rispetto all’alterità introdotta dalla torre scenica, la ricostruzione della piazza sul fianco del Carlo Felice si configura dunque come operazione interpretativa, secondo un principio non del tutto dissimile rispetto al restauro stilistico ottocentesco. In parte, questa pronunciata attenzione nei confronti dei caratteri formali riconoscibilmente genovesi incide anche sulla figurazione della torre scenica, della quale si è precedentemente osservata la particolare origine architettonica. In diversi scritti Rossi insiste sulla natura di fabbrica di tale volume, alludendo all’attività di produzione teatrale che si svolge al suo interno. Seguendo questo criterio, le facciate della torre vengono suddivise in fasce orizzontali (rispondenti al cambiamento delle funzioni in altezza) separate da marcapiani e contraddistinte da rivestimenti rispettivamente in pietra e intonaco, coronate da un ampio cornicione modanato. La distribuzione delle aperture sulla torre risulta in prima analisi enigmati138

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ca. La scelta dei progettisti potrebbe essere orientata verso la connotazione industriale, ad avallare quel carattere meccanico ascrivibile all’idea di fabbrica teatrale. Ad un’analisi più accorta diviene però evidente che le aperture alludono ad un tipo residenziale: diversi edifici per abitazioni nel centro cittadino genovese, infatti, mostrano lo stesso rapporto dimensionale tra facciata e finestre, la distribuzione assiale, nonché la notevole distanza dell’ultima apertura rispetto all’angolo, proprio come nella torre del Carlo Felice. Operando dunque uno sfalsamento semantico – espediente che caratterizza molta della sua produzione – Aldo Rossi assegna alla torre una figurazione volutamente impropria, ovvero derivante da un palinsesto linguistico. Il contrasto di natura morfologica rispetto al paesaggio urbano viene pertanto parzialmente ridotto, iscrivendo le facciate con un grafismo sicuramente riconducibile al più consueto panorama – o memoria collettiva – degli abitanti di Genova. L’intervento si dipana dunque lungo due differenti registri metodologici: da un lato costituendosi come opera di ricucitura di una situazione urbana frammentata dagli eventi storici, dall’altro interferendo dialetticamente con il tessuto costruito. Questi due livelli non rimangono però isolati, venendo continuamente sovrapposti e resi meno chiaramente discernibili. Al variare del grado di fisicità delle preesistenze – dalle rovine materiali sino al più intangibile concetto di paesaggio urbano – i progettisti sembrano assumere rispetto ad esse posizioni più o meno distanti, senza un intento programmatico che ne unifichi le modalità di intervento. Quanto dell’inscenazione del Carlo Felice sia dovuto alla sua destinazione d’uso e quanto sia invece derivato dalla poetica degli autori è un interrogativo cui difficilmente si può dare risposta. È dunque forse solo una coincidenza che un altro progetto di ricostruzione di un teatro, questa volta romano, abbia con l’esempio genovese più di un punto di contatto. Il nuovo Teatro Romano di Sagunto di Giorgio Grassi, prima ancora che opera d’architettura, è manifesto di una particolare teoria del progetto, di una capacità profonda quanto radicalmente soggettiva di leggere la tracce del passato e di mettersi in relazione con esse (Figg. 6-10)9. Nel corso della sua carriera Grassi si è imbattuto numerose volte in preesistenze archeologiche e storiche rispetto alle quali ha messo a punto una singolare metodologia di intervento; di questa linea critica Sagunto è probabilmente l’espressione più significativa. I reperti archeologici del teatro, già pesantemente modificati a seguito di numerose operazioni di scavo, consolidamento e parziale ricostruzione, non consentivano più, a detta dei progettisti, la riconoscibilità del manufatto, la cui immagine tipica era stata alterata. Non si tratta semplicemente di un sito archeo139

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Figg. 6, 7 Giorgio Grassi. Ricostruzione del Teatro Romano di Sagunto (1993). Vista del complesso dall’abitato e dalla rocca Fig. 8 Pianta alla quota del palcoscenico

logico, bensì di una rovina artificiale, determinata dalla consistenza propria dei resti antichi tanto quanto dagli interventi successivi. Oltre alle necessarie opere di consolidamento, la strategia progettuale si orienta dunque verso una parziale ricostruzione, al fine di garantire la possibilità di lettura unitaria dell’edificio. Il risultato finale vuole essere quello di ricostituire i caratteri originari dello spazio architettonico del teatro, condizione indispensabile anche per la sua rifunzionalizzazione. Questa dichiarazione programmatica di Grassi colloca dunque l’opera di ricostruzione in un ambito disciplinare solidamente definito dagli strumenti del progetto di restauro: il concetto di valori spaziali è analogo alla teoria brandiana del completamento di immagine, condizione necessaria per prolungare nel tempo presente la vita estetica dell’oggetto antico. Il teatro diruto è equiparabile ad un affresco lacunoso, nel quale la mancata completezza inibisce il manifestarsi coerente dell’opera d’arte. A questo fine, unitarietà ed autenticità sono termini che, nel costrutto intellettuale di Grassi, appaiono pressoché interscambiabili. Da essi discende la coerenza del linguaggio architettonico adottato: la 140

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Fig. 9 Lo scenafronte utilizzato come antiquarium Fig. 10 Sezioni sul teatro

sintesi dei valori spaziali può derivare esclusivamente dal rispetto della traccia esistente10, assunta sotto tutti gli aspetti come principio regolatore; la memoria del tipo architettonico originario – sia esso il castello, il teatro o altro – deve impostare la figurazione del nuovo oggetto, rendendo palese l’autenticità del rapporto con il soggetto. Il nuovo Teatro saguntino nasce dunque lungo il filo di questa sottile dialettica. Da un lato permane la consistenza materiale delle rovine, riconoscibili e propriamente antiche; dall’altro emerge alla luce del sole la nuova fabbrica, efficiente macchina teatrale adatta all’uso contemporaneo ma improntata ad una sobria economia dei mezzi espressivi, chiamati a mettere in opera l’idea del teatro romano. L’elemento più eclatante del progetto, il grandissimo scenafronte, riassume sinteticamente queste istanze. L’ampia volumetria spicca nel profilo della cittadina valenciana, a metà costa del pendio coronato dal castello; la presenza quasi segnaletica dell’edificio ne consente l’integrazione entro il paesaggio urbano. L’altezza del fabbricato corrisponde alla grande cavea, scelta che riconduce l’invaso interno alla regolarità, benché i due fronti laterali non vengano ripristinati nella loro interezza. Dalle gradinate che ospitano gli spettatori, la dimensione della scena è sorprendente, ben più pronunciata rispetto all’impianto originario e profondissima. Proprio a partire da questo fuori misura l’impianto scenico di Sagunto concentra in sé altri significati, ben più estesi rispetto alla sola necessità tecnica. Sul fondo della scena Grassi allestisce un vero e proprio antiquarium, disponendovi numerosi reperti provenienti dal piccolo museo archeologico demolito per fare spazio al nuovo teatro. Il proscenio ospita frammenti di colonne ricomposti, accompagnati da segmenti di nuova muratura lasciati intenzionalmente incompleti, quasi a mimare la frammentarietà dei reperti antichi. La galleria 141

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posta sul registro superiore esplica una duplice funzione espositiva, raccogliendo mosaici e marmi sulla muratura e consentendo l’osservazione della cavea da una posizione rialzata. La scelta di decorare il nuovo impianto scenico con i reperti archeologici, per quanto arbitraria, evoca efficacemente la storia passata del luogo e la sua inestricabile stratificazione, testimoniata dall’atto solo apparentemente illogico dello spoglio: i frammenti antichi sembrano voler ancorare l’edificio alla preesistenza su cui insiste. Il lato verso la città è a sua volta più di uno scenafronte, poiché la sua immagine rivolta all’esterno allude a molteplici altri oggetti: porte urbane, cinte murarie, fortificazioni. La sua caratterizzazione sembra derivare dal castello sovrastante, di cui potrebbe essere un bastione. Le tecniche costruttive adottate si riferiscono alle strutture archeologiche: cortina muraria, pareti a sacco, articolazioni di irrigidimento ecc. La parte centrale della cavea viene rivestita con lastre di pietra, ripristinandone la funzionalità; al contempo il contrasto marcato rispetto alla costruzione originaria vuole sottolineare il rapporto dialettico tra la materia antica e l’aggiunta. Il linguaggio di Grassi si ispira ad una romanità genericamente intesa, come a rigenerare sul piano della figurazione il teatro come cosa viva, analogamente all’aggiunta del corpo scenico. Complessivamente il nuovo teatro non produce una figurazione precisa, inequivocabilmente riconducibile al tipo. Come se in itinere il tema fosse mutato, il nuovo intervento diviene meno propenso alla restituzione filologica dei dati spaziali di quanto la dichiarazione programmatica non volesse dare a intendere, arricchendosi di citazioni astratte: la ricostruzione diventa sovrapposizione o palinsesto. Se da un lato l’ortodossia metodologica del restauro rimane lettera morta, dall’altro si rinforza il potere evocativo dell’opera. Il Teatro di Sagunto, efficace nella restituzione dell’oggetto-teatro, tradisce proprio nel rapporto con la preesistenza una profonda ambiguità. Per quanto Grassi invochi l’istanza di autenticità, lo scarto semantico indotto dalle scelte linguistiche e figurative appare più forte della coerenza filologica. In questa come in altre opere l’architetto sembra ritornare all’immagine archetipica del castello, una Urform persistente le cui declinazioni configurano di volta in volta i suoi progetti. La sostituzione di un significato per l’altro, o anche l’inserimento arbitrario di frammenti provenienti da altre ramificazioni del proprio percorso culturale non diminuiscono necessariamente la qualità dell’opera; semmai appaiono poco adeguate se alla base della poetica dell’autore viene posto un principio di corretta caratterizzazione. La nuova rovina artificiale inventata da Grassi trae il proprio fascino esattamente da queste contraddizioni, a dispetto dei numerosi scritti che egli vi accompagna: la rêverie del progetto architetto142

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nico produce in questo caso un risultato senz’altro più ricco della scientificità del restauro conservativo. Al riguardo non appare fuori luogo riportare alcune frasi di Aldo Rossi che sembrano descrivere la forza evocativa del teatro di Sagunto, effetto sicuramente più delle sue qualità metafisiche che non della precisione filologica della ricostruzione: Così era ogni teatro fermo alla descrizione di Raymond Roussel che aveva spezzato ogni immagine riferendosi ad un teatro che c’era da sempre, che sorgeva in un luogo come dovunque ma dove il distintivo maggiore era la scrittura TEATRO. La scrittura era l’emblema e il suggello finale e come ogni teatro si calava nella situazione. Come i disegni dei bambini dove la scrittura TEATRO, MUNICIPIO, CASA, SCUOLA è la definizione e il rimando all’edificio autentico che non può essere disegnato. Essa rimanda all’esperienza di ognuno. L’architettura deve caratterizzarsi poco, quel tanto che serva alla fantasia o all’azione […].11

Analogamente al Carlo Felice, il teatro di Sagunto propone un’interpretazione del linguaggio storico, incentrando la relazione tra antico e nuovo su un piano prevalentemente semantico. Un’ulteriore opera di inscenazione dell’antico, il Museo del Palazzo Di Lorenzo di Francesco Venezia12, a differenza di questa trova il proprio fondamento intellettuale in un ambito più rarefatto, non legato all’ermeneutica dei segni della storia (Figg. 11-17). Le opere dell’architetto napoletano a Gibellina sono singolari oggetti che mettono alla prova l’idea stessa di tempo, quasi a volerne verificare la resilizienza in condizioni limite. Lo spoglio, particolare ed estrema modalità di operazione sull’esistente alla base degli interventi, viene utilizzato per scardinare la linearità cronologica dello sviluppo storico, deformandola secondo un modello teorico assimilabile ad una trasfigurazione surrealista. Fig. 11 Francesco Venezia. Museo del Palazzo Di Lorenzo, Gibellina (1984). Schizzo di progetto con l’inserimento dei frammenti della facciata nel nuovo organismo

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Fig. 12 Francesco Venezia. Museo del Palazzo Di Lorenzo, Gibellina (1984). Pianta parziale e prospetti della “strada interna” Fig. 13 Vista dell’esterno del Museo

Gibellina vecchia, devastata dal sisma, viene ricostruita a venti chilometri di distanza dal sito originario; il nuovo insediamento, agglomerato amorfo di edifici nati sotto l’insegna dell’emergenza, accoglie al suo margine le spoglie del Palazzo Di Lorenzo, asportate dalla cava artificiale del rudere e ripristinate dall’architetto in un complesso meccanismo architettonico, destinato anche ad accogliere una parte delle collezioni d’arte comunali. Il guscio esterno dell’edificio si scherma rispetto al mondo circostante, proteggendo il suo prezioso contenuto entro una enigmatica fortezza visiva. La perentorietà di questa chiusura denota l’esigenza di creare un distacco netto, inequivocabile, in grado di collocare il museo in una dimensione intermedia fra la realtà materiale delle cose ed un universo metafisico separato rispetto a questa. L’impenetrabilità del museo-fortezza viene appena scalfita per consentire l’accesso attraverso un percorso labirintico fra i setti murari. Una volta entrato, il visitatore è costretto lungo un percorso obbligato che lo porta ad attraversare i luoghi del museo secondo una sequenza prestabilita, lungo rampe e passaggi angusti, variazioni altimetriche ed improvvise aperture sugli spazi interni o sul paesaggio. L’univocità di questo movimento determina il carattere meccanico dell’edificio, del quale l’osservatore costituisce l’ingranaggio attivante. La strada-corte interna al museo si propone come ambito centrale intorno al quale ruota letteralmente il movimento dei visitatori. In questo spazio accuratamente proporzionato Venezia incastona i frammenti della facciata dell’antico Palazzo Di Lorenzo, restituendo questa entro un sistema morfologico analogo a 144

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Figg. 14, 15, 16, 17 Sequenza dell’attraversamento dall’ingresso del Museo sino al “riposo”

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quello della strada cittadina per la quale era stata progettata. Il cortile stretto e lungo impone la vista di scorcio della facciata, eliminandone la frontalità; la rampa sul lato opposto simula la condizione di chi osservava il Palazzo dalle finestre ad esso antistanti. I ricorsi in arenaria, alternativamente lisci e bocciardati, realizzano un fondo astratto per i frammenti architettonici. L’itinerario prosegue, una volta giunti al culmine della rampa, attraverso un camminamento sospeso, contenuto entro il corpo cilindrico estroflesso sul prospetto, unica traccia leggibile dall’esterno della complessità del meccanismo, altrimenti nitidamente concluso entro il guscio-fortezza. Al termine del camminamento si è all’interno del Palazzo Di Lorenzo, o piuttosto della sua riproduzione quale protesi della facciata ricostruita; la ricostruzione è però solamente metaforica, poiché lo spazio interno è stato trasformato in un unico ambiente, una manica lunga scandita dalle finestrature – indifferentemente antiche o contemporanee – disposte su entrambi i lati. La galleria espositiva culmina nell’ambiente detto Riposo, suggestivo quanto lirico omaggio al sole mediterraneo ricavato dallo sdoppiamento della parete perimetrale. Da qui il visitatore viene gentilmente ricondotto, attraverso l’ineluttabile movimento dello spazio architettonico, verso l’esterno dell’edificio. Il progetto di Francesco Venezia costruisce un complesso racconto architettonico, indirizzato ad una fruizione spiccatamente cognitiva dell’oggetto: persino il Riposo, con il suo ordine fenomenologico di macchina solare e la fresca ombra che contrasta con la strada-corte infuocata si rivela nel suo significato evocativo, quasi traccia mnestica degli spazi conclusi che si annidano nei tessuti urbani tradizionali. Il visitatore, inserito in un’ideale macchina del tempo, viene trasportato in un simulacro dell’antica Gibellina, della quale può riconoscere i frammenti. I passi di questo attraversamento vengono attentamente calibrati dall’architetto, il quale non lascia nulla al caso: le pietre del palazzo vengono collocate secondo un criterio di precisione che non lascia aperte strade per interpretazioni alternative, processo assicurato dall’invariabilità del moto di attraversamento dell’edificio. In quest’ottica l’architettura di spoglio del Museo di Gibellina rappresenta un’anomalia. Nell’antichità il riutilizzo di frammenti architettonici implicava quasi immancabilmente una loro risignificazione: laddove presente, la corrispondenza tettonica-figurazione cedeva il passo a più libere associazioni. Anche nell’architettura moderna la costruzione di spoglio dà luogo ad un atto di logomanzia: ricollocando in opera gli oggetti l’artefice assegna loro una posizione nel nuovo sistema semantico, non sempre omologa a quella da cui il frammento proviene. Le architetture di spoglio di autori quali Carlo Scarpa o 146

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Dimitris Pikionis rivestono esattamente questo carattere; lo stesso Venezia, nel giardino a Gibellina, sembra perseguire questa strada. I lacerti di facciata del Palazzo Di Lorenzo non vengono risignificati, piuttosto ricomposti secondo la loro originaria ragione costitutiva, non diversamente da quanto avviene con i frammenti archeologici nella pratica dell’allestimento museale, dove l’incompletezza viene espressa attraverso vuoti o riempimenti neutri: il carattere marcatamente asemantico dell’intero meccanismo architettonico allude precisamente a questo. È però altrettanto evidente che l’intento progettuale non si limita alla ragione filologica del restituire la facciata ad una condizione assimilabile alla sua connotazione originaria. Il brano di realtà simulata dalla misurata ricostruzione del Palazzo Di Lorenzo serve come punto di partenza per una “manipolazione surreale del reale”. Pur nell’incontestabilità della sua precisione sintattica, la facciata del palazzo partecipa della sospensione metafisica nella quale l’architetto decide di sollevare il museo. La fissità dell’immagine, estrapolata dal trambusto del centro urbano e ricollocata nel silenzio astratto del museo, rappresenta un dispositivo di narrazione estraniante. La logomanzia dell’architettura di spoglio si trasforma nella logotetia surrealista tra l’oggetto reale ed il suo significato trasposto. La manipolazione del reale non va intesa però come occultamento della verità, bensì come arricchimento della sua cognizione per vie che eludono i sensi. Dalla sua nuova posizione entro la macchina del tempo, non più annegato nella vischiosità del mondo reale, il Palazzo Di Lorenzo assume una nuova chiarezza, una luminosità quasi allucinatoria. Il sollevarsi o emergere di questo dettaglio dal piano della consueta percezione equivale a quell’eccessiva evidenza di taluni elementi che Freud riscontrava nei ricordi dei suoi pazienti, la Überdeutlichkeit che cela ma al contempo tradisce un significato nascosto13. Le pietre di spoglio nel progetto di Francesco Venezia sono quindi un indizio artatamente disposto per attivare la narrazione asincrona, aliena rispetto al regolare scorrere del tempo. Nel loro percorso i visitatori muovono le leve del macchinario; le pietre lo rendono significante, testimoniando della imperscrutabile discontinuità degli eventi e della presenza umana. Dallo stato materiale le antiche pietre vengono trasfigurate in una condizione rarefatta, una narrazione poetica e squisitamente intellettuale che mette a nudo un diverso intendimento del procedere storico nonché della materia architettonica del passato. Non si tratta di un’esposizione di fatti ed eventi secondo il rigore della cronaca ufficiale: è una di quelle narrazioni che, come sostiene il Cidrolin di Les fleurs bleues di Queneau, «rivelano cosa c’è sotto. Tal quale come i sogni»14. 147

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Progetto e restauro Genova, Sagunto, Gibellina: tre operazioni di messa in scena degli oggetti del passato, attuate diversamente ma accomunate da una radicale riconfigurazione della preesistenza. È evidente che gli autori, seppure in maniere differenti, attribuiscono all’invenzione architettonica un’importanza fondamentale anche in presenza delle tracce materiali della storia. Quest’atteggiamento costituisce, almeno in linea teorica, l’esatto opposto del progetto di restauro, che esclude l’introduzione nell’intervento di nuovi elementi figurativi. Alcune opere, tuttavia, mostrano come anche negli interventi prevalentemente finalizzati alla conservazione non siano da escludere del tutto gli strumenti del progetto; si tratta semmai di attente calibrature, alla ricerca di un particolare equilibrio tra nuovo e antico. Un esempio significativo di questa possibilità è rappresentato dal restauro della Manica Lunga del Castello di Rivoli, condotto da Andrea Bruno (Figg. 18-24)15. Il palazzo sabaudo, posto a guardia dell’accesso alla Val di Susa, via privilegiata per la Francia alle porte di Torino, è uno dei numerosi complessi architettonici italiani sui quali gli eventi storici hanno lasciato tracce abbondanti e conflittuali fra loro. La stessa frammentarietà di tutti gli edifici che lo compongono testimonia della difficoltà persistente di dare luogo alla realizzazione di un’opera, per motivi economici o per il sopravvento di guerre e occupazioni.

Fig. 18 Andrea Bruno. Restauro del Castello di Rivoli (1978-99). Vista aerea del complesso Fig. 19 Costanzo Michela. Atrio del Castello di Rivoli secondo il progetto di Filippo Juvarra (1750 circa). Castello di Moncalieri

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Fig. 20 Planimetria del complesso

Manomesso, distrutto e ricostruito, alterato e interrotto, all’inizio dei lunghi lavori di restauro nel 1978 l’antica dimora regale si presentava come un coacervo scarsamente coerente di frammenti risalenti ad epoche diverse. Fra tutti gli oggetti ubicati sulla sommità del colle due rivestono una particolare importanza. Sul lato orientale il corpo incompleto del palazzo progettato da Filippo Juvarra, realizzato tra il 1715 ed il 1734: del grandioso edificio barocco é stata compiuta meno della metà, una delle due ali che avrebbero dovuto essere raccordate da un ampio atrio colonnato, generosamente aperto sulla valle prospiciente Torino. Il mancato completamento del palazzo ha consentito però la sopravvivenza della Manica Lunga, una singolare struttura costruita all’inizio del ‘600 per ospitare la pinacoteca di Carlo Emanuele I. Sopravvissuto alle distruzioni operate dall’esercito francese nel 1693, l’edificio, lungo ben 140 metri a fronte di una profondità di appena 7, venne riutilizzato come caserma, poi come spazio espositivo al principio del ‘900, nuovamente usato dai militari italiani e tedeschi durante l’occupazione nazista, infine per ospitare gli sfollati del dopoguerra. L’opera di restauro del palazzo inizia nel 1978, mentre la riabilitazione della Manica Lunga si estenderà per quindici anni a partire dal 1984. I frammenti del grandioso Theatrum Sabaudiae, prefigurato da Carlo Emanuele II nel 1682 quale massima espressione del potere della casata reale, suggeriscono già nel loro stato originario la convivenza di due frontiere architettoniche opposte. Pur nella sua incompletezza la fabbrica juvarriana intende attestarsi quale apparato scenografico, spettacolare invenzione barocca. Per contrasto la Manica Lunga rifugge qualsiasi senso di monumentalità, conservando esclusivamente un carattere utilitario manifestato dall’esattezza delle sue misure. Nata come quadreria, ovvero macchina per esporre dipinti, la sua estensione in lunghezza è teoricamente prolungabile senza limite per addizione, a 149

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Figg. 21, 22 Vista della Manica Lunga e del Palazzo juvarriano

discapito di qualsiasi principio classico di proporzionamento. Andrea Bruno, autore del progetto di restauro e rifunzionalizzazione e già artefice di significativi interventi in altri siti sensibili in diverse parti d’Europa, considera fondamentale l’aspetto di incompletezza delle preesistenze, cogliendone l’importanza soprattutto nell’ambito del dibattito incentratosi intorno all’opportunità di operare su Rivoli un restauro in stile. Nelle sue dichiarazioni l’architetto afferma come la frammentarietà ed eterogeneità del complesso costituiscano tracce significanti, testimonianza del labirintico movimento storico cui hanno partecipato gli edifici sabaudi: porre in secondo piano questo aspetto rischia di ledere l’autenticità dei manufatti. Il vuoto fra i due edifici, risultato delle interruzioni e demolizioni subite dal complesso nel corso del tempo, viene utilizzato come scena della poetica dell’incompletezza. Il palazzo di Juvarra presenta una facciata rustica, evidentemente non finita; la Manica Lunga appare tagliata di netto, quasi a mostrare attraverso una sezione artificiale il brusco arresto della sua linearità. Gli elementi utilizzati per consolidare tale frattura vengono ridotti alla minima espressività; le ampie vetrate che chiudono la pinacoteca ed il corpo delle nuove 150

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biglietterie sono realizzati arretrando i profili portanti, al fine di ottenere superfici levigate e altamente specchianti: i vuoti della Manica Lunga vengono dunque completati dall’immagine riflessa del palazzo antistante. La messa in scena delle memorie di Rivoli viene completata dalla pavimentazione, sulla quale viene tracciata la pianta del progetto juvarriano per il grande Salone d’onore. Nella Manica Lunga si procede al consolidamento delle strutture pericolanti al fine di ripristinarne l’integrità e rimuovere le numerose superfetazioni introdotte per adattarlo ai vari usi succedutisi nel tempo, che erano giunti sino a colmare lo spazio fra i due edifici. La copertura lignea ottocentesca, gravemente compromessa, viene sostituita con una struttura composta da centine metalliche che, pur riprendendone le forme, si evidenziano come aggiunta nettamente distinta rispetto al linguaggio della preesistenza. Lo stesso principio viene adoperato per la sistemazione degli impianti e dei corpi scala, che trovano posto in tre torri in acciaio e vetro collocate sul lato settentrionale dell’edificio, ad esso collegate tramite passerelle. Lo spazio interno, concepito originariamente come ambiente espositivo, viene ripristinato a tale uso. Mentre nei piani inferiori vengono collocati laboratori di restauro, aule didattiche, sale riunioni, una biblioteca e altre funzioni a sostegno delle attività culturali del complesso, il piano superiore viene destinato a ricevere l’allestimento di mostre temporanee. La scansione originale delle finestre, alterata dalle trasformazioni d’uso, viene ristabilita; l’illuminazione naturale dell’ambiente è assicurata da queste e dai lucernari regolabili integrati nella nuova copertura. La lunghissima galleria, la cui fuga si perde nella vegetazione traguardata dalla parete vetrata posta all’estremo occidentale, diviene uno spazio assolutamente originale, nel quale si fondono abilmente le peculiarità dell’edificio storico ed il carattere di modernità senza compromessi delle nuove aggiunte. A completamento dell’intervento, un’ampia terrazza parzialmente sistemata a verde affianca la Manica Lunga sul lato sud per tutta la sua estensione. Ideata per ospitare esposizioni all’aperto, questo spazio risulta al contempo anche un’efficacissima piattaforma di osservazione: da un lato per l’edificio secentesco, recuperato in tutto il suo pragmatico rigore, dall’altro per la vista amplissima su Rivoli e la valle, sino all’antica capitale sabauda che i monarchi avrebbero dovuto ammirare dal mai completato palazzo di Juvarra. Comprendere il senso della storia, la natura stessa della memoria che intendi preservare sul sito, è indispensabile per qualsiasi intervento architettonico. Come si può proteggere l’autenticità di un luogo? Quali cambiamenti vi dovrebbero essere imposti?

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Figg. 21, 22 Vista del nuovo ingresso alla galleria e dell’interno della Manica Lunga

Cosa deve essere distrutto, cosa conservato? In questo, per me, consiste la responsabilità dell’architetto. A lui spetta capire le pagine di questo libro di storia e di apprezzare le qualità profonde di un luogo. Anche se non visivamente, si può far respirare questi siti, consentendogli di rivelarsi mostrando le aggiunte successive della storia. Muoversi nello spazio significa anche tornare indietro nel tempo, per svelare le incoerenze del passato al fine di ripristinare lo spirito di un luogo.16

Queste riflessioni di Andrea Bruno illuminano il senso dei suoi interventi su Rivoli. La responsabilità del progettista non risiede esclusivamente nella correttezza filologica o nell’argomentazione scientifica delle proprie scelte; se il dipanarsi della storia induce discontinuità e frammentazioni sulla materia dell’architettura, l’intervento contemporaneo partecipa di questa incompletezza: anch’esso diverrà un frammento, cronaca di un giorno nel fluire non ancora concluso del tempo. Nel caso di Rivoli, gli strumenti linguistici e costruttivi adoperati per chiarificare l’autenticità incoerente della preesistenza sono abilmente calibrati fra discrezione e perentorietà, coerenza tettonica e sobrietà espressiva: quali atti di 152

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“messa in opera della verità”, affermano la loro appartenenza all’universo della contemporaneità, senza per questo compromettere, anzi arricchendo, il senso storico della materia antica su cui insistono. Analogamente all’intervento di Bruno, i progetti di recupero svolti negli ultimi trent’anni da Gabriella e Massimo Carmassi costituiscono, sotto molti aspetti, una soglia metodologica tra le discipline del restauro e del progetto architettonico. Del primo ambito si ravvisa l’accuratezza delle indagini preliminari sullo stato di fatto, finalizzate ad una comprensione profonda della logica genetica dei manufatti così come della loro consistenza materiale; del secondo, la capacità di interagire con l’antico attraverso strumenti contemporanei pienamente autonomi eppure non estranei ad un senso di continuità con la materia storica. Per gli architetti, il confronto con le tecniche costruttive antiche è particolarmente importante; rispetto a queste, stabiliscono un dialogo serrato sul piano figurativo, senza che questo implichi un’operazione di carattere ermeneutico: la radicale riduzione semantica che informa molti dei loro progetti è dimostrazione che i nuovi interventi non vengono concepiti su base linguistica. La caratterizzazione avviene portando in primo piano e rendendo pienamente evidenti gli aspetti tettonici, la cui precisa esecuzione e piena leggibilità danno vita ad una poetica architettonica chiaramente definita. L’originalità delle opere dei Carmassi, nonché il fattore che ne consente l’inequivocabile ascrizione al progetto di architettura, risiede proprio in questa ricorrente intenzione di rendere preminenti i segni della costruzione in situazioni spesso molto diverse tra loro. Le tecniche adoperate vengono prescelte al fine di stabilire una sintonia con la preesistenza storica, il cui punto di contatto più evidente con i nuovi interventi risiede nell’affinità materiale. Questa analogia non sfocia però nella necessità filologica del restauro: tutti i nuovi oggetti mantengono invariabilmente la loro identità contemporanea. Nella riconversione dell’antico Foro annonario di Senigallia queste scelte di fondo danno vita ad un’architettura che, pur sfruttando un repertorio formale ridotto al minimo, riesce a stratificarsi sino a divenire ricca di sorprese (Figg. 25-28)17. La struttura originale, risalente al 1831, è composta da due emicicli disposti attorno ad una piazza ovale; il porticato inferiore ospita un mercato ortofrutticolo, mentre la nuova biblioteca è stata ricavata negli ampi locali del sottotetto, a diretto contatto con la magnifica copertura a capriate. Sul retro del complesso, l’edificio del macello pubblico viene riadattato per ospitare il magazzino dei libri. Negli emicicli vengono sistemati gli spazi per la lettura, una piccola sala conferenze nonché gli ambienti per gli uffici. I progettisti risolvono abilmente il 153

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Figg. 25, 26 Massimo e Gabriella Carmassi. Biblioteca nel Foro annonario di Senigallia (1999). Vista dell’emiciclo ed esploso assonometrico

problema di suddividere il sottotetto nei diversi ambiti funzionali mantenendo al contempo una forte permeabilità visiva in rapporto alla capriata ed alle pareti perimetrali: tutte le chiusure vengono dunque operate tramite l’installazione di suddivisioni vetrate verticali ed orizzontali, sostenute da sottili infissi in ferro. Le pareti vetrate vengono disposte parallelamente alla curvatura dell’emiciclo, formando degli ambulacri perimetrali utilizzati come collegamenti distributivi; la separazione fra gli ambienti interni ed il perimetro consente altresì la riduzione dell’inquinamento acustico ed un migliore comfort termico. Le rimanenti funzioni – uffici, scale di emergenza ecc. – vengono rinchiusi in parallelepipedi liberamente disposti all’interno dello spazio continuo del sottotetto. Nell’edificio del macello viene ribassato il pavimento originario e inserita una struttura in calcestruzzo armato indipendente rispetto alle murature ottocentesche, raddoppiando così la superficie utile per ospitare la collezione della biblioteca. Dall’esterno, l’unica traccia visibile di questa trasformazione sono i nuovi infissi che chiudono le arcate e i bordi dei solai, ora sfalsati rispetto alle aperture originali. Se da questa sommaria descrizione l’intervento può apparire quasi semplicistico, non mancano nell’opera realizzata numerose sottigliezze che, pur nella forte economia di mezzi espressivi, la rendono ben più articolata e complessa. Le pareti vetrate curve trasformano sostanzialmente l’immagine del sottotetto: gli effetti di riflessione e rifrazione rendono lo spazio interno sfumato, sottraendogli nitidezza. La luce naturale che penetra dalle finestre e dai lucernari ricavati nella copertura anima le lastre vetrate, creando interessanti effetti luminosi. Gli stessi arredi selezionati dai progettisti oscillano dal romanticismo gentile delle sedie Thonet alla precisione meccanica dei tavoli cromati della sala lettura. Attraverso l’inserimento di una serie di oggetti dalle proprietà materiali accu154

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ratamente studiate e la sottile manipolazione delle modalità percettive dello spazio interno, gli architetti trasformano l’antica costruzione, arricchendola fenomenologicamente di un nuovo livello di esperienza. L’opacità prevalente dell’edificio neoclassico viene posta a confronto con la sovrapposizione delle visuali risultante dalla stratificazione delle superfici trasparenti; ciò è possibile in virtù dell’uso di strumenti e tecniche proprie del repertorio architettonico moderno. Il controllo di questo processo di stratificazione è raggiunto attraverso la notevole abilità degli architetti nella previsione costruttiva, spaziando con uguale raffinatezza dalle tecniche tradizionali all’uso di materiali contemporanei. Come già precedentemente osservato18, il tema della trasformazione del carattere ambientale degli spazi interni è ricorrente nell’opera dei Carmassi. La predilezione per strumenti costruttivi leggeri garantisce la fedele restituzione della materia preesistente; allo stesso tempo, consente di esplorare nuove possibilità architettoniche attraverso operazioni non invasive. Il campo di ricerca è interessante non solo perché porta ad osservare – in senso metaforico e letterale – l’antico sotto nuova luce, ma anche perché dimostra che l’adattamento a nuove funzionalità di ambienti originariamente disagevoli può rappresentare un fertile campo di esplorazione e non solamente una fastidiosa incombenza da risolvere tramite compromessi. Un altro metodo utilizzato dai Carmassi per rimettere in discussione la consueta fruizione di un manufatto antico è ravvisabile nel recente progetto di musealizzazione della miniera Ravi Marchi a Gavorrano19, nel quale l’intento viene attuato con strumenti diversi: l’esperienza dell’osservatore viene pilotata tramite la realizzazione di un lungo percorso, una sottile fettuccia che si snoda attraverso gli impianti minerari, rimanendo però costantemente distinta rispetto alle strutture murarie preesistenti. La creazione di una traiettoria obbligata non è infrequente nel progetto museografico; la peculiarità di questa soluzione conFigg. 27, 28 Massimo e Gabriella Carmassi. Biblioteca nel Foro annonario di Senigallia (1999). Gli spazi interni riconfigurati tramite l’inserimento dei nuovi volumi

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siste nel posizionamento del percorso ai margini dell’impianto, impedendo così all’osservatore di occupare lo spazio centrale del complesso. Viene così favorita una condizione marginale, mentre solo in alcuni punti il visitatore viene introdotto al centro degli spazi aperti. A fronte di una più libera fruizione i progettisti privilegiano la costruzione di una sequenza predeterminata di viste, anche in questo caso alterando le consuete modalità di percezione del complesso. Nello sviluppo di innumerevoli progetti sull’esistente, che hanno valso loro la meritata fama di specialisti nel settore, i Carmassi sono stati in grado di mettere a punto un arsenale di soluzioni progettuali, adoperate in tempi successivi eppure mai ripetute identicamente; queste si sono rivelate efficaci anche nel caso di oggetti storici particolarmente rilevanti, come nel caso del Teatro Verdi a Pisa. Quale maggiore interesse rispetto alla pratica del restauro può offrire un progetto così configurato? La risposta non è del tutto evidente, poiché intrecciata sulla dialettica fra le due discipline; quello che i Carmassi dimostrano senza ulteriori dubbi è che gli sconfinamenti tra l’una e l’altra possono condurre a risultati di notevole interesse, remoti tanto dall’immobilismo della conservazione quanto dallo stolto radicalismo della tabula rasa. Nelle trasformazioni di Rivoli e Senigallia le ragioni del restauro e quelle del progetto identificano dunque un particolare equilibrio, che consente la chiara visibilità dei reperti antichi così come delle aggiunte contemporanee. È però plausibile che se adoperati su preesistenze più sensibili – quali ad esempio i siti archeologici – gli stessi strumenti progettuali potrebbero risultare non adatti ad una musealizzazione che esclude qualsiasi altro utilizzo. Tuttavia, anche in queste particolari condizioni non è necessariamente da escludersi qualsiasi intervento riconoscibilmente moderno: se attuata con la necessaria sensibilità, anche in queste occasioni l’opera di trasformazione può condurre a risultati positivi. In quest’ottica, il restauro dell’Aula Ottagona delle Terme di Diocleziano, operato da Giovanni Bulian, dimostra come sia possibile garantire l’identità del nuovo intervento anche in condizioni di particolare fragilità – sia materiale sia estetica – della preesistenza (Fig. 29-33)20. Di tutti i resti del mondo antico, il complesso delle Terme di Diocleziano a Roma è quello sul quale, con ogni probabilità, il passare del tempo ha determinato il maggior numero di trasformazioni, quasi si trattasse di un testo classico letto e interpretato infinite volte. L’esteso complesso, compreso entro un’area vastissima tra Piazza della Repubblica e Piazza dei Cinquecento, con la sua stessa permanenza materiale ha profondamente influenzato la forma urbana della zona pianeggiante tra i colli Viminale e Quirinale, ispirando la pianta semicircolare dell’Esedra e fornendo una sostruzione per numerosi edifici sor156

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Figg. 29, 30 Giovanni Bulian. Allestimento museale dell’Aula ottagona alle Terme di Diocleziano, Roma (1997). Vista dall’esterno e “sovrapposizione” delle volte

tivi nel corso dei secoli. Disconnessa l’unitarietà a dimensione urbana, i frammenti delle Terme sono divenuti chiese e conventi; successivamente musei, il planetario o sedi universitarie. Le trasformazioni sono avvenute riutilizzando le ciclopiche strutture esistenti, ma anche operando tagli e demolizioni dettati dalla necessità di consentire lo sviluppo della città moderna a partire dalla metà XIX secolo. Per la vastità dei resti e l’ampiezza dell’arco temporale entro il quale hanno avuto luogo le trasformazioni, le Terme di Diocleziano costituiscono dunque un’ideale sintesi di come nei secoli l’operare sull’esistente sia stato condotto in diversi modi: dalle demolizioni medievali agli interventi di Michelangelo sulla sala centrale e per la creazione della Certosa, sino ai restauri iniziati nell’Ottocento con l’intento di trasformare il complesso in sede museale, operazione questa ancora in corso. Raccontare la storia delle Terme equivale dunque a ripercorrere le tappe del complesso e oscillante rapporto tra l’architettura e l’idea del passato. Frammento nel frammento, l’Aula Ottagona è stata testimone delle numerose vicende della storia del complesso termale. Il grande ambiente voltato occupa un angolo del perimetro interno delle Terme, circondato dalla fascia verde e dalle mura esterne. La sua destinazione d’uso originaria non è chiara, servendo probabilmente da cerniera tra gli ambienti termali ed il parco circostante. A par157

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Figg. 31, 32 La dislocazione delle statue nella sala ed il percorso sospeso nel livello sotterraneo

tire dal 537, anno in cui con l’interruzione degli acquedotti cessa definitivamente la funzione termale, l’intero complesso viene abbandonato, per essere progressivamente riutilizzato a partire dal XV secolo; l’Aula Ottagona fu destinata a diversi usi, sino a divenire granaio pontificio. Nel 1878, a seguito delle trasformazioni urbanistiche indotte dalla costruzione dei nuovi quartieri e della stazione ferroviaria, l’Aula venne isolata rispetto al complesso archeologico a causa del taglio di via Cernaia, situazione nella quale si trova ancora oggi. Dopo la decisione del 1889 di trasformare le Terme in Museo Nazionale Romano, l’Aula venne dapprima utilizzata per l’Esposizione Internazionale di Roma del 1911; dal 1928 al 1983, infine, funzionò come planetario e sala da proiezioni. Il progetto di allestimento curato da Giovanni Bulian tiene conto di questa stratificazione temporale, conservandone dove possibile le tracce. Lo schermo di proiezione del planetario, composto da una semisfera metallica reticolare rivestita con pannelli in legno e tela, impediva completamente la visibilità della cupola; una volta rimosso il rivestimento, si decide però di conservare la straordinaria struttura portante, la cui filigrana consistenza non ostacola affatto la percezione della volta, duplicandone anzi metaforicamente l’immagine – in un caso come nell’altro come rappresentazione della sfera celeste. La volta metallica, singolare objet trouvé, entra dunque nella composizione sia come reperto di archeologia industriale, sia come sostegno per le infrastrutture tecniche, ospitando gli impianti di illuminazione e ventilazione artificiale. La decisione di conservare la volta metallica è indice del principio guida dell’allestimento, fondato sul riconoscimento filologico della storia passata dell’edificio in tutte le sue stratificazioni. Questo procedimento conoscitivo si pre158

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senta analogo alla metodologia del progetto di restauro: fra le molteplici mutazioni occorse nel tempo il progettista discerne le più significative, operando secondo i criteri impliciti nel proprio orizzonte culturale. Questi livelli emergenti dal piano omogeneo del tempo vengono riportati alla luce, restituendo loro la visibilità perduta a seguito degli eventi successivi. Tutto i nuovi elementi introdotti per ripristinare la funzionalità dell’edificio, adeguandolo ad un uso contemporaneo, vengono concepiti secondo i principi di riconoscibilità e reversibilità, propri del progetto di restauro moderno. La riconoscibilità implica l’alterità del linguaggio messo in opera rispetto alla preesistenza; la reversibilità si traduce nella possibilità – almeno teorica – di ripristinare lo stato antecedente l’intervento, rimovendo qualsiasi traccia dell’operazione. Il rispetto di questi due assunti fondamentali denota un rigore metodologico che pone l’intervento a cavallo tra il progetto architettonico e la pratica del restauro conservativo. Bulian, già autore del consolidamento dell’Aula Ottagona negli anni precedenti l’allestimento, dimostra di conoscere profondamente il reperto archeologico nella sua consistenza materiale e costruttiva come nella comprensione della sua strutturazione estetica. Nel progettare il nuovo intervento, egli non tradisce la logica inerente la preesistenza, senza al contempo dover Fig. 33 Pianta alla quota della sala principale

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rinunciare agli strumenti costruttivi e figurativi propri della modernità. Il raffinato allestimento prende le mosse dalla geometria centrale dell’impianto architettonico originale. Uno spazio voltato, per quanto accessorio possa risultare nell’ambito del complesso programma funzionale di un impianto termale, costituisce comunque un ambiente speciale, nel quale i riferimenti simbolici e cosmologici rivestono un ruolo importante. La pavimentazione in peperino della sala ottagona sottolinea la rilevanza del centro, mettendo in comunicazione visiva l’Aula con l’ambiente sottostante tramite una porzione ottagonale vetrata. L’occhio della grande cupola apre sulla volta celeste, mentre la pavimentazione vetrata allude ad un’introspezione nel mondo ctonio sottostante: compreso fra queste due sfere l’orbe terrestre, legato ad entrambe dalla verticalità della sala. Dal centro dell’ambiente, il disegno della pavimentazione si dipana a raggiera, orientandosi accuratamente secondo le geometrie costitutive dello spazio. Nelle quattro nicchie angolari il tema della radialità viene ripetuto, determinando una geometria in grado di accogliere le statue in esposizione. Il disegno delle lastre viene utilizzato come tracciato misuratore, un sistema di coordinate polari che consente la precisa collocazione degli oggetti lungo le direttrici significative della sala. La collocazione delle statue avviene secondo un principio dialettico: a fronte dell’ambientazione classica degli oggetti disposti nelle nicchie, storicamente utilizzate proprio per accogliere gruppi plastici, il nuovo allestimento segue un diverso criterio di occupazione dello spazio, creando alcuni punti focali liberamente dislocati nella sala. Il livello inferiore, sede della quota di calpestio originaria, viene allestito secondo modalità più consuete di musealizzazione dei siti archeologici. La fruizione viene assicurata tramite l’inserimento di passerelle sospese, realizzate con strutture portanti in acciaio e lastre di vetro. La netta disgiunzione tra i sistemi costruttivi rende evidente il principio di giustapposizione reversibile dell’intervento. Tale attenzione è estesa all’intero allestimento, particolarmente curato nella selezione dei materiali e delle finiture, nella realizzazione dei dettagli quali infissi, tamponature e le basi per le statue. La musealizzazione dell’Aula Ottagona rappresenta un esempio felice di come, pur mantenendo fermi i cardini metodologici dell’analisi storica riferiti alla pratica del restauro, sia possibile intervenire con gli strumenti caratteristici del progetto d’architettura. Attraverso la fertile reciproca interferenza tra metodologie confinanti del progetto, diviene possibile evidenziare più accuratamente il senso operativo di entrambe21.

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La contesa dialettica L’interazione tra linguaggi distinti rappresenta uno dei più validi strumenti per l’intervento sull’esistente. Ciascun sistema figurativo porta con sé il riferimento ad un particolare universo culturale: presentandosi contemporaneamente, questi ambiti di significato si influenzano, mettendo in moto un processo di riconfigurazione che è in grado di investire il nuovo quanto l’antico. È evidente quanto questo procedimento sia mirato alla creazione di una distanza rispetto agli oggetti preesistenti, giustapponendo ad essi nuovi elementi che possono giungere sino a distaccarsi radicalmente dal sistema figurativo dato. L’operazione funziona dunque se la contesa è libera di svolgersi ad armi pari, ovvero ricercando l’equilibrio tra antico e nuovo. Uno degli esempi più significativi di questa modalità di intervento è la ristrutturazione realizzata da Ignazio Gardella nel 1936 di Villa Borletti a Milano (Figg. 34-38)22. Tra i primi incarichi professionali dell’architetto milanese, questa rappresenta un interessante esperimento di operazione sull’esistente, che fornisce al giovane progettista l’occasione per mettere a punto diverse questioni linguistiche, soprattutto in relazione agli sviluppi dei movimenti internazionali di avanguardia. La villa, realizzata a fine ‘800 secondo una canonica composizione beauxFigg. 34, 35 Ignazio Gardella. Ristrutturazione e ampliamento di Villa Borletti, Milano (1936). Veduta complessiva dell’edificio con l’ampliamento e dettaglio dello “schermo”

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Figg. 36, 37, 38 Ignazio Gardella. Ristrutturazione e ampliamento di Villa Borletti, Milano (1936). Viste dell’interno dell’ampliamento e planimetrie prima e dopo l’intervento

arts, apparteneva ad una delle famiglie più in vista della città, con numerosi collegamenti nel mondo politico e culturale, proprietaria di una collezione d’arte; ciò impone a Gardella il mantenimento – non senza scontri con la committenza – di un senso di decorum tale da non sconvolgere completamente l’immagine architettonica della preesistenza, o quantomeno del suo involucro esterno. Egli non rinuncia tuttavia a mettere in atto una radicale rivisitazione dello spazio interno, partendo dichiaratamente dalle opere di Mies van der Rohe, che proprio in quegli anni stavano acquisendo vasta risonanza sulla pubblicistica specializzata. Dal fronte stradale ben poco risulta dunque visibile dell’ampliamento, il quale viene occultato da un setto murario – quasi un casto velo – affiancato al prospetto principale, quale unica traccia leggibile dell’avvenuta trasformazione. Il confronto tra le piante al pianoterra della situazione ante operam e ad intervento completato dà però la misura di quanto la trasformazione abbia letteralmente sovvertito le condizioni esistenti. La distribuzione originaria prevedeva 162

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la disposizione simmetrica di spazi su due lati di un ampio atrio di ingresso, delimitato da quattro colonne in marmo; i due muri portanti centrali suddividono il pianterreno in tre fasce trasversali, formando con l’atrio una pianta cruciforme. Ciascun ambiente, debitamente proporzionato e delimitato da pareti, è destinato a svolgere unicamente la funzione assegnatagli, limitando al minimo l’interferenza tra le diverse attività domestiche. Il nuovo progetto assume come fili vincolanti i muri portanti, che vengono utilizzati, una volta privati delle suddivisioni trasversali e di ogni articolazione decorativa, come astratte lastre di separazione tra le fasce ora rese spazialmente unitarie. Dovendo ospitare servizi e scale, la fascia adiacente il fronte principale rimane pressoché immutata, salvo la sensibile diminuzione di superficie dell’ingresso, ora ridotto alla sola profondità della fascia stessa. I due terzi posteriori del pianterreno sono invece ricondotti ad uno spazio unico, scandito solamente da due setti longitudinali ricavati dalla muratura portante, nonché da un singolo setto ad essi ortogonale, sottile e rivestito con lastre di granito Boden. L’affinità tra le scelte linguistiche di Gardella e le opere di Mies van der Rohe è evidente; oltre al padiglione di Barcellona, non è improbabile che egli conoscesse le coeve abitazioni sperimentali realizzate dal tedesco con Lilly Reich, quale la casa-modello per scapoli del 1931. La radicale riduzione del linguaggio, insieme alla perentoria chiarezza della costruzione spaziale, vengono ritenuti appropriati per rappresentare il carattere domestico della casa e in misura ancora maggiore ad ospitare la collezione d’arte di proprietà della famiglia Borletti. Non è infatti improbabile che questa variazione nella destinazione d’uso del pianterreno – da residenza a galleria espositiva privata – abbia indotto il progettista a prendere in considerazione la qualità cristallina delle architetture del Neues Bauen. Il confronto con la spazialità della costruzione originaria induce a tracciare un ulteriore parallelo: lo smembramento degli ambienti conclusi caratteristici dell’architettura residenziale ottocentesca a favore della continuità degli spazi non è dissimile da quanto operato da Wright nelle Prairie Houses progettate nel primo decennio del ‘900. La staticità degli ambienti viene scardinata dalla rimozione degli angoli, la cui assenza viene utilizzata per stabilire una dinamica comunicazione visiva diagonale tra le diverse funzioni che hanno luogo all’interno della casa23. L’ampiezza dei riferimenti ad altre esperienze architettoniche testimonia senz’altro della sensibilità del giovane Gardella nei confronti del panorama contemporaneo internazionale24, ma non significa certo che la trasformazione di Villa Borletti vada considerata un semplice esercizio di stile: la peculiarità del 163

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progetto risiede proprio nel modo in cui, nonostante la profondità delle trasformazioni operate, il linguaggio giustapposto interagisca con quello preesistente. La permanenza delle colonne in marmo, il rapporto tra la bidimensionalità delle lastre e la caratteristica articolazione dei bow-windows, nonché la stessa collezione d’arte dei proprietari inducono ad una programmatica discrasia linguistica, non lontana dal surrealismo dell’attico Beistegui di Le Corbusier. Una volta accettata la compresenza di differenti sistemi linguistici, Gardella procede alla risoluzione dei non pochi problemi che questa comporta. Il fronte occidentale, il cui registro inferiore viene integralmente sostituito dal loggiato dell’ampliamento, richiede la realizzazione di una struttura di sostegno che possa rimpiazzare la muratura portante; analogamente, lo spostamento delle colonne dell’atrio implica l’introduzione di una sostruzione al piano scantinato: in altre parole, l’introduzione di un frammento di pianta libera all’interno della villa ottocentesca richiede l’adozione di tecniche costruttive contemporanee, connaturate al linguaggio del moderno. La costruzione è integralmente ordinata da una griglia geometrica 60 x 60 cm, adoperata per gli elementi orizzontali e verticali. Tuttavia, le dimensioni fondamentali della preesistenza vengono mantenute, come si può osservare nel prospetto ovest, dove i passi costruttivi della nuova costruzione sono accuratamente coordinati con i fili dettati dal registro superiore. La manifestazione più interessante del reticolo dimensionale introdotto da Gardella sono le filigrane pareti vetrate che dividono le gallerie espositive dalle nicchie dei bow-windows. I sottilissimi infissi in ferro laccati bianchi misurano astrattamente i piani da essi individuati, fornendo uno dei migliori esempi del tema dello spazio rigato caro al razionalismo di scuola milanese. Insieme alle pareti trasparenti, le pietre abilmente scelte e lavorate per i rivestimenti e le pavimentazioni producono un’atmosfera diafana, in cui la luce riflessa sulle superfici specchiate trasfigura l’intero ambiente, smaterializzandolo ed alterandone la fredda oggettività. Nel complesso il carattere degli spazi espositivi risulta austero ed elegante, affatto distante, rispetto al senso di decorum e appropriatezza della preesistenza, pur se derivante da un’operazione estetica di segno opposto. All’immagine borghese dell’architettura eclettica se ne aggiunge una seconda, espressione di una cultura equivalente, benché mediata da una trasformazione profonda nel senso estetico dell’epoca. Se la casa Tugendhat può essere intesa come spazio domestico di una borghesia moderna e liberale, così villa Borletti esprime la dialettica – tutta italiana – tra innovazione architettonica e continuità con una tradizione artistica fortemente radicata e per molti versi irrinunciabile. Villa Borletti, purtroppo alterata dopo la cessione da parte dei proprietari ori164

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ginali, rappresenta, proprio per questa peculiare e felice contaminazione tra linguaggi e tecniche costruttive, un esempio paradigmatico di come il progetto sull’esistente possa beneficiare da una sostanziale alterità tra piani semantici contrastanti. L’autonomia del linguaggio moderno viene bilanciata dalla permanenza della figurazione classica, senza che tra le due si generi un conflitto insanabile. Lo scarto semantico, ovvero l’affiancare ad un discorso architettonico autonomo un secondo diverso linguaggio, rappresenta uno degli strumenti più fecondi per tutte le operazioni trasformative. Gli oggetti preesistenti mostrano una loro persistenza, ovvero la capacità di rimanere riconoscibili pur se modificati; su queste radici sono innestati nuovi elementi linguistici nettamente distinti, senza che questo comporti immediatamente una rottura. Il progetto può misurare attentamente le differenze semantiche, perché la percezione differenziale dell’antico e del nuovo possa avvenire senza fratture brusche. Una linea di ricerca che ha posto questo specifico tema di interazione linguistica alla base dell’indagine è senz’altro quella lungamente perseguita da Giancarlo De Carlo nei suoi interventi su Urbino. Benché nelle molteplici occasioni progettuali egli abbia potuto affrontare molte differenti strategie per la trasformazione dell’esistente, la riflessione sul ruolo del linguaggio sembra comunque aver prodotto gli esiti più originali, dotati di una strutturazione concettuale chiaramente riconoscibile. Avendo operato per più di quattro decenni sul centro storico di Urbino, De Carlo ha legato indissolubilmente il suo nome all’abitato marchigiano. A partire dai primi interventi negli anni ’50, l’architetto ha fatto dell’antica città dei Montefeltro un vero e proprio laboratorio di trasformazione urbana, indagando pazientemente sui diversi metodi per consentire la fruizione contemporanea degli oggetti storici, dalla piccola scala del singolo manufatto sino al tessuto urbano considerato nella sua totalità. Attraverso la sua produzione teorica, De Carlo solleva più volte la questione della lettura dei reperti antichi, ponendola alla base dell’operato sull’esistente. La comprensione degli oggetti richiede una preventiva destrutturazione alla ricerca della loro natura intrinseca, del codice genetico – per quanto recondito – che li ha originati e ne ha successivamente guidato lo sviluppo e la trasformazione. Questi dati risultano sovente esterni rispetto all’operato dei progettisti e in quanto tali deducibili più dall’effettiva costituzione del reperto testuale che non dalla precisione filologica garantita dalla documentazione storiografica; la sola lettura tipologica del sistema urbano non è pertanto sufficiente a descrivere le caratteristiche di un abitato. Parallelamente a quest’impostazione di stampo strutturalista, De Carlo sot165

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tolinea come l’interpretazione del testo deve avvenire tenendo conto del «continuo movimento della realtà»: la stratificazione storica della preesistenza non si compone dei soli oggetti materiali, bensì include anche la molteplicità degli usi passati e attuali, così come il significato che il manufatto assume nello scorrere della quotidianità entro il tessuto sociale del quale è parte costituente. Un’architettura diviene luogo nel momento in cui chi la utilizza se ne appropria: trascurare questa nozione fondamentale rischia di ridurre la pratica del progetto ad uno sterile meccanicismo. Per De Carlo le preesistenze sono dunque oggetti vivi, in delicato equilibrio sulla corda tesa fra ambiente naturale, spazio antropizzato e tessuto sociale: se egli avesse preso in considerazione i soli dati materiali degli edifici di Urbino, non si sarebbe verificata quella notevole diversità di approccio rispetto ai singoli oggetti che caratterizza il suo lavoro sull’esistente. Le molteplici storie, i destini intrecciati dei manufatti su cui si interviene, chiamano in causa una metodologia del caso per caso, in cui l’unico dato costante è la coerenza linguistica delle aggiunte progettate dall’autore. Il primo intervento, eseguito tra il 1952 ed il 1960, consiste nella sistemazione dell’edificio centrale dell’Università di Urbino, Palazzo Bonaventura del Poggio (Fig. 39). De Carlo adotta una linea essenziale, ponendo in primo piano la riorganizzazione della circolazione all’interno del palazzo rinascimentale; la nuova scala a tenaglia diviene così il discreto quanto elegante fulcro della distriFig. 39 Giancarlo De Carlo. Restauro di Palazzo Bonaventura del Poggio, Urbino (1960). Vista della corte con i nuovi infissi e la pavimentazione in laterizio Figg. 40, 41 (pagina opposta) Giancarlo De Carlo. Facoltà di Legge, Università di Urbino (1968). Vista della corte con i lucernari sulla biblioteca e sezione

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buzione. Tutti gli elementi costruttivi, dai serramenti in ferro alla pavimentazione in laterizio del cortile, perseguono la medesima strategia di austero rigore, arretrando figurativamente rispetto alla struttura preesistente. La qualità degli ambienti interni rimane pressoché invariata, a riprova di un approccio progettuale consapevole delle esigenze della conservazione. Del 1966-1968 è la Facoltà di Legge, realizzata all’interno di un convento secentesco più volte rimaneggiato nel tempo (Figg. 40-41). Per la prima volta De Carlo opera un inserimento chirurgico, creando, nello spazio sottostante il giardino, la sala lettura della biblioteca; dal livello della strada la trasformazione si palesa solamente nei grandi lucernari in perspex, utilizzati come forme plastiche nella definizione del piccolo giardino. Allo stesso modo, al di sotto del cortile interno viene ricavato un ampio ambiente destinato ad accogliere il magazzino libri. Un ulteriore innesto avviene per inserire i servizi igienici al primo e secondo piano dell’ala posteriore del complesso: la soluzione adottata utilizza lucernari sdoppiati per addurre l’illuminazione naturale a due quote differenti. Se il livello interrato e gli spazi interni vengono sottoposti a modifiche sostanziali, tutt’altra strategia viene applicata alle strutture esterne. Il cortile, restaurato evitando qualsiasi contaminazione con elementi contemporanei, recupera l’immagine di omogeneità materica tipica dell’architettura tradizionale di Urbino; analogamente la sistemazione degli ambienti più significativi del complesso consente la chiara lettura della costruzione antica, attraverso finiture e arredi discreti e quasi spartani. Come nel Palazzo Bonaventura, De Carlo privilegia il ripristino dell’immagine originaria del manufatto edilizio, liberandolo da superfetazioni e aggiunte lesive della sua integrità; tuttavia, benché appena visibile, l’aggiunta della volumetria sotterranea per la biblioteca muta profondamente il funzionamento dell’organismo architettonico. I nuovi ambienti vengono realizzati con un linguaggio dichiaratamente contemporaneo, privo di compromessi, a generare un deciso contrasto rispetto alla preesistenza. La rifunzionalizzazione dell’edificio passa dunque attraverso una sua radicale riprogettazione. 167

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Immediatamente successivo è il progetto per la Facoltà di Magistero, anche in questo caso riconversione di un convento già pesantemente rimaneggiato (Figg. 42-44). L’ampliamento ricuce il tracciato stradale, mostrando verso la città un paramento murario continuo e avvolgente, particolarmente avaro di indicazioni rispetto al contenuto dell’edificio. Lo spazio interno si presenta invece come una successione di invenzioni, dalla corte cilindrica letteralmente scavata nel corpo della preesistenza, sino allo spettacolare teatro semicircolare generosamente aperto sulla vista del paesaggio intorno a Urbino. Assente in quest’intervento è il rapporto dialettico fra nuovo e antico: l’ampliamento operato da De Carlo, avvalendosi di un linguaggio deciso e come sempre rigoroso, rifugge il confronto diretto con il frammento superstite del convento. L’operazione chirurgica, anche in questo caso mirata a riportare in vita un organismo architettonico, è intesa più sulla scala del tessuto urbano che non del sinFig. 42 Giancarlo De Carlo. Magistero, Università di Urbino (1968). Pianta alla quota stradale e sezione sull’emiciclo Figg. 43, 44 Vista del fronte su via di S. Girolamo e dell’emiciclo

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Fig. 45 Giancarlo De Carlo. Interventi al Mercatale, Urbino. Sezione sulla rampa elicoidale di Francesco di Giorgio, il Teatro Sanzio ed il Palazzo Ducale

golo edificio preesistente; a testimonianza di questo la disgiunzione delle tecniche costruttive utilizzate per l’involucro esterno e per gli ambienti interni. Infine il Mercatale, il grande spazio alla base dell’abitato adibito, a partire dagli anni ’70, a struttura ricettiva per il flusso turistico (Fig. 45). Il lungo lavoro su quest’area include la realizzazione di parcheggi sotterranei e percorsi pedonali, il restauro dell’ottocentesco Teatro Sanzio, nonché il recupero della ritrovata chiocciola costruita da Francesco di Giorgio per collegare la piana con il Palazzo Ducale. Anche sugli edifici del Mercatale De Carlo interviene tramite difficili innesti, calibrati di volta in volta per risultare più o meno visibili a seconda delle particolari condizioni. La rampa elicoidale viene ripristinata, consolidandone la struttura per consentirle di assorbire i carichi del Teatro sovrastante pur dopo la rimozione del riempimento aggiunto per trasformarla in un basamento. Il Teatro stesso, nella cui sala vengono recuperati i palchi originali, riceve un nuovo foyer inconfondibilmente contemporaneo, la cui struttura in cemento armato mette nuovamente in opera la serrata dialettica tra moderno e antico già incontrata nella Facoltà di Legge. In tutte le trasformazioni operate a Urbino De Carlo mostra di non perseguire un’immagine precostituita, bensì di adattare le scelte progettuali alle singole situazioni, modellando il linguaggio – sempre riconoscibile e del tutto 169

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autonomo – a seconda di quanto appare necessario per ottenere la migliore soluzione figurativa. Non si tratta però del ricorso a giochi linguistici postmoderni, bensì di una modulazione del tono, operata con l’abilità del retore classico. Se l’immagine architettonica delle preesistenze viene considerata l’elemento primario delle nuove configurazioni, gli innesti dei nuovi elementi modificano – e a volte stravolgono – la logica della utilitas originaria, spesso già alterata dai precedenti riusi. Su questa dicotomica separazione di forma e contenuto si sviluppano in diversa misura tutti gli interventi, secondo una logica di disgiunzione tra interno ed esterno che l’architetto ravvisa nell’architettura di Urbino ed in particolare proprio nelle opere di Francesco di Giorgio. La destrutturazione e riprogettazione che fondano la linea progettuale perseguita da De Carlo costituiscono dunque un’operazione colta, articolata su molteplici livelli e foriera di risultati complessi nonché ampiamente diversificati. Nella profondità di questo procedere si annida forse anche il suo limite, intrinseco alla limitazione dei mezzi espressivi che, pur garantendo la coerenza di operazioni ampiamente distanziate nel tempo, appare a volte eccessivamente austera. L’introduzione di un linguaggio contemporaneo su una preesistenza storica rappresenta uno dei modi per riappropriarsi degli oggetti del passato, rendendoli partecipi dei cambiamenti nella sensibilità estetica. Come si è visto nelle diverse opere di De Carlo, l’impatto prodotto da questi interventi può essere calibrato a seconda della consistenza della materia esistente, del suo stato di conservazione o dell’interesse che essa suscita nell’architetto: in generale, più la preesistenza risulta integra e riconoscibile, più il nuovo intervento viene ridotto e alleggerito formalmente. La sola contiguità tra gli oggetti continua tuttavia a imporre un’interazione materiale: un modello alternativo consiste nel mettere in opera un sistema linguistico che, pur presentandosi come concluso e autonomo rispetto all’esistente, risulti visivamente e fisicamente disgiunto rispetto a questo, riducendo pertanto il grado di interferenza tra antico e nuovo. Ciò può avvenire attraverso l’utilizzo di tecniche di allestimento e trova particolare spazio di applicazione nel disegno degli interni: pur trattandosi sovente di trasformazioni non a carattere temporaneo, queste si possono configurare come colonizzazioni di uno spazio esistente da parte di oggetti di diversa natura. Nel recente negozio “La Tessitura”, un concept store realizzato a Como da Giancarlo Conti per le seterie Mantero, viene messa in opera questa particolare modalità trasformativa (Figg. 46-50)25. L’intervento consiste nel recupero di un padiglione industriale risalente al 1887, originariamente destinato ad accogliere i telai meccanizzati per la tessitura della seta; la struttura portante in ghisa e la copertura a shed ne caratterizzano l’immagine tipica di spazio industriale 170

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Fig. 46 Giancarlo Conti. Negozio La Tessitura, Como (2004). Planimetria e sezione Figg. 47, 48 Vista dell’ingresso con l’inserimento della vasca d’acqua e dell’allestimento interno

ottocentesco. Partendo dal restauro conservativo dell’edificio, la trasformazione ha poi interessato la sua destinazione d’uso, passata da struttura produttiva a spazio commerciale ed espositivo, mantenendo tuttavia il filo conduttore della seta quale riferimento poetico di fondo. Il progetto si esplica in alcuni elementi cardine: innanzi tutto l’inserimento, all’interno del grande spazio a pianta rettangolare, di alcuni percorsi in quota che collegano determinati punti significativi: l’ingresso, il caffè, un box sollevato, inteso come spazio di sosta e formante un recinto visivamente protetto, nonché una scala plasticamente isolata posta in prossimità delle casse. Questi nodi del percorso costituiscono dei centri nello spazio della struttura originaria, introducendo così una gerarchia all’interno di un ambiente altrimenti omogeneo. Il percorso sospeso, con le sue calibrate pause, dà la possibilità al visitatore di osservare l’interno dello spazio da una sequenza di specifici punti di vista: il colpo d’occhio sugli oggetti in vendita, contraddistinti dai colori sgargianti, non impedisce tuttavia di leggere chiaramente la conformazione della struttura originale. Né il percorso né i nodi che questo collega prevalgono sulla preesi171

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Figg. 49, 50 Giancarlo Conti. Negozio La Tessitura, Como. Viste dell’allestimento interno

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stenza: il contenimento delle dimensioni, la semplicità dei sistemi costruttivi e l’essenzialità della figurazione li fanno apparire come oggetti neutri. Questa linea progettuale si estende anche all’uso degli arredi: l’architetto si avvale di espositori progettati ad hoc, realizzati con materiali plastici traslucidi o trasparenti montati su semplici sostegni metallici. I nuovi oggetti introdotti all’interno dello spazio sono dunque scarni e improntati alla massima riduzione d’immagine, così da non interferire con la nitida costruzione del padiglione industriale. Una più forte caratterizzazione viene invece introdotta attraverso l’uso della luce: pur mantenendo le grandi aperture degli shed, che consentono un’adduzione luminosa omogenea nelle ore diurne, il sistema di illuminazione artificiale viene studiato in modo da creare zone differenziate con accenti particolari, come ad esempio il piccolo ambito ricavato sotto al box sospeso, il cui soffitto è costituito da una superficie luminosa omogenea. La parete posta sul retro delle casse ospita inoltre un ampio schermo per proiezioni video tematiche: in questa zona l’adduzione di luce solare viene ridotta, privilegiando le immagini proiettate sulla parete. Attraverso l’accorto studio della luce, il visitatore viene guidato lungo un percorso nel quale incontra diverse situazioni, dalla forte illuminazione dello spazio centrale sino a quelle più intime dello scrigno sospeso o del caffè. Il vero protagonista dell’intero allestimento è tuttavia il colore sgargiante delle sete esposte: all’interno del negozio questo elemento assume un ruolo di primo piano, generando una forte caratterizzazione e creando al contempo un legame ideale tra l’attuale utilizzo dello spazio e l’antica attività produttiva. Insieme ai toni luminosi, il cromatismo produce la trasformazione più sensibile dello spazio preesistente, avvalendosi dunque di elementi quasi completamente immateriali, tipici del repertorio contemporaneo. Questi vengono messi in opera con discrezione e sensibilità, tanto da consentire sia al padiglione ottocentesco sia al nuovo intervento di coesistere dialetticamente.

Continuità e creazione individuale Nel considerare l’architettura del passato come un insieme linguistico, l’autore contemporaneo innesca un procedimento ermeneutico, il cui risultato, sotto forma di interpretazione di un discorso, pone la base per l’interazione con il nuovo. È evidente come il linguaggio assuma pregnanza solamente se considerato entro il proprio contesto di riferimento: se chi opera l’interpretazione se ne allontana, sussiste il rischio che la lettura divenga impraticabile. Al contempo, 173

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ciascun autore possiede un proprio repertorio di segni, adattabile alla singola occasione di progetto a seconda delle condizioni specifiche. In alcuni progettisti questi lemmi assecondano i problemi che si presentano di volta in volta; in altri, risultano assolutamente prevalenti, solo marginalmente modificati dalle profonde divergenze che si possono presentare tra antico e nuovo. È dall’equilibrio tra riferimenti autonomi e contesto specifico che si svolge dunque la dialettica tra la continuità dell’esistente ed il talento creativo di chi lo trasforma. Il problema non è di facile risoluzione. In quale misura il carattere locale, la specifica identità, o ancora un vasto repertorio di soluzioni architettoniche tipiche possono entrare a diverso titolo nell’operare di un progettista contemporaneo? Quanto invece l’orizzonte culturale di un autore può imporsi in maniera invariata, secondo un principio universale, al mutare delle condizioni entro le quali prende forma il progetto? Questi interrogativi, che hanno turbato il sonno di innumerevoli critici d’architettura negli ultimi decenni, sembrano trovare, nell’opera di Carlo Scarpa, se non una risposta quantomeno lo scenario ideale perché il dramma abbia luogo. Il radicamento di Scarpa nella cultura architettonica veneziana è fatto difficilmente negabile; pur in presenza di influenze esterne, la costante predilezione per soluzioni costruttive e artigianali evidentemente derivate dalla tradizione della sua città tende a dirimere qualsiasi incertezza riguardo alla specifica identità dell’architetto. Nelle rare occasioni presentatesi all’architetto fuori dal Veneto, questa identità specifica si confronta con il carattere locale: chiamato a realizzare un’opera in Sicilia, la trasformazione del Palazzo Abatellis a Palermo, Scarpa si troverà davanti al mondo architettonico della Magna Grecia, per molti versi polarmente distanziato rispetto alla sua Venezia (Figg. 51-55)26. Il Palazzo Abatellis, completato sul finire del ‘400, subisce già negli anni immediatamente successivi profonde alterazioni a seguito della sua trasformazione in convento. Danneggiato dai bombardamenti del 1943, viene consolidato e parzialmente ricostruito; l’incarico di musealizzazione viene affidato a Scarpa nel 1953, sulla scia dell’allestimento della mostra su Antonello nel Palazzo Municipale di Messina. Il progetto di allestimento di Palazzo Abatellis contiene diversi temi caratteristici dell’opera di Scarpa. Innanzi tutto risulta evidente l’inserimento di uno scarto nella specificità figurativa degli elementi di definizione dell’immagine architettonica, che vengono spinti verso un’astrazione e riduzione del linguaggio. Come nel Castelvecchio, Scarpa adopera piani dai cromatismi primari per determinare il fondo di alcune superfici espositive; la qualità fenomenologica di queste pareti diviene intrinseca, svincolata quasi integralmente dall’effetto di 174

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Figg. 51, 52 Carlo Scarpa. Restauro di Palazzo Abatellis, Palermo (1954). Vista della corte e dettaglio dei campi intonacati in facciata

vibrazione determinato dalla luce naturale. Gli oggetti esposti si distaccano rispetto al fondo, venendo percepiti per contrasto. Rispetto alla natura marcatamente plastica delle modulazioni parietali dell’architettura rinascimentale siciliana, questa netta separazione comporta un’inversione nell’uso degli strumenti costruttivi. Nella preesistenza la superficie muraria in pietra viva, le modanature e la decorazione appaiono sempre connaturate tra loro, quasi a rappresentare diversi gradi di accentuazione di una medesima sostanza; le distinzioni all’interno di questa articolazione provengono dalla plasticità di ciascun elemento, sottolineata dal diverso grado di reazione alla luce solare. Gli elementi introdotti da Scarpa prescindono invece dall’illuminazione naturale, prediligendo il disegno piano e la sintassi cromatica quali strumenti di differenziazione: dalla grana ruvida dei muri siciliani si passa alla levigata riflessività veneziana27. La sistemazione del cortile enuncia chiaramente questo principio attraverso varie soluzioni. Scarpa adopera un intonaco liscio, riquadrato attorno alle aperture, delle quali viene lasciata visibile la pietra viva. Le facciate del cortile sono solcate da sottilissime fughe nella superficie intonacata, una griglia geometrica appena percettibile che misura la distesa omogenea e levigata: l’astrazione del 175

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Fig. 53 Carlo Scarpa. Restauro di Palazzo Abatellis, Palermo (1954). Disegno di studio del piano terra

disegno bidimensionale si confronta con la ruvida pietra delle murature. Analogamente, la pavimentazione della corte è basata su un disegno geometricamente astratto, nel quale anche la materia vegetale tende a perdere di grana, riducendosi a finitura superficiale. L’edificio rinascimentale mostra ancora i tratti di un magistero costruttivo medievale, informato da un senso di brutalità ruskiniana; in generale, le aggiunte contrastano con la preesistenza per la loro levigata rifinitura, elemento caratteristico del gusto artigianale di Scarpa. Levigati sono i supporti per le opere della collezione; levigata la pietra in tutte le sue lavorazioni, dalla scala esagonale, disegno rarefatto e aereo, o anche nel nuovo architrave del portale fra due ambienti, inserito proprio in fronte ad uno antico, sottolineando così l’alterità della materia adoperata per il nuovo intervento. Questo contrasto è indice di un modus operandi che l’architetto veneziano importa in Sicilia, sperimentandone l’efficacia rispetto alla specificità materiale del Palazzo Abatellis. Un analogo confronto è quello che viene impostato tra gli ambienti espositivi e la disposizione degli oggetti al loro interno. Tramite innumerevoli schizzi, Scarpa studia accuratamente la posizione e l’orientamento dei supporti degli oggetti più significativi, utilizzandoli come fuochi per con176

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Figg. 54, 55 Carlo Scarpa. Restauro di Palazzo Abatellis, Palermo (1954). Enfilade con il Busto di Eleonora di Aragona e Trionfo della morte

durre lo sguardo dell’osservatore nel muoversi attraverso gli spazi del museo: egli evita l’imposizione di viste assiali, preferendo una continua traslazione degli oggetti che valorizza l’accidentalità degli scorci. Il busto di Eleonora di Aragona di Francesco Laurana e la Madonna con il Bambino di Antonello Gagini si sovrappongono parzialmente in uno scorcio attraverso un portale; l’Annunziata di Antonello da Messina viene invece ruotata di modo da accogliere con il suo sguardo magnetico il visitatore che entra nella sala. Come nel Castelvecchio, le grandi croci lignee occupano liberamente lo spazio espositivo, senza essere vincolate alle pareti; solo il grande affresco del Trionfo della Morte, ospitato nella ex cappella benedettina, riacquisisce il ruolo di decorazione parietale. In generale l’esposizione occupa un ideale involucro del tutto separato rispetto ai confini materiali delle pareti del Palazzo; Scarpa rifiuta la coincidenza biunivoca fra massa costruita e spazio fisico, introducendo una serrata dialettica tra involucro e invaso. Nel complesso l’opera palermitana di Scarpa rimane in linea con gli altri interventi sull’esistente da lui realizzati nell’Italia settentrionale; rispetto a questi mostra però una mano più leggera, meno coercitivamente spinta alla ricerca 177

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della dissonanza. Il manufatto esistente viene sempre considerato come un oggetto d’uso che deve essere adattato a nuova funzione; se la destinazione è quella museale, la trasformazione può avvenire solo in virtù di una radicale rivisitazione del meccanismo percettologico che guida l’esperienza del visitatore. Per fare questo, Scarpa considera ciascun ambiente separatamente, assicurandosi il buon funzionamento dei dispositivi: senza enfatizzare l’aspetto teorico del suo procedere, egli ricerca incessantemente soluzioni efficaci per ciascun singolo caso. La preesistenza, prima ancora che oggetto architettonico, è oggetto materiale: in quanto tale può essere scavata, rimodellata o altrimenti modificata proprio con lo scopo di rimettere in funzione una macchina estetica secondo la sensibilità contemporanea dell’autore. In quest’ottica, la sistemazione di Palazzo Abatellis non è più siciliana di Castelvecchio, così come gli eleganti supporti disegnati da Scarpa per sostenere i pezzi della collezione non si differenziano da quelli utilizzati nel Veneto. Rispetto agli oggetti esposti e all’edificio l’architetto assume una distanza simmetrica, apparentemente disattenta nei riguardi delle loro specificità, più concentrata sulla qualità intrinseca dell’intervento che non sul rispetto filologico per la materia data. Le trasformazioni operate da Scarpa si muovono lungo il filo di una maestria di carattere artigianale, difficilmente riproducibile e indissolubilmente legata al talento individuale dell’architetto. Pochi sono gli autori i cui progetti si svolgono secondo modalità comparabili: tra questi Umberto Riva, il cui lavoro viene sovente accostato a quello di Carlo Scarpa, condivide con il veneziano la capacità di evocare poeticamente atmosfere del passato, nonché l’attitudine alla caratterizzazione di queste attraverso la definizione artigianale dei particolari architettonici. Apparirebbe improprio negare a questi due autori uno status intellettuale articolato; è tuttavia evidente che il talento individuale, l’abilità nel tracciare segni e trasformarli in soluzioni magistralmente finite prevale nelle loro architetture rispetto alla costruzione concettuale. Come in Scarpa, l’eleganza della definizione materiale del costruito riesce a consegnare autonomia a scelte progettuali spesso idiosincratiche, che soprattutto nel delicato rapporto con l’esistente danno luogo a sottili tensioni. Lo strumento poetico principale rimane però quello dell’analogia: le riflessioni formali di Riva sembrano costituirsi quali trasfigurazioni di un patrimonio iconico noto, riconoscibile nelle migliori architetture del passato. Quasi la cortina del tempo consentisse ad alcuni personaggi di essere liberamente attraversata, l’opera dell’architetto milanese appare proseguire, senza soluzioni di continuità, il senso intrinseco degli oggetti consegnatici dalla storia. 178

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Il rinnovamento del leggendario Caffè Pedrocchi di Padova rappresenta per Riva un’occasione particolarmente interessante, innanzi tutto per un’affinità di fondo tra l’universo di riferimento culturale dell’architetto ed il peculiare padiglione neoclassico progettato da Giuseppe Jappelli nel 1826 (Figg. 56-59)28. La conformazione stessa dell’edificio, la cui particolare articolazione planimetrica è dovuta alla forma irregolare del lotto, sembra invitare Riva a quel raffinato esercizio di frazionamento degli spazi già sperimentato nella milanese Casa Fig. 56 Umberto Riva. Restauro del Caffè Pedrocchi, Padova (1998). Vista dell’edificio su vicolo Pedrocchi con la nuova vetrina della pasticceria Fig. 57 Planimetria di progetto

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Figg. 58, 59 Umberto Riva. Restauro del Caffè Pedrocchi. Dettagli delle finiture interne

Frea o nella Casa Miggiano a Otranto: si tratta di un poché indotto, ovvero non derivato dall’esigenza di geometrizzare gli spazi, bensì dall’opposta volontà di spezzare gli ambiti regolari. Riva predilige queste stanze fratte e articolate, sempre cariche di sorprese per chi le abita: la sua abilità consiste nel trattarle come intarsi, utilizzando pareti ed arredi fissi per creare degli ambiti di piccolissime dimensioni eppure pienamente conclusi nella forma, grazie anche alla precisione della realizzazione e la sapiente interazione fra materiali differenti: sotto questi aspetti di riduzione dimensionale degli spazi e articolazione intima gli interni progettati da Riva rievocano alcune realizzazioni di Adolf Loos. L’impianto originario del Pedrocchi risolveva, in un magistrale esercizio architettonico, il complesso problema di ricavare una struttura quanto più regolare da un lotto poligonale attraversato diagonalmente dallo stretto vicolo Cappellato Pedrocchi. Jappelli affianca i propilei ed il padiglione colonnato, incernierandoli tramite una raffinata soluzione angolare; attraverso quest’espediente, i due fronti principali dell’edificio si presentano con una forte simmetria, quasi innaturale nell’angusto tessuto urbano medievale di Padova. Nell’idea dell’architetto e del committente, il Caffè doveva presentarsi come istituzione civile, luogo di pubblico dibattito e scambio culturale: il senso classico di decorum evocato dalla struttura ne fa a tutti gli effetti un edificio-agorà. 180

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Il progetto di riqualificazione prevede di aggiungere al Caffè un ristorante ed una pasticceria: il primo viene collocato sul fronte dei propilei, dal cui adito si accede alla sala restituita all’antica forma ottagonale; la pasticceria viene letteralmente incastonata nel fronte prospiciente il vicolo, dove viene ricavato un ambiente semiellittico, vagamente simmetrico rispetto al bancone della mescita nel salone principale su via Otto febbraio. La cucina si trova compressa fra le due pareti ellittiche, divenendo cerniera funzionale tra i tre ambienti di ristoro. Proprio in essa Riva dimostra tutta la propria abilità nel costruire ambienti su piccolissima scala, lavorati come degli intarsi. A fronte della simmetria e frontalità propri della costruzione originaria, il nuovo intervento introduce dunque un sottile disequilibrio, con lievi disassamenti degli spazi e la creazione di coni visivi che attraversano più ambienti. Le parti aggiunte ex novo sono concepite come oggetti deformati, nei quali la certezza del razionalismo neoclassico cede spazio ad una percezione più ambigua e soggetta all’individualità dell’osservatore. In quest’ottica, due sono gli oggetti particolarmente significativi: la nuova vetrina creata per la pasticceria nel passaggio diagonale e gli specchi irregolari utilizzati per la sala ottagonale ed il retro del bancone della mescita. La vetrina della pasticceria è realizzata con lastre in acciaio verniciato disposte lungo una spezzata, appena sollevate da un gradino in marmo e incorniciate da una gronda. Le lastre vengono ritagliate inserendovi delle vetrine, soluzione che Riva sostiene essere derivata dai fronti dei negozi ottocenteschi. L’intero sistema è separato rispetto al piano della parete, a significare una riconoscibilità del nuovo intervento rispetto all’edificio originario. Gli specchi a bottiglia, montati in diverse parti del Caffè, vengono adoperati dall’architetto per ottenere l’effetto irregolare dei vetri artigianali veneziani: le immagini riflesse vengono scomposte, apparendo come superfici scintillanti sotto la luce artificiale. Il raddoppiamento degli ambienti tramite la riflessione muta il carattere degli algidi spazi del Pedrocchi neoclassico, inducendo un effetto più evanescente ed incerto. Tutti gli arredi progettati da Riva contribuiscono ulteriormente a sottolineare la rarefazione dello spazio neoclassico, avvalendosi di linee essenziali, quali ad esempio nelle diverse lampade appositamente disegnate per l’occasione. I globi luminosi, alternativamente sospesi da binari in ottone o sorretti da eleganti bracci fissati alle pareti, partecipano del medesimo carattere classico voluto da Jappelli; così anche gli intarsi in ottone nel pavimento e le finiture di porte e infissi, pur senza nascondere la loro modernità, appaiono in continuità con la preesistenza. 181

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L’operato dell’architetto si svolge in equilibrio tra libertà espressiva e fascinazione per un gusto neoclassico ricco di suggestioni. Nelle scelte fondamentali prevale tuttavia l’orientamento di restituire al Pedrocchi quell’unità stilistica erosa dalle successive modificazioni apportatevi, in particolare il discutibile intervento di ammodernamento svoltosi negli anni ’50: la rimozione della galleria coperta in vetrocemento collocata sulla strada interna e il ripristino dei punti di ingresso originali. intendono rimettere in funzione il complesso meccanismo distributivo originale. Le colonne aggiunte sulla strada interna vengono fasciate dal nuovo sistema di ingresso della pasticceria: la stratificazione di eventi architettonici non deve essere negata, quanto piuttosto resa meno invasiva e determinante rispetto alla configurazione originaria. Tutto ciò non avviene seguendo un modello teorico predeterminato, bensì sulla base di riflessioni circoscritte alle singole parti del Pedrocchi: ciascun ambiente è studiato come un organismo concluso, perfezionato nella sua caratterizzazione; anche in questo, l’analogia con il modo di progettare di Carlo Scarpa è evidente. Il progetto di Riva riporta in vita il Pedrocchi, pur non essendo in grado di riprodurre artificialmente il tessuto sociale e culturale che lo aveva originato: in questo diviene una raffinata forma di anastilosi, in cui la ricostruzione – non mimetica ma interpretativa – di un’architettura perduta accoglie un mondo differente rispetto a quello da cui proviene. Se fosse pervaso dalla nostalgia, il nuovo intervento non risponderebbe all’istanza di integrare l’oggetto storico nell’autentico fluire della contemporaneità; anche rispetto a questa posizione l’architetto si pone cautamente ad una certa distanza, evitando di farsi coinvolgere fino in fondo dal tumulto delle cose. Ottocento neoclassico, modernità in continuo movimento, tempo interiore dell’architetto: sospeso tra questa molteplicità di piani temporali, il nuovo Caffè Pedrocchi si racconta come un oggetto romantico, ambiguamente indefinito e pertanto insidiosamente intrigante.

Modernità come autonomia Pur se con diversi gradi di autonomia, tutti gli interventi di trasformazione sinora discussi assumono la materia preesistente come un dato significante all’interno del nuovo progetto, stabilendo così una riscontrabile continuità. Si è osservato come questa tendenza rappresenti una costante della cultura architettonica italiana, generalmente propensa al riconoscimento del valore storico degli oggetti del passato. Esistono tuttavia alcune eccezioni, rappresentate da autori per i quali l’invenzione, sia essa formale o tecnologica, costituisce un 182

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dato fondante della poetica progettuale; in questi casi i diversi linguaggi entrano chiaramente in conflitto, passando da una condizione di dialettica ad una coesistenza più o meno forzata: alla continuità si sostituisce la crisi. Quest’atteggiamento, di segno opposto rispetto ai precedenti, è ampiamente diffuso in altri contesti culturali, ma ha trovato anche in Italia alcuni sostenitori che ne hanno dato interessanti interpretazioni. Un caso paradigmatico di questa linea progettuale è la sopraelevazione del villino di via Paisiello di Mario Ridolfi e Mario Fiorentino: quest’opera rappresenta per l’architettura italiana un caso singolare, soprattutto se raffrontata ad altre realizzazioni coeve (Figg. 60-64)29. In essa il linguaggio fortemente espressivo, sviluppato da Ridolfi negli anni del dopoguerra e adoperato in tutte le sue realizzazioni del periodo, instaura un netto contrasto con la preesistenza, quasi a invocare l‘universalità di un repertorio formale indifferentemente applicabile in qualsiasi situazione. L’edificio originale di Vittorio Morpurgo, risalente alla fine degli anni ’20, è realizzato in uno stile barocchetto scialbo ma coerente, dotato di tutte le articolazioni architettoniche tipiche del periodo: logge, archi, balconi, altane, il tutto compreso entro un pacato senso di certezza storicizzante. Il fatto di subire una trasformazione proprio negli anni della ricostruzione postbellica, caratterizzati dalla forte azione divulgativa di Zevi, ha contribuito di certo a sminuirne la considerazione della preesistenza da parte degli autori, che del critico erano a vario titolo collaboratori. Con una certa sufficienza, nella pubblicazione su Metron il villino viene definito «quasi un vuoto, un negativo»30, a sostegno della radicale trasformazione progettata da Ridolfi e Fiorentino. L’attico della preesistenza viene dunque eliminato per fare spazio a tre piani Figg. 60, 61 Mario Ridolfi e Mario Fiorentino. Sopraelevazione del Villino Alatri, Roma (1949). L’edificio prima della trasformazione e con l’ampliamento

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Fig. 62 Mario Ridolfi e Mario Fiorentino. Sopraelevazione del Villino Alatri, Roma (1949). Dettaglio della soluzione d’angolo Fig. 63 Vista delle balconate Fig. 64 (pagina opposta) Pianta del piano tipo

di nuova costruzione; inoltre, il terrazzo sovrastante la loggia sul lato nord viene chiuso per aumentare la superficie utile. Il fronte est viene prolungato, rendendo simmetrica la pianta e preparando uno zoccolo omogeneo per la sopraelevazione. L’articolazione morfologica originaria, basata sulla classica composizione piramidale, viene sostituita da una volumetria più massiccia, il cui impaginato architettonico rifugge dai canoni della composizione eclettica. Su questo basamento gli architetti realizzano una sopraelevazione di tre piani che all’incirca raddoppia il volume esistente. Antico e nuovo vengono separati da un solaio aggettante di circa un metro rispetto al filo della parete originale: nella geometria fratta del linguaggio ridolfiano, questo è l’unico tratto continuo, che assume così la perentorietà di un punto e a capo. La cornice stacca nettamente le due parti dell’intervento, creando una profonda fascia d’ombra e dirimendo qualsiasi possibile dubbio circa i limiti geometrici della trasformazione. Al di sopra di questa linea di separazione, la nuova architettura non fa mistero della propria totale originalità. Alla costruzione in muratura portante del villino gli architetti contrappongono i telai in calcestruzzo armato, resi pienamente visibili e anzi palesati con particolare chiarezza nell’angolo svuotato tra via Paisiello e via Bellini: le spesse pareti preesistenti servono semplicemente da fondazione per la piastra. Della sopraelevazione viene enfatizzata l’orizzontalità, estroflettendo le fasce continue dei parapetti rispetto alle tamponature arretrate, quasi fossero dei marcapiani sovradimensionati che avvolgono i due lati del184

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l’edificio affacciati sulla strada. Allo stesso tempo, l’attico dell’edificio, retrocesso secondo le indicazioni del regolamento edilizio, dà vita ad una vaga citazione di altana, non troppo diversa rispetto a quella del progetto di Morpurgo31. Sui due prospetti arretrati rispetto al fronte stradale il linguaggio cambia bruscamente, introducendo una finestratura che rimanda nettamente alle palazzine realizzate da Ridolfi a Roma negli stessi anni, quasi a distinguere il fronte pubblico rispetto a quello privato. La differenziazione tra le due parti viene ulteriormente sottolineata da una forte distinzione cromatica: le pareti del villino sono intonacate e tinteggiate con un intenso rosso mattone, mentre le diverse parti dell’aggiunta mostrano toni di grigio, il bianco perla delle ringhiere e il celeste pallido del vetro dei parapetti. La strategia adoperata per l’articolazione della sopraelevazione non appare del tutto chiara. L’angolo svuotato potrebbe apparire come ripresa della loggia sottostante; più plausibilmente, la corrispondenza dimensionale è dovuta alla necessità di coordinare le campate strutturali con la posizione dei muri portanti. Anche il fronte su via Bellini richiama vagamente la tripartizione del prospetto originale, negandone però decisamente la simmetria. Il fronte nord viene trattato in maniera peculiare: l’ampliamento del braccio est del villino, eseguito per renderlo simmetrico rispetto al prospetto opposto, genera una corte interna chiusa su tre lati; al livello della sopraelevazione, questa corte viene schermata attraverso l’introduzione di due balconate a ponte, appoggiate sugli avancorpi in muratura portante e destinate ad ospitare spazi di servizio. Mentre dunque il 185

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basamento si apre su una corte aperta, gli ambienti di servizio dei piani sovrastanti affacciano su una chiostrina; la massiccia trave che sostiene i balconi evidenzia ulteriormente il distacco tra preesistenza e nuovo intervento. Gli spazi interni dei nuovi piani, abilmente disegnati adoperando pareti vetrate, partizioni scorrevoli e altri elementi del repertorio moderno classico, non sembrano provare alcuna nostalgia rispetto all’immagine tradizionale di ambiente domestico; la distribuzione degli ambienti rimane tuttavia quasi integralmente ancorata a quella del corpo sottostante, a testimonianza della permanenza di taluni modelli abitativi. Persino gli arredi introdotti dagli inquilini – il cui gusto viene criticato dall’articolo su Metron – sembrano ironicamente più adatti ad un bonario barocchetto che non all’algida qualità degli spazi fluidi proposti da Ridolfi e Fiorentino. La sopraelevazione si configura dunque in piena autonomia linguistica, con solo qualche remota eco – possibilmente accidentale – di quanto avviene nel basamento preesistente. L’effetto complessivo dell’intervento è alquanto peculiare, poiché l’intenzione di opporsi alle forme del villino risulta quanto mai pronunciata: il modo in cui viene operata questa distinzione è senz’altro forte, se non addirittura estremo; se la sopraelevazione riesce peraltro a raggiungere un discreto equilibrio formale, in virtù di una raffinata articolazione compositiva, il basamento appare come se fosse stato letteralmente decapitato, privato bruscamente del suo proporzionamento originario e della timida decorazione che caratterizzava il villino di Morpurgo. Le ragioni di quest’atteggiamento non sono del tutto chiare: è ipotizzabile che gli autori volessero sfruttare l’occasione «piccante»32 di poter mostrare, in un singolo oggetto, la superiorità dell’architettura moderna rispetto al blando classicismo di primo novecento; da questo punto di vista l’atto di superimposizione assume anche un significato simbolico. È altresì plausibile che le motivazioni per le scelte progettuali vadano cercate nella posizione ideologica di rifiuto di una certa tradizione recente, condivisa da diversi autori dell’area romana di quegli anni. Rispetto alle più riflessive trasformazioni dell’esistente operate in Italia negli anni ’40 e ’50, il villino Alatri persegue una strada radicale, poco interessata alle valenze di una preesistenza non particolarmente esaltante. Si ha però l’impressione che il distacco non sia totale, poiché permangono alcune risonanze dei modi architettonici di antica provenienza: il percorso tradisce dunque tutti i dubbi tipicamente italiani riguardo al linguaggio moderno e alla sua universalità, alla vigilia di quella profonda revisione degli strumenti delle avanguardie che proprio Ridolfi contribuirà a portare avanti negli anni immediatamente successivi. 186

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Se nella sopraelevazione di via Paisiello taluni elementi attestano una timida permanenza di temi architettonici tradizionali, in altri casi di intervento radicale sull’esistente queste analogie scompaiono del tutto, lasciando però spazio ad un’affinità di carattere ideologico. Un esempio di questa linea progettuale è rappresentato dagli interventi di Renzo Piano sul Lingotto di Torino: l’architetto genovese, da sempre interessato alle potenzialità espressive della produzione, trova qui l’occasione per proporre un’interpretazione contemporanea di quanto Mattè-Trucco aveva fatto all’inizio del ‘900: trasformare l’estetica dell’industria in figurazione architettonica. La fabbrica Fiat del Lingotto di Torino é uno degli esempi più celebrati di architettura moderna in Italia, vero monumento al taylorismo e al mito dell’edificio inteso come macchina. Completato nel 1921, per decenni questo smisurato spazio produttivo ha sfornato automobili, sino a quando, come tutti macchinari, non è divenuto obsoleto, non più adatto ad ospitare la crescente complessità della produzione automobilistica. Il suo ruolo nel tessuto urbano di Torino trascende ovviamente quello strettamente associato all’industria: all’alba della sua dismissione, la Fiat si è trovata ad avere a disposizione un’enorme quantità di superficie immobiliare da trasformare in un centro multifunzionale per servizi destinato alla città, anch’essa in via di rapido cambiamento. Il concorso indetto nel 1983 premia la proposta di Renzo Piano, orientata ad una forte rivisitazione pur nel solco di un generale rispetto per la preesistenza (Figg. 65-69)33. L’operazione, avvenuta per lotti data la dimensione colossale dell’impresa, nei quindici anni successivi trasformerà l’antica fabbrica in un centro tecnologico, universitario, congressuale e

Fig. 65 Renzo Piano Building Workshop. Trasformazione del Lingotto, Torino (1983-2001). Sezione trasversale sull’auditorium

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Fig. 65 Renzo Piano Building Workshop. Trasformazione del Lingotto, Torino (1983-2001). Vista della copertura con la rampa di collaudo ed i nuovi volumi Figg. 66, 67 Vista degli spazi espositivi ricavati nelle sale macchine e della nuova pinacoteca

culturale di grande rilievo per la città e la regione circostante. Il complesso industriale originario è formato da due parti: l’officina di smistamento ad un singolo livello coperto a shed e le lunghissime ali parallele delle officine, collegate periodicamente da corpi trasversali. I corpi di fabbrica – lunghi cinquecento metri – sono realizzati con un sistema in calcestruzzo armato di maglia costante 6 x 6 metri lasciato a vista; nessuna separazione interna, l’unico limite allo spazio è dato dalle facciate ampiamente vetrate che consentono una forte adduzione luminosa, al fine di ottimizzare la qualità della luce all’interno degli ambienti e garantirne la flessibilità. Nella scelta utilitaristica del sistema costruttivo è implicita la volontà di affidare alla soluzione tecnica anche tutte le valenze estetiche dell’edificio: ciò è pienamente visibile nella rampa elicoidale che conduce alla pista di collaudo sulla copertura, le cui nervature producono un effetto plastico dal dinamismo guariniano. Indubbiamente Piano deve aver riconosciuto nell’opera di Mattè-Trucco notevoli affinità con il proprio orientamento progettuale, poiché la poetica dell’immagine industriale appartiene da sempre al suo repertorio figurativo. È però 188

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Fig. 68 La nuova sala conferenze

evidente come più di mezzo secolo di cambiamenti nel modo di produrre abbiano trasformato anche la concezione figurativa stessa dell’industria: dai macchinari pesanti per le lavorazioni metallurgiche si è passati alle tecnologie leggere delle produzioni avanzate. Anche l’immagine della fabbrica è variata: se l’industria di primo novecento ricorda ancora in qualche misura i fumi della Londra dickensiana, quella contemporanea vuole mostrarsi consapevole delle enormi responsabilità ecologiche di cui è investita. Benché il Lingotto fosse stato originariamente concepito come struttura d’avanguardia, il distacco rispetto alla sensibilità di Piano rimane notevole. La ripetitività del sistema costruttivo e l’invariabilità della qualità degli spazi interni diviene un ostacolo alla diversificazione delle funzioni che devono essere inserite nell’edificio. L’esigenza di introdurre alcune attività speciali e complesse – un auditorium, spazi espositivi di vario genere, spazi per uffici, hotel ecc. – richiede la realizzazione di veri e propri incastri nella preesistenza. Piano affronta la complessità dell’intervento con diverse strategie. In previsione della lunga durata dei lavori, viene progettato un kit che include partizioni, pavimentazioni, sistemi di illuminazione ecc.: ciò al fine di garantire l’omogeneità dei componenti utilizzati anche a diversi anni di distanza. In questa scelta è implicita la filosofia produttiva del Building Workshop; al contempo, l’esigenza di vincolare le scelte progettuali ad un set predeterminato di componenti ne limita fortemente la flessibilità. 189

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Nel tentativo di spezzare la monotonia delle lunghe officine, l’architetto propone numerosi innesti effimeri da operarsi con tensostrutture a copertura delle corti, nonché un ampio uso del verde, che deve colonizzare diffusamente l’intero complesso. Queste ultime proposte del concorso, in seguito ridimensionate nel corso della realizzazione, danno la misura dell’intenzione di mitigare l’immagine meccanica originaria, sia per adattarla alle nuove funzioni, sia per renderla rispondente ad una diversa idea di industria. La linea di intervento scelta da Piano crea una netta separazione tra l’edificio preesistente e le nuove aggiunte. Il grande auditorium per 2000 spettatori viene realizzato operando un profondo scavo sotto una delle corti tra i due corpi di fabbrica. La copertura della sala restituisce la quota originale alla corte; ad eccezione del passo delle pilastrature laterali, lo spazio interno si configura come totalmente autonomo rispetto al carattere dell’antico Lingotto. Analogamente, i diversi oggetti collocati sulla copertura dell’edificio denunciano pienamente la propria alterità: le due grandi bolle vetrate, che ospitano le sale per meeting collegate alle piattaforme per gli elicotteri, sono oggetti plastici finemente concepiti, espressioni tipiche delle fascinazioni zoomorfe dell’architetto genovese. Anche la nuova Pinacoteca Agnelli, situata a parziale sostituzione della torre centrale del Lingotto, è un sofisticato oggetto tecnologico per il quale, come scrive Fulvio Irace, «[Piano] ha scelto la strada dell’ostensione miracolosa delle reliquie, facendo balenare come un’apparizione lo “scrignoastronave” con i reperti della collezione privata della famiglia Agnelli»34; la via prescelta è dunque quella di una forte retorica simbolica. Il trattamento degli spazi interni riconvertiti manifesta nuovamente la volontà di dare al nuovo intervento piena riconoscibilità. La scelta di finiture e cromatismi intende produrre un carattere deciso, non subordinato alla neutra Sachlichkeit della struttura preesistente. Il linguaggio tecnologico, trademark dell’architettura di Piano, viene pienamente esplicitato nella sua semplicità: la ruvidezza delle finiture originali viene sostituita dalla qualità esatta delle tecniche contemporanee, espressione anche questa di un mutato modo di concepire la produzione industriale. L’equilibrio complessivo tra la preesistenza e i nuovi interventi non risulta dunque sempre omogeneo: gli spazi interni riconvertiti consentono la vista delle parti originali della fabbrica, con l’introduzione di alcuni contrasti alquanto marcati. Le nuove volumetrie, in particolar modo gli oggetti collocati sulla copertura, trasformano radicalmente l’immagine del Lingotto, innestandovi una plasticità totalmente aliena che ne modifica profondamente lo skyline: mentre dunque gli allestimenti interni mostrano un disegno sufficientemente moderato, 190

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le aggiunte esterne sembrano voler attestare un marcatissimo senso di alterità. Al pari dei volumi plastici collocati sulla copertura delle Unité di Le Corbusier, le bolle e lo scrigno abitano la sommità dell’edificio: il contrasto nasce tuttavia dal carattere fortemente meccanicista della fabbrica e la spiccata formalizzazione dei nuovi elementi. Mentre in Le Corbusier si riscontra l’omogeneità dell’origine concettuale tra le diverse famiglie di forme, nel Lingotto la relazione tra le parti appare a tratti così blanda da sembrare quasi accidentale. In questo intervento, l’autonomia del linguaggio high-tech si manifesta pienamente: la possibilità di essere declinato per adattarsi a differenti situazioni esistenti non sembra essere contemplata. Risulta dunque difficile neutralizzarne la valenza, tanto che, soprattutto se innestato su un oggetto quasi completamente asemantico come il Lingotto, anche le manifestazioni più ridotte e minimali rischiano di risultare invadenti. La realizzazione di un evidente contrasto tra passato e presente, come testimoniato dagli interventi di Ridolfi e Piano, implica la necessità di una forte autonomia del nuovo, tale da separare nettamente gli ambiti di riferimento. Evidentemente ciò può solo difficilmente condurre ad una sopravvivenza della preesistenza, se non con il vincolo di una forte interferenza provocata dalla presenza del nuovo. Se la scelta di questa linea progettuale non è in sé discutibile, risulta evidente come questo atteggiamento possa provocare forti spostamenti nella strutturazione estetica dell’esistente: se l’autore non è pienamente in grado di controllarne gli effetti, rischia di attribuire un valore forse eccessivo al principio di invenzione. La ricerca di autonomia, necessità di un confronto radicale con l’antico, conclude lo spettro delle modalità di interazione con la materia antica messe in atto dalla cultura architettonica italiana dell’ultimo secolo. Dal restauro alla drammatizzazione scenica, dalla dialettica al distacco netto, pur entro un campo di variazione relativamente ristretto gli architetti italiani hanno saputo indagare sino in fondo le potenzialità della trasformazione dell’esistente, sondando le molte sfumature possibili, osservando la reattività degli oggetti del passato ai loro interventi. Ciò che appare evidente è che, pur attraverso le trasformazioni, manipolazioni, alterazioni, sovrapposizioni e innesti, gli oggetti preesistenti continuano a possedere una forza difficilmente spiegabile, rispetto alla quale il nuovo stenta a volte a concretare la sua presenza. È questa la persistenza dell’architettura: vittoria del frammento, incomparabile potere evocativo del passato, senso ultimo di ogni trasformazione dell’esistente.

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Note 1 Non è improbabile che in questi casi si stia compiendo un abuso preventivo della memoria storica, con l’intento di preservare degli oggetti nei confronti dei quali in un futuro più o meno remoto si potrebbe provare nostalgia. Il concetto di «abuso di memoria» viene utilizzato da Paul Ricoeur in Ricordare, dimenticare, perdonare: L’enigma del passato, Il Mulino, 2004, capitolo III. 2 P. Di Martino, (a cura di) Trentadue domande a Francesco Venezia, Clean, 1998, p. 46. 3 V. Gregotti, Dentro l’architettura, Bollati Boringhieri, 1991, p. 35. 4 E. Benvenuto, R. Masiero, “Sull’utilità e il danno della conservazione per il progetto”, in Casabella, n. 579, maggio 1991, p. 41. 5 M. Tafuri, “Storia, conservazione, restauro”, a cura di C. Baglione e B. Pedretti, in Casabella, n. 580, giugno 1991, pp. 23-26. 6 E. Benvenuto, R. Masiero, ibidem, p. 41. 7 Sul Teatro Carlo Felice si veda: A. Rossi, “Dalla storia all’immaginazione. Progetto per il teatro Carlo Felice di Genova”, in Lotus International, n. 42, 1984, pp. 12-25; A. Ferlenga, Aldo Rossi. Opera completa I, Electa, 1987, pp. 224-234; E. Doutriaux, “Aldo Rossi à Gênes”, in L’Architecture d’aujourd’hui, n. 268, aprile 1990, pp. 152-155; V. Savi, “Nuovo Teatro Carlo Felice, Genova”, in Domus, n. 719, settembre 1990, pp. 33-49. 8 Sulla concezione urbanistica di Schinkel si veda il saggio di K. W. Forster, “Schinkel’s Panoramic Planning of Central Berlin”, in Modulus, n. 16, 1983, pp. 63-76. 9 Sul Teatro Romano di Sagunto: D. Malagamba, “Das römische Theater von Sagunto”, in Deutsche Bauzeitschrift, vol. 42 n. 5, maggio 1994, pp. 33-38; K. Frampton, “Modern Drama: Roman Theater of Sagunto”, in Architecture, vol. 83, n. 11, novembre 1994, pp. 98-105; G. Grassi, Giorgio Grassi: I progetti, le opere e gli scritti, a cura di G. Crespi e S. Pierini, Electa, 1996, pp. 170-189; G. Grassi, “A proposito di Sagunto”, in Casabella, n. 636, luglio-agosto 1996, pp. 58-63. 10 Grassi così descrive l’influenza dell’antico sulle sue scelte: «[…] Un progetto […] che intende raccogliere dal manufatto antico ogni traccia, ogni suggerimento, ogni indicazione operativa, ma anzitutto la sua più generale lezione di architettura e cercare di portarla avanti con coerenza», in Giorgio Grassi: I progetti, le opere e gli scritti, Electa, 1996, pp. 170-171. 11 A. Rossi, Autobiografia scientifica, Pratiche Editrice, 1990, p. 54. 12 Sul Museo del Palazzo Di Lorenzo a Gibellina: F. Venezia, “Il trasporto di un frammento”, in Lotus International, n. 33, 1981, pp. 74-78; L. Ortelli, “Architettura di muri”, in Lotus International, n. 42, 1984, pp. 120-128; Abitare, n. 320, luglio-agosto 1993, pp. 60-79; F. Venezia, L’architettura, gli scritti, la critica, Electa, 1998, pp. 52-61. 13 Cfr. F. Rella, Pensare per figure, Fazi, 2004, pp. 32-33. 14 R. Queneau, I fiori blu, trad. I. Calvino, Einaudi, 1995, p. 148. Nell’originale francese Queneau scrive «Rêver et révéler, c’est à peu près le même mot». 15 Sul restauro della Manica Lunga al Castello di Rivoli: A. Guarnieri, “La Manica Lunga”, in Abitare, n. 387, settembre 1999, pp. 128-135; L. Vagacelo, “Il restauro della Manica Lunga del Castello di Rivoli”, in L’Industria delle Costruzioni, n. 337-338, novembre-dicembre 1999, pp. 14-21; G. Ambrosiani – C. Catino, “Baustelle Rivoli : Anmerkungen zum Umbau der ‘Manica Lunga’ ”, in Bauwelt, vol. 91 n. 11, marzo 2000, pp. 34-37; B. Loyer, “Constructeur de mémoire”, in Techniques et architecture, n. 449, agosto-settembre 2000, pp. 55-59. 16 A. Bruno, in Techniques et architecture, n. 449, agosto-settembre 2000, p. 57. 17 Cfr. L. Molinari, “Massimo e Gabriella Carmassi a Senigallia: Biblioteca comunale e archivio storico”, in Abitare, n. 390, dicembre 1999, pp. 138-145; S. Redecke, “Markthalle mit

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Lesesaal”, in Bauwelt, vol. 91 n. 11, marzo 2000, pp. 28-33; L. Serafini, “Archivio e biblioteca nel Foro annonario di Senigallia, Ancona”, in L’Industria delle Costruzioni, n. 368, novembredicembre 2002, pp. 32-39; M. Mulazzani, Massimo e Gabriella Carmassi, Electa 2004, pp. 134141. 18 Cfr. il capitolo 4. 19 Cfr. M. Mulazzani, Massimo e Gabriella Carmassi, Electa, 2004, pp. 74-83; Red., “Massimo Carmassi: Museo della Miniera Ravi Marchi, Gavorrano”, in Casabella, n. 711, maggio 2003, pp. 54-63. 20 Sul restauro del complesso delle Terme di Diocleziano e l’allestimento dell’Aula Ottagona si veda G. Bulian, “Il restauro e la sistemazione dell’Aula Angolare delle Terme di Diocleziano a Roma”, in L’Industria delle Costruzioni, n. 225-226, luglio-agosto 1990, pp. 14-33; G. Bulian, “Restauro e allestimento dell’Aula Angolare Ottagona”, in Domus, n. 731, ottobre 1991, pp. 5259; F. Lucchini, “Il museo della statuaria romana nella sala ottagona delle Terme di Diocleziano”, in Rassegna di Architettura e Urbanistica, n. 91, aprile 1997, pp. 19-29; G. Bulian, “Museo alle Terme di Diocleziano”, in Casabella, n. 654, marzo 1998, pp. 46-53. 21 La lunghissima vicenda della creazione del Museo Nazionale Romano continua a tutt’oggi. I due straordinari bronzi disposti al centro dell’Aula Ottagona – il principe ellenistico ed il pugilatore seduto – sono stati purtroppo rimossi per verificare l’impatto dell’inquinatissima atmosfera della zona di Termini sul loro stato di conservazione. Il livello inferiore non risulta più accessibile in attesa di un adeguamento normativo, mentre il collegamento con gli altri ambienti del complesso, da realizzarsi attraverso la sala delle olearie, non è stato ancora attuato. 22 Su Villa Borletti si veda: Casabella, n. 101, maggio 1936, pp. 12-17; Architettura, n. VII, luglio 1936, pp. 322-324; Architect and Building News, vol. 150, aprile 1937, pp. 104-105; S. Guidarini, Ignazio Gardella nell’architettura italiana, Skira 2002, pp. 21-25. 23 Sul concetto di «breaking the box» si veda H. A. Brooks, “Frank Lloyd Wright and the Destruction of the Box”, in Journal of the Society of Architectural Historians, vol. XXXVIII, n. 1, marzo 1979, pp. 7-14; G. Howe, “Flowing Space: The Concept of our Time”, in Building for Modern Man, a cura di T. H. Creighton, Princeton University Press, 1949, pp. 164-169. 24 Le amicizie strette da Gardella nei suoi anni di studio al Politecnico di Milano con Albini e i BBPR, nonché la frequentazione negli anni ’30 del gruppo editoriale di Casabella, sono certamente da considerarsi all’origine dell’apertura verso le influenze dall’estero. 25 Vedi Ottagono, n. 173, settembre 2004, pp. 100-103. 26 Sulla sistemazione di Palazzo Abatellis si veda M. Frascari, “Carlo Scarpa in Magna Graecia: The Abatellis Palace in Palermo”, in AA Files, n. 9, estate 1985, pp. 3-9; S. Polano, “Frammenti siciliani: Carlo Scarpa e Palazzo Abatellis”, in Lotus International, n. 53, 1987, pp. 108-124; S. Polano, Carlo Scarpa: Palazzo Abatellis, Electa, 1989. 27 In alcune soluzioni – nel Palazzo Abatellis come nell’allestimento della mostra su Antonello da Messina – sembrerebbe quasi che Scarpa rifugga il brusco sole mediterraneo. La modulazione della luce solare appare una condizione fondamentale per l’architetto, forse con l’intento di ricondurre l’atmosfera ad una più simile a quella della Laguna di Venezia. 28 Sulla ristrutturazione del Pedrocchi cfr. M. Manfredi, “Umberto Riva: Ristrutturazione Caffè Pedrocchi, Padova 1994-1998”, in Lotus International, n. 102, 1999, pp. 63-69; L. Bossi, “Ristrutturazione del piano terra e del piano interrato del Caffè Pedrocchi a Padova”, in Domus, n. 815, maggio 1999, pp. 64-71. 29 Cfr. F. Brunetti, Mario Ridolfi, Alinea, 1987, pp. 62-63; F. Bellini, Mario Ridolfi, Laterza, 1993, pp. 58-59, 67-68. 30 Red., “Sopraelevazione in Roma”, in Metron, n. 51, maggio-giugno 1954, p. 27. 31 A seguito di alcune superfetazioni malamente eseguite negli anni successivi per coprire la terrazza dell’attico, il coronamento dell’edificio non risulta oggi quasi più visibile.

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32 Così viene definita la giustapposizione «moderno sopra barocchetto» dal sottotitolo dell’articolo su Metron dedicato all’opera. 33 Sugli interventi di Renzo Piano per il Lingotto di veda P. Buchanan, “Reviving Lingotto”, in Architectural Review, n. 1197, novembre 1996, pp. 62-67; J.-F. Pousse, “Renaissance: Transformation du Lingotto, Turin”, in Techniques et Architecture, n. 432, giugno-luglio 1997, pp. 48-52; P. Buchanan, Renzo Piano Building Workshop: Opere complete vol. 2, Allemandi, 1997, pp. 150-167; K. Frampton, “Lingotto Factory Rehabilitation”, in GA Architect, n. 14, 1997, pp. 90-99; F. Irace, “Renzo Piano Building Workshop a Torino: Il Lingotto”, in Abitare, n. 423, dicembre 2002, pp. 99-109; E. Mapelli, “La riconversione del Lingotto a Torino”, in L’Industria delle Costruzioni, n. 373, settembre-ottobre 2003, pp. 32-43. 34 F. Irace, ibidem, p. 106.

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7. Conclusione. La persistenza dell’architettura

Nella nostra epoca, in cui la gente tende sempre di più a confondere la saggezza con il sapere e il sapere con l’informazione, e in cui cerca di risolvere i problemi esistenziali in termini meccanicistici, nasce un nuovo tipo di provincialismo che forse merita un nome nuovo. È un provincialismo relativo non allo spazio bensì al tempo, che considera la storia una pura e semplice cronaca degli accorgimenti umani i quali, una volta compiuta la loro funzione, sono finiti nella spazzatura; un provincialismo secondo il quale il mondo è una proprietà esclusiva dei vivi, dove i morti non detengono quote di mercato. Il rischio di questo genere di provincialismo è che tutti quanti noi, popoli del pianeta, diventiamo provinciali in blocco e che a chi non è d’accordo non resti altra scelta che diventare eremita. T.S. Eliot, What is a classic, 1944

Il mondo costruito dall’uomo nel corso dei millenni, denso di stratificazioni materiali, giunge ad espletare attraverso la sua consistenza fisica il ruolo di una seconda natura, un sostrato pressoché onnipresente e pervasivo, intrinsecamente partecipe di qualsiasi atto di successiva trasformazione. Chi abita il presente aggiunge a questa sedimentazione di strati il livello più recente, destinato a fondersi, attraverso l’azione del tempo, in quell’inestricabile viluppo di oggetti corporei e immateriali che chiamiamo realtà. Analogamente al mondo naturale propriamente inteso, questa seconda natura possiede un duplice statuto ontologico, ambiguamente sospeso tra la fisicità di ciò che la costituisce e la sua rappresentazione: la descrizione dei fenomeni passa necessariamente attraverso un linguaggio che ne altera e sfuma la precisione, limitando l’oggettività della conoscenza. Ancor più mutevoli e imprecise sono tutte le manifestazioni immateriali del mondo umano: le possibilità di circoscrivere e definire con esattezza i confini di questo sostrato antropizzato continuo sono dunque assai ridotte. Eppure, nonostante introduca un forte grado di incertezza nella possibilità di comprendere pienamente il mondo che ci avvolge, questa seconda natura costituisce una struttura fondante e imprescindibile per l’operare trasformativo 195

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dell’architettura: essa si pone quale termine intermedio tra la sostanzialità delle cose e la rarefazione del pensiero. In assenza di questa incerta stratificazione, il mondo si presenterebbe come un inestricabile agglomerato di segni muti, rispetto ai quali l’osservatore permarrebbe nella totale incapacità di comprenderne il senso. La seconda natura è traccia del transito dell’uomo sulla terra, dal più remoto dei giorni sino ad oggi: le vestigia dell’universo antropizzato, rovine parlanti che popolano fittamente il tempo presente, ci danno la misura del mondo a cui noi stessi apparteniamo. La codificazione della disciplina ha speso grande energia nel teorizzare la relazione dell’architettura con la prima natura, intravedendo nella condizione primigenia un modello da perseguire, ovvero la necessità di porre a confronto con essa l’opera di artificio. Non altrettanto è avvenuto rispetto alla natura antropica, benché già da lungo tempo sia diffusa la consapevolezza dell’inversione nei rapporti quantitativi tra mondo naturale e mondo artificiale. Nel progetto di architettura il passato è stato pertanto quasi sempre introdotto come Storia, prediligendo alla materia antica la sua incerta rappresentazione. Tale disgiunzione sostituisce l’immagine al dato reale, i modelli astratti agli oggetti che li hanno generati, i trattati alle opere costruite: la teoresi del progetto si formula dunque intorno a costruzioni intellettuali fortemente mediate. Diversi gli effetti di questa separazione: da un lato il rischio di operare sull’esistente come un medico che, pur in assenza del paziente, può giungere all’anamnesi attraverso dati analitici, reperti istologici o radiografie, proponendo una terapia farmacologica attuabile anche a distanza; dall’altro, la spasmodica ricerca di un senso nelle rovine parlanti, come se gli oggetti preesistenti venissero chiamati in causa per colmare un vuoto, adducendo significato ad una modernità che resiste pervicacemente al divenire parte integrante dell’orizzonte umano. Alla densità di materia costruita viene così sovrapposta una fitta rete di strutture intellettuali, che proiettano sull’antico l’aspettativa di un verbo: il corpo del defunto viene gelosamente conservato, nel disperato tentativo di estenderne indefinitamente la presenza nel mondo dei vivi. In entrambi i casi, il distacco rispetto alla realtà vivente delle cose è tanto marcato da introdurre uno iato: chi opera non ha davanti a sé l’oggetto preesistente, bensì una sua figura, costruita attraverso filtri critici che si rivelano spesso inadatti a comprenderne propriamente il senso. L’intervento diretto – sarebbe a dire l’operazione chirurgica sul corpo del paziente – richiede tutt’altro tipo di avvicinamento, una prossimità alle cose che è indice di appartenenza, relazione intima con ciò su cui si opera. Solo il nichilismo più ostinato può negare l’esistenza di un legame tra l’architetto e gli oggetti materiali che vengono tra196

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sformati: modificando il mondo circostante, stiamo di fatto modificando una parte di noi stessi. È un unico ordine di cose a incarnare il mondo antropico e chi lo abita: questa comune famiglia ontologica comprende l’uomo e gli oggetti da lui costruiti, sui quali egli proietta il suo passato come le sue aspettative di un futuro dentro o fuori di sé. L’architettura e l’uomo sono dunque consustanziali: appartengono l’uno all’altro, condividendo il medesimo orizzonte. Esiste questa consapevolezza in chi prevede la trasformazione? A volte appare evidente la scissione, la sua estraneità rispetto all’oggetto del suo intervento: separato dal mondo naturale, il progettista si distacca anche dal sostrato metanaturale da lui stesso creato, amplificando ulteriormente la solitudine del tiranno sino a generare una crisi ecologica di secondo ordine. In altre occasioni il legame è invece chiaramente visibile come proiezione sull’architettura di un’esperienza personale o di un sentimento di appartenenza, quasi si trattasse della presenza dell’architetto nell’opera compiuta. Quest’atto di identificazione, di là degli ovvi eccessi di nostalgica pedanteria, rimane essenziale per dare un senso profondo al progetto di trasformazione dell’architettura. Giuseppe Vasi. Tempio di Adriano, oggi Piazza di Pietra, Roma. La persistenza dell’architettura

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Si è detto più volte che, nell’intervenire sull’antico, il progetto si costituisce come moderno se intende riportare in vita gli oggetti, rendendoli pienamente partecipi del tempo presente. Il nuovo si assume il compito di rimettere in atto l’esperienza dell’antico laddove questa sia stata infranta dagli eventi, ovvero ricondurre alla possibilità di lettura un significato lacerato dalla frammentazione. Nell’uno e nell’altro caso, la trasformazione si attua come operazione chirurgica, quasi a riparare attraverso un innesto o trapianto un organismo leso. In analogia con la trasformazione del mondo naturale, è bene che gli strumenti adoperati condividano la stessa ragione costitutiva della materia su cui si interviene. La modificazione che così ha luogo è atto prometeico, poiché altera il corso delle cose, invertendo o deviando il regolare flusso del tempo: in questo risiede anche la sua modernità, il balzo oltre la soglia del presente in una diversa dimensione temporale. Molti dei più efficaci progetti di trasformazione si pongono come obiettivo proprio la liberazione degli oggetti preesistenti dalla fissità del tempo, sottraendoli momentaneamente al loro destino ultimo di disgregazione: viene così stabilito un nuovo punto di inizio nella tortuosa vita delle architetture, un anno zero traslato a volte di secoli o millenni rispetto alla prima origine. Una nuova nascita, o risurrezione: l’unicità del progetto di architettura risiede in questa capacità quasi metafisica, non semplicemente indirizzata ad estendere la vita degli oggetti antichi, quanto a dare loro la possibilità di viverne una seconda, diversa rispetto alla precedente. Nonostante l’intrinseca caducità della materia che le compone, le costruzioni possiedono dunque una facoltà rigenerativa, capacità di trasformarsi e lasciarsi modificare, estendendo la durata della propria esistenza. Dalla profondità delle successive stratificazioni, l’antico continua a palesare la propria presenza, orientando e rendendo significativa quella seconda natura che ne costituisce l’insieme. A meno della sua distruzione, l’architettura sottoposta a questo processo non cessa di esistere, bensì diviene parte integrante e viva di un diverso organismo, resistendo all’azione del tempo. Misteriosamente, l’architettura fuoriesce dal cerchio della temporalità. Non è forse del tutto vero, dunque, che l’architettura appartiene al tempo: una volta esaurita la sua vita, essa può rinascere sotto altra forma, manifestandosi nella permanenza della sua materia costitutiva, eppure carica di un nuovo senso. Con il permanere dell’architettura anche l’orizzonte umano muta la sua durata, allontanandosi dalla caducità di tutte le cose: la persistenza dell’uomo è iscritta nelle sue costruzioni.

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Bibliografia

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Indice analitico

Ackerman, James 41 Alberti, Leon Battista 37s, 44, 74 Albini, Franco 91 Arnhem 73 Asplund, Erik Gunnar 59 Aulenti, Gae 122 Band, Karl 63s Banham Reyner 134 BBPR 64,68 Bentham, Jeremy 73 Benvenuto, Edoardo 132 Bergara 102 Berlino 58, 70s, 91, 105 Bernini, Gian Lorenzo 121 Biberach 101 Böhm, Dominikus 77n Böhm, Gottfried 77n Boito, Camillo 49 Bologna 68 Borgmann, Albert 99 Boston 91, 112 Botta, Mario 71 Botticelli, Sandro 18 Brandi, Cesare 26, 91 Bruno, Andrea 148s Bulian, Gianni 156s Buonarroti, Michelangelo 41s, 157 Carmassi, Massimo 82, 115, 126, 153s Chicago 30, 107 Choisy, Auguste 46, 54 Colonia 61, 63, 92 Como 170 Conti, Giancarlo 170s Cook, Peter 71 Coop Himmelb(l)au 85s

Croce, Benedetto 55 Cuvier, Georges 76n De Carlo, Giancarlo 165s de Linazasoro, Josè Ignacio 102s de’ Pasti, Matteo 40 Dewey, John 66 Döllgast, Hans 77n Eiermann, Egon 77n Eisenman, Peter 71 Eliot, Thomas Stearns 65, 195 Fiorentino, Mario 183s Firenze 37 Fischer von Erlach , Johann Bernard 45 Foucault, Michel 74 Francoforte 62 Freud, Sigmund 133, 147 Gardella, Ignazio 64, 135, 161s Gavorrano 155 Gehry, Frank Owen 82 Genova 135 Gibellina 143 Giovannoni, Gustavo 52s, 66, 68, 73, 74, 129 Göteborg 59 Grassi, Giorgio 139s Gregotti, Vittorio 27, 68, 71, 72, 131 Gropius, Walter 65 Guardini, Romano 15, 32 Gwathmey, Charles 87s Hegemann, Werner 52 Heidegger, Martin 117n Hilberseimer, Ludwig 57 Hohenschwanstein 50

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Ibos, Jean-Marc 111 Irace, Fulvio 190 Jappelli, Giuseppe 179 Johnson, Philip 91 Juvarra, Filippo 149 Kahn, Louis Isidore 30, 99 Kollwitz, Käthe 64 Koolhaas, Rem 73s Kracauer, Sigfried 56 Krahn, Johannes 77n Krier, Rob 70 Le Corbusier 57, 164, 191 Lille 111 Loos, Adolf 30, 59, 98, 121 Malatesta, Sigismondo Pandolfo 38 Martini, Francesco di Giorgio 169 Masiero, Roberto 132 Mattè Trucco, Giacomo 187 McKim, Mead & White 91, 112 Merida 89 Mies van der Rohe, Ludwig 57, 74, 88, 98, 105, 110, 162 Milano 161 Moneo, Rafael 89 Morpurgo, Vittorio 183 Morris, William 52 Muratori, Saverio 68s New York 87, 107 Norimberga 108 OMA 71 Paci, Enzo 66 Padova 179 Palermo 84, 174 Panofsky, Erwin 75n Parigi 122 Pei, Ieoh Ming 112 Piano, Renzo 187s

Pierrefonds 50 Pikionis, Dimitris 147 Piranesi, Giovan Battista 46 Pisa 82, 126, 156 Podrecca, Boris 101 Praga 82 Prix, Wolf 86 Quatremère de Quincy, Antoine-Chrysostome 45s Queneau, Raymond 147 Reich, Lily 163 Richardson, Henry Hobson 112 Ricoeur, Paul 192n Ridolfi, Mario 183s Rimini 38s Riva, Umberto 178s Rivoli 148 Rogers, Ernesto Nathan 65s, 72, 74, 104, 134 Roma 42, 121, 156, 183 Rossi, Aldo 71, 135, 143s Rota, Italo 122 Rowe, Colin 57, 73 Rucellai, Giovanni 37 Ruskin, John 46s, 50, 52, 99 Sabbatini, Innocenzo 52 Sagunto 139 Scarpa, Carlo 84, 86, 88, 136, 146, 174s, 182 Schinkel, Karl Friedrich 137 Schürmann, Joachim 93 Schwarz, Rudolf 61s, 66, 74, 92 Semper, Gottfried 46s, 98 Senigallia 153 Siegel, Robert 87s Simmel, Georg 98 Sitte, Camillo 52, 55, 68 Staab, Volker 108 Steffan, Emil 77n Stirling, James 100 Sullivan, Louis Henry 99 Summerson, John 48 Swiczinsky, Helmut 86

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Tafuri, Manfredo 95n Torino 187 Tourcoing 116 Tschumi, Bernard 116 Ungers, Oswald Mathias 71 Unwin, Raymond 52 Urbino 165 Vasari, Giorgio 75n Venezia 84 Venezia, Francesco 131, 143s Venturi, Adolfo 53 Venturi, Robert 99 Verona 84 Vienna 52, 59 Viollet-le-Duc, Eugène-Emmanuel 46, 48s, 53, 55, 74, 99, 100 Vitart, Myrto 111 Wagner, Otto 52, 98 Winckelmann, Johann Joachim 45 Wittelsbach, Ludwig II 51 Wittkower, Rudolf 37 Wright, Frank Lloyd 67, 88, 99 Zenghelis, Elia 78n Zevi, Bruno 183 Zucconi, Guido 66

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Ringraziamenti

Questo libro è nato da un’idea di Benedetto Todaro, che ne ha seguito la crescita con stimolanti dubbi e imperscutabili suggerimenti relativi alla punteggiatura: a lui vanno i miei primi ringraziamenti. Desidero inoltre riconoscere l’apporto dei molti colleghi e amici che mi hanno aiutato in diversi modi a fare sì che questo volume venisse alla luce: troppi per citarli tutti, spero che si riconoscano in questo “grazie” collettivo. Naturalmente, questo libro non sarebbe mai arrivato a compimento senza Mimmo e Andreina, che mi hanno insegnato a scrivere; senza Zia Bianca, che ci ha sempre creduto fino all’ultimo; e senza Giulia, a cui lo dedico.

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